CECILIA DART-THORNTON LA RAGAZZA DELLA TORRE (The Ill-Made Mute, 2001) Le Terre Conosciute di Erith
Dedicato ai miei c...
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CECILIA DART-THORNTON LA RAGAZZA DELLA TORRE (The Ill-Made Mute, 2001) Le Terre Conosciute di Erith
Dedicato ai miei cari genitori, al mio meraviglioso marito e a tutta la mia famiglia acquisita, al mio amico e autore Paul Witcover, a Betsy Mitchell e a Martha Millard, e a Lizzie, che è stata la prima lettrice del manoscritto.
CECILIA DART-THORNTON 1 IL RITROVAMENTO
Muto, reietto e arido, una stranezza da incanto vincolata, questo io sono. Nell'argilla i piedi ho radicati, il cielo il mio sguardo fissa invano. Da Desiderio di volare, canto talith Senza inizio e senza fine, la pioggia cadeva incessante, simile a un tamburellare di dita impazienti. La creatura conosceva soltanto quel suono e l'ansito raspante del proprio respiro, non aveva idea della propria identità, né serbava ricordo di come fosse giunta in quel luogo, da cui uno scopo vago e informe la sospingeva verso l'alto, nell'oscurità, inducendola a strisciare su strati di pietra e in mezzo a rami grondanti. Talvolta dormiva o forse perdeva soltanto conoscenza. La pioggia smise di cadere. E il tempo continuò a scorrere.
Con arti sempre più rigidi, la creatura senza nome continuò a muoversi e, arrivata a un tratto di terreno pianeggiante, si sollevò sulle gambe tremanti e prese a camminare, mentre schegge di pensieri le vorticavano nella mente, simili a foglie morte. D'un tratto il terreno scomparve da sotto i suoi piedi ed essa precipitò, arrestandosi bruscamente, con una fitta di dolore lancinante, allorché un bracciale che le cingeva un polso s'impigliò in una sporgenza. Come un'esca appesa a un amo, rimase a penzolare lungo la parete dell'altura. A poco a poco, con uno sforzo enorme, la creatura sollevò l'altro braccio e, con dita dalle ossa sottili come quelle di un uccello, trovò il gancio di apertura e lo fece scattare; il bracciale si aprì ed essa cadde. Se fosse atterrata sulle rocce, sarebbe rimasta uccisa, una sorte forse più clemente... Rovinò invece su una verdeggiante macchia di edera paradossa e lì rimase per ore, priva di sensi, mentre i succhi infidi delle foglie velenose le aggredivano il viso. Quando si riprese, troppo debole per gridare, la creatura usò le sue ultime energie per strisciare lontano dai cespugli e girarsi verso il sole del mattino, rivolgendo al cielo il viso diventato orribile. Un piacevole, benefico calore prese a filtrare nella carne raggelata. Con distacco, come se stesse contemplando se stessa da molto lontano, la creatura percepì che la bocca le veniva aperta a forza e, nell'avvertire l'aroma del brodo caldo, inghiottì istintivamente. Quel liquido ricco e saporito scorreva lungo la sua gola e diffondeva nel suo corpo ondate di calore. La creatura bevve ancora un po', quindi ricadde all'indietro, esausta. Mentre il corpo cercava di tornare alla normalità, i pensieri della creatura si aggregarono per un breve istante, ed essa si aggrappò con tutte le sue forze a un'idea che non vorticò via insieme con le altre. Era la consapevolezza che, da quando riusciva a ricordare, le sue palpebre erano sempre state sigillate. Cercò allora di aprirle, ma invano. Cocciutamente, tentò ancora e, prima di essere risucchiata in uno stato d'incoscienza, riuscì a intravedere il volto di una vecchia, incorniciato da ciuffi di capelli bianchi, simili a zampe di ragno, che sfuggivano da sotto una cuffia macchiata. Seguirono millenni - o si trattò di giorni? Di minuti? - trascorsi in un caldo, confuso stato di dormiveglia. Di tanto in tanto la destavano per bere ed essa si ritrovava a fissare quel volto segnato da una rete di rughe e a percepire i primi, vaghi accenni di energia che riaffioravano nel suo corpo
devastato. Gradualmente, cominciò anche a individuare i muri, le coperte ruvide e il proprio pagliericcio, steso su un pavimento di lastre di pietra, accanto a una fonte di calore, una potente fornace dalla bocca di ferro che ardeva giorno e notte. Il volto, intorpidito, le prudeva. Poi, col riaffiorare della sensibilità, fu anche costretta a sopportare il puzzo delle coperte. Fuochisti entravano nella stanza, alimentavano la famelica fornace con pezzi di legno, sbattevano rumorosamente il portello di ferro, apostrofandosi in tono accusatorio, e se ne andavano. Bambini dagli arruffati e sporchi capelli castani venivano a fissare la creatura, tenendosi a distanza. La vecchia dai capelli bianchi diede un po' di brodo alla creatura che aveva scelto di assistere, parlandole in una lingua che le suonò incomprensibile. Limitandosi a fissarla, essa sussultò quando la vecchia la sollevò di peso, con tutte le coperte, e la trasportò in una piccola stanza, dove le tolse gli stracci che indossava e la depose in una tinozza piena di acqua tiepida. Con un senso di meraviglia, la creatura fissò il proprio corpo scheletrico che galleggiava, simile a un pallido pesce allungato, e percepì di essere una persona, dotata di braccia e di gambe, proprio come la vecchia, ma molto più giovane. Nel frattempo, la donna stava facendo ai suoi capelli qualcosa che essa non era in grado di vedere... Li stava lavando in un altro recipiente, posto alle spalle della tinozza, cospargendoli di sapone profumato e sciacquandoli ripetutamente. La donna procedette quindi ad abbigliare la creatura che aveva salvato con indumenti di un anonimo color seppia: calzoni spessi, una casacca dalle maniche lunghe, un giustacuore lungo fino alle cosce e trattenuto in vita da una cintura di corda. Le infilò anche un indumento dotato di un pesante cappuccio a punta e con un ampio colletto, che permetteva di farlo pendere sulle spalle, lasciando la testa nuda. Intorno al collo, sotto il colletto, la vecchia legò un laccio di cuoio cui era appeso un amuleto di legno di sorbo, rozzamente intagliato nella forma di un galletto. Una volta pulita, la creatura rimase seduta a gambe incrociate, remissiva e obbediente, mentre le dita nodose della vecchia le pettinavano i capelli corti fino ad asciugarli. Sconcertata, debole, essa si portò alla testa la mano scheletrica, poi spostò le dita ossute sul proprio volto. Non avvertiva nessuna sensazione, tranne un lieve fastidio, e percepì una serie di sporgenze e di rientranze grottesche: una fronte ossuta e prominente, labbra spesse, un naso asimmetrico a cipolla, guance simili a sacchi di ghiande. Le lacrime salirono a colmarle gli occhi, ma la sua benefattrice, che stava borbottando tra sé, non
parve accorgersi della dolorosa profondità della sua umiliazione. Gradualmente, il tempo venne scandito dal succedersi di giorni e di notti. Poi le giornate si suddivisero in un'alternanza di mangiare, dormire e affrontare le estenuanti inezie dell'esistenza. La vecchia dai capelli ispidi, simili a zampe di ragno, puntò verso se stessa un tozzo pollice. «Grethet», ripeté. Si era infine resa conto che quella creatura non era sorda. Pervasa di un'immediata gratitudine per quel primo tentativo di comunicazione, la creatura aprì la bocca per rispondere. Ma non riuscì a emettere suono. Si ritrovò a bocca aperta, in preda alla più assoluta incredulità e a un terribile senso di vuoto. Aveva dimenticato come parlare. O forse non lo aveva mai saputo. Freneticamente, cercò nei propri ricordi e fu allora che, per la prima volta, la disperazione si abbatté su di lei Non c'erano ricordi. Non ce n'era nessuno. Nella torrida stanza della fornace, la creatura, pallida e debole, rimase per metà della notte a fissare l'oscurità. Ma, con sgomento, non riuscì a far affiorare nessun ricordo e neppure a rammentare il suo nome. Sempre ammesso che ne avesse avuto uno. A mano a mano che i giorni passavano, permeati di sconcerto, i suoni privi di senso degli altri cominciarono a trasformarsi in parole vagamente comprensibili. Per quanto ancora confusa, la creatura confrontò l'abbigliamento di coloro che aveva intorno con gli indumenti che Grethet le aveva messo addosso e si convinse di appartenere al sesso maschile. Era pur sempre un'identità, per quanto generica, quindi era una cosa da tenere stretta e da proteggere, un fatto concreto in una palude d'incertezza. E scoprì pure che la sua presenza in quel luogo non era gradita. Per quanto incapace d'intuire o di comprendere più della metà di quanto dicevano, il giovane deforme non ebbe difficoltà a riconoscere il disgusto, il disprezzo e addirittura l'odio che le persone in mezzo alle quali viveva manifestavano nei suoi confronti. I bambini gli sputavano addosso e lui si raggomitolava, riducendosi a un mucchietto ossuto, in un angolo della stanza della fornace. Non arrivavano a pizzicarlo - come del resto facevano tra loro - soltanto perché lo consideravano troppo disgustoso per avvicinar-
si. Quanto agli uomini e alle donne, in genere lo ignoravano; le rare volte in cui dimostravano di accorgersi di lui, rimproveravano freddamente Grethet per averlo portato lì. A quelle proteste, la vecchia sembrava non dar peso, benché talvolta reagisse indicando i capelli dello straniero, quasi in un gesto di autodifesa, invitando gli altri a esaminarli con maggiore attenzione. Il giovane non riusciva davvero a immaginare quale importanza potessero avere. La vecchia comunque era una donna decisa, che non si lasciava piegare da nessuno. E il trovatello non s'illudeva certo di essere benvoluto da lei. Quella donna era gentile, sì, ma in un modo freddo e distaccato e, per quanto lui le dovesse la vita, era sicuro che lei ne avrebbe tratto prima o poi qualche vantaggio. Del resto, come ebbe ben presto modo di apprendere, agire in maniera egoistica era l'unico modo per sopravvivere in quel luogo. Che cos'era quel luogo? Il giovane conosceva soltanto la stanza senza finestre che ospitava la fornace, con la sua enorme catasta di legna, nella quale i ragni s'infilavano, nascondendo il corpo lucido e lasciando esposte soltanto le punte delle zampe, in file di quattro. Le pareti nere della stanza erano costituite da blocchi di roccia tagliata rozzamente, che scintillavano di una miriade di punte d'argento alla luce del fuoco; un angolo, poi, ospitava le pesanti molle per il fuoco, gli attizzatoi e gli altri attrezzi con cui Grethet ravvivava le fiamme, dopo che gli uomini le avevano alimentate, parecchie volte al giorno. In quel luogo, gli uomini indossavano tutti la stessa misera sopravveste, legata all'altezza della vita, con quello strano, pesante cappuccio che veniva lasciato pendere sulle spalle. Tutti avevano i capelli corti, di un marrone simile a quello del legno. Alcuni portavano la barba. Tutti ignoravano lo straniero nello stesso modo in cui ignoravano le altre creature striscianti che sbucavano dalla catasta della legna o che, poco saggiamente, restavano nascoste al suo interno, finendo così per accartocciarsi tra le fiamme in una silenziosa agonia, simili a foglie secche. I bambini si divertivano a insinuare bastoncini nella catasta, disturbando insetti e ragni che uscivano e si sparpagliavano all'intorno correndo freneticamente. Dimostrando una singolare mancanza di emozione, i marmocchi prendevano allora a saltellare in modo convulso, pestando i piedi e, quando avevano finito, lasciavano sulla pietra nera del pavimento, con la sua picchiettatura scintillante, un vago, quasi invisibile disegno di cefalo-
toraci e di carapaci infranti, simili a orchidee pressate. Le creature inferiori avevano davvero poche speranze. Per la maggior parte del tempo, Grethet non c'era. D'un tratto, poi, riappariva per occuparsi del fuoco, portando talvolta con sé del cibo. Allora si chinava bruscamente verso il suo protetto, così vicina da indurlo a ritrarsi per via del suo alito maleodorante. «Ragazzo», sussurrava. «Tu, ragazzo. Fa' quello che ti dico. È meglio per te.» Ancora debole, il giovane era grato di poter essere lasciato in pace, sdraiato al caldo, ascoltando il martellare del cuore nel petto, magro come quello di un uccello, e scivolando a tratti in un sonno senza sogni indotto dallo sfinimento. Proprio come un neonato, lui era stato trovato con gli occhi chiusi al mondo, e quel ritrovamento stava alla base del suo essere vivo. Al contrario di un neonato, però, lui aveva qualcosa di più di un semplice, grezzo istinto. La mente aveva dimenticato, però il suo corpo rammentava ancora. Esso ospitava un'ampia, per quanto elementare, comprensione del mondo: poteva distinguere il caldo dal freddo, l'alto dal basso, la luce dall'oscurità, senza doverli sperimentare... Forse aveva dimenticato i suoni verbali corrispondenti a quelle sensazioni, però sapeva distinguere un'espressione accigliata da una sogghignante; sapeva che l'improvviso gonfiarsi di una vena alle tempie o il serrarsi della mascella preannunciava un calcio o un'altra percossa; sapeva camminare, lavorare e nutrirsi come se fosse stato normale, come se fosse stato uno di loro. Ma non lo era. Mancava qualcosa di rilevante: l'insieme del suo passato. Senza ricordi, era soltanto un guscio, un automa. Alcune notti, si riscuoteva parzialmente dal sonno a causa di un formicolio che gli correva lungo la spina dorsale e che gli dava i brividi. In certi giorni, quella stessa sensazione era percepibile nell'aria e gli accendeva il sangue come un potente liquore. Ma quelle strane esperienze si dissolvevano in genere in un paio d'ore e, col tempo, lui vi si abituò e smise di badarvi. Dopotutto, era un fenomeno che proveniva dall'esterno e, per il momento, l'esterno era fuori della sua portata. E tuttavia esso lo chiamava, ed erano molti i suoni che dall'esterno gli giungevano all'orecchio... Voci, una distante fanfara di trombe argentine, grida, passi pesanti di piedi calzati di stivali, l'abbaiare dei cani e spesso, molto spesso, un tamburellare di zoccoli sugli sfaccettati piani di pietra nera che scintillavano come un cielo punteggiato di stelle. Una notte, svegliato da quei rumori, il giovane strisciò sulle gambe tre-
manti fino a un magazzino che si trovava lì accanto e, attraverso la fenditura di una finestra che si apriva nella spessa parete di pietra, riuscì a intravedere una luna rotonda, di un colore tra il rosso e l'oro; per un istante, gli parve altresì di scorgere una figura che volava davanti all'astro. Presto - troppo presto per i gusti e per le forze del giovane senza nome la sua benefattrice decise che lui stava abbastanza bene da poter svolgere alcuni lavoretti e lo trascinò fuori del suo mucchio di coperte. Gli ordinò quindi di spazzare i pavimenti, di aiutare le lavandaie e di pulire gli innumerevoli, ingegnosi strumenti d'illuminazione che si erano accumulati lì nel corso degli anni: candelabri e bugie d'ottone, spegnimoccoli, stampi per la cera, scatole per candele, coltelli per tagliare gli stoppini, paralumi, lampade... Le gambe gli tremavano di continuo e talvolta gli capitava quasi di svenire per la fatica. Inoltre, dato che la stanchezza e la scarsa familiarità con quei lavori lo rendevano lento, Grethet qualche volta perdeva la pazienza e gli assestava uno scappellotto. La prima volta, il giovane ne rimase profondamente sconvolto e la fissò con espressione inorridita, muovendo le labbra in silenziose parole di protesta. Sul volto della vecchia affiorò allora un'aria colpevole, che tuttavia venne subito sostituita da un'espressione spietata. E al primo schiaffo ne seguì un secondo, più deciso. A mano a mano che i giorni si susseguivano, sempre uguali, simili a una fila di grigi mendicanti, il giovane si abituò ai suoi colpi leggeri ma decisi e al suo tono aspro. Ma durante la notte, quand'era solo, piangeva per la sofferenza che quella mancanza di affetto gli provocava. Rinvigorito dal cibo, dal sonno e dal calore, col tempo ritrovò le forze. E cominciò ad afferrare le parole degli altri servitori che vivevano e lavoravano lì; nel contempo, cominciò a «parlare» con Grethet, servendosi di semplici gesti dal significato universale. «Nasconditi», lo tormentava di continuo la vecchia. «Sei un ragazzo deforme. Copriti, e gli altri non lo vedranno.» Come sono giunto qui? Chi sono? Il ragazzo avrebbe voluto porre quelle domande, ma non era capace di formularle coi gesti. Ma, tenendo gli occhi e le orecchie ben aperti, ebbe modo di apprendere altre cose. E una legge in particolare l'aveva appresa subito. Infelice, piegato dalla stanchezza, stava spazzando via i filamenti di stoffa rimasti sul pavimento delle lavanderie. Ma il vapore permeava l'aria fino a renderla irrespirabile. Allora lui aveva spinto all'indietro il pesante cap-
puccio, liberando i capelli umidi di sudore; tuttavia, proprio mentre esalava un sospiro soddisfatto, un bastone si era abbattuto sulle sue spalle. Non potendo urlare, aveva sussultato violentemente. «Il cappuccio sulla... testa!» aveva urlato la capo lavandaia, purpurea in volto come una prugna matura. «Mai toglierlo, hai capito?» Indossare sempre il cappuccio non era soltanto una regola: disobbedire costituiva un crimine, punibile con percosse e privazioni. Bisognava portare il pesante cappuccio costantemente sollevato e legato intorno al collo: era una cosa importante soprattutto se si era all'esterno. Più tardi, Grethet l'aveva preso in disparte e, indicando una finestra a feritoia, gli aveva detto: «Esterno...» Poi, sempre usando quel linguaggio semplificato, aveva aggiunto: «L'esterno. Quando sei all'esterno, indossa il cappuccio. Sempre». Afferratolo per le braccia, gli aveva assestato una leggera scrollata per enfatizzare le sue parole, poi aveva stretto i lacci del cappuccio, concludendo con uno strattone che per poco non lo aveva strangolato. «Legalo stretto... In questo modo.» Il ragazzo aveva già esaminato il suo semplice cappuccio color fango, scoprendo il motivo della sua strana pesantezza: tra la stoffa esterna e la fodera era inserita una sottile maglia di metallo, che si sentiva attraverso la stoffa, ma di cui lui non riusciva a capire lo scopo. Mentre sbrigava le sue incombenze nelle sale buie e nei magazzini colmi, a poco a poco il trovatello si rese conto che la sua vita si svolgeva nei piani più bassi di una struttura alquanto vasta e complessa. Una volta, Grethet lo mandò in una delle cucine a prendere del pane, ma, non appena lui ebbe messo piede in quella fragrante, fumosa caverna, uno dei sottocamerieri si accorse di lui e lanciò un urlo di rabbia. Tuttavia il ragazzo senza nome era ormai abituato alle reazioni violente e indignate che si levavano al suo arrivo. Quell'accoglienza faceva parte della sua istruzione. «Esci di qui!» gli ingiunse il sottocameriere, brandendo un mestolo. «Non puoi entrare nelle cucine!» Mentre veniva inseguito lungo il passaggio, il ragazzo sentì un paio di sguattere che cercavano di soffocare una risatina. «Il suo aspetto orribile potrebbe far svenire la cuoca dentro la zuppa», commentò una delle due. «Un incidente del genere potrebbe migliorarne il sapore», ribatté l'altra. Se pure il suo aspetto gli vietava l'accesso ad alcune zone, all'interno dell'edificio c'era comunque una quantità di altri lavori che lui poteva svolgere.
Soltanto lucidare le finiture in ottone delle porte richiedeva una fatica non indifferente: c'erano pomoli e maniglie, piastre delle serrature e piastre decorative su cui era inciso lo stemma zigzagante del fulmine, coperture per le serrature altrettanto elaborate, cardini, finiture in rame lavorato e fermaporte in ferro battuto che avevano la forma di stemmi nobiliari. Talvolta, mentre lavorava, il giovane intravedeva il riflesso di un volto mostruoso che lo fissava dalla superficie convessa dei pomoli scintillanti e, con un senso di sgomento, capiva che quello era il suo viso. Se Grethet sospettava che il giovane avesse un po' di tempo libero, allora si metteva a elencare tutta una serie di attività con cui poteva proficuamente impegnarlo. E, siccome ormai lui capiva benissimo ciò che gli veniva detto, non aveva modo di sottrarsi. «Lucida i candelabri di bronzo a parete!» ingiungeva la vecchia. «Passa la cera sui mobili! Lava i pavimenti! Pulisci l'argento di seconda scelta, spazza via la cenere dai focolari e ripulisci le grate dalla fuliggine!» E lui sfregava, lavava e spazzava, lucidando i vassoi, i piatti e gli eleganti campanelli utilizzati per convocare i servitori di rango più elevato. Una volta, perso nel labirinto di passaggi e di scale, il ragazzo senza nome si ritrovò a un livello per lui ancora ignoto della sua casa-prigione. Si era avventurato più in alto del solito, seguendo una scala che non conosceva e, con suo stupore, nel salire l'ultimo gradino si ritrovò in un corridoio decorato da eleganti arazzi e rischiarato dall'intensa luce dorata di lampade di filigrana. Pesanti rettangoli di stoffa coprivano le pareti dal soffitto al pavimento. Su di essi erano raffigurate splendide immagini di foreste, montagne, battaglie, giardini... Tutte cose che il ragazzo riconobbe grazie a una sorta d'istinto, benché fosse incapace di ricordare se le avesse già viste. A un esame più ravvicinato, comprese poi che quei paesaggi erano stati realizzati con innumerevoli, minuscoli punti di filo colorato. D'un tratto, da un punto più lontano del corridoio, giunse una voce che lo gettò nel panico. Sapeva bene che non doveva trovarsi lì, e intuì che, se fosse stato sorpreso, sarebbe stato severamente punito. Non aveva il tempo di tornare di corsa fino alla scala e allora sgusciò silenziosamente dietro l'arazzo più vicino, appiattendosi contro la fredda parete di pietra. Di lì a poco, apparvero due uomini che avanzavano con passo tranquillo. Entrambi erano abbigliati in modo semplice, ma con stoffe costose: il primo tutto in velluto nero bordato in argento, e il secondo in un broccato tinto dei colori di un tramonto estivo.
«... la parte inferiore della struttura, occupata dai servi, è stata ricavata molto tempo fa da un massiccio bastione di viva roccia», stava dicendo con solennità il primo uomo. «Quei livelli sono un labirinto di grotte naturali e di gallerie estese mediante scavi, mentre i livelli superiori, riservati esclusivamente a noi, sono realizzati con enormi blocchi di dominite, ricavati appunto da quegli scavi. Scale interne ed esterne salgono a spirale a collegare i diversi livelli, ma naturalmente noi del Casato ci spostiamo soltanto con gli elevatori!» «Allora a cosa servono le scale?» domandò l'altro uomo, dimostrando una notevole mancanza di acume. Con fare magnanimo, il primo nobile continuò a fornire spiegazioni, agitando le mani pallide per dare enfasi alle proprie parole, mentre il servo nascosto dietro gli arazzi tremava. «I servitori sono organizzati secondo una complicata gerarchia. A quelli di rango inferiore è proibito salire e scendere i livelli servendosi degli affollati elevatori, per cui devono usare per forza le scale, che raggiungono il terreno nei pressi di un'uscita accanto alle grotte riservate alle capre domestiche. Avendo il divieto di sconfinare nelle parti più alte della Torre, essi trascorrono la loro squallida esistenza di lavoro lontano dalla vista di chi è loro superiore. Soltanto ai servi di rango più alto è permesso assistere i nobili e le dame della Torre. Essi utilizzano le scale superiori oppure, in rare occasioni, gli elevatori.» Il nobile si schiarì la gola, quindi proseguì: «Mio caro mercante, venendo da una zona ricca di sorgenti sotterranee di acqua calda, senza dubbio v'interesserà vedere come qui, alla Torre di Isse, si riscalda l'acqua per i Corrieri e le nostre profumate dame». La risposta del mercante fu un semplice grugnito. «Qui, ai piani superiori, tutto il riscaldamento viene realizzato mediante un'ingegnosa fornace.» «Straordinario», borbottò l'ospite vestito d'arancione. «Straordinario, dite? No, tutt'altro», lo contraddisse il nobile in nero e argento. «Dopotutto, la Torre di Isse è la principale fortezza di una dinastia antica e potente, seconda soltanto al Casato Reale. Noi del Settimo Casato dei Cavalieri della Tempesta meritiamo soltanto servizi eccezionali!» «Servizi che, senza dubbio, saranno ampiamente meritati, considerato che siete costretti ad abitare su un'isola del genere, circondati da creature ultraterrene e da lande desolate», commentò il visitatore, in tono piuttosto acido. «Di certo, voi e i vostri servi potrete uscire dalla Torre solo di rado, o addirittura mai, a meno di non farlo con carovane ben protette.»
«Oh, nient'affatto, andiamo e veniamo a nostro piacimento sulle vie del cielo», esclamò il nobile. «E che importa ai servi cosa c'è all'esterno? Temerlo, va soltanto a loro vantaggio, considerato che qui sono al sicuro e ben nutriti... anzi fin troppo ben nutriti, per il poco lavoro che svolgono, quei pigri ghiottoni! Che bisogno hanno di andarsene in giro?» Le voci si erano fatte sempre più fievoli, e il tremante e involontario ascoltatore ne dedusse che i due dovevano aver invertito la loro direzione e si stavano allontanando da lui; quando infine il suono della conversazione si fu ridotto a un sussurro, il ragazzo si azzardò a sbirciare da dietro l'arazzo e, non appena ebbe constatato che il nobile e il mercante si erano allontanati dal corridoio, uscì dal suo nascondiglio e si lanciò lungo le scale. Ma orientarsi non fu facile. Setacciò freneticamente il livello sottostante, cercando d'individuare un passaggio o una galleria familiari. Era certo che chiunque gli avrebbe potuto indicare con la massima prontezza la via per tornare al Livello Cinque, tuttavia preferiva ritrovare la strada da solo... E infatti, quando sentì avvicinarsi un'altra voce, si nascose di nuovo, insinuandosi in una buia rientranza della parete, tra due colonne di pietra che sostenevano le volte ad arco. Scorse così Mullet il Matto, il trasportatore di concime. Il suo compito era prelevare gli scarti di verdura dalle cucine e portarli al livello del terreno, dove venivano mescolati al letame degli animali, formando così un intruglio utile ai giardinieri per concimare gli orti. Come al solito, il suo approssimarsi fu preannunciato dall'odore e da uno strano borbottio indistinto. Mullet farfugliava sempre così e non si curava affatto del rivolo di saliva che gli colava dalla bocca. Del resto, il suo soprannome non lasciava dubbi: quel poveretto era davvero pazzo. Eppure, a causa del suo atteggiamento orgoglioso e dei suoi lineamenti regolari e addirittura attraenti, nella gerarchia dei servitori Mullet occupava una posizione più elevata rispetto al ragazzo deforme... Una cosa che non gli importava minimamente. Borbottando, cantilenando e cantando con una strana tonalità acuta nella voce, Mullet il Matto passò molto vicino al punto in cui il ragazzo stava accoccolato, cercando disperatamente di farsi passare per una scultura grottesca che decorasse la parete. Nell'osservarlo, il ragazzo si accorse che i suoi occhi apparivano sfocati e vacui, come se fissassero un oggetto lontano che nessuno, tranne un pazzo, poteva vedere. Dato che Mullet talvolta scendeva al livello delle fornaci, il ragazzo, in punta di piedi, si avviò per seguirlo, nella speranza che gli indicasse la
strada per tornare al Livello Cinque. I due procedettero a lungo nel dedalo di passaggi, senza che Mullet il Matto si guardasse mai indietro o mostrasse la minima esitazione nel dirigersi verso la sua meta, che tuttavia non era quella sperata dal ragazzo. Poi, senza preavviso, una folata di aria pura e fredda investì entrambi, e la luce si riversò su di loro come un cristallo azzurro. Si ritrovarono su una balconata pavimentata in pietra, vasta e liscia come il pavimento di una sala da ballo. Per la prima volta, il ragazzo era all'esterno. Sbalordito, per un istante il giovane dimenticò che si stava nascondendo a Mullet il Matto e avanzò, incerto, fino al limitare della balconata, spingendo lo sguardo verso l'orizzonte e cercando di fissare quella scena nella mente. Guardò verso il basso, da sinistra a destra, e infine sollevò la testa, incurvando il collo per scoprire che cosa incombesse sopra di lui. Edificata sulla riva del mare, la fortezza di dominite, nera e scintillante, incombeva al di sopra della foresta che la circondava per un'altezza di oltre quaranta livelli. Coronata di torrette, bastioni, camini e snelle torri di guardia, essa era definita da strutture cinte da mura, fiancheggiate, su un lato, da un porto e, sull'altro, da una distesa infinita di alberi. Numerose altre balconate sporgevano dalle lisce pareti esterne, nelle quali si aprivano anche numerose porte ad arco, dotate di piattaforme sporgenti, disposte ad altezze diverse. A una notevole distanza dal suolo, al Livello Sette, la struttura si restringeva bruscamente sul lato occidentale, come una sorta di scala gigantesca, creando un'ampia piattaforma che terminava nel vuoto e che non era dotata di parapetto o di balaustra. C'erano invece numerose colonnette dalla sommità rivestita in ferro, disposte a intervalli regolari lungo il perimetro della piattaforma. Le pareti esterne della Torre scendevano vertiginosamente fino al suolo, che, il ragazzo valutò, si trovava ad almeno cento piedi. Ed era lì, sull'orlo di quel baratro, che lui si trovava. Nel momento stesso in cui se ne rese conto, il ragazzo si ricordò dell'uomo accanto a lui. Ma un istante dopo Mullet il Matto non era più al suo fianco. Tutto allegro, si era lanciato oltre il bordo della piattaforma, precipitando incontro alla morte, mentre gridava con voce nitida: «Posso volare!» Come gli capitò di sentire in seguito, «voli» del genere erano tutt'altro che rari.
2 IL CASATO DEI CAVALIERI DELLA TEMPESTA STORIA E DOLORI
Non rammentato, ieri è ormai sparito. Senza ieri, oggi non ha senso. Chi sei tu, se sei dimenticato? Chi sei tu, se non la somma dei tuoi ricordi? Canto ertish Pur essendo murato all'interno dello spazio buio e soffocante della Torre, pur senza informazioni di sorta e pur impegnato a lottare per comprendere la propria situazione, il trovatello ormai sapeva che, in qualche modo, l'esistenza dei Casati dei Cavalieri della Tempesta era imperniata sui cavalli. Rumori di cavalli - di ogni genere e da qualsiasi direzione - riecheggiavano nelle grotte di dominite; il loro odore intenso, proveniente dall'esterno, giungeva a tratti alle narici, ed era spesso accompagnato da un odore ancora più intenso e acre, simile a quello prodotto dagli uccelli in gabbia. Cavalli venivano trasportati dalle torrette negli elevatori, e tenuti negli stallaggi ai piani superiori. Ma, soltanto allorché cominciò a lavorare all'esterno, quell'infimo servitore del Casato riuscì infine a dare una spiegazione a tutti quei fenomeni. Una mattina, il ragazzo senza nome venne mandato all'esterno, su una balconata, per sbattere i tappeti e liberarli dalla polvere. Nubi cumuliformi dalla base piatta si spostavano tranquille nel cielo, simili a bolle di sapone galleggianti su un'acqua invisibile. I loro bordi sfrangiati erano tinti d'oro dalla luce dell'alba. Dall'alto della balconata, esse parevano quasi al livello degli occhi. Era la prima volta che il ragazzo si avventurava davvero all'aria aperta e, tremante per l'eccitazione, si affacciò ai bastioni e spinse lo sguardo verso il basso, dove scorse le varie parti della tenuta come se fossero state dipinte su una mappa: gli orti, i giardini trascurati, le stalle, i
cortili di addestramento, la sala del Mago, tratti di strada sterrata che apparivano tra il fogliame... I cavalli vagavano nei pascoli, sulle piste e sui cortili di addestramento e nelle stalle, e tutti sembravano avere coppie di panieri appesi su entrambi i fianchi, anche se da quella distanza non era possibile determinare cosa contenessero. Dall'altra parte si allargava un'ampia e piatta distesa d'acqua: il Porto di Isse, scintillante come seta rosa e oro sotto la luce del mattino. Dalla riva sporgeva un molo retto da pilastri di marmo che si protendeva per un lungo tratto nella baia, con attracchi e moli minori disposti a intervalli. Ancora saldi e resistenti dopo innumerevoli secoli di vita, i moli del Porto di Isse si erano rivelati una meraviglia d'ingegneria, memento dei talenti perduti che risalivano ai giorni gloriosi di un lontano passato. Là gettavano l'ancora le Navi d'Acqua che solcavano il mare, splendidi uccelli dalle ali di giglio che giungevano da terre remote per trovare rifugio in quel nido sicuro, sia pure per breve tempo. Quelle navi portavano notizie e merci, e le loro stive erano piene di carne in salamoia, di grosse forme di formaggio, di balle di stoffa, di sacchi di farina e di fagioli, di botti di vino e di liquori, di orci di pietra pieni di miele, di frutta secca o conservata, di carne secca, di lupinella, di foraggio; c'erano poi cuoio, pentole e vasellame, boccali e porcellane, profumi, essenze, spezie, zafferano, tessuto da ricamo, muschio, mussola, robbia, porporina, gomma, cera e ogni altro tipo di merce immaginabile. Gli occhi sgranati del giovane si spostarono poi verso nordovest, dove dolci colline alberate si allontanavano verso l'orizzonte, avvolto in un candido velo di caligine. Si diceva che, sotto l'innocuo tetto di foglie della foresta, vagasse ogni sorta di creature soprannaturali, seelie e unseelie, ma, per quanto sondasse con lo sguardo, il ragazzo non riuscì a scorgere traccia della loro presenza, anche se gli era giunta voce che, nelle vicinanze, sempre a nord-ovest, c'era un lago vulcanico abitato da fantasmi, e che ad appena due miglia dal mare, verso est, si poteva scorgere un fenomeno assai sconcertante: i resti di un'antica Nave d'Acqua, incastrata in una fenditura tra due colline. Se quelle leggende erano vere, allora l'Impero di Erith doveva essere davvero un luogo straordinario e pericoloso. Una brezza lieve come il tocco di una sciarpa di seta saliva dalla foresta; verso sud, i gabbiani volavano in cerchio sopra il Porto di Isse. Cominciando a sbattere i tappeti, il giovane produsse sciami di polvere che si librò nell'aria, facendolo starnutire più volte e con violenza. E, mentre lui si appoggiava al parapetto per riprendersi, il suo sguardo, velato di lacri-
me, si posò su uno spettacolo così sorprendente da convincerlo che gli starnuti gli avevano fatto schizzare il cervello fuori delle narici. In un primo momento, gli era parso di scorgere in lontananza, alta nel cielo, la sagoma di un grosso uccello - forse un'aquila o un albatross - che si avvicinava in volo da sudest. A mano a mano che si faceva più vicina, però, la sagoma mutò, diventando quella di un cavallo alato e del suo cavaliere che galoppavano attraverso le nuvole, diretti alla fortezza. Sconcertato, il giovane sbatté le palpebre e scosse la testa, ma una seconda occhiata dissipò in lui ogni dubbio sul fatto che quella non era affatto una visione. La testa del cavaliere era il teschio di un mostro, a meno che non fosse coperta da un elmo alato che proteggeva interamente il viso. Dietro la sella erano visibili due sacche gonfie, coperte dal mantello che si agitava al vento. Sotto il cavaliere, il cavallo-uccello procedeva spedito, ma con un passo strano e innaturale, posando gli zoccoli in modo rapido e preciso appena sotto il livello di condensa delle nuvole e sbattendo contemporaneamente le ali in lunghi archi aggraziati. Accasciandosi contro il parapetto, il giovane fissò quell'apparizione con occhi sgranati, sentendo il sangue che gli defluiva dalla testa. Quasi svenne per lo stupore. Se i cavalli avevano le ali e potevano volare, allora il mondo si era davvero ribaltato! Stava ancora fissando quello spettacolo a bocca aperta - con un'espressione che lo rendeva simile a un doccione -, quando sui bastioni riecheggiò una fanfara di trombe d'argento, che fendette l'aria del mattino con lunghe note vibranti. Allora il cavaliere raggiunse uno dei piani superiori della fortezza e si posò su una delle piattaforme che sporgevano dalle mura esterne. Col cuore che sussultava come quello di un coniglio spaventato, il ragazzo si accasciò sulle ginocchia ossute; subito dopo, però, ricordandosi del suo incarico e di come sarebbe stato percosso peggio di un tappeto se fosse stato scoperto a oziare, si affrettò a sbattere i tappeti, provocando altre nubi di polvere e ulteriori crisi di starnuti. Finalmente riusciva a dare un significato al termine che aveva sentito pronunciare tanto spesso: «eotauro». Quella parola si riferiva senza dubbio ai possenti Cavalli Celesti dotati di corna, orgoglio dei Cavalieri della Tempesta. E quella non sarebbe stata l'unica meraviglia che avrebbe scoperto. Essere evitato e ignorato aveva anche qualche vantaggio: il giovane poteva infatti circolare pressoché inosservato nel labirinto costituito dall'interno della Torre. E lui capì ben presto che essere così insignificante a-
vrebbe favorito la sua istruzione. Una volta, dopo essere sfuggito a Grethet e aver trovato un angolino della dispensa in cui poter sonnecchiare indisturbato, venne svegliato da un suono simile al tubare di due colombi. Vide così una cameriera seduta su una botte di sidro, non lontano da dove si trovava lui. «... portato notizie dalla Namarre», stava sussurrando la madre alla bambina che aveva in grembo. «L'ho sentito dire da una delle cameriere dei livelli superiori.» «Dov'è la Namarre?» chiese la piccola, appoggiando la testolina contro la spalla della madre. «È molto lontana.» «Gli eotauri devono essere davvero forti, per riuscire a galoppare così lontano.» «Neppure il più possente ha la forza necessaria a percorrere tutta la distanza da qui alla Namarre senza riposare», replicò la madre, scuotendo il capo. «Le lettere e gli altri carichi aerei vengono trasferiti a tappe. La Torre di Isse è una Stazione di Collegamento.» «Cos'è una Stazione di Collegamento?» «È una delle postazioni di rifornimento dove s'incontrano i Corrieri diretti all'interno e all'esterno. Alle Stazioni di Collegamento, i Corrieri e le cavalcature in arrivo si scambiano con altri riposati, mentre valori e messaggi passano di mano.» «Oh», mormorò la bambina, delusa. «Ci sono molte Stazioni? Credevo che la Torre di Isse fosse importante.» «Ma certo che è importante. Fa parte di una rete di Stazioni di Collegamento e di Torri d'Interscambio, che sono i crocevia per le reti di comunicazione che abbracciano tutte le terre del mondo, al di sopra dei pericoli che infestano le strade di terra.» La bambina rifletté per un momento. «E i Cavalieri della Tempesta sono i nobili più importanti di tutta Erith, vero?» domandò infine. «A parte il Re-Imperatore, naturalmente.» «Sono aristocratici, sì», replicò la madre, accarezzandole i capelli. «Ma alla Corte del Re-Imperatore ci sono altri nobili che sono considerati altrettanto importanti. Ora però taci, perché non dobbiamo parlare così di chi ci è superiore.» Il trovatello aveva ormai appreso che i Cavalieri della Tempesta erano effettivamente pari del regno... una casta esclusiva, i cui membri erano
maestri nella loro professione. Senza i cavalieri, i messaggi non potevano essere trasferiti; senza di essi, piccoli carichi preziosi non potevano essere inoltrati da una città a un'altra, dai centri minerari e dai villaggi più grandi. Il mestiere dei Cavalieri della Tempesta era faticoso, ed era appannaggio esclusivo dei dodici Casati. Il fatto che i suoi padroni attraversassero i cieli di Erith aveva ben poca importanza per lui. Tra l'incudine del lavoro quotidiano e il martello della sofferenza, la sua vita si trascinava faticosamente. Nella Torre i viveri abbondavano, ma lui non ne riceveva che una porzione insignificante, e spesso perfino quella gli veniva negata o rubata, per cui un senso di vuoto gli tormentava sempre lo stomaco, che sembrava pieno di piccoli granchi famelici. La maggior parte dei servitori lo ignorava, alcuni lo evitavano, mentre altri nutrivano nei suoi confronti una spiccata antipatia. Non importava quanto fosse obbediente o cercasse di compiacerli: trovavano sempre qualcosa di cui incolparlo. Lo punivano di continuo e lo tormentavano, al punto che il ragazzo li temeva con ogni fibra del suo essere e, al loro avvicinarsi, si faceva piccolo piccolo, mettendosi a tremare fin nelle ossa. Non esisteva possibilità di appello contro gli abusi e le sofferenze che gli infliggevano; lui poteva soltanto sopportare in silenzio e, col tempo, finì per abituarsi a quel continuo, sordo dolore provocato dai lividi e dai tagli che si procurava ogni volta che finiva a terra o veniva scagliato contro qualcosa. Essendo ormai chiaro che quel nuovo venuto era un deficiente, nessuno faceva il minimo sforzo per comunicare con lui e tantomeno per insegnargli qualcosa. Nessuno era neppure vagamente gentile con lui, a parte la figlia della Custode delle Chiavi, che tuttavia non poteva aiutarlo in modo concreto. Il suo nome era Caitri ed era molto giovane... aveva forse dodici estati. Lo aveva incontrato mentre lui, impegnato a incerare gli stipiti di legno, si era messo a piangere, cosicché la cera si mescolava alle sue lacrime. Come gli altri, anche lei in un primo momento si era ritratta di fronte alla sua bruttezza, ma, superato lo sconcerto, la sua espressione si era addolcita, come se quell'essere non fosse un idiota deforme, ma un animale ferito e bisognoso di aiuto. «Perché piangi?» gli aveva chiesto. Non potendo parlare, lui si era limitato a scuotere il capo, ma Caitri aveva notato come il suo ventre apparisse incavato sotto la tunica. Così, da
allora, ogni tanto gli portava qualche pezzo di pane secco o una mela avvizzita. La ragazzina era inoltre l'unica che parlasse veramente con lui, ed era stata lei a spiegargli cos'erano le Navi del Vento, quei maestosi velieri che solcavano i cieli e che attraccavano alla Torre di Isse. I doveri di Caitri la tenevano però lontana dal Livello Cinque per la maggior parte del tempo, e il ragazzo la incontrava solo di rado, in genere per caso. A mano a mano che il tempo passava, ascoltando di nascosto oppure in seguito a rari gesti di gentilezza, il giovane apprese sempre di più da quegli individui che lo vessavano. La maggior parte delle informazioni la ricavò la sera, allorché i servitori si radunavano per narrarsi delle storie. Fu in quel modo che il giovane - il più indegno dei servi - cominciò a scoprire la natura del mondo straordinario e pericoloso che si stendeva al di là della Torre. La cucina dei servitori, al Livello Cinque, era un luogo odoroso di salvia e di fumo di legna. La sera, in quella stanza brulicante di attività, scendeva però un'atmosfera tranquilla, rischiarata dalle braci che ardevano nei focolari grandi abbastanza da arrostirvi un bue. Nell'angolo vicino al camino era appoggiato uno dei malridotti pagliericci che, inzuppati d'acqua, servivano a proteggere dal fuoco i ragazzi addetti allo spiedo, e la luce incerta delle lampade sfiorava le padelle di rame e gli orci di pietra, i polli, i mazzetti di timo, le trecce d'aglio, i prosciutti, le file di cipolle e di rape e i formaggi, appesi come gioielli commestibili alle nere travi del soffitto. Accanto a una bilancia, un boccale di cuoio catramato era posato su una panca di legno, le borchiature di rinforzo in ottone scintillanti alla luce incerta. Una serie di pale, palette e mestoli in ottone era appesa a una parete; coppe, pentole e pentolini erano allineati su uno scaffale accanto a un setaccio per la farina e a un tritacarne. Oltre ai candelabri d'ottone, su cui le candele facevano colare lunghe strisce di sego, sul tavolo c'erano anche numerosi boccali di peltro e una grossa pentola da arrosto con spiedo incorporato, dotata di un coperchio a cupola. Tutt'intorno, le ombre distorte creavano forme irreali. Cani e cebi cappuccini erano distesi davanti al focolare, intenti a grattarsi; come api irrequiete, le sguattere, i servi, i cuochi e alcuni bambini si raggruppavano in piccoli capannelli ronzanti di chiacchiere, bevendo tisane fumanti in boccali di legno. La figura sottile che sgusciò nella stanza dalla porta più lontana e si raggomitolò in un angolo, accanto a una credenza, passò inosservata, confondendosi tra le forme danzanti create dalle ombre, di aspetto
altrettanto grottesco. Una voce, giovane e dolce, si levò a sovrastare le altre, cantando una specie di ninna-nanna il cui senso però era incomprensibile. Sogno, sogno vero e vincitore, allegra io canto la luce, per il regno. Il più grande dono tu avesti, lago carissimo. Il canto si concluse e, non appena il capo cantiniere si schiarì la gola, sputando nel fuoco, sui presenti scese un silenzio carico di aspettativa. Brand Brinkworth rivestiva la rispettata e meritata posizione di più anziano e miglior narratore di storie della Torre di Isse. In qualità di menestrello, lui aveva viaggiato nell'Oltre e la sua vita e le sue avventure erano già leggenda. Portava infatti ancora il collare di rame a forma di serpente, il sigillo che, identificandolo come bardo e maestro del sapere, costituiva il suo bene più prezioso. Molte storie tradizionali erano state passate di generazione in generazione, e altre più recenti erano arrivate alla Torre grazie a marinai, aeronauti e carovanieri che percorrevano le vie di terra dell'esterno; la maggior parte di esse era stata ascoltata e assaporata molte volte, senza perdere nulla del proprio fascino e acquisendo qualche piccolo tocco nuovo a ogni narrazione. Le storie dell'Olire erano soprattutto vicende che parlavano di creature ultraterrene. Alcune avevano come protagonisti i seelie, creature così amichevoli nei confronti dei mortali che talvolta venivano in loro aiuto oppure si divertivano a fare scherzi innocui. Altre volte, però, le storie parlavano degli unseelie, malvagi esseri soprannaturali, protagonisti di veri e propri incubi. Queste ultime erano storie davvero cupe. «A proposito delle creature unseelie...» esordi Brinkworth, dando l'impressione di riprendere un discorso interrotto, anche se non era così. «Vi ho mai parlato di quella volta in cui l'Each Uisge è apparso vicino al Lago Corrievreckan?» I servi rabbrividirono. Nelle storie sulle creature unseelie venivano descritti molti tipi di cavalli d'acqua che infestavano i laghi e i fiumi, le polle e gli oceani di Erith, ma l'Each Uisge era il più feroce e pericoloso. Era altresì uno dei più famosi
unseelie che infestavano i posti acquatici, benché il Glastyn godesse di una fama quasi altrettanto nefasta. L'Each Uisge si presentava talvolta con le sembianze di un giovane avvenente, ma in genere preferiva la forma di uno splendido cavallo. L'animale invitava i mortali a salirgli in groppa, ma, una volta sul suo dorso, nessuno poteva staccarsi, perché la pelle del cavallo era imbevuta di una specie di colla soprannaturale. Chi era tanto stolto da montare l'Each Uisge veniva dunque trasportato a un folle galoppo fino al lago più vicino e là fatto a pezzi; la creatura scartava soltanto parte delle interiora della vittima, che venivano in seguito spinte a riva dalla corrente. Gli occupanti della cucina attesero in silenzio. Avevano ascoltato spesso quella storia, però non si erano mai annoiati. Senza contare che Brinkworth, col suo stile scarno, la narrava in modo tale da dare al pubblico l'impressione di sentirla per la prima volta. «È una storia molto antica - non saprei dire quanto, forse anche di mille anni - ma è vera», continuò il vecchio, grattandosi un ginocchio, dov'era stato morso da una delle pulci che infestavano i cani. «I giovani Iainh e Caelinh Maghrain, figli gemelli di quello che all'epoca era il Condottiero delle Isole Occidentali della Finvarna, stavano cacciando coi loro compagni quando videro uno splendido cavallo pascolare vicino al Lago Corrievreckan.» «Dove si trova?» intervenne un anziano fuochista. «Nelle Isole Occidentali, testa di legno, nella Finvarna», sibilò una cameriera. «Non stai ascoltando?» «Credevo che l'Each Uisge dimorasse nell'Eldaraigne.» «Va dove più gli aggrada», replicò Brand Brinkworth. «Del resto, chi può negare un'assoluta libertà di movimento a un così malvagio signore ultraterreno? Ora, se non ti dispiace, vorrei proseguire la storia.» Gli altri servitori scoccarono cupe occhiate al fuochista da sotto le sopracciglia aggrottate, ma l'uomo si limitò ad annuire con indifferenza, e il narratore proseguì. «I giovani videro uno splendido cavallo che pascolava vicino al Lago Corrievreckan», ripeté e, sulla scia del suono cadenzato e piacevole della sua voce, nella mente degli ascoltatori apparve l'immagine di un luogo lontano nel tempo e nello spazio, un paesaggio che non avrebbero mai visto. Bianca perla che splende come un occhio nel cielo caliginoso, il sole, oltrepassato lo zenit, si avvia verso il cupo orizzonte invernale. Il suo pallido chiarore tocca le acque del lago, la cui superficie è striata di lunghe, picco-
le onde che scintillano di setose tonalità di grigio. Da uno squarcio tra le nubi, la luna crescente solca il cielo come una canoa spettrale. Uno stormo di uccelli attraversa il cielo in una lunga formazione a V, levando strida acute che riecheggiano nel vento: oche selvatiche che migrano verso casa. Gli alberi morti protendono i rami neri e contorti al di sopra dell'acqua e, vicino alla riva, i lunghi steli delle erbe acquatiche oscillano al vento, chinandosi sino a sfiorare la propria, tremolante immagine riflessa. Minuscoli bagliori ammiccano tra le onde. Un gioco di luci e ombre maschera le profondità lacustri, rendendo impossibile vedere le canne oscillanti, i paesaggi di sabbia e di pietra, gli oscuri crepacci e gli esseri che forse si muovono nell'acqua. Mentre le oche selvatiche scompaiono in lontananza, la quiete del lago è turbata. Dapprima lievi e poi sempre più intense, grida e risate giungono dalla riva orientale. Uh gruppo di uomini ertish si sta avvicinando. Otto individui sopraggiungono con passo deciso, coi lunghi, arruffati capelli rossi come il tramonto. Al loro fianco, cani da riporto agitano la coda, eccitati. Gli uomini hanno un balteo di traverso sulla spalla, la faretra appesa alla schiena e l'arco in mano. Alla cintura, alcuni di essi portano, legati per le zampe, dei volatili: la giornata di caccia è stata più che proficua. Imbaldanziti dal successo, i giovani sono allegri. Quell'ultima puntata fino alle rive del lago è più che altro una passeggiata: il chiasso che stanno facendo rivela che nessuno ha intenzione di cacciare sul serio. Sono impegnati in uno scherzoso battibecco, si prendono in giro. Sono tutti giovani, forti e sani... anzi il più giovane del gruppo è soltanto un ragazzino. «Sciobtha, Padraigh. Ta ocras orm! Tu faighim morab bia!» esclamano ridendo i due giovani più maturi, assestando una pacca sulla spalla del ragazzino, che corre per tenere il loro passo. L'aspetto dei due fratelli Maghrain è davvero notevole: sono gemelli, alti, coi capelli ramati, vestiti con un gonnellino di cuoio. Portano anche il pesante collare d'oro proprio degli aristocratici della Finvarna. D'indole aperta, sorridono spesso, con un balenare di denti candidi sul volto abbronzato. «Amharcaim! Amharcaim!» grida d'un tratto Padraigh, indicando i neri ontani privi di foglie che crescono lungo la riva del lago. Gli uomini si fermano, girandosi a guardare. Tra gli alberi un'ombra si muove... Ma si tratta davvero di un'ombra? Inarcando il collo elegante, lo stallone sbuca dalla macchia di alberi. Le sue linee sono pure e ben modellate, le zampe lunghe e snelle, il torso è affusolato; ha la struttura di un campione di corsa nel fiore degli armi. Il
mantello è liscio e lucido come l'acqua del lago, di un nero oleoso che però si accende di riflessi grigio-argento là dove la luce soffusa del sole coglie il movimento fluido dei muscoli possenti. Senza dubbio, è un cavallo capace di correre più del vento. Pieni di meraviglia, gli uomini contemplano in silenzio la creatura che scuote la splendida testa, agitando una criniera simile alla spuma del mare. Per un momento, lo stallone rimane immobile, poi si avvicina ai cacciatori con aria sottomessa e quasi civettuola. Non sembra timoroso o preoccupato... ha piuttosto un'aria amichevole, da animale domato. Gli uomini gli si accostano e lui non si sottrae al loro tocco. Gli accarezzano la criniera scura come la notte e commentano, in tono stupefatto, le sue dimensioni, la sua perfezione di forme e la potenza della sua muscolatura. «Questo è il più bel destriero di Aia», mormora Iainh Maghrain, nella lingua ertish, in tono rapito. «E io lo cavalcherò.» «Lo farò anch'io», interviene prontamente il fratello, scoccandogli un'occhiata di traverso, deciso a non farsi mettere in ombra. Sono impavidi, quei due fratelli, e competitivi. Neppure per un istante pensano che le apparenze li stiano ingannando. «Buono, sta' buono, alainn capall dubh», dice Iainh, accarezzando l'elegante collo arcuato dell'animale. Lo stallone rimane assolutamente immobile, quasi stesse incoraggiando un cavaliere a montargli in groppa. Scruta i cacciatori con occhi limpidi come polle, frangiati di ciglia proprio come una polla lo è di canne. Ma il giovane Padraigh si mostra diffidente. «Non lo fare, Iainh», lo supplica. «Vedi come i cani si stanno ritraendo con la coda tra le gambe? Hanno paura di questo cavallo, per quanto bello sia.» In effetti, i cani si sono messi tutti al riparo di un ammasso di rocce che si trova sulla riva del lago, a un centinaio di iarde. I due fratelli non prestano ascolto all'avvertimento del ragazzo. In un istante, Iainh balza in groppa al cavallo, e Caelinh gli va subito dietro. Lo stallone continua a rimanere immobile, poi, in risposta a un colpo di tallone di Iainh, si mette a trotterellare in cerchio. «Questa meraviglia è docile come un agnellino», esclamano allora i loro compagni. «Ehi, fate posto anche a noi... Perché dovreste divertirvi soltanto voi?» A uno a uno, gli altri giovani montano in groppa. Come tutti gli uomini ertish, sono eccellenti cavalieri: cavalcano a pelo fin da quando hanno imparato a camminare, quindi non è difficile, per loro, balzare sullo stallone.
Soltanto Padraigh si tiene indietro con fare guardingo. Pungolato da un indefinibile sensazione interiore, ha infatti deciso di montare per ultimo. Rimane dunque a osservare ciascun uomo salire a cavallo e ogni volta gli sembra che non ci sia più spazio per quello successivo... Invece, non appena il nuovo cavaliere sale, rimane miracolosamente posto per un altro ancora. Poi lo sguardo di Padraigh si sposta sul dorso del cavallo, notando così qualcosa d'insolito e di molto inquietante: sotto quella pelle vellutata, pare che le ossa si stiano spostando e i tendini allungando. Sa che è un fenomeno assurdo, ma non riesce a pensare a un altro modo per descriverlo. L'ultimo dei compagni si assesta in groppa allo stallone, che regge ormai sette uomini. Tutti ridono e scherzano, invitando il giovane Padraigh a imitarli. «Avanti, Padraigh, mo reigh», gridano. «Balza su, e vedremo come sa galoppare!» Soltanto allora un'improvvisa, devastante consapevolezza affiora nel cervello del ragazzo. Con orrore, Padraigh capisce che il cavallo si è progressivamente allungato, in modo da ospitare tutti i suoi cavalieri e quel fatto lo riempie di terrore. Troppo spaventato per urlare un avvertimento, il giovane si precipita verso le alte rocce che si trovano sulla riva del lago e si nasconde in mezzo a esse, insieme coi cani tremanti di paura. Nero sullo sfondo delle onde grigie del lago, il cavallo gira la lunga testa, guardando le rocce e ritraendo le labbra scure su denti squadrati come lapidi. E dalla sua bocca escono parole simili a fumi infernali. «Vieni qui, moccioso, non farti lasciare indietro!» La sua voce è tale da corrodere il ferro. Gelida, spietata, terribile. Il ragazzo non si muove. Sulla groppa dello stallone, i sette uomini si zittiscono di colpo. Allora il cavallo si lancia all'inseguimento di Padraigh, zigzagando tra le rocce e sballottando i suoi cavalieri, che adesso urlano disperatamente, perché hanno scoperto di non poter staccare le mani dal dorso della creatura. Lo stallone si aggira a lungo tra quelle grosse pietre, mettendo in fuga i cani ululanti e costringendo Padraigh a un letale e disperato nascondino, mentre il respiro si fa sempre più affannoso e il cuore gli martella alle tempie, quasi che il cervello stia per scoppiargli. Pungolato dalla disperazione, il ragazzo si rivela però troppo agile anche per l'Each Uisge, che alla fine rinuncia alla caccia. Scrollando la nera criniera, la creatura lancia un suono simile a una risa-
ta e si tuffa nel lago, scomparendo sotto la sua superficie. L'eco delle urla dei sette uomini aleggia a lungo. Tremando così violentemente da non riuscire quasi a reggersi in piedi, con la fronte madida di sudore e la pelle gelida quanto quella di un pesce, Padraigh rimane a fissare le onde che si allargano dal centro del lago. Tende l'orecchio, ma non sente nulla, se non il lamentoso richiamo scandito dei pivieri in volo, il sussurro del vento che piega le erbe acquatiche sino a congiungerle alla loro immagine riflessa e il sommesso sciacquio delle onde che lambiscono la riva. E, quando il sole bianco sprofonda infine nella nebbia al confine del mondo, il ragazzo è ancora là immobile, pallidissimo in volto, teso ad ascoltare. «Nessuno ha più visto i sette giovani», concluse il narratore, rilassandosi. «Per tutte le tempeste e per tutti i lupi ululanti!» esclamò un facchino, interpretando i sentimenti del resto degli ascoltatori. «Cos'è successo il mattino dopo?» domandò uno sguattero dagli occhi sgranati, perversamente affascinato dal macabro finale della storia. «All'uhta, l'ora che precede l'alba, gli altri membri del clan giunsero sulla riva del lago», rispose Brinkworth. «Là trovarono il ragazzo, vivo, ma incapace di parlare, e scorsero alcune forme scure che si muovevano nell'acqua bassa. Andarono a vedere e scoprirono così che erano cinque fegati umani, laceri e sanguinanti.» «Che ne è stato degli altri due?» «Nessuno lo sa.» Una volta che tutti ebbero commentato in tono grave la storia, la parola passò a un altro, un bellicoso giardiniere dalla lingua sciolta che aspirava da sempre a una posizione di rilievo nella schiera dei narratori. «Ebbene, io ho sentito parlare di una ragazza che è sfuggita all'Each Uisge», dichiarò. «È successo nel sud del Luindorn, dove un contadino aveva una grande mandria di bestiame.» «Addirittura il Luindorn, adesso», commentò l'ostinato fuochista. «Sì, il Luindorn», ribadì il giardiniere, scoccandogli un'occhiata di fuoco. «Un giorno, da una delle vacche, nacque un vitello con le orecchie rotonde. Non sapendo cosa significasse, il contadino chiese spiegazioni a una donna che viveva nelle vicinanze e che era una Carlin. La donna gli spiegò che quello era il vitello di un toro d'acqua e che era una fortuna possedere
una bestia del genere. Il vitello però doveva essere separato dal resto del bestiame per sette anni e nutrito ogni giorno col latte di sette mucche diverse. E il contadino obbedì. Alcuni anni più tardi, una delle sue serve si trovava vicino al lago, intenta a sorvegliare il bestiame al pascolo, quando venne avvicinata da un giovane alto e avvenente, dai lunghi capelli neri e dal sorriso affascinante. La ragazza non lo aveva mai visto, ma fu incantata dal suo aspetto.» Tutti gli ascoltatori annuirono, intuendo cosa lasciasse presagire quel fatto. «'Bella damigella, vuoi farmi un favore?' chiese il giovane. La ragazza, lusingata dalle sue attenzioni, assentì, e lui continuò: 'I miei capelli sono terribilmente arruffati e annodati, ma ho pensato che una ragazza affascinante come te potrebbe avere dita abbastanza agili da districarli. Non sono certo in grado di farlo da solo...' 'Ma certo, mio buon signore', rispose la ragazza, poi si sedette sull'erba, con la testa del giovane in grembo, e procedette a dividergli e a pettinargli i capelli con le dita. All'improvviso, però, s'immobilizzò, atterrita: c'erano alghe verdi che crescevano in mezzo a quella nera capigliatura! La ragazza comprese che quel giovane non era un uomo di Erith, ma il terribile Each Uisge in persona!» In reazione a quell'annuncio drammatico, gli ascoltatori sussultarono, mormorando: «Oh, sventura!» «Oh, stranezza degli eventi!» «La servetta, però, non balzò in piedi e non si mise a gridare. Rimase invece del tutto immobile per non disturbare la creatura e, pur desiderando fuggire, continuò a pettinarla sino a farla addormentare. Quando infine si accorse che il giovane si era assopito, sciolse con cautela i lacci del grembiule, sgusciò via da sotto la testa della creatura e corse verso casa più in fretta che poteva e senza far rumore. Tuttavia, prima di arrivare ai cancelli, sentì alle proprie spalle un riecheggiante martellare di zoccoli: l'Each Uisge stava venendo a prenderla, e la sua furia era spaventosa!» I servi rabbrividirono. «'Liberate il toro d'acqua!' gridò allora la Carlin, e il contadino, rendendosi conto di quello che stava succedendo, obbedì. Proprio quando l'Each Uisge stava per afferrare la fanciulla, deciso a trascinarla nel lago e a divorarla, il toro d'acqua arrivò al galoppo, muggendo, e si lanciò in mezzo a loro. Le due creature lottarono ferocemente e si spinsero prima fino alla riva del lago poi addirittura dentro di esso, continuando lo scontro nelle sue profondità. L'Each Uisge non venne mai più rivisto in quel lago, ma il mattino successivo la carcassa devastata del fedele toro d'acqua venne so-
spinta a riva dalle onde.» Un sospiro collettivo riecheggiò nella cucina dei servitori, simile a una brezza estiva. «I tori d'acqua sono creature buone», commentò un giovane paggio. «Mio zio diceva che, nella sua mandria, c'era sangue di bestiame d'acqua, e la produzione di latte era sempre abbondante.» «Già», annuì un cantiniere, con l'aria di chi la sa lunga. «È vero che le creature seelie, come i tori d'acqua, non fanno del male alla gente, come invece fanno le creature unseelie. Inoltre ricompensano chiunque sia gentile con loro. Alcune di esse sono utili, altre sono burlone... Rammentate tuttavia che sono pronte a vendicarsi di qualsiasi insulto o ferita, e possono causare una grande rovina.» «I druegar sono le creature unseelie più cattive e pericolose», interloquì uno sguattero. «Infatti», annuì il vecchio Brand Brinkworth. «Un marinaio arrivato qui lo scorso anno a bordo dell'Orgoglio di Severnesse ha un cugino che vive tra le colline, nel nord della Severnesse, e quel cugino conosce un uomo che, andando a Riothbury, si è perso tra le colline. La notte stava calando...» Immediatamente attenti, i servitori si strinsero gli uni agli altri, mentre il vecchio, con la sua voce sommessa, rievocava per loro un'altra immagine di un luogo molto lontano da quella cucina e dalle fredde mura di pietra della Torre. «Oh, vile creatura!» esclamarono le sguattere, quando la storia si concluse. Ma si capiva che avevano gradito molto quella storia paurosa. «Vergogna, ragazze!» le rimproverò con un ringhio Rennet Tightbone, un cuoco dai capelli unti, soffiandosi il naso in una manica. Il vecchio Brinkworth si stiracchiò le braccia sino a farle scricchiolare e bevve un sorso di tisana. Il suo pubblico, però, non era ancora pronto a lasciarlo in pace. «Raccontaci altre storie sul Re-Imperatore che risiede a Caermelor e sul suo Mago, Sargoth l'Incappucciato!» «No, narraci la storia delle Città Greayte dei gloriosi tempi antichi!» «Per stanotte, vi racconterò solo un'altra storia...» annunciò Brand, in tono calmo e solenne. «La storia della splendida fanciulla che, a causa di un incantesimo, ha dormito per cento anni, finché non è stata destata dal bacio di un Principe.» «Belle fanciulle, sempre belle fanciulle», si lamentò una sguattera, stiz-
zita. «Per tutti gli arrosti! Nessuno vuole sentire una storia che parla di una fanciulla brutta!» ribatté un servo. «Ed è per questo che non ci sono storie su di te», aggiunse un altro servo, ottenendo in cambio uno spintone. Il narratore prese a intrecciare il suo arazzo di parole, ricamandolo come lui sapeva fare e lanciando il suo incantesimo sugli ascoltatori. Quando la storia si concluse, fu come se un mantello avesse coperto tutti, tenendoli uniti almeno per qualche tempo. La Custode delle Chiavi trasse una lamentosa melodia dal suo violino e sua figlia Caini intonò un'antica canzone dell'Eldaraigne, una ballata che risaliva ai tempi antichi, all'epoca in cui gli Uomini dei Ghiacci, attraverso il mare, giungevano dalla Rimany per razziare i villaggi meridionali dei feorh e il grande Mago Lammath aveva sgominato i nemici a Saralainn Vale. Oh, ghiacciate eran le fonti a Saralainn Vale e ardevano i monti di Sarn, e scie di foglie rotolavano lungo le vecchie strade polverose, e il vento soffiava più forte nella valle, quando nella radura giunsero quattrocento uomini mentre il villaggio giaceva addormentato. Vivide scintillavano le loro lame nelle valli e il loro saluto era del ghiaccio il bacio crudele. Mirate gli Uomini dei Ghiacci, così pallidi e audaci! Guardatevi dal freddo scintillio delle loro lame di brina! Io però li vidi arrivare e fuggii con passo veloce fino al luogo in cui Lammath riposava. «Gli Uomini dei Ghiacci sono qui!» gridai in preda al terrore. «La gente del villaggio comincia già a morire!» Lammath allora si levò e indossò le vesti e una torcia accese dai carboni ardenti, dicendo: «Ho un piano, che ho appreso da un uomo così saggio che nessuno ricorda chi gli stesse a pari». Dietro di lui mi avviai a grandi passi, mentre nell'oscurità lui cavalcava, andando incontro agli Uomini dei Ghiacci nella luce dell'alba; il primo bagliore del sole mutava in oro le loro chiome. A Lammath lanciai un grido d'avvertimento,
ma lui alzò la torcia che attinse la luce dal cielo divampando di un terribile potere, e mutando tutti in pietra e cenere e fredde ossa in quella gelida ora del mattino, mentre il sole cominciava a sbocciare tutt'intorno alla Torre di Saralainn. «Oh, Lammath!» gridai. «Che prezzo hai pagato per avere il potere della luce da opporre all'ombra?» Ma un sorriso gli affiorò nello sguardo che non tradiva sorpresa, mentre scendeva con me verso il pascolo. E io pensai che poteva sembrare tutto un sogno, tranne per il ghiaccio sulle fonti, e le foglie nelle strade e la polvere sui miei piedi, e i fuochi che ardevano sulle montagne. Cantando in coro, i servitori si addormentarono l'uno dopo l'altro. Ben presto la cucina si riempì di un disarmonico coro di persone che russavano. Ci sarebbero state altre notti, altre canzoni e altre storie... Il ragazzo era incuriosito e si poneva migliaia d'interrogativi. Cosa alimentava gli elevatori della Torre? Come veniva pompata l'acqua per decine di iarde, lungo i condotti interni, così da rendere possibile la vita nell'alta fortezza? Come facevano gli eotauri a librarsi nel cielo? Senza dubbio erano cavalcature snelle e fini di ossatura, simili a spade, ma neppure le loro poderose ali erano sufficienti a farli alzare in volo. E inoltre, cosa ancora più sconcertante, in virtù di quale mistero le Navi del Vento, così massicce, riuscivano a solcare i cieli? Alla fine, il ragazzo apprese la verità. Giacché, tra i loro pari, non brillavano certo per acume o per popolarità, il giovane avrebbe dovuto immaginare che i due giovani servi Spatchwort e Sheepshorn gli avrebbero causato dei guai. Anzi forse ci aveva anche pensato, ma, del resto, come dice il proverbio: «Se una nave è un relitto, che importanza ha un'altra tempesta?» Fatto sta che, per caso, li sentì scambiarsi alcune frasi sussurrate, e la curiosità ebbe la meglio su di lui. «Stanotte Ustorix corromperà le guardie della tesoreria.» «Quanti, e di quale purezza?» «Due, purezza alt quattrocento. Lui ha detto che non è prevista nessuna attività alla Porta Sud 400 per l'ora in cui sorgerà la luna, quindi c'incontre-
remo là.» Quella notte, l'unica luce che rischiarava le tortuose scale interne era quella della luna e delle stelle, penetrando in lame scintillanti attraverso le feritoie delle spesse pareti di dominite. I servitori vivevano tutti al di sotto del Livello Quattordici, ma, se si era abituati a non farsi notare, a fondersi con ogni ombra e a celarsi in ogni androne al primo bagliore di una torcia che si avvicinava, non era difficile arrivare fino al Livello Ventisei senza essere visti. La Porta Sud 400 era aperta, con la saracinesca sollevata. Il pavimento del corridoio formava una strada che terminava all'altezza dello stipite sporgente, al di là del quale c'era soltanto il cielo notturno; molto più in basso, sotto una lanuginosa coltre di nuvole che aleggiava a duecento piedi, i recinti dei cavalli e i frutteti, che da quell'altezza apparivano grandi come fazzoletti, cedevano il posto alla foresta. A ogni livello, su entrambi i lati, si apriva una serie di alcove e di vestiboli che ospitavano gli equipaggiamenti necessari ai Corrieri e ai loro cavalli. Quelle stanze si affacciavano su ampi corridoi che, seguendo le mura della fortezza, finivano per ricongiungersi, formando un cerchio. Il loro pavimento era cosparso di paglia, giacché era lì che i garzoni di stalla facevano camminare i Cavalli Celesti perché si riposassero dopo le lunghe cavalcate. Nascosto tra file di selle e mucchi di finimenti, vicino al pozzo di un elevatore, il giovane intravedeva una serie di costellazioni argentee stagliarsi sullo sfondo d'ebano del cielo, dominato da una pallida falce di luna, che fluttuava come una nave tra frangenti di nubi; dentro le scanalature nascoste nelle pareti, l'acqua martellava nei tubi... o forse era qualcos'altro a causare quel rumore scandito e secco. I festoni di cavezze, selle, sacche da sella, staffe, cinghie, morsi e briglie, frustini e placche di protezione appesi intorno alla testa del giovane ogni tanto si muovevano per via di qualche lucertola delle rocce, che di giorno si crogiolava al sole, sulle mura esterne. La fredda aria notturna gli sfiorava il dorso delle mani con un tocco delicato come i petali di un giglio. Tre giovani imboccarono il corridoio con passo silenzioso. Due reggevano una lanterna di corno ed erano impegnati a tirarsi il cappuccio sulla testa e a stringerne i lacci. Dal fatto che il terzo fosse vestito in velluto nero, bordato di treccia d'argento, si capiva che era un figlio del Settimo
Casato, addirittura dell'erede del Condottiero della Tempesta. Il giovane nobile portava un giustacuore a collo alto trattenuto in vita da una cintura e dotato di ampie maniche, tagliate in modo da lasciar vedere la fodera di raso nero, ed era avvolto in un ampio mantello, anch'esso nero, che arrivava al bordo dei lucidi stivali, rivoltati sotto il ginocchio. L'uniforme da Corriere che indossava era decorata da un ricamo a V che partiva dalle spalle per fermarsi in vita, realizzato nei colori del Casato, e le spalline indicavano il suo rango all'interno dello squadrone; la fibbia della cintura aveva la forma zigzagante dello stemma dei Cavalieri della Tempesta che, insieme col motto Arnath Lan Seren - reliquia di una lingua ormai morta -, era anche riprodotto sul lato sinistro del petto, sul cuore. Due daghe pendevano dalla cintura in altrettanti foderi ornamentali di cuoio nero borchiato in argento. I lunghi capelli castani del giovane nobile erano pettinati all'indietro e legati in una coda rigida, con lacci neri e argento. Quanto al cappuccio, gettato audacemente all'indietro, era bordato con minuscoli diademi scintillanti quanto la roccia di dominite ed era decorato con piume nere. I lucidi stivali rimbombarono sulla pietra quando lui si avvicinò alla porta e aprì con cautela il pesante involto che reggeva in mano, rivelando una scatola di metallo azzurro di cui sollevò il coperchio. All'interno c'era un paio di lucidi lingotti, che emisero un opaco bagliore alla luce della luna. Grod Sheepshorn, un giovane servo dinoccolato dal mento sfuggente, si abbandonò a una risatina nervosa. «Avanti, Spatchwort, va' tu per primo, dato che sei il più abile», disse poi all'amico. «Non importa chi sarà il primo», ribatté Lord Ustorix, gettando le due barre lucenti oltre il bordo della piattaforma, nel buio abisso della notte. Da dietro le montagne, la luna stava continuando la sua ascesa nel cielo e le stelle si stavano spostando in maniera impercettibile; verso sud, le acque nere come l'inchiostro si stendevano fino all'imboccatura della baia e il rumore delle onde che s'infrangevano sulla spiaggia, molto più in basso, arrivava fino a loro grazie a un vento che sapeva di salsedine. Nei pascoli, i cavalli nitrivano debolmente e battevano il terreno con lo zoccolo. Le due barre argentee rimasero sospese nell'aria a quattrocento piedi dal suolo, allo stesso livello dello scaffale di roccia antistante la porta. «Puri lingotti di sildron, alt quattrocento, a quanto vedo», commentò Grod Sheepshorn, rivolgendo al nobile un inchino esagerato. «Quanto basta per forgiare ferri per le cavalcature di mezzo squadrone! Valeva la pena di dare alle guardie un paio di monete d'oro per averli in prestito, vero, mio
signore?» «Cosa sia valso non ti deve riguardare», replicò con freddezza il giovane nobile. «Adesso voglio che voi due vi esibiate.» «Prima la scommessa», pretese Tren Spatchwort, un ragazzo di mezza testa più basso dell'amico, snello e agile di corporatura. «Se lo fate, un'aquila d'oro a testa. Se non lo fate... nulla, tranne forse un collo rotto.» «Cosa... un'aquila?» balbettò Spatchwort. «Avevate detto tre, mio signore.» «Ricordo bene i termini dell'accordo», ringhiò Ustorix, mantenendo a stento il controllo. «Un'aquila per il primo tentativo, due aquile per il secondo.» «Ma non si era parlato di un secondo...» cominciò Sheepshorn, poi s'interruppe e si girò di scatto. Quando tornò a voltarsi, con un rigido inchino, sul suo viso c'era un sorriso tirato. «La mia vita vale venti scellini?» commentò, con una risata. «Vada per due sovrane! Del resto, mio signore, sapete che siamo in grado di rifarlo una, due, innumerevoli volte! Per noi è facile, vero, Spatchwort?» Il servo più minuto annuì, a disagio. Gettato via il mantello, Sheepshorn, con alcuni passi misurati, indietreggiò fino al muro del corridoio. Poi, con uno scatto, si mise a correre verso la porta, dove le barre di sildron erano sospese fianco a fianco, a qualche piede dal bordo. I suoi morbidi stivali non facevano rumore sul pavimento di dominite... D'altronde, se lui fosse precipitato nel vuoto per quattrocento piedi, non avrebbe prodotto che un leggero tonfo nel momento dell'impatto col terreno. L'osservatore senza nome si aggrappò con forza a una martingala, mentre il giovane servo raggiungeva la piattaforma e si lanciava verso l'esterno con un balzo che lo portò al di sopra delle due barre sospese nel vuoto. Coi piedi saldamente piantati ciascuno su una barra, il ragazzo pattinò nell'aria, inclinandosi un po' all'indietro e lasciandosi trasportare dallo slancio. Era un atto audace, un gesto che richiedeva una grande abilità... E infatti, per un istante, nel perdere velocità, il ragazzo barcollò, prossimo a perdere l'equilibrio e la vita. Ma si riprese in tempo e si arrestò. Il suo amico Spatchwort emise un sibilo nervoso, a denti stretti. Ustorix non disse nulla. Accoccolandosi nella sua posizione precaria, Sheepshorn legò le barre di sildron agli stivali, poi si raddrizzò, assumendo una posa degna di un danzatore, e sfoggiò un altro sorriso. «Ora guardatemi!» gongolò, un sussurro
sommesso sulle ali della brezza. Doveva essere cauto: qualsiasi rumore rischiava di farli scoprire. «Posso camminare sull'aria, come un Mago.» Esaltato dal successo, il giovane acquistò sicurezza. Sollevando uno stivale, mosse un cauto passo, poi un altro, quasi con tracotanza, sobbalzando con leggerezza nel vuoto fino a tornare alla soglia della porta e all'interno del corridoio. Con indifferenza, Lord Ustorix consegnò allora una moneta d'oro al servo che si era appena esibito e che, consapevole d'un tratto della necessità di concludere con stile il proprio spettacolo, eseguì un profondo inchino. Se Ustorix si era reso conto dell'ironia implicita in quel gesto, non lo diede a vedere. Dopo aver rimesso le barre di sildron nel vuoto, a sfidare la gravità, giunse il turno di Spatchwort. Mentre il giovane servo spiccava il balzo, la luce della luna parve evidenziare i suoi occhi, grigi e profondi come pozze nel volto pallido. Nel raggiungere la piattaforma, il giovane incespicò, ma si riprese e fece il salto; come Sheepshorn prima di lui, riuscì a piantare i piedi sulle barre e a scivolare lontano, quasi si trovasse su un cuscino invisibile. Trionfante, rallentò fino ad arrestarsi ed estrasse una corda dalla tasca per legare le barre, in modo da poter camminare. Poi guardò verso il basso. «Fare la bella statuina non rientra in questo gioco e mi annoia», mormorò Lord Ustorix, dopo qualche istante. Poi estrasse una daga e cominciò a pulirsi le unghie. «Legale, Tren, e falla finita», sussurrò ansiosamente Sheepshorn. Dopo qualche momento, il ragazzo sospeso nell'aria si mosse. Si mosse come se fosse stato di cristallo e l'oscurità fosse una morsa che si andava stringendo. Si mosse. E cadde. L'osservatore nascosto sussultò, trattenendo il respiro, e smosse una staffa, che cadde al suolo vicino alla sua spalla, producendo un fragore che tuttavia né il nobile né il servo sembrarono udire. Spatchwort era aggrappato a una barra di sildron con una sola mano, inerte, come se non avesse più forza o volontà. Quella vista fece affiorare nella mente del giovane rintanato fra gli attrezzi un'immagine del passato recente. Sheepshorn, intanto, prelevò un rotolo di corda da una nicchia della parete e si mise a srotolarlo in fretta. «Afferrala, quando te la tiro», disse a Spatchwort, preparandosi al lancio. Ustorix però gli tolse la corda di mano
e gettò il rotolo oltre la porta. «Cosa state facendo?» esclamò allora Sheepshorn, col volto acceso dall'ira e dall'incredulità. «Che rimanga sospeso là fuori ancora per un po'. Diamogli la possibilità di dimostrare cosa vale davvero. Che provi a issarsi sulla barra!» «Nessuno potrebbe farlo. Non è possibile, la barra è troppo piccola.» «Immagina se sopraggiungesse una tempesta magica e gli soffiasse via il cappuccio», sorrise Ustorix. «Che bello scherzo sarebbe! Nessuno vorrebbe più usare questa porta per i prossimi mille anni!» Presa una seconda corda, Sheepshorn la strinse saldamente e ne scagliò un'estremità verso la figura penzolante. Spatchwort protese la mano, ma riuscì ad afferrarla soltanto al secondo tentativo. Sheepshorn allora lo trasse a sé, come un pesce preso all'amo. Mentre Ustorix rideva in silenzio, Spatchwort si accasciò, tremante, sul pavimento e Sheepshorn prese al laccio la barra ancora sospesa, recuperandola. «Non ce l'hai fatta», dichiarò il Figlio del Casato, ritrovando l'abituale freddezza. «Quindi non ti sei guadagnato la tua ricompensa, almeno per stavolta. Tuttavia, ti resta un'altra possibilità.» «Davvero generoso da parte vostra, mio signore», replicò Sheepshorn. Ma i suoi occhi erano duri come selci. Lord Ustorix prese da sotto il mantello due piastre rettangolari di un opaco metallo azzurro, lo stesso metallo di cui era fatto il contenitore del sildron, e le applicò sulla superficie superiore delle due barre. «Andalum!» gridò Sheepshorn. «Non l'andalum!» «Zitto... Vuoi che ci scoprano? Stando alle vostre vanterie, per voi sarà una cosa da nulla. Non è più difficile di ciò che avete appena fatto, e farà guadagnare a entrambi due aquile d'oro a testa. Voglio vederlo.» «Ma se ci rovesciamo, se l'andalum viene a trovarsi tra il sildron e il suolo, allora precipiteremo», osservò Sheepshorn, allargando le mani coi palmi verso l'alto, in un gesto di sincero stupore. «Questo è ovvio, ma non accadrà... Perché dovrebbe succedere?» «Mio signore, come sapete, prima d'ora non ci siamo mai esercitati con vero sildron», insistette il servo, con una nota di autentico timore nella voce. «Abbiamo fatto pratica con assi montate su ruote e col ghiaccio, d'inverno. Ciò che abbiamo fatto non è impresa da poco, ma ripeterlo con una superficie di andalum sarebbe un suicidio. Non abbiamo mai acconsentito a una cosa del genere.» «Allora me ne vado subito», ribatté Ustorix, scrollando le spalle.
«No, aspettate», lo richiamò Sheepshorn, umettandosi nervosamente le labbra, gli occhi scintillanti come due monete. «Cane, non mi onori a sufficienza», sibilò Ustorix, irritato. «Mi dispiace, mio signore... Vi prego di aspettare, mio signore. Lo farò.» Ustorix lanciò le due barre nell'aria. Ricadendo, una si assestò alla solita altezza, a circa due pollici dal pavimento, ma l'altra ricadde a terra, con la superficie azzurra rivolta verso il basso. Rigiratala con noncuranza, Ustorix le spinse entrambe oltre la porta, dove rimasero sospese nel vuoto. Tornato alla parete di fondo, Sheepshorn sì preparò a prendere la rincorsa per il balzo nel vuoto. Una caduta di quattrocento piedi - calcolò - sarebbe durata quattro battiti e mezzo del cuore, ma sarebbe sembrata molto più lunga, almeno finché l'impatto con l'acciottolato, a una velocità di 980 miglia all'ora, non avesse troncato il suo urlo di terrore. Quella consapevolezza parve schiarirgli la mente, e lui imprecò a bassa voce, appoggiandosi, tremante, contro la parete. Ustorix scrollò le spalle. Assalito da un crampo a una gamba, l'osservatore nascosto cambiò appena posizione, facendo tintinnare la staffa, che giaceva accanto al suo piede, contro la pietra. Tre teste si girarono di scatto. «Mi era già parso di sentire un rumore, laggiù.» Accoccolato, col cuore martellante, il giovane senza nome li vide spingere di lato le cortine di finimenti e abbassare lo sguardo su di lui. «Cos'è questo?» domandò Ustorix, con un tono acido, pieno di disgusto. «È una creatura deforme che si accompagna a una delle serve, mio signore. Un idiota muto», spiegò Spatchwort con voce soffocata. «Da dove viene?» «Dicono che sia il figlio di un ambulante rimasto vittima di una frana vicino a Huntingtowers, nel corso del terremoto che c'è stato in autunno. Qualcuno sostiene invece che sia la progenie di qualche serva, la quale l'ha abbandonato sulla strada.» «Cosa pensa di ottenere, spiandoci? Ehi, Faccia Butterata, che credi di fare? Esci di lì.» Mentre il giovane obbediva, dal pozzo dell'elevatore giunse un rumore metallico e, nelle sue remote profondità, una gabbia iniziò la sua traballante ascesa. Tuttavia, prima ancora che giungesse in vista, una voce profonda riecheggiò nel corridoio e due uomini affannati apparvero in cima alle sca-
le: il Capo Maggiordomo del Casato, riconoscibile dalle vesti marrone, e il Maestro d'Armi, avvolto in un mantello scarlatto. «Che siano dannati i miei occhi», esclamò il primo, in tono perplesso. «Che cosa vi ha condotto qui, Lord Ustorix?» chiese Mortier, il Maestro d'Armi. «Questi zotici vi danno fastidio? Qualcosa è caduto nel cortile sottostante questa porta e abbiamo sentito alcune voci giungere da qui. Altri stanno arrivando per indagare.» Appuntando lo sguardo sulla spia, Ustorix si concesse un momento prima di rispondere, e infine disse: «Mio caro Maestro, questa creatura ha rubato del sildron dalla tesoreria. Due miei servi lo hanno scoperto, ma, invece di restituire il sildron, hanno deciso di giocarci. Stavo per porre fine alla cosa, allorché uno di questi dannati furfanti ha deciso di uccidersi». «Un gesto lodevole da parte vostra, mio signore. Sono certo che vostro padre, non appena ne sarà informato, sarà orgoglioso di voi», approvò il Maestro d'Armi, con un elegante inchino. La gabbia riapparve nella tromba dell'elevatore e si arrestò con un sobbalzo; il manovratore trasse indietro la griglia di ferro a fisarmonica e parecchi uomini uscirono. «Davvero interessante», mormorò Mortier, con voce nasale, scrutando con attenzione il servo sfigurato. «Non sapevo dell'esistenza di questo ragazzo. Portatelo via. Sarà punito a dovere.» E così fu. Grethet reagì come lui aveva previsto. «Chi ti ha picchiato? Ti hanno visto? Hanno capito che non è solo il tuo volto a essere così repellente?» Lei gli aveva spiegato che, oltre alla faccia, anche la sua carne appariva disgustosa, per cui il giovane aveva fatto di tutto per nascondere il proprio corpo scheletrico, e lui stesso evitava di guardarlo. Per frustarlo, comunque, gli avevano denudato soltanto la schiena e le spalle, su cui avevano lasciato un gran numero di solchi profondi e sanguinanti. Infettandosi, le ferite gli avevano poi provocato una forte febbre. Per settimane, il giovane giacque malato nell'oscurità del magazzino delle candele, dove solo i ragni potevano sentire i suoi gemiti di dolore. Grethet veniva a lavargli le ferite con infusi d'erbe, versandogli anche con impazienza un po' d'acqua nel pozzo riarso della sua bocca. In preda al delirio, lui era convinto di trovarsi intrappolato nelle storie che aveva sentito narrare nella cucina della servitù. Si vedeva in fondo a un lago isolato, mentre annegava nel suo stesso sangue, giacché il fegato gli veniva ripetu-
tamente strappato. Col tempo guarì, ma le cicatrici rimasero. Quando una Nave del Vento era attesa prima dell'alba, il giovane usciva di soppiatto da una finestra in rovina e si appollaiava su una stretta grondaia, sferzato dalla brezza. A quell'ora, il terreno e gli alberi erano neri. L'orizzonte orientale, incorniciato da masse di nubi grigio scuro, assumeva una tonalità tra l'arancione e il marrone e sembrava un crostino bruciacchiato. Quel colore sbiadiva fino a mutarsi in un giallo pallido e a fondersi con un azzurro etereo, che a sua volta si scuriva progressivamente, trasformandosi nel blu cupo e intenso del cielo notturno, punteggiato di stelle. Oltre il Porto di Isse, lungo il confine del mondo, la tonalità rossiccia si faceva più cupa. Il ciangottare sporadico e incerto degli uccelli giungeva dagli alberi e dalla polla delle anatre, molto più in basso. I trilli salivano di tono a mano a mano che il bagliore grigio, verso est, aumentava d'intensità, chiazzandosi di nuvole proprio come il volto arrossato di un fabbro si chiazzava di cenere e di fuliggine. Più in alto ancora, il blu cupo svaniva progressivamente dal cielo, insieme con le stelle. L'arancione cupo si mutava poi in oro, accompagnato dallo snodarsi di un sorprendente nastro rosato. A ridosso dell'orizzonte, il merletto del fogliame era punteggiato da un pulviscolo dorato di una luminosità intollerabile e il mare, da nero, assumeva una tonalità grigio-verde. Quando una linea di fuoco si accendeva lungo il confine del mondo, il sole iniziava la sua ascesa, simile a una moneta d'argento tra le nubi grigie. E dal sud, per metà in fiamme, una nave a vela giungeva fluttuando nell'aria. Il mondo dipendeva dalle proprietà del sildron per una molteplicità di scopi. Le splendide ali da cigno degli eotauri servivano soprattutto per manovrare nell'aria. Nel corso dei secoli, quegli animali si erano evoluti, passando dagli originali cavalli, minuscoli come uccelli, a esemplari abbastanza grandi da poter essere cavalcati. Per alzarsi in volo, quella mole notevole aveva bisogno del sildron. Come il ferro magnetizzato, il sildron possedeva infatti proprietà invisibili, tanto strane e potenti da sembrare quasi magiche. Le Navi del Vento portavano dalle terre esterne i carichi più diversi, alcuni destinati alla Torre, altri diretti all'interno. Al Porto di Isse, tutti i carichi giudicati troppo grossi o privi di effettivo valore non venivano traspor-
tati dai Cavalli Celesti purosangue, bensì da carovane di carri che viaggiavano sotto pesante scorta. In alternativa, erano issati, mediante corde, fino al molo delle Navi del Vento, a 112 piedi dal suolo, al Livello Sette, dove venivano stivati nelle possenti navi che volavano grazie al sildron. Gli eotauri e i piccioni viaggiatori non erano gli unici Corrieri celesti della Torre, ma erano i più veloci. Essendo i mezzi di trasporto più grandi in assoluto, le Navi del Vento potevano trasportare molti passeggeri e carichi voluminosi. Il vento gonfiava le vele come faceva con qualsiasi Nave d'Acqua, ma le onde, per loro, erano le cime oscillanti degli alberi, gli uccelli erano i pesci, le montagne erano i frangenti, la marea era generata dall'alternarsi quotidiano del giorno e della notte, le nubi erano la spuma. Il sildron le teneva sospese nell'aria, esercitando una spinta contro il terreno per alimentare i loro piccoli, instabili propulsori. Quel metallo argenteo era usato per i ferri e i finimenti degli eotauri e serviva appunto a sollevare e a sospingere le navi del cielo. Tutta la ricchezza delle linee di navigazione delle Navi del Vento, la posizione sociale dei dodici Casati dei Cavalieri della Tempesta, la gloria, il potere e il talento, trasmessi di generazione in generazione per molti, secoli, si fondavano sul più costoso e raro dei metalli. Con l'acqua, tuttavia, esso perdeva la sua forza, dunque quelle navi non potevano attraversare il mare. Il sildron, così prezioso, era proprietà esclusiva del Re e dei nobili. Nell'osservare le Navi del Vento solcare i cieli, il più infimo servitore della Torre di Isse si sentiva spesso indotto a chiedersi cosa si provasse a viaggiare su di esse, là, dove le nuvole fluttuavano come materassi di piume, coi bordi irregolari resi dorati dal sole, dove pareva che si potesse navigare senza preoccupazioni o dolore e che il passato non avesse importanza. Tutta la sua storia era dimenticata, svanita senza lasciare traccia. Al suo posto c'era un costante, crudele senso di perdita. Talvolta, se non era troppo stanco per riflettere, si chiedeva chi fosse la persona che guardava coi suoi occhi e ascoltava con le sue orecchie, oppure avanzava ipotesi su chi fossero i suoi genitori e su dove si trovassero, chiedendosi se lo avessero abbandonato perché era muto e deforme. Brand Brinkworth aveva narrato la storia di un Principe leggendario, che desiderava trovare la moglie perfetta, e i cui Maghi avevano modellato per lui una fanciulla, servendosi di una massa di splendidi fiori. Finito il racconto, i servi avevano cominciato a immaginare quale materia, diversa dalla carne, poteva essere l'origine di
ciascuno di loro. I più si erano trovati a concordare su erbaccia o letame e il trovatello, nei gelidi recessi delle proprie fantasticherie, si era chiesto se uno sciagurato come lui era stato davvero generato o non piuttosto modellato o evocato da qualche oscura profondità per opera di un Mago impazzito. Il ragazzo cercava di far capire a Grethet le innumerevoli domande relative alle sue origini, ma lei sembrava incapace di comprenderlo o riluttante a farlo, e lo allontanava con gesti impazienti. Lui sapeva soltanto che si trovava lì, imprigionato, a causa del suo bisogno di sopravvivere e che, in quella fantastica Torre, si trovava in mezzo a persone orgogliose, le quali disprezzavano le manifestazioni eccessive di gioia o di dolore, di eccitazione o di paura, ma, sotto quei vincoli ferrei, ribollivano di un tumulto interiore. Percosse e insulti rendevano la sua vita dolorosa. La solitudine era la sua unica compagna. Alcune cose, tuttavia, rendevano tutto più sopportabile: il mormorio del vento sui bastioni, le giornate in cui la nebbia avviluppava il mondo sottostante - e allora lui pensava di vivere su un'isola tra le nubi -, le notti in cui la pioggia tamburellava contro le mura esterne, il canto degli uccelli portato dalla brezza del mattino, il toc, toc, toc del rospo del muschio - il cui richiamo si diceva migliorasse il sapore del vino nelle botti -, la salmastra brezza marina che sapeva di avventure in luoghi lontani, la vista della Grande Stella del Sud che sembrava un verde fuoco acceso nel cielo notturno, il naso caldo e amichevole delle capre, dei cani e delle scimmie, la fugace apparizione degli eotauri e delle possenti Navi del Vento che solcavano i cieli, le storie narrate intorno al fuoco della cucina... Quelle storie scandivano inoltre il trascorrere dei giorni e gli permettevano Hi viaggiare con la fantasia lontano dall'isolamento della Torre. Esse erano l'unico modo per scoprire come fosse Aia, il mondo, oltre i confini della tenuta. Erano un legame con l'Oltre. E lui si chiedeva: Un giorno riuscirò a fuggire, oppure le tenute della Torre saranno la mia tomba? Tutti parlavano del matrimonio che si sarebbe celebrato alla Torre nel mese di Teinemis, il Mese del Fuoco. Lady Persefonae, figlia di Lord Voltasus e di Lady Artemisia, avrebbe sposato il giovane erede del Quinto Casato e la cerimonia si sarebbe svolta solo quarantadue giorni dopo il Giorno del Grande Sole. Nei piani sottostanti il livello del molo, correva voce che la torta nuziale sarebbe stata decorata con zucchero vero, spedito
dalle Isole Turnagain, e che un pasticcere sarebbe giunto direttamente da Caermelor, la Città Reale, apposta per prepararla. I servi non facevano che lamentarsi dell'enorme mole di lavoro supplementare dovuto alle nozze imminenti e allora Brand Brinkworth aumentò la qualità e la quantità delle sue narrazioni serali. Una notte, raccontò un'allegra vicenda che parlava della moglie fortunata ed estremamente virtuosa di un contadino. Al risveglio, la donna scopriva che, nel corso della notte, qualcuno aveva già svolto tutto il suo lavoro in maniera perfetta: le mucche erano munte, le galline nutrite, il burro era preparato, la casa era ripulita da cima a fondo e il fuoco era acceso nel focolare, con una pentola di porridge che gorgogliava su di esso. «Le cose continuarono in questo modo per qualche tempo», proseguì il narratore. «Ma, a un cento punto, quella brava donna fu assalita dalla curiosità di vedere chi fosse tanto gentile e disponibile con lei. Una notte si alzò dal letto e aprì di un'unghia la porta della cucina, sbirciando. Potete immaginare il suo stupore quando vide una schiera di piccoli folletti dal cappuccio verde, impegnati a spazzare e a lucidare fino a rendere tutto pulito e lindo. La donna notò però anche che i loro vestiti erano di umile fattura e laceri; dispiaciuta per loro, trascorse la settimana successiva a cucire e preparò una serie di splendidi abiti nuovi per tutti i folletti. Una sera, depose gli abiti in cucina e, quella notte, si alzò di nuovo per sbirciare. Ebbene, i folletti sembrarono così felici di quegli abiti nuovi che li indossarono immediatamente, mettendosi a saltellare per la gioia. Subito dopo, però, svanirono nel nulla, e la moglie del contadino non li rivide mai più.» «Che donna stupida!» esclamò una sguattera. «Anche un idiota sa che le creature seelie non amano essere ricompensate per le loro buone azioni. Per loro, essere ringraziati con doni o complimenti equivale a un insulto!» «Non è vero», intervenne un servo. «Secondo me, sono svaniti perché i loro abiti nuovi li rendevano troppo eleganti per svolgere lavori umili.» «Questo è un punto su cui sono in molti a dissentire», mormorò Brinkworth, accarezzandosi la barba. «Si potrebbe dire che è un pomo della discordia. Bisogna ringraziare oppure no? A mio parere, quel dono di ringraziamento ha fatto capire ai folletti che erano stati spiati. E qualsiasi creatura magica, seelie o unseelie, detesta essere spiata. Ecco perché se ne sono andati.» «Che io sia dannato! Se qualcuna di quelle creature tanto disponibili dovesse mai venire qui nella Torre, prenderò a pugni chiunque provi a spiarli
o cerchi di ringraziarli», dichiarò Rennet Tightbone. «Io non ricevo mai nessun ringraziamento e non vedo perché mai si dovrebbero ringraziare quelle creature ingannevoli. In ogni caso, non ne ho mai vista una in tutta la mia vita, e credo che queste siano soltanto frottole.» «La Torre è talmente protetta, con sorbo, ferro e magia, che nessuna creatura seelie o unseelie potrà mai penetrarvi», commentò Brand Brinkworth. «È per questo che non ne hai mai vista una, Rennet.» «Quello che sto per dirvi non è una frottola», interloquì Teron Hoad, il mozzo di stalla, umettandosi le labbra. «È la pura verità.» Nervosamente, gli occupanti la cucina si strinsero gli uni agli altri. Hoad era famoso per i suoi racconti macabri e sanguinari, e nessuno voleva perdersi una sola parola. Pareva che lui si sentisse in dovere d'incupire l'atmosfera ogni volta che si faceva troppo serena, e per questo gli avevano affibbiato il soprannome di «Hoad il Rospo». Per qualche misterioso motivo, poi, a Hoad mancavano due dita, e lui teneva quelle due appendici in un vaso, in salamoia. Una stramberia che di certo accresceva la sua sinistra reputazione. «Vi parlerò della Bestia Beulach, che infestava l'Ailagh Pass, nella Finvarna», cominciò il mozzo di stalla, con soddisfazione. «Infestava?» «Sì. È scomparsa dopo che la sua caccia di sangue ha avuto successo. La si poteva sentire soltanto di notte, quando lanciava strida e ululati tali da ghiacciare il sangue a chi la udiva e da indurlo a fuggire per l'orrore, sprangando porte e finestre.» «Com'era fatta?» «Talvolta era un uomo con una gamba sola; altre volte era un uomo normale, altre volte ancora era un mastino o una bestia immonda e malvagia. Da quelle parti, la gente non osava avventurarsi all'aperto dopo il calare del buio, perché la Bestia era sempre in caccia. E, alla fine, è riuscita ad avere ciò che stava cercando...» S'interruppe, per creare un effetto drammatico. «Che cosa, Hoad? Che cosa?» belarono i suoi ascoltatori. Hoad si guardò alle spalle e abbassò la voce. «Un mattino, un viandante fu trovato morto vicino alla strada, trapassato da due profonde ferite, una al fianco e una alla gamba. L'uomo aveva una mano premuta su ciascuna di esse. A quanto pareva, quelle ferite erano troppo strane e spaventose per essere state inflitte da un uomo... Doveva essere stata opera della Bestia Beulach, perché essa non venne più né vista né sentita all'Ailagh Pass.»
«Forse là se ne sono liberati, ma adesso sarà andata da qualche altra parte», commentò Tightbone, grattandosi le dita callose con un coltello per tagliare le unghie. «Non si libereranno mai del Buggane, che infesta la Grande Cascata, vicino a Glyn Rushen.» «Si tratta di un toro d'acqua, vero?» interloquì il fuochista, in tono dubbioso. «Sì. È un toro d'acqua, amico mio, ma non è un seelie, no, nient'affatto, ed è particolarmente pericoloso e cattivo. Vive nella polla sottostante la cascata, e talvolta appare come un uomo, anche se di solito assume la forma di un grosso vitello nero che attraversa la strada e si tuffa nella polla con un suono simile a un tintinnare di catene.» Un servo agitò le catene della pentola di ferro dello stufato, e tutti sussultarono. «Ti staccherò le orecchie per questo, furfante di un buffone!» gridò Tightbone, indignato. Gli altri servi intervennero a placare il cuoco, che alla fine si decise a proseguire il racconto. «Non molto tempo fa, ho appreso una storia sul Buggane da un ambulante arrivato con l'ultima carovana. Pare che una ragazza stesse lavorando davanti alla sua casa, a Glyn Rushen, non molto lontano dalla Grande Cascata. Era intenta a cogliere rape per il pranzo quando il Buggane, in forma umana, è sopraggiunto, ruggendo, l'ha afferrata, se l'è gettata in spalla e si è allontanato con lei verso la sua dimora sottostante la polla prima che chiunque potesse intervenire a salvarla. La ragazza però è stata fortunata, perché aveva ancora in mano il coltello per le rape. Così, proprio quando sono arrivati alla polla, lo ha usato per tagliare i lacci del grembiule, riuscendo a liberarsi. Poi si è messa a correre verso casa veloce come il vento, terrorizzata all'idea che quella bestia la stesse inseguendo.» «Questa storia non è diversa da quelle dell'Each Uisge», mormorò un sottocameriere. «Indossare un grembiule, nelle zone infestate da queste creature acquatiche, sembra una buona idea.» «Con indosso un grembiulino, avresti l'aria del perfetto idiota», sbuffò una cameriera. Un cantiniere mezzo sordo, con una rete di rughe intorno agli occhi, si riscosse dal suo torpore. «E che dire del vecchio Trathley Kow, che infesta il villaggio di Trathley, nell'Eldaraigne centrale?» gridò. «È una creatura più maliziosa che cattiva, ma quella gente non la vedrà mai andarsene.» «In fede mia, spero che non se ne vada mai», commentò il sottocamerie-
re. «Le storie che riguardano quel burlone sono sempre divertenti. Ogni suo scherzo si chiude con una risata simile al nitrito di un cavallo, a spese di coloro di cui si è burlato.» «Ho sentito una bella storia sul Trathley Kow», interloquì una cameriera dalle graziose fossette. «È accaduta a un paio di giovani di un villaggio vicino a Trathley. Un pomeriggio di un giorno di festa, si erano accordati per incontrarsi con le loro fidanzate presso una scaletta vicino a Cowslip Lane, ma, quando sono arrivati, i due hanno visto le fidanzate che si allontanavano dalla parte opposta del pascolo. Le hanno chiamate, però le due sembravano non udirli; allora si sono messi a correre per raggiungerle. La corsa si è protratta per due o tre miglia, ma, per quanto veloci, i due giovani non sono riusciti a raggiungere le ragazze. Inoltre non hanno badato a dove stavano andando e, con sgomento, si sono ritrovati immersi fino alle ginocchia in una pozza di fango. In quel momento, le fidanzate sono svanite, con l'accompagnamento di una sonora risata, e al loro posto è apparso invece il Trathley Kow. Come potete immaginare, i due ragazzi si sono liberati dal fango in un momento e si sono dati subito alla fuga. Quella creatura burlona li ha inseguiti per colline e valli, ridendo e beffandosi di loro. Alla fine, hanno dovuto attraversare lo Shillingswater per tornare a casa, ma erano entrambi così spaventati che sono caduti in acqua. Sono riemersi coperti di alghe e di fango, e naturalmente ciascuno dei due, non appena ha dato un'occhiata all'altro, lo ha scambiato per il Trathley Kow!» Gli ascoltatori faticarono a controllare l'ilarità. «Continua, continua», implorò il fuochista, rosso in volto, con le lacrime agli occhi. «Urlando di terrore, ognuno dei due ha allontanato da sé l'altro, poi entrambi si sono precipitati fino alle rispettive case, dove hanno raccontato di essere stati inseguiti dal Trathley Kow e quasi annegati nello Shillingswater.» Gli ascoltatori si premettero i pugni contro la bocca, cercando di soffocare risate prorompenti quanto un getto di vapore. «Ebbene, per quegli stolti ragazzi è stata una fortuna non vivere più vicini alle montagne», intervenne Hoad il Rospo. L'atmosfera si fece di colpo meno ilare. «Perché?» fu pronto a domandare un ragazzo addetto allo spiedo. «Ecco, se fossero usciti a passeggio in quel modo, sarebbero stati preda sicura delle Gwithlion.» «Ah, le Gwithlion», annuì Brinkworth. «Sono creature davvero malva-
gie.» «Che cosa fanno, Mastro Hoad?» chiese il ragazzo addetto allo spiedo. «Si tratta di orribili megere», spiegò il mozzo di stalla. «Sono più brutte della vecchia Grethet, se il tuo cervello riesce a immaginare una cosa del genere. Esse fuorviano e aggrediscono i viandanti di notte, sulle strade di montagna. Talvolta assumono la forma di capre. Non contente di vagare nel buio, arrivano perfino a visitare la casa della gente di montagna, soprattutto se c'è tempesta. E, quando le Gwithlion bussano a una porta, gli abitanti della casa sanno di doverle accogliere con cortesia, per timore del male che possono fare.» «Già... Però basta puntare loro contro un coltello e sono sconfitte», disse con voce stentorea il vecchio cantiniere. «Odiano il potere del ferro.» «È vero», convenne il Rospo. «Però il ferro e altre protezioni non servono a nulla contro quelle più potenti.» Quell'osservazione minacciosa - ma veritiera - fece tacere tutti per qualche tempo. Infine il ragazzo addetto allo spiedo disse: «Mastro Brinkworth, vorrei chiederti una cosa». «Sentiamo.» «Puoi raccontarci di quella volta in cui il Mago Sargoth ha tagliato in due il buffone del Re-Imperatore e poi lo ha rimesso insieme, senza che lui morisse?» Sapendo quanto fosse abile nell'usare la frusta, il trovatello evitava il Maestro d'Armi. Essere come sepolto nelle catacombe dei servitori gli dava ben poche occasioni per incontrarlo, tuttavia non poteva illudersi: prima o poi avrebbe rivisto il suo avversario. «Puoi scendere a dare una mano nelle stalle», gli annunciò un giorno Grethet. «Sei molto fortunato. Lo capisci? Laggiù sono a corto di uno stalliere e hanno bisogno di qualcuno. Fa' quello che ti dicono e non toccare i cavalli a meno che non ti venga ordinato. I cavalli sono preziosi, enormemente più preziosi di te. Bada a come ti comporti.» Con quelle raccomandazioni, il giovane era quindi sceso per la prima volta nelle stalle e nei recinti di addestramento degli eotauri. Gli pareva che fosse trascorso moltissimo tempo da quando era giunto lì, presso il Settimo Casato dei Cavalieri della Tempesta. Di preciso non sapeva quanto, ma i suoi capelli erano cresciuti di una spanna, arrivandogli alle spalle; a un certo punto, essi gli ricaddero sugli occhi, e lui rimase stupefatto nel vedere che avevano un colore dorato. Detestava che fossero
così diversi da quelli degli altri, che avevano tutti una capigliatura in varie tonalità di castano. Da quel momento, che fosse all'interno o all'esterno, si coprì costantemente la testa col cappuccio. I pasti non comprendevano più i frutti e le bacche dell'autunno; ormai c'era lo stufato di fagioli secchi proprio dell'inverno. La Torre aveva celebrato la Festa Imbrol di Mezz'Inverno nel Giorno del Piccolo Sole, il primo del nuovo anno e di Dorchamis, il Mese Oscuro. Il 1090 era stato accolto con banchetti e ghirlande di agrifoglio, falò accesi nei pascoli a mezzanotte ed enormi budini che risplendevano come piccoli soli e che la servitù più infima non aveva neppure assaggiato. Gradualmente, il cibo secco proprio dell'inverno era stato poi sostituito da erbe e verdure fresche. Per tutto quel tempo, il ragazzo senza nome era rimasto nella Torre, lontano dal livello del suolo, senza poter vedere granché attraverso le finestre opache dei livelli della servitù... Ora invece si sarebbe avventurato nelle tenute esterne. Addossate alla parete settentrionale della Torre, le stalle di dominite ospitavano quasi un centinaio di cavalli alati. Stallieri, addestratori e addetti ai finimenti vivevano e dormivano con loro, tenendoli costantemente d'occhio. Negli ampi magazzini, nelle stanze dei finimenti, negli stalli, sulle piste di esercitazione, di trotto e di galoppo ogni giorno ferveva l'attività. Là c'era una fucina dove un maniscalco svolgeva il suo lavoro, c'erano le botteghe del fabbricante di finimenti metallici e del sellaio; l'odore pungente di stallatico si fondeva col sentore del cuoio. Nel passare davanti a una porta aperta, il giovane intravide la groppa e la coda di una dozzina di quelle creature a metà tra cavallo e uccello, nei loro stalli, col manto e con le penne ben strigliati che andavano dal baio al sauro, dal roano al bianco. Quell'incredibile piumaggio si addiceva senza dubbio a qualche creatura munita di becco e con le ossa cave che fosse uscita da un uovo, una creatura dai freddi occhi rotondi, dotata di artigli e con movimenti rapidi e secchi; invece esso accarezzava i fianchi di mammiferi a quattro zampe dall'alito caldo, senza dubbio dotati di penne e di un fisico aerodinamico, ma diversi da un uccello quanto la luna lo era da una pagnotta. Il rumore di un costante masticare era punteggiato dal battere di uno zoccolo o dal tendersi di una corda; per terra, i fili di paglia si mescolavano alle penne di cavallo. In fondo alla stalla, un puledro ancora implume si aggirava inquieto nel suo stallo, più ampio degli altri. A sud-ovest, le stalle si affacciavano sul Porto di Isse, a nord c'erano i verdi campi recintati dove pascolavano eotauri e cavalli normali, mentre a
ovest si estendevano i frutteti e, al di là, si allargava la foresta, all'apparenza sterminata. «Tu devi essere il ragazzo che mi hanno mandato», osservò una voce burbera. Keat Featherstone, lo stalliere in seconda, lo squadrò poi da testa a piedi, annuendo. I capelli rasati a zero, Featherstone era un uomo dal volto duro, con la mascella coperta da un perenne velo di barba. «Sei brutto, proprio come mi hanno detto, ma suppongo che non sia colpa tua, e i cavalli non si spaventano davanti a una brutta faccia, cosa di cui rendo grazie alla Stella, altrimenti avrei già perso il mio lavoro. Mi hanno detto anche che non parli, ma per me questo non è un problema, a patto che non ti debba guardare troppo spesso. Sai lucidare i finimenti?» Il ragazzo annuì con entusiasmo, ansioso di compiacere chiunque potesse offrirgli il modo di lasciare gli alloggi dei servitori, sia pure per poche ore. Avrebbe fatto di tutto per accontentare quell'uomo, il primo che non aveva manifestato ostilità nei suoi confronti. «D'accordo. Quella è la stanza dei finimenti. Va' dentro, e bada di tenere sempre ben legato il cappuccio», ordinò lo stalliere in seconda, levando gli occhi al cielo. La stanza dei finimenti offriva un'interessante varietà di selle, di briglie, di cavezze e di sconcertanti e indefinibili oggetti di cuoio e ferro. Le panche erano coperte di attrezzi, di pezzi di cuoio, di frammenti di metallo, di ferri di cavallo arrugginiti e di chiodi. Decorazioni in ottone per i cavalli a forma di galletti, di margherite, di pagnotte, di bacche di sorbo e di foglie d'iperico erano appese a strisce di pelle di cinghiale conciata accanto a file di campanellini. Canestri e bottiglie pieni di semplici medicamenti per cavalli erano disposti su uno scaffale addossato alla parete e, su ogni contenitore, era stata applicata una rozza etichetta recante alcuni disegni, giacché la maggior parte dei mozzi di stalla non sapeva leggere e scrivere. Ai disegni erano però affiancate scritte stilate con cura: olio di castoro, pece, magnesia, unguento per la malandra e spirito di vino... Un paio di lanterne cieche in corno era appeso a ganci di ferro. In quell'ambiente confortevole, il ragazzo, deciso a compiacere Keat Featherstone, lavorò senza sosta per tutta la mattina, applicando oli e unguenti sino a far brillare il cuoio, accantonando tutti gli oggetti che avevano bisogno di riparazioni o di sostituzione, ristabilendo un ordine dal caos creato dagli addetti ai finimenti - che avevano gettato ovunque brighe e altre attrezzature, con la noncuranza dovuta alla fretta -, raccogliendo, ap-
pendendo, allineando e riponendo. Fece tutto cercando di confondersi con le ombre, timoroso che qualcuno, vedendolo, potesse umiliarlo. Le finestre erano però prive d'imposte e la porta era aperta, così gli giungevano un misto di voci, di latrati di cani, di zoccoli che battevano sull'acciottolato, di cozzi del metallo contro il metallo e di strida di gabbiani portate dal vento. I garzoni di stalla andavano e venivano davanti alle finestre e, attraverso la porta, lui poteva vedere la fucina, il cui pavimento di pietra era sollevato di tre piedi rispetto al rivestimento di andalum steso tra l'edificio e il terreno, fondamenta essenziali per qualsiasi luogo in cui venisse lavorato il sildron. Quella bottega dall'alto camino, con le sue finestre sbarrate per prevenire i furti e il tetto rivestito d'ardesia, era ombreggiata da antichi castagni, alti oltre cento piedi, da cui cadevano fiori candidi come neve. A un certo punto, una giumenta di eotauro roana, dalle ali color bronzo e dagli zoccoli privi di ferri, venne sospinta lungo la rampa... una campionessa, a giudicare dal suo aspetto snello e muscoloso. D'un tratto, un corno di bronzo lanciò un segnale che, come il ragazzo aveva appreso, annunciava l'arrivo di una Nave del Vento ed era quindi causa di eccitazione generale. I corni d'argento annunciavano i Corrieri, quelli di bronzo le Navi del Vento, il corno a spirale segnalava le Navi d'Acqua e i tamburi avvertivano di qualsiasi cosa si avvicinasse per via di terra. All'esterno, il chiasso s'intensificò. Dentro, il giovane allungò il collo per poter vedere meglio dalla finestra, verso i piani più alti della Torre. La nave sopraggiunse al di sopra delle cime degli alberi, e le prime cose che apparvero furono la velatura e il sartiame. Decorato con una serie di stendardi, il vascello sfoggiava un pennacchio in testa d'albero, lo stendardo dell'Eldaraigne sul castello di prua e altre quattro bandiere a poppa, inclusa l'insegna gialla del Servizio Mercantile, oltre a festoni lunghi una trentina di iarde, che recavano immagini di draghi gialli, uccelli bianchi e losanghe blu. A tutto ciò si aggiungevano poi le piccole bandiere a coda di rondine che recavano vari stemmi raffiguranti teste di tyrax, di drago o di lince. Il brigantino in arrivo, un tre alberi della Linea Rhyll-Desson, misurava duecento piedi da prua a poppa, era largo trenta e il suo albero di maestra raggiungeva i centoquaranta piedi. La sua polena era una donna dai lunghi capelli fluenti, la raffigurazione del Vento del Nord. Quattro alettoni sporgevano dalla chiglia, due per lato, ed eliche di legno vorticavano all'estre-
mità di ciascuna. Quando la nave si avvicinò al molo del Livello Sette, tutte le vele vennero rapidamente ammainate, per evitare che il brigantino si schiantasse contro la fortezza, e un Cavaliere della Tempesta Furiere lanciò alcune gomene ai marinai. Le ancore vennero gettate verso il sottostante cortile di ancoraggio, e il personale del molo della Torre si protese in fuori con picche e rampini per spingere e tirare la nave, usando lunghi deflettori elastici per agganciare lo scafo a entrambe le estremità, in modo che rimanesse ancorato al molo a distanza di sicurezza. Tra un acuto suono di fischietti, il comandante e gli ufficiali in seconda presero a gridare una serie di comandi. Freneticamente, gli aeronauti manovrarono gli argani per regolare le catene della piastra di andalum che scorreva tra il rivestimento di sildron e lo scafo, in modo da raggiungere l'altezza adeguata ed estendere le rampe per lo scambio del carico: si trattava infatti di una nave di rifornimento proveniente da Gilvaris Tarv e diretta a Rigspindle. Il suo nome, Libellula, era dipinto in lettere eleganti su entrambi i lati della prua. Ancorata, la nave sussultava leggermente, come avrebbe fatto un veliero su un mare calmo, un movimento causato dallo spostarsi dei pesi a bordo. Piccole chiazze di muschio e di licheni rivestivano lo scafo, là dove i molluschi si sarebbero attaccati allo scafo di una Nave d'Acqua. Il brigantino proiettava un'ombra magnifica sull'orto sottostante. «La Libellula è proprio elegante, vero?» commentò una voce rozza, infrangendo i sogni a occhi aperti del giovane, che sussultò con aria colpevole. Dain Pennyrigg, uno stalliere che frequentava la cucina dei servi, al Livello Cinque, entrò nella stanza dei finimenti. Il suo volto cosparso di lentiggini, caratterizzato da un naso all'insù e da una bocca ampia, era illuminato da occhi acuti che non si lasciavano sfuggire nulla. «Non aver paura, ragazzo. Anche un cieco vedrebbe che non sei un fannullone.» Fece un sorrisetto storto. «Non andare in giro a vantartene, ma è possibile che tu abbia lavorato meglio di qualsiasi altro ragazzo, da quando ho cominciato a prestare servizio qui. In questo pacchetto ci sono pane e formaggio per il tuo pranzo... li manda Keat Featherstone. Se hai sete, il pozzo è dietro l'angolo.» Il giovane sapeva che avrebbe dovuto tenersi la sete: se beveva da una fonte comune, infatti, gli altri lo accusavano invariabilmente di averla contaminata. «Non sei mai stato qui prima d'ora, vero, ragazzo?» domando Dain Pen-
nyrigg, inarcando un sopracciglio con aria quasi gentile. L'altro scosse il capo. «Stai sempre chiuso in quella prigione con la vecchia mamma Grethet. 'Bada a come ti comporti, bada a come ti comporti'», scherzò, imitando il tono gracchiante della donna. «Stupida vecchia! Vado là soltanto per ascoltare le storie, perché Brinkworth è il miglior narratore che ci sia da queste parti... migliore di Hoad il Rospo, in ogni caso. Al Rospo piacciono troppo le storie cupe e spaventose; le inventa lui stesso, crea i personaggi in modo da poterli poi ammazzare in modo orribile. È una fortuna se qualcuno arriva vivo sino in fondo. Adesso però smettila di chiacchierare, ragazzo, perché mi stai distraendo dal lavoro... Featherstone mi ha detto di assegnarti il tuo prossimo incarico. Metti via le cose per lucidare e seguimi.» Riposti il pane e il formaggio nella sacca da cintura, il giovane lo seguì, con lo sguardo fisso sulla Nave del Vento che fluttuava accanto alla Torre, cui era ora collegata da ampie rampe di carico, funi di ormeggio e rampini, e che sciamava di marinai e stivatori. Giù, nei cortili, cavalli e stallieri correvano avanti e indietro, tra grida miste al martellare del ferro, al soffio dei mantici, al clangore del metallo e al rumore di stivali che battevano sulla pietra. Tra gli edifici, s'intravedevano lunghi prati frangiati da cupe foreste, dalle quali la brezza dell'ovest portava un profumo di vegetazione unito al ciangottare degli uccelli. Una piattaforma per cavalli rivestita in andalum, che trasportava alla Torre un eotauro dai ferri di sildron, passò loro davanti; in alto, un vortice di Cavalli Celesti stava galoppando lungo le piste di addestramento e il sole sembrava un pesce rosso in una vasca celeste. Mentre i due servi procedevano sull'acciottolato davanti alla fucina, tre cavalieri passarono loro accanto al galoppo e li costrinsero a gettarsi di lato. «Mortier l'arrogante, l'astuto... che sia dannato!» ringhiò Pennyrigg, recuperando l'equilibrio. «Non gli importa di nulla, fa tutto quello che vuole... Non so come gli permettano d'indossare i colori nobiliari invece del grigio degli addestratori.» Il Maestro d'Armi dal mantello scarlatto e i due attendenti, sempre al galoppo, svoltarono dietro un angolo delle stalle, lasciandosi alle spalle una scia vorticante di candidi fiori di castagno. Pennyrigg stava per riprendere a parlare quando un'improvvisa agitazione vicino alla porta della fucina attirò la sua attenzione. Un Cavallo Celeste grigio era sfuggito al controllo: s'impennava e scal-
ciava, sbuffando e roteando gli occhi. Le sue enormi ali piumate erano completamente aperte e si agitavano tra nubi di polvere, con un rumore di mille piume. Vicino agli zoccoli dell'eotauro era accoccolato un cebo cappuccino, una delle scimmiette tenute nella Torre come animali domestici, abbigliata con un vecchio giustacuore di cuoio che qualcuno le aveva infilato sul corpo peloso. Levando strida acute, l'animale agitò le zampe anteriori, poi si mise a correre verso il castagno più vicino, inseguito da un gruppetto di garzoni di stalla. «Dannazione! Com'è arrivata qui quella bestiaccia?» tuonò il fabbro, scarlatto in volto, presentandosi sulla soglia con una pinza arroventata stretta in mano. Era infatti ben noto che gli eotauri temevano i cebi... L'esclamazione adirata del fabbro esacerbò la situazione: nitrendo, lo stallone impaurito indietreggiò a ridosso della parete, scagliando di lato i due stallieri appesi alla sua cavezza e liberandosi così tra uno svolazzare di penne. Uomini incappucciati sopraggiunsero di corsa da ogni direzione: un eotauro era troppo prezioso per lasciare che si facesse del male. Accecato dal terrore, il possente stallone grigio si lanciò lungo la rampa della fucina, proprio in direzione di Pennyrigg e del suo obbediente accompagnatore. Imprecando, Pennyrigg si gettò di lato per la seconda volta in cinque minuti, mentre il suo compagno reagì d'istinto: quando lo stallone grigio gli passò accanto, lui afferrò la cavezza e la tenne stretta. Uomo e animale proseguirono così per parecchie iarde prima che il cavallo si arrestasse di colpo. Col vapore che si levava dai fianchi tremanti, lo stallone rimase immobile in mezzo a una cortina di polvere, sbuffando come un drago con le narici arrossate. Le grandi ali erano ancora protese, e la luce del sole filtrava attraverso la raggiera di penne. Fissando gli occhi del cavallo, il giovane continuò a tenerlo per la cavezza con una mano e protese l'altra ad accarezzargli il collo. Le sue dita affondarono nella criniera ispida e seguirono i contorni delle piccole corna argentee che sporgevano dalla fronte; il suo alito si mescolò con quello rovente dell'animale mentre il ragazzo, per la prima volta, osservava da vicino quella stupefacente creatura. Le due forme - uccello e cavallo - si fondevano alla perfezione: le ali crescevano direttamente dalla vellutata muscolatura dei quarti posteriori, da cui sbocciava il lungo arco d'osso rivestito di peluria al quale erano fissate le penne maestre e le remiganti secondarie, disposte in. un ampio ventaglio, penna sovrapposta a penna, un perfetto mosaico che terminava nella punta sottile. Anche l'eotauro conti-
nuò a fissare il ragazzo, che sostenne lo sguardo dei suoi occhi liquidi; intanto una piccola folla si era radunata intorno a loro. Dopo qualche tempo la polvere si posò, il respiro dell'animale divenne più regolare ed esso ripiegò le ali possenti. «Per la terra e i pesci!» commentò Keat Featherstone, avanzando per impadronirsi della cavezza. Senza voltarsi verso il nuovo aiutante, sudato e sporco di terra, aggiunse poi a mezza voce: «Hai fatto un buon lavoro, ragazzo, davvero buono». Mentre un altro stalliere portava via l'eotauro, tre cavalieri avanzarono, costringendo la folla mormorante a dividersi, poi fermarono le cavalcature. «Cos'è tutta questa agitazione?» domandò una voce nasale. Il cappuccio rosso carminio, bordato di broccato, gravava sulla testa del Maestro Mortier. Anche se i lacci erano ben stretti, lunghe ciocche di capelli flosci sfuggivano sotto di esso, incorniciando un volto che sarebbe anche stato bello, se non fosse stato per il mento sfuggente e per le labbra troppo piene e informi. Il ventre sporgente tradiva la propensione di Mortier ad assaggiare ogni nuova prelibatezza. Le mani guantate tenevano con leggerezza le redini. Accanto a lui, da un lato, c'era Galliard, il Maestro della Navigazione Aerea, e, dall'altro, il suo valletto. Grasso e rubicondo, il fabbro scese ansimando la rampa della fucina. «Maestri, non avevo mai visto un cebo cappuccino aggirarsi in questi pascoli... almeno di recente!» annunciò in tono deciso. Poi, come per un ripensamento, aggiunse: «E non avevo mai visto neppure una creatura come quella laggiù». E indicò il giovane deforme che seguiva Keat Featherstone. Era senza dubbio un eccellente capro espiatorio. «Quel miserabile dall'aspetto malato è stato la causa di tutto, ne sono certo... Ha spaventato Principe della Tempesta al punto d'impedirmi di ferrarlo.» Dall'alto della sella, il Maestro d'Armi abbassò lo sguardo sull'accusato, che s'immobilizzò e arrossì, mentre la folla di stallieri indugiava tutt'intorno con aria incerta. «Ma guarda! Di nuovo lui!» esclamò Mortier, assestandosi i guanti da equitazione. «È un noto fomentatore di disordini. Le lezioni che ti abbiamo impartito non ti hanno insegnato nulla, giovane modello di bruttezza? Ahimè, dovremo rinfrescarti la memoria.» Il valletto scoppiò in una breve risata, acuta e tagliente. «Lui verrà immediatamente con me», aggiunse Mortier, puntando il frustino verso il giovane. Una figura massiccia si fece largo tra la folla. «Buon signore...» intervenne Dain Pennyrigg, con voce cupa. «Non è colpa del ragazzo.»
«Tieni a freno la lingua, lacchè, non sono cose che ti riguardano.» Keat Featherstone si bloccò a metà di un passo e girò sui tacchi con impazienza. «Non riguardano neppure voi, signore. Questi sono i cortili delle stalle, non le sale di scherma. Il ragazzo ha salvato lo stallone grigio da danni certi, la scimmia che ha spaventato il cavallo non è di sua proprietà e non è venuta qui con lui. Non ho idea di come sia arrivata qui, però i miei ragazzi la stanno allontanando, come potete vedere.» Incapaci d'indurre la scimmia a scendere dall'albero, i ragazzi avevano cominciato a scagliarle contro alcuni sassi. Sibilando, offesa, la bestiola snudò i denti gialli e spiccò il balzo da un ramo, fuggendo lungo i tetti. Cambiando lievemente espressione, Mortier riportò lo sguardo sull'oggetto della sua arringa, squadrando il giovane da testa a piedi e arricciando le labbra. Poi, senza neppure ribattere, il Maestro d'Armi e i suoi compagni spronarono le cavalcature e si allontanarono al galoppo, sparpagliando di nuovo la folla. «Un nemico scomodo», commentò più tardi Keat Featherstone, nella stanza dei finimenti. «Non riesco a immaginare come tu possa esserti imbattuto in lui, attirando la sua attenzione, però mal te ne incoglierà.» Soprappensiero, raccolse una striglia lasciata su uno scaffale e la rigirò tra le mani. «Se sei abile coi cavalli, come sembra, vorrei che venissi a lavorare qui, di tanto in tanto. Ma tieniti alla larga da lui, ragazzo, perché non voglio che tu faccia la stessa fine del povero Pod, quel ragazzo zoppo e un po' matto che Mortier tiene come paggio. Il Maestro... ecco...» Featherstone si grattò il naso, distogliendo lo sguardo per un istante. «Il Maestro studia le Nove Arti, e preferisce che siano persone def... un po' deboli di mente, a svolgere incarichi per lui. Si dice che abbia rapporti con creature unseelie. Forse i signori dei Cavalieri della Tempesta non lo sanno... Di certo, finché queste cose non interferiscono con le loro attività, non se ne curano. Mortier è un eccellente spadaccino, senza dubbio, ed è un ottimo insegnante per i giovani Corrieri, che devono essere esperti nell'uso delle armi, quindi i suoi servigi sono preziosi. Sarai al sicuro, a patto che ti tenga lontano da lui.» Sospirò, posando la striglia, e si diresse verso la porta, concludendo: «Vieni, ragazzo. È quasi il crepuscolo ed è meglio che tu torni nella Torre». C'erano cose che gli sarebbe piaciuto dire, domande che avrebbe voluto porre. Sembravano martellargli contro il cranio, chiedendo di essere liberate. E invece erano chiuse a chiave dentro la sua mente, proprio come lui
era rinchiuso in quella Torre e nelle sue tenute. Non c'era nessuna parola d'ordine, nessuna chiave, neppure una sottile fessura a suggerire che la porta potesse essere socchiusa. E gli alberi frementi, gli alberi frementi ruggivano, e i venti di tempesta soffiavano, mentre noi allegri aeronauti navigavamo in alto e i marinai d'acqua dolce giacevano in basso, in basso, in basso, e i marinai d'acqua dolce giacevano in basso. Tren Spatchwort stava cantando nella cucina dei servi, al Livello Cinque, e stonava. «Smettila con quel chiasso, Spatchwort», gli ingiunse Dain Pennyrigg, sbadigliando. «Preferirei sentire le strida di un cebo cappuccino.» «È un vecchio canto di marinai, vero?» domandò la Custode delle Chiavi. «Tu però hai cambiato le parole per adattarle alle Navi del Vento. Hai in mente d'imbarcarti su una di esse, non è così?» «Sì, un giorno mi farò ingaggiare e me ne andrò da qui», rispose Tren Spatchwort. «Perché? Qui non è poi così male. Inoltre, cosa faresti per guadagnarti da vivere? Non penserai di assicurarti la cena cantando, vero?» commentò Pennyrigg, bevendo un sorso di vino caldo da un boccale crepato e appoggiando gli stivali su un tavolo. Le pale di legno erano posate contro i forni per il pane ancora caldi, la luce delle lampade si rifletteva sulle fibbie da cintura modellate con teste di animali e negli occhi dei presenti, ammorbidendo i tratti dei volti. Oziando sulle panche e sugli sgabelli disposti intorno ai tavoli, i servi giocavano a carte e a dadi, bevevano, chiacchieravano o intagliavano il legno, mentre i bambini giocavano a mosca cieca. «Vorrei farmi accettare dai Dainnan proprio come lo vorresti tu, Pennyrigg, come lo vorrebbe chiunque tra noi. Contrariamente a voi, teste di legno, io supererei le prove, diventando un membro della Confraternita. Allora potrei viaggiare, vedere il mondo, combattere e partecipare a grandi avventure, e il Bardo Reale scriverebbe canzoni su di me. Come si può realizzare qualcosa qui? È come essere su un'isola, siamo intrappolati, circondati da un mare di alberi e da creature malvagie, malkin e briugas e... altre cose», ringhiò Tren Spatchwort. «E le navi sorvolano tutto ciò. Se la foresta è diventata un mare, il mare diventerà una foresta?» «Stai bevendo troppo infuso di spadina», dichiarò Pennyrigg, assestando
un pugno scherzoso sul braccio dell'amico. «Corri il rischio di diventare un filosofo.» «E il mio amico Sheepshorn corre quello di diventare carne per i vermi.» «È di nuovo nei guai?» «Sì. Lo hanno chiuso nelle cantine per punizione.» «Il custode delle cantine farà meglio a stare attento. Entro domattina, Grod gli avrà svuotato tutte le botti!» La lamentela di Spatchwort toccò un tasto sensibile nell'anima del ragazzo senza nome, che desiderava lasciare quel luogo senza risposte per viaggiare fino a trovarne, e continuare il viaggio se avesse scoperto che non ce n'erano. Sapeva che, nella foresta, si annidavano strani pericoli e cose selvagge - era un argomento di cui i servi parlavano spesso -, ma per lui, che si stava rimettendo in forze, la prospettiva dei pericoli arcani annidati nella foresta non era peggiore dell'idea di dover trascorrere il resto della propria vita umiliato e asservito. Raggomitolata in grembo alla Custode delle Chiavi, una scimmietta vestita con un liso giustacuore di velluto rosso si stava lamentando sommessamente. «Inch sta soffrendo per Punch», commentò la donna. «Oggi è andato nelle stalle e lo hanno scacciato nella foresta.» «Infatti, ma di chi è la colpa, dato che si suppone che le scimmie vengano addestrate a non andare nelle stalle?» ribatté con indifferenza uno sguattero. «Ho sentito dire che Faccia Butterata ha a che fare con l'accaduto», intervenne un lacchè, indicando una figura accoccolata in un angolo che si raggomitolò ancor più su se stessa, intorno alla scintilla d'ira che aveva nel suo cuore. La presenza di quel ragazzo deforme aveva come innalzato la maggior parte dei servi dalla condizione di assoluta inferiorità in cui si trovava e quella era l'unica ragione per cui il giovane era tollerato. Ma, se quel fatto consolava i servitori, per contro non generava simpatia nei suoi confronti. I più erano combattuti fra l'impulso di trattarlo con prepotenza, così da ribadire la propria superiorità di rango, e quello d'ignorarlo, sulla scorta della pigrizia o della presunta offesa al loro senso estetico dovuta al suo aspetto. Le loro limitate capacità intellettive non consentivano di risolvere un simile dilemma, per cui, allo scopo di evitarsi ulteriori fatiche mentali, essi finivano per alternare tra i due atteggiamenti. «Perché striscia sempre qui, tra le persone vere?» interloquì un facchino.
«Perché non se ne resta nella stanza della fornace, con quella pazza di Grethet?» «È la pecora di Grethet, ecco cos'è», rise qualcun altro. «Fa crescere per lei quella sua lana gialla. Pare che Grethet la venderà per un bel penny, e non vedo perché dovrebbe essere lei, e non noi, a trarne vantaggio.» «A cose come quella bisognerebbe proibire di entrare nei posti dove la gente mangia», borbottò un altro. Una ciotola scagliata da uno dei bambini centrò il giovane su una spalla. «Lasciatelo stare... è innocuo», intervenne in tono secco la Custode delle Chiavi. L'attenzione di tutti si spostò altrove. Gretch, un servo, cominciò a raccontare di un orribile mostro noto come il Nuckelavee, che emergeva dalle acque marine spargendo il male ovunque andava, distruggendo i raccolti, sterminando il bestiame e uccidendo ogni mortale in cui s'imbatteva. «La sua testa è grande dieci volte quella di un uomo, e la sua bocca sporge in fuori come il muso di un maiale, ed è così larga che ci si potrebbe infilare dentro una carriola», disse Gretch con un sorriso, sputacchiando. «La sua dimora è il mare. Devasta i raccolti con la muffa e le bufere, scaglia il bestiame dalle alte scogliere lungo la costa, semina pestilenze fra i mortali. L'alito immondo delle sue narici è velenoso, fa avvizzire le piante e ammalare gli animali. Non visita mai la terraferma quando sta piovendo, ed è risaputo che genera siccità.» «Siccità?» ripeté qualcuno. «Ha dunque un'avversione per l'acqua dolce?» «Infatti, non ci sono dubbi», replicò Gretch, con aria saggia. «Ci farai venire gli incubi! Sei soltanto un pestilenziale grassone dall'indole acida, Gretch!» esclamarono gli altri servi. «Razza di scapolone debosciato!» «Per favore, Brand, raccontaci una storia più piacevole», implorò Rennet Tightbone. Il vecchio lo accontentò e la serata trascorse rapida tra un racconto e l'altro. Mentre il giovane senza nome stava lucidando le finiture di una porta, un uomo venne a cercarlo. «Sei stato convocato, Parassita. Il Maestro d'Armi ti vuole al suo cospetto, adesso!» La camera di Mortier era buia, con tende di velluto che coprivano le finestre a feritoia. Nessun fuoco offriva il suo allegro chiarore e l'unica luce
proveniva da cinque fiamme azzurre su un lungo e lucido tavolo di quercia. Un planetario meccanico rotto era sistemato davanti a un alto specchio annerito insieme con un mappamondo un po' danneggiato. Fiale e alambicchi sporchi erano ammucchiati in disordine su un sostegno a cavalletto in legno; dall'altro lato, una struttura simile reggeva rotelle di ferro arrugginite, ruote seghettate, molle, un astrolabio, un automa privo di testa e numerosi altri meccanismi in parte sventrati, il cui scopo sembrava alquanto misterioso. L'atmosfera della camera era opprimente; pareva che l'intero ambiente fosse avvolto in un sudario di torpore. Ovunque, c'erano cose smontate e mai rimontate, nulla appariva completo... Ogni progetto era stato abbandonato a metà. Il Maestro d'Armi pareva fuso con l'alto schienale di una poltrona. «Vieni qui.» Abituato alla sottomissione, il ragazzo obbedì, respirando a fatica perché il terrore crescente minacciava di soffocarlo: persino quella luce fioca non riusciva a nascondere la sgradevolezza dei lineamenti del Maestro. Per alcuni angosciosi momenti, quei freddi occhi acquosi scrutarono il ragazzo da testa a piedi, come soppesandolo, mentre lui tremava e si chiedeva quando sarebbe arrivato il colpo. Però Mortier non era tipo da prolungare la tensione: in silenzio, con un moto brusco, si protese in avanti e colpì all'improvviso, con forza. Il ragazzo barcollò, poi ritrovò l'equilibrio e indietreggiò di un paio di passi. «Questo è per l'impertinenza che hai dimostrato ieri, alla fucina.» Con rapidità sorprendente, l'uomo si alzò dalla sedia, scattando in avanti. Il secondo colpo calò come un fulmine sulla tempia del ragazzo, che sentì colare un po' di sangue. «Questo è per aver osato aizzarmi contro la gente per salvarti la pelle. E questo», continuò, mentre un terzo colpo si abbatteva sulla vittima, «è perché offendi la mia vista con la tua bruttezza.» Il ragazzo cercò di spostarsi per evitare il piede calzato di stivali, ma invano. Quando il calcio del Maestro d'Armi lo fece rotolare sotto un tavolo, trovò riparo dietro una delle spesse gambe intagliate. Le orecchie gli fischiavano e le fragili costole si alzavano e si abbassavano, accompagnando il respiro affannoso. «Vieni fuori. T'inginocchierai davanti alla mia sedia e implorerai perdono per le tue offese. Vieni fuori immediatamente, ho detto, se non vuoi essere ancora punito per la tua disobbedienza. Immondo e orrendo ragazzo!» Dalla parte opposta della stanza, una porta si aprì. Distolto dal suo com-
pito, Mortier si girò verso la soglia, da cui fece capolino la testa di un servitore. «Maestro Mortier, signore... Oh!» Lo sfortunato intruso si spostò di scatto allorché qualcosa lo oltrepassò a precipizio, fuggendo dalla stanza e lungo il corridoio buio. L'addetto all'elevatore chiuse le porte doppie e le sbarrò con un sonoro rombo metallico; nella gabbia, il giovane senza nome appuntò lo sguardo sul soffitto e sulle pareti. L'elevatore per cavalli azionato dal sildron era spazioso e, in quel momento, trasportava un eotauro e cinque servitori: il trovatello, Keat Featherstone, Dain Pennyrigg, il vecchio stalliere Teron Hoad e l'addetto all'elevatore, tutti vestiti con giubba, calzoni e stivali marroni e col cappuccio sollevato a coprire la testa. La giumenta baia di Lord Isterium, Vento dell'Ovest, stava tornando al lavoro dopo un periodo di riposo: avrebbe effettuato una corsa quella sera stessa. Featherstone aveva chiesto al giovane servo di accompagnare la giumenta perché era ben noto quanto essa odiasse gli elevatori. Già in passato la sua avversione per quello spazio ristretto aveva provocato danni alla gabbia e ferite agli stallieri. Dopo la sua ultima «esibizione», si dubitava persino che la giumenta potesse continuare a svolgere il suo compito di Cavallo Celeste. Adesso, però, l'eotauro sembrava assolutamente docile: si era messo a mordicchiare la mano del giovane e ad annusare la sua tunica, sotto lo sguardo sconcertato di Featherstone e di Pennyrigg. Nessuno dei due aveva fatto domande sull'occhio livido e sul labbro gonfio del giovane. Paglia fresca era ammucchiata sugli ammaccati pavimenti di andalum, imbottiture di velluto a coste ricoprivano le pareti; un'elegante cassetta sporgeva da ciascuna parete fino a un'altezza di sette piedi; l'addetto all'elevatore aprì una di esse, rivelando una fila di dieci chiavi di andalum con elaborate impugnature di filigrana, ciascuna inserita nel suo recesso, incassato nella parete. L'addetto tirò la prima chiave verso l'esterno, fin quasi al massimo dello scorrimento, spostando una lunga piastra sottile che schermava il sottile strato di sildron attaccato alla parete esterna dell'elevatore. Tuttavia non la estrasse del tutto, fermandosi quando essa arrivò a una particolare posizione indicata da una tacca. Grazie a quel meccanismo, semplice e diretto, l'elevatore prese a salire. Tutti gli elevatori principali erano sollevati da sildron di grado alt 640, e
soltanto gli elevatori delle torrette avevano un grado più elevato. Le esigue dimensioni di una barra di sildron alt 640 erano però in grado d'innalzare soltanto il peso della gabbia, di un cavallo e di sei adulti fino a un'altezza di un piano; due barre, prive di schermatura, potevano raddoppiare quell'altezza. Quando il carico era più leggero, le chiavi di andalum per ciascun piano venivano estratte solo parzialmente, in base a un calibro prestabilito. L'addetto all'elevatore guardò attraverso una feritoia nella parete, osservando i contrassegni dei livelli che scorrevano verso il basso. Una volta giunti nei pressi della sommità del Livello Uno, sfilò la seconda chiave con scioltezza, e l'ascesa proseguì senza rilevanti alterazioni di velocità. L'addetto si spostò allora lungo le pareti, aprendo un compartimento di chiavi dopo l'altro, finché tutti e quattro non vennero spalancati e trentuno chiavi estratte, lasciandone solo nove al loro posto. L'uomo effettuò poi con abilità qualche regolazione finale e l'elevatore si arrestò al Livello Trentadue, quello dello Squadrone Nobiliare. Il giovane uscì, insieme col docile eotauro, e insieme imboccarono il corridoio circolare. I musi di altri Cavalli Celesti, in attesa, si affacciarono alle porte dei rispettivi stalli. Il dorso di Vento dell'Ovest era coperto da una gualdrappa nera e argento, su cui erano ricamati a lettere maiuscole il suo nome e il simbolo del fulmine, proprio dei Cavalieri della Tempesta. Il suo manto brillava come se fosse stato cosparso d'olio, delineando ogni muscolo; le sue corna sembravano lucido marmo; gli zoccoli erano ferrati normalmente, perché un Cavallo Celeste veniva dotato dei ferri e della fascia di sildron soltanto dopo essere stato portato all'altezza da cui avrebbe iniziato la sua corsa. «Da questa parte», disse il secondo stalliere, stringendosi meccanicamente i lacci del cappuccio. I tre stallieri lavorarono insieme, in silenzio, nella stanza dei finimenti, mentre il giovane, avendo concluso il proprio lavoro, si limitava a osservarli. Una volta stretto e controllato il sottopancia e applicati i rivestimenti in sildron agli zoccoli, Hoad attese che la giumenta avesse bevuto a sazietà e l'accompagnò a fare alcuni giri del corridoio, perché si scaldasse i muscoli. La giumenta fluttuava leggermente, posizionando gli zoccoli con calcolata precisione, com'era stata addestrata a fare, e flettendo le ali. Altri due eotauri sellati si unirono a essa, e i loro stallieri presero a chiacchierare con Hoad mentre li facevano camminare. «Ieri c'è stato un forte vento shang», commentò in tono cupo un vecchio stalliere. «Un paio dei nostri ragazzi è stato sorpreso oltre il pascolo più
lontano. Dopo, i due sono tornati e si sono ubriacati. C'è una brutta situazione nella foresta vicino al confine. Sapete quale, no?» I suoi compagni annuirono. «Mi pare che ultimamente le tempeste magiche siano peggiori, rispetto a quand'ero ragazzo. Davvero peggiori.» Gli altri fecero qualche cupo grugnito di assenso. «E ci sono in giro anche i pirati», commentò Hoad il Rospo, con soddisfazione. «Così hanno detto i marinai della Libellula. Una Nave del Vento è stata saccheggiata a nord-ovest, tra le montagne. È gente crudele, senza pietà.» Il custode della porta sopraggiunse in tutta fretta, districando dalle pieghe della tunica un orologio appeso alla catena. Sollevò il coperchio di metallo dorato, che rivelò una sola lancetta su un quadrante privo di vetro, consultò per un momento l'orologio, poi sollevò la saracinesca della Porta Ovest 500. Uianemis, il Mese Verde. Era l'inizio dell'estate, quindi il vento era caldo. La nuova stagione aveva già fatto sì che, ai piani inferiori, cominciassero i preparativi per la Festa di Lugnais e il Giorno del Grande Sole. Un elevatore per passeggeri arrivò all'altezza delle sale di monta, e l'addetto s'inchinò profondamente quando tre Corrieri e i loro attendenti ne varcarono la porta. All'interno della gabbia aperta, la luce delle lampade rischiarava le pareti di satin chiaro e i sedili di palissandro, dagli intagli elaborati e dotati di cuscini. Abbigliati con corti mantelli e stivali da equitazione di cuoio, i Corrieri dello Squadrone Nobiliare si misero a camminare avanti e indietro, irrequieti, stringendosi alla vita la cintura di sildron. Sotto la giubba di morbido cuoio nero, indossavano camicie di lino dello stesso colore, con le ampie maniche arricciate alla cucitura, appena sotto la spalla. Tre stelle d'argento scintillavano su ciascuna spallina, in armonia col baluginio della V, propria dei Cavalieri della Tempesta, che decorava il petto di ognuno e del distintivo, che spiccava all'altezza del cuore. Spessi calzoni neri completavano la tenuta da viaggio. Due dei Corrieri se ne stavano in silenzio, ma il terzo continuava a tempestare gli stallieri di richieste e di domande, rivelando tutta la sua impazienza. Paggi, lacchè e camerieri erano indaffarati coi preparativi, e il custode della porta montava la guardia, scrutando verso ovest al di sopra della foresta, in direzione della catena montuosa. Una luce soffusa si riversava all'interno della porta, creando polle color miele sul pavimento. Incapace
di frenare la propria curiosità, il giovane deforme sbirciò da dietro un angolo. «Stanno arrivando», annunciò il custode, affacciandosi pericolosamente alla soglia aperta. In quel momento, una singola nota argentea giunse dalle sentinelle sui bastioni, munite di cannocchiali. Ben presto, tre punti scuri apparvero sullo sfondo del tramonto, assumendo via via l'aspetto di cavalli e cavalieri, ali allargate e mantelli svolazzanti. «Il vento soffia ancora da ovest a circa dieci nodi», aggiunse il custode, adocchiando un segnavento. Gli scudieri aiutarono i loro padroni a infilarsi l'elmo da volo e i guanti, poi i Corrieri montarono in sella, il loro abbigliamento nero e argento che armonizzava con la gualdrappa degli eotauri, i quali caracollarono e scrollarono la testa, trattenuti dalla mano esperta dei loro cavalieri. «Sono in ritardo», borbottò qualcuno. Le forme scure si fecero più grandi e rallentarono. All'improvviso, con un alito di vento e un tintinnio metallico, i tre superarono di slancio l'alta porta, atterrarono, poi, mentre i cavalli ripiegavano agilmente le ali, proseguirono lungo il corridoio, decelerando progressivamente sino a fermarsi. Allora scudieri e stallieri accorsero per afferrare le briglie dei Corrieri, che smontarono subito, e i camerieri procedettero a slacciare le cinghie delle sacche da sella. I nuovi venuti erano vestiti del colore nero proprio dei Cavalieri della Tempesta, ma l'uniforme di uno di essi era bordata in magenta, il colore del Nono Casato, mentre le altre erano finite in argento; sfilatosi l'elmo, il Corriere del Nono Casato rimase immobile, asciugandosi il sudore dal viso, proprio mentre i tre cavalieri in partenza entravano nel corridoio per lo scambio delle sacche da sella e per avere le ultime informazioni sul clima. «Isterium... Ti riconosco sotto l'elmo», disse il Figlio del Nono Casato. «Ti porto i miei saluti e quelli della mia signora.» «Salute a te, Sartores. Riposa bene nella nostra Casa, stanotte», replicò Isterium. «Che notizie ci sono?» «Voci, soltanto voci. Agitazioni nella Namarre. Qui non posso dirti altro, ma saprai tutto a tempo debito.» «Buona giornata a te, Sartores.» «Che il vento sia con te, Isterium.» Vento dell'Ovest scattò in avanti in un'esplosione di energia, precedendo gli altri eotauri lungo il centro del corridoio per acquistare velocità, poi spiccò il balzo dalla soglia e si lanciò nelle potenti correnti ascensionali. Era quello il momento più pericoloso del viaggio di un Corriere, giacché
cavallo e cavaliere rischiavano di essere scagliati all'indietro e schiacciati contro la Torre da pericolosi refoli chiamati «venti ricurvi». I tre riuscirono comunque a prendere il volo senza incidenti, allontanandosi verso sud, sopra la foresta, rimpicciolendo in lontananza insieme con l'affievolirsi del tramonto infuocato. Su una balconata sottostante, Mortier, il Maestro d'Armi, protese il collo per osservare i tre che si allontanavano. Poi, per qualche tempo, rimase immobile nell'oscurità crescente, come in attesa: una solitaria figura incappucciata che si stagliava contro il muro nero della Torre. Le ombre si fecero più dense e, dalla foresta, giunse un ululato, subito interrotto; a tratti, un suono di voci giungeva dai cortili. Una falce di luna era apparsa al di sopra dell'orizzonte e il vento aveva smesso di soffiare. Con un sospiro, un vento diverso fece oscillare le cime degli alberi, le cui foglie brillavano come se fossero coperte di brina, tanto che una folata più decisa sembrò destare tenui bagliori in mezzo alla vegetazione, accompagnati da una vaga eco tintinnante. Mortier non si mosse, ma cominciò a tremare e, sotto le unghie, il sangue prese a colargli dal palmo delle mani. Un gemito sommesso si formò nelle profondità del suo animo e gli eruppe, improvviso, dalle labbra in un breve grido... Quindi lui si voltò di scatto e si rifugiò nel proprio alloggio, sbattendosi alle spalle la porta esterna. La sua fuga proseguì attraverso altre porte, in una stanza piena di apparati incredibili, poi ancor più in profondità all'interno della Torre, finché lui non raggiunse un angolo rivestito di arazzi e vi premette contro il viso. Di lì a poco, una porta più piccola si aprì con esitazione. Entrò un ragazzo dall'andatura claudicante. «Padrone?» chiamò una vocetta tremante. «Padrone, sono venuto, come avete ordinato. Vi supplico, perdonate Pod se è in ritardo. Siete qui?» Non ci fu risposta. Fuori della stanza dei finimenti stava cadendo una pioggia leggera, rischiarata da una pallida luce solare, simile a una polvere argentea. «Yan, tan, tethera», scandì Keat Featherstone. «Avete capito, ragazzi? Yan, tan, tethera.» Featherstone stava insegnando la numerazione ad alcuni garzoni di stalla più giovani e al servo deforme. Lui stesso aveva imparato a contare da suo padre, che conosceva soltanto il metodo usato dai pastori per contare le greggi: contava fino a tre, un numero per ciascuna articolazione di un dito,
poi aggiungeva le due articolazioni di ciascun pollice e le mani, arrivando così fino a trenta. Faticosamente, anche la scolaresca improvvisata era giunta a quel traguardo. «Ma, se vuoi contare cose più numerose dei tethera, come fai?» chiese un ragazzo più intraprendente. «Ti procuri un bastone di legno e fai delle tacche col coltello, in questo modo. Una tacca per ogni tethera di tutte le dita», spiegò Featherstone. Gli allievi sgranarono gli occhi. «Con quel bastone potresti contare tutte le stelle del cielo!» esclamò qualcuno. Per un momento tutti tacquero. Poi uno dei ragazzi interruppe quella pausa di riflessione, dichiarando: «No, non sarebbe possibile». «E se a una persona mancassero delle dita, come nel caso del Rospo?» aggiunse un altro. Featherstone li scrutò con occhi di fuoco. «Perché mai dovreste voler contare le stelle?» domandò, accigliandosi. «I ferri per gli zoccoli, le mele e le balle di fieno, questo è ciò che dovrete contare.» «Yan, tan, tethera», ripeté il ragazzo intraprendente. «I marinai contano usando il numero delle dita, cioè tethera volte tethera, più uno per buona fortuna.» «I marinai contano per dieci», precisò Featherstone. «Neppure questo è giusto», intervenne il ragazzo che aveva fatto il commento sulle dita di Teron Hoad. «Io so qualcosa di più. Ci sono dodici oggetti in una dozzina e dodici penny in uno scellino. Dovremmo contare per dozzine.» «Sheepshorn riesce a contare tutti i livelli della Torre, fino all'ultimo, quello dove ci sono i bastioni», si lamentò un altro. «Sentite, se volete imparare, state seduti in silenzio e non protestate», intervenne Featherstone, esasperato. «Yan, tan, tethera: è così che si fa. Io conto così e questo sistema ha funzionato a dovere per tutta la mia vita.» Notando l'espressione sempre più contrariata dello stalliere, i ragazzi sgranarono gli occhi e assunsero un'aria innocente. Quando il loro maestro riprese la lezione, annuirono tutti, dando l'impressione di voler bere ogni sua parola. Parlando del Re-Imperatore, che risiedeva a Caermelor, i servi narravano spesso di come la Regina fosse stata presa dalle creature unseelie quando il
Principe Edward era ancora un bambino. Era stato un vero peccato e una terribile perdita e se, per fortuna, il Principe e suo padre, il Re James, erano sopravvissuti, il fatto che il ragazzo fosse cresciuto senza una madre costituiva invece una vergogna. Molti sussurravano che la malvagità delle creature unseelie - nonché il loro numero - stesse aumentando e che il mondo fuori della Torre fosse sempre più cupo e pericoloso. Secondo certe voci, inoltre, sembrava proprio che ci fossero problemi a nord-est, nella Namarre. Nessuno però sapeva con certezza di cosa si trattava. Le supposizioni abbondavano e molti servi vivevano nel terrore. «Barbari e creature unseelie caleranno dalla Namarre e ci uccideranno nei nostri letti!» dicevano certi, ma altri ridevano dei loro timori. «I guerrieri del Re-Imperatore avranno la meglio. La Confraternita Dainnan innaffierà l'erba col sangue dei suoi nemici e così faranno l'Attriod Reale e le Legioni.» Di notte, nelle cucine, quelle voci rievocavano lontane battaglie e una leggenda che i più avevano dimenticato. «In un tempo di grave necessità, è possibile destare i Guerrieri Dormienti che giacciono sotto il Nido del Corvo», proclamò una sera Brinkworth. «Nel momento in cui la loro forza sarà più che mai necessaria, un eroe dovrà trovare l'ingresso sotto la collina, nascosto da rovi e macerie e, una volta entrato, dovrà percorrere un lungo passaggio fino alla volta sotto cui essi giacciono. Accanto al loro Re troverà un corno, una giarrettiera e una spada di pietra. Dovrà tagliare la giarrettiera con la spada e poi suonare il corno.» «Nessuno ha mai trovato quell'ingresso?» «Molti ci hanno provato, ma è stato rintracciato soltanto una volta, e i Dormienti sono stati quasi ridestati. Il povero Cobie Will aveva scoperto l'entrata per puro caso... Era un pastore e se ne stava seduto sulla collina, intento ad avvolgere un gomitolo di lana, mentre sorvegliava le sue pecore. Il gomitolo gli sfuggì di mano, rotolando in un buco profondo. Pensando di aver trovato l'ingresso segreto, Cobie Will si entusiasmò, spostando rovi e rocce fino a rivelare una galleria in cui poteva addentrarsi, poi seguì il filo di lana nel sottosuolo, percorrendo un lungo e buio passaggio a volta. Infine scorse una luce lontana. Continuando a camminare verso di essa, si ritrovò in una camera immensa, dove giacevano i Guerrieri Dormienti, rischiarati da un fuoco che ardeva senza combustibile. Su cento giacigli disposti intorno alla camera erano distesi i corpi addormentati di altrettanti cavalieri, nella penombra alle spalle del fuoco dormivano sessanta splen-
didi mastini e su un tavolo, davanti alle fiamme, c'erano un corno dall'impugnatura d'oro, una spada di pietra di strana fattura e una giarrettiera di seta ricamata. Quello stolto ragazzo toccò la spada di pietra, accennando a sollevarla, e immediatamente i cavalieri si riscossero, sedendosi sui loro giacigli. Spaventato, Will lasciò andare l'arma ed essi si ridistesero, riprendendo il loro sonno. A quel punto, Will di certo esalò un sospiro di sollievo, guardandosi intorno nella camera, tornata immota e silenziosa come una tomba. Però, invece di lasciare le cose come stavano e di andarsene in punta di piedi, pensò bene d'interferire ancora una volta. Sapete, Will era un ragazzo curioso, cui piaceva provare a fare le cose per vedere cosa sarebbe successo... un'inclinazione che ha messo nei guai più di un ragazzo, Mastro Pennyrigg. Di conseguenza, Will prese il corno e lo suonò, ottenendo un suono vibrante e argentino, così forte da raggiungere le valli più lontane. I cavalieri si alzarono subito, estrassero la spada e si lanciarono verso di lui, mentre una voce possente gridava: 'Sventura al vile, rimpianga di esser nato, che non abbia estratto la spada pria che il corno abbia suonato!' Si levò poi un turbine di vento che trascinò Will fuori della grotta e in un precipizio. E là rimase, con le ossa rotte, finché alcuni pastori non lo trovarono... E, a loro, prima di morire, lui narrò la sua storia. A tutt'oggi, i Guerrieri rimangono nella loro tomba, sotto il Nido del Corvo - o, come dicono alcuni, il Nido dell'Aquila -, avvolti nella loro splendida armatura, con le spade lucenti e i foderi rivestiti di gemme, lo scudo posato accanto. Il trascorrere del tempo non ha corrotto la loro carne, anzi si dice che il loro volto sia nobile e bello come lo era in vita. Dormono e attendono. Si narra però che ogni Vigilia di Mezz'estate escano dal tumulo e cavalchino intorno a esso su cavalli dai ferri d'argento», concluse Brand, accarezzandosi la barba. Sui presenti calò un silenzio pieno di disagio. «C'è chi sostiene che Cobie Will abbia svegliato alcuni di essi, i quali, da allora, percorrono le strade segrete di Erith», affermò poi Gretch, il bottaio. «È soltanto una storia inventata per spaventare i creduloni idioti», dichiarò la cucitrice. «Proprio come quelle del... Be', sai cosa intendo...» «Cosa aspettano i Guerrieri Dormienti... il bacio di un Principe?» interruppe una voce più rozza. Con lo sciogliersi della tensione, nel gruppo risuonarono alcune risate, prima represse. Dain Pennyrigg, quello che aveva parlato, salì su un tavolo e si distese supino, le braccia incrociate sul petto e gli occhi chiusi, con un
russare sonoro che fece ridacchiare le sguattere. Ma quelle stesse ragazze si misero a urlare quando il giovane massiccio si sollevò a sedere di scatto, protendendo le braccia. «Oh, mio Principe!» esclamò Dain, in falsetto. «Come si agita il mio cuore!» E protese le labbra, fingendo di schioccare un bacio. «Ridete... Siate allegri», commentò Brand Brinkworth, sorridendo benevolmente di quell'ilarità generale. «Certi ritengono di comportarsi nobilmente soltanto se mostrano di essere freddi come la pietra... Ma i sentimenti sono come lupi: se intrappolati, diventano ancora più feroci e alla fine riescono sempre a fuggire.» Preso un attizzatoio, ravvivò il fuoco. Ai suoi piedi Inch, la scimmietta, si stiracchiò con uno sbadiglio. Subito dopo scoppiò una disputa tra coloro che ritenevano la storia della Massaia di Gooseberry soltanto una favoletta per spaventare i bambini e quelli che invece la consideravano vera. La discussione fu però interrotta dall'arrivo di una donna grassa dalla faccia cascante. «Da stanotte, fino al giorno del matrimonio e ai giorni di festa che seguiranno, non si racconteranno altre storie in nessuna delle cucine», annunciò la donna, Dolvach Trenchwhistle, la Governante in Capo, calando un pugno massiccio su un tavolo di legno. Nel silenzio che seguì, i suoi piccoli occhi neri saettarono come mosche di qua e di là, scrutando i presenti. Infine, accertatasi che tutti avevano capito, la donna si raddrizzò, piantandosi le mani sui fianchi. «Lingua di allodola in gelatina, fagiano, uova di quaglia, pasticcio di piccione, cacciagione, tartufi, ostriche, enormi budini, sciroppi e spezie, dolci con semi di carvi, dolci e marmellate con vero zucchero provenienti dalla Confetteria Centrale, salmoni, grossi calamari azzurri e trote, per non parlare delle botti di vino, di birra scura, d'idromele e di sidro, delle aringhe affumicate, della lingua in salamoia, dei frutti di bosco freschi e dei cibi fatti arrivare apposta in volo, formaggi rossi e gialli e vasi di crema. Il tutto, non in quest'ordine.» S'interruppe per verificare l'effetto ottenuto, poi concluse: «E questo è soltanto l'inizio!» «E un pesce su un pero!» gridò Dain Pennyrigg. Tutti presero a commentare, ma Dolvach Trenchwhistle sollevò una mano carnosa e segnata dal lavoro, ottenendo silenzio. «Noi tutti abbiamo del lavoro da fare, non abbiate dubbi al riguardo. Ogni stanza di riserva deve essere pulita e arieggiata, per accogliere gli ospiti importanti, nonché fornita di lenzuola pulite e profumate, asciugamani e unguenti. Non ci deve essere neppure un granello di polvere che possa recare onta al mio nome. E poi ci sono le decorazioni. La Grande Sala dei Banchetti deve essere tutta
nei colori dei due Casati che si uniscono, misti al bianco nuziale. Ci dovrà essere satin bianco ovunque e merletto d'argento lungo i cortili, insieme con nastri di seta azzurro chiaro.» «Accidenti! Sembra un mercato di tessitori! Rimarrà spazio per gli ospiti?» domandò Dain Pennyrigg. «E fiori ovunque, da raccogliere freschi ogni giorno», continuò Dolvach Trenchwhistle. «Inoltre, la strada dai moli marini alle porte principali dovrà essere cosparsa di petali e adornata con bandiere argento, azzurro cielo e bianche. Ogni cortile dovrà sembrare un giardino e nessun ospite avrà motivo di avanzare critiche. Sarà fatto tutto per bene, e in tempo, altrimenti cadranno varie teste. Voi tutti avrete un lavoro da svolgere... Anzi avrete molti lavori e li svolgerete nel modo migliore possibile. No, ancora meglio.» I servi annuirono, mormorando stanche parole di assenso. «Alla fine ci sarà birra scura per tutti e, con ogni probabilità, potremo godere degli avanzi», borbottò la Governante in Capo, assestandosi il grembiule con aria decisa prima di allontanarsi con fare maestoso. «Non saranno vere lingue di allodola», commentò il ragazzo addetto allo spiedo. «Non hanno falchi o smerigli per prendere le allodole.» «Probabilmente si tratterà di pezzi di capra non meglio identificati o qualcosa del genere», convenne il suo amico. «Impossibile dire che cosa mette Rennet Tightbone in quello che cucina.» Un paio di occhi scintillò nell'oscurità sotto le panche, mentre l'ascoltatore inosservato cercava di escogitare un modo per sfuggire all'imminente carico di lavoro aggiuntivo. E ben presto avrebbe sentito parole che avrebbero destato in lui l'intenso desiderio di fuggire davvero. Il castrone roano stava galoppando nell'aria, coda e criniera al vento, le ali in moto continuo, i muscoli che si contraevano e si distendevano sotto il pelo lucido. Il giovane cavaliere liberò gli stivali dalle staffe, si protese in avanti e poi, con un grido, si gettò di lato in modo da scivolare dalla sella, passando sotto le ali. Grazie a una corda - i cui capi erano stati fissati alla cintura di volo in sildron e alla sella -, il giovane venne trascinato dal cavallo e ruotò rapidamente su se stesso. Quindi prese ad agitarsi come un pesce preso all'amo, semisoffocato dal cappuccio. Ben presto fu evidente che non era in grado d'issarsi di nuovo in sella né di liberarsi della fune di sicurezza. Allora, annaspando, il giovane impartì un comando a gran voce.
L'eotauro si arrestò. «Davvero elegante, mio signore», commentò il Maestro di Equitazione, fermo su una piattaforma circolare di legno, sei piedi al di sopra del terreno coperto di segatura del recinto, in modo da essere allo stesso livello dell'eotauro e dell'allievo. Quest'ultimo stava cercando d'issarsi di nuovo in sella all'animale da addestramento, il quale era controllato dall'assistente del Maestro mediante una lunga cavezza. «Se la vostra cavalcatura dovesse disarcionarvi, spaventata da un rapace o da qualche inattesa asperità del terreno, di certo non avreste problemi a tornare in sella.» «La corda era ritorta e mi ha fatto ruotare.» «L'avete arrotolata voi stesso. Avete controllato l'equipaggiamento, come si deve fare ogni volta prima di una cavalcata? È una delle prime regole. Inoltre, badate bene, i cavalieri che si tengono stretti con le ginocchia hanno la tendenza a essere sbalzati via, come un tappo da una bottiglia. Ora basta con questo esercizio. Venite, andiamo alle piste di addestramento.» L'assistente, il cui volto deforme era in netto contrasto col corpo agile, balzò con leggerezza dalla piattaforma mentre il cavaliere rimontava in sella. «Non intendo lasciarmi condurre per la cavezza come un bambino, a due iarde dal suolo!» dichiarò in tono brusco l'allievo Corriere. «Dopotutto, sono al secondo anno. Gettami la cavezza.» Il Maestro di Equitazione rivolse un cenno all'assistente, che obbedì. L'allievo, un giovane robusto dalla mascella pesante, diede di sprone e uscì dal recinto al galoppo, sfiorando pericolosamente la testa dell'assistente. «Il fato ci preservi dai giovani idioti avventati che pensano di sapere tutto», borbottò il Maestro di Equitazione, levando gli occhi al cielo e parlando a se stesso, non alla goffa figura in attesa sul terreno coperto di segatura, un assistente che gli era stato imposto da Keat Featherstone e che lui aveva accettato con riluttanza, neanche gli avessero chiesto di offrirsi al martirio. Il Giorno del Grande Sole e la Festa di Lugnais erano passati da tempo, cedendo il posto a Grianmis, il secondo mese dell'estate, caldo e piacevole. Sotto un sole simile a una coppa d'ottone, che riversava il suo generoso dono di luce sui tetti rossi delle stalle e sui cortili di addestramento, il trovatello seguì il Maestro, entrando così a far parte di quella specie di danza che scandiva la vita quotidiana dell'operosa tenuta. L'erba sotto i suoi piedi era intatta, perché gli zoccoli rivestiti di sildron non potevano segnare il
terreno. Le piste di addestramento concentriche erano graduate per ordine di difficoltà, cosparse di rocce, massi e monoliti, a imitazione di montagne in miniatura. Le ali degli eotauri, un tempo organi rudimentali, si erano sviluppate attraverso vari incroci, ma le cinghie da volo e i rivestimenti per i ferri in sildron erano necessari per compensare il peso dei cavalli che, senza il sildron, non erano in grado di volare. Il sildron respingeva il suolo soltanto se posto direttamente al di sopra di esso. Un terreno irregolare, per esempio caratterizzato da alcune rocce, non costituiva un ostacolo, ammesso che il suolo fosse relativamente piatto e le rocce fossero abbastanza piccole. Tuttavia, se un eotauro che viaggiava su una pianura arrivava davanti all'erta parete di una montagna - più alta della quota cui esso stava viaggiando -, non poteva elevarsi al di sopra dell'ostacolo e doveva invece aggirarlo. Le improvvise sporgenze del terreno impedivano a un eotauro di avanzare e i pendii con un'angolazione superiore ai ventinove gradi non erano superabili. Ecco perché erano stati studiati vari percorsi di addestramento e anche le Strade Celesti erano tracciate in modo da adattarsi alla conformazione del terreno, sebbene si dovessero prendere in considerazione i tratti irregolari e le deviazioni imprevedibili. Come al solito, l'allievo Corriere, che non si era ancora guadagnato neppure la prima stella, era vestito di nero. La camicia di lino da equitazione, aperta al collo, era fermata da una cintura e infilata nei calzoni, a loro volta infilati negli stivali. Gocce di sudore imperlavano la fronte del giovane e il cappuccio gli sobbalzava sulla schiena, rivelando lunghi capelli castani legati in una coda rigida, secondo la moda. Adesso il Cavallo Celeste era stato liberato dalla cavezza e il Figlio del Casato lo stava guidando con le redini, scegliendo in mezzo al dedalo di rocce polverose del circuito intermedio un percorso mirato a stabilire la via più uniforme e meglio percorribile. «Naturalmente, Star King saprebbe eseguire questi percorsi anche dormendo», commentò il Maestro di Equitazione, rivolto al Vice Maestro di Equitazione, che lo aveva appena raggiunto. «Dopo tutti questi anni, potrebbe percorrerli senza cavaliere e bendato. La vera prova sono le uscite di addestramento sul campo.» Una specie di barca in miniatura, sul cui retro era applicato un apparecchio che ruotava rapidamente, saettò all'improvviso accanto alla staccionata, fluttuando a due piedi da terra e sollevando una nube di polvere. Quel singolare congegno era silenzioso, tranne per lievi suoni stridenti, più o
meno acuti, e il suo conducente era un individuo dalla barba brizzolata. Indossava una veste bianca e portava i guanti. «Zimmuth e le sue malefiche macchine», borbottò il Maestro di Equitazione, sputando nella polvere. La barca fluttuante, la cui propulsione a sildron era altamente instabile, si arrestò con un rumore raspante, schivando a stento un edificio asimmetrico che il Mago usava come sede per i suoi esperimenti. Mentre Zimmuth scompariva all'interno, un servitore provvide a incatenare la barca a un palo. Il Maestro di Equitazione e il suo compagno riportarono la loro attenzione sull'allievo, che stava eseguendo il circuito con sorprendente abilità, osservandolo con occhio critico ed elargendo qualche consiglio. Nel frattempo, nove cavalli comuni, dotati di selle di forma strana, con fibbie e staffe che scintillavano sotto il sole, vennero condotti nei pascoli recintati adiacenti i circuiti. Là i loro cavalieri, entusiasti giovani garzoni di stalla, li spinsero a un galoppo sfrenato intorno all'arena, eseguendo una serie di volteggi e di capriole, e balzando su e giù dalla groppa degli animali; arrivarono persino a cavalcare girati all'indietro, in piedi, bilanciandosi sulle mani e addirittura in tre, l'uno sulle spalle dell'altro. «Come procedono gli altri intrattenimenti per le nozze?» domandò il Maestro di Equitazione al suo Vice, che stava seguendo le evoluzioni con evidente apprezzamento. «Abbastanza bene, signore. Mi hanno detto che il numero delle scimmie ammaestrate sarà un grande successo.» «Guardate, il nostro giovane Lord Ariades ha terminato il circuito.» Allorché i due Maestri, seguiti dall'assistente, si avviarono verso l'uscita del circuito per andare incontro all'allievo, una sfera di fuoco eruppe da una delle finestre munite di griglia dell'edificio del Mago, accompagnata da un rombo assordante. Urlando, due uomini uscirono di corsa dalla porta ad arco, lasciandosi dietro una scia di fumo, e si gettarono al suolo, percuotendosi i vestiti con le mani, prontamente soccorsi da altri. Acri vapori scaturivano dalle aperture dell'edificio, avvolgendolo. «Un altro degli esperimenti falliti del Mago», commentò in tono distratto Ariades, dall'alto della sella. «Ritengo che, tra le altre cose, stia lavorando a un più sofisticato meccanismo per operare gli elevatori. Guardate!» E indicò alcuni frammenti scuri di sildron, sospesi sopra un grosso buco apertosi nel tetto dell'edificio del Mago.
«Una volta ha abbattuto accidentalmente un intero stormo di piccioni selvatici», aggiunse il Maestro di Equitazione. «Ho saputo che ne hanno ricavato un eccellente pasticcio.» «Voglio sperare che i risultati ottenuti dal Mago siano tali da compensare la pelle arrostita dei suoi assistenti», rifletté il suo Vice. «Nel corso dei festeggiamenti per l'imminente matrimonio, il Casato avrà bisogno che tutti i suoi servi siano in condizione di lavorare.» L'accenno ai servitori fece ricordare al Maestro di Equitazione l'assistente deforme che attendeva nell'ombra e lo indusse a scoccargli un'occhiata piena di disgusto. «Mio buon Lord Ariades, la vostra esecuzione del circuito è migliorata», disse poi. «Ora andate alla piattaforma per smontare di sella, poi ci concederemo un rinfresco, prima delle lezioni pomeridiane. Tu... servo... seguilo e occupati dell'eotauro.» «Che razza di servo è mai questo?» domandò il Vice Maestro di Equitazione, accorgendosi del giovane per la prima volta. «Perfino quelli di noi che vivono ai livelli più alti hanno sentito parlare del Bello», interloquì Lord Ariades, riportando lo sguardo sugli orribili risultati del fallito esperimento del Mago. «In effetti, il suo volto è anche peggio di come mi è stato descritto... una vera mostruosità. A mio parere, lo si dovrebbe esibire come fenomeno durante gli intrattenimenti previsti per le nozze.» «No... Gli ospiti intenti a banchettare ne sarebbero disgustati», protestò il Maestro di Equitazione. «È davvero orribile a vedersi. Non ho mai visto un caso così grave di deturpamento da edera paradossa. Non è possibile curarlo?» «Ho sentito dire che, sì, è possibile», replicò il suo Vice, grattandosi il mento ispido di barba. Il giovane s'immobilizzò. «Forse, nel caso di un dito che ha toccato la pianta ieri», obiettò Ariades. «Ma un'intera faccia, e per di più deturpata da chissà quando... Magari da anni...» E scosse il capo. «Si dice che esiste una cura nota ai Maghi di città», insistette però il Vice Maestro, aggrottando la fronte. «Bisogna bere estratto di rospo, o forse perforare le vesciche con un ago rovente, per poi applicare un particolare unguento d'erbe... Non ricordo con esattezza.» «In ogni caso, si tratterebbe di cure troppo costose per un servo pidocchioso. Sarebbero sprecate», dichiarò Lord Ariades, spronando Star King. Il giovane servo rimase a fissare la schiena dell'allievo Corriere che si al-
lontanava. Poi un calcio da parte del Vice Maestro lo strappò alle sue riflessioni, inducendolo a correre via. Nelle grotte delle capre, le ombre potevano ingannare lo sguardo, soprattutto se la luce diurna era tanto intensa. Il servo muto avanzò con cautela. All'interno non c'erano capre - si trovavano al limitare della foresta, affidate ai giovani pastori -, ma il loro odore sembrava in paziente attesa del loro ritorno, insieme con uno strato di vecchia paglia e di letame. Addentrandosi nelle grotte, il giovane scorse una rientranza nella parete, una nicchia ancor più buia degli altri ambienti. Vi si diresse, tenendo per l'impugnatura un portacandela d'ottone, al cui interno un lungo stoppino incerato era raggomitolato come un verme biancastro; la sua estremità accesa - una debole fiamma trasparente - faceva capolino attraverso il coperchio del portacandela. «Tu! Mi hai seguito! Non dirlo a nessuno... Non mostrare a nessuno questo posto! Che vuoi?» ansimò una voce. Il pallido volto di Pod lo Zoppo emerse dalla penombra. Per un momento, l'intruso rimase immobile, quindi posò il portacandela e abbassò lentamente il fardello che portava in spalla. «Non dirai a nessuno che mi nascondo qui, vero?» chiese Pod, lanciandogli uno sguardo sospettoso. «Non lo farai, non è così? Non puoi parlare, giusto?» Il giovane scosse il capo e protese la mano in un gesto d'amicizia, di fronte al quale Pod si ritrasse. «Vattene, vattene via. Qualcuno potrebbe averti visto che venivi qui.» Scuotendo ancora il capo, il giovane indicò se stesso, poi puntò il dito verso Pod e si accostò una mano all'orecchio, come se stesse ascoltando. Dopo aver osservato quei gesti, Pod annuì. «D'accordo, ma solo se ti spicci», borbottò. Il ragazzo senza nome indicò di nuovo se stesso, poi Pod e quindi l'ingresso della caverna, poi agitò le braccia come fossero ali e si riparò gli occhi con la mano, mimando l'atto di guardare lontano; infine, aprì il fagotto, mostrando una piccola scorta di viveri: frutta secca, formaggio e pane duro. «Andarcene da qui? Devi essere matto... non capisci?» protestò Pod, gli occhi dilatati e la voce trasformata in uno strillo soffocato. «Nessuno può vivere nella foresta senza protezione, e la foresta si stende per miglia e miglia... non so quante. Migliaia.»
Il giovane modellò una sagoma con le mani. «Una Nave del Vento? Vorresti imbarcarti come clandestino? Va'! Va'! Prendi i tuoi incubi e il cibo che hai rubato e non ti avvicinare più a me! Non voglio avere nulla a che fare coi tuoi piani. Sarai scoperto e punito.» Il muto lo fissò per un momento, poi annuì, ripiegò il fagotto, raccolse il portacandela e uscì sotto la luce del sole. Là fuori per me c'è una cura. Un giorno ci andrò, promise a se stesso. Andrò oltre la Torre e intraprenderò un viaggio alla ricerca di tre cose: una faccia da mostrare al mondo senza vergogna, il mio nome e il mio passato. Non riposerò finché non le avrò trovate. Ma senza compagnia aveva paura di partire, quindi, per il momento, si rassegnò. «Sveglia, sveglia, presto sorgerà il sole. Svegliati, pigrone, adesso sei in forze... Il duro lavoro ti ha ritemprato, quindi adesso dovrai lavorare ancor più duramente.» La voce stridula di Grethet insieme col suo piede che lo pungolava nelle costole dissolse in un istante le nebbie del sonno. Il protetto della vecchia ormai non dormiva più nella stanza della fornace. Grethet gli aveva fatto spostare il suo giaciglio, asserendo che la stanza era troppo luminosa a causa della frequente apertura della fornace per alimentarne il fuoco, mentre lui si doveva nascondere nell'ombra. Il giovane dormiva, si lavava e si vestiva in una piccola cella, priva di finestre, utilizzata per riporvi candele, sapone per il bucato e cera d'api. Era un buco che lui condivideva con una socievole popolazione di ragni che, quando il loro compagno di stanza si sollevava a sedere sul suo mucchio di stracci, si calavano dal soffitto sui loro lunghi fili, rimanendo sospesi al livello dei suoi occhi, fissandolo a lungo prima di tornare a issarsi. «Spogliati al buio», gli ricordava di continuo Grethet. «Non lasciare che gli altri ti vedano. Nessuno deve vederti, perché sei deforme e ti scaccerebbero di qui. Hai capito?» Lui capiva. E obbediva. Abituato all'oscurità, il giovane versò l'acqua dalla brocca nel catino, si lavò al buio, come Grethet gli aveva insegnato, e si vestì, legando il cappuccio sulla folta massa di capelli color paglia, ormai lunghi quanto le sue dita. Prima di mangiare il pezzo di pane - la sua «colazione» -, si adoperò a svolgere i primi compiti della giornata: gettò i rifiuti, spazzò il pavimento della stanza della fornace, attinse l'acqua per la lavanderia, accese i fuochi
sotto le vasche per lavare la biancheria e sfregò energicamente sulle lenzuola di lino un blocco di vetro a forma di fungo, dotato di una manopola, per eliminarne le pieghe. Le spalle e le braccia gli dolevano perennemente. Più tardi, avrebbe dovuto controllare le scorte di viveri. Dal momento che Featherstone gli aveva insegnato a contare, adesso era alla pari della maggior parte degli altri servi, almeno in quello. Ripetendo mentalmente yan, tan, tethera... yan, tan, tethera, dopo ogni trio intagliava una tacca su un corto ramo verde. Quel giorno era il dodicesimo di Teinemis, il Mese del Fuoco. Dalle pareti di dominite giungeva lo stridere e il martellare delle pompe al sildron che aiutavano l'acqua piovana a scorrere dalle grandi cisterne posizionate sul tetto e che attingevano altra acqua dai pozzi sottostanti le segrete più profonde; quel rumore, simile a un cuore urlante che battesse dietro la pietra, rivelava che, ai livelli superiori della Torre, gli ospiti erano davvero numerosi. Era una data importante: il giorno delle nozze. Il matrimonio di un Cavaliere della Tempesta, celebrato presso la Stazione di Collegamento della Torre di Isse, nell'Eldaraigne, costituiva un evento importantissimo. Secondo le usanze, le unioni matrimoniali si stringevano soltanto tra i dodici Casati e all'interno di essi. La figlia maggiore del Casato, Lady Persefonae, si sarebbe unita in matrimonio con suo cugino Valerix, del Quinto Casato, la cui principale roccaforte si trovava nella Finvarna. Quel fidanzamento si era deciso il giorno stesso in cui Persefonae era nata e, a detta dei servitori, era da considerare un bitterbynde, un incantesimo imposto a qualcuno. Dopotutto era stato deciso quando Persefonae era addirittura incapace di distinguere il giorno dalla notte, figuriamoci di scegliere chi avrebbe sposato. Era una vergogna, lo dicevano tutti, ma quelle alleanze erano necessarie, se si voleva che la gloria dei Casati continuasse a crescere. Per fortuna, in quel caso, il fidanzamento era risultato soddisfacente per entrambi gli interessati e, quand'era giunto il momento delle nozze, non c'era stata riluttanza da parte di nessuno dei due. Da regni sparsi per tutta Erith erano giunti rappresentanti di ogni Casato dei Cavalieri della Tempesta e di numerosi Casati reali e nobiliari, giunti lì viaggiando su Navi del Vento o Navi d'Acqua, cavalcando nel cielo o procedendo in carovane protette lungo la Grande Strada del Re, che cingeva l'Eldaraigne e arrivava fino alle porte della Torre. Tre o quattro Navi del Vento erano ancora all'ancora, sullo sfondo del cielo chiazzato di nubi, al di sopra del pascolo più lontano, e un'altra attendeva, attraccata al molo del Livello Sette, le vele ammainate e i propulsori spenti. A bordo della sua
Nave d'Acqua, all'ancora in mezzo alle altre in visita al Porto di Isse, Lord Valerix era impegnato nei suoi preparativi, e non avrebbe posato piede a terra se non l'indomani. Sopra la Torre svolazzava una foresta di pennoni e di stendardi. Lo stemma dei Cavalieri della Tempesta, un fulmine bianco su sfondo nero, era stato innalzato a simboleggiare i dodici Casati riuniti; accanto a esso, la bandiera del Settimo Casato appariva identica, seppure in nero e argento, mentre quella del Quinto Casato aveva lo stemma nero su sfondo azzurro. Su tutte, spiccava il motto Arnath Lan Seren cioè «Qualsiasi cosa sia necessaria»... necessaria a eseguire il proprio dovere e a preservare l'onore; necessaria a servire il Re-Imperatore, a salvaguardare la potenza dei dodici Casati e il dominio delle Strade Celesti. Un alto muro di pietra, sormontato da schegge di selce, circondava le tenute della Torre di Isse. Una seconda recinzione di robuste piante di sorbo selvatico cresceva lungo il perimetro esterno del muro. Inserite in arcate disposte a grandi intervalli, una mezza dozzina di porte secondarie in legno di quercia e ferro si apriva su stradine poco usate, in pratica sentieri per carretti, che si addentravano nella foresta o tra le dune di sabbia; verso sud-est, la porta principale si apriva sulla Grande Strada del Re, che correva lungo la costa. Per i servi, era giunto il momento di andare a raccogliere frutta e fiori nella foresta. Sotto la luce obliqua e pallida dell'alba, un convoglio si avviò tintinnando lungo il sentiero che costeggiava gli orti recintati e il basso edificio in cui si preparava il formaggio, con le sue cantine sotterranee. Preceduto da cavalieri armati, esso era composto da un carretto di legno trainato da due vecchi cavalli da tiro e da un seguito assortito di servitori, alcuni seduti sul carretto e intenti a guardare fuori, attraverso le pareti a traliccio, altri che procedevano a piedi. Cebi cappuccini e bambini erano appesi al carretto come cirripedi oppure s'inseguivano a vicenda. Era stata ovviamente adottata ogni possibile misura protettiva contro le creature unseelie. Molti, indossavano gli abiti girati al contrario, sacrificando la comodità in favore della sicurezza, e alcuni portavano indosso corone e ghirlande di margherite. Al carretto erano appesi campanellini, come pure ai finimenti e alle briglie dei cavalli, e, sui lati del veicolo, erano stati inchiodati ferri di cavallo. I sacchi e i cesti, ancora vuoti, nonché i bastoni di legno di sorbo selvatico erano sovrastati da altri campanellini e
da festoni di logoro nastro rosso. Borbottando, Grethet teneva la mano stretta intorno al galletto di legno che le pendeva dal collo avvizzito; la foresta infestata di creature unseelie era infatti il luogo in cui quegli amuleti, noti come tilhal, erano più necessari. Accompagnata da un allegro tintinnio che contrastava con l'espressione tesa degli uomini e delle donne, la processione raggiunse la Porta del Gufo e l'oltrepassò, addentrandosi nella foresta; a quel punto, i più nervosi cominciarono a fischiare, un suono che, a parere di alcuni, teneva lontane le creature unseelie per un raggio di miglia e miglia... E, a giudicare da quella cacofonia, si trattava di un'ipotesi tutt'altro che azzardata. Fiancheggiata da felci, la Via del Gufo si snodava in mezzo ad alti alberi che formavano una galleria di foglie. Minuscole mosche opalescenti si stagliavano contro i sottili raggi di dorata luce solare che trapassavano quella volta naturale; strati di muschio e di funghi coprivano i tronchi caduti, gli scriccioli saettavano qua e là, e le averle trillavano. Il convoglio seguì il sentiero fino a una radura e lì si fermò. I cavalli abbassarono la testa per brucare, una guardia gridò vari ordini e i servi incappucciati si divisero in gruppi, scomparendo tra gli alberi, accompagnati dal tintinnio dei campanellini attaccati ai bastoni e dal coro di fischi. Alcuni ragazzi, rimasti nella radura insieme con le scimmie, si arrampicarono sulle fiancate del carro per staccare dai tronchi lunghi viticci dai fiori purpurei e, nel centro della radura, sotto la luce intensa del caldo sole del mattino, donne e bambini s'inginocchiarono nell'erba alta per raccogliere bracciate di margherite gialle perenni, di profumata boronia e di erica rosata, conficcando in profondità gli steli nel muschio umido con cui avevano rivestito i loro cestini. «Da questa parte, da questa parte», ansimò Grethet, facendosi largo tra il sottobosco irto di ortiche. «Qui forse troveremo anche delle bacche, ma guardati dall'edera paradossa.» La vecchia faceva parte di una squadra di due sole persone che, per quanto disprezzata dagli altri, quella mattina mise insieme un raccolto abbondante di carminia erbafiamma e di candidi boccioli di neve, oltre a un piccolo sacco pieno delle prime bacche, il cui succo bluastro indicava che non erano ancora mature. Sotto i tronchi, alti come le colonne di un palazzo, che si levavano sino al filigranato tetto di foglie, l'aiutante di Grethet inspirò a fondo i dolci profumi dell'aria e si beò delle innumerevoli tonalità di verde del bosco e delle sue molte, esili voci. Le grida delle guardie richiamarono poi i raccoglitori al carretto, ormai
stracarico di fiori, e alcuni servi legarono i cesti all'esterno per evitare che i petali si danneggiassero. Il servo senza nome aveva avuto la certezza di ciò che stava per accadere fin da quando lui e Grethet si erano addentrati nella foresta, ed era rimasto in attesa, pieno di eccitazione, col passo leggero e col sangue che già gli scorreva più veloce nelle vene. Talvolta provava quella stessa sensazione anche all'interno della Torre, ma adesso era all'esterno e avrebbe potuto capire che cosa la provocava. Anzitutto giunse un vento stuzzicante, lieve come l'alito di un bambino, che però crebbe d'intensità. Poi ci fu uno stridio di uccelli. Quindi le nubi si addensarono improvvisamente sul sole, trasformando il giorno in notte, mentre il vento acquistava forza ulteriore e le sue raffiche portavano un crescente senso di esaltazione. Ridendo silenziosamente, il giovane non riuscì, a trattenersi dal mettersi a correre... e, nello stesso momento, intorno a lui esplosero grida e violente imprecazioni. «La tempesta magica! Copritevi la testa!» Stringendosi il cappuccio contro il cranio, uomini e donne si precipitarono verso il carretto traballante. Alcuni bambini risero, altri gridarono, e le scimmie presero a stridere, sciamando come scarafaggi spaventati. Luci fioche scaturirono inaspettate dall'oscurità, in mezzo agli alberi e, nell'acquistare potenza, il vento parve destare altre luci e rendere più profonde altre ombre. La cupa massa della foresta prese a scintillare e cambiò. Fiori simili a gemme colorate risplendevano su uno sfondo simile al velluto, i contorni e le venature delle foglie apparivano spolverati di minuscole pagliuzze d'argento e d'oro, stelle microscopiche danzavano lungo ogni filo d'erba, con una luce che calava e aumentava d'intensità a ogni affievolirsi e intensificarsi del vento. I rami si agitavano e oscillavano come cavalli irrequieti, le foglie danzavano come alghe smosse da una corrente mutevole, fatta di vortici e di mulinelli, fredda e setosa, pervasa di vita e di movimento. Sullo sfondo degli spettrali sospiri del vento, si avvertiva un fievole tintinnare di vetro, mentre i campanellini applicati alle briglie mandavano bagliori argentei, risuonando di una nota diversa, più pura e intensa. La frusta del conducente crepitò, percorsa su tutta la sua lunghezza da stelle azzurre, i cavalli da tiro si misero in moto, generando scintille rosse coi loro zoccoli, e il convoglio si avviò attraverso la tempesta magica, simile a un gruppo di nuotatori che procedesse sott'acqua. A mano a mano
che la voce del vento si mutò in un gemito, gli strani fuochi aumentarono d'intensità e cominciarono ad apparirne altri, più fievoli. Il giovane avrebbe voluto balzare in piedi e allontanarsi sulle ali del vento, sottraendosi a offese e percosse, ma fu costretto a scappare insieme con gli altri, che, sempre stringendo il cappuccio, correvano, tenendo lo sguardo basso. Nessuno si guardava intorno, ma lui lo fece, e, più o meno a metà della Via del Gufo, vide una scena tremolante e semitrasparente, fatta di luce: due uomini, privi di cappuccio e vestiti in modo strano, intenti a duellare con la spada. Le armi cozzavano senza emettere suono e, nel mezzo della scena, c'era un albero, di cui tuttavia gli uomini sembravano ignari. Lo attraversavano come se non ci fosse stato... o forse era il tronco ad attraversare loro. I due si scambiavano parate e affondi, immersi nel loro gioco silenzioso. Uno di essi incespicò, ferito a un braccio, e cadde all'indietro, la bocca aperta in un grido silenzioso. Ma subito dopo, in un istante - il tempo di battere le palpebre -, la scena mutò: l'uomo era di nuovo in piedi, integro, e i due stavano duellando come prima, accennando a svanire quando il vento calava d'intensità e acquistando maggiore nitidezza se esso ritrovava nuova forza. Era dunque quella l'immagine marginale, residuo dell'energia fisica liberata, che gli abitanti della Torre definivano un quadro vivente. Quando il convoglio raggiunse la Porta del Gufo, e il carretto carico di fiori, col suo seguito, lasciò la foresta per addentrarsi nelle tenute, la tempesta magica si era ormai esaurita, le luci si erano affievolite fino a spegnersi, il cielo si era rasserenato e le foglie pendevano, inerti. Più tardi, quello stesso giorno, Lord Valerix del Quinto Casato della Finvarna e Lady Persefonae del Settimo Casato dell'Eldaraigne vennero uniti in matrimonio, e alla conclusione dei lunghi riti formali ebbero infine inizio i festeggiamenti. Per ordine del suo padrone, il Capo Maggiordomo batté energicamente sul tradizionale tamburo per ottenere silenzio nella Grande Sala dei Banchetti: cinquecentodiciotto nobili e quasi altrettanti servitori tacquero e si girarono verso la piattaforma. Il lungo tavolo che si estendeva da un lato all'altro della sala era stato coperto con sontuosi tessuti argento e azzurri. Al centro, in mezzo a innumerevoli vivande ricche ed elaborate, c'era una torta simile a una nuvola di boccioli di rosa ghiacciati, da cui sbucavano colombe di zucchero. Quella scintillante creazione bianca, simbolo della ricchezza del Casato, era stata
portata là fin dalla famosa Confetteria Centrale di Caermelor, e creata con vero zucchero proveniente dai pericolosi campi delle Isole Turnagain, che si trovavano nell'estremo nord di Erith. Il prezzo di quei rari cristalli bianchi era esorbitante: su quelle isole, infatti, era difficile anche soltanto sopravvivere, giacché esse erano infestate da creature unseelie e circondate da oceani infidi quanto quegli esseri soprannaturali. Trentaquattro nobili e dame erano seduti lungo un lato del tavolo, rivolti verso la sala. La sposa indossava una sopravveste di tessuto argenteo foderata di seta e bordata di merletto, il tutto riccamente ricamato con migliaia di non-ti-scordar-di-me di seta bianca e quattromila minuscoli cristalli di rocca. Le lunghe maniche aderenti dell'abito sottostante terminavano con lunghi polsini pendenti, lavorati con ampie bande di ricami argentei; la gonna era decorata da un intricato disegno di cigni candidi su un cielo azzurro pallido, completato da zaffiri identici a quelli della collana e dei bracciali che le cingevano il collo e i polsi sottili, dono dello sposo. Alle dita, spiccavano gli anelli nuziali, e sul capo era posato un semplice cerchietto che reggeva il velo posto a coprire i lucidi capelli castani, raccolti in una rete d'argento. Il contrasto che la dama offriva col suo signore era pari a quello della neve contrapposta al carbone. Il nero proprio dei Cavalieri della Tempesta era infatti interrotto soltanto dall'azzurro del Quinto Casato. Indossata sulla camicia di seta, la sopravveste lunga fino a mezza coscia era riccamente ricamata con fili neri su stoffa nera, un abbinamento di tessuti diversi che catturavano la luce e mettevano in evidenza lo stemma araldico. Sulla schiena, la sopravveste era pieghettata fino alla vita, l'alto colletto, le lunghe maniche e il bordo erano bordati di visone. Sulle spalle, il giovane portava un mantello di broccato azzurro e nero, alla vita aveva la cintura della spada, il cui elegante fodero recava inciso quattro volte lo stemma del Quinto Casato. I pantaloni aderenti erano infilati in stivali neri alti fino alla coscia, la cui sommità risvoltata lasciava intravedere la contrastante fodera azzurra. Coperti da un elmo alato, i lunghi capelli castani gli ricadevano sulla schiena. Lord Valerix stava contemplando Lady Persefonae con un'aria da padrone soddisfatto, mentre lei teneva lo sguardo pudicamente abbassato. I due erano stati uniti in matrimonio dal Mago Zimmuth, nella Sala Superiore delle Cerimonie, riservata soltanto alle occasioni solenni, poi tutto il gruppo aveva sceso l'ampio scalone, rischiarato da candelabri, coperto di arazzi e decorato da ghirlande di fiori, raggiungendo la Grande Sala dei
Banchetti. Gli invitati si erano seduti a ventotto lunghi tavoli, posti ad angolo retto rispetto al tavolo alto e coperti da tovaglie di lino candido su cui scintillavano posate d'argento. Le prime sei portate di dodici vivande ciascuna erano già state servite, gli avanzi sgomberati e, dopo la terza portata, Lord Voltasus, il Condottiero della Tempesta del Settimo Casato, aveva pronunciato il suo discorso di benvenuto, pieno di elogi insinceri rivolti al Quinto Casato. Lord Oscenis aveva poi risposto, profondendosi in lodi. Eloquenti panegirici erano giunti da entrambe le parti e tutte le formalità erano state espletate con estrema correttezza. A quel punto, la tradizione richiedeva che si desse la parola al bardo del Casato ospitante. Quando venne annunciato il suo nome, Carlan Fable, l'anziano e snello bardo della Torre di Isse, si alzò ed eseguì un profondo inchino in direzione del tavolo alto, scrutando quindi la scena che aveva davanti. La Grande Sala dei Banchetti aveva una larghezza quasi pari a quella della Torre stessa, e il suo soffitto era sorretto da sottili colonne di dominite, nelle quali era stato strategicamente inserito del sildron. Vari arazzi illustravano le battaglie nel corso delle quali i Cavalieri della Tempesta avevano sopraffatto i loro nemici e, al di là delle finestre ad arco acuto, un intenso tramonto sfoggiava un mosaico di tonalità rosse e dorate. Erano due, i Condottieri della Tempesta seduti al tavolo alto. Col naso a cipolla e con le guance cascanti, Lord Voltasus di Isse era un uomo massiccio quanto un cinghiale, avvolto in un mantello di velluto nero, ricamato con filo d'argento e foderato con la pelliccia di un orso argenteo dei Monti di Ghiaccio della Rimany. Il suo volto arcigno era incorniciato da un'ispida barba grigia, a sua volta circondata da un colletto di ermellino. La sua dama, Artemisia, sfoggiava una sopravveste priva di maniche in tessuto d'argento su cui erano cucite perle di fiume e, sotto di essa, indossava un abito di velluto nero a maniche lunghe, visibile solo lungo le braccia e lungo l'orlo. Bracciali d'argento le ornavano i polsi e numerosi anelli le scintillavano alle dita. Lord Oscenis era affiancato da Lady Lilaceae del Quinto Casato, vestita di azzurro bordato in visone; appuntata sul copricapo traforato, la dama aveva una reticella su cui erano applicate penne di struzzo multicolori che solleticavano terribilmente il naso a chi le era seduto accanto. Lady Heligea di Isse, sorella di Ustorix e di Persefonae, era abbigliata in tessuto blu notte, cupo come il suo sguardo, che vagava di continuo verso le finestre e i cieli, perennemente proibiti alle figlie del Casato. In tutta la sala, gli stessi colori erano ripetuti negli abiti modellati secondo il numero limitato di fogge imposte dalla moda dei Cavalieri della
Tempesta, una moda che laggiù, nelle lontane terre dell'Eldaraigne, forse appariva già superata agli occhi dei cittadini. In silenzio, i servi circolavano tra gli ospiti, riempiendo di vino i bicchieri. Scelto il momento adatto, Cariati Fable iniziò la sua esibizione. «In questo momento, mentre dal nord-est ci giungono notizie dell'evolversi di una situazione pericolosa, è necessario guardare indietro, rammentare un altro periodo tormentato... Perché è stato allora che noi, i Casati dei Cavalieri della Tempesta, abbiamo vissuto i nostri giorni dorati», esordì, scrutando la sala, i volti dei presenti e gli arazzi che decoravano le pareti. «Durante la Guerra dei Trecento Anni, i Cavalieri della Tempesta sono stati i più grandi guerrieri di tutte le terre di Erith, ogni Re e ogni signore hanno cercato l'appoggio della loro forza e temuto la loro spada. Sulle ali della tempesta, essi cavalcavano come aquile vendicatrici.» E, presa l'arpa, intonò il lungo Canto dei Guerrieri della Tempesta. Il colore del cielo passò al lavanda e al violetto sullo specchio mutevole del Porto di Isse; lontani stridii metallici giunsero dalla foresta; una lieve brezza estiva sfiorò gli ospiti seduti vicino alle finestre, agitando i loro capelli, sciolti per quell'occasione di festa, e la luce delle candele strappò riflessi scintillanti ai bicchieri di cristallo. Terminato il suo canto, Fable approfittò del tiepido applauso che seguì per bere un lungo sorso di vino. «Alle terre di Erith venne finalmente data la pace», continuò poi. «E ciò accadde con l'avvento di Re Edward il Conquistatore, dell'antica famiglia dei D'Armancourt, un uomo di saggezza formidabile e di forza inestinguibile. I Casati e le terre furono riuniti in un impero, di nuovo sotto il governo di un unico sovrano, e vissero in pace. Così tornò a regnare la dinastia D'Armancourt, la cui linea di discendenza si era spezzata per due secoli.» Seguì quindi un canto più vivace, Le imprese di Edward il Conquistatore, accompagnato dalle trombe e dagli accordi degli allievi di Fable. Alcuni tra gli ospiti si unirono con entusiasmo al coro. «Tuttavia ciò che è andato perduto non può mai essere completamente ritrovato.» Quell'affermazione, pronunciata con voce tonante, smorzò l'atmosfera di trionfo e ridusse tutti al silenzio. «Molte conoscenze erano state dimenticate e le città non sono mai state ricostruite. Le Stazioni di Collegamento e le Torri d'Interscambio sono rimaste, come sentinelle e porti delle terre civilizzate; le Navi del Vento hanno ripreso a volare; i commerci hanno prosperato e la nostra forte dinastia di Re ha continuato a regnare fino a oggi.» Il bardo concluse il discor-
so con un canto in onore del Re-Imperatore James XVI di Erith e con un brindisi alla sua salute. A quel punto, venne servita la settima portata. Seguirono altre due portate, accompagnate da sommesse conversazioni e dalla musica di sottofondo di un quintetto di suonatori di tamburello, liuto e flauto, i quali procedevano incespicando fra i tavoli. Qualche ospite sorrise, ma nessuno si abbandonò a una risata sconveniente. «Lord Condottieri, nobili e dame! Zimmuth dalla Mano Guantata, potente Mago delle Nove Arti e Maestro di Grimarye, implora umilmente che gli permettiate di dimostrarvi i suoi talenti, per il vostro divertimento.» Il massiccio maggiordomo terminò il suo annuncio con un inchino un po' barcollante e si levarono squilli di trombe. Le esibizioni di magia si tenevano a ogni incontro di Cavalieri della Tempesta e non avevano una semplice funzione d'intrattenimento. Era infatti importante che il Casato ospite dimostrasse la propria forza in molti modi: in quel momento regnava la pace e si celebravano matrimoni tra i clan, eppure le antiche rivalità persistevano. Certi non erano affatto disposti a dimenticare le faide del passato. La rappresentazione magica ebbe inizio. Le tonalità magnolia erano svanite verso ovest, lasciando il cielo pieno di stelle che cantavano di distanze inimmaginabili. Muovendosi senza rumore, i servi spensero molte candele di cera sui candelabri d'argento, dagli angoli della sala si levò il suono dolce e lamentoso dei violini e, su una piattaforma, alcune lanterne azzurre cominciarono a brillare. Cinque figure mascherate presero a dondolarsi in quella luce cerulea, formando un cerchio e muovendosi in senso antiorario per poi ritrarsi davanti a una violenta esplosione di fumo giallo che divampò al centro del cerchio. Il dissolversi del fumo rivelò Zimmuth, in piedi, col bastone in mano; nel suo volto grifagno, solcato da profonde rughe e da qualche cicatrice, gli occhi neri scintillavano, sotto le spesse sopracciglia. «Nobili e dame, ciò che vedrete stanotte sarà vera magia. Ci sono molti imitatori, creatori di misere illusioni, ingannatori, perché ben pochi sono giunti a dominare le Nove Arti di Grimarye. Io, Zimmuth dalla Mano Guantata del Settimo Casato, sono annoverato tra quei pochi, e ho messo i miei poteri al servizio del Settimo Casato, per proteggerlo dalle forze unseelie e per distruggere tutti i suoi nemici.» Le sue dimostrazioni risultarono effettivamente spettacolari. Aiutato da cinque assistenti mascherati e accompagnato da un continuo divampare di fiamme e da pennacchi di fumo, il Mago fece apparire e scomparire una
serie di animali e di uccelli. Per dare una dimostrazione dell'Arte del Risanamento, tranciò una mano da un braccio e poi, con un incantesimo, riportò l'arto reciso e sanguinante alla sua condizione originale. L'Arte del Legame e quella della Levitazione furono quindi combinate con l'Arte della Sparizione: una figura prona, coperta da un drappo di seta, venne fatta levitare fino al di sopra della testa del Mago, il quale poi rimosse di scatto il panno, rivelando il vuoto sotto di esso. Subito dopo, Zimmuth intrecciò alcuni cerchi di ferro, indusse un bastone a danzare da solo, trasformò un cebo cappuccino in un topo, il topo in un cane e il cane in una colomba, e infine rinchiuse uno degli assistenti mascherati in una cassa, trapassandolo con alcune spade, operazione da cui l'uomo emerse illeso, grazie a un altro incantesimo. Dopo che Zimmuth fu scomparso in un'esplosione di fumo rosso, vennero servite le ultime tre portate ed ebbero inizio le danze. Gli ospiti elegantemente abbigliati si disposero in fila, inchinandosi a vicenda prima d'iniziare una lenta gavotta. Nello stesso istante, molti piani più in basso, nelle cucine, la scena appariva assai diversa: pile di piatti sporchi oscillavano a ridosso delle pareti, posate coperte di grasso riempivano i secchi di legno, i cani si contendevano gli avanzi e i servi stanchi danzavano al ritmo degli ordini di Dolvach Trenchwhistle. Il più brutto tra i servi aveva lavorato incessantemente per venti ore di fila, spronato da comandi contraddittori e da striduli rimproveri, col rumore delle stoviglie, che riecheggiava come un gong, unito allo schianto di qualche oggetto di porcellana lasciato cadere sul pavimento. A quel punto, il giovane si allontanò senza che nessuno, in mezzo a tanta confusione, si accorgesse della cosa. Desiderava un po' di tranquillità e di sonno, ma prima voleva dare un'occhiata a quelli che abitavano al di sopra dei moli, così, se per caso avesse sognato, cosa che non succedeva mai, avrebbe visto immagini gradevoli accompagnate da una dolce musica. Le torce, sui loro sostegni, erano quasi esaurite e proiettavano sulla scala incerte chiazze di luce; col cappuccio tirato in avanti, in modo da nascondere il volto, il giovane non ebbe difficoltà a sgusciare di ombra in ombra. Salì le scale con rapidità sorprendente, senza il minimo affanno. Arrivato a una camera esterna, che comunicava con la Grande Sala dei Banchetti, l'aspirante spia attese il momento opportuno, poi entrò con passo deciso dalla porta aperta, come se avesse avuto un compito da assolve-
re, e s'insinuò dietro un arazzo. Sotto il soffitto di archi che s'intersecavano, lunghe file di danzatori s'incontravano e si separavano, s'incrociavano e si allontanavano ancora, in un formale ed elegante succedersi di nero, argento e azzurro. Vino rovesciato e grasso sporcavano le tovaglie di lino bianco, le candele consumate lasciavano colare la cera candida sull'argenteria e i servi stavano chiudendo le imposte, per tener fuori l'aria fredda della notte e gli strani rumori della foresta. La sala sembrava avvolta nel turbine di suoni dei liuti e dei violini. Il giovane rimase a guardare, con un sorriso deliziato sulle labbra gonfie. Accorgendosi di lui, un visitatore seduto gli rivolse un gesto vago per chiedere altro vino. Individuata una caraffa piena, il giovane la prese e così si venne a trovare in mezzo agli altri servitori finché, per uno scherzo della sorte, non capitò vicino a un tavolo occupato da vari Maestri del Settimo Casato, che lo riconobbero. Sospirando, il giovane li fronteggiò a testa alta, spingendo addirittura un po' più indietro il cappuccio, senza tremare e con un atteggiamento audace che sembrava dire: Ho lavorato fino a consumarmi le ossa mentre voi oziavate. Sono stanco fin nel profondo del cuore e stufo di tremare come un cane davanti a voi. Fate pure del vostro peggio... morirò con dignità. Ubriachi, i Maestri si limitarono tuttavia a fargli cenno di andarsene. Ma non il Maestro Mortier. «Vieni qui.» Posò il coltello appuntito con cui stava spolpando la carcassa di un piccolo uccello e gli rivolse un cenno. La sua sopravveste e le maniche erano chiazzate di unto, la fronte appariva arrossata e imperlata di sudore. In risposta a un secondo cenno del Maestro, il giovane si fece più vicino, mantenendo un atteggiamento di sfida. L'uomo si protese allora verso di lui con fare incerto e aria confidenziale. Gli puzzava l'alito. Le labbra molli, perennemente imbronciate, ricordarono al ragazzo quelle viscide creature che aveva trovato sotto le pietre umide, nei livelli più bassi della Torre, dove le condutture dell'acqua perdevano da anni. «Non avere paura, ragazzo, perché non intendo farti del male. C'è una moneta per te se mi risponderai sinceramente, con un sì o con un no», disse il Maestro, socchiudendo gli occhi. «Temi le tempeste magiche?» Il giovane accennò a scuotere il capo, poi notò un bagliore nello sguardo dell'uomo e cambiò la risposta in un cenno di assenso. Ma era troppo tardi. «Non mentirmi, ragazzo», sorrise Mortier, appoggiandosi allo schienale. «Tu non temi le tempeste. La maggior parte della gente non è nessuno, e tu sei più nessuno degli altri. Sii il mio ragazzo tuttofare e migliora la tua
posizione. Sei proprio il giovane di cui ho bisogno... Pod diventa sempre più ostinato. Da stanotte, sarai il mio paggio. Ora va' ad aspettarmi nelle mie camere.» Il nuovo paggio gli rivolse un inchino profondo, esagerato, e si affrettò a distogliere il volto per nascondere l'ira che provava, mentre le sue labbra formavano in silenzio le parole: Mortier, razza di verme. Alle sue orecchie, la musica della festa di nozze si era trasformata in una stridere di ferro arrugginito, unito a un clangore di catene e a un ululare di gufi in caccia. Il giovane fuggì dalla sala e corse lungo le scale, lasciandosi alle spalle le scalinate più larghe per imboccare strette spirali di gradini consunti dall'uso, scendendo sempre di più e fermandosi una volta soltanto, al Livello Cinque, per prelevare un piccolo involto da una nicchia. «Come fai a scovarmi sempre?» gemette Pod, ubriaco, da un buco nella parete della cantina, dove si era raggomitolato. «Mi nascondo sempre meglio, però tu mi trovi ogni volta. Non mi piaci... Forse è proprio da te che mi sto nascondendo, eh? Qualcosa ti ha rubato la voce, la faccia e il passato. Sono convinto che su di te gravi una maledizione, e sai perché dico che ne sono certo? Perché sono Pod il Saggio, e lo so. Tu non conosci questi posti... questo mondo...» Allargò le braccia sottili nel bagliore incerto di una lanterna cieca e si protese in avanti. «Ascoltami, ti spiegherò tutto. Le Navi del Vento veleggiano sopra le cime degli alberi e gli eotauri solcano i cieli per i dodici Casati. Le Torri si ergono sopra le Terre Conosciute di Erith, e le terre di Erith sono le terre degli uomini, ma appartengono anche a creature unseelie di cui non potresti immaginare l'eguale neppure nei sogni, creature che ci danno la caccia e ci fanno del male. E. ReImperatore governa nel Palazzo di Caermelor, è circondato da cortigiani, è sovrano di tutta Erith e possiede ricchezze inimmaginabili. Nel mondo, il vento soffia attraverso le corti vuote delle città in rovina, il vento magico soffia nella nostra testa e crea per noi gli incubi. Io però non temo il vento magico.» Appoggiandosi all'indietro, Pod appuntò lo sguardo sull'assoluta oscurità delle pareti. «Alcuni lo temono, altri no. È come i ragni... Alcuni ragni sono velenosi, altri no.» Parlava in modo strascicato, incerto. Il bianco dei suoi occhi scintillò. Il giovane lo ascoltava attentamente, cercando di cogliere ogni parola. «Il mio signore, Ventre Grasso, teme il vento, lo teme terribilmente, quindi cerca di dominarlo, di acquisire potere su di esso e sulle creature unseelie. Ci prova coi suoi libri del sapere, con le candele nere e col sangue. Doveva diventare un Mago, ma è stato scacciato dal Collegio delle
Nove Arti allorché lo hanno sorpreso a contrattare con creature unseelie, nel tentativo di comprare il potere che gli mancava. Adesso cerca di vincolarmi a sé perché io lo serva.» Pod rabbrividì. «E io lo servo, talvolta, ma la sua paura cresce. Adesso mi sta preparando ad andare nella foresta per trattare con quelle creature, ma, quando verrà il momento, non lo farò. E tu non sei migliore di lui! Anche tu vorresti farmi andare là fuori! Non ho paura del vento magico, però le cose che si aggirano nella foresta, nel buio della notte... ah! Preferirei gettarmi dalla Torre più alta che doverle affrontare... Dico davvero.» Si raddrizzò di scatto, un'intensa espressione d'orrore che gli affilava i lineamenti, gli occhi offuscati come polle fangose. «Là fuori succedono cose terribili! Ci si può perdere, scomparire ed essere dimenticati. Guardati dai passi nella notte e dalle ali oscure che battono contro le finestre! Guardati dalla Caccia! Diffida dell'acqua, del vento e della pietra! Io ti ho avvertito», esclamò con voce incrinata e poi si mise a borbottare tra sé. Il futuro paggio di Mortier fece alcuni gesti, ma l'espressione vacua di Pod non cambiò. Allora il giovane, pieno di frustrazione, si batté una mano sulla fronte poi gettò al suolo la sacca, da cui uscirono un po' di cibo e una borraccia di cuoio. «Fuggire? No!» strillò Pod, tornando di colpo lucido, poi, rapidamente, aggiunse: «D'accordo, ho capito... Non desisterai, eh? Sei deciso a salvarmi, vero? Allora seguimi... Senza dubbio vuoi provare a imbarcarti sulla nave mercantile attraccata al molo. È proprio la notte giusta per salire a bordo di nascosto e volare via sopra questa dannata foresta, giusto? Il momento migliore è questo, quando la festa nuziale si avvia alla conclusione e i più stanno dormendo o sono troppo impegnati o ubriachi per accorgersi di noi. Andiamo». Troppo stanco e grato per stupirsi dell'improvvisa sobrietà e dell'altrettanto improvvisa decisione di Pod, il giovane muto si appese la sacca alla spalla e, lungo le tortuose e umide scale posteriori, lo seguì, passando dalle cantine, edificate a venti piedi sottoterra, al grande molo che si trovava a 112 piedi di altezza. Era quasi l'alba, ma la musica giungeva ancora dall'alto. La Torre si stagliava sullo sfondo di una luna di ghiaccio in un cielo color lavanda, terra e mare si stendevano sotto di essa, come un bassorilievo inciso nel peltro. La Nave del Vento - il cui nome era Città di Gilvaris Tarv - dondolava all'ancora sopra il cortile di attracco, congiunta al molo da due passerelle. Botti e casse erano ammucchiate accanto alle bitte, ma in giro non si vede-
vano guardie o marinai: l'abbondanza di cibi e di liquori fornita dal banchetto dei Cavalieri della Tempesta era stata una tentazione troppo grande per potervi resistere. Trascinando il piede leso, Pod si avviò lungo la passerella oscillante, il passo silenzioso nonostante la deformità, e il suo compagno lo seguì, scoccando rapide occhiate nell'ombra circostante. Tra i pennoni e l'albero di maestra, la luce della luna creava intricate ragnatele. I due raggiunsero il ponte quasi senza far rumore e si misero alla ricerca di un nascondiglio adatto. Un boccaporto aperto rivelava una scala verso il ponte inferiore, da dove una seconda scala scendeva ulteriormente nelle buie profondità della stiva. «Va' tu per primo», lo incitò Pod. Il giovane muto scese entrambe le scale e attese, guardando verso l'alto; dopo un momento, la voce di Pod gli giunse sommessa nel buio. «Io torno indietro. Non intendo fuggire. Tu va' pure incontro al pericolo, ma senza Pod.» Il ragazzo nella stiva lasciò cadere la sacca e cominciò a salire di slancio la scala; più in alto, i passi irregolari di Pod risuonarono sul ponte inferiore e sulla scala che portava all'esterno, poi due mani gli afferrarono le caviglie. «Lasciami andare!» gracchiò lui. «Ero ubriaco... Non sapevo...» «Ehi, che succede?» domandò una voce profonda. «Chi c'è?» Pod lanciò uno strillo e, nel sentire le caviglie d'un tratto libere, raggiunse la sommità della scala, strisciando fuori dal boccaporto e dirigendosi verso la passerella. Alle sue spalle si scatenò una certa confusione, poi un marinaio accese una lanterna e la sollevò. «Per il tuono, c'è una creatura unseelie sulla passerella!» disse. «Prendila! Uccidila!» «Perquisite la nave per vedere se ce ne sono altre! Controllate la stiva!» I massicci aeronauti sciamarono per tutta la Nave del Vento e sul molo, ma Pod era già scomparso in qualche buco segreto nelle mura della Torre. Anche a bordo della nave non venne trovato nessun intruso e, il mattino seguente, quando il vento cambiò, la Città di Gilvaris Tarv ripartì. 3 LE NAVI DEL VENTO NAVIGAZIONE E ARREMBAGGI
Alto cresce il pino, basso l'agrifoglio; le Navi del Vento vanno dove vanno le aquile. Cento piedi da terra; l'unico rumore è quello del fasciame. Nessuna ruota solca le nostre strade e mai le solcherà; gli alberi più alti sfiorano la chiglia. Fra abeti e pini navighiamo; betulle e tassi laggiù scivolano. Scogli d'oceano sono le montagne; gli uccelli sono i pesci del cielo. Onde spumeggianti, le nubi scorrono accanto, le correnti scuotono il cielo ventoso. Su un mare di luce tracciamo la nostra rotta e solchiamo le grandi strade del sole... Per gli aeronauti delle nebbie e dell'aria, soltanto gli stolti vivono laggiù. Canto dei marinai del cielo Dalla pallida luce che precedeva l'alba emerse il confine del mondo, dipinto con sbrigative pennellate di nubi. Poi, improvvisamente, prima di scomparire, fu attraversato dall'alta prua. Un momento più tardi, però, la Nave del Vento incontrò una sacca d'aria, perse quota in modo repentino ed esso riapparve. Sbattendo le palpebre per scacciare la sonnolenza, l'aeronauta scelto Ared Sandover avvertì uno spasmo alla bocca dello stomaco, come succedeva sempre quando si aveva l'impressione di precipitare, quasi che il ponte fosse svanito, lasciandolo per qualche secondo sospeso nel nulla. Ben presto, tuttavia, intervenne la spinta ascensionale e lui si sentì di nuovo al sicuro. I primi raggi del sole tingevano d'oro un infinito panorama di vegetazione oscillante, di alberi scossi dal vento. Un tintinnio di campane segnalò la mezz'ora. Afferrato il timone, Sandover lo portò leggermente indietro per inclinare l'elevatore e sollevare la prua. Accanto alla ruota del timone, le leve degli alettoni erano bloccate nella posizione giusta e le vele crepitavano gonfie di vento. Il timoniere ebbe l'impressione che il timone fosse il cuore di un vivace purosangue. Esaltato da quella sensazione, ignorò il ponte che gli sobbalzava sotto i piedi e si concentrò sul suo compito, tenendo d'occhio la bussola e sbir-
ciando la curva mutevole del terreno e l'avvicinarsi della massa di nuvole che si stava formando lungo la costa. La Città di Gilvaris Tarv si levò con grazia sopra il fogliame, elegante come un cigno bianco, mentre gli alberi più alti la sfioravano, tanto che Sandover poté guardare tra i loro rami. A prua, la distesa della foresta si allargò a ventaglio e, sul veliero, gli stendardi dell'Eldaraigne e della Linea Cresny-Beaulais sventolarono nella luce del mattino. Ai sette tocchi di campana, l'uomo incaricato di dare il cambio a Sandover uscì dal castello di prua, accompagnato dal piacevole aroma di cibo della cambusa. Notando le nubi in avvicinamento, il comandante diede l'ordine di ridurre la velatura e il primo ufficiale gridò: «Cazzate le bugne!» Poi, mentre i marinai obbedivano, continuò: «La controranda, ragazzi! Ammainatela!» Ignorando le irregolari folate di vento dal basso, Sandover si arrampicò sulle griselle e, dopo aver raggiunto le rigge, si protese verso l'alto e verso l'esterno, passando sull'albero di maestra. Non ebbe neppure il tempo di guardare verso il basso: gli stivali dell'uomo che lo precedeva si stavano allontanando in fretta e quello che seguiva lo stava incalzando da vicino. Quando passò con cautela dalle rigge all'albero, la vela si gonfiò, rimbalzandogli intorno alla faccia. Allora lui e gli altri marinai si protesero in avanti e la raccolsero in grandi pieghe, avvolgendola con entrambe le braccia per poi pressarla sotto il ventre e infine stendendosi su di essa, così da tenerla ferma e poterla rizzare. Spingendo lo sguardo oltre la varea, Sandover intravide un lago boschivo, molto più in basso. Le acque sembravano aver intrappolato il riflesso della nave. Nella stiva, tra le merci ammassate, il clandestino sistemò una balla di stoffa in modo che lo tenesse incastrato contro una massiccia costola di legno che seguiva il contorno dello scafo. Un paio di botti rotolava con uno sciacquio di vino, orci di pietra sbattevano gli uni contro gli altri nelle casse, passi continui martellavano sul ponte sovrastante, il fasciame scricchiolava e le corde vibravano. Anche il fagotto coi poveri averi del clandestino rotolava di qua e di là. Di tanto in tanto il ragazzo si assopiva, ma, se avesse sentito un rumore di passi che scendevano verso la stiva, non ci avrebbe messo molto a fuggire. Il corpo gli doleva per i postumi dello sforzo cui si era sottoposto. Per ore e ore si era aggrappato al soffitto della stiva, puntellando le braccia e le gambe contro i supporti. Gli aeronauti avevano perquisito a fondo la stiva,
ma, proprio come lui aveva sperato, si erano dimenticati di guardare verso l'alto, dove lui stava sospeso, sudato ed esausto, però ben deciso a non rilassarsi neanche per un istante. In tal caso, infatti, sarebbe caduto proprio addosso a loro. Di certo i clandestini non erano benaccetti; se fosse stato scoperto, la punizione sarebbe stata severa. Ecco perché, anche se la sete lo tormentava, non osava bere che pochi sorsi dalla borraccia: non sapeva dove e se avrebbe trovato altra acqua e d'altronde ignorava quanto tempo avrebbe impiegato la nave per giungere a destinazione. Su quella nave non c'era neppure un po' d'acqua di sentina che inumidisse i ponti, non c'erano onde che sbattessero contro lo scafo, né spruzzi che investissero le vele... L'unica acqua che poteva toccare quel brigantino era quella della pioggia, della nebbia e delle nuvole, che si condensava nei suoi raccoglitori di umidità, defluendo poi nei serbatoi di zavorra. Quel clipper a tre alberi sfoggiava come polena una testa di drago. Quattro tozze ali di legno sporgevano dallo scafo e i propulsori alimentati a sildron, piccoli ma robusti, ronzavano nei loro scomparti, sotto di esse. Quando il timoniere regolava la rotta, gli alettoni venivano inclinati lungo il bordo interno di ciascuna ala, ma essi non erano la fonte principale della stabilità del vascello, in quanto il sildron rimaneva a un'altezza costante sopra il livello del suolo e impediva alla nave di rollare, a meno che non dovesse superare un pendio ripido. D'altro canto, proprio come il timone, le ali erano necessarie per operare i cambiamenti di direzione. Una Nave del Vento poteva volare rapida, assecondando il vento, o bordeggiare di bolina, ma, come le sue cugine che solcavano le acque, non poteva procedere direttamente controvento perché i suoi propulsori, per quanto potenti, non erano in grado di contrastarne la spinta e servivano soltanto a dare manovrabilità e ad aggiungere velocità, nelle giuste condizioni. Dal momento che il ferro neutralizzava il sildron, quei motori erano tenuti insieme con cordami e colla, per cui non potevano essere sottoposti alla tensione di una velocità elevata o di uno sforzo prolungato senza andare in pezzi. La velatura era ciò che spingeva in avanti il vascello imbrigliando la forza del vento, e manovrarla, con qualsiasi condizione climatica, richiedeva abilità, duro lavoro e un'attenzione costante, perché il vento mutava di continuo e in alto, tra l'alberatura, soffiava da direzioni diverse. La nave seguiva una rotta prestabilita a una quota di centocinquanta piedi, determinata dalla quantità di schermatura di andalum rimossa dal sildron presente all'interno del doppio scafo. Nei vari porti, durante le opera-
zioni di carico e scarico delle merci, il comandante si accertava che gli schermi venissero ritratti o estesi, così da compensare le variazioni di peso della nave. Il desiderio più grande di ogni comandante era navigare il più vicino possibile alla quota designata e giungere a destinazione con la massima rapidità senza deviare, almeno ufficialmente, dalle rotte commerciali legali. Infatti le rotte e le altitudini delle Navi del Vento venivano scelte con cura dal Consiglio Celeste, in modo da permettere ai vascelli di viaggiare con la massima efficienza e sicurezza. Dal momento che molti picchi montani superavano abbondantemente i quattromila piedi, la Tarv avrebbe dovuto aggirarli; viaggiando a una quota più bassa, gli ostacoli sarebbero stati più ampi e numerosi, ma la nave non poteva neppure raggiungere un'altitudine più elevata, giacché non disponeva del sildron più puro utilizzato dalle Navi del Vento più veloci e costose. Inoltre c'era la cosiddetta Legge dei Quadranti: le Navi del Vento della stessa classe della Tarv, avviate su una determinata rotta, dovevano mantenere una particolare quota per ridurre al minimo i rischi di collisione. Di conseguenza, il vascello stava procedendo veloce a centocinquanta piedi di quota, con le vele gonfie di vento, sorvolando la Grande Foresta Occidentale e sfiorando le cime di pini, ontani e abeti. Era diretta a sud-ovest, alla volta della città di cui portava il nome. I venti del fronte freddo si allontanarono verso nord-est senza far penare troppo la Nave del Vento, che, al tramonto, oltrepassò i confini della foresta e prese a sorvolare una prospera regione di fattorie e piccoli villaggi, dove le pecore si sparpagliavano come fiocchi di lana al sopraggiungere della sua ombra. Nel cielo si dispiegava un mosaico di spesse nubi, riflettendo una luce che andava dal rosa all'ambra. Quelle terre formavano un arazzo di pascoli e di campi coltivati, bordato dal broccato verde delle siepi e attraversato da tortuosi sentieri simili a nastri. Continuando la navigazione per tutta la notte, il mattino successivo la nave raggiunse la Torre d'Interscambio di Stockton Wood, dove rimase per mezza giornata, caricando acqua fresca e merci: grano, formaggio, lana, carne salata e fagioli. Durante le operazioni di carico, il clandestino fu obbligato a incastrarsi fra le travi di supporto del soffitto della stiva, e non vide nulla della Torre poco più che una sottile colonna con piattaforme di attracco a ogni livello e in ogni direzione -, né dei suoi abitanti, né del villaggio di Stockton Wood né dei verdi campi sottostanti. Conosceva soltanto l'inquieto crepuscolo
che regnava nell'ampio ventre della nave, dove gli aeronauti scendevano di tanto in tanto per controllare che il carico fosse fissato bene e non si fosse sganciato dagli ormeggi. E fu durante una di questa ispezioni che accadde l'inevitabile: il clandestino venne scoperto. L'aeronauta scelto Sandover lo trascinò lungo le scale, davanti ai volti stupiti di numerosi membri dell'equipaggio. Incespicando e sbattendo le palpebre, il giovane emerse sul cassero e s'immobilizzò per la meraviglia, contemplando la monumentale alberatura che si levava verso un cielo di una luminosità abbagliante, decorata dal sartiame e dalle vele; iarde e iarde di manovre fisse e mobili: drizze, paranchi, scotte, griselle, sartie, stralli e bracci. Avendo il vento contrario, la nave andava di bolina e stava procedendo a propulsori fermi, con un angolo di sessanta gradi rispetto alla direzione del vento. «Comandante, signore...» cominciò Sandover, salutando l'uomo snello ed eretto che si teneva saldamente in piedi sul ponte beccheggiante, fiancheggiato dal nostromo e dal mozzo. Con un gesto impaziente, il comandante Chauvond gli ordinò di aspettare e non distolse lo sguardo dagli alberi che stormivano sotto la chiglia. Doveva occuparsi della navigazione, e il clandestino avrebbe aspettato il suo turno. «Il vento sta cambiando», disse Chauvond al nostromo. «Prepararsi a virare.» Vennero impartiti gli ordini, e i marinai in uniforme gialla si precipitarono alle loro posizioni, mollando le cime e controllando che non fossero imbrigliate; i bracci sottovento furono sganciati e protesi sul ponte, liberi di muoversi. «Albero di trinchetto pronto alla manovra!» La nave manovrò per acquistare velocità sufficiente a girarsi, sfruttando il vento, poi i propulsori entrarono in funzione, gemendo e rantolando nel destarsi alla forza del possente soffio d'aria, il timone girò lentamente e le vele di strallo dell'albero di mezzana vennero tese di nuovo. Altri ordini vennero impartiti e giunse il momento più critico della manovra, quando le vele principali vennero lasciate libere. La nave si stava girando, coi fiocchi, con le vele di strallo e con le vele dell'albero di maestra accollo per far girare la prua, e i ponti sembravano una ragnatela di cime. Per un lungo istante, la nave rallentò, le vele che sbattevano all'indietro. «Cazzare la vela maestra!» Le vele sull'albero di maestra e sull'albero di trinchetto vennero tese non appena cominciarono a intercettare il vento, poi fu la volta dei fiocchi e
delle vele di strallo dell'albero di mezzana e così la tensione sulla randa cessò e la rotta tornò regolare. Mentre gli aeronauti arrotolavano le gomene e le appendevano con ordine ai loro pioli, il comandante rivolse la propria attenzione al problema successivo. «Un clandestino, signor comandante», ribadì Sandover, continuando a trattenere il ragazzo per un gomito. Chauvond contrasse il volto in una smorfia. Non era un uomo crudele, però si atteneva rigorosamente alle leggi e ai regolamenti del Consiglio Celeste e nutriva ben poca simpatia per chi li infrangeva. «Devo metterlo ai ferri, signore, oppure somministrargli sei colpi di frusta?» «A dire il vero, Sandover, quasi quasi vorrei ordinarti di gettarlo fuori bordo», ribatté il comandante, seccato. «Tu cos'hai da dire, ragazzo?» Il giovane scosse il capo con aria infelice. Il mozzo lo scrutò con estrema curiosità. «Credo che sia muto, signore», osservò Sandover. «D'accordo», disse il comandante, voltandogli le spalle, le mani strette dietro la schiena. «Allora lo sbarcheremo al prossimo porto, secondo l'opportuna procedura, consegnandolo alle autorità locali. Nel frattempo, dovrà essere nutrito adeguatamente. Mettetelo a pulire i ponti e a svolgere qualsiasi altro lavoro adatto a lui, per pagarsi il passaggio. E accertatevi che tenga sollevato il cappuccio!» «Aye aye, signore.» Per il resto di quella giornata e della seguente, il ragazzo ebbe vari incarichi: lucidò la chiesuola d'ottone e la ringhiera intorno all'albero di maestra, lavò il pavimento della mensa ufficiali nonché le pentole e le padelle della cambusa, dove il cuoco stava preparando uno stufato dall'aroma pungente. Sulle prime, gli aeronauti si chiesero se lui non fosse una creatura soprannaturale, mandata lì a gettare una maledizione sulla nave. Ben presto, però, assorti com'erano nelle loro innumerevoli incombenze, non badarono più a lui. Inoltre, conoscendo il mondo assai meglio dei limitati e ottusi abitanti della Torre, erano abituati a vedere cose strane e quindi erano più tolleranti. Dal canto suo, il ragazzo si chiese cupamente cosa gli sarebbe successo a Gilvaris Tarv e se sarebbe stato rimandato presso il Casato dei Cavalieri della Tempesta. La sua unica ambizione, fino a quel momento, era stata lasciare la Torre, come se il semplice fatto di andarsene in giro per il mondo gli assicurasse di ottenere le risposte che stava cercando. Temeva il ritorno alla Torre più dei colpi di frusta che rischiava di ricevere
per essersi imbarcato illegalmente sulla Nave del Vento. Eppure, anche ammesso di rimanere in città, avrebbe avuto una prospettiva diversa da quella del servo, confinato in camere buie, costretto a lucidare l'argenteria, percosso e afflitto? D'altro canto, una città era un luogo in cui le persone andavano e venivano di continuo e forse lì c'era qualcuno in grado di aiutarlo a scoprire il suo nome... La nave era un formicaio di attività: i marinai in giacca gialla impiombavano e addugliavano gomene, rammendavano vele e salivano e scendevano dal sartiame, tra un riecheggiare di ordini e di rintocchi di campana; le vele si tendevano sulle funi e ogni occhiello era una fessura trapassata dagli aghi incandescenti del sole al tramonto, mentre la Nave del Vento fendeva il cielo e le sue vele ricordavano un banco di nubi temporalesche. La terza sera gettarono l'ancora al Saddleback Pass. Le ripide pareti purpuree delle Lofty Mountains incombevano su entrambi i lati, molto più alte dell'alberatura; in basso, le gole fitte di vegetazione erano ammantate di ombre profonde. La parte successiva del viaggio, attraverso alte catene montuose disabitate, sarebbe stata difficile e pericolosa, ma costituiva l'ultimo tratto, e il comandante prevedeva di arrivare a Gilvaris Tarv il pomeriggio seguente. Il ragazzo cenò con gli aeronauti, ma non riuscì a mandare giù lo stufato e si accontentò di pane duro, acqua e alcune piccole mele dolci; quella notte, lo mandarono a dormire nella stiva e chiusero il boccaporto, per impedirgli di uscire e di aggirarsi in mezzo a loro come uno spettro, turbando i sogni di tutti. Durante il suo turno di guardia, Ared Sandover avvistò un minuscolo bagliore che scintillava nel buio: era la Nave Faro eternamente ancorata al Gold Crow Peak. Durante la notte, un suono giunse dalle montagne, proveniente da un punto imprecisato, ora vicino, ora lontano: il pianto di una donna disperata. L'urlo angosciato si trasformava in un lungo lamento, sempre più acuto, per poi cedere il posto a disperati singhiozzi, suoni inarticolati che esprimevano un dolore indescrivibile. A bordo, nessuno chiuse occhio: rabbrividendo, gli aeronauti rimasero in silenzio, tesi come gomene, oppressi da uno strano, gelido senso di pesantezza che rallentava ogni movimento, perfino la respirazione. Sapevano che quello era il grido di una Piangente e annunciava sventura ai mortali. Il lamento riecheggiò tre volte, poi sulla notte scese un silenzio quasi innaturale.
Ben presto qualcuno sarebbe morto. L'alba sorse, fredda e azzurra come il mare. Alti cirri erano sparsi in morbidi ciuffi, simili al piumaggio di un cigno; la nebbia ammantava le valli più profonde e le nubi incoronavano le montagne. Quella era l'ora in cui tutti i membri dell'equipaggio venivano chiamati a manovrare l'argano per issare l'ancora di ferro, conficcata da qualche parte nel suolo della foresta, centocinquanta piedi più in basso. Alzare la catena massiccia era un lavoro lungo, e il canto dei marinai si perse tra le colline, mentre i grandi anelli di ferro salivano al ritmo dei passi degli uomini, che marciavano in cerchio sul castello, spingendo le sbarre dell'argano. Quando gli aeronauti salirono tra l'alberatura per sciogliere le gomene che trattenevano le vele, un vento leggero soffiava alle loro spalle e le condizioni erano ideali per arrampicarsi sul sartiame. Ben presto le cime furono ordinatamente raccolte sul ponte e gli ormeggi erano pronti a essere mollati. Gli uomini in posizione vicino agli stralli superiori dell'albero di maestra stavano sui pennoni; guardando verso l'alto, Sandover appuntò lo sguardo sulle masse di tessuto delle vele non ancora spiegate, mentre su tutto il ponte gli aeronauti controllavano che ogni cosa fosse a posto, in attesa di ordini. Quel giorno non sarebbero state spiegate molte vele, perché la Tarv doveva procedere lentamente in quella regione montuosa. Alcune sequenze di fischi trasmisero i comandi in tutta la nave, poi i propulsori entrarono in azione e la nave iniziò a muoversi, acquistando velocità a mano a mano che le vele venivano spiegate. Il sole non era ancora visibile tra i picchi e grandi veli d'ombra color lavanda si riversavano dalle vette nebbiose nelle valli profonde. In quelle zone l'abilità nelle manovre era di cruciale importanza, perché il terreno diseguale esercitava una pressione variabile sul sildron presente nello scafo, provocando sbalzi continui di altitudine, mentre le formazioni rocciose creavano forti turbolenze. In quelle zone, la navigazione era sempre accompagnata da non pochi scossoni. La Nave del Vento fluttuava tra i giganteschi castelli di roccia come una fragile falena, illuminata a tratti dai raggi di sole che oltrepassavano le vette orientali. Verso metà mattinata, il ragazzo muto sentì la sottile peluria bionda sulle sue braccia che si alzava e l'eccitazione lo trapassò come una trivella d'argento. Con un brivido pieno di aspettativa, si rese conto che stava arrivando una tempesta magica. Il sole infine sbucò al di sopra delle Lofty Mountains. La nave sembrava
procedere speditamente quando si verificò una piccola eclisse. Stupito, l'equipaggio sollevò lo sguardo e, sullo sfondo del cielo, vide stagliarsi un brigantino che, con le vele tese, stava attraversando il sentiero infuocato dei raggi solari. La campana della Tarv cominciò a suonare. «Vele a dritta! Vele nere! Brigantino pirata cinquanta gradi a sinistra! Tutti gli uomini sul ponte!» «Peste e maledizione! Da dov'è saltata fuori quella malvagia carcassa?» tuonò il nostromo, abbandonandosi a una serie d'imprecazioni. Nella confusione crescente, gli uomini si precipitarono a caricare i mangani e ad armarsi, perché una vela nera significava una nave pirata. Lassù, tra le montagne, non potevano distanziarla. Il brigantino nero era più piccolo e snello, costruito per essere veloce, quindi la loro unica possibilità di salvezza stava nel combattere. Lungo e affilato come una lama, il brigantino poteva tuttavia contare sul vantaggio della sorpresa. Preceduto dal suo ariete rivestito in ferro, era sbucato da dietro l'alta parete di roccia al riparo della quale si era nascosto, in attesa, e adesso, approfittando della propria quota più elevata, stava riversando sull'altra nave una letale pioggia di frecce e di pietre. Almeno due uomini caddero a terra, feriti. «Signor comandante, suggerisco di ricorrere alle frecce incendiarie», disse il nostromo, ansimando. «Vorresti che ci piovessero addosso dei detriti in fiamme? Ordina ai mangani di prepararsi ad aprire il fuoco.» Le grida del nostromo furono soffocate dal fragore della bordata che esplose dai mangani del brigantino nero, puntati con perizia. La nave pirata era così vicina che i suoi tiratori non potevano mancare il bersaglio; infatti l'albero di maestra crollò sul ponte con un ruggito di legno infranto, abbattendo anche l'albero di trinchetto. I marinai che si trovavano in alto vennero scagliati nel vuoto, e le loro urla si spensero nelle profondità delle gole montane, soffocate dagli echi tonanti della distruzione. L'ala di poppa del lato di dritta si staccò, precipitando nell'abisso, mentre i pezzi di sildron che l'avevano alimentata si allontanavano, fluttuando nell'aria. Con un'unica bordata, la Città di Gilvaris Tarv era stata messa in condizione di non reagire. Sui ponti della Tarv, che rollava e beccheggiava, scoppiò il caos. Grossi pezzi di legno e un groviglio di cime rotolavano qua e là, mentre qualcuno gridava ordini nel tentativo di salvare la situazione. Ma Ared Sandover,
aggrappato alla murata, vide che il brigantino si affiancava alla Tarv e comprese che erano condannati. In quel momento, il lungo braccio di uno dei mangani della Tarv, liberato dalla torsione, venne proiettato contro la sua traversa per scagliare il pesante proietto, ma quel movimento brusco fece sussultare la nave, che ruotò su se stessa come una creatura morente. Il proietto mancò il bersaglio, andando invece a sbattere con violenza contro il fianco della montagna. Il giovane senza nome era sul ponte e avvertiva l'approssimarsi della tempesta magica. Non aveva paura; la scena che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi gli procurava soltanto un senso di torpore e un vago distacco, come se stesse assistendo a una commedia. Del resto, lui non poteva far nulla di utile: non sapeva usare un arco né operare le catapulte o manovrare le vele. Aggrappatosi a un groviglio di cime, fissò la linea irregolare dell'orizzonte che oscillava. Mai come in quel momento rimpianse la propria incapacità di parlare. Oh, potessi urlare un avvertimento! D'un tratto scorse i rampini d'arrembaggio che si stavano conficcando nel legno e il cuore gli martellò nel petto. D'impulso, il giovane si lanciò lungo il ponte in pendenza, verso l'aeronauta scelto Sandover, che ancora lottava per mantenere l'equilibrio. «Cosa ti prende? Lasciami andare!» gridò Sandover. I due lottarono per qualche istante, poi l'aeronauta girò il capo e vide le teste che stavano comparendo oltre la murata di poppa. Mentre l'attenzione generale era concentrata sul brigantino, un gran numero di pirati si era arrampicato lungo le funi, tese fra le lance che erano silenziosamente scivolate sotto lo scafo e la nave. Gli uomini sciamarono a bordo, balzando sul ponte con le lunghe lame ricurve strette in pugno e lanciando urla acute e ruggiti. Il combattimento che seguì fu particolarmente violento. I marinai della Tarv erano stati addestrati a difendere loro stessi e la nave, ma, negli ultimi anni, le aggressioni dei pirati erano state poche e gli aeronauti erano fuori esercizio. Bilanciandosi coi piedi ben distanziati e tenendo le ginocchia piegate, coppie di duellanti si affrontarono sui ponti, che ben presto divennero scivolosi per il sangue. Un pirata dal volto sfregiato, veterano di molte battaglie, avanzò fino a portarsi a un braccio dall'avversario, poi, sogghignando, calò la scimitarra in un fendente da destra a sinistra, parallelo al suo petto. L'aeronauta si protese in un affondo, cercando disperatamente d'ingannare l'avversario, ma consapevole di essere in condizione d'inferiorità. Lo sfregiato ripeté più volte la stessa manovra, avanzando e indietreggiando, quasi per gioco,
poi all'improvviso le lame s'incrociarono e la scimitarra dello sfregiato deviò l'altra spada, scivolando su di essa e agganciandola in modo da spingerla di lato. Ci fu un clangore di metallo contro il metallo, accompagnato da un arcobaleno dipinto nell'aria. La mano recisa dell'aeronauta cadde sul ponte con un tonfo sordo, seguita un istante più tardi dal suo torso. Un altro pirata, un uomo ossuto e sdentato che stava attaccando, parando e rispondendo a ritmo serrato, batté d'un tratto con decisione il piede sulle tavole del ponte, distraendo l'attenzione dell'avversario dalla scimitarra e inducendolo ad abbassare la guardia. Si trattò di una frazione di secondo, ma fu sufficiente perché la punta della scimitarra dello sdentato trapassasse l'avambraccio dell'aeronauta, recidendo i tendini. La spada cadde dalla mano inerte e, con un rapido affondo, lo sdentato trafisse il cuore dell'avversario. Un coraggioso marinaio si avvicinò di soppiatto a un pirata che aveva sollevato di peso uno dei suoi compagni e lo stava scagliando nel vuoto. Nel completare la manovra con un grido possente, tuttavia, l'astuto pirata posizionò la scimitarra lungo il braccio sinistro e sotto di esso; con un movimento fulmineo, indietreggiò col piede sinistro, protendendo l'arma dietro di sé e contorcendosi sulla sinistra. Il marinaio, che stava avanzando con la spada sollevata, venne colto di sorpresa e cadde sul ponte, tagliato quasi a metà. In quel momento, lanciando un urlo rabbioso, un altro aeronauta attaccò con la spada protesa in un affondo, ma il pirata, ruggendo, indietreggiò, mettendosi al di fuori della sua portata. Allora l'aeronauta spostò il proprio peso all'indietro, per recuperare l'equilibrio. Era la mossa su cui il pirata aveva contato e infatti, approfittando di quel momento di vulnerabilità, si slanciò in avanti, falciando l'avversario. Un pirata calvo, con un solo orecchio, si aprì un varco nella mischia, dando un nome a ogni affondo e fendente che vibrava. «Il pareggiatore, il mietitore, l'affettatore!» gridava, mentre la sua lama fendeva l'aria con un suono sibilante e attraversava la carne col tonfo sonoro di un'ascia che affondasse in un cavolo. Quando il vento magico si abbatté sugli uomini sembrò accrescere la ferocia del combattimento, come se fosse penetrato nel loro sangue. Nubi fumanti ribollirono nel cielo, il tramonto prese a scintillare di strani fuochi arcobaleno simili a ghiaccio, a pietre preziose o a stelle congelate, e il sartiame del brigantino divenne una ragnatela cosparsa di gocce di rugiada, che scintillava come diamanti. «Rendetela una nave fantasma!» gridò un aeronauta morente con l'ulti-
mo respiro che gli gorgogliava nel petto. I combattenti, che avevano perso il cappuccio nel fervore della battaglia, danzarono al ritmo della vita e della morte, immersi in una luminosità soffusa che imprimeva le loro immagini nell'aria, facendo sì che le loro forme rimanessero nel punto in cui si erano trovate un momento prima e creando così immagini trasparenti e tremolanti che svanivano lentamente. Un marinaio vibrò una coltellata, e un ventaglio di coltelli fantasma si dissolse a poco a poco; un uomo cadde, e innumerevoli fantasmi replicarono quella mossa. Spettri e uomini balzarono di ponte in ponte, le loro grida e il clangore delle armi accompagnate da un vago tintinnio di campanelli di cristallo. Oscillando in seguito all'impatto che l'aveva privata degli alberi e per il contraccolpo dovuto al mangano, la Tarv sobbalzò di lato, andando a sbattere contro la parete della montagna, in cui alti pini scuri affondavano le loro radici, crescendo diritti su quel terreno quasi verticale. Un pirata dallo sguardo selvaggio si ritrasse d'un balzo allorché il suo avversario scattò in avanti con un fendente verso l'alto che gli squarciò il ventre, poi precipitò in avanti con un grido gorgogliante. Un altro aggressore cercò di colpire il marinaio e mancò il bersaglio, tranciando invece la cima cui era aggrappato Sandover, che cercava così di mantenere l'equilibrio nel difendersi dagli assalitori. L'aeronauta saettò lungo il ponte e oltre la murata, precipitando in mezzo ai rami di un albero che cedettero sotto il suo peso. Era ferito ma vivo. Poi la Nave del Vento si spostò ancora, abbandonandolo. Consapevoli che la nave era condannata, molti aeronauti tagliarono le cime e si lanciarono oltre la murata, sperando che gli alberi frenassero la loro caduta e disposti ad affrontare le bestie e le creature selvatiche che si aggiravano su quei ripidi pendii. Non tutti, però, ebbero la stessa fortuna di Sandover. Quando la battaglia si concluse, i pirati fecero prigionieri alcuni uomini e lanciarono gli altri fuori bordo, poi saccheggiarono la Tarv, caricando casse di oggetti preziosi sulle lance e trasferendole quindi sul brigantino. Le merci di minor valore furono pressoché ignorate: erano troppe e troppo pesanti e avrebbero appesantito la loro nave, rallentandola. Dopo aver preso anche tutto il sildron che erano riusciti a trovare, spinsero la Tarv contro le rocce della montagna. La nave rimase sospesa, col fasciame infranto e macchiato di sangue, mentre, con l'allontanarsi della tempesta magica sopra le montagne, verso nord, anche la scena spettrale svaniva, lasciando riapparire il sole del tardo pomeriggio. Quando fosse scoppiata la prossima tempesta magica, l'immagine spettrale della Tarv sarebbe volata ancora, a memento del clipper.
Sulla scia della tempesta magica, la nera Nave del Vento si diede alla fuga. Il mancato arrivo della Tarv ai moli di Gilvaris Tarv avrebbe fatto scattare una ricerca e il comandante pirata intendeva essere ben lontano da quel luogo nel momento in cui le navi di pattuglia fossero apparse all'orizzonte. La sua imbarcazione, veloce e manovrabile, era stata modificata drasticamente: se il rivestimento di andalum, che schermava il sildron, veniva fatto scorrere avanti e indietro nel suo scafo doppio, quella nave saliva e scendeva di quota con tale rapidità da far dolere le orecchie. I prigionieri, selezionati tra quelli rimasti illesi in base alla stazza, alla forza o all'agilità, vennero incatenati mani e piedi con manette di ferro, per evitare che le corde li danneggiassero, diminuendo così il loro valore agli occhi dei possibili acquirenti. I pirati avevano dato loro anche del cibo e una certa possibilità di muoversi; nell'ambito di quel commercio illegale, infatti, la vendita di un lavorante poteva fruttare una somma discreta, posto che l'uomo in questione fosse in buone condizioni. Tra i prigionieri, c'era anche il clandestino. I pirati erano ladri e tagliagole reclutati nei bassifondi delle città. Ma c'erano anche soldati delusi dall'esercito, ragazzi di campagna che si erano lasciati irretire dalle chiacchiere di taverna - e non potevano più tornare indietro -, uomini che arrembavano le navi mercantili nella speranza di un ricco bottino o individui che avevano deciso di solcare i cieli per motivi personali. E adesso, davanti ai prigionieri, c'era proprio uno di quei pirati. Si mise davanti a loro, coi piedi piantati saldamente sulle tavole del ponte e col massiccio braccio sinistro fasciato alla meglio là dove qualcuno lo aveva ferito con un coltello. Socchiudendo gli occhi, il ragazzo scrutò la testa che si stagliava sullo sfondo delle vele. Gli arruffati capelli rossi, simili a rigidi cavi metallici, erano stati raccolti disordinatamente in trecce sottili e un disco d'oro pendeva, scintillante, all'orecchio sinistro. Due occhi azzurri spiccavano al di sopra dei baffi rossicci che, per quanto cespugliosi, erano tagliati corti; il collo taurino era cinto da un collare di rame al quale era appeso un tilhal d'ambra, al cui interno erano intrappolate due mosche che si stavano accoppiando. Un cappuccio sporco gli pendeva sulle spalle, il petto massiccio era coperto da una lacera camicia che un tempo era stata bianca, sovrastata da un giustacuore di pelo di coniglio. I calzoni erano verde oliva, sorretti da una cintura di cuoio porpora decorata in oro, cui era appeso uno skian infilato nel fodero. I piedi, coperti di peli rossicci e con le unghie sporche e dure come corna di capra, erano nudi e tatuati con immagini di scorpioni. Il giovane senza nome poteva vedere bene quei
piedi, perché era disteso davanti a essi; alla sua sinistra, c'erano il comandante Chauvond e il mozzo, alla sua destra una mezza dozzina di altri aeronauti, anch'essi legati. «Deforme!» proclamò il pirata dai capelli rossi. «Distorto, brutto e deforme!» ribadì, protendendosi verso il giovane. Poi, a voce più bassa, con l'alito che puzzava di aglio, proseguì: «Hogger ha un occhio solo, Kneecap ha una gamba di legno, a Black Tom mancano tre dita, Fenris è senza orecchie e Gums non ha più neanche un dente. Un uomo deve essere rovinato per navigare sulla Strega del Vento. Per i fuochi di Tapthar! Ti troverai bene con noi, mo reigh, bene come un uovo nel guscio!» E scoppiò a ridere, rivelando una serie di buchi neri nella dentatura che sembrava smisuratamente estesa. «Fisicamente, io sono perfetto, vedi?» continuò, flettendo i muscoli del braccio destro, su cui erano tatuati uccelli famelici che, col becco aperto dotato di denti, avevano un aspetto vagamente ridicolo. «Però non ti piacerebbe scontrarti con me in battaglia, mo reigh, perché è il cervello a essere difettoso. Io sono pazzo, capisci?» Sollevò e abbassò rapidamente le sopracciglia sporgenti. «Sianadh l'Orso, invincibile in battaglia!» ruggì poi, sfoggiando un ampio sorriso sul volto segnato dalle intemperie. Il mozzo gemette. «Che ti prende, tien eun? Ecco, ora slego te e il tuo amico, reigh», lo rassicurò il pirata, accucciandosi per liberarli. «Voi due vi unirete a noi! Diventerete bucanieri dei cieli. Di tanto in tanto, com'è successo oggi, perdiamo alcuni ragazzi coraggiosi, e il comandante Winch deve rimpiazzarli con giovani agili che si arrampichino sul sartiame. Non essere triste! È meglio che essere venduto come schiavo nella Namarre, come questi vostri compagni, shera sethge. Quanto a te, comandante, chiederemo il tuo riscatto alla Linea Cresny-Beaulais.» Il comandante Chauvond sì umettò le labbra sporche di sangue. «Ora però non sanguinare sul nostro ponte pulito. Ragazzi, vedete quel secchio laggiù? Andate a prendere acqua per voi e per i vostri compagni. Rendetevi utili, altrimenti Winch si accorgerà di voi e assaggerete la frusta. Getteremo l'ancora al crepuscolo, poi ci sarà la sofferenza della cena. È un peccato che il vostro cuoco sia rimasto appeso a un albero, perché il nostro è un sadico avvelenatore... Per i nostri ventri doloranti, quanto ci avremmo guadagnato nello scambio! Su, muovetevi!» I due ragazzi si affrettarono a obbedire.
Il brigantino era snello e aerodinamico, però gli mancava l'ordine che invece regnava sulla Tarv. Il comandante Winch agiva con mano ferrea, ma l'equipaggio, già poco disciplinato, era disattento e si abbandonava spesso a esplosioni di violenza immotivate. D'improvviso, si levò un forte vento. «Salite ad ammainare i velacci!» stridette Winch, la cui voce, spinta dal vento, si sparse su tutti i ponti come una grandinata. «Voi ragazzi nuovi, muovetevi, prima che vi mandi lassù a calci!» Spaventato, il mozzo aprì la bocca per protestare, poi ci ripensò. Lui e il giovane deforme seguirono alcuni marinai lungo il sartiame vibrante, senza tuttavia avere la minima idea di come svolgere il compito di cui erano stati incaricati. Anche se la nave si muoveva ancora col vento in fil di ruota, la sua velocità e la sua direzione erano state alterate, e il vento spinse i ragazzi contro le sartie, sballottandoli. Arrampicarsi sulle rigge non era cosa per animi pavidi; i loro piedi e le gambe scomparvero alla vista, e i due ebbero bisogno di tutta la forza delle loro braccia per issarsi sulla minuscola piattaforma. Superata quella difficoltà, raggiungere la seconda piattaforma fu quasi facile. I velacci neri si agitavano e sbattevano tra le nuvole, le cime e le gomene si tendevano su tutti i lati. Molto più in basso, a un centinaio di piedi, gli uomini stavano lavorando sui ponti, mentre i massicci pennoni s'inclinavano pericolosamente su selvaggi torrioni di roccia e scarpate, su crepacci e fenditure, che si stendevano in ogni direzione, come un velluto spiegazzato su un tavolo. Gli alberi sottostanti si allontanavano veloci, con ogni foglia che assumeva una gamma di tonalità verde e oro. A quel punto, si trattava di avanzare con decisione, abbandonando il sartiame per la sottile corda di sostegno tesa sotto il pennone, che tremò allorché le vele allentate sbatterono al vento come fruste. La corda si abbassò sotto il peso del primo uomo, che sprofondò quasi al di sotto del pennone, tornando però a sollevarsi nel momento in cui altri pirati avanzarono sulla fune, seguiti dai due ragazzi. Ormai c'erano quattro marinai su ciascun lato del pennone. Nel passare lungo un crepaccio roccioso, il brigantino rollò e, mentre gli alberi oscillavano in lunghi archi aggraziati, la vela colpì i ragazzi in pieno volto, spingendo via i cappucci. I due erano aggrappati a un albero che oscillava violentemente. Pallido in volto, il mozzo aveva i denti serrati. Sulle prime, il ragazzo senza nome si sforzò di non guardare in basso, ma, a poco a poco, il panico svanì e fu sostituito dall'esaltazione: lassù, si sentiva come un Re e, se avesse posseduto la voce, avrebbe grida-
to di gioia. La vela era già stata in parte ammainata, e le bugne erano state tese per sollevarne gli angoli e raccogliere buona parte del fiocco contro il pennone. Gli uomini si appoggiarono contro il pennone, dando l'impressione di appendersi a esso coi muscoli del ventre, in modo da avere libere entrambe le mani, con cui si protesero ad afferrare una manciata di tela agitata dal vento. Essa sbatté contro di loro, liberandosi dalla stretta, mentre il vento li schiacciava contro il pennone, aggredendo i loro vestiti. «Tirate, scansafatiche!» ringhiò una voce irosa. I ragazzi imitarono gli uomini. Tirata la vela verso l'alto, ne bloccarono buona parte sotto il ventre e continuarono a raccoglierla; quando essa fu tutta ammucchiata, l'appiattirono lungo il pennone, l'arrotolarono e la legarono. A operazione conclusa, dovettero scendere e arrampicarsi sull'albero di trinchetto, per ripetere tutta l'operazione. Su quella nave non c'erano corsi di addestramento per i nuovi membri dell'equipaggio: bisognava imparare o morire. Inoltre, dato che la maggior parte dei pirati aveva appreso il mestiere in quel modo, nessuno aveva compassione dei due giovani, giacché nessuno l'aveva avuta con loro. Al tramonto, la Strega del Vento gettò l'ancora in un burrone stretto e profondo. Una luce livida trapassava le nubi a forma di mandorla che rivestivano le formazioni rocciose sottovento, tingendo di rosso un picco montano la cui forma sembrava quella di tre vecchi messi in fila. Una volta che la Nave del Vento fu sistemata per la notte, con le vele ammainate e le gomene raccolte, gli uomini cenarono sul ponte, mangiando avidamente con le mani e pulendosele poi sui capelli, sui vestiti o su qualsiasi altra cosa potesse assorbire l'unto. Quasi troppo sfiniti per mangiare, i due ragazzi si sedettero e, dopo aver inghiottito qualche boccone, si raggomitolarono accanto ad alcuni pirati feriti e presero a sonnecchiare, ignorando le battute ironiche sul loro conto, battute abbastanza inoffensive. Nessuno dei due conosceva il nome dell'altro e ovviamente non si erano scambiati neppure una parola, eppure le avversità avevano creato tra loro una sorta di cameratismo. I pirati illesi, tutti esaltati per la recente vittoria, presero a discutere della spartizione del bottino. «Io dico di dividerlo adesso. Abbiamo lavorato duro per conquistarlo, quindi vediamo un po' il colore dell'oro che c'è in quelle casse.» «Se lo dividiamo adesso, dove lo nasconderemo, a bordo di questa bagnarola?» ribatté un furfante dal volto cavallino. «Nelle nostre amache?
Nelle sacche? Così che poi, non appena voltiamo le spalle, qualche ladruncolo come Spargo le possa alleggerire?» Spargo, che aveva appena affondato il naso in un boccale pieno di rum, abbassò di colpo il recipiente, sputacchiando e schizzando liquido ovunque. Come se non bastasse, il boccale, andando a cadere proprio al centro del piatto che il pirata aveva davanti, produsse un getto di sugo grigiastro che finì sul viso di Spargo e su quello dei suoi vicini di posto, che ringhiarono rabbiosamente. «Ho sentito bene, Nails?» chiese. Nails si protese verso di lui, le labbra ritratte a mostrare ciò che restava dei denti, ma Spargo rimase impassibile. «Prova a colpirmi», disse allora Nails, protendendo in avanti la mascella ispida di barba come se fosse stata un pugno. Spargo spostò lo sguardo a destra e a sinistra e vide che la maggior parte dell'equipaggio aveva smesso di mangiare per seguire la scena. Poi assestò una manata sulla spalla di Nails. Ridendo, Nails ricambiò la spinta, sempre in modo scherzoso, ma con forza maggiore. Facendosi purpureo in volto, Spargo lo spintonò di nuovo, stavolta con tutte le sue forze, facendogli quasi perdere l'equilibrio. Nails reagì con un pugno che lo colse in pieno alla mascella. I due rotolarono sui piatti della cena pieni di cavolo bollito, carne bruciacchiata di montone e frittelle di farina coperte di sugo, scatenando i compagni che, per vendicarsi del pasto rovinato, si gettarono immediatamente nella mischia. Prudentemente, i ragazzi della Tarv si allontanarono il più possibile da quella tempesta di pugni, cavoli e peltro. Un secco crepitio fendette l'aria, riportando il silenzio. Davanti a loro c'era Winch, con la frusta che gli pendeva dalla mano. Sotto il giustacuore di pelle di cavallo, il suo petto nudo rivelava il tatuaggio di un intreccio di serpenti e il solito tilhal, appeso a un laccio di cuoio. Ampie fasce di cuoio tempestate da borchie di ferro gli ornavano i polsi e la vita, massiccia come un tronco d'albero; i capelli castani erano rasati a zero su una metà della testa e raccolti in lunghe trecce unte sull'altra. Una collana di denti di squalo gli cingeva il collo e cerchi d'oro gli brillavano alle orecchie e a una narice. «Smettetela, vomitevole marmaglia di dannati mangiatori di letame», ordinò. Scornati, gli uomini si ripulirono alla bell'e meglio delle frittelle e del sugo, cominciando a mangiare i pezzi più grossi. Il comandante li scrutò con espressione minacciosa, poi, per buona misura, aggiunse: «Qualcuno ha voglia di fare una conversazione con Lady Frusta?» E sorrise con un'e-
spressione folle negli occhi dilatati. Nessuno gli rispose. «Mangiatori di letame?» commentò in tono disinvolto Sianadh, mentre gli uomini ritrovavano una parvenza di ordine. «Perché mai ci ha chiamati così? Cosa sa Winch delle ricette segrete di Veleno?» «Veleno non usa ricette, tira fuori tutto dalla sua testa.» «Questo spiega la consistenza del cibo», annuì Sianadh. «Tu però non devi preoccuparti, Cracker... Ormai sei abituato a mangiare cose che gli altri grattano via da sotto gli stivali.» Tutti risero e Cracker, un irascibile gigante con un enorme naso percorso da una rete di vene azzurrine, balzò in piedi, col coltello in pugno; per tutta risposta, anche Sianadh si alzò di scatto e appoggiò una mano sulla sommità del fodero, fronteggiando l'enorme pirata. «Ti taglierò quella tua immonda lingua, ertish puzzolente che non sei altro.» «Non esserne tanto certo, mo gaidair. Ho una lunga lama tagliente con cui affettarti.» La tensione riprese a salire, ma Winch continuò a divorare rumorosamente la sua carne di montone, apparentemente imperturbato. «Non avere tanta fretta a provocarmi! Tutti i miei nemici fuggono, quando mi vedono arrivare!» tuonò il gigante. «Davvero, Cracker? Ancor prima di aver sentito il tuo odore?» «Miserabile rospo!» ringhiò Crocker, le vene che sporgevano sulla fronte. «Non sono mai stato sconfitto!» «Allora corri più in fretta di quanto pensassi.» «Ti credi tanto intelligente, eh? Be', ho visto asini che avevano più cervello di te.» «Ah, i tuoi fratellini! Certo, un giorno li incontrerò.» «Ti ucciderò!» «Mi farai un favore, amico mio», dichiarò Sianadh, levando gli occhi al cielo. «Tira fuori la tua arma!» Con la lama, Crocker disegnò scintillanti rune di luce su una pergamena d'ombra. Reagendo con un movimento fluido, Sianadh estrasse dalla tasca una grossa salsiccia e la brandì con aria trionfale, scatenando una tempesta di risate, poi la lanciò all'avversario. Crocker afferrò la salsiccia, lasciò cadere il coltello e assestò una violenta pacca sulla schiena di Sianadh. Il nervosismo si allentò come la molla di un mangano che avesse fatto fuoco. «Ah, non sei poi tanto male, per un ertish, Orso», esclamò Crocker.
«Ti ho sempre voluto bene, Crocker. Finché sarai mio compagno, la pioggia non cadrà mai su di me, perché il tuo naso offre ampio riparo.» Con le guance gonfie di salsiccia, Crocker si unì alla risata generale. Poco dopo, tuttavia, assunse un'espressione perplessa e scoccò un'occhiata accigliata a Sianadh. Ma era troppo tardi: l'uomo dai capelli rossi si era seduto in mezzo a un cerchio di altri pirati e, stringendo un boccale, era intento a narrare una storia. «Questa è una vicenda della Finvarna, la mia terra dell'ovest. L'eroe, Callanan, è stato addestrato da giovane da Ceileinh, la famosa guerriera.» «Ah, soltanto gli ertish della Finvarna possono avere delle guerriere?» «La più debole delle nostre donne è più possente della maggior parte degli uomini feorh», fu la placida risposta. «Volete sentire la storia, oppure no?» «Aye! Aye!» «Allora... Ceileinh possedeva una fortezza in una regione montuosa, selvaggia e solitaria. Essa era costruita su un pianoro, circondato da un precipizio alto centinaia di piedi. Da lassù, si poteva guardare oltre monti e valli, fino alle lontane montagne; chi vi si recava doveva essere forte e coraggioso. La fortezza di Ceileinh era nota a tutti, e i giovani che desideravano imparare a combattere andavano là per essere addestrati. Era una scuola difficile, ma ne uscivano soltanto i guerrieri migliori: i migliori con lancia, spada e arco, i migliori nel cavalcare... L'addestramento di Callanan era quasi concluso quando, un giorno, le sentinelle rientrarono al galoppo nella fortezza, gridando che un esercito invasore stava risalendo il sentiero. Alla guida di quell'esercito c'era la famigerata guerriera Rhubhlinn, acerrima rivale di Ceileinh, sul suo carro alato. Dopo aver spazzato via tutti gli uomini incontrati sulla sua strada, Rhubhlinn era giunta al pianoro sulla sommità dell'altura. Messi in allarme, Ceileinh e i suoi compagni erano in attesa, armati e pronti, alcuni a piedi, altri a cavallo o sui loro carri da guerra. Ebbe inizio la battaglia. I più possenti guerrieri di Rhubhlinn caddero per mano di Callanan, ma anche Ceileinh subì pesanti perdite. A un certo punto, entrambi gli eserciti si ritirarono, per concedersi una breve tregua. Ma l'esito della battaglia era ancora incerto e le due condottiere, non volendo continuare a perdere i loro uomini migliori, decisero di affrontarsi in duello. Chi avesse vinto, avrebbe vinto anche la battaglia. Il giovane Callanan chiese di poter prendere il posto della sua maestra d'armi. Ben conoscendo la sua abilità e il suo valore, Ceileinh acconsentì, però lo mise in guardia contro la ferocia di Rhubhlinn. Ma lui si limitò a chie-
derle quale fosse la cosa che Rhubhlinn amava più di ogni altra. 'Lei ama soprattutto il suo carro, i suoi cavalli e il suo auriga. Formano una squadra così abile e indomita da suscitare in lei un grande orgoglio in guerra.' 'Non ti verrò meno, mia condottiera', promise Callanan, poi la salutò, avviandosi al duello. I guerrieri si disposero in un ampio cerchio sul polveroso pianoro cosparso di sangue. Al centro, stavano i due avversari. Il loro scontro fu violento come il tuono. Combatterono anzitutto con le lance, ma si vide subito che sapevano usare quell'arma con pari abilità. Le lance si spezzarono prima che l'uno o l'altra riuscisse a mettere a segno un colpo. Si passò dunque alle spade. Più esperta in quel genere di combattimento, Rhubhlinn disarmò Callanan, spezzando la sua spada all'altezza dell'elsa. Un grido possente si levò dagli spettatori. Vedendo la vittoria a portata di mano, Rhubhlinn snudò i denti in un sogghigno e trasse indietro il braccio per vibrare il colpo fatale. Callanan però non era uno stupido, e si era preparato a quell'eventualità. 'Il tuo carro e i cavalli sono sull'orlo dell'altura e rischiano di precipitare!' gridò. Rhubhlinn distolse lo sguardo per un istante, e Callanan sfruttò quell'occasione per gettarsi contro di lei, stringerla in una morsa d'acciaio, gettarla a terra e premere il suo skian contro il collo di lei. Poi le chiese di scegliere tra la resa e la morte. Rhubhlinn si arrese, e promise che non avrebbe più combattuto contro Ceileinh. Vedete, questa storia dimostra che, per vincere in battaglia, non serve solo la forza.» «Dimostra soltanto che gli ertish raccontano storie assurde», commentò Black Tom, che si ritrovò immediatamente con un occhio dello stesso colore del suo soprannome. Nella notte, le risse divennero meno frequenti e i boccali furono riempiti più volte; in fondo, si doveva festeggiare la giornata appena trascorsa. La conversazione si spostò sulla battaglia, poi su altre navi, quelle che solcavano i mari. Venne narrata la leggenda della Nave Abbandonata, cui seguirono storie che parlavano delle terribili tempeste magiche e dei vortici d'acqua dei mari settentrionali, una barriera che nessuna nave poteva valicare. Oltre il Cerchio delle Tempeste non c'era più nulla: era una barriera che cingeva i confini di Aia per impedire alle navi di precipitare al di là di essi, nel nulla. I pirati parlarono poi delle terre del sud, della fredda Rimany, dove dimoravano gli Uomini dei Ghiacci, coi loro capelli color latte, con la pelle simile a neve e con gli occhi color magnolia, e discussero delle terre note di Erith, dove i guerrieri dormivano per secoli sotto le colline, mentre creature soprannaturali si aggiravano in mezzo all'erba, sopra le loro teste. Riducendo la voce a un sussurro, quegli spietati tagliagole
accennarono poi, rabbrividendo, ai Principi dell'Incubo dell'Attriod Unseelie. Si parlò anche degli strani quadri viventi che i pirati avevano visto in varie parti del mondo, immagini lasciate dal vento magico a ripetersi per secoli, fino a svanire gradualmente. Qualcuno raccontò del marinaio che, proprio tra quelle montagne, aveva ricevuto l'ordine di arrampicarsi all'esterno dello scafo per riparare una Nave del Vento. Terrorizzato all'idea di precipitare, quell'uomo aveva rubato del sildron, nascondendolo nella cintura, così, quando un vento impetuoso aveva spezzato la sua fune di sicurezza, lui era stato trascinato alla deriva nell'aria, impotente, e sospinto tra alti canaloni in cui le navi non potevano addentrarsi. Alcuni aeronauti sostenevano di aver visto il suo corpo in decomposizione volare accanto alla loro nave, al tramonto, anche se di certo le sue ossa erano precipitate da tempo al suolo. Nell'eventualità di avvistare quella cintura di sildron, c'era l'abitudine di tenere, accanto al timone, una rete di recupero. «I Cavalieri della Tempesta hanno cinture per volare», commentò un pirata. «Però non si è mai sentito che una cosa del genere sia successa a uno di loro.» «È ovvio», ribatté un altro. «Non sono mica tanto stupidi da mettersi alla cintura sildron di grado elevato... Le cinture che indossano sono create in rapporto al loro peso: se un cavaliere cade, si arresta a dieci piedi dal suolo, così può slacciare la cintura e saltare a terra.» «Già, ma questo non può essere di molto aiuto, se ci s'imbatte in un albero», ridacchiò qualcuno. «Si finisce come maiali allo spiedo», scherzò l'uomo che aveva parlato per primo. Sianadh si alzò. Sebbene oscillasse in modo singolare - senza cioè seguire il movimento della nave - aveva un'aria molto seria. Alzando il boccale, richiamò l'attenzione degli altri, che si zittirono subito, con aria piena di aspettativa. «Vorrei soltanto dire, amici miei, che in nessun altro momento della mia vita ho mai... mai...» cominciò, con voce impastata. Fece una pausa e gli altri lo scrutarono ansiosamente. «Mai...» Un'altra pausa. «Non ho mai avuto la minima idea...» Si guardò intorno con aria confusa, e concluse: «La minima idea di cosa stessi dicendo!» E si rimise a sedere con un sorriso benevolo, mentre i compagni applaudivano debolmente. Alla fine, uno dei pirati intonò una canzone. Non era un canto da taverna, ma una ballata che narrava di una fanciulla, la quale si era vestita da
ragazzo per seguire il suo vero amore in battaglia. I pirati ascoltarono il canto, tra qualche singhiozzo e qualche rutto, e lacrime di commozione gocciolarono nel rum. Per tutto quel tempo, il giovane deforme riemerse diverse volte da un sonno agitato, cogliendo frammenti di storie che parlavano di creature unseelie, di mostri e di leggendari guerrieri, il tutto misto al respiro sibilante del mozzo, che dormiva profondamente, appoggiato alla sua spalla. Più tardi, si svegliò del tutto e scoprì che la maggior parte delle lanterne era spenta. Gli uomini russavano sdraiati o accasciati nelle più varie posizioni sul ponte, che puzzava dell'odore dei loro corpi e di grasso rancido. Simile a una culla, la nave dondolava, con un moto gentile e incessante, sulla spinta delle correnti trasversali. Il grosso marinaio dai capelli rossi chiamato Sianadh era seduto di fronte a lui, con la schiena appoggiata allo scafo e una lanterna che riversava un roseo petalo di luce sul pezzo di carta che aveva in mano e che stava fissando con aria assorta. Il giovane rimase immobile, scrutando il volto del marinaio, cercando di cogliere anche il pur minimo spostamento della testa di Sianadh. I pirati sapevano leggere? Forse quel pirata sì... oppure il foglio che reggeva con tanta cura era una mappa? Alla fine, l'uomo ripiegò il foglio e lo ripose in una tasca interna del giustacuore di pelo di coniglio, poi il suo sguardo scivolò di lato, trafiggendo il ragazzo. Questi sussultò, smuovendo la testa del mozzo, che, sempre addormentato, gli scivolò su un ginocchio. «Oh, allora sei sveglio, vero, mo reigh? Tu non hai visto niente», sussurrò il pirata, assolutamente sobrio. «Sono stato stupido a tirarla fuori qui, ma ormai è fatta. Tu non hai visto nulla.» Il ragazzo scosse energicamente il capo, però gli occhi azzurri del pirata continuarono a studiarlo con la stessa intensità con cui avevano scrutato la mappa. «Sei muto, vero?» Un cenno di assenso. «Me lo sono chiesto perché non ti ho sentito gridare, neppure quando vi abbiamo abbordati, o quando i tuoi compagni sono stati uccisi. Ho pensato che fossi coraggioso, troppo per gridare e piangere come un bambino, e lo credo ancora. In te c'è più di quanto sembri, mo reigh. Tu non indossi l'uniforme delle gambe di limone... non sei uno di loro, vero? Non appartenevi a quel dannato clipper. E quei capelli biondi che ho visto quando il vento ti ha soffiato via il cappuccio... Sei un talith, vero? Un colore come quello,
tanto intenso fino al cuoio capelluto, non può essere fasullo. I talith sono... rari. Dov'è la tua gente?» Il ragazzo scrollò le spalle. «Indossi gli abiti marrone di un servo. Sei tutto a rovescio... vestiti marrone, capelli color limone! E sei a rovescio anche da altri punti di vista. Non sei quello che sembri, vero? L'ho capito non appena ti ho visto.» Il giovane lo fissò, impotente. A parte Caitri, la servetta, nessuno, neppure Keat Featherstone, gli aveva mai parlato in quel modo prima di allora, non in maniera così personale, come se lui fosse degno di essere notato e interpellato. Era una cosa emozionante, ma lo spaventava. Cosa vedeva quell'uomo massiccio, quando lo guardava? Di cosa stava parlando? Ebbe l'impulso di protendersi ad afferrare quella spalla muscolosa per scrollare il pirata e ottenere da lui una risposta. Cosa significa talith? Che cosa vedi? Cosa sono? Chi sono? Però si trattenne, rimanendo rigido come una vela tesa dal vento. Il suo atteggiamento non passò inosservato, ma venne frainteso. «Non ti preoccupare... Non tradirò i tuoi segreti se tu non tradirai i miei. Stringiamoci la mano per suggellare il patto.» L'uomo dai capelli rossi protese la mano callosa, e il ragazzo la strinse. «Bene», annuì Sianadh, che però appariva turbato. «Questo equipaggio di sgorrama può essere ottuso, ma siamo su una Nave del Vento, mo reigh, e lo spazio è limitato... Dovresti andartene, se ne avrai la possibilità.» Spargo si rigirò nell'amaca e cadde addosso a Hogger. La confusione che seguì attirò l'attenzione del ragazzo e, quando si voltò di nuovo verso Sianadh, si rese conto che era scomparso. Gli uomini della Strega del Vento si svegliarono. Trenta orsi dalla testa dolorante si avventarono su una colazione a base di birra tiepida, pane duro e pancetta rubata - nonché mal cotta - preparata da Veleno, lui stesso di pessimo umore per essersi dovuto alzare prima degli altri. Poi il comandante Winch e il primo ufficiale Cleaver impartirono una serie di ordini e i due ragazzi vennero mandati sul sartiame, a svolgere un compito dopo l'altro. Nell'immobilità che precedeva l'alba, le montagne riecheggiavano del canto liquido delle gazze, aralde del mattino in quelle terre selvagge. Quando i primi raggi del sole apparvero al di sopra dei tre pinnacoli a est, un terribile rumore stridente, come di macine massicce che strisciassero l'una contro l'altra, si diffuse in tutto il burrone: su un picco vicino, so-
vrastato da un cumulo di gigantesche rocce piatte, la pietra superiore del mucchio stava girando su se stessa. Per tre volte, il masso ruotò faticosamente sul proprio asse, poi rimase immobile, tornando ad avere l'aspetto di una pietra qualsiasi. Il ragazzo proveniente dalla Torre di Isse scoccò un'occhiata al suo compagno, in cerca di una conferma che gli occhi non lo avevano ingannato, ma il mozzo aveva le palpebre serrate ed era impegnato a vomitare. Sul ponte, un nutrito gruppo di pirati stava involontariamente imitando il movimento della strana pietra, girando intorno all'argano per issare l'ancora. Ben presto, la Nave del Vento si rimise in movimento, in un mattino sempre più caldo e afoso... del resto, quello era Grianmis, il Mese del Sole, e presto sarebbe giunto Meathensun. Nubi color crema scivolavano intorno alla nave, al suo stesso livello; più in alto, fluttuavano cumuli lanuginosi. Il veliero talvolta passava sotto un'arcata di nubi, oppure tra due torri di nembi, oppure attraversava quelle formazioni, penetrando in una fredda nebbia umida che si ripiegava su di essa, nascondendo il sole e dando l'impressione che il mondo finisse oltre la murata. Il vento pareva del tutto inesistente, cosa che rendeva necessaria tutta la potenza dei propulsori. Per quel motivo, non appena il brigantino si fu messo in moto, i due ragazzi furono mandati a prendersi cura dei prigionieri e a ripulire la fetida cambusa. Il primo ufficiale passò a controllarli. «Non si parla coi prigionieri», ringhiò, notando il mozzo che stava distribuendo dei boccali agli uomini della Tarv, poi i suoi occhi porcini si dilatarono, e lui parve accorgersi per la prima volta dell'altro ragazzo. «Per i miei attributi! Che sorta di bestia è questa? Veleno, non lasciarlo più avvicinare alla cambusa. Non è solo brutto, è anche sporco!» Il ragazzo abbassò lo sguardo su di sé. Era vero: aveva le braccia e i vestiti coperti di sangue secco e di unto. Anche il comandante Chauvond e gli altri erano nelle medesime condizioni, ma Cleaver parve ignorarli. Sogghignando, sputò ai piedi del ragazzo. «La tua bruttezza e la tua sporcizia sono un'offesa agli occhi del comandante Winch», dichiarò. «Lavati, per la miseria! Hai un secchio. Usalo!» Il ragazzo sbatté le palpebre, interdetto, sbirciando la birra tiepida contenuta nel secchio, però non se la sentì di contraddire Cleaver. Subito dopo, tuttavia, s'immobilizzò, col secchio ancora in mano, e un terrore informe gli serrò il cuore come una mano nera. Senza girare la testa, si raggomitolò impercettibilmente nelle spesse pieghe della tunica, quasi potesse appallot-
tolarsi al suo interno e scomparire, mentre la voce di Grethet gli riecheggiava nella mente. Non lasciare che gli altri ti vedano. Nessuno deve vederti, perché sei deforme e ti scaccerebbero di qui. Hai capito? «Lavati, ho detto! Sei anche sordo, oltre che stupido e brutto?» Alle spalle del ragazzo, il mozzo si lasciò sfuggire un nervoso colpo di tosse e il comandante Chauvond prese a lottare contro le catene, urlando di rabbia. Gli uomini della Tarv erano tutti alle spalle del ragazzo; davanti a lui c'era soltanto Cleaver. Posato il secchio, il giovane slacciò la cintura e, lentamente, cominciò a sollevare sopra la testa il bordo della tunica. Il sussulto improvviso di Cleaver sibilò nel silenzio, come una freccia incendiaria immersa nell'acqua, ma il ragazzo non poté vedere la sua espressione attraverso la stoffa. «Basta! Copriti!» Obbedendo, il ragazzo cercò invano di decifrare la strana espressione apparsa sul volto di Cleaver. Poteva essere di sconcerto, di orrore... oppure era lo sguardo di un lupo che, entrando nella propria tana, aveva trovato un coniglio ad attenderlo. E se fosse stato uno sguardo di soddisfazione? E. primo ufficiale girò in cerchio intorno al ragazzo, esaminandolo come un acquirente avrebbe fatto con uno schiavo. «Schiena eretta! Spalle indietro!» gli ingiunse, scoppiando in una risata. «Va' sul ponte, subito!» Schivando un calcio, il ragazzo lasciò cadere il secchio e fuggì lungo la scala, seguito dal gongolante Cleaver. Lassù l'aria era pura... simile a un vino azzurro contenuto in una coppa di cristallo che risuonasse del canto degli uccelli. Maestose pieghe del terreno rivestite di verde scuro scendevano verso valli ammantate di nebbia. La Strega del Vento stava navigando dritta e sicura su un oceano di nubi lanuginose, tra isole fatte di picchi montani, ma in quel momento il ragazzo non riuscì a vedere tutta quella bellezza. Scorse soltanto volti sfregiati e barbuti che gli si accalcavano intorno, fissandolo con aria malevola, senza la minima compassione. Cercando freneticamente Sianadh con lo sguardo, lo individuò vicino alla murata di poppa. Se ne stava assolutamente immobile. Ma cosa poteva fare un uomo solo contro ventinove, anche ammesso che avesse provato pietà per quello strano ragazzo? «Cosa abbiamo qui, amici miei?» esclamò il primo ufficiale, trionfante. «Non lo sappiamo, Cleaver. Cosa abbiamo?» Con scarso entusiasmo, ancora in preda all'emicrania, i pirati fissarono il ragazzo. «Ho visto cose peggiori in città», dichiarò uno di essi.
«Io ho visto di peggio quando Fenris si sveglia per il primo turno di guardia», aggiunse un altro. Il ragazzo osservava Sianadh, impegnato a tirare fuori qualcosa da una sacca e a riporlo in una tasca posteriore della cintura. Quel giorno, indossava una lunga tunica di cuoio sopra la camicia. «Ma non hai visto questo, durante il primo turno di guardia», ribatté con soddisfazione Cleaver, assaporando la suspense. «Solleva la tunica, faccia di cane.» All'improvviso, il terrore e le umiliazioni degli ultimi due giorni raggiunsero il culmine: pervaso da un odio incandescente, il ragazzo sferrò a Cleaver un colpo in pieno viso e saettò tra la folla perplessa, diretto verso il lato del ponte opposto a quello in cui si trovava Sianadh. Poi si arrampicò sul parapetto, afferrando una cima per mantenere l'equilibrio. Duecentocinquanta piedi più in basso, le pieghe arruffate della foresta oscillavano vertiginosamente, attraversate da uccelli candidi; montagne simili a balene color malva nuotavano lungo l'orizzonte: volare sarebbe stato bellissimo... Lui avrebbe allargato le sue ali e si sarebbe librato verso quelle balene. E tuttavia... No, respirare l'aria di quella libertà portava alla morte. La perdita di tutto non poteva valere quel momento fugace, né ora né mai. Il tempo sembrò rallentare. Cleaver aprì la bocca in un lungo ruggito di rabbia, mentre due serpenti rossi gli uscivano dal naso. Un uomo si arrampicò sulla murata opposta, e un altro, ridendo, disse che quella situazione era proprio divertente. Sghignazzando e gridando come animali da cortile, i pirati avanzarono in massa, e il ragazzo si preparò a saltare nel vuoto. In quello stesso istante, qualcosa di enorme lo colpì, scagliandolo fuori bordo. No, non stava volando. Stava precipitando. 4 LA FORESTA ALBERI E INGANNI
Un vento aspro ululava nella notte.
Scuoteva la Torre di Guardia che sorgeva sulla spoglia vetta e sfidava il potere dell'Inverno. Tre gatti selvatici vagavano sugli ombrosi pendii, dove protestavano venti gelidi, quando dal limitare ghiacciato della valle giunse un martellare di zoccoli. Su tutta la campagna di luna illuminata nubi di tempesta si andavano addensando. «Sbarrate le porte!» gridò la Guardia. «Due cavalieri si avvicinano!» Da La Torre di Guardia, canto dei feorh Come le acque di uno stretto canale che si riversano in un ampio fiume, il tempo prese a scorrere più lentamente. La caduta sembrò richiedere un tempo lunghissimo e provocò una serie di reazioni incontrollabili e istintive. I suoi arti si agitarono, nella vana ricerca di un appiglio solido; il sangue gli salì alla testa in una marea oscura; i mantici dei polmoni lavorarono per risucchiare l'aria rubata dal vento, che cercava anche di strappare la carne dalle ossa. La cosa piovuta dal cielo che lo aveva scagliato fuori bordo stava precipitando con lui. In qualche modo, gli si era agganciata intorno e gli stava urlando all'orecchio, ma, non appena i suoni le scaturivano dalla bocca, si perdevano nel sibilo urlante dell'aria. Il ragazzo si aggrappò a quella cosa, che era solida, e serrò gli occhi, per evitare che il vento glieli strappasse dalle orbite o l'aria sferzante li ferisse. Poi si abbandonò al più assoluto terrore. In risposta all'attrazione esercitata dal terreno, si generò una spinta, graduale ma inesorabile, che si andò rinforzando. Il flusso assordante dell'aria si attenuò e la discesa divenne più lenta. Il ragazzo aprì gli occhi in tempo per vedere una massa di fogliame venirgli incontro: era la foresta in cui stava per sprofondare. «Aggrappati! Aggrappati!» Poi ci furono le foglie, fredde e sottili come aghi, e i rami che pungevano nel cedere, spezzandosi e crepitando. Però i due stavano rallentando ancora e rimbalzavano tra i rami più alti. Afferrata la mano sinistra all'uo-
mo dai capelli rossi, il ragazzo protese la destra a serrare un ramo, se lo sentì strappare dalle dita e si aggrappò a un altro, abbandonando la presa su Sianadh per restare appeso là, prima di cadere su un terzo ramo, abbracciandone con cupa determinazione la ruvida corteccia. Avendo perso la zavorra, Sianadh venne sollevato verso il cielo, trascinato dalla propria cintura. Imprecando, cercò di aprirsi un varco nella vegetazione, prese a gridare e a dibattersi, ma ogni ramoscello gli si spezzò in mano. Era troppo lontano dal tronco e troppo vicino alla sommità dell'albero per afferrare rami solidi. Sotto di lui, gli aghi di pino precipitavano in una pioggia verde. Il sostegno del ragazzo oscillava dolcemente, cullandolo. Sollevando lo sguardo, il giovane vide l'altro arrestarsi sei piedi al di sopra delle fronde più alte dell'albero. Non c'era più traccia della nave pirata. «Morte e dannazione! Non riesco a raggiungere la sacca che ho sulla schiena. Dentro ho una corda, per quello che mi può servire.» Scalciando come un nuotatore prossimo ad annegare, Sianadh riuscì a spostarsi leggermente verso destra. «Questa cintura mi taglierà a metà. Sono appeso come una carcassa al gancio di un macellaio!» Una lieve corrente ascensionale, intrisa di un aroma di resina, portò con sé una nube vagante di lanuginosi semi bianchi e sospinse l'uomo ancora più lontano dalla vegetazione, verso uno spazio in cui c'erano alberi. Nel cielo, di un colore azzurro intenso, la luce del sole scintillava, gli uccelli trillavano e ciangottavano. Cullato in un'amaca profumata, riparato da cortine di vegetazione a una notevole altezza dal suolo, il ragazzo si sentì attraversare da un'ondata di sollievo e di pace. Ma rimaneva in lui la preoccupazione per l'uomo cui doveva la propria libertà. «Rimani dove sei!» gridò Sianadh. Le correnti ascensionali lo avevano spinto verso un poderoso abete. Non appena si trovò sopra la cima dell'albero, Sianadh slacciò la cintura e, reggendola con una mano, si lasciò cadere, gli stivali che sfioravano la vegetazione. «Dannazione a Cleaver e alla sua smania di pulizia! Ho vinto questa cintura di pelle di drago alla Locanda delle Corone e delle Ancore del Luindorn, e non ne ho mai posseduta una migliore. La fibbia a forma di drago è di vero argento... non ne ho mai visto una uguale. Se potessi salvarla, lo farei, per non parlare del sildron che vi ho riposto, ma...» Con un possente ruggito, abbandonò la presa e precipitò. Seguirono alcuni schianti, poi scese un silenzio pesante come l'acciaio, mentre la cintura purpurea risaliva, sobbalzando, e si allontanava, ruotando su se stessa.
Dall'abete, giunse una serie di sommesse imprecazioni. «Scendi più che puoi, ma senza mettere piede a terra», disse quindi Sianadh a voce più alta. «Aspettami, perché laggiù si annida il pericolo.» I borbottii ripresero. Adesso giungevano da un punto più in basso. Sospirando, il ragazzo si mosse dal suo rifugio e cercò una via per scendere dall'albero. Si rese conto soltanto allora dei graffi brucianti, dei lividi e degli strappi negli abiti provocati dal suo «atterraggio» sull'abete. L'albero sussurrava e oscillava, i rami sporgevano dal tronco a intervalli asimmetrici ed erano un po' troppo lontani gli uni dagli altri per essere comodamente raggiungibili. Il giovane oltrepassò un nido vuoto e, più in basso, s'imbatté in un secondo nido che ospitava tre giovani roselle. Gli uccelli lo fissarono in silenzio, con occhi rotondi ed enigmatici. Intorno, gli scoiattoli fuggivano da ogni parte. Dunque quella era la libertà. Si era liberato da guardiani e da lingue taglienti, ma... doveva mettersi in balia di quello sconosciuto, che si accompagnava a un branco di tagliagole e probabilmente era lui stesso un furfante? Il ragazzo esitò, guardando verso il basso, ma il terreno era ancora troppo lontano per essere visibile. Che albero gigantesco! La sua altezza doveva essere almeno un terzo di quella della Torre. Con le mani ormai rese appiccicose dalla resina che colava sul tronco, il giovane riprese la discesa, riflettendo sul fatto che Sianadh aveva rischiato la vita e abbandonato la nave, anche se per motivi che gli erano ignoti. E se, una volta giunto a terra, lui si fosse dato alla fuga, scomparendo tra la vegetazione? No, era assai probabile che quella foresta fosse abitata da creature che avevano un loro modo di far svanire le cose. Forse Sianadh era degno di fiducia e forse no, tuttavia unirsi a lui sembrava la via più sicura. Doveva soltanto rimanere all'erta. Forse quella non era la vera libertà... Forse la libertà non era che un'illusione. Fagotti di piume di un giallo pallido saettavano all'inseguimento di nugoli di minuscoli insetti. La discesa si stava facendo sempre più difficile, perché i rami più bassi erano talmente larghi da rendere impossibile afferrarvisi: erano più larghi dei pennoni della Strega del Vento. A venti piedi dal suolo, poi, la scala di rami orizzontali s'interruppe. Cascate di lillà profumati crescevano tutt'intorno: una massa di fiori color malva, bianco e rosa cupo. Il ragazzo strisciò lungo un grosso ramo finché la sua punta sottile non s'inchinò delicatamente sotto il suo peso, abbassandosi abbastanza da permettergli di saltare in mezzo a quel mare di lillà, prima di scattare all'indietro, oscillando quasi volesse salutarlo. Sotto i suoi piedi, il
terreno era in pendenza e sembrò dondolare come il ponte di una nave. «Chehrna, dove sei?» Il rumore di ramoscelli che si spezzavano gli consentì d'individuare facilmente dove si trovava Sianadh. Facendosi largo tra le lunghe cascate fragranti di fiori color malva, l'ertish commentò, in tono preoccupato: «Lillà che fioriscono d'estate... Non è lorraly... naturale. Qualcosa di soprannaturale contamina questa zona. Stai bene, chehrna?» Le sopracciglia cespugliose erano aggrottate sopra gli occhi azzurri, la pelle e i vestiti non erano stati trattati con gentilezza dalla discesa tra i rami. L'uomo sembrava un selvaggio ruffiano appena uscito da una rissa da taverna. Stranamente, tuttavia, la sacca era intatta. Il ragazzo annuì. Prelevata la corda dalla sacca, Sianadh si servì dello skian per tagliarne un pezzo da usare come cintura; quanto al ragazzo, il patetico fagotto contenente i suoi averi era stato confiscato a bordo della Tarv, e lui non lo aveva più rivisto. «Mentre ero appeso lassù, come un grosso pesce preso all'amo, ho dato una bella occhiata al territorio circostante. Dobbiamo dirigerci a nord-est, tenendo le alture sulla nostra sinistra. Vieni, non indugiamo. Abbiamo già attirato anche troppa attenzione.» Sianadh si avviò con passo deciso e il giovane lo seguì, col sudore che gli colava da sotto il cappuccio, irritandogli il volto escoriato. Là non c'erano sentieri o, se c'erano, non sembravano affidabili, stretti e tortuosi com'erano. Soprattutto non sembravano diretti da nessuna parte. Gli insetti ronzavano nell'aria umida, la luce filtrava, verdastra, attraverso gli innumerevoli strati di foglie che nascondevano il cielo. Una volta che il giovane e Sianadh si furono allontanati dalle macchie di lillà, il sottobosco si diradò e le dritte colonne degli alberi sembrarono stringersi le une alle altre. I tronchi erano così alti che la loro chioma non era visibile e la luce aveva una strana qualità crepuscolare. Sianadh guardava di frequente la bussola e borbottava tra sé, con lo sguardo che saettava a desta e a sinistra a ogni fruscio. Piccoli animali sbucavano dai cespugli per darsi subito alla fuga, stridendo; ovunque erano visibili grossi funghi arancione, minuscoli uccelli dagli occhi scintillanti litigavano tra i cespugli e un riccio stava scavando tra le radici fibrose di un frassino di montagna. Colorate melifaghe, appese a testa in giù tra il vischio, levavano il loro verso monotono. C'erano però anche altri suoni e altre immagini. D'un tratto, da un punto lontano sulla destra, giunse il rumore di qualco-
sa che correva, un suono simile a quello degli zoccoli di un daino. Eppure, anche quando il martellare di zoccoli li raggiunse e li oltrepassò, perdendosi in lontananza, i due non furono in grado di scorgere la fonte di quel rumore. «Qualsiasi cosa accada, non mostrare mai paura», sussurrò Sianadh. Più oltre, dagli alberi, giunse il suono di centinaia di voci: alcune sembravano ridere, altre piangere. Con un brivido, i viandanti passarono oltre senza guardarsi intorno. In seguito, una carretta di legno procedette per qualche tempo davanti a loro e alcune pigne caddero dai rami più alti, troppo verdi per essersi già staccate da sole. Qua e là, minuscoli ruscelli scendevano tortuosi verso la valle; piccole piante, strati di muschio umido e felci nane si contendevano il terreno con ammassi di tronchi caduti, rendendo difficile avanzare. Dopo aver camminato per lungo tempo, il ragazzo rifletté che era stato davvero stupido, quella mattina, a indossare gli stivali e si sentì assalire da una rabbia disperata. Cercò poi di ricordare quando aveva bevuto per l'ultima volta un sorso d'acqua, ma il mondo, che già aveva un'angolazione strana, si girò inaspettatamente a testa in giù e gli rovinò addosso. «Che io possa essere scuoiato per la mia idiozia... A cosa stavo pensando? Avanti, bevi.» Sollevando la testa del giovane, Sianadh gli accostò una borraccia di cuoio alle labbra; dopo aver bevuto, lui ricadde all'indietro, guardando l'uomo dissetarsi a sua volta. «Ora riposa. Sì, anch'io ho bisogno di riposare, e di mangiare qualcosa, ma non ci rimane più molto tempo prima che scenda il buio. Per oggi, credo che non procederemo oltre. Adesso cercherò un posto dove passare le ore di oscurità lontano dalle creature della notte.» Sianadh si allontanò, lo sguardo rivolto verso l'alto, e la foresta si richiuse rapidamente intorno alla sua forma massiccia, quasi l'avesse fagocitata. Solo, il ragazzo lottò contro il panico, ascoltando il vago rumore che accompagnava il procedere di Sianadh. Il ronzio degli insetti sembrava più potente, il trillo degli uccelli più acuto. La foresta appariva del tutto innocua, eppure, sotto quella cacofonia naturale, era possibile sentire una strana, splendida musica, una fioca armonia di lontane cornamuse e un martellare di tamburi che scaturiva dal sottosuolo, come un'invisibile nebbia sonora. In effetti, quelle cadenze evocavano l'immagine di una terra di nebbia, di ragnatele di vapore attraverso cui era possibile intravedere alte felci scintillanti... una terra di montagne, di nubi e di cupi laghi che si stendevano sotto cieli scuri. Quei suoni
si avvicinarono sempre di più finché la selvaggia melodia non si levò tutt'intorno, fermandosi sotto i piedi del ragazzo e oscurando ogni altro rumore. Quasi fosse stato scolpito nella pietra, il giovane rimase immobile, impotente, con le unghie che affondavano nel palmo della mano. La vibrazione dei colpi di tamburo fece tremare il terreno, poi la musica si allontanò con solenne lentezza, svanendo. Fu allora che riapparve Sianadh, del tutto ignaro dell'accaduto. «Ho trovato proprio quello che stavo cercando, chehrna...» annunciò, trionfante. «Un nido di tyrax, a metà del tronco di una betulla. Le betulle sono piante facili da scalare.» In lontananza si sentì un lamento singhiozzante, quasi umano. L'incantesimo della musica si dissipò. «Presto, vieni, non c'è tempo da perdere.» I rami più bassi della betulla furono facili da raggiungere. Gettatosi in spalla il rotolo di corda, Sianadh si arrampicò su di essi, poi calò un'estremità della corda che il suo compagno si legò alla cintura prima d'iniziare l'ascesa, sorretto in parte da Sianadh. Il nido di tyrax era un enorme intreccio disordinato di rami, ramoscelli, fango e foglie secche, abbastanza spazioso da ospitare due persone e foderato di erba secca; all'interno, non c'era traccia di penne. «Il loro puzzo è svanito», commentò Sianadh, annusando l'aria. «Quei grossi volatili non lo occupano più da parecchio tempo.» Prelevò quindi dalla bisaccia del pane duro, della carne fredda di montone, alcuni fichi secchi e un po' d'uva passa. I due mangiarono in silenzio, mentre la luce del giorno defluiva attraverso una lacerazione invisibile nel cielo occidentale, e l'opprimente calura lasciava il posto a una temperatura più gradevole. Grandi stormi di uccelli tornarono allora ai loro nidi, scatenando un fragoroso ciangottare nella foresta, ma nessuno di essi si posò sulla betulla. Un ultimo raggio di sole strappò un bagliore ramato ai capelli di Sianadh, mentre questi riponeva il poco cibo rimasto e cambiava la fasciatura improvvisata al braccio. «Ti dispiace darmi una mano, chehrna?» chiese, stringendo fra i denti l'estremità di una striscia di tessuto pulito. L'altro fu pronto ad aiutarlo, legando con cura la nuova benda, poi l'uomo ripose nella bisaccia la fascia insanguinata. «Non è il caso di gettarla via in questa zona, perché l'odore del sangue, anche se secco, attira molte cose malvagie e immonde. Prendi, bagna questo panno e lavati quei graffi. Non è prudente avere ferite sporche nelle terre selvagge.» Gettò al ragazzo una pezza di lino quadrata e una fiasca piena di un liquore potente, che bruciò a contatto
con le ferite. Dopo essersi medicato le lacerazioni, il giovane si distese nel nido, appoggiando la testa sul bordo intrecciato. Dopo quella giornata segnata dal terrore, si sentiva esausto e agognava un bel sonno. «Come ti chiami?» chiese Sianadh, sistemandosi. «Sei in grado di dirmelo col linguaggio dei gesti?... No? Allora il tuo mutismo deve essere recente, perché nessuno può vivere a lungo in compagnia di altri individui senza comunicare. Mia sorella ha imparato il linguaggio dei segni quando non aveva più di dieci inverni, e lo ha insegnato al resto della famiglia. È diventata muta nel Giorno del Piccolo Sole, quando aveva sedici anni. Magari domani, alla luce del giorno, t'insegnerò qualche parola.» Pieno di gioia, il ragazzo annuì, sorridendo. «Mutismo a parte, chehrna, tu devi avere un nome», insistette l'uomo, ottenendo in risposta una semplice scrollata di spalle. «Vuoi dire che lo hai dimenticato? Non posso crederci!» Il ragazzo scosse il capo, indicò se stesso e scrollò di nuovo le spalle, inducendo l'uomo a scrutarlo con aria sospettosa. «È evidente che non ti stai prendendo gioco di me, e sei intelligente proprio come supponevo. Inoltre non credo che tu sia scothy, anche se potrei sbagliarmi. In ogni caso, se hai perso il tuo nome, te ne dovremo procurare un altro finché non lo avrai ritrovato. Non posso continuare a chiamarti chehrna in eterno, ed è possibile che si debba viaggiare a lungo insieme. Hai qualche preferenza, in fatto di nomi?» Quella parola, chehrna... Prima di quella notte, sulla Strega del Vento, Sianadh si era sempre rivolto a lui con un appellativo diverso, dal suono più sarcastico, mo reigh. Perché adesso aveva cambiato di colpo il modo di esprimersi e l'atteggiamento? Un pensiero sgradevole si formò nella mente del ragazzo... C'era qualcosa di molto sbagliato, e lui ne era consapevole da tanto tempo, fin da quando si trovava nella Torre. Spaventato, respinse quell'idea. «Non ne hai? Io ho molti nomi di riserva... Nel corso degli anni la gente mi ha chiamato in vari modi, ma nessuno si adatta a te. Inoltre, di solito, con quegli appellativi ci chiamo i miei nemici. Un momento, ho trovato! Quando le ho viste svolazzare nella foresta mi hanno ricordato qualcosa... Finché non avrai ritrovato il tuo, avrai un nome ertish, bello e onorevole. Imrhien. Dimmi, Imrhien, pensi che il tuo nuovo nome ti piacerà?» Sianadh inarcò un sopracciglio con aria interrogativa. Imrhien. Come nome, aveva un suono gradevole. Sapeva di luce e di colore. Il ragazzo sorrise, per indicare che non aveva obiezioni, e Sianadh
annuì. «Imrhien», ripeté, come se stesse appendendo quel nome alle pareti del mondo per poi ritrarsi ad ammirarlo. Accanto a lui, il ragazzo cominciò ad assopirsi... appagato, con un nome suo, protetto. «Non devi avere timore», continuò l'uomo, i cui lineamenti erano adesso appena visibili nel crepuscolo avanzato. «Non approfitterò di te. Non ho mai torto neppure un capello a una ragazza o a una donna, e non ho intenzione di farlo. Inoltre, ho una sorella che me la farebbe pagare cara, se ci provassi.» Il giovane si sollevò a sedere. «Cosa... Ehi!» esclamò Sianadh, scattando in avanti per afferrare la forma snella che si stava lanciando oltre il bordo della piattaforma irregolare. Trascinando indietro la sagoma che si dibatteva, l'uomo gettò un'occhiata a quegli occhi pieni di sgomento e gridò: «Oghi ban Callanan, cosa ho detto di male?» La figura bloccata tra le sue mani fu scossa da un tremito di paura. Sianadh deve essere pazzo... Anzi è di certo affetto dalla forma peggiore di pazzia, perché sembra sano di mente, ma in realtà è pericolosamente squilibrato. Non devo rimanere in sua compagnia un momento di più. «Calmati, chehrna, calmati! Che mi colpiscano con una galloccia se capisco cosa mai ho fatto per meritarmi questo... Credi che ti permetterei di buttarti là sotto, dopo tutti i fastidi che mi hai dato per salvarti?» Imrhien rimase immobile come un blocco di dominite. Quel pensiero, che da tempo vagava ai margini della sua coscienza risvegliandosi di tanto in tanto, di colpo era diventato più insistente. Se prima era come un bussare leggero a una porta, adesso era un rumore assordante, che minacciava di abbattere qualsiasi barriera. No, per il momento non poteva sfuggire alle grinfie di quel folle. Forse, però, tra breve, lui si sarebbe addormentato, dando la possibilità a Imrhien di sgusciar via in silenzio. Soltanto così la porta sarebbe rimasta intatta... Sianadh allentò leggermente la presa, aggrottando la fronte. «La situazione si è ribaltata. Adesso sei tu a pensare che io sia scothy», osservò, scuotendo il capo. «Mi metti nei guai, perché non riesco a immaginare cosa ti sta tormentando, anche se non ho difficoltà a prevedere da cosa verresti divorata, se scendessi a terra, a quest'ora. Ti giuro che non intendo farti del male. Possibile che tu non riesca a capirlo, ragazza?» Imrhien, con un violento strattone, riuscì quasi a sfuggirgli. Sianadh rinsaldò la presa. Poi, improvvisamente, una luce gli illuminò i lineamenti rudi. «Ah, ho sentito parlare di una cosa del genere. La chiamano lavaggio
del cervello o condizionamento mentale o qualcosa del genere. Possibile che tu stessa non sappia che cosa sei? Nella Finvarna ho sentito raccontare di un neonato i cui genitori erano naufragati in mare. Il bambino era stato affidato alla nonna, in un remoto villaggio, perché lo allevasse; la vecchia, però, non amava i maschietti e lo aveva cresciuto come una bambina, mandandolo in giro in abiti femminili e con nastri nei capelli. Non avendo modo di sapere come stessero davvero le cose, quel ragazzo era cresciuto credendo a ciò che quella vecchia pazza gli diceva, anche se alla fine aveva scoperto la verità. Non so però cosa ne sia stato di lui... E tu, con la tua amnesia... Sì, se hai dimenticato com'è fatta una ragazza, non puoi certo sapere di esserlo. Ho visto e sentito cose più assurde di questa, tuttavia... È strano. Qualcuno ti ha spinto a credere in una cosa falsa, un condizionamento che, a quanto ho sentito, ha il massimo effetto su persone indebolite o malate. Considerato quanto sei emaciata, una forma appena definibile, sotto quegli stracci, di cosa hai sofferto? Di denutrizione? È stato così che ti sei indebolita? Be', questo risponderebbe anche a un'altra domanda. Mia sorella diceva che le ragazze che patiscono la fame perdono la benedizione della luna... anche se alcuni la definiscono una maledizione. Mia sorella, quella muta, è una Carlin, e le sa, queste cose. Qualcuno ti ha indotto a credere a una menzogna, cheh... Imrhien, ma non so il perché. Forse lo ha fatto per proteggerti, e in effetti la cosa ti ha protetto per qualche tempo, su quella nave di pirati. No, non piangere!» Le sue proteste furono vane. Le porte erano cadute con uno schianto, la luce aveva fatto irruzione al di là di esse, e profondi singhiozzi silenziosi scuotevano il corpo della ragazza, percorsa da spasmi incontrollabili. Oh, sì, era vero. Ripensando al passato, tutto le appariva evidente. Quei canti che parlavano di una fanciulla che, incapace di separarsi dal suo amato, si era vestita da soldato per andare in battaglia, al suo fianco. Una sguattera della Torre si era invaghita di un marinaio imbarcato su una Nave del Vento e aveva smesso di mangiare, diventando l'ombra di se stessa e perdendo la benedizione della luna prima di morire. E quella giovane donna, Grethet... Un tempo era stata bella, ma le violenze cui gli uomini l'avevano sottoposta l'avevano fatta invecchiare prima del tempo. E infine c'era quell'altra ragazza, che aveva perso la memoria ed era stata ingannata, proprio perché le venisse risparmiata la medesima sorte. Essere una fanciulla, una ragazza, una donna. Occupare una posizione secondaria agli occhi del mondo, stando a quello che lui... che lei aveva visto nella Torre. Essere soggiogata, idolatrata, depredata, usata e viziata.
Essere giudicata da tutti gli uomini sulla base delle apparenze. Essere, nel suo caso, considerata orribile, priva di valore, colpevole. Essere condannata. Essere ignorata e sottovalutata perché il contenitore in cui era racchiuso il suo animo era disgustoso. Sapere che l'opportunità di solcare i cieli le sarebbe stata per sempre negata. Sapere che le sarebbero stati negati i diritti propri degli eredi di Erith. Essere una fanciulla significava tutto questo, e lei ne era pienamente consapevole. Ma non stava piangendo per tutto ciò, né per il dolore di aver perso quella sua fragile, transitoria condizione, quell'illusione. No, stava piangendo di gioia, perché aveva finalmente scoperto una parte della verità. Nel corso della notte si alzò un vento lieve come la zampa di un gatto, che prese a giocare con gli alberi quasi fossero stati gomitoli giganteschi, spingendoli da una parte e tirandoli poi dall'altra, con tocco ora gentile ora crudele. I rami robusti della betulla non tremarono in modo violento, limitandosi a far oscillare il nido di tyrax, come una madre che cullasse il suo bambino. Forse fu il sopirsi del profondo coro frusciante del vento o l'attenuarsi dello scricchiolare dei rami o l'interruzione del dondolio... Fatto sta che qualcosa svegliò di colpo la fuggiasca. Forse si trattava di una qualsiasi di quelle cose, ma non era così: un senso di disagio era penetrato nel suo sonno lieve e irrequieto. Colei che fino a poco prima si era considerata un ragazzo, aprì gli occhi e vide Sianadh, che si era offerto volontario per il primo turno di guardia, che dormiva, russando e sussultando di tanto in tanto. Un istinto indefinibile la indusse a rimanere immobile, spostando di lato soltanto lo sguardo, mentre si svegliava del tutto, rendendosi conto che a ridestarla era stato un acuto lamento, fievole e ininterrotto. Quel suono, simile a un cavo sottile teso nell'oscurità, non lasciava presagire nulla di buono. Era un gemito cupo e spietato che faceva stridere i denti. La fonte di quel suono, che lei non era in grado di determinare, era una snella forma alata, che stava avanzando con estrema lentezza tra il fogliame, quasi alla ricerca di qualcosa. La luce delle stelle illuminava le membrane diafane, prive di colore, evidenziava le delicate antenne, la vita quasi femminea, il volto caratterizzato da sporgenti occhi sfaccettati e da una corta lingua, e gli arti, lunghi e sottili in modo incredibile, che splendevano come se fossero rivestiti di minuscole scaglie. Il gemito crebbe di volume. Sebbene la creatura non potesse girare molto la testa, sembrava non aver bisogno degli occhi per cacciare, almeno a giudicare dal tremolio delle
antenne. Elegante, fragile, essa si fece sempre più vicina. Un lieve movimento rivelò alla ragazza che il suo compagno si era svegliato e che aveva visto a sua volta la creatura. «Culicide», sussurrò Sianadh. «Seguono la traccia del respiro degli esseri viventi e puntano verso il calore della loro carne. Nasconditi sotto le foglie.» Le foglie abbondavano nel nido abbandonato, simili a laceri mucchi di pergamene accartocciate e macchiate; nelle loro profondità erano annidate le spore, ogni micelio un fragile e inesorabile agente di decomposizione. I due occupanti clandestini del nido sprofondarono in mezzo a quella muffa sino a coprirsi completamente, trattenendo il respiro per paura d'inalare quell'aria intrisa di funghi. Il verso monotono della culicida in caccia si arrestò proprio sopra di loro, trapassando le orecchie e penetrando fin nel midollo. Per molto tempo la creatura rimase sospesa in quel punto, sondando, mentre i due sopportavano il bruciore ai polmoni e le rosse scintille che la carenza di ossigeno faceva balenare davanti ai loro occhi. Il predatore infine si allontanò, gemendo nella notte, e i due esplosero da sotto il mucchio di foglie come tappi che saltassero da orci di birra, inalando profonde boccate di aria fresca. Ansimando come una volpe braccata, Sianadh si guardò intorno con attenzione. «Scommetto che ha avvertito l'odore di un pasto che le andava più a genio! Ah! È una fortuna che il tyrax abbia rivestito il nido con foglie di erba miseria e di sambuco, perché queste e altre piante talvolta riescono ad allontanare quelle creature. Per il momento, siamo fuori pericolo. Non mi sarei mai aspettato di trovare qui una culicida... I loro clan dimorano soprattutto nel Mirrinor, dove depongono le uova tra i canneti dei laghi e delle paludi. Quelle creature possono volare soltanto per brevi distanze, e solo con l'aria immota, ma un vento forte le può sospingere per centinaia di miglia. Tu non le conoscevi... Imrhien? Sono analoghe alle zanzare, imparentate con gli insetti, insomma, e la loro bellezza non lascia intuire quanto siano forti. Non sono creature stregate, però sono mortalmente pericolose, e le vettori, come quelle che abbiamo visto, sono le peggiori di tutte. La loro lingua pungente trasmette malattie e pestilenze che hanno sterminato innumerevoli mortali.» Inclinò il collo per contemplare la rete di stelle bianche incorniciata dai rami. «Ecco, vedi, quello è il Cigno... la costellazione del Cigno, fatta di nove stelle. La si può vedere in questo periodo dell'anno, qui e nella mia terra, la Finvarna.» Seguì la forma dell'animale con un dito tozzo, che subito ritrasse per liberarsi i baffi dalle foglie e da un piccolo millepiedi. «Ora dormi. Starò io di guardia.»
Scuotendo il capo, la ragazza premette un pollice contro il proprio petto, e Sianadh scrollò le spalle. «Come preferisci, chehrna, se sei tanto decisa. Prima però lascia che t'insegni come dire una cosa del genere col linguaggio dei gesti.» Indicando se stesso, Sianadh protese la mano sinistra, chiusa a pugno. «Questa è la runa slegorn, il drago, che sibila come un serpente. Con la mano destra esegui la runa vahle, cioè valle, protendendo l'indice e il medio, che indicano due occhi che osservano. Appoggia la base del palmo della destra sul dorso della mano sinistra girata verso il basso. Questo segno indica occhi che osservano, il drago che guarda sotto la valle. Ecco la tua prima lezione nel linguaggio dei gesti.» Poi Sianadh sbadigliò e si addormentò quasi all'istante. Non poteva dormire. Stava camminando sull'orlo dell'oblio, ma non poteva sprofondarvi, neppure se ci avesse provato. Faceva la guardia per eventuali pericoli, ma il sale del dubbio si spargeva sulla ferita della confusione, inasprendola. Le braci che aveva covato, e che erano state alimentate dal disprezzo, si erano spente. Perché aveva impedito a se stessa di conoscere la verità? E quando Grethet aveva stretto i lacci del corsetto che le comprimeva il seno, sibilandole una serie di avvertimenti all'orecchio, perché lei li aveva accettati così, senza discutere, abbandonandosi a quello stato di apatica accettazione? Perché Grethet era la tua unica guida, e tu eri appena arrivata lì, sofferente, bisognosa di una guida, si disse. Quella vecchia ha visto soffrire troppe ragazze... Forse, in passato, anche lei è stata maltrattata. Certo, era irascibile ed egoista, però ti ha salvato e ha ingannato tutti gli altri. Non devi condannarla per aver ingannato anche te. Lei però condannava se stessa: essere così ingenua significava trovarsi alla deriva sul mare del mondo, in balia della marea e delle correnti. Cerca nel tuo cuore, stolta. Dentro di esso, hai sempre saputo come stavano davvero le cose. Saccheggia il tuo cuore alla ricerca delle verità e aggrappati a ciò che trovi. Il gufo lanciò il suo richiamo nella notte estiva, e gli occhi del drago continuarono a montare la guardia sotto la valle. Le note argentine del verso di una gazza trapassarono l'aria come una campana, mentre l'alba, come un alchimista, trasformava il colore del fogliame da un azzurro grigiastro a un verde dorato. Sbuffando, Sianadh si svegliò. «Ora di andare, chehrna. Non è saggio rimanere troppo a lungo in uno
stesso posto.» I due scesero lungo i rami sussurranti della betulla e, poco lontano, trovarono una sorgente che sgorgava dal terreno. Dopo che ebbero bevuto e si furono lavati, curando le ferite, Sianadh frugò nella bisaccia e ne tirò fuori del cibo. «Bah! La carne di montone è marcita per il caldo. Eppure l'ho presa dalla cambusa della nave appena ieri mattina, prima ancora che Veleno potesse manipolarla. Questi altri viveri, tutta roba secca, li avevo preparati per ogni eventualità prima ancora d'imbarcarmi sulla Strega, quindi avremo comunque da mangiare in abbondanza.» Finito il pasto, Sianadh prese la sua bussola malconcia. «L'ago sta oscillando in tutte le direzioni. Questi strumenti non sono mai affidabili, se ci sono creature stregate nelle vicinanze. Ma non importa, perché posso orientarmi lo stesso. Continueremo a seguire la linea di questo costone. È possibile che in giro ci siano creature strane e bestie selvatiche, ma entrambi indossiamo il tilhal e, soprattutto, io ho lo skian, e non manco mai il bersaglio quando lancio un coltello. Sarebbe comunque meglio procedere con prudenza, senza far rumore.» E si avviò con la rapidità di un fulmine, le ampie spalle che spezzavano e piegavano i rametti, facendoli rimbalzare contro il viso della sua compagna. Stavano procedendo da qualche tempo quando una lepre bianca prese a correre accanto a loro; non appena li superò, i due scorsero tra gli alberi una donna vestita di bianco, che tuttavia scomparve allorché essi raggiunsero il punto in cui l'avevano vista. «Doch, mutaforma!» borbottò Sianadh. «Non ci sono uomini o donne mortali nel raggio di miglia, eppure a causa di questi dannati mutaforma mi sembra di essere in mezzo a una folla!» In quel punto, la foresta era meno densa. I due poterono così spingere il loro sguardo oltre le file parallele di tronchi, attraverso un arazzo di rami ondeggianti e lunghe cascate di foglie, simili a un ricamo in verde e oro, e scorgere in lontananza, oltre le vallate, alcuni costoni di un tonalità azzurra via via più cupa. Le lunghe pieghe di quel manto di roccia spiccavano contro il cielo striato dalle unghie del vento, un cielo azzurro che si tingeva d'argento lungo l'orizzonte. La marcia era tutt'altro che facile, ma verso metà mattinata s'imbatterono in una pista appena accennata, che si snodava nella direzione giusta. Dato che potevano procedere con maggiore tranquillità, Sianadh cominciò a chiacchierare. «Con ogni probabilità, avrai qualche domanda da farmi... Per esempio, perché mi sono gettato fuori bordo con te? Dove stiamo andando? A dire il vero, io sono un mercante e un viaggiatore e non un pira-
ta. Ho fatto una quantità di lavori... Sono stato marinaio su navi mercantili, ho venduto merci nelle città e ho faticato nei campi e nelle stalle, però sono sempre rimasto padrone di me stesso. Certa gente ha invidiato i miei successi e, dato che si trattava di gente di potere, ha agito contro di me. Sono stato onorato e perseguitato quasi ovunque per una cosa o per l'altra, però mai per mia colpa. Ho avuto moglie e due miei figli sono nella Finvarna, però non posso tornare là, adesso, e comunque devono essere ormai cresciuti, più di quanto io riesca a immaginare, e di certo hanno lasciato il nido. Che tu mi creda o no, ti assicuro che non ho combattuto contro l'equipaggio della Tarv, non sono mai stato un pirata e non ho mai ucciso nessuno, anche se potrei farlo senza difficoltà, perché ho sostenuto diversi combattimenti e ridotto i miei avversari in fin di vita. Vedi, chehrna... Imrhien, quei dannati skeerda dal cuore nero mi hanno rinchiuso in prigione, insieme con un uomo che stava morendo. Non essendo del tutto senza cuore, ho fatto quello che potevo per aiutarlo, dandogli anche la mia razione d'acqua e coprendolo con la mia giacca... Così, prima di morire, lui mi ha affidato questa mappa.» Tirò fuori da una tasca interna il pezzo di pergamena accartocciata che aveva studiato sulla Strega del Vento. «Non ridere», continuò, stendendo il foglio. «Lo so che, nelle storie di pirati, c'è sempre una di queste. Si tratta di una mappa del tesoro. Quell'uomo ha detto che indicava la posizione di una miniera di sildron.» Scoccò un'occhiata in tralice alla ragazza, che si limitò ad annuire. «La cosa strana di te, Imrhien, è che non sembri sorpresa. Chiunque altro si sarebbe arrestato di colpo, cadendo a terra, svenuto. Una miniera di sildron! Hai idea delle incredibili ricchezze sepolte laggiù? Un uomo potrebbe diventare Re, essere ricco come molti Re.» La ragazza annuì nuovamente. Lui ripiegò la pergamena e la ripose con cura. «Ha detto che si tratta di una miniera abbandonata da tempo, sigillata e dimenticata, ma ancora piena di minerale. Piena! Ah, ah! In ogni caso, suppongo che quella roba debba essere mista all'andalum, oppure trovarsi sul fianco di una montagna, perché altrimenti non si tratterebbe affatto di una miniera, bensì di un grosso blocco di minerale che va alla deriva nel cielo. Volevo andare alla ricerca della miniera da solo... Di questi tempi, sono poche le persone fidate, e quelle poche sono troppo preziose per mettere a repentaglio la loro vita in un'avventura che potrebbe non dare esito. Di conseguenza, ho usato i miei ultimi risparmi per pagare un Mago perché apponesse protezioni aggiuntive al mio tilhal e mi sono messo in viaggio. Come arrivare sul
posto era un vero enigma, perché si trovava nel bel mezzo di terre selvagge e inaccessibili, nel cuore di queste montagne. C'è un fiume che scorre da queste vette fino a Gilvaris Tarv, ma non potevo permettermi un passaggio su un'imbarcazione, e comunque non c'è neppure un comandante che faccia rotta da e per Tarv di cui sia minimamente disposto a fidarmi. Inoltre, anche se avessi avuto una barca, dalla mappa non risulta con chiarezza quale affluente seguire. Da quelle parti ci sono molti corsi d'acqua senza nome che non figurano sulle mappe. Di conseguenza, con mezzi troppo complessi e contorti per poterli descrivere, ho scoperto che il fuorilegge Winch aveva intenzione di far vela per queste zone remote nel corso dell'estate e, con altri sistemi ancora più astuti, sono riuscito a farmi arruolare nel suo equipaggio. Ho navigato con loro e ho sopportato il loro immondo comportamento, aspettando che la nave arrivasse nel punto giusto. Potrei aggiungere che qualche parola sussurrata ad arte nell'orecchio del comandante, in merito alla rotta migliore da seguire, non è andata sprecata. Eravamo quasi arrivati, ragazza, quando sei stata scoperta. Io avevo con me un po' di biscotto reale, cioè di sildron - quella sostanza ha molti nomi -, che ero riuscito a procurarmi. Si trattava di un pezzo piccolissimo: avrei abbandonato la nave di notte, senza dare nell'occhio, ma, quando ti ho visto intrappolata, mi sono arrampicato sulla vela di maestra e mi sono lasciato penzolare come una scimmia appesa a una liana. Carri di fuoco! Mentre precipitavamo, mi hai artigliato come un rapace! Ed eccoci qui, a un paio di giorni di viaggio dalla miniera. Vedo che hai voglia di farmi un sacco di domande, quindi lascia che ti mostri i segni che significano cosa, perché, come, chi, quando e dove. E anche sì e no, per buona misura.» Iniziò quindi a mostrarle i segni. Dovette eseguirli una volta soltanto perché lei li assimilasse. Perché io? chiese subito Imrhien. «Perché ti ho portato con me? È ovvio, ragazzina, perché puoi aiutarmi a trasportare il tesoro!» ridacchiò Sianadh. Imrhien si sentì pervadere da un'ondata di eccitazione, ma non a causa delle ricchezze che forse l'aspettavano dietro l'angolo. Aveva parlato con le mani ed era riuscita a farsi capire! A quanto pareva, il tesoro più grande stava già nelle sue dita, e attendeva soltanto di essere portato alla luce. Come? Come? domandò con insistenza, agitando le mani. «Cosa intendi? Come faremo a trovarlo, a trasportarlo?... No? Calmati, chehrna, non sono in grado di leggerti nella mente. Vuoi sapere come parlare coi gesti? Sì, t'insegnerò altre cose lungo la strada. Impari in fretta. Un
momento... Dove ci hanno condotto tutte queste chiacchiere?» La pista li aveva portati all'ombra di alcuni alberi molto vecchi; in mezzo a essi, tra le radici nodose che affondavano nel muschio e che ospitavano alcune pozzanghere, c'erano zone stranamente oscure. Gli ampi rami erano rivestiti di foglie seghettate. Alberelli più giovani erano germogliati dal tronco di quelli abbattuti e il terreno era ricoperto di fiori azzurri come zaffiri. «Un bosco di campanule! Imrhien, dobbiamo andare subito via di qui!» Abbandonato il sentiero, Sianadh si lanciò lungo il pendio sulla sua sinistra, con gli alberi che si facevano sempre più incalzanti. Le radici parevano sollevarsi per farli inciampare e i rami sibilavano vicino alle loro orecchie. Vedendo l'ertish che si metteva a correre, la ragazza si affrettò a imitarlo, in preda al panico. All'improvviso gli stivali di Sianadh si sollevarono da terra, gli occhi quasi schizzarono dalle orbite e un suono rantolante uscì dalla bocca, ma fu stroncato sul nascere. La lingua penzolò dalle labbra, purpurea, simile alla testa sporgente di un verme che gli uscisse dal corpo. Un ramo di agrifoglio gli si era avvolto intorno al collo e lo stava soffocando. Mentre lui stava lassù, ansimando e cercando di colpire il ramo con lo skian, un altro ramo spinoso si protese lentamente verso il collo della ragazza, che tuttavia lo schivò, abbassandosi, e poi si allontanò. La lama di Sianadh riuscì infine a penetrare nel legno e lui ricadde pesantemente al suolo. Sfilato lo skian dalle dita inerti dell'ertish, la ragazza aggredì i rami, le cui foglie spinose le tracciarono rossi ricami sulla pelle. Con un respiro rantolante, Sianadh si sollevò e rotolò fuori della portata dell'agrifoglio. Giunse allora una risata, seguita da un'altra. Strane voci lanciarono grida beffarde in un linguaggio incomprensibile, cose invisibili avanzarono dietro di loro con piedi silenziosi, rivelando la propria presenza soltanto con le grida e le risate. Barcollando, Sianadh riprese la fuga con passo incerto, aprendo la strada alla sua compagna. Ma non riuscirono a distanziare i loro inseguitori e, alla fine, lui fu costretto ad arrestarsi davanti a un fitto boschetto di rovi. Gettato la bisaccia alla compagna, le tolse di mano lo skian. «Imrhien, tira fuori il sale... è in una scatola di legno. E prendi i campanelli, Imrhien... Agitali!» La ragazza obbedì, e il tintinnio dei due campanelli fu acuto, quasi sgradevole. Ogni altro rumore cessò. «Ahoy!» gridò Sianadh, con voce roca, i folti capelli rossicci incollati alla fronte dal sudore. «Abbiamo il freddo acciaio e il sale! Iperico, sale e
pane, freddo acciaio e bacche rosse, in virtù del potere del legno di sorbo... Fateci del male e vi bruceremo per bene! Che la peste vi colga, razza di skeerda. Avvicinatevi a noi e vi faremo soffrire!» Con un gesto secco del capo fece poi cenno alla compagna di seguirlo. Con cautela, si avviarono verso il boschetto di rovi, Imrhien continuando ad agitare i campanelli e Sianadh con una manciata di sale in una mano e la spada nell'altra, senza smettere di fischiettare. Qualcosa di piccolo e nodoso emise una risata beffarda, cercando di afferrargli uno stivale, ma lui sparse del sale e la creatura fuggì, stridendo. Risate e ululati improvvisi continuarono a giungere da ogni direzione e, a un certo punto, Imrhien ebbe l'impressione d'intravedere una faccia sogghignante, la grottesca raffigurazione di un volto umano. Serrando la pesante bisaccia, si augurò che le protezioni che conteneva fossero adeguate. A mano a mano che avanzavano, i cespugli spinosi si diradarono e anche le querce sembrarono meno fitte. Dopo quello che parve loro un anno, i due emersero dal boschetto e si ritrovarono in una macchia di betulle. I suoni degli inseguitori non si sentivano più. Smettendo di agitare i campanelli, la ragazza chinò il capo di lato e si mise in ascolto. Il silenzio regnava assoluto, pesante e denso. «Muoviamoci», disse cupamente Sianadh. Simile al succo di una prugna matura, il sangue gli scorreva da graffi profondi sul collo e sulle braccia. Riposto lo skian nel fodero, s'issò in spalla la bisaccia e prese ad avanzare a grandi passi, con espressione decisa. Mentre si addentravano fra le betulle, gli uccelli ripresero a levare il loro canto. A un certo punto, Sianadh decise che la distanza che li separava dalle querce era sufficiente. «È ora di riposare», annunciò allora, liberandosi del suo carico. «L'agrifoglio sterile è un albero assassino, ma, quando crescono a coppie, gli agrifogli portano fortuna! Mi chiedo cosa fossero le creature che ci hanno dato la caccia. Non erano uomini-quercia... essi sono custodi degli animali e di recente non ho ucciso nessuna bestia. Forse erano spriggan. Comunque ha poca importanza. Imrhien, dobbiamo stare attenti a evitare i luoghi infestati.» Cosa? Quali? Come? chiese lei. «I luoghi infestati dal soprannaturale!» esclamò Sianadh, scagliando la bisaccia al suolo, esasperato. «Obban tesh, ragazza. I luoghi infestati, ho detto. Cosa ti prende? Stai facendo così per irritarmi, oppure non sai proprio nulla?» No! Il gesto, accompagnato da uno scuotere del capo, venne ripetuto più
volte, con veemenza. Sianadh l'afferrò per le spalle, ma lei sostenne il suo sguardo con determinazione. «Cosa vuoi dire?» insistette lui, scrutando con perplessità quel volto rovinato. «No? Non sai nulla? Allora devi essere nuova dell'Eldaraigne. Sei straniera?» Sì, no, sì, no. Le mani si agitarono come uccelli in gabbia, incapaci di trasmettere una risposta coerente. Sgranando gli occhi, Sianadh la lasciò andare. «Hai dimenticato, vero? Hai dimenticato tutto? Per la lancia di Ceileinh!» gemette, sedendosi al suolo e coprendosi il volto con le mani insanguinate. «Niente voce, nessun ricordo. A quanto pare, mi sono addossato un vero e proprio mor scathach!» E continuò a imprecare sommessamente in ertish. La ragazza rimase a fissarlo. Quello era il suo salvatore: grosso, sporco e arruffato, con lo stivale sinistro a pezzi. Aveva rischiato molto - la sua stessa vita, un tesoro - e le aveva donato molto: una libertà di qualche tipo, un nome, un linguaggio. E in qualche modo lei gli era venuta meno. Mettendosi in ginocchio, protese le mani col palmo verso l'alto, e attese, immobile. Sianadh sollevò la testa irsuta e sospirò. «No, il segno giusto è questo», disse, serrando il pugno col pollice proteso e sfregandosi la mano sul cuore con un gesto circolare. «Atka, la spina, trafigge il cuore con dolore. Significa che ti. dispiace. E, se a te dispiace, come pensi che mi senta io? D'altro canto, la tua perdita presenta qualche beneficio. Sono molti quelli che cercano di sfuggire ai ricordi in una coppa di vino o con altri mezzi, perché i ricordi sono la fonte del dolore.» Bevvero un po' d'acqua sotto le pallide e danzanti foglie verdi delle betulle, e consumarono un pasto frugale, completato da alcuni funghi commestibili raccolti da Sianadh. L'ertish esaminò quindi lo stivale. La mano del fato aveva impedito alla cosa che lo aveva afferrato di trapassargli la pelle, iniettandovi un veleno, pensò. Quindi si mise a descrivere il modo in cui sua nonna era solita cucinare i funghi, col lardo e con un pizzico di sale e pepe, creando una salsa da spalmare su una saporita fetta di pancetta, con uno spesso strato di grasso. E a tutto ciò si accompagnavano le cipolle fritte, le croccanti zampe di pollo, gli occhi di pecora in battuto d'erbe, il sugo... «È ancora viva, mia nonna. Ha cento anni e va ancora a vedere le corse dei carri, due volte al mese... Mah, temo che abbiamo perso la strada, per colpa di quei dannati spriggan, o quel che erano.» Consultata la mappa,
sollevò lo sguardo verso la coltre di fogliame che nascondeva il sole e, dopo aver borbottato a lungo ed essersi girato di qua e di là, scelse infine una direzione, rimettendosi in cammino. Per il resto della giornata proseguirono in salita, in mezzo alla foresta, attraversando scoscesi canaloni bordati di felci e solcati da piccoli ruscelli, e scalando pendii rocciosi. Le terre di Erith erano sempre state scarsamente popolate e quello era uno dei molti luoghi mai calpestati da piede umano. Sui pendii opposti, le cime degli alberi intercettavano qua e là schegge di sole, e se la brezza veniva intrappolata tra le loro folte chiome ruggiva come l'oceano. A un certo punto, videro del fumo scaturire dal terreno... senza dubbio un fenomeno soprannaturale. Cauto, parlando a bassa voce, Sianadh spiegò alla ragazza qualcosa sui luoghi infestati: i boschi di campanule, i cerchi di funghi, soprattutto sotto la luce della luna, i cerchi di pietre erette, le aree di funghi note come gallitrap e i cerchi erbosi che la gente chiamava «danze dei faêran». Ma c'erano anche le colline erbose - conosciute come rath o knowes o sithean -, i boschi di querce, le sorgenti, soprattutto quelle sovrastate da alberi, i cerchi di biancospino e determinati alberi, come l'agrifoglio, l'ontano, il salice, il melo, la betulla, il nocciolo e il frassino, oltre ai cespugli di saggina e di rovi. «Le creature soprannaturali, seelie e no, si radunano in questi luoghi», concluse. Poi le insegnò altre parole nel linguaggio dei gesti, precisando che lo faceva per la sua stessa sicurezza. Ormai si erano lasciati alle spalle le foreste. Sulle alte montagne gli alberi erano radi e stenti, a causa del vento teso. Con l'avvicinarsi della sera, il clima mutò senza preavviso. Un vento freddo prese a soffiare sulle rocce e i due viandanti dovettero legare più strettamente il loro cappuccio. «È un clima assurdo per questa stagione», borbottò Sianadh, insospettito. Il terreno stava diventando sempre più. insidioso. Nelle depressioni tra le rocce apparvero pantani e fosse di torba e l'oscurità rendeva impossibile accorgersi di quelle trappole se non quando vi si era a ridosso. «Questa zona non è sicura per coloro che non hanno familiarità col terreno», borbottò l'ertish. «Se non fossi un uomo abituato a vivere all'aperto, avrei paura di perdere la strada o di morire a causa del freddo. Meglio cercare un riparo fino al mattino.» La notte divenne sempre più ostile, ma non trovarono altro che alcune
rocce sotto cui rifugiarsi... D'un tratto, però, avvistarono in lontananza una debole luce. Con cautela, si diressero verso di essa, e scoprirono con gioia che si trattava di una piccola capanna da boscaiolo. All'interno, un fuoco ardeva vivace, fiancheggiato da grosse pietre grigie. «Che io possa essere scuoiato! Una capanna di boscaioli!» esclamò con entusiasmo Sianadh. «Se è davvero ciò che sembra, ci saranno risparmiati i disagi e i pericoli di una notte all'addiaccio. I boscaioli costruiscono queste capanne col legno di sorbo, e nessuna creatura soprannaturale può penetrarvi.» Esaminò comunque con attenzione l'edificio prima di entrare. «Dentro non c'è nessuno, ma di certo chi ha acceso questo fuoco non ci rifiuterà un po' di calore. Entra, chehrna, scaldiamoci e aspettiamo che il padrone di casa ritorni.» Fidandosi della capacità di giudizio dell'amico, la ragazza si sedette accanto a lui sulla pietra a destra del fuoco. Entrambi si massaggiarono le braccia gelate e batterono al suolo i piedi, tenendo il cappuccio alzato. Davanti a loro c'era un mucchio di esca e, sull'altro lato del fuoco, erano posati due grossi ceppi. Sianadh aggiunse un po' di esca al fuoco e, quando il calore cominciò a penetrare nelle loro ossa, entrambi si assopirono, seduti sulla pietra. Si svegliarono con un sussulto quando la porta si spalancò e una strana figura entrò a grandi passi nella stanza. Si trattava di un nano dalla pelle scura; arrivava a stento alle loro ginocchia, però sembrava forte e massiccio. Una giacca di pelle d'agnello gli copriva la schiena, mentre i pantaloni e le scarpe erano di pelle di talpa; sulla testa, portava un cappello fatto di felci e muschio, decorato con una piuma di pernice. «Un druegar!» sibilò Sianadh, mentre la porta si richiudeva rumorosamente. Poi tacque e il silenzio calò sulla capanna come un artiglio di metallo. La creatura fissò i visitatori con occhi infuocati, ma non proferì parola e si sedette sull'altra pietra. La ragazza sapeva che i druegar erano una razza di nani neri che odiavano gli umani. Nella Torre aveva sentito narrare molte storie sulla loro crudeltà. Pur tremando interiormente, decise di affrontare con coraggio quella situazione. Da quello che le aveva detto l'ertish, infatti, mostrare timore o fuggire sarebbe servito soltanto a scatenare un attacco... E così i tre rimasero seduti a fissarsi. Dopo qualche tempo, le fiamme cominciarono a spegnersi e un gelo intollerabile pervase la stanza; dimostrando una notevole audacia, Sianadh si protese in avanti e depose sul
fuoco quanto restava dell'esca. A quel punto, il druegar si chinò a sua volta e sollevò uno dei due ceppi posati a sinistra del fuoco, un pezzo di legno lungo il doppio di lui e con una circonferenza superiore a quella della sua vita. La creatura lo spezzò su un ginocchio come se fosse stato un ramoscello e lo scagliò sul fuoco. Fissando con disprezzo l'umano, il druegar piegò quindi il capo con un sogghigno, quasi a sfidarlo a fare lo stesso con l'altro ceppo. Pur ricambiando con fermezza il suo sguardo, Sianadh non accennò a muoversi, e la ragazza ne dedusse che sospettava qualche inganno. Per qualche tempo, il fuoco riprese vigore, emanando un calore intenso, poi tornò ad affievolirsi. Il druegar fissò l'umano con aria beffarda, invitandolo a prendere l'ultimo tronco. Sianadh tuttavia non si lasciò tentare, neppure quando il fuoco perse d'intensità a tal punto che i due mortali si sentirono gelare e avvolgere dall'oscurità. In silenzio, i tre rimasero quindi seduti come statue nella penombra. Finalmente giunsero le prime luci dell'alba, e in lontananza il canto di una gazza si levò a salutare il sorgere del sole. A quel suono, il druegar scomparve e, con esso, svanirono anche la capanna e il fuoco. I due viandanti si ritrovarono così seduti sulla pietra, ma il chiarore del giorno mostrò loro che essa si trovava sulla sommità di un picco; alla loro sinistra c'era un profondo burrone... Se avesse accolto la sfida del druegar e si fosse proteso a raccogliere l'ultimo ceppo, Sianadh sarebbe precipitato nel burrone, riducendosi a un mucchio di ossa infrante. «Non appena quell'uraguhne ha fatto il suo ingresso, ho capito che non eravamo in una capanna normale, ma in un luogo illusorio», borbottò. «Nessuna creatura soprannaturale può varcare una vera soglia senza essere stata invitata.» I due si allontanarono da quel luogo non appena la luce fu sufficiente. Dirigendosi verso valle, camminarono per tutto il giorno quasi senza parlare, stanchi e un po' a disagio, sussultando a ogni rumore improvviso. Una volta sui pendii più bassi, gli alberi ripresero a infittirsi, ma, quando si ritrovarono di nuovo nella foresta, il gelo proprio del territorio del druegar cedette di nuovo il posto al tepore estivo. Verso sera, gli alberi divennero più radi e sopra la loro cima apparve una luce in movimento. Altre luci si materializzarono poi tra i rami, e la foresta venne pervasa da ciangottii e borbottii. La ragazza fu assalita dal terrore. Qualcosa d'invisibile le stava Camminando accanto, ma lei non osò girare la testa per guardare di cosa si trattava e si limitò a volgere soltanto lo sguardo, individuando così un'area vuo-
ta tra gli alberi, dall'altro lato. Dopo qualche tempo guadarono un ruscelletto, e subito Imrhien sentì svanire il timore, come pure la sensazione di una presenza incombente. «Mia nonna diceva: 'Accantona la paura, perché soltanto allora vedrai con chiarezza la tua strada'», borbottò Sianadh. Le luci svanirono, il terreno si fece pianeggiante e più avanti, tra gli alberi, apparve una radura. I tronchi giganteschi erano stati abbattuti e rimossi alcuni anni prima, ma una nuova vegetazione cominciava a proliferare; al centro della radura, si ergeva la struttura arrugginita di una Torre di travi e puntelli in ferro, tanto alta da sovrastare di parecchio le cime degli alberi. «Una Torre d'Interscambio abbandonata», esclamò Sianadh con un sorriso di sollievo, asciugandosi la fronte sudata. «La fortuna ci favorisce. Là il ferro abbonda e non ci saranno druegar.» D'un tratto s'incupì. «Su questa mappa, però, non è segnata nessuna Torre d'Interscambio... Mah, d'altro canto, è una mappa abbozzata e un po' sbiadita. Forse questa Torre è stata omessa per errore o cancellata da qualche macchia di grasso. Comunque sia, non ha importanza. Stanotte ci annideremo lassù.» La metà superiore della Torre d'Interscambio, realizzata in legno, non c'era più, essendo stata smantellata per recuperare il sildron abilmente incastrato e nascosto tra le assi superiori. Le piattaforme di attracco e le Torri d'Interscambio erano così alte che, se fossero state realizzate interamente in ferro, la loro base sarebbe dovuta essere enormemente larga. Il sildron liberava la base dal peso e veniva recuperato dai costruttori quando non era più necessario mantenere operativa la Torre. Una quantità di assi di legno lunghe e massicce giaceva ai piedi dell'edificio, là dov'erano crollate, alcune di esse appoggiate alla struttura. Legata un'estremità della sua corda intorno a un sasso, Sianadh la lanciò in mezzo alle travi; quando essa ricadde, tentò di nuovo, e stavolta l'estremità della fune si agganciò a una trave, e il sasso tornò verso il basso, trascinando con sé la corda. Trionfante, Sianadh si affrettò ad assicurarla. «Imrhien, legati questa fune intorno alla cintura, afferrala con entrambe le mani e usala per issarti lungo quei supporti inclinati, fino al corpo della Torre. Quando arriverai alle travi intorno alle quali passa la corda, sistemati su di esse e gettami la fune.» L'ascesa non fu facile, soprattutto a causa di un vento teso e caldo che si era alzato e che penetrava tra gli alberi, minacciando di far perdere l'equilibrio ai due che si stavano arrampicando.
Dalle costole esposte della Torre si staccavano di continuo scaglie di ruggine. Il vento e il tremito generato dalla loro ascesa provocarono una pioggia arancione sui capelli, sugli occhi e sul cappuccio che pendeva sulle loro spalle. D'un tratto, un'incrostazione marcia cedette sotto lo stivale della ragazza, che scivolò ma venne bloccata dalla mano di Sianadh, che le strinse un braccio con una presa ferrea. «Tieniti stretta, chehrna. Questa struttura è più difficile da scalare di un albero, ma, una volta in cima, offrirà un rifugio più sicuro.» A metà della Torre cominciava una scala, che permise loro di raggiungere una piattaforma di legno, parzialmente riparata dai piloni contorti. I due si fermarono a riposare, scrollandosi le particelle di ruggine dai capelli, sotto un cielo che, da orizzonte a orizzonte, si faceva sempre più cupo e nuvoloso. «Il vento si è alzato di nuovo», osservò Sianadh, bevendo un sorso dalla borraccia di cuoio e asciugandosi la bocca con una manica. «Credo che stia per piovere.» Fu colto da un pensiero improvviso. «Se ci saranno tuoni e fulmini, dovremo scendere il più in fretta possibile. Queste Torri attirano i fulmini.» La notte sopraggiunse, rapida, accompagnata da un vento sempre più intenso. Il fogliame si agitava, come un mare ribollente. Assicuratisi alla piattaforma con la corda, i due mangiarono un po' di frutta secca, ma non riuscirono né a dormire né a conversare dato che il selvaggio sibilo del vento penetrava nelle cavità arrugginite della Torre. Non ci furono tuoni, ma il vento imperversò per tutta la notte. Verso l'alba cadde di colpo e, nella quiete assoluta che seguì, il cielo abbassò la propria morbida coltre grigia ad avviluppare la sommità della Torre, liberando una pioggerella calda. I cappucci, calcati sulla testa, offrirono una misera protezione. Ben presto, i due viandanti furono fradici, e le particelle di ruggine s'insinuarono sotto i loro vestiti, scorticando la pelle. Borbottando e imprecando, l'ertish guidò la discesa non appena ci fu luce sufficiente, poi i due ripresero il viaggio sotto le fronde della foresta montana. L'acqua gorgogliava in rivoli, scivolava con le sue gocce periate lungo le foglie lucide, disegnava collane scintillanti sulle ragnatele e catene d'argento lungo le estremità dei rami, ticchettava ritmicamente con piedi leggeri, sussurrava in toni sommessi e tranquillizzanti. Sotto la pioggia, il verde della foresta appariva più ricco, più profondo e intenso; in mezzo al tamburellare della pioggia, Imrhien ebbe l'impressione di sentire, acuta e lontana, una strana canzoncina stridula.
Porto acqua per ristorare e annaffiare, porto pace e crescita, riempiendo la rete di vene delle colline. Il sangue argenteo di ogni cosa io porto. E canto. Nonostante il disagio, Imrhien si sentiva felice e rinfrancata. Dopotutto, la pioggia era la linfa vitale di Aia, come le maree erano il pulsare del suo cuore. L'acqua era la fonte della vita e leniva gradevolmente la sete più esasperata. Lei ascoltò con piacere la musica della pioggia, unita allo sciacquio dei suoi stivali fradici. Una figura dalla pelle marrone, alta circa una iarda, sbucò dal sottobosco e li precedette di una dozzina di passi, prima di svanire. Più tardi, videro un ometto avvizzito venire verso di loro e farsi sempre più grande a mano a mano che avanzava, tanto che, quando infine li incrociò, sembrava un gigante; raggiunta una roccia, la creatura penetrò al suo interno e di essa non rimase traccia. «Sono tutti incanti», borbottò Sianadh. «Illusioni.» Più oltre, la ragazza vide un cane nero, grosso all'incirca quanto un vitello, fermo all'ombra di alcuni rovi e intento a seguirli con occhi enormi e spaventosamente luminosi. Cupi in volto, i due si sforzarono di non mostrare timore e non cambiarono direzione, passando vicino alla creatura, che non accennò ad aggredirli né a seguirli. Sotto la pioggia non c'erano ombre, né si scorgeva il sole, ma Sianadh non osò tirare fuori la mappa per timore che venisse ulteriormente danneggiata. Dopo parecchie ore di marcia, tuttavia, si fermò e gettò a terra la bisaccia appesantita dalla pioggia. «È inutile proseguire, finché non mi potrò orientare. Rischiamo di procedere in cerchio. Accendiamo un fuoco, così almeno ci asciughiamo.» La pioggia finalmente diminuì d'intensità. Gli scoiattoli, che cominciavano ad andare in giro sui rami, rovesciarono un'improvvisa valanga d'acqua sulla testa dei due, intenti a cercare legna da ardere. D'un tratto, Sianadh lanciò un grido. «Che fortuna! Un abbondante mucchio di pezzi di legno asciutti! Sono nella cavità di questo tronco caduto!» Poi, legata la fascina con un pezzo di corda, se la issò sulla schiena e la portò con sé, mentre cercava un po' di muschio asciutto che fungesse da esca; nel frattempo, la sua compagna raccolse sotto un braccio una fascina
di rametti più umidi. «Obban tesh», gemette l'uomo. «Questi rami diventano sempre più pesanti. Mi si sta spezzando la schiena.» Chinandosi, avanzò barcollando fino alla bisaccia. «Dovremo accendere il fuoco qui, perché non posso trasportare oltre questa legna. Ah! Pesa quanto un masso!» E si raddrizzò, lasciando scivolare il fardello dalla schiena. «Doch!» gridò poi, all'improvviso, nel vedere che, con sua sorpresa, la fascina di rami si era sollevata e si stava allontanando. Sianadh provò ad afferrarla, ma essa lo scansò con facilità, allontanandosi. «Aggirala dall'altro lato, Imrhien! Bloccala!» I due diedero la caccia alla fascina finché essa non scomparve con un grido e una risata. «Dannate creature ingannatrici!» urlò l'ertish, rivolto alle aperture tra gli alberi. «Che la peste vi colga!» Naturalmente non vi fu risposta. Poi, mentre si massaggiava la schiena dolorante, Sianadh scoccò un'occhiata alla ragazza, ringhiando: «E tu, cos'hai da sogghignare?» Con l'aiuto della scatola dell'esca di Sianadh riuscirono ad accendere un piccolo fuoco fumoso. Nel frattempo la pioggia cessò, e il sole prese a filtrare tra i rami, proiettando qualche ombra, mentre il vapore si levava dai loro vestiti. Mescolate in una piccola padella acqua, farina e uva passita, Sianadh preparò un porridge, e ben presto il suo umore migliorò. «Le creature soprannaturali si dividono in due categorie... seelie e unseelie», disse allora, improvvisamente loquace. «No, dovrei dire in tre categorie, perché quelle che si potrebbero definire ingannevoli costituiscono una via di mezzo, e possono essere benevole o pericolose, a seconda dei momenti. Nel migliore dei casi, le creature seelie sono disposte a dare aiuto, nel peggiore giocano scherzi. Le malvagie creature unseelie sono incapaci di provare affetto e odiano i mortali. Non si può fare nulla per indurre le creature unseelie ad amare la razza mortale. I seelie devono essere trattati con cautela, altrimenti anch'essi possono ribellarsi. Entrambe le specie sono spesso pericolose e ingannevoli, talvolta si rendono utili, ma hanno regole cui si devono attenere. Conoscere queste regole può aiutare a sopravvivere. Per esempio, se vedi un unseelie e non mostri paura, ciò ti conferisce un certo grado d'immunità. Se però incontri il loro sguardo, quelle creature esercitano il loro potere su di te; se tuttavia guardi un trow senza incontrare il suo sguardo, allora gli impedisci di svanire. Inoltre, se riveli il tuo vero nome a una di quelle creature, cadi all'istante in suo potere. È una legge
non scritta: mai pronunciare ad alta voce il vero nome di qualcuno in luoghi infestati... a meno che non si tratti di un nemico! Se però riesci a scoprire il vero nome di una creatura, seelie, ingannevole o altro che sia, ottieni un certo controllo su di essa. Quegli esseri hanno anche altre regole, e certe sono tanto strane da essere inimmaginabili, però una cosa è certa... non mentono mai. Sì, non possono pronunciare parole menzognere... Per loro è impossibile. Bada bene, non esitano a creare equivoci e a distorcere la verità, ingannando e fuorviando le persone con ogni mezzo possibile, con la loro capacità di mutaforma, generando suoni falsi e distorcendo i significati. Si servono anche degli incantesimi, che nella Finvarna chiamiamo pishogue, però si tratta di mere illusioni e non di effettivi cambiamenti di forma.» Fece una pausa per prendere fiato, poi riprese a dissertare. Le parole erano per lui inebrianti come vino, e aveva davanti una brocca dotata di orecchie in cui riversarle. «Ci sono creature dal mantello verde che viaggiano in gruppo, e creature solitarie che hanno il mantello rosso. Ce ne sono di selvagge e di domestiche, di grandi e di piccole, e ce ne sono altre che possono cambiare forma. Dimorano sulla terra e sotto di essa, nel mare e nelle acque dolci. Alcune sono notturne e la luce del sole le può incenerire, altre invece la tollerano. Come per gli uomini, ci sono creature stupide o intelligenti. Quelle stupide sono facili da ingannare, ed è perfino possibile catturare quelle più piccole, a patto di tenere lo sguardo fisso su di esse, senza mai sbattere le palpebre e senza mai abbandonare la presa. A quel punto, sono pronte a esaudire un tuo desiderio o a dirti dov'è nascosto il loro oro. Gli unseelie meno potenti possono essere allontanati col sale e con altre protezioni del genere; oppure, se si è abili con le parole e con le rime, come nel caso dei bardi, si possono sconfiggere ottenendo l'Ultima Parola. Non amano il suono dei campanelli, anche se alcuni dicono che le creature seelie cavalcavano un tempo coi membri del Popolo Fatato, che hanno le briglie adorne di campanellini. Ciò che dicono gli antichi versi è vero: Iperico, sale e pane, freddo ferro e rosse bacche, pietra forata a mano e vivaci margherite, dalle creature unseelie voi mi salvate. Rossa verbena, ambra, campanelli, abiti rovesciati e cenere, anche quella, melodie fischiate e del sorbo il legno,
acqua corrente venitemi in aiuto. Galletto col tuo chicchirichì, bandisci le creature e l'oscurità, così. «Le più potenti creature malvagie non possono tuttavia essere respinte con semplici talismani e col tintinnio dei campanelli. No, ci vuole una magia molto più potente, ed è per questo che abbiamo i Maghi. Perfino i Maghi, però, possono ben poco contro esseri come l'Attriod Unseelie.» L'ertish finì il suo porridge. «Non ti abbattere... Troveremo la strada in mezzo a queste terre selvagge. Neppure una zolla magica può farmi perdere la via. Cosa? Non hai mai sentito parlare del Foidin Seachrain? Ah! Coloro che poggiano il piede su una di quelle zolle ultraterrene perdono la strada, anche se hanno già percorso quel sentiero centinaia di altre volte. Un uomo astuto, però, si può proteggere da questa eventualità fischiando, e può farlo anche una donna», aggiunse, come per un ripensamento. La ragazza gli si aggrappò a una manica, indicando il tratto di cielo visibile tra le foglie, dove un cavallo e un cavaliere stavano passando al galoppo sopra di loro, per poi svanire. «Un Cavaliere della Tempesta! Bene, che io sia scuoiato per ricavarne degli stivali! Suppongo che sia un Corriere o un esploratore, venuto in cerca della nave mercantile che non è mai arrivata ai moli di Gilvaris Tarv. La rotta principale dei Cavalieri della Tempesta non passa su questi luoghi remoti... a meno che non siamo stati spinti ancor più lontano di quanto credessi dalla nostra direzione. Sì, ragazza mia, siamo un po' spostati rispetto alla strada giusta, però non ci siamo persi... Non ti perderai mai con Sianadh l'Orso, chehrna. Adesso mi sono orientato. Dobbiamo andare verso nord-est.» Se pure nutriva qualche perplessità, la sua compagna non lo diede a vedere. I due spensero il fuoco, anche se avevano gli abiti ancora umidi, e s'incamminarono di nuovo, ignorando la stanchezza e rimanendo all'erta per percepire eventuali pericoli. Dopo qualche tempo, Imrhien sentì una musica lontana. Inclinato il capo di lato, Sianadh si mise in ascolto. «Alberi arpa... Rari da incontrare. Di per sé, non sono pericolosi», dichiarò. La musica salì a mano a mano che si avvicinavano ai boschetti di alberi arpa... Erano note melodiose, che parevano fatte di oro liquido, come se dita gentili avessero pizzicato un milione di corde d'arpa.
File di sottili viticci, o tentacoli, crescevano da ogni ramo fronzuto e si attaccavano al ramo immediatamente sottostante; insetti scintillanti volavano in mezzo a quelle corde tese, posandosi su di esse per poi spiccare il volo, facendole vibrare. Sianadh passò le dita su alcuni filamenti, producendo una cascata di note gorgoglianti come bolle, simili a un volo d'insetti scintillanti. «Gradevole, vero? Ho sempre desiderato saper suonare uno strumento musicale.» Guarda! disse la ragazza, e Sianadh seguì la direzione che lei gli stava indicando. Poco più avanti, gli alberi cedevano il posto a un sentiero... Non era una pista appena visibile, come quella che li aveva condotti al bosco di querce, ma una via ampia e ben tracciata, pavimentata in pietra. I due si avvicinarono con cautela, sentendo l'aria che vibrava e tintinnava intorno a loro. «Se significa ciò che credo, potremmo essere sulla strada giusta», borbottò Sianadh, aggrottando la fronte. «Sì, seguiremo questa strada. Non è stata creata da mani soprannaturali, anche se è possibile che quelle creature la percorrano.» Così s'incamminarono sulla strada, che li condusse sempre più in alto lungo il pendio, rimanendo uniforme e ininterrotta. Nessuna erbaccia faceva capolino tra le pietre della pavimentazione, e primule tardive fiorivano su entrambi i lati; ben presto, i melodiosi alberi arpa vennero sostituiti dai larici, e la vegetazione cominciò a farsi cupa in modo opprimente. Mentre i due stavano passando vicino a un grosso albero, la ragazza sentì un brivido. Di lì a poco, un uomo e una donna - almeno tali sembravano - uscirono allo scoperto e li affiancarono su entrambi i lati, Camminando con loro. La donna era abbigliata in grigio e portava un bianco velo trasparente sulla testa; l'uomo era vestito con un colore simile a quello delle pietre. Pur madida di sudore freddo e atterrita, la ragazza imitò l'ertish e continuò a camminare come se non fosse successo nulla. Con la coda dell'occhio, vide che la donna aveva bei lineamenti, ma le sue orecchie erano lunghe e appuntite, come quelle di un cavallo. L'uomo invece era decisamente brutto, dotato di una coda di mucca che agitava di continuo, come per scacciare le mosche. Alla fine, l'immagine femminile si allontanò, e anche quella dell'uomo parve fare altrettanto, ma il suono dei suoi passi continuò ad accompagnare i due finché non ebbero oltrepassato un torrente, servendosi di uno stretto ponte. Sospirando come un mantice sgonfio, Sianadh portò la mano al tilhal dalla forma vagamente oscena che portava al collo. «Sia resa lode agli oc-
chi cerulei di Ceileinh... La protezione regge. Forse questo ninnolo vale davvero il prezzo richiesto da quel Mago. In ogni caso, prima saremo fuori di qui e meglio sarà.» Le ombre si allungarono, la strada superò una bassa altura, e i due si trovarono a sovrastare una valle poco profonda. La ragazza vide una cosa che la lasciò stupefatta. «Carri fiammeggianti!» esclamò Sianadh. «Questa è l'antica città della mappa!» Addossate alla parete opposta della valle c'erano le rovine di quella che doveva essere stata una grande cittadella, fatta di pietra chiara. I due seguirono la strada fino a un ponte, che valicava un corso d'acqua fiancheggiato da salici, lo attraversarono e proseguirono, raggiungendo prima gli edifici più esterni e poi addentrandosi nella città. Torri infrante e tetti sfondati intercettavano gli ultimi raggi del sole pomeridiano; le finestre erano occhi vuoti e fissi, che contemplavano fontane secche, piene di terra e di erbacce; mura coperte di edera circondavano cortili vuoti e giardini inselvatichiti; facciate rivestite di muschio - e ormai in rovina - sovrastavano strade vuote, i cui canali di scolo completamente intasati rivelavano i secoli d'incuria. Gli intrusi avanzarono con passo lieve, quasi che la città fosse addormentata e loro avessero paura di svegliarla. «Dobbiamo trovare un rifugio per la notte», sussurrò Sianadh, guardandosi indietro da sopra la spalla. «Un posto che abbia un tetto, in caso che riprenda a piovere.» Mentre si aggiravano per le strade, perfino il lieve suono prodotto dai loro stivali sull'acciottolato parve riecheggiare sonoramente in mezzo a quelle dimore fatiscenti. Ogni casa abbandonata, ogni palazzo diroccato e vuoto sembravano privi di tetto. Ovunque, poi, c'erano pozzanghere dovute alla pioggia del mattino. «Non abbiamo scelta», decise Sianadh con riluttanza. «Dovremo tornare indietro. Vicino al punto in cui siamo entrati in città, non lontano dal ponte, ho visto un edificio che aveva ancora il tetto. Sorgeva sulla riva di una polla, e sembrava un vecchio mulino. Per i miei gusti, è un po' troppo vicino all'acqua, anzi è proprio su di essa.» Scrollò le spalle. «In ogni caso, non hai nulla da temere, con me al tuo fianco.» E la sua mano salì di nuovo a toccare il tilhal d'ambra. Maschere intagliate nella pietra osservarono i due viandanti ripercorrere
le strade ormai quasi buie per l'approssimarsi del tramonto. La costruzione che sorgeva accanto alla verde distesa della polla era effettivamente un vecchio mulino. La grande ruota che girava a valle della diga era marcita innumerevoli anni prima e una fanghiglia melmosa ne rivestiva le pale. La porta anteriore del mulino era ormai ridotta in polvere e, sulla soglia, c'era un'iscrizione sbiadita che Sianadh cercò di decifrare. «Faerwyrd, la chiave; idrel, la spada; nente, la cucitura; ciedre, la luna...» recitò, leggendo faticosamente le rune. «La spina, atka; il drago, slegorn; F, I, N... Mulino di Fincastle. Ebbene, stanotte, Fincastle dovrà accogliere dei visitatori.» Il mulino era freddo ma asciutto. Le camere erano parecchie, però i due viandanti si sistemarono in una piccola stanza che aveva al centro un grosso tavolo di pietra e che era dotata anche di un focolare. Nel vederlo, Sianadh emise un grido di trionfo seguito da una risata. Di lì a poco i due raccolsero in un giardino lì accanto una quantità di legna che avrebbe consentito loro di accendere un bel fuoco e di tenerlo acceso. Nello stesso giardino trovarono anche alcune cipolle e frutti della passione maturi. «Questo terrà lontani gli animali selvatici e ci permetterà di cucinare la cena!» dichiarò con soddisfazione Sianadh, sfregandosi le mani. «Inoltre, potremo mangiare come Re, seduti a tavola. Ho qualche striscia di carne secca e faremo uno stufato di cipolle, rendendolo più denso con un po' di farina d'avena. Questa cena ti farà mettere un po' di carne su quelle ossa!» La ragazza andò ad attingere acqua al fiume, la cui superficie, nella luce morente, sembrava del tutto incolore. Intorno al fiume c'erano vari salici e i lunghi steli dell'edera paradossa si avvolgevano intorno ai piloni di un ponte crollato. La cena risultò relativamente abbondante, ma, nonostante gli incitamenti di Sianadh, la ragazza non riuscì ad assaggiare la carne, trovando invece deliziosi i frutti della passione. Dopo aver mangiato, Sianadh si appoggiò alla bisaccia con aria appagata, le mani dietro la nuca, rammaricandosi di non poter bere neppure un sorso di whisky, così gradevole dopo un pasto. La ragazza, invece, sembrava decisa a porgli delle domande. Cosa? chiese infatti, indicando ciò che avevano intorno. «La città? Devono essercene molte come questa, in tutta Erith. Alcuni le definiscono le Antiche Città. Sono state costruite molti secoli or sono, all'inizio dell'Era della Gloria, e si dice che in esse ci sia qualche magia, perché le mura delle Antiche Città sono ancora in piedi, e non sepolte sotto gli strati di polvere e di terra sospinti dal vento dei secoli, né infrante dal cal-
do, dal freddo e dalle radici delle piante. Da allora, non sono più state costruite città così belle. Esse sono però state abbandonate perché non erano fatte di dominite, che è piena di triossido di talium, il metallo di cui è fatta la rete inserita nei cappucci. Il potere del vento magico può attraversare qualsiasi altra pietra o metallo, e lo ha fatto. A quei tempi, la gente non si preoccupava d'indossare il cappuccio, mentre al giorno d'oggi esistono leggi severe che governano la cosa. Di conseguenza, le Antiche Città si trasformavano in città di spettri ogni volta che sopraggiungeva una tempesta magica e, col passare del tempo, gli spettri divennero troppi, perché qualcuno avesse il coraggio di vivere in mezzo a loro. Quelle immagini, infatti, sono di persone vere, e sono stampate in eterno nei luoghi in cui esse hanno sofferto o provato una grande gioia. Quando viviamo passioni intense, generiamo una forza. Il vento magico contamina l'aria con quella forza e ridesta in noi quei sentimenti. Alcune persone hanno paura del vento magico, altre ne vengono esaltate. Esso viene chiamato anche vento shang, un nome che si dice derivi dall'antico linguaggio, nel quale sh significa vento e ang indica la Grande Stella del Sud, per cui il nome sarebbe Vento della Stella. Ho sentito parlare di un'altra vecchia città dimenticata del lontano nord, nell'Avlantia, dove vivevano i talith... però l'architettura di quel luogo è diversa e non ci sono fantasmi. Dicono che gli abitanti se ne siano andati tutti in un'epoca precedente all'Era della Gloria e che non siano più tornati. Non si sa il perché se ne siano andati, o dove si trovino, ma l'ipotesi più diffusa è che a scacciarli sia stata una malattia o una pestilenza. Adesso le rovine di quell'Antica Città sono immerse nella solitudine del loro splendore. Suppongo che tra esse si aggirino soltanto i leoni fulvi dell'Avlantia.» Gettò sul fuoco un altro pezzo di legna, sprigionando un nugolo di scintille. Cosa? Perché? La ragazza spinse indietro il cappuccio e indicò i propri capelli. «I tuoi capelli biondi... Già, i talith erano un popolo dai capelli biondi. Adesso non sono più molto numerosi, ma alcuni di essi vivono ancora, sparsi in Paesi diversi. L'Avlantia era la loro terra natale. Si dice che sia una bella regione, piena di alberi dalle foglie rosse nella parte occidentale e piena di fiori in quella orientale. Il clima è caldo e gradevole, ma suppongo che non si adatti alle altre razze, altrimenti a quest'ora l'Avlantia sarebbe stata invasa da feorh, ertish e Uomini dei Ghiacci, mentre non è così. Pochi sono coloro che si recano in quelle terre settentrionali, e ancor meno quelli che vi dimorano, sempre che qualcuno lo faccia.» Sianadh fissò la ragazza,
inarcando un rosso sopracciglio irsuto. «Cosa ricordi del tuo passato?» domandò poi. Imrhien gli spiegò tutto quello che poteva, tracciando disegni nella polvere con un dito e servendosi dei gesti. Per facilitarla, Sianadh le mostrò altri segni, che lei assimilò avidamente. Infine scosse il capo, perplessa. «Non so che idea farmi di te, Imrhien. Il tilhal che porti indosso è talmente misero da non valere il legno da cui è stato ricavato... e cos'è quella cicatrice che hai sulla gola?» La ragazza si portò una mano al collo, sorpresa. Aveva sempre evitato le superfici riflettenti, dunque non sapeva di avere una cicatrice. In effetti, una striscia di tessuto indurito le correva lungo il collo... Di certo non aveva nulla a che vedere con le percosse ricevute nella Torre. L'avevano sempre colpita sulla schiena e sulle spalle, mai lì. Accigliandosi, scrollò le spalle. «Non ricordi nulla al riguardo? È come un colpo di frusta. Mio cugino aveva un segno del genere sul braccio, che si era procurato gareggiando nell'uso della frusta con alcuni ragazzi sventati della fattoria», spiegò Sianadh, masticando pensosamente un rametto. «Sai, io sono nato in una fattoria, nella Finvarna. Era una bella vita. A quei tempi, avevamo un bauchan che ci aiutava. Lui, io e mio padre litigavamo spesso, ma il bauchan era sempre pronto a darci una mano, in caso di necessità.» Spingendo i piedi più vicino al fuoco, indugiò per un momento a fissare le fiamme, assorto, poi riprese: «Un giorno, per esempio, mentre mio padre stava tornando dal mercato, il bauchan gli era saltato addosso e si erano messi a lottare. Una volta arrivato a casa, mio padre aveva scoperto di non avere più il suo fazzoletto migliore, un oggetto cui teneva molto perché un Mago vi aveva legato un incantesimo e mia madre vi aveva ricamato sopra il suo nome, quando lui la stava corteggiando. Certo che lo avesse il bauchan, era andato a cercarlo. E infatti aveva trovato il bauchan che stava sfregando il fazzoletto su una pietra ruvida. 'È un bene che tu sia venuto, Declan', gli aveva detto il bauchan. 'Se avessi fatto un buco in questo fazzoletto tu saresti morto. Adesso dovrai lottare con me per riaverlo.' Così avevano lottato, e mio padre aveva avuto indietro il fazzoletto. Non molto tempo dopo, ci siamo trovati in gravi difficoltà: non avevamo legna da ardere, il fango era profondo quasi una iarda e mio padre aveva una gamba dolorante, che gli impediva di andare a prendere una betulla che aveva abbattuto. D'un tratto abbiamo sentito un tonfo contro la porta di casa e abbiamo trovato fuori l'albero, trascinato fin lì nel fango dal bauchan. Era anche un bravo
mietitore... Non so cosa avremmo fatto senza di lui, al tempo del raccolto. Crescendo, però, io mi sono accorto di non voler fare il contadino, perché ero troppo irrequieto. Questa miniera di sildron sarà la mia fortuna, ne sono certo. Bada bene, non ho detto a nessun altro di questa mappa, neppure a mio nipote Liam, a Gilvaris Tarv, perché sapevo di dover venire qui da solo, per scoprire se la mappa era autentica o se si trattava soltanto di uno scherzo». Con aria assonnata, la ragazza attizzò il fuoco con un ramo. «Adesso è ora di dormire», dichiarò Sianadh, stiracchiandosi e sistemando la testa sulla bisaccia. La sua compagna ripiegò la piccola coperta sotto il capo e ben presto si addormentò. Imrhien si svegliò di soprassalto. Non avrebbe saputo dire da quanto stava dormendo, ma era stata ridestata da un grosso peso che le bloccava i piedi. La luce del fuoco mostrava la sagoma enorme di Sianadh, che russava poco lontano, e il profilo di qualcosa... Era molto pesante e stava strisciando lungo il suo corpo, col respiro affannoso. Facendo appello a tutte le sue forze, la ragazza respinse quella cosa e balzò in piedi. Sianadh si svegliò con un sussulto. Si sentì il rumore di qualcosa che rotolava fuori della porta. Accucciandosi, l'ertish estrasse lo skian. «Cos'è stato? Lo hai visto?» domandò. Scuotendo il capo, Imrhien raccolse un grosso pezzo di legna da ardere e si diresse verso la porta, col cuore che le sussultava nel petto. Quando guardò fuori, però, riuscì a scorgere soltanto la luce delle stelle che si rifletteva sull'acqua e i contorni scuri degli alberi. L'unico rumore era il gracidio dei ranocchi nella polla. Sianadh attizzò il fuoco, ed entrambi sedettero con le spalle al focolare e lo sguardo fisso sulle ombre, mentre le fiamme danzavano e la ragazza sentiva il sangue martellarle nelle tempie. Dalla stanza accanto cominciarono a giungere tonfi e suoni striscianti, ma quei rumori cessarono non appena Sianadh fece capolino dalla soglia per dare un'occhiata; di lì a poco, al di là della parete, si udì un fracasso di oggetti che venivano scagliati da ogni parte e un sonoro battere di martelli su incudini. «Bah! È un branco di foliot. Stanno cercando di spaventarci», dichiarò Sianadh. E ci stanno riuscendo, pensò Imrhien.
Un pietoso lamento prese a riecheggiare, mutandosi di colpo in una risata; da vari punti del pavimento e da fori nelle pareti scaturirono lingue di fiamma di una lucentezza abbagliante, che si estinsero in maniera subitanea e inesplicabile. Strane luci si accesero e si spensero, pietre vennero scagliate, ci furono tintinnii di catene e rumori di porte che si aprivano e si chiudevano... anche se in quell'edificio in rovina non c'era più neppure una porta. Quelle spaventose manifestazioni continuarono per tutta la notte. I due viandanti non chiusero occhio. Era infine sceso il silenzio, e il fuoco si era quasi consumato, quando un fuath oltrepassò la soglia del mulino. I fuath, una razza malevola che dimorava nell'acqua, comprendevano numerose specie e quel particolare fuath aveva l'aspetto di un brutto ometto, alto circa una iarda e vestito con laceri abiti tra il verde e il grigio, grondanti acqua. «Chi siete?» domandò. «Come vi chiamate?» «Chi sei tu?» ribatté Sianadh. «E qual è il tuo nome?» «Me Stesso», rispose astutamente il fuath. «E io mi chiamo Me Medesimo», replicò con disinvoltura Sianadh. «La mia amica si chiama Io.» L'uomo e la ragazza rimasero seduti vicino al fuoco e il fuath sedette accanto a loro, più vicino alle fiamme; i suoi vestiti parvero rifiutare di asciugarsi e continuarono a grondare, formando una pozzanghera. Oltre le pareti, i rumori cessarono completamente, e la ragazza s'immobilizzò del tutto nel vedere ombre profonde entrare strisciando dalla porta aperta. Per nulla intimorito, Sianadh riattizzò il fuoco, ma la sua compagna desiderò che non lo avesse fatto, perché cenere e braci volarono nell'aria e bruciarono il fuath, che balzò in piedi e prese a vorticare per la stanza, stridendo e urlando con una voce del tutto sproporzionata alle sue dimensioni. «Mi hanno bruciato! Mi hanno bruciato!» Da sotto la pietra del focolare, una voce spaventosa replicò: «Chi ti ha bruciato?» «Nasconditi!» gridò Sianadh, gettandosi sotto il tavolo di pietra. La ragazza scivolò al riparo accanto a lui, appena in tempo. Rimasero raggomitolati nell'oscurità, tremando, nel sentire quella voce terribile ripetere la domanda. «Chi ti ha bruciato?» «Me Medesimo e Io!» stridette il fuath. «Se si fosse trattato di un mortale, avrei messo in atto una vendetta»,
scandì la voce. «Ma, se sei stato tu stesso, allora non posso fare nulla.» Lamentandosi, il fuath si precipitò all'esterno, e nel mulino scese un silenzio opprimente, denso e gelatinoso. Per tutta la notte, la ragazza rimase sotto il tavolo insieme con Sianadh, piena di tensione, sperando di salvarsi e non osando quasi respirare. Verso l'alba, quando il canto delle gazze cominciava già ad annunciare il sole, nell'aria si diffuse la sensazione di una tempesta magica imminente. Poi giunse il mattino e, con le prime luci, i due furono liberi. Recuperata la preziosa bisaccia, i due lasciarono il Mulino di Fincastle il più in fretta possibile, tornando verso la città e si arrestarono soltanto dopo aver percorso numerose strade. Il cielo era limpido, simile a una distesa di smalto azzurro, e l'aria del mattino era già calda. «Per il mio respiro e il mio sangue! Qui le notti sono più stancanti delle giornate», gemette Sianadh. «Se non riuscirò al più presto a dormire un poco, comincerò a somigliare al mastino del vecchio Domnhail. Dock, ho in bocca un sapore così disgustoso che mi sembra di aver mangiato il mastino del vecchio Domnhail.» Sciacquatosi la bocca con un sorso d'acqua, sputò per terra. «Bah! Quest'acqua non è migliore. Per essere stata attinta da una fonte montana, sa di fango. Senza dubbio è opera di quel viscido fuath. È chiaro che quella creatura, che astutamente si fa chiamare Me Stesso, è alquanto stupida... È stata una fortuna, per noi, considerato che ha un potente protettore da qualche parte, sotto la pietra del camino. Se ci sono in circolazione creature del genere, avremo bisogno di misure protettive più energiche. Ah, poter disporre di qualche incantesimo e di una buona spada a due mani...» Ordinò quindi a Imrhien di ripararsi dietro un muro in rovina e di togliersi i vestiti, indossandoli al rovescio, mentre lui faceva lo stesso dall'altra parte. Poi staccò due rami robusti e diritti da un frassino che sovrastava la strada e li liberò dalle foglie e dai rametti, sostenendo che sarebbero serviti a «rompere qualche testa». Reggendo il bastone, i due si avviarono lungo gli ampi viali e le strade laterali che attraversavano una zona di quella grande città. Nell'aria si levò un dolce e limpido suono tintinnante, come se tutte le campanule del bosco fossero dotate di un minuscolo batacchio d'argento e la brezza le agitasse. «Sta arrivando una tempesta magica», osservò l'ertish, portando d'istinto una mano al cappuccio che gli pendeva sulle spalle. «Ah! Non importa
anche se lasciamo giù il cappuccio. Cosa possono mai essere altri due spettri, in mezzo a tanti? Inoltre, non so tu, ma io sono troppo stanco per agitarmi ancora, a meno che un grosso letto con un materasso di piume non mi si materializzi davanti.» Imrhien gli lanciò un'occhiata e sorrise. Con gli occhi arrossati, segnati da borse bluastre, Sianadh sembrava davvero un mastino; osservandolo, si chiese quale aspetto mostruoso potesse avere assunto lei stessa. Sianadh staccò un morso da un pezzo di pane secco e ne porse un altro alla ragazza. «Non hai motivo di essere tanto allegra», commentò. Imrhien, però, si sentiva felice, e l'approssimarsi della tempesta magica rafforzava quel suo stato d'animo. Tutt'intorno, le erbe selvatiche protendevano i loro germogli vitali tra le crepe delle statue di marmo e la brezza calda attraversava i palazzi fatiscenti. Perché mai non essere allegri? Le foglie delle erbacce che intasavano i canali di scolo si sollevarono di colpo, l'aria prese a vorticare densa intorno a esse al primo sopraggiungere del vento shang e le nubi nerastre che esso portava con sé coprirono il sole. Imrhien fu scossa da un brivido. «Non hai paura, chehrna?» No. «Bene, allora continueremo a camminare, e vedremo quello che vedremo.» La giornata si fece buia come la notte, la luce del sole divenne fievole quanto quella della luna, poi sopraggiunsero le luci e, con esse, le silenziose immagini indebolite dal tempo. Su un balcone che si affacciava sulla strada, due amanti, riccamente vestiti con abiti di broccato e adorni di gioielli di stile antiquato, si stavano accomiatando tra le lacrime. Accanto alla porta, attendeva la carrozza di lui, trainata da una pariglia di quattro cavalli, che inarcavano il collo e proiettavano scintille dalle criniere di nebbia. Le lanterne della carrozza emettevano un chiarore tremolante. Prima di salire sul veicolo, il giovane si voltò per un'ultima occhiata e la donna agitò un fazzoletto di pizzo. Poi la carrozza lucida, con uno stemma dipinto su ciascuna portiera, si allontanò, silenziosa, svanendo all'improvviso per cedere il posto ai due amanti, di nuovo sul balcone, con la carrozza in attesa. In un giardino inselvatichito, una bambina si dondolava su un'altalena, ridendo; le corde dorate si stendevano verso il nulla, perché l'albero cui erano state fissate era caduto da secoli. Una processione funebre sopraggiunse lungo la strada. Il carro funebre,
riccamente ornato, era trainato da sei lucidi cavalli neri coi finimenti d'argento e con alti pennacchi neri come la notte. Una corona di fiori copriva la bandiera stesa sulla bara. Sei uomini alti, in cilindro nero, camminavano davanti al carro e, dietro di esso, avanzavano centinaia di uomini e donne: cavalieri a cavallo, donne velate e uomini che indossavano abiti neri di uno stile da tempo passato di moda, il volto pallido segnato dal cordoglio. La processione passò così vicina a Imrhien che lei ebbe l'impressione di sentire il fruscio della seta. Di certo, in quella città, un tempo c'erano parchi e giardini pubblici, perché i viandanti scorsero zone di vegetazione in cui non c'era traccia di torri in rovina o di verande diroccate. Là, due contendenti duellavano, come nella foresta circostante la Torre di Isse, morendo ancora e ancora; più oltre, alcune persone coi capelli adorni di fiori danzavano intorno a un falò. Le sagome trasparenti di un giovane e di una fanciulla apparvero tra i rami di un castagno, abbracciandosi e baciandosi. La gonna di lei era una rete d'inconsistenti smeraldi. Su un tratto di terreno più elevato si scorgeva un castello. Ormai le sue numerose torri erano crollate, eppure un solitario suonatore di cornamusa camminava ancora là dove c'erano stati i bastioni e adesso c'era soltanto il vuoto. Con la sacca della cornamusa sotto il braccio e le canne sulla spalla, che oscillavano a ogni passo, l'uomo stava suonando una melodia funebre per un Principe da tempo morto e dimenticato. Quelle gioie e quei dolori intensi, che avevano significato tanto - forse tutto - per coloro che li avevano vissuti, si erano ridotti a tremolii che chiazzavano l'aria. Come foglie secche sulla spinta del vento, le loro motivazioni, i loro pensieri, i loro progetti più cari erano stati spazzati via. Chi vedeva quelle fugaci immagini residue non avrebbe mai potuto dedurne la loro storia. La città stava rivivendo i suoi giorni di gloria, intensi ricordi che pulsavano ora più intensi e ora più fiochi, con ogni fluttuazione del vento shang, che accendeva incandescenti bagliori metallici nei boschetti e tra i cespugli inselvatichiti, che delineava con scie di argento fuso i capitelli caduti, le architravi in rovina, le balaustre e i parapetti sgretolati, le scale che non portavano da nessuna parte. Imrhien si era tirata su il cappuccio, ma Sianadh era ancora a testa scoperta e, quando attraversarono una piazza fiancheggiata da draghi di pietra, si girò e alzò le mani, lanciando un grido di esultanza: «Io sono Me Medesimo, e sono qui. Guardate, ho fatto dono a questa città del mio marchio!» Nell'imboccare un viale che si diramava dalla piazza, Imrhien si guardò
alle spalle e vide l'immagine di Sianadh, fermo con aria trionfante. Poi il vento si allontanò, portando con sé il suo tintinnio, e i due oltrepassarono i confini opposti della città, addentrandosi di nuovo nella foresta proprio mentre il sole emergeva dalle nubi. «Anche se siamo stati allontanati dalla nostra strada, adesso però ci troviamo di nuovo nella direzione giusta», sentenziò Sianadh, consultando la mappa, e batté un colpetto sulla bussola, il cui ago vorticò selvaggiamente. «Il Reaper's Pike dovrebbe essere alla nostra sinistra, mentre lo Skylifter si trova laggiù.» Fece un vago cenno con la mano. «Quelli che stiamo risalendo sono i fianchi del Gloomy Jack. D'inverno, queste montagne sono coperte di neve, ma per fortuna adesso siamo in piena estate e non c'è traccia di neve. Questo è un bene per te, Imrhien. Se fosse inverno, avresti dovuto abbattere un lupo e usarne la pelliccia per proteggerti dal freddo. Mentre camminiamo, cerca qualche pietra rotonda. Più tardi, potrei andare a caccia con la fionda e abbattere qualche piccola preda per la cena.» Il Gloomy Jack era coperto di cespugli filamentosi e di piante di menta, fragili ramoscelli ed elastiche strisce di corteccia che scricchiolavano sotto gli stivali dei due viandanti. Gli alti tronchi pallidi si somigliavano al punto di dare alla ragazza la sensazione di trovarsi sempre nello stesso luogo. L'aria tremolava per il caldo perfino nelle zone d'ombra e, da un punto imprecisato, più avanti, giungeva il verso acuto e penetrante delle cicale. Il giovane flessuoso dalla pelle scura che, per qualche tempo, procedette sotto il fogliame, qualche iarda alla loro sinistra, non fece nessun tentativo per nascondersi alla loro vista e non accennò a guardare nella loro direzione; Imrhien invece lo osservò con attenzione finché non se ne andò. I suoi lineamenti erano elfici; aveva il naso all'insù, gli zigomi alti, il mento affilato e le orecchie a punta che sporgevano dalla massa di capelli scuri che gli ricadeva sulle spalle. I piedi erano nudi e il suo abbigliamento silvano era davvero splendido. Un collare di gialle foglie di ciliegio venate di scarlatto, ovali e seghettate, sovrastava una lunga tunica marrone rossiccio fatta di foglie di platano a cinque punte, cucite con filo verde, bordata di foglie di quercia e foderata di muschio. La cintura era di canne intrecciate, le ampie maniche a campana, fatte di rosso fogliame autunnale, arrivavano ai polpacci. I calzoni di muschio vellutato erano legati al ginocchio con l'edera e il cappello era formato da due foglie di giglio ripiegate, ed era decorato da una fronda di felce. Aveva in mano un bastone d'oro e ai suoi piedi trotterellava un piccolo animale bianco dalle minuscole orecchie
scarlatte e dagli occhi simili a granati. «Ho sentito parlare di lui, a Tarv», sussurrò Sianadh. «Dicevano che si sia preso cura di una bambina, Katherine, che si era persa nella foresta. In seguito lei è stata ritrovata, illesa, ed è cresciuta fino a diventare una bella donna. Ha sempre raccontato a tutti quanto sia stato gentile con lei il Gailledu. So che si tratta di lui, perché ha i capelli neri ed è vestito di muschio e di foglie, proprio come dicevano. Se non sbaglio, quel maialino dalle orecchie rosse che lo accompagna è una bestia che porta fortuna.» A mezzogiorno arrivarono a un canalone fumoso sovrastato da alte felci, dove riempirono di nuovo la borraccia con l'acqua fresca e dolce di una sorgente. Due dame, dalle lunghe vesti nere e dai capelli corvini incoronati da cerchietti di granati color sangue, erano sedute sotto gli alberi, ma, al loro avvicinarsi, si alzarono e si diressero verso una piccola polla in una valletta. Dalla depressione di levò un forte vento e, con un grido, due cigni neri spiccarono il volo. «Riposeremo qui», decise Sianadh. «E non disturberemo la polla frequentata dalle donne cigno. Questo cibo secco non ha molto sapore», continuò, aprendo la bisaccia. «Gradirei qualcosa di più saporito, però ne abbiamo ancora in abbondanza. Tu non mangi molto.» La sua compagna si era ormai abituata a pensare a se stessa come a una ragazza, e a essere considerata tale da quel rozzo ma cortese contadino gentiluomo, che trattava ragazzi e ragazze nello stesso modo, salvo stare più attento a come si comportava e a come parlava quando si rivolgeva a una donna, cautele che scomparivano quando se ne dimenticava. Imrhien lo osservò raccogliere alcuni ciottoli rotondi dal fondo del ruscello, e mettersi in tasca la fionda che aveva prelevato dalla bisaccia. «Aspettami qui, chehrna. Ho visto alcuni tacchini tra i cespugli e vorrei catturarne uno.» No, disse lei, aggrappandosi alla sua giacca, in preda al panico. Non ti vedrò. «Non temere», la rassicurò Sianadh, liberandosi con cautela dalla sua stretta. «L'Orso torna sempre indietro. Ci vorrebbe un tacchino veramente grosso per avere la meglio su di me. Custodisci la bisaccia e non ti muovere da qui. Il bastone di frassino ti proteggerà... tienilo con te.» Poi si allontanò e, sebbene il suo passo fosse tutt'altro che silenzioso, i rumori da lui prodotti vennero ben presto inghiottiti dalla foresta e soffocati dallo spietato, ossessivo verso delle cicale, che proveniva ora da ogni
direzione. Per qualche tempo, la ragazza rimase sdraiata sull'erba fresca, vicino alla riva del ruscello, osservando la danza delle bolle che si formavano sull'acqua, con la testa che le doleva per il ronzio degli insetti. Un maialino dalle orecchie simili a petali di papavero venne ad annusare l'erba vicino all'acqua. Sollevando la testa, l'animale la fissò con occhi simili a ciliegie, poi si allontanò, trotterellando, e si fermò, come in attesa. Quando Imrhien non accennò a muoversi, il maiale avanzò di qualche passo verso di lei, poi tornò a spostarsi e abbassò la testa su un tratto di erba alta. Incuriosita, la ragazza prese la bisaccia e andò a dare un'occhiata. Immediatamente, il maiale se ne andò e, nel punto in cui si era fermato, neppure un unico filo d'erba era piegato. Inginocchiatasi, Imrhien colse una manciata di quell'erba, scoprendo così che erano tutti quadrifogli. Dopo averne riposti alcuni in tasca per buon augurio tornò accanto al ruscello. Il caldo e la mancanza di sonno le appesantivano le palpebre. Le sembrava che Sianadh impiegasse molto tempo a tornare. Per rimanere sveglia, Imrhien si bagnò il volto e, per smorzare il verso insistente delle cicale, si premette le dita contro le orecchie. Infine Sianadh riemerse dai cespugli. In mano non aveva nessun tacchino. «Imrhien, oltre quell'altura è in pieno svolgimento un mercato! Dovresti vedere! Una fiera sul prato, piena di piccole creature che comprano e vendono, come in qualsiasi fiera cittadina. Sono vestiti tutti in rosso, giallo e verde, come veri nobili e dame in miniatura, e le loro belle bancarelle colorate offrono merci di ogni tipo. Ci sono ramaioli, calzolai, venditori di ogni sorta di ninnoli... tutto quello che si vede di solito alle fiere, inclusi i cibi. Quaglie arrosto! Lamponi e crema! Secondo me, se ci presenteremo con sufficiente cortesia, potremmo ottenere col baratto qualcuno di quei pasticci, un prosciutto, un po' di torta alla crema e della birra... Avanti, vieni!» Afferrata la bisaccia, s'incamminò. Una volta in cima alla collina, i due si gettarono a terra, proni, e strisciarono fino a sbirciare oltre il crinale. Ciò che Imrhien vide risultò enormemente diverso dalla descrizione fatta da Sianadh, tanto da indurla a scoccargli un'occhiata perplessa. Lui aveva però lo sguardo acceso d'entusiasmo, le labbra aperte in un ampio, vacuo sorriso. In effetti, sotto di loro c'era un ampio prato su cui si accalcava una folla di piccole creature, impegnate in un mercato, ma le bancarelle erano un traballante insieme di pezzi di corteccia, gli abiti erano laceri e sporchi, gli oggetti in vendita erano rozzamente intagliati nel legno e le prelibate vi-
vande di cui Sianadh aveva parlato erano in realtà vescia di lupo, erbacce, insetti vivi e morti, sputacchina e ghiande, il tutto disposto su piatti di foglie. La ragazza cercò invano di fermare Sianadh, che si alzò e scese in mezzo a quella folla, aprendo la bisaccia per mostrare ciò che aveva. Uomini e donne che gli arrivavano appena alle ginocchia gli si accalcarono intorno con risa acute, parlando in una lingua straniera e cominciando a esaminare la farina d'avena, i fichi secchi, l'uva passa, le noci, il pane e la carne secca. Entusiasta per gli affari che stava concludendo, Sianadh si protese a prendere le orribili vivande che gli venivano offerte e se ne riempì immediatamente la bocca, cosa che indusse la ragazza ad abbandonare il proprio nascondiglio e a raggiungerlo di corsa, facendogli cadere di mano quella roba. «Accidenti, ragazza! Ce n'è in abbondanza per entrambi!» ringhiò lui, con la bocca piena. Imrhien gli afferrò i polsi, ma lui la respinse e, un momento più tardi, lei avvertì centinaia di punture ai polpacci: le piccole creature le si stavano accalcando intorno, munite di armi fatte di spine, intenzionate a scacciarla. Accorgendosi che insistere era inutile, la ragazza si portò fuori della loro portata e si dispose ad aspettare Sianadh, che infine riapparve, pulendosi la bocca con una manica, la bisaccia piena fino a scoppiare. «È pieno di prelibatezze», dichiarò, battendo su di essa un colpetto soddisfatto. «Ah, che banchetto. Hai assaggiato qualcosa?» Non cibo, disse Imrhien, accigliandosi. «Non essere schizzinosa, ragazza. Vieni, ora dobbiamo andare.» Non cibo. Io guardo. Io vedo. Sussultando, Sianadh si concesse un momento per riflettere. «Tu vedi?» ripeté, soppesando le parole. «Che cosa hai visto, Imrhien?» Incapace di spiegarsi, lei levò di scatto le braccia in un gesto di frustrazione. «Torna alla fiera con me. Metti la mano sul fianco e piega il braccio, in modo che possa guardare attraverso di esso.» I due tornarono sull'altura. A quanto pareva, il mercato era finito, e le piccole creature stavano abbandonando in tutta fretta le bancarelle, senza smontarle e lasciandole dove si trovavano. Chinandosi, Sianadh guardò attraverso la curva del braccio di Imrhien... ed esplose in un torrente d'imprecazioni in almeno tre lingue diverse. Mettendosi a correre, scese il pendio e, sempre gridando, prese a calci le ban-
carelle, facendole a pezzi tra una pioggia di erbacce, spore e pezzi di corteccia. «Dock pishogue! Doch, dock skeerda, stupide creature, con le loro illusioni! Obban tesh, che cosa ho mangiato?» Si lanciò tra i cespugli, dove prese a vomitare violentemente, continuando a imprecare tra un conato e l'altro. «Per i denti del sole, io avrei mangiato quella roba? Che io sia dannato, non ho mai visto quelle cose verdi... Dannazione, ma quelle sembrano lumache...» Quando infine smise di vomitare, raggiunse con passo incespicante la polla delle donne cigno e vi si tuffò dentro, mentre Imrhien svuotava la bisaccia e osservava quei «viveri» allontanarsi, strisciando. «Allora possiedi la Vista?» domandò Sianadh, curvo su se stesso e grondante. La ragazza scrollò le spalle. «Avresti potuto avvertirmi.» Imrhien batté a terra un piede con rabbia. «D'accordo, mi hai avvertito. La cosa peggiore è che quei subdoli siofra si sono presi buona parte delle nostre provviste, e io non ho più voglia di andare a caccia... Credo se ne sia andata con quelle lumache.» Irritata, Imrhien non rispose, e i due ripresero il viaggio in silenzio. Ciangottando, gli uccelli si ritirarono nel nido per la notte. L'oscurità stava calando e i due non avevano ancora trovato un luogo sicuro in cui trascorrere la notte. Fu allora che riapparve il Gailledu, accompagnato dal maiale bianco, e fece loro cenno di seguirlo. I due viandanti esitarono. «Dicono che sia un seelie, ma...» mormorò Sianadh. Imrhien indicò il maiale, poi se stessa. Infine tirò fuori dalla tasca alcuni quadrifogli appassiti. «Te lo ha dato il maiale? E. quadrifoglio? Allora è stato questo a proteggere i tuoi begli occhi verdi dall'illusione e non il fatto di possedere la Vista», commentò Sianadh, prendendo un quadrifoglio e mettendoselo in tasca. «Quando saranno secchi, li infilerò nella fodera. Quei piccoli vermi non m'incanteranno più e, se dovessi mai rivederli, prenderò a calci le loro orecchie appuntite. Dal momento che quel giovane vestito di foglie continua ad apparirmi uguale, anche adesso che ho un quadrifoglio, suppongo che le sue intenzioni siano benevole. Vogliamo seguirlo?» Imrhien annuì, perché il Gailledu e il suo maiale sembravano diversi dalle altre creature in cui si erano imbattuti. Fu comunque con cautela che i due lo seguirono nel crepuscolo, Sianadh con la mano posata sullo skian.
La foresta calda e sempre più buia brulicava di presenze, e la loro guida li stava incitando ad affrettarsi. Sentendo alle loro spalle un rumore di cavalli al galoppo, i due viandanti si misero a correre, ma davanti a loro sembravano esserci soltanto alberi, e ancora alberi, oltre alle sagome appena intraviste del Gailledu e del maiale, che fluttuavano poco più avanti... A un certo punto, Sianadh si appoggiò ansimando a un grosso tronco liscio, e i cavalieri invisibili proseguirono al galoppo, allontanandosi. «Sorbi selvatici.» Con un sussulto, la ragazza sollevò lo sguardo. In effetti il Gailledu li aveva condotti in una macchia di piante di sorbo, gli alberi della protezione, prima di andarsene col suo maiale. Morbidi strati di muschio creavano un comodo giaciglio per i loro corpi doloranti. Dopo aver cenato col poco che restava delle loro provviste, Imrhien si tolse gli stivali; nel sicuro rifugio offerto dalle piante di sorbo, l'uomo e la ragazza scivolarono nel sonno profondo del più assoluto sfinimento, abbandonandosi come morti sullo spesso strato di muschio e di foglie. Il mattino successivo, i due lasciarono la macchia di sorbi e ripresero il viaggio, diretti a nord-est. Ma avevano fatto solo pochi passi quando il Gailledu sbarrò loro la strada: senza parlare, scosse la testa bruna e indicò l'ovest. Arrestandosi, Sianadh piantò saldamente nel terreno il suo bastone. «Buongiorno a te. La scorsa notte ci hai guidati a un posto sicuro dove riposare, e te ne siamo debitori. Se però adesso vuoi che imbocchiamo un'altra strada, questa è una cosa che non possiamo fare.» Con un movimento secco e deciso, il giovane vestito di foglie calò di taglio una mano sul palmo sollevato dell'altra, un gesto che poteva significare una cosa soltanto. Sianadh si agitò, a disagio. «Vuole che facciamo una deviazione, Imrhien.» La ragazza annuì e accennò a muovere un passo verso sinistra. «Quindi pensi che lui abbia ragione, eh? No, non possiamo assecondarlo. Dobbiamo prendere la via più diretta, perché abbiamo già perso troppo tempo e siamo a corto di provviste. Se continuiamo in questa direzione, la nostra meta non può essere a più di un giorno di distanza, ma chi può sapere quante leghe in più dovremmo percorrere, quanti altri giorni perderemmo, cambiando strada? Buon signore, ti siamo grati per il tuo consiglio, ma, con tutto il dovuto rispetto, non possiamo accettarlo.»
Sianadh accennò quindi ad aggirare il Gailledu, ma esso tornò a sbarrargli il passo, con un bagliore iroso negli occhi marroni. Scosse di nuovo il capo, segnalando loro di fermarsi, poi si trasse da parte. Sianadh guardò la ragazza. «Fa' come credi. Io non intendo cambiare strada.» Imrhien si tolse dai capelli un fiore azzurro che aveva colto quella mattina e protese la mano verso il Gailledu. Dopo qualche istante, lui le sfilò il fiore dalle dita, si voltò e si addentrò nella foresta. Per un momento, la ragazza lo seguì con lo sguardo, poi si avviò per seguire l'ertish. Camminando, i due comunicarono ben poco, ma si lanciarono molte occhiate ansiose alle spalle e sussultarono a ogni ombra che si muoveva. Dopo un paio d'ore, si trovarono sotto alcuni pini scuri che crescevano in mezzo a massi di granito, con le radici che avvolgevano le rocce come arterie strette intorno a un cuore. Un'aura malvagia aleggiava sotto quegli spessi rami, immagini e suoni strani turbarono la loro marcia come in precedenza, ma stavolta i due viandanti sapevano che non si trattava di un inganno, che stavano vedendo qualcosa di reale. Finché avessero avuto in tasca un quadrifoglio, infatti, i loro occhi avrebbero potuto vedere oltre le illusioni. Il calore estivo si intensificò sino a diventare soffocante, quindi i due furono lieti quando, nel pomeriggio, s'imbatterono in una cupa polla boschiva. Si bagnarono i piedi e il volto, tuttavia un impulso indefinibile li trattenne dal bere. I pini incorniciavano un tratto di cielo color lavanda, ma esso non si rifletteva minimamente nelle acque scure. Un frusciare di rami annunciò l'apparizione di un cavallino irsuto, venuto ad abbeverarsi. Scrollando il muso per liberarlo dalle gocce d'acqua, l'animale li fissò con aria amichevole, sbuffando sommessamente. La magia dei cavalli d'acqua era tale che, quand'erano vicini, essi non apparivano né soprannaturali né pericolosi... Chi li contemplava aveva la certezza di trovarsi davanti a un innocuo destriero e si convinceva che sarebbe stato ridicolo nutrire il sospetto che quello non fosse un essere del tutto naturale. Soltanto un incantesimo o una cocciutaggine radicata poteva salvare i mortali da quell'incantesimo. «Rimettiti in fretta gli stivali e andiamo via di qui», sibilò Sianadh. Il cavallo trottò verso di loro, gli zoccoli che quasi non facevano rumore sullo strato di aghi di pino. Imrhien cercò d'infilarsi gli stivali, ma tremava tanto da non riuscire ad allacciarli. Accanto a lei, Sianadh stava muovendo in silenzio le labbra. Il cavallo gli sfiorò la spalla col muso, caracollò alle-
gramente e incurvò il collo, come se volesse essere accarezzato. Quanto più lo evitavano, tanto più esso si faceva giocoso e insistente. Quando accennarono ad allontanarsi, balzò davanti a loro, piegando una zampa anteriore in un aperto invito a montargli in groppa e trotterellando fra gli alberi con la lunga coda alta... Qualsiasi direzione prendessero, l'animale appariva davanti a loro, intessendo un incantesimo sempre più potente, finché la disperazione non indusse Imrhien a brandire il bastone di frassino con entrambe le mani, protendendolo davanti ai propri occhi. La creatura s'impennò, nitrendo, ma Sianadh fu pronto a farsi avanti, con lo skian dalla lama a forma di foglia che gli scintillava in una mano e una manciata di sale stretta nell'altra. «Indietro!» Con un acuto nitrito, il cavallo roteò gli occhi e batté al suolo gli zoccoli, ma, quando i due viandanti ripresero ad avanzare, si girò di scatto e si lanciò al galoppo verso la polla, tuffandosi con un agile salto, senza quasi sollevare schizzi e lasciandosi alle spalle solo piccole onde che si allargarono lentamente in cerchio sulla cupa superficie liquida. Con le lacrime agli occhi, Sianadh indugiò a contemplare le segrete profondità della polla, scuotendo il capo. «Ah, quella era davvero una creatura tambalai, una vera rarità, se m'intendo di cavalli. Respingerla mi è costato molto. Che peccato.» I due compagni ripresero il cammino. Il tappeto di aghi di pino attutiva il suono dei loro passi mentre procedevano attraverso le cortine d'ombra di quella foresta che pareva non avere fine. D'un tratto Imrhien ebbe un brivido. Era certa che qualcosa li stava seguendo: il timore della presenza di qualche terribile predatore le avviluppò il cuore. La luce pomeridiana si affievolì, i tronchi degli alberi si fecero incombenti come le sbarre di una prigione e l'oscurità sempre più fitta rese difficile vedere dove stavano andando. Più avanti, un chiarore grigiastro, più un attenuarsi del buio che un accentuarsi della luce, mostrò infine il punto in cui gli alberi si diradavano e, dopo poco, i due emersero dalla foresta, trovandosi sotto un cielo stellato, in cui stava cominciando a sorgere una mezza luna. Il pallido chiarore della Grande Stella del Sud rischiarava appena il paesaggio. Su entrambi i lati, la foresta si stendeva come una staccionata interminabile. Si trovavano sulla sommità di un pendio coperto di bassi cespugli di ginestra, ginestrone e malaleuca. Il lungo fianco della collina scendeva fino a una stretta gola
che correva da nord a sud, solcata da un fiume impetuoso. Verso nord, una parete di roccia si levava fino a diventare un picco montano e, sul lato opposto della gola, s'intravedeva un'ondulata distesa erbosa, punteggiata di alberi radi. «Il fiume!» esclamò Sianadh, con occhi scintillanti. «Finalmente, ecco il fiume che scorre verso sud da Bellsteeple. Ma non so dire in che punto del suo corso ci troviamo. So che dobbiamo seguire questo affluente del Rysingspill, però, dalla mappa, non è chiaro se bisogna andare verso monte o a valle.» Si soffermò a riflettere, esaminando il panorama, finché una risata irrequieta, proveniente dalla foresta, non indusse sia lui sia la ragazza a incamminarsi in fretta lungo il pendio. Pieni di buchi, gli stivali di Imrhien stavano cominciando a cedere, perché non erano robusti quanto quelli di Sianadh ed erano inadatti a reggere lunghi viaggi in terre selvagge. Quando la suola dello stivale destro si staccò, penzolando, la ragazza dovette fermarsi per togliersi la calzatura. «Non gettarla via, ragazza. Non lasciarti mai alle spalle qualcosa che hai usato. Per i fuochi di Tapthar! Cos'è mai quello?» Sulla destra, il fianco della collina era scavato da un solco che correva dritto dalla foresta al burrone. Sulla sua superficie liscia e scivolosa non c'era traccia di vegetazione. «Questo strano fosso può essere pericoloso da attraversare, quindi dovremo deviare verso monte», decise l'ertish, una volta giunti sull'orlo del canale. «E possa la Stella concederci stanotte un rifugio sicuro.» Uno strato di nubi perlacee ricopriva la gola: sottili volute che si protendevano per metà dei suoi fianchi. La gola scavata dal fiume era molto stretta e ripida, con le pareti che scendevano a picco dal limitare dell'altura per una sessantina di piedi, fino all'acqua sottostante. Rocce massicce sporgevano come leviatani grigi dalle acque torrenziali, che ribollivano furiosamente intorno a esse con un rombo scrosciante. La voce sonora del fiume riempiva le orecchie dei due viandanti col suo rombo sibilante, punteggiato di note più limpide e argentine. I due s'incamminarono lungo l'orlo della gola, in mezzo a uno svolazzare di minuscole falene. D'un tratto, qualcosa si scagliò lungo quello strano solco liscio, emettendo una stridula risata nel saettare al di sopra del fiume e lasciandosi alle spalle solo l'eco della propria follia. «Obban tesh», imprecò Sianadh, accelerando il passo. «Non sono riuscito a vedere bene, tuttavia mi è sembrato che quella cosa fosse priva della testa, e che la tenesse sotto il braccio.» Imrhien lo seguiva, zoppicando, con lo stivale rovinato in una mano e il
bastone di frassino nell'altra. Sopra di loro, la luna stava salendo sempre di più nel cielo; in basso, il fiume ruggiva veloce. Poi un suono terribile cominciò a riecheggiare. Tud, tud. Un martellio ritmico fece tremare il terreno come un maglio gigantesco, poi cessò, lasciando il posto a un silenzio opprimente. Il suono era giunto da un punto imprecisato alle loro spalle, nell'oscurità, e d'un tratto riprese - tud, tud - facendosi sempre più vicino prima d'interrompersi nuovamente. Dalle labbra di Sianadh scaturiva ora uno strano verso sibilante: l'uomo stava cercando di fischiare, ma aveva le labbra troppo aride. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte e, accanto a lui, Imrhien si sentiva il ventre così contratto dal terrore da avere la nausea. Tud, tud. IL suono si ripeté, spietato, creando vibrazioni che arrivarono fino ai piedi dei due viandanti. L'ertish cominciò a correre, tallonato dalla ragazza. Poi la luna scomparve dietro una nuvola, e Sianadh incespicò con un grido, sollevando di scatto la testa verso una luce, verdastra e ondeggiante, che era apparsa davanti a lui, a parecchie iarde di distanza. Una figura indefinita reggeva una lanterna con un braccio da cui pendeva una lunga manica a punta. «Presto, seguitemi!» ingiunse una voce bassa e gradevole, leggermente incrinata, come quella di un giovane sulla soglia dell'età virile. «Venite, non c'è tempo da perdere.» «Chi sei?» «Hai già dimenticato l'amico che vi ha guidati fino al bosco di sorbi? Affrettatevi, altrimenti il Direath vi raggiungerà. La luce vi mostrerà la strada.» Tud, tud. Sianadh aprì la bocca per ribattere, ma la lanterna si allontanò, sobbalzando, e lui afferrò Imrhien per mano, affrettandosi a seguirne la luce col respiro sempre più affannoso. Ma la ragazza, consapevole che c'era qualcosa che non andava, liberò la mano dalla sua stretta. Avrebbe voluto gridare un avvertimento, ma poté soltanto assestare uno strattone alla bisaccia, rompendo la cinghia di sinistra, che si mise a penzolare. Imrhien sentiva soltanto la voce che li chiamava, vedeva soltanto la lanterna che si allontanava, oscillando, nella direzione in cui si trovava l'orlo della gola, attirando verso di esso Sianadh come una falena chiamata dalla fiamma, nonostante tutti i suoi sforzi per trattenerlo. La ragazza si lanciò allora verso la schiena del compagno e riuscì ad afferrare la cinghia pendente nel
momento stesso in cui lui scattava in avanti e, con un urlo, precipitava fuori del suo campo visivo. Imrhien sentì l'angosciante sgretolarsi del terreno che franava, poi il fugace ticchettio del bastone di Sianadh che precipitava nel vuoto. L'ertish era scomparso. E anche la luce era svanita. La ragazza si trovò distesa nel buio, da qualche parte al confine del nulla, col sangue che le martellava nelle orecchie. Un vento leggero frusciava tra il ginestrone, e la luce della Grande Stella faceva capolino attraverso le nubi sottili. Sbirciando oltre l'orlo del precipizio, la ragazza vide le tozze dita scure di Sianadh serrate intorno a una sporgenza argillosa, la testa irsuta premuta contro la roccia. Accorgendosi che l'uomo aveva ancora la bisaccia appesa alla spalla, Imrhien legò subito la cinghia spezzata a un robusto cespuglio. Sianadh sollevò la testa, sbattendo le palpebre per liberare gli occhi dalla terra. «La sporgenza sotto i miei piedi si sta sgretolando. Non voglio morire. Oh, Ceileinh, Madre dei Guerrieri, salvami!» Protendendosi verso l'esterno, la ragazza si mise a tirare la cinghia della bisaccia. In quel momento, Sianadh perse l'appiglio per i piedi, ma fu pronto ad aggrapparsi alla cinghia e bloccò la caduta. Il cespuglio s'incurvò pericolosamente, ma resistette alla tensione. Col volto contratto per lo sforzo, Sianadh si issò con tutta la forza delle braccia muscolose, e quando la sua testa apparve oltre il bordo, seguita dalle spalle, la ragazza cercò di aiutarlo afferrandolo per le maniche e per i capelli. Proprio quando lui si aggrappò al cespuglio, la cinghia infine cedette; una volta ancorato, Sianadh si fermò a riprendere fiato, ancora per metà sospeso nel vuoto, poi si portò al sicuro, lasciandosi scivolare dalla spalla la bisaccia malconcia. Incapace di reggersi in piedi, si allontanò dal precipizio strisciando. Qualcosa di piccolo e di malevolo emerse dal nulla e spinse la bisaccia nel vuoto con un calcio prima di darsi alla fuga, ripetendo: «Strappa, strappa». Imrhien ripulì dalla terra il volto dell'uomo, che appariva pallidissimo. Tud, tud, tud. La creatura aveva ripreso a braccarli. A fatica, Sianadh si alzò. «D'ora in poi comandi tu», annaspò. «Sono stato davvero stolto... Il Gailledu parla soltanto ai bambini. Avrei dovuto sapere che quello era un folletto dispettoso. Adesso è troppo tardi, perché abbiamo fatto vedere che abbiamo paura. Dammi il bastone. Affronterò io
la cosa alle nostre spalle che produce questi tonfi spaventosi.» Era mezzanotte. Nel cielo, la barca della luna, con la sua unica vela, solcava un mare senza fine, gettando reti di stelle per catturare qualche cometa. Nel vasto panorama sottostante, due minuscole figure stavano correndo lungo la sommità di un'altura, braccate dai passi di un cupo e feroce spettro che sembrava generato dai sogni di un folle. Poi il terreno prese a declinare bruscamente, le pareti della gola si abbassarono e il rombo del fiume salì di tono, finché i due umani braccati non si trovarono accanto a un torrente in piena, che scorreva in un canale, appena dieci piedi più in basso. Per quanto elevato, il fragore della corrente non poteva soffocare il suono del predatore che si avvicinava. Quel cacciatore sembrava volersi divertire a spese della preda, ora accelerando e ora restando indietro, in modo da spingerla al limite delle forze. «Se sai nuotare, allora attraverseremo il fiume, perché quelle creature non possono valicare l'acqua corrente, soprattutto se va verso sud. Però temo che la piena ti trascini via...» Fu allora che videro il ponte. Massicce piante crescevano sulla riva opposta del fiume, e una di esse era caduta sul passaggio. Metà delle radici era ancora affondata nel terreno e l'albero continuava a vivere, coi rami verdi che si riversavano sul terreno. Spronati da quella vista, i due si precipitarono verso di esso, ma ormai era troppo tardi. I tonfi accelerarono il loro ritmo, e il Direath piombò loro addosso con un ruggito, costringendoli a girarsi per affrontarlo. La creatura era veramente mostruosa. Incombeva su di loro, più alta di almeno due piedi, abbigliata con un aderente mantello di piume blu scuro. Dallo sterno sporgeva una singola mano robusta e pelosa, un'unica gamba reggeva il peso del corpo e un occhio scintillava nel centro della fronte. Il Direath, che serrava uno spesso randello nella mano ossuta, si parò davanti a loro immobile, come in attesa. Senza distogliere lo sguardo dall'apparizione, Sianadh estrasse il coltello e lo lasciò cadere dietro di sé. «Prendi lo skian, ragazza. Contro un essere simile non può fare granché, e mi servono entrambe le mani per impugnare il bastone; inoltre, se mi avvicinassi abbastanza da poterlo usare, Lord Fascino, qui, potrebbe afferrarmi per il collo. Prendi il coltello e attraversa il fiume, presto.» Anche se lui non poteva vederla, Imrhien scosse il capo. Non se ne sarebbe andata proprio adesso, non avrebbe abbandonato il suo amico.
Con un ringhio, l'uomo scattò in avanti. La lotta fra il mortale e la creatura ebbe inizio. L'ertish era rapido, pronto a schivare il randello. Il bastone lungo sei piedi gli dava un certo vantaggio, e il mostro pareva detestare qualsiasi contatto col legno di frassino, ma non c'erano dubbi sul fatto che, tra i due, la creatura fosse il contendente più forte. Saltellava sul suo unico piede, solcato da spessi tendini e da grosse vene, costringendo l'uomo a cedere terreno. L'occhio sovrastante il naso cavernoso e le spesse labbra roteava di qua e di là, fisso su Sianadh. Probabilmente era un effetto della luce lunare, eppure il mostro non sembrava spostarsi in modo normale. La sua era piuttosto una metamorfosi, che lo trasportava da un punto a un altro, un trucco che rendeva difficile anticiparne le mosse. Descrivendo un ampio giro intorno alla creatura, Imrhien si portò alle sue spalle e scattò in avanti, affondando lo skian. Il Direath si girò di scatto, con un urlo indignato; approfittando di quella distrazione, Sianadh lo colpì con violenza su un orecchio. Il pesante randello mancò la ragazza di stretta misura, ma sul coltello c'era del sangue... sangue nero che ora fumava sulla lama. Lei non riuscì più ad avvicinarsi abbastanza da colpire ancora, perché la creatura stava in guardia, però non smise d'incalzarla e d'infastidirla; ogni volta che essa le si rivoltava contro, Sianadh aveva modo di attaccarla a sua volta, scatenando una reazione belluina. La lotta si protrasse nella notte per lunghe ore, finché il terreno non divenne una nuda distesa di polvere. Alle loro spalle, il fiume continuava inesorabile la sua corsa; la luna seguiva il suo tragitto. I movimenti di Sianadh si erano fatti più lenti, e il suo avversario gli stava lasciando l'iniziativa, quasi assaporasse la conclusione ormai prossima dello scontro. La stanchezza aveva peggiorato anche la mira dell'ertish. Durante un attacco, il bastone colpì il terreno e si spezzò in due. «Per me è la fine. Scappa!» ingiunse a Imrhien, barcollando. Il Direath avanzò verso di lui a grandi balzi. Mossa da un'ispirazione improvvisa, Imrhien gli scagliò contro lo stivale, raggiungendolo all'unico occhio e facendogli perdere l'equilibrio. In quel momento, un alito di vento agitò le foglie dell'albero caduto, e da qualche parte, in lontananza, si levò il grido della gazza. Il Direath s'immobilizzò. Il richiamo della gazza si levò ancora, esultante, annunciando l'alba, e il
cielo prese a impallidire verso oriente. Il Direath abbassò lentamente il randello, ma, proprio mentre la gazza cantava per la terza volta, vibrò un ultimo colpo a Sianadh, che aveva abbassato la guardia, raggiungendolo in pieno alle costole. Poi si allontanò verso la foresta. L'ertish si accasciò al suolo, serrandosi il fianco. Accucciandosi accanto a lui, Imrhien gli tenne la testa e lo aiutò ad alzarsi. Insieme, quasi strisciando, raggiunsero l'albero caduto e si fecero largo tra il fogliame, fino all'ampio tronco. Piegato su se stesso, con le braccia strette contro i fianchi, Sianadh attraversò il fiume per primo; una volta raggiunta la riva opposta, avanzò di un paio di passi e si accasciò sotto un albero. Imrhien adagiò la testa dell'uomo svenuto sulle proprie ginocchia e rimase sveglia, di guardia, mentre l'alba schiudeva di nuovo le porte del mondo. Quando riprese i sensi, Sianadh si puntellò su un gomito e bevve avidamente l'acqua che Imrhien gli aveva portato, lasciandosi poi ricadere con un sospiro e un sussulto. «Quell'acqua è stata come vino, per me, anche se sapeva di vecchio stivale.» In effetti, la ragazza si era servita proprio di uno stivale di Sianadh per portargli da bere, dato che non aveva a disposizione altri contenitori. L'altro stivale era ormai andato in pezzi, e lo aveva gettato nel fiume. Adesso non avevano più i bastoni di frassino, avevano perso la bisaccia con le provviste, la scatola dell'esca e perfino la borraccia. «La mappa, la mappa!» annaspò Sianadh, frugandosi nelle tasche. «Ah, ho un coltello rovente piantato tra le costole. Quell'uraguhne le ha ammaccate per bene, o forse le ha addirittura incrinate.» Imrhien tirò fuori la mappa, gliela fece vedere e la ripose in tasca; rassicurato, Sianadh riprese a dormire, e lei andò a lavarsi nel fiume. Su quel lato del corso d'acqua la riva era più bassa e meno ripida. Dopo aver lavato i propri abiti laceri, la ragazza li stese sull'erba ad asciugare. La corrente era rapida, troppo per rischiare d'immergersi. Aggrappandosi a un ramo che sporgeva sul fiume, Imrhien raccolse l'acqua nello stivale di Sianadh e se la rovesciò addosso, rabbrividendo a quel tocco gelido. Grethet le aveva detto che era sfigurata, ma anche quella era una menzogna: il suo corpo non aveva pecche o difetti, era bianco e snello, con arti forti e diritti come i lisci rami degli alberi fluviali. E, come quegli alberi, Imrhien era alta ed elegante. Com'erano belli, gli alberi...
Indossati di nuovo gli abiti ancora umidi, Imrhien tornò a vegliare sul compagno addormentato. Sianadh sussultò e gemette nel sonno, svegliandosi in preda al dolore quando il sole era ancora a metà della sua ascesa nel cielo. Alzatosi a fatica, si sfregò gli occhi e si guardò intorno. «È bella, la terra su questo lato del fiume. Sembra una regione cuinocco. È meglio rimettersi in cammino, anche se il piede mi annegherà in quello stivale fradicio.» Equipaggiatisi con nuovi bastoni, si avviarono lungo la riva del fiume, sempre diretti a monte e verso la parete di roccia, sempre più vicina e nettamente delineata contro lo sfondo delle nuvole. Quasi fosse stato opera di uno scultore insoddisfatto, il paesaggio del cielo continuava a mutare, ricreando i suoi campi di fiori, le montagne nevose, le diafane foreste e i laghi di nebbia. L'aria fresca dell'aperta campagna, ricca e rinvigorente come sidro di mela verde, scivolava su acri di erba bassa, punteggiati da macchie di grano di pepe, di alloro e di jacaranda in fiore, i cui boccioli di un azzurro intenso parevano sfidare il colore del cielo. Lungo la strada riposarono spesso. Sianadh parlava poco e non si lamentava per il dolore o per la fame, ma era chiaro che stava soffrendo. A ogni sosta, Imrhien, preoccupata, gli portò dell'acqua e cercò di sistemarlo il più comodamente possibile. Quella notte riposarono sotto un albero. Incapace d'immaginare cosa poteva succedere durante le ore di oscurità, Imrhien cercò di rimanere sveglia, ma non riuscì a impedirsi di sonnecchiare a tratti. Nulla venne però a turbarla, tranne il sogno di un cavallo di un bianco argenteo, illuminato da un raggio di luce lunare; d'altro canto, la ragazza era consapevole di non sognare mai. Il giorno successivo e quello seguente trascorsero nello stesso modo. Tormentata dalla fame e dal desiderio di dormire, angosciata dalla preoccupazione per Sianadh, la ragazza continuò a camminare accanto a lui coi piedi che sanguinavano, senza quasi badare a quello che la circondava. Sembrava che non ci fosse speranza o alternativa: dovevano continuare sino allo sfinimento. O finché qualcosa non li avesse abbattuti. Gli jacaranda crescevano fitti nell'ombra, alla base dell'altura, e i loro petali creavano sul terreno un tappeto di un azzurro luminoso. I due vian-
danti seguirono le tortuose curve del fiume, che correva sotto sporgenze del terreno coperte di fiori e si gettava in limpide polle, oppure creava ciangottanti cascatelle nel superare qualche dislivello, scintillando come peltro nell'insinuarsi sotto volte di fogliame. Il bosco divenne sempre più fitto e misterioso, il cielo venne oscurato dal fogliame. Tutt'intorno si vedevano soltanto alberi dal fusto diritto, stretto o massiccio, che formavano macchie ora compatte ora rade. Al di là degli alberi, ancora altri alberi, una successione interminabile e fosca. Assonnata, Imrhien procedeva incespicando, dando il braccio al compagno perché vi si appoggiasse. All'approssimarsi del tramonto, un fragore di tuono si fece sempre più vicino. Da tempo quel rumore riecheggiava in lontananza, ma la ragazza era così sfinita da non essersene accorta. Ormai erano arrivati a ridosso della parete montana. Quando seguirono una svolta descritta dal fiume, gli alberi cessarono di colpo e la pallida luce del sole si riversò su di loro dal cielo aperto, insieme con un rombo sibilante che aggredì le loro orecchie, annunciando uno spettacolo incredibile. Pervasa di arcobaleni, con milioni di gocce d'acqua che sembravano fluttuare dalla sua vertiginosa altezza, una cascata si parò davanti a loro come una cortina argentea, il cui lembo inferiore si perdeva in una nube di spruzzi che ricopriva una polla rocciosa. Appoggiandosi al bastone, Sianadh scoppiò in una debole risata. «L'abbiamo trovata, chehrna. Ecco la miniera di sildron. Siamo arrivati alla Scala d'Acqua.» 5 LA SCALA D'ACQUA CANDELBURRO E RAGNATELE
Morbido intaglio di luce, scintillante come un brinoso giorno; armato di una stalattite... di un candore argenteo è il singolo corno. Specchiato in un lago boschivo, stranamente fugace, selvaggio sempre, visto di notte sotto il cielo limpido, mai vicino, fantasia infantile.
Leggende cantano i menestrelli, mai il dolore la tua razza ha sfiorato... Libero come l'aria, elusivo essere, con piede leggero il vento hai sconfitto. Strano e raro, perduto per gli umani; della luna più splendente; dalla tua criniera cadono diamanti. Bestia di brina, ma come l'amor calda... unicorno. LLEWELL, cantore di Auralonde Cortine d'acqua color giada si riversavano in un torrente di energia pura, avvolte in vapori tremolanti solcati da arcobaleni. Una caligine di gocce d'acqua era sospesa nell'aria, imperlava ogni foglia e stelo d'erba intorno alla polla, copriva capelli e ciglia, si raccoglieva sulla pelle in cristalli in miniatura. Il rombo costante sembrava premere sulla testa di Imrhien, le martellava nelle orecchie come il suono di una battaglia. Il bacino di roccia che accoglieva la cascata era annidato nel cuore di una valletta, i cui fianchi in dolce pendenza erano rivestiti di alberi alti e sottili. Intorno, però, non si vedevano tracce di una miniera, nessun segno di scavi o rilievi erbosi che indicassero residui di minerale estratto; oltre l'orlo del bacino, l'erba cresceva verde e uniforme tra gli alberi, punteggiata di fiori minuscoli. La fame deve aver fatto impazzire Sianadh, pensò la ragazza. Ma lui la condusse al centro dell'acqua tumultuosa, lungo uno scivoloso sentiero di pietra e dietro la curva possente dello schermo costituito dalla cascata. Là si apriva la verde cavità a volta di una grotta, il cui soffitto irregolare si perdeva nell'ombra. In fondo a essa si scorgeva il contorno di qualcosa che non era stato creato dalla natura. Se non fossero state pervase di un tenue bagliore, le porte sarebbero state a malapena visibili nell'umida penombra; invece spiccavano in tutta la loro altezza di quasi sessanta piedi: due battenti di metallo dorato inserite in un'arcata, splendidamente decorate e sigillate ermeticamente. Là dentro, in quell'ambiente intrappolato tra la pietra e l'acqua, il rombo della cascata era tale da assordarli. Senza neppure tentare di parlare, l'ertish guidò con cautela la ragazza lungo il pavimento scivoloso dell'imboccatura della grotta fino a un sentiero che si snodava dal lato opposto della
cascata; fuori, li accolse la luce pastello del giorno. Accasciatosi a sedere, su una pietra levigata dall'acqua accanto al bacino ribollente, che lui aveva già ribattezzato la «pentola del porridge», Sianadh trasse alcuni profondi respiri. «Lassù c'è una piccola galleria che porta alle miniere nascoste dietro quelle porte», gridò, indicando l'altura che si levava alle sue spalle. Una volta che ebbe ripreso fiato, i due tornarono indietro lungo la riva del fiume e, a poca distanza dalla cascata, verso valle, trovarono un luogo adatto per accamparsi, accanto a una polla tranquilla, bordata da antichi alberi le cui radici pendevano sull'acqua. Sianadh approfittò di quella pausa per spiegare: «Il tizio che aveva la mappa mi ha descritto le porte, e credo di poterle forzare. Le vecchie storie parlano di barriere magiche di questo tipo: esse non si aprono con una semplice chiave, ma solo se si pronuncia uno specifico verso in rima o si fornisce la risposta a un enigma. La spiegazione su come fare è scritta sulle porte stesse, per coloro che sono in grado di leggerla. Il mio amico che possedeva la mappa e i suoi compagni hanno scoperto questo posto per caso. Avevano con loro una scimmia addestrata e, non riuscendo ad aprire le porte, hanno scavato con alcuni bastoni, creando una piccola galleria nell'altura. La scimmia è sgusciata dentro e ha portato fuori blocchi su blocchi di sildron avvolto nell'andalum insieme con altri blocchi non protetti e che sono volati via. La galleria era troppo stretta per permettere il passaggio di un uomo, ma loro non avevano picconi o pale. Inoltre nelle pareti della galleria c'erano alcune pietre che non sono riusciti a smuovere per allargare il passaggio. Di conseguenza, si sono diretti a Gilvaris Tarv, per procurarsi l'equipaggiamento necessario, ma hanno avuto sfortuna. I compagni dell'uomo che ha disegnato la mappa sono stati sorpresi da creature unseelie, e lui stesso è riuscito a sfuggire per miracolo, soltanto per essere in seguito aggredito e derubato del sildron. Così è finito in quella cella, morente per una malattia portata dai ratti o forse per un avvelenamento causato dalla lingua delle culicide... Ed è stato là che l'ho trovato. A quanto pare, ha detto la verità, ma dovevo verificare coi miei occhi l'esistenza di questa miniera: mi serviva una prova della ricchezza che essa contiene per mettere insieme una spedizione segreta, un gruppo di gente fidata, e tornare qui a raccogliere il minerale. Su quella nave pirata non ho potuto portare con me una pala o un piccone e neppure una scimmia - quei furfanti se la sarebbero mangiata -, però se mi riuscirà di forzare quelle porte non avremo bisogno di altro. Dopotutto, le porte sono fatte per essere aperte, quindi un modo ci deve essere». Si grattò il mento. «Per tutti i fuochi, quello sì che è un portone! Battenti del genere
devono essere stati fabbricati da grandi maestri della magia!» Quella notte Imrhien non riuscì più a tenere a bada il sonno, che la avviluppò con le sue nere acque e non le permise di riemergere fino a mezzogiorno. Al risveglio, credette di essere finalmente riuscita a sognare, perché davanti a lei, sotto gli alberi, era stato approntato un vero e proprio banchetto. Masticando rumorosamente, con la barba sporca e gocciolante, il suo compagno le gettò in grembo una sfera rosata. «Dateci dentro, vostra signoria», la incitò. «Ce ne sono in abbondanza, dove ho preso quello... Alberi e piante carichi di frutti, dei colori e dei sapori più diversi. Un vero e proprio banchetto. Sono le piante più strane che abbia mai visto, però mi sto ingozzando come un maiale e non ho ancora avvertito effetti sgradevoli... per ora», aggiunse, ricordando d'un tratto i pasti consumati sulla nave pirata. Il frutto rosato aveva il sapore dolce dei lamponi maturi, mentre un altro frutto dalla scorza spessa rammentava la consistenza e il gusto del pane appena sfornato. Nell'arco di breve tempo, un mucchio sostanzioso di noccioli e di scorze si formò accanto al luogo di quel pasto improvvisato. Più tardi, Imrhien si arrampicò per un breve tratto lungo l'altura coperta di vegetazione e trovò con facilità l'ingresso della galleria. Era un passaggio buio e angusto nella parete di pietra e di argilla. I suoi fianchi erano abbastanza stretti da permetterle d'insinuarvisi, ma quell'apertura così angusta, l'assenza totale di luce e l'ignoranza di cosa ci fosse dall'altra parte erano prospettive troppo spaventose da contemplare. Un lungo ramo inserito nella galleria non incontrò nulla. Ridiscesa l'altura, Imrhien trovò Sianadh seduto sul pavimento roccioso della grotta, dietro la cascata, con la testa arruffata inclinata all'indietro, intento a studiare con attenzione le porte. Una splendida aquila, con un'apertura alare di oltre sette piedi, dominava la volta direttamente al di sopra del punto in cui s'incontravano i due battenti. Orgogliosa e regale, aveva occhi scintillanti e ogni singola piuma era intagliata con precisione; il resto dell'arcata era decorato con immagini di uccelli e di animali di ogni genere, ciascuno raffigurato con accuratezza e maestria. Quanto ai battenti, erano incorniciati da un intreccio di foglie e recavano estese iscrizioni runiche, che Sianadh stava cercando di decifrare. «Sono certo che la chiave è racchiusa in queste rune», gridò l'ertish, sovrastando il fragore del torrente. «Ci deve essere qualche trucco o una parola d'ordine per aprire i battenti. Propongo di rimanere alla Scala d'Acqua per tutto il tempo che servirà a scoprire la chiave.»
Nell'udire quelle parole, la sua compagna si sentì assalire da una strana sensazione, una sorta di gelo improvviso che la indusse a correre fuori della grotta, sotto il sole. Ci vollero parecchi minuti perché quel malessere passasse e, quando fece ritorno nella grotta, scoprì che Sianadh era ancora intento a fissare le porte. Non si era neppure accorto della sua assenza. «Quelle scritte non sono in ertish e neppure in comune feorh», gridò. «Se per questo, non sono in nessuna lingua che io conosca. Deve trattarsi di una lingua antica, forse quella da cui derivano i linguaggi che parliamo oggi. Credo di avere buone probabilità di decifrarla, perché sono abbastanza istruito. A quel punto apriremo le porte, tireremo fuori tutto quello che potremo trasportare e torneremo in città. Là venderemo il nostro carico, ci compreremo begli abiti eleganti e torneremo qui con mio nipote Liam e i suoi compagni più fidati, per estrarre il resto del minerale.» La città. Laggiù la gente l'avrebbe fissata e ingiuriata, considerandola deforme, ma quello era anche il luogo in cui risiedevano tutte le sue speranze... Forse vi avrebbe trovato una cura per la sua pelle, o forse avrebbe incontrato altre persone dai capelli biondi... parenti, gente in grado di darle un nome. La ragazza andò a raccogliere del cibo fresco, perché quei frutti sconosciuti, una volta colti, duravano soltanto mezza giornata prima di appassire. D'altro canto erano deliziosi, e lei li desiderava con un'avidità che non aveva mai conosciuto, come se per la prima volta avesse assaggiato qualcosa di veramente nutriente, un cibo che destava nei suoi arti una vibrante energia, che penetrava in lei fino alla radice dei capelli. La cosa più vicina a quelle prelibatezze che le fosse mai capitato di assaggiare era stato il frutto della passione mangiato vicino al mulino infestato dal fuath. Quando ebbe finito di raccogliere le provviste, si sentì attirare dal suono della cascata e tornò a contemplarla, piena di meraviglia per la sua forza e bellezza. «Scala d'Acqua», così Sianadh aveva chiamato quel posto... un nome decifrato da uno scarabocchio appena leggibile sulla mappa. Osservando la cascata, Imrhien notò che, sopra di essa, la parete continuava e su un'altura, al di sopra della cataratta, lunghi fili d'acqua scintillavano come l'argento che decorava l'abito di Lady Persefonae, formando quella che sembrava proprio una scala dai molti gradini. Forse lassù c'era un altro ingresso, dietro la cascata superiore o accanto a essa. Pur essendo ancora scalza e coi piedi doloranti, si sentì, pungolare dalla curiosità e si disse che quelle alture piene di crepe e coperte di viticci non dovevano essere difficili da scalare, che valeva la pena esplorarle. Trovato un appiglio, iniziò l'a-
scesa. Sulla sommità dell'altura, tra le cime degli alberi toccate dal sole che costellavano la valle sottostante, si godeva di un panorama sconfinato. A est, le colline si allontanavano per miglia, perdendosi nell'orizzonte caliginoso, mentre a ovest la scura massa della foresta di pini si stendeva cupa, tinta di violetto dalla distanza. In alto, si apriva invece la vista del cielo. A seimila piedi, le nubi che i Cavalieri della Tempesta definivano «altocumuli» si snodavano in verticale come torri aeree e, al di sopra di quel panorama di candidi castelli, cirri fibrosi solcavano il cielo disegnando sottili filamenti, mentre più in basso correnti di aria calda strappavano alle nubi cristalli di ghiaccio. Alle spalle di Imrhien non c'era però nessun panorama, perché la vista era bloccata da un'alta parete di terriccio e di pietra, drappeggiata di vegetazione. Quello era il secondo gradino, alto quasi quanto il primo, e il fiume si riversava in maniera vertiginosa su di esso nel discendere dalla vetta del Crowsteeple. Ai piedi di quella cascata superiore si apriva una lunga polla, raccolta in un bacino di granito dalle pareti verticali, senza traccia di sentieri che passassero dietro la cortina d'acqua. Una splendida massa di rampicanti ricopriva però la parete di roccia, arricchita da grappoli di purpurei fiori profumati e, nel raccoglierli a manciate, Imrhien scoprì che, dietro quella cascata di vegetazione, c'era un'apertura. Non era davvero un pertugio buio come la galleria della scimmietta, bensì un alto passaggio tagliato nella roccia e rischiarato dalla fosforescenza dei funghi che vi crescevano. Nel seguire la curva descritta dal corridoio, poi, Imrhien udì un rumore sempre più forte di applausi, tanto da convincersi di essere diretta verso una sala piena di migliaia di mani che battevano. Ma quel suono era generato soltanto dall'acqua che cadeva. Aggirata l'ultima curva, la ragazza passò accanto a un piedistallo di pietra e infine si venne a trovare davanti a una vera folla. Come pietrificata, si guardò intorno a bocca aperta. Immoti come massi, essi ricambiarono il suo sguardo. Il condotto sfociava in un'ariosa caverna dall'alta volta, che si apriva nella roccia al di sopra delle cascate. Grazie a qualche apertura di ventilazione, la luce penetrava nella grotta in lunghi cristalli e schegge dorate, illuminando gli occupanti... una moltitudine di volti e di forme che avrebbero potuto essere la fonte dell'applauso. Figure di pietra.
Una metà di quella folla era scolpita nell'ossidiana, nerissima e lucida, mentre l'altra metà riluceva di un candore assoluto, simile a quello della neve. Tutte le sagome erano a grandezza naturale ed erano realistiche, perché scolpite con meravigliosa precisione. Re e Regine, cavalieri in armatura, Maghi dall'alto cappello e ogni sorta di soldati - armati d'ascia, di lancia, di picca e di spada - erano disposti in mezzo a quattro torri merlate alte solo dieci piedi. Quelle torri, su cui erano appollaiati uccelli di pietra, erano posizionate agli angoli di un palcoscenico montato in quarzo, una piattaforma costituita da un'alternanza di quadrati di marmo nero e di onice bianco, perfettamente intarsiati. Sottili giochi di ombre e di luci conferivano a quelle statue, disposte sotto il velo della cascata, una falsa impressione di movimento. Dopo alcuni lunghi istanti, Imrhien si avvicinò e prese ad aggirarsi con cautela in mezzo alle statue, tesa come una molla, pronta a darsi alla fuga al primo segno di attività unseelie. Quelle figure, stranamente attraenti, emanavano un'indescrivibile aura di diversità, proprio come i movimenti rapidi e improvvisi dei volatili, la respirazione dei pesci e la capacità di orientamento degli uccelli migratori sono estranei alla razza umana e tuttavia più vicini alle forze elementari del mondo. Erano perfette in ogni dettaglio e, per quanto fossero avviluppate da un'aura invisibile, da una qualità invisibile che parlava di un tempo immemorabile, non mostravano tracce di erosione, non erano levigate dall'acqua, scheggiate, macchiate o coperte di vegetazione. Toccarle era come toccare fredda seta, tanto lucida e perfetta era la loro superficie. I capelli, le punte degli speroni, i lacci di cuoio delle cinture delle spade, ogni anello delle cotte di maglia, le decorazioni del fodero dei due Re, le calotte ingioiellate che coprivano il capo alle due Regine e i veli che ricadevano loro lungo la schiena, trasparenti come acqua... Ogni particolare era così perfetto e reale che, se non fosse stato per la loro immobilità, quelle figure non si sarebbero dette scolpite nella pietra, ma congelate nella morte. In quella cavità di roccia non c'erano porte gigantesche, bensì ciottoli scintillanti, simili a quarzo, che costellavano le pareti e, vicino all'arcata di accesso al passaggio da cui Imrhien era giunta, si levava un piedistallo che aveva la forma di un salmone. Sulla testa, il pesce recava un giglio acquatico, sulla cui corolla aperta erano disposti tre guanti sinistri, spaiati eppure perfetti, proprio come le statue. Intricate sequenze di rune correvano sulle sovrapposte giunture di metallo di ogni dito, le scaglie dei polsini brillava-
no come se fossero state appena oliate. Tuttavia, in contrasto con l'abilità con cui erano stati modellati, quei guanti erano stati realizzati in metalli di poco pregio: rame rosso, azzurro andalum e giallo talium. Imrhien raccolse il guanto di rame, rigirandolo tra le mani con l'intenzione di portarlo a Sianadh perché lo vedesse, ma un'occhiata in tralice lanciata a quella secolare folla di pietra la indusse a ripensarci. Rimesso al suo posto il freddo oggetto di metallo, lasciò la caverna. Io guardo. Io vedo. Cosa? Quei segni, tra i pochi da lei appresi, erano quelli che più si avvicinavano a trasmettere il messaggio che stava cercando di comunicare, però erano tutt'altro che soddisfacenti. «Chehrna, giuro che la mia prossima fatica, dopo aver aperto queste porte, sarà quella d'insegnarti ogni parola che conosco del linguaggio dei segni. Che ti prende? Cos'hai trovato?» Aiutandosi con alcuni disegni tracciati sul terreno e con una quantità di gesti stravaganti, la ragazza riuscì infine a descrivere quello che aveva visto sulla sommità dell'altura. «Re e Regine?» ripeté Sianadh, illuminandosi in volto. «Grosse statue su una scacchiera? Di cosa erano fatte... oro e gemme? Devo salire lassù a vedere...» La sua compagna scosse il capo, intendendo che non c'erano né oro né gemme, e per ricordargli che lui, con una costola incrinata, non poteva rischiare di arrampicarsi. Ma Sianadh giunse da sé a quella conclusione quando, con un ruggito di agonia, fu costretto a rinunciare al suo tentativo dopo essersi inerpicato per appena un paio di iarde. Imrhien tracciò allora un gesto, indicante porte che si aprivano e, con sua sorpresa, Sianadh comprese. «Ma certo, ragazza. Stai dicendo che lassù ci potrebbe essere un'altra entrata... porte nascoste nelle pareti, pronte ad aprirsi per chi muova quei pezzi degli scacchi nel modo giusto. Certo, è così! Credo sia una prova per determinare quanto siano degni coloro che cercano di aprire le porte di accesso al tesoro, perché solo gli astuti meritano il successo. Vincere la partita deve essere la soluzione. È possibile muovere quei pezzi?» Pensando che le statue erano troppo pesanti, Imrhien scosse il capo, ma poi si ricordò dei guanti e cominciò a riflettere. Le statue si muoveranno se sono incitate da una mano infilata in uno di quei guanti. Ecco l'ovvia soluzione! decise. Ma poi, frustrata, incapace di spiegarsi, pestò a terra un pie-
de in un'insolita manifestazione d'ira e rivolse a Sianadh un eloquente appello con lo sguardo. Con gentilezza, lui le prese il mento con una mano. «Hai la mia parola... T'insegnerò a parlare, ma prima voglio insegnarti a giocare a Re-e-Regine. È una fortuna che tu abbia davanti a te il miglior giocatore di tutta la Finvarna, una ricca terra famosa per il talento dei suoi abitanti nel gioco della Battaglia Reale... Possa un giorno, prima di morire, calpestare ancora il suo verde suolo, e possa io morire annegando in una botte di Lochair Best. Non sono mai stato sconfitto. Se porteremo quei pezzi in una posizione di scacco matto, è possibile che qualche meccanismo nascosto faccia aprire una porta nel fianco della collina. Allora noi saremo ricchi al di là dei nostri sogni più fantastici! Non posso parlare per te, ma ti garantisco che i miei sogni sono davvero fantastici.» Preso un pezzo di argilla color ocra, Sianadh se ne servì per disegnare una scacchiera su una roccia piatta, vicino al fiume, usando pezzi di legno e ciottoli al posto delle pedine. «Questa è una situazione di scacco matto», spiegò, disponendo i pezzi nella posizione richiesta. «I pezzi di legno hanno catturato il Re dei sassi.» Come? «Non hai bisogno di sapere come si sia arrivati a questo. Devi solo muovere i pezzi di ciascun esercito fino alla posizione che vedi qui. Memorizzala. Dovrebbe essere sufficiente.» No. «Ma lassù, sull'altura, non hai nessun avversario. Non puoi giocare a Ree-Regine da sola...» Sì. «Sì, cosa?» Esasperato, l'ertish arrossì fino alle orecchie. «Mi stai dicendo che hai un avversario, lassù?» Sì, disse Imrhien. La sua supposizione era dettata dall'intuito. Su quei pezzi è stato gettato un potente incantesimo, Non sarà facile avere successo. Sianadh esalò un profondo sospiro e levò gli occhi al cielo. «Lo scopo del gioco è catturare il Re dell'avversario prima che lui catturi il tuo...» Trascorsero le ore. Immersi nelle strategie di gioco, nella verde ombra della radura, i due compagni non si accorsero del rapido fluire del tempo, silenzioso come un cavallo argenteo dagli zoccoli leggeri. Il sopraggiungere improvviso della notte li costrinse infine a riposare. Il giorno successivo, Imrhien scalò l'altura e raggiunse la grotta con le figure di pietra. L'applauso generato dalla cascata sembrava più tenue, at-
tutito come un vento che soffiava attraverso boschi lontani. Il perché di quel cambiamento rimaneva un mistero. Era come se qualcosa avesse attirato l'attenzione dell'acqua che, dopo essersi catapultata con noncuranza per secoli lungo l'altura, aveva ora focalizzato la propria consapevolezza su quanto la circondava... Pareva quasi che la Scala d'Acqua stesse trattenendo il respiro, in attesa. Con timidezza, Imrhien si avvicinò al piedistallo a forma di pesce e raccolse il guanto di talium, freddo e quasi viscido. Esso le scivolò sulla mano snella come un guscio che avviluppasse una pallida e vulnerabile creatura marina; tutt'intorno i pezzi rimasero a guardare coi loro occhi di pietra. La ragazza si aspettava di veder succedere da un momento all'altro qualcosa di sconvolgente. E se quella folla avesse preso vita, facendola a pezzi con le spade e trapassandola con le lance? E se la parete della caverna si fosse aperta e una mano spettrale fosse avanzata, afferrandola per divorarla? E se la volta fosse crollata, seppellendola per sempre nel buio, con le statue che le si accalcavano intorno, schiacciandola sino a soffocarla? Armandosi di coraggio, quasi fosse stato una spada, avanzò sulla scacchiera fino a un soldato in cotta di maglia bianca che, con la lancia in pugno, era a guardia della Regina di alabastro. Il volto dell'alfiere era nascosto dalla visiera dell'elmo e, alle sue spalle, l'alta e orgogliosa Regina candida teneva lo sguardo fisso davanti a sé, contemplando un remoto castello di nuvole. L'impulso di chiedere comprensione, se non addirittura misericordia, crebbe dentro di lei, ma alla fine Imrhien si limitò a inchinarsi e, servendosi della mano sinistra coperta dal guanto, spinse la schiena del fante a guardia della Regina. Immediatamente, una fenditura si aprì davanti a esso con un lieve scricchiolio di pietra contro pietra, un rumore appena udibile al di sopra del mormorio della cascata. La statua si mosse in avanti con un sommesso ronzio di meccanismi, arrestandosi nel quadrato successivo; dietro di essa, la fenditura si richiuse con uno scatto secco. Reagendo prontamente, Imrhien si era lanciata verso un lato della caverna da dove, addossata alla parete, fissò con occhi sgranati le diverse pedine. Dopo una pausa, si udì un altro scricchiolio e il fante della Regina nera rispose alla mossa del fante bianco. A guardarli, si aveva quasi l'impressione che, nella nuova posizione, i due soldati si stessero fissando con occhi di fuoco, brandendo le armi come se intendessero sollevarle e colpire, generando nella caverna il clangore della battaglia. Se feriti, avrebbero versato rispettivamente latte e inchiostro?
Imrhien si tenne pronta a fuggire. I guerrieri rimasero però immobili, senza accennare mosse ulteriori. Dopo alcuni minuti, la ragazza si fece avanti e spinse un altro soldato, continuando così l'aggressione iniziata. L'aggressione delle truppe del ghiaccio contro quelle della notte. Quel pomeriggio, Imrhien raggiunse l'ertish nella luce crepuscolare della Grotta delle Porte. Davanti a essa, la cascata inferiore scrosciava, fragorosa; se la si fissava troppo a lungo, si aveva l'impressione di precipitare verso l'alto. Nel contemplarla con aria cupa, Imrhien incespicò e si sostenne alla parete, ferendosi un gomito. «E così hai perso la partita», gridò Sianadh, sovrastando il clamore. La ragazza annuì, tetra. L'esercito nero aveva sconfitto quello bianco. Alla fine della partita, i contendenti erano tornati alle posizioni originali e il guanto utilizzato si era corroso completamente, trasformandosi in una pioggia di scaglie nerastre. Inorridita, la ragazza lo aveva gettato lontano mentre ancora si stava disgregando. Con espressione irritata, Sianadh esaminò un'ultima volta le rune incise sulle porte, poi i due lasciarono la caverna e sedettero sotto l'ombra delle piante, sulla riva del fiume. Intorno, le felci si protendevano sull'acqua e, nelle limpide profondità fluviali, si scorgevano le lunghe foglie delle alghe che si stendevano e oscillavano languidamente secondo il moto della corrente, mentre il fiume generava mulinelli intorno a rami caduti, gorgogliava sulle rocce e cantava a se stesso. «Non importa, non importa», borbottò Sianadh, parlando quasi tra sé. «Credo di aver risolto buona parte di questo enigma. I simboli su quelle grandi porte somigliano a quelli ertish, e le parole che ho decifrato hanno significati a me noti o facili da intuire. Tuttavia non ne so ancora abbastanza da dare un senso al tutto. Vedi cosa riesci a capirci tu... Si parla di una 'veste sobria' e di un 'levarsi'. Poi ci sono segni che parlano dei 'Casati dei campioni' e qualche altra cosa che riguarda la 'forza' e il 'canto melodioso', oltre a una quantità di riferimenti all''acqua'. Riesci a trovare un nesso?... No?» Sospirò con aria pensosa. «Sotto questo enigma è inciso un gruppo di ventinove rune che non formano nessuna parola. Purtroppo mi servono altri indizi, ma non intendo arrendermi e m'impegnerò ancora di più per uscire da questa situazione di stallo. Adesso esercitiamoci nella Battaglia Reale con le nostre pedine di legno e di pietra; così forse tu riuscirai a vincere la partita prima che io abbia risolto il mio enigma. Ricorda: posiziona
strategicamente i pezzi e poi colpisci. Quando riuscirai a combattere usando tattiche astute quasi quanto le mie, potrai risalire di nuovo la Scala d'Acqua.» Imrhien salì di nuovo la Scala d'Acqua e stavolta scelse il guanto azzurro, quello di andalum. Notte contro il giorno, ombra contro la luce, gli eserciti intagliati impegnarono la loro battaglia che risaliva a epoche antiche e che costituiva anche una danza... Una parte era l'ombra dell'altra, e l'altra il riflesso della prima, come forse accadeva con veri avversari in carne e ossa. Anche in quel secondo conflitto, però, il guanto di andalum fallì il suo scopo e, come quello di talium, si disgregò rapidamente dopo la sconfitta, riducendosi in polvere, mentre le pedine bianche e quelle nere tornavano alla posizione originaria con un sommesso ronzio. Cosa sarebbe successo se lo sfidante avesse perso anche la terza partita? L'ultimo guanto si sarebbe semplicemente sgretolato, privando di qualsiasi opportunità altri audaci che fossero giunti là in futuro? Forse l'accesso al corridoio nella roccia sarebbe stato interdetto al perdente, rimanendo però aperto ad altri sfidanti, e altri tre guanti si sarebbero arrampicati su per il piedistallo a forma di pesce, camminando sulle dita e adagiandosi poi su di esso come armadilli in attesa. Forse un'improvvisa frana di rocce avrebbe schiacciato lo sfidante sconfitto, come punizione per la sua mancanza di astuzia e per la temerarietà dimostrata nello sfidare gli ingegnosi creatori di quelle statue. «Ti rimane una possibilità», commentò Sianadh, pensoso. «Yan, tan, tethera. Dicono che la terza volta sia quella fortunata.» Per tre giorni, giocarono a Re-e-Regine, un'ora dopo l'altra, e di notte fu piacevole per Imrhien scivolare in un sonno senza sogni, dove non c'erano guerrieri luminosi e oscuri che si uccidevano a vicenda in un balletto di silenziosa, civile, simbolica guerra. L'alba riversava sulle cime degli alberi una luce ancora fioca. «Che ogni fortuna ti accompagni, Imrhien. Se stavolta non vincerai, non te lo perdonerò mai!» La voce possente dell'ertish, prova tangibile che i suoi polmoni erano illesi, all'interno della cassa toracica danneggiata, arrivò fino alla sommità dell'altura. Rispondendo con un cenno, Imrhien trasse indietro la cortina di viticci e sgusciò dentro il passaggio nella roccia, impaziente eppure timorosa d'iniziare quell'ultimo tentativo. Stavolta, comanderò l'esercito nero. Il guanto le scivolò con facilità sul-
la mano. Guanto rosso, coi miei neri guerrieri vincerò. Sollevando il capo, la ragazza indugiò a contemplare le truppe nere. Come sempre, esse tenevano lo sguardo fisso davanti a loro, con aria cupa... o, per meglio dire, si poteva supporre che i cavalieri, il cui volto era nascosto dall'elmo, stessero fissando un punto lontano. Fredda, eburnea signora nera, Regina guerriera della notte, va' in battaglia con tutta la tua furia. Che l'ombra eclissi la luce. Sembrava quasi che ci fosse qualcosa d'inevitabile, in quell'ultimo tentativo. La terza volta è quella fortunata... Imrhien spinse il lanciere del Mago della Regina. La partita, lenta e ponderata, si prolungò per tutta la mattina e il pomeriggio, continuando anche dopo il calar della sera. Imrhien rifletteva su ogni singola mossa, ne vagliava sino infondo ogni possibile conseguenza e vantaggio, sostentandosi nel frattempo con l'acqua del fiume, coi frutti dei viticci e coi pensieri di speranza su Sianadh e sui suoi ottimistici progetti. Lungo le pareti della Grotta delle Statue, la luminosità dei cristalli simili a quarzo e dei funghi fosforescenti andò aumentando, mentre all'esterno la notte stendeva su ogni cosa il suo velo sottile. La ragazza interpretò quel fenomeno come un presagio fausto, pur sapendo che, anche a quel punto, la vittoria poteva ancora sfuggirle. La notte si trascinò, lenta, e il confronto proseguì nell'oscurità, senza che Imrhien si concedesse di chiudere occhio, benché l'erba fosse morbida e invitante e il calore estivo intenso. Sedette a gambe incrociate, lo sguardo assorto che celava la visione interiore di un migliaio di diversi scenari, di migliaia di piani di battaglia. La Regina bianca si stava dimostrando un'astuta avversaria, il che era logico, considerato che l'inverno era veterano d'innumerevoli battaglie. I prigionieri di guerra giacevano lungo i contorni della scacchiera, rivelando i meccanismi rotanti che li avevano collegati al congegno nascosto che animava la scacchiera e che probabilmente sarebbe tornato a farlo. L'alba trovò Imrhien e il suo battaglione nero in seria difficoltà, impegnati a difendersi da un brutale assalto delle schiere bianche. Ormai la notte si stava ritirando, all'esterno come nella grotta, e l'inverno stava serrando la propria morsa intorno all'alto Re oscuro, minacciando di congelarlo. Una luce smorzata diffuse nella caverna un chiarore ambrato, simile a quello dello zafferano. Imrhien si sentiva girare la testa per la stanchezza. Poi, all'improvviso, il Re nero perse la sua compagna: la Regina della
notte era stata presa, e lui era rimasto privo di difese, minacciato su tutti i fronti e senza un luogo in cui fuggire. Sul campo di battaglia era scesa la notte. Per l'alto monarca oscuro si profilava la sconfitta. Le spalle rigide, il cuoio capelluto che le formicolava per la tensione, Imrhien rimase in attesa del colpo finale, di una catastrofe che si abbattesse sullo sfidante sconfitto, ma i pezzi della scacchiera rimasero immobili, senza cambiare espressione. Nessun sorriso di trionfo affiorò sui volti pallidi, le lucide fronti scure non si accigliarono per la disperazione. La snella Regina candida e i suoi cavalieri continuarono a tenere prigioniero il Re oscuro. E non accadde nulla. Poi il guanto rosso, quello di rame, cominciò a dissolversi sulla mano di Imrhien, che lo gettò a terra in preda a sollievo misto a stanchezza, avvilimento ed esasperazione. La terza volta non è stata fortunata. Fuggita dalla caverna, si gettò, prona, sullo spiazzo erboso antistante a essa. Che stolta ambizione aveva nutrito, com'era stata presuntuosa! Lei, una principiante, aveva sperato di sconfiggere la saggezza dei secoli? Doveva allontanarsi da quel posto e Sianadh doveva rassegnarsi a dimenticare i suoi stolti sogni, perché l'idea di una ricchezza guadagnata con facilità era soltanto un'illusione da stolti e la realtà significava essere poveri, brutti e senza casa. Sotto quell'altura, sotto il terreno stesso su cui era sdraiata, non esistevano altro che terra, fredda pietra, vermi ciechi e cavità buie di una profondità incalcolabile. Rotolando su se stessa, si distese sulla schiena, chiamando a raccolta le forze necessarie per scendere dall'altura e affrontare Sianadh. Sopra di lei, nell'azzurro cupo del cielo della sera, le prime stelle cominciavano a fare capolino, alcune più scintillanti delle altre, e la loro vista impresse un corso nuovo ai suoi pensieri. Sianadh aveva detto di poter vedere proprio quelle stelle nella sua terra. Quali costellazioni si formavano lassù, nei campi fioriti del cielo, e come si chiamavano? Un particolare gruppo di stelle spiccava, nitido: erano punti bianchi così luminosi da abbagliare quanto il riflesso del sole sull'acqua. Imrhien le contò. Yan, tan, tethera volte tethera. Quelle stelle ardevano di un'incandescente fiamma tra il bianco e l'argento, diversa dalle più tenui scintille color granato o topazio che si trovavano nelle vicinanze. Perfino la loro posizione sembrava avere un senso. Unendole con una linea ideale, si formavano una curva e poi una punta... D'un tratto, Imrhien si rese conto della netta somiglianza tra le pietre
scintillanti sparse sulle pareti della caverna e le formazioni di stelle nel cielo. E quelle stelle così brillanti... Cosa le aveva detto una volta l'ertish, al loro riguardo? Si alzò, rientrando di corsa nella grotta. Nulla era cambiato. I pezzi caduti giacevano là dov'erano crollati e le statue ancora in piedi incombevano grigie nella luce sempre più fioca. Protendendosi, Imrhien toccò le gemme che scintillavano sulla parete, l'una dopo l'altra: la punta di un becco, una testa, un occhio... La sua mano si spostò quindi lungo un collo aggraziato e verso la curva di un'ala. Le nove gemme splendevano come fuoco bianco intrappolato in globi d'acqua, e lei le sfiorò, trovando conferma del fatto che corrispondevano alla costellazione che pulsava nel cielo, quella del Cigno. Sotto il suo tocco, le parve che ciascuna gemma rientrasse leggermente nel suo alveolo per poi tornare in fuori di scatto: evidentemente c'era un motivo preciso per cui erano state disposte in quel modo. Quella, quella era la chiave giusta. Possibile che la soluzione fosse davvero così semplice? Si era aspettata il sonoro scricchiolio di pietra che seguì, ma a sorprenderla fu la sua fonte: la scacchiera tassellata in bianco e nero si era divisa in due, aprendosi. Con un balzo, Imrhien si ritrasse, portandosi a distanza di sicurezza, poi rimase a guardare mentre la fenditura si allargava sempre di più, rivelando un'ampia scala a spirale che scendeva nel sottosuolo. Un ingresso... Ma dove conduceva? Al nascondiglio di un tesoro oppure a qualche antica segreta, da tempo dimora di mostri o di creature unseelie? Il cuore prese a martellarle così forte da cancellare qualsiasi altro rumore. Sianadh... Doveva andare a chiamarlo, perché non si poteva avventurare là sotto da sola, non poteva addentrarsi in quella cavità buia, di pietra gelida, dimora di vermi ciechi. Incerta, rimase immobile, riluttante ad abbandonare ciò che aveva scoperto a prezzo di tanta fatica e che poteva svanire se solo avesse distolto lo sguardo... Nell'oscurità sotterranea, le pareti della scala a spirale brillavano di una tenue luce, anche se non erano tempestate degli stessi funghi fosforescenti che rischiaravano il passaggio di accesso. No, quella era una calda luce dorata, dello stesso colore assunto in autunno dalle foglie dei pioppi, e proveniva dal basso. Senza dubbio laggiù si annida qualcosa, per generare un tale chiarore! La luce non aveva nulla di spettrale. Sembrava piuttosto possedere una qualità benevola, come il bagliore di una lampada posta di notte a una fi-
nestra, ma non altrettanto comune. Come il riflesso di una candela sull'oro grezzo, essa era pericolosa a desiderarsi; come il fievole chiarore di un tramonto autunnale o di una mattina d'inverno, era piena di promesse. Sianadh non era in condizione di arrampicarsi lassù, quindi non poteva aiutarla. Doveva dunque tornare da lui e confessare la propria vigliaccheria, dopo tutto il coraggio da lui dimostrato? Dopo che lui aveva rischiato più di una volta la vita per salvarla, poteva lei esimersi dal fare lo stesso per perseguire la realizzazione del suo sogno? Con improvvisa audacia, Imrhien s'inchinò alle statuette fatte di luce lunare e a quelle modellate d'ombra. Poi, prima di avere il tempo di cambiare idea, si lanciò lungo la scala. Laggiù, dove il sole non splendeva mai, regnava un gelo che penetrava fino alle ossa, il freddo intenso della pietra che non era mai stata riscaldata dal tocco dell'astro diurno. Tuttavia, sebbene il fiume scorresse da qualche parte, poco più in alto, non c'era traccia di umidità; l'acqua non colava lungo le pareti, l'aria non era pesante né odorava di muffa. Non c'era neppure quel sentore proprio di un sotterraneo chiuso da secoli, generato da pietra, terriccio, radici e pallide creature dal corpo molle che rifuggivano la luce... L'aria era fresca e dolce come quella che si respirava all'aperto, intrisa del profumo dei fiori e delle foglie e della freschezza propria dei cieli limpidi. Chi aveva progettato il sistema dei condotti di ventilazione, chiunque fosse, aveva ottenuto risultati incredibili, e di certo aveva realizzato un'opera destinata a durare. Gli ingegneri che avevano creato quella struttura sotterranea dovevano essere stati veri maestri nella loro arte. Pur intendendosi ben poco di miniere, Imrhien ne capiva abbastanza da comprendere che quel posto non era affatto una miniera, anche se non aveva idea di cosa ci fosse ai piedi della lunga scala a spirale, immersa in quel fioco chiarore dorato. Le riusciva difficile valutare quanto fosse scesa, e si stava già chiedendo se quella scala a spirare non sprofondasse all'infinito nelle profondità sotterranee, quando un'arcata le si aprì davanti, e lei sentì, la pelle formicolarle, come per il sopraggiungere di una tempesta magica. Superati d'un balzo gli ultimi gradini, oltrepassò l'apertura, e si trovò a contemplare una gloria offuscata ma ancora sconvolgente. L'arcata dava accesso a una galleria, che si trovava a metà della parete di un'immensa camera dall'alta volta. Sul pavimento, migliaia di forme sconcertanti, accatastate in grossi mucchi che si stendevano a perdita d'occhio, emanavano un debole bagliore. Era quelle la fonte del chiarore dorato. Di
scatto, Imrhien infilò una mano in tasca. La presenza rassicurante del quadrifoglio appassito le confermò che quella non era un'illusione magica. La scala proseguiva, seguendo il contorno della parete interna, e Imrhien la scese lentamente, senza quasi respirare, coi capelli che crepitavano e si rizzavano come se stesse procedendo sott'acqua, e con lo sguardo che accarezzava quel tesoro, quella ricchezza incalcolabile messa a nudo da quel chiarore sotterraneo. Tutt'intorno al tesoro pulsava una forza soprannaturale, simile a quella congiunta delle tempeste magiche e delle tempeste naturali, pericolosamente esaltante, un'energia invisibile che già si andava dissipando lungo la scala, come se stesse fuggendo attraverso quella nuova apertura. Perse del tutto la nozione del tempo e neppure in seguito riuscì a rammentare quanto a lungo si fosse aggirata in mezzo a simili tesori, come se quello fosse il prezzo da pagare per poterli vedere. A ogni svolta, un nuovo oggetto meraviglioso attirava la sua attenzione: coppe d'oro e piatti adorni di gemme, candelabri dorati, zuppiere, salsiere in oro battuto dalla forma di leoni - la cui coda inarcata sul dorso adornava il manico -, ogni sorta di stoviglie, sedie intagliate e intarsiate con avorio, oro o filo d'argento, forzieri dai ricchi intagli pieni di gemme, di fili di perle, di bracciali, di anelli, di collane, di cammei montati in oro, di catene di elegante fattura e di cinture intarsiate di gemme, di cotte di maglia, di guanti, di elmi, di schinieri e di corazze decorate da intarsi in oro e argento. C'era poi un vero e proprio arsenale di armi fatte di un metallo ignoto, tutte affilatissime: spade intarsiate, con l'impugnatura e l'elsa elaboratamente decorate, foderi di metallo prezioso adorni di gemme, asce, alabarde, gladi, lance, picche, giavellotti e daghe dal pomo formato da gemme. C'erano anche alcuni oggetti tanto strani da rendere impossibile intuirne la funzione, e tutti possedevano la stessa caratteristica delle statue della scacchiera, cioè una bellezza soprannaturale che non poteva essere stata modellata da mano umana. E tutti apparivano intatti e liberi dalla polvere, come se in quel luogo il Signore del Tempo non avesse potere. C'erano poi indumenti, ripiegati dentro numerose cassapanche. E quando cominciò a battere i denti, Imrhien si rese conto del freddo intenso di quel luogo, un gelo che le penetrava nelle ossa come veleno. Allora indossò una camicia senza maniche fatta di una stoffa grigia leggera, un indumento che sembrava di taglia abbastanza ridotta da andarle bene. Subito dopo, si sentì assalire dal panico al pensiero di non essere più in grado di rintracciare la scala, e si guardò freneticamente intorno. Nel corso di quella ricerca, tutta-
via, il suo sguardo si posò sulla parete più vicina, nella quale era incastonata una porta dai battenti alti quasi due iarde. Avvicinatasi a essa, protese una mano. Bastò un tocco lieve perché i battenti si spalancassero verso l'esterno. Al di là di essi si apriva una caverna ancora più grande, così vasta che il soffitto e le pareti sarebbero rimasti immersi nel buio anche se fossero stati illuminati da una enorme quantità di torce. La caverna era dominata da qualcosa di così surreale da far apparire quasi normale il tesoro accumulato nella prima grotta. Incastonata in un intreccio d'incastellature, di montanti, di traverse e di gru, c'era una cosa uscita dalle leggende, una vera meraviglia. Era modellata a forma di cigno, bianca, splendente, pronta a spiegare le vele e a volare sull'acqua, con alberatura, vele e sartiame ancora tutti al loro posto. Era un'enorme nave a tre alberi. Le assi di legno sbiancato erano intagliate in modo da sembrare penne e ognuna di esse era smaltata di bianco, mentre tutte le parti in metallo, che di norma erano realizzate in ottone, erano di lucido argento, ancora brillante. Vele candide come neve erano raccolte lungo l'alberatura e la polena era un cigno, l'unica macchia di colore dell'imbarcazione, giacché il becco era formato da granati simili a gocce di sangue e gli occhi erano due giade a forma di mandorla. Sovrastata da quell'imbarcazione regale, Imrhien si sentì ridotta a un giocattolo per bambini. Intrappolata nelle strutture di sostegno, la chiglia descriveva una curva perfetta sopra la sua testa, fino al punto in cui il grande scafo si allargava come un giglio gigantesco. Le lunghe assi scolpite apparivano affusolate come i fianchi di un uccello. Nel camminare lungo quella splendida imbarcazione, con lo sguardo pervaso di meraviglia, Imrhien scoprì che l'elegante polena a forma di cigno era rivolta verso un'altra coppia di alti battenti. Anche questi cedettero sotto la lieve pressione della sua mano, lasciando penetrare una luce abbagliante, un rumore fragoroso e un gigante ruggente armato di lancia, il braccio levato all'indietro, pronto a colpire. Accanto a un fiume che scorreva attraverso miglia di lande selvagge, lontano da qualsiasi insediamento umano, gli alberi di pepe allargavano i loro rami, ombreggiando col fitto fogliame una radura erbosa in cui faceva bella mostra di sé un seggio dall'alto schienale, ricavato da un legno scuro e rossastro - forse mogano - e decorato da intarsi di oro rosso battuto, impreziositi da granati e da cristalli rosati. I piedi erano stati intagliati a forma di foglie, mentre i braccioli, i lati e lo schienale a tre punte sfoggiavano
un bassorilievo di papaveri. Di fronte al primo era disposto un altro seggio, identico per dimensioni e struttura, ma di legno bianco e decorato con smalto verde, diamanti e bassorilievi che raffiguravano gigli. In mezzo ai due seggi c'era un tavolino in legno di noce con decorazioni in argento e ametiste, intarsiato con motivi di fiordalisi. Su di esso c'erano numerosi piatti d'argento, ciotole d'oro, coppe ricavate da un singolo cristallo scavato e calici abbelliti da grappoli d'uva in lamina dorata, i cui frutti erano smeraldi. In mezzo a quei frutti di metallo e pietre preziose si scorgevano frutti veri, i cui succhi riempivano le coppe. Un elmo rovesciato, che giaceva sotto un cespuglio, stava accanto a una splendida armatura completa di lucido metallo giallo, intarsiato con fini lamine d'argento. Un'enorme quantità di gioielli si riversava nell'erba da vari forzieri e cassette di squisita fattura, coi cardini a forma di testa di gallo. Oro rosso in lega col rame, oro giallo e pallido electrum erano stati utilizzati per dare l'effetto di diverse tonalità d'oro; sottili strati intarsiati in rilievo e applicati con cura creavano disegni decorativi sui lati e sul coperchio di molti di quei contenitori. Su altri, una lamina d'oro o d'argento era stata intagliata in modo elaborato e poi riempita con smalto trasparente, creando l'impressione di gemme sfaccettate; altri forzieri ancora erano decorati con sfarzose combinazioni di madreperla, avorio, ambra, corno, osso, cuoio, lacca, argento e pietre preziose. Manciate di monete, scagliate da Sianadh in un impeto di gioia infantile, scintillavano tra le felci come foglie cadute da alberi di metallo, luminoso argento e caldo oro. Seduto sul seggio scuro, il grosso avventuriero dai capelli rossi gettò alle proprie spalle un boccale d'argento cesellato ormai vuoto e si protese verso Imrhien, assisa sul trono bianco, muovendo le mani a mimare ogni singola parola che pronunciava. Anzitutto indicò se stesso e la ragazza. «Noi...» Protese gli indici, li unì e poi allontanò la mano destra dalla sinistra, incurvandola ad artiglio. «... siamo ricchi...» Tracciò un ampio cerchio con la mano destra. «... come tutti...» Passò l'indice di traverso sul mento. «... i falsi...» Appoggiò le nocche della mano sotto il mento e agitò le dita. «... sporchi...» Mosse il pollice e il mignolo sul palmo dell'altra mano, a mimare la camminata di una persona grassa, quindi appoggiò la destra rovesciata sotto il mento, muovendo le dita in su e in giù. «... e grassi maiali...» Formò la runa L, seguita dall'atto di contare del denaro. «... di quei mercanti del Luindorn...» Fece compiere ai due pugni un movimento in senso
orario. «... messi insieme.» Gettando indietro il capo, l'ertish scoppiò in una fragorosa risata, poi si adagiò contro lo schienale del seggio, che era stato imbottito d'erba per maggiore comodità, e prese una coppa piena, assaggiandone il contenuto con aria soddisfatta. Infine osservò la ragazza, che ripeté in modo quasi perfetto ogni singolo segno. «Hai dimenticato di precisare che i maiali sono grassi», osservò. Una volta corretto l'errore dell'allieva, andò a controllare il succo di frutta contenuto nell'elmo, ottimisticamente convinto che sarebbe ben presto fermentato, diventando una bevanda più alcolica. Imrhien rimase adagiata sul suo prezioso seggio, crogiolandosi nella soddisfazione del successo ottenuto. Prese a giocherellare con alcune monete d'oro, che scintillarono sotto il sole. Prima di allora, non aveva mai toccato dell'oro, almeno per quanto riusciva a ricordare. Quando aveva aperto dall'interno le porte con le rune ed era sbucata nella grotta sottostante la cascata inferiore, Sianadh, spaventato, aveva creduto di trovarsi davanti a una creatura unseelie e per poco non l'aveva uccisa. Lei stessa, in preda al terrore, aveva scambiato l'amico per un orco armato di lancia. Dopo quel momento di paura, tuttavia, la gioia aveva regnato, benché la consueta sensazione di allarme non avesse abbandonato nessuno dei due. Era uno stato d'animo ormai diventato quasi familiare soprattutto per la ragazza, nel corso dei suoi vagabondaggi con Sianadh. Imrhien ripensò con divertimento allo stupore che aveva scorto nell'ertish quando lei era emersa dai portali della «miniera»: nel momento in cui l'aveva riconosciuta, Sianadh si era immobilizzato, come una copia più grezza delle statue della scacchiera, il braccio ancora sollevato, la bocca aperta. Poi il bastone gli era sfuggito di mano, accompagnato da una pioggia di esclamazioni ertish, e ci erano voluti parecchi minuti prima che lei riuscisse ad avviare con lui una conversazione coerente. Sianadh si era poi lanciato oltre le porte aperte con passo zoppicante. Soltanto più tardi, e con riluttanza, aveva confessato tutto ciò che era accaduto: preoccupato perché lei non tornava, aveva cercato di scalare l'altura, ma quello sforzo si era rivelato eccessivo. Era svenuto e, una volta tornato in sé, si era trovato disteso per terra, con una caviglia gonfia. Per fortuna, la vista di quelle enormi ricchezze si era rivelata un vero toccasana per la sua sofferenza. Gongolante, Sianadh era rimasto per la maggior parte della giornata nella caverna della nave e nel retrostante magazzino. E Imrhien, contagiata dalla sua eccitazione, o forse da qualche qualità intrinseca del
tesoro, aveva dimenticato la propria stanchezza ed era rimasta con lui. C'era stato anche un altro momento di paura. Nell'emergere dalla grotta con un candelabro d'argento, Imrhien si era sentita sollevare da terra e scagliare nell'aria a una velocità spaventosa. Troppo tardi si era resa conto che quello non era argento, bensì sildron. Allora aveva lasciato andare di scatto il candelabro ed era precipitata a terra da un'altezza di circa dieci piedi. Per fortuna, Sianadh l'aveva goffamente presa al volo e depositata sul terreno. «Il suolo delle grotte è rivestito di andalum, ragazza! Sta' attenta a cosa porti all'aperto. Oghi ban Callanan, per poco non mi hai spezzato la schiena, a completare i danni alle costole e al piede... Finirai per causare la morte dell'Orso!» Urtata da quelle parole, Imrhien si era incupita e aveva pensato a quel candelabro, che stava fluttuando da qualche parte negli strati superiori dell'atmosfera, dove, prima o poi, sarebbe stato imprigionato dalle reti di recupero di qualche mercantile o raccolto da una nave pirata di passaggio. Entro la fine della giornata, i due avevano puntellato le porte, tenendole aperte con alcune pietre, arredato e decorato l'accampamento e raccolto numerosi frutti, preparando così un banchetto per celebrare il successo ottenuto. «Sei rimasta lassù due giorni e due notti, Imrhien... C'è da chiedersi perché sono venuto a cercarti! È davvero ironico... Quelle porte si sarebbero aperte per chiunque avesse premuto i pulsanti nella sequenza giusta... La scacchiera è dunque stata creata per puro divertimento dai costruttori delle porte! Mi sembra strano, ma, come si suol dire, ogni razza ha le sue usanze, giusto? Ah, comunque non ha importanza. Adesso tutto questo è irrilevante. È tempo di festeggiare.» Sotto la Scala d'Acqua ebbe così inizio un periodo felice, una sorta di era dorata, nel corso della quale Imrhien e Sianadh esaminarono il tesoro, girovagando per le caverne, pieni di meraviglia, e portando all'aperto alcuni pezzi scelti. A poco a poco, il luogo in cui erano accampati assunse l'aspetto di uno splendido palazzo sontuosamente arredato con colori intensi e vivaci, che creavano un netto contrasto con lo sfondo di felci e di fogliame. Gli steli d'erba crescevano intorno alle gambe di tavoli di mogano intarsiato; mucchi di gemme scintillavano al sole, gettate con noncuranza su grigie rocce fluviali; gli uccelli si posavano su seggi intagliati ed elmi intarsiati; gli insetti strisciavano lungo lo stelo di calici che valevano un'intera vita di lavoro di un contadino e talvolta vi si soffermavano, dando l'im-
pressione di far parte delle squisite decorazioni di quegli oggetti; fiori setosi punteggiavano chiazze di muschio su cui erano adagiate collane d'oro e di rubini. L'effetto era sorprendente e assai irreale. Le armature, poi, brillavano dei colori madreperlacei delle conchiglie: verdi scintillanti, azzurri opalescenti, un argento intenso e puro, un lucido grigio madreperlaceo e una calda tinta dorata che ricordava i colori dell'alba. «Vedi queste armature? Vedi di quali materiali sono fatte?» domandò Sianadh, affascinato. «In esse non c'è neppure un rivetto d'acciaio. Prima d'ora, non avevo mai visto la maggior parte di questi metalli, però ne avevo sentito parlare... Il platino e l'iridio, tanto apprezzati dagli Uomini dei Ghiacci, qui sono usati in lega, ottenendo un candore argenteo. Questo rame, di un rosso intenso quanto i capelli di Muirne, non è minimamente chiazzato di verderame; questo è bronzo giallo e questo è talium. Ci sono poi metalli ancora più rari, che non conosco... Questo è verde come l'oceano e quest'altro blu come il cielo serale... forse sono stati usati sali di cobalto... E questa è una superficie vetrosa che pare di ceramica, ma non è altrettanto fragile. Qui non c'è traccia di ferro o di acciaio. Chi ha accumulato questo tesoro, evidentemente li detestava. Chissà perché...» Si grattò la testa, perplesso. «C'è un unico motivo cui mi riesce di pensare», dichiarò poi, sollevando lo sguardo. «Dock, c'è una vespa nel vino!» gridò. E, preoccupato per il succo che stava facendo fermentare, si allontanò senza aggiungere altro. Nel corso di quei giorni tranquilli - giacché sembrava che non ci fosse ragione di affrettarsi -, Sianadh prese l'abitudine di sdraiarsi tra i mucchi d'oro e di gioielli e di raccontare storie dei suoi viaggi nelle Terre Conosciute di Aia. Si era trovato coinvolto in molte imprese tutt'altro che legali e, per quanto innocente, aveva finito per essere ingiustamente sospettato di aver commesso qualcosa di brutto. Parlò anche di sua sorella Ethlinn, che, all'età di sedici anni, era diventata una Carlin, cosa che lei aveva sempre desiderato, nonostante l'opposizione della madre. Nel Giorno del Piccolo Sole successivo al suo sedicesimo compleanno, Ethlinn aveva ricevuto il suo Bastone da Carlin dalla Coillach Gairm, la vecchia Maga dell'inverno, rinunciando alla facoltà di parlare in cambio del potere di usare il Bastone. Sianadh rievocò anche la sua giovinezza nella Finvarna e, quando parlava della sua terra natale, gli s'illuminava lo sguardo e una cadenza musicale gli s'insinuava nella voce; poi gli occhi gli si velavano di pianto e il suo sguardo si faceva remoto.
«Le alture lungo la costa occidentale della Finvarna sono il confine occidentale delle Terre Conosciute. Là i gabbiani stridono e ricoprono le alture come neve. Alle loro spalle, tonante, il terribile oceano si stende cupo verso ovest e verso nord, dove infuria il Cerchio delle Tempeste. Tutta la Finvarna si affaccia sull'oceano. Verso ovest, la mia terra è di una bellezza selvaggia e desolata, una terra di montagne e di laghi, di paludi e di fiumi, spesso avvolta in basse cortine di nubi. La sua parte occidentale è isolata, inospitale e aspra, misteriosa e infestata da creature soprannaturali. Gli abitanti di quella regione operano a stretto contatto coi nani seelie nella lavorazione dei metalli: oro, argento, bronzo e rame. La terra è crudele, però la gente è gentile, generosa e ospitale. Noi ertish accogliamo chiunque nella nostra casa - membri della famiglia, amici e conoscenti, stranieri - senza distinzione. Da noi, ci si fa visita di frequente perché ci piace avere notizie fresche. Per l'occasione, ci si veste adeguatamente e capita di fare musica, se si hanno visitatori. Noi apprezziamo l'eloquenza e la musica sopra ogni altra cosa.» Dopo una pausa, aggiunse: «Inoltre ci piace giocare a Re-e-Regine e a Lancia-la-Palla. Quello sì, che è un gioco per cui vivere! Si dice che sia stato insegnato ai miei connazionali dagli Stranieri, in tempi remoti, prima che la loro razza scomparisse dal mondo. Lo conosci?... No? Questo è il segno che lo indica. Vedi, si tratta di colpire una palla con dei bastoni, in questo modo...» E diede una dimostrazione del gioco. «Non che io sia eccessivamente patriottico, bada bene. In nome del patriottismo molte giovani vite vengono falciate sui campi di battaglia. No, io sono fedele al Re-Imperatore... Sono prima un ertish e poi un finvarniano. Tuttavia, un luogo ti può chiamare, può appellarsi al tuo stesso sangue...» Sospirò. «In altre parti, la Finvarna è coperta di foreste o di ondulate distese erbose, mai delimitate da staccionate o da muri. Là pascolano grandi mandrie di alci giganti, le cui corna ramificate sono ampie quanto i rami degli alberi. Qua e là, si possono vedere le rovine di piccoli castelli e di case-torre. A sud del fiume ci sono poi ricche terre coltivate... È da laggiù che proviene la famiglia di mia madre. La Finvarna è così bella e così lontana. La rivedrò mai? Ah, perché mai devo soffrire di nostalgia per la mia patria? La nostalgia di casa è una malattia che divora l'anima che la alimenta. Mia nonna diceva sempre: 'Ci sono due giorni di cui non ti devi mai preoccupare: ieri e domani'.» Talvolta soffiava il vento shang, però, in quel luogo, raramente attraversato da esseri umani, esso non evocava nessuna immagine. In un paio di casi, verso il crepuscolo, Imrhien intravide un cavallo bianco selvaggio,
che si stagliava come una statua d'avorio sullo sfondo della foresta. Il suo singolo corno era simile a una lancia fatta di luce lunare. Si trattava di una di quelle elusive creature che Sianadh definiva col termine cuinocco. Con tutta calma, i due compagni esaminarono e riesaminarono i segreti riposti dietro le porte con le rune, tesori che, tra le altre caratteristiche, parevano anche cambiare spesso posizione da soli. Vagliandoli ed esaminandoli, i due rifletterono a lungo su cosa portarsi appresso una volta che avessero deciso di tornare in città e, nel corso di quelle spedizioni, finirono per trovare una terza caverna, più piccola, piena di barre e di oggetti in sildron, alcuni avvolti nell'andalum. Era la camera in cui sbucava la galleria scavata per permettere l'ingresso alla scimmia. Molte volte indugiarono a contemplare la splendida, maestosa nave a forma di cigno, un'imbarcazione degna di un Re. Essa esercitava su di loro un fascino irresistibile. L'avevano lasciata per ultima, ma infine si decisero a salire a bordo, pieni di meraviglia e di rispetto, arrampicandosi sull'intelaiatura che sorreggeva lo scafo, aggirandosi in punta di piedi sui ponti scintillanti e accarezzando con dita tremanti le sue strutture immacolate. Ogni singola piuma delle ali ripiegate era scolpita con assoluta precisione, rivestita di smalto bianco ed evidenziata in argento. A parte gli occhi di giada e il becco di granati, tutto il resto scintillava d'argento e di alabastro, compresi gli alti alberi e le candide vele di seta. «Come deve essere bello volare su questa Regina dei cigni!» esclamò Sianadh, levando lo sguardo verso l'alberatura. «Però gli alberi sono troppo alti per passare dalle porte. Bisognerebbe smantellarli prima di portarla fuori... Un lavoro che richiederebbe la forza combinata di molti uomini.» C'erano poi altre meraviglie. Sianadh chiese a Imrhien dove si fosse procurata la veste di seta di ragno. «La seta di ragno è dieci volte più robusta del ferro e infinitamente più leggera», spiegò, riassumendo il suo ruolo di tutore. «Questa veste è più forte di una cotta di maglia e molto più comoda, ma col denaro necessario per acquistarla si potrebbe nutrire una famiglia per dieci anni. La seta di ragno proviene dalla Severnesse, una regione piena di colture di ragni, però non si tratta di un commercio proficuo: è infatti necessaria una grande quantità di seta per ottenere un pollice quadrato di stoffa, e i ragni non sono molto affidabili.» La caverna del tesoro conteneva un intero guardaroba di seta di ragno. Sulle prime, Sianadh scelse soltanto un giustacuore della sua taglia, ma poi esclamò: «Ah, che i fuochi mi prendano... Merito un intero cambio di ve-
stiario!» E scomparve in mezzo a una nuvola d'indumenti, simile a un cane che stesse scavando per trovare un osso. Riemerse vestito di grigio da testa a piedi: giustacuore a punta, camicia a maniche lunghe, giacca pieghettata, calzoni fermati alle ginocchia, un fazzoletto legato sulla testa e un lungo mantello fermato da una spilla d'oro. Quell'insieme era completato da una cintura di scaglie di serpente in argento, dotata di un'elaborata fibbia: ogni scaglia era finemente intarsiata. Su quella tenuta, lui indossò anche un'armatura di lamine di metallo, nella quale si pavoneggiò per mezza giornata, finché il calore non divenne intollerabile. Alla fine, come una cicala giunta all'età adulta, Sianadh fu costretto ad abbandonare quel guscio, in modo alquanto irresponsabile, e lo lasciò sotto un albero. Del suo vecchio abbigliamento, conservò soltanto il cappuccio e i robusti stivali. Imitando il suo esempio, la ragazza scambiò i propri abiti laceri con la seta di ragno, ripiegandosi intorno al corpo un'ampia pezza di tessuto in modo da creare una veste morbida, che fermò in vita con una cintura di oro battuto. D'impulso, poi, indossò anche alcuni anelli d'oro, un paio di orecchini, una collana di filigrana e un cerchietto nei capelli. «Stai benissimo! L'oro ti si addice. Hai fatto bene a non scegliere l'argento.» Imbarazzata, percependo una strana sfumatura di tristezza nella voce di Sianadh, la ragazza gli voltò le spalle e si trovò davanti a uno specchio di bronzo, che riflesse la sua immagine. Lo stomaco di Imrhien si contrasse all'istante in una morsa. Nello specchio c'era una snella figura dalla vita sottile, delicata come una bambola dal collo in giù, coi capelli che si riversavano sulle spalle, folti e pesanti come una massa d'oro grezzo. E incorniciavano un volto orribile, una maschera grottesca, che le risultò familiare in modo sconvolgente. Gli anelli e gli altri monili, sfilati in tutta fretta, caddero al suolo in un mucchio tintinnante. Imrhien si tolse all'istante l'abito femminile e lo sostituì con informi indumenti maschili. La botola superiore, composta dalle due metà della scacchiera, si era richiusa in silenzio e - cosa alquanto sinistra - senza preavviso. I pezzi avevano assunto di nuovo la formazione da battaglia, ma non era apparso nessun guanto. Non volendo correre il rischio di ritrovarsi imprigionati nelle grotte, i due bloccarono saldamente in posizione aperta i battenti della Grotta delle Porte. Poi il tempo peggiorò.
Lunghe linee di nubi grigie sopraggiunsero, rapide. Masse schiacciate e irregolari vennero sospinte dal Vento del Sud e rivestirono il cielo, schiacciandolo sotto il loro peso, dando l'impressione che il firmamento fosse sorretto unicamente dalle cime degli alberi. In un primo tempo cadde una pioggia calda, poi cominciarono i temporali veri e propri. Imrhien e Sianadh furono costretti a cercare rifugio nella caverna che ospitava la nave. Lì il martellare della pioggia era soffocato dal ruggito della cascata. Sianadh sfruttò quell'opportunità per insegnare alla ragazza altri segni e per esporle la storia del mondo, imparata a memoria e abbellita da qualche sua piccola modifica personale. «Dal momento che non sai nulla, è bene che t'istruisca un po'. Comincerò dagli anni precedenti l'Anno 1, quando le terre di Erith non erano unite, anzi si trovavano in lotta le une contro le altre», esordì. «A mano a mano, le tribù divennero più numerose e gli scontri si trasformarono in vere e proprie guerre... L'Eldaraigne, la Namarre, l'Avlantia, la Finvarna e la Severnesse erano le contendenti principali, perché la Rimany e il Luindorn, contrariamente alle altre nazioni, non avevano un sovrano. A dirla tutta, il Luindorn non era neppure abitato. In quell'epoca, i biondi talith, il tuo popolo, erano la nazione più civile e organizzata, molto più degli altri popoli. I loro eserciti erano macchine da difesa efficienti e ben equipaggiate, ma i talith non avevano nessun desiderio di ampliare le loro terre invadendo quelle altrui. Volevano soltanto vivere e prosperare nell'Avlantia. Già allora gli ertish, il mio popolo, erano soprattutto contadini e vivevano nella Finvarna. E i bianchi Uomini dei Ghiacci della Rimany erano già all'epoca letali combattenti... però rimanevano nel loro territorio perché, come gli ertish e i talith, non avevano nessun desiderio di sottrarre terre agli altri popoli. Gli Uomini dei Ghiacci prosperano soltanto in climi freddi... Se venissero al nord, si dovrebbero proteggere dal nostro sole caldo e questo ti fa capire perché sono del tutto indifferenti alla conquista di altre terre. I feorh, castani di capelli come i tuoi amici marinai e come quei pirati, erano una razza bellicosa. Nel corso di molti decenni - o forse di secoli, l'ho dimenticato - avevano popolato l'Eldaraigne, la Namarre, il Luindorn e la Severnesse, servendosi inizialmente della Namarre come di una colonia penale. Poi alcuni detenuti della colonia sono sfuggiti alla prigionia e hanno preso a girovagare nelle regioni più strane di quella terra settentrionale, il che spiega come mai la Namarre è infestata dai briganti. Tutto questo è successo molto tempo fa, prima dell'Anno 1. James D'Armancourt, primo con questo nome e detto poi l'Unificatore, era un saggio e potente Re
dell'Eldaraigne. È stato lui a unificare le nazioni di Erith, facendone un Impero. Si è impadronito delle altre nazioni con un'astuta strategia, contando sul suo vasto esercito, ricorrendo alla guerra e a trattati con gli altri Re. È stato il primo Re-Imperatore nel periodo chiamato Unificazione dell'Impero di Erith o, semplicemente, Unificazione. Durante il suo regno, finalmente si è instaurata la pace e si è deciso di usare un nuovo sistema per numerare gli anni, partendo appunto dall'Anno 1, l'Anno dell'Unificazione. Prima di allora, ogni nazione aveva usato un suo modo di calcolare gli anni, con numerazioni differenti. I Re del Casato di Armancourt erano tutti longevi e si sono tutti sposati tardi. Il figlio dell'Unificatore, che gli è succeduto, era un uomo saggio, ma il figlio di suo figlio, almeno all'inizio, sembrava troppo impulsivo e sconsiderato per mantenere quel fragile equilibrio di potere. Però poi è cambiato in meglio, come fanno spesso i giovani quando acquisiscono una certa maturità, e ha governato saggiamente, al punto di essere chiamato William il Saggio. «L'Anno 99, durante il regno di William il Saggio, è stato un anno terribile. Si dice che quello sia stato l'anno della migrazione dei faêran, il Popolo Fatato, o almeno della scomparsa della maggior parte di essi. Si racconta che i faêran siano andati in un luogo al di là del Cerchio delle Tempeste, anche se, secondo altri, si sono nascosti nelle colline cave o comunque nel luogo in cui si ritirano gli immortali, quando si stancano del nostro mondo. In seguito a questo fatto si sono scatenate violente tempeste, ed è stato allora che il vento shang ha cominciato a soffiare. La gente non sapeva come far fronte a quel vento, ma poi William il Saggio ha emanato una legge che imponeva di fabbricare e d'indossare cappucci fatti di maglia di triossido di talium. In quell'anno, inoltre, è stato scoperto il sildron, diventato immediatamente proprietà reale. Nello stesso periodo sono stati fondati i Casati dei Cavalieri della Tempesta e le linee di Navi del Vento. Pur essendo stato un anno difficile, il 99 ha segnato l'inizio dell'Era della Gloria, un tempo in cui - così si dice - i pochi faêran rimasti hanno lavorato coi talith per progettare e edificare le città di ogni nazione, città grandi come quella che abbiamo attraversato nella foresta. Sempre a quell'epoca, sono stati radunati i primi Dainnan, una compagnia speciale agli ordini del Re-Imperatore. In quei tempi dorati erano difensori della pace, ma, in seguito, sono diventati temibili guerrieri. Come le creature soprannaturali, anche i faêran non tolleravano il contatto col ferro e, come quelle creature, non lasciavano mai impronte nel vento shang, che andassero in giro a capo scoperto oppure no. Nella loro arroganza, volendo imitare il Popolo Fatato,
i feorh hanno allora cominciato a circolare senza cappuccio, cercando inoltre di soffocare le loro passioni, in modo da poter passare attraverso le tempeste magiche senza lasciare impronte. Si dice infatti che sia possibile affrontare il vento shang senza cappuccio, ma soltanto se si tengono a freno le proprie emozioni. E questo spiega perché i Cavalieri della Tempesta, e anche altri, esercitano un ferreo controllo sull'ira, sulla gioia e sulle altre emozioni. In zone arretrate, di confine, come le Stazioni di Collegamento, dove gli abitanti temono il Popolo Fatato al punto che non ne pronunciano il nome e non ne parlano ad alta voce in compagnia, molti continuano a pensare che, se non mostrano emozioni, allora il loro atteggiamento sarà considerato nobile. «Intorno all'Anno 561 scoppiarono una pestilenza terribile e una guerra. Quel periodo, chiamato l'Era Oscura, è iniziato quando anche gli ultimi faêran sono scomparsi, forse perché si erano stancati di Erith. I talith sono diminuiti rapidamente di numero e la loro cultura si è persa, svanendo nell'erba che è cresciuta tra le rovine delle loro città. È stato allora che la dinastia D'Armancourt ha avuto un periodo di crisi. Il Re-Imperatore è stato spodestato dal trono dell'Eldaraigne e ha dovuto abbandonare l'Impero, fuggendo con la sua famiglia e il suo seguito. Confusione e illegalità hanno dilagato in tutte le terre: indebolite dalla pestilenza, le nazioni erano vulnerabili agli attacchi dei razziatori e dei fuorilegge namarriani, come pure di Maghi malvagi, diventati potenti, che avevano stretto oscure alleanze con creature unseelie. È stato allora che i Cavalieri della Tempesta e i Dainnan sono diventati guerrieri, rimanendo tali per tre secoli. Nel corso dell'Era Oscura, i feorh hanno occupato le Antiche Città. A causa della pestilenza e delle guerre, ma anche per l'abitudine dei feorh di andare in giro senza cappuccio, quelle città hanno cominciato a essere infestate d'immagini impresse nel vento shang. Alla fine, esse sono state abbandonate a favore di altre città, meno antiche e meno complesse. Solo Caermelor è rimasta, perché era fatta di dominite, ma, al suo interno, è obbligatorio usare il cappuccio. «Oltre duecento anni fa, il legittimo erede al Sommo Trono è emerso dalla sua oscurità. Per quanto nascosta, la linea di discendenza dei D'Armancourt era rimasta ininterrotta durante tutti quei lunghi anni. Edward XI, noto in seguito come il Conquistatore, aveva sviluppato una forza degna dei suoi antenati. Chiamati a sé gli uomini più saggi di Erith, un consiglio di sette persone definito Attriod, Edward ha ammassato un potente esercito e, dopo una campagna militare coronata da successo, ha riconqui-
stato il trono, ricacciando nella Namarre i fuorilegge. L'Anno 849, duecentoquarant'anni fa, è stato l'Anno della Restaurazione. La dinastia D'Armancourt è salita al potere per la prima volta più di mille anni fa, e oggi la sua forza è più grande che mai. La saggezza e la giustizia dei Re-Imperatori è rimasta costante nei secoli e, se possibile, sembra addirittura aumentare. L'ordine è stato ripristinato da Edward il Conquistatore, ma soltanto dopo che molti segreti dell'Era della Gloria erano ormai andati perduti. «Il tesoro che abbiamo trovato è dei faêran, non ci sono dubbi. Credo lo abbiano lasciato qui quando se ne sono andati. Inoltre i frutti che crescono qui intorno non sono propri di Erith... Sono pronto a scommettere che derivano da semi portati dal Reame Perduto e poi seminati, o sparsi con indifferenza, secoli fa.» Il narratore infine tacque. E mille domande non formulabili presero a ribollire nella mente della sua ascoltatrice. Sianadh rifletté a lungo sugli oggetti da portare a Gilvaris Tarv. «Non riesco a lasciarmi alle spalle nulla di tutto ciò», esclamò, disperato, seduto su un mucchio di monete d'oro e abbigliato da testa a piedi con un'altra magnifica armatura. «Ma ben presto dovremo abbandonare questo posto, perché io ho bisogno di carne. Non posso continuare a mangiare soltanto questi frutti faêran per quanto squisiti siano. Il mio palato ha voglia di carne.» Avendo fallito nei suoi tentativi di pescare nel fiume e di distillare liquore dai frutti, l'ertish, da qualche tempo, si era messo a dissertare con malinconia sul talento culinario di sua nonna e sui diversi liquori della Finvarna. «Più di ogni altra cosa, però, sarà splendido potermi presentare alla famiglia di mia sorella con le tasche piene di candelburro.» Cosa? domandò la ragazza. «Cos'è il candelburro? È un altro modo per indicare l'oro, perché è caldo e giallo come il burro... e permette di comprare candele da accendere e cibo da cucinare. Sì, adesso posso guardarli di nuovo tutti in faccia... Mia sorella Ethlinn, i ragazzi Diarmid e Liam, e la loro dolce sorellina Muirne. Hanno vissuto in povertà da quando Riordan è stato ucciso, ma ben presto zio Orso modificherà questo stato di cose!» Alla fine, con estremo rammarico, Sianadh decise di prendere alcune collane d'oro, qualche daga di fattura modesta e tre piccoli cofanetti, uno pieno di antiche monete d'oro e di qualche pezzo d'argento, un altro pieno di gioielli e il terzo, fatto di andalum, contenente barre di sildron.
«Sono abbastanza piccoli per essere trasportati, e nascosti sotto un mantello, senza dare nell'occhio», spiegò. «Sono pesanti, certo, ma non troppo. Inoltre... Ascoltami bene, Imrhien: non dovremo viaggiare col nostro carico attraverso le terre selvagge, braccati dalle creature che le popolano, perché costruiremo una zattera!» E fissò la ragazza con aria piena di aspettativa. Lei assunse un'espressione ammirata, pensando tuttavia a quanto dovessero apparire orribili i suoi lineamenti. «Questo scarabocchio sulla mappa mostra che il fiume confluisce nei Rysingspill, che si snoda fino al mare, dove Gilvaris Tarv siede sulla sua foce come un grosso foruncolo marcio. Seduti sulla nostra zattera, noi vi arriveremo in tutta comodità, come due nobili. Che te ne pare?» Creature unseelie. Soltanto di recente Imrhien aveva appreso quel segno: le mani accostate alle tempie, con l'indice e il medio protesi e incurvati a formare due corna. «No! Non possono attraversare l'acqua corrente... anche se alcune dimorano nell'acqua, come i fuath e gli annegatori. Le più pericolose, Jenny Greenteeth, Peg Powler e altre del genere, risiedono nelle vicinanze di abitazioni umane, perché il loro principale divertimento è causarci guai. In ogni caso, non devi avere paura, perché l'Orso si occuperà di qualsiasi creatura acquatica, senza contare che abbiamo ancora i tilhal al collo e, anche se non possediamo nulla di ferro, possiamo sempre fischiare. Io riesco a far scendere gli uccelli dagli alberi col mio fischio, e le creature soprannaturali fuggono a migliaia, quando mi vedono contrarre le labbra! Inoltre ci procureremo bastoni di sorbo o di frassino, che sono potenti protezioni. L'Orso ha già sconfitto una volta quelle creature, e lo farà ancora.» Fischiettando allegramente, l'ertish si caricò in spalla un'ascia di guerra dalle splendide decorazioni e andò a tagliare alcuni alberi per fabbricare la zattera. La ragazza lo aiutò a legare insieme i grossi pezzi di legno con strisce di seta di ragno, perché i viticci che crescevano nella zona erano troppo fragili. «Renderemo la zattera il più robusta possibile, in caso incontrassimo qualche rapida lungo il percorso», spiegò con entusiasmo Sianadh. «Con un po' di fortuna, non dovremmo imbatterci in nessuna cascata, ma, se dovesse succedere, quella sì, che sarebbe un'avventura degna di questo nome!» Quindi l'ertish riportò nella grotta tutti gli oggetti e i preziosi sparsi per l'accampamento, in modo da non lasciare in giro nessuna traccia del loro
passaggio. Quando riaccostarono per l'ultima volta le porte della grotta inferiore, i due ebbero la precauzione d'incastrare in mezzo a esse una pietra, in attesa del loro ritorno. «Non confidare mai che un'apparecchiatura o un incantesimo operino due volte nello stesso modo!» sentenziò Sianadh. La cascata scagliava nell'aria una miriade di prismi in miniatura, che rifrangevano la luce del giorno in un evanescente succedersi di arcobaleni. La zattera era già stata varata e attendeva, dondolando, sul fiume, accanto all'accampamento, strattonando la corda di ancoraggio, formata da quattro camicie di seta di ragno a manica lunga legate l'una all'altra. Su quell'imbarcazione erano stati caricati tre cofanetti pieni di preziosi che, saldamente assicurati con varie funi, sarebbero serviti anche come sedili; in più c'erano corde di seta di ragno di diverse lunghezze, alcuni ceppi di legno di tasso per eventuali riparazioni, alcuni cesti di canne rozzamente intrecciate che contenevano foglie di erba miseria con cui respingere le culicide e una piccola scorta di frutta, che sarebbe marcita se non fosse stata consumata entro mezza giornata. L'uomo e la ragazza erano di umore eccellente. Nel corso dei diciotto giorni di permanenza presso la Scala d'Acqua erano guariti in fretta da ogni graffio e ferita, forse grazie a qualche proprietà dei frutti dei faêran o forse in virtù della purezza dell'acqua del fiume... A ogni buon conto, Imrhien era pronta a giurare che i suoi capelli erano cresciuti di almeno un pollice, mentre Sianadh aveva smesso di zoppicare e non aveva più dolori al petto. Saliti a bordo - due figure vestite di grigio che parevano ammantate di luce crepuscolare -, si servirono di lunghi pali di legno per allontanare la zattera dalla riva; alle loro spalle, in cima all'altura, figure nascoste fatte di oscurità e di luce rimasero a fissarsi in silenzio, per sempre. La corrente spinse la zattera oltre una curva del fiume. Guardandosi alle spalle, la ragazza non riuscì più a scorgere la cortina d'acqua della cascata, ma continuò a sentirne il fragore, benché fosse sempre più debole. Tra gli alberi, intravide un tremolio argenteo, forse generato dalla coda o dalla criniera di un cavallo fatto di luce stellare. Nella prima parte del viaggio, il fiume si snodò tra rive basse e dolcemente ondulate, coperte di erba e punteggiate da fronzuti equiseti e da jacaranda, i cui petali azzurri, simili a frammenti caduti dal cielo, andavano
alla deriva sull'acqua. Il sole strappava alla corrente riflessi abbaglianti e gli uccelli intessevano un susseguirsi di note armoniose, unite tra loro come le perle di una collana. «Per quanto ne so, questo ruscello non ha nome», disse Sianadh. «Sulla mappa è contrassegnato semplicemente come 'fiume', ma io l'ho ribattezzato Via del Cuinocco. Lo hai visto anche tu, quel cavallo bianco, con un lungo corno simile a un giavellotto? A me è sembrato d'intravederlo per un istante. Adesso ne possiamo parlare, ma non è saggio evocare creature del genere quando ci si trova nel loro dominio, anche se si tratta di seelie. Infatti non è cortese nominarle dove esse ti. possono sentire. La sua presenza era forte e ha dominato i miei sogni, il che ha costituito un cambiamento per il meglio. Quanta maestosità e forza, quanta bellezza... Sarei pronto a pagare parecchio per possedere una creatura come quella. Siamo stati fortunati. Pochissime persone lo hanno visto, e non si sa neppure se si tratti di un unico cuinocco o se ce ne sia più di uno. Molti gli hanno dato la caccia, però nessuno lo ha mai catturato. È risaputo che frequenta territori caratterizzati da colline ondulate e radure nascoste... Inoltre si sa che gli unseelie non vanno nelle zone in cui si trova il cuinocco.» Poi si mise a canticchiare una melodia allegra. La corrente li trasportava. Consapevoli che la zattera non era molto stabile, i due, grazie a un paio di bastoni nodosi, badarono a tenersi lontani dalle rive e dalle rocce affioranti dall'acqua. A poco a poco, le rive si fecero sempre più alte. Ben presto, la zattera si trovò a viaggiare nell'ombra del burrone che correva accanto alla foresta infestata. Il torrente proseguiva la sua corsa verso sud, diventando sempre più tumultuoso. La scorta di frutti avvizzì entro la fine del primo giorno, ma i due non accostarono alla riva per cercarne altri. Sianadh non voleva rinunciare alla sicurezza offerta dall'acqua, almeno non prima di essersi allontanato a sufficienza dalla zona infestata dal Direath. Quando infine scese il crepuscolo, l'uomo lanciò una fune su un ramo di salice che si protendeva verso il centro del fiume e, grazie a quella, fermò la zattera. Le lunghe ore della sera si susseguirono lente, scandite dal frinire penetrante delle cicale, annidate nella vegetazione circostante. Adesso che avevano oltrepassato i confini della zona frequentata dall'unicorno, Imrhien cominciava ad avvertire la presenza di altre creature che li tenevano d'occhio. Pensando alle creature unseelie, tipiche dell'acqua, di cui Sianadh le aveva parlato si sentì assalire da un crescente senso di disa-
gio. Il fiume scintillava grigio sotto la luce della luna, gli alberi punteggiavano le rive come nere sentinelle. Per tutta la notte, i due non osarono quasi dormire, impauriti com'erano da visioni di sottili mani esangui, coperte di alghe, che emergevano dall'acqua e di freddi occhi color del fango che li fissavano intensamente. Una volta, sempre dall'acqua, uscì una testa di cavallo grondante fanghiglia. Per qualche tempo, l'animale puntò sull'uomo e sulla ragazza i suoi occhi infossati, poi, lentamente, scivolò di nuovo nelle profondità fluviali. La notte sembrò portare via con sé il buonumore di Sianadh. Il mattino successivo, assonnato e borbottante per la fame, l'ertish districò a fatica la corda di seta di ragno dai rami del salice, mentre la sua compagna si spostava avanti e indietro per controbilanciare la zattera, che oscillava con violenza. «Oggi stesso mi fabbricherò un arco e abbatterò qualcosa per cena... Altrimenti non mi chiamerò più Sianadh Kavanagh!» esclamò d'un tratto, con voce che risuonò innaturalmente alta nell'aria immota, diffondendosi tutt'intorno come un ciottolo fatto rimbalzare sull'acqua. «Non m'importa se dovremo mangiare la carne cruda... Cosa inevitabile, a meno che tu non sappia accendere un fuoco facendo ruotare un bastoncino su un pezzo di legno, come fanno i Dainnan.» Imrhien scosse il capo. Anche lei era tormentata dalla fame, ma sapeva che avrebbe rifiutato la carne, cruda o cotta che fosse, perché non ne tollerava né l'odore né il sapore. In ogni caso, nutriva qualche dubbio sul fatto che Sianadh riuscisse a fabbricare un'arma con un po' di seta di ragno e i pochi pezzi di legno di tasso e di salice che avevano a bordo. Ma lui sembrava deciso: in silenzio, si sedette e prese a trafficare con alcuni pezzi di legno e una daga dall'impugnatura di corno intarsiata in oro. Nel frattempo, la zattera continuò a scivolare verso valle. «Vorrei non aver gridato il mio vero nome, laggiù», borbottò Sianadh, mentre passavano tra le cortine di rami di salice, vicino alla riva occidentale. «Scommetto che c'era una quantità di orecchie appuntite protese ad ascoltarmi. Se non c'erano, allora io sono un Uomo dei Ghiacci.» La luce del giorno si andò intensificando, assumendo la tinta ambrata dell'idromele. Alcune otarie giocavano lungo la riva, sotto gli alberi, tra spruzzi e schizzi, e, nelle polle di acqua più ferma, i pesci, simili a lame argentee, spiccavano lunghi balzi e buchi seminascosti tra le radici indicavano le tane degli ornitorinchi o dei ratti d'acqua. Una fila di anatre stava procedendo lenta contro corrente e l'ertish provò a scagliar loro contro
alcune pietre con una fionda improvvisata, ma invano. Dopo aver manifestato a voce alta il desiderio di avere a portata di mano una lenza con un amo oppure una rete da uccellagione, riprese a lavorare d'intaglio con tanta energia da correre il rischio di ferirsi le dita e raccolse sull'acqua alcune penne d'anatra da applicare alle frecce improvvisate. I due colsero alcune manciate di crescione d'acqua, ma non servirono a placare la fame. Protendendosi oltre il bordo della zattera, Imrhien spinse lo sguardo oltre la lucida superficie dell'acqua, punteggiata di sole, contemplando le profondità di un mondo fatto di alghe oscillanti. D'un tratto, si ritrasse con tanta violenza da ribaltare quasi la precaria imbarcazione. Alcune sagome femminili, pallide come cadaveri, fluttuavano intorno e sotto la zattera; i loro capelli erano lunghi e verdi come alghe, e vesti sottili ondeggiavano intorno ai candidi piedi sottili. «Asai», grugnì Sianadh, lanciando un'occhiata oltre il bordo della zattera. «Sono seelie, ma non si possono mangiare, quindi ignorale.» Entro il pomeriggio, l'ertish riuscì a modellare un arco di legno di tasso, con la corda fatta di seta di ragno, e tre frecce malamente bilanciate. In passato, Imrhien aveva assistito - per puro caso - alla macellazione di animali per la tavola dei Cavalieri della Tempesta e aveva osservato varie ferite e lesioni causate dagli incidenti verificatisi negli alloggi dei servi. Inoltre era stata testimone della morte degli aeronauti abbattuti dai pirati. Quindi era riuscita a controllare il disgusto per la vista del sangue... Eppure la prospettiva che qualche creatura selvatica potesse morire, trafitta da quelle rozze frecce, la turbava e quella sensazione di disagio la stupì alquanto. Aspetta. Città. «Con tutte le curve descritte da questo fiumiciattolo, potremmo impiegare anche quattro o cinque giorni per arrivare a Tarv. Se aspetterò di giungere in città per procurarmi del cibo, mi ridurrò all'ombra di me stesso. Vuoi forse entrare a Tarv accompagnata da un'ombra, chehrna? No, dobbiamo legare la zattera e scendere a terra. Non voglio rischiare di perdere delle frecce nell'acqua, mirando ai ratti di fiume da questa imbarcazione indegna di tale nome. Inoltre, a terra troveremo selvaggina migliore.» A quel punto, le rive della Via del Cuinocco non erano più caratterizzate da colline erbose da un lato e da cupe alture dall'altro. Le rive ornate da felci erano ripide e, in cima a esse, si scorgevano rilievi coperti di betulle bianche, immerse in ombre così gelide che resistevano persino alla calura del mese di Arvarmis.
Molto tempo prima, un vecchio salice era crollato nel fiume. La maggior parte delle sue radici aveva ormai perso la presa sulla riva, ma alcune vi affondavano ancora. Il limo si era ammassato contro il tronco semisommerso, formando una polla di acque ferme, sulla quale i gigli rispecchiavano le loro corolle azzurre. I due viandanti assicurarono la zattera a un ramo che sporgeva dal tronco e sbarcarono. Nel risalire il pendio, Sianadh si accorse che il mantello di seta di ragno lo impacciava e lo slacciò con impazienza, lasciandolo cadere a terra. La ragazza lo afferrò per una manica, facendo un cenno alla zattera. Io guardo. Vedo creature unseelie. Sianadh si soffermò a riflettere. «Forse hai ragione, ragazza. Quelle creature conoscono innumerevoli trucchi... Probabilmente aspettano soltanto che voltiamo le spalle per ribaltare la zattera o tagliare la corda e farla andare alla deriva coi nostri tesori a bordo, mandandola poi a infrangersi contro qualche roccia.» Si accarezzò la barba e aggrottò la fronte segnata. «È pur vero che avrò bisogno del tuo aiuto nel bosco, perché dovrai stanare la selvaggina e mandarla verso di me. Ah! Questo è un vero problema! Devo rischiare il mio futuro di uomo ricco per nutrirmi di carne fresca? Sì, devo farlo», decise, sentendo lo stomaco borbottare. «Tu però rimani in cima alla riva, da dove puoi tenere d'occhio la zattera e, se vedi qualcosa che si avvicina, scendi di corsa e staccale la testa. Se dalla foresta dovesse uscire qualche bell'animale commestibile, agita le braccia per spaventarlo e mandalo verso di me, in modo che possa trasformarlo nella mia colazione. Se tuttavia dovesse arrivare qualche creatura dall'aspetto unseelie, corri al fiume. Comunque, non avere paura... In un modo o nell'altro, l'Orso vince sempre.» Stavolta fu Imrhien ad accigliarsi, perché quel piano le sembrava confuso, assurdo e rischioso. Tu scothy. Niente morte. «Scothy, eh? Ecco, forse è vero...» annuì l'ertish, con aria filosofica. «In ogni caso, già che sono qui, intendo continuare.» Strinse più saldamente l'arco improvvisato e riprese a salire il pendio dell'altura. Ben presto scomparve alla vista. Imrhien lo seguì per un tratto, sul tappeto erboso che risultava quasi elastico sotto i suoi piedi nudi, poi si fermò e attese, guardandosi intorno con cautela. Sotto di lei, il fiume scorreva lento e la zattera tendeva pigramente la fune di ormeggio; in alto, le betulle si ergevano, silenziose. Da quanto tempo era scesa una quiete così assoluta sul circostante paesaggio boschivo? Nessun uccello cantava, nessuna foglia frusciava, e persino il mormo-
rio del fiume sembrava aver perso sonorità. Imrhien ebbe la sensazione che si stesse creando una pressione di qualche tipo, che un peso immenso la stesse schiacciando come una formica, bloccandola fra la terra e il cielo. Qualcosa non andava... C'era un difetto sulla superficie di quel mondo naturale. La gola serrata dall'orrore, la ragazza scoprì di non riuscire a muoversi. Si sentiva più sola che mai, e stava aspettando la morte di qualcosa. Da un punto imprecisato, in mezzo alla verde caligine che ammantava le betulle, un grido infranse il silenzio. Qualcosa che si muoveva troppo in fretta per essere un uomo si lanciò nel bosco, spezzando molti rami al suo passaggio. All'approssimarsi di quella minaccia invisibile, la ragazza chiamò a raccolta il proprio coraggio e sollevò il bastone, pronta a difendersi o a fuggire. A parecchie iarde, la fonte del frastuono emerse da dietro la cresta della collina, ripiegando subito dopo dietro di essa. Il rumore della sua corsa cessò bruscamente. Si trattava di una giovane cerva. Imrhien seguì la pista lasciata dall'animale fino alla piccola radura in cui esso si era accasciato. La cerva stava lottando per rialzarsi, coi fianchi che si sollevavano e si abbassavano rapidamente e con gli occhi incupiti dalla paura e dalla sofferenza. Lunghe strisce rosse le solcavano il fianco e partivano dall'estremità piumata di una freccia che le sporgeva dalla spalla. Un fruscio di foglie annunciò il sopraggiungere della morte. Sianadh emerse dal sottobosco e si arrestò, con la daga in pugno e un'espressione di trionfo negli occhi azzurri. Il suo sguardo si spinse oltre il corpo della creatura ferita e incontrò quello della sua compagna. Imrhien aveva le mani abbandonate lungo i fianchi e, nei suoi occhi, si leggeva un messaggio inequivocabile. Dopo un lungo momento, l'ertish si protese verso il basso con un movimento fluido e abile, il gesto di chi è cresciuto in una fattoria e sa usare il coltello. Nelle sue mani, però, non c'era più la daga, che lui aveva riposto nel fodero. Quando si rialzò, reggeva la freccia insanguinata. Nel momento in cui lui indietreggiò, la pressione avvertita da Imrhien si ruppe, aprendosi come una noce. Gli uccelli ripresero a cantare e il fiume a gorgogliare. Una mosca passò in volo poco lontano da loro. Con una certa difficoltà, la cerva si rialzò e rimase ferma, tremando sulle lunghe zampe. «Avanti, vattene.» Imprecando tra sé, Sianadh voltò le spalle all'animale, che scomparve nella foresta, lasciandosi alle spalle soltanto qualche chiaz-
za rossa sui fiori schiacciati. «Vivrà», disse l'ertish, scoccando un'occhiata acida alla compagna da sotto le sopracciglia aggrottate. «La freccia non è penetrata in profondità, e quelle bestie sanno dove trovare erbe medicinali.» Imrhien cercò di sorridergli. Poi si ricordò della zattera. Spronata dal panico, si girò e si mise a correre tra gli alberi, fino alla sommità della collina. Quel punto sopraelevato le permise di scorgere il fiume e alcune creature che si stavano accalcando tra i gigli, vicino alla zattera... creature che avevano rosicchiato la corda di ormeggio fatta di seta di ragno, liberando l'imbarcazione, che si stava già allontanando dalle rive della polla erbosa. La ragazza si precipitò lungo il pendio e fino alla riva, spiccando un grande salto per colmare lo spazio sempre più ampio tra la riva rocciosa e la piattaforma di legno. All'ultimo momento, però, la zattera le sgusciò via da sotto i piedi. Disperata, Imrhien cercò inutilmente di aggrapparsi a essa, ma l'acqua le sbatté contro il viso e lei si trovò a sprofondare in uno strano mondo senz'aria. In un primo tempo, sentì soltanto un ruggito molto vicino... Era il rombo del sangue che le pulsava alle tempie, misto alla pressione della corrente contro i suoi timpani e al martellare del suo cuore, che faticava a pompare il sangue negli arti che si dibattevano. I polmoni dolevano per la mancanza d'aria. Ma laggiù non c'era possibilità di trovarne, non per lei. Mentre sprofondava, una miriade di piccole bolle, come palline su un filo, si alzò intorno a lei. Il cuore accelerò il ritmo. Ogni suo pensiero era concentrato sullo sforzo di trovare un po' d'aria. Tutti i suoi istinti le urlavano di risalire verso l'alto, ma non poteva farlo, perché c'era un coperchio, nero e duro, sopra di lei. Le sue dita artigliarono quel tetto crudele, cercando un contorno, mentre il rosso velo dell'agonia calava sul suo cervello e l'oscurità aleggiava sui suoi occhi. Aveva l'impressione di guardare dentro un lungo tunnel, in fondo al quale si scorgeva un minuscolo punto di luce, sempre più fioco. Poi, miracolosamente, le sue dita trovarono un appiglio e lei si proiettò verso l'alto, lacerando qualcosa di viscido e umido. Imrhien si strappò all'abbraccio dell'acqua per aggrapparsi a qualcosa di solido... un angolo della zattera, ormai non più letale coperchio, ma galleggiante alleato. Poi, non appena le fu possibile, dopo aver tratto una serie di respiri affannosi, s'issò sulla piattaforma, dove rimase distesa su un fianco, ansimando, tossendo e vomitando acqua, abbagliata dalla luce del sole.
Nel frattempo, la zattera si era allontanata di parecchio dalla riva. I rospi alati che avevano rosicchiato l'ormeggio coi loro piccoli denti aguzzi stavano saltellando sulla superficie dell'acqua, sferzandola con le piccole code dotate di aculei. A terra, Sianadh stava correndo lungo la riva, impotente, ruggendo come un toro e agitando i pugni. Ancora stordita, Imrhien non riusciva a capire cosa stava dicendo. La zattera raggiunse poi il centro del ruscello e venne trascinata via dalla corrente. I ranocchi continuarono a seguirla, saltando su e giù dall'imbarcazione e sistemandosi in mezzo ai cofanetti del tesoro, finché lei non li scacciò via. Ben presto, le rive si fecero sempre più ripide e, di lì a poco, il fiume descrisse una curva, insinuandosi in una stretta gola dalle pareti perpendicolari. Era impossibile avanzare lungo la riva, quindi Sianadh fu costretto ad arrampicarsi alla ricerca di un sentiero. Lanciata a una velocità sempre maggiore in quel canale dalla corrente turbinosa, in men che non si dica la zattera se lo lasciò alle spalle. L'imbarcazione cominciò a ondeggiare, girando su se stessa come una foglia in un canale di scolo, ma Imrhien mantenne la presa con cupa determinazione, aggrappandosi alle funi che tenevano insieme i tronchi. Tuttavia, nell'oltrepassare un'altra curva, la ragazza scorse davanti a sé un altro, più grave pericolo che si parava direttamente sulla sua strada. Davanti a lei c'era una lunga rampa di rocce semisommerse, simili a gradini, non molto alti ma numerosi. L'acqua ribolliva, coperta di schiuma bianca. Una scala d'acqua... Non l'avevano davvero previsto. La rozza zattera sarebbe scivolata sulla sommità di quei grigi colossi dalla schiena ricurva? Sarebbe sgusciata intorno alla testa dei massi più grandi, insinuandosi tra essi? Oppure sarebbe semplicemente rimbalzata contro il primo, andando in pezzi? Imrhien rinsaldò la presa sulle corde. Afferrata la zattera, la corrente la trascinò lungo un ripido pendio di pietra, in fondo al quale essa prese a ruotare sul suo asse e saettò di lato, andando a sbattere contro una parete di roccia. Abbandonando la corda con una mano, la ragazza sfilò il bastone di legno di alloro dalle corde che lo tenevano assicurato alla zattera. Si era fatta un'idea di ciò che poteva aspettarsi su quella via d'acqua ed era pronta a reagire. La corrente era violenta, ma l'avrebbe lasciata passare se lei l'avesse assecondata, correggendo in anticipo la traiettoria della zattera e usando le convergenze e le divergenze del fiume per aggirare gli ostacoli peggiori. Serrando i denti, la ragazza si mise all'opera: una spinta qui, una là, un bilanciamento, un momento di attesa... Cavalcava la zattera come se fosse stata una bestia da domare.
La corrente la scagliò in aria, ma Imrhien era tenace e, nonostante vari errori di calcolo, i tronchi della zattera ressero agli impatti. La sua cavalcata sulle rapide schiumeggianti si protrasse per qualche tempo, finché la zattera non ebbe un ultimo sussulto e andò a cadere, malconcia eppure galleggiante, su un tratto d'acqua tranquilla, sovrastata da alberi da cui piovevano petali di fiori. Il tesoro era ancora a bordo. Da quel punto in poi, l'imbarcazione prese a scivolare lentamente verso valle, leggermente inclinata. Non essendoci remi, non c'era modo di giungere a riva, quindi la navigazione proseguì lenta per ore. Il sole iniziò a sprofondare tra foreste e montagne. In quei luoghi, fantastiche libellule e scintillanti moscerini giocavano sull'acqua e altri ranocchi, dalle ali di pipistrello, saltellavano sul fiume e tra gli alti canneti lungo la riva. Quelle creature possedevano una sorta di ripugnante fascino: la loro pelle era chiazzata d'oro e di verde; la coda era lunga e sottile, nonché irta di aculei sulla punta; le ali erano così trasparenti da lasciar passare la luce; gli occhi, grandi e brillanti, sembravano gioielli ambrati e i numerosi denti erano piccoli e aguzzi. Imrhien osservò i ranocchi da sotto il groviglio dei capelli grondanti, cui erano mescolate lunghe foglie di valisneria, e chiuse la mano intorno al tilhal che portava al collo. Ma quelle creature non la infastidirono. Erano giovani e, alla loro età, volevano soltanto fare qualche scherzo. La zattera andò infine a sbattere contro una sporgenza sabbiosa. Dopo averla legata a un tronco abbattuto, che giaceva a ridosso di quel ridotto promontorio, Imrhien si concesse un po' di riposo, cercando però di non addormentarsi. Infatti qualcuno doveva vegliare sul tesoro e nessun altro si poteva addossare quel compito. Anche la fame continuava a tormentarla. Quella notte, anche quando le capitò di scivolare per qualche istante nel sonno, lei rimase comunque vagamente consapevole dei volti cesellati, con occhi leggermente sollevati all'insù, che la scrutavano da sotto un groviglio di lunghi capelli verdi. Quei volti e quei capelli fluttuavano nell'acqua e Imrhien ne era certa - non erano un sogno. Quando finalmente spuntò un'alba grigia, un gelo intenso si era radicato nelle ossa di Imrhien. Ancora umidi, gli indumenti di seta di ragno non le davano il minimo calore, e lei continuò a tremare, massaggiandosi le braccia per riscaldarle un poco. Oppressa dalla stanchezza, intontita, si sentiva sperduta e sola. Le sembrava che non ci fosse motivo di continuare il viaggio, di prendere delle decisioni. A poco a poco, gli occhi si chiusero e infi-
ne si addormentò. Il sole era alto nel cielo quando venne svegliata dal rumore di qualcosa di massiccio che avanzava nel sottobosco. Sciolse subito il nodo della fune di ormeggio, ma, prima ancora di usare il palo per spingere la zattera lontano dalla riva, le giunse un richiamo. «Obban tesh!» gridò una voce. «In tutta la mia vita, non sono mai stato tanto contento di vedere un... tesoro!» Sianadh avanzò a grandi passi lungo la riva, sorridente, il volto sporco e i capelli arruffati. L'arco e le frecce sembravano scomparsi, ma lui teneva qualcosa stretto al petto, avvolto nella camicia. «E così eccoti qui, a viaggiare comodamente in barca mentre io mi aggiro nella foresta a piedi, schivando creature decise a mordermi. Mi hai fatto fare una bella corsa! Il tesoro c'è tutto? È sano e salvo?» Con un sorriso di sollievo, Imrhien annuì. Raggiunto lo sperone di sabbia con agilità sorprendente, Sianadh balzò sulla zattera, accanto a lei. «Te la sei cavata bene nelle rapide. Ci sono passato nel venire qui, e mi aspettavo di vedere la zattera ridotta in mille pezzi da qualche parte, sulle rocce. Non hai braccia forti, chehrna, e non disponi di poteri magici, però sei ingegnosa, ed è stato questo che ti ha salvato.» L'ertish accarezzò con soddisfazione i cofanetti del tesoro. «A quest'ora, avrai senza dubbio voglia di fare colazione! Lassù, tra gli alberi, ho trovato alcune uova, belle grosse. Le ho mangiate, succhiandone l'interno, ma ne ho tenute alcune per te, qui nella mia camicia. Ah, obban! Una si è rotta e ha rovinato la mia bella camicia di seta di ragno!» No, grazie. Andiamo. «Non hai fame? Come preferisci... Allora le mangerò io. Aspetta un momento, però... Sei stata tu a lasciare questo sul mio mantello, quando sei corsa verso la zattera per fermare quei dannati 'saltatori'?» Sianadh le mostrò un fiore azzurro come un laghetto montano incastonato nella roccia, vicino al cielo. Imrhien lo riconobbe: era lo stesso fiore che aveva donato al Gailledu quando li aveva messi in guardia contro il pericolo imminente... Sì, non era il medesimo tipo di fiore, ma proprio quello che lei gli aveva dato. L'aveva riconosciuto perché un paio di petali era segnato dal morso di qualche insetto. Il fiore era lo stesso eppure sembrava fresco come se fosse stato appena colto. Piena di meraviglia, rispose alla domanda di Sianadh scuotendo il capo. «No? Lo sapevo. Credo che il nostro amico fronzuto, il guardiano dei boschi, sia stato qui. Forse ci ha seguiti, ma perché mai mi ha donato que-
sto fiore?» Il suo sguardo incontrò quello della ragazza, ed entrambi compresero la risposta. I viandanti ancorarono la zattera per riparare le parti danneggiate e costruirono anche un paio di remi. Quando tutto fu pronto, sciolsero gli ormeggi e ripresero la navigazione. Sianadh non parlò più di andare a caccia, ma il problema del cibo rimase pressante e, nei giorni che seguirono, i due patirono la fame. Per distrarsi da quel pensiero, Sianadh insegnò a Imrhien altre parole nel linguaggio dei segni, raccontò storie, e si mostrò invariabilmente ottimista. «Quando arriveremo in città, mia sorella Ethlinn, con le sue conoscenze di Carlin, potrebbe guarirti. In caso contrario, può darsi che a Gilvaris Tarv ci siano Maghi e Dyn-Cvnnil in grado di farlo... Si tratta di uomini capaci di potenti magie. I loro servigi costano cari, ma questo non ha importanza, perché adesso sei ricca, e potrai spendere tutto quello che vorrai in cure, abiti... nel meglio del meglio. La tua vita è cambiata: stanno finalmente per arrivare tempi sereni.» Ma Imrhien non ne era convinta. Una cupa premonizione cresceva nel suo animo e diventava sempre più intensa a mano a mano che la corrente li trascinava verso la città. Attraversando una regione di fitti boschi, alle spalle dei quali le alture tornarono a spiccare sullo sfondo di un cielo azzurro intenso, il fiume si allargò leggermente. Verso sud, alcune nubi vorticavano come gabbiani d'argento. La zattera continuò la sua corsa. Terminati i racconti delle sue avventure, Sianadh cominciò a impartire alla ragazza varie lezioni di storia, ma Imrhien aveva il sospetto che quei discorsi interminabili fossero soltanto un modo per ignorare la fame. Lei ormai non ne avvertiva più i morsi; si sentiva soltanto stordita e incapace di concentrarsi su quello che Sianadh stava dicendo. A un certo punto, le parve addirittura di aver già ascoltato alcune vicissitudini, ma non riuscì a ricordare in quale occasione. «Il nostro buon Re-Imperatore, James XVI, è saggio e forte, e governa bene, ma neppure i reali si trovano fuori della portata delle creature unseelie. Sì, ciò che è accaduto alla sua Regina è stata una terribile sventura. Sai di cosa si tratta? No?» Abbassando la voce, Sianadh disse qualcosa a pro-
posito di una pericolosa creatura che, alcuni anni prima, aveva ucciso la Regina-Imperatrice, lasciando vedovo il Re-Imperatore e orfano il giovane Principe Edward. Nel frattempo, Imrhien sonnecchiava, cullata dal ronzare di nubi di piccoli insetti e dalla danza dei raggi di sole sull'acqua. La quiete venne improvvisamente infranta da un urlo acuto. Da un punto più avanti, verso valle, giunsero altre grida e un forte sciacquio. Imrhien sgranò gli occhi per lo stupore e l'orrore: una bambina si dibatteva nell'acqua. «Kavanagh!» stava gridando la bambina. «Kavanagh!» Sianadh sfogò il proprio sconcerto con una serie d'imprecazioni ertish, poi si alzò, facendo oscillare la zattera. «Obban tesh, quella è Muirne», ringhiò, la voce roca per l'angoscia. Si liberò subito del mantello, ma la sua compagna lo afferrò per un braccio, scuotendo il capo e trattenendolo. «Che ti prende, Imrhien? La figlia di mia sorella sta annegando, non lo vedi? Lasciami andare.» Imrhien scosse di nuovo il capo, mentre l'uomo si dibatteva violentemente per proiettarsi verso la figura in difficoltà. «Kavanagh! Kavanagh!» implorò una voce tremante di panico, soffocata dall'acqua. «Muirne! Sto arrivando!» Imrhien diede un violento ceffone sulla guancia del compagno che, con una selvaggia imprecazione, le si rivoltò contro, fissandola con aria minacciosa e sollevando un pugno come se fosse stato sul punto di calarglielo sulla testa. All'ultimo momento, però, Sianadh esitò e sbatté le palpebre, scuotendo la testa come per sgombrarsi la mente dalle ragnatele. «Oghi!» Tratto un profondo respiro, si rimise a sedere, tremante, le labbra che si muovevano senza che da esse scaturisse suono. «Lama di ferro e albero di sorbo, salvatemi da creature come quella», borbottò infine, mettendosi a fischiare, poi girò la testa in modo da distogliere lo sguardo dalla bambina urlante. Le vene del collo e delle tempie gli si gonfiarono come serpenti, gocce di sudore gli imperlarono le tempie, mentre la bambina sprofondava con un lamento e il fiume si richiudeva sopra di lei. La piccola non riaffiorò e, di lì a poco, la zattera passò nel punto in cui era scomparsa. Senza dire una parola, Sianadh rimase seduto, cinereo in volto; una volta superato quel tratto, i due compagni si costrinsero entrambi a girarsi per guardare.
Una creatura dalle forme femminili emerse dall'acqua fino alla cintura. Stavolta la creatura non accennò a dibattersi, anzi non mostrò neppure di nuotare, tanto da rendere impossibile capire come facesse a rimanere a galla, immobile come un giglio, con l'acqua che scorreva come seta lungo la vita snella e le braccia candide e sottili, protese verso i mortali. Privata della sua preda, l'annegatrice non urlò di rabbia, e nessuna espressione identificabile le affiorò sul volto dai tratti delicati. La sua reazione non ebbe nulla di umano. «Kavanagh, Kavanagh», chiamò, forse cantilenando. «Se non fosse stato per lei, avrei bevuto il sangue dal tuo cuore, e con te avrei banchettato.» Dopo aver parlato, la creatura sprofondò con grazia, lasciandosi alle spalle solo una lieve turbolenza. «Di certo non farò il bagno da queste parti», commentò Sianadh, asciutto. I due continuarono la navigazione, accompagnati dal gracchiare dei ranocchi in mezzo all'erba fluviale; in alto, gli alberi si protendevano sul fiume, con le radici che sporgevano nell'acqua e i viticci che pendevano dai tronchi. «Dock!» esclamò Sianadh, battendosi una pacca sulla fronte. «Ho lasciato il quadrifoglio nella mia vecchia camicia, quando me la sono tolta per indossare questi abiti di seta di ragno. Ecco perché non sono riuscito a vedere attraverso l'inganno dell'annegatrice. Essere ricco mi ha appannato il cervello. La tua intelligenza ci ha salvati ancora una volta, chehrna... evidentemente, tu hai pensato a portare con te qualche quadrifoglio. Me ne daresti uno?» Scuotendo il capo, la ragazza cercò di spiegare che anche lei aveva dimenticato di prendere quella pianta che proteggeva dagli incantesimi e che era stata ingannata in pari misura dall'illusione. Ma il buonsenso aveva avuto la meglio. La nipote di Sianadh viveva in città, dunque sarebbe stato davvero assai improbabile che si trovasse proprio E, davanti a suo zio, nel bel mezzo di una landa selvaggia. La sua «scorta» di gesti fu quasi inadeguata a trasmettere quei concetti a Sianadh. «Sei certa di non avere la Vista?» domandò lui, insospettito. Imrhien annuì con decisione. Una sera, soffiò per qualche tempo un vento shang, di scarsa intensità, e fu seguito da brevi rovesci di pioggia. Alla fine, la Via del Cuinocco si congiunse a un altro corso d'acqua che, in seguito, si riversò in un fiume
ancora più ampio che, a sua volta, si gettò infine nel Rysingspill, l'ultima tappa di quel viaggio che li avrebbe portati alla città costruita sulla sua foce. Le alture e i canaloni montani avevano ceduto il posto a basse colline. Il cielo sembrava di porcellana e aveva lo stesso colore degli occhi di Sianadh, Poi il fiume si avvicinò alla foce. «Ora che abbiamo raggiunto il Rysingspill, è probabile che ci s'imbatta in un po' di traffico fluviale», avvertì Sianadh. «Talvolta i cacciatori di pellicce si spingono fin quassù... Sono selvaggi uraguhne disposti a rischiare la vita altrui, e anche la loro, in luoghi infestati pur di trarne un guadagno. Se dovessero interessarsi a noi, non riusciremmo a distanziare le loro veloci imbarcazioni, quindi, qualora li avvistassimo, dobbiamo tenere gli occhi aperti e nasconderci, perché non ci penserebbero due volte a tagliare la gola a un paio di viandanti per impadronirsi dei loro averi.» Per precauzione, i due nascosero i cofanetti sotto il mantello di seta di ragno di Sianadh. L'ertish spiegò poi alla ragazza che Gilvaris Tarv era una movimentata città portuale in cui briganti e malintenzionati si aggiravano per le strade, mescolandosi ai cittadini e alla nobiltà; era una città priva di mura, senza porte sorvegliate o coprifuoco... Insomma, un interessante covo di marciume dove intere fortune venivano ammassate e perdute, un ribollente centro di commerci. I più ricchi vivevano in città, mentre i poverissimi vivevano all'estrema periferia e talvolta ne venivano addirittura scacciati. Trovandosi sulla costa orientale dell'Eldaraigne, Gilvaris Tarv era un porto cui attraccavano abitualmente le navi provenienti dalla Namarre, adducendo motivazioni commerciali spesso fasulle. Gli ufficiali portuali chiudevano un occhio su quegli affari poco puliti e prosperavano di conseguenza. «Inutile entrare nel Porto di Tarv su un'imbarcazione che riusciamo a stento a manovrare. Alcuni mercantili ci travolgerebbero... Comunque daremmo nell'occhio, mentre io voglio passare inosservato. Se dovesse diffondersi la voce che abbiamo con noi dei preziosi, anche un singolo scellino, la nostra vita non avrebbe più nessun valore. No, dobbiamo sbarcare prima di arrivare in vista della città ed entrarvi a piedi, come due venditori ambulanti.» I due non incontrarono imbarcazioni di cacciatori di pellicce. Il quinto giorno dalla partenza dalla Scala d'Acqua, gli alberi si assottigliarono e una lieve nebbia si levò sull'acqua. Il fiume, ora molto largo e fiancheggiato da equiseti color verde ardesia, trasportò la zattera fino ai bordi di una pianura
ondulata. Capanne dal tetto di paglia erano visibili in mezzo a boschetti di sorbo e di alberi da frutto e mura di pietra racchiudevano recinti nei quali pascolavano alcuni animali. Il buio cominciò a calare. Sianadh era sempre più nervoso. «Ormai siamo vicini. Stiamo rischiando troppo... I contadini o i pescatori lungo la riva possono vederci. Cosa penserebbero di due persone dall'aria strana che discendono il fiume, provenienti dalle Lofty Mountains? Ci scambierebbero senza dubbio per creature soprannaturali.» Servendosi dei loro remi improvvisati, i due diressero la zattera verso la riva occidentale. Là essa si arenò, stridendo, sul fondale di ghiaia e i due sbarcarono sotto una macchia di equiseti, i cui lunghi rami carichi di foglie aghiformi ondeggiavano come una capigliatura sciolta. Dopo aver scaricato i tre cofanetti, sciolsero le corde che tenevano insieme i tronchi della zattera, li spinsero lontano e li guardarono fluttuare verso valle, separandosi lentamente. Una vista che destò in entrambi un'innegabile tristezza. «Da ora in poi, saremo venditori ambulanti diretti a Tarv, venuti a tentare la fortuna in queste contrade», decise Sianadh, sfregandosi con decisione le mani. «E stanotte, finalmente, dormiremo all'asciutto!» In effetti, fu piacevole annidarsi su un mucchio fragrante di aghi caduti, ma riuscì loro difficile abituarsi all'immobilità del suolo. Distesa nell'oscurità, sveglia, Imrhien rimase ad ascoltare il mormorio del fiume, pensando alla città e ai suoi probabili orrori. Il mattino successivo, scoprì che Sianadh non le era accanto. Andò a bere al fiume e si lavò la faccia e le mani. Intorno a lei, le gazze intonavano il loro armonioso canto di saluto all'alba e, al di là degli alberi, il sole del mattino stendeva la sua luce sui campi di grano, intessendovi una sorta di arazzo. I cofanetti erano ancora là dove Sianadh li aveva riposti, nascosti sotto alcuni cespugli di mirto, quindi l'ertish non poteva essere andato molto lontano. La ragazza attese con pazienza. Dopo qualche tempo, Sianadh fece ritorno, ridacchiando con aria orgogliosa e trasportando sotto un braccio mezza forma di pane. «Dateci dentro, Vostra Signoria! Devi mantenerti in forze... Non posso trasportare il nostro tesoro in città da solo!» Spezzato in due il pane, Imrhien cominciò a sbocconcellarne una parte e offrì a lui la porzione più grossa. Ma Sianadh la respinse. «Chi credi che abbia mangiato l'altra metà?» commentò. Chi poteva immaginare che una semplice pagnotta fosse più gustosa di
un banchetto? Imrhien avrebbe potuto divorarne una quantità doppia, ma si accorse del modo in cui gli occhi del suo compagno seguivano la sua mano che portava alla bocca i pezzi di pane. Era l'espressione di un amante disperato. Nonostante il suo rifiuto, Sianadh non poteva nascondere che mezza forma di pane non aveva placato la sua fame. Quindi Imrhien, dopo averne mangiato un po', si finse sazia e guardò il suo compagno mentre divorava il resto come un lupo famelico. Quando ebbe terminato, Sianadh le gettò in grembo alcune monete, che lei esaminò con attenzione: erano piccoli dischi fatti di rame. Un lato recava un'iscrizione numerica che lei non era in grado di leggere; sull'altro era stampato il profilo di un volto. Su ogni moneta, il lato del profilo appariva consunto e offuscato, coi dettagli indefinibili. «Intasca quelle monete!» la invitò Sianadh, in tono trionfante. Come monete? Come pane? «Ho prelevato dal tesoro un fiorino d'argento. L'oro o i gioielli ci avrebbero traditi, naturalmente, e una moneta d'argento è stata la cosa di minor valore che ho trovato. Ah! La cosa di minor valore... e pensare che è più di quanto io abbia mai posseduto! Quanto al pane, l'ho comprato da una contadina taccagna.» Ancora affamati, ma abbastanza rinvigoriti, i due si legarono i cofanetti sulla schiena, sotto il mantello, e s'incamminarono, curvi come due tartarughe. Ben presto s'imbatterono in una strada che portava a sud, un sentiero pieno di solchi e incassato tra alti terrapieni coperti di siepi su entrambi i lati. More mature punteggiavano i rovi e i due non esitarono a coglierle mentre camminavano. Lungo la marcia, oltrepassarono numerose capanne e, di tanto in tanto, incontrarono un carretto trainato da cavalli, diretto nell'una o nell'altra direzione. In quelle aree popolate, Imrhien badò a tenere la testa bassa e a tirarsi il cappuccio sul volto, per nasconderlo, mentre Sianadh salutava allegramente i conducenti. «Tieni ben calcato in avanti il cappuccio», sussurrò alla ragazza. «Basterebbe una sola occhiata al tuo volto, chehrna, per far nascere pettegolezzi in tutta la regione. Dobbiamo passare inosservati, te l'ho detto.» A Imrhien sembrava che il suo carico diventasse più pesante di minuto in minuto. La carenza di cibo l'aveva indebolita e le pareva di avanzare in mezzo al fango. A mezzogiorno, si riposarono in un boschetto di betulle adiacente la strada. Sianadh andò in una fattoria nei pressi e, usando le monete di rame, comprò da mangiare e da bere. Il cibo era più sostanzioso
del semplice pane e, dopo aver mangiato, Imrhien aveva una gran voglia di dormire, ma si costrinse ad alzarsi e a riprendere la marcia. Il crepuscolo era ormai prossimo quando arrivarono alla periferia di Gilvaris Tarv e infine entrarono nella città. 6 GILVARIS TARV DOLORE E PERFIDIA
Io sono il Bastone, e il Bastone è l'Albero. L'Albero afferra il Vento nella sua chioma, cattura il Fuoco nelle sue ossa, pompa l'Acqua nelle sue vene, stringe terriccio e pietra nelle lunghe dita. L'Albero si erge tra cielo e terra. L'Albero è il Bastone, e il Bastone sono io. Canto Carlin Il silenzio è un incantesimo. Detto arysk Un passero saltellò lungo una delle nere travi distorte, girando la testa come se stesse cercando qualcosa, poi si arrestò, arruffando le penne con aria compiaciuta, emise un breve ciangottio e spiccò il volo, descrivendo un rapido giro della stanza prima di saettare tra le imposte socchiuse e uscire nella luce del sole. Granelli di pulviscolo e una morbida piuma fluttuarono lentamente lungo un raggio di luce, oltrepassando la camomilla in fiore che cresceva in un vaso sul davanzale e andando a posarsi ai piedi del letto, portando con sé i suoni e gli odori della strada sottostante. Non era una stanza grande. Le pareti erano di legno, rivestito di una sostanza dura e biancastra simile alla calce e, qua e là, erano coperte da pezzi di tela da sacco inchiodata ai travicelli. Il letto, piuttosto grande, occupava
la maggior parte dello spazio disponibile; su un sostegno addossato a una parete stavano un candelabro, in cui era infilato un mozzicone di candela, una brocca e una bacinella spaiate, una spazzola di legno per i capelli e uno specchio dal manico lungo. Sotto la finestra era sistemato uno sgabello di legno. Ogni cosa era permeata da un profumo di lavanda. Da dietro una sottile partizione giungeva il familiare rumore di qualcuno che russava. Un vero letto... un lusso incredibile. Imrhien non riusciva a ricordare di aver mai dormito in un letto prima di allora. Distesa sulle lenzuola odorose di lavanda, ripercorse gli eventi della notte precedente, esaminandoli da ogni angolazione. Tutto ciò che ricordava della città erano alcune impressioni. Quadrati di luce gialla che trapelava dalle finestre a più luci, rivelando una sconcertante miscela di movimenti, di odori e di suoni; una foresta che stava soffocando nel suo stesso sottobosco, nella quale gli alberi erano travi, colonne e tetti degli edifici, mentre la vegetazione eccessiva era costituita dal ribollire di umanità, un insieme di fiori affascinanti e di fetidi funghi. I piani superiori sporgevano sulle gallerie distorte che costituivano le strade, i bucati stesi ad asciugare sventolavano come bandiere e i canali di scolo puzzavano. Simili a tori che muggissero in campi lontani, i venditori ambulanti lanciavano le loro grida di richiamo. L'aria della sera era permeata dal tintinnio dei finimenti, dal rombo delle ruote, dallo schiocco delle fruste, da grida umane, dall'abbaiare dei cani e da frammenti di musica. Il fumo che si alzava dai bracieri ardenti ispessiva l'aria, mescolandosi alla fragranza dei dolciumi e dei profumi. Le armature scintillavano alla luce delle lampade. E tutto ciò era dominato dalla sagoma incombente e trapassata di luce della Torre del Decimo Casato dei Cavalieri della Tempesta. La ragazza aveva camminato in mezzo a tutto quel rumore, a quelle luci e a quegli odori, stando così vicina a Sianadh da sembrare la sua ombra, tenendosi il cappuccio calato in avanti e il mantello sollevato a coprire la parte inferiore del volto. Per tutto il tragitto non aveva quasi alzato lo sguardo, se non per evitare di perdere di vista il suo compagno nell'oscurità sempre più fitta. Sianadh l'aveva guidata lungo strade e vicoli tortuosi, fino a confondere del tutto il suo senso dell'orientamento, infine aveva annunciato: «Siamo arrivati... Bergamot Street». I due avevano svoltato in una via stretta e buia e, poche iarde più avanti, l'ertish aveva bussato a una porta. Il battente si era aperto con un tintinnio di campanelli e un quadrato di luce intensa si era riversato sull'acciottolato. A quel punto Imrhien si era ritratta, distogliendo il volto, ma Sianadh
l'aveva afferrata saldamente per un braccio, spingendola in avanti e, senza sapere come, lei si era ritrovata nella casa, con la porta chiusa alle sue spalle, circondata da mani che si muovevano, da esclamazioni di gioia e da grida di benvenuto. A quel punto, i suoi ricordi si facevano un po' offuscati. C'erano stati tre volti... Anzitutto la padrona di casa, una donna dallo sguardo calmo e penetrante, con la cuffia che lasciava sfuggire una ciocca di capelli ramati, troppo ingrigiti per reggere il confronto con quelli di Sianadh, e con un disco azzurro dipinto sulla fronte. Poi c'era un giovane sui vent'anni, dal volto ampio, con uno sguardo indagatore e un sorriso sempre pronto ad affiorare, il tutto incorniciato da capelli di un rosso così vivo da ricordare la brace. Il terzo volto apparteneva a una ragazza che aveva più o meno l'età di Imrhien, coi capelli dello stesso colore di quelli del fratello e con occhi che, quando si erano posati sulla nuova venuta, non erano riusciti a mascherare il disgusto e la paura, sebbene lei avesse cercato di nasconderli. Il suo sorriso non era arrivato a illuminare gli occhi. «Come stai?» avevano chiesto i tre a Sianadh, tra un abbraccio e l'altro. «Non sono affari vostri», aveva ribattuto lui, con una fragorosa risata, sollevando la ragazza dai capelli rossi e facendola roteare fino a strapparle un grido di gioia. Poi Imrhien era stata liberata del suo fardello, troppo stanca per preoccuparsi di dove fosse stato messo. Si era ritrovata seduta a un tavolo, davanti a una ciotola di minestra. Dall'altra parte del tavolo, Sianadh stava mangiando e parlando con la bocca piena, agitando il cucchiaio in una mano e un pezzo di pane nell'altra. Imrhien ricordava la luce del fuoco e delle candele nonché un boccale di un liquido caldo che le era stato messo in mano, il cui contenuto, quando lo aveva sorseggiato, le era scivolato in gola e nelle vene come fuoco verde, rinfrancandola e rilassandola. Qualcuno l'aveva poi condotta in quella stanza al piano superiore, dov'era crollata sul letto, ancora vestita. Le ultime parole che aveva udito - e che erano giunte fino a lei dal piano di sotto - erano state quelle di Sianadh: «No, non ha le pulci, ed è una ragazza». Al piano di sotto, la mattina dopo, la sorella di Sianadh, Ethlinn, era impegnata a prelevare acqua da una pentola sul fuoco e versarla poi in una vasca di legno, rivestita di stoffa e posta in un angolo, dietro una spessa tenda. La donna, che era vestita nei toni dell'azzurro e del grigio - i colori di una Carlin -, si girò con un sorriso nel sentir arrivare la sua ospite, poi
posò la brocca sul tavolo, si asciugò le mani nel grembiule e prese a muovere le dita in una serie di gesti intricati. Imrhien scosse il capo, perché quel modo di esprimersi a gesti era troppo veloce per lei, e conteneva segni che non aveva ancora imparato. Sorridendo, come se avesse compreso, Ethlinn indicò il bagno. Il ricordo di un commento relativo alle pulci affiorò, sgradevole, nella mente di Imrhien, ma lei ritenne che non fosse stata la Carlin a proferirlo. Comunque l'acqua del bagno, odorosa di boccioli di melo, era troppo invitante. Ben presto, la ragazza si trovò immersa nell'acqua calda, dietro la tenda, intenta a riflettere sull'unico altro bagno che ricordava di aver fatto e avvertendo sulle spalle il tocco dei lunghi capelli dorati, un tempo cortissimi. Senza dubbio, quella casa era il posto migliore di tutta Erith... Se soltanto fosse riuscita a procurarsi una faccia - una faccia comune, che nessuno degnasse di una seconda occhiata -, avrebbe potuto vivere lì in eterno, facendo il bagno nell'acqua profumata di fiori di melo e dormendo tra lenzuola odorose di lavanda. Però una cura sarebbe costata parecchio. Assalita da una preoccupazione improvvisa per i cofanetti del tesoro, la ragazza uscì dalla vasca e si asciugò, prendendo gli abiti che Ethlinn aveva disposto su uno sgabello. Quelli non erano i suoi indumenti di seta di ragno, ma vestiti da popolana, puliti e rammendati. Probabilmente erano appartenenti a Muirne, la figlia di Ethlinn - quella che le aveva rivolto uno sguardo disgustato -, la quale aveva la sua stessa corporatura snella, ma era più bassa. C'erano un'aderente veste di lino, con le maniche abbottonate dal gomito al polso, una sopravveste di cotonina con maniche più ampie e lunghe fino al gomito, una semplice cintura, un quadrato di stoffa per i capelli, il suo vecchio cappuccio ma con un nuovo rivestimento esterno a sostituire quello vecchio, logoro e macchiato -, un mantello di lana e il suo tilhal a forma di galletto. Quelli erano abiti da ragazza: non aveva più alternative se non quella di affrontare la realtà. Quando infine emerse da dietro la tenda, sentì, la voce di Sianadh pervadere la stanza di allegre battute in ertish, alternata alle pronte risposte di suo nipote Liam. Muirne, intenta a disporre sul tavolo con le sue manine affusolate frittelle e marmellata di ribes rosso, non sollevò neppure la testa ramata, i cui folti capelli erano stati raccolti in sette trecce sottili, simili a code di topo o a lacci per le maniche, decorate in tutta la loro lunghezza da perline colorate. La stanza era spaziosa, pulita e piena di oggetti affascinanti. Il pavimen-
to di pietra era coperto da uno strato di canne fresche e, in alto, una lanterna di corno dondolava in mezzo a mazzi di foglie e di fiori secchi che pendevano dalle travi annerite dal fumo. Ganci alle pareti sostenevano una fila di pentole ammaccate; accanto al forno e al focolare, sul retro della stanza, una porta e una finestra si affacciavano su un cortile; nell'angolo opposto, il piede di un letto era visibile sotto un'altra tenda. Lungo una parete, panche e scaffali erano coperti da una profusione di oggetti e d'ingredienti dall'odore pungente: mortai e pestelli di diverse dimensioni, cucchiai, setacci, una fila di coltelli, lacci, quadrati di stoffa, bottiglie e orci tappati ed etichettati, un piccolo macinino, alcune brocche, misurini, ampolle, un imbuto, ciotole, pinze, bilance... In mezzo a quegli oggetti erano ammucchiati cumuli di erbe fresche e secche, foglie, steli, radici, bacche, cortecce, fiori, semi, noci, funghi, erbe, spore e grani. Nel centro della stanza c'era un grande tavolo, a un'estremità del quale era stata ammucchiata una buona parte del contenuto della panca, probabilmente in modo che l'altra rimanesse libera per i pasti. Su entrambi i lati, panche di quercia non levigata fornivano ampio spazio per sedersi. L'estremità anteriore della stanza era poi separata dal resto grazie a una partizione al cui centro c'era un'apertura, coperta da una tenda, che permetteva di accedere alla minuscola bottega e alla porta principale, che si apriva direttamente su Bergamot Street con un tintinnio di campanelli. Le mani di Ethlinn tracciarono alcuni rapidi segni. «Mia madre chiede se vuoi sedere alla nostra tavola per fare colazione», spiegò Liam, con un rigido inchino. Nel suo portamento non c'era però traccia di sarcasmo, e il suo sguardo rivelava soltanto onesta curiosità. Cosa aveva detto Sianadh sul suo conto? Cosa poteva mai sapere lui, al suo riguardo? «Adesso, chehrna, per un riguardo nei tuoi confronti, ci esprimeremo soltanto nella lingua comune e nel linguaggio dei segni», annunciò Sianadh. «Tuttavia, prima di metterci a parlare, mangeremo una buona porzione di questo cibo eccellente. Una tavola silenziosa è una tavola cui ci si dà da fare, e io ho sempre apprezzato la cucina di Eth e del mio Passerotto.» Ma l'irrefrenabile giovialità dell'ertish non poteva essere contenuta a lungo. Ben presto lui raccontò ai commensali la storia della beffa subita per opera del Piccolo Popolo - i minuscoli siofra, o fane, com'erano talvolta chiamati - che lo aveva raggirato con la sua fiera illusoria. La storia non perse nulla nella narrazione, e tutti si ritrovarono piegati in due dal ridere.
Poi i campanelli trillarono e Muirne si alzò prontamente. «Ci penso io, madre», disse, oltrepassando la tenda che separava l'abitazione dalla bottega. Poco dopo rientrò col grembiule pieno di prugne, spiegando: «Una scottatura. Ho preparato un impiastro». Hai fatto bene, approvò la madre. «Quanto tempo ti ci è voluto per preparare la base per quell'impiastro?» domandò Sianadh e, quando la sorella scrollò le spalle, proseguì: «Scommetto che hai impiegato ore per raccogliere le erbe, lavarle, seccarle, triturarle, farne un infuso, filtrarlo e via dicendo... e guarda cosa hai avuto in cambio, tambalai: una manciata di prugne. No, Passerotto, non ce l'ho con te, so quali sono le tariffe stabilite da tua madre e so che ti attieni semplicemente alle sue disposizioni, però lei chiede troppo poco, lo ha sempre fatto, e lavora troppo». Sospirò. «Ma tutto questo sta per cambiare. È giunto il momento di parlarne.» Muirne dispose le prugne su un piatto. «Vedete, Imrhien è una dama facoltosa», proseguì Sianadh, protendendosi sul tavolo e assumendo un tono da cospiratore. «Era in viaggio alla volta di Tarv - stava andando a curarsi il deturpamento da edera paradossa che ha subito -, ma la sua scorta ha avuto un incidente. La fortuna ha voluto che io mi trovassi da quelle parti, e così eccoci qui. Ma non è il caso che parliate in giro di lei... Imrhien non vuole accoglienze particolari. Desidera soltanto una cura.» Imrhien annuì, approvando il modo particolare che Sianadh aveva di formulare le sue spiegazioni. Ethlinn si rivolse alla figlia, facendo una serie di gesti complicati. «Immediatamente?» domandò la ragazza. La Carlin annuì. «Mia madre ha chiesto a Muirne di andare a fare una commissione», spiegò Liam, mentre Muirne si toglieva il grembiule e prelevava dalla mensola del camino un cesto e alcune monete di rame; tiratasi su il cappuccio, la ragazza uscì, accompagnata dall'inevitabile trillo dei campanelli. «Adesso possiamo parlare davvero», dichiarò Sianadh. «Non voglio offendere il Passerotto, ma quello che non sa non le può recare danno. La scorsa notte, dopo che voi giovani siete andati a dormire, Ethlinn e io abbiamo parlato, trovandoci d'accordo sul fatto che tu, Liam, ragazzo mio, dovevi essere l'unico a conoscere la verità.» «Mi onori, zio.» «Nient'affatto. So che puoi essermi utile, questo è tutto. Devi sapere che,
sulle Lofty Mountains, mi sono imbattuto in un tesoro perduto, un tesoro di sildron e di candelburro e di oggetti così incredibili che non puoi neppure vagamente immaginare. Imrhien ha trovato il modo di aprire le porte per arrivare al tesoro, e ne abbiamo riportato indietro una parte. Metà le appartiene - lungo il viaggio ci siamo salvati a vicenda la pelle più di una volta , ma puoi credermi se ti dico che una decima, una millesima parte di quel tesoro potrebbe farci vivere nel lusso per il resto dei nostri giorni.» «Madre dei Guerrieri!» esclamò Liam. «Quindi siamo ricchi, è così?» Balzato in piedi, prese a danzare una giga, mentre la madre e lo zio sorridevano di tanto entusiasmo. «Ricchi, finalmente!» gongolò il giovane. «Dopo essere stati poverissimi per secoli, avremo finalmente tutte le belle cose che meritiamo.» «Meritiamo?» tuonò Sianadh. «Meritiamo? Ragazzo, tua madre non ti ha mai riferito le sagge parole di nostra nonna, riguardo al meritare qualcosa?» Liam smise di saltellare e scoccò allo zio un'occhiata interrogativa. «Lei diceva sempre che nessuno merita nulla, in questo mondo», continuò Sianadh. «Nulla. Né nel bene, né nel male. Si ha quel che si ha, e questo è tutto. Chi parla di meritare o di non meritare ottiene soltanto un animo pieno di risentimento.» «Ah, come vuoi», ribatté con noncuranza Liam, rimettendosi a sedere. Sianadh strizzò l'occhio a Imrhien. «Ragazzo, concentra la tua attenzione su di me e ascoltami. Intendo tornare là con una spedizione per prendere altre cose, un grosso carico, e ho bisogno del tuo aiuto. Ethlinn mi ha detto che, dall'ultima volta che sono stato qui, i miei amici si sono dispersi tutti... ne rimane soltanto uno dei pochi, fidati compagni che avevo un tempo, ma è storpiato da una frattura a una spalla, dovuta a una rissa con alcuni mercenari in una birreria. Di conseguenza, ragazzo, ho bisogno delle tue braccia robuste e di una mezza dozzina di persone fidate.» «Ma, se si tratta di sildron, senza dubbio appartiene di diritto al ReImperatore, non credi?» «Liam, non cominciare a comportarti come tuo fratello. È con l'Orso che stai parlando. Senza dubbio, il Re-Imperatore ha più sildron di quanto tu possa immaginare e non gliene serve altro. Dopo aver preso tutto quello che vogliamo, informeremo la Corte del Re-Imperatore di aver scoperto un tesoro perduto, di cui non abbiamo toccato una sola moneta. In tal modo, le autorità potranno reclamare il resto, tranne la ricompensa che spetterà a noi, naturalmente. In quelle caverne ci sono cose troppo grosse perché noi
possiamo portarle via, e poi preferisco che quelle ricchezze cadano nelle mani giuste - le nostre e quelle del buon Re James e dei Dainnan - e non nelle grinfie di qualche dannato pirata. Non ho ragione, chehrna?» «Zio... Non avrò difficoltà a radunare al più presto i ragazzi che ci servono per questa spedizione», disse con entusiasmo Liam. «Bravo. Ricorda tuttavia che, prima della partenza, nessuno di loro dovrà sapere dell'esistenza del tesoro. È di vitale importanza che la notizia di quelle ricchezze non trapeli in città e, per quanto siano fidati, i tuoi amici sono comunque esseri mortali, e possono lasciarsi sfuggire qualcosa. Informali che un ricco straniero ha organizzato una spedizione di caccia, e che dovremo raggiungere questo nobiluomo in un punto imprecisato, a monte del fiume.» «Mi chiedi di mentire ai miei amici?» «Esigo che tu menta con loro, altrimenti non ci sarà nessuna spedizione. A parte noi quattro seduti a questo tavolo, nessun altro dovrà sapere cosa si cela sotto la Scala d'Acqua... neppure tuo fratello e tua sorella. In seguito, ci sarà tutto il tempo per rivelare ogni cosa, ma non prima che si sia prelevata la nostra parte. E adesso, Liam, giura di mantenere il segreto.» Il giovane guardò verso la madre, che annuì. «Lo giuro, per te e per le ricchezze», disse. «Quando cominciamo?» «Non appena avrai radunato un gruppo adeguato e avremo acquistato le provviste.» «E tu ci accompagnerai, Lady Imrhien?» Imrhien fece per annuire, ma Sianadh troncò quel gesto sul nascere. «No! Chehrna, quelle terre selvagge non sono un posto adatto per una ragazza. Rimani al sicuro... Ti porterò io la tua parte del tesoro, puoi esserne certa.» La ragazza si accigliò, scuotendo il capo. «Resta qui e sottoponiti alla cura che tanto desideravi», insistette Sianadh, con gentilezza. «Ethlinn, puoi ridarle il suo vero volto?» Imrhien trattenne il respiro per l'ansia, poi vide la Carlin accasciare le spalle, come se Sianadh le avesse gravate di un peso eccessivo. Dopo un momento, la donna si rivolse al figlio e fece qualche segno. «La mamma dice che non può aiutarla. Il suo Bastone da Carlin è potente, però non è in grado di curare un caso tanto grave di deturpamento da edera paradossa senza rischiare che rimangano delle cicatrici.» Devi andare dalla Figlia di Grianan, che vede con un occhio solo, aggiunse Ethlinn, nel linguaggio dei gesti.
«Una Figlia del Sole Invernale... si riferisce a una Carlin», spiegò Sianadh. «La Carlin di cui parla mia sorella è molto potente, forse la più potente di tutte. Maeve la Guercia... Dove credi che si trovi, Eth? Lei viaggia molto, se non sbaglio, e non si ferma mai in uno stesso posto per più di una stagione.» Le mani di Ethlinn si mossero, veloci. «Ogni autunno, quella dama s'insedia in un piccolo villaggio chiamato White Down Rory, vicino a Caermelor», tradusse Liam. Imrhien calò un pugno sul tavolo per sfogare un improvviso slancio d'ira, poi abbandonò stancamente il capo tra le mani. Aveva dunque fatto tanta strada, attraversando buona parte dell'Eldaraigne, soltanto per scoprire che doveva tornare indietro? «Non potrebbe esserci qualche altro guaritore capace di aiutarla, qui a Gilvaris Tarv... un Dyn-Cynnil, o qualcosa del genere?» domandò Sianadh. No, risposero le mani di Ethlinn. I guaritori maschi sono inutili. «In tal caso, possiamo soltanto usare le nostre ricchezze per organizzare una carovana che accompagni la ragazza in direzione della Città Reale, per raggiungere la Carlin Maeve a White Down Rory. Non ti preoccupare, chehrna, ci vorrà soltanto un po' più di tempo per avere la cura, ma sarai curata. Sì, questa è la soluzione giusta! Mentre Liam e io saremo tra le montagne, intenti a caricare i cavalli da soma di sildron e d'oro, Imrhien viaggerà verso ovest con ogni comodità e senza rischi. Troveremo i mezzi di trasporto migliori e, in pochissimo tempo, arriverai dall'altra parte dell'Eldaraigne, dove al tuo volto verrà restituita la bellezza di un tempo... Non ti riconoscerò più, quando verrai a trovarmi nel mio palazzo dorato!» Imrhien si costrinse a sorridere. D'accordo. Partirò. La prospettiva di viaggiare senza Sianadh, però, le sembrava tutt'altro che allettante. Sistemata quella faccenda, l'ertish tornò a concentrarsi sugli affari. «E adesso dimmi, mio giovane nipote... Quanti compagni puoi radunare? Devono essere forti, degni di fiducia e capaci di tenere la bocca chiusa.» Il tintinnio dei campanelli indusse Ethlinn ad alzarsi per andare nella bottega, ma, prima che lasciasse la tavola, la tenda di cuoio venne spinta da parte e, nella stanza, entrò un uomo alto, vestito con l'uniforme di cuoio borchiato propria delle guardie cittadine, e coi capelli castani legati in una coda stretta e rigida, secondo lo stile adottato dai Cavalieri della Tempesta. «Per la Stella, ma questo è lo zio Orso!» esclamò.
Balzando in piedi, Sianadh strinse il nuovo venuto in un abbraccio davvero degno di un orso, poi entrambi tornarono al tavolo, scambiandosi energiche pacche sulla schiena. Riempito un altro boccale di birra, Liam lo porse al fratello maggiore. «Imrhien... Questo è Diarmid, l'altro mio nipote», disse Sianadh. Il sussulto che sfuggì dalle labbra di Diarmid allorché lui scorse il volto rovinato della ragazza riecheggiò nella stanza. Ma, in reazione ad alcuni gesti della madre, il giovane abbassò subito lo sguardo sul suo boccale e, dopo un istante, rispose alla presentazione in tono formale e con un rapido cenno del capo. «Sono al vostro servizio, mia signora.» Imrhien replicò con un gesto di saluto. «Allora, soldato, cosa ti conduce qui?» domandò Sianadh, in tono pieno di calore. «Come ti trovi a esercitare l'arte del mercenario?» «Molto bene, zio», replicò Diarmid, in tono grave. Il suo volto rasato somigliava a quello di Muirne, con tratti affilati, quasi appuntiti. Proprio come la sorella, il giovane era avvenente. Castano di capelli, aveva però le radici di un rosso scuro. «Mi guadagno da vivere e ho imparato molte cose.» «Vuoi ancora entrare a far parte dei Dainnan, vero, cuore coraggioso?» «Sì. Ora più che mai, quella è la mia meta.» Quando il suo addestramento sarà completo, mio figlio desidera recarsi alla Corte. «Davvero? Allora impara il possibile dai mercenari di Gilvaris Tarv, poi lasciali e dirigiti a ovest.» «Infatti.» «Sei sempre stato un uomo del Re, nel cuore e nell'anima, e i migliori guerrieri di Erith sarebbero orgogliosi di averti tra loro.» I campanelli della bottega tintinnarono, ed Ethlinn lasciò la stanza per andare a servire il cliente, mentre i tre uomini s'immergevano in una fitta conversazione. Dopo che il cliente se ne fu andato, la donna trasse di lato la tenda di cuoio e fece cenno a Imrhien di raggiungerla nella bottega. Nell'obbedire, la ragazza notò che, sulla manica sinistra di Ethlinn, era ricamata una testa di cervo blu scuro. La piccola bottega somigliava alla stanza più grande, ma appariva più ordinata. Ethlinn mostrò a Imrhien una serie d'infusi, unguenti, paste, cordiali, polveri e strumenti, tracciando una serie di gesti lenti e comprensibili. Lascia che ti mostri qualcosa della mia arte. Questo è il Bastone da
Carlin, una cosa vivente, spiegò, prendendo un pezzo di legno lungo circa due piedi, liscio e semplice a parte tre nodi vicini alla sommità, rivolti ciascuno in una direzione diversa e posti a livelli differenti. Nutrimento, Risanamento, Protezione, spiegò, indicando i nodi. Quando non lo si utilizza, il Bastone deve essere piantato nel terreno, perché da esso attinge il suo potere. Ethlinn ripose il Bastone nel fodero che le pendeva dalla cintura. Ho modo di curare molte malattie che affliggono i mortali... terapie che sono utilizzate dalle Figlie di Grianan, in tutta Erith, proseguì, toccando il disco azzurro che aveva dipinto sulla fronte. Sono cure potenti, ma non abbastanza per risanare i gonfiori che ti deturpano il viso... Le sue dita sfiorarono il volto di Imrhien con dolcezza, un tocco quasi materno che nessuno aveva mai avuto per quei tratti mostruosi. Sono una malattia di genere lorraly... Rientrano nell'ordine naturale delle cose, però sono molto gravi. È possibile che la Carlin con un occhio solo sia in grado di risanarli. Senza dubbio, ti starai chiedendo se non si possa fare qualcosa anche per la tua voce e per la tua memoria. Sianadh me ne ha parlato. Io ti darei del rosmarino da tenere sotto il cuscino per ridestarti al ricordo del tuo passato... Se potessi, ti prescriverei rimedi dolci, ma queste due malattie, la perdita della parola e quella della memoria, non appartengono al genere lorraly. Sono magiche. Se le hai, è perché qualcuno ti ha fatto un incantesimo. Imrhien sentì un brivido correrle lungo la schiena. Dimmi di più. Non so nulla di più. So soltanto che sei stata toccata da un incantesimo, in profondità. Non andare però a chiedere aiuto ai Maghi. La maggior parte della gente crede il contrario, ma la loro pretesa di saper eseguire incantesimi è soltanto un'illusione. La vera magia risiede soltanto nelle mani degli immortali e di pochi, speciali esseri mortali cui essa è stata elargita. Le creature soprannaturali ne fanno uso, anche se i loro poteri non sono paragonabili a quelli posseduti un tempo dai faêran, che non si aggirano più nelle terre di Erith. La Carlin con un occhio solo ha più contatti di me con le creature seelie, quindi potrebbe esserti di maggiore aiuto. Quindi lei e la mia unica speranza? chiese Imrhien. Sì. Ecco, forse potresti avere un'altra possibilità di ritrovare almeno la memoria... Le mani della Carlin rallentarono i loro movimenti e, per un momento, il suo sguardo si fece vacuo, mentre lei fissava, senza vederli, gli scaffali carichi di bottiglie e di vasetti. Mio marito... Seguirono alcuni gesti che la ragazza ignorava, poi: Tu non puoi conoscere il segno che cor-
risponde al suo nome. Quand'era giovane, è andato per mare, imbarcandosi su una nave mercantile, navigando da un porto all'altro. Una notte, però, ha passato troppo tempo a cantare in una taverna del Luindorn aveva una voce splendida - e, una volta tornato ai moli, ha scoperto che la sua nave era salpata con la marea. Lui si è trovato un lavoro nel Luindorn finché non è arrivata un'altra nave e, nel frattempo, ha insegnato ad alcuni ragazzi del posto un gioco chiamato Lancia-la-Palla. Imrhien riconobbe il segno relativo a quel gioco e annuì. Durante una partita, è stato gettato a terra da un giocatore avversario e ha battuto con violenza la testa, continuò la Carlin. Quando ha ripreso i sensi, non ricordava più nulla, neppure il suo nome. La ragazza si protese in avanti con aria assorta, non osando quasi respirare, le mani serrate intorno alle ginocchia. Talvolta, in casi del genere è sufficiente che il paziente s'imbatta in qualcosa di familiare perché i ricordi tornino ad affiorare nella sua mente. Mio marito, però, era circondato da cose estranee, perché si trovava in una terra straniera. Alla fine, tuttavia, ha rammentato il passato. Sai qual è stata la scintilla che ha avviato la sua guarigione? La ragazza scosse il capo. Il profumo del pane che cuoceva nel forno! Le speranze di Imrhien s'infransero nuovamente. Erano state molte le volte in cui la fragranza del pane appena sfornato aveva aleggiato per le scale e le gallerie adiacenti le cucine della Torre di Isse, ma l'unico effetto che quel profumo aveva avuto su di lei era stato farle venire l'acquolina in bocca. Un movimento vicino alla tenda di cuoio la indusse a sollevare lo sguardo: Sianadh entrò nella bottega insieme con Liam e, nel passarle accanto, le strizzò l'occhio. «Dobbiamo sbrigare alcuni affari», disse. I due uscirono dalla bottega proprio mentre Muirne rientrava col cesto al braccio, scomparendo subito nella stanza interna. Hai sopportato molte vicissitudini, disse la Carlin. Riposa qui con noi mentre prepariamo il tuo viaggio. Queste cose richiedono tempo, perché una dama facoltosa, quale ora sei, ha bisogno di una scorta di guardie, di provviste, di una carrozza. Inoltre, dovrai aspettare che parta una carovana, per avere maggiore protezione. Le strade non sono più sicure come un tempo. Ultimamente, il numero delle creature unseelie in circolazione è aumentato in maniera insolita. Non posso viaggiare su una Nave del Vento?
Non sai proprio nulla del mondai Le Linee Mercantili non trasportano passeggeri. Tra i civili, soltanto i nobili viaggiano nel cielo, su Navi del Vento private o in sella agli eotauri, e neppure loro accettano passeggeri. Per te, l'unico modo per viaggiare è a terra. Non so ancora cosa pensare di questa ricchezza che ci avete portato e, per adesso, non sono in grado di prevedere in che modo essa cambierà le cose per noi. I tre cofanetti sono al sicuro in cantina, sotto la botola vicino al focolare. Se vuoi, posso aprirla, in modo che tu possa scendere a controllare. No. Mi fido. Qualcuno bussò con decisione alla porta che dava sulla strada, poi il battente si aprì di scatto e Imrhien si affrettò a fuggire nella stanza interna, lontano dallo sguardo del nuovo cliente. Lì vide Diarmid seduto al tavolo, coi lunghi capelli sciolti che gli ricadevano lungo la schiena, mentre sua sorella Muirne gli massaggiava il cuoio capelluto con una pasta marrone. Le radici dei capelli non erano più rosse. Poco dopo, Diarmid se ne andò per tornare agli alloggiamenti. Quanto a Sianadh e a Liam, fecero ritorno quando ormai il pasto serale era già stato disposto sul tavolo. Durante la cena, si parlò della crescente irrequietezza della Namarre, riguardo alla quale Sianadh aveva avuto modo di apprendere parecchie cose nel corso della giornata. «Sono rimasto lontano troppo a lungo. Per le ossa fumanti dei Condottieri, non avevo idea che la situazione fosse peggiorata fino a questo punto! Creature unseelie che accorrono da tutti gli angoli di Erith per unire le loro forze a quelle dei barbari, nelle fortezze della Namarre! Si dice che i ribelli vogliano spodestare il Re-Imperatore... Che sorta di follia si è impadronita di questi sgorrama? E quali Maghi devono avere a loro disposizione, per comandare in tal modo le creature unseelie? Come può essere possibile?» «In effetti è strano, zio, ma ti posso garantire che qui a Gilvaris Tarv non abbiamo mai avuto motivo di preoccuparci», replicò Liam. «I Re di Erith sono fedeli e, se sarà necessario, invieranno le loro truppe a combattere al fianco delle Legioni Reali e dei Dainnan. Io non riesco però a immaginare che si arrivi a questo. Senza dubbio, i Dainnan saranno sufficienti, da soli, a soffocare un'insurrezione di miserabili briganti e di creature unseelie.» Io non ne sono tanto sicura, intervenne la madre, accigliata. Percepisco qualcosa che si cela dietro questa ribellione... qualcosa più forte di quanto si supponga.
«Di cosa si può trattare, sorella?» domandò Sianadh. Ethlinn scrollò le spalle, i palmi rivolti verso l'alto. «I Dainnan dovrebbero dare la caccia alle Navi del Vento pirata», commentò Muirne. «Zio Orso, hai sentito di quella nave mercantile della Linea Cresny-Beaulais che è stata attaccata e distrutta non lontano da Tarv, alcune settimane fa? È stata una cosa terribile. Una nave di pattuglia ha trovato un uomo aggrappato alla cima di un albero... Si chiamava Sandover e, per qualche tempo, in città, non si è parlato che di lui. Ha indicato alle guardie dove trovare altri superstiti. Ma la nave pirata era scomparsa senza lasciare tracce, e nessuno è riuscito a ritrovarla.» «Una cosa davvero terribile. Però... forse non tutti i pirati sono cattivi, sai, forse alcuni sono spinti soltanto dal gusto dell'avventura», balbettò Sianadh. «Che strana affermazione, zio Orso. È ovvio che sono tutti uomini malvagi!» «In ogni caso, che sia dannata questa insurrezione nella Namarre, perché allontanerà dalla città tutti gli elementi migliori», esclamò Sianadh, deciso a cambiare argomento. «Corre voce che a Caermelor si cercheranno nuove reclute, se le forze che si stanno raccogliendo nella Namarre continueranno ad aumentare. In tutta la città, i giovani parlano con entusiasmo della prospettiva di partire per Caermelor per entrare a far parte dei Dainnan o per arruolarsi come volontari nelle Legioni Reali, in caso non vengano accettati tra i Dainnan. La paga è misera... Si dice che un armigero riceva uno scellino al giorno, un arciere a cavallo sei soldi, un arciere a piedi tre e un lanciere due. No, quei ragazzi sono in cerca di gloria, onori, eccitazione e, magari, vendetta. La vita di troppe persone è stata segnata dalle creature unseelie...» «Zio, perché ti dovrebbe importare del fatto che i guerrieri di Tarv lasciano la città?» domandò Muirne. «Hmm... Ecco, perché Liam e io vogliamo mettere insieme una piccola spedizione. Per esplorare... o, meglio, per andare a caccia.» La nipote lo fissò intensamente, poi annuì. «Capisco», commentò. «Passerotto, che ne diresti se domattina facessimo un po' di esercizio nel tiro con l'arco, fuori nel cortile, proprio come ai vecchi tempi?» propose Sianadh. «Sì, zio, ti ringrazio. Però scoprirai che la mia mira è migliorata, dall'ultima volta. Adesso tiro meglio di te.» «Meglio di me!» rise Sianadh. «Come no, sono pronto a scommetterci.»
Quella notte, Imrhien andò a letto di buon'ora, ma non riuscì a dormire. Continuava a pensare al suo viaggio fino a Caermelor e alla spedizione che Sianadh stava progettando. Si chiedeva anche quando Muirne l'avrebbe raggiunta. Ethlinn dormiva al piano inferiore, in modo da essere subito disponibile se un paziente si fosse presentato per qualche emergenza, mentre Liam e Sianadh occupavano lo spazio retrostante la partizione del piano superiore. La notte precedente, Imrhien era stata troppo stanca per badare a quei particolari, ma quella disposizione indicava che le era stato dato il letto di Muirne e che ci si aspettava che la ragazza lo dividesse con lei, una cosa che senza dubbio le dava non poco fastidio. Quando la nipote di Sianadh entrò nella stanza, Imrhien finse di dormire. Non sentendo frusciare le coltri, dopo un momento aprì un occhio e vide Muirne stesa a terra, avvolta in una coperta. Spinta da un senso di risentimento e di amarezza, che le serrò la gola come un nodo di bile, Imrhien balzò dal letto, batté un colpetto sulla spalla della ragazza e le indicò il giaciglio vuoto, poi prese una coperta e si sdraiò a terra nell'angolo opposto della stanza. «Il letto è per te, che sei l'ospite. Per favore, accettalo.» Appartiene a te. «Io non lo voglio.» Neppure io. «Se dormi per terra, mia madre mi sgriderà.» Non glielo dirò. Muirne fissò l'ospite con la stessa espressione intensa che aveva riservato allo zio. «Se dormi sul letto, lo farò anch'io.» Sì. Muirne si sistemò nell'angolo più esterno e lì giacque per tutta la notte, rigida come un bastone. Rimase immobile anche quando scoppiò una tempesta magica e il vento shang spalancò con fragore le imposte, facendo brillare i fiori di camomilla come stelle bianche e gialle. Nei giorni che seguirono, Sianadh e Liam furono impegnati nei preparativi per il loro viaggio e per quello di Imrhien. Con l'oro dei cofanetti comprarono ogni sorta di attrezzature e provviste, intasando la casa della Carlin al punto di rendere quasi difficile muoversi. Ethlinn esaminò con estremo interesse gli indumenti di seta di ragno, prelevando dalla fodera del mantello di Sianadh il fiore azzurro del Gaille-
du, ormai avvizzito. Questo è un oggetto di potere, disse. Poi mise il fiore in un bozzolo di resina, per conservarlo, e lo restituì al fratello. «Un fiore del ricordo», osservò Liam. Pur comportandosi sempre in modo cortese con l'ospite, era chiaro che Muirne trovava assai sgradevole il suo aspetto; essendone consapevole, e non osando avventurarsi in pubblico, per Imrhien fu sempre più difficile sopportare il peso della propria deformità. Un pomeriggio, Sianadh la prese in disparte. «Oggi, in città, ho incontrato una vecchia conoscenza, Tavron Caiden. Alcuni anni fa lui lavorava per un mastro tintore, qui a Tarv, e noi eravamo buoni amici. Tavron porta sempre con sé, ovunque vada, un piccolo cane bianco, una bestiola davvero simpatica. Adesso possiede una fabbrica di candele in Rope Street, e devo dire che se la sta cavando proprio bene, considerato che un tempo era poverissimo e viveva lontano da qui, su un'altura infestata da creature magiche... Si dice che abbia fatto un favore a una di esse e che ne abbia ricevuto in cambio dell'oro, il che ha cambiato la sua vita. Insomma, per farla breve, dal momento che mi fido di lui, gli ho chiesto se non conosceva una cura per l'edera paradossa. Non mi ha risposto subito, anzi ha esitato parecchio, ma alla fine mi ha spiegato che forse bisognerebbe rivolgersi al Mago Korguth Jackal, uno dei più grandi Maghi di Tarv e, inutile dirlo, anche uno dei più cari. Gode di una vasta reputazione e, in ambienti elevati, corre voce che sia potente quanto Sargoth, il Mago di Corte, o anche di più.» Allora deve essere davvero un grande Mago. «Sì, chehrna. La famiglia di Korguth prospera da quando il padre del Mago, al tempo in cui quest'ultimo era ancora un ragazzo, ha ricevuto in dono uno strano flauto. Adesso non si sa più dove sia... Korguth sostiene di esserne tuttora in possesso, ma qualcuno dice che è tornato al suo vero proprietario, chiunque sia. Grazie a quel flauto, il padre di Korguth era temuto in tutta la città, tanto che nessuno osava parlar male di lui.» Nel sentir parlare di uno «strano flauto», Imrhien ebbe l'impressione che un velo di timore incupisse l'atmosfera. Si sentì assalire da un senso di angoscia, che le causò un dolore simile a quello di una vecchia ferita. Pur combattuta tra la curiosità e la paura, volle saperne di più. Com'è che suo padre si è procurato quello strumento? Sianadh esitò, frugando nei suoi ricordi, poi rammentò la storia e si lanciò in una delle sue lunghe narrazioni. «A quei tempi, il suo nome era Jack, il che spiega da dove deriva il soprannome Jackal.* A quanto si dice,
la sua era una famiglia di poveri contadini, che viveva a qualche miglio dalla città. Jack - il padre di Korguth - andava sulle colline per sorvegliare le pecore, e la sua matrigna gli dava il pranzo, che lui portava con sé avvolto in un panno. Spesso, però, si trattava di un pasto frugale e stantio. Un giorno, quel cibo era così cattivo che lui non se la sentì di mangiarlo, quindi lo riavvolse e lo mise via. Mentre se ne stava seduto sulla collina, arrivò un vecchio mendicante che gli chiese qualcosa da mangiare. Jack gli regalò prontamente tutto il suo pranzo, e il vecchio parve gradire. Dopo aver mangiato, il mendicante si offrì di ricambiare la generosità del ragazzo. Non essendo uno stupido, Jack sospettò che il vecchio fosse una creatura magica di qualche tipo. Così, sapendo bene in quale modo la maggior parte di quelle creature ricambiasse gli atti di gentilezza, chiese al vecchio se poteva dargli un piccolo flauto, con cui suonare qualche melodia per intrattenere gli altri. Il vecchio gli diede allora un flauto dalla foggia strana. 'Ha singolari proprietà', disse però al giovane. 'Quando lo suonerai, chiunque ti ascolterà sarà costretto a danzare.' Accettato il dono, Jack se ne servì per giocare tali e tanti scherzi alla propria matrigna e ai vicini da ridurli in uno stato pietoso. Un giorno, poi, un mercante di passaggio, sentendo la musica, cadde dal suo carretto e si ritrovò coperto di lividi. Venne chiamato lo sceriffo, e Jack fu convocato davanti al giudice. Giunse il giorno dell'udienza. Jack si presentò al cospetto del giudice con la sua povera matrigna e davanti a un folto pubblico, sia perché la notizia si era diffusa, sia perché c'erano molti altri casi da giudicare. Siccome era inverno, ed era mattina presto, in un angolo della stanza, nel focolare, ardeva un bel fuoco. «'Qui c'è un ragazzo che ha causato gravi problemi e dolori alle brave persone della contea', annunciò lo sceriffo. 'Si ritiene che abbia un'alleanza con creature unseelie.' «'E come avrebbe fatto?' domandò il giudice. «'Mio signore, si è procurato un flauto che costringe la gente a saltare e a ballare fino a essere esausta.' «Il giudice diede un'occhiata a Jack, che sorrise con aria ingenua, come un bambino innocente e calunniato. Forse ritrovando nel giovane qualche elemento della propria impulsività giovanile, ormai svanita, il giudice sorrise e rifiutò di credere alla storia dello sceriffo, pretendendo di vedere il flauto e di sentirlo suonare lui stesso.» A quel punto, Sianadh prese a mimare abilmente le voci dei personaggi. «'Misericordia!' esclamò la matrigna, spaventata. 'Te ne prego, non farlo finché non sarò fuori portata d'udito.'
«'Suona, Jack', insistette il vecchio giudice, in tono indulgente. 'Fammi vedere cosa riesci a fare.'» Prendendo gusto alla narrazione, l'ertish sfoggiò un sorriso sempre più ampio e cominciò a ridere. «Jack si accostò il flauto alle labbra e nella stanza si scatenò il pandemonio. Tutti si misero a danzare e a saltare, sempre più in fretta e più in alto, come se fossero impazziti. Alcuni balzarono sui tavoli, altri inciamparono nelle sedie o caddero nel focolare. Il giudice saltò sulla scrivania, facendosi male agli stinchi, e cominciò a gridare al ragazzo di fermarsi, in nome della pace e della misericordia. In mezzo a quel fragore, però, nessuno lo sentì. Jack uscì e s'incamminò per le strade, costringendo tutti a seguirlo, saltellando e danzando. Nel sentire la musica, altre persone sussultarono e uscirono dalle case, scavalcando le staccionate. Nella fretta, alcuni, che erano ancora a letto, si ritrovarono in strada nudi, eppure si unirono alla folla. In preda alla frenesia, tutti saltavano di qua e di là, senza badare a dove atterravano. Alcuni, che non riuscivano più a reggersi in piedi, stavano continuando a danzare carponi! «'Smettila, Jack!' urlò ancora il giudice, e stavolta Jack disse: 'Lo farò se i cittadini di Gilvaris Tarv prometteranno di non recarmi mai offesa finché vivrò'. «Tutti i presenti giurarono davanti al giudice che si sarebbero comportati bene col ragazzo e lo avrebbero aiutato in ogni modo possibile e in ogni momento contro i suoi nemici. Allora Jack salutò il giudice e si avviò allegramente verso casa. Da allora prosperò e venne guardato con timore da tutti, in città. Col tempo, raggiunse una posizione importante e accumulò grandi ricchezze. Morì in età avanzata e lasciò tutta la sua fortuna al figlio Korguth.» L'ertish si grattò la barba. «Come si chiamava quel dannato flauto? Ah, sì, adesso ricordo... Era il Flauto Leantainn, il Flauto 'seguimi'. In ogni caso, non lo si è più visto da anni.» Il nome dello strumento destò un brivido nell'animo di Imrhien. «Così adesso sai tutto, chehrna», continuò Sianadh, senza accorgersi di nulla. «Ora, nell'interesse della mia tranquillità, è meglio che non parli a mia sorella dei Maghi... È una casta che lei detesta! Ascoltami bene, perché finora non sono stato in ozio. Non appena Tavron Caiden mi ha dato l'informazione, sono andato al palazzo di Korguth - perché lui vive in un palazzo, bada bene -, ma i suoi servitori mi hanno detto che quel grand'uomo è talmente impegnato che non sarebbe stato possibile vederlo per mesi. Poi, però, ho dato loro qualche moneta a titolo d'incoraggiamento, e allora hanno detto che Korguth ci avrebbe ricevuto tra due giorni. Mi han-
no anche informato della somma che chiede.... Per poco non sono svenuto. In ogni caso non ha importanza, perché adesso per noi una somma del genere è insignificante. Se questo Korguth riuscirà a curarti, non dovrai metterti in viaggio e potrai rimanere qui con Ethlinn fino al ritorno della nostra spedizione. Quando potrò metterti in un palazzo di tua proprietà - una nuova faccia, una nuova casa - i pretendenti faranno a gara per venire da te! Che altro potrebbe desiderare una ragazza? Allora, chehrna, che ne dici? Sei disposta a fare un tentativo?» concluse, con un sorriso. Di fronte a quell'entusiasmo, l'ombra di paura che aleggiava intorno a Imrhien si dissolse. Contagiata dalla gioia di Sianadh, la ragazza si sentì d'un tratto entusiasta. Sì! Sì! disse, tanto contenta che avrebbe potuto baciarlo, nonostante la pungente barba arruffata. D'altro canto, data la condizione del proprio viso, non avrebbe mai osato insultarlo in quel modo. In previsione della visita al Mago, Sianadh convocò un sarto e fece preparare nuovi abiti per Imrhien, acquistando anche indumenti nuovi e regali per tutta la famiglia. «Allora, cara, che genere di abito desideri, esattamente?» domandò il sarto, adocchiando Muirne - che fungeva da modella per quell'ospite troppo curioso - con aria denigratoria. «Qualcosa per una serata? Una veste da ballo, magari? Suppongo che il tuo stile preferito sia quello finvarniano.» «Qualcosa... Ecco, qualcosa di semplice ma di grazioso», azzardò Muirne. «Due abiti per mia sorella e quattro per la ragazza, due da portare coi tacchi alti, quindi bada che siano più lunghi», intervenne Sianadh, che pure aveva giurato di non interferire nelle questioni femminili. «Abiti da giorno, semplici ma in tessuti pregiati... naturalmente in stile finvarniano, sgorrama, che altro ti aspettavi? Prendi le misure a entrambe e bada di lavorare in fretta e con precisione, perché ci sono molti altri che sarebbero pronti ad assumersi l'incarico.» Sianadh e Liam si erano presentati quella mattina abbigliati da testa a piedi con la tradizionale tenuta finvarniana: stivali di pelle di pecora, trattenuti da lacci dalla caviglia al ginocchio, sopravveste di pelle di vitello su cui erano cucite scaglie di rame, gonnellino di cuoio, pesanti collari d'oro e mantello di pelle d'orso, un indumento assai poco pratico in quel clima. Sianadh sfoggiava un elmo privo di visiera a forma di testa d'orso, mentre l'elmo di Liam aveva la forma di un lupo ringhiante.
Nel frattempo, essendosi diffusa la notizia che la Carlin aveva di recente fatto generose donazioni a numerose famiglie povere, erano sempre più numerosi i mendicanti che bussavano alla porta di Bergamot Street. Tra i vicini, i pettegolezzi ormai non si contavano più. Per metterli a tacere, Sianadh aveva fatto circolare la voce che la loro visitatrice era una facoltosa cugina che stava dimostrando la sua gratitudine per l'ospitalità ricevuta. In questa zona della città, così povera, nasceranno delle gelosie, disse Ethlinn. Dobbiamo essere pronti a trasferirci altrove, in caso di guai. Il suo viso deforme aveva suscitato soltanto ribrezzo o paura per così tanto tempo che la possibilità di essere risanata stava infondendo nuova vita in Imrhien, riattizzando la fiamma sopita della speranza. Impaziente di essere guarita, la ragazza non riusciva a riposare e ribolliva di ansia, Camminando avanti e indietro in preda alla tensione, desiderosa di poter godere di nuovo della compagnia di altri esseri umani, una compagnia che sembrava offerta con assoluta generosità a tutti coloro il cui aspetto era ritenuto accettabile. I suoi occhi scrutavano con desolata avidità i volti che la circondavano, mentre lei si chiedeva se sarebbe apparsa bella, insignificante o brutta, una volta scomparsi i gonfiori che la deturpavano. E poi, se quel danno fosse stato ormai permanente, impossibile da cancellare? Travolta da tutte quelle emozioni, la ragazza sopportò a fatica il trascorrere delle ultime ore. Quando finalmente giunse il momento di recarsi dal Mago, le parve che fossero passati due anni, e non due giorni. Sarebbe stata anche la prima volta in cui si sarebbe avventurata in città alla luce del giorno. Sianadh aveva noleggiato una carrozza con conducente, che al suo arrivo suscitò la curiosità dei vicini, in quanto le carrozze erano rare in Bergamot Street. La strada era così stretta che i passanti furono costretti a sgusciare lungo i muri per oltrepassare il veicolo, e più di uno reagì con sonore imprecazioni. Rispondendo a tono, Sianadh fece salire in carrozza la sua protetta, abbigliata con eleganza e col volto ben nascosto nel cappuccio, e prese posto accanto a lei. Di lì a poco, la carrozza si avviò rumorosamente lungo le strade acciottolate. «Nobili e dame!» ridacchiò Sianadh. «Nobili e dame!» Sto finalmente sognando? Sono davvero a bordo di una carrozza, vestita con un abito di seta simile a un petalo di viola e con un mantello di broccato paragonabile a un giardino fiorito... Oppure al risveglio mi ritroverò nella stanza del bucato, al Livello Cinque della Torre di Isse? E, se in ef-
fetti è tutto reale, quel Mago riuscirà a risanarmi? Tenendo calcato in avanti il cappuccio dai fitti ricami, Imrhien sbirciò fuori dal finestrino, lo stomaco contratto in un nodo. Il cielo, reso perlaceo da una lieve caligine autunnale, si stendeva come un arazzo fra i tetti ammassati. Si scorgeva addirittura uno svolazzante punto nero che lo attraversava: era un Corriere diretto alla Torre del Decimo Casato. La città era una tale accozzaglia d'immagini contrastanti da rendere difficile scegliere dove guardare. Le strade erano affollatissime e la gente era abbigliata in un modo che lei non aveva mai visto. In mezzo ai contadini e agli artigiani, con le loro giacche lise e i grembiuli di cuoio, c'erano i mercanti, riconoscibili dal cappello a tesa larga, ertish dal volto spruzzato di lentiggine e dal gonnellino di cuoio, coi capelli e coi baffi ramati. Marinai dai calzoni arrotolati e con la testa coperta da un fazzoletto a strisce colorate scambiavano battute ironiche con gli aeronauti «gamba di limone» delle Linee Mercantili. Ciò che più la colpì, tuttavia, furono alcuni uomini dal viso duro, con guanti dotati di artigli e ampi collari di strisce di metallo collegate. Si aggiravano per le strade adorni di gioielli e carichi di armi. Tatuaggi dai colori vivaci spiccavano sui loro corpi e alcuni di essi sfoggiavano cappucci striati che pendevano loro sulle spalle, mentre altri indossavano alti elmi simili a uccelli. «Namarriani», commentò Sianadh. «Probabilmente sono fuorilegge.» Uno di essi superò la carrozza, conducendo un orso legato alla catena. L'architettura della città cambiò a mano a mano che la carrozza lasciava la zona povera per passare a una più ricca. Fabbri, sellai, ramaioli, tessitori, conciatori di pelli, ciabattini e carpentieri cedettero il posto a venditori di pesce e di frutta, alle locande e, in seguito, a gioiellieri, venditori di spezie e mercanti di stoffe; là, pezze di seta e satin multicolore splendevano come bolle di sapone sotto l'alito della brezza. In quella zona più raffinata, i passanti erano meno numerosi e abbondavano invece i veicoli. Simili a file di vecchi curvi dalla barba grigia, alberi di eucalipto fiancheggiavano le strade, ammantati di una ricca messe di vellutati fiori rossi. Un Mago passò a cavallo, avvolto nelle sue vesti bianche completate da un alto cappello a punta; poco lontano, un menestrello girovago passeggiava col liuto appeso di traverso sulla schiena e con una scimmietta appollaiata sulla spalla. Con un tintinnio di speroni e di armi, numerosi cavalieri, al seguito di qualche nobile, sopraggiunsero trotterellando sull'acciottolato, eretti e sprezzanti, avvolti nella cotta di maglia coperta da un elegante tabarro, e scortati dai rispettivi scudieri. Un gruppetto
di eleganti gentiluomini si affrettò a ritrarsi al loro passaggio, per evitare che il sudiciume sollevato dagli zoccoli dei cavalli potesse schizzare gli abiti all'ultima moda che tutti indossavano: tuniche plissettate che arrivavano al ginocchio e mantelli con una punta lunga anche otto pollici; sul capo, quei nobili sfoggiavano cappucci dai colori sgargianti che si assottigliavano in una punta di una lunghezza ridicola, che essi portavano drappeggiata intorno alle spalle, come una vipera addormentata. Alcune dame stavano scendendo dalle loro carrozze. Erano abbigliate con lunghe tuniche aderenti alla vita e dotate di maniche chiuse da file di minuscoli bottoni che andavano dal gomito al polso, completate da sopramaniche dalla lunga punta pendente. Ampie fasce ricamate decoravano la sopravveste e, al posto della cuffia, le dame più anziane sfoggiavano un copricapo detto nebula. Esso era composto da fasce cilindriche di maglia metallica che cingevano la fronte e scendevano lungo i lati del volto, permettendo ai capelli di uscire da ciascuna apertura per raccogliersi in reti della stessa maglia. Le capigliature visibili erano in genere castane o nere. Al finestrino di una carrozza trainata da una pariglia scura, s'intravide la nera maschera da lutto di seta di una nobile vedova, dotata soltanto di fessure per gli occhi; poco lontano, una giovane dama sorridente, al braccio di un gentiluomo, si portò al naso un portaessenze a forma di mela... Imrhien si sentì colpire al petto da una scarica di eccitazione violenta quanto un fulmine, poi prese ad armeggiare con la maniglia della portiera, scuotendola con violenza quando essa rifiutò di abbassarsi. «Olà, conducente, fermati! Che ti prende, chehrna? Dimmelo!» esclamò Sianadh, bloccando saldamente la maniglia con la grossa mano. Imrhien afferrò una manciata dei propri capelli e gliela agitò davanti al volto. Oro. Dama dai capelli d'oro. L'ertish scoccò un'occhiata alla fanciulla che stava passando loro accanto, i pesanti riccioli che le ricadevano sulla schiena come una cascata di garofani d'acqua. «Sì, sono dorati, ma non come quelli dei talith, chehrna, se è questo che stai pensando. Se guardassi da vicino quei capelli, vedresti che le radici sono di un colore diverso. Molti nobili si tingono i capelli, perché farlo è di moda, e li tingono neri o biondi per non avere lo stesso aspetto dei feorh di comune lignaggio. Nessuno si tinge mai di rosso, però, perché si considerano superiori a noi ertish, quegli sgorrama. Diarmid, per esempio, si è tinto di castano per essere uguale agli altri della Compagnia Libera. Non vedrai un solo vero talith a Gilvaris Tarv, questo te lo posso giurare perché
ho già posto varie domande al riguardo, nel tuo interesse. Lungo le strade, però, vedrai molte persone bionde, tinte o con la parrucca.» Avvilita, la ragazza si lasciò ricadere sul sedile, e la carrozza si rimise in movimento, raggiungendo infine la parte più benestante della zona. Si arrestò davanti a una porta di bronzo inserita in un alto muro e fiancheggiata da sciacalli di pietra. Sianadh parlò brevemente con un paio di guardie, poi uno dei due battenti venne spalancato. Il viale d'accesso era fiancheggiato da snelli cipressi e da colonne, sormontate da sciacalli di ossidiana e avviluppate dalle spire di draghi di diaspro. Quel grande viale pavimentato descriveva un'ampia curva e si arrestava davanti ai gradini d'ingresso di una magnifica dimora: il palazzo del Mago. Un maggiordomo accompagnò i visitatori attraverso sale dai pavimenti di marmo lucidi come specchi. Altre sentinelle, tutte nella livrea bianca e nera di Korguth, erano disposte a frequenti intervalli. «Qui ci sono misure di sicurezza davvero notevoli», commentò Sianadh, accigliandosi. Era animato da un'istintiva avversione per chi aveva l'incarico di mantenere l'ordine. Chino su uno scrittoio di legno nero, un vecchio scrivano pretese da loro il pagamento completo, in anticipo, e annotò qualcosa su un registro, con la penna d'oca che raspava sulla pergamena, un suono che, in quel palazzo pieno di echi, rammentava il rosicchiare di un topo. Dopo un po', lo scrivano versò sulla carta un po' di resina in polvere contenuta in una scatoletta d'ottone col coperchio a punta e forato. Lo stivale di Sianadh prese a tamburellare sul pavimento lucido. «Tu aspetta qui», ingiunse lo scrivano, senza sollevare lo sguardo. E si servì della penna per indicare una sedia, facendo così gocciolare l'inchiostro sulla propria manica e sullo scrittoio. «L'Ineffabile riceve i suoi clienti da soli.» Sianadh accennò a protestare. «Da soli», ripeté lo scrivano, appuntando infine lo sguardo sull'ertish, le palpebre che si abbassavano una volta soltanto sugli occhi fissi e indecifrabili. Imprecando di rabbia, Sianadh si sedette. Buona fortuna, augurò a Imrhien, nel linguaggio dei gesti, con estremo fastidio dello scrivano, che non conosceva quel modo di esprimersi. Grazie, disse Imrhien, mentre già la scortavano lungo il corridoio.
Una serva le indicò un'altra sedia, accanto a una porta. «Sei davvero fortunata, ragazza, ad avere uno zio ricco disposto a pagare per la tua visita», commentò, in tono sostenuto e pieno di disapprovazione. «Il mio padrone è l'uomo più affascinante e il Mago più potente di tutta Aia.» Imrhien sollevò il volto e la serva sussultò, distogliendo prontamente lo sguardo. «L'Ineffabile è sempre molto impegnato», dichiarò, allontanandosi. «Spero tu capisca che dovrai aspettare che abbia il tempo per occuparsi di te. C'è sempre una quantità di gente che chiede di essere ricevuta. Ora bada a comportarti bene. Quanti sono tanto fortunati da riuscire a vederlo devono mostrarsi gentili e cortesi.» Imrhien prese posto sulla sedia e attese, mentre il tempo scorreva. Alla fine, la porta si aprì e un'altra serva le fece cenno di entrare. Gli ombrosi laboratori del Mago erano diversi dalla bottega di Ethlinn quanto la notte lo è dal giorno. Vasche di rame, alambicchi e rotondi contenitori di cristallo spiccavano nell'ombra purpurea, pieni di liquidi colorati, alcuni dei quali fumanti. Ovunque c'erano bracieri, pieni di carboni ardenti simili a piccoli occhi rossi; una miriade di vasetti disposti in file ordinate conteneva occhi, piccoli cuori d'uccello, embrioni e altri organi interni di una moltitudine di specie animali, conservati in qualche modo. Alcuni teschi di volpe erano appesi a un gancio, su un piatto pieno di cristalli di colore livido e, in un angolo, c'era lo scheletro completo di un cavallo, tenuto insieme da chiodi d'ottone. Scatole di legno lucido e foderate in velluto erano aperte in modo da mettere in bella vista bisturi, lancette e aghi. Una fila di ampolle per i salassi era disposta su uno scaffale, accanto a un taumatropo e a un cauterizzatore, ad alcuni vasetti di medicinali, a vasi smaltati recanti etichette contrassegnate da rune e a grossi contenitori sferici che avevano un rubinetto inserito alla base. Sulle pareti si vedevano specchi e arazzi su cui erano raffigurati simboli magici, rune, stelle e lune. Su una massiccia scrivania di quercia era posato un enorme volume, aperto e, sulle pagine, era adagiato un segnalibro di seta, coperto d'intricati ricami e adorno di tasselli dorati. Alcuni scaffali ospitavano altri volumi rilegati di cuoio scuro, libri riposti in scatole di filigrana d'argento dalla lavorazione talmente elaborata da parere un sottile merletto, e pergamene legate con nastri color porpora. In una vetrinetta, erano esposti serpenti e lucertole impagliati, che guardavano la stanza con occhi fatti di gemme. L'effetto complessivo era quello di una grotta minacciosa, piena di cose
morte o inanimate che, in qualche modo, conservavano una parvenza di vita, la quale conferiva loro la capacità meccanica di lacerare, tagliare, bruciare e pungere. Un tavolo lungo e stretto, costituito da una lastra di pietra e alto almeno quattro piedi, stava al centro di quella vasta camera; il contatto con una sostanza caustica di qualche tipo aveva praticato un buco in uno degli angoli. Accanto a esso, su una panca, erano disposti in buon ordine alcuni strumenti affilati, coltelli e aghi che emettevano tenui bagliori in quella soffusa luce crepuscolare. E poi c'era l'odore: un profumo d'incenso che mascherava il sottostante sentore di carne marcia. Una serva disse a Imrhien di togliersi gli abiti e d'indossare una veste di lino grigio. «L'Ineffabile arriverà presto», aggiunse la donna che, a giudicare dalla sua stravagante livrea bianca e nera, doveva avere un rango superiore a quello delle altre due. «È un uomo molto impegnato. Sei fortunata che abbia trovato del tempo per te.» Imrhien annuì, pensando che, se non avesse ancora capito quanto era fortunata, allora si sarebbe potuta considerare davvero stupida. Stava per fuggire, quando un'altra porta si aprì e il Mago fece il suo ingresso, pulendosi le labbra da qualche briciola di pane. Se la dimora di Korguth Jackal era impressionante, il Mago lo era ancora di più. Era un uomo alto, sulla trentina, dal torace ampio, affascinante. Strisce alterne nere e argento caratterizzavano i lunghi e folti capelli che gli ricadevano sulle spalle; le sue splendide vesti erano di un candore così assoluto da dare l'impressione di essere fatte di luce, e lui stesso era permeato di quella luce, come una creatura proveniente da un altro regno, più elevato. Quando vide il volto deforme della paziente, il Mago non mostrò la minima sorpresa e cominciò invece a parlare, con una voce che faceva pensare a una pasta al miele ripiena di uva passa e di fichi, rassicurante nella sua morbida ricchezza. «Il deturpamento da edera paradossa non è un problema per me. Ho già curato con successo molti casi. Tutto quello che dovrai fare sarà ascoltare bene ciò che sto per dirti. Collabora, e vedrai i risultati. Tornerai a essere quella che eri prima, anche se temo che il tuo volto sia piuttosto comune e insignificante, come posso dedurre dalla struttura alquanto rozza della tua ossatura.» Il suo sguardo si spinse oltre Imrhien, posandosi sullo specchio, e, in quel momento, la giovane si rese conto che lui, nel posare lo sguardo sul suo volto, non aveva sussultato solo perché non l'aveva vista. Quell'uomo era così pieno di sé che aveva percepito in lei soltanto un simbolo, una fonte di entrate e di fama.
E tuttavia era quasi riuscito ad affascinarla. Questo arrogante sacco di vento vede soltanto se stesso, e l'adorazione dei creduloni e dei sicofanti che lo circondano, pensò. Tuttavia non posso permettermi di dare importanza alla cosa. Lui mi può dare quello che voglio, quindi devo sopportarlo. «Soprattutto, non dovrai lamentarti, urlare o gemere. Hai capito?» continuò il Mago, con un lieve sussulto, come se il semplice pensiero di una simile eventualità gli ferisse le orecchie. Imrhien annuì. Le diede da bere una sostanza azzurra e fredda come la morte, che uccise in lei ogni pensiero razionale, generando una paralisi, accompagnata da un'insensibilità che, però, fu soltanto parziale. Venne poi adagiata sulla lastra di pietra, e tutto ebbe inizio: il dolore, le lame, gli aghi roventi, gli unguenti fatti di acidi brucianti, che trasformarono ogni suo nervo in un filamento metallico che trasportava al cervello scariche d'indicibile agonia. Quella tortura si protrasse, infinita. Imrhien avrebbe gridato, molte volte, se solo avesse avuto la voce per farlo. Dentro di lei, l'agonia cantava con una voce acuta e penetrante, intonando un peana al dolore, e tutto il suo corpo vibrava, inarcandosi per la sofferenza. Attraverso un miasma di fuoco, la voce ricca e dolce tornò a risuonare. «È necessario peggiorare prima di poter migliorare», disse, ma le cose continuarono soltanto a peggiorare, finché a Imrhien non riuscì impossibile pensare a un tempo in cui non c'era stata sofferenza. La sua realtà era stata sempre una realtà di aghi e di bruciore. Appena prima che l'oscurità calasse su di lei, la voce aggiunse, da molto lontano: «Dite allo zio dai capelli rossi di tornare domani». Sul cuscino c'era sangue fresco misto a siero scuro, ma vedere bene le riusciva difficile. Il suo volto era un inferno di dolore. Sollevò le dita intorpidite per toccarlo, ma incontrò soltanto una fasciatura. Da qualche parte, la voce dolcissima risuonò, carica di disprezzo. «È colpa tua. Scommetto che hai gridato durante la notte, una volta ultimata la procedura. Mi aspettavo un comportamento migliore. E così il trattamento non sarà efficace.» Più tardi, la sollevarono e la trasportarono. Un urlo furente trapassò il torpido silenzio, simile all'infrangersi di una rossa vescica. «Cosa le avete fatto?» Il caos scoppiò tutt'intorno. Poi Imrhien si ritrovò chiusa in una carrozza,
con gli zoccoli che tamburellavano come un ticchettare di coppe d'argilla. L'oscillazione del sedile scatenava bagliori scarlatti attraverso una spessa oscurità soffocante. Quando la verde frescura del sollievo si riversò su di lei, estinguendo il fuoco, Imrhien si crogiolò in essa finché non si trasformò in lacrime. «Si tratta dei tuoi occhi», spiegò la voce di Muirne. «Mia madre dice che la tua vista è a rischio. Dobbiamo tenerti la faccia coperta per sette giorni e, nel frattempo, io ti bagnerò la pelle e ti cambierò le fasciature due volte al giorno. Adesso sei irrimediabilmente sfregiata. Perché sei andata da quel Mago? Lo zio è furioso come un toro. È tornato al palazzo del Mago, esigendo di vederlo, ma le sentinelle non lo hanno lasciato passare, e lui ha minacciato di rovinare la reputazione del loro padrone e di ucciderlo. Quegli uomini hanno avvertito lo zio che, se dirà una sola parola contro quel ciarlatano, lui e la sua famiglia verranno perseguitati.» Fece una pausa, poi riprese: «Quell'uomo è potente. Temo che intenda vendicarsi di noi anche se non diremo nulla, sia per questa minaccia sia per impedirci di fare parola dell'accaduto. Ho notato degli sconosciuti tenere d'occhio la nostra casa. Tu ci hai portato un sacco di problemi». Dice la verità, pensò Imrhien, desolata, nella sua gabbia oscura. Sì, devo lasciare questa casa al più presto possibile, per non causare danni maggiori. Sono stata una sciocca. Nella foga di essere accettata, ho perso molte cose assai più preziose. Di notte, il peso di Muirne comprimeva l'altro lato del letto quando lei sgusciava sotto le coltri, con un lieve fruscio e senza mai dire una sola parola. Immersa nell'oscurità, Imrhien stava lì, sveglia, ascoltando i lievi suoni prodotti al piano di sotto dal bruney domestico - una delle creature seelie che talvolta dimoravano nelle case cittadine degli umani - intento a svolgere i lavori di casa. Di giorno, il passero ciangottava e saltellava, becchettando le briciole che Muirne gli lasciava sul tavolo e, dal piano inferiore, giungevano i rumori delle persone che andavano e venivano, misti a un riecheggiare di voci, spesso ignote, che cessavano nelle ore serali, riservate alle conversazioni private della famiglia. «Sì, madre», disse una sera la voce di Liam. «So che Eochaid sarebbe la persona più indicata per questo lavoro, ma non può venire con noi, perché suo padre è malato e lui deve rimanere ad aiutare la matrigna e i fratelli minori. Ti garantisco però che i ragazzi da noi scelti sono abbastanza forti e abili da fornire una difesa adeguata in caso di bisogno. Zio, mia madre
dice di avere la sensazione che stiamo andando incontro a un pericolo mortale, con questa ricerca del tesoro e, anche se si fida dei fratelli Sulibhain, non le piacciono gli altri tre che porteremo con noi.» «Piano, ragazzo, non alzare così la voce quando parli del tesoro. Inoltre non dovresti spendere a piene mani per tutta la città, come stai facendo, comprando regali ai tuoi amici e offrendo da bere a destra e sinistra, perché le persone sbagliate potrebbero capire che hai trovato qualcosa di valore. A me, quei tre della zona del fiume non dispiacciono, però mi fido del giudizio di tua madre, quindi sceglieremo altri tre compagni.» «Ma... non ce ne sono altri. Voglio dire, se non prendiamo con noi quei tre, saremo nei guai.» «E perché mai?» «Ecco, vedi, hanno una vera passione per la caccia e io ho promesso loro una caccia molto buona. Ho dovuto farlo, altrimenti non avrebbero preso neppure in considerazione l'eventualità di venire qui a parlare con te e la mamma. Sono buoni combattenti, coraggiosi. Credevo che sarebbero andati bene... Non ho visto in loro nulla che non andasse.» «Io invece vedo qualcosa che non va... il fatto che possano combinare guai se non ottengono quello che vogliono.» «Non abbiamo scelta, zio.» «Obban tesh! È ovvio che ce l'abbiamo! Diremo loro che la partenza è stata rimandata, poi ce ne andremo prima di quanto stabilito, in segreto, prendendo con noi soltanto i tre Sulibhain degni di fiducia. Può darsi che ci siano dei pericoli, ma i Sulibhain sono famosi per il loro coraggio, e non sono donnicciole.» «Già, ma cosa faranno quei tre, quando scopriranno che li abbiamo ingannati?» «Ah, un gruppo di pasticcioni come quelli non può fare nulla. Da soli, sarebbero già in difficoltà a tirarsi su i calzoni. In ogni caso, non intendo partire finché non avremo tolto definitivamente le bende a lei e verificato che sta bene.» Quando le bende vennero tolte per l'ultima volta, la vista della paziente risultò intatta, anche se un po' sfocata. La carne gonfia del suo volto era troppo dolorante per essere toccata, e Imrhien badò a evitare qualsiasi superficie riflettente. Nel bagnarle il volto con una lavanda di erbe, Ethlinn le consigliò di lasciare la pelle scoperta, perché si asciugasse. Farò come dici. Però dovrò lasciare questa casa il più presto possibile. Vi ho portato sfortuna, e sono stata punita per la mia vanità.
Credi questo? No, non è vero. Non andrò dalla Carlin con un occhio solo, ma da qualche altra parte. La Carlin con un occhio solo conosce rimedi a me ignoti. Lei ti potrà aiutare in qualche modo, quindi promettimi che la cercherai, come ringraziamento per tutto quello che ho fatto per te e per amore di mio fratello. Promettilo. Cupa in volto, Imrhien annuì. I preparativi per il viaggio erano stati ultimati. Secondo gli accordi presi, Imrhien, a bordo di una carrozza con tiro a quattro, dotata di cocchiere, di cameriera personale e di due valletti - che avrebbero preso servizio soltanto all'inizio del viaggio - si sarebbe unita a una carovana che si stava ancora formando e che si sarebbe diretta a ovest, lungo la Strada di Caermelor. La Carovana di Serrare sarebbe stata di dimensioni notevoli, perché, oltre ai mercanti, che di solito collaboravano per assicurarsi protezione a vicenda, essa avrebbe incluso contadini, apprendisti e nobili della città, tutti impazienti di unirsi alle Legioni Reali o ai Dainnan. Gli eserciti dell'Eldaraigne si stavano infatti mobilitando per fronteggiare la minaccia crescente della Namarre. Giocare ai soldati era il passatempo più diffuso a Gilvaris Tarv e, nelle piazze cittadine, i giovani si esercitavano nell'uso delle armi più disparate, per il divertimento degli spettatori. «Per D'Armancourt!» gridavano. «Per l'Eldaraigne!» Le tempeste, naturali e no, si abbattevano di tanto in tanto sulla città e quei fenomeni, combinati con le eccitanti notizie di truppe che si stavano radunando nel nord-est e con l'irrequietezza generale, stavano creando nell'aria una sensazione di cambiamento, come se fosse stato oltrepassato un limite e non si potesse tornare indietro. In una cupa mattina, scintillante degli effetti del vento shang, Diarmid annunciò che non intendeva sprecare altro tempo e che si sarebbe unito anche lui alla Carovana di Serrure nel suo viaggio verso ovest. «Mi farò assoldare come guardia... come esploratore. Qui ho imparato tutto quello che potevo imparare. Se non parto adesso, tutte le posizioni migliori verranno assegnate.» «Questa è una buona notizia, Diarmid, mio giovane galletto», dichiarò Sianadh, battendo una pacca sulla spalla del nipote. «Fortuna vuole che anche Imrhien intenda partire con la Carovana di Serrare, quindi potrai tenerle compagnia e vegliare su di lei.» Diarmid s'irrigidì in maniera quasi impercettibile. «Vorrei farlo con tutto
il mio cuore», disse quindi. «Senza voler mancare di rispetto a questa dama, ti ricordo però che viaggerò come guardia a pagamento, e che non sarò quindi in grado di venir meno ai miei doveri.» «Ah, sciocchezze!» sbuffò Sianadh. La sua protesta fu interrotta da Muirne, che era entrata di corsa nel sentire la notizia. «Oh, Diarmid, portami con te! La Compagnia degli Arcieri Reali avrà bisogno di una valida tiratrice, non credi?» «Non intendo portare in battaglia la mia sorellina», ribatté Diarmid, scuotendo il capo. «Inoltre la mamma ha bisogno di te qui.» «'Io, disse il passero, col mio arco e le mie frecce'», cantò Sianadh. «E tu sei dannatamente abile con l'arco, Passerotto... Mi hai vinto una spilla d'oro con la tua mira precisa, anche se te l'avrei data comunque... Però una ragazzina come te, entrare nell'esercito del Re... non sarebbe una cosa appropriata!» «Non è giusto!» si ribellò la nipote. «A Corte, me la caverei meglio degli zoticoni di campagna di queste zone che stanno andando alla Città Reale. Loro non saprebbero neppure come stare a tavola, mentre io ho sentito descrivere come si comportano i nobili, e saprei come fare.» «C'è un solo modo di mangiare, non credi, Passerotto?» «No, zio Orso. A Caermelor, alla Corte, sono così... Oh, sono molto più progrediti che in qualsiasi altro luogo. Non è corretto pulirsi le dita nei capelli o nella tovaglia, ruttare o parlare con la bocca piena di cibo, grattarsi o pulirsi i denti quando si è a tavola. Si devono usare piccole forchette per prendere il cibo, non ci si può versare il vino da soli né versarlo a chi ti è superiore di rango, ma bisogna aspettare che siano loro a degnarsi di servirlo a te, se si sentono tanto generosi da farlo. Le carni, poi, vanno tagliate in un certo modo e per quanto riguarda i brindisi... sono così complicati che ti ci vorrebbe un giorno intero per impararli!» «Tutto questo rovina il piacere di mangiare», osservò Sianadh. «Per fortuna ci andrà Diarmid, a Caermelor, e non io.» «Vorrei andarci anch'io», borbottò Muirne, amareggiata. Ethlinn rivolse una serie di gesti al figlio maggiore. Muirne e io lasceremo presto questa casa. Non è più bene per noi rimanere qui... i mendicanti ci assillano e c'è gente che ci spia. Per qualche tempo alloggeremo con nostra cugina, Roisin Tuillimh, a Clave Street - conosci la casa, no? finché non avremo trovato un nuovo posto in cui vivere. Ti manderemo notizie tramite le Guardie dei Cavalieri della Tempesta e tu dovrai fare altrettanto... Facci sapere se sei stato accettato in prova presso i Dainnan
e se verrai inviato nella Namarre. Anche se sono orgogliosa che tu abbia scelto di servire il nostro Re-Imperatore, infatti, preferirei che nessuno dei miei figli andasse in battaglia. I suoi occhi furono più espressivi delle sue mani. La vista di Imrhien si schiarì gradualmente e il dolore si ridusse a un fastidio pulsante. Lo specchio le rivelò le cicatrici e la carne lacerata. Il suo volto era più sfigurato di quanto non fosse stato prima del trattamento del Mago. Come una lumaca nel guscio, la ragazza si ritrasse al riparo del cappuccio. Una carrozza arrivò in fondo a Bergamot Street. Roisin Tuillimh era venuta a trovare Ethlinn. Roisin era una donna alta e magra, col viso lungo, gli occhi scintillanti e gli zigomi molto marcati. I capelli ingrigiti, che un tempo avevano avuto il colore del vino rosso, erano raccolti in un'acconciatura semplice; l'abbigliamento era di buona fattura senza essere vistoso e il suo stile era nettamente ertish. Quella donna dava più importanza alla bellezza dello spirito che a quella esteriore; il suo modo di parlare era ritmico e insolito. «Ragazza, finora non hai visto praticamente nulla della città», disse a Imrhien. «Da quando sei arrivata qui, sei rimasta quasi sempre in casa. L'Orso partirà domani, però oggi è il primo giorno di Uvailmis, e io v'invito tutti a venire con me alla Fiera di Uvailmis. Vienici anche tu. Magari vedrai qualcosa che desideri acquistare, qualche oggetto che potrebbe esserti utile nel viaggio che stai per intraprendere o che semplicemente ti piace.» Con riluttanza, Imrhien si lasciò persuadere ad accompagnare le tre donne alla fiera. La carrozza di Roisin si arrestò rumorosamente in un'ampia piazza, intasata di bancarelle e di gente. Roisin scese insieme con Ethlinn, seguita da Muirne e da Imrhien, e tutte e quattro s'incamminarono tra i banchi, esaminando le merci, contrattando e comprando qualcosa. Imrhien si limitò a osservare quelle mercanzie esposte che invitavano all'acquisto. «Non lasciare che nessuno ti veda in volto», le ricordò Muirne, assestandole una gomitata. Tenendo il viso nascosto nel cappuccio, Imrhien fece il giro dei banchi più vicini. Poi un chiasso improvviso attirò l'attenzione generale e tutti cominciarono a raccogliersi intorno a un uomo che stava portando in giro
per la piazza un piccolo cavallo. «Non c'è cavalcatura migliore in tutta Erith!» gridava a pieni polmoni. «Un cavallo d'acqua di natura magica, saldamente imbrigliato da una corda passata intorno al suo collo aggraziato! Dame e gentiluomini, questa bella bestia correrà per voi come il vento, lavorerà come uno schiavo, trasporterà e trascinerà pesi che ucciderebbero qualsiasi bestia normale. Che prezzo mi offrite?» Alcuni avevano riconosciuto nel venditore del cavallo il proprietario del Mulino di Picktree, un uomo noto per la sua abilità nel contrattare. La reazione all'offerta del mugnaio non fu particolarmente calorosa: alcuni si allontanarono addirittura, borbottando che portava sfortuna avere a che fare con bestie innaturali. Altri però si fecero avanti: catturare una creatura soprannaturale era molto difficile e molti erano curiosi di darle un'occhiata. In effetti, il piccolo cavallo d'acqua dal manto grigio era una bella cavalcatura, con zampe lunghe e ben modellate, come quelle di un cavallo da corsa, gli zoccoli minuti, il collo arcuato e orgoglioso. La coda era stranamente ripiegata sulla schiena, come una mezza ruota; lunghe alghe, simili a nastri verdi e sottili, erano intrecciate nella lucida coda e nella criniera. Gli occhi, però, stavano roteando nelle orbite con indignato timore e le narici erano dilatate come due rose selvatiche: la creatura non aveva alternative se non sottomettersi docilmente a chi riusciva a metterle una corda al collo. A tratti, quando il mugnaio gli agitava davanti un paio di staffe d'acciaio, il cavallo nitriva di rabbia e si ritraeva di scatto, come ustionato. «Quanto mi offrite per il miglior cavallo di Erith? Immortale! Domestico come un cucciolo!» Dalla folla si levò un mormorio guardingo. Pochi tra i presenti avevano visto qualche creatura soprannaturale; non era saggio neppure guardare i bruney domestici. «È davvero un cavallo d'acqua? Di che specie è?» chiese qualcuno. Tutti avevano sentito parlare dell'Each Uisge e non volevano immischiarsi con una creatura ben nota come selvaggia e spietata. «A giudicare dalla coda, è soltanto un nuggle... Anzi, meglio, un nygel. Non è un cavallo assassino; è innocuo», interloquì qualcuno che ne sapeva più degli altri. «Ci deve essere un inganno, mugnaio» commentò un altro. «Come hai fatto a catturare una bestia così sfuggente?» «Dubitate della mia sincerità, signore? Vergogna! Non c'è nessun inganno... Davvero, nessuno! Questo miserabile mi ha tormentato per molte notti, perché è affascinato dai mulini e, se il mio mulino lavorava di notte,
afferrava la ruota e la fermava. Sono riuscito a tenerlo lontano solo infilando una torcia accesa o una lunga lama di ferro nell'apertura per l'aerazione del mulino. In altre occasioni si aggirava lungo il corso d'acqua su cui sorge il mulino e induceva la gente a montargli in groppa, per poi lanciarsi nella polla o nel mare e inzuppare lo sfortunato cavaliere, quasi annegandolo. Merita davvero una lezione, ed è ciò che ho fatto.» «Ha mai divorato qualcuno?» domandò un uomo, in tono nervoso. «Mai! Questo mio piccolo amico non è come Chi-Sai-Tu, il Principe dei Cavalli d'Acqua, che fa a pezzi le sue vittime... No, dopo essersi liberato del suo fardello, lanciava un grande nitrito seguito da una risata, e poi si allontanava al galoppo.» «Questo non spiega come tu sia riuscito a prenderlo», obiettò qualcun altro. Il mugnaio non vedeva l'ora di descrivere la propria impresa. «Stavo camminando dalle parti di Millbeck Tarn, in cerca della mia giumenta roana, allorché questa creatura mi si è avvicinata con fare amichevole. Fingendo di non sapere che cosa fosse, le sono montato in groppa, però mi sono tenuto con una mano sola. Così, quando il cavallo è partito al galoppo, ho usato la mano libera per tirare fuori di tasca la cavezza di corda che avevo portato con me per la giumenta, passandogliela intorno al collo. A quel punto, il cavallo è stato mio! Lasciategli la corda al collo, dame e gentiluomini, e questa creatura farà per sempre ciò che vorrete.» Da più parti cominciarono a giungere le offerte. «Due sovrane!» «Tre!» L'eccitazione si diffuse tra la folla come vento in un campo di granturco. Il cavallo d'acqua, lontano dal suo ambiente naturale, rabbrividì e si guardò disperatamente intorno, alla ricerca di una via di fuga. Ma era vincolato in modo inesorabile dalle fibre naturali della corda di canapa che gli cingeva il collo. Nel formulare le offerte, i presenti avevano stampata sul volto un'espressione di compiaciuta superiorità, tipica di chi sta vedendo un simbolo della propria paura ridotto all'impotenza. Per quella gente, tutte le creature soprannaturali erano sconcertanti, aliene, e quindi spaventose. Esse presentavano una costante minaccia contro cui la maggior parte dei mortali si sentiva impotente. Imrhien vide la crudeltà presente su quei volti e il tremito del cavallo d'acqua che, dopotutto, era soltanto un nygel, un burlone per natura, non un mostro. Quella creatura non aveva colpe, se non quella di
aver obbedito al proprio istinto, che la spingeva a divertirsi. A causa della sua ingenuità era stata catturata e adesso era vilipesa. Imrhien capiva benissimo la situazione in cui si trovava. Le offerte salirono a sei sovrane, poi a sette ghinee, e a quel punto si arrestarono. Offrigli un angelo, a mio nome, disse Imrhien. «Oh, no», protestò Muirne, con diffidenza. «I suoi gesti sono troppo veloci. Cosa vuole sapere, Muirne?» domandò Roisin. Una volta capita la richiesta, soppesò Imrhien con un'occhiata e chiese: «Sei sicura?» Un cenno di assenso. «Un angelo per il cavallo!» gridò Roisin. Scoppiò una risata generale. «È un'offerta seria?» chiese però il mugnaio, che teneva la cavezza. «Lo è.» Imrhien prese a frugare nella sua borsa. «Che ti prende?» sibilò Muirne. «Sei diventata scothy?» No. Per favore, mostragli il denaro. Nessuno offrì di più. I presenti si ritrassero, a bocca aperta per lo stupore. Ben pochi avevano avuto modo di vedere una moneta preziosa come quella. Il mugnaio di Picktree non la lasciò comunque in vista molto a lungo. Dopo aver morso lo spesso disco d'oro per controllarne l'autenticità, lo ripose in tasca, consegnò la cavezza a Roisin e scomparve rapidamente tra la folla, senza dubbio timoroso di diventare il bersaglio di qualche tagliaborse o di ladri anche più pericolosi. Ora che la transazione era stata effettuata, l'attenzione dei presenti si concentrò sui nuovi proprietari della bestia, e tutti presero a gridare domande e consigli. Tuttavia, avvicinatasi alla creatura terrorizzata, Imrhien la liberò dalla corda. La folla si sparpagliò all'istante. Impennandosi sulle zampe posteriori, il piccolo cavallo d'acqua nitrì e saettò via, agitando la coda e la criniera e costringendo la folla a dividersi, come un mostro dalle molteplici teste. «Che cosa hai fatto?» gridò Muirne. Ho pagato per la sua libertà. Mentre il nygel si allontanava al galoppo, un movimento attirò l'attenzione di Imrhien. In partenza a vele spiegate dalla Torre di Tarv, una Nave del Vento stava passando nel cielo, solcandone la distesa limpida come
uno snello segugio grigio. Nel piegare il capo all'indietro per lanciare una rapida occhiata, Imrhien sentì scivolare il cappuccio e si affrettò a calcarlo di nuovo in avanti, girandosi per tornare alla carrozza. Nel momento in cui posava il piede sul predellino, però, si bloccò. Aveva la sensazione che qualcuno la stesse osservando. Girandosi, intravide una figura bassa, con occhi strabici che brillavano dalle profondità di un altro cappuccio. Un volto strano, molto strano, sconcertante. Ethlinn seguì la direzione del suo sguardo. Pericolo. Presto... Dobbiamo andare. Le quattro donne risalirono sulla carrozza. Muirne non la smetteva di borbottare contro chi non soltanto buttava il denaro al vento, ma insisteva anche per mettersi in mostra sotto gli occhi di tutti. La carrozza lasciò la piazza del mercato ed Ethlinn, il cui sguardo era fisso sul finestrino posteriore, disse: Ci stanno seguendo. «Il mio conducente conosce vie nascoste», garantì Roisin e impartì alcune istruzioni al guidatore. Le donne furono sospinte violentemente di lato quando la carrozza aggirò un angolo su due ruote, lanciandosi lungo una strada laterale. L'istante successivo, tutte e quattro furono scaraventate nella direzione opposta, mentre i passanti si sparpagliavano davanti a loro e gli edifici sembravano correre via. «Non vi spaventate... Non ci rovesceremo», gridò Roisin, al di sopra del rumore delle ruote. «Brinnegar sa quello che sta facendo.» Ci seguono ancora e guadagnano terreno. Fermiamoci al prossimo angolo. Roisin gridò un ordine al cocchiere. Con un movimento sorprendentemente agile e veloce per la sua età, Ethlinn scese dalla carrozza nel momento stesso in cui essa si arrestava. Sporgendosi dal finestrino, Imrhien la vide tirare fuori il suo Bastone da Carlin e piantarlo saldamente in una fenditura fangosa dell'acciottolato, al centro della strada. Le mani della Carlin si mossero poi in un gesto strano e Imrhien ebbe l'impressione che il Bastone vivente germogliasse con una rapidità incredibile: dai suoi nodi scaturirono rovi, ortiche e ginestrone, un groviglio di rami spinosi che continuarono a crescere e a intrecciarsi finché, in un batter d'occhio, non ebbero formato una barriera di spine. La Carlin sfilò allora il Bastone, che si separò dal resto, e si affrettò a tornare sulla carrozza. Mentre il veicolo si rimetteva in movimento, un gruppo di figure girò rapidamente l'angolo e andò a sbattere contro la barriera di vegetazione. Alcuni si ritrassero, altri rimasero agganciati e presero a contorcersi tra i rovi. La frusta del cocchie-
re crepitò, i cavalli si lanciarono al galoppo e ben presto gli inseguitori bloccati scomparvero. Una volta al sicuro nella casa di Ethlinn, Imrhien non riuscì a liberarsi dal ricordo dello strano volto intravisto al mercato. Pareva essersi impresso sulla superficie interna delle sue palpebre e le si parava dinanzi, nitido, ogni volta che chiudeva gli occhi... Era un volto dalla bocca larga e dalle narici dilatate. Il cappuccio posava sulla testa in modo strano, sollevato in due punte appena sopra le orecchie, sovrastando quegli occhi obliqui che l'avevano fissata con un'espressione cupa e selvaggia. Considerato che la statura di quello sconosciuto non superava i quattro piedi, Imrhien era sicura che si trattava di una creatura soprannaturale e per di più d'indole malevola. Io posso proteggere me stessa, ma non sarò sempre in grado di proteggere gli altri, le spiegò Ethlinn. In mezzo al gruppo che ci ha inseguiti c'erano individui che avevano l'aspetto di creature soprannaturali... una cosa strana, dal momento che non amano la luce del giorno. Ho sottovalutato i poteri di questo Mago, Korguth... Credo infatti sia lui a mandarci contro queste creature, per vendicarsi. Muirne, tu andrai a Caermelor insieme con Diarmid e Imrhien, almeno finché questa follia non si sarà esaurita. Fino ad allora, sii cauta. Domani ci trasferiremo a casa di Roisin, con la massima discrezione, nella speranza che eventuali inseguitori non scoprano dove siamo andati. Dopodiché non metterai più piede all'esterno fino al momento di partire con la carovana. Entusiasta, Muirne andò immediatamente a fare i bagagli. Prima dell'alba, Sianadh e Liam si congedarono dagli altri davanti alla porta principale della casa di Bergamot Street. Tre cavalli carichi erano in attesa, tenuti da Sheamais, uno dei tre fidati fratelli Sulibhain; gli altri due avrebbero raggiunto il piccolo gruppo in un luogo prestabilito, fuori città. Un doloroso senso di angoscia serrò il petto di Imrhien. «Non so quando ci rivedremo», le disse l'ertish, imbarazzato. «Al mio ritorno, tu sarai già in viaggio sulla Strada di Caermelor, con la Carovana di Serrure. Ne abbiamo passate tante insieme, vero, chehrna?» Sorrise. «Siamo arrivati in fondo e tu hai aperto quelle porte per me, e io ti ho dato un nome. Nella Finvarna abbiamo un detto: Inna shai tithen elion, che significa: 'Abbiamo vissuto i giorni'.» Imrhien annuì, deglutendo per allentare la tensione alla gola.
«Ti auguro buon viaggio e ogni fortuna. Spero che tu possa trovare quello che cerchi.» Per l'ultima volta, Sianadh, t'imploro di non andare, lo supplicò la sorella. Non ne verrà nulla di buono. Il cuore mi dice che un triste destino ti attende su quella strada. «Non ti preoccupare, Eth», ribatté Sianadh, deponendole un bacio leggero sulla fronte. «Il fato mi ha già aspettato al varco altre volte, e può continuare ad attendere. L'Orso prevarrà.» Baciò quindi la mano a Muirne e strinse Imrhien in un goffo abbraccio, battendole una pacca sulla schiena come avrebbe fatto con un compagno di bevute. Cosa significa, questo nome che mi hai dato? Gli occhi di Imrhien scrutarono il volto rozzo dell'ertish. L'intensità del suo sguardo era una sottile catena che legava l'uno all'altra. «Imrhien è... la parola ertish per indicare le farfalle.» Sianadh voltò bruscamente le spalle, e la catena si spezzò. Montato in sella, si allontanò col giovane Sulibhain, seguito da Liam. «Madre, li rivedremo?» chiese Muirne, col volto rigato di lacrime. Ethlinn rimase immobile, le mani serrate, lo sguardo abbassato sulla strada. I Cavalieri della Tempesta che mantenevano i collegamenti tra le città riferirono che una carovana sarebbe arrivata in ritardo perché era stata attaccata da numerose bande di briganti. Al suo arrivo, la carovana ritardataria molti membri della quale si sarebbero uniti poi a quella di Serrure - si ritrovò nella necessità di procedere ad alcune riparazioni, così la partenza della Carovana di Serrure venne rinviata di una settimana buona. In quel periodo partirono altre carovane, ma, poiché si trattava di gruppi meno protetti e dotati di una minor reputazione, Ethlinn non le ritenne sicure per i suoi figli e per Imrhien. Il trasferimento da Bergamot Street a Clove Street venne portato a termine con rapidità. Tutto era già stato imballato in anticipo, in previsione del carretto che giunse la notte stessa della partenza di Sianadh, con le ruote avvolte nella paglia per non fare rumore. In fretta e in silenzio, le donne vi caricarono le loro cose, poi Ethlinn chiuse a chiave la porta e tutte e tre si allontanarono senza far rumore. Pareva che ogni cosa stesse andando per il meglio, quando, proprio mentre il carretto svoltava l'angolo per lasciare Bergamot Street, Muirne ebbe un improvviso sussulto. «La spilla!» esclamò.
Quale spilla? chiese la madre. «La spilla d'oro che zio Orso mi ha dato per la mia abilità con l'arco... L'ho riposta per sicurezza dietro il rivestimento della parete e me la sono dimenticata!» Lasciala perdere, insistette Ethlinn. Hai oro a sufficienza, con la parte che lui ti ha dato. «Ma è un premio per il mio talento con l'arco! È speciale, e me l'ha data lui. Baratterei tutto il mio oro per averla!» Ti proibisco di tornare alla casa. Il pericolo è troppo grande. Il volto di Muirne s'incupì quanto una finestra buia. La luce delle lampade si riversava in strada dalla grande e confortevole dimora di Roisin. Con rapida efficienza, il carretto venne scaricato. «Siete tutte molto stanche», disse Roisin. «Dovete riposare un poco, ma, prima di andare a letto, rinfrancatevi con latte e miele. Qualche momento fa ho sentito un rumore, ma credo che sia stato il bruney, il tuo assistente seelie, il quale ha disfatto da solo il proprio bagaglio. Se rimarrà con noi, scoprirà che tra queste mura non si è mai in ozio. I miei servitori avevano già molto da fare con una sola padrona... Oh, e poi naturalmente ci sono le linci, i miei cuccioli viziati. Alle cameriere verrà comunque detto di lasciare in pace la tua creatura seelie e di non spiarla, per evitare che si offenda e se ne vada. Inoltre, mia cara Eth, ho fatto preparare un luogo dove potrai piantare il tuo Bastone: è vicino al roseto che cresce nel cortile anteriore.» Quella notte, quando ormai tutti erano a letto, Imrhien sentì Muirne muoversi nella stanza accanto alla sua. Accesa una candela, sgusciò nella camera come un pallido spettro delle paludi e trovò la giovane, vestita di tutto punto col suo abito di velluto verde, in procinto di scendere le scale, con una mano sulla ringhiera e una lanterna cieca nell'altra. Le ombre le nascondevano il volto come una maschera. «Torna a letto», sussurrò Muirne con un sussulto colpevole. Imrhien mise la candela in un candelabro. Vai a prendere la spilla. Non farlo. Aspetta che sia giorno. «Non posso andare di giorno. Qualcuno potrebbe vedermi e magari seguirmi.» Fece per scendere le scale. Imrhien la trattenne per un gomito. Aspetta. Vengo con te. Muirne esitò, poi annuì, un'espressione di sollievo sul volto, e attese mentre Imrhien si vestiva in fretta, indossando l'abito di broccato magenta e gettandosi sulle spalle un mantello del colore dell'oceano di notte. Insie-
me, le due ragazze sgusciarono in silenzio dalla porta principale, attraversarono il piccolo cortile e varcarono il cancello esterno, addentrandosi nella strada buia. Di notte, la città sembrava un mondo diverso. I tetti inclinati parevano cambiare angolazione di continuo e si stagliavano contro il fumoso velo di nubi che copriva la luna. Le ragazze si avviarono con passo silenzioso, portando lanterne cieche e tenendosi nelle zone d'ombra più cupa lungo i muri. Dai tetti, qualche filo di paglia pioveva sulla strada e, poco lontano, una lince domestica corse lungo un muro, lasciandosi cadere poi dall'altra parte. In lontananza, qualcuno urlò e un cane prese ad abbaiare a parecchie strade di distanza. Tilhal di sorbo erano appesi a ogni porta, anche se capitava di rado che le creature soprannaturali si addentrassero nelle città; quanto ai bruney e agli altri seelie domestici isolati, di solito rimanevano al chiuso, perché la loro dimora naturale erano le abitazioni umane. Mentre le ragazze si avvicinavano alla loro destinazione, un gruppo di ubriachi attraversò l'estremità della strada, allontanandosi in un vicolo e lasciandosi alle spalle un'eco dei loro discorsi incoerenti. In quella parte di Tarv non c'erano guardie notturne che si parassero a illuminare con le loro lanterne le facce di quei nottambuli. Bergamot Street sembrava deserta. In silenzio, Muirne girò la chiave nella serratura della porta della casa deserta. I campanelli erano stati tolti, quindi tutto rimase silenzioso. A disagio, Imrhien si chiese se quel silenzio non fosse eccessivo... Non riusciva infatti a ricordare una quiete notturna così profonda, non in quella strada, dove si sentiva sempre qualche rumore: qualcuno che tossiva ai piani superiori, voci sussurranti da una stanza sul retro o il vago pianto di un neonato. Avvertì un formicolio, come per l'approssimarsi di una tempesta magica, e tese l'orecchio per cogliere un rumore di passi, un suono qualsiasi che infrangesse quel muro di silenzio. Invece esso continuò a opprimerle le orecchie, ovattato come tamponi di lana. La casa vuota sembrava quasi un luogo estraneo. Era triste, quasi spettrale, come una nave abbandonata e spinta sulla spiaggia dalla marea. Scoprendo parzialmente le lanterne, le due ragazze salirono le scale scricchiolanti. La stanza spoglia del piano superiore conservava ancora un profumo di lavanda e un altro sentore indefinibile. Muirne prese a tastare la tela di sacco che rivestiva le pareti. «Eccola qui.» E si fissò la spilla al vestito, sotto il mantello.
Raccolte le lanterne, le ragazze scesero di nuovo fino alla porta anteriore, con le ombre che fuggivano veloci davanti ai loro piedi. La finestra posteriore della stanza le fissò come un occhio vuoto. Il senso di oppressione si fece ancora più intenso quando uscirono in strada e divenne quasi un avvertimento. Imrhien desiderò che Muirne si spicciasse, ma lei armeggiava con la serratura, come se avesse problemi con la chiave. Poi la chiave cadde sull'acciottolato con un rumore impossibile, simile al rintocco di una campana sorda, e giacque sulla pietra, senza che nessuna mano si protendesse a raccoglierla. I rapitori erano scattati alle spalle delle vittime, chiudendo la bocca delle ragazze con una mano, torcendo un braccio dietro la loro schiena e trascinando entrambe fino a un carretto in attesa dietro l'angolo. Muirne e Imrhien cercarono di lottare, ma invano. Una frusta crepitò due volte e il veicolo si mise in movimento. In strada, la chiave rimase a galleggiare in una polla d'ombra. La casa sorgeva come un fungo vicino al fiume, in una zona fatiscente della città, che puzzava di muffa e di umido. L'acqua oleosa scintillava tra gli edifici diroccati, privi di vernice e di tegole. Ma le due prigioniere videro ben poco di quella zona. Vennero spinte rudemente oltre la porta della casa, private dei gioielli, trascinate in una piccola stanza squallida e lì rinchiuse. Muirne singhiozzò a lungo, con voce soffocata, mentre la sua compagna si aggirava per la stanza, arredata soltanto con un giaciglio di paglia, un paio di rozze coperte di lana e due secchi, uno vuoto e l'altro pieno d'acqua. Nella penombra, nessuno di quegli oggetti era facile da individuare, in quanto l'unica luce era quella della luna, che filtrava da una finestra sbarrata. Dalla finestra giungeva anche il gorgoglio delle acque del fiume. E Imrhien sentì un brivido correrle lungo la schiena quando udì, oltre il rumore dell'acqua, un vago scalpiccio. Evidentemente, in quella stanza, c'era qualche topo. Le cantine della Torre di Isse erano infestate da quei roditori, e lei li odiava con una veemenza del tutto sproporzionata ai pochi fastidi che le avevano causato. I ratti però non si fecero vedere e, dopo qualche tempo, Imrhien si raggomitolò su un lato del pagliericcio, addormentandosi. Quando si svegliò, irrigidita per il freddo, Muirne le giaceva accanto, gli occhi arrossati dal pianto. Una grigiastra luce diurna cominciava a filtrare tra le sbarre della finestra. «Come hai potuto dormire?» le chiese Muirne, sollevando il volto chiaz-
zato di lacrime. «Non ti preoccupa cosa ci è successo o cosa ci succederà?» Imrhien scosse il capo. Mentre si stava assopendo, aveva riflettuto sulla cosa. Forse i servitori del Mago avevano dato seguito alla minaccia di fare del male alla famiglia di Sianadh, temendo che quest'ultimo potesse danneggiare la reputazione di Korguth. In tal caso, però, perché avevano imprigionato lei e Muirne, invece di limitarsi a gettarle nel fiume? E se i loro rapitori erano davvero al servizio del Mago, per quale motivo non avevano agito allorché Sianadh aveva minacciato il loro padrone? Perché avevano atteso che la casa di Ethlinn fosse vuota? La cosa non aveva senso. «Gli sgherri di quell'uraguhne di un Mago stavano cercando te, e hanno preso me per errore», disse Muirne. «Ho sentito uno di loro chiedere: 'Qual è, delle due?' E un altro ha risposto: 'Non lo so. Prendiamole entrambe'. Adesso subiremo entrambe la stessa sorte: molto probabilmente, saremo vendute come schiave nella Namarre. Ah, la mia povera madre!» E ricominciò a piangere. Una chiave girò nella serratura e la porta si spalancò con violenza, rivelando un uomo massiccio, dalla faccia butterata. Un altro uomo, che indossava abiti umili da servitore, trascinò dentro un secondo pagliericcio e lo gettò per terra, seguito da un paio di coperte e da una sporca pagnotta. A quel punto entrò un terzo uomo, che aveva il volto quasi nascosto da una cespugliosa barba marrone e che indossava gli abiti gialli propri di un mercante. «Alzatevi, in modo che possiamo darvi un'occhiata», ordinò. Le prigioniere obbedirono e lui si lasciò sfuggire una violenta imprecazione. «Ah, Donnola, ma cosa mi hai portato dai vicoli? Una Regina dai capelli rossi e una megera dalla capigliatura scolorita?» Poi osservò Imrhien dalla testa ai piedi. «Un corpo che un uomo potrebbe idolatrare e un volto uscito dal peggiore incubo», sentenziò. Imrhien rabbrividì. Quell'uomo esalava lo stesso sentore di Morder. «Può darsi che sia meglio di quanto avessi sperato. Due al prezzo di una! Sarà uno spettacolo eccellente e le offerte potrebbero essere ancora più alte. Donnola, accertati di nutrire adeguatamente le nostre piccole danzatrici... Avranno bisogno di piedi agili e leggeri.» Come se quella fosse una battuta divertente, l'uomo fuori della stanza scoppiò a ridere. «Sì, Scalzo», grugnì Donnola, il servitore. L'uomo barbuto uscì dalla stanza, seguito da Donnola, che si sbatté la
porta alle spalle. Siamo vive. Possiamo sperare. Muirne distolse lo sguardo, ignorando quei segni accorati. Come tutti gli animali in gabbia e i mortali imprigionati, le due ragazze presero a camminare avanti e indietro, scandendo col rumore dei loro passi lo scorrere dei secondi, dei minuti e dei giorni. Sette corti passi erano la misura della loro prigione, come appurarono fin troppo bene. Una volta al giorno, Donnola veniva a portare loro del cibo, che variava ben poco: pane, pesce in salamoia e, talvolta, qualche mela. Il servitore le fissava con occhi vacui, senza dire neppure una parola, del tutto privo di compassione. Ogni mattina, Imrhien marcava il trascorrere dei giorni sulla parete con un pezzo di mattone e, a mano a mano che la fila di segni si allungò, i silenzi di Muirne si accorciarono e il suo atteggiamento ostile scomparve. Per passare il tempo, le ragazze giocavano a Carta-Forbici-Pietra, agli indovinelli e alle sciarade, oppure progettavano piani di fuga. Muirne insegnò a Imrhien altri segni e, in cambio, Imrhien le raccontò, come meglio poteva, le avventure che aveva vissuto sulle montagne con Sianadh. Muirne le chiese per quale motivo si trovasse a viaggiare in quelle zone selvagge, ma Imrhien evitò di rispondere, perché aveva promesso a Sianadh di non parlare del tesoro che si trovava dietro la Scala d'Acqua. Tuttavia, da quel seme d'interesse da parte di Muirne, germogliò una simpatia reciproca. Tranne per il passaggio di un tenue vento shang, che evocò tenui spettri di nebbia, non c'era modo di distinguere un giorno dal successivo. «Perché ci stanno tenendo qui tanto a lungo?» rifletté Muirne, poi si rispose da sola. «Probabilmente aspettano che una Nave d'Acqua arrivi al Porto di Tarv... Una nave per gli schiavi, che ci porti nella Namarre. Abbiamo perso il nostro posto nella Carovana di Serrare, che ormai sarà partita. D'altro canto, perché mai dovrei preoccuparmi della carovana? Per noi sarà già una fortuna rimanere vive.» Il quattordicesimo giorno, un forte rumore di voci, simile al ronzio di vespe furiose, giunse da dietro la loro porta. «Non possiamo aspettare oltre. Ogni giorno che passa ci espone al rischio di essere scoperti.» «Arriverà presto! Forse oggi stesso. Perché sprecare quello che abbiamo?» «Abbiamo già rimandato troppo a lungo.»
«Di che hai paura? Di quelle vecchie dalla faccia azzurra? Povero Donnola, spaventato dalle nonnine!» «Io dico di allontanarle da qui.» «No. Stanotte arriverà un bel vento forte a creare spettri. Lo sento!» Gli uomini si allontanarono, continuando a discutere, e le loro voci si affievolirono. «Oh», mormorò Muirne. «È davvero una situazione hreorig. Senza dubbio, questa casa non è schermata, e noi verremo usate come gilf, prima di essere vendute.» Cosa significa? chiese Imrhien. «I gilf sono... soggetti che si esibiscono quando soffia il vento shang. Persone che scelgono di denudarsi la testa durante una tempesta magica, o che vengono costrette a farlo, in modo da diventare parte di un evento di qualche tipo e addirittura, nel corso di tempeste successive, di essere mostrate a un pubblico pagante. Questi spettacoli, queste case non schermate, sono illegali. I criminali dal cuore nero che le gestiscono esigono tariffe elevate per i loro spettacoli, e sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo che attiri i vecchi clienti... nuovi gilf, gesta più eccitanti.» Cosa dovremo fare? «Non lo so, ma ho paura d'immaginarlo. Ho sentito parlare di queste cose quando le persone più mature non pensavano che le stessi ascoltando. Gli spettacoli di gilf che si tengono in queste case illegali sono... Gli uomini vengono costretti a lottare tra loro fino alla morte o ad affrontare animali selvatici. Talvolta devono saltare attraverso anelli di fuoco o camminare scalzi sui carboni ardenti. In ogni caso, si tratta sempre di atti di grande audacia. A causa della loro paura, le immagini s'imprimono più nitide nel vento shang.» La felicità arde. «Oh, sì, anche una grande gioia imprime immagini intense, ma per questi uraguhne è più facile ispirare timore che gioia. Inoltre, non si deve trattare di quel genere di paura passiva che fa sudare e impietrisce la gente, bensì di quel terrore che spinge le persone ad azioni che di norma non farebbero, perché questo garantisce un intrattenimento migliore. Pare che saremo usate per questo, quando soffierà il prossimo vento shang... Ah, che Ceileinh ci salvi. Ci sono cose peggiori della morte.» Ma né quella notte né la successiva furono caratterizzate da una tempesta magica. Donnola tuttavia andò a trovarle, ubriaco. «Questa casa un tempo faceva buoni affari, grazie alla proficua stanza gilf al piano di so-
pra», confidò alle ragazze, con insolita loquacità. «Poi, una notte, durante una tempesta magica, col pubblico ammucchiato lungo le pareti intento ad assistere allo spettacolo, si è sentita una voce possente esclamare: 'Dov'è il mio occhio d'oro?' E una grande mano pelosa, o forse un piede, è scesa lungo il camino e ha cominciato ad andare in giro per la stanza, toccando tutto e tutti. Gli spettatori sono fuggiti in preda al terrore e, da allora, ogni volta che c'è una tempesta, la voce dice: 'Dov'è il mio occhio d'oro?' E la mano scende dal camino, tastando e cercando. Questo fatto ha allontanato tutti i clienti. Scalzo ha cercato molte volte di liberarsi da questa Cosa nel camino, ma senza successo, quindi tiene un verme da guardia chiuso nella stanza gilf, nell'eventualità che, una notte, quella Cosa scenda lungo il camino e raggiunga le stanze del piano di sotto, dove dormiamo noi. Nonostante questo, non riposiamo tranquilli e non possiamo riaprire la stanza gilf al pubblico. Adesso abbiamo per le mani due prigioniere la cui sorte è quella di essere imbarcate su una nave di schiavi. Che occasione... Entrambe avete gli occhi. Sono dorati?» «Manscatha!» sibilò Muirne. «Sarete portate nella stanza gilf non appena si scatenerà la prossima tempesta. Quando chiederà il suo occhio, la Cosa nel camino potrà scegliere tra gli occhi del colore dell'uva spina della megera dalla capigliatura scolorita e quelli simili a uova di pettirosso della Regina rossa.» Scrollò le spalle. «Chissà, forse la Cosa non noterà la differenza, o forse non le importerà, e magari dopo deciderà di lasciarci in pace. Se una di voi due rimarrà intatta, verrà portata via per essere venduta.» Pallida come un cadavere, Muirne serrò i pugni, affondando le unghie nella carne, e non riuscì a formulare parola. Poi, d'un tratto, Donnola tacque e uscì dalla stanza, ricordandosi di chiudere a chiave la porta. Imrhien aveva appena tracciato il ventiduesimo segno sul muro quando avvertì l'ormai familiare formicolio e si rese conto che la tempesta stava per arrivare. Quella sensazione continuò a crescere nel corso della giornata e, col calare del buio, Muirne si aggrappò nervosamente al braccio della compagna. «La tempesta magica! Imrhien! Sta venendo da questa parte!» Quasi in risposta al suo grido, un lamento improvviso eruppe da oltre le pareti, un grido di dolore selvaggio e tragico. Muirne ammutolì, rabbrividendo, ed entrambe le ragazze si concentrarono sul suono, che riecheggiò una volta, due volte, tre. Al terzo grido, il
lungo, doloroso lamento si disperse sulle ali della brezza notturna. La Piangente di Tarv aveva abitato vicino al fiume fin dal tempo in cui la città non esisteva ancora, perché da sempre i fiumi erano la residenza naturale di quelle donne. Se un mortale le vedeva - cosa che poteva accadere forse una volta ogni cento anni - esse stavano inevitabilmente inginocchiate vicino all'acqua, all'apparenza intente a lavare gli indumenti insanguinati di qualcuno che presto sarebbe morto. Quel loro cupo avvertimento raggiungeva sia gli abitanti della città sia quelli delle campagne, ed era sempre confermato dagli eventi. Chi sarebbe morto, quella notte? Le stelle, simili a carboni incandescenti, apparvero dietro la grata della finestra. Con un suono metallico, la porta si aprì e alcuni uomini apparvero sulla soglia, delineati dalla luce delle torce. In risposta a un ordine secco, un uomo basso, con la bocca segnata agli angoli da alcune piaghe, si fece avanti. «È l'ora dello spettacolo», annunciò. Poi tirò giù il cappuccio dalla testa delle prigioniere e le spinse fuori della porta e lungo una rampa di scale. La loro scorta si aprì per farle passare, poi serrò le file alle loro spalle. In cima a quattro rampe di gradini, un uomo aprì una porta e la spalancò con un calcio, mentre altri due protendevano le torce nell'oscurità della stanza che si allargava oltre il battente, un ambiente lungo e ampio. «Indietro! Fatti indietro!» ingiunsero, rivolti a qualcosa che si trovava all'interno, avanzando con le torce. La luce incerta raggiunse gli angoli della stanza a mano a mano che vi entravano altre torce, poi le prigioniere furono spinte dentro. Un urlo salì lungo la gola di Muirne e le scaturì dalla bocca con violenza, mentre lei e Imrhien gettavano indietro il capo per fissare con meraviglia ciò che avevano davanti. La testa piatta e cuneiforme di un serpente gigantesco torreggiava su di loro, ergendosi al di sopra di una serie di spire. Il serpente sembrava un arcobaleno tolto dal cielo, modellato a spirale e ricoperto da gocce d'acqua che rifrangevano la luce viva, emanando bagliori iridescenti che ricordavano il rivestimento interno di una conchiglia di madreperla. Largo quanto la vita di un uomo, il verme da guardia emise un sibilo simile allo sbuffo di un getto di vapore, protendendo la lingua biforcuta tra le ampie fauci. I suoi occhi erano profondi cristalli sfaccettati; colori evanescenti fluttuavano lungo le sue spire, un'alternanza di zirconi, rubini, smeraldi, diamanti e zaffiri. Gli uomini agitarono le torce verso la creatura, spingendola verso
un'estremità della stanza, dove essa cominciò a raccogliere le proprie spire in un corrusco scivolare di lustrini e di perle. Quella camera, la stanza gilf, occupava tutto il piano superiore. A un'estremità si apriva la bocca annerita di un focolare, avviluppato da un camino di pietra; all'estremità opposta c'era un'enorme cassapanca, col coperchio alzato. Frammenti di pareti infrante sporgevano dai muri perimetrali, a indicare i punti in cui la camera, un tempo, era divisa in ambienti più piccoli. Le pareti, il soffitto e il pavimento erano coperti da rozze rappresentazioni di scene di battaglia e di atti di magia, dipinte a colori vivaci. Le imposte delle finestre pendevano di traverso sui cardini. «Fate rintanare il verme da guardia!» stava gridando uno degli uomini di Scalzo. «La tempesta magica sta arrivando!» Si udiva infatti un tintinnio, simile al vibrare di un milione di minuscoli campanelli. Coi capelli che si rizzavano come raggi di sole e crepitavano come ghiaccio, Imrhien si sentì pervadere dal timore e dall'esaltazione. Accanto a lei, Muirne le serrò il braccio in una morsa. Poi le due ragazze vennero legate a un palo nero piantato al centro della stanza. «Non cercate di liberarvi, o sarà peggio per voi», ammonì l'uomo basso. «Due nullità come voi non si devono sovrapporre alle altre immagini, confondendo tutto. Sotto il palo c'è una vecchia immagine, mezza sbiadita... È sempre stata poco nitida, quindi stanotte vi sovrapporremo qualcosa di meglio... Vero, Occhi d'Oro?» L'uomo indietreggiò, facendo schioccare una frusta. Le sue vittime rabbrividirono. Il verme da guardia allungò di scatto la testa enorme verso gli uomini muniti di torce. Gli uomini di Scalzo reagirono protendendo le fiamme in avanti e passandole lungo le scaglie metalliche della creatura, che si contorse come se stesse soffrendo e aprì le fauci per emettere un sibilo. Neppure un intero arsenale di armi incandescenti immerso nell'acqua fredda avrebbe prodotto un suono più sinistro. Le spire dorsali si sollevarono come una cresta, simili a una fila di ventagli di seta variegata. Il colore delle loro membrane andava dal rosso intenso al viola più cupo. Ormai gli uomini erano costretti a spiccare balzi continui per evitare di essere colpiti dalla coda. D'un tratto, il verme scattò verso la porta, e l'uomo basso lo respinse con una frustata, che lo raggiunse al collo, appena sotto le creste. «Spicciatevi a farlo entrare nella cassapanca, se non volete che vi riduca tutti in poltiglia. Fate presto, e poi uscite di qui!»
Agitando le torce, gli uomini tentarono di sospingere la creatura verso la cassapanca. In quel momento, il vento shang colpì con tutta la sua forza e generò uno spettacolo agghiacciante. Imrhien teneva d'occhio il verme e non vide le terribili scene apparse in quella stanza priva di schermatura; Muirne, invece, prese a tremare violentemente, il volto diventato una maschera di terrore. Da qualche parte, un tamburo dal suono soffocato, o forse un cuore, prese a battere. Pervasa dall'estasi del vento shang, Imrhien non provava timore. Poi, dal camino, giunse un folle ruggito. «Dov'è il mio occhio d'oro?» La Voce era terribile, crudele e antica, minacciosa e aspra. Le urla di Muirne si mescolarono alle grida degli uomini. Al di là delle urla, al di là dei cammei delineati in oro che la tempesta magica aveva creato, al di là dello scintillio delle spire in movimento del verme da guardia, le imposte malconce di una finestra si spalancarono e due figure saltarono giù dal davanzale, entrando nella stanza. In un primo tempo, Imrhien pensò che facessero parte di un'altra scena spettrale, ma poi, guardando meglio, si rese conto che avevano aggredito due uomini di Scalzo. Gli uomini ora giacevano al suolo, insieme con le torce che si stavano spegnendo in una polla di sangue, scura come vino versato. Muovendosi in mezzo al caos delle immagini fittizie, i due intrusi riuscirono a cogliere di sorpresa altri due avversari, però, mentre quegli uomini crollavano a terra, trapassati dalle spade, i loro complici compresero quello che stava succedendo e si scagliarono contro gli sconosciuti. Scintillando, le spade uscirono dal fodero e gli uomini si lanciarono attraverso la stanza. Allora, libero dal cerchio di fuoco, il verme da guardia si spostò, rapido, lungo le pareti in una serie di cerchi scintillanti. Gettate via le torce, altri tre uomini balzarono verso la porta, la spalancarono e scomparvero lungo le scale, ma il verme assetato di vendetta li seguì, veloce come il fulmine. In preda al terrore, un altro uomo si gettò dalla finestra aperta. Poi un'ombra si abbatté sul focolare, cupo riflesso di qualcosa che si stava muovendo più in alto, super il camino. Sembrava l'ombra di un artiglio disgustoso o di un ragno orribile e gigantesco. Frammenti di fuliggine piovvero dalla canna fumaria. «Muirne!» gridò una voce maschile. «Dov'è il mio occhio d'oro?» tuonò la Voce, ancora più stentorea e minacciosa. Brandendo le spade insanguinate, Liam e un altro giovane ertish saettarono fuori dal caos d'immagini create dal vento shang e tagliarono le corde
che trattenevano le prigioniere. Quattro uomini, morti o feriti, giacevano al suolo sotto l'immagine trasparente e vorticosa lasciata dal verme da guardia. Alcuni degli sgherri di Scalzo stavano correndo di qua e di là, come se avessero smarrito il senno, troppo terrorizzati all'idea di lasciare la stanza e di trovare il verme ad attenderli, eppure timorosi di rimanere lì ad affrontare un pericolo concreto. Le immagini shang si ripetevano ovunque, perfino sul soffitto, dove, in passato, cinture di sildron erano state usate su altri gilf. All'estremità opposta della stanza, la nera canna fumaria iniziò a vibrare, al punto che pezzi di calcina presero a sgretolarsi in mezzo alle pietre e ad ammucchiarsi lungo la mensola. Qualcosa calò poi con violenza nel focolare... Era una sorta di gigantesca zampa di pollo, devastata dal fuoco o colpita dal fulmine. «Dov'è il mio occhio d'oro?» «E smettila col tuo occhio d'oro!» gracchiò un ferito, in tono isterico. Un vento improvviso si abbatté sulla stanza, seguito da una strana sensazione di vuoto. Poi l'uomo basso che impugnava la frusta cominciò a scivolare in avanti. Con crescente velocità, e rimanendo eretto, fu spinto verso il focolare e, quando venne trascinato al suo interno, lasciò cadere la frusta con un urlo. Scomparve in un lampo, come se qualcosa si fosse chiuso sulla sua testa, issandolo verso l'alto; rapido come il pensiero, era semplicemente svanito su per il camino, come un tappo saltato via da una bottiglia. Le sue gambe e le sue braccia penzolavano, inerti, come quelle di una bambola di legno. Un momento prima era immobile, con un'espressione inorridita sul volto; un momento dopo era scomparso... senza un suono, senza neppure un urlo. Nulla, tranne una pioggerella di fuliggine. «Spicciatevi!» gridò qualcuno. Lo strano vento riprese a soffiare, seguito da un vuoto che parve schiacciare i timpani di tutti. Un altro uomo cominciò a scivolare in avanti. Scortate dal compagno di Liam, che si mise in retroguardia, le due prigioniere saltarono giù dalla finestra. Mentre scivolavano lungo la pendenza del tetto, apparve davanti a loro lo spettacolo di Gilvaris Tarv avvolta dal vento shang. La città era come ammantata di una tenue luce, che rifletteva la distesa stellata. Il giovane ertish aiutò Muirne a saltare su un tetto più basso e, alle sue spalle, Liam protese una mano per sorreggerla. Le abitazioni lungo il fiume erano state costruite a casaccio, addossate le une alle altre. Il profilo dei loro tetti sembrava una scala costruita da un folle, diseguale e punteggiata dai comignoli. Mentre la tempesta magica si allontanava al di sopra delle case, i quattro scivolarono lungo una serie di
tetti coperti di paglia, balzando dall'uno all'altro fino ad atterrare in uno stretto vicolo, dov'erano legati due cavalli. «Affrettiamoci, prima che chiamino rinforzi», disse Liam, sciogliendo le redini. Ma era già troppo tardi. Un coro di grida, unite a un martellare di zoccoli e ai tonfi di piedi in corsa, giunse dal fondo del vicolo. Il chiarore giallastro delle torce squarciò la notte. Muirne balzò con agilità su uno dei cavalli e il giovane ertish montò sull'altro, chinandosi poi per prendere Imrhien. Liam sollevò di slancio la ragazza, issandola in sella davanti all'amico. Lei si afferrò alla criniera con cupa determinazione. «Liam!» gridò Muirne, il cui cavallo si stava innervosendo. «Va'!» le ordinò il fratello. «È tutta colpa mia. Li terrò a bada finché non vi sarete allontanati.» «No!» Liam colpì con forza entrambi i cavalli sulla groppa. Spaventate, le bestie si lanciarono al galoppo lungo il vicolo, superando d'un balzo la sagoma - diventata grigia - del verme da guardia, ormai satollo. Avendo portato a termine la sua vendetta, si stava dirigendo verso il fiume. In lontananza si levarono delle grida. Poi gli inseguitori piombarono sull'uomo che aveva deciso di affrontarli da solo. I cavalli trottarono lungo vicoli tortuosi e sotto gli archi che congiungevano gli edifici, giungendo così ai margini della zona del fiume. Là, in una piazza al cui centro c'era un pozzo dal piccolo tetto inclinato, il salvatore delle due ragazze fece arrestare i cavalli, che avevano il respiro affannoso e i fianchi che fumavano sotto la luce delle stelle. Alcuni passeri, disturbati dal rumore, ciangottarono sotto le grondaie di una casa. «Devo tornare da Liam», affermò il giovane ertish, balzando di sella. «Voi andate a casa di Roisin. Muirne, tu forse sai che strada fare da qui... Lo vedi, siamo in Farthingwell Square e...» «Vengo con te, Eochaid», singhiozzò Muirne, a bassa voce. «No. Cosa faremmo se ti catturassero? Se è vivo, lo riporterò a casa. Altrimenti... Vorresti rischiare di rendere vano il suo sacrificio?» le chiese Eochaid. Poi, con calma, spiegò loro nei dettagli la direzione da prendere per arrivare da Roisin. Infine imboccò un vicolo e si allontanò di corsa. Molte finestre si affacciavano sulla piazza. Le imposte di una di esse si aprirono.
«Chi è là?» domandò una voce irritata. «Pardrot, sei tu?» Altre voci si unirono alla prima. «Andiamo», sussurrò Muirne, innervosita. Poi, tirando per le redini il cavallo di Imrhien, si avviò. Le due ragazze bussarono alla porta posteriore della casa di Roisin Tuillirnh, che venne ad aprire accompagnata dal suo cocchiere, Brinnegar, e le fece entrare. Da quel momento in poi, tutto accadde con grande rapidità. Nel sentire che Liam era in pericolo, Ethlinn non perse tempo. Col Bastone al fianco, raggiunse di corsa le stalle, montando in sella e allontanandosi al galoppo. Nel frattempo, Roisin, dopo aver abbracciato le due ragazze, prestava loro le prime cure e le tempestava di domande. «Ma cosa ci fa Liam, qui a Tarv?» domandò improvvisamente Muirne. «Non era partito con la spedizione di zio Orso?» Roisin le spiegò che lei ed Ethlinn non avevano più visto Liam da quand'era partito con Sianadh. Dopo che le due ragazze erano scomparse, una rete di vicini, di amici e di Carlin aveva lanciato l'allarme in tutta la città. Con rapidità ed efficienza, Diarmid aveva radunato una banda di mercenari e si era messo a cercare le due ragazze, ma invano. La Carovana di Serrare era partita, ovviamente senza di lui, perché Diarmid non aveva nessuna intenzione di lasciare la città finché la sorella non fosse stata ritrovata. Dai vicini di Bergamot Street era poi arrivata la notizia che alcuni tizi dall'aria strana si aggiravano intorno alla casa vuota, facendo domande sulla nuova dimora dei suoi abitanti. Quelle domande non avevano ovviamente avuto risposta, perché tutti coloro che conoscevano la Carlin e la sua famiglia volevano loro bene e non intendevano tradirle. Da qualche tempo, anche la casa di Roisin era stata oggetto di un'attenzione particolare. «Ogni volta che usciamo, intravediamo qualche tipaccio che ci spia da dietro un angolo o dalla cima di un tetto», spiegò Roisin. «Di certo sono gli uomini che Korguth ha mandato per cercare Sianadh, ma non dobbiamo farci intimidire. Abbiamo addirittura cercato di catturare uno di quei brutti ceffi, nell'eventualità che potesse darci qualche informazione per arrivare fino a voi.» «Non ho visto spie quando siamo arrivate, poco fa», osservò Muirne, turbata. «Se Ethlinn non fosse rientrata appena prima del vostro arrivo, non avreste superato la loro rete. Lei era uscita a dare loro la caccia col suo Bastone, e le sentinelle hanno allentato la sorveglianza per sfuggirle. Poi siete
apparse proprio sulla nostra soglia, che sia ringraziato per questo il Signore delle Aquile! Ho appena mandato Brinnegar a informare Diarmid che siete al sicuro, e ad avvertirlo di passare al setaccio la zona del fiume con una compagnia di uomini, per aiutare Liam. ed Eochaid. Noi non sappiamo come mai Liam sia qui in città, di ritorno da solo dalla spedizione. È un mistero... è una cosa che puzza di tradimento.» «Non posso rimanere qui», esplose Muirne, torcendosi le mani. «Devo tornare da mio fratello. Era solo, contro quei furfanti.» «Invece devi restare, perché sei troppo nervosa», ribatté Roisin. «Bevi questa tisana... ti farà dormire. Bevila, ho detto.» Sempre più agitata, Muirne obbedì e, nonostante le sue proteste, venne scortata al piano di sopra da una cameriera. «Imrhien, tu rimani a vegliare con me. In questa tragica notte, ho bisogno di compagnia.» Roisin si mise alla finestra, osservando le forme scure dei tetti contro lo sfondo delle stelle. I minuti trascorsero lenti, erodendo la notte come l'acqua erode il marmo di un'antica fontana. Imrhien sedette con la testa tra le mani, in angosciosa attesa. Non appena videro la lenta processione che risaliva la strada, intuirono subito cos'era successo. Roisin lanciò un grido strozzato e rimase immobile. Ethlinn precedeva gli altri, china su se stessa come una vecchia, con l'aria abbattuta e i capelli che le ricadevano intorno al volto. E. Bastone si era espanso, diventando così alto e spesso da permetterle di appoggiarsi a esso. Dietro di lei veniva Eochaid, che reggeva tra le braccia il corpo senza vita di Liam e, alle sue spalle, c'erano Brinnegar e una ventina di altri uomini, cupi in volto e tutti sporchi per il combattimento sostenuto. Pallido e teso, Eochaid adagiò con delicatezza il corpo dell'amico sul tavolo di Roisin, coprendolo col suo mantello, poi si rivolse ai compagni. «Ora andate, amici miei», disse. «Stanotte abbiamo lottato con coraggio. Ci rivedremo domani.» «Brinnegar, per favore, rimani di guardia», aggiunse Roisin, rivolta al cocchiere. Gli uomini se ne andarono in silenzio. Le quattro persone rimaste si radunarono, a testa china, intorno al tavolo su cui giaceva Liam. «Liam se n'è andato», disse Eochaid in tono piatto. «Ha seguito nella tomba Sianadh e i fratelli Sulibhain.» Nessuno si mosse.
«Liam, amico mio, sta' pur certo che coloro che ti hanno ucciso l'hanno pagata cara», proseguì Eochaid, con voce ora incrinata. «Cinque a uno: ecco il prezzo che abbiamo preteso da loro.» Si rivolse a Ethlinn. «Liam è venuto da me, stamattina. Il suo cavallo era coperto di schiuma e lui stesso sembrava quasi in fin di vita, coperto di graffi e di ferite com'era. È venuto a chiedere il mio aiuto. Pare che quella grande spedizione per il recupero del tesoro sia nata sotto una cattiva stella e abbia fatto una misera fine. Mi ha raccontato che il gruppo aveva lasciato Tarv da un giorno soltanto quand'è stato raggiunto da un paio di viandanti provenienti dalla città, che hanno salutato Liam e lo hanno tratto in disparte. Erano uomini della zona del fiume, e gli hanno mostrato una spilla d'oro a forma di drago che apparteneva a Muirne. 'Liam Bruadair, hai speso molto denaro e questo ha attirato l'attenzione del nostro capo', gli hanno detto. 'Dove trova tanti soldi un ragazzo povero come te? Il nostro capo ha scoperto che stavi progettando una spedizione, e ha pensato che stessi andando a prendere altro denaro. Anche lui ne voleva una parte, e i nostri tre ragazzi della zona del fiume avrebbero dovuto garantirgliela. Tu però li hai traditi e sei partito senza avvertirli. Hai visto tua sorella, di recente? Noi sì. Fa' quello che ti diciamo e non le accadrà nulla di male. Se però non tornerai a Tarv col tesoro entro questo mese, per lei sarà la fine.'» «Dunque quei rapitori non erano uomini del Mago», lo interruppe Roisin, con voce spenta. «Erano una banda di ladri della zona del fiume. Eppure quelle spie hanno l'aria di creature soprannaturali...» Il dolore le impedì di proseguire. Eochaid riprese allora il racconto, benché la sua espressione rivelasse quanta fatica gli costasse parlare. «Liam ha ribattuto di non conoscere la via fino al nascondiglio del tesoro, spiegando che anche a lui la stavano mostrando strada facendo. Quegli uomini gli hanno ingiunto di segnare di nascosto i tronchi degli alberi a intervalli, lungo il tragitto, in modo che il resto della loro banda, che li stava seguendo, potesse trovare la strada. 'Quando il tuo gruppo arriverà a destinazione, dovrai rubare le armi dei tuoi compagni, in modo che li possiamo catturare senza inutili spargimenti di sangue', hanno detto. 'Se li troveremo armati, li uccideremo.' Poi gli hanno garantito che nessuno si sarebbe fatto male... che avrebbero soltanto legato i suoi amici e caricato la loro parte del tesoro per poi andarsene. 'Non tentare di tornare in città per cercare tua sorella', lo hanno ammonito. 'Una parte ancora più numerosa della nostra banda vi sta seguendo, e te lo impedirà. Se poi dovessi rivelare le nostre intenzioni ai tuoi compagni, vi
uccideremo, perché siamo più numerosi. La scelta spetta a te. Noi ti stiamo dando la possibilità di salvare la vita di tua sorella e dei tuoi amici. Intendi accettarla?' E così, dopo aver visto la spilla di Muirne - la prova che lei era davvero nelle loro mani -, Liam non ha potuto far altro che acconsentire. Dopo che i due sconosciuti se ne sono andati, Liam, con la mente in subbuglio, ha detto ai compagni che quegli uomini erano venuti a chiedergli di saldare un debito di gioco. Tuttavia, più tardi, quello stesso giorno, non ha più retto al rimorso e ha raccontato la verità. Voleva lasciare immediatamente la spedizione per mettersi a cercare Muirne... Vi garantisco che ha sofferto spaventosamente, temendo il peggio per lei. Ma tornare indietro sarebbe stato impossibile, quindi il gruppo ha deciso di proseguire, fingendo di cedere alle richieste di quei furfanti. Per undici giorni, Sianadh ha guidato gli altri lungo il corso del fiume. Di tanto in tanto, qualche creatura unseelie li ha infastiditi, ma si trattava di creature minori, e i ragazzi le hanno allontanate col ferro, col sale e coi talismani. Liam ha tracciato contrassegni sugli alberi, però lo ha fatto in modo da mettere gli inseguitori su una falsa pista. A un certo punto, tutti, nel gruppo, erano convinti di aver seminato i furfanti e allora Sianadh ha condotto gli altri fino a quel posto che lui chiamava la Scala d'Acqua, mentre Liam si è preparato a tornare indietro per salvare Muirne. La notte in cui si sono accampati davanti alle porte della Scala d'Acqua, i briganti si sono avvicinati di soppiatto e li hanno aggrediti. Loro hanno combattuto con coraggio, ma avevano ben poche possibilità, contro avversari così numerosi. Naturalmente quei manscatha si sono rivelati dei traditori. Due di essi hanno puntato un coltello alla gola di Sianadh: se voleva salva la vita, doveva rivelare chi conosceva l'ubicazione di quel posto, oltre a lui. E, dato che si è rifiutato di parlare, loro lo hanno ucciso. Due fratelli Sulibhain si sono allontanati nella foresta, e Liam non li ha più rivisti. Lui è riuscito a uccidere uno degli aggressori con lo skian, ma altri quattro gli si sono lanciati contro. Ferito, ha dovuto fuggire. Il viaggio per risalire il fiume aveva richiesto undici giorni... Lui ne ha impiegati solo dieci per tornare indietro. Per quanto ferito e in terre selvagge, l'ansia gli ha fatto guadagnare un giorno, perché non ha quasi riposato. Se mai ho visto un uomo tormentato, quello è stato Liam, dopo la sua folle cavalcata. Si sentiva responsabile per la morte di quei bravi uomini e, nella sua mente, ardeva come una fiamma un unico pensiero: salvare Muirne.» Eochaid si gettò in ginocchio, scoppiando a piangere. «Ah, se fossi stato al suo fianco, tutto questo non sarebbe successo! Prima di partire, Liam mi ha dato una sacca d'oro per poter provvedere al mante-
nimento della mia famiglia. Lui è sempre stato generoso. Però la mia matrigna è zoppa, è una storpia, e la mia famiglia ha bisogno non soltanto di oro, ma soprattutto della forza delle mie braccia. Non potevo abbandonarla, non potevo andare con loro.» Ethlinn tracciò alcuni gesti. «Dice che la colpa non è tua», mormorò Roisin. «Ti prega di spiegarci come avete fatto tu e Liam a trovare Muirne.» «Liam conosceva... certi uomini», rispose Eochaid, ricacciando indietro le lacrime. «Non ha mai causato problemi, bada bene, però beveva e giocava a dadi con altri che lo facevano, uomini cui Diarmid non si sarebbe mai neppure avvicinato. Non appena Liam mi ha detto cos'era successo, siamo andati da loro. Le voci si spargono in fretta, tra quei rifiuti umani... Abbiamo saputo che gli uomini di Scalzo tenevano prigioniere due fanciulle in una casa non schermata, vicino al fiume, una casa con una stanza gilf al piano superiore. Quando siamo arrivati alla casa, una tempesta magica si stava abbattendo sulla città, quindi abbiamo puntato subito sulla stanza superiore, decisi a usare la confusione generata dalle immagini spettrali a ma' di copertura. Il resto lo sapete.» Ethlinn sollevò il capo, il volto pallidissimo e profondamente segnato, e rivolse una serie di gesti a Roisin, che li tradusse. «Ethlinn desidera sapere se Liam ha informato altri dell'esistenza di un tesoro in quell'altura, dietro la Scala d'Acqua.» «Mia signora, ti posso garantire che lo ha detto soltanto a me e ai fratelli Sulibhain che sono andati con lui alla Scala d'Acqua. Ormai sono morti, e non possono più parlare... e io non ho rivelato l'informazione a nessuno.» «Liam ti ha spiegato come arrivare in quel posto?» «No.» «Allora il luogo in cui si trova il tesoro è noto soltanto a Imrhien, a quella banda di furfanti e al loro capo, questo Scalzo. Dubito che loro diffonderanno la notizia, se potranno evitarlo.» Di nuovo, le mani di Ethlinn si mossero, rapide. Ben presto, Diarmid verrà qui. Era con noi, quando abbiamo trovato Liam sulla strada. Lui e i suoi compagni sono andati in cerca degli uomini che lo hanno ucciso. Diarmid e Muirne non devono sapere della Scala d'Acqua, non devono apprendere il vero motivo della spedizione di Sianadh. Riferisci loro soltanto una parte della verità. Devono credere che un gruppetto di furfanti ha rapito le ragazze per venderle come schiave, che Liam lo è venuto a sapere ed è tornato indietro, perdendo la vita nel tentativo di liberarle.
Ma perché non dirlo a Muirne? domandò Imrhien. Incredulità e sconcerto la avviluppavano in una sorta di bozzolo, uno schermo temporaneo contro il dolore. Muirne non sa tenere un segreto. Lo direbbe senza dubbio a Diarmid. Conosco mio figlio... È incapace di trattenersi. Lui e i suoi compagni mercenari andrebbero subito a cercare la banda più numerosa di briganti, quella che ha aggredito Sianadh alla Scala d'Acqua, per vendicarsi. Se però questo Scalzo ha alcune case nella zona del fiume e legami coi mercanti di schiavi namarriani, allora la sua banda è potente e ben organizzata. Il gruppo di Diarmid non è in grado di affrontarla... Ci vorrebbero i Dainnan per annientarla. Inoltre, perché addolorare i miei figli, spiegando loro la parte che Liam ha avuto nella morte dello zio? Sfiorò la fronte fredda del figlio. Diarmid non dovrà mai cercare quel tesoro. È possibile che sia maledetto... Tutti coloro che hanno tentato d'impadronirsene hanno fatto una brutta fine. Quanto alle creature che ci stanno spiando... Non so se siano agli ordini di Scalzo o del Mago, ma ho il sospetto che siano collegate a qualcos'altro su cui possiamo soltanto avanzare ipotesi, perché sono unseelie e pericolose. Nessun mortale può comandare le creature soprannaturali... non per molto. L'oscurità stava cominciando a dissolversi. Sopra i tetti e i muri, un tenue grigiore iniziava a sbiadire le stelle. In lontananza, si sentì il canto di un gallo, poi quello di un altro. La Carlin appuntò lo sguardo su Imrhien. Diarmid e Muirne desiderano unirsi alle forze del Re, che si stanno radunando a ovest. Come progettato, lasceranno la città con te, quando ti metterai in viaggio per recarti dalla Figlia del Sole Invernale che ha un occhio solo. Voglio che i figli che mi rimangono siano al sicuro, lontano da qui. Ho già perso un fratello e un figlio... Le mani della Carlin si abbandonarono in grembo come foglie morte, le cupe polle dei suoi occhi si appuntarono su qualcosa che si trovava al di là delle mura, oltre la città, su una verde collina dove le chiome degli alberi stendevano i loro morbidi veli polverosi. All'alba, fu lassù che portarono il corpo di Liam. * Jackal, in inglese, significa «sciacallo». (N.d.T.) 7
LA STRADA BOSCHI E SPINE
Il mare è una strada... una rotolante via d'acqua fino a ogni remota contrada del mondo. Pochi riferimenti segnano la sua ondulata, irrequieta superficie... Pure isole solitarie e sporgenti scogli, di madreperla incrostati, infidi frangenti e sabbie verdi di alghe col calare della marea dove le sirene cantano e gli squali si annidano. Il cielo è una strada... aereo viale smisurato, e dall'alto sovrasta ogni altro sentiero. In basso, grandi laghi e monti indicano la via agli uccelli, e a quanti cavalcano sorretti dal sildron. Piste di nubi ammantate, le strade dei cigni, e vie che mai potranno essere calpestate da stivali. Tutti i sentieri alla terra ancorati, dalle strade ai viottoli, tutte le tortuose strisce di suolo segnato da ruote e non seminato, tutti i viali e le rotte delle Navi d'Acqua e le vie del cielo sono intrecciati. La Strada Universale... un'unica linea che ti attira sopra la collina e al di là di essa, un'unica via che ti conduce verso casa, alla tua porta. Canto di un menestrello girovago La Strada di Caermelor si snodava attraverso terre coltivate, oltre prati e pascoli, campi e vaccherie, lungo distese erbose, recintate da siepi, dove pascolava il bestiame o i pastori sorvegliavano le greggi, e accanto a fienili dal tetto a punta. Polle brulicanti di anatre e campicelli arati si alternavano a vaste coltivazioni di farro, in cui i mietitori faticavano a schiena curva, a vigneti carichi di grappoli e ad alberi dai tronchi coperti di muschio, i cui frutti erano già stati colti, tranne i pochi fatti cadere dal vento, che marcivano sul terreno e attiravano gli insetti col loro dolce sentore. La strada
attraversava quelle terre ormai domate e passava poi in zone dove gli alberi crescevano allineati o in fitti boschetti. Chiazzate di rame, d'oro, di giallo, di rosso carminio e di bronzo, le loro foglie cadevano lievi in una pioggia scintillante, formando spessi tappeti. La Carovana di Serrare era partita ormai da tempo. Era la Carovana di Chambord quella si stava avventurando lungo la Strada di Caermelor, una carovana composta da una ventina di carri, da alcuni carretti coperti da tela cerata e carichi di mercanzie, da poche carrozze, da alcuni cavalieri e da esploratori. Numerosi arcieri erano appollaiati sul retro dei carri e a cassetta. Ogni oggetto e ogni individuo erano carichi di protezioni: campanellini, nastri rossi, legno di sorbo e di frassino, ferri di cavallo e oggetti di ferro. La colonna passò tintinnando su alcuni ponti. La Strada attraversava ruscelli che gorgogliavano come l'idromele e costeggiava i pendii delle colline. Ai lati della Strada, le piante, cariche di semi rosati, si piegavano sotto il loro peso, ricoprendo i pascoli di una rosea caligine. I boschetti di noccioli erano carichi di frutti. L'azzurro del cielo impallidiva in lontananza per un velo di nebbia leggera, solcato da sbuffi di nubi simili a fiori, le cui rapide ombre rotolavano sul terreno come onde dell'oceano. Da sud, un vento teso portava le grida acute e solitarie di uccelli dal piumaggio scuro che si lasciavano trasportare dalle correnti, con le ali distese al massimo. Imrhien sedeva sotto il telo di un carro, il viso nascosto da un velo da lutto. Sussultando a causa della strada accidentata e giocherellando col nuovo tilhal di pietra che Ethlinn le aveva dato e che le pendeva dal collo, appeso a un laccio di cuoio, era intenta a riflettere su tutto ciò che era successo. Di tutti gli obiettivi che si era prefissa di raggiungere, allorché aveva lasciato la Torre di Isse, quali aveva effettivamente raggiunto? Ora che i suoi lineamenti erano stati deturpati in maniera irrimediabile, come poteva sperare di essere identificata da qualcuno che l'aveva conosciuta prima dell'amnesia? Aveva cercato di migliorare il suo volto, di scoprire il suo vero nome, di recuperare i suoi ricordi... e non aveva ottenuto niente. D'altro canto, aveva vissuto le gioie e le paure del mondo ed esso non era più per lei un mistero assoluto. Aveva trovato un amico vero... e lo aveva perduto. Quel pensiero soprattutto le riusciva intollerabile, quindi, per evitare di essere sopraffatta dalla disperazione, indirizzò subito altrove le sue riflessioni. Durante la terribile mattina seguita alla notte fatale, Ethlinn l'aveva tratta in disparte, parlandole con mani che tremavano e che si arrestavano spesso. Imrhien, rimanere a Tarv è diventato pericoloso per te: devi partire
senza indugio. È solo questione di tempo prima che il capo dei trafficanti della zona del fiume, questo Scalzo, scopra che Sianadh è arrivato a Tara accompagnato da una persona che corrisponde alla tua descrizione, e ne deduca che tu sai dov'è nascosto il tesoro. È stato un bene che quei furfanti non avessero questa informazione mentre eri prigioniera, perché di certo ti avrebbero uccisa. Ora hai un compito da assolvere. Spetta a te, Imrhien, in quanto sei la sola che ha visto la Scala d'Acqua e che conosce la via per raggiungerla... Spetta a te andare alla Corte di Caermelor per comunicare al Re-Imperatore la notizia dell'esistenza della Scala d'Acqua. Dobbiamo far ricorso alla Legge dell'Impero, causando la rovina di quegli uomini dal cuore nero che, in questo preciso istante, stanno violando il tesoro con le loro mani insanguinate. Mi chiedi di presentarmi al cospetto del Re-Imperatore? Ah, anche se non mi avessi affidato questo compito, madre, me lo sarei comunque addossato da sola di mia iniziativa. La penso come te. Bisogna fare giustizia. Recati prima dalla Figlia di Grianan, quella con un occhio solo. La sua saggezza è più grande e forte della mia. Forse lei è in grado di risanare il tuo volto, forse no... Tuttavia sono quasi certa che potrà fare luce sulla tua storia, io sento che questa è una cosa della massima importanza. Devi essere preparata al tuo incontro con la Corte. I progetti relativi alla carrozza con tiro a quattro e ai servitori erano stati accantonati, perché non bisognava assolutamente dare nell'occhio. Di conseguenza, il giorno successivo, Imrhien, Muirne e Diarmid si erano uniti alla prima carovana di terra in partenza da Gilvaris Tarv. Diarmid si era offerto come guardia, e Muirne si era sistemata sul carro con Imrhien, una manciata di altre donne e alcuni bambini. La giovane ertish sedeva in silenzio, cupa in volto, e di tanto in tanto portava la mano alla fibbia di legno intagliato a forma di passero che Eochaid le aveva dato come dono di commiato. La distanza in linea d'aria tra Gilvaris Tarv e Caermelor, situate ai lati opposti dell'Eldaraigne, superava le mille miglia. La Strada di Caermelor seguiva un percorso tortuoso e, di solito, le carovane impiegavano quattro settimane a completare il viaggio. A nord, un'altra grande strada partiva da Gilvaris Tarv diretta a ovest, verso Ringspindle, dove si congiungeva alla Grande Strada del Re che correva lungo la costa meridionale e arrivava alla Città Reale. A quanto si diceva, la Strada di Ringspindle era più sicura di quella di Caermelor, tuttavia i mercanti la percorrevano raramente giacché correva parallela alla costa e allungava di molto il viaggio.
Il principale argomento di conversazione tra i membri della carovana era il flusso costante di creature unseelie che, secondo le voci, stava attraversando quelle zone, diretto a nord-est verso il Ponte di Terra di Nenian che congiungeva l'Eldaraigne alla Namarre. Si diceva che quelle creature, nell'attraversare la Strada di Caermelor, sfogassero la loro malvagità su qualsiasi viandante in cui s'imbattevano. Soltanto poche ore prima della loro partenza, era giunta a Gilvaris Tarv la notizia che una carovana - proveniente da Caermelor - era stata completamente distrutta: le guardie e i passeggeri erano stati uccisi o erano scomparsi, i veicoli erano stati squarciati come frutti maturi e le mercanzie e gli averi personali erano stati sparsi lungo la strada, in quanto le creature soprannaturali non sapevano che farsene. Qualcuno aveva sollevato dubbi sull'opportunità di seguire quel percorso, e alcuni viaggiatori avevano perfino rinunciato a partire. Ma Chambord, dopo aver raddoppiato il numero delle guardie, si era messo comunque in cammino, perché aveva una serie di scadenze da rispettare. Ogni notte si udivano dei rumori e, davanti o dietro la carovana, si scorgevano delle luci. Di tanto in tanto, nani o figure grottesche, umanoidi o bestiali, singole o in gruppi, uscivano furtivi dagli alberi e attraversavano la Strada. Fino a quel momento, però, nessuna di quelle creature aveva creato problemi alla carovana, probabilmente perché tutti i suoi membri avevano un talismano ed esso costituiva una protezione adeguata contro le creature più deboli. Si sussurrava tuttavia che quei talismani non servissero a nulla contro gli esseri più potenti. Una volta, Sianadh aveva detto che c'era una grande differenza tra l'aggressione da parte di esseri umani e la lotta contro quelle creature. Mentre nel primo caso si trattava di uno scontro diretto, basato sulla forza bruta, nel secondo entravano in gioco le leggi specifiche di ogni creatura soprannaturale. Così, proprio come gli uomini non potevano diventare invisibili o cambiare la loro forma, tutte le creature soprannaturali - tranne forse le più potenti - non potevano aggredire i mortali a meno che non si realizzassero determinate condizioni, che venissero compiute azioni specifiche o pronunciate parole particolari. Se un mortale rivelava la propria paura, se era così stolto da lasciare che i propri sensi venissero ingannati, se infrangeva il silenzio in determinati momenti, se rivelava il suo vero nome, se rispondeva incautamente a certe domande, o se commetteva una violazione di qualche altro tipo, allora le creature potevano aggredirlo. A quel punto, lo sfortunato mortale rischiava di essere squarciato, dissanguato, schiacciato, impiccato o ucciso in qualche altro modo, oppure poteva semplicemente
morire di paura. Anche in quel caso, comunque, esisteva sempre la possibilità di salvarsi con una rapida fuga, una trovata ingegnosa, un gesto di coraggio, l'intervento di altri o per pura e semplice fortuna. La carovana aveva lasciato Gilvaris Tarv da una settimana, quando gli esploratori tornarono indietro al galoppo per riferire che, più avanti, nel punto in cui la Strada s'insinuava tra alcune colline, il passaggio era ostruito da una frana di rocce. Gli uomini potevano passare, a piedi o a cavallo, ma per i carri e le carrozze sarebbe stato impossibile. Alla testa del convoglio, il capitano delle guardie di Chambord, in sella a un castrone nero, sollevò una mano, e i conducenti tirarono le redini, facendo arrestare la carovana. Quindi il mercante parlò col capitano, e gli ordini vennero trasmessi lungo tutta la colonna. «Faremo una deviazione dalla strada principale, imboccando una via secondaria che attraversa l'Etherian e descrive un semicerchio per poi congiungersi alla via maestra.» Un'ondata di agitazione si diffuse per tutta la carovana. Non volendo riscuotere Muirne dalle sue riflessioni, Imrhien serrò le mani in grembo e rimase immobile, ascoltando la conversazione di due donne che le sedevano accanto. «L'Etherian! Non avrei mai creduto di vedere quella terra. Mi chiedo se sia strana quanto si racconta. Mi piacerebbe incontrare quella piccola gente che vive laggiù.» «Spero che sia abbastanza interessante da compensare le miglia in più», borbottò l'altra. Di lì a poco, i carri di testa deviarono verso sud. Gli alberi diminuirono di numero fino a scomparire, il cielo divenne un'aperta distesa di un intenso color lapislazzulo, venata da sottili strisce di nubi, attraverso le quali il sole splendeva come una dalia gigantesca. La giornata trascorse lenta. Il sole morente tinse le colline di un rosa scintillante e le ammantò di oro cupo. Poi la colonna aggirò una collinetta e si trovò davanti uno spettacolo inatteso e superbo. Era una gola enorme, larga circa tre miglia, che tracciava un solco profondo nel terreno; la sua estremità era così lontana da scomparire in mezzo a un velo di pulviscolo, e il suo fondo si perdeva nell'ombra. A circa mezzo miglio di altezza, sulla parete rocciosa di sinistra, era appeso un nastro d'argento che s'intrecciava con veli di nebbia: si trattava di una cascata, il cui rombo si perdeva nella vastità dell'abisso creato dalle sue stesse acque.
Era stato il fiume a scolpire quella gola, però il suo potere non aveva eroso alcune formazioni, nuclei di diamante, resistenti all'acqua e al vento, che spiccavano a decine di migliaia, alte colonne sottili sparse in tutta la gola. La loro piatta sommità, a duecento piedi dalla base, si trovava alla stessa altezza dell'orlo della gola e del terreno circostante. Da lontano, l'abisso appariva come una gigantesca foresta di sottili alberi privi di rami, tagliati in modo da avere tutti lo stesso livello. Un ripido sentiero era stato scavato nei fianchi di quell'immensa cavità e, quando la carovana si avviò su di esso, in cima alle colonne apparvero alcune dimore, case angolose fatte di ciottoli e di argilla, collegate da sottili ponti sospesi e da funi. Incanalato dalle pareti rocciose, il vento era molto forte. La gola infatti raccoglieva le correnti d'aria, costringendole a risalire lungo i lati per poi scagliarle verso il cielo con un sibilo lamentoso. Su quelle correnti ascensionali si libravano alcune forme scure, che tuttavia non erano uccelli. Alcune sembravano triangoli cui erano fissati montanti che sostenevano forme umanoidi; altre ricordavano grossi pipistrelli. «Eccoli là... i clanneun», disse una delle donne, indicando le forme al suo bambino. «È il popolo dalle ali di pipistrello. Non temere, non ci faranno del male.» Quella notte, la gente della carovana si accampò vicino al fiume che attraversava l'Etherian, accendendo i fuochi e disponendo numerose sentinelle. Nella gola, l'oscurità calò in fretta e, nel buio, il canto delle acque argentine, alimentato da migliaia di rivoli, riecheggiò ancora più forte. Dai discorsi degli altri passeggeri, Imrhien dedusse che i clanneun, essendo di statura minuta e dotati di membrane che collegavano gli arti al corpo, potevano allargare le braccia e librarsi per brevi tratti, proprio come i pipistrelli. Se dovevano trasportare i loro figli o altri fardelli, essi usavano congegni simili ad aquiloni, oppure corde dotate di carrucola con cui passavano da una colonna all'altra. A quanto pareva, si alimentavano in prevalenza della vegetazione che cresceva sulla sommità della gola e di insetti. Questi ultimi venivano catturati con reti sottili, tese tra una colonna e l'altra, oppure afferrati al volo, quando i clanneun si libravano da una piattaforma all'altra. L'acqua era fornita dalla pioggia e dalla rugiada oppure veniva prelevata in cima alle cascate. I clanneun non scendevano mai fino alla base della gola, dove talvolta si annidavano pericolose creature unseelie. Altro di loro non si sapeva: la loro cultura e il loro linguaggio erano del tutto particolari ed essi non si mescolavano agli altri popoli, vivendo in
disparte nella loro strana terra, senza molestare o essere molestati, al sicuro nelle loro dimore aeree. «Non scagliate pietre o frecce», venne ordinato. «Ignorate i clanneun, e potremo attraversare il loro territorio senza problemi e in fretta.» Diarmid si accostò al fuoco acceso accanto al carro di Imrhien e chiese cortesemente notizie della sorella e della sua compagna di viaggio, poi scomparve, rapido com'era giunto. Il giovane mangiava, dormiva e lavorava con le altre guardie, parlava di rado e si faceva vedere ancor meno. Il mattino successivo, la carovana si mise in moto per tempo e riuscì ad attraversare l'Etherian e a sbucare dalla parte opposta della gola prima della fine della giornata. Là, il difficile sentiero, che percorreva la gola con una serie di curve strettissime, portò il convoglio fino a una densa e cupa foresta. «Corre voce che non riusciremo a tornare sulla strada principale prima che faccia buio», osservò una delle donne che si trovavano sul carro di Imrhien. «Ben presto ci dovremo fermare per la notte e siamo ancora all'interno del Tiriendor. Non mi piacciono questi boschi solitari, lontani dalla strada maestra. Preferirei essere ancora nell'Etherian... Per quanto strano, quel posto mi metteva meno a disagio.» In effetti, dal bosco emanava un senso d'inquietudine e di timore. I cavalli e i cani erano irrequieti, i bambini piagnucolavano nervosamente e gli adulti guardavano spesso verso nord, salvo poi lanciarsi repentine occhiate alle spalle. Imrhien percepì una sorta di richiamo verso quella direzione... Si sentiva spinta a inclinarsi verso di essa, come l'erba piegata dal Vento del Nord. Intorno a lei, l'aria vibrava di tensione, come un cavo teso al punto di spezzarsi. «Le radure del Tiriendor danno la sensazione di essere infestate da creature», borbottò qualcuno. Qualcun altro cercò d'intonare una canzone, ma le parole suonarono afone, e la voce si spense nel silenzio. La carovana si arrestò rumorosamente nel centro della strada, coi rami quasi spogli degli olmi che si protendevano tremuli sopra di essa. Le ruote furono bloccate, i cavalli liberati dai finimenti, poi si accesero i fuochi. Dopo aver controllato ancora una volta le protezioni di cui disponevano, i viaggiatori si sistemarono per la notte. Verso mezzanotte, strani rumori, simili a un bussare improvviso, scaturirono dagli alberi a poca distanza dalla strada. Da un'altra direzione, un grosso e irsuto cane nero, grosso quasi come un vitello, apparve al limitare del cerchio di luce del fuoco, dove si arrestò a fissare le guardie con grandi
occhi simili a carboni ardenti. Nessuno parlò. Tutte le guardie rimasero immobili, come pure i cavalli, mentre i cani della carovana ringhiavano, rizzavano il pelo, ma si trattenevano dall'attaccare. Poi un uomo sgusciò via per andare a chiamare il Mago del convoglio e, al suo arrivo, il cane nero si voltò, scomparendo nella foresta. Il Mago prese a trotterellare avanti e indietro su un palafreno grigio, tenendo un galletto appollaiato sulla mano guantata e intonando incantesimi. Tutt'intorno, le guardie presero a fischiare, un suono spettrale e privo di una melodia definita, che si protrasse per ore. Appena prima dell'alba, nel momento che gli ertish chiamano uhta, un intenso vento shang prese a soffiare. Bisognava aspettare che si calmasse, prima di rimettersi in moto. La tempesta magica generò come di consueto una miriade di luci colorate, ma nessuna immagine. «Nessuno è mai passato di qui, creando spettri», commentò uno dei viaggiatori. «Mi sorprende che esista questa strada.» «È una vecchia via secondaria», replicò un altro. «È molto antica, tracciata in un'epoca in cui sapevano fare strade che duravano per sempre.» Non appena l'ultima luce e l'ultimo suono si furono dissolti, la carovana si mise in movimento. Anche se il fogliame ombreggiato di grigio nascondeva in parte il sole, la consapevolezza che esso stava sorgendo risollevò il morale di molti. Verso mezzogiorno, la colonna raggiunse di nuovo la Strada di Caermelor e da lì proseguì su un terreno in costante pendenza, attraversando ponti via via più numerosi. La Foresta del Tiriendor, tuttavia, sembrò rifiutare di essere lasciata indietro e continuò ad accalcarsi lungo i lati della Strada, nello stesso modo in cui aveva avvinto la strada secondaria che proveniva dall'Etherian. Quel pomeriggio, nubi livide sopraggiunsero da nord-est a coprire il sole, e l'incrociarsi dei rami degli alberi al di sopra della Strada rese ancora più cupa l'atmosfera. La premonizione del pericolo, che si era diffusa la notte precedente, s'intensificò al punto che Muirne si sedette accanto a Imrhien, sul retro del carro, con lo sguardo che saettava di continuo a destra e a sinistra. La ragazza si era legata la faretra alla schiena e, a un certo punto, estrasse una freccia, incoccandola. «Ho appena visto qualcosa, vicino alla Strada. È fuggita via, ma voglio tenermi pronta.» Il dolore e la perdita del fratello sembravano aver indurito la giovane ertish. La sua diffidenza era però quasi completamente svanita e l'antipatia
dimostrata nei confronti di Imrhien si era attenuata alquanto. Grata per l'amicizia che avevano stretto durante la prigionia, e ormai consapevole che la colpa dell'accaduto non poteva essere attribuita a Imrhien, Muirne si comportava in modo sempre più gentile con la sua compagna talith. Imrhien, da parte sua, rispettava e ammirava l'abilità di Muirne nell'uso delle armi e nell'andare a cavallo. Guarda! Toccò il braccio della compagna. «Cosa?... Sì. Ho visto. Era come la prima. Si muovono in fretta», replicò Muirne, socchiudendo gli occhi. «Scommetto che sono piccoli, brutti skeerda.» Diarmid passò loro accanto al trotto. «Attenta, Muirne», avvertì. La sorella rispose con un cenno di assenso. «È strano che quelle creature vengano fuori di giorno», rifletté poi, osservando il fratello allontanarsi lungo la colonna. «Le ore che preferiscono sono quelle notturne. Evidentemente, qualcosa sta dando loro la caccia, oppure sono molto numerose, o entrambe le cose. Comunque non ha importanza... Le guardie dicono che usciremo da questi boschi prima di notte.» In quel momento, lungo la colonna, accadde qualcosa. Si udì uno schianto sonoro, seguito da un nitrire di cavalli spaventati, da alcune grida e dal funesto clangore del ferro. Alcune guardie si lanciarono al galoppo in quella direzione, ma altre rimasero al loro posto, temendo che si trattasse di una manovra diversiva a preludio di un'imboscata. «Il secondo carro è finito in una buca e ha rotto un assale», avvertì una voce. «Gli altri non possono oltrepassarlo.» Il carro danneggiato non era riparabile, quindi il suo contenuto dovette essere distribuito sugli altri veicoli. Poi, prima di riprendere la marcia, fu necessario spostarlo dalla Strada. Ci volle tempo e, quando cominciò a scendere l'oscurità, la carovana stava ancora procedendo in mezzo agli alberi. Una verde fosforescenza prese ad ammiccare tra le piante, confondendo la vista, e i cavalli, smarriti, scartavano dalla pista e andavano a sbattere contro tronchi invisibili nell'ombra densa. Giunse un ordine. «Arrestatevi e accampatevi sulla Strada.» Ancora una volta, i conducenti disposero la fila di carri, carretti e carrozze lungo il centro della Strada. I cavalli vennero liberati dai finimenti e impastoiati accanto ai veicoli, in mezzo ai quali una serie di fuochi disperse le ombre, almeno per un raggio di qualche iarda. Al di là di quei globi di luce, il manto silenzioso dell'oscurità continuò a gravare, incombente, massiccio come un muro; le guardie si spostavano di continuo lungo il
perimetro del campo. Terminato il pasto serale, alcuni viaggiatori rimasero nei loro carri e altri sedettero vicino ai fuochi, parlando in tono sommesso. A parte il tintinnio di qualche finimento o lo scricchiolio degli stivali, la quiete era assoluta. Non si sentiva nessun richiamo di gufi in caccia o di altri uccelli notturni. Sedute al solito posto, sul retro del carro, Imrhien e Muirne fissavano le ombre che s'intrecciavano tra gli alberi. «Madre dei Guerrieri, salvaci», sussurrò Muirne. «La scorsa notte è già stata abbastanza sgradevole, e stanotte non credo che dormirò. Tutto questo mi fa presagire un'imboscata.» Le due ragazze attizzarono il fuoco e ripresero la loro veglia, pervase dalla gelida certezza di un destino incombente. Gli scontri iniziarono a mezzanotte. Il buio era molto fitto e, nel silenzio assoluto, non si sentivano né un sospiro né un sussurro. D'un tratto, da qualche parte nelle profondità della Foresta del Tiriendor, un vento selvaggio fece stormire le foglie con un mormorio simile a quello dell'oceano, poi la luce dei fuochi si riflesse su qualcosa di perlaceo che stava sopraggiungendo lungo la Strada. Non si trattava di nebbia, bensì di una sostanza viva, lanuginosa, simile a una nuvola o a una coperta bagnata, intrisa di un gelo terribile e con un odore stantio. Essa si riversò intorno e sopra i carri, i carretti, le carrozze, i cavalli, i cani e i viaggiatori, insinuandosi in ogni fessura per poi scomparire lungo la Strada con quel suo moto ondulato, contraendosi ed estendendosi. Sgomenti e terrorizzati, i viaggiatori si strinsero gli uni agli altri. Di lì a poco, risa gorgoglianti miste a voci che conversavano allegramente scaturirono dagli alberi, come uccelli dai colori vivaci. Pronte e reattive, le guardie estrassero le armi e lo stridio dell'acciaio trapassò l'oscurità. Gli altri viaggiatori s'irrigidirono, preparandosi al peggio e borbottando incantesimi, la mano stretta intorno ai loro talismani. Alcune luci apparvero tra gli alberi, accompagnate da accordi musicali e da frammenti di canzoni. Il loro ritmo era così rapido, scandito e ammaliante che, nonostante il timore, tutti sentirono i piedi contrarsi nelle scarpe e presero a tamburellare con le dita al ritmo della musica. Nella zona in cui brillavano le luci apparve allora un ampio cerchio di danzatrici: giovani e affascinanti fanciulle che saltavano e piroettavano con grazia e abbandono, ridendo e cantando, il respiro reso affannoso da tanta esuberanza. Le vesti sottili si agitavano intorno a loro come bandiere di nebbia verde, dorata o argentea;
i capelli erano trattenuti da fiori scintillanti e ciascuna appariva più affascinante della precedente. «Un vecchio trucco delle baobhansith», mormorò Muirne. «Lo conoscono tutti, e nessuno sarà tanto sciocco da cascarci.» Ma quelle damigelle avevano l'aria così innocua e apparivano così allegre e innocenti... Inoltre la musica era trascinante, i movimenti della danza sembravano irresistibili. Imrhien sentì un formicolio simile a quello che le trasmetteva il vento shang, eppure diverso. Benché la sua parte razionale si ribellasse, in quel momento desiderava sopra ogni altra cosa che Diarmid sopraggiungesse al galoppo, in modo da poter balzare dietro di lui e cingergli la vita con le braccia. Poi entrambi sarebbero andati a unirsi a quel cerchio di danzatrici, sottraendosi alla paura e alla monotonia di quegli stolidi carri. D'un tratto la colonna fremette. La spiegazione dell'accaduto passò di bocca in bocca. Una delle guardie più giovani era sgusciata nella foresta prima che fosse possibile fermarla... per vedere meglio, così aveva detto da sopra la spalla, allontanandosi, non per entrare nel cerchio. Oh, no, non era così stupido... Intendeva soltanto vedere da vicino quelle splendide creature. Sapendo fin troppo bene quale sorte attendesse il giovane che si era lasciato incantare, due compagni si erano lanciati al suo inseguimento. Così il capitano aveva impartito l'ordine, pena la fustigazione, che nessun altro lasciasse la Strada. Ma ormai era troppo tardi per salvare quei tre. Tutti i membri della carovana li vedevano danzare nel cerchio di luce, coi piedi che quasi non toccavano il suolo mentre volteggiavano con le loro affascinanti compagne al suono della musica. I loro volti sorridenti sembravano altrettanti teschi. «Guardate come ridono», commentò qualcuno, inorridito e affascinato nel contempo. «Le baobhansith non hanno fatto nulla.» «Per adesso», aggiunse un altro. Resa irrequieta dalla musica, la compagna di Muirne balzò giù dal carro e s'incamminò lungo la colonna. Dato che tutti erano concentrati a guardare altrove, nessuno si accorse di lei. Da un lato della Strada qualcosa avanzò, diretto verso il punto in cui erano ferme due guardie. Imrhien scorse una luce simile allo scintillio delle foglie umide dopo la pioggia e, d'istinto, si ritrasse nell'ombra... Quella che si stava avvicinando non era una donna della carovana. Una simile bellezza non poteva avere origini mortali. Ci fu uno stridere di metallo e le spade delle guardie scattarono in avan-
ti, pronte a entrare in azione. Indietreggiando di un passo, con un piccolo sussulto che ricordava il tubare di una colomba, la donna protese una mano morbida e bianca quanto lo stame velenoso della calla, facendo un gesto come di rimprovero. «Non mi spaventare, Han! Non vuoi accompagnarmi dall'altra parte della Strada, in modo che possa unirmi alla Danza?» «Iperico, sale e pane...» cominciò a recitare uno degli uomini. Le mani esili e pallide si sollevarono di scatto verso le orecchie. «Oh, signore», singhiozzò la donna, «mi hai forse scambiato per una creatura soprannaturale? Ahimè, ti credevo un gentiluomo. Ebbene, cercherò la strada da sola, se non posso ricevere aiuto.» La donna si voltò, un po' troppo in fretta, ma la guardia che era rimasta in silenzio ripose la spada nel fodero e le si avvicinò. «Se non sei una creatura, cosa ci fai qui?» «Non mi hai già visto, Han? Sono una viaggiatrice.» «Non ti ho mai visto prima. In qualità di viaggiatrice, tuttavia, non puoi lasciare la Strada.» «Oh, ma le mie sorelle sono nei boschi... Come farò a raggiungerle?» sospirò la donna, scrutando il soldato con gli occhi di un verde scintillante. «Non piangere. Ti aiuterò io a trovarle. Aspettami qui, Greb.» L'altro soldato esitò, incerto e ammaliato, la lama abbassata e dimenticata. «Ma...» La coppia scomparve tra gli alberi e, un momento più tardi, il secondo uomo la seguì. Non potendo gridare un avvertimento che riportasse i due uomini alla ragione, Imrhien corse loro dietro per un breve tratto. I tronchi degli alberi si accalcarono rapidamente alle sue spalle finché, arrivata in un punto da cui riusciva a stento a intravedere la luce dei fuochi, la ragazza non si arrestò. Percorsa da brividi, con la gola serrata da un indicibile senso d'orrore, provò a tornare sui suoi passi, ma scoprì che faceva fatica a camminare. Era come se qualcosa di pesante le bloccasse le gambe, quasi che stesse procedendo in mezzo a un'insidiosa distesa di fango palustre. Alle sue spalle, un urlo orribile lacerò la notte. Quando infine arrivò sul limitare erboso della foresta, Imrhien trovò Muirne, che la trascinò sulla Strada. «Daruhshie! Cosa ti è saltato in mente?» Un uomo sbucò dagli alberi, pallido come un cadavere, barcollando e scosso da un tremito convulso. «Morte e dannazione!» gridarono le guardie. «È Greb! Cos'è successo, e perché Han non è con lui?»
Greb si accasciò tra le braccia dei compagni e venne portato via. Le luci che brillavano sotto gli alberi si spensero all'improvviso, la musica cessò di colpo, troncata a metà di un accordo e un pesante silenzio calò di nuovo su ogni cosa, soffocando perfino il tintinnio dei campanelli della carovana, come se avessero timore ad agitarsi. «Torna sul carro con me. In giro ci sono più cose malvagie di quante ne possiamo immaginare in mille anni», le ingiunse Muirne, mantenendo una salda presa sul braccio dell'amica. Da oriente giunse un rombo. Era ancora lontano, ma si avvicinava in fretta. «Una creatura malvagia! Qualcosa di malvagio viene verso di noi!» esclamò la giovane ertish, accelerando il passo. «Che una benedizione ci protegga!» gridarono, disperati, alcuni membri della carovana. «Indietro, vattene!» Con un frastuono di ruote e uno schioccare di fruste, uniti a un martellare di zoccoli, un macabro veicolo passò in mezzo agli alberi, seguendo una traiettoria parallela alla Strada. Si trattava di una carrozza con un tiro da quattro, illuminata da una livida luce tremolante; vagamente, attraverso i finestrini chiazzati di verderame, era possibile scorgere tre occupanti. Il conducente portava sul capo un cappello a tre punte. «Oghi ban Callanan... Non c'è nessuna strada tra quegli alberi, proprio nessuna», sussurrò Muirne, quando il rumore della carrozza si fu allontanato. In quel preciso istante un pianto disperato risuonò, lontano. Era una serie di singhiozzi, simili a quelli di una donna in lutto, pervasi da un'angoscia infinita. Lo sgomento si diffuse tra i viaggiatori come una pestilenza. «È il primo grido di una Piangente», sussultarono. «Siamo condannati, senza dubbio.» Le grida lamentose tornarono a riecheggiare, stavolta più vicine, meno alte ma sempre intrise di angoscia, come se il cuore della Piangente fosse spezzato al di là di ogni possibile consolazione; ci fu poi un terzo grido, ancora più vicino e più sommesso, che parve quasi risuonare in mezzo ai carri. «Tethera. Il terzo lamento», commentò Muirne con voce atona. Era una precisazione superflua. Alcuni cavalli persero a sgroppare e a sbuffare, come se fossero stati
pungolati da speroni invisibili, poi si liberarono in qualche modo dalle pastoie e si lanciarono al galoppo in mezzo ai carri, scalciando e impennandosi al punto di disperdere i viaggiatori e di sparpagliare la legna dei fuochi. In breve tempo, tutti i cavalli vennero contaminati da quella frenesia; in mezzo alle cortine di polvere e di scintille, Imrhien ebbe l'impressione di scorgere sulla loro groppa creaturine scure che sogghignavano con maligna soddisfazione. Minuscoli cappelli a punta, incastrati tra lunghe orecchie aguzze, coprivano le teste sproporzionate di quei cavalieri; le loro gambe erano ossute, i piedi di una grandezza grottesca. Nel complesso, sembravano caricature di ometti, parodie abbozzate da un artista in vena di divertirsi. I cani dei carovanieri presero a uggiolare e ad abbaiare, spiccando balzi selvaggi per sottrarsi agli zoccoli scaldanti e cercando di mordere quegli strani cavalieri. Gli arcieri, urlando, dissero che non riuscivano a prendere la mira; altri uomini accorsero, agitando le lanterne e sforzandosi di controllare gli animali impazziti, altri ancora agitarono i campanelli e cercarono di dare consigli e avvertimenti. In quel pandemonio, la carovana finì per essere l'artefice della propria rovina. Nitrendo, con la bava alla bocca, il cavallo del Mago superò d'un balzo i resti di un fuoco da campo e si lanciò al galoppo lungo la Strada, come se fosse stato spronato senza pietà, e tutti gli altri animali seguirono la sua scia. Alcuni uomini si lanciarono al loro inseguimento e, come i cavalli, furono inghiottiti dall'oscurità. Nessuno di essi fece ritorno. Secchi ordini furono trasmessi lungo la colonna. Tenete accese le lanterne. Rimanete nei carri. Girate al rovescio gli abiti.» Diarmid s'issò sul carro della sorella, pallido alla luce delle lanterne, gli occhi due caverne d'ombra. «Che notizie ci sono, Diarmid?» «Non c'è nulla da temere, Muirne», rispose il fratello ad alta voce, a beneficio delle altre occupanti del veicolo, che si erano protese in avanti per ascoltare. «I carri sono fatti di legno di sorbo e di ferro, quindi, finché rimarremo al loro interno, saremo adeguatamente protetti. Vieni, galletto, andiamo a cercare i cavalli. Non si sono allontanati di molto.» «La verità, Diarmid...» sussurrò Muirne. «Dimmela a bassa voce.» Il fratello esitò, poi rispose in tono altrettanto sommesso. «In fede mia, le notizie sono brutte, molto brutte. Abbiamo perso molti uomini... quanti, non ne ho idea. Forse non ritroveremo più i cavalli. Spero soltanto che il peggio sia passato.»
Ma non era così. Per tenere a bada il silenzio della notte, i viaggiatori si misero ad agitare i campanelli e a recitare incantesimi, fischiando sino ad avere le labbra secche quanto la gola del galletto del Mago. Per qualche tempo, quelle misure sembrarono efficaci, in quanto le apparizioni e i suoni si allontanarono, smorzandosi. Era come se le creature stessero raccogliendo le forze per un nuovo attacco. L'attesa si fece snervante. Non c'era nessun segno di attività, nessun indizio che potesse indicare cosa sarebbe successo o quando. Tra coloro che se ne stavano nascosti nei carri la paura aumentò, diventando un terrore così opprimente da rendere quasi impossibile sollevare le mani per agitare i campanelli o costringere la bocca a formulare le parole degli incantesimi protettivi. Poi, lungo la Strada, alla cieca, si propagò un'ondata di orrore che si protese ad afferrarli, e ognuno cadde in preda all'impulso incontrollabile di allontanarsi da essa e dai suoi pericoli. «Resistete! Rimanete nei carri!» tuonarono le guardie. Ma furono molti i viaggiatori che, liberatisi con uno strattone dalla presa dei compagni, si diedero alla fuga, borbottando, incapaci di resistere oltre, spinti dal terrore verso la pazzia. Chi rimase indietro si sporse dai carri, chiamando i fuggiaschi e sforzandosi di penetrare con lo sguardo l'oscurità assoluta. Ma invano. Da molto lontano, giunse il lugubre richiamo di un Cacciatore. A quel punto, altre cose emersero dall'oscurità. Per la Carovana di Chambord, quello fu l'inizio della fine. Preceduto da un ruggito selvaggio e agghiacciante, sopraggiunse il branco di cani del Cacciatore. Abbaiando e ululando, i mastini arrivarono con la forza di una bufera e la furia del tuono, esalando fuoco dalle narici. Erano troppo numerosi per poter essere fermati dalla pioggia di frecce: se uno cadeva, altri due prendevano il suo posto, gli occhi accesi dalla sete di sangue, il manto e le zanne che rilucevano di un candore assoluto, le orecchie e la lingua che ardevano di una luce propria, rosse come il sangue fresco. Quanto ai viaggiatori, abbandonarono ogni idea di cercare protezione o di opporre resistenza... Quella era la resa dei conti, l'ultima possibilità di sopravvivere. L'ora della distruzione era giunta. Le lanterne vennero scagliate lontano, infrangendosi sulla Strada come
fiori calpestati. La notte fu pervasa dall'assordante ululato del branco, un suono che coprì i tonfi dei piedi in corsa, le urla agghiaccianti e il sanguinoso lacerarsi della carne. L'alba fu così pallida da dare l'impressione di non voler sorgere affattò, luce fioca illuminò una scena singolare. Ventotto carri abbandonati erano fermi, in fila. Intorno a essi non si muoveva assolutamente nulla. Quando il tumulto dei mastini arrivò alle orecchie di Imrhien e dei suoi due amici, Diarmid reagì prontamente, cupo in volto. «Questo suono... È la Caccia Selvaggia o la Caccia dei Cani di Dando. In entrambi i casi, la fine è vicina», disse. «Non possiamo far fronte a una simile minaccia. Bisogna scappare, oppure moriremo. Abbandonate tutto e venite con me.» Gli altri passeggeri... dobbiamo aiutarli! «Sarà già difficile salvare noi stessi», ribatté Diarmid, ma poi alzò la voce, in modo che tutti potessero sentirlo. «Se vi preme la vita, fuggite adesso, perché la morte si avvicina! Scegliete la via che preferite... ognuno per sé!» Si scatenò il panico. Imrhien si sentì spingere alle spalle e cadde sulla Strada. Risollevandosi, evitò a stento di essere calpestata dagli uomini e dalle donne che stavano balzando giù dal carro, in preda a un terrore incontrollabile. Alla luce delle lanterne rimaste, appese al fianco del veicolo, la gente iniziò a correre di qua e di là, incerta sulla direzione da prendere, temendo di andare a finire proprio nelle fauci di qualche cane unseelie. Nella confusione, alcuni vennero gettati al suolo, altri lanciarono invocazioni. In mezzo a quel gruppo ribollente, Diarmid teneva la sorella attaccata al braccio destro e Imrhien al sinistro. Poi l'impatto con due guardie spezzò la presa del giovane, separandoli, e Imrhien non riuscì a ritrovare gli altri. In mezzo al clamore, le parve di sentire delle voci che gridavano il suo nome e che si chiamavano a vicenda. Poi, convinta di aver visto gli altri due lanciarsi di corsa tra gli alberi, sollevò le gonne e si mise a correre a perdifiato. Nel cuore della Foresta del Tiriendor, una sorta di cecità le velò lo sguardo, annullando ogni cognizione del tempo. Spettrali ululati giungevano da ogni parte, facendole accapponare la pelle. Incespicando, continuò la fuga senza sapere da che parte stava andando, certa che, da un momento
all'altro, macabre fauci si sarebbero serrate su di lei. Mentre avanzava barcollando e sbattendo contro ostacoli invisibili, impacciata dagli abiti che s'impigliavano e si laceravano a causa di sporgenze nascoste, le urla del branco persero d'intensità e si allontanarono fino a svanire completamente. Allora Imrhien si arrestò, incapace di proseguire di un solo passo. Esausta, si accasciò al suolo, scivolando in un dormiveglia agitato. Mai il sopraggiungere del giorno le era stato più gradito... Ecco finalmente l'alba, sorta a cancellare le malvagie presenze della notte. La luce del giorno rivelò a Imrhien che non si trovava in un cupo bosco di alberi nodosi e ostili, bensì in una foresta dall'aria del tutto normale, anzi così bella da indurla a guardarsi intorno con crescente meraviglia. Svegliarsi in quel luogo era come destarsi nel cuore di una grande gemma venata di vermiglio, di ambra, di topazio, di verde chiaro... Erano le fiammeggianti tonalità degli aceri toccati dall'artistica magia dell'autunno. Tese fra i rami più sottili, migliaia di ragnatele avevano imprigionato le gocce di rugiada e scintillavano come reti stellate, rifrangendo la luce e ammiccando di bagliori ora argentei ora violetti. Il ritorno della consapevolezza fece riaffiorare con violenza il ricordo delle perdite subite. Era di nuovo sola. Il lutto per Sianadh era una presenza costante e, in quel momento, si estendeva a tutta la carovana. Si sentì priva di qualsiasi volontà, un guscio vuoto. C'era un'unica speranza cui aggrapparsi... che Muirne o Diarmid o qualcuno degli altri fosse riuscito a sopravvivere. La rugiada, così affascinante sulle ragnatele, era fredda e umida sulla pelle. Tremando, Imrhien si allontanò dallo strato di foglie rossicce su cui si era accasciata, ripulendosi gli abiti con le mani ammaccate e doloranti. La sua fuga della notte precedente, priva di una meta e sull'onda del panico, aveva tracciato un sentiero e lei lo seguì sino a perderlo di vista tra le felci. Nonostante tutto, continuò ad avanzare, con passo incespicante, nella stessa direzione, sperando di ritrovare la Strada. Cera ovviamente la possibilità che lei avesse corso in cerchio, e che si stesse quindi dirigendo dalla parte sbagliata, parallelamente alla Strada o addirittura verso il cuore della foresta. Imrhien non aveva modo di saperlo, ma doveva fare qualcosa; doveva cercare, benché senza troppe speranze, e muoversi per riscaldarsi. Se avesse potuto, avrebbe lanciato un richiamo per attirare l'attenzione di chiunque si fosse trovato nelle vicinanze, perché senza dubbio qualche membro della carovana era a portata di udito...
In una piccola radura trovò alti fiori dai colori accesi, gigli rossi le cui corolle si erano riempite di rugiada; inclinandole, bevve quell'acqua tinta di nettare. Gli uccelli ciangottavano e fischiavano da ogni ramo. Oh, potersi affibbiare una cintura di sildron e librarsi nell'aria, come facevano i nobili per divertirsi... e come si diceva che talvolta facessero i Dainnan. A un'altezza tra i cinquanta e i settantacinque piedi, al di sopra della vegetazione più bassa e a metà altezza dei tronchi più slanciati, chi praticava quel passatempo si afferrava a un ramo e si spingeva verso la pianta successiva. La spinta consentiva di percorrere notevoli distanze, anche perché, in mezzo agli alberi, il vento non era mai forte. Se poi ci si trovava sospesi nel vuoto, senza potersi muovere giacché non c'erano rami a portata di mano, si utilizzava la corda di cui si era muniti, lanciando un'estremità al tronco più vicino e tirandosi fino a esso, una mano dopo l'altra. Il sildron, infatti, respingeva il terreno, ma in se stesso non conferiva nessuna spinta. Finora nessun Mago era riuscito a inventare un rotore a pale che sospingesse una persona che si librava in quel modo, anzi l'idea era stata accantonata da tempo. Imrhien ripensò al suo sildron, quello che si trovava in una cassetta sul carro dei preziosi della Carovana di Chambord. Per modellare quel metallo erano necessari attrezzi speciali e una particolare perizia, ed entrambe le cose mancavano alla famiglia di Ethlinn... Altrimenti lei, quand'era a Gilvaris Tarv, avrebbe chiesto di fabbricarle una cintura da volo, dotata dell'opportuna copertura di andalum. Uno scricchiolio di rami sulla sua destra pose fine a quelle riflessioni. Qualcosa si fece largo tra il fogliame... Era un gigante, coperto di pelliccia scura. Ignorandola, l'orso passò oltre. Stranamente rincuorata da quella bestia che non aveva nulla di soprannaturale, la ragazza riprese a camminare. Alle sue spalle, il sole si alzava sempre di più e, di tanto in tanto, si levavano suoni simili a latrati. Non sapendo se la Strada si trovava sulla destra o sulla sinistra, Imrhien decise di continuare a dirigersi verso ovest, per il semplice fatto che la sua destinazione originaria si trovava da quella parte; avrebbe continuato a camminare finché non avesse incrociato la Strada o non fosse morta di fame. Per di più, rischiava di finire in pasto a qualche creatura... Altri rumori tra i rami più bassi le fecero martellare il cuore nel petto, strappandole un brivido. Si trattava di un'altra bestia «naturale» oppure di qualche apparizione unseelie, venuta a completare l'opera? Un ramo si mosse e apparve una testa, che si girò per scrutare intorno a
sé. Era una testa maschile, coi capelli castani. Nel riconoscere Diarmid, la ragazza quasi pianse di gioia. A quanto pareva, il giovane non si era accorto di lei e si stava allontanando a passo veloce. Angosciata, Imrhien cercò di chiamarlo, ma dalla gola le uscì soltanto un sospiro. Nella sua mente passò un confuso avvertimento, ma la ragazza si riscosse subito: doveva attirare l'attenzione dell'ertish prima che lui scomparisse. Afferrato un ramo quasi secco, Imrhien si appese a esso con tutte le sue forze sino a spezzarlo con uno schiocco. Nell'istante in cui la ragazza crollò al suolo insieme col ramo, lo skian di Diarmid le sfiorò l'orecchio e si conficcò, vibrando, nel tronco. Fu allora che l'avvertimento prese forma concreta nella mente di Imrhien: Se lo cogli alla sprovvista, penserà che sei una creatura unseelie. Una sagoma si alzò a coprire la parte di cielo incorniciata dai rami: un uomo, che teneva la spada sollevata con entrambe le mani. Nel momento stesso in cui Imrhien alzava il ramo spezzato per difendersi, l'uomo emise un'esclamazione di stupore. «Obban tesh!» gridò. Il suo stupore era tale che lo aveva fatto parlare in ertish. Abbassata la spada, il giovane aiutò Imrhien a rialzarsi, appuntando lo sguardo su di lei con sollievo, ma anche con apprensione. «Muirne è con te? L'hai vista? Da che parte è la Strada?» Imrhien scosse più volte la testa e il volto di Diarmid tornò ad assumere la sua consueta espressione, cupa e distaccata. «L'ho chiamata per nome molte volte...» disse. Esitò qualche istante, poi riprese: «Non ci rimane altro da fare che proseguire verso ovest finché non l'avremo trovata o non raggiungeremo la Strada, o entrambe le cose. Sventurato il giorno in cui ho sentito per la prima volta il nome di Chambord!» Estrasse lo skian dall'albero e, insieme, i due giovani ripresero il cammino. La divisa di cuoio di un esploratore era più adatta a muoversi in ambienti ostili di quanto non lo fosse l'abbigliamento da viaggio autunnale di una facoltosa dama cittadina. Per quanto robusto, il tessuto degli indumenti di Imrhien si era strappato in molti punti, tanto che la giacca, la sopragonna, la gonna e le sottovesti erano ridotte ad altrettanti stracci. Alcune delle monete d'oro cucite all'interno delle fodere erano cadute, ma la piccola borsa che lei portava appesa al collo, sotto il corsetto lacero, era ancora al sicuro, e conteneva una chiave, un rubino, uno zaffiro, un bracciale di perle e uno smeraldo. Muirne, Diarmid e lei avevano tutti sacchetti del genere, come precauzione contro eventuali furti. Il resto delle loro ricchezze era
chiuso in alcuni cofanetti, all'interno del carro rinforzato riservato al trasporto dei valori e dunque abbandonato col resto della carovana. «Per prepararmi alle prove di ammissione alla Confraternita Dainnan ho studiato l'arte di vivere nei boschi», spiegò Diarmid. «Grazie alle mie conoscenze, sopravvivremo.» Quelle dichiarazioni suonarono quanto mai rassicuranti alle orecchie di Imrhien e lei le rammentò quando, più tardi, cominciò a piovere e i due viandanti sperduti si dovettero riparare sotto un albero gocciolante, con lo stomaco contratto dalla fame. In silenzio, Diarmid guardava il flusso delle gocce di pioggia. Senza dubbio era un compagno molto più taciturno di suo zio. Ah, Sianadh, se le lacrime del cielo fossero la pioggia, allora il cielo starebbe piangendo per te, pensò la ragazza. Accanto a lei, Diarmid riusciva a stento a mascherare il dolore che provava per le perdite subite... il fratello, lo zio, e adesso anche la sorella. Quando la pioggia cessò, Diarmid si mise a scavare una trappola nel mezzo di un sentiero tracciato da qualche animale, ma i bastoni di cui si servì per smuovere il terriccio continuavano a spezzarsi e, alla fine, lui si dovette arrendere. «Non ho gli strumenti adatti», disse. Presi altri due bastoni, provò allora a sfregarli insieme per accendere un fuoco, in modo che potessero asciugarsi gli abiti. «La legna è troppo umida», decise, dopo un po'. Imrhien lo aiutò allora a cercare frutti selvatici. «Queste mele non sono commestibili. Sono troppo aspre!» sbottò Diarmid. Quella notte, dormirono su un mucchio di foglie, montando la guardia a turno e stringendosi l'uno all'altra per scaldarsi. Diarmid sopportò stoicamente il fatto che il suo senso dell'armonia e della simmetria, quanto mai sviluppato, veniva offeso ogni volta che lui era costretto a guardare la ragazza. Tra i mercenari lui era soprannominato «il Galletto» in virtù del favore che riscuoteva presso le dame... Almeno quella era l'interpretazione che Diarmid dava del suo nomignolo; secondo alcuni, esso si riferiva invece alle radici dei suoi capelli, che ricordavano la cresta di un gallo. Eppure, tra i due giovani, permaneva una freddezza che andava al di là del piano fisico. Per Diarmid, tutte le persone, uomini e donne, si suddividevano in amici e nemici; ai suoi occhi, però, Imrhien non rientrava in nessuna delle due categorie, dunque non sapeva come comportarsi con lei. Quanto alla ragazza, non desiderava che le cose tra loro fossero diverse... benché non
le sarebbe dispiaciuto un po' più di solidarietà. «Oggi è il cinque di Gaothmis», annunciò Diarmid, la mattina dopo. «Se continueremo di questo passo, arriveremo a Caermelor soltanto all'inizio di Nethilmis.» Avvilita, la sua compagna non poté che ammirare tanto ottimismo. Quel giorno, Diarmid fabbricò una trappola di corda con la propria cintura e con strisce di tessuto ricavate dalla sopragonna di Imrhien. Nascosti, in silenzio, i due attesero per ore, ma nessuna creatura selvaggia fu tanto compiacente da lasciarsi catturare dalla trappola, nella quale caddero soltanto cinque foglie, rosse come il vino. Guardandole, nella mente di Imrhien sembrò formarsi un vago, vaghissimo ricordo, che tuttavia non riuscì a prendere forma. La ragazza recuperò la cintura e la corda, poi i due si rimisero in marcia. «Cacciare e tendere trappole è una perdita di tempo. Raccoglieremo frutti lungo la strada.» Le contrazioni che Imrhien avvertiva allo stomaco avevano qualcosa di familiare. Se mai tornerò alla civiltà, imparerò come cavarmela in circostanze difficili. In tal modo, se mi venissi ancora a trovare lontano da essa, saprò come fare, si ripromise. La realtà era molto diversa dalle storie che aveva sentito narrare nelle cucine della Torre. In quelle vicende, i protagonisti trovavano sempre del cibo lungo la strada - anzi i frutti e le bacche cadevano quasi loro in mano - e, indipendentemente dalla stagione, dormivano per terra, senza soffrire per l'umidità o morire di freddo. Tutte fandonie. Trovare un fitto boschetto di noccioli sembrò un vero colpo di fortuna. Di slancio, fecero razzia delle nocciole mature sparse sul terreno, ma quasi subito il boschetto ebbe un sussulto e parve esplodere. Poi il suo cuore selvaggio si protese all'esterno, sfoggiando un volto malevolo, che sibilò: Che tu rubi o che tu chieda, Churnmilk Peg non farà una piega. Una vecchia magra, lacera e dalla pelle verde uscì dai tronchi, scagliandosi verso i due intrusi come una sorta di assurda erbaccia e brandendo un randello di legno di nocciolo in una mano nodosa. Gli occhi sembravano foglie allungate, ed erano duri e scuri di colore come le nocciole; il mento era a scaglie, il naso aveva l'orribile colore della bile.
Peg ti bastonerà se tu rimani... Ladro di nocciole, ladro di nocciole, giù le mani! Il suo orrendo sorriso espose denti verdastri come licheni, ma Diarmid non si lasciò intimidire. Serrando i denti sino a farli stridere, la guardiana sollevò le mani: le unghie, simili a schegge di legno o a spine, sporgevano dalle dita sottili come ramoscelli. Di fronte a quella minacciosa apparizione vegetale, Diarmid infine cambiò idea e indietreggiò. «Vecchia creatura malvagia... Fa' dunque come preferisci!» Allontanandosi in fretta dal boschetto di noccioli, i due ripresero il cammino, anche se, per un certo tratto, continuarono a sentire il rumore di alberi scossi, proveniente dal boschetto sorvegliato da quella creatura. «Non era una creatura potente, però ricordava troppo una vecchia, e io non colpisco mai le donne.» Somigliava molto a una vecchia, ma le sue rime lasciavano a desiderare. Impassibile come sempre, Diarmid non sorrise. Patirono la fame anche durante quel secondo giorno di marcia e il mattino del terzo non sembrò portare con sé nessuna promessa di cambiamento. Inoltre la notte era stata fredda, al punto che i due non avevano quasi dormito, a causa degli abiti umidi; coi denti che battevano, avevano trascorso la maggior parte delle ore di oscurità camminando avanti e indietro, per scaldarsi, tanto assonnati da non poter neppure montare adeguatamente la guardia. Mentre s'incamminavano sotto la volta di fogliame, Imrhien si rese conto che non avrebbero potuto resistere a lungo in quel modo. Durante il suo viaggio con Sianadh, avvenuto in piena estate, le cose erano state molto diverse. Ora correvano il serio pericolo di morire di freddo. Gelata e affamata, desiderava soltanto sdraiarsi per dormire, ma la cocciutaggine e l'orgoglio la costringevano a proseguire. La fame li indeboliva e minava la loro capacità di riflettere, però non aveva offuscato i loro sensi, anzi li aveva affinati. Di conseguenza, quando una fragranza arrivò alle loro narici, i due pensarono subito che quello fosse l'aroma più invitante che avessero mai sentito. Si riscossero all'istante, muovendosi nella direzione da cui giungeva quell'odore. «Potrebbe essere una trappola. Tieni gli occhi aperti. Hai con te quella pietra forata che mia madre ti ha dato come tilhal?» chiese Diarmid. Imrhien annuì. Le pietre che recavano al centro un foro prodotto dall'a-
zione naturale di un corso d'acqua erano molto apprezzate, perché costituivano un talismano preziosissimo qualora si avesse a che fare con creature soprannaturali. Guardare attraverso il suo foro, infatti, dissipava qualsiasi illusione. Per tenersi pronta, Imrhien tirò fuori il tilhal. Guidati dall'olfatto, i due arrivarono a una piccola radura soleggiata e si arrestarono al suo limitare, sbirciando cautamente da dietro una cortina di foglie di un rosso acceso. Un tappeto erboso si stendeva fino a una piccola polla, bordata di canne; a poca distanza dalla sua superficie a specchio, un mucchietto di legna ardeva su una pietra piatta, generando una sottile colonna di fumo azzurro e fiamme che avevano un aspetto etereo sotto la luce del sole. Tra l'acqua e il fuoco c'era un uomo, che se ne stava appoggiato su un gomito, intento a giocherellare con uno stelo d'erba. Imrhien non poteva essere certa che si trattasse di un mortale, giacché molte creature soprannaturali sceglievano di manifestarsi in quella forma, e non era neppure abbastanza vicina da capire se lo sconosciuto avesse qualche difetto, segno indiscutibile di una natura non umana. Allora si accostò all'occhio la pietra forata e vi guardò attraverso. L'uomo appariva immutato. «Dainnan...» sussurrò Diarmid. «È equipaggiato come un Dainnan. Allora non è una creatura soprannaturale, eh?» Forse no. «Buongiorno», salutò lo sconosciuto, con una voce che arrivò nitida dall'altra parte della radura. «Venite avanti in amicizia.» Sorpresi, i due si scambiarono un'occhiata, poi Diarmid annuì, squadrò le spalle e assunse l'atteggiamento attento e cauto di una guardia. «Resta dietro di me», ingiunse alla ragazza, lasciando scivolare la destra lungo il fianco, fino a posarla con leggerezza sull'elsa della spada. Sbucati all'aperto, i due avanzarono verso lo sconosciuto, che non abbandonò la propria posizione e rivolse loro un cupo sorriso. Esso colpì Imrhien come la nota di una grande campana e scatenò in Imrhien un brivido che sembrava prodotto da un ago d'argento. «Sedete vicino al fuoco, a meno che non preferiate continuare a battere i denti», li invitò l'uomo. Imrhien pensò che sarebbe stato inadeguato descrivere lo sconosciuto col termine «avvenente», almeno quanto lo sarebbe stato definire «grazioso» un cielo vellutato e scintillante di stelle che, simili a reti di luce, si riflettessero in un mare invernale. Il suo volto era snello e angoloso, con lineamenti cesellati e zigomi alti.
Sotto sopracciglia diritte, gli occhi scuri parevano ardere di un fuoco freddo e penetrante. La mascella rasata aveva una linea forte ed era appena velata dalla barba che iniziava a ricrescere. I capelli, lucidi e neri come l'ala di un corvo, erano spinti all'indietro con noncuranza, con le ciocche anteriori annodate sulla nuca per poi ricadere, legate, fin quasi alla cintura. Sciolti, quei capelli dovevano essere una nuvola di morbida oscurità, una cascata d'ombra. L'uomo parve a Imrhien giovane eppure eterno quanto la primavera. Notò altresì che era alto e largo di spalle, con l'aspetto indurito di un guerriero. No, non aveva difetti. Anzi era esattamente l'opposto. Il calore del fuoco si protese a riscaldare la carne gelata dei due giovani, che si accostarono a esso, pur rimanendo in piedi. Imrhien si accorse che aveva quasi smesso di respirare. «Vi ringrazio, ma siamo solo di passaggio», replicò Diarmid, guardingo. «Avete visto altri viandanti negli ultimi tre giorni? Magari una dama dai capelli rossi?» «Vi piace far venire il torcicollo al vostro ospite?» ribatté lo sconosciuto. I due si sedettero. Protendendo le mani verso le fiamme, la ragazza appuntò lo sguardo su di esse, evitando quello dello straniero. Il battito del suo cuore era un coro di mille voci, un rombo profondo come quello della pietra che si spostava sotto le montagne e alto come i luoghi in cui nascevano le stelle. I suoi pensieri erano così vividi da darle l'impressione che persino un mendicante cieco li avrebbe decifrati senza difficoltà. E quella consapevolezza le tinse il viso di un rossore uguale a quello del fuoco. Quando si era avvicinata, aveva pensato che quell'avvenente straniero solitario fosse un ganconer, un Dissertatore d'Amore, controparte maschile delle splendide e spietate baobhansith, ma ben presto la natura delle sue affermazioni la liberò da quel timore. «Volete sapere se di recente ho visto altre persone mezze morte di fame come voi due? Non posso dire che mi sia accaduto», dichiarò l'uomo, con una voce armoniosa, baritonale, scandendo ogni parola. Con la mente intorpidita, Imrhien pensò, in maniera vaga e remota: La sua voce è splendida quanto il resto. Senza dubbio, parla con straordinario potere. «Vi prego di esprimervi con maggiore chiarezza», ingiunse Diarmid, ostile come un mastino con le spalle al muro.
«Volete una risposta diretta, a dimostrazione che non sono una delle creature artefici della distruzione di coloro che state cercando?» «Sì.» «In tal caso, la risposta è no.» Seguì una pausa gravida di perplessità. Imrhien e Diarmid si chiesero entrambi che sorta di convalida fosse sottintesa a quella risposta. «Quale prova avete voi che noi siamo esseri umani?» ritorse infine Diarmid. «Alcuni segni evidenti.» «Per esempio?» «La barba che vi sta crescendo è in contrasto coi capelli... Un errore umano.» «E lei?» domandò Diarmid, in tono seccato, portandosi la mano al mento velato di barba rossiccia. «Lei stessa.» Ci fu un'altra pausa. Avvertendo quegli occhi scuri e riflessivi appuntati su di lei, Imrhien si sentì quasi bruciare e non osò sollevare lo sguardo. «Signora, potete dirmi qualcosa?» domandò la voce, in tono gentile. «Parlo io per lei. È muta», interloquì Diarmid. «È così, signora?» Imrhien annuì, lo sguardo sempre abbassato. Preso un bastone, lo sconosciuto smosse alcuni carboni ardenti ammucchiati vicino al fuoco, rivelando quattro piccole pagnotte piatte rivestite di cenere, il cui aroma appetitoso si diffuse nell'aria, aggredendo i sensi dei due giovani al punto che Imrhien avrebbe voluto protendere la mano attraverso le fiamme scintillanti per afferrare quelle delizie. «Cosa state cuocendo, lì?» chiese Diarmid, con una sfumatura di tensione nella voce. «Quanto basta per dividerlo con voi.» Con mosse abili e precise, il Dainnan infilzò le pagnotte e le tolse dalle braci per disporle su un pezzo di corteccia; accanto a esso, c'era una foglia che conteneva frutti e bacche. Raccolto un melograno di un rosso tendente all'arancione, il Dainnan ne tagliò via la sommità. «Non potete parlare, ma forse vorrete mangiare», osservò. Grazie. Nell'accettare il frutto con mani tremanti, Imrhien rispose col gesto di ringraziamento. Il Dainnan ne offrì quindi un secondo al giovane ertish. Imrhien non fece quasi in tempo ad assaggiare il frutto che Diarmid ave-
va già divorato il suo. La presenza dello sconosciuto pareva aver spento la sua fame e, sebbene la polpa e i semi del melograno avessero un sapore dolce e gradevole, lei faceva fatica a inghiottirli. «Non fate complimenti.» Affamato, Diarmid non ebbe bisogno di ulteriori inviti. Afferrata una pagnotta, la spezzò a metà senza preoccuparsi di scottarsi le dita; un fiotto di vapore simile a una nuvola sfilacciata si alzò dalla pasta dell'interno. Quando ebbe finito di mangiare, accompagnando il cibo con l'acqua limpida della sorgente, Diarmid si pulì la bocca sulla manica con un sospiro appagato. «Un pasto eccellente, signore. Sono in debito con voi.» «È possibile che voi mi siate debitore, ma la sola cosa che mi dovete, in qualità di ospiti, è la cortesia di dirmi i vostri nomi.» «Sono il Capitano Bruadair, delle Guardie Mercenarie di Chambord, al vostro servizio», disse Diarmid, abbozzando un inchino senza alzarsi. Da quella presentazione, Imrhien comprese che Diarmid aveva accantonato qualsiasi dubbio in merito alla natura umana dello sconosciuto. «Questa damigella, compagna della mia perduta sorella, risponde al nome di Imrhien. E voi chi siete, signore?» «Il mio nome Dainnan è Thorn.» «Siete un Dainnan eppure viaggiate da solo?» «Cosa sapete, sul conto della Confraternita?» sorrise lo sconosciuto. «Soli, a coppie, in gruppi... I Dainnan viaggiano come impone la necessità. Nel mio caso, è meglio che sia solo... In tal modo, si può passare inosservati e ciò offre maggiori possibilità di raccogliere informazioni senza dare nell'occhio. Sono in viaggio su incarico del Re-Imperatore.» «Noi eravamo diretti a Caermelor quando la nostra carovana è stata aggredita da creature unseelie, sulla Strada. Tutti i nostri compagni sono stati dispersi o uccisi.» «Da creature unseelie?» ripeté Thorn, con voce d'un tratto tagliente. «Quante erano, a vostro parere?» Diarmid rispose come meglio poteva. «Così tanti, e così forti...» rifletté il Dainnan, con aria grave. «Be', la mia missione, benché attuata per ordine del Re-Imperatore, non è segreta, dunque posso rivelarvela, dato che sarete indubbiamente curiosi di sapere in che cosa consiste. Dovevo valutare la forza e il numero delle creature unseelie che stanno affluendo dal sud in questa nuova, strana ondata migratoria. Il caso vuole che essa sia quasi ultimata e che io mi trovi sulla via del ritorno a Caermelor. Unitevi a me, e insegnatemi questo interessante modo
di parlare con le mani che usate per comunicare. In cambio, vi mostrerò come trovare il cibo.» Soltanto in quel momento Imrhien notò che il Dainnan non aveva con sé una bisaccia, ma solo un arco e una faretra, posati poco lontano sull'erba. A quanto pareva, viaggiava il più leggero possibile. «Signore, quello è un talento che già possiedo», ribatté Diarmid, con voce carica di risentimento. «Come preferite», replicò il Dainnan. Non parlare anche per me! «In nome della cortesia, vi accompagneremo comunque, almeno per un tratto di strada», si affrettò ad aggiungere Diarmid. «Se si tratta solo di cortesia, vi garantisco che non avete obblighi di sorta. Da solo, procederò più in fretta.» Agile come un grande felino, Thorn si alzò e spense il fuoco con un calcio. Con la coda dell'occhio, Imrhien lo studiò attentamente, notando ogni particolare. Il Dainnan indossava una camicia di lana di buona qualità, con ampie maniche arricciate sulle spalle e arrotolate fino ai gomiti; su di essa, portava una tunica di morbido cuoio, che gli arrivava alle ginocchia ed era aperta su entrambi i lati per tutta la lunghezza della coscia, in modo da dargli libertà di movimento. Sotto, aveva calzoni di cuoio. Su entrambe le spalle era ricamato lo Stemma Reale, una corona sovrastante il numero 16 e fiancheggiata dalle rune J e R; intorno all'avambraccio destro, era avvolta una polsiera di morbida pelle di vitello, trattenuta da lacci di cuoio. Un balteo reggeva un corno dalle finiture in argento, bianco come il latte, e un secondo corno giallo come il sole, rifinito in ottone. Dalla cintura, gli pendevano una borraccia, un paio di sacche e un rotolo di corda, mentre il cinturone delle armi reggeva il fodero di una daga, un coltello più piccolo e un'ascia dalla corta impugnatura. Raccolto un secondo balteo dai ricchi intarsi, il Dainnan se lo passò sulla spalla destra e di traverso sul petto. Adesso, da sopra la spalla gli sporgevano un arco lungo e una faretra, le cui frecce erano decorate con fasce oro e verde, le piume d'oca tinte negli stessi colori. «Possiamo dunque accompagnarvi?» chiese Diarmid, cercando di non tradire emozioni o debolezze di sorta. «La cosa vi farebbe piacere?» replicò il Dainnan, rivolgendosi però a Imrhien. Di nuovo, lei rispose annuendo, evitando ancora d'incontrare il suo sguardo. Dentro di lei, qualcosa si stava contraendo in modo doloroso.
Se soltanto non avesse rischiato di offendere quegli occhi, offrendo loro lo spettacolo di un volto come il suo! Se solo avesse potuto mutare forma e diventare vento, per accarezzare, non vista, quelle ciocche di capelli neri! Raccolto il mantello, su cui si era disteso, Thorn emise un fischio sommesso, e un astore gli si venne ad appollaiare sulla spalla. «Andiamo, allora», disse, avviandosi fuori della radura. Imrhien e Diarmid non ebbero altra scelta se non seguirlo. Camminando, Imrhien cercò di rammentare tutto quello che aveva appreso sul conto dei Dainnan. Si trattava di una confraternita di guerrieri scelti, qualcosa di più di semplici guardie del corpo del Re, in quanto il loro ruolo era mantenere l'ordine in tempo di pace, ma in guerra erano anche soldati. Quando non si trovavano a Corte, i Dainnan vagavano ovunque, d'estate vivendo all'aperto e cercando talvolta alloggio presso la popolazione durante l'inverno. Il loro capo era il famoso Tamlain Conmor, Duca di Roxburgh, che veniva definito il più grande guerriero di tutta Erith. La maggior parte dei giovani aspirava a entrare nelle file dei Dainnan, ma chi desiderava farlo davvero si doveva sottoporre a prove estenuanti. Il primo requisito era la conoscenza delle saghe storiche e della poesia di Erith, ma quella era cosa da poco, se paragonata alle prove di coraggio, di abilità nel combattimento e di rapidità e scioltezza nei movimenti cui venivano sottoposti gli aspiranti. Soltanto i migliori erano accettati. Era ovvio che il Dainnan si affidava al proprio talento per sopravvivere in quelle terre selvagge. Stava procedendo con passo spedito ma incredibilmente silenzioso, senza spezzare un solo ramoscello o far frusciare una singola foglia. Per quanto rinvigorita dal cibo, Imrhien aveva difficoltà a mantenere la sua andatura, perché i brandelli della gonna le impacciavano i movimenti; davanti a lei, Diarmid avanzava con la rumorosità di un toro inferocito, girandosi a tratti con fare impaziente per offrirle il suo aiuto. Possibile che entrambi fossero sempre stati tanto goffi? Thorn non sembrava badare al rumore che essi facevano. Di tanto in tanto, li faceva fermare su un lato del sentiero e rivelava loro i segreti della stagione: i contorti filamenti avvizziti che andavano seguiti con pazienza nel loro tortuoso cammino tra le rocce, fino al punto in cui affondavano nel terreno a indicare la presenza di tuberi, che lui dissotterrava con un bastone appuntito; i fichi selvatici dalla corteccia bianca, i cui rami snelli si protendevano dai crepacci di una sporgenza rocciosa, carichi di lunghe foglie di un verde polveroso e di frutti di un colore tra l'arancione e il rosso. Negli umidi canaloni, poi, Thorn indicò loro le felci arboree, le cui fronde
non ancora aperte potevano essere mangiate, ma soltanto dopo essere state arrostite per rimuoverne gli acidi. Una volta, il Dainnan indicò un albero di liquidambar che cresceva isolato in una radura: centocinquanta piedi di rosso intenso, oro e porpora scuro. «Cosa possiamo mangiare di quella pianta?» chiese Diarmid. «Nulla.» «Un uomo non può trarre sostentamento dalla bellezza.» «Io posso.» Cibo, medicine, tinture... La natura di quelle terre selvagge offriva tutto quello, come Thorn spiegò loro con la sua voce splendida, sottolineando che l'autunno era la stagione più ricca, anche sotto altri aspetti. Le tinte splendide della Foresta del Tiriendor creavano festoni su tutti i lati, simili a tendaggi ingioiellati. Gli ampi rami dei tupelo offrivano foglie di un rosso acceso e frutti di un azzurro carico; la piatta distesa a ventaglio dell'aromatico fogliame dei cedri bianchi stava mutando dal verde scuro all'arancione dorato; più in alto, splendidi viticci rosso carminio s'inerpicavano lungo i tronchi, e la luce del sole filtrava attraverso le loro foglie, simili a lastre di vetro colorato. Il sole stava ormai tramontando quando i tre arrivarono a un altro ruscello. Lungo il cammino avevano visto non pochi corsi d'acqua, anzi era quasi sembrato che spuntassero fuori di continuo sulla loro strada. Lungo le rive di quel particolare fiumiciattolo, in mezzo a una profusione di felci e di iris dalle foglie lanceolate, crescevano cespugli erbosi carichi di semi. «È panico», spiegò Thorn, piegando a terra un ginocchio per spogliare i piccoli steli dei loro semi. Imitandolo, Imrhien riempì ben presto la gonna di semi e, nel porgerle la propria sacca perché li versasse al suo interno, il Dainnan sollevò la mano aperta col palmo rivolto verso il basso, accostandola alla bocca e protendendola in avanti. Nel fare quel gesto, Thorn sfoggiò uno dei suoi sorrisi, e Imrhien non faticò a immaginare come quel candido sorriso da lupo potesse affascinare tutte le dame di Corte. A quanto pareva, il Dainnan aveva già imparato il gesto di ringraziamento. «Guardate... Quell'albero non ha foglie eppure è carico di bacche gialle simili a perle. La bellezza può essere commestibile», esclamò Diarmid, indicando con la mano protesa. «Assaggiatele e morirete. Le bacche di melia sono velenose. Talvolta le cose più belle sono le più pericolose e viceversa», ribatté il Dainnan. Di tanto in tanto, l'astore si allontanava in volo, ma faceva sempre ritor-
no. «Niente lacci, campanelli o cappuccio», osservò Diarmid. «Però di notte quell'uccello sarà legato, giusto?» «Non da me.» «È ben addestrato. Lo avete preso poco dopo la nascita?» «No.» Col sopraggiungere del gelo della sera, i tre si accamparono vicino a una polla rocciosa, creata dal ruscelletto e sovrastata da aceri dorati le cui foglie cadute fluttuavano sull'acqua. Ammucchiata la legna secca raccolta lungo la strada, Diarmid si servì della scatola dell'esca di Thorn e ben presto le fiamme sbocciarono come fiori di luce in mezzo ai rami scuri. Accanto al fuoco, il Dainnan scavò una buca profonda un piede e con un diametro di poco maggiore, poi mostrò ai compagni come sfregare tra le mani i semi di panico e lasciare che la brezza portasse via la gluma esterna. Si servì di una pietra per triturare i semi, aggiungendovi un po' d'acqua prelevata dalla polla in modo da ottenere una pasta densa, che versò sulle ceneri ardenti in sei piccole forme piatte, coprendole con rametti incandescenti. Nel frattempo, il fuoco si era consumato, creando un letto di braci. Quando il lato superiore delle pagnotte fu cotto, Thorn le rigirò e ammucchiò ancora su di esse la cenere calda. Mentre aspettavano che il pane fosse pronto, Diarmid e la ragazza arrostirono alcune teste di felce e si rimpinzarono di fichi. Thorn allentò la corda dell'arco e ne incerò il legno. In alto, l'astore stava osservando ogni cosa dal ramo di una quercia. Il rapace aveva catturato una piccola quaglia, e ne stava coprendo la forma immobile con le ali allargate. Dopo qualche tempo, si decise infine a ripiegare le ali e si bilanciò su una sola zampa, serrando la preda con gli artigli dell'altra e divorandola. Con efficienza, rimosse la pelle, poi affondò nella carne la parte superiore del becco ricurvo e la congiunse con quella inferiore, tranciando un pezzo di carne sanguinante e inghiottendolo. «Il vostro falco... Non lo usate per cacciare?» «Errantry non caccia dietro mio ordine, ma solo per nutrirsi.» «E torna sempre da voi? Non desidera la libertà della vita selvaggia? È straordinario.» Thorn non rispose. Da qualche parte, nell'ombra del crepuscolo, i grilli cantavano i loro ricordi dell'estate perduta. «Se avessimo un contenitore di argilla o di metallo, potremmo raccogliere la linfa degli aceri e farla bollire sul fuoco», rifletté Diarmid. «Con le vostre frecce, poi, avremmo potuto abbattere un paio di scoiattoli.»
«Perché dare la caccia alla propria cena, quando a portata di mano c'è una quantità di cibo che non può fuggire? Non stiamo di certo patendo la fame.» «Preferite conservare le frecce per le creature soprannaturali, vero?» «Preferisco conservare la pelle intatta.» «Prima d'ora, non avevo mai visto un arco come il vostro.» «È stato costruito dal Fabbricante Reale di Archi dei Dainnan, seguendo mie precise istruzioni.» «Posso vederlo?» Thorn gli porse l'arma, e il giovane ertish la esaminò attentamente. «Un modello insolito», commentò poi. «Le due parti non sono rotonde, ma hanno una sezione rettangolare.» «Che però è abbastanza ampia da compensare la torsione che si ha nel tendere l'arco.» «Non è diritto... È un arco ricurvo, con impugnatura e appoggio per la freccia scolpiti.» «Modellati in modo tale da adattarsi alla mia mano destra.» «Che materiale è questo, applicato lungo il dorso dell'arco?» «Si tratta di lamine di corno e di osso di balena, poste a rinforzare il legno di tasso. Migliorano le prestazioni e impediscono che l'arco si spezzi. Ha un rapporto di centoquaranta libbre su ventotto pollici, e può scagliare una freccia a testa larga fino a 760 iarde.» «Davvero incredibile! A Tarv, ho sentito parlare di un campione del passato che era in grado di raggiungere le novecento iarde, ma ho pensato che fosse una storiella per comari. Mi piacerebbe veder compiere una simile impresa.» «La distanza massima di volo è soltanto una misura», ribatté Thorn, sollevando una freccia lunga più di una iarda e guardando lungo l'asta per controllare che fosse diritta. «La portata effettiva di quest'arco, come arma, si aggira tra le 440 e le 660 iarde.» «Deve essere lungo oltre sei piedi... Non è una lunghezza eccessiva, per un arco da caccia?» «La sua lunghezza corrisponde alla mia statura: sei piedi e due pollici.» «In tal caso, sarà difficile trasportarlo in mezzo alla vegetazione.» «La lunghezza è una questione di preferenze personali.» «Credevo che i Dainnan usassero la balestra.» «Sì, quando ci troviamo su terreni fittamente boscosi. L'arco lungo tuttavia è più leggero e consente un tiro più rapido. Su un terreno scoperto, gli
arcieri si possono posizionare a spalla a spalla, perché hanno bisogno di uno spazio minore di quello richiesto dai balestrieri.» «Noto inoltre che le vostre frecce sono bilanciate da penne d'oca. È vero quello che si dice, che le frecce della Famiglia Reale e dell'Attriod Reale sono dotate di penne di pavone?» «È vero.» Diarmid assimilò quell'informazione in silenzio, accarezzando la lucida forma a mezzaluna del possente arco. «Signore... Da quanto mancate da Caermelor?» chiese quindi. «Cosa mi potete dire dei preparativi delle Legioni Reali per combattere le orde settentrionali, se dovessero invadere l'Eldaraigne?» Thorn si sedette tra i suoi due compagni, appoggiando la schiena a un tronco e protendendo le lunghe gambe verso il fuoco. «Vi posso dire che, in effetti, il Re-Imperatore ha intenzione d'inviare al nord i suoi battaglioni, per premunirsi nell'eventualità di un'invasione. Attualmente, i Dainnan sono ovunque... Alcuni si sono perfino addentrati nella Namarre in esplorazione, per raccogliere tutte le informazioni possibili in merito a questo Condottiero che si dice sia apparso tra i briganti namarriani e che pare abbia il potere di unire le diverse fazioni di fuoricasta e di fuorilegge. Si ritiene addirittura che sia un Mago di grande potere... Qualcuno afferma che ha attirato a sé perfino le creature soprannaturali, promettendo loro grandi ricompense, come la possibilità di distruggere e depredare tutta l'umanità, tranne i suoi sostenitori. Se le cose stanno così, però, quell'uomo è un misero illuso, perché le creature unseelie gli si rivolteranno contro con la stessa rapidità con cui aggrediranno il resto della razza umana.» «Mai prima d'ora, nel corso della storia, un uomo si è alleato con gli unseelie», osservò Diarmid, in tono grave. «Mai.» «E coloro che stanno rispondendo a questo richiamo proveniente dal settentrione sono numerosi come si dice?» «Non so quali voci circolino in merito al loro numero, però sono davvero molti, sì. La Foresta del Tiriendor è sempre stata un luogo amato dalle creature soprannaturali. Una di esse ci sta osservando proprio ora.» Diarmid s'irrigidì, immobilizzandosi come una statua. «È soltanto un urisk», aggiunse Thorn, sorridendo. «È una creatura seelie che dimora vicino a questa polla da lunghissimo tempo... da molte vite degli uomini.» Gli altri due seguirono il suo sguardo e scrutarono l'acqua, dove le ulti-
me luci del giorno si riflettevano sulla polla e raggiungevano le ombre più fitte, delineando la sagoma di un'esile creatura umanoide dalle zampe di capra, con piccole corna che sporgevano dai capelli ricciuti. L'essere sedeva con le braccia strette intorno alle ginocchia pelose e stava osservando gli umani con espressione dolente. «Quelle creature bramano la compagnia degli umani», spiegò Thorn, con indifferenza. «Ma il loro aspetto repelle gli uomini.» Il Dainnan dice che la creatura vive qui da lungo tempo. Il Dainnan conosce dunque bene queste terre? Diarmid tradusse la domanda di Imrhien che, diventata improvvisamente oggetto dell'attenzione di Thorn, sentì il cuore sobbalzarle nel petto, come un pesce tirato fuori dall'acqua. «Le conosco bene», confermò il Dainnan. Lui sa come arrivare alla Strada? «La Strada di Caermelor si trova circa tre miglia a nord di qui», replicò Thorn, dopo che Diarmid gli ebbe tradotto la domanda. «Signora, credete davvero che il nostro viaggio sarebbe più celere, se procedessimo su una via sgombra? È vero, le vostre gonne s'impigliano con troppa facilità nei rovi e nei cespugli, ma la strada principale presenta maggiori pericoli per i mortali, in quanto su di essa si accentra l'ostilità degli unseelie. Inoltre la mia missione non è ancora conclusa, e mi porta ad allontanarmi dalle piste battute per percorrere altre strade, quelle che, a una prima occhiata, possono apparire meno evidenti... piste tracciate da animali, corsi d'acqua, le vie del sole e delle stelle.» «Scommetto che gli occhi di un Dainnan vedono molte strade», mormorò Diarmid. Dopo circa venti minuti, i tuberi vennero estratti dalle braci per essere disposti su un piatto di foglie, sbucciati e mangiati. Poi fu la volta delle pagnotte, che avevano finito di cuocere: corpose e saporite, furono un pasto soddisfacente. «Se rimarremo a sud della Strada, dovremo attraversare il Mirrinor», sottolineò Diarmid, tra un boccone e l'altro. «Temo che questo sia più pericoloso della Strada stessa.» «Il Mirrinor, la Terra delle Acque Immote... Sì, è pericolosa, ma l'ho già attraversata in passato senza danni e intendo farlo di nuovo, perché il mio incarico mi conduce là. D'altro canto, è una terra molto bella.» Dopo aver mangiato, Imrhien si sentì assalire da una sonnolenza irresistibile, complice il calore del fuoco, che pareva addirittura ammorbidire le
ossa. Scoccata un'ultima occhiata allo strato di muschio su cui l'urisk continuava a sedere in solitudine, si sdraiò sul mantello di Thorn e si addormentò all'istante. Le ultime parole che sentì furono quelle di Diarmid. «Monterò io il primo turno di guardia.» L'arrivo del mattino fu accompagnato da suoni contrastanti: fischi acuti, strida lamentose e ciangottii stentorei... Era il saluto di Errantry al nuovo giorno. Sul suo trespolo, dopo aver lanciato i richiami, l'astore si lisciò le penne, assestandosele ordinatamente col becco. Il suo piumaggio rossiccio era chiazzato e striato con contrasti splendidi; gli occhi erano due dischi dorati cerchiati di nero, col centro così scuro da far pensare a due eclissi gemelle del sole. Un corno rifinito in argento giaceva sull'erba e, dalla sua bocca, uscivano grossi mirtilli; accanto a esso, c'erano numerosi cachi di un arancione dorato, con le foglie lucide ancora attaccate; due pagnotte avanzate dalla sera precedente erano sistemate su un pezzo di corteccia annerito dalla cenere. Il sole stava sorgendo, proiettando i suoi raggi in diagonale tra gli alberi. L'urisk era scomparso, e così pure Thorn, anche se quest'ultimo fatto non stupì Imrhien. Rendendosi conto che nessuno l'aveva svegliata per il suo turno di guardia, la ragazza apprezzò quel gesto cortese, ma, scendendo al ruscello per lavarsi, avvertì anche un certo senso di colpa. Al ritorno, vide che Diarmid si stava sollevando a sedere con uno sbadiglio. «Che bell'oggetto!» esclamò il giovane, posando lo sguardo sul contenitore dei mirtilli. «Questo corno ha la lavorazione più originale che abbia mai visto.» Lo raccolse e se lo rigirò tra le mani, provocando una pioggia di mirtilli, simili a lapislazzuli. «Il suo aspetto è antico... e tuttavia è privo di ammaccature, come se fosse stato appena fabbricato. Che fattura strana e squisita! Scommetto che si tratta di un'eredità di famiglia, forse di un oggetto creato nell'Era della Gloria.» Thorn tornò dopo che Diarmid e Imrhien avevano già fatto colazione. Non pareva affatto stanco e, nell'emergere dal bosco, abbigliato nelle diverse sfumature di marrone e di verde proprie dei Dainnan, sembrò una parte integrante di quella mattina d'autunno, e altrettanto affascinante. «Buongiorno, dormiglioni. Metà giornata è già trascorsa... Dovremo correre come daini per metterci al passo col sole.» Staccò quindi alcuni baccelli di semi dai rami sovrastanti e li passò a Diarmid insieme col coltello. «I semi dell'albero del sego hanno un rivestimento di cera che, nell'acqua, forma una schiuma, come il sapone. La mia lama è abbastanza affilata per
radersi. Questo albero non cresce ovunque, quindi è meglio portare con noi una scorta di semi.» Con la faccia coperta di schiuma, Diarmid si protese sulla polla, cercando di vedere il proprio riflesso nell'acqua per radersi. Quando si tagliò leggermente il mento, un'imprecazione gli sfuggì dalle labbra. Posso aiutarti. Imrhien gli tolse il coltello di mano e si mise a radergli il viso. Una volta che ebbero finito, seppellirono i resti anneriti del fuoco e si misero in marcia. Frammenti di luce solare piovevano dall'alto come scintille e gli esili alberi color della fiamma sembravano lanciarsi verso l'alto. I tre viandanti si sentivano rimpiccioliti da quei torreggianti inferni privi di calore, quasi fossero minuscole salamandre che strisciassero attraverso una gloria di fiamme. Come sempre, i pensieri di Imrhien erano concentrati su Thorn, la loro intensità temperata soltanto dall'onnipresente dolore per le perdite subite, un dolore che affiorava a tratti, con forza variabile, come sempre accade in casi simili. Nei giorni che seguirono, Thorn si fece vedere di rado. Un momento era lì che camminava accanto a loro, adeguando il proprio lungo passo a quello dei compagni e spiegando la natura della prossima parte del tragitto, oppure indicando loro qualche nuova fonte di cibo. Il momento successivo, scompariva, fondendosi coi boschi circostanti, e rimaneva assente per ore. Imrhien aveva l'impressione che, quando lui era presente, il sole sorridesse e la brezza ridesse; se invece il Dainnan era lontano le pareva che le ombre incombessero cupe tra gli alberi e che la desolazione smorzasse perfino il canto degli uccelli. L'astore Errantry viaggiava sulla spalla del Dainnan, però talvolta lo s'intravedeva attraverso la filigrana di vegetazione sovrastante, un punto scuro, alto e lontano nel cielo. Le acrobazie che l'astore compiva in volo erano incredibili e, come tutti i rapaci, era un abile cacciatore. Gli alti alberi del Tiriendor erano simili a cofanetti di gemme o a torreggianti coni di vetro variegato. Di tanto in tanto, una folata di vento staccava numerose foglie dai molteplici rami; liberandosi nello stesso istante a diverse altezze, esse piovevano verso il basso con un flusso costante, creando una tenda di frammenti colorati. Immersa in quel volo di foglie, Imrhien gettò indietro il capo per contemplare con meraviglia un tale spettacolo.
«Esiste un termine per definire tutto questo: fallaise», spiegò Thorn. Quanto vorrei che la mia bocca potesse pronunciarlo. «È un vocabolo utile», proseguì il Dainnan, avviluppato da un etereo fascio di luce ambrata. «Esso può descrivere uno strascico di stoffa sottile su cui siano cucite delle gemme, uno stormo di uccelli a colori vivaci che scenda in picchiata, un manto di stelle nel vento, frammenti di arcobaleno riflessi da un torrente, uno scoppio di scintille nella notte, una manciata di gemme sparse...» E schegge di sole intrappolate in una capigliatura agitata dal vento. A una distanza così ravvicinata, il Dainnan era permeato da una fragranza di giacinti, azzurra come la quintessenza della sera, selvaggia come il cielo prima di una tempesta. Di nuovo, Imrhien distolse il volto, per evitare che lui cogliesse la divorante intensità delle sue emozioni. Con cupa determinazione, Diarmid annotò mentalmente tutto ciò che il Dainnan insegnava loro, inorgogliendosi se riusciva a trovare i frutti nella foresta e gioendo nel coglierli, per mangiarli lungo la strada o per riporli nella voluminosa sopragonna di Imrhien in vista del pasto successivo. Fu quella comunione d'intenti che, finalmente, creò un tenue legame tra la ragazza e il suo riluttante compagno. «Ricordate bene l'albero di quandion», spiegava loro il Dainnan, mentre camminavano. «I suoi frutti rossi e la loro buccia sono commestibili. L'infuso delle radici serve a contrastare la stanchezza da viaggio; il decotto del legno esterno combatte le malattie del petto; l'infusione di strisce di corteccia fornisce un liquido che lenisce il prurito e l'impasto dei semi si può spalmare sulle ferite.» Thorn indicava spesso determinate piante utili che crescevano in mezzo alle altre, oppure uccelli particolarmente affascinanti appollaiati sugli alberi. Il più delle volte, Imrhien e Diarmid si fermavano a fissare con espressione perplessa la massa di fogliame che appariva loro del tutto uguale o disabitata, finché il Dainnan non staccava una particolare foglia o un uccello non saltellava su un ramo. A quel punto, entrambi individuavano ciò che la loro guida aveva indicato, cosa che risultò sempre più facile a mano a mano che i due entravano in sintonia con le forme e i colori della foresta. «Molte cose sono difficili da vedere, a meno che non si sappia come osservare. Imparerete. In un primo tempo, a molti sembra che la foresta sia vuota, ma, con la pratica, il vostro sguardo sarà attratto dalle piante che possono darvi sostentamento... Sembrerà che esse vi balzino incontro.» Ed era proprio quello che stava succedendo ai due giovani.
D'un tratto, l'aria s'incupì e, poco dopo, scoppiò una violenta tempesta. In quel momento Thorn era lontano, per una delle sue esplorazioni, quindi Diarmid e Imrhien si ripararono sotto una roccia che sporgeva dal fianco di una collina, anche se il giovane ertish si sentiva a disagio per quella vicinanza, che offendeva il suo senso del decoro. Thorn fece ritorno quando smise di piovere, asciutto tranne che per poche gocce che gli si erano impigliate tra i capelli, cristalli intrappolati in una rete di oscurità. Il Dainnan offrì la mano a Imrhien per aiutarla a uscire dal riparo; inattesa, una scarica di energia le vibrò lungo il braccio, accompagnata da un rombo di tuono alle tempie. La tempesta che aveva infuriato all'esterno le parve allora ben poca cosa, rispetto a quella che stava scoppiando dentro di lei. Di notte, accanto al fuoco, la ragazza e Diarmid insegnavano al loro mentore il linguaggio dei gesti. Rapido nell'apprendimento, il Dainnan aveva bisogno di vedere il gesto una volta soltanto per memorizzarlo. Dopo quelle lezioni, lui e Diarmid avviavano spesso discussioni sui meriti dei diversi tipi di arco, sulla complessità della loro struttura e sulle sottigliezze tecniche legate al loro utilizzo. Le creature soprannaturali, furtive e guardinghe, si aggiravano tra i cespugli o saettavano attraverso il sentiero durante il giorno, mentre di notte si tenevano oltre il cerchio di luce del fuoco, fissando i viandanti con occhi roventi... Per lo più, si trattava di gruppi di creature seelie e unseelie, trow grigi, minuscoli siofra, spiritelli hyter. Talvolta si scorgevano capre o daini caratterizzati da un'innaturale consapevolezza nello sguardo, oppure apparivano creature solitarie, come alcune varietà di folletti. In un paio di occasioni, un rumore di ruote che giravano giunse da un punto imprecisato, sotto le radici degli alberi, accompagnato da uno strano canto. «Queste creature non vi danno problemi, durante i vostri vagabondaggi?» «Conosco bene i loro trucchi. Tutti i cavalieri di Roxburgh devono conoscere la natura di questi esseri e, soprattutto, devono essere in grado di avere l'Ultima Parola. Assimilare il sapere relativo alle creature soprannaturali fa parte della Prova Dainnan.» «La Prova... È vero ciò che si dice al riguardo? È così difficile?» «Nessun uomo viene accettato tra i Dainnan se non conosce le piante medicinali e non sa come sopravvivere in terre selvagge. Ma deve anche sapere dove trovare e come identificare le piante commestibili, conoscere
la stagione e le condizioni in cui esse maturano. Le nozioni relative alle creature soprannaturali, la storia di Erith, i Dodici Libri dei Versi, le prove di abilità, di forza e di resistenza, la conoscenza dei nomi delle stelle e la capacità di dedurre che ora sia in base a esse, come pure in base al sole e alla luna... tutte queste cose rientrano nella Prova. Ho l'impressione che non vi dispiacerebbe entrare a far parte della Confraternita.» «È vero, signore. Vi prego, parlatemene ancora... Vorrei sapere dei Nove Voti cui la Confraternita è vincolata.» «Capisco, amico mio. Come di certo saprete, un guerriero Dainnan non può mai mentire; deve rimanere fedele alla parola data anche di fronte alla morte nonché onorare e proteggere le donne. Di nulla può appropriarsi con la forza né deve ritirarsi davanti a nove uomini armati. La vendetta personale non gli è concessa, neppure se tutta la sua famiglia è stata uccisa. Tuttavia, qualora lui stesso faccia del male ad altri nell'assolvimento del suo dovere, nessuno può vendicarsi di questo sui suoi cari. Prima di essere accettato tra i Dainnan, un uomo deve gettarsi in una buca nel terreno, che gli arriva alla cintola, brandendo uno scudo e un bastone di nocciolo. Nove uomini si schierano a una distanza di sedici passi da lui e gli scagliano contro le lance contemporaneamente. Se viene ferito da una di esse, egli non viene ritenuto adatto a far parte dei Dainnan. Se invece supera questa prova, i suoi capelli vengono raccolti e lui deve correre attraverso i boschi dell'Eldaraigne coi cavalieri Dainnan che lo inseguono, cercando di ferirlo. Alla partenza, la distanza che li separa non deve essere superiore alla lunghezza di un tronco. Se lo raggiungono e lo feriscono, non può diventare un Dainnan, e non lo diventa neppure se la lancia gli trema fra le mani, se il ramo di un albero gli scioglie i capelli, se qualcosa viene strappato dal suo corpo - un pezzo di pelle o un capello impigliato in un ramo - o se, nel correre, ha spezzato sotto i piedi un ramo secco. Dopo questa prova, quell'uomo non sarà accettato tra i Dainnan se non dopo aver superato con un balzo un bastone alto quanto lui ed essere passato sotto una barriera alta quanto il suo ginocchio, essersi tolto una spina da un piede con l'unghia, correndo al tempo stesso alla massima velocità. Se riesce a fare tutte queste cose, allora è ritenuto idoneo a ricevere un nome la cui origine sta nei luoghi selvaggi della nostra terra e a entrare a far parte dei cavalieri di Roxburgh. I Dainnan ricevono una buona paga, oltre a molte altre cose. La Confraternita è servita da un grande seguito di bardi, di medici, di menestrelli, di messaggeri, di armaioli, di falconieri, di fabbricanti d'archi, di cuochi, di custodi, di coppieri e di cacciatori; le migliori serve dell'Elda-
raigne lavorano per essa e, a Sleeve Edhrin, quelle donne lavorano tutto l'anno per fabbricare indumenti di dusken. A ogni buon conto, benché la paga sia eccellente, le fatiche e i pericoli che si devono affrontare sono nettamente superiori a essa. È infatti dovere della Confraternita impedire a stranieri e ladri provenienti da oltremare di entrare nell'Eldaraigne, e questo è già di per sé un lavoro impegnativo. La nostra è una vita attiva, piena di delizie e di pericoli.» Nel sentire quelle cose, Diarmid scivolò nel silenzio, assumendo un'aria pensosa. Dopo la prima notte, le immagini dell'alto Dainnan turbavano il sonno di Imrhien. La consapevolezza che lui era sdraiato dall'altra parte del fuoco era un tormento che la teneva sveglia, nonostante il doloroso bisogno di riposare dopo una dura giornata di marcia. In un primo tempo, lei si era mostrata timida nei suoi confronti, timorosa d'incontrare il suo sguardo e di leggere in esso l'abituale disgusto. Infine, però, quando aveva trovato il coraggio di scoccargli un'occhiata, in lui non aveva colto nessun disgusto. Negli occhi di Thorn, che rivelavano il suo costante buonumore, lei aveva scorto soltanto un accenno di guardinga curiosità. Da allora, Imrhien aveva sempre evitato il suo sguardo, per impedire che lui potesse leggervi i suoi pensieri. Quanto avrebbe riso, se avesse scoperto di averla intrappolata nel suo incantesimo. Quanto avrebbe riso perfino Diarmid, abitualmente così cupo... Ma era possibile che una creatura perfetta quale lui era non fosse consapevole dell'ammirazione di coloro che lo contemplavano? Di certo, doveva ormai esserci abituato. Quando Thorn non era con loro, Imrhien si rimproverava aspramente per il modo in cui si comportava, degno di una sciocca ragazzina innamorata. Che ne sapeva di lui? Sapeva soltanto che era un sollievo per gli occhi, come l'acqua lo era per chi si trovava nel deserto. Quello non era amore, era una semplice infatuazione, quindi lei cercava di vincere la propria timidezza, ma anche di spingersi all'estremo opposto, agendo con freddezza nei suoi confronti, come aveva visto fare da molti giovani innamorati, tra i servi della Torre. No, non avrebbe giocato in nessun modo: non lo aveva mai fatto e non vedeva motivo di cominciare proprio allora. Poi Thorn riappariva e ogni pensiero razionale si riduceva a un mucchio di rovine, tutti i piani si dissolvevano nella confusione, infranti da un singolo, lento movimento di quella testa corvina. Allora Imrhien malediceva
il giorno in cui lo aveva visto per la prima volta, il giorno in cui quel verme di un desiderio senza speranza aveva iniziato a divorarla, dissolvendo per sempre ogni promessa di serenità. Il terreno continuò a rimanere in pendenza, ruscelli e sorgenti si fecero sempre più numerosi e, dopo altri quattro giorni, i tre giunsero nel Mirrinor. 8 MIRRINOR LE CREATURE DELL'ACQUA
Lanciamo un richiamo. Fatti avanti, da te vogliamo esser seguite laggiù dove danziamo nelle lacustri vallette verdeggianti. T'indurremo al distacco, nei sogni ti avvilupperemo e le tue catene di terra recideremo. Qui resterai in eterno. Belle danzatrici, dolci voci, splendete e scintillate. Non mi chiamate, io volgerò le spalle senza ascoltare se m'invitate. Mi vorreste intrappolare e annegare e nelle alghe avviluppare, in verdi cavità mi fareste sprofondare. Non mi chiamate, non verrò ad ascoltare. La vostra danza m'incanta, cominciano i miei piedi a scivolare verso la verde acqua dove ci sono i gigli a galleggiare. Nelle vostre braccia avviluppatemi, venite a prendermi, sto piangendo, il respiro il mio corpo lascia, sto sprofondando, sto morendo. Le Annegatrici, canto popolare Il Mirrinor... Quello era il Luogo delle Isole, la Terra delle Acque Immo-
te, dove ogni lago era costellato di isole, e ogni isola costellata di laghi. In effetti, era difficile dire se la regione si trovasse in prevalenza al di sopra o al di sotto dell'acqua. Alte piante di menta delle nevi crescevano in profusione nel Mirrinor, sempreverdi che si riflettevano nelle profondità lacustri in cui si specchiava il cielo, snelle colonne bianche che si levavano diritte per duecento piedi, con strisce di corteccia che ricadevano al suolo come drappeggi. Quegli alberi erano rivestiti da festoni di lunghe foglie verticali tra l'azzurro e il verde, punteggiate da menta piperita. Lungo le rive degli innumerevoli laghi, i salici dorati chinavano le loro chiome, riversando sull'acqua lacrime dorate che andavano alla deriva tra gigli acquatici e canne. I ranocchi adoravano il Mirrinor, come pure le libellule dalla livrea risplendente, le piccole mosche e i moscerini, i timidi serpenti acquatici dalla pelle verde, le culicide e le strane, stranissime creature che vivevano sott'acqua e strisciavano lungo le rive. Giunti sulla sponda di un lago, i tre viandanti spinsero lo sguardo sulla sua superficie simile a uno specchio, guardando le lontane isolette. «Non possiamo attraversare tutta quest'acqua», osservò Diarmid. «Dovremo tornare fino alla Strada, che attraversa l'estrema frangia settentrionale di questa regione, passando su ponti robusti.» Thorn non replicò. Il Dainnan si era fermato accanto a una pianta che cresceva dal lago in un ammasso fitto ma ordinato. I suoi steli, eretti e robusti, recavano ciascuno una singola foglia a forma di cuore, di un verde lucente, mentre i fiori di un azzurro intenso erano raggruppati in uno stame che spuntava dalla base di ciascuna foglia. «Spargairme», mormorò, protendendo una mano a sfiorare uno stame. «Erba del luccio, nella lingua comune. Un fiore che abbellisce i giardini acquatici.» Costeggiare le rive del lago, bordate di salici, sembrava l'unica strada possibile. E invece Thorn s'incamminò su quella che sembrava la sommità delle acque immote, percorrendo una stretta strada sopraelevata che era rimasta nascosta allo sguardo, un sentiero erboso che si stendeva al di sopra del livello del lago. Grazie al suo passo lungo e sicuro, il Dainnan ben presto distanziò i compagni. Sollevate le gonne ormai lacere, Imrhien fece del suo meglio per procedere il più in fretta possibile senza perdere l'equilibrio e cadere in mezzo a quelle cortine di acqua argentea che si stendevano su entrambi i lati. Quanto era profondo il lago? Quanto il cielo era alto? Abbassando lo sguardo, lei scorgeva soltanto il riflesso azzurro del cielo, solcato di nubi, tanto da avere l'impressione di camminare tra due cieli. E
poi, cosa si annidava in quelle ignote profondità? Quali creature erano in agguato, con le loro lunghe, fredde dita ossute? Dietro di lei, Diarmid borbottò qualcosa con impazienza; più avanti, il Dainnan era già scomparso sotto il fogliame di un'isola. Avendo le mani occupate dalle gonne, Imrhien non poteva neppure comunicare col giovane ertish. Un istante dopo si sentì uno sciacquio sonoro e, nel girarsi con gli occhi dilatati, Imrhien vide Diarmid scomparire sott'acqua. Una serie di piccole onde scintillanti si allargò a cerchio sul lago. Lasciatasi cadere in ginocchio, la ragazza cercò di spingere lo sguardo oltre la superficie lucente dell'acqua e arrivò a immergere il braccio fino alla spalla, cercando a tentoni con le dita protese. D'un tratto, Diarmid riaffiorò in un'esplosione di spruzzi, annaspando e sputando acqua fangosa mentre scrollava il capo per liberare gli occhi e i capelli dalle alghe. Con stupore della ragazza, poi, il giovane si alzò e tornò a guado fino alla strada; rialzatasi a sua volta, Imrhien si girò, e vide che Thorn era tornato indietro. «Alcuni di questi laghi sono assai poco profondi, per fortuna», commentò. «Doch!» imprecò Diarmid. «La sacca del denaro mi è scivolata dal collo e si è persa nel fango.» «Non preoccuparti per queste cose», replicò Thorn. Non volendo accentuare l'umiliazione di Diarmid, Imrhien evitò di fissare i capelli e gli abiti grondanti del giovane e si affrettò invece lungo la strada sulla scia di Thorn, nascondendo il proprio divertimento, in quanto Diarmid offriva uno spettacolo decisamente comico. Di lì a poco, raggiunsero la piccola isola. Là crescevano folti papiri, i cui alti e aggraziati steli verde scuro erano sovrastati da ciuffi di fogliame pendente simile a un ammasso di fili. In mezzo a quella vegetazione era nascosta una barca. Strutturata con linee snelle, come una caravella, e dipinta di verde, era una piccola imbarcazione di fattura davvero squisita. L'alta prua sfoggiava un modesto intaglio raffigurante un rospo alato e, sulla fiancata, era scritto un nome che Imrhien non riuscì a decifrare. «Si chiama Llamhigyn Y Dwr», spiegò Thorn, quasi le avesse letto nel pensiero. «Salta-acqua.» Il suo meraviglioso sorriso trapassò il cuore di Imrhien come una lancia, causandole un dolore ancora più intenso, tanto da indurla a chiedersi quanto a lungo avrebbe sopportato quella situazione. Spinta in acqua la barca, i tre salirono a bordo. Con gli abiti ancora fra-
dici che gli aderivano alla schiena, Diarmid si mise a remare con forza eccessiva, come se l'acqua fosse stata un nemico da malmenare. Seduta a poppa, Imrhien scoccò un'occhiata oltre le spalle contratte dell'ertish e verso Thorn, che sedeva al timone, rilassato ed eretto come una lancia, scrutando la distesa d'acqua con occhi aquilini. Con un fruscio sommesso quanto un respiro, l'astore Errantry si posò sulla prua intagliata, serrando i robusti artigli intorno alla scultura di legno della Salta-acqua e allargando per un momento le ali al massimo della loro ampiezza prima di ripiegarle. L'impatto del suo atterraggio, per quanto lieve, fece oscillare l'imbarcazione. Il volatile rimase immobile per il resto della traversata, gli occhi chiusi dal sottile velo trasparente delle membrane nittitanti. Una lunga penna maestra si staccò da un'ala e fluttuò lentamente sino a posarsi sull'acqua. Di tanto in tanto, Thorn rivolgeva indicazioni al rematore, sempre a bassa voce e senza aver quasi bisogno di toccare il timone. «Vira leggermente a sinistra... Ora procedi diritto... Là c'è una secca... Vira a destra.» E così la piccola barca scivolò sulle acque del Mirrinor, lasciandosi alle spalle una scia argentea che formava una V sempre più larga. Una V identica, formata da oche selvatiche in volo, si allontanò, rapida, poi la barca entrò in una rete di canali intasati di fogliame che si snodava tra una serie di isolette alberate. Là, su quelle acque stagnanti, fluttuavano i piccoli dischi color verde acceso della lenticchia d'acqua, con una corta radice che pendeva da ciascun disco. Alberi di menta delle nevi alti come colonne si ergevano, diritti, su entrambi i lati e, sotto le lunghe, pallide cortine della corteccia, numerose felci si accalcavano fin sulle rive. Foglie di salice galleggiavano ovunque, come pagine strappate da un antico libro, libellule azzurre e oro scivolavano sui vivaci fiori gialli dei botton d'oro che si allargavano sull'acqua. Giovani salta-acqua in vena di scherzi fiancheggiarono per qualche tempo la barca che portava il loro stesso nome, poi si allontanarono, come sei si fossero stancati di quel gioco. Di tanto in tanto, gli alberi si assottigliavano e, nei varchi tra le isole, si scorgevano ampie distese d'acqua. Simili a grandi specchi o a finestre affacciate su un abissale mondo rovesciato, esse riflettevano i cigni neri che scivolavano sui loro riflessi con simmetria perfetta, al di sopra delle nubi. Appoggiata alla poppa, Imrhien lasciò scorrere le dita nell'acqua e percepì il senso di meraviglia che nasceva dalla sua bellezza, simile a un dolore che le arrivava fino alle ossa, perché ogni forma di bellezza apparteneva a Thorn, e tutto ciò che lei vedeva sembrava far parte di lui.
Toccò poi a Dainnan remare. Rigido, Diarmid sedette al timone, deciso a manovrarlo alla perfezione, se fosse stato necessario. Thorn era vicinissimo a Imrhien, ad appena un braccio di distanza. Per distrarsi, la ragazza distolse lo sguardo, spingendolo oltre la fiancata della barca, come aveva fatto molte volte durante la navigazione sulla zattera insieme con Sianadh. I remi si muovevano ritmicamente, quasi senza produrre rumore e, in quel punto, l'acqua era molto profonda. Imrhien la stava osservando da parecchi secondi quando d'un tratto li vide emergere dall'oscurità, come se stesse guardando attraverso una lente verde affumicata... Erano le torri, i campanili e i tetti di una città sommersa, molto più in basso. La barca stava scivolando sulle indistinte sommità dei tetti, simile a un uccello nei cieli rifratti della città, e a Imrhien parve addirittura di sentire i cupi rintocchi di una campana che giungevano fino a lei da quelle profondità. I tre proseguirono la navigazione. Neppure un alito di vento smuoveva la superficie dell'acqua: tutto continuava a rimanere calmo e immoto. Più tardi, Imrhien fece capire che voleva remare anche lei. Voleva farlo per dimostrare di non essere una passeggera inutile, un impiccio... Ma soprattutto perché voleva avere Thorn alle spalle, evitando così che lui finisse per leggere troppe cose nei suoi occhi e che la sua gentilezza si mutasse in disprezzo. Diarmid le oppose un secco e indignato rifiuto, come se l'idea che una ragazza volesse svolgere un lavoro da maschio fosse di cattivo gusto e implicasse altresì una critica alla proprie capacità di manovrare la barca. Ma Thorn fece valere la propria autorità. «Prendete pure i remi, signora, se lo desiderate.» Sulle prime, lo stile di Imrhien si rivelò piuttosto goffo, ma le occhiate scettiche di Diarmid, sempre al timone, rafforzarono la sua determinazione, tanto che ben presto lei riuscì a manovrare i remi nel modo giusto e a spingere la piccola imbarcazione sull'acqua in linea retta, per quanto lentamente. Insetti dalle lunghe zampe camminavano sulla superficie del lago e i ranocchi nascosti intonarono un coro di gracidii, simile a quello dei rospi del muschio che, a torto o a ragione, si diceva migliorassero la qualità del vino conservato nelle cantine della Torre. Un candore gelatinoso rivestiva alcune isolette coperte di canne; grandi zattere di alghe e canne galleggiavano qua e là e, su di esse, erano ammassate decine di uova semitrasparenti, ciascuna grossa come un melone. Poi il sole iniziò a calare, il canto degli uccelli si levò da ogni cespuglio ed Errantry allargò le ali, spiccando il volo con un fruscio smorzato.
Uno stormo di cigni che descriveva una freccia nel cielo sopraggiunse da sud e si posò sull'acqua. Col collo inarcato in avanti ad ammirare il proprio riflesso, quegli splendidi uccelli raggiunsero un'isola vicina e uscirono dall'acqua. Seminascosti dalle cortine di foglie, essi si liberarono delle penne come se fossero un mantello e, in breve tempo, al loro posto, apparve un gruppo di ragazze dai capelli neri. Poi le fanciulle si allontanarono tra gli alberi e l'eco delle loro voci rimbalzò sull'acqua come una musica. «Anche i mortali devono trovare un posto in cui riparare, la notte», osservò il Dainnan. «Se vi siete coperta le mani di sufficienti vesciche, signora, allora potreste consentirmi di riprendere i remi. Comandante, mantenete questa rotta. Punteremo verso quel picco roccioso noto come l'Isola di Findrelas.» Imrhien scambiò il proprio posto con quello di Thorn. Il movimento fece oscillare la barca e lui sostenne la ragazza, afferrandola alla vita con un braccio che pareva fatto d'acciaio. A quel contatto, Imrhien si sentì percorrere da una scarica di energia e il suo viso avvampò. Del resto, il lato della sua persona rivolto verso Thorn era sempre soffuso di calore, mentre l'altro era sempre gelato. Quell'uomo era una sorta di fuoco. L'Isola di Findrelas era più grande di quelle adiacenti. La Salta-acqua toccò terra sulla sua costa settentrionale. Dopo essere sbarcati, Thorn assicurò la piccola polena della barca al tronco di un albero della menta. «Così avremo maggiori probabilità di ritrovarla qui, domattina», commentò, passandosi il balteo sulla spalla. «Ci sono in giro numerosi ladri, sul lago e sotto di esso.» «In tal caso, non la dovremmo trascinare fuori dell'acqua, per rendere più difficile rubarla?» chiese Diarmid. «Potremmo nasconderla tra quei cespugli.» «Una barca come questa non può mai essere tirata all'asciutto. Se lasciasse il suo elemento, il fasciame si restringerebbe e, una volta rimessa in acqua, verrebbe danneggiata dalle infiltrazioni.» «Invero, signore, non ho cognizioni di questioni nautiche, tuttavia questo potrebbe tornare utile», disse Diarmid, tirando fuori da sotto uno dei sedili un secchio di legno rinforzato in ottone. «Infatti ci dovremo accampare nell'interno, il più lontano possibile dall'acqua. Qui sono ancorate molte zattere di uova... Al tramonto, le culicide vettori arriveranno numerose.» «Ciò che affermate è vero», annuì Thorn. «Ma, su Findrelas e nel Mirrinor, non ci sono posti lontani dall'acqua.» I tre avanzarono in mezzo a un mosaico di foglie cadute, simili a pia-
strelle dipinte con le più calde tonalità dell'ocra, della terracotta, del rame e del bronzo; di nuovo, Thorn faceva da guida, procedendo con passo lieve e fermandosi a tratti per staccare determinati steli carichi di semi, qualche foglia o strisce di corteccia, che poi riponeva in una sacca da cintura. «Quandion, stella boronia, la resina degli alberi di menta della neve... Sono tutte piante medicinali, e proteggono contro le zanzare.» I suoi «allievi» presero mentalmente nota delle caratteristiche di ciascuna pianta, in modo da poterla identificare ancora in seguito. Di lì a poco, su una piccola altura, trovarono un posto adatto per accamparsi, circondato da rossicci boschetti di abelie dorate. «Accenderemo qui il fuoco», decise il Dainnan. «Ma prima ci sono molte cose da fare.» Il fogliame dei cipressi di palude, simile a quello delle felci, si era tinto in quella stagione di una ricca e cupa tonalità dorata; in mezzo alle radici contorte, le foglie di colore acceso giacevano come scintille strappate all'incudine dell'autunno. Più lontano dal luogo dell'accampamento, gli alberi si allargavano a ventaglio intorno a una polla contornata da canneti e dalle foglie ensiformi di altre piante acquatiche. La polla era coperta di ninfee azzurre, rosa e bianche, nonché da una varietà di felce acquatica le cui foglie lucide, che si allargavano sull'acqua come viole a quattro petali, avevano il centro color terra d'ombra, bordato di un verde acceso e delineato da una sottile linea scarlatta. «La cena ci attende nell'acqua», annunciò Thorn, liberandosi della tunica e della camicia. «I bulbi delle ninfee, i rizomi delle canne, le spore del nardo.» «Questo è lavoro da donne», obiettò Diarmid. «Prestatemi l'arco, signore, vi prego. Andrò a caccia per procurare un po' di carne.» «'Lavoro da donne'? Intendete dire con ciò che non è pericoloso?» ribatté Thorn. «Be', siete in errore. Sotto questa bella superficie si possono annidare gravi minacce.» «Non temo le creature d'acqua. E sono già stato sotto le acque del Mirrinor in passato, senza problemi.» «Allora perché volete andare a caccia? Le bestie soprannaturali non sono commestibili.» «C'è anche selvaggina naturale nel Mirrinor.» «L'unico tipo di selvaggina cui valga la pena di dare la caccia sono i daini... e qui non se ne trovano.» «Ho visto delle otarie. Mi hanno detto che se ne ricava un buon stufato.»
«Volete dare la caccia alle otarie? Lungi da me dissuadervi», decise Thorn, porgendo l'arco e la faretra all'ertish. «Andate pure.» «Non vorrei lasciarvi qui disarmato, alla mercé degli unseelie», esitò Diarmid. «Non temete per me, amico mio... Non ho bisogno di armi per sopravvivere.» «E la ragazza...» «Ho due braccia.» Diarmid incontrò gli occhi gelidi del Dainnan e abbassò i propri. «Domani. Andrò a caccia domani», disse infine, posando l'arco e le frecce. «Come preferite.» Sfilatosi gli stivali, Thorn s'immerse nell'acqua gelida fino alla cintola. La muscolatura delle braccia e delle spalle era così liscia e perfetta da dare l'impressione che lui non fosse fatto di carne, bensì intagliato in un blocco di legno del colore del miele. Con la massa di capelli scuri come la notte che gli ricadeva lungo la schiena a incontrare l'acqua e con le foglie di nardo che gli sfioravano i fianchi mentre avanzava a guado tra le canne, il Dainnan appariva come un'incarnazione soprannaturale emersa dalle acque per intrappolare le fanciulle con la sua bellezza e annegarle tra le lunghe alghe infide. Per un momento, nell'osservarlo, la ragazza si sentì agghiacciare dal terrore. Poi Diarmid s'immerse per raggiungere il Dainnan, e Imrhien superò quella paura irrazionale. Lasciandoli alla loro caccia di prelibatezze, si allontanò dal campo, munita dell'accetta di Thorn, per andare a raccogliere legna da ardere. Le spalle le dolevano a causa dello sforzo fatto nel remare e le sue mani erano coperte di vesciche, ma il secchio di legno prelevato dalla Saltaacqua le facilitò il compito di trasportare i mucchietti di esca. Nel posare il secchio al suolo, accanto alla legna, la ragazza colse un movimento con la coda dell'occhio e, quando sollevò lo sguardo, vide una cosa del tutto inattesa, in quel luogo così lontano da qualsiasi fattoria... Una mucca bianca era appena sbucata da una macchia di abelie dorate. Era un animale piccolo e assai grazioso, con le orecchie rotonde e dall'aria amichevole, tuttavia Imrhien preferì non correre rischi e continuò a tagliare la legna con l'accetta di ferro senza mostrare disagio o preoccupazione. Emettendo un muggito sommesso, la mucca la fissò con un'espressione di rimprovero nei grandi occhi liquidi, le mammelle vistosamente gonfie. Giacché l'animale stava tra lei e la polla in cui si erano tuffati i suoi compagni, Imrhien stava cer-
cando di decidere se le conveniva rimanere immobile o scagliare il secchio contro la mucca e mettersi a correre, quando Thorn e Diarmid riapparvero. «Non farla aspettare troppo», sorrise il Dainnan. Gocciolante, gettò a terra la camicia, legata in un fagotto pieno di oggetti nodosi. «Ha bisogno di essere munta», spiegò. Seelie? «È una delle Gwartheg Illyn. Il suo latte sarà dolce.» Non appena Imrhien ebbe posato l'accetta di ferro e svuotato il secchio dell'esca, la mucca si avvicinò, come per offrirsi alla mungitura. Durante il periodo trascorso alla Torre, Imrhien aveva munto alcune capre e scoprì che, con la mucca, non era molto diverso. Il liquido cremoso scaturì facilmente; ben presto il secchio fu pieno sino all'orlo. Nel frattempo Diarmid accese il fuoco. Anche se Thorn aveva con sé la scatola dell'esca, Diarmid lo aveva supplicato di mostrargli come si otteneva il fuoco senza selce e acciaio, sfregando due bastoni e, ogni volta che ne aveva l'opportunità, provava a farlo. Anche Imrhien aveva appreso quel metodo. La ragazza accarezzò il collo della piccola mucca. In quel momento, una voce lanciò un richiamo limpido e sonoro che riecheggiò nel crepuscolo. Poi un'alta figura vestita di verde apparve su una roccia sovrastante il lago, cantilenando: Vieni, Gialla Creatura di Einion, corna disperse, Mucca di Lago Multicolore, e anche Dodin il senza corna, sorgete, tornate a casa. Al primo richiamo di quella figura all'apparenza femminile, la mucca bianca rizzò le orecchie rotonde e si allontanò al trotto. Mentre il canto continuava a risuonare, altri capi di bestiame sbucarono dai posti più svariati e si diressero lungo la collina, rispondendo alla chiamata. Gli animali circondarono la donna in verde, che li divise in schiere e li condusse verso le scure acque del lago circostanti Findrelas. Un gruppo di ninfee gialle rimase a contrassegnare il punto in cui il bestiame era scomparso. Come destandosi da un sogno, Diarmid tornò a concentrare la propria attenzione sul fuoco, alimentandolo e soffiando sino a farlo attecchire bene. «Si dice che le mandrie della Finvarna abbiano il sangue dei tori elfici», commentò, tra un soffio e l'altro.
Thorn era scomparso nuovamente, ma ben presto fu di ritorno, cantando con voce piena e dolce. È l'eccitazione della corsa coi capelli al vento è il cavalcare dietro i cani con una compagnia sopraffina è il tuono degli zoccoli, su pascolo e collina, è il canto della freccia che vola alla preda incontro, la caccia al cervo, oh! La caccia al cervo! È una quieta sera estiva con la luna tra i rami sono lo scintillio delle stelle e della brezza i profumi sono le risa e la musica che riecheggiano nella notte buia sono i piedi rapidi in sequenze di gioia, la danza sull'erba, oh! La danza sull'erba! «Una canzoncina triviale che nessun bardo degno di tal nome ammetterebbe mai di aver scritto», commentò poi. «Ma ciò che le manca in poesia, lo acquista in gaiezza.» Il Dainnan aveva le braccia cariche di vegetazione, compreso un piccolo fiore profumato che lasciò cadere in grembo a Imrhien. La fame, che aveva tormentato la ragazza fin da quando si era ricordata che non avevano mangiato nulla dall'alba, si dissipò all'improvviso, come accade agli sciocchi afflitti dal mal d'amore, lasciandole soltanto l'indolenzimento alle spalle e il bruciore delle vesciche sulle mani. «I bulbi delle ninfee e i rizomi delle canne devono essere arrostiti sotto i carboni ardenti», spiegò il Dainnan, sedendosi vicino al fuoco. «I semi delle ninfee sono dolci, e lo stesso si può dire di questi semi dello zenzero selvatico... potete mangiarli crudi. Il nardo non è altrettanto appetibile. Anzi, se non viene preparato nel modo giusto, affama invece di nutrire.» Servendosi del corno rifinito in argento, raccolse un po' di latte schiumoso dal secchio. «Adesso questo strumento è tappato, ma è qualcosa di più di un mezzo per bere.» I tre si divisero il latte caldo. Il raccolto di Thorn comprendeva anche bulbi di carice, stami sbucciati di ninfea e candidi germogli di canna, che potevano esser mangiati crudi. «Le radici dell'iris acquatico sono commestibili?» domandò Diarmid, notando che Thorn ne aveva portato una manciata. «No... Si usano in un altro modo», rispose Thorn, riponendo i bulbi in
una tasca della tunica. Dopo una lunga assenza, l'astore tornò e scese in picchiata a caccia di grilli. Intento a schiacciare le foglie della stella boronia, il suo padrone lo ignorò completamente. «Il legno della foglia bianca sta bruciando in quest'angolo del nostro fuoco. Le sue ceneri, mescolate all'acqua fino a ottenere una pasta, sono un trattamento per le vesciche. Le foglie schiacciate di stella boronia, messe in infusione, lavano via l'indolenzimento dei tendini. In tal modo, entrambi potrete dormire tranquilli, stanotte. Il fumo delle foglie di quandion allontana le zanzare e altri insetti fastidiosi. Gettatele sul fuoco, quando sentite il lamento della culicida vettore. In questa stagione, le notti sono più fredde e ciò non è di loro gradimento... Ma potrebbero arrivare lo stesso, attirate dal calore di esseri mortali.» Ormai si era fatto buio. L'astore si appollaiò su un alto ramo, cenando a spese di una sagoma inerte che ricordava quella di un topo. Il fuoco crepitava. Mentre Imrhien estraeva il cibo, ormai cotto, dai carboni ardenti, in lontananza si levò un grido aspro, simile al muggito di un toro infuriato. Quel verso si ripeté tre volte, inducendo Diarmid a scrutare l'oscurità circostante e a posare una mano sull'arco. «È soltanto il richiamo del boubrie», spiegò Thorn. La tensione di Diarmid si dissipò all'istante. «Gli uccelli boubrie... Li ho visti. Mangiano soltanto pecore o bestiame. Però questo luogo è lontano dai loro terreni di caccia preferiti, a meno che non gradiscano bestiame soprannaturale.» «Forse sono soltanto di passaggio.» Il grido si levò ancora, più lontano, un suono lamentoso e angosciante, che nella notte parlava di solitudine. Finita la cena, Diarmid e Imrhien lenirono i loro dolori con gli infusi e gli unguenti preparati dal Dainnan che, indurito dalla vita in terre selvagge, non aveva bisogno di medicamenti. «Errantry monterà la guardia, e ci sveglierà al minimo accenno di pericolo.» Quasi in risposta, il rapace lanciò il suo verso acuto, poi agitò la coda, si grattò un lato della testa con un artiglio e si appollaiò sul suo ramo, una zampa ripiegata sotto le piume. I tre alimentarono il fuoco e si prepararono a dormire. Era una notte limpida. In tutto il Mirrinor, le rane stavano levando il loro coro. Acutamente consapevole di Thor, disteso poco lontano in tutto il suo vigore, Imrhien rimase sveglia a contemplare le stelle. L'Uile... Quello era
il nome che aveva sentito attribuire da Sianadh a quella vastità: il Tutto che abbracciava Aia, l'infinito oceano di soli, lune e strani mondi. La costellazione del Cigno allargava le sue ali con fare protettivo su Erith. Una miriade di stelle in alto, una miriade di rane in basso. Le stelle sembravano così vicine da darle l'impressione che sarebbe bastato protendere una mano per toccarne una e la profondità di quel cielo stellato era tanto vertiginosa che lei rischiava di perdersi in essa. Il lamento di una culicida vettore trapassò le sue fantasticherie, inducendola a sedersi di scatto. Errantry emise un fischio di avvertimento, cui seguirono acuti e irosi ciangottii. Dal momento che il fuoco era ancora ben vivo, Imrhien gettò su di esso una manciata di foglie, ottenendo una nube di pungente fumo azzurro. La culicida vettore era vicina e altre la seguivano dappresso, creature minute sorrette da ali fatte di luce stellare. Il loro aspetto bizzarro e quasi umano aveva qualcosa di spettrale. Le delicate gambe da danzatrice erano esili in maniera assurda, con le caviglie di diametro non superiore a quello del pollice di un uomo e gli arti lunghi il doppio di quelli di una donna. I grandi occhi sfaccettati erano orientati anteriormente; le braccia erano così sottili da sembrare gli steli di un fiore e terminavano con mani minuscole e fragilissime, almeno in apparenza. Ma quell'aspetto delicato e quasi infantile era smentito dalla loro natura. Le culicide potevano posarsi su un dormiente senza svegliarlo, insinuargli nella carne i loro aghi avvelenati e succhiargli il sangue, iniettando una sostanza urticante o i vermi parassitici della filaria e conducendolo a una lenta morte. Prive di emozioni umane, sembravano automi concentrati soltanto sulla loro attività: pazienti, spietati, instancabili. Quando s'imbattevano nel fumo, le culicide vettori si allontanavano, ma tornavano sempre indietro, librandosi in cerchio nell'aria immota ed emettendo di continuo il loro acuto verso. Il loro numero aumentò. Gettando altre foglie sul fuoco, Diarmid esclamò: «Siamo morti... Ci attaccheranno da un momento all'altro!» «Le foglie ci dovranno durare fino al mattino», ribatté Thorn. A meno che non si levi il vento e soffi via questi vampiri. «Avete mai sentito di un vento che soffi nel Mirrinor?» replicò l'ertish, che aveva estratto lo skian e stava vibrando colpi in direzione delle culicide. Ma esse si limitavano a volteggiare fuori della sua portata, sfruttando ogni corrente d'aria generata dai suoi movimenti decisi. «Di rado.» In quel preciso istante, però, l'aria si smosse. Una brezza prese a soffiare,
rafforzandosi, e le culicide vettori furono scagliate le une contro le altre e poi si sparpagliarono. Le creature cercarono di librarsi come meglio potevano sulle loro deboli ali, ma la brezza le trascinò prima verso l'alto e poi lontano. La notte ridivenne quieta. «Torneranno», disse Thorn. Inquieti, Diarmid e Imrhien si raggomitolarono per dormire. La ragazza si assopì a tratti. Ogni volta che apriva gli occhi, essi erano colpiti dalla luce bianca delle stelle, che punteggiavano il cielo come una rete scintillante gettata da un orizzonte all'altro. Sullo sfondo delle stelle, l'alta figura scura di Thorn spiccava nitida, eretta e vigile. Imrhien indugiava a osservarlo da sotto le ciglia quasi abbassate, piena di meraviglia. La sua avvenenza non era quella regolare delle statue classiche, scolpite secondo misure precise. Si trattava piuttosto della bellezza senza legge delle montagne incappucciate di nubi, dell'oceano violento, delle stelle sferzate dal vento... Una bellezza selvaggia perché era impossibile catalogarla, descriverla, misurarla. Le culicide vettori si fecero vive a intervalli per tutta la notte, sempre preannunciati dalle strida di Errantry, ma il fumo aromatico delle foglie di Thorn tenne a bada le loro lingue vampiresche. All'alba, le foglie di quandion erano esaurite e delle culicide non c'era più traccia. Era l'uhta, quel momento di luce sbiadita che precede l'alba, quando Imrhien si svegliò. Vapori bianchi che salivano dai laghi insinuavano i loro filamenti in mezzo alle fulve abelie e agli alti alberi della menta delle nevi, depositandosi sulle foglie in una miriade di minuscole gocce. Tutta la vegetazione sembrava fluttuare al di sopra del terreno, sospesa in un mare di pallide nubi. Lontano, a oriente, il disco rosso del sole sarebbe ben presto emerso da quelle nebbie per dipingere gli alberi autunnali di un rosa dorato. Errantry intonò il suo roco saluto al giorno; il suo padrone, già sveglio, si stava muovendo per il campo... Imrhien si chiese se dormisse mai. Diarmid cominciava appena a riscuotersi dal sonno. Un rumore poco lontano li fece sussultare. Qualcosa di enorme si avvicinò con fragore tra le abelie e una testa si sollevò al di sopra dei cespugli. La creatura sembrava un gigantesco uccello acquatico nero, col collo lungo quasi una iarda e col becco che misurava una iarda e mezzo, ricurvo come quello di un'aquila. Le zampe erano palmate e dotate di artigli spaventosi. In reazione a un grido assordante di quell'essere, due piccole forme bianche saettarono fuori dalla vegetazione, lanciandosi attraverso la radura.
Thorn impugnò l'arco e incoccò una freccia prima che la ragazza avesse il tempo di battere ciglio, poi la corda vibrò e la prima freccia solcò l'aria, seguita un istante dopo da una seconda; le due lepri crollarono al suolo, rotolando più volte su loro stesse, ciascuna con una freccia nel cuore. Muggendo, il boubrie si allontanò verso il limitare dell'acqua. «Ecco la vostra colazione», annunciò Thorn, recuperando le lepri e depositandole accanto al fuoco. Poi, appoggiato uno stivale sulle bestie, che ancora sussultavano, estrasse le frecce e disse: «Erano comunque condannate. Se non le avessi abbattute io, lo avrebbe fatto quella creatura». A fatica, Diarmid si riscosse dal suo stupore. «Credevo che non cacciaste le lepri, signore.» «Non l'ho mai fatto, e mai lo farò.» «Allora queste sono creature soprannaturali?» «Credete che io non sappia distinguere la differenza? No, ma quello non è stato cacciare.» Quindi, estratte le frecce insanguinate, si allontanò verso la polla delle ninfee. «Sai come prepararle?» chiese Diarmid a Imrhien. La ragazza scosse il capo. Che a preparare le lepri ci pensasse chi voleva mangiarle... Lei non avrebbe più fatto la sguattera per nessuno. Trovarono la barca là dove l'avevano lasciata, coi fianchi rivestiti dalle appiccicose, scintillanti ragnatele intessute dai ragni. Mentre la spingevano in acqua, Thorn fece notare agli altri che la piccola isola su cui le fanciulle cigno erano atterrate la notte precedente non era più visibile. Al suo posto si stendeva ora un tratto di acqua scintillante. «È una delle isole galleggianti che abbondano nel Mirrinor», spiegò. «Findrelas, tuttavia, ha radici saldamente piantate nelle profondità del lago.» Diarmid fece il primo turno ai remi, le mani fasciate con strisce di stoffa strappate dalla sottoveste di Imrhien. Alcune isole del Mirrinor erano collegate da ponti, che tuttavia erano pochi e di struttura molto diversa. Un paio erano antiche costruzioni di pietra verdastra, sgretolate e fatiscenti. Tre o quattro erano traballanti pontili di legno su barche, e gli altri erano semplici passerelle sospese sull'acqua e legate a ciascuna estremità a un alto albero. «Pochi uomini hanno dimorato in questa regione, e nessuno per più di pochi anni», disse Thorn. «Tra gli edifici che essi hanno eretto, adesso ne rimangono soltanto alcuni, costruiti in pietra. Altre creature hanno fabbricato i ponti di legno. Quegli esseri non possono attraversare l'acqua corren-
te, però le acque del Mirrinor sono immote.» Là, in quei luoghi dimenticati dai mortali, le creature soprannaturali e gli animali selvatici abbondavano. Una testa di cavallo affiorò sulla superficie dell'acqua e indugiò a osservare gli occupanti della barca, con le alghe impigliate nella criniera come nastri verdi. Il cavallo d'acqua nuotò poi fino alla costa settentrionale di un'isola, salì sulla riva e scomparve in una macchia di alberi; nel tempo necessario a trarre un respiro, la sua forma alternativa, quella di un uomo rude e irsuto, sbucò dal lato opposto del boschetto e si allontanò di corsa. A minore distanza, piccole creature nude, alte non più di una ventina di pollici, esili e pallide come una falce di luna, erano intente a tuffarsi dalle ninfee e a giocare nell'acqua; spaventati alla vista della barca, quegli esseri si diedero alla fuga con melodrammatiche grida di sgomento, tra le anatre selvatiche che starnazzavano nei canneti. Prese a cadere una pioggia leggera, che lasciò sulla propria scia un arcobaleno di colori pastello. Thorn staccò la corda dall'arco, riponendola nella camicia per tenerla asciutta. Di sera, la nebbia si levava dall'acqua e, attraverso i suoi veli, tormentosi accordi di musica solenne arrivavano all'orecchio dei viaggiatori. Un'ombra si formò più avanti, poi la caligine bianca si assottigliò, rivelando l'imboccatura di un canale tra due isole. Su entrambi i lati di quella via d'acqua, alti alberi dall'aspetto funereo crescevano in file allineate. Da quell'apertura sbucò una barca leggera, che non era spinta né dai remi né da una vela; il suo passaggio silenzioso tracciò due scintillanti solchi sulla superficie dell'acqua. Un prezioso tessuto d'argento era drappeggiato sui lati della barca, con l'orlo che pendeva nell'acqua e, all'interno dell'imbarcazione, giaceva un cavaliere, abbigliato con un'armatura del colore della luce lunare. Le sue mani erano incrociate sul petto, la visiera dell'elmo era sollevata a rivelare le macchie scure delle ciglia che si stagliavano sullo sfondo del viso pallido; a prua, c'era una figura ammantata, immobile. La barca continuò la sua lenta navigazione, e i veli di nebbia si richiusero su di essa, nascondendola e soffocando la tormentosa melodia, che si dissolse a poco a poco nella quiete senza tempo di quel mondo d'acqua. Diarmid fu il primo a infrangere quel silenzio. «In fede mia, che cos'è passato, laggiù?» «Era An Bata Saighdear Ban, la Barca del Guerriero Pallido», rispose Thorn; poi, notando l'espressione perplessa dell'ertish, aggiunse: «Quel vascello solca in eterno le acque del Mirrinor». «Un tempo quel cavaliere era un uomo vivente?»
«No, non lo è mai stato.» «E colui che viaggia a prua lo era?» «Neppure.» L'acqua gorgogliò sommessa sotto lo scafo della Salta-acqua. «Quanto tempo impiegheremo ad attraversare questo posto?» chiese ancora Diarmid. «Dieci giorni, forse undici.» La rotta che stavano seguendo li condusse lungo canali che si snodavano in mezzo a prati acquatici e a lussureggianti distese di fagioli di palude, di giunchi in fiore e di quei ranuncoli dorati chiamati tageti di palude; la barca passò in mezzo a compatte foreste di alberi cedui - ontani, salici, equiseti e pioppi -, tra i quali prosperavano uccelli, otarie e castori. Un paio di linci, maestose e superbe, si avvicinò alla riva per bere. Di notte, bagliori iridescenti, cinti da pallidi aloni creati dalla nebbia, fluttuavano al di là del tremolante cerchio di luce del fuoco. A tratti, i vapori si aprivano, vorticando, a rivelare le acque scure circostanti, prima di tornare a creare una cortina compatta, oppure si dissolvevano per brevi momenti, rivelando il cielo punteggiato di bianche stelle ammiccanti, simili a perle di fiume cucite su un manto di velluto. Talvolta Diarmid parlava di Muirne, cercando di ritrovarla nei suoi ricordi e asserendo che lei era sopravvissuta, che l'avrebbero ritrovata sana e salva. Col buio, giungevano le culicide vettori, attirate dal calore corporeo degli umani e, per tutta la notte, aleggiavano al limitare della cortina di fumo, stridendo, assetate di sangue. Una volta, una di esse si spinse molto vicina all'addormentato Diarmid; destato dal fischio di Errantry, il giovane vibrò un colpo che fece cadere al suolo la fragile e velenosa culicida, permettendogli di schiacciarla con una pietra. La creatura si appiattì completamente, riducendosi a una sagoma allungata con una chiazza rossa al centro. Le altre culicide continuarono a lanciare il loro verso monotono e stridente, come se non fosse accaduto nulla. Sembrava che l'orribile morte della compagna non avesse per loro la minima importanza. Ed era proprio così. In una luminosa mattina, mentre era impegnata a riempire la borraccia con l'acqua limpida di una sorgente, Imrhien colse un sorriso di Thorn, il quale, poco più a valle, stava sciacquando il proprio coltello, e rispose schizzandogli contro qualche goccia. Lui reagì schizzandola a sua volta. Colta da una gioia spontanea e improvvisa di cui non riusciva a capire la ragione, Imrhien lasciò cadere la borraccia e raccolse l'acqua con entrambe
le mani per spruzzare meglio il Dainnan. In quel gioco infantile, scie di gocce lucenti, simili a diamanti, presero a volare tra loro, intercettando la luce. Entrambi tornarono al campo coi capelli fradici, Imrhien in preda a un inspiegabile tumulto interiore, a uno stato d'animo che era un misto di smarrimento, vergogna e felicità. Per due notti, il vento shang spinse via le culicide vettori senza disturbare eccessivamente la superficie dei laghi e avvolgendo il Mirrinor di un incredibile scintillio, simile alla luce tra il verde e l'argenteo di un milione di candelabri o al bagliore combinato d'innumerevoli smeraldi e cristalli di ghiaccio. Le spalle di Diarmid e di Imrhien dolevano per lo sforzo quotidiano imposto dai remi e, di notte, i due trovavano sollievo nell'applicazione dei balsami di erbe. C'erano volte in cui Thorn insegnava loro molte cose sulle terre selvagge; in altre occasioni, però, rimaneva in silenzio per ore, scrutando le distese d'acqua e la miriade di isolotti del Mirrinor come se stesse spingendo lo sguardo al di là di quel panorama, verso un luogo che nessun altro poteva vedere. In quei momenti, sembrava che, nelle profondità del suo animo, si celasse un dolore segreto, nascosto dietro l'espressione ridente degli occhi grigi, anche se lui non vi aveva mai neppure accennato. Una volta, dopo aver legato la barca ed essersi incamminati lungo la riva di un isolotto, furono attaccati da un pericolo inatteso. Sulle prime, tutto sembrava tranquillo e pacifico. Poi un vento improvviso e furioso scosse gli alberi e un'ombra enorme nascose il disco del sole. Allora, con uno stridio che pareva l'urlo congiunto di settecento folli, qualcosa scese in picchiata su Imrhien, librandosi su ali di cuoio larghe venti piedi, gli artigli affilati protesi a colpire. La potenza del battito di quelle ali era tale da strappare le foglie dagli steli; il lungo becco appuntito era spalancato a mostrare file doppie di denti aguzzi; piccoli occhi incassati fiammeggiavano sotto una cresta ossea e le zampe, simili a fasci di falci affilate, erano pronte a lacerare la preda. D'un tratto, lo stridio assunse un tono ancora più acuto, come quello di una trivella di metallo che perforasse un osso, e il tyrax sobbalzò di traverso nel cielo, crollando al suolo in mezzo al sottobosco con l'estremità piumata di una freccia che gli sporgeva da ciascun occhio e la ronzante vibrazione della corda dell'arco che palpitava nell'aria. Eretto come una lancia, l'arco ancora in pugno e appoggiato al suolo a un'estremità, Thorn osservò la caduta del grande rettile volante, che si dibatté ancora per qualche momento prima di giacere, immobile. Con cautela, Diarmid andò a dare un'occhiata alla belva abbattuta. Poi
tornò indietro, scuotendo il capo con aria incredula. «Ho creduto che avessimo i minuti contati. Due tiri, entrambi di una precisione letale.» «È il modo migliore per ucciderli: mirare agli occhi.» «Certamente, ma non ho mai visto una simile precisione di tiro.» «Un Dainnan deve essere abile nell'uso dell'arco.» «Un'abilità del genere non ha paragoni. Pare che voi non possiate fallire mai, in nulla.» «Fallire?» ripeté Thorn, scoccandogli una strana occhiata, quasi irosa. «Oh, sì, mi è capitato di fallire. Ho fallito in momenti cruciali, e ho pagato un caro prezzo.» Mentre il Dainnan si appendeva l'arco in spalla, Diarmid trovò il coraggio di parlare ancora. «Devo recuperare le frecce?» chiese. «Lasciatele dove sono.» Ripresero il cammino, però Imrhien continuò a guardare indietro, da sopra la spalla, verso il punto in cui era visibile la punta di una lunga ala del tyrax, priva di penne. «L'arco è dunque l'arma principale dei Dainnan?» volle sapere Diarmid, incuriosito. «No.» «Allora si tratta della spada?» «Non è neppure la spada.» Diarmid non seppe cosa replicare. «L'arma migliore di un Dainnan è se stesso», spiegò Thorn. «Si tratta della sua mente e del suo corpo, del suo ingegno e della sua forza. Anche se privato di ogni altra arma, un Dainnan è in grado di sopravvivere e di fare il suo dovere nei confronti del Re-Imperatore. Se fossi stato disarmato, avrei trovato un altro modo per sventare quell'attacco.» Stavano procedendo sotto alti pioppi dorati, eretti e luminosi come altrettante candele. «Quand'è minacciato, un Dainnan deve guardare intorno a sé e capire se c'è qualcosa che possa usare come un'arma, anche una pietra o un bastone», continuò Thorn. «Se poi l'avversario è armato, ci sono molti modi per disarmarlo.» «Un uomo senz'armi contro uno munito di coltello? È difficile a credersi...» Thorn si fermò, lasciando cadere al suolo il proprio equipaggiamento. «Estraete lo skian», disse poi, in tono impaziente. Diarmid obbedì, e i due si fronteggiarono, guardinghi, pronti a scattare. Intorno a loro, le foglie del colore del sole piovevano al suolo come bran-
delli di seta, all'apparenza pervase di una loro luminosità interna. «Ora cercate di usare quel coltello.» Il braccio di Diarmid si mosse quasi impercettibilmente, ma il giovane non riuscì a fare molto di più. La mano sinistra di Thorn gli afferrò il polso e il gomito destro lo colpì in pieno al mento, spingendogli la testa all'indietro. Ciò che seguì accadde nello spazio di tre secondi: il Dainnan spinse all'indietro e lontano la mano che impugnava il coltello, costringendo l'avversario a chinarsi in avanti, poi si protese sopra la spalla di Diarmid e, controllandogli il gomito col petto, applicò una torsione al braccio, continuando a tenere l'arma lontano da sé. Una spinta decisa del ginocchio contro la bocca dello stomaco fece piegare ancora di più Diarmid su se stesso; contemporaneamente, Thorn gli spinse anche la spalla, servendosi della presa al braccio per catapultarlo in avanti e fargli perdere l'equilibrio, mentre si spostava a sua volta in avanti per bloccargli il piede sinistro. Diarmid cadde bocconi, e la crescente pressione sul polso destro lo costrinse ad aprire le dita, lasciando andare lo skian. Raccolta l'arma, Thorn abbandonò la presa e indietreggiò, permettendo a Diarmid di rialzarsi, col respiro affannoso. Trascorsero alcuni secondi, poi il Dainnan restituì l'arma al giovane ertish, che la ripose nel fodero con una smorfia. «È un trucco che mi piacerebbe imparare.» Thorn annuì, poi si rivolse a Imrhien. «È una cosa che le donne possono apprendere. Anche chi non possiede una grande forza può essere addestrato a sconfiggere un aggressore servendosi delle tecniche dei Dainnan, perché sono metodi che sfruttano la forza stessa dell'assalitore contro di lui.» Mentre riprendevano il cammino, il risentimento di Diarmid gradualmente si dissipò e lui ascoltò con estrema attenzione le parole del Dainnan. Di tanto in tanto, Thorn gli insegnava alcuni precetti della Confraternita Dainnan, oppure gli forniva dimostrazioni dei metodi di base del combattimento senza armi, un insieme di prese e di blocchi, di calci e di spinte. «Nessun uomo può tirare con l'arco di un altro, non più di quanto possa combattere con una spada altrui», affermò tuttavia il Dainnan, quando Diarmid chiese di usare l'arco. «Inoltre, il mio è fatto per un arciere mancino. D'altro canto, se siete davvero tanto ansioso d'imparare, v'insegnerò qualcosa e farete un po' di esercizio. Magari la cosa vi tornerà utile.» L'ertish sfruttò ogni opportunità per familiarizzarsi con l'uso dell'arco.
Quei tre viandanti che appartenevano a popoli diversi erano vicini dal punto di vista fisico, eppure separati da un vero abisso. Quel guerriero delle terre selvagge era una persona rara, straordinaria. Di ciò, Imrhien era ben consapevole. Oh, sì, lui era senza dubbio il migliore. Un pensiero cominciò a prendere forma dentro di lei. Credi che Thorn abbia poteri magici? domandò. In quella sesta sera nel Mirrinor, lei e Diarmid erano soli e stavano approntando un accampamento su un'isola, mentre il loro compagno si era allontanato per una delle sue spedizioni alla ricerca di cibo. Diarmid si mostrò sorpreso. «Poteri magici? Non vedo motivo di pensarlo. È abile, certo, più di qualsiasi uomo che abbia mai incontrato... ma non più di quanto sia possibile a un essere umano.» Si grattò pensosamente il mento. «D'altronde può darsi che tu abbia ragione. Forse ha davvero studiato qualcosa delle Nove Arti. I Maghi, o chi ha studiato la magia, possono a loro volta diventare Dainnan.» La razza antica, i... Imrhien esitò, non conoscendo il gesto per indicare i faêran. Il Popolo Fatato, gli immortali. È possibile che in lui ci sia il loro sangue? «Il Popolo Fatato? Ah! Quegli immortali sono diventati leggenda molto tempo fa. Inoltre, come le creature soprannaturali, essi non sopportavano il contatto col ferro, mentre Thorn maneggia una lama d'acciaio, ha frecce con la punta d'acciaio... e scommetto che la fibbia della sua cintura è fatta dello stesso metallo. No, non dubito che sia un mortale... Però non è un uomo comune, è una persona che ispira gli altri a seguirlo. Forse è un Mago, non saprei dirlo... Ma non è cortese parlare così di lui, alle sue spalle, quindi non intendo proseguire questa discussione.» Più tardi, quella stessa sera, Diarmid prese l'arco di Thorn, si appese alla spalla il balteo con la faretra e andò a caccia. Durante la sua assenza, Imrhien rimase seduta accanto al fuoco col Dainnan, che le aveva chiesto di approfondire la sua conoscenza del linguaggio dei gesti. Thorn le strappò più di un sorriso quando prese in giro i membri delle classi elevate - inclusi i suoi pari -, fingendo d'intuire quali segni significassero «Duchessa», «Mago», «Corriere», «Condottiero della Tempesta» e «Dainnan». Se avesse avuto la voce per ridere, Imrhien lo avrebbe fatto. Il comportamento di Thorn la indusse a elaborare a sua volta gesti umoristici... Non si era mai sentita così libera. Traeva piacere dalla compagnia di lui, una sensazione guastata solo dalla consapevolezza che quel momento non poteva durare per sempre.
L'assenza di Diarmid si protrasse, tanto che lui non era ancora tornato quando Errantry si andò a posare sulla spalla del padrone, interrompendo il gioco. Notando che era calato il buio, Imrhien si sentì assalire da una preoccupazione improvvisa. Il nostro amico non è ancora tornato. Vado a cercarlo, rispose il Dainnan, a gesti. Rimanete qui. Vengo con voi. Thorn le scoccò un'occhiata perplessa, poi annuì e prese dal fuoco un ramo acceso da usare come torcia. Alla sua luce, videro Diarmid emergere dal buio. «Buonasera, cirean mi coileach», lo salutò Thorn. «Siamo lieti che voi ci abbiate raggiunti.» «Ah... buongiorno», rispose l'ertish, fissandolo con espressione vacua, pallido in volto come la nebbia notturna che si stava levando dall'acqua. «Mi sono perso per qualche tempo, ma ho ritrovato la strada», aggiunse, anche se era superfluo, porgendo l'arco e le frecce a Thorn. Stai bene? «Sì.» Diarmid non volle aggiungere altro, e ben presto andarono tutti a dormire. Le gazze stavano inneggiando al sorgere del sole coi loro gorgheggi cristallini. Aprendo gli occhi nella mattina nebbiosa, Imrhien vide Thorn di guardia vicino all'ertish addormentato. Diarmid giaceva in una posizione contorta, con le braccia allargate, come se fosse morto di morte violenta. Era pallidissimo in volto e soltanto il ritmico alzarsi e abbassarsi del suo petto indicava che era ancora vivo. «Si è allontanato durante la notte», spiegò Thorn. «L'ho riportato indietro con la forza, perché non voleva farlo di sua iniziativa. Sorveglialo. Se dovesse svegliarsi e fuggire, suona il corno giallo, che è a portata di mano. Io vado a riempire la barca di provviste.» Dopo aver fatto il gesto per indicare che sarebbe tornato presto, il Dainnan si allontanò senza far rumore. Diarmid stava dormendo di un sonno profondo, come se avesse aspirato il fumo dei papaveri ed esso lo avesse fatto scivolare nell'oblio. Quando si svegliò, lo fece in modo così improvviso e silenzioso che lui si era già allontanato prima che Imrhien avesse modo di accorgersene. Il fruscio delle foglie attirò infine la sua attenzione, ma era troppo tardi. Portatasi alle labbra il corno d'ottone, la ragazza vi soffiò dentro con tutte le sue forze, tra-
endone una singola nota bronzea, un caldo suono di avvertimento, penetrante come un vino corposo. Mentre quella nota si diffondeva nella nebbia, Imrhien gettò al suolo il corno e si lanciò all'inseguimento di Diarmid. Ben presto si ritrovò a correre lungo una riva fiancheggiata da antichi ontani. Volute di vapore si alzavano, lente, sul lago, intrecciandosi fra i tronchi scuri. Poco lontano, vide Diarmid: era immerso fino alle ginocchia nelle acque basse del lago, in mezzo ai giunchi. Il giovane non era solo e stava parlando fittamente con una creatura che si trovava nell'acqua, davanti a lui, e che era l'essenza di tutta la bellezza del Mirrinor, modellata in forme femminili. Snella come i giunchi, pallida come la nebbia, adorabile e delicata come le ninfee, l'apparizione femminile aveva capelli di smeraldo che le ricadevano, bagnati, lungo tutto il corpo. L'abito aderente, di un verde lattuga, era contorto e smerlato come se fosse fatto di crescione d'acqua, di vallisneria e di lenticchia d'acqua, e forse era proprio così. Con fare timido e nel contempo subdolo, la donna si protese verso il giovane, lo prese per mano e cominciò a indietreggiare, attirandolo nel lago. Il fragile tessuto del suo abito smeraldino si allargò intorno al suo corpo, galleggiando sulla superficie dell'acqua. Con lo sguardo fisso su di lei, Diarmid la seguì, docile. Mettendosi a correre attraverso la spiaggia, Imrhien allora si lanciò nel lago verso di lui, serrandogli le braccia intorno alla vita e tirando con tutte le sue forze. Ma i suoi sforzi furono vani... Diarmid era troppo forte per lei o forse la fanciulla lacustre era troppo potente oppure erano vere entrambe le cose. Nel tentativo di far rinsavire il compagno, Imrhien gli tirò i capelli e lo schiaffeggiò, ma Diarmid sembrava in trance, del tutto indifferente a quelle sollecitazioni. Così non era per l'annegatrice. Il suo sguardo di giada si appuntò su Imrhien e una mano pallida saettò in avanti, serrando il polso della ragazza in una stretta simile a una morsa d'acciaio. Imrhien venne trascinata inesorabilmente verso le profondità lacustri. Lottava e si dibatteva, percuotendo la creatura con la mano libera, però l'acqua le salì alla vita, poi le arrivò alle spalle. Lunghe alghe che crescevano dal fango si avvolsero intorno ai suoi piedi e a quelli di Diarmid, trascinandoli ancor più in profondità. L'ultima cosa che Imrhien vide, prima che l'acqua le si chiudesse sulla testa, furono gli occhi fissi e obliqui dell'annegatrice, i suoi capelli verdi che si allargavano con grazia sulla superficie come una nube di sottili fili di seta. Sott'acqua, Imrhien cercò invano di liberarsi dalle alghe, di sciogliersi da quella presa inumana. Le ultime riserve d'aria della ragazza e di Diarmid
sfuggivano verso l'alto, in una scia di bolle che scorreva davanti ai loro occhi come una massa di minuscole perle in ascesa. Filamenti sottili le serrarono il collo, la testa prese a pulsarle in maniera terribile e un dolore lancinante, simile a un bruciore di metallo fuso, le pervase il petto. Davanti a sé, scorse la sua stessa mano, pallida e sottile come quella dell'annegatrice, ma soprattutto priva di forze, dato che la vita le stava sfuggendo. Poi una lama scintillò improvvisa, fredda e lucente. Con una spinta poderosa, che la scagliò verso l'alto con forza devastante, Imrhien riemerse sotto la luce del sole. Per qualche momento, tutto fu confuso; infine la mente le si schiarì e lei si ritrovò stesa sulla riva. Lì accanto giaceva Diarmid, scosso da colpi di tosse e conati di vomito. Inginocchiato poco lontano, il Dainnan era intento a ripulire la lama della daga, con l'acqua che gli colava dagli abiti e grondava dai capelli neri. «Quando avrete entrambi finito di sputare i polmoni, forse potremo riprendere il viaggio», commentò. Poco dopo l'incidente, Diarmid tornò del tutto in sé. L'unica eredità che lui e Imrhien conservarono dell'accaduto furono alcuni dolenti lividi rossastri intorno ai polsi - l'impronta delle dita di Fideal - e un vago gonfiore intorno alla gola. Infatti era stata proprio Fideal colei che aveva cercato di attirare l'ertish verso la morte. Fra tutte le antiche creature soprannaturali che dimoravano nell'acqua, e che erano pericolose per gli uomini, lei era la più temibile. «Mi sono lasciato ingannare con troppa facilità», si rimproverò Diarmid. «Fideal è potente», replicò Thorn. «Ma avrei dovuto stare in guardia. La prima volta che l'ho vista, era seduta sulla superficie del lago, intenta a pettinarsi i capelli. Ho creduto che fosse una delle Gwragedd Annwn, però, non essendone sicuro, mi sono allontanato. Tuttavia non ho potuto dimenticare...» «Dimenticate ora.» L'ertish guardò il Dainnan con un misto di rispetto, di timore e di meraviglia. «Uccidere una creatura del genere esula dal potere degli uomini mortali.» «Fideal vive.» «Non l'avete uccisa?» esclamò Diarmid, sconcertato. «Ho soltanto reciso le alghe che vi tenevano entrambi sommersi. Le ho tagliate con la daga. Fideal fa parte delle alghe, e le alghe fanno parte di lei, però è ancora viva e continuerà a dimorare nel Mirrinor, o forse si spo-
sterà lungo le segrete vie sotterranee che scorrono sotto l'Eldaraigne fino a trovare un'altra polla o un lago da infestare. Da innumerevoli vite umane essa dimora nei suoi rifugi acquatici. Ma forse ben presto li lascerà per rispondere, come gli altri, al Richiamo dal Nord. Chi può saperlo?» Per altri cinque giorni, la Salta-acqua fendette i laghi del Mirrinor. I viaggiatori videro e udirono molte cose strane, ma non corsero altri pericoli e infine raggiunsero la riva opposta. Lasciata la nave ancorata tra meli selvatici e rovi, i tre si addentrarono su un terreno paludoso. Fiori di un giallo acceso facevano capolino in mezzo all'erba di un verde acido. Più avanti, verso ovest, si stendeva una serie di basse colline che curvava verso sud e digradava verso nord fino a scomparire. Il cielo appariva leggermente velato, dall'orizzonte fin sopra il Mirrinor, e una brezza delicata soffiava tra l'erba. «Il confine del Mirrinor», disse Thorn. «Da qui, il terreno comincia a salire. Con una giornata di cammino dovremmo entrare nel Doundelding. Una volta attraversata quella regione, saremo quasi alle porte di Caermelor.» All'orecchio di Imrhien, il nome di quella città riecheggiò come una campana a morto. Una volta là, Thorn sarebbe stato giustamente reclamato ai suoi doveri, perché era un uomo del Re-Imperatore, uno dei guerrieri di Roxburgh. Per Imrhien, quindi, Caermelor significava la scomparsa del colore, della passione e della luce; qualsiasi altra cosa le avesse offerto, la fine di quel viaggio le avrebbe comunque portato giorni squallidi come un deserto, spazzati in eterno da aridi venti di solitudine. 9 DOUNDELDING SEGRETI SOTTO LA PIETRA
Pietre preziose, ossa sepolte, radici e fiumi, gelide grotte. Argilla e sabbia sotto la terra, argento, stagno e oro lucente. Scava e suda, ma non scordare che di pericolo le sale oscure sono permeate.
Scava la tua tomba, minatore ardito, degli alti monti nelle profondità remote. Avvertimento delle creature soprannaturali Un lungo e tortuoso sentiero di pietre sporgenti guidò i viandanti attraverso il terreno paludoso e fino ai piedi di una collina, dove il sentiero terminò in mezzo a boschetti di noccioli stentati, alti una decina di piedi. Nei lembi di cielo tra le foglie si scorgeva un punto nero, che volava in cerchio: l'astore, Errantry, non era mai molto lontano. Ben presto, il terreno si fece aspro e roccioso. Dopo qualche tempo, i tre arrivarono in cima alla collina. Sacche di velluto verde pendevano dai rami dei noccioli; alcune di esse si erano spaccate nella parte inferiore, rivelando i frutti, simili a sassi racchiusi all'interno. Sbirciando in mezzo ai tronchi nodosi, i viandanti potevano spingere lo sguardo verso le vallate di una regione grigia e accidentata. La zona era punteggiata di massi, che parevano mostri accucciati, di tumuli informi e di sagome indistinte, che ricordavano dita puntate e che avrebbero potuto essere torri. Eppure quella terra non era priva di bellezza. I suoi pendii digradavano verso una serie di colline più basse, ammantate di una caligine color malva, tra le quali spiccava una montagna, un picco affilato, aguzzo come la zanna di un predatore. «Ecco laggiù la Thunder Mountain col suo pinnacolo, il Burnt Crag», disse Thorn. «È un luogo pericoloso, soprattutto quando sulle colline scoppia una tempesta.» Sulla cima dell'altura, i tre sostarono a raccogliere le nocciole cadute, le infransero con alcune pietre e le riposero nelle sacche per mangiarle più tardi. Diarmid prese anche alcune delle appiccicose sacche esterne. «E questo da dove viene?» chiese poi, sorpreso, guardando il succo marrone scuro che gli sporcava le dita. «La tintura delle sacche verdi dei noccioli è quasi indelebile», spiegò Thorn. A metà del pendio, incontrarono una sorgente che sgorgava dal fianco dell'altura; dopo che si furono dissetati, Thorn riempì la borraccia, mentre Diarmid cercò inutilmente di lavarsi le mani. «Ho sentito dire che alcuni minatori vivono nell'estrema parte occidentale di questa regione», osservò, agitando le dita chiazzate per asciugarle. «Solo nell'estremo ovest, perché in tutte le altre regioni del Doundelding
non ci sono esseri umani. Sembra però che questa terra sia interamente attraversata da una rete di gallerie e di grotte, una rete che va da un'estremità all'altra.» «Ciò che si dice è vero.» «Si mormora pure che nelle gallerie e nelle camere sotterranee dimorino molte strane creature. Non sarebbe meglio dirigerci verso la Strada?» «Stiamo camminando sopra il suolo e non sotto di esso, almeno per ora. In questo momento, la Strada è il percorso più pericoloso in assoluto, perché, con la migrazione delle forze unseelie verso nord o nord-est, il numero delle creature che la attraversa è in continuo aumento. Giacché quella è una via di traffico degli esseri umani, i loro antichi nemici, la Strada è diventata il punto su cui si focalizza la loro ostilità. A quanto mi risulta, sono ben poche le carovane che riescono a passare indenni. Qui ci troviamo a sud della Strada, dunque suppongo che molte creature pericolose abbiano già abbandonato quest'area.» «Cosa le sta convocando, signore?» «Questo non lo so.» «Non potremmo catturarne una e costringerla a parlare? Magari una delle creature meno potenti...» «L'ho già fatto... e con alcune tutt'altro che insignificanti. Nemmeno loro sanno cosa le stia chiamando... Si sentono attirare verso nord-est, indotte a lasciare le loro grotte, polle e fortezze in rovina per avviarsi in quella direzione, da sole o in gruppo, danneggiando qualsiasi essere umano che incontrano lungo la strada. Se questa migrazione continuerà, entro pochi mesi le terre settentrionali saranno sgombre di qualsiasi creatura unseelie, tranne le più stupide, cocciute o insignificanti.» «Se non altro, gli uomini potranno circolare senza paura!» «Finché la marea malvagia che si sta addensando nella Namarre non infrangerà gli argini per riversarsi su di noi, con un comandante alla sua testa.» «Ma di certo nessuna creatura soprannaturale si è mai sottomessa agli ordini di qualcuno, giusto?» insistette Diarmid. «Per quanto ne so, non hanno mai formato nessuna alleanza, neppure in seno alla loro razza. Le creature che agiscono in branco obbediscono ai loro Condottieri, i mastini sono agli ordini dei rispettivi Cacciatori... ma nessuna alleanza si estende al di là di questo.» «Eppure un tempo non era così», replicò Thorn. «Adesso però quell'antico Signore degli Unseelie è soltanto un'ombra e non potrà più risorgere.
Pare tuttavia che qualcun altro sia in grado di dominare le creature malvagie, che esse lo vogliano o no. Ignoro se si tratti di un'altra creatura o di un Mago, però deve essere davvero potente.» Entro sera, i viandanti raggiunsero una valletta erbosa. Una volpe argentea, che la stava attraversando di corsa, si soffermò per un momento a osservarli, poi scomparve nell'oscurità. Le betulle si accalcavano tutt'intorno, disegnando un nero merletto sullo sfondo pallido del cielo. Si accamparono. Coleotteri laccati costellavano come medaglioni le radici contorte e i tronchi degli alberi, riflettendo con tonalità ambrate il bagliore del fuoco da campo. Da qualche parte, un corvo lanciò il suo verso gracchiante. La luna sorse di buon'ora, levandosi accanto al Burnt Crag come un calderone di rame sospeso sopra le colline, lungo la linea dell'orizzonte. Fu allora che la musica ebbe inizio. Era una melodia sottile, come quella dei flauti, ma accompagnata da un suono ritmato di sonagli, di tamburelli e dai tonfi più cupi di un tamburo... Era una musica adatta a danzare sotto la luce della luna. E in una radura non lontana dall'accampamento c'era in effetti qualcuno che danzava al suono di quella melodia: un cerchio di piccole figure grigie, che si muovevano goffamente, senza la minima grazia. Thorn si abbandonò a una sommessa risata. «Venite... andiamo a vedere gli henkie e i trow», disse. «Stanotte potrebbero darci un po' di gioia.» Diarmid rifiutò l'invito, ma Imrhien si avviò con coraggio accanto all'alto Dainnan e, insieme, andarono a unirsi alla danza. Quelle strane, piccole creature si stagliavano contro lo scudo torreggiante della luna sorgente, sagome nere dipinte nel rame. Alcune di esse si dimenavano in maniera grottesca, saltellando di qua e di là; altre invece danzavano in maniera squisita, eseguendo passi intricati, anche se irregolari. Grazie ai racconti sentiti nella Torre, Imrhien sapeva qualcosa sui trow e sugli henkie. Erano creature seelie relativamente innocue, e le loro danze non attiravano i mortali verso la morte, come nel caso delle baobhansith, che succhiavano il sangue, o di altri esseri unseelie. Però, se si accorgevano che qualcuno le spiava, potevano offendersi. Il Dainnan non tentò un approccio furtivo, ma avanzò sull'erba in piena vista. Alto, aggraziato e agile come una creatura selvaggia, in quel momento sembrava appartenere più alle razze soprannaturali che alla stirpe mortale. Assorti nel loro divertimento, i danzatori non parvero neppure accorgersi
dei due intrusi... I flautisti e i suonatori di tamburo continuarono a concentrarsi sui loro strumenti. Meno tozze dei nani, quelle creature avevano una statura fra i tre piedi e i tre piedi e mezzo; la testa era grossa, come pure lo erano le mani e i piedi, il lungo naso aveva la punta rivolta verso il basso e i capelli pendevano flaccidi e incolori. La loro postura era piuttosto incurvata e tutti zoppicavano in misura più o meno evidente, cosa che indusse Imrhien a ripensare a Pod, il ragazzo zoppo della Torre... Pod lo Zoppo, come lui stesso si era soprannominato. Tutti indossavano abiti grigi di fattura rustica e le femmine avevano uno scialle frangiato legato intorno alla testa; in aperto contrasto con la semplicità dell'abbigliamento, monili d'argento brillavano come stelle ai polsi e alla gola di ognuno. Giratosi verso Imrhien, il Dainnan le rivolse un inchino degno di un cortigiano. «Signora, volete danzare con me?» Imrhien avrebbe voluto fuggire a nascondersi. Invece rimase immobile, piena di vergogna, assalita dall'improvvisa consapevolezza di quanto fosse brutta e indegna di attenzione. E poi, non sapeva davvero come si danzasse... Ma poteva rifiutarsi? Cercò di guadagnare tempo, tracciando un rapido segno. Adesso? «Se aspetteremo che cessi la musica, sarà più difficile. Non danzeremo come fanno loro... La gavotta è più adatta a questo ritmo. La conoscete? Nella gavotta, le coppie si devono muovere all'unisono senza mai entrare in contatto. Lasciatevi guidare da me.» La sua voce e il suo sguardo erano trascinanti. Col cuore che le martellava nel petto, Imrhien lo seguì nel cerchio di creature in movimento. Che si trattasse di un incantesimo operato dai trow o di qualcosa che avesse ridestato di colpo la sua memoria, fatto sta che danzare le parve d'un tratto molto facile, e i suoi piedi presero a muoversi quasi spontaneamente. Sollevate le gonne lacere in modo da lasciar libere le caviglie, la ragazza si trovò a seguire il ritmo della musica con estrema leggerezza, come se non stesse toccando il terreno. Dentro di lei, il nodo di ansia che la stava soffocando si sciolse, cancellato da un impeto di gioia. La figura in cui Thorn la stava guidando era composta di gesti dignitosi, però non era lenta e solenne: inchini e scambi di posto col compagno si alternavano a piroette controllate. Ben presto, le piccole creature grigie cominciarono a imitare le due alte figure in mezzo a loro, eseguendo una personale, zoppicante versione della gavotta, così buffa che Imrhien avrebbe sorriso, se il suo cuore non fosse stato pervaso di terrore e di gioia per il fatto che stava danzando con Thorn.
La melodia e il ritmo si modificarono, il tempo accelerò. Subito dopo la prima danza ne cominciò un'altra, senza neppure una pausa per i tradizionali inchini. Imrhien, insieme con Thorn, si trasse di lato per vedere quale coreografia i trow avrebbero elaborato. Qualcuno cominciò a passare un archetto su un violino, con tanta energia da dare l'impressione che intendesse segarlo in due, e la musica si fece più vivace. Una piccola femmina di trow se ne stava in disparte, intenta a contemplare i compagni che danzavano, canticchiando una patetica canzoncina: Ehi! Co Cuttie an'ho! Co Cuttie, e chi danzerà con me? Co Cuttie. Si guardò intorno senza veder nessuno, quindi scelse di danzare da sola, co Cuttie. In effetti, la trow prese a danzare da sola, sempre che i suoi movimenti si potessero definire una danza, dato che zoppicava in modo così pronunciato da sembrare costantemente in procinto di perdere l'equilibrio. So come si deve sentire: disprezzata ed esclusa, pensò Imrhien, con compassione. Costringendo il cuore a rallentare la propria corsa martellante, si rivolse a Thorn. È una vergogna che quella piccola femmina di trow debba danzare da sola, disse. «Chi potrebbe mai danzare con una creatura così zoppicante?» rise lui. Non è colpa sua! I gesti della ragazza erano pervasi d'indignazione e di stupore per quell'atteggiamento. «Comunque sia, è un problema suo.» Non avete compassione? «Perché sottomettersi a simili pastoie, quando si può essere liberi e gioiosi?» Danzerò io con lei. Thorn reagì soltanto con un profondo inchino, ma, quando si risollevò, Imrhien notò la sua espressione sconcertata. Si chiese se fosse la vita di Corte o quella nelle lande selvagge a indurire tanto l'animo degli uomini. Avvicinatasi alla trow, protese una mano. La creatura sollevò verso di lei il faccino buffo, poi le poggiò con leggerezza sul braccio la grossa mano ossuta. Insieme, cominciarono a muoversi a tempo con la musica e ad accennare qualche passo, la trow in modo goffo e la ragazza con agilità, finché Imrhien non trasse la creatura nel cerchio vorticante, i cui componenti sembrarono trovare nuove energie e presero a saltare sempre più in alto
con piccoli strilli di eccitazione. Era una danza selvaggia e saltellante di origine rurale, in cui non c'era nulla di elegante. La ragazza non riusciva a imitare il modo in cui gli henkie eseguivano il passo dell'oca, tenendosi accoccolati sulle ginocchia, né a riprodurre i passi intricati dei trow, ma la cosa non aveva importanza, perché ognuno si muoveva come preferiva. I danzatori si scambiarono progressivamente i compagni lungo il cerchio, i volti si fusero in una chiazza indistinta e le grida eccitate salirono ancor più di volume. Imrhien non avrebbe saputo dire quanto durò quel ballo, ma, alla fine, si sentì rinvigorita, piuttosto che stanca, e avvertì il sangue che le formicolava nelle vene. Il candido sorriso da lupo di Thorn scintillò nel buio. Le piccole creature si accalcarono intorno agli alti visitatori, inchinandosi profondamente e parlando in una strana lingua, senza mostrarsi affatto seccate dalla presenza di quegli sconosciuti in mezzo a loro e manifestando invece un'evidente gioia. Ancora una danza, disse Imrhien. «Ancora una. Con un solo compagno.» Quelle parole suscitarono in Imrhien una felicità che andava oltre ogni comprensione. Nel loro entusiasmo, i musici reclutarono un secondo violinista. Il Dainnan e la ragazza ripresero allora a danzare... vicini, vicinissimi, ma senza mai toccarsi. I loro movimenti erano così precisi che non una sola ciocca dei capelli di lui le sfiorò la spalla e l'orlo del vestito di lei non gli toccò gli stivali. In seguito, nel ripensare a quella notte, Imrhien non riuscì più a ricordare con chiarezza la lenta bellezza di quelle armonie soprannaturali, né la meraviglia destata in lei da quegli occhi limpidi che le sorridevano... Rammentava soltanto il modo in cui il vento sollevava i lunghi capelli neri di Thorn, simili ad ali allargate. Mentre si stavano allontanando dal luogo delle danze, un giovane trow venne verso di loro, piangendo. Il ragazzo li interpellò nel linguaggio comune, ma con un accento marcato, come se avesse difficoltà a formulare le parole. «Avete una moneta d'argento, signora? Avete una moneta per me, signore?» «Torna a danzare», rispose Thorn, anche se non in tono aspro. «Lo farei, signore, ma non mi accetterebbero! Non mi permettono di avvicinarmi. Sono stato bandito dalla Terra dei trow, e condannato a vagare
per sempre in luoghi solitari.» «Perché ti hanno bandito?» «Oh, ho rubato qualcosa, signore, ma non volevo fare nulla di male, e quel cucchiaio era così bello, tutto d'argento... Però era il cucchiaio del Re, signore, del Re dei trow. L'ho restituito, l'ho fatto, ma non mi hanno permesso di tornare. Solo una volta all'anno, alla Vigilia del Piccolo Sole, posso visitare la Terra dei trow per breve tempo... Ma non ottengo altro che gusci d'uovo da mangiare e percosse sul petto e sulla schiena. Quindi continuo a girovagare senza casa, me misero.» «Così deve essere, perché questa è la vostra legge.» Il giovane trow si allontanò, continuando a piangere. Povera, piccola creatura. I trow hanno un codice d'onore davvero rigido... «Quando riguarda loro!» precisò Thorn. «I trow non sono certo un modello di onestà, e sono pronti a derubare le altre razze. La loro etica impone però che non si debba mai sottrarre nulla ai membri della propria razza, un precetto molto più esteso e radicato di qualsiasi statuto di noi mortali. Le leggi possono essere emanate e annullate, possono essere discusse da coloro che sono vincolati a esse. Come tutte le creature soprannaturali, i trow possono infrangere il loro codice, tuttavia non possono confutarlo o cambiarlo. È insito nella loro struttura, naturale e immutabile come le leggi che governano le maree e le fasi della luna, il sorgere e il tramontare del sole, lo sbocciare dei fiori in primavera e l'apparire della brina d'inverno. Inoltre, i trow hanno una vera passione per l'argento... Se non è stato attento, Diarmid potrebbe scoprire che il corno d'argento è scomparso.» Al loro ritorno nella valletta erbosa scoprirono però che il corno d'argento non era stato rubato. Diarmid raccontò che Errantry si era scagliato, stridendo, da un ramo e aveva aggredito la mano grigia che, di soppiatto, si stava allungando per afferrare il corno, spaventando così il ladro che si era dato alla fuga. L'astore montò la guardia per tutta la notte, risparmiando agli umani di vegliare a turno; Imrhien aveva comunque l'impressione che Thorn dormisse sempre ben poco, e di un sonno molto leggero, perché quando le capitava di svegliarsi, di notte, lo vedeva seduto con la schiena appoggiata a un albero e lo sguardo appuntato sulle stelle, sparse come brina nel cielo. Altre volte lo scorgeva in piedi, delineato sullo sfondo glorioso della volta stellata, lo sguardo fisso sulle colline lontane, i lunghi capelli che gli si allargavano sulle spalle come un ventaglio al soffio della brezza. Altre
volte ancora non lo vedeva affatto, ma intuiva che lui era poco lontano, che i suoi occhi attenti avrebbero scorto qualsiasi pericolo e che lei e Diarmid erano al sicuro, finché rimanevano con lui. Al di là di tutto ciò, comunque, lei era ben consapevole che, in determinate condizioni, Thorn poteva trasformarsi in un pericolo, che la sua ira sarebbe stata rapida e spaventosa e la sua reazione veloce e spietata. Come il fuoco, Thorn era un potente alleato, ma anche un temibile nemico. La ragazza rifletteva spesso su Thorn. Aveva intravisto in lui un nucleo insensibile, generato da una sorta di amoralità, ma sapeva pure che bellezza e onore gli stavano profondamente a cuore, che era gentile e amava ridere... Tuttavia non provava compassione per gli storpi e i fuoricasta. Tranne che per una... O forse non la considerava una storpia o una fuoricasta? Se non si era trattato di compassione, perché aveva danzato con lei? Imrhien non era tanto stolta da credere che un uomo così avvenente, orgoglioso e sensibile alla bellezza, quale lui era, trovasse piacevole guardarla in volto... Né s'illudeva che un uomo abituato alle argute conversazioni dei cortigiani e della gente di città, che duellava con le parole come con la spada, apprezzasse la compagnia di una muta. Perché lo aveva fatto, allora? Forse per lui era soltanto un gioco. Forse lo divertiva far leva su cuori come il suo e incatenarli a sé. Il sole sorse, rosso cremisi. I primi raggi tinsero la sottile nebbia autunnale che addolciva le pieghe del paesaggio, nascondendo le fenditure segrete e levandosi da valli isolate come fumo da un camino. Dopo una colazione di nocciole e acqua limpida, i tre si misero in marcia sotto un cielo avvolto in uno strato di seta sbiadita, le cui luminose altezze erano solcate dai voli circolari di un rapace. All'improvviso, l'uccello ripiegò le ali e scese in picchiata con una velocità tale da far sibilare l'aria tra le penne. Il tonfo della collisione giunse fino ai tre viaggiatori da trecento iarde di distanza, poi soltanto una manciata di penne fluttuanti segnò il punto in cui si era trovato un piccione. Il vento le allargò come la coda di un aquilone, sparpagliandole nel cielo, mentre Errantry stendeva le ali e si allontanava con la sua preda. «I rapaci si nutrono bene, ma noi ci siamo lasciati alle spalle le terre dell'abbondanza», sospirò Diarmid, quando raggiunsero la cresta di un lungo costone spazzato dal vento. «Queste terre sono spoglie. Dovrò andare a caccia di piccioni, galli cedroni e conigli.» «Guardate laggiù», replicò Thorn, indicando con un ampio gesto della
mano. «In quella valle crescono pini bunya e alberi di lillypilly. Sull'Alderstone Edge, viticci dalle bacche commestibili coprono le rovine.» Sull'altro lato della valle si stendeva un costone lungo diverse miglia, che andava da nord a sud. Disposte a intervalli, sulla sua sommità, c'erano le rovine di alcune Torri. Molto più basse delle Stazioni di Collegamento o delle Torri d'Interscambio, erano strutture tozze e quadrate fatte di antiche pietre, in vari stadi di deterioramento. «Scommetto che sono le antiche Torri di Guardia dei confini, costruite quando l'est del Doundelding è stato diviso dall'ovest», commentò Diarmid. «I confini sono stati da tempo dimenticati, ma le Torri di Guardia rimangono. Si dice che le loro fondamenta scendano molto in profondità, affondando le radici in luoghi soprannaturali.» «La nostra strada attraversa quel costone», replicò Thorn. Rallentati nel cammino dal terreno diseguale e dallo strato di erba fitta, i tre arrivarono alla prima macchia di pini soltanto a metà mattina. Dopo aver posato l'equipaggiamento, il Dainnan si tolse gli stivali e cominciò a strappare robusti viticci dai cespugli circostanti. I pini, alti un centinaio di iarde, si stagliavano contro uno sfondo di nuvolette di passaggio. I loro rami più alti, simili a ossute braccia protese con mani fatte di foglie, si agitavano al vento. Stretta la daga fra i denti, il Dainnan passò un viticcio intorno al tronco più vicino e, dopo essersi annodato il resto del rampicante intorno alla vita, iniziò l'ascesa senza apparente sforzo. Appoggiandosi contro il viticcio, muoveva un paio di passi lungo il tronco, poi si protendeva in avanti per eliminare la tensione della fune improvvisata e la spostava più in alto. Con quel metodo, arrivò all'altezza cui crescevano le grosse pigne, e cominciò a tagliarle, gettandole al suolo, dove si spaccavano, rivelando noci grosse come un pollice. Thorn ancorò il viticcio a un ramo robusto e si passò l'altra estremità sotto una coscia e sulla spalla opposta, per farlo scorrere in modo graduale e costante mentre scendeva. «I bunya sono sempre ricchi di frutti», spiegò, balzando sull'erba. «Però, una volta ogni tre anni, ne producono assai di più. Fortuna ha voluto che ci troviamo in uno di quegli anni.» I tre banchettarono fino a sentirsi sazi, poi riempirono le sacche di noci e si rimisero in cammino. Ben presto s'imbatterono in un sentiero, incassato tra due terrapieni erbosi, che li condusse prima a una fila di pietre che permettevano di attraversare un ruscello e poi lungo un pendio cosparso di
lillypilly, tra le cui lucide foglie pendevano ricchi grappoli di grosse bacche rosate, che si staccavano con facilità. Il piccolo sentiero deviò poi verso la cima dell'Alderstone Edge. Mezzogiorno era ormai passato quando i tre raggiunsero il punto più alto. Dall'altra parte, il terreno digradava, ripido, in direzione di una valle punteggiata di alberi radi e segnata da moltissimi crateri. Grossi massi giacevano su un fianco o in mucchi e certi erano spaccati, come se una mano gigantesca li avesse scagliati lontano. «Emmyn Vale», disse Thorn. «Un tempo, i suoi pendii erano coperti di pini, susini ed erica. Adesso sono cupi e spogli, residenza stagionale di felhen e di altre creature soprannaturali.» I nudi fianchi della Thunder Mountain incombevano, ora più vicini. A sinistra e a destra, la fila di Torri di Guardia in rovina si stendeva lungo il costone. Lassù, il vento era teso e freddo e soffiava da sud-ovest; nubi pesanti oscuravano il sole, rendendo il paesaggio ancora più cupo e suscitando cupe premonizioni. In lontananza, un uccello da preda - forse Errantry ripiegò le ali e scese in picchiata. Quindi, portato dalla brezza, giunse un gracchiare di corvi o di cornacchie. «Questo pendio è troppo ripido», mormorò Diarmid, guardando verso il basso. «Dobbiamo trovare un altro punto in cui scendere.» Le nubi s'infittirono ulteriormente. Pareva che stesse per scoppiare una tempesta magica, senza però che si avvertisse quella sensazione che faceva vibrare il sangue. Nessuna scintilla magica apparve tuttavia a spargere luci evanescenti sul paesaggio. Invece, il vento smise di soffiare. Thorn si arrestò e rimase immobile come in ascolto. «Cosa c'è?» chiese Diarmid, dopo un momento. «Sono dunter.» «Dunter?» «Il loro rumore scaturisce dalle vecchie Torri.» Priva di tetto, coi muri danneggiati, la Torre più vicina si levava, aperta, sotto il cielo. I buchi delle sue finestre sembravano occhi intenti a osservare i tre viaggiatori. «Passando vicino alla Torre camminate con decisione. Non vi fermate e non mostrate timore», li ammonì Thorn. Imrhien cominciò a sentire un rumore costante, che s'intensificò non appena si avvicinarono alle rovine... Era un suono simile alla battitura del lino o a quello di una macina di pietra per l'orzo. A mano a mano che la Torre si faceva più vicina, il rumore divenne così forte da essere quasi in-
tollerabile. Vibrava nelle orecchie di Imrhien e nel suo cranio, facendo tremare il terreno e penetrandole nelle ossa dei piedi. Quando i tre arrivarono all'altezza della Torre, però, smise di colpo. Su ogni cosa scese una pesante cappa di silenzio, assordante quasi come il rumore di prima. Vedendo che Diarmid esitava, con lo skian in mano, Imrhien gli ricordò: Continua a camminare... I tre proseguirono senza arrestarsi. La Torre rimase immota e silenziosa, senza traccia di movimento dietro le finestre vuote o sulle mura coperte di vegetazione, tranne lo stormire dei viticci. Ciò che si annidava al suo interno, qualsiasi cosa fosse, non produsse altri suoni, tuttavia Imrhien percepì un'osservazione e un'attesa tanto intense che l'aria ne sembrò impregnata. Ma era anche una tensione fragile quanto una foglia secca. Non appena i viandanti si furono allontanati di qualche passo dall'edificio, il rumore riprese a imperversare, con la medesima intensità di prima. La pressione s'infranse e la ragazza esalò un tremante sospiro di sollievo. La distanza attenuò gradualmente lo stridio dei dunter fino a estinguerlo. «Che aspetto hanno i dunter?» domandò Diarmid. «Nessun mortale li ha mai visti», replicò il Dainnan, inarcando un sopracciglio. Il terreno iniziò a digradare verso il fondo della valle. «Potete scendere di qui, signora?» domandò Thorn a Imrhien, che scosse il capo con aria dubbiosa. La discesa era ripida: ostacolata dalle gonne lacere, la ragazza non era sicura di farcela. «In tal caso, proseguiremo lungo questo sentiero. Ci dirigeremo a nord, lungo il costone, e raggiungeremo quella tozza Torre laggiù. Se non mi sbaglio, si tratta della Ventinovesima Fortezza. Una volta che l'avremo oltrepassata, la discesa occidentale verso la valle risulterà abbastanza semplice e non vi darà problemi. Prima, però, dovremo attraversare la Ventinovesima Fortezza. Ma state attenti: per anni un berretto rosso si è annidato al suo interno, e può darsi che ci sia ancora. In tal caso, il suo berretto deve essere ormai piuttosto sbiadito, dato che, in queste regioni disabitate, è passato di certo molto tempo dall'ultima volta che è stato immerso nella tintura preferita dai berretti rossi, il sangue umano. La vista di tre mortali gli sarà gradita.» Deviando verso nord, i tre seguirono la sommità del costone fino alla Torre successiva. Il vento aveva ripreso a soffiare e volute di nubi nere stavano sopraggiungendo da sud-ovest. Sotto quel cielo marmorizzato,
incombeva la Ventinovesima Fortezza, una squadrata struttura di pietra chiazzata di verderame. Sulla sua sommità c'erano ancora alcuni merli e forse il tetto non era completamente distrutto. Di certo la parete meridionale, quella rivolta verso i viandanti, aveva retto bene alla devastazione del tempo e degli elementi. Tra le pietre massicce si aprivano strette feritoie e quelle poste più in alto sporgevano a formare piccoli davanzali, su cui alcune piante avevano gettato le radici. L'intera struttura era rivestita di viticci. La Ventinovesima Fortezza sorgeva a cavallo della parte più stretta del costone; su entrambi i lati, il terreno scendeva a precipizio. L'unico passaggio era attraverso l'edificio. I tre si fermarono davanti alla soglia. Era priva di porta, coperta soltanto da una cortina di viticci che avevano perso la maggior parte delle foglie. Benché secche e avvizzite, alcune però rimanevano ancora attaccate ai rami, insieme con piccoli frutti ovali: bacche commestibili. Il vento agitava gli steli dei viticci e sibilava nelle fenditure della pietra. Non si udivano altri suoni. L'ertish indugiò a scrutare l'iscrizione sbiadita incisa sulla soglia. «DAL MIO NOME MI RICONOSCERAI», lesse, lentamente. «Si tratta di un enigma di qualche tipo?» «Nessun enigma», rispose Thorn. «Coloro che hanno eretto queste Torri avevano l'abitudine d'incidere epigrammi sopra la soglia di ognuna. Detti del genere si trovano su ogni fortezza di confine.» Diarmid lanciò un'occhiata oltre la soglia e vide un giardino incolto cosparso di macerie. «Passerò per primo», disse, un po' troppo in fretta e a voce troppo alta. Estratto lo skian, si chinò, per passare sotto la cortina di vegetazione, ed entrò. Imrhien avanzò per seconda, seguita da Thorn, e lo vide scoccarsi una rapida occhiata alle spalle. L'interno risultò cupo e gelido. Raggi di luce grigia piovevano dai punti in cui calcina e pietra si erano staccate a rivelare il mondo esterno, un panorama di cielo e di nubi in corsa. In alto, i viticci la facevano ormai da padroni, ricadendo sotto il loro stesso peso a formare una densa rete di rami secchi e anneriti e di filamenti ingialliti. Avanzando con cautela in mezzo a quella vegetazione, senza fare rumore, i tre raggiunsero un'altra soglia che dava su una stanza interna, decorata come la prima. Sul lato opposto si apriva una nuova porta, abbastanza scura da sembrare nera, anche sullo sfondo della luce crepuscolare della camera interna. Da
essa filtrava un odore ripugnante e intenso. Ma soprattutto lì si avvertiva una presenza, una malevola consapevolezza... Lì c'era qualcuno o qualcosa che sapeva. Diarmid varcò la soglia. Imrhien stava per seguirlo, quando un grido roco infranse il silenzio e una luce gialla e malsana investì i loro occhi. Una volta abituatisi a quel chiarore, i tre distinsero un vecchio orco, basso e tozzo, con lunghi denti sporgenti. Le dita ossute, munite di artigli degni di un'aquila, serravano una torcia sfrigolante in una mano e un'asta di legno nell'altra. I capelli sporchi e arruffati ricadevano sulle spalle della creatura, che fissò gli intrusi con grandi occhi di un intenso color rosso. Ai piedi, l'essere portava stivali di metallo e la testa a pera era coperta da un cappello di un rosso sbiadito. Alle sue spalle, c'erano un focolare sporco di fuliggine, un ceppo e un'ascia. Su un tavolo di pietra, un galletto dall'aria avvilita era accoccolato in una gabbia di vumini. «Un ertish!» esclamò la creatura. «E il mio cappello che ha bisogno di colore nuovo! Il tuo sangue lo renderà più rosso, barba di carota!» Le vene si gonfiarono sul collo e sulle tempie di Diarmid, che protese il mento in avanti con piglio aggressivo. Con poche parole ben scelte - o forse scelte male - l'orco era riuscito a far arrabbiare l'ertish. E fu allora che quel giovane taciturno rivelò un talento formidabile, fino a quel momento del tutto nascosto. «Perché hai varcato la mia soglia?» domandò il berretto rosso, brandendo il bastone con aria minacciosa. «Era sulla mia strada», replicò Diarmid in tono piatto, soppesando lo skian nella mano e le parole nella mente. La creatura sputò con disprezzo verso il coltello. «Il tuo ferro non mi spaventa. Ti scaglierò contro delle pietre.» «Preferirei che scagliassi pagnotte», rispose l'uomo. «Vorrei vederti appeso a quegli alti bastioni!» «Con una solida scala sotto di me», fu pronto a ribattere Diarmid. «Una scala che si romperà!» «Soltanto per far cadere te.» Avendo pronunciato l'Ultima Parola, Diarmid era in vantaggio. A corto di risposte, la creatura serrò i denti, ribollendo d'ira e battendo a terra il piede. Poi un'ispirazione improvvisa gli illuminò la fronte sporca, come una luce palustre che si levasse da un acquitrino. «Vorrei vederti nel mare!»
«Con una buona barca sotto di me!» ribatté l'ertish, per nulla intimorito. «E la barca si rompe!» «E tu finisci annegato!» «Vorrei allora vederti nel lago!» «Dove mi metterò a nuotare», ritorse Diarmid, sulle ali dell'ispirazione. «Ma l'acqua è ghiacciata.» «E un fabbro la spacca col martello.» «E la morte se lo prende!» «E un altro il suo posto prende!» Quello fu un colpo da maestro... L'ertish era riuscito a dare una risposta in rima con la frase della creatura. Il piccolo orco era in netto svantaggio. La faccia del berretto rosso si fece purpurea, il petto si gonfiò come se stesse per esplodere. Ma, pur paventando la sconfitta, l'essere soprannaturale era ancora alla ricerca di parole. Simili a prugne troppo mature, gli occhi sembrarono sporgergli dalla testa. Il suo sguardo saettò all'intorno e infine si posò sull'ascia. Del resto, la brutalità era l'arma di difesa preferita da coloro che non avevano un ingegno affilato. «Ti farò a pezzi con la mia ascia!» «Colpirai soltanto la pietra», dichiarò Diarmid, spostandosi di lato con prontezza, a dimostrare la rapidità con cui era in grado di reagire. «Combatterò ancora.» «Sì, e ben presto ti sconfiggerò.» Il piccolo orco prese a farfugliare, a bocca aperta, sconcertato e sconfitto. L'ertish non seppe resistere alla tentazione di aggiungere un ultimo, trionfante insulto. «Prendi, piglia, la tua bocca è piena di mondiglia.» Fu davvero troppo. Il malvagio avversario del ragazzo si abbandonò a un ruggito di rabbia che terminò in un grido isterico. Poi la torcia si spense. Nell'ultimo chiarore, Imrhien vide Thorn avanzare con decisione. Le sembrò anche che avesse pronunciato una parola, ma non ne era certa. Nel buio, la ragazza si diresse verso la gabbia di vimini, la trovò a tentoni e la infilò sotto un braccio per poi correre verso la parete opposta, in cui doveva esserci un'uscita. Il cuore le si arrestò quando lei andò a sbattere contro la pietra gelida. Quindi, spostandosi alla cieca lungo la parete, si scontrò con qualcuno. «Morte e dannazione!» strillò Diarmid. «Sei tu, ragazza?» La mano di lui si chiuse intorno al braccio di Imrhien, tirandola di lato. I tre non si fermarono a discutere se il fatto di aver avuto l'Ultima Parola
li avesse salvati o no. Pochi momenti più tardi oltrepassarono una fitta cortina di vegetazione e riemersero sul lato settentrionale della Ventinovesima Fortezza. Il sole stava iniziando la sua discesa e, una quarantina di iarde più avanti, i tre lo imitarono, giacché erano arrivati in un punto dal quale il pendio era praticabile, come fece notare Thorn. Mentre scivolavano lungo la discesa, il galletto sussultò e sobbalzò nella sua gabbia, sotto il braccio di Imrhien. Una volta sul fondo della valle, i tre non si arrestarono e, prima di fermarsi per la notte, cercarono di allontanarsi il più possibile dall'Alderstone Edge. Il vento, che li aveva sferzati per tutta la discesa dal costone, non cessò di soffiare. Si ripararono a ridosso di un mucchio di massi e accesero un fuoco, vivido quanto il vento era intenso, sdraiandosi intorno a esso con sollievo e in allegria. Diarmid rievocò il suo duello verbale e il modo in cui aveva trionfato, diventando sempre più eloquente di fronte al suo attento pubblico. Il galletto, nero con piume ramate e verdi, se ne stava accoccolato nella gabbia con aria cupa, giacché Imrhien era riluttante a liberarlo finché non si fossero adeguatamente allontanati dall'Alderstone Edge. Appollaiato e curvo, Errantry stava adocchiando il galletto con aperto disprezzo. Sussultando, il rapace rigurgitò una pallottola di cibo, formata da parti irriconoscibili di qualche roditore. «Avreste dovuto vedere la sua faccia!» esclamò Diarmid. «I denti stridevano tanto che di certo si sentiva a miglia di distanza! Posso solo supporre che le sue vittime precedenti, nel vederlo, abbiano ceduto al panico e non siano riuscite a pensare con calma. In fondo, non è difficile avere la meglio a parole su qualcuno che ha il cervello di una pulce. Inoltre, io sono esperto in quel genere di duelli... Da ragazzo li facevo spesso con mio... con mio zio», concluse, incupendosi per i ricordi che lui stesso aveva evocato. Una volta, ho sentito Sianadh duellare a parole con alcuni uomini malvagi. Ha vinto lui, aggiunse Imrhien. «Quest'uomo di cui parlate... lo avete perduto?» domandò Thorn, scrutandoli in volto con aria grave. Diarmid annuì, troppo afflitto per parlare. «Mentre entravamo nella fortezza, mi sono guardato alle spalle e ho visto nove Cavalieri della Tempesta solcare il cielo verso sud, diretti a ovest», aggiunse Thorn, dopo qualche momento. «È insolito che viaggino insieme in numero così elevato. Sta succedendo qualcosa di grave nel
mondo... prima arriveremo in città e meglio sarà.» Non meglio, ma peggio... Perché allora ti perderò, pensò Imrhien. Poi ricordò anche i sicari del Mago e gli uomini del distretto del fiume, che potevano essere alla sua ricerca per via di ciò che lei sapeva sulla Scala d'Acqua. Possibile che quegli inseguitori fossero arrivati a Caermelor, per via di terra, d'aria o d'acqua? O che avessero inviato messaggi ad alcune spie nella Città Reale? Cenarono con noci di bunya, bacche di lillypilly, funghi marroni che crescevano tra le radici degli alberi e bacche, raccolte sull'Alderstone Edge. Diarmid arrostì su uno spiedo improvvisato due piccioni abbattuti con l'arco... a prezzo della perdita di tre frecce, cosa che lo irritava non poco. «Dovremmo cenare a spese di quel galletto», borbottò, divorando il cuore di un piccione. «Perché lo hai salvato, se non per mangiarlo?» Per il suo stesso bene, disse Imrhien, infilando tra le sbarre della gabbia alcuni fili d'erba e qualche sfortunato vermetto. E non gli permise di mettere le mani sul volatile. Oltre il riparo delle rocce, passò una marea di foglie, sospinta da una folata improvvisa. Sopra la torreggiante sommità dell'Alderstone Edge si stavano accumulando nubi temporalesche, il cui cuore nero era solcato da correnti turbolente. Cupe e minacciose erano le loro radici, di un bianco accecante era la sommità, appiattita dai venti intensi che ne soffiavano via i cristalli di ghiaccio. Verso ovest, la cima della Thunder Mountain sembrava aver chiamato a sé una massa di vapori grigi Il vento portò un lungo suono ululante, che cambiava direzione in modo insidioso... Non era un ululato di cani in caccia, bensì un verso profondo, che sarebbe potuto scaturire dalla gola di qualche creatura selvaggia così gigantesca da essere inimmaginabile. Come il muggito del boubrie, quel suono non aveva nulla di umano; era un grido permeato di disarmonie lamentose che facevano rabbrividire quanto lo stridere di un'unghia sull'ardesia. «L'Hooper?» chiese Diarmid in tono un po' troppo disinvolto, quando il verso cessò. «Un suo fratello. In queste regioni, è l'Howlaa che si rende utile, preannunciando le tempeste. In questo caso, tuttavia, l'avvertimento è un po' tardivo.» Nella penombra, verso ovest, la sagoma di luce bianca di un fulmine, simile a un cavo incandescente, apparve per un istante a collegare le nubi con la punta del Burnt Crag. Poi, in lontananza, si udì il rombo possente di
un tuono. Una raffica di vento aggirò la barriera di massi e aggredì il fuoco, levando nella notte una fontana di scintille. Grosse gocce di pioggia presero a cadere, rade, spegnendosi in un sibilo di vapore. «Dobbiamo cercare un riparo», decise il Dainnan, coprendo il fuoco con un po' di terra. Con mosse esperte, staccò quindi la corda dall'arco e la infilò sotto la camicia. I martelli celesti si abbatterono sulle più vicine incudini fatte di nubi. Un fascio di fulmini illuminò la notte di un intenso chiarore tra l'azzurro e il bianco e, per un istante fugace, rivelò uno spettacolo tanto inatteso quanto orribile. A meno di cento passi dall'accampamento, un enorme masso era sospeso nel cielo nero, come immobilizzato a metà del suo volo. L'illusione creata dai fulmini s'infranse allorché quel frammento di montagna si abbatté al suolo con uno schianto assordante, mancando i tre viaggiatori di stretta misura. Terra e ciottoli schizzarono ovunque. La terra vibrò. «Da questa parte!» urlò Thorn. Imrhien era così assordata dal fragore che non riuscì a discernere le parole del Dainnan, ma il bagliore di un altro fulmine le permise di vederlo mentre si allontanava, trasportando il suo equipaggiamento e con l'astore sulla spalla. Afferrata la gabbia del galletto, si affrettò a seguirlo, tallonata da Diarmid. Un fascio di crepitante luce azzurra mostrò che il primo, gigantesco masso si era spaccato a metà e che un altro stava solcando l'aria. Un terzo cadde pericolosamente vicino e fu seguito da una pioggia di massi più piccoli, delle dimensioni di una testa di uomo. La pioggia si trasformò in un martellare di rade gocce corpose. In fretta, i tre zigzagarono tra le sporgenze di roccia, le collinette erbose e i mucchi di massi fino a imbattersi in un sentiero, profondamente incassato nel terreno, che scendeva verso valle. Su entrambi i lati, c'erano alti terrapieni e pareti di roccia che nascondevano i bagliori della tempesta, ma che non potevano bloccare il terribile fragore dei tuoni e dell'impatto dei massi, né la pioggia sempre più fitta. Il sentiero continuò a scendere, restringendosi, finché le pareti non formarono una volta e si trasformarono in una galleria sotto una collina. All'interno, il buio era assoluto. «Aspetta! Non riesco a vedere nulla!» gridò Diarmid, con intenso sollievo di Imrhien che, in quell'oscurità, non poteva neppure comunicare con le mani. «Fermatevi qui», rispose la voce di Thorn, rassicurante, scaturendo dall'ombra. «Ben presto riuscirete a vedere.»
E infatti così avvenne. A poco a poco, i due si resero conto di trovarsi in una rozza galleria che scendeva nelle viscere di Erith. Ma come potevano vedere? Sembrava un mistero, poi però Imrhien notò alcuni funghi fosforescenti che crescevano sulle pareti, simili a quelli che aveva trovato alla Scala d'Acqua. «Dobbiamo scendere più in profondità», mormorò il Dainnan. «I foawr non sono davvero bravi tiratori e rischiano di far crollare l'ingresso.» I tre avanzarono di parecchie iarde nella galleria, poi si arrestarono. Le vibrazioni della battaglia in corso si avvertivano anche attraverso le pareti rocciose. «I foawr...» ripeté Diarmid, accasciandosi stancamente contro una parete. «Chi può sconfiggere a parole quei giganti? Hanno la testa di granito, la lingua di basalto e l'intelligenza del pidocchio di una pulce. Suppongo che non conoscano più di tre parole, e che si esprimano in una rozza lingua indecifrabile. Del resto, dubito che un uomo si possa avvicinare abbastanza da poterci parlare.» «Non sono neppure ben consapevoli dell'esistenza dell'uomo», aggiunse Thorn. «Questa valle è uno dei loro terreni di battaglia. Le tempeste scatenano il loro spirito bellicoso, ma del resto sono pronti ad affrontarsi di continuo, per il semplice motivo che lo hanno sempre fatto.» «Allora torneranno in pace, una volta cessata la tempesta?» «Può darsi di sì, come può darsi di no.» Ci fu un altro tonfo e una pioggia di ciottoli cadde dalla volta del passaggio. «Sono ciechi alla ragione e si scatenano senza bisogno di un' valido motivo.» Quello era un luogo in cui la luce del sole non protendeva mai le sue dita radiose a riscaldare la pietra, dove non c'era un'aurora che ponesse fine alla notte eterna. E quel gelo cominciò a filtrare dalle pareti umide, penetrando nel sangue di Imrhien. Nella sua prigione, il galletto sembrava quasi morto. Giacché l'aveva salvata, la ragazza si sentiva responsabile nei confronti della bestiola e ora sperava con tutta se stessa che riuscisse a sopravvivere. Quando lo prelevò dalla gabbia e lo tenne stretto contro di sé, il galletto scalciò debolmente e le zampe la graffiarono un poco. Dopo qualche momento, però, smise di lottare e giacque, inerte. Il mantello di Thorn sembrava avere qualità magiche; più di una volta Imrhien aveva avuto l'impressione che la sua stoffa irradiasse calore. Il Dainnan glielo avvolse intorno alle spalle, allungandolo a coprire anche il galletto. «Quella bestiola ha il letto migliore di tutti, stanotte», commentò poi,
con un rapido sorriso che fece vibrare i sensi di Imrhien come la corda di un arco. Il galletto puzzava e le aveva graffiato e sporcato le braccia, avvolte nelle maniche lacere. Il vestito della ragazza era ormai ridotto a un ammasso di stracci strappati; i suoi capelli erano arruffati e lei si sentiva il viso sudicio. Guardando Diarmid, anche lui ridotto in condizioni pietose, Imrhien ripensò all'ultima volta in cui aveva avuto modo di lavarsi. Era stato alcuni giorni prima, nel Mirrinor, e anche allora si era soltanto spruzzata con l'acqua fredda, perché non era sicuro immergersi in quelle polle magiche. Come facesse Thorn a rimanere in ordine e pulito - se per un trucco dei Dainnan o per qualche arte magica - rimaneva un mistero. «Bevete un sorso di questo. Vi libererà dal freddo.» Il Dainnan tolse il tappo a una fiala di cristallo rosso e la porse a Imrhien. Lei ne assaggiò il contenuto, poi passò la fiala a Diarmid, che bevve un sorso e annuì. «Senza dubbio, è una bevanda che riscalda il cuore. Cos'è? Non è né birra né sidro, né vino bianco o malvasia o qualsiasi altro tipo di sidro o di liquore che io abbia mai assaggiato.» «È nathrach deirge, chiamato anche Sangue di Drago... È un elisir di erbe.» «Che lingua è questa in cui talvolta vi esprimete, signore? Non l'ho mai sentita.» «È una lingua antica.» «Ho sentito dire che i Dainnan devono conoscere molte lingue.» Nell'oscurità, il tempo trascorse lento. Avvolta nel mantello di Thorn, con l'elisir che le scorreva nelle vene, Imrhien cominciò a sonnecchiare; stava per sprofondare nel sonno vero e proprio, quando sentì qualcosa che bussava, o martellava, a una certa distanza. Troppo stanca per badarvi, si addormentò. Il suo era un sonno profondo, una fossa nera che risucchiava tutta la luce circostante, in modo che nessun sogno potesse fluttuare su quell'abisso. Era un cunicolo senza fondo che si addentrava negli strati che separavano il soleggiato mondo dei vivi, sferzato dal vento, dalla quiete del mondo tombale, fatto di eterno silenzio e di freddo spietato. Imrhien spalancò gli occhi di scatto. Il richiamo prolungato che l'aveva destata all'improvviso si spense nel nulla, poi riprese daccapo. Le sue note rimbalzarono contro le pareti di
arenaria, percorsero la volta e s'incrociarono in una cacofonia di echi assordanti. Il galletto stava cantando. Imrhien si premette le mani sulle orecchie. «Dannati galli!» gemette Diarmid. «Non è dunque possibile riposare?» La ragazza cercò di zittire il galletto, ma esso sfuggì alla sua presa e le balzò sulla testa, affondandole le zampe nei capelli. Lassù, esso cantò una terza volta, poi tacque, limitandosi a piccoli versi soffocati che gli vibravano in gola. Irritata dal dolore, la ragazza lo colpì con la mano e lo fece saltare goffamente per terra. Da una ferita al cuoio capelluto, dove uno sperone le aveva lacerato la pelle, il sangue prese a colarle sulla fronte e in un occhio. Alla luce dei funghi, un paio di penne fluttuò al suolo. «Cos'ha questo gallo? Siamo nel cuore della notte!» si lamentò Diarmid. Un aroma di fumo di legna, misto a un profumo appetitoso, aleggiò lungo la galleria. Subito Imrhien si guardò intorno alla ricerca di Thorn, ma non lo vide. Alzatasi, cercò di afferrare il galletto, che la evitò. Allora la ragazza s'incamminò insieme con Diarmid lungo un tratto in salita della galleria, oltrepassandone l'ingresso e sbucando all'aperto. Il galletto li seguì, tenendosi a parecchi passi di distanza. Il sole non aveva ancora oltrepassato l'orizzonte e il grigiore precedente l'alba rivestiva Emmyn Vale. Ancora una volta, l'uhta si stendeva sul mondo. Era quell'ora silenziosa in cui la notte si separa dal giorno, le creature notturne cessano le loro attività e rivolgono lo sguardo a est, rizzando le orecchie. L'ora in cui gli uccelli iniziano a riscuotersi nei nidi, accennando un ciangottio nel prepararsi ad accogliere il sole. L'ora in cui le creature unseelie e gli altri incubi che popolavano l'oscurità facevano ritorno alle loro tane e ai loro nascondigli, per sottrarsi al chiarore del sole e attendere il ritorno delle tenebre. Dei foawr non si vedeva traccia, tranne che per le conseguenze della loro battaglia: alberi spaccati, cespugli divelti, ampie ferite nei fianchi delle colline, scintillanti rocce appena spaccate. Bocche nere si aprivano nelle colline e sotto i massi: gli accessi alla miriade di grotte che trapassavano il suolo su cui si trovavano. Nella luce del giorno, si vedeva che il sentiero penetrava nel fianco di una collinetta erbosa, e la vista di una porta che conduceva nel sottosuolo turbò Imrhien, destando in lei una strana sensazione, un misto di orrore e di eccitazione. Simile a un giglio rosso, un fuoco ardeva in una radura sassosa, in mezzo all'erica. Senza far rumore, Thorn emerse dalla penombra degli alberi
con le braccia piene di pigne di bunya e con Errantry appollaiato su una spalla. Inginocchiatosi accanto al fuoco, il Dainnan scuoiò un coniglio morto che giaceva già accanto a esso. «I foawr ci hanno fatto un favore», commentò allegramente. «Hanno abbattuto un pino bunya, e le pigne sono sparse per terra, pronte da raccogliere.» Il galletto si mise a scavare energicamente nel terreno, coprendo di polvere uno stivale di Diarmid. «Quest'uccello prima mi sveglia e poi mi sporca», protestò l'ertish. «Desidera avere una vita breve.» «Volatili del genere possono essere utili, perché riescono a cogliere l'arrivo dell'alba anche in luoghi oscuri», osservò Thorn. «Molte creature temono il sole e i foawr non fanno eccezione. Nel sentire il canto del gallo, che preannuncia l'avvicinarsi della luce, è possibile che perfino le creature più potenti fuggano per il timore.» Seduta accanto al fuoco per scaldarsi, Imrhien ripensò al suo vecchio tilhal, il galletto di legno. Le era stato sottratto dagli uomini che avevano rapito Muirne e lei, ma, già allora, stava andando in pezzi; poi Ethlinn le aveva dato l'altro tilhal, quello con la pietra forata. Il galletto di legno non aveva nessun valore, eppure glielo avevano tolto, probabilmente per bruciarlo sul fuoco. Quanta parte del tesoro della Scala d'Acqua era già stata razziata? Dove giaceva il corpo di Sianadh? Quegli uomini l'avevano seppellito o avevano lasciato i suoi resti a disposizione delle creature selvagge? Quell'immenso tesoro apparteneva di diritto alla Corona. Cosa avrebbe fatto il Re-Imperatore, quando avesse appreso della sua esistenza? Imrhien fu tentata d'informare Thorn della sua missione. In qualità di guerriero del Re-Imperatore, lui avrebbe potuto aiutarla, magari facendole ottenere un'udienza presso Sua Maestà. Dopotutto, lei era soltanto una lacera viandante dal volto devastato. Che possibilità aveva di parlare col ReImperatore? Nel migliore dei casi, le informazioni di cui lei era in possesso gli sarebbero arrivate tramite i cortigiani, ma ciò non aveva poi molta importanza, a patto che il sovrano venisse a sapere della Scala d'Acqua e delle azioni malvagie degli uomini del fiume. A quel punto, la sua missione si sarebbe conclusa e la Confraternita Dainnan sarebbe stata mandata a fare giustizia. Non ti fidare di nessuno. Non parlare a nessuno della tua missione finché non arriverai a Corte, aveva insistito Ethlinn. Anche allora, parla soltanto col Re-Imperatore, o coi suoi due uomini di massima fiducia. Imrhien aveva tracciato il segno che equivaleva a una promessa, quindi si riteneva vincolata da essa.
Oltre il costone, l'orizzonte orientale era chiazzato di un rosa orchidea, ma i primi raggi del sole non erano ancora visibili quando, da dietro una collinetta, scaturì una serie di sbuffi e di grugniti simili a quelli di un maiale selvatico. Poi qualcosa oltrepassò il crinale, arrestandosi per un momento, come se stesse annusando l'aria. Si trattava di un uomo gigantesco, dal petto massiccio, con una testa nera da maiale e due grandi zanne simili a quelle di un cinghiale. Quella formidabile apparizione s'incamminò lungo il pendio ancora in ombra, sollevando le gambe grosse come spessi prosciutti e i piedi grandi e tozzi, che avevano le dita disposte in una fila diritta. Per quanto massiccia, la creatura si muoveva in fretta, senza smettere di grugnire e di sbuffare. Thorn non sembrò preoccupato da quell'apparizione. «Non ci ha visti», disse. Reggendosi su una zampa, l'astore gli becchettò una ciocca di capelli. Nel frattempo, l'uomo-maiale si addentrò tra le collinette, scomparendo in lontananza. «Quello era Jimmy Piedequadro», commentò Thorn. «Quand'è nella forma di un maiale gigantesco, viene cavalcato per terra e per mare dai foawr. Nella sua forma attuale, invece, scaglia pietre come il resto di loro, ma senza causare gravi danni. Si è attardato troppo all'aperto... prima che il sole tocchi la terra, dovrà trovare un riparo.» Balzò in piedi, ed Errantry spiccò il volo con uno schiocco d'ali. Imrhien e Diarmid sollevarono la testa di scatto, pronti a cogliere eventuali pericoli. «Cosa succede?» chiese l'ertish. Thorn gli fece cenno di tacere. Giunse un vaghissimo rumore e, dopo un momento, Thorn si portò alle labbra il corno montato in ottone, traendone una lunga nota. «Dal nord mi è giunto il suono del corno di un Dainnan», spiegò poi. «Un membro della Confraternita chiede aiuto. Devo rispondere.» Si girò verso i compagni, continuando a parlare in tono pressante. «Quel segnale è giunto da molto lontano. Dovrò viaggiare in fretta, quindi non vi posso portare con me. È possibile che stia lontano per parecchi giorni e nel frattempo non è sicuro per voi rimanere qui... Quindi dovrete proseguire da soli e procedere nel sottosuolo, giacché la regione del Doundelding è un crocevia di creature soprannaturali. Numerose creature unseelie potrebbero passare di qui nel dirigersi al nord, ma, nel sottosuolo, incontrerete in prevalenza seelie. Seguite la galleria verso il basso e procedete diritto... essa attraversa numerose miniere, salendo e scendendo. A ogni diramazione, svoltate sempre a sinistra, tranne che al terzo e al settimo
bivio. Se seguirete queste indicazioni, emergerete nella parte occidentale del Doundelding, altrimenti vi perderete in quel labirinto e morirete... Devo affrettarmi. Bevete soltanto acqua corrente, mai acqua ferma. Approvvigionatevi bene e non accendete nessun fuoco nelle miniere. Prendete queste cose.» Consegnò ai due la fiala rossa, il mantello e altri oggetti, poi posò con leggerezza una mano sulla spalla di Diarmid e abbassò lo sguardo su di lui, essendo più alto di un paio di pollici. «Comandante», disse, in tono grave. «V'incaricherei di proteggere questa damigella, ma credo che, nelle situazioni in cui l'ingegno è più utile della forza, lei possa risultare la protettrice. In ogni caso, v'incarico di difenderla con tutte le vostre forze. Che possiate entrambi arrivare dall'altra parte sani e salvi.» Diarmid aprì la bocca per protestare, ma Thorn lo prevenne. «Non c'è tempo. Potrebbe essere già troppo tardi.» V'incontreremo ancora? chiese la ragazza, poi le mani le ricaddero lungo i fianchi, il palmo rivolto all'esterno. Lui le si avvicinò al punto che la fragranza di pino della sua persona le pervase i sensi, e il suo sguardo la trapassò come una scheggia avvolta nel velluto, perché la sua durezza era mista a dolcezza. «Che la nostra separazione non duri a lungo, Capelli d'Oro», mormorò. Errantry spiccò il volo con un suono frusciante, e il Dainnan gettò indietro il capo per guardare in quale direzione si era avviato. Per un momento, il suo profilo si stagliò nitido e perfetto sullo sfondo dell'alba. Poi Thorn si allontanò. Mentre il sole si levava sulla valle devastata, portando con sé il primo alito di un vento shang, Imrhien e Diarmid fecero colazione, immersi in un cupo silenzio. Il galletto arruffò le penne e si pavoneggiò intorno a loro con fare pieno di autorità: dato che l'astore se n'era andato, evidentemente si riteneva al comando della situazione. Sembrava anche aver sviluppato una certa simpatia per Diarmid, il quale peraltro continuava a scacciarlo col gomito, sforzandosi di non imprecare contro di esso per dimostrare di essere un gentiluomo. Imrhien, però, non se ne accorse neppure, perché le sembrava di aver inghiottito una pietra durante la notte e che essa le si fosse depositata nel petto, appena sopra il cuore. Era una sensazione di cui era divenuta consapevole soltanto dopo che Thorn se ne era andato e che le serrava la gola, al punto che non riuscì a mangiare nulla. Dalla campagna circostante giungeva il canto di alcuni uccelli, l'aria era sferzata da un vento freddo, e quel luogo appariva davvero triste. Mentre i
due viandanti si aggiravano fra i tronchi abbattuti dei pini bunya, raccogliendo tutte le noci che le sacche potevano contenere, dalle colline giunse il tintinnio di un milione di campanellini, come se un intero prato coperto di campanule dotate di batacchio si stesse agitando sotto la brezza. Poi le strane nubi della tempesta magica coprirono il sole e folate di vento agitarono gli abiti dei due umani. Imrhien provò il desiderio di mettersi a correre fino in cima alla collina, per balzare in aria e vedere se il vento poteva sostenerla e sollevarla nel cielo, lontano dal dolore della sua perdita. Sapeva che Diarmid l'avrebbe disapprovata, ma non le importava. Invece si legò sul capo il cappuccio. Le rocce scintillavano di luci argentee; su un pendio era in corso un sanguinoso combattimento tra due bande di guerrieri trasparenti, che indossavano armature antiquate ed elmi piumati. Tutti quei soldati erano immersi nel terreno fino alle ginocchia giacché, col tempo, il livello del suolo si era alterato. Più vicino, una giovane coppia in abiti contadini stava correndo su per una collina. L'uomo trascinava per mano la ragazza, che sembrava esausta, e dal viso di entrambi traspariva la paura. Continuavano a guardarsi alle spalle, in direzione di ciò che, molto tempo prima, li aveva inseguiti. Ormai più nessuno poteva sapere chi fossero e da che cosa fuggissero. Quando la tempesta magica si fu allontanata, i due viandanti erano ormai pronti a partire. Per prima cosa, si misero alla ricerca del passaggio. Costernati, si resero subito conto che le colline erano attraversate da innumerevoli ingressi sotterranei, la maggior parte dei quali presentava gallerie d'accesso infossate che arrivavano fino all'apertura vera e propria. «Siamo abbandonati a noi stessi da mezz'ora appena e ci siamo già persi», esplose Diarmid, mentre cercavano l'apertura giusta. «Forse, però, va bene una qualsiasi... Suppongo che siano tutte collegate.» Imrhien però scosse il capo. Le indicazioni di Thorn erano state precise: scegliere l'entrata sbagliata li avrebbe condotti nella direzione errata, incontro al pericolo. Alla fine si sedettero per terra, non sapendo cosa fare. «Dobbiamo trovare l'ingresso prima che scenda il buio», mormorò l'ertish, in tono cupo. «Di notte, quel Jimmy Piede-quadro tornerà in circolazione, e non abbiamo idea di cos'altro vaghi da queste parti, dopo il tramonto.» La ragazza sussultò e si guardò intorno con timore. «Non hai ancora motivo di temere!» esclamò Diarmid.
No, no. Dov'è il galletto? «Non lo so, e non m'importa.» Imrhien andò in cerca dell'animale e lo trovò appollaiato sulla cima di una collinetta. Tuttavia, quando gli si avvicinò, il galletto prese a trotterellare lungo il pendio opposto e, nel seguirlo, Imrhien giunse all'ingresso della galleria che stavano cercando... La riconobbe da una sporgenza di arenaria che ricordava un naso gigantesco. Il galletto era già all'interno, impegnato a dare la caccia agli insetti. Risalita la collinetta, la ragazza agitò le braccia per attirare l'attenzione del compagno; Diarmid la raggiunse in un attimo, e lei lo guidò alla galleria giusta, entro la quale il volatile era intento a razzolare. «Allora questo stupido gallo serve a qualcosa, dopotutto», grugnì il giovane, con un sorriso che esprimeva tutto il suo sollievo. Imrhien lanciò un'ultima occhiata verso nord, poi i due dissero addio ai cieli aperti e si addentrarono nell'oscurità. Gradualmente, gli occhi di entrambi si adattarono alla tenue fosforescenza dei funghi; vedendoci meno dei due umani, il galletto invece avanzava alla cieca e andava spesso a sbattere contro le pareti. Con riluttanza, Diarmid andò in suo soccorso e se lo sistemò su una spalla; per ringraziarlo, il volatile gli becchettò affettuosamente un orecchio. Dobbiamo stare attenti alle buche e contare le intersezioni, disse Imrhien, battendo un colpetto sul braccio del giovane. «Riesco a stento a vedere le tue mani», replicò Diarmid, socchiudendo gli occhi. «Vuoi dire che dobbiamo stare attenti a dove mettiamo i piedi, per non cadere in qualche pozzetto o in un canale di ventilazione collegato ai livelli inferiori? Sì, sono d'accordo. E dobbiamo anche cercare le diramazioni. Cos'è che ha detto... girare a sinistra, tranne che al terzo e al settimo bivio?» Imrhien annuì. Un'ora più tardi, i due non avevano ancora oltrepassato neppure una diramazione, e la galleria continuava a scendere. In lontananza, il rumore martellante riprese. Essendo impossibile distinguere il giorno dalla notte, i due si arrestarono allorché convennero che fosse più o meno mezzogiorno. Sottili rivoli d'acqua che colavano lungo le pareti rendevano difficile trovare un posto asciutto dove sedersi; uno strato di fango sporcava loro il volto e le mani, impastava gli abiti e i capelli. Frugando nelle sacche del cibo, trovarono quasi solo noci bunya, oltre a poche, avvizzite bacche di lil-
lypilly, ad altre bacche troppo mature e a qualche fungo schiacciato. Le noci erano un cibo ricco e nutriente, ma Imrhien intuì che ben presto se ne sarebbero stancati. Presane qualcuna, le triturò per il galletto, che le beccò con aria poco convinta. «Quei suoni martellanti rischiano di far impazzire», commentò Diarmid, alzando la voce nell'oscurità silenziosa. Alle sue spalle, il galletto emise uno stridio improvviso, strappando un sussulto ai viandanti, poi si lanciò lungo il passaggio. Le briciole delle noci sono scomparse. «Già, ed era un bel mucchietto. Quel galletto non può averle mangiate tutte in così poco tempo. Forse abbiamo compagnia», replicò l'ertish, riducendo la voce a un sussurro. Sembra che siamo soli... Lanciando un grido d'allarme, Diarmid raccolse da terra le sacche del cibo. «Avevo lasciato una manciata di noci proprio in questo punto, e sono sparite! Non posare nulla sulla roccia e togliamoci di qui!» Più avanti, un altro stridio scaturì dall'oscurità, poi il galletto tornò indietro di corsa e Imrhien lo prese in braccio. I suoi occhi, abitualmente dilatati in un'espressione indignata, apparivano ancora più sgranati del solito. I due camminarono per un paio di minuti, quindi posarono due noci sul pavimento di arenaria. Ai frutti non successe nulla finché li osservarono, ma, non appena distolsero lo sguardo, si sentì un lieve cigolio di pietra contro pietra, e il cibo scomparve. Un suono di cornamuse giunse all'orecchio di entrambi da un punto imprecisato, in basso e sulla sinistra. Sotto questo pavimento, qualcosa vive. Senza dubbio, ogni pietra è una botola. «Speriamo che non siano a caccia anche di cibo non vegetale.» Da quel momento, sembrò loro più saggio mangiare e bere mentre camminavano. Il suono delle cornamuse si fece più vicino. Quei rumori sotterranei non erano una novità per la ragazza, che ne aveva già sentiti nelle foreste a nord di Gilvaris Tarv. Crescendo, la musica parve levarsi da sotto i loro piedi, generando in loro una serie di brividi. Poi il suonatore di cornamusa si allontanò verso destra, imboccando un bivio a un livello sottostante, e i suoi accordi divennero sempre più indistinti. Una volta scomparsa la musica, anche il martellio cessò, e il silenzio divenne più pesante di prima. Il passaggio arrivò a una biforcazione. «Eccone una!»
I due imboccarono la galleria di sinistra. Il suolo roccioso aveva una pendenza ancora più accentuata e, sulla sua superficie viscida e irregolare, era facile perdere l'equilibrio. Laggiù, lontano da qualsiasi aiuto umano, un arto fratturato poteva rivelarsi fatale. Quel nuovo passaggio descrisse una serie di curve e di contorsioni tali da far perdere a entrambi il senso dell'orientamento e, dopo quelle che parvero ore, li condusse a una nuova intersezione. Là, si riposarono un po', perché di certo ormai doveva essere sera, da qualche parte sulle loro teste, con le prime, gelide stelle che affioravano nel cielo. Quando ripresero a camminare, il martellio riprese, più forte... Adesso sembrava che, a produrre quel rumore, fosse una vera moltitudine, e tutti picchiavano secondo un ritmo diverso, alcuni nelle pareti, altri nella volta o sotto i piedi. Forse chi generava quei suoni era nelle immediate vicinanze oppure molto lontano, in qualche altra sezione della miniera, e poteva darsi che il rumore venisse amplificato da qualche eco prodotta dalla galleria. Rendendosi improvvisamente conto che erano esausti, i due giovani si sedettero sul mantello. «Se qualcosa ci può difendere dai ladri sotto il pavimento, questo è il mantello del Dainnan, quali che siano le qualità magiche di cui è permeato», borbottò Diarmid. «Forse è ricavato da una stoffa tessuta da creature soprannaturali...» Per essere certi di non correre rischi, i due badarono a non lasciar cadere briciole. Quanto al galletto, rifiutò di posare le zampe per terra e finì per appollaiarsi su un ginocchio di Imrhien, mangiando e bevendo dalla sua mano. «Le miniere di stagno del Doundelding sono antiche», mormorò Diarmid, sbadigliando. «Qui gli scavi vengono portati avanti da secoli. Le vecchie miniere, ormai non più sfruttate, s'incrociano con quelle nuove a molti livelli, e il tutto è collegato a caverne naturali. A Tarv, negli alloggiamenti, il sergente Waterhouse raccontava spesso storie su questo posto.» Da quando il Dainnan si era unito a loro, l'ertish era diventato più comunicativo e socievole. In quel momento, però, Imrhien si sentiva le palpebre così pesanti da non riuscire quasi a seguire ciò che lui stava dicendo. «Dormi», gli sentì aggiungere. «Monterò io il primo turno di guardia.» Quando Diarmid la scosse per svegliarla, le fu difficile aprire gli occhi. Il galletto, che aveva dormito tranquillamente, saltò dalle sue ginocchia su quelle del giovane, affondò il collo nel petto piumato e richiuse gli occhi,
lasciando Imrhien sola a lottare per restare sveglia nella penombra eterna, ascoltando lo sporadico martellio, ora vicino, ora lontano. A tratti, si metteva a camminare avanti e indietro, desiderando che quella notte senza tempo finisse. Laggiù nelle profondità del sottosuolo, con miglia di arenaria che gravavano sulla loro testa, i due avevano un unico mezzo per sapere quando sorgeva il sole. E infatti, aprendo gli occhi, a un certo punto il galletto protese il collo, si scrollò, si guardò intorno e gonfiò il petto, come per una sorta di rituale. Aperte le ali e rivolto il becco verso il soffitto, intonò poi la sua fanfara, un suono squillante che si sarebbe spinto lontano, se fosse stato emesso sui campi o in una fattoria. In quel luogo chiuso, esso invece rimbalzò, facendo vibrare di echi le rocce. Quando anche l'ultimo grido trionfante si fu spento, il silenzio risultò assoluto. Arruffate le piume, il galletto si scrollò energicamente. Ancora intontiti dal sonno, e con le orecchie assordate, i due viandanti fecero colazione e ripresero il cammino. La galleria continuò a scendere verso il basso, sempre illuminata dai funghi, sempre viscida e umida. Si restringeva o si allargava, oppure descriveva alcune curve. In alcuni punti, la volta si faceva tanto alta da risultare invisibile; in altri, le pareti apparivano striate da strati di colore; in altri ancora, il cunicolo si allargava all'improvviso in una caverna dalla volta sorretta da colonne di pietra viva, e il gorgoglio dell'acqua corrente giungeva da dietro le pareti. Al terzo bivio, i due scelsero il passaggio di destra e il suolo divenne piano. Quel passaggio proseguì diritto per molte miglia, senza svolte. I due pranzarono Camminando, riluttanti a riposare su quel suolo insidioso e impazienti di concludere il viaggio. In quella galleria lunga e diritta, si sentivano vulnerabili; se fosse sopraggiunto un pericolo davanti a loro, o alle loro spalle, non ci sarebbero state vie di fuga. Inoltre, le pareti spoglie non offrivano caverne o nicchie in cui ripararsi. Spesso, i due si guardavano alle spalle, travolti dalla sensazione di aver sentito un rumore di passi che li seguiva. «Qualsiasi cosa viva quaggiù sa esattamente dove ci troviamo», grugnì Diarmid. «Ci ha pensato il nostro garrulo amico.» Nonostante quelle proteste, permise comunque al galletto di viaggiare sulla sua spalla. I due stavano cominciando a disperare di trovare il bivio seguente quando ne incontrarono due, in rapida successione. «Quattro e cinque! Mi chiedo quanti altri ce ne siano, dopo il settimo,
prima di arrivare all'uscita!» A quel punto, la galleria riprese a scendere in maniera scoraggiante. Apparve poi il sesto bivio e i due imboccarono la galleria di sinistra. Tutto sembrava procedere secondo i piani, quando infine arrivarono a una sezione del passaggio dove, in alto sulla parete di destra, si scorgeva un'apertura abbastanza grande da permettere a un uomo di passarvi, strisciando. A stento visibile nel bagliore fioco dei funghi, essa era in parte nascosta da una sporgenza di roccia e non c'erano gradini che vi arrivassero, soltanto numerosi appigli rozzamente scavati nella pietra. Perplesso, Diarmid si arrestò, grattandosi il mento, irritato dalla barba che stava riprendendo a crescere. Imrhien lo tirò per una manica, indicando. Quello è il settimo bivio. «Non ne sono certo. Non è come gli altri. Credo sia un condotto esplorativo che porta a qualche vecchio scavo, o soltanto un vicolo cieco.» Thorn ce lo avrebbe detto, insistette Imrhien, scuotendo con decisione il capo. «No, si sarebbe aspettato che scegliessimo il passaggio più ovvio, questo che continua diritto.» Quella galleria è la diramazione di sinistra. Io scelgo l'altra. «Io no», ribatté Diarmid, serrando la mascella. Erano in una situazione di stallo. Dopo un momento, Imrhien cominciò a scalare la parete, ma non era salita neppure di una iarda che il braccio di Diarmid le cinse la vita e la trascinò giù. «Stolta ragazza! Non andrai da quella parte.» Imrhien cercò di liberarsi, ma lui rifiutò di lasciarla andare. Pervasa da un'ira incandescente che le divampò nel cranio, la ragazza lo schiaffeggiò in pieno viso e lui abbandonò la presa così bruscamente da farla ricadere contro il muro. «Va', allora», ringhiò Diarmid, i pugni serrati e tremanti, sporchi di tintura di mallo di noce e di fango. «Però lo farai senza la borraccia e senza cibo.» Pur intuendo che lui non diceva sul serio, Imrhien comprese di essere in una posizione di svantaggio. Certamente Diarmid poteva costringerla ad accompagnarlo, trascinandola per i capelli. Lottando per soffocare la propria ira, lo oltrepassò con una spinta e imboccò a grandi passi la galleria che lui aveva scelto, sperando che dopotutto fosse la via giusta, ma nutrendo forti dubbi. Il passaggio prese a scendere. Immersi in un silenzio ostile, i due mar-
ciarono per circa un'ora. A mano a mano che la sua ira si dissipava, Imrhien si rese conto che, da qualche tempo, il martellio era scomparso. Gli unici suoni erano gli echi dei loro passi e l'occasionale, malinconico gocciolio dell'acqua che cadeva dalla volta. Davanti a loro apparve una barriera: un cancello arrugginito dalle spesse sbarre di ferro, simile a una porta secondaria, che ostruiva completamente il passaggio. Ora che si fa, comandante? chiese Imrhien, con un lampo sarcastico negli occhi. L'ertish non rispose. Prese invece a esplorare con le mani e con lo sguardo le fenditure delle pareti e del pavimento intorno al cancello. Finalmente trovò una leva e la mosse con forza. Da qualche parte, un antico meccanismo si mosse: con uno stridente gracchiare di carrucole e di molle prossime a cedere, la porta iniziò a sollevarsi, incastrandosi rumorosamente nella volta, sopra le loro teste, e lasciando la via sgombra. Il galletto si mostrò riluttante a proseguire, stridendo e allargando le ali. Diarmid gli scoccò un'occhiata di fuoco, come se lo considerasse un traditore, e prese ad avanzare. Tratto un profondo respiro, Imrhien lo seguì. Più avanti, lungo quel sentiero, i funghi luminosi diminuirono fino a scomparire, sostituiti da piccole luci azzurre che scaturivano da vermi luminosi che aderivano alla roccia, simili a incrostazioni di pietre preziose. L'aria si fece più densa e soffocante. Avendo camminato per tanto tempo su una superficie solida e uniforme, i due giovani non badavano più a dove posavano i piedi, e ciò fu un errore. Lo stivale di Diarmid si protese nel vuoto. Il tempo parve rallentare. Un condotto verticale si apriva nel pavimento, davanti a loro, e il giovane vi stava precipitando dentro. Barcollando sull'orlo dell'abisso, Diarmid cercò di arretrare. Dietro di lui, Imrhien protese la mano, però troppo lentamente, o almeno così le parve, dato che era in preda al terrore. Le sembrava che la sua mano stesse attraversando un fiotto d'acqua, invece che l'aria, e che il tempo stesse procedendo a ritroso, rallentando altresì le sue azioni. Lui era quasi scomparso, si stava librando là, in quel liquido gelatinoso fatto d'istanti sospesi, e tutto ciò che lei riuscì a raggiungere furono i capelli e una piega della giacca. Afferrata una manciata di entrambi, la ragazza si puntellò e si ritrasse con forza sufficiente ad alterare il debole equilibrio dell'ertisi!, che ricadde all'indietro, per terra. Il continuum temporale riprese allora il suo flusso consueto. Diarmid rimase disteso per un momento, col respiro affannoso, quindi entrambi
strisciarono fino all'orlo del pozzo. In basso non si scorgeva nulla: il condotto poteva essere profondo molte miglia oppure quanto una tinozza. Una sporgenza di roccia correva tra esso e il muro. Dobbiamo tornare indietro. «No. Il passaggio prosegue su quel costone.» Diarmid non guardava più i segni che lei tracciava, non le rivolgeva neppure lo sguardo. Tenendo la schiena saldamente addossata alla parete, oltrepassò il condotto, facendo scivolare i piedi di lato lungo la stretta sporgenza. Il galletto si trasferì sulla spalla di Imrhien che, ancora una volta, non ebbe alternative e dovette seguire il compagno. Una volta oltrepassato il condotto, avanzarono più lentamente e con maggiore cautela. L'aria era ancora più densa, i vermi lucenti più numerosi. Avevano percorso circa settecento iarde quando, nell'aggirare una svolta, si trovarono davanti una scena tale da togliere il respiro. Di fronte a loro si allargava una caverna da cui pendevano fantastiche stalattiti. La lenta erosione dell'arenaria da parte dell'acqua aveva prodotto tende, ali di uccelli giganteschi e canne d'organo. Alcune di quelle formazioni si erano unite alle stalagmiti, creando affusolate colonne. Come l'interno di un palazzo surreale fatto erigere da un Re folle, l'intera scena era punteggiata dal prezioso scintillio di milioni di vermi lucenti, immersi nei loro sogni di zaffiro. Imrhien si protese a toccare la spalla del compagno. Da che parte dobbiamo andare, adesso? Lui indicò il suolo. «Vedi, c'è un canale scavato nel terreno. Da questa porta, esso conduce attraverso la grotta.» In effetti, uno strano solco era stato scavato nella parete della caverna. Largo circa una iarda, era definito da lati paralleli e da una superficie interna perfettamente concava, liscia e lucida. Imrhien si guardò intorno, rendendosi conto che già da un po' stavano procedendo lungo quell'arcana incisione, che infatti si estendeva nella direzione da cui erano giunti. In essa c'era qualcosa che la turbava. Ma Diarmid aveva preso la sua decisione. Si rimise in cammino, attraversando la scintillante caverna di arenaria ornata di drappeggi scolpiti e d'immote ali di cigno. Il solco puntava dritto verso un'apertura sul lato opposto e ben presto i due si ritrovarono in un passaggio. L'aria stantia cedette il posto a una sensazione formicolante e a uno strano sentore metallico. Più avanti c'è la morte, disse Imrhien, assalita da un'improvvisa premo-
nizione. Torniamo indietro. L'ertish la ignorò. Un'altra caverna si aprì davanti a loro, la volta tanto bassa da sfiorare la loro testa. Nel centro si allargava un grande lago nero, uno strato di lucida ossidiana che rifletteva nelle sue profondità le stelle azzurre aggrappate alla roccia. La camera era come l'interno cavo di un cristallo scuro venato di pezzi di lapislazzulo; vagamente illuminato, il solco nel terreno puntava verso sinistra, descrivendo una curva intorno alla riva. Mentre lo seguivano, Imrhien ebbe l'impressione di vedere una sagoma scura fare capolino dalle acque oleose e immergersi di nuovo con lentezza. Un assoluto terrore s'impadronì di lei. Che cosa ci facevano lì? Diarmid li stava guidando verso una morte certa... Perché non gli si era opposta con maggiore determinazione, non lo aveva magari stordito con un sasso, per poi darsi alla fuga? Lui però stava continuando ad avanzare. Imrhien si lanciò un'occhiata alle spalle, verso l'ombra, e le parve che fuggire via da sola fosse ancora più spaventoso. In preda a un angoscioso tumulto interiore, proseguì. Oltrepassata la grotta del lago, il fetore metallico s'intensificò al punto di rendere difficile respirare. Una bassa vibrazione si levò attraverso la roccia, il profondo sibilo di un'energia contenuta, punteggiato da sfrigolanti crepitii e dall'odore di qualcosa di carbonizzato. Imrhien sentì un brivido correrle lungo la schiena. Più avanti, da dietro un angolo, giunsero lampi improvvisi, intensi come schegge di pura luce solare riflesse da un ghiacciaio. Una zigzagante scarica di energia colpì la parete, scavando un cratere di roccia fusa. Diarmid si girò allora verso la compagna, gli occhi simili a pozzi infossati nel volto pallidissimo. Le sue labbra si socchiusero e ne scaturì un sussurro soffocato. «La via non è questa.» Tornarono sui loro passi correndo. Ma erano andati troppo avanti. Oltre l'ultima curva, una cosa enorme e, a quanto pareva, dotata di corazza, iniziò a muoversi. Era la stessa cosa che aveva scavato il lungo solco nel pavimento di roccia, andando avanti e indietro per innumerevoli anni. Nelle profondità del Doundelding giaceva un antico segreto, raggomitolato alla base di una ricca vena di minerale prezioso che si stendeva fino alla sommità della Thunder Mountain prima di affiorare in superficie. Il Burnt Crag risucchiava tutte le scariche di fulmini di ogni tempesta che si scatenava nel raggio di miglia. La vetta era un punto focale, che reindirizzava quell'energia lungo la vena di minerale, fino alla preistorica creatura
senziente che attirava le scariche. Nelle profondità sotterranee, quella creatura si riscosse, perché era stata disturbata, e si mosse per cercare chi aveva infranto la sua quiete. Il suo corpo si srotolò, sinuoso; l'estremità anteriore oscillò, tozza e scintillante. Poi l'essere acquistò velocità. Sulla sua strada, due figure minuscole stavano fuggendo lungo la riva con un'audacia che aveva le sue radici in un panico incontrollabile. E, quando passarono davanti alla forma di vita che albergava nelle ombre liquide di quella cisterna sotterranea, essa scattò verso di loro. Le due figure continuarono a correre, l'una singhiozzando per il terrore, l'altra annaspando senza emettere suono; alle loro spalle, l'aria era illuminata a intermittenza da un bagliore tra l'azzurro e il bianco. Nel tempo che quella luce impiegò a oltrepassare il lago, proiettando i propri riflessi sull'acqua, la superficie era già tornata piatta e immobile, salvo che per un cerchio di piccole onde. Imrhien e Diarmid proseguirono la fuga attraverso la splendida caverna delle stalattiti, seguendo la liscia curva del sentiero tracciato dal serpente. Un raspare scivoloso e metallico riecheggiò nelle sale sotterranee, un suono simile a quello di un migliaio di cotte di maglia che venissero trascinate su una lastra di ferro cosparsa di rivetti, punteggiato da un continuo crepitio e da sibili sfrigolanti, come quelli del grasso caldo immerso nell'acqua. Senza fatica, l'inseguitore stava guadagnando terreno. I due infine giunsero al pozzo, che parve spalancarsi sotto i loro piedi, come se fosse deciso a coglierli alla sprovvista. Se n'erano quasi dimenticati. Furono costretti a rallentare e a muoversi con angosciosa cautela. Diarmid spinse la ragazza davanti a sé e disse, con voce roca e ansimante: «Va' tu per prima». Appiattendosi contro il muro, Imrhien scivolò dall'altra parte, il flusso dei minuti e dei secondi che sembrava di nuovo accelerarsi. Diarmid la seguì subito dopo, muovendosi come nella melassa, lottando contro una pressione invisibile che gli trasformava i tendini in piombo. Un vorticante sibilo di energia percorse la galleria, una luminosità bluastra s'intensificò sulle pareti, le spire metalliche stridettero sul minerale levigato. Diarmid era a metà del costone quando una scarica di energia sfrigolò nell'aria, staccando da sopra la fossa un pezzo di arenaria che, nella caduta, gli sfiorò l'orecchio, ricadendo quindi nel pozzo, anche se nessuno schianto indicò che quel frammento ne avesse raggiunto il fondo. Con un grande balzo, l'ertish oltrepassò l'abisso, atterrando goffamente dall'altra parte e rotolando su se stesso nel rialzarsi, per poi incespicare con un sussulto.
Mentre riprendevano la corsa verso la porta di ferro, i due udirono infine la vaga eco del pezzo di roccia infranto che colpiva il fondo del condotto. Qualsiasi speranza che l'inseguitore potesse essere fermato dall'abisso morì sul nascere. Il rombante sibilo che accompagnava il suo passaggio rallentò per un istante, poi riprese, sempre più vicino. In seguito, Imrhien si chiese con stupore come fossero riusciti a percorrere l'ultimo tratto, fino alla porta. I loro polmoni erano come mantici in fiamme, prossimi a esplodere, e Diarmid lanciava grida di dolore a ogni passo. Aggirando una curva, avvistarono infine la porta, sospesa sopra di loro, delineata dal chiarore tra il bianco e l'azzurro. Ci fu un bagliore luminoso, l'aria vibrò, sfrigolando, poi i due si lanciarono oltre la porta e Imrhien si protese verso la leva. Ma Diarmid spinse la ragazza di lato e afferrò l'impugnatura con entrambe le mani, abbassandola poi con tutte le sue forze. Spinta da un meccanismo arrugginito costretto suo malgrado a entrare in funzione, la porta cominciò a scendere, stridendo, come se protestasse per quel trattamento indegno. Aveva superato metà della distanza che la separava dal pavimento quando una forza, simile a un possente fuoco d'artificio, si scagliò, ruggendo, oltre la curva e andò a sbattere contro di essa. Ci fu un'ondata di corrente, una pioggia di scintille esplose in un ringhio fiammeggiante, e Diarmid venne scagliato all'indietro nel passaggio, dove giacque, immobile. Lacerato e distorto, il metallo stridette. Nel passaggio si succedettero momenti di oscurità assoluta e bagliori accecanti, per non più di un secondo per volta. Un minaccioso ronzio di energia riverberò attraverso le pareti e il pavimento. Gradualmente, quei fenomeni diminuirono d'intensità. Sembrava incredibile, ma la porta si era chiusa e, fedele al suo scopo antico di secoli, aveva retto all'impatto. La creatura vendicativa era stata arrestata. Con un fragore di dieci carri infranti trascinati sulle rocce da coppie di buoi, l'essere si allontanò. La ragazza era abbagliata dai riflessi stampati sulla retina, e riusciva a stento a scorgere l'uomo disteso al suolo. Diarmid era immobile, ma, quando lo toccò, Imrhien scoprì che il polso gli batteva, lieve e rapido. Poi, nella luce crepuscolare, vide il sangue scuro che gli colava dalla fronte, le mani annerite che si stavano già gonfiando. Sciolte le sacche che portava alla cintura, frugò al loro interno, senza badare al cibo che si rovesciava sul pavimento. Le bende usate quand'erano stati costretti a remare erano state lavate e arrotolate. Strappatane una striscia, Imrhien l'appallottolò a formare un tampone e l'applicò alla ferita alla testa, poi umettò le labbra di
Diarmid con qualche goccia d'acqua e gli fasciò le mani. Sopravvivi, ti prego, pensò. Sianadh, Licori, Muirne se ne sono andati. Non mi lasciare anche tu... Sei l'ultimo parente di Ethlinn. L'ultimo della mia gente. La gelida oscurità del sottosuolo li abbracciò entrambi in modo quasi amichevole. Diarmid non accennava a destarsi, e lei era sola. Il cibo sparpagliato al suolo era già scomparso: non rimaneva neppure una noce e... il galletto? Dov'era? L'avevano lasciato indietro? Quasi in risposta a quella sua tacita domanda, un fagotto di piume leggermente strinate saltò sul suo ginocchio dall'alta sporgenza di roccia su cui si era appollaiato. Imrhien strinse a sé l'animale. Sarebbe stato un compagno nelle lunghe ore di veglia che l'attendevano. E quelle ore furono veramente lunghe. Rimase seduta accanto a Diarmid, sperando che lui dicesse una parola o facesse un gesto. Il giovane aveva il volto arrossato, rovente, e lei vi applicò panni umidi per dargli sollievo; il suo respiro era affannoso e poco profondo. Imrhien aveva dimenticato quanto fosse stentoreo il grido con cui il fedele galletto accoglieva l'alba. Alla fine, fu quel suono a riscuotere Diarmid, il quale si sollevò a sedere borbottando, stordito. Gli ultimi echi del canto del volatile fecero addirittura cadere qualche frammento di roccia lungo le pareti e, come in risposta, si levò un rombo lontano, segno che, chissà dove, il delicato equilibrio legato a quei frammenti era stato alterato. Un tremito si scatenò allora nelle pareti e nel pavimento, e Imrhien afferrò Diarmid per un braccio, cercando di sottrarlo a una pioggia di ciottoli. Poi, mentre il terreno cominciava a stridere, condusse il giovane lungo la galleria, sorreggendolo perché zoppicava vistosamente. In quale punto si apriva quella piccola galleria, in alto nella parete? Possibile che l'avesse oltrepassata senza notarla? No, era là. Forse era il settimo bivio, forse no. Sali, ingiunsero le sue mani. La sofferenza traspariva da ogni muscolo del giovane, dal contrarsi del suo volto. Senza parlare, s'inerpicò lungo per la roccia diseguale e fino all'apertura, la cui volta tuttavia non era abbastanza alta da permettergli di alzarsi. Con un grido lamentoso, Diarmid si costrinse a entrarvi a testa in avanti, poi la ragazza e il galletto lo raggiunsero, proprio mentre il soffitto del passaggio sottostante crollava con un ruggito, riversando su di loro una nube di polvere. Tossendo, si allontanarono, strisciando carponi. Se dovesse rivelarsi un vicolo cieco, mai nome sarà stato più indicato,
pensò Imrhien. Ma il passaggio saliva, con una lieve pendenza, e sembrava davvero portare da qualche parte. Ben presto le pareti si allargarono e il soffitto si fece più alto, tanto da permettere a entrambi di alzarsi. Alla luce fievole dei funghi luminosi, Imrhien vide che le fasciature di Diarmid erano intrise di sangue, perché lui aveva strisciato sulla roccia con le mani bruciate e annerite. Il suo coraggio e la sua forza erano incredibili. Appoggiatosi alla parete, permise a Imrhien di accostargli alla bocca la borraccia quasi vuota, ma scosse il capo quando lei gli chiese se voleva riposare, deciso a proseguire. Divise tra loro le ultime gocce d'acqua, i due ripresero il cammino. Udire di nuovo il martellio fu un sollievo, perché quel rumore diede a Imrhien la certezza che erano sulla strada giusta. Diarmid si era fatto male a una caviglia e ciò li costringeva a fermarsi spesso, ma riuscirono a percorrere un tratto notevole. Giunsero infine a un ruscello. L'acqua limpida sgorgava dalle pareti e scorreva rumorosa in uno stretto canale per poi scomparire in una fessura della roccia. Pieni di sollievo, i due viandanti si dissetarono, si lavarono e riempirono la borraccia. «Slacciami la camicia, per favore», chiese Diarmid. «Qui fa molto caldo.» L'aria era gelida, ma lui stava bruciando. Con cautela, per non urtargli le mani ferite, Imrhien lo aiutò a togliersi la giacca e gli lavò i capelli con l'acqua fresca, notando che le radici rosse erano cresciute parecchio. «Sei gentile», commentò il giovane, con gli occhi scintillanti per la febbre. Il suo sguardo pareva sfocato. Imrhien s'infilò la giacca, perché in quel modo era più facile da trasportare, e perché al galletto piaceva appollaiarsi sulle spalline. Quella sosta aveva rinfrancato Diarmid, ma non gli aveva dato sollievo. Con cocciuta determinazione, lui si alzò, e la marcia riprese. Imrhien aveva l'impressione che fosse tardo pomeriggio, quell'ora in cui, in superficie, i raggi del sole cominciavano a protendersi in lunghe barre dorate sui prati e sui boschi, e gli uccelli volavano verso il nido. Laggiù, non c'era nulla che giustificasse quella sensazione, nessuna indicazione dell'invisibile viaggio del sole nel mondo esterno. Il martellio aumentò di volume e, nel percorrere un tratto in salita, i due viandanti arrivarono a un punto in cui le pareti del passaggio non erano più uniformi, bensì traforate da scavi e da piccole grotte. Poi giunse il rumore
di minatori impegnati a lavorare e Imrhien sentì nascere dentro di sé la speranza: forse soltanto una sottile partizione di roccia li separava da quegli uomini. Lei però non poteva lanciare loro un richiamo, e Diarmid non era in condizione di parlare. Ben presto, in quel rumore, si distinsero colpi di martello, esplosioni, stridii di ruote e di una carrucola, voci che gridavano ordini, che parlavano e che ridevano. I due giovani accelerarono il passo. Per quanto avvolto nelle nebbie della sofferenza, infatti, l'ertish sembrava trarre conforto dalla possibile vicinanza di un aiuto umano. Dopo un centinaio di iarde, però, le loro speranze crollarono miseramente. Si ritrovarono in una caverna laterale, rischiarata da decine di piccole lanterne rette da minuscole creature umanoidi che andavano avanti e indietro. Ciascuno di quegli esseri era alto una ventina di pollici, vestito come i minatori di stagno e di una bruttezza grottesca, benché il loro volto fosse allegro e gioviale. Erano impegnati con picconi, pale e piedi di porco, a spingere carriole o a trasportare secchi appesi a pali. Uno di essi svoltò un angolo, molto vicino ai due umani, e si arrestò di colpo, spalancando la bocca per lo stupore alla vista di quei mortali. «Credo che siano seelie», ansimò Diarmid, rivolto a Imrhien, poi spostò lo sguardo sul minuscolo minatore, e proseguì: «Puoi... mostrarci la via per uscire?» domandò. «Oh, Mathy, cosa c'è dietro di te?» esclamò l'ometto, indicando alle spalle dei due e aggrottando le strane sopracciglia. Nel loro stato di debolezza, i due si lasciarono ingannare e distolsero lo sguardo dalla creatura. Quando tornarono a rivolgerlo in avanti, una frazione di secondo più tardi, i minatori erano scomparsi... soltanto i loro minuscoli attrezzi giacevano là dov'erano stati lasciati, e nell'aria rimaneva una vaga eco di strida e di risatine. Avviliti, i due ripresero il cammino. Dietro di loro, sentirono le creature riemergere senza neppure attendere che fossero scomparsi e tornare alle loro attività. Ma sarebbe stato inutile cercare di prenderle alla sprovvista: ormai erano consapevoli della loro presenza e sarebbero svanite in uno sbuffo di polvere prima che i mortali potessero tentare di afferrarle, di trarre un respiro o anche solo di sbattere le palpebre. Quegli essermi sembravano molto impegnati nel loro lavoro, ma la ragazza non aveva visto traccia di minerale nei secchi e nelle carriole e, per quanto fossero muniti di picconi e di pale, nessuno di essi stava scavando. Nonostante tutto quello sfoggio d'industriosità, insomma, non stavano realizzando nulla.
Imrhien aveva la testa che le doleva, e non riusciva più a ricordare quando avesse dormito l'ultima volta. Lasciatisi alle spalle le creaturine, i due si ritrassero in una caverna laterale e si sdraiarono. Diarmid si addormentò all'istante, mentre Imrhien cercò di montare la guardia, però, ben presto, cedette al sonno. Accanto a loro, il galletto strinato sonnecchiò con un occhio mezzo aperto. In quel regno che si estendeva sotto le radici, le fondamenta, le tombe e i letti fluviali giunse un'altra alba priva di sole. Al cessare del consueto canto del gallo, reso più fievole dalla debolezza, non ci furono rombi o scricchiolii dovuti a spostamenti nella roccia. Evidentemente i sostegni in quella parte delle miniere erano robusti. Ritrovandosi senza cibo - tutto rubato oppure sepolto sotto la frana insieme con le sacche e col mantello di Thorn -, Imrhien dovette far ricorso alla fiala di Sangue di Drago, riposta nella cintura. Quell'elisir, infatti, poteva fornire loro un qualche sostentamento. E infatti la ragazza divise il liquido con Diarmid, e il calore da esso generato disperse il gelo perenne del sottosuolo. Con poca energia, il volatile prese a becchettare in giro, finendo per trovare qualche verme luminoso, che si affrettò a inghiottire. Diarmid si assopì e lei fu costretta a svegliarlo e a versargli in bocca un po' d'acqua, constatando che le sue condizioni erano peggiorate: il giovane aveva le labbra secche e screpolate, gli occhi vitrei, e non riusciva a parlare. Puntellandolo col proprio braccio, gli diede tutto il supporto possibile. Ripresero faticosamente ad avanzare. Il passaggio continuò a salire, costeggiando grotte laterali sempre più larghe, dov'era possibile intravedere gli sfuggenti piccoli minatori. Più avanti, essi divennero meno numerosi, fino a scomparire completamente. Fievole, il rumore dei loro scavi continuò a riecheggiare alle spalle dei due viandanti e davanti a loro. Dopo circa un'ora, il passaggio fiancheggiò un'apertura bordata da cristalli, dal cui interno giungeva uno scintillio di luci. Sopraffatto dallo sfinimento, Diarmid sedette a riposare contro la parete esterna di quella nicchia. Curiosa di scoprire la fonte della luce, Imrhien sbirciò all'interno e scorse tre minatori, appartenenti però a una razza diversa. I loro lineamenti erano quelli rudi di vecchi scavatori: si trattava di veri operai delle miniere. Quello di mezzo era seduto su una pietra, senza giacca e con le maniche arrotolate; tra le ginocchia teneva una piccola incudine, grande non più di
tre pollici quadrati eppure identica a quella di un qualsiasi fabbro. In mano stringeva un'asta di trivella, più o meno delle dimensioni di un ago da cucito, che stava affilando per uno dei minatori, mentre l'altro aspettava il proprio turno per far riparare il proprio piccone. Sentendo Diarmid gemere, Imrhien si girò per controllare come stava e, quando tornò a guardare verso l'apertura, si rese conto che i tre erano svaniti. Ma non se ne stupì. La cosa importante era aver raggiunto i livelli in cui le miniere di stagno del Doundelding erano ancora aperte. Piccoli binari correvano paralleli al passaggio lungo una rampa che arrivava al ginocchio. Veicoli di legno correvano su di essi, sospinti all'apparenza da semplici luci azzurre tremolanti, che agganciavano i binari di corda e trascinavano i veicoli senza sforzo apparente, benché fossero carichi di minerale scintillante. Però quelle luci erano ingannevoli; se non le si guardava direttamente, s'intuiva che esse si concentravano intorno a piccole figure che indossavano scintillanti berretti azzurri... Ma esserne certi era difficile. I piccoli minatori soprannaturali, tutti con le maniche arrotolate, erano intenti a scavare la roccia coi picconi e le loro lanterne gialle illuminavano mucchi di minerale già estratto. Avvicinarli era inutile, come lo era stato accostarsi a quelle creature che, più indietro, si limitavano a scimmiottare la loro attività. Bastava infatti che Imrhien distogliesse lo sguardo per un istante, o che sbattesse le palpebre, ed essi scomparivano. Quel comportamento era davvero scoraggiante, tanto che lei si ritrovò spesso sul punto di piangere, protendendo le mani sporche e cosparse di vesciche per implorarli di tornare indietro, di aiutarli, di mostrare loro la via d'uscita. Soltanto un particolare le dava coraggio... Senza dubbio, quei convogli in miniatura che andavano e venivano con tanta frequenza indicavano che Diarmid e lei erano vicini alla superficie. A un certo punto, il suolo del passaggio cedette il posto a una stretta scala diretta verso l'alto. Cominciarono così a salire ma, dopo numerose rampe, scoprirono di non riuscire a procedere oltre. Rotolando in una grotta laterale per riposare, bevvero una goccia di Sangue di Drago e cedettero al sonno così in fretta da non accorgersene neppure. Il galletto gridò con voce roca, come se avesse una spiga di grano infilata in gola. Sembrava avere ben poca voglia di lanciare il consueto richiamo, come se fosse spinto soltanto dal senso del dovere. Imrhien si trovò distesa sulla schiena, il freddo pavimento di adamanto che le premeva con-
tro le scapole. Rabbrividendo appena, fissò la volta illuminata dai funghi. L'effetto riscaldante della bevanda contenuta nella fiala rossa si stava dissolvendo. Erano davvero cinque i giorni trascorsi da quando avevano lasciato il mondo dell'aria e della luce? Oppure erano soltanto quattro, o invece sei, o venti? Si alzò. Senza il fuoco dell'elisir nel sangue, doveva infatti continuare a muoversi per tenere a bada il freddo. Svegliare Diarmid stava diventando sempre più difficile. Dopo molti scrolloni e qualche spruzzo d'acqua in faccia, lui infine riprese conoscenza e non chiese cibo, soltanto acqua, prima di alzarsi faticosamente per riprendere il cammino. La forza di volontà che lo spingeva era notevole, ma non sarebbe bastata a tenerlo in piedi ancora per molto. La scala continuò a salire, un'ora dopo l'altra, poi si tramutò in un'erta rampa, prima di tornare a essere una breve scala cui seguì un pendio non troppo ripido. Ormai il loro percorso si era allontanato da quello dei veicoli che procedevano sulle rotaie, e il rumore prodotto dai minatori si era spostato sulla destra. D'un tratto, un soffio d'aria fresca, pregno della fragranza delle foglie e dell'erba, investì i due giovani. Appollaiato sulla spalla di Imrhien, il galletto sollevò la testa accasciata, e la ragazza si girò con eccitazione verso Diarmid; concentrato sulla sua lotta per restare in piedi, lui non si era accorto di nulla. Impaziente, Imrhien trascinò in avanti il compagno stordito, aspettandosi d'incontrare da un momento all'altro un portale che si affacciasse sulla superficie. Ancora una volta, però, le sue speranze si dissolsero nella delusione. Il pendio smise di salire, appiattendosi. I lati del passaggio non erano più formati da solida roccia. Là, le grandi radici contorte degli alberi attraversavano la volta, formando arcate sopra la galleria e intrecciandosi nelle pareti. Numerosi vermi scintillavano come tubi di vetro rosa e insetti dotati di antenne si muovevano lungo le rientranze del terreno, piccole creature che il galletto aggredì con voracità. Un topo raggiunse di corsa un foro nella parete: una vista che disgustò Imrhien. Da più avanti, giunse poi un suono ronzante, misto a un canto corale, un insieme di voci da soprano e da basso. Si trattava di un suono acuto e dolce come la luce delle stelle, profondo e fresco come un lago montano. Quel suono sembrava provenire da dietro una porta di legno inserita nella parete della galleria; quando la raggiunsero, Imrhien l'aprì di una fessura e sbirciò con cautela oltre il battente.
Ciò che vide fu un'ampia caverna, ben illuminata, dove molte e strane vecchie sedevano, intente a filare, ciascuna seduta su una pietra di marmo bianco. Quelle donne erano afflitte da ogni possibile deformità e avevano tutte labbra lunghe, molto lunghe, con cui tenevano il filo. Una vecchia camminava avanti e indietro, impartendo direttive alle altre. Avvicinatasi a una filatrice, che sedeva un po' in disparte dalle altre, e che era la più brutta di tutte, le rivolse la parola, con voce appena avvertibile: «Arrotola il filo, Scantie Mab, perché è tempo di portarlo al suo posto». La ragazza richiuse il battente senza far rumore per non disturbare quelle creature. Del resto, nella camera non aveva individuato uscite di sorta. Puoi proseguire? chiese a Diarmid. Lo sguardo vitreo del giovane si posò sulle sue mani, senza vederle davvero. La marcia riprese. Più avanti apparve una luce... Non la luminosità delle lanterne o delle forme di vita sotterranee, ma la madre di ogni radiosità: la luce del giorno. Quella luce s'intensificò fino a cancellare il chiarore dei funghi e a tingere di bianco le pareti, ferendo gli occhi. Il galletto si slanciò in avanti con uno strano grido, e Imrhien ebbe l'impressione d'incespicare verso una fiamma di gloria, un fiotto di candore assoluto, al di là del quale c'era soltanto altro candore, più intenso e scintillante. Erano arrivati in superficie. 10 ROSEDALE ROVI E UCCELLI
Quanto dista la Valle delle Rose? Non troppo, seguendo il volo dei Corvi Neri. Lei è là, colei che all'alba attende, sempre il suo sguardo verso i cieli ascende. Quanto dista la Valle dei Rovi? La Nera Cornacchia è rapida di ali.
Lui è là, colui che del crepuscolo è in attesa, finché, fuggito il giorno, non sia la notte scesa. Il Canto della Sorella La galleria emerse sotto una piatta roccia che sporgeva dal fianco di una collina, dove felci e rovi crescevano a nasconderla. Sopra e dietro di essa, incombeva la cima dell'altura, a destra un pendio saliva a coprire la vista, mentre a sinistra e davanti si stendeva un rado boschetto di betulle. Direttamente sopra gli alberi, un sole giallo come un dente di leone andava incontro al tardo pomeriggio in mezzo a uno strato di nubi lanuginose. Una fila irregolare di uccelli stava attraversando quel panorama celeste e, sulle betulle, erano appollaiate alcune cornacchie, simili a disordinati frutti neri. Quei cupi volatili lanciarono un sordo richiamo, poi improvvisamente spiccarono il volo. Una brezza dolce e inebriante come il vino agitava le fronde, che sembravano annuire sotto il suo tocco; il galletto procedeva, becchettando e pavoneggiandosi intorno ai piedi di Imrhien e di Diarmid, il cui peso si era ulteriormente accasciato sulla schiena della ragazza. Dopo essersi passata il braccio del giovane intorno alle spalle per sorreggerlo, la ragazza prese a scendere lentamente il pendio collinare. Là non c'erano piste o sentieri, ma la loro meta si trovava a ovest, quindi seguivano il percorso del sole in mezzo agli alberi, con gli stivali che frusciavano tra le foglie color oro e bronzo. Le aperture tra i sottili, fragili steli permettevano di vedere una terra scolpita in una serie di formazioni innaturali sotto il suo manto erboso: tumuli dalla sommità piatta che digradavano sui lati, piramidi gigantesche, ampie scale tagliate nei fianchi delle colline, fosse dalle pareti verticali e piene fino all'orlo di acqua piovana. Una volta, quando si arrestarono per un momento di riposo, Imrhien si guardò alle spalle, scorgendo la Thunder Mountain che si stagliava contro lo sfondo del cielo, il suo picco affilato ammantato di nuvole. Debole, tanto debole che Imrhien dovette trattenere il respiro per coglierlo, un familiare rumore stridente giunse fino a loro, portato dal vento. Su un'altura, a sud rispetto al boschetto di betulle, sorgeva un vecchio mulino di legno, ricoperto di rose rampicanti, anzi così soffocato sotto quella profusione di viticci spinosi da non essere quasi riconoscibile come edificio. Lunghi terrapieni simmetrici si stendevano accanto a esso; da sotto la metà settentrionale dell'edificio, il terreno sembrava rimosso, perché da
quel lato le pareti si erano come afflosciate e un binario arrugginito, che un tempo passava su una rampa sorretta da traverse, arrivando al piano superiore, era parzialmente crollato. La maggior parte dei supporti si era infatti spezzata e la parte rimanente era sospesa a mezz'aria. Più in basso, altri binari, ancora attaccati alle traverse, pendevano su profonde depressioni; su tutte quelle pareti, sui tetti e attraverso le finestre passavano i viticci delle rose selvatiche, ricchi di boccioli tra il rosso e l'arancione e ancora punteggiati dalle ultime foglie autunnali. Quel luogo era la fonte della costante vibrazione prodotta dai dunter. La cosa più importante, però, era una capanna che s'intravedeva fra alcuni alberi annidati sui pendii sottostanti il mulino abbandonato. Un viottolo segnato da solchi di ruote arrivava fino a essa, passando tra siepi di biancospino che s'intrecciavano con cespugli di rosa canina. Una sottile voluta di fumo azzurro si levava dal camino: una vista gradita e invitante. Fu verso quell'abitazione che i due viandanti diressero i loro passi incerti, facendo appello alle ultime forze. Nell'avvicinarsi, sentirono a tratti un vago, nitido tintinnio. I tetti di paglia della capanna e degli edifici circostanti spuntavano da una distesa di piante di sorbo, ricche di bacche cristalline e, ai rami di quelle piante, erano appesi numerosi campanelli di bronzo, che tintinnavano dolcemente nella brezza. Un muro di pietra zigzagava dentro e fuori da quel boschetto e in esso era incassata un'ampia porta di legno che si affacciava sul vialetto. Il battente si aprì con facilità, dando accesso a un sentiero di lastre di pietra, bordato di cespugli di rose, che conduceva a una seconda porta, su cui una rosa rampicante era stata fatta crescere ad arco. Al di là di essa sorgeva la casa, coperta di glicini, di aquilegia e di rose tea rampicanti, le cui verdi foglie erano appena sfiorate dai colori autunnali e gli steli carichi di frutti erano simili a lampade ovoidali. Alcune nubi temporalesche cominciavano ad affluire da est, ma la luce del sole che filtrava tra i sorbi disegnava arazzi sul camino di mattoni che risaliva la parete orientale. Numerosi ferri di cavallo erano inchiodati sulla porta principale e su ogni finestra. Diarmid barcollò, si puntellò con una mano contro un palo del portico e recuperò l'equilibrio. Nel suo sguardo, Imrhien lesse la determinazione a ottenere almeno un risultato: rimanere in piedi finché non avessero trovato un rifugio. Vi prego, non ci scacciate, pensò la ragazza. Non disprezzate la mia bruttezza e dateci riparo.
Poi bussò per tre volte alla porta. Dall'interno giunse un rumore strisciante, come se qualcuno avesse spinto indietro uno sgabello o una sedia. «Padre, sei tu?» chiese una voce. Diarmid emise un fievole gemito. Un chiavistello scivolò indietro con uno scatto, poi un secondo, quindi la porta si aprì e, sulla soglia, apparve una giovane donna, che lanciò un breve urlo e richiuse con violenza il battente. Dopo un momento, la donna aprì di nuovo, con gli occhi sgranati. «Chi siete? Cosa volete?» «Per favore...» cominciò Diarmid, barcollando. Con un'esclamazione, la ragazza spalancò il battente. «Siete ferito! Perché non me lo avete detto subito?» Poi puntellò la spalla minuta sotto il braccio libero di Diarmid e aiutò Imrhien a trasportarlo all'interno quasi di peso; oltrepassandoli di corsa, il galletto balzò sull'arcolaio e da lì svolazzò fino alle travi del tetto. Le due giovani adagiarono il malato su un letto posto in un angolo, poi la ragazza sprangò la porta e cominciò a darsi da fare per la stanza, appendendo una pentola d'acqua sul fuoco, prendendo bende pulite e disponendo un po' di cibo sul tavolo. Inginocchiata accanto al compagno, Imrhien indugiò a osservarla. La ragazza sembrava più o meno dell'età di Muirne, una ventina d'inverni. Sotto il fazzoletto che le copriva la testa, i lunghi capelli apparivano di un ricco e lucido colore castano, ed erano parzialmente raccolti in una dozzina di trecce sottili sparse tra le ciocche sciolte. Le guance e le labbra erano di una vivida tonalità rosata; il suo abbigliamento pulito e ordinato era costituito da un abito giallo chiaro e da un candido grembiule di merletto bianco, legato con un fiocco sulla schiena. «Lava le ferite del tuo uomo», disse, posando una ciotola e un mucchio di panni puliti davanti a Imrhien. «Poi ti darò un po' di unguento da applicare prima di rifare la fasciatura.» Imrhien tracciò il segno che significava grazie e si mise al lavoro. «Tu non parli... Che ti è successo, colombina mia? Ti hanno fatto un incantesimo?» Quando le vecchie fasce, incrostate di sangue secco, gli vennero tolte dalle mani, Diarmid lanciò un grido, ma Imrhien continuò, imperterrita, a somministrargli le cure necessarie. «Parlate, signore», lo invitò con gentilezza la ragazza dai capelli castani. «Vedrete che, così, sentirete meno il dolore.» Cosciente, anche se con la mente confusa, Diarmid prese a farfugliare
qualcosa e, in mezzo a quel susseguirsi di parole prive di senso, riuscì a pronunciare il proprio nome e quello di Imrhien, prima di ricadere all'indietro con un gemito. La ragazza porse il balsamo a Imrhien e attese che lei finisse il suo lavoro. «Ora lascialo dormire. In ogni caso, ha troppa febbre per mangiare. Qualcosa lo ha aggredito.» Imrhien annuì. «Vieni a tavola, colombina mia. Hai l'aria affamata. A proposito, io sono Silken Janet e questo è il Briar Cottage, a Rosedale. Sii la benvenuta.» Essere finalmente pulita, coi capelli ben lavati, e giacere tra lenzuola linde, anche se ruvide, col ventre pieno di pane caldo e di latte... Be', se non era l'appagamento totale, poco ci mancava. Sebbene esausta, Imrhien non riuscì a dormire, perché il pensiero del Dainnan dai capelli neri non le dava tregua. Il suo sguardo prese a vagare sul chiarore del fuoco e sulla luce delle candele che si rifletteva sull'arcolaio, rischiarando le travi del soffitto, sulle quali il galletto dormiva in un tranquillo viluppo di penne. In un altro angolo, Diarmid si agitava e gemeva. Silken Janet aveva spazzato il focolare con un'ala d'oca e deposto un piattino di latte vicino alla soglia, per il riccio che veniva di notte, ma non era andata a letto; del resto, in quella capanna di una sola stanza c'erano soltanto due giacigli. «Mi preparerò un letto di paglia e di felci», aveva spiegato la loro ospite, ma poi non lo aveva fatto. Continuava a passeggiare avanti e indietro, inquieta, e arrestandosi di tanto in tanto vicino alle finestre sprangate, come se stesse ascoltando qualcosa. Poi s'inginocchiava accanto a Diarmid e gli tamponava la fronte con acqua fredda in cui erano state sparse foglie di menta. La pioggia prese a tamburellare sul tetto di paglia e gli animali della fattoria lanciavano i loro richiami dal buio, ma tutto ciò non parve turbare Silken Janet. Passate le mani sul grembiule candido, la ragazza prese l'ala d'oca e spazzò il focolare per l'ennesima volta. Quindi il vento agitò rumorosamente le imposte e lei alzò la testa di scatto. «Padre, sei tu?» Nessuna risposta. Imrhien si sollevò su un gomito. «Allora sei sveglia. Bene, perché io devo uscire», disse Janet, togliendosi il grembiule. «In questo modo ti potrai occupare della casa e di quel-
l'uomo, e tenere il fuoco acceso.» Questa ragazza è disposta ad affidare la sua casa e il suo focolare a due sconosciuti, pensò Imrhien. Ha capito tutto o è semplicemente ingenua? Janet prese alcuni indumenti stirati da una cassapanca. «Non puoi rimetterti addosso quegli stracci. Prendi questi miei vestiti. Se qualcuno dovesse bussare alla porta durante la mia assenza, non lasciarlo entrare. Da queste parti, dopo il tramonto, si sentono strani rumori. Ci sono alcune creature che si aggirano nei dintorni... Sorbo, ferro e campanelli non bastano a spaventarle. Ti potrebbe capitare di sentir piangere un bambino, oppure qualcosa del genere, ma, se dovessi aprire la porta per aiutarlo, entrerebbero un grosso toro nero, un cane spettrale o anche peggio. Se poi dovessi sentire uno sbattere d'ali contro le finestre, non aprire le imposte per guardare. Ricorda che le creature malvagie possono avere una voce molto accattivante. Ma non possono entrare, se non apri loro la porta.» La ragazza accese una lanterna e si gettò sulle spalle un mantello dotato di cappuccio. «Se però sentirai bussare tre volte, si tratterà di me o di mio padre, quindi lasciaci entrare. Mio padre è via da troppo tempo... È uscito alla ricerca di quei torelli che oggi si sono liberati dai loro stalli. Hanno rotto la staccionata e sono fuggiti; lui è andato a cercarli e non è ancora tornato. Deve essersi perso, ma io lo troverò.» Presa con sé la lanterna, Silken Janet prese un bastone appoggiato dietro la porta. «Fuori farà freddo. Tieni acceso il fuoco e ricorda quello che ti ho detto... Non aprire la porta, a meno di non sentir bussare tre volte, come hai fatto tu. Nessuna creatura può varcare una soglia, se non viene invitata a farlo.» Non devi uscire al buio, sotto la pioggia. È troppo pericoloso. «Non capisco i tuoi gesti, ma, a giudicare dall'espressione dei tuoi occhi, credo che, se anche li capissi, non darei retta ai tuoi ammonimenti. Arrivederci, ora, e chiudi la porta.» Tirati indietro i chiavistelli, Janet uscì con un frusciare di stoffa, richiudendosi il battente alle spalle. I suoi passi si allontanarono in fretta lungo il sentiero. Imrhien si affrettò a tirare i catenacci di ferro, indossò l'abito di cotonina di Janet e s'inginocchiò accanto al letto di Diarmid, per bagnargli la fronte, rovente di febbre. Quando infine lui smise di agitarsi e scivolò in un sonno più profondo, Imrhien aprì la piccola sacca da viaggio, che aveva portato appesa al collo con un laccio per tutto il viaggio da Gilvaris Tarv e che era rimasta intatta attraverso tante traversie. La chiave del cofanetto dei preziosi, le tre gem-
me e il bracciale di perle scintillarono alla luce del fuoco. Preso il filo di candide perle, lo depose nella cassapanca degli abiti di Janet e richiuse il coperchio. Poi mise un po' di legna sul fuoco, sedendosi su uno sgabello accanto al focolare per attizzare le braci, ascoltando il canto della pioggia. Le fiamme danzanti invasero il suo campo visivo, creando sagome fugaci di castelli montani, foreste contorte, draghi scintillanti, folle di esseri eterei. Imrhien cercò di ricordare il volto di Thorn, ma la sua immagine sembrò fluttuare lontano da lei, inafferrabile. La notte continuò a scorrere senza che Janet facesse ritorno. Cullata dal calore e dalla quiete, Imrhien cominciò infine ad avere sonno. Un paio di volte, quando Diarmid si riscosse dal sonno, gli diede un po' d'acqua. Il giovane sollevava lo sguardo su di lei, mormorando il nome della sorella in tono interrogativo per poi sprofondare nel delirio. Soltanto il ticchettio delle gocce di pioggia e il tintinnio sommesso dei campanelli appesi ai sorbi turbavano il silenzio della notte. Imrhien appoggiò l'attizzatoio contro un angolo del camino, lottando contro il desiderio di chiudere gli occhi. Janet l'aveva incaricata di «occuparsi della casa», e lei non doveva tradire la sua fiducia, per cui non poteva adagiarsi sul morbido letto e abbandonarsi al bisogno di dormire che ormai la stava opprimendo. La pioggia persisteva nel suo martellare. Impotente e in stato d'incoscienza, Diarmid giaceva con la bocca aperta, la fronte imperlata di sudore e le dita che si contraevano debolmente. Qualcuno bussò alla porta. Imrhien sussultò. I colpi caddero per tre volte sul battente di legno dipinto. La ragazza non corse immediatamente alla porta. Essendo priva di voce, non poteva chiedere chi fosse. Probabilmente si trattava del padre di Janet... Oppure era proprio lei, che stava dando il segnale prestabilito. D'altro canto, però, Janet avrebbe anche lanciato un richiamo... e poi era strano che non avesse sentito nessun rumore di passi avvicinarsi lungo il sentiero. Un pensiero improvviso la indusse a esitare: per puro caso, lei stessa aveva bussato tre volte, quand'era arrivata alla capanna con Diarmid. E se - per puro caso - qualche visitatore malintenzionato avesse fatto la stessa cosa? D'istinto, si coprì la testa col cappuccio, tirandolo in avanti in modo da nascondere bene i propri lineamenti deturpati. Di nuovo, tre colpi caddero sulla porta - più vigorosi - chiedendo che es-
sa venisse aperta. Imrhien prese una decisione. Quello era il segnale che Janet le aveva spiegato in tono grave, e lei non doveva venir meno alla sua ospite. Presa con sé una candela, si diresse verso la soglia, spingendo rumorosamente indietro i chiavistelli di ferro e aprendo il battente. Un uomo bruno entrò a grandi passi, scuotendo il mantello intriso di scintillanti gocce di pioggia. Thorn. Imrhien si lasciò sfuggire di mano la candela, che si spense. Quello però non era Thorn... I suoi occhi erano stati ingannati dalla nostalgia. No, quell'uomo era di statura più bassa. Era uno sconosciuto, fradicio di pioggia. Giovane e avvenente, coi capelli ricciuti, l'uomo le parlò in una lingua a lei sconosciuta. Probabilmente stava chiedendo se poteva scaldarsi vicino al fuoco, una richiesta che fece vibrare una corda nell'animo della ragazza. Appena poche ore fa anch'io ho cercato riparo, e non sono riuscita a farmi comprendere. Janet è stata così ospitale con me... Perché non dovrei fare altrettanto per quest'uomo, anche se la casa non mi appartiene? Pane e latte erano ancora sul tavolo, ma l'uomo non volle mangiare nulla di ciò che lei gli offrì e si limitò a sdraiarsi accanto al fuoco, addormentandosi. Imrhien si rimise a sedere sullo sgabello. La candela e la lampada si erano spente, però lei attizzò il fuoco con mosse lente e silenziose, per non svegliare i due uomini e, in quella luce vivida e allegra, lanciò un'occhiata allo sconosciuto. Il suo aspetto era insolito. Probabilmente i suoi capelli erano stati tinti, e da poco, perché, sebbene le radici fossero nere come il resto, la struttura del volto non sembrava quella dei feorh, né di qualsiasi altra razza che lei avesse avuto modo d'incontrare. Poi la luce intensa del fuoco le permise di notare un particolare che la immobilizzò: seminascoste tra i riccioli neri, c'erano due eleganti orecchie appuntite. Dunque, quell'uomo - quella creatura - era un cavallo d'acqua. Ed era venuto di notte... Dunque era una creatura del genere notturno, che non tollerava la luce del giorno. In qualsiasi momento, quell'essere avrebbe potuto assumere la sua forma equina e trascinarla in qualche lago o polla delle vicinanze, per divorarla sotto le sue acque. Soltanto il sopraggiungere dell'alba avrebbe potuto salvarla. Imrhien si costrinse a rimanere immobile, come di ghiaccio, seduta sullo sgabello accanto al fuoco, cosa tutt'altro che facile. Sul giaciglio, Diarmid dormiva in silenzio... Ma era impossibile prevedere per quanto
ancora lo avrebbe fatto. Qualsiasi movimento o gemito avrebbe potuto destare quella creatura malevola. La notte si fece più cupa. D'un tratto, Imrhien ricordò di non aver sprangato la porta. E ormai era troppo tardi. La pioggia si allontanò, lasciandola sola. Le grondaie presero a gocciolare in tono monocorde, mentre i campanelli attaccati al sorbo non producevano suoni. Ogni istante sembrava estendersi al massimo, fino al limite estremo, impedendo a Imrhien di calcolare quante ore mancassero all'alba. La ragazza non osava muovere neppure la punta di un dito. Se solo la creatura avesse continuato a dormire fino al sorgere del sole... Troppo presto, un ceppo crepitò, con una fiammata, e lo sconosciuto si destò. Sollevatosi a sedere, estrasse da una manica una lunga fila di smeraldi, che fece dondolare in maniera invitante davanti a Imrhien, rivolgendole un cenno d'invito con le dita snelle. I suoi occhi del colore del crepuscolo erano pieni di liquidi riflessi di desiderio e di morte, finestre che si affacciavano su qualche remoto mondo subacqueo. Quando Imrhien respinse la sua mano, la creatura le afferrò l'abito e lei si ritrasse con uno strattone, rovesciando l'attizzatoio che cadde sulla pietra del focolare. In reazione a quel tonfo, il galletto nero, appollaiato sulle travi, si svegliò e lanciò il suo grido. Allora la creatura unseelie si precipitò fuori della porta non sprangata e, dall'esterno, giunse un martellare di zoccoli che percorrevano il sentiero, oltrepassavano il cancello e si allontanavano al galoppo lungo il viottolo, verso ovest. Sulla scia della fuga della creatura unseelie si levò una potente folata di vento, che spalancò la porta, mandandola a sbattere contro la parete. Imrhien corse a richiuderla, ma poi si fermò con la mano sul chiavistello. Lungo il viottolo, da est, si scorgeva una luce incerta. Due figure si stavano avvicinando in fretta, tenendo alta una lanterna. Ben presto, i due oltrepassarono la porta del giardino. Imrhien distinse una donna, affiancata da un uomo alto, che avanzava verso di lei con passo veloce. La luce della lanterna si riversava sulle spalle ampie dell'alta figura e traeva bagliori color rubino nel labirinto dei capelli, che avevano il colore della notte. Nel petto di Imrhien scoppiò una tempesta improvvisa. La semplice vista di quell'uomo fu sufficiente a generare una scarica di energia in tutto il suo corpo, una scarica che raggiunse ogni nervo, togliendole il respiro. «Il Glastyn vi ha fatto del male?» chiese Thorn, sollevando la lanterna in modo che il suo chiarore dorato potesse riflettersi sul volto di Imrhien. Lei scosse il capo, incapace di tracciare qualsiasi segno, riuscendo sol-
tanto a fissarlo, a dissetarsi della sua vista come un viandante assetato placa la sua sete in un'oasi del deserto. Lo osservò, prendendo mentalmente nota di ogni dettaglio: la linea netta della mascella, gli zigomi alti, la piega decisa della bocca, gli occhi pervasi di un gelido fuoco che sembrava permeare ogni cosa, la grazia naturale del portamento, la mano lunga e forte con cui reggeva la lanterna... Sì, era proprio lui. «Giratevi», disse Thorn. Imrhien ruotò su se stessa. «Sì, vedo che state bene... E il Glastyn è fuggito davanti a voi come un cavallo spaventato. Notevole. Il comandante... è nella casa?» Sì, ma... «Aspettatemi dentro.» Senza ulteriori spiegazioni, Thorn si allontanò, aggirando l'angolo della capanna. Janet scoppiò a ridere e accompagnò dentro Imrhien, scrollando vicino al fuoco il mantello bagnato. «Chiudi la porta, mia colombella, lui tornerà tra un momento. È andato ad aiutare mio padre a sistemare i torelli. Sono riuscita a ritrovare mio padre, anche se il tuo avvenente Dainnan lo aveva già incontrato e ci ha riportati a casa entrambi, insieme coi torelli. Il Dainnan stava cercando te, e ci ha chiesto se ti avevamo vista. Io gli ho detto che eravate usciti entrambi dalle miniere. Tutto bene?» Imrhien annuì. «Ne sei sicura?» insistette Janet, scrutando la ragazza. «Probabilmente sei ancora scossa per lo spavento. Siediti al tavolo... Sei davvero pallida, bianca quanto il mio grembiule. Ancora un momento, e quella malvagia creatura equina avrebbe avuto la meglio su di te. Perché mai gli hai aperto la porta?» Stancamente, Imrhien batté tre volte col pugno sul tavolo, poi puntellò i gomiti sulle ginocchia e abbandonò la testa fra le mani. «Ti sto facendo troppe domande», si rimproverò Janet. «Mi dispiace, ti lascerò in pace. Come sta il tuo amico?» continuò, chinandosi sul volto del dormiente Diarmid. «Non va, non mi piace proprio. Ma adesso Janet è tornata, e sì prenderà cura di lui.» Mise un po' di legna sul fuoco, appese la pentola sopra di esso e s'immerse nei preparativi per una cena notturna, senza smettere di parlare. «La creatura che è stata qui era il Glastyn, eh? Un essere malvagio. Sei dunque una Carlin, per esserti liberata di una creatura del genere? No? Ti credevo una Carlin, perché i Carlin devono rinunciare a qualcosa in cambio dei loro poteri. Ho pensato che avessi sacrificato la voce o il tuo aspetto. Invece non hai avuto nulla in cambio, eh? Que-
sto è un mondo malvagio. È davvero orribile, che quella creatura unseelie sia entrata nella mia casa. Mi fa venire i brividi. Mio padre e io dovremo escogitare un segnale migliore dei soliti tre colpi... Siamo stati davvero stupidi, tutti possono bussare così!» Sul sentiero risuonò un rumore di passi. Preceduti da una folata di vento freddo e da un vorticare di foglie di rosa morenti, i due uomini entrarono nella capanna, Thorn chinandosi per evitare il basso architrave. Con mosse esperte dettate dall'abitudine, il padre di Janet sprangò la porta. Bianco di capelli, col cupo volto abbronzato e segnato dal sole e dal vento, quell'uomo conservava ancora parte dell'avvenenza giovanile, tranne per il fatto che era leggermente curvo, come se per anni avesse lottato per reggere sulle spalle un pesante fardello. Portava uno sbiadito cappello rosso, robusti stivali nei quali erano infilati i calzoni, un panciotto a scacchi e una giacca di fustagno. I capelli erano tagliati corti, appena sotto le orecchie; in mano stringeva un bastone dalla punta di ferro e, a un dito, scintillava un grosso anello d'oro con sigillo. Un cane snello e inquieto gli trottava accanto. L'uomo protese la mano verso Imrhien, col palmo verso l'alto e, quando lei gli porse la propria, si chinò su di essa, esprimendosi in un modo che era una via di mezzo fra i toni colti di un gentiluomo e l'accento contadino. «Siate la benvenuta, Lady Imrhien. Sir Thorn mi ha parlato di voi. Sono Roland Trenowyn, al vostro servizio.» Thorn si era subito avvicinato al giaciglio di Diarmid. «Com'è possibile? Ha su di sé il marchio del Beithir!» esclamò, posando una mano sulla fronte dell'ertisi!. «Brucia di febbre, però essa sta già calando, e lui ha la forza per combatterla, per cui credo che entro domattina si sarà rimesso. Se questo è il marchio del serpente del fulmine, però, ciò significa che avete preso la svolta sbagliata, nelle miniere. Scommetto che non è stata una vostra decisione, signora, quella che vi ha condotti nel covo del serpente.» «Beithir!» ripeté Janet, inginocchiandosi accanto all'ertish. «Ecco che cosa lo ha colpito. Prima d'ora non avevo mai visto nulla del genere. Poveretto.» «Suvvia, Janet», replicò suo padre. «Dato che Sir Thorn afferma che si riprenderà, non è il caso di tenere i nostri ospiti in attesa di mangiare. Signore, mia signora, vi prego di farci l'onore di sedere alla nostra tavola. Il nostro cibo è umile, ma è tutto ciò che abbiamo a disposizione. Qualsiasi cosa desideriate vi sarà fornita, se solo ne avremo i mezzi...» Tutte le voci svanirono, il pavimento s'inclinò e la stanza cominciò a far-
si buia lungo le pareti. Imrhien cercò di aggrapparsi al tavolo, ma esso sembrò spostarsi. Gli eventi degli ultimi giorni riemersero e la sopraffecero: l'attacco del Beithir, lo sforzo per trascinare Diarmid attraverso le miniere, le lunghe notti su duri giacigli di pietra, la fuga dalle grinfie del Glastyn e, infine, l'aver ritrovato Thorn. Fu come se una grande ondata di terrore, di disperazione e di gioia si fosse andata raccogliendo su se stessa mentre lei sedeva alla tavola dei Trenowyn, salendo sempre più fino a sommergerla. Di colpo, quell'accumulo di emozioni arrivò al punto di rottura. Ruggendo, l'oscurità insorse dai margini del suo cranio, poi l'onda si abbatté fragorosamente su di lei. Il galletto stava cantando. Immersa nelle ragnatele del sonno, Imrhien senti la voce di Janet che si rivolgeva al volatile. «Adesso tu verrai fuori con me nel pollaio. Quello è il posto adatto a te, dove non sveglierai la gente col tuo chiasso. Vieni. Razza di sciocco, ho una manciata di granturco per te!» Dopo qualche altro stridio e uno sbattere d'ali, la quiete tornò a regnare. Lunghe, lunghe ondate di nero oblio si abbatterono di nuovo sulla ragazza addormentata. Quando venne destata da un rumore vicino alla finestra e vide Janet spalancare le imposte, Imrhien ebbe l'impressione che non fosse trascorso neppure un minuto. Lunghi raggi diagonali di luce solare fiottarono nella stanza, insieme col dolce canto degli uccelli e col ricco sentore del terriccio umido e delle foglie bagnate; sui cornicioni, le colombe lanciavano il loro richiamo e da qualche parte, più lontano, si sentiva un chiocciare di galline misto a qualche muggito; un aroma di pane appena sfornato aleggiava nell'aria. Imrhien si sentì rinvigorita nella mente e nel corpo. «Buongiorno a te», sorrise Janet. «È una mattina splendida. Lo ha detto anche il tuo comandante, poco tempo fa.» Spinta di lato una tenda tesa in un angolo, Diarmid avanzò senza più zoppicare. Lavato di fresco e vestito con alcuni indumenti puliti prestatigli da Trenowyn - calzoni di lana, stivali di cuoio, una camicia di lino e una giacca spigata -, aveva l'aria di un gentiluomo di campagna, tranne per i capelli - a metà tra il castano e il rosso - che gli ricadevano sulle spalle. Imrhien balzò in piedi e gli corse incontro. Hai un aspetto splendido! In effetti, Diarmid sembrava del tutto ristabilito. Anche se la ferita sulla
fronte era ancora gonfia e coperta da una crosta, il colorito roseo delle guance non era dato dalla febbre, bensì da un ottimo stato di salute. Mostrami le mani. Stanno guarendo, rispose Diarmid. È una mattina splendida. E io ti sono debitore in eterno. Quindi posò a terra un ginocchio e baciò la mano a Imrhien. Infine si rialzò, protendendo i palmi. Il tessuto rovinato era stato rimosso e al suo posto stava già ricrescendo la pelle nuova, fragile e rosea; su ciascuna mano, però, era impresso un marchio bianco, che aveva la forma di una saetta. Gli unguenti della nostra ospite sono meravigliosi! Poi fermò le mani e aggiunse, a bassa voce: «Ho sentito che sei stata in pericolo, la scorsa notte. Come sei riuscita a sfuggire al Glastyn?» Il galletto ha cantato prima del tempo. Credendo che l'alba fosse prossima, quella creatura è fuggita. «Morte e dannazione!» esclamò Diarmid, stupito. «Allora quel chiassoso uccello ha più che ripagato il suo debito! Adesso dov'è?» Nel pollaio. Dal sentiero del giardino giunsero alcune risate e un rumore di passi, che indussero Janet ad affacciarsi alla finestra. «Eccoti qui! Hai passato una comoda notte nel fienile?» La ragazza apri la porta, lasciando entrare il padre. Thorn rimase sul sentiero, tenendo Errantry sul polso sollevato, gli artigli del fiero rapace serrati intorno alla polsiera di cuoio. L'astore allargò le ali per mantenere l'equilibrio, creando una folata d'aria che agitò i capelli sciolti del suo padrone come una massa di alghe. «Il vostro uccello attacca le cornacchie, Sir Thorn?» domandò Janet, adocchiando il rapace con aria allarmata. «No, se io glielo proibisco», rispose il Dainnan, fissandola negli occhi con un sorriso per poi riportare la propria attenzione sull'astore. «So-oh, Audace-e-Impavido!» E proiettò il braccio verso l'alto per aiutare l'astore a spiccare il volo, osservandolo poi prendere quota con un battere d'ali, passando sopra gli alberi. Infine si decise a entrare in casa. I cinque sedettero al tavolo per un'abbondante colazione. Essendoci soltanto quattro sedie, Thorn si appoggiò con la schiena alla finestra, con un piede sul davanzale e l'altro che dondolava; alle sue spalle si stendeva il cielo azzurro, e lui si voltò spesso a osservare le nubi spinte dal vento che correvano sulle cime degli alberi. Sembrava che trovarsi al chiuso lo rendesse irrequieto. Janet aveva preparato per loro mirtilli maturi, torta alla marmellata, ra-
barbaro e rosee mele cotogne in sciroppo al miele, pane e burro, uova strapazzate, crema e miele, formaggio stagionato e aromatizzato alla salvia, latte schiumoso, birra chiara e vino bianco. Gli ospiti le fecero i complimenti per quella tavola imbandita e le fecero onore. Le vivande erano così abbondanti e le cose da raccontare così numerose che il sole era già a metà della sua ascesa prima che il pasto si concludesse. I viandanti chiesero immediatamente notizie, e Trenowyn riferì che le Legioni del Re-Imperatore erano mobilitate a Caermelor, mentre le reclute per l'esercito e per i Dainnan venivano invitate a radunarsi a Isenhammer. Correva voce che fosse imminente un conflitto, perché le forze che si stavano radunando nella Namarre erano diventate assai consistenti. Se da un lato non si erano ancora mobilitate, dall'altro pareva certo che ben presto avrebbero attaccato nel sud. Thorn e Diarmid s'incupirono in volto. Il Dainnan si era messo alla ricerca di Imrhien e di Diarmid perché essi erano rimasti nelle miniere più a lungo di quanto lui avesse calcolato, inducendolo a credere che avessero preso una svolta sbagliata, emergendo dal sottosuolo da uno degli altri, molteplici sbocchi. Nel corso delle sue ricerche, Thorn si era imbattuto in Roland Trenowyn, il cui bestiame si era spinto molto lontano, e lo aveva aiutato a condurlo a casa; lungo la strada, i due avevano incontrato Janet. Diarmid interrogò poi Thorn in merito alla sua missione in risposta al suono del corno dei Dainnan. «A lanciare il richiamo è stato Flint, del Terzo Thriesniun», spiegò Thorn. «Lui e un gruppo di esploratori si sono trovati in grave pericolo, causato indirettamente da certe creature che dimorano nel sottosuolo. Conoscete i fridean?» «Io ne so parecchio», rispose Trenowyn. «Il sottosuolo del Doundelding è pieno di gallerie e di grotte che lo fanno somigliare a un nido di vermi. Sono i fridean a scavarle, come d'alte onde scavano gallerie nel sottosuolo di altre, remote regioni di Erith. Chi si trova su uno scavo dei fridean può talvolta sentire la loro musica salire dal sottosuolo e, chi si attarda poco saggiamente su di esso mentre un masso cade poco lontano, rischia di non trovarsi più il terreno sotto i piedi. I fridean non scavano con cura e oculatezza, come fanno le creature soprannaturali che gestiscono le miniere. I miei amici knocker puntellano le pareti delle gallerie e rinforzano la volta con spesse travi, mentre i fridean si limitano a scavare in linea retta, senza curarsi delle conseguenze. Quando incontrano una sostanza dura che non
possono intaccare, fanno una curva e continuano in linea retta in un'altra direzione. In questo modo, creano veri e propri labirinti, talvolta molto vicini alla superficie. Se poi una delle loro gallerie crolla, come succede, non se ne danno pensiero.» «Se vi capitasse di andare tra le colline e di sedervi su una nuda roccia per mangiare qualcosa, e se vi accadesse di far cadere un boccone o due, quel cibo sparirà in un istante!» aggiunse Janet. «Allora abbiamo incontrato i fridean nelle miniere!» esclamò Diarmid. «Sono state queste creature a mettere in pericolo la vita di Sir Flint e dei suoi uomini?» «No, perché esse non fanno del male ai mortali», rispose Thorn. «All'alba di quel giorno, però, è sopraggiunta una di quelle creature la cui gioia consiste nel distruggere tutti gli esseri viventi: si trattava del Cearb, che è soprannominato l'Uccisore. Dove esso cammina, il terreno trema. I Dainnan non erano consapevoli di trovarsi sopra uno di quei labirinti che i fridean hanno scavato molto tempo fa. Grandi crepe si sono aperte sotto i loro piedi, ed essi sono precipitati, dibattendosi, proprio mentre il Cearb piombava loro addosso... È un Signore degli Unseelie, dunque non teme la luce del giorno. È possibile sfuggirgli, se si è veloci nella corsa... Oppure bisogna che qualcuno lo attragga a sé, in modo da permettere agli altri di mettersi in salvo.» «Siete riuscito a soccorrere i vostri compagni?» chiese Janet, sgranando gli occhi. «Certamente. Il richiamo è stato lanciato per tempo e ha fatto sì che arrivassi nel momento cruciale», replicò Thorn. Poi, enigmaticamente, aggiunse: «Stavolta». E non volle dire altro sull'argomento. Adesso che Thorn e Trenowyn avevano raccontato la loro storia, fu la volta di Diarmid che, dopo aver mangiato con appetito prodigioso, riferì dell'attacco alla Carovana di Chambord, dell'incontro suo e di Imrhien col Dainnan e dei successivi vagabondaggi attraverso il Mirrinor e il Doundelding, più tutto quello che riusciva a rammentare delle miniere, aiutato dai gesti di Imrhien. Janet rimase in silenzio per tutta la narrazione, con gli occhi sgranati, troppo affascinata per portarsi anche un solo boccone alle labbra. I viandanti che passavano per Rosedale erano pochi, e raramente avevano voglia di scambiare qualche parola. «Però!» esclamò, quando la storia si fu conclusa. «Non avevo mai sentito nulla del genere in tutta la mia vita. E dite che ci sono dei trow oltre Emmyn Vale? Non mi sono mai spinta fin là, ma qui intorno i trow abbon-
dano, vero, padre?» «Qui? A Rosedale?» chiese Diarmid. «Sì, signore. Una volta, la famiglia del cugino di mio padre è venuta a trovarci senza preavviso e, dato che erano in sei, con quattro figli maschi grandi, mi sono trovata in difficoltà a sistemarli tutti per dormire e a preparare da mangiare, per cui ho dimenticato di fare alcuni dei miei lavori quotidiani. I trow pretendono che, una volta alla settimana, ogni focolare venga pulito completamente, che nessuno venga trovato accanto a esso, e soprattutto che in casa ci sia acqua pulita in abbondanza. Quella volta nulla di tutto ciò era come doveva essere... Io stavo dormendo vicino al fuoco, avendo ceduto ad altri il mio letto e, al loro arrivo, i trow si sono infuriati, facendo tanto chiasso da svegliarmi. Gli ospiti erano così ubriachi che hanno continuato a dormire, e mio padre non si è destato, stanco per la giornata di lavoro. In ogni caso, svegliandomi, ho visto due femmine di trow sedute non lontano da dove io ero distesa, una di esse con un adorabile neonato. Quella senza il bambino stava cercando dell'acqua pulita e, non trovandone, si è vendicata, servendosi del primo liquido in cui si è imbattuta. Il caso ha voluto che si trattasse di un barilotto di swatts che stava riposando in un angolo. Senza dubbio, comandante, voi sapete cos'è lo swatts, dal momento che proviene dalla Finvarna, ma non è una bevanda diffusa nell'Eldaraigne.» Si rivolse allora a Imrhien. «Mio padre e io prepariamo un piatto chiamato sowens, che si ottiene mettendo a mollo nell'acqua i gusci dell'orzo. Allorché quella mistura fermenta leggermente, la facciamo bollire per renderla commestibile. L'acqua che copre il sowens viene chiamata swatts. Le trow hanno versato un po' di swatts in una bacinella e l'hanno usata per lavare il bambino e i suoi vestiti, poi hanno rovesciato di nuovo il tutto nel barilotto, dicendo: 'Prendetevi questo, per non aver tenuto acqua pulita in casa'. Dopo, si sono sedute accanto al focolare, coi vestiti del piccolo appesi ai loro grossi piedi, tesi vicino al fuoco per farli asciugare!» Perfino il volto cupo di Trenowyn si rischiarò leggermente di fronte al quadro dipinto dalle parole di Janet. Diarmid sorrise e Thorn scoppiò in una risata che portò un velo di rossore sul volto di Imrhien. Janet riprese con entusiasmo la narrazione. «Io stavo osservando tutto, e sapevo che, finché avessi tenuto gli occhi fissi su quelle creature, esse non se ne sarebbero andate. Così, ho continuato a fissarle e ad ascoltare la loro conversazione, nella speranza di sentire qualcosa che valesse la pena di ricordare. Ma le due trow hanno cominciato ad agitarsi, smaniose di andarsene prima
dell'alba. Alla fine, una di esse ha infilato l'attizzatoio nel fuoco sino a farlo diventare incandescente, poi lo ha afferrato e mi si è avvicinata, puntandomi l'attizzatoio verso gli occhi con un sorriso orribile. Quando me lo ha avvicinato agli occhi, ovviamente, ho sbattuto le palpebre e ho urlato; approfittando dell'istante in cui avevo gli occhi chiusi, le trow sono fuggite. Il mattino successivo, andando a prendere il sowens per la colazione, abbiamo trovato nel barilotto soltanto acqua sporca!» «Le trow sono pronte a offendersi quando la casa non viene tenuta a dovere», commentò Trenowyn. «Ma quella è stata l'unica volta in cui è successa una cosa del genere, e non è stata colpa di Janet.» «Bisogna stare attenti, coi trow», proseguì Janet. «Portano via animali o perfino uomini, donne e bambini, e lasciano al loro posto un'immagine illusoria. Qui, ci è successo una volta. In una bella mattina, io e mio padre ci siamo alzati presto per vedere il sorgere del sole - perché da questo si può determinare se sarà una buona giornata - e, nell'oltrepassare il cancello laterale, abbiamo visto due ragazzi vestiti di grigio che percorrevano il vialetto sottostante la casa. Abbiamo pensato che fossero due viandanti provenienti dalle miniere, ma, una volta giunti all'altezza della casa, i due hanno lasciato il vialetto e si sono diretti verso il punto in cui la nostra mucca da latte, Daisy, era sdraiata sull'erba. Si sono avvicinati a lei, poi si sono girati e sono fuggiti di corsa, imitati dalla mucca, finché non è stata trattenuta dalle pastoie. A quel punto, sono arrivata al cancello, e posso giurare di averli visti tutti e tre risalire di corsa la collina, fino alla cima. Quando siamo andati a controllare, però, Daisy era ancora al suo posto. La mucca è morta quel giorno stesso, quindi è chiaro che i trow hanno preso quella vera e hanno lasciato un'illusione a morire al suo posto.» «Già, ma in precedenza quelle creature delle colline avevano fatto anche di peggio», aggiunse il padre, scambiando uno sguardo con la ragazza, che annuì con un brivido. «In una notte d'inverno, io ero lontano da casa a causa di un breve viaggio. Tornavo attraverso le colline, col buio, ed ero ormai vicino al cancello esterno quando ho incontrato un gruppo di trow che trasportava un fagotto. Nel guardare il loro carico, ho avuto una strana sensazione, ma li ho lasciati passare e mi sono affrettato a raggiungere la capanna. Non appena sono entrato, ho visto che Janet non c'era più, e che i trow avevano lasciato un'effigie sulla sedia che lei occupava di solito. Rapido come il pensiero, ho afferrato l'effigie, che somigliava a Janet in tutto e per tutto, ve lo garantisco, e l'ho gettata nel fuoco.» «Morte e Dannazione!» esclamò Diarmid. «Come potevate essere certo
che non fosse vostra figlia?» «Ecco... Se un uomo non è in grado di riconoscere il modo di salutarlo della propria figlia, che sorta di padre è?» rispose Trenowyn. Poi distolse lo sguardo per un momento, e gli altri non riuscirono a cogliere la sua espressione. «Cos'è successo, dopo?» chiese Thorn. L'effigie ha preso subito fuoco e si è levata nell'aria, in mezzo a nubi di fumo, scomparendo nel camino. Nel momento in cui è svanita, Janet è entrata nella capanna, sana e salva. Poco tempo dopo, abbiamo comprato potenti talismani da un Mago di Isenhammer, e da allora i trow non sono più entrati in casa, cosa di cui sono lieto.» «Si può supporre che vi siate guadagnato il loro rispetto», suggerì Thorn. «Ecco... Non lo so, Sir Thorn», balbettò Trenowyn, imbarazzato. «Forse mi sono guadagnato il rispetto degli knocker, ma non ho mai pensato lo stesso dei trow.» «Che sorta di creature sono gli knocker?» volle sapere Diarmid. «Sono piccoli minatori seelie, comandante, gli stessi che avete visto nel sottosuolo del Doundelding e nelle profondità delle colline di Rosedale. Per noi sono una vera benedizione. Non come quegli stupidi coblynau, che non fanno nulla. I piccoli knocker - alcuni li chiamano bockle - sanno dove si trovano le vene ricche di minerale, lo estraggono e lo caricano sui loro veicoli, tirati dai berretti azzurri. Ogni notte, portano il minerale in superficie, fino a un posto chiamato Tinner's Knoll... da qui non lo potete vedere. Là, rovesciano il carico nel mio carro, che lascio di solito all'ingresso della miniera. Quand'è pieno, attacco i torelli e lo porto a Isenhammer per vendere il minerale. Quello è il posto dove ci sono le fornaci, e si trova a cinque giorni da qui, a due giorni di viaggio dalla King's Cross. Fra tre giorni andrò a portare un carico, se volete venire con me. Una volta ogni quindici giorni, salgo alla miniera e lascio in un angolo il pagamento per gli knocker e per i berretti azzurri, tenendo per me una piccola cifra per il trasporto. È così che ci guadagniamo da vivere, con questo, col bestiame della fattoria e con le rose coltivate da Janet. Io non truffo mai gli knocker, e loro sono sempre onesti con me. Non conviene truffare le creature soprannaturali: sono industriose e pretendono, giustamente, di essere pagate per il loro lavoro. Se sborsassi una sola monetina meno del prezzo esatto, s'indignerebbero e non ritirerebbero il pagamento, mentre se ne pagassi una di troppo, la lascerebbero sul posto, e s'infurierebbero in pari misura!»
«Forse le vene sono ancora ricche», osservò Diarmid. «Ma quelle piccole creature non possono certo estrarre grandi quantità di minerale. Perché gli uomini non sfruttano le miniere del Doundelding e di Rosedale? A giudicare dall'aspetto di questa valle, direi che qui gli scavi sono stati abbandonati da tempo.» «E non vi sbagliereste, signore. Una volta, molto tempo fa, gli uomini lavoravano in queste miniere, ma ora non più. I minatori rifiutano di avvicinarsi alle aree in cui lavorano i bockle, per quanto alta sia la paga offerta. In passato, qui c'era un vecchio mulino che serviva per concentrare il minerale. Gli scavatori sotterranei ne hanno minato le fondamenta, non molto prima dell'arrivo degli knocker e dei berretti azzurri - almeno così si dice ed esso è sprofondato. Però è successo prima che noi arrivassimo qui.» «Io guadagno qualche moneta in più», interloquì Janet. «D'estate, quando le rose fioriscono, le raccolgo e distillo un nettare di rose da vendere come profumo alle dame di Isenhammer. Preparo anche aceto di rose, miele di rose, olio di rose e perline di petali di rosa. Questo giaciglio profuma per tutta l'estate, vero, padre?» «Quante perline si possono fabbricare dai petali di una rosa?» intervenne Diarmid, incuriosito. «Di certo una cosa del genere non è possibile.» «Non lo avete mai visto fare?» rise Janet. «Si mettono i petali in una padella con qualche goccia d'acqua e si aggiunge un chiodo arrugginito per intensificare il colore delle perle. Si deve scaldare il tutto tre volte al giorno, per tre giorni, finché non si trasforma in poltiglia. Quand'è fredda, la si arrotola, schiacciandola per estrarne delle gocce, che poi si modellano come tante perle intorno a un ago da rammendo, in modo che rimanga un foro nel centro. Poi si lasciano ad asciugare, rigirandole due volte al giorno. Le perle di petali di rose profumano soprattutto quando vengono indossate, perché il calore della pelle fa affiorare il profumo», concluse, mostrando una collana di perle di un rosso intenso che portava al collo. «Un lavoro estivo piacevole, questo in mezzo ai fiori», commentò Diarmid. «Janet è sempre molto impegnata per tutto l'anno», dichiarò Trenowyn. «Nelle altre stagioni filo le ortiche che crescono qui intorno oppure il lino per la gente di Isenhammer», spiegò lei. «Mio padre ne porta a casa grossi sacchi col carro, io lo filo e ne faccio rocchetti che lui riporta poi in città.» «Tingete anche il filo?» chiese ancora Diarmid. «Sì, quando me lo chiedono», rispose Janet. «In giardino coltivo alcune
belle piante di guado per gli azzurri, e la robbia per i rossi. Non posso coltivare anche altre piante per mancanza di spazio, ma quelle vanno benissimo.» «E non avete per caso... Ecco, non avete tintura marrone?» indagò l'ertish, con finta noncuranza. «Non ho richieste per il marrone. Forse ne potrei ricavare da una quercia....» Thorn tirò fuori qualcosa da una tasca e lo gettò verso Diarmid. «Radici di iris», disse. «Servono a produrre il nero, giusto?» osservò Janet. «Non le ho mai usate, ma ne ho sentito parlare. Come si fa a mordenzarlo?» «Con un mordente di ferro, cui si devono aggiungere sale e sambuco», spiegò Thorn. Da oltre la finestra giunsero i richiami stridenti di alcune cornacchie, simili a gemiti di agonia, e Thorn guardò il cielo ventoso, subito imitato da Janet e dal padre. Gli uccelli spiccarono il volo dai rami di un albero e si allontanarono, lunghi punti di filo nero che sì scioglievano. Nell'improvviso silenzio che seguì, un'ombra passò sul volto di Trenowyn. «Devo occuparmi delle bestie», disse, in tono brusco. Dopo essersi accomiatato, chiamò a sé il cane e uscì, mentre Janet si avvicinava alla finestra. «Quante cornacchie c'erano su quell'albero?» domandò, con un filo di voce. «Sette», rispose Thorn, scoccandole un'occhiata penetrante. L'allegra colazione si concluse su quella nota stonata. Imrhien e Diarmid aiutarono Janet a sparecchiare, compito che risultò tutt'altro che familiare per l'ertish, il quale sembrava anche turbato. Dovresti andare a vedere come sta il nostro amico galletto, disse. Aveva preso l'abitudine di usare il linguaggio dei gesti, come atto di cortesia nei confronti di Imrhien per avergli salvato la vita. «Cosa sono tutti quei cenni? Cosa state dicendo?» «Il galletto... Vedete?» spiegò Diarmid, muovendo le dita. «Ah, sì, è nel pollaio. Là sono tutte gallinelle, e la compagnia gli farà bene. Il nostro gallo è morto due mesi fa, perché era molto vecchio, quindi il vostro galletto nero non ha rivali. Stamattina l'ho fatto uscire per lasciarlo becchettare in giardino.» Imrhien fece capire che quel giorno si sarebbe assunta lei il compito.
Puoi tenere il galletto, aggiunse. Quando Diarmid le trasmise quel messaggio, Janet batté le mani per la gioia. Effettivamente il galletto non sembrava avere rivali. Aperta la porta del pollaio, Imrhien lo guardò uscire in giardino, pavoneggiandosi tra le chioccianti galline, sottraendo loro i vermi da sotto il becco e ignorando la sua salvatrice con l'aria di un patriarca molto impegnato. Nel passare vicino alla capanna, Imrhien vide Janet lavare i capelli di Diarmid in una ciotola piena di acqua nera; proseguendo il cammino, andò a sedersi sul muretto del pozzo, sotto il sole. Alcuni ranocchi gracidavano dalle rientranze delle pareti del pozzo, il cui tettuccio di ardesia era coperto di licheni tra il verde e il grigio. Era una splendida mattina d'autunno. Dietro la capanna, ripidi pendii erbosi salivano verso un cielo limpido; verso ovest, oltre una staccionata infossata, un pascolo si stendeva, ondulato, fino a un ruscelletto che lo attraversava gorgogliando, dopo essere scaturito tra le rocce fredde e grigie delle colline, e su di esso stavano brucando una mucca e due torelli. A nord, i dolci pendii di una valletta glaciale erano coperti di rovi fino all'altitudine cui cominciavano a crescere gli alberi. Su quello sfondo si stagliava la sagoma minuscola di una nave in volo, lontana tra le nubi... Una Nave del Vento che stava sorvolando Woody Hill. A est c'erano le colline delle miniere. Alti comignoli di pietra o di mattoni spiccavano ancora in gruppi, simili a dita protese, anche se il legno delle case dei minatori era bruciato da tempo o era stato raccolto come legna da ardere, e nell'aria immota si sentiva il rumore del vecchio mulino. Bacche di un rosso cupo costellavano gli spogli cespugli di biancospino che crescevano lungo il vialetto e contornavano i campi; i pioppi si levavano al cielo, i rami nudi bordati del merletto giallo dei licheni, la cui tinta si abbinava a quella dei fiori di ginestrone. Simili a bagliori smeraldini, i lorichetti spiccavano il volo dalla lunga erba color crema e la luce del pomeriggio faceva brillare il manto marrone della mucca. Dopo l'atmosfera soffocante delle miniere, l'aria aperta rinvigorì Imrhien, spingendola a respirare profondamente. Il vecchio cappuccio da viaggio era spinto all'indietro, e la brezza del nord le agitava i capelli intorno al volto in ciocche di un'intensa tonalità dorata. Cresciuti in fretta, i suoi capelli erano ormai lunghi quanto quelli di Diarmid, e le arrivavano a metà della schiena in una morbida massa di riccioli, simili alla sabbia di una
spiaggia marina cosparsa di cavatappi di rame. In previsione del viaggio e dell'arrivo in città, lei aveva però deciso di coprire quei capelli con una cuffia. Ah, la città! pensò. Caermelor era così vicina e White Down Rory lo era ancora di più. Quel suo volto fatto di orribili contrazioni e sporgenze, quella carne e quella pelle che erano rimaste deformate per così tanto tempo sarebbero mai guariti? Aveva avuto come scopo quello di scoprire la propria storia, ritrovare la voce e recuperare un volto presentabile, ma, nel profondo del suo cuore, ora c'era qualcosa che le importava di più. Quella però era la vanità più grande di tutte. Era un dolore eterno, una ferita che non sarebbe mai guarita. La fonte della sua sofferenza interiore si avvicinò in quel momento al pozzo con passo leggero, l'astore sulla spalla, intenta a cantare la seconda parte di una familiare ballata con voce limpida e perfetta. Sono le voci che si levano all'unisono, limpide e armoniose, è l'intessersi, dolce all'orecchio, di armonie melodiose cantate su accordi così eccitanti e ricchi è la musica di arpe nei verdeggianti boschi, le canzoni sotto gli alberi. Oh! Le canzoni sotto gli alberi! È il fumante piatto di avena traboccante, son vassoi di pasticcini che l'occhio fan ridente i frutti della foresta, il vino nella coppa, allegria e buon appetito... a lungo duri la zuppa! Si festeggia, uno e tutti. Oh! Si festeggia, uno e tutti! Con l'abituale grazia, Thorn le sedette accanto, e la sua presenza accese nell'animo di Imrhien una gioia strana e intensa. La manica della sua camicia le sfiorò il polso, lasciandola così confusa che non avrebbe saputo dire se era precipitata nel pozzo o se sedeva ancora sul muretto. «Ormai siamo vicini alla nostra destinazione», disse Thorn, chiaramente ignaro dell'effetto che quel fatto aveva su di lei. «Trenowyn partirà fra tre giorni con un carro carico di minerale, diretto a Isenhammer e, se vogliamo viaggiare con lui, dovremo aspettare. Io però preferirei partire a piedi, perché abbiamo già perso troppo tempo.» Anch'io. «Cosa vi conduce alla Città Reale?»
Imrhien esitò, combattuta tra la promessa fatta a Ethlinn di mantenere il segreto e il desiderio di confidarsi con quel bruno incantatore, il cui sguardo era appuntato su di lei. Dopotutto, non poteva esserci nulla di male nel raccontare tutto a Thorn, ma non si doveva infrangere una promessa fatta. Con rammarico, sospirò. Cerco un villaggio vicino alla Città Reale. Si chiama White Down... Si chiese se il Dainnan avrebbe capito. Il segno che Ethlinn aveva usato per il termine «Rory» era stato quello del muggito di un toro, perché non c'erano altri equivalenti. «White Down Rory? Allora le nostre strade si dovranno dividere alla King's Cross. Là, la Strada di Bronzo attraversa la Strada di Caermelor, proveniente da sud, da White Down Rory, e diretta a nord, verso la terra in cui i fuochi delle fornaci tingono il cielo col loro fumo. Siete mai stata a Isenhammer?» Imrhien scosse il capo. «Di notte, un visitatore che si avvicini alla città vede l'improvviso bagliore del liquido arancione, quando i pentoloni delle fornaci vengono rovesciati e riversano il metallo fuso lungo la collina come un fiume di lava prodotto da vulcani in miniatura. Quello spettacolo ha un suo particolare splendore.» Si sfilò dal collo un medaglione d'oro appeso a una catena. Grosso come l'unghia di un pollice, esso aveva una strana lavorazione in filigrana; i particolari dell'intreccio di foglie e la qualità dell'intarsio andavano al di là di qualsiasi oggetto che Imrhien avesse mai visto. Cosa ci tenete dentro? Lui sorrise, ma c'era ben poca gioia nella sua espressione. «Soltanto questo.» Sollevato il piccolo fermaglio, aprì il medaglione, che conteneva una sottile polvere grigia. Thorn la fissò a lungo con occhi appannati, come se stesse rivivendo qualche ricordo. Quella sostanza aveva l'aspetto di comune sabbia, o di argilla ridotta in polvere, ma, nel contemplarla a sua volta, Imrhien si sentì assalire da una terribile malinconia, o forse una sorta di bramosia, di cui non aveva mai sperimentato l'eguale. D'impulso, si protese a toccare la polvere, ma era troppo tardi, perché un rapido soffio di Thorn l'aveva dispersa. La brezza raccolse quel lieve fardello e lo sparpagliò su tutto il giardino, dove il galletto si era sistemato su un trespolo, sovrastando le galline. Volando, quelle particelle scintillarono di ogni colore, tracciando nell'aria un magnifico arcobaleno prima di svanire con un sospiro che sembrava prodotto da una miriade di voci. Con un balzo possente, l'astore spiccò il volo dalla spalla di Thorn e scomparve nel cielo.
«Janet non avrà difficoltà a ottenere i migliori raccolti di erbe, quest'anno e in tutti quelli che seguiranno», mormorò il Dainnan. Poi richiuse il medaglione e tornò a riporlo sotto la camicia. Nel giardino, il galletto cadde goffamente dal trespolo, finendo davanti alle galline. Senza sapere per quale motivo, Imrhien si sentì assalire da un profondo senso di solitudine e di perdita. Per un momento, Thorn la fissò con aria grave, poi le sue mani si mossero nel linguaggio dei segni. Venite... Passeggiate con me sino al frutteto, finché la giornata rimane soleggiata. Ogni traccia di dolore svanì. Col piede leggero, Imrhien s'incamminò accanto a lui, oltrepassando la piccola capanna dei formaggi - che era stata costruita per metà nel sottosuolo per mantenerla fresca -, superando il fienile e uscendo da un cancello laterale inserito nella siepe di tasso, oltre i ronzanti alveari di api e sino al piccolo frutteto. L'erba autunnale aveva assunto un colore bruno, le ultime spore cariche di semi fini sembravano spruzzate di polvere. Nel frutteto, poche mele ranette dall'aspetto avvizzito erano ancora attaccare ai rami o giacevano nell'erba; ormai i meli di tutte le varietà erano quasi privi di foglie, e i rami dei peri si stendevano già da tempo nudi verso il cielo. Eppure, accanto a essi, come un frangivento, si ergeva una fila di antichi alberi della gomma, di un verde perenne. La voce di Thorn si levò di nuovo nel canto, forte e calda come vino speziato, e altrettanto inebriante. L'autunno è dolce, un signore del piacere, la rugiada del mattino, quello è il tesoro del suo forziere. Rosso l'acero, dorato il salice, vestito di accesi colori, l'autunno e dolce. Aggraziata e bella, la primavera è una fanciulla affascinante, fiori ai suoi piedi e boccioli nella chioma fluente, agnelli al pascolo, uccelli in volo a schiera, pioggia sulle foglie novelle... bella, bella primavera. L'allegra, ilare estate, è una fanciulla gaia, sole sul granturco, calura tra il fieno sull'aia. Castana di capelli, l'estate è colorita come una ciliegia Nelle lunghe serate, l'estate è allegria.
Saggio è l'inverno, con capélli come neve. Le creature selvagge vanno sotto il suo manto greve. Brina sulle colline, nei cieli nubi di passaggio, riposate e abbiate pace, perché l'inverno è saggio. «Sei dunque la personificazione della primavera, Capelli d'Oro?» chiese quindi. Abbassando il volto deforme, Imrhien lasciò che la massa sfolgorante dei suoi capelli ne nascondesse l'aspetto orribile, e ribatté a quella domanda con un'altra. Se la primavera è bionda e l'estate è castana, allora l'autunno dovrebbe essere rosso di capelli come il vino. Il tuo canto dice inoltre che l'inverno ha i capelli bianchi. A quale stagione somigli, tu? Era una domanda provocatoria, giacché era evidente che Thorn aveva raccolto le radici di iris selvatico ovunque era riuscito a trovarne e che le portava con sé per rinnovare la tintura nera dei capelli, quando essa sbiadiva. Lui aveva scelto il nero, uno dei colori più popolari presso i cittadini di rango elevato di Gilvaris Tarv, che imitavano la moda in voga alla Corte del Re-Imperatore. Evidentemente neppure i Dainnan erano immuni dai capricci della moda. In risposta alla sua provocazione, Thorn scoppiò a ridere. Erano fermi sotto un antico melo che protendeva i rami contorti come braccia malinconiche. Una tenue brezza ne faceva stormire le foglie e chiazze di sole danzavano sulla corteccia coperta di licheni. «I cambiamenti che accompagnano l'anno meritano una canzone», replicò lui, contemplando la pianta. «Essi sono benefici per la terra e ciascuno possiede una sua bellezza. Per coloro che le comprendono, le terre selvagge e le stagioni sono generose, perché danno riparo e offrono sostentamento per lo spirito e per il corpo. Non c'è motivo di patire la fame o la sete, nelle terre di Erith.» Non tutti i viandanti sono raccoglitori e cacciatori abili come i Dainnan. Molti soffrono la fame. «Com'è successo a te? Lascia che ti dia un consiglio, Capelli d'Oro. Quando tutto il resto viene meno, c'è sempre il Buonpane... la Pagnotta del Viandante, o Farbrod, com'è anche conosciuto. È un cibo che ha molti nomi e alcuni lo definiscono il Pane dei faêran. Ne hai sentito parlare?... No? Molti pensano che sia soltanto una favola narrata dai vecchi, invece è rea-
le, anche se è difficile da vedere, a meno di non sapere cosa si sta cercando. Sai che se si mette il piede su una zolla errante non si riesce più a ritrovare la via? Col Buonpane, è come se gli occhi di tutti gli uomini fossero costantemente sottoposti a un incantesimo ingannevole, a meno che non riescano a liberarsene. Si tratta del frutto del vischio che cresce su determinati alberi: melo, ontano, nocciolo, agrifoglio, salice, sambuco, quercia e olmo, betulla e rovo... Esso non cresce mai su altre piante e neppure lo si trova sempre su quelle che ti ho elencato. Tuttavia, se noti che muschi e licheni amano il tronco di un albero e si aggrappano a esso come uno stretto rivestimento, allora ci sono buone probabilità di trovare il Buonpane. Questi frutti sono visibili soltanto in certi tipi di luce, sotto i primi e gli ultimi raggi del sole, e mai quando il vento soffia da est. Devi trovarti sotto un albero, come questo melo, e guardare verso sinistra. Nella luce incerta, è possibile che la vista ti tragga in inganno, però se sbirci con la coda dell'occhio riuscirai a vedere ramoscelli fronzuti e, in mezzo a essi, piccole sfere morbide, simili a lampade lucenti. Allora potrai protendere la mano e coglierle. Si tratta del Buonpane, ed è molto nutriente. Bada però a non toccarlo, se lo vedi di notte. Immerso nella luce della luna e delle stelle, può avvelenare il sangue, ed è pericoloso.» Sono informazioni utili per i viandanti! Il più grande degli alberi frangivento del frutteto, in gioventù, aveva generato tre tronchi principali, che, crescendo, avevano raggiunto una circonferenza massiccia. Uno di essi era caduto da tempo e giaceva sul terreno, dove però viveva ancora. Aveva rivolto i rami nuovi verso il cielo, incurvandoli in maniera tale da creare un pergolato vivente; sopra di esso, i ramoscelli degli altri due tronchi crescevano a ventaglio, rivolti verso il basso. Le loro estremità arrivavano a sfiorare l'erba come mani dalle molteplici dita, rivestite di pelo verdeggiante. I ramoscelli più giovani, di un verde tendente al giallo, spiccavano contro lo sfondo verde cupo di quelli più anziani. Adagiato sui gomiti, l'albero creava una camera naturale, con le lunghe foglie che formavano muri e pareti e, dall'esterno, sembrava una collinetta boscosa. Una vecchia altalena pendeva da uno dei rami che si protendevano in orizzontale, come travi di quel tetto verde. Imrhien si sedette sull'asse di legno, mentre Thorn preferì arrampicarsi sui rami sovrastanti, sdraiandosi su di essi con un equilibrio che di certo dipendeva da qualche arte dei Dainnan o dalla magia, spingendo le corde. «Se non vuoi cadere, dovrai usare le mani per tenerti invece che per par-
lare, quindi canterò per te.» I versi del canto da lui intonato erano però in una lingua che Imrhien non conosceva e che non somigliava a nessun dialetto di Erith né ad altre lingue che lei avesse sentito, tranne quando Thorn le aveva parlato del Sangue di Drago o aveva indicato determinati alberi o fiori. Il timbro e la cadenza delle parole possedevano una grazia estrema; erano sconosciute eppure piene di armonia, esaltanti. Anche se Imrhien non ne poteva comprendere il significato, esse le accarezzarono le orecchie come dolce pioggia, scaturita da qualche nube proveniente da un regno di palazzi di cristallo alti, cento iarde, trapassata da raggi di luce limpida e da ombre purpuree. Quelle parole le rivolgevano sussurri invitanti, eccitandola intensamente, le permettevano d'intravedere visioni fatte di meraviglia, la attiravano tra stelle più grandi e luminose di quelle che rischiaravano i cieli di Erith, fino a una landa al di là delle Terre Conosciute, un luogo pieno di delizie e di pericoli ignoti. La sua memoria prigioniera lottò contro le catene che la vincolavano, cercando di liberarsi, mentre Thorn muoveva le corde dell'altalena, dapprima con lentezza e poi sempre più in fretta, più in alto, all'unisono col suo canto che mutava come un rapido fiume che balzasse e danzasse nel discendere da alte montagne, come un uccello che si librasse, cavalcando il vento. Imrhien oscillò avanti e indietro nell'aria piena di sole che le si riversava sul volto come un'ondata di trasparente acqua montana, spingendole abiti e capelli all'indietro; per una frazione di secondo, le pareva di essere priva di peso, poi ricadeva all'indietro di colpo, i capelli che le si gonfiavano intorno al volto, le gonne che si agitavano intorno ai suoi piedi in pieghe arruffate. L'esaltazione le tolse il fiato, mentre volava in mezzo alla pioggia di foglie cadenti, come se fosse stata trasportata dal sildron o dalle ali di un vento shang. Imrhien scalciò e, se avesse potuto, avrebbe anche riso. Thorn allora rise per lei, percependo la sua gioia quando la vide gettare indietro il volto orribile e lasciar pendere i capelli lungo la schiena, spensierata come una bambina, finché l'inclinarsi del mondo non le diede le vertigini e la costrinse a serrare maggiormente le corde, senza badare se cielo e terra si trovavano sopra o sotto di lei, perché sapeva di poter volare in eterno, finché quelle mani avessero guidato le corde, e lei si fosse tenuta stretta a esse. Quando tornò alla capanna, Imrhien trovò Janet che girava intorno a Diarmid con aria di disapprovazione, tenendo davanti a lui un piccolo
specchio di bronzo. «Vi ho tinto le sopracciglia, ma non intendo toccare le ciglia, perché la tintura vi potrebbe accecare. Nero avete detto, e nero è, ma non si adatta a voi, se perdonate il mio ardire, signore. Il vostro colore di capelli è così bello, così raro. Ho sempre pensato che sarebbe stato bello avere sangue ertish nelle vene e possedere splendidi capelli del colore del rame. Farei subito il cambio con voi, se potessi.» «Adesso ho un aspetto ertish, signora?» chiese Diarmid, togliendole di mano lo specchio e scrutandolo così da vicino da storcere gli occhi. «Per nulla, senza quei bei capelli rossi... La conformazione ossea del vostro popolo e quella del mio sono quasi uguali.» La risposta parve soddisfare Diarmid. «Naturalmente, avete quegli adorabili occhi, azzurri come non-tiscordar-di-me», aggiunse Janet. Di colpo, Diarmid abbassò lo specchio con violenza; fuori della finestra, le cornacchie spaventate gracchiarono in tono accusatorio fra gli alberi. Trenowyn entrò nella stanza, portando con sé due archi. Il cane nervoso gli trotterellava accanto. «Credevo che avrei procurato una pernice per cena», borbottò. Diarmid, prese un arco, esaminandolo. «Mi piacerebbe abbattere quelle dannate cornacchie che fanno tanto chiasso vicino alle porte», scherzò. Con un tonfo sonoro, Janet lasciò cadere una ciotola, che si ruppe in una pioggia di schegge. Il volto di Trenowyn divenne di pietra, rigido e scavato. «Non tirate mai a una cornacchia», ingiunse, con voce roca, come se avesse avuto la gola secca. «Mai.» «Stavo scherzando», replicò Diarmid, palesemente sconcertato, scrollando le spalle, poi posò l'arco sul tavolo. L'espressione dura di Trenowyn si attenuò a poco a poco, e lui riprese il discorso di prima come se non fosse successo nulla. «Penso anche di dare un'occhiata al carro e vedere quanto minerale ci hanno già messo dentro, perché non voglio che sia troppo pesante per i torelli. Signore, vi piace dare la caccia ai volatili?» Diarmid apprezzava quel passatempo, quindi i due uomini uscirono a caccia insieme. Verso sera, Imrhien stava passeggiando in giardino quando sentì alcune voci. Tra i sorbi, scorse Janet davanti all'alto Dainnan, le mani che torcevano il grembiule, come se fosse stata turbata da qualcosa. I minuscoli
campanelli che servivano a tenere a bada le creature tintinnavano col suono armonico di un vento shang e luci ambrate ammantavano il lato occidentale degli alberi, proiettando ombre azzurrine. Delineati in ambra e zaffiro, i due formavano una bella coppia, e Imrhien sentì il cuore mancarle un battito. Esitando, si attardò nell'ombra degli alberi perché non desiderava disturbare la loro conversazione, temendo però quello che essa poteva sottintendere. I due non guardavano nella sua direzione, ma la brezza portava le loro parole fino a lei. «Vi ringrazio, signore, vi ringrazio con tutto il mio cuore», stava dicendo Janet, in tono molto serio. «Dovrete essere forte e coraggiosa», replicò Thorn, abbassando lo sguardo su di lei con una strana mescolanza di dolcezza e di derisione. «Tuttavia scommetto che lo siete.» «Ci proverò, signore, ci proverò. Non so dirvi cosa ciò significhi per me», mormorò Janet. Poi fece una riverenza goffa eppure amabile. Protendendo una mano verso i suoi capelli, il Dainnan le estrasse una moneta d'argento da dietro l'orecchio. «Un posto strano per riporre il denaro», commentò. «Non è mia, signore!» «No?» Thorn lanciò nell'aria la moneta, che svanì. «Oh, signore, come avete fatto?» «A perderla? Non importa, ritrovarla è facile», ribatté lui, estraendo la moneta dall'aria, seguita da una seconda e da una terza, poi chiuse le mani intorno ai dischi d'argento e aggiunse: «Soffiate sulle mie dita». Janet obbedì e, quando lui aprì le mani, una colomba bianca spiccò il volo verso i sorbi. «Con quale rapidità il denaro vola via dalle dita!» commentò Thorn. «Ben fatto!» esclamò la ragazza, battendo le mani. «Che magia graziosa! Siete un Mago?» «Potete chiamarmi così, se volete.» Con un sorriso, Thorn si allontanò a grandi passi tra i sorbi. Avviandosi in fretta alla capanna, Janet si accorse di Imrhien. «Oh, colombella mia, vieni dentro con me. Comincia a far freddo, e il fuoco è acceso. Ben presto metterò in tavola la cena... Ti piace la marmellata di rose?» Janet non permise alla sua ospite di alzare un dito per aiutarla. Canticchiando, si diede da fare nella dispensa e, quando la tavola fu pronta, ed
entrambe erano in attesa che arrivassero gli uomini, tirò uno sgabello vicino a Imrhien e si sedette, battendo le mani con occhi che scintillavano. «Oh, devo parlarne con qualcuno, perché non riesco davvero a tenere questa notizia per me. Ma devo cominciare dall'inizio.» E narrò una strana storia. Molti anni prima, suo padre e sua madre vivevano in una grande tenuta, fuori Isenhammer. Nell'arco di dieci anni di matrimonio, avevano avuto dodici figli maschi, però, nonostante i costosi incantesimi acquistati dai Maghi, non avevano avuto nessuna figlia. Essi ne desideravano ardentemente una e, quando infine era nata Janet, la loro felicità non aveva avuto confini. In quei giorni, il Mago più famoso di Isenhammer vendeva un'acqua speciale che, se usata per lavarvi un bambino, prometteva per tutta la vita protezione contro le creature unseelie. Era molto cara, ma i genitori di Janet avevano deciso di acquistarla per lei. «Prendete quest'oro, tutti i nostri risparmi, e andate alla casa del Mago», avevano detto ai dodici figli maschi. «Ottenete quella preziosa acqua magica per lavare vostra sorella.» I ragazzi erano andati e avevano acquistato l'acqua, però, sulla via del ritorno, avevano fatto cadere il contenitore, che si era rotto. Timorosi di tornare a casa senza l'acqua, si erano attardati lungo la strada, incapaci di decidere sul da farsi. I genitori avevano cominciato a chiedersi dove fossero finiti. Col trascorrere delle ore, l'irritazione del padre era cresciuta, accentuata dalle grida di accusa di alcune cornacchie, fuori della finestra. Era scesa la notte. Trenowyn era uscito sulla porta per scrutare la strada e aveva incaricato i servi di scagliare dei sassi contro le cornacchie, che erano volate via. Il sole aveva continuato a scendere oltre l'orizzonte, però dei suoi figli non c'era traccia. «Dove sono quei ragazzi?» aveva gridato. «Come osano attardarsi in questo modo? Vorrei che si mutassero tutti in cornacchie e volassero via, dannazione a loro!» Si era pentito all'istante di aver pronunciato quelle parole, ma era troppo tardi. Qualcosa di malvagio stava passando nelle vicinanze, sulla strada, o forse era annidato, in attesa. Dalle siepi si era levato un verso che poteva essere una risata, poi dodici grossi uccelli neri si erano diretti verso Trenowyn. I servi stavano per scagliare qualche pietra, ma lui li aveva fermati. Le cornacchie si erano posate sulla staccionata, avevano lanciato un grido
dolente ed erano volate via, verso sud... Così il padre di Janet aveva capito che quelli erano i suoi figli, trasformati per colpa sua. Negli anni successivi, Trenowyn aveva assoldato ogni Mago, quale che fosse la sua reputazione, implorandolo di usare i suoi poteri per ritrovare i figli perduti. Tutti quei tentativi erano falliti e il patrimonio di Trenowyn si era esaurito. La moglie non gli aveva mai perdonato quell'impulsiva, nefasta maledizione e, in qualche modo distorto, aveva riversato la colpa anche su Janet, a causa della quale i ragazzi erano stati mandati a comprare l'acqua. Avendo perso ogni gioia di vivere, dopo qualche tempo se n'era andata, abbandonando il marito e la figlioletta. Alla fine, Trenowyn aveva dovuto vendere la grande casa, ormai vuota, ed era andato a vivere con la figlia a Rosedale, diventando un semplice carrettiere. «Quando ho visto il tuo bel Dainnan, ho pensato che lui era una persona veramente saggia e che avrei potuto chiedergli se sapeva come riportare indietro i miei fratelli. E l'ho fatto.» Thorn le aveva consigliato di prendere l'anello d'oro del padre e di recarsi fino alle rive meridionali dell'Eldaraigne. Là si sarebbe dovuta imbarcare su una Nave d'Acqua e varcare lo stretto fino alla remota Rimany. Lui conosceva una montagna di quella terra, lontana dalle rotte delle Navi del Vento e dei Cavalieri della Tempesta, e aveva sentito dire che su quella montagna, in un castello, dimoravano dodici uccelli neri, serviti da un nano. Soltanto all'interno del castello quegli uccelli potevano tornare umani, per un'ora al giorno, poi dovevano volare via. Se però fossero usciti dalla porta Camminando, allora avrebbero potuto mantenere la forma umana. Ma solo una fanciulla poteva aprire quella porta. Quella montagna era così liscia, levigata, lucida e scintillante che sembrava fatta di vetro, motivo per cui si era guadagnata il nome di Glass Mountain; in realtà, però, si trattava di un grande rilievo di acqua ghiacciata, un ghiacciaio che dominava le distese innevate di quella terra meridionale. «'Come farò a salire su quella montagna di vetro?' ho chiesto, e lui mi ha spiegato che dovevo andare dalla vecchia Carlin degli arysk, che dimora ai piedi del monte, dicendole che mi aveva mandato Sir Thorn. A lei avrei domandato un paio di scarpe fatte di ferro, con arpioni, in modo da potermi arrampicare! Non è meraviglioso? Quando arriverò al castello, dovrò procedere con cautela. Sir Thorn afferma che quegli uccelli sono selvatici, dopo diciotto anni. Non riconosceranno la sorella e, credendomi una sconosciuta, è probabile che mi aggrediscano per farmi a pezzi. Dovrò raggiungere in silenzio la porta del castello, che sarà chiusa, poi soffiare tre volte nella serratura e infilarvi
dentro il mignolo della sinistra. A detta di Sir Thorn, il battente si aprirà, perché è un tipo di serratura che si apre in questo modo. Una volta dentro, dovrò usare il mio ingegno per aiutare i miei fratelli. L'anello servirà perché mi riconoscano, ma, se vedranno prima me del sigillo, mi uccideranno.» La ragazza assunse un'aria meditabonda. «Ah, quanto vorrei che tu potessi parlare con me ed espormi i tuoi pensieri, perché qui non abbiamo mai molta compagnia e mi piacerebbe chiacchierare un po'. Sono piena d'impazienza e pronta a partire. Quella terra fredda, la Rimany, dove vivono gli arysk... Sir Thorn me ne ha parlato, e sarei pronta a volare subito là, se avessi le ali.» Sospirò. «Sir Thorn dice che devo andare da sola alla Glass Mountain... Lui conosce le creature magiche e le loro leggi, quindi non dirò nulla a mio padre. Prima d'ora, non l'ho mai ingannato, però, se gliene parlassi, vorrebbe andarci lui stesso o venire con me. Non per mancargli di rispetto, ma, se dovessi farmi accompagnare da qualcuno, preferirei che fosse Sir Thorn. Non ho mai visto prima uno come lui, e immagino che non lo vedrò mai più. Di certo è un uomo che sa come farti girare la testa e gorgogliare il cuore come una sorgente.» Trenowyn e Diarmid arrivarono con una coppia di galli cedroni. Più tardi, Thorn raggiunse gli altri e sedettero tutti a cena. Fu un pasto allegro, ancor più della colazione. Janet aveva gli occhi scintillanti, il suo sguardo si posava spesso su Thorn, la sua risata e quella di lui si fondevano di frequente, tanto che, alla fine, perfino Diarmid e il cupo Trenowyn furono costretti a sorridere, benché entrambi sostenessero che era colpa della birra forte. Poi vennero narrate alcune storie e intonate varie canzoni. E, benché potesse soltanto ascoltare e guardare, Imrhien fece del suo meglio per non sentirsi esclusa, sola nel buio. La mattina successiva, tutti si alzarono per tempo. Tra gli alberi, le gazze lanciavano il loro richiamo lamentoso e le nuvole si appoggiavano sulla cima delle colline. Dopo aver munto la mucca marrone, Janet le montò sul dorso e uscì nel pascolo, cantando a pieni polmoni; nel frattempo, Imrhien disse addio al galletto col linguaggio dei gesti. Circondato dalle galline, esso si limitò a fissarla coi suoi lucidi occhi neri. Janet e il padre donarono agli ospiti cibo, bevande e molti capi di vestiario di riserva. «Perché non aspettare altri due giorni, così da viaggiare con me quando porterò il carro in città?» chiese Trenowyn. «Adesso, nel carro non c'è ancora abbastanza minerale da rendere proficuo il viaggio e, se lo prendessi
ora, gli knocker s'infurierebbero.» «Buon signore, la vostra ospitalità non conosce limiti, ma, adesso che ci siamo riposati, siamo impazienti di rimetterci in cammino. Non possiamo fermarci oltre», replicò il Dainnan. «Da quando ho sentito che a Isenhammer stanno raccogliendo reclute per i Dainnan, tutti i miei pensieri sono là», aggiunse Diarmid. Imrhien si limitò ad annuire. «Allora vi auguro buona fortuna, e che il vostro coraggio sia cantato in eterno dai poeti», replicò Trenowyn. «Lo stesso a voi», replicò Thorn. Le nebbie del mattino gravavano sulla cima degli alberi, la rugiada scintillava sull'erba. Le foglie, scure e lucide, grondavano gocce argentee e scintillanti ragnatele ricoprivano di merletti la siepe del giardino. Vicino al cancello, con l'aria tagliente che trasformava il respiro in vapore, i tre si congedarono da Silken Janet e da suo padre. L'astore scese in picchiata con un penetrante stridio che spaventò le gazze, spingendole a levarsi in volo dagli alberi come una cortina di fumo. Per tutta risposta, il galletto lanciò un grido di sfida da dietro la capanna, un suono che riecheggiò a lungo tra le colline. Una Nave del Vento passò lenta al di sopra di Woody Hill: una foglia di alabastro nell'ampio cielo punteggiato di nubi lilla e malva. Il viottolo divenne una pista tortuosa che li condusse lungo la collina e al di là di essa. Sul crinale, si fermarono per lanciare un'ultima occhiata alle due figure che stavano ancora salutando, vicino al cancello, poi ripresero la marcia e il Briar Cottage scomparve alla vista. Simile a scaglie di pesce, il mosaico di nuvole si spostava ondulato su un cielo turchese. Le ultime foglie d'autunno cadevano come frammenti di seta opalescente, diventando parte della melma che copriva il terreno. Era il primo giorno di Nethilmis, il Mese delle Nuvole, e l'inverno stava già cominciando a adagiare sulla terra il suo gelido manto. I viaggiatori seguirono la pista su un terreno ondulato e cosparso di radi alberi, attraversando piccoli ponti di legno e aggirando colline, con Errantry che li seguiva dall'alto, Thorn che cantava e Diarmid che fischiettava come un pettirosso. Le ferite dell'ertish erano guarite con rapidità sorprendente: rimanevano soltanto i segni a forma di fulmine sulle mani e una piccola cicatrice bianca sulla fronte. I tre procedettero di buon passo e trascorsero la notte in una capanna di
pastori deserta, resa accogliente da asciutti giacigli di felci e da un fuoco acceso nel focolare. Il mantello di Thorn era tuttora sepolto da qualche parte nelle miniere, insieme con altre parti del suo equipaggiamento, ma Janet aveva dato loro altri mantelli, spessi e ben tessuti, che si rivelarono quasi altrettanto caldi. Un vento shang attraversò quella regione durante le ore di oscurità, svegliando Imrhien con la tipica sensazione formicolante che esso provocava. Il giorno successivo, la pista incrociò la Strada, che tuttavia non era più come l'avevano lasciata. L'ultima volta che l'avevano vista era soffocata dagli alberi e circondata dalla foresta infestata dalle creature soprannaturali; ora sembrava aperta e luminosa e si snodava su lievi pendii, sotto un cielo punteggiato di nubi. Su di essa, non si scorgeva nessuno. I tre la imboccarono, e Thorn impose un'andatura sostenuta, impaziente di recuperare il tempo perduto. Sul finire della giornata, trovarono riparo in una grotta poco profonda, sotto una collina, e si accamparono. Nel pomeriggio del terzo giorno, col sole che ardeva in mezzo a una caligine fumosa, raggiunsero infine la King's Cross. Là, la Strada aggirava una piazza e si diramava in quattro direzioni. Nel centro di quella piazza si trovava un massiccio capitello, dal quale si levava una colonna di pietra, sovrastata dalla statua di un cavaliere che portava un elmo cinto da una corona e che era rivolto a ovest, verso Caermelor. Il tabarro cesellato recava la criniera del leone incoronato, simbolo della Casa Reale dei D'Armancourt. Sulla base della colonna erano incise le distanze fino alle città e ai villaggi che s'incontravano nelle quattro direzioni. La Locanda della Corona e del Leone sorgeva all'angolo nordorientale della piazza. I piani superiori, parzialmente in legno, avevano alti abbaini e svariati camini che offrivano una buona visuale dell'area circostante. Sull'abbaino più alto, un galletto segnatempo era girato verso ovest. Col calare dell'oscurità, la luce delle lampade uscì, calda, dalle finestre. «A Gilvaris Tarv, i mercenari parlano di questa locanda», affermò Diarmid. «È stata a lungo infestata da una creatura delle dispense, una di quelle che hanno potere su tutti i guadagni illeciti e sul cibo preparato in maniera disonesta. Anni fa, quella creatura prosperava, la notizia si è diffusa e la gente ha cominciato a parlare degli inganni del vecchio locandiere, di come annacquava la birra e serviva carne di cane. La creatura è diventata grassa e gonfia, e la clientela è diminuita al punto che, alla fine, il locandiere se n'è andato. Quello nuovo offre cibo buono e una tavola pulita, così la reputazione della locanda è tornata quella di un tempo. Sarebbe
bene fare qui un'ultima sosta, prima di separarci.» «Non vorrei fermarmi, ma lo farò per amicizia», replicò il Dainnan. Nel sentire quelle parole, Imrhien fu assalita da una profonda desolazione, ma squadrò le spalle con un gesto risoluto, tirò bene in avanti il cappuccio ed entrò coi compagni nella sala comune della locanda. I clienti non erano moltissimi però si accalcavano tutti intorno a un tavolo, dove un oratore stava tenendo un lungo discorso. I tre sedettero a un tavolo libero - Imrhien badando a tenere il volto in ombra - e ordinarono della birra. Al tavolo accanto, due contadini stavano portando avanti una bizzarra conversazione: quello più giovane, infatti, stava cocciutamente cercando di fare buona impressione sul padre della sua amata. «Signore, vi potrei offrire un boccale doppio di birra scura?» «No, grazie. Non bevo nulla.» «Una birra piccola, allora?» «Vi ringrazio, no...» «Sidro? Vino bianco? Acqua e limone?» «No, preferisco di no.» «Che ne dite di latte cagliato col vino?» «Assolutamente no.» «Un decotto d'orzo? Farinata d'avena?» Un gesto di diniego. «Allora un triplo brandy d'uva?» «Oh, sì, quello lo accetto.» «Dicono che questo locale sia infestato da una creatura delle dispense», osservò Diarmid, quando la cameriera tornò al loro tavolo. Per la prima volta, la ragazza si accorse del Dainnan, rischiarato dalla luce fumosa delle lampade, ed ebbe un sussulto che per poco non le fece cadere di mano il vassoio carico. Con mani tremanti, dispose sul tavolo i boccali schiumosi, privi di coperchio a causa dei cardini rotti, segno di un uso intenso nel corso degli anni, poi si ricompose. «Buoni signori... Questa locanda ospita la creatura delle dispense più magra e sparuta di tutte le taverne dei cinque Regni... Una creatura troppo debole anche per sollevare una coppa vuota», replicò con orgoglio. Stava per aggiungere altro, ma Diarmid la interruppe. «Quel vostro cliente laggiù ha un pubblico molto attento. Cosa li attira tanto?» domandò. «Lui e un gruppo di altre persone sono arrivati oggi, signore...» ribatté la cameriera, con un cenno cortese, un sorriso che rivelò una fossetta e un'occhiata in tralice al Dainnan da sotto le ciglia abbassate. «Sono i superstiti
di una carovana aggredita qualche tempo fa... Erano dati per dispersi...» Diarmid scattò in piedi, rovesciando la panca, che cadde all'indietro con un tonfo. Pallidissimo, si lanciò verso la calca, aprendosi un varco a gomitate, mentre la cameriera lo guardava a bocca aperta. Una serie d'imprecazioni si levò dai clienti, poi, dalla bocca di Diarmid, sgorgò un torrente di parole ertish. Di colpo il giovane prese a gridare il nome di Muirne, ridendo e piangendo, e strinse tra le braccia la sorella, che strillava di gioia e gli si stringeva contro. Imrhien cercò di farsi largo per raggiungerli, ma troppe spalle ampie e schiene massicce le bloccavano il passo, e alla fine tornò al tavolo. Thorn era rimasto seduto con calma, i gomiti appoggiati alle rozze assi del tavolo. Un felice incontro, commentò, a gesti. Quando il caos si fu placato, Diarmid districò Muirne dalla calca e la presentò a Thorn. Subito dopo, accantonando la consueta riservatezza da gentiluomo e in preda all'eccitazione, si sentì obbligato a presentare la sorella a tutti, nonché a chiedere che venisse servita birra a tutti i clienti. Ben presto tutti notarono il Dainnan, che si venne a trovare al centro dell'attenzione, perché la sua uniforme suscitava rispetto e stima in tutti i cittadini. Alcuni lo guardavano come se fosse uscito da una leggenda. La presenza inattesa di un personaggio così nobile e dall'aspetto tanto avvenente aveva già sconvolto non poco la cameriera e quella reazione si stava rapidamente diffondendo. Muirne fece capire a Imrhien di appartarsi con lei, e la ragazza fu lieta di seguirla, perché in molti avevano già commentato il suo aspetto, pensando che lei non se ne accorgesse, inducendola a ritrarsi ancor più nel cappuccio. «Sono davvero felice di vederti, chehrna», disse Muirne, mentre si abbracciavano. «Ti credevo perduta.» Muirne... replicò Imrhien, tracciando il simbolo del passero per simboleggiare il nome della ragazza. Oh, cara amica mia. Come sei giunta qui? «Dopo l'aggressione, ci siamo separati. Non sono riuscita a trovare te e Diarmid, però mi sono imbattuta in un gruppo di coraggiosi della nostra carovana e in alcune donne, poi altra gente del convoglio si è unita a noi. Eravamo in quindici. Siamo riusciti a recuperare un carro e a ritrovare alcuni cavalli che lo trainassero e... Oh, abbiamo avuto molte avventure lungo la Strada, troppe perché possa raccontarle in una volta sola, però ce l'abbiamo fatta, arrivando qui soltanto oggi. Non riesco ancora a crederci. Ora, però, vieni, uniamoci ai festeggiamenti, cara Imrhien.»
Imrhien scosse il capo: per lei non era piacevole stare in mezzo a degli sconosciuti. Thorn, circondato da ammirati cittadini che stavano facendo a gara per offrirgli da bere, stava raccontando storie avventurose. Diarmid aveva già ordinato un secondo giro di birra e, col boccale in mano, era intento a parlare in tono serio con altri uomini della Carovana di Chambord che si erano salvati. Quando chiese loro delle terribili scene di cui erano stati testimoni dopo l'aggressione, alcuni assunsero un'aria cupa, altri distolsero il volto, ma tutti rifiutarono di parlarne e furono più che lieti di cambiare argomento. Poi Diarmid narrò le proprie eroiche vicissitudini, ed essi gli batterono una pacca sulla spalla, dichiarando che era davvero un tipo in gamba, soprattutto quando lui fece riempire i loro boccali una terza volta. Sopraggiunsero altri viandanti e, a quel punto, ebbe inizio una vera festa, che prometteva di protrarsi fino a tarda notte. Nell'ampio focolare, il fuoco ardeva, vivace. Tra poco mi ritirerò nella mia camera... Sono già stanca. «Oh, ma domattina verrai con noi, vero?» esclamò Muirne. «Diarmid ci accompagnerà, sul carro, e andremo a Isenhammer insieme. Ho intenzione di arruolarmi come arciere nell'esercito del Re-Imperatore e Diarmid cercherà di entrare nei Dainnan. Anche la maggior parte degli altri superstiti è venuta qui per arruolarsi... e chi non ha simili intenzioni proseguirà per Caermelor a piedi. Dov'è il Dainnan che era con voi, quello che mi avete presentato come Thorn?» chiese poi. «Diarmid parla di lui in termini lusinghieri. Eccolo là, mi piacerebbe ringraziarlo. Obban tesh, è davvero affascinante...» S'interruppe nel sentire il suo nome che veniva gridato dal lato opposto della stanza. «Devo andare, Diarmid mi sta chiamando. Dormi bene, cara amica, dal momento che è ciò che desideri... Ci rivedremo domattina.» Un gruppetto di persone si fece di lato per accogliere Muirne e si richiuse intorno a lei. Thorn era seduto a un tavolo, al centro di un mare di facce attente che pendevano da ogni sua parola; la cameriera arrossiva ogni volta che lui guardava nella sua direzione. Guidata dalla ragazza che li aveva serviti, Imrhien salì al piano superiore e andò a letto, dove rimase distesa per ore a fissare le travi del soffitto, a interrogarsi su White Down Rory e ad ascoltare i canti, le risa e il chiasso che provenivano dal piano di sotto. Un cliente aveva tirato fuori una coppa costituita da un doppio contenitore - una ciotola formava la base invertita dell'altra -, che ruotava tra due sostegni. Tutti quelli che non sapevano come funzionava vennero invitati a bere da essa e, com'era prevedibile, s'in-
zupparono di birra, per il divertimento dei presenti. L'allegria aumentò allorché qualcun altro tirò fuori una coppa composta da tre contenitori i cui steli, modellati in forma umana, erano uniti, e i cui manici erano intrecciati in maniera tale che le coppe dovevano essere svuotate simultaneamente per evitare di versarne il contenuto. Con la festa in pieno svolgimento, i clienti continuarono a ordinare birra e sidro in diverse misure, dai boccali piccoli alle pinte. Dalla folla, iniziarono a salire canzoni da taverna. Più tardi, stranamente, la conversazione calò di tono, anche perché si stava discutendo di argomenti più preoccupanti. Orde di creature unseelie erano state viste passare durante la notte e, in quei giorni, al tramonto, le porte della locanda venivano sempre sbarrate saldamente col ferro. Mentre Imrhien ascoltava, sonnecchiando, un'alta ombra snella affiorava a tratti nei suoi pensieri. Le imposte della finestra si spalancarono per un soffio di brezza, un grosso uccello nero emerse svolazzando dal buio, si appollaiò sul davanzale e tornò a spiccare il volo. Quando la ragazza andò a chiudere le imposte, di quell'uccello non c'era più traccia. Il mattino successivo, nel cortile acciottolato della locanda, c'era un carro e i compagni di Muirne vi stavano già salendo. Un garzone di stalla passò, correndo, in risposta ad alcuni ordini impartiti da uno stalliere; appollaiati sulla staccionata, alcuni passeri erano in cerca di briciole. Su una grondaia, un sauro dipinto di verde se ne stava accoccolato, con la coda spinosa arrotolata come un uncino; da qualche parte, dietro un mucchio di sacchi e di botti, qualcuno stava fischiando. I preparativi per la partenza avevano messo in fermento l'intero cortile. Thorn stava vicino a una porta laterale. Il locandiere, un individuo grasso e rubicondo, quasi calvo e avvolto in un largo grembiule bianco - tutte caratteristiche che sembravano quasi obbligatorie per poter fare quel mestiere -, era davanti a lui e si stava inchinando ripetutamente. «È un onore, signore, un onore, ve lo garantisco», stava dicendo, a voce così alta da sentirsi fin dall'altra parte del cortile. «Vi prego di accettare il pernottamento e tutte le spese come omaggio della casa, signore, se non vi dispiace, e i migliori auguri a voi e ai vostri confratelli. Qui non vediamo molti cavalieri di Roxburgh, signore, proprio no, anche se siamo tanto vicini alla Città Reale, per così dire... ma in questa locanda essi sono sempre i benvenuti, in qualsiasi momento.» Mise poi in mano al Dainnan alcuni viveri, ma lui ne rifiutò la maggior parte, ridendo. Vari inservienti della locanda e parecchi clienti che si trovavano nelle vicinanze lo stavano guar-
dando con reverenza, di sottecchi, da una rispettosa distanza, benché fingessero di essere molto indaffarati. Imrhien aveva pagato il conto di Diarmid. Quando il giovane si era ricordato, con sgomento, che la sua sacca del denaro giaceva sommersa da qualche parte nei laghi del Mirrinor, era ormai troppo tardi e il suo entusiasmo della sera precedente gli era costato parecchio. Imrhien aveva ancora la sua sacca con le tre gemme, nascosta sotto gli abiti prestati da Janet, ma aveva preferito pagare il locandiere con una sovrana rimasta al sicuro, cucita nella fodera del vecchio abito da viaggio rovinato, ricevendo in cambio sette scellini e sei pence. L'avvilimento dell'ertish non conosceva limiti - essere indebitato con una ragazza era più di quanto lui potesse tollerare -, però Muirne aveva pochissimo denaro e lui fu costretto' a rassegnarsi. «Ti devo la vita, e ora anche del denaro», disse a Imrhien, imbarazzato. «Ti ripagherò, te lo prometto, non appena riceverò la prima paga.» Non è nulla. Sei stato un amico e un alleato. Sono io in debito con te. «Non ci vuoi accompagnare a Isenhammer?» supplicò Muirne. Vado dalla Carlin. «Allora ti accompagnerò», dichiarò Diarmid, in tono poco entusiasta. «Viaggiare da soli non è sicuro, soprattutto per una donna.» «Andate pure a Isenhammer, comandante Bruadair», intervenne una voce musicale. «La strada per White Down Rory è gradevole in tutte le stagioni, e non mi dispiacerebbe percorrerla.» Era Thorn, che aveva attraversato il cortile e li aveva raggiunti. Le deboli proteste di Diarmid furono soffocate sul nascere; del resto, lui continuava a guardare verso la sorella e il carro carico, diretto a Isenhammer, e la possibilità di sottrarsi ai suoi obblighi verso Imrhien gli era tutt'altro che sgradita. «In tal caso, andrò con Muirne», disse infine il giovane. «Però, Imrhien, ti prego di farci sapere dove alloggi, in modo che ti possa far avere quanto ti devo il più in fretta possibile.» Adesso che si stava congedando, Diarmid si era messo a parlare con stentata cortesia, incapace d'incontrare lo sguardo della ragazza. «Io... Sei stata gentile...» Le parole gli morirono in gola. Girandosi verso il Dainnan, il giovane ertish sollevò il capo. «Mio signore...» mormorò, palesemente commosso. «Se sarò ammesso nella Confraternita, mi rimarrà ancora una sola cosa al mondo da desiderare... Poter compiere il mio dovere ai vostri ordini.» «È possibile che il vostro desidero si realizzi», replicò Thorn. Improvvisamente, Diarmid piegò al suolo un ginocchio e chinò il capo. Dopo un momento, quasi gli stesse elargendo un titolo onorifico, Thorn lo
sfiorò su una spalla. «Alzatevi, coraggioso comandante, e fate buon viaggio. Addio.» «Buon viaggio anche a voi, miei compagni lungo la strada», replicò Diarmid, rialzandosi. «Che ci si possa incontrare presto.» Rivolse quindi a entrambi un profondo inchino; poi, come per un ripensamento, strinse Imrhien in un rapido abbraccio e balzò sul carro. Le mani di Imrhien si mossero rapide, con urgenza. Buon viaggio, Diarmid. Buon viaggio, Muirne. Il nostro incontro è stato breve... Speriamo di rivederci presto, e per un tempo più lungo. Diarmid si chinò per aiutare la sorella a salire sul carro, poi Imrhien gettò loro un piccolo involto. Dentro, c'era il rubino. A Isenhammer, se non fossero riusciti a raggiungere i loro obiettivi, almeno i suoi amici non avrebbero dovuto mendicare per le strade. Prima che i due avessero modo di scoprire cosa c'era nell'involto, o anche solo di ringraziare, il conducente lanciò un grido. Con uno schiocco di frusta e un battere di zoccoli, accompagnati da un rumore metallico di ruote, il carro oltrepassò l'arco del cortile e si allontanò lungo la Strada. Durante la notte aveva piovuto, e gli stivali di Thorn e di Imrhien sciacquettavano in mezzo alle foglie bagnate; mancando della vernice, quelli di Imrhien lasciavano passare l'acqua, e ben presto lei ebbe i piedi fradici. L'erba lungo la strada, alta e color crema, mista a nuovi steli di un verde pallido, dondolava il capo in risposta alla tenue carezza dell'aria, i tordi trillavano ed Errantry si librava, sparpagliando gli uccelli canori, per poi scendere in picchiata e posarsi sulla spalla del Dainnan, dove rizzava le penne, le scrollava e apriva e chiudeva il becco in una serie di silenziosi commenti. La luce del sole sfiorava la veste di Imrhien con dita calde, anche se la brezza era gelida e tagliente come un coltello; stampate sullo sfondo di un cielo di smalto azzurro, le prime bacche invernali creavano allegre chiazze dorate sugli alberi e spolveravano d'oro l'orizzonte. Nei boschetti, le foglie delle querce erano ancora aggrappate agli antichi rami, in masse color bronzo e zafferano che non potevano tuttavia vincere il confronto con lo splendore delle bacche. Imrhien, però, avanzava come se stesse camminando in una delle buie gallerie che si snodavano sotto il Doundelding, perché era cieca a tutto tranne che al sentiero sotto i suoi piedi, sorda a ogni suono che non fosse la voce di colui che le camminava accanto. La strada per White Down Rory era un succedersi di salite e di discese,
tra alberi che si aprivano e facevano intravedere pascoli ondulati, pendii boscosi e segrete vallette nebbiose solcate da ruscelletti che scintillavano come l'electrum. La via si addentrò in una di quelle vallette e corse accanto a un fiumiciattolo, bordato di salici, che si allargava a formare una polla. Le libellule svolazzavano sulla sua superficie... o almeno sembravano libellule. Se le si guardava con maggiore attenzione, infatti, le sagome racchiuse tra quelle doppie ali scintillanti erano quelle di piccole creature umanoidi, molto più minute dei siofra. Salta-acqua simili a ranocchi si sparpagliarono tra le canne all'avvicinarsi degli intrusi, agitando le ali. Se fossero sopravvissuti fino all'età adulta, sarebbero diventati enormi e pericolosi. In quel luogo i due viaggiatori si fermarono per riposare. Da una sacca che gli aveva dato il locandiere, Thorn prese grandi pezzi di pane e spesse fette di prosciutto. Pensando all'imminente separazione, col cuore serrato, Imrhien non riuscì a mangiare e, dopo qualche tempo, anche lui ripose il cibo senza averlo neppure assaggiato. Per tutta la strada, mentre procedevano a fianco a fianco, lui aveva riso e cantato, si erano scambiati battute nel linguaggio dei segni e Imrhien gli aveva insegnato il gesto che indicava il vento shang. Viandanti che sopraggiungevano a cavallo nella direzione opposta li avevano salutati con indifferenza, senza fermarsi, e Thorn li aveva salutati a sua volta. Di colpo, però, il Dainnan si fece silenzioso e meditabondo, contemplando la polla immota e il riflesso dei salici spogli e delle nubi sottili. Appollaiatosi su un ramo, l'astore chiuse i suoi folli occhi arancioni. Nel punto in cui il ruscello entrava nella polla, Imrhien trovò alcune pietre levigate e le fece saltare sull'acqua, come se volesse interrompere le riflessioni di Thorn; questi sollevò lo sguardo con un sorriso scintillante e doloroso come un colpo al cuore e, col passo sicuro di una lince, si avvicinò alla riva. «Quante volte riesci a far saltare una pietra?» Essendosi esercitata con Sianadh alla Scala d'Acqua, Imrhien aveva quasi perfezionato il piccolo scatto del polso. Dopo alcuni tentativi, riuscì a ottenere otto rimbalzi. Thorn lanciò alcuni ciottoli, che rimbalzarono in alto e sprofondarono. Devi fare di meglio! Lui annuì e raccolse un'altra manciata di ciottoli. Presso la Scala d'Acqua, Sianadh si era dimostrato abilissimo nel lanciare i sassi, affermando altresì di essere stato il campione del suo villaggio,
nella Finvarna. Imrhien, però, non gli aveva mai visto ottenere più di una dozzina di rimbalzi. I ciottoli lanciati da Thorn rimbalzarono invece quattordici volte... ventuno... ventisette. Per quanto ci provasse, lei non riuscì a imitarlo e scagliò lontano l'ultimo ciottolo, combattuta tra il malumore e l'ammirazione. Una mano scarna emerse dall'acqua, afferrò il sasso e si ritrasse lentamente. La polla era abitata. Thorn prese a giocare con alcuni ciottoli, facendoli scomparire e riapparire. Insegnami! Lui lasciò cadere le pietre, che rotolarono sull'erba. Vorrei, ma non c'è tempo. Il giorno volge al termine. Dobbiamo proseguire. La strada era segnata da solchi e cosparsa di foglie morte. I segni delle ruote dei carri erano numerosi e le foglie davano l'impressione di essere state smosse di recente, come se numerosi viandanti fossero passati di lì in entrambe le direzioni. I due incontrarono un carro di persone che proveniva dal villaggio, e altri viandanti a piedi, con un bastone in mano. Il sole descrisse il suo arco fino ad arrivare a un basso apogeo invernale, dietro nuvole che si assottigliavano nel muoversi verso nord, lasciando solo bianchi, fugaci segni del loro passaggio. La luce evidenziava ogni tratto del paesaggio, permeandolo di ogni tonalità di verde, di ogni sfumatura d'oro. Nelle vicinanze, le foglie erano bordate dalla loro stessa ombra; in lontananza, una caligine color pastello rivestiva le colline sonnolente. Lunghe ombre si stavano ormai allungando verso est quando i due viandanti arrivarono alla cresta di una collina e in basso, sotto di loro, tra le pieghe delle alture, scorsero i tetti di un villaggio. La strada scendeva, ripida. Thorn appuntò il suo sguardo intenso su Imrhien. «A quale casa sei diretta?» Ethlinn le aveva fornito le indicazioni necessarie. Un sentiero porta a destra, ai piedi di questa collina, e aggira il villaggio vero e proprio, passando su un ponte. Imrhien intuiva che il Dainnan era impaziente d'imboccare la strada per Caermelor. L'aveva accompagnata fin lì per cortesia... Era uno dei precetti del codice dei Dainnan, che imponeva il rispetto per le donne. Ormai, però, erano in vista del villaggio e non c'era bisogno che lei lo trattenesse oltre. Per di più, se avesse proseguito al suo fianco, sarebbe giunto il momento in cui il suo crescente disagio sarebbe stato impossibile da nascondere.
Ai piedi della collina, la strada si addentrò in una fitta macchia di alberi e in quel punto si biforcò, descrivendo una svolta improvvisa appena oltre l'intersezione e scomparendo oltre il boschetto. Lasciami qui e torna a Caermelor. Ormai non mi rimane più molta strada e non correrò rischi. «Come desideri.» Volgendo le spalle a Thorn, la ragazza lottò per controllare i propri pensieri, con le mani scosse da un tremito violento. Poi lo sentì avvicinarsi alle sue spalle, avvertì il frusciare del pesante mantello contro le sue gonne. «Cambia strada. Sei ancora in tempo.» Thorn era una fiamma oscura, troppo vicina... Di certo, avrebbe causato la sua morte. «Vieni a Corte con me.» Imrhien sussultò, come se l'avesse ferita. Andare con lui tra i cortigiani? Per che cosa? Per diventare oggetto di ridicolo o, peggio ancora, per vedere lui fare quella fine? Dover sopportare le occhiate di compatimento e i sussurri che le accompagnavano? E tuttavia, nello sguardo intenso dell'uomo, c'era proprio quella richiesta, ed era uno sguardo così caldo che poteva sciogliere un cristallo di quarzo, rendendolo simile al latte. Evitando i suoi occhi, Imrhien si concentrò sul terreno e scosse il capo. No. «Ne sei certa? Lo sei nel tuo cuore?» Un cenno di assenso. Imrhien notò che un piccolo rovo stava crescendo tra due pietre della strada, accanto al suo stivale. Le foglie erano a punta, come le maniche degli aristocratici. A forza, si obbligò a concentrarsi sulla piantina. «Allora ci dobbiamo separare», disse Thorn. «La mia via mi porta a ovest. Eppure, credo che tra non molto c'incontreremo ancora, caileagh faoileag.» Silenzio. Imrhien non osava sollevare il capo, perché a lui non sarebbe sfuggita l'espressione folle assunta dal suo sguardo. Vagamente, da lontano, la brezza portò fino a loro il grido lamentoso di un falco. «Devo farti una domanda... Una cosa che mi tormenta da tempo», continuò Thorn. Poi esitò e infine sospirò. «No, non è possibile. Eppure in te c'è qualcosa, e ho creduto... Questo è un dono per te», concluse, tirando fuori qualcosa dalla tunica. E le lasciò cadere sul palmo della mano la fiala di cristallo rosso contenente il Sangue di Drago. Imrhien sentì le lacrime salirle agli occhi, mentre si chiedeva cosa poteva dargli in cambio. Offrirgli una delle due gemme
che le rimanevano le sembrava un gesto insignificante e, in qualche modo, scortese. «Posso avere qualcosa di tuo?» Qualsiasi cosa. Tre improvvise fitte di dolore la indussero a portare di scatto la mano alla testa. Poi vide tre dei suoi capelli dorati fra le dita di Thorn. «Li terrò come pegno», disse il Dainnan, arrotolandoli insieme a formare un cerchio. «Li conserverò al sicuro», aggiunse, infilandosi il cerchio in un dito della mano sinistra. «Adesso, dal momento che la fiala non è nulla, dimmi cosa vuoi chiedermi davvero.» Il pensiero affiorò spontaneo nella mente di Imrhien. Un bacio. Ma lei si augurò che Thorn non lo avesse intuito dalla sua espressione. Confusa, mosse le mani in maniera incerta, tracciando malamente i segni. Vorrei dirti con la mia voce che desidero la tua benedizione per la mia impresa. Ora andrò dalla Carlin che dimora qui, nella speranza che possa risanare il mio volto e farmi recuperare qualcosa di ciò che ero... E ti chiedo di augurarmi buona fortuna. Thorn annuì e indugiò per un momento, come riflettendo. In fretta, prima che lei potesse capire cosa stava succedendo, si chinò in avanti e le posò con gentilezza una mano sotto il mento e l'altra dietro la testa, baciandola sulle labbra. Soltanto due volte, prima di allora, c'era stato tra loro un contatto diretto. Scariche di energia simili a quelle di Beithir, ma dolci come estasi, trapassarono Imrhien dalla testa ai piedi, più e più volte, sino a convincerla che sarebbe morta. Poi lui la lasciò andare e si allontanò su per la collina, mentre lei fuggiva tra gli alberi, piangendo. Salate, le lacrime correvano brucianti sul volto di Imrhien, avvolgendo il sentiero in una nebbia di dolore e di perdita. La ragazza corse più in fretta, per distanziare quella sofferenza e lasciarsela alle spalle, ma essa continuò a tallonarla, mentre lei percorreva salite e discese, oltrepassava il ponte e riprendeva a salire, passando ora tra alte siepi, ora sotto mura di pietra, attraversando prati aperti o infilandosi in boschetti di querce o sotto i larghi rami di qualche castagno, nero nella luce sempre più fioca. Spettrali occhi socchiusi la fissavano tra le radici degli alberi, per poi scomparire subito; risate improvvise vibravano in gole misteriose; creature invisibili correvano di qua e di là. Una lepre bianca attraversò di corsa il sentiero. Qualcosa ululò.
Più avanti, la luce calda di una lampada si riversava da due finestre e filtrava tra gli alberi, intensificandosi a mano a mano che lei vi si avvicinava. Col volto bagnato di lacrime, Imrhien si ritrovò davanti alla porta di una capanna. Non riusciva a smettere di piangere, ma ciò non le importava, anche se le faceva prudere il volto in maniera intollerabile. Sconvolta, picchiò coi pugni contro la porta e si accasciò a ridosso del battente, traendo una serie di rochi respiri affannosi. Quando la porta si aprì, per poco non cadde all'interno, ma venne sorretta da un braccio energico e si trovò di fronte una vecchia. La donna le serrò le spalle in una presa ferrea per alcuni istanti, scrutandola con l'occhio sinistro dall'espressione penetrante. Là dove c'era stato l'occhio destro c'era una cavità vuota e la palpebra era stata rozzamente cucita. Sulla fronte era dipinto un disco azzurro. «Santi numi, cosa ti prende?» esclamò la donna. «Controllati, ragazza!» Col corpo scosso da brividi, Imrhien permise alla donna di guidarla a un pagliericcio e di farla sdraiare. «Senza dubbio vuoi una cura per l'edera paradossa, questo lo vedo da me. Farò quello che posso, ma prima bevi questo. Ti calmerà.» Imrhien trangugiò il liquido dal sapore insolito ma non sgradevole, che le ricordava l'erba sulla riva dei fiumi che oscillava sotto la pioggia... un sapore fresco e fragrante. Un senso di tranquillità le fluì nelle vene e lei giacque, placata. Soltanto la faccia continuava a prudere, tanto che prese a tormentarsela distrattamente con le unghie. «Smettila e lascia che ci pensi io», ordinò la Carlin, allontanandole con decisione le mani dal viso. Posò le dita nervose sulla faccia della giovane, esitò, quindi trasse un profondo respiro. La ragazza non vi badò neppure, perché era stata assalita da un desiderio irresistibile di dormire e si abbandonò a esso, chiudendo gli occhi e fluttuando, come alla deriva. La voce della Carlin parve giungere da molto lontano. «Benissimo, ora dormi. Questo mi darà il tempo per mescolare il fango.» Poi la scura corrente del sonno la trascinò via, sotto le erbe verdeggianti che crescevano sulle rive dei fiumi, sotto una pioggia incessante. C'era un viso, un tempo. Quello era stato il prima, ma era più di un viso... Era il conforto di placare un desiderio, la sazietà che sgominava la fame, il calore che scacciava il gelo, la frescura che attenuava il calore, il movimento al posto dell'immobilità, la compagnia che sconfiggeva la soli-
tudine, la pace invece dell'angoscia. Due occhi, un naso, una bocca... Non c'era nient'altro... Nessuna caratteristica propria dell'età o del sesso, e tuttavia era l'unico volto che poteva essere riconosciuto al di sopra di qualsiasi altro. Esso significava la fonte della vita. La sua scomparsa aveva generato un vuoto che risucchiava la luce da quella parte dell'esistenza. Il secondo viso era cominciato come il primo, altrettanto amato eppure diverso. Si era evoluto nel tempo, ed era diventato l'aspetto di un uomo saggio e gentile, gli angoli degli occhi segnati da rughe di allegria. Lui c'era sempre stato, sorridendo da una grande altezza: solido e affidabile. Anche il terzo viso si era alterato. Era apparso lungo i contorni del vuoto lasciato dal primo e, all'inizio, era poco più di una chiazza indistinta, un'irritazione da accantonare. Poi si era evoluto fino a diventare il viso dolce di un bambino: prezioso e amato, un amico e un compagno. Boccioli di mela si protendevano sulla testa del bambino, coi petali che cadevano come neve; piccoli frutti verdi maturavano sui rami, come lampade rosse, e venivano raccolti... Donna, uomo, bambino. Un sogno? Un ribollire di pensieri liberati dal sonno oppure, finalmente, un ricordo? Da quando le riusciva di ricordare, la pioggia aveva sempre tamburellato con dita impazienti. Le sembrava che lo avesse fatto fin dall'inizio dei tempi, ma in realtà aveva piovuto soltanto durante la notte, e ormai la notte era finita. Imrhien era distesa su un pagliericcio, tra coperte di lana bianca. Mazzi di erbe pendevano dalle travi del soffitto, un mortaio e un pestello erano posati su un basso tavolo e un bambino era inginocchiato a preparare il fuoco. Finito il suo lavoro, le lanciò un'occhiata e si allontanò. Sollevatasi su un gomito, attraverso sottili fessure lei vide Maeve la Guercia seduta su una sedia, intenta a osservarla; i capelli cespugliosi della vecchia sporgevano in tutte le direzioni, come spuntoni di brina. Imrhien avvertì una sensazione molto strana alla faccia, che prudeva ancora, anche se non in maniera intollerabile, e formicolava; le guance risultavano rigide e insensibili al tocco, gli occhi non si aprivano a dovere. «Non puoi tastare niente, sotto tutto quel fango», disse la Carlin. «Te l'ho applicato mentre dormivi, perché sapevo che così non ti saresti mossa. La pasta è spessa e si è già seccata... No, non cercare di sorridere, scoprire-
sti che è impossibile. Il fango azzurro arriva dal Baelfire Mount, l'unico posto di Erith dove ne puoi trovare di qualità veramente buona. Hai un aspetto terribile, te lo garantisco. Una volta che sarà penetrato a dovere nelle zone avvelenate, il fango azzurro si staccherà da solo, portando con sé parte della carne danneggiata. Non posso dirti quanto tempo richiederà, perché varia da un caso all'altro. Potrebbe trattarsi di un giorno, come di tre o di dieci, ma non sarai in grado di mangiare finché avrai addosso quella maschera, quindi spero che tu non abbia fame. Guardati nello specchio, là vicino alla finestra.» Un po' stordita, Imrhien si alzò, e immediatamente il prurito riprese, più forte di prima. Il lungo specchio della Carlin era sistemato accanto alla finestra ed era fatto di vetro vero e d'argento. La cornice era lavorata nella forma di gigli intrecciati e di fanciulle coi capelli fluenti. La superficie scintillava come acqua, conferendo all'oggetto un aspetto magico. In esso, Imrhien contemplò il proprio riflesso, un corpo alto e snello avvolto negli abiti contadini ricevuti a Rosedale. I lunghi capelli ricadevano in riccioli e ciocche diritte, come aggrovigliati fili di seta, incorniciando una maschera con due fessure per gli occhi. L'irritazione delle lacrime salate sotto il fango indurito era però intollerabile, e la ragazza si portò le mani al volto, cercando di trovare sollievo in qualche modo. Le sue dita presero a smuovere la maschera, che le rimase in mano, staccandosi in un solo pezzo. Sotto di essa, c'era un viso. Ah, un viso. Le labbra formavano un arco roseo, perfetto, come se fossero state dipinte sulla liscia pelle setosa, del colore di una pesca. I tratti erano ben modellati, gli zigomi alti, il mento aveva una piega morbida, il naso era piccolo e perfetto quanto la curva della guancia. Poi c'erano le sopracciglia arcuate e le grandi gemme degli occhi, frangiate dalle lunghe ciglia... Quello era il volto che stava fissando Imrhien, dallo specchio. Non sapendo cosa stesse succedendo, stentando a credere che fosse vero, la ragazza si sfiorò il viso con le dita, esplorandolo ripetutamente, con delicatezza, senza che esso svanisse. L'unico cambiamento fu un colorito rosato che si soffuse su di esso, e la luce che le si accese negli occhi. Il nodo che le aveva contratto la gola fin da quando si era svegliata si estese, diventando doloroso. Era bellezza, quella che stava contemplando nello specchio, oppure era un viso insignificante? Imrhien non lo sapeva, giacché la valutazione este-
tica è soggettiva, e lei era abituata a supporre che la propria immagine riflessa fosse ripugnante. Sapeva soltanto che quei tratti erano simmetrici, e quindi più accettabili di prima, molto più accettabili... il che era tutto ciò che aveva sperato. Accanto a lei, Maeve la Guercia tolse gentilmente la maschera di fango dalla sua mano. Fino a quel momento, la Carlin l'aveva osservata in silenzio. Ora socchiuse gli occhi, come se stesse percependo una luminosità tale da ferirle lo sguardo o contemplando qualcosa che avrebbe preferito non vedere. «Bene, ha funzionato a meraviglia», disse infine. «Lo vedi, ragazza? Lo vedi?» Il nodo s'infranse, una forza salì verso l'alto e proruppe all'esterno. «Sì, lo vedo», sussurrò Imrhien. ALCUNE PAROLE E FRASI IN ERTISH
alainn capali dubh: splendido cavallo nero amharcaim!: guarda là! chehrna: cara damigella clahmor: terribile, tragico cova donni: tiratore cieco daruhshie: stolto, che si fa male da solo dock: dannazione, dannato hreorig: rovinoso inna shaid tithen elion: abbiamo vissuto i giorni lorraly: dell'ordine naturale manscatha: devastatore malvagio mo: mio mo gaidair: amico mio mo reigh: bellezza mia mor scathach: un cavaliere unseelie che si attacca alle spalle della preda, diventando pesante come pietra, cavalcandola fino a ucciderla obban tesh: [un'esclamazione] oghi ban Callanan: occhi di Callanan
pishogue: incantesimo, illusione samrin: uomo effeminato sciobtha!: spicciati! scothy: pazzo, folle sgorrama: stupido [sostantivo o aggettivo] shera sethge: povero sfortunato skeerda: persona cattiva, subdola Ta ocras orm! Tu faighim moran bia!: Ho fame! Ho bisogno di molto cibo! tambalai: amato tien eun: piccolo uhta: l'ora prima dell'alba uraguhne: spregevole feccia BREVE GUIDA ALLA PRONUNCIA Baobhansith: baavan shee Buggane: bug airn Each Uisge: eoch-ooshkya Fuath: foo-a Gwragedd Annwn: gweageth anoon RINGRAZIAMENTI
Sono state necessarie molte ricerche per riprodurre le creature nel modo più «accurato» possibile, e cioè in armonia con la loro origine popolare tradizionale. È stata una gioia salvare le prime registrazioni scritte di queste tradizioni dalla polverosa oscurità cui erano condannate perché nessuno le pubblicava più. Intrecciandole con la mia storia, spero di riportarle alla luce del XXI secolo come esse meritano. Each Uisge e Toro d'Acqua - Ispirato a Popular Tales of the West Highlands, di J.F. Campbell. Alexander, Gardner, Paisley and London, 1890-1893. Druegar - Ispirato a Folk Tales of the North Country, di F. Grice. Nel-
son, London and Edinburgh, 1902. Beulach - Ispirato a «The Biasd Beulach», in Witchcraft and the Second Sight in the Highlands and Islands of Scotland, di J.G. Campbell. MacLehose, Glasgow, 1902. Buggane - Ispirato a A Manx Scrapbook, di Walter Gill. Arrowsmith, London, 1929. Trathley Kow - Ispirato a «The Hedley Kow», in Folklore of the Northern Countries, di William Henderson. Folklore Society, London, 1879. Cobie Will e i Dormienti - Ispirato a The Denham Tracts, a cura di James Hardy. Folklore Society, London, 1892. La Mucca di Lago [Vieni, Gialla Creatura di Einion, / corna disperse, Mucca di Lago Multicolore, / e anche Dodin il senza corna, / sorgete, tornate a casa] - Tratta da The Tour Ancient Books of Wales, di W.F. Skene. Edmonston & Douglas, Edinburgh, 1868. Flauto Leantainn - Ispirato a «The Friar and the Boy», di W. Carew Hazlitt, in National Tales and Legends. London, 1899. Trow e swatts - Ispirati a «The Trows' Revenge», in Country Folklore III: Orkney and Shetland, a cura di G.F. Black. Folklore Society, London, 1903. Trow - Ispirato a «Da Trow's Bundle», in Country Folklore III: Orkney and Shetland, a cura di G.F. Black. Folklore Society, London, 1903. La filatrice col labbro lungo - Ispirata a Folklore of the Northern Countries, di William Henderson. Folklore Society, London, 1879. Il ragazzo trow che ha rubato l'argento - Ispirato a Shetland Traditional Lore, di Jessie M.E. Saxby. Norwich, London, 1888. Il lamento del giovane trow: «... posso visitare la Terra dei trow per breve tempo... ma tutto quello che ottengo sono gusci d'uovo da mangiare e percosse sul petto e sulla schiena. Quindi continuo a girovagare senza casa, me misero!» è citato da questa fonte. Il canto della femmina trow [Ehi! Co Cuttie an'ho! Co Cuttie, / e chi danzerà con me? Co Cuttie. / Si guardò intorno senza veder nessuno, / quindi scelse di danzare da sola, co Cuttie] - Citato in Shetland FolkLore, di John Spence. Johnson & Grieg, Lerwick, 1899, pag. 39. FINE