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MICHAEL MARSHALL UOMINI DI PAGLIA (The Straw Men, 2002) A Jane Johnson «Noi sopraggiungiamo troppo tardi per gli dèi e troppo presto per l'Essere. Per questo l'uomo è poesia già cominciata.» Martin Heidegger, Aus der Erfahrung des Denkens Palmerston, Pennsylvania Palmerston non è certo una grande città né tantomeno può essere considerata all'apice del suo fulgore. Se ne sta lì, semplicemente, come una macchia indecifrabile sul marciapiede. Ha un passato e una volta aveva un futuro, anche se, questo futuro, non ha significato altro che vederla diventare ancora più polverosa e sonnolenta, sospinta sempre più lontano dalle grandi direttrici della storia: un rubinetto vecchio e incrostato all'estremità di un tubo sempre più arrugginito, e che un giorno perderà a tal punto che l'acqua non riuscirà ad arrivare in fondo. La città sorge sulle sponde del fiume Allegheny, all'ombra di tondeggianti colline, e ha più alberi di quanti se ne riescano a contare a meno di non avere molto tempo da perdere e di essere insolitamente fuori di testa. Un tempo la ferrovia passava lì vicino, proprio sull'altra riva, ma a metà anni Settanta la stazione fu chiusa e la maggior parte dei binari fu divelta. Di essa non rimane molto, a parte il ricordo e uno stanco museo che nemmeno le scolaresche visitano più. Ogni tanto alcuni turisti vi si avventurano, sbirciano con attonita indifferenza le tristi fotografie dei defunti, quindi scelgono di risalire in macchina e cercare di recuperare il tempo perduto. La città è costruita attorno a uno svincolo a forma di T, la cui sagoma è oscurata da strade laterali dall'utilità incerta. In corrispondenza dell'incrocio principale si trova una chiesa in legno la cui vernice si sta ormai staccando, ma che sprigiona ancora un certo fascino sullo sfondo di un freddo
cielo blu. Svoltando a sinistra, come si deve fare se si è diretti a ovest sulla Route 6 per andare a vedere il bacino dell'Allegheny - e quello è praticamente l'unico motivo per cui vale la pena di attraversare la zona -, si arriva in Main Street. Qui si trovano banche con anonimi vetri a specchio e negozi le cui vetrate necessitano di una pulita e che espongono antichità di scarso valore. Qualcosa nella confusa sistemazione delle vetrine suggerisce che gli oggetti avranno ancora molto tempo per accrescere, in loco, il loro valore. Nella zona a sud della strada, in una vasta area a se stante, c'è una bellissima casa in stile vittoriano. È rimasta disabitata per alcuni anni e, anche se la maggior parte delle finestre è intatta, la vernice si sta staccando ancor più di quella della chiesa e alcune tavole cominciano a cedere. Se si è affamati, ci sono buone probabilità di finire al McDonald's che si trova un po' più avanti sulla strada, proprio accanto al museo della Ferrovia. Molti ci vanno. Palmerston non è un brutto posto, è tranquillo e la gente è amichevole. È un piacevole angolo di mondo, vicino alla Susquehannock State Forest e con poca criminalità. Potreste nascerci, farvi crescere i figli e morirci, senza sentirvi affatto sfavoriti dal destino. Semplicemente, non avreste molto altro da fare nel frattempo. All'ora di pranzo di mercoledì 30 ottobre 1991, il McDonald's era affollato. La maggior parte dei tavoli era già occupata, e alla cassa c'erano quattro code. Due bambine di quattro e sei anni, accompagnate dalla mamma, reclamavano con insistenza i Chicken McNuggets. Tutti gli altri clienti osservavano i pannelli del menu con la riverenza che questi meritavano. Tra i presenti c'erano tre forestieri, un giorno da ricordare per l'industria del turismo di Palmerston. Uno era un uomo di mezza età ben vestito, seduto da solo a un tavolo nell'angolo. Il suo nome era Steve Harris e stava tornando in auto a Chicago dopo un lungo giro di vendite piuttosto deludente. Dal suo posto era appena visibile la torre in stile italiano della casa vittoriana e lui, masticando, rifletteva su di essa, trovando stupefacente che nessuno si fosse preoccupato di rivendicarne la proprietà e di rimetterla a posto. Gli altri due erano una coppia di turisti inglesi, seduti per una coincidenza al tavolo a fianco. Mark e Suzy Campbell avevano saltato la colazione per fare trecento chilometri nella mattinata, ed erano molto affamati. Avevano inutilmente girato per la città in cerca di un locale con cucina caratteristica, ma erano finiti senza accorgersene davanti al fast food. Masticando frettolosamente i loro panini in atteggiamento difensivo, all'inizio si
erano allarmati e poi leggermente compiaciuti di trovarsi vicino a qualcuno del posto che avesse voglia di parlare. Il suo nome era Trent ed era alto, sulla quarantina, con una folta chioma di capelli ramati. Sentendo che avevano da pochi giorni cominciato un viaggio coast to coast, annuì con distante approvazione - come fosse a conoscenza di una pratica che riusciva a comprendere ma che non aveva nessuna intenzione di provare, come il collezionare bustine di fiammiferi, o fare dell'alpinismo, o avere un lavoro. L'Inghilterra gli era familiare come concetto, e intuiva che aveva una grande storia e una florida industria del rock, cose entrambe a lui gradite. Alla fine la conversazione si spense, arenandosi sulle secche delle esperienze condivise e lasciando Suzy un po' delusa, avendo gradito l'incontro inatteso. Mark invece era preoccupato perché voleva fare un po' di shopping. Nell'hotel nel quale si erano fermati la notte precedente, il barista aveva perso un po' di tempo a cercare tra le frequenze radio qualcosa da poter ascoltare a volume alto. Era finito per caso su una stazione di musica classica, e per un breve, meraviglioso momento alcune battute delle Variazioni Goldberg si erano diffuse nel bar. Mark si era immaginato la stazione radio come un tizio solo e nascosto in qualche posto di montagna, con la porta sbarrata per difendersi da orde armate fino ai denti di dischi di Garth Brooks. La musica di Bach aveva continuato a risuonare nella testa di Mark per le successive ore fatte di ballate melense opponendo la fragilità del matrimonio alla fedeltà dei cani, e aveva desiderato comprare quel CD da ascoltare in macchina, ma Palmerston non aveva un negozio di musica classica. La conversazione con Trent costituiva per i Campbell un piccolo ritardo non previsto senza il quale sarebbero stati fuori dal locale entro le dodici e cinquanta. Suzy stava per fumarsi una sigaretta, che i cartelli alle pareti proibivano con frasi perentorie facilmente leggibili e un'iconografia internazionalmente riconosciuta. Steve Harris non aveva alcuna fretta e si sarebbe trovato lì comunque, a fissare ancora la casa che sorgeva in un'area a se stante, domandandosi con curiosità quanto potesse costare. Alle dodici e cinquantatré una donna cominciò a urlare nel bel mezzo del locale. Fu un'esclamazione rapida per esprimere con enfasi il pericolo. La gente si allontanava istintivamente, creando spazio al centro del locale. Fu evidente che l'oggetto della preoccupazione della donna erano due uomini uno di neanche vent'anni, l'altro sui venticinque, che indossavano lunghi
cappotti. Fu immediatamente altrettanto chiaro che impugnavano fucili semiautomatici. La luce nella stanza sembrò improvvisamente abbagliante, i rumori abnormemente nitidi e secchi, come se un gas ottundente fosse stato spazzato via. Se siete seduti in un McDonald's all'ora di pranzo di un giorno della settimana con il caffè che sta raggiungendo una temperatura accettabile, e vi accorgete che da un cielo blu terso è scesa di colpo la notte, il tempo si arresta in un lento istante di chiarezza. Come il lungo attimo che precede l'impatto in un incidente d'auto, questo momento non vi viene in aiuto, non è una via di fuga, o un dono di Dio, e basta solo per provare ad accogliere la morte e per chiedersi come mai ci abbia impiegato tanto. Trent ebbe solo il tempo di esclamare «Billy?» in uno stupido tono di sorpresa, poi i due uomini cominciarono a sparare. Stavano al centro del locale e sparavano con serena e inesorabile rapidità, tenendo il calcio del fucile saldamente premuto contro la spalla. Non appena la prima vittima fu scaraventata all'indietro, con un'espressione di muta sorpresa sul volto, i cecchini si mossero: lo fecero in modo attento e determinato, come se cercassero di dimostrare a qualche autorità superiore che erano adatti a quella missione, e volessero portarla a termine al massimo delle loro capacità. Dopo circa un altro secondo, e altri due morti, i presenti cercarono di uscire dallo stato di smarrimento. Il tempo riprese a correre all'impazzata e cominciarono le urla. Le persone cercarono di scappare, di nascondersi, di farsi scudo con altre. Alcune cercarono scampo verso le porte, ma i fucili si girarono all'unisono e abbatterono con successo i disertori. La loro linea di fuoco investì i forestieri e Mark Campbell fu colpito diritto alla nuca nello stesso momento in cui la faccia di sua moglie si spappolava sulla ragnatela di venature della vetrata che aveva fermato la corsa di entrambi i proiettili. Trent morì nella furia dell'attimo successivo, quasi in ginocchio nel disgraziato tentativo di scagliarsi contro i cecchini. Pochi ebbero un sufficiente controllo di sé per valutare la possibilità di un'azione simile e coloro che lo fecero morirono rapidamente. La maggior parte delle persone cercò semplicemente di correre, di scappare. Il vicepresidente della Bedloe Insurance tentò di fuggire, così come il suo assistente ostinatamente inetto. Ci provarono dodici scolari, tutti insieme, intralciandosi a vicenda. Molti di loro, accortisi di avere i piedi intrappolati tra i corpi dei feriti, morirono goffamente, slogandosi ginocchia e rompendosi le anche nel cadere. Quelli che non avevano la via ostruita
furono abbattuti nella fuga andando a urtare contro i tavoli, i muri e il bancone, dietro al quale si trovava l'unica cameriera rimasta in vita, perfettamente consapevole di essere raggomitolata nella propria urina. Dalla sua posizione poteva vedere sussultare i piedi di Duane Hillman, il ragazzo con il quale recentemente aveva passeggiato lungo la ferrovia. Era stato molto tenero, si era anche offerto di usare il preservativo. Sapendo che non era solamente stato colpito ma era caduto tenendo un contenitore pieno di olio bollente, lei non aveva intenzione di guardarlo. Sperava invece che distogliendo lo sguardo e facendosi piccola, tutto forse sarebbe andato per il verso giusto. Poco più tardi un proiettile vagante le si infilò nella spina dorsale dopo aver attraversato il bancone. C'erano quelli che non tentarono nemmeno di scappare, ma rimasero ai loro posti con gli occhi sbarrati, anime già morte ancora prima che i proiettili penetrassero nei loro polmoni, inguini e stomaci. Soltanto una di loro, cui era stato di recente diagnosticato lo stesso cancro che aveva lentamente ucciso suo padre, non considerò questa svolta degli eventi sotto una luce del tutto negativa: benché, in verità, il giovane dottore dell'ospedale, del quale lei non si fidava principalmente perché assomigliava al delinquente del suo telefilm preferito, sarebbe stato in grado di salvarla se lei fosse sopravvissuta e avesse seguito i suoi consigli. Nulla motivava un analogo distacco nelle altre persone rimaste immobili come statue. Furono semplicemente incapaci di muoversi fino a quando la scelta non fu più la loro. In una stanza piena di vittime, gli assassini sembrano dèi. I due uomini continuarono a sparare, cambiando occasionalmente direzione, voltandosi contemporaneamente con i fucili che dirigevano la loro pioggia di fuoco su un angolo imprevisto della sala. Ricaricarono un certo numero di volte, sebbene mai nello stesso momento. Furono molto efficienti. Nessuno dei due disse nulla durante tutta l'azione. Delle ottantanove persone presenti nel McDonald's all'ora di pranzo, solo quaranta sentirono lo scoppio smorzato dell'ultimo sparo. Diciannove di queste morirono prima di sera, portando il totale a sessantotto. Tra coloro che sopravvissero ci fu la ragazza dietro il bancone, che non camminò più e divenne un'alcolizzata, prima di trovare Dio e poi perderlo un'altra volta. Anche una delle ragazzine sopravvisse. Fu affidata alle cure di una zia nell'Iowa e condusse una vita relativamente tranquilla. Uno degli amici di Trent ce la fece, e quattro anni dopo faceva la guardia costiera a Laguna Beach.
Anche Steve Harris sopravvisse. In realtà sarebbe dovuto morire subito, nella prima raffica diretta verso l'ala sinistra del ristorante, ma il corpo di Suzy Campbell gli era franato addosso mentre lui stava cercando di scivolare sotto il proprio tavolo. Il peso della donna lo aveva sbalzato dal suo posto mandandolo a sbattere con la testa sul pavimento. Erano stati raggiunti qualche attimo dopo dal marito di Suzy, che era già morto. Entrambe le facce dei Campbell non sarebbero state riconoscibili dai passaporti (diligentemente custoditi nelle tasche delle giacche, nel caso qualcuno avesse scassinato la macchina mentre loro mangiavano), ma i vestiti che la coppia indossava - alcuni attentamente messi in valigia e portati dall'Inghilterra, altri oculatamente acquistati a una svendita di un Gap nell'area della Back Bay di Boston - erano virtualmente immacolati. Con una semplice spazzolata i due sarebbero potuti uscire dalla porta, risalire sulla macchina noleggiata e proseguire lungo la strada. In un mondo migliore, forse, ciò sarebbe potuto accadere e magari Mark avrebbe trovato, fortuitamente, le Variazioni Goldberg in una città lungo il tragitto e loro avrebbero continuato il viaggio, per il resto della giornata, attraversando una strada diritta, circondata da alberi le cui foglie sarebbero apparse come illuminate dall'interno: avrebbero percorso le salite e le discese dell'autostrada per tutto il pomeriggio e poi fino alla sera, senza mai accorgersi di viaggiare da soli. In questo mondo, invece, salvarono semplicemente la vita di un altro essere umano, dato che Steve Harris rimase immobile sotto i loro corpi, privo di sensi dopo l'impatto della sua testa sul pavimento. Intorno a lui c'erano membra umane e tutto quello che riusciva a vedere era caos e morte: non sentiva altro che il bruciore delle proprie ferite e il freddo dolore nella sua testa che degenerò in una commozione cerebrale così grave che per alcuni giorni ebbe la sensazione che non sarebbe mai scomparsa. Una giovane infermiera, che sembrava guardarlo con soggezione perché era sopravvissuto quando quasi tutti erano morti, passò la notte nell'ospedale di Pipersville tenendolo sveglio, mentre lui avrebbe preferito di gran lunga dormire. Tutto questo accadde successivamente, così come l'infarto che nel 1995 riuscì dove i proiettili avevano fallito. Non cercò mai di scoprire se la casa vittoriana fosse in vendita. Lavorò fino alla fine. Sullo sfondo dei bang! ritmici della sparatoria, dei colpi di tosse e delle grida dei morenti, divenne percettibile il suono distante delle sirene che si avvicinavano. I cecchini spararono ancora per una ventina di secondi, ripu-
lendo una nicchia vicino al bancone dove una madre e le sue figlie si erano temporaneamente riparate. Poi si fermarono. Diedero un'occhiata intorno senza che i loro volti tradissero alcuna emozione per quanto compiuto. Il più giovane dei due - il ragazzo chiamato Billy - fece un passo indietro, chiuse gli occhi e l'altro uomo gli sparò a bruciapelo in faccia. Mentre il corpo di Billy si contorceva debolmente sul pavimento, l'uomo si accovacciò per lavarsi le mani col suo sangue. Si rialzò e diede un altro sguardo alla stanza, con calma, rilassato. Non fece neppure caso alle auto della polizia che si precipitavano su per Main Street, troppo tardi per influire su un evento che avrebbe definitivamente riportato Palmerston sulla cartina geografica. Poi, quando fu pronto, lo sconosciuto si lanciò attraverso la vetrata infranta dietro i corpi dei Campbell e scomparve: scappando, si credette, lungo il tracciato della vecchia ferrovia. Non fu mai catturato. Nessuno riuscì a fornire una chiara descrizione del suo volto e col tempo l'uomo parve svanire dall'evento ed entrare nell'ombra. La colpa alla fine ricadde tutta su Billy: un ragazzo che non aveva fatto altro che eseguire gli ordini di un uomo che pensava essere il suo nuovo amico. Sono passati dieci anni. PARTE I «Della collina, non sulla collina...» Frank Lloyd Wright, Sull'architettura di Taliesin 1 Il funerale si svolse in una chiesa in periferia e riuscì molto bene, vista la bella partecipazione di persone vestite in modo appropriato e l'assenza di qualcuno che, a un certo punto, si alzasse in piedi e dicesse: «Volete capire che questo significa che sono morti.» Non avevo la minima idea di come si chiamasse quel posto, e ancora meno del perché fosse stato indicato nelle disposizioni lasciate ad Harold Davids. Per quanto ne sapessi, l'unico credo religioso dei miei genitori consisteva in un ateismo bonario e nella malcelata convinzione che, se Dio esistesse, guiderebbe una bella macchina,
probabilmente costruita in America. L'ufficio di Davids si era occupato egregiamente dell'organizzazione della cerimonia, non lasciandomi in pratica altra incombenza se non quella di presenziare. Passai gran parte di quei due giorni nella sala del Best Western. Sapevo che sarei dovuto andare a casa, ma non ne avevo il coraggio. Lessi più della metà di un mediocre romanzo e diedi una scorsa a un gran numero di riviste da albergo, con l'unico risultato di scoprire che si può pagare un sacco di soldi per un orologio. La mattina uscivo di buon'ora, con l'intenzione di percorrere le strade principali, ma non andavo mai oltre il parcheggio. Sapevo quali erano le offerte dei negozi di Dyersburg, Montana, ma io non ero lì per comprare abbigliamento da sci né cose «d'arte». Di sera cenavo nel ristorante dell'hotel e a pranzo mi facevo servire al bar i panini della colazione in camera. Tutti i pasti erano accompagnati da patatine fritte la cui consistenza lasciava intuire un certo numero di processi industriali avvenuti nel tragitto dal terreno al mio piatto. Era impossibile non magiare patatine fritte. Discussi della cosa in due occasioni con le cameriere, ma dovetti desistere di fronte al panico che affiorava nel loro sguardo. Dopo che il sacerdote ebbe spiegato perché la morte non era quella fine di ogni cosa che in un primo momento potrebbe sembrare, ci avviammo incolonnati verso l'uscita della chiesa. Mi dispiaceva andare via, mi ero sentito al sicuro lì dentro. Fuori faceva molto freddo, e l'aria era gelida e silenziosa. Dietro il cimitero sorgevano i contrafforti della catena delle Gallatin, con le cime mute in lontananza, come fossero dipinte su vetro. Erano state preparate due fosse affiancate. C'erano circa quindici persone per lato ad assistere alla sepoltura. C'era Davids, e qualcuno che sembrava essere la sua assistente. Mary stava vicino a me, con i capelli bianchi raccolti in una crocchia e le rughe del volto levigate dolcemente dal freddo. Ebbi la vaga impressione di riconoscere qualcun altro. Il sacerdote disse ancora qualche parola, bugie che danno conforto in questo genere di momenti. Forse ebbero effetto su qualcuno dei presenti. Io le udivo a malapena, intento com'ero a cercare di non farmi scoppiare la testa. Poi un paio di uomini, il cui lavoro consisteva nel compiere questa operazione ogni settimana, calarono le bare nel terreno. Le corde scivolarono gentilmente tra le loro mani e le bare giunsero a misurata pace quasi due metri sotto il piano sul quale stavano i vivi. Seguirono ancora alcune frasi di consolazione, ma questa volta pronunciate velocemente - come se la chiesa riconoscesse che il tempo a disposizione per il suo sermoneggiare
stava scadendo. Non si possono seppellire delle persone dentro delle bare senza che i presenti si accorgano che c'è qualcosa che non va. Un'ultima dichiarazione sussurrata e poi stop, era tutto finito. Niente sarebbe più potuto accadere a Donald e Philippa Hopkins. Almeno, niente di cui preoccuparsi. Alcuni dei presenti al funerale, privi di una meta ben precisa, indugiarono un attimo. Quindi rimasi da solo sotto un cielo meravigliosamente sconfinato. Stavo lì come fossi stato due persone contemporaneamente. Una la cui gola era come imprigionata da roccia incandescente e che pensava di non esser più capace di muoversi; l'altra consapevole della inutilità della sua figura in piedi di fronte alle due tombe, così come del fatto che, un po' più distante, la gente passava in auto, ascoltando i Dixie Chicks e pensando distrattamente a questioni di soldi. Ognuna delle due parti di me trovava l'altra ridicola. Sapevo che non sarei potuto rimanere lì per sempre. Non se l'aspettavano da me. Non avrebbe avuto alcun senso, non avrebbe cambiato nulla e faceva veramente molto freddo. Quando alla fine alzai lo sguardo, vidi che anche Mary era ancora lì, solo alcuni passi più in là. I suoi occhi erano asciutti, severi per la consapevolezza che una simile fine sarebbe toccata anche a lei tra non molto, e che non c'era né da ridere né da piangere. Strinsi le labbra, lei allungò la mano sul mio braccio e per un lungo istante nessuno dei due pronunciò una parola. Quando mi aveva chiamato, tre giorni prima, mi trovavo sulla terrazza di un piccolo, grazioso albergo su De La Vina a Santa Barbara, Ero temporaneamente disoccupato, o nuovamente disoccupato, e spendevo i miei pochi risparmi in una vacanza immeritata. Stavo seduto con una bottiglia di buon merlot davanti, deciso a scolarla tutta. Non era la prima della serata, perciò quando il cellulare cominciò a suonare ero intenzionato a lasciare che si inserisse la segreteria. Ma quando guardai il telefono vidi chi era a chiamare. Schiacciai il tasto verde. «Ehi,» dissi. «Ward,» disse lei. Poi silenzio. Allora sentii un rumore sulla linea, era delicato, appiccicoso. «Mary?» domandai subito. «Stai bene?» «Oh, Ward,» disse, e la sua voce suonava stridula, come quella di una persona anziana. Allora mi rimisi a sedere compostamente, nella vana speranza che una prontezza di facciata, un rigore dell'ultimo minuto, avrebbero potuto in qualche modo diminuire la forza con la quale il colpo si sareb-
be abbattuto. «Cosa c'è?» «Ward, sarebbe bene che tu venissi qui.» Alla fine la convinsi a dirmelo: un incidente d'auto nel centro di Dyersburg. I miei genitori morti durante il trasporto in ospedale. Credo di aver capito immediatamente che si trattava di qualcosa del genere. Se non fossero stati coinvolti entrambi non sarebbe stata Mary a telefonare. Ma anche ora, mentre mi trovavo con lei nel cimitero e fissavo le loro due tombe, ero incapace di pronunciare una frase che esprimesse completamente il senso della loro morte. Ora non potevo neanche più rispondere al messaggio che mia madre aveva lasciato sulla mia segreteria, la settimana prima. Non avevo trovato il tempo per farlo, non mi aspettavo che sarebbero stati improvvisamente cancellati dalla faccia della terra e che sarebbero finiti là dove non avrebbero più potuto sentirmi. Mi accorsi di colpo di non voler più stare vicino ai loro corpi. Feci un passo indietro per allontanarmi dalle tombe. Mary frugò nella tasca del cappotto e tirò fuori qualcosa cui era attaccata un'etichetta. Era un mazzo di chiavi. «Stamattina ho portato fuori la spazzatura,» disse, «e ho buttato via alcune cose dal frigorifero. Latte e simili. Non volevo cominciassero a puzzare. Il resto l'ho lasciato.» Annuii, fissando le chiavi. Non ne avevo di mie, non ne avevo sentito la necessità. Sapevo di trovarli a casa nelle poche occasioni in cui sarei andato a trovarli. Mi accorsi che questa era la prima volta che vedevo Mary in un posto che non fosse la cucina o il salotto dei miei genitori. Con i miei era così, eri tu ad andare da loro, non il contrario. Volevano essere il punto di riferimento per tutti o, almeno, lo avevano voluto. «Parlavano spesso di te, sai.» Annuii nuovamente, anche se non sapevo se crederle. Per gran parte degli ultimi dieci anni i miei genitori avevano a stento saputo dove mi trovassi, e tutto ciò che avevano da raccontare riguardava un uomo più giovane, un figlio unico che era diventato grande e aveva vissuto con loro secondo abitudini diverse. Non è che non ci fossimo voluti bene, ce n'eravamo voluti, a modo nostro. Semplicemente non gli avevo fornito molti argomenti di cui discutere, non avevo realizzato nessuna di quelle cose che portano i genitori a vantarsi con amici e vicini. Niente moglie, niente figli, nessun lavoro di cui parlare. Mi accorsi che Mary aveva ancora la mano distesa e le presi le chiavi.
«Quanto ti fermerai?» chiese. «Dipende da come andranno le cose. Forse una settimana, possibilmente meno.» «Sai dove trovarmi,» disse. «Non devi sentirti un estraneo, davvero.» «Non accadrà,» dissi rapidamente, sorridendo imbarazzato. In quel momento avrei desiderato avere un gemello che potesse sostenere questa conversazione al mio posto, qualcuno che fosse responsabile e a suo agio in società. Sorrise di rimando, ma con distacco, come se sapesse che non sarebbe andata così. «Immagino te ne andrai presto,» disse, e cominciò a risalire il pendio. A settant'anni era un po' più vecchia dei miei genitori e camminava goffamente. Sapevo solo che era da sempre cittadina di Dyersburg ed ex infermiera, nient'altro. Vidi che Davids stava in piedi vicino alla sua auto dall'altra parte del cimitero, ammazzando il tempo con la sua assistente, ma chiaramente in mia attesa. Aveva l'aria di qualcuno deciso e desideroso di essere conciso ed efficiente per sistemare gli ultimi dettagli. Guardai ancora una volta indietro verso le tombe e poi mi incamminai con passo pesante lungo il sentiero, per affrontare le questioni amministrative sorte dopo la scomparsa di tutta la mia famiglia. La maggior parte dei documenti si trovava nella macchina di Davids, il quale mi portò a pranzo per discuterne. Non so se questo invito abbia finito per rendere meno spiacevole la discussione di quanto lo sarebbe stato nel suo ufficio, ma apprezzai la cortesia da parte di un uomo che in fondo mi conosceva appena. Pranzammo nel centro storico di Dyersburg, in un posto chiamato Auntie's Pantry. L'interno era stato progettato per ricordare quello di una capanna di tronchi d'albero e disposta su più livelli, con l'arredamento intagliato dagli elfi. Il menu offriva una serie di zuppe macrobiotiche e di pane fatto in casa, accompagnati da insalate a base di germogli di soia. Della stessa età dei miei genitori, alto e magrissimo con un bel naso adunco, Davids aveva l'aspetto dell'uomo che Dio chiama quando vuole scatenare l'inferno sulla terra. Aprì la sua borsa e tirò fuori una gran quantità di documenti, li posò davanti a sé con fare professionale, prese il menu e cominciò a leggerlo. Davids era l'avvocato dei miei genitori e lo era stato fin dal loro incontro, quando si trasferirono nel nord della California. Ave-
vo parlato con lui in un paio di precedenti occasioni, a casa loro per brindisi natalizi o nel giorno del Ringraziamento, ma ora nella mia testa egli era semplicemente uno di quel novero di persone la cui conoscenza stava per giungere a una brusca conclusione. Questo produceva una curiosa miscela di distacco e desiderio di prolungare il contatto che ero incapace di tramutare in qualcosa di utile alla conversazione. Per fortuna, Davids prese l'iniziativa non appena arrivarono le ciotole con burro di arachidi e zuppa di licheni. Ricapitolò le circostanze della morte dei miei genitori che, in assenza di testimoni, si riducevano a un unico fatto. Circa alle undici e zero cinque di sera del venerdì precedente, dopo aver fatto visita ad amici per giocare a bridge, la loro macchina era stata coinvolta in uno scontro frontale all'incrocio tra la Benton e la Ryle Street. L'altro veicolo era fermo, parcheggiato sul lato opposto della strada. L'autopsia aveva rilevato un livello d'alcol pari forse a mezza bottiglia di vino in mio padre, che era il passeggero, e a un bel po' di succo di mirtillo in mia madre. La strada era ghiacciata, l'incrocio scarsamente illuminato e l'anno prima, nello stesso punto, era avvenuto un altro incidente. Questo era tutto. Non c'era altro da dire, a meno che io non volessi imbarcarmi in una sterile procedura civile, cosa che non desideravo affatto. Davids passò agli affari, il che significò farmi firmare un certo numero di carte, e con ciò accettare la proprietà della casa con il suo contenuto, qualche appezzamento di terreno incolto e il portfolio di azioni di mio padre. Una moltitudine di problemi fiscali riguardanti tutto questo mi fu efficacemente presentata e venne quindi risolta con altre firme. La roba riguardante il fisco mi entrò da un orecchio e uscì dall'altro e non diedi alle carte più che una rapida occhiata. Mio padre aveva evidentemente avuto fiducia in Davids e Hopkins Senior non era un uomo che desse fiducia per amore o per forza. Se era andato bene a mio padre andava bene anche a me. Alla fine ascoltavo la meta di quello che diceva, godendomi, in realtà, la zuppa - dopo averne migliorato la ricetta insaporendola con un bel po' di sale e di pepe. Osservavo le cucchiaiate nel loro tragitto verso la mia bocca, gustando in maniera studiata, ponderata, lasciando che il sapore si impadronisse il più possibile della mia mente. Riemersi solo quando Davids nominò UnRealty. Spiegò che la ditta di mio padre, con la quale egli aveva venduto con successo beni immobili di elevato valore, era in liquidazione. Non appena l'operazione fosse stata conclusa l'ammontare dei beni patrimoniali rimasti
sarebbe stato accreditato su qualsiasi conto avessi voluto. «Ha liquidato UnRealty?» domandai, sollevando la testa per guardare l'avvocato. «Quando?» «No.» Davids scosse la testa, ripulendo la ciotola con un pezzo di pane. «Aveva dato istruzioni che questo avvenisse alla sua morte.» «Indipendentemente da quello che avrei potuto dire io?» Guardò fuori dalla finestra e sfregandosi le mani si sbarazzò di alcune briciole che aveva sulle dita. «Fu abbastanza chiaro in proposito.» La mia zuppa era diventata di colpo fredda e sapeva di erbacce di palude frullate. Spinsi lontano la ciotola. Ora capivo perché Davids aveva voluto che vedessimo le carte oggi, piuttosto che nel periodo antecedente al funerale. Raccolsi le mie copie dell'incartamento e le rimisi nella busta che lui stesso mi aveva dato. «È tutto?» La mia voce era chiara e asciutta. «Penso di sì. Mi dispiace di averti sottoposto a tutto questo, Ward, ma è meglio farsene una ragione.» Prese il portafoglio dalla sua giacca e guardò il conto con aria dubbiosa, come se non solo diffidasse della cifra, ma disapprovasse anche la scrittura della cameriera. Il suo pollice indugiò su una carta di credito, ma poi tirò fuori dei contanti. Interpretai il gesto come la sua volontà di non includere il costo del pranzo nelle spese di lavoro. «Sei stato molto gentile,» dissi. Davids si schermì con un gesto della mano e lasciò il dieci per cento esatto di mancia. Ci alzammo e uscimmo dal ristorante, facendo lo slalom tra i tavoli di turisti che chiacchieravano. Una volta fuori rimanemmo insieme ancora un attimo a guardare affascinati le donne facoltose che andavano su e giù per College Street in branchi famelici, con le carte di credito pronte all'uso. Alla fine Davids infilò le mani nelle tasche del cappotto. «Se c'è qualcosa che posso fare, ti prego di contattarmi. Certo, non posso riportare in vita i morti, ma per il resto potrei esserti d'aiuto.» Ci stringemmo la mano e lui s'incamminò velocemente risalendo la strada con il volto privo di espressione. Solo allora mi accorsi, imperdonabilmente tardi, che Davids non solo era stato l'avvocato di mio padre, ma era anche diventato suo amico, e che potevo non essere stato l'unico ad avere avuto una mattinata difficile. Camminai con i pugni stretti fino al mio albergo, e alle nove ero già ubriaco fradicio. Le porte dell'hotel non si erano ancora chiuse alle mie
spalle e io già stringevo tra le mani il primo boilermaker. Appena ingoiai il primo sorso capii che stavo commettendo un errore. Il problema era che non sembrava esserci nessun'altra soluzione intelligente al problema. All'inizio mi appollaiai al bar, ma dopo un po' mi spostai in uno dei séparé vicino alla grande vetrata. Una generosa mancia preventiva mi aveva garantito di non dover aspettare né tanto meno muovermi per mantenere pieno il bicchiere. Una birra, poi uno scotch, una birra, poi un altro scotch. Un modo concreto ed efficace per ubriacarsi, e il barman dalla faccia liscia continuò a servirli come desideravo. Tolsi i documenti dalla busta manila di Davids e li disposi davanti a me, concentrando la mia attenzione su un punto in particolare. Durante la mia giovinezza avevo capito una cosa riguardo a mio padre: era un uomo d'affari. Questo era quello che faceva e ciò che lui era. Era un Homo sapiens affariens. Si alzava la mattina e usciva di casa per fare affari e grazie a Dio la sera rientrava avendone concluso sempre qualcuno. I miei genitori non parlavano mai dei primi anni del loro matrimonio e raramente di qualcosa di importante, ma io ero a conoscenza di UnRealty. Mio padre aveva lavorato per un certo numero di anni in una ditta locale, poi una sera aveva portato mia madre a cena fuori e le aveva detto che si sarebbe messo in proprio. Usò proprio queste parole, sembra, come se si trattasse di una pubblicità di mutui bancari. Parlò con un po' di persone, prese alcuni contatti e si abbeverò di tutta quella retorica imprenditoriale che ti arroga il diritto di prendere un giorno la parola al bar del country club e dire: «Mi sono messo in proprio». Non doveva essere stato facile, ma mio padre aveva una certa forza di volontà. Meccanici, idraulici, addette ai parchimetri e impiegati del check-in lo guardavano e decidevano di non prenderlo per il culo. Quando entrava in un ristorante, la voce si spargeva tra il personale che decideva di lavorare seriamente e smetteva di sputare nella zuppa. La sua ditta e la sua storia erano le cose che più concretamente riuscivo a capire di lui. Eppure prima di morire aveva stabilito che UnRealty fosse liquidata. Anziché lasciare la decisione a suo figlio, egli aveva serenamente cancellato più di vent'anni di lavoro. Appena Davids me l'aveva detto, mi ero reso conto che questo poteva significare solo una cosa. I miei genitori non avevano voluto che subentrassi nell'azienda. Questo era per molti versi comprensibile. Avevo venduto molte, molte cose, ma mai un'abitazione costosa. Sapevo che esistevano costruzioni del genere, comunque. Eccome. Conoscevo la rivista «Unique
Houses», il Registro DuPont e «Christie's Great Estates». Conoscevo le zone esclusive e i ranch per turisti, avevo dimestichezza con l'artigianato del vecchio mondo, vedute sul fairway della buca numero 15, oasi di intimità e di serenità. Non poteva essere diversamente, ce l'avevo nel sangue. Avevo fatto addirittura due anni di architettura, prima di cambiare strada a causa di uno sfortunato incidente e intraprendere un'altra carriera lavorativa. Nonostante questo, lui non aveva voluto che subentrassi nell'azienda o aveva ritenuto che non fossi in grado di farlo. Più ci pensavo, più ne ero addolorato. Continuai a bere, per vedere se le cose sarebbero migliorate, ma non fu così. Seguitai comunque a bere. Il locale rimase tranquillo per tutta la prima parte della serata, poi, verso le dieci, ci fu un'improvvisa affluenza di uomini e donne in abito da sera, saltati fuori da qualche pallosa riunione societaria piena di lavagne luminose e tabelle. Si ammassarono al centro del bar, chiacchierando fanaticamente, eccitati come bambini all'idea di fare casino e bere un paio di birre leggere. Ormai mi sentivo la testa molto pesante e fredda, il rumore era forte e peggiorò, come se fossi circondato da gente che spalava ciottoli. Rimasi barricato nel mio séparé guardando in cagnesco gli invasori. Un paio di uomini si tolsero disinvoltamente le giacche e uno si allentò addirittura la cravatta. I subalterni si accostavano con esitazione ai loro superiori e gli ronzavano intorno come mosche, a caccia di qualche gratificazione. Avrei tenuto duro e li avrei affrontati. Questa gente poteva anche essere in grado di leggere fogli di opzioni doppie e vendite frazionate, ma se si trattava di una gara di resistenza al bar, erano ancora dei poppanti. Ero fiducioso. Giocavo in casa. A ripensarci ero anche più ubriaco di quanto credessi. Tre uomini comparvero all'entrata, si fermarono e diedero un'occhiata in giro. Subito dopo sentii delle urla e le persone con gli abiti eleganti si gettarono al riparo. All'inizio mi spaventai, poi mi resi conto che fuggivano da me. Barcollavo al centro della sala con i vestiti bagnati per la birra rovesciata, avevo una pistola tra le mani e la stavo puntando proprio contro gli uomini sulla porta, sbraitando verso di loro una lunga e insensata serie di ordini. Sembravano fuori di sé per la paura. Questo, forse, perché quando qualcuno ti punta contro una pistola, sei disposto a fare quello che ti chiede, ma è difficile se non riesci a capire che cosa ti sta dicendo.
Alla fine smisi di urlare. Gli uomini sulla porta diventarono per un attimo sei, poi furono di nuovo tre. Lo spazio intorno a me si fece silenzioso, ma avevo la sensazione che il cuore stesse per fondere. Tutti si aspettavano un miglioramento o un peggioramento della situazione. «Scusate,» mormorai. «È un malinteso.» Rimisi la pistola nella giacca, raccolsi le carte dal tavolo e uscii barcollando. Arrivai a metà dell'atrio prima di collassare, tirandomi dietro un tavolo, un grande vaso e un centinaio di dollari in fiori. Alle tre della mattina seguente, resa gelida dalla pioggia ghiacciata, mi trovavo nella mia stanza, sdraiato supino sul letto. Avevo parlato sia con la direzione dell'albergo sia con la polizia, la quale si mostrò comprensiva, pur insistendo perché io lasciassi perdere la pistola per il resto della mia permanenza. Accennai al funerale. Dissi di avere comunque il porto d'armi, cosa che li sorprese, ma mi fu fatto osservare, piuttosto a ragione, che l'avere la licenza non mi dava il diritto di sventolare l'arma in un bar. I documenti dello studio di Davids, quelli che stabilivano che ora possedevo un milione e ottocento mila dollari in contanti, furono messi con cura sul calorifero ad asciugare. Non ce l'avevo più con nessuno. Il fatto che il testamento di mio padre ora puzzasse di birra sembrava effettivamente dargli ragione. Dopo un po' mi girai, presi il telefono e composi un numero. Il telefono squillò sei volte, poi si inserì la segreteria telefonica. Una voce che conoscevo meglio della mia disse che Mr. e Mrs. Hopkins erano spiacenti di non poter rispondere al telefono, ma che potevo lasciare un messaggio. Mi avrebbero richiamato. 2 Alle dieci del mattino dopo mi trovavo, pallido e pentito, all'inizio del viale di accesso alla casa dei miei genitori. Indossavo una camicia pulita e avevo mangiato qualcosa a colazione. Mi ero scusato con tutti quelli che avevo incontrato in albergo, compreso il ragazzo che puliva la piscina. Ero stupito di non avere passato la notte in una cella. Mi sentivo una merda. La casa sorgeva alla fine di una strada stretta e ripida sul fianco della montagna nella principale zona residenziale di Dyersburg. Ero rimasto un po' sorpreso quando i miei si erano trasferiti in questa zona. Il terreno era abbastanza esteso, circa mezzo acro, con un paio di alberi millenari a fare
ombra al fianco della casa. Intorno c'erano proprietà di analoghe estensioni, abitazioni di simpatici vittoriani che nessuno aveva troppa voglia di ritinteggiare. Una siepe ordinata marcava i confini su ambo i lati. Mary viveva nella casa accanto, e non era affatto ricca. Un professore di college e la moglie neolaureata, anche loro persone dignitose - ma non solite a nuotare nello champagne -, si erano appena stabiliti dall'altro lato, e penso che sia stato proprio mio padre a vendergli la casa. La nostra era a due piani, con una veranda che la circondava tutto intorno, un laboratorio nello scantinato e un garage sul retro. Era, senza dubbio, una bella abitazione, ben attrezzata e in un bel quartiere. Se qualcuno si fosse voluto sistemare lì, non avrebbe avuto di che lamentarsi. Nonostante questo, però, «Case dei ricchi e famosi» non verrebbe di corsa a fare un servizio speciale. Rivolsi un cenno di saluto oltre la staccionata nel caso Mary fosse stata alla finestra, e mi avviai lentamente lungo il viale. Avevo la sensazione di avvicinarmi a un'intrusa. La vera casa dei miei genitori, quella in cui ero cresciuto, si trovava in un tempo lontano nel passato e a più di mille chilometri a ovest. Non ero più tornato a Hunter's Rock da quando si erano trasferiti qui, ma mi ricordavo di quella casa come del palmo della mia mano. La disposizione delle camere avrebbe probabilmente influenzato per sempre il mio modo di concepire lo spazio domestico. La casa che avevo di fronte era come una seconda moglie, sposata troppo tardi per riuscire ad avere con i figli di lei un rapporto che andasse al di là di una cordialità distaccata. A lato della porta c'era una pattumiera zincata col coperchio sollevato per il sacco pieno che c'era dentro. Nella veranda non c'erano giornali e ne dedussi che li avesse raccolti Davids. Era la cosa giusta da fare, ma dava la sensazione che la casa fosse già ricoperta da uno strato di polvere. Tirai fuori dalla tasca le chiavi tutt'altro che familiari e aprii la porta. Dentro il silenzio era tale che le pareti sembravano vibrare. Raccolsi quel poco di posta, la maggior parte da buttare, e la deposi sulla console. Poi gironzolai un po', passando di stanza in stanza, osservando le cose. Le stanze sembravano vetrine di anteprima per qualche svendita in cui ogni oggetto proveniva da una diversa abitazione e aveva un prezzo di molto inferiore al valore reale. Anche gli insiemi omogenei di oggetti - come i libri nello studio di mio padre, la collezione di ceramiche inglesi del 1930 di mia madre, diligentemente ordinate su una credenza di legno di pino in salotto - sembravano sigillati ermeticamente per proteggerli dal mio tocco e dal tempo. Non sapevo cosa farne di queste cose. Avrei dovuto infilarle
dentro delle scatole e stiparle da qualche parte a prendere polvere? Oppure venderle e tenere i soldi o darli per qualche giusta causa? Vivere in mezzo a questi pezzi da museo sapendo che per loro non avrei mai avuto altro che un'attenzione di seconda mano? L'unica cosa che sembrava avere un po' di senso era lasciare tutto com'era, uscire da quella casa e non tornarci mai più. Questa non era la mia vita, non lo era più per nessuno, non più. Eccetto l'unica foto del matrimonio nell'ingresso, non c'erano neanche fotografie. Non ce n'erano mai state nella nostra famiglia. Alla fine ritornai nel salotto. La stanza si affacciava sul giardino con vista sulla strada e aveva grandi finestre che trasformavano la fredda luce esterna in calore. C'erano un divano e una poltrona coordinati in una raffinata fantasia, una piccola tv a schermo piatto posizionata su un supporto rivestito con vetro fumé e la sedia di mio padre, un vecchio cavallo di battaglia, in tessuto verde e legno scuro, l'unico pezzo dell'arredamento della stanza che si erano portati dietro dall'abitazione precedente. Una nuova biografia di Frank Lloyd Wright si trovava sul tavolino, dove il posto di mio padre era contrassegnato con una ricevuta del Denford's Market. Otto giorni prima uno dei due aveva comprato qualche fetta di carne, una torta di carote (credo), cinque bottiglie grandi di acqua minerale, del latte a basso contenuto calorico e un flacone di vitamine. La maggior parte di queste cose era tra quelle che Mary aveva buttato via dal frigorifero. L'acqua minerale forse era ancora in giro, come le vitamine. Magari più tardi ne avrei preso un po'. Nel frattempo mi sedetti sulla sedia di mio padre, feci scorrere le mani lungo le consunte venature dei braccioli, poi le poggiai in grembo e guardai verso il giardino. Piansi a lungo, con scoppi violenti. Molto più tardi, mi venne in mente una sera di tanto tempo fa, quando avevo diciassette anni e vivevamo ancora in California. Era venerdì sera e mi sarei dovuto vedere con i ragazzi al bar di una strada secondaria appena fuori città. Il Lazy Ed's era una di quelle birrerie del tipo scatola-da-scarpecon-annesso-parcheggio che sembrano essere state progettate dai mormoni perché il bere non solo apparisse empio, ma triste, monotono e fatalmente senza speranze. Ed aveva capito di non essere in una posizione per cui poter fare il difficile, e poiché non creavamo problemi e rifornivamo di monete il tavolo da biliardo e il juke-box - Blondie, Bowie, e il buon vecchio
Bruce Springsteen dei giorni gloriosi di Molly Ringwald e dei colori alla Mondrian - si faceva andare bene le nostre abitudini adolescenziali. Mia madre era andata da una sua amica intima a fare quello che le donne fanno quando non ci sono uomini dalle facce annoiate tra i piedi. Alle sei papà e io eravamo seduti al grande tavolo della cucina e stavamo mangiando le lasagne che lei ci aveva lasciato nel frigo, ma scartando l'insalata. La mia mente era altrove. Non so dove. Non riesco a ripensare con la testa dei miei diciassette anni più di quanto non riesca a farlo con quella di un indigeno del Borneo. Dopo un po' mi accorsi che mio padre aveva finito e mi stava guardando, così feci lo stesso. «Che c'è?» dissi, abbastanza affabilmente. Allontanò il suo piatto. «Esci stasera?» Annuii lentamente, pieno di insicurezza adolescenziale, e tornai a tapparmi la bocca con il cibo. Avrei dovuto intuire subito cosa mi stesse chiedendo, ma non fu così, così come non riuscii a capire perché mai fosse rimasta solo un po' di insalata nel suo piatto altrimenti ripulito. Io non volevo quella merda verde, e quindi non ne avevo toccato. Anche lui non la voleva, ma ne aveva mangiato un po' - nonostante mamma non fosse lì a guardare. Ora riesco a comprendere che, se la quantità nella ciotola non fosse diminuita, al suo ritorno lei ci avrebbe assillato con il nostro modo errato di nutrirci. Buttarne un po' sarebbe sembrato semplicemente disonesto, mentre lasciarne una piccola porzione nel piatto - praticamente fino alla fine del pasto - andava bene. Ma in quel momento sembrava impiegabilmente stupido. Terminai anch'io e mi accorsi che papà era ancora lì seduto. Non era da lui. Di solito, una volta terminato il rito alimentare, si dedicava subito a qualche attività. Metti i piatti nella lavastoviglie, porta fuori la spazzatura, fai il caffè, fai un'altra cosa. Sbrigati, cazzo, sbrigati. «Allora cosa hai intenzione di fare? Guardare la tv?» domandai, facendo uno sforzo che mi sembrò da persona adulta. Si alzò e tolse il piatto. Dopo una breve pausa disse: «Mi stavo chiedendo...» Tutto ciò non sembrava molto interessante. «Cosa ti domandavi?» «Se per caso giocheresti un paio di partite a biliardo con il tuo vecchio.» Fissai la sua schiena. Il tono della sua richiesta e soprattutto il patetico tentativo di autocommiserarsi erano in contrasto con la sua solita sicurezza. Trovai difficile credere che pensasse che sarei caduto nel tranello. Non era vecchio. Faceva jogging, a tennis e a golf batteva uomini più giovani.
Inoltre, era l'ultima persona al mondo che potevo immaginarmi giocare a biliardo. Non ne rispecchiava la tipologia. Se avessimo disegnato un diagramma di Venn con i cerchi indicanti le «persone che avevano l'aspetto di giocatori di biliardo», le «persone che avevano l'aria di chi avrebbe potuto giocare» e le «persone che non sembravano in grado, ma forse lo erano», allora lui sarebbe stato proprio su un altro foglio. Quella sera, come spesso accadeva, era vestito con dei pantaloni chinos color sabbia accuratamente stirati e una camicia di lino bianco candido, e nessuno dei due capi proveniva da un grande magazzino come Gap. Era alto, abbronzato, con i capelli brizzolati e aveva il tipo di struttura fisica che invoglia la gente a votare per te. Sembrava tagliato per starsene appoggiato alla battagliola di un grande yacht al largo di Palm Beach o Jupiter Island, a parlare di arte, più probabilmente di arte che sta cercando di vendere. Io, al contrario, indossavo dei Levi's neri d'ordinanza e una maglietta nera. Entrambi sembravano essere stati utilizzati per fare delle regolazioni all'interno di motori d'automobile. Probabilmente avevano anche lo stesso odore. Papà aveva il solito profumo, che allora non percepivo, ma che adesso riuscivo a sentire così chiaramente che era come se lui fosse dietro di me: un profumo secco, chiaro, adeguato alla persona, come di legna da ardere diligentemente accatastata. «Vuoi venire a giocare a biliardo?» chiesi, controllando di non essere impazzito. Alzò le spalle. «Tua madre è uscita. In tv non c'è niente.» «Non hai niente in videocassetta?» Era inconcepibile. Papà aveva un rapporto con il videoregistratore quale alcuni padri hanno con il vecchio cane da caccia, e pile di videocassette etichettate e ordinate sugli scaffali del suo studio. Adesso, se avessi un'abitazione fissa, se avessi tempo farei sicuramente anch'io la stessa cosa e metterei dei codici a barre. Ma in quel periodo quell'abitudine era la cosa che di lui più mi faceva venire in mente stati fascisti di polizia. Non rispose. Ripulii il mio piatto dagli avanzi, facendo senza pensarci un bel lavoro, visto che mi trovavo in un'età nella quale era difficile dimostrare il mio affetto per mia madre, ed evitare che la sua costosa lavastoviglie si intasasse di schifezze era qualcosa che potevo fare soltanto senza che qualcuno, me incluso, se ne accorgesse. Il discorso era semplice: non volevo che papà venisse al bar. L'uscita era un rito, mi godevo il viaggio. Era un momento solo mio. In più i ragazzi l'avrebbero trovato bizzarro. Era bizzarro, porca puttana. Il mio amico Dave, che probabilmente sarebbe sta-
to strafatto al suo arrivo, avrebbe potuto perdere le staffe nel vedermi comparire con un rappresentante di tutto ciò che era autoritario, bacchettone e vecchio. Guardai mio padre, pensando a come risolvere il problema. I piatti erano a posto, l'insalata rimasta era tornata nel frigorifero e lui aveva ripulito il piano di lavoro. Se un team della scientifica avesse fatto irruzione nel bel mezzo della serata e avesse cercato le tracce di un'attività alimentare, sarebbe cascato male. Mi stavo annoiando da morire, ma quando lui piegò lo strofinaccio e lo avvolse alla maniglia del forno, avvertii per la prima volta ciò che avrei veramente provato, a quasi vent'anni di distanza, stando seduto, con il volto umido per le lacrime, sulla sua sedia in una casa vuota a Dyersburg. La consapevolezza che la sua presenza non fosse inevitabile o un dato di fatto; che un giorno ci sarebbe stata troppa insalata nella ciotola e strofinacci che sarebbero rimasti spiegazzati. «Comunque, okay,» dissi. Preoccupato al pensiero di come avrebbero reagito gli altri ragazzi, anticipai di quaranta minuti la nostra uscita da casa. Pensavo che questo ci avrebbe dato più o meno un'ora, prima di doverci imbattere in qualcuno, visto che gli altri arrivavano sempre sul tardi. Ci dirigemmo verso il locale di Ed, papà era seduto al posto del passeggero e praticamente non aprì bocca. Quando mi avvicinai all'esterno del bar, scrutò oltre il parabrezza: «È qui che vieni?» Dissi di sì, un po' sulla difensiva. Lui per tutta risposta grugnì. Sulla strada per il piazzale mi resi conto che comparire con mio padre avrebbe fugato i pochi dubbi che Ed poteva ancora avere sulla mia età, ma era troppo tardi per tornare indietro. Non che ci assomigliassimo molto, forse avrebbe pensato che papà fosse un tizio più vecchio di mia conoscenza, tipo un senatore o qualcos'altro. Dentro era quasi deserto. Un paio di vecchi rimbambiti che non conoscevo erano stravaccati su un tavolo nell'angolo. Il locale non si animava fino a tardi, ed era una vitalità piuttosto precaria, che poteva finire subito dopo un paio di scelte consecutive sbagliate al juke-box. Mentre attendevamo che Ed si decidesse a spuntare dal retro, papà si appoggiò con la schiena al bancone e si guardò intorno. Non c'era granché da vedere. Sedie scassate, polvere veneranda, un tavolo da biliardo, penombra e luce al neon. Non desideravo che gli piacesse. Finalmente Ed comparve e quando mi vide sorrise. Di solito bevevo la mia prima birra seduto a chiacchierare con lui e probabilmente presagiva che sarebbe successo anche sta-
sera. Ma poi si accorse di mio padre e si fermò. Non come se fosse finito contro un muro o che, ma esitò e il suo sorriso si spense, per essere rimpiazzato da un'espressione che non riuscivo a decifrare. Papà non era tipo da passare il tempo al bar, e penso che Ed si stesse chiedendo quale errore di lettura della cartina stradale lo avesse portato lì. Papà si girò per guardarlo e fece un cenno che Ed ricambiò. Volevo porre fine a tutto ciò. «Mio padre,» dissi. Ed annuì nuovamente e così un altro grande momento di comunicazione sociale maschile si concluse. Ordinai due birre e, mentre le aspettavo, osservai mio padre che si avvicinava al tavolo da biliardo. Da bambino mi ero abituato al fatto che la gente, nei negozi, gli andasse incontro e cominciasse a parlargli, pensando che fosse un manager e l'unica persona in grado di risolvere chissà quale banalità che loro stavano vertiginosamente trasformando in uno psicodramma. Essere capace di sembrare come a casa anche in una feccia di bar era una sorta di stratagemma, e io provavo un barlume di rispetto per lui. Era un tipo di stima molto particolare e rara, di quella che si prova verso chi dimostra una qualità cui si ritiene di poter aspirare un giorno. Lo raggiunsi al tavolo e, da quel momento in poi, i rapporti famigliari cominciarono a deteriorarsi. Vinsi tutte e tre le partite, che furono lunghe e lente. Non che lui fosse poi così terribile, ma ogni tiro che faceva era sempre parzialmente impreciso, e io potevo condurre il gioco. Non parlavamo granché. Mettevamo le biglie in posizione, tiravamo e ci davamo il cambio sui colpi a vuoto. Dopo che la seconda partita era giunta faticosamente alla conclusione, andò a prendersi un'altra birra mentre io recuperavo le palle. Nella speranza che lui si fermasse alla prima, avevo lasciato la mia ancora quasi intera. Poi giocammo l'ultima partita, che fu un po' meglio, ma fondamentalmente ancora atroce. Alla fine lui rimise a posto la stecca nella rastrelliera. «Basta?», chiesi con finta nonchalance. Ero così sollevato che rischiai di tirare fuori un altro quarto di dollaro. Scosse la testa. «Non ti sto rendendo la vita molto difficile.» «Quindi... non mi dirai: 'Ehi, ragazzo, sei bravo,' o qualcosa di simile?» «No,» rispose gentilmente. «Perché non lo sei.» Lo fissai, shockato come un bambino di cinque anni. «Oh, bene,» azzardai alla fine. «Grazie per l'iniezione di fiducia.» «È un gioco.» Alzò le spalle. «Quello che mi dà fastidio non è che tu
non sia bravo. È che questo non preoccupi te.» «Cosa?» dissi, incredulo. «Questo lo hai letto su qualche manuale di autostima per manager? Dica una cattiveria al momento giusto e suo figlio diventerà capo del consiglio di amministrazione?» «Ward, non fare lo stronzo,» disse gentilmente. «Sei tu lo stronzo,» ringhiai. «Avevi dato per scontato che io fossi un incapace e che tu saresti stato in grado di venire qui e battermi anche se non sapevi giocare affatto.» Rimase fermo un attimo e mi guardò tenendo le mani nelle tasche dei chinos. Era uno sguardo strano, freddo e indagatore, ma non privo di affetto. Poi sorrise. «Come vuoi,» disse e se ne andò. Penso sia tornato a casa a piedi. Mi voltai verso il tavolo, afferrai la mia birra e la scolai tutta in un sorso. Poi provai a scaraventare una delle sue palle rimaste in una buca di fondo, mancandola di un chilometro. In quel momento lo odiavo, lo odiavo veramente. Mi precipitai al bancone dove Ed aveva già pronta la birra per me. Mi frugai in tasca per i soldi, ma lui scosse la testa. Non lo aveva mai fatto prima. Mi sedetti su uno sgabello e non dissi niente per qualche minuto. Poi cominciammo gradualmente a parlare di altre cose: di come Ed la pensasse sulla politica locale e sul femminismo - era abbastanza critico verso entrambi - e di un rifugio che stava pensando di costruirsi nei boschi. Non mi sembrava che Ed potesse avere un'opinione degna di nota riguardo ai primi due temi, o che sarebbe riuscito a costruirsi un nascondiglio, ma ascoltai lo stesso. Quando Dave fece il suo ingresso riuscii a fare più o meno finta che fossero i soliti discorsi. Fu una serata okay. Chiacchierammo, bevemmo, scherzammo e giocammo a biliardo non troppo bene. Quando, alla fine, mi diressi alla macchina, mi bloccai nel vedere un foglietto che era stato messo sotto uno dei tergicristalli. Era la scrittura di mio padre, ma più piccola del solito. «Se non riesci a leggere questo biglietto alla prima,» diceva, «fatti accompagnare. Domani ti porterò io qui a riprendere la macchina.» Appallottolai il biglietto e lo scaraventai via, ma tornai a casa guidando con attenzione. Quando rientrai mamma era già a letto. Nello studio di papà c'era una luce accesa ma la porta era chiusa, così andai direttamente nella mia camera. Mi alzai dalla sedia una volta sola, a mattino inoltrato, per farmi una taz-
za di caffè solubile. A parte questa levata rimasi seduto fino a mezzogiorno, quando il sole, attraversato il cielo, cominciò a filtrare attraverso la finestra abbagliandomi. Questo ruppe l'incantesimo nel quale mi trovavo, così mi alzai dalla sedia sapendo che non mi ci sarei più seduto. Tanto per cominciare, era scomoda. Il cuscino era consunto e pieno di bozzi, e dopo più di un paio di ore filate su di esso avevo male al culo. Tornai in cucina, pulii la tazza, la misi capovolta per farla asciugare. Poi cambiai idea, la asciugai, e la rimisi nella credenza. Nel corridoio mi fermai, indeciso su cosa fare. Una parte di me credeva che un comportamento filiale sarebbe stato quello di disdire l'albergo e stabilirsi qui per la notte, ma l'altra non voleva, si rifiutava proprio. Volevo luci abbaglianti, un hamburger, una birra e qualcuno che mi parlasse di qualcosa che non fosse la morte. Diventato improvvisamente irritabile e triste, mi diressi verso il salotto per recuperare il mio cellulare dal tavolino. Continuavo a sentire dolore per essere stato seduto su quella schifosa sedia. La sedia. Forse l'effetto era dovuto alla luce differente: il sole rispetto al mattino aveva fatto il giro del cortile e creava nuove ombre. Quasi certamente, qualche ora di pianto mi aveva rischiarato un po' la mente. Comunque sia, ora che lo guardavo, il cuscino della sedia aveva un aspetto strano. Facendo scivolare lentamente il Nokia in tasca, concentrai il mio sguardo sulla sedia. Il cuscino, che era parte integrante di essa, aveva chiaramente un rigonfiamento al centro. Lo saggiai toccandolo e lo punzecchiai. Era un po' duro. Forse mio padre aveva fatto rifare l'imbottitura o l'aveva riempito con qualcosa. Pietre, probabilmente. Mi raddrizzai, pronto a dimenticare e a lasciare la casa. I postumi della sbornia cominciavano a farsi sentire. Poi qualcos'altro attirò la mia attenzione. C'è un modo corretto di riporre gli oggetti in relazione gli uni con gli altri, specialmente se sono ingombranti. Alcune persone questo non lo capiscono. Sistemano l'arredamento senza tenere conto degli stili, oppure tutto addosso alle pareti o ad angolo retto, o in modo che tutti possano vedere la tv. Mio padre si assicurava sempre che i mobili fossero posizionati come voleva lui, e oltretutto si irritava se qualcuno li spostava. La sedia di mio padre non era nella posizione giusta. Non era fuori posto di molto e non penso che qualcun altro se ne sarebbe accorto. Era troppo perpendicolare al resto del mobilio, e sembrava troppo avanti. Semplicemente non si trovava al suo posto.
Mi abbassai ed esaminai la linea dove il cuscino era attaccato al corpo della seduta. Un cordoncino di passamaneria consunto e sfilacciato copriva la giunzione. Ne afferrai un capo e tirai. Venne via facilmente, rivelando un'apertura che una volta doveva essere stata cucita. Infilai dentro la mano e le mie dita cominciarono a frugare in mezzo a una sorta di materiale asciutto, soffice, probabilmente pezzi di gommapiuma. Al centro trovai un oggetto solido. Lo tirai fuori. Era un libro. Un romanzo tascabile, una copia nuova di un thriller di successo, il genere di cosa che mia madre avrebbe potuto comprare per capriccio alla cassa del supermercato per dargli una scorsa in un pomeriggio. Non sembrava essere stato letto. Il dorso non aveva pieghe e mia madre non era affatto il tipo di persona che ci tenesse a lasciare i libri intatti. La cosa non aveva senso, non poteva essere finito nella sedia per caso. Sfogliai le pagine e al centro del libro mi imbattei in un piccolo pezzo di carta. Lo presi. Si trattava di un appunto, solo una riga, scritto con la calligrafia di mio padre: «Ward, non siamo morti.» 3 Un torrente nel sud del Vermont, l'acqua limpida e fredda scorre veloce sopra un letto di pallidi massi, tra le rive scoscese di una valle sulle alture delle Green Mountains. Il cielo sembra cominciare solo pochi metri oltre le cime degli alberi, un velo di gelido zucchero filato nella grigia luce del giorno che finisce. Le foglie sul terreno, fiori infranti di vetro colorato, sono coperte da chiazze di neve sporca. Il piccolo villaggio di Pimonta si estende su entrambe le sponde del torrente, unite da un paio di ponti in vecchia pietra distanti tra loro circa cinquanta metri. Ci saranno forse venti abitazioni in tutto, sebbene una dozzina tra queste abbiano l'aria di essere utilizzate solo d'estate o di essere del tutto abbandonate. Vicino a una di esse è stata lasciata abusivamente la carcassa di una vecchissima Buick, la cui carrozzeria arrugginita ha ormai assunto il colore di una nube temporalesca. Su altri viali si trovano alcuni veicoli il cui cattivo stato suggerisce che i loro padroni hanno molti figli e almeno un cane. C'è molto silenzio, a parte il rumore del torrente che scorre da così tanto tempo che ormai il suo fragore ha più del colore che del suono. Del fumo scivola indolente fuori da qualche camino, come quelli del Pimonta Inn, un bed & breakfast con qualche velleità che dà le spalle al fiume e che in questa ultima settimana
d'autunno è praticamente al completo. Appoggiato al muretto, su uno dei ponti c'è un uomo che sta guardando giù nell'acqua vorticosa. Il suo nome è John Zandt. È alto circa uno e ottanta e, per ripararsi dal freddo, indossa uno spesso cappotto che mette nel giusto risalto la sua corporatura robusta, con ampie spalle. Sembra il tipo d'uomo in grado di trasportare per un lungo tragitto un paio di valigie oppure di colpire estremamente forte qualcuno, cose entrambe vere. I suoi capelli sono corti e scuri, i lineamenti marcati ma armoniosi. Sul mento e sulle guance c'è la barba di un paio di giorni. La settimana precedente ha alloggiato al Pimonta Inn, in una suite composta da una camera da letto, un bagno e un piccolo salotto con camino, il tutto costosamente confortevole in un disordinato stile country. Ha trascorso le giornate passeggiando tra i monti e le vallate della zona, evitando i sentieri tracciati con i loro escursionisti imbranati vestiti con colori vivaci e preoccupati soltanto degli orsi. Qualche volta si è imbattuto nei resti di vecchie fattorie, ormai nient'altro che ammassi di legno scuro sparsi nel sottobosco. Per quanto si rimanga ad ascoltare, non si sentono echi, e luoghi che una volta erano vicini a un sentiero sono tornati a essere fuori dalle mappe. Le strade hanno trovato percorsi diversi, trasformando alcuni posti in mete da raggiungere e lasciandone altri deserti, forse per sempre. Zandt ama stare seduto per qualche momento in questi luoghi, pensando a come poteva essere stato un tempo. Poi ricomincia a camminare, fino a che è stanco e non arriva l'ora di rientrare in albergo. Trascorre le serate appartandosi nella confortevole zona salotto, evitando con cortesia la conversazione con gli altri ospiti e con i proprietari dell'esercizio. I libri della piccola biblioteca parlano solo di fossili e di soddisfazione personale. Nelle due ultime settimane forse quaranta persone gli avevano fatto un cenno di saluto con la testa, senza che conoscessero il suo nome o fossero in grado di descriverlo in qualche dettaglio. Dopo la cena, che aveva sempre trovato eccellente anche se il servizio era molto lento, era solito tornare nel suo alloggio, accendere il fuoco e rimanere sveglio fino a quando resisteva. Ultimamente ha sognato spesso. A volte i sogni riguardavano Los Angeles, una vita ormai svanita per sempre cui non può sfuggire. In passato aveva provato sia l'alcol che l'eroina, ma si erano rivelati entrambi di scarso aiuto anche eccedendo nelle quantità. In questo periodo si sveglia e rimane sdraiato supino senza pensare a nulla, in attesa del mattino. Non ha mai provato a uccidersi, non è nella sua natura. Se lo fosse stato, sarebbe già morto.
Ora, mentre è appoggiato al muretto del ponte immerso nella luce del giorno che svanisce, pensa a cosa fare in futuro. I soldi ce li ha, ciò che rimaneva, in parte, di un duro lavoro estivo come manovale. Pensa che forse sia giunto per lui il momento di risalire in sella e tornare in città. Forse da qualche parte nel Sud, anche se ha scoperto di amare il freddo e le scure foreste. La sua intenzione contrasta col fatto che non ha una particolare necessità di maggior contante o un desiderio di fare qualcosa con quello che ha già. Inoltre, dopo una vita passata dentro i palazzi, questi avevano cessato di avere un significato per lui. Strade deserte e spazi sconfinati sembrano possedere maggior attrattiva di qualsiasi altra cosa. Quando sente il rumore di una macchina che si avvicina da nord, Zandt solleva lo sguardo dall'acqua. Dopo un po' i fari, accesi nel pomeriggio prima di quando sia costume locale fare, spuntano in cima alla collina e subito compare l'auto che li segue fin giù nel villaggio, passando oltre il piccolo spaccio e la videoteca. È una Lexus, nerissima e nuovissima e si ferma lentamente fuori dall'albergo. La macchina emette un ticchettio mentre il motore si raffredda e per alcuni secondi nessuno esce. Zandt guarda finché non è sicuro che le figure sedute all'interno stiano guardando lui. La sua macchina, qualcosa di economico e straniero che aveva comprato da un lotto in balia delle intemperie nel Nebraska, è parcheggiata di fronte all'edificio esterno che ospita la sua e molte altre stanze. Le chiavi ce l'ha in tasca, ma non può arrivarci senza avvicinarsi alla Lexus. Potrebbe voltarsi, passare il ponte e attraversare le case sull'altra sponda, dirigersi su in collina, ma non ha intenzione di farlo. Avrebbe dovuto pagare in contanti per il soggiorno, lo sapeva. È la sua prassi consueta, ma quando era arrivato lì non ne aveva ed era tardi. Se ne avesse ritirato un po' da un bancomat nella città più vicina avrebbe lasciato lo stesso una traccia evidente. L'occasione per evitare questo confronto, qualsiasi cosa ne potesse derivare, l'aveva avuta due settimane prima. Poi, riabbassa semplicemente lo sguardo verso l'acqua e aspetta. La portiera del passeggero si apre ed emerge una donna. Ha i capelli scuri lunghi portati fin sotto le spalle, indossa un abito verde, ed è di altezza media. Il suo viso è attraente e ciò significa che la si può trovare insignificante o bellissima. Molta gente propende più per la prima opinione, cosa che a lei non dispiace. Il suo silenzio durante il tragitto aveva già irritato l'agente Fielding che l'aveva incontrata tre ore prima - e che, se non fosse stato assegnato ad accompagnarla fino a Pimonta, sarebbe stato a ca-
sa già da parecchie ore. Fielding non ha ancora la minima idea del perché sia stato trascinato fin lì, ma la cosa gli sta bene, visto che il tutto poteva essere considerato un semplice incarico ufficiale. Sta solo facendo quanto gli è stato detto, una qualità, questa, molto sottovalutata. La donna chiude la portiera con un leggero clunk che, lo sa, l'uomo sul ponte può sentire. Lui non si muove, né alza lo sguardo, fino a quando lei non arriva sul ponte, dopo aver superato l'albergo e i locali sbarrati di un ceramista defunto. Arriva fino a pochi metri da Zandt e poi si ferma, avvertendo l'assurdità della situazione, e il freddo pungente. «Ciao Nina,» disse lui sempre senza guardare. «Fantastico,» ribatté lei. «Sono sbalordita.» Lui si voltò. «Bel vestito, fa molto Dana Scully.» «Di questi tempi aspirano tutti ad assomigliarle, anche alcuni dei ragazzi.» «Chi c'è in macchina?» «Un agente locale, di Burlington. Una persona gentile che mi ha dato un passaggio.» «Come mi hai trovato?» «Carta di credito.» «Giusto,» disse. «Ne hai fatta di strada.» «Per te ne vale la pena.» Guardò con scetticismo la donna che un tempo aveva trovato splendida e che ora giudicava di nuovo comune. «Allora, cosa vuoi? Fa freddo e mi sta venendo fame. Sarei sorpreso se avessimo qualcosa da dirci.» Per un attimo Nina apparve di nuovo bellissima e ferita. Poi, come se la cosa non avesse importanza per lei, o non l'avesse mai avuta. «È successo di nuovo,» disse. «Pensavo ti interessasse saperlo.» Girò sui tacchi e si incamminò per tornare alla macchina. Il motore era già acceso prima che lei aprisse la portiera, e in due minuti la valle fu nuovamente buia e silenziosa. Rimaneva solo un uomo su un ponte, con la bocca leggermente aperta e il volto pallido. La raggiunse trenta chilometri a sud, gettandosi a rotta di collo giù per la stretta strada di montagna, sbandando a ogni curva. Il Vermont del sud non è stato pensato per andare veloce, e la macchina ebbe due volte degli accenni di slittamento su tratti ghiacciati. Zandt non si accorse né di questo
né degli automobilisti che ebbero giusto il tempo di constatare il suo avvicinarsi prima di vederselo addosso, acquistando velocità e lasciando le loro auto a sbandare dietro la sua scia. A Wilmington trovò un incrocio. La Lexus non si scorgeva in nessuna direzione. Pensò che Nina si sarebbe diretta nel posto più vicino dal quale poter essere riportata in aereo nel mondo civilizzato, quindi prese la svolta a sinistra sulla Route 9 per Keene, proprio sulla linea di confine del New Hampshire. Sulla strada più larga gli riuscì più agevole andare veloce, e presto cominciò a vedere in lontananza dinanzi a sé le caratteristiche luci posteriori della Lexus che tremolavano tra gli alberi lungo un tornante o intermittenti dall'altro lato di un pendio. Alla fine la raggiunse su un rettilineo proprio a sud di Hardsboro, dove la strada passava vicino a un piatto e freddo lago che sembrava uno specchio in cui si rifletteva un cielo pieno di ombre. Lampeggiò con i fari, ma non ottenne risposta. Allora si avvicinò e lampeggiò di nuovo. Questa volta la Lexus acquistò leggermente velocità. Zandt accelerò ancora e vide Nina voltarsi e riconoscere il suo volto attraverso il lunotto posteriore. Poi parlò al guidatore, che non rallentò. Zandt schiacciò a tavoletta e uscì in sorpasso, si lanciò in avanti fino a quando non superò di poco l'altra auto, quindi scartò di lato e inchiodò. Fu fuori dall'abitacolo prima che il motore si spegnesse, e lo stesso fece Fielding con la mano che già usciva da sotto la giacca. «Mettila via,» suggerì Zandt. «Fottiti.» L'agente teneva la pistola con ambo le mani. Nel frattempo Nina uscì dall'altro lato della macchina, camminando con attenzione per evitare il fango. «Ti avverto,» disse Fielding con calma. «Stai indietro.» «È tutto a posto,» disse Nina. «Merda. Ecco, addio scarpe.» A posto un cazzo, ha cercato di farci uscire di strada.» «Probabilmente voleva solo parlare. Ci si sente soli da queste parti.» «Può parlare con il mio uccello,» disse Fielding. «Tu... metti le mani sulla macchina.» Zandt rimase dove si trovava fino a che Nina girò intorno al muso della Lexus e fu in strada. «Sei sicura che si tratti di lui?» disse. «Pensi che avrei fatto tutta questa strada altrimenti?» «Non ho mai capito nulla di quello che facevi. In ogni situazione. Rispondi solamente alla domanda.» «Vuoi mettere le mani su quel fottuto cofano?» gridò Fielding. Si udì il rumore lieve e meccanico di una sicura che veniva tolta.
Zandt e Nina si voltarono. L'agente era fuori di sé dalla rabbia. Nina guardò la strada, dove una grande Ford bianca che sembrava urlare «Noleggio» procedeva verso di loro lentamente, in modo che i passeggeri potessero avere una buona visione del lago con quel poco di luce che rimaneva. «Stia calmo,» suggerì lei. «Non vorrà dare spiegazioni al suo superiore in merito a un amichevole scontro a fuoco?» Fielding guardò dietro le proprie spalle. Vide la macchina accostare in una posizione panoramica ottimale, circa un centinaio di metri più avanti, poi abbassò la pistola. «Mi vuote dire cosa diavolo sta succedendo?» Nina scosse la testa bruscamente, poi si girò verso Zandt. «Sono sicura, John.» «Allora perché sei qui e non là.» Lei alzò le spalle, un suo gesto abituale. «Veramente, non lo so. Non dovrei e, certamente ancora di più, non dovrei discuterne con te. Intendi mandarmi a cagare oppure possiamo andare a parlare da qualche parte?» Zandt rivolse lo sguardo lontano, sulla superficie piatta del lago, dove alcune zone erano nere e altre color ghiaccio. Sull'altra sponda c'era una piccola radura e una costruzione colonica in legno, con molte fascine accatastate su un lato. La struttura non sembrava prefabbricata né comprata su un catalogo - era più come se una o due persone fossero rimaste sedute per molte serate in qualche posto caotico e avessero disegnato il progetto su quaderni portati a casa dall'ufficio, con il disperato bisogno di proiettarsi in un'altra realtà. Ancora una volta Zandt desiderò essere qualcun altro. Forse il tizio che viveva in quella casa. O uno dei turisti che si trovavano più avanti sulla strada, e che ora stavano presso un ciuffo di vegetazione vicino all'acqua e guardavano attraverso gli alberi, sembrando, con le loro giacche a vento dai colori sgargianti, una piccola mandria di semafori. Alla fine annuì. Allora Nina andò verso Fielding e gli parlò. Dopo un minuto la pistola dell'agente fu di nuovo al suo posto. Quando Zandt voltò le spalle al lago, Fielding, con un'espressione più distesa, era rientrato in macchina. Nina aspettò Zandt alla sua macchina con un voluminoso fascicolo sotto il braccio. «Gli ho detto che sarei venuta con te,» disse. Appena Nina salì, Zandt si diresse verso la Lexus. Fielding lo guardò attraverso il finestrino con un'espressione indecifrabile e accese il motore. Poi premette un pulsante e abbassò il finestrino. «Penso che lascerò correre, per questa volta,» disse.
Zandt sorrise. Era un sorriso poco convincente e non portava con sé nessuna parvenza di compiacimento. «C'è solo questa volta.» Fielding alzò la testa. «E questo cosa dovrebbe significare?» «Che se ci rincontreremo e mi punterai una pistola contro, ci sarà un bel laghetto sul quale galleggeranno tanti pezzettini di federale. E non me ne frega un cazzo se questo manderà a puttane l'ecosistema.» Poi si voltò, lasciando l'agente a bocca aperta. Quindi Fielding fece rapidamente inversione, sollevando una pioggia di ghiaia. Premette forte sull'acceleratore e passò veloce, rallentando solo per sporgersi e mostrare il dito medio della sua mano destra. Quando Zandt salì in macchina vide che Nina era seduta e lo guardava con le braccia incrociate e un sopracciglio inarcato. «Le tue capacità di relazionarti con le persone migliorano,» disse. «Forse dovresti insegnare a un corso o qualcosa del genere, che so, scrivere un libro. Dico sul serio. È un dono il tuo. Non lo combattere, condividilo. Sii tutto te stesso.» «Nina, piantala.» Guidò in silenzio fino a Pimonta. Nina sedeva con il fascicolo sulle gambe. Quando rientrarono nel villaggio era buio e il numero delle auto dei residenti era leggermente aumentato. Molte delle finestre erano illuminate. Parcheggiò di fronte all'albergo e spense il motore. Non si mosse per aprire la portiera, così Nina rimase dov'era. «Hai ancora intenzione di mangiare?» chiese lei alla fine. In macchina iniziava a fare freddo. Due coppie, dirette verso l'edificio principale, avevano oltrepassato l'auto e le loro facce erano già paffute all'idea del cibo. Lui si scosse come tornando da un luogo lontano. «Sta a te decidere.» Lei cercò di essere allegra: «Mi va bene tutto.» «Non qui. La cena è dalle sei e trenta alle nove di sera. O mangiamo ora o domani mattina. La colazione è dalle sette alle otto ed è scarsa.» «Come... non c'è un posto dove si può prendere un hamburger in quell'intervallo di tempo? E in questo albergo non possono preparare un panino fuori orario?» Zandt si voltò e questa volta il suo sorriso sembrò quasi sincero. «Non sei di queste parti, vero?» «No, grazie a Dio. Da dove vengo io puoi mangiare quando vuoi. Tiri fuori i soldi e ti danno il cibo. È moderno e conveniente. O sei stato cosi
tanto in campagna che te ne sei dimenticato?» Lui non rispose. Improvvisamente Nina gettò il fascicolo sul tappetino e aprì la portiera. «Aspetta qui,» disse. Zandt aspettò, guardando dal parabrezza mentre lei marciava decisa verso l'edificio principale. La fame che aveva avvertito dopo la giornata di escursioni se ne era andata da tempo. Si sentiva gelare, fuori e dentro. Non era più abituato ad avere a che fare con qualcuno che lo conoscesse e si sentiva impacciato, con pensieri e sentimenti contrastanti. Aveva passato molto tempo spostandosi da un luogo all'altro, nascondendosi sullo sfondo: l'uomo al bancone di un bar che aspetta un altro bicchiere; il tizio che fa qualche lavoretto extra per un paio di giorni; quello che, mentre fa rifornimento in una stazione di servizio spazzata dal vento, guarda nel vuoto oltre il profilo della propria auto. Per lunghi periodi non aveva pensato proprio a nulla, aiutato da una assoluta mancanza di qualsiasi motivo che lo riportasse al suo passato. La comparsa di Nina aveva cambiato le cose. Rimpiangeva di non essersene andato un giorno prima, così che quando lei fosse arrivata avrebbe scoperto che era già partito. Ma Zandt conosceva l'ostinazione di lei più di molti altri, e sapeva che una volta che si fosse messa in testa di trovarlo ci sarebbe riuscita. Guardò lo spesso fascicolo sul tappetino. Non aveva nessuna voglia di toccarlo e tanto meno di scoprire cosa ci fosse dentro. La maggior parte del contenuto gli era fin troppo nota. Il resto sarebbe stato simile. I sentimenti che gli ispirava erano una miscela di stordimento e paura, lame di rasoio avvolte in batuffoli di cotone. Avvertì il rumore di una porta che si chiudeva, e alzò lo sguardo per vedere Nina che ritornava dall'entrata principale dell'albergo con qualcosa in mano. Lui uscì dalla macchina. Adesso faceva molto più freddo e il cielo era di piombo. Nevicava. «Gesù,» disse lei, con il vapore del suo fiato che le avvolgeva il viso. «Non stavi scherzando. Qui il cibo è concepito solo per soddisfare la necessità di alimentarsi e basta. Però ho preso questa.» Mostrò una bottiglia di whisky irlandese. «Gli ho detto che mi serviva come prova.» «Veramente non bevo più,» disse lui. «Bene, io sì,» disse lei. «Puoi stare seduto a guardare.» Aprì la portiera e recuperò il fascicolo. Zandt la sorprese a controllarne la posizione sul tappetino, come per scoprire se per caso lui gli avesse dato un'occhiata in sua assenza. «Nina, perché sei qui?»
«Sono venuta a salvarti,» lei disse. «A darti il bentornato nel mondo.» «E se io non volessi tornare?» «Tu sei già tornato. Solo che non lo sai ancora.» «E questo cosa dovrebbe significare?» «John, fa più freddo qui fuori che nelle mutande di una suora. Andiamo dentro. Sono convinta che tu possa sfoggiare con successo il tuo nuovo sguardo sono-lontano-anni-luce anche sotto un tetto.» Si sorprese a grugnire una risata. «È un po' cattiva, non credi?» Nina fece spallucce. «Conosci le regole. Se vai a letto con una donna, lei ha il diritto di esserti superiore per il resto della tua vita.» «Anche se è stata lei a cominciare? E a finire?» «Non mi sembra tu abbia combattuto con le unghie e con i denti in nessuno dei due casi. Quale di questi rustici granai è la tua dimora attuale?» Zandt fece un cenno verso il suo edificio e Nina si incamminò. Dopo un momento in cui prese in considerazione e, al tempo stesso, rifiutò l'ipotesi di risalire in macchina e andarsene, la seguì. 4 Zandt accese il fuoco, consapevole che nel frattempo Nina, seduta su una delle poltrone consunte, con i piedi appoggiati sul tavolino, stava esaminando l'ambiente illuminato dalla lampada: tappeti raffinatamente consumati, l'arredamento squallidamente chic, i quadri che solo un albergatore potrebbe amare. Le assi del soffitto erano color crema e un mazzo di fiori locali spuntava gaiamente da un vaso a pochi centimetri dai piedi di Nina. «Allora, a che ora viene Martha Stewart?» «Non appena te ne sarai andata,» disse, dirigendosi verso il bagno in cerca di bicchieri. «Tra me e lei è una cosa selvaggia.» Nina sorrise e guardò i tizzoni ardenti dietro la grata del camino. Il fuoco ticchettava e scoppiettava, felice di destarsi e pronto a consumarsi. Le sembrava fosse passato molto tempo dall'ultima volta che ne aveva visto uno vero. Le ricordò le sue vacanze da bambina e le vennero i brividi. Quando Zandt tornò, lei svitò il tappo della bottiglia e versò da bere per entrambi. Lui rimase fermo ancora un momento come se non volesse compromettersi bevendo con lei, ma poi prese l'altra poltrona. La stanza cominciava lentamente a scaldarsi. Nina portò il bicchiere alla bocca con ambo le mani, senza distogliere lo sguardo da Zandt.
«Allora, John... come stai?» Zandt si sedette e mantenne lo sguardo diritto davanti a sé, come ignorandola. «Dimmelo e basta,» disse. Tre giorni prima, una ragazza, Sarah Becker, era seduta su una panchina della 3rd Street Promenade, a Santa Monica, California. Stava ascoltando un minidisc con il lettore che aveva ricevuto in regalo per il suo quattordicesimo compleanno. Con il computer di casa aveva stampato una piccola etichetta sulla quale aveva scritto il suo nome e indirizzo, fissandola poi sul retro del lettore e coprendola con nastro adesivo trasparente per evitare che l'inchiostro si deteriorasse. Benché non le fosse piaciuto dover intaccare la lucida cromatura dell'apparecchio, detestava molto di più poterlo perdere. Quando il lettore fu ritrovato, si scoprì che l'album che la ragazza stava ascoltando era Generation Terrorists di una band inglese chiamata The Manic Street Preachers. Anche se, e Sarah lo sapeva, la chiamavano i Manics. Nella sua scuola la band non era famosa, e questo era uno dei motivi per cui la ascoltava. Tutti gli altri fantasticavano su grintose reginette del pop e insipide boy band, o dondolavano le teste mentre qualche bestione hip-hop, dal suo rifugio dorato a Malibu, muggiva lo slang dell'anno scorso su una melodia già sentita. Sarah preferiva la musica nella quale si percepiva che qualcuno, a un certo punto, aveva voluto esprimere qualcosa. Forse era la sua età. A quattordici anni non sei più una ragazzina. Non al giorno d'oggi e non a Los Angeles, nel 2002. I suoi genitori ci stavano mettendo un po' ad abituarsi, ma anche loro sapevano che era così. A modo loro se ne stavano facendo una ragione, come uomini di Neandertal che guardano con circospezione la comparsa dei primi Cro-Magnon. A quell'ora della sera nella zona dove era seduta lei, vicino alla fontana di fronte a Barnes & Noble, la Promenade era piuttosto deserta. Alcune persone entravano e uscivano dalla libreria e se ne potevano vedere altre attraverso la vetrata a due piani: intente a sfogliare libri e riviste, a riflettere sulle caratteristiche dei computer, o mentre setacciavano manuali di sceneggiatura in cerca di qualche formula magica. L'anno prima, Sarah era partita con la sua famiglia per una vacanza di due settimane a Londra, ed era rimasta sconcertata dalle librerie locali. Erano veramente strambe. Nel senso che avevano solo libri. Niente caffè, niente riviste, perfino niente toilette. Solo file e file di libri. La gente li prendeva, li comprava e poi se ne andava. Sua madre sembrava trovarla una figata, Sarah pensava invece che
quella fosse una delle poche cose dell'Inghilterra che facesse veramente schifo. Alla fine si erano imbattuti in un enorme Borders aperto di recente e lei ci si era lanciata, scoprendo i Manics a una delle postazioni di ascolto. Le band inglesi erano una figata, e i Manics in particolar modo. Tutta Londra era una figata, naturalmente. Sarah stava seduta e, guardando la Promenade, dondolava la testa in segno di assenso mentre il cantante urlava di essere «un maledetto cane». Laggiù, alla fine dei tre isolati nella zona pedonale, c'erano praticamente solo ristoranti. Suo padre l'aveva lasciata venti minuti prima e sarebbe tornato a prenderla alle nove in punto - come faceva ogni mese. Sarah avrebbe dovuto incontrare la sua amica Sian al deli Broadway. Le signore avrebbero cenato in città. Questo rito mensile era un parto della mente della madre di Sian, che si stava adattando all'adolescenza della figlia spalancandole ogni porta nella quale si imbattesse, per paura che il lasciare chiusa quella sbagliata potesse rovinare il loro rapporto speciale. La madre di Sarah si era abituata abbastanza facilmente a tutto ciò: in parte perché tutti tendevano ad andare d'accordo con Monica Williams, ma anche perché Zoë Becker era sufficientemente consapevole della parte più giovanile di sé per rendersi conto di quanto le sarebbe piaciuto fare la stessa cosa alla sua età. Comunque, il padre di Sarah aveva occasionalmente diritto di veto e per un lungo, brutto istante lei aveva pensato che lo avrebbe esercitato. Un paio di mesi prima c'era stata un'ondata di uccisioni connesse alle gang, in parte conseguenza del riassetto nella gestione dello spaccio del crack. Ma alla fine, dopo avere proposto e raggiunto l'accordo su una serie di misure precauzionali - che includevano l'accompagnarla e l'andare a riprenderla a orari e in posti prestabiliti, il dimostrare di possedere una batteria del cellulare completamente carica, e il recitare i principi fondamentali di buonsenso per evitare l'imprevedibile intromissione del destino - lui aveva acconsentito. Questo incontro faceva ormai parte del calendario mondano. Il problema fu che, quando Sarah e suo padre erano arrivati all'appuntamento, Sian non era ferma all'angolo. Michael Becker allungò il collo per scrutare su e giù per la strada. «Allora dov'è la leggendaria Ms. Williams?» borbottò lui, tamburellando con le dita sul volante. Qualcosa era andato storto con la serie televisiva a cui stava lavorando per la Warner, e lui era stressato al massimo: una calma piatta intervallata da scatti di nervosismo. Sarah non sapeva quale fosse il vero problema, ma conosceva il credo di suo padre secondo il quale ci sono infinite possibilità per cui le cose vadano storte nel business e un solo
modo per farle andare diritte. Le aveva sottoposto alcune idee per l'episodio pilota dello show e aveva anche esaminato alcuni suoi suggerimenti, saggiando la sua reazione come rappresentativa del potenziale target di pubblico. In realtà, e un po' a sorpresa, a Sarah era sembrato che la serie fosse piuttosto uno sballo. Meglio di «Buffy» o «Angel», sicuramente. In privato pensava che Buffy in sé fosse uno strazio e che quel tizio inglese più vecchio non somigliasse a Hugh Grant nemmeno la metà di quanto suo padre potesse credere. E non aveva nemmeno un po' il suo aspetto. L'eroina di «Dark Shift» era più indipendente, meno appariscente e meno facile al piagnisteo. Era anche, ma Sarah non se ne era accorta, liberamente ispirata alla figlia di Michael Becker. «Eccola là,» disse Sarah, indicando verso la strada. «Io non la vedo,» disse suo padre aggrottando le sopracciglia. «Sì, guarda... là, sotto quel lampione, fuori da Hennessy &Ingels.» In quel momento qualche stronzo dietro di loro strombazzò col clacson e Michael Becker voltò la testa indietro per lanciare uno sguardo minaccioso attraverso il lunotto posteriore. Non si arrabbiava praticamente mai in famiglia, ma poteva accadergli quando si trovava nel mondo esterno. Sarah sapeva, avendone discusso recentemente a scuola, che questa era una questione di rapporti di forza, di stabilire una gerarchia nella giungla d'asfalto - ma, dentro di sé, era preoccupata che un giorno o l'altro suo padre avrebbe scelto di affermare la sua volontà contro il gorilla sbagliato. Lui non sembrava capire che, sebbene l'essere padre poteva permettergli di contrastare il destino, l'età non avrebbe fatto grande differenza contro la violenza del castigo. Lei aprì la portiera e saltò giù. «La raggiungo io,» disse. «Non ti preoccupare.» Michael Becker guardò con le labbra serrate il tizio impaziente nella LeBaron mentre li superava. Poi si girò e la sua espressione cambiò. Per un attimo sembrò non avere story arcs e dati d'ascolto che gli scorrevano dietro gli occhi, come se guardasse il mondo attraverso una griglia di beat lists e di acquisizione di diritti stranieri. Sembrò solo stanco, bisognoso di un po' di caffeina bollente, ma comunque suo padre. «Ci vediamo dopo,» disse Sarah, facendo l'occhiolino. «Mi raccomando, fatti venire un infarto mentre torni a casa.» Lui guardò l'orologio. «Non ne ho il tempo. Forse riesco giusto a procurarmi qualche problemino alla prostata. Ci vediamo alle nove?» «In punto. Io sono sempre in anticipo, sei tu che arrivi in ritardo.»
«Ma sentite questa. Nokkon, signorina.» «Nokkon, pa'.» Lei chiuse la portiera e lo osservò rituffarsi nel traffico. Gli fece un cenno con la mano, un piccolo saluto, e subito dopo era sparito: inghiottito nuovamente in un mondo interiore, alla mercé di persone che compravano parole all'ingrosso e non sapevano mai cosa volessero fino a quando non era già in distribuzione. Mentre lo guardava andare via, Sarah era certa di una cosa: lei non si sarebbe mai innamorata del business. Naturalmente, sotto il lampione Sian non c'era. Sarah aveva solo fatto finta, in modo che suo padre potesse tornare a casa e rimettersi a lavorare. La sua amica non comparve nemmeno nei dieci minuti successivi, poi il telefonino di Sarah squillò. Era Sian. In quel momento si trovava accanto alla macchina di sua madre ed era annoiata a morte. Sarah poteva sentire in sottofondo Mrs. Williams mentre si sfogava rabbiosamente con qualche sfortunato meccanico, che probabilmente avendo visto madre e figlia bisognose di aiuto si era immaginato un vero film porno in diretta. Sarah sperava che l'uomo avesse capito che non solo ciò non sarebbe mai potuto accadere, ma che sarebbe stato un uomo morto se non avesse messo a posto la macchina immediatamente. A ogni modo, Sian non ce l'avrebbe fatta a raggiungerla. Il che lasciava Sarah con un dilemma. Suo padre non doveva ancora essere arrivato a casa, e una volta entrato nel viale di accesso la sua mente sarebbe stata avvolta in un turbine di fori di proiettile e intoppi nella trama, forse sarebbe già stato al telefono con il suo partner, Charles Wang, studiando un modo per riportare il progetto in acque più tranquille. Per l'indomani mattina era fissata un'importante colazione di lavoro, una riunione da ultima spiaggia tra caffè decaffeinato e omelette prive di colesterolo. Sapeva che suo padre temeva terribilmente questi incontri, perché non faceva mai colazione e odiava fingere, giocherellando con un toast per evitare di farlo con l'argenteria. Sarah non voleva che si stressasse più di quanto non lo fosse già, anche perché sua sorella minore, Melanie, avrebbe fornito già da sola disturbo in abbondanza. Allora capì che in realtà non doveva chiamare affatto. Rimanevano un po' meno di due ore di attesa e poi suo padre sarebbe ritornato. La Promenade offriva dappertutto posti per curiosare, la maggior parte ancora aperti. Avrebbe potuto prendere un frappé e semplicemente aspettare. Fare un giro da Antropologie, in cerca di idee regalo. Passare in rassegna i punti di ascolto da Barnes & Noble, nel caso che avessero finalmente tirato fuori
qualcosa di nuovo. Poteva anche andare a sedersi al deli e prendersi un'insalata Cobb. In definitiva, doveva solo assicurarsi di farsi trovare nel posto giusto all'ora esatta, e poi - a seconda dell'umore di suo padre - rivelargli che Sian non si era fatta vedere, o fare finta che tutto fosse andato come al solito. Chiamò Sian per assicurarsi che questo piano non venisse mandato all'aria da una telefonata di Mrs. Williams a sua madre. Non riuscì a prendere la linea, il che significava che probabilmente la macchina era a posto e di nuovo in moto, forse in un canyon dove non c'era campo. Sarah era convinta che se sua madre fosse stata contattata allora lei lo avrebbe già scoperto. Ci sarebbero stati elicotteri volteggiami sopra la sua testa, e Bruce Willis che veniva calato con una fune verso di lei. Lasciò un messaggio a Sian, poi si incamminò ed entrò da Starbucks. Le era venuto in mente che se fosse entrata al deli avrebbe potuto ordinare quello che voleva, invece dell'insalata Cobb che prendevano sempre, imponendosi una dieta vent'anni prima del necessario. Avrebbe potuto scegliere, tra le tante cose, un hamburger enorme al sangue, con formaggio e patatine fritte. Pensava che probabilmente essere un adulto significasse questo, e la cosa poteva rivelarsi piuttosto interessante. Era arrivata in fondo al frappé e i Manics avevano finito di urlare il loro ultimo ritornello, quando vide un tipo alto uscire dalla libreria, percorrere qualche metro, poi fermarsi e guardare verso il cielo. Non era ancora buio, ma il crepuscolo stava sfumando. L'uomo frugò in tasca, tirò fuori un pacchetto di sigarette e si sforzò per estrarne una mentre si destreggiava con quella che era, evidentemente, una pesante borsa di libri. La scena andò avanti per qualche istante, con l'uomo assolutamente ignaro dello sguardo divertito di Sarah. Lei stava pensando che al suo posto avrebbe provato a posare la borsa, ma questo a lui, evidentemente, non era venuto in mente. Alla fine, esasperato, andò alla fontana e poggiò la borsa sul bordo. Una volta accesa la sigaretta, si mise le mani sui fianchi, e osservò la strada, prima di rivolgere lo sguardo verso di lei. «Ciao,» disse lui. La sua voce era dolce e cordiale. Adesso che era più vicino, Sarah pensò che probabilmente era sulla quarantina, forse più giovane. Non capiva come facesse a saperlo, visto che c'era un lampione dietro la sua testa e il suo volto era leggermente in ombra. Semplicemente, aveva quel modo di fare da uomo più vecchio. «Lo dica ancora.»
Lui disse: «Cosa, ciao?» Lei annuì con un'espressione saputa. «Lei è inglese.» «Oh, Dio. È così evidente?» «Beh, diciamo che ha un accento inglese.» «Oh. Certo.» Fece un altro tiro di sigaretta e poi guardò la panchina. «Ti dispiace se mi unisco a te?» Sarah alzò le spalle. Fare spallucce era comodo. Non era né sì né no. Comunque, sulla panchina c'era un sacco di spazio e lei, entro qualche secondo, sarebbe stata tutta dedita all'insalata. O all'hamburger. Doveva ancora decidere. L'uomo si sedette. Indossava un paio di pantaloni di velluto a coste, non proprio nuovi, e una giacca leggera che sembrava di buona fattura. Aveva mani grandi, i capelli erano biondo chiaro - tinti da un professionista - e curati, e il suo viso non era niente male. Come un insegnante di scienze all'ultima moda, o di sociologia. Quel tipo di persona che probabilmente non andrebbe a letto con una studentessa, ma se volesse potrebbe farlo. «Allora, lei è un attore, o qualcosa del genere?» «Oh no. Niente di così grandioso. Solo un turista.» «Da quanto tempo è qui?» «Un paio di settimane.» Infilò la mano in tasca e tirò fuori un oggetto di scintillante metallo cromato. Girò il coperchio e si rivelò come un piccolo posacenere portatile. Sarah era molto incuriosita da tutto ciò. «Gli inglesi fumano un sacco, vero?» «Sì, è vero,» disse l'uomo, che non era inglese. Spense la sigaretta e si infilò nuovamente il posacenere in tasca. «Noi non abbiamo paura.» Chiacchierarono per un po'. L'uomo elencò le zone di Los Angeles che aveva visitato, una selezione delle solite trappole per turisti. Non rivelò che la borsa di Barnes & Noble che aveva con sé era sì piena di libri ma che possedeva da qualche anno, e nemmeno che aveva passato un'ora intera nella libreria seduto nella sezione Politica ed Economia, disinteressandosi completamente degli altri clienti e guardando fuori dalla finestra in attesa dell'arrivo di Sarah. Chiese, invece, consigli su cosa potesse ancora vedere in città. Sarah, che prese seriamente il compito, suggerì la pozza di catrame di La Brea, Rodeo Drive, e la Watts Tower, che lei pensava potessero rendere bene l'idea del passato e del futuro di Los Angeles. In più, pensò, su Rodeo lui avrebbe potuto cambiare i suoi pantaloni di velluto a coste con qualcosa
un po' più bon marché come piaceva dire a Sian, che l'anno prima aveva trascorso le vacanze ad Antibes. Poi l'uomo rimase un attimo in silenzio. Sarah stava pensando fosse giunto per lei il momento di guardarsi la sfilza di vetrine fino ad arrivare al posto dove mangiare. Si preparava a dire buona sera, quando lui si girò e la guardò. «Sei molto carina.» Questo poteva essere vero oppure no - di recente l'opinione di Sarah era ferocemente incerta sull'argomento - ma apparteneva senza dubbio al repertorio di battute colloquiali che urlavano a gran voce «Attenta, un maniaco». «Grazie,» disse lei, proteggendosi. Per un attimo la sera sembrò più fredda, poi si stabilizzò non appena lei riprese il controllo. «Comunque, è stato carino parlare con lei.» «Mi dispiace,» disse lui prontamente. «È una cosa piuttosto strana da dire, lo so. Solo che mi ricordi mia figlia. Ha più o meno la tua età.» «Bene,» disse Sarah. «Fico.» «È a Blighty,» continuò l'uomo, come se non l'avesse sentita. «Con sua madre. Non sai quanto desideri rivederle. Al più presto. Che mi venga un colpo. Lady D., il Signore l'abbia in gloria.» Poi i suoi occhi si distolsero da lei e lanciarono un rapido sguardo intorno. Sarah pensò fosse imbarazzato. In realtà stava valutando che entro circa venti secondi tutte le incognite si sarebbero rivolte a suo favore, essendo tutte le visuali rivolte lontano dalla panchina. Era bravo a calcolare questo genere di cose, era una delle sue doti particolari. Scivolò qualche centimetro più vicino alla ragazza, che si alzò. «Comunque,» disse Sarah. «Devo andare.» L'uomo rise nella consapevolezza che tutti i tasselli stavano andando al loro posto. Afferrò la mano di Sarah e la tirò con forza sorprendente. Lei emise un debole lamento e ricadde sulla panchina, troppo shockata per resistere. «Mi lasci,» disse lei, lottando per rimanere calma. Le sembrò che la terra stesse sprofondando, una sensazione vertiginosa, fluida. Come se l'avessero scoperta a tradire, o a rubare. «Che bella ragazzina.» Strinse la mano di lei ancora più fermamente. «Da sorvegliare con attenzione.» «Per favore, mi lasci andare.» «Oh stai zitta, stupida puttanella,» mormorò l'uomo senza più il suo finto
accento inglese. Il suo pugno fu corto e si abbatté secco colpendola diritto in faccia. La testa di Sarah sobbalzò all'indietro, gli occhi spalancati e sbalorditi. Oh no, disse lei dentro di sé, calma e sbigottita. Oh no. «Guarda, Sarah,» disse l'uomo, con voce bassa e incalzante. «Guarda tutte quelle persone fortunate. Non come te.» Fece un cenno con la testa verso la Promenade. Solo un isolato più in là, la strada era affollata. Gente che entrava e usciva dai negozi, che dava occhiate esplorative ai menu dei ristoranti. Intorno a Sarah e all'uomo non si vedeva nessuno. «Un tempo qui c'era solo boscaglia, te ne rendi conto? Linea costiera frastagliata, scogli, conchiglie. Poche tracce sulla sabbia. Se rimani in silenzio puoi immaginare come era prima che arrivassero queste merde.» Battendo le ciglia contro gli occhi umidi, Sarah cercò di capire dove l'uomo volesse arrivare. Forse c'era qualcosa che poteva fare, qualche domanda inaspettata alla fine del test, qualche maniera di estorcere un lasciapassare. «Ma la gente non vede,» continuò lui. «Non guarda nemmeno. È cieca, volontariamente cieca, prigioniera della macchina.» L'afferrò per i capelli e girò la sua faccia in modo che potesse vedere dentro Barnes & Noble. Anche lì era pieno di persone. Leggevano, chiacchieravano. Perché mai dovreste guardare fuori, se vi trovaste di sera in una libreria? Anche se lo faceste, cosa vedreste oltre a due figure scure su una panchina? Perché dovrebbe sembrare una vista eccezionale? «Potrei scoparti qui e subito,» disse l'uomo, in un tono di tranquilla indignazione. «Solo per dimostrare che si può fare. Che realmente non importa a nessuno. Quando sei costantemente circondato da persone che non conosci, come fai a dire cosa c'è che non va? In dieci chilometri quadrati di malattia, a chi importa cosa accade a un piccolo virus?» Sarah si rese conto che non ci sarebbe stata nessuna possibilità che lui la lasciasse libera, né ora né mai, e si preparò a urlare. L'uomo sentì il petto della ragazza espandersi, e la sua mano le strinse con forza la faccia. Due dita afferrarono il labbro superiore dall'alto, tirandolo. L'urlo non uscì mai dalla gola. Sarah cercò di divincolarsi, ma la mano la tenne ferma, con l'ausilio del peso del braccio che premeva sulla sua testa. «Nessuno sta guardando,» le assicurò l'uomo, con la stessa calma odiosa. «Sono io che ho fatto in modo che accadesse. Io posso camminare dove nessuno può vedere.» Rumori indistinti uscirono dalla bocca di Sarah, quando tentò di dire
qualcosa. Lui sembrò capire. «No, per niente,» disse. «Non stanno arrivando. Sono a casa. Mamma è una Jackson Pollock della cucina. Papà è in giardino, con la sorellina. Entrambi nudi. Fanno un bel quadro. Qualcuno potrebbe anche considerarlo osceno.» In realtà, in quel momento, Melanie e la madre di Sarah stavano guardando una replica dei «Simpson». Era, come Zoë Becker avrebbe ricordato per sempre, l'episodio in cui George Bush si trasferiva a Springfield. Michael Becker stava scrivendo furiosamente nel suo antro, avendo trovato un modo perché tutto andasse per il verso giusto. O almeno così sperava vivamente. Se solo fosse riuscito a sistemare i dieci minuti di apertura e avesse trovato un modo per far accettare l'idea che alcuni dei personaggi non dovevano essere proprio dei teenager, allora tutto sarebbe stato a posto. E se non ci fosse riuscito, allora fanculo, li avrebbe rappresentati tutti adolescenti - reintroducendo quelle panoramiche del cazzo davanti alla scuola, come le voleva Wang. A qualche chilometro di distanza, Sian Williams aveva appena ricevuto il messaggio di Sarah, e si sentiva leggermente invidiosa per l'avventura in solitario dell'amica. «Se continui a dimenarti,» disse l'uomo, «ti strappo i denti. Lo farò, te lo giuro. Non è facile, ma ne vale la pena. Produce un rumore veramente inusuale.» Sarah si calmò del tutto, e per un attimo nessuno dei due si mosse. L'uomo sembrava provare piacere nello stare seduto in quel modo, con la bocca della ragazza stretta a tal punto da farla urlare per il dolore, come se stessero condividendo un momento di intimità nel bel mezzo di una strada trafficata. Poi lui sospirò, come qualcuno che metta via controvoglia una rivista appassionante. Si alzò, sollevando Sarah. Il suo lettore di minidisc scivolò a terra con un rumore metallico. L'uomo lo guardò e lo lasciò dov'era. «Addio e buona notte, brava gente,» disse lui, rivolgendosi indistintamente all'altra estremità della strada. «Marcirete tutti all'inferno e mi piacerebbe condurvici.» Il suo braccio destro ruotò intorno alla testa di Sarah fino a quando la mano arrivò a stringersi forte sulla bocca di lei. Con l'altra mano raccolse la borsa dei libri. «Ma io ho un appuntamento e noi dobbiamo andare.» Poi, con passi lunghi, veloci, trascinò Sarah attraverso la strada e dentro il vialetto dove era parcheggiata la sua macchina. Lei non poté fare altro che seguirlo. Lui era alto e molto forte.
L'uomo spalancò la portiera posteriore, afferrò nuovamente la ragazza per i capelli e osservò da vicino il suo volto. La presenza ravvicinata della faccia di lui allontanò ogni pensiero che potesse tornarle utile. «Vieni, mia cara,» disse. «La nostra carrozza ci aspetta.» Quindi le diede una testata proprio sopra gli occhi. Quando le ginocchia di Sarah cedettero, l'ultima cosa che le venne in mente fu di ordine pratico. Nel suo comodino c'era un taccuino sul quale aveva annotato molti pensieri. Alcuni dei più recenti erano sul sesso: riflessioni piene di aspettativa su una parte della vita che lei non aveva ancora vissuto, ma che sapeva prossima ad arrivare. La maggior parte erano trascrizioni di cose che Sian le aveva detto, ma aveva anche usato la propria immaginazione, più qualcosa che aveva racimolato dalla tv e da riviste non troppo volgari che aveva trovato al The Pier. Il taccuino era nascosto, ma non troppo bene. Nel caso fosse morta, sua madre e suo padre l'avrebbero trovato, e avrebbero saputo che quanto le stava accadendo se l'era andato a cercare. Nina ignorava la maggior parte dell'episodio, ma questo fu l'evento che lei descrisse. Una volta riferito ciò che sapeva, riempì di nuovo il bicchiere. Zandt non toccò il suo. «Quattro testimoni si ricordano di aver visto Sarah Becker sulla panchina tra le sette e dodici e le sette e trentuno. Le loro descrizioni dell'uomo che era con lei variano da 'Un tipo qualunque, forse alto', a 'Merda, non lo so', passando per 'Beh, era, come dire, un uomo'. Non abbiamo neanche un'età o il colore da poter portare alla banca dati, anche se abbiamo avuto due rapimenti effettuati da un tizio di razza bianca con i capelli biondi. Due passanti dicono indossasse un lungo cappotto, un altro una giacca sportiva. Nessuno li ha visti andare via, malgrado la panchina sia a pochi metri da un fantastiliardo di persone. Se l'uomo ha passato del tempo nella libreria prima di abbordare la ragazza, nessuno lo ha notato. Un altro testimone ha dichiarato di aver visto una macchina di colore e modello non definiti nella strada laterale più vicina. È possibile che un bidone dell'immondizia sia stato posizionato in modo da celare la targa - cosa degna di un professionista, benché richieda una fiducia in se stessi maggiore di quella in Dio. Chiunque avrebbe potuto anche solamente spostare il bidone, e tra l'altro lui aveva parcheggiato in divieto di sosta. Alle otto e quindici la macchina era sparita. «Il padre della ragazza arrivò all'estremità sud della Promenade alle no-
ve e zero sette. Dopo aver parcheggiato nel solito posto, rimase in attesa. Quando, nel giro di qualche minuto, né sua figlia né Sian Williams comparvero, entrò nel ristorante. Il personale gli disse che non avevano servito un tavolo che corrispondesse alla sua descrizione, anche se avevano avuto una prenotazione sotto il nome Williams ma non si era presentato nessuno. Lui chiamò la madre dell'altra ragazza e scoprì che la cena era stata cancellata all'ultimo momento a causa di un problema alla macchina dei Williams. La macchina è stata controllata, ma non è stata accertata alcuna manomissione. «Michael Becker chiese di parlare proprio con la ragazza e alla fine gli fu detto che Sarah aveva lasciato un messaggio nel quale diceva di non voler disturbare suo padre, che avrebbe semplicemente ammazzato il tempo e aspettato che lui tornasse a prenderla al solito orario. L'uomo cercò su e giù per la strada senza trovare alcun segno di sua figlia. Infine raggiunse la parte finale e dopo aver controllato dentro Barnes & Noble individuò un lettore Sony minidisc che giaceva, seminascosto, sotto la panchina. Che l'apparecchio appartenesse a sua figlia era certo, sia per l'etichetta che lei aveva attaccato sia perché era stato lui a comprarglielo. Il disco nel lettore era un album della band preferita della ragazza. Ha un loro poster sulla parete della sua cameretta. Allora Becker chiamò il dipartimento dello sceriffo, il LAPD, e anche la sua agente, cosa un po' insolita. Presumibilmente pensò che lei avrebbe potuto esercitare maggior influsso di lui sui poliziotti. Poi chiamò sua moglie e le disse di rimanere dov'era nel caso la loro figlia fosse arrivata a casa in taxi. «L'intera area è stata setacciata. Niente. Non ci sono impronte sul lettore eccetto quelle della ragazza. Ci sono circa un centinaio di mozziconi di sigaretta intorno alla panchina, ma non sappiamo neanche se il rapitore sia un fumatore. Uno dei testimoni ha detto che potrebbe esserlo e quindi, in questo momento, qualche povero cazzone in un laboratorio sta cercando tracce di DNA in un sacchetto pieno di cicche.» «Nessun sospetto sul padre?» «Non in questo caso. Erano molto uniti, nel senso giusto. Anche se per un paio di giorni questo è quello su cui la gente si è interrogata. In ogni caso, no, non pensiamo sia lui, e le tempistiche non corrispondono affatto. Abbiamo anche escluso il suo socio, un certo Charles Wang. Era a New York.» Zandt alzò lentamente il proprio bicchiere, lo vuotò, e lo riabbassò. Sapeva che c'era dell'altro. «E dunque?»
Nina tirò giù i piedi dal tavolo, si allungò per prendere dal pavimento il fascicolo. Dentro, oltre a un gran numero di documenti fotocopiati, c'era un pacco sottile avvolto in carta marrone. Quello che lei tirò fuori era, comunque, una fotografia. «Questo è arrivato alla residenza dei Becker nel tardo pomeriggio del giorno dopo. Tra le sedici e trenta e le diciotto. È stato trovato per terra.» La passò a Zandt. L'immagine mostrava un maglione da ragazza, color lillA chiaro, piegato con cura. Quello che appariva un nastro era stato legato intorno al pullover con un fiocco. «È stato realizzato con capelli intrecciati. Quelli di Sarah erano lunghi abbastanza per essere utilizzati in questo modo, e sono dello stesso colore. I medici legali hanno prelevato dei campioni dalla sua spazzola e avremo la conferma molto presto.» Zandt si accorse che il suo bicchiere era stato riempito di nuovo. Bevette. Il whisky bruciava la sua bocca arida, e gli provocò un senso di nausea. Si sentiva la testa come un pallone, gonfiato un po' troppo, che volava un paio di centimetri sopra il suo collo. «L'Homo Erectus,» disse lui. «Beh,» disse Nina, assennatamente, «abbiamo verificato con le famiglie delle vittime di due e tre anni fa e con ogni agente che fu coinvolto in quelle indagini. Siamo abbastanza convinti che il contenuto dei pacchi da lui lasciati in quelle occasioni sia rimasto segreto. Potrebbe sempre essere un imitatore. Ne dubito, ma sto facendo fare una verifica su tutti i media, compreso Internet, per ogni utilizzo di 'Ragazzo delle consegne' o 'Homo Erectus'.» «Internet?» «Sì,» disse lei seccamente. «È roba di computer, è di gran moda.» «È lui,» disse Zandt, l'unico pienamente conscio dell'ironia intrinseca a questa sua sicurezza. Lei lo guardò, e poi tornò riluttante a pescare dal fascicolo. Questa volta la fotografia mostrava il maglione dopo che era stato accuratamente aperto e disteso. Il nome di Sarah era ricamato sul davanti, non in modo elaborato, ma con lettere spesse e definite. «I capelli usati per il nome sono castano scuro. Sono molto più secchi di quelli che crediamo essere di Sarah, e questo ci fa ritenere che siano stati tagliati un po' di tempo fa.» Qui Nina si fermò e attese mentre Zandt infilava lentamente una mano in
tasca. Tirò fuori un pacchetto di Marlboro e una scatola di fiammiferi. Non aveva fumato da quando si trovavano in quella stanza. Non c'era un posacenere. Le sue mani, mentre tiravano fuori una sigaretta, erano ferme. Lui non guardava lei, ma il fiammifero che stava accendendo: lo osservava con ostinata concentrazione, come se fosse qualcosa a lui poco familiare e ne avesse indovinato l'utilità grazie all'intuizione. Ci vollero tre tentativi prima che si accendesse, ma il fiammifero poteva essere umido. «Ho fatto in modo che i capelli castani fossero analizzati per primi.» Prese un respiro profondo. «È una sfida, John. Sono i capelli di Karen.» Lei lo lasciò solo per un po', se ne andò fuori al freddo e rimase in ascolto nell'oscurità. Raffiche di risa smorzate provenivano dall'edificio principale, e attraverso la finestra poteva vedere coppie di diverse età, avvolte in comodi maglioni, mentre organizzavano le avventurose escursioni a piedi dell'indomani. Una porta si aprì dall'altro lato dell'edificio e attraverso di essa lei poté sentire un gran rumore di piatti che venivano lavati. Qualcosa di piccolo frusciò nel sottobosco dall'altro lato della strada, ma non venne fuori niente. Quando ritornò, Zandt stava seduto esattamente come l'aveva lasciato, ma aveva acceso un'altra sigaretta. Non alzò lo sguardo verso di lei. Nina mise qualche pezzo di legno in più nel fuoco, in maniera poco esperta, non riuscendo a ricordare se andassero accatastati in alto o sistemati ai lati. Si sedette sulla poltrona e si versò un altro drink. Poi rimase seduta accanto a lui per tutta la notte. 5 Nel tardo pomeriggio parlai con la polizia e con i medici dell'ospedale e, prima ancora, con tutti i vicini dei miei genitori. Valutai attentamente le parole di ognuno di loro. Chiamai i poliziotti da casa e mi fu passato un certo agente Spurling che, grazie a Dio, non era uno di quelli che mi avevano interrogato dopo l'episodio al bar dell'hotel. Spurling e il suo partner McGregor, allertati da un motociclista di passaggio, erano stati i primi ad arrivare sulla scena dell'incidente in cui avevano perso la vita i miei genitori. I due agenti erano rimasti sul posto fino all'arrivo dell'ambulanza e dei vigili del fuoco e avevano aiutato a rimuovere i corpi dalla macchina. Avevano seguito poi l'ambulanza all'ospedale, e Spurling era stato presente quando, all'arrivo, Do-
nald e Philippa Hopkins erano stati dichiarati morti. L'identificazione dei corpi era avvenuta tramite le loro patenti e fu confermata, nelle due ore successive, da Harold Davids (avvocato) e Mary Richards (vicina). L'agente Spurling comprese il mio desiderio di stabilire le circostanze della morte dei miei genitori. Mi fornì il nome del medico di turno quella sera, e mi domandò se avevo pensato all'assistenza psicologica. Pensai mi suggerisse di farmi aiutare, non di cambiare mestiere. Lo ringraziai per la sua disponibilità e lui mi augurò ogni bene. Conclusi la telefonata sperando di non imbattermi in lui andando al distretto a ritirare la pistola, anche se era possibile che lui sapesse già tutto. Il suggerimento di un supporto psicologico non mi era sembrato completamente privo di allusioni. Rintracciare la dottoressa fu molto più difficile. Non era in servizio quando chiamai l'ospedale e dal tempo che impiegai per ottenere questa informazione, attraverso una serie di conversazioni con infermiere tormentate e altre voci impersonali e di cattivo umore, intuii che sarei stato fortunato a parlarle al telefono quando fosse arrivata. Il pronto soccorso era per i vivi. Una volta morto eri semplicemente un ricordo indesiderato e fuori dal loro controllo. Andai fin là in macchina e passai un'ora ad aspettare nel silenzio più totale prima che la dottoressa Michaels si decidesse finalmente a uscire dal suo bunker e a parlarmi. Poco meno che trentenne e tremendamente piena di sé, si sforzava scrupolosamente di apparire stressata. Dopo avermi trattato, per qualche momento, con condiscendenza mi confermò quello che mi era già stato detto. Gravi traumi alla testa e alla parte superiore del corpo. Più morti di così non si poteva. Se era tutto, avrei dovuto scusarla. Era veramente impegnata ora, e aveva dei pazienti da visitare. Fui più che contento di rinunciare alla sua compagnia, ed ebbi la tentazione di incoraggiarla con un bel calcio nel sedere. Uscii dall'ospedale. La luce era svanita, rimpiazzata anzitempo da una sera autunnale. Alcune macchine, rese monocromatiche e anonime dai lampioni sovrastanti, erano parcheggiate a casaccio nel piazzale. Un po' più in là, una giovane donna stava fumando in piedi e piangeva in silenzio. Valutai cosa fare. Dopo aver trovato il biglietto, ero rimasto seduto accanto al tavolino del salotto per un po' di tempo. Né lo stordimento né la sensazione di brulichio allo stomaco se ne erano voluti andare. Una ricerca nel resto del libro rivelò che non c'era altro. Non c'erano dubbi che il messaggio era scritto con la calligrafia di mio padre. «Ward,» diceva e la scrittura non era affatto differente da quanto mi a-
spettassi, né troppo larga né troppo piccola, non calcata o manifestamente leggera. «Non siamo morti.» Mio padre lo aveva scritto su un pezzo di carta, infilato in un libro che poi aveva nascosto dentro la sua vecchia sedia, avendo cura di risistemare il cordoncino che copriva la giunzione. Un messaggio che negava la loro morte era stato messo in un posto in cui sarebbe stato scoperto solo dopo la loro scomparsa. Per quale altro motivo mi sarei dovuto trovare da solo in casa? Che avrei fatto seduto sulla sua sedia? Il modo in cui era stato sistemato il biglietto suggeriva che chiunque lo avesse fatto aveva pensato che in una simile circostanza avrei scelto di sedermi su quella vecchia sedia - anche sapendo che non era molto comoda. Le cose sono andate proprio così, quindi hanno visto giusto. Mi ero seduto lì e c'ero rimasto un po'. Era ragionevole pensare che l'avrei fatto se fossero morti o che l'avrei almeno osservata e forse avrei per un attimo indugiato con la mano sul tessuto. Era proprio il tipo di cosa che ci si poteva aspettare da un figlio addolorato. Ma, e questo aspetto continuava a tormentarmi, ciò significava che qualche tempo prima della loro morte uno di loro o entrambi avevano speso del tempo a pensare a cosa sarebbe potuto succedere dopo la loro scomparsa. Avevano analizzato la situazione nei dettagli e fatto valutazioni sul mio probabile comportamento? Perché? Perché avrebbero dovuto pensare alla morte? Era pazzesco. Non aveva alcun senso. Supponendo che fossero veramente morti. L'idea che gli ultimi giorni fossero stati una messa in scena, che i miei genitori non fossero morti affatto, era difficile da affrontare apertamente. Una parte del mio cuore sussultava all'idea, quella stessa parte che, dopo la telefonata di Mary, mi svegliava a un certo punto di ogni notte. Li avrei rivoluti con me, anche se non mi fosse importato nulla di loro, desiderando solo un'opportunità di fargli una sfuriata riguardo la liquidazione di UnRealty. Ma quando ti ferisci, l'organismo reagisce in pochi secondi. I globuli bianchi affluiscono nella zona danneggiata, come se erigessero una barriera con tutti i sacchetti di sabbia di cui possono disporre. Il corpo si protegge e lo stesso vale per la mente. Anche se in maniera imperfetta e lentamente, attraverso il lavoro scadente di mediocri artigiani, entro qualche minuto, intorno al trauma, comincia a verificarsi un accrescimento dei meccanismi di difesa, si smussano gli spigoli e, infine, lo si isola con tessuto cicatriziale. Come una scheggia di vetro penetrata in profondità in una ferita, l'evento non si cancellerà mai e spesso un movimento solleciterà una terminazione nervosa e per qualche istante brucerà da matti. Per quanto
acuto possa essere il dolore, l'ultima cosa che si vorrebbe è che la ferita si riaprisse. Lasciai la casa, chiudendola con cura, e andai alla porta accanto, da Mary. Sembrò un po' sorpresa ma contenta di vedermi e mi offrì caffè e torta in quantità pericolose. Comportandomi scorrettamente e abusando della sua gentilezza, riuscii in maniera indiretta ad avere conferma che i miei genitori erano apparsi normali nei giorni e nelle settimane precedenti all'incidente, e che - come più tardi ribadì l'agente Spurling - lei aveva identificato i corpi. Lo sapevo già. Me lo aveva detto al telefono, mentre me ne stavo seduto, come disossato, a Santa Barbara. Avevo solo bisogno di sentirmelo ripetere. Avrei anche potuto andare io stesso all'agenzia di pompe funebri a vedere i cadaveri, certo, invece di starmene seduto in albergo per due giorni. Non lo avevo fatto, e questo ora mi faceva vergognare. Mi ero detto che era importante ricordarli come erano stati, piuttosto che come due pezzi di creta danneggiati. C'era del vero in questo. Ma ero stato soprattutto assalito dalla paura, dall'ansia e dal rigetto. Dopo aver lasciato Mary mi recai dagli altri vicini. Con mia sorpresa, venne ad aprirmi quasi immediatamente una donna giovane. Era sicura di sé, sembrava in forma e indossava vestiti generosamente imbrattati di vernice. L'ingresso dietro di lei era tinteggiato per metà con una tonalità che ritenevo mal consigliata. Mi presentai spiegando cosa fosse successo ai suoi vicini. Come avevo immaginato, era già al corrente dei fatti. Mi fece le sue condoglianze e chiacchierammo per qualche minuto. Nulla nel suo atteggiamento suggerì, nemmeno per un attimo, che l'incidente non fosse stato per lei una sorpresa, né che uno o entrambi gli Hopkins avessero qualcosa che non andava. Tutto qui. Chiamai la polizia e poi andai all'ospedale. Mentre mi trovavo nel parcheggio, dopo aver parlato con la dottoressa, decisi che tre conferme erano sufficienti, i miei genitori erano morti. Solo un imbecille avrebbe continuato ancora a seguire questa linea di indagine. Avrei potuto parlare con Davids il giorno dopo se avessi voluto - non l'avevo trovato in ufficio e avevo lasciato un messaggio - ma sapevo che qualsiasi cosa mi avesse detto mi avrebbe portato alla medesima conclusione. Il biglietto non era quello che pretendeva di essere. Non era un «buono-per l'uscita-dal-dolore». Non cancellava l'accaduto. Ma ci doveva essere una spiegazione, anche se ciò avesse voluto dire che uno dei due non era completamente sano di mente. L'esistenza del messaggio significava qualcosa e mi resi conto che dovevo scoprirlo.
Setacciai il garage e poi il laboratorio di mio padre nello scantinato. Sentivo di dover cercare qualcosa in particolare, ma non sapevo cosa, quindi frugai semplicemente in giro. Trapani, fresatrici, altri strumenti dall'impiego oscuro. Chiodi e viti in una vasta gamma di misure, accuratamente suddivisi. Numerosi pezzi di legno, resi inutili e inspiegabili dalla sua morte. Naturalmente nulla sembrava fuori posto, tutto era sistemato con l'accuratezza e il rigore che mi sarei aspettato. Se l'ordine esteriore può essere preso come indice di una disposizione d'animo, mio padre era stato quello di sempre. Tornai su in casa e per prima cosa perlustrai il piano terra. La cucina e la lavanderia, il salotto, lo studio di mio padre, la sala da pranzo e quella parte di veranda che a un certo punto era stata munita di vetri e trasformata in un solarium. Qui fui più scrupoloso. Guardai sotto ogni cuscino, sotto i tappeti e dietro ogni elemento del mobilio. Guardai dentro l'armadietto sotto il televisore, ma non trovai altro che tecnologia e un paio di DVD. Tirai fuori ogni cosa dai pensili in cucina, guardai dentro il forno e nella dispensa. Presi e sfogliai ogni libro che trovai, sia sulle scaffalature nell'ingresso, sia sui ripiani della pasta secca, dove mia madre di solito li riponeva. Ce n'erano molti e ci volle un po' di tempo. Soprattutto nello studio di mio padre, nell'ammezzato, che fu il primo posto dove guardai. Cercai nei cassetti della sua scrivania, su ogni mensola e mi immersi dentro ogni raccoglitore riposto nel suo armadio di quercia. Accesi anche il suo computer e diedi una veloce scorsa a qualche file, anche se mi sembrò offensivo e poco corretto. Non mi avrebbe fatto piacere che qualcuno a me caro esaminasse accuratamente il contenuto del mio portatile. Sarebbe stato come se mi avessero disseppellito e dato fuoco. Divenne ben presto evidente che ci sarebbe voluto troppo tempo per leggere tutto quanto e che, molto probabilmente, non si sarebbe rivelato essere altro che una sfilza di fatture e di corrispondenza ordinaria. Lasciai il computer acceso, con l'intenzione di ritornarci se tutto il resto non avesse portato a nulla, ma mio padre non era un appassionato di informatica. Mi sembrava poco probabile che potesse aver nascosto un ulteriore messaggio in un posto che non fosse a portata di mano. Dopo non molto cominciai a sentirmi esausto. Non per lo sforzo fisico, che era trascurabile, ma per il rifluire delle emozioni. Mettere totalmente a soqquadro le vite dei miei genitori, soprattutto le cose più insignificanti, li aveva riportati in vita ancora più violentemente. Una fotocopia incorniciata del contratto per la prima casa venduta per conto di UnRealty, sormontata da un logo che solo ora pareva che fosse stato disegnato a mano libera da
mia madre. Un album di ritagli di giornale con le ricette per i pasti dei bambini, incluse le lasagne di cui, al solo leggere gli ingredienti, potevo sentire il profumo. Feci una pausa e passai un quarto d'ora seduto in cucina a bere l'acqua minerale. Tentai di nuovo di mettermi nei loro panni, di pensare a quale potesse essere un ragionevole secondo passo. Supponendo che avessero lasciato il messaggio all'interno della sedia per attirare la mia attenzione, aveva senso che ogni ulteriore biglietto o indizio fosse in un posto che avesse una rilevanza. Non riuscivo a immaginare dove potesse essere, avevo rivoltato tutto. Là non c'era niente. Anche la ricerca al piano superiore della casa si rivelò un fallimento. Guardai sotto il letto nella loro camera, frugai in ogni cassetto. Dopo un profondo respiro, scandagliai il contenuto dei guardaroba, prestando particolare attenzione a quanto riconoscevo - le vecchie giacche di mio padre, le borsette consunte che erano appartenute a mia madre. Trovai alcune cose - ricette, talloncini di biglietti, un pugno di spiccioli -, niente che sembrasse avere un significato. Indugiai su una collezione di vecchie cravatte, messe diligentemente in una scatola sul fondo della zona dell'armadio a muro riservata a mio padre. La maggior parte di esse non le avevo mai viste. Guardai addirittura nel sottotetto, passando attraverso una botola nel soffitto del corridoio al primo piano. Mio padre era arrivato addirittura a dotarlo di una luce, ma non di più. Nella soffitta non c'era altro che polvere e due valigie vuote. Alla fine andai di sotto e tornai alla sedia di mio padre. Era appena scesa la sera. Non avevo trovato niente e cominciavo a sentirmi stupido. Forse stavo solo cercando di trasformare il caos in un ordine inesistente. Mi sedetti sulla sedia e lessi ancora una volta il biglietto e, per quante volte lo leggessi, non acquistava né perdeva significato. Quando alzai gli occhi, osservai nuovamente il televisore. La sedia era perfettamente allineata con esso e allora mi venne un sospetto. Se non mi ero sbagliato nel ritenerla leggermente fuori posto, era possibile che la sua posizione non servisse soltanto ad attirare la mia attenzione sul cuscino ma a direzionare il mio sguardo da tutt'altra parte. Mi alzai e aprii la vetrina che copriva il vano sotto il televisore. Trovai esattamente le stesse cose di prima. Un videoregistratore, un lettore DVD e due DVD: vecchi film. Nient'altro. Niente cassette. Era strano.
In tutta la casa non avevo trovato videocassette. C'erano due scaffali di DVD nello studio e un altro nella seconda camera da letto, ma non una videocassetta. Mio padre era un utente televisivo semiprofessionista. Per quanto riuscissi a ricordare, c'erano sempre state videocassette sparse in tutta la casa. Allora dov'erano finite adesso? Tornai velocemente nel suo studio. Nessun nastro neanche lì, anche se c'era un secondo videoregistratore riposto in uno scaffale in basso. Non mi preoccupai di cercare di nuovo nei cassetti o nell'armadio. Lì non ce n'erano. Non ce n'erano da nessuna parte in casa o nel laboratorio o tanto meno nel garage. Cercai di ripensare alla penultima festa del Ringraziamento, quando mi ero ripromesso di fermarmi per ventiquattro ore. Non riuscivo a ricordare chiaramente di avere visto nastri in giro. Non ricordavo di non averli visti. Avevo impiegato la maggior parte del tempo a sbronzarmi. Poteva essere che mio padre avesse accolto il DVD come l'alba di una nuova era, a lungo attesa, dell'intrattenimento casalingo, che avesse decretato la fine delle videocassette e ne avesse fatto un falò in giardino, ma la cosa non mi sembrava credibile. Sicuramente Dyersburg possedeva una discarica da qualche parte, ma non riuscivo a immaginarmi neanche questo scenario. Anche se si fosse accorto, con il passare degli anni, che il desiderio di vederli diminuiva sempre più, non avrebbe buttato via tutti i suoi vecchi film preferiti. Cominciai a chiedermi se creare l'assenza di qualcosa di poco appariscente potesse essere un modo sottile per attirare l'attenzione di qualcuno che ti conosce bene, che sa esattamente quali cose dovrebbero esserci nel tuo ambiente. O si trattava di questo, oppure stavo perdendo la mia obiettività, spingendomi troppo lontano e velocemente nella direzione sbagliata. Avevo già setacciato la casa. Non importava che ora avessi un'idea - per quanto sbagliata - di cosa cercare. Non l'avevo trovato. Mi stava venendo fame e cominciavo a innervosirmi. Se c'era stato qualcosa che pensavano di dovermi dire, perché tanti sotterfugi? Perché non dirmelo semplicemente al telefono? Lasciare una lettera a Davids? Mandare un'e-mail? Non aveva senso. Ma a quel punto sapevo che una volta lasciata la casa, sarebbe stato per sempre. Era meglio essere sicuri. Desideri che quella ferita non si riapra. Accesi le luci esterne e andai a dare un'occhiata nella veranda. Nessuna delle assi del pavimento era allentata e non vedevo come potesse esserci tanto spazio per strisciare lì sotto. Da un lato c'era una grande cassa di le-
gno, ma un paio di spossanti minuti di ricerca non rivelarono altro contenuto se non legna da ardere e ragni. Scesi i pochi gradini verso il cortile, feci qualche passo all'indietro e guardai con rabbia in su verso la casa. Camino, assi orizzontali, vetri, le stanze superiori, la loro camera da letto, la stanza degli ospiti. Tornai dentro. Nel passare davanti allo studio di mio padre, notai qualcosa con la coda dell'occhio. Mi fermai, feci un passo indietro e guardai dentro, incerto di cosa avessi visto. Dopo uno o due secondi capii: il videoregistratore. Come un idiota, in realtà non avevo guardato dentro nessuno dei due apparecchi. Entrai nello studio, mi chinai ed esaminai il registratore fino a quando trovai il pulsante Eject. Lo premetti e ci fu un irritante ronzio, ma non accadde nulla. Allora mi accorsi che c'era del nastro isolante sulla fessura. Come un monito a non mettere dentro una cassetta, o per impedire che mio padre lo facesse accidentalmente? Difficile pensarlo - se quel cazzo di apparecchio non avesse funzionato, l'avrebbe semplicemente sostituito. Tentai di tirare via il nastro, ma aveva una forza sufficiente da legare insieme i pianeti. Estrassi il mio coltello multiuso dalla tasca della giacca. Una lama era larga e affilata e studiata per tagliare, l'altra era un cacciavite. È sorprendente quanto spesso si abbia bisogno di entrambe, una dopo l'altra. Aprii la lama affilata e tagliai il nastro nel centro. C'era qualcosa dentro la fessura. Tolsi la parte di nastro che restava fino a quando il pulsante Eject azionò il meccanismo. L'apparecchio ronzò aggressivamente e spalancò la fessura. Espulse una videocassetta, una normale VHS. La estrassi e la guardai a lungo. Mentre mi stavo rialzando, mio padre mi chiamò dalle scale. «Ward? Sei tu?» disse. Dopo un attimo di leggero shock, il mio corpo cercò di muoversi velocemente verso un posto sicuro che evidentemente sapeva esistere da qualche altra parte. Non sapevo dove. Forse in Alabama. Provai tutte le direzioni in una volta, per maggior sicurezza. Balzai all'indietro, lasciando cadere la cassetta e rischiando di finire steso sul pavimento. Raccolsi la cassetta e la infilai in tasca, con un gesto quasi inconscio, sentendomi colto in flagrante, colpevole e in pericolo. Il rumore di passi giunse agli ultimi gradini, si interruppe per un attimo e poi
si diresse verso la porta dello studio. Non volevo vedere chi lo produceva. Non era mio padre, naturalmente, ma solo una voce che non era del tutto dissimile, venuta fuori dal nulla in una casa silenziosa. La persona che vidi sul pianerottolo era Harold Davids, che appariva invecchiato, inquieto e di pessimo umore. «Dio mio,» disse. «Mi hai spaventato a morte.» Respirai come tossendo. «A chi lo dici.» Lo sguardo di Davids si abbassò verso le mie mani e mi accorsi che stavo ancora impugnando il mio coltello. Richiusi la lama, e feci per infilarmelo in tasca, ma c'era la cassetta. «Cosa ci fai qui?» chiesi, cercando di apparire cortese. «Ho ricevuto il tuo messaggio di questo pomeriggio,» disse lui, sollevando lentamente gli occhi per guardarmi in faccia. «Ho chiamato l'hotel, ma non eri nella tua stanza, così ho pensato che potessi essere qui.» «Non ho sentito il campanello.» «La porta anteriore era socchiusa,» disse lui, un po' come saggiando il terreno. «Cominciavo a temere che qualcuno potesse aver sentito che la casa era disabitata e vi fosse entrato.» «No,» dissi. «Sono solo io.» «Lo vedo. Penso di poter considerare cessato il pericolo.» Alzò un sopracciglio come segno di buon umore e il mio battito cardiaco riprese lentamente un ritmo normale. Tornati nell'atrio mi chiese perché avessi chiamato. Risposi che non era nulla, solo un dettaglio delle disposizioni testamentarie che avevo poi chiarito da solo. Annuì con distacco, e si avviò verso il salotto. «Che stanza incantevole,» disse, dopo un attimo. «Mi mancherà, ma passerò ogni tanto, se mi è consentito, per la posta residua.» «Magnifico.» Non ce l'avevo con lui, ma non volevo trattenermi ulteriormente in quella casa. Tornai nello studio di mio padre per spegnere il computer. Poco prima mi ero accorto che il computer aveva uno Zip. E, agendo d'impulso, feci un backup sul disco che c'era inserito. Quando ebbi spento tutto e uscii, Davids stava in prossimità della porta d'ingresso, nuovamente con l'aria inquieta. Percorsi con lui il viale. Non sembrava avere fretta di tornare ai suoi affari e mi chiese quali fossero i miei progetti per la casa. Gli dissi che non sapevo se tenerla o venderla e accettai la sua implicita offerta d'aiuto per entrambe le soluzioni. Rimanemmo per altri cinque minuti vicino alla sua grande macchina nera, parlando del più e del meno. Penso mi abbia consi-
gliato qualche ristorante, ma non avevo fame. Alla fine si sedette al posto di guida e si mise la cintura di sicurezza con la scrupolosità di un uomo che non aveva intenzione di morire, per niente. Diede un'ultima occhiata alla buia sagoma della casa, e poi mi fece con serietà un cenno col capo. Sospettai che tra di noi fosse cambiato qualcosa, e mi chiesi se Davids avesse archiviato per un altro momento la domanda di cosa potesse fare il figlio di Don Hopkins con un coltello che chiaramente non era un soprammobile. Aspettai fino a quando l'auto non fu con certezza oltre l'angolo, poi corsi alla mia e me ne andai nella direzione opposta. 6 Con una piccola somma di denaro e un po' di adulazione riuscii ad avere un videoregistratore nella mia stanza. I casi erano due: o l'hotel era migliore di quanto pensassi, oppure la mia esibizione al bar aveva convinto la direzione che io fossi un cliente che era meglio assecondare nelle sue richieste. Attesi con crescente impazienza mentre un giovane grosso e imbranato incasinava un semplice lavoretto di cavi, e infine lo mandai via. Presi la cassetta dalla tasca e la ispezionai attentamente. Non c'era alcuna scritta. Dalla quantità di nastro sulla bobina, sembrava dovesse durare quindici o venti minuti, al massimo mezz'ora. Rimasi in attesa che il servizio in camera mi portasse il caffè che avevo ordinato. Ci voleva l'ambiente giusto. Alla fine arrivò ancora abbastanza caldo e, miracolosamente, non c'erano patatine fritte. Infilai la cassetta nell'apparecchio. Quattro secondi di neve elettrostatica, il rumore bianco di informazioni nulle. Poi il sibilo del vento e l'immagine di un pascolo d'alta montagna. Ripreso in lontananza, un panorama da cartolina con picchi innevati oltre un vasto alpeggio - ma tutto troppo veloce per identificarlo. In primo piano c'era un lieve pendio innevato, interrotto da un edificio dall'aspetto austero: non aveva l'aria di essere un caffè, né un emporio di indumenti da sci. In giro non c'era nessuno, il piccolo parcheggio era vuoto. Fuori stagione. La videocamera fece una panoramica per mostrare un'altra struttura dall'aspetto severo, e le nuvole grigie che la sovrastavano. L'inquadratura rimase fissa per qualche secondo e, in sottofondo, era riconoscibile il rumore di mani-
che che sbattevano al vento. Stacco su un interno. La videocamera era tenuta bassa, come di nascosto, e la scena durò solo pochi secondi. Tornai indietro e fermai sull'immagine più chiara. Non era il videoregistratore migliore del mondo e il fermo immagine saltellava un po', ma riuscii a individuare uno spazio pubblico di quello che sembrava uno chalet, con un soffitto da cattedrale. Un lungo bancone costeggiava uno dei lati, presumibilmente la reception, ma in quel momento era deserto. Dietro di esso, appeso alla parete, era visibile un grande dipinto, la solita assurdità strapagata di qualche imbroglione di scarso talento. Riuscivo a scorgere il lato sinistro di un imponente camino, costruito con pietre di fiume. Un fuoco ornamentale produceva una gradevole atmosfera sullo sfondo. Poltrone color nocciola erano sistemate con cura intorno a bassi tavolini da salotto, ognuno dei quali dotato di una lucidissima scultura in legno che rappresentava le assai celebrate fauna e flora del vecchio West: un'aquila, un orso, un nativo americano - nessuno di questi sopravvissuto in gran numero a quel periodo. Tolsi la pausa e, rivedendolo una seconda volta, notai che qualcuno era stato sul punto di entrare nell'inquadratura proprio prima dello stacco. C'era un'ombra lungo il muro di un corridoio nella parte alta dell'inquadratura, il rumore di passi sulla pietra. Poi di nuovo l'esterno, il parcheggio. Doveva essere passato un po' di tempo dalla prima ripresa - supponendo che questa fosse avvenuta nello stesso giorno. Il vento era calato e il cielo era chiaro e di un blu selvaggio. Un campo medio sull'edificio austero, che immaginai essere quello nel quale ci trovavamo prima. Un certo numero di persone sostava sulla neve davanti a esso. Ce n'erano forse sette o otto, anche se era difficile dirlo perché erano tutti vestiti di scuro e formavano un gruppo, come se stessero chiacchierando. Nessun volto era visibile e tutto quello che potevo sentire era il vento - a parte proprio alla fine, quando l'operatore, chiunque fosse, disse qualcosa, una frase breve. La ascoltai tre volte, ma rimase indecifrabile. Poi, quando una delle figure sembrò cominciare a girarsi verso l'obiettivo, lo schermo tornò alla neve elettrostatica. Misi in pausa e fissai l'immagine che saltellava e tremolava. Non sapevo cosa farmene di ciò che avevo appena visto. Non era quello che avevo pensato. Dalla qualità del filmato, sembrava che le riprese fossero state realizzate con una videocamera digitale. Non avevo notato niente di simile in
casa. Il video poteva essere stato girato più o meno ovunque sulle Montagne Rocciose, nell'Idaho, nello Utah, o in Colorado; ma sembrava più sensato che, in realtà, fosse da qualche parte nel Montana e, probabilmente, qui vicino. Conoscevo quel tipo di posti. Oasi protette per miliardari, le zone più belle del paese trasformate in domicili privati in modo che i ricchi potessero scivolare giù dalle montagne senza il timore di imbattersi in qualcuno dal reddito medio. Alcuni avevano recinti di sicurezza, molti non ne avevano nemmeno bisogno. Mettevi il piede oltre la recinzione e ti rendevi subito conto se eri il benvenuto. Chiunque pensasse al furto sarebbe sgattaiolato subito fuori, scosso fino nel midollo. i miei genitori probabilmente conoscevano delle persone nella zona che possedevano una casa che offriva la possibilità di entrare e uscire con gli sci ai piedi. Mio padre potrebbe anche avergliela venduta. E con ciò? Feci ripartire la cassetta. Molto rumore. Musica, urla, conversazioni ad alta voce. Un volto, sfocato e vicinissimo, che rideva fragorosamente. Era finito dentro l'inquadratura rivelando un bar alle prese con sfrenati festeggiamenti. Su un lato della stanza correva un lungo bancone e dietro di esso c'erano file di bottiglie e uno specchio. Uomini e donne vi si ammassavano intorno, urlando gli uni verso gli altri, verso il barista, verso il soffitto. La maggior parte erano giovani, gli altri chiaramente di mezza età. Sembravano fumare tutti e l'opaca luce gialla era offuscata da nuvole di fumo. I muri erano tappezzati di poster con i colori dell'arcobaleno oppure in bianco e nero. Un juke-box sullo sfondo faceva gli straordinari a volume così alto che il suono era soltanto distorsione, e io non riuscii proprio a capire quale fosse la canzone. Era evidente che questa scena fosse di molto antecedente alla prima. Non solo il video sembrava essere stato riversato da un filmino in 8mm, ma i vestiti che le persone indossavano - a meno che non si trattasse di qualche party retrò sapientemente verosimile - suggerivano che questa fosse una serata dei primi anni Settanta. Colori orrendi, jeans orrendi, acconciature orrende. Un look «curato» era stato ritenuto inappropriato. La mia reazione, probabilmente, fu uguale a quella che dovevano aver avuto i loro genitori: chi sono questi alieni? Cosa vogliono? Sono forse ciechi? La cinepresa si mosse rapidamente ballonzolando per il bar, con una verve che suggeriva che l'operatore fosse sotto l'influsso di droghe allucinogene oppure ubriaco fradicio. A un certo punto l'immagine pencolò pericolosamente in avanti, come se lui o lei fosse inciampato. A questo seguì
un urlo forte e prolungato, che degenerò in un violento attacco di tosse, mentre la cinepresa veniva tenuta bassa in modo da mostrare una porzione di pavimento impiastricciato di birra. Poi scattò di nuovo in su e si infilò a gran velocità nella mischia come fosse fissata su un autoscontro. Le mie sopracciglia si sollevarono lentamente in un'espressione di perplesso imbarazzo, mentre cercavo di convincermi che potesse essere mio padre a filmare. Alcune persone salutarono o sghignazzarono mentre venivano superate, ma non fu pronunciato alcun nome. Poi la cinepresa girò bruscamente dietro un angolo, rivelando un prolungamento della zona principale del bar, gremito di persone sedute e in piedi. Al centro c'era un tavolo da biliardo. Un tizio era chinato in avanti dal lato del tavolo opposto all'obiettivo in procinto di eseguire un tiro. Era grosso, con un grande naso e la faccia quasi totalmente oscurata da capelli, baffi e basettoni. Sembrava un orso con la scabbia. Dietro di lui barcollava una bionda con i capelli lunghi, appoggiata a una stecca come se quella fosse l'unica cosa a mantenerla in piedi. Stava cercando molto seriamente di concentrarsi sul gioco e sul suo volto si notava una smorfia per lo sforzo, ma sembrava che la situazione le stesse sfuggendo di mano. Il suo partner non dava l'impressione di stare molto meglio; era nel mezzo di una lunghissima pausa per direzionare il tiro. Sul lato del tavolo più vicino alla cinepresa c'era un'altra coppia, entrambi impugnavano le stecche. Davano le spalle all'obiettivo e si abbracciavano. La ragazza indossava un'ampia camicia bianca e una lunga gonna viola striata di verde; l'uomo sfoggiava dei malandati jeans a zampa di elefante e un panciotto afgano che sembrava addomesticato solo da poco. Avevano tutti e due i capelli castani e lunghi. La ragazza bionda sollevò lo sguardo dal tavolo e si accorse della cinepresa. Emise un urlo di gioia e la indicò con molta energia ma estrema imprecisione, come se stesse scegliendo fra tre diverse immagini e continuasse a dimenticare quale aveva scelto. Anche il giocatore di biliardo guardò, poi alzò gli occhi al cielo e tornò al suo tiro. La coppia con i capelli castani si girò e mi accorsi che il mio imbarazzo di prima era stato fuori luogo. Non era mio padre a manovrare la cinepresa e potevo dirlo con sicurezza, visto che quei due erano i miei genitori. Mentre guardavo sbalordito l'immagine, mio padre fece un sorriso forzato e mostrò il medio al cameraman e mia madre fece una linguaccia. L'obiettivo passò improvvisamente da loro al giocatore di biliardo, che finalmente fece il tiro, sbagliandolo completamente. Premetti pausa e riavvolsi.
I miei genitori si voltarono. Mio padre emise un ghigno e mostrò il medio. Mia madre tirò fuori la lingua. Misi di nuovo in pausa. Fissai lo schermo. Mia madre, che non fu mai veramente grassa, ma abbastanza sovrappeso, si muoveva con la grazia misurata di una nave di linea trainata da un rimorchiatore. La persona che vidi sullo schermo pesava sui cinquanta chili, molto ben distribuiti. Senza nemmeno rendermi conto di cosa stessi pensando, realizzai che se fossi entrato in un bar e l'avessi vista così in forma e vicina a un altro ragazzo, avrei fatto scoppiare una rissa. Quella sullo schermo era una donna che, a starle vicino, ti avrebbe fatto sembrare un uomo delle caverne. Non che mio padre era uno che non si tenesse in forma: appariva solo un po' più appesantito di quanto mi ricordassi fosse mai stato, ma si muoveva con agilità e grande controllo. Avrebbe potuto essere un attore. Entrambi erano floridi, in forma e raggianti. Sembravano una vera coppia, piena di vita, una coppia che faceva sesso, ma soprattutto apparivano giovani, così sorprendentemente giovani. La scena durò circa altri cinque minuti. Non accadde nulla di particolare, escludendo il fatto che osservai mio padre, più giovane di quanto non fossi io adesso, giocare a biliardo. E se la cavava bene. Sapeva veramente giocare. Quando l'uomo-orso sbagliò il tiro e si allontanò dal tavolo barcollando, mio padre voltò le spalle alla cinepresa e si chinò sul panno verde. Non si preoccupò di fare un giro per cercare il colpo più semplice: puntò la palla di fronte a sé e tirò. Buca. Allora cominciò a muoversi, girando intorno al tavolo, osservando con la decisa disinvoltura che si nota in persone che giocano con l'intenzione di mandare le palle in buca a ogni tiro e ci credono fermamente. Anche il colpo successivo andò a segno, rotolando lungo il bordo per trenta centimetri, e così il successivo - come se la palla fosse stata attirata in buca da un elastico. Mia madre applaudì e gli diede una pacca sul culo. Mio padre tentò un ambizioso doppio traversino nella buca centrale e poi infilò dentro la palla nera che era a metà del tavolo, voltandosi prima che andasse giù. Game over, bello. Fece l'occhiolino all'uomo-orso, che alzò di nuovo gli occhi al cielo. Così come era consapevole che il cameraman fosse uno stronzo, era evidentemente anche abituato a essere stracciato a biliardo da mio padre. Era ordinaria amministrazione. Queste erano persone che si conoscevano molto bene. Non accadde nulla di particolare neanche successivamente, al di là del fatto che mia madre cominciò a ballare con la bionda. Poi iniziò una danza
scomposta ruotando le braccia e le gambe in direzioni diverse e schioccando le dita. Avevo visto cose del genere nei film, in televisione, fatte da ballerini professionisti. Ma non vi avevo mai prestato molta attenzione fino a quando non vidi mia madre farle, dimenandosi a tempo di musica con la bocca semiaperta e gli occhi socchiusi. Vai bella, mi sorpresi a pensare. Sei proprio uno schianto. Ancora niente di particolare, a parte il fatto che, mentre l'uomo-orso stava laboriosamente risistemando le biglie per una nuova partita, vidi mio padre che tornava a sedersi su uno sgabello e ingurgitare qualche sorso di birra. Mia madre - che ballava ancora - gli fece l'occhiolino, lui ricambiò, e io mi resi conto che erano più o meno ubriachi come gli tutti altri nella sala. Si stavano divertendo moltissimo, ma avevano un lavoro e quando arrivava il lunedì mattina avrebbero svolto il loro dovere. A pensarci bene, mio padre doveva già essere un agente immobiliare, a parte il panciotto afgano e la striminzita T-shirt da giorno di festa. Quei pochi chili in più, in realtà, gli donavano. Aveva una larghezza di spalle che si conciliava con il peso e lo faceva sembrare possente più che grasso. Ancora un po' e avrebbe potuto sconfinare nel fuori-forma, ma per il momento sembrava semplicemente uno contro il quale sarebbe stato meglio evitare di andare a sbattere mentre attraversava la sala con un vassoio pieno di boccali di birra. Ritenevo, comunque, che quei pochi chili in più li avesse presi da poco tempo, e che non ci si fosse ancora abituato. Ogni tanto ruotava indietro le spalle, apparentemente per il desiderio di sciogliere i crampi provocati dal chinarsi per scaraventare quella sorta di proiettili in ogni buca del tavolo. Ma anche, sospettavo, per assicurarsi che le sue spalle si mantenessero dritte. In un secondo momento avrebbe scoperto il jogging e la palestra, e non sarebbe apparso mai più così. Nel filmato di quella serata lo vidi fare qualcosa di strano: era un gesto insignificante e innocuo, ma, mentre stavo seduto nella stanza d'albergo a Dyersburg e lo guardavo, un leggero suono mi uscì dalla bocca, come se fossi stato colpito debolmente allo stomaco. Mentre si accendeva la sigaretta - e non avevo mai saputo che una volta avesse fumato - sollevò con nonchalance il lembo della T-shirt che copriva la vita, lasciandolo nuovamente cadere - così che si appoggiasse meglio su quella che era solo un po' di pancetta. Mandai indietro il nastro e riguardai la scena. E poi ancora, chinandomi in avanti, socchiudendo gli occhi per lo sfarfallio sullo sfondo. Il movimento era inequivocabile. Era capitato anche a me di farlo. In tutto il tempo che conobbi mio padre, non penso di averlo mai visto compiere un gesto così naturale, personale e che aveva
una spiegazione. Era il gesto di un uomo conscio del proprio corpo e del suo punto debole, anche nel bel mezzo di una serata di festa. Era un movimento che aveva già eseguito altre volte, ma che non era ancora abbastanza abituale da essere diventato un tic. Ancora più della T-shirt in sé, dei boccali di birra e della vibrante allegria, del ballo di mia madre e del fatto che mio padre, un tempo, potesse chiaramente tenere in mano una stecca da biliardo contro il migliore di loro, quel piccolo movimento rendeva inconcepibile il fatto che ora fossero morti. Alla fine il tavolo fu pronto per una nuova partita, mio padre si alzò e si preparò a spaccare, prendendo la mira come se il pallino stesse per ricevere un colpo di cui si sarebbe ricordato per il resto della sua piccola rotolante vita. La scena si interruppe improvvisamente proprio in quel momento, come se il nastro fosse finito. Prima che riuscissi a schiacciare di nuovo il tasto di pausa, ci fu uno stacco direttamente su qualcos'altro. Un interno diverso. Una casa. Un salotto. Buio illuminato da candele. L'immagine era scura, il tipo di nastro non riusciva a rendere bene con poca luce. Una melodia lontana in sottofondo, e questa volta vi riconobbi la colonna sonora di Hair. Un mucchio di bottiglie di vino giacevano sul pavimento lasciate più o meno a metà e c'erano molti posacenere traboccanti. Mia madre, riversa su una poltrona bassa, stava cantando una di quelle canzoni tipiche del primo mattino. L'uomo-orso poggiava in parte la testa sul ventre di lei e si stava preparando una canna sul petto. «Metti ancora quella sulla sodomia,» biascicò lui. «Mettila su.» La cinepresa fece una lenta panoramica laterale, inquadrando un altro uomo sdraiato a faccia in giù sul pavimento. La bionda era seduta dietro di lui e si stava occupando di una fila ordinata di candele sistemate dentro piatti che erano stati appoggiati sulla schiena dell'uomo. Era rimasto in stato comatoso abbastanza a lungo per poter essere considerato come parte del mobilio, e la mia supposizione fu che fosse stato lui a manovrare la cinepresa al bar. La ragazza stava inclinando lentamente e impercettibilmente il busto, rimanendo eretta solo per pura forza di volontà. Ora che intorno a lei c'era meno confusione, appariva evidente che all'inizio era sembrata più giovane di quanto in realtà non fosse. Non tardo-adolescente, ma oltre i venticinque, forse anche trenta - e un po' troppo vecchia per far parte di questa scena. Mi resi conto che, se stavo assistendo a immagini girate nei primissimi anni Settanta, allora i miei genitori avrebbero dovuto avere all'incirca la stessa età.
Il che significava che io ero già nato. «Mettila,» insistette l'uomo-orso e la cinepresa scattò di nuovo verso di lui, zumando sul suo viso. «Mettila.» «No,» disse ridendo una voce molto vicina al microfono, confermando che adesso era mio padre a tenere la cinepresa. Stava facendo un lavoro migliore di quanto avesse fatto il tizio collassato. «Abbiamo sentito quella canzone almeno un milione di volte.» «Perché è una figata,» disse l'uomo-orso, annuendo con decisione. «Cioè, è quello che dice che è... oh, merda.» L'inquadratura si ingrandì per mostrare che aveva fatto cadere lo spinello. Sembrava senza parole. «Merda. Ora devo ricominciare. Ci ho messo una vita per rollare quello stronzo. Lo rollavo da ancora prima che nascessi. Quel fottuto di Thomas Jefferson aveva cominciato questo stronzo, me lo aveva lasciato nel suo testamento. Diceva che potevo finire lo spinello o ereditare Monticello. Io dissi fanculo il palazzo, voglio lo spinello. È tutta la vita che lo rollo, come un servitore bravo e fedele. E ora è andato.» «Andato,» canticchiò la bionda e cominciò a ridacchiare. Senza perdere una nota di Good Morning Starshine, mia madre si allungò e tolse l'arnese dalle grinfie maldestre dell'orso. Tenne con perizia la carta in una mano, spianò il tabacco con l'indice, prese la droga. «Rollalo, Phlipper,» cantò l'uomo-orso, molto rallegrato da questa svolta degli eventi. «Rollalo, rollalo, rollalo.» La camera zumò sullo spinello, poi tornò indietro. Era già quasi pronto. A questo punto le mie sopracciglia si erano inarcate così tanto da librarsi sopra la mia testa. Mia madre aveva appena preparato una canna. «Mettila su,» ripeté l'uomo-orso facendo le moine. «Metti la canzone sulla sodomia. Dai, Don, che gran Don di uomo sei Don, mettila, Don schiaccia On.» In sottofondo mia madre continuava a cantare. La cinepresa si allontanò e cominciò a uscire dalla stanza, diretta nell'ingresso. I cappotti erano stati lasciati in un grosso mucchio sul pavimento. Vidi che c'era una cucina sulla sinistra e una rampa di scale sulla destra. Era la nostra vecchia casa, quella di Hunter's Rock. Ogni aspetto dell'arredamento era diverso da come me lo ricordassi, ma gli ambienti erano gli stessi. Guardai con gli occhi sbarrati quando la cinepresa attraversò l'atrio e cominciò a salire le scale. Per un momento non si vide altro che vertiginosa oscurità e, proveniente da sotto, il suono smorzato dell'uomo-orso che urlava: «Sodomia... fellatio... cunnilinguo... pederastia...» apparentemente
senza nemmeno sforzarsi di farla assomigliare a una canzone. Mio padre arrivò al pianerottolo superiore, si fermò un attimo e mormorò qualcosa sottovoce. Poi riprese ad avanzare, ed ebbi un sussulto quando capii dove si stava dirigendo. Al piano inferiore adesso c'era silenzio, e tutto quello che riuscivo a sentire era il suo respiro e il leggero fruscio dei suoi piedi sul tappeto mentre apriva la porta della mia camera. Subito fu buio, ma gradualmente una luce proveniente dal pianerottolo si infiltrò e fu sufficiente a mostrare me che dormivo nel mio letto addossato al muro. Dovevo avere circa cinque anni. Tutto quello che si riusciva a vedere era la sommità della mia testa e il pezzo di guancia illuminato. Una mezza spalla, nel pigiama scuro. Il muro era di un color verde screziato e il tappeto marrone, come erano sempre stati. Rimase fermo lì per due minuti buoni, senza dire o fare niente. Riprendeva e mi osservava mentre dormivo. Mi sedetti e guardai, respirando appena. La qualità del rumore di fondo sul nastro dopo un po' cambiò, come se al piano di sotto fosse iniziata un'altra canzone. Poi si udì un rumore sordo, avrebbero potuto essere passi su un tappeto. Si fermarono e, senza bisogno di guardare o sentire qualcosa che me lo confermasse, ebbi la certezza che mia madre ora si trovava accanto a mio padre. La cinepresa indugiò sul bambino nel letto, su di me, ancora per qualche momento. Poi si mosse, lentamente, facendo una panoramica verso sinistra. Subito pensai che se ne stessero andando, ma poi mi accorsi che la cinepresa veniva fatta ruotare su se stessa per inquadrare nella direzione opposta. Girò di centottanta gradi e si fermò. I miei genitori stavano guardando diritto nell'obiettivo. I loro volti riempivano lo schermo: non erano ammassati, ma semplicemente uno di fianco all'altra. Non sembravano né ubriachi né fatti. Sembrava che stessero guardando proprio me. «Ciao, Ward,» disse mia madre, piano. «Chissà quanti anni avrai adesso.» Guardò oltre l'obiettivo, presumibilmente verso la figura che dormiva nel letto. «Chissà quanti anni avrai,» ripeté e c'era una nota triste e stonata nella sua voce. Mio padre stava ancora guardando verso l'obiettivo. Era forse di cinque o sei anni più giovane di quanto io sia adesso. Anche lui parlò piano, ma senza troppa tenerezza nello sguardo.
«E chissà cosa sarai diventato.» Neve elettrostatica. Qualcuno sferragliò con un carrello oltrepassando la mia camera d'albergo. Non premetti pausa, non riuscivo a muovermi. L'ultima scena veniva, ancora, da un 8mm, ma i colori erano molto più sbiaditi, incerti, le superfici pallide, scolorite fino a diventare pura luce. Linee e macchie scure spuntavano e tremolavano su tutto lo schermo, facendo apparire calcolati e distanti i movimenti dietro di esse. Il pallido chiarore della luce solare che penetrava attraverso un grande finestrino. Fuori, gli alberi che sfrecciavano veloci, le foglie ingiallite che producevano un suono. Il rumore ritmico di un treno, e qualche altro suono lieve che non riuscii a individuare. Il viso ancora più giovane di mia madre, con i capelli più corti e tinti di nero. Guardava fuori dal finestrino verso la campagna che sfrecciava veloce. Poi girò la testa e rivolse lo sguardo verso la cinepresa. Appariva distante e il suo sorriso vago. L'inquadratura si abbassò lentamente. Stacco improvviso su una larga strada di città. Non riuscii a capire dove potesse essere, e la mia attenzione fu richiamata dalle forme e dai colori delle macchine parcheggiate ai lati e dall'abbigliamento dei pochi passanti. Le auto avevano un certo stile, i vestiti no e quelli delle donne erano piuttosto sul corto. Non avevo abbastanza conoscenza di certe cose per individuare con precisione il periodo, ma azzardai che fossimo tornati ai tardi anni Sessanta. C'era quella sensazione di quiete prima della tempesta. La cinepresa si spostò in avanti, con un passo regolare. Ogni tanto la nuca di mia madre faceva capolino nella parte sinistra dell'inquadratura, come se mio padre fosse leggermente dietro di lei, sulla destra. Non era chiaro cosa intendesse riprendere. Non era una strada particolarmente interessante. Sulla destra c'era una specie di grande magazzino e sulla sinistra una piccola piazza. Le foglie degli alberi che ancora resistevano apparivano al limite. Mio padre teneva la cinepresa in alto, senza spostarla in altre direzioni. Non fecero alcun tentativo di indicare qualcosa o di comunicare tra loro. Dopo un po' attraversarono una strada e svoltarono sulla sua perpendicolare. Stacco su un'altra strada ancora. Questa era un po' più stretta, come se fosse più lontana dal centro della città. Sembrava che stessero salendo su una collina ripida. Mia madre era davanti alla cinepresa, inquadrata dalle spalle in su. Si fermò.
«Qui va bene?» disse voltandosi. Ora indossava dei pratici occhiali da sole. La cinepresa esitò per un momento, traballò, come se mio padre avesse tolto l'occhio dall'obiettivo per guardarsi intorno. «Un po' più lontano.» Era la sua voce. Proseguirono, forse per un altro minuto. Poi si fermarono nuovamente. La cinepresa fece una panoramica, fornendo un'invitante ma rapida veduta di quella che sembrava essere la cima di un'altura nel centro di una città collinare, con edifici alti su entrambi i lati della strada. Avevano un aspetto fastidiosamente familiare. Le insegne al piano terra rivelavano la presenza di drogherie e ristoranti economici, ma le finestre al piano superiore sembravano quelle di appartamenti. Alcune persone stavano davanti alle vetrine dei negozi, analizzavano i prodotti e indossavano dei cappelli; altre entravano e uscivano. Un quartiere indaffarato, che si preparava per il pranzo. Mia madre guardò indietro verso la cinepresa e annuì. Era il suo turno e lo fece controvoglia. Stacco a giornata inoltrata. Un panorama leggermente diverso, ma la sommità della stessa collina. Al posto della luce del mattino, ora c'erano ombre lunghe. Era tardo pomeriggio e le strade apparivano quasi vuote. Mia madre stava con le braccia lungo i fianchi. Uno strano suono gorgogliante proveniva da qualche parte fuori campo, e mi resi conto che era simile al rumore del treno che avevo sentito. Ci fu un piccolo movimento della cinepresa, come se mio padre si fosse allungato per toccare qualcosa. Poi mia madre andò poco più avanti, o lui indietreggiò. Udii un sospiro stridulo di mio padre. E, trentacinque anni dopo, il mio. Mia madre teneva per mano due bambini molto piccoli, uno per lato. Sembravano della stessa età, e i loro vestiti erano simili, sebbene uno indossasse una blusa blu, l'altro gialla. Avranno avuto poco più di un anno, forse diciotto mesi, e camminavano traballando sulle gambe. La camera zumò su di loro. I capelli di uno erano corti, quelli dell'altro erano un po' più lunghi, ma le facce erano identiche. L'obiettivo allargò l'inquadratura. Mia madre lasciò andare la mano di uno dei due, quello con i capelli più lunghi, la blusa gialla e una piccola cartella verde. Si accucciò vicino all'altro bambino. «Di' addio,» disse lei. Il bambino in blu la guardò dubbioso, non comprendendo. «Di' addio, Ward.» I due bambini si guardarono. Poi, quello con i capelli corti, il bambino
che dovevo essere io, guardò verso sua madre in cerca di rassicurazione. Lei mi prese la mano e la sollevò. «Di' addio.» Fece fare alla mia mano un cenno di saluto, poi mi prese in braccio e si rialzò. L'altro bambino guardò in su verso mia madre e sorrise, sollevò le sue braccia per essere preso, o presa. Non riuscivo a capire, non con certezza, di che sesso potesse essere. Mia madre cominciò ad allontanarsi lungo la strada. Camminava con passo regolare, senza correre, ma senza voltarsi. La cinepresa rimase sull'altro bambino, mentre anche mio padre si allontanava seguendo mia madre giù per la collina. Lo lasciarono là in piedi. Il bambino in cima all'altura divenne sempre più lontano e rimase in silenzio. Non urlò nemmeno: almeno, non lo fece finché fummo troppo lontani perché si potesse sentire. Poi la cinepresa girò e sparì tutto. L'immagine si trasformò di nuovo in neve elettrostatica, e questa volta non apparve più niente. In un minuto il nastro si fermò da solo, lasciandomi a tu per tu con la mia immagine riflessa sullo schermo. Frugai in cerca del telecomando, mandai indietro, misi in pausa. Osservai, coprendomi la bocca con le mani, il fermo immagine di un bambino abbandonato in cima a una collina. 7 La fessura si aprì. Una luce fioca scendeva dall'alto. «Ciao, mia cara,» disse l'uomo. Sarah non poteva scorgerne il volto. Dal suono della sua voce, le sembrava che fosse seduto sul pavimento proprio dietro la sua testa. «Ciao,» rispose, con la voce più ferma possibile. Desiderava allontanarsi da lui, mettere anche un solo centimetro di distanza in più tra loro, ma non riusciva nemmeno a muoversi di quel tanto. Lottò per rimanere calma, per continuare con il suo piano di far sembrare che non le importasse nulla. «Come stai oggi? Ancora pazzo, direi.» L'uomo rise leggermente. «Non riuscirai a farmi arrabbiare.» «Chi vuole farti arrabbiare?» «Allora perché dici queste cose?» «I miei genitori saranno molto preoccupati. Ho paura. Ho il diritto di
non essere troppo cortese.» «Capisco.» Quindi lui rimase a lungo in silenzio. Sarah aspettava. Forse cinque minuti dopo, vide avvicinarsi al suo viso una mano. Teneva un bicchiere d'acqua. Senza preavviso, lui lo inclinò lentamente. Lei aprì la bocca giusto in tempo, e bevve più che poté. Poi la mano scomparve di nuovo. «Tutto qui?» disse lei. Si sentiva la bocca strana, pulita e umida. L'acqua aveva il sapore che lei aveva sempre pensato avesse il vino, per il modo con il quale gli adulti facevano tante scene nel berlo, e se lo facevano passare al palato come se fosse stata la cosa migliore mai assaggiata. In realtà, per sua esperienza, il gusto del vino, di solito, faceva pensare che ci fosse qualcosa che non andava. «Cos'altro ti aspettavi?» «Se vuoi tenermi in vita, allora devi darmi qualcosa in più che solo dell'acqua.» «Perché pensi che ti voglia tenere in vita?» «Perché altrimenti mi avresti uccisa immediatamente e mi avresti messa seduta nuda da qualche parte dove potermi guardare e masturbarti.» «Non è una cosa carina da dire.» «Ti rimando alle mie osservazioni precedenti. Non mi sento molto cortese e tu sei uno psicopatico, quindi non devo esserlo.» «Non sono uno psicopatico, Sarah.» «No? Come ti definiresti? Bizzarro?» Lui rise di nuovo, come divertito. «Oh certamente.» «Bizzarro come quel fottuto Ted Bundy.» «Ted Bundy era un idiota,» disse l'uomo. La sua voce aveva perso ogni traccia di divertimento. «Un buffone di prim'ordine e un impostore.» «Okay,» disse lei, cercando di calmarlo, anche se in quel momento lo trovava tanto tronfio quanto pazzo. «Scusa. Anch'io non sono una sua grande fan. Tu sei molto meglio. Allora posso avere un po' di cibo o qualcosa?» «Dopo, forse.» «Perfetto. Lo aspetterò con ansia. Fai pezzi piccoli, così che riesca a ingerirli.» «Buona notte, Sarah.» Quando lo sentì alzarsi, la sua calma simulata svanì. Il piano non aveva funzionato affatto. Lui sapeva che lei aveva paura.
«Ti prego, non rimettere il coperchio. Non mi potrei muovere comunque.» «Temo di doverlo fare,» disse l'uomo. «Per favore...» Lo rimise al suo posto, e Sarah ripiombò nell'oscurità. Udì i suoi passi mentre si allontanava, una porta chiudersi lentamente e poi tutto ritornò ancora una volta nel silenzio. Si leccò avidamente la bocca, raccogliendo quanto più poteva del liquido rimasto. Ora che lo shock del primo assaggio se n'era andato, si accorse che l'acqua aveva un sapore diverso da quello cui si era abituata a casa. Doveva provenire da un'altra fornitura, il che significava che doveva trovarsi molto lontana. Come quando si va in vacanza. Questo, almeno, era un dettaglio che adesso conosceva. Più sapeva, meglio era. Poi si rese conto che forse era acqua minerale, di una bottiglia, nel cui caso il sapore non avrebbe avuto alcun significato. Avrebbe potuto essere semplicemente una marca diversa. Non importava, ma valeva ancora la pena di pensarci. Più idee aveva, meglio era. Come il fatto che quando lei aveva menzionato i suoi genitori, l'uomo non aveva raccontato nuovamente come li aveva uccisi. Quando l'aveva rapita si era accanito molto nel descrivere quello che sosteneva di aver fatto loro. Forse significava qualcosa. Nella migliore delle ipotesi questo suggeriva che erano ancora vivi e che lui le aveva detto tutte quelle cose solo per spaventarla. O forse no. Sarah stesa al buio, con i pugni serrati, cercò di non urlare. PARTE II «Poche persone riescono a essere felici se non odiano qualche altra persona, nazione, o fede.» Bertrand Russell 8 Il volo atterrò a Los Angeles alle ventidue e zero cinque. Nina non aveva altro che la sua borsa e il dossier, mentre Zandt riusciva con una certa disinvoltura a portare tutto quanto possedeva con una mano sola. C'era una
macchina ad attenderli. Niente di elegante e ufficiale. Semplicemente un taxi che Nina aveva prenotato dall'aereo, affinché lasciasse lui a Santa Monica e portasse lei a casa. Luci e insegne nell'oscurità, facce viste di sfuggita, l'affrettarsi e lo strombazzare della vita di un'altra sera qualunque in una città il cui cuore non sembra mai essere dove ci si trova, ma sempre dietro l'angolo, o in fondo a quella strada, o dall'altro lato di enormi edifici in qualche nuovo club le cui notti gloriose finiranno ancora prima che se ne senta parlare. Lì in mezzo si trovano un gruppo di hotel economici, polverosi negozi di liquori, aree espositive che vendono veicoli di dubbia provenienza; un gregge malandato di persone prive di idee chiare in attesa agli angoli delle strade; un veldt di bunker in cemento ospitanti attività che inghiottiranno un'infinità di esistenze vuote che non verranno mai quotate nel listino NASDAQ. Il passaggio graduale a strade residenziali, e poi Venice. Dall'esterno, sulle strade giuste, Venice può apparire come se cercasse di riconquistare con le unghie e con i denti la propria esclusività. Alcune proprietà sono costose, in uno stile disgustosamente internazionale. Ogni tanto si vede un lacero manifesto degli anni Cinquanta, qualcosa di esuberante che rievoca il lampo del flash e un glamour gelido. La maggior parte ora è stata strappata, rimpiazzata da brutali tabelloni stampati in helvetica, il carattere ufficiale del purgatorio. L'helvetica non è stato pensato per farti sentire in qualche modo a tuo agio, per prometterti avventure o per allietare il cuore. Serve a rivelarti che i profitti sono bassi, che la fotocopiatrice necessita di manutenzione, e che, dimenticavo, sei stato licenziato. Infine, Santa Monica. Case più belle, uffici piccoli, posti dove mangiare cibo giapponese, il «London Times», il mare, con il molo che nacque ai tempi delle foto color seppia e la consapevolezza che quei giorni sono ormai passati, Palisades sovrastante, l'affollata Ocean Avenue, poi la prima serie di hotel e ristoranti. Si ha la sensazione, proveniente da chissà dove, che un tempo questo quartiere periferico fosse una città. Forse è il mare che lo fa apparire così, che dà l'impressione che questa comunità abbia uno scopo. In certi posti è ancora così, si sente che c'è un rapporto molto profondo col proprio ambiente. Negozi e caffè, posti nei quali entrare e comprare. Ci si potrebbe vivere, consapevolmente, come era accaduto alla famiglia Becker fino a poco tempo prima. Non è un luogo reale, ma, allora, così poco di Los Angeles lo è, e le zone reali sono quelle dove non vorresti vivere. La realtà è per gente con le pistole e i postumi di una sbornia, è ciò che si vorrebbe evitare. Los Angeles si crede piena di magia, e a volte può
anche sembrarlo, ma nella maggior parte dei casi è un gioco di prestigio del tutto noto. Puoi stare in un posto e credere che un giorno sarai una stella del cinema - stai da un'altra parte e pensare che presto sarai morto. Tu sai che quello che vedi è un trucco, ma ti ostini a crederci. «È bello tornare?» chiese Nina. Zandt grugnì. Il taxi lo lasciò sulla Ocean, a The Fountain, una torre di dieci piani con l'intonaco di un giallo sbiadito, che si trova in mezzo agli incroci sui quali Wilshire e Santa Monica riversano la gente verso il mare. L'edificio ha un'aria art dèco che lo fa sembrare più elegante di quanto sia. Originariamente con appartamenti costosi, venne utilizzato per un po' di tempo come hotel prima di essere offerto nuovamente in locazione. La piscina sul retro era piena e creava una vasta, e in qualche modo inutile, area con posti a sedere utilizzata raramente: malgrado la veranda, le piante e le sedie riparate dal sole, era troppo evidente che mancava qualcosa. Zandt aveva già avuto modo di vedere l'atrio in occasione di un omicidio sul quale aveva lavorato nel 1993: un attore europeo di second'ordine e una giovane prostituta, un gioco di ruolo sfuggito di mano. L'attore, naturalmente, se l'era svignata. Zandt non riusciva a ricordarsi quale fosse la camera. Sicuramente non era la stessa che gli fu assegnata: una suite grande, ben arredata e con una buona vista sul mare. Lasciò cadere la borsa nella zona soggiorno e, con calma, diede un'occhiata all'angolo cottura. Credenze vuote, pochissima polvere. Non aveva fame e trovò difficile immaginare di cucinare qualcosa. The Fountain non aveva un bar o un ristorante o un servizio in camera. Non era un punto di arrivo, per questo l'aveva scelto come posto dove stare. Per quello e per la posizione. Lasciò la stanza, tornò giù in ascensore e rimase per un po' in attesa fuori dall'edificio. Nina se n'era andata in taxi ed erano d'accordo di incontrarsi l'indomani nella tarda mattinata. Lei aveva già chiamato dall'aereo la sezione di Westwood del Bureau, e prima ancora da Pimonta, ma probabilmente doveva mostrare la sua faccia in ufficio, una volta ogni tanto. Qualcosa lo trattenne ancora un attimo per guardare le macchine parcheggiate lungo la strada. Non lo avrebbe sorpreso se Nina avesse fatto il giro dell'edificio e poi fosse ritornata per spiare cosa lui stesse facendo. Non lo pensava in base a qualche sua particolare esperienza, ma perché a Nina piaceva sapere le cose. Per il gusto di saperle. Dopo cinque minuti si diresse all'angolo, svoltò a destra sulla Arizona, e percorse a piedi i pochi isolati fino alla 3rd Street Promenade. Arizona Avenue era la strada dove Michael Becker aveva lasciato sua figlia la sera in
cui era stata vista per l'ultima volta. Erano quasi le undici, molto più tardi rispetto all'ora in cui la ragazza fu rapita. Ovviamente tutti i negozi erano chiusi. I musicisti e gli artisti di strada avevano già sbaraccato per la notte, compreso il sosia di Frank Sinatra che si tratteneva più degli altri. Non faceva molta differenza. Era l'assenza del rapitore e della vittima che non consentiva di ricreare le circostanze. Tenne d'occhio gli altri passanti. Gli assassini spesso tornano indietro, specialmente quelli per cui l'omicidio è qualcosa di più che un'azione dettata dal momento. Rivisitano i luoghi per riavvolgere il nastro e poter rivedere l'immagine ancora una volta. Non si aspettava di notare qualcuno in particolare, ma continuò comunque a osservare. Quando passò per la via laterale che Nina aveva menzionato nella sua descrizione, il posto in cui era stata vista una macchina parcheggiata in divieto di sosta, si fermò e la percorse con lo sguardo. Senza cercare di vedere qualcosa, solo per essere lì. «Aspetti qualcuno?» Zandt si girò e vide un ragazzo, magro e carino. Era un adolescente, diciotto anni al massimo. «No,» rispose. Il ragazzo sorrise. «Sicuro? Io credo di sì. Forse stai aspettando me.» «Per niente,» disse Zandt. «Ma qualcuno verrà. Non stasera, non qui, ma arriverà.» Il sorriso scomparve. «Sei un poliziotto?» «No. Ti sto solo dicendo come vanno le cose. Vai a cercarti compagnia in qualche posto illuminato.» Entrò da Starbucks e prese un caffè. Lo prese da asporto e tornò a sedersi sulla panchina dalla quale Sarah era stata rapita. Il ragazzo se n'era andato. Forse pensate che un evento simile possa lasciare un'eco, come la breve visione di un volto famoso. Non è così. La mente umana è predisposta a riconoscere i volti. La sua percezione dello spazio è più debole. In pratica più persone conoscono la vostra faccia e più voi siete famosi. Non c'è bisogno di cercare credenziali. Non siete degli sconosciuti, ma al contrario fate parte della nostra grande famiglia: fratelli energici e sorelle graziose, genitori gentili, parenti fasulli che possono aiutarci a dimenticare che la nostra comunità sociale si è ridotta a zero. Con i luoghi è diverso, si tratta di sapere quali eventi hanno avuto per teatro questo spazio. Ma quando la situazione è stata rimossa, se rimanete seduti abbastanza a lungo riuscirete a non provare assolutamente nulla. Ritornerete nel luogo come era prima
che vi accadesse qualcosa, proprio come quella sera. Questo è quanto di meglio possiate fare per andare indietro nel tempo, al prima di, per poter impugnare un coltello come quando uscì dal cassetto della cucina, prima che venisse macchiato di sangue; quando tutto era ancora in potenza. Rimase seduto sulla panchina fino a che non divenne un posto qualunque, e poi ci rimase ancora un po'. Nella sua carriera di detective della Omicidi, Zandt aveva avuto a che fare con un insolito numero di serial killer. Di norma casi simili sono trattati dall'FBI. Loro hanno il laboratorio di Scienze Comportamentali a Quantico, le Procedure di Individuazione Profili, le Jodie Foster e i David Duchovny con gli abiti eleganti e i capelli in ordine. Come gli assassini, anche i federali sembrano fuori dalla norma. Ma in otto anni Zandt, un umile mortale, un poliziotto della Omicidi, si era trovato coinvolto in numerose serie di uccisioni che si erano poi rivelate l'opera di qualcuno che poteva essere definito un serial killer. Due di questi uomini erano stati arrestati, e Zandt aveva svolto un ruolo decisivo in entrambi i casi. Aveva un sesto senso per queste cose, era risaputo. Il primo caso riguardava un uomo di Venice Beach responsabile dell'omicidio di quattro donne anziane, e il coinvolgimento di Zandt era stato casuale. Nella seconda indagine aveva lavorato fin dall'inizio con l'FBI, ed era stato in quell'occasione che aveva incontrato Nina Baynam. Nell'estate del 1994 i resti dei corpi di quattro giovani di colore furono ritrovati, parzialmente sepolti, in varie zone della città. Il metodo con il quale i cadaveri erano stati fatti a pezzi, e una videocassetta lasciata accanto a ogni vittima, furono elementi sufficienti per poter ritenere che le uccisioni fossero opera della stessa persona. Ognuna delle vittime era stata prelevata dalla periferia malfamata, e tre avevano avuto a che fare con droghe e prostituzione. I primi due morti furono largamente ignorati dalla popolazione, liquidati come un'ondata di selezione della specie all'interno del sottoproletariato. Fu solo con il loro ripetersi che gli omicidi si fecero strada verso le prime pagine dei giornali, uscendo dalle notizie raccogliticce. Le videocassette lasciate con i cadaveri contenevano da una a due ore di immagini, registrate in modo dilettantesco con una telecamera digitale, e documentavano quanto fossero stati spiacevoli gli ultimi giorni di vita delle vittime. Ogni cassetta aveva una custodia che mostrava una foto del giovane, il suo nome, e la parola «Showreel». I giornali soprannominarono l'assassino il Casting Agent, cosa che tutti
trovarono molto buffa. Tutti, tranne i genitori delle vittime ovviamente; in effetti, come rappresentazione della tragica realtà insita in simili eventi, il loro dolore fu ignorato se non per sollecitare l'interesse del pubblico. I parenti erano soltanto gli spettatori di queste messinscene, non gli attori, ma è soprattutto l'attore che noi privilegiamo. Qualcuno che possiamo conoscere, una faccia vista in controluce sui giornali e in televisione. Vogliamo un personaggio. Una star. Zandt lavorò al caso del primo ragazzo, e dopo la seconda vittima fu coinvolto l'FBI. Nina era una giovane agente esperta, avendo lavorato già l'anno prima su un difficile e lungo caso in Texas e Louisiana. Il killer fu catturato grazie al lavoro di entrambi, alla combinazione tra l'intuito e il lavoro di gambe di Zandt e l'analisi che Nina fece del posizionamento dei cadaveri, e grazie alla svolta improvvisa dovuta al fatto che l'assassino si era fatto intestare la fattura della telecamera con la quale era solito realizzare i video. Si trattava di un maschio, bianco, di trentuno anni, che lavorava come graphic designer ai margini dell'industria dei video musicali, e che, da bambino, aveva fatto la comparsa in film ormai dimenticati. In una serie di interrogatori con Zandt aveva confessato gli omicidi, fornendo molte informazioni e rivelando il luogo in cui si trovavano i suoi talismani, la mano destra di ogni vittima - che veniva infilata dentro i barattoli di una nota marca di caffè istantaneo. Alla fine condusse la polizia ai corpi di due vittime antecedenti, esperimenti con i quali aveva affinato la tecnica. Imputò il proprio comportamento al fatto di essere stato molestato, da bambino, su un set, asserzione questa che si sposava alla perfezione con il desiderio, da parte dell'opinione pubblica, di avere un inizio e uno sviluppo di ogni storia. Fu impossibile verificare la veridicità dell'affermazione, e il caso fu chiuso quando un altro detenuto tagliò con un cucchiaio affilato la gola al killer in attesa del processo. La catena alimentare ha delle vittime a entrambe le estremità: anche i violentatori e gli assassini hanno bisogno di qualcuno su cui sfogarsi, e gli assassini di bambini fanno al caso loro. In definitiva la storia del Casting Agent divenne immortale e senza fine, celebrata con un libro di secondo ordine che ebbe un moderato successo e con numerosissimi siti web. Un software shareware per il video editing, pieno di bug e intitolato CastingAgent, conobbe una breve notorietà, così come un negozio ad Atlanta che mise in vendita un divano, chiamato il Casting Couch, di un rosso cupo maculato. Le indagini durarono tredici mesi. Per gli ultimi otto di questi, John e Nina andarono a letto insieme. La relazione finì subito dopo la cattura del
sospetto. Era stata Nina a fare il primo passo. Poi aveva smesso di incoraggiarlo ed era finita. Zandt non parlò mai di questo con sua moglie, con la quale aveva una relazione complessivamente affettuosa e felice, ma che stava attraversando un periodo di crisi. Non voleva perdere né sua moglie né sua figlia, e fu molto sollevato quando l'avventura finì. Negli anni seguenti, lui e Nina si erano incontrati occasionalmente a pranzo, mentre Zandt lavorava ai soliti casi di omicidi tra gang, faide famigliari, e sconosciuti ritrovati crivellati dai proiettili, ansimanti come pesci sul bagnasciuga e dichiarati morti all'arrivo in ospedale nell'indifferenza generale. Alcuni li risolse e altri no. È così che vanno le cose. Nina lavorò a un duplice omicidio, ampiamente pubblicizzato, avvenuto a Yellowstone, una serie di sparizioni nel nord dello stato e ancora una nell'Oregon, tutti rimasti irrisolti e aperti. Nel mondo reale, oltre la cortina di morte e illegalità dietro la quale vivono le forze dell'ordine, la vita continuava come al solito. La Bosnia implose; il presidente ebbe dei problemi per i suoi sigari; noi scoprimmo le gioie delle e-mail e di Frasier, della Playstation e di Sheryl Crow. Poi, il 12 dicembre 1998, a Los Angeles scomparve un'adolescente. Josie Ferris, sedici anni, aveva festeggiato il compleanno di un'amica con un hamburger all'Hard Rock Café di Beverly Boulevard. Alle ventuno e quarantacinque, scambiati i saluti sul marciapiede fuori dal ristorante, si era diretta da sola verso il Ma Maison. Intendeva prendere un taxi fuori dall'hotel. Beverly Boulevard non è né una strada secondaria né un vicolo, è una via ampia e molto trafficata, e quella sera sia il piazzale antistante l'hotel sia il foyer del Beverly Center Mall di fronte erano affollati. Nonostante ciò, in qualche punto lungo questo tragitto di circa trecento metri, sparì. La polizia fu informata del mancato ritorno a casa di Josie verso mezzanotte e cinquanta. Avendo ricevuto risposte che, a loro parere, denotavano una scarsa solerzia, i genitori della ragazza si recarono personalmente a riempire i moduli. Mr. e Mrs. Ferris mostrarono un atteggiamento determinato, e i poliziotti cominciarono subito a prendere il caso più seriamente, almeno nei momenti nei quali i genitori erano nei paraggi. Purtroppo questo non fece alcuna differenza. La ragazza non fu più ritrovata viva. Due giorni dopo, un maglione fu lasciato davanti alla porta di casa loro. Il nome Josie era stato ricamato sul davanti, utilizzando quelli che successivamente furono identificati come i capelli della ragazza. Il maglione era un regalo per il suo sedicesimo compleanno da parte della sua migliore amica, che aveva cucito le lettere APS su una manica: Amiche Per Sem-
pre. Lo erano state. Solo che l'eternità si era rivelata breve. Non c'era alcuna richiesta di denaro insieme all'indumento. A questo punto la polizia cominciò a prendere la situazione molto seriamente, indipendentemente da chi si trovasse lì ad ascoltare. Fu istituita una task force, coordinata dal responsabile locale dell'FBI, Charles Monroe. La notizia della consegna dell'indumento fu alla fine comunicata alla stampa. Un mese dopo non era stato fatto alcun tipo di progresso nelle indagini per rintracciare l'adolescente scomparsa. Alla fine di gennaio e all'inizio di marzo del 1999, scomparvero altre due ragazze. Elyse LeBlanc e Annette Mattison non ritornarono a casa, rispettivamente dal cinema e dalla visita a casa di un'amica. Entrambe assomigliavano a Josie Ferris in dettagli insignificanti - avevano circa la stessa età (quindici e sedici anni) e portavano i capelli lunghi. I LeBlanc e i Mattison era gente agiata e le loro figlie erano attraenti e di intelligenza superiore alla media, ma questo non era sufficiente per stabilire un chiaro nesso tra le tre sparizioni, essendosi verificate in zone della città molto distanti tra loro. L'arrivo di altri due maglioni fornì il legame. Anche questa volta, furono recapitati alle abitazioni delle famiglie, in pieno giorno, e di nuovo mostravano sul davanti i nomi delle ragazze ricamati con i loro stessi capelli. Non arrivò nessun altro messaggio. La gravità della situazione convinse l'FBI a far passare sotto silenzio la seconda e la terza scomparsa. La maggior parte dei sequestratori di bambini si sforza di tenere nascosta la realtà dei loro rapimenti. La scelta di ragazze la cui sparizione sarebbe stata notata immediatamente, e distinguere successivamente il rapimento con la consegna dei pacchi, suggerì che avessero a che fare con un individuo fuori dal comune. Uno che voleva richiamare subito l'attenzione. Glielo impedirono. Una settimana dopo la scomparsa di Annette Mattison, durante un picnic nel Griffith Park alcune persone ritrovarono il cadavere vestito di una giovane donna. Sebbene con i capelli tagliati, tremendamente ustionato e deteriorato dalla fauna del posto, il corpo fu presto identificato grazie ai segni di una recente cura odontoiatrica e a un gioiello caratteristico. Era Elyse LeBlanc. Fu stimato che la sua morte risalisse al periodo immediatamente successivo alla scomparsa, e che solo di recente il suo cadavere fosse stato portato nel luogo del ritrovamento. Si scoprì che aveva subito un certo numero di traumi cranici minori prima della morte, sebbene nessuno di questi avesse causato il decesso. Nonostante il corpo fosse stato
trasferito immediatamente in un laboratorio dei federali a Washington, non fu ritrovata alcuna traccia fisica dell'assassino né sui vestiti né sul corpo. Una ricerca delle altre scomparse, condotta nel parco dalla polizia locale e dalla scientifica dell'FBI di Sacramento, non portò al ritrovamento dei cadaveri di Josie Ferris o di Annette Mattison e neanche di parti di essi. L'embargo contro la stampa cessò. Un appello per trovare testimoni non fece altro che dare sfogo ai soliti scherzi, ai mitomani e alla disinformazione. Tutti gli altri genitori si organizzarono affinché le loro figlie adolescenti andassero in giro a gruppi. Il corpo di Josie fu ritrovato dieci giorni dopo. Giaceva, in uno stato simile a quello della LeBlanc, tra i cespugli ai bordi di una strada nel Laurei Canyon. A differenza della vittima precedente, questa volta c'erano i segni di un periodo di intenso abuso sessuale. A quel punto al killer fu affibbiato un soprannome. I media lo chiamarono il Ragazzo delle consegne. Questo era stato suggerito in maniera ufficiosa dall'agente Monroe, il quale ritenne che, sminuendolo in quel modo, riducendo il suo status con la parola «ragazzo», si potesse ottenere qualche vantaggio nelle indagini. Come a dire che uno in grado di rapire tre ragazze intelligenti e sicure di sé in strade affollate, ucciderle, e abbandonare i loro corpi in luoghi pubblici, il tutto senza essere visto e senza lasciare uno straccio di prova, potesse essere in qualche modo colpito da questa presa in giro. Che potesse sentirsi offeso, e magari crollare. Nina non si era trovata d'accordo. Per questo e per altri motivi aveva discusso del caso con Zandt, nonostante il fatto che lui non fosse coinvolto nelle indagini ufficiali. Avevano lavorato bene insieme durante il caso del Casting Agent, e voleva sapere cosa ne pensasse lui. Zandt offrì il suo punto di vista, ma senza troppo entusiasmo. Nina affrontava questi casi con un impeto e uno zelo che lui sentiva di non poter più sostenere. Il suo matrimonio era tornato a navigare in acque più tranquille e sua figlia era cresciuta, trasformandosi da bambina in giovane donna, rendendo più solida la famiglia. Lei aveva i capelli di sua madre, di un biondo scuro con riflessi ramati - e gli occhi del padre, castani screziati di verde. Sentiva la musica a un volume troppo alto, la sua stanza era un disordine totale, passava troppo tempo in rete e ogni tanto puzzava di fumo di sigaretta. C'erano discussioni in famiglia, ma andava in giro per negozi con sua madre, anche se era «super-annoiante», perché sapeva che a Jennifer piaceva averla con sé. In genere ascoltava suo padre quando parlava e
soffocava gli sbadigli. I suoi genitori non sapevano che aveva fumato droga in diverse occasioni, che aveva provato la cocaina, e che una volta aveva rubato un paio di orecchini piuttosto costosi. Le avrebbero polverizzato il culo fino al giorno del giudizio se l'avessero scoperta, ma, a parte questo, non si preoccupava troppo. Tutto rientrava entro i limiti accettabili di un comportamento sbagliato conforme al periodo in cui viveva. Inoltre, Zandt era semplicemente un po' più vecchio, e non voleva perdere tempo più del necessario pensando alle cose oscure che il mondo poteva materializzare. Continuava con il suo lavoro, poi ritornava a casa e rimaneva con sua moglie. Dopo due precedenti indagini sulle azioni dei pluriomicidi, aveva perso ogni interesse nel cercare di comprendere i meccanismi delle loro menti. Era qualcosa che si riusciva a sopportare fino a quando non si cominciava a esserne disgustati. Zandt sapeva che, una volta passato il fascino della celebrità, i serial killer non erano come venivano dipinti nei film: geni con un carisma maledetto, crociati unici di un'arte sanguinaria. Assomigliavano più a ubriaconi o a infermi di mente. Impossibile parlarci, o ragionarci, isolati dal mondo dietro una visione che non poteva essere espressa o resa accessibile a coloro che ne vivevano al di fuori. Ce n'erano di tutte le forme, dimensioni e tipi. Alcuni erano mostruosi, altri erano individui piuttosto discreti a parte, certo, la propensione a uccidere altre persone e rovinare le vite di coloro che gli avevano voluto bene. Jeffrey Dahmer inizialmente si era sforzato tantissimo per non cedere alle pulsioni che, lui lo sapeva, ponevano i suoi desideri ben al di fuori della normalità. Non ci riuscì, peccato. Non chiese clemenza quando fu catturato, non giocò con la polizia, non fece altro che ammettere la sua colpevolezza ed esprimere rammarico per quanto aveva compiuto. Nei limiti concessi dall'essere un assassino sociopatico, si comportò meglio che poté. Rimaneva il fatto che aveva posto fine alla vita di almeno sedici giovani uomini in circostanze incredibilmente orrende. Altri assassini si crogiolavano nella loro popolarità, barattavano la pubblicità e i vantaggi manipolando i media e la polizia, giocando con il dolore delle persone alle quali avevano sottratto qualcosa di insostituibile. Essi divoravano le notizie della stampa sui loro processi, profondamente soddisfatti che avessero finalmente ottenuto l'attenzione che avevano sempre pensato di meritare. Questo non li rendeva per forza peggiori. Li rendeva semplicemente diversi. Ted Bundy, il Casting Agent, John Wayne Gacy, Phillipe Gomez, lo Squartatore dello Yorkshire, Andrei Chikatilo. Alcuni
avevano un aspetto migliore, altri erano più abili, altri intelligenti, alcuni al limite o addirittura chiaramente subnormali. Alcuni davano l'impressione di essere persone comuni; altri avrebbero potuto essere riconosciuti come maniaci nel bel mezzo di una strada affollata. Nessuno era un essere umano speciale o posseduto dal genio del male, se non nel senso più superficiale. Tutti erano solamente uomini con un gran desiderio di prendersi le vite di altre persone, di intensificare le proprie esperienze sessuali con la tortura e l'abbrutimento degli altri. Non erano demoni. Solo uomini - e, molto raramente donne - che compivano gesti intollerabili, spinti da un'ossessione nevrotica. Non appartenevano al sistema binario in cui bene e male si fronteggiano, ma a un universo popolato anche da persone che dovevano controllare dieci volte le serrature, o che non potevano riposare fino a che la cucina non fosse stata messa in ordine. I serial killer non erano terrificanti in sé e per sé. Terrificante era il rendersi conto che è possibile appartenere al genere umano anche senza provare le stesse cose che provano gli altri. Zandt conosceva le cause che potevano essere all'origine di un serial killer: una madre violenta e autoritaria, un padre cattivo o debole, esperienze sessuali precoci e conflittuali, specialmente con genitori, fratelli o animali, l'essere un nativo americano, un tizio dell'ex Unione Sovietica, o della Germania, aree che producevano pluriomicidi in proporzione abnorme rispetto alla popolazione, l'esposizione, in età formativa, a cadaveri, lesioni al cranio, o avvelenamento da metalli pesanti - nel senso degli atomi, non della musica - in età giovanile. Un evento scatenante, qualcosa che trasformasse in atto ciò che era in potenza. Queste non erano condizioni necessarie o sufficienti, ma semplicemente aspetti di una sindrome che a volte forniva un terreno abbastanza fertile per far fiorire pulsioni deviate: un individuo ansioso, nevrotico e violento che non riusciva a vivere come facevano gli altri. L'ombra nelle nostre strade. L'uomo nero. Ne aveva visti abbastanza, non gli interessava saperne di più. Nei suoi pensieri intimi, si riferiva al Casting Agent semplicemente così: il Casting Agent. Ebbe qualche difficoltà a non pensare a lui con il suo vero nome, ma ad affibbiargli la stessa irrealtà da cartone animato che evidentemente l'assassino aveva pensato possedessero le sue vittime. Se non era stato in grado di attribuire ai sei giovani la loro dignità di persone, allora Zandt riteneva che il minimo che lui potesse fare fosse consegnare il Casting Agent allo stesso destino. Nel frattempo lavorava ai soliti omicidi legati a droga, passione e dena-
ro. Andava a bere con i colleghi, ascoltava Nina informarlo dei suoi tentativi di mettere in relazione le sparizioni di Josie Ferris, Elyse LeBlanc e Annette Mattison. Cenava con sua moglie, accompagnava sua figlia in giro, andava in palestra. Il 15 maggio 1999, Karen Zandt uscì da scuola alla fine della giornata. Non tornò a casa. All'inizio i genitori pensarono che tutto sarebbe andato per il meglio. Poi si preparono al peggio. Una settimana dopo fu recapitato un maglione. Zandt chiamò Nina che si precipitò con due colleghi. Il pacco fu aperto. Questa volta non c'erano nomi ricamati sul maglione all'interno e non si trattava del maglione di Karen. Il suo era color pesca; questo era nero. C'era un biglietto infilato dentro, scritto in carattere courier e impresso con una stampante laser su un tipo di carta ordinario usata negli uffici e nelle case di tutta la nazione: Mr. Zandt, una «consegna». Dovrai attendere per il resto. Ho osservato il tuo dolore e il lavoro delle tue mani, e ti rimprovero. L'Homo Erectus Un mese dopo, il corpo di Annette Mattison fu trovato in un canyon delle Hollywood Hills. Stesso stato di quello di Elyse LeBlanc, stessa mancanza di tracce. Non fu rapita nessun'altra ragazza, o almeno nessuna la cui scomparsa venisse subito dopo rimarcata con la consegna di un indumento. Non fu più ritrovato alcun cadavere. Due ore dopo la Promenade era praticamente deserta. Barnes & Noble e Starbucks avevano chiuso. Di tanto in tanto alcune persone si trascinavano a fatica davanti alla panchina, ubriaconi, diretti a Palisades per la notte, che tiravano piccoli carretti stipati con le loro cose. Essi videro un uomo seduto con le mani aperte sui fianchi, gli occhi che fissavano la strada. Nessuno di loro si spinse a chiedere dei soldi, ma proseguirono diritti. Alla fine Zandt si alzò e gettò la tazza vuota nella pattumiera. Si accorse che sarebbe potuto entrare nella libreria e avrebbe potuto stabilire quali zone avrebbero potuto dare all'Homo Erectus una posizione favorevole per osservare Sarah Becker. Anche se non c'erano prove materiali di questo,
Zandt credeva che lui studiasse attentamente le sue vittime prima di agire. Pochi non lo fanno, la maggior parte lo fa. Poteva darsi che quello di Karen fosse stato un caso speciale; l'Homo Erectus che metteva in chiaro qualcosa. Zandt non ci credeva. Le ragazze erano troppo simili, le sparizioni troppo impeccabilmente congegnate. Barnes & Noble poteva aspettare, probabilmente per sempre. Si era lasciato convincere da Nina a ritornare. Lo shock per quello che gli aveva detto e mostrato era stato di aiuto. Voleva anche credere che questa volta sarebbe stato diverso, che sarebbe stato in grado di fare di più che correre per la città, braccandolo, urlando nella notte, senza mai riuscire a trovare l'uomo che gli aveva portato via sua figlia. Colui che aveva preso la vita di Zandt nel palmo della sua mano ignota e rabbiosa, e l'aveva distrutta. Questa sera non ci credeva più. Tornò a The Fountain e lungo il tragitto comprò qualcosa da mangiare. Nell'atrio del palazzo non c'era nessuno, neanche dietro il banco della reception. Non c'era musica di sottofondo, e le possibilità che ci fosse qualcun altro oltre a lui erano scarse. L'ascensore salì lentamente e a intervalli, rendendolo consapevole di quanto fosse un compito difficile. In attesa che l'acqua bollisse rimase in piedi a guardare la televisione, mentre la CNN faceva del suo meglio per ridurre la complessità del mondo con frasi a effetto che un uomo d'affari avrebbe potuto ripetere a pappagallo durante il pranzo. Dopo qualche minuto ritornarono su una notizia dell'ultima ora. Nella tarda mattinata, un uomo di mezza età, armato di fucile, aveva percorso la strada principale di una cittadina in Inghilterra sparando e uccidendo otto adulti e ferendone altri quattordici. Nessuno sapeva perché. 9 Ero seduto nella mia macchina dal lato del passeggero e avevo la portiera aperta. Erano da poco passate le otto del mattino. In una mano tenevo del caffelatte, nell'altra una sigaretta. I miei occhi erano spalancati e asciutti, e mi stavo già pentendo della sigaretta. Ero stato un fumatore accanito per un lungo periodo. Poi avevo smesso. Immagino faccia male, ma durante la notte che avevo passato guidando lentamente e senza meta per strade non illuminate, come cercando di trovare l'uscita da una serie infinita di tunnel, ero giunto alla conclusione che fumare era l'unica cosa che mi poteva aiutare. Una volta che avete fumato per un po' di tempo, troverete
sempre situazioni in cui, senza un tubetto di foglie ardenti nelle vostre mani, mancate di qualcosa. Senza una sigaretta vi sentite senza amici, imbranati e soli. Ero parcheggiato sulla strada principale di Red Lodge, una cittadina circa duecento chilometri a sud-est di Dyersburg. Stavo seduto in macchina perché il negozio dove avevo preso il caffè - un piccolo locale luccicante il cui personale era tutto grembiuli e sorrisetti - era irremovibile nei riguardi delle arti del tabacco. Al giorno d'oggi la qualità del caffè che viene servito nei locali è inversamente proporzionale alla probabilità che vi lascino fumare mentre lo bevete. Se il caffelatte è ottimo allora avranno, appese ai muri, le teste imbalsamate dei fumatori. Essendo di pessimo umore, avevo preso il mio caffè da asporto ed ero rimasto in macchina a osservare mentre, al di là del parabrezza, Red Lodge gradualmente si animava. La gente andava su e giù, apriva piccoli negozi che vendevano quella roba che si compra per dimostrare di essere stati in vacanza. Alcuni ragazzi arrivarono con dei barattoli di vernice e cominciarono ad abbellire una casa dall'altro lato della strada. Comparvero alcuni turisti, infagottati in indumenti da sci al punto da sembrare quasi dei palloni. Arrivai a metà sigaretta, poi feci una smorfia e la buttai fuori. Non serviva a granché, era semplicemente qualcosa di cui sentirsi colpevole. Sapendo che la mia forza di volontà è debole quanto la luce della stella più lontana in una notte nuvolosa, afferrai il pacchetto sul cruscotto e lo tirai verso il portarifiuti attaccato a un palo lì vicino e decorato con slogan di sano senso civico. Il pacchetto finì dentro senza nemmeno toccare il bordo. Non c'era nessuno ad assistere. Come sempre. Dev'essere difficile essere un giocatore professionista di basket. La gente è lì per vedere che tu faccia centro. Non avevo disdetto l'albergo, avevo solamente tolto la cassetta dal videoregistratore e avevo lasciato la stanza, pensando, con ogni probabilità, di andare al bar, ma il mio appassito senso del decoro, questa volta, l'aveva giudicata un'azione inadeguata. Mi ero invece ritrovato a dirigermi verso la macchina, a entrarvi e ad allontanarmi. Avevo fatto un lento giro per Dyersburg, attraversando due volte il posto in cui era andata distrutta l'auto dei miei genitori. La videocassetta stava al mio fianco sul sedile del passeggero. La seconda volta che ero passato dall'incrocio l'avevo guardato, come se questo potesse servire a qualcosa. Non era stato così, mi aveva solo fatto rabbrividire, un piccolo gelido spasmo, impercettibile per chiunque.
Dopo un po' avevo raggiunto la velocità di fuga e avevo lasciato la città. Non mi ero servito della cartina, ma avevo seguito le strade, curvando quando era necessario. Alla fine mi ero ritrovato sulla I-90 mentre il cielo cominciava a rischiararsi. Mi ero reso conto che avevo bisogno di un caffè, di qualcosa, e avevo preso la svolta che mi aveva condotto a Red Lodge proprio nel momento in cui i negozi cominciavano ad aprire. Mi sentivo vuoto e intontito. Forse affamato, ma era difficile riuscire a capire. La mia mente era sfinita, come se fosse andata troppo a lungo e troppo insistentemente nella direzione sbagliata. Non c'erano dubbi che fossero i miei genitori quelli nei due frammenti più datati del video. Non c'era motivo di dubitare che fosse stato mio padre a manovrare la telecamera nella prima sezione, la più recente. Le tre scene, sia singolarmente sia nell'insieme, erano state evidentemente pensate per trasmettere un messaggio. Altrimenti perché metterle su nastro? Mi risultò difficile addirittura pensare all'ultima sequenza, quella nella quale si vedeva che un bambino era stato abbandonato in una strada di città. La prima sensazione travolgente, quella cioè che il bambino fosse un fratello gemello mai conosciuto, era ancora la mia convinzione. Tutto nel linguaggio del corpo di mia madre, e nel modo in cui eravamo vestiti, lo lasciava intendere. O il bambino era il mio gemello, oppure loro volevano che io lo pensassi. L'ultima ipotesi sembrava ridicola. Allora avrei dovuto credere che un tempo avevo un fratello o una sorella, e che lui, o lei, era stato abbandonato da qualche parte? Che la nostra famiglia si fosse allontanata da casa - un particolare, questo, che credevo fosse stato consapevolmente simulato grazie al frammento del viaggio in treno intuibile all'inizio della scena - e avesse abbandonato un bambino in qualche posto? E che mio padre avesse filmato tutto? Ci poteva essere solo una ragione per tutto ciò: la consapevolezza che un giorno avrebbero voluto farmi sapere cosa fosse accaduto, e la sicurezza che nulla al di fuori del filmato avrebbe potuto convincermi. Per tutta la notte riandai con la mente a quelle immagini, cercando di interpretarle in maniera diversa. Non ci riuscii e, alla fine, fu la realtà dei fatti a tormentarmi. Avevano cercato il posto adatto dove abbandonare il bambino e, scartatone uno, si erano diretti un po' più avanti lungo la strada. Avevano scelto un luogo che sembrava ben abitato, dove le case e le attività commerciali dall'altro lato della strada facevano pensare che il bambino sarebbe stato notato dopo poco tempo. In un certo senso questo non migliorava le cose, ma le peggiorava. Faceva sembrare il tutto ancora più
studiato, premeditato, più reale. Non l'avevano ucciso, se n'erano semplicemente liberati. Avevano pianificato come avrebbero dovuto farlo, e poi erano andati avanti e l'avevano fatto. La sezione centrale era meno incredibile. Una volta superata la stranezza del fatto che forniva una breve visione del passato di persone che, adesso me ne rendevo conto, non avevo mai compreso veramente, per la maggior parte non faceva altro che immortalare una semplice serata mondana. Non avevo riconosciuto nessun'altra delle persone nel filmato, ma non c'era da meravigliarsi. La tua cerchia di amicizie cambia quando invecchi. Cambi, ti trasferisci. Le persone che un tempo sembravano indispensabili diventano, gradualmente, prima meno importanti, e poi semplicemente dei nomi sull'elenco degli auguri di Natale da spedire. Alla fine arriva l'anno in cui ti accorgi con irritazione che per più di dieci anni non hai più visto né questo né quest'altro, allora le cartoline di auguri si interrompono, e l'amicizia si spezza, eccetto che nei ricordi, in qualche frase fatta, e in un pugno di esperienze vissute in comune e in parte dimenticate. Rimane in letargo fino agli ultimi istanti, quando vorresti aver mantenuto un contatto, se non altro per sentire la voce di qualcuno che ti conosceva quando eri giovane, qualcuno consapevole che il tuo stato di avvizzimento pre-bara non è altro che uno scherzo d'epoca recente, e non una tua costante. La cosa shockante era stata il modo nel quale si erano rivolti all'obiettivo. Quello che avevano detto. Come se avessero saputo che un giorno o l'altro l'avrei visto. Fossi stato al loro posto, mi sarei sforzato di avere un tono più gioioso. «Ciao, figliolo, come va? Con affetto da chissà quale momento del passato.» Mia madre non aveva assolutamente parlato così. Era apparsa triste, rassegnata. L'ultima frase detta da mio padre mi riecheggiava più forte nella testa: «Mi domando cosa sei diventato.» Come si fa a dire una cosa del genere, quando la persona alla quale ci si rivolge ha soltanto cinque o sei anni, e in quel momento sta dormendo nella stessa stanza? Questo sembrava avere a che fare in qualche modo con la liquidazione di UnRealty: una profonda sfiducia in qualcuno che era loro figlio. Non sono particolarmente orgoglioso della mia vita, ma senza tenere conto di quello che sarei o non sarei potuto diventare, non avevo ancora abbandonato un bambino su una strada, filmando anche l'evento per i posteri. Non mi ricordavo affatto che mio padre avesse posseduto o utilizzato una cinepresa. Sicuramente non avevo memoria di aver visto simili filmati. Perché darsi da fare per riprendere la vostra famiglia se non per sedersi una sera tutti insieme a guardare, ridendo per le acconciature e i vestiti, e no-
tando come fossero tutti cresciuti di statura e di taglia? Se lui un tempo era stato il tipo da filmare questo genere di cose, perché aveva smesso? Dove erano le registrazioni? Il che rimandava alla prima parte del video, quella più recente. Per la sua estrema brevità e per la mancanza di un significato comprensibile, questo sembrava essere il frammento che forniva la chiave. Quando mio padre aveva montato insieme questi piccoli eventi sconvolgenti, doveva avere aggiunto all'inizio questo non-evento per una ragione. Lui aveva detto qualcosa alla fine, quella breve frase che il vento aveva coperto. Dovevo scoprire cosa diceva. Forse sarebbe stato un modo per comprendere lo scopo del video. Forse no. Ma almeno allora avrei avuto tutte le prove. Chiusi la portiera della macchina e tirai fuori il mio telefono. Avevo bisogno di aiuto, e così chiamai Bobby. Cinque ore dopo mi trovavo di nuovo nel mio albergo. Nel frattempo ero stato a Billings, uno dei pochi tentativi, nel Montana, di una città di dimensioni decenti. In accordo con ciò che mi era stato consigliato e contrariamente alle mie aspettative, dimostrò di essere dotata di una copisteria dove poter fare quello di cui avevo bisogno. Il risultato fu che uscii con in tasca un nuovo DVD. Mentre attraversavo l'atrio mi ricordai che avevo prenotato solo per un paio di giorni dopo il funerale, quindi mi fermai al banco per prolungare la permanenza. La ragazza annuì distrattamente, senza staccare gli occhi da un televisore sintonizzato su un canale di news. L'annunciatore stava rimasticando gli scarsi dettagli che fino ad allora erano emersi su un eccidio di massa in Inghilterra, del quale avevo sentito alla radio mentre mi allontanavo da Billings. Non sembrava che avessero trovato qualcosa di nuovo. Ripetevano a oltranza sempre le stesse cose, come fosse un rito, gonfiandole fino a farle diventare un mito. Il tizio si era barricato per un paio d'ore da qualche parte, poi si era ucciso. Probabilmente in quello stesso istante la sua casa veniva messa a soqquadro dai poliziotti, nel tentativo di trovare qualche spiegazione, qualcuno o qualcosa cui dare la colpa. «Una cosa terribile,» dissi, per verificare soprattutto se avessi sinceramente ottenuto l'attenzione della receptionist. I tabelloni informativi per i clienti nell'atrio indicavano che l'albergo avrebbe ospitato per il resto della settimana un ampio cartellone di brillanti riunioni societarie e di profonde riflessioni, e io non volevo ritrovarmi improvvisamente senza una stanza. Lei non rispose immediatamente, e stavo quasi per riprovare quando mi
accorsi che stava piangendo. I suoi occhi erano umidi e una lacrima scendeva quasi invisibile lungo una guancia. «Si sente bene?» domandai, sorpreso. Lei voltò la testa verso di me come sognando e annuì lentamente. «Altri due giorni. Stanza 304. A posto, signore.» «Perfetto. Si sente bene?» Lei si asciugò velocemente la guancia con il dorso della mano. «Oh, sì,» disse. «Solo che è triste.» Poi si voltò nuovamente verso la televisione. Mentre stavo fermo nell'ascensore in attesa che si chiudessero le porte, la osservai. L'atrio era deserto e lei stava ancora fissando lo schermo, non si muoveva, come se stesse guardando fuori da una finestra. Neanche la perdita di un suo famigliare avrebbe potuto coinvolgerla di più in questo evento - che aveva avuto luogo a migliaia di chilometri di distanza, in un paese che probabilmente non aveva mai visitato. Mi sarebbe piaciuto dire che la cosa esigeva da me lo stesso grado di irrazionale empatia, ma non era così. Non che non mi importasse, ma, più che altro, non riuscivo a far sì che l'emozione mi toccasse nel profondo. Non era come il World Trade Center, qualcosa di vile e sorprendente che accadeva all'interno dei nostri confini, a persone che quando erano bambini avevano messo da parte nei loro salvadanai a forma di maialino gli spiccioli della stessa moneta. Razionalmente sapevo che non doveva esserci alcuna differenza, ma sembrava esserci. Quando arrivai nella mia stanza tirai fuori dal guardaroba il portatile, lo misi sul tavolo, e lo accesi. Mentre aspettavo, presi il DVD dalla mia tasca. La videocassetta di mio padre era nascosta nel vano della ruota di scorta della macchina a noleggio. Quella che avevo su disco era una versione digitale. Una volta che il PowerBook ebbe completato la sua routine di risveglio - una doccia, un sorso di caffè, una breve scorsa al giornale, e qualsiasi altra diavolo di cosa che necessitasse di così tanto tempo - infilai il supporto removibile nello sportello laterale. Sul desktop apparve l'icona di un disco. Il video era stato salvato su di esso sotto forma di quattro file MPEG molto estesi. Ci sarebbe voluto troppo tempo per digitalizzare alla massima risoluzione e fare stare tutto su un unico disco, così, mentre mi trovavo a una delle postazioni di lavoro nella copisteria di Billings senza nessuno che mi ronzasse intorno, riversai il primo e l'ultimo frammento ad alta risoluzione, insieme con la parte della sezione centrale girata a casa dei miei genitori. Il lungo brano nel bar lo duplicai con un livello di defini-
zione inferiore. Anche così ci volle del tempo. Un disco da diciotto giga bastò appena per il tutto. Per prima cosa tentai con CastingAgent, il vecchio programma shareware di editing che è fottutamente difettoso, ma che a volte ti permette di fare cose che altri software non ti permettono. Il programma si bloccò in modo così totale che dovetti riawiare il computer. Allora tornai a programmi standard e riuscii a visualizzare le immagini sullo schermo. Avanzai velocemente fino alla fine della prima sezione, quella girata da qualche parte sulle montagne, e presi un ritaglio degli ultimi dieci secondi. Li salvai sull'hard disk. Poi usai MPEGSplit per eliminare la traccia video del file lasciando solo quella audio. Sapevo cosa mostravano le immagini: un gruppo di persone in piedi che indossavano cappotti scuri. Quello che volevo sapere era cosa dicesse il cameraman. Salvai il file, uscii dal software di visualizzazione, e lanciai una serie di applicazioni per l'elaborazione dei suoni - SoundStage, SPXLAB, AudioMelt Pro. Per la successiva mezz'ora giocherellai con la traccia, provando diversi filtri per vedere cosa potessero produrre. Aumentare l'ampiezza la fece semplicemente sentire peggio, ma più forte; il campionamento dei singoli frammenti e la riduzione del rumore di fondo la resero più confusa. Il massimo che riuscii a capire fu che erano due o tre parole. A questo punto cominciai a fare sul serio, e presi un altro brano audio dalla sezione di nastro immediatamente precedente al dialogo. Analizzai le frequenze del vento in sottofondo, quindi predisposi un filtro di banda. Lo applicai all'altra sezione del nastro e cominciò a sentirsi più chiaramente. Dopo un altro po' di lavoro di rifinitura, i rumori cominciarono lentamente a formare delle parole. Ti taglia? Maniglia? Dopo aver fatto tutto il possibile, tirai fuori dalla borsa del portatile un paio di cuffie e le indossai. Feci andare la traccia a ripetizione e chiusi gli occhi. Dopo circa quaranta passaggi capii. «Gli Uomini di paglia.» Fermai la sequenza; mi tolsi le cuffie. Ero praticamente sicuro che dicesse questo. Gli Uomini di paglia. Il problema era che non aveva senso. Sembrava il nome di una rock band indipendente - anche se dubitavo che la gente del filmato si fosse guadagnata da vivere grazie a miagolii mal prodotti. I membri di una band non vivono in località sciistiche. Si fanno costruire palazzi in finto stile Tudor su facce opposte del pianeta, e si incontrano solo quando devono essere pagati. Tutto quello che avevo ottenuto era stato aggiungere un altro elemento incomprensibile a quanto registrato sul nastro. Riguardai il video, utilizzando il DVD, nella speranza che
il formato differente mi aiutasse a notare qualcosa di nuovo, ma non mi colpì nulla. Rimasi seduto per un po', con lo sguardo fisso nel vuoto e sentii che la notte mi avvolgeva. Ogni tanto udivo qualcuno che passava nel corridoio davanti alla mia porta, e dalla strada veniva qualche occasionale fruscio di automobili, o frammenti fluttuanti di conversazioni lontane di persone che non conoscevo e che non avrei mai incontrato. Nemmeno tutto questo aveva significato per me. Erano da poco passate le sei quando il mio cellulare squillò, strappandomi al dormiveglia. Risposi ancora confuso. «Ehilà,» disse una voce. In sottofondo si sentivano altre voci e della musica smorzata. «Ward, sono Bobby.» «Il mio uomo,» dissi, sfregandomi gli occhi. «Grazie per il consiglio. Quel posto a Billings ha fatto proprio al caso mio.» «Ottimo,» disse lui. «Ma non è per questo che ti chiamo. Sono in un posto del cazzo che penso si chiami Sacagawea. È una specie di bar, più o meno. Sulla strada principale, con una insegna fottutamente grande.» All'improvviso realizzai. «Sei a Dyersburg?» «Certo che sì. Sono arrivato in aereo.» «Perché diavolo sei venuto?» «Beh, in sostanza, dopo la tua chiamata, ero alquanto annoiato. Ho preso spunto da qualcosa che avevi detto tu e ho ficcato il naso un po' in giro.» «Ficcato il naso dove?» «Qui e là. Ward, porta le chiappe qui. Mentre ti aspetto mi faccio una birra. Ho qualcosa da dirti, amico, e non voglio farlo per telefono.» «Perché?» e stavo già mettendo via il computer. «Perché ti farà uscire di testa.» 10 Il Sacagawea è un grande motel sulla strada principale. Ha un'enorme insegna al neon variopinta che può essere vista a un chilometro di distanza da entrambe le direzioni, e che attira gli incauti come una calamita. Una volta, in occasione della prima visita che feci ai miei genitori, mi fermai lì per circa dieci minuti. Mi fu data una stanza che sembrava un museo per pezzi di design economico anni Sessanta, e con tappeti dall'aspetto e l'odore di cani randagi. Sul momento pensai fosse fantastico, finché non guardai
meglio e mi accorsi che l'ultima mano di bianco era stata data ai tempi della mia nascita. Quando scoprii che non c'era neanche il servizio in camera, lasciai di corsa quel diavolo di posto. Non pernotterei mai in un hotel senza il servizio in camera. Non lo tollererei. L'atrio era piccolo e umido, con un odore pungente di cloro, forse dovuto alla minuscola piscina che si trovava nella sala accanto. Il vecchio rincoglionito dietro al bancone della reception mi indirizzò al piano di sopra, senza bisogno di pronunciare una parola ma solo con uno sguardo strano. Quando raggiunsi il bar capii il perché. Era un mortorio. C'era un'isola al centro dove si veniva serviti, una cameriera abbandonata a se stessa, e di lato una sfilza di vecchie slot-machine con persone ugualmente antiquate che ci infilavano placidamente le monete. La nostra specie sa veramente come godersi la vita. Dalla lunga serie di grandi finestre sulla parte anteriore della stanza si aveva una vista sul parcheggio e sulla pioggerellina di macchine che procedevano senza fretta lungo la strada. Nella sala erano sparpagliate alcune coppie che parlavano ad alta voce, nella speranza che questo avrebbe potuto dare all'ambiente una certa atmosfera, ma non stava funzionando. Seduto al tavolo di fronte alla finestra c'era Bobby Nygard. La prima cosa che mi disse fu: «Che cazzo significa questo Sacagawea di merda?» Mi sedetti di fronte a lui. «Sacagawea era il nome amerindio della fanciulla che fece da guida a Lewis e Clark. Li aiutò a concludere affari con i locali, a non essere uccisi e cose del genere. La spedizione passò non molto lontano da qui, sulla strada per le Bitterroot Mountains.» «Grazie, professore. Ma di questi tempi è permesso dire 'fanciulla'? Non è un po' sessista o giù di lì?» «Forse,» dissi. «E sai una cosa? Me ne fotto. In ogni caso è meglio di squaw.» «Sicuro? Forse non lo è. Forse è come 'negro', assunto come un simbolo d'orgoglio, l'assimilazione delle parole dell'oppressore.» «Sia come sia, Bobby. È bello vederti.» Mi fece l'occhiolino e brindammo. Bobby aveva praticamente sempre lo stesso aspetto, sebbene fossero passati due anni dal mio ultimo faccia a faccia con lui. Era un po' più basso di me, ma ben più robusto. Aveva i capelli corti, un viso che sembrava sempre leggermente arrossato e, in generale, aveva l'aria di uno cui avresti potuto sventolare davanti una mazza da baseball senza che si scomponesse più di tanto. Era stato nelle forze arma-
te, e qualche volta dava l'impressione di farne ancora parte - anche se non si trattava del tipo di esercito che compare in televisione. Dopo aver bevuto un sorso, Bobby rimise il bicchiere sul tavolo e diede un'occhiata alla sala. «È piuttosto un cesso direi.» «Allora, perché sei qui?» «È colpa di quell'insegna fottutamente grande lì fuori. Mi ha catturato col suo raggio attrattore. Perché? C'è un hotel migliore in città?» «No, ma intendevo perché sei venuto a Dyersburg?» «Ci arriverò. Intanto dimmi un po', come stai? Mi dispiace per i tuoi, amico.» Improvvisamente, forse perché me ne stavo seduto a parlare con qualcuno che ritenevo un amico, la morte dei miei genitori mi colpì di nuovo. Violentemente e inaspettatamente come, ne ero sicuro, di tanto in tanto sarebbe successo per il resto della mia vita, indipendentemente da quello che avevano fatto. Provai a dire qualcosa, ma non ci riuscii. Mi sentivo troppo stanco, confuso e triste. Bobby fece tintinnare ancora una volta il suo bicchiere con il mio, e bevemmo. Rimase in silenzio per un po', poi cambiò argomento. «Allora, cosa stai facendo adesso? Non me l'hai mai detto.» «Non molto,» risposi. Inarcò un sopracciglio. «Non molto nel senso 'Non me lo chiedere'?» «No. Semplicemente, niente di cui valga la pena parlare. Ci saranno forse uno o due lavori che non ho ancora provato, ma dubito che faccia molta differenza. Sembra che io preferisca sempre guardare fuori dalla finestra, e i datori di lavoro non capiscono ancora quale ruolo fondamentale abbia questo nell'economia moderna.» «Timidezza e miopia negli affari,» annuì, facendo un cenno per avere un altro paio di birre. «Sempre la stessa storia.» Dopo che la cameriera, giovane ma dall'aria depressa, ci ebbe portato le nostre bibite, chiacchierammo per un po'. Uno dei lavori a cui ho accennato era nella CIA, ed era meno eccitante di quanto possa sembrare. Collaborai con loro per sette anni, e fu così che incontrai Bobby. Andammo subito d'accordo, malgrado il fatto che lui fosse in prima linea mentre io fondamentalmente ero solo un passacarte. Smisi di lavorare per l'Agenzia quando, pochi anni addietro, introdussero annuali test con la macchina della verità. In quell'occasione molte persone lasciarono il servizio, indignate per l'implicito segnale di sfiducia dopo che avevano messo in pericolo la vita per il loro paese. Per quanto mi riguarda,
me ne andai perché avevo combinato alcune cose. Niente di terribile, vorrei aggiungere. Semplicemente il genere di cose per cui ti mettono in prigione. La CIA non sarà la più onesta delle organizzazioni, ma preferisce che la maggior parte dei suoi collaboratori evitino il più possibile di compiere veri crimini. Avevo utilizzato alcuni contatti per fare un po' di soldi, spillare un po' di contante dalle fessure del sistema. Questo era tutto. Niente di eccezionale. A essere sinceri, non ho mai fatto nulla di veramente eccezionale. Anche se adesso viveva in Arizona, Bobby lavorava ancora per l'Agenzia, saltuariamente, ed era ancora in contatto con alcuni vecchi amici comuni. Due di essi ora operavano per infiltrare gruppi di miliziani, e, sentendo queste cose, fui ancora una volta felice di aver lasciato il servizio. Quello non è il tipo di lavoro nel quale desidereresti essere coinvolto. No, se ci tieni alla pelle. Uno di questi tizi, un magro pazzoide che si chiama Johnny Claire, attualmente viveva in uno di quei gruppi, un assortimento di fanatici delle armi con difficoltà di socializzazione, rintanati in una foresta nell'Oklahoma. Meglio lui di me, anche se Johnny era abbastanza strambo da tenere duro con qualsiasi compagnia. «Okay,» disse Bobby, una volta armatosi di un'altra birra, «ora hai intenzione di spiegarmi cosa ci fai qui in campagna, e come mai hai improvvisamente sentito il bisogno di digitalizzare dei brani di un video amatoriale?» «Forse,» dissi, ammirato di come mi stesse carpendo le informazioni senza rivelarmi cosa avesse in mente. Un trucco del mestiere, ormai diventato, evidentemente, abituale. Quando ci conoscemmo passava molto tempo nelle sale di interrogatorio con i cittadini mediorientali e, alla fine, parlavano tutti. Dopo quell'incarico era passato alla vigilanza, specializzandosi nell'analisi delle immagini. «Sicuramente non fino a quando non mi avrai rivelato il perché sei saltato su un aereo e hai sorvolato tre stati per venirmi a offrire una birra.» «Okay,» disse. «Okay. Ma prima lascia che ti faccia una domanda. Dove sei nato?» «Bobby...» «Dimmelo e basta, Ward.» «Lo sai dove sono nato, al County Hospital di Hunter's Rock, California.» Pronunciai il nome del posto quasi come fosse stato il mio nome. È una delle prime cose che si imparano. «Infatti. Mi ricordo che me l'avevi detto. E ti eri anche arrabbiato per il
fatto che nessuno mette più l'apostrofo a 'Hunter's'.» «Mi fa incazzare.» «Hai ragione, è uno scandalo. Dunque, quando oggi abbiamo parlato al telefono mi hai raccontato dei tuoi, e hai detto qualcosa a proposito di un filmato che ha a che fare con la tua infanzia. Finita la conversazione, me ne stavo lì tutto solo e non avevo niente da fare. Ero circondato da computer, avevo navigato in rete fino a non poterne più, e mi ero già fatto la sega giornaliera.» «Un pensiero carino,» dissi. «Spero non te la sia fatta mentre eravamo al telefono.» «Continua a sperare,» disse, con un sorrisetto furbo. «Allora mi sono detto, cazzo, forse posso ficcare un po' il naso nella vita di Ward.» Lo fissai, e anche se pensavo che lui era mio amico e andava tutto bene, avevo ancora l'impressione che si fosse intromesso. «Lo so, lo so,» disse, alzando una mano in segno pacificatore. «Che devo dirti, mi annoiavo? Mi dispiace. A ogni modo, ho fatto ronzare i computer e ho dato un'occhiata a qualche database. Devo dire subito di non aver trovato nulla che non sapessi già. Interrogato in passato su alcune questioni, bla bla, rilasciato per mancanza di prove. Oltre a un testimone che ritrattò. Nel 1985 la retata contro il traffico di stupefacenti nella Grande Mela fu annullata quando accettasti di denunciare un certo gruppo di studenti della Columbia.» «Erano degli stronzi,» mi difesi. «Stronzi razzisti. In più, uno di loro andava a letto con la mia fidanzata.» «Andiamo amico, me l'hai già detto e a ogni modo non me ne frega un cazzo. Se tu non avessi fatto niente, non saresti finito nell'Agenzia e io non ti avrei conosciuto, cosa che considererei negativa. Come ho detto, o nei file non c'era niente che io non sapessi già, oppure l'hai nascosto bene, veramente bene. Cosa che mi piacerebbe sapere, così, per puro interesse.» «Non ho intenzione di dirtelo,» dissi. «Un uomo deve avere qualche segreto.» «Bene, Ward, tu ce li hai. Te ne darò quanti ne vuoi.» «Cioè?» «Dopo un'ora o giù di lì ero piuttosto seccato di non trovare niente, così ho cominciato a controllare quel che riguarda Hunter's Rock - e nota che l'ho pronunciato con l'apostrofo. Ho rintracciato il nome della strada dove si trovava la casa dei tuoi genitori e, in più, quando si stabilirono lì e quando se ne andarono. Presero la residenza il 9 luglio 1954, che credo fosse un
venerdì. Pagavano le tasse e facevano la loro vita. Tuo padre si guadagnava lo stipendio alla Golson Realty, tua madre lavorava part time in un negozio. Poco più di dieci anni dopo nascesti tu.» «Giusto,» dissi, chiedendomi dove stessimo andando a parare. Lui scosse la testa. «Sbagliato. Il County Hospital di Hunter's Rock non ha nessun atto di nascita in quella data col nome di Ward Hopkins.» Mi sembrò che il mondo avesse fatto un passo laterale. «Scusa?» «Inoltre non c'è traccia di tale documento neanche al General di Bonville o al James B. Nolan, o in qualsiasi altro ospedale nel raggio di quattrocento chilometri.» «Non ci potrebbe essere. Io sono nato al County. A Hunter's.» Scosse di nuovo la testa, con decisione. «No, non è così.» «Sei sicuro?» «Non solo sono sicuro, ma ho anche controllato i cinque anni precedenti e seguenti, giusto nell'eventualità che tu, per qualche motivo, avessi mentito sulla tua età, per vanità o perché non sai contare. Nessun Ward Hopkins. Nessun Hopkins con qualche altro nome. Non so dove tu sia nato, amico, ma è dannatamente certo che non fu a Hunter's Rock o nei dintorni.» Aprii la bocca come per parlare, ma la richiusi. «Magari non significa niente,» disse, e poi mi guardò con aria astuta. «Ma questo è in qualche modo in relazione con le tue necessità di digitalizzazione?» «Fammelo rivedere,» disse. «Onestamente non penso di poterlo sopportare, Bobby.» Alzò lo sguardo su di me. Era seduto, chino sul mio portatile, su una delle due sedie in dotazione alle stanze dell'albergo. Gli avevo appena fatto vedere i file MPEG, e pensavo vivamente di averli visti abbastanza per un giorno solo. Forse per una vita intera. «Credimi. Quello che vedi la prima volta è tutto quello che c'è.» «Okay. Allora fammi sentire il file audio.» Mi allungai, trovai il file e cliccai due volte su di esso. Lui ascoltò alcune volte la versione filtrata, poi la fermò da solo. Annuì. «Sembra proprio che dica 'Uomini di paglia'. E non hai idea di cosa potrebbe significare?» «Solo nel suo significato di 'prestanome', il che non sembra portare a nulla. Tu?»
Allungò la mano per afferrare il bicchiere. A quel punto eravamo in possesso di una bottiglia di Jack Daniel's mezza vuota. «L'unica altra cosa cui riesco a pensare è l'acquisto di paglia.» Annuii, ci avevo pensato anch'io. Si riferiva al meccanismo tramite il quale coloro che non possono comprare armi - per ragioni d'età, per precedenti condanne, o per mancanza di porto d'armi - sono in grado di entrarne in possesso. Tutto quello che dovete fare è andare in un negozio di armi con un amico che abbia i requisiti necessari. Trattate con il negoziante, trovate ciò che volete. Quando arriva il momento di pagare, allora il vostro amico - il compratore di paglia - è colui che materialmente tira fuori i soldi, fa l'acquisto. Il negoziante non dovrebbe lasciare che ciò accada, sapendo che sarete voi ad avere l'arma, ma molti di loro non si oppongono. Un affare è un affare. Una volta che siete fuori dal negozio, cosa gliene può fregare di cosa farete? A meno che non abbiate intenzione di andare a uccidere sua madre, lui se ne infischia. Naturalmente ci sono tantissime persone oneste e irreprensibili che vendono armi. Ma ce ne sono anche molte che pensano che ogni americano, ognuno di noi, comprese le signorine, dovrebbe essere equipaggiato fin dalla nascita con un'arma da fuoco, e non trovano nulla di strano nel fatto che questi piccoli, pesanti pezzi di meccanica siano dei semplici strumenti con i quali si può porre bruscamente fine alla vita di qualcuno, e pensano che le pistole non abbiano implicazioni morali, e che siano coloro che le usano ad avere il potere di renderle dannose. Gente con la pelle nera, principalmente, o bianchi drogati e buoni a nulla che noi in questo negozio non serviamo, nossignore. «Pensi sia questo?» «Sembra inverosimile,» ammise. «Anche se è successo qualcosa al riguardo negli ultimi anni. I federali e alcune città hanno tentato di dare un giro di vite, di individuare i venditori che erano troppo spudorati nell'agevolare queste persone. Una grossa percentuale di pistole in circolazione in città arrivano in quel modo sulle strade, attraverso ragazzi che le comprano all'ingrosso e le vendono ai perdigiorno. Ci sono un paio di casi ancora in sospeso, e penso che uno di questi sia stato esaminato un anno fa. Non mi ricordo come sia andata. In ogni caso non capisco come questo c'entri con i tuoi.» «Nemmeno io,» confermai. «Per quanto ne so, mio padre non possedette mai una pistola. Non mi ricordo neanche che si sia mai espresso in modo severo sull'argomento, ma quelli che sono a favore tendono ad avere un armadietto di pistole ben fornito. In più non ce lo vedo proprio.»
«Hai dato un'occhiata?» «Ho dato un'occhiata dove, Signor Grande Libro delle Frasi Brevi?» Alzò gli occhi al cielo. «In rete, naturalmente.» «Cristo, no. Internet mi piace. Sul serio. Ogni volta che ho bisogno di qualche porcheria shareware, che desidero sapere che tempo fa a Bogotà o guardare le immagini di una donna che se la spassa con un mulo, sono il primo a far ronzare il modem. Ma come fonte di informazioni fa schifo. Hai miliardi di dati che lottano per farsi sentire, vedere e scaricare, e qualsiasi cosa io desideri sapere sembra essere calpestata dalla folla. In un modo o nell'altro, ogni volta che cerco qualcosa in particolare, mi becco un messaggio di errore.» «Sei un fottuto lucidista, Ward.» Stava già connettendo il cavo telefonico. Lo lasciai fare, rimpiangendo di avere buttato via le sigarette nelle prime ore del mattino. Cinque minuti dopo scosse la testa. «Non ottengo niente con i principali motori di ricerca, niente con quelli minori, niente con un gruppo di bots specializzati che per caso conosco, compreso uno per entrare nel quale hai bisogno di un bel po' di autorizzazioni speciali.» «Questo è il web che fa per te. L'oracolo sordomuto con l'amnesia.» Non feci alcuno sforzo per fare finta di non averglielo detto. «Questo non significa che non ci sia niente. Vuol dire che se la parola compare in qualche sito, questo non è noto ai motori di ricerca.» «Bobby, non c'è motivo di pensare che lì ci sia qualcosa. È solo una frase, tre parole. Lascia un branco di scimmie sole abbastanza a lungo, e una di esse te le scriverà molto prima di riuscire a venire a capo del Macbeth. Ma questo non significa che sarà in grado di mettere su un HTML, e agganciarlo a un server con qualche messaggio pubblicitario e un contatore per il numero di visitatori del sito - e anche se lo facesse, perché mai questo dovrebbe essere in relazione con quello che c'è sul nastro?» «Hai qualche idea migliore?» «Sì,» risposi deciso. «La bottiglia sta finendo, sono stanco e ho bisogno di bere molto di più.» «Quello lo faremo dopo.» «Dopo cosa? Hai già visto che lì non c'è niente.» Bobby tamburellò per un po' con le unghie sul tavolo, strizzando gli occhi in direzione delle tende. Mi sembrava quasi di sentire il suo cervello che lavorava. Ero annoiato e il whisky mi rendeva la testa pesante e fredda. L'eccessivo numero di nuove scoperte degli ultimi due giorni mi stava fa-
cendo dimenticare tutto quello che sapevo. «Ci deve essere qualcos'altro in casa,» disse lui alla fine. «Qualcosa che ti è sfuggito.» «Solo se era nascosto in una fottuta lampadina. Ho rivoltato il posto. Non c'è nient'altro.» «Cambia tutto quando sai cosa stai cercando,» disse. «Pensavi di dover trovare un altro biglietto. Così hai cercato quello. Questa era la griglia che avevi. Ti è capitato di pensare al video solo per caso.» «No,» dissi. «Mi è venuto in mente perché la casa era stata sistemata con quell'intento. Penso che mio padre abbia avuto qualche problema a...» Non terminai la frase. Mi alzai e frugai nella borsa del portatile. «Cosa?» «Ho trasferito il suo hard disk su un disco Zip. E l'unico posto, se così si può chiamare, dove non ho ancora guardato.» Mi rimisi a sedere vicino a Bobby e infilai la piccola cartuccia nel computer. Non appena fu montato, mi comparve sullo schermo la finestra Trova e digitai «uomini di paglia». Premetti Invio. La macchina frinì e ronzò per un po'. NESSUN OGGETTO TROVATO. Provai solo con «paglia». Stesso risultato. «Bene, questo è quanto,» dissi. «Il bar mi aspetta.» Mi alzai, pensando che lui avrebbe fatto lo stesso. Invece aprì un'altra finestra Trova. «Cosa fai ora?» «Dico a Trova di fare un indice dei contenuti di tutti i file di testo sul disco,» rispose. «Se questa cosa della paglia è qualcosa di grosso, allora ha un senso che non compaia alcun file con quel nome. Forse vorresti fosse meno ovvio di così. Ma potrebbe comparire dentro uno dei file.» Aveva un senso, dunque aspettai. Lo Zip aveva un tempo di accesso ridotto, e il processo richiese solo un paio di minuti. Quindi ci comunicò che non c'era alcun testo. Bobby imprecò. «Perché diavolo non ha lasciato semplicemente una lettera o qualcosa di simile per dire quel che cazzo voleva?» «Mi sono già posto questa domanda un miliardo di volte e la risposta è che non lo so. Andiamo.» Ancora non si alzava. «Senti,» dissi. «Lo so che lo stai facendo per me e te ne sono grato. Ma nelle ultime ventiquattro ore ho scoperto che o i miei genitori erano pazzi e che una volta avevo un gemello, oppure che erano ancora più pazzi e finsero che ce l'avessi. Sono giorni che non mangio, mi
sono stupidamente fumato una sigaretta stamattina e ora ne vorrei altre cento e ci vuole tutta la mia energia mentale per resistere. Non riesco più a stare qui, vado al bar.» Lui si voltò verso di me, ma il suo sguardo era distante. Gli avevo già visto quell'espressione. Significava che non stava affatto ascoltando quello che dicevo, e non lo avrebbe fatto fino a che non avesse terminato il suo ragionamento. «Ci vediamo giù,» dissi, e me ne andai. 11 Ricordo che da giovane mi sentivo orgoglioso perché le zanzare non mi pungevano. Quando andavamo in vacanza nella zona giusta, o andavo in gita scolastica nella stagione sbagliata, mi accorgevo che la maggior parte delle persone si ritrovava coperta di piccoli bozzi rossi che prudevano da matti - indipendentemente dalle creme, spray o retine che utilizzavano. A me non succedeva. Forse mi avranno punto una volta, sulla caviglia. È strano essere orgogliosi di una cosa simile, penserete, ma sapete com'è quando si è giovani. Quando vi accorgete di non essere al centro dell'attenzione, siete così desiderosi di trovare un motivo concreto per distinguervi dagli altri che andrebbe bene qualsiasi cosa. Io ero il ragazzo che non veniva punto dagli insetti. Prendete nota, signore e signori, e portate un po' di rispetto: ecco che arriva il Ragazzo Senza-Punture, il Bambino AntiZanzare. Poi, un giorno, intorno ai trent'anni, mi accorsi di essermi sbagliato. Avevo le stesse probabilità di chiunque altro di essere punto. L'unica differenza era che io non avevo una forte reazione allergica, quindi non mi venivano i bozzi. Ero ancora «speciale», anche se non nella maniera che avevo pensato, pur essendo abbastanza adulto per capire che non era un granché come caratteristica distintiva, e al contempo per sperare di non essere, in realtà, poi così diverso dalle altre persone. Mi pungevano come accade a tutti voi, e il Ragazzo Senza-Punture ogni tanto veniva sconfitto. Mentre ero seduto al bar ad aspettare Bobby, trovavo difficile cancellare questo ricordo. La mia famiglia, la mia vita, erano diventate all'improvviso qualcosa di incomprensibile. Era come se mi fossi accorto di aver visto, durante la mia esistenza, sempre gli stessi edifici sullo sfondo, ovunque io fossi, e alla fine avessi cominciato a domandarmi se mi trovassi su un set cinematografico. In realtà, avevo visto sempre gli stessi edifici. Dopo l'esperienza con l'Agenzia, non ero mai più riuscito realmente a condurre una
vita sui binari tradizionali, e l'aver visto Bobby me lo aveva fatto capire ancora più intimamente di prima. Avevo fatto un po' di tutto. Avevo vissuto in motel, ristoranti e aeroporti regionali, parlando con stranieri, leggendo cartelli scritti per tutti e non solo per me. Intorno a me c'erano persone che sembravano essere soddisfatte delle loro vite, e che assomigliavano ai tizi che si vedono in televisione. Erano inseriti in un contesto, parte di una storia che aveva i soliti ritmi. La mia, invece, sembrava non averne. La sezione «queste sono le tue origini» era stata drasticamente cancellata, lasciando un imprecisato numero di pagine bianche. Il mio barman era in servizio, e dette ancora una volta dimostrazione di essere un alleato capace ed efficiente. Il nostro rincontrarci aveva un aspetto di déjà vu con il «precedente incidente», e lui lo palesò immediatamente. «Ha intenzione di tirare fuori la pistola dopo?» «No, se mi dai delle noccioline.» Me ne portò un po'. Decisi che era un buon barman. Non c'era traccia degli androidi della società, e gli unici altri ospiti costituivano un quartetto molto anziano nell'angolo. Quando entrai mi guardarono severamente. Non li biasimavo. Quando arriverò alla loro età, proverò anch'io risentimento nei confronti dei giovani. Lo provavo già, infatti, per quegli stronzetti magri con il viso acqua e sapone. Non trovo affatto strano che i matusa siano così bizzarri e scontrosi. La metà dei loro amici è morta, si sentono delle merde per la maggior parte del tempo, e il prossimo grande avvenimento della loro vita sarà anche l'ultimo. Non hanno neanche il conforto di credere che l'andare in palestra migliorerà le cose, che incontreranno qualcuno di attraente nelle ore piccole di un venerdì notte, o che la loro carriera avrà un'impennata, e finiranno con lo sposare una star del cinema. Loro sono fuori da tutto questo, su una grigia pianura fatta di dolori, di vista difettosa e di brividi alle ossa, senza nient'altro da fare se non guardare i loro figli e nipoti andare per la loro strada e fare tutti gli errori dai quali loro li avevano messi in guardia. Io non li biasimo perché sono un po' imbronciati. Sono semplicemente sorpreso che non ci sia un numero maggiore di anziani che si riversino in branchi sulle strade, bestemmiando, facendo un putiferio e ubriacandosi. Con gli indici demografici che vanno come stanno andando, probabilmente sarà questa la prossima grande novità: bande di ottuagenari che si drogano e corrono in giro in preda a furia sanguinaria. Anche se credo sia più verosimile che camminino in preda a raptus omicida, e do-
po un'ora di furiosa pennichella pomeridiana. Passato qualche minuto, il gruppo nell'angolo sembrò convincersi che non stessi per cominciare a suonare uno strumento musicale d'avanguardia, o a sfidare i costumi sessuali convenzionali. Continuarono a farsi gli affari loro, e io i miei: coesistevamo, due specie che condividevano con cautela lo stesso abbeveratoio. Quasi due ore dopo Bobby entrò di gran carriera. Mi scorse accasciato nel mio séparé e si diresse verso di me, facendo segno al barman di portare altri due di qualsiasi cosa stessi bevendo io. «Lo sai che hai proprio un'espressione di merda?» Aveva un'aria strana. «In una scala da uno a dieci,» dissi con disinvoltura, «mi darei un sei.» «Bene,» disse. «Ho trovato qualcosa, o quasi.» Sentendomi improvvisamente nervoso, mi tirai su e vidi che teneva in mano un piccolo plico di fogli. «Ho dovuto chiedere alla reception di lasciarmi usare la loro stampante,» disse. «Dove diavolo sono i drink?» In quel momento arrivò il barman a portarli. «Spara anche lui?» domandò. «Oh no,» dissi. «Basto io.» E risi per un po'. Sono sicuro che stessi ridendo. Il barman se ne andò mentre Bobby attese pazientemente che io riacquistassi il controllo. Ci volle un po', e penso che per un momento fui sul punto di perderlo. «Okay,» dissi alla fine. «Parla.» «Per prima cosa ho dato un'altra occhiata in rete. Ancora una volta nessun documento riguardante gli Uomini di paglia come una cosa reale, ma ho trovato dei riferimenti enciclopedici ad altri significati dell'espressione 'uomo di paglia', relativi alla mancanza di coscienza - penso sia una cosa come la verità contro la menzogna -, e anche qualcosa riguardo a dei tizi che nel secolo scorso sarebbero stati fuori dai tribunali con la paglia nelle scarpe - in realtà non ho capito molto questa parte - a significare che avrebbero testimoniato il falso in cambio di denaro.» «In altre parole, dei prestanome dell'illegalità,» dissi. «Come abbiamo già detto. E allora?» «Poi ho cercato sull'hard disk,» disse, ignorando la mia osservazione. «Ho fatto una scansione a livello inferiore, ho frugato nei file nascosti, nelle partizioni, ovunque. Niente. Poi ho guardato nel software, in cui non c'è granché.» «Papà non era un fanatico del computer,» dissi. «Per questo non mi sono
preoccupato di cercare su quello a casa.» «Giusto. Ma usava la rete.» Alzai le spalle. «E-mail, occasionalmente. In più aveva un sito per il suo lavoro, anche se era qualcun altro a occuparsene. Ogni tanto andavo a dargli un'occhiata.» In qualche modo mi era sembrato più semplice che prendere il telefono e chiamarli. Da quando avevo lasciato il college, loro non avevano mai saputo realmente cosa io facessi. Sicuramente ignoravano le ragioni per le quali non avevo finito gli studi, o per chi fossi andato a lavorare. I miei genitori non avevano mai dato l'impressione di essere impegnati politicamente, ma negli anni Sessanta avevano preso parte alle contestazioni, come aveva più che chiaramente confermato il video che avevo trovato. Se si prende parte all'Estate dei Pantaloni Idioti, allora si è sposato un certo modo di pensare. Non gli sarebbe andato molto a genio scoprire che loro figlio stava lavorando per la CIA. Gliel'avevo nascosto, non accorgendomi che questo significava nascondergli tutto il resto. Ora, naturalmente, mi sembrava un po' ridicolo, visti i loro segreti. Bobby scosse la testa. «Sul suo disco fisso c'erano Explorer e Netscape, ed è evidente che li usasse molto entrambi. Aveva un enorme cache, e circa un fantastiliardo di segnalibri in ognuno.» «Per che genere di cose?» «Scegli tu. Referenze. Storie online. Sport.» «Niente porno?» Sorrise. «No.» «Grazie a Dio.» «Li ho esaminati uno a uno. Anche quelli che sembravano insignificanti, giusto nel caso in cui avesse rinominato il segnalibro per nascondere quello cui il link realmente conduceva.» «Sei subdolo,» dissi. «L'ho sempre sostenuto.» «Lo era anche tuo padre. Infatti, ne ha rinominato uno, nascosto in una cartella di centosessanta segnalibri riguardanti quelli che posso considerare solamente come gli aspetti più noiosi del business immobiliare. Era nominato 'Lotti Mizner/Intercoastal venduti recentemente'. Ti dice qualcosa?» «Addison Mizner era un architetto immobiliare degli anni Venti e Trenta. Costruì un gruppo di proprietà di prestigio a Miami, Palm Beach. Ville in stile italiano. Molto ricercate e assurdamente costose.» «Okay, conosci cose stravaganti, ma il link non portava a un sito riguardante terreni o case, bensì a una pagina vuota. Così ho pensato, merda, un vicolo cieco. Mi ci è voluto qualche minuto per accorgermi che in realtà la
pagina era ricoperta da una grafica trasparente che aveva una mappa nascosta. Quando sono riuscito a capirlo, mi sono ritrovato a scorrere un altro gruppo di pagine con alcuni link piuttosto strani.» «In che senso strani?» Scosse la testa. «Strani e basta. Le solite homepage, complete di eccessivi dettagli, punteggiatura errata, e un uso di colori acidi, ma tutto il materiale sembrava di scarso valore. C'era qualcosa di sospetto, quasi che fossero artefatte.» «Perché qualcuno dovrebbe costruire delle homepage fasulle?» «Beh,» disse, «è quello che mi sono chiesto. Ho seguito la maggior parte dei link fino a un vicolo cieco e a un messaggio di errore. Ma la traccia proseguiva, in mezzo a paginate di link - e su ogni pagina solo uno dei collegamenti sembrava portare più avanti. Poi ho cominciato a incontrare delle password. All'inizio roba semplice in Java che sono riuscito a superare da solo utilizzando alcune chicche che ho trovato nascoste sul tuo disco. Tra parentesi, hai bisogno di più RAM. Quel fottuto computer mi si è inchiodato quasi cinque volte. Poi - e spero non ti dispiacerà se ho fatto alcune interurbane dalla tua stanza - ho richiesto l'aiuto di alcuni amici che se ne intendono. Ho dovuto utilizzare grafica vettoriale, backdoor di UNIX e stronzate del genere. Qualcuno che sapeva il fatto suo ha messo su una bella cortina fumogena.» «Ma qual è il punto?» dissi. «Sicuramente chiunque potrebbe semplicemente mettere nell'elenco dei Preferiti il sito finale, qualunque sia, e andarci direttamente la volta successiva. Perché giocherellare costruendo un pista di carta quando tutto lo scopo del web è l'accesso non lineare?» «La mia ipotesi è che l'indirizzo di destinazione cambi regolarmente,» disse Bobby. «Comunque, alla fine, sono arrivato in fondo.» «E cosa c'era?» «Niente.» Lo fissai. «Puoi ripetere?» «Niente. Non c'era niente lì.» «Bobby,» dissi, «mi stai raccontando un sacco di cazzate. Cosa significa, 'niente'?» Spinse verso di me il plico di fogli. La prima pagina era vuota se escludiamo una piccola frase centrata in mezzo alla pagina. Diceva: NOI CI ERGIAMO. «Questo è tutto,» disse. «Una serie di sotterfugi superabili con due ore di lavoro per nascondere una pagina senza link e con solo tre parole. Gli altri
fogli sono solo tabulati del percorso che ho fatto per giungere fino a lì, compresi alcuni dei trucchi utilizzati. In più ho preso l'indirizzo IP della pagina finale e l'ho rintracciata.» La maggior parte degli indirizzi web sono noti in un formato che, anche se non è tanto facilmente pronunciabile, almeno può essere compreso. In realtà, i computer che lavorano in Internet li considerano come puri indirizzi numerici - 118.52.1.54, per esempio. Utilizzando l'indirizzo IP sotto questa forma più elementare si può rintracciare la pagina fino a un'approssimativa posizione geografica. «E dove si trovava?» «In Alaska,» rispose. «In che punto? Anchorage?» Scosse la testa. «Semplicemente Alaska. Poi Parigi. Poi la Germania. Poi la California.» «Di cosa stai parlando?» «Si muoveva. Continuava a mandare segnali dappertutto, e non penso affatto che sia mai stato realmente in uno di essi. Era un segnale fantasma. Non sono il Principe degli Hacker, ma so quello che faccio e non ho mai visto nulla del genere. Ci sono un paio di miei amici che ci stanno lavorando sopra, ma in ogni caso, sta succedendo qualcosa di strano.» «Puoi dirlo forte, cazzo.» «Sicuramente non quello che sta accadendo a te. Questo genere di cose è il mio lavoro e devo scoprire come fanno.» Prese un lunga sorsata del suo drink e mi guardò con aria seria. «E tu che mi dici? Cosa hai intenzione di fare ora a parte ubriacarti?» «Ci sono tre filmati sul nastro. Riguardo all'ultimo non posso fare nulla, per trovare... l'altro bambino.» Avevo avuto l'impulso di dire «il mio gemello», ma all'ultimo momento l'avevo evitato. «Non ho idea di quale città fosse, e comunque è accaduto più di trent'anni fa. Lui o lei potrebbe essere da qualsiasi parte del mondo, oppure morto. Il secondo spezzone non sembra portare da nessuna parte. Quindi mi dedicherò a cercare il posto tra le montagne.» «Ottima idea,» disse. «E io ti darò una mano.» «Bobby...» Scosse la testa. «Dai Ward, non fare lo stronzo. Lo sai che i tuoi genitori non sono morti affatto in un incidente.» Era quello che pensavo anch'io, e già da un po', anche se non avevo lasciato che questa idea sedimentasse, che mi comparisse davanti a chiare
lettere. Lo fece Bobby per me. «Sono stati uccisi.» 12 Nina era seduta con Zoë Becker in cortile. La serata era fredda e lei rimpiangeva di non aver accettato il tè che le era stato distrattamente offerto. Zandt, che aveva già parlato con la donna ed era stato nella stanza della figlia, adesso era dentro insieme al marito. Nessuno dei Becker era sembrato sorpreso di vedere alla loro porta due investigatori, anche così tardi di sera. Le loro vite erano già talmente lontane dalla realtà che erano preparati ad accettare qualsiasi cosa. Le due donne parlarono per un po' a intervalli, ma presto scivolarono nel silenzio. Zoë si guardava il piede mentre questo andava su e giù in fondo alla sua gamba accavallata. O almeno questa era la direzione verso cui era orientato il suo sguardo. Nina non pensava che guardasse qualcosa in particolare, ma che piuttosto fluttuasse in un vuoto nel quale il movimento del suo piede era un evento insignificante come qualsiasi altro. Era contenta del silenzio, perché sapeva qual era l'unica cosa di cui la donna voleva parlare. Sua figlia era viva o morta? Nina pensava che sarebbero riusciti a riportarla a casa? O d'ora in poi, in questa casa alla cui sistemazione Zoë aveva dedicato così tanto tempo, ci sarebbe sempre stata una stanza vuota e silenziosa, che si sarebbe oscurata fino a trasformarsi in un nero cristallo al centro delle loro vite? Sulla parete di quella stanza c'era un poster di una band di cui nessun altro di loro aveva mai sentito parlare se non di sfuggita. Che significato poteva avere adesso? Nina non aveva alcuna risposta a questa e ad altre simili domande, e quando la donna sembrò in procinto di parlare lei alzò lo sguardo con timore. Invece si accorse che Zoë stava piangendo, esauste lacrime che non sembravano essere né l'inizio né la fine di nulla. Nina non allungò la mano in cerca della sua. Alcune persone accettano conforto dagli sconosciuti, altre no. Mrs. Becker faceva parte di queste ultime. Invece si appoggiò allo schienale della sedia e rivolse lo sguardo, attraverso la porta-finestra, verso il salotto. Michael Becker era seduto sulla punta di una poltrona e Zandt stava in piedi dietro di lui. Nina aveva passato l'intera giornata con Zandt e non gli aveva sentito pronunciare più di cinque frasi che non avessero a che fare con il caso. Di mattina presto, prima che cominciasse l'affollamento dello shopping, avevano fatto insieme un sopralluogo nella zona del rapimento. Avevano visitato la scuola di
Sarah Becker, così che Zandt si potesse rendere conto di come fosse inserita nell'ambiente circostante. Aveva studiato le visuali, i punti di accesso, le zone dove qualcuno avrebbe potuto attendere, in cerca di amore. Aveva impiegato molto tempo in queste osservazioni, come se ritenesse di potersi imbattere in una nuova prospettiva che gli avrebbe permesso di scorgere l'ombra di un uomo nella luce del giorno. Quando se ne erano andati lui era nervoso. Non avevano incontrato nessuna delle famiglie dei precedenti omicidi dell'Homo Erectus. Avevano le trascrizioni degli interrogatori originali, ed era altamente improbabile che ci fosse qualcosa di nuovo da scoprire. Nina sapeva che Zandt conosceva a memoria tutti i loro interrogatori e avrebbe potuto dire lui ai famigliari cose che essi stessi avevano dimenticato. Parlare con loro avrebbe solo confuso le cose. Dentro di sé era convinta che se Zandt fosse stato in grado di condurli più vicini al killer, sarebbe stato più per merito del suo intuito che della conoscenza dei fatti. Nina aveva anche un'altra ragione per tenere lontano Zandt dalle famiglie. Non voleva che qualcuno dei parenti fosse incoraggiato a tal punto da chiamare la polizia o il Bureau per verificare come stesse procedendo l'indagine. Nessuno sapeva che lei avesse nuovamente coinvolto John Zandt nel caso. Se fosse venuto fuori, sarebbe successo il finimondo. Questa volta non sarebbe stata solo una questione disciplinare: sarebbe stata la fine della sua carriera. Permettergli di parlare con i Becker era invece un rischio che lei doveva correre. I due coniugi avevano visto così tanti poliziotti e federali dal giorno della sparizione che era improbabile che ne potessero ricordare uno in special modo, o che ne facessero menzione con qualcun altro. O almeno così sperava. Sperava anche che qualsiasi cosa si stessero dicendo i due uomini, questo potesse far accendere la lampadina nel cervello di Zandt. E che, se fosse successo, lui gliel'avrebbe detto. «Ricomincio da capo se vuole.» Michael Becker aveva già raccontato due volte i suoi spostamenti, rispondendo velocemente e in breve alle domande. Zandt sapeva che l'uomo non poteva dirgli niente di utile. Capì anche che, nelle settimane precedenti la scomparsa, Becker era stato così preso dal suo lavoro che avrebbe notato a stento qualcosa che riguardasse il mondo esterno. Scosse la testa. Becker abbassò improvvisamente lo sguardo verso il pavimento e mise la testa tra le mani. «Non ha qualcos'altro da chiedere? Ci deve essere
qualcos'altro. Ci deve essere qualcosa.» «Non c'è nessuna domanda magica. O, se c'è, non so quale possa essere.» Becker alzò lo sguardo. Questo non era il genere di cose che gli altri poliziotti gli avevano detto. «Pensa sia ancora viva?» «Sì,» disse Zandt. Becker fu sorpreso dalla sicurezza che il volto del poliziotto esprimeva. «Tutti gli altri si comportano come se Sarah fosse già morta,» disse. «Non lo dicono, ma lo pensano.» «Si sbagliano. Per ora.» «Perché?» La voce era asciutta, la respirazione irregolare, come quelle di un uomo colto nel suo desiderio di una speranza estrema. «Quando un killer di questo tipo dispone di una vittima, di solito nasconde il corpo e fa quel che può per confonderne l'identità. In parte solo per rendere tutto più difficile alla polizia. Ma anche perché molte di queste persone cercano di celare le loro attività a loro stessi. Le tre vittime precedenti furono ritrovate in luoghi all'aperto, indossavano i resti dei loro abiti e avevano ancora i loro effetti personali. Quest'uomo non si sta nascondendo da nessuno. Lui voleva che noi sapessimo chi erano, e che con loro aveva finito. Finire implica un periodo nel quale lui ha bisogno che loro siano vive.» «Ha bisogno...» «Solo una delle precedenti vittime subì violenza sessuale. A parte ferite secondarie alla testa, le altre non mostravano alcun abuso, eccezion fatta per la rasatura della testa.» «E il loro omicidio, naturalmente.» Zandt scosse la testa. «L'omicidio non è un abuso in questo tipo di situazione. L'omicidio è ciò che vi pone fine. I medici legali possono solamente dimostrarlo, ma questo ci suggerisce che tutte le ragazze rimasero in vita per oltre una settimana dopo i loro rapimenti.» «Una settimana,» disse l'uomo sconsolato. «Sono già passati cinque giorni.» Zandt non rispose immediatamente. Durante l'interrogatorio, i suoi occhi avevano esplorato la maggior parte degli angoli della stanza, ma adesso vedeva qualcosa che prima non aveva notato. Una piccola pila di libri di scuola, su una console. Presupponevano studi troppo avanzati per appartenere alla figlia più giovane. A questo punto si accorse che l'altro lo stava guardando. «Ne sono consapevole.»
«Sembrava che avesse un altro motivo per dirlo.» «Semplicemente non credo che l'abbia già uccisa.» Becker rise in maniera sgradevole. «Non crede? Tutto qui? Oh bene. Questo è molto rassicurante.» «Non è mio compito rassicurarla.» «No,» disse Becker, bianco in volto. «Suppongo di no.» Rimasero in silenzio per alcuni secondi, poi aggiunse: «Queste cose accadono realmente, vero?» Zandt sapeva cosa intendeva dire: che certi eventi, dei quali la maggior parte della gente viene a conoscenza solamente leggendo i giornali o guardando la tv, possono realmente accadere. Cose come la morte improvvisa, il divorzio e le lesioni alla spina dorsale; come il suicidio, la dipendenza dalle droghe, e persone dall'aria triste che, disposte in cerchio, ti guardano steso a terra e mormorano «Il guidatore non si è fermato». Sì, accadono. Sono reali come la felicità, il matrimonio, e il calore del sole che picchia sulla schiena, e svaniscono molto più lentamente. Potresti non tornare più alla vita che avevi prima. Potresti non essere uno dei fortunati. Potrebbe semplicemente andare avanti, sempre avanti. «Sì,» rispose. Senza che l'altro lo vedesse, toccò la copertina di uno dei libri scolastici, passando il dito sulla sua superficie ruvida. «Quante possibilità pensa ci siano di riaverla?» La domanda era posta semplicemente, con voce ferma, e Zandt lo ammirò per questo. Si allontanò dal tavolo. «Dovete pensare di non averne affatto.» Becker apparve scosso, e tentò di dire qualcosa, ma non ci riuscì. «Centinaia di persone, ogni anno, vengono uccise da uomini come questi,» disse Zandt. «Forse di più. Solo in questo paese. Quasi nessuno degli assassini viene preso. Facciamo un gran baccano quando ci riusciamo, come se avessimo rimesso la tigre nella sua gabbia. Ma non l'abbiamo fatto. Ogni mese ne salta fuori uno nuovo. I pochi che catturiamo o sono sfortunati, o stupidi, o sono stati portati al punto in cui cominciano a commettere degli errori. La maggioranza non viene mai presa. Questi uomini non sono aberrazioni. Sono una parte di noi. È come in tutte le cose. Sopravvive il migliore, il più intelligente.» «Il Ragazzo delle consegne è intelligente?» «Non è quello il suo nome.» «È così che lo chiamavano, prima, i giornali e i poliziotti.» «Si chiama Homo Erectus, ed è lui stesso a definirsi in questo modo. Sì,
è intelligente. Questo può essere quello che lo farà sbagliare. È molto desideroso di farsi ammirare da noi. Dall'altro lato...» «Potrebbe semplicemente non essere catturato, e finché non lo troverete noi non rivedremo mai Sarah.» «Se la rivedrete,» disse Zandt, rimettendo il taccuino e la penna in una tasca interna, «sarà un dono del cielo e voi dovrete accoglierlo come tale. Nessuno di voi sarà più lo stesso. Questo non è da intendersi necessariamente in negativo, ma è vero.» Becker si alzò. Zandt pensò di non aver mai visto un uomo che sembrasse allo stesso tempo così stanco e così incapace di dormire. Lui non lo sapeva, ma Michael Becker stava pensando di lui la stessa cosa. «Ma continuerete a tentare?» «Farò tutto ciò che posso,» disse. «Se sarò in grado di trovarlo, lo farò.» «Allora perché mi ha detto di pensare al peggio?» Ma in quel momento dalla porta-finestra entrò sua moglie, seguita a ruota dall'agente dell'FBI, e il poliziotto non disse più nulla. Nina ringraziò i Becker per la loro disponibilità, e promise che li avrebbe tenuti informati. Cercò inoltre di sottintendere che la loro visita era stata una formalità, priva di una diretta rilevanza sul corso dell'indagine. Michael Becker li osservò mentre si allontanavano lungo il sentiero. Non richiuse la porta una volta che furono scomparsi, ma rimase un momento a scrutare nella notte. Avvertì, dietro di sé, i passi di Zoë che saliva le scale per andare a controllare Melanie. Dubitava che la sua secondogenita stesse dormendo. Gli incubi di un anno fa stavano riaffiorando, e non poteva biasimarla. Anche le poche ore di sonno diventavano per lui un nemico. Sapeva che lei stava ancora usando la formula magica che lui le aveva scritto, e questa consapevolezza lo riempì di orrore. L'ironia non serviva a proteggersi, nonostante quello che lui, Sarah e i registi dei moderni film d'orrore potessero pensare. In una distesa di sangue e ossa, l'ironia non serve a nulla. Si ricordava di aver discusso con Sarah delle paure notturne, diversi anni prima. Era sempre stata una bambina curiosa e aveva chiesto perché la gente ha paura del buio. Lui le disse che era un retaggio dei tempi in cui eravamo uomini primitivi, e dormivamo all'aperto o nelle caverne, e gli animali selvaggi potevano venire a ucciderci nel cuore della notte. Sarah non era sembrata convinta. «Ma questo è stato tantissimo tempo fa,» aveva detto. Aveva pensato per un po' prima di aggiungere, con la rigorosa certezza dei suoi dieci anni: «No. Dobbiamo essere spaventati da
qualcos'altro.» Ora Michael pensava che lei avesse ragione. Non sono i mostri quelli di cui dobbiamo aver paura. I mostri erano solo una fantasia confortante. Noi conosciamo quello di cui sono capaci i nostri simili. Siamo spaventati da noi stessi. Alla fine richiuse la porta e andò in cucina, dove fece il caffè, un gesto che era diventato un rito di questo momento della serata. Avrebbe portato la caffettiera in salotto su un vassoio, insieme a due tazze e a una brocca di latte caldo. Forse uno o due biscotti, che era quanto Zoë sembrava desiderasse mangiare. Sarebbero rimasti seduti davanti a qualsiasi programma la televisione avrebbe avuto da offrire, in attesa che il tempo passasse. I vecchi film erano i migliori. Qualcosa proveniente da un'altra epoca, da prima che Sarah nascesse e che questo incubo diventasse realtà. Avrebbero parlato anche un po', di tanto in tanto, ma, solitamente, sarebbero rimasti in silenzio e Zoë avrebbe tenuto il telefono accanto a sé. Mentre prendeva due tazze dalla nuova credenza - pino stagionato, importato dall'Inghilterra dopo il loro recente viaggio - Michael ripensò alle cose che aveva detto il poliziotto, analizzando ogni singola frase. Si rese conto che, per la prima volta dopo il rapimento, sentiva qualcosa che doveva essere un piccolo filo di speranza. Al mattino seguente sarebbe scomparso, ma diede il benvenuto alla temporanea tregua. Lo sentì perché pensava di avere capito quello che era rimasto sottinteso, che le cose dette dal poliziotto erano meno importanti di quelle che non aveva detto. La donna aveva mostrato il distintivo da investigatore, ma il nome dell'uomo non era mai stato fatto. Con la dedizione di chi crede nella magia delle parole e che gli eventi possano essere conquistati delimitandoli con esse, Michael Becker aveva letto quanto più aveva potuto riguardo i precedenti crimini dell'uomo che si era preso sua figlia. Tramite Internet aveva trovato le copie degli articoli di giornale, anche una copia di uno scadente libro da supermercato sui delitti irrisolti. Aveva fatto questo a scapito, tra le altre cose, del suo lavoro. Non metteva mano a «Dark Shift» dalla notte della scomparsa. Dentro di sé riteneva improbabile di riuscire più a lavorarci, nonostante il suo partner fosse ancora all'oscuro di questo e continuasse a riprogrammare l'incontro con lo studio di produzione. Wang aveva i soldi, e i suoi contatti sembravano inesauribili. Era ben introdotto in città e in una maniera a cui Michael non avrebbe mai potuto nemmeno aspirare. Sarebbe sopravvissuto. Nella sua ricerca Michael aveva appreso, o gli era stato ricordato, che,
oltre alla ragazza dei LeBlanc, a Josie Ferris e ad Annette Mattison, un'altra ragazza era scomparsa all'incirca nello stesso periodo. Era la figlia di un poliziotto che era stato coinvolto nella cattura di due precedenti serial killer. Erano state fatte varie ipotesi, non ufficiali, che fosse stata scelta per vendetta, una punizione per i successi del padre. Lui era stato coinvolto nell'indagine sulla sparizione della ragazza, nonostante il parere contrario dell'FBI, e almeno un giornale aveva insinuato che lui stesse compiendo tangibili progressi dove gli altri stavano chiaramente fallendo. Alla fine era semplicemente scomparso dalla scena. Il nome del poliziotto era John Zandt. Michael aveva ragione di credere che il Ragazzo delle consegne non fosse stato catturato. Una retrospettiva pubblicata un anno dopo aveva riportato la notizia che Mrs. Jennifer Zandt era ritornata in Florida per stare vicina alla sua famiglia. Il giornalista non era stato in grado di scoprire cosa ne fosse stato del detective. Michael pensò che questa sera lui e sua moglie dovessero parlare, indipendentemente da quello che avrebbero trasmesso in televisione. Le avrebbe detto quello che lui pensava riguardo l'uomo che era venuto a parlare con loro, e avrebbe suggerito che, quando si fossero presentati alla porta altri uomini e donne della polizia, i benintenzionati con i quali loro ora condividevano una tragica familiarità, non avrebbero dovuto menzionare la visita di questa sera. C'era ancora una cosa. Anche se la sua fiducia nelle parole era stata profondamente indebolita, si aggrappò alla convinzione che queste, insieme ai nomi, fossero per la realtà ciò che le colonne e l'architettura erano per lo spazio. La rendevano umana. Proprio come il DNA trasforma delle molecole sparse in qualcosa di riconoscibile, il linguaggio può domare i fenomeni inspiegabili e ricondurli a situazioni per le quali si possa dire e, quindi, fare qualcosa. Non avrebbe più pensato al Ragazzo delle consegne. Lo avrebbe chiamato l'Homo Erectus. Ma nel frattempo avrebbe pensato al peggio. Il poliziotto aveva ragione. Oltre a ciò, Michael Becker capì che quello era ciò che Sarah avrebbe voluto. Maledetto Nokkon Wud. Se gli dèi esigevano un tributo simile, allora potevano andare a farsi fottere. Stavano seduti nel dehor dello Smorgas Board, una combinazione tra un caffè e un ritrovo per surfisti circa dieci metri più avanti lungo la strada dove la giovane Becker era stata rapita. Si trovavano lì da un'ora, e il loca-
le stava per chiudere. Gli unici altri clienti, distanti da loro un paio di metri, erano una giovane coppia di fannulloni stravaccati a un tavolino, che sorseggiavano svogliatamente qualcosa da grosse tazze. «Stai pensando, o ti guardi semplicemente intorno?» Zandt non rispose subito. Stava seduto di fianco a Nina e osservava la strada. Non si era praticamente mosso. Il suo caffè era freddo. Aveva solo acceso una sigaretta, la maggior parte della quale si era consumata inosservata. La sua attenzione era focalizzata totalmente da un'altra parte. A Nina faceva venire in mente un cacciatore, anche se non necessariamente appartenente al genere umano. Un animale pronto e capace di sedersi, aspettare, per il tempo necessario, senza che noia, rabbia, o dolore lo distraessero. «Non tutti tornano indietro,» disse lei, seccata. «Lo so,» rispose lui immediatamente. «Non lo sto cercando.» «Stronzate.» Lei rise. «Se non è così, allora ti è preso un colpo.» Lui sorrise e questo la sorprese. «Sto pensando.» Lei incrociò le braccia. «Ti dispiacerebbe rendermi partecipe?» «Sto pensando a che grossa perdita di tempo è questa, e mi chiedo perché mi hai portato qui.» Nina capì che quello di prima non era stato un vero sorriso. «Perché pensavo saresti stato in grado di dare un aiuto,» disse. Sentendosi a disagio, lei si aggiustò sulla sedia. «John, che significa? Tu sai il perché. Perché mi hai già aiutato prima, perché apprezzo i tuoi consigli.» Lui sorrise di nuovo, e questa volta lei tremò sul serio. «Che cosa ho ottenuto l'ultima volta?» «Non lo so,» confessò lei. «Dimmelo tu. Cosa è successo?» «Lo sai cosa è successo.» «No, non lo so,» disse, improvvisamente alterata. «Tutto quello che so è che tu mi dicesti che stavi giungendo a qualcosa. E improvvisamente cominciasti a diventare riservato non dicendomi più nulla, nonostante il fatto che fino ad allora avessi fatto affidamento su di me perché ti mettessi a disposizione la roba dell'ufficio dei federali, che altrimenti non avresti ottenuto, visto che ti era stato proibito dal tuo stesso dipartimento di prendere parte alle indagini. Ti feci un favore e tu mi lasciasti fuori.» «Tu non mi facesti nessun favore,» disse Zandt. «Facesti quello che pensavi ti avrebbe dato i maggiori vantaggi.» «Oh, fottiti, John,» scattò lei. I due scansafatiche al tavolo lontano alzarono di scatto le teste, come pupazzi improvvisamente risvegliati dal padrone. L'atmosfera divenne pesante.
Lei abbassò il tono di voce e parlò velocemente. «Se questo è veramente quello che pensi di me, allora perché non te ne vai e torni nel tuo dannato Vermont. Tra pochissimo nevicherà alla grande lassù. Potresti seppellirtici.» «Mi stai dicendo che mi aiutasti per riconoscenza verso la mia famiglia?» «Sì, certo. Per che diavolo sennò?» «Malgrado tu mi abbia aiutato a tradire mia moglie.» «Questo è patetico. Non incolparmi per quello che fece il tuo uccello.» Lo guardò inferocita. Zandt ricambiò lo sguardo. Per un attimo nessuno parlò, e poi improvvisamente lei abbassò gli occhi. Lui fece una breve risata. «Questo dovrebbe farmi capire che ho io il controllo?» «Cosa?» Lei si maledì in silenzio. «Distogliere lo sguardo. Una cosa da regno degli animali. Lego maschile lusingato da un segno di sottomissione. Ora sto per ritornare a essere il re della collina, rifarò quello che vuoi?» «Sei diventato veramente paranoico, John,» disse, anche se naturalmente lui aveva ragione. Si accorse di aver passato troppo tempo con degli stupidi. «Semplicemente non voglio litigare con te.» «Cosa pensi significhi la storia dei capelli?» disse lui. Lei si accigliò, spiazzata dal cambio repentino. «Quali capelli?» «L'Homo Erectus. Perché tagliare i capelli?» «Beh, per i maglioni. Così poteva ricamare i nomi.» Zandt scosse la testa, poi si accese una sigaretta. «Non hai bisogno dei capelli di tutta la testa per quello. Tutte le ragazze avevano capelli lunghi. Ma quando sono state ritrovate, erano stati tagliati. Perché?» «Per disumanizzarle. Per rendere più facile ucciderle.» «Potrebbe essere,» disse lui. «Questo è quanto assumemmo allora. Ma ho dei dubbi.» «Hai intenzione di dirmi cosa pensi?» «Mi domando se non fosse una punizione.» Nina ci pensò. «Per cosa?» «Non lo so. Ma penso che abbia rapito questo tipo molto particolare di ragazze di proposito. Penso avesse qualcosa in mente per loro, e che ognuna abbia deluso le sue attese. E come punizione, lui si è preso qualcosa che pensava fosse di capitale importanza per loro.» Sorseggiò il suo caffè, apparentemente incurante che fosse diventato
freddo. «Lo sai cosa facevano in Francia ai collaborazionisti, alla fine della seconda guerra mondiale?» «Certo. Le donne che si riteneva avessero accolto con eccessiva compiacenza il loro invasore tedesco venivano condotte lungo le strade con i capelli rasati a zero. Un episodio della storia dell'umanità di cui andare fieri.» Scrollò le spalle. «Riesco quasi a comprendere la storia della punizione, ma non capisco cosa c'entri un conflitto mondiale. Queste ragazze non avevano fraternizzato con nessuno.» «Forse no.» Zandt dava l'idea di aver perso interesse per l'argomento. Si stava riappoggiando allo schienale e guardava indistintamente attraverso il patio. Uno dei fannulloni incrociò per caso il suo sguardo. Zandt non lo distolse, il perdigiorno sì, e rapidamente. Fece un cenno al suo amico, evidentemente suggerendo che fosse il momento buono per andare a cazzeggiare da un'altra parte. Si alzarono e se la svignarono nella notte. Zandt sembrò soddisfatto della cosa. Nina cercò di riconquistare la sua attenzione. «Allora, questo dove ci porta?» «Forse da nessuna parte,» disse lui, schiacciando la sua sigaretta. «Semplicemente non ci ho pensato abbastanza l'ultima volta. Poi mi sono concentrato sul metodo che ha usato per trovarle, sul come ha avuto luogo l'incontro delle loro vite. Ora tutto questo mi rende curioso. In che modo le ragazze abbiano fallito. A che scopo lui le volesse.» Nina non disse nulla, sperando ci fosse qualcosa in più. Ma quando lui parlò, non fu del caso. «Perché smettesti di venire a letto con me?» Colta di nuovo di sorpresa, lei esitò. «Tutti e due smettemmo di andare a letto insieme.» Lui scosse la testa. «No, non è così che andò.» «Non lo so John. È successo e basta. Non sembravi particolarmente ferito allora.» «L'avevo semplicemente accettato, non credi?» «Dove vuoi andare a parare? Ora non lo accetti?» «Certo che sì. È stato molto tempo fa. Sto semplicemente facendo delle domande che non ho fatto prima. Una volta che cominci, ti accorgi che saltano fuori da tutte le parti.» Lei non sapeva veramente cosa dire. «Allora cosa vuoi fare?» «Voglio che tu te ne vada,» disse. «Voglio che te ne vai a casa, e mi lasci da solo.»
Nina si alzò. «Come vuoi. Hai il mio numero. Chiamami se decidi di alzare le chiappe e fare qualcosa.» Lui girò lentamente la testa, e la fissò diritto negli occhi. «Vuoi sapere cosa accadde? L'ultima volta?» Lei si fermò e lo guardò. La sua espressione era gelida e distante. «Sì,» disse. «Lo trovai.» Nina rabbrividì. «Trovato chi?» «Ne seguii le tracce per due settimane. Alla fine andai a casa sua. Lo avevo visto mentre osservava altre ragazze. Non potevo lasciare che continuasse.» Lei non sapeva se sedersi o rimanere in piedi. «Cosa accadde?» «Lui negò, ma io sapevo che era lui, e adesso lui sapeva che l'avevo in pugno. Era lui l'uomo, ma non avevo prove, e mi sarebbe sfuggito. Rimasi con lui due giorni. Non mi avrebbe detto dove lei si trovava.» «Oh no John, non dirmi che...» «L'ho ucciso.» Nina lo fissò, e capì che stava dicendo la verità. Aprì la bocca per parlare, ma non ci riuscì. «E poi, due giorni dopo, arrivarono il maglione e il biglietto.» Improvvisamente apparve molto stanco, e riprese a guardare altrove. Quando ricominciò a parlare, la sua voce era monotona. «Catturai l'uomo sbagliato. Decidi tu cosa fare con questa informazione.» Lei si allontanò, attraversando la Promenade. Non voleva voltarsi verso Zandt, e si concentrò sulle cime delle palme che oscillavano per la leggera brezza a un paio di isolati di distanza. Ma quando raggiunse l'angolo si fermò e si voltò. Era scomparso. Attese un momento, masticandosi il labbro, ma lui non riapparve. Poi riprese lentamente a camminare. Qualcosa era cambiato. Fino a questa sera Zandt era sembrato malleabile, ma stare seduta con lui nel caffè era stata un'esperienza spiacevole. Capì che quello che lui le aveva fatto venire in mente non era un cacciatore, ma un pugile, inquadrato di sfuggita un'ora prima del vero incontro. Il momento in cui lo show-business veniva messo da parte, e il combattente sembrava muoversi in un mondo tutto suo, un luogo dove cessava di incontrare gli sguardi della gente e veniva assorbito nel suo archetipo. Alcune persone avrebbero scommesso sul risultato, avrebbero indossato gli abiti da sera e si sarebbero sbronzati di convenevoli. Gli altri avrebbero spara-
to cazzate sul fatto che la boxe dovrebbe essere proibita, protetti dentro esistenze dalle quali tutti cercavano non una, ma qualsiasi via di uscita. Per i tizi sul ring, era diverso. Loro lo facevano per denaro, ma non solo per quello. Lo facevano perché quello era il loro mestiere. Non stavano cercando una via d'uscita. Ma una strada per entrare, per tornare in qualche posto che sentivano di avere dentro di sé. La visita ai genitori di Sarah era stata un errore. Zandt fino a quel momento aveva avuto accesso a pochissime vere informazioni, e si stava già domandando cosa lei volesse da lui. L'unico materiale nuovo per l'indagine poteva essere fornito dai Becker. Aveva fatto in modo che lui parlasse con loro. Ma non appena era rientrata dal giardino aveva capito che questo aveva aperto delle porte che sarebbe stato meglio lasciare chiuse. Non sentiva il bisogno di questo. Non aveva mai voluto un cacciatore, o un assassino. Credeva che l'unica cosa in grado di portare l'Homo Erectus allo scoperto fosse un uomo che lui volesse dominare. Nina voleva un'esca. 13 L'uomo era seduto sulla sua sedia, al centro del salotto. La stanza era ampia e sporgeva rispetto alla facciata della casa, con finestre su tre lati. Due di essi erano protetti da una serie di alberi; l'altro dava su un prato in pendenza, terrazzato. Quel pomeriggio tutte le tende erano tirate, pesanti tendaggi che non permettevano di intravedere la minima traccia del mondo esterno. A volte l'uomo le voleva chiuse, a volte le lasciava aperte. A questo proposito era completamente imprevedibile. La sedia era sistemata con lo schienale verso la porta d'accesso alla stanza. Gli piaceva la sensazione che questa posizione gli procurava, una leggera tensione, l'idea di essere indifeso. In teoria qualcuno avrebbe potuto sorprenderlo alle spalle e colpirlo alla nuca. Quella persona avrebbe dovuto superare tutti i sistemi di sicurezza, ma il dubbio rimaneva. Questo mostrava quanto lui aveva sotto controllo il suo ambiente. Non aveva alcuna paura del mondo esterno, ma gli piaceva che i suoi spazi interni fossero proprio così. Il suo viso era liscio e privo di rughe, il risultato di un uso assiduo di crema idratante e di altri prodotti per il nutrimento della pelle. I capelli avevano un taglio ordinato e gli occhi erano penetranti e chiari. Le mani erano leggermente abbronzate, le unghie curate. Era completamente nudo.
La sedia formava un leggero angolo rispetto alle lucide assi del pavimento che attraversavano la stanza in file ordinate. Una tazza di caffè nero bollente era appoggiata su un tavolino di fianco alla sedia, vicino a un piatto riempito con piccole perline di vetro e a una breve pubblicazione. La tazza era posizionata in modo che solo poco meno della metà della sua base sporgesse oltre il bordo. La sedia era vecchia e ricoperta di pelle malconcia, ma, a dire la verità, le sarebbe stato più congeniale avere una copia del «New York Times» ben ripiegata su uno dei braccioli, e un lacché che le ronzava proprio dietro lo schienale, pronto a distribuire sandwich morbidi. L'uomo aveva decorato un'intera libreria con tratteggi incrociati fatti con penne verdi, blu e rosse, ogni tratto non più lungo di tre millimetri, fino a ottenere un effetto complessivo di un nero leggermente sfumato. C'erano volute diciassette penne e diverse settimane. Una bella scrivania dall'altro lato della stanza era stata interamente ricoperta incollando piccole foto di Madonna, tutte prese da riviste e nessuna successiva al periodo Material Girl, dopo il quale l'uomo aveva perso l'interesse per lei. Aveva coperto il tutto con numerosi strati di vernice scura, finché l'oggetto sembrasse rivestito di nient'altro che di un'insolita impiallacciatura di noce. Come per la libreria, solo un'osservazione molto ravvicinata avrebbe rivelato l'origine di quell'effetto. Il suo attuale progetto riguardava il tavolino improvvisato accanto alla sua sedia, che stava ricoprendo con le perline di vetro. Esse avevano un diametro di circa un millimetro, ed erano di quattro colori: rosso, blu, giallo e verde. I colori genetici. Incollarle al loro posto richiedeva un bel po' di attenzione, non ultimo per il fatto che esse non venivano piazzate a caso ma secondo un lungo e complesso disegno, che era almeno in parte speculativo. Una volta terminato, avrebbe ricoperto il tavolo con molte mani di spessa vernice nera, fino a che anche il più piccolo segno della trama fosse stato rimosso. Non sarebbe venuto in mente a nessuno di chiedersi cosa potesse esserci sotto la superficie, allo stesso modo in cui nessuno avrebbe capito che una, e solo una, delle assi del pavimento della casa era stata ottenuta incollando un grande numero di fiammiferi di legno, poi smerigliata e verniciata fino ad assomigliare perfettamente alle altre. La raccolta dei fiammiferi aveva richiesto all'uomo più di sei mesi. Ognuno di essi, per quanto lui fosse stato in grado di accertare, era stato acceso da una persona diversa. Era un convinto sostenitore dell'individualismo, della sua cruciale importanza per l'umanità. Di questi tempi tutti guardavano gli stessi show televisivi, leggevano le stesse riviste patinate, ed erano costretti a viva for-
za dai media a mettersi diligentemente in fila per vedere gli stessi ridicoli film. Vivevano le loro vite secondo le regole stabilite da persone che non avevano mai incontrato. Rimanevano sulla superficie dell'esistenza, in un mondo fatto di MTV, dove contavano solo gli ultimi cinque minuti. L'adesso era tutto, non comprendevano assolutamente il «poi», ma si trastullavano in un perpetuo presente. La pubblicazione sul tavolo era un recente studio universitario, arrivato quella mattina per posta. Aveva letto in rete una sinossi del testo, e ne aveva ordinato una copia completa per un'analisi più accurata. Nonostante l'argomento fosse piuttosto specialistico, egli era più che in grado di comprenderlo appieno. Aveva passato molti anni leggendo attentamente cose riguardo le materie che lo interessavano: genetica, antropologia, cultura preistorica. Sebbene la sua istruzione scolastica fosse terminata presto, era intelligente, e aveva appreso molto dalla vita. Dalla sua e da quella di altre persone. Le cose che essi dicevano, in extremis, racchiudevano molto di vero, una volta che, superate le suppliche, il corpo si esprimeva senza l'interferenza del cervello. Prima di leggere il testo si alzò, si allontanò leggermente dalla sedia e fece tre serie di flessioni. Una serie, con i palmi piatti sul pavimento e le mani all'altezza delle spalle. Una seconda serie con i palmi ancora piatti, ma le mani distanti. Una serie finale con le mani unite, chiuse a pugno, e le nocche sul pavimento. Cento per ogni serie, con una piccola pausa in mezzo. Sudò appena. Era soddisfatto. Sarah Becker udì sotto di sé il suono smorzato degli sforzi cadenzati dell'uomo, ma non perdette tempo a cercare di capire cosa fosse quel rumore. Non lo voleva sapere. Non sapeva che ora fosse, e anche in questo caso non era interessata a saperlo. Il suo orologio interno le diceva che probabilmente era giorno, forse pomeriggio. In quel caso, era peggio che se fosse stata notte. Era di notte che accadevano le cose brutte, c'era da aspettarselo. La gente aveva paura dell'oscurità perché con il buio scendeva la notte, e durante la notte, a volte, certe cose saltavano fuori per venirti a prendere. Così funzionava il mondo. Le ore del giorno erano ritenute le migliori. Di giorno andavi a scuola, pranzavi, il cielo era blu, e tutto era piuttosto sicuro fino a quando rimanevi lontana dai posti dove c'era gente povera. Non voleva pensare all'ipotesi che il giorno non fosse sicuro. Non lo voleva sapere.
Se allungava il collo riusciva a sfiorare con la fronte la sommità dello spazio in cui si trovava. Era completamente buio. Giaceva sdraiata sulla schiena, ed era in grado di muovere le mani e i piedi circa cinque centimetri in ogni direzione. Era rimasta in questa posizione per un lungo periodo, che lei stimava corrispondesse almeno a quattro giorni, forse sei. Non ricordava niente dell'intervallo di tempo intercorso da quando era sulla 3rd Street Promenade e il momento in cui si era ritrovata sdraiata supina, con una piccola apertura di fronte al suo viso. Dopo alcuni istanti si era accorta che riusciva a vedere il soffitto di una stanza e che la fessura era un buco nel pavimento, sotto il quale lei giaceva, rinchiusa in uno spazio solo di poco più grande del suo corpo. L'apertura nel pavimento era approssimativamente alta dieci centimetri e larga quattro, e si estendeva giusto da sopra le sue sopracciglia a poco sotto la sua bocca. Aveva cominciato a urlare, e dopo un po' qualcuno era entrato nella stanza. Le aveva sussurrato qualcosa. Lei aveva urlato ancora un po', e lui aveva messo un piccolo pannello sull'apertura del pavimento. Lei aveva sentito il rumore dei suoi passi che si allontanavano, e da quel momento era successa solo una cosa. Sarah si era svegliata da un pisolino in quella che sentiva essere la notte per scoprire che il pannello sopra il suo viso era stato nuovamente rimosso. La stanza sovrastante era praticamente al buio, ma lei riuscì a distinguere la testa di qualcuno che la stava osservando. Lei tentò di parlare all'uomo, di supplicarlo, di fargli un'offerta, ma lui non disse niente. Dopo un po' rinunciò, e cominciò invece a piangere. La mano dell'uomo divenne visibile, teneva un bicchiere di plastica. Versò l'acqua sulla faccia di lei che in un primo momento tentò di voltare la testa, ma poi, rendendosi conto di quanta sete avesse, aprì la bocca e ne ingoiò quanto più poté. Infine l'uomo rimise a posto il pannello e se ne andò. Dopo un periodo di tempo imprecisato lui era ritornato e avevano avuto la loro conversazione su Ted Bundy, e questa volta lei aveva bevuto l'acqua. Col tempo si era resa conto che la mente le si schiariva, come se qualsiasi droga le fosse stata somministrata stesse lentamente esaurendo il suo effetto. Il lato negativo fu che la sua iniziale sensazione fluttuante divenne, di conseguenza, più difficile da mantenere. Aveva provato a spingere in su la botola con il naso e la lingua, allungando verso l'alto il collo per quanto riuscisse, ma la sua posizione era stata così attentamente studiata che era impossibile muoversi. E così lo spazio stesso, pensato per qualcuno delle sue dimensioni, quasi come se fosse stato preparato per lei e lei sola. Sarah
era fisicamente in forma, esperta di rollerblade, e più forte di molte ragazze della sua corporatura. Nonostante questo, non era stata in grado di lasciare alcun segno nella sua prigione, e aveva smesso di provarci. Suo padre diceva spesso che i problemi nella vita di molte persone erano causati dalle energie che sprecavano nel tentativo di cambiare cose che non potevano essere cambiate. Non era ancora abbastanza adulta da capire esattamente a che cosa lui si riferisse con quelle parole, ma aveva colto il significato alla lettera. Le sembrava di non mangiare da un secolo. Non aveva senso sprecare le energie che possedeva, almeno fino a quando non fosse stato chiaro che le sarebbe stata fornita una fonte di energia extra. Dibattersi era stupido. Così rimase ferma, e pensò a Nokkon Wud. Mr. Wud era qualcosa che lei e suo padre avevano inventato. Almeno, pensavano di averlo inventato. Era arrivato, indirettamente, tramite la madre di Sarah. Zoë Becker credeva a molte cose, o forse non ci credeva veramente, ma non voleva correre rischi quando si trattava dei suoi famigliari. Astrologia? Beh, sì, certo non ha senso, ma non c'è nulla di male nel sapere cosa dice, ed è sorprendente quanto spesso sembri azzeccarci. Feng shui? Soltanto buonsenso, naturalmente, ma gli scacciaspiriti sono graziosi e producono un bel suono, quindi perché non averli comunque? E se un certo tipo di uccello vi attraversa la strada, evento che alcune persone potrebbero ritenere sinistro, allora ci sono delle filastrocche da recitare e piccoli gesti delle mani per far sì che, sicuramente, non porti sfortuna. Come spesso accade nelle famiglie, Zoë aveva ereditato le sue superstizioni da sua nonna più che da sua madre, una ex editrice molto realista che credeva principalmente nel jogging. Michael Becker non voleva avere nulla a che fare con tali incantesimi e presagi, e così anche Sarah. Mr. Wud era comparso per un gioco segreto tra loro, una risposta alla superstizione che più di tutte faceva diventare matto Michael Becker. Ogni volta che qualcuno della famiglia diceva qualcosa che potesse - anche minimamente - sfidare la buona sorte, allora Zoë Becker interveniva immediatamente dicendo «Knock on wood», nello stesso modo spontaneo con cui direste «Salute», a una persona che starnutisce. Se qualcuno diceva: «Non farò mai quella fine,» lei rispondeva «Knock on wood», e picchiava sul tavolo con le nocche. Se avessero detto: «Mio padre è in buona salute,» lei avrebbe pronunciato quella formula - sempre più silenziosamente, essendosi accorta che suo marito trovava quell'abitudine ferocemente irritante - ma l'avrebbe detto. L'avrebbe detto addirittura se qualcuno avesse detto qualcosa come: «Non mi sono mai rotto una gamba,» e questo era il genere di occa-
sione che faceva desiderare a suo marito di rosicchiare il legno del pianoforte. Michael Becker avrebbe sottolineato che quella era un'affermazione che si atteneva ai fatti, e non significava mostrare il dito medio alla fortuna. Era semplicemente un riscontro della realtà, e il sommergerla con un mantra scaramantico era ridicolo. Non diresti, avrebbe pazientemente puntualizzato lui: «Due più due uguale quattro - knock on wood,» e allora perché usare questa espressione dopo ogni altro tipo di evento reale? Poteva essere di per sé un'abitudine giustificabile, anche se a stento sopportabile, quando veniva utilizzata dopo un'affermazione che mostrasse arroganza di fronte al potenziale negativo del mondo. Ma appena dopo un dannato fatto... Zoë l'avrebbe ascoltato, come aveva già fatto molte volte, per fargli poi notare che quella era una tradizione ben radicata in molte parti del mondo in Inghilterra e in Australia, per esempio, dove, in simili circostanze, direbbero «Tocca legno» - e che ci potrebbero essere delle giustificazioni a questo, perché gli alberi hanno dei poteri, e in ogni caso non faceva nulla di male. Michael avrebbe annuito e sarebbe uscito in silenzio dalla stanza per andare a rosicchiare il pianoforte. Sarah sull'argomento stava dalla parte del padre, e nel corso degli anni i due avevano sviluppato il personaggio di Nokkon Wud, uno spiritello maligno, probabilmente di origine scandinava, la cui unica occupazione era quella di stare in ascolto delle persone che sfidassero la sorte facendo avventatamente delle osservazioni riguardanti la realtà. Allora lui, invisibile, sarebbe scivolato nelle loro case nel cuore della notte, e avrebbe dato alle loro vite una svolta tragica. Fareste meglio a non sentirvi fortunati se c'è Nokkon in giro, perché lui se ne accorgerebbe, e vi punirebbe per questo. Col passare degli anni questa usanza si era trasformata nel saluto ordinario col quale loro due cordialmente si auguravano reciprocamente qualche sventura, in modo che Nokkon sentisse e sapesse che non doveva intervenire. Si era dimostrato vantaggioso anche quando, un anno prima, la sorella di Sarah, Melanie, aveva iniziato ad avere degli incubi. Dietro suggerimento di Sarah, Michael le aveva detto che c'era lo zampino di Nokkon Wud che volava sopra il letto e annusava in cerca di persone cui causare dolore. Tutto ciò che Melanie avrebbe dovuto fare sarebbe stato recitare una piccola filastrocca - che suo padre impiegò molto tempo a scrivere, sottoponendola a molte più revisioni della maggior parte dei copioni televisivi con i quali si guadagnava da vivere -, e Nokkon avrebbe saputo che lì non c'era bisogno di lui e sarebbe andato a infastidire qualcun altro. Me-
lanie provò questa soluzione, inizialmente fu dubbiosa ma presto cominciò a recitarla ogni notte prima di andare a dormire - e col tempo i brutti sogni svanirono, e lei si preoccupò meno di sigillare completamente le porte del suo armadio. Sua madre non approvava lo scherzo e non lo nominava mai personalmente, ma qualche volta sorrideva quando Nokkon veniva citato. Serviva a chiarire alcuni misteri del mondo, ed era anche stato scritturato in «Dark Shift» come uno dei ricorrenti demoni minori che facevano comunella contro l'eroina. Il socio di suo padre aveva contestato la trovata, avendo da ridire sulle caratteristiche del personaggio e sulla sua provenienza, ma Michael l'aveva comunque mantenuto. Mentre era sdraiata sotto le assi del pavimento in una casa abitata da un pazzo, Sarah si domandava se, dopotutto, sua madre non avesse avuto ragione. Forse un simile mostro, un simile spirito, esisteva e forse lui aveva saputo che lo avevano preso in giro, che erano stati troppo sereni e tranquilli. Questo lo aveva fatto arrabbiare, e probabilmente era venuto lui stesso a prenderla, e ora era tornato nell'oscurità per osservarla, visto che non c'era nessun volto dietro la maschera che aveva mostrato per catturarla. Sarah rimase immobile, gli occhi spalancati. Lo scritto era intitolato «Il sito di Krüniger e la Società di MittelBaxter», e forniva un resoconto dettagliato di una spedizione archeologica che aveva avuto luogo di recente in un'area della Germania che l'uomo non conosceva. L'aveva trovata sul suo atlante, e aveva deciso che era troppo distante dai suoi contatti perché essi fossero stati in grado di fornire qualsiasi osservazione direttamente sul posto, e quindi avrebbe dovuto limitarsi alle informazioni del testo. Non lontano dai resti di un insediamento dell'era Neolitica era stata scoperta una necropoli. La datazione degli scheletri con il carbonio 14, insieme con prove a sostegno ottenute da oggetti personali trovati in alcune tombe, aveva permesso di far risalire il sito alla fine dell'ottavo millennio avanti Cristo. L'uomo rimase seduto per un po' a gustarsi l'idea, riandando con la mente a un'immagine di quel periodo. Queste persone avevano vissuto, erano morte, erano state seppellite, avevano fatto l'amore, avevano mangiato e cagato per terra i rifiuti del loro organismo prima che qualsiasi linguaggio oggi conosciuto fosse parlato, molto prima che le Piramidi venissero erette - a meno che uno non credesse alle asserzioni degli archeologi new age, alla selettiva raccolta di prove e alle loro superficiali inter-
pretazioni. L'uomo sorseggiò un po' del suo caffè, stando attento a rimettere la tazza sul lato del tavolino in modo che fosse perfettamente in equilibrio. Poi continuò a leggere. Erano stati ritrovati venticinque gruppi di resti. Donne, anche di mezza età, bambini, alcuni maschi tardo-adolescenti o sulla ventina, e un uomo di età più avanzata. Le esaurienti appendici al testo spiegavano in dettaglio lo stato di ogni scheletro, e descrivevano a grandi linee le tecniche usate per datarli e stabilire le condizioni ambientali e alimentari nelle quali avevano vissuto. Gli autori del testo sottolineavano come gli scheletri fossero stati sistemati in un reticolo, un sistema organizzato di sepoltura che non era osservabile, in quel momento, in nessun altro sito archeologico di quella parte d'Europa. Fornivano grafici che dimostravano come la disposizione del reticolo fosse in accordo con quello che si pensava fosse l'interesse del periodo per i solstizi d'estate e d'inverno, evitando, per fortuna, una digressione sull'astronomia primitiva. Invece, sviluppavano una serie di argomentazioni per mostrare che la disposizione costituiva l'ulteriore conferma di una teoria che loro sostenevano da alcuni anni: che questa particolare area della Germania avesse ospitato una forma di organizzazione sociale ibrida che chiamavano Società di Mittel-Baxter (perché questi erano i nomi degli autori), una civiltà sporadica e circoscritta di scarso valore accademico e di trascurabile interesse a lungo termine. L'uomo lesse fino in fondo il testo e poi si dedicò alle appendici. Dopo aver letto i resoconti relativi agli scheletri degli altri defunti, annuendo di tanto in tanto per quelle che riteneva conclusioni perfettamente argomentate, arrivò alla sezione riguardante l'uomo più anziano ritrovato nel sito. La posizione del suo scheletro - perfettamente al centro di un reticolo dieci per dieci - suggeriva che fosse stato il primo a essere seppellito seguendo quello schema, e gli autori sostenevano in modo convincente che questo implicasse che l'uomo fosse stato una persona importante del vicino villaggio. Dedussero anche che fosse nato in un'altra parte della regione, poiché la pigmentazione bilaterale dell'interno delle orbite oculari - una condizione nota come cribra orbitalia - suggeriva che la sua dieta fosse stata carente di ferro per gran parte della sua vita. Il contenuto di ferro della vegetazione è determinato dalle caratteristiche geologiche del suolo nel quale cresce, e il suo assorbimento è influenzato dalla quantità di piombo presente: persone di aree differenti presenteranno variazioni nette di questa condizione. Sezioni trasversali della dentatura dell'uomo, e successive analisi dei livelli degli isotopi del piombo e dello stronzio, avevano permesso
di mettere in relazione l'uomo con un'area lontana oltre duecentocinquanta miglia. In una digressione si osservava che una lesione del cranio testimoniava di un colpo alla testa che non si era rivelato mortale - poiché il danno che aveva causato alla struttura ossea si era rimarginato molto tempo prima del definitivo decesso dell'uomo. I ricercatori ipotizzavano che questo potesse essere il risultato di una battaglia o di una lotta per il potere, e che fosse prova della lunga e vibrante vita dell'uomo. Un individuo che, secondo una provocatoria congettura degli autori, potrebbe anche essere stato personalmente responsabile dell'introduzione della civiltà Mittel-Baxter in un'area in precedenza selvaggia e sperduta, e la cui importanza all'interno della comunità locale era stata rispettata nella tipologia della sua sepoltura. L'uomo lesse questa sezione una seconda volta, e poi richiuse la pubblicazione posandola in grembo. Era molto soddisfatto. Questa era la migliore scoperta fino a quel momento, la migliore in assoluto e molto, molto più antica addirittura delle sette antiche sepolture scoperte contemporaneamente a Cahuachi sull'altopiano di Nazca, ognuna con escrementi fossilizzati in bocca. Provò pietà per Mittel e Baxter, anche se riteneva improbabile che la totale assurdità delle loro conclusioni sarebbe mai stata messa in luce. Forse la pubblicazione avrebbe potuto addirittura aiutarli a mantenere la loro cattedra presso la sperduta università degli Stati Uniti centro-occidentali per la quale lavoravano duramente. Pensava che avrebbe potuto contattarli e metterli al corrente delle sue teorie. Dubitava che gli avrebbero creduto, comunque, anche se la verità dei fatti era lì pronta per essere colta da coloro che avessero gli occhi per farlo. Gli archeologi erano peggio degli altri quando si trattava di giudicare le prove sulla base delle loro preesistenti supposizioni. Non aveva nessuna importanza se si trattava di attori di talento come Hancock e Baigent, o di manovali specializzati come Klaus Mittel e George Baxter: tutti vedevano quello che volevano vedere. I tradizionalisti riuscivano a vedere solo strade rituali, i seguaci della new age piste di atterraggio per i loro alieni - per quanto ogni idea fosse assurda nelle singole circostanze. Alcune volte qualche ipotesi sarebbe stata corretta, ma non avrebbero mai saputo quando - perché nelle loro menti avevano sempre ragione. Solo se foste stati pronti a esaminare con equanimità le prove, avreste potuto comprendere con esattezza la realtà. La lesione al cranio denotava con ogni probabilità una ferita alla testa, sebbene il suo significato fosse più complesso di quanto credessero Mittel e Baxter - una ferita d'infanzia abbastanza profonda da risvegliare una por-
zione di cervello che nella maggior parte degli uomini rimaneva deplorevolmente inattiva. Il segno di cribra orbitalia, allo stesso modo, non era importante semplicemente in relazione alla provenienza geografica. È vero infatti che spesso era correlato a una carenza di ferro e qualche volta a un'anemia di tipo congenito o emolitico, ma poteva avere anche un'origine molto più interessante. Un'eccessiva esposizione al piombo poteva determinare simili effetti. Questo, come l'uomo ben sapeva, non era affatto «avvelenamento», ma un dono che poteva combinarsi con altri fattori e portare ad alterazioni sul piano genetico, cambiamenti che risvegliavano parti inibite del genoma umano, permettendogli di manifestarsi. Non era, comunque, l'errata interpretazione, da parte di Mittel e Baxter, delle prove dell'esame patologico a essere maggiormente colpevole, ma la loro incapacità di valutare la vera natura del sito. L'uomo al centro del reticolo funerario non era morto per primo, era chiaro. Era morto per ultimo, quando lo decise lui, e per sua stessa mano. Al centro della sua creazione. 14 L'agente immobiliare appoggiò i gomiti sul tavolo, aprì la sua piccola bocca e parlò. «E in quale fascia di prezzo sarebbe orientato ad acquistare? La prego di essere sincero. Mi rendo conto che questi sono i primi giorni del nostro rapporto, Mr., uh, Lautner - l'inizio della nostra ricerca di una potenziale casa - ma sarò franco e le dirò che sarà un vantaggio per entrambi se conoscerò con esattezza quanto, in questo caso, lei intende investire nei beni immobili.» Si riappoggiò allo schienale della sedia e mi fece l'occhiolino con l'aria di chi la sa lunga, evidentemente compiaciuto di aver messo le sue carte in tavola. Constatai infastidito che non avrei potuto gettargli fumo negli occhi. Avrebbe voluto sapere immediatamente se ero in grado di spendere solo otto dollari e spiccioli, o se magari speravo di barattare un paio di scarpe scintillanti. Era un uomo di mezza età, magro, con i capelli rossi e il suo nome - a malapena credibile - risultava essere Chip Farling. Avevo già parlato con parecchia gente della stessa risma, e la mia sopportazione diminuiva sempre di più. «Mi piacerebbe rimanere sui sei,» dissi alla svelta. «Per adesso. Se trovassi qualcosa di speciale, potrei anche salire.»
Sorrise raggiante. «Sarebbe tutto in contanti?» «Naturalmente.» Ricambiai il sorriso. La testa di Chip si inclinò leggermente, e le sue manine spostarono prontamente alcuni fogli sul tavolo. «Bene,» disse, sempre annuendo. «Eccellente. Questo ci dà qualcosa con cui divertirci.» Poi puntò un dito verso di me. Io mi accigliai, ma mi accorsi subito che era semplicemente il preludio alla sua prossima azione, che fu portarsi le mani al mento e fregarselo, mentre fissava con sguardo penetrante qualche punto non troppo lontano. Capii che stava pensando. Dopo quasi mezzo minuto passato in questa posa, ritornò in sé. «Okay. Mettiamoci al lavoro.» Si alzò di scatto dalla scrivania e andò velocemente fino all'altra estremità dell'ufficio, facendo schioccare le dita. Sospirai sul mio caffè, pronto ad aspettare. Per prima cosa mi ero recato alla UnRealty. Naturalmente l'ufficio era chiuso. Un biglietto sulla porta ringraziava i clienti e spiegava che la ditta sarebbe stata liquidata a seguito della morte del suo proprietario, interrompendosi prima di aggiungere che il fatto che il suo erede fosse uno stronzo aveva influito sulla decisione. Mi sporsi verso la finestra, e sbirciai dentro. Non importa se le scrivanie e gli archivi sono rimasti, se i computer sono al loro posto e uno scadenziario annuale proveniente dalla copisteria locale è ancora appeso al muro, con il periodo delle vacanze segnato con precisione dal più stitico dell'ufficio - si capisce alla prima occhiata se un'azienda ha ancora dell'aria nei polmoni. UnRealty non ce l'aveva. Sapevo che sarebbe stato così, ma quella vista mi annientò. Mi accorsi che fino a quel momento non avevo tentato di capire se le rivelazioni delle ultime quarantotto ore avevano reso le azioni di mio padre, per quanto concerneva UnRealty, un po' più comprensibili. Non riuscii a pensare. Allora agii subito, e mi recai da tutti gli agenti immobiliari che trovai sul mio cammino. Un indizio sommario dello stato di benessere di una piccola comunità si può ricavare dal numero di agenzie immobiliari che si trovano lungo le sue strade. A Colwick, Kansas, dovrete cercarle con molta attenzione. Tutti vogliono andarsene, non fermarsi, a meno che non sia in seguito alla loro morte. Preferibilmente. In qualche posto di media agiatezza troverete uno o forse due uffici, mischiati con le altre attività commerciali secondo un processo di moto browniano. In un posto come Dyersburg non mancano agenti immobiliari. Ancora di più che le sciarpe, le gallerie d'arte e i piccoli ristoranti, ciò che questo genere di città propone è un'idea: quel-
la che voi possiate vivere così per tutto l'anno, che possiate essere tra le persone in grado di ritagliarsi un po' di cose belle e metterci intorno una solida staccionata; che anche voi possiate stare seduti in una casa fatta di tronchi, costruita su ordinazione e con il soffitto di una cattedrale, e sentirvi un tutt'uno con Dio e i suoi angeli. In ogni parte d'America i ricchi costruiscono i loro rifugi. Ranch che di solito servivano a difendere il bestiame o semplicemente la bellezza del luogo, vengono acquistati in massa e poi suddivisi in aree abitative di venticinque acri dove potersi compiacere di panorami sbalorditivi e di vicini che sono esattamente come voi. Non sto facendo una critica incondizionata. Io aspiro a una di quelle viste, a una di quelle vite, racchiusa nel palmo delle montagne in uno dei più affascinanti scenari del mondo. Semplicemente, non desidero tutto ciò che l'accompagna. Il golf, la comproprietà di un jet Lear. La scatola per i sigari. Gli scialbi androidi terribilmente sereni che vivono in questi country club e in questi chalet: uomini insolenti con la pelle abbronzata e la stretta di mano decisa, donne con gli occhi d'acciaio e le guance tirate chirurgicamente; conversazioni i cui ingredienti sono: una parte di avidità, due parti di autocompiacimento e tre parti di inquietanti silenzi. Penso che potrei impazzire. Dopo un po' Chip riapparve, impugnando una manciata di prospetti e due videocassette. «Mr. Lautner?» sospirò. «È giunto il momento di trovare il sogno.» Guardai diligentemente i video, avendo cura di fare occasionali grugniti o muggiti di interesse. Non c'era nulla che assomigliasse a quello che cercavo. Allora diedi una scorsa alle brochure, che reclamizzavano finti chalet in legno decorati internamente da qualche cowboy sotto l'effetto di droghe, o scatole bianche luccicanti di una sterilità modernista tale da sembrare che fossero state scoperte sulla luna. L'unica cosa che variava, e non di molto, era la comicità dei prezzi. Era successo lo stesso con ognuno dei precedenti agenti immobiliari. Ero sul punto di chiedere con deferenza il biglietto da visita di Chip e andarmene, forse chiamare Bobby per controllare come stesse procedendo con il suo compito, quando, nascosto tra le abbaglianti brochure, trovai un singolo foglio. C'era scritto «The Halls», con carattere tipografico lusinghiero. «Per coloro che desiderano qualcosa di più di una casa». In tre paragrafi, curiosamente poco accattivanti, continuava a descrivere un piccolo insediamento nella catena delle Gallatin. Possibilità di entrare e uscire con gli sci ai piedi, naturalmente. Isolamento da posto fuori dal
mondo, chiaramente. Quasi cento ettari di zona montana, modellata in un complesso di tale ineffabile perfezione che probabilmente Zeus stesso comprerebbe sulla carta una villetta a schiera - tuttavia il volantino non si sforzava troppo di catturare i clienti. Non c'erano neanche foto, né un prezzo che stuzzicassero oltre il mio interesse. Presi più o meno a caso una delle altre brochure, assicurandomi solo che il prezzo fosse elevato. «Mi piacerebbe dare un'occhiata a questa,» dissi. Chip controllò e annuì soddisfatto. «È un amore,» disse. «E già che siamo in zona,» aggiunsi, dando l'impressine di averci pensato dopo, «andiamo a vedere anche questo posto.» Spinsi il singolo foglio sul tavolo verso di lui. Lo guardò, poi si strinse le mani e mi guardò. «Con The Halls, Mr. Lautner,» disse, giudiziosamente, «dobbiamo sicuramente parlare di esclusività. Andremmo in cerca delle vette, in termini monetari. Sei milioni non sarebbero più sufficienti. E di un bel po'.» Gli rivolsi il mio sorriso migliore e più smagliante. «Come ho già detto, mi mostri qualcosa di speciale.» Un'ora dopo stavo ascoltando Chip che parlava di golf. Sempre ad ascoltare. Ancora ad ascoltare. Cominciai a temere che sarei rimasto ad ascoltare per l'eternità. Appena cominciato il viaggio, addirittura prima di essere usciti da Dyersburg, mi interrogò sulla mia dedizione a quel gioco. Ammisi subito che non giocavo, però, per fortuna, mi bloccai prima di aggiungere: «Perché mai dovrei, per l'amor di Dio?» Lui mi fissò così a lungo, con uno sguardo di così sbalordita incomprensione, che io dissi che intendevo cominciare a giocare non appena mi fossi sistemato - che questa ambizione era, in effetti, la principale tra le mie motivazioni per cercare una proprietà di quel tipo. A questa notizia lui aveva annuito lentamente, e quindi si era preso la briga di farmi un corso intensivo su tutto quanto ci fosse da sapere sul gioco. Mi accorsi che avrei potuto resistere altri quindici minuti, poi non avrei potuto fare altro che ucciderlo. Avevo già sopportato che mi fosse mostrata la proprietà di Big Sky, con i suoi elettrodomestici Sub-Zero, la pavimentazione in acero dell'Honduras e il caminetto realizzato artigianalmente con dei grossi ciottoli da qualche deficiente. Alla fine scossi semplicemente la testa. Chip mi diede una incoraggiante pacca sulle spalle - a questo punto eravamo sulla buona strada per diventare ottimi amici - e ritornammo alla macchina. Scendemmo lun-
go la strada principale e la percorremmo fino alle montagne, mentre Chip mi informava su quelli che lui percepiva come due piccoli difetti del gioco di Tiger Woods - da considerarsi, secondo lui, collegati alla natura impulsiva della razza. Il cielo, che la mattina presto era apparso chiaro, ora era dello stesso colore della strada. Il fiume Gallatin, freddo e turbolento, scorreva a sinistra. Sull'altro lato c'era una sottile striscia di vallata, piena di alberi e delimitata da montagne che si ergevano ripide da ambo i lati. Era un passaggio in mezzo alle Montagne Rocciose. Se proseguite abbastanza a lungo su questa strada, sbucherete su un altopiano e svoltando, poi, verso est, vi troverete nel parco di Yellowstone, il cratere di un super-vulcano dormiente la cui ultima eruzione risale a seicentomila anni fa. La roccia fusa si è accumulata da allora nelle cavità sottostanti, e mio padre un giorno mi raccontò di una leggenda locale che parlava di un leggero ronzio sulle rive del lago di Yellowstone - il rumore della pressione che cresce lentamente all'interno della roccia. Apparentemente l'intera zona potrebbe saltare di nuovo in aria in qualsiasi momento, riportandoci all'Età della Pietra, il che sarebbe una seccatura. Dopo un'ora passata con Chip mi sentivo capace di scatenare l'eruzione con le sole scintille che uscivano dalla mia testa. Circa trenta chilometri più avanti lungo la strada, Chip svoltò a destra, senza che io ne capissi il motivo. Saltò giù dalla macchina e si affrettò verso la staccionata, dove, mi accorsi, c'era un cancello piccolo e senza pretese. Questo mi sorprese. Big Sky, come molti posti del genere, aveva un'enorme entrata, ricavata da alberi che erano stati già di notevoli dimensioni quando i Farling erano ancora un cognome sconosciuto nella zona. Sembrava che questo cancello non portasse ad altro che a una strada di servizio. Chip si chinò verso il lato destro, e vidi le sue labbra muoversi. Capii che un citofono era stato installato nel montante. Si raddrizzò e attese un momento, scrutando il cielo. Stava iniziando a piovere. Poi si voltò, ascoltò qualcosa, e ritornò verso la macchina. Nel tempo che impiegò a rientrare e a imbracarsi di nuovo, il cancello si era aperto. Chip lo attraversò, e immediatamente si richiuse dietro di noi. Proseguì lungo il sentiero al di là di esso: due linee irregolari dove l'erba era stata schiacciata. Guidava con cautela, ma io continuavo a rimbalzare. Gli feci l'occhiolino. «Piuttosto rustico, vero?» Lui sorrise. «Vedrà.» Il sentiero proseguiva per circa quattrocento metri, allontanandosi trasversalmente dalla strada principale e dirigendosi verso un fitto gruppo di alberi, dopo il quale la pavimentazione cambiò improvvisamente. Dalle
due consunte strisce nella boscaglia si passò a una stretta ma immacolata strada asfaltata. Mi voltai in fretta e vidi che ora la strada principale era invisibile, nascosta dietro gli alberi. «Astuto,» dissi. «Niente è lasciato al caso a The Halls,» cinguettò Chip. «Coloro che scelgono di viverci possono contare sui massimi standard di privacy.» Il viottolo si distanziava dal fiume, girando dietro un affioramento per seguire un ripido percorso che risaliva lungo una gola, curvando sempre di più per rimanere nascosto dall'autostrada. Nel giro di pochi minuti sembrò non essere mai esistita. Qualcuno aveva riflettuto a fondo nel progettare The Halls. Ero leggermente impressionato. «Da quanto tempo esiste questo posto?» «Lo sviluppo del complesso è cominciato sette anni fa,» disse Chip che scrutava al di là del parabrezza, lottando contro la pioggia. «È così un peccato che lei non possa vederla con un tempo migliore. Se beccasse una bella nevicata quassù, penserebbe di essere morto e finito in paradiso.» «Ne ha vendute molte lei?» «Nemmeno una. Ci sono solo dieci abitazioni in tutto, e non hanno nessuna fretta di riempire le poche rimaste. Per essere sincero con lei, il loro volantino non li aiuta in questo. Gli ho detto che dovrebbero metterci qualche foto.» Ora ci stavamo avvicinando alla sommità del pendio, avendo risalito gli ultimi centocinquanta metri in una lunga serie di tornanti. «Nessuno degli altri agenti con i quali ho parlato sembrava esserne a conoscenza.» Chip scosse il capo. «È una nostra esclusiva. Almeno, lo è ora.» Mi fece l'occhiolino, e per un attimo ebbi una visione dell'uomo che Mr. Farling poteva essere quando la sera chiudeva la porta di casa alle sue spalle. Mi voltai, improvvisamente certo che fosse stata una buona scelta quella di non presentarmi con il mio vero nome. Avevo la sensazione che Chip avrebbe potuto riconoscere il cognome Hopkins molto prima di quello di un defunto architetto di Los Angeles, per quanti film potessero aver immortalato gli edifici da lui progettati. In quel momento, dopo l'ultima curva, cominciò a essere visibile un cancello. Non era fatto di legno, ma di pezzi molto grandi di roccia, ed era posto in cima a una piccola salita, così che quello che c'era dietro non fosse visibile. Mentre ci avvicinavamo, notai le parole «The Halls» incise a mano su di esso, con lo stesso carattere che avevano usato per il loro volanti-
no promozionale. «Ecco qui,» Chip squittì, inutilmente. Dall'altra parte della salita la strada voltava bruscamente a sinistra. Intravidi una serie di cime più elevate circa un chilometro più avanti, ma erano nascoste da un'altra fila di alberi, dietro la quale c'era una staccionata che correva in entrambe le direzioni. La recinzione era molto alta e nascondeva tutto quello che si trovasse al di là. La pioggia cadeva più fitta e il cielo sembrava pronto a tuonare. «Il campo da golf è dall'altra parte,» disse Chip, inserendo senza soluzione di continuità il pilota automatico. «Nove buche, tracciato disegnato da Nicklaus pére et fils, bien sûr. Come si dice... chi può battere una coppia di Jack? Naturalmente in questa stagione dell'anno è coperto, ma chi ne ha bisogno, con i campi di Thunder Fall e Lost Creek a pochi minuti di distanza? Immagini la convenienza di impianti all'aperto di livello internazionale, solo a poca distanza dalle abitazioni per soddisfare l'acquirente più sofisticato e attento.» Infatti, pensai. E immagina che io ti ficchi un dito su per il naso. «Questa è la zona d'ingresso,» disse Chip. Un gruppo di basse costruzioni in legno divenne visibile in lontananza, emergendo dall'oscurità. «Sala di ritrovo, bar per non fumatori e un ottimo ristorante.» «Ha già pranzato lì?» «No. Ma immagino sia, beh, estremamente raffinato.» Parcheggiò la macchina in uno spiazzo a un lato dell'ingresso dell'edificio, a fianco di una serie di macchine costosissime. Scendemmo, e mi condusse alla porta. Cercai di dare un'occhiata in giro, per avere un'idea del resto del complesso, ma la visibilità era nulla, e noi stavamo camminando velocemente a causa della pioggia ormai divenuta battente. «Pioggia del cazzo,» mormorò Chip sottovoce. Notò la mia sorpresa e scrollò le spalle in segno di scusa. «Spiacente, ma è il peggior nemico di un agente immobiliare.» «Come... peggio di vicini ispanici?» Lui rise fragorosamente, mi diede una pacca sulla spalla, e mi fece strada attraverso la porta. Dentro tutto era calmo. A sinistra si apriva una specie di sala di ritrovo, con sedie in pelle intorno a tavoli in legno scuro. Non c'era nessuno. Giù in fondo c'era una finestra, che in qualsiasi altra giornata avrebbe offerto sicuramente una vista incredibile. Oggi era solo un rettangolo grigio. Sul lato destro c'era un grande camino, dentro il quale il fuoco scoppiettava in
modo educato. Molto bassa in sottofondo si sentiva la musica di Beethoven, una delle Sonate per violino e pianoforte. Il bancone della reception era una striscia di buon legno levigato, e sul muro alle spalle era appeso un pezzo «d'arte». Mentre stavamo in piedi, in attesa che qualcuno rispondesse al cicalino che Chip aveva suonato, cercai dentro la mia giacca e premetti un pulsante sul mio cellulare. Dando per scontato che quassù ci fosse campo, il telefono di Bobby avrebbe squillato. C'eravamo messi d'accordo che avrei fatto questo se avessi trovato quello che cercavo. L'avevo trovato. Il processo di iniziazione durò mezz'ora. Una donna magra e attraente, sulla quarantina, invecchiata da una acconciatura costata un mucchio di dollari, ci fece accomodare nel salone e ci elencò gli splendori che The Halls aveva da offrire. Indossava un abito grigio, aveva piccoli occhi azzurri e una pelle curata, quindi presumo che qualunque cosa dicesse dovesse essere vero. Non disse il suo nome, cosa che trovai strana. In America, in un colloquio commerciale, forniamo sempre le nostre generalità: subito, all'inizio assieme alla stretta di mano. È una forma di impegno. Lei sa il mio nome, quindi io posso volere solo il meglio per lei. Pensa che io, il suo amico, potrei mai volerla fregare? La Donna Senza-Nome spiegò che l'intento era riprodurre, all'interno di The Halls, gli ideali tradizionali di «comunità» - semplicemente migliorati. Il personale era a disposizione in ogni momento per qualsiasi problema, anche il più intimo. Apparentemente i residenti li consideravano degli amici - presumibilmente di quel tipo speciale di amico che deve fare qualsiasi cosa gli diciate, non importa che ora sia, o quanto sia noioso o arduo il compito. Lo chef del ristorante aveva in precedenza lavorato in un affascinante trogolo di cui persino io avevo sentito parlare, e i residenti potevano farsi portare il pasto presso le loro abitazioni tra le nove e mezzanotte. Le loro cantine dei vini, mi assicurò, erano incredibili. Tutte le abitazioni erano completamente automatizzate e avevano l'accesso via cavo a Internet come standard. Oltre al molto decantato golf-club, c'era un centro fitness, una sala da pranzo e un sacco di altre cose che non mi preoccupai di tenere a mente. L'iscrizione a ognuna di queste era obbligatoria per i residenti e ammontava a circa mezzo milione di dollari. All'anno. A persona. Durante tutto questo riuscivo a percepire Chip che annuiva vigorosamente di fianco a me, come se non riuscisse a capacitarsi di quanto potesse essere un buon affare. Sorseggiai il mio centesimo caffè della giornata - a The
Halls, almeno, era buono - e tentai di non svenire. Lei concluse osservando che erano ancora disponibili solo tre abitazioni all'interno della comunità, con un prezzo compreso tra gli undici e mezzo e i quattordici milioni di dollari - tremendamente costose anche per gli standard delle proprietà di lusso. Coronò il tutto con un commovente peana sulle gioie del soggiorno, e mi accorsi che Chip lo memorizzò. «Fantastico,» dissi, quando finalmente giunse a una equilibrata conclusione. Posai la mia tazza. «Allora andiamo a dare un'occhiata.» La donna mi guardò con cortesia. «Naturalmente questo non è possibile.» «Non si preoccupi, mi sono bagnato altre volte,» la rassicurai. «Anzi, molte volte e pensi che una volta sono addirittura andato a nuotare.» «Le condizioni meteorologiche sono irrilevanti. Noi non permettiamo di visitare The Halls se non otteniamo dimostrazione di idoneità.» Lei guardò Chip, che appariva prudentemente assente. «Idoneità,» ripetei. «Finanziaria e non solo.» Aggrottai le sopracciglia e sorrisi divertito. «Cosa?» «Ciò che si cerca di dire, se posso intromettermi,» disse Chip, «è che, come abbiamo discusso venendo qui, The Halls sostiene un'elevata...» «Mi ricordo,» dissi. «Quindi, ne devo dedurre, Mrs....?» Lasciai un vuoto, ma lei non lo riempì con il suo nome. Questa donna non aveva nessuna fretta di diventare mia amica. «Ne devo dedurre che non posso andare più in là di questa stanza a meno che io prima non mi sottoponga alle prove che avete organizzato per stabilire la mia idoneità.» «Esattamente.» Mi sorrise raggiante, come a un bambino che finalmente ha capito, dopo lunghi e faticosi sforzi, come le relative posizioni delle lancette piccole e grandi potessero essere utilizzate per indovinare quanto tempo mancasse all'ora di andare a letto. «Come dovrebbe aver messo in chiaro Mr. Farling.» «E che tipo di dimostrazioni dovrebbero essere?» La donna allungò una mano verso un raccoglitore e ne tirò fuori un foglio. Mostrandomelo, disse: «Versare su un conto a garanzia l'intera somma necessaria all'acquisto che intendete effettuare, insieme a fondi sufficienti a coprire le iscrizioni al club per cinque anni. Non sono ammesse ipoteche o altre opzioni di pagamenti parziali. Consentire un contatto diretto con il suo commercialista o un altro rappresentante concordato, al fine di confermare lo stato finanzia-
rio generale. Un incontro presso di lei con l'intero consiglio della comunità, composto da amministratori e da un rappresentante di ognuna delle proprietà occupate, con un eventuale seguito in una sottocommissione, se questo fosse necessario. La nomina da parte sua di due persone significative e per 'significative' intendiamo che potrebbero tranquillamente fare parte della nostra società - ai quali il consiglio possa fare riferimento per quanto riguarda la sua situazione passata e presente. Presupponendo che quanto sopra proceda senza intoppi, allora lei sarà il benvenuto nella proprietà e le saranno mostrati i punti più belli del complesso, affinché lei possa scegliere.» «Lei sta scherzando.» «Affatto, gliel'assicuro.» Provai a fare lo spaccone. «Lei ha idea di chi sia io?» «No.» Lei sorrise, assottigliando le labbra fino a ottenere una linea sottile che somigliava a una cicatrice guarita di recente. «È proprio questo il punto.» Avevo la vaga sensazione che l'uomo alla reception, un tipo giovane che aveva passato molto tempo in palestra, ci stesse guardando. Ressi lo sguardo della donna per un istante, poi ricambiai il sorriso. «Eccellente,» dissi. Dopo un attimo di esitazione, lei si accigliò. «Prego?» «Questo è esattamente quello che speravo. Mr. Farling ha evidentemente indovinato alla perfezione le mie necessità.» La mia voce adesso era asciutta, probabilmente per essere in armonia con la mia personalità camaleontica. «Uno nella mia posizione necessita di alcune rassicurazioni, e sono felice di dire che voi le avete offerte.» La Donna Senza-Nome apparve di nuovo cordiale. «Siamo d'accordo?» «Perfettamente. Potrei vedere le planimetrie delle proprietà disponibili?» «Certamente.» Tornò al suo raccoglitore e ne estrasse due rotoli. Li aprì sul tavolo e io li esaminai velocemente. Erano disegni dettagliati e ben annotati. Quello che vidi fu più interessante di quanto pensassi. «Notevole,» dissi. «Mi dispiace di non poterle esaminare di persona in questa occasione, ma questo è sicuramente abbastanza per conservare il mio interesse.» Cominciai a ripiegare le planimetrie, poi pensai che da un uomo ricco come me ci si sarebbe aspettato che delegasse a qualcun altro un lavoro così umile. Dunque mi alzai. La repentinità del gesto li colse entrambi impreparati, e si affrettarono a fare lo stesso. Porsi la mano alla donna, e strinsi la sua con decisione.
«La ringrazio per la sua disponibilità,» dissi, come se stessi già pensando ad altro. «Presumo che nel caso avessi altre domande, potrò rivolgermi a Mr. Farling?» «Questa è la procedura abituale. Le posso chiedere come è venuto a conoscenza di The Halls?» Esitai un attimo, accorgendomi che confessare di avere visto solamente un foglio di carta poteva sembrare poco convincente. «Amici,» risposi. Lei annuì, quasi impercettibilmente. Bella risposta. Chinai il capo e uscii passando per l'atrio, senza aspettare Chip. Una volta fuori rimasi per un attimo sotto la copertura a osservare la pioggia scendere. Anche se avessi voluto sfidare il divieto, mi accorsi che la sistemazione degli edifici rendeva impossibile scorgere, dall'esterno, qualcosa della comunità. Chip non aveva scherzato a proposito della privacy. Lui comparve subito dopo e mi condusse alla macchina. Nel salire notai che un altro veicolo aveva appena attraversato il cancello e percorreva velocemente la discesa. Era una macchina grande e nera, una specie di mostro da fuoristrada. Compì un arco nel piccolo spiazzo e si fermò a circa dieci metri di distanza. Rallentai il più possibile le operazioni per sedermi al mio posto, lasciando addirittura un piede fuori per prolungare il tutto. Mentre mi mettevo la cintura di sicurezza un uomo emerse dall'edificio che avevamo appena lasciato. Era all'incirca della mia statura, con capelli biondo scuro, e camminava con risolutezza, a testa bassa. Non ci guardò affatto e intuii dei lineamenti marcati, ma niente di più. Mentre si dirigeva verso la macchina, un tizio saltò giù dal lato del guidatore e aprì il bagagliaio del veicolo. Con la sua schiena rivolta a noi, l'altro uomo gettò dentro una borsa. La borsa era grande, di un colore blu petrolio. Aveva il tagliando della dogana attaccato alla maniglia e su di esso erano stampate le lettere LHR. Tutti e due gli uomini salirono in macchina. Ormai Chip aveva già messo in moto il veicolo. Uscì con cautela in retromarcia, si diresse su per la strada e ci lasciammo The Halls alle spalle. Chip rimase in silenzio per la maggior parte del viaggio di ritorno in città. Ebbi la sensazione che fosse stato messo sotto torchio dalla Donna Senza-Nome dopo che io ero uscito, e che si stesse rimproverando per non essere stato in grado di rispondere adeguatamente alle sue domande sulla mia identità e sulla mia provenienza. Persino io sapevo che queste erano le prime cose che un agente immobiliare dovrebbe conoscere di un potenziale
acquirente, gli amminoacidi del genoma della trattativa. Nei suoi rari momenti di espansività mio padre era solito dire che la strada che porta alle tasche di un uomo è quella della sua stessa mano: con questo intendeva che è fondamentale assicurarsi di sapere abbastanza sul cliente per avvicinarlo nel modo a lui più congeniale. Chip mi chiese cosa ne pensassi di quanto avevo visto. Gli dissi che la proprietà di Big Sky non mi interessava, soprattutto dopo aver saggiato quello che The Halls aveva da offrire. Non apparve sorpreso. Gli chiesi quante altre persone avesse portato lassù. La risposta fu otto, negli ultimi tre anni. Tutti avevano affrontato le procedure richieste dalla direzione. A nessuno era stata offerta la possibilità di comprare. Lo fissai. «Queste persone avevano messo quindici, venti milioni su un conto, avevano reso noti i loro affari, e ciononostante non furono ammesse? Vogliono venderle veramente quelle case o no?» «Esclusività, Mr. Lautner. Questo è il segreto.» Mi guardò, per capire se godeva della mia completa attenzione. «Noi viviamo in un mondo strano, e questo è un dato di fatto. Abbiamo il paese più bello dell'intero pianeta, il popolo più operoso, e tuttavia viviamo ancora gomito a gomito con gente che non si vorrebbe neanche nello stesso emisfero. C'è una spiegazione storica a tutto questo. Abbiamo spalancato completamente le porte e le abbiamo richiuse troppo tardi. Abbiamo detto: 'Venite tutti, unitevi a noi abbiamo bisogno di persone insignificanti.' Avevamo un sacco di terra da riempire - ma non ci siamo preoccupati abbastanza di avere gli individui giusti. Non abbiamo pensato in modo intelligente al futuro. Questa è la ragione per cui persone come lei si spostano verso Ovest. Per fuggire dalle città, dalle masse, per stare in mezzo alla propria gente. Per tornare a uno stile di vita più autentico. Non sto parlando di razza, sebbene abbia una certa importanza. Sto parlando di mentalità, di qualità, di persone che sono fatte per stare insieme e di altre che non lo sono. Questo è il motivo per cui la gente viene in un posto come Dyersburg. È una specie di filtro, e nella maggior parte dei casi funziona piuttosto bene - ma comunque si va a finire sempre con persone che sono prive di qualità. Studenti, sciatori da strapazzo. Bianchi straccioni ammassati lungo l'autostrada. Gente che non capisce. Che fare? Non si può impedire loro di venire - siamo in un paese libero. Non si può fare nulla se non preservare ciò che si possiede.» «E come?» «Si rimpicciolisce la maglia del filtro. Si trovano persone che la pensino alla stessa maniera, e si costruisce una barriera più grande.»
«The Halls è tutto questo?» «Questo è un modo di intenderlo. Ma, in primo luogo, è certamente un'opportunità abitativa unica.» «Se lei avesse i soldi, si trasferirebbe lassù?» Rise, emettendo un suono breve e amaro. «Sissignore, sicuramente. Nel frattempo, lavorerò solo per la mia provvigione.» Discendemmo dalle colline fino al piccolo pianoro. Quando arrivammo a Dyersburg era già completamente buio e la pioggia aveva cominciato un po' a diminuire. Chip parcheggiò fuori dal suo ufficio e si voltò verso di me. «Eccoci.» Sorrise. «Quale sarà la sua prossima mossa? Vuole pensare a ciò che ha visto, oppure possiamo andare in ufficio e magari le mostro qualche altra opzione per domani?» «Volevo farle una domanda,» dissi, guardando attraverso il parabrezza. Il selciato era deserto. «Spari.» Sembrava stanco ma risoluto. Mia madre diceva sempre che quello dei beni immobili non era un campo per gente che ci tenesse a lavorare un numero di ore prestabilito. «Lei ha detto che sono solo tre anni che fa vedere The Halls. C'era un'altra agenzia che se ne occupava?» «Esatto.» Sembrò confuso. «E con ciò?» «Che lei sappia hanno venduto qualcosa?» «Nossignore. Avevano ottenuto l'incarico non da molto tempo.» «Allora come mai non la rappresentano più?» «Il tizio è morto, l'impresa liquidata. Se sei morto case non ne vendi.» Annuii, sentendomi molto tranquillo. «Quanto sarebbe la sua provvigione per un posto del genere? Una bella somma direi.» «Un bel po',» ammise, cautamente. Dopo un attimo di pausa continuai. «Abbastanza per uccidere qualcuno?» «Cosa?» «Mi ha sentito.» Non stavo più sorridendo. «Non so di cosa stia parlando. Lei pensa... cosa? Che diavolo sta dicendo?» C'era qualcosa nel suo diniego che non mi piaceva, e sareste sorpresi e amareggiati, se sapeste quanto è brava la gente a mentire, anche nelle situazioni più difficili. Chip sembrava sincero ma mi doveva convincere. Avevo aspettato. Ero stato buono. Ora ne avevo abbastanza di stare al gio-
co. Afferrai la testa di Chip da dietro e la scaraventai in avanti, facendogli sbattere forte la fronte sul volante. Diressi la traiettoria in modo che la parte di plastica dura lo colpisse proprio sul setto nasale. Poi spinsi la sua testa indietro. «Sto per farti una domanda,» dissi, mandandolo di nuovo a sbattere con la testa sullo sterzo. Lui emise un debole lamento mentre lo premevo in quella posizione. «Questa volta, devo credere alla tua risposta. Ho bisogno di sapere che mi stai dicendo la verità, e hai solo questa opportunità per convincermi. Chiaro?» Percepii il tremolio del suo cenno di assenso. Lo tirai di nuovo indietro per i capelli. Il suo naso sanguinava e c'era un livido sulla sua fronte. Gli occhi erano spalancati. «Hai ucciso Don Hopkins?» Scosse la testa. La scosse e continuò a scuoterla con i movimenti frenetici e sussultanti di un bambino. Rimasi a guardare per un po'. Nella mia carriera avevo avuto a che fare con molti bugiardi, e io stesso lo ero stato per lunghi periodi. Me ne intendevo di queste cose. Chip non aveva ammazzato mio padre. Almeno non personalmente. «Okay,» dissi, prima che si spezzasse il collo da solo. «Ma penso che tu sappia qualcosa su ciò che gli è accaduto. Ecco cosa farai. Voglio che tu riferisca un messaggio. Lo farai per me?» Annuì, sbattendo le palpebre. «Di' ai nazisti lassù sulle montagne che qualcuno si sta interessando a loro. Digli che io non credo che i miei genitori siano morti accidentalmente, e che voglio il giusto risarcimento per quanto accaduto. Afferrato?» Annuì di nuovo. Lasciai andare la sua testa, aprii la portiera, e uscii nella pioggia. Quando fui fuori mi abbassai per guardarlo. La sua bocca era ripiegata all'ingiù per la paura e lo shock, e il sangue gli scendeva lungo il mento. Mi voltai con le mani che tremavano, e andai in cerca di un essere umano. 15 Bobby era appoggiato al bancone della cucina dei miei genitori e stava bevendo un bicchiere di acqua minerale. Quando entrai mi guardò mentre stavo immobile e gocciolavo sul pavimento. Praticamente aveva piovuto
durante tutto il mio tragitto a piedi fin lì. «Cosa hai combinato?» chiese gentilmente. «Niente.» «Bene,» disse alla fine. Presi il bicchiere e bevetti il resto dell'acqua in un sorso. Solo quando ebbi terminato mi ricordai che proveniva dall'ultima lista della spesa dei miei genitori. «Ce n'è ancora?» «Poca,» rispose. «Non berla.» Posai il bicchiere sul bancone e mi sedetti al tavolo. Poi per una sorta di ripensamento mi tolsi il cappotto, quasi come se una voce mi avesse detto che mi sarei preso un accidente. Attraverso la finestra potevo vedere Mary seduta in salotto con la luce accesa. Speravo non scoprisse che mi trovavo ancora in città. Sarebbe sembrato scortese che non fossi passato a trovarla. Ma a quel punto mi accorsi che mi trovavo in una casa con molte luci accese e una macchina parcheggiata fuori, quindi probabilmente lei lo sapeva già. Non ero molto lucido. Bobby aspettava, con le braccia incrociate. «Allora,» domandai. «Come è stata la tua giornata?» «Dai, Ward,» disse alterandosi. Scossi la testa. Lui alzò le spalle e lasciò perdere. «Ho controllato la scena dell'incidente. Data la posizione dell'auto nella quale sono andati a sbattere, è assolutamente plausibile che tua madre possa semplicemente aver saltato la curva. È brusca, era buio, e a detta di tutti c'era foschia.» «Bene,» dissi, stancamente. «E lei guidava solo da qualcosa come quarant'anni. Probabilmente non aveva mai affrontato una curva a gomito prima, né aveva mai attraversato quell'incrocio in tutto il tempo in cui visse qui. Immagino che il succo di mirtillo e la foschia fossero troppo per lei. Ora mi è tutto chiaro. È un miracolo che la macchina non abbia superato in volo la prima fila di edifici e non sia rimbalzata fino al mare.» Bobby mi ignorò. «C'è una piccola stazione di benzina diametralmente opposta al luogo dell'incidente e un video noleggio un po' più avanti sulla strada. Manco a dirlo nessuno dei tizi con i quali ho parlato erano lì quella notte. Il negozio di video è gestito da due fratelli. Quello con cui ho parlato è sicuro che suo fratello non si fosse accorto di nulla fino all'arrivo della polizia.» «Non sentì il rumore di un grande oggetto metallico che sbatteva contro un altro, non pensò che stesse succedendo qualcosa?» «Lo sai come sono questi posti. Grossi e vecchi televisori appesi al sof-
fitto, film di John Woo sparati a tutto volume, il tipo dietro il banco che passa la serata con una birra e una canna delle dimensioni di un burrito. È possibile che avresti potuto rompergli la testa con un martello senza che se ne accorgesse. Allora sono andato alla stazione di benzina e il ragazzo mi ha dato il numero del suo capo. L'ho chiamato e ho ottenuto l'indirizzo del tipo che era in servizio quella sera.» «Dicendogli che cosa?» «Che affiancavo la polizia nelle indagini.» «Fantastico,» dissi. «Così avrò il dipartimento di polizia locale attaccato alle chiappe.» «Ward, a chi cazzo vuoi che importi?» «Non sono più nell'Agenzia, Bobby. Qui fuori, nel mondo reale, i poliziotti possono farti il culo.» Bobby fece un cenno con la mano, come per dire che questo timore era di poca importanza. «Così gli ho fatto visita. Ha confermato di non aver visto nulla. Aveva sentito un rumore, ma ha pensato che fosse qualcuno che cazzeggiava sul retro della stazione. Ha esitato a chiamare i poliziotti, e nel momento in cui si è accorto che fuori c'era stato un incidente e la stazione era al sicuro, la polizia era già sul posto.» «Okay,» dissi. Non mi aspettavo che Bobby avesse trovato nulla indagando sull'incidente, ma aveva insistito tanto. «Allora, cos'altro?» «Allora, come d'accordo, sono venuto qui e ho dato un'occhiata in giro.» «Trovato qualcosa?» Scosse la testa. «No. Assolutamente niente.» «Te l'avevo detto.» «È vero,» scattò. «Non solo sei bello, Ward, ma hai anche sempre ragione. Accidenti, vorrei essere gay. Non andrei più a caccia. Tu sei il migliore. Dunque, ora dimmi tu qualcosa.» «Il posto nella prima scena del video si chiama The Halls, e si trova in una gola sopra la valle del Gallatin. Devi essere veramente ricco per essere ammesso, e non ti fanno nemmeno vedere le case fino a quando non hai dimostrato di essere idoneo.» «The Halls? Che razza di nome è?» Sospirai. «Non lo so. Forse pensano al Valhalla, forse si credono degli dèi. Con tutti quei soldi, forse lo sono.» «Sei sicuro sia quello il posto?» «Non c'è dubbio. L'atrio era esattamente uguale a quello del video, addirittura nella grafica. È quello il posto. E loro sono molto, molto severi nel-
l'ammettere qualcuno.» «Allora perché non hai fatto una chiamata?» «L'ho fatto, ma non doveva esserci segnale lassù. L'ho fatto con il telefono in tasca, quindi non potevo accertarmene.» «Com'era?» «Semplicemente magnifico. Non ho visto nessuno dei residenti, se non alla fine, per un attimo, un tizio e comunque non sono riuscito a osservarlo bene. Fondamentalmente, se hai i soldi e non vuoi essere assillato dai soliti problemi terreni, allora questo è il posto per te. Comunque, ho dato un'occhiata alle planimetrie delle case, e queste non sono delle seconde case alla portata di tutti. Per questo progetto hanno chiamato uno in gamba, uno che aveva qualcosa di specifico in mente.» «Tipo cosa?» Presi un penna dalla tasca e feci degli schizzi. «La planimetria è 'esplosa', i principali spazi abitativi sono elevati rispetto al terreno, i camini vengono arretrati fino alle estremità delle stanze interne. Ci sono vetri colorati sulle finestre opposte ai camini, e nei lucernari sopra i corridoi. Cornicioni a sbalzo, finestre disposte su file orizzontali, terrazze notevoli.» Bobby osservò il disegno. «E allora? A me sembra, amico mio, che questa sia una casa normale.» «Molte di queste soluzioni sono state ormai incorporate negli standard architettonici,» confermai. «Ma il modo in cui il tutto è stato messo insieme in questi disegni sembra preso alla lettera da Frank Lloyd Wright.» «Allora forse l'hanno ingaggiato.» «Improbabile. A meno che non abbiano assoldato anche un medium.» «Allora hanno preso qualcuno che progettasse come lui. Ce ne saranno a centinaia. Sai che sforzo.» «Sarà così, ma questo genere di cose non è alla moda al giorno d'oggi, non lo è mai stato per costruzioni di questo tipo. Di solito lo sono scalinate da magnati del petrolio, mobili nella camera da letto principale, e guardacome-sono-ricco.» «Dà l'impressione di essere qualcosa di grandioso.» «Ma artefatto. Originariamente, i luoghi nei quali vivevamo erano ricavati da ambienti naturali, non costruiti da zero. Questo è il motivo per cui così tanta architettura moderna appare arida: non fa un utilizzo armonico dello spazio. Le abitazioni di Wright erano diverse. La strada di accesso ha un tracciato tortuoso per simboleggiare il ritirarsi in un rifugio noto e sicuro, mentre il camino viene spostato verso il centro della struttura per rap-
presentare il fuoco dentro una profonda caverna. Gli spazi della casa erano disposti in modo che la prospettiva interna rappresentasse un'ultima difesa, e suggerisse l'adattamento di un ambiente creato naturalmente. Le finestre della facciata sono a nastro in modo tale che la linea visuale riveli l'esterno senza mostrare l'interno. Il vetro colorato evoca una barriera di vegetazione attraverso la quale gli abitanti possono guardare ma che dall'esterno appare come un muro. Gli esseri umani sono maggiormente a loro agio quando possiedono sia un panorama sia un rifugio - quando hanno una buona vista sul territorio nel quale vivono, ma si sentono anche protetti e nascosti. Questo è quello che prevede il suo programma architettonico.» Bobby mi guardò. «Sei un uomo unico.» Scrollai le spalle, imbarazzato. «Stavo attento in classe. Quello che voglio dire è che se nel mondo mi trovi un altro complesso abitativo che assomigli a questo, ti bacio il culo.» «Allettante, comunque ti prendo in parola.» «Probabilmente è questo uno dei motivi per cui non permettono alla gente di vedere in anticipo le case. Non è quello su cui di norma investirebbero i loro milioni. Il che significa che devono avere qualche altra ragione per realizzarle così.» «Quindi il progettista va matto per Wright. Oppure hanno ingaggiato un architetto che stava, anche lui, attento in classe. Non vedo come questo ci porti da qualche parte, e vorrei proprio che tu mi raccontassi cosa è successo alla fine.» «Ho perso le staffe con l'agente immobiliare.» «Lì sul posto?» Scossi la testa. «Fidati di me. È successo quando siamo tornati in città, non c'era nessuno intorno.» «È morto?» La domanda aveva un tono professionale. «Cristo, no.» «Perché l'hai fatto?» «Non mi piaceva. In più c'erano due agenzie che si occupavano di The Halls. Mentre ora ce n'è solo una.» Bobby annuì lentamente. «Non essendo più in ballo l'agenzia di tuo padre.» «Sei un ragazzo sveglio.» «Mi sembra anche di capire, dal fatto che non stiamo parlando di un omicidio, che tu non credi che sia stato l'agente immobiliare a uccidere i tuoi genitori. Nonostante il movente finanziario.»
Scrollai la testa. «Non di persona. Ma se la intende con le persone che l'hanno fatto. Altrimenti perché ci sarebbe nel video uno spezzone su questo posto?» Improvvisamente mi ritrovai in piedi e diretto a grandi passi fuori dalla cucina. Mentre attraversavo l'atrio qualcosa attirò il mio sguardo, ma non riuscii a capire cosa, così proseguii. Bobby mi seguì in salotto, dove io mi diressi verso il tavolino. Presi il libro che giaceva lì sopra, e lo sventolai verso di lui. «Un libro sull'architetto citato poco fa,» disse. «E allora? Tuo padre era un agente immobiliare. Hanno a che fare con le case. In più era un tipo anziano. E ai vecchi piacciono un sacco le biografie. Sono l'unica cosa, assieme a Discovery Channel, che li fa andare avanti.» «Bobby...» «Okay,» ammise. «È una coincidenza interessante, quasi.» Gironzolai fino a tornare nell'atrio e poi mi fermai di nuovo. Mi sentivo come se dentro di me ci fosse un motore, in folle, pronto a partire - ma senza la minima idea di quale direzione prendere. «Hai rivoltato a fondo questo posto?» «Ho tirato su i tappeti, ho cercato sotto le assi del pavimento, sono andato nel sottotetto e ho illuminato con la torcia la cisterna. Ho guardato dentro i telefoni. Non c'è nient'altro qui. Certo... non potrei dire cosa potrebbe mancare.» «Io neanche,» dissi. «Non sono venuto qui tanto spesso. L'unica cosa che mi saltò all'occhio furono i videoregistratori.» Aggrottai le sopracciglia. «Aspetta un secondo. Mentre ero qui l'altro giorno ho messo la posta in questo punto, ma ora non c'è più.» Alzai lo sguardo su di lui, improvvisamente sicuro di avere trovato qualcosa. «Rilassati, detective. L'ha presa, un paio di ore fa, un tizio anziano, col naso adunco. Mi ha detto di essere stato il legale dei tuoi. L'ho fatto entrare, spiegandogli di essere un tuo amico. Mi sembrava tranquillo al riguardo, anche se dava l'impressione di voler controllare quanti cucchiai avessi rubato.» «Harold Davids,» dissi. «Mi aveva detto che sarebbe passato ogni tanto.» Bobby sorrise. «Ward, succedono già abbastanza cose strane senza bisogno di andarle a cercare. Smettila di essere paranoico.» Udimmo un forte rumore di vetri che si infrangono provenire dal salotto. Cominciammo a scappare, ma non abbastanza velocemente.
È più una sensazione di immensa pressione che un vero e proprio rumore, ed è shockante come quando da bambini venite schiaffeggiati da qualcuno che non vi ha mai picchiato prima. Se siete abbastanza vicini a un'esplosione, quello di cui siete maggiormente coscienti è il rimbombo prodotto dalla vostra testa e dal petto, un impatto che trasforma ogni rumore in una sensazione profonda, l'impressione che il mondo stesso sia stato messo ko. Il rumore in sé sembra secondario, come se lo sentiste giorni dopo. Fu come se avessi urtato il muro all'istante, violentemente, sbattendo la faccia contro una fila di quadri. Quando caddi a terra, con la testa immersa in un chiarore bianco, e circondato da vetri infranti, ci fu un'altra esplosione meno fragorosa, e dopo stavo tirando su dal pavimento Bobby e lo trascinavo fuori, attraversando quello che rimaneva della porta d'ingresso. Percorremmo insieme a gran velocità il viale, scivolando e cadendo sulle pietre bagnate del lastricato. Ci fu un'altra esplosione alle nostre spalle, molto più forte della prima. Questa volta udii il sibilo e il fischio degli oggetti che mi volavano intorno, il whuppa dell'aria che si comprimeva e poi si espandeva. Bobby continuò a strisciare in avanti, usando le mani per procedere. Io mandai a puttane i suoi sforzi voltandomi indietro per guardare verso la casa, così ci aggrovigliammo e finimmo per scivolare di schiena sull'erba bagnata. L'intero muro esterno del salotto era distrutto e l'interno cominciava già a bruciare. Non riuscivo a staccare gli occhi da lì. Quando vedete una casa in fiamme è come veder bruciare l'effigie dell'anima di qualcuno, come assistere all'opera maestosa di vermi alti venti metri. Nel tempo in cui mi rimisi in piedi Bobby aveva già tirato fuori il telefono e si stava allontanando guardando oltre il recinto. Io feci alcuni passi indietro verso la casa. Forse pensai di poter tornare dentro e spegnere il fuoco. O di poter salvare qualcosa. Non lo so. Sentii solamente che ci doveva essere qualcosa che io potessi fare. Ci fu un'altra piccola esplosione, e udii gli oggetti che andavano in frantumi dentro la casa. Il calore stava crescendo rapidamente. La pioggia si era rammollita fino a una leggera acquerugiola, e mi ricordo di aver pensato che questo era abbastanza tipico. Aveva piovuto forte tutto il pomeriggio. Perché non ora? Bobby tornò di corsa verso di me, chiudendo il telefono con uno scatto. Aveva un piccolo taglio sulla fronte, dal quale perdeva sangue.
«Sono per strada,» disse. Non riuscii a immaginare di chi stesse parlando. «Chi?» «I pompieri. Andiamo.» «Non posso,» dissi. «Quella è la loro casa.» «No,» disse con fermezza, «è la scena di un delitto.» Quando raggiungemmo la mia macchina, lui fece velocemente il giro del veicolo guardando con attenzione a terra. Poi si mise gattoni nel fango e sbirciò sotto. Si tirò su, si pulì le mani e poi aprì la portiera. Si rannicchiò, guardò sotto il sedile del guidatore, poi aprì il cofano, andò davanti e guardò nel motore. «Okay,» disse. «Correremo il rischio.» Chiuse il cofano e tornò al posto del guidatore. Infilò le chiavi nell'accensione, mi fece l'occhiolino e avviò il motore. Non esplose nulla. Bobby sospirò profondamente e diede un colpo al tettuccio della macchina. «Però non abbiamo sentito nulla,» dissi. «Nessun'auto.» «Non mi sorprende,» disse, e la sua voce era incerta per il sollievo. «In zone come questa è più facile perdersi nei giardini dietro casa che sulla strada. Io avrei nascosto una macchina in fondo alla collina e avrei percorso a piedi gli ultimi cinquecento metri. Anche se, fossi stato io, noi non saremmo stati qui a parlare. Hai sentito come continuava a ronzare dopo la prima esplosione? Qualcuno l'ha confezionata in fretta e ha mandato tutto a puttane.» «Che differenza fa? Che sicuramente la prima detonazione avrebbe fatto saltare in aria tutto?» «Gli ordigni sono stati fatti saltare dalla carica di accensione. Qualcuno ha tentato di mettere insieme una signora bomba, e questa si è disintegrata prima che potesse esplodere correttamente.» «Se noi fossimo stati nel salotto, sarebbe bastato.» Improvvisamente mi fregai il viso con le mani. «Penso che Chip abbia riferito il messaggio.» «Sembrerebbe proprio di sì.» «Nel qual caso...» Guardai il mio orologio. «Hanno organizzato tutto questo in poco più di un'ora, considerando anche il mandare qualcuno fino qui.» Notai che stavo sanguinando copiosamente da un profondo taglio sul dorso della mano e l'asciugai con la giacca. «Come ho detto. Hanno fatto in fretta.» «Possono anche essersi incasinati con i dettagli, ma sono sicuramente andati a segno, non credi?» In lontananza potevo ora sentire il suono delle sirene che si avvicinavano e vedevo le porte delle abitazioni dall'altra parte
della strada che si aprivano. «Hanno fatto saltare in aria la casa dei miei genitori,» dissi incredulo, voltandomi per guardarla ancora una volta. «Sapete, con una bomba.» La casa in fiamme appariva strana, un punto completamente fuori luogo in mezzo a una strada di piccole abitazioni perfette. Mi voltai per guardare la casa di Mary oltre la siepe. Alcune luci erano accese, e la porta d'ingresso era aperta. «Hai a che fare con succhiacazzi di serie A,» convenne Bobby colpendo di nuovo il tetto dell'automobile. «E ora andiamocene.» Ma ormai ero già sceso e stavo correndo, e scivolando, verso il cancello. Sentii Bobby che imprecava mentre mi seguiva. In fondo al sentiero mi feci strada direttamente attraverso la siepe nel cortile di Mary. Avevo appena messo piede nella sua proprietà quando Bobby mi afferrò la spalla e mi voltò. Me lo scrollai di dosso e tentai di continuare a risalire il giardino in pendenza. Lui mi raggiunse di nuovo, ma fu titubante quando vide quello che avevo visto io, e poi cominciò ad avanzare più velocemente di me. Mary giaceva sdraiata sulla veranda, con la testa e le spalle riverse sugli scalini, un braccio steso di lato. All'inizio pensai a un attacco di cuore, fino a quando non vidi il sangue che la ricopriva, la pozza che si stava già raggrumando sul legno consumato. Bobby si piegò su un ginocchio di fianco a lei, reggendole la testa. «Mary,» d'issi. «Oh, Gesù Cristo.» Tenendola in due, la girammo con cautela in modo che fosse stesa in piano. Il suo respiro era irregolare. Dall'incendio accanto proveniva abbastanza luce da far sembrare dei canyon le rughe del suo viso. Bobby stava esaminando tra le pieghe del suo vestito, trovando un foro dopo l'altro, tentando di tamponare il sangue che non sembrava fuoriuscire velocemente come avrebbe dovuto. Lei tossì e un groppo di qualcosa di scuro le salì in bocca. Fino a quel momento avevo sempre solamente visto una donna anziana, una di quelle persone che ingombrano le corsie dei supermarket e che aspettano l'autobus, che sanno o gli importa sapere quali siano i regali che la gente deve fare nelle diverse occasioni, che appaiono incartapecorite e fredde come se lo fossero sempre state. Persone che non sono mai riuscite a ubriacarsi o ad arrampicarsi su recinti proibiti, o a spostarsi, ridacchiando in modo tale che qualcun altro venisse accusato di pisciarsi addosso. Vecchi strambi che non riuscite a credere possano aver amato qualcuno, alme-
no non qualcuno vivo, non qualcuno che non fosse solo un ricordo, il cui luogo di riposo era ora decorato con fiori appassiti che solo lei si ricordava di portare. Ora vedevo qualcun altro. Quel qualcuno che lei era stata una volta e che probabilmente era rimasta, sotto lo scherzo cosmico di cellule che degeneravano e di pelle arida, di rughe come canyon e capelli grigi arricciati e tagliati corti. Dietro il travestimento che gli anni le avevano dato, dietro l'errata supposizione che, a causa della sua età, lei non fosse mai stata, e non fosse tutt'ora, una persona reale. Poi la sua gola produsse un rumore secco, e si liberò una sacca d'aria, dall'odore caldo e acido. I suoi occhi sembrarono passare da umidi ad asciutti in un istante, come in un avanzamento veloce. Forse fu il freddo dell'aria, ma sembrò che fosse stata portata via sotto i nostri occhi, in un attimo. Bobby alzò lentamente lo sguardo verso di me. Ricambiai. Non avevo nulla da dire. «Cosa è successo?» domandai. Fu la prima cosa che dissi, dopo dieci minuti. «Che diavolo è successo laggiù?» Bobby era concentrato nel guardare al di là del parabrezza facendo scattare la testa avanti e indietro per dare un'occhiata alle strade laterali che superavamo. Tutte avevano quella tranquillità tipica delle prime ore della sera. Ormai il corpo di Mary era tre chilometri dietro di noi, ancora sdraiato sul pavimento della veranda. Il ricovero in ospedale avrebbe richiesto più tempo di quello necessario a darle assistenza medica lì sul posto, e, a ogni modo, non c'erano speranze di resuscitarla. Era morta, e sia io che Bobby lo sapevamo. Lui scrollò le spalle. «Si è intromessa. Come ho detto, qualcuno è arrivato attraversando i giardini. Lei ha sentito qualcosa ed è uscita. Così loro le hanno vuotato addosso mezzo caricatore. Mi dispiace amico.» «Qualcuno viene qui per farmi saltare in aria, portando una pistola con silenziatore perché non si sa mai. Un'innocua donna anziana compare e loro la fanno secca in quel modo.» «Questa gente fa sul serio, Ward, e tu non gli vai proprio a genio.» Con un gesto brusco svoltò a sinistra, e ci ritrovammo nella zona centrale della città. Lungo la strada principale ci superò un camion dei pompieri che si dirigeva in senso completamente opposto a quello per arrivare alla casa. «Dove cazzo sta andando?»
Una macchina dietro di noi suonò. Io e Bobby ci voltammo contemporaneamente e un tizio in un pick-up ci fece segno che il semaforo era scattato e che forse avremmo dovuto muoverci. Bobby partì e proseguì lungo la strada seguendo il camion dei pompieri. «Quel camion sta andando nella direzione sbagliata, Bobby.» «Gli ho dato l'indirizzo proprio come me l'avevi riferito tu. Era stato sufficiente per portarmi fino a lì.» «Ma perché diavolo...» mi bloccai. Ora riuscivamo a vedere la luce arancione più avanti. Bobby accostò bruscamente, senza segnalare. Ci beccammo un'altra severa strombazzata dal vecchio del pick-up, che si girò per guardarci duramente mentre ci sorpassava. Nessuno di noi gli prestò molta attenzione. Ora riuscivamo a vedere che il Best Western, o almeno una piccola parte di esso, stava andando a fuoco. Fissai la scena con sincera incredulità, chiedendomi come avesse fatto Dyersburg a finire in uno dei gironi dell'Inferno. «Avvicinati,» dissi debolmente. Avanzò adagio, e dopo un isolato lasciò la strada principale per arrivare all'albergo da una via laterale. Ci fermammo all'estremità, piazzandoci a un centinaio di metri dall'hotel. Da qui riuscimmo a vedere che l'incendio era relativamente modesto e interessava solo un tratto di circa quaranta metri di un'ala. L'albergo sarebbe sopravvissuto per ospitare un'altra convention. Quattro camion dei pompieri erano già all'opera e un quinto si aggiunse mentre guardavamo. L'altra estremità della strada era già affollata, e altri ancora si stavano affrettando, superando la nostra macchina, per godere di una visuale più eccitante. La metà delle forze di polizia della città sembrava essere all'opera. «L'incendio è cominciato più o meno dove si trovava la tua camera?» Non risposi nemmeno. Provavo un senso di nausea. Per qualche motivo l'attacco all'hotel sembrava una ferita personale più di quello alla casa. Mi domandai se i miei vicini, la gente nelle stanze intorno alla mia, si fossero trovati all'interno. «Ward, a proposito del messaggio che gli hai mandato,» disse Bobby, «cosa hai detto esattamente?» «Questo è assurdo,» dissi. «La situazione è completamente fuori controllo.» Aggiunsi: «Che mi dici della casa? Come hanno...» «Probabilmente avevano già qualcuno lì. Li avranno chiamati gli altri vicini. E prima che tu cominci a chiedertelo, la tua roba è salva.»
«Quale roba?» «Beh, non i tuoi vestiti. Guarda dietro.» Mi voltai e vidi la borsa del mio portatile sul sedile posteriore. «Non ritenere mai di avere un rifugio,» disse, tamburellando sul volante con le dita e guardando le fiamme. «Sono un uomo previdente anch'io. Tieni sempre a portata di mano quello che ti serve. Penso che ora sia il momento buono per squagliarsela.» Io avevo il desiderio di tornare sulle colline e ammazzare qualcuno. Bobby mi lesse nel pensiero e scosse la testa con decisione. «Una volta che il fuoco sarà sotto controllo scopriranno quale camera si è incendiata per prima. C'è anche la possibilità che si prendano più tempo e facciano in modo di far sembrare la cosa in parte credibile. Collegandola a ciò che è successo alla casa, tu stai per finire dritto dritto nell'elenco dei maggiori ricercati di Dyersburg.» «Per quale cazzo di motivo? Io non ho fatto nulla.» «C'è una polizza assicurativa sulla casa dei tuoi?» «Sì.» «Grossa?» Sospirai. «È probabile. Non ho prestato attenzione alle parole di Davids. E poi troveranno Mary, e qualche poliziotto sveglio deciderà di riesumarla giusto per l'occasione. Con tutto quel sangue, potrebbero anche scoprire alcuni misteri. Le tue impronte sono schedate, Bobby?» «Sai che lo sono.» «Le mie anche. Hai ragione, è ora di andarsene.» Venti minuti dopo eravamo all'aeroporto di Dyersburg. 16 Zandt raggiunse Beverly Boulevard alle nove di sera. Era esausto e i piedi gli facevano un male cane. Era anche ubriaco. Alle tre di notte si era trovato fuori dal cinema dove Elyse LeBlanc era stata vista per l'ultima volta. I cinema hanno un'aria particolare a quell'ora, così come i negozi e i ristoranti. Nelle ore piccole sembrano strani, enormi e vuoti - come se fossimo degli esploratori che avessero mancato, solo per un decennio o due, la civiltà che li aveva edificati. Qualche ora dopo aveva osservato la casa dove Annette Mattison aveva passato con un'amica la sua ultima serata. Riconobbe la donna che ne uscì alle sette, vestita in modo elegante, diretta verso le miniere televisive. Zandt aveva interrogato Gloria
Neiden in più di un'occasione. Era invecchiata un bel po' negli ultimi tre anni. Si domandò se fosse ancora in contatto con Frances Mattison. Le loro figlie si erano frequentate in molte occasioni e avevano sempre percorso a piedi i tre brevi isolati fino a casa. Era la prassi abituale. Dopotutto, vivevano in un quartiere molto bello, a Dale Lawns - e, sicuramente, uno dei motivi per cui pagare una somma a sette cifre per una casa è quello di poter passeggiare sotto le stelle dopo il tramonto. Zandt sospettò che il legame tra le due madri si fosse allentato se non addirittura interrotto. Quando Zoë Becker aveva menzionato Monica Williams, la sua voce aveva assunto un tono incolore - sebbene quest'ultima potesse difficilmente essere ritenuta responsabile della scelta di Sarah di attendere per strada l'ora in cui suo padre sarebbe andato a prenderla. La loro piccola comunità aveva fallito. Quando accade una cosa simile, ci si chiede che senso abbia, si cerca qualcuno da incolpare, e le persone all'interno della propria cerchia sono le più vicine. Zandt si voltò dall'altra parte mentre la macchina di Mrs. Neiden gli scivolava accanto. Era possibile che lo riconoscesse, e l'essere rimasto così a lungo a osservare l'avrebbe fatto sentire indesiderato come l'altro uomo, quello che tre anni prima era rimasto fuori dalla sua casa a guardare, forse nello stesso punto. Si allontanò. Nella tarda mattinata era stato al Griffith Park, sul luogo dove fu ritrovato il corpo di Elyse. Non c'era niente che indicasse il posto, anche se per qualche tempo c'erano stati dei fiori e trovò i cocci di un vaso di vetro. Rimase lì a lungo gettando lo sguardo sulla città immersa nella foschia, sui luoghi dove un milione di persone lavorava, dormiva e ingannava, trasformandosi nella feccia della giungla urbana. Fu subito dopo questa sosta che entrò per la prima volta in un bar, e, un po' più tardi, in un altro. Ogni volta riprendeva il cammino, ma sempre più lentamente, sentendo che la sua determinazione stava cadendo a pezzi. Aveva percorso queste strade molte volte, e tutto quello che ne aveva ricavato era stato sangue e dolore. Poteva ancora sentire le voci che lo avevano spinto ad alzarsi quando Nina se n'era andata, le urla delle rapite - ma, offuscate dalla luce del giorno e dalla razionalità, erano troppo deboli per portarlo da qualche parte. La sua camicia era impresentabile e quando incontrava gli altri passanti si accorgeva dei loro sguardi indagatori. Si dice che sia possibile riconoscere chi appartiene alla polizia, specialmente un poliziotto, dai suoi occhi, dal suo sguardo che analizza e valuta, che giudica da una posizione di sospetto e di forza. Zandt si chiese se si possa rico-
noscere anche chi non è più un poliziotto, dallo sguardo di castrazione, per l'essere stato messo alla porta. Una volta conosceva questa città dall'interno, ne aveva percorso le strade come qualcuno a cui gli abitanti si rivolgevano nei momenti di caos. Come una parte del sistema immunitario. Ora viveva senza questo consenso. Non lo riconoscevano più, era senza la celebrità o il suo equivalente. Era solo un uomo in una strada di una città dove poche persone camminano - e dove quelli che lo facevano erano guardati con sospetto. Era un habitat reale tanto quanto qualsiasi steppa o valle ombreggiata, differente dalla campagna non più di quanto la Valle della Morte lo sia dal Vermont, o il Kansas dal fondo del mare. L'unica differenza stava nelle persone, macchiate di smog e consumate dalla lotta quotidiana. Tutte. Verso il tardo pomeriggio si trovò, ormai leggermente barcollante, al margine di una strada secondaria nel Laurei Canyon. I cespugli che una volta vi crescevano erano stati sradicati e rimpiazzati da un tratto di lastricato più lungo del corpo di Annette forse di mezzo metro. Ormai era piuttosto sbronzo, ma non a tal punto da non notare la persona che lo osservava, al sicuro, dalla sua bella casa dall'altro lato della strada. Dopo pochi minuti un uomo uscì dalla casa. Indossava pantaloncini da jogging e una maglietta grigio pallido. Sembrava molto in forma. «Posso aiutarla?» «No,» rispose Zandt, abbozzando un sorriso, che l'uomo non ricambiò. Se Zandt avesse visto il risultato del proprio sforzo, probabilmente non l'avrebbe biasimato. L'uomo tirò su col naso. «Cos'è, ubriaco?» «Voglio solo stare un attimo qui. Torni dentro. Me ne andrò immediatamente.» «Comunque, che significa?» L'uomo si voltò leggermente, rivelando che stava impugnando un telefono nella mano nascosta dietro la schiena. Zandt lo guardò. «Cosa?» «Questa storia del lastricato. Perché è lì? Non ha senso.» «È morto qualcuno lì. O vi fu ritrovato morto.» Il viso dell'uomo divenne più franco. «Li conosceva?» «No, finché lei non morì.» «Allora cosa le importa? Cos'era... una prostituta?» Zandt si sentì come se avesse la gola stretta in una morsa. La scala mobile della morte, come se le puttane, i drogati e i ragazzi di colore fossero poco più che animali domestici indesiderati, come se non fossero mai ac-
corsi sorridenti incontro a un genitore che ritornava, come se non avessero detto una prima parola, o passato lunghe notti a domandarsi cosa avrebbe contenuto la loro calza. L'uomo fece un passo frettoloso indietro. «Chiamerò i poliziotti,» avvertì. «Arriverebbero troppo tardi. Forse si guadagnerebbe un altro pezzo di lastricato, ma non ci scommetterei.» Zandt si voltò e si allontanò, lasciando l'uomo alla sua immutabile ignoranza. Quando finalmente raggiunse Beverly Boulevard, passò davanti all'Hard Rock Café infilandosi la camicia nei pantaloni, aggiustandosi la giacca e tirando indietro le spalle. Entrò nell'hotel Ma Maison senza incidenti, girò verso destra, e andò diritto alla toilette del bar. Una rinfrescata alla faccia e nessuno eccetto il barman avrebbe potuto dire che lui non fosse un cliente dell'albergo. Tornò nel bar e si sedette a un tavolo basso da cui poteva osservare la strada. Dopo i chilometri percorsi a piedi, la morbidezza della poltrona gli dette l'impressione di essere seduto su una nuvola. Un giovane cameriere dai modi gentili si impegnò a portargli un drink. Nell'attesa, Zandt diede un'occhiata alla strada dove Josie Ferris era scomparsa. C'erano ancora altri luoghi, collegati ai delitti, che lui avrebbe potuto controllare, ma non aveva alcun desiderio di stare davanti alla scuola che Karen aveva frequentato, o fuori dalla casa in cui la sua famiglia una volta viveva. E non c'era nessun motivo per tornare in quell'altro posto, dove tutto era finito. Era un luogo che lui stesso aveva creato, ma che adesso non gli sarebbe stato d'aiuto, come non lo era stato neanche allora. Stare in piedi accanto al corpo senza vita dell'uomo che lui aveva ucciso non era servito a nient'altro se non a rimarcare l'impalpabilità delle sfumature che tramutiamo in leggi. Jennifer era venuta a sapere quello che lui aveva fatto. Era stato lui a confessarglielo, due giorni dopo, quando era arrivato il maglione. Non era stata quella la fine del loro rapporto, non subito. Lei aveva giustificato le sue azioni, aveva accettato tutto tranne l'errore. Cercarono di affrontarlo insieme, ma non ci riuscirono. La sua posizione era indifendibile. Avrebbe potuto sopportare l'orrore della scomparsa di Karen e rimanere forte per sua moglie, anche sapendo che ciò avrebbe significato disintegrarsi in mille schegge acuminate: oppure avrebbe potuto confessare il dolore che provava. Quando lo fece, rinunciò al suo ruolo di maschio senza guadagnare
nulla dalla ammissione della sofferenza, considerato appannaggio esclusivo delle donne. Era lei ad avere il compito di esprimere l'indignazione; lui doveva sopportarla. Decise che non poteva più fingere di essere un poliziotto quasi nello stesso momento in cui Jennifer si risolse a tornare dai suoi genitori. Qualcuno aveva rubato le loro uova d'oro, e la gallina che le aveva deposte era morta. Ora, quando ci ripensava, si rendeva conto di aver avuto la maggior parte del torto. Era stata la sua intransigenza a permettere alle sue colpe di scavare un solco tra loro. Lei gli avrebbe concesso di essere debole per un momento. Le donne sono spesso più sagge quando si tratta di comprendere quali regole si possano aggirare. Le relazioni richiedono flessibilità, soprattutto in periodi di grande stress, quei periodi in cui diventano come un patto disperato contro un mondo la cui oscurità è insostenibile. Le coppie forti lottano per mantenere l'equilibrio, indipendentemente da instabilità a breve termine. Anche se era stata una consolazione a doppio taglio, questa consapevolezza gli aveva permesso di sopravvivere. A volte la chiave per riconquistare la propria vita è ripensare a una situazione terribile e capire di avere avuto parte della colpa. Prima di comprenderlo, ci si sente trattati ingiustamente, feriti - e non si riesce a trovare pace. Ma «Non è giusto» lo grida un bambino, qualcuno che non si rende conto che i rapporti causali si muovono in entrambe le direzioni. Quando si ammette di avere sbagliato, il dolore lentamente diminuisce. Una volta constatato di essersi preparati il letto da soli, diventa più facile dormirci, per quanto duro e sudicio possa essere. Quando arrivò la sua Budweiser la tenne per un po' tra le mani, dando l'impressione di guardare fuori dalla finestra. In realtà stava cercando di valutare una serie di fatti sotto un'altra luce, come già aveva fatto per tutto il resto del giorno. In un delitto dove non c'erano prove evidenti, la cosa migliore che si poteva fare era cercare di trovare nuovi modi per dare un senso alle informazioni. La maggior parte dei crimini, essenzialmente, si riducevano a una singola frase. Impronte digitali, un'avventura, un coltello nascosto frettolosamente, debiti, un alibi non credibile; questo era il lavoro delle giurie, l'occorrente per chiudere la pratica. Il vero reato, in tutta la sua magnificenza, si riduceva a questo: persone che si uccidevano a vicenda. Mariti che uccidevano le loro mogli, ma anche donne che uccidevano i loro uomini, genitori che uccidevano i loro bambini e bambini i loro genitori, e gli sconosciuti altri sconosciuti. Gente che si impossessa di cose che non
le appartengono. Gente che appicca incendi per soldi o perché dentro c'era qualcuno. E una volta che ogni atto criminoso era stato archiviato nel suo cassetto giudiziario, la verità rimaneva ancora a piede libero. Potreste inserire «ha ucciso» tra i nomi di due persone qualsiasi. Zandt non era stato in grado di fare alcun progresso nel tentativo di capire che cosa l'Homo Erectus potesse volere dalle sue vittime e perché venivano punite. Si erano rifiutate di amarlo, erano rimaste insensibili alle sue avance? Si erano impaurite troppo o non abbastanza? Non avevano resistito, crollando senza dare dimostrazione di quella forza di cui lui desiderava appropriarsi? Si accorse di aver terminato la sua birra e, rimanendo seduto, si voltò cercando con lo sguardo il giovane cameriere. Non c'era traccia di lui, anche se le altre persone sparpagliate per il salone sembravano essere state servite di recente. Le guardò per un po'. Stranieri che bevevano alcolici per sentirsi più a loro agio, per combattere l'ansia. Lo facevano tutti. Gli americani - eccetto per un breve esperimento che portò a un'esplosione del crimine mai vista fino ad allora, e mai più rivista in seguito. I tedeschi e i francesi con entusiasmo. I russi con melanconica serietà. Gli inglesi, anche loro maniaci della birra, passavano le loro giornate nei bar, nei pub e a casa, rendendo sfocata ogni cosa. Avevano bisogno della maschera effervescente, della sbronza. Alla fine comparve un uomo. Era vestito di nero e aveva la camicia bianca, esattamente come il barman precedente - ma era più vecchio di dieci anni e considerevolmente meno allegro nel portamento. Mentre le speranze del giovane di vendere una sceneggiatura o di gridare «Azione!» erano probabilmente ancora vive, quest'uomo sembrava essere prossimo all'agghiacciante certezza che le attrici di Hollywood avrebbero continuato a vivere tranquillamente senza il suo amore. Osservò Zandt con sospetto, mentre il suo radar da cameriere probabilmente gli diceva che quest'uomo non era né residente presso l'hotel né in attesa di incontrare qualcuno in particolare. «Di nuovo lo stesso, signore?» gli disse inclinando il capo, un gesto di ironica cordialità: sappiamo perfettamente entrambi che il signore non è il tipo di cliente a noi gradito, in più è un po' ubriaco e vestito in modo non adeguato. «Dov'è l'altro tizio?» «L'altro 'tizio', signore?» «Il cameriere che mi ha servito prima.»
«Cambio turno. Non si preoccupi. La birra sarà la stessa.» Mentre il cameriere si allontanava languidamente, facendo rimbalzare il vassoio sul suo ginocchio, Zandt considerò per un attimo l'idea di sparargli. Come lezione per tutti gli altri camerieri che in qualche modo lasciano intendere che le persone che pagano il loro stipendio siano feccia. Una sveglia che doveva essere data già da tempo. Forse la voce si sarebbe diffusa anche ai commessi dei negozi, anche a quelli di Rodeo Drive. Zandt si ricordava, e lo avrebbe ricordato per sempre, di un episodio increscioso che aveva avuto luogo il pomeriggio di un anniversario di sei o sette anni prima. Un'occasione nella quale aveva portato sua moglie in un costoso negozio perché si comprasse una camicetta e dal quale erano usciti quasi immediatamente; Jennifer stringendo con imbarazzo un sacchetto e Zandt tremando per l'ira repressa. Lei indossò raramente la camicetta. Era macchiata dalla sensazione di piccolezza che le era stata fatta provare mentre la acquistava. Il ricordo lo fece sentire molto peggio di quanto gli fosse accaduto in precedenza. Stava avvicinando a sé un bloc-notes dell'albergo, intenzionato a prendere appunti su qualcosa - qualsiasi cosa - ma improvvisamente si bloccò. Poteva vedere il cameriere, in piedi dietro il bancone nella zona bar, mentre versava la sua birra. Era una Budweiser, come quella di prima. C'era da aspettarselo. Il cameriere di prima doveva aver lasciato un biglietto con scritto quanto lui dovesse pagare e cosa gli fosse stato servito fino ad allora. In altre parole, un'indicazione di ciò che voleva. Di quali fossero le sue preferenze. Quando il cameriere arrivò con la birra, trovò un posto vuoto e una banconota da dieci dollari. 17 La casa si trovava sulle alture di Malibu. Era piccola e insolita, suddivisa in una serie di stanze come un minuscolo motel. Per passare da una zona alla successiva si usciva e si camminava sotto una tettoia, rientrando attraverso un'altra porta. Era situata sulla cima di una scogliera ed era raggiungibile tramite una stradina ripida e tortuosa, scarsamente illuminata. Non era un posto dove si poteva capitare per caso. Era economico da affittare, nonostante la posizione, perché situato su terreno instabile e sempre in procinto di essere dichiarato inagibile. L'ampio locale ottenuto unificando
la zona soggiorno con la cucina era circondato da vetrate e costituiva senza dubbio la maggiore attrattiva, ma aveva una spaccatura che attraversava il centro del pavimento in cemento. Ci si poteva infilare dentro quasi tutto un pugno e i due lati avevano tra loro un dislivello in altezza di oltre cinque centimetri. Fuori, nella zona a monte della proprietà, c'era una piccola piscina. Era vuota, perché le tubature si erano fuse in un incendio della boscaglia alcuni anni prima che Nina andasse a vivere lì. Dormirci la notte richiedeva una certa dose di coraggio. Nina aveva passato la serata nel patio, sul retro della casa, seduta con la schiena appoggiata al muro e le gambe distese in avanti. Di solito la vista dava sull'oceano, e su qualche albero e cespuglio prima dello strapiombo. Non erano visibili altre abitazioni. Quella sera era svanito anche il mare, nascosto da una nebbia che sembrava cominciare oltre la punta dei suoi piedi. A volte succedeva, e lei si chiedeva se non preferisse così. Un posto al limitare dell'esistenza, dove tutto poteva accadere. Aveva avuto l'intenzione di portare con sé un bicchiere di vino, ma se n'era dimenticata. Una volta sedutasi sembrò essere in bonaccia, incapace di fare appello alla forza di volontà per tornare dentro e assalire il frigorifero. Aveva passato la giornata a cercare Zandt. Non l'aveva trovato né in albergo, né sulla Promenade, né in qualsiasi altro posto avesse provato. Nelle prime ore della sera era uscita in auto per andare a osservare la casa dove lui un tempo viveva. Ora era di proprietà di altre persone, e lui non era comparso. Allora aveva fatto ritorno a casa. A quel punto, stare seduta era tutto ciò che poteva fare. Il salotto alle sue spalle era pieno di mensole stipate di testi, documenti e appunti, ma non ne voleva sapere. Non voleva parlare con nessuno del Bureau. Lì la sua posizione non era più quella che aveva avuto in precedenza. L'Homo Erectus l'aveva accompagnata lungo la sua carriera - non per la mancata cattura, anche se questo non aveva aiutato, ma piuttosto perché lei aveva continuato a passare informazioni a un poliziotto cui, dopo il rapimento della figlia, era stato ordinato di non interferire. C'erano agenti che avevano perso il posto per molto meno. Lei era riuscita a tenersi il suo, ma ora le cose erano cambiate. Un tempo aveva goduto del favore di Monroe, era stata un'agente promettente. Ora il loro rapporto era logoro e distaccato. Si sentiva sola, e impaurita. Le sue paure non avevano nulla a che fare con la solitudine. Era abituata a stare da sola e non ci faceva caso, nonostante, per carattere, desiderasse qualcos'altro. Aveva messo fine alla relazione con Zandt per un unico motivo: più teneva a lui e meno desiderava
distruggere la vita che già aveva. Il fatto che fosse stata comunque distrutta, le aveva reso impossibile spiegarglielo quando lui le aveva fatto la domanda. Non impossibile, forse: avrebbe potuto scegliere le frasi in modo tale da farglielo capire. Ma avrebbe potuto tradirsi e svelare che, due settimane dopo la sparizione di Karen, aveva visto concretizzarsi un pensiero che le era sorto spontaneamente. Se proprio la famiglia di Zandt doveva essere distrutta, almeno che fosse lei la causa. Nel frattempo c'erano stati altri uomini, anche se non molti, e presumibilmente ce ne sarebbero stati altri. Non era un problema trovarli, almeno quelli che non si desidera tenere. Era la disperazione a opprimerla, l'interminabile successione di eventi terribili. Se questo era quello che eravamo, allora forse non c'era nulla da fare. Se guardavamo quello che la nostra specie ha fatto ai suoi simili e agli altri animali, veniva da chiedersi se non ci meritiamo qualunque cosa, qualsiasi autonemesi noi riusciamo a generare; se le rozze bestie che avanzarono verso Betlemme non fossero state altro che i nostri figlioli prodighi che tornavano a casa. Verso le nove e mezza si alzò e tornò dentro. Mentre apriva il frigo, che non conteneva nulla fuorché una bottiglia di vino mezza vuota, diede un'occhiata al piccolo televisore acceso sul bancone. Stavano trasmettendo altri servizi sulla strage in Inghilterra, anche se, essendo il volume al minimo, lei non riuscì a capire cosa venisse detto, o rivelato, o asserito. Alcuni fatti dolorosi o altri, nuovi motivi per sentirsi tristi. Richiuse lo sportello, lasciò la bottiglia intatta, e si appoggiò per un momento con la faccia sulla sua fredda superficie. Alzò lo sguardo quando sentì un rumore provenire da fuori. Immediatamente si trasformò in quello di pneumatici sulla ghiaia della strada. Nina attraversò velocemente la stanza, passando sopra la spaccatura, e prese una pistola dalla sua borsa. La macchina fuori si fermò e le giunsero le parole smorzate di una conversazione. Poi il rumore di una portiera che veniva sbattuta e di nuovo quello delle ruote sulla ghiaia, che si allontanavano. Passi, poi bussarono alla porta. Con una mano dietro la schiena lei andò ad aprire. Era Zandt. Sembrava senza fiato e leggermente ubriaco. «Dove diavolo sei stato?» «Ovunque.» Entrò nella stanza, si fermò e diede un'occhiata in giro. «Mi piace come hai sistemato questo posto.» «Io non ho fatto nulla.» «È quello che intendo. È esattamente uguale.»
«Non tutte le pollastrelle sono ossessionate dalla decorazione di interni.» «Sì, lo sono. Penso tu sia un uomo travestito da donna.» «Dannazione, mi hai scoperto.» Stava in piedi con le braccia conserte. «Cosa vuoi?» «Solo dirti che, dopotutto, ho ucciso l'uomo giusto.» Quando Nina uscì sul patio con la bottiglia, Zandt aveva già cominciato a parlare. «Il problema è stato che non abbiamo potuto trattarlo come altri casi. Non avevamo rispondenza con le normali procedure investigative. Quando le persone scompaiono, rintracci i contatti, li ricostruisci. Parli con le famiglie, i loro amici, i vicini. Vai alla ricerca di un punto in comune. Come un bar dove sono andate in diversi momenti, in diverse serate. Una palestra che hanno frequentato. L'amico di un amico di un amico. Un punto di confluenza che dica che questi individui sono legati da qualcos'altro rispetto all'essere, ormai, morti. Da qualcosa di antecedente, qualcosa che condusse alla loro morte. Con l'Homo Erectus abbiamo avuto sparizioni multiple ma solo superficiali caratteristiche comuni. Stesso sesso, più o meno la stessa età. Tutte carine. E allora? Ci sono ragazzi in città che, nelle loro camere, sognano di avere ragazze come queste. Donne, per la verità. È un desiderio consensuale, non psicopatologico. A parte i capelli lunghi. Quello è l'unico elemento distintivo, l'unica preferenza - insieme con il fatto che le ragazze venivano da famiglie dove il denaro non è un gran problema. Non sono scappate di casa, non sono tossicomani. Il che non è un indizio. Significa semplicemente che la difficoltà del suo gesto è stata maggiore, perché è più complicato rapire ragazze come queste.» Fece una pausa, che Nina passò in silenzio. Zandt non la stava guardando. Non sembrava nemmeno conscio della sua presenza. Stava in piedi proprio all'estremità del patio. Dalla soglia la sua sagoma sembrava sfocata. Quando ricominciò a parlare, lo fece più lentamente. «Un uomo è alla ricerca di qualcosa. Ha un forte desiderio che può essere placato solo attraverso una certa linea di condotta, della quale è divenuto consapevole per caso o andando per tentativi. Per un po' non ha permesso che ciò accadesse. Si è comportato bene. Non è ripiombato nell'abisso. Ha tenuto a freno se stesso e non ha fatto male a nessuno. Non lo farà più. Non è debole - non ne ha più bisogno. Non ora, forse non più. Forse non lo farà mai più. Forse può lasciarsi tutto alle spalle. Forse è guarito. «Ma a poco a poco... le cose smettono di andare bene. Comincia a diven-
tare tutto più difficile. La sua concentrazione se ne va. Scopre che non può resistere. Non riesce a concentrarsi sul suo lavoro, sulla sua famiglia, sulla sua vita. Sta diventando nervoso. Certe idee, certi tipi di fantasie, cominciano a diventare ricorrenti. Sta diventando ansioso, e quel che è peggio è che lui sa qual è la causa. E sa anche qual è l'unico modo per vincerla. Comincia a riandare con la mente alle azioni compiute in precedenza, ma non lo aiuta. Ha qualche difficoltà nel ricordarle nei minimi dettagli, e non mitigano quello che lui prova ora. Sono come le notizie del giorno prima. Non si possono eliminare le ansie del presente con qualcosa che è già accaduto: i momenti felici dell'anno scorso non combattono l'infelicità di questa settimana. Lui ha bisogno di un nuovo obiettivo davanti a sé, di qualcosa che non abbia ancora compiuto. Non servono a nulla neanche i talismani, gli oggetti che ha tenuto, la prova che, in precedenza, si è già lasciato andare. Tutto ciò che gli ricordano è che è possibile che riaccada. Ha così bisogno di farlo e sa che non può vivere senza - e comunque, non importa quanto impegno ci metta, l'ha già fatto e non ci potrà mai essere una vera pace o una speranza di perdono. La sua vita è rovinata e lui non può più tornare indietro. «E così un giorno, quasi per caso, ricomincia a guardarsi intorno. Può ingannare se stesso dicendo che tutto ciò che fa è osservare. Che ora si controlla di più. Che questa volta si limiterà a guardare e non toccherà. Ma una volta fatto questo passo, ci può essere solo una conseguenza. Si dimenticherà dell'angoscia che l'ha assalito l'ultima volta, proprio come i postumi di una sbornia non ti impediranno di bere il prossimo venerdì sera. Lo ha fatto così tante volte da non sentirsi più in colpa nemmeno per il futuro. Potrebbe essere l'unica cosa ad avere un senso per lui. Andrà in un posto in cui è già stato o qualcosa di simile. A questo punto avrà un piano. Questo è un lavoro pericoloso, e lui avrà trovato dei modi per diminuire il rischio. Questo è il momento in cui entrano in gioco le intersezioni, perché le intersezioni sono parte dell'uomo e si trovano al centro dei suoi percorsi. Provengono dai posti nei quali lui si sente al sicuro, dove si aggira sentendosi se stesso. Qualche serial killer lo considererà un territorio di caccia. Qualcun altro semplicemente un posto in cui confondersi in mezzo agli altri, o dove non può essere visto, dove è invisibile. Dove lui non è debole, ma forte; dove non è parte della massa, ma al di sopra di essa. I suoi luoghi oscuri, quelli nei quali la gente va a cercarlo, dove ciò che lui sta inseguendo arriva di sera ed entra nell'oscurità della notte che lui ha preparato per loro due. Rimarrà per un po' a guardare e poi, una sera, finalmente,
quando la ragazza si volterà mentre sta camminando per la strada, noterà qualcuno che la segue, e poi sarà tutto finito fino al momento di fare pulizia, di sentirsi impuro e di promettere a Dio, o a chiunque pensi sia in ascolto, che non lo rifarà mai, mai più.» «Ed è così che l'hai trovato,» Nina suggerì. «No. Non scoprimmo nulla che mettesse in relazione le ragazze. Non arrivammo mai a prendere l'uomo perché non riuscimmo mai a capire dove le avesse viste per la prima volta. Questo è il motivo per cui, quando Karen scomparve, finii per ripiegare sui luoghi dai quali le ragazze erano state rapite. Erano gli unici posti che sapevamo essere legati con il killer. Era tutto quello che mi fosse rimasto. Non c'era alcun legame. Nessuna speranza di trovarne. Senonché... l'ultima volta tornò indietro. Tornò indietro per visitare un luogo, e io pensai lo facesse per rivivere quello che era accaduto lì. E una volta che l'ebbi visto in due di questi posti, mi convinsi che quello fosse l'uomo. Così lo pedinai e lo trovai.» «Ma poi,» disse Nina, stando attenta a scegliere le parole, «scopristi che quello non era affatto l'uomo che stavi cercando.» «Sbagliato. L'uomo che uccisi era l'uomo che aveva rapito alcune delle ragazze.» «Stai dicendo che ora si tratta di un imitatore?» «No. Sto dicendo che ho ucciso il cameriere, non l'uomo che ha ordinato la birra.» «Non capisco.» «L'uomo che spediva i pacchi non era lo stesso che aveva rapito le ragazze.» Nina lo fissava. «L'Homo Erectus decide che ha bisogno di una ragazza e non fa altro che compilare un ordine? E poi questo tizio esce e, semplicemente, le prende in base all'ordinazione? Come una cazzo di pizza a domicilio?» «Ecco perché dopo Karen non scomparve più nessuna ragazza, anche se qualcuno recapitò il pacco. L'uomo che le aveva rapite non c'era più. L'assassino era ancora vivo.» «Ma i serial killer non lavorano in questo modo. Okay, ce ne sono stati alcuni che lavoravano in coppia: Leonard Lake e Charles Ng. John e Richard Darrow, i West, a seconda di come la vedi. Ma niente di simile a questo.» «Non fino a oggi,» convenne. «Ma viviamo in un mondo mutevole, dove tutto è più grande, scintillante e migliore. È comodo. A richiesta.»
«Allora come mai non c'erano legami tra le ragazze? Il rapitore doveva avere un modus operandi standard, come hai detto tu. Avremmo dovuto essere in grado di scoprirlo.» «Se fosse stato lo stesso uomo ogni volta.» Nina lo guardò solamente, e sbatté le ciglia. «C'erano due sequestratori?» «Forse di più. Perché no?» «Perché, John, l'Homo Erectus ha preso una sola potenziale vittima negli ultimi due anni. Sarah Becker.» «Chi dice che ci sia solo lui?» Prese la bottiglia di vino e scoprì che era vuota. «Devi avere per forza dell'altro vino da qualche parte.» Nina lo seguì mentre rientrava in casa. Lui aprì il frigo e contemplò con incredulità il nulla in esso contenuto. «John, non ho nient'altro da bere. Cosa intendi con: 'Chi dice che ci sia solo lui?'.» «Quanti serial killer sono all'opera in California in questo momento?» «Almeno sette, forse fino a undici. Dipende da come definisci...» «Esattamente. E questi sono quelli di cui sei a conoscenza. In un solo stato, e uno di quelli che non è neanche ai primi posti nelle statistiche. Supponi che il numero sia centocinquanta per tutta la nazione e che da dieci a quindici di loro si possano permettere di pagare ventimila a colpo. Forse di più. Forse molto di più. Quello è il bacino dei clienti. Ed è grande. Potresti ottenere un dannato mutuo bancario con un'attività del genere.» «Anche se tu avessi ragione, cosa che, francamente, è ancora da dimostrare, questo come ci aiuterebbe a trovare Sarah Becker?» «Non ci aiuterebbe,» ammise, e la sua energia nervosa improvvisamente scomparve. Si fregò la fronte con le dita, forte. «Presumo che i federali stiano ancora seguendo ogni possibile strada che parta dalla famiglia?» Nina annuì. «Bene,» disse, con un'espressione stanca e sconfitta. «Allora penso si debba solo aspettare.» Stava guardando la televisione senza audio. Stavano ancora trasmettendo una sintesi dei recenti omicidi di massa, come sfondo al massacro avvenuto in Inghilterra. «L'hai seguito?» «Ho cercato di non farlo,» disse. Rimasero in cucina e insieme guardarono per un po' le immagini. Non c'era nessuna vera notizia. Non sapevano ancora perché l'uomo l'avesse fatto. Una perquisizione della sua abitazione aveva rivelato la presenza di letteratura razzista, un'altra pistola, un computer pieno di immagini pornografiche, e un pessimo dipinto che rappre-
sentava un certo numero di figure scure su sfondo bianco, come fantasmi nella neve. Nessuna di queste cose fu giudicata importante. 18 «Mi devi dare qualcosa di più dell'acqua,» aveva detto Sarah. La sua voce suonava debole, anche a lei stessa. Aveva ripetuto questa frase molte volte. Era diventata la prima cosa che diceva ogni volta che il coperchio veniva rimosso. «Non ti piace l'acqua?» «Sì che mi piace l'acqua. Grazie per l'acqua. Ma ho bisogno di qualcosa di più. Mi devi dare qualcosa di più dell'acqua.» «Cosa vuoi?» «Ho bisogno di cibo, di qualcosa da mangiare.» Tossì. Le succedeva spesso, ora, e quando accadeva provava un senso di nausea. «Al giorno d'oggi mangiamo troppo,» disse l'uomo. «Decisamente troppo. Le bestie vengono uccise per noi, il cibo viene gonfiato fino a una tonnellata di peso, e poi ci viene distribuito alla porta e noi ci sediamo a mangiare come maiali al trogolo. Non siamo più nemmeno cacciatori. Solo saprofagi. Iene con buoni pasto che esaminano uno a uno gli scarti incellofanati di persone che non abbiamo mai nemmeno incontrato.» «Se lo dici tu. Ma io devo mangiare.» «Devo mangiare devo mangiare devo mangiare,» ripeté l'uomo canzonandola. Sembrava gli piacesse il suono che producevano quelle parole, e continuò a ripeterle per un po'. Poi rimase in silenzio per un attimo, prima di affermare: «Una volta potevamo andare avanti per giorni senza cibo. Eravamo magri.» «Sì lo so, la Grande Depressione. Le tempeste di sabbia, bla bla.» L'uomo rise. «Quello era ieri e non ci interessa. Io intendevo prima dell'invasione.» «L'invasione?» chiese Sarah - pensando: Okay, ora ci siamo. Piccoli omini verdi, i russi o gli ebrei. Chissà chi altro. Tossì di nuovo con violenza e per un attimo tutto diventò bianco dinanzi ai suoi occhi, e quando lui rispose la sua voce sembrava come se provenisse da molto lontano, o come se stesse usando uno di quegli aggeggi che usa Cher quando canta Believe. «Sì, l'invasione. Come altro la chiameresti?» chiese lui. Lei deglutì, chiuse gli occhi e poi li riaprì. «Non la chiamerei in nessun
modo. Ho troppa fame.» «Non puoi avere nessun cibo.» Improvvisamente, qualcosa nella voce dell'uomo la spaventò molto. Non le era parso che lui intendesse che non ne avrebbe avuto solo oggi. Aveva parlato come se lei non ne avrebbe avuto, punto e basta. Si era adattata alla sua situazione contingente in un tempo sorprendentemente breve, aiutata da un crescente senso di straniamento. Ma la minaccia di non mangiare nulla, mai più, fu sufficiente per riportarla in un attimo del tutto alla realtà. «Senti,» disse lei, con voce ora incerta, «tu devi volere qualcosa da me. Ci deve essere una ragione per cui stai facendo tutto questo. Ti prego, vai avanti con quello che devi fare e uccidimi oppure dammi del cibo. Io devo mangiare qualcosa.» «Apri la bocca.» Lo fece con avidità, mentre la saliva le riempiva la bocca. Per un attimo non accadde nulla, poi apparve una mano. Non teneva niente che assomigliasse a del cibo, ma solo un piccolo pezzo di carta bianca. La mano lo premette brevemente sulla lingua della ragazza, e poi si ritrasse. Sarah cominciò a piangere. L'uomo per un po' non disse nulla, poi schioccò la lingua. «Nessun cambiamento,» disse. «Piccolo genoma testardo.» Il pezzo di carta bianca svolazzò ondeggiando e andò a finire dentro la buca, posandosi di fianco a lei. «Non hai imparato proprio nulla, vero?» Lei tirò su col naso. «Tu non mi hai detto niente.» «Comincio ad avere dei dubbi su di te,» disse. «Pensavo tu fossi diversa. Che tu potessi cambiare. Sono venuto di persona per te. Avevo progetti per noi. Ma ora mi domando se mai ce la farai.» «Ah sì? Perché?» «Sei pigra e viziata e non stai facendo molti progressi.» «Davvero? Beh tu sei uno squilibrato.» «E tu una stupida puttanella.» «Vaffanculo,» disse lei. «Sei un maledetto pazzo, riuscirò a scappare e a sfondarti il cranio.» Tenne la bocca chiusa mentre lui versava l'acqua. Non sarebbe più tornato per molto tempo. 19 Arrivammo a Hunter's Rock alle tre del mattino, dopo un breve volo e
un lungo viaggio in macchina. Una volta atterrati nell'Oregon guidai fino al confine di stato viaggiando sull'autostrada e proseguendo poi lungo strade che facevano parte dei miei ricordi lontani - sentendomi come se stessi ripercorrendo i passi di un esploratore del quale avessi solo letto le imprese, e non come se rivisitassi un posto che appartenesse al mio passato. Quando cominciammo a incrociare luoghi a me più noti, le cose si complicarono. Allungai il tragitto scegliendo un percorso tutt'altro che sensato, e credo che Bobby se ne rese conto, ma non disse nulla. Alla fine ci fermammo in un vecchio motel che non riconobbi, circa trenta chilometri fuori città. Io avevo insistito per dormire in macchina, ma Bobby, pragmatico come al solito, mi fece osservare che saremmo stati più efficienti nel lavoro se avessimo dormito qualche ora. Ci incamminammo e bussammo alla porta dell'ufficio. Dopo un bel po' di tempo emerse un uomo in T-shirt e pigiama che fu sincero nell'esprimere il suo disappunto per la nostra presenza. Noi ammettemmo che l'ora era tarda, ma gli facemmo notare che, essendo ormai sveglio, poteva anche tirare su qualche dollaro dandoci una stanza doppia. Ci squadrò a lungo. «Siete una coppia di pervertiti?» Ricambiammo il suo sguardo, e lui evidentemente decise che peggio dell'affittare una camera a due potenziali omosessuali fosse la prospettiva che quegli stessi omosessuali lo riempissero di botte nel cuore della notte. Mi diede una chiave. Bobby si sdraiò su uno dei letti e si addormentò immediatamente. Cercai di fare la stessa cosa, ma non ci riuscii. Alla fine mi alzai e uscii dalla stanza. Comprai un pacchetto di sigarette dal distributore automatico e mi diressi al centro del vecchio cortile, dove una recinzione arrugginita circondava i resti di una piscina. Trascinai una malandata sedia fino a uno dei bordi e rimasi seduto lì nell'oscurità. Non c'era alcuna luce eccetto quella rosa smorto dell'insegna VACANCY sopra l'ufficio, un baffo di luna e alcuni bagliori che venivano riflessi tenuamente da alcune superfici. Dopo un po' tirai fuori la pistola che Bobby mi aveva dato e la guardai. Non aveva nulla di interessante da dire, quindi la rimisi nella giacca. Fissai, invece, le ombre della piscina vuota, chiedendomi da quanto tempo fosse in quello stato. Da un po', a giudicare dall'aspetto: le pareti erano piene di crepe e i quindici centimetri di fango depositati sul fondo sembravano poter essere stati scenario della prima apparizione della vita. Un tempo era stata piena di acqua fredda e le famiglie dovevano averci mandato volentieri i loro figli, contente per il sollievo dopo il lungo viag-
gio. L'indicazione per il motel, per quanto fosse fievole e sgradevole, lo faceva risalire agli anni Cinquanta. Potevo raffigurarmi come fosse la vita di allora, ma solo tramite immagini fisse: istantanee degli anni dello splendore, con i colori leggermente spenti e il tutto congelato in una pubblicità per il tipo di vita che ci è sempre stata promessa come inevitabile. Un paradiso di dolcezza e luce, di pranzi all'aperto e solide strette di mano, di lavoro duro, vero amore e fair play. Proprio come la vita dovrebbe essere. Noi, invece, gironzoliamo, senza carisma, regia e copione - e alla fine il meccanismo si inceppa e ci accorgiamo che, comunque, non c'era nessuno ad assistere. Siamo così abituati che gli eventi vengano descritti in modi particolari che quando realmente accadono a noi, e la nostra vita non somiglia affatto a ciò che ci attendevamo, non sappiamo veramente come dovremmo reagire. Le nostre vite diventano irriconoscibili. Dovremmo cercare lo stesso di essere felici, quando tutto sembra così imperfetto, disordinato e tetro? Ero sicuro che Bobby avesse già scoperto la verità e che la mia nascita non fosse registrata a Hunter's Rock, ma dovevo verificare di persona. Per tutto il tempo nel quale ero stato portato in giro da Chip Farling, la mia infanzia mi aveva tirato verso di sé con dita gelide. Il fatto che i miei genitori si fossero trovati da un'altra parte al momento della mia nascita forse non era così importante. Poteva darsi che fossero andati via per il weekend, un'ultima occasione prima che la famiglia si allargasse, e fossero stati sorpresi improvvisamente in un posto lontano da casa. Ma non è proprio questo il genere di storia che raccontereste a vostro figlio, l'aneddoto che rende ogni vita unica? Potevo solamente supporre che non fosse stato rivelato per il fatto che, dovunque avesse avuto luogo la nascita, questa fosse stata di due gemelli. Ciò che ancora non capivo era perché avrebbe dovuto fare qualche differenza, e perché loro avessero fatto quello che poi fecero. Forse questo era il vuoto intorno al quale avevo inconsciamente modellato la mia vita. Tutti si sentono così in alcuni momenti. Ma a me capitava spesso. E forse alla fine avevo scoperto il perché. Non so per quanto tempo il rumore fosse andato avanti. Non a lungo, penso. Ma progressivamente mi accorsi di sentire un leggero sciabordio. Sembrava molto vicino, così vicino che mi girai, rimanendo seduto. Non c'era nulla dietro di me. Quando mi voltai di nuovo mi resi conto che avevo calcolato male la direzione e che esso proveniva dall'estremità più lontana della piscina. Era un po' troppo buio per vedere, ma dal rumore era come se laggiù scorresse dell'acqua. Mi protesi in avanti sulla sedia, sor-
preso. L'acqua nella piscina stava diventando sempre più profonda: lentamente, ma percettibilmente. Non era più profonda solo pochi centimetri, ma quasi mezzo metro. Fu solo allora che capii che c'erano due persone nella piscina. Proprio nella parte più profonda. Una era leggermente più alta dell'altra ed entrambe apparivano, sulle prime, non più che ombre voluminose. Si tenevano per mano mentre si sforzavano di avanzare, facendosi strada in mezzo all'acqua melmosa man mano che questa aumentava di livello. Lo sciabordio dell'acqua fu più forte quando la piscina cominciò a riempirsi più velocemente, e il movimento delle figure divenne più consistente nel tentativo di raggiungere la zona meno profonda, di raggiungere me. Ormai la luce lunare aveva rivelato i loro lineamenti e io mi accorsi che si trattava di mia madre e mio padre. Avrebbero potuto procedere più agevolmente se si fossero lasciati la mano, ma non lo fecero. Anche dopo che l'acqua arrivò sopra la loro vita, le mani rimasero intrecciate sotto la superficie. Penso mi avessero visto. Comunque, guardavano nella mia direzione. La bocca di mio padre si aprì e si richiuse, ma se produsse qualche suono, non mi raggiunse mai. Le loro braccia libere si tuffavano nell'acqua limacciosa, ma non facevano alcun rumore, e l'acqua continuava a salire. Non faceva alcuna differenza quanto si avvicinassero. La profondità della piscina non diminuiva. L'acqua continuava a salire. Non si fermò neanche dopo che ebbe raggiunto il loro mento, neanche dopo che cominciò a traboccare oltre i bordi della piscina e a versarsi come scuro mercurio intorno ai miei piedi. Lo sguardo di mia madre rimase sereno fino alla fine: fu in mio padre che notai la paura, per la prima volta nella mia vita, e fu la sua mano a essere l'ultima cosa visibile, quando, continuando a sprofondare, erano quasi riusciti ad arrivare al bordo, a raggiungermi. Quando i miei occhi si spalancarono di colpo era l'alba e Bobby era in piedi davanti a me e scuoteva la testa. Mi alzai dalla sedia, frastornato, e vidi che il mio pacchetto di sigarette non era più sulle mie gambe ma giaceva nei quindici centimetri di melma sul fondo della piscina. Guardai Bobby che mi fece l'occhiolino. «Ti devi essere agitato nel sonno,» disse. Nella tarda mattinata ebbi la conferma. Nessun Ward Hopkins, nessun Hopkins di alcun tipo era mai nato a Hunter's Rock. Una giovane e gentile impiegata dietro una scrivania mi disse che avrebbe tentato di trovare qualche altra informazione. Non riuscivo a capire cos'altro potesse essermi
utile, e presto diventò evidente che lei stesse cercando di aiutarmi, spinta da una combinazione di compassione e di noia. Le diedi il mio numero e me ne andai. Bobby mi stava aspettando fuori sul marciapiede e parlava al telefono. Rimasi in silenzio a osservare la strada finché lui non ebbe finito. Sebbene sapessi cosa mi aspettava, mi sentivo defraudato di qualcosa. Era come se vi mettessero a sedere e vi dicessero che non siete usciti affatto dalla pancia di vostra madre, ma che, in realtà, siete stati depositati dalla cicogna sotto un cespuglio. Avevo subito l'asportazione delle tonsille in quel piccolo ospedale, e mi ci ero recato per guadagnarmi due serie di punti sulle mie giovani ginocchia. In ogni occasione avevo creduto di rivedere il posto nel quale ero nato. «Bene, amico mio,» disse Bobby alla fine. «Sarai contento di sentire che agli onesti uomini e donne del dipartimento di polizia di Dyersburg piacerebbe sicuramente sapere dove sei finito. Non perché siano in qualche modo preoccupati per il tuo stato di salute. Almeno per il momento.» «E la casa?» «Ingenti danni al salotto e all'ingresso, una grossa parte della scala inferiore distrutta. Ma non completamente bruciata.» «E ora?» «Mostrami la tua vecchia casa,» disse. Lo guardai. «Perché?» «Beh, tesoro, perché sei forte, biondo e stupendo e io voglio sapere tutto di te.» «Vaffanculo,» gli suggerii, suffragando l'idea con un affaticato gesto della mano. «È un'idea stupida e senza senso.» «Hai qualche suggerimento migliore? Questa non sembra una città con infinite possibilità di divertimento.» Uscimmo lungo la strada principale. Non riuscii a capire se fossero le cose vecchie o le nuove ad apparirmi meno familiari. Il cambiamento più evidente era l'abbattimento del vecchio Jane's Market, rimpiazzato da un piccolo Holiday Inn con una di quelle piccole insegne moderne rettangolari. Mi mancano le vecchie insegne, grandi e tondeggianti. Veramente. Non capisco perché quelle rettangolari siano ritenute migliori. Quando fummo quasi a destinazione, procedetti più adagio e alla fine accostai sul lato opposto della strada. Erano passati dieci anni dall'ultima volta che avevo visto quella casa, forse di più. Sembrava più o meno la stessa - sebbene nel frattempo fosse stata ritinteggiata e gli alberi e i ce-
spugli intorno a essa fossero cambiati. Una station wagon, fabbricata in Estremo Oriente, era parcheggiata nel vialetto d'accesso e tre biciclette erano riposte diligentemente di lato. Dopo un minuto vidi una sagoma passare dietro la finestra della facciata e poi sparire. Era solo un'insignificante abitazione suburbana, ma sembrava una casa delle fiabe, fatta di pane di zenzero. La sua presenza era troppo impressa nella mia mente, troppo irresistibile, come fosse sovraccarica di MSG. Tentai di ricordare esattamente l'ultima volta che fossi stato dentro. Sembrava inconcepibile che non avessi voluto rivederla prima che finisse nelle mani di qualcun altro. Ero stato davvero così incapace nel prevedere quanto, un giorno, la situazione avrebbe potuto essere differente? «Sei pronto?» Mi accorsi che le mie mani tremavano leggermente. Mi voltai verso di lui. «Pronto per cosa?» «A entrare.» «Io non entro.» «Sì che lo farai,» disse lui pazientemente. «Bobby... sei diventato matto? Ci vive qualcun altro ora. Non entrerò in quella casa per nessun motivo.» «Ascoltami. Un paio di anni fa il mio vecchio morì. Non che mi importasse molto - il nostro rapporto era una merda. Ma mia madre chiamò, chiedendomi di tornare a casa per il funerale. Ero indaffarato e non riuscii ad andarci. Sei mesi più tardi mi resi conto che mi stavo comportando in modo bizzarro. Senza motivo. Semplicemente le cose mi stavano stressando oltremisura. Continuamente. Diventavo ansioso quando non c'era nessun motivo particolare per esserlo. Una specie di attacco di panico, credo. Continuavano ad aprirsi voragini dinanzi a me.» Non sapevo cosa dire. Non stava guardando verso di me, ma fissava diritto fuori dal parabrezza. «Alla fine, non so quale lavoro mi portò vicino a casa, così andai a fare visita a mia madre a Rochford. Anche con lei non è che fossimo molto legati. Ma fu bello vederla. Forse 'bello' non è la parola giusta. Utile, piuttosto. Mi apparve diversa, più minuta. Poi, sulla strada per uscire dal paese, mi fermai al cimitero e rimasi per un po' in piedi davanti alla tomba del mio vecchio. Era un pomeriggio soleggiato e non c'era nessun altro in giro. E il suo fantasma, il suo fantasma saltò fuori dal terreno proprio di fronte a me e disse: 'Ascolta Bobby, rilassati.'.» Lo fissai. Rise sommessamente. «Certo che no. Non voglio dire che av-
vertii la sua presenza o che mi riconciliai con ciò che lui era stato. Ma da allora non mi sento più così ansioso. A volte penso alla morte, e sto più attento a quello che faccio, e sono più incline all'idea di sistemarmi prima o poi. Ma quella strana sensazione se ne andò. Ritornai sulla terra ferma.» Mi guardò. «Le questioni insolute sono la rovina delle persone, Ward. In questo modo, tu pensi di proteggerti, ma tutto quello che stai facendo è aprire delle piccole crepe. Se ne lasci aperte troppe in una sola volta, tutto si disintegrerà e ti ritroverai come un cane che muore di fame e vaga per le strade di notte. E davanti a te, amico mio, in questo momento stanno comparendo un sacco di fessure.» Aprii la portiera e scesi dalla macchina. «Ammesso che mi lascino entrare.» «Lo faranno,» disse. «Ti aspetterò qui.» Mi fermai. Forse pensavo che mi avrebbe accompagnato. «È casa tua.» Disse alzando le spalle. «E se bussiamo a quella porta insieme, chiunque venga ad aprire penserà di essere tra gli interpreti principali nel finale da camera mortuaria di un episodio di 'C.S.I'.» Percorsi il vialetto d'accesso e bussai alla porta. La veranda era in ordine e ben ripulita. Comparve una donna, sorridente. «Mr. Hopkins?» disse. Dopo un attimo capii, maledicendo e, al tempo stesso, benedicendo Bobby. Aveva telefonato, facendosi passare per me, preparandomi in tal modo il terreno. Mi chiesi cosa avrebbe fatto se mi fossi rifiutato. «Esatto,» dissi acquistando sicurezza. «È certa che non la disturbi?» «Affatto.» Si fece da parte per farmi entrare. «È stato fortunato ad avermi trovato, poco fa. Tuttavia temo che presto dovrò uscire di nuovo.» «Certamente,» dissi. «Solo qualche minuto andrà benissimo.» La donna, di mezza età e abbastanza carina e cortese da poter interpretare la mamma in qualche programma televisivo, mi chiese se desiderassi del caffè. Io risposi di no ma ce n'era di già pronto, e alla fine fu più semplice accettare. Mentre lo andava a prendere io rimasi nell'ingresso e diedi un'occhiata intorno. Era cambiato tutto. La donna, qualunque fosse il suo nome (non potevo domandarlo, essendoci parlati, in teoria, poco prima), era un'appassionata dell'arte degli stencil. Se lo si valutava da un punto di vista tipo Pottery Barn l'ambiente sembrava decisamente migliorato rispetto a quando ci abitavamo noi. Poi facemmo un giro. La donna non ebbe bisogno di spiegare il perché mi accompagnasse. Pensai sarebbe stato piuttosto strano che lasciasse en-
trare in casa sua un uomo basandosi solo su una telefonata: il desiderio di tenere d'occhio i suoi oggetti era perfettamente naturale. Fui presto in grado di fare sufficienti commenti su come erano disposte le cose quando lei si era trasferita da fare scomparire anche questa lieve diffidenza, e così tornò a occuparsi, in disparte, di altre cose. Gironzolai per tutte le stanze e poi salii le scale. Diedi una breve occhiata in quelle che erano state la stanza dei miei genitori e la stanza degli ospiti, entrambe le quali erano state in gran parte territorio straniero per me. Quindi mi preparai per la destinazione finale. Quando la porta della mia vecchia camera si aprì, deglutii involontariamente. Feci un paio di passi dentro, poi mi fermai. Pareti verdi, tappeto marrone. Poche scatole e alcune vecchie sedie, un ventilatore rotto e la gran parte di una bicicletta da bambino. Mi accorsi che la donna era in piedi dietro di me. «Non ho cambiato nulla,» ammise. «La vista è migliore dall'altra stanza, così mia figlia dorme lì anche se è un po' più piccola. Qui abbiamo solo stipato poche cose. L'aspetto di sotto.» Detto questo scomparve. Rimasi alcuni minuti nella stanza, guardandomi semplicemente intorno, osservandola da diverse angolazioni. Era forse dodici metri quadrati e sembrava al tempo stesso piccolissima e più vasta dell'Africa. Lo spazio nel quale crescete non è come qualsiasi altro. Lo conoscete così profondamente, vi siete seduti, alzati e sdraiati in ogni suo angolo. È il luogo dove pensate molte cose per la prima volta e, come risultato, esso si dilata come il periodo che precede il Natale, mentre ci vivete e aspettate di crescere. Vi racchiude. «Questa è la mia stanza,» mi dissi sottovoce. Averla vista nel filmato era stato strano. Ma adesso non lo era più. Il posto dal quale provenivo non era cambiato. Non tutto nella mia vita era stato cancellato. Uscendo, richiusi la porta come a voler trattenere qualcosa contenuto lì dentro. Al piano di sotto la donna era appoggiata al tavolo della cucina. «Grazie,» dissi. «È stata molto gentile.» Lei mi zittì con un cenno e io osservai per un attimo la cucina. Gli elettrodomestici erano nuovi, ma i pensili erano sempre gli stessi: robusti e fatti con legno buono, probabilmente non avevano trovato alcun motivo per sostituirli. L'opera di mio padre sopravviveva. Fu allora che mi ricordai di quella sera di molto tempo fa in cui mangiai le lasagne con lui. Uno straccio appoggiato a una maniglia, una partita a biliardo che non andò per il verso giusto. Ero sul punto di parlare ma poi
non lo feci. Uscire dalla casa fu una delle cose più strane, l'atto di lasciare quel particolare mondo interiore per tornare al presente. Fui quasi sorpreso di vedere la grande macchina bianca dall'altra parte della strada, con Bobby ancora seduto dentro, e notai quante auto oggi abbiano l'aspetto di enormi cimici. Salutai la donna con un cenno e mi allontanai lungo il viale, senza fretta, proprio come fareste normalmente. Nel momento in cui aprii la portiera, la casa si era di nuovo chiusa dietro di me, per sempre. Bobby era seduto, intento a leggere il contratto di noleggio dell'auto. «Cristo, questa roba è noiosa,» disse. «Ma veramente. Dovrebbero assoldare qualche scrittore. Rendere un po' più interessante il tutto.» «Tu sei un uomo spregevole,» dissi. «Comunque grazie.» Ributtò il fascio di fogli nel vano portaoggetti. «Allora presumo che con Hunter's Rock abbiamo finito.» «No, non penso.» «Cos'hai in mente?» «E se loro avessero già saputo, alla nostra nascita, che avrebbero fatto la scelta che poi fecero. Forse, non so - forse pensarono di poter mantenere solo un bambino, o qualcosa del genere.» Bobby sembrava dubbioso. «Lo so,» ammisi. «In ogni caso, penso sapessero che si sarebbero liberati di uno di noi. Ma sapevano anche che un giorno sarebbero morti, e che avrei potuto fare quello che sto facendo ora. Sarei potuto tornare a casa, avrei potuto guardare in giro e scoprire in ospedale che avevo un gemello.» «Così ti hanno fatto nascere da qualche altra parte in modo tale che tutto quello che avresti scoperto sarebbe stata l'esistenza di un piccolo mistero riguardante l'ospedale nel quale eri nato e non il fatto che tu avessi un gemello che loro abbandonarono.» «Questo è quello che penso.» «Ma come mai l'Agenzia non ha trovato niente da ridire quando ne entrasti a far parte?» «A quel tempo gli ero molto utile. La mia ipotesi è che loro, per convenienza, si siano risparmiati le indagini famigliari e poi, a quei tempi, ero uno del team, quindi a chi importava?» Bobby ci pensò su. «È il meglio che abbiamo. Ma è ancora strano. Se i tuoi genitori sono andati incontro a tutti quei problemi per nascondere questo, perché allora lasciare prove documentarie di quello che avevano fat-
to?» «Forse negli ultimi tempi era accaduto qualcosa che li aveva convinti a cambiare idea riguardo l'opportunità di mettermi al corrente della cosa.» Mi accorsi che la donna avrebbe potuto essere alla finestra, così accesi la macchina e partii. «Ho idea che forse abbiamo seguito le piste sbagliate. Il video è composto da tre filmati. Il primo mostra un luogo che sono stato in grado di trovare. The Halls. L'ultimo mi mostra qualcosa di cui non ero a conoscenza. La sezione centrale mostra due luoghi. Prima la casa, dove sono appena stato, grazie a te. Lì niente. L'altro era un bar. Non lo riconosco. Non è in nessuno dei posti dove sono stato.» «Quindi?» Ci trovavamo a un incrocio. «Abbi un po' di pazienza,» dissi e svoltai a sinistra. Una curva che, alla fine, ci avrebbe portato, supponendo fosse ancora lì, al bar che avevo frequentato in quegli anni. 20 Non era mai stato il posto dove sareste andati di proposito, a meno che il destino non l'avesse reso il vostro luogo di ritrovo abituale. Me lo immaginavo cambiato in due modi: che fosse stato reso elegante con l'aggiunta di una sala per la ristorazione e un sacco di pimpanti cameriere in rosso e bianco, oppure raso al suolo dalle ruspe per fare posto a case popolari dove la gente, dopo il tramonto, urlava a squarciagola. In realtà, il progresso sembrava semplicemente avere ignorato del tutto Lazy Ed's, se si esclude una signorile decadenza che, come l'umidità, si era impossessata del posto. L'interno era vuoto e silenzioso. Il legno del bar e gli sgabelli mostravano più o meno gli stessi segni di sempre. Il tavolo da biliardo era ancora lì, assieme alla maggior parte della polvere, che forse, in parte, mi apparteneva addirittura. Erano state aggiunte alcune cose qua e là, le vette massime del progresso. L'insegna al neon della MILLER era stata rimpiazzata con una della Bud Lite, e il calendario mostrava delle signorine in condizioni ancora più naturali che ai miei tempi. Naturali, almeno nella loro nudità, se non nella forma o consistenza del seno. Da qualche parte, probabilmente molto ben nascosto, ci doveva essere un cartello che metteva in guardia le donne in gravidanza dal pericolo di bere - per quanto, se una persona in quello stato fosse entrata qui di propria iniziativa, l'avvertimento sarebbe caduto, presumibilmente, nel vuoto dovendo lei essere cieca o squilibrata.
Le donne hanno standard più elevati. Ecco perché hanno un'influenza «civilizzatrice» sui ragazzi. Bisogna trovare un posto carino dove farle ubriacare. Bobby si appoggiò con la schiena al tavolo da biliardo, guardandosi intorno. «È sempre stato così?» «Come se non fossi mai andato via.» Mi diressi al bar, nervoso. Di solito bastava che facessi il nome di Ed. Ma questo accadeva tanti anni fa, e farlo adesso sarebbe stato come tornare a scuola e aspettarsi che gli insegnanti vi riconoscano. L'ultima cosa di cui uno ha bisogno è sapere che nell'immensa trama della vita è sempre stato solo «un ragazzo». Un uomo emerse dal retro, pulendosi le mani con uno straccio che poteva solamente renderle più sporche. Sollevò il mento in un segno di saluto cordiale ma di scarso entusiasmo. Aveva all'incirca la mia età, era forse un po' più vecchio, grasso, e già in procinto di essere calvo. Adoro vedere dei coetanei che perdono i capelli. Mi ringalluzzisce. «Salve,» dissi. «Sto cercando Ed.» «L'ha trovato,» rispose. «Quello che avevo in mente io dovrebbe essere più vecchio di circa trent'anni.» «Lei intende Lazy. Non c'è.» «Lei non può essere un Ed junior.» Ed non aveva figli e non era nemmeno sposato. «Cazzo, no,» disse l'uomo, come allarmato dall'idea. «È solo una coincidenza. Sono il nuovo proprietario. Lo sono da quando Ed è andato in pensione.» Cercai di nascondere il mio disappunto. «Andato in pensione.» Non volevo sembrare troppo invadente. «Saranno un paio d'anni. Tuttavia,» disse il tipo, «mi ha evitato di fare una nuova insegna.» «Effettivamente, tutto sembra rimasto uguale,» azzardai. L'uomo scosse la testa con aria annoiata. «A chi lo dice. Quando Lazy vendette, pose una condizione. Disse che avrebbe venduto un'attività, non la sua seconda casa. Avrebbe dovuto rimanere tutto com'era fino alla sua morte.» «E lei accettò?» «La presi a molto poco. E Lazy è piuttosto vecchio.» «E lui come fa a sapere che lei ha tenuto fede all'accordo?»
«Viene ancora. Praticamente tutti i giorni. Se lei rimane qui nei paraggi, ci sono buone probabilità che lo veda.» Dovette notare il mio sorriso e aggiunse: «Una cosa, però. Potrebbe non essere più come lei se lo ricordava.» Cominciai l'elenco delle ordinazioni e raggiunsi Bobby. Bevemmo birra e giocammo a biliardo per un po'. Vinse lui. Continuammo a fare arrivare birre e dopo che mi fui stufato di perdere altre partite, Bobby dedicò un'ora a esercitarsi nei tiri. Mio padre avrebbe approvato la sua dedizione. Per un bel po' il bar fu tutto per noi, poi cominciò a entrare qualcuno. Verso la fine del pomeriggio io e Bobby costituivamo circa un terzo della clientela. Avevo blandamente interrogato Ed sull'ora in cui generalmente Lazy appariva, ma a quanto sembrava era completamente imprevedibile. Pensai di chiedere il suo indirizzo, ma qualcosa mi disse che il tizio non me l'avrebbe dato e che la domanda l'avrebbe insospettito. A inizio serata cominciò la ressa. Entrarono quattro persone, tutte insieme, e nessuna era Ed. Poi, alle sette, accadde qualcosa. In quel momento, io e Bobby stavamo di nuovo giocando a biliardo, e stavolta non mi stava battendo così facilmente. Al juke-box qualcuno aveva messo i classici di Springsteen e la coincidenza mi appariva bizzarra, come se mi fossi ritrovato a giocare venti anni fa, nei giorni del gel per capelli e delle maniche arrotolate. Cominciavo a diventare abbastanza ubriaco da essere sull'orlo della nostalgia per gli anni Ottanta, il che non è mai un buon segno. Con la coda dell'occhio vidi la porta del bar aprirsi. Ancora chinato sul tavolo, guardai per vedere chi stesse entrando. Fu solo una breve apparizione. Una faccia, piuttosto vecchia, che guardò diritto verso di me. E poi, chiunque fosse, girò sui tacchi e se ne andò. Chiamai Bobby a gran voce, ma lui se n'era già accorto. Attraversò di corsa la stanza ed era già fuori prima che io riuscissi solo a posare la stecca. Fuori era buio e una macchina si stava allontanando velocemente. Una vecchia Ford scassata, che nello sgommare fuori dal parcheggio lanciò in giro proiettili di ghiaia. Bobby stava imprecando e capii presto il perché: qualche stronzo ci aveva bloccato col suo furgone. Quando si girò, mi vide. «Perché è scappato?» «Non ne ho idea. Hai visto in che direzione è andato?»
«No.» Si voltò e diede un calcio al camion più vicino. «Metti in moto la macchina.» Tornai di corsa dentro e andai diritto al bar. «Di chi è il furgone?» Un tizio vestito di jeans alzò la mano. «Toglilo dai coglioni oppure te lo scaraventiamo fuori dal parcheggio.» Mi fissò per un attimo, poi si alzò e uscì. Mi girai verso Ed. «Era lui, vero? L'uomo che è scappato?» «Presumo non volesse affatto parlare con te.» «Beh, è un peccato,» dissi. «Perché lo farà comunque. Ho bisogno di parlare con lui dei vecchi tempi. Ho così tanta nostalgia che potrei cagarmi addosso. Allora, dove vive?» «Non te lo dirò.» «Non fare lo stronzo con me, Ed.» L'uomo cominciò ad allungarsi sotto il bancone. Tirai fuori la pistola e gliela puntai contro. «Non fare neanche quello. Non ne vale la pena.» Il giovane Ed riportò le mani in bella vista. Ero consapevole del fatto che gli altri avventori ci stessero osservando e sperai che nessuno di loro fosse in cerca di guai. Le persone possono diventare molto protettive nei confronti di coloro che gli servono birre. È un legame importante. Ci fu un lungo intervallo e infine Ed sospirò. «Dovevo immaginarlo che saresti stato un problema.» «Non lo sono. Voglio solo parlare.» «Dalle parti di Long Acre,» disse. «Una vecchia roulotte lungo il torrente sull'altro lato del piccolo bosco.» Gli lanciai del denaro per le birre e corsi fuori, quasi buttando a terra il tizio che stava tornando dopo aver spostato il suo furgone. Bobby aveva già la macchina in posizione, pronta a partire. Ora che sapevo dove stavamo andando, mi sembrò quasi familiare. Long Acre a quanto pare è una strada senza fine che si inarca dalla zona alle spalle della città e arriva fino alle colline. Non ci sono molte case lungo il percorso, e il torrente cui aveva fatto riferimento l'uomo era ben oltre di esse, dall'altro lato di una spessa serie di alberi. Impiegammo circa dieci minuti ad arrivarci. Era molto buio e Bobby stava andando veramente veloce. Non riuscivo a vedere alcun segno di fanali posteriori davanti a noi. «Forse non si stava dirigendo a casa,» disse Bobby. «Lo farà prima o poi. Rallenta, non è così lontano ormai. In più mi stai facendo venire un infarto.»
Immediatamente dopo scorgemmo lo specchio d'acqua del torrente, argenteo sotto il cielo nero-blu. Bobby frenò come qualcuno che stesse andando a sbattere contro un muro, e svoltò in un sentiero a stento segnalato. Alla fine di esso si poteva scorgere la sagoma di una vecchia roulotte immersa in uno splendido isolamento. Non c'erano tracce di alcuna macchina. «Cazzo,» dissi. «Okay. Fermati dove non possiamo essere visti dalla strada.» Dopo circa mezz'ora cominciai a perdere la pazienza. Se Lazy se ne fosse andato per un'altra strada per assicurarsi di non essere seguito, allora avrebbe dovuto già essere a casa, ormai. Bobby ne convenne, ma diede un'altra interpretazione di quanto avevo detto. «No,» dissi. «Molto tempo fa frequentavo quest'uomo. Non rovisterò in casa sua.» «Non ti stavo suggerendo di farlo. Ma dai Ward, nel momento in cui questo tizio ti vede nel bar, se la dà a gambe. Avevi visto giusto. Il bar nel video serviva a ricordarti di qualcuno, e quel vecchio sa qualcosa.» «Potrebbe avermi confuso con qualcun altro.» «Probabilmente hai qualche chilo in più rispetto ad allora, ma non è che tu ne abbia presi cento o abbia cambiato colore della pelle. Sapeva che eri tu. E comunque è riuscito a distanziarci piuttosto velocemente per essere uno che viene considerato vecchio.» Esitai, ma non a lungo. Avevo passato molto tempo con Lazy Ed. Ero stato solo uno dei tanti, sicuramente, e senza dubbio da allora si erano succedute diverse generazioni di bevitori minorenni. Ma avevo sperato in un'accoglienza più amichevole. Uscimmo dall'auto insieme e ci dirigemmo alla porta della roulotte. Bobby forzò la serratura e scivolò dentro, e un momento dopo una luce fioca filtrò attraverso le finestre. Mi sedetti sui gradini e continuai a osservare, domandandomi se i miei genitori avessero sospettato che un giorno si sarebbe arrivati a una cosa del genere. Con loro figlio, mezzo ubriaco, che faceva irruzione nella roulotte di un uomo anziano. Non mi piace quello che sono diventato, però non mi importava molto del ragazzo che ero prima. In ogni caso non ero completamente fuori strada: il ricordo della partita a biliardo di tanto tempo prima con mio padre e il modo in cui Ed aveva reagito allora nel vederlo, erano le cose che mi avevano spinto ad andare in quel bar. Ma, mentre osservavo il sentiero e prestavo ascolto ai movimenti di Bobby all'interno, mi sembrò di sentire di nuovo la voce di mio padre.
Mi domando cosa sei diventato. Dieci minuti dopo Bobby uscì tenendo in mano qualcosa. «Cos'è quello?» Mi alzai, provando un certo indolenzimento alle gambe. «Te lo mostro al caldo. Devi esserti congelato il culo.» Tornati in macchina accesi la luce interna. «Bene,» disse Bobby. «Lazy Ed sta affrontando il suo viale del tramonto con l'aiuto di bevande alcoliche, ed è giunto a uno stadio in cui nasconde le bottiglie vuote anche a se stesso. O è così oppure il suo soprannome è azzeccato e se ne fotte di buttarle via. Là dentro sembra uno zoo. Non sono riuscito a frugare dappertutto. Comunque, ho trovato questa.» Tirò fuori una fotografia. La presi e la orientai in modo che fosse illuminata. «L'ho trovata in una scatola conservata dietro a quello che suppongo dovrebbe essere il suo letto. Il resto era porcheria, ma questa ha attirato la mia attenzione.» L'immagine mostrava un gruppo di cinque adolescenti, quattro ragazzi e una ragazza, ed era stata scattata con luce scarsa e da qualcuno che si era dimenticato di dire «Cheese». Solo un ragazzo, che stava proprio al centro, sembrava consapevole di essere immortalato. Gli altri erano colti mezzi di profilo, con le facce per la maggior parte in ombra. Non si riusciva a capire dove fosse stata scattata, ma i vestiti e lo standard della stampa la facevano risalire ai tardi anni Cinquanta, primi Sessanta. «Quello è lui,» dissi. «Il ragazzo al centro.» Mi sentii imbarazzato a tenere in mano qualcosa così legato al passato di qualcun altro e che non avesse nulla a che fare con me. «Per 'lui' tu intendi questo Lazy Ed.» «Sì. Ma questa è stata scattata quasi cinquant'anni fa. Non era così carino quando lo conobbi. Per niente.» «Okay.» Bobby indicò la donna, che si trovava all'estremità sinistra della foto. «Allora chi è questa?» Guardai più da vicino la figura che lui stava indicando. Tutto quello che riuscii a distinguere fu mezza fronte, un po' di capelli, gran parte della bocca. Un viso sottile, giovane, piuttosto carino. Scrollai le spalle. «Dimmelo tu. Non è nessuno che io conosca.» «Sul serio?» «Cosa vuoi dire, Bobby?» «Potrei sbagliarmi e non vorrei influenzarti.» Guardai un'altra volta. Scrutai attentamente per un po' gli altri volti, per rinfrescare lo sguardo. Poi osservai di nuovo la donna, ma non fece scatta-
re nulla. «Non è mia madre, se è questo che stai pensando.» «Non è quello. Continua a guardare.» Lo feci e sentii affiorare un pensiero che non ostacolai. Ci vollero pochi secondi e poi mi colpì come un mattone. «Porca puttana,'» dissi. «Lo vedi?» Continuai a guardare, certo di dovermi ricredere. Ma non fu così. Una volta notata la somiglianza, non la si poteva più negare. Nonostante molta parte del suo viso fosse in ombra, esso era riconoscibile dagli occhi e dalla forma della metà superiore del naso. «Quella è Mary,» dissi. «Mary Richards. La vicina dei miei genitori. A Dyersburg.» Aprii la bocca per aggiungere qualcosa - non sono sicuro cosa - ma poi la richiusi con uno scatto, colpito dall'apparire di un'altra immagine. Bobby non l'aveva notata. «Allora cosa ci faceva Ed nel Montana a quei tempi? Oppure cosa ci faceva lei qui?» «Ti sei proprio deciso ad aspettare questo tizio stanotte?» «Perché, hai un altro piano?» «Potrei avere qualcos'altro da mostrarti,» dissi. «In più fa freddo e non penso che vedremo Ed qua fuori stanotte. Dovremmo tornare in città.» Le mie mani tremavano, e mi sentivo la gola asciutta. «Per me va bene.» Uscii dall'auto, mi diressi all'ingresso della roulotte ed entrai. Appoggiai la foto nel mezzo di un tavolino da gioco e scrissi un messaggio sul retro, scusandomi per l'irruzione. Aggiunsi il mio numero di cellulare in fondo e poi me ne andai - fermandomi un attimo per sistemare una rivista dietro la porta. Bobby tornò in città guidando a fari spenti, ma non vedemmo tracce di nessuno, e quando passammo davanti al bar la vecchia Ford non c'era più nel parcheggio. 21 Prendemmo due camere all'Holiday Inn, io mi feci una doccia e riposai cinque minuti mentre aspettavo Bobby. La stanza era pulita, fresca e aveva un aspetto rassicurante. Avevo a mia disposizione una grande brocca di caffè, che era stata portata dal tipo di cameriera che io preferisco, con una bella livrea bianca e un sorriso prêt-à-porter. Il mostrarmi socievole non
appartiene al mio DNA. Sono piuttosto contento quando le persone non conoscono il mio nome. Avrei voluto avere ancora la fotografia. Desideravo guardarla un'altra volta, mi stavo quasi convincendo che fosse tutto un'illusione ottica, e del fatto che il volto del cadavere di Mary fosse profondamente impresso nella mia memoria. Il suo corpo probabilmente doveva già trovarsi steso in una fredda cella dell'obitorio, ma nessuno avrebbe capito cosa le fosse successo. Pensai sarebbe stato giusto che lo sapessero, e l'essere fuggito da Dyersburg ancora mi bruciava. Forse una telefonata al dipartimento di polizia di Dyersburg li avrebbe messi sulla pista giusta. Avrebbero chiesto il mio nome e le generalità, ma avrei potuto mentire. Sono bravo in questo genere di cose. Ero quasi sul punto di impugnare il telefono quando Bobby bussò alla mia porta. Così lasciai perdere e mi alzai dalla sedia. «Tutto okay?» chiese mentre chiudeva la porta. «Sono stati dei giorni strani, Bobby.» Aprii il mio portatile e lo piazzai al centro del tavolo. Feci cenno a Bobby di sedersi sull'altra sedia, infilai il DVD nella fessura e caricai il file della scena del bar estratta dal filmato. Musica ad alto volume. Caos. L'incedere ubriaco dell'uomo che riprendeva la scena. L'attacco di tosse, e poi la puntata dietro l'angolo nella zona dove la gente stava giocando a biliardo. Una giovane coppia dava le spalle alla cinepresa e un omone con la barba e la sua ragazza si stavano preparando a fare il loro tiro. La cinepresa si avvicinò traballando e la ragazza con i capelli lunghi alzò lo sguardo. Misi in pausa e fermai il video su quel volto. Premetti un paio di tasti per trasformare il fotogramma in un file grafico e avviai Photoshop. Aprii il file, e questa volta zumai sul viso della donna. Presi parte dello sfondo e lo sovrapposi alle parti estreme dei suoi lunghi capelli per eliminarle. Copiai del tessuto epidermico e lo aggiunsi intorno alle sue guance, per renderle più ampie e vecchie, poi presi dei capelli e ne adattai la piega a una più consona a una donna anziana. Feci una selezione veloce, misi del grigio acciaio e alla fine aggiunsi un filtro noise sulle parti modificate della figura in modo da mascherare la differenza di definizione, e poi usai una funzione per eliminare le spigolosità. Zumai indietro fino a quando l'immagine non ebbe una dimensione pari alla metà di quella normale, rendendo meno evidente il rozzo lavoro di editing. Non si doveva far caso al fatto che la parte intorno al viso ora sembrasse
strana, ma non era difficile considerato quello che si era reso visibile. L'avevo sospettato fin dalla roulotte di Ed, ma vederlo sullo schermo mi lasciava ancora senza fiato. «Okay,» disse Bobby, molto tranquillamente. «È di nuovo lei. Insieme ai tuoi genitori.» «Ma l'avevano incontrata solo quando si trasferirono nel Montana.» «E avevano detto qualcosa del tipo: 'Questa è Mrs. Mary. È la prima volta che compare nelle nostre vite e sicuramente non l'abbiamo mai incontrata prima.'» «Si comportarono come se si conoscessero solo da un paio di anni.» Mi girava la testa. «E mi ricordo che mia madre mi raccontò come avesse incontrato Mary proprio il giorno in cui si erano trasferiti, quando era arrivata con dei biscotti.» «Mentre in realtà si conoscevano da oltre trent'anni.» Nel frattempo aveva mandato indietro il filmato e aveva fermato l'immagine sulla ragazza seduta con le gambe incrociate e che si dondolava sul pavimento del salotto dei miei genitori. Annuii. Era evidente già dal modo in cui la luce colpiva il suo naso e gli zigomi, non c'era nemmeno bisogno di fare alcuna elaborazione dell'immagine. Era Mary. «Allora cosa pensi di questo Ed? Potrebbe essere lui il cameraman?» «L'unica volta che avevo visto lui e mio padre nella stessa stanza si erano comportati come due estranei.» Avevo già raccontato questo episodio a Bobby mentre uscivamo dal bar. «Ma dovevano conoscersi. Si conoscevano tutti. Per qualche motivo, Mary se ne andò, probabilmente neanche molto tempo dopo il periodo in cui fu girato il filmato. Sicuramente si trovava nel Montana da molto prima che i miei vi si trasferissero. Nel frattempo, i miei genitori e Ed rimasero qui, ma non si frequentarono, e nell'occasione in cui, per caso, io li feci incontrare nuovamente, mio padre lasciò che la cosa accadesse, ma nessuno dei due diede segno di conoscere l'altro.» Ripensai alle volte in cui incontrai Mary a casa dei miei, ma tutto ciò non fece altro che confermare la mia impressione attuale - ovvero che se si erano conosciuti prima di arrivare nel Montana, allora dovevano aver avuto un po' di problemi per fare sì che questo non trasparisse. Mi domandai perché si fossero preoccupati tutti di nascondermelo, e poi mi accorsi che i miei pensieri erano confusi, e che io non ero stato determinante in questa loro scelta. «I miei genitori andarono laggiù apposta,» capii. «Andarono lì perché
pensavano o sapevano che sarebbe successo qualcosa, ed ecco perché loro tre fecero finta di non conoscersi.» «Credo che tu stia forzando un po' le cose.» «Dici? Forse Mary non è stata uccisa solo perché è finita in mezzo ai piedi. Forse chiunque fosse venuto alla casa aveva due missioni da compiere, e Mary era una di queste.» Bobby ci pensò e annuì. «Quindi, quando tu rispunti a Hunter's Rock, Ed fugge come una lepre.» «Saremmo dovuti rimanere fuori dalla sua roulotte.» Lui scosse la testa. «Non ci tornerà di corsa. Ormai avrà chiamato il tizio del bar e avrà scoperto che sai dove abita. In più sembri troppo esausto per inseguire qualcuno. Hai lasciato il tuo numero di cellulare. Se tornerà a casa, saprà come contattarti. Domani torneremo al bar e faremo pressioni sul gestore. Scopriremo se il vecchio ha qualche socio noto o altri posti in cui vada regolarmente.» «In altre parole, cerchiamo l'ago nel pagliaio.» «L'ago è ancora lì. Se fosse stato messo a casaccio, lo si potrebbe ritrovare immediatamente.» «Che pensiero profondo, Bobby. Lascia che me lo scriva.» «Nel frattempo, io mi collego a Internet.» Lanciò uno sguardo al cellulare che si trovava sul tavolo. «E se speri che Lazy Ed chiami, almeno accendi il tuo telefono.» Mentre lui collegava il cavo telefonico dal retro del portatile fino a un plug, accesi il cellulare. Come era prevedibile, nel giro di qualche secondo comparve sul display l'icona di messaggio. «È arrivato qualcosa?» Chiamai la segreteria e ascoltai. La voce registrata era quella di una donna. «Non è lui. È la ragazza con la quale ho parlato in ospedale. Mi informa che avrebbe controllato alcuni documenti e mi avrebbe fatto sapere nel caso avesse trovato qualcosa che potesse essere di aiuto.» «E l'ha fatto?» «Non lo dice,» dichiarai, mettendo giù. «Era solo perché la chiamassi domani.» «Ward, guarda qui. Hai un'e-mail.» Guardai al di sopra delle sue spalle. Sullo schermo c'era un breve messaggio: GUADAGNO GARANTITO DI MOLTI $$$!
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Lo esaminai velocemente. «Prova con l'oro, così come è scritto.» «E perché?» «Loro è l'unica parola scritta sbagliata ed è nella frase che si riferisce al sito.» Cliccò e la inserì. Ci guadagnammo un altro «Accesso non autorizzato». «Presto ci saranno impediti altri tentativi,» mormorò, tornando ancora una volta sui suoi passi. «Prova a scriverla correttamente.» Cliccò e inserì «loro». Ci fu una pausa. Poi comparve un'altra pagina. Questa volta era nera, con la parola BENVENUTI, scritta in bianco, al centro. «Okay,» disse Bobby, con una voce calma e contratta. Spostò il cursore su BENVENUTI e questo diventò una mano. Mi avvicinai e lui cliccò sulla parola. Dopo una pausa, lo sfondo dello schermo diventò color verde foresta e si riempì di un testo scritto in bianco. IL MANIFESTO DELL'UOMO [image: strawlogo.jpg] QUESTA È LA VERITÀ Alcune persone non sono d'accordo con la teoria dell'Evoluzionismo. Questo è sbagliato. Ci è stato detto per così tanto tempo che l'Evoluzionismo era falso solamente per IMPEDIRCI di vedere la Verità. Ma ora l'abbiamo Vista e i Politicanti e i Mentitori non potranno nascondercela un'altra volta. Voi credete di conoscere la Verità ma non è così: Conoscete SOLO MENZOGNE. LA STORIA DELL'UMANITÀ In un passato lontanissimo eravamo tutti scimmie. Poi un giorno di cinque milioni di anni fa nacque una nuova razza che generò tre nuovi tipi di scimmie: i gorilla, gli scimpanzé e gli «ominidi» - da cui discendiamo noi. Chiunque abbia visto programmi tv sull'intelligenza degli scimpanzé non troverà difficile credere che ciò sia vero. Due milioni e mezzo di anni dopo comparvero le prime creature appartenenti alla vera Umanità. A volte ci si
riferisce a esse chiamandole Habilis, sebbene i nomi riguardanti questo periodo siano aperti a controversie: Questo è un periodo oscuro nella nostra Evoluzione, e gli scienziati usano PAROLONI per farci CREDERE di sapere molto di più di quanto in realtà non sappiano. Circa un milione di anni fa si cominciò a vedere una specie chiamata Erectus, detta così perché questi ominidi stavano in posizione Eretta. È lo stare Eretti che ci distingue dalle scimmie e dagli altri animali. Alcuni di questi individui divennero Neandertal e furono dominanti per lungo tempo. Nel corso delle poche migliaia di anni che seguirono questa creatura migliorò nel modo di camminare, costruì utensili più funzionali e imparò a dominare il FUOCO. Un'ulteriore Evoluzione poi ebbe luogo in Africa e culminò nell'Homo Sapiens. Aumentarono le dimensioni del nostro cervello, e quindi anche la nostra Intelligenza, che è unica. L'Homo Sapiens soppiantò l'uomo di Neandertal, e noi siamo subentrati a entrambi. Durante tutto questo periodo, il genere umano e le creature che ci precedettero furono CACCIATORI-RACCOGLITORI. Vivevamo in piccoli gruppi che legavano tra loro tramite vincoli di Parentela e Cooperazione. Ci nutrivamo con la selvaggina che CACCIAVAMO e con le bacche e le radici che RACCOGLIEVAMO, poi ci spostavamo. PIANGERETE PER CIÒ CHE AVETE SEMINATO Circa quindicimila anni fa tutto cominciò a cambiare. Può sembrare tanto tempo fa, ma non lo è se ragioniamo in termini di milioni di anni. Quello che accadde fu che interrompemmo le nostre naturali attività di caccia e raccolta. Perché? Alcuni hanno attribuito questo fatto all'aumento della popolazione che causò una diminuzione delle risorse e una minore libertà di movimento. Oppure ai mutamenti climatici dovuti alla fine dell'Era Glaciale, e a varie altre cose. Di tutte le argomentazioni cosiddette Scientifiche, nessuna è in grado di spiegarlo. Un tempo c'erano milioni di bisonti che scorrazzavano per le pianure americane. Erano ancora in grado di sostentarsi. Dovevano spostarsi per trovare nuovo cibo, ma era nella loro Natura. Gli Umani, che possono stare Eretti, sono FATTI per percorrere a piedi lunghe distanze. Allora perché smettemmo improvvisamente di muoverci - dopo aver passato milioni di anni a Evolverci in un altro modo? La ragione sta nel fatto che cominciammo a coltivare la terra. Il risultato fu che la gente cominciò a fermarsi in un posto e a vivere in gruppi più
numerosi, fino a centinaia e poi a migliaia di persone. E una volta che questo processo ebbe avuto inizio, non fu più possibile fermarlo. L'agricoltura produce più cibo, ma è un metodo MENO EFFICIENTE per sostentare piccoli nuclei di persone. Funziona solo per quelli numerosi. L'agricoltura provocò anche un incremento delle nascite, il che significò un ulteriore allargamento delle comunità. Una volta che la popolazione si fa più numerosa non potete più cambiare e tornare alla caccia. Siete in Trappola. Da questi mutamenti nacquero i villaggi e le città che permisero un ulteriore aumento della popolazione. Ciò generò DISUGUAGLIANZA e poi LEADER e RELIGIONE. Creò anche la MORALITÀ. Se vivete a lungo in un posto, allora vi capiterà di rivedere, l'indomani, le stesse persone che avete visto ieri. Questo implica che dovete iniziare a relazionarvi con loro in un certo modo, oppure essi vi UCCIDERANNO. Da ciò la gente maturò la convinzione di avere l'OBBLIGO di comportarsi secondo certe norme anche se non si conoscono le persone interessate. E per la prima volta comparve una delle caratteristiche del genere umano che meno ispira simpatia ma che più è tipica, qualcosa che ci rende differenti da tutte le altre specie della natura: quella di MODIFICARE LA TERRA. Fino a quel momento eravamo vissuti in simbiosi con la natura: dal momento in cui abbiamo cominciato a coltivare, noi abbiamo VIOLENTATO la terra e l'abbiamo trasformata secondo i nostri fini. E inoltre i coltivatori erano in realtà MENO SANI dei cacciatori. Coltivare il cibo portava MINORI risultati con gli stessi sforzi. I cacciatoriraccoglitori avevano PIÙ TEMPO LIBERO e LAVORAVANO MENO dei coltivatori. Avevano una dieta meglio bilanciata rispetto a questi ultimi, che dipendevano troppo da radici o colture di cereali. I coltivatori erano più soggetti a infezioni ed epidemie - perché tutti vivevano vicini. Le persone vivevano meno a lungo e si AMMALAVANO di più. ALLORA PERCHÉ, IN SOLO POCHE MIGLIAIA DI ANNI, QUESTO STILE DI VITA È DILAGATO NEL MONDO? Perché, praticamente sull'intero pianeta, tutte le nostre Specie hanno modificato il loro stile di vita dopo Milioni di anni - specialmente se sulle prime STAVANO PEGGIO? IL GENOMA INUMANO I Virus sono molto piccoli, ma quando sono dentro di voi si impossessano del vostro corpo così da farlo comportare nel modo in cui vuole la Ma-
lattia. Molti Virus fanno stare male, come il raffreddore. Alcuni uccidono, come l'AIDS. Ma ì Virus più evoluti non fanno ammalare e non uccidono perché vogliono che voi siate la loro DIMORA. Ventimila anni fa fummo infettati. L'Homo Sapiens portò il Virus dall'Africa, e questo è il motivo per cui tutti i Neandertal morirono. Si erano adattati meglio ad affrontare le circostanze e l'Era Glaciale - tuttavia, in solo poche migliaia di anni, si estinsero. Il Virus ci spinse a vivere in comunità e città proprio perché in questo modo sarebbe stato più semplice DIFFONDERSI TRA NOI. Non lo facemmo tanto per un nostro miglioramento. Lo facemmo perché eravamo in trappola. Quando il Virus si fu impossessato di noi trasformandoci nella sua dimora, la nostra natura era cambiata, e non potemmo più tornare indietro. Il Virus è diventato a tal punto parte di noi che la Comunità Scientifica non lo individuerà mai, indipendentemente da quanto i suoi membri sì ritengano intelligenti. Questo è il motivo per cui una Patria è molto importante per molti popoli, compresi gli EBREI: Se ci spostiamo, allora il Virus pensa che stiamo tornando al nostro originario stile di vita e ci ostacola. Questa è la ragione per cui non ci importa della gente che vive in altri paesi: Non significano nulla per noi. Ecco perché i Terroristi e gli Assassini uccidono Americani innocenti: non significhiamo nulla per loro. Ecco perché le nostre città traboccano di violenza: Siamo costretti a vivere nel sudiciume delle altre persone come topi in gabbia, cosa che per noi suona come un anatema. Questa è la ragione per cui si verificano episodi come l'Olocausto Nazista, o quelli che hanno luogo in Bosnia e Ruanda: Le altre tribù sono i nostri Nemici e se qualcuno ci costringe a stare insieme non possiamo fare altro che combatterci. Ecco perché i nostri capi sono Bugiardi e Stupidi. Governare significa impedirci di avere la nostra LIBERTÀ, per il bene dei cosiddetti diritti di persone che non conosciamo. Ecco perché la gente Uccide e Distrugge: Perché l'unica cosa che ci frena è l'Etica, che fu creata dal Virus. Hanno sempre cercato di farci sentire come se fossimo tutti uguali e dicono che abbiamo tutti il sangue dello stesso colore, ma anche questo non è vero: Ci sono diverse varietà di sangue - secondo la genetica. Anche a questo livello primario siamo incompatibili gli uni con gli altri. Anche il nostro sangue non è uguale. COSA POSSIAMO FARE?
Dobbiamo cominciare nelle città, tra i Neri. Potete non piacerci - perché non siete della nostra razza e siamo tenuti insieme solo a causa della Malattia - ma anche voi siete Vittime. Siete stati allontanati dalla vostra vera Patria e rinchiusi in luoghi dove non c'è nessuna speranza per la Vostra Specie. Non siamo fatti per vivere in grandi gruppi. Non siamo stati concepiti per occuparci di persone che non conosciamo. Siamo stati pensati per essere liberi, non confinati nelle città e tiranneggiati da gente cui non importa di noi ma che pensano solo ai SOLDI. L'unica maniera per impedire che questo ci distrugga è uccidere i veicoli della malattia. I politici non saranno di aiuto, perché essi prosperano in questo ambiente Malvagio. Come il Virus, senza la «civilizzazione» essi non dominano moltitudini di persone. Sta a noi. Coloro che Uccidono saranno Liberi: Coloro che non Uccidono sono Infetti. Purificate il pianeta. Uccidete il Virus. Le armi da fuoco vi renderanno forti. Terminai di leggere pochi istanti prima di Bobby. «Salva sull'hard disk,» dissi. «Domani quella roba potrebbe non essere più lì.» Quando Bobby ebbe salvato la pagina, tornai all'inizio e la rilessi attentamente. Mi fece venire in mente centinaia di deliri fanatici, pappardelle mal fotocopiate rifilate ai passanti agli angoli delle strade e lette rapidamente per pura noia mentre si torna a casa; invettive sentite di sfuggita a notte fonda nelle ombre di un bar, voci impastate d'alcol, ignoranza e rabbia. Ma in questo c'era qualcosa di differente. Mi sedetti nuovamente sulla mia sedia e cercai di capire cosa potesse essere. «Rendiamogli merito,» disse Bobby, quando ebbe finito di leggerlo per la seconda volta. «È andato in una biblioteca e ha dato un'occhiata ad alcuni libri. Ma, fondamentalmente, è pura follia. Giusto?» «Sì e no,» risposi. «Termini come 'soppiantato' non calzano. Oppure 'anatema'.»
«Un paio di parole ricercate non lo rendono l'opera di un genio. Potrebbero essere state copiate direttamente da qualcosa.» «Ogni singolo apostrofo è al posto giusto, Bobby. Ci sono un sacco di persone là fuori che prenderebbero questa come la parola di Dio. I ragazzi della Guardia Nazionale, tanto per cominciare. Potrebbero addirittura esserci loro dietro.» Rise. «Ne dubito. Sai come sono fatti. Veterani ingrigiti e ragazzini che hanno visto troppi filmati violenti sul Vietnam tanto da credere quasi di esserci stati anche loro. Mettono su un accampamento in mezzo ai boschi, lucidano i loro attrezzi e si contendono le donne.» «Non tutte quelle persone sono cavernicoli. O stupidi.» «Certo che no. Ma stiamo parlando di tizi che divorano 'Soldier of Fortune' dalla prima all'ultima parola, e comprano libri che ti dicono come preparare il napalm e costruire trappole anti-uomo nel tuo cortile. Persone finite in rovina, facendo incetta di provviste per la fine del millennio - e che rimasero veramente dispiaciute quando non accadde nulla e il progresso continuò ad andare avanti. Indossano le uniformi e sputano sentenze su come il mondo sta andando di merda, e di questo vanno incolpati gli ebrei e gli ispanici, per non parlare di Capitol Hill e di Saddam Hussein. Faresti meglio a preoccuparti di più dei neri nei centri urbani degradati. I nostri amici fraterni sono veramente incazzati, e alcuni di quei gran bastardi imparano ad ammazzare ancora prima che a scopare.» «È la stessa cosa. Gente che non si è mai sentita parte di nessuna comunità eccetto quella che è piccola abbastanza perché tutti si conoscano per nome.» «Mi stai facendo commuovere, Ward.» «Vaffanculo. Tu riponi fiducia in una nazione, la ami come lei ti chiede di fare, e poi scopri che era solo una carezza per tenerti buono e che ciò che significava era: 'Tutti possono avere quello che vogliono eccetto voi, ragazzi. Nel vostro caso, non facevamo sul serio.' È un abuso culturale. Come reagiresti tu a questo?» «Okay, Ward. In quella roba c'è del sentimento genuino e il QI totale probabilmente non è inferiore a quello della Camera dei fottuti Rappresentanti e ammetterò che, a volte, alcune di queste persone hanno ragione. Quello che certamente non credo è che si coordinino tra loro. La maggior parte di questi collettivi ha difficoltà a tenere trenta persone orientate nella stessa direzione, figuriamoci l'essere d'accordo su scopi e obiettivi con qualche altro gruppo - ancora peggio se parliamo di gruppi - a centinaia o
migliaia di chilometri di distanza. Forse là fuori nel mondo sconfinato. Ma non qui.» «Prima che arrivasse Internet,» dissi. «In rete è pieno di roba del genere,» ammise. «Ci sono abbastanza manifestazioni psicotiche da mandare fuori di testa tutti i terapisti del paese. Gruppi razzisti, escatologici, gli illuminati che bruciano le effigi dei gufi a Bohemia Grove; e la faccia su Marte è una base missilistica per il controllo della società e le testate nucleari sono tutte puntate proprio su di te. Ma ho passato tutto il tempo a guardare quelle stronzate e credimi, non c'è nessun movimento mondiale che sia controllato da questi tizi. Queste persone odiano chiunque non sia come loro. Mettili tutti insieme in una stanza e l'effetto sarà esplosivo.» «Non puoi scovare tutti i file su tutti i server,» dissi. «Tu hai visto solo quello che è stato lasciato affinché fosse trovato. Ci potrebbe essere tutta un'altra rete, che usa gli stessi computer, le stesse connessioni e gli stessi hard disk, piena di assassini e di omicidi e con un progetto per il futuro - e finché non sai dove guardare, non trovi nemmeno la pagina del sommario.» Bobby alzò gli occhi al cielo, facendomi irritare. «Stammi a sentire, cazzo. Questo è ciò che siamo. Non lo capisci? Gli accademici hanno creato la rete nel loro tempo libero così da potersi scambiare i fatti e continuare a giocare a 'Star Trek' anche quando sono via. Subito dopo ti accorgi che non puoi entrare in rete senza che qualcuno ti soffochi con messaggi di posta inutili e che ogni chiosco di lustrascarpe ha il suo dominio. Ma ancora prima di questo c'è pornografia dappertutto e uomini e donne comuni che, seduti in stanze buie, si scrivono l'un l'altro quanto gli piaccia vestirsi da Shirley Temple ed essere frustati a sangue. Questo è quello che la rete diventerà: un modo di nascondersi dietro l'anonimato per poter smettere di apparire Mr. e Mrs. Cittadini Modello ed essere veramente se stessi; così la finiamo di far finta che ce ne freghi qualcosa del villaggio globale quando i nostri elenchi degli auguri di Natale hanno le dimensioni di una piccola tribù preistorica, e abbiamo voglia di eliminarne la metà.» «È bello vedere qualcuno così orgoglioso dei propri colleghi mortali. Sembra che tu sia pronto per unirti alla causa.» Si fregò la faccia. «Ward, questo potrebbe essere un tizio che fa tutto da solo.» «Stronzate. Ci siamo arrivati da un icona del computer di un uomo che ha girato alcuni minuti di un video nel quale fa riferimento agli 'Uomini di paglia'. Quell'uomo e sua moglie sono morti assieme a qualcuno che avevano conosciuto molto tempo fa. Una minaccia recapitata nel posto mo-
strato nel video ha fatto sì che una casa e un albergo saltassero in aria meno di due ore più tardi. Cristo, anche l'architettura di The Halls coincide. Stanno costruendo caverne da milioni di dollari per cacciatoriraccoglitori.» «Okay,» disse Bobby, alzando le mani. «Ho capito quello che vuoi dire. E quindi ora?» «Abbiamo trovato questo. Cosa dovremmo fare dopo? Non ci sono link, nessun indirizzo e-mail, niente. Qual è il significato di questa roba, se non porta da qualche parte?» Bobby girò versò di sé il portatile e digitò una combinazione di tasti. Lo schermo divenne un'immagine che rivelò solo i codici HTML della pagina, il linguaggio multi-piattaforma che mostra l'URL a qualsiasi tipo di sistema operativo. Scorse lentamente verso il basso le righe. Poi si fermò. «Aspetta.» Ritornò alla visualizzazione standard e si diresse proprio alla fine del documento. «Okay,» disse, annuendo. «Non è molto, ma c'è qualcosa.» Indicò lo schermo. «Vedi niente lì? Sotto il testo?» «No. Perché?» «Perché c'è qualcosa. Poche parole, ma sono state sistemate in modo che appaiano dello stesso colore dello sfondo. Ti puoi accorgere che sono lì solamente se leggi il codice o selezioni il campo.» «In altre parole, se questo ti suona familiare. Allora quali sono le parole?» Tornò ancora all'HTML ed evidenziò una piccola sezione proprio in fondo. Nascosto in mezzo alle parole senza senso c'era: L'Homo Erectus «L'Homo Erectus,» dissi. «E chi diavolo è?» PARTE III «La Storia ci insegue, come la nostra ombra, come la morte.» Marc Augé, Nonluoghi: Introduzione a
un'Antropologia della Surmodernità 22 Sarah non si ricordava quando l'aveva sentito per la prima volta. Forse uno o due giorni fa. Si stava avvicinando lentamente, attendeva il momento opportuno. Era convinta che fosse venuto anche la notte scorsa, per scomparire di nuovo non appena si era accorto che lei era consapevole che stesse succedendo qualcosa. Si era domandata se avrebbe potuto sentirlo anche durante il giorno, ma in quei momenti la sua mente era più lucida, ed era riuscita a convincersi che stava giocando di fantasia. Poi, un pomeriggio tardi lo sentì sopra di lei, ed ebbe la consapevolezza che se fosse arrivato nelle ore diurne, allora le cose avrebbero cominciato a peggiorare. Lo psicopatico le aveva fatto visita un paio di ore prima che succedesse. Aveva parlato piuttosto a lungo. Aveva solo parlato e parlato e parlato. Alcune cose riguardavano la saprofagia. Altre riguardavano un'epidemia. Altre ancora riguardavano un posto in Italia chiamato Castenedolo, che sembrava un luogo dove andare in vacanza a bere delle bibite invitanti e forse a mangiare del cibo come spaghetti o salame o bistecca o calamari o zuppa, ma ovviamente non era così. Era invece un posto dove avevano trovato un tizio sepolto, e il luogo dove fu rinvenuto era la dimostrazione che egli proveniva dall'era del Postercene o «Pliocene» e aveva almeno due milioni di anni, e cosa ne pensava lei di quello? A Sarah non importava granché comunque. Cercò intensamente di concentrarsi su quello che le veniva detto ma, più o meno nell'ultima giornata, aveva cominciato a sentirsi molto male per la maggior parte del tempo. Aveva smesso di chiedere cibo e non era più particolarmente affamata. Produceva solo dei rumori, dei piccoli grugniti, quando l'uomo rimaneva in silenzio abbastanza a lungo da far pensare che stesse aspettando qualcosa da lei. Pensò che, in generale, i suoi metodi istruttivi, se questo era quello che si supponeva dovessero essere, probabilmente erano piuttosto efficaci e qualcosa da cui i suoi insegnanti di scuola avrebbero potuto trarre vantaggio. Gran parte dei suoi amici dimostrava di non imparare nulla, ma considerava la scuola come qualcosa a metà strada tra un centro sociale e una passerella. Pensò che il rinchiuderli con delle assi sotto il pavimento e semplicemente parlare loro all'infinito avrebbe potuto ridefinire le loro priorità. Ci sarebbe stata anche la possibilità che tutto quel vocabolario
spagnolo scivolasse nell'uso comune. Forse l'avrebbe fatto consigliare dalla mamma alla prossima riunione genitori-insegnanti. Però, per poter essere in grado di prestare attenzione, qualcuno dovrebbe fornire veramente qualcosa da mangiare. Lui aspettò pazientemente che lei superasse l'attacco di tosse che sembrò durare un'ora. E poi cominciò di nuovo a parlare. Questa volta era a proposito di Stonehenge e quindi lei ascoltò per un po', perché Stonehenge era in Inghilterra e, se anche loro non erano stati lì, lei amava l'Inghilterra. L'Inghilterra era fantastica e c'erano delle band come si deve. Ma quando lui cominciò col dire che Stonehenge era solo in parte un osservatorio, e principalmente una mappa del DNA umano come si credeva che fosse, lei lasciò che la sua attenzione scemasse. Alla fine lui le diede ancora un po' d'acqua. La fase durante la quale l'aveva rifiutata non era durata molto a lungo. Anche se avesse voluto continuare con la sfida, il suo corpo semplicemente non gliel'avrebbe permesso. Alla terza occasione la sua bocca si era aperta senza che il suo cervello intervenisse. L'acqua aveva un buon sapore pulito, puro. Si ricordava che una volta aveva avuto un gusto diverso dal solito. Ma era stato molto tempo fa. «Brava bambina,» aveva detto l'uomo. «Vedi... non sei trattata male. Avrei potuto pisciarti addosso e tu avresti comunque dovuto bere. Ascolta il tuo corpo. Ascolta ciò che hai dentro.» «Non c'è niente dentro,» gracchiò lei. E poi, per l'ultima volta, l'aveva supplicato: «Per favore. Qualsiasi cosa. Anche solo verdura. Carote o cavoli o capperi.» «Chiedi ancora?» «Per favore,» disse, sentendo come se le tempie stessero per evaporare. «Non mi sento bene e tu mi devi dare da mangiare oppure morirò.» «Sei ostinata,» disse. «È l'unica cosa che ancora mi fa sperare.» Non aveva esplicitamente respinto la sua richiesta, aveva solo parlato del vegetarianismo, spiegando quanto fosse sbagliato perché gli esseri umani possiedono una dentatura onnivora, e come l'idea di non mangiare carne fosse frutto delle persone che davano troppo retta alle loro menti, che erano infette, e non ascoltavano abbastanza il loro corpo. Sarah gli lasciò continuare il suo monotono sermone. Di' quello che vuoi. Personalmente, i vegetariani irritavano anche lei, principalmente perché quelli che conosceva si credevano così superiori, come Yasmin Di Planu, che protestava tanto per i diritti degli animali, ma aveva la più raffinata collezione di scarpe di tutta
la scuola, e la stragrande maggioranza di esse era stata ricavata da esseri che un tempo erano stati in grado di muoversi con le proprie forze, e non già perché erano avvolti intorno ai suoi graziosi piedini. Dopo averle dato dell'acqua, rimise di nuovo il coperchio e se ne andò. Durante le due ore successive Sarah aveva mantenuto completamente la lucidità, cosa che la fece preoccupare per quello che accadde successivamente. Lei sapeva di essere rimasta lucida perché aveva pensato di scappare. Non credeva di farlo veramente. Ormai le veniva in mente raramente, sebbene per un po' avesse occupato la maggior parte dei suoi pensieri durante le ore di veglia. All'inizio aveva fantasticato di trovare improvvisamente la forza per saltare fuori da sotto il pavimento, come qualcuno che fosse stato sepolto troppo presto e fosse veramente incazzato con tutti. Poi c'era stata l'idea di parlare con l'uomo, di sedurlo - lei era seducente, ne era consapevole; c'erano dei ragazzi a scuola, c'erano stati, che pendevano dalle sue labbra, per non parlare del cameriere che una volta le aveva servite al deli Broadway, il quale, come dire, tornò indietro al tavolo per controllare molto più spesso di quanto fosse stato strettamente necessario, e in quest'occasione, per una volta, un rappresentante del popolo del pene non aveva cercato di attirare l'attenzione di Sian Williams -, o di discutere con lui in modo razionale, o, come ultima possibilità, solo di intimargli di farla uscire. Ognuna di queste opzioni era stata tentata e si era dimostrata comicamente inefficace. Alla fine era stata la volta di fantasticare che suo padre arrivasse, semplicemente, e la trovasse. Ci pensava ancora ogni tanto, ma non così spesso come i primi tempi. A ogni modo, aveva sentito qualcuno entrare nella stanza sopra di lei. All'inizio aveva pensato fosse il suo rapitore, ma poi si era accorta che non poteva essere lui. Si sentiva il rumore di troppi piedi. Questi piedi avevano fatto un giro per la stanza e l'avevano attraversata da un lato all'altro passando direttamente sopra la sua testa. Poi si erano fermati, proprio sopra di lei. Aveva sentito qualcosa che somigliava a delle risa, talvolta acute, ma anche profonde. L'essere si era mosso avanti e indietro per un po', producendo rumori sgradevoli, come grugniti e uno strano latrato, e alcune parti del suo corpo erano cadute al suolo con rumore sordo e altre erano scivolate sul pavimento con una specie di stridore. Alla fine c'era stato un gemito che non era sembrato provenire da una sola gola, bensì da diverse contemporaneamente, come se la creatura avesse avuto più di una bocca. Successivamente, l'essere era rimasto in silenzio per un po', e poi se ne era andato.
Sarah rimase immobile con gli occhi spalancati. Era consapevole che quanto aveva sentito significava un brutto sviluppo della situazione. Molto brutto. Non era stato il suo rapitore a produrre quei rumori, oppure, se lo era stato, allora si era trasformato in qualcosa di diverso. L'essere che lei aveva sentito era quello che lei aveva più temuto, e ora si era fatto vivo anche alla luce del giorno e non stava più attendendo il momento opportuno. Non c'era alcun dubbio. Era Nokkon in persona. 23 Nina uscì di casa di buon ora e lasciò scritto che avrebbe chiamato. Zandt trascorse la mattinata a passeggiare nel patio. A ogni nuovo risveglio era sempre meno probabile che Sarah Becker fosse ancora viva, ma questa consapevolezza non spalancava nessuna porta. Tornò con la mente alla teoria che aveva esposto a Nina e non riuscì a trovarvi nessun difetto. Sapeva che, in gran parte, si trattava di una congettura, ed era consapevole di avere le sue ragioni personali per aggrapparsi all'idea. Se l'uomo che lui aveva ucciso fosse stato responsabile del rapimento delle ragazze, e le avesse prese per darle a qualcuno che sapeva le avrebbe uccise, Zandt era convinto che avrebbe trovato un modo per accettare l'idea di averlo ammazzato. Gli ultimi due anni di solitudine gli avevano insegnato una cosa, e bene: se riesci a convivere con te stesso, allora puoi resistere alle opinioni degli altri. Era consapevole che l'Homo Erectus probabilmente pensava la stessa cosa, ma questo non cambiava le cose. Una quantità abbondante di caffè e la vista del panorama trasformarono gradualmente i postumi della sbornia in un malessere generalizzato che era in grado di ignorare. I crampi al collo e alla schiena, conseguenza di una notte passata sul divano, erano spariti. Il mare riusciva a fare questo, anche a quella distanza. A mezzogiorno si era catapultato dentro per cercare qualcosa da mangiare. Nel frigo zero. Niente nelle credenze o nel congelatore. Zandt credeva di non avere mai incontrato una donna che non avesse in casa nemmeno un pacchettino di biscotti o del pane nel freezer, pronto per essere tostato. Sembrava che la maggior parte delle donne sarebbe stata in grado di alimentarsi solo con i toast se ne avesse avuto la possibilità. Disperato, si ritrovò a vagare per il salotto, scrutando il materiale sugli scaffali. C'erano libri, sia divulgativi che scientifici sui delitti seriali; raccolte di scritti di
psicologia legale; risme di atti processuali fotocopiati, tutte in raccoglitori, disposti per stato - una cosa chiaramente illegale. Pochi romanzi, nessuno recente, e per la maggior parte scritti da persone che si chiamavano Harris, Thompson, Connelly e King. Molto poco che non riguardasse il lato oscuro del comportamento umano. La casa aveva un'aria familiare in seguito ai pomeriggi che Zandt vi aveva trascorso nel 1999, ore nelle quali la criminologia era stata l'ultima cosa a passargli per la testa. Aveva fatto i conti con queste cose molto tempo fa. Jennifer non l'aveva mai scoperto, e la relazione non aveva influenzato né quello che lui provava per lei né l'esito del loro matrimonio. Tirò giù uno dei raccoglitori di carte processuali e lo esaminò distrattamente. La prima sezione documentava le attività di un uomo chiamato Gary Johnson, che aveva violentato e ucciso sei donne anziane in Louisiana verso la metà degli anni Novanta. Un biglietto pinzato sulla prima pagina riportava che attualmente Johnson stava scontando sei ergastoli in una prigione che Zandt conosceva come l'inferno sulla terra: una prigione sotterranea piena di uomini pericolosi i cui rari scampoli di affetto erano generalmente rivolti alle loro anziane madri. Sarebbe stato un miracolo, infatti, che Johnson fosse ancora vivo. Un punto a favore dei buoni. La sezione successiva conteneva informazioni su un caso in Florida che, stando alle annotazioni più recenti, era ancora in corso. Sette ragazzi erano scomparsi. Un punto a favore dei cattivi. Uno dei tanti. Tirò giù un altro faldone. Due ore dopo se ne stava seduto nel bel mezzo della stanza, circondato dalle carte, quando bussarono alla porta. Alzò la testa, perplesso. Ci volle qualche altro colpo prima che si rendesse conto di che tipo di rumore si trattasse. Aprì la porta e fuori c'era un uomo basso con i capelli in disordine. Dietro di lui c'era una macchina che un tempo aveva avuto un bell'aspetto. «Taxi,» disse l'uomo. «Io non ho chiamato un taxi.» «Lo so. L'ha fatto la signora. Mi ha detto che sarei dovuto venire qui a prenderti e portarti via. Il più in fretta possibile. In qualsiasi momento.» «Quale signora?» Si sentiva confuso, con la testa piena di quello che aveva letto. C'era qualcosa lì dentro che attirava la sua attenzione. L'uomo grugnì spazientito e frugò in tasca. Tirò fuori un pezzo di carta
stropicciato e, una volta che lo ebbe letto, lo girò verso Zandt. «La signora si chiama Nina. Ha detto di dirti di sbrigarsi. Che tu hai trovato qualcosa, o forse lei, un uomo retto - quella parte non la capisco. Ma ora andiamo.» «Dove?» «All'aeroporto, amico. Ha detto che se mi fossi sbrigato mi avrebbe dato il triplo della tariffa e io ho bisogno di quel denaro, quindi possiamo andare adesso, per favore?» «Aspetti qui,» disse Zandt. Si voltò e tornò dentro. Alzò il telefono e fece il numero del cellulare di Nina. Rispose dopo due squilli. C'era parecchio rumore di fondo, il suono prepotente di una voce proveniente da un sistema di altoparlanti. «Che succede?» disse. «Sei sul taxi?» La sua voce era eccitata e per qualche ragione lui la trovò irritante. «No. Cosa ci fai all'aeroporto di Los Angeles?» «Ho ricevuto una chiamata dal tizio che avevo messo a monitorare il web. Ha intercettato una ricerca di informazioni sull'Homo Erectus.» «Sono due parole, Nina. Potrebbe essere una mostra delle fotografie di Robert Mapplethorpe. E presumibilmente i federali sono già sul caso.» «Non era una traccia dei federali,» confessò lei seccata. «Mi sono mossa indipendentemente.» «Perfetto,» disse Zandt. «I conti tornano.» «Ha inserito l'indirizzo IP del computer che ha effettuato la ricerca e ha scovato la linea d'accesso della chiamata. Dai, John. È la prima volta che succede in due anni. Non ho mai consegnato il biglietto che ricevesti. Per tutto il resto del mondo, lui rimane ancora il Ragazzo delle consegne.» Ci fu un'esplosione di rumore dalla cornetta perché qualcuno, dall'altro capo, urlò un altro annuncio. Zandt aspettò che cessasse e poi disse: «L'ho detto a Michael Becker.» «Il contatto non è partito da Los Angeles,» disse Nina bruscamente. «Allora da dove. Dove?» «Nel nord. Un qualche posto vicino al confine con l'Oregon. Un Holiday Inn.» «Hai chiamato l'ufficio federale locale?» «Il responsabile locale mi odia. Non c'è modo che mi mandi qualche rinforzo.» Giusto, pensò Zandt. E nell'improbabile caso che questo si rivelasse essere qualcosa di più che una ricerca inutile, tu vuoi essere quella che ese-
guirà l'arresto. Attraverso il vano della porta poteva vedere il tassista ancora in attesa che saltellava da un piede all'altro. «È troppo rischioso, Nina.» «Prenderò alcuni poliziotti locali come scorta. Mi inventerò qualcosa. Senti, John, c'è un aereo che parte tra quaranta minuti. Io lo prenderò e ho comprato due biglietti. Vieni o no?» «No,» disse e riagganciò. Tornò alla porta e disse al tassista che non si sarebbe fatto accompagnare da nessuna parte, e gli diede abbastanza denaro perché se ne andasse. Poi, imprecando, afferrò il suo cappotto e una manciata di fascicoli e riuscì a gettarsi davanti al taxi prima che questo lasciasse il vialetto. Si disse che ne aveva avute già abbastanza sulla coscienza senza aggiungerci Nina. E che quello che stava facendo non aveva nulla a che fare con il desiderio di proteggerla. 24 Quando mi svegliai alle nove del mattino dopo, sdraiato sul letto come se fossi precipitato da un'altezza considerevole, constatai che Bobby aveva lasciato un biglietto sul tavolino accanto al letto. Suggeriva che ci incontrassimo nell'atrio il più presto possibile. Con una doccia recuperai una parvenza di umanità e mi diressi di sotto, strascicando i piedi lungo il corridoio come un bradipo che aveva perso lo smalto dei giorni migliori, costretto a camminare sulle zampe posteriori. Il sonno notturno aveva fatto sì che mi sentissi in maniera diversa, anche se non necessariamente meglio. I miei pensieri erano nebulosi e lenti, come pieni di ghiaccio tritato e sotto l'effetto di una bevanda alcolica sconosciuta. L'atrio era praticamente vuoto, c'erano solo poche coppie vicino al bancone. C'era della musica a basso volume in sottofondo. Bobby era seduto solennemente nel mezzo di un lungo divano e leggeva un giornale locale. «Ehilà,» borbottai, una volta di fronte a lui. Alzò lo sguardo. «Hai proprio un aspetto di merda, amico mio.» «E tu sei noiosamente elegante come al solito. Qual è il trucco? Ti rinchiudi ogni notte in un guscio d'uovo e la mattina ne emergi rinato? Oppure è una sorta di esercizio? Dai, dimmelo. Voglio diventare proprio come te.» Fuori il cielo era sereno e chiaro, e ci mancò poco che mi mettessi a ur-
lare. Attraversai il parcheggio zoppicando dietro Bobby e proteggendomi gli occhi. «Il tuo telefono è acceso? E ha dato segni di vita?» «Sì,» dissi. «Anche se, francamente, non capisco che problema ci sia. O Lazy Ed non è tornato a casa, nel qual caso stiamo perdendo il nostro tempo dirigendoci là, o è tornato e non vuole parlare.» «Tu essere molto negatifo, Vard,» osservò Bobby con accento tedesco. «Dammi le chiavi. Guido io.» «Mi sento negativo,» dissi. «È positivo che io abbia per compagno un androide allegro. Ma se fai un'altra volta quella voce ti do una coltellata.» Gli lanciai le chiavi. «Fermi dove siete.» Queste parole furono pronunciate in modo chiaro e deciso e non era stato Bobby a parlare. Ci guardammo e poi ci voltammo. Dietro di noi c'erano quattro persone. Due erano poliziotti del posto, in uniforme: uno aveva superato i cinquanta, era in perfetto ordine e snello, l'altro era sui trenta e con un giro vita di circa un metro. In disparte, da un lato, stava un uomo con un cappotto lungo. Più vicino a noi, a circa tre metri, c'era una donna magra con un impeccabile tailleur. Era lei quella del gruppo ad avere l'aria più minacciosa. «Mettete le mani sul tetto della macchina,» disse lei. Bobby sorrise sinistramente, e lasciò le mani esattamente dove si trovavano. «Che razza di scherzo è questo?» «Le mani su quella dannata macchina,» disse il poliziotto più giovane. Avvicinò le sue mani alla pistola, chiaramente non vedendo l'ora di usarla. O almeno di impugnarla. «Chi di voi due è Ward Hopkins?» chiese la donna. «Entrambi,» risposi. «Una delle stranezze della clonazione.» Il poliziotto giovane si mosse improvvisamente verso di noi. Io alzai una mano portandola ad altezza petto e lui ci finì diritto contro. «Calmo,» disse la donna. Il poliziotto non disse nulla, ma si fermò limitandosi a fulminarmi con lo sguardo. «Okay,» dissi, tenendo la mia mano in posizione ma non esercitando alcuna spinta. «Non lasciamo che la cosa ci sfugga di mano. Dipartimento di polizia locale, suppongo.» «Esatto,» disse la donna, mostrando il distintivo. «Loro lo sono. E io sono un'agente federale. Quindi stiamo calmi e cerchiamo di vedere un po' di mani sulla macchina.»
«Non credo,» disse Bobby, rimasto ancora decisamente indifferente. «Indovini un po'. Io sono dell'Agenzia.» La donna sbatté le ciglia. «Siete della CIA?» disse. «Proprio così, signora,» disse lui con cortesia ironica e un accento da zotico. «Ci mancano solo quelli della marina e poi potremmo fare una bella parata.» Seguì un momento imbarazzante. Il poliziotto giovane si voltò verso il collega più anziano che, a sua volta si rivolse alla donna con aria sorpresa. Nessuno di loro appariva più così sicuro di sé come un secondo prima. Alle loro spalle, l'uomo con il cappotto scosse la testa. Decisi di lasciare cadere il mio braccio. «Lui è della CIA. Io no,» dissi, scegliendo, per una volta, di collaborare. «Sono solo un comune cittadino. Mi chiamo Ward Hopkins. Perché mi state cercando?» «Aspetta un attimo,» disse Bobby. Fece un cenno con la testa al poliziotto più giovane. «Facci vedere come fai qualche passo indietro, giustiziere.» «Vaffanculo,» disse il poliziotto, serenamente. La donna aveva ancora lo sguardo su di me. «Ieri sera è stata eseguita una ricerca su Internet,» disse. «Qualcuno che cercava 'l'Homo Erectus'. Siamo risaliti al suo account e a questo hotel. Stiamo cercando qualcuno con quel nome.» «Non me?» «Fino a ieri notte non sapevo nemmeno che lei esistesse.» «Allora perché state cercando l'Homo Erectus?» «Non sono affari tuoi,» disse il poliziotto giovane. «Signora, ha intenzione di arrestare questi pezzi di merda o no? Altrimenti, non mi interessa stare ad ascoltarli.» «Fate quello che volete,» dissi. «Potete provare a portarci dentro, o potete andare a farvi una passeggiata. Nel primo caso, beh, siete i benvenuti, ma, a dire il vero, non ve lo consiglierei.» Il poliziotto più anziano sorrise. «Ci stai minacciando, figliolo?» «No. Io sono fin troppo cortese. Ma Bobby non è uno che socializza molto. Ci sarà sangue sparso per tutto il parcheggio, e sicuramente non sarà il nostro.» L'uomo col cappotto per la prima volta parlò. «Fantastico,» disse stancamente. «Novecento chilometri per parlare con due stronzi.» La donna lo ignorò. «L'Homo Erectus ha ucciso almeno quattro ragazze,
forse di più. Al momento nelle sue mani ce n'è una che potrebbe essere ancora viva, e non abbiamo molto tempo per trovarla.» Bobby la fissava con la bocca leggermente aperta. «Allora?» lei chiese. «Vi dice qualcosa?» «Ti stanno prendendo in giro, Nina,» disse l'uomo col cappotto. «Lo sai come sono gli uomini della CIA.» Bobby ritornò abbastanza in sé per chiudere la bocca, ma non a sufficienza per incominciare una rissa. La donna mi guardò. «Mi risponda,» disse. «Okay,» dissi, «forse è meglio discuterne.» Il poliziotto anziano si schiarì la gola. «Ms. Baynam, posso chiederle se ha ancora bisogno di me e Clyde? Prendemmo un tavolo accanto alla finestra in quello che l'hotel spacciava per un coffee-lounge. La sala era abbastanza grande e sembrava recente, ma aveva tutta l'aria di una biscottiera vuota. Io e Bobby ci sedemmo vicini, con la donna dall'altro lato. Il tipo col cappotto - che finalmente ci era stato presentato, anche se solo come persona facente parte dell'LAPD - si sedette leggermente in disparte, rendendo evidente che idealmente lui si sarebbe dovuto trovare in un altro stato. I rappresentanti locali della legge si erano catapultati nella loro volante a mangiare frittelle e a scambiarsi storielle su come ci avrebbero pestato se ne avessero avuto la possibilità. Presi il plico di fogli di Bobby e lo disposi dinanzi alla donna. «Se vuole sapere perché stavamo cercando l'Homo Erectus,» dissi, «allora ecco qui. In realtà stavamo cercando dell'altro. Ma questo è quanto abbiamo trovato.» Lei lesse velocemente i tre fogli. Quando arrivò alla fine passò le carte all'altro tizio. «Allora cosa stavate cercando?» domandò lei. «Un gruppo di persone chiamato gli Uomini di paglia,» dissi. «Bobby ha trovato un sito web che conduceva a questo. Cercare l'Homo Erectus era il logico passo successivo. Questo è tutto ciò che sappiamo.» «Questo è un affare dell'Agenzia?» «No,» risposi. «È personale.» «C'era un pulsante dei link in fondo all'ultima pagina,» disse lei. «Dove portava?» «Quale pulsante?» dissi. «L'ho trovato dopo che ti addormentasti,» rispose Bobby, con aria imba-
razzata. «Nascosto in un ammasso di codice Java incompleto. Avrei dovuto notarlo prima.» «E dove portava?» «Ai serial killer,» disse, e in quel momento l'uomo con il cappotto alzò lo sguardo. «Solo dei siti di fan. Pagine di roba su tizi che uccidono, faticosamente scritte da sfigati che non hanno alcuna ambizione di diventare dei veri pericoli per la società.» «Mi può mostrare di nuovo la prima pagina?» chiese la donna. Lui scosse la testa. «Non c'è più. Ho cercato di tornarci dopo aver finito di guardare delle immagini sfocate di gente fuori di testa. Il file non era più sul server, probabilmente era stato spostato da un'altra parte.» «Non ha memorizzato le pagine cui era collegata?» disse lei. Bobby scrollò le spalle. «Non ne vidi il motivo. Tutto quello che avevo trovato erano ragazzi in preda a deliri paranoici che hanno un'erezione quando pensano ai serial killer.» «È una fuga di notizie,» disse il tipo col cappotto, ripassando le carte alla donna. «Il sito dei fan è a posto. Non c'è altro. In qualche modo il vero nome del Ragazzo delle consegne è venuto fuori e qualche aspirante psicopatico ha messo su questa merda utilizzando il suo nome. Un'esperienza interattiva per gente che sbava sulle statistiche degli assassini, completa di indirizzi fantasma vaganti. La rete è piena di queste stronzate. Associazioni di cannibali messe su da coglioni che non sono in grado nemmeno di guadagnarsi il gagliardetto a cinque stelle lavorando da McDonald's.» Lo fissai: «Il Ragazzo delle consegne?» «È il nome che la stampa ha dato all'uomo che noi stiamo cercando.» «Gesù,» dissi. «State ancora cercando quel tizio?» «E lo faremo finché non sarà morto. Nina, vado a fumarmi una sigaretta. Suggerirei di tornarcene in mezzo alla civiltà dopo.» Si alzò e uscì dalla sala. «Voleva dire 'arrestato',» disse la donna a voce bassa, dopo che lui se ne fu andato. «Arrestato era quello che intendeva.» «Sì, certo,» disse Bobby. «Se lo vuole sapere, quello è uno che ha bisogno di essere tenuto strettamente sotto controllo.» «Qual è il problema con questi Uomini di paglia?» chiese lei. «Diglielo, Bobby,» dissi alzandomi. «Non avere fretta,» rispose, puntandomi contro un dito. «E ricorda quello che ho appena detto.» Li lasciai e mi diressi fuori nell'atrio. Riuscivo a scorgere il tizio col
cappotto che stava in piedi a pochi metri fuori dall'ingresso principale. «Ha una sigaretta?» Mi osservò per un lungo istante, poi frugò in tasca. Una volta accesa, rimanemmo entrambi in silenzio per un po'. «È lei quel poliziotto, vero?» domandai alla fine. Lui non rispose. «Giusto?» «Sono stato un poliziotto,» disse. «Ora non più.» «Sarà. Ma io vivevo a San Diego in quel periodo e leggevo i giornali. C'era un poliziotto in particolare, uno che veniva considerato il giustiziere dei serial killer. Non lo catturò, poi scomparve dalla circolazione. Penso che potrebbe trattarsi di lei.» «Sembri ricordare molto a proposito del caso,» disse. «Sicuro di non avere un interesse particolare? Forse vuoi scoprire quanti sono i tuoi fan. Controllare se sei ancora famoso.» «Se avesse pensato fossi io, non saremmo qui a parlarne. Quindi non mi prenda per un coglione.» Fece un ultimo tiro e poi lanciò la sigaretta nel parcheggio. «Allora, di cosa ti stai occupando?» «Sto cercando le persone che hanno ucciso i miei genitori,» dissi. Mi guardò. «Questi Uomini di paglia che hai nominato prima?» «Penso di sì. Quello che non so è se siano collegati all'uomo che state cercando voi.» «Non lo sono,» disse lanciando uno sguardo truce verso il parcheggio. «Questa storia è tutta una stronzata e una perdita di tempo che non abbiamo.» «La sua amica non sembra pensarla così. Francamente, la cosa non ha alcuna importanza. Ma mi pare che dentro quell'hotel ci sono due persone legate alle forze dell'ordine e che possono concludere qualcosa. Dall'altro lato, ci siamo noi due che al momento non siamo legati a un cazzo di niente. Possiamo stare fuori e pisciare ognuno nella tenda dell'altro, oppure possiamo vedere cosa si può fare e tentare di non pestarci i piedi a vicenda.» Ci pensò un attimo. «Mi sembra ragionevole.» «Allora qual è il tuo nome, amico?» «John Zandt.» «Ward Hopkins,» dissi, stringendogli la mano, poi rientrammo nell'hotel. Giunti sulla porta del ristorante, il mio cellulare squillò. Feci segno a
Zandt di andare avanti e mi diressi di nuovo verso l'atrio. Attesi un secondo prima di premere il tasto verde, cercando di capire quale fosse il modo giusto per rispondere a un vecchio spaventato che fuggiva. Non riuscii a scoprirlo. Tutto ciò che potevo fare era ascoltare quello che avrebbe avuto da dire. Senza aggredirlo verbalmente, forse. Risposi alla chiamata e ascoltai, ma non era lui. Ebbi una conversazione breve con qualcuno che poi ringraziai. Misi via il telefono. Quando entrai nel ristorante erano tutti seduti intorno al tavolo, con Zandt che questa volta si era avvicinato agli altri. La donna alzò lo sguardo su di me, ma io mi rivolsi a Bobby, «Ho appena ricevuto una chiamata,» dissi. «Di Lazy Ed?» «No. Della ragazza dell'ospedale.» «Bene, e allora?» «Ha passato il pomeriggio di ieri a dare la caccia ai documenti riguardanti il mio passato.» «Devi averle fatto una buona impressione.» Io non risposi, così lui aggiunse: «Hai intenzione di rivelare cosa ha trovato?» «È risalita fino alle città natali dei miei genitori,» dissi. «Nessuna di queste era quella che mi fu fatto credere.» La mia voce era un po' rotta. Zandt si voltò per guardarmi. «Io non ero arrivato fino a questo punto,» disse Bobby. «Ma Ward ha un fratello del quale i genitori gli celarono l'esistenza.» «In realtà non penso che mi abbiano detto molto. Molto che corrisponda alla verità.» Sentivo gli occhi della donna ancora posati su di me; e inoltre ero consapevole di come Hunter's Rock e tutto quanto avevo pensato di conoscere ora sembrasse la favola preferita che mi era stata letta e riletta, ma della quale in questo momento ero in grado di ricordare solo il titolo. «A cosa si riferisce?» chiese la donna. «Mia madre non poteva avere bambini.» «Intendi altri?» disse Bobby. «Dopo di te?» «No. In assoluto.» 25 Zandt e Nina vennero con noi al bar. Il giovane Ed non fu entusiasta di vederci e disse solo di non aver visto il vecchio e che non aveva alcuna idea di dove potesse essere. Continuò a ripeterlo anche dopo che Zandt lo
ebbe preso da parte. Non ero riuscito a sentire cosa stesse dicendo il poliziotto, ma il linguaggio del corpo di Ed mi convinse che lo stile colloquiale di Zandt fosse irresistibile. «Il tuo amico è molto desideroso di acciuffare questo assassino,» osservai rivolgendomi a Nina. Lei distolse lo sguardo. «Non sai quanto.» Alla fine Zandt si allontanò dal barman che scivolò velocemente di nuovo al sicuro dietro il bancone. «Stiamo perdendo il nostro tempo qui,» disse l'ex poliziotto mentre lo seguivamo fuori verso il parcheggio. «Senza offesa per voi ragazzi, ma non so come un vecchio ubriacone potrebbe aiutare me e Nina nella nostra ricerca. Forse è importante per voi, ma per noi non è di alcuna utilità, e ogni minuto che perdiamo Sarah è più vicina alla morte.» «Cosa vuoi fare allora, John?» chiese la donna. «Tornare a Los Angeles invece, e stare con le chiappe a riposo?» «Già,» disse. «È proprio quello che intendo fare. Non è che io mi stessi proprio grattando a casa tua. Penso che...» Scrollò la testa. Lei si accigliò. «Cosa?» «Te lo dirò sull'aereo,» borbottò. «Ehi,» dissi io. «Vi concederò un po' di privacy.» Mi allontanai da loro dirigendomi dove si trovava Bobby, vicino alla nostra macchina. «Penso che il gruppo stia per dividersi,» dissi. «Quindi qual è il nostro piano?» chiese Bobby. «Andare in giro per le strade, controllare i bar, i ristoranti e i luoghi dove la gente va. Farlo da professionisti. Questa non è New York. Sono limitati i posti dove lui può nascondersi.» «Tu un tempo conoscevi questo tizio. Non hai nessuna idea di dove potrebbe andare?» «Non lo conoscevo veramente,» dissi, voltandomi per guardare verso il bar. «Andavo lì quando ero un ragazzo. Passavamo la giornata e lui mi serviva da bere. Questo è quanto.» Mi tornò ancora una volta in mente la sera in cui mio padre era venuto con me al bar e il modo in cui, dopo, Ed mi aveva offerto una birra, e mi sentii un po' ingenuo. Ora mi rendevo conto che negli avvenimenti di quella sera avrebbe potuto esserci stato qualcosa che a quel tempo mi era sfuggito. La birra che Ed aveva fatto scivolare verso di me, con rozza gentilezza, avrebbe potuto essere solo un gesto qualunque, ma ora non ne ero più convinto. Lazy Ed non ne era veramente il tipo. Che fosse il suo modo per
dire: «Già, lo so quanto quell'uomo riesca a essere insopportabile,»? Se fosse così, allora questo rafforzava maggiormente l'ipotesi che potesse essere Ed l'uomo che impugnava la cinepresa nella prima metà della sezione centrale del video e che fosse lui quello svenuto e usato come portacandele. Inoltre, rendeva ancora più strano che, messi l'uno di fronte all'altro più di dieci anni dopo, avessero fatto finta di non conoscersi affatto. Doveva essere successo qualcosa a Hunter's Rock, qualcosa che aveva distrutto un gruppo di amici; ma che in qualche modo aveva fatto sì che tre di essi si ritrovassero, a mille chilometri di distanza, fingendo ancora una volta davanti agli altri che tra loro non ci fosse alcun legame. Che non ci fosse, comunque, nulla di antecedente, che risalisse al passato. Anche con me avevano continuato quella messa in scena, ma ora sembrava avere perfettamente senso. Se mia madre non poteva avere figli, allora chi diavolo ero io? Alle spalle del locale il cielo coperto faceva apparire gli alberi freddi e frastagliati. Forse fu quella vista, oppure l'odore di pino nell'aria gelida, a riportarmi così chiaramente a quella sera. È curioso come l'odore abbia questo potere ancor più che le immagini e i suoni, come se le zone più remote della nostra mente, quelle che ci confinano nel tempo e nella memoria, navigassero ancora in mezzo a tracce di profumo. «Aspetta un attimo,» dissi, mentre nel mio cervello si accendeva una piccola lampadina. Chiusi gli occhi e frugai a caccia di quel ricordo. Era qualcosa di cui Lazy Ed aveva parlato in quell'anno, il tipo di progetto che sembrava la fantasia di un uomo che non era famoso nemmeno per la pulizia del suo bar. Alla fine mi ricordai. «C'è un altro posto dove possiamo provare.» «Andiamoci,» disse Bobby. Lanciai uno sguardo verso gli altri due. Potevo intuire che per Zandt loro si trovavano già all'uscita per l'imbarco. La donna sembrava meno convinta. Presi io l'iniziativa. Questo era un tentativo disperato, e non qualcosa che avessi il tempo e la pazienza di spiegare ad altre persone. «Buona fortuna,» gridai. Poi io e Bobby salimmo in macchina e ce ne andammo. Lo Stagno Perduto non è perduto, naturalmente. Si trova a meno di due chilometri di cammino all'interno della foresta che si estende a nord di Hunter's Rock: territorio pubblico, poco frequentato se non da gente del posto e da qualche autostoppista. Era un posto dove sareste potuti andare in gita con la scuola, una passeggiata in mezzo alla natura selvaggia per
conoscere gli insetti e roba simile: in pullman fino ai margini della foresta e poi un'escursione a piedi tra gli alberi, marciando nello stormire delle foglie, soddisfatti di essere fuori dall'aula. Gli insegnanti avrebbero cercato, senza sforzarsi troppo di mantenere la concentrazione di tutti sul motivo della gita: dal loro atteggiamento rilassato vi sareste potuti accorgere che anche loro erano contenti di essere liberi dai soliti vincoli. Ricordo di aver visto uno di loro, una volta, raccogliere una piccola pietra, quando pensava che nessuno di noi lo vedesse, e scagliarla distante contro un albero abbattuto. Lo colpì e fece un sorriso segreto. Quella fu probabilmente la prima volta che mi resi conto che - contrariamente alle apparenze - anche gli insegnanti sono persone normali. Quando si diventava più grandi non si veniva più portati laggiù. Le lezioni si focalizzavano su argomenti da memorizzare, non sperimentare. Ma ogni tanto i ragazzi andavano allo Stagno solo per il gusto di farlo, ed era in queste occasioni che si rendevano evidenti le motivazioni di un nome simile. Non importava quante volte foste stati portati là disposti in fila per due con trenta coetanei schiamazzanti, se tentavate di ritrovarlo da soli o con un paio di amici, vi sembrava di non essere mai dove pensavate. Camminavate nel fitto degli alberi, tranquilli e fiduciosi, e nel giro di poche centinaia di metri il sentiero era scomparso. Un piccolo torrente scorreva diagonalmente allontanandosi verso le basse colline, e la maggior parte delle persone arrivavano fino lì. Si seguiva il torrente fino a giungere in un posto dove esso si congiungeva con uno più grande, e da quel punto in poi ogni decisione sarebbe stata errata. Non importava che pensavate di ricordare bene il percorso, che eravate tutti d'accordo che la direzione dovesse essere questa; un paio di ore più tardi vi trovavate di nuovo nel parcheggio, assetati, stanchi morti e semplicemente contenti di essere usciti mentre c'era ancora luce e senza aver incontrato nessun orso. Per me fu diverso. Un'estate in cui non avevo molto da fare mi presi la briga di imparare dove fosse lo stagno. Credo di avere avuto quindici anni, un paio di anni prima della serata al bar con mio padre. Applicai un metodo scientifico che in quel periodo mi affascinava molto. Percorsi metodicamente tutti i sentieri alternativi fino a quando non scoprii dove fosse lo stagno - e come arrivarci. In qualche occasione mi persi sul serio, ma non fu un brutto modo di trascorrere alcune settimane. Una foresta è un bel posto dove stare, quando si sa dove si sta andando. Ci si sente sicuri, e speciali. Il problema fu che, una volta percorso con successo il tragitto forse dieci volte, mi accorsi di aver perso il gusto dell'impresa. Non serve a nulla
uno stagno perduto che non lo sia più. Divenne un semplice stagno e non ci andai più. A quel tempo mi stavo interessando di più ai posti dove andare a pomiciare, e non c'era verso di portare una ragazza a passeggiare nel bosco dopo il tramonto - sicuramente non per cercare qualche pozza d'acqua che potevate o meno essere in grado di trovare. Quello non è il genere di cose che piace alla maggior parte delle ragazze. O non piacevo io a loro. O entrambe le cose. Io e Bobby stavamo camminando in fila indiana seguendo un affluente del torrente. Erano passati oltre vent'anni e l'ambiente appariva cambiato e trasformato. La copertura di foglie sopra le nostre teste non era uniforme, e fredde colonne di luce solare penetravano a creare ombre. Arrivammo presto a un'intersezione nell'intreccio del torrente, dove l'acqua aveva scavato profondamente la terra creando argini scoscesi. Mi fermai in cima a uno di essi, momentaneamente incerto. L'area non sembrava familiare. Ci furono dei mormoni nella truppa. «E noi stiamo facendo questo perché quel tizio disse che stava valutando l'idea di mettere su un rifugio di caccia, circa... oh vent'anni fa?» «Puoi andartene subito a casa se vuoi.» «Senza il mio fedele segugio indigeno?» Dopo aver dato un'altra occhiata in giro, capii come era cambiata la vegetazione. Uno degli alberi che avevo usato come pietra miliare era caduto nel frattempo. E anche un po' di tempo fa, a giudicare dall'aspetto: i resti erano marciti e coperti di muschio. Cercai altri riferimenti e mi diressi nella gola. Le pareti erano ripide e scivolose per le foglie, e facemmo attenzione nello scendere. Quando raggiunsi il fondo voltai a sinistra e proseguimmo lungo il leggero pendio. «Ci siamo quasi,» dissi, indicando più avanti. Un paio di metri più in là, la gola si soprelevava sulla destra. «Penso sia proprio dietro quella curva.» Bobby non disse nulla e io ne dedussi che, come me, fosse assorbito dall'avventura. Le foreste fanno parte di quelle esperienze che si dimenticano per un po', fino a quando non avete dei figli e cominciate ad apprezzare nuovamente certe cose, a vederle rinascere attraverso gli occhi di un bambino - come il gelato, le macchinine e gli scoiattoli. Passai un po' di tempo pensando se questo avesse qualcosa a che fare con la mia predilezione per gli hotel. I loro corridoi sono come sentieri attraverso gli alberi, i loro bar e i ristoranti sono come piccole radure dove accamparsi e mangiare. Rifugi, tra loro differenti per dimensioni e prestigio, tutti racchiusi nella stessa
struttura - una foresta privata. Il manifesto dell'Homo Erectus mi era rimasto impresso più di quanto avessi creduto. «Qualcuno ci sta osservando,» disse Bobby. «Dove?» «Non lo so,» rispose, guardando in cima alle pareti della gola sopra di noi. «Ma è lassù da qualche parte.» «Non vedo nessuno,» dissi continuando a guardare avanti. «Ma ti prenderò in parola. Allora cosa facciamo?» «Continuiamo a camminare,» disse Bobby. «Se è lui, o uscirà allo scoperto oppure rimarrà nascosto e deciderà se venire a parlare. Se sporge abbastanza la testa oltre il parapetto, vado a scovarlo.» Coprimmo l'ultimo centinaio di metri in silenzio, resistendo all'impulso di guardare in su. Alla svolta nella gola il terreno si inerpicava ripido e ci arrampicammo per circa un metro. E lì, di fronte a noi, c'era lo Stagno Perduto. Forse cento metri per sessanta, circondato per la maggior parte da argini scoscesi, ma con un paio di piccole rive fangose. Qualche anatra nuotava nel mezzo, e gli alberi sovrastavano gran parte dell'acqua poco profonda. Andai sulla sponda e vi immersi lo sguardo. Era come se stessi guardando in uno specchio e mi vedessi come ero a quindici anni. «Sai dove si trovava il rifugio?» chiese Bobby. «Tutto quello che so è che ne stava progettando uno. Lo menzionò due volte, forse tre. Ed era un vero misantropo, voleva solo un posto dove andare, non per cacciare.» «Era anche un pervertito, forse?» «No.» Scossi la testa. «Nessuno viene qui a scopare. Di notte mette un po' i brividi.» Si guardò intorno, controllando il terreno. «Se io dovessi costruirmi un rifugio, lo farei lassù.» Indicò una zona di alberi e di fitta vegetazione che si estendeva al di sopra del pendio sul lato ovest dello stagno. «Sia per la sicurezza sia per la vista.» Feci strada intorno allo specchio d'acqua, scrutando là dove aveva indicato Bobby. Forse era solo la mia immaginazione, ma sembrava che nel mezzo ci fosse una zona più fitta del resto, come se dei materiali fossero stati raccolti e ammucchiati. Fu allora che riecheggiò il primo sparo. Un colpo secco, poi un sibilo e un lamento.
Bobby mi allontanò con uno strattone dal bordo dello stagno e cominciò a correre. Un altro colpo sibilò tra le foglie un paio di metri sopra di noi. Quando fummo al riparo dietro i tronchi mi guardai intorno, cercando di capire da dove provenissero gli spari. «Qual è il problema con questo tizio?» «Aspetta,» dissi. «Guarda là.» Indicai la zona più fitta di sottobosco. Ora dai cespugli spuntava una testa - quella di un uomo anziano che non si trovava affatto vicino al punto dal quale provenivano gli spari. «Merda,» disse Bobby, che ora impugnava la pistola. Due uomini in mimetica correvano giù diretti verso lo stagno. Un altro uomo vestito di jeans si stava avvicinando dall'altro lato. «Quello è il tizio dell'altra sera al bar,» dissi. «Quello che ci aveva chiuso col furgone.» Gli uomini in mimetica avevano raggiunto la parte opposta dello stagno. Il più massiccio dei due si inginocchiò e sparò proprio alla base degli alberi: colpi regolari, precisi. L'altro si diresse velocemente oltre l'altra sponda, inerpicandosi per superare la sommità. Anche l'uomo in jeans fece fuoco. «E chi cazzo sono questi?» «Bobby... uno si sta dirigendo verso Ed.» «L'ho visto,» disse. «Cerca di coprirmi.» E partì di scatto. Sbucai da dietro l'albero, tirai fuori la pistola e cominciai a sparare. L'uomo inginocchiato rotolò con precisione su un lato e scivolò dietro i resti di un grande albero abbattuto. Tagliai lateralmente attraverso gli alberi. Immerso in una luce fredda e obliqua, che colpiva il mio viso filtrando dalle cime degli alberi ricurvi, sparavo e facevo in parte attenzione a scansare le radici per evitare di fare un volo. Nel giro di dieci secondi si sentì un urlo, e l'uomo in jeans ruotò su se stesso e cadde riverso al suolo. Bobby si faceva strada avanzando nel sottobosco, sparando contro il tizio che si era diretto verso la sommità del pendio, e che ora scendeva dalla scarpata. L'uomo ignorava sia Bobby che me, nonostante il fatto che Bobby facesse fuoco; era intento a dirigere i suoi colpi contro il rifugio di Lazy Ed. Mi fermai, mi assestai, e feci fuoco. Il primo proiettile lo colpì a una spalla. Mezzo secondo dopo ne seguì un altro sparato da Bobby e l'uomo fu scaraventato indietro contro un albero. Ma continuò a sparare, e sempre non a noi. Io feci fuoco ancora due volte, colpendolo in pieno petto. Anche Bobby
ora aveva smesso di correre e seguirono tre colpi suoi. L'uomo scomparve alla vista. Feci un passo in avanti ma Bobby agitò una mano all'indietro verso di me, facendomi segno che dovevo rimanere dove mi trovavo. Lui procedette con cautela. «Ed?» gridai. «Stai bene?» Improvvisamente riapparve l'altro uomo in mimetica. Era scivolato un po' giù dalla collina, coperto dalla boscaglia. Mentre io e Bobby lo guardavamo sbalorditi, l'uomo si tirò su sulle ginocchia impugnando ancora quella che ora mi accorsi essere una pistola mitragliatrice. Prima che potessi pensare di muovermi, l'uomo iniziò di nuovo a sparare. Stava morendo davanti ai nostri occhi, ma fece ancora in tempo a piazzare forse quindici proiettili nel sottobosco. Era come se noi non ci fossimo nemmeno. Poi si lasciò cadere in avanti, e rimase immobile per sempre. Bobby ritornò indietro facendo la stessa strada di prima e ricaricando la pistola. Io corsi in avanti, diedi un calcio all'uomo morto per controllare che lo fosse realmente e mi feci strada nella sterpaglia. Proprio al centro c'erano i resti di un nascondiglio. Un ammasso sparso di legna marcia, vegetazione rinsecchita e vecchi rami incurvati. Ma, a meno di non sapere cosa state cercando, avreste potuto pensare che fossero un prodotto della natura, tutt'al più dei resti risalenti a molto tempo fa, piuttosto che un qualcosa che un uomo aveva messo insieme a mo' di rifugio, semplicemente perché gli piaceva stare seduto nel bosco e guardare uno stagno. Steso lì in mezzo c'era Lazy Ed. Mi inginocchiai al suo fianco e capii che non avrebbe lasciato la foresta. Era impossibile contare i fori dei proiettili. Il suo viso era la parte meno colpita, sebbene un orecchio non ci fosse più e si potesse vedere l'osso. «Cosa sta succedendo, Ed?» dissi. «Cosa cazzo sta succedendo? Perché qualcuno vi sta uccidendo tutti?» Ed girò la testa di qualche centimetro e mi guardò. Era difficile riconoscere, in mezzo alle rughe e ai vasi sanguigni esplosi, l'uomo che un tempo avevo conosciuto appena. «Fottiti,» disse, piuttosto chiaramente, con voce stridula. «Tu e la tua maledetta famiglia.» «La mia famiglia è morta.» «Bene,» disse, e morì.
Nel rifugio non c'era nulla. Alcuni barattoli vuoti, una scorta nascosta di tabacco, una bottiglia mezza vuota di tequila molto scadente. Avevo pensato di chiudere gli occhi di Ed, ma non lo feci. Invece mi voltai e uscii dalla boscaglia. Quando raggiunsi lo stagno e il corpo dell'uomo vestito di jeans, Bobby stava scendendo da una collinetta e tornava indietro verso di me. «Scappato,» mormorò. «Sembrava sapesse cosa stava facendo. Tu stai bene?» «Sì, a parte l'essermi quasi perso mentre tornavo.» «È uno stagno perduto,» dissi. Le mie mani tremavano. «Gesù.» «Sono stati loro a cominciare,» disse. «Noi non stavamo cercando questo.» «Lo so,» dissi, sopraffatto dalla bizzarria dell'essere tornato in un luogo dell'infanzia, questa volta armato. «Ma che differenza fa? Ci sarà sempre qualcuno che spara a un altro. Prima d'ora l'avevo fatto una volta sola e non mi piace affatto.» Bobby si accovacciò accanto al cadavere dell'uomo in jeans e frugò nelle tasche fino a quando trovò il portafoglio. Lo esaminò davanti a me. Non c'era nessuna patente, nessun francobollo, nessuna ricevuta, nessuna foto nessuno dei consueti detriti da portafoglio. Niente eccetto quaranta dollari circa. «Hai dato un'occhiata all'altro cadavere?» «Solo quanto bastava per essere sicuro che non ricominciasse a sparare,» dissi. «Quel tipo mostrava un vero zelo per la propria missione. Che non aveva nulla a che fare con noi. Avrebbero potuto farci fuori facilmente. Cercavano Lazy Ed. Noi eravamo semplicemente in mezzo.» Bobby annuì. «Non c'era nessuna traccia di identificazione nemmeno su di lui,» dissi. «Zero. Ho rivoltato il collo del suo maglione e guardato sul retro dei suoi pantaloni. Niente etichette. Erano state tagliate.» «Sono gli Uomini di paglia,» disse. «Li stanno facendo fuori uno a uno.» «Ma perché? E come ci hanno trovati?» Alzò le spalle. «La pollastrella dei federali c'è riuscita. Forse hanno fatto la stessa cosa. È la loro pagina web: ricevono notifica immediata di ogni accesso, senza la necessità di utilizzare qualche hacker. Oppure potevano essere sul caso prima di noi, Ward. È evidente che sia in corso una sorta di repulisti.» Mi guardò, apparendomi stanco e incazzato per il nostro fallimento. «A ogni modo hanno portato a termine il lavoro. Non c'è più niente per noi qui
se non problemi, e ce ne abbiamo già abbastanza.» Senza dire altro, ci incamminammo. 26 Nina era convinta che Zandt le avrebbe spiegato che cosa avesse in mente, ma da quando gli altri due uomini se n'erano andati, si era chiuso in un silenzio ostinato. Quando si era presentato in taxi all'aeroporto di Los Angeles, almeno era sembrato presente a se stesso, benché tutt'altro che cordiale. Era come se avesse fatto di nuovo marcia indietro non appena si erano accorti che i due uomini all'Holiday Inn di Hunter's Rock - qualsiasi cosa stessero combinando, e lei continuava a farsi domande a tal proposito non avevano nulla a che fare con l'Homo Erectus. Si sentiva un'idiota a essere andata fin laggiù, anche se sbagliare era comunque meglio che non fare nulla. Percepiva dolorosamente il trascorrere del tempo, come se qualcuno le stesse strappando la pelle del viso. Questo generava in lei il desiderio di parlare, di provare a fare o a dire qualcosa, qualsiasi cosa, quasi come se il solo discutere avesse potuto fornire una soluzione. Su Zandt sembrava avere l'effetto opposto. Nina pensava che mancava poco perché lui diventasse completamente muto. Nonostante l'aereo fosse praticamente vuoto Zandt non si era nemmeno seduto vicino a lei. Era dall'altra parte della fila, intento a studiare dei vecchi fascicoli che aveva preso a casa di lei. Nina chiamò l'ufficio di Brentwood per confermare che non era cambiato nulla, senza dire, però, che non si trovava esattamente dietro l'angolo. Poi si era girata di nuovo verso il finestrino e aveva guardato il paesaggio che stavano sorvolando nel tornare a Los Angeles, chiedendosi se non stessero passando proprio sopra il luogo, l'abitazione segreta o la capanna o qualsiasi altra cosa l'Homo Erectus considerasse casa sua. La consapevolezza che potesse essere così, che Sarah Becker potesse trovarsi laggiù da qualche parte, era insopportabile. Così sfilò dalla tasca del sedile la rivista di bordo e si sforzò di leggerla. Zandt si rendeva appena conto di essere su un aereo e non stava nemmeno pensando a Sarah Becker. Stava invece riflettendo su quattro sparizioni, disseminate sul territorio in un periodo di tre anni. Non c'era nessun elemento in comune tra esse se non il fatto che ora i fascicoli giacevano sulle sue gambe. Ma se c'entrava il servirsi di qualche mezzano, allora le consuete regole delle indagini sui pluriomicidi non si potevano più applicare.
Se si verifica una serie di sparizioni o di ritrovamenti di corpi circoscritta in una precisa area geografica, è ragionevolmente possibile limitare alla medesima zona la ricerca di prove o di avvenimenti correlati. La maggior parte degli assassini aveva i propri territori di caccia, pochi chilometri quadrati entro i quali sentirsi sicuri di sé. Alcuni limitavano il loro campo di azione a pochi isolati, addirittura un paio di strade - specialmente se ossessionati da settori della società che non suscitavano il solerte interessamento delle autorità. Zandt ricordava di avere visto alcune immagini della demolizione dell'edificio che aveva ospitato l'appartamento di Jeffrey Dahmer, il luogo in cui i corpi di ragazzi di colore e asiatici erano stati smembrati per poi adorarne e mangiarne i pezzi. La maggior parte dei famigliari delle vittime aveva assistito all'evento in silenzio, altri semplicemente singhiozzando - ma alcuni chiedendo spiegazioni a chiunque fosse in grado di ascoltare, cercando una ragione del fatto che gli fossero stati sottratti e uccisi i figli senza che a nessuno importasse più di tanto. Le sparizioni in zone opposte del paese erano state raramente messe a confronto le une con le altre, anche dopo il coinvolgimento dell'FBI, soprattutto se queste avevano avuto luogo quasi contemporaneamente. Non si può rapire qualcuno a San Francisco il martedì e poi sequestrare qualcun altro a Miami nelle primissime ore della mattina di giovedì. Almeno, non si può se si tratta dello stesso uomo. Zandt aveva cercato sparizioni che avessero caratteristiche comuni con quelle attribuite all'Homo Erectus e che avessero avuto luogo negli stessi anni. Non si aspettava di trovare altri casi di pacchi dono con il nome di una ragazza ricamato su ognuno di essi. L'Homo Erectus era abbastanza furbo da voler lasciare intendere che non ci fosse alcuna connessione tra i casi di Los Angeles e qualsiasi altro in diverse aree del paese. Questa era la consapevolezza che lo stava tormentando quando arrivò il taxi che lo avrebbe portato all'aeroporto di Los Angeles: che i maglioni fossero fumo negli occhi. Che essi non avessero nulla o quasi nulla a che fare con la patologia di cui soffriva l'assassino, e che fossero invece un modo per isolare un piccolo gruppo di casi facendoli apparire svincolati da ogni altro. Che l'Homo Erectus potesse pensare che la polizia sarebbe stata impressionata da un simile dettaglio, come gli spettatori di film in cui venivano ritrovate delle crisalidi nelle gole dei cadaveri, o di serie televisive in cui ogni settimana un uomo catturava gli assassini che sventolavano ai quattro venti le loro psicosi più segrete. È arrivato un maglione con un nome ricamato, è un caso dei nostri. Non è arrivato, allora non lo è e non
ci interessa sentirne parlare. Il nostro uomo ha una malattia. Questo è quello che cerchiamo. È uno dei pochi elementi che abbiamo e ci stiamo aggrappando a esso, possibile che voi non capiate che siamo già impegnati? Zandt riteneva fin troppo probabile che l'Homo Erectus non avesse alcuna patologia, e che non fosse possibile inquadrarlo in qualche profilo. Sarebbe potuto andare là fuori e scegliere le sue vittime ovunque nel paese. Forse addirittura ovunque nel mondo. Solo perché gli andava. I soggetti non costituivano una categoria chiaramente distinguibile. Rapire donne attraenti non era un elemento sufficiente per distinguere le azioni dell'Homo Erectus. Noi bramiamo la bellezza perché rende le persone riconoscibili, le fa sembrare famose. Zandt pensava che nemmeno i capelli lunghi fossero un fattore indicativo. Se non stava prendendo un granchio ritenendo che i maglioni fossero una falsa traccia premeditata, allora la lunghezza dei capelli delle ragazze era un modo per raggiungere lo scopo. C'erano solo due tratti distintivi. Il primo era l'età. Molti bambini scompaiono e non sono pochi gli anziani che vengono aggrediti nelle loro abitazioni. Entrambe le tipologie di vittime vanno a finire nelle statistiche in virtù della loro debolezza fisica. Per il resto, la maggior parte delle donne che scompaiono è tardo-adolescente o ventenne: sufficientemente giovani (e non troppo vecchie) per avere delle vite indipendenti, donne che possono essere sorprese a camminare da sole di notte, che possono vivere da sole, che possono avere l'imprudenza giovanile di andare in aiuto, a tarda sera, di un uomo affabile con un braccio al collo, il cui volto rimane appositamente in ombra nell'angolo di un parcheggio. Spariscono donne di tutte le età, ma il picco della curva si trova in questo intervallo. Le vittime attribuite ufficialmente all'Homo Erectus, comunque, insieme con le ragazze scomparse dei fascicoli sulle sue gambe, erano adolescenti. Abbastanza adulte per opporre resistenza fisica al loro aggressore, ma troppo giovani per trovarsi spesso negli ambienti più esposti. Questo non significava che Zandt avrebbe potuto considerare tutte le ragazze di quella generazione come potenziali vittime. C'erano un mucchio di posti sparsi in tutto il paese dove una ragazza di quell'età poteva trovarsi durante la notte sulla strada. Se l'Homo Erectus o il suo fornitore si fosse preoccupato solo dell'età, avrebbe potuto dirigersi con un furgone nel quartiere giusto della città giusta e caricarne fino a esaurimento posti. Invece le aveva scelte non solo in un gruppo decisamente meno vulnerabile della media a causa dell'età, ma appartenenti ad ambienti sociali piuttosto protetti. La famiglia di Elyse LeBlanc era un po' meno benestante delle altre, ma ancora decisamente
borghese. Le altre sfioravano la ricchezza. L'Homo Erectus non era semplicemente a caccia di carne. Era in cerca di quello che lui percepiva essere di qualità. Zandt stava seduto a fissare le foto delle ragazze morte. La sua mente sembrava elaborare sempre più velocemente, mettendo insieme gli avvenimenti che aveva di fronte a sé con quelli che aveva interiorizzato due anni prima. I luoghi, i nomi, i volti. Tentò di visualizzare tutto in una volta, lasciando fuori solo la sua famiglia e sua figlia che, ormai ne era convinto, era stata scelta solo per dare una lezione a lui. In precedenza Zandt aveva provato a togliere Karen dall'equazione, ma non ne era stato capace. La consapevolezza della sua scomparsa aveva macchiato tutto quello che lui aveva detto o fatto dal momento in cui, insieme a Jennifer, aveva trovato il messaggio fuori dalla porta. Ma adesso la sostituiva con le ragazze di quei nuovi casi, nel tentativo di intuire se fossero in relazione per qualcosa di più che una semplice supposizione. Per cercare di allontanarsi dal luogo verso cui era diretto, dove aveva vissuto la maggior parte della propria vita, la strana città dei fabbricanti di sogni, della povertà, dei provini, degli omicidi e dei soldi - e andare verso altri luoghi, altre notti, altri territori di caccia. Verso altre città, altre macchine, altre giungle di edifici e fiumi di cemento, dove altri uomini e donne sentivano di sera la mancanza delle stelle, si prendevano cura di piccole piante sui davanzali e possedevano cagnolini che portavano a spasso lungo corridoi in un'infinita successione di cubicoli, incroci e luci; dove le persone prendevano in affitto spazi all'interno di proprietà altrui così da poter avere un posto dove dormire, potersi svegliare e raggiungere obiettivi di profitto dei quali non sapevano né gli interessava nulla, solo per ottenere la moneta di scambio di cui avevano bisogno per poter affittare lo spazio nel quale dormivano, ringhiavano e guardavano la televisione fino a quando qualcuno di loro non sgusciava fuori dalla finestra e si metteva a ululare per le strade buie, per liberarsi dello stordimento ereditato da una società che era essa stessa minata da fratture, tradimenti e disperazione; l'unico pazzo in una cultura trasformata in ninnolo natalizio, in scintillante bellezza avvolta intorno a un vuoto che si addensa sempre più velocemente fino a formare parcheggi, centri commerciali, sale d'aspetto e chat room virtuali - non luoghi, nei quali nessuno sapeva più niente di nessuno. Improvvisamente il turbinare dei pensieri si interruppe. 27
Cominciava a imbrunire quando rientrammo nella nostra stanza d'albergo. C'erano due messaggi per Bobby. Mentre lui richiamava le persone che l'avevano cercato io accesi la televisione e, tolto l'audio, guardai il canale delle news locali per il macabro desiderio di vedere quanto ci avrebbe messo la storia a saltare fuori. Era possibile che degli autostoppisti si fossero trovati a portata d'orecchio e avessero rinvenuto i corpi. Anche se non c'era nulla che ci collegasse con tutto ciò che era accaduto, desideravo che ce ne andassimo al più presto da Hunter's Rock. Feci un rapido giro per la stanza raccogliendo le mie cianfrusaglie. «Cristo,» disse Bobby con un tono di voce strano e sgradevole. Mi voltai e vidi che era ancora al telefono. «Accendi la televisione.» «È accesa.» «Non quella merda di tv locale. La CNN o qualcosa di simile.» Saltai da un canale all'altro fino a quando non lo trovai. La ripresa era fatta con la telecamera a mano ed era tremolante. Si vedeva un grande edificio grigio in qualche quartiere urbano. Una scuola. Ovviamente era stata filmata precedentemente durante la giornata, perché c'era ancora luce. «Trovato,» disse Bobby al telefono. «Ti richiamo.» Rimisi l'audio e udimmo la voce fuori campo dire che il numero delle vittime era stimato in trentadue, con molte persone ancora disperse e metà dell'edificio ancora da esaminare. Non era chiaro se i due alunni uccisi dalla polizia fossero i soli responsabili dell'eccidio o se fosse coinvolta anche una terza persona. Erano stati utilizzati fucili e una bomba incendiaria fatta in casa. La telecamera si aggirò per il luogo del disastro cogliendo di sfuggita, al di là del nastro di sicurezza, gruppi di ragazzi e insegnanti le cui facce sconvolte apparivano bianche nel bagliore del flash. I rumori dell'ambiente erano stati ridotti nel missaggio, ma si potevano ancora udire le sirene e le voci singhiozzanti. Una donna con il volto completamente coperto di sangue passò barcollando, sorretta da paramedici. «Dov'è successo?» «A Evanston, nel Maine.» Bobby chiuse gli occhi. L'emittente passò alle riprese in diretta. Ora la scena era più calma, e c'erano solo alcuni spettatori tenuti lontano dalla scuola dalla recinzione fatta col nastro di sicurezza. Un uomo con un cappotto marrone chiaro teneva un microfono, e la sua immagine tremolava nel blu dei lampeggianti. Era-
no stati trovati altri due corpi. Jane Mathews e Frances Lack, entrambe di undici anni. Ritornarono a immagini girate in precedenza. Autobotti dei pompieri, ambulanze, feriti, sia bambini che adulti, stesi a terra mentre venivano soccorsi. C'erano altri corpi a terra, ma nessuno prestava loro soccorso. Erano persone per le quali non c'era alcuna speranza. «Porca puttana,» dissi io indicando lo schermo. La telecamera fece una panoramica lungo la strada di fronte alla scuola, andando a inquadrare persone che assistevano allo spettacolo dell'apertura delle porte dell'inferno. In mezzo alla folla, ripreso da dietro, si vedeva un uomo alto, biondo, con una grande borsa a tracolla. La cosa insolita era che non stava allungando il collo, come tutti quelli intorno a lui, per avere una visuale migliore, ma se ne stava fermo e tranquillo, osservando la scena con estremo distacco. Il cameraman non lo notò e continuò lungo la fila, una lenta panoramica di espressioni inorridite. «Quel tizio l'ho già visto prima,» dissi. Un uomo biondo, a The Halls, con una grande borsa blu a tracolla. Bobby passò gran parte del volo al telefono. Lo sentii di sfuggita parlare con tre persone diverse per fare in modo che delle videocassette fossero portate con un corriere all'aeroporto di Dyersburg. Poi si sedette in silenzio e fissò per un po' il suo caffè. «All'Agenzia hanno un'idea di cosa sia successo?» «Non è affare loro fino a quando non viene coinvolto qualcuno al di fuori degli Stati Uniti. Non sono molti i terroristi internazionali che portano i pantaloni corti.» Scrollai la testa. «Sono sicuri che siano stati solo quei ragazzini?» «In questo momento le loro abitazioni vengono messe a soqquadro, ma fino a ora non è emerso nulla. Questa volta non è niente di mondiale. Questa è opera di due giovani americani ben inseriti nella società, per quanto ne sappiamo. C'è poco da stare allegri.» Ci credevo. L'atmosfera tra gli altri passeggeri era mesta, anche il «Benvenuti a bordo» del pilota era stato estremamente sommesso. «Non ti ho sentito riferire a nessuno quello che ci è accaduto oggi.» Rise in modo sgradevole. «Hai ragione. Potrei dire: 'Ehi, sapete che abbiamo appena ammazzato due tizi in mezzo ai boschi e quando siamo tornati in albergo un mio amico ha visto in tv un altro uomo che gli sembra di riconoscere?' Questa non è una cosa bella, Ward, e tu non hai lasciato un
gran ricordo. L'Agenzia, amico mio, si è data un po' una regolata. Mi caccerebbero fuori ancora più felicemente di quanto fecero con te.» «Non mi hanno sbattuto fuori. Me ne andai con le mie gambe.» «Solo a un passo dal mandato di comparizione per la prova della macchina della verità.» «Lascia perdere,» sbottai. «Era quel tizio, Bobby.» «Hai detto di averlo appena intravisto lassù. Hai ammesso di non averlo visto in faccia.» «Lo so. Ma era lui.» «Ti credo,» disse, e diventò improvvisamente serio. «La cosa strana è che è sembrato anche a me di conoscerlo.» «Come?» «Non lo so. Cristo, quando ho individuato quello che stavi indicando, lui se ne era già andato. Ma c'era qualcosa di familiare in lui.» Era buio quando atterrammo. La macchina che avevo lasciato nel parcheggio dell'aeroporto non c'era più, recuperata probabilmente dalla ditta di noleggio. Bobby andò allo sportello e ci procurò un altro veicolo. Tutto quello che avevano era una Ford enorme. La ritirai dalla zona del parcheggio assegnata, e feci il giro per fermarmi all'uscita principale. Alla fine Bobby uscì dal terminal, portando sotto braccio una piccola scatola. «Fantastico,» disse laconicamente mentre saliva davanti. «C'è spazio per i bambini e per la spesa di una settimana. Andiamo a cercare un Publix.» «Almeno potremo dormire un po' lì dentro se ne abbiamo bisogno.» «Non contare su di me.» «Ti stai rammollendo, soldato.» «Sì è vero, e questo significa, per parafrasare uno stimato ex presidente, che non devo più mangiare i broccoletti.» «Stimato da chi?» «Da sua madre.» Bobby aveva ancora le chiavi della stanza che aveva preso al Sacagawea. Dopo aver verificato che non fosse stata occupata da qualcun altro, andò a contrattare con la direzione. Io scovai un paio di lattine di tè freddo e tornai in camera. Il ricordo delle vacanze degli anni passati mi assalì ancora più violentemente che alla piscina del motel fuori Hunter's Rock. Cinquanta o più anni fatti di persone che occupano per poco tempo lo stesso posto, che si accampano in tenda nel bel mezzo di un viaggio. La sedia sulla quale mi trovavo aveva forse
ospitato, in passato, qualcuno che guardava per la prima volta il programma «Gilligan's Island», e a cui di certo la sigla non suonava come un pezzo di folklore stantio. Un giorno altri si sarebbero seduti lì, con le loro tute spaziali rinforzate con silicone, sorseggiando una bevanda marziana senza zucchero, senza caffeina e senza gusto, e avrebbero pensato la stessa cosa a proposito di «Friends»: «Ehi... guarda quelli com'erano magri. E cosa combinavano con i capelli?» Bobby ritornò con un voluminoso videoregistratore sotto il braccio. «Il vecchio rimbambito non si era nemmeno accorto che me ne fossi andato,» disse. «Però è stato abbastanza sveglio riguardo alla caparra per questo reperto archeologico. Penso funzioni a manovella.» Una volta che l'apparecchio fu collegato con un televisore quasi da collezione, Bobby si appollaiò sullo spigolo del letto e aprì il pacco che aveva ritirato in aeroporto. Dentro c'erano un paio di videocassette; dopo aver controllato velocemente le etichette, ne infilò una nell'apparecchio. «Questo è materiale che non è andato in onda,» spiegò mentre premeva il tasto Play. «Si raccomanda la discrezione dello spettatore.» Il cameraman era arrivato sulla scena dell'attentato dinamitardo alla scuola immediatamente dopo la prima esplosione. Nella maggior parte delle grandi città americane c'è un mercato di troupe freelance, unità di due persone che vagano per la città come branchi di cani randagi. Scandagliano le frequenze della polizia e spesso arrivano sul luogo di un suicidio, di un tamponamento a catena o di una sparatoria in un bar prima dei poliziotti, in cerca di materiale da freak-show che aiuti le reti televisive e i canali via cavo a riempire il loro spazio, sempre in aumento, di presenza in video. Qualcosa nella qualità della ripresa suggeriva che fosse quella la provenienza, anche se mi sarei potuto sbagliare. È probabile che di fronte a scene del genere nemmeno le mie mani sarebbero state molto salde. Quando in televisione si vedono delle atrocità è facile dimenticare che - al di là dell'apparente veridicità - le notizie sono già state addolcite per la nostra tutela. Vediamo persone in piedi attorno a fosse comuni in Bosnia, e la qualità artefatta delle immagini ci aiuta a dimenticare che a noi non viene mostrato cosa ci sia dentro o che significato abbiano quei resti polverosi per le persone che si trovano direttamente sul posto, e non al sicuro in un salotto all'altro capo del mondo, guardando attraverso uno spesso pezzo di vetro. Anche la copertura non-stop che i mezzi di informazione fecero dell'orrore del World Trade Center si guardò bene dal mostrarci quello che videro i soccorritori. Siamo così abituati a essere manipolati, così infestati dai truc-
chi dei media, che siamo più consapevoli di ciò che è stato aggiunto che di quanto è stato eliminato. Non importa quanti making of di documentari d'avventura guardiamo, nel contesto il mostro di latex continuerà a spaventarci: e mentre guardiamo i notiziari non ci chiediamo perché la panoramica sia finita in quel particolare momento o cosa fosse saltato fuori dal fotogramma che non ci è stato mostrato. Sono notizie softcore, montate con tutte le risorse a disposizione. Ci viene concesso di sentire le urla, ma a un volume accettabile e adatto alla circostanza - il tutto mentre ascoltiamo una voce la cui cupa indignazione è a sua volta una sorta di rassicurazione. Implicitamente quella voce ci dice: «Questo è sbagliato.» «Questo è malvagio. Ma accade raramente e vi porremo rimedio. Passerà e, alla fine, tutto sarà a posto.» Il video non aveva alcuna voce fuori campo. Non era stato fatto alcun taglio. Non diceva nulla, erano solo immagini. L'esplosione aveva troncato di netto la facciata di un tozzo edificio municipale di due piani scagliando nell'aria, ad altissima velocità, tonnellate di cemento, vetro e acciaio. Questi frammenti si erano scontrati con altri della stessa natura ma anche con alcune sostanze meno solide. Una grande quantità di questo materiale era stata scaraventata in aria per poi ricadere all'esterno dell'edificio. Quando il cameraman era arrivato - assieme al tecnico dell'audio le cui esclamazioni di sgomento erano udibili a intervalli regolari - aveva attraversato il parcheggio davanti alla scuola, facendo un percorso tortuoso attraverso la devastazione. Fece alcune rapidissime panoramiche sull'edificio esterno alla sua destra, o sull'altro lato del parcheggio quando cominciarono ad arrivare la polizia e le ambulanze. Ma per la maggior parte del tempo la telecamera registrò quello che si trovava di fronte al suo obiettivo. Una ragazzina, apparentemente inconsapevole di aver perso un braccio, che urlava il nome di qualcuno. Brandelli di corpi, teste. Un ragazzo, il cui viso era coperto di sangue come quando si è appena nati, vagava immerso nel fumo, emettendo una sorta di miagolio. Una lunga serie di lembi di carne, come fosse un gigantesco mucchio di vomito sanguinolento, con in mezzo qualche arto o brandello riconoscibile. Il corpo quasi per intero di un uomo adulto sussultava al suolo, col volto irriconoscibile ridotto a un ammasso di polpa rosa sul quale la bocca rimaneva inutilmente spalancata. Una attraente giovane donna troncata a metà, gli occhi sbarrati e niente altro sotto la cassa toracica, eccetto un moncone di spina dorsale, e il cofano dell'auto sul quale era finita.
Gradatamente la qualità del rumore di fondo cominciò a mutare quando le urla più insistenti si spensero e furono rimpiazzate dai singhiozzi e dalle grida che crescevano di intensità. Lentamente sembrò che una sorta di disciplina cominciasse a regnare tra le persone inquadrate dall'occhio della telecamera. I movimenti senza scopo furono rimpiazzati da attività più utili, mentre i globuli bianchi della società entravano in azione e tentavano di imporre un ordine. Alcuni di questi uomini e donne si muovevano con un obiettivo: indicare, urlare, bendare. Altri avrebbero potuto essere vittime loro stessi. E infine lo individuammo. A questo punto la troupe del notiziario aveva ripreso abbastanza materiale hardcore ed era stata attratta verso l'esterno dove il parcheggio si immetteva su un viale di accesso alla strada. Il tecnico dell'audio aveva vomitato due volte, il cameraman una. La folla dalla parte opposta dell'ingresso al parcheggio non aveva ancora avuto il tempo per radunarsi, ma il nastro di sicurezza veniva già srotolato, astraendo dalla realtà l'evento, relegandolo tra gli avvenimenti eccezionali. Comunque, l'uomo era già lì, più o meno dove l'avevo visto prima. Era alto, i capelli biondi tagliati corti, con i piedi ben piantati al suolo. Guardava verso la devastazione, con lo sguardo rivolto al pennacchio di fumo che si levava da un incendio che, in quel momento, era tutt'altro che sotto controllo. Bobby inserì la pausa. L'uomo non stava sorridendo, non voglio dire questo. L'immagine saltellava dappertutto e quindi era impossibile notare i dettagli del suo volto. Si riusciva appena a vedere dove guardava. Nessuno di noi disse nulla. Bobby prese il suo tè freddo, cercò di berne un sorso e si accorse di non averlo aperto. Lo fece e ne bevve metà. «Okay,» disse sommessamente. «La parte rimanente è lunga.» Estrasse la cassetta, maneggiandola, inconsapevolmente, come fosse contaminata. Poi infilò nell'apparecchio l'altro nastro e premette Play. «Questo l'ho avuto da uno dei tecnici che analizzano i media,» disse. «È per uso interno, un memento per la gente a Washington. Uno strumento di marketing. È una registrazione, aggiornata continuamente, di certi avvenimenti che hanno avuto luogo negli ultimi dieci-quindici anni.» La prima sequenza mostrava delle immagini che riconobbi subito essendovi stato esposto a piccole dosi per gran parte della settimana trascorsa. Erano i momenti immediatamente successivi alla sparatoria in Inghilterra. La luce era forte, aveva il bagliore accecante del primo mattino. La tele-
camera era manovrata con disinvoltura, probabilmente da qualche tizio ben allenato della BBC. Si vedevano gruppi di persone che si reggevano a vicenda. Medici raggruppati attorno a una porta dalla quale venivano portati fuori i corpi, alcuni coperti da lenzuoli, altri solo da sangue. Un paio di altre troupe beneducate, un capannello di poliziotti intorno all'incrocio tra due strade trafficate. Non si sentivano molte urla e pianti. Il rumore principale era quello del traffico che scorreva: persone in ritardo agli appuntamenti, di ritorno dalla palestra, in procinto di ingurgitare litri di Diet Coke. Non dovemmo attendere a lungo, ma la ripresa era confusa e inconcludente. Una panoramica girata dall'interno del cordone di sicurezza mostrava le persone che si radunavano al di fuori di esso. In mezzo a loro c'era un uomo alto, con i capelli biondi. Bobby fermò la cassetta, la fece andare avanti e indietro. La faccia era troppo piccola e la carrellata troppo veloce. «È lui,» dissi tuttavia. Mi portai le mani al volto, ricordandomi improvvisamente del talloncino della dogana con le lettere LHR. London Heathrow. Per le due ore seguenti visionammo il resto del materiale, un arazzo di morte cucito con punti luminosi. Dopo un po' persi il conto, ma ci passarono davanti almeno trenta stragi fino a che le differenze tra esse - i luoghi, i rumori, i cambiamenti nell'abbigliamento nel corso di più di dieci anni apparvero inconsistenti rispetto alle analogie. Nella maggior parte dei casi non notammo nulla, ma in alcuni vedemmo qualcosa abbastanza riconoscibile da poterlo aggiungere alla lista che Bobby cominciò su un pezzo di carta dell'albergo. Un mercato a Panama City, Florida, 1996. Una strada principale nel nord della Francia, 1994. Un centro commerciale a Dusseldorf, 1994. Una scuola nel New Mexico, solo l'anno scorso. Un vicolo in un quartiere a New Orleans, nel 1987, dove un presunto affare di droga andato a rotoli provocò un'escalation che lasciò al suolo sedici morti e trentuno feriti. «È lui,» continuavo a ripetere. «È lui.» Alla fine il nastro terminò, senza cerimonie. Probabilmente solo poche persone erano riuscite ad arrivare fino in fóndo. «Abbiamo bisogno di altri nastri,» disse Bobby. «No, per niente,» dissi. «Sinceramente non penso proprio.» «Sì. Di quelli in cui non era stato ripreso dalla telecamera.» «È verosimile che non ci fosse. Non sarà l'unico. Ce ne saranno altri come lui.» Mi diressi verso il bagno e mi scolai più di un litro d'acqua tiepida utilizzando un bicchiere minuscolo.
«Incidenti aerei,» disse Bobby quando tornai di là. «Attentati dinamitardi nell'Irlanda del Nord, in Sudafrica. Le guerre civili degli ultimi dieci anni. Epidemie di influenza. Qualcuno deve farle iniziare. Forse abbiamo guardato nei posti sbagliati. Forse non sono fondamentalisti, ma persone che odiano tutti.» Scossi la testa, ma senza troppa convinzione. Bobby tolse il nastro dal videoregistratore e se lo rigirò tra le mani. «Ma perché starsene lì? Quante probabilità ci sono che venga ripreso dalla telecamera così tante volte?» «Non è un caso. È una firma che dovrebbe essere letta da chi sa. Per dire che sono stati gli Uomini di paglia.» «Ma ora l'abbiamo scoperto.» «Credi? Un uomo biondo, troppo piccolo nell'inquadratura per distinguerlo, e un mucchio di eventi senza connessione tra loro, disseminati in mezzo mondo occidentale e nell'arco di dieci anni? Vuoi chiamare Langley e vedere se interessa a qualcuno? O dovremmo provare con la CNN? Noi non siamo Woodward e Bernstein e finché non riusciremo ad avere qualcosa di più di qualche fugace apparizione, questa roba sembrerà un complotto del cazzo. Potresti passare la giornata davanti al computer e non riusciresti a ottenere neanche mezza informazione dalle immagini che abbiamo visto.» «Che mi dici della pagina web? E il Manifesto?» «Non c'è più, Bobby. Avremmo potuto farcelo da soli.» «E allora? Vuoi semplicemente fare finta di niente?» «No,» risposi. Mi sedetti sul bordo del letto e tirai su il telefono dell'albergo. «Forse c'è una persona che ci potrebbe aiutare. In effetti due. La coppia che ci ha inseguito fino ad Hunter's Rock.» «Perché? Loro danno la caccia a un serial killer.» «E tu che differenza ci vedi?» «In questo caso è diverso. Uccidere un mucchio di gente non è la stessa cosa.» «No,» dissi. «Di solito non lo è, ma forse questa volta sì. Non è detto che una cosa escluda l'altra. A pensarci bene, credo che questo tizio sia l'assassino che stanno cercando. È lui il vero Homo Erectus.» 28 In alcuni momenti le sembrava di essere morta. In altri di essere qualco-
s'altro, un pesce, un albero, una nuvola o un cane, un maledetto cane. I cani sono pazzi e farneticano per le strade, ma è meglio essere un dannato cane che morti. La maggior parte del tempo le sembrava di essere il nulla, un piccolo ammasso di amabile nulla che fluttua in un fiume sotto un cielo nel quale gli uccelli non cantano. Sarah ormai stava molto male. Le accadeva solo saltuariamente di ricordare dove si trovasse e chi fosse. Non sentiva più i crampi allo stomaco. Aveva smesso di fare caso a quelle sensazioni. Pensava che lo stomaco facesse ancora parte di lei, come le braccia e le gambe. Qualche volta ne aveva una terribile dimostrazione, un dolore spaventoso che partiva dalle dita dei piedi e saliva per tutto il corpo. Era come se delle punte e degli spilli incandescenti lunghi trenta centimetri le venissero infilati sotto la pelle, per poi essere spinti con forza a fondo e lasciati lì. Alla fine il dolore diminuiva, ma a quel punto Sarah non era più cosciente, era già ritornata a fluttuare nel fiume, alla deriva. A volte, mentre galleggiava, alcune persone le parlavano. O comunque sentiva delle voci, quelle dei suoi amici, ogni tanto quelle della nonna e di sua sorella, ma più spesso quelle di sua madre e di suo padre. Di solito parlavano di cose senza importanza, come se lei fosse seduta al tavolo del salotto intenta a fare i compiti e loro fossero semplicemente nella stanza a fianco, a chiacchierare come facevano di solito. Erano mezze frasi, frammenti presi qua e là. «Charles pensa che Jeff sarà entusiasta di questa versione.» «Per il brunch, ma potrebbe valerne la pena.» «È solo per il terzo atto.» Sua madre parlava della giornata, di dove era andata e chi aveva incontrato: «Puoi farti tirare la faccia quanto vuoi, ma non puoi nascondere il dorso delle mani.» Ma poi suo padre diceva qualcosa che gli era appena venuta in mente e lei stava ad ascoltarlo attentamente, tipo: «Sai cosa farei se diventassi un personaggio famoso? Pedinerei le persone. Sceglierei degli emeriti sconosciuti e mi intrufolerei nelle loro vite. Chi gli crederebbe? 'Scusi, signor poliziotto... Cameron Diaz continua a scocciarmi.' Oppure: 'Senta, ho ricevuto tutte queste lettere da Tom Cruise. Non è uno scherzo. Mi sta tormentando. Questa è la sua calligrafia, sul serio.' Potresti veramente far impazzire qualcuno, e anche piuttosto velocemente.» Sarah non sapeva se avesse mai sentito suo padre dire queste cose prima che la sua vita cominciasse ad andare alla deriva. Ne dubitava. Credeva fosse qualcosa fatto apposta per lei, per tenerle compagnia nel suo fluttuare. Lui aveva sempre giocato con le parole insieme a lei, dicendo quello che gli veniva in mente. Mamma non sempre capiva che erano scherzi e
spesso, al contrario di Sarah, non li trovava divertenti. Dopo un po' le voci cominciavano ad affievolirsi. Altre volte udiva dei passi e sapeva che erano loro che venivano a salvarla. Li sentiva avvicinarsi sempre di più fino al punto che la sua bocca cominciava a muoversi, pronta a dire qualcosa nel momento in cui il pannello fosse stato rimosso e fosse comparso il volto di suo padre. Si trovavano proprio sopra di lei, strascicavano i piedi sulle assi che coprivano il suo corpo. Ma non la trovavano mai. Poi i passi si allontanavano e lei riprendeva ad andare alla deriva. Ogni tanto, soprattutto dopo che Nokkon era stato a trovarla, qualcosa le saliva su per il corpo. Conati che le trapassavano lo stomaco come un coltello che affonda nel ghiaccio, fino ad avere l'impressione di spaccarsi in due. Non c'era niente che potesse venirle su, neanche l'acqua, perché il suo corpo l'assorbiva il più in fretta possibile. Il suo organismo aveva seguito il programma. C'erano alcune volte in cui le parlava, facendole una ramanzina. Lui stava facendo del suo meglio per rimanere calmo, ma era veramente molto insoddisfatto della situazione. Non ci si poteva aspettare che la sopportasse oltre. Il suo corpo aveva la voce di Gillian Anderson. Era molto ragionevole e diceva frasi lunghe che dovevano essere state chiaramente pensate in anticipo. Ma non era contento, e aveva smesso di credere che le cose avrebbero cominciato a migliorare. Sarah ascoltava quello che aveva da dirle, cercando di provare interesse, ma era convinta di non poterlo aiutare. Era Nokkon il suo unico vero amico, e anche lui non andava più molto spesso a trovarla. Sarah credeva di averlo deluso. Le parlava ancora, le dava dell'acqua e le diceva delle cose, ma aveva la sensazione che lui lo facesse solo per un proprio tornaconto. Qualche volta, recentemente, Nokkon portava con sé delle persone. Almeno, questo era quanto lui le diceva, anche se Sarah non capiva perché lui dovesse darsi tanto da fare per mentire. Lei sapeva chi fossero quelle persone: erano i suoi folletti. Erano ai suoi ordini e vagavano in lungo e in largo alla ricerca di coloro che fossero così stupidi da considerarsi fortunati, come aveva fatto Sarah una volta. Tenevano d'occhio le persone con microfoni e pipistrelli spia che sorvolavano le case di tutto il mondo. Alcuni folletti erano molto grandi e potevano camminare abbastanza pesantemente da far tremare la terra, provocando terremoti ed eruzioni vulcaniche. Altri erano piccolissimi e volavano, si infilavano nei pori delle persone in modo da rimescolare le loro cellule e far sì che delle masse oscure crescessero nei loro polmoni, cuore e reni. I
folletti grandi avevano voci tonanti, i piccoli invece sembravano dei gallesi. Quando tossiva, Sarah teneva la bocca chiusa in modo tale che loro non vi entrassero. Altri ancora erano di dimensioni normali, ma erano piuttosto rari. Lei non ne aveva mai visto uno, ma sapeva che c'erano. Per cercare di mandarli via dava delle testate contro il legno sopra di lei. All'improvviso scomparivano, tutto ripiombava nell'oscurità e lei ricominciava a fluttuare. All'inizio, quando aveva cominciato a fluttuare, era stato piuttosto piacevole, come stare sdraiati a pelo d'acqua a faccia in su ed essere trasportati dalla corrente. Ma ora le sembrava di stare sempre meno a galla, come se stesse sprofondando. Le sue orecchie erano già al di sotto della superficie e tra non molto lo sarebbero stati anche gli occhi. Quando sarebbe toccato alla punta del naso, si sarebbe resa conto di non galleggiare più. 29 Zandt si trovava davanti alla porta di una casa a Dale Lawns. Constatato che il suo primo squillo di campanello non aveva ricevuto alcuna risposta, premette nuovamente il pulsante appoggiandosi con tutto il peso fino a quando, attraverso il vetro smerigliato nella parte superiore della porta, non vide in controluce una figura che emergeva dirigendosi verso di lui. Gloria Neiden era griffata dalla testa ai piedi, per una squallida serata casalinga. Non appena aprì bocca apparve evidente che fosse ubriaca, ma non in maniera benigna, allegra, o almeno da non reggersi in piedi. Era ottusamente ubriaca, per stare da sola. «Chi diavolo è lei?» «Mi chiamo John Zandt,» disse. «Ci siamo conosciuti tre anni fa.» «Mi dispiace ma non ricordo. E sono certa di non avere fatto nessun progetto per rinnovare la nostra conoscenza.» Queste parole le espresse in modo chiaro, con solo un piccolo difetto di pronuncia. Cominciò a chiudere la porta, ma Zandt la fermò con la mano. «Ero uno dei poliziotti che indagò sulla sparizione di Annette Mattison,» disse. Mrs. Neiden sbatté le palpebre e fu come se il movimento avesse causato il diffondersi sul suo viso di una sostanza chimica grigia, qualcosa che la imbalsamasse ma non perfettamente. «Sì,» disse incrociando le braccia. «Ora mi ricordo di lei. Bel lavoro. Avete sistemato tutto, vero?»
«No. Ecco perché sono qui.» «Mia figlia è fuori con amici. E anche se così non fosse, insisterei perché non le parlasse. C'è voluto molto tempo perché riuscissimo ad accettare quanto è accaduto.» «Ne sono certo,» disse Zandt. «E ha funzionato?» Lei lo fissò, improvvisamente sobria. «Cosa intende dire?» «Quello che intendo,» disse, «è che anche mia figlia è scomparsa e io non lo accetterò mai. Le ruberò solo pochissimo tempo, durante il quale potrebbe aiutarmi a capire chi ha distrutto le nostre vite.» «Non dovrebbe forse parlare più con i Mattison che con me?» «Ho una domanda per lei. Questo è tutto.» Lei si voltò, questa volta spingendo la porta con maggiore decisione. Zandt ancora una volta la tenne aperta e d'istinto cominciò a parlare. «Una domanda che potrebbe impedire a suo marito di iniziare o di continuare una relazione extraconiugale. Che potrebbe evitare a sua figlia di vergognarsi quando porta i suoi amici a casa. Cosa, questa, che potrebbe diminuire le probabilità che un pomeriggio lei vada a schiantarsi in macchina contro un muro perché ha calcolato male una curva o solo perché l'idea la affascinava.» Gloria Neiden lo squadrò. Le ci volle qualche secondo per ritrovare la voce. «Vada al diavolo,» disse, a bassa voce e ringhiando. «Lei non ha alcun diritto di parlarmi così. Avreste dovuto trovarlo voi. Non è colpa mia. Niente di tutto questo è colpa mia.» «Lo so,» disse Zandt mentre guardava quel volto subire un'altra orribile mutazione, passando da quello di un animale a quello di una ragazza impaurita per poi tornare a quello di una donna, come una maschera di creta schiacciata da un bambino cattivo. «Niente di ciò che accadde è stata colpa sua, lo so. Anche la sua famiglia lo sa. Lo sanno tutti tranne lei stessa. Lei prova a dirselo, ma in realtà non ci crede. Ed è questo che la ucciderà.» Rimasero così per un po', ognuno da un lato della porta, spingendola entrambi. Poi, tutti e due smisero di spingere. Zandt chiamò Nina andando verso Santa Monica. La sentì perplessa, ma accettò di incontrarlo a Bel Air. L'indirizzo era nel fascicolo. Michael Becker aprì la porta e acconsentì ad andare con lui senza chiedere spiegazioni. Si lasciarono alle spalle Zoë che teneva per mano la loro figlia più giovane. Non fece storie né chiese un chiarimento su cosa stesse
accadendo. Zandt capì che sarebbe stata la stessa cosa se lui avesse chiesto a Zoë di seguirlo, se fosse stato Michael a essere lasciato lì a diventare via via più piccolo nello specchietto retrovisore della macchina dei Becker. I Becker confidavano l'uno nell'altra per la difesa del fortino, scambiandosi le responsabilità a seconda delle circostanze. Quando nient'altro ha senso, è il vostro rapporto con una persona, e una persona sola, che ha qualche probabilità di proteggervi contro il mondo. Zandt rimpianse di non avere avuto questo tipo di consapevolezza quando stava ancora con Jennifer. Appena partiti, Zandt chiese a Michael l'indirizzo. Gli disse di dirigersi là e si rifiutò di rispondere a qualsiasi domanda. «Lo vedrà,» era tutto quello che diceva Zandt. «Aspetti di essere lì.» A causa dell'approccio non euclideo che Michael Becker aveva con la geometria di Los Angeles, ci impiegarono quasi quaranta minuti per arrivare all'altro capo della città, ma poi cominciarono a salire sulle colline, oltrepassando case che diventavano via via più grandi a ogni tornante. Alla fine arrivarono in un vicolo cieco. Su entrambi i lati c'erano cancelli di sicurezza. L'illuminazione rivelò che c'era un'altra macchina parcheggiata con discrezione un po' più avanti lungo la strada. Vi era appoggiata Nina con le braccia saldamente incrociate e un sopracciglio inarcato. Classica posa da Nina. «È qui,» disse Michael. «È qui che vive.» Non era stupido. Aveva cominciato a capire anche se non aveva ancora raggiunto un livello di piena consapevolezza. «Cosa devo dire?» Zandt scese dall'auto. Nina stava per fare delle domande ma lui alzò la mano e lei rimase in silenzio. «Ci faccia solo entrare,» disse rivolto a Michael. Becker andò alla colonnina del cancello e premette un pulsante. Parlò brevemente e in pochi secondi il cancello si aprì. Un attimo dopo Zandt stava percorrendo velocemente il vialetto, con dietro Michael e Nina a seguirlo. Una volta raggiunta la casa, trovarono la porta aperta e un uomo magro investito dalla luce che proveniva dall'interno. L'edificio era al centro di una vasta proprietà. Prima di entrare Zandt afferrò Michael per il braccio e lo spinse avanti. «Ehi, Michael,» disse l'uomo. «Chi è il tuo amico?» Zandt sbucò da dietro e afferrò Charles Wang per la gola. Con l'altra mano lo colpì due volte proprio in mezzo al volto, con pugni da breve distanza.
Nina era stupefatta. «John che diavolo stai facendo?» «Chiudi la porta.» Zandt scaraventò Wang indietro nell'atrio della casa. Lo colpì di nuovo, mandandolo a sbattere contro il marmo bianco del muro. Lo tirò su e lo diresse contro una specchiera in stile francese, frantumandone la parte superiore. Un ragazzo giovanissimo con una giacca bianca uscì correndo da una porta sotto la scala che conduceva dall'atrio al piano superiore. Questi si accorse che Zandt possedeva una pistola e che gliela stava puntando in faccia. «Torna dentro, Julio,» disse Wang con voce ferma. «Sì, Julio,» disse Zandt. «Va' da un'altra parte e cerca di stare molto tranquillo. Se tiri su il telefono, quando avrò finito con questo coglione verrò a cercare te e ti staccherò quella testa di cazzo.» Il ragazzo sparì immediatamente. Zandt rivolse la pistola verso Wang che era mezzo sdraiato a terra ai piedi dello specchio ed era accasciato come se avesse la schiena rotta. «Non cerchi di scappare?» chiese Zandt. Lo colpì con un calcio, forte, a un fianco. «Non provi ad andartene?» «Finiscila» urlò Nina. «Dimmi cosa sta succedendo.» Improvvisamente Wang si mosse, sollevandosi sulle braccia con disinvoltura. Zandt lo colpì al volto con la canna della pistola, tramortendolo. Wang emise uno schiocco con la gola e ricadde al suolo. Zandt gli sollevò la testa. Gli occhi di Wang lo fissavano in mezzo al sangue che cominciava a fuoriuscire da un taglio sulla fronte. In essi Zandt non coglieva altro che debolezza e astuzia. «Abbiamo incasinato tutto,» disse Zandt. «Abbiamo guardato al livello uno. Ci siamo dimenticati del livello due e non abbiamo neanche immaginato che ci fosse il livello tre.» Wang gli sorrise come se stesse valutando quanto gli sarebbe costato comprarlo. Zandt lasciò la presa alla testa e lo schiaffeggiò con violenza. «Guarda lui» urlò. «Non me. Guarda Michael.» Per un attimo sembrò come se Wang volesse tentare di nuovo di scappare, ma un colpo alla gola con la pistola lo convinse a stare fermo. Girò lentamente lo sguardo verso Michael Becker. «Non abbiamo mai catturato l'Homo Erectus,» disse Zandt, «perché stavamo cercando la persona che rapiva le ragazze. Il motivo per cui non abbiamo trovato l'uomo che rapì le ragazze è che non c'era nessun elemento in comune, perché furono sequestrate da individui diversi. Oggi ho studia-
to i casi di altre ragazze, con caratteristiche simili e che scomparvero all'incirca nello stesso periodo. Alla fine ne ho esaminato due in particolare. Due ragazze di New York che non era possibile fossero collegate con l'Homo Erectus, perché scomparvero all'altro capo del paese ed esattamente nello stesso momento nel quale lui era all'opera qui.» Wang sbatté le palpebre e cercò di distogliere lo sguardo dal viso di Becker. Zandt spinse più a fondo la pistola nella trachea e gli occhi ruotarono di nuovo. «Il padre di una delle ragazze è un dirigente della Miramax per la East Coast. La madre dell'altra ragazza occupa una buona posizione in una società di mediazione che tratta principalmente con banche private svizzere, ma - cosa che ho scoperto questo pomeriggio - ha anche un'attività collaterale che consiste nell'usare l'elenco dei clienti delle banche per trovare soci accomandanti per la produzione di film a basso costo in Europa. Ma queste sono ragazze di New York, giusto? Noi stiamo cercando ragazze della West Coast. Così ho fatto una visita a Gloria Neiden prima di chiamarti. Le ho chiesto di farmi un elenco di tutte le persone con le quali avesse lavorato l'anno prima che la migliore amica di sua figlia venisse uccisa. Ogni socio, socio a metà, agente, dirigente, finanziere fallito e aspirante tale. C'è voluto un po', perché in questo periodo Mrs. Neiden ha i nervi a pezzi, ed è difficile chiedere a qualcuno di ricordare. Ma l'ho pressata sempre di più e, alla fine, è saltato fuori un nome.» Michael Becker stava un paio di metri dietro a Zandt e fissava negli occhi un uomo assieme al quale si era seduto in uffici assolati, col quale aveva scherzato via e-mail, con il quale si era abbracciato dopo gli scatti quasi vincenti verso la meta televisiva. L'uomo che aveva visitato casa sua centinaia di volte, che aveva partecipato alle cene in famiglia, che era stato seduto nella camera di sua figlia e avevano chiacchierato insieme di quanto fosse stato bello per lei il viaggio in Inghilterra. Che sapeva come l'accento inglese potesse essere un modo per attirare la sua attenzione abbastanza a lungo perché arrivasse il momento giusto per rapirla. Wang non disse nulla. «Charles non uccide le ragazze,» disse Zandt. «Non le rapisce nemmeno. Sarebbe pericoloso. Charles non desidera il vero pericolo. Vuole il potere, il divertimento e la sensazione di muoversi in modi misteriosi. Tutto quello che Charles fa è passare l'informazione. Lui può trovare ragazze speciali, di qualità. Charles lavora su commissione, ne sono certo, ma principalmente lavora per piacere.»
«Charles,» disse Michael, «di' qualcosa. Dimmi che non è vero.» «Sì, dicci quanto prendi a ragazza,» incalzò Zandt. «Spiegaci perché per queste persone è così importante arrivare direttamente alle famiglie, quando potrebbero raccogliere la gente per le strade. Perché rubare da persone che si pensa siano tue amiche? Spiegaci il brivido di tutto ciò, perché lo vogliamo proprio sapere, cazzo.» Improvvisamente fece un passo indietro e colpì brutalmente Wang al petto. Poi tornò faccia a faccia con lui, urlando: «Chi le rapisce? Chi esegue il sequestro? Dove le portano?» Con gli occhi ancora su Michael Becker, Wang si leccò le labbra. «Pensi che io conosca i loro nomi?» Zandt: «Descrivili.» «E se non lo faccio?» Zandt spostò la pistola di qualche centimetro e premette il grilletto. La pallottola andò a sbattere contro il marmo proprio dietro la testa di Wang e rimbalzò malignamente per la stanza. Schegge di marmo e vetro ferirono il volto e la testa dell'uomo. La pistola ritornò contro la gola. Wang parlò velocemente. «Che io sappia sono tre. Ce n'erano quattro, ma uno scomparve due anni fa. Hanno aspetti diversi - cosa volete che vi dica? Pensate che li abbia incontrati e abbia bevuto una birra con loro? Uno è grasso, uno alto, l'altro è calvo...» «Descrivi quello che ha preso la figlia di Michael. Devi avere avuto contatti con lui.» «È stato fatto tutto tramite telefono e e-mail.» «Stronzate. Le e-mail possono essere registrate e i telefoni messi sotto controllo. Ma chi presterebbe attenzione a due tizi che si incontrano al bar di un hotel da qualche parte, a Los Angeles?» Wang si leccò di nuovo le labbra. Zandt mosse la canna della pistola fino a portargliela proprio al centro della fronte. Wang notò la pressione che veniva esercitata sul grilletto. Le sue labbra cominciarono a muoversi, ma il poliziotto tenne fermo il dito. «Non dirmi solo quello che credi io voglia sentire,» disse Zandt. «Se ho l'impressione che tu stia mentendo, ti uccido.» «È un tipo alto,» disse. «Biondo, robusto,» disse. «Si chiama Paul.» Zandt si alzò e si asciugò il sudore dell'uomo dalla mano. Fece un passo indietro per portarsi di fianco a Nina, lasciando Michael a fronteggiare Wang. «È vero?» La voce di Becker si sentiva appena. «Come hai potuto, co-
me. Perche? Perché, Charles? Voglio dire...» Confuso, in una casa che non si sarebbe mai potuto permettere indipendentemente da quanti culi degli studi di produzione sarebbe riuscito a leccare, si concentrò su qualcosa di futile ma concreto. «Non può essere per il fottuto denaro.» «Sei un uomo limitato, con obiettivi limitati,» disse Wang con risentimento, togliendosi il sangue dalle labbra con il dorso della mano. «Stupide ragazzine che non sono mai state scopate. L'immaginazione di una zitella. Non hai mai sfiorato nulla di grande e non lo farai mai. Certamente non toccherai mai lei, non ora.» Gli fece l'occhiolino. «Non saprai mai cosa ti sei perso.» Zandt fu più svelto di lui. Fermò Becker afferrandolo per le spalle e spingendolo nella direzione opposta. Nonostante fosse un po' più pesante dell'altro, riuscì semplicemente a farlo girare su se stesso. «Sta mentendo, Michael,» disse. «Sta mentendo.» Un attimo dopo la forza di Michael sembrò svanire. Zandt lo tenne ancora fermo mentre si voltava per guardare oltre le sue spalle verso l'uomo che sogghignava accanto alla porta. «Non lo uccideremo. Mi ha capito?» Girò la faccia di Becker in modo da poterlo guardare bene. Gli occhi dell'uomo erano spalancati, ma lo sguardo era assente. «Non posso prometterle che le restituirò sua figlia. Potrebbe essere morta e se è così allora quest'uomo è in parte responsabile. Quello che faremo è uscire da questa casa e andarcene. Questa è l'unica certezza che posso darle. Lei non uscirà da qui come un assassino.» Becker rimise lentamente a fuoco lo sguardo. Il suo corpo diventò fiacco per un attimo e poi si tirò nuovamente su, ma fece un passo indietro e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Zandt mise via la pistola. I tre guardarono l'uomo sdraiato al suolo. «Meglio rimettere in ordine questo posto,» disse Zandt. «Presto riceverai visite.» Poi se ne andarono, lasciando un uomo pallido a fissarli. Nessuno parlò fino a quando non arrivarono alla macchina. Michael guardò verso la casa. «Cosa dovrei fare?» Nina cominciò a parlare, ma Zandt non ne tenne conto. «Niente. Non dica niente alla polizia, né a sua moglie. So che vorrebbe farlo, ma non ora. Soprattutto non torni quassù. Quello che si deve fare sarà fatto.» «Da chi?» «Salga in macchina, Michael.»
«Non posso permettere che lo faccia lei al posto mio.» «Entri in macchina e basta.» Alla fine Becker salì e se ne andò, con la macchina che si muoveva appena lungo la strada, curvando lentamente da una parte e dall'altra. Nina tirò fuori il cellulare e cominciò a comporre un numero. Zandt glielo fece cadere a terra facendolo strisciare per un paio di metri sul manto stradale. «Lascialo lì,» disse. Lei lo guardò infuriata ma lasciò il telefono dov'era. Zandt si accese una sigaretta e rimasero in attesa. Dieci minuti dopo udirono il suono smorzato che Zandt stava aspettando, la conferma senza la quale sarebbe tornato dentro la casa e avrebbe fatto ciò che era giusto, incurante di quello che Nina avrebbe potuto fare per tentare di fermarlo. Eppure, non appena lo udì, si sentì tremendamente stanco e per niente trionfante. Come se avvicinandosi all'origine di quegli eventi non avesse fatto altro che compromettersi ulteriormente; come se il tanfo di quello che si nascondeva sotto la superficie dell'umanità fosse ora così intenso che non sarebbe mai riuscito a mandarlo via. Nina si voltò per guardarlo. «E così è morto.» «Tutto quello che faceva era far passare le ragazze al gradino successivo della scala. Avremmo potuto perdere dei giorni a interrogarlo e non avrebbe fatto altro che prenderci per il culo.» «Non sto dicendo che hai sbagliato. Ti sto solo chiedendo cosa pensi di fare adesso.» Zandt scrollò le spalle. «Bene,» disse lei, chinandosi per riprendere il telefono. «Perché non ci vorrà molto prima che arrivino i poliziotti. Nel qual caso io non voglio essere nei paraggi.» Si diresse a grandi passi verso la macchina e aggiunse voltandosi all'indietro: «E ho un paio di persone che credono di poterci indicare dove trovare un uomo biondo che corrisponde a quello che hai appena sentito descrivere.» Zandt la guardò. «Cosa?» «Hopkins e l'altro tizio. Ha chiamato proprio prima di te. Hanno un video che mostra un uomo che appare in almeno metà delle stragi di serie A degli ultimi dieci anni, compresa la scuola nel Maine di questa mattina. Un tizio che Ward pensa di aver visto in un posto tra le montagne.» «Se lo sapevi, perché non mi hai fermato con Wang?» Lo guardò da sopra il tettuccio della macchina. «Desideravo che la pa-
gasse almeno quanto te.» 30 Contrariamente a quanto credevano Zandt e Nina, Wang, sebbene si fosse ucciso, non lo aveva fatto immediatamente. Innanzitutto si era rimesso in piedi a fatica perché le mani scivolavano sul suo stesso sangue. Non era stato in grado di rialzarsi completamente. Era già stato picchiato in precedenza, si era offerto volontario per fare l'esperienza in più di una occasione, ma questa volta era diverso. Il poliziotto non aveva minimamente tenuto conto del piacere che Wang avrebbe potuto provare nel rompergli qualche osso. Rimase fermo per un attimo, fissando la propria immagine in quello che rimaneva dello specchio ai piedi del quale aveva rivelato il suo più grande segreto. Il suo volto era tumefatto e sfregiato. La cosa peggiore era che appariva anche vecchio. La costosa patina costruita con le diete e l'esercizio fisico, con gli unguenti e il narcisismo, si era dileguata sotto la violenza dei colpi. I suoi anni li dimostrava tutti, e proprio con l'aspetto di uno che avesse compiuto le cose che aveva fatto lui e che avesse mantenuto i propri segreti tanto a lungo. Non era un assassino. Non aveva mai ucciso né tanto meno fatto del male a qualcuno. Non con le sue mani. Ma aveva assistito a episodi in cui dei giovani erano stati lasciati in fin di vita, immersi in pozze di urina e di altre secrezioni organiche. Occasioni nelle quali insieme ad altri uomini come lui si erano allontanati nelle loro macchine costose, ed erano stati fortunati di non finire complici di un assassinio. Possedeva una vasta collezione di videocassette che documentavano tali eventi; era così vasta, in effetti, che sarebbe stato molto improbabile che lui riuscisse a trovarle tutte, ancor meno a distruggerle, prima dell'arrivo della polizia. Suo padre non avrebbe mai capito. E sospettava che non l'avrebbero fatto nemmeno le donne e gli uomini con i quali condivideva affari più leciti - nonostante sapesse che alcuni di loro avevano dei segreti, e che l'impulso interiore che li spingeva alla fama e al successo li portava anche ad atti oscuri con i quali si sforzavano di dimostrare a loro stessi quanto fossero diversi e migliori di chiunque altro. La gloria non è mai abbastanza, e prima o poi tutti dobbiamo fare di noi stessi un idolo, altrimenti la stima degli altri diventa insignificante. La materia prima era stata ottenuta, le donne piagnucolanti sistemate, a volte da
Wang stesso che aveva sempre cercato di essere amico delle persone, un confidente di coloro i cui desideri trascendevano le regole che la società riconosceva, che volevano vivere al massimo, che erano in grado di capire che fare del sesso con chi è terrorizzato è un'esperienza diversa. Era stata una di queste persone - un uomo che sapeva quanto Wang potesse essere d'aiuto in certe occasioni - che l'aveva introdotto ad alcuni suoi colleghi. Il loro rappresentante era un uomo alto con i capelli biondi. La presentazione aveva avuto luogo solo dopo alcuni anni, e c'era voluto ancora più tempo prima che Wang si rendesse conto che quest'uomo non era quello che sembrava e che - assieme ai suoi colleghi - aveva in mente qualcosa di più che il piacere occasionale. Non era mai stato invitato per incontrarli, e questo l'aveva un po' infastidito. Nonostante questo aveva accettato di procacciare del divertimento, di aiutare i mezzani a trovare piaceri particolari. Il poliziotto aveva ragione: i soldi non c'entravano nulla. Ognuno ha la propria storia e nasce due volte. Per Wang la seconda nascita era arrivata trentacinque anni prima, a dieci anni, sbirciando, attraverso una finestra, una domestica nuda. Una mattina di primavera in un altro paese, una visione che lo aveva fatto fermare di colpo, accecandolo con l'improvvisa consapevolezza di quante cose nascoste il mondo avesse da mostrare. Suo padre era a casa nel suo ufficio dal quale si diffondeva cadenzata e precisa, chiara e gioiosa, musica barocca. Wang era rimasto immobile per un attimo, smarrito in un attimo di dolcezza. Molti avrebbero potuto viverlo senza che questo cambiasse la loro vita, ma Charles non era più stato lo stesso. Dopo quell'episodio c'erano state le sbirciatine volute, poi le riviste e le cassette, i viaggi solitari in zone di Hong Kong e poi di Los Angeles che non tutti conoscevano. Per molti questo sarebbe stato abbastanza, anche troppo. La colpa non stava nel materiale e nemmeno nel desiderarlo, piuttosto nell'averne bisogno ancora prima di conoscerne l'esistenza - a tal punto da doverselo creare se non fosse esistito. Condannare la pornografia è come criticare una pistola: nessuno dei due genera se stesso né è in grado di premere il proprio grilletto. C'è bisogno di una mano, e la mente umana è questa mano indagatrice, con le dita abbastanza sottili da trovare piccole brecce e forti abbastanza da portarne fuori qualcosa. Sono simili, inoltre, nel fatto che a volte, col tempo, si formano dei calli, ispessimenti dovuti all'uso che implicano l'affievolimento del tatto. Indurimenti che possono significare che per ottenere lo stesso effetto è necessario qualcosa di più caldo o appuntito. Fino a quando arriva il giorno in cui siete talmente immersi nel sangue che quello che accadrà dopo smette di avere
importanza. Nell'ultima settimana Wang aveva pensato alla sorte della figlia di Michael Becker solo in un'occasione. Il pensiero era affiorato contemporaneamente alla speranza che Michael tornasse presto al lavoro, perché sembrava che lo studio potesse realmente decidere di investire su «Dark Shift». Per quanto Becker fosse ridicolo sotto molti aspetti, lavorava sodo e aveva delle idee, che, per di più, erano bene accette al pubblico comune. Wang aveva una sua versione della sceneggiatura di «Dark Shift», scritta per proprio diletto personale. Non sarebbe stata così bene accolta. Niente di tutto questo lo sarebbe stato, niente di ciò che avesse mai fatto volontariamente o divertendosi. E senza queste cose, c'era poco da capire e nulla per cui vivere. Senza il ricordo e l'eredità di una mattina di primavera, di una sbirciata accompagnata dalla musica e dal rumore dell'acqua che sgorga in una fontana vicina, per lui non esisteva nulla. Nello stesso momento in cui, fuori, Zandt si era acceso la sigaretta, Wang si era trascinato nel suo studio. Lo shock iniziale stava cominciando a diminuire ma le costole gli facevano male. Compose un numero e avvertì un amico che qualcuno era arrivato troppo vicino a scoprire il loro gioco e che, forse, l'aveva compreso appieno. Poi era tornato alla sua poltrona. Julio era scomparso, nonostante fosse ormai chiaro che gli ospiti se ne erano andati. Per un attimo Wang capì l'importanza di avere vicino qualcuno non solo perché è a tua disposizione. Senza dubbio il ragazzo aveva lasciato la proprietà scavalcando il recinto posteriore, per correre lungo la strada fino a infilarsi nella vita di qualcun altro. Se n'era andato come un sorriso di ieri. Wang aprì il cassetto centrale della sua scrivania e tirò fuori la pistola con il calcio realizzato appositamente in legno di ciliegio. Era meravigliosa. Almeno c'era lei. 31 Alle otto e quarantacinque del mattino dopo eravamo in macchina e stavamo aspettando lungo la strada che parte da Auntie's Pantry. Faceva freddo, nevischiava da due ore e il cielo era completamente coperto da nubi scure. Io avevo un pacchetto di sigarette e ne fumavo una dietro l'altra senza che Bobby trovasse nulla da ridire in merito. Stava seduto con la pistola sulle gambe e guardava diritto davanti a sé, al di là del parabrezza. «Allora, a che ora arriveranno?»
«Non è sicuro che arrivino,» dissi. «E anche se fosse potrebbe essere lei da sola.» Lui scosse la testa. «Un poliziotto senza distintivo e una ragazza. Cazzo, siamo invincibili, andiamo a invadere l'Iraq.» «Non c'è nessun altro, Bobby.» Una macchina non identificata comparve all'inizio della strada. La osservammo mentre ci superava, ma alla guida c'era una donna di mezza età che non ci degnò nemmeno di uno sguardo. Stavamo aspettando che una certa persona arrivasse nel suo ufficio e lo stavamo facendo dalle otto in punto. Avevamo i nervi a fior di pelle. Nessuno di noi aveva dormito molto bene. «Okay,» disse Bobby alla fine, indicando qualcuno al di là della strada. «Tipo allampanato, con i capelli rossi. È quello l'uomo che stiamo cercando?» Attendemmo fino a quando Chip non fu dentro il suo ufficio e poi scendemmo dall'auto. Non chiusi a chiave, la strada era praticamente deserta. Il traffico cittadino passava per altre vie, e non c'erano le condizioni meteorologiche per guardare le vetrine. Spalancai la porta della Farling Realty ed entrai, seguito da Bobby. Chip era sparito in un ufficio sul retro. La stanza principale aveva quattro scrivanie, di cui le due di destra erano vuote. Quelle sulla sinistra erano occupate da due quarantenni ben acconciate che indossavano dei piccoli tailleur, uno verde e l'altro rosso. Entrambe alzarono lo sguardo cariche di aspettativa, pronte e desiderose di venderci il nostro sogno. «Cerchiamo Chip,» dissi. Una delle due si alzò. «Mr. Farling sarà subito da voi,» cinguettò. «Nel frattempo posso offrirvi una tazza di caffè?» «Non penso che Mr. Hopkins si tratterrà.» Chip era comparso sulla soglia dell'altro ufficio. Aveva un livido su una guancia e uno sulla fronte. «In effetti credo che se ne andrà immediatamente.» «Proprio ciò che avevamo in mente noi, Chip, ma tu vieni con noi. Stiamo andando a The Halls e abbiamo bisogno di qualcuno che ci faccia entrare. In qualità di unico mediatore che lavora per loro, sei in pole position. Puoi scegliere di venire con noi spontaneamente oppure di essere trascinato in strada per il collo.» «Non credo,» disse con un'espressione irritante sul volto. Sentimmo il suono di un campanello quando, alle nostre spalle, si aprì la
porta dell'agenzia. Mi voltai e vidi due poliziotti. Uno era alto e con i capelli neri, l'altro più piccolo e biondo. Fu quest'ultimo a parlare. «Buon giorno Mr. Hopkins,» disse. «Ci conosciamo?» «Abbiamo parlato al telefono.» «Non ricordo in quale circostanza.» «Lei chiamò la centrale e discutemmo della morte dei suoi genitori.» Percepivo, dietro di me, il fruscio della mano di Bobby che si muoveva all'interno della tasca della sua giacca. «Agente Spurling,» dissi. «È qui su mia richiesta,» disse Chip. «Ho visto lei e il suo amico seduti di fuori. Ho già riferito il modo in cui lei mi ha aggredito.» «Io la interpreto come una piccola divergenza di opinioni,» dissi. «Poi il tuo corpo è stato preso da una strana convulsione.» «Io non l'avevo interpretata così e nemmeno la polizia.» «Finiamola con le stronzate, Ward,» intervenne Bobby. Chip si girò verso le due donne che stavano osservando il battibecco come una coppia di gatte interessate. «Doreen? Julia? Andate per favore un attimo nell'ufficio sul retro.» «Noi siamo venuti per te, Chip,» dissi. «Non c'è bisogno che qualcun altro si muova.» «Ora,» disse Chip rivolgendo uno sguardo severo alle due donne. Si alzarono e sfilarono davanti a lui per andare nell'altra stanza. Lui richiuse la porta alle loro spalle. «Sarebbe molto meglio se lei venisse con noi alla centrale,» disse Spurling. Il suo modo di fare era tranquillo e molto ragionevole. «Non so se ne è a conoscenza, ma ci sono stati dei danni alla casa dei suoi genitori e l'incendio scoppiato in un hotel poco lontano sembra essere in qualche modo collegato. Io e l'agente McGregor potremmo esserle d'aiuto.» «Vede, il fatto è,» dissi, «che non sono sicuro di crederci.» «Il suo partner ha qualche problema?» chiese Bobby a Spurling. «Mi sembra che non parli granché, vero?» Il secondo poliziotto fissò Bobby, ma non disse una parola. Fu allora che cominciai a innervosirmi. Se un tizio guarda a lungo Bobby negli occhi senza mostrare almeno rispetto, allora o è stupido o estremamente pericoloso. «Si chiama suddivisione dei compiti,» dissi, sperando che quella situazione fosse recuperabile. «Forse McGregor è un mago nell'archiviare gli
schedari.» «Sei uno stronzo, Hopkins,» disse Chip. «Evidentemente è genetico.» Spurling lo ignorò. «Mr. Hopkins... ha intenzione di venire con me?» «No,» rispose Bobby. Chip sorrise e McGregor tirò fuori la pistola. «Ehi, calma,» dissi, ora molto nervoso. L'agente Spurling sembrò più sorpreso di me. Fissò l'arma impugnata dal suo compagno. «Uh, George...» disse. Ma proprio in quell'attimo McGregor cominciò a sparare. Noi eravamo già in azione nel momento in cui il volto di Chip si raggrinziva nel suo piccolo ghigno compiaciuto, ma fummo comunque lenti. Non c'era un posto nell'ufficio dove rifugiarsi. Nascondersi non sarebbe servito a nulla. Bobby estrasse la pistola e sparò a McGregor. Il poliziotto si beccò dei proiettili nella gamba e nello stomaco, ma il secondo colpo non produsse il rumore che avrebbe dovuto, così mi accorsi che stava indossando il giubbotto in Kevlar. L'impatto fu sufficiente a scaraventarlo contro la scrivania alle sue spalle, ma fu presto in grado di rialzarsi. Durante tutto questo tempo, Spurling rimase immobile a bocca aperta. Io mi lanciai a terra in una capriola e il proiettile di McGregor mi passò a meno di mezzo metro di distanza. Mi tirai su dietro la scrivania di Doreen e risposi al fuoco colpendolo a una spalla. Qualcosa sibilò proprio dietro la mia testa e mi accorsi che anche Chip impugnava una piccola pistola. In realtà non ricordo molto altro oltre questo se non che svuotai il caricatore contro qualsiasi cosa mi si presentasse davanti. Se sei coinvolto in una sparatoria in campo aperto forse hai il tempo di valutare, notare da dove provengono i colpi, pensare. Se ti trovi in uno spazio limitato con due persone che ti stanno sparando e perdi tempo a pensare, non riuscirai mai a portare a termine il pensiero. La sparatoria cessò dieci secondi dopo. A quel punto io ero bloccato dietro la scrivania di Julia con un dolore pungente alla guancia e alla fronte dove ero stato colpito da qualcosa di tagliente. Non penso fosse un proiettile, ma qualcosa che era esploso dopo essere stato colpito. Fui molto sorpreso di non essere ferito più gravemente. Il cervello di Chip era sparpagliato sul muro di fondo. McGregor era sparito e la porta dell'agenzia era aperta. Spurling era stato colpito e si era accasciato su una scrivania. Si muoveva ancora, ma con difficoltà, e la sua testa era ancora dove doveva essere. Lo lasciai stare.
Bobby era appoggiato di schiena contro il muro vicino alla porta, con una mano si stringeva il braccio e il sangue fluiva in mezzo alle dita. Corsi a sorreggerlo. Ci lanciammo fuori sul marciapiede, attraversammo la strada barcollando, aprii la portiera dal suo lato e lo spinsi dentro. Una coppia di passanti con indumenti da sci arancione chiaro guardavano a bocca aperta un po' noi e un po' le vetrine in frantumi dell'agenzia immobiliare. «Dev'essere un film,» disse uno dei due. «Sarà così.» «Sto bene,» mormorò Bobby mentre io salivo dal lato del guidatore e accendevo il motore. Pestai sull'acceleratore e ci lanciammo a tutta velocità lungo la strada. «Sto bene.» «Ti hanno sparato, coglione.» «Vai piano.» Davanti a noi c'era uno stop e il traffico contro cui combattere. Staccai il piede dal pedale e per caso riuscii a infilarmi in uno spazio vuoto, nella corsia più lontana. «Dove stai andando?» «In ospedale, Bobby.» «Non ci possiamo andare,» disse. «Non dopo tutto quello che è accaduto.» «Spurling ci appoggerà.» «Tutto quello che lui sa è che c'è stata una sparatoria. Entrambi sono stati colpiti e un civile è morto.» «Lui sa che è stato McGregor a iniziare, e io posso dirigermi verso l'autostrada e trovare il più vicino ospedale fuori città.» «Dove dovranno comunque fare rapporto, e noi saremo sempre quelli che hanno sparato a due poliziotti.» «Bobby, sei tu a essere stato colpito, non vorrei dovertelo spiegare di nuovo.» Mentre proseguivamo a ovest, facendo lo slalom tra le file di automobili, lui tolse cautamente la mano dal braccio. Guardai e vidi che fuoriusciva del sangue, ma non quanto mi aspettassi. Facendo una smorfia, lui sollevò il tessuto intorno al foro e scrutò cosa ci fosse sotto. «Manca un bel pezzo,» ammise. «Non è il massimo, ma sopravvivrò, e poi abbiamo una necessità più urgente che un consulto medico.» «E sarebbe?» «Armi,» disse, lasciandosi cadere indietro sul sedile. «Armi maledettamente potenti.» Bobby rimase in macchina mentre io entrai nel negozio. Pioveva forte e
le nuvole stavano diventando più scure. Prima di aprire la portiera mi fermai un attimo per darmi una rassettata. Molti commercianti amano dare l'impressione di vendere oggetti che solo teoricamente sono armi, e non è opportuno entrare in un negozio del genere dando l'impressione di volerne usare una immediatamente. L'interno era una stanza stretta e lunga. C'era un bancone a vetri che esponeva le pistole come fossero gioielli, e sul muro dietro di esso c'erano delle rastrelliere piene di fucili. Non si vedevano clienti né schermo di protezione rinforzato, c'era solo un tizio grasso, con i capelli bianchi e in abito blu, in attesa di fare affari. «Posso aiutarla?» L'uomo appoggiò due grandi mani sul bancone. Sul muro alle sue spalle c'erano due poster che mostravano le facce di terroristi mediorientali ben noti. La didascalia riportava «Ricercati morti». «O vivi» era stato cancellato. «Vorrei comprare delle armi,» dissi. «Qui vendiamo solo yogurt surgelato. Devo decidermi a tirare giù quella dannata insegna.» Io risi di cuore e lo fece anche lui. Era tutto molto tranquillo e ci stavamo divertendo. «Allora. Che genere di armi stava cercando?» «Due fucili da ottocento giri al minuto, quaranta caricatori calibro .45 soft, non mi interessa di che tipo, i più economici. Due giubbotti antiproiettile costosi, uno taglia large e l'altro media.» «Wow,» disse sempre sorridente. «Si sta preparando per qualche guerra?» «No. Ma abbiamo un maledetto problema con dei roditori.» Il suo sorriso scomparve e mi accorsi improvvisamente che stava fissando la mia guancia. Vi passai la mano e me la ritrovai macchiata da una piccola striscia di sangue. «Come vede, stiamo perdendo il controllo della situazione.» Tirai fuori la carta Gold American Express e lui tornò a sorridere. Fece a mano la somma dei prezzi, facendomi uno sconto sulle munizioni. Se si compra all'ingrosso il costo unitario di ottocento potenziali cadaveri è veramente molto ragionevole. Mi disse il totale e io gli feci segno con la mano, ansioso che la facesse finita. Guardai fuori dalla vetrina verso Bobby. Si era tolto la giacca e stava fasciando la ferita con una benda che avevo preso, assieme a spille e garza, in un negozio di forniture veterinarie che avevamo incontrato in cit-
tà. Faceva un sacco di smorfie. Mi voltai giusto in tempo. «Non lo faccia,» dissi, estraendo la pistola, e puntandola al petto del tizio. Rimase immobile, gli occhi fissi su di me, con la mano a pochi centimetri dal telefono. «Mi lasci indovinare. Un paio di giorni fa un poliziotto è venuto qui e le ha detto di non vendere niente a qualcuno che si chiami Ward Hopkins?» «Giusto.» «Ma lei lo farà lo stesso, vero?» «Nossignore. Non lo farò.» Mi avvicinai di un passo e alzai la pistola in modo da puntargliela alla testa. Mi sentivo esausto e spaventato. Lui scosse la testa e si allungò di nuovo verso il telefono. «Non le venderò niente.» Il telefono era un modello old-fashioned, e produsse un suono fantastico quando il proiettile vi penetrò. L'uomo si allontanò molto scosso. «Sì che lo farà,» dissi in tono esplicativo. «Altrimenti le sparerò e prenderò ciò che mi serve, e lei non è nella condizione di lamentarsi perché la pistola che sto impugnando fu comprata proprio in questo negozio. E lo sa perché? Perché il negozio esiste per questo.» L'uomo rimase immobile, per un attimo, indeciso in quale direzione scappare. Io speravo veramente, sinceramente che facesse quello che chiedevo perché non intendevo sparargli e lui forse lo sapeva. Poi ci fu un lampo nei suoi occhi. Io mi voltai e vidi un ragazzo che si dirigeva verso il negozio. Stava portando un sacchetto di panini e indossava la stessa maglietta del grassone. Imprecai, balzai in avanti e afferrai più scatole di cartucce possibile. «Lei non mi ha aiutato per niente,» sbottai e corsi fuori dal negozio travolgendo il ragazzo e mandandolo a gambe all'aria dentro una pozzanghera. Saltai in macchina, buttando le scatole di cartucce in grembo a Bobby. «Non è andata bene.» «È quello che sembra anche a me,» disse Bobby mentre osservava il grassone uscire dal negozio con in mano un grosso fucile. Pestai il piede sull'acceleratore e mi allontanai dall'edificio a marcia indietro, mentre il primo colpo passava alto sopra la macchina. Il ragazzo rientrò di corsa nel negozio, spingendo da un lato l'altro tizio. Frenai bruscamente e girai la macchina in derapata, lanciandola poi di nuovo lungo la strada mentre un proiettile faceva esplodere uno dei finestrini posteriori.
«Il tizio del negozio aveva il mio nome su una lista.» Curvai bruscamente a destra. Non mi stavo dirigendo da nessuna parte in particolare, ma stavamo semplicemente uscendo dal centro città. «Almeno è stato risolto un dubbio, cioè come hanno fatto gli Uomini di paglia ad arrivare alla casa dei miei genitori così velocemente quando, l'altra volta, ho maltrattato Chip. Non dovettero venire affatto. C'era già McGregor qui in città.» «I conti tornano.» «C'è un'altra cosa che torna: McGregor e Spurling si recarono sulla scena dell'incidente dei miei genitori, salvo che forse McGregor arrivò sul posto un po' prima.» «E ora sarà rientrato al dipartimento di Dyersburg col sangue gocciolante sul pavimento, e canticchiando i nostri nomi. Siamo veramente spacciati, Ward... fottuti in pieno. Che cosa facciamo?» C'era solo una persona in città che pensavo avesse qualche possibilità di aiutarmi. Feci il suo nome. «Buona idea,» annuì Bobby, facendo una smorfia mentre si risistemava sul sedile. «Da come stanno andando le cose, un avvocato potrà tornarci utile.» Stando a quanto diceva il biglietto da visita che mi aveva dato al funerale, l'abitazione di Harold Davids si trovava proprio all'altro capo della città. A differenza della zona dove avevano vissuto i miei genitori, con le sue colline e i tornanti, qui le case erano disposte secondo un reticolo regolare - che, nonostante questo, prevedeva grandi piazze sulle quali si affacciavano case dall'aspetto gradevole. Nell'accostare, notammo che la luce della veranda era accesa, come lo era un'altra all'interno. Una macchina, che assomigliava a quella dentro la quale avevo visto Davids, era parcheggiata un po' più in là lungo la strada. Rimanemmo seduti per un attimo per assicurarci che non ci stessero seguendo, e poi uscimmo dall'auto. Suonai il campanello. Naturalmente, non ci fu risposta. «Merda,» dissi. «E ora?» «Chiamalo,» disse Bobby, mentre osservava la strada. Io tirai fuori il cellulare e provai con il numero dell'ufficio. Poi provai con il numero dell'abitazione, per sincerarmi che, di sera, ignorasse il campanello o che fosse immerso in qualche show televisivo e non avesse sentito. Sentimmo almeno due apparecchi squillare in differenti piani della casa, ma dopo otto squilli si inserì una segreteria telefonica. Il nastro dava il numero dell'uffi-
cio, ma non si faceva menzione di un numero di cellulare. «Non possiamo stare qui così,» dissi. «In un quartiere come questo qualcuno chiamerà sicuramente la polizia.» Bobby ruotò la maniglia della porta. Era chiusa a chiave. Infilò la mano in tasca e tirò fuori un piccolo attrezzo. Fui sul punto di protestare, ma non lo feci, perché non avevamo altro posto dove andare. Aveva appena spinto l'attrezzo nella serratura quando improvvisamente sentimmo il rumore della porta che veniva aperta dall'interno. Entrambi balzammo all'indietro. La porta si aprì di dieci centimetri e attraverso la fessura divenne appena visibile il volto di Harold Davids. «Harold,» dissi. «Ward? Sei tu?» Aprì un po' di più la porta. Sembrava maledettamente nervoso. «Buon Dio,» disse. «Cosa gli è successo?» «Gli hanno sparato,» risposi. «Sparato,» disse, cauto. «E chi?» «Dei tipi cattivi,» dissi. «Senti, lo so che questo non è quello che intendevi quando hai detto che sarei dovuto venire a trovarti, ma siamo nei guai e non è rimasto nessun altro.» «Ward, io...» «Per favore,» dissi. «Se non per me, fallo per papà.» Mi guardò a lungo e severamente, poi si fece da parte e ci lasciò entrare. La casa di Davids era molto più piccola rispetto a quella dei miei genitori, ma anche solo l'ingresso sembrava contenere il triplo della roba. Stampe, oggetti di arte locale, libri sistemati su una piccola cassa di legno di quercia che sembrava essere stata realizzata appositamente. In sottofondo c'era il suono discreto di musica classica per solo pianoforte. Credo fosse Bach. «Proseguite diritto,» disse. «E fate attenzione al tappeto. State perdendo sangue tutti e due.» Le pareti del soggiorno erano coperte da riproduzioni, ma non ne riconobbi neanche una. L'illuminazione era scarsa, con solo un paio di lampade con piantana a proiettare le ombre. Niente televisione, ma un piccolo e, all'aspetto, costoso lettore CD dal quale proveniva la musica. C'era un pianoforte dall'aria antiquata, su cui erano appoggiate delle fotografie, alcune messe nelle cornici, altre semplicemente così. Un ricco tappeto dalle estremità un po' sfilacciate era sistemato davanti al divano. «Prendo un asciugamano,» disse Davids. Esitò per un attimo sulla soglia, e poi scomparve.
Durante la sua assenza, Bobby rimase fermo in mezzo alla stanza, tenendosi il braccio e assicurandosi che nulla cadesse sul pavimento. Io diedi un'occhiata intorno. Gli oggetti appartenenti ad altri ci risultano incomprensibili, specialmente quelli delle persone più vecchie. Mi ricordai di una volta in cui, d'impulso, comprai a mio padre una calcolatrice vecchio tipo come regalo di Natale. L'avevo vista in un negozio di antiquariato, e avevo pensato che fosse bella e che gli sarebbe potuta piacere. Quando la scartò mi fissò e poi mi ringraziò in un modo strano. Io gli dissi che non mi sembrava molto entusiasta di quanto aveva ricevuto. Senza dire niente lui mi condusse nel suo studio e aprì un cassetto. Lì, sepolta da uno strato di penne e graffette accumulate in diversi anni, c'era una vecchia calcolatrice, proprio dello stesso modello. La vita di Davids era per me una fiera dell'antiquariato. Quello che per me era retrò, per mio padre, un tempo, era stato ipermoderno. Quello che vi separa dalle persone cui volete bene sono decenni di tempo immutabile, come un vetro trasparente che, però, è spesso trenta centimetri, e difficile da rompere. Pensate di essere lì accanto a loro, ma quando provate a toccarli la vostra mano non riesce ad avvicinarsi. Davids rientrò con uno straccio che Bobby prese e si strinse intorno alla ferita. Poi Davids si sedette in una delle poltrone e fissò il pavimento. Appariva stanco e pallido, molto più vecchio di quando lo avevo incontrato. Una delle lampade era proprio accanto alla poltrona e incideva delle linee sulla sua fronte, mettendo in risalto le superfici del suo volto. «Mi devi raccontare cosa è successo, Ward. Ma non posso garantirti di poter fare qualcosa per aiutarti, io mi occupo di contratti, non di... sparatorie.» Si passò le mani tra i capelli e mi guardò, e fu allora che una piccola luce fioca si accese nella mia testa. Mi voltai, guardai sopra il pianoforte e poi di nuovo Davids. «Cosa stai fissando, Ward?» Aprii la bocca per dire qualcosa, ma non ci riuscii. «Cosa c'è? Cos'hai combinato?» La sua scelta delle parole, che sono sicuro fosse casuale, in qualche modo mi convinse, per il modo in cui facevano rima con «sei diventato». Alla fine riuscii a parlare. «Quando incontrasti i miei, esattamente?» «Nel 1995,» rispose prontamente. «L'anno in cui arrivarono.» «Non prima?»
«No. Come avrei potuto?» «Forse incontrandoli a qualche stage. In qualche modo. I cammini delle persone si incrociano misteriosamente, come se ci fosse qualcosa che accade senza che loro ne siano consapevoli.» Abbassò di nuovo lo sguardo verso il pavimento. «Ti comporti in modo strano, Ward.» «Da quanto tempo vivi a Dyersburg?» «Da sempre, dovresti saperlo.» «Quindi, il nome Lazy Ed non dovrebbe dirti nulla?» «No.» Non alzò lo sguardo, ma non ci fu esitazione, nessuna stonatura nella sua voce. «E se lo vuoi sapere, è un nome strano.» Adesso Bobby mi stava fissando. «È una cosa terribile,» dissi. «Non ho nemmeno mai saputo il suo cognome. Lo conoscevo solo come Lazy, il che non è un granché come epitaffio, ma penso che non importi molto adesso che è morto.» «Mi dispiace sentire che un tuo amico è morto, Ward, ma non riesco proprio a capire dove tu voglia andare a parare.» Presi una fotografia da sopra il pianoforte. Non era di gruppo. Ce n'erano solo un paio di questo genere, ed erano in bianco e nero, pallidi ricordi di persone morte da tempo, immobili di fronte a una tecnologia nella quale non credevano veramente. Quella che avevo in mano io era un'immagine informale a colori, scattata molto tempo fa da qualche amico, dall'effetto sbiadito in cui i rossi trattengono il loro ardore e i blu rimangono brillanti, ma tutto il resto sembra imprigionato in un'altra dimensione temporale, come se la luce riflessa da quelle superfici stesse svanendo, non più in grado di raggiungere il presente; come se quell'epoca si disfacesse poiché sopravvivevano sempre meno persone in grado di ricordare la sensazione del sole sui loro volti. Un uomo giovane in una foresta. «Metti quella sulla sodomia,» dissi, guardando un Harold di molti anni fa. «Mettila, Don, che gran Don di uomo Don, mettila Don, mettila.» «Piantala Ward.» Questa volta nella voce ci fu un leggero tremore. Bobby mi prese la foto. «Questa immagine dev'essere di qualche anno prima,» dissi. «Harold è più giovane e magro rispetto al video. Non si era ancora fatto crescere i capelli.» Mi rivolsi a Davids. «Dovevi essere, cosa... cinque, sei anni più vecchio di loro e di Ed, circa coetaneo di Mary. E ora sei l'unico rimasto ed è per questo che non hai risposto al telefono o quando abbiamo suonato il cam-
panello.» Davids mi fissava. Sembrava avesse cent'anni e che fosse molto spaventato. «Oh cazzo,» disse, e le parole vennero fuori come in un sospiro. Volevo afferrarlo e scuoterlo fino a che non avesse parlato, fino a che non mi avesse fatto capire che cosa era successo, fino a che non mi avesse dato qualche elemento per comprendere la mia vita. Ma come negli ultimi trent'anni il suo corpo aveva preso una quarantina di chili, cosi in venti secondi la sua faccia aveva preso tutto quello che in precedenza avevo visto in lui, l'aspetto che acquisisci dopo una vita passata a dire alla gente quale sia la loro posizione di fronte alla legge. Sembrava magro, debole e ancora più spaventato di quanto lo fossi io. «Parla,» fu tutto ciò che dissi. Alla fine fu veloce, e non dovetti aspettare molto. Mi disse che molto tempo fa c'era un gruppo di cinque amici. 32 Harold, Mary e Ed erano nati a Hunter's Rock ed erano cresciuti insieme. Avevano condotto la vita tipica di una piccola cittadina, e ci sono cose peggiori di questa, ma poi un giorno gli era capitato di incontrare in un bar due nuovi arrivati e da quel momento i cinque erano rimasti sempre uniti. I miei genitori erano già sposati, ma scoprirono presto di non poter avere figli. A poco a poco capirono che non era la fine del mondo. L'uno incoraggiava l'altra, e si godevano la vita come amici e come amanti. C'erano molte cose da fare e da scoprire: gli anni non sarebbero passati lentamente né sarebbero stati a tutti i costi infelici solo perché la sera, chiudendo la porta alle loro spalle, sarebbero sempre stati solo in due nel loro rifugio. Continuarono a vivere normalmente e tentarono di accettare le carte che erano toccate loro. Trascorsero un paio d'anni tra lavoro, dormite, venerdì sera e lunghe partite a biliardo nelle quali nessuno perdeva. Poi le cose cambiarono e cominciarono a capire che trasmettere il patrimonio genetico non è il solo modo di lasciare il tuo segno nell'universo. Improvvisamente cominciò un'epoca che credo di non avere mai compreso veramente. In una tabula rasa culturale comparvero montagne e burroni, spaccando il terreno sul quale la gente camminava. Manifestazioni per le strade, sit-in nei campus, studenti e docenti per la prima volta insieme. Scontri nei ristoranti che non permettevano a quelli di colore di mangiare
allo stesso tavolo degli altri. La polizia che sparava sui cittadini, i bambini che si ribellavano ai genitori. Marce, urla dei simpatizzanti dei neri, dei fascisti, dei finocchi, dei rossi, ideali trasformati in armi. Lunghe serate passate in casa della gente a sbronzarsi, a parlare di cosa si dovesse fare, di nuovi modi di essere, a parlare, parlare e parlare. Loro erano più adulti della maggior parte degli attivisti. Avevano il tempo e le energie da dedicare - e avevano una prospettiva migliore degli adolescenti o delle vittime delle oppressioni. Philippa Hopkins fu coinvolta nell'organizzazione di un sindacato delle lavoratrici domestiche di colore. Harold dava consulti legali gratis a coloro che non se lo potevano permettere o il cui colore della pelle aveva sempre significato essere colpiti dall'estremità acuminata del bastone della giustizia. Don Hopkins mise su una campagna di protesta per impedire che interi quartieri fossero demoliti per fare spazio a quelle tangenziali che furono il primo passo verso la città americana post-moderna, dove gli indesiderati sono segregati fuori dal centro da fiumi a sei corsie di metallo sfrecciante, e la disuguaglianza è gelosamente racchiusa nel paesaggio. Mary e Ed erano dei semplici seguaci, ma davano una mano ogni volta che potevano, o che Ed era sobrio. Mary amava Harold e Ed desiderava qualcuno da corteggiare. Avevano mantenuto il loro lavoro, e vi partecipavano nel tempo libero, guerrieri maturi, gente che a questo punto aveva già superato la terribile soglia dei trenta, e perciò era in grado di mitigare l'entusiasmo con la consapevolezza di cosa fosse importante: concentrarsi su attività che potevano realmente aiutare le persone, piuttosto che abbandonarsi a qualche brivido caldo e all'opportunità di scopare qualche altra giovane creatura eccitata dall'adrenalina della protesta. Per due anni sventolarono pugni e striscioni, donarono il loro tempo, il denaro e il cuore. Poche cose cambiarono, la maggior parte rimase immutata. Lo status quo era tenace. Le chitarre a tutto volume e l'amore libero non potevano ottenere tutto. Gradualmente il sapore dei tempi si inasprì, mentre le stesse vecchie forze ribollirono per un altro anno. Harold fu il primo ad accorgersi di cosa stesse succedendo. Si rese conto che le persone che gli chiedevano un consulto legale, veterani di pomeriggi afosi passati a insultare i poliziotti, erano in uno stato sempre peggiore quando si presentavano alla sua porta, che con il passare dei mesi la resistenza pacifica stava generando ancora più ferite e che i lividi e le cicatrici che lui vedeva non erano tutta responsabilità della polizia. Che in mezzo alla gente meravigliosa c'erano diverse fazioni, e che i contrasti interni stavano diventando
più energici e violenti di quelli con le autorità. Che c'erano gruppi i cui scopi sembravano molto più semplici e retrogradi del progresso, e la cui agenda non prevedeva alcuna azione, ma solo le tenebre della violenza. All'inizio gli altri erano stati di parere diverso. Era semplicemente un sogno che svaniva, una tendenza che Don aveva previsto molto tempo prima. Le divisioni naturali stavano riaffiorando, questo era tutto - alimentate dalla frustrante presa di coscienza che la Repubblica Popolare d'America era lontana come non mai. Ma poi cominciarono le uccisioni, le manifestazioni nelle quali sia i poliziotti sia gli studenti venivano trovati al suolo con bottiglie di vetro conficcate in faccia, le guerriglie urbane che apparentemente saltavano fuori dal nulla, i concerti rock dove scoppiava una zuffa e quando la folla si disperdeva venivano ritrovati dei cadaveri e una pistola, le esplosioni che toglievano la vita di spettatori innocenti senza che una rivendicazione legittima facesse il minimo passo avanti. Alcuni di questi episodi erano compiuti da persone che pensavano di fare la cosa giusta, che la lotta armata fosse l'unica strada per ottenere qualcosa. Ma gli incidenti peggiori erano opera di individui che avevano tutt'altro proposito. Quelli con la dinamite e le pistole erano più organizzati dei combattenti per la libertà, e davano la caccia sia a questi ultimi che alla loro causa. Nel nido fiorito c'era un cuculo che si sfregava le ali e si preparava a volare. A quel punto molta gente si tirò indietro. L'Estate dell'Amore si stava già dissolvendo nell'Autunno dell'Apatia, e le droghe avevano lasciato molti sul selciato. Ed volle uscirne e così fece anche Mary. Loro, dopotutto, lo avevano fatto solo per esaltazione, per fare qualcosa con i loro amici. La politica come vita sociale, gli slogan come un accessorio di moda. Persino Harold vacillò, lui era un avvocato e la sua anima anelava l'ordine. «Ma Pip e Don,» disse con voce secca e tranquilla, «non riuscirono a lasciar perdere.» Fecero domande, rintracciarono le origini dei contrasti. Rintracciarono gli stampatori di alcuni volantini razzisti e i loro autori, e scoprirono che gli errori grammaticali e quella punta di follia erano spesso artefatti. Cercarono l'amico di un amico di un amico, colui che alcune persone credevano potesse forse aver portato la pistola alla manifestazione o aver rotto la prima bottiglia, o che potesse fare in modo di presentarti alle persone che stavano veramente facendo qualcosa, non semplicemente parlando. Loro cercarono e cominciarono a trovare. Poi iniziarono le minacce. Due dei loro amici furono trovati nel cofano di una macchina picchiati selvaggiamente. Un altro sparì un pomeriggio e
non ricomparve mai più. Lo stesso Harold si ritrovò senza lavoro, una dimostrazione che queste persone erano di gran lunga meglio introdotte degli studenti e degli hippy di cui stavano boicottando la protesta. Infine, una notte, mia madre fu seguita, rapita, condotta in un posto fuori mano e tenuta in una macchina sotto la minaccia di un coltello, mentre qualcuno di cui non riuscì a vedere la faccia le spiegava che se non avessero smesso di ficcare il naso le loro prossime abitazioni sarebbero state profonde, eterne e poste in una foresta dove nessuno si avventurava. Fu violentata da quattro uomini prima di essere scaraventata fuori dall'auto ai margini della città, nuda e con i capelli rasati. Da quel momento mio padre non fu più lo stesso. Si mise sulle loro tracce. Per quattro mesi lui e mia madre si lasciarono alle spalle il mondo intero, immergendosi più profondamente nell'abisso fino a quando nel suo centro non trovarono la candela che diffondeva la luce. Gli altri non seppero mai i dettagli di ciò che accadde durante quel periodo, ma videro che i miei genitori erano cambiati. Si incontravano ancora con gli Hopkins, ma ora che non stavano più combattendo la battaglia giusta non sembrava esserci molto a tenere unito il gruppo. Don cominciò a parlare di cose strane. Gli altri tre non gli diedero ascolto, non subito. Assomigliavano troppo alle farneticazioni di una coppia il cui controllo sulla realtà non era più affidabile. E poi, una notte, loro due erano entrati nel bar dove di solito si incontravano. Mary, dopo un litigio con Harold, era ubriaca e non gli rivolse la parola. Mio padre aveva preso Harold da parte e gli aveva parlato con urgenza. All'inizio Harold era stato riluttante ma poi i tre se ne erano andati assieme, lasciando Mary al bar con Lazy Ed. Questi due fecero quanto era ovvio: ci rimasero di merda, poi andarono nel bosco e finirono a letto insieme. Proprio allo Stagno Perduto. Harold e Mary smisero di vivere assieme poco tempo dopo. Gli altri tre avevano guidato per quattro ore diretti in un posto tra le colline nel sud dell'Oregon. Erano armati e arrivarono sul posto senza fare rumore. Mia madre e mio padre, a questo punto, avevano perso la loro obiettività, benché potessero pensare di averla finalmente guadagnata - di avere imparato la dura lezione che quando si tratta della lotta tra persone che credono nella vita e altre che credono nella morte, la battaglia deve essere combattuta secondo le regole di queste ultime. L'accampamento era in una radura a meno di un chilometro dalla strada, nel profondo della foresta. Un agglomerato di capanne, costruite a mano e
disposte in circolo, come si usava un tempo. Dopo che mia madre ebbe guardato ogni uomo e confermato che erano stati coinvolti nel rapimento, i tre si mossero rapidamente e spararono a tutti quelli che trovarono. Nel salotto di Harold scese un silenzio assoluto. «Andaste dentro e sparaste a tutti? I miei genitori spararono a delle persone?» «Non alle donne e ai bambini,» disse Davids. «E non mirammo per uccidere. Ma sparammo agli uomini, a ognuno di loro, alle gambe, alle spalle o ai testicoli, a seconda.» «Non li biasimo,» dissi. Non sapevo se lo intendessi veramente oppure no. Probabilmente sì. «Se quello che dici è vero, allora non rimprovero nessuno dei due per quello che ha fatto.» «Oh è tutto vero,» disse. «Io c'ero. L'ultimo uomo che trovammo era quello che aveva puntato il coltello alla gola di tua madre. Allora non ce ne rendemmo conto, ma quello non era un semplice gruppo di razzisti a se stante. Erano in circolazione da sempre. I tuoi genitori trovarono l'uomo seduto da solo nella sua capanna e tuo padre, il grande Don Hopkins, giovane agente immobiliare, gli puntò la pistola in faccia e lo fece secco.» Cercai di immaginarmi quella notte, per vedere mio padre in quella situazione, e mi accorsi di non averlo mai conosciuto veramente. Sentii come se tutte queste informazioni mi traboccassero dagli occhi. «Poi udirono un rumore nell'altra stanza della capanna e Pip andò a vedere. La moglie dell'uomo se n'era andata o lui l'aveva uccisa. A ogni modo, lei aveva abbandonato i figli, due gemelli, di meno di sei mesi, avvolti insieme in un panno e ora orfani. Due bambini piccoli, esattamente quello che Pip più desiderava e che non poteva avere.» Davids scosse la testa. «Questo, almeno, è quello che mi dissero, io in quella fase non fui presente. Forse si accorsero prima dei bambini. Forse Pip vide i piccoli e tuo padre pensò di aver trovato una strada per compensare quello che le era stato fatto. Forse decisero che un colpo mortale gli fosse concesso.» «I miei genitori non erano dei bugiardi,» dissi. «Quindi tu sapevi tutto questo, vero?» «Non erano bugiardi,» ripetei, inutilmente. «E queste sono tutte stronzate.» «Cosa ne è stato dei bambini?» chiese Bobby. «Li portammo indietro a Hunter's Rock. Don e Pip li allevarono per un po'. Ma alla fine fu deciso che dovessero essere separati. Pip fu molto,
molto triste all'idea e così anche tuo padre, ma noi altri decidemmo semplicemente che non fosse sicuro. I bambini non furono l'unica cosa sottratta dalla capanna dell'uomo. Trovammo un mucchio di carte e libri, alcuni vecchissimi. C'erano le prove che i tuoi genitori avevano visto giusto. Pip e Don pensavano che sarebbero stati in grado di modificare il tuo modo di essere, che l'ambiente fosse più importante. Era molto forte, a quei tempi, quella teoria. Ora non è così diffusa, naturalmente, non con tutto quel chiasso sul DNA e roba del genere. Oggi si pensa che i composti chimici spieghino tutto.» «I bambini furono separati,» disse Bobby. «Ne tennero uno e l'altro fu portato lontano. Erano dell'idea che i bambini potessero avere più possibilità di crescere sani se non fossero stati in grado di consolidare l'uno con l'altro la loro indole. O forse era solo un piccolo esperimento, Ward, inventato da tuo padre. Educazione contro natura. Non l'ho mai capito.» «Contro quale natura, Harold? Se quello che dici è vero e tutto ciò è avvenuto, perché il grande timore riguardo l'indole dei bambini?» «Beh,» disse. «A causa dei tuoi cromosomi, naturalmente. Perché eravate così non virali, così puri.» «Gesù Cristo,» urlai, «non crederai a quelle stronzate, vero? Non penserai veramente...» mi interruppi, folgorato. «Aspetta un attimo. Questo ha a che fare con la teoria del Virus?» «Naturalmente. Ma come fai a saperlo?» «Abbiamo trovato il sito web degli Uomini di paglia.» «Ma come facevi a sapere addirittura di loro?» «Papà ha lasciato un video,» dissi. «L'avevo appena trovato quando tu entrasti in casa quella volta. C'eravate tutti voi lì sopra, anche se non me ne accorsi subito. Mi ha lasciato anche un biglietto, che diceva che non erano morti.» Davids scrollò la testa e sorrise leggermente. «Don,» disse. «Pianificava sempre in anticipo.» Il suo sorriso era affettuoso, ma non solo. «Ma se tutto questo accadde a Hunter's Rock,» disse Bobby, «come mai veniste tutti qui?» «Rimanemmo insieme per qualche anno ancora. Passammo qualche bella serata, ma non era più la stessa cosa. Dopo un po', me ne andai. Venni a Dyersburg per ricominciare. Mary mi raggiunse qualche anno dopo, ma tra di noi non funzionò. Comunque, rimase in città. Per molto tempo non avemmo nessun contatto con gli altri. In parte, si era pensato che fosse me-
glio così. Inoltre, beh... avevamo compiuto alcune cose veramente orribili. In quella notte ci era sembrata la cosa giusta da fare. Penso fummo assaliti dalla frustrazione che nulla al mondo fosse cambiato, nonostante tutto quello che avevamo fatto, e che eravamo ancora in balia di individui come quelli. Ma in seguito quell'avvenimento divenne qualcosa che alcuni di noi preferivano non ricordare. Per Mary e Ed non fu terribile, non erano stati lì veramente, ma erano nostri amici e così parte della responsabilità ricadde anche su di loro. Ne erano a conoscenza e mantennero il segreto assieme a noi.» «Mio padre e Ed si incontrarono per caso,» dissi. «Molto tempo fa. Io ero là, ma fecero finta di non essersi mai conosciuti.» «Non mi sorprende,» disse Davids. «Non penso che tuo padre credesse veramente che Ed avrebbe mantenuto il silenzio. Sebbene lo fece.» «Sapevi che era morto?» «No, non prima che me lo dicessi tu,» disse. «Sapevo di Mary, ma non pensavo sarebbero tornati là per lui, non aveva nemmeno partecipato.» Fuori passò una macchina e la testa di Davids girò come se fosse collegata a essa con un filo. Attese fino a quando il rumore non scomparve. Non avevo mai visto un uomo così sicuro che qualcosa di terribile dovesse bussare alla sua porta. «Se dovevate rimanere separati, come mai i miei genitori si trasferirono qui?» «Dopo oltre vent'anni senza che accadesse nulla, senza che nessuno ci venisse a cercare, penso che Don abbia cominciato a credere che fosse finita. Mi fece visita un paio di volte e giocammo un po' a biliardo, parlammo dei vecchi tempi. Prima di quella notte terribile. Quanto ci eravamo divertiti. Il periodo durante il quale sentivamo che avremmo cambiato il mondo. All'inizio fu strano, ma poi fu come se i decenni successivi non fossero mai esistiti. Lui portò tua madre qui e alla fine decisero di trasferirsi, di riunire la vecchia gang, di tornare giovani.» «Allora come mai non mi hanno mai detto che vi conoscevate da prima?» «Perché...» Davids sospirò. «Perché la costruzione di The Halls iniziò proprio prima che i tuoi si trasferissero qui, e Don ne venne a conoscenza. Si mise in contatto, gli stette addosso. Voleva l'affare e l'ottenne. Ma dopo un po' cominciò a pensare che ci fosse qualcosa di strano. In seguito a ciò decise fosse meglio ricominciare a fingere. Non era realmente invecchiato, Don, non come noi altri. Penso valesse anche per tua madre. Per la mag-
gior parte di noi arriva un momento in cui si è pronti a lasciare che le cose sedimentino, ma non per Don. Gli mettevi davanti un segreto e lui doveva scoprire cosa fosse, doveva capire.» Annuii, era vero. «Quindi cosa accadde?» «Cominciò a ficcare il naso in giro, cercò di scoprire chi ci fosse dietro quel complesso abitativo, cosa facessero. Era convinto si trattasse delle stesse persone nelle quali si era imbattuto anni prima, nell'Oregon. Che facessero parte di qualche movimento mondiale, qualche organizzazione clandestina, che si muoveva dietro le quinte.» Scosse la testa. «Non la pensavi allo stesso modo?» «Non so cosa pensassi. Volevo semplicemente che lasciasse perdere. Alcune persone danno troppa importanza alla verità, Ward. A volte la verità non è ciò che vorresti sapere. A volte è meglio che rimanga nascosta.» «E quelli lo scoprirono.» «Capirono che qualcuno stava ficcando il naso. Non poterono risalire direttamente a lui, ma il numero di persone tra cui cercare era limitatissimo. Le cose cominciarono a farsi più dure per Don, piccoli inconvenienti. Penso abbiano qualcuno in città che lavora per loro.» «È così,» dissi. «È l'uomo che ha sparato a Bobby, è un poliziotto.» «Oh, Cristo,» disse Davids. «Dimmi che è morto.» «Cosa è accaduto ai miei genitori, Harold? Cosa accadde quella notte?» «Don decise che era meglio andarsene, sparire. Non era il tipo di storia che avrebbe potuto raccontare a chiunque e anche se gli avessero creduto, avrebbe dovuto confessare un omicidio. Ma immagino avesse anche pensato di potersi accordare con loro per il meglio. Non so come diavolo pensasse di poterlo fare. Sommando le età di noi quattro messi insieme arrivavamo a circa duecentocinquanta anni. Ma... avremmo inscenato la loro morte, facendo sembrare che fossero usciti di scena. Avremmo lasciato che gli Uomini di paglia credessero che fosse tutto finito. Era tutto organizzato.» Il mio cuore ebbe un sussulto al ricordo del messaggio lasciato nella sedia di mio padre e alla consapevolezza che poteva aver liquidato UnRealty per far credere agli Uomini di paglia che fosse finita, per poi tornare indietro e regolare i conti con loro in qualche modo. L'aveva fatto per proteggermi, non l'aveva fatto perché non aveva fiducia in me e non voleva dire che... Davids vide la mia espressione e scosse la testa. «Sono arrivati prima loro,» disse. «Due giorni prima che portassimo a
compimento il tutto. Alla domenica sarebbero andati in macchina fino a Lake Ely per fare un giro in barca nel pomeriggio. Avrebbero avuto un incidente e i corpi non sarebbero mai stati ritrovati. Poi al venerdì... beh, sai cosa è successo. Sono morti, Ward. Mi dispiace. Non avrebbero dovuto esserlo, ma lo sono veramente e presto, probabilmente stanotte, lo sarò anch'io. E allora sarà tutto finito.» «Vaffanculo,» disse Bobby. «Vaffanculo.» Si tolse la fasciatura dal braccio. Era tutta sporca di sangue, ma dal buco nella camicia non ne fuoriusciva più. «Sono pronto. Andiamo lassù e cominciamo a fargli il culo.» Davids scosse semplicemente la testa. Sembrava nervoso. «Faremmo meglio a stare qui.» «Con tutto il rispetto, signore, ma non credo,» disse Bobby. «Negli ultimi due giorni abbiamo assistito a una concertata eliminazione della sua vecchia truppa. Se erano a conoscenza di Lazy Ed, allora è fottutamente sicuro che sanno di lei.» Avevo una percezione indistinta di entrambi, stavo cercando di assimilare quanto mi era stato detto, tentando di rimettere in fila tutto quanto pensavo di sapere della mia famiglia, di me stesso. Davids mi guardò. «È tutto vero,» disse. «E lo posso provare. Datemi un minuto e lo farò.» Si alzò e lasciò la stanza. «Queste sono stronzate belle e buone,» disse Bobby quando Davids non poteva più sentire. «Tu ci credi?» «Perché no?» dissi, sebbene non sapessi cosa pensare. «I conti tornano, più o meno. E perché dovrebbe mentire? È senza dubbio il tizio che compare nel video, quindi li conosceva fin da allora. Sappiamo che io non sono nato a Hunter's Rock. E non ce lo vedo Davids a inventarsi tutto così su due piedi.» Sentii provenire da fuori il rumore di un'altra macchina che passava, ma non accadde nulla. Fissai il muro fino a quando non cominciò a scintillare davanti ai miei occhi. «Mia madre mi chiamò, circa una settimana prima dell'incidente.» «Lasciò intendere qualcosa di tutto questo?» «Non le parlai. Lasciò un messaggio e io non mi risolsi a richiamare. Ma di solito non era lei a chiamare. Se erano insieme, era mio padre a farlo, e in genere aspettavano che mi mettessi io in contatto.» «Quindi pensi...» «Non so cosa pensare, Bobby, ed è troppo tardi per scoprirlo.»
«Allora cosa facciamo adesso?» «Non lo so.» Bobby si alzò. «Andrò a vedere se riesco a scovare del caffè. Questo bastardo di braccio mi fa un male cane.» Ascoltai il rumore dei suoi passi che si allontanavano nel corridoio. Una qualche parte di me, spontaneamente e contro ogni evidenza, aveva nutrito la speranza che tutto questo, a cominciare dalla telefonata di Mary quando mi trovavo seduto su una terrazza a Santa Barbara, fosse stato uno sbaglio. Fosse stato un errore. Questa parte di me aveva creato il sogno alla piscina, aveva tentato di convincermi che ci fosse qualcosa per cui affrettarsi, che ci fossero ancora persone da salvare. Ora sapevo che non era vero, che non c'era spazio per un ultimo tentativo. Mio padre aveva un piano, naturalmente, come sempre, ma il messaggio che avevo trovato era tutto ciò che ne rimaneva. Il mio cellulare squillò, spaventandomi a morte. Il numero sul display non mi era familiare. «Chi parla?» «Nina Baynam. Tutto bene? Hai una voce strana.» «Un po'. Cosa vuoi?» Mi sentivo intontito e non in vena di parlare di serial killer o qualcos'altro. «Siamo a Dyersburg. Dove siete?» «34 North Batten Drive,» dissi. Ci fu una pausa prima che replicasse. «Puoi ripetere?» La sua voce era strana. «Mi è sembrato dicessi 34 North Batten Drive.» «Esatto.» «Quello è l'indirizzo di un uomo che si chiama Harold Davids,» disse. Il mio cuore raddoppiò il suo battito. «Come diavolo fai a saperlo?» «Rimanete lì,» disse. «Fate attenzione. Noi stiamo arrivando.» La comunicazione si interruppe. Mi voltai verso la porta quando sentii Bobby che ritornava, ma la sua faccia mi lasciò senza parole. «Davids non c'è,» disse. «Se n'è andato.» «Andato dove?» «Semplicemente sparito. C'è una porta sul retro.» Corsi alla finestra della facciata e scostai le tende. Dove prima c'era una grande macchina nera, ora c'era uno spazio vuoto. Mettemmo a soqquadro la casa di Harold ma non trovammo nulla - nulla che avesse un senso per noi. Solo una vecchia casa ordinata piena di vecchie cose ordinate.
Dopo dieci minuti bussarono alla porta al piano di sotto. 33 Nina stava ancora bussando quando la porta si aprì. All'interno c'era Ward Hopkins. Zandt si fece strada passandogli davanti, si infilò in casa e cominciò a perlustrare a grandi passi tutte le stanze del piano terra, una dopo l'altra. Ward si voltò a guardarlo mentre passava, con un movimento lento e vago. «Cosa sta facendo?» Lei lo ignorò. «Dov'è Davids?» «Sparito,» rispose. Aveva gli occhi spalancati e segnati da ombre scure. Sembrava non dormisse da giorni. «Sparito?» urlò lei. «Perché diavolo l'avete lasciato andare?» quasi pestando a terra il piede per il disappunto. Bobby emerse da quella che sembrava essere la cucina. «Non l'abbiamo lasciato andare,» disse. «È semplicemente scomparso. Comunque, tu che c'entri? Come fai a sapere che esiste?» Lei tirò fuori dalla borsa un piccolo blocco e glielo aprì davanti. Su di esso c'erano le informazioni raccolte per telefono durante il volo dall'aeroporto di Los Angeles. «Gli ideatori di The Halls si nascondono dietro circa un milione di società fantoccio,» disse. «Ma ci siamo avvicinati abbastanza. Quella che sembra essere la società amministratrice è l'Antiviral Global Inc., registrata alle Isole Cayman. Mr. Harold Davids, che corrisponde a questo indirizzo, è il loro designato legale per il Montana.» «Cazzo,» disse Bobby, sbiancando. Si voltò e, furioso, si diresse di nuovo in cucina. Ward guardò Nina. «Hai capito male,» disse. «Ho appena parlato con lui, con Davids. Mi ha detto... beh, mi ha detto un sacco di cose. Sì, certo è a conoscenza di The Halls, ma dall'esterno. Non sta con loro. Ha cercato di aiutare i miei genitori a scappare da queste persone.» «Non so cosa ti abbia detto,» disse Nina. Alzò lo sguardo quando sentì il rumore di Zandt che usciva dalla stanza sul retro. Rivolgendosi alla donna scrollò il capo e si affrettò su per le scale. «Ma non penso che Mr. Davids sia ciò che sembra.» «Cosa sta cercando Zandt?» «Un corpo,» disse lei semplicemente. La sua voce era un po' troppo mo-
notona e Ward capì che dietro un aspetto esteriore, ottenuto a fatica, di serena professionalità, lei stava tremando per la tensione. «Se tutto va bene non un cadavere.» Quest'ultimo tentativo di dimostrare nonchalance non fu affatto convincente. «Non la troverete qui. Harold non è l'assassino che state cercando,» disse Ward. «È anziano, è...» «Nina... hai un numero di The Halls?» Bobby stava sulla soglia della cucina e teneva in mano il telefono di casa. Lei guardò nel suo taccuino, girò pagina. «Abbiamo il 406-555-1689. Ma tutto ciò che si sente è un messaggio registrato e un menu infinito di opzioni. Perché me lo chiedi?» Bobby fece una specie di sorriso. In ogni caso, il suo volto cambiò espressione. «È il numero che Harold ha chiamato. È nell'elenco delle ultime telefonate. L'ha fatta venti minuti fa, quando era ancora in casa.» «Ma...» accennò Ward. Per un attimo la sua bocca non fece altro che muoversi senza emettere suono, nel tentativo di formulare le sue obiezioni. «Era strano, tu l'hai visto. Stava seduto lì ad aspettare, sapendo che sarebbero venuti a cercarlo, come avevano fatto con Mary e Ed. Cristo santo, tu l'hai visto, lo sai che aspetto aveva.» «Sicuramente era spaventato, Ward. Ma di noi, di noi. Pensava sapessimo di lui, pensava che saremmo stati noi a fargliela pagare.» Zandt ritornò nell'ingresso. «Lei non c'è.» Ward era completamente disorientato. «Ma allora perché confessarmi tutto, se sta con loro?» «Tu avevi scoperto che lui faceva parte del gruppo di Hunter's Rock, hai citato un video, un biglietto. Tu lo hai riconosciuto e lui non aveva idea di cos'altro tu sapessi. Avresti anche potuto bluffare. La cosa più semplice era dirti la verità e poi distorcerla alla fine.» Imprecò con selvaggia rapidità, come se prendesse l'inganno subito come un fatto personale. «E ammettendo che lui non sia coinvolto, non pensi che sia una strana coincidenza il fatto che The Halls si trovi a mezz'ora dal luogo in cui tutti loro vivevano?» Sul volto di Nina era impressa una serie di punti interrogativi. «Cos'è questo gruppo di Hunter's Rock?» «Non ora,» disse Ward che improvvisamente non sembrava più disorientato. «Prima dobbiamo trovare Davids.» Squillò un cellulare. Tutti si mossero contemporaneamente, come pistoleri drogati. Ma la telefonata era per Zandt. «Sì?» disse.
«Salve, agente,» disse una voce che gli sembrò calma e tranquilla. Zandt guardò Nina. «Chi è?» «Un amico,» disse la voce. «Anche se devo ammettere che non ci siamo ancora conosciuti. Non per colpa mia, siete stati voi a non essere abbastanza in gamba da permettere il nostro incontro.» «Chi parla?» A Zandt venne la pelle d'oca e avvertì un brivido lungo la schiena. Ci fu una risatina all'altro capo del filo. «Pensavo lo indovinassi. Sono l'Homo Erectus, John.» «Stronzate.» «Niente stronzate. Sei stato bravo a trovare Wang e a incoraggiarlo a fare la cosa giusta. Ti siamo debitori.» Zandt aveva la bocca asciutta e quando parlò produsse un suono secco. «Se sei l'Homo Erectus, dimostralo.» Nina rimase a bocca aperta, mentre gli altri due lo fissarono. «Non devo provare niente,» disse la voce. «Ma ti dirò qualcosa che vi sarà utile. Se non sarete fuori da quella casa entro due minuti, morirete tutti quanti.» La comunicazione fu interrotta. «Tutti fuori da questa casa,» disse Zandt. «Ora.» Nel momento in cui uscirono sentirono le sirene che si stavano avvicinando, molte sirene. Ward aprì la portiera di una grande macchina e salì al posto del guidatore. Nina non si arrendeva. «Sono un'agente dell'FBI, non dobbiamo andare da nessuna parte.» «Già, è vero, dimenticavo» disse Bobby. «Noi prima abbiamo sparato ad alcuni poliziotti. Non sono morti, però gli abbiamo sparato. Se vuoi startene in mezzo alla strada con il tuo distintivo ben in vista, fa pure. Questa non è l'HBO, principessa, quelli ti fanno saltare quella testolina di cazzo.» I poliziotti non erano riusciti a raggiungerli da nessuna direzione, e il quartetto arrivò senza incidenti sulla strada principale. Qui Ward svoltò a destra e mise a tavoletta. In venti minuti furono fuori città, seguendo la strada che lentamente conduceva ai piedi delle colline. Nessuno gli domandò dove si stesse dirigendo. Lo sapevano tutti. Nina raccontò cosa era successo a Los Angeles e Ward riportò quello che Davids gli aveva detto. Zandt rivelò, senza scendere nei dettagli ma in modo chiaro, i suoi precedenti con l'Homo Erectus. Bobby lo fissava e Nina colse Hopkins che osservava Zandt nello specchietto retrovisore. Bobby si accigliò. «Ma come ha fatto ad avere il tuo numero di cellula-
re?» «Se lui è collegato agli Uomini di paglia, sai che non c'è niente che li possa fermare. Hanno una catena di approvvigionamento vittime di tipo seriale. Stanno facendo saltare tutto quanto, a destra, a sinistra e al centro. Rintracciare un cellulare è un gioco da ragazzi.» «Okay - allora perché chiamare? Perché farti uscire prima che arrivassero i poliziotti?» «Non c'è modo di prevedere il perché delle sue azioni, ma non era soltanto a me che stava pensando, lo sapeva che non ero da solo.» «Davids gli ha riferito chi si trovava in casa,» disse Ward. «Ci ha consegnati nelle loro mani.» La sua voce era piena di rancore e l'espressione tesa. «E non trovate sia buffo che gli Uomini di paglia abbiano fatto fuori i miei due giorni prima della progettata sparizione? Avevano organizzato tutto, sistemato ogni cosa e improvvisamente, proprio prima di riuscire a mettersi al sicuro, arriva McGregor a preparare l'incidente che li ha uccisi?» «Davids ha fatto una soffiata? Perché?» «Sapeva fin dall'inizio cosa fosse The Halls. Un rifugio dorato, un biglietto da visita, una fonte di denaro sonante. Poi papà ne viene a conoscenza, pensa di avere un'opportunità per fare affari, ma scopre che non è quello che sembra, mettendo Davids in una posizione molto difficile. Ammettiamo che queste siano le stesse persone - o lo stesso genere di persone - contro le quali si sono scontrati più di trent'anni fa. Davids ha detto che solo il leader fu ucciso sul colpo, mentre gli altri presumibilmente sopravvissero, e potrebbero addirittura essere dietro a quanto sta accadendo qui tra le montagne. Potrebbero avere scoperto che Davids faceva parte della spedizione punitiva, e questo potrebbe anche essere, in primo luogo, il motivo per il quale lo ingaggiarono come avvocato. Lavora per noi o rendiamo noto ciò che accadde una notte di più di trent'anni fa in una foresta, oppure, semplicemente, ti ammazziamo. Cosa può fare Davids?» «Poi tuo padre si avvicina troppo alla verità, e Davids sa di essere spacciato a meno che non riveli agli Uomini di paglia cosa stia accadendo, così dice loro che gli Hopkins sono in procinto di scappare.» Per un attimo nella macchina ci fu un silenzio assoluto. Poi, Nina disse: «Li ha fatti ammazzare, l'unico uomo di cui si potessero veramente fidare.» «È un morto che cammina,» disse Ward, come tra sé e sé. «Su questo non c'è dubbio.»
Aveva cominciato a piovere proprio quando avevano raggiunto le montagne, fredde strisce d'argento nell'oscurità al di là dei finestrini. Il fiume al lato della strada era ormai un torrente. Non passavano altri veicoli. «Siamo solo noi quattro,» disse Nina. Ward le lanciò un'occhiata. «Allora chiedi rinforzi.» «Non faranno decollare gli elicotteri solo perché gliel'ho chiesto io. Il massimo che otterremmo sarebbe, entro due ore, una macchina con una coppia di agenti annoiati, il cui obiettivo principale sarebbe dimostrare che sono una casinista.» Guardò per un attimo fuori dal finestrino. «Qualcuno ha una sigaretta? Penso potrei cominciare a fumare.» Ward infilò una mano nella tasca della giacca, tirò fuori un pacchetto malconcio e lo mise sul cruscotto. «Non te lo consiglio,» disse. Nina, di rimando, gli rivolse un debole sorriso, ma lasciò stare le sigarette. Cinquanta minuti dopo la partenza da casa di Davids, la macchina percorreva una lunga curva leggermente in salita. Hopkins ora aveva diminuito la velocità e Bobby si era tirato su in modo da poter vedere i fianchi delle colline che si innalzavano dalla strada. «Ci stiamo avvicinando,» disse Ward. Nina rimase a guardare mentre Bobby e Zandt caricavano le loro pistole, poi, con riluttanza e con le dita tremanti, controllò la sua. Nessuno degli altri sembrava avere le sue stesse sensazioni, ma era impossibile indovinare cosa passasse nella testa dei ragazzi. Non c'era un uomo della sua generazione che non avrebbe potuto citare la frase: «Beh, ti dirò che in mezzo a tutta quella baraonda ho perso il conto io stesso,» da «Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo». Tutti pensavano di essere il Clint tascabile dei teppisti, e di poter chiedere loro se volessero sfidare la sorte. E tutti credevano che qualcuno, da qualche parte, li avrebbe guardati con aria di superiorità se non fossero stati all'altezza. Poi Zandt rivolse lo sguardo verso Nina, le fece l'occhiolino e lei capì che dopotutto non era proprio così. I film possono dirti come ti devi comportare, ma le sensazioni viaggiano più in profondità, risalgono ai tempi in cui nessuno indossava vestiti e ognuno aveva il proprio ruolo, alcuni badavano al fuoco e gli altri andavano a caccia. L'unica differenza stava nelle dimensioni del gruppo del quale sentivano di fare parte, e nell'intensità dei rapporti con le persone che avrebbero difeso con la vita. Zandt era nervoso quanto lei. Ward accostò nella corsia di emergenza. «Siamo arrivati,» disse. Gli altri scrutarono oltre il parabrezza e una cinquantina di metri più avanti videro
un piccolo cancello. «Là non c'è nessuno,» disse Bobby. «Ripetimi un po' come funziona l'accesso.» «Attraversi il cancello e passi sull'erba, giri a sinistra e c'è una strada nascosta, oscurata dagli alberi, che si inerpica verso l'altopiano.» «Quindi potrebbe esserci qualcuno tra gli alberi o dovunque lungo la strada d'accesso.» «Più o meno.» «Allora facciamo in fretta.» Ward annuì. «Tutti pronti?» «Come non mai,» disse Zandt, e Ward affondò il pedale dell'acceleratore. La macchina balzò in avanti con le ruote che slittavano sulla strada bagnata. Percorse a tutta velocità la distanza rimanente e poi svoltò diritto verso il cancello. «Giù le teste,» disse Bobby, e Nina e Zandt ubbidirono. Bobby si tenne forte al retro del sedile e alla portiera tenendo in mano la pistola. Un attimo dopo la macchina distrusse il cancello e i pezzi andarono a sbattere contro il parabrezza mandandolo in frantumi dal lato di Nina. L'auto piombò nell'erba alta e cominciò a sbandare. Ward si impegnò e riuscì a riprendere il controllo. Alzò il piede dall'acceleratore fino a che non governò di nuovo l'auto e poi si diresse, a gran velocità, verso la fila di alberi. Passò sopra a una montagnola e Nina, per un attimo, si sentì sospesa in aria. Non era ancora atterrata quando venne di nuovo fatta sobbalzare. Sentì un grugnito provenire da dietro dove Zandt stava subendo la stessa sorte, mentre Ward e Bobby sembravano essere incollati ai loro sedili. Incontrarono un dosso più basso e duro e poi improvvisamente il terreno sotto di loro tornò regolare. Ward superò gli alberi accelerando e sussultò. «Visto nessuno?» «No,» disse Bobby. «Ma non rallentare.» Dopo un centinaio di metri la strada si inerpicava improvvisamente verso destra, e la macchina si trovò a risalire un pendio che diventava sempre più ripido. Mentre Ward sterzava bruscamente a ogni curva gli occhi di Bobby guizzavano da un lato all'altro, ma non vide nessuno. Non ci furono spari, ma quando vide che Zandt sollevava lentamente il capo, Bobby allungò la mano e glielo fece riabbassare. Gli facevano male le spalle per quella rapida mossa di prima, ma il fastidio sembrava lontano e irrilevante.
Per ora. «Dove saranno?» domandò Ward. «Probabilmente tutti in cima, allineati.» «Sei una spiritosa testa di cazzo, ma sono contento che tu sia qui.» «È come se fossimo amici,» disse Bobby. «Comunque se va a finire male, tornerò per darti la caccia.» «Lo hai già fatto,» disse Ward. «Sono anni che cerco di liberarmi di te.» Percorsero l'ultima curva, e l'enorme cancello di The Halls si profilò sopra di loro in cima alla salita. «Ancora nessuno,» disse Ward rallentando. «E ora?» «Dall'altro lato del cancello la strada svolta a sinistra. Ci sono un paio di grandi edifici, una specie di ingresso, e quello che sembra essere un magazzino. C'è un alto recinto lungo tutto il prato. Le case sono dall'altra parte.» Gli altri due tirarono su la testa con cautela. «Quindi?» «Cancello d'ingresso,» disse Bobby. «Non c'è modo per superare il recinto.» «Ci staranno aspettando all'entrata.» «Non abbiamo scelta.» L'auto passò sotto l'arcata di pietra e si diresse verso il gruppo di edifici in legno. Una grande luce posta su uno di essi immergeva lo spiazzo del parcheggio in un biancore lunare e fioco. Non appena ebbe la visuale completa, Ward alzò di nuovo il piede dall'acceleratore. La macchina arrivò al centro del parcheggio e si fermò. La sua faccia era pallida. «Cosa c'è?» chiese Nina. Lui non la guardò. «Niente macchine. Quando venni qui l'altra volta era pieno.» Diedero un'occhiata e videro che il parcheggio era completamente vuoto. Ward spense la macchina, lasciando le chiavi inserite. Zandt aprì la portiera e uscì senza aspettare istruzioni. Bobby imprecò e saltò giù dall'altro lato, pronto a sparare. La luce lunare li rendeva dei bersagli facili, ma dimostrava anche che non c'era nessuno sul tetto dell'edificio, nessuno che li stesse aspettando, solo due grandi costruzioni in legno e in mezzo un tratto di recinzione. Gli altri due uscirono dalla macchina cautamente, e Nina ebbe la sensazione che la pistola nelle sue mani fosse enorme e malfatta. «Quella è l'entrata,» disse Ward facendo un cenno con il capo verso l'e-
dificio sulla destra. Gli altri lo seguirono e si radunarono ai lati delle porte di vetro. Bobby sporse la testa e diede un'occhiata dentro. «Alla reception non c'è nessuno,» disse. «Entriamo?» «Direi di sì. Dopo di lei.» Ward si chinò in avanti e spinse piano una delle porte. Non scattò nessun allarme e nessuno gli sparò. Aprì la porta ed entrò cautamente, seguito dagli altri. La zona dell'atrio era silenziosa, non c'era musica di sottofondo e non c'era fuoco nella griglia del camino fatto di pietre di fiume. Il grande dipinto che Ward aveva visto dietro il bancone della reception era sparito e tutta la stanza dava l'impressione di essere stata messa in naftalina. «Cazzo,» disse Ward. «Se ne sono andati.» «Stronzate,» disse Bobby. «È passata solo un'ora, non è possibile che abbiano avuto il tempo di sgomberare tutto.» «Ne hanno avuto un po' di più,» disse Zandt. «Noi lasciammo Wang forse cinque o dieci minuti prima che si sparasse. Potrebbe averli avvisati.» «Comunque non è molto, non per far sparire tutto.» «Allora, forse avevano già cominciato,» disse Nina. «Tu avevi picchiato a sangue il loro agente immobiliare ed è possibile che questo fosse già un messaggio sufficiente e ha fatto guadagnare a questa gente un paio di giorni. Ma non importa, noi andremo comunque a dare un'occhiata a cosa c'è laggiù.» Si diresse a grandi passi verso la porta sul fondo, quella che avrebbe dato accesso alla zona interna di The Halls. Era in preda a una rabbia terribile, al terrore che potessero essere arrivati troppo tardi, che il fantasma che lei aveva inseguito fino a che non era diventato l'unica luce in fondo al suo tunnel, si fosse di nuovo allontanato da lei danzando. Gli altri rimanevano immobili, ma non le importava se l'avrebbero accompagnata, lei doveva andare là fuori, doveva vedere. Non sentì lo sparo. Quando il suo udito percepì il rumore Nina stava già cadendo, scaraventata goffamente di lato, per andare a finire contro uno dei bassi tavolini. Sentì un'enorme e lancinante sensazione di calore al petto, la sua bocca si aprì per urlare, ma non ne uscì nulla, e si accorse che Zandt stava correndo verso di lei. Ward si girò e vide un uomo sulla soglia. Era McGregor. Bobby, invece, vide una donna dietro il bancone della reception e, dietro di lei, un ragazzo
tutto muscoli che spuntava da una rientranza nella parete, una porta mimetizzata perché si confondesse con la pannellatura di legno. Erano tutti e tre armati e sparavano contro di loro. Il giovane fu il primo a morire. Non era abituato a usare le armi e la sua tecnica era puramente televisiva: la pistola lateralmente, tipo gang-banger. Bobby lo fece secco con un colpo solo. Ward scivolò dietro una delle colonne e spuntò dall'altro lato, colpendo McGregor prima a un'anca e poi al petto. Lui invece evitò per un pelo di beccarsi una pallottola in faccia e ne sentì il rumore sordo mentre gli passava sopra la testa. Si abbassò e andò a rifugiarsi dietro un angolo della reception, pregando che la donna non l'avesse visto. Ricaricò facendo cadere la metà dei proiettili. Zandt si inginocchiò di fianco a Nina, che giaceva a terra ansimante con una mano sopra il foro nella parte superiore del petto, proprio sotto la clavicola destra. «Oh Nina,» disse lui, ignaro dei colpi e dei lamenti che risuonavano sopra la sua testa. Lei tossì e il suo volto fece un'espressione tra la sorpresa e il rifiuto. «Fa male,» disse. McGregor stava ancora sparando, la donna dietro il bancone fece quasi fuori Bobby prima che Ward prendesse fiato e si rialzasse, svuotandole addosso mezzo caricatore. Solo quando ricadde indietro sul ragazzo muscoloso, lui si accorse che si trattava della donna che gli aveva spiegato le false procedure di ammissione. Non ne conosceva ancora il nome. Bobby stava in piedi sopra McGregor tenendogli fermo il polso con il piede. Una pistola giaceva al suolo a diversi metri di distanza. «Dove sono andati?» gli domandò. «E quanto tempo fa? Dimmi tutto quello che sai oppure l'oscurità calerà su di te.» «Fottiti,» disse il poliziotto. «Come vuoi,» disse Bobby facendo spallucce e lo uccise. Mentre Bobby controllava gli altri corpi assicurandosi che nessuno di essi si sarebbe rialzato per ricominciare a sparare, Ward raggiunse Nina. Zandt teneva la mano della donna premuta contro la ferita al petto e il sangue sgorgava copioso tra le dita. «Andiamocene da questo posto,» disse Ward. «No,» disse Nina, con una voce sorprendentemente forte e cercando di tirarsi su. «Nina, tu sei conciata male, dobbiamo portarti all'ospedale altrimenti morirai dissanguata.»
Lei si aggrappò con una mano alla gamba del tavolo e con l'altra gli afferrò il polso. «Fate presto, ma andate a vedere.» Ward esitò, cercò di guardare Zandt per avere manforte, ma gli occhi della agente lo fissavano. Bobby arrivò dietro di lui. «Oh merda, Nina.» «Io rimarrò qui e voi andrete là fuori,» disse lei, rivolgendosi solo a Zandt. Si sentiva intontita, molto strana. Avrebbe desiderato avere il tempo di spiegargli perché fosse così importante. «Ti prego, John. Falli andare. Andate tutti, per favore, guardate se lei è laggiù. Dovete farlo. Poi andremo all'ospedale.» Zandt attese ancora un attimo, poi si chinò su di lei e la baciò sulla fronte. Si alzò. «Farò come dice.» Ward scosse la testa, ma cominciò a ricaricare la pistola. «Bobby, tu rimani qui,» disse. Il suo amico cominciò a protestare, ma Ward proseguì. «Potrebbero essercene altri come questi tre. Cerca di fermare il sangue e fai fuori chiunque tu veda che non siamo noi. Sei più utile tu a lei di noi due.» Bobby si sedette a fianco della donna. «Fa' attenzione amico.» Ward e Zandt si diressero velocemente verso la porta sul fondo. «Qualsiasi cosa succeda,» disse Ward, «rimaniamo uniti. Capito?» Zandt annuì e aprì la porta. Fuori c'era un sentiero di cui forse cinquanta metri erano illuminati con chiarezza dalla luce lunare alle loro spalle, e questo era abbastanza per intuire le sagome di grandi abitazioni a media distanza. Nessuna di esse mostrava luci accese. Cominciarono a correre. 34 «Avremmo dovuto portare una torcia.» «Avremmo dovuto portare un sacco di cose,» disse Ward. «Pistole più potenti, altre persone, un'idea precisa di cosa stiamo facendo.» Si trovavano alla prima diramazione del sentiero, che assomigliava alla strada principale di una cittadina dove nessuno possedeva automobili. L'erba rasata con cura costeggiava il percorso, i prati racchiusi dai fianchi delle montagne, un'area di appena una decina di acri, erano stati modellati per assicurare a ogni abitazione la privacy e un panorama dolcemente sinuoso. Sembrava inverosimile che ci fosse abbastanza spazio per un campo da golf, il che significava che perfino il loro agente immobiliare favorito - il defunto Chip - non era mai stato ammesso all'interno della proprietà.
Da ciascun lato del sentiero, piuttosto discoste da esso, c'erano due case. Il viottolo si inoltrava nell'oscurità, conducendo con nuove biforcazioni ad altre case che non si riuscivano ancora a vedere. «Tu prendi quella a sinistra.» «Hai sentito quello che ho detto? Non ci separiamo.» «Ward, vedi quante case ci sono? Là dentro Nina è in pericolo.» «Farci ammazzare non l'aiuterà. Se vuoi dare un'occhiata a questi posti, lo facciamo insieme. Da quale cominciamo?» Zandt si incamminò velocemente lungo il sentiero di destra. Nell'avvicinarsi alla casa, Ward riconobbe le caratteristiche che aveva notato sui disegni. Gli sembrava che l'edificio avrebbe dovuto far parte di quel sobborgo di Chicago - Oak Park - in cui erano stati costruiti tanti esempi caratteristici del periodo centrale della carriera di Wright. Era una abitazione meravigliosa e lui odiava le persone che stavano dietro questo progetto perché se ne erano appropriati indebitamente. Gli ideali di Wright parlavano di vita e comunità, non di individualità e morte. Zandt non era minimamente interessato all'aspetto architettonico. «Dov'è quella cazzo di porta?» Ward, passando attraverso la terrazza più bassa, lo condusse sul lato sinistro dell'edificio. Qui, svoltando un angolo, una piccola serie di gradini li portò davanti a una grande porta di legno. Era socchiusa. I due si guardarono. «È l'ingresso principale?» Ward annuì, poi inspirò e aprì la porta spingendola delicatamente con il piede. Non accadde nulla. Fece un cenno col capo a Zandt che entrò per primo. Come poliziotto, aveva più esperienza in questo genere di cose, o almeno così sperava Ward. Un breve corridoio, illuminato da una piccola luce che filtrava da un pannello di vetro colorato del soffitto, rendendola verde e fredda. In fondo, un'altra lastra di vetro smerigliato nascondeva l'ambiente successivo. Lo attraversarono con cautela, e scoprirono una stanza di forma allungata e col soffitto basso. Ancora vetro colorato e, in alto, finestre a lucernario. Sulla sinistra c'era un camino. Scaffali per libri e un piccolo angolo per sedersi. Le scaffalature erano vuote, l'arredamento era a posto ma non c'era un tappeto sul pavimento. Ward e Zandt passarono attraverso la stanza facendo il minimo rumore possibile. Tutta la casa era immersa in un silenzio assoluto. Ward sollevò una mano e indicò qualcosa; Zandt guardò, vide l'ingresso di un'altra stan-
za, parzialmente nascosto dietro un pannello di legno, quindi annuì e indietreggiò per affiancare Ward. Si avvicinarono insieme, con Zandt che continuava a guardarsi le spalle. L'entrata conduceva a una cucina che, mancando di finestre sovrastanti, era ancora meno illuminata. Era disposta su livelli sfalsati e l'area per la colazione si trovava in fondo. Ward avanzò con passo leggero. Sul tavolo c'era una tazza, messa proprio nel centro. L'interno era asciutto e la maniglia rotta. Aprì la credenza e poi un cassetto, entrambi vuoti. Sottovoce: «Questa casa è stata ripulita.» Zandt annuì. «Forse, ma la controlleremo comunque.» Ward alzò gli occhi al cielo, e poi esaminarono il resto dell'abitazione. «C'è qualcuno là fuori,» disse Nina. Bobby si era seduto di fianco a dove era lei, rannicchiata su una delle grandi poltrone in pelle. L'atrio era immerso nell'oscurità. A questo proposito aveva avuto dei dubbi, dicendosi che, poiché le luci erano state lasciate accese, spegnerle avrebbe rivelato la loro presenza a chiunque altro si aggirasse nel complesso. Però era difficile credere che quella stessa persona non avesse sentito quegli istanti di pesante scontro a fuoco e, così, alla fine Bobby era sgattaiolato dietro il bancone della reception e le aveva spente una a una. Sembrava più sicuro, sebbene non fosse la cosa migliore. Il muro in fondo era solo in parte dotato di finestre e nonostante pensasse che in quella posizione fossero al riparo dalla vista, Bobby si sentiva ancora un bersaglio facile. L'atrio era ampio, buio e vi giacevano tre cadaveri. «Un minuto fa ho sentito qualcosa,» ammise. «Speravo fossero loro che tornavano.» Nina scosse la testa. «John controllerà tutte le case. Ci impiegheranno un po', anche se non ci fosse nulla da trovare, soprattutto in quel caso. E il rumore veniva dall'entrata e non dal retro.» Lui annuì. «Ward mi ucciderà se scoprirà che ti ho lasciato qui da sola, ma vado a dare un'occhiata.» «Se non vuoi, non lo dirò a nessuno, ma non metterci troppo.» Bobby si assicurò che la pistola di Nina fosse carica e poi si allontanò dirigendosi verso il muro. Lo percorse stando il più basso possibile e quando arrivò alla porta principale mise fuori la testa con cautela. La loro macchina era ancora l'unica presente nel parcheggio, non c'era segno di nessun altro, e lui valutò l'ipotesi di rimanere semplicemente fermo dove si trovava.
Ma poi sentì di nuovo qualcosa. Non era un rumore forte, ma decisamente non aveva cause naturali, non era il rumore della pioggia. Era meccanico, un breve e isolato pop. Sembrava provenire dall'altro lato del parcheggio, dove sorgeva il secondo edificio. «Cos'è stato?» Ora che non c'era lui a sorvegliarla, Nina lasciava che il dolore le dominasse maggiormente la mente. Il risultato era che si sentiva la testa molto confusa e la sua voce suonava spezzata. «Non lo so,» disse lui. Si voltò per controllare e vide che Nina era ben nascosta nelle profondità dell'enorme poltrona. Non si poteva fare di meglio. «Mantieni la pressione sulla ferita.» Tenendosi basso, aprì la porta con una spinta. Una corrente di aria gelida lo investì, facendo entrare il rumore della pioggia. Il resto della casa era vuoto. Quattro stanze da letto, studiolo, biblioteca e quella che doveva essere la stanza della musica. Tutte vuote e ripulite, liberate da qualsiasi traccia, nonostante fosse chiaro che fino a pochissimo tempo prima lì ci fossero vissute delle persone. Ward e Zandt tornarono indietro attraverso la scala principale meno silenziosamente di quando erano entrati, e si diressero sul retro del piano terra, dove si trovava un secondo grande salotto, un po' meno elaborato rispetto a quello sul davanti. Una fascia orizzontale di finestre mostrava mezzo acro di giardino ben curato. Ward inserì nuovamente la sicura della sua pistola. «Andiamo alla prossima?» Era chiaro che questa o quella abitazione non avesse più alcun interesse per lui. Avrebbe aiutato l'altro a cercare il corpo della ragazza, se questo era quello che voleva, ma la sua esigenza era di trovare vivo un Uomo di paglia o due, metterli a sedere e costringerli a spiegargli un paio di cose. Non sembrava potesse accadere, almeno non qui. Nient'altro poteva trattenere la sua attenzione. «Darò un'occhiata fuori sul retro,» disse Zandt. «Poi andremo alla prossima, d'accordo. Anche se la cosa non mi piace.» Aprì la porta posta al centro della pannellatura della finestra e scomparve nella pioggia. Ward uscì dietro di lui, ma rimase vicino al muro. Adesso sospettava che Nina avesse ragione: forse quel Wang aveva accelerato le cose, ma l'evacuazione era già cominciata proprio dal momento in cui Ward aveva malmenato Chip dopo la prima visita a The Halls. In altre parole, lui aveva mandato tutto a puttane, dando loro il tempo per scappare. Non si aspettava che la loro risposta fosse questa. Erano al sicuro, erano ricchi, questa era la loro terra. Ma lui era comunque riuscito a incasinare
tutto. Non avevano ancora discusso dell'argomento, ma sentiva che anche Zandt la pensava così, notava uno sguardo di crescente rabbia nei suoi occhi. Mentre ascoltava il rumore dell'altro che esplorava nell'oscurità, notò un lungo cavo steso ai piedi del muro. Spuntava da dietro l'angolo e sembrava essere sepolto nelle aiuole vicine al muro. Un cavo telefonico, o qualcosa del genere. Forse la tanto decantata ADSL. Stava per dare un'occhiata quando Zandt emise improvvisamente una specie di colpo di tosse. Ward corse nel cortile. Zandt stava immobile al centro di esso, come impalato. «Cosa c'è?» Lui non rispose nulla, indicò solamente. Sulle prime Ward non riuscì a capire cosa volesse, ma poi vide che un piccolo tratto di terreno immediatamente alla sua destra appariva leggermente arrotondato. Vi si avvicinò e lo osservò, inumidendosi le labbra con la lingua. «Dimmi che lì sotto c'è un animale o qualcosa.» Zandt scosse la testa, e Ward si accorse che lui non aveva ancora abbassato il braccio e che, invece, stava indicando un altro punto. Un'altra montagnola. «Oh Cristo,» disse Ward con la voce che gli si ruppe in gola. «Guarda questo.» Da dove si trovava poteva vedere, ora che faceva maggiormente attenzione alla cosa, che c'erano altri tumuli. In tre file corte, dodici in totale. Zandt mise a terra un ginocchio e cominciò a scavare nel tumulo più vicino. L'erba gli scivolava tra le dita ma riuscì a estrarne un ciuffo. Sotto c'era terra pesante e bagnata. Ward si abbassò per aiutarlo e i due scavarono e strapparono. Il terreno era duro e ci vollero pochi minuti per arrivare al punto in cui improvvisamente sentirono di avere tra le mani qualcosa che non era terra, e l'odore divenne terribile. Ward balzò indietro, ma Zandt tirò via altre due manciate prima di interrompersi bruscamente. «Abbiamo bisogno di una pala,» disse Ward. Zandt scosse la testa. «Qualsiasi cosa ci sia in queste fosse è morto. Sarah potrebbe essere ancora viva da qualche parte.» «Non scherzare, amico... lei sarà in una di queste tombe.» Zandt stava già tornando a grandi passi verso la casa. Ward lo seguì cercando di evitare le montagnole, ma accorgendosi di essere salito su almeno una di esse nell'andarsene. Una volta dentro, Zandt andò diritto verso il primo salotto. «Dobbiamo
guardare di nuovo,» disse. «Ci è sfuggito qualcosa.» «Non so dove,» disse Ward. «Allora partiamo da qui.» Si separarono dirigendosi ai lati opposti della stanza, rovesciando scaffalature, mettendo fuori posto il mobilio. Ben presto Ward si convinse che non ci fosse nulla da trovare, ma Zandt non avrebbe rinunciato a passare al setaccio ogni millimetro. «Ci vorranno delle ore,» disse Ward. «Io non...» Si interruppe. Zandt alzò lo sguardo. «Cosa?» L'uomo non stava guardando niente che fosse nella stanza, ma dirigeva lo sguardo direttamente oltre la fila di finestre che davano sulla facciata della casa. Zandt si avvicinò al punto dove si trovava Ward. «Lo vedi?» Stava guardando la biforcazione del sentiero, a circa venti metri di distanza. Là, dove la strada si divideva nei viottoli che conducevano alle diverse case, c'era qualcosa a terra. Non sembrava molto grande, e a quella distanza era impossibile dire cosa potesse essere. Un piccolo mucchio di rami, forse. «Lo vedo,» disse Zandt. «Non era lì quando siamo entrati.» Tolsero di nuovo entrambi le sicure e uscirono dalla porta principale. Ward percorse lentamente il sentiero; Zandt restò fermo sulla porta, controllando le altre case. Sembrava proprio un cumulo di rami, corti, ricurvi, molto bianchi, molto puliti. Ward capì cosa fossero quando fu a un paio di metri di distanza. Si accovacciò accanto a essi e ne prese uno. Si voltò per fare segno a Zandt di raggiungerlo. Mentre l'altro si avvicinava lui si preparò a sparare a chiunque fosse comparso. Perché c'era qualcuno, senza ombra di dubbio, qualcuno che a sua volta sapeva che loro si trovavano lì. Dopo una breve analisi, Zandt disse: «Queste sono costole.» «È quello che immaginavo. Sono umane?» «Sì.» «E chi le ha messe lì?» «Ward, guarda.» Circa cinque metri più avanti, lungo il sentiero c'era un altro osso. Ward avanzò, si chinò a raccoglierlo. «Uomo o donna?» Zandt prese il femore che l'altro teneva in mano. Al pari delle costole, l'osso della gamba era pulito e bianco, come se, di recente, fosse stato uti-
lizzato qualche processo chimico per portarlo a uno stato di conservazione da museo. «Non posso affermarlo con certezza. Ma appartiene a qualcuno non molto vecchio. Un adolescente.» I due uomini si alzarono contemporaneamente, guardando in entrambe le direzioni rispetto al sentiero. «Qualcuno ci sta conducendo da qualche parte,» disse Ward. «Il punto è se seguirlo.» «Non mi sembra ci sia un'altra possibilità.» «Ma abbiamo già trovato la casa con i corpi.» «Una casa. La prima in cui abbiamo guardato. O è una bella coincidenza, o ce n'è più di una.» Alla successiva biforcazione trovarono un altro osso, alla sinistra del sentiero, come a indicare la strada che portava alla casa che si trovava su quel lato. La controllarono velocemente. Questa volta le fosse erano sparse lungo il fianco dell'edificio e sistemate meglio - o con maggior compiacimento. Zandt si accorse che i piccoli quadrati di pietra posti sull'erba non costituivano un sentiero da percorrere, e fu allora che capirono che si trattava di pietre tombali. Da un lato della casa trovarono un altro osso, puntato nella direzione che conduceva all'interno di The Halls. Questo osso era la metà del bacino di qualcuno. Nessuno dei due era abbastanza esperto per determinare il sesso del proprietario, sebbene le condizioni dell'osso e la larghezza dell'incisione sciatica sarebbe invece stata sufficiente a Nina per capire che apparteneva a una ragazza, più o meno dell'età di Sarah Becker. Bobby era rimasto quasi dieci minuti buoni in attesa, all'ombra della loro macchina. Da quando aveva lasciato l'atrio, non c'erano più stati rumori e nessun segno di movimento. Questo non faceva alcuna differenza, qualcosa aveva provocato i rumori di prima, e sembrava improbabile che questo qualcosa fosse semplicemente sparito. Restava immobile solo per vedere se avrebbe fatto la sua apparizione, dandogli la possibilità di presentarsi spontaneamente. Poteva anche trattarsi di qualche animale, forse un cervo. Improbabile, ma possibile. Dopo un altro paio di minuti si mosse. Nina sarebbe stata in pensiero se fosse rimasto fuori troppo a lungo, e lui ormai era bagnato fradicio e infreddolito. Le spalle gli facevano un male cane. Non c'era possibilità di fare dietro front e tornarsene dentro, doveva controllare l'altro edificio.
Camminò lungo la linea di paletti che indicavano i parcheggi. Nel procedere in quel modo fu investito dalla luce, ma non aveva altra possibilità per avvicinarsi alla costruzione. Assomigliava a un vasto magazzino, privo delle finiture dell'altro edificio, e non c'erano finestre visibili. Camminò lungo tutta la facciata anteriore fino al lato sinistro, e alla fine trovò una porta. Vi era attaccato un grosso lucchetto, ma era aperto. Pensò di chiamare Ward, per verificare se fosse lì dentro, ma sapeva che non poteva essere così. Ward sarebbe tornato passando per l'ingresso. Doveva essere stato qualcun altro. Spinse delicatamente la porta ed entrò. Si ritrovò in un corto corridoio, con pareti che salivano fino a una certa altezza, prima di scorrere verso lo spazio vuoto, simile a una stalla. C'era un odore di qualche tipo, anche se non gli ricordava quello dei cavalli. Una luce fioca proveniva da una zona non precisata dell'edificio, dall'altra estremità. Tre metri più avanti il corridoio si incrociava perpendicolarmente con un altro. Prima dell'intersezione c'erano due porte e lui le aprì entrambe. Una racchiudeva il tipo di provviste prevedibile per una comunità di residenti, assieme a una lunga parete riempita di schedari. L'altra si apriva su una stanza più piccola che sembrava essere una cantina per il vino. Le rastrelliere erano vuote, il che era un brutto segno, perché se avevano avuto il tempo di far sparire lo Chateau Lafite, allora se n'erano andati da tempo. Nel qual caso era strano che avessero lasciato lì i documenti. Tornò indietro ed esaminò quella stanza. Tirò giù un raccoglitore a caso. Dentro non c'era nulla, solo un paio di cartucce Zip, entrambe etichettate «Scottsdale». Se le infilò in tasca e rimise a posto il raccoglitore. Ritornò nel corridoio e proseguì fino all'intersezione. Rimase completamente immobile per un momento prima di avanzare e di restare con la bocca spalancata. In quel modo si percepiscono meglio i suoni, anche i più silenziosi - è qualcosa che ha a che fare con le trombe di Eustachio. Non sentì nulla, ma notò che c'era un cavo che correva sul pavimento davanti ai suoi piedi. Se fosse servito a controllare l'illuminazione, avrebbe dovuto tagliarlo. In ogni caso, non sembrava fare parte dell'insieme generale, appariva più come un'aggiunta recente. Sporse la testa in avanti e vide che correva al centro del corridoio alla sua sinistra. Svoltò l'angolo e andò a vedere dove conducesse. Aveva fatto appena due passi quando tutta la sua attenzione fu attirata da qualcos'altro. Questa zona dell'edificio, in effetti, era organizzata come una stalla. Pic-
cole aree autonome da ambo i lati del corridoio, suddivise in celle di circa mezzo metro quadrato. Dentro la prima, al suolo, giaceva una figura. Sembrava una persona, di bassa statura. Bobby si inginocchiò di fronte alle sbarre. La figura era quella di un bambino di cinque anni, forse sei. Era nudo, le mani e i piedi erano legati con nastro adesivo e sembrava che lo stesso materiale gli coprisse anche la bocca, ma era difficile esserne sicuri perché rimaneva ben poco della testa. Il sangue sulla paglia della cella era ancora fresco. Attaccata alle sbarre c'era una fotografia, scattata in qualche località calda, di un bambino di bell'aspetto. In quel momento non aveva guardato nell'obiettivo e non sembrava nemmeno consapevole che stessero scattando la foto. Bobby capì che era un'immagine del ragazzo nella sua vita antecedente il rapimento. Il suo nome era Keanu. Bobby distolse lo sguardo. Usò le mani per trascinarsi lungo la parete della cella fino alla successiva. Qui c'era un altro ragazzo, un po' più adulto questa volta, ma anche lui morto. Sulla gabbia un'altra foto con un'etichetta. In questo caso l'immagine mostrava il ragazzo che sorrideva verso l'obiettivo, ma con una leggera indecisione, come se qualcuno l'avesse fermato a un angolo di strada mentre tornava a casa da scuola, e gli avesse chiesto se gli fosse dispiaciuto posare per una foto e lui avesse risposto no, pensando comunque che fosse un po' bizzarro. Si sentì un leggero fruscio, e il cuore di Bobby quasi si fermò. Rimase immobile fino a quando non capì che proveniva proprio dall'altro lato del corridoio, qualche metro più avanti. In questa gabbia c'era una bambina, forse di otto anni. Anche lei aveva un'etichetta e una foto. Il suo nome era Ginny Wilkins. Non era ancora morta del tutto, sebbene le avessero sparato in un occhio. L'altro era secco e privo di movimento, ma la parte inferiore del corpo si dimenava leggermente. Qualche porzione del suo sistema nervoso funzionava ancora e avrebbe continuato a farlo per un po'. Bobby sapeva che c'erano altre celle, almeno altre due. Sapeva che questo edificio non era stato lasciato aperto per caso, che persino quando The Halls era abitato, era stato estremamente protetto da chiunque, fatta eccezione per pochi eletti. Ma lui continuava a guardare questa ragazza, nella sua gabbia, questo luogo nel quale era stata portata e poi depositata, pronta per la persona all'interno di The Halls che l'aveva richiesta. Si sentì stupido, piccolo e nauseato. Si sentì ignorante e ingenuo. Aveva creduto di conoscere gli orrori del mondo, di aver percorso il suo lato o-
scuro fronteggiando quanto di peggio esso riuscisse a produrre. Avere un amico come Ward lo aveva aiutato: Ward, nonostante se la cavasse molto bene nel combattimento, aveva condotto una vita molto tranquilla se paragonata alla sua. Sentiva che Ward lo rispettava, stimava le sue credenziali di dannato, e questo lo aiutava a rassegnarsi a invecchiare, a non finire più nel lato oscuro. Mentre guardava nella cella, incapace di smettere di fissare un pezzo di carne vagamente animata nel compiere i suoi ultimi contorcimenti, Bobby si accorse di non avere nemmeno mai scalfito la superficie dell'immaginabile - che le uccisioni e le guerre riportate nei notiziari erano poco più che aggiornamenti sportivi, morti scenografiche, un sistema degenerato di gratificazioni fisiche che differiscono solo per grado e responsabilità pubblica; che persino i terroristi che lui aveva interrogato apparivano dei dilettanti del regno dell'oscurità. Almeno loro desideravano che la gente sapesse cosa avevano compiuto, non lo facevano semplicemente per se stessi. Bobby capì che questo costituiva una differenza, e anche che, se noi appartenevamo tutti alla stessa specie, allora c'erano poche speranze di salvezza: qualunque cosa avessimo realizzato durante il giorno, non avrebbe cancellato quello di cui alcuni erano capaci la notte. Certi aspetti del comportamento umano erano ineluttabili, ma questo non poteva esserlo. Pensare che lo fosse era come accettare che non avessimo nessun limite verso il basso. Il solo fatto che fossimo in grado di creare arte non significava che quello che giaceva di fronte a lui potesse essere liquidato come un'aberrazione, che potessimo prendere ciò che ammiravamo e isolarlo come umano, scartando il resto come mostruoso. Entrambe le cose erano realizzate dalle stesse mani. L'intelletto non indeboliva la violenza, ci rendeva più bravi nel compierla. La nostra specie era responsabile di tutto, e portava nascosto dentro di sé il suo lato oscuro. Poi Bobby sentì un altro rumore provenire da dietro le sue spalle. Non alzò immediatamente lo sguardo, Ginny gli bastava. Stava già stava chiedendosi se fosse stato meglio spararle, per porre fine alla sua sofferenza - o alla propria, forse - o se sarebbe sopravvissuta al suo viaggio di ritorno alla civiltà e, in quel caso, cosa sarebbe rimasto da salvare. Pensava che non sarebbe stato in grado di sopportare un'altra decisione del genere. Ci impiegò troppo tempo per rendersi conto che dietro di lui non c'era un altro bambino. C'era invece Harold Davids, che sparò a Bobby alla nuca. Dopo la morte di Robert Nygard, le gambe di Ginny Wilkins continuarono ancora a muoversi per alcuni minuti, a contorcersi e a sussultare lentamente a migliaia di chilometri da casa sua e da chi ne sentiva la mancan-
za. Zandt ormai non faceva più caso alla pioggia ed era passato dentro l'ultima casa senza nemmeno guardare nelle stanze. Ora stava semplicemente seguendo la pista di ossa e non parlava da cinque minuti. Ward si affrettava dietro di lui. La traccia non giocava più con loro, spingendoli in tutte le direzioni, ma li conduceva semplicemente al centro del sentiero. Incontrarono un piccolo riquadro, ottenuto con le ossa metacarpali, e con al centro una rotula. Una lunga serpentina di vertebre, disposte a distanza di circa mezzo metro e nel giusto ordine, per quanto ne sapesse Ward. L'Homo Erectus doveva aver sistemato le tracce molto in anticipo, aggiungendo il mucchio di costole solo all'ultimo momento, quando aveva saputo che loro erano lì per farsi guidare. Il resto aveva richiesto tempo, era stato realizzato con cura. L'assassino non li aveva fatti uscire da casa di Davids per salvarli, ma per questo: aveva già organizzato l'incontro e non voleva che il suo lavoro andasse sprecato. In un modo o nell'altro lui aveva guidato il loro comportamento da molto più tempo. Alla fine trovarono un paio di clavicole, sistemate come una V rovesciata, con il secondo osso femorale usato per trasformarle in una freccia direzionata verso l'ultima biforcazione del sentiero, verso una casa a trenta metri di distanza. Ward raggiunse Zandt e lo afferrò per una spalla. «Non entreremo là dentro,» disse. L'altro lo ignorò, scrollandosi di dosso la mano, e percorse velocemente il sentiero fino ai gradini che conducevano alla terrazza della casa. Ward lo afferrò per un braccio. «Ci starà aspettando, John... lo sai. Ha già ucciso la ragazza e ucciderà anche noi, poi andrà a cercare gli altri e ucciderà anche loro. So che tenevi a lei, ma non ti permetterò...» Zandt si voltò di scatto e lo colpì al volto. Ward cadde all'indietro sul sentiero bagnato, più shockato che dolorante, e cominciò a domandarsi se gli fosse sfuggito qualcosa. Era sembrato che Zandt non lo avesse neanche visto, che non avesse nemmeno idea di chi fosse. Ward scivolò e a fatica si rimise in piedi, ma poi gli corse dietro. Zandt saliva pesantemente i gradini. A differenza delle altre case questa aveva la porta al centro della terrazza. I gradini conducevano direttamente all'entrata, come se stesse attraversando un lungo e oscuro imbuto. Aveva la sensazione che la sua mascella volesse rientrargli nel collo, che fosse solo la
tensione del suo volto e della sua pelle a tenerla a posto. In cima ai gradini c'era qualcosa. Sentiva Ward che lo stava raggiungendo. Questa volta non tentò di afferrarlo, ma gli camminò a fianco, accompagnandolo. Era lontano solo un gradino quando Zandt raggiunse l'ultimo elemento della pista. Era il maglione di una ragazza, ormai zuppo di pioggia, ma ben ripiegato e con un nome ricamato sul davanti. Il maglione era color pesca. Il nome era Karen Zandt. 35 Quando sentì la porta dell'atrio aprirsi delicatamente, qualcosa suggerì a Nina di non fiatare, di non fare alcun rumore. Il petto le faceva un male inimmaginabile e ora il dolore si era diffuso in tutto il corpo, opprimendo lo stomaco sino a farlo a pezzi e arrivando in fondo al braccio con il quale teneva la pistola. La porta si richiuse con un fruscio. Si sentirono un paio di passi ma nessuno pronunciò il suo nome. Allora capì che Bobby era morto. Non riusciva a guardare verso quella parte della stanza senza doversi tirare su e voltare la testa, un movimento che le sarebbe stato fatale, oltre che atrocemente doloroso. Tentò di sprofondare nella grande e morbida poltrona. Si udirono altri passi, insieme a un altro suono, come un rollio. Poi qualcosa fu posato a terra. Seguì un attimo di silenzio. «Lo so che sei qui,» disse qualcuno. Lo stomaco di Nina sobbalzò e fu sul punto di parlare, di confessare, di dire che, sì, lei era lì, come era stata costretta a fare per un certo periodo, quando era bambina. Ma quello era stato tanto tempo fa, ora le sue labbra si serrarono e afferrò la pistola più saldamente che poté, per quanto la sua mano non rispondesse più come avrebbe dovuto. «Non avrebbero lasciato qui Bobby,» disse la voce, «a meno che non ci fosse qualcuno di cui prendersi cura.» Passi indagatori. Non sapeva dove si trovasse Nina. Ma lei era lì e l'uomo avrebbe fatto quello che gli era stato detto, come sempre. Anche se esteriormente appariva forte, capace, un leader, in realtà era sempre andato a rimorchio. Era da così tanto tempo che viveva con il senso di colpa e in trappola che nulla sembrava avere senso. Questo gli aveva fatto il padre di Hopkins, aveva preso una vita tranquilla, ragionevole e l'aveva mandata a rotoli. «Forse sei già morto, ma non credo. A ogni modo, me ne devo assi-
curare.» Nina cercò di scivolare più in basso, ma sentiva troppo dolore, e qualsiasi movimento che fosse abbastanza ampio da risultare vantaggioso avrebbe prodotto del rumore contro la pelle della poltrona. «Bobby è morto,» disse l'uomo. La sua voce appariva vecchia, ma sicura. «E presto lo saranno anche gli altri. Potremmo lasciarti andare, ma i conti in sospeso vanno chiusi, e questo è la mia specialità.» Il rumore dei passi fu sostituito da un suono strisciante, mentre l'uomo si avvicinava cautamente pochi centimetri alla volta, camuffando la direzione del suo procedere. Nina era così spaventata che cominciò a piangere, una risposta involontaria scaturita dal profondo, una reazione della quale lei non era nemmeno consapevole. Spinse lentamente il suo braccio sinistro dietro di sé, per aggrapparsi al lato della poltrona, tirò i piedi verso l'interno, un millimetro alla volta. La sua mano tremava e i nervi del braccio bruciavano come fossero in fiamme. «Una notte propizia per morire,» disse l'uomo con tranquillità, e adesso la sua voce era meno distante. «Questa non è la fine, è un nuovo inizio, un mondo completamente nuovo che comincia con un bang.» Sghignazzò. «Veramente, è molto bello.» Lo strisciare si interruppe. Nina spinse con tutte le sue forze e il suo corpo scivolò fuori dalla poltrona. Lo fece goffamente, si bloccò e ruzzolò in avanti andando a sbattere contro il tavolo di vetro di fronte a lei. Sapeva di avere mandato tutto a puttane, ma ora riusciva a vedere l'ombra alla sua destra. Davids annuì. «Ah. Eccoti.» Lei trascinò verso l'alto la mano e premette il grilletto una, due, tre volte. Ci fu solo uno sparo di risposta, e non la colpì. Nina attese il secondo sparo per un attimo che durò un'eternità, ma non arrivò. Allora spinse in avanti un ginocchio, si tirò su e si voltò. A terra, a due metri di distanza, c'era un corpo. Adesso che era riuscita ad alzarsi, l'idea di potersi muovere ulteriormente sembrava almeno credibile, benché accompagnata da un dolore così lancinante da svenire. Posò il piede e avanzò barcollando. Sul pavimento c'era un uomo anziano con i capelli grigi, ma non era ancora morto. Nina gli arrivò accanto e si abbassò leggermente. Harold Davids guardò in su verso di lei. «Tu non fai nessuna differenza,» disse, e poi rimase in silenzio.
Nina non stava ascoltando, stava guardando qualcosa che giaceva vicino al bancone della reception. Non riusciva in alcun modo a capire cosa fosse, quindi fece qualche passo avanti. Era un piccolo tamburo, da cui partiva un cavo che era stato collegato a una serie di connettori inseriti nel bancone della reception e, poi, proseguiva fino fuori la porta. L'inizio di un nuovo mondo. Si chinò sul bancone e lo esaminò, ma non c'era traccia di qualcosa che potesse fare da detonatore. Doveva essere innescato da qualche altro posto. Sapeva che non avrebbe potuto andarsene da The Halls a piedi. Riuscì ad arrivare al parcheggio prima che una delle gambe cedesse, facendola cadere pesantemente sull'asfalto. Il dolore, assieme agli schizzi della pioggia gelida che le rimbalzavano in faccia, bastarono a farla uscire dal suo stato confusionale. Allora cominciò a strisciare per avvicinarsi alla macchina. Ward trattenne Zandt dall'entrare dalla porta principale. L'uomo era quasi ingovernabile, ma Ward sapeva che non sarebbero dovuti entrare in casa da quella parte. Gli aveva già impedito di tornare indietro a prendere alcune ossa, aveva dovuto fronteggiarlo testa a testa e urlare il nome di Sarah Becker per ricordargli che c'era ancora qualcuno da trovare. A questo punto, non importava neanche che fosse morta. Era qualcosa che dovevano scoprire. Ward aveva cambiato idea, sarebbero entrati nella casa, a qualsiasi costo. Se l'uomo era lì, ancora meglio, ma il percorso andava seguito fino in fondo. Spinse Zandt oltre l'angolo della casa dove trovarono un'altra porta, chiusa. Ward desiderò che Bobby fosse con loro: lui sarebbe stato in grado di aprirla senza fare rumore. Ward non aveva quell'abilità, così avvertì Zandt con un cenno della mano e poi spalancò la porta semplicemente con un calcio. Entrarono di corsa. Dentro non c'era nessuno ad attenderli. Uscirono e svoltando a sinistra, salirono i pochi gradini che conducevano sul davanti della casa, verso il punto in cui qualcuno avrebbe potuto aspettarli dietro la porta principale. Nella stanza non c'era nessuno, solo una grande sedia con lo schienale rivolto alla porta, e uno scrittoio decorato. Cominciarono a correre, coprendosi a vicenda, attraverso una disposizione planimetrica che ora appariva familiare. Indugiarono nel salotto posteriore, buio, freddo e silenzioso. Non troppo silenzioso.
Sentirono un rumore smorzato provenire dal piano di sopra. Un colpo, attutito e distante. Tornarono indietro, attraverso la cucina, verso la scalinata centrale. Al piano di sopra. Quattro camere da letto, tappeti sul pavimento. Niente. I bagni. Niente. Lo studio. Niente. Ma si sentiva sempre un rumore provenire da qualche parte. Di nuovo nella prima camera da letto. Il suono era più forte. Ma ora sembrava che il suono provenisse dal piano di sotto. Seconda camera da letto: qui il suono era più attenuato, ma sempre proveniente da sotto. Ward ruotò su se stesso sventolando la pistola davanti a sé, consapevole che da un momento all'altro qualcuno sarebbe emerso dall'ombra, che nessuno avrebbe lasciato una trappola del genere senza desiderare di essere presente al suo scattare. Zandt corse di nuovo nella prima camera da letto e si inginocchiò sul pavimento. «Viene da qua sotto.» «Siamo al secondo piano,» ringhiò Ward, ma poi sentì il rumore e capì che l'altro aveva ragione. Scostarono il tappeto. Poi le assi del pavimento. Tra di esse era stata ricavata una piccola botola. Zandt si ferì le dita facendo leva per sollevarla. Al di sotto apparve la faccia di una ragazza. Pallida, scheletrica. La sua fronte era violacea per il battere contro il pavimento sopra di lei, Dio sa da quanto tempo. Era viva. Sarah sbatté le palpebre. Nel profondo della sua mente era come se qualcuno le avesse sollevato la testa, quel tanto che bastava perché l'acqua non le entrasse nel naso. La sua bocca si mosse. Zandt infilò la mano nella fessura e le accarezzò il viso. Pronunciò di nuovo il suo nome e lei annuì, in grado di muovere la testa a stento. I suoi occhi erano rossi e gonfi. Zandt si avvicinò. Lei tentò di parlare di nuovo e Ward riuscì a sentire solamente un bisbiglio roco. «Cosa sta dicendo?» «Che knock on wood è pericoloso.» Zandt si piegò in avanti e premette la sua fronte contro quella di Sarah come se stesse cercando di trasmetterle un po' di calore. La ragazza cominciò a gridare. Ward infilò le sue mani sotto il bordo delle tavole in corrispondenza del collo e tirò. Sulle prime non riuscì a smuoverle. «Le ha inchiodate da sotto,» disse. «Cristo. Aiutami, Zandt.» Cominciarono a staccarsi, ma lentamente e una a una. La ragazza provò a spingere, per aiutare, ma era troppo debole e se fosse stata in grado di fare qualcosa nella posizione in cui si trovava, l'avrebbe già fatta da tempo.
Quando le ultime due tavole finirono in pezzi, Zandt si allungò, fece scivolare le mani sotto la schiena di Sarah e la tirò su. Se la mise sulle spalle e fu allora che lei vide la faccia di Ward e cominciò a urlare. Nina doveva alzarsi. Sapeva di doverlo fare. Non poteva raggiungere la maniglia rimanendo a terra, tanto meno aprirla, meno che mai salire in macchina. Dalla sua posizione aveva già notato che il cavo che Davids aveva srotolato si stendeva attraverso il parcheggio fino all'altro edificio. Quello dove probabilmente giaceva Bobby. E lei era sicura che correva per tutto il resto del complesso, che questo era l'ultimo sistema di difesa, e forse anche qualcosa in più. Appoggiò di nuovo la testa sull'asfalto, non riusciva a respirare dal dolore. Il suo braccio destro, il braccio che le era tornato utile in tante buone occasioni in tutti quegli anni, che aveva eseguito tutte le cose che lei aveva richiesto, ora l'aveva abbandonata. Era come se appartenesse a qualcun altro, qualcuno che non stava al suo fianco e che non ascoltava quello che diceva. Alternava la sensazione di indossare un guanto da cucina pieno di gelatina di frutta a quella di avere un artiglio carbonizzato. Probabilmente questo non era un buon segno. Nina deglutì due volte e sollevò il capo. Il terreno sotto la macchina sembrava asciutto, a ogni modo più asciutto che in qualsiasi altro posto. Era possibile che riuscisse semplicemente a strisciare lì sotto e a riposarsi per un po'. È una buona idea, disse il suo corpo, è veramente un'ottima idea. Persino il suo braccio destro sembrò tornare in vita al pensiero. Allora lei ruotò sul gomito destro e con la mano sinistra si tirò su. Il lampo di dolore le trafisse la mente per un secondo e poi, improvvisamente, si ritrovò in piedi. Armeggiò sulla portiera con la mano sinistra, non ottenne niente, quindi ci provò con la destra - e fu sorpresa che facesse quello che lei chiedeva. La portiera si aprì. Ricadde in avanti, cercò di trascinarsi sul sedile del guidatore, ma non ci riuscì. Riappoggiò i piedi, afferrò il volante e salì. Questa volta quando cadde, almeno lo fece su un sedile. Si mise più o meno diritta e chiuse la portiera. Tastò in cerca delle chiavi. Non c'erano. «John, ascoltami. Lei sta male, non sa quello che dice.» Zandt indietreggiò verso le scale, tenendo la pistola fissa davanti a Ward. Sarah era dietro di lui, gli stringeva le braccia intorno alla vita, sia
per proteggersi sia per sorreggersi. Inciampò e quasi cadde. Lui si dovette voltare per prenderla, cingendole le spalle con un braccio e stringendo il corpo della ragazza al suo. Lei aveva smesso di urlare, ma solo perché la sua voce si era ridotta a un suono stridulo. Ma nella sua testa risuonava ancora. Ward scese lentamente i gradini dirigendosi verso di loro, teneva le mani in alto e parlava con voce bassa, tranquilla. «Non l'ho rapita io,» disse. «Io non ero a Santa Monica in quel periodo. Ero a Santa Barbara, lo posso provare, ho le ricevute dell'hotel.» «È solo mezz'ora di macchina.» «Lo so, John. Lo so questo. Allora, se stessi mentendo, perché dovrei farlo così male? Potrei dirti che mi trovavo in un fottuto posto della Florida. John, cosa diavolo credi? Pensi che sarei venuto fino qui con te, che avrei seguito le tracce di queste persone se fossi stato uno di loro?» Arrivarono in fondo alle scale. Sempre tenendo Sarah che stava ancora cercando di nascondersi dietro di lui, Zandt indietreggiò lungo il corridoio verso il salone principale sul davanti della casa; questa volta sarebbero usciti dalla porta d'ingresso. «Non si può mai dire quello che la gente è in grado di fare,» disse Zandt. «Me compreso. Fai una mossa e ti faccio saltare la testa.» «Non sono stato io.» «Lei dice di sì, dice che eri tu a Santa Monica.» Ward si fermò. «Okay,» disse. «Okay, ecco cosa faremo. Io rimango qui, voi ve ne andate. Tu la porti fuori e poi torni qui a parlare con me.» «Tornerò da te,» disse Zandt. «Ma non parleremo.» Sarah si sentì cadere, ma l'uomo la sorresse di nuovo. Ora Nokkon Wud era più lontano, rimaneva ai piedi della scala. Li stava ingannando, lei lo sapeva. Gli stava facendo credere che potessero andarsene e poi li avrebbe inseguiti. Non aveva bisogno di camminare, poteva balzare oltre il tetto e volare sopra le case della gente e poi scendere in picchiata e ucciderli dall'alto. Lui non era normale, non era come tutti gli altri. Lei tentò di dire queste cose all'uomo buono, ma era troppo difficile. Cercò di dirgli di sparare ora a Nokkon, ma non ci riuscì e lui non lo fece, continuò semplicemente a sorreggerla, fino alla stanza nella parte anteriore della casa. Sarah non poteva scegliere dove andare, le sue gambe non funzionavano e quindi poteva solo andare dove la portavano. Nina pensava che non sarebbe più stato lì. Per tutto il tempo in cui aveva
attraversato il parcheggio incespicando, mentre apriva la porta dell'atrio, mentre si faceva strada tra le solitarie mastodontiche sagome di poltrone troppo grandi e di divani, lei si era quasi convinta che il corpo di Davids non ci sarebbe stato, che tutto quello che avrebbe trovato sarebbe stato una zona vuota sul pavimento. Questo non cambiava le cose, lei non poteva far partire la macchina senza le chiavi. O le aveva prese Bobby o lo aveva fatto Davids. Non sapeva dove fosse Bobby, quindi doveva trovare Davids e doveva incominciare da dove era caduto. Invece lui era lì. Quasi incredula, Nina si chinò per frugargli le tasche. Sarebbe stato più semplice inginocchiarsi, ma aveva paura che se lo avesse fatto non sarebbe più stata in grado di rialzarsi. Era riuscita ad attraversare il parcheggio e a tornare nell'edificio, ma non sapeva quanta energia le rimanesse. Fece scivolare la mano nella sua giacca. La mano dell'uomo si agitò alla cieca e afferrò quella di lei. Aprì la bocca. «Mary,» disse. Terrorizzata, Nina fissò il volto di Davids. Lui la tirò a sé e lei cadde. Il suo ginocchio andò a finire contro la faccia dell'uomo, il collo ruotò producendo uno scricchiolio, ma lei si accorse appena di questo perché sbatté con la testa a terra. Annaspò sul pavimento viscido, non aveva nessun appiglio, poi si accorse che non c'era nulla che la stesse tirando. Si girò, infilò di nuovo la mano nella giacca, ma lui non si mosse. Doveva trovare le chiavi, anche se fosse stata l'ultima cosa che avrebbe fatto. Le trovò nella tasca destra dei pantaloni. Ne trovò tre mazzi e li prese tutti. Scivolò lungo il pavimento, mantenendosi il più possibile distante da lui, finché non si trovò vicino a una poltrona, forse proprio quella su cui era stata, pensò, ma non ne era sicura. Sembrava passato così tanto tempo. Trionfante per il ritrovamento, le ci vollero solo trenta secondi per mettersi in piedi, poi riattraversò l'atrio, passando sopra il cadavere del poliziotto, oltrepassò la porta, e ritornò nel parcheggio. Il suo rinnovato vigore stava venendo meno, e lei ne era consapevole - non perché soffrisse di più, ma perché era come se il flusso di dolore cominciasse a interrompersi. Erano la perdita di sangue e lo shock. Il suo corpo stava sollevando il ponte levatoio, aveva bisogno della sua energia e lei la stava sprecando. Dopo aver ringraziato il cielo per non aver chiuso la portiera, entrò in macchina e si trascinò su un sedile ormai fradicio di pioggia.
Il secondo mazzo di chiavi entrò nell'accensione. Solo allora Nina chiuse la portiera, consapevole che sarebbe dovuta andare in cerca di Bobby. Il motore si accese al primo tentativo e lei benedì la Ford e i suoi piccoli e astuti progettisti. Ormai non era più come quando Nina era giovane, e dovevi persuaderle gentilmente per farle partire, col risultato che ti affezionavi e davi loro dei nomi. Oggi, qualunque cosa accada, partono sempre, non c'è bisogno di chiamarle per metterle in moto. Tutto quello che devi sapere è la destinazione. Nina appoggiò la testa al volante, solo per un secondo, e si sentì venir meno. Si riscosse, mise la retromarcia e fece un balzo all'indietro di dieci metri. Poi mise la marcia avanti, affondò il piede sull'acceleratore e si diresse contro la recinzione. Ward mantenne la parola, anche se si sentiva spaventato e confuso e non voleva essere lasciato solo nella casa. Rimase ai piedi della scala a fissare lo spesso cavo che correva lungo di essa, fino a che non sentì la voce di Zandt che proveniva dalla porta principale. «Oh Gesù Cristo,» disse l'uomo mentre la ragazza provava di nuovo a urlare. Si udì un rumore sordo. Ward accorse. Nel salone della parte anteriore della casa, ora, c'era solo una lampada accesa che proiettava un bagliore giallastro sulla finestra. La ragazza si era raggomitolata nell'angolo ed emetteva una sorta di miagolio. Zandt era a terra, la sua pistola a metri di distanza. Aveva un'espressione stranissima in volto. In piedi accanto a lui c'era un uomo armato di pistola e questa era puntata contro la testa di Zandt. «Allontanati da lui,» gridò Ward, con le braccia tese e la sua pistola pronta a sparare. «Levati dai coglioni.» «Altrimenti cosa?» disse l'uomo senza nemmeno voltarsi. «Cosa fai?» «Altrimenti ti faccio saltare quella testa di cazzo.» «Davvero?» Alla fine l'uomo si girò. «Ehi, Ward,» disse. «Chi non muore si rivede.» Ward vide la sua stessa faccia. I capelli erano più lunghi e di un altro colore, un biondo ramato. Nei tratti c'era qualcosa di dissimile, ma niente di più dell'effetto di creature animate da una mente diversa. Al di là di questo non c'era alcuna differenza, persino la loro corporatura era esattamente la stessa. Sbatté le palpebre.
«Esatto.» L'Homo Erectus annuì affabilmente. «Allora... pensi di riuscire a farlo ora? Uccidere l'unico parente consanguineo che tu abbia mai avuto?» Il suo dito si strinse intorno al grilletto della pistola. «Sono sinceramente interessato a saperlo, e non lasciarti influenzare in alcun modo nella decisione dal fatto che potresti uccidere anche John.» Riportò la sua attenzione di nuovo su Zandt. «Ti è piaciuta la 'consegna' là fuori? Avevo detto che te l'avrei restituito, prima o poi.» Sferrò un calcio in faccia a Zandt. Il colpo scaraventò all'indietro la testa di Zandt così violentemente che per un momento Ward temette che il collo dell'uomo si sarebbe rotto. Tentò di premere il grilletto, ma non ci riuscì. Zandt roteò il collo e inspirò col naso per diminuire il dolore. «Non mi interessa come tu ti faccia chiamare,» disse con voce monotona. «Non mi è mai interessato. Ward, spara a questo coglione.» Ward aveva la bocca aperta e asciutta. Le sue braccia non tremavano, ma erano come pietrificate, gli era impossibile muovere le dita. L'Homo Erectus gli sorrise. «Abbiamo un sacco di cose di cui parlare,» disse. «Ma so che sei un po' arrabbiato e, a dire il vero, dovremmo andarcene. Come gesto di buona fede lascerò in vita uno di questi due. Scegline uno e fai fuori l'altro. Non sei neanche lontanamente abituato a uccidere, amico mio. Dobbiamo istruirti in fretta.» «L'FBI sta arrivando,» disse Ward con una voce che sembrò vuota e incerta persino a lui stesso. «Non credo,» disse l'Homo Erectus. «Se fossero venuti, sarebbero con te.» «Perché l'hai fatto? Perché hai ucciso i miei genitori?» «Non erano i tuoi genitori, testa di cazzo. Loro hanno ucciso nostro padre e mandato a puttane le nostre vite. Avremmo dovuto stare insieme, dall'inizio. Pensa cosa avremmo potuto compiere fino a oggi. Gli Uomini di paglia hanno i soldi, fratello, ma siamo puri.» Nell'angolo, Sarah teneva le mani sulle orecchie e i suoi occhi erano chiusi, ma riusciva a sentire la voce dell'uomo. La sua voce odiosa, odiosa, la voce che aveva sentito parlare e parlare, dire cose su cose fino a che lei era arrivata a pensare che sarebbe stato proprio il suono delle sue parole a ucciderla, alla fine, non la fame, che prima o dopo lui avrebbe detto qualcosa e la sua testa avrebbe semplicemente preferito aprirsi in due piuttosto che stare ancora ad ascoltare. «Il mio consiglio è quello di uccidere John. In ogni caso, non ha nulla
per cui vivere. E così ti tieni la ragazza. È un po' malridotta, ma, ehi... potremmo divertirci un po'.» «Sparagli, Ward,» disse Zandt. «Sparagli e basta.» «Cominci a farmi incazzare, John,» disse l'Homo Erectus dandogli di nuovo un calcio. «Anche tu, Ward. È ora di muoversi, il mio lavoro su questa montagna è finito. È ora di volare via.» Nella mente di Sarah tutto era confuso. L'uomo che lei aveva pensato potesse essere suo padre non lo era e giaceva a terra. L'altro uomo... non sapeva chi fosse. Un riflesso. Nokkon parlava all'uomo riflesso, che non si muoveva. «Forza, amico, facciamola finita. Ammazza questo coglione. Sai che è ciò che desideri.» Nokkon puntò la sua pistola alla testa dell'uomo a terra. Stava per ucciderlo e volare via, come aveva detto. E se l'uomo sul pavimento non era suo padre, allora lui avrebbe potuto essere a casa con sua madre e sua sorella. Ma il problema era che casa loro aveva un tetto e se la casa aveva un tetto allora Nokkon avrebbe potuto attraversarlo, e se a lei aveva fatto tutto questo allora nessuno era in grado di dire cosa avrebbe fatto a loro. Sarah tolse le mani dalle orecchie, tanto non servivano a nulla. «Ce l'hai nel sangue,» disse l'Homo Erectus. «So che hai letto il Manifesto, lo hai letto, e scoprirai che dice la verità.» «È una stronzata,» disse Zandt. Il piede dell'Homo Erectus scattò immediatamente, pestando la mano di Zandt. «Ward, annullo la mia offerta,» disse, per la prima volta con voce meno ferma. «Se vuoi uccidere qualcuno, deve essere lei. Questo tizio è mio da tanto tempo.» Puntò la pistola diritta alla faccia di Zandt. Ma poi sollevò la testa di scatto, come se avesse sentito qualche rumore che proveniva da fuori. Sarah non ci pensò un attimo e saltò fuori dall'angolo. Il suo corpo non ne aveva la forza e la spinta in avanti fu compromessa addirittura prima che riuscisse a mettersi in piedi. Ma lo slancio la portò oltre i piedi dell'uomo a terra e diritta su Nokkon Wud. Lui cadde all'indietro, colpendo la testa dell'ossuta ragazza, opponendosi ai denti che tentavano di afferrargli il volto. Un bel pugno in mezzo agli occhi e Sarah fu stesa a terra, ma almeno l'incantesimo su Ward era stato spezzato. Sparò all'Homo Erectus una volta, mancandolo, ma subito dopo Zandt gli saltò addosso e lui non poté sparare di nuovo.
I due uomini rotolarono sul pavimento, scalciando, tirando pugni. Ward stava da un lato, pronto, in attesa del colpo preciso che pensava di poter avere, che sapeva di dover avere a qualunque costo. Poi sentì il rumore proveniente dall'esterno, il rumore di un motore accelerato, di un clacson che veniva premuto a ripetizione. Bobby. Vide anche Sarah, ancora a terra, e il sangue che le usciva dal naso. Corse verso di lei, sapendo che Zandt avrebbe fatto la stessa cosa, la tirò su con un braccio intorno alla pancia e barcollò verso la porta d'ingresso. La spalancò e fu investito dalla luce. Non riusciva a capire cosa fosse, e poi si accorse che erano i fari della macchina che aveva affittato il giorno prima all'aeroporto. Condusse la ragazza al suo fianco giù per i pochi gradini, domandandosi a che diavolo di gioco stesse giocando Bobby ma benedicendolo: poi si vide che c'era solo una persona nella macchina e che non era il suo amico, ma l'agente dell'FBI che sembrava la morte personificata. Fece il giro per raggiungere il finestrino del guidatore. «Dov'è Bobby?» «Salite,» fu tutto ciò che Nina disse. «È lei?» «Sì. Dov'è Bobby?» «Dov'è Zandt?» «È dentro. Mi vuoi dire dove cazzo è Bobby?» «Bobby è morto» gridò lei. «Davids l'ha ucciso. Mi dispiace Ward, ma ti prego vai a prendere Zandt, dobbiamo andarcene. Tutto il complesso è minato, e ce ne dobbiamo andare.» Cavi, dappertutto. Ward aprì la portiera posteriore e spinse dentro il più delicatamente possibile la ragazza. La lasciò aperta e fece una corsa verso l'ingresso della casa, urlando il nome di Zandt. Nella stanza sul davanti non c'era nessuno, la pistola di Zandt non giaceva più a terra. Ward attraversò la casa di corsa, continuando a gridare, con la pistola spianata e divorato dalla vergogna per quanto accaduto due minuti prima. Non era stato in grado di sparare a quell'uomo, ma lo poteva fare adesso. Sapeva che era così, ora poteva riuscirci. Udì qualcuno che correva dietro di lui, poi di lato, così deviò bruscamente per andare a raggiungerlo nel salotto sul retro. Zandt si precipitò nella stanza diretto contro di lui. Ward se ne ricordò all'ultimo momento e gridò: «Sono io, John, non lui, sono io.» La faccia di John era coperta di sangue. Lui si fermò con la pistola a pochi centimetri dalla testa di Ward.
«Guarda i vestiti, John, guarda i miei vestiti.» Dopo un secondo Zandt lo spinse da parte e cercò di andare oltre. Ward lo afferrò per il collo. «Nina è fuori, Bobby è morto e noi dobbiamo scappare.» Zandt gli diede una gomitata nello stomaco, scaraventandolo all'indietro, ma Ward lo riafferrò immediatamente, stringendogli la testa. «Tutta la zona è minata, John. Se non ce ne andiamo, ci ucciderà tutti. Ucciderà anche Sarah.» La resistenza di Zandt si attenuò per una frazione di secondo e Ward lo trascinò nella stanza sul davanti della casa, procedendo all'indietro, fino alla porta d'ingresso attraverso cui penetrava la luce. All'esterno Nina stava mandando su di giri il motore, ma Zandt continuava a opporsi, lottando come un orso contro il braccio avvinghiato intorno al suo collo. Per un attimo Ward credette di aver visto un'ombra comparire sulla soglia di una delle case, ma scomparve immediatamente. Quando fu all'esterno Zandt sembrò rendersi conto che al mondo c'erano altre persone, per un attimo sembrò vedere una finestra al di là della quale non si scorgeva solo l'uomo che doveva uccidere. Ward lo spinse in macchina, abbassandosi per raccogliere qualcosa da terra. Zandt salì dietro, ma urlava e imprecava, colpendo con i pugni la parte posteriore del sedile di fronte a lui. Ward saltò sul sedile del passeggero. «Vai Nina, vai.» Nina ebbe un attimo di esitazione, ma poi pestò con forza il pedale dell'acceleratore come se stesse cercando di alzarsi. L'auto zigzagò all'indietro sull'erba bagnata, lei ne riprese il controllo ma sembrò non accorgersi di gemere ritmicamente per il dolore. «Tienila,» gridò Ward rivolto a Zandt, mentre si metteva la cintura di sicurezza e subito dopo si precipitarono in discesa attraverso The Halls, passando come razzi davanti a tutte le case immerse nel silenzio con i loro tesori. Ward credette di percepire lo scricchiolio delle ossa sotto le ruote, ma doveva essere frutto della sua immaginazione, e si augurò anche che Zandt non avesse la stessa sensazione. Sperò inoltre che non avesse visto quello che lui credette di vedere per un istante: la sagoma di un uomo in piedi sulla cresta della collina che dominava i prati. Non poteva averlo visto veramente, stavano andando troppo veloci. Nina cercò di ripercorrere il varco che aveva creato nell'entrare, e quasi ci riuscì. Alcune assi volarono oltre il parabrezza, e la cosa peggiore fu un brutto rumore di rottura proveniente dal punto in cui il telaio urtò contro
uno dei paletti del parcheggio, ma la macchina continuò ad andare. Nella curva a sinistra dopo l'uscita, quasi si ribaltò. Nina pensò che i loro sforzi fossero stati inutili, ma riuscì a riportare al suolo le ruote e a proseguire il tragitto, passando sotto l'arco e poi dirigendosi sulla strada che si allontanava dalle montagne. Di nuovo fu sul punto di ribaltare l'auto appena girato l'angolo, dove Davids aveva nascosto la sua macchina, ma sbandando riuscì a evitarla. Dopo una serie di tornanti cominciarono a prendere sempre più velocità, fino al lungo rettilineo che conduceva alla fila di alberi che nascondeva la strada. Questa volta non riuscì a fare la curva, e sapeva già che ciò sarebbe accaduto, così tagliò diritto in mezzo agli alberi, trovando un varco grande abbastanza per farci passare l'auto. Da qualche parte tra quel punto e la strada una pietra acuminata fece fuori una delle ruote posteriori e nel tentativo di correggere la sbandata la macchina si ribaltò. Ci fu una successione di urti, capitomboli e scricchiolii, e poi lo stridore del metallo che si squarciava mentre la macchina slittava sul tetto lungo la strada, andando a finire dentro le acque poco profonde, rapide e gelide del fiume Gallatin. Seguì un attimo nel quale si resero conto di essere ancora vivi. Poi il mondo intero sembrò esplodere. Nella posizione in cui si trovava, a testa in giù e incurvato, tutto quello che Ward riuscì a vedere fu il bagliore di un nuovo sole, che sorgeva tra le montagne come all'alba. Houma, Louisiana È un piccolo motel e non ha servizio in camera. Ho una stanza piccola, posta alla fine di una serie di camere ugualmente piccole che si estende da un ufficio polveroso, piccolo anch'esso. Il televisore è rottame. Nella piscina c'è l'acqua, ma nessuno ci nuota, men che meno io. Domani mattina, sul presto, me ne andrò. Ricordo il nome della città nella quale vive la madre di Bobby, e ho vaghi ricordi delle sue descrizioni delle strade dove era cresciuto. Penso di riuscire a trovarla. Vorrei poterle raccontare che persona gentile fosse suo figlio e come morì. Forse avrei anche trovato il cimitero dove è sepolto suo padre e l'avrei detto anche a lui. È l'unica commemorazione che il mio amico avrà mai. Dieci giorni fa ero seduto in una macchina a Santa Monica e osservavo John e Nina mentre accompagnavano una ragazzina alla porta di una casa. Sarah teneva per mano entrambi: Nina per quella sinistra, perché portava
la destra legata al collo. Sarah era ancora molto pallida e debole, ma aveva un aspetto decisamente migliore rispetto a quando portammo lei e Nina in ospedale nello Utah. Il medico di guardia voleva chiamare la polizia. Da quello che riuscì a capire, Sarah era stata nutrita solamente con acqua addizionata a piombo e varie altre sostanze chimiche, alcune delle quali erano agenti biologici impiegati nella terapia genetica. Quello che il dottore non fu in grado nemmeno di ipotizzare era ciò che si sarebbe voluto ottenere in quel modo, eccetto un avvelenamento acuto. John lo sapeva, comunque, e ora capiva che - interpretando le prove nel modo corretto - i corpi delle altre vittime dell'Homo Erectus mostravano analoghi tentativi di ricreare qualcuno a sua immagine, attraverso traumi cranici e violenza sessuale. Nina sfruttò il suo distintivo per evitare che la storia facesse il giro della nazione. I dottori le ricoverarono per una settimana, ma la mattina dopo io e John le portammo via. Sì, avevano ancora bisogno di cure, ma fermarsi a lungo in un posto era un rischio troppo grande. Zandt chiamò Michael Becker per informarlo del nostro arrivo, poi salimmo in macchina e partimmo. Attraversammo lo Utah, il Nevada e la California, poi Los Angeles fino a Santa Monica, guidando io e Zandt alternativamente. Nonostante dormisse per la maggior parte del tempo, riuscii a fare un po' di conoscenza con Sarah. Era dolce, e disse che io ero molto diverso, il che mi fu di conforto. Penso che col tempo si riprenderà e, personalmente, scommetto che la prossima volta che andrà a cena fuori (non prima del 2045, se dovesse dipendere da suo padre) sarà una donna che non prende un'insalata Cobb, ma l'hamburger dei suoi sogni. Appena raggiunsero la soglia della casa dei Becker, Nina lasciò andare la mano di Sarah e suonò il campanello. Per un attimo sembrarono i soggetti di un quadro, poi la porta si aprì e ci fu così tanta tenerezza che dovetti distogliere lo sguardo. Per un po' rimasi a guardare fisso davanti a me, richiamando alla mente le ultime parole dette da Sarah. Quando li guardai di nuovo, Nina si stava incamminando verso la macchina, col capo chino. Zandt era ancora con i Becker. Sarah alla fine si staccò da lui e andò dai suoi genitori. Michael Becker strinse la mano di Zandt e tra loro ci fu un'intesa che non saprei definire. John indietreggiò e lasciò che la famiglia rientrasse. Rimase lì per un po' anche dopo che la porta si chiuse. Poi ripercorse il vialetto, risalì in macchina e ce ne andammo. In questo momento è in Florida a fare visita alla sua ex moglie.
Nel momento in cui avevo visto la reazione di Joln di fronte al maglione avrei desiderato piuttosto aver raccolto un osso. Non stavo pensando lucidamente - fu una considerazione immediata, l'idea che potesse volere qualcosa da riportare indietro dalle montagne. Penso che un osso sarebbe stato meglio, qualcosa che una volta fosse stato realmente parte di Karen, ma forse il maglione permetterà loro di mettere la parola fine. Abbiamo stabilito di rivederci tra qualche tempo, ci siamo scambiati i numeri di cellulare. Lui non sembrò colpevolizzarmi per non essere stato in grado di usare la mia pistola a The Halls. Credo che bisognerà attendere un po' per una qualsiasi riunione. Spero che la sua priorità sia rivedersi con Nina, una volta che lei avrà sistemato le sue cose fuori Los Angeles. Nel vederli, tutti e due insieme lì su quel gradino davanti alla porta, mi resi conto di qualcosa che spero un giorno capiscano anche loro. Sono fatti per stare insieme. Ci sono lunghi istanti, mentre guido, durante i quali mi ritrovo a fissare diritto davanti a me, e senza vedere quello che c'è al di là del vetro, lascio semplicemente che le immagini mi passino nella testa come le sequenze di un film. A volte penso agli Uomini di paglia cercando di non indagare su cosa ci sia di vero o di falso, voglio credere che ciò che sta alla base di tutto questo sia qualcosa di più profondo del Manifesto dell'Uomo: che le idee in esso espresse siano solamente un modo da psicotico per giustificare le differenze che ci caratterizzano. Ma poi mi viene in mente che il libro che molti ritengono essere il primo romanzo della storia della letteratura, La Peste di Londra di Daniel Defoe, fu scritto all'indomani di un'epidemia che dilagò in tutta Europa, e che poteva essere imputata al nostro sistema di vita in comune, gomito a gomito; e che entrambe le nostre maggiori forme di intrattenimento, film e televisione, ebbero un reale sviluppo dopo le guerre mondiali. Mi domando se i paesaggi immaginarii e le utopie siano diventati importanti non appena abbiamo cominciato a vivere insieme nei villaggi e nelle città, e se questo non spieghi la quasi contemporanea nascita delle religioni. Più la nostra vita è affollata, più siamo interdipendenti, e più i nostri sogni sono diventati fondamentali - come se tutto questo costituisse un vincolo, un aiuto per aspirare a ciò che ci manca, per condurci verso un'umanità che va ben oltre l'essere semplicemente umani. Oggi Internet connette il mondo intero, cercando di ridurre ancora di più le distanze, e mi chiedo se non sia una coincidenza che questo accada proprio quando abbiamo decifrato il nostro codice genetico, e cominciamo a manipolarlo. Più ci avviciniamo gli uni agli altri e più sembriamo aver bisogno
di capire cosa siamo. Spero vivamente che sappiamo cosa stiamo facendo con i nostri geni e che nel momento in cui cominceremo a eliminare le parti che sembrano degli errori, delle imperfezioni, non distruggeremo anche le cose che ci rendono vitali. Spero sia il nostro futuro, e non il nostro passato, a determinare le nostre decisioni. E spero che adesso, quando mi accorgerò che manca qualcosa nella mia vita, continuerò a cercarla; anche se so che potrebbe essere solo una speranza, e non essere affatto lì pronta per realizzarsi. Altrimenti diventiamo uomini di paglia, donne ombra, piantati in mezzo a campi desolati dove non vengono nemmeno gli uccelli; in attesa di un'estate senza fine, quando l'inverno è già arrivato. Visto come viviamo, così lontani da ciò che una volta era autentico, è sconcertante che riusciamo a cavarcela. Sogniamo i nostri sogni per rimanere sani di mente e anche per tenerci in vita. Come disse mio padre una volta, non si tratta di vincere, ma di credere che esista qualcosa per cui vincere. Spesso penso a lui e a mia madre, due persone che non sono più qui. La loro morte, come qualsiasi altra, non è qualcosa che possa essere cambiata in meglio. Non si può prendere la morte e insegnarle la lezione, così come non si può afferrare l'infelicità o la delusione, e così come noi non abbiamo ancora catturato l'Homo Erectus o il gruppo di cui era il capo. Forse un giorno lo faremo, forse no. Forse qualcuno come loro ci sarà sempre. È impossibile dirlo adesso, così come al momento non so se la distruzione di The Halls fosse solamente un tentativo perfettamente riuscito di cancellare ogni prova, o se l'esplosione dovesse scatenare l'enorme lago di roccia fusa che sta acquistando vigore sotto Yellowstone - per annientare la nostra cultura, e le fattorie del mondo occidentale, facendoci ritornare allo stile di vita che gli Uomini di paglia adorano. Riportandoci indietro nel tempo o conducendoci alla rovina. Nina è del secondo avviso, in base a qualcosa che ha sentito dire da Davids: crede che gli Uomini di paglia si siano persuasi di essere i migliori cacciatori-raccoglitori, che le loro ricchezze provengano da una qualche «purezza» interiore più che dal destino, che prevarranno in qualsiasi condizione. Io non lo so, è una questione che ora non posso discutere con nessuno. Il messaggio fu recapitato all'hotel dove alloggiavo a Los Angeles, il giorno dopo il ritorno a casa di Sarah Becker. Era di mio fratello. Non so come mi abbia trovato. Un'ora dopo lasciai l'hotel, e da allora non ho mai smesso di spostarmi. Il messaggio era sotto forma di videocassetta. La prima parte era stata
registrata dopo il nostro incontro. Era chiaramente molto arrabbiato, ma evidentemente non aveva abbandonato tutte le speranze di un riavvicinamento. Mi metteva al corrente sul periodo di tempo che non avevamo condiviso. Il suo ritrovamento per le strade di San Francisco, un bambino senza nulla che lo identificasse eccetto un nome cucito sul maglione, le famiglie adottive, un primo omicidio. Un periodo riguardo al quale è rimasto sul vago. Il suo lavoro come mezzano per i ricchi e i sociopatici, la scoperta di un legame tra il suo datore di lavoro e il suo passato, l'ammissione in un gruppo segreto, e il primo trionfo nel 1991 in un McDonald's di una cittadina in Pennsylvania. Il passaggio a esperimenti di evoluzione accelerata condotti in proprio, tramite l'esercizio della violenza e dell'abuso, il piano per la creazione di una sposa pura con la quale generare una stirpe non virale. Un progetto del quale parlava con un'emozione che assomigliava in maniera sgradevole all'amore. Il resto del video è più difficile da descrivere, c'è qualcosa di molto fastidioso in esso e non solo per il suo contenuto o le implicazioni della sua esistenza. Vedere qualcuno identico a me in quegli atteggiamenti e fare quelle cose è come avere accesso a un oscuro mondo dei sogni, un posto dove non sono più lo stesso, e sono la persona che spero di non diventare. Tutto ciò che Bobby e io eravamo riusciti a vedere erano immagini sfocate riprese da lontano. L'Homo Erectus, o Paul, come pensavo di doverlo chiamare, si era assicurato che ci fosse una registrazione di chiarezza cristallina della sua partecipazione a ognuno di quegli eventi. Registrazione fatta personalmente, mentre sta in piedi, sorridente, in mezzo a parcheggi in fiamme, mentre piazza micce e bombe, mentre addestra vittime sacrificali in stanze buie in America, Inghilterra e nel resto dell'Europa, mentre sta accucciato, nudo, su corpi sventrati di ragazzi dati per dispersi, mentre mangia certe cose. E quindi, di me che le compio, di me in cima a una imponente piramide di colpa. Una mezz'ora di prove. Persino il nastro che mi ha mandato non può servirmi a nulla. Non posso andare da nessuno con quello, e non solo perché la polizia di Dyersburg e probabilmente di tutto il Montana si sono aggiunte alla lista delle persone che devo evitare. Tutto ciò che il video fa è coinvolgermi. Non c'è nessun documento che dica che ho un gemello. Non c'è proprio nessun documento che mi riguardi, eccetto quello che si trova sulla cassetta, e nella mia testa. Prima di uscire dalla macchina a Santa Monica, Sarah Becker si avvicinò e mi disse qualcosa sottovoce.
«Devi farlo tu,» disse. «Solo tu puoi uccidere Nokkon Wud.» Ha ragione, non posso fare altro che quello che lui vuole che io faccia, non posso fare altro che andare a cercarlo. Nel frattempo, mentre accumulo i chilometri, continuando a muovermi, ascolto voci del passato e penso a cose che un tempo furono fatte per il mio bene, all'affetto che mi fu dato. Non conosco la risposta alla domanda su chi io sia diventato e forse non l'avrò mai, ma almeno so che non è così male come avrebbe potuto essere. Il biglietto che mio padre mi lasciò, che diceva che non erano morti, resta vero in modi che lui non poté mai immaginare. E sopravvivranno fino a quando sarò vivo. Vorrei averli conosciuti meglio, ma come tutti i desideri di questo tipo l'essenza non sta solo nel giungere troppo tardi, ma nel fatto che non sarebbe mai stato presto abbastanza. L'immagine dei miei genitori che ricordo più vivamente è quella che non ho mai visto, se non attraverso lo schermo di un televisore. Quella di una giovane coppia che dà le spalle alla cinepresa. Entrambi hanno le stecche da biliardo in mano, e si abbracciano. E, quando si voltano, il sorriso di mio padre, il dito medio mostrato alla cinepresa, mia madre che fa le linguacce. E più tardi, il suo modo di ballare. Ringraziamenti Grazie a Doug Winter per avere usato una frase che ha messo in moto il mio cervello; a Susan Allison, Chris Smith e Jim Rickards per averlo fatto arrivare abbastanza lontano; e anche a Linda Shaughnessy, Bob Bookman e David e Margaret Smith per i loro consigli; a Nicholas Royle, Howard Ely, Conrad Williams, Stephen Jones e Adam Simon per il loro supporto in questo e in altri lavori. Con affetto come sempre alla mia famiglia, con un ringraziamento speciale a Paula - per avermi aiutato a vedere le crepe nel muro contro il quale stavo sbattendo la testa, e per essere stata lì quando ho smesso. FINE