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LA STIRPE DELLA TOMBA (The Year's Best Horror Stories - Series V, 1977) A cura di GERALD W. PAGE Indice Presentazione Introduzione Il servizio di Jerry Sohl La palude di Joseph Payne Brennan La ballata di Valdese di Karl Edward Wagner Il blues di Harold di Glen Singer Il pozzo di H. Warner Munn Un delitto molto insolito di Robert Bloch Huzdra di Tanith Lee La settimana di Novins di Harlan Ellison Figli della foresta di David Drake Il giorno che piovvero lucertole di Arthur Byron Cover Seguendo una stella nera di Robert Edmond Alter Quando i bambini invocano il mio nome di Charles L. Grant Belsen Express di Fritz Leiber Dove s'arrampica il caprifoglio di Manly Wade Wellman Presentazione Quello che vi presentiamo è il quinto volume della serie The Year's Best Horror Stories (cioè una selezione dei migliori racconti dell'orrore), pubblicata ogni anno in America dalla casa editrice di Donald A. Wollheim, la DAW Books. Wollheim è da sempre uno dei più prestigiosi curatori nel campo della fantascienza, la DAW, da lui fondata diversi anni fa, marcia ormai al ritmo di sei volumi al mese, con un ottimo successo di pubblico. I racconti inclusi in queste pagine rappresentano il «meglio» dell'orrore (a giudizio di Gerald Page) uscito in America nel 1976: tutte opere già apparse su altre riviste o antologie, tranne tre (Il pozzo, Il giorno che piovvero lucertole e Quando i bambini invocano il mio nome) che sono state scritte espressamente. Come il lettore avrà modo di constatare, temi, situazioni e modi di svolgimento variano con estrema libertà da una storia all'altra: per cui si pas-
sa da quella «bizzarria» pura che è Il pozzo all'angoscioso clima d'attesa di Huzdra, dalla dissoluzione metafisica di La settimana di Novins (dove il classico sdoppiamento Jeckill/Hyde viene ripreso con la genialità tipica di Ellison) all'incubo puro di La ballata di Valdese. A questo proposito, sarà bene sottolineare due punti. Primo: la nostra collana non si prefigge di presentare una visuale unica, predeterminata, in un settore letterario dove la maggioranza delle definizioni (si veda l'acuta introduzione di Page) soffre tuttora di incertezze d'ogni tipo. Noi vorremmo solo offrire al lettore libri che diano un brivido, che si discostino dall'ottica usuale, insomma che facciano paura: libri da leggere magari a notte fonda, quando le ombre sono più dense e gli scricchiolii dei mobili hanno un rumore, un sapore tutto loro. I racconti di spettri, quindi, si affiancheranno alle antiche maledizioni; i «morti viventi» al terrore dell'inquinamento psico/ecologico. L'importante è che scatti la molla della paura, che si liberi in noi quel qualcosa di remotissimo che urla davanti all'ignoto. Secondo punto: oltre Oceano, il termine «horror» ha un significato assai più ampio di quanto noi non siamo soliti attribuirgli. Nell'horror rientrano l'insolito, il sorprendente, il diverso; tutto ciò che non ha connotazioni realistiche e che non si può inserire o nella fantascienza o in un altro dei tanti filoni (fantasia, heroic fantasy, eccetera) prestabiliti dai critici. Prendete, ad esempio, Il pozzo di H. Warner Munn: è il racconto lento, meticoloso, quasi straziante, della fuga da un pozzo senza luce e senza risorse, attuato solo grazie a un colossale sforzo di volontà. Già abbiamo detto che è bizzarro, e questo resta vero; ma è anche terrificante perché si svolge nel buio più assoluto, perché ci comunica, seppur con estrema grazia e disinvoltura, il senso d'impotenza del protagonista, quel suo lottare contro circostanze impossibili. Detto questo, vorrei sottolineare che la maggioranza delle opere rispecchiano un concetto canonico, classico, dell'orrore, e che realmente mettono i brividi. Qualche esempio concreto? La ballata di Valdese di Wagner, Il blues di Harold di Singer. Huzdra di Lee, Seguendo una stella nera di Alter, Belsen Express di Leiber: racconti in cui si mescolano spettrali apparizioni, città perdute, mostri e dèi inconcepibili, cioè tutto l'armamentario più conosciuto del genere gotico. Se è consentita una citazione di merito, vorremmo regalarla a Il giorno che piovvero lucertole di Arthur Byron Cover. Qui, veramente, l'estrema modernità del linguaggio si sposa con una concezione fantastica dell'uni-
verso; qui tutto rientra nel regno dell'inesplicabile perché si procede per astute allusioni, per audaci metafore; e qui il gusto del raccontare, del narrare una storia, raggiungere l'apice della perfezione, magari a causa delle cose che con tanta insistenza martellano il cervello del personaggio principale. Vittorio Curtoni Introduzione Nel suo ottimo volume di saggistica The Filmgoer's Companion, Leslie Halliwell cerca di tracciare un confine tra fantasia e fantascienza, dicendo che la fantascienza non si basa su leggende (ad esempio quella di Dracula) e ha come componente essenziale l'opera dell'uomo. L'autore illustra la tesi citando King Kong e altri mostri «naturali» come creature della fantasia, mentre Frankenstein e l'uomo invisibile nascerebbero dalla fantascienza. In Cliff Notes in Heinlein's Stranger in a Strange Land & Other Works un esperto del calibro di Baird Searles (che comunque si dichiara subito insoddisfatto della definizione) dice che l'elemento speculativo della fantascienza deve essere scientifico, mentre nella fantasia c'è molta più libertà. Né l'una né l'altra di queste definizioni è priva di meriti, ma nessuna delle due soddisfa il desiderio di tracciare un confine tra fantascienza e fantasia. Forse entrambe sbagliano quando prendono in esame i contenuti anziché le intenzioni. È probabile che la differenza maggiore stia non nel soggetto affrontato dall'autore, ma nel suo atteggiamento verso il soggetto stesso. In fantascienza lo scrittore costruisce un mondo che deriva, ragionevolmente, dal mondo che conosciamo o crediamo di conoscere. Lo scrittore fantastico, invece, sceglie uno sfondo dove il nostro mondo affoga entro i confini di qualcosa che supera le nostre conoscenze ed esperienze: un mondo di spiriti, o di poteri supernormali, o di rapporti causa-effetto che non hanno nulla a che vedere con la fisica, l'astronomia e la chimica contemporanee. Per cui la fantascienza tende a essere realistica (anche se non è affatto indispensabile l'accuratezza tecnologica o scientifica, che poi sono due cose diverse, ma qui ci manca lo spazio per discutere i problemi che sorgono dalla confusione di due termini come «tecnologia» e «scienza»), mentre la fantasia può risultare romantica o simbolica. Naturalmente esistono ancora zone piene di interrogativi, e dobbiamo ricordare che ciò a cui tende una certa cosa non è mai, in genere, ciò che finisce coll'essere. Inoltre, stiamo discutendo di quella che è la posizione dei diversi scrittori.
Se è difficile dare una definizione di fantasia e di fantascienza, lo è infinitamente di più definire la maggior parte delle azioni umane, e quindi anche la posizione d'uno scrittore. Ma, per fortuna, uno scrittore può produrre ottimi racconti senza stare a chiedersi quali sono i confini di un certo genere, e questo è vero, in particolare, per il campo dell'orrore, in cui esistono parecchi modi assai diversi di giungere a buon fine. Chi raccoglie un'antologia di racconti dell'orrore ha meno preoccupazioni di chi li scrive. Scoperto il racconto, deve solo chiedersi se gli piace, e se piacerà ai lettori. Alcuni di questi racconti sono fantastici, altri sono fantascientifici, e uno o due sfuggono a ogni classificazione. Sono, tutti, buoni racconti dell'orrore, molto piacevoli. Gli scrittori e il curatore (specialmente il curatore) lasciano ben volentieri al lettore il compito di elaborare definizioni più accurate. Gerald W. Page Atlanta, Georgia Il servizio JERRY SOHL Jerry Sohl era uno dei più prolifici autori di fantascienza del mondo: scriveva romanzi come The Haploids e The Altered Egos al ritmo di uno o più l'anno. Con gli anni Sessanta la sua attività in campo fantascientifico si è interrotta, sostituita da altri interessi: romanzi normali di vasto successo, libri umoristici, sceneggiature. Ma Sohl non ci ha dimenticati, come questo racconto, raro in più d'un senso, dimostra. «Il signor Cade?». Eh? «Il signor Dexter Cade?». Sì. Ma lei chi è? «Mi spiace di averla spaventata, signore». Da quanto tempo è qui? «Da poco». Com'è entrato? «Con questa chiave». Ah!... Ma allora lei deve essere quello...
«Sì, signor Cade, sono io». Oh, dio mio! «Non è il caso che lei si turbi, signore. Nessuna norma mi obbliga a restare». Non si tratta di questo. Non... Non pensavo che lui intendesse farlo sul serio... Non pensavo che intendesse farlo, neppure dopo che mi ha chiesto la chiave e io gliel'ho data. «Signore, se la fa soffrire...». Credevo che stesse soltanto cercando di tranquillizzarmi, di farmi sentire a mio agio, di offrirmi l'occasione per aggrapparmi a qualcosa. «In questo, signor Cade, sono molto bravi. Ma, in fondo, è il loro mestiere». Era così insopportabile! Così senza vie di scampo! Ho cercato di farglielo capire. «Non deve più preoccuparsene, signore». Non riesco ancora a crederci. «Come le ho già detto, non sono obbligato a restare. Debbo, però, farle presente che se mi chiede di andarmene, non verrà mai più nessun altro del Servizio. Lei deve capire. Mi capisce, signor Cade?». Sì, sì, certo. «Vogliamo che lei sia soddisfatto di noi». Lo sono, lo sono! «Da parte sua deve voler andare sino in fondo». Intendo farlo... Ma dal momento che sta per succedere... Beh, ci sono, al riguardo, cose ben precise che vorrei prima conoscere un po' meglio. «No, non c'è nient'altro da sapere, signore. È quello che è: tutto qui. Mi è stato detto che le è stato chiarito; e il Servizio non sbaglia mai. Desidera, forse, che me ne vada? È questo che vuole?». Ha già fatto cose di questo genere prima d'ora? «Ma certo, signor Cade! È il mio lavoro!». Molte volte? «Ma certo, molte volte». Quando... succederà? «Appena lei sarà pronto, signore». Sa! Lei non è quello che pensavo. «Dicono tutti così. La stragrande maggioranza, almeno. Pensano a un sadico, un maniaco, un essere abietto. Invece siamo persone come tutte le altre, anche se speciali».
Certo che lei è diverso da tutti quelli che si sono presi cura di me, se così posso esprimermi. «In che senso, signore?». Con loro ero sempre in grado di sapere quello che stava succedendo. Glielo leggevo negli occhi, sulla faccia, da come dicevano le cose a me e agli altri. Poi certe volte erano convinti che non li sentissi, ma li sentivo benissimo. Certe cose le intuivo. So bene perché mi hanno lasciato tornare a casa. «Un incremento delle percezioni uditive non è affatto un fenomeno insolito in chi si trova nelle sue condizioni. Ritengo inoltre che in casa sia meglio, se posso permettermi di esprimermi così, signor Cade». Sì, lei mi piace. Non posso certo dire di scorgere in lei qualcosa di subdolo, oppure dei secondi fini. «Grazie. Noi del Servizio amiamo considerarci la verità... La verità definitiva, se preferisce, quella verità che gli altri non vogliono ammettere, neppure con se stessi. Il motivo è logico: contrasta con le loro più radicate convinzioni. E li scuote, li scuote nel più profondo. Ecco perché il Servizio ha tali e tante necessità». Sì, me ne rendo conto. Suppongo che ci si possa anche sentire amareggiati per loro, per l'atteggiamento inflessibile che sono costretti ad assumere. «L'animale uomo, signor Cade, è una realtà complessa. Certe volte disperde inutilmente le sue forze». Le posso fare una domanda? «Certamente». Tutto questo non le dà fastidio? «No. Tutta la nostra educazione è stata indirizzata proprio a questo. Sono sicuro che ne era già informato». Sì, me l'avevano detto. Ero convinto, però, che dovesse infastidirla comunque. «No! Basta rifletterci: coloro che visitiamo hanno finito di soffrire, se posso permettermi di parafrasare Eschilo. Il Servizio possiede, anche, una sua etica, da cui promana la sua fortuna e la sua ricompensa». Vorrei riuscire a prepararmici. «Se è la sua gentilezza, signore, che la induce a dire questo, sappia che è tutto a posto. È delicato da parte sua, ma provvederò io a tutto. Lei non deve preoccuparsi di nulla. Posso offrirle qualcosa? Del caffè? Del tè?». Un tè sarebbe l'ideale. Troverà tutto l'occorrente in cucina.
«Ecco il suo tè, signor Cade». Grazie. «Posso sorreggerla?». Sì, grazie. «Ecco fatto». Grazie. È un ottimo tè. Perché loro non mi hanno mai offerto del tè? «Non lo fanno mai». È proprio un ottimo tè, veramente! «Grazie». Sa, non conosco neppure il suo nome. Come dovrei chiamarla? «Amico». Amico e basta? «È più appropriato di ogni altro nome di battesimo, signor Cade. Si sente a suo agio?». Oh, sì! «Che cosa faceva? Qual era la sua professione, se non le spiace che glielo chieda?». Ero fotografo. Ero convinto che avesse sentito parlare di me. Fotografavo donne. «Sì, ricordo, ho sentito parlare di lei. Tra i migliori a livello mondiale, se ben ricordo». Mi piace pensare che fosse così. Diciamo meglio: agli inizi volevo essere il migliore in assoluto. Alla fine non aveva più nessuna importanza. «Non comprendo bene, signor Cade». Beh, in questi ultimi anni non era più il potere o il denaro quello che mi trascinava. Era la bellezza. Amavo le donne che fotografavo. «Si vede dalle fotografie». Non intendevo in senso carnale. Avevo... superato quello stadio. «Potrebbe spiegarsi?». Diciamo che i miei soggetti io li attiravo attraverso gli obiettivi, e attraverso gli obiettivi li concupivo. Infatti, la donna che usciva dalla porta dello studio dopo le pose non aveva, in nessun modo, la perfezione e la bellezza di quello che io avevo catturato sulla pellicola. «Intende dire che le rendeva vive?». Intendo dire che, grazie alla magia della camera oscura, non mi limitavo a rappresentarle. Le creavo di nuovo. Vi aggiungevo una, due dimensioni.
Le rendevo, in qualche modo, superiori a quello che erano nella realtà. Perfino alle modelle più sciatte conferivo una distinzione, un'immortalità, se così posso esprimermi. Sì! Ritengo che lei possa senz'altro dire che alitavo in loro il soffio della vita. «Possedeva una specie di potere divino. Intende dire questo?». Sì, penso che ci si possa esprimere così. Un ritmico pulsare di flash stroboscopici, un incessante esplodere di innumerevoli flash elettronici, tutto automatico, tutto artificiale. Eppure quello che ne scaturiva non era per niente qualcosa di inanimato, di sterile. La gente diceva che possedevo un dono unico: la capacità di creare un'interiorità; e lo facevo! Ritengo che fosse perché chiacchieravo con le ragazze mentre facevo le foto; dicevo loro cose che non avevo mai detto, neppure in privato. Riuscivo a creare una specie di misterioso equilibrio, un clima psicologico incantato, irraggiungibile per altra via. Claudia Frankes, prima di venire da me, era una nullità. Come Penelope Wykoff, Susan Harrison o Calla Parrish. «Sono pur sempre delle belle donne; ma mi rendo conto che, quando ne richiamo alla mente l'immagine, le vedo unicamente come le ha fotografate lei». Ottenevo i risultati che ottenevo sfruttando i contrasti. Se metti una bella donna nella realtà dura, spigolosa, del letto roccioso di un torrente in pieno mezzogiorno, diventa molto più bella che non se fosse mollemente adagiata sui cuscini di un divano. Naturalmente l'illuminazione, l'abbigliamento e la posa devono essere perfettamente intonati. «Signor Cade, fra tutte le sue modelle, qual è stata la preferita?». Perché me lo chiede? «Di tanto in tanto lei sembra esitare, quasi alla ricerca delle parole giuste. Come se davanti agli occhi avesse una persona ben precisa di cui non parla». Amico, l'educazione che ricevete nel Servizio è davvero perfetta. «Cerchiamo di non trascurare nessun dettaglio, signor Cade. Chi è?». Elena Cassell. «La sua prima modella, non è vero?». Esatto. Il suo vero nome era Helen Chassel. Me la mandò Abigail Lasson quando dissi che avevo intenzione di mettermi a fotografare persone invece di portaceneri, completi da scrittoio o indumenti. Non aveva nessuna esperienza, eppure era nata per la macchina fotografica. Non doveva, non poteva chiamarsi Helen! Ne fui cosciente l'attimo stesso in cui la vidi, quando mise piede nel mio studio e lo illuminò della sua presenza come
nessun'altra fece, né prima d'allora né mai più in seguito. Fu così che creai Elena. Elena la bella. Una donna, amico mio, ecco cos'era. Non c'è stata mai più nessun'altra come lei. «Lei tiene fotografie di belle donne appese alle pareti di questa stanza, ma non vedo Elena Cassell». Come non si può vivere con Puccini ventiquattr'ore su ventiquattro, così non si può vivere ventiquattr'ore su ventiquattro con il volto di Elena che ti osserva da una parete. Almeno, non potrei farlo io. «Però conserva sue fotografie, non è vero?». Sì. Le tiravo fuori spesso. Le facevo passare. Ma... mi rendevano triste. «Dove le tiene?». In quell'armadietto là, in un pacchetto appoggiato sul ripiano più alto. Ma non credo... «Lei l'amava». Sì... Ma dove sta andando? «Eccole qua, signor Cade. Le sue sei foto preferite, ognuna nella sua cornice». Oh, mio dio, che ricordi fanno rinascere! «Si abbandoni». Elena possedeva una qualità rara: influenzava l'ambiente circostante. Per esempio, quando lasciava cadere la testa in avanti, era come se, all'improvviso, la stanza si oscurasse. Ecco, lo nota in questa prima foto? Guardi come se ne sta seduta su questa vecchia seggiola, così assorta eppure così vitale. L'ho scattata in una baracca abbandonata, in un podere nelle vicinanze di Frederick, nel Maryland. Come può vedere lei stesso, la baracca è illuminata in pieno dal sole, eppure è in ombra. È Elena che emana quest'ombra standosene con la schiena ricurva, il collo piegato, gli occhi abbassati, così imbronciati, fissi sulla paglia sparsa sul vecchio pavimento di legno. Quella posizione ti fa venire il bisogno di metterti ad urlare, non è vero... Di dirle: «Guardami!»... E mi ha guardato, appena finito il lavoro. È come una scarica elettrica; una scarica mortale, per essere più precisi, perché anche il solo pensiero di quello che potevano farmi i suoi occhi mi paralizzava. Provavo per lei un timore reverenziale. «È veramente bellissima, signore!». Osservi, nella seconda foto, come si slancia attraverso il prato, correndo verso di lei. Questa è stata scattata a Haypress Meadows, in alto, in quella selvaggia desolazione vicino al Lago Tahoe. I movimenti hanno una gaiezza fresca, primitiva, qualcosa che lei ha sempre posseduto. Certe volte, da
come si muoveva, pareva un animale selvaggio rimesso in libertà. E riusciva sempre a coinvolgerti nel suo stato d'animo. Osservi i capelli biondi che ricadono all'indietro, l'ondeggiare della gonna blu. «Sembra una giovane daina». Ed ecco la terza foto, sul limitare della foresta. Pare che salti fuori di peso da Edward Muybridge o da Carleton Emmons Watkins, perché è uguale a tante foto scattate da loro tanti anni fa nei pressi di Fort Bragg. Come se ne sta in piedi, così tranquilla, ad ascoltare voci e suoni che noi non siamo in grado di sentire. I suoi bellissimi occhi chiusi. Così simile alle vecchie fotografie immerse nel tempo, ingiallite dagli anni. Contemplare Elena in questo atteggiamento era come sorseggiare, centellinandolo, del Gamay Beaujolais: mi sentivo sollevare, mi sentivo rinascere! Quel giorno ero così incantato dal suo fascino, che troncai qui le fotografie. Quando le dissi che dovevo farlo, lei ridacchiò maliziosamente e si tuffò nella foresta di sequoie, quella alle sue spalle. Ero così affascinato che la seguii, abbandonando il mio costosissimo equipaggiamento. Non ci pensai neanche. Dovevo possederla, dovevo stare sempre con lei, perché quando se n'era andata via, con lei se n'era andata la vita. Era leggera e veloce. Mentre la rincorrevo mi arrivava la sua risata. E poi emerse in un prato, un posto bellissimo pieno di margherite. Scoppiò a ridere quando mi vide così vicino. «La raggiunse». «Sì. La raggiunsi e la tenni ferma. Era la prima volta. Tremava: fosse eccitazione, paura o desiderio, non lo sapevo, allora. Ma quando si staccò da me, scorsi nei suoi occhi quel sogno che sapevo doveva aver scorto nei miei... e allora mi prese la mano, e... non ci scambiammo neppure una parola; ci coricammo sul prato nel mezzogiorno. È stato... è stato... «Se non se la sente di proseguire, signore...». No, no. Mi sento benissimo! Passiamo alla quarta foto. La zona è, grosso modo, la stessa: eravamo innamorati di Sonoma e di Mendocino. È soltanto qualche settimana più tardi. Sta uscendo da un boschetto di salici. Come definirebbe l'espressione che vede sul suo volto? «Estasi». Esatto. «È l'espressione di una donna che si sa profondamente amata, signor Cade». E lo era! Certe volte non volevo credere che fosse vera, e mi sorprendevo a scrutare se proiettasse o no un'ombra. Elena non aveva mai momenti di goffaggine. Le braccia si muovevano in perfetta sincronia con il corpo.
E poi guardava, ogni volta, le cose come se le vedesse per la prima volta. Era meravigliosa! Ogni minimo particolare con Elena era sempre una novità, un capolavoro di bellezza, una fonte di nuova meraviglia. «Proietta un'aura eterea». Precisamente. Eterea... Come se ad ogni istante potesse dissolversi. Era così sublime. Osservi, ora, la quinta foto. L'obiettivo l'ha ghermita e ha congelato il suo movimento mentre sta correndo su quella collina. Eppure nota come sembra scivolare sopra le cose, come un animale di ambra? «Sì. Ed ecco l'ultima. Ma cos'è? Dolore?». Era grandiosa in ogni suo minimo gesto, anche il più ordinario, anche quando piangeva. Come se singhiozzasse per il mondo intero, per tutta l'umanità. «Com'è riuscito a farglielo fare?». Le dissi che l'amavo. Piangeva sempre quando glielo dicevo. Quando le chiesi perché mai la cosa la facesse piangere, rispose che era perché mi amava tanto. Tutto quello che doveva fare era figurarsi la vita senza di me; le lacrime venivano da sole. «Allora stava soffrendo per lei?». Era strano. Comunque, in qualche modo, era arrivata a saperlo: proprio come riusciva a leggere gli avvenimenti di ogni giorno, oppure a vedere cose lontane nello spazio. Ero arrivato alla conclusione che una giovane, sensibilissima gazzella come Elena, la cui anima era sintonizzata su risonanze superiori, doveva aver avuto accesso ai poteri più sublimi; non mi chieda come. In quegli ultimissimi giorni i suoi occhi erano pozzi tragici. Perché? Non ne ho la più pallida idea. Una specie di prescienza, il presagio che stava per morire. La settimana dopo era morta, affogata con altre cinquantatré persone. L'aeroplano su cui volava si inabissò nel Mediterraneo vicino a Creta. Dovevo raggiungerla lì, pochi giorni dopo, per alcune foto. È stato... orribile. «Non ci pensi signor Cade». Non ho mai sviluppato le sue ultime fotografie. Le ho distrutte. «Però è andato avanti». Sì. Allora non sapevo che non avrei mai più trovato un'altra Elena. Perciò mi buttai alla ricerca. Nell'arco della mia vita devo aver fotografato cinquemila altre donne. Ho scorto parti di Elena nella curva di questo seno, nello scintillìo di quegli occhi, nel movimento di un'anca; e le ho amate tutte, come le ho già detto, ma nessuna di loro si è solo minimamente avvicinata a Elena. Ancora adesso non sono del tutto sicuro che sia mai esisti-
ta. Ma devo esserlo! Ci sono queste istantanee. «Mi rendo conto che cosa deve provare, signor Cade». Non avevo mai raccontato a nessuno... Adesso mi sento improvvisamente molto stanco, amico mio. «È naturale». E adesso sono pronto, lo so. Oppure era già nel tè? «Un poco era nel tè, signore. Se è veramente certo di essere pronto, adesso...». Sì, ne sono certo. Quanto tempo ci vorrà? «Sarà per via endovena, e la terrò sotto controllo. Non sentirà nulla; come non ha sentito nulla finora». Il dottor Heldron aveva perfettamente ragione, su ogni minimo dettaglio. Aveva detto che... «Adesso, signore, si rilassi. Mi dica che cosa vede, che pensieri le vengono... Ecco». Ah... Non avevo... Non mi ero aspettato... «Che cosa, signor Cade?». Potrei giurare di aver visto Elena muoversi! Sì, sì, si muove... Là, al limitare dei boschi. Ma come è possibile? «Adesso, signore, tutto è possibile». Elena! Aspettami! «Piano, signore!». Ti amo, Elena! Lascia che ti stringa! Oh, dio, quanto mi sei mancata! Vieni, prendimi per mano... «L'accompagni sul prato». Elena... «Adesso, signore, la mort douce...». Ah... «... la morte dolce». Grazie... grazie... mille... grazie... La palude JOSEPH PAYNE BRENNAN La combinazione di senso dell'horror e di buone capacità stilistiche potrebbe sembrare, considerando autori come M.R. James, Oliver Onions, John Collier, Robert Aickman e altri, una tradizione esclusivamente inglese; ma scrittori americani come Ray Bra-
dbury, August Derleth e Fritz Leiber sono più che degni avversari dei loro colleghi britannici. Joseph Payne Brennan è una stella di prima grandezza in questo campo da ormai più di un quarto di secolo: La palude dimostra ampiamente come egli non abbia perso la capacità d'inserire elementi orrorifici in ambienti che ben conosce (in genere il New England, dov'è nato), e di trarne racconti assai terrificanti. Penso che, molto probabilmente, la regione senz'altro più desolata del New England sia quella a nord-ovest di Colbury. Oltrepassate quelle colline inospitali e vi ritrovate in mezzo a una steppa brulla, irsuta, tetra e tutt'altro che pittoresca. La macchia intricata e agitata dal vento si abbarbica sui crinali aridi. Qua e là ci sono lunghe distese acquitrinose, immobili e ripugnanti, nascoste da giuncaie e da macchie di prugnoli. Mentre passavo di lì, nel tardo pomeriggio, dalle acque stagnanti nascoste dietro alle giuncaie cominciò a sollevarsi una nebbiolina fine fine; e fui preso da un senso di vuoto, di profonda depressione. Mi hanno sempre particolarmente impressionato certi aspetti del panorama e del terreno, e la zona che stavo attraversando era quanto di più lugubre si possa immaginare. Ma non avevo scelta. Mayne Cordiss, mio amico da sempre, aveva insistito moltissimo perché andassi a trovarlo, e non ero riuscito ad escogitare nessuna scusa passabile per declinare l'invito. Mi trovavo in pensione già da qualche anno; la mia salute era ottima; e non avevo programmato assolutamente niente per la fine estate e per l'autunno. Si aggiunga che ero scapolo, per cui il mio appartamento in città, pieno zeppo di libri, avrebbe potuto tranquillamente accumulare polvere per mesi senza che nessuno se ne preoccupasse minimamente. Cordiss e sua moglie, morta da un anno, mi avevano salvato in extremis, di tasca loro, quando mi ero trovato sull'orlo della bancarotta, e mi avevano coccolato e vezzeggiato fino a riportarmi ad un livello minimo di equilibrio emotivo, quando il «grande amore» della mia vita era diventato una fonte continua di amarezze. Quando Cordiss aveva telefonato, mi ero subito reso conto che era impossibile rifiutarmi di andarlo a trovare. Sapevo bene che adesso era solo, assolutamente solo, e con tutta probabilità scontento, e in pessime condizioni. Prima d'allora, nella sua tenuta a nord di Colbury c'ero stato soltanto una
volta; però era successo in primavera, quando sua moglie era in perfetta salute e la casa era continuamente piena di ospiti meravigliosi. Eppure, già in quell'occasione, mi ero chiesto come mai fosse venuto ad abitare in una zona così opprimente; ma non gliene avevo mai parlato. La costruzione in sé era piuttosto allegra; non me ne ero quasi mai allontanato per l'intera durata della mia permanenza presso di lui. La dimora dei Cordiss era una grande casa colonica, rimessa completamente a nuovo, un cento metri fuori della strada principale. Quando arrivai, rimasi sgomento. Il posto era inselvatichito, coperto di vegetazione cresciuta troppo in fretta e disordinatamente. Abeti canadesi si alzavano contro le finestre, e una macchia di cedri stenti aveva occupato il terreno dove un tempo sorgeva un giardino fiorito. Cordiss, però, mi gratificò di tutto il suo antico entusiasmo e calore; e quando mi fui allungato in una confortevole poltrona del suo studio, con un bel bicchiere di whisky e soda, mi scordai subito del tetro panorama che circondava la casa. Mi disse che aveva licenziato tutta la servitù, fatta eccezione per un uomo assunto a mezza giornata per lavoretti vari, e per una domestica che veniva solo due volte alla settimana. Era un cuoco sopraffino; disse che si era sempre preparato da mangiare da solo. Era ben felice di avere qualcuno con cui condividere le sue creazioni. Sembrava molto invecchiato dall'ultima volta che l'avevo visto. I capelli si stavano diradando, e cominciavano a formarglisi piccole rughe attorno agli occhi. Ebbi la netta impressione che non fosse più quello di una volta, rilassato, imperturbabile. Anzi: adesso era decisamente spigoloso e apprensivo. Soffriva ancora per la morte della moglie, logico, e con questo giustificai un po' tutto. Le ultime giornate d'estate trascorsero abbastanza piacevolmente. Cordiss intuiva i miei gusti e li preveniva. Lessi; scrissi un mucchio di lettere per le quali ero enormemente in ritardo; vagabondai per le stradine di campagna; me ne stetti placidamente seduto ad ascoltare i racconti strampalati di Cordiss... E ogni giorno non vedevo l'ora che arrivassero i suoi sontuosi pasti. Dopo una settimana o due, arrivai alla netta convinzione che ci fosse qualcos'altro che lo turbava, al di là del dolore per la scomparsa della moglie. Molto spesso ritornava da giri per la tenuta, tutto iroso. Si metteva a sedere soprappensiero, cosa che non gli avevo mai visto fare prima d'allora.
Un giorno, finalmente, scoppiò a ridere: «Al diavolo! C'è qualcosa che non va in questi miei boschi infernali! Speravo di buttare in piedi una partita di caccia per quest'autunno, ma non ho visto neanche un daino, o anche solo un coniglio... e la cosa dura da mesi! Forse questi contadini hanno ragione. È tutta colpa del Fosso!». Lo fissai, sorpreso. «Spiacente, vecchio mio, ma dovrai darmi qualche ragguaglio. Cos'è questa storia delle dicerie che girano tra i contadini, e cos'è il Fosso?». Mi sprofondai in una poltrona mentre lui versava da bere. Alla fine sedette anche lui. «Il Fosso», mi disse, «è una palude che si trova qui, nella mia tenuta. Ho comperato circa tremila acri di terra. Più che sufficienti per andarci a caccia. Bene. C'è un'idiota leggenda locale che riguarda appunto il Fosso. A dire il vero, niente di particolare: soltanto che quel posto sarebbe pericoloso e malevolo... e che avrebbe un effetto funesto sui boschi circostanti... una specie di emanazione, capisci? Ho costeggiato quella palude lungo tutto il bordo, ma non ho visto assolutamente niente. Comunque è davvero un posto spettrale! Niente animali o uccelli, lì intorno. E un senso di attenta attesa». Prese il suo bicchiere e ridacchiò, a disagio. «Ti sembrerò, suppongo, un cronista di un giornaluncolo di provincia a caccia di notizie sensazionali. Sarà colpa dei nervi». Aggrottai le ciglia. Sapevo bene che Mayne Cordiss non aveva né eccessiva immaginazione né nervi a fior di pelle. «Non ti sei mai... come dire?... non ti sei mai addentrato nella palude?». Scosse la testa. «Non posso dire di averlo veramente fatto. È traditrice. Ci possono essere le sabbie mobili. E se sei fuori da solo...». Lasciò la frase sospesa. «Perché non ci andiamo insieme, domani, a dare un'occhiata?», suggerii. Accettò piuttosto volentieri. Il giorno dopo (era nuvolo, e nell'aria aleggiava un leggero tono autunnale) all'alba stavamo già arrampicandoci sulle colline in mezzo a una folta macchia. Scorsi soltanto qualche corvo e una tamia orientale; nessun'altra forma di vita selvatica. Via via che avanzavamo, il suolo da roccioso andava facendosi paludoso. Pozzanghere occhieggiavano in mezzo agli alberi stenti. Di colpo ci ritrovammo sulla cresta di uno spuntone roccioso: il Fosso si stendeva davanti a noi. Il nome era azzeccato. La palude era, letteralmente,
infossata in un lungo incavo in mezzo a due colline. A occhio e croce era larga circa tre chilometri e lunga tre o quattro. Era praticamente ricoperta da una fitta coltre di rampicanti che strisciavano da pianta a pianta, da cespuglio a cespuglio. Qui e là c'erano degli squarci dove si scorgevano ciuffi di carici palustri o pozze d'acqua salmastra. Nessun rumore spezzava il silenzio pesante. Restammo là in piedi senza parlare per parecchi minuti, eppure non si udì né il gracidìo di una rana né il frinire di una cicala. «Un posto decisamente scostante», commentai. «Scendiamo un poco», suggerì Cordiss. Scendemmo giù dal costone fino al bordo vero e proprio della palude. Di colpo Cordiss bestemmiò e tirò indietro una gamba con uno strattone. Era affondato nella fanghiglia fino al ginocchio. Si guardò attorno. «Capisci cosa intendevo dire?». Accennai di sì con il capo. «Traditrice è proprio la parola giusta. Scommetto che più di un cervo è rimasto intrappolato in questa melma. Non saranno sabbie mobili, ma potrebbero esserlo benissimo!». Decidemmo di camminare lungo il bordo, tenendoci a una certa distanza. Speravamo di trovare un terreno più solido. Pochi minuti dopo arrivammo a una collinetta che sovrastava di poco il livello medio della palude. Pareva ragionevolmente solida, ma la prudenza non era mai troppa. Avanzammo su quel terreno con la massima cautela. Purtroppo la collinetta si estendeva soltanto per qualche decina di metri, poi finiva di colpo in un pantano di soffice melma, con delle ciperacee sparse qua e là. Cordiss si bloccò, scuotendo la testa. «È la distanza massima a cui possiamo spingerci, penso. Quella roba lì non sosterrebbe neppure una lepre, tanto meno noi due». «Hai perfettamente ragione», convenni. «Ma penso che qui non ci sia nessun mistero vero e proprio, Cordiss. È fuori discussione che degli animali sono rimasti intrappolati in un posto come questo. Col passare degli anni hanno imparato a starne alla larga. Forse nella stagione piovosa la palude si estende oltre il costone roccioso, e anche più in là. Ecco il motivo per cui gli animali selvatici, alla fine, hanno imparato ad evitare l'intera palude, dintorni compresi». Finse di accettare la mia spiegazione, ma sapevo che non lo soddisfaceva. Sulla via del ritorno parlò poco. Quando ci ritirammo in biblioteca per berci un bicchierino, notai che si versava una doppia dose di whisky. Col passare dei giorni mi diventò sempre più chiaro che il «mistero» del Fosso gli stava di fatto corrodendo il cervello. Ogni tanto diventava scon-
troso e si rinchiudeva dentro di sé. Sapevo bene che continuava ad andare alla palude. Però accennai solo di rado a quel posto. Speravo che avrebbe finito, gradualmente, col perdere interesse alla cosa. Invece, al contrario, l'ossessione s'intensificò. Avevo programmato di ripartire di lì dopo una o due settimane, ma dal momento che il suo malumore andava sempre più peggiorando, provai un indistinto ma in un certo senso impellente senso di responsabilità. Detestavo l'idea di andarmene, piantandolo lì con una «fifa nera», per esprimermi con le sue parole. Un pomeriggio piovoso, mentre ce ne stavamo seduti a sorbirci i drink, portò ancora una volta il discorso sull'argomento palude. «Ho girovagato da quelle parti ormai una dozzina di volte», disse, «e non ho trovato niente su cui mettere le mani, come diresti tu. Sono però convinto più che mai che c'è... qualcosa... in quella palude... qualcosa di assolutamente maligno e ostile; qualcosa di micidiale». Centellinai il mio drink. «Da quanto tempo è che circolano queste dicerie?». «Non lo so, con certezza. Molti anni. Generazioni». «In questo caso», gli feci osservare, «non ti sembra strano che in tutto quel tempo, in tutte queste decine e decine di anni, non abbiano mai visto niente? In fondo non hai mai creduto davvero che abbiano visto qualcosa». «Non si è mai visto niente, che io sappia. Se qualcosa hanno visto, la gente del posto ha conservato il più assoluto segreto. No, nient'altro che dicerie...». «Secondo me», gli dissi, «non hanno mai visto niente perché in quel posto, di fatto, non c'è proprio niente da vedere; se si eccettuano le pozze di melma, la superficie ricoperta di vegetazione della palude, e magari qualche trappola di sabbie mobili». «Può anche darsi che tu abbia ragione, naturalmente», ammise. «Comunque mi piacerebbe andarci a fondo... E non intendo parlare della palude». Scoppiammo a ridere tutti e due e la conversazione deviò su altri argomenti, anche se era chiarissimo che Cordiss stava ancora rimuginandoci sopra, dentro di sé. Penso che questo suo modo di comportarsi scaturisse dalla personalità e dal retroterra culturale di quell'uomo. Per tutta la vita aveva posseduto ricchezza e ascendente, e si era sempre trovato nella posizione di prendere decisioni e di annientare ogni ostacolo. Avevo i miei dubbi che fosse davvero importante per lui la progettata partita di caccia. Il
mistero della palude lo scaldava e lo irritava perché, per la prima volta, si trovava di fronte a un ostacolo insormontabile. Adesso, guardando indietro, provo un tremendo senso di colpa. Presi alla leggera tutta la faccenda e, in tal modo, presumo di aver abbassato la guardia di Cordiss, almeno fino ad un certo grado. Avessi sospettato, almeno in parte, l'orrore vero e proprio che stava per emergere, non avrei certo trattato l'ossessione di Cordiss con tanto distacco. Però, di fatto, a dispetto di quel che pensavo, il suo disagio fu contagioso. Persi l'appetito e non riuscii più a dormire tranquillo. Mi svegliavo un mucchio di volte. Sentivo Cordiss che girava per la casa; lo udivo poi chiudere le porte, e il rumore dei passi fuori della casa. Una sera, dopo cena, il mio ospite ammise di aver fatto qualche «scampagnata di mezzanotte», per usare la sua espressione. «Ma per amor del cielo! Ma a che scopo?», chiesi. Aggrottò la fronte. «Ho sviluppato una mia teoria: qualunque cosa sia quello che si nasconde in quella palude, avvelenando tutt'intera questa zona maledetta, esce fuori soltanto di notte. Ho intenzione di verificare se la mia teoria è esatta!». Deposi la forchetta. «Sei andato in giro per i boschi in piena notte, dirigendoti verso quella palude? Cordiss, tu vai in cerca di guai! Potresti finire in una di quelle paludi di melma, e chi s'è visto s'è visto! Esclusa l'ipotesi, al limite, di una direzione di vento perfettamente favorevole, ho i miei dubbi che riuscirei a sentire la tua voce da casa, e anche se sentissi...». Scrollò la testa, impaziente. «Oh! Ma mica mi avventuro nella palude. Non sono così stupido! Mi metto in un posto qualsiasi qui intorno e sto ad osservare». Ripresi a mangiare, ma ben presto mi ritrovai a far girare il cibo nel piatto. «Mi piacerebbe che smettessi. Sono troppe le cose spiacevoli che potrebbero succedere, soprattutto di notte». Non mi sfuggì l'occhiata testarda che guizzò nei suoi occhi. Sapevo che il mio avvertimento sarebbe andato a vuoto. Si versò dell'altro Chablis; poi disse, deliberatamente: «La situazione è diventata imbarazzante, e intendo assolutamente guardarci dentro». Passò meno di una settimana, e l'orrore esplose. Mi ero coricato più tardi del solito ed ero piombato in un sonno profondo. Cominciai ad avere un incubo. Ero chiuso a chiave nella mia stanza, almeno così sembrava, e Cordiss era fuori da qualche parte e mi stava chiamando, la voce attutita ma piena di terrore e di una supplica disperata.
Mi svegliai di soprassalto, mi misi a sedere sul letto, e ascoltai. La luce della luna inargentava la stanza. Tutto sembrava immerso nella quiete. Poi sentii Cordiss urlare. Da fuori. Non troppo lontano. Infilai le scarpe, mi buttai un giubbotto sulle spalle sopra il pigiama, mi precipitai giù per le scale e mi scaraventai fuori per la porta posteriore. Sembrava che le grida provenissero dal limitare del bosco, qualche centinaio di metri al di là dell'estremo lembo di quello che un tempo era stato il giardino. Feci di corsa lo stretto sentiero del giardino, con i rami che mi frustavano il volto, e finalmente irruppi in uno spiazzo relativamente aperto, racchiuso tra il confine estremo dei boschi da una parte e il bordo indistinto del giardino dall'altra. Benché la luce della luna scolpisse i minimi dettagli del panorama, dapprima non scorsi nulla. Poi udii Cordiss chiamare di nuovo, e lo scorsi a pochi metri di distanza dall'estremo lembo degli alberi sul limitare dei boschi. Strisciava! Mi buttai verso di lui. Cordiss. ti sei fatto male?». Si sollevò un poco e mi urlò: «Vai via! Non avvicinarti! Sono proprio dietro di me... Tutt'attorno a me!». Per un attimo ristetti, gli occhi sgranati, senza fiatare e senza capire. Avevo l'impressione che stesse perdendo la ragione. Poi le vidi. Enormi lumache nere, lunghe non meno di un metro, che strisciavano fuori dal bosco sotto la luce della luna a una velocità spaventosa, i tentacoli alzati. Una coppia, quelli posteriori, terminavano in due enormi occhi vitrei, alieni e ostili. Quelli anteriori pareva fossero una specie di organi di senso. Scivolando avanti, quelle creature lasciavano una traccia ben visibile di bava che luccicava sotto il chiarore della luna. Di colpo capii perché Cordiss strisciasse. Evidentemente mentre camminava era caduto in una di quelle scie bavose. Il loro effetto era come quello di una colla. Aveva impiastricciato i vestiti e, ne ero sicuro, anche gli stivali. Si sollevò un poco. Nella sua voce c'era panico represso, e disperazione. Disse, ansando: «Caduto... Fucile. Corri a casa. Armeria. Corri...». Ricadde bocconi a terra, e adesso i suoi inseguitori distavano soltanto un metro o due, gli occhi globulari, mostruosi, che scintillavano di una tranquilla ferocia resa ancora più orrenda dal loro aspetto alieno. Mi ributtai sul sentiero del giardino, assolutamente incurante dei rami umidi che mi laceravano il volto. Irruppi nell'armeria e afferrai un fucile da
caccia a doppia canna, strappai fuori un cassetto, ficcai una scatola di cartucce nella tasca del giubbotto e mi ributtai all'aperto. Nell'attimo stesso in cui sbucai in giardino nella zona aperta, mi resi conto che era troppo tardi. Cordiss giaceva immobile, letteralmente coperto da quelle enormi lumache. I tentacoli si alzarono, e cinque o sei paia di occhi globulari, vitrei, ruotarono verso di me. Piangendo per la frustrazione e per l'orrore, ficcai le cartucce nella canna del fucile e lo scaricai su quel mucchio osceno di mostruosità striscianti. Sapevo bene che era troppo tardi per salvare Cordiss; che, effettivamente, rischiavo addirittura di togliergli qualche attimo di vita con quella scarica di pallini. Ma ero profondamente convinto di agire esattamente come lui avrebbe voluto che agissi. I colpi del fucile da caccia, per micidiali che fossero, sembrarono provocare soltanto effetti ridottissimi su quegli invasori da incubo proveniente dal Fosso. La stessa struttura fisica delle creature, quella loro carne viscida e cedevole, assorbì i pallini del fucile da caccia riportando danni del tutto trascurabili. Erano lacerate e squarciate, e qualcuno di quegli occhi globulari carichi di malvagità era dilaniato in monconi tentacolari tutti lacerati che trasudavano un liquido giallastro... Eppure quelle incredibili creature continuavano a muoversi. Avevo quasi finito le cartucce quando mi resi conto, in un'improvvisa ondata di terrore, che, mentre stavo sparando sul cumulo di lumache frementi che coprivano Cordiss, un certo numero di altre lumache aveva cominciato a stringersi attorno a me. Istintivamente avvertii che nel giro di pochi secondi potevo essere spacciato anch'io. Afferrai il fucile per la canna, così da poterlo brandire come una clava qualora fosse stato necessario, e mi girai velocemente. Ripercorsi veloce la stradina del giardino. Attraversai di corsa la casa e mi precipitai fuori dall'altra parte, verso i garage che si trovavano su un fianco davanti all'edificio. Non so come ho fatto ad arrivare a Colbury senza accopparmi: ho guidato come un pazzo. Neanche venti minuti dopo ero già di ritorno, seguito da tre macchine zeppe di abitanti di Colbury, vestiti nelle fogge più disparate, o seminudi. Lo sceriffo Wester e il suo vice, Sam Kett, erano sulla mia macchina. Nonostante tutto, i quattro veicoli dovevano contenere un arsenale in miniatura. Non ce ne fu bisogno. Quando sbucammo fuori dal giardino sul retro,
nello spiazzo libero adiacente al bosco, non c'era più nessuna lumaca in vista. Le loro scie luccicanti, dense di bava, finivano in mezzo agli alberi. Quelle morte o ferite erano state divorate o portate via. Ciò che ci fece inorridire, comunque, non fu la vista di quelle tracce bavose. Fu lo scheletro nudo di Cordiss, da cui era stato strappato via il più piccolo brandello di carne, era stata succhiata ogni goccia di sangue. Giaceva là, rischiarato dalla luna. Lo sceriffo Wester insistette nel voler seguire le tracce bavose in mezzo al bosco per un certo tratto, ma fu ben presto chiaro che era del tutto inutile. Di lumache non se ne vedevano. Quelle spaventose creature se ne erano tornate nel Fosso, a rintanarsi nella melma, molto prima che potessimo sperare di arrivare alla palude che forniva rifugio a quegli esseri micidiali. Una battuta di caccia organizzata nella prima mattina non portò a niente di nuovo. Le tracce di bava, che andavano rapidamente scomparendo, portavano dentro la palude, dove finivano. Sulla zona incombeva la solita atmosfera di paziente, attenta attesa, ma non si scorgeva il minimo movimento. Gruppi di tifacee, distese di rampicanti attorcigliati e profonde pozze di acqua torbida che giacevano silenti. Poco tempo dopo furono eseguiti i funerali dei pietosi resti di Cordiss. Con mia grande sorpresa seppi che mi aveva lasciato erede di tutt'intera la sua proprietà. Il mio primo impulso fu di venderla, poi cambiai idea. Decisi che la morte di Cordiss doveva essere vendicata, e gli orrori della palude cancellati per sempre. Parecchi eminenti scienziati, specializzati nello studio delle varie famiglie di molluschi, ascoltarono la mia storia con vari gradi di scetticismo. Mi dissero che le creature da me descritte assomigliavano ad esemplari ingigantiti della comune lumaca nera, Arion ater, appartenente al sottordine Stilommatofori dei Pulmonati. Uno di loro arrivò ad ammettere la possibilità che qualche ordine finora sconosciuto di molluschi terrestri, rimasto indisturbato per secoli su un terreno ricco di cibo, avesse potuto «mutarsi» in forme giganti: era concepibile. Un altro suggerì il drenaggio della palude; un altro ancora voleva organizzare una spedizione in piena regola, con reti enormi, uncini da aggancio, eccetera. Decisi per la mia personale soluzione. Fred Malant, strafottente amico sia del «povero» Cordiss che mio, accettò di fare il lavoro. Erano veramente poche le cose alle quali non avesse tentato di mettere mano. Aveva già fatto, come mestiere, quello di spargere fungicidi o insetticidi sulle colture con piccoli aerei, e sapeva un mucchio di cose sui materiali incendiari.
Questa duplice caratteristica mi andava a pennello. Non chiedemmo permessi, per evitare il conseguente, inevitabile groviglio burocratico con relative lungaggini e rinvii. Una deliziosa giornata d'autunno Fred sorvolò ripetutamente, avanti e indietro, il Fosso, spruzzando generosamente ogni centimetro quadrato della palude con un certo preparato altamente infiammabile sulla cui composizione si mantenne bonariamente, ma deliberatamente, vago. Quando la palude ne fu assolutamente satura, Fred ritornò e sganciò un buon numero di «aggeggi» (così li chiamò lui) incendiari, accuratamente programmati ad orologeria. Appena l'aeroplano fece la sua ultima virata, volandosene via, tutta la superficie del Fosso parve scoppiare in una grande distesa infuocata. Presero fuoco anche i boschi adiacenti; l'intera zona, ma soprattutto la palude divampò furiosamente per tre giorni interi. Volontari del luogo, trasformatisi in pompieri, tennero sotto controllo gli incendi nei boschi, ma ogni loro sforzo risultò inutile per quella bolgia infernale, mugghiante, che infuriava nel Fosso. Il fetore che scaturì dalla palude è impossibile descriverlo. Restò sospeso nell'aria per intere settimane. Arrestato per incendio doloso, pagai la cauzione, girai la pratica all'avvocato, e me ne fregai. Il Fosso era ormai una cavità di melma secca e di vegetazione carbonizzata. Un po' di tempo dopo, traslocai nella casa di Cordiss. Sono andato molte volte, dopo di allora, a dare un'occhiata alla palude, ma non ho mai visto anche una sola lumaca, grande o piccola che fosse, e nemmeno tracce bavose. Solo di recente ho visto un cervo che brucava l'erba molto vicino a dove un tempo c'era la palude. Anche dopo che tutte le circostanze risultarono chiarite in tribunale, dovetti sborsare una bella somma per aver appiccato fuoco ai boschi e per aver «volutamente nascosto l'identità di un complice». Ma me ne fregai. Quegli orrori tentacolati non sarebbero mai più usciti dal Fosso, a strisciare con le loro luccicanti tracce di bava. La ballata di Valdese KARL EDWARD WAGNER I racconti e i romanzi di Karl Wagner basati su Kane gli hanno
creato un pubblico di lettori entusiasti fra i seguaci dell'heroic fantasy, ma il suo talento è ben più ampio. È lui a guidare la «Carcosa House», una casa editrice specializzata che ha pubblicato massicci volumi dell'orrore di Manly Wade Wellman, E. Hoffmann Price e Hugh B. Cave. Il suo racconto Sticks ha vinto nel 1974 il Premio August Derleth. Come Wellman e David Drake, Wagner vive a Chapel Hill, nel Nord Carolina, e quando ha saputo che tutti e tre sarebbero stati presenti in questa antologia, ha esclamato: «Signore, tre di Chapel Hill? C'è poco da meravigliarsi se la gente dei paraggi evita di passare di qui, a dispetto dell'autostrada che attraversa queste colline sempre coperte di nebbia e le pinete dense di ombre, dove di notte si può sentire il lamentoso rintocco delle campane...». Per rendere più colorita l'immagine di Chapel Hill, aggiungiamo che questo racconto si basa su un'antica ballata locale. I - La ragazza sotto la quercia «Reverendo! Fermati un attimo!». Il prete corpulento tirò le redini in un vortice di foglie autunnali. Dita piene di calli toccarono l'elsa liscia della spada, attaccata alla sella, mentre la testa incappucciata si girava nella direzione da cui la ragazza aveva chiamato. Coi capelli corvini scarmigliati dal vento autunnale, la ragazza sbucò fuori di tra le querce nodose, che si addossavano al sentiero montano. Scintillanti occhi neri gli sorrisero da un volto marcato da folte sopracciglia e una forte mascella. Anche la bocca ampia e carnosa sorrideva. «Vai di fretta questa sera, reverendo». «Le ombre stanno facendosi sempre più fitte e ho ancora un bel pezzo di strada da fare per arrivare alla taverna là in alto». Il tono di voce era impaziente. «C'è una taverna a non più di un miglio da qui». Gli si fece più vicina, e il prete vide le linee del corpo disegnarsi nitide contro l'abito lungo. Seguì con lo sguardo il dito della ragazza. Proprio lì, poco più avanti, il sentiero si biforcava: il ramo di sinistra si snodava lungo il ruscello; quello di destra tagliava netto lungo la base del costone. Mentre il sentiero che costeggiava il ruscello portava segni di passaggi regolari, l'altro aveva tutta l'aria di un sentiero in disuso. E la ragazza gli stava indicando proprio
quello. «Quel sentiero porta verso Rader», le disse, agitandosi sulla sella, «io invece devo andare a Carrasahl». E aggiunse: «Per di più mi è stato detto che la taverna vicino alla biforcazione del sentiero è stata abbandonata da molto tempo. C'è ben poca gente che ha motivo di recarsi a Rader, da quando la fiera della lana è stata spostata più a sud, a Enseljos». «La vecchia taverna è stata riaperta di recente». «Può anche darsi. Ma io vado a Carrasahl». La ragazza mise il broncio «Speravo che mi avresti portata con te fino alla taverna laggiù». «Salta su; ti porto alla taverna sulla strada di Carrasahl». «Ma io devo andare a Rader». Il prete scrollò le spalle massicce. «Allora faresti meglio a metterti in marcia». «Ma reverendo», il tono della voce era supplicante, «sarà buio molto prima che io arrivi alla taverna, e ho paura a camminare su questo sentiero di notte. Non vuoi proprio portarmi là sul tuo cavallo? Non ti allontanerai granché dal sentiero, e puoi benissimo passare la notte là». Le ombre stavano allungandosi, fondendosi in oscurità lungo i piedi del costone roccioso. Il sole al tramonto ormai non diffondeva che una debole foschia d'un rosso polveroso sui cocuzzoli, mettendo in risalto le grandi querce già accese dal tocco dell'autunno. Striate di foschia, le valli sottostanti erano inghiottite dal crepuscolo. L'uomo si rese conto che la notte gli sarebbe piombata addosso ben presto. Gli tornarono alla mente gli avvertimenti degli abitanti di un villaggio, vari chilometri più indietro. In cambio della sua benedizione gli avevano procurato cibo e vino acerbo. Avevano risposto alle sue domande relative al sentiero che doveva percorrere; poi lo avevano messo in guardia, raccomandandogli di mantenersi sul sentiero qualora la notte lo avesse colto per strada, e di non accamparsi tutto solo per nessunissima ragione. Il prete non aveva ben capito se lo mettevano in guardia contro i briganti oppure contro qualche più oscura minaccia. Il cavallo scalpitava con impazienza. «Potrei fare in modo che valga la pena, per te, di abbandonare il sentiero». C'era del fascino incantato nella sua voce. Il corsetto si slacciò, aprendosi sui suoi seni.
«Non riesco a vederti in faccia. Vedo molto bene, però, che sotto quella tonaca da prete c'è un maschio. Ti piacerebbe gustarti, questa notte, un fiorellino dei monti? Quando invecchierai in qualche chiesa ammuffita ti ricorderai della sua dolcezza». Aveva seni sodi e ben disegnati. Contro il loro candore, la carne color marrone-rossiccio dei capezzoli riecheggiava il colore di foglie di quercia turbinanti nel vento. A prescindere dall'interesse che provava per lei, c'era un fatto: il prete portava dei soldi nascosti sotto la tonaca. La frenesia della ragazza di trascinarlo in una taverna fuori mano fece sorgere in lui grossi sospetti. «La lusinga dei piaceri della carne è un'arma spuntata per un prete di Thoem», declamò. «Allora masturbati!», esclamò lei, e guizzò in avanti, lanciando uno strillo acuto, gettandosi sul muso del cavallo. Unghie come artigli gli fecero schizzare sangue dal naso. Già nervoso di per sé, il cavallo scattò e s'impennò. Colto di sorpresa, il prete perse le staffe. La tonaca gli si attorcigliò attorno ai fianchi. Si arrabattò per non perdere l'equilibrio, ma il cavallo, atterrito, lo disarcionò. Cadde a terra pesantemente, finendo chissà come in piedi. Bestemmiò, mentre la caviglia si torceva sotto il suo peso. Il cavallo fuggì via lungo il sentiero. Alla biforcazione prese a destra per Rader e sparì. Ridendo con aria di scherno, la ragazza corse dietro di lui. Zoppicando a malapena, il prete si avviò dietro di lei, la bocca piena di invettive blasfeme contro la ragazza. Ma ben presto l'oscurità inghiottì il baluginìo delle sue candide gambe, benché la sua risata continuasse a schernirlo, invisibile. II - La taverna lungo il sentiero Le luci della taverna, attraverso i vetri spessi, erano d'un giallo fumoso. I venti della notte afferravano il fumo e l'odore dei cavalli e lo trascinavano giù lungo il sentiero verso Rader, cosicché il prete si trovò di fronte alla taverna all'improvviso. Vide i numerosi cavalli chiusi nella staccionata all'aperto. Quella sera c'era un buon numero di viaggiatori nella taverna per cui pareva meno probabile l'ipotesi che la ragazza volesse trascinarlo in una trappola. Oppure i suoi complici avevano aspettato lungo il sentiero e avevano finito coll'accontentarsi di rubargli il cavallo e i finimenti. Il prete bestemmiò rabbio-
samente, e concluse di essere stato troppo sospettoso. Il dolore alla caviglia continuava ad essere lancinante, ma in fondo il suo peso lo sopportava. Probabilmente gli stivali avevano evitato il peggio. Stramaledì quell'ingombrante tonaca che gli si attorcigliava attorno alle gambe. Era aperta davanti e dietro dalla caviglia fino ai fianchi, e se era proprio grazie a questo che poteva cavalcare più comodamente, maledisse quel goffo abbigliamento che l'aveva fatto cadere. Vedere quell'edificio tozzo in legno, a due piani, gli fece piacere. La notte autunnale si era fatta gelida; la nebbia correva a ondate lungo le giogaie. Una notte passata all'aperto sarebbe stata, nel migliore dei casi, disagevole. E, quel ch'era peggio, l'avevano avvertito che era pericoloso. Ora la sua spada era attaccata alla sella del cavallo, persa chissà dove, in mezzo alle montagne avvolte nell'oscurità. C'era un'insegna sopra la porta: Taverna di Valdese. La costruzione in legno sembrava fatta da poco, notò il prete mentre si avvicinava zoppicando verso la porta. Avevano messo il chiavistello. Eppure non era tardi. Siccome dentro si sentivano delle voci, bussò rumorosamente. Stava per bussare per la terza volta, quando la porta si aprì. Luce e voci si riversarono nella notte. Dalla porta semichiusa lo stava fissando, accigliato, un volto scheletrito, glabro. «Chi... Che cosa vuole, reverendo?». La voce era stridula e nervosa, e parlava quasi in un sussurro. «Vitto e alloggio», bofonchiò il prete, con impazienza. «È una taverna, no?». «Dolente. Non ci sono più stanze. Deve andare da qualche altra parte». E fece il gesto di chiudere la porta. L'enorme mano del prete lo bloccò. «Ma è pazzo? Chi è il taverniere?», domandò, insospettito dal fatto che l'uomo si mostrava ansioso, confuso. «Qui il padrone sono io», scattò l'altro, irritato. «Spiacente, reverendo. Non ho più stanze, e le toccherà...». «Maledizione, ascolti!». L'enorme massa del prete si fece largo attraverso la soglia. «Il mio cavallo mi ha disarcionato, e ho zoppicato per chilometri e chilometri per arrivare fin qui. Adesso avrò cibo e alloggio, non foss'altro che sul nudo pavimento accanto al caminetto». Lo scheletrito taverniere non si intimidì davanti a quell'uomo tanto più grosso di lui. La mascella ossuta si serrò in un atteggiamento irato; strinse convulsamente le mani su cui portava guanti neri. «Che cosa?», interloquì una voce da dentro. «Ho sentito bene? Sta rifiu-
tando l'alloggio a un fratello servo di Thoem? Ma che razza di taverniere è lei?». Il taverniere stava per scattare, ma poi si fece piccolo piccolo, tutto miele. «Mi perdoni, eminenza. Intendevo solo dire che non ho stanze sufficienti... Per uno dei reverendi...». «Fallo entrare, idiota! Vorresti cacciare via un prete di Thoem! Devo constatare che è proprio vero che voi montanari siete caduti terribilmente in basso, per quanto riguarda il rispetto dovuto al vero Dio! Fallo entrare! Mi hai sentito?». Il taverniere si fece, di colpo, tutto premuroso; il prete entrò. «Grazie, eminenza. Questa gente ha dei modi di fare che fanno pietà». C'era parecchia gente nell'unica stanza della taverna. In disparte, solo, seduto a uno dei tanti tavolini, stava un uomo alto, sottile, la cui tonaca scarlatta diceva chiaramente trattarsi di un abate nella scala gerarchica dei sacerdoti di Thoem. Anche lui, come il prete, aveva il volto nascosto sotto il cappuccio. Fece cenno al nuovo arrivato, con una mano perfettamente curata, dalla venatura violacea. «Vieni qui da me, accanto al fuoco, e bevi un po' di vino», lo invitò. «Vedo che zoppichi un poco. Ti ho sentito dire che sei stato disarcionato dal tuo cavallo? Che sfortuna! Il nostro oste dovrà mandare i suoi servi a cercarlo. Sei ferito gravemente?». «Thoem mi ha salvato da guai seri, eminenza... Anche se non sono disposto, per nulla al mondo, a fare qualche altro chilometro, questa notte». «Lo credo bene. Oste, dell'altro vino. E spicciati con quell'arrosto! Vuoi far crepare di fame i tuoi clienti? Siediti, prego. Ci conosciamo? Io sono Passio; sto andando a Rader, al servizio di Thoem, per prendere possesso di quell'abbazia». «Piacere d'incontrarla, eminenza Passio». Il prete baciò la mano mentre si sedeva. «Io sono Callistratis, in viaggio verso Carrasahl, al servizio di Thoem. Avevo sentito dire che l'abbazia di Rader era caduta in mano ai dualisti, in questi tempi malvagi». L'abate aggrottò le ciglia. «Anche a noi, nel sud, sono arrivate alcune voci. Quella, per esempio, che ci sarebbero nelle province del nord certi preti ribelli, i quali pretenderebbero che Thoem e Vaul siano soltanto una duplice espressione della medesima divinità. Non c'è dubbio che questi eretici considerino prudente schierarsi con il dio di questi barbari del nord, adesso che l'impero sta scivolando nella guerra civile». Il prete si versò del vino e bevve, piegandosi in avanti in modo che le
sue labbra fossero nascoste dall'ombra del cappuccio. «Ho sentito parlare di tentativi del genere per sostenere l'eresia dualista. Forse le nostre missioni hanno molti aspetti in comune, eminenza Passio». «Bene. Reverendo Callistratis, questo non mi sorprende. Ho avvertito immediatamente che c'era qualcosa attorno alla tua persona che faceva pensare a qualcosa di più di un semplice prete, ma non voglio ficcare il naso nelle faccende di uno, la cui missione richiede che viaggi in incognito. Dimmi una sola cosa: come li tratteresti, i dualisti?». «Secondo lo schema di rito, prescritto per ogni eresia. Devono essere impalati tutti, e i loro corpi abbandonati in pasto agli animali da preda e agli avvoltoi divoratori di carogne». L'abate gli diede una benevola pacca su una spalla. «Splendido, reverendo Callistratis! Siamo proprio dell'identico parere! Mi fa piacere sapere che ci sono ancora preti che credono, senza deviazione alcuna, nei sacri precetti di Thoem! Prevedo una deliziosa serata trascorsa in piacevoli discussioni teologiche». «Andiamo, reverendi. Non siate troppo duri nel giudicare. Dopo tutto, il dualismo ha dei precedenti proprio nella storia del vostro stesso clero». Un piccolo signore, traccagnotto, con una bella barba grigia, stava fissando con aria pensosa i preti. Si raddrizzò dal focolare, dove si era fermato per accendersi la pipa. Un medaglione d'argento appeso a una catenella gli pendeva dal collo tozzo: vi era scolpito un sigillo d'università. «Precedenti?», scattò l'abate. «Il piccolotto annuì, in mezzo a una sbuffata di fumo. «Sì. Mi riferisco al dogma, formulato sotto il regno di re Halbros I, secondo il quale Thro'ellet e Tloluvin non sarebbero altro che una duplice personificazione del principio del male. Nessuno ai tempi della monarchia ha mai considerato eretica una simile dottrina, benché l'antico credo fosse tassativo nell'assegnare distinte personificazioni a questi dèmoni». L'abate rimase un po' soprappensiero. Poi ammise tra i denti: «Un interessante punto di vista, anche se la nostra dottrina ammette senza esitazioni molteplici personificazioni del maligno. Ciononostante la sua argomentazione è fuori posto, dal momento che unico è, invece, il vero principio cosmico del bene, quello che i veri credenti adorano sotto il nome di Thoem. Posso sapere, signore...?». L'uomo dalla barba grigia espirò una nuvoletta di fumo. «Sono Claesna, dell'Università Imperiale di Chrosanthe. Ho udito per caso, eminenza, la sua intenzione di fare una discussione teologica. La prospettiva di una di-
scussione intelligente mi apriva una via di scampo da quella che ormai aveva tutte le premesse per essere serata vuota in una taverna spersa nei boschi. Posso unirmi a voi?». «Claesna?». Il tono di voce dell'abate esprimeva sorpresa. «Sì. Ho sentito parlare molto di lei, signore. Prego, si fermi qui con noi. Cosa ci fa uno studioso della sua fama in mezzo a queste tetre montagne?». L'essere riconosciuto fece sorridere Claesna. «Anch'io sono diretto a Rader. Ho sentito parlare di certe iscrizioni ritrovate là vicino, in quelle che vengono definite rovine preumane. Mi piacerebbe copiarle e confrontarle con altre in mio possesso». «Allora è vero che ha in mente di pubblicare un'appendice all'Interpretazione dei paleoglifi di Nentali?», chiese il prete. Claesna alzò un sopracciglio cespuglioso. «Una riedizione, non un'appendice, reverendo Callistratis. Vedo che lei è un individuo veramente molto ben informato. Il che m'induce a pensare che sarà una serata illuminante». «Oh, vogliateci scusare, dottori», scimmiottò una voce canzonatoria da un cantuccio. «Non annoiateci tutti a morte con queste vostre dotte dissertazioni». «Chiudi il becco, Hef!», lo interruppe una voce burbera. «A morire ci penserai, e non certo di noia, quando arriveremo a Rader!». L'altro rispose con un'oscenità. Gli arrivò un violento pugno in faccia, cui seguì un rumore di catene mosse, con sottofondo di bestemmie. «Ranvyas, figlio di puttana sifilitica, mi hai quasi rotto un dente in bocca. Su, merdoso cacciatore di taglie, datti da fare a picchiare sodo chi ha le mani incatenate». «L'occasione l'avevi anche tu, prima che ti mettessi le catene, Hef», ringhiò Ranvyas. «E una volta che saremo arrivati a Rader, quel dente non ti servirà più». «Vedremo, Ranvyas. Accidenti, se vedremo! Ci sono già stati altri piccoli bastardi tutti sicuri di mettersi in tasca i soldi della taglia, ma neppure uno di loro è campato abbastanza per arraffare anche un solo centesimo». Claesna additò i due uomini nell'angolo lì accanto. Uno era uno spadaccino allampanato, dalle mascelle quadrate, con capelli color grigio ferro: indossava la tunica verde delle guardie forestali. L'altro, il prigioniero, era un uomo esile, con un volto tirato, una barba d'un color biondo sporco, e occhi azzurri che parevano straordinariamente innocenti per uno che aveva le catene ai polsi e alle caviglie.
«È Hef il fanatico, la cui fama oscura dovrebbe essere arrivata anche a voi, reverendissimi. Sembra piuttosto innocuo, ma ho i miei dubbi che tutte le preghiere del vostro clero basterebbero a purificare la sua anima dai misfatti da lui commessi qui tra le montagne. Stavano parlando proprio di questo quando lei è arrivato. Finalmente la guardia l'ha pedinato sino alla grotta che gli serviva da tana; e se gli riesce di portare a termine felicemente quest'impresa, nella quale tanti uomini coraggiosi hanno fallito, a Rader il boia darà uno splendido spettacolo». Dalle stanze di sopra venne l'urlo straziante di una donna in agonia. Il prete trasalì, ma si bloccò a mezz'aria quando si accorse che nessuno degli altri presenti nella stanza sembrava averci fatto caso. L'urlo di dolore risuonò di nuovo, lacerante, contro le pareti di legno del corridoio superiore, e giù lungo la stretta tromba delle scale. Una porta sbatté violentemente da basso, attutì l'urlo. Due viaggiatori si scambiarono occhiate. Uno, grottescamente grasso, scrollò le spalle e continuò a divorare un pasticcio di mele. Il suo compagno più piccolo rabbrividì e nascose la faccia senza mento fra le mani. «Per amore di Thoem, fatela smettere», gemette. Il ciccione si asciugò le labbra bavose e allungò le mani su un altro pasticcio di mele. «Bevi ancora un po' di vino, Dordron. Fa bene ai nervi». Passio prese il prete per un braccio. «Non allarmarti, reverendo Callistratis. Di sopra c'è la giovane moglie del mercante che sta partorendo. Non è venuto in mente a nessuno di parlartene. Come vedi, il padre è calmissimo. Soltanto suo fratello pare un po' scosso». «Quel pallone gonfiato è uno stupido», sogghignò Claesna. «Secondo me ha il cervello spappolato dalla sifilide. Sua moglie, povera ragazza, mi fa pena. Se il nostro oste non avesse mandato una cameriera su da lei, questi porci l'avrebbero lasciata sola durante le doglie». «Il mistero della nascita», sentenziò l'abate, «in cui la sofferenza è dovere e gioia». Proprio in quel momento il taverniere si mise a girare in mezzo a loro, mettendo davanti a ciascuno un tagliere di legno e una pagnotta di pane nero. Lo seguiva un nano dalla carnagione scura e dalla barba ispida, il primo servo che il prete avesse notato nella taverna. Sulle braccia tozze e muscolose portava un gran piatto di arrosto che presentava a ogni cliente, perché potesse servirsi da solo come meglio gradiva. Il mercante ciccione grugnì impaziente quando il nano cominciò a servire per primi l'abate e i suoi due compagni di tavolo.
«Per piacere, Jarcos!», lo supplicò il fratello. «Non offendere i reverendi». Hef ridacchiò: «Adesso non mangiatelo tutto voi! Lasciate almeno una cosciettina per il povero Hef che è senza denti». Ora, al piano superiore, le urla risuonavano più frequenti, attutite dallo spesso assito. L'oste sorrise nervosamente e strinse i pugni. Disse al nano: «Vado a prendere dell'altro vino, Bodger. Tu prendi il mandolino e suona qualcosa». Il nano ridacchiò e sparì nelle stanze buie. Ritornò poco dopo salterellando, con in testa un cappello a tesa larga, con una piuma. In mano aveva un mandolino macchiato di nero. Le dita, bizzarramente puntute, picchiavano sulle corde come tante stilettate. Il nano cominciò a far capriole per la stanza. Poi cantò ballate buffonesche con una voce da ranocchio. Intanto le urla che provenivano dal piano superiore continuavano monotone, ma ben presto i viaggiatori dimenticarono di prestarvi attenzione, tanto che non" si accorsero neppure di quando cessarono. III - «Conoscete la ballata di Valdese?» «Allora, proprio mentre il cacciatore girava su se stesso a quel rumore, il lupo mannaro saltò giù dal tetto della capanna. Il cacciatore cercò di afferrare il pugnale d'argento che teneva alla cintura, ma il fodero era vuoto. Si ricordò troppo tardi dell'avvertimento che gli aveva dato il vecchio. E mentre moriva notò che la bestia che lo stava sgozzando aveva gli stessi occhi sfolgoranti di sua moglie!». Claesna si appoggiò all'indietro contro la seggiola e soffiò il fumo della pipa in direzione di quelli che lo stavano ascoltando, tutti riuniti in cerchio intorno al fuoco. «Bravo!», strillò Jarcos, il mercante ciccione. «Stupendo! Allora intendi dire che il lupo mannaro era proprio sua moglie?». Claesna non si degnò neanche di rispondergli. Accennò, invece, col capo di gradire moltissimo gli applausi degli altri. La carne, adesso, era solo un mucchio di ossa piluccate mescolate a croste di formaggio. La notte autunnale stringeva in una morsa di freddo la taverna dove i viaggiatori condividevano il buon vino e il calore del fuoco. Si fece tardi, ma ancora nessuno aveva voglia di andare a dormire. Si erano
disposti pressappoco in cerchio attorno al focolare ben acceso, ed erano stati ad ascoltare le ballate di Bodger il nano; poi, mentre la notte avanzava lentamente, avevano proposto all'unanimità di raccontare ognuno una storia. «Le montagne di Halbrosn», aveva sottolineato Dordron rabbrividendo, «da quel che si dice in giro sono battute da ogni genere di dèmoni non umani. Jarcos, perché hai insistito che facessimo questo viaggio a Rader? Lo sai bene che il mercato della lana non si tiene più là da molti anni». «Il mio astrologo mi ha detto che sarebbe stato un saggio investimento. Agli affari, fratellino, lascia che ci pensi io». Jarcos riuscì a dare, a quella massa di carne che era il suo mento, un'espressione risoluta. «A voler essere precisi, non ci sono soltanto "dèmoni non umani"», commentò Ranvyas, indicando con un ditaccio nodoso il suo prigioniero. «Fino a due giorni fa qui c'era anche Hef il fanatico. Thoem lo sa a quanti poveri viandanti ha teso un'imboscata per poi assassinarli! Ricorreva molto volentieri allo stratagemma di trascinarsi sul sentiero, tutto coperto di sangue, urlando di essere una vittima di Hef il fanatico. Un sacco di gente maledettamente troppo buona di cuore ha lasciato le ossa là, in mezzo alle rocce, perché i topi ci facessero il nido. E pagherei non so che cosa per dimenticare quanto prima, se potessi, alcune delle cose da me viste nella grotta che gli faceva da tana». Hef represse una risata e sbatacchiò le catene contro lo stipite. «La c'è una bella nicchietta bell'e pronta per il tuo cranio, caro Ranvyas; puoi contarci! Un vecchione come te dovrebbe sempre portarsi dietro un aiutante, invece di cercare di strisciarmi dietro tutto solo. Hai decisamente osato troppo per il tuo...». Ranvyas alzò il pugno; Hef brontolò, arrabbiatissimo. L'abate disse: «Su queste montagne ci sono stati mostri umani ben peggiori di questo mangiatore di carogne». «Come? Conosce questa zona, eminenza?», chiese il taverniere, che si era unito a loro attorno al focolare. «Soltanto per motivi di studio. Oserei dire che le antiche province dei re Halbros hanno occupato una posizione di tale spicco nella nostra storia e nella nostra letteratura, che non c'è nessuno tra di noi il quale non conosca qualche fatto riguardante queste montagne, anche se qui siamo tutti estranei». Lanciò un'occhiata agli altri, tutt'attorno. «Forse avete osservato quelle rovine sul crinale, là davanti, lungo tutta la gola. Proprio a occidente, direi.
Quella era la fortezza di Kane: da lì tenne in schiavitù queste montagne per un centinaio di anni. Governava il paese con pugno di ferro, estorceva tributi da tutti coloro che passavano da queste parti, e sbaragliò tutte le spedizioni che gli furono inviate contro. C'è chi dice che avesse fatto un patto col diavolo, in forza del quale gli era assicurata l'eterna giovinezza e la vittoria in cambio di sangue innocente, che sacrificava ogni novilunio. «Per un certo tempo aiutò Halbros-Serrantho nelle guerre imperiali, ma anche il grande imperatore si nauseò della depravazione di Kane, e alla fine si servì delle forze unificate del nuovo Impero per radere al suolo la cittadella del tiranno. Dicono che il suo spirito maligno vaghi ancora in mezzo alle rovine». Intervenne Claesna, notando: «Un racconto ricavato con una certa oculatezza dall'insieme delle superstizioni popolari. Ai nostri giorni la leggenda di Kane ha implicazioni molto più torbide. Ho notato che il suo nome riappare in tutte le epoche e in tutte le zone. La letteratura dell'occulto allude a lui continuamente. Di fatto si parla di un antichissimo compendio di paleoglifi, dei quali sarebbe autore proprio Kane. Se esiste, darei non so cosa per leggerlo». «Un contadinotto vissuto piuttosto a lungo, questo Kane», fu il commento di Passio, asciutto. «Alcuni studiosi dell'occulto sostengono che Kane sarebbe stato uno dei primi uomini condannati a vagabondare per l'eternità per qualche oscuro gesto di ribellione contro il creatore dell'umanità stessa». «Ho i miei dubbi che Thoem condannerebbe all'immortalità un bestemmiatore», esclamò l'abate in tono di scherno. «Senza dubbio questa leggenda si richiama a ben precisi schemi demoniaci, limitandosi a sostituire il suo nome al posto del loro». «Ma allora hanno rubato anche il suo aspetto fisico», contrattaccò Claesna. «La leggenda lo descrive come un uomo enorme e possente, simile in tutto a un guerriero nel pieno delle forze. Aveva capelli rossi ed era mancino». «Di gente così ce n'è tanta!». «Certo. Ma il suo segno distintivo, inconfondibile, erano gli occhi: azzurri, e vi scintillava quel brillìo pazzoide tipico di un assassino spietato. Nessuno può guardarlo negli occhi senza riconoscerlo». Ranvyas sobbalzò. «Si parla di un assassino che starebbe dietro ai delinquenti che stanno scaraventando l'impero nella guerra civile. Si dice che sia uno straniero, fatto venire da Eypurin per togliere di mezzo quanti si
oppongono alla sua falsa pretesa al trono. Si chiama proprio Kane, e quel poco che si sa di lui corrisponde in pieno alla descrizione. Ma questo Kane è morto quando venne rasa al suolo la cittadella!». «Diamine! Ma certo... Almeno credo. Sì, sì, è morto senz'altro, ed è accaduto tanti secoli fa». «Mi avevano avvisato di non restare all'aperto durante la notte», intervenne il prete. «Non mi era stato detto niente di preciso, ma mi è facile capire che esistono più leggende sinistre relative a queste montagne che tornanti sul sentiero». «Esatto, reverendo Callistratis», affermò la guardia forestale, facendo scorrere una mano sui capelli a spazzola. «Ha detto di aver perso il cavallo lungo il sentiero? È stato fortunato a non incontrare Valdese, mentre avanzava zoppicando in mezzo all'oscurità!». «Valdese?». «Una lamia, reverendo», spiegò il taverniere. «Valdese è lo spettro più bello che esista, ma anche il più cattivo. La leggenda dice che lei di notte è sempre in giro per i sentieri della montagna. Seduce i viaggiatori con il suo fascino e poi li abbandona dissanguati sotto la luna». Si fece di colpo il più assoluto silenzio. Le foglie frusciavano contro i vetri gelati delle finestre. Il taverniere avvertì il senso di disagio dei suoi clienti. «Non avevate sentito parlare di questa leggenda, signori? Scusate! Continuo a dimenticare che siete stranieri, voi tutti. Eppure ero proprio convinto che aveste sentito la sua ballata. Conoscete la ballata di Valdese?». Sollevò una mano guantata di nero. «Vieni qui. Bodger. Canta ai nostri ospiti la ballata di Valdese». Il nano saltellò all'ombra reggendo in mano il mandolino. Fece un solenne inchino al suo pubblico, e cominciò a cantare. La voce, però, non aveva più nulla di comico. Nelle oscure colline della regione di Halbros Abitava una stupenda ragazza... Il fiore più bello, il gioiello più raro, Non avevano incanto di fronte a Valdese. «La taverna del padre s'ergea accanto al sentiero, Enormi erano le sue ricchezze... Ma la perla più bella del posto
Era il cuore della bella Valdese. «I corteggiatori fur alla sua porta, Eran sei, tutti giovani, e belli e anche forti... A vincer la mano si disser venuti Della bella ragazza di nome Valdese. «"Signori", diceva, "non mi stimate crudele, Se ad un'altra persona ho votato il mio amore... S'è dovuto assentare per sette lunghi anni Per potere studiare in una scuola segreta". «Risero i corteggiatori a queste parole. "No, la tua bellezza non è certo per lui... Scegli tu stessa il tuo sposo tra noi E scordati del tuo pazzo stregone". «Poi venne il suo amante, ammantato di grigio, Dalla scuola segreta egli fece ritorno... Disse: "Dopo sette lunghi anni di assenza Sono adesso tornato per amor di Valdese". «"Oh, no", imprecaron gelosi i corteggiatori. "Tu non puoi derubarci del nostro bottino...". E con lame crudeli gli strapparon la vita E strapparono il cuore alla bella Valdese. Adesso in gelida, gelida terra giace Valdese. Il suo spirito vaga per queste colline... Ma il suo amante nel nome del Grigio Signore Aveva giurato di servire sette volte sette anni. «Tremendo!», bisbigliò Dordron, quando il nano ebbe finito di cantare. «Che finale misterioso, quell'ultimo verso!». «Forse l'ultimo verso non è stato scritto», suggerì il taverniere. «Bodger, dà un'occhiata a come stanno le cose di sopra. È diventato tanto stranamente tranquillo, là in alto». «Beh almeno noi, servitori di Thoem, non abbiamo niente da temere dal-
le lamie!», disse sottovoce, ma con fermezza, l'abate. «Non è così, reverendo Callistratis?». «Ma certamente, eminenza», lo rassicurò il prete. «Thoem protegge i suoi servi da tutte le creature del maligno». Passio tirò fuori dalle pieghe della tonaca un pugnale con l'elsa di cristallo. «E per ulteriore difesa in queste montagne frequentate dagli spettri, porto con me questo pugnale sacro. L'hanno forgiato dei preti morti da tanto tempo, ricavandolo da un meteorite; e le rune incise sulla lama gli conferiscono potere sugli immondi servitori del maligno». Però non aggiunse che aveva trafugato il pugnale nel sepolcreto dell'abazia. «Sette anni in una scuola segreta», rifletté il prete. «Questo può voler dire una sola cosa». Claesna annuì. «Si era messo al servizio del culto dei Sette Innominabili; e aveva prestato giuramento al Signore Grigio». «Che Thoem ci conceda di vedere la fine di quel nero culto di adoratori del demonio!», mugugnò Passio. «Quel culto è di gran lunga più antico delle vostre religioni», lo informò Claesna. «E, strettamente parlando, non è affatto una forma di adorazione del demonio». «Sì, ma quelli che adorano sono dèmoni!», disse, stridulo, Jarcos. «No, I Sette Innominabili sono divinità molto antiche. O anche, per essere più precisi, sono dei "protodèi", visto che esistono al di fuori dell'universo ordinato in forze del bene e del male. Il loro dominio è un caos senza tempo, un limbo di creazione increata e di disfacimento definitivo... Forze opposte che in qualche maniera coesistono». Claesna si lisciò la barba. «L'intero sistema di adorazione loro rivolto è strutturato sull'energia di sistemi contrapposti. Si sa poco del culto, dato che si svolge nella più assoluta segretezza. I neofiti devono studiare sette anni in una "scuola segreta", per arrivare a padroneggiare i segreti poteri del culto. Poi ognuno presta giuramento a uno dei Sette, per la durata di quarantanove anni. I nomi dei Sette sono segreti, perché qualora chi non è iniziato al culto li pronunciasse evocherebbe il dio senza possedere potere su di lui. Una situazione decisamente spaventosa, da quel che dicono. Korjonos aveva prestato giuramento al Signore Grigio, che è il più terribile dei Sette». «Korjonos? Era quello il nome del giovane stregone?» chiese il prete. Claesna morsicò stizzosamente il bocchino della pipa. «Sì, mi sembra. Dopo tutto la ballata si basa su fatti realmente accaduti. Accaduti circa un
secolo fa, credo». «Nient'affatto», lo corresse il taverniere. «Non sono ancora cinquant'anni; ed è successo qui vicino, molto vicino». «Sul serio?». La voce di Dordron era tesa. «Per essere precisi, è successo proprio in questa taverna». Gli occhi dei viaggiatori si piantarono sul volto sorridente del taverniere. «Diamine, sì. Ma io continuo a dimenticare che lor signori sono stranieri in questo posto. Vi piacerebbe conoscere la storia che c'è dietro alla canzone di Valdese?». Nessuno fiatò. Erano tesissimi. Ma il taverniere proseguì come se nulla fosse. «Valdese e Korjonos si amavano fin da piccoli. Lei era figlia di uno degli uomini più ricchi di Halbrosn, mentre lui era figlio di uno dei servitori della taverna del padre di Valdese. Ambedue avevano appena passato i dieci anni, quando Korjonos rimase orfano. Senza un centesimo in tasca, lasciò la taverna per andare a studiare in una scuola segreta; e fece voto di ritornare entro sette anni, per lei, con le ricchezze e il potere che la sua saggezza gli avrebbero procurato. «Valdese lo aspettò. Però c'erano altri. Sei giovani rozzi zoticoni, provenienti dai paesini qui attorno. Concupivano la sua bellezza e soprattutto concupivano le ricchezze che avrebbe ereditato. Valdese di loro non ne voleva sapere. Però loro discutevano e aspettavano. Perché era ormai vicino il tempo in cui Korjonos aveva promesso di ritornare. «E, passati i sette anni, ritornò. A dispetto della loro animalesca rabbia, l'amore di Valdese per il giovane mago non era affatto sminuito con il passare del tempo. Si sposarono quella notte stessa nella taverna del padre. «Ma l'odio covava feroce nel cuore dei suoi corteggiatori respinti; per di più, quella notte bevvero moltissimo». Un ceppo scoppiò nel focolare, sprigionando una miriade di scintille, illuminando il cerchio di volti tesi. «I clienti se n'erano andati. Trucidarono il padre con le poche persone rimaste. Lo derubarono di tutte le sue ricchezze e strapparono gli innamorati fuori dalla loro camera nuziale. «Korjonos lo appesero tra due alberi. Valdese la buttarono per terra. «"Non ci deve maledire", disse uno, e gli tagliarono la lingua. «"Non deve lanciarci contro degli incantesimi", disse un altro; e gli tagliarono le mani. «"E non deve neanche cercare di seguirci", e gli tagliarono i piedi.
«Poi gli tagliarono via il pene e dissero a Valdese: "Non è in grado di far l'amore". «Gli tagliuzzarono il volto e le dissero: "Non è neanche presentabile". «Lasciarono intatti solo gli occhi, perché fosse in grado di vedere bene che cosa avrebbero fatto a lei; gli lasciarono anche le orecchie, perché potesse sentire bene le urla di Valdese. «Quando ebbero finito, Valdese morì. Korjonos lo lasciarono lì appeso. Si spartirono i soldi e se ne andarono, ognuno scegliendosi un sentiero diverso. L'immondezza di quello che avevano compiuto contaminò la regione; eppure nessuno di loro fu mai punito». «E Korjonos?», chiese il prete. «Non morì. Aveva prestato giuramento al Signore Grigio per sette volte sette anni, per cui non poteva morire. Il suo dèmone personale lo tirò giù e lo portò via. E l'ira dello stregone aspettò nel dolore anni e anni prima che la vendetta potesse esplodere». Una seggiola scricchiolò; Claesna balzò in piedi. «Dèi santi! Ma non vi rendete conto? Sono passati quasi cinquant'anni! Abbiamo cambiato faccia, addirittura abbiamo nomi differenti! Ma mi pareva che parecchi vostri volti mi risultassero familiari! Non negatelo! Non è affatto una coincidenza che noi sei si sia tornati in questa taverna proprio questa notte! Una stregoneria ci ha trascinato qui! Ma chi...?». Il taverniere sorrise d'una gioia profonda, mentre le loro voci allarmate urlavano la protesta. Passò in mezzo a loro e si portò di fronte al fuoco. Sempre sorridendo, si sfilò i guanti neri. E videro che specie di mani aveva innestate sui polsi. Con quelle mani scavò nella carne del suo volto. Le labbra sorridenti vennero via con tutto il resto. E videro quell'orrore senza naso che un tempo era stato una faccia; videro la nera lingua sottile, da serpente, che si agitava in mezzo ai denti spezzati. Piombarono a sedere, agghiacciati. Entrò il nano, senza preavviso: tra le mani irsute portava un cadaverino. «È nato morto, padrone», ridacchiò, tenendo per i calcagni il neonato bluastro. «Strangolato dal cordone ombelicale. E la madre è morta mentre lo partoriva». Si mise al centro del cerchio. Allora il gelo della notte autunnale li coprì. Un gelo più intenso di ogni oscurità naturale. «Sette anni per sette volte», sibilò Korjonos. «Per tanto tempo ho tramato questo. Ho forgiato le vostre vite fin dal giorno del vostro delitto, vi ho
lasciati ingrassare come bestie. Vi ho lasciati vivere per il giorno in cui avreste dovuto pagare come mai nessuno ha pagato!». «Callistratis», lo chiamò in disparte. «Questo non ti riguarda. Non so come sei arrivato qui, però vattene via subito, se puoi ancora farlo». Le facce atterrite guardarono lo stregone. Legami invisibili li trattenevano ai loro posti nel cerchio. Korjonos salmodiò e compì gesti rituali. «Uomo santo, uomo maligno. Uomo saggio e folle. Uomo coraggioso e codardo. Sei angoli dell'ettagono, e io, uomo morto che vivo, formo il settimo. Opposti e contrapposti, a evocare i Signori del Caos... E il paradosso finale è il punto focale dell'incantesimo: un'anima innocente che non è mai stata viva, un'anima dannata che non può morire!. «Sono passati sette periodi di sette anni... E quando il Grigio Signore verrà da me, verrete anche voi sei nel suo regno!». Di colpo Ranvyas si rianimò: «Il pugnale!». L'abate rimase con gli occhi fissi, senza pronunciare parola. Poi annaspò sotto la tonaca. Sembrava muoversi come in stato ipnotico. Sibilando per la rabbia, Korjonos rafforzò l'incantesimo. Passio allungò goffamente il pugnale, ma la guardia fu più svelta. Strappò via il pugnale dalle dita tremanti di Passio e lo scagliò contro il nano ghignante. Bodger strillò e lasciò cadere il bambino nato morto. Dal petto, dove sporgeva l'elsa di cristallo, ribollì fuori un fumo puzzolente. Il nano barcollò, poi parve ripiegarsi su se stesso, come un sacco vuoto che si afflosci. Poi ci fu soltanto una macchia di materia grassa carbonizzata... e un mucchio di abiti sporchi... e un ragno peloso che filava via, per sparire in una crepa della parete. «Bel colpo, Ranvyas!», ansò Claesna, flebile. «Hai ucciso il servitore, l'incantesimo è rotto!». Si rivolse al mago con aria beffarda. «A meno che, ovvio, tu non abbia qualche altra "anima dannata che non può morire", con cui completare il tuo incantesimo». Le spalle ricurve di Korjonos denunciarono la sconfitta. «Andiamocene da qui!», singhiozzò Jarcos. Il fratello stava piangendo, incurante di tutto. «Non prima di aver ucciso il mago», grugnì Ranvyas. «E avermi lasciato libero!», lo avvertì Hef. «Non penso che desideriate che vada a spifferare a quelli di Rader certe cose riguardo i miei cinque
vecchi compagni d'avventure!». «Thoem! Che gelo!», disse Passio, battendo i denti. «E poi la luce! Cosa c'è che non va, qui dentro?». Il prete si tuffò nel cerchio, si piegò sul mucchio di panni bruciacchiati. Pensarono che intendesse riprendere il pugnale magico, ma quando si drizzò teneva sul braccio sinistro il bambino nato morto. Il cappuccio gli ricadde all'indietro. Videro i suoi capelli rossi. Scorsero i suoi occhi. «Kane!», urlò Claesna. Korjonos urlò delle sillabe a formare un nome. Le mani corsero inutilmente alle spade. Già la stanza era piena del dolce puzzo di polvere, indice di un disfacimento antico. Dietro di loro, all'ingresso, i chiavistelli scattarono rugginosi. L'assito contorto a marcio si sbriciolò, finendo in un mucchio di polvere. Cominciavano a capire, e sbarrarono gli occhi in preda al terrore. Sulla soglia stava, ritta, una figura slanciata. Indossava un cencioso mantello grigio. Kane si girò. E il Signore Grigio si tolse la maschera. Kane scrollò l'oscurità dalla sua mente. Fece il gesto di alzarsi in piedi. Rischiò di cadere per terra, perché stava già in piedi. Si trovava, in piedi, all'interno di una costruzione in legno, sventrata. Il piano superiore era crollato, come pure il tetto. Si potevano vedere le stelle nella notte. Piccoli alberelli crescevano, stenti, attraverso i resti putrescenti della taverna. Era stata abbandonata già da molti anni. L'aria aveva l'odore rancido della roba in decomposizione. Attraversò incespicando l'ingresso e gli parve di udire lo scricchiolio di ossa secche sotto gli stivali. Una volta fuori, tirò un profondo respiro e fissò di nuovo il cielo. La foschia strisciava tracciando disegni selvaggi in mezzo alle stelle. E Kane vide una figura spettrale in grigio, con il mantello che svolazzava ai venti della notte. Pareva che dietro di lui venissero altre sette figure ancora più spettrali: trascinavano i piedi, come se non volessero andare con lui. Vide l'altro fantasma. Una ragazza con un abito lungo. Correva. Prese per mano il settimo, lo abbracciò forte, poi lo trascinò via. Il Signore Grigio e quelli che dovevano seguirlo svanirono nei cieli della notte. La ragazza e il suo amante caddero giù abbracciati stretti stretti. Poi si fusero in uno, nella foschia.
Il cavallo di Kane lo stava aspettando fuori dalla taverna distrutta. Kane non restò sorpreso, perché aveva riconosciuto la ragazza. Picchiò con i calcagni contro i fianchi del cavallo, e svanì anche lui nella foschia. Il blues di Harold GLEN SINGER H.P. Lovecraft ha ambientato la maggior parte delle sue opere del ciclo di Cthulhu nel New England, e August Derleth, il maggiore allievo di Lovecraft, spesso e volentieri ha scritto storie dello stesso ciclo che si svolgevano nel Midwest. Eppure, pochi sono stati capaci come Glen Singer di dare al ciclo di Cthulhu un sapore tanto americano. Se avete mai ascoltato i vecchi dischi di artisti del jazz e del blues come Leadbelly o Jelly Roll Morton; se avete sentito o letto di come stavano le cose in quel periodo a cavallo tra le due guerre mondiali, quando un tipo di musica tutto nuovo, tutto americano, usciva fuori dal nostro Sud e si spostava su chiatte, su carri merci, su scassati autobus che sollevavano grandi nubi di polvere percorrendo strade secondarie, mal tenute; allora vi sarà difficile, molto difficile, credere che non sia mai esistito Harold Robinson, e che questa storia non sia accaduta proprio come ce la racconta Singer. NOTA DEL CURATORE Il materiale che segue riguarda il leggendario chitarrista blues Harold Robinson, il quale, in una vita breve ma piena, produsse LP che esercitarono un influsso molto profondo sulla musica blues successiva. La sua complicata tecnica è diventata un fattore determinante per lo sviluppo del blues urbano successivo alla seconda guerra mondiale. Il redattore spera che questa intervista colmerà parecchie importanti lacune nella biografia di Robinson, nonostante contenga alcuni dati fantasiosi. L'intervista fu registrata dal vivo, dalle parti di Tilman, nel Mississippi, il 28 settembre 1943, da Pete Ford e Gregory Koplowitz. L'intervistato era Hanson Kirkland, un chitarrista di scarsa fama; sembra, però che fosse la persona che ha conosciuto Robinson più di ogni altro. Il materiale dell'intervista fu trascritto direttamente dal nastro dagli autori stessi; e doveva uscire in un libro, già progettato, che si sarebbe dovuto intitolare Le radici
del folk americano. Sfortunatamente il progetto non venne mai realizzato, perché sia Ford che Koplowitz rimasero uccisi in un incidente automobilistico appena fuori Helena, nell'Arkansas, il 21 giugno 1974. Parte del materiale Ford-Koplowitz fu pubblicato in Musica negro-americana di Leslie Baum (New York, Holcomb House, 1951). È questa, però, la prima volta che viene pubblicata l'intervista di Kirkland. È mio dovere ringraziare gli esecutori testamentari di Koplowitz, che mi sono stati di grande aiuto nella pubblicazione del documento. Adesso molti dicono che Harold è morto; però altri non sono d'accordo. Per me, io lo so come stanno le cose. Dicono che un mucchio di donne scatenate gli sarebbero saltate addosso dalle parti di Jackson e lo avrebbero avvelenato. Non è vero niente! Naturalmente è un'ottima storia da dare a bere, dal momento che, certe volte, aveva tutto un suo modo di fare con le donne. Almeno così ho sentito dire. Però non era per niente il modo in cui le trattava quando l'ho conosciuto io la prima volta. Anzi, era proprio il contrario, in tutti i sensi! La prima cosa che ricordo di Harold risale a quando era ancora un ragazzino, con degli occhioni enormi, pieni di sogni. Allora non sarebbe stato capace di suonare un bel niente. La prima volta lo vidi quando Yancey e io e Pa Simms scendemmo a Dumphy per una di quelle feste campagnole che si usavano allora. Harold restò seduto là tutto il tempo, senza dire una sola parola; stava solo seduto, guardava e osservava. Un ragazzino allampanato, del tipo tutto occhi e tutto sogni. Ci seguì per l'intera serata, fino a tardi, quando ormai tutti gli altri stavano stappando bottiglie e badavano ben poco alla nostra musica. Poi si avvicinò a noi, mentre stavo provando un pezzo, catturando un'arietta, e mi chiese di fargli imparare a suonare. Gli mostrai qualche cosetta. Annuì, sgranò gli occhi, e poi andò in pezzi, come se fosse veramente atterrito. Un mucchio di ragazzini si comportavano come lui. Dopo di allora, tutte le volte che scendevamo a Dumphy lui era sempre là. Passato un certo tempo, mi si avvicinò di nuovo per dirmi che aveva imparato qualcosa. Mi fece vedere cosa sapeva fare. Devo proprio dire che non era molto: una specie di rumore sifilitico, tutto qui. Così sorrisi, come avrei fatto con qualunque altro ragazzino, e gli dissi di continuare a tentare, che sarebbe riuscito a fare qualcosa di meglio. Fu pressappoco a quell'epoca che sposai la mia prima moglie, Glory, e ti salta fuori che Harold è suo cugino. Così suppongo che sia stato proprio al-
lora che cominciai a conoscere Harold. Subito dopo che ci mettemmo insieme, Glory e io e sua madre andammo a trovare il padre di Harold (era cugino di Glory) alla fattoria dei Griffen, vicino al lago Chataw. La madre e il padre di Glory erano gente alla buona e non si curavano di me e della mia diabolica musica del sabato sera. Ma con quelli di Harold fu tutta un'altra storia. Appartenevano all'Esercito della Salvezza, con tutto un bagaglio di regole intoccabili. Non ho mai visto in una stessa famiglia gente così diversa. Avevano Harold che continuava a correre qua e là ogni momento, sbrigava le faccende di casa e, quando poteva, lavorava nei campi. Alla domenica, appena il sole spuntava, se lo tiravano dietro alla sala dell'assemblea. Tutto quello che poteva fare era rubacchiare un po' di tempo per sé, dietro il granaio. Non sono mai riuscito a sapere come ce l'abbia fatta ad essere sempre presente a quelle nostre feste campagnole. Suppongo che abbia pagato con un lavoro pazzesco. Dopo un certo tempo, il padre di Harold morì e lui venne a vivere con me e mia moglie. Successe verso il '36 o giù di lì. Allora aveva circa sedici anni e le sue doti musicali erano pronte a esplodere. Quando arrivò in casa, il primo giorno gli diedi un vecchio macinino che avevo fatto e accordato io stesso, quando stavo ancora imparando, e gli dissi di buttar giù la sua roba su quello. A quel tempo Harold non possedeva ancora nessuna abilità. Cominciò a suonare tutti i giorni, sgobbò sodo, ma non servì a niente. In quel periodo lavoravo alla fattoria Moore, lì vicino, e suonavo ogni weekend. Non volli assolutamente che Harold lavorasse, perché i soldi non ci mancavano, e volevo che avesse del tempo da dedicare tutto a se stesso. E quel ragazzo, gente, lui si che voleva suonare, ma non ce la faceva! Certe volte ci si buttava sopra selvaggiamente, esaltato al punto da mettersi a urlare. Il ragazzo la musica ce l'aveva nel sangue, il blues, voglio dire, ma tutto continuava a restarsene chiuso dentro. Harold, io e Glory stavamo insieme da un anno e qualche mese, quando Glory e io attaccammo a litigare e a picchiarci e tutto andò a rotoli. Ce ne andammo ognuno per i fatti nostri. Io mi fermai dai Moore, e non so proprio che fine abbia fatto Glory. Penso che Harold sia ritornato dai Griffen, ma non ne sono sicuro; non l'ho visto per molto tempo. Di fatto, quando ci penso, non c'è molto altro da dire su Harold ragazzino. Intendo dire che era proprio come tutti gli altri ragazzini, forse soltanto un pochino più duro con se stesso, ecco tutto! Dopo il tempo passato con me e Glory, suppongo di averlo rivisto ancora un paio di volte, al principio
e alla fine. Ma vi racconterò tutto. Erano passati un paio d'anni dall'ultima volta che l'avevo visto, ed era quasi come se mi stesse aspettando. Ero tornato a Dumphy per suonare, e Harold venne da me durante l'intervallo. Gli chiesi se aveva continuato a suonare e cose del genere. Mi rispose di sì. Era ingrassato e doveva avere circa diciannove anni. Aveva con sé un gran bel pezzo di ragazza, però adesso non ricordo il nome. Disse che stava scendendo alla Cala di Bachelar per suonare a una festa privata. Mi disse anche di raggiungerlo appena finito, se possibile. Risposi che ci avrei provato. Mi disse dov'era la casa, poi se ne andò. Rimasi in giro fin a molto tardi, quella notte, e siccome non ero insieme a nessuna donna, avevo proprio voglia di darci un taglio; voglio dire che ero indeciso. Comunque verso le due mi incamminai per andare da Harold. Si era alzato il vento e stava picchiando forte contro le foglie. C'erano i soliti lampi estivi, quelli assolutamente senza suono; solo lampi nel cielo, ogni tanto. Scesi giù vacillando e brancolando, verso Bachelar; mi ferii contro i rami e caddi malamente un paio di volte. Il lampeggiare cessò, ma poi il cielo si fece terribilmente nero. Era difficile trovare la strada. E il vento continuava a frustare gli alberi. Come sia riuscito a trovare la casa dove c'era Harold non l'ho mai capito. Comunque, finalmente, la scorsi, benché ci fosse accesa una sola luce. Tra me pensai che non aveva proprio niente l'aspetto di una casa dove c'era un party. Mi avvicinai a quel posto, ma non arrivai mai alla porta. Guardai dentro dalla finestra mentre ci passavo davanti: c'era Harold tutto solo; con lui c'era soltanto un'altra persona. Non vidi la ragazza che stava con lui, come pure non vidi nessun altro. Ma quella persona là, dentro la casa, aveva qualcosa di diverso; era un tipo come non se ne vedono in giro da queste parti. Era vestito in un modo tutto strano, con una specie di vestaglia lunga, rossa, e al collo portava una grossa catena d'oro. La testa era tutta coperta da una specie di roba che portano gli arabi. Ma fu la sua faccia che mi fece venire i brividi. Non so come spiegarmi: era di mezz'età, ma era anche vecchio e, non so come, era in un certo senso anche giovane, tutto in una volta. E se ne stava là in piedi, gli occhi infuocati e maniaci, quasi avesse intenzione di ammazzare qualcuno. Se ne stava là in piedi. È tutto quello che ho visto: mai detto una parola, mai che abbia fatto un movimento. Se ne stava là in piedi, sciolto e potente come un gatto. Harold gli stava di fronte, tenendo e palpando qualcosa tra le mani, parlando come se fosse
eccitato, benché io non potessi sentire che cosa stava dicendo. La sua chitarra se ne stava in un angolo, e non c'era nient'altro. Ero molto incerto se entrare o no. Quando finalmente mi decisi, arrivò dall'altra parte della Cala un grido, veramente pauroso e maligno. Poi si ripeté, prolungato e più forte. Mi girai e guardai giù verso la Cala. Pensavo che qualcuno fosse nei guai. Quando arrivai là vicino, cominciò un altro rumore. Dapprincipio sembrò una specie di brontolìo, poi come un canto. Era proprio un canto! E c'era quel fischio, come se da qualche parte qualcuno suonasse su delle canne palustri. Quel fischio durò per un po', poi finì. Mi allontanai immediatamente. La testa mi girava per tutto quello che avevo bevuto, e con il cielo così nero e il vento che soffiava da ogni parte sentii la paura entrarmi dentro. Decisi di ritornarmene alla casetta e andare da Harold. Ma quando mi guardai intorno la luce era sparita. Proprio in quel momento cominciai a sentire delle parole: sembravano venire da molto lontano, e per di più sembravano pronunciate in una lingua straniera; strane parole come «Shubby Niggrath, Shubby Niggrath». È tutto quello che riesco a ricordare. Era fin troppo. Sembrava un voodoo contro di me, anche se non ho mai creduto molto in queste cose. Be', ad ogni modo mi girai, tutto per aria, cercando di decidere da che parte andare. La casa era completamente immersa nell'oscurità, e quel canto o quello che fosse diventava sempre più forte. Da qualche parte cominciarono a rullare dei tamburi e si sentivano fischiare, nitide, le canne palustri. Proprio in quel momento il vento si mise a soffiare con una violenza enorme e le nuvole devono essere state spazzate via, perché la luna brillò luminosa. Giù alla Cala ci fu uno scalpitìo di zoccoli. E vidi una specie di grosso cavallo che veniva verso di me. Suppongo di poter dire che fosse un cavallo, anche se pareva che avesse corna da caprone. Come ho già detto, avevo bevuto molto. E ho visto anche delle luci, piccole luci che sembravano nuvole, delle macchie che occhieggiavano un po' dappertutto nell'aria. Bene! Girai i tacchi e me la diedi a gambe in mezzo ai boschi, facendomi male un po' dappertutto, continuando a cadere e continuando a correre. Suppongo che l'idea del voodoo mi abbia messo addosso una fifa boia. Feci di corsa tutta la strada di ritorno fino alla fattoria dei Blainey, dove stavo, e bussai rumorosamente alla porta. Blainey mi calmò e mi disse che avevo bevuto troppo. Alla fine andai a dormire e, gente, ho dormito come un sasso per tutto il giorno! Quando mi alzai era tutto più chiaro, e mi fic-
cai in testa che tutta quella roba laggiù, nei boschi di Bachelar, era stata soltanto un sogno di un ubriaco. Dopo quella notte da incubo, cercai per un po' di tempo Harold senza riuscire a trovarlo. Sentii dire che la ragazza, che stava con lui, era sparita anche lei. Pensai che sia lei che Harold se ne fossero andati via insieme. Un po' di tempo dopo, qualcuno, non ricordo chi, mi disse che Harold se n'era andato a Jackson in cerca di lavoro. Be', era una cosa quantomai logica di quei tempi, dal momento che le cose andavano piuttosto male per parecchi. Pensai anche che forse Harold si era sposato con quella ragazza. Una notte, un paio di mesi dopo questi fatti, mi trovavo nella fattoria di Moore, in magazzino. Sentii quella musica nel retro. La voce era di testa e la chitarra piangeva, grama e spezzata. Sembrava un vecchio che urlasse di gola. Chiesi chi stesse cantando, e Willy Bukha mi chiese se non riconoscevo gli amici quando mi succedeva di sentirne uno. Be', era buono, quel disco; comunque, ad ascoltarlo molto attentamente, riuscivo a sentirci qualcosa del ragazzino, in fondo in fondo, graffiante, sempre pronto a mettersi a urlare. Quella era la prima incisione di Harold Robinson: Lost Highway Blues. In seguito Harold mi disse che l'aveva registrato alla vecchia Blue Star Company, a Jackson. Non riuscivo a rendermi conto come un ragazzo avesse potuto andare così lontano in così poco tempo. Su quel disco c'era tutto lui, sempre a correre, a buttarsi a capofitto nelle cose, duro e scostante. Dopo quello, Harold ne incise un paio, prima che lo rivedessi di nuovo. Uno, ricordo, era intitolato Hudson Blues, e l'altro credo che fosse Old Devil at my Door. Be', le cose per me andavano bene e continuarono ad andarmi bene. Poco tempo dopo ch'ebbi sentito il disco di Harold, mi recai a Grenville e registrai un paio di canzoni. È stato quando ho fatto Lonesome Piney e ABC Blues. Penso che ve li ricordiate. Dopo allora andai in giro a suonare di più, e fui un pochino famoso. Le cose mi stavano andando proprio bene. Una notte, circa tre anni dopo aver sentito per la prima volta i dischi di Harold, mi trovavo a Collierville con Pa Simms e Elias Parker, che in quei tempi si faceva chiamare Rosso Mob, e stavamo suonando in un club, di cui non ricordo il nome. Stavamo andando forte con la nostra roba, piacevamo. Durante l'intervallo qualcuno disse: «Ehi! Gente, eccomi qua». Mi girai e c'era Harold, ma non era come ai vecchi tempi. Sulle prime quasi non lo riconobbi, benché non è che fosse poi neanche tanto diverso. Comunque sentite, gente: era cambiato! Non aveva più niente del ragazzino.
Era tutto bel lustro, vestito da mettere k.o. le ragazze, ed era triste. Be', quella volta, la prima volta in assoluto per me, mi chiese se poteva salire sul palco. Risposi di sì, e quella notte suonò, squarciandosi la gola, conversando. Nessuno di noi era bravo come lui, e nessuno di noi probabilmente sarebbe mai diventato così bravo. Pa Simms e io ci guardammo in faccia l'un l'altro. Sentite, gente: era meglio che in quei dischi. La mano correva su e giù con quel collo di bottiglia luccicante. Non sono capace di spiegarvi bene come suonasse, o a che cosa lo si potesse paragonare, perché la sua musica diceva un mucchio di cose. Sembrava che la musica lo possedesse e gli si avvinghiasse addosso, quasi volesse succhiarlo. Nello stesso tempo pizzicava e picchiava e urlava. Gemeva e diceva: «Vieni qui da me, solleva il mio spirito». Mai stato niente a cui lo si potesse paragonare. Harold suonò per tutta quella notte e noi non fiatammo neppure. Il palco era suo, ed ero ben contento di starmene ad ascoltare. Una canzone dopo l'altra. Alcune le avevo già sentite, vecchia roba di Hubie White e Panama Mac; più un mucchio di roba di sua invenzione che non avevo mai sentita prima d'allora: roba da matti, che trattava di dèmoni e di voodoo, e roba del genere. A circa metà serata, qualcuno diede ad Harold un mezzo litro di whisky. Harold cominciò a bere mentre continuava a suonare. Ben presto si slegò, e la sua musica si fece ancor più bella. Allora scese dalla pedana e cominciò a parlare con la gente, tra una canzone e l'altra. E le donne se lo divoravano, come se Harold fosse stregato. Le squadrava dalla testa ai piedi e io ero un po' preoccupato perché non conosco molto bene queste cose e non volevo provocar casini. Dapprincipio furono le solite cose, del tipo porta fortuna, autografi, amuleti, tutte sciocchezze di questo tipo che si sentono abitualmente dai giovani. Però, come ho detto, le ragazze di fatto ci si attaccarono come se fosse qualcosa di speciale. Dopo poco avevano invaso la piattaforma, e Harold era là in mezzo; e le sue espressioni si fecero più dure. Andò avanti come un ossesso scatenato e un bastardo donnaiolo. Quando suonava, la musica era più potente più graffiata, e glissata e lamentosa. Quella sua chitarra era capace di fare cose che non so spiegarmi come. In qualche modo, la stanza ben presto si riempì di strilli: non solo la musica, ma un po' tutto: la chitarra, le donne, anche l'aria era surriscaldata. Poi lui troncò tutto, nel bel mezzo di una canzone. Troncò proprio di colpo... e tutto piombò nel più assoluto silenzio. Harold aveva gli occhi rossi e straniti. Si aprì la camicia: c'era quella specie di amuleto verde ap-
peso al suo collo. Non ho mai visto niente del genere, anche se non vuole dire, perché non mi sono mai allontanato da questi posti, non sono mai andato da nessuna parte. Comunque Harold si toglie dal collo quella cosa e grida qualcosa come: «Shubby Niggrath, Shubby Niggrath. Tutte stupidaggini. Non servono a niente. Io affermo che è dentro di me, e da nessun'altra parte. Io sono Harold Robinson e questa musica sono io! Non occorre nessun altro amuleto!». E buttò quel «coso» in un cantuccio. Nessuno, naturalmente, ci capì un'acca in tutta quella faccenda; io però ricominciai a pensare a quello che avevo visto quella notte, giù alla Cala di Bachelar. Tutti gli altri ci fecero poco caso, anche se rimasero muti e con gli occhi sbarrati. Per lo più se lo spiegarono col fatto che era giovane e selvatico e aveva bevuto un po' troppo. Harold rimase là in piedi un minuto, con una faccia da pazzo. Ma questa volta era tutta lacrimosa e languida, proprio brutta! E la voce di Harold! Tremava ed era troppo stridula, come se stesse invocando aiuto. Harold non suonò a lungo, soltanto qualche canzone. Poi mise giù la chitarra, con tutta calma, e si diresse alla porta, silenzioso, sgusciante come una biscia. Pa Simms e io e Elias chiudemmo la serata; ma, qualunque ne fosse la ragione, eravamo piatti. Per di più, quell'ultima fase della musica di Harold ci faceva sentire veramente depressi. Tirammo avanti fino all'una. Poi raccattammo le nostre cose. Avevo ancora la testa inchiodata ad Harold e alla sua musica e a quel Shubby Niggrath. Sapete com'è: mi stavo ponendo un mucchio di domande su tutte quelle cose. Non riuscivo a tirarci fuori un senso da tutta quella faccenda. Comunque fu bello uscir fuori da quel club e sentire l'aria fresca sulla faccia. Pa Simms e io ce ne andammo a dormire da un suo cugino, e là ci fermammo. Elias, invece, passò la notte con una ragazza. La strada fino alla casa di Albert (così si chiamava il cugino di Pa) era lunga circa tre chilometri, e mentre camminavamo parlammo molto poco. Stavamo già camminando da un po', quando vidi Harold che scendeva verso di noi, barcollando come un ubriaco. Quando fu vicino, fui più che sicuro che non era la sbronza che lo faceva barcollare e che l'aveva stordito prima. Era spaventato a morte e aveva lo sguardo perso. Non c'era più, in lui, niente della sua dolcezza e della sua energia. Si rivolse a noi e farfugliò qualcosa circa il fatto se poteva venire a passare con noi la notte. Pa gli rispose di sì e proseguimmo insieme. Da principio Harold non disse niente; camminava con la testa bassa e taceva. Mi stavo domandando che cosa gli avesse preso, ma non glielo chiesi
espressamente. Gli chiesi invece dov'era stato da quando l'avevo visto l'ultima volta; roba di questo genere. Be', rispose OK, e pareva tranquillo, anche allora. Disse che per un po' era stato a Jackson e poi a Memphis e a St. Louis. Disse che era stato anche nel Texas. Gli riferii che avevo sentito i suoi dischi e che erano ottimi. Mi rispose che quei dischi non erano tutto, ma che aveva registrato molt'altra roba a Memphis e a St. Louis, e che forse un giorno o l'altro li avrei ascoltati tutti. Erano quelli che poi diventarono veramente celebri, come Black Widow Blues e Satan Closing Down on Me e She Devil Moan. Continuammo a parlare di cose del genere finché arrivammo a casa di Albert. Harold continuava a comportarsi in modo strano, ma non gli chiesi nient'altro, pensando che tutto sarebbe venuto a galla da solo al momento giusto. Chiacchierammo un pochino con Albert. Harold era sempre più tranquillo. Poi ce ne andammo a letto. Non so che ora fosse, forse un paio d'ore più tardi o forse meno, quando Harold venne a svegliarmi per scambiare quattro chiacchiere. Uscimmo fuori sul retro della casa e ci mettemmo a sedere sul vecchio carro che c'è là. Fu allora che seppi che fifa boia avesse addosso Harold, come non ne aveva avuto mai. Mi fissò tutto agitato, e uscì fuori sparato con qualcosa di questo tipo: «Hanson, io non arrivo alla fine di questa notte; stai guardando in faccia un morto». Sulle prime scoppiai a ridere e gli dissi che veramente durante quella serata si era strapazzato troppo. Anche se, naturalmente, avevo ancora qualche domanda che mi rodeva dentro. Non mi ascoltò neppure, e attaccò dritto filato a parlarmi di come gli pendesse addosso una maledizione, e di come quella cosa che era un diavolo femmina stesse venendo a portarlo via. Disse che sapeva che quella femmina-diavolo sarebbe venuta quella notte stessa, prima che sorgesse il sole. Mi disse che Shubby Niggrath gli stava alle calcagna, gli stava dando la caccia. Be' logico che lui non sapeva che io ero stato laggiù alla Cala di Bachelar, quella notte, e feci di tutto perché continuasse a non saperlo. Mi limitai a chiedere chi fosse mai questo tizio, questo Shubby Niggrath. E lui mi raccontò l'intera storia. Sembra che Harold sia stato dalle parti di Dumphy per un anno, prima che io lo vedessi quella notte: si studiò i suoi pezzi forti e così via. Poi arrivò in città una specie di circo; sapete com'è: carri, pozioni, musica e giochetti di magia. Bene! Il direttore del circo si chiamava, più o meno, Nyalee-hotop, il Re Cobra Egiziano. Diceva di conoscere segreti che risalivano molto indietro nel tempo e di essere stato vivo al tempo dei re. Ma per Ha-
rold c'era qualcos'altro in quel tipo che lo affascinava, e precisamente il fatto che sapeva suonare la chitarra come se la pugnalasse. Harold cominciò a bazzicare continuamente dalle parti del circo, e soprattutto dove avrebbe suonato il Re Cobra. Harold disse che come suonava lui era una schifezza in confronto a come suonava quell'uomo. Comunque il Re Cobra prese a ben volerlo e disse che gli avrebbe insegnato a suonare e che gli avrebbe insegnato anche come comporre le canzoni che Harold desiderava suonare. Disse che lui possedeva un osso di gatto nero e una mano-amuleto che potevano essergli di molto aiuto. Ma sapete: di queste cose si parla tanto, da queste parti! Il Re Cobra proseguì dicendo ad Harold di aver viaggiato molto e di essere stato anche a Boston e a Filadelfia, o in un posto simile e che anche lì conoscevano gli stessi segreti che conosceva lui, segreti che lui aveva conosciuto quand'era re in Egitto. Ritengo che questa storia di re fosse tutta una panzana, anche se c'è da star attenti, visto quel che è successo. Ad ogni modo il re garantì ad Harold che con il suo aiuto avrebbe suonato da maestro. E Harold lo seguì fino in fondo. Harold mi disse, inoltre, che la notte in cui l'avevo visto a Dumphy era la notte in cui andava da Nya-lee-hotop per apprendere il segreto che gli aveva garantito di confidargli. Disse di essersi incontrato con lui nell'accampamento del circo, e che certuni del circo del Re erano tutti addobbati con lunghi abiti vistosi, mentre altri non avevano addosso un bel niente di niente. Tutti cantavano e salmodiavano in una lingua strana. Fu quella la prima volta che Harold sentì parlare di Shubby Niggrath. Il Re Cobra gli spiegò qualcosa, dicendogli che Shubby Niggrath era una capra che aveva avuto un migliaio di figli e che era vecchissima, risalendo indietro nel tempo addirittura a quando ancora il mondo non esisteva. Disse che era forte e poteva dare a un uomo il potere di fare tutto quello che voleva: suonare, amare le donne, diventare re. Disse che Shubby Niggrath veniva dalla terra e che il suo potere fluiva in un uomo, attraverso le ossa, direttamente dalla terra. Poi fece pronunciare ad Harold un mucchio di parole di cui non conosceva il senso e lo fece camminare qui e là in un modo strano, come se percorresse dei quadri e degli angoli. Fatto questo se ne andarono alla Cala, nella casa dove li avevo visti. Anche Harold parlò dei rumori che avevo sentito pure io, ma disse di non sapere da che cosa fossero provocati, anche se immaginava che fosse la gente del Re. Nella casetta, il Re diede ad Harold un amuleto fatto di una pietra verde, viscida, e Harold pensò che potesse essere un ritratto del-
la capra, ma per tutto il tempo in cui lo portò non ci fece mai caso. Poi il Re fece giurare ad Harold che una volta messa al collo quella «cosa» non se la sarebbe mai più tolta, aggiungendo che Shubby Niggrath era sempre pronta, in attesa. Harold promise tutto, dicendo che non gliene fregava niente purché quell'oggetto facesse venir fuori la musica che aveva nel sangue. Poi il Re fece inginocchiare Harold e gli mise l'amuleto attorno al collo. Tutto si oscurò e Harold sentì l'amuleto bruciargli terribilmente la pelle. Mi disse che la stanza era diventata tremendamente calda e che non riusciva a respirare. Poi gli sembrò che ci fosse una cosa enorme là dentro insieme a lui, e sentì un violento odore di bestia. Tutto qui quello che ricordava. Poi si ritrovò per terra, sulla strada per Dumphy, mentre stava riprendendo i sensi. Ad Harold sembrava che non fosse cambiato nulla. Si chiese anche se per caso non avesse sognato tutta quella storia del Re. Ma appena appoggiò la mano sulla chitarra vide che era cambiato tutto. La musica saltava fuori dalle sue dita come fuoco, e gli vennero in mente delle canzoni che non aveva mai saputo di avere in testa. Be', Harold si fermò qui nella sua lunga storia. Poi guardò verso gli alberi. Io aspettai, perché sapevo che c'era dell'altro da dire. Finalmente aggiunse: «Sai perché sono andato a Jackson? Ti ricordi quella ragazza con cui stavo quella notte a Dumphy? Bene, l'ho consegnata a loro, al Re e alla sua gente. Ho saputo che, dopo quella notte, non è più tornata». Dopo queste parole, rimanemmo seduti ambedue per circa mezz'ora senza dire neanche una parola, anche se mi sentivo sulle spine. Poi Harold si girò verso di me tutto di colpo, gli occhi che gli schizzavano dalle orbite, come impazzito: «Quando ho buttato via l'amuleto della capra, non sapevo a cosa andavo incontro. Non mi sono mai pentito per tutto quello che avevo fatto con il Re, qualunque cosa sia successa alla ragazza. Ho buttato via quella cosa perché ero convinto di possederla io. Voglio dire, pensavo che la musica fosse mia. Adesso so che sbagliavo. Le cose stanno in tutt'altro modo. Sto aspettando di buttar via presto anche me stesso». Harold non aggiunse quasi niente. Disse soltanto che si era messo ad aspettare perché non c'era nessuna via di scampo. Poi mi obbligò a rientrare in casa e a non volermici intromettere, qualunque cosa succedesse. Disse che quasi mi ci trascinava dentro anche me, quando ancora non sapeva cosa volesse dire tutto questo, e penso che si riferisse alla Cala di Bachelar. Lo supplicai come può fare un padre con un figlio, ma lui non mi ascoltò
per niente, e così rientrai in casa e lo piantai là. Rimasi sveglio, ad aspettare con lui. Successe subito dopo, fulmineamente. Così fulmineamente che faccio difficoltà a mettere insieme i vari pezzi. Me ne stavo là, ascoltando il vento. Tutto era immerso nella quiete e nel silenzio, quando, all'improvviso, il vento divenne bufera. Scoppiò l'inferno. Il vento era tale quale quello della notte della Cala di Bachelar: picchiava violentemente gli alberi e ululava. Poi si accese una luce nel cielo, come un fuoco, che diventava sempre più luminoso, accecante; eppure era d'un tipo tenebroso, niente a che vedere con il sole. Poi, come una coltellata, risuonò nella notte l'urlo di Harold, lamentoso, quasi come una delle sue canzoni; si fece acuto, poi si spense nel nulla. Successe una volta sola, ma non me ne scorderò mai. Pa e Albert piombarono giù ed erano già quasi alla porta. Ma non ci fu bisogno che li fermassi, perché furono subito presi dal panico. Rimasero in piedi, rabbrividendo come me. Poi arrivò, violenta, la puzza animale, e lo stomaco quasi mi uscì dalla bocca. Era come un veleno e vi giuro, gente, che lo sentivo premere contro la pelle, duro e caldissimo. Poi sparì tutto: l'odore, la luce, il vento. Tutto era finito in un attimo. Ma, molto lontano nei boschi, li sentii suonare selvaggiamente nelle canne palustri e li sentii cantare. Li sentii nuovamente inneggiare a Shubby Niggrath, come l'altra volta. Poi le voci se ne andarono con l'alba; e Pa Simms e io e Albert ci sedemmo, troppo spaventati per muoverci. Finalmente si alzò il sole e gli uccelli cominciarono a cantare; ma noi continuammo a rimanercene seduti per molto tempo. A mezzogiorno c'era caldo, e l'eco dei canti se n'era andato da tanto tempo. Fu allora che finalmente ci sgranchimmo i nervi e ci guardammo attorno. Là fuori non c'era niente. Era tutto pulito come un osso spolpato. Nessuna traccia, niente. Harold se n'era andato, era sparito. Non l'ha più visto nessuno. Adesso, quando ci penso, è tutto come avvolto nella nebbia. Pa e Albert sono morti tutti e due; e certe volte mi trovo a pensare che forse è stato tutto un sogno o una specie di incantesimo. Ci sono delle volte che non credo ad una sola parola di tutto questo. Ma poi mi risento nell'orecchio quell'urlo e risento quella bestia che scalpita nella Cala di Bachelar. Li sento inneggiare a Shubby Niggrath. Qualcosa c'è stato e questo qualcosa s'è preso Harold, perché gli si è messo contro. Non lo so se Harold abbia fatto bene o no a mischiarsi in una faccenda del genere, ma so che, qualunque cosa
Harold abbia fatto per riuscire a produrre quella musica, non importa cosa fosse, gente, quel qualcosa gli ha permesso di fare i blues più maledettamente belli che mai si siano sentiti. Il pozzo H. WARNER MUNN L'ultimo racconto di H. Warner Munn che abbiamo pubblicato (The Black Captain, nel quarto volume di questa serie) si svolgeva sotto un sole accecante. Il pozzo si svolge quasi tutto nell'oscurità più totale. Tutti e due i racconti sono pieni di suspence, ma Il pozzo è anche ricco di umana speranza, di acuto humour e di un terrore esotico, affascinante. Coraggio! Venite, venite qui attorno a me ad ascoltare il mio Jataka! Riposatevi un attimo dalla calura del mezzogiorno; lasciate stare i vostri lavori. Lasciate cadere anche solo un anna o una monetina nella mia ciotola e statevene a gustare un racconto che vale certo un mucchio di rupie. Lasciatelo scendere profondamente nei vostri cuori e stupitevi di fronte alla giustizia di Siva, l'Onnisciente, cui sia gloria nei secoli. Coraggio! Tutti voi che siete affaticati e stanchi, venite qui sotto il baobab e ascoltate il mio Jataka! Sappiate che durante la vita del Rajah dello Stato nostro confinante di Boorhau, la moglie gli generò due figli che si assomigliavano come due semi di melograno. Sì, proprio come i semi che ci sono nel melograno che ha in mano quel ragazzino. Vieni qui, dammelo un momento, che lo mostro alla gente. Vedete? Lo spacco, così. Vedete? In mezzo alla polpa succulenta ci sono molti semi. Osservate mentre li divido: sono tutti uguali. Eppure, via via che questi gemelli crescevano, divenne sempre più chiaro che la somiglianza era puramente esteriore, perché quello più giovane soltanto per un soffio era di animo crudele. Gli piaceva far soffrire il debole e chi bisognava di aiuto, perché gli piaceva servirsi del suo potere. Era invidioso del potere ereditario del fratello maggiore, il quale, se le cose seguivano il loro corso naturale, un giorno sarebbe diventato signore del paese, e sarebbe stato giustamente considerato superiore a tutti i Rajputata.
Costui era gentile e buono, un ragazzo studioso, molto istruito nelle vie dei Feringhi, perché il suo precettore inglese, che faceva da insegnante a tutti e due, lo favoriva in ogni senso, per cui conosceva un mucchio di cose curiose. Ahimè! Come mi dispiace! La mia è una situazione veramente tragica! Stolto che sono! Ho mangiato tutto il melograno! Eppure, piccolo, ti ripagherò bene. Il racconto non ti costerà niente, a parte il fatto che insieme dovremo convincere tua madre, nella sua bontà, a darmi un letto per dormire. Per adesso prendi la ciotola. Falla passare in mezzo a questa buona gente, mentre io mi riposo. Fa' in modo che le monete tintinnino bene sull'ottone e sta attento a non sporcarmele con le dita senza dubbio sudicie. Se mi fossi sbagliato, cosa che i Deva non permettono, dovrei certo picchiarti, il che ci farebbe infelici ambedue. Il mio caratteraccio mi prenderebbe la mano e garantisco che è una vera maledizione per me, e me ne spiace moltissimo. Mi dispererei, se dovessi vedere tuo padre o chiunque altro picchiarti senza motivo. Più tardi ti darò un anna, forse stanotte, certamente domani. Domani mattina presto. Giuro che amo la verità e temo Kalì. Attenzione, voi tutti che vi siete riuniti qui intorno per il desiderio di divertirvi sulle disgrazie di coloro che stanno in alto. Rallegratevi al pensiero che gli dèi hanno cura di tutti e singoli gli uomini. È pacifico che fanno in modo che ad ognuno di noi succeda quel che è giusto, e non è affatto necessario che la salute e la felicità passino da una mano all'altra. Rifletteteci sopra. La gioia e la sfortuna arrivano in egual misura. La virtù paziente è stimata come un merito acquisito, mentre, d'altro canto, la crudeltà, l'arroganza e la malizia ricevono, pure loro, quello che si meritano. Ma certe volte, apparentemente, le cose vanno in modo molto diverso. Ma per gli dèi che tutto osservano dieci anni di vita d'un uomo sono come un soffio. Loro si possono permettere tutta la calma che vogliono. Avete forse dei dubbi? Ascoltate allora quel che sto per raccontarvi. Lasciate che penetri profondamente nei vostri cuori. Pensateci bene, facendovi consigliare al riguardo, perché nelle piccole come nelle grandi cose in tutti, nessuno escluso, alligna l'orgoglio e il disprezzo. Vedrete che agli dèi piace portare uno che sta in basso a un livello superiore se così va loro di fare, allo stesso modo che i potenti vengono puniti proprio quando sono al
vertice della loro grandezza. Suvvia! Inizia lo Jataka! Sappiate che in una notte di luna piena il fratello più giovane, geloso per quello che stava imparando suo fratello più vecchio e per il suo radioso futuro, adesso che aveva ereditato il trono e una bella donna della quale era innamorato, ma ancor più invidioso del mucchio enorme di rupie concesse a Boorhau in nome dell'amicizia dal governo britannico, strappò dal sonno il fratello e lo legò ben bene, con l'aiuto di un servo, un tipo perfido. Poi quella coppia infame lo trasportò, senza che nessuno vedesse, fuori dal palazzo nel cortile. Qui, spalancata contro il cielo, c'era la bocca di un profondo pozzo. Degli operai avevano lavorato per qualche giorno agli ordini del fratello più giovane, totalmente all'oscuro dello scopo per cui lavoravano. Una volta che il lavoro fu terminato, ripartirono tutti per un lontanissimo paese da cui erano stati fatti venire, ben pagati; anche se è stato detto che nessuno di loro è mai arrivato a destinazione. Può darsi che ci siano stati dei briganti lungo la via che li hanno uccisi. Può anche darsi che sia stato per qualche altro motivo. Non lo so. Nel cortile non c'erano né operai né servitori, nessuno. Era molto tardi. I due cospiratori fecero scorrere una fune sotto le braccia del prigioniero e lo spinsero sul bordo del pozzo. Mentre facevano questo si guardarono in faccia e scoppiarono a ridere. Il giovane Rajah stava là penzoloni, fissando esterrefatto il volto del fratello, come se avesse voluto imprimersi nella mente per l'eternità quell'espressione sprezzante, ghignante. Non riusciva a credere possibile un simile tradimento. Il gemello ghignò, buttò in avanti il mento barbuto e rise selvaggiamente, atteggiando i denti in un ringhio, e disse: «Fratellino mio, qui potrai continuare i tuoi studi in tutta tranquillità. Non ti disturberà nessuno. Avrai a disposizione, per meditare, tutto il tempo che vuoi, libero dalle preoccupazioni del regno e senza che nessun importuno venga a turbarti durante le tue riflessioni. «I tuoi ardui compiti e la tua funzione di giudice, in questo posto come pure in qualunque altro, li sosterrò io stesso. È un letto di piume ma mi hanno riferito che per te, invece, era soltanto un letto di spine. Unica ricompensa per me sarà quella di servirmi del tuo nome e di quei quattro soldi che in passato ci ha accordato l'Inghilterra».
Bestemmiò, perché non gli piaceva per niente il sapore di quel nome odiato. Il fratello più vecchio non si mosse. Studiò attentamente, a lungo, l'espressione carica di maligna cupidigia del fratello, mentre scendeva sempre più profondamente nell'oscurità del pozzo. Il Rajah venne calato giù sotto i raggi della luna, mentre continuava a fissare verso l'alto quella larga bocca aperta, ghignante. Notarono che era calmo e placido in volto. Non tradiva né paura né odio per i suoi nemici, eppure, mentre scendeva e scompariva dalla vista, lo calarono giù ancor più in fretta, ben sospettando quali potessero essere i suoi pensieri, ansiosi di farla finita con quella loro impresa disgraziata. Quando arrivò in fondo, il fratello più giovane gli gridò: «Non aver paura, fratellino mio; mangerai bene per tutti gli anni in cui riposerai nel tuo santuario. «Non ti lascerò mancare mai il cibo. Chiedilo, e ti sarà dato. Lo stesso dicasi per il bere: certo c'è acqua a sufficienza per tutta la tua vita. Ben sapendo che ti sta un pochino a cuore aver vino e cibi raffinati, non vorrai certo lesinarmi la tua porzione sia dell'uno che degli altri. Così, finalmente, potremo goderci ambedue quello che più abbiamo sempre desiderato!». La sua risata risuonò cavernosa. Il Rajah, ancora legato, cadde in avanti sulla grata di ferro contro cui dapprima era andato a sbattere con i piedi. Il primo suono che emise, da quando era stato preso, fu, adesso, un profondo gemito di dolore. Si liberò della corda. La fune, tirata violentemente all'altra estremità, lo frustò in mezzo alle ascelle e sulla schiena nuda. Aveva dormito nudo a causa del caldo, e la fune gli bruciò la pelle scorrendovi sopra; poi il capo libero guizzò verso l'alto e sparì. Il pesante coperchio di ferro cadde giù con un rumore secco sui perni. Sentì la spranga di ferro scorrere nel suo incavo. Un lucchetto bloccò il tutto. Il Rajah era immerso nell'oscurità e in un freddo umido. Cominciava già a sentire i brividi, ma era colpa dello shock, non della paura. La sua mente sveglia stava funzionando come il meccanismo ben oliato di uno degli orologi o dei giocattoli complicati che costituivano il suo hobby preferito. Si mise a riflettere. Anzitutto doveva liberarsi dalle corde che lo tenevano legato. Secondo: doveva investigare sulle risorse di quella prigione. Non aveva il minimo dubbio che fosse quello lo scopo per cui era stata concepita. Ora dipendeva soltanto da lui se ci sarebbe rimasto oppure no. Non gli avevano legato i piedi. Non aveva né un turbante né un perizoma né un pugnale o un attrezzo qualsiasi. Non si illudeva che gli avessero
lasciato qualcosa. Giaceva su gelide sbarre di ferro, saldate nel punto in cui esse si incastravano in una grata a fessure quadrate di circa dieci centimetri per lato. Si divincolò finché riuscì a mettersi in ginocchio, e cercò di liberarsi le mani. Erano legate dietro la schiena con una funicella sottile, fatta di canapa. La corda non era tanto stretta, solo che, prima di chiudere i nodi, avevano fatto compiere alla funicella molti giri attorno a ciascun polso. Fosse per tardiva gentilezza o per pietà, sta di fatto che i nodi non erano poi tanto stretti da impedire la circolazione. Ma non erano neppure abbastanza allentati da permettergli di tirar fuori una mano o l'altra, per quanto quei polsi fossero piccoli e le dita delicatamente sottili. Non riuscì a sciogliere o ad allentare i legacci neanche a strattoni. Rifletté che i nodi avrebbero potuto farsi più stretti se continuava a tirare, per cui desistette dagli sforzi. Si lasciò cadere nel suo posticino e meditò, come gli era stato consigliato di fare. Il volto del fratello era lì sospeso nell'aria davanti a lui nell'oscurità, come una visione. Era distorto e privo di ogni bellezza, privo di qualsiasi sentimento di mitezza. Lo sguardo era carico di maligna cupidigia. Rideva, ma senza suoni. I denti scintillavano. C'era qualcosa, in quei denti, che lui doveva ricordare. Paragonò quella bocca spalancata alle zanne di una tigre. Gli sembrava il paragone migliore. Si chiese se, a sua volta, risultasse altrettanto repellente al gemello. Dove era adesso quel criminale? Stava dormendo? Stava sognando, immerso in una gratificante compiacenza di sé, per aver portato a termine quel terrificante progetto? Come avrebbe spiegato la sua scomparsa, adesso che aveva assunto l'identità del fratello? Il Rajah non aveva risposte per tutte quelle domande. Sapeva soltanto che non sarebbe stato difficile ingannare la gente a palazzo. I gemelli lo avevano fatto molte volte in passato, per puro divertimento. C'era forse adesso qualche differenza visibile, avvertibile, tra loro due? Esaminò minutamente quella faccia compiaciuta di sé. Vi ritrovò le sue stesse fattezze. Nessuno dei due aveva qualche difetto pronunciato. Erano due gemelli perfettamente identici. Continuava a serrare rabbiosamente i pugni, un po' per rabbia e frustrazione, ma ancor più nello sforzo di allargare i polsi espandendo muscoli e tendini, così da creare un piccolo gioco nei giri della corda. Sembrava che non succedesse niente di rilevante. Fece ruotare le mani. Questo irritò dolorosamente la pelle. Dopo un poco i polsi cominciarono a
sanguinare. Quasi che la leggera irritazione stimolasse i suoi pensieri, avendo sempre quella faccia ben ferma davanti al suo occhio interiore, gli venne in mente una differenza. Era sottilissima. Forse irrilevante. Era possibile che soltanto due gemelli, più idonei di altri a rilevare una differenza tra loro, avessero notato quella sottile deformazione. Uno dei denti superiori, un incisivo, portava un leggero segno azzurro di carie. Archiviò questo dato nella memoria. Nel subconscio rilevò che quel dato poteva essere importante. Come? Non ne aveva la più pallida idea. I legacci non si erano allentati. Si appoggiò su un fianco, ben conscio dell'irrigidimento che il ferro avrebbe prodotto alla sua schiena nuda. Si strappò di forza dal panico, immergendosi in quella calma nota soltanto agli yogi. Aveva praticato yoga. Non sarebbe mai venuto nessuno in suo aiuto. Si rassegnò a questo dato di fatto. Se non fosse riuscito in qualche modo a liberarsi da solo, avrebbe potuto morire ancora legato... anche nell'ipotesi che gli avessero buttato giù del cibo come gli era stato promesso. Era in un pozzo. E l'acqua dov'era? Ovvio: sotto di lui, sotto la grata; ma a che profondità? Aveva già sete, a causa di tutti gli sforzi fatti. Ma come avrebbe potuto arrivarci, secondo loro? Ovvio. Il fratello aveva programmato che in qualche modo lui potesse arrivarci. Questo pensiero lo rincuorò. Se l'usurpatore aveva scelto per lui una morte lenta, la situazione in cui si trovava non poteva essere definita insormontabile. Doveva esserci qualche strada per uscire da quella situazione. Restava soltanto una cosa: scoprirla. Fuori discussione ch'era in trappola. Ma animali, armati soltanto dell'istinto, erano sfuggiti alle trappole. E lui era un uomo. Un uomo intelligente, almeno lo sperava. L'intelligenza è un'arma, uno strumento. Possente. Adesso che era passato un po' di tempo, cominciò a rendersi conto che le pupille si erano dilatate abbastanza, per cui cominciava a intravvedere qualcosa. Accanto alla parte superiore del pozzo, ma parecchi metri sotto la botola di ferro, un pallido cerchio di luce, non più grande di una tazzina da tè, illuminava la parete levigata come uno specchio. Seguì con lo sguardo il raggio di luce fino alla sorgente. Si trattava di un piccolo foro al centro del coperchio, attraverso il quale occhieggiava la luna. La luce si mosse verso l'alto, mentre la notte avanzava verso il mattino. Vi si soffermò sopra attentamente, sforzandosi di respirare in modo uniforme e lento. Il cuore rallentò il suo pulsare frenetico. Adesso poteva, an-
cora una volta, pensare normalmente. Il Rajah aveva visto dei contorsionisti sulle fiere e sulle strade. Aveva tentato di autoconvincersi a confutare qualcuna delle assurdità a cui il popolino credeva ciecamente. Lui non credeva che un uomo, santo o no, fosse veramente capace di staccarsi dalla realtà. Il misticismo non aveva mai trovato posto nella sua vita. Eppure! La realtà che cos'era? Era possibile ignorare il freddo, il dolore, i bisogni fisici, e condurre una vita interiore fatta solo di volontà, fatta solo di allucinazioni? Con una smorfia arrivò alla conclusione che aveva tutto il tempo che voleva per risolvere quell'annosa questione. I fachiri! Loro dormivano su letti di chiodi. Ammazzavano piacevolmente il tempo, giorni, intere settimane, in catalessi, senza cibo né acqua. Facevano scorrere corde tutte piene di chiodi attraverso buchi praticati nella lingua, provocando ferite che poi parevano rimarginarsi magicamente. Si torcevano nelle posizioni più incredibili. Desiderò saperne di più. Digrignò i denti, in previsione della sofferenza che sapeva di star per infliggere al suo corpo. Tirò su le ginocchia, piantò i polpacci contro le cosce e cercò disperatamente di introdurre i piedi nel nodo formato dalle mani legate. Le giunture scricchiolarono sonoramente, mentre si tendevano. Crampi lo afferrarono dapprima al collo dei piedi, poi ai polpacci e ai muscoli maggiori. Ma lui continuò, nonostante l'agonia. Le masse muscolari attorcigliate divennero più dure del ferro. Urlò per la tortura. Le dita dei piedi toccarono i polsi, avvinghiati adesso insieme dallo sforzo della torsione. Allontanò ancor di più i gomiti, li incurvò per aumentare le dimensioni del nodo, come anche la curvatura della schiena. Sentì scricchiolare le vertebre della spina dorsale: premevano verso l'esterno fin quasi a spaccare la pelle tesa. Poi... Meraviglia! Le dita del piede destro scivolarono nel cerchio di carne, scivolarono tra la rude canapa, fin oltre la caviglia e il polpaccio. Si mise a cavalcioni sui legacci. Il piede sinistro passò più facilmente e più rapidamente. Si lasciò cadere ansante, felice di non aver mai rimpinzato il suo corpo con cibi prelibati, ma anche rimpiangendo di non aver curato abbastanza, nella sua vita sedentaria, il suo sviluppo atletico. Con un sorriso sardonico decise che, in quella prigione, non avrebbe permesso ai muscoli di deteriorarsi. Una tigre in cattività non perde mai agilità o forza. Aspetta il momento propizio, sicura che verrà, perfettamente capace, in ogni istante, di cogliere ogni minimo vantaggio e servirsene
al massimo. Potrebbe essere da meno un uomo intelligente? Quando si fu riposato e, nel frattempo, si fu massaggiato i dolorosi nodi nella gamba finché i muscoli si sciolsero, lisci e scorrevoli, si portò i legacci alle labbra, cercando di individuare con il tatto le estremità delle cordicelle, che riusciva a distinguere a malapena con gli occhi. Mentre la luce se ne andava, era riuscito a sciogliere un nodo, servendosi della lingua e dei denti. Il resto, inzuppato di sangue e sdrucciolevole, venne poi via rapidamente. Era sempre prigioniero, ma in un certo senso era libero. Lasciò cadere la cordicella nell'acqua sottostante, troppo tardi per rammaricarsi del gesto disattento. Che cosa ha detto, mio signore? Non comprende bene alcune delle cose che dico? Le parole? Mi spiace, ma la colpa è sua. Per certi racconti si devono usare le parole appropriate agli avvenimenti. Più tardi, pagamento a parte, venga da me in privato e le spiegherò tutto quello che ho detto e che è sfuggito alla sua comprensione. Ahi! Ho sete! Ho la gola secca. Faccio fatica io stesso a sentire le mie parole. Venite più vicini, vi prego. Chi ha qualcosa da bere, da offrire a uno che si è seccato la gola al servizio dei suoi buoni amici? Acqua? Ah! Quanto gusterei volentieri un sorso di fresca acqua di pozzo; ma siccome il mio amatissimo padre è morto annegato nel Gange, ho fatto voto a Ganesh di non lasciar mai passare neanche una goccia d'acqua attraverso le labbra del suo bambino adorato. Niente vino? Povero me! Be', andrà bene il latte, se è succoso e fresco. Ragazzo, mentre mi riposo fa' passare la ciotola fra i nuovi arrivati. Siano benedetti quei generosi che fanno tintinnare sonoramente l'ottone con le loro offerte! Benedetti coloro che posseggono soltanto una moneta e si procurano meriti con la loro generosità! Basta che la moneta sia buona, bella tonda e senza fori, e saranno parimenti compensati dalla buona sorte! Il povero prigioniero? Ah, il mio cuore sanguina per la sua terribile infelicità nelle mani di quel fratello senza cuore! Vi dirò come andarono le cose. Preparatevi all'ira. Preparatevi alle lacrime. C'era ancora una parvenza di luce lunare. Il Rajah provò a quale altezza poteva arrivare contro la liscia parete interna della camera. A partire dalla grata, su su verso l'alto, anche allungando al massimo le punte delle dita, non trovò da nessuna parte la benché minima sporgenza sulla parete, che
via via saliva incurvandosi verso l'interno. Non uno sfregio, non una pietra che venisse via. non un piccolo incavo neanche profondo quanto un'unghia; non un graffio scalfiva la parete interna, massiccia, liscia come se fosse stata levigata. Gli operai avevano lavorato bene. Anche se non avessero arcuato le pareti nella zona superiore, così da dargli l'impressione di trovarsi all'interno di un alveare a cupola, non sarebbe mai riuscito ad arrampicarsi su quella parete, liscia come l'olio. La parete interna era brunita. Il cemento applicato sopra la primitiva lavorazione in pietra era liscio come uno specchio. Rifletté che anche una mosca o una raganella sarebbero scivolate su quella parete. A piedi nudi com'era, le dita dei piedi si piegavano attorno al ferro mentre stava ritto in piedi per allungarsi verso l'alto. Lì, in corrispondenza della grata, c'erano scanalatura e spigoli e piccole sbavature, dove si trovava la saldatura. Lì c'era trascuratezza. Archiviò nella mente anche quell'informazione, senza sapere a che cosa gli sarebbe servita, ma ben cosciente che avrebbe dovuto saperlo. Non si può mai sbagliare ad osservare troppo le cose. Doveva scappare. Lo voleva a tutti i costi. Il pendolo, oscillando, torna sempre indietro. La ruota, alla fine, ritorna al punto di partenza. Chiudete gli occhi, voi tutti che ascoltate il mio Jataka! Stringeteli ancor di più, voi tutti che volete sapere che cosa provava quel povero uomo! Riflettete! Ora passiamo nel regno dell'immaginazione! Non vi trovate più all'ombra chiazzata del baobab. Siete immersi nell'oscurità profonda, intorpiditi dal freddo umido. Le vostre membra non sono confortevolmente abbandonate su foglie calde e sabbia. Anzi! I fianchi, le cosce, tutto il corpo raggelato porta la dura impronta del ferro rigido. Lasciate che il buio s'insinui nelle vostre anime. Prego, mio signore, non apra gli occhi. Passo io in mezzo a voi in modo che la mia voce possa arrivare con più chiarezza a tutti. È tale il suono di una voce per chi è senza speranza, giù giù sotto terra. Siete là, con me, compagni di infelicità? Eccomi ritornato. Adesso sollevate appena appena le ciglia. È di nuovo mattino, e state lamentandovi perché vi sentite deboli e in preda alla solitudine e alla disperazione. La prima lunga notte è trascorsa, ma c'è soltanto una tenuissima luce. Più netta, adesso, ma pur sempre soltanto debolissima. La luce del sole
penetra attraverso il buco. Vedete? C'è una macchia, nitida sul candore levigato della parete impervia. Il raggio di sole, lì, manda un luccichio. Scivola in basso lungo la curvatura interna mentre il sole si alza. Adesso c'è luce sufficiente per potervi guardare intorno nella vostra prigione, ma è fiacca... quanto fiacca. Soltanto in quell'unica macchia c'è un pochino di calore, benedetto. Vi allungate verso di essa man mano che si avvicina. Sì, è calda! Vi scaldate le membra intorpidite. La fate girare su tutto il volto. Alzate il volto verso quel raggio di sole come farebbe un fiore. È la vita. Ma si muove. Attraversa la grata di ferro. Lo seguite... immergendovi in ogni istante di calore... finché raggiunge l'altra parete e si arrampica... svelto, oh, terribilmente svelto... sempre più in alto, sfuggendo alle vostre dita che freneticamente cercano di trattenerlo. Ancora più in alto, finché non è più una macchia, non è più uno scintillìo: scivola fuori di nuovo attraverso il buco, e non c'è più. Il sole ha attraversato il cielo. Una giornata è finita ed è di nuovo tornata l'oscurità. Una giornata intera... così corta... e la notte è così lunga... per pensare come vendicarsi, forse per perdere i sensi... Voi come lo definite, il sonno? Una giornata intera! E quante ne seguiranno? Quante altre notti per star lì a pensare? Quanti giorni ci vogliono per contare l'eternità? Cosa dice, signore? Mentre teneva gli occhi chiusi è stato derubato? Vuol sapere se ho visto qualcuno prenderle il borsellino, mentre camminavo in mezzo a voi. Che tragedia! Veramente io non ho visto nessuno. Ahimè! La malvagità umana! Presenti! Amici! Aiutatemi! Abbiate compassione, abbiate benevolmente pietà di quest'uomo! Per favore, chiunque abbia derubato questo pover'uomo, si vergogni ora della propria iniquità. Mentre tenete di nuovo gli occhi chiusi, il ladro restituisca il borsellino che ha rubato, affinché questo atto spregevole non venga segnato contro di lui nel Libro d'Oro. Io conto. Otto... nove... dieci. È ritornato, nobile signore? No? Che vergogna per quel furfante! Ma tornerà certamente, non ne dubiti... Come rospo che avanza immerso nella melma per molte incarnazioni ancora a venire. No, non se ne vada. Il racconto non è ancora finito. Si consoli al pensiero che questa perdita è soltanto una piccola cosa, confrontata all'infima condizione in cui è stato calato l'uomo di cui vi sto parlando. Ahimè! Il nostro povero fratello se n'è andato. Non saprà mai che piccola privazione è la perdita di denaro, di cui si lamenta. Ma voi che restate, capite com'essa sia un niente in confronto alle sofferenze del Rajah.
Nella tenue luce di quel primo giorno ha perlustrato per bene la prigione. Appena sotto la grata, si spalanca un largo tubo aperto, svasato verso l'alto come la bocca di una tromba. Sulle prime non si capisce a cosa possa servire. Ci guarda dentro. Che fetore! Per i suoi bisogni fisici, ovvio. Infatti deve andare a scaricarsi in qualche lontana fogna. Con questo accorgimento, l'acqua che deve bere non resterà inquinata dalle sue feci. Però non prova nessun senso di gratitudine verso queste attenzioni del fratello. Quello non è un gesto di pietosa benevolenza, lo sa bene. Le malattie l'avrebbero ucciso troppo presto, il che non è nelle intenzioni del fratello. Per lui sono stati programmati lunghi anni di prigionia. Ma giura che non sarà così. Sente un rumore di passettini affrettati; proviene da sotto. Topi di fogna! Con simile fosca compagnia, non si sentirà mai solo. La superficie dell'acqua si trova a un paio di metri di distanza sotto la griglia. Non può assolutamente arrivarci con le mani, ma da una sottile catena penzola un mestolo, unico arredo della cella. Sull'acqua non c'è la benché minima increspatura. È chiara e limpida. Proviene infatti dalle montagne, e le montagne non sono lontane. Non riesce a scorgere il fondo, comunque deve essere profondo. Ha sempre soddisfatto alla perfezione i bisogni del palazzo. Si chiede da quale parte caveranno adesso l'acqua. Quale motivo addurrà il fratello per spiegare il fatto che il pozzo è stato chiuso. Lascia subito perdere quella considerazione. Non è importante, se si esclude l'ipotesi, assurda, di qualcuno in grado di recarsi intenzionalmente nel cortile. È più che possibile che tutto il cortile sia stato chiuso. Basta sprangare due soli cancelli su tutto quel fianco. Forse non verrà mai nessuno, eccetto il fratello, per osservarlo malignamente e schernirlo. Proprio mentre pensa a questo, sente togliere il chiavistello e vede sollevarsi la botola. Lassù c'è una luce fioca. E c'è quella faccia odiosa, così uguale alla sua, che sorride per la vittoria e per la contentezza. «Eccomi qua, fratellino! Buona cena!». Butta giù un bel pezzo di anitra arrosto, che viene afferrata dieci metri più in basso. Poi più niente in quello spazio vuoto; solo una stella, una sola, che scintilla alta nel cielo, immediatamente tagliata fuori anche lei dalla botola che viene rinchiusa. Avvicina la carne alle labbra, poi esita. Sarà avvelenata? L'odore non gli dice niente. Ha una fame da lupo. Si deve fidare a mangiarla? Sì. È quanto mai improbabile che il fratello sia così pietoso, e poi: così
presto! Dopo mesi e mesi, dopo anni, forse sì. Forse, anche se lui non lo crede probabile, sarebbe anche arrivato a propinargli qualche sostanza letale per liquidarlo. La sua smorfia è il sogghigno di un lupo. Non ha nessuna intenzione di aspettare che succeda. Mangia, buttandosi selvaggiamente sul cibo. Poi, dopo i primi bocconi, si sforza di comportarsi con più grazia. È una fase degenerativa. Suo fratello farebbe salti di gioia se lo vedesse regredito a uno stadio animalesco. Sbatte violentemente i pugni contro la parete e, guardando in alto, impreca. Attraverso il piccolo buco si vede la stella. Un contatto con la realtà, un legame con il mondo di fuori. Gelida, assente, disinteressata, la stella scintilla lontana, remota; però è là. Non è solo. L'occhio di Siva, l'Onnisciente, lo scruta, confortandolo. Di colpo si spegne. Una nuvola? Macché! È proprio così, non è solo! Qualcuno si è frapposto fra il buco e la stella. Si mette a urlare. Strilla. Le pareti a imbuto trasformano il suono in un lugubre lamento. Riconosce quella risata bassa, compiaciuta, che risponde. Il fratello è là, in attesa, in ascolto. Piomba nel più totale silenzio e riprende a mangiare. Il cibo è molto drogato e molto salato. Il pepe gli brucia la bocca; ma è pur sempre cibo, l'unico cibo che ha. Agire diversamente equivarrebbe a dichiararsi sconfitto. Il cibo è forza. Vuole conservare tutta la sua forza. Come potrà servirsene a suo vantaggio, questo non lo sa ancora. Ma prima o poi lo saprà, e deve essere pronto. «Nihil desperandum!», soleva dire il suo precettore inglese, tanto spesso, quando il latino che insegnava ai due ragazzi pareva non lasciare nessun segno in loro. «Non disperarsi mai!». Adesso il Rajah rifiuta di disperarsi. Non si concederà mai più di urlare, come ha fatto poco fa, per chiedere aiuto. Non darà mai più al fratello neppure quella piccola soddisfazione. Continuerà a vivere, per vendicarsi. Mangia quel cibo ripugnante. Adesso ha sete. Porta il mestolo alla bocca e scopre così che il manico è troppo sbilanciato. Scalfisce solo la superficie dell'acqua, si riempie e poi si piega. Per quanto lo tiri su con la massima attenzione, il punto in cui attinge l'acqua è troppo lontano, per cui porta su solo poche gocce per volta. Dieci volte, venti volte: la sua sete bruciante è calmata, ma il suo cuore si è ancor più indurito. Gli sfuggono lacrime dagli occhi, di fronte a questa
inutile perfezione della tortura. Che crudeltà calcolata nei minimi dettagli! Che enorme malvagità, in una mente capace di programmare una cosa simile! Tanto lavoro per procurarsi un bicchier d'acqua! Dover attingere tante volte! Indurisce il suo cuore. Dopo tutto, non esiste problema di tempo per uno che ha tutto il tempo che vuole a disposizione: unico limite la sua eventuale disattenzione. Succhia e risucchia pensosamente l'osso incavato che ha rosicchiato, stracciandone via gli ultimi rimasugli di midollo. Gli sta già brillando in mente un'idea. Può servire. Lo conserverà. Conserverà tutti gli ossi che gli daranno, grandi o piccoli che siano. Sì, però... Per gli strumenti? Non ne ha neanche uno. Solleva il mestolo e lo osserva minuziosamente. È di bronzo, pesante e massiccio. È un bel po' di metallo. Il bronzo può diventare molto affilato, se sfregato su una pietra o contro una delle sbarre ruvide. Tutto agitato da questa prospettiva, alza gli occhi al cielo da cui si sente tagliato fuori. Ma non è così. Il cielo ben conosce la sua pietosa condizione. L'Occhio di Siva è aperto su di lui, nitido, placido, d'un azzurro limpido. È bellissimo. È benevolo. È interessato. Si sente rasserenato. Congiunge le mani e prega; poi, consolato e senza timori, si stende di nuovo sul ferro per rilassarsi. Il buio è totale. È la seconda notte. Davanti agli occhi scorge di nuovo il volto del fratello sospeso nell'oscurità. Via quel cipiglio beffardo, strappa via la carne dalle guance, quelle labbra contorte. Ecco, è uno scheletro ghignante. «Diventerà così, e dipende da me!», mormora all'oscurità. Poi di nuovo, con gli occhi della mente, scorge quel dente con quella piccola macchia blu di carie. Mio fratello perderà quel dente, pensa. Gli viene in mente un'altra idea. Lo smalto di un dente è duro come l'acciaio. Cerca di incidere i suoi, ma desiste presto. Da che parte, mentre il fratello gli stava di fronte e rideva, da che parte era quel brutto dente, quel dente scalfito, quel piccolo scalpello in grado di tagliare una vena, di incidere un segno nella parete per contare i giorni, forse anche di intaccare il ferro dolce della grata? Quale? Quale? Attento a non sbagliare! Deve essere il destro e soltanto quello. Lo strapperà con le sue dita robuste. L'unico elemento che renderà totale, perfetta, la somiglianza col fratello, quando finalmente uscirà fuori dalla sua cella profonda e andrà a caccia, come il Rajah ben sa.
Si rilassa e se ne sta tranquillamente coricato. L'osso iliaco penetra in uno dei riquadri aperti. È l'unico modo da lui scoperto finora per trovare un po' di conforto. Si addormenta. Fu così che cominciò i suoi lunghi anni di sopportazione coatta, e adesso vi racconterò cosa fece e come passò il suo tempo e come fosse sostenuto dal suo odio per arrivare, riconoscente, al giorno della vendetta. Badate bene, voi tutti che mi state ascoltando. Presto o tardi la giustizia arriva per tutti. Colpisce duramente chi è più duro di cuore. Perciò, chi è benevolo con chi si trova nel bisogno avrà come conseguenza il vedersi beneficato con più magnanimità che non quanti furono da lui benignamente beneficati. Così, mentre mi rinfresco... È un melone quello che sta gustandosi, signore? Come dev'essere succoso. Ah, grazie! È proprio per me? Grazie! Certamente la sua avvedutezza è messa in conto, lassù nel cielo! Come stavo dicendo, mentre il ragazzo passa in giro la ciotola in mezzo a questi numerosi e generosi ascoltatori, ansiosi di farsi dei meriti, mi riposo soltanto un istante prima di proseguire. Nella ciotola, giovanotto! Metti tutto nella ciotola. Non è necessario che allunghi l'altra mano vuota. Tienila dietro la schiena. Sto attento che tu svolga come si deve il tuo compito. Può anche darsi che ti permetta di venire con me. Ho bisogno di un discepolo che impari i racconti e diverta la gente e rechi un po' di sollievo alle mie vecchie ossa. Però deve essere onesto, uno di cui mi possa fidare. Forse sarai tu. Ah! Veramente un'offerta generosa! Com'è meraviglioso essere circondati da tanti amici così ben disposti. Adesso... Torniamo ancora una volta al mio Jataka. Che la pace e la serenità siano con tutti voi. Passarono i giorni. Dapprincipio passavano terribilmente lenti: un'agonia! Il gelo gli martellava le ossa. Si ammalò e per molto tempo giacque come intorpidito, alzandosi solo per mangiare. Questo diventò per lui una specie di dovere, a cui obbligava il suo corpo malato grazie alla ferrea volontà di sopravvivere. Scoprì che raggomitolandosi più strettamente su se stesso a formare una palla, stringendo insieme le mani sotto le ginocchia e standosene immobile, con la testa abbassata in modo che il mento appoggiasse sul petto, riu-
sciva a mantenere più caldo il corpo. Il cibo arrivava giù una volta al giorno, a un orario ben preciso. Si trattava sempre di grossi pezzi di carne, affinché non succedesse che finissero sotto la griglia. Mai un chupatti, mai una scodella di riso. Carne, sempre carne, molto grassa, molto drogata, molto salata, quasi al limite della sopportazione; e per giunta gli veniva scagliata giù sprezzantemente, come si butterebbe a un cane randagio. Si abituò alla dieta e superò quello stato di totale spossatezza fisica. Decise che non si sarebbe mai più concesso per il futuro una simile debolezza, e pare che gli dèi abbiano apprezzato la decisione. Rimase in ottima salute e ben in forza grazie a un esercizio continuo. Era evidente che i suoi rapitori (aveva sentito una seconda voce e capito che il fratello si era trovato segretamente un partner) non avevano la benché minima intenzione di farlo morire di fame. Si chiese chi potesse essere l'altro. Senza dubbio un servo fidato, ma fidato per chi? Per suo fratello, o per lui? Quell'uomo sapeva che il prigioniero era il Rajah in persona? Ma certo! Uno dei gemelli era scomparso. Che spiegazione ne era stata offerta al popolo? Dovevano aver proclamato il lutto pubblico. C'era stato senz'altro un grandioso funerale. Quell'uomo era un cospiratore oppure un sempliciotto? Aveva associato la scomparsa del gemello con la misteriosa persona alla quale portavano da mangiare? Era un nemico, o un possibile amico? Un problema da impazzirci sopra! Il Rajah urlò in tono implorante e in tono minaccioso. Comandò. Supplicò. Forse all'ora del pasto poteva succedere che quel tipo arrivasse solo. Poteva anche darsi che suo fratello si ammalasse, come poteva pure che fosse trattenuto da qualche incarico, oppure che si fermasse nel suo harem a divertirsi. Era possibile corromperlo, qualora non ci fosse stato il fratello? Offrì una montagna di soldi. L'avrebbe ricoperto di denaro. Promise quintali di lingotti d'argento; gli promise tanto oro quanto pesava. Ma non ottenne mai altra risposta che una risata sprezzante. Neanche una sola parola, una frase che potesse fargli intravvedere l'unione tra i suoi sogni e quelli di un altro, che gli potesse far capire che l'uomo di sopra provava simpatia o pietà. Urlò. Quell'altro ascoltava, rideva, e poi se ne andava. La tortura era subdola. Spesso il cibo era carne di bue. Così si sentiva
contaminato. Per purificarsi ci sarebbero voluti degli anni. Doveva vivere, anche se il motivo per cui doveva farlo cominciava a sembrargli meno importante, e certe volte se lo chiedesse. Valeva la pena di sopportare tante fatiche, solo per vendicarsi? Come un'ape intrappolata in un bicchiere, quell'idea girava e rigirava nel suo cervello, che pareva non contenere nient'altro. Poi, ogni volta, davanti agli occhi, nell'oscurità, vedeva la faccia ghignante del fratello incorniciata nella botola, come l'aveva visto di sopra mentre lo calava nella prigione. Le mani si serravano rabbiose. Gemeva e bestemmiava. Era pieno di odio. Conservò il grasso. Lo mise via dentro gli ossi cavi, quando non riusciva a ingoiare quel grasso puzzolente. Andò via via analizzando i diversi modi in cui avrebbe potuto servirsene. Era essenziale che si conservasse forte. Anzi! Doveva diventare sempre più forte. Era essenziale che la sua mente fosse sempre all'erta. Tutto dipendeva da quello: la fuga, la vendetta, e anche, ora ne era più che mai convinto, la sua stessa vita. Nessuno l'avrebbe liberato dalle mani dei suoi nemici. Via via le settimane diventavano anni, sarebbe stato dimenticato da tutti, meno che dal crudele fratello e da quel suo accolito, il quale, non più necessario, sarebbe stato semplicemente liquidato. Il Rajah rifletté che il più grave pericolo per la sua salute era l'assoluta mancanza di cibo intellettuale, per una mente abituata all'attività. Privo di qualsiasi risorsa in quell'oscura prigione, doveva nutrirsi di se stesso. I suoi desideri gli richiamavano spesso alla mente il precettore inglese che aveva soddisfatto su moltissimi argomenti la curiosità di quel ragazzo che stava crescendo, la cui mente era così stipata di conoscenze apparentemente inutili che il maestro l'aveva biecamente definita un magazzino polveroso. Sembrava che non ci fossero domande per le quali il giovane principe non ricevesse una risposta precisa. Adesso era arrivato il momento per ritornarvi sopra. Con determinazione fanatica, intesa al raggiungimento del suo intento, il Rajah cominciò a praticare ogni forma di yoga. «Una mente sana esige un corpo sano»: era quella una delle massime preferite del suo precettore, le cui attività atletiche anche sotto il torrido sole di mezzogiorno costituivano motivo di meraviglia e di scherno da parte di tutta la gente del palazzo: «Che matto quell'inglese!». Nel pozzo non c'era affatto caldo. Se l'inglese poteva non prestar caso al caldo che buttava a terra i cani morti di fame lungo le strade, ugualmente il Rajah ben pasciuto poteva non far caso al freddo.
La natura, ammirata, gli venne in aiuto. Cominciò a ricoprirsi, su tutto il corpo, di un folto pelo. Lentamente, ma con costanza, la sua vista divenne come quella della civetta, al punto che quell'unica macchiolina quotidiana di luce finì per fargli male. Chiudeva gli occhi e li teneva ben serrati finché la macchiolina restava nella cella, senza però nel frattempo sprecare neppure un secondo, seguendola sulla griglia, allungando la faccia verso di essa mentre risaliva la parete e poi immergendovi le braccia e le mani, finché non gli era più possibile seguirla. Non rientrava nei suoi piani che la sua pelle si facesse via via sempre più pallida. I capelli sulla testa e la barba divennero lunghi. Questo gli fece piacere. Era materiale da lui destinato a una finalità ben precisa. Imparò a svuotare la sua mente da ogni pensiero, meno uno solo, quello sul quale voleva concentrarsi. Immaginava una macchia oscura su uno sfondo luminoso; la isolava, la concentrava in un puntino luminoso. Lo faceva ruotare in spirale, lo riportava indietro, ripetendo varie volte quel procedimento prima di stancarsi dell'esercizio mentale. Poi immergeva il suo occhio mentale nella più totale oscurità. Quell'esercizio era più facile, nell'oscurità del pozzo che adesso non gli faceva più paura. Però l'oscurità da lui creata era totale. Piantò in essa un puntino luminoso e ripeté esattamente l'esercizio precedente; lo allargò, lo contrasse, lo fece ruotare, se ne servì come indice e come pennello; con esso disegnò e dipinse quadri, che colorò con tinte fantasiose. Tracciò panorami. Visualizzò folle enormi. Immaginò creature mai esistite, prima di essere descritte dalle ossessioni deliranti di altri uomini. Concluse sempre questo esercizio rinforzando la sua perfetta conoscenza del volto ghignante del fratello. Col tempo aggiunse linee di dissolutezza, delle quali tanto tempo prima aveva intravisto i sintomi. Piazzò una piega crudele delle labbra in mezzo alla folta barba nera così uguale alla sua, che lui stesso coltivava e spuntava. I peli più lunghi li lasciava crescere finché era in grado di strapparli, attorcigliarli insieme e conservarli in piccole corde. Per il gusto del decoro, in caso diverso li rosicchiava fino a una lunghezza decente, oppure tagliava regolarmente i peli con i bordi affilati di un osso frastagliato, che aveva trapanato con altri ossi e affilato con il tagliente bordo da lui ricavato sull'orlo del mestolo. Quell'arnese non gli serviva più per attingere acqua. Adesso gli ossi buchi, uniti l'uno all'altro, gli avevano procurato un tubo con il quale risucchiare acqua a volontà. Con molta diligenza tagliuzzò spilli di osso, legò insieme due pezzetti di
osso, e si fabbricò così delle forbici. Si costruì coltelli di osso, diverse ciotole con coperchi ben aderenti per conservare il grasso, così protetto contro i topi da fogna che facevano continue scorribande nel suo romitorio. Collocò questi gioielli su piccoli scaffali fatti di osso, perfettamente appoggiati lungo la parete alle sbarre che univano la griglia alla parte in muratura. Sognava candele con cui procurarsi un po' di luce e un po' di calore, ma non aveva niente per lo stoppino, anche se era sicurissimo che un giorno sarebbe stato capace di procurarsi il fuoco. Aspettava e sognava. Quel giorno sarebbe arrivato. Visualizzava il volto del fratello. Quell'odioso volto. Da tanto tempo ormai doveva aver perduto quel dente, blu per la carie. L'aveva forse sostituito? Benché sempre incerto, prese una decisione. Si strappò via di bocca quella che, secondo lui, era l'esatta controparte di ciò che mancava al fratello. Lo fece con le dita, dure come tenaglie: le aveva rese così a furia di stringere, rilassare, stringere di nuovo la punta delle dita sulle sbarre. Oh Siva! E se si fosse sbagliato? Aveva ripescato dalla memoria un pezzettino dell'erudizione del suo precettore. I dentisti cinesi: prima pioli di legno di pino da strappar fuori da fori a tenuta stagna in un assito di legno di pino; poi pioli di legno di quercia conficcati ben bene nell'assito di pino; infine dovevano estrarre pioli di legno di quercia da un assito fatto di legno di quercia; e tutto questo ben prima che uno di loro fosse in grado di cavar denti con le dita. Aveva scoperto che le sue dita erano in grado di fare altrettanto, ma a lui serviva solo un dente ben affilato. Prima che fosse consumato e quindi inutile, fece il suo primo passo verso la fuga. Un'incisione profonda brillò in una delle sbarre. Lo smalto dei denti è più duro del ferro. Gli incisivi sono fatti come scalpelli. Possono scalfire, tagliare o incidere. Di quel dente si servì come di una minuscola sega. Quando i topi sbucarono fuori dall'apertura del canale di scarico, attratti dall'odore della carne, si mise in agguato, piombò loro addosso, e nelle loro bocche trovò altre seghe. Non erano granché resistenti, ma c'erano molti topi e il ricambio sarebbe stato costante, e l'incisione divenne sempre più profonda. Quando i segni sulla parete gli dissero che era ormai in prigione da più di tre anni, seppe che quasi metà del tempo che si era ripromesso per riuscire a fuggire era passato.
Contò e ricontò i segni: nella luce crepuscolare dei giorni più solari; nell'oscurità delle notti; sotto l'attento, gelido sguardo dell'Occhio di Siva. Le dita, forti com'erano, avevano acquisito una sensibilità straordinaria. La luce non gli serviva più. Sul corpo si formarono calli durissimi. Adesso la griglia di ferro gli pareva comoda. Si rilassava durante il sonno, perché non aveva nessun bisogno di sforzarsi di dormire. Il sonno veniva da solo. Imparò come sedere tutto rigido senza muovere un solo muscolo, mandando la mente fuori dal corpo. Gli sembrò di cominciare a capire quegli adepti che pretendono di comunicare tra loro mentalmente, anche se separati da un continente. Il Rajah non riusciva ad accettare completamente un fatto simile. Sospettava che le sue impressioni non fossero altro che un mucchio di desideri frustrati, eppure era convinto, certe volte, di captare frammenti di parole o frasi pronunciate da qualcun altro, come se stesse ascoltando una conversazione bisbigliata molto lontano da lui. Non c'era mai stato nessun mistico fra i suoi amici. Non poteva mettersi in contatto diretto con nessuno. Non era sicuro. Arrivarono le visioni. Non sembravano vere e proprie allucinazioni. Erano forse l'esaltazione di poteri normali? Insolite percezioni dell'ignoto? Vide intere pagine di libri che aveva letto una volta, per caso. Richiamò alla mente posti che aveva visitato. Vagò per meravigliosi giardini, ricreando le aiuole e risistemandole finché le scene erano complete. Si rammentò di una statua e la collocò al suo posto. Visualizzò fontane, odorò profumi, batté contro marmi levigati e ascoltò lo scroscio di cascate. Scivolò su laghi profondi, e vide riflesse sulle loro superfici le costellazioni ruotanti. Passò ore e ore a questo modo. La sua imbarcazione agitava la superficie dell'acqua soltanto con l'increspatura prodotta dalla carne e con i minuscoli cerchi che si allargavano verso la riva, prodotti dalle gocce cadute dai remi. Si divertiva come un bambino. E, placata la mente, ritrovò la pace. Si dilettò di musica, richiamando alla memoria le note di un sitar, il canto di un usignolo. Ricordò gli ottoni echeggianti; orchestrò strumenti a fiato, violini. Nella sua mente creò intere sinfonie, in cui vi erano cimbali, timpani, oboe. E, nel frattempo, prese in trappola dei topi, li accoppò a furia di botte e strappò loro i denti con le sue forti dita, imbottendo con i loro resti l'apertura del canale di scarico, come esca, e lavorò rabbiosamente sul duro ferro, mentre contemplava, sospesa davanti agli occhi, la faccia ringhiosa,
ghignante del fratello. E sperava che tutta quella violenza ricadesse sul suo capo. Le funzioni corporee erano regolari e non gli procuravano noie. Ormai aveva sviluppato un regime di vita che gli concedeva ore di lavoro e ore di svago. Il divertimento mentale lo conservò psichicamente sano. La volontà gli fece da pungolo. Il lavoro fisico lo conservò forte e gli procurò sonni tranquilli. La sua capacità di controllo della respirazione era ormai fantastica. Per prepararsi ai momenti di punta del suo piano, imparò, col tempo, a contare i secondi dal battito del polso. Col passare dei mesi concluse di essere capace di trattenere il fiato, senza strappi, per quattro minuti e mezzo. Con movimenti di compressione assommati a precisi atti di volontà fu in grado di far affluire l'aria nella parte superiore o in quella inferiore dei polmoni. Ben sapendo che i pescatori di perle di Aden sono in grado di stare sott'acqua per sette minuti, non era del tutto soddisfatto dei risultati ottenuti. Ciononostante il precettore inglese gli aveva detto che quelli erano un tipo speciale di uomini, educati sin quasi dalla nascita e frutto di generazioni e generazioni di antenati che avevano sempre affrontato i rischi degli abissi. Non poteva pretendere di eguagliare la loro abilità. Non importava. Quello che doveva fare l'avrebbe fatto con le varie capacità che era andato via via acquistando. Passò ad altre cose. Alla fine di quel terzo anno, era capace di allentare o tendere quasi ogni parte della pelle, a volontà; di rallentare il battito cardiaco fino a renderlo praticamente inudibile, e di servirsi delle dita dei piedi come si serviva di quelle delle mani. Era in grado di piegare ogni muscolo del corpo come altri uomini sanno tendere i bicipiti. Non si era mai ammalato. Ahi! La tigre, imprigionata, non perde un briciolo della sua forza. Aspetta l'occasione propizia, il momento opportuno per scappare, paziente, sempre pronta per la libertà. Così aspettava il Rajah. Un bel giorno, come sempre, il ferro della griglia risuonò sonoramente. Era caduto giù del cibo. Certe volte gli cadeva nelle mani tese per prenderlo; certe volte era crudo, spesso carbonizzato; non aveva nessuna importanza. V'erano nel cibo delicate sfumature di gusto, anche se celate dal troppo sale e dalle spezie pungenti. Il Rajah ignorò l'uno e le altre. Quello che gli serviva era il sale, e glielo davano per rendere il cibo cattivo. Il corpo secerne sale in due modi: nell'essudazione e nell'evacuazione. Grazie alla continua assimilazione di sale, e dal momento che non sudava
praticamente niente, l'urina diventò quasi acqua salata. Sorrise nell'oscurità, la prima volta che gli era balenata in mente quella vantaggiosa possibilità. Sapeva che le sbarre di ferro non resistono al sale. Era soltanto questione di tempo, e sapeva di avere a sua completa disposizione un'enorme quantità di tempo. Il ferro si può sciogliere. Era seduto sul liquido più corrosivo del mondo, l'acqua. C'è molta gente che pensa all'acqua come a una sostanza mite, buona soltanto perché le donne ci possono lavare i panni e perché gli uomini possano condurvi sopra le loro imbarcazioni. A me piace bere vino. Se soltanto ce ne fosse un po'!... Ah, grazie! È molto meglio dell'acqua, quel liquido tremendo. Mi spiace che il vino fosse così scarso e così grande la mia sete, per cui l'ho finito tutto. Ero sopra pensiero. Vedete: l'acqua pura intacca violentemente ogni cosa. Può intaccare anche l'oro, il nobile metallo che resiste agli acidi. Alla fine l'acqua avrebbe corroso tutta la griglia, soprattutto l'acqua di Boorhau, che viene da pure sorgenti di montagna. Essa aveva ben poco tempo per assorbire minerali, essendo le montagne così vicine. Il Rajah non aveva nessuna intenzione di aspettare la corrosione naturale, lentissima. L'acqua marina, che è salata, intacca il ferro alla velocità di circa un terzo di centimetro all'anno. Dato che le sbarre della griglia erano spesse due centimetri e mezzo, aveva programmato otto anni per corrodere la griglia su cui si trovava. Quando si fosse indebolita quel tanto che bastava per tuffarsi giù nelle acque del pozzo, per l'usurpatore sarebbe scoccata l'ora. Lavorava a quello scopo. Aveva sentito raccontare di altri prigionieri, rinchiusi in prigioni sotterranee non più robuste della sua, che si erano abbruttiti a un livello animalesco, erano impazziti, avevano languito là dentro per cinquant'anni e vi erano morti. Non riusciva a capire la loro mancanza di fantasia, la loro carenza di inventiva, la loro apatia. Ma, in fondo, non avevano avuto un precettore inglese. Il Rajah si sentì un uomo particolarmente fortunato. Continuò a lavorare. L'incisione minuscola, prodotta la prima volta con il dente che si era strappato via di bocca, era ben presto diventata più profonda mediante uno dei metodi più antichi di incidere pietre o metalli. Il mestolo di bronzo, più dolce del ferro e, quindi, inutilizzabile contro la griglia, diventò il suo primo arnese, l'unico. Poteva scalfire la parete. I capelli crescono di due centimetri e mezzo al mese, in condizioni nor-
mali. Un'altra briciola delle conoscenze ricavate dalla tenace mente del suo precettore. Una seconda informazione era questa: i diamanti si possono incidere con la polvere di diamante. Lui non possedeva corda, ma era in grado di farsela da solo. Quando i capelli furono sufficientemente lunghi, li tagliò con la lama affilata del mestolo di bronzo. Strettamente intrecciati, ben inzuppati del grasso che proveniva dal cibo, resi ruvidi con la polvere di ferro ricavata dalla griglia, gli fornirono una sega addirittura migliore dei denti di topo. Piccole ciotole di grasso impastato con polvere di cemento, colme di acqua salata, preparavano le zone che volevano asportare. Alla fine del terzo anno aveva tagliato tre sbarre su un fianco, per una lunghezza di cinquanta centimetri, quanto era necessario secondo lui. Fortunatamente aveva i fianchi stretti. C'era poi un'altra sbarra quasi già corrosa sul secondo lato. E tutte le altre otto erano in fase avanzata di corrosione. Adesso possedeva anche degli attrezzi. Pezzi cavi di tibie gli facevano da contenitori. Aveva poi messo da parte schegge appuntite come punteruoli, strumenti per scavare e trapani. Di un femore fece un bastone; di una costola ricurva, legata assieme alla tibia di una capra con cordicelle ben tese fatte di capelli, fece uno strumento per scavare. Il suo precettore gli aveva detto che quelli erano stati i primi attrezzi e le prime armi dell'umanità. Una scapola ben appiattita, simile a una spada, aveva probabilmente fornito all'uomo delle caverne l'idea sia della pala che delle vanga. E lui era un uomo delle caverne, e stava aspettando l'arrivo di una scapola. Altri ossi, accuratamente aguzzati e legati insieme, gli fornirono una superficie levigata. Ci si sedeva sopra quando meditava, facendo scorrere i grani di preghiera tra le dita, richiamando alla mente come li aveva intagliati e legati insieme. Si potrebbe pensare che la collana non possa essere altro che un ornamento. Lui se ne serviva per ricordare: ogni grano aveva una forma diversa, o vi erano incisi dei segni. In tal modo teneva un secondo conto del tempo e un diario, anche se i giorni si diversificavano ben poco l'uno dall'altro, e avrebbero continuato a diversificarsi ben poco fino alla scadenza degli otto anni. Poi, verso la fine del quarto anno, successe un fatto che riaccese la sua fede nella bontà degli dèi. Doveva essere di importanza inestimabile nell'accelerare il momento della sua liberazione. Altre due sbarre erano state tagliate. Ancora un'altra, e avrebbe avuto li-
beri i due lati di un riquadro. Il processo di corrosione e il continuo raschiare via la polvere di ferro, accelerati nella loro azione dalla costante applicazione di soluzione salina, avevano assottigliato sensibilmente, se non ai suoi occhi, certo al suo sensibilissimo tatto, le altre sette sbarre, che dovevano essere staccate prima che egli potesse scendere nell'acqua. Era ben lungi dal disperarsi, ma adesso, molto spesso, si rendeva conto che la sua forte mente stava indebolendosi. Aveva visioni senza averle cercate e senza averle deliberatamente provocate, com'era invece sempre successo in passato. Stavano verificandosi strani fenomeni. Come tante volte in passato, anche adesso visualizzava una macchia di luce e la proiettava mentalmente a guisa di esercizio ricreativo. Adesso, però, talora perdeva il controllo. La macchia assumeva la forma di una finestra o di una porta attraverso le quali si vedeva osservato da persone, cose o creature aliene. Quando la porta, che ben sapeva essere soltanto un capriccio della sua mente privo di esistenza oggettiva, effettivamente si apriva e quelle creature entravano e si sedevano accanto a lui e lo beffeggiavano e frignavano senza emettere suoni, esse sembravano così vere, così reali, da non riuscire a convincersi che non lo fossero. Si sedeva, rabbrividendo, per paura di sentirsi toccare. Capiva che il fratello avrebbe vinto. In simili occasioni si metteva a urlare, a battere i pugni contro la parete, finché erano gonfi e sanguinolenti; poi, con un tremendo sforzo di volontà, che però doveva essere ogni volta sempre più intenso cacciava via quei fantasmi e li vedeva effettivamente ritirarsi al di là della porta, sempre ghignanti e sprezzanti. Richiudeva la porta con un rumore secco, nettamente percepibile, e sentiva che avrebbe potuto benissimo attraversarla per andare chissadove e così fuggire, se solo non avesse saputo che dall'altra parte c'erano, in attesa, quelle creature. Chi erano? Rakshasa? Poi si gettava, gemente, sulla griglia, ben conscio che il suo spirito stava lentamente scendendo sul filo del rasoio della pazzia, chiedendosi per quanto tempo ancora sarebbe riuscito a tenersi in equilibrio lassù; e gli compariva davanti nell'oscurità la faccia terrificante del fratello, lo sguardo carico di gioia maligna per lo stato miserando in cui lo vedeva. Questa visione se la coltivava, perché soltanto l'odio poteva conservarlo sano di mente. Aveva alle spalle lunghi, lunghi anni. Altri gli stavano davanti, e non poteva abbreviarli. Lo conservava in vita quella sua implacabile determinazione. Il suo desiderio di vendetta lo spingeva a continui progetti. L'eserci-
zio lo conservava in forza. Si accorse che la memoria funzionava molto bene, salvo che in quei momenti di orrore. Certe volte immaginava che il suo precettore fosse lì con lui e lo istruisse. Le sue risorse erano scarse ma sufficienti. Fu così che, volutamente e senza nessun impedimento o ostacolo da parte dei fantasmi che lo tormentavano, scacciò dal cuore ogni pensiero di donna e ogni sogno d'amore. Ogni forma di crudeltà divenne parte della sua esistenza nel sottosuolo. Le aspettava. Spesso cambiavano. Sapendo che il fratello possedeva ben poca immaginazione, per non dire che non ne possedeva affatto, si limitò a sorridere biecamente quando arrivavano. Imparò a considerarle come disturbi di poco conto, spiacevoli sì, ma senza importanza. Erano iniziate con un frastuono di ruote rotolanti sulla lastre di pietra che selciavano il cortile. Strappato alla solitudine, dapprima tese le orecchie per sentire le voci. Qualsiasi parola pronunciata da labbro umano avrebbe rappresentato un contatto con il mondo esterno. In quell'occasione sentì parlare. Fu pronunciato il suo nome, a voce abbastanza alta da attirare la sua attenzione anche se stava sonnecchiando oppure era addormentato. Il cuore gli balzò in petto dalla gioia. Era certo che la libertà era a portata di mano. Gli amici avevano scoperto che non era morto, e c'era stato uno scambio di persona, che era stato imprigionato. Forse il fratello si era intenerito. Forse una delle donne dell'harem si era accorta che l'uomo che giaceva con lei non era il suo vero amante! Poi, siccome non venne più pronunciata nessuna parola a voce sufficientemente alta perché potesse afferrarne il senso e siccome le ruote continuavano ad andare avanti e indietro, avanti e indietro, cancellando ogni parola che veniva pronunciata là sopra, girando senza scopo evidente, arrivò alla conclusione che si trattava di una sottile forma di tortura, voluta e maligna, intesa a farlo impazzire o a spingerlo a chiedere pietà. Rifiutò di abbandonarsi sia all'una che all'altra soluzione. Gli successe pure, spesso, di avere l'impressione che la parete contro cui era appoggiato vibrasse. Passi nel cortile... Ma forse era solo un'impressione. Trattenne il respiro ed ascoltò. Era l'ora del pasto? No, a meno che avesse perso la nozione del tempo, e sapeva che non era così. Era diventato abilissimo nel giudicare quelle cose con la massima precisione. Erano allucinazioni? Era il suono del pulsare del suo sangue contro i timpani? Poteva forse trattarsi di un liberatore che veniva, coll'animo pieno di terrore, ad alzare la botola per lasciarlo andare libero e felice, a rischio
della sua stessa vita? Era rimasto almeno un solo amico fedele in tutto il mondo, capace di compiere un gesto simile? E chi? In quella circostanza il suo udito era enormemente sviluppato. Tutte le sue percezioni parevano affinate al limite. Non fiatava neppure. Ascoltava. Poi: CRASH! Un pietrone piombava sulla botola. Come il gong del destino, il suono rintronava nei meandri del suo cranio, completamente svuotati per meglio ascoltare. Urlava di dolore. Afferrava la testa fra le mani, per respingere la risata sprezzante che sempre seguiva. Arrivò alla conclusione che la pietra era tenuta lì solo a quello scopo. Veniva fatta cadere a intervalli irregolari, a ogni ora del giorno e della notte. Talvolta le giornate trascorrevano tranquille. Talvolta invece il fatto si ripeteva ogni ora, così regolare da farlo sentire ferito della sua stessa regolarità. Poi lo schema cambiò. Due volte all'ora; una dozzina di volte, come i battiti di un orologio gigante; poi tre o quattro volte in rapida successione, e poi più niente per molto tempo. Sentiva soltanto il suono del suo respiro frenetico e irregolare. Non era mai possibile prevedere lo schema. Alla fine imparò ad accettare quella forma di tortura raffinata e inutile. Visto che lui non rispondeva mai e che i mesi passavano, i torturatori alla fine si stufarono. Imparò a non rimanere mai direttamente sotto il piccolo foro che c'era nella botola. Vennero buttati giù oggetti. Chiunque fosse a gettarli, doveva arrivare con passo felpato, per coglierlo di sorpresa. Piovvero giù dei sassi, che picchiarono sulla griglia e finirono nell'acqua. Una manciata di sabbia filtrò sulla sua testa, col rischio, cercato a bella posta, di finirgli negli occhi, caso mai avesse guardato in alto. Un rivolo di acqua bollente per arrossare il suo corpo nudo. Certe volte piombavano giù dei carboni ardenti. Questo gli fece ancor più male. Non gli potevano servire a nulla e gli provocavano un fortissimo desiderio di un po' di fuoco. Desiderare il fuoco non gli poteva servire a nulla, comunque era un modo per prepararsi. Poi, come se quelli di sopra si fossero accorti di quei pensieri, quella forma di sopraffazione cessò. Cambiarono: immisero del pepe nell'aria. Annusò. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Loro ridevano. Accettò quei regali. Non si lamentò mai, non rispose mai alle parole di scherno o di disprezzo. I loro sforzi non approdarono a nulla e, alla fine, fu lasciato in pace. Ma la sua decisione era diventata adamantina. Una notte spietata, verso la fine del quarto anno, sentì scattare il chiavi-
stello sopra la sua testa. Non era un'ulteriore delusione. Ne era sicuro anche se non aveva sentito il rumore dei passi. La sbarra che fissava la botola si sfilò via dolcemente. Nessun suono stridulo. Capì che doveva essere stata oliata, e se ne convinse quando la botola si sollevò sui cardini senza il minimo rumore. Lassù c'era un amico! Chi poteva mai essere? Dopo quattro anni! Il cuore gli sobbalzò in petto. Il suo violento martellare contro le costole scuoteva tutto il corpo. «Oh, mio dio! Chi devo ringraziare?». Dall'alto provenne un debolissimo fischio. Rispose con il più flebile bisbiglìo. Rimase scosso dal suono della sua stessa voce. Non era più abituato a dar forma alle parole; non lo faceva più da tanto tempo. Ma una parola arrivò, dall'alto. «Arrampicati!». E poi dal bordo del pozzo andò snodandosi una corda, giù giù fino alle sue mani. C'erano dei nodi per salire più facilmente. Vi si afferrò strettamente e vi si attaccò per salire, saggiandone la resistenza. Teneva bene. Si arrampicò rapidamente, una mano sopra l'altra. Fuori! Fuori e libero! Il cuore traboccava di gratitudine per il suo liberatore. Il cielo sopra la sua testa scintillava di tante fiammelle d'oro, incorniciate dalla bocca del pozzo. Gli sembrava di star salendo in paradiso. Avrebbe sepolto il suo sconosciuto amico sotto una montagna d'oro e di rubini! Avrebbe ordinato un nugolo di preghiere che salissero da tutti gli abitanti di Boorhau, incessanti! Se quell'uomo era il più abbruttito criminale, gli sarebbe stato perdonato tutto! Se era un pover'uomo sarebbe stato elevato tra i nobili, lui e tutta la sua famiglia. Poi, nel preciso momento in cui arrivava all'altezza del bordo del pozzo, le stelle furono cancellate via da una testa. Quella che rivide fu la faccia ghignante del fratello, esultante per la piena riuscita del suo scherzo. Contemporaneamente, una lama recise di netto la corda. Rovinò giù. Gli parve che non finisse più di cadere. Ferito nel più intimo, ebbe il tempo di pensare a un mucchio di cose prima di sbattere contro il duro rigido ferro. Un bagliore gli scoppiò in testa; il dolore gli annebbiò il cervello; gli parve che tutto scomparisse. Ma, anche in quello stato di incoscienza, c'era un suono che sovrastava tutto: il cachinno del fratello. Aveva fatto un volo di dieci metri! Quando il Rajah si rese conto di essere ancora vivo, dapprima non vi fece neppure caso. Pareva una contrarietà al di là di ogni sopportazione. Cer-
tamente solo un dèmone poteva aver bisbigliato all'orecchio di suo fratello una simile idea. Il Rajah si sentiva avvilito e più meschino di ogni pariah di Boorhau; perché loro potevano essere sì affamati, fino a morirne, e ammalati; ma non riusciva a immaginare nessuno che non potesse dormire sul morbido o sentirsi stretto, nel sonno, tra braccia calde e confortevoli, perché l'amore e l'affetto non costano niente. Non hanno prezzo e vengono donati. Spogliato di tutto, abbandonato e nel dolore, pensò seriamente al suicidio, per la terza volta dopo quel primo giorno. Afferrò il pezzettino di metallo che era tutto quanto restava del mestolo. Era affilato come un rasoio. Era questo il motivo per cui l'aveva conservato? Lo appoggiò sulle vene del polso. Ma gli balenò in mente un'idea, bieca. Se agiva così avrebbe rischiato di recidere i tendini. Sarebbe rimasto mutilato. Gli ritornò in mente di aver discusso il suicidio con il suo precettore. «C'è sempre questo mezzo per sottrarsi al disonore», aveva sentenziato l'inglese. «Veniamo al mondo senza che ci sia stato chiesto se lo volevamo o no. «Dio, nella Sua misericordia, ci concede il privilegio di uscirne a nostro piacere. Non ritengo affatto che questo gesto sia peccaminoso». Così la pensava anche il Rajah. Eppure, aveva esitato l'attimo necessario per ridere del suo folle pensiero di mutilarsi, mentre appoggiava il metallo affilato in modo da poter tagliare le vene per il lungo senza danneggiare i tendini, ebbe tempo per un'altra considerazione. Muovendosi aveva ingarbugliato le spire dalle quali era avvolto. Corda! Corda di cotone! Una fibra mollemente tessuta! Morbida fibra di cotone! Corda per le seghe! Stoppini per le candele! Lanugine di cotone per attizzare il fuoco! Il fuoco! Il fuoco voleva dire nell'oscurità, una luce enorme. Un minuscolo punto di calore a cui confortarsi. In un certo senso aveva sempre saputo che in futuro ci sarebbe arrivato, e adesso era pronto! Si mise a sedere sulle ginocchia, senza far caso alla sofferenza che quella posizione gli procurava; congiunse le mani e sollevò la testa. L'Occhio di Siva osservava benigno. Così inginocchiato fissò lo sguardo sulla stella. Chiese di nuovo la sua benedizione. «Gli indios Tulamare del Sud America», riusciva a sentire addirittura il tono di voce del suo precettore, «sono, ch'io sappia, l'unico popolo sulla terra che si procura il fuoco in questo modo. Non posseggono fiammiferi, né lenti, né acciarini. Non hanno mai sentito parlare del metodo del cuneo
di legno secco. Eppure posseggono il fuoco, e se lo procurano esattamente in questo modo». Il Rajah mise via quel micidiale pezzetto di metallo. Adesso acquistava un'importanza superiore a quanta non ne avesse mai avuta prima. Quell'oggetto poteva procurargli non la morte, ma invece, unito alle sue conoscenze, una prossima libertà, addirittura anni di vita là sopra. Si applicò a un nuovo lavoro, ferocemente, votandosi alla dea Kalì senza pietà alcuna per il fratello. Già l'oscurità della cella aveva avvolto il suo tesoro. Ma, seppur con dita umidicce, era in grado di palpare l'umidità della corda. Cardò una delle estremità della fune. Era ottimo cotone. Senza bisogno di srotolarlo, lo spartì facilmente in corte fibre, che divise in particelle ancor più minuscole. Poi le ficcò in una delle sue ciotole fatte di ossa cave. Le aveva preparate tanto tempo prima, con i rispettivi coperchi, senza avere la minima idea dell'uso che ne avrebbe fatto. Adesso diventavano preziosissime. Le chiuse ermeticamente e le mise da parte. Srotolò dei pezzi più grossi di fune. All'interno la corda era ancora quasi asciutta. Trattenne anche il fiato, per timore che potesse inumidirsi di più, e ne fece tanti piccoli stoppini; li attorcigliò e li mise da parte. A questo punto cominciò di fatto a lavorare sodo. Scelse dal suo mucchio di ossi tesaurizzati quelli più lunghi e più sottili. Con il pezzettino di bronzo e con la sega fatta di denti di topo tagliò tenoni e mortase; poi li incastrò ben bene, partendo prima dagli ossi più grossi e più pesanti e collocandoli in ordine decrescente via via che il lavoro procedeva. Ogni giorno riempiva di urina le piccole ciotole su ognuna delle sbarre di ferro che restavano. Adesso contenevano anche dei tamponi di cotone. Ogni giorno li toglieva, raschiava via e raschiava via minuscole scaglie di ruggine, finché il metallo tornava a essere brillante. Ogni giorno cambiava occupazione. Adesso era in grado di migliorare i nodi scorsoi per le trappole; adesso era in grado di utilizzare corde coperte di polvere di cemento più lunghe per raschiare il ferro. Il lavoro procedeva lento ma precisissimo. Aveva un nuovo motivo per essere paziente, e non si lagnava delle pesanti ore. Nel giro di tre settimane arrivò a possedere un lungo bastone fatto di ossi. Aveva un manico ben robusto e giungeva quasi al foro che c'era nella botola. La punta era forcuta. Aveva già tagliato l'ultima sbarra del secondo lato, quando fece una scoperta che lo riempì di gioia immensa. Sotto la sbarra che avrebbe dovuto essere tagliata subito dopo c'era un difetto nella saldatura. Nella colata c'e-
ra una bolla d'aria. La sbarra aveva così una crepa lungo tutta la sua lunghezza: significava che il tempo per tagliarla era praticamente dimezzato. Da questo vi renderete conto, miei cari ascoltatori, quanto siano buoni gli dèi con quelli che hanno fede e credono in loro e sono disposti a lavorare nel loro stesso interesse. Ah! Tutti voi che dubitate, riflettete sulla pazienza di quello sfortunato prigioniero che, educato dalla nascita al lusso e alla mollezza, ha provato su di sé tante delle sofferenze dei poveri; si è reso conto in questo modo, delle sofferenze di quanti devono lavorare faticosamente con le loro mani e piegare la schiena sotto un duro fardello! Ha imparato a conoscere la pietà e la compassione, perché è diventato più infimo del più infimo di loro! Ah! Voi che siete tanto favoriti dalla fortuna e potete elargire parte delle vostre ricchezze per alleviare l'esistenza del meno privilegiato di tutti i viandanti che devono guadagnarsi da vivere girando di città in città, pensate ai meriti che potete procurarvi intanto che questo bravo ragazzino passa in mezzo a voi. Fate risuonare gaiamente i soldi nella ciotola e, se per caso ci casca dentro una rupia, anche se il borsellino si svuota per la bontà che vi gonfia il cuore, vi prego, lasciatecela dentro. Gli dèi vi stanno a guardare! Vi ricompenseranno dieci volte tanto! Mentre sazio la mia fame... Ah! Mille grazie, gentile signore! È grazioso da parte sua mettere questo delizioso pesce arrostito alla griglia alla portata delle mie mani! Come ha fatto a sapere che è il mio piatto preferito? E quel meraviglioso mango, con cui quella ragazzina sta giocando? No, giovane signora, non m'importa affatto che sia ammaccato! Senza dubbio lei ne ha un altro senza difetti e più gustoso, con cui farla giocare. Se non è così, ebbene, consoli le sue lacrime facendole sapere che ha compiuto un'opera meritoria quando l'ha fatto rotolare fra le mie mani. Continuare? Ah, sì! La ciotola è ritornata. Un secondo che vuoto nelle mie tasche il suo misero contenuto. Sento bene che non pesa granché. Avevo sperato qualcosa di più, ma pazienza! Vi racconterò lo stesso come finisce la mia storia. Forse la morale penetrerà nei vostri cuori più tardi. Il povero Rajah preparò, quindi, due pezzi di osso accuratamente predisposti l'uno in funzione dell'altro. Il primo era cavo e chiuso a un'estremità da un tassello che vi era stato incastrato e avvitato in modo tale da non lasciar passare l'aria. Solo per questo lavoro gli ci volle un giorno intero.
La seconda parte dello strumento era più semplice. Era un pistone compatto, perfettamente rettilineo, ben levigato a furia di raschiarlo con la lama, ben unto di grasso e granulato in modo che entrasse nel tubo a tenuta stagna. Li mise ambedue da parte, sulla piattaforma. Poi tirò fuori da uno dei contenitori un batuffolo di cotone, lo mise con molta attenzione sui rebbi della sua lunga canna e tenne il cotone umido in alto, immerso nella macchiolina di sole, proprio sotto la botola. Ve la tenne il più a lungo possibile. Quando la tirò giù, rise di gioia. Era asciutta e calda. Ne mise un po' nel tubo. Il resto finì, svelto svelto, in un contenitore perfettamente asciutto. Poi inserì il pistone nell'altra estremità del tubo. Vi diede sopra un violento colpo con un pesante osso che usava come martello. Per avere una base sicura, appoggiò l'estremità chiusa del tubo su una giuntura della griglia. Continuò a martellare molte volte, notando che la mazza rimbalzava un poco. Sapeva che il cotone non faceva difetto. Dunque la tenuta stagna era così perfetta che l'aria all'interno veniva compressa. Dopo diversi colpi di martello, estrasse il pistone e si fece cadere il cotone su una mano. Mentre quello cadeva uscì in un'esclamazione di gioia e l'afferrò prima che piombasse nell'acqua. Era tutto bruciacchiato dal calore, benché esternamente l'osso, al tatto, risultasse soltanto caldo. Separò le fibre. Adesso erano friabili, si sbriciolavano. Le rimise con la massima cura nel tubo, reinserì il pistone e riprese a martellare. Dopo un mucchio di violenti colpi, rimosse di nuovo il pistone. Questa volta ci mise più attenzione: fece cadere il contenuto su una scapola piatta. Era un piccolo mucchietto, tutto bruciacchiato. E dentro c'era una debole scintilla. Vi soffiò sopra e la scintilla si sparse veloce sulle fibre rosolate, come una lucciola che corra, svelta. Sparì quasi subito; ma quello che aveva visto era più che sufficiente per spingerlo a restare in ginocchio e raccomandare l'anima del suo precettore inglese alla benigna attenzione del suo dio inglese. Se avesse avuto un'esca, era in grado di procurarsi il fuoco! Se avesse avuto pronta una lampada con grasso e stoppino, era in grado di procurarsi la luce! Ah! Quanto state bene voi qui, riuniti attorno a me sotto il baobab! Come vi rendete poco conto delle ricchezze che possedete! Neppure il regno britannico avrebbe potuto sentirsi così ricco come si sentiva quel povero prigioniero! Lavorò sodo tutto il pomeriggio. Asciugò dell'altro cotone nella macchia di sole e lo mise via. Parte lo ripose nella cavità di un femore da lui svuo-
tato per estrarne il midollo. Sciolse tra le mani dei grumi di grasso e fece sgocciolare l'olio finché la cavità ne fu piena. Sfilacciò le estremità delle fibre per farne un'esca per il fuoco. Intanto, sopra s'era fatto buio. Per il prigioniero giorno e notte erano praticamente la stessa cosa. Le sue dita conoscevano ogni millimetro quadrato della prigione. Sbriciolava e infilava, sbriciolava e infilava; sbriciolava, sbriciolava e sbriciolava, e non gliene importava niente se per caso qualcuno era abbastanza vicino da poter sentire. Finalmente fu pronto, nella scapola, un mucchietto di esca secca. Era sicuro che avrebbe preso fuoco, anche se gli era impossibile vedere. Sistemò un mucchietto, alto sui fianchi e schiacciato al centro, per catturare e trattenere un'altra scintilla. E successe! Prese fuoco, per cui si scaldò prima di essersi del tutto carbonizzato. Vi soffiò sopra con ansia. C'era una brace, rossa e brillante come l'occhio di un ragno maligno. Oh, Siva! Scintillava! Era incandescente! Poteva sentire l'odore del fumo di quella lenta combustione. Il cuore gli martellava. Gli parve di star quasi per svenire. Alimentò la fiamma, lasciandovi cadere dentro piccoli pezzi di cotone carbonizzato, con una scheggia di osso, ben conscio che ogni movimento malaccorto delle sue dita tremanti poteva spegnerla. Soffiò e avvampò una flebile fiamma. Esultante di gioia, nutrì quel neonato; spingendo pezzettini di cotone carbonizzato nella sua bocca ingorda, crebbe. Rapidamente, temerariamente, finché ormai era inestinguibile! Sollevò quindi la scapola e avvicinò la fiamma allo stoppino. Fece presa sull'olio, lo risucchiò e vi si arrestò, tremolante nell'aria, quieta. Una fiamma! In quella fredda, oscura prigione sotto terra, così umida e misera per noi, anche solo a pensarci, il Rajah imprigionato vide il fuoco per la prima volta dopo quattro anni. Vi accostò le dita e quel superbo chiarore, per lui più grande del sole stesso, gli riscaldò le mani gelate. In quel momento non invidiò nessuno su questa buona verde terra. Ben presto, però, ritornò alla sua ferocia. Adesso sapeva di essere in grado di creare il fuoco, non poteva permettersi di sciupare la sua unica riserva, la corda. Non si illudeva affatto che un'altra occasione si sarebbe ripresentata. Quel tipo di giochetto poteva riuscire soltanto una volta e basta! Sfilacciò il resto della sua esca per il fuoco, tenendola separata da quella canapa che era solo bruciacchiata per il calore. L'altra avrebbe prodotto la prossima scintilla, ma quella doveva procurargli il suo primo cibo. Coprì tutto molto accuratamente, in modo che non vi potessero entrare vapori
umidi. Lanciò di nuovo un'occhiata alla lampada che aveva fatto. Stava per spegnerla. Ma non se la sentì di aspettare ancora per verificare ciò in cui aveva sperato da tanti anni. La calò con la massima attenzione in una delle aperture della griglia. Poi, tenendola sul palmo della mano, appoggiò il fuoco contro la sbarra che aveva già parzialmente segato. Il contatto con il ferro produsse fumo e fuliggine, ma, dopo un breve attimo, qualcosa cascò nella fiamma. Una sottilissima scaglia di ruggine era stata graffiata via dal metallo surriscaldato, ed era caduta. Prima che lui togliesse la lampada, il grasso era macchiato da tante piccole scaglie. Ritirò la mano attraverso la griglia. La fiamma si espandeva come una delle sue visioni, solo che era reale! Rivide la finestra e la porta, se le rivide davanti. Quella porta che avevano creato le sue illusioni ipnotiche. E comprese che nella lampada possedeva la chiave che gli avrebbe aperto la porta verso la libertà molto più in fretta di quanto avesse mai creduto possibile. Non aveva mai minimamente dubitato che sarebbe riuscito a scappare. Adesso, però, era in grado di calcolare quando sarebbe successo: non le settimane, forse, né i mesi, ma certo l'anno. Spense la lampada e si coricò. Dopo molto tempo si addormentò. Ogni cosa, quando la si è fatta una volta, diventa più facile ripeterla, grazie alle conoscenze acquisite. Il semplice fatto, poi, di esserci riuscito, ti mette più a tuo agio. Col passare del tempo il Rajah imparò quanti colpi gli occorressero per portare l'esca ad accendersi. Scoprì con che forza dovesse colpire. Quale combustibile bruciasse meglio nella lampada. Per quanto tempo doveva scaldare il metallo prima di buttarvi sopra acqua fredda e aggredirlo con le sue piccole seghe. Custodiva con frugalità la sua scorta di cotone, rifiutandosi di servirsene per il grasso e per la griglia. Le sue corde le avrebbe rimpiazzate con i capelli, quando fossero ricresciuti. Niente, invece, poteva far aumentare la sua scorta di stoppini; inoltre, i capelli, salvo tenerli costantemente lubrificati, non sarebbero serviti a nulla per la sua lampada. Per quanto godesse enormemente della luce e del dolce tepore che adesso possedeva, non ne sprecò un solo secondo, se non era più che indispensabile. La sbarra andava segandosi molto più rapidamente delle altre che l'avevano preceduta. Quando stava per scadere il sesto anno, vennero recise altre due sbarre sul terzo lato. Attaccò immediatamente la sbarra di mezzo dell'ultimo lato. Essendo state intaccate continuamente dal fluido corrosivo, tutte e tre ne risentivano
gli effetti, ed erano visibilmente più sottili nei punti in cui era stata applicata l'acqua salata. Altri sei mesi, e arrivò al risultato voluto. Quando la sbarra centrale fu segata, afferrò la griglia con le forti mani e tirò su con tutte le sue forze. Si alzò un poco. Vi salì sopra con tutti e due i piedi e si mise a saltare, lasciandosi cadere a peso morto sul riquadro. Affondò un poco. Continuò a lavorare così tutti i giorni: scaldava il metallo senza economizzare i mezzi perché ormai intravvedeva la vittoria; piegava le sbarre in su e in giù e osservava le scaglie di ruggine cadere nell'acqua. Ogni movimento indeboliva sempre più quel ferro torturato. Quando era stanco attaccava le sbarre, prima l'una poi l'altra con corde e abrasivo, utilizzando il resto della canapa senza fare economia. Non occorreva più fare economia, adesso. Così, dopo una settimana trascorsa tutta a quel modo, il ferro si spezzò. Si spezzò talmente all'improvviso che il Rajah cadde all'indietro, stringendo fra le mani il pezzo di ferro saldato, con stretta rabbiosa. Mentre cadeva, scoppiò a ridere istericamente. Adesso la via alla libertà era aperta. Ma, per salire di sopra, doveva prima scendere di sotto. Sulle prime si ritrasse subito; il gelo gli avvinghiò il cuore. Poi aspirò profondamente e scese nell'acqua. Gli tornò utile il lungo esercizio fatto per trattenere a lungo il fiato. Si spinse parecchio in profondità, mentre con le mani saggiava la parete. Oltrepassò l'ansa del tubo di scarico, oltrepassò il levigato rivestimento interno, quel limite che non era mai riuscito a vedere, e oltrepassò anche il bordo frastagliato. Oltre quello, incontrò la costruzione originale in pietra. Trattenne ancora il respiro, cercando una pietra smossa. Era lì già da un centinaio di anni, eppure la calce teneva ancora molto bene! I polmoni gli scoppiavano. Lasciò uscire un po' d'aria. Questo mitigò la pressione. Scese ancora, lentamente, alla frenetica ricerca di una fessura nelle sezioni della parete così ben costruita. Gli occhi gli si gonfiarono. Stelle si accesero e scoppiarono in tanti soli. Risalì, ansante, per afferrarsi alla griglia. Trasse profondi respiri finché il cuore si quietò. Poi, giù di nuovo. Adesso si mosse più facilmente intorno alla parte della prigione sott'acqua; e a una profondità maggiore di prima, sul lato opposto, trovò quello che cercava. Lì la calce era caduta e c'era un'ampia fessura, nella quale entrarono le sue dita. Piantò i piedi contro la parete, inarcò la schiena e tirò. Qualcosa stridette, si mosse, venne verso di lui, si capovolse e piombò giù,
raschiandogli un fianco. Mentre saliva, sentì sbattere la pietra contro il fondo del pozzo. Perdinci, quant'era profondo! Un brivido gli correva lungo la schiena, aveva i nervi a fior di pelle. Si fermò un poco nell'ambiente che gli era familiare, poi si coricò e si rilassò. Poi scese di nuovo. Scese giù con tutti i suoi arnesi per scavare la terra dietro la pietra che aveva asportato, raspando con un pezzo d'osso aguzzo; facendo leva su piccole pietre, fin quando non ebbe formato un buco; scavando via il fango che usciva fuori dal pertugio, finché fu in grado di padroneggiare meglio le pietre più grandi sottostanti. Quando ne ebbe strappato via altre due, si ritrovò ad avere una nicchia nella quale poteva introdurre la testa e le mani. Risalì, si tirò su con l'ultimo rimasuglio di energia; poi crollò sulla griglia, esausto e intirizzito: lo sforzo l'aveva scaldato, sì, ma non c'era fuoco. Allora, senza parsimonia, aprì diversi contenitori, mangiò parte del grasso così avidamente tesaurizzato, e il resto se lo spalmò sul corpo come difesa contro il freddo. Da quel momento in poi, se fosse stato necessario, avrebbe lavorato senza luce e senza calore. Dopo un po' si rilassò, ancora scosso dai brividi, e cadde in uno stato di incoscienza molto più simile alla morte che a un sonno ristoratore. Si svegliò di soprassalto. La pietra era caduta sulla botola. Urlò per la rabbia. Qualcuno scoppiò a ridere. La pietra si abbatté più e più volte, e regolarmente gli rintronava nel cervello. Ma adesso che si era svegliato non vi prestò più attenzione. Sopra era notte fonda. Gli venne in mente, come gli era successo già tante volte in passato, che il cortile dove si trovava il pozzo doveva essere molto poco frequentato dai membri di palazzo; o addirittura a loro vietato per ordine di suo fratello, che quando fosse in grado di portare a termine quello che aveva in animo di fare, nessuno avrebbe potuto più fermare. Urlò di nuovo, ma c'era una nota sarcastica in quell'urlo. L'uomo di sopra non l'avvertì. Dopo un po' cominciò a farsi giorno. Cadde giù la carne, al solito. Il Rajah l'afferrò voracemente, vi piantò i denti, e mentre lo faceva visualizzò la gola del fratello. La divorò con ingordigia, sentendo l'energia scorrergli nelle vene. Poi riprese a scavare. Adesso era più facile. La terra era franata dietro la costruzione di pietra. Caddero giù dei ciottoli. Si scavò un passaggio in salita, rimuovendo il pietrisco e la fanghiglia davanti a lui. Poi fece strisciare
il corpo verso l'alto nel buco, scavando sempre più in alto, finché alla fine della giornata fu in grado di inserire nello spazio che si era creato tutto il corpo, e accovacciarvicisi, anche se si trovava sempre sotto il livello dell'acqua. Il giorno seguente salì in verticale. Adesso la testa e il petto erano fuori del livello dell'acqua; e, siccome la parete curvava leggermente verso l'interno, poteva appoggiarvisi contro mentre scavava. Quando non riuscì più a sopportare il fetore del suo stesso fiato, scese giù, uscì fuori e risalì nella sua prigione, dove si sdraiò a respirare grosse boccate di aria fresca. Molte volte riempì i polmoni alla loro capacità massima e, ficcata la testa all'inizio del buco, lasciò gorgogliare l'aria verso l'alto, nell'oscurità, purificandola così in parte grazie al passaggio attraverso l'acqua. Poi si infilava nella sua tana, come un gigantesco topo da fogna, a raschiare e scavare, alla ricerca del sole, coi polmoni che gli scoppiavano e le dita sanguinanti. Finalmente, quasi con sua sorpresa, perché aveva perso il senso del tempo, arrivò a toccare una grande pietra piatta. Dapprima si disperò; poi fu preso da una pazza gioia. Poteva benissimo essere una delle pietre delle quali era lastricato il cortile. Era arrivato in cima al pozzo. Restava soltanto quella pietra tra lui e la libertà, e la fine del suo lunghissimo complotto e della sua penosa, paziente fatica. Tra quella pietra e quella accanto trapelava un filo di luce. Vi appoggiò un occhio, la schiena contro la volta a cupola del pozzo. Luce piena, cielo azzurro, una piccolo nuvola alla deriva, un petalo di rosa in una ciotola capovolta. Passò un uccello, il primo che vedeva dopo più di sette anni. Singhiozzò. Era l'alba o il tramonto? Da quando si era messo a scavare selvaggiamente, dormire, tuffarsi e scavare, aveva perso ogni senso del tempo. Rimase lì, assaporando il momento. C'erano delle rose, da qualche parte. Aspirò quell'aria fresca e pura attraverso la fessura. Era come aspirare la vita. Aveva un sapore migliore del migliore dei vini che ricordasse. Era il gusto dell'aria della libertà. Si adagiò, ricurvo, sulla volta a cupola del pozzo, così concepita unicamente per impedirgli di scalare quel muro. Ma lui l'aveva scalato da fuori, dalla porta di servizio. Presto venne l'oscurità. Il Rajah era sempre lì. Quando fu notte fonda, trovò un robusto punto d'appoggio per le sue ginocchia e i suoi gomiti, piantò la schiena contro la pietra e la sollevò, gemendo per il peso e per il
dolore, mentre la superficie ruvida gli incideva la pelle. La pietra cigolò e si sollevò, facendo piombare giù un rovescio di polvere. Poi slittò di fianco. La spostò tranquillamente dal buco che si era fatto, e mise fuori la testa. Per la prima volta, in quella che gli era parsa un'eternità, rivide le mura del suo palazzo. Nessuna luce. Doveva essere molto tardi. Aveva pensato a questo istante e a quello che avrebbe dovuto fare: rientrare nel buco, armarsi del pugnale di osso e della clava, e buttarsi alla vendetta. Si era visto come un furetto a caccia di un coniglio; un dhole (selvaggio cane rosso) che segue la pista di un cervo sfortunato. In quel momento scordò tutti i suoi piani. Gli mancava la forza di scendere di sotto. Si tirò fuori. Le pietre sotto i suoi piedi conservavano ancora il tepore del sole. L'aria aveva l'aroma della libertà. Come la tigre fuggita, a cui una volta si era paragonato, stiracchiò i muscoli, girò la schiena al pozzo e, tutto sporco, con i capelli arruffati e pieno di ferite sanguinanti, si avviò verso il palazzo, covo del suo torturatore, le labbra atteggiate a un ghigno silente. Ora, tutti voi che avete seguito la storia di questo povero infelice, la pace sia con voi! Questo caro ragazzino, al quale oggi va tutto il mio affetto, mi avverte che sua madre ha finito di cuocere la cena. Purtroppo, devo troncare qui. Sul serio, ho la gola secca, la pancia è così vuota che è attaccata alla schiena, e sono tanto stanco per aver camminato fino dall'alba diretto a Boorhau. Se non mi fossi fermato qui all'ombra, per riposare, adesso sarei certamente già arrivato. È stato un puro caso se ho accennato a questo fatto pietoso, il cui solo pensiero mi addolora. Un racconto vero? Lei vuole scherzare, mio nobile signore! Come potrebbe una persona umile come me parlare di fatti scandalosi avvenuti nello stato nostro confinante? Non pensa che, se fosse vero, la mia bocca sarebbe stata messa a tacere con un fantastico numero di rupie, oppure con la punta aguzza di un pugnale piantata nella gola? Non sono forse già una risposta alla sua domanda sconsiderata questi abiti logori e scoloriti che rivestono il mio corpo affamato, questa pelle senza sfregi sotto la barba grigia? Sì, ragazzo, ho sentito il richiamo della tua generosa genitrice, la cui carità verso il povero e sfortunato viandante è, senza dubbio, l'orgoglio di questo villaggio. Vengo. Ma gente, non trattenetemi! Devo andare. Come finisce lo Jataka. Be', se insistete. Non mi tirerò indietro, per una modesta ricompensa. Mi sforzerò di reprimere l'ira della deliziosa madre di
questo bravo bambino, che si buscherà le botte. Mentre cerco di ricordare, perché davvero questa interruzione ha spazzato via molte cose dalla mia mente, gli concederò di far passare la ciotola in giro ancora una volta. Ah, sì. Il tintinnio dei soldi aiuta molto la mia memoria. Ragazzo! Restituisci quella piastra che ti ha dato. Non ho bisogno di medagliette religiose! Grazie! Grazie! Sono sicuro che si tratta di una preziosa reliquia lasciata cadere per sbaglio, e che vale molto di più della rupia che mi verrà data in cambio. Il ragazzo è soddisfatto. Io sono contento. La sua onestà è meritoria e adesso lei è più ricco di prima, grazie alla mia benedizione. Ecco dunque come finisce lo Jataka. Il Rajah sgusciò nel suo palazzo, come un brigante, un ladro nella notte. Rifletté su questo fatto e pianse. Lui, destinato dalla nascita a indossare soltanto sete coperte di gioielli, era nudo; lui, che avrebbe dovuto portare il più bel tulwar che mai abbiano fatto i fabbri di Damasco, aveva in mano un pugnale d'osso per difendersi qualora la sua stessa gente lo avesse attaccato; lui, che doveva trascinare gli abitanti del paese a innalzare lodi a Siva per le molte ricchezze che gli aveva così generosamente concesso e grazie alle quali poteva elargire loro tanti benefici, era solo, dimenticato, e sulle labbra gli aleggiava un'invocazione di aiuto alla sanguinaria Kalì. Ahi! Quanto soffre il potente trascinato in basso dal sentimento dei nemici! E quel dolore è ancora più acuto quando quel nemico è uno del tuo stesso sangue. È già successo. So anche che succederà di nuovo, forse presto, ma è improbabile che si ripeta un caso come il nostro. Si portò con passi felpati alla sua stanza, sicuro che là si trovasse il suo malvagio fratello in attesa, perché ogni usurpatore si sente in obbligo di godersi tutto ciò che ha rubato per rendere ancora più completo il suo trionfo. La porta si apri con la morbidezza di una piuma che cade. Nella luce fioca (che agli occhi del Rajah era come pieno giorno) vide il fratello addormentato, solo, come aveva sperato. Tre passi veloci ed era di nuovo il padrone in casa sua, le dita robuste affondate in quella gola, mentre lo ascoltava russare. Strangolare quel vigliacco? Certo avete voglia di scherzare! Cos'avreste fatto voi, in un caso simile? Probabilmente vi sareste comportati come il Rajah. Prima lo imbavagliò, poi lo legò ben bene; infine guardò con molta
attenzione quell'uomo crudele. I suoi occhi ruotavano selvaggiamente, il che mostrava con chiarezza che aveva capito che giustizia era fatta. I due sembravano ancora due semi di melograno. Dopo avere osservato attentamente il gemello come un'immagine speculare di se stesso, il Rajah si procurò delle forbici e uno specchio. Si tagliò i capelli e la barba. Diede quella piega sprezzante alle labbra, quelle labbra che in quel momento esprimevano, invece, terrore e sgomento. Scoprì che la memoria non l'aveva tratto in inganno. Si era strappato il dente giusto! Eppure quel dubbio gli aveva lancinato il cervello per sette lunghi anni. La somiglianza era totale, assoluta. Poi, soltanto poi, prese la sua vittima atterrita, lo tramortì, lo denudò e lo portò via. Portò quel malvagio, attraverso il cortile, fino al buco. Qui il Rajah tolse i legacci di modo che, al risveglio, il prigioniero si trovasse ad avere niente più di quello che aveva avuto lui. Poi scese giù per l'ultima volta nel suo covo, così familiare, come un ragno di ritorno con la preda. Trascinò quel disgraziato, ancora senza sensi, in quel buco di meritata punizione, giù nell'acqua; poi su, fino alla superficie e attraverso la griglia, dove lo adagiò sulle sbarre di ferro, ancora inconscio della sua sorte. Metodicamente, il Rajah svuotò la prigione sotterranea di tutte le sue creazioni. Il riquadro della griglia di ferro da lui rimosso piombò per primo in fondo al pozzo. Lo seguirono tutte le ossa. Tutte le piccole seghe; le scatole contenenti le esche; la lampada. I pezzi piatti che aveva messo insieme con tanta fatica per sedercisi o coricarcisi sopra, anche quelli finirono in fondo al pozzo, seguiti da contenitori ripieni di grasso. Spezzò in varie parti la lunga asta e lasciò cadere il tubo nell'acqua. Ritirò il lungo tubo di cui si era servito per bere. Poi, però, lo rimise al suo posto. Il fratello gli aveva lasciato un mestolo. Non poteva essere da meno. Tutto il resto finì in fondo al pozzo, eccetto l'apparecchiatura per produrre il fuoco e qualche batuffolo di cotone. Questi il Rajah li portò via con sé per ricordo, quando ritornò in superficie. Poi, per prima cosa, andò in fucina. Nel forno c'era il fuoco acceso. Vi soffiò sopra per ravvivarlo, scovò fuori una lastra di metallo, la scaldò e la forò per potervi inserire dei bulloni e dei chiavistelli. Rintracciò anche questi; poi preparò un'altra lastra, esattamente identica alla precedente. Tutto era tranquillo. Evidentemente, da quando governava suo fratello, la gente del palazzo si era fatta o troppo saggia o troppo atterrita per andare in giro a curiosare. Non fu disturbato da nessuno, né lì né mentre ritornava nel buco con le due lastre di metallo, i chiavistelli, delle chiavi e un
pesante martello. Il fratello aveva ancora gli occhi chiusi quando il Rajah arrivò per l'ultimo viaggio con quel materiale che gli aveva preso tanto tempo. Sistemò una lastra fissandola con bulloni già predisposti per i dadi. Lavorando da sotto e tenendosi aggrappato con una mano alla griglia, non senza difficoltà, attaccò la lastra inferiore, vi infilò i bulloni e strinse forte i dadi con la chiave. Quand'ebbe terminato, la chiave fece la stessa fine delle ossa in fondo al pozzo e il Rajah allungò la mano attraverso la griglia, afferrò il martello, e, abbassandolo in modo da poter lavorare, appiattì le estremità dei bulloni con colpi poderosi. Adesso suo fratello era imprigionato tanto ermeticamente quanto lo era stato lui. Questi esausto, rientrò nel buco e di lì nel cortile. Ma la sua fatica non era ancora terminata. Là sopra tutto era tranquillo. Rintracciò una carriola e un badile. Alla luce delle stelle raccattò un mucchio di pietre, le trasportò là e le lasciò cadere una per una, fin quando fu certo che il buco era chiuso fin sopra il livello dell'acqua. Lavorò in fretta. Scovò della calce e la impastò e la fece colare nel buco pieno di pietre, aggiungendovi sempre altre pietre, finché il buco fu ben otturato per tutta la sua lunghezza. Aveva lavorato come un pazzo, freneticamente, facendo meno rumore possibile, sin quasi all'alba. Allora rimise a posto la grande I pietra del selciato e riordinò tutto, in modo da non lasciare la minima traccia di quanto era successo durante la notte. Il buco era tappato. Quand'ebbe finito, il Rajah ritornò in camera da letto, quella che una volta era stata e adesso tornava ad essere la sua camera da letto. Si lavò ben bene in acqua di rose. Indossò gli abiti che il fratello aveva indossato fino all'ultimo momento e si spalmò il corpo con la pomata con cui il fratello aveva ristorato il suo corpo abituato al lusso. Si pettinò la barba e i capelli. Poi uscì dalla camera, come se si fosse appena alzato da letto. Attraversò i corridoi, accettando i timorosi omaggi di quanti incontrava, rendendosi conto del clima di terrore in cui suo fratello li aveva tenuti e proponendosi di far cambiare una simile situazione. Ci sarebbero voluti anni, ma non desiderava che nessuno lo odiasse come lo stavano invece odiando costoro. Prese il bel pezzo di carne che il cuoco gli aveva preparato, lo salò bene con le sue stesse mani e andò nel cortile. Tutto era al suo posto. Ma all'imboccatura del pozzo c'era un servo, un
garzone di stalla, che aveva sospettato fosse un confidente di suo fratello, da lui pagato. Era chino in avanti e stava ascoltando. L'uomo allungò la mano e prese la carne. La lasciò cadere nel pozzo e alzò lo sguardo, tutto stupito. «È caduta! Non l'ha presa. Non era mai successo, prima d'ora. E stavolta non si è messo a strillare!». Il Rajah guardò l'uomo fisso negli occhi. «Lo ha fatto apposta. Sono sicuro che lo fa apposta!». Adesso, ragazzino, affrettiamoci verso la confortevole dimora della tua graziosissima madre. Mi hai detto che è vedova e ha bisogno della compagnia di un uomo? Può anche darsi che mi trattenga qui per qualche giorno, onde sollevare la sua solitudine, prima di riprendere il viaggio. Non posso fermarmi a lungo, perché devo continuare la mia missione. Non dovresti fermarti in compagnia di persone più vecchie di te, come queste, ad ascoltare frivoli racconti del passato. Speriamo che la tua giovane mente abbia ricavato profitto dalla lezione che hai ascoltato oggi. La ruota gira; il pendolo va lontano, ma torna sempre indietro. Può anche darsi che ritorni indietro ancora una volta, quel tanto che basta per riportarmi a Boorhau! Ah! Quel pazzo Rajah pensava che, siccome per lui gli ci erano voluti sette anni per scappare dal pozzo, ed era senza dubbio un uomo dalle mille risorse, il fratello, che il Rajah considerava del tutto senza fantasia, non sarebbe mai riuscito a scappare! Non si era reso conto che tutti e due avevano studiato con lo stesso precettore inglese. Se è scappato? Certo che sono scappato! Un delitto molto insolito ROBERT BLOCH Dunque: nonostante Harry Houdini ammirasse a tal punto l'autobiografia di Robert-Houdin, il famoso mago francese, da scegliersi un nome d'arte ricalcato sul suo, più avanti negli anni pubblicò un libro in cui negava molte delle mirabolanti imprese di Houdin. Dunque: la media annuale della pioggia che cade ad Adzharia, URSS, raggiunge circa il metro e mezzo d'altezza. Dunque: il Mandara è quell'albero del paradiso indù alla cui ombra si crede
vengano dimenticati dubbi e preoccupazioni. E cosa, di grazia, ha a che vedere tutto ciò col racconto che segue? È ovvio, non c'entra niente. Ma il racconto è di Robert Bloch, autore di gemme quali Yours Truly, Jack the Ripper, Sweets to the Sweet, Psycho, per cui cosa importa quel che vi racconto in questa breve introduzione? Migliaia di lettori la salteranno, troppo ansiosi di gustare l'arguzia e l'intelligenza di un nuovo racconto di Bloch per perdere tempo coi preliminari. E nessuno di loro resterà deluso. Soltanto i morti conoscono Brooklyn. L'ha detto Thomas Wolfe, che adesso è morto, per cui dovrebbe intendersene. Naturalmente Londra è tutta un'altra storia. Così almeno la pensava Hilary Kane. Ecco, sì: forse non una vera e propria storia, ma piuttosto un racconto vecchia maniera, picaresco all'incredibile, nel quale ogni viuzza era un capitolo a sé zeppo di figuri e di avvenimenti unici. Ogni pagina, ogni struttura un paragrafo a sé, inserito in quella vasta trama arruffata: era questa l'idea che Hilary Kane aveva della città, e lui la conosceva bene. Col passare degli anni la studiò palmo per palmo, mettendo insieme a uno a uno i vari tasselli che componevano il mosaico della città, finché ebbe familiarità con ogni minimo particolare. Adesso conosceva Londra meglio delle sue tasche. Ecco perché si allarmò tanto quando, un gramo pomeriggio a novembre avanzato, si vide davanti la bottega in Saxe-Coburg Square. «Che mi venga un accidenti!», sbottò. «E perché no?». Lester Woods, suo compagno abituale, ammorbidì la battuta con un sorriso indulgente. «Cosa c'è?». «Guarda!». Kane, gesticolando, gli additò la minuscola vetrinetta della costruzione annidata, quasi volesse nascondersi, in mezzo a due palazzoni residenziali, reliquie dell'epoca vittoriana. Woods sbottò: «Anticaglie» Al ritmo con cui stanno crescendo, a Londra ce ne deve essere almeno una per turista». «Ma non qui», esclamò Kane, burbero. «Si dà il caso che io sia passato da queste parti neanche una settimana fa, e posso giurare che nella piazza non c'era nessun negozio». «L'avranno aperto dopo». I due si diressero all'entrata, e nel passare sbirciarono dentro la vetrina. Kane si accigliò ancor di più. «E tu questo lo definisci nuovo? Guarda
che polvere c'è su quelle coppe!». «Ricominci a fare il detective, eh?». Woods scrollò il capo. «Il tuo guaio, Hilary, è che hai troppi hobby». Lanciò un'occhiata alla piazza, mentre un vento gelido annunziava l'arrivo del crepuscolo. «Si sta facendo tardi; sarebbe meglio spicciarci». «Non prima di aver messo il naso in questa faccenda». Kane stava già aprendo la porta; Woods sospirò. «Il gioco è cominciato, suppongo. Va bene, giochiamo». Il campanello della bottega tintinnò e i due uomini entrarono. La porta si richiuse da sola, lo scampanellìo si spense, e loro rimasero lì, impalati, immersi nell'ombra e nel silenzio. Ma una delle ombre non rimase in silenzio. Sbucò fuori da dietro l'unica cassa nello spazio contro la parete di fondo. «Buona sera, signori», disse l'ombra. E accese una lampadina sopra la sua testa. La luce illuminò fiocamente il banco e diede forma all'ombra, materializzando una figurina con una faccia insignificante sotto una zucca pelata. Kane si rivolse al proprietario. «Disturbiamo, se diamo un'occhiata in giro?». «Vi interessa qualcosa in particolare?». Il proprietario indicò gli scaffali ben allineati sulle pareti alle sue spalle. «Libri, cartine geografiche, porcellane, cristalli?». «Niente in particolare», rispose Kane. «Solo che io sono sempre curioso quando m'imbatto in un nuovo negozio di questo tipo...». Il proprietario scrollò il capo. «Chiedo scusa, ma è un po' esagerato definirlo "nuovo"». Woods squadrò l'amico con un sorriso malcelato, ma Kane l'ignorò. «Strano», disse. «Non l'avevo notato prima d'ora». «Esattissimo. È da molti anni che sono negli affari, ma questa è la sede nuova». Adesso era la volta di Kane: lanciò una rapida occhiata a Woods e sorrise vistosamente. Woods, però, stava già passando in rassegna gli oggetti in bella mostra. Un istante dopo anche Kane iniziò la sua ispezione. Sbirciando nella scaffalatura sotto il banco di cristallo, fece un rapido inventario. Notò una lampada da boudoir, con la frangia tutta perline; una lavallière, un vassoietto contenente gemelli di perla, un programmasouvenir di un ricevimento; e la fotografia con tanto di cornice e dedica di una certa Matilda Alice Victoria Wood aka Bella Delmare aka Marie
Lloyd. C'era una miscellanea di gioielleria antica, sveglie, coppe di peltro, anelli per tovaglioli, miniature giocattolo del palazzo di vetro, e anche un poster di un tale Lord Kitchener con due favolosi mustacchi, il dito guantato teso in un gesto di comando imperioso. La solita cianfrusaglia. Niente fuori dell'ordinario, e soprattutto, come nel caso del poster di Kitchener, niente di antico in senso vero e proprio; semplicemente roba demodé. Per esempio, quei ventagli sullo scaffale più basso, e i cilindri, i binocoli, e laggiù, nell'angolo più lontano, la valigetta nera ricoperta di quella robusta tela incerata smaltata che un tempo veniva chiamata «tessuto americano». C'era, in quell'espressione, qualcosa che bloccò Kane e lo spinse a piegarsi per guardare meglio. Tessuto americano. Adesso era tutto coperto di polvere, ma certo un tempo era stato scintillante; come pure scintillante doveva essere stata la targhetta in argento, ora ossidata, col nome del proprietario. J. Ridley, M.D. Kane sollevò lo sguardo, sforzandosi di dominare l'improvviso accesso di eccitazione. Impossibile! Non poteva essere... Eppure... Fu attentissimo a rendere la voce e i gesti assolutamente casuali, e additò al proprietario la valigetta. «Una valigetta di pronto soccorso?». «Sì, immagino di sì». «Posso chiederle dove l'ha acquistata?». L'ometto scrollò le spalle. «Chi se lo ricorda? In questo mestiere uno raccoglie gli articoli più strani un po' qua e un po' là, anno per anno». «Potrei darle un'occhiata, per piacere?». L'anziano proprietario fece scivolare la valigetta sul banco. Woods sgranò gli occhi, imbarazzato, ma Kane lo ignorò, tutto assorto sulla targhetta sotto la serratura. «Le spiacerebbe aprirla?», chiese. «Spiacente. Non ho la chiave». Kane si allungò in avanti e fece leva sulla serratura: era arrugginita, ma teneva molto bene. Corrucciato, sollevò la cassetta e l'agitò leggermente. Là dentro, qualche cosa tintinnava. Nel sentire il suono di metallo contro metallo, la sua contentezza salì alle stelle. Riuscì in qualche modo a non farla trapelare. «Quanto vuole?». Anche il padrone del negozio non tradiva nessuna emozione. «Non è in
vendita». «Ma...». «Mi spiace, signore. È contro i miei sistemi vendere oggetti a occhi chiusi. E fino a quando non si saprà cosa c'è dentro...». «Ma guardi, è soltanto una vecchia valigetta di pronto soccorso. Mi riesce difficile immaginare che contenga i gioielli della corona». In sottofondo si senti la risatina mal repressa di Woods. Ma il proprietario lo ignorò. «Certo. Ma non si può sapere con certezza che cosa contenga». Adesso fu l'omino a sollevare la valigetta; si sentì ancora una volta quel tintinnìo. «Potrebbe contenere monete». Kane intervenne con una certa impazienza: «Può darsi che siano soltanto strumenti chirurgici. Perché non forza la serratura e decide una volta per tutte che cosa contiene?». «Ah, no! Non posso farlo! Perderebbe tutto il suo valore!». «Quale valore?». Ahi! Adesso Kane aveva abbassata la guardia; sapeva di aver commesso un errore tattico, ma non poteva farci più niente. Il proprietario sorrise. «Le ho già detto che la valigetta non è in vendita». «Tutto ha un prezzo». Stava bluffando. Vide il sorriso del proprietario dilatarglisi in faccia. «Cento sterline». «Cento sterline per quella roba lì?». Woods sogghignò, ma rimase a bocca aperta quando sentì la risposta di Kane. «Affare fatto». «Ma, signore...». Per tutta risposta Kane cacciò fuori il portafogli e ne estrasse cinque pezzi da venti. Li mise sul banco, afferrò la valigetta e si avviò verso la porta. Woods gli si precipitò dietro e si richiuse la porta alle spalle. Il proprietario stava gesticolando: «Aspetti... torni indietro». Ma Kane stava già filando per la strada, stringendo forte la valigetta nera sotto il braccio. C'era ancora incollato addosso mezz'ora dopo, quando Woods entrò con lui nello spazioso studio dell'appartamento di Kane che si apriva sul verde di Cadogan Square. La valigetta era appoggiata sul tavolo. La tela incerata tutta scintillante, mentre Kane la puliva accuratamente dalla pellicola di polvere con uno strofinaccio umido, rifletteva evanescenti chiazze di luce solare. Lui rivolse a Woods un sorriso di trionfo. «Adesso va un po' meglio, non pensi?». «Non penso proprio niente!». Woods scosse il capo. «Cento sterline per
una vecchia valigetta da medico...». «Una valigetta da medico molto vecchia», precisò Kane. «Risale all'ottocento, se non mi sono sbagliato». «Anche così, mi riesce difficile...». «Naturale che tu non capisca! Ho i miei dubbi, e fondati, che chiunque altro al mondo, me escluso, avrebbe attribuito particolare importanza al nome di J. Ridley, M.D.». «Mai sentito nominare!». Kane sorrise. «Appunto! D'altronde è comprensibilissimo. Preferiva farsi chiamare Jack lo Squartatore». «Jack lo Squartatore?». «I fatti li conosci certamente. Whitechapel, 1888: prostitute trucidate e mutilate selvaggiamente da un astuto, misterioso assassino, che riusciva sempre a gabbare la polizia. Un'ombra che, furtiva, dava la caccia alle sue prede nelle strade». Woods corrugò la fronte. «Ma non l'hanno mai preso? O no? Non è mai stato neppure identificato». «È qui che sbagli. Nessun assassino è mai stato identificato tante volte quanto Jack lo Squartatore. Al tempo dei delitti e poi, in seguito, col passare degli anni, furono fatti i nomi di un mucchio di persone sospette. Il candidato numero uno era il polacco Klosowski, alias George Chapman, che ammazzò parecchie donne. Solo che erano tutte donne sposate, le uccideva avvelenandole e aveva un movente; mentre le vittime dello Squartatore erano tutte prostitute squattrinate, e le uccideva a coltellate. Un altro assassino confesso, Neil Cream, arrivò addirittura a dichiarare apertamente di essere lui lo Squartatore...». «Allora sarebbe questa la risposta?». Kane scrollò le spalle. «Sfortuna volle che Cream si trovasse in America al tempo degli assassinii dello Squartatore. La sua falsa confessione era frutto di egomania». Scrollò il capo. «C'è poi John Pizer, un rilegatore di libri noto con il nomignolo di "Grembiule di cuoio". Fu arrestato, ma venne chiarito tutto rapidamente e fu rilasciato. C'è poi chi ritiene che gli omicidi fossero opera di un russo chiamato Konovalov, che si faceva passare anche sotto il nome di Pedachenko e lavorava come barbiere-chirurgo; si suppose che fosse un agente segreto zarista che perpetrasse quegli assassinii per screditare la polizia britannica». «Se ti interessa il mio parere, secondo me è decisamente un'ipotesi sti-
racchiata». Kane sorrise. «Proprio così. Ma ci sono anche altri candidati, altrettanto inverosimili. Montague John Druitt, per cominciare, un avvocato malato di mente, che si annegò nel Tamigi appena dopo l'ultimo assassinio dello Squartatore. Sfortunatamente è stato stabilito che viveva a Bournemouth, e che nei giorni che precedettero e seguirono immediatamente l'ultimo delitto si trovava proprio là, a giocare a cricket. C'era poi il Duca di Clarence...». «Chi?». «Sì, il nipote della Regina Vittoria, nipote in linea diretta per la successione al trono». «Ma vuoi scherzare?». «Non sto affatto scherzando. Chi scherzava, chi era fuori pista, erano loro. È un dato acquisito che Clarence era un noto anormale che soffriva di pazzia in conseguenza di una malattia venerea, com'è pure certo che la sua morte, nel 1829, fu realmente dovuta ai danni conseguenti a quella malattia». «Però questo non prova che fosse lui lo Squartatore». «Pacifico! Pare quanto mai improbabile che abbia potuto scrivere lui quelle lettere piene zeppe di dialetto americano e di rozzi errori di grammatica e di ortografia, quelle che lo Squartatore inviava alle autorità; lettere che contenevano informazioni note soltanto all'assassino e alla polizia. Per andare al sodo, Clarence si trovava in Scozia nel momento di uno dei delitti, e a Sandringham quando ne vennero perpetrati altri. Ragioni ugualmente valide esistono per considerare estranei ai fatti certi tipi considerati sospetti, e che gli erano molto intimi: il suo amico James Stephen e il suo medico personale. Sir William Gull». «Hai fatto ricerche approfondite sull'argomento», bisbigliò Woods. «Non avevo la minima idea che tu fossi così erudito in materia». «Avevo i miei buoni motivi. Non intendevo rendermi ridicolo sostenendo una tesi insostenibile. Non credo affatto che lo Squartatore fosse un marinaio, come ha supposto qualcuno, perché una simile teoria non avrebbe alle spalle la più piccola evidenza. Non ritengo neanche che lo Squartatore fosse un macellaio, una levatrice, un maschio travestito da donna, oppure un poliziotto londinese. E ho i miei dubbi che sia esistito realmente un misterioso medico chiamato dottor Stanley, tutto teso a vendicarsi della donna che aveva infettato lui o suo figlio». «A quanto pare, ci sono molti medici tra le persone sospette», disse Wo-
ods. «Hai perfettamente ragione, e il motivo è ben preciso. Prova a considerare attentamente come avvenivano i delitti: rapida asportazione di organi vitali, eseguita da mani esperte nella quasi completa oscurità delle viuzze, sotto il costante pericolo di essere scoperto. Tutto ciò implica un professionista, esperto in anatomia, uno che abbia i nervi ben saldi di un chirurgo nel pieno esercizio della sua professione. C'è, inoltre, la faccenda che riusciva sempre a sfuggire alla polizia. È ovvio che lo Squartatore conosceva talmente alla perfezione i vicoletti e le viuzze traverse dell'East End da riuscire sempre a sgusciare tra i cordoni della polizia e le ronde, senza farsi scoprire. E in ogni caso, qualora fosse stato scoperto, chi avrebbe potuto vantare un alibi più perfetto di un rispettabile medico con la sua valigetta che correva per una chiamata di emergenza a tarda notte? «Una volta chiarito questo, mi sono messo alla ricerca e ho cominciato a esaminare gli elenchi di chirurghi del London Hospital di Whitechapel Road. Ho fatto passare tutti i nomi di medici e chirurghi che figuravano nell'elenco del Medical Registry in quel periodo». «Tutti quanti?». «Non è stato necessario. Sapevo bene cosa stavo cercando: un chirurgo che abitasse e praticasse proprio nella zona di Whitechapel. Quando mi è stato possibile, ho portato avanti un'ulteriore ricerca sulla vita dei miei sospetti, sugli ospedali e le cliniche in cui esercitavano, perfino sugli hobby, le attività marginali, ricavandoli dalle riviste mediche specializzate, dalle relazioni delle agenzie di stampa e dai documenti privati di famiglia. Naturalmente tutto questo mi ha richiesto un'enorme quantità di tempo e di pazienza. Ho dovuto combattere per ben cinque anni contro questo mulino a vento, prima di scovare il mio uomo». Woods gettò un'occhiata alla targhetta sulla valigetta. «J. Ridley, M.D.?». «John Ridley. Jack, per gli amici... Se ne aveva». Kane si fermò, soprappensiero. «Ma proprio qui sta il punto! Sembra che Ridley non abbia avuto amici, e nemmeno una famiglia. Orfano, si laureò a Edimburgo nel 1878, dieci anni prima della data degli assassinii. Mise su un ambulatorio qui a Londra, ma l'indirizzo non figura in nessuna lista. Allo stesso modo non esistono altre informazioni a suo riguardo. È come se si fosse premurato al massimo per far sparire ogni minimo dettaglio della sua vita privata. Logicamente proprio questo ha scatenato i miei sospetti. Per ben dieci anni J. Ridley è vissuto e ha praticato nell'East End, senza che mai il suo
nome figuri una sola volta nella stampa. Unica eccezione è il Registro Medico. E dopo il 1888, anche quella unica registrazione sparì». «Pensi che sia morto?». «Non c'è nessun necrologio agli atti». Woods scrollò le spalle. «Può darsi che abbia traslocato, che sia emigrato, che si sia ammalato, che abbia abbandonato la pratica medica». «Allora perché tanta segretezza? Perché tener nascosto dove stava? Ti rendi conto? È stata appunto l'assenza di dettagli così usuali che mi ha spinto a sospettare lo straordinario». «Ma l'evidenza dov'è? Non esiste nessuna prova che il tuo dottor Ridley fosse lo Squartatore». «Ecco appunto perché è così importante questa». E Kane indicò la valigetta appoggiata sul tavolo. «Se ne conoscessimo la storia, da dove viene...». Mentre diceva così, Kane allungò una mano e prese dal tavolo un tagliatore d'ottone; quindi si accostò alla valigetta. «Aspetta». Woods afferrò Kane per una spalla, trattenendolo. «Può darsi che non sia affatto necessario». «Cosa vuoi dire?». «Ritengo che il negoziante stesse mentendo. Sapeva bene quello che c'era nella valigetta, senza dubbio; doveva saperlo, altrimenti perché mai avrebbe fissato un prezzo così ridicolo? Logico! Non avrebbe mai creduto che tu l'avresti comperata lo stesso. Non c'è assolutamente bisogno che tu forzi la serratura, non più di quanto ne avesse bisogno lui. La mia idea è che quello là la chiave ce l'abbia, e come». «Hai ragione». Kane mise giù il tagliacarte. «Me ne sarei reso conto anch'io se mi fossi preso la briga e il tempo di riflettere sulla sua reticenza. Una chiave deve avercela!». Sollevò la valigetta, tutta scintillante, e la fece girare. «Andiamo. Ritorniamo da lui prima che chiuda il negozio. Questa volta non ha scusanti per mandarci via». Era sceso il crepuscolo, mentre Kane e il suo compagno si affrettavano lungo le viuzze; e l'oscurità strisciava nel silenzio deserto di Saxe-Coburg Square, quando arrivarono. Allora si fermarono, scrutando in mezzo alle ombre, cercando il buco dov'era annidato il negozio, tra i due palazzoni residenziali che si intravvedevano a distanza sui due fianchi. Lì le ombre erano più fitte. Avanzarono tenendosi stretti stretti. Niente. Tra le due costruzioni c'era solo uno squar-
cio vuoto. La bottega era sparita. Woods sbatté le palpebre, poi si girò e gesticolò rivolto a Kane. «Ma eravamo qui... L'abbiamo vista...». Kane non rispose. Stava fissando intensamente la porzione di spazio compresa fra i due edifici, sporca e coperta di pietrisco. Le erbacce che spuntavano dalla terra nuda. Un gelido vento notturno echeggiava nello squarcio. Kane si chinò e lasciò scivolare tra le dita una manciata di polvere. Era gelida, come quel vento che sollevava mulinelli di finissimi granelli di polvere dalla sua mano e li soffiava via nell'oscurità. «Ma cos'è successo?», stava bisbigliando Woods. «È mai possibile che abbiamo sognato in due?». Kane si alzò in piedi e squadrò l'amico. «Questo non è sogno», disse, riportando la sua attenzione sulla valigetta. «Allora?». «Non so». Kane aggrottò le ciglia, pensieroso. «Comunque c'è un solo posto dove potremmo eventualmente trovare una risposta». «E dove?». «Sul Registro Medico, all'anno 1888, c'è l'indirizzo di John Ridley: Dorcas Lane, 17». Il taxi che li portò a Dorcas Lane non poté entrare in quella viuzza strettissima. Il vicoletto oscuro era silente e deserto, ma Kane vi si tuffò senza esitazione, attraversando l'oscuro passaggio, in mezzo a massicce file di mattoni lerci. Nel passare sui ciottoli, a Woods parve di venir trascinato in un'altra èra, eppure Kane avanzava svelto e risoluto. Chiese: «Sei già stato qui un'altra volta?». «Naturalmente». Kane si arrestò davanti all'ingresso non illuminato del numero 17, e bussò. La porta si aprì, non completamente, ma abbastanza per permettere a chi ci stava dietro di sbirciare fuori. Sguardo e saluti furono ambedue circospetti. «Che volete?». Kane si fece avanti nel ventaglio di luce che proveniva dalla porta parzialmente aperta. «Buona sera. Si ricorda di me?». «Sì». La porta si aprì un briciolino di più, e Woods poté scorgere la tozza ombra di una donna di mezza età che faceva cenno di sì al suo compagno. «È quello che ha affittato il retro queste ultime feste, no?».
«Precisamente. Mi stavo chiedendo se potrei averlo di nuovo». «Veramente non lo so». La donna lanciò un'occhiata a Woods. «Solo per poche ore». Kane tirò fuori il portafogli. «Io e il mio amico dovremmo discutere di affari». «Affari, eh?». Woods avvertì la valutazione poco lusinghiera degli occhi, piccoli e lustri, dell'affittacamere. «Vi costerà cinque sterline». «Eccole». Una mano si allungò ad afferrare la banconota. Poi la porta si aprì completamente, rivelando una stanza squallida e, in fondo, le scale. «Fate attenzione ai gradini», disse l'affittacamere. La scala era ripida e la donna aveva il fiatone quando arrivarono al piano superiore. Li accompagnò lungo il corridoio scricchiolante sino alla porta in fondo. Intanto cercò nervosamente a tastoni la chiave nella tasca del grembiule. «Eccoci arrivati». La porta si aprì su un'oscurità stantìa, vagamente attutita, quando la donna girò l'interruttore, dalla scarna luce che proveniva dalla lampadina sul soffitto. L'affittacamere si rivolse a Kane. «Questa camera non l'affitto più come alloggio. Non è attrezzata come si deve». «Va benissimo com'è». Kane sorrise, la mano sulla porta. «Se vi serve qualcosa, meglio dirmelo subito. Devo assentarmi per un po': la mia vicina è ammalata». «Sono sicuro che ci arrangeremo». Kane chiuse la porta, poi rimase in ascolto per un attimo, finché il rumore dei passi dell'affittacamere si allontanò giù, fin nella stanza da basso. Poi disse; «Bene. Cosa ne pensi?». Woods ispezionò la stanza malandata, con quella sua unica finestra incorniciata da tendine giallastre. Notò il tappeto sbiadito sul quale il disegno era pressoché sparito; il piano consunto e scheggiato del massiccio scrittoio e la pesante poltrona; il letto in ottone su cui poggiava una coperta tutta rattoppata; la cavità, a forma di ceppo, per il gas nel caminetto incorniciato da una mensola di marmo tutta crepe, e il lavabo nell'angolo, ugualmente tutto crepato. «Penso che devi aver perso la testa», disse Woods. «Ho capito bene? Eri già stato qui, prima d'ora?». «Esatto. Sono venuto diversi mesi fa, subito dopo aver trovato l'indirizzo nel Registro. Avevo bisogno di dare un'occhiata in giro». Woods arricciò il naso. «Più che vedere, qui c'è da annusare».
«Usa l'immaginazione. Non significa niente, per te, il fatto di trovarti nell'autentica stanza dove una volta abitava Jack lo Squartatore?». Woods scosse il capo. «In questa vecchia baracca ci devono essere decine di stanze che vengono date in affitto. Cosa ti fa pensare che sia questa quella giusta?». «Il registro specificava: "retro". Ora, dabbasso non c'è nessun retro; c'è la cucina. Per cui il posto giusto deve per forza essere questo». Kane gesticolava. «Pensa un po': stai osservando il lavandino autentico dove lo Squartatore si toglieva le tracce del suo lavoretto da macellaio; il letto nel quale dormiva dopo aver portato a termine le sue losche imprese! Chissà quali spettacoli questa stanza ha visto, la voce che urlava in un incubo agitato...». «Dacci un taglio, Hilary!». Woods, impaziente, fece una smorfia. «Una cosa è usare la fantasia, un'altra, completamente diversa, lasciare che la fantasia usi te». «Guarda». Kane indicò l'angolino all'estremità opposta della stanza. «Vedi quelle dentellature nel tappeto? Le ho notate quando ho esaminato attentamente questa stanza, l'altra volta. Che cosa ti fanno venire in mente?». Woods scrutò con deferenza la superficie sciupata del tappeto, notando le quattro tacche rotonde, regolarmente distanziate. «In quell'angolo doveva esserci un altro mobile. Qualcosa di pesante, direi». «Ma che genere di mobile?». «Be'...». Woods rifletté. «A giudicare dallo spazio, non si trattava né di un sofà né di una seggiola. Potrebbe essere stato un armadietto, forse un grande scrittoio...». «Esatto. Uno scrittoio di quelli con la parte superiore che scivola via arrotolandosi. A quei tempi ogni dottore ne aveva uno». Kane sospirò. «Darei non so cosa per sapere dov'è andato a finire. Potrebbe darsi che lì ci sia la risposta a tutti i nostri problemi». «Dopo tutti questi anni? Molto improbabile». Woods distolse lo sguardo. «Non hai scoperto nient'altro?». «Purtroppo no. Come hai detto tu, è passato un mucchio di tempo da quando lo Squartatore abitava qui». «Non ho detto così». Woods scrollò la testa. «Devi aver ragione per quel che riguarda lo scrittoio. E non ci possono essere dubbi che il Registro Medico dia un indirizzo esatto. Ma tutto questo sta a indicare soltanto che questa stanza può essere stata affittata, un tempo, da un certo dottor John
Ridley. L'avevi già ispezionata una volta... Perché preoccuparti di ritornarci?». «Perché adesso ho questa». Kane mise la valigetta nera sul letto. «E questo». Tirò fuori un coltello da tasca. «Allora hai proprio intenzione di forzare la serratura?». «In mancanza di una chiave, non mi restano altre alternative». Kane incastrò la lama sotto la placca metallica e cominciò a far leva verso l'alto. «È importante che la cassetta venga aperta qui. Qualunque cosa contenga, è strettamente legata a questa stanza. Se riusciamo a scoprire la connessione, potremmo avere un'ulteriore traccia, un anello determinante...». La serratura si aprì di colpo. Quando la valigetta si spalancò, i due uomini sgranarono tanto d'occhi sul suo contenuto: un guazzabuglio di fiale e di scatolette per pillole, un goffo stetoscopio vecchio tipo, provette e pinzette, rotoli di garza. E, in cima a tutto, il bisturi con la lama d'acciaio temprato, incrostata di macchie scure. Erano ancora lì con gli occhi sgranati quando la porta si aprì silenziosamente dietro di loro ed entrò nella stanza l'omino pelato, anzianotto. «Vedo che le mie congetture erano esatte, signori. Anche voi avete letto il Registro Medico». Annuì. «Speravo proprio di trovarvi qui». Kane corrugò la fronte. «Cosa vuole?». «Spiacente, ma devo importunarvi per la mia valigetta». «Ma adesso è mia! L'ho comprata!». L'omino sospirò. «È vero. Sono stato pazzo a permettere una cosa simile. Facendole quel prezzo pensavo di dissuaderla. Come facevo a sapere che lei era un collezionista come me?». «Collezionista?». «Sì, di curiosità che si riferiscono a omicidi». L'omino sorrise. «Peccato che non possiate vedere qualcuna delle meraviglie che mi sono procurato. Non i soliti oggetti messi insieme nel vostro cosiddetto Museo Nero a Scotland Yard, ma vere rarità, pregnanti di significato storico». Gesticolava. «L'orciolo in argento nel quale la famosissima strega francese La Voisin conservava i suoi unguenti velenosi; i pugnali originali con cui furono uccisi, nella Torre, gli sfortunati nipoti di Riccardo III; sì, perfino l'arma responsabile dell'atroce morte di Edoardo II nel Castello di Berkeley la notte del 21 settembre 1327. Mi ci è voluto parecchia fatica per individuarla, finché non mi resi conto che la data era calcolata secondo il vecchio calendario giuliano».
Kane aggrottò la fronte, impaziente. «Ma lei chi è? Cos'è successo a quella sua bottega?». «Il mio nome non avrebbe alcun senso per voi. Quanto alla bottega, diciamo che esiste solo se la faccio esistere io, nello spazio e nel tempo, quando e dove serve ai miei scopi. Secondo la vostra attuale, limitata capacità di comprendere, potreste chiamarla una specie di macchina del tempo». Woods scrollò la testa. «Sta dicendo parole senza senso». «Eh, no! Un senso ce l'hanno, e molto profondo! Altrimenti, come pensate che avrei potuto portar avanti quello che mi sta tanto a cuore, con risultati così soddisfacenti, se non fossi libero di viaggiare nel tempo? È così che io mi diverto, ritornando in certe epoche di questo vostro passato primitivo, visitando le scene di delitti famosi e infami, individuando trofei per la mia collezione. «Naturalmente il negozio non è altro che uno strumento di cui mi sono servito come pretesto per questa missione. Adesso è sparito, e anch'io sparirò appena recuperato ciò che mi appartiene. Si dà il caso che sia il souvenir di uno dei delitti più insoliti». Kane si rivolse a Woods. «Vedi? Te l'avevo detto che questa valigetta apparteneva allo Squartatore!». «Nient'affatto», disse l'omino. «L'arma di cui si serviva lo Squartatore ce l'ho già: l'ho ricuperata direttamente dopo l'assassinio della sua ultima vittima, il 9 novembre 1888. E posso garantirvi che il vostro dottor Ridley non era affatto Jack lo Squartatore, ma puramente e semplicemente un chirurgo eccentrico...». Mentre parlava si era accostato al bordo del letto. «Lei non può!». Kane si girò per bloccarlo, ma lui aveva già preso la valigetta. «La lasci andare!», urlò Kane. L'omino cercò di strappargliela, ma la mano di Kane calò giù improvvisamente e freneticamente nella valigetta aperta e artigliò qualcosa. Poi si alzò, stringendo convulsamente il bisturi. L'omino strappò via la valigetta. Si tirò indietro, stringendola convulsamente, mentre Kane gli si buttava addosso come una furia scatenata. «Basta!», urlò Woods. Si proiettò in avanti e si intromise fra i due uomini, proprio sulla traiettoria del bisturi, che stava calando. Quando cadde a terra, ci fu un gorgoglio, poi un tonfo sordo. Il bisturi risuonò sul pavimento, schizzando via dalle dita inerti di Kane e andandosi a fermare in mezzo alla macchia rosso cremisi, che stava colando e allar-
gandosi. L'omino si chinò e raccolse il bisturi. «Grazie», disse dolcemente. «Mi ha procurato quello che ero venuto a cercare». Lasciò cadere l'arma nella valigetta. Poi fu avvolto da una luce. Fu avvolto da una luce... e sparì. Ma il corpo di Woods, quello non sparì. Kane lo guardava con gli occhi sbarrati... Guardava quella gola squarciata. Stava ancora guardandolo, quando vennero a portarlo via. Naturalmente il processo fece epoca. Non fu altrettanto sensazionale, invece, la storia pazzesca raccontata da Kane, per il semplice fatto che nessuno riuscì mai a trovare l'arma del delitto. Fu proprio un delitto insolito... Huzdra TANITH LEE Il primo romanzo di fantascienza di Tanith Lee, The Birthgrave, ha suscitato tanto interesse da porre automaticamente la scrittrice nel rango dei «grandi». Le attese sono state confermate dai suoi romanzi successivi, tutti pubblicati dalla DAW Books: Don't Bite the Sun, The Storm Lord e Drinking Sapphire Wine. Questo suo nuovo racconto parla di una maledizione che è sul punto di estinguersi, e delle vittime predestinate che sembrano sfuggirle con estrema intelligenza. Era la vigilia di Natale. Il tramonto. Mirromi dai capelli corvini, moglie del conte Fedesha, sedette di fronte alla finestra che, nella grande casa, dava ad oriente. Come sempre si era seduta davanti alla medesima finestra, alla medesima ora, nello stesso identico giorno, per gli ultimi sei anni. La finestra era tutta formata di riquadri di vetro, azzurri e rosso-azzurri, alternati. Tutti, eccetto un singolo riquadro, trasparente, attraverso il quale Mirromi stava appunto guardando. Quel pannello, infatti, era una lente di cristallo a fortissimo ingrandimento, tale da fornire una vista perfetta nei minimi dettagli della campagna innevata oltre le mura, e della strada principale che l'attraversava, come pure di tutto quanto il traffico che vi scorreva. E, alla vigilia di Natale, c'era un traffico notevole, e tutto in un'unica di-
rezione: verso nord, verso la città, per la festa. Il sole era quasi tramontato e la neve stava assumendo una colorazione cupa, plumbea. Eppure si vedevano ancora correre sulla strada carri, e un paio di carrozze di ricchi signori con lacchè. La contessa Mirromi aguzzò la vista, come faceva sempre a quel punto, quando il sole invernale rosa pallido era ormai lì lì per scomparire dietro l'orizzonte. Le carrozze passarono oltre, i carri svanirono sulle loro ruote di ferro. La strada, per un istante, fu deserta. Poi (e questo strappò un sorriso a Mirromi), poi apparvero due figure. Quella più grande era un uomo, che camminava lento ma risoluto; portava tra le braccia una giovane ragazza, tutta infagottata. Mirromi si alzò. Non occorreva più che continuasse a guardare. Com'era già successo negli ultimi sei anni, la sua astuzia e la sua magia non l'avevano ingannata. Non si stupiva certo della sua maestria, ma le faceva pur sempre piacere averne una prova così tangibile. I capelli della contessa Mirromi, sotto la reticella di gioielli, erano neri come il carbone; il suo abito di velluto, sotto il pesante ricamo in oro, era ancor più nero. E più neri dei capelli e dell'abito erano il suo cuore, la sua anima e la sua mente. C'era un sentiero che correva dalla strada maestra fino alle mura della grande casa. L'uomo e la ragazza ch'egli portava in braccio imboccarono quel sentiero senza un attimo di incertezza, quasi avessero un invito ben preciso o vi fossero stati chiamati. Nelle mura si apriva una grande cancellata, che si spalancò con un rumore stridulo all'avvicinarsi dei viaggiatori. Non si vedeva però chi o che cosa l'avesse aperta. Al di là delle mura c'era un giardino sinistro. Veramente, più che un giardino pareva un camposanto, con tipiche sculture che fuoriuscivano dalla neve, e un viale di cipressi frangiati di bianco, che conduceva dritto dritto alla grande casa. La casa stessa, poi, era un bizzarro amalgama di tetti rastremati, e di piani sporgenti, con tre torri smilze, una delle quali, orientata a est, aveva un'enorme finestra piantata là in mezzo, tutta fatta di riquadri azzurri e rosso-azzurri. L'uomo e la ragazza avanzarono. Arrivati alla porta, e visto che non si apriva da sola, l'uomo bussò con il battaglio. Questo battaglio aveva la forma di una testa di bambino con le orecchie da coniglio. Un oggetto stupido, oltre che piuttosto agghiacciante, soprattutto se osservavate attentamente il volto del bambino, quel sogghigno malevolo con quei denti pun-
tuti da carnivoro. La ragazza appoggiò la testa sulla spalla dell'uomo, quasi fosse terribilmente stanca. L'uomo, imperturbabile, attese una risposta al suo bussare. Era un tipo assolutamente insignificante, se si eccettuavano l'enorme corporatura e l'evidente forza. Il volto era bruciato dal vento e macerato dalle intemperie, per cui dava l'impressione di aver slavato la pelle e gli abiti e i capelli in un'unica tinta d'un uniforme colore grigiastro. Gli occhi erano enormi e pallidi, privi di quella forza che sprigionava da tutto il corpo. Fissava, infatti, le cose con sguardo ottuso e incerto. La ragazza era tutta diversa. Anche lei era avvolta negli indumenti grigi dei poveri, ma la sua bella pelle era deliziosamente candida, quasi diafana, come quella della figlia di un ricco; una pelle accuratamente tenuta a lungo lontana dai raggi del sole. E i capelli erano una meravigliosa, morbida pallida sfumatura di biondo rossiccio. La porta venne spalancata di colpo. Oltre la soglia si intravvedeva un uomo grosso, dalla barba nera. Indossava un abito di velluto scarlatto cupo, con anelli e collane d'oro, e una perla all'orecchio sinistro. Scoppiò a ridere fragorosamente in faccia ai due visitatori. «Entrate, non allarmatevi. È vero che vi aspettavate un servitore, non il padrone di casa. Sono il conte Fedesha. Benvenuti nella mia dimora, in questa notte della vigilia di Natale». «Signore, siamo viaggiatori sfortunati», disse l'uomo grosso che stava fuori. «Eravamo in viaggio verso la città per la festa ma ci è successo un fatto strano. Mentre il sole volgeva al tramonto, passammo in mezzo a due vecchi alberi rinsecchiti che si trovavano sui due lati della strada, e, nell'attimo stesso in cui l'ombra dell'albero a occidente cadde su di noi, il nostro povero, misero cavallo cadde a terra morto fulminato. Naturalmente un carro non serve a niente senza un cavallo che lo tiri, per cui fummo obbligati a piantarlo lì dove si trovava, per andare a cercare aiuto. La vostra era la casa più vicina alla strada. Ma è così bella che quasi non avevo il coraggio di avvicinarmi. Eppure ho pensato che, forse, grazie alla vostra generosità, avreste potuto mandarci uno staffiere per darci una mano. Mia sorella è sciancata, signore», aggiunse quasi per scusarsi. «L'ho portata sulle braccia per tutto questo tratto». «Ma mi dica», intervenne il conte, sempre straordinariamente gioviale, «non avete visto nessun altro per la strada che potesse aiutarvi?». «Veramente sì», rispose l'uomo, con aria ottusa, imbarazzata, «parecchia
gente, e li abbiamo chiamati, ma non si è fermato nessuno. Forse ci ritenevano dei briganti. Ma pareva quasi che non ci vedessero affatto, proprio come se fossimo diventati invisibili. Ci mancò poco che una carrozza mi buttasse a terra. Non so che dire, signore. Una cosa stranissima». Il conte Fedesha scoppiò a ridere, o, meglio, uscì in risatine soffocate. Allungò una mano e diede un buffetto sotto il mento alla bellissima ragazza sciancata, stanca. «Dei capelli così belli», disse, «non dovrebbero stare al freddo». Li fece entrare. C'era una vasta sala, sostenuta da pilastri di pietra e tappezzata con arazzi tessuti in oro che scintillavano alla luce di un grande focolare; moltissime candele illuminavano la stanza, dove non arrivava la luce del focolare stesso. Davanti al focolare c'era una pelliccia d'orso bianco con tanto di testa, e rubini negli occhi. Appena al di là, vicino al centro della stanza, c'era nel pavimento un mosaico, uno strano disegno di cerchi e stelle, e i dodici segni dello zodiaco. «Prego, metta sua sorella sulla sedia accanto al fuoco, signore. Lei si accomodi sull'altra», esclamò il conte Fedesha. «Lei, signore, è troppo gentile», balbettò l'omone. «Ma non è niente. Stanotte è la vigilia della festa, il ritorno della Vecchia Bestia, L'Inverno. Se non siamo gentili tra noi in una notte simile! Là, faccia accomodare là la ragazza; vado a prendervi del vino». Il conte Fedesha, con la mano inanellata, indicò un tavolo vicino al focolare. «Desiderate vino bianco in boccali d'argento o vino rosato in boccali d'oro? O magari preferite del liquore delle Westlands? O un po' di cordiale alle albicocche, in quella bottiglia gialla? Forse», aggiunse il conte, «vi sorprenderà che sia io a servirvi; ma sia io che la contessa siamo abituati a lasciar libera la servitù di andarsene in città per la notte della vigilia del Natale. Così possono godersi la festa, capisce». L'omone aveva depositato il fardello sulla poltrona. La ragazza sospirò e gli rivolse un largo sorriso. Sorrise pure al conte che le offriva una coppa di cordiale. Quegli occhi, osservò il conte, avevano una sfumatura ambrata, come i capelli. Era proprio un peccato... Ma erano considerazioni da pazzi! Anche se la sua innocenza e la sua grazia erano tanto affascinanti, non c'era tempo per stare a trastullarsi. Il conte Fedesha offrì all'omone del liquore e lo fece accomodare sull'altra seggiola. «Sono spiacente di non poter mandar nessuno a riprendere il vostro car-
ro prima di domani, quando ritorneranno i servitori», proseguì il conte. «Però questa notte sarete nostri ospiti, mangerete bene e dormirete comodamente». L'omone lo guardò a bocca aperta. Reagivano sempre così, certe volte anche le donne. Di solito, comunque, le donne si fidavano più degli uomini e si mostravano più avide di gustare, fosse pure per un attimo, un elevato tenore di vita. Qualcuna aveva sbandierato sorrisi ammaliatori all'indirizzo del conte, nella speranza di prolungare ancora la permanenza al castello. Il conte Fedesha li osservò bere dalle coppe. Tutto stava andando a gonfie vele, e da questo momento sarebbe andato tutto ancor meglio, grazie all'oscuro infuso che Mirromi aveva abilmente versato nelle coppe. Ma erano ormai sei anni che andava sempre tutto benissimo. Questo era il settimo anno, la settima e ultima occasione; l'ultima occasione, se l'astuta Mirromi non sbagliava... E quando mai si era sbagliata? E questa era la settima coppia di viaggiatori trascinati lì dagli incantesimi lasciati sulla strada da Mirromi, per tendere loro un agguato. Al conte Fedesha ritornò alla mente la prima volta, sette anni prima. Quanta paura aveva avuto! Si era sentito rodere vivo dal terrore. Mirromi, invece, era salita sulla Torre Terziaria, e quando era ritornata, sorrideva. Avanti l'alba della vigilia di Natale, era sgusciata fuori e aveva impresso i simboli occulti sui due alberi morti, mezzo miglio più in là. Aveva poi lanciato le sue potenti stregonerie sulla strada maestra, sul sentiero, sui muri della casa, sulle porte. E, da allora, Mirromi aveva sempre riattivato, ogni anno, i sortilegi in quella cupa notte della vigilia di Natale. Abili, fantastici sortilegi, capaci di selezionare solo due viaggiatori, un uomo e una donna; di provocare loro qualche incidente: una ruota che saltava via, un cavallo che moriva; capaci di esercitare su di loro un influsso tale da spingere i due eletti verso la grande casa, renderli nel frattempo completamente invisibili, inaudibili e impalpabili per chiunque passasse da quelle parti, e che fosse comunque in grado di aiutarli. Mirromi e lui, pensò il conte Fedesha, erano veramente una coppia geniale. Meritavano di vincere. Eppure, era un vero peccato che quella ragazza fosse così bella. Non era ordinaria come tutte le altre, per niente. Non era per niente il solito tipo di contadinotta, anche se il fratello era tanto rozzo e già pronto per l'uso, nell'attimo stesso in cui erano arrivati. Il conte ridacchiò di nuovo, in sordina, mentre sorseggiava il suo vino. Strano che gli fosse tornato in mente quanta paura aveva provato all'inizio, sette anni prima. Ed eccolo qui, quasi soddisfatto!
Ora era giunto il momento di dare un nome. Nessuno dei suoi ospiti gli aveva ancora detto come si chiamasse. La ragazza era troppo timida, l'uomo troppo confuso. E se ci avessero anche solo provato, Fedesha li avrebbe prevenuti. Era importante ignorare completamente i loro veri nomi. Così, in attesa e in funzione del momento in cui l'atmosfera sarebbe mutata, Fedesha avrebbe dato loro nomi finti. Avendo bevuto l'infuso stregato e, in ogni caso, troppo impauriti e vogliosi di piacere, i viaggiatori accettavano sempre quei titoli. E tra quelli da lui inventati in passato alcuni erano stati proprio maligni: «Primula» per la donna con la pelle d'un giallo olivastro; «Cammello» per l'uomo con la gobba; «Vampiro» per quell'uomo che recava in bocca soltanto tre denti neri. Il conte esaminò attentamente i suoi ospiti, poi disse: «Amico mio, la chiamerò "Svelto", perché lei si muove così velocemente. Spero che la mia stravaganza non le dia fastidio». L'omone uscì in un sogghigno timido e ottuso. Ovviamente aveva afferrato soltanto il nocciolo dello scherzo, con la tipica mancanza di risentimento del vero contadino. Per la ragazza trovare un nome fu facile, e, una volta tanto, era complimentoso. «La bella signora la chiamerò "Ambra", per il colore dei suoi occhi e dei suoi capelli». La ragazza abbassò gli occhi. Parve arrossire, però poteva essere soltanto il riverbero del caminetto sul suo pallido volto. Il conte si chiese, pigramente, se era stata sciancata fin dalla nascita, o se il difetto era dovuto a qualche disgrazia successiva. Probabilmente aveva la spina dorsale debole, disturbo piuttosto frequente tra i poveri, come conseguenza di un'infanzia malnutrita. Una porta si aprì dietro un arazzo. Il conte udì il rumore dei passi della contessa sul pavimento a mosaico, e si girò ad ammirarla, tutta scintillante nei suoi abiti nero-e-oro, con i capelli corvini che si riversavano in una reticella di gioielli. Al centro della sua candida fronte pendeva uno scarabeo di giada nera incastonato in argento. Gli tornò in mente come Mirromi, per avere quel gioiello, avesse mandato un dèmone a depredare la tomba di una regina morta. «Ah! I viaggiatori in difficoltà», esclamò Mirromi. Arrivati a questo punto, in passato, nessuno aveva mai chiesto, e non lo fecero neppure questi due, come mai la contessa fosse così bene informata di ogni minimo particolare, senza che le fosse stato riferito. «Che simpatico avere degli ospiti questa notte, anche se tutti i servi sono fuori!». Erano stati quanto mai fortunati che, la notte nella quale tutto aveva pre-
so inizio, tra tutte le notti dell'anno, fosse proprio quella notte. Quale scusa migliore ci poteva essere del dire che un padrone e una padrona accondiscendenti avevano mandato la servitù in città per la festa? Quando invece, logicamente, erano fuggiti via, e nessuna promessa di ricompensa o minaccia di castigo sarebbero mai riusciti a persuaderli a fermarsi lì per la notte della vigilia di Natale. Di colpo Fedesha udì il rumore. Nonostante si fosse sentito tanto soddisfatto, e ne avesse tanto esultato dentro di sé, per un istante si sentì raggelare da un ritorno di paura. Anche Mirromi si bloccò, immobile come una pietra, gli occhi dardeggianti. Quanto all'omone, quello che Fedesha aveva soprannominato Svelto, sollevò lentamente la testa irsuta e guardò fisso in giro, tutto imbarazzato. Poi la ragazza ambrata gettò un urlo acutissimo. L'omone le si fece vicino. «Non aver paura». La ragazza si aggrappò convulsamente alle sue mani. Aveva, però, gli occhi fissi su Fedesha. «Era una mosca, un'enorme mosca nera!». Era la prima volta che parlava. La sua voce, pensò Fedesha, non era così bella come tutto il resto: fiacca, ansata, un poco piatta, pure in quell'attimo di panico puro. «Sì, certe volte, qui, ci sono delle mosche, anche d'inverno», cercò di blandirla. «Hanno il nido nelle fenditure della casa, e il caldo del focolare le fa uscire». Buzz. Buzz. La mosca, grande quanto il gioiello a forma di scarabeo che Mirromi aveva rubato dalla tomba della regina, strisciò lungo il caminetto, e le fiamme occhieggiavano sulle sue ali lubriche. Pareva incurante di tutto: della stagione, del caldo del focolare, e del lungo movimento in avanti che il viaggiatore fece per pestarla. «No!», urlò Fedesha. Trascinò via l'omone dal focolare, e la mosca mostruosa ronzò via verso l'alto, verso i travetti della sala, immersi nell'ombra, e il suo ronzio se ne andò con lei. Mirromi disse, dolcemente, quasi per chiedere comprensione: «Perdonateci. Pensiamo che porti sfortuna uccidere le mosche la vigilia di Natale». Quando ebbero bevuto assieme, la contessa e il conte, ospiti generosi, li condussero al piano superiore, attraverso un corridoio dove, dietro porte di mogano, si aprivano splendide camere da letto. «Questa camera è per lei, signora Ambra», disse la contessa, facendo
cenno al fratello di portar dentro la ragazza. Anche questa volta (come sempre a quel punto) la ragazza sgranò gli occhi. Il volto era tutto pieno di stupore, come quello di un bambino. Le candide candele oleose facevano scintillare i ricami di seta del letto; il copriletto era di velluto ornato di code d'ermellino. Impossibile guardare fuori attraverso la finestra ovale, perché era un quadro in vetro colorato, rappresentante una fanciulla che raccoglieva un frutto rosso da un albero verde. Portava una cintura strana, quasi un topo d'oro enormemente stiracchiato. Sparsi qua e là, vassoietti in ceramica contenenti sostanze aromatiche, azzurre e color lavanda, spargevano un delizioso profumo. «Qui c'è una bacinella in argento; l'acqua è ancora calda e profumata di petali di violetta», aggiunse la contessa. «E qui», e spalancò un armadietto, «qui c'è un vestito che dovrà indossare questa notte». A questo punto i due fratelli notarono un'altra stranezza. Nell'armadietto erano appesi sei o sette abiti in velluto nero, pesantemente ricamati in oro. Ciascun abito era di una diversa taglia: uno sarebbe andato a pennello a una donna grassa, e un altro a una tutta pelle e ossa. Uno era proprio quello giusto per la snella ragazza sciancata. E, per di più, ognuno di quegli abiti era l'esatta riproduzione dell'abito che indossava la contessa. La ragazza mormorò: «Signora, è troppo bello. E certo...». «Non dica sciocchezze», replicò la contessa. «Ha pienamente ragione se vuol riferirsi alla rassomiglianza con i miei abiti. Deve concederci queste eccentricità, tesoro, veramente deve farlo. E poi, che male c'è se lei fa la contessa, per una notte? Le darò addirittura i miei gioielli per adattarli all'abito, e perfino il mio scarabeo nero, perché lo porti sulla fronte». L'omone aveva sistemato la sorella sullo scranno ricoperto in pelliccia, davanti al caminetto della camera da letto. Eppure la ragazza adesso aveva dei brividi. Comunque non oppose resistenza. La contessa sorrideva, sorrideva. «Sarò addirittura io a vestirla». «No, signora», intervenne il fratello della ragazza. «Questo posso farlo io. Sono abituato ad aiutarla». Si avvicinò alla contessa e le parlò sottovoce: «Non le piace che altri la vedano. È schiva, perché è sciancata». «Ah! Va bene», disse la contessa, come se gli concedesse un enorme favore. «Ma ricordi che la sua camera è la porta appena dopo questa, e che là ci sono degli abiti in velluto rosso, uno dei quali le sta a pennello. Se, infatti, la sua ambrata sorellina farà da contessa per la nostra festa della vigilia di Natale, lei farà da conte». «E perché?», chiese l'omone, titubante.
«E perché no, scusi?», chiese Mirromi. «Vieni», aggiunse, rivolta al marito che aveva ricominciato a ridacchiare. «Da' a padron Svelto il tuo collare e i tuoi anelli, così poi lasceremo soli i nostri ospiti. Sarò di ritorno tra una mezz'ora per portarvi a cena», mormorò, mentre metteva tra le mani impacciate ma sottomesse di Svelto i gioielli di Fedesha. Il conte e la contessa uscirono e chiusero la pesante porta. Proprio in fondo al corridoio una scalinata di cinquanta gradini portava in un'altra stanza, tappezzata, questa, in seta nera e con una finestra dai vetri a riquadri azzurri e azzurro-rossi: la finestra rivolta ad oriente della Torre Terziaria. La contessa scostò, sulla parete, un arazzo e scoprì due spie rotonde, fornite di lenti di ingrandimento. Mediante tubi abilmente angolati, in cui erano stati collocati specchi nei punti appropriati, quelle spie permettevano di vedere perfettamente all'interno della lussuosa camera da letto che la contessa Mirromi aveva assegnato alla ragazza sciancata. Un condotto analogo, una volta aperte le valvole di amplificazione, permetteva di ascoltare qualsiasi conversazione si svolgesse nella stanza stessa. La contessa e il conte accostarono gli occhi alle lenti, osservarono e ascoltarono. La ragazza e il fratello, obbedienti grazie all'effetto delle droghe, avevano già indossato le riproduzioni in velluto degli abiti dei loro anfitrioni. In quel momento Ambra era seduta sul letto in atteggiamento malinconico. Il fratello, Svelto, era in piedi davanti al caminetto. «Ho paura», scoppiò a dire la ragazza. «Non potremmo andarcene via prima che tornino? È così una gran dama, vero. Ma si comporta in un modo così strano. Ho paura!». «Sì, è vero», concesse il fratello. «Ma non mi preoccupa. Forse, come hanno detto anche loro, è soltanto una burla, uno scherzetto concepito per festeggiare la vigilia di Natale, anche se i potenti di solito non sono tanto delicati verso la gente come noi. Inoltre, se hanno intenzione di farci del male, andremmo certo poco lontano, visto che devo portarti in braccio. E anche se sono forte, sorellina mia, non sono svelto e neppure tanto furbo. Supponi poi che abbiano delle guardie, qui, nascoste da qualche parte. È un palazzo enorme. Chissà!». La ragazza nascose la faccia tra le mani e scoppiò a piangere. Mormorò: «Allora vattene senza di me. Lo so bene che ti sarei d'impiccio. Preferisco soffrire io, piuttosto che facciano del male a te». L'omone le si inginocchiò vicino e le diede qualche pacca sulla schiena con dolce goffaggine.
«Su, dai, non piangere. Come potrei andarmene via? Tu sei tutto quello che ho nella vita, sorellina. Inoltre, ed è la verità, ritengo di dover rimanere. Forse siamo vittime di un incantesimo». Una mosca enorme volava sinistramente nelle stanze, lungo i corridoi e le scale della grande casa. L'aria vibrava del suo ronzio. Il conte e la contessa, però, vi fecero ben poco caso, mentre si vestivano di stracci per la cena. Svelto portò Ambra nella sala, preceduto dalla contessa, che adesso indossava, in netto contrasto con l'eleganza dei suoi ospiti, un abito grigio informe, rozzi zoccoli e ruvide calze. I capelli corvini erano raccolti in una fascia tutta sfilacciata. Quelli di Ambra avvampavano sotto la rete di gemme in cui la contessa li aveva raccolti. Sulla fronte le pendeva lo scarabeo di giada nera. Accanto al caminetto, sopra il disegno dello zodiaco, era stata allestita una lunga tavola. A un'estremità erano stati apparecchiati due posti con piatti d'argento e coppe di cristallo purissimo. Davanti a quei due posti c'erano diversi tipi di arrosti, in abbondanza; verdure e salse, mucchi di costosi frutti invernali, dolciumi e frutta candita, e innumerevoli boccali e bottiglie di liquore. Dall'altra parte della tavola c'era un paio di piatti di terraglia e due bicchieroni, una brocca di birra e una di acqua, e una pagnotta di grossolano pane nero. Il conte, vestito da cameriere, accompagnò Svelto nella parte elegante della tavola. Poi, lui e la contessa sedettero davanti ai piatti di terraglia. «Adesso», disse il conte, «non protestate. Va bene così. Io e mia moglie possiamo permetterci di passare nella sontuosità ogni altra notte dell'anno. Questa notte, però, vogliamo passarla da poveretti e lasciare che siano i nostri ospiti a giocare la nostra parte, a indossare i nostri velluti e i nostri gioielli, a mangiare i nostri cibi e a bere il nostro vino». I due fratelli si sedettero. Fissarono a disagio quel cibo abbondante, i piatti colmi. Forse stavano pensando: se tutti i servitori, come dicono, sono andati in città, questa cena chi l'ha preparata? Non certo la contessa. Anche se adesso indossava abiti da poveraccia, aveva le mani candide e le unghie tinte di rosso, impeccabili. La contessa spezzò un boccone di quel pane ordinario e lo mangiò, poi bevve un sorso d'acqua. Non aveva bisogno di cuochi per preparare un pranzo ricercato. Poteva evocare altri esseri in grado di fare come i cuochi umani, e anche meglio. «Mangiate, bevete», li incoraggiò il conte. Si alzò, tagliò un pezzo di
carne per i visitatori, riempì i loro piatti d'argento e versò loro da bere. Adesso al suo orecchio non era più appesa nessuna perla; c'era rimasto soltanto il foro. I due fratelli cominciarono a mangiucchiare il cibo. Lo svolazzare qua e là di un insetto, l'intermittente ronzio che produceva, adesso era diventato così familiare che quasi non vi badavano, come non si bada al ticchettìo di un pendolo. Poi, quel ronzio cessò. Di colpo. La contessa alzò lo sguardo; il conte si bloccò con il bicchiere di birra leggermente alzato. Un attimo di silenzio nella sala enorme e ben illuminata. La ragazza gemette e scattò indietro sulla sedia. C'era qualcosa che stava saltellando sulla tavola. Saltellò tra le saliere d'argento, i vasetti d'oro delle spezie. Saltellò sul mucchio di frutta, facendo rotolar via le mele e le pesche. Sembrava anche lui un frutto bitorzoluto, lustro, grigioverde. Saltellò, questo frutto bitorzoluto, nel piatto della ragazza sciancata e sollevò i suo tondi scintillanti occhi color giallo acerbo e la fissò. Si congelò nell'immobilità di un pezzo di marmo. E continuò a fissarla. «È soltanto un rospo. Un patetico rospo indifeso», disse la contessa. «Certamente non avete paura di un povero rospo deforme?». «Lo lasci stare», aggiunse il conte Fedesha, con un certo nervosismo, rivolto all'uomo che chiamava Svelto. Ma Svelto non si era mosso per niente. Il conte se ne avvide e aggiunse: «C'è una vecchia leggenda, non è così?, secondo la quale in certi casi una bestia uccisa si riproduce e si moltiplica. Calpesta una mosca e ce ne saranno due. La pelle del rospo morto genera altri due rospi». Il rospo saltò via dal piatto della ragazza. Balzò su un ginocchio di Svelto, e poi via nell'oscurità dietro il focolare. Lo sentirono gracidare. Là, poi da un'altra parte, e poi da un'altra ancora. Il conte tracannò la birra. Per un attimo era sembrato terrorizzato e, comunque, aveva perso molto della sua morbidezza. La contessa Mirromi, invece, era calma e osservava i due fratelli con soddisfazione. I loro volti aveva assunto l'espressione vacua, stupida, della gente mezzo addormentata. Anche se avevano assaggiato quasi nulla del cibo, le droghe che vi aveva messo erano tra le più potenti. Mirromi si levò dalla sedia e si portò ad un alto candeliere accanto al caminetto. Ogni candela era di diversa lunghezza, ed erano esattamente l'una multipla dell'altra; la più corta era completamente bruciata, altre era-
no appena cominciate. Un modo per misurare il tempo. «Quanto tempo ancora?», chiese il conte Fedesha. Ghignò, ma aveva le labbra pallide e secche sopra la barba nera. «Ancora poco», disse Mirromi. «Benché ritenga che, probabilmente, sia arrivato il momento di chiamare i nostri amici con i titoli che loro spettano di diritto». «Ah, sì», disse Fedesha. Parve riprendersi. Si alzò in piedi e sollevò il suo bicchiere di birra, brindando agli ospiti indifferenti: «Salute a voi, conte e contessa!». «Salute, conte e contessa, e una lunga vita felice», aggiunse Mirromi, sollevando il suo bicchiere colmo d'acqua. Fedesha e Mirromi bevvero. Svelto parlò con voce roca, farfugliando, gli occhi miopi tesi, ovviamente, nel tentativo infruttuoso di snebbiare gli effetti delle droghe di Mirromi. «Perché ci chiamate così? Conte e... Contessa?». «Un capriccio», disse Mirromi. «Una stramberia», aggiunse Fedesha. Sentirono il rospo gracidare, in cinque o sei diversi punti della sala. La luce scintillava a sbalzi sulla sua pelle bitorzoluta, mentre si spostava pesantemente e saltellava, ora sul pavimento a mosaico, ora dietro una seggiola. «Un altro pezzo di carne, conte?», chiese Fedesha. «Una susina, contessa?», offrì Mirromi. Questa volta scoppiarono a ridere. «L'hai a portata di mano?», chiese Fedesha alla moglie. «Sotto la manica. Come sempre». «Questo è l'ultimo anno», disse Fedesha. «Poi sarà tutto finito». «Che cosa potrebbe far fallire la mia magia?», disse Mirromi. Sorrise e gli diede un buffetto sulla guancia. «Come sei pazzo a dubitare sempre di me». Fedesha fissò la ragazza sciancata, i cui occhioni erano diventati enormi, con dentro una specie di vitrea angoscia. «Fa pena, anche se...». Il gracidare del rospo cessò bruscamente. Fedesha si strinse, convulso, al braccio della moglie. Svelto, silenziosamente, si contorse sulla sedia, e Ambra piagnucolò. Fra la tavola e il caminetto, c'era qualcosa che produceva un buio sulla
pelliccia dell'orso, ma non era né fumo né ombra. Lentamente si materializzò un cane nero. Era magro stecchito. Attraverso il pelo si intravvedevano tutte le ossa, Gli occhi erano velati, eppure erano due braci. La lingua ciondolava. Il corpo era vagamente fosforescente e la sua bava, quando cadeva, prendeva fuoco, poi spariva. Fedesha ebbe uno scrollone e sbarrò gli occhi. Il sorriso di Mirromi si trasformò in un ringhio. Il cane non ringhiò, non latrò, non emise nessun suono. Si mosse verso di loro, lungo il fianco del tavolo. Fiutò gli abiti di velluto della ragazza sciancata e i polsini del fratello, poi si allontanò e attraversò la parete tappezzata, come se non fosse esistita nessuna parete. «Adesso!», urlò Mirromi. C'era un fragile senso di trionfo nella sua voce. Si rimise a sedere al suo posto e picchiò con forza sul tavolo, con la candida mano. I due fratelli si girarono verso di lei come se li avesse ipnotizzati. Mirromi cominciò a dire: «Dal momento che è la notte della festa, vi racconteremo una storia, degnissimi conte e contessa. Siete pronti? Bene. La storia riguarda un huzdra. Che voi lo sappiate o no, l'huzdra è una specie di maledizione, inventata dalla popolazione primitiva dell'Eastlands». «Una maledizione molto efficace», soggiunse Fedesha. Rabbrividì e si passò la lingua sulle labbra. «Sorprendente!». «Ma», intervenne Mirromi, «dobbiamo cominciare dall'inizio, perché dobbiamo essere sicuri che il conte e la contessa comprendano tutto. «Era l'alba gelida della vigilia di Natale di sette anni fa. Stava appena cominciando ad alzarsi il sole, quando qualcuno si mise a battere violentemente al cancello esterno. Casualmente mi ero alzata da letto prima dell'alba, perché alcune erbe particolari possono essere raccolte soltanto al sorgere del sole e in giorni ben precisi, affinché conservino tutto il loro potere. Il custode, sapendo quello che stavo facendo, corse da me a dirmi che una contadinella disperata era al cancello, chiedendo rifugio e cibo, e offrendo in cambio di servire in ogni tipo di lavoro. Dissi al custode di condurmi la ragazza, e così fece. Aveva veramente un aspetto da far pietà, sudicia e con gli abiti a brandelli, mezza morta per il freddo e per la fame. Mi disse come si chiamava; era uno di quei pazzeschi nomi barbari dell'Eastlands. Allora la chiamai Ciottolo, perché era proprio sudicia, indifferente e ordinaria! Le diedero da mangiare e un po' di vino. Avevo già pensato a un modo in cui poteva essermi utile, ma non le svelai niente al riguardo. Mi limitai a dirle che più tardi avrebbe dovuto consultarsi con mio marito..
Posso dire che questo Ciottolo, a dispetto di tutte le privazioni subite, era proprio forte. Mi baciò le mani e i piedi e giurò che mi avrebbe servita fino alla morte. In seguito non fu altrettanto generosa. «Adesso, caro conte e cara contessa, vi devo raccontare qualcosa su mio marito e su di me. Io sono di umili origini, anche se voi non lo avreste mai immaginato; mio marito, che ha ceduto a lei il suo titolo, padron Svelto, mi sposò per la mia bellezza e anche per certi poteri magici che possiedo. Di conseguenza acquisii il titolo di contessa che ho ceduto a lei, signora Ambra, mentre, grazie ai miei poteri, mio marito divenne molto più ricco e più influente di prima, con nostra reciproca soddisfazione. Vi rendete conto, certamente, che questa magia implica rapporti con dèmoni, folletti e forze della natura. Queste deliziose creature fanno volentieri affari con gli uomini ad un'unica condizione: che siano evocate come si deve e si paghi il prezzo. Ora, il mio sposo e io eravamo venuti a sapere che al nord esisteva un antichissimo tesoro. C'era un solo dèmone, infallibile, che avrebbe potuto aiutarci ad arrivare a quel tesoro. E il prezzo voluto da questo dèmone era bere il sangue di una ragazza viva. Capirete allora quanto giungesse a proposito l'arrivo di Ciottolo. Non la conosceva nessuno, era una straniera che proveniva dall'Eastlands, d'intelligenza ottusa, e per di più vergine. Quanto ai nostri servitori, nessuno di loro avrebbe mai osato parlarne: rispettavano troppo le mie doti per fare una cosa simile. Così fu stabilito che il sangue della ragazza avrebbe adescato il dèmone; per cui, al tramonto, la portai sulla Torre Terziaria, dov'era stata preparata ogni cosa. Appena quella disgraziata capì qual era il suo destino si mise a strillare, cercando di liberarsi. L'ammansii, come so fare io. Chiamammo il dèmone, rispose, e ci portò quello che volevamo. Poi si prese, tutto contento, la sua paga. Un attimo prima di mezzanotte, quando tutto fu terminato, dicemmo ai servi di portar via Ciottolo. La credevamo morta, e ce n'era motivo. Ma lei, in qualche modo, si era attaccata alla vita, e appena i servitori la sollevarono, aprì gli occhi e fissando me e mio marito disse: «Caro conte e cara contessa, i vostri ottimi cibi e i vostri ottimi abiti e le vostre ottime formule magiche non vi gioveranno a niente. Ho lanciato su di voi il mio huzdra. A iniziare da questa notte, starete in pace per un anno intero. Ma la prossima vigilia di Natale, aspettatevi di morire e di precipitare nell'inferno". Detto questo morì. Assistemmo di persona, mentre la seppellivano, a mezzanotte in punto, e pensammo di esserci sbarazzati definitivamente di lei. «Forse pensate», proseguì Mirromi, «che col passare del tempo la sua minaccia di castigo venisse dimenticata. Ma non successe così. Col passare
dei mesi si accorgemmo di continuare a rimuginare e rimuginare le parole di Ciottolo. Alla fine, un mese prima della vigilia di Natale, anniversario della morte di Ciottolo, con le mie arti magiche evocai un'entità molto esperta in fatto di maledizioni e la interrogai. Fu così che scoprimmo che cos'è un huzdra. «L'huzdra viene compiuto tramite qualche oggetto ben preciso di proprietà della persona che ha lanciato la maledizione. Può essere qualcosa di ordinario come una scarpa, una sciarpa, un anello. Comunque, una volta che vi è posto sopra l'huzdra, esso assume misteriosi attributi magici: la scarpa cammina da sola come se dentro ci fosse un piede, la sciarpa si contorce come una biscia, l'anello si ingrandisce fino a diventare un nodo scorsoio. L'oggetto dell'huzdra ha la funzione di uccidere coloro sui quali è stata gettata la maledizione. È un'antichissima forma di stregoneria dell'Eastlands, ed è molto potente, perché è sempre suggellata dall'odio. Sfuggire a quella maledizione è difficile anche a uno molto bravo nella magia come sono io, perché in un caso come questo anche i dèmoni più svelti diventano degli incapaci. Possono darti dei consigli, ma non possono intervenire. Nell'est l'huzdra è più temuto della peste, dai sempliciotti e non solo da loro; anche dai sapienti e dai maghi. «Come mi aveva detto l'entità da me evocata, la prima cosa da fare era cercare e trovare quale degli oggetti che erano appartenuti a Ciottolo era diventato l'huzdra. Era arrivata senza niente: tutto quello che possedeva erano soltanto i suoi stracci. Mio marito e io fummo costretti ad andare di notte là dove avevamo seppellito la ragazza e a scavare nella fossa alla ricerca del corpo. Non fu difficile riconoscere l'huzdra. Nella terra era rimasto ben poco ancora intero e visibile, eccettuata una sola cosa: un braccialetto che Ciottolo portava sull'avambraccio, ben celato dalla manica. Quel braccialetto era antichissimo, rozzamente foggiato, scolorito dal tempo e dalla permanenza sotto terra. La fascia era di rame annerito, con sette ciondoli di pietra rossastra, verdastra o nera, scheggiata e tutta sporca. Portai il braccialetto nella Torre e evocai l'entità esperta sull'argomento, e mi feci dire tutto quello che mi occorreva sapere, anche se si trattava di cose terribili. «L'huzdra di Ciottolo era moltiplicato per sette volte, grazie ai sette ciondoli del suo braccialetto. Ammesso che noi avessimo annullato la maledizione nel primo anniversario della morte di Ciottolo, l'huzdra sarebbe scattato di nuovo per altri sei anni, sette in tutto, e ogni volta il suo potere sarebbe diventato sempre più grande. Tuttavia, anche se il settimo anno, il
settimo anniversario, sarebbe stato il peggiore, sarebbe stato anche l'ultimo. Dopo quello, il potere dell'huzdra sarebbe cessato. Per quanto, chi poteva pensare di resistere a una maledizione simile per tanto tempo?». Mirromi lanciò un'occhiata alle candele che segnavano il tempo accanto al caminetto, e interruppe il racconto per dire: «Un secondo, onorati conte e contessa, col vostro permesso». Quindi lei e Fedesha si alzarono e attraversarono la stanza per fermarsi sotto un arazzo tessuto in oro e rosso rubino. I due fratelli, in silenzio fino a quel momento, si abbandonarono sulle rispettive seggiole come fantocci senza vita. Solo gli occhi si muovevano e si aguzzavano, e le mani si agitavano. Dal focolare venne un rumore. Un rumore sibilante, raschiante. Una ruota d'un color bianco-ossa rotolò fuori dal focolare. Aveva un diametro di tre metri e, benché sembrasse solida, non era materiale. Attraversò il tavolo e rotolò una volta, due volte, attorno alla ragazza sciancata e a suo fratello. Dai suoi raggi sgorgavano fiamme. Poi si precipitò nel nulla e l'aria si riempì di scintille. Mirromi disse a Fedesha: «Successo pieno, come sempre. La ruota ha segnato loro e non noi. Abbiamo vinto: questo è l'ultimo anno della maledizione». «Mia stupenda moglie-strega», esclamò Fedesha baciandole la mano; poi si passò la lingua sulle labbra, che ancora una volta erano ritornate rosse e piene di salute. «Adesso lo mostrerò loro», disse Mirromi. Ritornò alla tavola e, facendo scivolare qualcosa dal braccio sotto la manica, lo mise davanti ai due fratelli sulla tovaglia damascata. Era un braccialetto di rame brunito, con sette ciondoli di pietra verdastra, rossastra o nera, tutto scheggiato, sudicio, e veramente molto antico. «Ecco l'huzdra», disse Mirromi. «Vedete quelle piccole incisioni? La prima è una mosca; generalmente compare prima degli altri. Poi il rospo; viene di solito per secondo. Ecco il cane, il terzo visitatore di stanotte. Ed ecco, guardate la quarta cosa: la ruota di fuoco, anche se i raggi sono intasati dalla sporcizia. Queste apparizioni sono gli avvisi, gli araldi, quello che ci prepara all'orrore finale. Ed ecco qui l'araldo definitivo: è una brocca inclinata. Non l'avete ancora visto, ma lo vedrete. Apparirà, come è sempre successo, quando quelle candele saranno tutte consumate. Poi tutti i preannunci ci saranno stati dati, e dovrà arrivare ancora soltanto una cosa: la morte. La morte è rappresentata da queste ultime due figure del braccia-
letto. Osservatele bene, da vicino, così sarete in grado di riconoscerle». Era difficilissimo decifrare quelle ultime due figure del braccialetto. Quella era la settima volta che Mirromi le mostrava, il settimo anno che due viandanti, trascinati lì dalla magia e drogati con erbe occulte, avevano guardato quelle figure nel tentativo di vedere, con l'orrore che si stagliava nitido sui loro volti. Una delle due figure era un uomo. Sulla testa e sul petto aveva piccoli cristalli ammiccanti come tanti occhi. La seconda figura rappresentava una donna, però dal petto in giù era tutto un mucchio di spire, come un verme attorcigliato. «Era un huzdra astuto», disse Mirromi. «I due dèmoni, maschio e femmina, ne costituivano parte integrante, due contro due, un maschio e una femmina come maschio e femmina siamo mio marito e io. Molto astuta, quella disgraziata di Ciottolo; aveva reso la maledizione doppiamente potente. Ma», aggiunse Mirromi, «come vedete, siamo ancora vivi. Vi racconterò come siamo sfuggiti all'huzdra, e come gli sfuggiremo pure questa notte, la settima e ultima notte in cui può colpirci. «Con dei miei sortilegi, ho trascinato qui, in questa casa, ogni vigilia di Natale, due viandanti che passavano sulla strada. Alcuni erano fragili, alcuni astuti, alcuni decisamente stupidi, anche se, secondo me, nessuno è mai stato così fragile e così stupido quanto voi, tesori! Veramente la maledizione, pur essendo potentissima, è nello stesso tempo ingenua. Fa assegnamento sul terrore della vittima e sulla sua ignoranza. «Quell'astuta entità mi aveva istruita bene. Non distruggere mai l'oggetto dell'huzdra, perché distruggendolo moltiplichi la sua forza, svincolandolo dai materiali terrestri che lo costituiscono e liberandolo completamente al mondo dello spirito, dove diventa invincibile. Distruggi il braccialetto e non sfuggirai mai più alla sua potenza. E non devi neppure usare violenza contro le apparizioni: la mosca ronzante, il rospo gracidante, il cane nero. È assolutamente impossibile far loro del male: Anzi: risucchiano rinnovata energia da ogni colpo loro assestato. No, lasciali pure andare in giro liberamente, e custodisci attentamente l'huzdra. «Ora, l'huzdra può funzionare solamente nella direzione in cui è fatto funzionare. Anche se l'odio di Ciottolo era feroce, lei era soltanto un'imbecille! Servendomi di certi incantesimi, simboli magici, atmosfere; facendo indossare ai due stranieri i nostri vestiti e i nostri gioielli, e imbandendo loro le ricchezze della nostra casa, i nostri cibi e i nostri vini, chiamandoli con i nostri titoli di conte e contessa, li abbiamo trasformati in altrettante
riproduzioni di noi stessi. Quando Ciottolo ci aveva odiati, aveva odiato soltanto i simboli: gli abiti di velluto, i piatti d'argento, un nome. Ecco perché l'huzdra colpisce soltanto l'apparenza, l'effigie, il nome. In sei anni, dodici stranieri hanno preso i nostri posti, sono diventati i nostri capri espiatori, e la vendetta dell'huzdra ha preso loro, mentre noi siamo sopravvissuti. Quella che sopraggiunge è una morte spaventosa. Ci sono grida e urla roche. E quando batte la mezzanotte, l'ora in cui seppellimmo Ciottolo, e noi possiamo ritornare tranquillamente nella camera, troviamo i nostri gioielli sparsi un po' dappertutto; per il resto, soltanto ossa scarnificate. È pure vero che la maledizione ha guadagnato in potenza di anno in anno. Il primo anno le apparizioni erano deboli, la morte rapidissima al momento prestabilito. Ma, col passare degli anni, le apparizioni si fecero sempre più consistenti, cominciarono a mostrarsi per periodi sempre più lunghi e secondo diverse sequenze, benché la ruota e la brocca siano sempre stati gli ultimi. Le due entità portatrici di morte non sono in grado di uccidere prima che scocchi l'istante preciso in cui fu pronunciata la maledizione di Ciottolo, e non arrivano prima, perché non possono. Eppure anche qui ci furono via via dei cambiamenti. Le urla strazianti dell'agonia nella stanza chiusa sono più prolungate, le ossa sono ripulite con più accuratezza e prosciugate anche del midollo. Questo è l'ultimo anno, quello in cui voi due, cari, prenderete il nostro posto e farete sparire per sempre l'huzdra dalla nostra casa e dalle nostre vite. Sarà certo terrificante. Addirittura mi chiedo se lasceranno intatte le vostre ossa, questa volta. «Riflettete al motivo per cui vi ho raccontato tutto questo, e con tanti dettagli. Lo capirete se vi dico che l'ho fatto per incutervi paura. Perché niente attira l'huzdra verso di voi così efficacemente quanto il vostro terrore panico. E adesso», aggiunse Mirromi rivolgendosi a Fedesha, «è arrivato il momento di condurre i nostri ospiti alle loro camere». Su, su, lungo le grandi rampe di scale, verso la Torre Primaria, fino alla stanza nerissima, umida e senza finestre, la cui porta in sasso veniva aperta soltanto una volta all'anno per far passare il terrore puro, per racchiuderlo dentro, questo terrore, finché i colpi di mezzanotte l'avrebbero fatto cessare. Su quelle scalinate, come sempre, una sola volta, ogni vigilia di Natale nei precedenti sei anni, due stranieri vestiti di velluto venivano spinti su, gli occhi stralunati e le articolazioni paralizzate. Quest'anno pareva addirittura che la ragazza fosse svenuta. Fedesha la portava sulle braccia: pareva
già senza ossa, e trecce dei suoi capelli ambrati scappavano, trascinate dietro loro sui gradini. L'omone avanzava inciampando, davanti a loro, le mani tese in avanti come se fosse cieco. Avanti, fino alla porta, la chiave nel lucchetto di ottone. La porta si aprì. Nel nulla nero della camera della torre, aveva preso forma una brocca scintillante, che andava inclinandosi lentamente, lentamente, finché dalle sue labbra strette fuoriuscì un'ondata di sangue denso, rosso e fumante. Fedesha buttò la ragazza nella stanza, cacciando dentro l'omone dietro di lei. Come nei precedenti sei anni, chiuse violentemente la porta massiccia, in sasso, e Mirromi bloccò il chiavistello. Come nei precedenti sei anni, Fedesha e Mirromi trattennero il respiro, e aspettarono. Come nei precedenti sei anni, da dentro la camera chiusa a chiave provennero, a ondate, urla selvagge. Poi le urla di un uomo, più profonde e senza interruzioni. Mirromi e Fedesha sorrisero. Mano nella mano, come due ragazzini felici, scesero giù nella sala, sempre sorridendo, per aspettare lì la mezzanotte, come nei precedenti sei anni. Le notizie circolano, anche all'inferno. Per sei anni, l'huzdra era stato annullato allo scadere della mezzanotte, tutto perché gli elementi costitutivi dell'huzdra erano convinti di aver colpito le vittime designate, di aver realizzato la maledizione. Eppure, via via che gli anni passavano, il sapere che la contessa Mirromi e il conte Fedesha erano ancora vivi e si vantavano della loro scaltrezza aveva risvegliato l'huzdra, spingendolo a riattivarsi di nuovo per la successiva vigilia di Natale. Una maledizione non è un'entità pensante in sé. Come una freccia, trova la via del bersaglio quando un tiratore scelto prende la mira e la lancia. Fu così che certi elementi dell'huzdra, ogni anno ingannati, ogni anno risvegliati, e ogni anno fattisi sempre più forti, cominciarono a ragionare. Le apparizioni ammonitrici della maledizione cominciarono a riassestarsi, ad apparire per periodi sempre più lunghi, a deviare. Non esisteva nessuna legge che li obbligava a materializzarsi soltanto secondo una ben precisa successione, o per periodi di tempo ben determinati. Appena il sole cominciava a tramontare, erano liberi di manifestarsi come l'istinto li spingeva a fare. E non erano neppure obbligati a sparire con lo scoccare della mezzanotte; erano stati spinti a comportasi così dall'impressione che la loro fun-
zione fosse stata raggiunta. E, invece, la loro funzione non era mai stata raggiunta. Da qualche parte lo spirito della ragazza dell'Eastlands, crudelmente soprannominata Ciottolo per la sua sporcizia e per la sua personalità comune, insignificante, da qualche parte quello spirito urlava nel suo limbo, insoddisfatto e senza pace. Alla fine, nell'intimo dell'entità non-pensante ma stranamente ragionante della maledizione, prese coscienza la nozione che quello che la privava delle vittime a lei destinate doveva essere l'inserimento di altre due persone, diverse, altrettanto innocenti e vittime di inganno come lo era stato Ciottolo. Quello, il settimo anno che portò l'huzdra al culmine del suo potere, lo portò anche alla soluzione dell'inganno. Le rune magiche incise da Mirromi su quelle piante morte da tanto tempo, lungo la strada principale, essendo tese, in ogni caso, solo a selezionare due viaggiatori per dirigerli verso la grande casa, continuarono a selezionare sempre e soltanto due persone, un uomo e una donna, in quanto la contessa non aveva espresso altra necessità se non quella che solo due persone attraversassero la porta della sua casa. Quei due viaggiatori erano poveri e ignoranti come tanti altri di quei dodici che erano andati in quella casa prima di loro. Avevano pressapoco l'identico racconto da narrare, quello del cavallo morto, del carro abbandonato lungo la strada, di come nessuno si fosse fermato per aiutarli. Sì: quei due viaggiatori erano proprio uguali a quelli che erano andati prima di loro, se si eccettua, forse, il fatto che erano più arrendevoli. E perfino nella camera da letto, mentre indossavano i fatidici indumenti di velluto, si erano scambiati delle frasi così patetiche, così sconsolate! Quasi come se fossero stati al corrente delle lenti nascoste e dei tubi di amplificazione sonora; come se avessero saputo che il conte e la contessa li avrebbero ascoltati e osservati; e come se avessero voluto convincere il conte e la contessa che tutto stava andando, per la settima volta, perfettamente secondo i piani... Si poteva tranquillamente ritornare nella stanza della torre dopo che era scoccata la mezzanotte, tranquillamente. In fondo, l'unico motivo per non farlo in tutta tranquillità si sarebbe verificato quando, per chissà quale enorme sbadataggine, là dentro non fossero stati lasciati due capri espiatori! Il conte Fedesha e la contessa Mirromi ritornarono, pochi minuti dopo la mezzanotte. Il conte portava una lampada, quanto mai adatta per guardarsi attorno e vedere cos'era successo. Aveva-
no continuato, indifferenti, a torturare e ad ammazzare un numero enorme di uomini e donne per tanti anni, tanti che vedere ossa nude non li turbava più. In verità erano piuttosto curiosi, abbastanza interessati da voler osservare l'ultima scena di quel balordo huzdra, quell'ultima dimostrazione del loro trionfo. La porta di sasso, tolti i chiavistelli, si aprì di scatto. La contessa rimase senza fiato, il conte grugnì. Perché lì, assolutamente incolumi, c'erano il fratello e la sorella sciancata. Emozioni, interrogativi che affioravano selvaggiamente. Poi il disfarsi dell'illusione di abiti di velluto e di stoffa ruvida, di gemme e di povertà. Di umanità. Un uomo scuro di pelle. E adesso ch'era nudo si poteva notare come egli vedesse non soltanto grazie ai due grandi occhi che portava in faccia, ma grazie anche ai moltissimi occhi che guardavano in tralice dal petto: questi ammiccavano, si aprirono, si chiusero e infine si misero a fuoco con grande intensità. Accanto a lui, non più una sciancata che non era in grado di camminare, ma una donna dai capelli ambrati che si teneva eretta sulla flessibile sinuosa colonna di una coda di serpente. Adesso, chi sorrideva erano i due fratelli: mostrando denti aguzzi, affilati, mentre sollevavano le mani terminanti in lunghi artigli, quasi volessero dare il benvenuto. E il conte e la contessa si misero a urlare. La settimana di Novins HARLAN ELLISON L'opera di Harlan Ellison ha generato un mucchio di discussioni e controversie, per cui è facile non accorgersi che quello che si diceva dell'Harlan Ellison di pochi anni fa non è necessariamente vero per l'Harlan Ellison di oggi. Le trovate pirotecniche che ci sorprendevano, la forza stupefacente e incontrollata che ci afferrava per la gola volenti o nolenti, sembra oggi essere, se non scomparsa, per lo meno padroneggiata e controllata. Come risultato abbiamo un Ellison più maturo e racconti che continuano a meravigliarci, sorprenderci, deliziarci. Racconti come La settimana di Novins.
I - Domenica Non molto più tardi, comunque più tardi, ripensò alla successione degli avvenimenti. Concluse di non aver scordato proprio nulla. Ecco come erano andate le cose: Era distratto, ecco! Stava pensando a qualcos'altro, non importa cosa. Era andato al telefono nel ristorante per chiamare Jamie, per scoprire dove cavolo si fosse cacciata, per sapere perché l'avesse fatto aspettare seduto in quel maledetto bar da ben trentacinque minuti. Stava pensando a qualcos'altro, niente di importante, era distratto, ecco tutto! e non fu se non dopo che sentì suonare l'apparecchio dall'altra parte che si rese conto di aver fatto il numero del suo appartamento. Gli era successo altre volte, non tante certo, ma diverse volte, come del resto succede a tutti. Faceva un numero meccanicamente, senza pensarci, e di quando in quando saltava fuori il suo numero, come succede a tutti (pensò più tardi), succede a tutti. Un errore come un altro. Stava per riappendere, recuperare il gettone e fare il numero di Jamie, quando dall'altra parte venne sollevata la cornetta. Rispose lui. Se stesso. Riconobbe immediatamente la sua stessa voce. Ma non capì. Non aveva nessuna macchinetta elettronica per la registrazione dei messaggi. Aveva fatto staccare, provvisoriamente, la segreteria telefonica (un servizio insoddisfacente: non acchiappavano le sue chiamate al terzo squillo, come aveva insistito), e non c'era nessun ospite nel suo appartamento. Niente! Lui non era in casa, era lì, nel ristorante, e stava chiamando il suo appartamento, e rispondeva lui. «Pronto?». Aspettò un momento; poi disse: «Ma chi è?». Rispose: «Chi desidera?». «Senta», ripeté. «Ma lei chi è?». La sua stessa voce, dall'altro capo del filo, chiaramente scocciata, disse: «Senti, bello, che numero hai fatto?». «È il Beacon 3-6189, giusto?». Cautamente: «Sì...?». «Appartamento di Peter Novins?». Un attimo di silenzio, poi: «Esatto».
Ascoltò i rumori che provenivano dalla cucina del ristorante. «Se è l'appartamento di Novins, lei chi è?». Dall'altra parte del filo, nel suo appartamento ci fu un profondo respiro: «Sono Novins». Si trovava nella cabina telefonica, nel ristorante, nella notte, la cornetta all'orecchio, e stava ascoltando la sua voce. Per errore aveva fatto il suo numero, aveva fatto il numero di un appartamento vuoto... e lui aveva risposto. Alla fine disse, tutto teso: «Sono io, Novins». «Dove sei?». «Sono all'High Tide; sto aspettando Jamie». Nell'apparecchio sentì se stesso che, con infinita dolcezza, chiedeva: «Sei proprio tu?». Fu preso dal panico; cercò di sfuggirgli con un estremo intervento: «Se è uno scherzo... Freddy... Sei tu? Morrie? Art?». Silenzio. Poi, lentamente: «Io sono Novins. Quant'è vero Dio!». Aveva la gola secca. «Ma... Io sono qui. Tu non puoi essere, io non posso essere nell'appartamento». «Ah, sì? Be', ci sono». «Ti richiamerò». Peter Novins riappese. Ritornò al bar e ordinò un doppio whisky, senza ghiaccio, liscio; e lo tracannò in due sorsi, lasciando che gli bruciasse la gola. Sedette e rimase lì a guardarsi le mani, girandole e rigirandole, guardandole ben bene per assicurarsi che fossero proprio le sue, non carne aliena che gli era stata innescata sui polsi in un momento di disattenzione. Poi ritornò nella cabina telefonica, chiuse la porta e si sedette. Rifece il suo numero. Con la massima attenzione. Suonò sei volte prima che lui sollevasse la cornetta. Lo sapeva perché la voce dall'altra parte del filo aveva lasciato suonare sei volte l'apparecchio: non aveva nessuna voglia di sollevare la cornetta per sentirsi nelle orecchie la sua stessa voce. «Pronto?». La sua voce, dall'altra parte, era a stento controllata. «Sono io», disse, chiudendo gli occhi. «Gesù!», mormorò lui. Sedevano là, in posti separati, senza parlare. Poi Novins disse: «Ti chiamerò Jay». «Va bene», rispose dall'altro capo del filo. Era il suo secondo nome. Non
se ne era mai servito, ma figurava sulla sua polizza di assicurazione, sulla patente e sulla tessera della previdenza sociale. Jay disse: «Jamie è lì?». «No, ancora una volta è in ritardo». Jay trasse un profondo respiro, poi disse: «Faremmo meglio a parlarne». Novins rispose: «Suppongo di sì. Non che ne senta veramente il bisogno. Mi stai mettendo addosso una fifa di merda». «E cosa pensi che provi io?». «Probabilmente, proprio quello che provo io». Ci rifletterono sopra per un lungo momento. Poi Jay disse: «Proveremo proprio le stesse identiche sensazioni di fronte a qualsiasi cosa?». Novins rifletté, poi rispose: «Se tu sei proprio me, allora penso di sì. Dovremmo provare a verificarlo». «Mi sembra che tu stia prendendola con una calma che io sono ben lontano dal possedere», disse Jay. Novins si allarmò. «Lo pensi sul serio? Stavo proprio per dirti che ritenevo spaventosa la flemma con cui stavi affrontando la situazione. Credo che tu abbia le idee molto più chiare su questo punto di quanto le abbia io. Io sono veramente atterrito, stavo per dirtelo». «Allora, chiese Jay, «come faremo a verificarlo?». Novins rifletté al problema, poi disse: «Perché non confrontiamo quello che ci piace e quello che non ci piace?. Tanto per cominciare. Ti va?». «Una cosa vale l'altra, penso. Chi comincia?». «Tocca a me», disse Novins, e per la prima volta sorrise. «Mi piace, uhm... un pezzo di carne di prima scelta, ben cotto, quando riesco a trovarlo; lo sfornato dell'Yorkshire; fumare la pipa, i quadri di Max Ernst, i film di Robert Altman, i libri di William Goldman, ricevere della posta ma non scriverne, uhm...». Si bloccò. Aveva preso a casaccio nella memoria cose qua e là, quelle che gli erano venute in mente per prime. Ma, mentre parlava, aveva sentito quello che stava dicendo, e gli parvero delle stupidaggini. Novins disse: «Così non andremo avanti. Che cavolo significa? C'era qualcosa in quella lista che a te non piace?». Jay sospirò: «No, sono tutte tra le mie cose preferite. Hai ragione. Se piace a me, deve piacere anche a te. Non è questa la strada per ottenere la risposta al problema». Novins disse: «Io non so neppure quale sia il problema!». «La cosa è piuttosto facile», rispose Jay. «C'è un unico problema: quale di noi due è me, e come posso io sbarazzarmi di lui».
Un brivido schizzò via dalle spalle di Novins e gli avvolse le braccia come una mantilla. «E questo che cosa vorrebbe dire, secondo te? Sbarazzarti di lui? Che cavolo vuol dire?». «Rifletti», disse Jay - e Novins sentì, nella voce, un tono che ben conosceva, quel tono che lui usava quando stava per trasformarsi in un commerciante inflessibile - «non possiamo tutti e due essere Novins. Uno di noi due è di troppo». «Ficcatelo bene in testa, bello», intervenne Novins, adottando quel tono di voce. «Questa è una maniera di ragionare molto sporca. Anzitutto, chi mi dice che non scomparirai nel nulla da dove sei venuto non appena avrò riappeso...». «Merda», fu la risposta di Jay. «Sì, bene, può anche darsi. Ma ammesso che tu rimanga (ma io non ammetterò neppure per un secondo una simile pazzia), ammesso che tu sia reale...». «Credimi, pupo, sono reale», disse Jay, con una risatina soffocata. Novins cominciava a odiarlo. «... Ammesso che tu sia reale», proseguì Novins, «nessuno dice che non si possa esistere tutti e due, e condurre ambedue una vita felice, ognuno per suo conto». Jay disse: «Ma lo sai bene, Novins! Non cercare di bluffare! Non sei capace di vivere una vita felice neanche da solo, bello mio; come cavolo ci riusciresti, sapendo che ci sono anch'io, qui, che sto vivendo la tua vita?». «Cosa intendi dire che non posso vivere una vita felice? Cosa ne sai, tu?», e si fermò lì. Logico che Jay ne sapeva qualcosa. Sapeva tutto. «Avresti fatto meglio a cominciare guardando in faccia la realtà, Novins. Hai ancora poco da campare, comunque sarebbe meglio imparare come farlo. Forse questo accelererebbe la fine». Novins sentì voglia di sbattergli il telefono sul muso. Era nello stesso tempo arrabbiato, furioso, e atterrito. Sapeva bene che quello che l'altro Novins stava dicendo era vero; doveva sapere, indiscutibile! Dopo tutto, stava parlando a se stesso. Disse, duro: «D'accordo, uno solo di noi due continuerà a vivere. Ma cacciatelo bene in testa, bello, quello sarò io!». «Come pensi di farcela, Novins? Tu sei lì fuori, chiuso fuori casa. Io invece sono dentro, in casa mia, ben al sicuro dove tutti pensano che io sia». «Cosa ne diresti se vedessimo le cose da questo altro punto di vista?», chiese Novins prontamente. «Tu sei intrappolato lì dentro, tagliato fuori dal mondo e chiuso a chiave in tre stanze più servizi. Io ho a disposizione
per muovermi tutto il resto del mondo. Tu sei bloccato, io libero». Per un istante, silenzio assoluto. Poi Jay disse: «Siamo arrivati a un punto morto, non è così? Essere all'aperto ha i suoi vantaggi, ma anche trovarsi chiusi in casa ne ha, un sacco. La cosa stupefacente è che tutti e due abbiamo accettato così alla svelta questa situazione». Novins non rispose. L'accettava perché non aveva altra scelta. Se avesse potuto accettare di aver parlato con se stesso, allora tutto quello che doveva seguire avrebbe fatto parte di quell'accettazione. Adesso che Jay l'aveva detto chiaro e tondo, che soltanto uno solo di loro due poteva continuare a esistere, tutto quello che restava da fare era trovare un modo per assicurarsi che sarebbe stato lui, Novins, quello che avrebbe continuato dopo aver superato il punto morto. Novins disse: «Ho bisogno di tempo per pensarci. Ho bisogno di cercare di far cambiare in meglio qualcuno di questi elementi. Tu restatene chiuso a chiave lì dentro, amico; io mi andrò a cercare un albergo per la notte. Ti chiamerò domani». Stava per appendere, quando la voce di Jay lo bloccò. «Cosa dico se succede che Jamie arriva qui e tu non ci sei e lei mi chiama?». Novins scoppiò a ridere. «Sono cavoli tuoi, figlio di puttana». Riattaccò con maligna soddisfazione. II - Lunedì Prese precauzioni specialissime. Per prima cosa svuotò il conto in banca. Ringraziò dio d'aver portato con sé il libretto degli assegni, quando era uscito per incontrarsi con Jamie la notte precedente. Purtroppo il libretto di banca a deposito nominale era nell'appartamento. Il che voleva dire che Jay aveva libero accesso ad almeno diecimila dollari. Il conto corrente conteneva meno di mille e cinquecento dollari, anche se non aveva sospesi da liquidare, ed entro trenta giorni doveva arrivare la nota di accredito bancario delle cooperative, il che voleva dire - usò il retro di un modulo di versamento per conteggiare gli interessi - che avrebbe avuto 10.465,7 dollari depositati sul suo conto. Il suo nuovo conto! Lo aprì in un'altra filiale della medesima banca, firmando i relativi documenti con una variante della sua firma sufficientemente diversa da prevenire i tentativi di Jay di attingere al conto. Finalmente i soldi erano a posto per l'immediato futuro. Ma tutto il suo materiale di lavoro si trovava nell'appartamento. Tutte le
liste di pubbliche relazioni che curava lui. Tutte le note di scadenze e tutti i piani e i numeri telefonici e i grafici: si trovavano tutti là, in quel piccolo appartamento che gli fungeva da ufficio. Di modo che, in pratica, era completamente tagliato fuori dal lavoro. Eppure, da un certo punto di vista, era un vantaggio. Jay, in sua assenza, avrebbe dovuto mandare avanti il lavoro, avrebbe dovuto portare avanti campagne importanti per Topper e McKenzie, avrebbe dovuto sorbirsi tutte quelle deficienti telefonate di Lippman e di suo figlio, che non ci pensava due volte a insultarti; avrebbe dovuto rispondere e smaltire la corrispondenza: avrebbe dovuto sorbirsi tutti i santi giorni tutta quella roba noiosissima. Si sentiva deliziosamente libero e quasi satanicamente felice di essersi sbarazzato di quel peso per un po', e che Jay stesse per scoprire che giocare il ruolo di Peter Jay Novins non era tutto rose e fiori, e belle pupe. Ritornato nella sua stanza d'albergo all'Americana preparò una lista delle cose che doveva fare. Per sopravvivere. Era tutto un diverso modo di pensare, che implicava l'abbandonare una per una tutte le azioni di routine quotidiana dalle quali adesso era completamente tagliato fuori. Adesso era solo, nel modo più assoluto e più vero della parola, per la prima volta nella sua vita, tagliato fuori da tutto. Non poteva contare su amici né su alleati né sulle autorità. Sarebbe stato un suicidio andare alla polizia e dire: «Sentite, mi spiace disturbarvi, ma io sono spaccato in due e uno dei miei due io pretende di occupare con pieni diritti il mio appartamento; per favore andate là e arrestatelo». No! Poteva contare soltanto su se stesso. Doveva buttar fuori dal mondo Jay unicamente giocando d'intelligenza e d'astuzia. Naturalmente, cercando di non dimenticare mai che Jay possedeva altrettanta intelligenza ed astuzia. Spuntò dalla lista una decina di cose. Non c'era nessun bisogno di chiamare Jamie, per scoprire che cosa le fosse successo la notte precedente. In fondo la loro relazione non filava poi tanto a gonfie vele. Che fosse Jay a scusarsi. Non c'era neppure alcun bisogno di annullare le carte di accredito; le aveva in tasca. Che fosse Jay a pagare gli estratti conto. Non c'era nessun bisogno di entrare in contatto con qualcuno degli amici e metterli in guardia. Non poteva avvertirli, e quand'anche avesse potuto, contro che cosa li avrebbe messi in guardia? Contro se stesso? Aveva semmai bisogno di vestiti, di cambiarsi le calze e mutande, un giaccotto leggero al posto del soprabito pesante, un paio di guanti caso mai il tempo cambiasse. E avrebbe dovuto annullare tutti i servizi di consegna all'appartamento, rendere a
Jay impossibile ripristinarli: il droghiere, il lattaio, la lavanderia a secco, il giornalaio. Doveva rendergli tutto il più difficile possibile. Per cui telefonò ai vari negozianti, e li insultò così volgarmente da garantirgli che non lo avrebbero mai più servito per il futuro. Sfortunatamente, riscaldamento, luce e gas li forniva direttamente il condominio; inoltre doveva lasciare in funzione il telefono. Era il suo unico aggancio con la vittoria: l'espulsione di Jay dall'appartamento. Quando ebbe provveduto a tutte queste diverse cosette, verso le tre pomeridiane ritornò nella camera d'albergo, si tolse le scarpe, si sistemò i cuscini sul letto, si coricò, prese il telefono e fece un 9 per la linea esterna, poi fece il numero di casa sua. Mentre suonava stette lì a guardare, fuori della finestra di quella stanza d'hotel al quarantacinquesimo piano, i prosaici piloni dell'RCA, e quelli del Grants Buildings, altri formicai per la gente, con tutte le stanze ben allineate, i vetri scuri. C'era forse da stupirsi che qualcuno faticasse a rimanere sano di mente, a conservarsi a posto in un ambiente simile? A vivere in buchi del genere, inscatolati e intrappolati e soffocati, c'è forse da sorprendersi se la gente comincia a dare i numeri... se anche lui pareva che stesse dando i numeri? C'era piuttosto da stupirsi che riuscissero a conservarsi sani, proprio come faceva lui. Ma le fratture si cominciavano a vedere, a livello di massa, e adesso - come nel caso di Peter Novins, rifletté - anche a livello di singole persone. Il telefono continuava a squillare. Delle nuvole spazzarono via la luce e la città fu sommersa nell'oscurità. Alle tre in punto pomeridiane, la minaccia sinistra di un'altra notte si addensò sulla stanza d'albergo di Novins. Il ricevitore venne sollevato all'altro capo. Ma Jay non disse nulla. «Sono io», disse Novins. «Come te lo sei passato il tuo primo giorno nei miei panni?». «Tu, piuttosto, come te lo sei passato il tuo primo giorno fuori dei tuoi panni?». «Ascolta, bello, ho riparato alla bell'e meglio quello che mi hai combinato tu; hai i minuti contati. Il conto corrente è partito, inutile che cerchi di trovarlo; avrai bisogno di uscire per procurarti da mangiare, e quando lo farai io sarò lì...». «Terribile», intervenne Jay. «Però, proprio mentre tu non sprecavi tempo, io, da parte mia, oggi ho cambiato la serratura. La chiave che hai puoi
buttarla. E mi sono comperato da mangiare. Ricordi i cinquanta dollari che avevo messo da parte nella cassetta dei gioielli?». Novins si maledì in silenzio. A questo non aveva proprio pensato. «E ho lavorato un po' di immaginazione, Novins. Ti ricordi di quel vecchio romanzo di Jack London, Il vagabondo delle stelle? Ti ricordi che si serviva della proiezione astrale per uscire dal suo corpo? Penso che sia esattamente questo che è successo a me. Ti ho proiettato fuori in un momento di incoscienza. Perciò ho concluso che io sono io e che tu, invece, sei soltanto una piccola parte di me, che se ne va a spasso. E io posso andare avanti benissimo anche se mi manca quella parte lì. Perciò, perché non te ne vai...?». «Calma!», lo interruppe Novins. «È una teoria sensazionale, ma piena zeppa di fanfaronate, se mi permetti di essere così presuntuoso da dissentire con la tua voce saccente, probabilmente disincarnata e senza sufficiente ectoplasma da cagare come si deve. Ti ricordi quel weekend, quando andai in laboratorio con Kenny, che mi ha fatto quella foto Kirlian della mia aura? Be', la mia teoria è che qualcosa è successo e che l'aura ha prodotto un altro me stesso, o qualcosa...». Scivolò nel silenzio. Nessuna delle due teorie meritava di essere presa sul serio. Veramente! Non aveva la più pallida idea di che cosa fosse successo. Rimasero lì, in silenzio, per un bel po', poi Jay disse: «Questa mattina ha telefonato mamma». Novins sentì una mano schiacciargli il petto. «Cos'ha detto?». «Ha detto che sa che mentivi quando sei stato giù in Florida. Ha detto che ti vuol bene e che ti ha perdonato. Tutto quello che vuole è che tu vada a stare con lei». Novins chiuse gli occhi. Non aveva voglia di pensarci. Sua madre era sull'ottantina, molto ammalata, ed era appena stata ricoverata per il suo secondo serio attacco di cuore in tre anni. La fine era ormai prossima e, combinando un viaggio di lavoro a Miami e una visita a lei, era andato in Florida il mese precedente. Non aveva mai avuto molte cose in comune con sua madre, aveva vissuto per proprio conto fin da molto giovane, e benché la sopportasse negli anni del declino, si rifiutava di permettere che lei si imponesse alla sua esistenza. Era difficile che le scrivesse, salvo per mandarle l'assegno, e durante i due giorni passati nel suo appartamento a Miami Beach aveva creduto di impazzire. Aveva sentito il bisogno di svignarsela, e alla fine le aveva mentito dicendole che doveva ritornare a New York con un giorno d'anticipo sul previsto. Aveva fatto i bagagli e l'aveva
piantata. Si era fermato in albergo e aveva passato l'ultimo giorno immerso negli affari, e quella notte era uscito con una segretaria a cui fissava un appuntamento ogni tanto quando era in Florida. «Come l'ha saputo?», chiese Novins «Ha telefonato qui e la segreteria ha risposto che tu ti trovavi ancora in Florida e che non eri ancora tornato. Le hanno dato il numero dell'albergo; lei ha telefonato e ha scoperto che passavi davvero la notte lì». Novins si stramaledisse: ma perché cavolo aveva chiamato la segreteria per dir loro dove si trovava? Avrebbe potuto benissimo farla franca, per un giorno di assenza dalle sue relazioni d'affari! «Magnifico», disse. «E suppongo che tu non abbia fatto assolutamente nulla per far sì che si sentisse un po' meglio». «Al contrario», replicò Jay. «Ho fatto quello che tu non avresti mai fatto. Mi sono accordato con lei perché venisse qui a vivere con me». Novins si sentì gemere di dolore. «Hai fatto che cosa? Gesù Cristo! Ma hai perso quel tuo cervello di merda? Ma come cavolo faccio a prendermi cura di quella vecchia qui a New York? Io ho un lavoro da svolgere, dei posti dove devo andare, ho una vita da vivere...». «Non è più compito tuo, delinquente bastardo egoista. Tu, forse, finiresti per mangiarti le budella vivendo con lei, ma non io. Arriverà fra una settimana». «Ma sei scemo», strillò Novins. «Sei un cretino fottuto!». «Sì», disse Jay, con dolcezza, e soggiunse: «E tu hai perso tua madre. Rifletti a questo, soltanto a questo, verme». E riappese. III - Martedì Di comune accordo, decisero questo: chi meritava di essere Peter Novins avrebbe continuato a vivere. Dovevano decidere: era lampante che non potevano continuare come avevano fatto fino a quel momento. Erano bastati due giorni per mostrar loro che non era possibile vivere una vita a metà. Ambedue stavano logorandosi al limite. Così Jay suggerì di giocare le loro carte sulla base delle esperienze della vita di Novins, per vedere se veramente aveva le carte in regola per continuare a vivere. «Tutti hanno le carte in regola per continuare a vivere», disse Novins, con violenza. «È per questo che siamo vivi. Per dire di no alla morte».
«A questo, tu, Novins, non ci credi proprio per niente», disse Jay. «Tu sei un misantropo. Tu odi la gente». «Questo non è affatto vero; semplicemente non mi piacciono certe cose che la gente fa». «Che cosa, per esempio? Vorresti alludere ai ragazzini, di cui stai sempre a lamentarti, che calpestano le aiuole e riempiono le siepi di scatole vuote? Questo, per esempio?». «Per dei principianti non è male», disse Novins. «Bastardo ipocrita», gli ringhiò contro Jay. «Hai il coraggio di lamentarti di questo, quando ti sei fregato di tutta la faccenda Cumberland?». «È un altro paio di maniche». «Col cazzo! Conosci maledettamente bene i progetti di Cumberland per sradicare dalle radici le budella di questa provincia, e sai benissimo che stanno per farla franca con quella campagna pubblicitaria su cui hai lavorato proprio tu, e tanto! Oh, Novins, tu sei un uomo maledettamente potente, ma hai fatto tua l'etica dell'ambiguità». Novins era su tutte le furie, ma Jay aveva ragione. Si era sentito sporco fin da principio quando aveva preso in mano l'affare Cumberland, ma erano dei pezzi grossi, si trattava di un affare di dimensioni internazionali, e il suo profitto per quella faccenda si scriveva con sei cifre. Aveva affrontato tutta la campagna con la stessa ferocia che metteva in tutte le sue cose, e il programma era ben impostato. «Devo pur guadagnarmi da vivere. Per di più, se non lo faccio io, lo fa qualcun altro. Sto soltanto facendo un lavoro come un altro. Loro hanno messo su un grandioso programma di restauro, non dimenticartelo. Cambieranno la faccia di questo paese». Jay scoppiò a ridere. «È quello che diceva sempre Eichmann: "Abbiamo un grandioso programma di restauro. Cambieremo faccia a questi giudei, soltanto un po' di gas per farli belli". Anche lui, Novins, stava soltanto facendo il suo lavoro. Ti avevo già detto prima che tu sembri fatto di ghiaccio?». Novins stava di nuovo urlando: «Tu, naturalmente, l'avresti rifiutato!». «È proprio quello che ho fatto, vecchio mio», disse Jay. «Gli ho telefonato, oggi stesso, e gli ho detto di tenersi il loro lavoro e di andarsi a far fottere. Ho appena telefonato a Nader per dirgli cosa poteva farsene dei dati dello schedario». Novins aveva perso la parola. Giaceva là, sotto le coperte, mentre la neve scendeva in enormi fiocchi davanti alle finestre del quarantacinquesimo
piano. Appoggiò la cornetta, lentamente. Soltanto tre giorni, e la sua vita stava già scivolando via, inesorabilmente. Presto sarebbe stato impossibile rimetterne assieme i pezzi. Gli faceva male lo stomaco. Per tutto quel giorno aveva provato un senso di vomito. La cucina aveva mandato su tazze su tazze di tè, ma non gli erano servite a nulla. Aveva un lancinante mal di testa proprio dietro l'occhio sinistro, e le spalle e il petto erano coperti d'un sudore gelido. Non sapeva cosa fare, ma sapeva d'essere perduto. IV - Mercoledì Il mercoledì fu Jay che telefonò. Non gli disse mai come avesse fatto a rintracciarlo, comunque gli telefonò. «Come stai?», chiese. Novins riusciva a malapena a parlare; la febbre quasi quasi l'aveva immobilizzato. «Ti ho telefonato per Jeanine e Patty e quella ragazza a Denver», disse Jay, e si lanciò in un lungo e dettagliato resoconto delle relazioni amorose di Novins, e di come erano finite. Non era come se le ricordava Novins. «Questo non è vero», riuscì a dire Novins, la voce cavernosa, quasi un sussurro, secca e quasi fessa. «È vero, Novins. È questa la cosa più deprimente. È vero, ma non hai mai avuto il coraggio di ammettere che tu passavi da una donna a un'altra, senza dar loro mai niente, sempre prendendo, e quando le piantavi - o ti sganciavano loro - tu non hai mai imparato un cavolo di niente. Ti sei sposato due volte, hai divorziato due volte, ti sei cacciato in un mucchio di relazioni amorose e non hai imparato che sei uno di quegli uomini che semplicemente non valgono una cicca di niente per le donne. Per cui adesso ti ritrovi ad avere quarantadue anni e sei arrivato finalmente a intravvedere che stai per passare tutto il resto dei giorni e delle notti della tua vita assolutamente solo, perché non riesci a stare in compagnia di un altro essere umano per più di un mese senza attaccarlo malignamente e in continuazione». «Falso», mormorò Novins. «Vero, Novins, vero. Assolutamente vero. Ti sei messo dietro a Patty e le hai fatto lasciare il suo uomo; e una volta forzata la sua libertà, hai scaricato lei e il bimbo in quell'appartamento, con una rendita di trecento dollari al mese, e poi hai alzato i tacchi e l'hai piantata là a cavarsela da sola. È vero! Perciò non tentare di prendermi in giro con quel tuo merdoso "conduco una vita come si deve"».
Novins se ne stava semplicemente là, gli occhi chiusi, tremando per la febbre. Allora Jay disse: «L'altra sera ho visto Jamie. Abbiamo chiacchierato del suo futuro. È stata una conversazione sbrigativa. Ti odia proprio! Ma penso che le passerà, se mi ci metto io e ci vado duro. E ho intenzione di andarci duro. Non ho nessuna voglia di passare degli altri anni come li ho passati finora, Novins. D'ora in avanti le cose cambiano». La gran massa delle costruzioni, fuori della finestra, parve tremolare dietro la neve che cadeva. Novins si sentiva tremendamente gelato. Non rispose. «Al primo gli daremo il tuo nome, Peter», disse Jay. E riattaccò. Era mercoledì. V - Giovedì Quel giorno il telefono non squillò. Novins rimase a letto, mentre il televisore stupidamente continuava a ripetere i suoi cinque minuti di istruzione, con l'immagine fantasma di una ragazza dai capelli neri, vestita in grigio, che gli mostrava come addebitare un film in prima visione sul conto dell'albergo. Parecchie ore dopo si accorse che stava recitando con lei le istruzioni. Dormì moltissimo. Pensò a Jeanine e Patty, alla ragazza di Denver, di cui non riusciva a ricordare il nome, e a Jamie. Parecchie ore ancora più tardi, gli vennero in mente gli insetti, ma non sapeva cosa volesse significare. Quel giorno il telefono non squillò. Era giovedì. Appena prima di mezzanotte la febbre si abbassò di colpo. Si addormentò piangendo. VI - Venerdì Una chiave girò nella serratura e la porta della stanza d'albergo si aprì. Novins se ne stava seduto su un'imitazione, fatta in serie, di una poltrona in stile Saarinen. Lo schienale era tutto imbrattato di Scotch-Gard. Se n'era rimasto lì a guardare, oltre la finestra, l'assurdità geometrica delle costruzioni dalle pareti di vetro. Era quasi buio e la città era d'un grigio denso. Si girò di scatto al rumore della porta che si apriva e non fu affatto sorpreso di vedere entrare se stesso. Il naso e le guance di Jay erano ancora arrossati dal gelo. Aprì la cernie-
ra del giubbotto e mise in tasca i guanti di pelle, si tolse il giubbotto e lo gettò sul letto disfatto. «C'è proprio freddo là fuori», disse. Andò in bagno e Novins sentì il rumore dell'acqua corrente. Jay ritornò dopo pochi minuti, sfregandosi le mani. «Così va meglio», disse. Sedette sul bordo del letto e fissò Novins. «Hai una bruttissima cera, Peter», disse. «Non sono stato bene proprio per niente», rispose Novins, secco. «In questi giorni non mi sento in forma». Jay ebbe un rapido sorriso. «Come vedi sei agli sgoccioli. Questo dovrebbe darti una spintarella». Novins scattò in piedi. La debole luce che proveniva dalla finestra della stanza brillò attraverso di lui, come fuoco bianco attraverso un bicchiere di latte. «Mi sembri in forma», disse. «Sto andando meglio, Peter. Ci vorrà un po' ma sto andando meglio». Novins attraversò la stanza e si fermò contro la parete, le mani convulsamente strette dietro la schiena. «Ricordo bene gli archetipi di Jung. Tu cosa sei? La mia ombra, la mia persona, la mia anima o il mio spirito?». «Che cosa sono adesso, o che cos'ero quando mi liberai?». «L'uno e l'altro». «Penso di essere stato la tua ombra. Adesso sono il tuo alter ego». «E io sto diventando l'ombra». «No. Tu stai diventando un ricordo, un brutto ricordo». «Sei decisamente pesante!». «Sono stato ammalato per molto tempo, Peter. Non lo so che razza di leva ci abbia prima spaccati in due e poi separati. Comunque è successo, e io non ne posso certo essere troppo addolorato. Se non fosse successo avrei dovuto essere te fino alla morte. Sarebbe stata una vita schifosa e una morte da miserabile». Novins scrollò le spalle. «Adesso è troppo tardi per preoccuparsene. Va tutto bene con Jamie?». Jay accennò di sì. «Sì. E ma' arriva martedì pomeriggio. Ho noleggiato una macchina per andarla a prendere al Kennedy. Ho parlato con i suoi dottori. Dicono che non ne ha per molto. Ma sono deciso a compensarla, fin che campa, per questi ultimi venticinque anni da quando è morto pa'». Novins sorrise e annuì. «Senti», disse Jay lentamente, con difficoltà, «sono venuto proprio per chiedere se ci fosse qualcosa che vuoi che io faccia... qualcosa che avresti fatto tu se... se le cose fossero andate diversamente».
Novins ci pensò sopra un attimo. «No, credo proprio di no. Niente di particolare. Forse potresti provare a far avere qualche spicciolo alla madre di Jeanine, perché si prenda cura di Jeanine. Non dovrebbe offendersi». «Ho già provveduto. Lo immaginavo che ci avresti pensato». Novins sorrise. «Bene. Grazie». «Qualcos'altro...?». Novins scrollò il capo. Rimasero così, quasi immobili; fuori era scesa la notte. Nell'oscurità, Jay faceva fatica a scorgere Novins contro la parete. Era semplicemente un debolissimo scintillìo. Finalmente Jay si alzò e si rimise il giubbotto, chiuse la cerniera e s'infilò il guanto sinistro. «Vado». Novins parlò tra le ombre. «Sì. Bene, prenditi cura di me, vuoi?». Jay non rispose. Si avvicinò a Novins e allungò la destra. Il tocco della mano di Novins sulla sua fu come quello di un vento gelido; non ci fu pressione. Se ne andò. Novins ritornò accanto alla finestra e guardò fuori. Gli ultimi residui raggi di luce scintillarono attraverso di lui. A stento. VII - Sabato Quando la cameriera entrò per rifare il letto, trovò la camera vuota. C'era un freddo tremendo nella stanza al quarantacinquesimo piano. Quando Peter Novins non ritornò né quel giorno né il successivo, la direzione dell'Americana segnò sul registro che se l'era svignata e girò la cosa a un'agenzia di riscossione. A tempo debito, la nota spese venne inviata all'appartamento di Peter Novins, nei quartieri alti di Manhattan. Fu immediatamente pagata, da Peter Jay Novins, con una breve, ma sincera, nota di scusa. Figli della foresta DAVID DRAKE David Drake ha iniziato la sua carriera di scrittore con diverse storie dell'orrore che si svolgevano in un passato accuratamente ricostruito, in genere nell'antica Roma. Erano racconti così ben costruiti e scritti (dall'horror lovecraftiano all'heroic fantasy stile
Talbot Mundy e Robert E. Howard) da raccogliere un ampio, meritato successo. Figli della foresta non viene meno alle aspettative e, anche se non è ambientato a Roma. Drake pensa che forse si tratti del suo lavoro migliore. Quando Teller entrò proveniente dal campo, nodoso come il manico della sua zappa e dimostrando il doppio dei quarant'anni che aveva, sua moglie disse: «La vacca si è asciugata». Teller aggrottò le ciglia. Aveva sparato fuori le parole come frecce da una faretra. Capì. Come pure capì perché mai lei stesse affilando la nera lama di ferro del loro unico coltello. Teller distolse gli occhi dalla moglie curva e annerita dal tempo, da quegli stessi quarant'anni che avevano distrutto lui. Li girò sulla figlia Lena. E Lena era un abbagliante raggio di sole nell'oscurità della capanna. Aveva sei anni, anche se né suo padre né sua madre sarebbero stati in grado di dirlo a un estraneo senza mettersi a borbottare e a contare sulle dita. Ma lì di estranei non ce n'erano. In quella decina di anni da quando la morte nera aveva spazzato la Germania meridionale, il sentiero che una volta portava alla strada maestra e da lì a Stuttgart era stato sommerso dalla foresta. La capanna era tutto quello che restava della civiltà, una struttura a cupola con due buchi nel tetto di stoppia. Poco prima, Teller, per entrare aveva dovuto piegarsi. Sopra di lui c'era il buco nel tetto che serviva da camino per il fuoco scoperto al centro della stanza. Accanto al fuoco sedeva Lena; stava infilando un altro pezzo di legno sotto la pentola, e poi alzò lo sguardo verso il padre. Il suo sorriso era timido, ma la gioia che sottintendeva era assolutamente genuina, altrettanto genuina quanto il biondo dei suoi capelli coperti di fuliggine. Non ebbe il coraggio di mostrare a Teller i lividi che aveva sotto la camicia, ma sapeva che la madre non l'avrebbe picchiata in sua presenza. «Ho detto che la vacca si è asciugata», ripeté la donna. Lo stridio del ferro sulla pietra accompagnò le sue parole. «Lo sai bene che non possiamo tirare avanti fino al raccolto a mangiare in tre, e niente latte». «Donna, ammazzerò...». «Ma cosa vuoi ammazzare!». Lei scivolò giù dallo sgabello e gli si piantò davanti, le gambe arcuate, e più piccolotta, adesso che era in piedi, di quando se ne stava seduta sullo sgabello. «La carne marcirà in un mese; non abbiamo sale. Tre bocche non tireranno avanti fino all'estate con la carne della vacca.
«Tre bocche non tireranno avanti fino all'estate». Era una donna dura, nera di faccia e nera di cuore. Non badò a Lena, che si fece piccina piccina mentre la madre veniva avanti e porgeva il coltello dal manico di legno a Teller. Lui lo prese, gli occhi vacui, come il pozzo della sua bocca che si apriva e si chiudeva sulla barba. «Forse... posso andare a caccia...?». «Vigliacco!», lo prese in giro la donna. «Ma se hai paura di allontanarti dal terreno disboscato, per timore dei demoni dei boschi! Se hai paura di uscire di casa di notte per andare a pisciare!». Il puzzo proveniente dallo strato di aghi di pino, contro la parete dell'altra parte della capanna, confermò l'affermazione della donna. «Tu, uomo a cacciare non ci vai di certo!». «Ma...». «Uccidila. Uccidila!», strillò, e la limpida voce di Lena gemette disperata, quasi un sottofondo a quelle grida roche. Teller aveva gli occhi inchiodati sull'arma, come se fosse una vipera che gli era scivolata in mano durante la notte. La scagliò via, in preda a una disperazione furiosa, e non badò minimamente al suono improvviso e secco del coltello contro la mola o al sibilo della lama mentre volava via. Il breve silenzio della donna fu completo, come se il coltello fosse penetrato nel suo cuore invece di andare in frantumi. Raccolse la scheggia più lunga, una lista di ferro lunga un palmo il cui filo ancora luccicava, e la tenne fra le mani. La sua voce canticchiava in tono sommesso parole senza senso, mentre Teller stava lì a guardare e Lena andava a rincantucciarsi in mezzo agli aghi di pino. «Non possiamo mangiare tutti e tre e campare fino al raccolto, uomo», disse con calma la donna. E Teller sapeva che aveva ragione. «Lena», disse lui, guardando non la ragazza ma il mantello spiegazzato sul pavimento di terra battuta. Era di pelle di manzo, tutto consunto e col pelo strappato a chiazze: erano passati tanti anni da quando l'aveva scambiato con delle uova da un venditore ambulante di passaggio. Quello era stato l'ultimo dei venditori ambulanti, e non c'era più pollame da quando i dèmoni dei boschi si erano fatti più audaci. «Piccola», ripeté, un po' più forte, ma con soltanto dolcezza nella voce. Con la sinistra prese il mantello e con la destra accarezzò la figlia tra le scapole. «Vieni, andiamo a fare un giretto, tu e io». La donna indietreggiò di nuovo contro la parete della capanna. I suoi occhi e la lama del coltello avevano lo stesso bagliore tagliente.
Lena sollevò il volto all'altezza delle ginocchia di suo padre; le sue braccia, forti di tutti quei muscoli, la sollevarono contro il suo petto. Il mantello l'avvolse e Lena si sforzò di liberare il volto. «No, facciamo un gioco», disse Teller. Si raschiò la gola, poi sputò rumorosamente sul fuoco prima di poter continuare. «Non guarderai dove andiamo. Terrai nascosta la testa. Va bene, piccola?». «Sì, papà». I riccioli, dolci come oro macchiato dalla fanghiglia del fiume, si agitarono, mentre, obbediente, nascondeva il volto nel petto del padre e lasciava che lui la ricoprisse di nuovo con il mantello di pelle. «L'arco, donna», disse Teller. Silenziosamente lei si girò e glielo porse: una manufatto piccolo, flessibile, opera della sua ingegnosità. Unite c'erano le ultime tre frecce residue, ben dritte con le punte di ferro: le piume della coda erano ridotte a un ciuffo gramo. I muscoli della sua mascella cominciarono ad agitarsi furiosamente. Respinse violentemente l'arco, mentre nodi rabbiosi andavano formandosi sulla superficie del suo braccio sinistro, nudo. «Tendilo! Tendilo, cagna! Oppure...». Lei arretrò davanti alla sua rabbia e svelta gli obbedì, tendendo la corda a fatica. Il legno era troppo flessibile per formare un buon arco, ma un arco più rigido avrebbe spezzato la corda, fatta di fibra di legno. Teller uscì dalla capanna, senza degnarsi di rivolgere più la parola alla moglie. Mancava qualsiasi punto di orientamento, eccetto il sole. E anche quello era solo uno scintillìo povero, fiacco, in mezzo ai pini allineati e agli abeti rossi. Erano tutti giganti della foresta, vecchissimi, eccetto nelle radure, dove il tempo o i fulmini avevano buttato a terra un gigante e fornito una possibilità di crescita alla vegetazione minore. L'uomo non aveva mai fatto incursioni serie in quella zona della foresta, neppure prima che la peste sterminasse un terzo della popolazione del continente. La paura aveva spinto Teller e sua moglie a fuggir via con la loro prima figlia, abbandonando il villaggio per portarsi in una zona deserta e disboscata, lontana dal contagio. Là, però, c'erano altre paure, diverse da quella della morte nera, cose delle quali si parlava soltanto per sottintesi in un villaggio affaccendato. Esse, nella foresta, divennero macchie di oscurità più intensa nelle ombre. Divennero passi pesanti nelle notti senza luna. Adesso gli erano vicini. Teller allungò il passo, senza guardarsi né intorno né alle spalle. Non era un uomo intelligente, ma sapeva per istinto che se avesse preso piena coscienza di quello che provava, sarebbe stato perduto. Sarebbe rimasto bloccato, del tutto incapace di muoversi. Sarebbe rimasto piegato contro
una pianta fin quando sarebbero venuti a prenderlo la fame o i dèmoni. Lena cominciò a canticchiare a bocca chiusa un motivetto. Benché stonato, si riconosceva benissimo che si trattava di una ninnananna. La moglie di Teller non si era mai disturbata a cullare Lena per farla addormentare, ma la loro figlia maggiore, nata prima del tuffo nella barbarie, aveva assimilato a sufficienza i ricordi della sua infanzia per riuscire a trasmetterli alla sorella. Non era stata la peste a prendersi la ragazza, e neppure i dèmoni. Si era trattato, piuttosto, di uno stato di grave malessere generalizzato, una carestia durata sette anni in una situazione ambientale che ti lasciava vivere ma che non faceva niente per renderti sopportabile la vita. Alla fine era morta, probabilmente risparmiando a Teller la prima agonia di un giro come quello che stava facendo in quel momento. Decise che si era allontanato abbastanza. Un giovane abete rosso si alzava bruscamente in mezzo a tre alberi adulti. Benché avesse un diametro di solo un palmo di larghezza, i rami più alti erano a un buon tre metri d'altezza. Formava un pilastro più saldo di quello a cui era stato martirizzato Sebastiano. Teller mise giù la piccola e le disse: «Adesso, Lena, tu aspetti qui un momento, accanto a questo albero». La bimba aprì gli occhi, per la prima volta da quando era uscita di casa con il padre. Le conifere attorno a lei erano punte di lancia conficcate nel terreno. Rami color verde-nero fremevano a ogni alito di vento. La bimba strillò, poi si chetò, poi strillò di nuovo. Di fronte a quegli strilli e al terrore panico che emanava dallo sguardo fisso della piccina, anche Teller fu preso dal panico. Smise di trafficare, maldestramente, attorno alla corda attorcigliata attorno al suo polso, e le diede un ceffone. La palma della mano segnò la fuliggine sulla guancia della bambina. Lena fece un balzo all'indietro contro il tronco dell'abete rosso, stordita più psicologicamente che fisicamente dalla botta. Chiuse la bocca, senza battere ciglio, poi si voltò di scatto e scappò via. Teller soffocò paura e rimorso, mentre raccoglieva in fretta l'arco per correrle dietro. Lena correva come un daino spaventato. Non avrebbe potuto sfuggire a un omone, ma le ombre terrificanti le vennero in aiuto. Quando Lena deviò bruscamente attorno al tronco squamoso di un abete canadese, Teller, che la stava inseguendo, fu mandato a gambe all'aria da un ramo. Si rialzò, raccolse le frecce che, nel cadere, si erano sparse in giro. Incoccò quella che aveva la coda migliore, anche se, a chi glielo avesse eventualmente chiesto, non avrebbe saputo spiegare che intendesse farne. «Lena?», chia-
mò a voce alta. Ma gli alberi risucchiarono la sua voce. Attirò la sua attenzione un fruscio e un baluginìo luminoso; ma era la coda variopinta di uno scoiattolo che saltava sulla cima di un abete rosso. Teller allentò la tensione sulla corda del suo arco. Ci fu un rumore dietro di lui; si girò di scatto. Lena, rannicchiata tutta tremante accanto a un gigante caduto da tanto, tanto tempo che gli alberi attorno a lui avevano quasi il suo stesso diametro, sentì il padre muoversi lì vicino, inciampando continuamente. Il suo piagnucolìo atterrito si fece quasi un silenzio, come lo srotolarsi delle gambe dei millepiedi sulle foglie ammuffite davanti al suo naso. Sentì Teller che la chiamava. Poi sentì un doppio urlo spettrale, che fu sommerso dal colpo secco del tendersi della corda dell'arco. Poi, più nessun suono di voce; soltanto un grugnito e il rumore cavernoso di qualcosa che si spaccava contro il tronco di un albero. Poi, per un attimo, ci fu proprio silenzio. «Cu-u?», tubò una voce troppo cupa per essere quella di un uccello. «Cu-u-u?», ripeté, adesso più vicino a Lena, sebbene lei non avesse avvertito per nulla lo scricchiolare dei rametti rotti che aveva segnato, invece, l'avvicinarsi del padre. «Cu?», ed era proprio sopra di lei. Aveva quasi quasi più paura a guardare in alto che a non guardare per niente. Lena alzò lentamente gli occhi. Era chino sull'albero caduto e la guardava attentamente. Una larga faccia con due occhi neri, duri, e un naso rincagnato. Le labbra, sogghignanti, erano nere, la pelle rosa dove era possibile scorgerla, sotto la pelliccia color ruggine. Lena aveva le mani incollate sulla bocca e si morsicava le nocche. Appoggiandosi con le mani, quell'essere volteggiò sul tronco caduto, senza fare il minimo rumore. Era alto più o meno come il padre di Lena, ma era molto più largo di petto. Le palme delle mani e le piante dei piedi erano prive di pelo, che invece ricopriva tutto il resto. Allungò la destra e strappò via la freccia che pendeva malamente dalla sua spalla sinistra. Un rubino di sangue macchiò la pelliccia in quel punto. Però il torso e le lunghe braccia della creatura erano già tutte imbrattate di sangue non suo. Allungò le mani verso Lena. Lei avrebbe voluto urlare di nuovo, ma la sua mente era tutta immersa in una macchia bianca. «Cu-ri?», chiese una voce armoniosa nell'orecchio di Lena, e lei si risvegliò sbattendo le palpebre. Una bambina, con un largo timido sorriso, la
stava osservando; una bambina così innocente che Lena dimenticò tutte le sue paure. Eppure anche la piccola era coperta di pelliccia come l'adulto che doveva aver portato Lena nella buca erbosa nella quale adesso si trovava. Un sorriso che mise a nudo denti quadrati, ingialliti, spaccò la pelliccia, e la piccola creatura - addirittura più piccola di Lena, benché più in carne - le offrì due manciate di radici di abete canadese, accuratamente ripulite dalla polvere. La pelle delle sue mani era d'un intenso color nero onice, in netto contrasto con le unghie spezzate, ramate. Altrettanto intimidita quanto la sua benefattrice, Lena prese le radici e ne sgranocchiò una fra i denti. Il rametto aveva un gusto pieno, quasi come di carne, e una pastosità che riusciva piacevole alle sue gengive. Ricambiò il sorriso. Sentì un leggero tubare sulla cresta della buca. Si voltò di scatto. Rimase a bocca aperta alla vista della creatura maschio, dal grande petto, che aveva incontrato nei boschi, adesso in compagnia di altre due creature più basse, una per lato. Alla sua destra c'era una femmina con quattro mammelle, più esile del maschio e leggermente curva. L'altro uomo dei boschi (ma la mente di Lena, terrorizzata, urlava ancora: dèmoni, troll), l'altro era un bambino, evidentemente maschio e di un colore più chiaro rispetto ai genitori. La sua rotondità non si era ancora aperta alla fibrosa muscolatura da adulto, e il suo sorriso nervoso era un riflesso di quello della sorella. Lena si alzò in piedi. Si era sentita raggelare, e la vivida luce del sole parve fosse di colpo spazzata via come da un blocco di ghiaccio. Il maschio adulto si era lavato dopo l'ultima volta che l'aveva visto: la sua pelliccia era tutta bella pulita, eccettuata, naturalmente, la macchia sulla spalla sinistra. Affiorò un'altra goccia di sangue e la femmina, scorgendola, tubò irritata e annusò la ferita. Poi digrignò i denti e la leccò. Il maschio la respinse con gentilezza, mentre teneva gli occhi inchiodati su quelli di Lena. Tutta tremante, ma piena di un coraggio che non sapeva di possedere, Lena mordicchiò un'altra radice di abete canadese, poi allungò quello che restava alla gente dei boschi, che la stava osservando. I tre che le erano di fronte cominciarono a saltare dalla gioia, e un caldo irsuto braccio le circondò le spalle. La famiglia, di cui adesso Lena faceva parte, era sempre in giro in cerca di cibo, e perciò, necessariamente, non avevano dimora fissa. Dopo un mese di permanenza nella buca scavata nel Giura dal caso o da un antichissimo fenomeno vulcanico, passarono un paio di settimane a setacciare un corso d'acqua, fermandosi ogni notte a dormire in un posto diverso. Quella
primavera il cibo fu abbondante e durò per tutta l'estate: radici e bacche, germogli di abete rosso e tenere punte di altri vegetali; uova d'uccelli, finché c'erano, però mai gli uccelli. Lena era troppo giovane per ricordarsi delle ultime galline dei suoi genitori. Inoltre, sapeva che erano morte in una scorreria contro il pollaio prima che i suoi avessero il tempo di tirar loro il collo. Calmò, quindi, una residua punta di disagio. Cercò di non pensare mai, per nessun motivo, a Teller. Il padre della famigliola era Kort, di umore costante ma dotato di una forza da far paura. Piuttosto che arrampicarsi su un noce per raccoglierne i frutti, prima che gli scoiattoli ne facessero piazza pulita, sarebbe andato a scovare, lì intorno, qualche enorme macigno o il più grosso ramo caduto che fosse riuscito a trovare e si sarebbe messo a sbattacchiarlo violentemente contro il tronco, ricoprendo se stesso e il terreno dei frutti maturi. Era sempre Kort che si accollava camminate di un'intera giornata per portarsi alla caverna nella quale la famiglia svernava, per portare, in un sacco ricavato dalla corteccia d'albero, le eccedenze fatte seccare del loro raccolto. Le riserve per l'inverno venivano conservate sotto una pietra fissata a tenuta stagna, in modo che neppure un topo ci si potesse infilare sotto, e troppo massiccia perché potesse essere spostata dai goffi arti di un orso. Se la forza di Kort era l'elemento basilare su cui si fondava l'esistenza stessa della famiglia, era, però, la mente acuta di Kue-meh, la sua compagna, che provvedeva a dirigere quella forza. Le sue dita tessevano le fibre vegetali meristematiche traendone tessuti soffici e flessibili quanto quelli di lana o di lino dei villaggi al di là della foresta. La gente dei boschi usava quei tessuti per trasportare la roba ingombrante, ma non per farsene indumenti, anche se Lena una volta, con ben poca abilità, si era tessuta un cintura traversa per se stessa, quando la sua camicetta si era ridotta a brandelli. Kue-meh dirigeva la raccolta dei viveri, valutandone gli sviluppi e decidendo quando la famiglia dovesse muoversi, e dove. Era in grado di dire a colpo d'occhio quali noci fossero sane e buone e quali invece fossero state svuotate dentro il guscio dal verme. Nei primi tempi i ragazzi non vennero mai lasciati completamente soli, perché nella foresta c'era pericolo. Non tanto gli orsi, perché la loro forza e il loro caratteraccio erano messi fuori causa dalla loro goffaggine, e comunque preferivano altri cibi. Perfino Lena divenne ben presto capace di arrampicarsi su un albero prima che a un grugnito stizzito facesse seguito una carica. Una minaccia potenziale molto maggiore era costituita dalle linci, perché erano veloci e avevano la stessa preferenza per il sangue co-
mune a tutti i felini. Eppure Chi, la bambina dei boschi, la più piccola dei tre ragazzi, adesso pesava già circa sedici chili, ed era troppo forte e vivace per essere una preda facile. I lupi, però... I lupi... Quegli ossuti, grigi assassini non avevano praticamente paura di niente. Forse del fuoco... Ma ne aveva ancor più paura la gente dei boschi. E Lena imparò ben presto a evitare il fuoco, quando venne colpita da un albero schiantato da un fulmine. Dalla primavera all'autunno i lupi vagavano per la foresta, isolati o a coppie, dando la caccia a una daina grassottella o a un cerbiatto ben in carne, per saltargli addosso e divorarselo. Come quasi tutti i grossi carnivori, i lupi sceglievano la preda non tanto in base all'appetito, ma al capriccio. E dopo anni di caos e di pesce, alcuni di loro avevano preso gusto a mangiare uomini. Le lunghe gambe di Lena e il nuovo senso di libertà, derivato dal fatto di percorrere in lungo e in largo la foresta con quella gente che considerava gli alberi come una casa, finirono quasi per portare lei e Faal, il giovane maschio, tra quelle fauci dai denti aguzzi. Stavano scavando delle radici tenere, servendosi di pezzi di legno ben appuntiti e di sacchi di tessuto vegetale. Kue-meh era lì vicino e filava. Faal girò attorno a un enorme abete canadese piazzandosi da una parte e Lena dall'altra, quella più lontana. All'improvviso Lena sentì la voce dei boschi vuoti: un coro di nero, verde e marrone. Lasciò cadere la sua roba, ridendo in silenzio, e poi filò via come una freccia in mezzo alle navate di alberi. Faal sentì il rumore dei suoi passi: mesi passati in quello stato selvaggio avevano modellato i passi di Lena, ma non in modo tale da non poter essere sentiti da orecchie di gente nata lì. Le corse dietro senza neanche chiamarla, forse senza neppure pensarci. Faal stava rapidamente sviluppando il petto massiccio del padre, ma mostrava chiaramente di esserne anche l'immagine speculare a livello intellettivo. I due ragazzi erano scomparsi da un minuto o anche più, prima che Kue-meh alzasse gli occhi da quello che lei e Chi stavano facendo e si rendesse conto che gli altri due, di cui si doveva prendere cura, erano spariti. Urlò dalla rabbia, ma Faal era ormai troppo lontano per sentirla, e Lena era davanti a lui. Fu un correre all'impazzata sopra un tappeto di aghi e di stecchetti di abete. Faal era più forte, e sul tempo avrebbe resistito certamente di più, ma le gambe di Lena facevano invidia a una daina. Faal sulle sue tozze gambe, non sarebbe mai e poi mai riuscito a superare la ragazza. Ma i due lupi che convergevano su Lena in un boschetto di faggi erano ancor più veloci di
lei. Lena si bloccò, sulle prime troppo colta di sorpresa per provare paura. Faal aveva scherzato, le era saltato addosso, prima di rendersi conto del motivo per cui si era fermata. Appoggiò malamente i piedi sulle foglie ammuffite e scivolò. Il più vicino dei due lupi dalla lingua rossa abbassò la coda e s'incurvò. Lena, senza riflettere, si intromise tra Faal e il grigio assassino. Il lupo si tirò indietro. Non era soltanto l'odore di un vero uomo, di quelli che mettono tutto a ferro e fuoco quando lui si era aspettato di trovare unicamente membri della gente dei boschi. Lena, di per se stessa, possedeva qualcosa che le permetteva, a lei ragazzina sedicenne, di affrontare una coppia di lupi. Ognuno di loro era almeno la metà della ragazza. Restarono lì, immobili, per un attimo. Poi fuggirono via. Un attimo dopo Kue-meh si precipitava nella radura, con Chi sotto il braccio sinistro e un randello di due metri nella destra. Ma dei lupi si sentiva soltanto l'odore. Lena e Faal furono picchiati di santa ragione per essere scappati via, però Kue-meh passò il resto del pomeriggio a pensare. In seguito lasciò che i tre ragazzi andassero in giro, purché i suoi due si tenessero molto vicini a Lena. La fame totale dei primi anni di vita e la successiva dieta vegetariana avrebbero dovuto arrestare la crescita di Lena. Invece si fece molto alta e snella, fino a sorpassare rapidamente Faal e Chi. La gente dei boschi amava molto la pulizia; per cui la fuliggine che aveva sfigurato Lena nei primi sei anni di vita scomparve nel ruscello alimentato dal ghiacciaio, ruscello che si trovava vicinissimo alla buca nella quale si era unita alla famigliola. Lei aveva la pelle chiara e, anche se esposta al sole e al vento, non assunse mai quel colorito scuro caratteristico dei suoi genitori. Durante l'estate il suo colorito diventava bruno caldo, la pelle segnata delle sottili croste delle incisione prodotte dai rovi. Durante l'inverno il colorito richiamava il colore giallo vellutato dell'avorio antico, ingiallito da due mani stupende, adorabili. I capelli facevano da corona a questo splendido corpo e a questa stupenda carnagione. Non erano mai stati tagliati, conseguenza dell'apatia della madre più che di qualche interesse per la bellezza della bambina. Lavati e accuratamente cardati con dei bastoncini da parte di tutti e quattro gli abitanti dei boschi, adesso le ricadevano sulle spalle come un fiume d'oro liquido. Sciolti, quei capelli, mentre correva, sembravano un fiume radioso. Però, poi, cominciarono a spezzarsi, a impiastricciarsi, ad accorciarsi. Allora Faal prese a intrecciarli tutte le sere, imitando il modo in cui Kue-meh
intrecciava le fibre legnose. Dapprima semplici, gli schemi si fecero sempre più complessi, e cambiavano ogni sera. Quei capelli erano la delizia di Faal. Durante le lunghe serate invernali passò ore e ore a fare e disfare le sue trecce. Lena sopportava quelle premure, ma la sua mente vagava al di là delle gentili dita del ragazzo. C'era un altro predatore nella foresta, anche se Lena doveva arrivare ai dodici anni prima d'incontrarlo. Lena si trovava a miglia di distanza dall'alta rupe scoscesa che la famiglia occupava in quel momento. Insieme a Kort stava andando verso la caverna in cui avrebbero trascorso l'inverno, quando risuonò un corno, molto vicino. La reazione di Kort fu di panico. Danzò in un piccolo cerchio di indecisione, poi cominciò ad arrampicarsi con quattro mani su un magnifico abete. Il sacco dei viveri sobbalzava a ogni movimento della schiena, sparpagliando un po' dappertutto mazzetti di tenere radici di abete canadese. I piedi di Kort e la sua lunga mano destra (la sinistra sosteneva il sacco e, in ogni caso, non l'aveva mai più alzata al di sopra delle spalle da quando la ferita prodotta dalla freccia si era cicatrizzata) l'avevano portato già a metà tronco, prima che si rendesse conto che Lena avanzava molto più lentamente di lui. Non era soltanto questione di forza. Benché la gente dei boschi non avesse il pollice opponibile sui piedi, il loro controllo sui muscoli del piede era molto maggiore di quello della varietà razziale a cui apparteneva Lena. Kort scese di nuovo, emettendo un fiume di parole con un tono di voce del tutto indignato. Lena, atterrita dalla situazione incerta, cercò di obbedire e perse la presa, piombando a terra da un'altezza di tre metri. Il nervosismo e l'ira di Kort scoppiarono in un'accozzaglia di sillabe. Alla fine il maschio tarchiato si slanciò sul tronco con salti impressionanti. Ficcò il sacco delle provviste nella biforcazione di un enorme ramo a ventiquattro metri d'altezza, poi si buttò giù verso Lena con quattro incredibili balzi. Tirò su la ragazza con la stessa delicatezza con cui trattava il sacco e risalì sull'albero con la stessa velocità con cui ne era sceso. Rabbrividendo per la paura, schiacciata tra il tronco e il massiccio petto ansante di Kort, Lena guardò giù verso il suolo. Era così lontano, là sotto, e tremolava nella brezza. Il corno suonò ancora, molto vicino. Un cervo uscì fuori, vacillante, da un gruppo di abeti, la lingua grigiastra ciondoloni, la bava che gli colava agli angoli della bocca. A venti metri di distanza dall'albero su cui si erano rifugiati Kort e Lena, il cervo cadde sotto i denti poderosi di una coppia di mastini. Ambedue i cani erano grossi quanto la loro vittima. Il cervo ruotò su se stesso. Uno dei due enormi cani,
maculato, si attaccò alla gola del cervo; l'altro afferrò la zampa anteriore destra. Ci fu un turbine di foglie e ramoscelli. La spina dorsale del cervo si spezzò di colpo, come il primo schianto che segue il fulmine. Adesso sul piano della foresta c'erano una dozzina di cani che andavano e venivano, segugi ammaestrati a tirarsi indietro dopo aver guidato i mastini assassini alla loro preda. Abbaiavano e saltavano, pretendendo pezzi del cervo che ancora si agitava negli spasimi della morte. Poi arrivarono i cavalieri, due cacciatori vestiti di verde con grandi barbe e lunghe fruste, con cui percuotevano quella muta disordinata... E arrivò un terzo uomo, un giovane i cui capelli brillavano quasi candidi in un fortuito raggio di sole. Si piegò all'indietro sulla sella del suo enorme stallone grigio e scoppiò a ridere al cielo. Lena si sentì raggelare, vedendo che guardava in alto. Però lui non stava cercando tra le punte degli alberi. Stava soltanto scoppiando di gioia di fronte alla morte. Era splendido, perfetto ai suoi occhi. Adesso i cavalieri erano tanti, e c'erano anche molti uomini a piedi, tra cui gli addetti ai cani, irsuti e feroci quanto le bestie che stiracchiavano il cervo lacerato. Si vide luccicare un enorme coltello. Con quello il cacciatore tagliò le orecchie del cervo e la sua coda, per il giovanotto che stava ancora ridendo. Un'inattesa emozione aveva spazzato via la paura dalla mente di Lena. Senza neanche sentirsi meravigliata, Lena spalancò gli occhi per non perdere nulla della scena sottostante: un numero di uomini più di dieci volte superiore a quanti non le fosse mai successo di vederne; e, intanto, i suoi occhi si imbevevano di ogni movimento, di ogni minimo dettaglio del giovane cavaliere in rosso e oro. Coltellacci, manovrati con abile destrezza e sveltezza, squartarono il cervo, spargendo in giro le budella in pasto ai cani. I mastini si adagiarono su un fianco, in disparte, più o meno all'altezza degli uomini a piedi, che li adocchiarono con sguardi nervosi. Quegli assassini venivano nutriti una volta al giorno e disdegnavano di mostrare interesse alla scena che essi stessi avevano scatenato. Soltanto la lingua si muoveva rapidamente e si avvolgeva su se stessa, infinitamente flessibile mentre si leccavano le mascelle insanguinate. Il lamento di Kort cominciò ad affievolirsi soltanto quando la gente là sotto cominciò ad andarsene. I cani erano stanchi e satolli. Uggiolarono quando gli inservienti li misero alla catena, in coppie. Comunque lasciarono che gli uomini facessero loro ripercorrere la strada che avevano fatto venendo lì. Due muscolosi servitori infilzarono, su un palo, il cervo sbu-
dellato e trotterellarono via dietro il giovanotto a cavallo. I cavalieri si ammucchiarono dietro di loro, chiacchierando e ridacchiando, finché furono troppo lontani per poterli sentire. Non restò nulla, salvo una profonda traccia grosso modo rotonda sopra il tappeto di foglie ammuffite. Il corno stava suonando una danza. E sembrava ancora lì sospesa nell'aria quando era ormai di fatto impossibile sentirla. «Il cavalier Karl», stava mormorando Lena, parlando a se stessa. Pronunciò malamente, con il pesante accento dei suoi genitori, il nome che aveva sentito pronunciare con rispetto dai servitori. «Karl von Arnheim...». Kort, che stava già ripigliando il sacco dei viveri, non le prestò la minima attenzione. Lena, comunque, continuò a pronunciare e pronunciare quelle poche sillabe. Passarono mesi e mesi. Ogni tanto c'era qualche vero uomo nella foresta: un paio di viaggiatori nervosi con tanto di fagotto e bastone da viaggio, vaganti fra le ombre; un vagabondo, i cui cenci erano impregnati dal pus delle sue ulcere; una volta una dozzina di uomini tutti in un colpo, armati e smunti come lupi: portavano abiti vistosi mal assortiti e una decina di anelli su ciascuna mano. Il gruppo di cacciatori di von Arnheim non passò più abbastanza vicino perché Lena fosse in grado di sentirlo e di correre da loro. La gente dei boschi si spostava continuamente, però non a casaccio. I vagabondaggi di Lena, dapprima per ore, in seguito per giorni interi, furono causa di grande ansietà per la famiglia. Kue-meh fece valere le proprie ragioni in sua difesa, ma il mellifluo, tubante linguaggio del popolo non aveva parole per le emozioni che stavano trascinando la ragazza. Le discussioni finirono ben presto, perché adesso nessuno della famiglia era in grado di raggiungere Lena quando se ne scappava via. Un popolo che vive di foraggio impara a non disperdere energie. I viaggi di Lena procurarono sì, alcune nozioni che avrebbero potuto tornare utili: fonti di approvvigionamento a cui la famiglia avrebbe potuto attingere adesso o nel futuro, caverne che si aprivano su entrate troppo strette perché vi si potesse infilare un orso. Ma sempre più spesso il vagabondare di Lena si svolgeva ai confini dei campi coltivati dagli uomini; e questo lei non andò a riferirlo al popolo dei boschi, sapendo istintivamente che se l'avesse fatto niente avrebbe trattenuto Kue-meh dall'ordinare di muoversi immediatamente per addentrarsi miglia e miglia all'interno della foresta. E, già adesso, quelle scorribande erano notevolmente faticose. Gli inse-
diamenti si erano allontanati dalla foresta, fatta eccezione per le capanne isolate, com'era stata quella di Teller. Erano più numerosi di quanto Lena avesse potuto immaginare al tempo in cui la foresta era per lei una barriera insormontabile che la teneva come imprigionata. Solo raramente, però, gli abitanti avevano cercato di coltivare il suolo magro, come invece avevano tentato di fare i suoi genitori. La maggioranza facevano i carbonai, uomini anneriti, o coppie troppo curve per rivelare distinzioni di sesso, che si spingevano sempre più addentro nella foresta per trovare gli alberi di noce o di quercia con cui alimentare i loro forni insaziabili. Le loro baracche erano malconce e in disordine, certe volte una semplice tettoia adagiata in qualche modo contro un gigante della foresta. Erano i forni che costituivano i veri punti di riferimento, troppo pesanti e bisognosi di continue cure per essere abbandonati per luoghi più vicini al combustibile. Le spedizioni sempre più frequenti alla ricerca di una quercia all'interno della foresta sempreverde, per poi abbatterla e portarla faticosamente ai forni, tutto a spalla d'uomo, non lasciavano tempo a disposizione per costruirsi un altro forno. Dispersi dalla peste, i contadini isolati erano uomini che avevano cercato di fuggire alla morte continuando a scappare e ne avevano rinviato l'arrivo di un mucchio di anni, passati però nella più squallida miseria. Sia i contadini che i carbonai erano presi tra l'incudine e il martello: i carbonai tra il deprezzamento del mercato e la scarsità della materia prima; i contadini tra il progressivo declino della fertilità del suolo e la sempre più totale carenza di strumenti di lavoro. Persino il terzo gruppo, i cacciatori, si era assottigliato di numero, anche se ci si era aspettato il contrario. La selvaggina era tornata nelle radure quando gli uomini erano completamente spariti nel nero dilagare della peste. La foresta, però, si era fatta ancor più cupa. E anche quelli che ci avevano vissuto per decine e decine di anni avevano cominciato a filar via, verso l'esterno, alla luce del sole. I dèmoni che ossessionavano la mente degli uomini nella foresta non erano affatto la gente dei boschi. In tutte le sue scorribande, Lena non aveva trovato nessun segno di uomini pelosi al di fuori di Kort e della sua famiglia. Cercò anche più lontano, nelle zone dove c'erano ancora campi coltivati sparsi qua e là, e dove gli uomini aravano la terra con le bestie, invece di limitarsi a graffiarla con dei bastoni. All'imbrunire sgusciava lungo le staccionate, senza fare il minimo rumore, tanto che le galline, dentro, non si
agitavano. Se c'erano cani, questi si alzavano, le si avvicinavano, l'annusavano, uggiolavano e poi se ne andavano. Di tanto in tanto qualche bestiaccia testarda annusava più a lungo la ragazza, finché le sue dita la accarezzavano, attraverso le palizzate, facendola uscire in un brontolio soddisfatto. Gli animali domestici le erano completamente sconosciuti. Ma Lena prestò loro ben poca attenzione. Era venuta nel territorio degli uomini per trovare un uomo. Le capanne dei contadini erano senza finestre, qualche volta di pietra o di legno, ma più spesso di canna impastata di fango. Quando le costruzioni erano illuminate, gli occhi della ragazza trovavano delle fessure e scrutavano a fondo i volti di abitanti addormentati che uscivano per riposare all'aria aperta. Ma l'uomo che lei cercava non abitava certo in una tana. Passarono comunque molti mesi prima che Lena si rendesse conto di questo, dal momento che chi l'aveva educata non le aveva mai parlato di signori e signorotti. Le stagioni passarono. Un mese di ricerche divenne dodici mesi, e la vita di Lena si svolgeva ancora quasi interamente nella foresta. Le scorribande al di là della foresta erano aperture esaltanti, che scintillavano per far esplodere le beneamate pareti di quella prigione. La bambina si era fatta una ragazza slanciata, muscolosa, con cosce da gazzella, pur conservando sempre quella snellezza che era stata sua fin da principio. La gènte dei boschi faceva molte cose con grazia, ma non era capace di correre. Faal osservava stupefatto le improvvise esplosioni di esuberanza di Lena, i suoi scatti fulminei attraverso una radura o in un roveto senza un passo falso. Gli occhi di Faal brillavano dello stupore e della delizia di un profeta al quale è sceso dal cielo un angelo. A sera le sue unghie color rame scintillavano, mentre intrecciava quei capelli in un modo stupendo. In un mondo di uomini in cui i racconti scarseggiavano, il fantasma biondo divenne leggenda già prima che se ne spargesse veramente la voce. I contadini annuivano e bevevano la loro debole birra, mentre uno di loro lavorava di fantasia attorno a quella ch'era stata la visione di un istante. Lena divenne, in bocca a qualcuno, un angelo di dio; per altri uno spirito dell'inferno, alla caccia dell'anima di un bambino per rapirla. Molto più spesso le storie avevano radici ancora più profonde, nel più intimo dell'animo dei contadini (erano radicate in loro come neppure Cristo avrebbe mai potuto esserlo) e voci sussurranti parlavano di ombre delle foreste e di
spiriti della terra. La meraviglia della maggioranza degli uditori divenne curiosità professionale in Rausch, il cacciatore. Il coltello alla sua cintura, affilato su un masso di granito portato giù dalla corrente, aveva una montatura in argento su cui spiccava il dragone alato a due rampe dei von Arnheim. Il cavaliere Otto, padre di Karl, l'aveva regalato a Rausch, ventun anni prima, per sostituire il coltello che il giovane cacciatore aveva rotto contro la scapola di un cinghiale. Senza badare a quelle zanne acuminate, Rausch, aveva lottato a mani nude con la bestia nella polvere, ai piedi della moglie incinta del cavaliere. Da quel giorno aveva sempre cavalcato alla destra di Otto, e, dopo di lui, alla destra di Karl. Non avrebbe scambiato quella lama per lo scettro dell'imperatore. Aveva piena disponibilità del proprio tempo, salvo quando von Arnheim era a caccia. Se gli saltava in mente di esaminare dettagliatamente una siepe di divisione, standosene ginocchioni, annusando come un cane, chi mai avrebbe potuto avere qualcosa da ridire? Così Rausch ascoltava e osservava, mentre il suo cervello, con la stessa precisione di un muratore che stia costruendo una cattedrale, stava costruendo la battuta di caccia più favolosa che avrebbe dato la gloria a lui e al suo padrone. Quando abbaiò il primo cane, Lena non ci badò. Adesso sapeva, per esperienza ormai lunga, che i cani non le erano ostili. Era lontana dalla famiglia ormai da tre giorni. Passava le ore di luce al limitare della foresta, poi di notte si tuffava sempre più profondamente nel territorio scoperto, più di quanto non avesse mai fatto sino ad allora. Il castello che si ergeva grigio su un roccione isolato aveva attirato la sua attenzione già da mesi. Aveva però rinviato il momento di accostarvisi, per gustarlo di più. Adesso si era finalmente avvicinata, furtiva, a quello che era il vero bordo delle mura. Lasciò che le sue dita accarezzassero la pietra ruvida. Era facilissimo scalarlo, però quello che vi stava celato la spinse a non farlo subito, ma solo dopo averci riflettuto a lungo nell'intimo della foresta. Pensando a questo Lena era tornata indietro, correndo veloce tra i campi, più pressata dalla fretta che da una scelta volontaria, giacché, mentre era rimasta a osservare il castello, aveva lasciato che l'alba si avvicinasse un po' troppo. Il secondo festoso squillo di tromba avrebbe potuto benissimo essere un'impressione superficiale, se non fosse stato immediatamente seguito dall'eco di un corno di caccia. Lena era già in mezzo agli alberi. La sua prima reazione fu quella del
suo padre adottivo: scegliersi la pianta più alta e nascondersi tra i rami. L'intuizione che quella battuta di caccia non avrebbe attraversato il suo sentiero a caso la fece fuggire a capofitto. Era in preda al panico, pessimo consigliere, brutale e violento, che la svuotò di quella forza che in circostanze diverse l'avrebbe salvata. Corse per chilometri e chilometri, saltando ostacoli nella continua paura che i cani le fossero di nuovo addosso. Ma non accadde. Allora si girò indietro, i nervi a fior di pelle alla ricerca di quale fosse l'oggetto della sua paura, la spalla scorticata da una giovane quercia. Nient'altro che un'occhiata rapidissima, ma fu sufficiente per spezzare la corsa e permettere che la reazione del suo sforzo incontrollato la buttasse a terra. E mentre giaceva singhiozzando sul tappeto di aghi, i cani abbaiarono di nuovo e il corno risuonò ancora. Aveva guadagnato terreno sui suoi inseguitori; ma loro sapevano bene, uomini e cani, che una battuta di caccia veniva decisa negli ultimi istanti, non all'inizio. Tenevano il loro passo, costante, guidati da quella certezza. Con il necessario allenamento Lena avrebbe potuto correre tutto il giorno. Nelle tenebre, quando gli uomini erano ciechi e i cani nervosi e senza nessuna voglia di proseguire, sarebbe scomparsa. Una notte passata nell'agitazione e senza dormire, e quella disastrosa galoppata, l'avevano distrutta. Il terrore la riportò sui suoi passi, ma adesso non era più in grado di forzare l'andatura. Avesse avuto tempo a disposizione per scegliere dove dirigersi, Lena avrebbe potuto trascinare la battuta di caccia in zone vuote della foresta, dove soltanto gli scoiattoli avrebbero potuto essere disturbati dal suo passaggio. Il terrore spazzò via ogni possibilità di simili calcoli, e lei si tuffò invece verso un boschetto di cedri dov'era stata ultimamente con la gente dei boschi. Può anche darsi che Lena si sarebbe comportata così in ogni caso: non le avevano mai dato la caccia, ed era assolutamente priva degli istinti di chi era nato nello stato selvaggio. Il sole era già alto sull'orizzonte quando una splendida penna d'oca segnalò a Lena, che si guardava indietro, il più vicino dei cacciatori. La penna oscillava avanti e indietro, visibile quando il cappello verde e l'uomo e il destriero sotto di lui non lo erano affatto. Lena si voltò come se ormai non provasse più niente, il volto un cammeo d'avorio, le gambe due colonne di bronzo. Mentre correva non muoveva le braccia a stantuffo, su e giù. Evitò così di provocare crampi al torace, mentre le grandi vene delle gambe conservavano ancora un perfetto equilibrio di ossigeno e di tossine nei muscoli in piena attività.
I cani erano dietro di lei, vicinissimi. Non era possibile sapere quanto fossero vicini gli uomini, perché erano fuori visuale, se si eccettuava quella visione istantanea in fondo a una navata di alberi. Rausch lasciava ben poco al caso, e due dei cavalieri trascinavano altri due cavalli di ricambio, cavalli selezionati. Ma avevano perso tempo nel passare dalle cavalcature spossate a quelle fresche, e il gruppo non poteva seguire la pista in un sottobosco di sterpaglia che ti strappava abiti e pelle con estrema facilità. I cani, muovendosi a lunghi balzi, i musi alti e agitati dall'odore fresco, guaivano pazzamente ma non osavano oltrepassare quella ventina di metri che li separavano dalla loro preda. Erano le dita della morte, ma non i suoi artigli. La luce smagliante del mezzogiorno s'incuneava profondamente nella foresta. Lena inciampò per la seconda volta. Rotolò a terra. I riflessi erano perfettamente funzionanti, ma le mancava la forza di farli funzionare. I cani avevano formato, attorno a lei, un cerchio, e continuavano a guaire e uggiolare. Quando cercò di rialzarsi in piedi, fu sbattuta giù dal petto tutto pieno di bava di un enorme stallone. I polmoni di Lena erano infuocati da scoppiare. Sopra di lei ruggiva rabbiosamente il cacciatore vestito in verde, un omettino che aveva sollevato in alto la balestra e l'agitava in segno di trionfo. L'estremità nodosa di un ramo d'albero lungo tre metri gli fracassò la testa con l'efficienza di un ariete. Kue-meh, le gambe arcuate, magra, si era lanciata in mezzo alla muta di cani. Anche se la sua forza era minore a quella di Kort, era pur sempre ben al di là dello standard umano. Inoltre la femmina aveva la fredda volontà di superare il panico e di agire nel pieno della catastrofe. I cani arretrarono, ringhiando. Il cavallo, privato del cavaliere, vacillò violentemente, trascinato dal peso del cadavere ancora attaccato alle briglie. Altri due uomini, Karl in seta rossa tessuta in oro, e, accanto a lui, Rausch il cui volto truce era un sostegno nel bel mezzo del caos, sbucarono nella radura dove c'era la vittima. Kue-meh si rivoltò verso di loro sibilando, agitando il suo randello insozzato di materia cerebrale. Rausch arrestò il cavallo e con la sinistra afferrò la briglia del cavallo del suo padrone, impedendo così che il giovane si portasse a tiro della clava. Poi zufolò e da dietro il suo cavallo, spietati come Furie, balzarono fuori due mastini. Non c'era più nessuna via di scampo. Kue-meh si buttò in avanti, temerariamente, quasi non stesse affrontando una morte certa. Si girò verso il
più vicino dei due mastini, ma sbagliò mira, perché la bestia fece un balzo indietro. Dal bordo della radura arrivò l'urlo rabbioso di Kort. Ma era troppo tardi per la sua rabbia. Il secondo mastino era saltato, finendo con le zanne sulla spalla sinistra di Kue-meh e maciullandole le ossa. Lei scoppiò a urlare disperatamente, quando la mascella del primo cane si richiuse sulla sua testa. Il collo le si spezzò di schianto, con un rumore secco. Contemporaneamente, suonò lo schiocco di una balestra. A mezza strada tra la sterpaglia e i cani assassini, il corpo di Kort sussultò all'indietro. Era piombato nella radura un quarto cavaliere, dopo aver sistemato un proiettile nella scanalatura della balestra. La grande freccia di ferro mutilò gravemente Kort, fracassandogli lo sterno e molte costole. I mastini si allontanarono maestosamente, mentre la muta di cani si azzuffava per conquistarsi il trofeo. L'arciere appese la balestra alla sella del suo cavallo ansimante e smontò per frustare i cani, ricacciandoli via da Kort. Pure Rausch saltò a terra, la mano appoggiata sulla sua lama, mentre si avvicinava a Kue-meh. «No, quelle... creature... sono immonde», disse il cavaliere, e il trionfo risuonava alto nella sua voce annoiata. «Non li porteremo con noi. Lasciate che li mangino i cani». Si sollevò sulla sella. I suoi occhi rimasero inchiodati su quelli di Lena, tenendola bloccata quasi ipnoticamente, come fa una serpe con un coniglio. I suoi calzoni e la sua tunica, tessuti in oro, erano meno luminosi della sua chioma sciolta. La bava di tanti e tanti cavalli che aveva cavalcato fino a farli crepare di spossatezza gli aveva annerito le gambe e le cosce. La stessa tunica era annerita dal suo sudore. Eppure le sue ampie spalle non si abbassavano, e c'era una risata sulla sua bocca. Fu poi cancellata dal vino preso da un orciolo di pelle, offertogli da Rausch. «Così... Ci ha fatto fare una bella galoppata, vero, mio caro Rauschkin? Penso comunque che ne sia valsa la pena. Merita un paio di cavalli persi, non credi? E anche quel povero Hermann! Cavalcava bene, sì, ma è stata tutta colpa sua se si è lasciato spaccare la testa da un troll». Poi, con voce più distaccata, aggiunse rivolto a Rausch: «Tienila stretta per le braccia». Lena aveva gli occhi sbarrati. Ma, anche se poi la cosa le si impresse in testa in modo indelebile, non riuscì subito a capire perché von Arnheim stava slacciandosi i calzoni. Finalmente riprese i sensi. Nel tornare al castello le avevano legato i pol-
si al corno di una sella e le caviglie a un altro corno, sotto la pancia del cavallo. Che sofferenza aveva patito mentre, durante il feroce, lento rientro al castello, giaceva bocconi sul cadavere di Hermann, buttato di traverso sul cavallo di fronte a lei. I suoi biondi capelli erano stati arruffati. Rausch aveva chetato la ragazza per il suo padrone con il manico della frusta. Aveva le cosce tutte impiastricciate di sangue; solo in parte era colpa dei rovi. Quando riprese i sensi, si ritrovò in una stanzina minuscola, un canile. Fuori, un mastino ringhiò. Era un ringhio basso, cupo, penetrante senz'essere acuto, capace di atterrire come non avrebbe mai potuto farlo il frenetico abbaiare di una muta di cani. Era molto dopo il tramonto. Fu l'odore a rivelare a Lena che era stata ficcata in una tana vuota, insieme con i mastini, che le facevano da guardia davanti all'entrata del canile. A differenza dei servi di Karl, i grossi cani erano in grado di tener alla larga gli altri da quello che per ora era proprietà esclusiva del Cavaliere. Lena si affacciò. All'entrata c'era un mastino grosso come un cavallo. Aveva la testa sollevata: uno degli addetti ai cani stava correndo via attraverso il cortile, ben conscio delle possibilità di quella bestia. Soltanto boccali e boccali di birra forte, abbondantemente elargita dal Cavaliere per festeggiare il pieno successo della battuta di caccia, gli avevano dato il coraggio di avvicinarsi tanto. Risvegliato dall'intruso, il cane pezzato ritornò a leccarsi i fianchi. Lena aveva freddo, tremava. I raggi della luna brillarono sui suoi capelli e spinsero l'enorme bestia a introdurre il muso nell'apertura. Gli occhi erano calmi; aveva pupille nere più grandi di quelle di un uomo. La lingua del mastino batté leggermente contro le tempie di Lena come un morbido straccio, lavando via il sangue che vi si era raggrumato. Quella gentilezza non poteva però sradicarle dalla mente il ricordo degli ultimi attimi di vita di Kue-meh. Piena di paura, Lena fece scorrere le dita sulla fronte del cane, poi gli accarezzò le orecchie. La forza spaventosa mugghiava ancora nel petto del mastino, però adesso c'era un senso di soddisfazione. Spinto dalla ragazza, ritirò la testa e la lasciò uscire all'aperto. Il cortile era deserto: solo due cani e uno squallore che perfino la morbida luce della luna dipingeva nitidamente. Il secondo mastino, di color fulvo, uggiolò e annusò Lena. Ci fu un debole mormorio, proveniente dagli altri canili, cupole di stoppie intrecciate, tanto poco diverse dalle capanne dei contadini. Sembrò che nessun uomo e nessun altro cane osassero af-
frontare l'ira dei due assassini, che adesso sorreggevano la ragazza uno da una parte e uno dall'altra. Lena ritornò al muro. Dietro di lei, il torrione si ergeva di ben venti metri dal suolo. Tra le persiane non filtrava un filo di luce. Quel gran bere, come aveva messo tanto coraggio addosso ad uno di loro, aveva steso a terra tutti gli altri. Perfino la piena riuscita dell'impresa avrebbe potuto solo per un poco arginare lo sforzo e la fatica sostenuta. Inoltre il festino, così abbondantemente innaffiato di birra, era stato offerto dal Cavaliere a tutti indistintamente, anche a quelli che erano rimasti a casa. Tre uomini armati di balestra dormivano sonoramente al loro posto di guardia sulla torre e i suoni che provenivano ogni tanto dal cortile interno, al di là del muro, erano suoni di polli e maiali appartenenti alla gente che abitava lì. Lo sbuffare dei cavalli, che si trovavano nel cortile esterno con Lena e i mastini, era debolissimo. Sette di loro erano stati cavalcati fino a crollare esausti, quella mattina, o erano stati inghiottiti dalla foresta senza rispondere ai prolungati, estremi richiami dei cacciatori esausti. Lena saggiò le pietre del muro divisorio, massicci blocchi grigi più opera della natura che manufatti. Adesso lei era al di là della forza e della debolezza, era soltanto esanime, come il calcare in cui le sue mani stavano trovando tanti appoggi. Il mastino più grosso, quello pezzato, si alzò in tutta la sua statura appoggiandosi al muro e leccandole le piante dei piedi. Poi Lena saltò di là, e cominciò a correre nell'attimo stesso in cui mise i piedi a terra. Questa volta non fu inseguita. Seguì il sentiero pesantemente segnato dalla lunga caccia del giorno precedente, ben sapendo che tutti quegli odori mescolati insieme avrebbero ritardato i cani, qualora le fossero stati sguinzagliati contro. Nel passare accanto a una delle bacche, ne strappò con le mani i frutti; strappò anche tenere, pallide gemme di abete rosso. Una volta, mentre attraversava un ruscelletto, si fermò un attimo per bere tre sorsi d'acqua e rimpirsene la bocca: non l'inghiottì subito, la fece scendere lentamente mentre camminava. Non andava particolarmente forte, ma il suo passo era costante. Nel fitto della foresta ben poca differenza c'era tra l'alba e la piena oscurità. Comunque i raggi del sole erano a perpendicolo sulla sua testa quando Lena arrivò nel posto di morte dove l'avevano catturata. Kort giaceva a terra, e mosche nere erano ammucchiate su quelle crude ferite che i corvi avevano già allargato. Tre di questi uccellacci gracchiarono indignati dai rami sui quali l'intrusione di Lena li aveva fatti scappare, saltellando qui e là e poi ripiegando le ali.
Sulla faccia di Kue-meh, non lacerata dalle zanne della muta, c'era un senso di grande dolcezza e serenità. Era il volto con cui aveva accolto Lena sette anni prima. Esprimeva più una muta rassegnazione che una vera e propria accettazione volontaria. Lena distolse lo sguardo. Non era ritornata per questo. «Cu-i?», chiamò dolcemente. La foresta piombò nel silenzio più assoluto. Anche i corvi smisero di gracchiare. «Cu-i?», ripeté la ragazza. I cespugli si divisero come lei si era aspettato, prima Chi poi Faal ristettero timidamente davanti a lei. Lena si buttò tra le loro braccia, mormorando suoni che erano in parte lacrime in parte parole di un linguaggio addirittura più antico di quello della gente dei boschi. Strinse tra le braccia i loro corpi morbidi, coperti di folta pelliccia, come ombre dall'innocenza perduta. Poi, alla fine, li allontanò da sé. Asciugandosi le lacrime, disse: «Adesso dobbiamo andarcene molto alla svelta. Ci sono posti nella foresta così lontani da qui che gli Altri non ci arriveranno mai. Non ci troveranno mai più». Così parlò e si avviò nella foresta senza voltarsi indietro. Chi la seguì immediatamente. Faal, che adesso era una riproduzione vivente di suo padre in tutti i sensi, salvo la tinta più chiara della pelliccia, esitò. Ma un attimo dopo si affrettò per ricongiungersi alle femmine, e mentre con passo dinoccolato camminava di fianco a Lena le sue dita si misero ad accarezzarle l'oro fulvo dei capelli. Il giorno che piovvero lucertole ARTHUR BYRON COVER Blackton County, in Virginia, è una graziosa, tranquilla, normalissima cittadina americana; eppure Arthur Byron Cover ci ha dimostrato, in Lifeguard («Year's Best Horror Stories: Series IV») e di nuovo ci dimostra qui, che fatti assai sorprendenti possono accadere nei posti più comuni. Se conoscete i romanzi di fantascienza di Cover, sarete senz'altro pronti a una tempestosa esperienza. Ma potrebbe anche trattarsi di una tempesta del tutto imprevedibile... Mi resi conto per la prima volta di un'alterazione radicale della mia personalità, quel giorno d'estate in cui mi arrabbiai con il bagnino, semplice-
mente perché non c'era nient'altro da fare. Voglio dire: non fu tanto quello che disse che mi fece arrabbiare, quanto piuttosto come lo disse. Se mi avesse lasciato una piccola scappatoia mi sarei baciato i gomiti per sistemare le cose. Ma no! Il bagnino doveva fare il duro! Mi buttò fuori a calci dalla piscina per il resto del pomeriggio. Quella sera persuasi un vecchio ubriacone a comperarmi un po' di birra. Ero così nero che non mi parlavano neanche i miei amici. Così, tutto solo, mi scolai dodici bottiglie in un'ora e mezzo, scarrozzai con la Camaro di mio padre per tutta Blackton County, in Virginia, e in qualche modo finii per arrampicarmi sul reticolato che recingeva la piscina, con un pennello nella tasca di dietro dei calzoni e un barattolo ancora chiuso di vernice verde, di quella che secca subito, ciondolante dalla curva del mio gomito. Mi abbandonai alle idee più balzane. Sul tabellone che sciorinava il regolamento generale della piscina scrissi: «Tutti i soci devono compiere atti sessuali con la bocca su Bob Strawn, se mai dovesse succedere che gli tira!». E che cavolo!, pensai. Sono successe cose anche più strane. Avendo meditato abbastanza a lungo sull'inverosimile, dipinsi frasi di un tipo meno raffinato, e la maggioranza contro Strawn; riempii tutto lo stabilimento, finché esaurii la vernice. Ero proprio soddisfatto di me stesso. Non mi ero rovesciato addosso una sola goccia di vernice, neanche sui vestiti. Non mi soffermai a riflettere sul fatto, piuttosto curioso, che a me sembrasse naturalissimo dover completare la mia impresa ribelle tirandolo fuori e poi innaffiando un'enorme quantità (e spero anche qualità) di orgasmi sulla panca preferita di Strawn. Scavalcai di nuovo il reticolato, lasciando i miei strumenti del cavolo (meno uno) sulla scena del delitto, e tornai a casa, scansando attentamente le strade pattugliate di solito dai porci. Dormii come un bambino fino al mattino seguente. Poi vomitai anche le budella. Appena quel maledetto mal di testa si chetò un poco, mi resi conto di non riuscire a crederci. Possibile che avessi fatto proprio io quello che avevo fatto la notte prima? C'era stato un tempo in cui Chris Morrison era l'uomo più dolce del mondo, mai neppure sfiorato dalle forze oscure che appestavano gli altri uomini. Evidentemente le forze oscure si erano limitate ad aspettare il momento propizio per saltargli addosso, perché la loro vittoria fosse strabiliante: le mie difese erano smantellate. Da quel giorno in poi mi vennero in testa cose proprio strane, cose che mi feci premura di dimenticare in quanto non avevo nessuna voglia di accettare il fatto che fossero saltate fuori proprio dal mio cervello martoriato. Dovetti arrendermi all'evidenza che Blackton County era un enorme schifoso puzzolente
mucchio di merda che stava lì ad aspettare di essere spazzato nella più grande fogna dell'universo. Incapace di resistere all'impulso che mi spingeva a godere della situazione, andai alla piscina come se niente fosse. La piscina era chiusa. Strawn e gli altri bagnini suoi colleghi stavano fregando a tutta forza il cemento e il legno, con l'aiuto di litri e litri di trementina. «Ehi», chiesi con aria abbastanza innocente, «cos'è successo?» Come mai la piscina è chiusa?»; e schiacciai la faccia contro il reticolato. «Dovresti saperlo», mi rispose Strawn. «Sapere che cosa?». «Sei stato tu a pitturare questa bella roba! Non posso provarlo, altrimenti ti butterei fuori a calci per tutto il resto dell'estate. Considerati fortunato che non ti spacchi la testa». «Cristo, scusami se respiro». Feci un passo indietro e andai a sbattere contro qualcuno. «E scusate anche se mi muovo», dissi, e, giratomi, mi trovai di fronte Jean Squire che stava squadrandomi come se le avessi ammazzato il cane proprio in quel preciso istante. Teneva la bici per il manubrio. Aveva un anno in meno di me: così all'apertura della scuola, a settembre, sarebbe stata un fagiolo. Questi non erano motivi abbastanza buoni per non essermi praticamente accorto di lei per ben sei anni, dal 1964. quando la sua famiglia si era trasferita a Blackton; comunque erano i soli motivi che avevo. Quando la scorsi, quel fuoco che mi bruciava dentro si rinvigorì, e mi parve che i polmoni fossero diventati due stantuffi. Un ovale da regina, con serici capelli biondi che le ricadevano sulle spalle e quei grandi occhi verdi che dicevano avversione, pietà e compassione tutt'in una volta. Il viso chiaro e la pelle abbronzata davano come l'impressione che non avesse un solo poro su tutta la faccia. Indossava dei blue-jeans attillati e una sottile camicetta bianca che mi permise di scorgere, sotto, il reggiseno del costume da bagno giallo. I fianchi larghi e i seni rigogliosi, combinati con l'intensa aura di intelligenza che irradiava attorno a sé, le conferivano una falsa parvenza di esperienza e di età. Tanta bellezza incuteva rispetto. Richiamai alla mente voci secondo le quali alcuni suoi compagni di scuola la odiavano perché non si preoccupava affatto di sbandierare la sua cultura. E una volta avevo sentito un insegnante parlare di quanto fosse posata e matura. Per me questo non voleva dire proprio un bel cavolo di niente! L'antipatia che riflettevano i suoi occhi verdi era per me una provocazione diretta, e, per di più, lei ci provava gusto: mi sfidava a contraccambiarla. E, cosa piuttosto strana, finora non c'era stato niente, assolu-
tamente niente, di così importante. Gli impulsi che stavano esplodendo dentro di me avrebbero reso Lord Byron orgoglioso di me. Anche Henry Miller ne sarebbe rimasto impressionato. Non dimenticherò mai le prime parole che mi rivolse. Disse: «Non cercare di tirarti fuori, merdone schifoso. So bene che sei stato tu». «Cosa? Io non ho fatto niente!». «Non venir a contar balle a me. Puoi contarle a lui e farla franca». Indico con il dito Strawn, il quale, avendo ormai deciso che non meritava di farci caso, stava tornando alla sua campagna di pulizia. «Ma non credere di venir a contar balle a me e passarla liscia. Non la farai franca se continui a mentirmi». «Che cosa ti fa pensare che avrò ancora occasione di parlare con te?». Jean salì sulla bicicletta. Mentre se ne andava pedalando, disse: «Lo farai. Io sono l'unica persona in grado di riabilitarti». «Porca vacca», dissi, senza rivolgermi a nessuno in particolare, mentre piantavo un calcio nella Camaro. «Ma chi diavolo crede di essere quella?». Per due settimane, tutte le volte che avevo un momento libero (e ne avevo un mucchio!) stramaledicevo Jean Squire. Soltanto quando mi buttavo sul letto di primissimo mattino e passavo in uno stato di trance ammettevo la verità: non ce la facevo più a restare solo; i bollori che infuriavano dentro di me esigevano un calmante; l'unica cosa di cui avevo paura era me stesso. Avevo voglia di spaccare tutto; di tanto in tanto mi chiedevo che aspetto avrebbe preso Blackton se l'avesse colpita una calamità (per esempio, Godzilla) e avesse raso al suolo le costruzioni e tutte le case riducendole in macerie; e poi che aspetto avrebbero avuto le strade se qualcuno (diciamo Gorgo) per puro caso le avesse scucite e avesse lanciato enormi tranci tutt'intorno, fin a farle sembrare tante sbarre spezzate di un croccante. Avevo voglia di strozzare la bibliotecaria, quando non mi permetteva di portare a casa per consultarli più di cinque libri per volta, perché immancabilmente li restituivo in ritardo. Se non avesse preso sul serio la mia richiesta di un numero maggiore di poemi, sarei saltato sul banco e l'avrei suonata al ritmo di pentametri giambici. Prima d'allora non avevo mai sentito il bisogno di ammazzare qualcuno, e mi chiesi perché io. Perché non uno dei miei stupidi amici? Decisi che mi sarei sforzato di sopraffare i miei impulsi più barbari. Per le successive due settimane mi astenni dall'alcool ed evitai il più possibile la compagnia umana, tenendomi alla larga dalla piscina e dal bowling. Mi rifiutai di stramaledire Jean Squire. Passavo il tempo a leggere in casa o
tutto solo nei boschi. Le cose viaggiarono bene fin quando mia madre mi chiese, a cena, che cosa mi turbasse. Affrontai la crisi con la mia solita calma, uscendo di casa bestemmiando come un turco. Questo fatto segnò la fine del mio periodo di self-control. Una notte indimenticabile mi ritrovai a introdurmi furtivamente nel campo da golf deserto, con una di quelle vecchie mazze di mio padre. Il giorno seguente le autorità contarono circa novantatré zolle di terra erbosa divelte su ben cinque campi da golf. Fortunatamente seccano subito, altrimenti avrebbero contato anche milioni di spermatozoi. Per un attimo mi venne una fifa boia di essermi svuotato per tutta la vita. Di averlo esaurito tutto in una notte, mi capite. Qualche giorno dopo ero seduto allo snack bar nel drugstore di Main Street. Stavo leggendo, sul «Gazzettino di Blackton», un articolo che deplorava i miei atti vandalici. Ero selvaggiamente divertito dell'enorme cifra che i proprietari di campi da golf avevano offerto in cambio di informazioni atte a condurre all'arresto del (dei) colpevole (i). Se c'erano in ballo tanto soldi da far girare la testa, Blackton sarebbe stata ripulita dall'erbaccia diabolica in poche ore. Quando chiusi il giornale e alzai la testa, mi trovai davanti Jean Squire. Indossava sempre la stessa camicetta e gli stessi blue jeans (questa volta, però, c'era sotto un reggiseno normale). Stava in piedi dall'altra parte del tavolo, la mano tesa. «Hai bisogno di soldi?», le chiesi. Si limitò a dire: «Posso vedere il giornale?». Lo prese e si sedette prima che potessi dirle di no. Sfogliò qualche pagina e si arrestò, finalmente, in prima pagina. «Vedo che sei sulla buona strada per diventare una stella internazionale». «Cosa intendi dire?». Ripiegò il giornale, lo mise sul tavolo e piantò l'indice su quell'infame articolo sulle zolle. «Continua così e il tuo nome sarà sulla bocca di tutti!». «Non so di cosa stai parlando». «Senti, so che sei stato tu a fare questi atti di vandalismo nei campi da golf. Ammiro la tua fantasia. Picchi sulle classi alte e quelle medie, dove fa più male. Si scervelleranno per intere settimane su questo rompicapo». «Va bene, bellezza; ma, perdinci, non far la puttana ad andarlo a spifferare in giro», bisbigliai, piegandomi in avanti e guardandomi attorno, cercando di capire se qualcuno l'avesse sentita. «Non l'ho fatto io. ma mi sarebbe difficile dimostrare il contrario se tu mi buttassi addosso dei sospetti. Dunque, perché non mettiamo tutto a tacere, eh?». Piegò all'indietro la seggiola e appoggiò i piedi su un'altra. «Ti ho detto
di non contarmi delle balle, Chris. Con me devi essere assolutamente sincero. È la tua unica speranza». «Di cosa stai parlando?». Preferì ignorare la domanda. Disse: «Perché non mi hai telefonato? Non pensi di star portando troppo avanti questa storia? Puoi ben credere di essere un cervellone, ma in fondo sei come tutti gli altri». «Può darsi che io sia come tutti gli altri, ma perché dovrei fissare un appuntamento a una come te?». «Allora, perché non mi hai telefonato? Non è così che eravamo restati d'accordo alla piscina, quel giorno». «Non ho il tuo numero». «Asino. Stai ancora mentendo. La prossima volta, comportati meglio. Il mio numero è sull'elenco». «Non sapevo che tu avessi bisogno di me». «Sei tu che hai bisogno di odiarmi». «Maledettamente vero. E perché dovrei amarti?». «Perché tutte le volte che vai a dormire, non sei mai stato capace di cacciarmi via dalla tua testa. Perché è questo che voglio. Adesso dimmi la verità, tanto per cambiare. Perché non mi hai telefonato?». «Non lo so. Recentemente ho avuto le idee piuttosto confuse. Su una quantità di cose». Avendo ammesso questo, da quel momento in poi tutte le mie speranze andarono a farsi friggere. Appartenevo a Jean Squire. Sotto molti punti di vista la mia schiavitù fu idilliaca. Jean placò la rabbia che ribolliva dentro di me, eternamente, e quelle cose mi disturbavano molto meno e molto più di rado. Per alcune settimane, prima mi stuzzicò spietatamente, mi incoraggiò timidamente, diverse volte all'ultimo momento pretese di congelare tutto, ma poi mi guidò alla ricerca del piacere fisico in un modo così totale che non ha mai smesso di stupirmi. Mio padre, inavvertitamente, impedì che arrivassi per gradi, a tentoni, alla maturità sessuale, quando annullò i miei diritti sulla Camaro, a motivo delle sue preoccupazioni per il mio temperamento infuocato. Se solo fossi stato un buon ruffiano come in genere quei mocciosi dei vostri ragazzini, sarei stato meglio equipaggiato per trattare con lui. Così come stavano le cose, riuscii soltanto ad addolcire il mio comportamento finché lui si convinse che le idee mi si erano schiarite e i bollori s'erano spenti. Jean non fu capace di procurarsi un'auto spesso quanto me, per cui certe volte fui costretto ad autostoppare o a farmi a piedi dei pezzi da dio, prima che potes-
simo incontrarci. Essendo solo, era più difficile. Ciononostante quel periodo di inconvenienti vari passò presto. Jean riuscì a farmi diventare una persona normale. Non mi ci volle molto a capire perché. Vorrei poter dire che la risposta mi colpì in un momento incredibile, pieno di tensione drammatica, invece cominciai a realizzare nel più pedestre dei modi. Jean era una strega. Mi aveva fatto qualcosa in testa, che mi costringeva ad amarla; e così avrebbe sempre avuto la sicurezza totale di essere lei l'unica persona a controllare le cose che mi ronzavano nel cranio. Avrei dovuto risentirmi di questa sua intrusione nella mia vita, ma dovetti ammettere che il mio amore per lei valeva qualsiasi prezzo. Sì, dovevo riconoscerlo: ero stregato. Nessun dubbio al riguardo: Jean era una rompiballe di prim'ordine, e aveva solo sedici anni; mi venivano i brividi anche solo a pensare che cosa sarebbe stata fra dieci anni. Un momento dichiarava di amarmi follemente, un amore eterno. Un secondo dopo si metteva a urlare che io ero il peggior mostro che fosse mai esistito e che lei non voleva vedermi mai più. Tutti e due questi atteggiamenti riuscivano perfettamente convincenti. Per esempio, un giorno ce ne stavamo nudi su una coperta, nei boschi. Si appoggiò su un fianco e fece scorrere le dita della mano destra sul mio petto. Ci guardammo e sorridemmo. Era la situazione ideale per espressioni di tenerezza; così lei, con estrema naturalezza, disse: «Sai, le tue chiavate non sono migliorate di un briciolo dal giorno che ti ho incontrato». «Cosa stai dicendo? Ma se la mia tecnica è una meraviglia!». «Per te, forse. Per me è tutto e solo un macello». Si spostò e cominciò a vestirsi. «Portami a casa». E, a casa, uscì dalla Camaro, prendendo la mia coperta, e disse, dopo un silenzio che non sembrava finisse più: «Chris, sei impossibile! Non so perché continuo a buttar via il tempo con uno come te. Ciao. Addio. E non disturbarti a telefonare: non sono in casa». E se ne andò, scomparendo nell'edificio e lasciandomi con un palmo di naso. Penso che quell'estate fosse già la terza volta che mi piantava in asso; cercai di scordarmela, ma in tutti i periodi in cui rimasi senza di lei, l'indice di vandalismi a Blackton aumentava. Ci fu anche un fattaccio nella chiesa cattolica: avevano sporcato i paramenti sacri. I miei incubi notturni erano pieni di visioni del suo volto adorabile, e tutte le volte che allungavo le mani per toccarla, spariva. Mi svegliavo sempre madido di sudore freddo. Presto o tardi (a voler essere sinceri, piuttosto presto), mi telefonava: «Dove sei stato?».
«Hai voglia di prendermi in giro?». «Perché non mi hai telefonato? Che scusa hai, questa volta?». «Tu. Sei stata tu a dirmi di non telefonare». «Questa non è una scusa. Tutto il tuo grande amore per me, dov'è? La tua voglia di vincere? Pianti lì troppo presto. Non lo sai che è la riluttanza ad ammettere di sbagliare, a dispetto di tutte le evidenze, che fa la grandezza di questo paese?». Quando eravamo di nuovo insieme, immancabilmente mi sussurrava all'orecchio che era stata pazza a trattarmi a quel modo, così male; che non mi avrebbe mai più detto di lasciarla. Io le credevo. Vedete, non ero soltanto innamorato cotto, stregato; ero anche schiavo della sua vagina. Quando venne settembre, l'unica cosa che significava per me tornare a scuola era che le possibilità di proseguire la mia vita sessuale sarebbero diminuite, e di molto. Jean era l'unica autorità che riconoscevo. Per cui, quando diversi ragazzi si rifiutarono di obbedire all'ordine del preside Burton di tagliarsi i capelli, io mi schierai dalla loro parte. Un bel mattino Burton mi scorse mentre camminavo su e giù nei corridoi. Disse: «Chris, non pensi che sia ora di tagliarti i capelli?»; e io risposi: «Non pensi che sia ora che tu succhi il mio manico?». Ebbi un mucchio di tempo libero, nelle tre settimane seguenti. Riuscii, in qualche modo, a nascondere ai miei genitori la mia insperata libertà. Passavo un mucchio di tempo a leggere nella biblioteca pubblica, in attesa che finisse la scuola per vedere Jean. Ero tutto orgoglioso di me, nonostante il terribile inconveniente che ne era seguito. Questo fino al giorno seguente, quando un bel gruppo di capelloni formulò un reclamo contro l'operato di Burton agli Uffici del Comitato Scolastico di Blackton County. Con sorpresa di tutti, il Comitato ammise che Burton aveva ecceduto i limiti delle sue competenze. Io continuavo a restare espulso. Non pensai certo che il Comitato sarebbe stato molto comprensivo nei riguardi di uno studente che aveva detto al suo preside di succhiargli l'uccello. Dopo una settimana, la civiltà mi diede il voltastomaco. Così presi i libri dalla biblioteca e me ne andai nei boschi. Alcune foglie, quell'anno, stavano cambiando colore prima del tempo, e mentre osservavo le foglie gialle e rosse cadere a terra, mi figurai che l'atmosfera fosse più densa, più pesante. Benché scrollassi via quell'impressione, rimasi convinto che all'aria fosse stato aggiunto un nuovo ingrediente. Tutte le volte che grigie dense nubi si allargavano in cielo, soffocando Blackton nell'ombra, oppure tutte le volte che la velocità del vento crebbe, facendo sì che le foglie secche e friabili si
frantumassero al suolo, avevo la premonizione che l'ingrediente si sarebbe solidificato ben presto. La maggioranza delle mie uscite all'aperto per leggere le feci al Picco, una montagna che incombeva ai confini di Blackton. Salivo sul monte di buon mattino e non scendevo di lì se non a metà pomeriggio. Dal Picco le costruzioni sembravano così minuscole, e immaginavo il mio spirito che si separava dalla terra. Non tentai di dimenticare il mio amore per Jean Squire; cercai invece di dimenticare la mia rabbia, il mio odio, quelle cose nella mia testa. Non servì mai a niente. Quelle continuavano a restare dentro di me, per cui ci misi sopra una pietra e me ne stetti a riposare sulle rocce e a prendere il sole. Certe volte era così tranquillo che pareva quasi di essere immerso nel silenzio totale. Spesso mi voltavo di scatto, profondamente convinto di vedere Jean accanto a me, e dolcemente sorpreso di non trovare nessuno. Era tipico di tutta la mia vita il fatto che quando succedeva qualcosa di veramente importante, non capivo cosa volesse dire. Per un attimo non capii che era una cosa eccitante. Mi stavo identificando con il Satana del Paradiso Perduto quando alzai lo sguardo e vidi una lucertola su un masso. Non avevo mai visto un rettile come quello. Era verde, con sul corpo un tocco di giallo e diverse bande sulla schiena; era lungo circa sessanta centimetri dalle narici alla punta della coda, e ogni dito era fornito di un affilatissimo artiglio nero. Il fatto che io, che potevo e dovevo costituire una minaccia per lei, l'avessi vista, non la sconcertò minimamente. Mi ricambiò l'occhiata, come se non fossi altro che un oggetto curioso; la lingua da serpente, profondamente biforcuta, schizzò fuori dalla bocca e poi rimase ciondolante come una flessibile cordicella nera. In quegli occhi tondi sembrava guizzare un'intelligenza embrionale, ma questo si spiegava parzialmente con la mia istintiva diffidenza verso i rettili. Effettivamente gli occhi assomigliavano più che altro a due ciottoli. La vista di questa lucertola aliena mi innervosì. Chiusi silenziosamente il libro e mi alzai. Mi aspettavo che la lucertola si spaventasse e scappasse tra i cespugli che crescevano sul sottile strato di terra che ricopriva i massi affioranti. La lucertola piegò la testa come se si aspettasse che fossi io a darmela a gambe. Rimasi lì a guardarla, finché sulla roccia passò un topo delle dimensioni del mio pugno. La lucertola scattò fulminea, tanto da obbligarmi a tirare indietro la testa e le spalle, un riflesso involontario che avrebbe avuto un senso solo se la lucertola mi fosse saltata negli occhi. A-
vessi tenuto gli occhi chiusi anche solo un secondo in più, mi sarei perso l'occasione di vedere la lucertola affondare gli artigli nella schiena del topo, sollevarlo in alto e poi sbatacchiarlo sulla roccia più e più volte in rapida successione. Quando la testa del topo fu ridotta a una poltiglia sanguinolenta, la lucertola calcolò che fosse morto. Ne dedussi che doveva avere un diabolico accidente di apparato digerente: fece scattare la mascella e inghiottì il topo in un sol boccone. Adesso aveva quella grottesca protuberanza a metà corpo, e non poteva fare movimenti troppo azzardati se non voleva grattugiarsi lo stomaco contro il terreno. La lucertola si leccò la testa, prima da una parte poi dall'altra; poi si piegò in avanti, oscillando quasi con un movimento da altalena, e sfregò la testa contro il suolo. Poi si riassestò, si guardò in giro come se cercasse il pubblico, e finì per piantare gli occhi addosso a me. Fece marcia indietro come se temesse che io potessi intervenire, anche se tardivamente, in difesa del topo, e dopo un secondo la sentii frusciare tra le foglie. Ma ormai non riuscivo più a vederla. Rimasi lì per qualche attimo a pensare all'accaduto. Poi me ne scordai. Non ci avrei ripensato mai più se non avessi visto un'altra lucertola, identica alla prima, che stava bevendo al ruscello. Questo mentre scendevo dalla montagna, quando ormai stava per scadere il termine delle lezioni. Qualcosa di viscido, certo frutto soltanto della mia immaginazione, mi afferrò alla gola quando mi accorsi che anche questa lucertola mi stava fissando. Mi scostai da lei, e quella, immediatamente, mi ignorò. La lucertola affondò la testa fino agli occhi nell'acqua, e inghiottì acqua più e più volte, finché ebbe placato la sete. Poi scomparve nell'erba alta. Il mio respiro rimase regolare, ma avevo paura che mi si schiantassero i polmoni, se avessi respirato troppo a fondo. Poi mi scordai della lucertola. Che me ne fregava a me delle lucertole? A Blackton incontrai Jean, mentre scendeva dal bus della scuola, alla fermata in Main Street, e, in silenzio, camminammo fino allo snack bar nel drugstore per farci una coca (non servivano birra!). Non mi fu difficile accorgermi che Jean era incazzata per qualcosa. Aveva gli occhi duri e le labbra non erano mai state così tirate. Mentre centellinava la sua coca tamburellava con le dita sul tavolo. Non me ne fregava niente del motivo per cui era incazzata; la lavata di capo me la sarei presa, comunque, io. Mi piegai all'indietro, incrociai le gambe e cercai di sembrare distaccato. Avevo bisogno di ignorarla, ma era impossibile. Jean sarebbe riuscita a mettere fuori causa anche l'Imperscrutabile Oriente. Aveva i capelli biondi sparsi sulle spalle come una copertura d'angelo, dei lineamenti da regina, degli
occhi di una durezza aristocratica, un portamento delicato; tutto stava per ridurmi in pezzettini, e, per di più, io l'amavo. Aveva la camicetta un po' sbottonata e si vedeva una parte considerevole dei suoi seni. La gonna bianca permetteva un'ampia vista delle sue gambe lisce e seducenti. Dal momento che stavo divertendomi, lasciai che fosse Jean a cominciare a parlare. «E be'? Non mi chiedi cos'è che mi turba?». «Cos'è che ti turba?». «Tu». «Temevo che mi avresti risposto così». «Sono proprio incazzata per la maniera stronza in cui hai trattato la faccenda dei capelli lunghi. Una bazzecola come quella, e tu ti vai a mettere nei guai. Intendo dire che sei la persona più infantile che abbia mai avuto la sventura di incontrare». «Sì, ma ho un uccello lungo così», dissi, facendo il gesto appropriato. «E la mia pazienza è corta così». «Non prendermi per i fondelli. Perché hai aspettato tanto tempo per saltarmi addosso su questo argomento? Cristo, la mia espulsione è ormai agli sgoccioli». «E per adesso io me ne sto a scuola tutta sola. Ecco! Ed è tutta colpa tua, buffone da quattro soldi!». «Tutta sola? Come sarebbe a dire? Non hai amici, di questi tempi?». Si voltò dall'altra parte e si mise a osservare, dalla finestra, la gente che passava per la strada. Sapevo bene che adesso dovevo tener viva la conversazione, o avrei patito le torture dell'inferno. Non avrei tirato in ballo le lucertole, se non fossi stato disperato. «Sai? Oggi ho visto una cosa stranissima». «Che cosa?». Non ci sono parole per esprimere la noia estrema che stillava da quelle due parole. Io, imperterrito (perché non avevo scelta; ero chiuso in angolo), attaccai a descrivere i due casi: quello della lucertola che mangiava e l'altro della lucertola che beveva. Con mia grande sorpresa, via via che il racconto proseguiva, l'interesse di Jean cresceva sempre più e la sua collera sbolliva sempre più. Illustrai tutto nei minimi dettagli, abbandonandomi alla vena poetica, per quel che è possibile fare in un drugstore. Sulle prime ritenni che la sua attenzione fosse provocata da gioia sincera; ma ben presto non potei far a meno di notare che mi afferrava la mano sinistra e la stringeva forte, come se attaccandosi lì si attaccasse alla vita. Quando terminai, disse: «Stai mentendo».
«Eh? Ma... Sei matta?». «Hai inventato tutto. Hai inventato tutto questo per sconvolgermi». Lasciò finalmente andare la mano; il sangue quasi non arrivava più alle dita. «Se avessi avuto in testa di inventare qualcosa, avrei certo pensato una storia un po' più intelligente che non quella di una lucertola che si mangia un topo. Bella mia, apri gli occhi! Così, a occhio e croce, non è certo un tema che ti lascia intravvedere un intreccio drammatico». «Ti sei ubriacato di nuovo». «No, ho smesso. Mi faceva troppo male». «Tu non le hai viste, le lucertole. Di lucertole come quelle in Virginia non c'è neppure l'ombra». Così mi disse Jean, lentamente, sillabando ogni parola come se mi stesse insegnando a parlare in inglese. «Tu non hai visto niente, assolutamente niente. Dimmi la verità. Dimmi che ti stavi inventando tutto». «Lo sai bene cos'ho visto: delle lucertole. Se avevo voglia di venirti a contar balle, ti avrei detto che sei bella, oppure che ti amo, o qualche altra simile assurdità!». Jean contrasse le labbra e picchiò violentemente la mano sul tavolo. Non gliene fregava niente dei clienti, di tutte le età, che ci stavano osservando molto incuriositi. «Maledetto, stai mentendo! Stai mentendo! Non so cos'ha messo questa stupida storia in quella tua testa di merda. E non me ne frega niente! Non me ne frega niente di niente! Soprattutto, non me ne frega niente di te. Non voglio mai più vedere quella tua miserabile faccia!». Lasciò il drugstore come un germe patogeno che abbandona un corpo inospitale. I clienti, prima tesi, sembrarono rilassarsi. Ridevano e parlavano tra di loro, e. per quanto non stessi affatto origliando, sapevo più che a sufficienza di che cosa stessero ridendo e chiacchierando. Me ne rimasi lì seduto e, per un attimo, fui sul punto di scoppiare. Non avevo la più pallida idea di che cosa stesse succedendo che non fossero le solite bazzecole, ma avevo preso la mia decisione. Non me ne fregava niente di quanto mi sarebbe costato. Non mi sarei lasciato mai più ingiuriare da lei. Avevo voglia di buttare quel tavolo del cavolo fuori dalla finestra, di buttare i bicchieri un po' dappertutto, anche a costo di tagliuzzarmi le mani. Avevo già voglia di rincorrere Jean per la strada e supplicarla di riprendermi. Ma non potevo. Dovevo controllarmi. E le lucertole. In qualche modo tutto questo aveva a che fare con le lucertole.
Quella sera mi sforzai di restare a casa per vedere la televisione. Dopo che i miei genitori se ne andarono a letto, ci furono alcuni minuti in cui fui dolorosamente tentato di prendere a calci l'apparecchio, ma non potrei dire se questo era dovuto alla mia personalità o alla natura del prodotto. Quando andai a dormire, pensai a lei; e quando sognai, sognai lei; e tutti i miei pensieri, tutti i miei sogni erano di tenerezza. Quando mi svegliai avevo una gran voglia di prenderla a calci nel sedere per tutto il paese. Andai al Picco, nella speranza di vedere altre lucertole. Ma non ne vidi nessuna. Non avevo la minima voglia di leggere, per cui passai tutta la giornata standomene seduto un po' qui un po' là e cercando di restare calmo. A metà pomeriggio scesi dalla montagna e andai dritto a casa. Mentre stavo morsicando il primo boccone di un sandwich gigante, suonò il telefono. «Cristo, hai visto il "Gazzettino di Blackton" di questa mattina?». Jean pareva insolitamente nervosa; e, cristo!, io avevo bisogno di lei, odiavo sentirla così; ma dopo tutto avevo preso la mia decisione. Risposi con un tono di voce vago: «No». «C'è un articolo sulle lucertole». «Eh?». Scorsi il giornale sul tavolinetto del soggiorno. Mio padre e mia madre ritiravano sempre la posta quando rientravano in casa per il pranzo. «Lo leggo e sono da te fra un secondo. Okay?». «Okay». Senza aggiungere altro, riappesi. Mentre leggevo l'articolo, cercai di non far gocciolare la maionese sui fogli. Ben presto, però, fui così immerso nella lettura che non solo lasciai sgocciolare la maionese sul giornale, ma addirittura, una fetta di pomodoro sgusciò fuori dal panino e schizzò sul tavolino. Secondo l'articolo, uno zoologo, a Richlands, stava scatenando un'accesa discussione nel suo campo, perché insisteva nel sostenere di aver visto, insieme ad altri rispettabilissimi cittadini, a Blackton County degli esemplari di Varanus prasinus, una lucertola originaria della Nuova Guinea. La sua descrizione combaciava perfettamente con la mia. Dunque, io avevo visto due esemplari di Varanus prasinus. Le lucertole si cibavano di tutto quello che riuscivano a inghiottire, ma il loro cibo preferito erano le uova. Parecchi agricoltori di Blackton erano in preda al panico, e c'era tutta una disputa in atto: le lucertole si dovevano sterminare, oppure si doveva studiarle per chiarire come e perché si fossero trapiantate così. Squillò il telefono. «L'hai letto?», chiese Jean. «Sì, naturalmente. Anche se me ne hai dato appena appena il tempo».
«Lo so, mi spiace, ma ascolta: è importante. Puoi venire? Adesso, Subito. Devo parlarti, ma non per telefono». Brontolai: «No. Sono occupato». «Cosa ci può essere di più importante per te, che venire da me?». «Sbronzarmi». «Chris, non farmi questo! Sto parlando sul serio. In questo momento non posso star dietro ai tuoi giochetti!». «E io non posso star dietro ai tuoi, e non ci starò mai più. Verrò da te domani. Forse». E riappesi. Mi sentivo come se fossi stato condannato a morte proprio in quel momento. Nel giro di diverse orette mi presi una sbornia coi fiocchi. Ricordo solo vagamente di aver cagato in una tomba vuota. Il giorno seguente non me ne fregava più niente di che cosa stesse succedendo. Venni via dal Picco a mezzogiorno restituii i miei libri, in ritardo. La biblioteca, in mattoni e a un unico piano, si trovava all'angolo orientale di Main Street, fra il teatro e la chiesa metodista. Il suo pavimento era rialzato di circa un metro e mezzo rispetto al marciapiede, e davanti c'era un muricciolo di pietra con un'apertura per il primo gruppo di quattro scalini che portavano alla biblioteca. I rami di due alberi penzolavano fin sul marciapiede. Starsene seduti sul muretto, appoggiandosi all'indietro con le mani nell'erba, passare così il tempo, veniva chiamato «occupare il muretto». Fu esattamente quello che feci per tutto il pomeriggio. Non me ne fregava proprio un bel niente se i miei genitori o i loro amici mi avessero visto e si fossero chiesti come mai non fossi a scuola. E non me ne fregava niente neppure del libro che stavo leggendo, comunque lo lessi. Quel nuovo ingrediente presente nell'atmosfera adesso pareva essere presente qui, in Main Street. Le cose nella mia testa si rafforzarono; quando ci misi una mano, sentii che vibrava, al punto da non essere capace di tenerla ferma. Mi sentii in colpa perché non mi trovavo insieme a Jean, e non sapevo perché. Fu con gran difficoltà, ma riuscii a ignorare i bus della scuola che sfilavano attraverso la città; quando si sarebbero fermati, da uno di essi sarebbe scesa Jean. Avevo voglia di incontrarla, ma questo avrebbe reso inutile la mia ribellione. Tutta quella mia sofferenza sarebbe andata a vuoto. Così non guardai giù nella strada per vedere se stava camminando verso di me e neppure per vedere se c'era. Finsi di essere immerso nella lettura. «Fottiti!». Chiusi il libro e fissai Jean. Indossava una camicetta verde e dei jeans
bianchi. Anche se il suo tono di voce era stato brutale come sempre, vidi che le tremavano le labbra e che i suoi occhi parevano quelli di un cagnolino in un negozio di animali domestici. «Hai idea di quello che ho concluso oggi? Grazie a te», mi chiese. «Non puoi piantarmi in asso proprio quando ho bisogno di te». «Quando mai hai avuto bisogno di me?». «Oggi! Adesso! Chris, tu non hai la minima idea...». Questo è tutto quello che arrivò a dire, perché io lasciai cadere il libro, saltai giù dal muretto e l'abbracciai. Nonostante la mia relativa inesperienza in materia, sapevo che non piangeva di gioia, per sollievo, o perché i due amanti si erano riappacificati. Si aggrappò stretta stretta a me, come se fosse appena allora sfuggita a un destino terribile. Almeno da un punto di vista, aveva ragione: non avevo la minima idea, riguardo a niente» «Maledetto», disse, ma senza malignità. «Avresti dovuto proteggermi. È a questo che servono gli amanti, no? A proteggerti» . «Tra le altre cosette», risposi, distrattamente. Poi mi resi conto di quanto stava dicendo. «Proteggere da che cosa?». Non rispose, ma non ce n'era bisogno. Venni a conoscere la risposta. Quando le autorità e i giornalisti del posto interrogarono i testimoni, nessuno riuscì a dire come fosse successo. Nessuno l'aveva vista arrivare in città, attraverso i campi, come pure nessuno l'aveva vista arrivare passando dalla scuoia media superiore, dietro la biblioteca, oppure dalle case dietro la chiesa. E neppure l'avevano vista materializzarsi dal nulla. Era lì. punto e basta. Se ne stava al centro di Main Street, tra la biblioteca e la chiesa, in uno di quei momenti in cui non c'era traffico. Era un Varanus prasinas maximus. Alto un metro e mezzo. La coda da sola misurava quasi sei metri ed era più lunga del resto del corpo che scintillava alla luce del sole, come se fosse appena uscito fuori da una pozza d'acqua. Dapprima se ne stette lì, assolutamente immobile, come un pascià. Ispezionava Blackton allo stesso modo in cui Vlad l'Impalatore doveva aver ispezionato le sue truppe. Poi cominciò a scuotere la testa, in un gesto che sembrava quello di un magnifico stallone. Affondava nella strada gli artigli proprio come il suo minuscolo gemello li aveva affondati nella schiena del topo; e l'aria era piena di rumori di schianti secchi e di stridii, mentre la lucertola gigante si impennava e scalpitava sulla strada lacerata, simile a una bestia in cattività che si stesse battendo per liberarsi. Jean disse qualcosa (non so che cosa), con un tono di voce implorante
(ma non posso esserne sicuro). Qualcuno urlò, chiamando la polizia, ma il porco che dirigeva il traffico all'incrocio principale di Main Street era fuori di sé non meno degli altri. Uno che stava guidando un camion vide la lucertola gigante e prontamente si buttò addosso a una macchina parcheggiata lì da parte. Il fracasso dei due veicoli che si scontravano mi fece scrollare il capo, e fui di nuovo attento. Mi resi conto che, mentre ero rimasto lì mezzo intontito, Jean era sgusciata via dalle mie braccia. Non la cercai. Avevo gli occhi fissi sulla lucertola. La gente che c'era sul marciapiede tornò indietro. E quelli che stavano guidando in macchina si bloccarono ad almeno venti metri di distanza dalla lucertola, provocando un grosso ingorgo nel traffico. Ero l'unica persona rimasta nelle immediate vicinanze. Avrei dovuto sentirmi impaurito. Invece, anche se le mie gambe continuavano a essere intorpidite, non avevo affatto paura. Quelle cose mi infastidivano come tante api che mi ronzassero davanti agli occhi. Retrocedetti contro il muro, cercando a tastoni Jean, anche se sapevo benissimo che non era affatto vicino a me. Prima che io avessi l'occasione di andarla a cercare, la lucertola cantò. Alzò la testa verso il cielo e modulò un'aspra successione di note tali che. più che in testa, parevano risuonarmi nella spina dorsale. La sua lingua saettava avanti e indietro, picchiando contro la strada e sui lati della testa e sul collo, con un ritmo folle, completamente sfasato rispetto al canto. Le zampe battevano la strada, staccandone in alcuni punti interi blocchi e sbriciolandola in altri. Il porco si accostò fino a cinque metri dalla lingua del mostro. Teneva il fucile con tutte e due le mani, proprio come fanno alla televisione. Dapprima la lucertola lo ignorò; continuò a cantare. Non lo so perché il porco non abbia sparato quando ebbe occasione di farlo; ritengo comunque che si stesse chiedendo che cosa avrebbe fatto se la pallottola non avesse ucciso la lucertola. A ogni modo l'argomento divenne ben presto una questione puramente accademica, perché la lucertola si buttò verso il porco e lo colpì con la zampa anteriore destra, facendolo volar via. Lo fece letteralmente volare per tre metri nell'aria. Il fucile del porco volò via anche lui e la pallottola rimbalzò contro il muricciolo. Intanto il porco andava a sbattere contro una Cadillac modello '69. Quel povero bastardo rimbalzò sulla strada più volte prima di fermarsi, steso a terra. Gli usciva sangue dalla fronte e dal naso, e pareva una bambola di pezza. Il fucile finì sotto una macchina e lo sentii fermarsi contro il bordo del marciapiede. La lucertola continuò a cantare come se il poliziotto avesse rappresentato un disturbo irrilevante, il che è poi l'esatta impressione che ebbi anch'io. Nes-
sun altro si prese la briga di sfidare la lucertola. Cioè, nessuno eccetto un cocker spaniel, cucciolo, che sfrecciò fuori dalla folla e si mise ad abbaiare contro la lucertola con l'isterismo tipico di quelli che cercano di vincere solo facendo del gran chiasso, con tanto coraggio in corpo. Il cucciolo si fermò a poco più di un metro davanti alla lucertola e poi si precipitò alla sinistra del mostro evidentemente con l'intenzione di farlo uscire di città come se si trattasse di un gregge spaventato. La lingua della lucertola gli calò addosso come una mazza e si arrotolò con diversi giri attorno al corpo del cucciolo. Mentre il cagnetto lottava per liberarsi, la lucertola lo risucchiò inesorabilmente verso di sé con quella sua lingua poderosa, e quando il cucciolo fu a tiro la lucertola lo afferrò con la zampa anteriore sinistra. Gli artigli penetrarono nella carne del piccolo fino ad uscire dall'altra parte. Mentre inghiottiva il cucciolo, la mascella inferiore della lucertola gocciolava. Poi continuò quel suo canto da brividi. Sentivo che l'ingrediente nell'aria andava solidificandosi. Era sorprendente che la lucertola gigante non fosse l'ingrediente, ma in qualche modo le cose nella mia testa mi rendevano sensibile ai fatti. Avrei dovuto correre, tentare di rintracciare Jean, ma quelle cose stavano dandomi ordini ben precisi. Indipendentemente da quello che la lucertola aveva fatto al porco, io dovevo restarmene dov'ero. Avevo voglia di chiudermi le orecchie, ma non volevo perdere niente della maligna bellezza di quel canto. Era un canto di sirena. La lucertola stava chiamando qualcosa a Blackton County. Rimbombò un rumore sordo, lontano. Sulle prime pensai di essermelo sognato, che quel rumore sordo provenisse dal cielo. Ma, mentre il suono andava crescendo, mi resi conto di essere nel giusto, in pieno. A ovest c'era un tunnel nero inchiostro, costituito da migliaia e migliaia di minuscole particelle in movimento. Si alzava alto nell'atmosfera. Non avevo la minima idea di dove si trovasse la base del tunnel, ma mentre si avvicinava mi resi conto che sarebbe finito proprio entro i confini della città di Blackton. Una forza, un potere inconcepibile, aveva plasmato quel tunnel, facendo muovere le sue parti a una velocità tremenda. Il tunnel si arrestò a mezzo chilometro d'altezza e poi le sue parti cominciarono a piovere su Main Street, su un'area di circa venti metri quadrati tutt'intorno alla lucertola gigante. Non riuscii a trattenermi dal sorridere quando vidi che cos'erano quei componenti, anche se parecchi di loro mi colpirono obbligandomi a coprirmi la testa con le braccia per ripararmi.
Lucertole. Stavano piovendo delle lucertole. Ne caddero a migliaia sulla strada, e anche se avrebbero dovuto ammazzarsi quando picchiavano violentemente contro la strada o sul terreno, non era così, di fatto. Erano tutte ben vive, senza la minima ferita, e correvano in giro senza scopo, scappando in cento direzioni diverse. Parecchie persone tra la folla si misero a urlare e/o scapparono negli uffici, richiudendo le porte dietro di sé non appena quanti desideravano entrare furono entrati. E ritengo che tutti loro fossero sufficientemente protetti contro ogni minaccia rappresentata dalle lucertole. Altri rimasero lì, impietriti dal terrore, alcuni troppo storditi per scagliare via le lucertole che correvano loro sulle scarpe. L'ingrediente presente nell'aria adesso era solido. Il canto di sirena non era stato altro che un catalizzatore, e adesso la forza era piena, completa e pronta per agire. Lo sapevo, non c'era dubbio, perché me ne convinsero le cose, quegli orribili pensieri che erano un po' dappertutto nel mio cervello. Sentii Jean urlare dietro di me. Mi girai di scatto e la vidi, carponi, all'entrata del viale tra la biblioteca e l'ufficio in pietra bianca lì accanto. Sapevo che era Jean, perché indossava ancora la camicetta verde e i jeans bianchi, ma la forza era entrata in lei e l'aveva trasformata. Era dentro di lei. Le mani erano cambiate. Le unghie erano diventate lunghi artigli neri. La sua morbida pelle abbronzata adesso era verde, dura e squamosa. I suoi tondi occhi neri si erano spostati sulle tempie; i capelli e le orecchie era spariti. E quando aprì la bocca, quella sua ampia bocca, vidi che anche i denti erano scomparsi. Sibilava, la sua lunga lingua nera biforcuta saettava verso di me. Supplicai dio che nessuno accanto a me l'avesse vista. Ciò che di umano restava in lei la spinse a nascondersi nel viale. Il varano gigante stava ancora cantando, e la zona circostante era deserta (se si eccettua la bibliotecaria, che comunque non era in grado di vederla perché era rimasta chiusa nella biblioteca). Era solo una questione di tempo, però. Poi qualcuno l'avrebbe vista e, ignorando che lei era di fatto Jean Squire, quel qualcuno avrebbe potuto tentare di ucciderla prima che io riuscissi a trovare un modo per aiutarla. Ma, Cristo, che cosa dovevo fare? Jean aveva programmato che io facessi qualcosa qualora lei si fosse trovata in pericolo, ma, porco diavolo, io non sapevo neppure che cavolo stesse succedendo. Il mio impareggiabile cervello era assolutamente inadatto a prendere in mano una situazione di quelle dimensioni, e così insolita.
Fortunatamente Jean aveva sistemato le cose in modo tale che non mi fu necessario fare affidamento sul mio cervello, al momento buono. Senza un briciolo di pensiero cosciente, mi precipitai attraverso lo sbarramento di lucertole che stavano piovendo, che mi picchiavano sulla testa, sulle spalle e sulle gambe, e mi buttai nel camion che si era schiantato contro quella macchina parcheggiata. L'autista se n'era scappato via molto tempo prima, ma, pur avendo spento il motore, aveva lasciato le chiavi innestate. Quando feci indietreggiare il camion, temetti che il paraurti anteriore tutto ammaccato potesse segare la gomma. Davanti a me, la lucertola gigante o ignorò o non fu cosciente della minaccia che io rappresentavo per lei. Arretrai fino nei pressi della curva, molto più in là delle macchine ferme sull'altra corsia, che si erano bloccate a causa della presenza della lucertola. Suppongo che il primo autista della fila non avesse fatto quello che stavo facendo io a motivo di quello che era successo al poliziotto, e anche perché il fare una cosa simile non avrebbe tanto significato affrontare la lucertola quanto buttarsi a capofitto nell'ignoto. So, comunque, che anch'io non avrei fatto proprio niente se non fossi stato disperato. Schiacciai il pedale dell'acceleratore fino in fondo e inserii la marcia, più alla svelta che potei, e quando picchiai contro la lucertola gigante l'impressione che provai fu quella di picchiare contro un macigno. Il camion trascinò la lucertola per vari metri finché lo portai a fracassarsi contro un ostacolo. La carrozzeria e il motore erano a pezzi, sotto la durezza innaturale di quel mostro. Il canto cessò di colpo al momento dell'impatto, e sentii l'acqua schizzare fuori dal radiatore rotto. Prima di uscire spensi il motore. Non me ne intendevo e non mi intendo neanche adesso di motori, e non volevo che quel maledetto affare lì scoppiasse proprio mentre io mi trovavo nei paraggi. Non ebbi bisogno di guardare la lucertola gigante per sapere che era morta. Il tunnel si sfasciò. Per parecchi minuti ancora continuarono a piovere lucertole. Queste, però, cadendo a terra morivano e si spiaccicavano e si spaccavano e si schiacciavano, perché non erano più protette da quella forza che le aveva evocate. Riparandomi la testa con le mani, corsi finché arrivai ai rami che penzolavano sul marciapiede. Metà della lucertola gigante era sotto il camion. La coda si agitava ancora, grazie al suo primitivo sistema nervoso che le permetteva in qualche modo di muoversi anche dopo morta. Ritenevo che il proprietario del camion sarebbe stato furibondo con me, siccome non avevo alcuna spiegazione minimamente accettabile da offrire, anche in una situazione come questa. (Il proprietario non fu af-
fatto furibondo; come tutti gli altri, ritenne che io fossi un eroe. Tuttavia era scocciato di doversi comperare un camion nuovo. Questo l'avevo calcolato. Alla fine il consiglio comunale mi concesse un piccolo onorario che passai a lui per far quadrare le cose.) Dieci minuti dopo che mi ero messo al riparo, smise di piovere lucertole. Saltai sul muretto e guardai nel viale alla ricerca di Jean, ma non la vidi. E non riuscii a scovarla neppure nel caos che seguì. Un cospicuo numero di onesti cittadini mi tirarono giù dal muretto, mi circondarono e cominciarono a congratularsi con me. Mi diedero delle benevole pacche sulla schiena, mi strinsero energicamente la mano e mi sorrisero; e io mi sentii profondamente imbarazzato per tutta quella faccenda. Non sapevo come reagire, cosa fare o cosa dire. Non riuscivo a vedere cosa stesse succedendo al di là della folla che mi soffocava, ma captai diverse vaghe impressioni di gente che dava la caccia alle lucertole e le uccideva. Più tardi venni a sapere che le mie impressioni erano assolutamente esatte, e che parecchia gente aveva passato il resto della giornata e buona parte della notte a catturare e uccidere i Varanus prasinus. Mentre succedeva questo, una delle caratteristiche più salienti delle lucertole fu la loro abitudine di cagare e vomitare abbondantemente quando venivano provocate. Il che suscitò un gran disgusto quando un incauto pazzo si ritrovò tutto coperto di merda e di materiale vomitato. Passò circa un'ora prima che quella gente se ne andasse, e questo successe soltanto dopo che io graziosamente declinai inviti: a unirmi agli uomini per una bevuta; ad andare a trovare le rispettiva famiglie; ad acconsentire a un'intervista per il «Gazzettino di Blackton». Non accennai minimamente a Jean, perché avevo paura che fosse ancora una lucertola. Nei limiti in cui riuscii a farlo mentre ero al centro dell'attenzione, guardai in giro, cercandola. Tutto inutile. Le strade erano coperte di lucertole morte. Dei volontari le scopavano via, insieme alle loro viscere, facendone dei mucchi ben ordinati che erano poi raccolti dai netturbini, i quali, felicissimi, accettarono una sostanziosa gratifica per il lavoro straordinario in situazione d'emergenza. Il giorno seguente non c'era più un solo Varanus prasinus in tutta Blackton, con somma costernazione di un certo zoologo di Richlands. Quelli sopravvissuti al massacro (ed era prudente supporre che qualcuno fosse sfuggito alla vendetta della popolazione di Blackton) erano spariti altrettanto misteriosamente com'erano arrivati. Io ero completamente svuotato dentro. Le cose erano ancora nella mia testa, ma pareva mancassero di forza. Non ero in grado di suscitare in me
né un'emozione, né un sentimento; neppure quell'autogratificazione che ogni vero uomo prova dopo un lavoretto ben fatto in una rivendita di birra. Questo finché, mentre guidavo verso casa, ti vedo Jean che cammina con i libri di scuola sotto braccio, dalle parti di casa sua. Da come camminava, potevo capire che era furiosa. Mi sentii afferrare al collo da mani deformi, ma dissi a me stesso (dentro di me) che lei mi sarebbe stata eternamente riconoscente. Intanto mi accostai e saltai fuori dalla macchina. «Ehi, Jean! Aspetta!», dissi. Quando le fui vicino, si girò e mi affrontò: «Cosa vuoi?», mi chiese. «Be'... Uhm... Volevo soltanto sapere se va tutto bene». «Crepa! Sono incazzata con te! Una volta che, tanto per cambiare, ho avuto veramente bisogno di te, tu non c'eri. Te ne stavi in montagna a vivere con la natura, o comunque a fare qualcosa di altrettanto insulso!». «Questa è una menzogna fottuta. T'ho salvato la pelle, non è così? Anche se ti giuro che non ne so il motivo!». «Può anche darsi che tu mi abbia salvata, ma te la sei presa maledettamente comoda. Io ero là, indifesa, ad affrontare un mistico attacco contro la mia persona, e tu te ne stavi a masturbarti, a chiederti cosa cavolo stesse succedendo. Merdone! Come potrei fidarmi di te? Non voglio più rivederti, mai più». Avrei voluto darle una rispostina di quelle brillanti, ma non riuscii a pensarne proprio nessuna. Quando si sbatté la porta dietro le spalle, rimasi lì con gli occhi fissi su casa sua e dissi: «Lurida cagna schifosa. Ma chi crede di essere?». Una gran rompiballe, ecco cos'era. Sapevo che mi avrebbe telefonato, presto o tardi, e allora sarebbe stata tutta carina. Adesso, però, la vita andava meglio di quanto non fosse mai andata. E, ovviamente, lei telefonò; ma non prima che io avessi spaccato tutti i vetri di tredici bus della scuola.
Seguendo una stella nera ROBERT EDMOND ALTER Robert Edmond Alter è scomparso parecchi anni fa, ma di tanto in tanto spunta fuori un suo racconto inedito. Questo è apparso in una rivista gialla, come quasi tutte le sue opere pubblicate in vita. Non si tratta, comunque, di un racconto giallo: si parla della Legione Straniera e di città perdute e di spettrali avvenimenti, pro-
prio il genere di cose che si poteva leggere, molto tempo addietro, sulle pagine di «Weird Tales». «Me ne sono lavato completamente le mani. Mi sono sbarazzato di lui definitivamente, nell'unico modo possibile. E, alla fine, l'ho abbandonato nel posto che gli si addiceva... nella tomba dei sogni perduti». Chi pronunciò queste parole fu il piccoletto, Dorp, quello con la faccia bruciata dal tempo, decisa; gli occhi tristi, spiritati. Le pronunciò con calma, con una voce sempre uguale, lasciando che fluissero come granelli di sabbia su una spiaggia. Ma il legionario, Maggiore Henri Martel, ufficiale di stato maggiore in servizio speciale nel Sudan Francese, scrollò il capo bruscamente e si girò verso il piccoletto lanciandogli un'occhiata di disapprovazione. «Tutto questo, Dorp, è molto commovente, lo ammetto; ma non dice niente. Non la capisco... Adesso riattacchi dal principio. Ci metta tutto il tempo che vuole...». Il piccoletto si animò. Di colpo i suoi occhi rivelarono un profondo tormento. «Ma come faccio a spiegare quello che non capisco neanche io? Era un tutt'uno con la sabbia e col vento, le rovine, il santone, la nostra cupidigia...». Si bloccò, come un orologio scarico, tutto assorto, su qualcosa dentro di lui. Passò un istante, poi riattaccò a parlare, macchinalmente come prima: «No, questo non è del tutto vero... Sono convinto che una volta lo sapevo. Sono convinto che una volta sapevo tutto. Ne ebbi la certezza... per una frazione di secondo... là...». «Attacchi dal principio e mi racconti tutto». In un certo senso, io sono un cacciatore bianco. Non nell'accezione popolare del termine: sono bianco e vado a caccia, questo sì, però mai di animali. Scavo la terra a caccia di vestigia del passato. Tratto in antichità: un tesoro smarrito, vecchie leggende. Ho cinquantasei anni. Trang mi chiamava vecchio. Non credo però di esserlo; ho la forza di un cavallo da tiro. Ho cominciato le mie ricerche quando avevo ventisei anni. Trent'anni di speranze... Trent'anni di fallimenti. E poi... Trang e Tenakertom... Ero andato a Tabelbala, seguendo una diceria, una speranza, un sogno. Questo adesso non interessa. Come la maggioranza degli altri, anch'io non venni a capo di nulla. Però, mentre mi trovavo là, mi rubarono dalla jeep una delle mie vecchie carabine Lebel; la vendettero al bazar. Avevo mille
ragioni per ritenere che il furto fosse stato commesso da uno dei legionari che stazionavano lì. nell'avamposto francese. Così andai dal comandante. Mi servì a ben poco. Solo a sfogarmi picchiando dei gran pugni sulla sua scrivania. Lui, comunque, fu molto gentile e promise di indagare sul caso. Fu quando, uscito dal suo ufficio, stavo attraversando il cortile, che incontrai lui... «Lui chi?». «Trang». Una decina, più o meno, di legionari stavano lavorando a Le Cercle d'Enfer - il Cerchio d'Inferno - che, poi, non è affatto un luogo secco, ma molto umido. È il lavabo dove i legionari ogni giorno lavano le loro fatiche. Trang mi si avvicinò insieme a Controras lo spagnolo e a Beideck il tedesco. Venne da me sorridendo, come se fossimo stati vecchi amici. Disse: «Lei è Dorp, vero?». E io rimasi lì in piedi, con quel sole infernale che mi bruciava la testa e le spalle, e annuii. Non gli ho mai chiesto come mai conoscesse il mio nome. «Lei è inglese, credo». «Tra le altre cose», risposi. «Bene. Questa risposta mi piace. Mi rivela che lei è cittadino del mondo, non limitato alle convenzioni sociali delle singole nazioni. Ci serve il suo aiuto». E sorrise, e pareva un... «Ha mai visto un angelo?». «No. Lei sì?». «Credetti di sì, per un momento. Quello che voglio dire è che credetti di vedere quella che considero la versione popolare di un angelo. Innocenza sorridente! Mi capisce? Un volto senza età. Un volto bellissimo. Bello, non tanto nei lineamenti esterni, quanto piuttosto nella luce che sprizzava scintillante dall'interno. Ma solo un attimo dopo credetti di ravvisare qualcos'altro...». «Che cosa? Cos'è che ha creduto di vedere?». Di colpo mi parve una faccia nota, come se fosse qualcuno che avevo già conosciuto, forse tanto, tanto tempo prima. Come se fosse qualcuno di cui dovevo ricordarmi. Ma non riuscivo a ricordarmene.
«Lei chi è?». «Mi chiamo Trang. Questi sono i miei amici Contreras e Beideck. Siamo legionari». «Stiamo per disertare dalla Legione», disse rudemente Beideck. «Abbiamo bisogno del suo aiuto». «Ne sarà ricompensato, señor... Oh, sì... Molto ben ricompensato», aggiunse lo spagnolo, mellifluo. Per un attimo mi allarmai a quella loro schietta dichiarazione. Poi dissi, in tono scherzoso: «Soldats di Francia! Non venite a scaricare su me i vostri problemi!». Ma Trang sorrise e mi toccò sul braccio. «Lei possiede una jeep; ha anche la fama di essere un gran viaggiatore sempre in giro alla ricerca di curiosità. In breve, lei passa per un eccentrico antiquario, un uomo al di sopra di ogni sospetto. Non sarebbe per nulla inverosimile che lei avesse con sé tre soci, o tre assistenti...». «Lei aiuta noi e noi aiutiamo lei», ringhiò il tedesco. «Noi siamo sulla pista di un tesoro, mi amigo», mise in chiaro lo spagnolo. «Nombre de Dios, hombre! Ma che tesoro! Ce lo spartiremo in quattro». Sentivo le loro voci, ma tenevo gli occhi fissi su Trang. Di colpo mi resi conto che c'era una specie di forza ipnotica nel suo sguardo; me ne strappai via bruscamente. «Lei è pazzo», gli dissi. «Come risultato di tutti i vostri sforzi vi ficcheranno nelle campagnies de discipline. State alla larga! Non sto cercando noie!». E mi avviai. Ma la voce di Trang mi bloccò: «Quando chiuderemo qui, andremo a Tenakertom. Lei ha sentito parlare di Tenakertom, non è vero, Dorp?». Per un attimo, distrattamente, ascoltai attorno a me i rumori degli arabi e dei militari. Intanto fissavo lui. Poi mi girai e me ne andai. Sì, avevo sentito parlare di Tenakertom. Io ero quello che seguiva le tracce delle leggende giù giù fino alle loro origini, e Tenakertom, come Atlantide, era una leggenda. C'era un'aura di inafferrabilità attorno a Tenakertom, come, naturalmente, c'era attorno a tutte le città perdute finché restano tali. Agar, un generale semita di Cartagine, nel 146 avanti Cristo partì per conquistare l'Africa settentrionale, spingendosi fino a Nigra, la favolosa terra dell'oro. Della buona riuscita dell'impresa di Agar si sa ben poco. Secondo la leggenda egli si mise in marcia per tornare a Cartagine, poco dopo che questa cadde per opera dei romani. Le sue legioni incontrarono
sui monti Ahaggar uno schiavo, un sopravvissuto di Cartagine, il quale disse ad Agar che la colonia semitica era caduta. Agar, con duemila veterani temprati dalle battaglie e una fortuna in oro rubato, si fermò dove si trovava e fortificò un passo montano. Nacque così la città di Tenakertom, da qualche parte tra i monti di Ahaggar. Una città che aspettò che i sopravvissuti di Cartagine ripiegassero lì per formare una nuova dinastia; che aspettò l'assalto delle legioni romane; che aspettò, aspettò... E finì per diventare una leggenda, una città perduta; una leggenda interessante solo per archeologi e soldati di ventura. E due notti dopo l'incontro vicino a Le Cercle d'Enfer, il lembo della mia tenda si alzò ed entrò Trang, tutto sorridente, seguito dallo spagnolo e dal tedesco. «Allora avevano disertato?». «Sì, ma io non c'entravo. Per me erano come estranei». «Non ci siamo mai visti prima d'ora», disse Trang. «Siamo dei forestieri. Siamo tre uomini sbucati fuori in piena notte e venuti per aiutarla a ritrovare la città perduta di Tenakertom». E siccome io quel tesoro, ormai perduto da più di duemila anni, lo volevo, non dissi una parola. Rimasi a fissarlo, imbambolato. Rimasi così anche quando il tedesco borbottò: «La nostra parte per la France l'abbiamo fatta. Se gli arabi vogliono l'indipendenza, facciano pure». «Sì», risposi, come se non fossero passate cinquantaquattro ore da quando lui aveva fatto la domanda. «Sì, ho sentito parlare di Tenakertom. Ho sentito parlare anche di Atlantide e di Mu, e non credo in nessuno di questi posti». Sorrise come sorrideva sempre lui. «Lei dice di essere cinico, perché le hanno insegnato a essere così trent'anni di inutili ricerche. Ma non lo crede veramente. Quello in cui lei crede veramente è che da qualche parte, in questo crogiolo di vita che chiamiamo mondo, ci siano, ben nascosti, misteri come granelli di sabbia su una spiaggia dell'oceano. Crede che meraviglie mai viste aspettino in un angolino oscuro, muto e dimenticato. Crede che Tenakertom, la città perduta, piena d'oro antico, sia là che aspetta e ci chiami, e ci chieda perché mai siamo sordi e ciechi alle sue meraviglie. Lo ammetta, Dorp, lei crede a Tenakertom». Lo fissai con gli occhi sbarrati, per un lungo attimo, scorgendo nelle sue parole la verità. Avevo sempre voluto credere in Tenakertom. Poi distolsi
lo sguardo da Trang, mi passai la lingua sulle labbra, assaporando il gusto della cupidigia, e pensai allo Zulù errante che avevo incontrato l'anno prima. Mi aveva detto che stava vagando lungo le colline pedemontane degli Ahaggar ed era arrivato in un vasto campo di papaveri in fiore vicino al Monte Nord. Si era imbattuto in una gola e l'aveva seguita per pura curiosità. Aveva percorso, forse, un trecento o quattrocento metri, quando sbucò in una valle. E là, così aveva sostenuto, là c'era la città perduta di Tenakertom. Ma era già sera avanzata e il vento, ululando tra le macerie, aveva la voce gemente di lugubri voci antiche. Lo zulù era il risultato di innumerevoli secoli di superstizione. Fuggì via. Guardai di nuovo Trang. Mi stava osservando, e sorrideva ancora. «Ho soltanto un'idea molto vaga di dove cominciare le ricerche», dissi, rimanendo nel generico. «Se lei ha il coraggio di seguirmi, farò io in modo che lei trovi Tenakertom», disse tranquillamente. E il modo in cui lo disse suonava come una promessa. Nessuno poteva guardarlo, ascoltare le sue parole, e dubitare di lui. «Sono tempi turbolenti», mormorai. «Gli arabi...». «Non c'è niente di cui aver paura. Ci sarò io, con lei». E io gli credetti. «Lei, Dorp, mi sembra un po' infantile. Un uomo della sua età. Scappare via stupidamente con tre disertori...». «Ma lei, Maggiore, non ha mai guardato in faccia Trang, non ha mai ascoltato la sua voce. Mi sarebbe tutto più facile da spiegare se lei avesse... Molto, molto più facile». Trang aveva ragione. Non fummo molestati. Per tutto il tragitto attraverso Erg Chech seguimmo una catena di oasi, con la mia jeep, su un percorso tutto buche e sassi. Incontrammo dei tuareg, dei marocchini che predicavano la guerra santa, e dei senussi fanatici. Una notte ci accampammo vicino ad Adrar. Contreras stava preparando la cena per tutti. Beideck e io stavamo scaricando la roba dalla jeep e, intanto, Trang era andato a cercare dell'acqua. Di colpo di trovammo circondati da una tribù di nomadi. Dapprima non dissero una parola. Poi mi accorsi che qualcuno di loro stava borbottando «Cani infedeli», «Cani infedeli», e notai pure che erano armati. Le loro intenzioni ostili erano eviden-
ti. Beideck si allungò sul retro della jeep per prendere uno dei miei fucili Lebel. Il suo brusco movimento fu seguito da un brontolio minaccioso, cupo: «Ul-ul-ul-ul-ul-ullah Akbar». Rimbombava dalle gole degli arabi, come la minaccia sempre più forte di un mare che avanza. Era un gran brutto momento. Questione di vita o di morte. Allungai la mano per prendere il mio fucile e intanto, in silenzio, maledicevo Trang. Poi, di colpo, ci fu silenzio. In mezzo a noi c'era Trang. Pareva si fosse materializzato dal nulla. Non disse una sola parola. Incrociò le braccia, sorrise, e fece scorrere gli occhi su quella gente. Lentamente, uno o due alla volta, cominciarono ad andarsene. Non era certo un fuggire, semmai un ritirarsi obbligato, in silenzio, come costretti. Un minuto dopo eravamo soli sul bordo dell'oasi. Accanto a me sentii Contreras bisbigliare: «Es un diablo, Dios mio, es un diablo!». Fu quella l'unica volta che gli arabi cercarono di darci noia. Beideck aveva il complesso del leader. Un bruto sempre pronto a urlare, che profanava tutto quello che vedeva e anche parecchie cose che non vedeva. Aveva passato otto anni nella Legione, ed era caporale. Contreras credeva in un dio tutto suo, non si fidava proprio per niente del suo compagno. Era impossibile fargli capire l'incoerenza della sua tesi. Anche lui era caporale, con alle spalle sei anni di vita nella Legione. Entrambi erano soldati esperti, duramente formati sul campo. Anche Trang era un buon soldato, anche se del soldato non aveva proprio nulla. Era tranquillo, di indole gentile, senza pretese, coraggioso. Mi metteva in imbarazzo. Una notte chiesi a Beideck che cosa sapesse di lui. «Niente, assolutamente niente. Sono stato io il primo a saltar fuori col discorso di Tenakertom. Ne avevo sentito parlare da un goumier arabo nel bazar. Ne parlai con lo spagnolo, perché sapevo che stava per disertare. Be', una notte ce ne stavamo lì, parlandone e studiandoci i nostri piani, quando all'improvviso apparve Trang. Tutto qui. Era lì e basta. Ci disse che sarebbe venuto con noi, se l'avessimo voluto. Ci disse, anche, che ci avrebbe aiutati a ritrovare la città perduta. Io mica lo conoscevo; non l'avevo mai visto prima». «Com'era possibile che Beideck non l'avesse mai visto? I legionari a Tebalbala sono pochi. O intendeva dire che Trang era una recluta?». «Non disse così. Disse di non averlo mai visto prima di allora. In segui-
to, quando chiesi anche a Contreras che cosa ne sapeva di Trang, la risposta fu identica. Trang, per loro, era uno sconosciuto». Appena dopo Erg-n-Ataram scoppiò il radiatore della jeep. Scoppiò tanto bene da parere che avessimo ficcato una bomba a mano nel tubo. Ne rimasi spaventato. Davanti avevamo l'arido sterile deserto del Tanezrouft, dietro di noi la catena di oasi che invece volevano dire vita. Cominciai a dubitare che valesse la pena di rischiare la pelle per la pura eventualità di trovare la città perduta e una fortuna in oro. E ne parlai a lungo con i miei compagni. Trang ci guardò con calma, scrutandoci uno per uno con quel suo strano sguardo, e ripeté quello che aveva detto a me a Tabelbala: «Quello di cui avete bisogno è soltanto il coraggio di seguirmi. Farò io in modo che troviate Tenakertom». Lo squadrai con sospetto. «Coraggio...», dissi, «e fede in lei. È questo che intende dire, vero?». «Sì, si è espresso piuttosto bene». Ci fidammo ciecamente di Trang. Il Tanezrouft è un pianeta remoto, spopolato. Il Tanezrouft è un oceano infinito senza navi. Al terzo giorno di un incedere faticoso sulla sabbia, cadendo continuamente, finì l'acqua. Ci trovammo imprigionati in un cerchio bianco, prigionieri di quel feroce tiranno che è la sete. L'unica mia idea fissa era l'acqua, quell'elemento senza sapore né colore né odore, che non solo è necessario alla vita, ma è la vita stessa. Acqua, acqua, acqua... E davanti a noi. di fianco a noi, dietro di noi si stendeva soltanto sabbia, sabbia, sabbia... Le città perdute erano diventate sogni infantili; enormi tesori non avevano più alcuna importanza, erano scodelle di sabbia. Acqua, bere un po' d'acqua: questo era il tesoro, la chiave dell'esistenza. Acqua, cristallina, fresca, gorgogliante. Pensavo solo a questo. No: pensai solo a questo durante il primo giorno. Dopo, pensai a ogni tipo di acqua: sporca, salata, fangosa, stagnante, e a tutto quello che poteva in qualche modo passare per acqua. Noi tre (lo spagnolo, il tedesco e io) arrancavamo ansanti sulla scia di Trang, implacabile. Era sempre davanti a noi, e camminava a lunghi passi verso la remota, irraggiungibile spina dorsale del deserto, gli Ahaggar. «Non sente il bisogno di un po' d'acqua, lei?», gli urlai dietro una volta, furiosamente. «Non ci penso. Penso a Tenakertom».
«Non è stanco? Non si sente come se avesse perso l'anima, e il suo corpo fosse già morto e inutile?». «No», rispose con calma, «proprio no. Se il suo corpo è morto, allora lei è vivo; allora il suo corpo non può soffrire. Si metta in questa ottica». Guardai le cose da quel punto di vista, ma non mi servì a nulla, o quasi. Io e il mio corpo eravamo un tutt'uno. A ogni passo urlava la sua sofferenza, sbagliava e cadeva. E pareva che Trang sapesse quando, esattamente, eravamo arrivati all'estremo delle nostre forze. Allora si fermava, si voltava a guardarci, sorrideva leggermente e diceva: «Coraggio. Pensate al tesoro». E per un attimo alzavamo la testa, guardavamo gli Ahaggar, la vista annebbiata dalla fatica, e ci scordavamo, per un attimo, dell'acqua. Pensavamo al tesoro e proseguivamo. Poi, miracolosamente, la terra si riempì di papaveri, in ampi campi intatti, proprio sotto le prime colline ai piedi della catena montuosa. Muovevano il capo, si piegavano l'uno verso l'altro, sembravano sussurrarsi parole, mentre noi ci aggiravamo con gli stivali in mezzo a loro, immemori della loro bellezza. E al centro, come un diamante incastonato in una piastra d'oro, una pozza d'acqua limpida, immobile. Con la forza dell'acqua, il tesoro cui ormai avevamo rinunciato ci ritornò alla mente. In meno di un'ora eravamo già in piedi, alla ricerca della gola che doveva condurci a Tenakertom. Fu Beideck che trovò il passaggio: un tunnel stretto, completamente nascosto dalle felci; un tunnel di ombra verde e di mistero. Eravamo stranamente silenziosi, mentre, cauti, ci aprivamo la strada attraverso quella gola. Ognuno di noi, eccetto Trang. che non portò mai un'arma, ognuno di noi stringeva in mano convulsamente un fucile. In un certo senso era un posto spettrale, e ogni tanto ci scambiavamo delle occhiate. I nostri occhi si allungavano come mani tremanti per accertarci che eravamo tutti insieme. Di colpo uscimmo fuori in una vampata di luce solare. Davanti a noi c'era un'ampia conca, verde, profondamente incassata tra le colline che le si riunivano tutt'intorno. Circolare, piccola, come se il pollice stesso di Dio ne avesse arrotondato i bordi, forgiandola. A mezza costa cominciavano le rovine... «Vuol dire che Tenakerlom esiste veramente?».
«Se esiste? Ma certo che esiste! Tutto quello che lei sogna o ha mai sognato esiste. Quando sarà più vecchio lo comprenderà». Tenakertom non era mai stata una città vera e propria. Era stata piuttosto una fortezza. Si appoggiava contro i dirupi, disordinatamente disposta e rovinata lungo due bracci ricurvi. Uno dei bracci (disordinato, composto di stanze senza nome) e un accenno di muraglione si adagiavano sul fondo della valle, e da qui partiva il secondo braccio che si curvava arrampicandosi lungo la cresta meridionale dell'incavo. Una rampa di grandi gradini, ricoperti di un'antica patina, si alzava verso una sporgenza e arrivava fino al torrione che adesso andava sbriciolandosi. Il posto mi affascinò come un monumento alla tragedia e all'oscurità, piombata su quella Zona di civiltà asserragliata. E il vento che gemeva nei suoi corridoi era la voce dei suoi soldati che piangevano il loro passato dissoltosi nel nulla. Avanzammo senza dire una parola. Ma Trang, con un gesto della mano, ci avvisò di tornare indietro; e indicò qualcosa. Sul fondo della valletta c'era una tenda da beduino. Non c'erano né cammelli né ponies, uomini o segni di presenza umana. Non si muoveva niente. Soltanto un sottile filo di fumo che fuoriusciva dalla tenda stracciata, nell'aria luminosa. «Ah!... qualcuno vi ha fatti fessi, come si suol dire?». «Lei può ben immaginare il nostro disappunto, la nostra rabbia. Avevamo percorso più di mille e seicento chilometri, di cui quasi cento a piedi, per trovare quel posto e scoprire che qualcuno c'era arrivato prima di noi». Beideck era del parere di accoppare senz'altro quell'intruso, chiunque fosse; e lo spagnolo lo spalleggiava. Trang non disse niente. Ci guardava e sorrideva. Rimasi sorpreso da quella sua reticenza. «Un assassinio non era in programma», dissi loro. «Vediamo chi è, prima di cominciare a sparare». Il tedesco e lo spagnolo mi risposero con un grugnito, e Trang continuò nel ruolo di spettatore divertito. Io li guardai indignato e cominciai a scendere nella valle. Provavo una singolare impressione alla nuca, mentre avanzavo. Beideck e Contreras continuavano a stringere in mano, convulsamente, i fucili. Arrivai per primo all'ingresso della tenda, sollevai il lembo ed entrai.
Dentro c'era buio; buio pesto, appesantito da un pungente odore di fumo di legna, incenso, pelli di animali e altri odori indescrivibili. Un uomo incredibilmente vecchio, avvolto in panni sudici, sedeva su un tappeto per la preghiera, tutto consunto, biascicando parole che diventavano parte del vento. Su un tripode alla sua sinistra c'era uno strano congegno che sembrava una ruota. Girava lentamente, cigolando. In cima c'era un imbuto, e in fondo un tubo di scarico. Allungò una mano adunca, macilenta, e lasciò che granelli di sabbia scomparissero nella bocca dell'imbuto. La ruota girava e altri granelli di sabbia cadevano dal tubo di scarico, ammucchiandosi in una ciotola verniciata, poggiata sul tappeto. Un santone, un uomo per descrivere il quale non ci sono parole; un arabo, un giudeo, un egiziano. Che importanza aveva? Mi rivolsi a lui in arabo e lui mi rispose, senza neppure guardarci. «Deponete le vostre armi. Qui non ne avete nessun bisogno». Lanciai un'occhiata a Beideck e a Contreras. Capivano abbastanza la lingua per sapere ciò che il vecchio aveva detto, e stavano sorridendo con aria di scherno. Io. però, mi bloccai costernato, quando guardai Trang. Per la prima volta da che l'avevo conosciuto, pareva in ansia, quasi preoccupato. Il volto era duro e non sorrideva. Guardava fisso il vecchio. «Andiamo a cercare il tesoro», bisbigliò. «Andiamocene via da questo buffone». «Giusto», disse Beideck. «Non dobbiamo preoccuparci di questo vecchione. Andiamo, compagni». E lui e lo spagnolo uscirono insieme. «Dorp», chiamò Trang, «venga via di qui. Quest'uomo non le può offrire nulla». Ma io esitavo. «Un secondo», dissi. E quando mi guardai di nuovo alle spalle, Trang era sparito. Fissai gli occhi sul volto del vecchio, quel volto logoro e triste, così coperto di rughe da sembrare che ti guardasse attraverso le maglie di una fine reticella nera. Chiesi: «Da quanto tempo è qui, Padre?». «Da tanto... tanto tempo... da moltissimi anni». «Perché?». «Per studiare, per pensare. Qui c'è il passato, e il passato contiene il seme del futuro». Ci fu silenzio tra noi. Esisteva solo l'irregolare mormorio del vento. Mi schiarii la gola. «Questa è Tenakertom, non è vero? È la città perduta di Agar? La leggenda è vera?». «Vera... vera... Agar, il possente, si avviò con le sue minuscole legioni
per contrapporsi al continente nero. Divertente, no? Eppure, molti uomini hanno pensato di portare a termine la stessa impresa impossibile, in un modo o in un altro. E cosa successe alla fine? Agar ritornò, scoraggiato e sgomento, e innalzò il suo ultimo futile muro di sfida in questo buco, e morì...». La sua voce risuonava monotona, meccanica; e aveva in sé uno strano fascino ipnotico. I granelli di sabbia cadevano nell'imbuto, la ruota cigolava, la sabbia si ammucchiava nella ciotola... «Ma Agar era ritornato con un tesoro», insistetti. «È qui?». «Ritornò con niente. Qui non ci sono tesori. Qui c'è soltanto una lezione». «Una lezione?». «Una lezione che insegna la verità. Vai sul torrione che è sulla collina. Troverai la risposta». Mi mossi verso l'uscita, teso e arrabbiato. E quando lo guardai di nuovo, vidi che i suoi grandi occhi mi stavano osservando. «Lei mente!», urlai. «Qui c'è un tesoro. Lo so! Lo sa Trang!». Mi fissò con quegli occhi simili a diamanti, e mi parve che sorridesse. «Tre sapienti che vengono dall'occidente», sussurrò, «seguendo una stella nera... per nulla». C'era silenzio tra le rovine. Scorsi Contreras che si muoveva in mezzo a grandi obelischi spezzati. Scorsi anche Trang. Se ne stava in piedi davanti all'arco di un tunnel verde melmoso. Osservava e sorrideva. Lui non stava cercando. Mi portai ai piedi della scalinata ciclopica e mi incamminai su verso il rialzo dove c'era il torrione. Dentro, mi trovai di fronte un portale disfatto che doveva essere stato un'antica porta di legno dello spessore di trenta centimetri circa, quando era stato messo lì la prima volta. Era ammuffita e tenera come balsa. Vi sferrai contro un calcio e quello si sbriciolò, riducendosi in granelli di polvere e in piccole schegge. L'oscuro, denso odore di polvere, marciume e muffa si alzò e mi colpì. Feci una smorfia ed entrai. Il pavimento dell'enorme stanza era coperto di frammenti caduti dal soffitto tutto crepe, in pietre e a volta. Attraverso le crepe entrava la luce. Aspettai, lasciando che i miei occhi si abituassero a quella semi-oscurità. Quando posai il primo passo, fu come se i miei piedi avessero fatto scricchiolare foglie autunnali. Mi accovacciai e guardai più da vicino. Poi mi guardai intorno, guardai tutto quel pavimento pieno di macerie. Era un ossario.
I resti dell'armata di Agar erano sparsi qua e là davanti a me, come bastoncini rinsecchiti, fogli bruciacchiati e foglie morte. Centinaia di corpi antichi, ammassati in mucchi di polvere. E, in mezzo al disordine di crani staccati e di casse toraciche in disfacimento, c'erano corazze, ricoperte di verderame; elmi, falere, scudi: oblunghi, ovali, esagonali; spade, lance, mazze ferrate e azze. Tutto era lì, come per custodire i padroni morti, per custodirli per l'eternità. Erano questi gli uomini che erano partiti per conquistare un continente, per derubare una vasta regione del suo oro. Mi voltai e uscii dal portale, di nuovo in pieno sole. Fuori, in cima alla scalinata, in piedi, c'era Beideck, gli occhi fissi, il fucile puntato contro di me. «C'era forse qualcosa che non andava? Stava per spararle?». «No, non gli era ancora venuto in mente...». Mi fece cenno con una mano di mettermi giù. Mi accovacciai dietro il parapetto e lo fissai. Sembrava stesse cercando qualcuno tra le rovine, là in basso. Sentii il disagio dell'ignoto filtrare dentro di me. Poi ricordai di aver lasciato il fucile nella tenda del vecchio. Beideck venne verso di me, correndo mezzo rannicchiato. Presi una grossa pietra. «Hai visto lo spagnolo?», sibilò. «No. Cos'è successo?». Uscì in un grugnito soddisfatto, feroce. «Proprio quello che pensavo sarebbe successo. Contreras ci vuole accoppare e prendersi tutto il tesoro per sé. Ha cercato di metterci contro anche Trang, ed è stato proprio Trang a mettermi in guardia». «Ma non l'abbiamo trovato, un tesoro...». «C'è! E lo sai anche tu, buffone!». Sollevò la testa e sbirciò oltre il parapetto. «Quel porco! Che schifo! Be', non sarà il primo a cui pianto qualche pallottola in corpo». Una pallottola schizzò contro il muro della fortezza appena al di là della mia testa, e sentimmo l'isolato colpo dello sparo che rimbalzava giù nella valle e si perdeva nel vento. Beideck e io ci stendemmo nella polvere, faccia a faccia. «Da dove veniva, sapresti dirmelo?». Scrollai il capo. «Ehi! E il tuo fucile?». Glielo dissi. «Che stupido! Bene, adesso pensaci da solo a salvare la pelle...».
Si spostò e cominciò a contorcersi sul pavimento, in direzione di una breccia nel parapetto. Un secondo sparo echeggiò pauroso nell'aria. Contreras si sollevò da dietro un arco mezzo diroccato, proprio a est dell'enorme scalinata, e agitò in alto il fucile, in segno di sfida. «El perro peludo! Credevi di riuscire a fregarmi, eh? Credevi che ti avrei lasciato rubare il mio tesoro? Hombre de Dios, hombre! Ti farò a pezzi come un maiale!». Di colpo Beideck, prima adagiato, divenne tutto movimento. Si mise in ginocchio e cominciò a scaricare il fucile su Contreras. Sparò e sparò, come reso pazzo dal potere, il potere di schiacciare il grilletto. «Ah! Il piccioncino! Ti piace? Prendi e incassa, soldat! Ho tenuto in serbo per te tutto il caricatore!», strillava. Contreras ricadde violentemente all'indietro contro l'arco e lasciò cadere il fucile. Le ginocchia gli si piegarono, ruotò lateralmente e rotolò goffamente nell'erba verde e alta... Poi, per un lungo attimo, ci fu solo il suono di quella rapida successione di spari che si inseguivano l'un l'altro giù per la valle. E poi, solo il mormorio del vento. «Ih!», esultava Beideck, saltando dalla gioia. «Una morte come si deve». Si girò e ritornò da me saltellando, e intanto ficcò nel fucile un nuovo caricatore. «Andiamo a cercare quel tesoro! Trang ha detto che era nella fortezza». «Ma che tesoro!», urlai, indietreggiando cautamente. «Là dentro ci sono soltanto ossa e polvere. Dov'è Trang?». «Perché te ne preoccupi? Non ci serve più. E non cercare di cavartela con la storia delle ossa e della polvere. Lo so che il tesoro è là dentro». E mi diede uno spintone con le mani. «Muoviti! Non tentare scherzetti con me, compagno. Posso scaricarti addosso il fucile come ho fatto con lo spagnolo». Era di nuovo il grande leader, il guerriero conquistatore. Non c'era tempo per mettersi a discutere. Mi voltai e rientrai nella fortezza. Beideck mi precedette e, lasciandosi cadere sulle ginocchia, in mezzo al marciume, alla polvere, alle ossa e alle macerie, cominciò a ridere scioccamente e a tremare. «Oro, Dorp! Oro e gioielli! Una stanza piena. Il tesoro!». Lo fissai. «Beideck», urlai. «Qui non c'è nessun tesoro... Niente oro, niente...». «Menti!», strillò, e ruotò su se stesso, sempre in ginocchio, spianandomi contro il fucile. «Ti conosco, Dorp. Tu vuoi il mio tesoro. Tu sei come
Contreras. Sai cosa ti do al posto del tesoro, piccioncino mio? Una pallottola in fronte!». Vidi che mi restava un'unica via di scampo, anche se pazzesca. Lui non riusciva a curarmi, perché i suoi occhi erano irresistibilmente attratti dal «tesoro». Dovevo procurarmi un'arma. Ce n'erano a centinaia ai miei piedi, ma nessuna di loro poteva servirmi. «Cosa intende dire? Che cosa c'era che non andava in quelle armi?». «Un tempo, erano state tutte di legno o di metallo. Adesso, invece, erano soltanto striscie di polvere o di ruggine. Poi...». Era la testa metallica di una mazza ferrata, delle dimensioni, all'incirca, di un'arancia. La vidi in mezzo al marciume che era stato un tempo un guerriero dal petto possente. Beideck stava lanciando in alto manciate di putredine e strillava dalla gioia, mentre quella roba gli ricadeva sui capelli, sugli occhi e sulla bocca. «Soldi! Soldi!», urlava. Afferrai la testa della mazza ferrata. I suoi occhi scattarono fulminei. «Ladro», strillò. E la mano corse al grilletto. Lanciai la mazza ferrata, mentre il fucile si scaricava al di sopra della mia testa senza ferirmi. Lo colpii in pieno volto. La mazza... Be', mi avvicinai a lui e gli tolsi il fucile. Non guardai una seconda volta il suo volto. E poi, solo allora, mi accorsi che Trang era lì con me. Non lo avevo visto entrare, non lo avevo sentito. Era lì, all'improvviso; e mi sorrideva. «Ottimo», disse, indicando il tedesco morto. «Adesso c'è rimasto solo quel vecchio pazzo. Poi il tesoro è suo». Mi ritrassi. «Cosa sta dicendo? Uccidere il vecchio? E perché mai? Ho ucciso Beideck per legittima difesa. Qui non ci sono tesori». E lui sorrise di nuovo: un sorriso paziente, condiscendente. «Il tesoro c'è, Dorp. L'unica cosa che deve fare per trovarlo è avere fede in me. Uccida il vecchio. È un testimone. Comunque, sta morendo. Il tesoro, Dorp... Il tesoro di Tenakertom...». Indietreggiai ancora, e ficcai un altro caricatore nel fucile. «Vada via, Trang», lo avvertii. «Uccida il vecchio e troverà il tesoro, Dorp. È qui...». «La smetta, Trang! La smetta!». «Abbia fede in me... Il tesoro... Il tesoro...». «La smetta, Trang!».
«Ci pensi, Dorp! Pensi al tesoro...». Gli puntai contro il fucile. Le mie dita accarezzavano il grilletto. «Ti conosco, Trang. Non ti ascolterò. Non...». «Ci pensi, Dorp. Uccida il...». Premetti il grilletto. Il vecchio se ne stava seduto nelle ombre puzzolenti della sua tenda. La ruota quasi non girava più. Un granello di sabbia si ammucchiò sugli altri nella ciotola verniciata. Pensavo che stesse dormendo. Ma lui si mosse e mi parlò senza guardarmi. «I granelli di sabbia sono finiti», sussurrò. Annuii, aspettando. Sapevo che stava morendo. Poi gli dissi: «Ho sparato a Trang». Lui era immobile. Bisbigliò una parola: «Chi?». «Trang. Il terzo uomo che era con me. Non il tedesco e neppure lo spagnolo. Quell'uomo giovane, alto... Trang». «Il tedesco...». Respirava debolmente. «Sì. Lo spagnolo, sì. Li conosco... Ma non il terzo». «Aspetti un momento. Questo non lo capisco». «Non capisce? Pensavo, per la prima volta, di aver...». Tutto qui. Lo lasciai. Uscii dalla tenda e da Tenakertom. Lasciai là Trang. So bene di averlo fatto, anche se non lo rividi più, dopo avergli sparato. Non lo cercai. Forse... L'omino Dorp, smise di parlare. Si piegò all'indietro sulla seggiola e fissò tranquillamente lo sguardo sul pavimento. L'ufficiale di stato maggiore in sevizio speciale congiunse le mani e si mise a esaminare le sue dita intrecciate. Dopo un attimo guardò l'omino. «Naturalmente dovrò trattenerla. Devo controllare a Tabelbala per quanto riguarda quei tre disertori». L'uomo che si chiamava Dorp si agitò e annuì. Una specie di sorriso pensoso curvò le sue guance bruciate dal tempo. «Capisco... Ma, Maggiore non penso che a Tabelbala saranno in grado di dirle qualcosa su Trang. Ho i miei dubbi che nella Legione abbiano mai sentito parlare di lui». Quando i bambini invocano il mio nome
CHARLES L. GRANT I bambini hanno ispirato alcuni dei migliori racconti macabri mai scritti: pensate a The Rocking-Horse Winner di D.H. Lawrence, o a The Small Assassin di Ray Bradbury, oppure a quella deliziosa storia di spettri che è Mr. George di August Derleth. Grant scrive spesso di bambini e di terrore, sempre con un nuovo, particolarissimo punto di vista che lo ha imposto come uno dei migliori autori dei nostri giorni. Quando i bambini invocano il mio nome, pubblicato qui in prima edizione, utilizza il punto di vista di un adulto per svelarci un segreto noto solo ai bambini e ignoto ai grandi. Benvenuti al campo giochi... 1 Poe si pose questa domanda: Tutto quando vediamo o crediamo di vedere, è forse soltanto un sogno in un sogno? No. Ma vorrei tanto che lo fosse. E intanto, mentre aspetto... Un altro bicchierino, un'altra sigaretta... Uno tira l'altra come un boccone tira l'altro, mentre guardo fuori oltre la veranda, verso il reticolato e il cancello. Nell'oscurità. Immerso nei ricordi. Di solito questo periodo dell'anno, per me, quando la pelle fremeva e il sangue batteva veloce la sua giovinezza, era una stagione eccitante. Del resto, lo sapete bene anche voi quando ci si senta meglio a passare dal freddo al caldo che non dall'arsura al gelo. I caminetti e i focolari e un dolce brandy rilassante avevano un senso, allora; come l'avevano le sciarpe pesanti e le coperte di lana appena tirate fuori dal baule in soffitta; e il morbido comodo comfort di un bollitore gorgogliante. Tutto questo significava qualcosa allora, come del resto significa qualcosa anche adesso; ma la differenza tra il qualcosa di allora e il qualcosa di adesso è un lungo, lungo intervallo di anni. Se potessi trovare una scorciatoia di cui non mi sono accorto, soltanto allora, forse, potrei andarmene a letto. Mi sono allontanato dalla polizia quasi cinque anni fa, molto tempo prima che la mia uniforme e il taglio degli abiti mi etichettassero come un matusa. Avevo voglia di viaggiare, di procurarmi esperienze, di conformarmi al cliché e fare quello che non avevo mai fatto, prima che fosse troppo tardi, e ricordare tutto il periodo con tenerezza. Lo feci e lo rifeci. E
quando ritornai al paese non era cambiato assolutamente niente, da quel che potevo vedere; e non era morto nessuno senza che me lo aspettassi. Poi, la primavera scorsa, mi venne offerto un lavoretto part-time, come custode/confidente/rappezzaferite in un minuscolo parco giochi dall'altra parte della città. Fu una mossa da vigliacchi quella che fece il vecchio Greshton. Sapeva che mi sarei spazientito molto presto, appena mi fossi stufato di tirar su rose che pungevano e piante di mele che davano frutti a dispetto della mia incapacità e illusione di sapere quello che stavo facendo. «Kit», disse, neanche due settimane dopo che ero arrivato, «voglio essere sincero con te. Non lo vuol fare nessuno allo stipendio che gli offriamo noi». «Va bene, Marve», gli risposi, «non vorrei neppure io. Ma sta il fatto che l'autunno che viene potrei mettermi in lista contro di te e potrei aver bisogno del tuo voto». Scoppiò a ridere, un singolo scoppio sonoro che minacciò di spazzar via dalla sua scrivania tutto quello che c'era sopra. Poi si diede uno strattone al lobo di un orecchio, spinse una mano nei pochi capelli rimasti, aggrappandovisi rigidamente, con aria di sfida, nel ricordo di quando erano folti. Questo gesto lo ripeterà anche quando non ne avrà più, pensai, e ogni volta che lo farà si dimostrerà sorpreso quando le dita incontreranno il vuoto. Mi allungai per prendere un sigaro dalla scatola e me lo cacciai nella tasca della giacca. «Però me lo prendo, Marve, basta che non debba indossare un'uniforme». «Be', questo è da vedere», lui scantonò. «Come sai, c'è un regolamento, e anche se sei un vecchio amico non possiamo metterci a fare eccezioni. I più giovani potrebbero non capire. Insomma, l'assessore per le zone verdi...». «Al diavolo», scoppiai a dire, «sei tu l'assessore per le zone verdi, l'assessore per l'igiene, e il...». «Ben detto, ben detto», esclamò. «Ma porta qualcosa con te, intesi?». Aggrottai la fronte, preso alla sprovvista. «Cosa intendi dire con quel qualcosa? Cosa pensi che succederà una rivolta perché le quotazioni di borsa vanno a rotoli?». Marve si tolse gli occhiali e li sfregò vigorosamente contro la camicia. «I più grandi», sbottò, ammiccando con quel suo sguardo miope, quasi gli desse fastidio il fatto che potevo fare a meno di due lenti artificiali. «A loro piace andare in giro a dar fastidio ai piccoli. Tu, Kit, sai come sono.
Portati qualcosa in tasca, per ogni eventualità». Avrei dovuto mettermi a discutere, ma la mattinata stava andandosene e io avevo un appuntamento. Mi dichiarai pienamente d'accordo. Avrei fatto saltar fuori qualcosa che potesse incutere paura e nello stesso tempo non far male a nessuno; e ci stringemmo la mano, come facevamo sempre, in silenzio. Ma mentre lasciavo l'ufficio, un gioco d'ombre (e non c'era motivo che si trovassero dove di fatto si trovavano) gli dimezzò l'età, facendolo spavaldamente sembrare sulla trentina. Fu un attimo di disagio, perché ricordavo raramente quanto fossimo vecchi, continuando a trascurare le borse che andavano accumulandosi sotto gli occhi e la pappagorgia sotto il mento. Non che io e Marve ci facessimo illusioni, lui con i suoi sessant'anni e io con i miei cinquantacinque, però nessuno dei due passava le sere a lamentarsi. Lui era troppo occupato, essendo sindaco e tutto il resto, in una città dalle dimensioni proprio su misura per gente come noi; troppo occupato anche per osservare i suoi pronipoti crescere e andarsene e ritornare, su fogli di lettere frettolosamente scritte. Io, poi, ero troppo occupato a programmare la mia campagna. Perché mai, mi chiedevo mentre mi precipitavo fuori, perché mai gli uomini dànno sempre l'impressione di guardare le donne come obiettivi di una campagna militare? Come fossero, spontaneamente, il nemico e noi gli impetuosi, giovani maggiori che le sbaraglieranno, riducendole alla sottomissione. Atteggiamento decisamente ridicolo, pensai, mentre entravo nella trattoria di Franklin. Eppure mi fermai per lasciare che gli occhi si mettessero a fuoco, mentre sondavano i volti dei clienti a pranzo: una reazione a ritroso, ai giorni delle mie battute quand'ero il maresciallo Wichita a caccia di guai e di pericoli nei saloon locali. Comunque mi resi subito conto di quello che stavo facendo. Sogghignai, scossi il capo e mi precipitai verso il separé, dove stava aspettando Catherine. Benché lei fosse la prima alla quale avevo telefonato dopo il mio ritorno, tre settimane addietro, non m'ero sentito di vederla fino a quel momento. Snella, ancora con tutti i capelli neri, ben conscia che un po' di fondotinta sul volto di una cinquantenne, per quanto astutamente applicato, è sempre un po' di fondotinta. Ero stato via per circa due anni, e la mia grande paura di trovare le cose cambiate portò immediatamente il mio occhio sulla sua mano sinistra. Non c'erano anelli. Poi alle sue labbra delicatamente rosse. Sorridevano. Si alzò leggermente e io, galante, le feci cenno di accomodar-
si, schioccai le dita per chiamare una cameriera e ordinai da bere per due senza consultarla. «Usano così in Francia?», chiese. Estrasse una sigaretta dalla borsetta, la infilò in un bocchino d'ambra e attese che gliela accendessi. Senza impazienza. Preoccupata, perché sapeva che mi dava fastidio quando il suo fiammifero si accendeva prima del mio. «Francia, Belgio, Italia... Per me sono tutti uguali», risposi, scherzosamente annoiato. «E le donne», disse lei. «Scarne, tutte seno e niente fianchi; e assolutamente prive di senso dell'humour». Mise il broncio, comprensiva. «Oh. povero Kit, non ha avuto successo con loro, non è così? Intendi dire che non sono rimaste impressionate dal tuo curriculum di poliziotto? Dalle tue imprese eroiche nelle colonie?». «Erano più impressionate dalla consistenza del mio conto in banca», risposi. «E immagino che anche tu sia stata assediata quanto me. Dansworth che sfonda a pugni la porta della tua stanza, Falkner che ti dà la caccia attorno alla scrivania, Greshton che inganna la moglie e ti fissa appuntamenti segreti in qualche sontuoso motel». Annuì e mi soffiò il fumo negli occhi «Stanne pur certo, vecchio sudicione». «Sudicione magari si», dissi, e lasciai in sospeso il resto. Lei allungò un dito e tracciò un segno sul dorso della mia mano. La cameriera ci servì quanto avevamo ordinato e, col sorriso di chi mi riconosceva quando mi rivolsi a lei chiamandola per nome, se ne filò via svelta lasciandoci soli, immersi in quella luce tenue, in quel legno scuro, in quelle conversazioni tranquille che andavano e venivano a ondate senza toccarci. Tra noi ci furono silenzi, e parlammo molto. Mangiammo come se non ci potesse essere ulteriore intimità. Poi il vino, e brindammo. «E come vanno le cose al giornale?», chiesi. «Gli scandali settimanali continuano a tenervi occupati?». Scrollò le spalle. Una volta mi aveva detto che essere la segreteria e factotum del direttore del giornale di una piccola città non era affatto affascinante quanto essere una puttana, ma decisamene più allettante che non starsene lì tutto il giorno a urlare dietro a dei ragazzini in una biblioteca. «Be', anch'io ho un nuovo lavoro», dissi, in un momento in cui non stava riferendomi i suoi pettegolezzi. «Ho visto poco fa Marve. È convinto che potrei essere un ottimo capo della polizia».
«Stai scherzando». «Sì», risposi, e ridacchiai. «La verità è che vorrebbe che io curassi un parcogiochi». «Non intenderai parlare di quello di Hawthorne Street?». «Proprio quello! Come facevi a sapere che fosse proprio quello?». Trafficò un poco con la cenere della sua sigaretta, tirò una boccata nervosa e si soffiò il fumo in grembo. «Cosa vuoi, fortuna. È l'unico che non ha un custode, per quel che io sappia». Abbozzò un mezzo sorriso forzato e tirò via una ciocca di capelli, ricacciandola dietro un orecchio. «Non sei superstizioso, vero?». «Riguardo a che cosa? A un parco giochi?». «Per amor del cielo, Kit, non hai parlato con nessuno da quando sei tornato? Marve non te l'ha detto?». Battei le palpebre, stupidamente. Scrollai la testa. «Là è stato ucciso uno dei ragazzi. Era pressappoco proprio il periodo in cui sei tornato tu». «Qui? Ucciso?». Alzai il tono della voce. Tossii per nascondere il mio imbarazzo. La nostra comunità non era illibata, ma un omicidio era qualcosa che apparteneva soltanto agli incubi delle vecchie zitelle. «Un ragazzo di quindici anni. L'ha trovato la madre». «Gesù!», mormorai. «Come?». «Non lo so. Non ne ha parlato nessuno. Il capo, Dansworth, si premurò di far sparire subito la madre e il corpo del ragazzo, prima che qualcuno venisse a sapere niente di quanto era successo. Tutto quello che c'era sul giornale era un comunicato». La mia prima reazione fu di incredulità e diffidenza. Per tutto il tempo in cui avevo lavorato per lui, Danny non aveva mai nascosto niente a nessuno che avesse un legittimo interesse al lavoro della polizia. Che lui si fosse rifiutato di cooperare con il giornale di Falkner, per quanto piccolo, mi sembrava non solo del tutto estraneo al suo carattere, ma addirittura un palese errore. Eppure l'aveva fatto, e lo stava facendo ancora, e Falkner pareva disposto ad aspettare. Doveva essere stato un assassinio particolarmente brutale, comunque, visto che neppure il coroner voleva discutere le condizioni del corpo del ragazzo. «Stupido!», dissi alla fine. «Danny sa far di meglio che non comportarsi a questo modo. Forse se andassi...». Catherine sorrise, tollerante e incoraggiata. «Sarebbe tutto inutile», disse. La famiglia si è trasferita nel New England e, per quanto possa preve-
dere, tutto quello che potresti fare sarebbe portare avanti delle petizioni e pregare che succeda un miracolo. Tu, d'altra parte, sei appena tornato dalla prima linea e faresti meglio a metterti in forma». Chiaramente stava guardando il mio stomaco, che non era proprio ancora una botticella, ma c'eravamo quasi. «Non c'è problema», dissi, colpendomi sul petto e piegando i bicipiti. «So ancora trattare qualunque bambino, se occorresse, per sostenere la mia rispettabilità. Però adesso so perché Marve vuole che porti qualcosa con me». «Qualcosa?», chiese. «Cosa significa?». «Per Marve potrebbe significare qualsiasi cosa, da un carro armato a una scacciacani». Era evidente che lei desiderava prevenire il mio gesto, ma io l'anticipai alzandomi e sorreggendole il cappotto mentre lo indossava. Poi passeggiammo lentamente, finché per lei non venne l'ora di ritornare in ufficio. Quando ci separammo mi fece promettere di telefonarle, quella sera. E ogni sera, chiaro, anche se questo non lo disse. Che simpatica ragazza, pensavo, mentre mi dirigevo verso casa. E dovevo sorridere vistosamente, perché la gente, passando, mi lanciava stranissime occhiate. 2 Non dovevo cominciare a lavorare fin dopo il weekend, ma sabato pioveva e le ore sembravano anni e io fuggii fuori di casa prima di mettermi a urlare. Passeggiai lentamente per rifare la conoscenza dei vicini, rivedere la mia vecchia zona di sorveglianza, i negozi del centro. E, anche se non sapevo esattamente cosa mi aspettassi di trovare, rimasi piuttosto deluso del fatto che nulla era cambiato in modo drastico. Qualche casa nuova qui e là, ma poche; due negozi rimpiazzati da altri due; per il resto avrei potuto aver dormito per due settimane, stando a quello che era cambiato durante la mia assenza. Deluso, sì... Ma stranamente soddisfatto di non dover subire shock mentre mi reinserivo nel mio trantran quotidiano. Niente di straordinario, quindi se, andai a finire in Hawthorne Street. Il parco giochi era piccolo. Un paio di acri, su un angolo, il tutto circondato da un reticolato alto circa quattro metri, con un boschetto su due lati e sugli altri due la strada. All'interno del parco giochi, al centro, c'erano cin-
que o sei querce così ricche di fogliame che il verde pareva una macchia e la loro ombra pareva l'ombra di mezzanotte. Alla base degli alberi la terra non era stata toccata, salvo in un punto dov'era stata messa una panchina di cemento. Il resto del campo era stato, invece, ricoperto con uno strato di catrame che evidentemente si riteneva sufficientemente morbido per poterci cader sopra; anche se, in un certo senso, un ginocchio sbucciato e sporco di polvere era più naturale che non un braccio scorticato e sporco di pezzettini neri di catrame. Il progresso, pensai, e portai la mia attenzione sull'angolo più lontano: le altalene e gli scivoli e tutti gli altri giochi che erano stati verniciati di fresco e che sfidavano il sole con la loro vivacità. Parevano alquanto patetici senza i bambini che vi si arrampicavano sopra con mani e piedi. Il resto della superficie era libero. Per il baseball, pensai, e «ce l'hai», e quegli altri giochi a rincorrersi, tutti urlati, che ti scuotono i nervi e ti fanno venir voglia di unirti a loro invece di andartene. Poi mi accostai maggiormente al reticolato. C'era uno scivolo isolato al di là delle altalene. Era uno dei tanti, ma era l'unico che andasse a sbattere proprio nell'angolo. Sulla rete era stata appoggiata una stuoia; ma adesso era già rovinata dalle intemperie e dai ragazzi che dallo scivolo vi andavano a sbattere contro. Era stata certamente un'idea di qualche madre, per proteggere il fragile figlioletto dall'andarsi a schiacciare la testa fra le maglie della rete. Sogghignai, mi girai per tornarmene a casa e vidi quattro bambini che stavano venendo di corsa verso me. Ora, quando i ragazzi stanno crescendo, due anni sono mille anni, però non feci fatica a riconoscere questi. E loro riconobbero me. La più alta era Darlene, la rossa, seguita, come da un suo seguito personale, da Miffy la brunetta, Tim il lentigginoso e, infine, ultimo come sempre e tutto schiamazzante, Stevie, che passava più tempo a morsicare le gambe alla gente che non a morsicare i suoi pasti. Furono contenti di vedermi, e io lo fui di rivedere loro. Erano stati tutti ospiti regolari della mia zona di sorveglianza fin dal giorno in cui erano nati. Eravamo cresciuti insieme, per così dire, e ridevano mentre mi correvano incontro ad abbracciarmi. Adesso sì, maledizione (così pensavo mentre mi piegavo sulle ginocchia per accoglierli tra le mie braccia, appoggiandomi contro il reticolato, affascinato dai sorrisi e dalle risatine che mi rivolgevano), adesso sì, maledizione, che mi sento veramente a casa mia! «Ti piace il nostro posto?», chiese Darlene. Magrolina come gli altri, non fosse stato per i suoi verdi occhi celtici, ci avrei giurato che era un ma-
schietto. «Il vostro posto?», dissi. «Questa sì che è buffa! Pensavo che potessero venirci tutti». «Ci possono venire tutti», disse Tim, da dietro le sue lentiggini. «Però solo se glielo permettiamo noi». «Oh, questa sì che è grossa», dissi, spingendo via Steve che stava adocchiando le mie cosce. «E presumo che vi facciate pagare una tassa, vero? Su, andiamo, vi conosco bene. Vi fate pagare, vero?». «Io no», disse Steve. «Certo che loro a te non osano avvicinarsi, altrimenti te li pappi per pranzo», scoppiai a ridere. Lui scappò dietro a Miffy e rimase a sbirciare da dietro lei e a ridacchiare con il pollice in bocca. «Come mai sei qui?», chiese Darlene. «Chi, io? Be', mi piacciono le altalene». «Sei troppo grosso», disse Miffy, e mi diede uno spintone. «Be', forse. Effettivamente, comincio a lavorare qui a partire da domani». «Tu non puoi lavorare qui», disse Tim. «Non c'è niente da fare». «Ma certo che ce n'è. Suonerò voi monelli tutte le volte che farete confusione». «Ricominci a fare il poliziotto?», chiese Miffy, gli occhi spalancati, e intanto tirava Darlene per un gomito. «Porti in prigione la gente?». «Soltanto se cercano di derubarvi», risposi. «No. mi limito a tenere un occhio su tutto. Nient'altro. Come ho fatto sempre». «Ma, signor Craig, come...». Ci distrasse un debole schiamazzo. Mi alzai affrettatamente e guardai, al di là del gruppo di querce, un gruppo di ragazzi che non avevano più di diciassette anni. Stavano scavalcando il reticolato. Il primo che raggiunse il terreno cominciò a lanciare in alto un pallone da football, ridendo e agitando le braccia verso i suoi amici. Vestito com'ero in abiti civili, ero convinto che ogni mio ordine di lasciare quel posto non sarebbe approdato a nulla. Tanto meno mi avrebbero obbedito. Perciò mi limitai a guardare finché fui certo di essere in grado di riconoscerli, nell'eventualità che mi capitasse di incontrarli di nuovo per strada. Per strada. Su. Christopher, mi dissi, arrabbiato con me stesso: adesso non sei più un poliziotto, lo vuoi capire, come la luna non è affatto il sole. Piegai la testa e mi voltai per andarmene. Mi bloccai, però, quando vidi
Darlene e gli altri appoggiarsi contro il reticolato. Come se si potesse uccidere con lo sguardo, mi venne da pensare. «Ragazzi, vi piacerebbe un gelato o qualcos'altro?». Rifiutarono senza neanche guardarmi. Io scrollai le spalle e cercai di consolarli, spiegando loro che cose di questo genere, come questa invasione, non sarebbero più successe quando sarei stato sul lavoro. «Hanno i loro posti dove andare a far gazzarra. Non preoccupatevi. Quando vedranno che io gli sto addosso, non vi daranno più noia. Okay?». Non dissero niente. «Okay?». «Okay», fu la risposta di Darlene. Prese Stevie per mano e li condusse via tutti. Li osservai girare l'angolo tenendosi tutti stretti stretti contro il reticolato. Poi sparirono dietro gli alberi. Rimasi lì ancora qualche minuto, a guardare i ragazzi che giocavano, sentendo i miei muscoli tendersi e rilassarsi mentre loro facevano dei passaggi o si dribblavano. Il gioco li faceva uscire in grida isteriche. Il loro linguaggio non era affatto il linguaggio che ricordavo di aver usato io alla loro età. Ma niente è identico a prima, quando tu diventi troppo grande per un parco giochi. Finalmente, siccome lo stomaco brontolava, me ne andai via per ritornare all'arrosto che avevo messo a cuocere nel forno. C'era qualcosa in quel gruppo che mi turbava, ma non mi resi conto di cosa fosse se non mentre stavo mettendo un po' in ordine, dopo aver mangiato. I ragazzi erano cinque e. per qualche ragione che mi riusciva inspiegabile e comunque spiacevole, ero convinto (senza averne la minima prova) che ce ne mancasse uno. Vorrei aver saputo allora il motivo, ma mancava uno dei ragazzi. E quando accennai questo, ridendo, a Marve, pochi giorni dopo, lui annui, pensoso. E sembrava manifestare anche un certo senso di colpa. «Gary George», disse. «Apparteneva a quella banda di capelloni». «Apparteneva?». «Pensavo che lo sapessi già. È stato ucciso qualche settimana fa, proprio là, nel parco giochi». Mi stramaledissi per essermi scordato di quanto mi aveva detto Catherine. Ma quando insistetti con lui per avere qualche maggiore delucidazione, qualche altro dettaglio, Marve cominciò a farsi evasivo e mi disse che era ormai acqua passata. Una di quelle tragedie che ci sono in tutte le piccole città, e che sembrano non ammettere soluzione alcuna.
«Piuttosto, come va il lavoro?», mi chiese. «Spero che non sia troppo pesante per le tue gambe». «Se tu sottilmente e astutamente intendi dire se sono ancora in grado di stare in piedi tutto il giorno, allora non ti preoccupare. Sto andando molto bene. Inoltre sto molto seduto. Leggo; e la panchina è proprio nella posizione ideale per poter vedere tutto quello che sta succedendo». «Nessun problema?». «Andiamo, Marve, che razza di problemi vuoi che abbia? Dai, sai benissimo che è un lavoro leggero. Ci sono più madri che bambini. Più carrozzine di quante non ne abbia mai viste in tutta la mia vita. Senti, quelle donne possono scassarti tutto il dipartimento di polizia se prendi di mira un ragazzo, anche nell'eventuale ipotesi che abbia fatto qualcosa di sbagliato». «Benissimo, benissimo, non scaldarti», disse lui. Io non mi ero affatto scaldato, e glielo dissi. Terminammo il pasto, bevemmo qualche altro bicchierino e poi tornammo a casa sua per berci qualcosa comodamente sdraiati sul sofà. Proprio come ai vecchi tempi. Quando uno di noi era giovane. 3 Passarono così luglio e agosto, e le prime tre settimane di settembre. Vedevo Catherine parecchie volte la settimana, di solito per una cenetta insieme e un giretto in macchina fino al cinema. Stavamo giocando a un gioco un po' svitato, ed era voluto: il vedovo e la vedova che si attaccavano ancora, strettamente, ai loro primi anni. Presto o tardi ci saremmo lasciati portare dalla corrente e saremmo finiti nell'ufficio di Marve perché lui potesse dire quelle parole. Presto o tardi. Intanto, però, ci lasciavamo andare e chiacchieravamo e ricordavamo con sempre minor dolore la vita trascorsa, tanto tanto tempo addietro, con i nostri rispettivi coniugi. Quel parco giochi, d'altra parte, stava diventando un banco di prova. Non a causa dell'ostinato calore estivo, che sfidava anche l'ombra, spegneva le corse dei bambini in un movimento al rallentatore, rendeva impossibile toccare scivoli e altalene. E neppure a causa degli altri che frantumavano l'umidità con strilli acuti di avvertimento. I bambini, guidati da Darlene e Tim, mi accettarono rapidamente e subi-
to mi unii ai loro giochi. Spesso e volentieri, come fanno tutti i bambini, erano crudeli l'uno nei riguardi dell'altro; ma dopo cinque minuti ridevano insieme da buoni amici. Non avendo il cervello slavato e condizionato da tutti gli schemi degli adulti, la loro crudeltà era del tipo che io spesso ho ritenuto fosse l'unico degno del nome, tanto diverso da quelle commediole che facciamo invece noi ogni giorno. Comunque non furono mai crudeli con me, neppure involontariamente. Mi portavano dei coni, quando l'uomo dei gelati faceva suonare quei suoi infernali campanelli due volte al giorno. Mi raccontarono storie sui loro compagni di gioco; e mi parlarono delle loro feste di compleanno e delle zie che venivano a far visita alle loro famiglie. E una volta Miffy mi portò, avvolto in un tovagliolo, un pezzo di torta fatta da sua madre. Tutto filava alla perfezione, tra noi. Erano quei diciassettenni che continuavano a romperci le uova nel paniere. I regolamenti di Greshton, taciti ma imperiosi, imponevano ai ragazzi più grandi di restarsene nei cortili delle scuole, che erano sempre aperti dalla mattina presto fino a tardi, dopo il tramonto. Ma gli amici di Gary George rifiutavano di riconoscere gli ordini del sindaco, le mie minacce, come i saltuari passaggi della mobile. Continuavano a infilarsi nel cancello ogni mattina, affrontandomi con sarcasmi appena sussurrati, e di solito andando avanti quel tanto che bastava perché il mio stomaco si mettesse a urlare. Poi picchiavano Miffy o Steve e scappavano via. Quando El Daniels sparì di casa, il gruppo si ridusse a quattro. Peggio: la guerra era dichiarata. E un sabato di settembre picchiarono sonoramente almeno una decina dei miei piccoli amici, prima di scappare velocemente fuori tiro. La settimana seguente, però, li vidi arrampicarsi sul reticolato dall'angolo dello scivolo. Uno era rimasto con i jeans attaccati a una punta metallica, per cui corsi ad afferrarlo per le gambe e lo tirai giù. Gli altri se ne fuggirono in mezzo agli alberi. Uno, però, ce l'avevo, e non me lo sarei lasciato scappare. «Benissimo, Davey», dissi, tenendolo per le braccia mentre lo tiravo verso la panchina. «Sediamoci e chiacchieriamo un po'». «Non ho niente da dire». «Davey», insistetti, tentando, ma inutilmente, di guardarlo dritto negli occhi, «quando ero poliziotto e casa tua era sul mio percorso, eri un gran bravo ragazzo. Non mi hai mai dato nessun fastidio, mai. Allora, cosa dia-
volo sta succedendo qui intorno? Conosci le regole. Come mai butti via il tuo tempo a litigare con un gruppo di ragazzini appena svezzati?». A dispetto di certe descrizioni sommarie di Marve, Davey non aveva affatto i capelli lunghi. Aveva riccioli fini fini, tenuti costantemente ben puliti. Era un ragazzo minuto che lottava per farsi crescere i baffi, senza però riuscirci, convinto che sarebbe risultato più attraente per l'altro sesso. Era altezzoso, ma non avevo mai avuto prova che fosse arrogante. «Sa qualcosa di Gary, non è vero?». Gli ci vollero diversi minuti per dirmi questo. Prima guardò gli altri ragazzi, raccolti attorno all'angolo dove c'era lo scivolo. Poi trafficò per un po' con le mani, prima di passarsele nervosamente tra i capelli. Sapevo bene che non aveva paura di me. Un nero che stava diventando grigio, grasso e tozzo dopo il buono e abbondante cibo estivo, vestito con confortevoli abiti di vecchio taglio che mi andavano a pennello: non ero uno che potesse incutere timore. Perciò sapevo bene che non aveva paura di me. «Sa qualcosa di Gary, non è così?». Annuii. «Ha saputo anche di El?». «Certo che ho saputo, ma cosa...?». Voltò la testa verso i bambini. Stavano giocando a bandiera. A rimpiattino. Sulle altalene. Nessuno usava lo scivolo sull'angolo, ma ormai mi ci ero assuefatto. Penso che fosse a causa della stuoia: toglieva il gusto del rischio di farsi male. «Sono stati loro». «Davey, maledizione...». «Sono stati loro, signor Craig. Giuro! Non mentirei mai a lei». «Oh, certo che sono stati loro». Cominciavo già a sentirmi irritato. «E dopo che hanno ammazzato il povero Gary, hanno rapito El e l'hanno portato nel loro nascondiglio segreto sulle colline, vero? Dacci un taglio, Davey». Rimase lì in piedi, cercando di catturare con la faccia alzata i frammenti di ombre delle foglie. «Non ci piacciono, signor Craig, e...». «Be', io non li biasimo. Dopo tutto quello che voi ragazzi avete fatto loro, che cosa vorreste? Un invito a cena?». «Lei non capisce». «Oh, vai all'inferno!», dissi, cacciandolo via disgustato. «Sei cattivo come loro. E state alla larga da questo posto, capito?», gli urlai dietro. «Rimanete dalle vostre parti e non molestateci mai più».
Corse via senza voltarsi indietro, e quando guardai i bambini, stavano ridendo e annuendo. Sorrisi, mi piegai, recuperai il mio libro, che tenevo sotto la panchina. Ma non riuscii a concentrarmi. Davey (non aveva nessuna importanza quanto fosse cambiato dall'ultima volta che l'avevo visto) non apparteneva a quel tipo di ragazzi che ci provano gusto a tormentare gli altri. Risposte non ne avevo, ma la cosa non mi andava a genio. Il mattino seguente arrivai per primo, e, subito dopo aver aperto il cancello e averlo fissato perché restasse spalancato, feci un giro di tutto il perimetro interno, alla ricerca di scarpe perdute, calzini, bottoni e tutte quelle altre cose che i bambini e le madri potevano aver smarrito. Quando arrivai allo scivolo, però, mi bloccai e mi attaccai alla ringhiera che sta di fianco ai gradini arrugginiti. Ai piedi, proprio dove lo scivolo di metallo curva e finisce, c'era Eliot Daniels. La testa era appoggiata contro lo scivolo, e mentre mi avvicinavo lentamente girandoci attorno per inginocchiarmi davanti a lui, vidi che aveva gli occhi sbarrati. E fissi. E la bocca era spalancata in un urlo silenzioso, terrificante. Non ero un esperto in medicina, ma sapevo con certezza che il ragazzo era morto. E sapevo anche, ne ero assolutamente sicuro, che era così che avevano trovato Gary George. Sentii un rumore di passi. Darlene mi si stava avvicinando, timidamente, un sorriso imbarazzato sulla sua tonda faccia di bambina. Mi alzai di scatto, corsi da lei e la trascinai via. «Oggi apriamo più tardi, cara», dissi. «Anzi, fammi un piacere. Avvisa tu gli altri, vuoi? Di' loro... be'... niente. Di' loro che oggi apriamo più tardi e basta». Non stetti a guardare dove corresse, dopo che se ne fu andata. Mi precipitai subito alla cabina telefonica più vicina e telefonai il mio rapporto. Macchinalmente, come se non avessi mai lasciato la polizia e indossassi ancora la divisa. Dopo che ebbi fornito i miei dati, nessuno mi fece domande. Era sufficiente per chiunque ascoltarmi per riconoscere la mia voce. Cinque minuti dopo si precipitarono tra i cancelli una macchina della polizia e un'autoambulanza. Riferii a Dansworth tutto quello che sapevo con un minimo di congetture. Sorrise, quando ebbi finito, e mi diede una benevola pacca su un braccio e mi disse che il campo giochi sarebbe rimasto chiuso per tutto il resto della giornata. Lui lo sapeva che mi sarei guardato in giro. Lo sapeva che avrei svolto delle mie indagini personali, stancandomi un mondo, nell'illusione che fossimo ancora indietro di venti anni e che non fosse cambiato nulla. Lo sapeva, e non mi disse di lasciar perdere. Mi disse soltanto che il parco gio-
chi sarebbe rimasto chiuso per tutto il resto della giornata. Gliene fui grato. Ancora più quando una volta sul marciapiede, la pelle mi si fece di colpo gelida, lo stomaco cominciò a rollare, e mi inzuppai di sudore la camicia. Avrei dovuto andare dritto filato a casa, prendermi un brandy e mettermi subito a letto; oppure infilarmi in un bar per farmi una birra, o andare dritto filato nell'ufficio di Marve. Invece andai a cercare Catherine e, una volta scovatala, la trascinai fuori dall'ufficio e la portai in trattoria. Le dissi che cos'era successo, e dopo che lei ebbe fatto del suo meglio per calmarmi, per confortare la mia anima, ordinò, per tutti e due, due bicchieroni colmi e un pasto che sapevo benissimo di non poter mangiare. Invece bevvi, e mangiai, e circa un'ora dopo eravamo fuori a passeggiare. «Quei poveri bambini», dissi per quella che doveva essere la quinta volta. «Maledizione, questo li ridurrà a pezzi». «So cosa intendi», disse lei, la mano ripiegata sul mio gomito, stringendomi forte quando non riuscivo a trattenere un brivido. «Una volta è più che sufficiente, ma due... Avranno incubi per anni. Specialmente quel piccolino. Come hai detto che si chiama, Steve?». «No», ribattei, «loro no. Parlavo degli amici di El, Davey e gli altri». Le riferii della chiacchierata con Davey il pomeriggio precedente. «Sono proprio atterriti, Cath, sul serio! Adesso, penseranno che quel posto è stregato, o qualcosa del genere; e non riusciranno più a starci, sai com'è. È una botta enorme alla loro crescita umana individuale, anche se non sanno nemmeno di cosa si tratti. Peggioreranno, lo so. Adesso si metteranno a importunare i piccoli finché qualcuno si farà del male, e allora passeranno veramente dei brutti guai. Guai con la polizia». «Kit, penso che tu stia esagerando». «Sì? Be', avresti dovuto vedere Davey. Odia quei piccoli, Cath, li odia tanto... Come posso dirlo? Marve ha ragione. Devo cominciare a portare qualcosa con me, d'ora in poi». Lei si fermò e mi diede uno strattone. «Cosa intendi? Un fucile?». «No», le risposi, mentre riprendevamo a camminare. La sua espressione non mi piaceva. «Devo avere ancora, nascosto da qualche parte, il mio bastone da poliziotto». «È uno strumento da barbari, Kit. Non puoi pensare a quello». «Non so se lo farò o no. Sì. Sì, lo farò. Non voglio che nessuno di loro si faccia male, nessuno, né i piccoli né i grandi. Non voglio un altro El Da-
niels nel mio parco giochi». Lei si fermò di nuovo, questa volta lasciandomi andare il braccio e facendo un passo indietro. «Il tuo parco giochi? Ma tu cosa c'entri? Non è il tuo parco giochi, e non è nemmeno la tua zona di vigilanza. È acqua passata, Kit, è tutto finito. Tu non sei più un poliziotto, e quei ragazzi... Se cerchi di far loro qualcosa, potrebbero farti molto male». «No, non lo faranno». «Maledizione, Kit, quanto sei stupidamente cocciuto. Smettila di giocare a fare il poliziotto. Vuoi smetterla, per favore? Vuoi cominciare a crescere? Adesso, prima che sia troppo tardi». Poi mi piantò in asso, lì in piedi, a metà isolato, con le mani affondate nelle tasche. La osservai mentre se ne andava, e non tentai affatto di seguirla. Stavo tremando, non per quello che avevo visto, ma perché se avessi avuto le mani libere l'avrei picchiata. 4 Continuai a camminare senza meta, guardando, senza però vederle, le vecchie case ben conservate, i prati ancora verdi, gli alberi che avevano solo un cenno dei colori dell'autunno. Mi fermai a un drugstore e comprai un pacchetto di sigarette. Sedetti per un attimo su una panchina a una fermata dell'autobus, e osservai il traffico scorrere nell'oscurità per poi svanire dietro ai fari. Ripresi a camminare, dove i marciapiedi erano ora grigi ora neri; dove il calore di settembre si stemperava nel fresco ottobre. Avevo in mente di andare da Marve a sfogare il mio dispiacere. Ma non aveva capito Catherine, certo non avrebbe capito neppure lui. Alla sua età, non credeva che la gente potesse delegare ad altri le proprie preoccupazioni. E magari avrebbe creduto che io stavo recitando una parte, ovviamente quella del poliziotto. Ma non era così. Non sono proprio stupido del tutto. Sentimentale, forse, grazie a tutti gli anni passati a lavorare sodo nella mia zona; ma spero di essere intelligente abbastanza per capire quando non c'è più niente da fare e le porte sono tutte chiuse. No. Quello che stavo tentando di fare, quello che avevo fatto finora nel mio parco giochi, era riuscire a essere di aiuto e conforto ai ragazzi. C'erano le madri, naturalmente, e le babysitter, e qualche sporadico padre. Ma c'era anche quel vecchio (non poi tanto vecchio) che aveva sempre un posto sulle sue ginocchia, un orecchio pronto ad ascoltarti, uno scherzo tutto
per te, un pacchetto di cicche; tutte quelle piccole cose dimenticate che sono così deliziosamente necessarie. Quando alzai lo sguardo per vedere dove stavo andando, mi ritrovai davanti al cancello del parco giochi; ma era prevedibile. Dentro c'era buio, e le luci della strada, quelle più vicine, erano fuori uso da giorni. Mi accostai al reticolato freddo e umido e sentii delle voci. Lontane. Parevano quasi un'eco del vento. Aguzzai gli occhi e cercai di vedere attraverso l'oscurità fino all'altro lato del parco giochi. Una risatina trattenuta, un risolino soffocato. Mi buttai tra le piante e avanzai lungo il reticolato, facendo il minor rumore possibile. Rametti e rovi mi battevano sulle caviglie, mi ferivano alle mani. Quando però arrivai più avanti riuscii a scorgere un gruppetto di bambini in piedi attorno allo scivolo. Non potevo crederci. Avrei giurato che fossero Davey e i suoi amici, che stessero architettando di spaccare qualcosa per vendicarsi. Invece erano Darlene e Tim con altri cinque o sei. Stavano guardando, in alto, Steve: lui sedette sulla piattaforma dello scivolo, agitò una mano e si spinse giù. Mi tesi, aspettando il tonfo del corpo, e aggrottai la fronte quando non udii assolutamente nulla. Guardai più attentamente. Tim stava preparandosi a scivolare giù a sua volta. Stevie era scomparso. Decisi che la miglior cosa che potessi fare era squagliarmela tra le piante, trovare un telefono e chiamare i genitori. Non so come mai non li chiamai io, i ragazzi, come mai non li sgridai, non li spaventai facendoli fuggire verso l'eventuale uscita segreta, qualunque fosse. Non so come mai non lo feci. So solamente che non lo feci. E Tim piombò giù lungo lo scivolo, arrivò in fondo, schizzò fuori... E sparì. Non tra le ombre. Non nell'oscurità. Sparì. In qualcosa che non c'era. Così fece anche Darlene. E Miffy. E tutti gli altri. Giù lungo lo scivolo, fuori dallo scivolo, e... via chissà dove. Adesso ero solo. E c'era silenzio. La brezza fece dondolare una delle altalene. Una cosa spettrale che mi fece fuggire via dagli alberi, giù per le strade, dentro casa mia, dove mi fermai davanti al caminetto del soggiorno e fissai le fiamme. Naturalmente, pensai, non avevo visto quello che i miei occhi sostenevano di aver visto. E cominciai a chiedermi se il recitare la parte del buon papà di un parco giochi significasse anche recitare la parte del vecchio rimbambito. Davanti alla finestra che dava sulla strada c'era un tavolo. Mi avvicinai,
per prendere la caraffa del brandy che vi era appoggiata. Mentre mi muovevo, guardai fuori, al di là della palizzata che recintava il prato. C'era Darlene là in piedi, la mano appoggiata sul catenaccio del cancelletto. Stava guardando verso la casa. Mi precipitai alla porta, ma mentre arrivavo al prato lei era già sparita. Si sentiva ancora il rumore dei suoi passi, debole, che andava perdendosi sotto gli alberi neri nella notte. Adesso l'ho proprio fatta bella, pensai. Adesso mi sono involontariamente intromesso in uno dei loro giochi segreti. Sono finito. Niente più scherzi, niente più consolazioni. Non avrebbero avuto più niente a che fare con me, adesso; niente. Mai più. Dormii malissimo, e mi svegliai solo quando Marve mi telefonò per dirmi che ero in ritardo e domandarmi se avevo in testa di piantar lì. Brontolai una scusa (qualcosa che aveva a che fare con il troppo bere) e mi spinsi, depresso al limite, fino alla panchina sotto gli alberi, dove presi il mio libro, preparato a un'intera giornata di solitudine. Cinque minuti più tardi alzai gli occhi e mi ritrovai circondato da un branco di ragazzi schiamazzanti. Sogghignavano. Miffy usciva in risatine soffocate. Spalancai la bocca per parlare, trovare un modo qualunque per giustificarmi, una scusa per quello che avevo fatto la notte precedente. Ero pronto. Ma di colpo loro si irrigidirono e arretrarono. Avvertii un movimento alla mia sinistra. Vidi Davey che stava venendo verso di me, mentre altri due ragazzi aspettavano al cancello e cercavano di non farsi notare. Tirai un profondo respiro e attesi. «Buon giorno, Davey», lo salutai con freddezza. «Signor Craig». Il suo formalismo risultò quasi comico. Poi, prima che potessi fermarlo, si fece rosso in faccia e urlò ai ragazzi qualcosa che non riuscii a capire. Loro rimasero immobili. Davey afferrò Stevie per un braccio, gli diede un violento strattone e si girò verso di me. «Lo chieda a loro», disse. «Chieda a loro cosa hanno fatto a Chuck». «Chuck? Davey, lascia andare subito quel bambino». Mi alzai e lo picchiai sulla mano, obbligandolo ad aprirla. Stevie non scappò via. Si limitò a ritornare lentamente tra i suoi amici e insieme, compatti, si avviarono verso le altalene. «Adesso, maledizione, spiegami cos'è successo!». Davey si ficcò le mani nelle tasche della giacca a vento e rimase alcuni secondi a fissare il cielo coperto di nubi. Poi, di colpo, vidi che la rabbia e qualcos'altro si erano uniti in lui fino a provocare lacrime che lui non voleva. Deglutì molte volte, poi piegò rapido la testa e si mise a fissare il suolo.
«Chuck», disse. «È scappato di casa. Proprio come El». «Davey...». «Io c'ero!», insistette. «Ero a dormire da lui, capisce? Pensai che il rumore che avevo sentito venisse da fuori, per cui mi alzai e andai alla finestra. Nel cortile c'era lei», e indicò Darlene, «c'era lei e c'era anche Chuck. Stavano parlando. Corsi giù per le scale, ma se ne andarono via prima che arrivassi. Avrò girato attorno all'isolato almeno un centinaio di volte, signor Craig, e non sono riuscito a trovarli. Ho svegliato i suoi, ma loro si sono limitati a telefonare alla polizia. Non hanno creduto a nulla di quanto riguardava la bambina. Non volevano ascoltarmi». Alzò gli occhi. Piangeva. «Hanno fatto qualcosa, signor Craig, e se qualcuno non aiuta Chuck subito... Siamo rimasti solo in tre, signor Craig. Non importa niente, adesso, cosa facciamo noi. Mio dio, lei deve fare qualcosa». Prima che potessi aprir bocca, scappò via verso il cancello, e poi fuori. Gli altri gli si attaccarono come due ombre. Dev'essere che sto invecchiando, pensai. Non ci capisco un'acca di quello che sta succedendo qui attorno. Ma Davey, a parte tutte le sue colpe, aveva una paura folle per se stesso, si era ridotto a qualcosa che rasentava l'isteria. Probabilmente sapeva che Chuck si trovava in qualche pasticcio (una ragazza, la droga, qualcosa del genere), e quando era scappato di casa, Davey aveva sognato tutto per inventare una scusa. Ma non potevo evitare di pensare al mio sogno della notte precedente: i ragazzi e lo scivolo. Darlene sul prato. Sapevo che era la stanchezza e un bicchierino o due che mi avevano fatto vedere quello che pensavo di aver visto. Però mi rodeva dentro. Mi accostai lentamente ai bambini, che stavano giocando. «Darlene», dissi. «Davey mi ha detto che questa notte eri a casa del suo amico». Lei si limitò a sorridere e si accomodò le trecce. «Io no, signor Craig», disse, quando ripetei la domanda. «Devo andare a letto subito dopo cena». «Anch'io», disse Stevie, attaccandosi a una mia gamba e poi scivolando giù per andarsi a sedere su uno dei miei piedi. «Anch'io dormivo». «Buon per te, Stevie», dissi. «Signor Craig?». «Cosa c'è, Darlene?». Adesso erano tutti intorno a me. Non potei trattenermi dal lanciare un'occhiata allo scivolo, alla stuoia, al buco che non c'era. «Noi...», e guardò gli altri, che stavano sorridendo e cercavano di non scoppiare in una fragorosa risata. Ho visto altre volte quello sguardo,
quando i ragazzi vogliono risultare solenni, vogliono che tu sappia che quello che stanno per dire è importante, eppure non imbarazzante. Di solito corrono via urlando e poi, subito, ti lanciano il complimento mentre giocano. «Lei ci piace, signor Craig». Rimasi sgomento. Per quanto non sapessi che cosa dovevo aspettarmi, questo era decisamente tutt'altra cosa. Miffy mi prese la destra e la tenne un pochino appoggiata contro la sua guancia. Così fecero anche gli altri, uno alla volta; finché trovai difficile sopportarlo e mi si cominciò ad annebbiare la vista. «Lei ci piace veramente, signor Craig». Gli anni che avevo mi pesavano sulle spalle. Allora mi misi in ginocchio e Stevie, in silenzio, mi si buttò tra le braccia. «Le farebbe piacere venirci a trovare qualche volta? Presto?». Mi sarebbe piaciuto, certo, vedere le loro case; ma, da quanto mi aveva detto una volta Marve, i genitori cominciavano a risentirsi dell'influenza che stavo esercitando sui loro virgulti. «Permetterà che ci facciano del male?», chiese Tim, accennando vagamente in direzione del cancello. «No», cercai di dire tra gli abbracci di Stevie. «Non preoccupatevi, ragazzi. Non permetterò che vi facciano del male». Si separarono, con la massima calma, e un istante dopo mi resi conto che ero stato messo da parte. Ne ero felice, perché una parola in più e mi sarei messo a piangere come un bambino. Era una sensazione piacevole, una sensazione di cui avevo bisogno, che avrebbe dovuto tenermi su per tutto il resto della giornata. Ma non potevo fare a meno di pensare a Davey e ai suoi amici. Adesso loro erano così atterriti che sarebbero stati disposti a fare qualsiasi cosa, ed ero tentato di telefonare ai loro genitori per avvisarli. Tentato; ma non lo feci. Avrebbe significato soltanto interferire di nuovo, o almeno così avrebbero pensato loro. E se si fossero lamentati abbastanza forte, Marve sarebbe stato costretto a dare a un altro il mio parco giochi. E questo non lo volevo. Però, il mattino seguente, Chuck era ai piedi dello scivolo. Con gli occhi sbarrati. E la gente cominciò a parlare. 5
Il disfacimento fu lento. Un bambino qui, una famiglia là. Comunque nel giro di una settimana, più o meno, dopo la morte di Chuck, il parco giochi era praticamente deserto, e anche la tenerezza dei miei piccoli amici non poteva impedirmi di intuire la proverbiale mano che scrive. Finalmente Catherine me ne parlò, mentre eravamo a cena. Mi parlò di chiacchiere e di lettere «Dovresti sentirli, Kit, e dovresti leggere quella roba. Si comportano in un modo scandaloso». «Che male possono farmi se non linciarmi?». Tirò una boccata dalla sigaretta, rabbiosamente. Il suo viso, per un attimo, fu oscurato dal fumo. Quando lo spazzò via con un gesto impaziente, i suoi braccialetti tintinnarono, unico suono aspro nella quiete smorzata della trattoria. Poi allungò le mani attraverso il tavolo e prese le mie fra le sue. «Kit, sta diventando rischioso per te. Sento certe cose in ufficio, sul serio, e c'è chi dice che saresti stato tu. Per tutto. Mi credi?». «Ah», esclamai. «Soltanto perché Gary è stato ucciso all'incirca nel periodo in cui sono tornato, eh? Devo aver imparato a fare certe cosette, peccati innominabili, mentre viaggiavo all'estero». «Io lo so che è una coincidenza, Kit...». «È evidente, maledizione!». «... Ma loro non lo sanno. Oggi Marve mi ha telefonato e mi ha chiesto come stavi». Questo, poi, mi ferì più che se mi avessero accusato in pubblico. «Qual è il suo problema, maledizione? Non poteva telefonare a me? Doveva passare attraverso te, è così, vero? Gli è mancato il coraggio di...». «Gli ho risposto che sei un po' stanco, nient'altro. Gli ho detto che non c'era niente di preoccupante». Quel «c'era», però, parlava già di per sé. Mi arrabbiai, pagai immediatamente il conto e portai a casa Catherine. In silenzio. Arrabbiatissimo. Chiedendomi cosa diavolo avessi fatto, perché tutta la mia città mi si mettesse contro a quel modo. Ma la risposta era ovvia: una madre atterrita, un padre arrabbiato... Corsi al parco giochi, mi tuffai nel boschetto e scavalcai il reticolato dalla parte delle stuoie. Ero sfinito. Dovetti sedermi su una delle altalene per calmare il respiro, per asciugarmi il sudore dalla faccia e dalle mani. E quando fui sicuro di riuscire a stare in piedi senza che le gambe tremassero, mi portai allo scivolo e gli girai attorno lentamente, lo toccai, mi ci appoggiai contro, rimasi in piedi, lì davanti, osservandolo da cima a fondo, e squadrai attentamente la stuoia a non più di un metro di distanza. Si incontravano nell'angolo, strisce nere sullo sfondo della notte, e battei lentamen-
te le palpebre quando mi parve di vedere un brillìo inconsueto, una torsione della visuale non del tutto circolare. Mi sfregai gli occhi e mi inginocchiai per terra, proprio davanti allo scivolo. Allungai la mano. E la mano svanì. Nel freddo-caldo, un'impressione di inverno-estate, pieno di sole e nubi. Tirai indietro la mano, la fregai energicamente su un fianco e scappai via. Scavalcai il reticolato. E poi di corsa. Di nuovo, dovevo aver bevuto troppo. Lo so. Ma non posso evitare di pensare a certe cose: salire, non visto, nella stanza di un bambino, ascoltarlo parlare come se parlasse a se stesso. Può esserci una bambola, o un'ombra sulla parete, o il suo animale preferito, un camion giocattolo, un soldatino. Ci sarà un'occhiataccia quando viene interrotto. Osservare un bambino che si rincorre da solo nel cortile, urlando dalla gioia, e si acciglia quando gli si avvicina un adulto. Bambini seduti per terra che con solennità e molto impegno guardano un ciuffo d'erba, un nido di formica, un pezzo di corteccia d'albero. Cose da bambini. La mia mano, però, è scomparsa. Supponiamo, allora, che ci sia un mondo (no, non un mondo, il mondo), dove la realtà non ha veli, dove possono fuggire i bambini non ancora infettati da noi e dai nostri inganni. Per ricordare, per sapere a cosa assomiglia, e poi tornare con tanto rancore per quello che loro stanno diventando. Supponiamo, per amore d'ipotesi, che si arrabbino sul serio, contro un ragazzo di nome Gary, o Eliot, o Chuck. Supponiamo che invitino Gary, Eliot o Chuck a visitare il loro mondo. Supponiamo che si lascino cadere giù dallo scivolo e li vedano scomparire, e si precipitino dietro loro e balzino fuori dai loro corpi. Perché fuori dai loro corpi? Perché, nonostante la loro giovane età, Gary e gli altri sono già intossicati, accecati, e la luce cui vengono esposti li impaurisce tanto da morirne. Lei ci piace, signor Craig. Non ci ho creduto per un solo momento, naturalmente. Non una parola. Non un pensiero. Ci piace sul serio, signor Craig. Ma non penso che guarderò mai più fuori dalla finestra. Le farebbe piacere venirci a trovare qualche volta? Presto? Così non vedrò Darlene al cancello, e gli altri accanto a lei. Miffy con un
bouquet di fiori in mano. Stevie con sempre il dito in bocca. Tim con il suo berretto da baseball tirato giù sugli occhi. Sono loro amico, lo so, ma quello che loro non sanno è che questa amicizia può far più male dell'inimicizia. E se non li vedo, forse non li sento. Forse non sento Dartene quando mi chiama ad alta voce per andare a giocare con lei. Belsen Express FRITZ LEIBER Fritz Leiber potrebbe farsi una casa solo coi premi che ha vinto. Di certo ha accumulato «Hugo» a sufficienza per costruirci un tavolo da pranzo, e i suoi «Nebula» potrebbero dar vita a più d'un divano. Belsen Express ha vinto nel 1976 il «World Fantasy Award» come miglior racconto (un busto di H.P. Lovecraft disegnato da Gahan Wilson) e il «British Fantasy Society's August Derleth Award» sempre come miglior racconto (una figura sormontata dal teschio della morte). Questi premi gli sono stati attribuiti nel 1976, a New York, alla seconda «World Fantasy Convention», dove Leiber ha anche ricevuto il premio per l'insieme della sua carriera («Life Achievement Award», un altro busto di Lovecraft): con questi potrebbe costruirsi un'altra scrivania o uno scaffale di libreria. Il racconto è scritto con la consueta, quieta forza che fa di Leiber il maggior autore americano nel campo del fantastico; e noi abbiamo il sospetto che altri premi gli pioveranno sul capo, non appena avrà il tempo di scrivere altri racconti. George Simister osservò le fiamme bluastre contorcersi stupendamente nella griglia, simili a ballerine inzuppate d'alcool e poi incendiate; e si rallegrò con se stesso per essere sopravvissuto, alla metà del ventesimo secolo, senza andarsi a impantanare nel servizio militare, nelle missioni, e in ogni tipo di attività che potesse interferire con il guadagno e il relativo godimento del denaro. Fuori piovigginava. Dai sobborghi un temporale ringhiava contro la città, e improvvise raffiche di vento producevano nel camino un rumore come di piccioni che tubassero lamentosi. Simister affondò di più, questione di millimetri, nella sua comoda poltrona e centellinò un sorso di scotch molto annacquato: era sensibile ai liquori più a buon mercato. La fisiologia
di Simister era del tipo gracilino. Era risaputo, infatti, che, durante la sua infanzia, certi saporì e certi odori lo avevano indebolito, facendo scattare un ambiguo mal di cuore. Il giornale, aperto, stava per scivolare via dalle sue ginocchia. Lo trattenne, lasciò che l'occhio vagasse qui e là sulla pagina più vicina, notò un titolo relativo a una sommossa a Praga come quella che c'era stata in Ungheria nel 1956, e mormorò: «Maledetti russi». Notò un altro titolo, che parlava di battaglie di frontiera intorno a Israele, e mormorò: «Maledetti ebrei», e lasciò cadere il giornale. Prese un altro sorso di scotch, sbadigliò, osservò una fiamma virginale, bluastra, ondeggiare impaurita lungo tutto il ceppo prima di trasformarsi in un fantasma di fumo bianco. Ci fu un colpo alla porta, nitido. Simister sobbalzò, poi si alzò e si affrettò, le labbra serrate. Negli ultimi tempi alcuni dei ragazzi del vicinato avevano cercato di infastidirlo, probabilmente perché la sua era la casa più decorosa e meglio tenuta di tutto l'isolato. Campanelli che suonavano, scritte oscene sui muri, roba di questo genere. E poi: non erano tanto dei ragazzi, bisognava chiamarli piuttosto giovani attaccabrighe, per i quali occorreva una buona dose di botte e un viaggetto alla stazione di polizia. Era proprio arrabbiato, mentre afferrava la porta e la spalancava. Non c'era assolutamente niente, salvo una grande umida vuota oscurità. Una gelida raffica di vento gli schizzò addosso un paio di gocce fredde. Forse il rumore proveniva dal fuoco. Chiuse la porta e si avviò per ritornare in soggiorno, ma l'occhio gli cadde su un mucchietto di libri sciattamente avvolti in una carta da pacchi, sul tavolo della sala. Fece una smorfia. Si trattava di un pacco con un indirizzo mal scarabocchiato, che il postino aveva consegnato per errore alcuni giorni prima. Probabilmente Simister avrebbe potuto decifrare l'indirizzo, perché la strada era certamente la sua, e così correggere l'errore commesso dal postino, ma lui non aveva nessuna voglia di favorire l'attività di illetterati dalla penna facile. Dovevano essersi sbagliati a consegnare quel pacco a lui, perché il primo libro era intitolato Il flagello della svastica, e gli altri due avevano titoli analoghi. Ora, Simister provava un'acuta ripugnanza per i libri che insistevano nel disseppellire quell'episodio storico, fortunatamente sepolto, noto col nome di nazismo. Motivo di questa sua ripugnanza era un terrore profondo, nascosto, che George Simister condivideva con milioni di altri, ma che non aveva mai rivelato neppure a sua moglie. Il terrore della Gestapo, assolutamente chi-
merico, e ora totalmente anacronistico. Era cominciato vari anni prima della seconda guerra mondiale, con i primi succinti rapporti che arrivavano dalla Germania sulle persecuzioni di minoranze etniche e sulla criminalità organizzata: il senso di qualcosa che si protendeva attraverso l'oscuro Atlantico per minacciare la sua vita, la sua sicurezza, la sua fiducia che non avrebbe mai sofferto se non in un letto di ospedale. Naturalmente la cosa non si era mai avvicinata a Simister, ma aveva esercitato una malvagia tirannia sulla sua immaginazione. C'era tutta un'intera sequenza di scene da incubo che si erano andate lentamente formando nella sua mente, e poi avevano continuato a ossessionarlo per tanto tempo. Cominciava con un colpo fragoroso alla porta, tonante, più di stivali e calci di fucile che non di pugni; e una richiesta urlata: «Aprite! È la Gestapo!». Subito dopo si sarebbe trovato in una fiumana di gente frenetica che veniva trascinata verso un portale, dove venivano separati quelli cui era concessa una dilazione da quelli condannati all'estinzione immediata. Infine si sarebbe ritrovato all'interno di un carro chiuso, talmente stipato di gente da riuscire impossibile anche solo muoversi. Dopo tanto, tanto tempo il vagone si sarebbe fermato, ma il motore avrebbe continuato a marciare, e dal pavimento sarebbero cominciati a salire i vapori del tubo di scappamento, cercandosi con tutto comodo delle fessure tra corpo e corpo. Adesso, nella sala immersa nell'ombra, quello stesso orrido film si ripresentava di nuovo dopo tanto tempo. Simister scosse la testa seccamente, come se potesse gettar via quelle scene, e richiamò alla memoria che la Gestapo era morta e scomparsa da ormai più di dieci anni. Provò il rabbioso impulso di scagliare nel fuoco quei libri responsabili del ritorno del suo incubo. Ma ricordò che i libri fanno fatica a bruciare. Si avvicinò a loro, a disagio, turbato dai pensieri di tortura e di prigionia, di campi di concentramento e di campi di sterminio, ben conscio delle sgradevoli conseguenze che lasciavano nella sua mente. Provò di nuovo un impulso improvviso: questa volta quello di impacchettare i libri e buttarli nel bidone della spazzatura. Ma questo avrebbe voluto dire bagnarsi: potevano aspettare fino a domani. Tirò il paravento davanti al fuoco, che era spento e stava fumando come un forno crematorio, e se ne andò a dormire. Si svegliò qualche ora dopo con il ricordo di un fragoroso bussare alla porta. Si alzò esclamando: «Maledetti ragazzi!». Le ombre parevano insolitamente scure: probabile che avessero lanciato una pietra contro il lampione
sulla strada. Mise un piede sul pavimento gelato. Adesso il silenzio era profondo. Il temporale era passato come un gatto randagio. Simister tese le orecchie. Accanto a lui sua moglie respirava con una regolarità irritante. Aveva voglia di svegliarla e raccontarle di quei giovani delinquenti. Era criminale che permettessero loro di vagabondare per le strade a quell'ora della notte. C'erano, probabilmente, anche delle ragazze con loro. Non bussarono più. Simister cercò di sentire il rumore dei passi che si allontanavano o il cigolio dell'assito che avrebbe svelato una presenza in agguato sotto il portico. Dopo un po' cominciò a chiedersi se quel rumore non potesse essere stato, per caso, un elemento del suo sogno, o forse un ultimo rombo di tuono. Si coricò e tirò su le lenzuola fino al collo. Finalmente i muscoli si rilassarono, e si addormentò. A colazione ne parlò con la moglie. «George, possono essere stati i ladri», disse lei. «Non essere stupida, Joan. I ladri non bussano. Se è stato qualcuno, possono essere stati solo quei maledetti ragazzi». «Qualunque cosa sia stato, vorrei che tu mettessi un catenaccio più grosso alla porta». «Idiozie. Se avessi saputo che l'avresti messa su questo tono, non te ne avrei parlato. Ti ho detto che può darsi benissimo che fosse il tuono». Ma la notte seguente, pressappoco alla stessa ora, successe di nuovo. Questa volta era difficile pensare a un sogno. Il rumore gli risuonava ancora nelle orecchie. E c'erano state anche delle parole, qualcosa abbaiato in una lingua straniera. Probabilmente erano i ragazzi di qualcuno di quei profughi europei che erano venuti ad abitare nei paraggi. La notte precedente l'avevano fregato non facendo il minimo rumore dopo aver bussato alla porta, ma stanotte sapeva lui come comportarsi. Attraversò in punta di piedi la camera da letto e scese, veloce, le scale senza far il minimo rumore, visto che era a piedi nudi. In sala afferrò qualcosa con cui colpirli, aprì la porta con un colpo secco e la spalancò. Non c'era nessuno. Rimase lì a guardare nell'oscurità. Era stupito di come fossero riusciti a filare via così alla svelta, così in silenzio. Chiuse la porta e accese la luce. Allora si accorse di quello che aveva in mano. Era uno di quei libri. Lo lasciò cadere sopra gli altri con un senso di nausea. Per prima cosa, il giorno
dopo doveva ricordarsi di buttarli via. Ma dormì fino a tardi e dovette affrettarsi. Il senso di nausea o di fastidio o qualcosa del genere doveva essere rimasto, però, perché si ritrovò estremamente sensibile nei confronti di cose che di solito non notava neppure. Soprattutto la gente. Quell'uomo arrogante parve volutamente sgarbato mentre contava i soldi di Simister e gli dava il biglietto. La donna dalle labbra serrate, al cancello, esitò sospettosa, come se lui stesse cercando di far passare per buono un tesserino scaduto da un mese. E, mentre stava affrettandosi su per le scale in risposta a un rumore sordo che si avvicinava, sfiorò un piccolotto con un soprabito troppo grande per lui, e ne ricevette in cambio un'occhiata da farlo sentire veramente colpito. Simister ricordava vagamente di aver visto diverse volte quel piccolotto. Aveva il naso affilato, gli occhi ravvicinati e il mento sfuggente: quel tipo di fisionomia che con un'immagine un po' stiracchiata viene chiamata «faccia da topo». In un film avrebbe recitato la parte di chi fa da richiamo. Quel soprabito troppo grande, che penzolava da tutte le parti, era piuttosto comico. Però, nello sguardo che rivolse a Simister, parve ci fosse qualcosa a un tempo così maligno, così astuto e così vendicativo, che lui si sentì colto alla sprovvista e quasi finì per perdere il treno. Dopo una rapidissima occhiata alla targhetta per assicurarsi che il treno fosse l'espresso, fece in modo di aprirsi la strada spingendo attraverso la porta a chiusura automatica del compartimento per soli fumatori. Il cuore gli stava battendo a un ritmo tale che in un'altra occasione l'avrebbe preoccupato seriamente; ma adesso era preso dal piacere selvaggio di aver ostacolato l'uomo con quel goffo soprabito. L'altro non aveva fatto abbastanza in fretta, e Simister non aveva mosso un dito per tenergli aperta la porta. Mentre scivolavano fuori dalla stazione, Simister si aprì la strada dall'entrata verso l'interno della carrozza e andò a urtare contro un passeggero in piedi aggrappato alla maniglia. Era un uomo muscoloso, irritabile, con un sospetto naso rosso, che da un po' di tempo viaggiava anche lui sullo stesso treno con l'abbonamento. Si chiamava Holstrom. Adesso stava leggendo un giornale piegato in due per poterlo sorreggere con una mano sola. Spinse sotto il naso di Simister un titolo. Lui sapeva già che cosa doveva aspettarsi. «Bombe atomiche per la Germania dell'ovest», lesse lui con voce atona. Holstrom cercava sempre di portarlo su argomenti triti e ritriti: totalitari-
smo, Germania nazista, pregiudizi razziali, roba simile. «Be', cosa c'è?». Holstrom scrollò le spalle. «È un passo piuttosto naturale, ritengo. Ma mi fa pensare al nazismo, quand'era all'apice del suo potere, e mi chiedo se ce ne siamo liberati veramente». «Ma logico!», scattò Simister. «Io non sono così sicuro», disse Holstrom. «Mi sono fatto l'idea che qualcuno di loro, pochissimi magari, sia riuscito a scappare e sia ancora nascosto da qualche parte». Ma Simister non abboccò. Quell'argomento lo infastidiva. Chi ne parla più dei nazisti? E così, quel mattino, l'intero tragitto fu una gran noia. La carrozza per fumatori era sovraffollata; e quando finalmente si riversarono al capolinea nella zona di centro, quel rude spingersi l'un l'altro a gomitate lo innervosì ancora più. La folla stava accostandosi a un reticolato in ferro che, arbitrariamente, spaccava la marea di gente frettolosa in due tronconi, che poi si riunivano di nuovo qualche passo più avanti. Accanto al reticolato, quel giorno, c'era una guardia; o, forse, Simister non ci aveva mai badato prima di allora. Un giovanotto altezzoso con capelli biondi rapati a zero e gelidi occhi azzurri. Di colpo a Simister venne in mente che di solito passava sulla destra del reticolato. Quel mattino, invece, era passato sulla sinistra. Quella circostanza insignificante, aggiungendosi a tutte le altre, lo fece ribollire. Volutamente si aprì la strada a spallate tra la calca, nonostante i mormorii indignati e lo sguardo duro della guardia. Aveva deciso di farsi a piedi il resto della strada, ma la rabbia che aveva in corpo glielo fece dimenticare e, prima di rendersene conto, stava salendo su un autobus. Se ne pentì subito. L'autobus era addirittura ancor più affollato della carrozza per soli fumatori, e la gente in piedi era cupa e ottusa nei pesanti soprabiti. Fu tentato di scendere e buttare al vento i soldi del biglietto, ma rimase intrappolato nell'angolino più remoto, e poi non gli andava di avere l'aria di uno che non sapeva quel che faceva. Ben presto un altro elemento fastidioso si aggiunse a tutti gli altri che stavano già torturandolo. Lì in fondo saliva dal motore un sottilissimo filo di gas di scarico. Cominciò subito a sentirsi male. Si guardò attorno con rabbia, ma gli altri pareva non avvertissero quell'odore, oppure lo accettavano fatalisticamente. Dopo un paio di isolati i gas erano diventati così pestilenziali che decise di scendere alla fermata successiva. Ma quando si avviò, una cicciona che gli stava accanto gli piantò addosso un'occhiata così stranamente apatica
che Simister, che forse aveva il cervello un po' annebbiato dalla nausea, si sentì quasi ipnotizzato. Passarono diversi secondi prima che ricordasse quello che intendeva fare e proseguisse. Ridicolo, ma il volto di quella donna gli rimase inchiodato nella testa per tutto il giorno. Verso sera si fermò in un negozio di ferramenta. Dopo cena la moglie vide che stava trafficando in sala. «Ah, metti su il catenaccio?», chiese. «Beh, me lo hai chiesto tu, no?». «Sì, ma non credevo che l'avresti fatto». «E perché non avrei dovuto?». Diede un ultimo giro alla vite e fece un passo indietro per gettare un'occhiata al lavoro compiuto. «Tutto quello che posso, pur di farti sentire al sicuro». Poi gli ritornò in mente la roba che aveva avuto intenzione di buttare subito al mattino. Sul tavolo in sala non c'era niente. «Cosa ne hai fatto?», chiese. «Di cosa?». «Quei libri pazzeschi». «Ah, quelli. Li ho impacchettati di nuovo e li ho riconsegnati al postino». «E perché? Non c'era l'indirizzo del mittente, e poteva anche darsi che mi piacesse darci un'occhiata». «Ma l'hai detto tu che non erano indirizzati a noi; e poi tu odi quella roba di guerra». «Lo so, però...», le disse, ma si bloccò subito, disperando di riuscire a farle capire come mai avesse particolarmente bisogno di sapere che si era sbarazzato lui stesso di quel pacco; e non in un modo qualunque, ma solo buttandolo nel bidone della spazzatura. Del resto non capiva neanche lui quello che stava provando. Cominciò a frugare per la stanza. «Ti ho detto che ho restituito il pacco», gli disse la moglie, tagliente. «Mica sto perdendo la memoria». «Sì, sì, va bene!», rispose, e se ne andò a dormire. Quella notte non fu svegliato da colpi alla porta, ma piuttosto da un rumoroso schiantarsi e spaccarsi di legno, seguito da un secco raschio metallico come di catenaccio che si chiudesse. Saltò giù dal letto in un baleno, i nervi intorpiditi dal sonno che stridevano rabbiosi. Che teppisti! Delle monellerie fracassone erano una cosa; ma la deliberata distruzione della proprietà altrui era tutt'altra faccenda!
Era quasi a metà scala quando si rese conto che il suono che aveva sentito era chiaramente minaccioso. Era piuttosto improbabile che dei giovani delinquenti che spaccano una porta siano poi presi dal panico all'apparire del padrone di casa disarmato. Però, proprio in quell'attimo, vide che la porta era intatta. Notevolmente imbarazzato e in preda a un terrore panico, perlustrò tutto il piano terra e si avventurò anche in cantina, spaccandosi la testa alla ricerca di cosa avesse potuto provocare un simile fracasso. Il boiler, forse? Il peso del carbone che bruciava da un lato del recipiente? Ma lì era tutto a posto. Era forse l'assito del portico che stava staccandosi? Quest'ultima idea lo spinse a guardar fuori dalla finestra per diversi minuti. Quando si girò, c'era qualcuno dietro di lui. «Non intendevo spaventarti», disse la mogie. «Cosa c'è George?». «Non lo so. Mi è sembrato di sentire un rumore. Qualcosa che veniva colpito violentemente». Si aspettava che lei ripiombasse in uno dei suoi ciclici terrori per i ladri, invece rimase lì a guardarlo. «Non startene lì impalata tutta la notte», le disse. «Torna a letto». «George, c'è qualcosa che ti turba? Qualcosa di cui non mi hai mai parlato?». «Ma no, naturalmente. Su, vai». Il mattino seguente Holstrom si trovava sulla piattaforma quando Simister arrivò lì. Si scambiarono le loro rispettive ipotesi su un banco di nuvole nere cariche di pioggia: si sarebbero scaricate prima che loro fossero in centro, o no? Simister notò che l'uomo con quel goffo soprabito stava gironzolando; comunque non gli prestò attenzione. Dal momento che era giorno di chiusura per le banche, nella carrozza per fumatori c'erano posti a sedere liberi; così lui e Holstrom se ne assicurarono uno ciascuno. Come sempre, Holstrom aveva il giornale. Simister si aspettava che saltasse fuori con una delle sue solite corbellerie ideologiche, e una volta tanto si sentiva alquanto a disagio. Di solito era massiccio, deciso, nei suoi giudizi. Quella mattina, invece, si sentiva stranamente vulnerabile. E successe. Holstrom scosse la testa: «È una gran brutta faccenda questa della Cecoslovacchia. Forse siamo stati un po' troppo severi con i nazisti». Sorpreso di sé, Simister si sentì rispondere con nervosa ipocrisia e insolita foga: «Non sia ridicolo! Quei topi da fogna meritavano anche più di
quello che hanno avuto!». Mentre Holstrom si girava verso di lui, dicendo: «Ah! ma allora ha cambiato parere a riguardo dei nazisti», Simister fu convinto di aver sentito qualcuno, proprio dietro di lui, che diceva con una voce al tempo stesso bassa, nitida e spietata: «Ti ho sentito». Si girò di scatto e si guardò intorno. Un poco chinato in avanti, comunque con la faccia nettamente girata altrove, come attratto da qualcosa che sfilava al di là del finestrino, c'era l'uomo con quel goffo soprabito. «Cosa c'è che non va?», chiese Holstrom. «Cosa intende dire?». «È diventato pallido. Ha una gran brutta cera». «Sto benissimo». «Ne è sicuro? Sa, alla nostra età bisogna cominciare a stare molto attenti. Non è vero che lei una volta mi ha detto qualcosa del suo cuore?». Simister cercò di buttarla sul ridere, ma quando si separarono, appena fuori dal treno, sentì che Holstrom lo stava ancora fissando piuttosto intensamente. Mentre attraversava lentamente il terminale, il suo volto cominciò a spegnersi in uno sguardo vacuo. Effettivamente era tanto immerso nei suoi pensieri che, quando si avvicinò al reticolato di ferro, fece per passarlo sulla sinistra. Fortunatamente la folla non era troppo compatta, e riuscì a fenderla sulla destra senza difficoltà. La giovane guardia bionda lo fissò intensamente: forse si ricordava della mattina precedente. Simister si era anche detto che non avrebbe mai più preso l'autobus, a nessun costo. Invece, quando si trovò fuori stava piovendo a catinelle. Esitò un attimo, poi salì. Pareva, se possibile, ancora più affollato che non il giorno prima, con un numero ancor più grande di quella misera gente, e l'aria umida rendeva particolarmente ripugnante l'odore del gas di scarico. Lo sguardo assente gli rimase appiccicato in faccia tutto il giorno. La sua segretaria lo notò, ma non fece commenti. Li fece invece la moglie, quando lo vide frugare in giro per la sala, dopo cena. «Stai ancora cercando quei libri, George?». Il suo tono di voce era piatto. «Ma no», rispose frettolosamente, richiudendo il cassetto del tavolo. «Sei sicuro di non averli ordinati, quei libri?». «Che razza di idee vai a metterti in testa?», chiese. «Lo sai benissimo che non l'ho fatto». «Sono contenta», fu la risposta. «Li ho scorsi. C'erano delle fotografie...
Ripugnanti!». «Ma mi ritieni uno di quelli che vanno a comprare libri per il gusto di vedere foto ripugnanti?». «No, certo che no, caro. Pensavo, però, che tu potessi averle viste e fossero state loro la causa di questa tua depressione». «Perché? Sono stato depresso?». «Sì. Non è che il cuore ti stia dando delle noie, vero?». «No». «Bene. E allora cos'è?». «Non lo so». Poi, facendo uno sforzo notevole, disse: «Ho pensato alla guerra e ad altre cose del genere». «Guerra? Non c'è da stupirsi che tu sia depresso. Non devi mai pensare a cose di quel tipo, soprattutto quando non ci sono. Com'è cominciato?». «Ma sì, è Holstrom che continua a parlarmene sul treno». «E tu non ascoltarlo». «Farò così». «Bene. Stai allegro!». «Farò così». «E non permettere a nessuno di metterti sotto gli occhi foto morbose. C'era uno che veniva asfissiato in un furgone e poi scaricato...». «Per piacere, Joan! Credi sia meglio se me ne parli tu, invece che guardarmelo da solo?». «Certo che no, caro. Che stupida che sono. Stai allegro!». «Sì». Nei suoi occhi c'era ancora quello sguardo vacuo quando lei lo osservò andarsene via, il mattino seguente. Era pazzesco, senz'altro, ma lei aveva l'impressione che l'abito grigio che indossava fosse di fatto nero. E poi aveva mormorato qualcosa nel sonno. Rientrò in casa, rabbrividendo a quelle fantasie. Quel mattino George Simister provocò un po' di confusione nel compartimento fumatori (ne parlarono in seguito; comunque Holstrom non era presente quando la cosa era iniziata). Sembra che Simister si sia precipitato per prendere l'espresso e abbia quasi rischiato di perderlo, per essersi scontrato con un piccolotto che indossava una specie di soprabito che gli stava molto largo. Qualcuno richiamò quella premessa insignificante per una circostanza curiosa: il piccolotto, benché fosse caduto sulle ginocchia e benché lo scontro fosse colpa soprattutto di Simister, stava ancora chiedendo scusa ansiosamente a Simister, dopo che quest'ultimo lo aveva but-
tato a terra. Simister riuscì a farsi strada attraverso la porta, mentre lanciava una velocissima occhiata alla targhetta. Fu allora che cominciò quel suo strano comportamento. Si girò di colpo e cercò in tutti i modi, senza però riuscirci, di uscire di nuovo, di prepotenza; arrivando addirittura a inserire le mani nella fessura tra la porta e i listelli di gomma dello scorrevole, e tirando violentemente. Appena si accorse che il treno stava muovendosi, si allontanò dalla porta, la faccia bianca come un lenzuolo, lo sguardo perso, e cercò di aprirsi la strada a violente gomitate verso la parte centrale dello scompartimento. Qui si diresse con decisione verso una piccola bacheca infissa nella parete, che conteneva i dati di identificazione del treno. C'era un finestrino in miniatura e in mezzo si leggeva la scritta di identificazione della categoria attuale del treno: ESPRESSO. Rimase lì a fissarla, come se non credesse ai propri occhi. Poi cominciò a girare la manovella, facendo comparire via via tutte le altre scritte in bianco sul fondo di tela scura. Le esaminò tutte minuziosamente, una per una, senza prestare la minima attenzione agli sguardi stupiti e indignati di quanti gli stavano attorno. Aveva già fatto passare una volta tutte le scritte e stava cominciando a farle passare di nuovo, quando il controllore si accorse di quello che stava succedendo e si precipitò lì. Simister ignorò le sue lamentele e gli chiese, urlando, se quello era proprio l'espresso. Ricevuta una secca risposta affermativa, Simister proseguì asserendo che, mentre saliva sul treno, aveva intravvisto sulla targhetta un'altra scritta, e citò un nome strano. Pareva convinto di quel che diceva e sembrava anche che la cosa lo sconvolgesse molto; così riferì il controllore. Quest'ultimo chiese a Simister di pronunciare quel nome lettera per lettera. Simister compitò con voce spezzata: «B...E...L...S...E...N...». Il bigliettaio scrollò la testa; poi sgranò gli occhi e chiese: «Ma, dica, sta cercando di prendermi per i fondelli? Era uno di quei campi di sterminio nazisti». Simister fuggì via all'altra estremità della carrozza. Fu là che lo vide Holstrom. Pareva «come se avesse appena subito uno shock terribile». Holstrom si allarmò, anche perché sentiva dentro di sé un profondo senso di colpa. Non riuscì però, se non con fatica, a cavargli qualche parola di bocca, sebbene tentasse più e più volte di avviare una conversazione su luoghi comuni assolutamente neutri. Ricordò, in seguito, che una volta Simister alzò gli occhi e sbottò a dire: «Ritiene che ci siano certe cose a cui uno, semplicemente, non può sfuggire, senza che abbia la
minima importanza quanto tranquillamente viva o quanto minuziosamente faccia i suoi piani?». Però, subito l'espressione del suo volto rivelò che si era reso conto che esisteva almeno una risposta ovvia a quella domanda, e Holstrom non seppe cosa dire. Un'altra volta uscì fuori all'improvviso con questa notazione: «Vorrei che fossimo come gli inglesi, e non fossimo costretti a starcene in piedi sugli autobus», ma poi lasciò subito perdere la cosa. Mentre si stavano avvicinando al capolinea del centro, Simister parve riacquistare un po' d'energia, ma Holstrom era ancora molto preoccupato per lui che cambiò il suo itinerario per seguirlo attraverso il terminale. «Avevo paura che potesse succedergli qualcosa, non so che cosa», disse Holstrom. «Gli sarei stato alle calcagna, a meno che lui facesse capire di accorgersi della mia presenza». Il senso di colpa che provava Holstrom (che stava alla base della sua ansietà e che, molto probabilmente, fu anche responsabile dell'impressione da lui avuta che Simister si fosse accorto di lui) era dovuto a questo: dieci giorni prima, irritato dal tono altezzoso e ottuso con cui Simister sosteneva i suoi pregiudizi, nascondendosi dietro l'anonimato, gli aveva spedito per posta tre libri che illustravano, con realismo senza ritegno e relativa documentazione fotografica, alcuni degli aspetti meno piacevoli della tirannia nazista. Adesso non poteva impedirsi di immaginare che avessero contribuito ad agitare Simister a quel modo, andando ben al di là di quelle che erano state le sue intenzioni. Se ne vergognava, ma era contento di essersi trovato in uno stato tale, quando aveva spedito il pacco, da far risultare l'indirizzo uno scarabocchio quasi illeggibile. In seguito lui non aveva mai discusso l'argomento, se non con rapidissimi cenni, ogni tanto, per fare dei rilievi stranamente sentiti su «come delle sciocchezze possono far saltare qualche rotella nel cervello di una persona». Ma proseguiamo con il racconto di Holstrom. Seguì Simister tenendosi a una certa distanza. L'altro, tutto abbattuto, si trascinò a fatica attraverso il terminale. «Terminale?», si chiese una volta Holstrom interrompendo il racconto; e osservò: «Terminale fa pensare a Termine: non era il dio dei confini? E anche a... Alla fine dei diritti umani. Ma tutto questo ha forse un senso?». Quando Simister stava avvicinandosi al reticolato di ferro, successe un fatto che lascia perplessi. Stava per passare sulla destra, quando qualcuno che gli stava proprio davanti barcollò o inciampò. Simister rischiò di cadere anche lui, e deviò verso il reticolato. Una guardia lì vicino allungò una mano per sorreggerlo e intanto lo spinse al di là del reticolato stesso, sulla
sinistra. Holstrom sostiene che, a questo punto, Simister si girò indietro un attimo, cosicché egli poté avere una rapidissima visione del suo volto. Doveva esserci un senso di terrore panico particolarissimo in quello sguardo; qualcosa, forse, che Holstrom non è in grado di descriverci adeguatamente. Sta di fatto che quest'ultimo abbandonò immediatamente l'idea di seguirlo a distanza e fece di tutto per raggiungerlo. Ma Holstrom fu travolto dalla folla che usciva da un altro treno di pendolari. Quando fu fuori del capolinea, passarono alcuni momenti prima di riuscire a localizzare Simister in mezzo a un gruppo che premeva per salire su un autobus già zeppo. Questo stupì Holstrom, perché sapeva che Simister non doveva prendere l'autobus, e gli ritornò in mente quell'ultima sua lamentela. Il traffico pesante impedì a Holstrom di attraversare la strada. Dice di aver chiamato ad alta voce, ma Simister non parve sentirlo. Ebbe l'impressione che Simister si sforzasse ben poco per tirarsi fuori da quella folla che lo stava spingendo nell'autobus; ma «tutta quella gente era ammassata insieme come una mandria di bestie». La miglior garanzia dell'effettiva ansietà di Holstrom per quanto stava succedendo è questa: appena il traffico rallentò un pochino, si buttò a capofitto sulla strada, avanzando in mezzo alle macchine. Nel frattempo però l'autobus era partito. Arrivò in tempo soltanto per prendersi in faccia uno sbuffo particolarmente nauseante di gas di scarico. Appena arrivato in ufficio telefonò a Simister. Trovò la segretaria di Simister, la quale lo sollevò da tutti i suoi timori. Fatto veramente denso di ironia, se si considera quello che successe subito dopo. Quello che successe subito dopo è ben descritto dalla ragazza stessa. Ecco le sue parole: «Non l'avevo mai visto arrivare così allegro, quel vecchio brontolone... Oh, mi scusi. Comunque entrò tutto sorridente, come se avesse appena ricevuto qualche brutta notizia sul conto di qualcun altro; e subito attaccò a parlare e a scherzare, un po' su tutto e su tutti, per cui rimasi molto stupita quando quell'altro telefonò tutto pieno di timori. Veramente, forse, adesso che ci ripenso, Simister pareva un po' agitato nel suo intimo, come una persona che l'ha scampata bella, ed è molto contento di essere ancora vivo. «Be', rimase su di giri tutta la mattinata. Poi, proprio mentre stava buttando la testa all'indietro per sbellicarsi dalle risa per una sua battuta di spirito, si strinse convulsamente il petto, lanciò un urlo terrificante, si piegò in
due e crollò sul pavimento. Non riuscivo a credere che fosse morto, perché aveva le labbra così rosse e vivide macchie di colore sulle guance, delle macchie rossastre. Naturalmente era stato il cuore, ma non potete neanche immaginare che spaghetto ci ha fatto prendere quello stupido dottore che arrivò per primo, appena entrò e lo guardò». Naturalmente, come diceva lei, doveva essere colpa del cuore, in un modo o nell'altro. Ed è pure fuori discussione che il dottore in causa fosse un medico vecchio, forse anche incompetente, capace solo di ordinare della penicillina, della morfina, e di sparare diagnosi su due piedi peggio di Charcot. L'avevano chiamato solo perché il suo ambulatorio era nello stesso palazzo. Quando arrivò il medico personale di Simister e dichiarò che il cuore doveva aver ceduto, che poi in fondo era quello che avevano pensato tutti, ognuno si sentì molto sollevato e incline a essere ipercritico nei riguardi di quel primo medico, per aver detto qualcosa che li aveva fatti correre tutti a spalancare le finestre. Perché, quando era entrato, il primo dottore aveva dato una rapida occhiata a Simister e poi aveva sentenziato: «Attacco di cuore? Sciocchezze! Osservate il colorito del volto: rosso come una ciliegia. Quest'uomo è morto per avvelenamento da monossido di carbonio». Dove s'arrampica il caprifoglio MANLY WADE WELLMAN Molti scrittori dell'orrore amano dare un sapore «regionale» alle loro opere: Leiber usa la California, Lovecraft e Brennan il New England, Derleth il Midwest. Persino Robert E. Howard ha scritto le sue cose migliori quando parlava non di Cimmeria o di Aquilonia, ma del Texas, dov'era nato. A prescindere dalla grandezza di tutti questi scrittori, non c'è dubbio che il maggior autore «regionalista» del fantastico sia Manly Wade Wellman. È stato definito (da «TV Guide») uno scrittore di leggende popolari, e i suoi racconti affondano indubbiamente le radici nella Carolina, e parlano e cantano con l'accento della gente di quello stato. Se non siete mai stati nella Carolina del Nord, dopo aver letto questo racconto forse vi verrà voglia d'andarci. E se ci avete abitato e ve ne siete andati, questo racconto vi farà pensare di essere ritornati. Dopo che ebbe dato una mano a lavare e asciugare i piatti della cena, il
giovane Jess Warrick si arrampicò sulla scala a pioli e andò nella sua stanzina in soffitta. Quando ridiscese, sua madre chiese: «Come mai ti sei cambiato?». Aveva messo i jeans nuovi e una camicia pulita color noce, con le maniche rimboccate sulle sue forti braccia scure. «Mi sentivo tutto sudato. Ho spaccato legna tutto il giorno», le rispose. «Pensavo che ti fossi fatto una bella nuotata nello stagno prima di venire a cena», disse il padre. Stava accanto alla lampada da tavolo e leggeva l'Eneide di Virgilio, in latino. Impossibile dire quante volte Clay Warrick aveva letto e riletto quello, come tutti gli altri venti libri ben allineati sopra il caminetto. Clay Warrick era una persona colta, anche se non aveva permesso che questo fatto lo danneggiasse. «Mi sento ancora tutto sudato», osservò Jess. «Stai sicuro che ci andrò. C'è una luna stupenda sul monte Dogged». Era più alto di suo padre, più alto di suo fratello sposato. George, che abitava a circa sei chilometri di distanza, a Sky Notch; più alto di quanto non sarebbero stati i maschi dei Warrick se fossero sopravvissuti all'ultimo scontro con la famiglia Mair, cinquant'anni prima; più alto del nonno, Big Tobe, capo del clan dei Warrick, che era morto facendo a coltellate con Burt Mair; più alto dei due fratelli e dell'altro figlio di Big Tobe. Erano tutti alti, ma non c'era confronto con com'era diventato alto lui, Jess. Aveva capelli neri come quelli di un indiano, gli occhi neri, le guance abbronzate e un naso affilato. Le ragazze, da quelle parti tra le montagne, lo definivano bello. «Non mi piacerebbe proprio nuotare sotto la luna piena», disse Clay Warrick. Ma Jess si comportò come se non lo avesse sentito. «La piena di primavera ha fatto straripare Walnut Creek», disse. «L'acqua è limpida abbastanza da lasciarti vedere un pesce a tre metri di profondità». «Stai attento», lo avvertì sua madre, proprio come se Jess avesse solo sei anni e non venti. «E non restare fuori fino a tardi, intesi?», disse Clay Warrick. «Domani dobbiamo lavorare sodo nei campi sulle colline». Jess alzò la nottola di legno e uscì nella notte splendente. Un pipistrello afferrò al volo un piccolo insetto proprio davanti a lui. Un altro si slanciò verso l'alto. Jess aveva sentito suo padre dire che, secondo Lord Byron, i pipistrelli portavano jella. Quando fu arrivato dove sua madre non avrebbe potuto vederlo, tagliò a sinistra e si avviò sul pendio del monte Dogged, in
direzione del posto dove i Warrick e i Mair si erano massacrati tra loro quella notte di tanto tempo prima. Forse non avrebbe mai conosciuto l'intera verità sullo scontro, perché nessuno di quelli che c'erano stati era sopravvissuto per raccontargliela. Sua nonna era solita esprimere l'idea che ne aveva scoppiando a piangere. Morì che Jess aveva dieci anni. Suo padre a quel tempo aveva solo sette anni. E nessuno era capace di spiegarsi perché mai i due clan avessero combattuto fino all'ultimo uomo. I loro cattivi sentimenti erano retrocessi alle origini in mezzo a quelle montagne. Così avevano continuato a sparare da dietro gli alberi e le siepi, colpendo nemici qua e là. Fino a quella notte che Big Tobe aveva riunito i suoi fratelli e i nipoti, e suo figlio più grande, Bob; poi si era incamminato, con i fucili carichi, verso il posto in cui abitavano i Mair. Ma anche i Mair erano usciti armati quella sera. Finirono per annientarsi l'un l'altro in un avvallo coperto di cespugli, sul monte Dogged. Big Tobe si buttò addosso a Burt Mair e si accopparono a vicenda con dei coltelli da caccia. Anche da morti erano avvinghiati così strettamente che i vicini che li ritrovarono non riuscirono a separarli. Fu così che, mentre gli altri dieci che erano rimasti uccisi furono portati nei cimiteri di famiglia, i due capi vennero sepolti proprio dove erano morti, senza preghiere. Il vecchio Sam Upchurch, proprietario dell'unico negozio e amministratore di quella parte della contea, aveva detto di inserire a forza un ramo di robinia in mezzo ai due per impedire che uscissero di nuovo a rinverdire la lite. Terra e sassi erano stati ammucchiati sopra di loro, e la settimana seguente due pastori, lo sceriffo e il giudice avevano fatto il giro di famiglia in famiglia per chiedere alle donne rimaste vive in ambedue i clan di giurare la pace e di promettere che non avrebbero ucciso mai più. E pace c'era stata. Solo ogni tanto s'era sentito, di notte, un colpo contro la porta della casetta, e quando andavi ad aprire non c'era nessuno. La valletta era stata chiamata «Valletta di Anime Perse», e col passare degli anni si era riempita di cespugli di vite della Virginia e di succhiarmele, due tipi di rampicanti che parecchia gente chiamava semplicemente caprifoglio. Nessun Mair e nessun Warrick si era mai avvicinato a quel posto, eccetto Jess Warrick, e, dalla parte dei Mair, un'esile ragazza dai capelli brunorame di nome Midge. Questo perché, secondo loro, nessun membro delle due famiglie che tanto si odiavano sarebbe mai venuto lì a importunarli, impedendo loro di amarsi.
Alla splendida luce della luna, Jess camminava veloce lungo il sentiero dove di giorno passava il bestiame. Le sue lunghe gambe divoravano quella terra così nota ai suoi piedi. Nella sua mente, senza che lui la cercasse, affiorò una canzone che era solito sentir canticchiare dalla nonna: «... Là sono andati dove il caprifoglio Si torce e serpeggia sul muro crollato, Proprio all'ombra del salice piangente Dove penduli ricadono i suoi rami...». Appena superato il crinale ci sarebbe stata la valletta di Anime Perse. Qualcuno si mosse di fronte a lui, qualcuno con una lunga gonna d'un grigio scintillante. Sentì un tuffo al cuore. Doveva essere Midge che gli era venuta incontro. Ma: «Jess?», chiese con una voce armoniosa, bassa, che non era quella di Midge. «Jess Warrick? Come mai sei fuori stanotte? Credi che io non lo sappia?». Tutti su quelle montagne, conoscevano la voce di Haidee Bettisthorne. Jess si fermò e lei venne verso di lui. Haidee Bettisthorne che la gente chiamava strega, raggio di luna e luminosa come la luna. Era alta quanto Jess, e il suo superbo corpo spiccava sotto l'abito grigio. I suoi capelli erano una macchia nera contro le spalle; la bocca, nera e carnosa, sorrideva; gli occhi scintillavano verdi come quelli di un animale. «Così», disse, «trasgredisci le regole della tua famiglia e vai alla tomba di tuo nonno». Una stregoneria le aveva detto che lui sarebbe stato fuori casa; come del resto le diceva in che modo far morire il frumento nei campi, i maiali nel porcile, o come farvi diventare zoppi o ciechi se la facevate arrabbiare. «Non l'ho mica fatta io quella legge, signorina Haidee», disse Jess. Ridendo, lei si fermò davanti a lui, mentre i suoi occhi verdi scavavano dentro a quelli neri di Jess. Era bellissima, ma, signori, era viscida, strisciante. Jess si chiese quanti anni potesse avere: molti? pochi? «Sai bene cosa dicono che giri da queste parti», proseguì lei. «Hanno visto delle impronte. Certe volte le due zampe posteriori, dei piedi grossi e piatti con artigli. Certe volte anche quelle anteriori, che lasciano sul terreno un segno come di mani. Non ti sei mai chiesto, Jess, che cosa produca quel tipo di impronte?». Se l'era chiesto, eccome. Aveva visto quelle orme, alla luce del giorno,
più o meno vicine al caprifoglio della valletta di Anime Perse. Ma non gli avevano impedito di andarci di notte. «Qualcuno sostiene che sia il tuo cane», disse Jess. Lei scoppiò a ridere. «È mio, sì, ma non è un cane». I suoi occhi erano fiamme. «Mi fa delle commissioni; va a caccia di notizie per me». Si chiese se stava prendendolo in giro. Però, una volta tanto, sembrava dicesse la verità. «Ma se lo merita Midge Mair che tu venga quassù per lei?», gli chiese Haidee Bettisthorne. «Quella ragazzina insignificante?». Sentiva gli occhi verdi scorrergli su e giù lungo tutto il corpo, come dita. «Penso che tu potresti avere di meglio, Jess». Pareva avere la sua stessa età, in quel momento; solo più sveglia e più malvagia. «Meno male che lo so solo io che vi incontrate», disse. «Un Warrick e una Mair. Altrimenti i due clan uscirebbero a cercarvi con qualcosa d'altro in mano, non certo un semplice binocolo!». Jess disse: «Non facciamo niente di male. Non ne facciamo né l'uno all'altro né alle nostre famiglie». Un gufo gridò su un albero sopra le loro teste. «Credi di essere innamorato», commentò lei, come se stesse pronunciando un'accusa. «Sì, è una cosa naturale, signorina Haidee». «E non chiamarmi signorina Haidee. Sembri uno scolaretto davanti alla maestra». Si passò la lingua sulle labbra. «Anche se potrei benissimo insegnarti un paio di cosette». Mosse il suo corpo stupendo sotto la gonna. «Forse vuoi essere convinto con le coccole». «Voglio soltanto continuare sul mio sentiero». «Bene», e la luce della luna si riversava su di lei come una fiamma pallida. «Perché vezzeggiarti? Ne ho di amici, altrove». «Ho sentito dire che vi incontrate spesso», disse Jess, ripensando a quello che si diceva sui convegni di streghe. «Sei offensivo». Gli si fece vicino, fin quasi a toccarlo. «Non sei saggio, Jess». «Non pretendo d'esser granché saggio. Ma non intendevo parlar male di te, riferivo soltanto quello che ho sentito dire». «Sei proprio pazzo», sorrise lei. «Ma non litighiamo per cose del genere», disse Jess. «Io ogni giorno cerco di crescere, di inventare qualcosa di nuovo».
«Devo insegnarti io?». Era vicinissima. Sentì un profumo di fiori notturni. «No, signora. Grazie comunque». «Non soltanto sei pazzo, Jess. Hai anche paura di me». «Se non avessi paura di te mi considererei doppiamente pazzo», convenne Jess. «Tu non arrivi a capire che cosa potrei offrirti io, e non hai il coraggio di prendertelo», disse Haidee Bettisthorne. «Buona notte». Sgusciò fuori dal suo sentiero. Lui proseguì, più veloce che poté. Lei rideva, dietro di lui. Il gufo gridò di nuovo, e laggiù, da qualche parte, si sentiva un pam-pam-pam, come l'eco di colpi di fucile che si spegnevano nell'oscurità. Sulla cresta, alla sua sinistra, l'impressione di cose che lo stessero guardando fisso, che facessero piani sul suo conto. Ma superò il gomito del sentiero e vide Midge sull'orlo della china che scendeva verso la valletta di Anime Perse. La vide bella come un angelo, con i suoi capelli bruno rossicci splendenti nella luna e le mani che si protendevano alte verso di lui. Si corsero incontro e si abbracciarono. Era piccola ed esile contro di lui. Jess pensò: quant'è reale, Midge! Com'è carne, sangue! Com'è deliziosa! La sua bocca vibrava contro quella di Jess, vogliosa ma non vorace: un bacio d'amore. Lei arretrò e lo guardò. «Sei pallido», bisbigliò. «Effetto della luna. Ascoltami, Midge. Ho appena visto Haidee Bettisthorne. Sa dei nostri incontri». «Vecchia strega!». Occhi enormi sul volto tondo di Midge. «Cosa ha intenzione di fare?». Jess sentì che stavano osservandoli e ascoltandoli. «Pensa che la nostra gente combatterà ancora, se ci trova». «Non è una novità, per me. Ma lei, perché si immischia, Jess?». «È una strega. Vuole portare zizzania. Ogni strega presta giuramento al diavolo. Ho sentito dire che si riuniscono a Avery County, giù nelle città sul mare. Haidee Bettisthorne ha ridotto in miseria un mucchio di gente. Adesso ha preso di mira noi due». «Non può, Jess. Le streghe non possono nulla contro chi ha un cuore candido; e noi siamo così tutti e due». Una pianta, un salice piangente come nella canzone di sua nonna, abbassava i rami proprio dove i loro nonni morti giacevano sepolti e inchiodati sotto terra da un paletto di robìnia. Non era certo rassicurante, quel salice; come non lo erano i cespugli ammucchiati sotto la luna, simili a cose con
teste in mezzo a spalle incassate. Sembravano avere addirittura degli occhi: macchioline di luce. E pareva avessero una faccia. Il salice allungò in giù le braccia, come braccia dalle lunghe dita fatte di ramoscelli. Era imbarazzante che ti guardassero così, mentre stavi con il tuo vero amore. «Giusto, Midge», disse Jess. «Se c'è della malvagità su questa terra, deve esistere anche il bene. Altrimenti non sarebbe possibile andare avanti». «Non verrei quassù se non fosse per incontrarmi con te», disse lei di rimando. «Tu sei buono e forte. Ma, Jess, per quanto tempo potremo continuare?». Lui prese le sue braccia morbide, tonde. «Non andiamo più avanti così», disse tutto d'un fiato. «Scappiamo via, insieme». «E dove?», gli chiese, dispostissima a farlo, ad andare. «In un posto qualsiasi. Ho messo via un po' di soldi. Prenderemo un autobus, troveremo una città dove io possa lavorare. Ascolta, Midge: se fosse proprio un gesto del genere quello di cui ha bisogno la nostra gente? L'amore che c'è tra noi due, forse, potrebbe ammorbidire quest'odio antico e questa follia delle due famiglie che si combattono». «Quando andremmo?», gli chiese, pronta. «Adesso, subito». Lui cercava di chiarirsi le idee mentre parlava. «Questa notte stessa. Subito, adesso. Mentre i tuoi dormono, raccogli i vestiti migliori e le scarpe e prendi quello che puoi portare e che pensi ti possa servire. Poi torna qui. Farò così anch'io. Andremo sulla strada principale, dove possiamo fermare quella corriera che passa di prima mattina. Compriamo i biglietti per qualche grande città, dove loro non ci possano più scovare». Il bacio della ragazza fu intenso, pieno di gioia. «Sarò qui», gli disse. Si lasciarono, prendendo due sentieri diversi. Sembrò che il salice si allungasse per trattenerli lì, ma potevano essere state le ombre prodotte dalla luna. E, qualunque cosa fosse quello che li stava osservando dalla valletta di Anime Perse, rimase a osservare Jess mentre se ne andava. Sulla strada verso casa gli parve che qualcosa si muovesse davanti a lui, ma non poteva esserne sicuro. Quando fu di nuovo nella casetta trasse un grosso sbadiglio e disse che se ne sarebbe andato a letto. Su in soffitta mise insieme poche cose: una camicia, delle calze, e qualche paio di mutande. Ficcò tutto in un sacco. Poi si mise una cravatta nera, poi sopra un giubbotto e il suo cappello Stetson. Da dietro un travetto tirò fuori una piccola borsa in cui c'erano forse ottanta dollari e qualche spicciolo. Scrisse due righe su un foglio e lo appoggiò sul cuscino. Poi spense la luce sedette
sul bordo del lettino e aspettò, aspettò. Sentì i suoi genitori salire in camera da letto. Vide spegnere la luce. Continuò ad aspettare. Adesso dovevano essere addormentati. Alzò il saliscendi della finestra della soffitta, adagio, senza fare il minimo rumore, scivolò giù sull'albero sottostante, come quando giocava da ragazzo. Scese a terra. Pod, il vecchio mulo, scalpitò nella stalla. Le mucche, invece, non fecero il minimo rumore. Jess girò attorno alla casetta, sempre senza far rumore e si avviò su per il sentiero, ripercorrendo la strada che aveva già fatto una volta, quella notte, per incontrarsi con Midge Mair. Soltanto adesso il cielo si era coperto di nubi; la luna pareva una forma di burro. Lontano si sentì un rumore: sembrava un po' una risata, un po' un grido soffocato. Seguendo il sentiero, raggiunse la cima del pendio. Vide Haidee Bettisthorne, che aveva un luccichio sul suo abito grigio; vide che c'era qualcos'altro con lei. Una forma scura. Stava in piedi davanti a lei, le spalle incassate, la faccia vicinissima a quella di Haidee, se pure aveva una faccia. Poi si lasciò cadere giù e si allontanò sulle quattro zampe. Lei gli disse qualcosa mentre se ne andava. Jess si senti felice di essere in procinto di lasciare quel posto per qualche altra parte del mondo, dove non avrebbe più visto quella strega o quella cosa che lei diceva non essere un cane. Proseguì nella notte afosa, che aveva perso metà del suo splendore; ma i suoi occhi trovavano da soli il sentiero. Rifece la curva in cima al pendio, e là, davanti a lui, c'era la Valletta di Anime Perse, tutta nera sulla terra grigia, tutta piena di caprifoglio e di cespugli. E c'era Midge. «Jess!», gli sussurrò lei ansiosa. «Sta venendo qualcuno». «Sembra proprio di sì»m disse lui, perché là in alto, dietro di lei, si muovevano forme scure, si muoveva una striscia di forme scure, tre o quattro. «Scendiamo nella valletta, presto». «Vengono anche da laggiù, dietro di te, Jess». Allora si guardò alle spalle, e c'erano altre forme nere che si stavano avvicinando da un'altra direzione. Per amor di Dio! Cos'erano? Qualunque cosa fossero, i due gruppi stavano circondando lui e Midge, là, vicino alla valletta di Anime Perse. La tirò giù in mezzo all'intrico di cespugli e di caprifoglio. «Ehi, voi Warrick, credete che non sappiamo che ci siete?», urlò una voce da sopra la montagna. «Venite fuori e combattete da uomini». «Chi si nasconde?», ribatté un'altra voce da sotto il pendio. Jess la riconobbe. «Nessun Warrick si è mai nascosto davanti a uno dei Mair!».
Adesso sapeva. Non era una stregoneria, era un fatto vero, ed era una cosa meschina. La gente di Midge e la sua gente erano venuti lì con l'intenzione di battersi, anche se avevano giurato di non farlo mai più. Jess e Midge erano nella valletta, proprio in mezzo ai due clan. «Come vorrei aver preso un fucile», disse Jess, ad alta voce ma parlando a se stesso. «Basta coi fucili», gemette Midge. «Cosa ci hanno mai procurato i fucili se non dolore? Se intendono sparare contro qualcuno, devono prima sparare contro di me». La trattenne dall'uscir da quel groviglio di rampicanti. «Tu stai giù», le ordinò, come se fosse già sua. «Andrò su io, parlerò io con loro...». Se almeno avesse avuto un bastone. Cercò a tastoni, con tutte e due le mani, in mezzo alle viti, e afferrò un paletto. Pareva il manico di un piccone. Gli fece fare un giro e poi diede un violento strattone e lo tirò fuori. Venne via bel pulito, come a tirar fuori una grossa carota. Poteva andar bene per picchiare sodo. «Tu resta qui», ripeté a Midge, e si arrampicò fuori dalla valletta con le ginocchia e una mano; con l'altra teneva ben stretto quel pezzo di legno. Arrivato in alto, rimase in piedi ad aspettare. «Chi sei tu dei Mair, che osi sfidarmi così?», urlò una voce che lui conosceva tanto bene. «Sono io, papà», gridò Jess di rimando. «Sento un Warrick», arrivò un urlo dall'alto. «Fatti vedere che ti impallino». Jess era contento che ci fosse della foschia. Forse avrebbero sbagliato mira. Si chinò un poco. E sentì un rumore provenire da sotto, dalla valletta. «Ti ho detto di star giù», disse; ma non era Midge che stava salendo. Due ombre si arrampicarono sul crinale accanto a lui. Due omoni, con addosso abiti a brandelli. Respiravano profondamente e molto rumorosamente, si tenevano per mano. Erano ambedue massicci e quasi alti quanto Jess. E riuscì a vederli. Riuscì a vederli nell'oscurità, perché attorno a loro c'era una specie di fosforescenza, sufficiente per poter scorgere le loro facce. Quelle facce scure, incartapecorite come due cortecce d'albero, con i denti. «Non sparate», gemette uno di quei due: una voce attutita, come se dentro fosse pieno di nebbia. «Chi è che ha parlato?», latrò qualcuno dall'alto, e doveva essere il padre di Midge, un'ombra nera lassù con l'ombra nera di un fucile di traverso fra le mani.
«Lo sai bene chi sono, Lee», disse la voce ovattata. «Lo sai bene chi sono, Lee Mair, figlio mio». «Papà!». Un gemito. I Mair si erano avvicinati ancora, ma adesso si erano bloccati. L'ombra che aveva parlato uscì fuori dalla macchia e andò verso di loro. Doveva aver lasciato andare la mano dell'altro. Quest'ultimo si incamminò giù per il pendio, verso il gruppo dei Warrick: camminava lentamente, come se gli facessero male le ginocchia e i piedi. Quella sua morbida fosforescenza oscillava. Jess sentì i due gruppi farfugliare qualcosa, ma non riuscì a capire che cosa. I due usciti dalla valletta continuavano a muoversi, lenti ma sicuri, ognuno in direzione di uno dei due clan. Guardando ora in una direzione ora in un'altra, Jess vide che alzavano e abbassavano le braccia. Erano braccia scarne, come fossero solo ossa con vecchi scuri stracci di maniche che vi ricadevamo sopra. Capì che i due gruppi avevano seguito lui e Midge, i Mair e i Warrick, avrebbero voluto scappare via. Però nessuno si mosse. Le due cose arrivarono vicino alle due famiglie, e Jess sentì le voci, lamentosi gemiti di voci. Qualcuno rispondeva; con una voce acuta, stridula, piena di un terrore totale, ma rispondeva. Poi (e gli pareva che fossero passate tante ore, benché non potesse essere passato tanto tempo), poi le due figure fosforescenti si girarono e tornarono indietro, dirigendosi verso la valletta di Anime Perse, dopo aver compiuto ciò che dovevano compiere. Tutto quello che Jess poteva fare era starsene lì ad aspettare che quelli arrivassero, uno dall'alto e uno dal basso. Non aveva fatto assolutamente nulla tutto quel tempo, se non starsene lì ad aspettare, con quel paletto tra le mani. Arrivarono più vicini. Più vicini. Lui continuava a guardarsi avanti e indietro, a guardare quelle due cose. Erano scure le facce piene di rughe, ma le teste, in cima, erano d'un bianco cenere, con file di capelli striati. Gli parve di veder muoversi delle ossa sotto quei vestiti a brandelli. Adesso erano abbastanza vicini per poterli colpire, ma Jess non colpì. Le due cose ritornarono nella valletta, ognuno dalla sua parte, poi giù fra la macchia e i rampicanti. Midge uscì in un grido bisbigliato, come se non riuscisse neppure a mandare fuori il fiato per urlare; e si arrampicò accanto a lui. «Cos'erano?», riuscì a dire. «Che cosa...». «Non lo so esattamente, Midge», le rispose. Ma cominciava a indovinare. Adesso i due gruppi di persone stavano venendo verso di loro. Jess e Midge rimasero ad aspettarli. Alla fine soppesò il paletto che teneva fra le
mani. «Ragazzo», stava dicendo suo padre, «cosa fai qui fuori?». «Vieni a casa, Midge», disse qualcuno dall'altra parte. Doveva essere Lee Mair. I due gruppi arrivarono e si fermarono sui due fianchi della valletta. Si guardarono l'un l'altro. Guardarono Midge e Jess. «Se siete venuti per sparare, su, sparate», disse Clay Warrick. «Io non posso, non dopo quello che mi è stato detto or ora». «Neppure io», disse Lee Mair. «Quella di spararci addosso è una cosa che non deve mai più succedere, mai più». Cominciarono a parlare tra loro due, e gli altri si unirono alla conversazione. Ad ambedue i gruppi, sia ai Mair che ai Warrick, era stato detto che non si doveva più sparare. Era stato Tobe Warrick a ordinarlo alla sua famiglia, e Burt Mair l'aveva comandato alla sua. «Mio padre ha detto che lui e Tobe Warrick sono stati l'uno vicino all'altro, inchiodati l'uno contro l'altro, per quello che è sembrato un milione di anni», disse il padre di Midge. «Mi ha detto che hanno imparato a conoscersi, sono diventati amici. Ha detto che anche noi, i vivi, dobbiamo essere amici; dobbiamo cominciare a guardarci in faccia». «Mio padre mi ha detto le stesse cose», riconobbe Clay Warrick. «Ha aggiunto che se non lo facciamo, lui e tuo padre torneranno a vedere perché mai non lo facciamo. E io non voglio che tornino, mai più». «Mai più», fece eco Lee Mair. I due padri erano adesso come sarebbero stati tanto tempo prima Tobe Warrick e Burt Mair, se qualcuno li avesse obbligati ad aprire gli occhi. «Ascoltatemi una buona volta», disse Jess. Si sentiva stanco, per cui appoggiò il bastone. «Come mai siete qui?». «È stata Haidee Bettisthorne», gli rispose suo padre. «È venuta a dirci che Midge Mair stava per attirarti in un'imboscata dove la sua gente ti avrebbe ucciso». «È quello che ha detto anche a noi», sbottò fuori Lee Mair «Giurava e spergiurava che Jess stava per uccidere Midge, e che avremmo fatto bene a precipitarci qui per salvarla». «Ha mentito a tutti e due», disse Clay Warrick. «Lee Mair, voleva che continuassimo a spargere disordini, liti e dolore. Solo per il gusto di farlo». «Dovremmo obbligarla a tagliare la corda, quella Haidee Bettisthorne, e che non si faccia più vedere», disse George, il fratello di Jess. Era la prima volta che apriva bocca.
Si misero tutti a chiacchierare. Com'erano tristi di essere sempre stati così feroci gli uni contro gli altri. Com'erano felici che non si fosse arrivati a una carneficina; come avrebbero voluto avere tra le mani Haidee Bettisthorne. Finalmente Jess tirò un profondo sospiro e lasciò cadere a terra il bastone. «E quello cos'è?», chiese suo padre, piegandosi a guardarlo. «Mah, è un vecchio ramo di robinia, grande quanto un paletto da palizzata». «L'ho preso laggiù, in mezzo alle viti», disse Jess. «Un bastone che era piantato là», disse dolcemente Midge. «È così». E così doveva essere: il ramo di robinia, che conficcato cinquant'anni prima in mezzo a Tobe Warrick e Burt Mair, dove erano morti lottando l'uno contro l'altro, per tenerli giù nella fossa. Il bastone che Jess aveva strappato via per lottare una battaglia di cui non aveva la minima idea. E, così facendo, li aveva lasciati liberi di uscire dalla fossa per parlare con la loro gente. E adesso erano ritornati laggiù, e forse erano in pace. Le cose cambiarono notevolmente, in meglio. Quando Jess e Midge si sposarono, Lee Mair accompagnò la sposa e Clay Warrick restò accanto a sua figlio. Nessuno, invece, fece niente a Haidee Bettisthorne, perché, quando andarono a cercarla, non riuscirono a trovarla da nessuna parte tra quelle montagne. Pareva che se ne fosse andata anche quella cosa, qualunque cosa fosse, che la aiutava e che non era il suo cane. Anche se ogni tanto qualcuno vede delle impronte buffe. Buffe sì, ma non ti fanno certo venir voglia di ridere. FINE