PAUL J. McAULEY LA TORRE ALIENA (Four Hundred Billion Stars, 1988) CAPITOLO PRIMO CAMPO ZERO Tolsero i vestiti a Dorthy ...
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PAUL J. McAULEY LA TORRE ALIENA (Four Hundred Billion Stars, 1988) CAPITOLO PRIMO CAMPO ZERO Tolsero i vestiti a Dorthy Yoshida e le diedero una tuta anti-G di misura ridotta, la drogarono e la misero in una capsula di discesa, riempirono l'abitacolo di gel antiurto e chiusero il portello. E poi la spararono via a schiena in avanti fuori dall'orbita. Per un lungo minuto fu in caduta libera. L'ossigeno sussurrava nella maschera facciale e luci-spia senza significato ammiccavano a pochi centimetri dal suo volto attraverso le distorsioni del gel, ma tutto le sembrava qualcosa che lei stesse guardando in un film alla Tri-V. Sapeva che il suo distacco era un effetto del tranquillante, ma questo non importava. Lei stava fluttuando al di là di tutto. Ed era bello essere finalmente sola. Malgrado il suo impianto, nei ristretti compartimenti della nave non era mai stata davvero libera dalle emozioni dell'equipaggio e degli altri passeggeri, che le colorivano i pensieri e s'insinuavano nei suoi sogni come un gas maleodorante. Una delle ragioni principali per cui al termine del contratto con l'Istituto Kamali-Silver aveva voluto diventare un'astronoma era stata l'opportunità che ciò le offriva di sfuggire le ribollenti energie della civiltà, la tempesta di emozioni che irrompeva in lei giorno dopo giorno, corrodendo le sue capacità mentali inesorabilmente come il mare corrode la terra. Le settimane trascorse in viaggio non erano state meno stressanti di un anno di vita in qualsiasi città. Così quel minuto di caduta libera fu una goccia di nirvana: stordito cristallo di neve, vi si dissolse. Poi i retrorazzi si accesero. Il gel antiurto le si strinse come un guanto intorno al corpo... e tornò ad ammorbidirsi. Per un secondo fu di nuovo senza peso. Uno scossone! E un altro! La capsula di discesa gemette. Qualcosa che continuava a funzionare dietro la nebulosa estraneità di Dorthy le disse che doveva essere entrata nell'atmosfera. Mentre la preparavano per il lancio le avevano spiegato la sequenza di eventi, e lei cercò di ricordare, senza riuscirci, quello che do-
veva aspettarsi ora, intanto che il suo peso controbilanciato dalla resistenza del gel tornava ad aumentare. La capsula tremava; il suo sottile rivestimento cominciava a sbucciarsi negli strati superiori dell'atmosfera. Le vibrazioni che si sommavano attraversarono il gel scrollando il corpo di Dorthy e facendo roteare la costellazione delle luci-spia. Sotto di lei, sotto la costolatura del pavimento, lo scudo ignifugo si fece più caldo, salì al calor rosso, al calor giallo, al calor bianco, mentre le piastre più esterne si staccavano e volavano via. Tutto ciò che Dorthy sentiva era una sensazione di peso crescente, centrata fra i suoi seni, che le comprimeva il cuore e la schiacciava contro un rigido materasso di gel. Non riusciva più a respirare; le sue guance erano deformate in una smorfia agonizzante; la pressione le stava appiattendo i globi oculari nelle orbite. Una sconvolgente pausa di caduta libera. Ansimò in cerca d'ossigeno, ma già il peso tornava ad annichilirla, Qualcosa si schiantò. Di colpo s'accesero dozzine di piccole luci rosse. E poi gli scossoni cessarono. Una dopo l'altra le lucette rosse tornarono al loro verde rassicurante. Il peso di Dorthy diminuì, divenne un poco inferiore a quello cui era abituata sulla Terra. Poté sentire che la capsula oscillava tracciando lente figure a otto, un pendolo di Foucault appeso sotto il fiore del paracadute. Ci fu un rumore secco e quindi una voce metallica disse qualcosa nel suo orecchio destro. Nello stesso momento la barriera chimica che la separava dal suo Talento sembrò dissolversi. Era come se nelle paratie della capsula fosse penetrato un bagliore sfocato, qua e là personalizzato da duri cristalli d'intelligenza, gemme sparse che bruciavano nel fango di un mondo enigmatico. Dorthy fu avviluppata nella monotona routine di dati del controllore di volo, i cui tentativi di mettersi in contatto le ronzavano negli orecchi, e nel flusso tumultuoso delle centinaia di menti intorno a lui. Questo è peggio che nell'astronave, pensò, e poi sentì l'agitarsi di qualcosa oltre l'orizzonte. Il lampo di una nova esplose in alto, ripiegando i suoi raggi abbaglianti sopra di lei. Questo era troppo. Ciò che avvertiva era troppo, e neppure quando si rivolse all'esterno, premendo con tutta se stessa, riuscì a spingere via il fuoco che la sommergeva. Attraverso una rossa nebbia di panico cercò di richiamare il rituale calmante dei suoi esercizi, ma la luce era insopportabile. Come una capsula piombata su una traiettoria troppo ripida, come un Icaro, una povera falena, bruciò via attraverso il cielo ardente. E svenne.
Per molto tempo Dorthy oscillò sulla mutevole soglia fra la veglia e il sonno, proprio come a volte era rimasta a galleggiare sulla superficie del mare, nell'acqua calda come il sangue della Grande Barriera Corallina. Era possibile nuotare a faccia in giù, mentre il tubo che la univa al mondo d'aria tagliava la mobile pellicola d'argento sulla sua testa e il verde pianeta sottomarino si spalancava sotto di lei; ma doveva esser cauta. Un respiro troppo profondo le avrebbe riportato la testa a galla, con il sole accecante oltre il vetro della maschera, e l'estremità ricurva del cannello si sarebbe immersa facendole arrivare in gola una boccata d'acqua. E se avesse espulso troppa aria si sarebbe abbassata giù verso le tondeggianti masse di corallo pattugliate dai pesci, lasciando la pellicola d'argento per le nude strisce di sabbia bianca che scendevano verso la tenebra insondabile. (In qualche luogo una porta si aprì, lasciando arrivare a lei un odore non dissimile a quello del cortile dove si squartavano le balene. Una voce paziente disse: — Non ancora, colonnello. No, non è il momento. Forse una reazione al tranquillante che danno per la discesa, forse le iniezioni antiallergeni, forse qualcos'altro. Le dirò io quando si sveglia, glielo prometto, ma ci vorrà ancora un po' di tempo. — Dorthy cercò di aprire gli occhi e quello sforzo fu troppo. Scese verso la tenebra e la superficie argentea svanì sopra di lei.) Prima che la mandassero lontano da casa, c'era sempre stato quell'odore di carne appena tagliata, e il continuo volare in cerchio dei gabbiani che indicava la posizione del cortile del mattatoio al di là dei tetti squadrati dello stabilimento. Laggiù le pesanti carcasse oblunghe, spogliate dal grasso, venivano abilmente aggredite dalle lunghe lame che affettavano muscoli e organi. Più tardi le piccole gru avrebbero immerso il becco meccanico fra le costole spoglie, come uccelli lenti e pensierosi. Era lì che lavorava il padre di Dorthy. Talvolta l'uomo l'aveva portata a osservare le balene che nuotavano nel canale d'ingresso, lasciando la baia in cui erano state allevate. L'acqua nel canale di cemento era così bassa che lei poteva vedere gli occhi roteanti, minuscoli per creature tanto grosse, di ogni balena che passava. Se fosse stata così ardita da sporgersi oltre la balaustra della passerella avrebbe potuto toccare le erbe e i molluschi di cui erano incrostate le distese di pelle screziata che passavano sotto di lei. Le facevano sempre indossare un poncho, perché spesso le balene emettevano dallo sfiatatoio un maleodorante spruzzo oleoso. Questo a Dorthy non piaceva, e meno ancora le pia-
ceva il momento in cui gli elettrodi si chiudevano per mandare attraverso l'immenso corpo una breve e potente scarica elettrica. Il puzzo allora era quello dell'acqua bruciata. Lei saltellava indietro, e suo padre la prendeva in braccio e le sorrideva; per lui era come uno scherzo divertente. Era lì che lavorava Zio Mishio. A Dorthy l'unico occhio del suo volto tagliato da una cicatrice faceva paura. La puzza del grasso rancido stagnava nel cortile e sull'intera cittadina per tutta l'estate. Nei primi giorni della stagione delle balene gli uomini imprecavano e facevano smorfie, e l'aria dello stabilimento si faceva pestilenziale perché i finestroni non potevano essere aperti. Ma era l'odore del denaro. La piccola città apparteneva in pratica alla compagnia, e quella delle balene era la sua unica industria. Il padre di Dorthy portava in casa una nuvoletta di quel puzzo ogni sera, e se ne liberava faticosamente nella vasca d'acqua calda che la moglie gli faceva trovare pronta. Dorthy e la sua sorellina minore, Hiroko, dovevano fare silenzio mentre il padre, immerso nella vasca fumante, mangiava ciò che la loro madre gli serviva e intanto guardava la Tri-V, prima di uscire a raggiungere Zio Mishio in qualche bar. La madre di Dorthy non era giapponese, e sposandola lui s'era procurato la dolorosa e perpetua disapprovazione della famiglia. Ma quasi per espiare l'insano gesto, l'uomo s'era trasformato in un fanatico praticante della vita ortodossa, delle usanze precedenti l'Esodo, e di questa dura mentalità sua madre era divenuta vittima e martire... forse era lì che andava cercata la causa, anche se Dorthy l'aveva capito soltanto in seguito, anni dopo la morte della madre, quando ormai suo padre era stato rovinato dal bere, dalle cattive compagnie e dalla sfortuna. Il piccolo appartamento dalle pareti sottili tappezzate di carta, la pavimentazione di cemento coperta da stuoie tatami, l'altare shinto vivacemente colorato in un angolo, la stufa a carbone su cui gorgogliava di continuo un pentolino di tè, mentre sua madre puliva e tagliava il pesce per la zuppa... e le due dozzine di altri prefabbricati identici, la fila di negozi e di bar, le bianche ville degli ingegneri e dei dirigenti sulla collina che sovrastava l'abitato, con l'oceano da una parte e la boscaglia dall'altra, il tutto chiuso da un cielo azzurro e deserto raramente disturbato dal lontano ronzio di un aereo... il Talento di Dorthy l'aveva portata via da tutto ciò, proprio come ora l'aveva portata via dalle sue ricerche oltre l'orbita di Plutone. Che immensa quiete, laggiù. Nessuna mente se non la sua, e il sole null'altro che una stella poco più brillante fra miriadi di altre.
Dorthy si svegliò in una tenebra odorosa di disinfettanti, un sentore acuto che soverchiava perfino il suo ricordo di altri odori. Il suo primo pensiero fu che aveva fallito ancora (una volta con la candeggina, una volta con un coltello da tavola poco affilato, e una volta quando non era riuscita ad affogare nella piscina sferica al centro, privo di gravità, dell'Istituto). Ma c'era qualcosa che la spingeva in basso, e appena tentò di muoversi s'accorse che era il suo stesso peso. Non l'Istituto, allora, quello era stato anni addietro. Che fosse ancora dentro la capsula? D'un tratto la piccola stanza si riempì di luce. Un volto ondeggiò confusamente nel suo campo visivo. Dorthy cercò di girarsi dall'altra parte e qualcosa le punse un braccio. Affondare sotto l'argento. Dormire. Dopo l'Istituto era parso a Dorthy che il Talento fosse con lei da sempre, ma nella prima infanzia esso era stato solo latente, non addestrato e incapace di focalizzarsi, e lei non l'aveva mai riconosciuto per ciò che era. Dopotutto, a nessun bambino piace pensare d'essere un diverso. Era stato dentro ognuno dei suoi sogni. Addormentata, la mente di lei vagava nelle luci di altre menti, simili alle scintille che poteva vedere stringendo forte le palpebre, come le stelle separate e inconsapevoli le une delle altre. E a volte, da sveglia, aveva saputo ciò che la gente era sul punto di dire. A volte aveva assistito a scambi verbali che avevano la noiosa inevitabilità di un film appena visto alla Tri-V. Ma di raro Dorthy ricordava i suoi sogni, ed era troppo giovane per capire che le sue continue sensazioni di déjà vu erano tutt'altro che normali. Soltanto quando era stata presa sotto contratto dall'Istituto Kamali-Silver aveva cominciato a rendersi conto di quanto fosse diversa, e di cosa ciò significasse. Così, la prima volta che il suo Talento s'era manifestato in pubblico, nessuno aveva intuito di cosa si trattava, neppure lei. Aveva sei anni. Non andava a scuola da molto tempo, ma sapeva già che non le piaceva troppo. I bambini, quasi tutti giapponesi, le si tenevano a distanza a causa di sua madre, e le poche volte che le parlavano si rivolgevano a lei chiamandola «piccola mezzosangue». E per qualche ragione che Dorthy non riusciva a comprendere, molti degli altri bambini sembravano sdegnare i giapponesi, e includevano anche lei nella loro antipatia. Perciò Dorthy si teneva in disparte, rifiutata da ognuno dei due mondi. Era divenuta un bersaglio. I bambini non giapponesi, i gaijin, stavano solo scimmiottando i pregiudizi dei loro genitori e si limitavano allo scherno e ai nomignoli insultanti,
ma una bambina, Suzi Delong, provava un sadico piacere nel tormentare ogni giapponese abbastanza piccolo. In quella particolare occasione s'era scatenata su Dorthy in preda a una sorta di rabbia elettrica, tenendola ferma con una mano e tempestandole le braccia di pizzicotti con l'altra, senza cessare un istante di strillare invettive: che tutti i Giap puzzavano, che dovevano andarsene e lasciar lavorare l'altra gente, che avevano la faccia piatta e che avrebbero fatto meglio a tornarsene tutti nel posto da cui erano venuti. Le guance di Suzi si facevano sempre più rosse, e le sue accuse erano diventate assurde e stravaganti, un flusso di parole a cui Dorthy non sapeva neppure come cominciare a replicare. Tutto il suo corpo tremava di dolore e indignazione mentre si contorceva nella presa dell'altra bambina, ed i suoi occhi s'erano riempiti di lacrime. E ad un tratto dentro quelle lacrime era apparsa una scena. Dorthy non sapeva da dove venisse, ma aveva sentito se stessa parlare dal centro di quella visione luminosa: — Allora ti dico che tua madre sta giocando proprio ora con Seyour Tamija! E giocano senza nessun vestito addosso! Poi la scena era scomparsa, e Suzi era seduta in terra nel cortile e la fissava a occhi sbarrati. Dorthy s'era massaggiata i piccoli segni rossi che le costellavano le braccia, soddisfatta d'esser stata lasciata in pace. Ma uno dei maestri doveva aver sentito quelle parole, perché al termine delle lezioni era stata condotta nell'ufficio di Seyoura Yep, la direttrice della scuola. Seyoura Yep era una donna alta e pallida, e sedeva eretta dietro una scrivania su cui c'era uno schermo di vetro. Dorthy aveva atteso in piedi accanto al maestro, mentre la direttrice scriveva sul vetro con qualcosa che non era una penna. E aveva scritto a lungo prima di deporre lo strumento con un lieve e preciso click; poi aveva unito le sue lunghe mani bianche e domandato quale fosse il problema. Il maestro s'era affrettato a spiegarlo, parlando sopra la testa di Dorthy, e per tutto il tempo Seyoura Yep l'aveva fissata negli occhi. Lei s'era sentita arrossire, poi raggelare. Sembrava che la stessero incolpando di qualcosa... ma non era stata Suzi, invece, a cominciare? Suzi le aveva dato molti pizzicotti, e i segni rossi sulle sue braccia lo provavano. Ma era troppo piccola per osare opporre la sua protesta dinnanzi all'autorità degli adulti, e quello era l'ufficio della direttrice, perciò lei doveva aver fatto qualcosa. Finito di ascoltare il rapporto del maestro, Seyoura Yep s'era piegata in avanti sulla sue mani artritiche. — Be' — aveva sospirato, — non tocca a
noi commentare queste cose, no? I genitori di Suzi non vanno d'accordo; lo capisci, piccina? Non avresti dovuto sconvolgerla così. — S'era rimessa a scrivere sul vetro e aveva premuto un pulsante: da una fessura era uscito un foglietto di carta. Seyoura Yep glielo aveva mostrato. — Consegna questo ai tuoi genitori. E non farlo più. Va bene? Con il foglietto in mano Dorthy aveva annuito, ubbidiente. La donna le aveva detto che poteva andare. Mentre la porta si chiudeva alle sue spalle le era giunta la voce di Seyoura Yep, fra indifferente e seccata: — Questi Giap! Molti di loro credono ancora di vivere nell'Era dello Spreco. Sono viziati quasi quanto gli Yankee. Dopo aver letto la nota, il padre di Dorthy s'era sfilato la cintura e l'aveva colpita per tre volte, piuttosto formalmente, sul fondo della schiena. Ma questo non le aveva fatto troppo male, e anzi ne era valsa la pena, perché da quel giorno Suzi l'aveva lasciata in pace. Dorthy s'era del tutto dimenticata le immagini venute a lei dal nulla, fino alla seconda volta in cui il Talento si era manifestato, due anni più tardi. La seconda volta era cominciato con un sogno. Uno dei bambini che vivevano nei prefabbricati, non molto più grande di Dorthy, era scomparso. I suoi genitori erano andati a chiederne notizie di porta in porta, e poi due poliziotti della compagnia avevano dato fastidio a tutti frugando in ogni angolo delle case e dei cortili, ma non erano riusciti a trovare il ragazzino. Il giorno dopo gli adulti avevano proibito ai bambini di andare a giocare fuori. Le donne si chiamavano l'un l'altra come uccelli spaventati, chiedendo se c'erano notizie, e gli uomini si riunivano in gruppetti agli angoli delle strade, presso gli hovercraft posteggiati sulle banchine o davanti a una bottiglia, discutendo a bassa voce. Si era a fine giugno, in pieno inverno, il periodo del riposo e delle cerimonie tradizionali in città. Le mandrie di balene stavano pascolando nei mari settentrionali a mezzo mondo di distanza, e lo stabilimento era chiuso. Nei sobborghi tutti temevano che la sparizione del bambino fosse il primo sintomo di un altro pogrom contro i giapponesi. Molti ricordavano fin troppo bene l'ultimo, meno di vent'anni addietro, e i parenti che avevano perduto. Quella notte Dorthy era stata visitata dalle immagini, anche se lei non lo ricordava esattamente come un sogno. S'era ritrovata in piedi accanto al letto dei genitori, nella stanza buia e fredda, con un gran mal di testa e la bocca impastata di un sapore amaro. Le parole che aveva gridato quasi in stato di trance le roteavano ancora nella testa come un eco. La vecchia cisterna nel cortile del mattatoio!
Che un sospetto così esile e discutibile venisse preso sul serio fu l'indice della tensione che era salita nella comunità. Molti furono cacciati fuori dai sorveglianti, ma due uomini avevano trovato il ragazzino semisvenuto sul fondo della cisterna in disuso in cui era caduto, due metri sotto il portello per lui irraggiungibile. Quella sera Zio Mishio, l'unico della famiglia del padre di Dorthy che ancora parlava con lui, era venuto a discutere di ciò che si doveva fare. Distesa sul letto dei genitori dove aveva dormito per quasi tutto il giorno, lei aveva ascoltato il mormorio indistinto delle loro voci che si alzavano e abbassavano nell'altra stanza, intercalate da parole secche nella vecchia lingua. S'era sentita ancora avvampare e raggelare, ancora aveva provato quell'indefinito senso di colpa. Infine le voci avevano taciuto e lei s'era addormentata. Quando suo padre era venuto a svegliarla, nella stanza aleggiava il grigio lucore dell'alba. Lui sorrideva e aveva in mano un bicchiere di vino di riso, e Dorthy s'era messa a piangere, spaventata e confusa, sicura che stava per essere punita. Suo padre s'era asciugato la bocca col dorso di una mano e aveva detto: — Figlia, tu potresti essere qualcosa di speciale. Mi capisci? Domani andremo a Darwin, in un certo posto, e vedremo. Zio Mishio era venuto a battere una mano su una spalla del fratello e l'aveva fissata col suo unico occhio vivo, la cicatrice distorta da un sogghigno. — Alzati, piccolina! Tu andrai via da questo mondo di fatica! E dietro di lui, sua madre s'era scostata una ciocca di capelli dalla faccia guardandola con un sorriso tremulo e malinconico. Quella era l'espressione con cui Dorthy l'aveva ricordata sempre, dopo la morte di lei: una donna stanca, consumata dal duro autoritarismo del marito, ormai quasi incapace di tenere unita la famiglia col fragile legame del suo amore. Così s'era dunque decisa la vita di Dorthy. Dopo gli esami era stata accettata nel programma di ricerche dell'Istituto Kamali-Silver, sfuggendo a quelli che sarebbero divenuti i rigidi confini della sua educazione, e ai sobborghi di case prefabbricate, e ai miasmi del mattatoio che d'estate stagnavano sulla piccola città della costa australiana occidentale. E tuttavia ora, svegliandosi in una stanza d'ospedale a quindici anni luce dalla Terra, ritrovava nell'aria qualcosa di molto simile a quel triste e sgradevole odore della sua prima infanzia. Nella stanza c'era il buio quasi completo. Per un poco rimase distesa con calma, interrogandosi sull'incubo che l'aveva sommersa: lo sfavillio lonta-
no di molte menti e l'incredibile altra che s'era sollevata da oltre l'orizzonte, una quasar a paragone dello spolverio di Pleiadi dell'insediamento umano. Un brivido freddo le corse sulla pelle. Non lo aveva sognato. Era successo davvero. L'avevano mandata giù. Era sulla superficie di un pianeta conquistato. Sedette sul letto. La pressione che aveva sentito sopra di sé era soltanto quella di un leggero lenzuolo, che nel movimento le scivolò fino alla vita. Tastò la sconosciuta veste da notte che indossava e scoprì il tubicino di una fleboclisi, con l'ago infilato all'interno del suo gomito sinistro in una vena che pulsava di lente peristalsi. Costellazioni d'ambra brillavano nella penombra sopra la sua testa e ai piedi del letto: le luci di alcune apparecchiature diagnostiche. La porta si aprì. Stagliato sullo sfondo della luce esterna un uomo disse: — Su, non si agiti, dottoressa Yoshida. Deve stare distesa e riposare. — Gentilmente la costrinse a sdraiarsi, le rimboccò il lenzuolo e prese una siringa. Dorthy avvertì un breve prurito sulla spalla destra. Le sue palpebre si appesantirono, ma prima di chiuderle riuscì a mormorare: — Ho fatto un sogno che... — Poi la superficie tornò ad allontanarsi sopra di lei, e finalmente dormì di un sonno vero. Quando si svegliò vide che nella stanza c'era di nuovo il medico. — Che ore sono? — gli chiese subito. L'uomo si volse a sorriderle, passandosi una mano fra i folti capelli neri. Era piuttosto magro, di pelle chiara. — Tempo della sua nave o tempo locale? Comunque non c'è molta differenza al momento. Qui sono le sette del mattino, lassù stanno vedendo l'alba. Scelga quello che preferisce. Come si sente? — Benissimo — disse Dorthy con impazienza, benché non fosse vero. Una fastidiosa emicrania le tormentava il lato destro della testa, e si sentiva prudere la pelle di un calore secco. Ripensò all'improvvisa ipersenbilità del suo Talento, alla surclassante vampa di quell'intelligenza. C'era qualcosa, laggiù. Qualcosa di mortale. Quando cercò di alzarsi a sedere il dottore la aiutò con mani esperte. — Non abbia fretta di muoversi. Il suo organismo ha subito un massiccio shock endocrino; per un paio di giorni lei dovrà starsene a letto. Avrebbe dovuto informarli del suo impianto. — Credevo che lo sapessero. — Strinse i denti: due giorni!
— Qualcuno lassù non si preoccupava di saperlo. E come al solito tocca a noi rimediare al guaio. C'è stata una reazione fra il tranquillante per la discesa e la sostanza chimica che il suo impianto secerne. Questa è la mia diagnosi. — Una reazione? — Molto violenta. Ma il suo organismo si sta riprendendo. — Alzò una mano a regolare qualcosa su un'apparecchiatura sopra la testa di lei, e aggiunse: — Io sono Arcady Kilczer. Benvenuta a terra, dottoressa Yoshida. Ora che si è svegliata potrò darle un'occhiata come si deve, eh? Cominciamo coi polmoni, prego. Mentre il medico lavorava su di lei con il distacco un tantino brutale della sua professione, Dorthy si chiese cosa sarebbe successo del programma stabilito. Subito dopo l'atterraggio avrebbe dovuto recarsi in una delle isole di vita di quel pianeta desertico, uno degli insediamenti, fare il suo lavoro e tornare indietro. La Marina aveva promesso che non ci sarebbe stato altro. Che avessero rimandato tutto? Oppure erano già andati avanti senza di lei, in cerca di ciò che erano stati mandati a scoprire, alla caccia di un indizio su chi aveva trasformato quel pianeta. Quasi certamente erano stati gli stessi alieni che avevano colonizzato il sistema di asteroidi di una stella vicina, una nana rossa... ma nessuno sapeva chi fossero, né quale forma avessero. Qui ogni civiltà sembrava essersi estinta (ma di nuovo le tornò in mente il bagliore di nova che l'aveva sfiorata per un poco) mentre invece fra quegli asteroidi si erano trovati di fronte a un'insensata ostilità: il Nemico. Dorthy chiese al medico se aveva notizie della spedizione, e lui scrollò le spalle come se non ci fossero state conseguenze. — Duncan Andrew è andato via subito, appena è stato chiaro che lei sarebbe rimasta fuori uso per un po'. È un uomo impaziente, e qui al campo lei potrà avere tutti i particolari della sua discussione con il colonnello Chung. La signora Chung, ovvero il colonnello, non voleva lasciarlo partire senza di lei. Ma lui ha detto che la raccolta di campioni poteva comunque procedere, e alla fine se n'è andato. Un punto per noi. — Noi? — Gli scienziati. Oh, io sono un tecnico medico qualificato. È così che ho cominciato, nella Gilda. Ma ora il mio vero lavoro è la ricerca sul sistema nervoso, un po' come il suo, credo... quando non incerotto le dita tagliate, o distribuisco pillole, o mi occupo di giovani donne giapponesi in coma. Ma hanno promesso di mandare giù un autodoc, e allora forse la-
voreremo insieme. Adesso, per favore, non sbatta le palpebre. — Le illuminò l'interno dell'occhio destro, poi il sinistro. — Quando ritornerà Andrew? — Presto, spero. Mi dia il braccio... no, l'altro. Nel sinistro ha già fin troppi buchi. Docilmente Dorthy chiuse e riaprì il pugno. — Non guardi — disse Kilczer puntandole l'ago sulla vena. Ma nei suoi anni all'Istituto lei era diventata immune alla vista degli aghi. Con calma guardò il suo sangue affluire nell'interno della siringa. — Sopravvivrò? — Non ho ancora tirato la moneta. Ha fame? — Non glielo so dire. — Be', è stata sotto menu endovenoso anche troppo. È tempo di vedere se riesce a tener giù un po' di brodo caldo. Farò un salto alla mensa, intanto che il computer digerisce i suoi globuli rossi. Quando l'uomo fu uscito, Dorthy mise le gambe fuori dal letto e provò ad alzarsi. Le parve che un martello di gomma la colpisse alla base del cranio, e nei suoi occhi rotearono miriadi di puntini luminosi. — Uauh! — disse ad alta voce. Poi andò avanti e indietro a passi cauti finché la testa non smise di girarle. In un armadietto trovò alcune tute e un paio di stivali della sua misura, e il minuscolo bagaglio che le era stato permesso di portarsi dietro nella capsula. Si vestì, e quando Kilczer fece ritorno con una tazza coperta da un piattino la trovò seduta sul letto che s'infilava gli stivali. — Non ci si può fidare a lasciarla sola, eh? — disse con severità. Ma Dorthy avvertì il suo sollievo. Acconsentì a sedersi e mandò giù il brodo, mentre Kilczer la osservava con aria quasi di proprietà. — Quando se la sente — disse il medico, — mi aspetto che il colonnello Chung voglia venire a far due chiacchiere. — Lasciamo che sia lei a cercarmi, allora — disse Dorthy. Se doveva parlare con la comandante della base sarebbe stato suo dovere riferirle ciò che aveva visto prima di svenire nella capsula. E non se la sentiva di affrontare quel fatto, non ancora. — Ehi, non mi sembra affatto una buona idea, sa? — la rimproverò Kilczer quando la vide alzarsi. Lei gli mise la tazza in mano. — Voglio guardarmi un po' attorno. Non sono un pacco spedito al vostro magazzino. Se lei vuole parlarmi, bene. Può sempre venire a cercarmi. — Finì di allacciarsi gli stivali.
— Non le ho ancora prescritto di andar fuori a caccia di mostri — la ammonì Kilczer. — Mi sento bene, sul serio. — Salvo che mi fa male dappertutto quando rido, e ho una paura terribile di quello che potrebbe esserci là fuori. La base deluse Dorthy. S'era aspettata qualcosa di esotico, oppure un ambiente simile a quello della nave, difendibile e pronto alla battaglia. Invece si trovò in mezzo a contenitori metallici accatastati dappertutto, e sparsi fra essi gli alloggi: lunghi cilindri di lamiera ondulata sepolti per metà nel terreno, friabile, privi di finestre e con l'aspetto delle cose vuote e abbandonate. Al centro di tutto ciò sorgeva una nuda e squadrata casamatta di cemento, sulla cui porta rinforzata era stampigliato: Campo 0° 15' S. 50° 28' W. Nell'aria stagnava un lieve odore di acetone, o di sostanze organiche putrefatte; l'illuminazione era data da tubilux appesi ad alti pali di plastica. Il cielo era di un nero impenetrabile, sul quale si stagliava un disco rosso che avrebbe potuto esser scambiato per il bagliore di un'esplosione atomica fuori dell'atmosfera. Dorthy si mosse in quella direzione. La strada, liscia ma non pavimentata, terminava bruscamente oltre l'ultimo grande contenitore cilindrico, e più oltre non c'era null'altro che un territorio sabbioso cosparso di rocce. E il sole. Era appena salito sopra l'orizzonte: un globo rossastro, percorso da una striscia di nere chiazze cancerose, tanto largo da sopraffare le sue capacità visive, al punto che quando ne fissava il bordo destro non poteva vedere bene il sinistro. La sua prima impressione fu che riempisse metà del cielo, ma in realtà era molto più piccolo. Il suo diametro poteva essere... un sedicesimo? Un ventesimo della linea dell'orizzonte? Comunque restava qualcosa di enorme: una nana rossa, di classe spettrale M0 e proprio all'estremità del diagramma Hertzsprung-Russel, con una costante solare piuttosto fredda e uniforme. Dorthy alzò una mano verso l'astro e non percepì molto calore, benché fosse ad appena due milioni di chilometri di distanza. L'alba: ecco il più grande risultato raggiunto da chiunque fossero coloro che avevano trasformato quel pianeta, perché, come ogni mondo potenzialmente abitabile in orbita attorno a una nana rossa, questo doveva starle molto vicino per catturarne le flebili radiazioni. E come la luna della Terra, lo stretto legame gravitazionale avrebbe dovuto rallentarne la rotazione fino a fermarla. In tal caso l'emisfero costantemente illuminato sarebbe stato una specie di deserto arido, mentre su quello opposto i gas congelati a-
vrebbero formato una calotta glaciale, semiliquida ai bordi. E invece questo pianeta ruotava su se stesso. Lentamente, certo, ma quanto bastava per mantenere una temperatura sopportabile su buona parte della sua superficie, con l'aria e l'acqua in movimento secondo una meccanica normale originata dal calore e dall'effetto Coriolis. Vedere l'alba, dunque, significava capire la grandezza dell'obiettivo raggiunto. Guardarsi attorno significava chiedersi perché qualcuno si fosse preso il disturbo di raggiungerlo. Dorthy trasse un lungo respiro, fece una smorfia all'odore dell'aria e proseguì con gli stivali che crepitavano sulla sabbia ghiaiosa, aggiungendo le sue al caos di altre impronte di scarpe e di veicoli. Lì non cresceva niente, assolutamente niente. Un panorama morto, mai sfiorato dalle necessità e dai desideri degli esseri viventi, sottoposto solo all'erosione degli elementi. E di conseguenza privo di forme significative per l'occhio umano. Ma non era così, naturalmente. Le leggi fisiche avevano uno svolgimento implacabile e fisso, lì come altrove: ogni masso aveva sul lato riparato dal vento una coda di sabbia, ogni parete di arenaria mostrava le consunte terrazze orizzontali lasciate dalle onde di qualche mare scomparso, benché neppure una spora di vita si fosse mai abbarbicata ad esse. Non c'era stata vita, prima che il Nemico arrivasse lì. Molti pianeti consistevano in paesaggi di quel genere, pensò Dorthy mentre seguiva la traccia di un sentiero fra una distesa di macigni (quasi tutti non più grossi della sua testa, molti quanto un baule, alcuni alti come una casa), sempre che non fossero come Giove, soli falliti. In un certo senso più spogli e insignificanti del vuoto dello spazio. Lei s'era convinta da anni che l'universo era quasi completamente inservibile per gli esseri umani (anche se chissà a quali scopi, e di chi altri, poteva servire?), e che perciò gli uomini avevano soltanto un minuscolo posto in esso, e non avrebbero mai potuto aspirare a grandi ruoli. Nei seicento anni trascorsi da quando era stato messo piede su un altro pianeta essi avevano esplorato una bollicina di spazio larga neppure trenta anni luce, un centinaio di stelle in una galassia che ne annoverava quattrocento miliardi, una dozzina di mondi abitabili la metà dei quali lo erano solo per modo di dire. Tutta l'energia usata dall'uomo nella sua storia era inferiore a quella emessa in un secondo da stelle come Rigel o Vega, ed era una goccia nella tempesta di radiazioni prodotta da una quasar. E come tutta l'energia che si disperdeva via verso i confini dell'universo, questo deserto debolmente illuminato di rosso era qualcosa di inservibile. Come per confutare quella riflessione, il sentiero girò intorno a una
montagnola di sassi e scese verso una depressione che aveva trovato la sua utilità come immondezzaio. Contenitori sfasciati e sacchi di plastica pieni di spazzatura, pezzi di equipaggiamento rugginosi e già semisepolti dalla sabbia: le malinconiche concessioni della civiltà all'entropia di cui era ammalata. E file su file di capsule di discesa, con i loro conici gusci di metallo scorticati dal fuoco dell'unico viaggio cui erano servite. Alcune erano malamente ammaccate, altre avevano ancora attaccati i loro paracadute, sporchi stràcci arancione che oscillavano alla brezza errabonda come ali di uccelli caduti ad agonizzare fra i rifiuti. China accanto a una delle capsule, una donna stava cercando di staccare via una sezione del rivestimento esterno. Il bagliore della sua fiamma ossidrica, accecante al confronto di quell'alba pallida, ne proiettava l'ombra per decine di metri sulla distesa di terreno dietro di lei. Sentendo avvicinarsi Dorthy, la donna girò al minimo i due rubinetti del gas e si volse, rialzandosi sulla fronte gli occhiali neri da saldatore. Il sorriso con cui la accolse fu un lampo candido sul suo volto color cioccolata. — Le hanno già permesso di alzarsi, dottoressa Yoshida? — Sono già conosciuta da tutti, qui al campo? — È un paese di provincia. — La donna si raddrizzò. Era magra e molto alta, due metri abbondanti a confronto del metro e mezzo di Dorthy. — Sto appena cominciando a conoscerlo — disse lei. La risata della donna suonò rauca e bassa, come il ronfare di una grossa gatta. — Jesus Christos, resti qui altri due giorni, dolcezza, e l'avrà conosciuto proprio tutto! — Sa dirmi perché l'aria ha questo cattivo odore? — Uh? Oh, quello è il mare. — La fiammella rossa della torcia elettrica danzò, mentre la usava per indicare la direzione. Alle sue spalle il metallo scricchiolò, raffreddandosi. — Che vuol dire? — Non lo sa? — Sono appena uscita dall'infermeria. — Dorthy mosse la ghiaia con un piede. — Questo è il mio primo mondo alieno, se non contiamo la Luna e Titano. — Mondo alieno... sì, mi piace detto così. Be', vada a dargli un'occhiata, se ha voglia. Basta seguire il sentiero che gira intorno all'eliporto. Credo che tutti si siano tolti la curiosità di guardarlo almeno una volta. — La fiamma ossidrica balenò di nuovo con furia mentre la donna tornava a vol-
tarsi al suo lavoro. Con la rètina abbagliata da immagini residue, Dorthy risalì per il sentiero. Il mare? Lei era stata allevata sulla costa dell'Oceano Pacifico, e dopo la fine della sua permanenza all'Istituto c'era tornata, perché nuotare le ricordava le perdute, amate, languide sensazioni della caduta libera. Così uscì dall'immondezzaio e seguì la pista, che più avanti s'inerpicava su un lungo pendio sassoso. Sulla cima si volse a guardare indietro, ma non vide nessuno. Il largo spiazzo di sabbia nuda, indurita da un colloide resinoso, ospitava soltanto un paio di carrelli a motore. Da un lato sorgevano alcune antenne di varia forma, fra cui una parabolica il cui disco centrale era puntato allo zenith, e dietro di esse una baracca conteneva altre apparecchiature elettroniche. Non c'era altro, solo il sentiero che proseguiva fra le rocce polverose. Cinque minuti dopo arrivò sulla costa. Il mare si estendeva fino alla piatta linea dell'orizzonte come un'immensa chiazza di sangue non del tutto coagulato, striato da correnti di spuma densa. Onde e vento avevano cospirato per accumulare quella sostanza sulla spiaggia sparsa di rocce, dove incrostava tutto, e a pochi metri dalla riva ne galleggiava una lunghissima striscia appena agitata dalla risacca. C'era un lento e continuo crepitio di bolle che esplodevano seccamente. E l'odore... C'era un canale, dietro lo stabilimento, per convogliare via i rifiuti del mattatoio che non potevano esser scaricati in mare, questo per non spaventare le mandrie di balene in avvicinamento. La gente del posto lo chiamava Fogna Gorgogliante. L'odore, qui, un misto di concime e vegetali marci misto a qualcosa di metallico non era intenso e disgustoso come quello della Fogna Gorgogliante, ma l'aria cattiva rammentava comunque a Dorthy la sua infanzia. Si domandò se tutta quella schiuma servisse a uno scopo. Poi sorrise al pensiero di creature che puzzavano di cose morte: loro cosa avrebbero provato annusando il suo odore di essere vivente? Per un poco camminò lungo la riva: macigni, distese oblique di sassi levigati dal mare, banchi di schiuma che tremolavano nella brezza. Il sole era sempre sospeso di poco sull'orizzonte roccioso. Nell'oscurità del cielo poche stelle palpitanti emergevano dal vago rossore malato che permeava l'atmosfera. Un mondo alieno, sì, e ad otto anni luce da lì gli umani e gli alieni stavano combattendo e morendo intorno a un'altra nana rossa, come
questa insignificante al punto che malgrado la sua vicinanza al Sole non aveva mai avuto un nome, soltanto un numero sul catalogo. Il Nemico. Qui c'era da presumere che la sua civiltà si fosse estinta, se non altro per il semplice fatto che la Marina non aveva trovato ostacoli nell'istallare una base sulla sua superficie. Ma al ricordo degli allucinanti attimi che avevano preceduto il suo svenimento, durante la discesa, Dorthy non ne fu più tanto sicura. Anche ammesso che la reazione del tranquillante al suo impianto le avesse acutizzato la sensibilità, sembrava inverosimile che qualcosa fosse arrivato a toccarla da oltre la curvatura del pianeta. Che genere di creatura, che genere di mente? Era immersa nei suoi pensieri quando la sensazione d'essere spiata cominciò a farsi nitida, e quindi a innervosirla. Infine si guardò attorno ed esclamò: — Va bene, può anche farsi vedere! Dopo qualche istante il dottore, Arcady Kilczer, uscì da dietro un enorme macigno la cui forma si stagliava nera contro il disco del sole, a un centinaio di metri da lei. Allorché le fu più vicino agitò un braccio e disse, allegramente: — Avrei dovuto saperlo che non ci si può nascondere a un Talento. — Perché si è messo a seguirmi? — La signora Chung è preoccupata, sapendo che lei abbandona il letto su cui giaceva inferma per avventurarsi chissà dove. — Preoccupata per il mio Talento, vuol dire. Lui si appoggiò a un consunto spunzone di arenaria, stringendosi le braccia al petto. S'era abbottonato ì polsini della tuta, alzandosi il colletto fino agli orecchi. — Lei ci vede una differenza? — chiese. — Perché no? — Lo sta facendo, adesso? — Leggere la sua mente? — Dorthy sorrise. — Sarebbe una fatica inutile, quando posso limitarmi a domandarle ciò che voglio sapere. — Io sono una persona onesta, dottoressa Yoshida, è vero; ma non sono sicuro d'essere l'innocentino che lei desidera. — Ciò non le impedirà di parlarmi del mare, spero. Perché ha questo aspetto? — Le acque pullulano di batteri fotosintetici, una sola specie, e ce ne sono milioni in ogni goccia. Durante il giorno si moltiplicano follemente, e di notte molti muoiono. Questa è la causa dell'odore. Ma sono la principale sorgente d'ossigeno del pianeta, così ci conviene sopportarli. Se vuole saperne di più ne parli con Muhamid Hussan, il nostro esperto sull'argomen-
to. — Questo succede anche nelle zone fertili? — Le osservazioni fatte in quei luoghi sono riservate. E Duncan Andrew non parla di ciò che i suoi o la squadra del maggiore Ramaro hanno scoperto laggiù. — Neppure una voce...? — Qui al campo si fanno pettegolezzi su tutto. Mi aspetto che sia il colonnello Chung a dirle tutto quello di cui ha bisogno, e presto potrà vedere coi suoi occhi. — Lei cos'è, il suo agente speciale? In quella luce sanguigna l'irritato rossore di Kilczer gli dipinse chiazze violacee sulle guance. — Prima o poi dovrà parlare con il colonnello, dottoressa Yoshida. — Io non sono un pacco nel vostro magazzino. Mi sembrava di averglielo detto. — Buona parte della sua rabbia emergeva dalla constatazione che non avrebbe potuto evitare i soliti problemi. Anche all'Osservatorio Fra Mauro era stata costretta in quelle situazioni, abbandonando le amicizie spesso fin dall'inizio, una dopo l'altra. Lì, tuttavia, sapeva che avrebbe finito col parlare di ciò che aveva sentito, ciò che l'aveva toccata. — La prego di capire che tutti noi scienziati dobbiamo convivere con i militari — disse Kilczer. — Sono stati loro a portarci qui, dopotutto. Duncan Andrews può starsene lontano e fare a suo modo, noi invece dobbiamo adattarci al campo, per adesso. Lei ha dei privilegi, grazie al suo Talento, ma spero che questo non porti degli inconvenienti a noi. Dorthy scosse le spalle. — Prima di tutto non ho voluto io venire qui. E intendo andarmene il più presto possibile. Perciò non ho affatto voglia di perdere tempo con i vostri burocrati. D'accordo? — Tanto perché lo sappia, io sono qui perché ho voluto esserci. Si guardi attorno: ce n'è abbastanza per tenerci tutti indaffarati per qualche secolo. Questo batterio: ha dodici enzimi e tre proteine strutturali, una membrana di lipidi e il pigmento fotosintetico, ed è tutto! Cresce, si scinde e produce ossigeno, ma sembra che non abbia nessun materiale genetico su cui sia codificata l'informazione che gli permette di farlo. Non usa zolfo o potassio, e neppure metà degli elementi che un organismo di quel genere dovrebbe avere. Non è stato modificato, come noi manipoliamo microrganismi per le nostre necessità. È stato costruito, dottoressa Yoshida. Progettato e costruito da esperti, e noi non sappiamo chi siano. Ci sono due dozzine di scienziati che stanno a fischiettare al Campo Zero mentre dovrebbero
essere al lavoro in tutt'altre zone. Ma la gente che ci dà ordini dall'orbita non la vede così, per timore che un po' della nostra tecnologia cada nelle mani del Nemico, o nei suoi pseudopodi. — O nei suoi tentacoli. — Qualunque cosa adoperino — disse Kilczer. — Comunque, la Marina usa capsule di caduta invece di navette di collegamento perché teme che il Nemico possa catturarne una e salire in orbita o che so io, e ci fornisce motori a scoppio invece di batterie a fissione catalitica, e noi siamo qui su un pianeta la cui velocità di rotazione è stata regolata artificialmente, senza incrinarne neppure la crosta solida come avrebbe dovuto accadere. I militari sono paranoici, è vero, però dobbiamo vivere con loro e adoperare i ferrivecchi che ci mandano giù. — Non si beffi l'ambizione del loro utile faticoso lavoro! — Uh? — Lui si massaggiò le mani per scaldarsele. — Ah, vedo, lei cita i classici. Be', mi creda, io non voglio piantare coltelli in nessuna schiena. E gli altri lo stesso. Se non altro, siamo qui. Per la barba di Marx, questo vento mi gela le ossa! Ora vado a cercarmi un bel po' di caffè, magari abbastanza da farci il bagno dentro. Viene anche lei? Dorthy sospirò. — Perché no? Qui fuori non c'è niente per me. — Quattordici enzimi ora, dottoressa Yoshida. Vede, quelli che sopravvivono al buio, appena sorge il sole ne sviluppano altri due sulla membrana cellulare: uno con funzioni anabolizzanti per tutti gli usi, l'altro per raccogliere i residui carbonici che ne derivano. Adesso stanno abbandonando questi ultimi. Forse non ne sentiremo più l'odore. — Non so molto di biologia — disse Dorthy. Muhamid Hussan sorrise e le diede un colpetto su una mano, poggiata sulla plastica del tavolo. Lei la ritrasse. — Ma è interessante, no? — continuò l'uomo. — Un sistema così specifico, una pura cultura unicellulare che si autoalimenta con un minimo apporto dall'esterno, indefinitamente. Noi siamo qui da meno di un giorno planetario. C'è molto da imparare. — La sua morbida voce bassa era difficile da udire nel vocio della sala mensa. In un angolo sei o sette persone stavano guardando alla Tri-V la registrazione della battaglia a BD Venti, un nastro portato dall'astronave su cui era arrivata Dorthy. Altrove il personale della Marina rideva, beveva e si scambiava richiami ad alta voce con una sorta di giovialità isterica, sovrastando le voci pacate del gruppetto di studiosi che s'erano riuniti intorno a Dorthy. Seduto accanto a lei Arcady Kilczer disse a Hussan: — Come sai che il
puzzo invece non diventerà peggiore? — Non lo so. — Hussan alzò le mani di colpo, sfiorandosi i capelli neri e riccioluti su entrambi i lati della testa. — Posso solo sperarlo, eh? — I suoi occhi sorrisero, dietro le lenti colorate di un arcaico paio d'occhiali. Quando si sporse verso di lei, Dorthy vide il suo volto rispecchiato in ognuna di esse: aveva un aspetto spaventoso. Hussan chiese: — Questo comunista le ha già raccontato le cose più interessanti dei nostri battéri? — Jesus Christos, Hussan, la stai annoiando a morte, proprio come hai già scocciato follemente tutti quanti noi! — Questa era la donna alta di pelle scura che Dorthy aveva conosciuto nel deposito dei rottami. Si volse a sorriderle e chiese: — Cosa pensa di tutto questo, dottoressa Yoshida? Un posto di matti, vero? — Suppongo di sì. — Per la differenza che c'è — si lamentò un altro, — potrei benissimo trovarmi su Marte. Voglio andare a vedere queste zone fertili. Ho scommesso con uno dei cartografi che hanno un'origine vulcanica, non da impatto... — E come pensi di riscuotere, se vinci? — chiese Hussan. — Loro stanno all'ultimo piano, e non ci manderanno giù l'ascensore finché tutta questa faccenda non sarà conclusa. — È vero? — domandò Dorthy. — Non c'è modo di risalire in orbita da... — Non con quello che c'è quaggiù — le rispose Kilczer. — Ma mi è stato detto che appena avrò finito potrò tornare indietro. — Le hanno rifilato la classica patacca — commentò il magro geologo con cupa soddisfazione, come se anche lui ci avesse ricavato qualcosa. — Forse manderanno giù una navetta — disse Kilczer. E poi: — Dove sta andando? — A cercare il colonnello Chung. Penso che sia il momento di fare due chiacchiere con lei. — Ma non può... — Kilczer le tenne dietro fra la ressa e uscì con lei nella fredda e sottile aria esterna. — Lei non può semplicemente prendere e andare là. — Questo dannato sole non si è mosso. È come se il tempo si fosse fermato. — Oh, di un paio di gradi, credo. Domani arriverà giusto sulla verticale del campo. Ehi, il centro di comando è da quella parte. Dorthy cambiò direzione. — Lei non è obbligato a seguirmi dappertutto.
— Come si sente? — Piuttosto seccata. Kilczer si pettinò con una mano i capelli, scompigliati dal vento. — Sul serio non le hanno detto che la discesa era un viaggio di sola andata? A cosa credeva che servissero le capsule? — Quando mi hanno cacciata là dentro ero già così stordita dal tranquillante che non sapevo neppure cosa stavo facendo. E mi ascolti, io non ho bisogno che qualcuno mi tenga la manina. D'accordo? — Naturalmente — disse lui, e si allontanò. Dorthy non aveva fatto che qualche metro quando lo sentì gridare: — Venga a cercarmi, quando avrà finito con il colonnello. E in bocca al lupo! Ma Dorthy non si volse neppure a guardarlo. Appena entrata nella casamatta di cemento, Dorthy fu condotta a un ascensore che scese quasi in caduta libera per dieci secondi. La violenza della decelerazione le fece piegare le ginocchia, e la sua scorta, una robusta polinesiana coi gradi di sergente e una pistola a reazione che le pendeva su un fianco, si limitò ad allungare una mano e la sostenne senza cambiare espressione. — Penso di non essermi ancora riabituata al peso, qui a terra — disse lei, imbarazzata, ma la sergente non replicò, neppure con un cenno, e la precedette lungo un corridoio spoglio. C'erano numerose porte, aperte su stanze del tutto buie; dietro una delle poche chiuse Dorthy sentì il sibilo di una scrivente. Fin dove si estendevano i sotterranei? Cercò d'immaginare livelli e livelli di corridoi e stanze scavati nella solida roccia... ma a che scopo? Su quel pianeta tutto era potenzialmente vulnerabile, non importa a che profondità fosse sepolto. La sergente aprì una porta e fece entrare Dorthy. Il corpulento graduato che sedeva dietro una scrivania le fece cenno di sedersi su una sedia di plastica dall'aspetto fragile, e rispose con indifferenza al saluto della collega che se ne andava. — Il colonnello Chung vuole parlarmi — disse Dorthy. Il sergente scrisse qualcosa sullo schermo della sua scrivania e senza alzare lo sguardo rispose: — Lo so, dottoressa Yoshida. Fra qualche minuto. Dorthy rimase seduta stancamente, con l'emicrania che riprendeva a pulsarle su tutto il parietale destro. Ne sapeva ormai abbastanza sulla routine affrettati-e-aspetta della Marina per ricordare che ogni protesta era inutile. Be', un'astronoma imparava a coltivare la pazienza, se non altro. La rabbia per esser stata relegata lì in superficie, a dispetto di ogni promessa, era
svanita. Ciò che provava era invece un vago senso di anticipazione. La Marina non poteva far niente per lei, niente del tutto. Il graduato continuava a ignorarla. Cercò di ricostruire quegli accecanti attimi di contatto durante la discesa, mettendo e rimettendo insieme le parole più adatte a descriverla, finché il militare non si decise a lasciare il suo schermo e la condusse nella stanza più interna. Il colonnello Chung era una donna piccola e dall'ossatura sottile, con corti capelli grigi e l'espressione di un computer. Il suo ufficio era praticamente vuoto, una stanza spoglia ammobiliata con una scrivania, due sedie e un classificatore metallico chiuso alla base da un lucchetto. Il solo tocco personale era una statuina di giada appollaiata sull'orlo della scrivania, che il colonnello Chung tocchettò con due dita mentre le chiedeva educatamente se avrebbe gradito una tazza di tè. — No, grazie. — Dorthy voleva arrivare subito al punto. — Cosa può dirmi della spedizione? — La spedizione, già. Mi spiace che lei sia stata male. Duncan Andrews sarà di ritorno fra due giorni; poi la porterà con sé. — Non può fare in modo che io lo raggiunga in volo? — Abbiamo pochi aerei, dottoressa Yoshida. La spedizione del dottor Andrews ne tiene già occupati fin troppi... anche se speriamo di riceverne altri quanto prima. Temo che lei dovrà aspettare qui. Mi rincresce, ma non è possibile accelerare la sua partenza. — Tutto ciò che chiedo è di fare ciò per cui sono stata portata qui, e andarmene. E capisco che perfino questo potrebbe non essere tanto facile. In che modo potrò lasciare il pianeta, colonnello? — Sono certa che il comando orbitale ha esaminato la questione. — Ma non lo sa. Avanti, colonnello. Forse sarò giovane, ma in quanto a ingenua fiducia nel prossimo me ne resta poca. Credo che dovrò parlarne con l'ammiraglio Orquito. — Non credo che servirà. Io agisco in base a direttive generiche, ovviamente, ma ci sono cose di cui non sono al corrente. Né desidero esserlo. «Cautela», dottoressa Yoshida, è la nostra parola d'ordine. E spero che lei apprezzi questo semplice fatto. L'emicrania di Dorthy era adesso una lama che le girava sull'interno della fronte. Al di là di essa la malizia del colonnello vibrava come la luce sulle ali di un insetto. Lei non voleva andare alla ricerca di quell'intelligenza terribile e abbagliante, e neppure voleva adeguarsi ai piani della Marina. Tutto ciò che desiderava era la vuota solitudine da cui era stata portata via,
la calma contemplazione, indisturbata dalla frenesia delle faccende umane. E ora vedeva se stessa sprecare settimane e mesi procedendo a cauti passettini programmati dai militari. — Credo di avere il diritto di parlare con l'ammiraglio — disse. — Quaggiù siamo in stato di guerra, dottoressa Yoshida. C'è un solo canale aperto con il comando orbitale, riservato alle comunicazioni in codice. E soltanto quelle autorizzate. Nessun'altra. — Capisco. — Non aveva bisogno di domandare chi era ad autorizzare le comunicazioni. — Be', non voglio certo che lei corra dei rischi, colonnello. Né mettere agitazione in questa vostra catacomba. — Dobbiamo procedere con prudenza, dottoressa Yoshida. Abbiamo appena una testa di ponte su questo pianeta, e non si è ancora accertato a chi appartenga. Sempre che appartenga a qualcuno. Il dottor Andrews crede che il Nemico si sia estinto qui su P'thrsn, dopo averlo planiformato. — P'thrsn? — Era una via di mezzo fra uno sputo e uno sternuto. Il colonnello Chung si concesse un breve sorriso; Dorthy poteva immaginarne il perché. Dopotutto lei non sapeva quasi niente di quel pianeta. (Sicurezza, le era stato detto quando aveva fatto domande. E, Lei starà laggiù solo un paio di giorni. E, forse per la ventesima volta, Non si preoccupi. Sarà ben protetta.) Perciò, se voleva sapere qualcosa, era costretta a chiedere. Il colonnello stava apprezzando l'ironia del fornire informazioni a una empatica, e Dorthy sentì in lei un lieve fremito di soddisfazione mentre spiegava: — Durante il periodo in cui lei è stata... fuori circolazione, un sondaggio ha portato alla luce campioni di scrittura nella zona fertile. In una specie di città, nel suo centro. Le squadre all'opera laggiù hanno fatto qualche piccola scoperta, e il nome di questo pianeta è una di esse. Credono anche di aver saputo il nome che il Nemico dà a se stesso: gli Alea. Questo, almeno, è facile da pronunciare. — Date al Nulla un nome, e avrà un posto in cui abitare. — Scusi? — Shakespeare. La scrollata di spalle del colonnello dichiarava che non aveva mai sentito parlare di Shakespeare, e che non gliene importava, a conferma della secca opinione di Dorthy che tutti i cinesi erano culturalmente dei barbari. — Il suo lavoro dev'essere fatto, naturalmente, e apprezzo che non voglia perdere tempo — disse la Chung. — Se i discendenti del Nemico vivessero ancora qui, potremmo imparare abbastanza da mettere fine agli scontri nella zona di BD Venti. Al momento non sappiamo come comunicare col
Nemico; non sappiamo neppure che aspetto fisico abbia. E il costo della guerra cresce ogni giorno; portarla avanti fino alla totale soppressione del Nemico manderebbe in bancarotta la Federazione. Chiunque può capire che è preferibile negoziare la pace, se si trova qualche modo di aprire il dialogo col Nemico. E lei può essere d'aiuto per trovare la chiave di questo dialogo, dottoressa Yoshida. — Lei mi lusinga, colonnello. Da quel che dice, devo dedurre che la spedizione non ha trovato traccia del Nemico? Gli Alea. — La parola le dava una strana sensazione in bocca. — Ci sono delle... possibilità. Forse lei potrà... — Be', è possibile che io abbia già scoperto qualcosa — la interruppe Dorthy. All'improvviso si sentiva le labbra aride. Ma forse si sarebbe assicurata un piccolo vantaggio se avesse rivelato una primizia al colonnello Chung. — Quando ero nella capsula di caduta, il tranquillante ha neutralizzato la secrezione del mio impianto. — Il dottor Kilczer mi ha parlato di una reazione. — Lo sguardo della donna era fisso sulla statuetta di giada. Un vecchio o una vecchia, pensò Dorthy, sotto il peso schiacciante di una cesta di vimini. — Be', questo significa che il mio Talento era attivo. — Dorthy fece una pausa, scegliendo con cura le parole. — E inoltre, attivo con insolita sensibilità. Ho potuto visualizzare le menti di tutta la gente che c'è in questo campo, e ho anche visto qualcos'altro, qualcosa di molto lontano da qui ma talmente intenso da soverchiare ciò che percepivo dal campo. Credo che fosse focalizzato su di me. — Dunque non si trattava di una mente umana. — Lo sguardo del colonnello continuava a non volgersi verso Dorthy. — Non so cosa fosse. Ma certo non qualcosa di umano. — Probabilmente c'era da aspettarselo. — Dietro l'apparente calma del colonnello, Dorthy avvertiva qualcos'altro. Oscuro, contorto, informe. — Forse. Ma significa che là c'è qualcosa, e suggerisco che tutti i nostri sforzi si accentrino per scoprire cosa sia. Io l'ho visto solo per un momento, poi... sono svenuta. Ma era da qualche parte oltre l'orizzonte, proprio al di là del campo. — Data la sua traiettoria di discesa, vorrebbe dire a est della nostra posizione, e meno che non fosse in mare. Vediamo di capire dove, dottoressa Yoshida. — Il colonnello sfiorò un interruttore e la vitrea superficie della scrivania si accese, poi su di essa comparve una carta geografica composta da rettangoli parzialmente sovrapposti, olografie prese dall'orbita equato-
riale. Qua e là c'erano strisce nere, dov'era mancata la ripresa, ma il quadro era quasi completo, striato e irretito di canyon, punteggiato di crateri. Il colonnello indicò un circolo oscuro largo quanto una sua mano. — Noi siamo qui, proprio sulla costa. Ora... — Toccò un altro interruttore ed oltre una dozzina di chiazze verdi si accesero, sparse all'incirca sulla linea dell'equatore. Il colonnello batté un dito su una di esse. — Questa è la zona fertile dove Andrew e la squadra del maggiore Ramaro stanno lavorando. È nella stessa direzione della cosa che lei ha... percepito? È questa la parola giusta? — È buona quanto un'altra. — In questa direzione ci sono quattro altre zone verdi. — Il colonnello le indicò una per una. — Lei sa a che distanza fosse quel fenomeno? — No. Il mio Talento non funziona a questo modo. — Dorthy vide che la donna non le credeva veramente. O non voleva crederle. Con un palpito di disperazione aggiunse: — Ma se potessi cercare... — Lei è preziosa, dottoressa Yoshida. Non vogliamo sacrificarla. Se ci fosse un qualsiasi pericolo dovremmo modificare i nostri piani. — Grazie — disse freddamente Dorthy. Era come se fra loro si fosse spalancato un abisso, e dalla sua parte lei aveva la sensazione di sprofondare pian piano. Il colonnello Chung spense la scrivania e intrecciò le dita delle mani, culminanti in unghie molto lunghe e ben curate. Dorthy chiuse i pugni per nascondere le sue, tagliate corte. La donna disse: — In ogni caso, il comando orbitale è dell'opinione che la civiltà del Nemico qui sia collassata, e possa essere scomparsa completamente. Questo è il solo punto su cui il dottor Andrew si trova d'accordo con loro. Lei è qui per... be', mettere alla prova l'ipotesi. Per eliminare certe possibilità, non per allontanarsi in altre direzioni. — E se il comando orbitale e il dottor Andrews sbagliassero entrambi? — Lei dovrà parlare col dottor Andrews. Sono certa che avrete molte cose da discutere. Ma lei deve capire, dottoressa Yoshida, che l'operazione ricade sotto la mia responsabilità. Io devo procedere con cautela. — Oh, lo capisco benissimo. — Dorthy si alzò dalla sedia. Il suo mal di capo scomparve per un istante, permettendole di ricevere qualcosa dalla mente della donna, una specie di odore che andava e veniva come su una brezza errabonda. In un certo senso il colonnello Chung era preoccupata quanto lei, e altrettanto impotente: sapeva d'essere nelle mani del comando orbitale, e per qualche ragione questo la terrorizzava. Ma Dorthy aveva
appena fatto in tempo a registrare questa percezione che la brezza svanì, l'odore scomparve. Tutto ciò che le rimase fu la netta consapevolezza che qualcosa stesse andando molto male. Sembrò poi che non ci fosse nulla che Dorthy potesse fare fino al ritorno di Duncan Andrews al Campo Zero. Cercò di parlare con il medico, Arcady Kilczer, di ciò che aveva avvertito nei pensieri del colonnello Chung, ma lui scrollò le spalle e cercò di mettere la cosa in scherzo osservando che tutti quanti erano un po' pazzi, sotto la superficie. Questo riuscì solo a far infuriare Dorthy. — Io sarei paranoica! È questo che sta dicendo? — Il mal di capo, ora più lieve, le pulsava in una tempia. — No, naturalmente — disse Kilczer in tono conciliante, senza distogliere lo sguardo dal sottile sensore di rame che stava staccando da uno dei suoi tracciatori neurali. — È alla nostra situazione che mi riferisco. Tagliati fuori come siamo, con l'ignoto su tutti e quattro i punti cardinali, non c'è da aspettarsi altro. Fra le mie mani passa un notevole... — con grande cura fece scivolare ii delicatissimo sensore flessibile in un guaina di nylon, — un notevole traffico di droghe psicotropiche. — E poiché io ho un Talento, soffrirei di allucinazioni. — È lei a dirlo, non io. La prego, mi ascolti. I suoi sospetti potrebbero essere giustificati. Io spero di no. Ma non potrei farci niente in ogni caso. Anch'io sono sotto l'autorità del colonnello Chung. — Ha intenzione di riferirle quel che le ho detto? Lui si piegò sull'apparecchiatura, cercando di far scivolare la guaina del sensore in una fessura scanalata. — No — rispose. — No, naturalmente. A meno che non sia lei a interrogarmi. Aspetti il ritorno di Duncan Andrews, questo è il mio consiglio. Dorthy abbassò lo sguardo sulle spalle magre di Kilczer, sulla nuca dove i suoi capelli neri si diradavano un poco. Aveva avuto l'impressione di una porta chiusa in faccia; e tuttavia nel suo rifiuto di allearsi con lei, Kilczer le aveva trasmesso anche una traccia di segno opposto, che la lasciava sperare. — Andrews potrà fare qualcosa? — gli chiese. — E il solo che potrebbe, fra quanti siamo quaggiù. — Kilczer si appoggiò allo schienale della sedia. I suoi occhi erano cerchiati di scuro. Aveva lavorato duramente, pensò Dorthy, dimenticando (perché era il genere di cosa che detestava ricordare) d'essere stata sotto le sue cure fino a poche ore prima. — Aspetti Andrews — ripeté lui. — E intanto la smetta di
preoccuparsi per quello che pensa di aver visto o percepito. Potrebbe non significare niente. Facile a dirsi, per lui. Kilczer non poteva capire la profondità a cui scendeva il suo Talento, quel tocco più intimo della carezza di un amante, o il modo in cui lei era per un attimo precipitata nella mente del colonnello Chung e risalita a galla, come una sonda che nel fondale oceanico si fosse impadronita fuggevolmente di un campione da analizzare: l'indefinibile e oscuro strato di paura che giaceva giù nella psiche della donna. Ma da sola lei non poteva far nulla, e così seguì il consiglio di Kilczer, rimase tranquilla e attese. Dopotutto, Andrew aveva detto che sarebbe tornato presto. Ma dovette aspettare cinque giorni. E quando infine l'uomo arrivò al campo fu nel mezzo di una tempesta di sabbia. Dorthy trascorse quell'intervallo lavorando con la squadra geochimica, e aiutò a montare le attrezzature per i prelevamenti dal sottosuolo di carote i cui strati, una volta separati e passati nel separatore di isotopi per il conteggio dei neutroni, fornivano dati sulla storia del pianeta. In ogni carota, ovunque fosse stata prelevata, c'era uno strato di cenere vulcanica compressa in una sottile linea nera: la testimonianza del lungo millennio di sconvolgimenti tellurici seguiti alla spinta angolare che aveva dato la rotazione al pianeta, e al bombardamento con asteroidi di ghiaccio da cui erano stati creati i suoi bassi mari. Presso la costa, striature di sedimenti fossili sopra la cenere rendevano possibile una datazione con metodi più precisi (e fra l'altro provavano il continuo allungarsi delle sue giornate: entro dieci milioni di anni l'attrazione solare avrebbe di nuovo inchiodato verso di sé un solo emisfero di quel mondo). La stima più precisa faceva supporre che fosse stato planiformato circa un milione di anni prima. E all'interno dei fossili organici esisteva un altro strato sottilissimo e irregolare, composto da residui metallici con tracce di fusione, che indicava un successivo bombardamento di minore entità con asteroidi metallici. Fu fatta l'ipotesi che il suo scopo fosse stato quello d'incrementare il contenuto metallico di una superficie impoverita (alcune specie di piante e di animali nelle zone fertili avevano un'alta concentrazione di metalli nei loro tessuti), ma essa non spiegava perché quell'arricchimento fosse stato fatto dopo, e non prima, la comparsa di semplici forme di vita nelle acque del pianeta. Dorthy non era particolarmente interessata a quei problematici reperti, ma il lavoro fisico le risparmiava se non altro di pensare troppo. Ogni sera,
esausta, si lasciava cadere sul letto e sprofondava in un sonno tranquillo. Arcady Kilczer le lasciava usare la stanza del centro medico, ben più comoda degli stretti e affollati dormitori comuni. Dorthy soffriva ancora di lampi di ricezioni empatiche, d'intensità anormale per lei, ma Kilczer non poteva farci niente. Provò a scandagliare il suo impianto dall'esterno, ma scoprire se stava funzionando bene o meno era al di fuori delle sue possibilità. — Cos'è questa roba? — le chiese, fissando perplesso l'immagine screziata di rosa, rosso e porpora scuro che il microscopio gli stava mandando su uno schermo. — Deriva da un distoma epatico, un parassita del sistema circolatorio — rispose Dorthy. — Shistosoma japonicum, per chiamarlo col suo nome. — Sulla Terra avete ancora bestioline come questa? Ecco perché è un mondo così strano. Be', il tuo impianto sputa fuori una vasta farmacopea, ma non so proprio se lo sta facendo nel modo giusto. Sierotonina, acetilcolina... e mi chiedo a cosa corrisponde questo picco. — Batté un dito sul grafico che aveva tolto da una stampante. — Qualcosa di simile alla noradrenalina. Non ne so molto. Io sono un'astronoma, non una biochimica. Kilczer si tirò indietro i capelli passandovi le dita. — Tutto quello che ti so dire è che non stai morendo. Speriamo che questo sia solo un effetto residuo. La frequenza dei tuoi attacchi sta aumentando? — Sempre due o tre al giorno, non di più e non di meno. Io cerco di dormire molto, e ci riesco. — L'ho notato. Ma la gente sta cominciando a dire che ti tieni troppo sulle tue, dottoressa Yoshida. Questo, e il fatto che potrai andare in una zona fertile, ti sta procurando il risentimento degli altri scienziati. — A me non importa un accidente di quello che gli altri pensano! Tutto ciò che voglio è andarmene da questo pianeta. Non l'ho chiesto io di venire qui. E quando sono stata sbattuta giù con quella capsula il mio impianto è andato fuori fase, e qui non c'è nessuno che possa regolarmelo, e adesso mi chiedono di stare con le mani in mano ad aspettare questo signor Duncan Andrews. Guarda, fa male se ho un attacco quando c'è un sacco di gente attorno. Perciò lasciami sola, uhu? — Le guance le bruciavano per la rabbia; i suoi occhi s'erano riempiti di lacrime. Fece un respiro profondo, poi un altro. — So che non posso fare niente — disse sottovoce Kilczer. — E questo mi dispiace. Ho chiesto consiglio alla direttrice della squadra medica, su al comando orbitale, ma lei ne sa quanto me, vale a dire poco o niente. Il tuo
impianto è anche protetto da un brevetto, e per saperne di più bisognerebbe andare sulla Terra e pagare il prezzo di una fotocopia all'Ufficio Brevetti. Potrei darti un tranquillante, ma rischiamo di provocare un'altra reazione. — Scusa, non volevo mettermi a urlare con te. Ma è frustrante davvero, sai? — Dorthy cercò di sorridere. — Sono abituata ad avere il mio Talento sotto controllo, più o meno. — Duncan Andrews sarà qui presto, e allora potrai metterti al lavoro. — Supponiamo che quando avrò fatto tutto ciò che posso loro non mi lascino risalire. Cosa succederà? Arcady Kilczer scrollò le spalle. — Cosa vuoi che ti dica? Dubito che anche il colonnello Chung sappia come stanno le cose. Dorthy ripensò a quella percezione, all'oscuro pozzo di paura al di sotto della ben ordinata mente conscia della donna. — Forse Duncan Andrews potrà mettere una parola per te — suggerì Kilczer. — Ha una certa influenza. — Forse — disse Dorthy, senza crederci affatto. Aveva già sentito fin troppo su Andrews, sulle sue accese battaglie contro le teste d'idra dell'amministrazione della Marina, sulla sua favolosa ricchezza e sulla longevità che questa gli aveva procurato (correva voce che avesse passato il secolo, e in tal caso era più vecchio della stessa Federazione). Gli scienziati non provavano risentimento verso di lui, là nella zona fertile. Anzi lo veneravano per aver reso possibile l'intero aspetto scientifico della spedizione, e a dar retta alle chiacchiere l'uomo doveva essere un improbabile combinazione di Einstein e Beowolf. Dorthy la sapeva già troppo lunga sulla fallacia umana per prendere per buone quelle voci, ma suo malgrado aveva cominciato a nutrire la speranza che lui simpatizzasse con le sue necessità e infine chiamasse giù una navetta per ricompensarla del lavoro svolto. Nel frattempo teneva sotto controllo l'irritazione ed evitava l'altra gente il più possibile, e placava i suoi timori occulti col duro lavoro e lunghe passeggiate nel territorio impervio all'esterno del campo. Andava a letto presto e si addormentava quasi subito, esausta dopo le fatiche nel luogo delle perforazioni; tuttavia, senza gli aiuti chimici che Kilczer rifiutava di prescriverle finché il suo impianto non si fosse riassestato, si svegliava prima degli altri nella monotona luce rossa del sole, il cui movimento attraverso il cielo era impercettibile. Il campo, la cui attività era rigidamente fissata sul ritmo notte-giorno della Terra, le si mostrava silenzioso e pressoché deserto. Dorthy aveva tagliato via metà delle maniche e dei calzoni di un paio di tute, e vestita a quel modo faceva una corsetta,
con i sandali che sollevavano nuvolette di sabbia polverosa fra le rocce. I muscoli dapprima le si irrigidivano, poi si rilassavano nei movimenti distensivi fra uno sforzo e l'altro, facilitati dalla gravità leggermente inferiore. Malgrado l'apparente enormità del sole, quel lungo mattino era freddo, ma nell'aria secca il sudore evaporava in fretta e nel correre la ragazza non si riscaldava. Di solito seguiva l'orlo di un grande cratere che si estendeva per chilometri a sud est del campo, aggirando enormi macigni semisepolti, estrusioni verticali di lava solidificatesi dopo l'impatto, antiche formazioni di arenaria corrose da mari scomparsi già ai tempi in cui il pianeta non aveva ancora perduto la sua rotazione originale, e balzava da una roccia all'altra dove gli strati geologici s'erano ribaltati e frammentati. Parte del processo di planiformazione sembrava essere consistita nel bombardamento di asteroidi di ghiaccio; il cratere risaliva a quel periodo, un impatto secondario rispetto a quello che aveva creato il bacino del mare. Un milione di anni, rifletteva Dorthy. E cercava di non pensare a quell'intelligenza abbagliante: un milione di anni addietro non esistevano ancora veri rappresentanti dell'Homo Sapiens; soltanto sparsi gruppi di ominidi che vagavano nelle riarse savane dell'Africa. Da lì a un altro milione di anni chi ci sarebbe stato su quel pianeta? Dorthy correva finché l'aria fredda non le pugnalava profondamente i polmoni, poi rallentava al passo e faceva ritorno al campo e a una tazza di caffè caldo, e infine trovava sollievo affogando quei pensieri inquietanti nel lavoro manuale. Di rado parlava durante le perforazioni del carotaggio, eseguite dal personale comune della Marina, ma i militari accettavano la sua presenza molto più facilmente della maggior parte degli scienziati. Kilczer aveva detto il vero: provavano risentimento per lei. Due giorni dopo la sua prima uscita, il comando orbitale mandò giù un grosso contenitore. Molti di quanti vivevano al campo andarono sulla riva del mare per osservarne la discesa: quando il bianco paracadute si aprì, sbocciando d'improvviso a grande altezza nel cielo violaceo punteggiato di stelle, ci furono applausi e grida soddisfatte. La squadra delle perforazioni fece discretamente circolare una fiasca di liquore che qualcuno aveva illegalmente distillato usando le scarse razioni di birra. Dorthy ne mandò giù un sorso quando venne il suo turno, senza mettere le labbra alla fiasca come voleva l'etichetta, e si trovò in gola un liquido così ardente da farla rantolare senza fiato. Una donna le diede una pacca sulle spalle, e un altro la informò che il suo palato aveva assoluta necessità d'essere educato, perché quella era roba fina invecchiata per quasi una settimana. Dorthy scoprì che
lasciarsi prendere amichevolmente in giro non le dispiaceva. Ci furono altri applausi e lei si volse, in tempo per vedere il paracadute afflosciarsi di lato sulle onde schiumose a un paio di chilometri dalla costa. Il poderoso sollevatore di forma anulare ruggì sopra le loro teste, avviandosi a bassa quota verso il contenitore che galleggiava al largo. Mentre Dorthy tornava alle operazioni di carotaggio con il resto della squadra passò accanto a un gruppo di scienziati. Muhamid Hussan incrociò il suo sguardo, poi si volse e disse qualcosa all'alto e magro meteorologo accanto a lui. Dorthy percepì il tocco mentale del suo sprezzante disdegno, ma si accorse che questo non le faceva né caldo né freddo e affrettò il passo dietro ai suoi compagni, con il liquore che ancora le bruciava nell'esofago e una piacevole sensazione nello stomaco. Se non fosse stato per il suo impianto si sarebbe volentieri data al bere per mantenere quello stato mentale. E invece lavorò più duramente che poté, senza rendersi conto che si stava guadagnando occhiate d'approvazione e di rispetto da parte della squadra. E dormì. E corse. A volte sentiva che avrebbe potuto correre per sempre, via dal campo, via dalla gente, via dalle sue responsabilità, saltellando senza sforzo in quella perpetua luce rossastra, lasciandosi dietro una nuvoletta di polvere come la coda di una cometa attraverso quella terra arida e morta. Poi, il quinto giorno di quella routine, mentre s'avviava fuori dal campo verso la lunga circonferenza del cratere, vide che l'immenso disco del sole, in quel momento appena per metà fuori dall'orizzonte roccioso, era velato da una nebulosità marroncina. La brezza che spirava fra i macigni e le sabbie era lieve, ma l'aria sembrava essersi raffreddata molto; nel correre Dorthy si batteva le braccia attorno al petto per accelerare la circolazione del sangue. Mentre risaliva il pendio verso il bordo del cratere sentì che la brezza si rinforzava, e ad un tratto, appena giunse sulla cima, fu investita da una violenta raffica di vento. I granelli di sabbia le punsero la pelle nuda delle braccia e delle gambe come aghi, costringendola a gettarsi al riparo di uno spunzone di lava. L'orlo opposto del cratere, a chilometri di distanza, era nascosto da una parete giallastra e marrone scuro che sembrava farsi più alta a vista d'occhio, e dietro quei turbini il sole era appena una pallida luminosità arancione. Una tempesta di sabbia. Tornò di corsa giù per il pendio, e quando fu al campo trovò i militari indaffarati a stendere corde fra i grandi contenitori usati come alloggi. L'aria era già piena di polvere sottile, e i tubilux avevano indossato aloni simili a oblunghi bozzoli di luce. Dorthy si cambiò e andò alla mensa a far colazione. Il capo della squadra di planetologi
era già lì, e fra un sorso di caffè e un boccone di torta (riempiendosi di briciole la barba incolta) le disse che la bufera non andava presa sottogamba: bisognava assicurare l'equipaggiamento. Quando Dorthy raggiunse il luogo delle perforazioni, il vento sibilava fra le rocce con furiose raffiche di sabbia. Tutto il cielo orientale era adesso una scura collina sui cui versanti più bassi roteavano lenti turbini neri come l'inferno, mentre il bordo superiore sfumava nella generale nebulosità dell'atmosfera. Il sole era scomparso del tutto, e sull'intero territorio si addensava un profondo crepuscolo senza ombre. Dorthy aiutò una mezza dozzina di militari a smontare parzialmente la torre di perforazione per abbassarla al suolo, un lavoro che durò quasi un'ora per causa del vento, che ogni tanto faceva traballare pericolosamente la struttura d'acciaio. Appena il trapano a protoni fu al sicuro e ben coperto, tutti abbandonarono il resto e scapparono in fretta verso il campo. A metà strada Dorthy inciampò e cadde a faccia in avanti, graffiandosi una guancia contro una roccia e riempiendosi la bocca di sabbia. Si tirò in piedi, sputacchiando, e con il vento che la faceva sbandare da una parte e dall'altra riprese la corsa dietro gli altri. La tempesta era una forza impersonale, e tuttavia capricciosa e potente, e barcollando nei suoi vortici lei sentì che vi erano entità per cui il suo destino non avrebbe mai potuto avere la minima importanza. Allorché Dorthy e gli altri della squadra raggiunsero il campo le guide di corda erano già state stese ovunque, i tubilux sembravano sospesi in una zuppa di foschia. Si ficcò sotto la doccia, togliendosi di dosso una stupefacente quantità di sabbia, e poi uscì di nuovo per tornare alla mensa in cerca di qualcosa da mangiare. Il cielo era una tazza di bronzo chiusa sopra il campo. Vortici di polvere ululavano fuori dal nulla per collassare fra le costruzioni di lamiera ondulata. La velocità del vento continuò ad aumentare. Ogni tanto qualcuno entrava in mensa, portando una zaffata d'aria secca e maleodorante nel locale affollato. Infine, quando le raffiche furono una vibrazione continua che scuoteva le strutture, nessun altro arrivò più. Sorseggiando tè verde, e con nient'altro da fare che guardare un documentario di guerra ormai visto e rivisto, Dorthy fu una volta tanto felice di sentirsi sommersa dalla vicinanza dei militari. Una goccia nella tempesta, stanca, al sicuro. Sopra il proiettore della Tri-V l'immagine di un caccia monoposto terrestre a forma di «J» fu sostituita da un dilagare di rocce sminuzzate che schizzavano via in ogni direzione, e quindi da un bagliore rosso silenzioso quanto improvviso e
violento. Qualcosa colpì la stessa telecamera e l'immagine cambiò mostrando, da prudenziale distanza, uno sferoide di fiamma che si espandeva e svaniva. Un annunciatore elencò le perdite stimate del Nemico e fece ipotesi sulle funzioni dell'asteroide: era esploso da solo all'avvicinarsi del caccia, una tattica ormai ben conosciuta. Fino a quel momento nessuna nave nemica era stata catturata intatta, e non una goccia di sangue o un frammento di carne (se il Nemico aveva sangue e carne) erano stati trovati sui relitti alla deriva. Prima di finire, quasi per un ripensamento, l'annunciatore rivelò che i caccia andati «dispersi» in quell'azione erano stati tre. Ci fu un breve lampo di luce e sul proiettore Tri-V comparve un'immagine di Rio de Janeiro, con il suo lungomare affollato di gente che passeggiava sotto le palme. Anche il Giorno della Sovranità, festeggiato una settimana prima che Dorthy lasciasse la Terra, era stato infine ombreggiato dalla guerra. Per molto tempo BD Venti era stato soltanto un nome poco significativo per Dorthy. La maggior parte della gente sui mondi della Federazione forse lo vedeva ancora come una faccenda remota, che la distanza interstellare teneva più o meno sicuramente in quarantena. La cosa era cominciata in silenzio, con la perdita di una sonda automatica, avvenimento per nulla notevole in se stesso. Prima di cessare le trasmissioni, inoltre, la sonda aveva rivelato che la stella a cui s'era avvicinata non possedeva alcun pianeta, ma soltanto una cintura di asteroidi forse originata dalla disgregazione di un paio di mondi non più grossi della Terra. Questi dati erano rimasti indisturbati per vent'anni in un archivio prima che uno studente, in cerca di materiale per la sua tesi di laurea, riesaminasse certi loro aspetti telemetrici scoprendo che la cintura di asteroidi pullulava di sorgenti di neutrini, molte delle quali si muovevano in senso inverso rispetto alla rotazione degli altri corpi. Soltanto una reazione nucleare poteva generarli: le stelle ne erano una sorgente, e così anche gli impianti a fusione o a fissione. Un'astronave con equipaggio umano era stata mandata a indagare. Ed era tornata un mese più tardi, con metà dei suoi occupanti morti, i sistemi di supporto-vita fuori uso, lo scafo gravemente danneggiato. C'era qualcosa di ostile intorno a Bonner Durchmeisterung +20° 2465. Dorthy era occupatissima nella preparazione della parte pratica della sua tesi di ricerca, ma come ogni altro studioso o tecnico presente all'Osservatorio di Fra Mauro aveva seguito i notiziari, ascoltando la ressa di ipotesi che si facevano al bar e nella mensa, e talvolta intervenendo con la sua opinione. Molti si dichiaravano sbigottiti nel vedere che la prima vera intelligenza aliena scoperta dall'uomo fosse stata così immediatamente e im-
placabilmente ostile, ma gli astronomi scrollavano le spalle. L'universo era un posto solo marginalmente adatto alla vita. Per Dorthy era stata una conferma di ciò che le sue esperienze infantili le avevano insegnato: le cose non erano mai quelle per cui uno spera e lavora (la vecchia concezione ottimistica nordamericana ed europea che per secoli aveva dominato il progresso), ma erano semplicemente ciò che erano, né buone né cattive. Il potenziale malefico era più nell'animo umano che in ciò che l'uomo trovava fra le stelle. Avere il Talento le aveva insegnato, inoltre, che ogni scoperta, ogni apparente vantaggio, era nel caso migliore una lama a due tagli. Stava programmando la strumentazione per i suoi esperimenti quando una seconda spedizione a BD Venti era stata attaccata e respinta. La guerra era parsa inevitabile. Tutte le astronavi esploratrici erano state armate, quelle da carico riempite di equipaggiamento bellico, quelle passeggeri sequestrate e trasformate dalla Gilda. S'era anche parlato di costruire vere navi da battaglia. Ma nessuno si mostrava troppo allarmato. Gli alieni (che già tutti stavano chiamando «il Nemico») non sembravano possedere motori a induzione di fase, il che li costringeva a velocità sub-luce. Per loro un viaggio interstellare avrebbe richiesto decenni, non già poche settimane. Era improbabile che il conflitto si allargasse oltre il loro sistema. Nel mezzo di tutto questo Dorthy era partita con una piccola astronave dell'osservatorio per una solitaria, lenta, lunga crociera attraverso la Nube di Oort per studiare, sul percorso delle comete, la condensazione dell'idrogeno sotto l'influenza del vento solare. Per una settimana, mentre si lasciava alle spalle le orbite dei pianeti maggiori, aveva ascoltato con attenzione tutti i notiziari che l'osservatorio inviava al computer della sua nave, condensati in una trasmissione maser di cinque secondi ogni giorno, ma con l'inizio del suo lavoro aveva cominciato a ignorarli. Le trasmissioni dalla Terra si accumulavano per giorni prima che avesse il tempo di darci un'occhiata, senza troppo interesse. Così, la prima volta che aveva sentito parlare della scoperta di un pianeta planiformato in orbita attorno a una nana rossa, era stato quando il computer l'aveva distolta dai suoi esperimenti segnalandole l'arrivo di un messaggio personale e urgente. Lei era stata prescelta per unirsi alla spedizione esplorativa. Prescelta? La stavano arruolando a forza, sequestrando, condannando! Tre giorni dopo, sul percorso di ritorno, una veloce astronave da carico fermatasi ad attenderla aveva spalancato un portello e inghiottito la sua e lei in un solo boccone per portarla poi, come un Giona riluttante, di nuovo sulla Terra.
Tutto per colpa del suo Talento, naturalmente. Era davvero ironico che per essersi rifiutata di usarlo dopo aver lasciato l'Istituto Kamali-Silver le fossero mancati gli appoggi politici grazie ai quali gli altri Talenti adulti avevano evitato la leva militare. Nei suoi momenti più neri Dorthy immaginava il proprio Talento come un'entità separata, un parassita che abitava in lei per i suoi scopi. Ebbene, che ora guardasse dov'era finito: un campo di baracche in un deserto puzzolente, e con il pericolo come unica prospettiva quasi certa. Al ricordo della luce bruciante ebbe un brivido. Sorseggiò il tè: freddo. Se ne servì un'altra tazza e restò seduta ad ascoltare con un orecchio solo la Tri-V, e le chiacchiere oziose di una mezza dozzina di scienziati che all'altra estremità del lungo tavolo s'erano radunati intorno a una scacchiera a tre livelli (una moda che dalla Novaya Zyemlya s'era sparsa nella Federazione). Il meteorologo alto e magro stava dicendo, stancamente: — No, non so quanto durerà. Guardatevi le foto del satellite e fate le vostre ipotesi. Ma non potrebbe essere peggio... — Tacque, perché proprio in quel momento tutti nella mensa s'erano azzittiti. La voce blanda dell'annunciatore della Tri-V echeggiò solitaria in quel silenzio. Dorthy si volse e vide che un uomo alto e massiccio dai capelli rossi, dai cui vestiti colavano rivoli di sabbia, stava chiudendo la porta. Mentre avanzava a zig zag fra i tavoli affollati le conversazioni tornarono pian piano al livello precedente. Due o tre militari alzarono una mano a palmo avanti, e il nuovo venuto diede a ciascuno un tocco di saluto, rispondendo con un candido sogghigno alla voce di qualcun altro. Dorthy non sentì quello che disse ad alcuni soldati semplici seduti a un tavolo, ma un paio di loro si alzarono subito, andarono a munirsi di maschere facciali, e altra polvere penetrò nel locale quando uscirono nella bufera. L'uomo dai capelli rossi cambiò direzione e si fece strada nella ressa verso i distributori automatici. La Tri-V stava ora trasmettendo il discorso del presidente, una sottile figura stagliata contro una versione maggiorata della bandiera delle Nuove Nazioni Unite, con i globi dei nove pianeti incisi in semicerchio più in alto sulla parete. Le sue parole echeggiavano sulle migliaia di teste affollate nel Cuadrado de Cinco Outubro su due lati del quale altissimi edifici bianchi aggredivano l'azzurro cielo della Terra. — Sempre le stesse vecchie stupidaggini — commentò una voce accanto all'orecchio destro di Dorthy. Quando la ragazza alzò lo sguardo incontrò il sogghigno dell'uomo dai capelli rossi.
All'altra estremità del tavolo gli scienziati lo stavano fissando, dimentichi della scacchiera. — Lei dev'essere la dottoressa Yoshida — disse il nuovo venuto, e s'impadronì di una sedia che piazzò di fronte a lei, deponendo senza molta cautela il bicchiere sulla plastica tutta segnata del tavolo. Il liquido ambrato traboccò, formando una chiazza striata di spuma frizzante. — Io sono Duncan Andrews. Avrà sentito fare il mio nome, senza dubbio. — Può scommetterci. — Malgrado il tono discorsivo, Dorthy aveva spalancato gli occhi, sbalordita. Lui rise. — Non creda a niente di quello che le hanno detto. — I suoi capelli erano pieni di sabbia, e ne aveva un po' anche incrostata sulla fronte lentigginosa. Si piegò in avanti. Aveva ciglia molto chiare, quasi invisibili, e le iridi di un azzurro trasparente, ma in quella dell'occhio sinistro c'era una spolverata di efelidi scure. — Come si sente, adesso? A posto? — Sì, grazie. — Per un attimo provò l'impulso, quasi sensuale nella sua intensità, di dirgli tutto e subito. Si accorse d'essere accaldata solo quando una goccia di sudore le scivolò sul collo, dietro la nuca. — Com'è arrivato qui? — In volo. — Nella tempesta di sabbia? — Sì, lo so. Credevo che sarei riuscito a precederla, ma si è mossa più svelta di quel che avevo calcolato. Nell'ultima ora ho volato col radar, aspettandomi che i jet si intasassero da un momento all'altro. Invece hanno tenuto, ed eccomi qui. Be', cosa ne pensa di P'thrsn? — Io... — distolse per un attimo lo sguardo da quello azzurro di lui, e vide Arkady Kilczer avvicinarsi fra la gente. Quello che avrebbe voluto dire le apparve d'un tratto così banale che la lingua le si inceppò. — Non è... be', non è come pensavo. Mi piacerebbe vederne di più. — Si leverà la voglia, appena questo vento andrà a soffiare da un'altra parte. Lei cominciò a dire: — Vorrei parlarle del... — proprio mentre Arcady Kilczer esclamava: — Bene! Vedo che non dovrò fare le presentazioni, giusto? Ma la prossima volta che vuoi suicidarti, Andrews, lascia perdere le bufere di sabbia. Resta qui con noi e ammazzati di noia. Andrews gli rivolse un pallido sorriso. — Era molto più a est quando sono partito, altrimenti non ci avrei provato. Dimmi, McCarthy è qui in giro? Ho portato con me un regalino per i biologi. — Davvero? — Kilczer si passò una mano sul mento. — Bene. Bene! E
dove... — La Marina lo sta scaricando. — Allora, meglio che... voglio dire, forse loro non si rendono conto della sua importanza. Vado a chiamare McCarthy. — Kilczer si allontanò in fretta. Poi tornò indietro di un paio di passi. — E grazie! — esclamò, prima di correre via. Andrews vuotò metà del boccale di birra e fece una smorfia. — Dannata brodaglia sintetica. È un peccato che la Marina non permetta niente di più alcoolico.. Be', dottoressa Yoshida, spero che il suo Talento sia sopravvissuto all'atterraggio. — Più o meno. Lui inarcò un sopracciglio. — Ho avuto dei lampi di percezione quando è andato fuori controllo malgrado il mio impianto. Mentre scendevo dall'orbita il tranquillante ha interferito, provocando una reazione. Ho visto... voglio dire, con il Talento ipersensibilizzato ho percepito tutte le menti del campo e qualcosa di più, lontano, oltre l'orizzonte. Qualcosa... — S'interruppe, sentendo una mano di lui stringerlesi intorno al polso destro. La sua pelle era fresca e secca. — Aspetti un momento — si accigliò Andrews. — Un tranquillante ha fatto qualcosa al suo Talento, ha detto? Dorthy arrossì un poco, accorgendosi d'essere stata troppo sintetica. Andrews le lasciò il polso e si portò il bicchiere alle labbra, ma non bevve, fissandola da sopra il bordo umido di birra. — Io ho un impianto biologico — spiegò la ragazza, — collegato alla vena epatica, che produce varie sostanze il cui scopo è di inibire il mio Talento. Vede, una volta che l'addestramento e la terapia hanno aperto il Talento, questo funziona in modo piuttosto involontario, come l'udito o un altro senso, e averlo in funzione tutto il tempo significherebbe non riuscire a chiudere occhio neppure la notte. Il danno che subisce il proprietario di un Talento incontrollato è infatti molto simile a quello di chi soffre d'insonnia cronica, oppure, ad esempio, della mancanza di sonno REM causata dall'alcolismo. Allucinazioni, crisi nervose, lesioni al midollo allungato e infine anche la morte. Così io ho un impianto che tiene il Talento sotto chiave, e quando ho bisogno di usarlo prendo un controagente che ferma per un poco la produzione chimica inibitrice. Lei ha presente il tranquillante che danno per la discesa? — Certo. — Di nuovo il suo sogghigno biancheggiò. — Io ho dovuto prenderne una dose doppia.
— La reazione fra questo e una delle sostanze emesse dall'impianto ha riattivato il mio Talento. Ho sentito qualcosa, molto al di là del campo. Ed era... — Si accigliò, al ricordo di quella luce. — Si trattava di una cosa sola? O di molte? — Non lo so. Forse come centinaia di menti compresse in una singola, formidabile intelligenza, ma suppongo... Mi scusi. Non ho mai percepito nulla di simile. — E sarebbe troppo chiederle dove si trova questa incredibile intelligenza? Dietro quella facilità al sorriso lei avvertì nell'uomo una brama quasi fisica di conoscenza. — Non lo so — rispose. — A est, suppongo. Il colonnello Chung mi ha mostrato che potrebbe trattarsi di una zona fertile fra mezza dozzina d'altre. — Interessante. Ho appena avuto una breve conversazione con la signora Chung, e non mi ha detto niente di questo. È al corrente? Qual è stata la sua reazione quando lei gliene ha parlato? Dorthy glielo disse. — Ah! C'era da aspettarselo, credo. A est, eh? — Andrews vuotò il bicchiere. — Lei sa che la zona in cui stiamo indagando è ad est del Campo Zero? — Così mi ha detto il colonnello Chung. — Insolitamente loquace, allora. Be', non stia a preoccuparsi, dottoressa Yoshida. Questo riguarda il colonnello e me. Ciò che voglio far esplorare a lei è molto meno pericoloso. I mandriani della pianura, e nient'altro. — Mandriani? — Non ne ha ancora sentito parlare, già. Questa mania per la segretezza è un'idiozia anche nel migliore dei casi. In questo campo la si respira ovunque, come l'odore del mare. Anche se oggi quello soffia in un'altra direzione. — Si alzò. — Venga, le mostrerò qualcosa. Ha una maschera antisabbia? — Ho una sciarpa. Ma cosa... — Lo vedrà. È quello che mi sono portato dietro. Dorthy lo seguì fra i tavoli, coprendosi il naso e la bocca con una sottile sciarpa di seta che si annodò dietro la nuca. Andrews si mise una maschera facciale e aprì la porta, affrontando le raffiche e i turbini di sabbia. All'esterno c'erano due corde che oscillavano pazzamente e Dorthy si aggrappò con entrambe le mani a una di esse, mentre i lembi della sciarpa le schiaffeggiavano la faccia. Socchiudendo le palpebre come due fessure
si tirò avanti, senza osare guardare al suolo dove una corrente di sabbia più fitta le nascondeva i piedi. Più che vedere Andrews dinnanzi a sé, lo sentiva, quasi che la sua sanguigna mascolinità lo circondasse come un'aura anche in mezzo a quella bufera. Vacillò alle sue spalle fra i nodi e i paletti di un paio di svolte, poi dalla foschia emerse una curva parete metallica su cui la sabbia rimbalzava scivolando giù a torrenti. Andrews poggiò una spalla contro la porta e la aprì. Spinta da una raffica di vento Dorthy inciampò e quasi cadde nell'interno, al suo fianco. — Jesus Christos! Chiudete quella maledetta... — Ehi, Duncan! Dovresti dare un'occhiata all'esame di questi... — Irrobustiti, sì. Con l'aggiunta di metalli pesanti, anche. Le proteine non possono ossificarli. Guarda qui: cromo nelle ossa dorsali di questa creatura. Strutturale, no? — E così hai trovato un equipaggiamento riproduttivo, vecchio mio. Tanto per cominciare sembra aploide, se questa cellula si sta davvero dividendo. Come lo so? Il Rasoio di Occam... hai qualcosa di meglio? — Comunque, Andrews, con cosa lo avete colpito? Niente che gli abbia alterato la chimica del sangue, spero. È già abbastanza stupefacente così com'è. In camice bianco o grigie tute militari, dieci o dodici scienziati si stavano dando da fare attorno ai banconi da lavoro pieni di strumenti e contenitori di vetro. Dorthy li conosceva di vista quasi tutti; facevano parte della squadra biologica. La donna alta che aveva incontrato al deposito di rottami stava usando una pipetta per distribuire gocce di liquido paglierino in una fila di provette. Arkady Kilczer introduceva dati in un computer. Le loro chiacchiere echeggiavano sotto l'alto soffitto a volta, fra le pareti nude oltre le quali la tempesta ululava e sussurrava. Dietro i biologi, in una gabbia di rete metallica, c'era qualcosa che si agitava a sussulti, un corpo allungato che nella cruda luce artificiale appariva di un biancore cadaverico. Non aveva testa né coda. Lunghe setole sporgevano dalle giunture fra i suoi segmenti anulari, ognuno dei quali era fornito di un paio di tozze pinne. Nel segmento centrale una cresta circolare, pulsante, incorniciava un foro umido grosso quanto la testa di un uomo. Strano incrocio fra una lumaca e un tricheco decapitato la creatura era lunga forse un paio di metri. Andrews si volse a rispondere a Jose McCarthy, l'uomo basso e di pelle scura che dirigeva la squadra. — Abbiamo usato ossido di azoto, tutto qui. Diavolo, ha un metabolismo a ossigeno. Forse gli sarà venuto un brutto mal di testa, ma questo i tuoi analizzatori non lo registreranno.
— Diagnosi frettolosa! — commentò Arcady Kilczer, lasciando perdere per un momento la sua apparecchiature. — Questo paziente non possiede nessuna testa, a meno che tu non voglia chiamare così il terzo segmento, quello posteriore, dove ha la bocca. Fra l'uno e l'altro ha un anello di connessioni nervose, ma non c'è un midollo spinale, soltanto dei collegamenti fra i segmenti. Forse questi noduli sono gangli, forse no. Ve lo dirò più tardi. Qual è il suo comportamento in natura? — Mangia — sogghignò Andrews. — Questo è praticamente tutto ciò che fa. — Ci penseremo domani a integrare tutti questi dati, gente — disse McCarthy, arrotolandosi l'estremità di uno dei baffetti. — Per ora lasciamo che le attrezzature se li lavorino. — Potrebbe riprendersi — disse Kilczer. — Quanto gliene hai dato, Andrews? — Abbastanza da tenerlo quieto durante il volo. Non volevo che se ne andasse in giro. — Non sono certo di volere che se ne vada in giro qui dentro. Eh, dottoressa? — Kilczer fece l'occhiolino a Dorthy e tornò a trasferire dati nel computer, sul cui schermo alcuni grafici continuavano a mutare forma. Dorthy si tolse di mezzo per lasciar passare un biologo che maneggiava l'estensore con cui aveva prelevato un campione di pelle alla creatura. Provò un improvviso senso di espansione e pensò: non adesso!, perché era così che di solito cominciavano i suoi attacchi. — Questo — le disse Andrews, — è uno degli animali che allevano. Mi riferisco ai mandriani della pianura di cui le stavo parlando. Che ne pensa? — Povero ingenuo mostro, guardati dall'uomo! Lui ignorò la citazione. — Tutto quello che fanno è mangiare e spostarsi in cerca di altro cibo. Secondo me sono una costruzione genetica, come i batteri del mare. — E questi mandriani, se ne nutrono? — Può starne certa. Forse il loro concetto di prima colazione non corrisponde al nostro, ma funziona. I mandriani vivono sulla pianura che circonda il cuore della zona fertile: piccoli gruppi, con una mandria di vermi anulati. Una femmina dominante e i suoi dieci o venti maschi. Sono loro che lei dovrà scandagliare. Se il Nemico ha lasciato qui dei discendenti, nelle zone fertili, questi sono i mandriani. A parte la sua singolare percezione, naturalmente. Dobbiamo riparlarne, comunque. Rispetto alla mia ipotesi di lavoro è un dannato inconveniente. Sto cercando di aprire questo
pianeta all'esplorazione, e se la Marina pensasse che qui c'è qualcosa di pericoloso la sua decisione sarebbe esattamente opposta. — Non ho detto che sia pericoloso. — Dorthy si accorse che rifiutava ancora di pensarci. Cambiò discorso. — Come può esser sicuro che i mandriani siano il Nemico? — Una volta, lo erano — la corresse lui. Indicò la gabbia. — Guardi, ricomincia a strisciare. Penso che si sia quasi ripreso. Cosa stavo dicendo? — Cosa le fa supporre... — Dorthy teneva gli occhi fissi sulla creatura segmentata, che cominciava a capire d'essere prigioniera al centro di tutta quell'attività. Nel locale pieno di voci s'era sparso un odore strano, acre e spiacevole. Qualcosa emesso dal corpo del verme? — I mandriani non hanno tecnologia — disse Andrews, — né utensili, salvo rozzi bastoni o cestelli di vegetali intrecciati. Però conoscono il fuoco e... non si sente bene, dottoressa Yoshida? — Un attimo di claustrofobia. Che cos'è questo odore? Andrews dilatò le larghe narici. — Io non sento niente. Quale odore? — Qualcosa di caldo, salmastro. Sembra... — Dorthy scosse il capo. Provava la sensazione d'essere fuori posto, priva di significato ma crescente, come se lei avesse dovuto trovarsi da qualche altra parte. La creatura mosse uno dei suoi segmenti a destra e a sinistra, poi lo riappoggiò al suolo. Kilczer si volse. — Mi sembra di aver individuato il suo centro motorio, sì. Ecco che ci riprova. Il verme anulato sollevò ancora una delle estremità tondeggianti e la sbatté contro la rete metallica della gabbia. Dorthy sentì una pressione all'interno della fronte, come un nodo che si stringesse. L'odore acre si fece così intenso da strapparle una smorfia; tutto sembrava ammuffito e sciropposo, lento e distorto. Le luci palpitarono, emisero aloni, si moltiplicarono. Da una grande distanza udì qualcuno dire: — Ecco che striscia. È ben sveglio, adesso. — E una voce femminile: — Jesus Christos, è quella la sua bocca? Ehi, lo stiamo registrando? — Poi suoni e luci s'indebolirono come una trasmissione che andasse fuori sintonia, e un canale parve aprirsi fra lì e qualche altro posto. Dorthy si protese in quella direzione e per un istante vide un bagliore, pura luce accecante! Subito dopo essa svanì, lasciandole un'immagine retinica d'argento palpitante attraverso cui lei cadde, affondando nelle tenebre. Dorthy si svegliò in una morbida luce rossa, con le costellazioni del
macchinario diagnostico sopra la testa e ai piedi del letto. Mise fuori le gambe, e camminando a piedi nudi sul freddo pavimento uscì nella stanza principale del centro medico e bevve due bicchieri d'acqua. L'orologio del suo braccialetto le disse che erano trascorse quasi ventiquattr'ore da quando Andrews l'aveva portata a vedere il verme anulato. La testa le doleva ancora, ma non avvertiva più gli sbalzi d'espansione del suo Talento ipersensibilizzato. L'attacco era passato. Quando Arcady Kilczer venne a controllarla la trovò vestita e seduta sul bordo del letto, con in mano il libro che s'era portata dietro per tutto il viaggio. — Speravo proprio di vederti già sveglia e in forma — le disse con un sorriso. — Sto facendo i bagagli. — Ma esaminò con cura le registrazioni delle apparecchiature. — Tutto quello che mi serve è qualcosa da mangiare — disse Dorthy. — Dove posso trovare Andrews? — Oh, se n'è andato qualche ora fa. Ma credo che lo rivedrai molto presto. Sai che hai dormito un giro d'orologio, dopo essere svenuta? Era un altro dei tuoi attacchi? — A meno che qualcuno non mi abbia dato una botta in testa. Stavo ricevendo qualcosa dal verme che Andrews ha portato qui. — Mi prendi in giro. Bene, vuol dire che stai meglio. — No, è vero. Per un momento è stato come quando ero nella capsula, una grande luce, troppo intensa per capire cosa fosse... — Quell'animale è una collezione di riflessi sparsi. Non ha un sistema nervoso centrale. E dici che è l'origine del fenomeno da cui sei stata stordita nella capsula? Dorthy scrollò le spalle, poi gli porse un braccio di malavoglia e si lasciò prendere un campione di sangue. — In me non c'è niente che non va. — Ora lo vedremo. Ma l'analizzatore confermò che non c'era niente. Il colonnello Chung stavolta non sollevò obiezioni, quando si trattò di lasciarla partire. — Il dottor Andrews — le disse, — mi ha assicurato che nella zone fertile tutto è sotto controllo, inoltre ora abbiamo altri due caccia ben armati. Domani ci manderanno giù un autodoc, così il dottor Kilczer partirà in volo con lei. Il dottor Andrews desidera che anche lui esamini quelle creature. — I mandriani. Ma io credevo... — La strumentazione del dottor Kilczer sarà un valido supplemento per il suo, uh, Talento. E poi lei potrebbe avere ancora altri attacchi.
Dorthy provò un vuoto e malinconico senso di fallimento. — Gli strumenti di Kilczer serviranno a molto meno di ciò che potrò fare io. — La vaga fiducia che Andrews ricompensasse i suoi servizi nel modo da lei sperato si dissolveva. Ovviamente, l'attacco di cui era caduta preda davanti a lui aveva svalutato la sua utilità, e così diminuivano le già scarse possibilità che aveva di andarsene da quel pianeta. In trappola, pensò. L'avevano cacciata in una trappola. Il colonnello Chung si passò una mano sul mento. — Io mi limito ad avallare le richieste del dottor Andrews. Se non è d'accordo, le consiglio di parlarne con lui. — Per allora sarà già troppo tardi. Kilczer spreca il suo tempo a venire con me. Sul serio, colonnello. — Se questo risulterà vero, anch'io avrò motivo di protestare con il dottor Andrews. Conto che lei mi tenga informata. — Il colonnello fece una pausa, poi aggiunse un po' bruscamente: — Buona fortuna, dottoressa Yoshida. Buona fortuna con la sua missione. — E con sorpresa di Dorthy si alzò, offrendole la mano in quello che parve quasi un gesto di benedizione. CAPITOLO SECONDO LA ZONA FERTILE Il tozzo aereo da trasporto volava a bassa quota su un territorio desertico. Nell'aria immobile della cabina pressurizzata Dorthy Yoshida osservava il vuoto panorama che scorreva via sotto di loro. Pendii cosparsi di macigni, lisce distese di fine polvere bianca, anelli corrosi e semisepolti di crateri meteorici. Tutto sfumava dal carminio al cinabro nella debole luce dell'immenso sole, ma i potenti fari del velivolo puntati in basso rivelavano, come i pannelli luminosi di Ernst in Notte e Giorno, alture gialle o biancastre scanalate con fantastica complessità, torri di roccia in cui scintillavano venature di quarzo e di feldspato, dune di sabbia scolpite dal vento e terreni spolverati di mica luccicante. In un'altra luce quel pianeta avrebbe avuto una sua selvaggia bellezza, ma sotto lo sguardo fantomatico di quell'occhio sanguigno era soltanto cupo. Non si scorgeva la minima traccia di vita. Era stato trasformato, sì, ma solo fino a un certo punto. La voce di Kilczer la fece sussultare. — Meno di un'ora. Pensi che sia quella là davanti a noi? — Dall'inizio del viaggio non aveva aperto bocca, salvo che per le registrazioni di routine nel computer di bordo, e un paio di tentativi di conversazione avevano incontrato solo lo scontroso silenzio di
Dorthy. La ragazza ce l'aveva assai più con lui, per quel tradimento, che con Andrews, e a farla sentire ancor più sola c'era il fatto che aveva ruminato sul tentativo di alleanza offertole dal colonnello Chung, finendo col rifiutarlo. Tieni le mani in tasca e non te le sporcherai. Resta lontana dalle assurdità del comportamento umano, gli intrighi meschini e le liti. Ricorda la silenziosa e solitaria contemplazione dell'universo, ordinato e luminoso. Si raddrizzò sulla poltroncina e vide che all'orizzonte si sollevava una striscia scura. — La zona fertile? — L'inizio, almeno credo. — Kilczer teneva la barra dei comandi con una mano. Alzò l'altra a regolare qualcosa sull'indicatore loran. — Vedo là i solchi di una bruna terra. E verdi zolle dell'aratro amiche. — Di nuovo Shakespeare, no? — Credevo d'essere rimasta l'ultima persona a leggerlo. — A Novaya Rosya amiamo la poesia. A volte le sue opere sono messe in scena. — Kilczer aspettò che lei gli chiedesse qualcosa di Novaya Rosya. Quando vide che restava zitta, disse: — Perché qualcuno dovrebbe voler vivere su un pianeta come questo? È anche peggio che dalle parti di casa mia. — Forse riuscirò a dirti il perché abbastanza presto — disse acidamente lei. Kilczer scrollò le spalle e finse ancora di dedicarsi alla manovra dell'aereo, che in realtà volava da solo. Non aveva bisogno d'essere un empatico per sentire l'ostilità di Dorthy. La ragazza distolse lo sguardo da lui e riprese a guardare il panorama. Il deserto stava lasciando il posto a un territorio dove crescevano sparse macchie di cespugli privi di foglie, dai rami nerastri, e a loro volta questi furono sostituiti da quella che si sarebbe detta una prateria (sempre che fosse erba quella distesa, violacea nella luce del sole e verde azzurra sotto i riflettori del velivolo), punteggiata da piccoli alberi a chioma piatta. Un territorio aperto che le ricordava l'interno dell'Australia: ma Dorthy non voleva pensare a questo. Più avanti il terreno saliva, e si scorgevano alture coperte d'alberi e spezzate da canyon le cui cime svanivano fra le nuvole. Il ronzio dei motori s'intensificò mentre l'aereo si alzava nell'aria sottile, seguendo il percorso di un immenso canyon. Dorthy notò la presenza di un branco di grossi animali che indugiava fra la vegetazione rada, e Kilczer deviò la rotta verso di loro, abbassandosi al punto che il ventre dell'aereo sfiorò i rami di alcuni alberi. Dorthy ebbe una rapida visione di una dozzina di possenti cre-
ature pelose che procedevano in fila, grosse come elefanti, le cui zampe anteriori erano più lunghe di quelle posteriori, tozze e massicce, e proboscidi pendule... Kilczer imprecò qualcosa in russo e fece compiere una virata all'aereo. Le cinture di sicurezza si piantarono nelle spalle di Dorthy, mentre ripassavano sulla fila di grossi quadrupedi. — Megateri! — ansimò Kilczer. Lei si piegò di lato per guardare in basso. Vide che le zampe anteriori degli animali erano armate di due lunghi artigli ricurvi a causa dei quali davano l'impressione di camminare appoggiandosi sui polsi. Sul centro delle loro schiene pelose correva una striscia nera; le proboscidi erano nude e rosee. — Megateri — disse ancora Kilczer. — Non può essere evoluzione parallela. Ma allora cosa... — Sai a che specie appartengono? — Così credo. Bradipi giganti, che vivevano sulla Terra forse un milione di anni fa. — Tirò a sé la barra, e il velivolo riprese quota, cercando la rotta su cui volava prima. — Un milione di anni — gli fece eco Dorthy, ricordando la linea di cenere vulcanica compressa nelle carote, proprio sotto l'altro sottilissimo strato di residui meteorici. Un milione di anni addietro. Fra i due ricadde un silenzio sfumato d'ostilità. Il territorio tornò a farsi piatto, un altipiano ricoperto di giungla. Più avanti un grande lago si spingeva fino a una catena di montagne. Kilczer ne seguì la riva, controllando e ricontrollando il loran. Infine Dorthy avvistò una cupola color arancione proprio sulla spiaggia. — L'accampamento — annunciò Kilczer, senza che ve ne fosse bisogno. Dorthy percepì il suo sollievo. Dopo aver compiuto un paio di giri scesero in verticale, rilasciando la rete che conteneva il carico appena questa fu a contatto del suolo. Liberato dal peso, l'aereo balzò in alto per alcuni metri prima che l'automatico riprendesse il controllo e lo facesse atterrare poco più in là. Kilczer imprecò fra i denti e spense i motori. Il polverone sollevato dalle eliche si diradò, e Dorthy vide due persone che arrivavano in fretta, poi Kilczer aprì il portello. Nella carlinga penetrò una ventata d'aria fredda, arricchita dal familiare odore dei pini. Kilczer sternuti subito. Duncan Andrews venne a fermarsi davanti alla scaletta con un ampio sogghigno. — Finalmente vi siete decisi! — esclamò. — Benvenuti in prima linea! — L'altra persona, Angel Sutter, l'alta biologa di pelle nera che Dorthy aveva conosciuto il primo giorno, stava già tirando fuori dalla
rete i rifornimenti e li accatastava in ordine. — Avanti, voi due! — Andrews batté le mani. — Vediamo di mettere a posto questa roba. Nella mezzora successiva Dorthy aiutò Andrews, Kilczer e la Sutter a trasportare apparecchiature imballate e sacchi di rifornimenti. Per tutto il tempo Andrews non fece che chiacchierare con entusiasmo; vantò le bellezze del posto, li assicurò che lì non correvano alcun pericolo, giurò che quello era un paradiso e disse che i gemelli (trascurando di spiegare chi fossero) erano usciti per seguire alcuni mandriani e raccogliere un po' di campioni. Kilczer gli chiese dei megateri, ma su questo Andrews non fu affatto prolisso: — Certo, certo. Molti dei pianeti che conosciamo, e altri che non conosciamo, sono stati visitati per mettere su questo posto. È tutto ciò che so dirvi. — E vedendo che Kilczer stava per fargli un'altra domanda, aggiunse: — Devi parlare con i gemelli, credimi. Loro sanno tutto su questa faccenda. — Poi sospirò che il comando aveva stabilito un programma di lavoro, ma in breve era diventato così fitto di argomenti che non c'era stato modo di rispettarlo. — Perciò al diavolo il programma. Siamo noi a decidere cos'è importante qui, non i militari lassù in orbita. Voi non preoccupatevi di nulla. Era di umore ancor più sanguigno della prima volta che Dorthy l'aveva visto, un colosso dai modi spicci e amichevoli che dominava tutti loro, perfino la solenne Angel Sutter. La ragazza sorrise educatamente e depose un piccolo contenitore su uno più grosso, a lato della cupola di plastica gonfiata ad aria. Vi si appoggiò con una mano, lasciando vagare lo sguardo sui chilometri di acqua nera oltre cui le montagne sembravano galleggiare sul loro riflesso, immerse nelle nubi che qua e là si addensavano a oscurarne le vette. Provava il senso di distacco dalla realtà circostante tipico dei nuovi emigranti, e quell'immersione dell'identità personale nel semplice moto fisico oltre il quale tutto viene soltanto percepito, accettato senza far domande: il tappeto di steli violacei che copriva il terreno, già consumato in chiazze polverose attorno alla tenda-cupola arancione, le stelle che brillavano di giorno, l'incombente e canceroso disco del sole, la foresta che s'infittiva ai confini della striscia di prato stesa lungo la riva. Tre settimane fa, pensò, ero sulla Terra, a Galveston... ma neppure questo le sembrava più molto reale. — Attenta ai piedi! — Duncan Andrews mise giù un pesante contenitore metallico e si raddrizzò, massaggiandosi le reni. — Cristo! — Torreggiava su Dorthy, irradiando un caldo sentore mascolino. — Mi pare che così vada bene. Spero di non aver rotto qualcosa. Per un po' non arriverà nient'al-
tro dal Campo Zero. Ho usato tutta la pazienza che avevo da parte per convincere il colonnello a lasciar venire qui lei e Arcady. Mi chiedo perché si preoccupa tanto. Ha paura che le ammacchiamo un po' uno dei suoi preziosi aerei? Comunque, ora siamo qui. Chiamò la Sutter e Kilczer e tutti e quattro entrarono nella tenda a bolla, sostando nella piccola anticamera dove getti di vapore acre e nauseabondo li investirono da tutti i lati. Kilczer si portò una mano alla bocca e tossì. Mentre il gas veniva risucchiato via, Andrews fece l'occhiolino a Dorthy. — Vi ci abituerete — disse, e aprì la porta interna. La camera centrale era piena di attrezzi, sul pavimento, sui banconi da lavoro, e su una poltrona gonfiabile che si deformava sotto il peso. Dorthy si guardò attorno e storse il naso all'odore di chiuso e avanzi culinari ormai stantii. — Ci si abituerà — ripeté Andrews, più brusco. — Come si sente? — Io sto bene. — Ci conto. Sarebbe un problema se dovesse avere una ricaduta qui fuori, specialmente se fosse chissà dove dietro ai mandriani. Quelli mangiano i vermi anulati, però sono anche dei terribili cacciatori. Pericolosi. E noi dobbiamo evitare di sparare anche solo per avvertimento. Capisce? Potrebbero crederlo un atto ostile. — Lo terrò presente — disse lei. — Se mi capiterà. Angel Sutter, seduta sul bordo della poltrona sovraccarica, si tolse gli stivali e ne agitò uno verso di lei. — E farai meglio, tesoro, perché i militari prendono la faccenda molto sul serio. Quando me lo dissero io chiesi, tanto per scherzare: «Se uno cerca di divorarmi, posso lottare a mani nude?» E sa cosa mi rispose quel sergente? «Se un indigeno affamato diventa molesto, cerchi di placarlo offrendogli del cibo». Divertente, davvero divertente. Ah, Duncan, ricordati di insegnarmi come si fa a tirare fuori il caffè da quel marchingegno. — Indicò con lo stivale un distributore automatico, e mentre Andrews ne manovrava i pulsanti, sorrise a Dorthy e aggiunse: — Sono qui soltanto da ieri. Duncan mi ha presa su con sé. Aspettavo questa occasione da un bel po' di tempo. — La signora è servita. — Andrews le diede una tazzina di caffè, poi ne riempì altre due. Dopo averle consegnate a Kilczer e a Dorthy ne prese un'altra per sé, bevve un sorso e ne commentò il sapore con una smorfia. — Magari quando ne vedrà uno potrà cadere svenuta, dottoressa Yoshida. Anzi, se me lo permetti da adesso comincio a chiamarti Dorthy, d'accordo? Comunque, guarda di cadere svenuta mentre io sono nelle vicinanze, così avrò una buona scusa per sparargli. Non vogliamo mica perdere la nostra
unica empatica, no? E a questo modo avremo finalmente un mandriano da studiare con comodo, invece di riempirci di polvere e di graffi annaspandogli dietro fra i cespugli. Però bada che qui siamo nella giungla, quindi se mi metto a urlare con te non prenderla come una cosa personale. A volte siamo tutti un po' tesi. — Con un sorriso informò Arcady Kilczer che stava dicendo anche a lui. — Non me la prenderò — disse Dorthy. Assaggiò il caffè: dolce, con un gusto di latte. Poi sedette sull'angolo di un bancone, accanto a un analizzatore di Carbonio 14 e provette di campioni vegetali. Andrews vuotò la sua tazzina, la accartocciò e la gettò in un contenitore di rifiuti dall'altra parte della tenda. — Adesso propongo di volare fin sul bordo del cratere per vedere come se la sta cavando la squadra di Ramaro con le osservazioni a distanza. Ve la sentite di venire, voi due? — Si capisce — disse Kilczer, scostandosi i capelli neri dalla fronte. Il suo sorriso era ancor più largo di quello di Andrews. — Io preferisco restare, se per te fa lo stesso — rifiutò Dorthy. — Potresti dare un'occhiata alla torre, e farti un'idea di quello che abbiamo di fronte. — È stanca, Duncan. Lascia perdere. — Angel Sutter strizzò l'occhio a Dorthy. — Non badargli. È convinto che la gente funzioni bene solo quando lui gli sta attorno a premere i pulsanti giusti. — Per essere precisi, ho la sensazione di avere sotto i piedi un terreno piuttosto instabile. Saremo di ritorno in un paio d'ore, a meno che Ramaro non abbia trovato qualcosa di veramente buono. Sta cercando di decifrare i murales, Arcady. — Proprio come un bel po' di altra gente, su in orbita. — Sicuro. Ma con quelli non posso parlare. — Andrews si volse alla Sutter. — Due ore, prometto. Tu riposati, Dorthy. Dormi, se ci riesci. Domani poi ti lasceremo fare le tue cose. — Le salutò con un sorriso e andò nella camera stagna. Kilczer lo seguì senza neppure voltarsi. — Jesus Christos, quest'uomo è una cosa da non credersi! — sospirò Angel Sutter, sfregandosi il naso largo e un po' piatto. — Pensa che tutte le cose vadano a rotoli se solo lui non è lì a metterci le mani. Ma ottiene dei risultati, bisogna dargliene atto. Non saremmo neanche qui, se non avesse fatto pressioni sulla Marina. Può darsi che non sia un granché come scienziato, però è sicuramente dalla nostra parte. — Così ora so a chi dare la colpa. Senti, dove mi posso sdraiare? — Colpa? Ah, è vero, ti hanno risucchiata nella macchina.
— Rapita. È così che io vedo la cosa. E ti giuro che se... — Ehi, ehi! — Sul volto di Angel Sutter apparve un'espressione preoccupata. — Suppongo che questo non sia un divertimento per te. Voglio dire con il fatto di leggere nella mente e tutto il resto. — Qui non lo sto facendo. Non come puoi pensare. Ma ora ho proprio bisogno di riposare un po'. — Sicuro, certo. Vieni qui, guarda. — Nella cupola c'erano diversi scomparti laterali, e Angel aprì la tenda di uno di essi, appena un cubicolo. Conteneva una branda e un armadietto, nient'altro, ma Dorthy fu grata per quell'illusione di intimità. Prese la sua borsa, passò accanto ad Angel e lasciò ricadere la tenda dietro di sé. Benché il lungo viaggio sull'aereo da trasporto l'avesse stancata, Dorthy era troppo nervosa per dormire. Dopo aver tirato fuori le sue cose restò seduta sul bordo del letto, con il suo unico libro aperto sulle ginocchia. Quelle cadenze ormai così familiari, dal ritmo preciso e solenne come una pavana di corte, di solito le placavano l'animo. Ma non stava leggendo che da pochi minuti quando la tenda si scostò e Angel Sutter disse: — Ehi! Come ti senti, adesso? Dorthy alzò lo sguardo e incontrò il sorriso di lei, denti candidi e pelle nera. Angel entrò, sedette sulla branda al suo fianco, le prese il libro dalle mani e lo esaminò incuriosita. — Questa è letteratura, anzi poesia, giusto? Cos'è, inglese? Tu parli inglese? — Guardò la copertina. — Uhu, Shakespeare. Come si chiama un affare di questo genere? — Un libro. — Ma guarda! Senti, scusa se ti sembro invadente, ma immagino che dovremmo conoscerci un minimo visto che ci hanno sbattute insieme a questo modo. — Prima ne esco fuori, più sarò contenta. Tu lo sai che non ho chiesto io di venire qui. — Ma puoi sempre cercare il meglio in ogni cosa, giusto? — Angel le porse il libro e lei fu lieta di poterselo rimettere sulle ginocchia. — Non prendere troppo sul serio Duncan Andrews, comunque. È un militare come gli altri, anche se gira mimetizzato da civile, tutto Marina e patria. È a posto, almeno finché non ti metti a litigare troppo. Però è convinto che noi siamo qui per sottomettere i nativi, tirar fuori da loro quel che si può, e poi andare a mettere fine alla guerra a BD Venti. — È della Marina? Da come gli altri parlavano di lui, al Campo Zero, credevo che...
— È un Capitano della Marina, nientemeno. Viene dalle squadre di sorveglianza della Gilda, come molta altra gente qui. Il suo grado equivale a quello di colonnello delle truppe da sbarco che porta la Chung, ecco perché riesce a fare a suo modo. Lei invece è stata mandata dalla Sicurezza Interna dell'Unione Democratica Cinese, e chissà cosa pensa d'esser venuta a fare quaggiù. Andrews, come ti dicevo, sta in un certo senso dalla nostra parte, anche se solo perché andiamo in cerca delle stesse cose. Ma quando si viene al concreto ci dà ordini esattamente come quelli lassù in orbita. Dorthy si accigliò. Non era ancora riuscita a stabilire chi avesse dato il via alla catena di eventi a causa dei quali lei era stata strappata alle sue ricerche e spedita lì. Era abbastanza possibile che fosse stato Andrews ad avere l'idea e a proporla al comando. Tuttavia questo non spiegava perché ora fosse così indifferente circa l'uso del suo Talento... La Sutter disse: — Io ho ascoltato tutte le chiacchiere, sia quando mi grattavo la pancia in orbita, sia mentre mi rosicchiavo le unghie al campo. Se vorrai sapere una storia su di lui, te la posso fornire in tre versioni contrastanti. Lo sapevi che è un agatherin? — Mi sembra di sì. Be', è il figlio primogenito di un duca di Elysium, dopotutto. E si comporta di conseguenza, non c'è che dire: un miscuglio di aggressività virile, impulsività, incrollabile fiducia in se stesso... cose che ho già incontrato. Angel si grattò il naso. — Suppongo che ti sarai mossa anche in strani ambienti, tu. — Per via del mio Talento? — Dorthy sorrise. — Io faccio la vita della studiosa, come te. Un'astronoma. Non sono una specie di Giles Riahrden o di Kitty Flambosa-Brown. — Ma per un anno aveva dovuto muoversi davvero in strani ambienti, per aiutare Hiroko. (E Hiroko era tornata in quel ranch, nel deserto, lasciandole soltanto un messaggio sibillino che non aveva ancora cessato di confonderla e sbalordirla.) Poi altri ambienti anomali, quando aveva bisogno di soldi per studiare al Fra Mauro. Prostituendosi. Scacciò quei pensieri. — Non avresti mai detto che gente di quel genere possa finire qui, vero? La Sutter scosse le spalle. — Suppongo di no. — Poi, in un tono completamente diverso, chiese: — Puoi davvero leggere nella mente? — Quando devo farlo. Per il momento, no. Ho un impianto che blocca il mio Talento, finché non prendo una specie di antidoto. L'altra ci pensò un poco. — E riuscirai a leggere i pensieri di questi mandriani?
— A sondarli. Sì, non mi aspetto delle vere difficoltà. — La nova che la raggiungeva da oltre l'orizzonte, attraversando anche la paratia della capsula di caduta. Il senso di claustrofobia del verme anulato e il lampo abbagliante che ne era seguito. E ora avrebbe dovuto mettere la sua mente nuda di fronte all'ignoto. Nessuna difficoltà? pensò. Ho una paura infernale. Ma non voleva lasciarlo trasparire: ogni sua debolezza le avrebbe procurato l'indesiderata sollecitudine altrui. Da troppo tempo ormai aveva perfezionato la sua armatura; non poteva lasciarla arrugginire. Così si costrinse a sorridere e disse alla Sutter: — Da ragazzina facevo pratica con gli animali. Saresti sorpresa di sapere cosa gli passa per la testa. Angel rise: rottami metallici trascinati sul velluto. — La maggior parte delle volte non riesco neppure a immaginare cosa passa per la testa della gente. Senti, vieni fuori e facciamoci qualcosa da mangiare. Inutile aspettare Andrews e Kilczer per cenare insieme. Scommetto che staranno fuori delle ore. Non aveva torto. Dorthy mangiò, fece una lunga doccia nel piccolo bagno della tenda e andò a sdraiarsi sul suo lettuccio. Ma rimase a lungo in attesa del sonno, ascoltando i passi di Angel che sistemava le sue attrezzature biologiche, con un tintinnio di vetri e di metalli simile a un lontano quartetto di Mozart. Quando si svegliò, con un sussulto, l'orologio del braccialetto faceva le 7,26 del mattino, ora del Campo Zero, e i due uomini non erano ancora tornati. Mentre Dorthy sorseggiava insonnolita il pessimo caffè del distributore, Angel cercò di convincerla che non c'era motivo di preoccuparsi; ma lei percepì il nervosismo dietro quella maschera di serenità. — Non potremmo chiamarli, e farci dire... — Non è così semplice. Abbiamo l'ordine di mantenere il silenzio radio, per il caso che qualcuno sia in ascolto. Non possiamo comunicare con il Campo Zero, né con i gruppi al lavoro in questa zona. Tutto quello che ci è concesso sono due secondi di trasmissione condensata e in codice al comando orbitale, ogni volta che appare sopra l'orizzonte. E anche questa su un fascio laser, per evitare le intercettazioni. Non stare a preoccuparti, tesoro. Prima o poi torneranno. Dorthy finì il caffè, mentre l'altra accendeva un analizzatore a risonanza protonica per controllare che fosse pronto a ricevere i suoi primi campioni. Il programma che le era stato affidato riguardava lo studio della chimica delle piante nella zona fertile e lo sviluppo di inibitori generici, che potessero essere introdotti negli habitat del Nemico intorno a BD Venti. Dorthy
la osservò per qualche minuto, poi annunciò: — Credo che andrò a fare quattro passi. Angel alzò lo sguardo. — Aspetta che finisca qui, e verrò con te. — Non importa, ho soltanto bisogno di schiarirmi la testa. — Ciò che voleva, in realtà, era di restare sola con se stessa. — È contro il regolamento, a dire la verità. Ma all'inferno, non posso legarti, no? Bada bene a quello che fai, d'accordo? Il posto dovrebbe essere sicuro, è per questo che l'hanno scelto, ma io sono qui da un giorno più di te e non so niente di quello che c'è là fuori. Già che ci sei raccoglimi qualche pianta o radice, roba piccola, tenendo nota del posto dove le hai trovate, vuoi? — Frugò attorno, trovò alcuni sacchetti sterili e li spinse sul banco verso di lei. — E stai attenta, eh? — Va bene — annuì Dorthy, e fuggì via attraverso la camera stagna. Gli steli intrecciati dell'erba cedevano come un morbido tappeto sotto gli stivali, e i suoi passi erano quasi del tutto silenziosi. Si chinò a raccoglierne uno; era davvero una treccia, composta da tre parti che emergevano da un unico nodulo per allacciarsi fra loro con sorprendente regolarità. Quel disegno complesso la stupì: del tutto ignoto all'umanità s'era evoluto (da qualche altra parte, non lì) per assorbire energia dal sole, in chissà quale inimmaginabile territorio... Lo mise in un sacchetto, perché certo la Sutter ne avrebbe voluto un campione, e proseguì seguendo la riva del lago che nell'oscura calma delle sue acque rifletteva, liscio come un piano euclideo, le lontane montagne e il sole, e le stelle del tenebroso rossore diurno. L'erba cresceva fino ai bordi del lago, qua e là interrotta da piante dal tronco vuoto e pieno di buchi, alte il doppio di Dorthy, intorno a cui ricadevano sottili rami gremiti di foglie che la brezza faceva frusciare appena. Non si vedeva un insetto, né qualsiasi altro segno di vita animale. Aveva l'impressione di passeggiare in una serra chiusa... e forse lo era, abbandonata ma capace di autoriprodursi. Si girò e vide d'essersi lasciata già molto indietro la cupola: una bolla arancione, estranea a quel luogo. Come lei. In distanza una sottile striscia di terra emergeva sul lago, e piegandosi a scorrere parallela alla riva formava un canale di tenebra fra le due sponde. Dorthy girò invece verso il margine della foresta. Gli alberi potevano essere conifere: fitti ammassi di aghi appesi a viluppi di ramoscelli flessibili, a loro volta sostenuti da rami e tronchi coperti di corteccia dalla grana fine come pelle umana; ma le radici emergevano bulbose, aprendosi anche sulla superficie del suolo. Non erano terrestri. Si chiese se provenissero da qual-
cuno dei pianeti umani, Serenità, forse, o Elysium... gli animali che lei e Kilczer avevano visto dall'aereo, i megateri, quelli a ogni modo erano originari della Terra. E quanti altri pianeti sono stati saccheggiati per rifornire questo? pensò mentre avanzava sotto gli alberi, con gli stivali che affondavano nel profondo strato di aghi secchi accumulati ovunque fra le radici contorte. Fra quelle piante non cresceva nient'altro: una foresta pulita come un frutteto, una luce così debole che lei non riusciva a distinguere un colore dall'altro, un'atmosfera opprimente come quella del mercantile convertito che l'aveva portata lì, con due dozzine di menti umane continuamente in attrito con la sua. D'un tratto provò la sensazione d'essere spiata, assurda e tuttavia reale. Con un brivido di paura si volse per tornare indietro. E vide la creatura, a neppure una dozzina di metri da lei. Più grossa di un uomo, era accovacciata nell'ombra fra le alte radici degli alberi. Dorthy fece in tempo a vedere un volto lungo dal grugno animalesco, incorniciato in un cappuccio floscio, un corpo magro coperto di peluria nera... e poi la creatura fuggì rumorosamente fra i rami più bassi, scomparendo nell'ombra. Se procedesse su due gambe o su quattro, Dorthy non lo vide, perché era scappata a rotta di collo in direzione opposta. Inciampò su una radice, piombò a faccia in avanti in un mucchio di aghi marroncini, si rialzò con il cuore in tumulto e finalmente uscì nella luce violacea del sole. La tenda a bolla, fra l'oscurità del lago e quella del bosco, non era più un'immagine fuori posto ma l'unica cosa amica. Dorthy continuò a correre in quella direzione sull'erba tenera, e quando fu più vicina vide che sullo spiazzo erano adesso parcheggiati due aerei da trasporto. Andrews e Kilczer erano tornati. — Un mandriano — disse Duncan Andrews. — Ecco cos'era. Aveva una specie di cappuccio sulla testa? — Mi è parso che fosse un indumento di qualche genere. — Dorthy teneva la tazzina del caffè con entrambe le mani. Anche così, la nera superficie del liquido tremolava. — Nessun indumento, neppure uno strato di fango? Un cappuccio di pelle e un corpo nero e peloso? Era un mandriano, certo. Anche se non capisco... — Seduto su un alto sgabello e con un gomito poggiato sul bancone, Andrews staccava con metodica lentezza frammenti di plastica dal bordo della sua tazzina, lasciandoli cadere dentro il caffè. I suoi occhi azzurri erano circondati da un alone scuro, ma stringeva le labbra in una linea dura, quasi che la stanchezza servisse solo a metterlo in uno stato di attenzio-
ne forzata. Scosse il capo. — Stanno succedendo cose strane, questo è chiaro. Nessun mandriano era mai stato visto nella foresta, da queste parti. È uno dei motivi per cui ho deciso di mettere il campo qui. Cristo, mi chiedo se ci stessero spiando. — Gettò in un cestino per rifiuti la tazzina (che rimbalzò sul bordo, spargendo gocce di caffè sul pavimento) e si passò entrambe le mani fra i capelli, intrecciando poi le dita sopra la testa. — Vedi niente là fuori? — chiese a Kilczer. — Niente di quelle dimensioni. — Il medico era chino sui monitor collegati ai sensori esterni. — Non ci sono forme in movimento, né immobili sul margine della foresta. Ma lo scanner non ci dice cosa c'è più all'interno. Andrews si rivolse a Dorthy. — Forse il tuo Talento funzionerebbe meglio. Questo scanner si basa sullo stesso principio, infine. — Anche il mio ha un raggio d'azione limitato. Di solito. — Dorthy sorseggiò il caffè bollente. — Dammi qualche altro particolare — disse Andrews. — Ne hai visto uno solo? Mentre Dorthy gli raccontava di nuovo l'accaduto, le venne da pensare che quell'essere, il mandriano, aveva avuto paura quanto lei. Ciascuno era fuggito via dall'altro, l'alieno spaventato dall'alieno. Ma in lei era ancora troppo vivo il ricordo di quel lungo volto crudele dagli occhi infossati, sepolto fra le pieghe del cappuccio, per poterci ripensare con distacco. Un lungo corpo peloso che scivolava nell'ombra. Da qualche parte là fuori. La tenda non le era mai parsa così fragile. Andrews si passò una mano sulla barba non rasata. — Dannazione! Se avessimo un po' di gente qui fuori... — D'un tratto saltò giù dal bancone, si piegò su una spalla di Kilczer per scrutare lo schermo, poi andò al distributore e si servì un altro caffè. — Forse adesso mi daranno più personale e mezzi, qui — borbottò, accigliato. — Prima le luci, e ora questo. Le cose stanno cambiando. — Luci? — chiese la Sutter. Era stravaccata sulla poltrona gonfiabile come se si fosse eletta padrona della tenda. Andrews soffiò sul caffè e lo assaggiò. — Alla torre. È per questo che non siamo tornati qui, ieri sera. Kilczer volse le spalle allo scanner. — Sembra che la città, o qualunque cosa sia, là in quel cratere, si sia accesa. — La torre — disse Andrews. E spiegò: — Nel mezzo dell'avvallamento c'è una costruzione molto complessa, con una quantità di rampe sospese e di spirali, più simile a una specie di labirinto verticale che a qualsiasi altra
cosa. Non sappiamo cosa sia... certo non una città. Suppongo che il fossato circostante sia un'opera difensiva. Forse hanno inondato tutto prima di estinguersi. È successo anche su Elysium, dopotutto. — Andò a sedersi sullo sgabello. — Comunque, c'è una squadra che la sorveglia da distanza di sicurezza con le apparecchiature adatte. Forse quelle luci non significano niente, forse sono un automatismo ciclico, però ieri si sono accese. È una specie di fosforescenza. Non sappiamo ancora a cosa servano, ma Ramaro ci sta lavorando sopra. E ora un mandriano che si aggira qui attorno. La cosa può anche avere un senso. Dorthy, te la sentiresti di leggere la mente di una di quelle creature? — Mi piacerebbe provarci. — Ottimo! — Batté le mani, con un sogghigno. — Allora andiamo. Tu sei pronto, Arcady? — Io preferirei qualche ora di sonno — disse lui. — Vorrei che ne avessimo il tempo. Ma hai dormicchiato su alla base, e anche mentre rientravamo. Non puoi trascorrere la vita dormendo. Ascolta, Angel: mentre noi siamo fuori, tu esplora un po' foresta. Vedi se puoi individuare altri mandriani. Io scommetto che quello non era solo. L'ideale sarebbe una perlustrazione dall'aria, ma per questo dovremo aspettare un po' di tempo. Non penetrare troppo a fondo nella boscaglia. — Non mi avvicinerò neppure all'ombra di un albero! Dico, sei impazzito? — Avanti, usa la slitta e nulla di quel che c'è là fuori potrà raggiungerti. — Sorrise. — O almeno credo. Ma se vuoi lamentarti per la scarsità di aiutanti a tua disposizione, non è a me che devi rivolgerti. Sai che io ci ho provato, no? Dorthy, prendi il necessario e andiamo. Arcady, hai bisogno di una mano per portare lo scanner? Mentre preparava le sue cose, Dorthy sentì Angel Sutter obiettare e protestare con energia, mentre Andrews le elargiva borbottii e la sua parte di imprecazioni. Poi Angel rise forte, e quando Dorthy uscì dal suo cubicolo stava dicendo: — Su e giù per la riva, questo sì. Ma non troppo lontano. Perché guardi la pistola? Se stai per dirmi che non devo sparare neppure per difendermi: merda! — Questo lo lascio al tuo giudizio — sospirò Andrews. — Non è una regola che ho fatto io. Coraggio, Arcady... Dorthy? Va bene. In bocca al lupo, Angel. — Sicuro, sicuro — brontolò la donna. Ma stava sorridendo: Andrews le aveva dedicato dieci minuti del suo fascino. Proprio come Dorthy aveva
sperato che l'uomo facesse con il colonnello Chung, a suo favore. La tenda rimpicciolì accanto alla distesa del lago. Il lago si restrinse entro i confini della foresta. Mentre l'aereo da trasporto saliva di quota, Dorthy, rannicchiata nell'esiguo spazio dietro i sedili occupati dai due uomini, si piegò in avanti e vide che sotto di loro scorrevano le acque. Batté una mano su una spalla di Andrews. — Ma non dovevamo andare sulla pianura? — Dopo. Per adesso voglio sapere cosa c'è di nuovo al campo sul cratere. Questo dannato silenzio radio mi impedisce di tenermi in contatto con quello che succede, e un sacco di cose stanno succedendo proprio adesso. — Aspetta di vederlo coi tuoi occhi, Dorthy — disse Kilczer. — È incredibile. — Avanti, Arcady — borbottò Andrews, — non esagerare. E tu non preoccuparti, Dorthy, che il tuo lavoro non scappa. I mandriani non hanno il nostro orario. Ne troveremo qualcuno abbastanza attivo per quel che ti serve in ogni momento della giornata. Dorthy non insisté. Protestare per quel cambiamento di programma era inutile. Inoltre non voleva alienarsi Andrews. Lui doveva essere un alleato, il suo biglietto per tornare a casa. Il lago cominciò a svanire nella foschia. Da lì a poco stavano volando fra pendii scoscesi e alberati, lungo il corso sinuoso di un fiume che più a monte s'allargò in una vasta polla schiumosa ai piedi di una cascata, e quindi tornò a stringersi fra pareti a picco sopra le quali cresceva una fitta vegetazione. Forti correnti d'aria facevano sbandare a tratti il velivolo fra i burroni, e gli alberi che s'aggrappavano alla roccia si fecero più radi mentre si addensava la nebbia. Rivoletti d'acqua condensata scivolavano sui finestrini, e il faro anteriore spesso non illuminava che profondità lattescenti. Andrews accese l'impianto di riscaldamento e si appoggiò allo schienale, osservando lo schermo su cui il radar e il computer ricostruivano i dintorni. Kilczer si massaggiava il collo, nervoso e stanco. Dietro di loro, Dorthy esaminava ogni scusa che avrebbe potuto trovare per dimostrare la necessità di andarsene appena finito il suo lavoro, scartandole una dopo l'altra. Guardando il profilo di Andrews era tentata di scambiare qualche banalità sul sottostante paesaggio fluviale, ma l'uomo era intento alla manovra e teneva la barra di controllo fra dita carezzevoli come una cosa viva, in impercettibile ma costante movimento. Dorthy, che al termine del contrato con l'Istituto era andata un paio di volte a cavallo
sulla costa australiana (dopo il suo ultimo confronto con il padre. Ma questo andava dimenticato, era tutto finito, non restava niente ora, a parte l'enigma di Hiroko, il biglietto che aveva lasciato prima di tornare a quel ranch da cui Dorthy l'aveva salvata) era sul punto di chiedere ad Andrews se avesse mai cavalcato, o se avevano cavalli su Elysium, quando uno stormo di creature dalle grandi ali bianche sbucò dalla nebbia e il velivolo vi passò in mezzo, scompigliandole come foglie al vento. Nella sonnolenza di Kilczer sprizzò un afflusso di adrenalina che lo svegliò di colpo, mentre con calma Andrews manovrava la barra per evitare gli uccelli. — Il rumore delle eliche non li spaventa mai — commentò l'uomo, scuotendo il capo. Le ultime ali scomparvero nel grigiore, poi l'aria tornò a schiarirsi e il fiume fu di nuovo nitido sotto di loro, fra stralci di nuvole. Dorthy rinunciò a fargli una domanda, cercò di pensare a qualcosa di diverso da dire, poi il momento buono passò. Non c'erano più alberi. Il fiume, ridotto a un torrente, biancheggiava fra i macigni. Il canyon in cui scorreva si restrinse rapidamente e d'un tratto scomparve. L'aereo sorvolò un'ultimo pendio cosparso di estrusioni laviche e rocce frantumate, nudo come un paesaggio lunare. Poi il terreno si abbassò di colpo davanti a loro. L'aereo si lasciò alle spalle un lunghissimo versante che curvava a destra e a sinistra, scendendo fra balze spoglie e sconvolte. Ma sul fondovalle il terreno era coperto di boscaglia, e continuava ad abbassarsi in una serie di terrazze fino a una vasta pianura al centro della quale, come la pupilla in un occhio, c'era un lago circolare. Soltanto l'arco superiore del sole spuntava dai nebbiosi orli di lava dell'immenso cratere; nel suo interno tutto era una confusione di ombre e di vaghe profondità dove stagnava una mezza luce rossastra. Eccetto che per qualcosa nel centro esatto del lago. Mentre il velivolo saliva di quota Dorthy si piegò in avanti, e da sopra una spalla di Andrews vide una costellazione di scintille rosse dietro le quali si scorgevano intrecci d'ombre spiraliformi che sembravano emergere dalle nere acque del lago. — Che cos'è? — La torre. Ora capisci perché dovevo tornare? Fino a ieri quelle luci non c'erano. — È un posto assurdo. — Anche Kilczer era come affascinato da quella vista, dimentico della tensione fra lui e Dorthy. — Ci troviamo a una ventina di chilometri di distanza — disse Andrews.
— È il massimo a cui ci siamo avvicinati, finora. Venti chilometri. La percezione visiva di Dorthy cambiò, e la sua prima stima della larghezza del bacino si triplicò: quelle spirali dovevano essere più alte del Museo dell'Uomo a Rio, e larghe alla base quanto l'astroporto di Galveston. Una piccola montagna, più che un edificio. Poi lo perse di vista quando l'aereo deviò per accostarsi di nuovo al bordo del cratere e scendere, con la leggerezza di un uccello, su una larga piattaforma naturale di roccia nuda. Due tende gonfiabili a forma di cupola erano fissate al terreno, all'ombra di alcuni spunzoni lavici. Ancor prima che le eliche avessero smesso di girare, qualcuno era corso accanto all'aereo per spalancare il portello e tirare giù la scaletta dal lato di Kilczer. Il medico scese, Dorthy gli tenne dietro, e l'uomo che aveva aperto le porse una mano per aiutarla cavalierescamente. Lei ignorò il gesto e saltellò con cautela fin sulla superficie rocciosa. A meno di dieci metri da lì c'era il bordo dello strapiombo. Le luci rosse della torre si scorgevano senza difficoltà, attraverso chilometri d'aria nebbiosa. Andrews comparve aggirando la prua del velivolo, con un sogghigno sul volto. — Luiz, come va? Dorthy, dottoressa Yoshida, le presento il maggiore Luiz Ramaro. Dirige questa succursale della ditta. — Benvenuta, dottoressa. — L'uomo, non molto più alto e neppure molto più anziano di lei, con una pancetta che gli tendeva un poco la tuta grigioverde sull'addome, le rivolse un rapido inchino e poi la studiò con aperta attenzione. Dorthy sostenne il suo sguardo, rifiutando di lasciarsi intimidire. Una tonda faccia color caffè, naso tozzo e piccolo, scintillanti occhi neri e sulla guancia sinistra quella che sembrava una cicatrice da duello. Dopo qualche secondo Ramaro annuì come se avesse avuto la conferma di qualcosa e si volse ad Andrews, che stava chiedendo cos'avessero registrato le apparecchiature, se ci fosse stata altra attività e se si erano localizzate fonti di energia di qualche genere. — Per favore, Andrews, per favore — sorrise Ramaro. — Dacci tempo. No, niente fonti di energia riconoscibili. Le luci sembrano funzionare come i tubilux, liberano quanta d'energia immagazzinati, anche se hanno appena le dimensioni di una molecola. In quanto al perché si siano accese proprio adesso... ci stiamo lavorando sopra. Ma togliamoci da questo vento, eh? Seyoura, lei deve aver freddo. Andrews, quanto pensi di trattenerti qui? — Se potessimo tenerci in contatto radio non sarei neanche venuto. No, stiamo andando a fare una visita ai gemelli, sulla pianura. La dottoressa
Yoshida leggerà nella mente dei mandriani. Sempreché quelli abbiano una mente. Il maggiore Ramaro gettò uno sguardo a Dorthy, fra contrariato e divertito. Ma il suo tono fu indifferente: — Così è questo il suo Talento. L'avevo immaginato. Be', ti auguro buona fortuna, Andrews. Dorthy sentì un breve impulso d'ira ma non aprì bocca. Sapeva che niente di quel che poteva dire avrebbe fatto differenza. Ramaro era evidentemente un brazilliano alla vecchia maniera; la cicatrice da duello lo identificava come membro di una delle famiglie aristocratiche. Per loro le donne erano preziosi soprammobili o materiale da allevamento, una mentalità che datava da un paio di secoli prima quando la maggior parte delle loro donne erano morte in una pestilenza artificiale, durante una delle guerre d'indipendenza. Nei decenni successivi le donne erano divenute la più preziosa merce di scambio nel Gran Brazil, comprate e vendute specialmente dagli aristocratici, che in seguito avevano investito molto denaro per mettere insieme dei veri e propri harem. Soltanto quarant'anni addietro il Gran Brazil era stato costretto a dare alle donne i diritti civili, dopo che la Terra era riuscita a includere nella Federazione le vecchie colonie fondate dalla Russia e dagli Stati Uniti d'America, ma gli uomini come Ramaro restavano orgogliosamente legati ai loro pregiudizi paternalistici. Il piccolo maggiore li scortò alla tenda-cupola più vicina e subì con loro il processo di decontaminazione nella minuscola camera stagna. All'interno lo spazio circolare, in penombra, era un labirinto di scaffali gremiti di apparecchiature per il monitoraggio a distanza. Sei o sette tecnici sedevano davanti agli schermi, lividi in volto per la luce rossastra che ne emanava. Ramaro servì il caffè a Kilczer, Andrews e Dorthy, quindi porse alla ragazza la sedia più comoda con elaborata cortesia... e quando lei fu seduta, la ignorò completamente. Dorthy sorseggiò il caffè osservando uno degli schermi liberi, in cui era inquadrata la torre con l'anello d'acqua nera che la circondava e le collane di luci di cui erano incrostati i suoi pinnacoli, e ascoltò Andrews e Ramaro chiedersi a cosa servisse quell'edificio e se i suoi costruttori fossero ancora vivi. Kilczer si teneva un po' in disparte, senza toccare il suo caffè fumante, limitandosi ad annuire ogni tanto, mentre Andrews, che non lo escludeva dalla conversazione, parlava di ciò che Dorthy aveva visto nella foresta e si diceva convinto che su quel pianeta il Nemico fosse degenerato lasciando dietro di sé solo quei barbari discendenti, i mandriani. — Tornati alia barbarie, come i tuoi antenati dopo la cessazione del traf-
fico fra Elysium e la Terra, cinquecento anni fa? — Ramaro sorrise, e i suoi occhi quasi scomparvero sopra il turgore degli zigomi. — Secondo me, il Nemico si tiene nascosto — disse, sia a Kilczer che ad Andrews. — Nascosto, oppure addormentato e in attesa che qualcuno lo svegli. Forse in questo momento si sta svegliando, e le luci sono parte del procedimento. È una possibilità, Andrews. Dorthy si chiese se fosse stato informato dell'intelligenza abbagliante che lei aveva percepito due volte, ma tacque. Non si sentiva parte della discussione. Inoltre aveva provato un'immediata antipatia per il maggiore Luiz Ramaro. — È una possibilità — disse Andrews, — se puoi spiegare perché avrebbero fatto una cosa di questo genere. Trasformare un intero pianeta e poi andarsene a dormire? Perché? Questa non è un'astronave per coloni in un viaggio secolare fra una stella e l'altra. — Devi tener presente che si tratta di alieni. — Ora come ora non possiamo speculare su questa base. Spiegherebbe tutto senza spiegare niente. Ramaro scrollò le spalle. — Una cosa è certa: qui c'è un intero pianeta ancora da esplorare, cartografato in modo insufficiente e sconosciuto perfino nelle pochissime zone già sorvolate. Avremmo bisogno di un centinaio di squadre come questa per delineare almeno la situazione generale. — Sapessi quante volte l'ho ripetuto a quelli lassù... — Andrews si grattò il mento ispido di barba. — Supponiamo che i mandriani stiano venendo qui. Tu che ne dici? — La mia opinione è che siano soltanto animali, intelligenti quanto le scimmie o i delfini ma nient'altro. Tutt'al più potrebbero essere dei servi, sorveglianti, in attesa dei loro padroni o qualunque altra cosa siano. — È proprio questa la teoria che blocca sul minimo le ricerche qui, Luiz. Finché lassù penseranno che ci sia la possibilità d'incappare in qualcosa di pericoloso, rifiuteranno di impegnare le risorse umane e tecniche di cui abbiamo bisogno. Se li convinceremo che non ci sono rischi daranno il via a un'esplorazione in grande stile, credimi. — Andrews si appoggiò a uno scaffale con una spalla. — Be', chiunque sia nel vero, è certo che verremo a sapere parecchie cose dai mandriani, in un modo o nell'altro. L'irritazione di Dorthy si focalizzò su quella frase. — Tu presumi che io possa scandagliare quelle creature in profondità, come potrei fare con una mente umana. Eppure, Andrews, non sembri molto ansioso di mettere in pratica l'idea.
Andrews inarcò un folto sopracciglio. — Abbi pazienza, Dorthy. Capisco che tutto questo ti secchi molto, però io voglio soltanto essere sicuro che le cose non siano già andate oltre i miei progetti di lavoro. Ramaro volse le spalle a Dorthy (se per insulto deliberato o semplice noncuranza, lei non lo capì) e disse: — Dovresti smontare il tuo campo in riva al lago, per bello che sia, e trasferirti qui. Ogni giorno, ogni ora c'è qualcosa di nuovo. E ti risparmieresti un bel po' di tempo. — Già, ammetto di avere un debole per quella zona — sorrise Andrews. — È lì che abbiamo cominciato, dopotutto. D'altra parte bisogna tener presente il programma biologico. L'ecosistema è una fonte di apprendimento basilare, e non credo che dovremmo abbandonare questo aspetto delle ricerche. Snobbata, e avvertendo il brivido che annunciava uno dei suoi attacchi (o forse era semplicemente rabbia, così sperò) Dorthy finì di bere il caffè e andò a chiedere a uno dei tecnici dove fosse il gabinetto. Quando ebbe fatto, si spruzzò sul volto un po' d'acqua fredda. Alcune ciocche di capelli corvini le erano sfuggite via dal berretto, e le ricacciò sotto il bordo di pelle, poi si chinò a bere un sorso aiutandosi col palmo di una mano. Quando tornò nella penombra dell'altro locale, Andrews stava esaminando una serie di ologrammi sparpagliati su un tavolo. Dorthy vide che si trattava di sezioni di pareti e pavimenti. Kilczer ne stava girando uno da tutte le parti nel tentativo di capirci qualcosa. — Mi spiace — le disse Andrews. — Hai finito con Ramaro? — Adesso è andato a controllare i dati telemetrici di una delle sonde che ha avuto un attacco di convulsioni. Guarda questi: potrei portarli con me. Credimi, ci tengo davvero a farti scandagliare i mandriani. — Non preoccuparti, non sto per avere un attacco anch'io. Voglio solo finire, qui, e tornare al mio lavoro. Tutto questo mi sembra quasi irreale. — Mentre lo diceva ebbe una sensazione inquietante, come se la tenda con i suoi scaffali e i tavoli e il personale fosse scivolata di qualche metro sulla terrazza rocciosa verso l'abisso. Supponiamo, pensò, supponiamo che Andrews si sbagli, e che i mandriani non abbiano niente a che fare con il Nemico. Cosa farà allora il comando orbitale con me? Mi rimanderà a casa, oppure mi spedirà a cercare in altre zone? Kilczer stava dicendo: — Anche a me sembra tutto irreale. Più ora, mentre sono qui, che quando scalpitavo dalla voglia di andarmene dal Campo Zero.
— Ti assicuro che è molto reale — disse Andrews. — Adesso faccio due chiacchiere con Ramaro e poi ce ne andiamo, Dorthy. Te lo prometto. Attraversò il locale e si chinò a parlottare con il maggiore, che annuì, gettò un'occhiata a Dorthy e quindi tornò a dedicargli la sua attenzione. — Non c'è niente su cui siano della stessa opinione — disse Kilczer, — ma hanno esattamente la stessa mentalità, credo. — Ossessionati! — borbottò lei. Kilczer si strinse nelle spalle e cominciò a riunire gli ologrammi. Finalmente Andrews non ebbe più altro da dire a Ramaro; si sfiorò la fronte in un accenno di saluto militare e tornò da Dorthy e Kilczer. — Tutto sistemato — disse. — E ora pensiamo a voi due e al vostro lavoro. Mentre l'orlo del cratere si allontanava sotto di loro e l'aereo si rimetteva in rotta per il passo fra )e montagne, Dorthy sentì l'impulso che sconvolgeva il suo Talento retrocedere, fino a contrarsi in un puntolino indistinto. Da qualche parte, immaginava, giù dentro di lei ma appena fuori della sua portata, doveva esserci un interruttore che avrebbe potuto spegnerlo per sempre: se fosse riuscita a raggiungerlo l'avrebbe gettato via. Si piegò all'indietro, cercando di stendere più comodamente le gambe in quello spazio angusto. Sul sedile davanti Andrews impugnava la barra dei comandi e scrutava lo schermo del radar, mentre aumentavano di velocità fra veli e banchi di nebbia. Al suo fianco Kilczer sembrava essersi appisolato. Dorthy percepì, vagamente, il sottile tessuto dei suoi sogni confusi. Dopo un poco, quando ebbero superato il passo e furono sul corso del fiume che tagliava quel panorama dirupato, Andrews si volse a mezzo. — Tu sei un'astronoma, Dorthy. Non è vero? — È così che mi piace pensare a me stessa. La risata di lui fu un breve latrato. — Suppongo che tutto questo ti sembri allora molto limitato, ristretto. Ho conosciuto bene un tuo collega. Amava dire che la vita è una cosa anomala, un fenomeno casuale nell'universo. Anche tu lo credi? — Suppongo che sia un atteggiamento comprensibile. Dopotutto, quante stelle hanno una costante solare capace di supportare la vita su pianeti posti nella fascia orbitale che consente loro stabilità di rotazione e un certo tipo di condizioni ambientali? Quante di queste stelle hanno un pianeta all'interno di questa fascia? Quanti di questi pianeti hanno possibilità di far sviluppare la vita? Sì, il calcolo è pessimistico malgrado il numero delle stelle. Nella nostra galassia ce ne sono circa quattro miliardi, ma più della
metà sono nane rosse, così piccole e deboli che perfino le più vicine al Sole furono individuate solo con ologrammi sui punti di interferenza di massa. E molte delle altre, come questa, non sono migliori. — La vecchia equazione Drake-Sagan, certo. Ma questa non tiene presente il modo in cui la vita si espande, respinge l'entropia, instaura l'ordine nel suo sistema. Guardati intorno... — Le indicò un finestrino, al di là del quale masse d'alberi scuri gremiti di rampicanti si estendevano sulle umide asperità delle montagne. — Qui abbiamo un pianeta che fino a non troppo tempo fa era immobile, troppo vicino al sole per ruotare, intrappolato. Tuttavia qualcuno gli ha dato una spinta, lo ha seminato con asteroidi di ghiaccio, ha riattivato dozzine di vulcani per arricchire l'atmosfera, e ha messo in moto la vita. Questo è qualcosa, no? Certo, so tutto sulle galassie Seyfert, sui buchi neri, sui buchi bianchi, le quasar e tutto il resto. C'è un sacco di energia e di materia che non è utile a niente. Ma se avessimo un milione di anni davanti a noi potremmo creare stelle e sistemi solari ideali, usando tutta l'energia che le galassie in collisione stanno sparando fuori. Diavolo, si potrebbe trasformare l'universo stesso secondo i nostri bisogni, giunti a quel punto. Noi abbiamo appena cominciato, ecco il mio punto di vista. Con la scienza usata dal Nemico per planiformare questo pianeta faremmo un buon passo in avanti. E sarebbe una cosa esponenziale. Non dovremmo cercare i pochi mondi su cui è possibile vivere. Ce ne sono almeno venti, in un raggio di trenta anni luce, su cui cominciare a lavorare! Potresti dimenticare le limitazioni delle stelle di classe spettrale K5 o FO, e non avremmo bisogno di molti anni per ottenere un pianeta buono per la vita. Sai, quando Elysium fu colonizzato, ai vecchi tempi dell'Impero Russo e di quello Americano, prima dell'interregno, i miei antenati erano solo un gruppo di gente che voleva vivere la sua vita, uno dei tanti gruppi spediti su Elysium per tenerli fuori dai piedi. Da qui a mille anni, ogni gruppo che voglia svilupparsi senza interferenze potrebbe avere un suo pianeta. E da lì espandersi su altre stelle. Esponenziale, non sei d'accordo? Questa galassia, le Nubi di Magellano, e poi il gruppo locale... — E se incontrassimo il Nemico? O qualcun altro? — Potremo combattere, oppure accordarci. Cos'altro è la vita se non evoluzione, cambiamento? Essa non ha pietà per chi è troppo lento o sciocco. — E se fossimo noi quelli lenti e sciocchi? — La seccava e la divertiva vedere qualcuno aggrapparsi tanto a idee di quel genere. Le sentiva bruciare dentro di lui.
— Il Nemico è come un test. Noi vinceremo a BD Venti perché loro non hanno i motori a propulsione di fase. Devono battersi sul loro territorio, non hanno altro posto dove andare. E qui? Sono finiti male, sembra. Non assillarti con le preoccupazioni, Dorthy. — Non è affatto quello che intendevo. Supponi che ci siano altre potenti civiltà, là fuori: imperi, club galattici, chiamali come ti pare. Noi ci facciamo vivi con i nostri propulsori di fase, le nostre piccole armi, una scienza ancora agli albori... e potremmo essere divorati. Io non voglio impazzare fra le stelle, mi accontento di guardarle da un tranquillo punto di vista. — Non è un punto di vista fatto per me. Mio padre, lui sarebbe d'accordo con te. Seduto nel suo studio a sorvegliare la nostra parte del Dominio, senza mai doversi allontanare dal castello. — Rise, scotendo il capo. — Un mucchio di pietre vecchio di trecento anni, freddo e scomodo, corroso su due lati dal mare. L'ala ovest crollerà fra dieci anni, se non si provvede. E niente da vedere in un raggio di cinquecento chilometri. Questo è il suo mondo, che lui può comandare e far funzionare a piacimento. Abbiamo un paio di ville sulla Terra, un'altra a Punta Tallerman su Titano, e una tenuta in riva al mare su Serenità. Lui non ha mai visto nessuna delle quattro. Si fida del suo personale, e di me, per far funzionare il tutto. E sai una cosa? Funziona. In un suo modo contorto e inefficiente, ma funziona. Lui ha passato il secolo, ormai; aveva quarant'anni quando la Terra cominciò a liberare le vecchie colonie dai secoli di barbarie in cui eravamo caduti. Barbarie per modo di dire, perché la mia famiglia non era poi così malvagia, però su quella piccola parte di Elysium eravamo i padroni assoluti. Non ne ricordo molto. Avevo solo cinque anni quando la Federazione fu istituita, e dieci allorché la Terra riuscì a imporre a Elysium un governo centrale, costringendo poi tutti gli agatherin a unirsi al Dominio di Fontana della Giovinezza. Là ho perso la mia età. Tu mi facevi più giovane o più vecchio? — Sei pieno di entusiasmo giovanile — disse pensosamente Dorthy. Lui si volse a sorriderle. — Gentile da parte tua. Sì, penso di esserlo. Ho una specie di spinta interiore; forse uno psichiatra direbbe che sto sublimando qualche altro impulso, ma non è così. Mio padre non ha mai capito perché io abbia lasciato la Gilda quando ci sono state le prime avvisaglie di guai a BD Venti, anche perché avevamo grossi investimenti nella Gilda. Disse che se avesse immaginato che volevo fare il militare avrebbe cercato di avere un altro figlio. E di certo non capisce cosa sto facendo qui. Mia madre sì, un poco, ma questo perché ogni tanto lei esce da quel castello. — E cosa stai facendo qui?
— Porto te e Arcady dai mandriani, no? Svegliati, Arcady! Il neurobiologo si stiracchiò per quanto gli permetteva il sedile, sbadigliando. — Siamo già arrivati? — mugolò. Ma quando Andrews rispose che c'era ancora tempo richiuse gli occhi, e la sua testa tornò a ciondolare di lato. Il sole, a mezza strada verso lo zenith, spandeva luce sanguigna su chiazze di foresta non più velate dalla nebbia. Nel suo centro si scorgevano macchie solari nere e irregolari, abissi profondi in cui un pianeta avrebbe potuto svanire. Era così poco luminoso che Dorthy poteva fissarlo per minuti interi senza distogliere lo sguardo, in cerca delle ventate di fiamma della fotosfera lungo i suoi bordi. — È là che andiamo — disse Andrews. Mentre l'aereo planava verso destra Dorthy abbassò gli occhi sul panorama sottostante, aggrappata al retro della poltroncina del pilota. La foresta si diradava. Nel tetto di fogliame scuro si aprivano spazi polverosi sempre più ampi, il terreno era tagliato da canaloni in secca e qua e là rosseggiavano affioramenti di roccia nuda. Il territorio si stava appiattendo. Più avanti la pianura si estendeva fino a sfidare il deserto. Lo sguardo di Andrews correva da un monitor all'altro. — Erano proprio qui sotto — disse. — Ma devono essersi spostati. Ora salgo di quota per vedere se riesco a individuare il loro cingolato. Sentendo i motori ronzare più forte, Kilczer borbottò, sfregandosi gli occhi. — Chi è che hai perduto? — I gemelli. La nostra squadra biologica. Stanno seguendo una banda di mandriani. Marta dice che non c'è altro modo per studiare il loro comportamento sociale. — E ne hanno uno? — domandò Dorthy. — Basato sulla copula — rispose Andrews con indifferenza. — La femmina dominante controlla il gruppo scegliendo i maschi da cui vuole essere montata, e gli altri maschi si montano l'un l'altro, per stabilire la gerarchia del comando. Più o meno come nella Marina. — Controllò il radar e mutò leggermente la rotta. — Come intendi procedere per leggere nella loro mente, Dorthy? Se ti sentissi ancora male, qui non abbiamo attrezzature mediche. E non vorrei doverti portare in volo da qui al Campo Zero proprio mentre sembra che le cose si stiano evolvendo. — Farò del mio meglio per non darti noia. — Diavolo, non fraintendermi, adesso — disse lui con impazienza. — Pensi che starai bene? — Se sarò preparata.
— A questo ci penso io — intervenne Kilczer. Dorthy stava per dargli una risposta pungente, ma se la tenne in bocca. Doveva lasciar correre e sopportare. Purché potesse fare il suo lavoro e tornarsene a casa. — Sicuro, così mi piace — disse Andrews. — Be', mi sembra di averli trovati. Grazie al cielo non s'erano allontanati troppo, altrimenti avrebbero potuto volerci dei giorni. Ora si scende. Il sole riempì la carlinga di mobili ombre vermiglie quando l'aereo scese con una rapida spirale. Dorthy ebbe la visione circolare di un terreno chiazzato di vegetazione bassa, poi scorse un veicolo piatto a forma di scatola che avanzava schiacciando i cespugli. Andrews tirò a sé la barra e con le eliche girate verticalmente il velivolo atterrò, ancor prima che il cingolato si fosse fermato, sollevando turbini di polvere tutto intorno. Jon Chavez, l'ecologo, era un uomo alto e snello con una massa di capelli neri, rigonfi, che quando parlava con una certa animazione ondeggiavano intorno al volto finemente cesellato. — Stanno abbandonando la pianura ormai da due giorni! — riferì ad Andrews, agitando le mani. — Abbiamo perso le tracce del gruppo che seguivamo appena si è inoltrato nella foresta. Marta è ancora fuori di sé: ora dovrà studiare una nuova serie di nomi per i mandriani di quest'altro gruppo. Ma pensiamo che anche questi si dirigano nella zona boscosa. — Indicò una linea scura che si scorgeva in distanza, sul terreno pianeggiante. Marta Ade, una donna alta e snella come Chavez, la cui carnagione era della stessa sfumatura violacea in quella luce, aggiunse, gesticolando anche lei: — Il primo gruppo s'era fermato a riposare, e tutto ad un tratto hanno cominciato a correre proprio verso il nostro campo. Siamo stati fortunati ad accorgercene appena in tempo. Jon saltava qua e là, nudo come un verme, buttando l'equipaggiamento sul retro del veicolo. — Secondo lei è stato molto divertente — sorrise Chavez. — Be', eri comico — insisté Marta Ade. — E quest'altra banda? — chiese Andrews. — Si fermeranno? — Sono sicura di sì, ma non saprei dire quando. Più avanti c'è quello che resta di un lago. Forse sulla riva. — La donna si volse a Dorthy. — Non hanno periodi fissi di sonno e di attività. Questo è collegato al continuo allungamento del giorno, suppongo, visto che non si sono evoluti nelle condizioni attuali. — Almeno, questa è la nostra ipotesi più plausibile — proseguì Jon Chavez. — Dopotutto, chi può dire da dove provengano e quali caratteri-
stiche aveva quell'ambiente? — Si mise le mani sui fianchi e guardò in direzione di uno scintillio d'acqua che si scorgeva all'orizzonte, come una pozza di rame fuso sul terreno spoglio. — Quanto potrò avvicinarmi a loro? — volle sapere Dorthy. — Esattamente, non lo so. — Marta Ade sorrise. — Cento metri è già una distanza pericolosa. Io riesco a correre svelta, ma una volta, quando mi ero azzardata a settanta-ottanta metri dal gruppo, alcuni dei maschi per poco non mi hanno presa. — Aprì le dita di una mano e la fece tremolare rapidamente. — Sono stata così tutto il giorno, mia cara. Da rabbrividire. Comunque lei non deve preoccuparsi dei vermi anulati; sono soltanto macchine per mangiare. Se lei si trova sopra un cespo della loro erba possono cercare di strappargliela via da sotto i piedi, ma questo è tutto. Gli dia un calcio in testa e si volteranno da un'altra parte. È così che i mandriani li controllano, più o meno. — Non avete ancora visto i loro piccoli? — domandò Andrews. Marta Ade si strinse nelle spalle. Su ognuno dei suoi zigomi risaltavano parallele cinque cicatrici rituali. — Nell'altro gruppo c'erano tre maschi che forse erano immaturi... oppure di una varietà diversa, magari maschi sterili. Esiste inoltre una specie che io credo sia diversa, circa delle dimensioni di un cercopiteco, che spulcia la femmina del gruppo e qualunque altro maschio si stia accoppiando con lei al momento. Potrebbe essere un animale da compagnia o un simbionte, oppure, però è quasi da escludere, uno dei loro piccoli ma molto, molto giovane. Fra i mandriani non ne abbiamo mai visto uno inferiore alle dimensioni di un maschio adulto. — Sorrise ancora a Dorthy. — Se lei vedesse un parto mentre li osserva, mi avverta e arriverò là correndo più svelta di quella volta che scappai via. — Forse depongono le uova — disse Chavez. — I loro organi genitali ricordano quelli degli uccelli. — Salvo che non abbiamo mai visto un uovo — precisò Marta Ade. — Un sacco di sesso, ma nessun risultato, Forse è una cosa stagionale, forse ora vanno nella foresta proprio per farlo. L'asse planetario è leggermente inclinato sul piano dell'eclittica, anche se qui all'equatore non significa molto, ma deve pur esistere una stagione delle piogge, altrimenti non ci sarebbero tutte quelle piante grasse ai margini della foresta. Scavate dentro una di quelle e troverete acqua. Adesso siamo nel mezzo della stagione secca, ecco come stanno le cose. — Ed è per questo che spostano i loro greggi? — chiese Kilczer. — Perché la pianura si è seccata?
— Non si è seccata. Quella pianta che fa le veci dell'erba ha radici molto profonde e immagazzina una quantità d'acqua là sotto. Cresce in fretta, appena strappata. — Chavez batté il tallone di uno stivale sul terreno. — Fra qualche giorno qui sarà come se i vermi anulati non ci fossero mai passati. Ed è nutriente, anche. Potremmo mangiarla noi stessi e ingrassare, a patto di usare solo quella fresca. I vermi la mangiano tutta, ma il resto della fauna ne sbocconcella solo l'estremità. — I Mandriani, tuttavia, sono esclusivamente carnivori — aggiunse Marta Ade. Chavez sogghignò. — Lei non lo sapeva? Dorthy li stava osservando entrambi. Il modo in cui stavano vicini, scambiandosi occhiate espressive, ognuno aggiungendo spiegazioni alle parole dell'altro... ora capiva perché Andrews li aveva soprannominati «i gemelli», e provò una punta d'invidia per il loro rapporto. Una fortuna, poter contare su qualcun altro in un universo dove tutto era provvisorio, casuale, vacillante. Dorthy non aveva mai veramente amato nessuno a parte sua madre... e se n'era resa conto solo dopo che la povera donna era morta consumata dalla continua pressione del marito, entrambi immersi nel loro personale pozzo di solitudine. Andrews stava ora parlando ai gemelli delle luci che erano apparse sulla torre, e del mandriano che Dorthy aveva incontrato nella boscaglia. — Sto cominciando a convincermi che la nostra presenza abbia fatto scattare qualche meccanismo — disse, stringendosi le braccia intorno al torace. Era sempre piuttosto freddo anche lì all'equatore e nel mezzo di quel lungo, interminabile giorno. — Le luci, questa migrazione: qualcosa si è mosso. Lentamente, forse, ma sta succedendo. Dovrete dare la priorità alla sicurezza, ora. Non voglio che la Marina usi un eventuale incidente come scusa per dare un taglio a tutta la nostra operazione. Il colonnello Chung non aspetta altro per vedere se sa ancora sorridere. — Noi siamo stati vittime di un incidente ostile! — esclamò Chavez. — Il giorno che il nostro accampamento è diventato la versione locale della Avenida das Estrelas — spiegò Marta Ade con una risata trillante. — Sul serio, Duncan, avresti dovuto vederci mentre schizzavamo via da lì. Andrews ridacchiò educatamente; poi, con un brusco passaggio a un tono pratico, ordinò di scaricare l'equipaggiamento di Kilczer. — Fate piano, per favore — li pregò il neurobiologo mentre deponevano al suolo le scatole. — È roba delicatissima. — Be', spero che funzioni. Io ho messo in gioco la mia reputazione per
questa faccenda. E ora siete qui. — Andrews tirò fuori le due borse che contenevano gli oggetti personali di Dorthy e di Kilczer. Poi si appoggiò al montante del portello e li fissò entrambi, accigliato. — Tornerò a prelevarvi fra tre giorni, perciò non allontanatevi troppo da qui. — Questo dipenderà dai mandriani — disse Chavez. — Ascoltatemi bene: con questo silenzio radio dovrei perdere un sacco di tempo per rintracciarvi, se andaste a finire chissà dove. Fra tre giorni voglio trovarvi qui, non importa dove siano i vostri mandriani, dunque regolate la bussola sulle coordinate del loran. — Chavez fece per protestare, ma Andrews alzò una mano. — Questa è la mia decisione — disse con fermezza. — Non voglio perdervi. Chavez gettò un'occhiata a Marta Ade. — E va bene. — La situazione non è facile neanche altrove — continuò Andrews. — Abbiate cura di voi. Fra settantadue ore io sarò qui. — Risalì nella carlinga e chiuse il portello. Gli altri si fecero indietro per evitare le larghe eliche puntate verso l'alto. Sollevando una nuvola di polvere l'aereo decollò, girando verso la foresta mentre ancora prendeva quota. Dorthy lo guardò rimpicciolire nel cielo, con la sensazione d'esser stata buggerata. — Muoviamoci — disse Marta, bruscamente. — Il gruppo si sta allontanando. Caricate le vostre cose e seguiamoli. Il cingolato ronzava e sobbalzava mentre, con la marcia più bassa ingranata, teneva dietro al lento spostarsi del gregge di vermi anulati. Chavez, al volante, ignorava tutti gli ostacoli salvo quelli più grossi, risalendo per i pendii sassosi, slittando giù lungo il lato opposto e sfondando gli oscuri viluppi dei cespugli. La debole luce del sole dava un tono rosato alla polvere che il vento soffiava contro i finestrini e che ne veniva subito respinta, dopo un momentaneo contatto con la superficie energizzata. Marta ondeggiava qua e là sul sedile girevole accanto al suo amante; Dorthy e Kilczer, nel ristretto spazio alle loro spalle, si reggevano ai corrimano fissati al soffitto. — C'è una cosa che vi devo chiedere — disse Kilczer. — Mentre venivamo qui ho visto una cosa che avrei creduto impossibile: animali simili a una razza estinta di bradipi terrestri. Forse ho preso un abbaglio? — Diavolo, no — rispose Chavez. — Duncan Andrews non te ne ha parlato? — Gli ho fatto qualche domanda, ma ha detto che voi ne sapevate di più. Poi non ho avuto altre opportunità di chiedergli... — Ha cambiato discorso — intervenne Dorthy. — Ha detto che noi non
avevamo ancora visto niente, o qualcosa del genere. — Be', è vero — annuì Marta Ade. Chavez si volse un attimo. — Ci sono moltissimi esemplari di flora e fauna prelevati da dozzine di pianeti, tutti quanti mescolati in un folle ecosistema. Alcuni sono facili da riconoscersi: Terra, Elysium, Rubino, Serenità. Sugli altri è inutile fare ipotesi. I mandriani e i vermi anulati vengono dallo stesso ambiente: un fissatore d'ossigeno che dà una tinta azzurra al sangue, e tessuti ad alto contenuto di metalli pesanti. — E niente da Novaya Rosya? — chiese Kilczer. Dorthy captò in lui un'ansiosa eccitazione, mentre si protendeva sulla spalliera del sedile di Marta. — No, che io sappia — rispose la donna. — Forse nelle altre zone fertili. — Fagli vedere l'elenco, Marta — disse Chavez. Lei accese uno schermo sul cruscotto. Intanto che Kilczer leggeva i dati, Dorthy domandò: — Così hanno prelevato una congerie di esemplari per popolare questo pianeta? Ma perché non hanno invece colonizzato la Terra, o Elysium? Un milione di anni fa nessuno li avrebbe ostacolati. Perché prendersi il disturbo di un lavoro di questo genere? Kilczer borbottò: — Questo è ciò che io ho domandato a te, ricordi? E hai detto che lo avresti scoperto. — La mia teoria — disse Marta, — è che il Nemico si sia evoluto nel sistema di una nana rossa, perciò non sopporta una luce più intensa. — Infatti il verme anulato che Andrews ha portato al Campo Zero è risultato ipersensibile agli ultravioletti — disse Kilczer. — Ma ogni pianeta di una nana rossa sarebbe com'era questo prima d'essere planiformato, con una faccia sempre volta verso il sole. Inadatto alla vita. E le luci della torre sono molto brillanti. Rosse, certo, ma di grande intensità. — Allora potrebbe essere una gigante rossa. — Impossibile — disse Dorthy. — Ogni gigante rossa è una stella come il nostro Sole ma uscita dalla sequenza principale, e dunque si è espansa distruggendo ogni pianeta nella sua «fascia della vita». Oppure è una supergigante sul punto di contrarsi in una nana bianca. E le supergiganti non durano abbastanza a lungo da consentire lo sviluppo della vita sui loro eventuali pianeti. — Lei è un'astronoma — disse Kilczer, — perciò non state a discutere. — Allora farei meglio a lasciare a te questo enigma, no? — Marta regalò un sorriso a Dorthy, che glielo restituì. Non le costava nulla, dopotutto.
Seguirono per ore i mandriani e il loro gregge. Dorthy cercò di distrarsi con il suo libro, ma gli scossoni del veicolo rendevano impossibile la lettura. Si sdraiò su una delle dure cuccette, ascoltando distrattamente Kilczer che parlava di ecologia con Chavez e Marta Ade, e scivolò nel sonno. D'un tratto riaprì gli occhi, stordita e con l'acre sapore della fatica in gola. Il motore del cingolato taceva. Era stato questo a svegliarla. Chavez si stava stiracchiando le braccia. Marta studiava uno schermo su cui una telecamera inviava una scena ripresa a una certa distanza da lì, e dopo un poco annunciò che i mandriani sì stavano accampando. S'erano fermati sulla riva di un laghetto, forse per lasciare che i vermi anulati si abbeverassero. — Allora penso che potrei cominciare il mio lavoro — disse Dorthy, con più indifferenza di quel che provava. — Quanto resteranno laggiù? — Forse due ore. O forse venti. — Due ore dovrebbero bastarmi — disse Dorthy. Tolse dalla confezione una pillola del contro-agente che liberava il suo Talento dagli inibitori chimici secreti dall'impianto e la sciolse in un mezzo bicchiere di succo d'arancio non zuccherato. Il distributore del cingolato era più piccolo di quelli del Campo Zero e della tenda di Andrews, e forniva solo poche bevande e un paio di dozzine di cibarie sotto forma di concentrati proteici e purè di verdure. Masticando una tavoletta di concentrato Kilczer osservò Dorthy che prendeva il contro-agente con espressione solenne, come se fosse un'ostia consacrata. La ragazza evitò con fare seccato lo sguardo di lui, non meno solenne, e a sua volta mandò giù un po' di concentrato proteico. Non mangiava da dodici ore. Il tempo le sfuggiva fra le dita a velocità sorprendente in quell'ingannevole e immutabile luce diurna, dove il ritmo biologico risultava sconvolto rispetto a quello della Terra o di Gran Brazil. Sarebbero occorsi venti minuti prima che il Talento si manifestasse, così tornò a distendersi sulla cuccetta, ancora insonnolita. E quando si svegliò di nuovo, con la bocca arida, il suo Talento era in lei, riempiendole la mente di una luce più viva di quella che con gli occhi captava dagli schermi accesi. Poteva sentire i pensieri ordinati di Kilczer, come lastre di ghiaccio che scivolassero in processione su un fiume quieto, mentre preparava i suoi sensori; quelli di Chavez, simili a una calda corrente di argento vivo striata da interruzioni di stanchezza; e l'acuta e lampeggiante intelligenza di Marta Ade. Tre canzoni separate la cui melodia s'intrecciava senza mescolarsi, di nuovo il sapore cacofonico della civiltà da cui Dorthy era fuggita per vivere nei tranquillo silenzio dello spazio.
Anche mentre s'incamminava sul terreno arido verso il lontano scintillio del laghetto, poteva avvenire, come una luce appena oltre il limite del suo campo visivo, le menti umane dietro di lei, e soprattutto quella di Kilczer, che la seguiva con una certa goffaggine portando a tracolla il suo equipaggiamento. Il terriccio lasciò il posto a una distesa di sabbia percorsa da sinuose ondulazioni che dovevano esser state lasciate dall'acqua. Cespi di vegetazione molle e spinosa, e pianticelle dalle foglie fittamente scanalate, spuntavano qua e là, nerastre nella luce porporina. Alcune erano alte fino ai suoi fianchi. Da quale mondo, conosciuto o sconosciuto? Macigni tondeggianti di tutte le dimensioni gettavano un caos di ombre. Si arrampicò lungo una piccola duna di sabbia e nell'immergervi le mani la sentì gelida. Al di là il terreno era completamente spoglio, coperto da uno strato di fango secco. Ora poteva vedere ogni movimento sulla riva del lago, ma era ancora troppo distante per ricevere qualcosa. L'arrivo di Kilczer la distrasse: sfarfallio di percezioni ottiche e il borbottio di una stazione radio fuori sintonia, che lei si sforzò d'ignorare. Senza voltarsi indietro proseguì il cammino di buon passo, e avvertì un senso di vuoto allo stomaco. Non tanto paura quanto anticipazione. Altrettanto accesa era la sua curiosità: si sentiva come una pagina bianca in attesa d'essere riempita, come l'arenaria corrosa dal mare che aveva visto alla sua prima uscita dal Campo Zero, mondata di tutto salvo che della sua essenza intima. Si avvicinò finché il branco dei mandriani e dei loro vermi non fu più un insieme d'ombre fuse l'una nell'altra, e appena poté distinguerne le forme separate rallentò il passo. Il lago era più vasto di quel che le era parso, una chiazza circolare d'acqua stagnante nella cornice più chiara del terreno spoglio, sul quale i vermi anulati, un centinaio almeno, strisciavano in direzioni diverse come enormi dita mozze, in un ritmico e osceno sussultare. Un paio erano immobili e arrotolati su se stessi, forse morti, del tutto ignorati. Più avanti c'era un gruppo di alberi dalla chioma piatta, e nell'ombra sotto di essi una lieve spirale di fumo si levava da un piccolo fuoco. Era lì che, come Marta aveva detto, la femmina e il suo harem di maschi si sarebbero fermati per un po'. Tenendosi bassa Dorthy avanzò ancora di qualche metro, sentendosi più a disagio ad ogni passo ma non ancora davvero preoccupata. Andò a sedersi all'ombra di un cespuglio abbastanza alto, ramificato come una pianta di corallo, e con le gambe incrociate nella posizione del loto, cominciò a
sgombrare la mente da ogni altra cosa. Era un rituale ben preciso: rilassare la muscolatura addominale, distaccarsi pian piano dalle sensazioni fisiche, concentrarsi sul ritmo del respiro e spingere via la superficie argentea su cui poggiava l'adesso-io-qui, la sensazione di tempo-identità-luogo. C'erano molti modi di caricare al massimo e focalizzare il Talento. Alcuni riuscivano a farlo con un minimo di concentrazione, visualizzando un oggetto simbolico o immaginando lo spazio vuoto fra i loro occhi, e quindi usavano il Talento con la facilità con cui avrebbero aperto gli occhi. Altri, come Dorthy, dovevano scendere più profondamente dentro di sé. Lei aveva trovato la pratica del Sessan Amakuki della meditazione Zen più utile di altre tecniche: distaccata dal mondo del bene e del male, con gli occhi aperti ma ciechi, con la sabbia fredda sotto le cosce ma insensibile, senza pensieri nel tuo cuore, sì, nessuno dei suoi pensieri-Dorthy, ma laggiù, laggiù, il fluttuare delle sconosciute forme pensate. Fuori da te, fuori. Non il semplice assorbimento empatico, ma il lento e metodico esame distaccato, laggiù, laggiù verso il samadhi, il punto centrale della purezza indisturbata, il vuoto assoluto dove l'entropia si appiattiva. Non osservando: diventando. Laggiù! Come scintille intorno a un ceppo carbonizzato, ma pigre e lente su uno sfondo di braci: i pensieri dei mandriani. Quasi tutti stavano dormendo; altri giacevano quasi inerti, impregnati di stanchezza eppure spinti da uno stimolo vago e lontano. In alto, uno stormo di stelle. Salire, in alto... C'era qualcosa che la faceva agire, perfetta fusione fra l'atto e la volontà. Più in alto, verso quei refoli di stelle... Le scivolò via mentre cercava di capirlo, era come cercare d'afferrare una corrente d'aria. C'era, non c'era. Più in alto, e le stelle. Più in alto... E d'un tratto Kilczer piombò sulla sua coscienza, affondandole le mani nelle ossa fragili delle spalle, la voce rauca per la rabbia e la paura: — Per favore, smettila! Basta con questa follia! Cosa credi di... — Io... — Dorthy scosse il capo, stordita. Era distesa sul fango secco, e qualcosa di scuro stava strisciando a pochi metri da lei. Uno dei vermi anulati, con le setole che sbucavano fra i segmenti simili a vibrisse oscillanti, le tozze pinne che raspavano il terreno. Ce n'erano altri lì attorno, e l'acqua nera del lago scintillava di riflessi vermigli a pochi metri da lei. Ma come aveva potuto... — Cosa ti è preso per metterti a strisciare verso di loro? — sibilò Kilczer. Si guardava intorno a scatti, sull'orlo del panico. — Vuoi forse che ti
scannino? — Io credevo... mi sembrava di arrampicarmi. No. Volevo... — Ma qualunque cosa fosse era scivolata via da lei, lasciando solo un senso di perdita. Anche il suo Talento stava svanendo. Guardò il bracciale; i numeri neri del display le dissero che era trascorsa un'ora da quando aveva cominciato a sondare i mandriani. Rabbrividì, finalmente spaventata. Mai prima d'allora era scesa così in profondità, dentro qualcosa che l'aveva trascinata lontano da se stessa. Calmati. Calmati. Ritrova il centro. Fece tre respiri, il primo tremante, il secondo più controllato, e trattenne il terzo nei polmoni prima di lasciarlo uscire. La consapevolezza di possedere un corpo tornò, come se vi rifluisse dentro da un'apertura. Aveva i muscoli delle braccia e delle gambe indolenziti, e una gran sete. Si accorse di avere le labbra incrostate di sabbia. — Andiamocene da qui — ringhiò sottovoce Kilczer. — Dobbiamo strisciare indietro. Lentamente. Non voglio dovermi mettere a correre e lasciarti indietro. — Sulla riva del lago un verme sollevò l'estremità anteriore e la riabbassò nell'acqua. Lente onde circolari si allargarono sul liquido stagnante. Dorthy disse: — I mandriani hanno qualcosa che li spinge. Una necessità. Un impulso a salire. Qualcosa che riguarda le stelle o le luci della torre. La vedono, anche se vagamente. — Me lo dirai dopo. Ora torniamo indietro. — Le forme dei pensieri di lui vibravano e si contraevano, roteando come iceberg in fusione sul fiume caldo della sua paura. Dorthy, anche lei spaventata, si affrettò ad annuire. Arrancarono verso i cespugli dove Kilczer aveva lasciato il suo equipaggiamento. Dopo cinque minuti, a metà strada, Dorthy fu colta da crampi alle gambe e dovette fermarsi a massaggiare la muscolatura irrigidita. Disteso sul terreno accanto a lei Kilczer guardò stancamente il fumo che si levava fra gli alberi ormai lontani. Lei gli chiese: — Le tue apparecchiature hanno registrato qualcosa? — Ci vorrà un bel po' di tempo per saperlo. Non hanno un input come il tuo. Dovrò cercare dei dati di base, e fare ipotesi. — Questo è anche un mio problema. — Allora, sappiamo se loro sono il Nemico, o no? — Se lo sono, lo nascondono molto bene. O hanno fatto molti passi indietro sulla via dell'evoluzione. Una cosa è certa: non sono assolutamente simili a ciò che ho captato nella capsula di caduta. Tutto quello che ricevevo era un impulso, una necessità. Non l'ho capita bene. Non la necessità, intendo, ma il motivo per cui era lì. — Piegò la gamba destra e la raddriz-
zò. — Ora posso muovermi. Quando raggiunsero i cespugli Kilczer riunì i componenti della sua attrezzatura. — E non hai ricevuto altro? Voglio dire, dal modo in cui agivi dev'esserci stato qualcosa di più. — Richiuse le fibbie del contenitore di plastica e si alzò, mettendosi la cinghia a tracolla. — Limitiamoci a camminare, a meno che non comincino a correrci dietro. Dorthy si volse e fu sorpresa dalla distanza che avevano percorso. — Non lo faranno — disse. — Questa è una cosa che hai appreso dal tuo sondaggio? Lei sospirò, poi s'incamminò dietro di lui aggirando le piccole dune di sabbia verso il cingolato. Accanto al quale, vide poco dopo, era stata gonfiata la cupola arancione di una tenda. Sentiva il contraccolpo di torpore e pesantezza che scendeva sempre in lei dopo l'uso del Talento: il risultato di un ridotto livello di serotonina, ma sapere cos'era non la aiutava affatto. — Non so — mormorò. — C'era qualcosa, ma non so cosa fosse. — L'impulso a salire? Li hai sondati per un'ora e questo è tutto ciò che hai trovato? Dorthy si fermò, e attese che lui si voltasse a guardarla. — Ascoltami bene — disse. — Non l'ho chiesto io di venire qui, cosa che sono costretta a ricordare continuamente a tutti, a quanto pare. Ho tentato una volta, e questo non significa che se ci riproverò sarà un fallimento. Forse mi sono sforzata troppo su un solo stimolo e ci sono stata trascinata dentro. Questo può succedere, a volte. Ora che so cosa mi aspetta, potrò ottenere di più. — Riprese il cammino e accelerò il passo distanziandolo volutamente, per non dargli la possibilità di replicare. Era irritata, adesso, irritata con Kilczer, irritata per il suo fallimento. E dietro quella rabbia c'era la larvata convinzione che se non avesse scoperto nulla non l'avrebbero mai lasciata tornare alla tranquillità del suo lavoro. La Marina, e Duncan Andrews, erano stati diabolicamente vaghi su ciò che volevano da lei, ma era certo di più che gli oscuri desideri dei mandriani. Una volta le era accaduto di restare sola per alcuni giorni su un'isoletta della Grande Barriera Corallina, dopo che la sua barca aveva avuto un guasto, e ogni puntolino all'orizzonte era stato una promessa capace soltanto di generare una frustrazione ancora maggiore. Era la stessa cosa che provava ora, mentre precedeva Kilczer verso l'accampamento. Dentro la tenda-cupola Chavez e Marta Ade stavano sistemando il loro equipaggiamento su scaffali pieghevoli; attorno erano sparsi altri oggetti, materassini gonfiabili e il distributore. Quando Dorthy, odorosa di gas ste-
rilizzante, aprì il portello della camera stagna, Marta la guardò e sbatté le palpebre. — Oh, cara! Qualcosa è andato male? — Sì — disse lei. — È andato male. — Si lasciò cadere su una poltroncina gonfiabile, che sobbalzò sotto il suo peso. — Vi ho tenuti sotto osservazione per un po', ma stavate lì senza muovervi e alla fine temo di essermi annoiata. Dov'è Arcady? — Sta arrivando con la sua roba. — Ah! — disse Marta, intuendo che era successo qualcosa ma senza saper bene come prendere Dorthy; aveva un po' paura di lei, del suo Talento. — Non avevo capito che volevate montare il campo qui — disse Dorthy. — E se i mandriani se ne andassero? Dall'altra parte del locale circolare Chavez alzò lo sguardo dal microscopio che stava montando. — Possiamo sempre raggiungerli. Non si spostano in fretta, e lasciano tracce chiare. Comunque noi dobbiamo riposare, ogni tanto, e rimetterci in pari col programma. Io metto sempre una dozzina di trappole per la fauna più piccola e sfuggente. Magari più tardi potrai darmi una mano, se avrai voglia. — No, ti ringrazio — sospirò lei. Aveva bisogno di restare sola, ma lì in quella zona avrebbe avuto paura. Vide la luce rossa sul portello della camera stagna diventare verde. Kilczer era arrivato. — Be', non importa — disse Chavez. — Pensi di tornare là e riprovarci? — Jon — lo rimproverò dolcemente Marta, — non vedi che è sfinita? Kilczer entrò, tossendo. — Staremo qui per molto? — chiese, guardandosi intorno. — Il tempo di farci un buon sonno, almeno — rispose Chavez. — Allora lavorerò sulla mia attrezzatura. Forse ha registrato qualcosa, spero. Dorthy notò che Marta e Chavez si scambiavano un'occhiata, ma nessuno di loro fece commenti. Per un'ora rimase seduta, voltando la schiena agli altri e cercando di mettere per iscritto ciò che aveva captato dai mandriani: un paio di pagine registrate su uno schermo fu quanto seppe mettere insieme. Dall'altra parte della tenda Kilczer era chino sulla sua attrezzatura; Marta Ade guardava un monitor collegato ai sensori ottici che le davano riprese ravvicinate del boschetto in cui sostavano i mandriani. Accanto a lei Chavez stava dissezionando la carcassa di un piccolo animale e borbottava le sue osservazioni in un microfono, alzandosi ogni tanto per mettere sotto il microscopio una sottilissima fetta di questo o quel tessuto. Quando ebbe finito, Dorthy scoprì che senza la distrazione del lavoro, i
barbagli delle emozioni degli altri, ultimi sussulti del suo Talento, le urtavano i nervi. Infine chiese: — Dove posso stendermi a dormire? — Uh? — Chavez alzò gli occhi dalle viscere in cui stava frugando. — Oh, meglio che tu vada nel cingolato. Ci sono due cuccette, per te e per Arcady. Ti va bene? — No — disse lei. — Non va bene. — Accorgendosi che tutti e tre s'erano voltati a guardarla provò un misto di rabbia e di imbarazzo. — Tu lo sai che devo dormire da sola, specialmente dopo aver usato il Talento — disse a Kilczer. — Continuo a ricevere, nel sonno. Perché non dormi qui? C'è un sacco di spazio. Io ho bisogno di stare sola. — La solitudine è un lusso, qui. Marta Ade gettò uno sguardo al suo amante e disse: — Comunque, io lavorerò fino a tardi. Questi mandriani non hanno nessun senso del tempo... credo di avervene già parlato, no? — All'altro campo sei pur riuscita a dormire — osservò Kilczer. — Quando c'era un'altra sola persona, e quando non avevo appena usato il Talento. — Dorthy sapeva che lui la giudicava testarda e irragionevole, e forse non a torto, ma, chiusa nella fredda armatura della sua rabbia, questo non le importò. — Se voglio ottenere qualche risultato devo riposare. Da sola. — E pensi che lo otterrai, riprovandoci? — chiese Kilczer. — Tu cos'hai ottenuto, con il tuo macchinario? — ritorse lei. — Ammetto di aver bisogno di un po' di tempo. Senza un grafico di base è difficile. L'attività neurale è bassa, perciò direi che stavano dormendo, anche se nessuno emetteva onde alfa. Candidati ben miseri al titolo di «Nemico», direi. Queste vaghe aspirazioni alle stelle o ad arrampicarsi sulle montagne non sono abbastanza. — Guarda — disse Dorthy, — che gli animali non hanno aspirazioni o progetti. Perciò questo è qualcosa. — No, no — Kilczer strinse i denti. — Può essere semplicemente l'impulso a emigrare. Leggi nella mente di uno zithza o di una farfalla monarca, se non ci credi! Marta Ade li guardò entrambi, scosse il capo e tornò a dedicarsi ai suoi monitor, da cui la luce rossa del mondo esterno le fiottava sul volto, rotondo e piacente. Kilczer fece un profondo respiro. — Dottoressa Yoshida, noi dobbiamo dimostrare che questi mandriani sono solo animali di una certa intelligenza, oppure i discendenti degli esseri che hanno planiformato questo piane-
ta. E dobbiamo farlo alla svelta, d'accordo? Ci sono più di cento persone quaggiù, e oltre mille in orbita. Ognuno corre un pericolo mortale se il Nemico è qui, magari nascosto, come le tue percezioni sembrano suggerire. Così dobbiamo scoprire dov'è, o almeno cosa gli è successo. Oggi non abbiamo trovato nulla, così dopo un buon sonno ci proveremo ancora. E se non sapremo niente, io per me stabilirò che non c'è niente da sapere e che stiamo sprecando tempo. Così mettiamoci a dormire, e poi torneremo fuori. D'accordo? Dorthy si alzò. — Questo non è ciò che mi è stato detto di... — cominciò, e sentì lacrime di stanchezza offuscarle lo sguardo. — Ci proverò ancora — disse. — Dopo che avrò dormito. — Aveva un groppo in gola. Deglutì, deglutì ancora, poi si volse in fretta verso l'uscita per timore che Kilczer o uno dei «gemelli» vedesse il pianto nei suoi occhi. Mentre apriva il sottile battente flessibile, sentì dietro di sé la voce di Kilczer: — Siamo tutti stanchi. Un centinaio? Dovrebbero esserci diecimila persone a portare avanti il lavoro, quaggiù. Cerca di riposare, dottoressa Yoshida. Arcady se ne starà qui e non disturberà i tuoi sogni, stavolta. Va bene? Dorthy capì che voleva essere gentile. Annuì soltanto, non fidandosi della propria voce, e prima che lui le dicesse qualcos'altro entrò nella camera stagna e chiuse il portello dietro di sé. Fuggendo. A svegliarla fu Marta Ade. — Coraggio, mia cara — disse la donna, mentre lei sbadigliava insonnolita. — Sbrigati, per favore. Dobbiamo muoverci. Il gruppo ci sta lasciando indietro. — Senza aspettare risposta uscì dal veicolo, chiudendo rumorosamente il portello dietro di sé. Quando Dorthy si fu vestita, vide che Kilczer e Chavez avevano sgonfiato la tenda a bolla e la stavano arrotolando sul terreno arido e irregolare. Aiutò Marta a imballare l'equipaggiamento, quindi entrambe sollevarono il distributore e lo rimontarono nell'abitacolo. Da lì a quindici minuti il cingolato era in movimento sulla pista che i voraci vermi anulati si lasciavano dietro, e mezzora dopo la polvere sollevata dal gregge era in vista. Altri dieci minuti e il veicolo dovette rallentare per non sorpassarli. Nelle trenta ore successive i mandriani non si fermarono un istante. I quattro dovettero darsi il turno al volante. A Dorthy questo non dispiacque affatto; lottando per tenere sotto controllo il goffo ma poderoso veicolo attraverso stagni in secca e pendii ghiaiosi si sentiva tutt'uno con esso, a contatto con ogni angolo della sua carrozzeria trapezoidale, dal mo-
tore alle massicce sospensioni dei cingoli, e non sentiva più le noiose emanazioni empatiche degli altri. Quando non era il suo turno, si sdraiava su una delle cuccette oppure sedeva sulla poltroncina girevole accanto al conducente; guardava il monotono panorama scorrere via, incapace di leggere, poco desiderosa di parlare, annoiata dal colore malaticcio che quel sole sanguigno spandeva su ogni particolare del territorio. Una volta si fermarono per dormire qualche ora senza l'incubo degli scossoni, Marta e Chavez fuori dal veicolo, lei e Kilczer sulle cuccette interne; troppo stanca per lamentarsi di quella sistemazione, Dorthy scoprì d'essere anche troppo stanca perché gliene importasse qualcosa. Poi furono di nuovo in movimento, con alla destra i lontani picchi dell'orlo del cratere immersi nelle nuvole rosate, e su altri due lati la pianura violacea che si estendeva fino all'orizzonte. Una volta oltrepassarono a breve distanza un branco di antilopi alte e robuste, e Chavez disse che erano originarie di Rubino. Più avanti, un animale grosso il triplo del cingolato, fornito di un collare di scaglie e di una coda massiccia, si portò sul loro percorso con fare ostile e Kilczer fu costretto a sterzare bruscamente. Il veicolo penetrò in un folto di cespugli e proseguì in un caos di rami schiantati per qualche centinaio di metri prima di tornare sulla pista. — Un glifodonte — disse a Dorthy, che sedeva al suo fianco sul davanti. — Una specie terrestre, estinta da un pezzo. Sul retro, aggrappato al bordo di una cuccetta, Chavez commentò: — Sembra che il Nemico abbia prelevato la flora dal Circolo Polare Artico, e la fauna dal Sud America. Chissà perché, eh? — Comunque, se i glifodonti non hanno il buonsenso di togliersi di mezzo davanti ai veicoli, capisco perché si sono estinti — brontolò Kilczer. — Noi abbiamo visto dei megateri. Tutti gli animali portati qui sono erbivori? — Senza dubbio — disse Chavez. — In questa zona fertile ci sono forse ventimila mandriani, ognuno delle dimensioni di un piccolo leone, dunque un bel po' di carnivori da nutrire. Anche con i loro vermi, la competizione con un'altra specie di predatori li danneggerebbe. Marta aggiunse: — In quanto al perché vadano a caccia di altri animali quando hanno i vermi, o al perché tengano i vermi mentre potrebbero limitarsi alla caccia, non lo sappiamo. Qui abbiamo appena grattato la superficie. Quando Marta Ade non era al volante, stava incollata a uno dei suoi monitor. Le telecamere inquadravano automaticamente tutto ciò che avesse
una temperatura diversa da quella del suolo e della vegetazione, e poche ore dopo l'incontro con il glifodonte rivelarono la presenza di un altro gruppo di mandriani, che andavano a caccia. I quattro decisero di fermarsi e si riunirono davanti al monitor, lieti d'interrompere la monotonia del viaggio. Tre dei mandriani erano riusciti a rovesciare al suolo un'antilope, e ora la stavano macellando con asce di pietra molto allungate, simili a scalpelli. La sfortunata creatura era ancora viva, e sbuffava penosamente scossa da tremiti convulsi mentre i bipedi dal pelame nero, con i cappucci di pelle grezza oscillanti intorno ai musi oblunghi, le strappavano via strisce di carne dai quarti posteriori. Alla fine i tre buttarono via le asce di pietra, si caricarono sulle spalle i pezzi scelti e galopparono via verso il loro branco distante un paio di chilometri. S'erano appena allontanati quando il terreno intorno alla carcassa dell'antilope parve prendere vita: dozzine di quadrupedi coperti di scaglie e grossi come lupi, forniti di zampe simili a quelle delle lucertole, sbucarono da ogni masso e fenditura per gettarsi sui resti sanguinolenti. — Per tutti i demoni! — mormorò Kilczer, mentre il terreno veniva ripulito anche dalle ossa dell'erbivoro. — Non mi azzarderò più a camminare disarmato là fuori. — Quelle bestie divorano soltanto gli animali già morti — disse Marta. — O almeno, così crediamo — aggiunse Chavez, riaccendendo il motore. Mentre il cingolato riprendeva a muoversi, Dorthy distolse lo sguardo dal monitor e osservò il territorio al di là del parabrezza. Il gregge di vermi era una linea scura velata di polvere, in distanza. Animali, pensò, rivedendo con gli occhi della mente la scena bestiale della macellazione. Animali. Le tracce lasciate dal gregge di vermi risalivano verso le prime colline boscose. La vegetazione si fece più folta, non ancora lussureggiante ma se non altro meno stenta. Il cingolato cominciò a salire e scendere lungo percorsi di fiumicelli in secca. Non c'era polvere a offuscare la vista del branco; il terreno appariva sempre più umido. Poi ci fu una lunga distesa di pianticelle verdi dai lunghi steli che ondeggiavano al vento. Queste i vermi non le avevano mangiate, limitandosi a schiacciarle con il loro passaggio. Il veicolo ne seguì le impronte. D'un tratto Marta Ade, che era al volante, spense i motori. Davanti a loro si stendeva un grande lago asciutto, ettari ed ettari di fan-
go color ocra che ragnatele di crepe dividevano in larghe mattonelle. Qua e là assembramenti di macigni sormontati d'erbe, che con l'acqua sarebbero stati isole, si levavano dalla fanghiglia come vascelli sorpresi dalla bassa marea. Poco più a nord il letto del lago era chiuso da alcune collinette spaccate da un ampio canyon, dalla cui bocca scendeva un pendio di ghiaia. Nella direzione opposta, a un chilometro da lì, erano visibili i mandriani e i loro vermi, riuniti presso una delle isolette. Marta Ade li scrutò per un poco con un binocolo, poi annunciò: — Si sono fermati. Voi cosa suggerite di fare? Chavez, appoggiato allo schienale del sedile di lei, si sporse avanti per guardare dal finestrino. — Abbiamo bisogno di riposo, direi — rispose. — E mi piacerebbe mettere qualche trappola. D'altra parte dobbiamo cominciare a pensare al ritorno, se vogliamo rispettare l'appuntamento con Andrews. — Sono d'accordo — disse Kilczer, alle spalle di Dorthy. — Ma voglio un'altra possibilità con i mandriani. Tu che ne pensi, dottoressa Yoshida? — Come credi. — Dorthy non si preoccupò di nascondergli la sua indifferenza. Sapeva che un altro tentativo avrebbe confermato quel che Andrews voleva sapere, e cioè che i mandriani non avevano abbastanza intelligenza da poter essere il Nemico. Per mettere il campo scelsero una delle isolette rocciose, nel caso che i mandriani si fossero mostrati aggressivi. Agganciarono il cavo d'acciaio dell'argano alla sommità di una scarpata in forte pendenza, quindi il cingolato si tirò su lungo di esso. Furono Chavez e Marta a fare tutto, senza sforzo e coordinando il loro lavoro a cenni e occhiate. Lui s'era spogliato fino alla cintura, e Dorthy suppose che se i gemelli fossero stati soli anche la donna avrebbe fatto lo stesso. Mentre Kilczer srotolava la tenda su un tratto di terreno liscio, Dorthy s'incamminò verso il bordo dell'isoletta, salì su un largo macigno e guardò i mandriani con il binocolo che aveva chiesto a Marta. Al di là di essi vide la striscia bianca di una lontana nuvola di polvere dall'aria sospetta; regolò le lenti e riuscì a distinguere le forme in movimento all'interno di essa. Quando tornò, i compagni stavano scaricando il solito equipaggiamento. — C'è un altro branco che si avvicina — riferì loro. — Forse più grosso di quello che abbiamo seguito. Marta Ade si fece dare il binocolo e andò a vedere, seguita da Dorthy, Kilczer e Chavez. — È un gruppo molto numeroso — confermò, continuando a regolare il fuoco. I suoi gomiti andavano su e giù come ali. —
Potrebbe essere più di un gruppo, anche se non li ho mai visti unirsi prima d'ora. — Cosa succederà quando raggiungeranno il nostro gruppo? — chiese Kilczer. Marta si strinse nelle spalle. — Non lo so. Credevo che ognuno si tenesse nel suo territorio. Oh, be', ogni giorno se ne impara una. — Porse il binocolo a Chavez. — Dai tu un'occhiata. Io metto in posizione le telecamere. — Si allontanò verso il cingolato. Quando terminarono di montare il campo, i mandriani s'erano riuniti sul letto del lago asciutto. I nuovi venuti, disse Marta studiandoli sul monitor, erano tre gruppi diversi, ciascuno con il suo gregge di vermi. Chavez le aveva portato mezza dozzina di tavolette di concentrato e lei ne addentò una, continuando a fornire commenti e ipotesi ai compagni che mettevano ordine nella tenda a cupola. Sentendosi troppo rinchiusa, Dorthy uscì e s'incamminò lungo il perimetro dell'isoletta, scalciando le radici marce che sbucavano sotto la linea raggiunta dalle acque, poi tornò ad arrampicarsi sul macigno e guardò verso i greggi di vermi anulati, una chiazza biancastra sullo sfondo del fango giallo-viola. Infine scese stancamente (negli ultimi due giorni aveva dormito appena sei ore) e tornò alla tenda per sentire le ultime novità e sapere se poteva tentare di nuovo con il suo Talento. — Si stanno accampando tutti — le disse Marta. — Quattro gruppi separati, ciascuno all'angolo di un quadrato con l'isoletta nel centro. — Guardando da sopra una sua spalla Dorthy vide una dozzina di forme scure distese intorno alle fiamme arancioni di un falò velato di fumo. — I gruppi di mandriani non si uniscono — continuò Marta, — ma hanno fatto un solo gregge di tutti i vermi, come se la loro proprietà non gli importasse. Questo non ha senso. Non ho ancora visto la minima interazione fra i membri dei quattro gruppi. Kilczer, sprofondato in una poltrona gonfiabile, disse: — Possiamo fidarci a uscire, adesso? Marta si grattò una tempia. — Non lo consiglio. Metà dei maschi si sono messi in caccia, e non vedo come potreste nascondervi, là fuori. È tutto terreno aperto. Ma se volete rischiare d'essere divorati, andate pure. — Nei punti dove li si può avvicinare, quelli dormono — borbottò Kilczer. — E ora che sono svegli, bisogna stargli alla larga. — La vita è dura — lo informò Chavez, infilando un'altra sezione di tessuto sotto il microscopio.
— Aspetteremo di vedere se ci danno una possibilità — decise Kilczer. — Io cercherò di dormire un poco — gli disse Dorthy, e uscì di nuovo. Il cingolato era posteggiato obliquamente su un pendio sabbioso, i lucidi fianchi metallici quasi privi di riflessi in quel perpetuo crepuscolo. Avvicinandosi Dorthy sentì la frustrazione che affondava come un sasso nella scura polla della sua stanchezza. Aprì il portello della camera stagna sul retro del veicolo, sopportò il gas sterilizzante, poi entrò dal portello interno e passò nello stretto spazio fra gli arcaici motori a scoppio. La luce rossastra fiottava attraverso i finestrini. Trovò l'interruttore che polarizzava i vetri, si sfilò gli stivali nel debole chiarore delle luci della strumentazione e si gettò su una cuccetta. Fu svegliata dalla percezione della vicinanza di Kilczer, e qualche istante dopo sentì lo scatto del portello interno. Restò abbracciata al cuscino e finse di dormire, mentre l'uomo entrava portando con sé l'odore del gas sterilizzante. Non accese nessuna luce. Lei lo sentì sdraiarsi sull'altra cuccetta (così vicino che avrebbe potuto toccarlo allungando una mano) e avvertì il miscuglio di delusione e di stanchezza che emanava dalla mente di lui, una marea nera da cui anche la sua fu invasa e sommersa. Di nuovo si addormentò, e sognò (o era il sogno di Kilczer) una vasta pianura sotto un cielo notturno senza stelle, velato da luminosi stendardi congelati sullo sfondo dei quali sì stava levando un'immensa luna piena, color magenta e piena di chiazze. Gettando indietro il cappuccio di pelle lei alzò la testa, e ululò a lungo e acutamente; poi si mosse fra i fitti cespugli dalle foglie nere, col loro sentore di rame che le riempiva le narici ma non scacciava il sapore salato della sua preghiera, e corse avanti lungo un sentiero che serpeggiava nel buio... e d'un tratto stava arrancando su per una grande torre in rovina, una grande rampa di scale che spiraleggiava in alto fra pareti corrose. I suoi artigli ticchettavano sulla pietra fredda e antica. Alle sue spalle, benché non potesse voltarsi a guardare, c'era qualcos'altro che stava salendo. Più in alto avrebbe trovato la salvezza, ma mentre si inerpicava la cosa la raggiunse, e la sua grande ombra si stagliò sui muro ricurvo. Poi, senza sapere come, fu in cima alla torre, aggrappata alla pietra umida e con il vento che le ululava sulla faccia, dinnanzi a un cielo vuoto in cui brillava un'unica stella, una lucciola solitaria che d'improvviso diventò un fuoco, un lampo, un raggio che inchiodava ai suolo la sua ombra mescolandola con l'ombra della cosa. Si volse proprio mentre il vento squarciava la torre, e allora roteò e precipitò nel cielo. E fu sveglia.
Il cingolato s'inclinò ancora di più, con un gemito di protesta delle sospensioni. Dorthy si aggrappò al bordo della cuccetta e sentì un'altra scossa. Qualcosa sbatté nel parabrezza. Il cristallo antiurto s'irretì di crepe, poi un altro colpo lo fece esplodere all'interno: schegge che grandinavano ovunque, aria fredda, acre odore di aldeide. Kilczer mise i piedi sul pavimento proprio mentre il veicolo oscillava ancora, e per non cadere addosso a Dorthy dovette gettarsi di lato; nello stesso momento lei perse la presa e la sua nuca sbatté duramente nella parete esterna. Emise un gemito, stordita dal colpo. — Resta dove sei! — urlò Kilczer con voce rauca. — Io esco a cercare... Ma proprio allora il cavo dell'argano che ormeggiava il cingolato sul pendio cedette. Il veicolo scivolò giù di traverso, sbatté la poppa contro un macigno e la lamiera si squarciò. Uno dei serbatoi di carburante esplose con un ruggito, e le fiamme avvolsero i motori e il portello. Kilczer afferrò Dorthy per un braccio e la tirò in piedi. — Ce la faccio da sola — ansimò lei. Si chinò a cercare gli stivali e li infilò, poi barcollò avanti verso i sedili, calpestando pezzi di vetro e oggetti sparsi. Kilczer usò un gomito per spezzare le schegge acuminate del parabrezza rimaste nell'intelaiatura. La cabina era già piena di fumo nero e irrespirabile, che li avvolgeva. Al di fuori c'erano forme scure che si allontanavano lentamente, balzando fra le rocce del terreno polveroso. Kilczer salì sulla consolle dei comandi, cercò un punto d'appoggio e tirò su anche Dorthy, ma nell'uscire dal parabrezza la ragazza gli cadde addosso e rotolarono entrambi fra i sassi. Qualcosa di massiccio passò a mezzo metro dalla faccia di Dorthy, scagliandole una nuvola di polvere negli occhi. Kilczer si tirò in piedi e si appoggiò al muso ammaccato del veicolo, tossendo per il fumo che usciva dall'apertura del parabrezza e si disperdeva nel vento. Stordita, Dorthy rimase rannicchiata ai suoi piedi e guardò come senza vederli i vermi anulati che li oltrepassavano sui due lati, sussultando, agitando qua e là il loro segmento anteriore, alcuni arrampicandosi addosso ai compagni per poi ricadere da parte e strisciare via. — La tenda! Non la vedo più! — Kilczer fece per muoversi ma gli animali che si accalcavano attorno erano troppi. — Santo cielo, ma cosa... Il veicolo oscillò ancora e scivolò di un altro paio di metri per il pendio, mentre alcuni vermi cercavano di oltrepassarlo salendovi sopra. Uno di essi nel contorcersi colpì Dorthy, facendola rotolare al suolo. Kilczer la prese per il colletto della tuta e la aiutò a rialzarsi; con le gambe che le si piegavano lei fu grata di quel sostegno. Poggiò la schiena alla carrozzeria del
cingolato e sentì il calore del metallo. I vermi anulati continuavano a passare, urtando in ogni ostacolo e scivolando giù per il pendio dietro ai loro compagni già scesi sul fango del lago asciutto. Il fumo stava oscurando anche l'immenso disco del sole. — Dobbiamo allontanarci! — gridò Kilczer. — Ci sono gli altri serbatoi di carburante, e possono esplodere da un momento all'altro. Aggrappati a me! — La cinse con un braccio e vacillarono avanti, evitando per poco un verme anulato e fermandosi per lasciarne passare un altro. Poi la spinse su per le rocce e Dorthy annaspò in cerca di una presa, col fiato mozzo per il fumo, la debolezza e l'odore acre che il gregge di vermi spandeva nell'aria fredda, riuscendo infine a trascinarsi al riparo di uno spunzone. Kilczer si arrampicò dietro di lei e la incitò a proseguire, un po' spingendola e un po' tirandosela dietro. La ragazza arrancò verso l'alto sulle mani e sulle ginocchia, strappandosi la tuta in più punti fra i cespugli e i sassi acuminati, finché furono entrambi in cima alle rocce. Una trentina di metri più in basso gli ultimi vermi anulati stavano aggirando il cingolato che continuava a emettere turbini di fumo. Al fianco di lei, Kilczer ricominciò a tossire, premendosi una mano sul petto. Infine riuscì a dire: — Mi sembra un incubo. Vedi i gemelli, da qualche parte? Ubbidiente Dorthy sollevò la testa e si guardò attorno, ma la vista le si confuse subito e fu sul punto di afflosciarsi. Sentì una mano di lui su una spalla. — Sto bene — disse debolmente, scossa da un tremito. — Hai battuto la testa, là dentro. Commozione cerebrale, forse. Rimani distesa. Non c'è nulla che possiamo fare. — Stavo dormendo — mormorò Dorthy, come una spiegazione per il caos che avevano attorno. — Tu e il tuo dannato Talento — disse Kilczer. — Puoi usarlo per cercare i gemelli? Ma tutto ciò che Dorthy riusciva a percepire era la paura e la disperazione che emanavano dalla mente di lui. Kilczer strisciò sulle mani e sulle ginocchia sul bordo della roccia su cui erano saliti. — Guarda che sfacelo! — ringhiò. — Ma quanti vermi ci sono ancora? — Poi scosse il capo. — La tenda sembra scomparsa. Vedo solo dei vermi, laggiù. Il branco di vermi anulati stava ancora scendendo lungo il pendio, dieci minuti dopo, quando gli altri serbatoi del cingolato esplosero in una serie di schianti che fecero piovere scintille di fiamma fra le rocce e i cespugli. I vermi anulati che erano già sul letto del lago asciutto continuarono ad al-
lontanarsi come se nulla fosse accaduto; intorno ai resti del veicolo le carcasse sventrate di quelli uccisi dallo scoppio furono calpestate dai compagni che proseguivano ciecamente. — Non ce ne sono rimasti molti — disse Kilczer. — Almeno, spero. Sotto la cappa di stordimento che ancora le avvolgeva i sensi, Dorthy sentì gonfiarsi una paura più lucida, la consapevolezza della loro situazione. Si strinse le braccia al petto e, appoggiata a una roccia, guardò le forme striscianti che passavano più in basso. Da lì a poco quelli che dovevano essere gli ultimi aggirarono il rottame del cingolato e nella zona ogni movimento cessò. Kilczer raccomandò alla ragazza di non muoversi da lì e scese, scomparendo fra i macigni. Rimase assente per quasi un'ora. Dorthy era infreddolita, ma non avrebbe avuto comunque la forza di muoversi. Il colpo alla testa le ottenebrava la volontà. Il tempo non passava: semplicemente era. Poi sentì un rumore di passi, e Kilczer ricomparve annaspando su per un percorso più agevole. Aveva un fucile a tracolla, e s'era appeso alla cintura un sacco improvvisato con un lembo di plastica arancione, strappata dalla tenda, dentro il quale aveva messo parecchi oggetti. — I gemelli — disse Dorthy. — Hai visto dove... — Ho trovato Marta, e l'ho sepolta. Di Chavez non c'è traccia, ma se è riuscito a fuggire ed è vivo sono certo che tornerà a cercarla presto. L'attrezzatura che stava nella tenda è più o meno inservibile. Anche la radio. E non c'è molto da mangiare. Tu come stai? Dorthy stava pensando al suo libro. Se lo teneva caro da molto tempo e adesso era andato, una perdita che per qualche assurdo motivo la colpiva più della morte dei gemelli, e che le faceva apparire finalmente reale quella tragedia. — Posso camminare — disse. — Farò del mio meglio. — Camminare? E per andare dove? No, meglio aspettare qui. Forse Chavez... — Chavez è morto, Kilczer. Siamo soli, affronta questo fatto, e non possiamo restare qui senza rifornimenti. Non c'è acqua, né cibo. Dobbiamo andarcene e fare il possibile per arrivare al lago, all'accampamento di Andrews. — Andrews verrà a cercarci — disse Kilczer, ma dal suo tono era chiaro che non ci credeva neppure lui. — Lo so, ci proverà. Ma potrebbe non trovarci mai. Siamo a più di cento chilometri dal luogo dove avevamo appuntamento, e lui non sa in che direzione siamo andati.
— Non dire altro — borbottò Kilczer, passandosi una mano sulla faccia. — Sfortunatamente hai ragione. Incamminarci a piedi in questo territorio è l'ultima cosa che vorrei fare, ma suppongo che non ci resti altra scelta. I vermi anulati avevano lasciato una larga traccia nel fango secco e screpolato, risalendo fra i detriti alluvionali e nel canyon che tagliava le collinette tondeggianti. Quando anche Dorthy e Kilczer si furono avventurati per quella gola oltrepassarono un paio di carcasse biancastre, schiacciate e contorte, da cui il sangue ancora fresco era colato in chiazze nere sulla sabbia. — Stanno galoppando via in fretta — commentò Kilczer. — Guarda: non hanno neppure mangiato l'erba, ci sono passati sopra. Dorthy non disse nulla. Provava ancora una strana e remota lucidità, ma si sentiva più forte di quando erano scesi dalle rocce, ore addietro, e la paura aveva già lasciato il posto alla fame e alla sete. Durante una delle loro frequenti soste avevano mangiato un po' della cioccolata che Kilczer era riuscito a recuperare dalla tenda. Il sapore dolce le aveva fatto venir sete, ma adesso era più energica. Masticandone gli ultimi bocconi si mise a sedere su un sasso e raccolse una manciata di sabbia, lasciandosela scorrere fra le dita. I granelli le restarono appiccicati al palmo. Fiocchi di mica. Quarzo. L'enormità del loro isolamento le gravava addosso come un mantello di cui non poteva disfarsi. Malgrado le sue affermazioni baldanzose, l'impresa di arrampicarsi fin sull'altipiano e raggiungere il lago le sembrava impossibile. Attraversare quella terra senza soccombere a una reazione allergica, allo shock istaminico, oppure alla fame o ai pericoli... E tuttavia fra lì e il Campo Zero c'erano cinquecento chilometri di deserto. Non avevano altra strada. Kilczer s'era gettato a sedere un poco più avanti. Tenne una mano sul calcio del fucile e con l'altra si tolse dalla fronte i capelli scompigliati, gettando occhiate nervose ai versanti delle alture. La sua tuta era già infangata e malridotta. Sembrava teso. — Credo d'essermi riposata abbastanza — disse Dorthy. — Possiamo andare. Lui si alzò lentamente, si coprì la bocca con una mano e tossì, poi sputò sulla sabbia. — Potrei bere fino ad affogare, se in questo dannato fiume fosse rimasta una pozza d'acqua. Dorthy si passò la lingua sulla labbra e le sentì screpolate. — Marta disse qualcosa sui letti dei torrenti in secca e l'acqua nel sottosuolo.
— Là eravamo in pianura. E poi come faremmo a procurarcela? — Scavando con le mani. Avanti, vale la pena di tentare. Si inginocchiò e cominciò a spostare sassi e sabbia, e con un sospiro Kilczer si unì a lei. Scavarono per un quarto d'ora: Kilczer con un coltello per ammorbidire il terreno e lei a mani nude. La fossa, una volta che fu profonda un metro e larga due, rivelò tracce di umidità sul fondo, ma nient'altro. Dorthy si lasciò ricadere all'indietro, massaggiandosi le dita arrossate. — Abbiamo perso tempo — brontolò Kilczer. — Ricordo di aver letto una cosa — disse lei. — Ci sono piante, qui alla base delle colline, che i vermi non hanno strappato via. Vedi? Le loro radici devono assorbire in profondità. — Sicuro. Ma le probabilità di una reazione allergica... — Si ripulì le mani sui pantaloni, chiuse il coltello a serramanico e lo rimise in tasca. — Ma cos'altro potremmo mangiare? Prima o poi dovremo pur assaggiarle. Comunque, una di... Non è stata Marta a dire che le piante sono commestibili? — Proteine aliene, con alta concentrazione metallica. Ma suppongo che se non moriremo avvelenati sarà per un altra ragione. — Questo è lo spirito che ci vuole. Dorthy sradicò una manciata d'erba grassa e morbida. La strinse e il succo le colò fra le dita, ma quando fece per leccarlo Kilczer le bloccò il polso. — Aspetta. Usa questo. — Strappò un pezzo di plastica arancione dal suo sacco, vi avvolse l'erba e poi torse più volte il cartoccio così ottenuto. Il succo colò in abbondanza nella bocca aperta di Dorthy, che lo trovò amaro ma dissetante. Quando non ce ne fu più, Kilczer la interrogò con un'occhiata, quindi gettò via l'erba spremuta e ne prese dell'altra, assaggiando anche lui un po' di succo. — Basta, per ora — disse. — Mettiamoci in marcia. Come ti senti, dottoressa Yoshida? — La guardò in faccia con attenzione. — Le tue pupille sono entrambe della stessa larghezza, così potremmo cominciare a escludere la commozione cerebrale, credo. Cautamente Dorthy si toccò il bernoccolo dietro la nuca. — Starò meglio domani. Avanti, dobbiamo muoverci per non lasciar raffreddare la muscolatura. Camminare sul terreno impervio divenne un procedimento automatico. Dopo un po' Dorthy scoprì che poteva sintonizzare i suoi piedi su quelli di Kilczer, poggiando lo stivale nel punto esatto da cui lui aveva appena tolto il suo. Si riposarono ancora, sempre più di frequente, e ogni volta strizza-
rono altra erba per berne il succo, senza più preoccuparsi della possibile reazione del loro sistema immunitario a quelle proteine sconosciute, consci soltanto della sete e della stanchezza. Il canyon si restrinse, e le pareti si fecero più alte, ma i due continuarono a seguire le tracce lasciate dal gregge di vermi. Era un pezzo che non ne trovavano più qualche carcassa, e Kilczer disse che i più deboli e inadatti a quel percorso collinoso dovevano essere già morti. Nel tenergli dietro Dorthy provava un bizzarro senso di espansione e percepiva i pensieri del compagno, come animali che l'uno dopo l'altro si voltassero a mugolare verso di lei: il grande lago dalle rive boscose che si estendeva fino alle montagne, il corpo devastato di Marta Ade, la folle galoppata dei vermi intorno al cingolato, ancora il lago, l'immagine di una donna nuda che si alzava dal letto nella penombra... Dorthy assorbiva quelle visioni come la carta assorbe l'inchiostro, troppo stanca per pensarci sopra. Aveva dolori in tutti i muscoli delle gambe, e se Kilczer le avesse proposto di riposare si sarebbe lasciata cadere al suolo lì dove si trovava; ma nonostante i suoi grugniti penosi l'uomo marciava tenacemente, e lei rifiutava di mostrarsi da meno, senza capire ancora che quello stoicismo lo stava assorbendo proprio dalla mente di lui. E d'un tratto ci fu qualcos'altro. Fu debole, dapprima, indistinguibile dai frammentati pensieri di Kilczer, ma si faceva più chiaro ad ogni passo. Era una sorta di attenzione sfumata di paura guardinga, esitante, strisciante, che arrivava e svaniva, sempre meglio percepibile. E poi un'immagine: due strane cose bipedi che arrancavano sul fondo di un canalone, distorte e aliene figure fatte di minaccia. Pericolo. Dorthy si fermò, e Kilczer si voltò a interrogarla con lo sguardo. — Qualcuno ci sta spiando — disse lei. Kilczer imbracciò il fucile e girò attorno un'occhiata cauta. — Te lo ha detto il tuo Talento? Dove si trova? — Da qualche più in alto, lassù, e ci osserva. No, aspetta, è... — Dorthy ne individuò la posizione proprio mentre la creatura balzava fuori dall'ombra, in cima a un pendio ghiaioso, e si precipitava in basso a quattro zampe dando il via a una piccola slavina di sassi e terriccio. Dorthy e Kilczer indietreggiarono in fretta, mentre l'essere si alzava sulle zampe posteriori e protendeva quelle anteriori come in atto di supplica. Un paio di arti mediani, come braccia non sviluppate, gli sporgeva dall'addome nero e peloso. Il suo volto allungato era cinto dai bordi flosci di un cappuccio di pelle; le
labbra nerastre si contrassero, scoprendo una chiostra di denti acuminati. Dorthy lo fissò stordita, vuota d'ogni pensiero. Poi la sabbia schizzò in alto a meno di un metro sulla sinistra del mandriano, che girò di scatto su se stesso e corse via sinuosamente, di nuovo su tutte e quattro le zampe, sparendo oltre un assembramento di macigni proprio mentre un'altra pallottola colpiva il punto dov'era stato un istante prima. Dorthy tornò in sé solo nel sentire la mano di Kilczer su un braccio. — L'ho mancato. Mi dispiace — disse lui, e lo intendeva davvero. Il suo volto pallido era imperlato di sudore. — Inseguirlo non servirebbe a niente, visto come corre. — Un mandriano! — Così pare, già. Il caos dei pensieri di lui impedì a Dorthy di localizzare ancora l'essere peloso. — Non credo che volesse farci del male — disse. — Stava cercando di proteggere qualcosa. Kilczer si accigliò. — Suppongo che dovremmo dare un'occhiata lassù. Non dovettero cercare per molto. Sopra il pendio di terreno ghiaioso un'alta spaccatura si apriva nel fianco della collina, e un paio di metri più all'interno c'era una figura racchiusa in quella che si sarebbe detta pelle secca e raggrinzita. Il bozzolo rugoso era alto un buon metro più di Kilczer. Dorthy non riuscì a captare nulla da quella forma enigmatica, neppure la semplice consapevolezza di sé che perfino i più primitivi animali terrestri possedevano. Avrebbe potuto essere una spora, o una pianta. — Che io sia dannato! — esclamò Kilczer, scostandosi i capelli dalla fronte. — Non l'avrei mai creduto. — Sai cos'è? — Posso fare un'ipotesi. Qual è la parola portoghese per la forma mediana fra una larva e l'insetto adulto? — Una crisalide. O una pupa. — A Novaya Rosya abbiamo le api, capisci? Diciamo che ho l'acconto di un'intuizione su ciò che abbiamo davanti, dottoressa Yoshida. — Non ho intenzione di leggerti nella mente per saperlo. Ascolta, quel mandriano potrebbe tornare. Non sarebbe meglio lasciar perdere questa cosa? — Vorrei solo vedere se... — Kilczer aprì il coltello a serramanico e sfiorò il materiale del bozzolo. Sembrava piuttosto duro. Premette, e dall'interno dell'alta crisalide uscì un cicalio secco. Con calma Kilczer ritrasse il coltello, poi lo mosse di nuovo avanti. Non appena la lama sfiorò il boz-
zolo, il cicalio si trasformò d'improvviso in uno stridore che risuonò assordante in quello spazio esiguo. Kilczer indietreggiò di scatto, urtò addosso a Dorthy ed entrambi caddero al suolo fuori dalla fenditura, rotolando poi giù per il pendio su cui erano saliti. Kilczer rimase seduto con le spalle a un macigno, tossendo stancamente. Dorthy si tirò in piedi con cautela, flettendo ogni articolazione per controllarla. Ma non aveva niente di rotto. — Yoi-dore kega sezu! — imprecò. Poi rise nervosamente. — La fortuna degli ubriachi, che non si spaccano mai le ossa. Ma non ci avrebbe fatto del male, pazzo che non sei altro. Kilczer ebbe un sogghigno e si spazzolò la polvere di dosso. — Una reazione difensiva, naturalmente. Be', penso che potremmo andarcene. Ho la sensazione che scopriremo anche altre cose. — Raccolse il sacco, mise il fucile a tracolla e si avviò lungo il canalone. — Coraggio, dottoressa Yoshida. Come hai detto, la babysitter potrebbe tornare da un momento all'altro, e ha già avuto la prova che non sono un asso con il fucile. — È un'arma a pallottole, e tu la usi come fosse un laser. Appoggia il calcio alla spalla per prendere la mira, e premi il grilletto solo quando sei sul bersaglio invece di cercare di tagliarlo in due con un raggio. — Hai già adoperato uno di questi? Dorthy aveva preso parte a un safari una volta, nella Riserva delle Filippine, quando per procurarsi un po' di soldi s'era decisa a prostituire il suo Talento al servizio di un riccone vizioso e nevrotico. — Forse dovresti lasciarlo a me — disse. — Almeno io avrei una possibilità di colpire qualcosa. — Scusa, ma da queste parti mi sento molto meglio se ho in mano un'arma. Comunque terrò presenti i tuoi consigli. Mentre proseguivano Dorthy scoprì d'essere più lucida, risultato dell'adrenalina che il panico le aveva fatto entrare in circolazione. Tentò ancora senza riuscirci di localizzare il mandriano, poi domandò: — Hai intenzione di dirmi quello che ti è venuto in mente? Stai pensando che fosse la crisalide di un verme anulato? O di un mandriano? — Ah, i due interrogativi potrebbero essere uno soltanto. — E tu come rispondi? — Dorthy sbarrò gli occhi. — Non vorrai dire che un mandriano avrebbe... no, è pazzesco! I mandriani mangiano i vermi! — Come il personaggio mitologico di Medea, che scanna i suoi figli. Ma i mandriani ne hanno molti di più. Puoi chiamarlo un metodo per il controllo della popolazione. E spiegherebbe perché non ci siano forme imma-
ture di mandriani nei loro branchi. Oh, aspetta che io lo dica a McCarthy e ad Andrews! — Prima dovremo arrivarci. — Ed è quel che faremo — disse Kilczer. — A costo di strisciare su ogni dannato sasso. — Eri molto ansioso di venire da queste parti. Credevo che la zona fertile ti avrebbe interessato più di quel che sembra. — Io sono uno specialista dell'attività del sistema nervoso, con un addestramento supplementare come tecnico medico. Sulla Terra ho studiato anche biologia, ma non sono uno xenologo. Su Novaya Rosya la gente con un po' di sale in zucca se ne sta in città, o sotto le cupole delle fattorie, e solo i fuorilegge o i pazzoidi come i cacciatori di zithsa girano per le foreste. Volevo venire qui perché era necessario, dato che nessuno si decideva a portare un mandriano al Campo Zero. Ma se avessi saputo che i soli sentieri sono quelli scavati dai torrenti, ci avrei pensato due volte. — Vorrei aver avuto anch'io la possibilità di scegliere — disse Dorthy. Proseguirono il cammino, sulle tracce lasciate dal gregge di vermi fra le alte muraglie di roccia. Il sole occhieggiava enorme e sanguigno sopra l'orlo del canyon, così immobile che sembrava ridersi del trascorrere del tempo. Infine Kilczer, con la lenta cautela di chi non ha più energia, depose il fucile e sedette su un sasso. Dorthy collassò al suo fianco e rimase distesa a lungo, incapace di pensare, limitandosi a trarre lunghi respiri e a lasciar riposare i piedi. Era sicura di avere qualche vescica. I suoi leggeri stivali non erano fatti per quel genere di marcia. Dopo un poco Kilczer si alzò per dare un'occhiata alla zona, fermandosi a tossire ogni tanto. Dorthy rimase seduta e lo guardò andare su per il canyon e poi tornare indietro. — Credo che i mandriani e i loro figli abbiano lasciato lasciato questo percorso, uscendone da quella parte. — Le indicò un pendio di roccia a gradini che saliva fino all'orlo del canyon. Più in alto si scorgevano le chiome scure di alberi che avrebbero potuto essere pini. Dorthy si tolse gli stivali, con una smorfia di dolore. — A che distanza pensi che siano? — Una quindicina di chilometri, direi. Come ti senti? — Non credo di avere una commozione cerebrale, ma in compenso ho tre o quattro vesciche. — Controllò l'orologio; erano trascorse solo dodici ore da quando i vermi avevano distrutto l'accampamento. Dodici ore dalla morte di Marta Ade e Jon Chavez.
Kilczer non s'era seduto e sembrava impaziente di proseguire, tuttavia disse: — Suppongo che possiamo permetterci una sosta. — Dobbiamo stabilire una tabella di marcia, o finiremo come i vermi che abbiamo oltrepassato. Secondo te, quando si fermeranno i mandriani? — Forse mai, finché non saranno alla torre. Sospetto che conoscano la strada più agevole, perciò ci conviene seguire le loro tracce. Be', adesso tu aspetta qui. Io salgo lassù per dare uno sguardo al percorso. Prendi questo. Le consegnò il coltello e si allontanò, prima che lei gli potesse consigliare di non fare bravate inutili. Dietro quell'atteggiamento, Dorthy lo sapeva l'uomo aveva paura della natura selvaggia in cui era stato scaraventato. Come un naufrago, si aggrappava ai pochi relitti della civiltà che le onde avevano gettato a riva con lui, il fucile e gli oggetti contenuti nel suo sacco arancione. Dorthy avrebbe potuto dirgli che sulle tecniche di sopravvivenza ne sapeva più di lui, e che quello era il momento di farsi un buon sonno, ma era troppo stanca. Lo guardò mentre s'inerpicava sul pendio: era lento e prudente, e due volte si fermò, una figuretta scura sullo sfondo della roccia che il sole tingeva di rosso. Quando l'ebbe visto sparire oltre l'orlo, raccolse un po' d'erba grassa e ne strizzò fuori il succo, appena abbastanza da inumidirsi la bocca. Poi si tastò le labbra con un dito, dove sentiva di avere la mucosa irritata e lacera. Una reazione allergica, probabilmente. Be', doveva venire prima o poi, pensò. La stanchezza le impediva ogni sentimento che non fosse la rassegnazione, così si sdraiò sulla sabbia e attese il ritorno di Kilczer. Ma l'uomo sembrava essere andato chissà dove. In lei cominciarono a nascere le peggiori ipotesi: Kilczer s'era imbattuto in un mandriano e ora giaceva da qualche parte ferito e impotente, forse addirittura morto; oppure se ne stava andando per conto suo perché la giudicava un peso inutile. Dopo mezzora quelle paure erano qualcosa di più che semplici ipotesi, e quando infine lo rivide sul pendio, con qualcosa fra le braccia, le venne il batticuore per il sollievo. In quel posto, fra i tanti, la solitudine poteva essere insopportabile. Nella boscaglia sopra il canyon Kilczer aveva raccolto una bracciata di rami secchi da cui spuntavano ciuffi di aghi marroncini. Con l'aiuto di Dorthy li fece a pezzi e quindi pescò dal sacco una batteria catalitica con cui accese il fuoco. Dai rami si alzarono vivaci fiamme gialle, un'immagine familiare e rinfrancante in quel panorama alieno. Kilczer vi poggiò in mezzo una pietra piatta e prese l'altra cosa che aveva portato con sé. Era un animaletto dal corpo allungato e privo di collo, una via di mezzo fra un coniglio e un armadillo, coperto di finissime scaglie che riflettevano la lu-
ce del fuoco. Dorthy si chiese se fosse imparentato con quelli più grossi che avevano visto sbucare dalle loro tane sotterranee nella pianura, intorno alla carcassa dell'antilope. Le zampe anteriori erano infatti robuste e fornite di unghioni adatti a scavare, e non aveva occhi: solo lunghe vibrisse che gli spuntavano intorno al muso. — Ho imbracciato il fucile come mi avevi detto — le riferì Kilczer, fieramente. — Due colpi. — Prese il coltello e cominciò a sventrare la preda. Soltanto allora Dorthy capì le sue intenzioni. — Vuoi mangiare questo animale? — Ci provo. Non possiamo vivere di succo d'erba. — Con un gesto energico gli strappò via la pelle, mettendo allo scoperto i tessuti connettivi umidi e rosati, poi tagliò alcune fette dalla muscolatura più morbida e le mise sulla pietra già calda. Mentre si affaccendava disse: — È probabile che non sia velenoso per noi. Ricordo di averlo visto sul catalogo di Chavez, e so che proviene da Serenità. La biosfera è compatibile con quella terrestre. Niente proteine azotate o ammoniche come nella fauna di Novaya Rosya. Aminoacidi dello stesso genere, complessi molecolari molto simili all'ATP e all'NADPH, zuccheri e acidi su un supporto di fosfati per trasportare le informazioni genetiche. Il nostro animale ha solo quattro zampe. Nelle creature con sei, come i mandriani, ci sono concentrazioni di metalli pesanti nei tessuti e una proteina a base di rame per veicolare l'ossigeno nel sangue, che ha un colore azzurro. Questo invece è rosso, e contiene emoglobina. Ma nella luce smorta del sole il sangue sulle sue mani appariva nero. — Come fai a saperlo? Credevo che nessuno avesse mai ucciso un mandriano. Kilczer mise altre fettine di carne sulla pietra. Le prime stavano cominciando a cuocersi troppo, e le girò. — Creature come i mandriani, ho detto. Chavez ne aveva catalogate una dozzina, tutte più piccole. È per questo che metteva le trappole. E non dimenticare il verme che Andrews ha portato al Campo Zero. — Si girò verso il fuoco e con la punta del coltello sollevò una fetta di carne; ne scivolarono giù gocce gialle di grasso fuso. — Augurami buona fortuna — disse, e ne mangiò un boccone. Si accigliò un poco. — Com'è? — Dura — rispose lui, a bocca piena. — Ma non malvagia. Sembra carne di maiale con un lieve sapore di fango. Non mangiarne, se non te la senti. Anzi è più prudente che tu aspetti, almeno finché non avrò digerito.
Ma Dorthy ne stava già respirando l'aroma, e il suo stomaco vuoto reagiva. Si bruciacchiò le dita prendendone una fetta dalla pietra rovente, e si bruciacchiò le labbra quando ne staccò un boccone, ma lo stimolo dell'appetito mise subito a tacere ogni altra sensazione. Kilczer ne mangiò a sazietà, lasciando che lei facesse altrettanto — Una fetta ancora — le disse infine, — e una reazione io l'avrò di certo: lascerò per terra tutta la buona carne che i miei denti si sono lavorata. Fra loro cadde il silenzio. Infine Kilczer tirò fuori un olocubo e guardò e riguardò il suo ciclo di due minuti, sospirando di nostalgia mentre l'immagine della ragazza russa sorrideva e parlava in tono affettuoso nella sua lingua. Dorthy non aveva nulla con cui confortarsi; quel libro era perduto. Tu che sei senza un uomo, c'è fuori il mondo intero che ti aspetta. Esausta, si distese sul terreno duro e cadde in un sonno pieno di sogni tormentosi. Si svegliò quando qualcosa di piccolo e freddo le toccò una guancia. Un altro contatto umido sulla fronte; una terza goccia le cadde su un occhio facendole sbattere le palpebre. Pioggia. Per un poco rimase lì a bocca aperta, lasciando che l'acqua le inumidisse le labbra escoriate. Le ceneri intorno alla pietra piatta emettevano qualche sibilo, fumando. Poi Kilczer si tirò a sedere con un'imprecazione. Stava piovendo forte, adesso. I due raccolsero le loro cose e trovarono un parziale rifugio sotto uno spunzone roccioso. Dorthy aveva i piedi gonfi ed ebbe qualche difficoltà nell'infilare gli stivali, ma a darle fastidio era l'acqua che le colava giù per il collo. Veniva giù a rivoli dalla roccia e li riempiva di schizzi. — Prima stavamo morendo di sete, adesso stiamo affogando — grugnì Kilczer. — Da dove viene questo nubifragio? Dorthy stava cercando di ricordare qualcosa circa le zone aride e la pioggia. Quando le venne a mente diede di gomito a Kilczer. — Dobbiamo arrampicarci più in alto — disse. — Muoviamoci. Lui si strinse di più contro la parete terrosa. — Tu sei matta. Aspettiamo almeno che smetta di piovere. — Siamo nel letto di un fiume, idiota! — esclamò Dorthy. Per un attimo lui la fissò sorpreso, poi capì. Il lungo pendio roccioso era percorso da rivoletti d'acqua; la suola liscia degli stivali non faceva che scivolare, costringendo Dorthy a miracoli di equilibrio su scomodissimi punti d'appoggio. Aveva la tuta inzuppata, le braccia e le gambe piene di escoriazioni, e quando alzava la testa l'acqua le riempiva gli occhi. Kilczer, carico del fucile e del sacco, non s'inerpicava
più agevolmente di lei. Erano appena a metà strada verso la cima quando un rumore lontano cominciò a salire di tono. Dorthy sentì la roccia vibrare leggermente e si aggrappò alla parete, girando la faccia per proteggersi dagli schizzi. La vibrazione era diventata un ruggito, così forte che lei non capì se lo sentiva con gli orecchi o attraverso il suo intero corpo. Poi una muraglia d'acqua e fango comparve alla svolta del canyon sulla loro sinistra, schiantandosi sulla parete che ne deviava il corso e scaraventando in alto nuvole di schiuma. Cascate di terriccio e sassi vi precipitavano dentro. Poi l'immensa ondata parve farsi ancora più alta, balzando verso di loro. Tutto questo in un attimo. L'istante successivo Dorthy si ritrovò aggrappata con le sole mani, mentre vortici di spuma le trascinavano via le gambe di lato. Kilczer, un po' più in alto di lei, riuscì a chinarsi e ad afferrarla per il colletto della tuta proprio mentre la corrente stava per farle perdere la presa. Con le braccia che le dolevano per lo sforzo la ragazza attagliò le dita a ogni appiglio, scalciando nell'acqua turbinosa, e in qualche modo si tirò fuori dai gorghi. Quando raggiunsero la sommità del pendio Dorthy si lasciò cadere a corpo morto sulle folte erbacce inzuppate d'acqua, incurante dell'acquazzone che le tempestava ferocemente addosso. Cortine di pioggia venivano giù a raffiche nel breve spazio aperto che orlava il canyon; al di là di esso le chiome degli alberi oscillavano al vento. Le nuvole da cui era coperto il sole riducevano quasi a zero la già scarsa visibilità. Kilczer la tirò in piedi, e appoggiandosi l'una all'altro avanzarono nell'erba alta fino alle ginocchia fino al riparo degli alberi. Le chiome fronzute fermavano la pioggia, trasformandola però in una doccia rada e pesante e altrettanto sgradevole. L'acqua scivolava giù dai tronchi formando rivoli e pozze nella vegetazione marcia del sottobosco, e Kilczer e Dorthy sguazzarono avanti a caso in un'oscurità pressoché completa. Quando lui inciampò e cadde per la terza volta si limitò a restare dov'era e rise, raucamente. Dorthy sedette sulla radice sporgente di un albero e con una mano si tolse l'acqua dalla faccia. — Cosa c'è di tanto divertente? — Se fossi superstizioso penserei che qualcuno mi ha gettato una maledizione. — La sua risata si spezzò in una tosse convulsa. Lei lo sentì ansimare, poi sputare. — Tutto questo è folle. Una pazzia. Dorthy si appoggiò al tronco con le spalle. L'acqua cominciò subito a ruscellarle nel colletto, ma non fece che aggiungersi a quella che c'era già. — Loro lo sapevano — disse, dopo qualche momento di silenzio.
— Loro chi? — I mandriani. Hanno portato i loro... uh, figli fuori dal canyon. E quella crisalide era in alto, dove l'acqua non può essere arrivata. Kilczer tossì ancora. — Questa è teleologia. Istinto e coincidenze, e basta. Niente intelligenza. Se riuscirai a usare il Talento su di loro e a provare il contrario, ci crederò. Ma sono già convinto che questa ecologia non è stata creata dai mandriani; loro ne fanno parte e nient'altro. Questo è ciò che dicevano i miei strumenti. Non sono più intelligenti di uno scimpanzé. E Andrews ha torto. Non hanno a che fare con il Nemico. Non sono neppure i suoi discendenti imbarbariti. — Io non so se lo siano, non ancora. Ma c'era qualcosa... — Ah, sì. Tu lo senti, lo so. Il tuo meraviglioso Talento, così superiore ai miei apparecchi. — Non è magia! — Dottoressa Yoshida, devi capire che... Lei si accorse di essersi aggrappata alla radice dell'albero con entrambe le mani, e la lasciò. Aveva le dita rigide come la pietra. Era sfinita. — Non è magia — ripeté. — Abbiamo bisogno di riposo — disse lui, come se non l'avesse udita. E con il temporale che scoteva gli alberi riempiendo il sottobosco di rumori, forse non l'aveva sentita davvero. Dopo un po' aggiunse, quasi timidamente: — Fa un freddo cane. Che ne dici di scaldarci a vicenda? Dorthy si strinse le braccia al petto. — Io sto bene. Per favore, cerchiamo un posto per dormire. Ma per oltre un'ora, infreddolita e spaventata, il sonno le parve irraggiungibile. Quando poi si appisolò, gli eventi di quella lunga giornata le passarono e ripassarono nella mente, deformati al punto che d'un tratto per sfuggirli si svegliò. Aprì gli occhi nella stessa tenebra in cui li aveva chiusi, circondata dalle nere forme degli alberi. Kilczer era rannicchiato lì accanto. Ricordando il suo breve incontro con il mandriano, nella foresta sul grande lago, sentì l'ostilità del silenzio che aveva attorno. Non c'era niente lì, salvo lo sgocciolio della pioggia. E fu quel ticchettare monotono, privo di significato, familiare malgrado la scarsa frequenza con cui l'aveva potuto sentire nella sua infanzia, a sciogliere infine i nodi della sua paura consentendole di scivolare ancora nel sonno. Quando Dorthy si svegliò stava sempre piovendo; o almeno, l'acqua continuava a cercare la sua strada nell'intreccio dei rami e sgocciolava co-
piosamente sul tappeto di aghi inzuppati. Ma c'era più luce, e poté leggere le cifre nere sul display dell'orologio: le 07,43 di un mattino fra i tanti che si susseguivano in quella lunghissima giornata, mentre il sole continuava ad essere a metà strada verso il mezzogiorno. Kilczer era ancora rannicchiato contro la radice di un albero a due passi da lei, con i capelli che gli ricadevano sul volto. Respirava raucamente, a bocca spalancata. Dorthy rabbrividì, si passò le mani sul petto e si massaggiò le costole attraverso la tuta bagnata. Poi raddrizzò la schiena per sgranchirla e sbadigliò. Una cosa dura nell'angolo destro della sua bocca si tese e si spaccò; un fluido amaro le bagnò le labbra. Lo sputacchiò, tastandosi poi la pelle dove la vescica s'era aperta. Alla radice di un albero poso distante trovò una pozzanghera che sembrava limpida e bevve. L'acqua non sarebbe stata un problema, quel giorno. Ma appena ebbe bevuto si accorse di aver fame. Si appartò dietro un cespuglio per le sue necessità, quindi tornò accanto a Kilczer e senza pensarci lo svegliò nel modo in cui sua madre svegliava lei da bambina, carezzandogli la pelle dietro un orecchio. Lui si girò con un grugnito, le prese la mano e la tirò a sé, facendola chinare col volto davanti al suo. — Allora è tutto vero — disse, e la lasciò. Dorthy indietreggiò, un po' scossa. Kilczer si tirò in piedi, fece qualche passo con una certa fatica e si passò le mani fra i capelli. — Tu puoi camminare? — chiese. — Io ho due pezzi di legno al posto delle gambe. Lei aveva i piedi quasi insensibili a parte il dolore delle vesciche, ma per il resto stava abbastanza bene. — Dopo un po' di movimento ti sentirai più a posto — disse, ripensando che quelle corse mattutine sull'orlo del cratere le erano venute utili. — Sei fuori allenamento, e ieri ci hai dato dentro. — L'ansia di tornare alla civiltà. — Kilczer si mise il fucile a tracolla e raccolse il sacco. — Tu hai l'aria di stare ancor peggio di me — disse. — Su, andiamo. Uscirono di nuovo dalla boscaglia, e Dorthy vide ciò che nell'imperversare del temporale le era sfuggito: una netta pista di terreno fangoso, quasi privo di erba, che partiva dal bordo del pendio e si inoltrava nella foresta in linea retta. Piovigginava ancora, ma il cielo si stava schiarendo. Fra i varchi delle nuvole scure si scorgevano frammenti del sole, come braci stanche. Kilczer attraversò la traccia lasciata dai vermi anulati e andò a guardare giù nel canyon, seguito da Dorthy. Fra le pareti di roccia scorreva un fiume nero come la pece, profondo forse una dozzina di metri. Mentre s'incamminavano su un lato della pista, Kilczer domandò: —
Cosa mi dicevi ieri sulla magia? Parlavi del tuo Talento? — Tu cosa sai del modo in cui funziona un Talento? Malgrado la stanchezza, lui non staccava la mano dal calcio del fucile. Scosse le spalle. — Vuoi che ti parli dell'effetto di corrispondenza quantica, o di come ne traduci i segnali sinaptici nella tua corteccia cerebrale? O forse preferisci che parli delle tue limitazioni, ad esempio l'incapacità di accedere alla memoria RNA a lungo termine? Le mie apparecchiature, se non altro, traducono questi dati in grafici dopo averli localizzati. Potrei parlarti per ore su ogni argomento. — Non ne dubito affatto. — Allora, vedi bene che so che non si tratta di magia. — Ma ti comporti come se lo fosse, non te ne accorgi? Come se fosse un dono che un mago ha fatto a me, e non a te. Forse non ne sei consapevole, però io so che ti aspetti che io scopra tutto sui mandriani e all'istante, semplicemente concentrandomi e schioccando le dita. Anche Andrews la pensa così, malgrado la vostra istruzione. Il problema è che quegli esseri sono diversi da qualunque cosa io abbia mai incontrato. Non so che tipo di intelligenza abbiano, non so neppure come cominciare a penetrarla. Al primo tentativo ne sono rimasta al di fuori, ma ciò non significa che nella loro testa non ci sia nulla. — Forse. Però nei mandriani non hai visto la luce d'intelligenza da cui hai detto d'esser stata colpita due volte. Può darsi che il Nemico sia quella cosa, e non loro. Dopo qualche passo Dorthy disse: — Pensi davvero che qui sia nascosta una civiltà misteriosa? — Non hai forse scoperto qualcosa che può farlo sospettare? Guardati attorno. Pensa alla tecnologia degli asteroidi di BD Venti. Hanno astronavi, habitat artificiali, armi. E c'è una cosa che le alte sfere tengono segreta, anche se gli equipaggi la conoscono bene: il Nemico riesce a creare sfere di plasma autoalimentate. Si muovono ad alta velocità, un quarto di quella della luce, ed è così che hanno distrutto tante delle nostre navi nel pozzo gravitazionale di BD Venti. Ma qui, nelle zone fertili? Nel caso migliore questa è una sorta di riserva forestale abbandonata, i cui padroni sono morti o emigrati altrove. Oppure è ciò che resta di qualcosa di più grande e di importante, come pensa Duncan Andrews. Io non credo. Rifletti, dottoressa Yoshida: se questi mandriani fossero il Nemico, perché sono rimasti nel più abbietto stato di barbarie? Anche ammesso che siano degenerati, perché la torre è tornata in attività? Il maggiore Ramaro ha ragione. Il Nemico
è qui, da qualche parte. — Non lo so. — Dorthy proseguì per un poco in silenzio. — Perché te la prendi tanto, comunque? — Per l'opportunità di conoscere, non per avere ciò che si nasconde qui, questo è certo. Esser stato incluso nella spedizione è un grande onore per chiunque, anche se tu non la pensi così. — Già, tutti sognavate di venire, voi scienziati. Malgrado le vostre lamentele su come vi tratta la Marina, volevate essere qui. — Il sistema nervoso è il lavoro della mia vita, dottoressa Yoshida. Potrei farlo con gli esseri umani, ma già molti se ne occupano; o con gli animali, ma ci sono poche funzioni interessanti da descrivere. Ho trascorso sei settimane su Elysium a studiare gli aborigeni... quello, finora, è stato il vertice della mia carriera. Così, quando me l'hanno chiesto, naturalmente sono venuto qui. Per studiare una specie aliena intelligente... se la troveremo. — E perciò, naturalmente, tu vuoi credere che esista. — Be', tu spera che ci sia, e che siano i mandriani, così potrai tornartene a casa al più presto — ribatté lui, ma in tono divertito e senza prendersela. Qualunque cosa stesse pensando era adesso del tutto impenetrabile per Dorthy. Il Talento si stava prendendo un po' di riposo. Forse quelle noiose ricadute erano finite, rifletté speranzosa. Camminarono per un'ora senza aprir bocca, con la pioggia che si faceva noiosa soltanto quando il vento soffiava a raffiche nel canalone in cui erano penetrati. Talvolta le nuvole si aprivano, e la luce consentiva loro di vedere il territorio boscoso e in continua salita dove avrebbero dovuto inerpicarsi. Cinque giorni, sei giorni per arrivare all'accampamento sul lago? Poi il canalone curvò di lato, e la traccia che stavano seguendo divenne un sentiero nella foresta: alberelli abbattuti, fronde spezzate, e solchi negli aghi secchi che pavimentavano il sottobosco. Quando il territorio si aprì di nuovo fu su un grande prato d'erba dagli steli intrecciati, uguale a quella che cresceva intorno al lago. Il gregge di vermi vi aveva aperto un solco fangoso lungo fino alla boscaglia, più in alto, e giunti là trovarono i resti di un grosso falò. La cenere emetteva ancora fumo qua e là, sotto i grossi ceppi rozzamente ammucchiati uno sull'altro. Kilczer diede un calcio a un tronco semicarbonizzato e qualche fiammella violacea tornò ad alzarsi dalle braci, su cui sfrigolavano le gocce di pioggia.
Kilczer protese le mani per scaldarsele. — Questi mandriani hanno una notevole forza fisica. Guarda che razza di tronchi sono riusciti a spezzare. È legno fresco. Dorthy stava assaporando l'aria calda che le risaliva sul volto e lungo la stoffa bagnata della tuta. — Mi chiedo come facciano ad accendere il fuoco. — Si portano dietro le braci accese. Marta Ade mi ha detto che usano un rustico recipiente d'argilla — rispose lui, guardando il terreno boscoso davanti a loro. Le chiome degli alberi continuavano a salire fino a immergersi nella bassa nuvolaglia. — Non possono essere trascorse più di quattro o cinque ore da quando se ne sono andati da qui. — Che faresti se dovessi trovarteli di fronte? — Se dovessimo, dottoressa Yoshida. Perché parli sempre come se tu non fossi qui? Spazzi via te stessa dall'esistenza. Dorthy ripensò a sua madre e non disse nulla. Kilczer raccolse uno stecco e frugò fra la cenere. Sull'altro lato del falò rinvenne un lungo osso, con tre o quattro chili di carne che pendevano intorno a un'articolazione di forma strana. Lo esaminò un poco, poi annuì fra sé e dopo averlo ripulito lo mise ad arrostire sulle braci; il grasso sfrigolò un poco, e nelle fiammelle bluastre danzarono alcune scintille. Dorthy non voleva pensare da dove venisse quell'arrosto, ma quando fu pronto lo mangiò senza discutere, affondando i denti nella carne e nel grasso ben rosolato. Kilczer strappò una manciata d'erba, la assaggiò e sputacchiò disgustato. — Bah! Credo che dovremo essere soltanto carnivori, come i mandriani. La prossima volta che faremo sosta andrò di nuovo a caccia. — Vorrei che dessi a me il fucile. Sono una discreta tiratrice, davvero. Kilczer non disse nulla per un lungo minuto, poi si scostò una ciocca di capelli bagnati dalla faccia e brontolò: — Vorrei che questa maledetta pioggia si fermasse. — E riprese a frugare fra le ceneri, mentre Dorthy guardava l'osso che avevano spolpato carbonizzarsi sulle braci. L'uomo si chinò e mormorò qualcosa in russo, poi continuò la sua ricerca in silenzio. Alla fine venne a gettare in terra davanti a lei quello che aveva trovato: un pezzo di metallo, un bicchiere di plastica mezzo fuso, un frammento di stoffa impermeabile arancione, e un cavetto elettrico lungo circa un metro. Kilczer prese a calci i ceppi finché non se ne levarono alti nugoli di scintille. — Mi chiedo perché abbiano preso questa roba. Cosa li spinge a portarsela dietro, secondo te?
Dorthy non gli fece notare la conclusione più ovvia, cioè che lui stava sbagliando sull'intelligenza dei mandriani. Invece disse: — Ci rimettiamo in marcia? Penso d'essermi scaldata abbastanza. Kilczer raccolse il cavetto, come se volesse portarselo via. Ma dopo averlo guardato meglio lo gettò fra le braci e si volse. — Andiamocene — borbottò, seccato, e si allontanò senza aspettarla. Stavano camminando da due ore, incontrando tratti di terreno aperto sempre in salita e cosparsi di macigni e alti cespugli spinosi, quando Dorthy fu colta da crampi allo stomaco. Inginocchiata al suolo, con Kilczer che le teneva indietro i capelli, vomitò metà della carne che aveva mangiato, succhi gastrici, e infine soltanto bava incolore. Lo stomaco, ormai vuoto, smise di dolerle, ma si sentiva disfatta e umiliata. Quando riuscì a tirarsi in piedi, nei suoi occhi storditi si rifletteva la luce rossa del sole. L'enorme astro tornava a occhieggiare dai varchi delle nubi nere. Pochi secondi dopo un altro conato di vomito la fece piegare in avanti, ma non aveva più nient'altro da rigettare. Sedette al suolo, col mondo che le girava intorno, e poggiò la fronte contro un macigno, concentrandosi sul ritmo del respiro e sul ruvido contatto della roccia sulla pelle. Il suo corpo era scosso da brividi di freddo. Kilczer s'era seduto su un cespo d'erba lì accanto e la guardava, anche lui piuttosto pallido in viso. — È stato un rischio — disse, — mangiare quella carne. Infine si avviò verso gli alberi più vicini, e quando fece ritorno si trascinava dietro alcuni lunghi rami. Staccò via la corteccia bagnata, li fece a pezzi alla meglio, poi trovò delle felci quasi secche e con la batteria catalitica accese un fuoco. Dorthy vi si accostò sfinita, ringraziando il cielo del calore che le si irradiava sul volto riempiendole i polmoni. — Il fuoco prende bene — annuì Kilczer. — Direi di fermarci qui. — Per oggi non ho altri impegni — disse Dorthy, e riuscì a sorridere un istante. Quel fuoco restò il loro punto d'appoggio per due giorni. Chi si sentiva meglio si allontanava in cerca di rami caduti e foglie o erbacce, per poi mettere il tutto ad asciugare con cura intorno al falò. La fiamma e il calore erano diventati elementi così importanti per Dorthy che quando il fuoco languiva aveva l'impressione di veder ridurre le loro possibilità di sopravvivere. Sia lei che Kilczer avevano eruzioni cutanee, diarrea, debolezza e febbre, la reazione del loro organismo alle molecole aliene di quell'arrosto.
La pioggia cessò del tutto e il sole tornò a dominare un cielo senza nuvole. Quando l'aria si fece più secca Kilczer fu di nuovo tormentato dalla sua tosse, ma per il resto, forse perché più abituato a vivere lunghi periodi su altri mondi, stava meglio lui di Dorthy. Per ingannare il tempo le disse qualcosa dei pianeti su cui era stato: Elysium, Serenità e Novaya Zyemlya. Raccontò della spedizione alla nana bianca del sistema binario di Stein 2051, al tempo in cui lui era più tecnico medico che scienziato, prima che la Gilda gli permettesse di specializzarsi in neurobiologia. Le parlò di Novaya Rosya, un mondo che un tempo era stato simile alla Terra e che mezzo milione d'anni prima aveva perso il 99% della sua biosfera in seguito a un bombardamento di asteroidi. Ora soltanto i poli erano abitabili. Il resto della superficie era coperto da un miscuglio di acqua e idrocarburi, che al perielio della sua nuova orbita eccentrica era una zuppa maleodorante, mentre all'afelio si congelava in lastroni scivolosi. Kilczer le riferì storie di seconda mano raccontate dai cacciatori che seguivano gli zithsa nelle loro continue migrazioni, descrisse in toni nostalgici la città di Esnovagrad, coperta da una cupola, e le parlò della sua donna. Mostrò a Dorthy l'olocubo di lei, che più volte in quei giorni aveva contemplato sospirando: una ragazza bionda di età inferiore a quella di Dorthy, almeno quindici anni più giovane di lui. — Abbiamo firmato un pre-matrimonio solo due anni fa — disse Kilczer, — prima che cominciassi a viaggiare tanto. Quando tornerò a Novaya Rosya godrò di una certa fama, avrò una buona posizione, e lei vorrà dei figli. Come forse sai, a Esnovagrad c'è un grosso centro di ricerche, importante quasi come l'Istituto Kamali-Silver, e penso di occuparmi del perfezionamento di molte apparecchiature. — Tu hai lavorato all'Istituto Kamali-Silver? — chiese lei, desiderosa di parlare di posti noti a entrambi. Ma lui non c'era mai stato. Kilczer non s'interessava molto al passato di Dorthy, cosa questa di cui lei non si rammaricava affatto. Alle sue scarse domande rispose con il repertorio di mezze-verità a cui ricorreva solitamente. La curiosità di lui era comunque impersonale, riguardava solo il suo Talento, e ciò non disturbava Dorthy, che all'Istituto s'era abituata a fornire particolari tecnici su quell'argomento. Quando le pozzanghere che avevano invaso la foresta si asciugarono, Dorthy e Kilczer furono costretti a ricorrere al succo delle erbe grasse. Sulle labbra della ragazza ricomparvero le vesciche. Infreddolita e febbricitan-
te si rannicchiava vicino al fuoco, scossa da tremiti, e si domandava se la malattia non avrebbe finito per danneggiare il suo impianto, o magari per metterlo completamente fuori uso, consentendo al Talento di invadere la sua personalità e impossessarsi di lei in via definitiva. Ma l'impianto continuò a funzionare. Una volta, svegliandosi, scoprì che Kilczer non c'era e il fuoco stava morendo. Ammucchiò manciate di aghi e felci sulle ceneri calde, poi le curò e le nutrì con impegno finché non tornarono a sprigionarsene deboli fiammelle. Il fuoco era vita: la sua luce aveva il tocco magico che mancava a quella del gigantesco sole rosso, ormai vicino al mezzogiorno. L'astro emanava tuttavia più calore, anche se in quelle condizioni fisiche Dorthy non era in grado di accorgersene. Alimentò quella fiamma agonizzante con tutto ciò che riuscì a trovare, e lottò per non addormentarsi di nuovo. Dormire significava rischiare che si spegnesse. Naturalmente Kilczer avrebbe potuto riaccenderla con la batteria catalitica... ma se non fosse tornato? Arrivò soltanto dopo qualche ora, portando su una spalla un animale dal pelame marroncino. Pallido e scarmigliato, con la barba lunga, camminava a testa bassa con aria sfibrata. Restò seduto a lungo dall'altra parte del fuoco prima di riferire a Dorthy dov'era andato: fino al bordo superiore della foresta, presso la sorgente da cui nasceva il fiume che scorreva nel canyon. Era lì che aveva sparato all'animale, disse, e propose di mangiarlo. — Le parti più tenere, almeno. Questo ha quattro zampe, e se non è terrestre sarà di Rubino, o di Serenità. Sai di che razza è? No? Be', io mangio lo stesso e vedremo cosa succederà. Se tutto va bene, ci proverai anche tu. Dorthy era ormai al di là della fame. Si limitò a scrollare le spalle e guardò da un'altra parte mentre lui cominciava a squartare l'animale. Kilczer spellò una zampa e la infilò su uno spiedo di legno, che piazzò sul fuoco e girò pigramente per una mezzora. Ne mangiò alcuni bocconi poi si sdraiò per terra e si addormentò. A dispetto delle sue buone intenzioni, Dorthy fece lo stesso. A svegliarla fu l'odore della carne arrosto. Kilczer era di nuovo al lavoro sullo spiedo e masticava un osso, succhiandone il midollo. La ragazza rotolò verso il fuoco, si alzò a sedere, e lui le porse una costoletta succosa e fragrante. Quando ebbero mangiato fino a riempirsi lo stomaco, lasciarono spegnere il fuoco e decisero di rimettersi in cammino. La pista lasciata dal gregge di vermi era già seminascosta dalla vegetazione che spuntava in fretta, azzurrina e tenera sullo sfondo di quella violacea più lussureggiante.
Giunsero alla sorgente tre ore più tardi, a mezzanotte secondo l'orario standard che i terrestri seguivano sia sulla superficie che in orbita; ma Dorthy aveva perso il senso del tempo e in quella perpetua luce da purgatorio non se ne curava più. S'inginocchiò sulla roccia muschiosa e bevve, poi si lavò la faccia e cercò di rimettersi in ordine alla meglio. Kilczer era andato a sedersi su un sasso e guardava l'altra sponda della polla, dove all'acqua della sorgente si univa quella di un torrente che scendeva lungo un canyon. Sul terreno grasso crescevano strane vesce a forma di cupola, alcune alte più di un metro e mezzo, bulbose e color indaco. Presso la riva c'erano anche fitte canne rossastre, dalle cui cime penzolavano filamenti bianchi lunghi una dozzina di metri che il vento trascinava di lato e faceva ondeggiare come bandiere. Il muschio su cui Dorthy sedeva era nero in quella luce, ma cosparso di micronoduli fosforescenti che facevano l'effetto di stelle riflesse nell'acqua. La sorgente era così limpida che se ne scorgeva il fondale, chiaro e sabbioso. In quel luogo non mancava una cupa bellezza aliena, e Dorthy restò seduta ad assaporarne la tranquillità. Dopo un poco Kilczer disse: — Avremmo bisogno di un altro giorno di riposo, ma dobbiamo andare. Seguendo quel canyon credo che finiremo per arrivare al lago. Pensi che i mandriani possano già essere là? Ho visto le loro tracce: proseguono di lato attraverso la foresta. — Per qualche secondo scrutò il cielo, poi sospirò. — Andrews si sarà già dimenticato della nostra esistenza. Scommetto che adesso pensa soltanto a quella torre. Dorthy si tolse una ciocca di capelli umidi dalla faccia. — Domani dovremo cercare di fare almeno dieci chilometri. Te la senti? C'è sempre un bel pezzo di strada prima di uscire da questa dannata boscaglia. Spero che non abbiano già tolto il campo, altrimenti ci toccherà proseguire intorno al lago e scalare le montagne fin sull'orlo del cratere. Voglio dire, pazienza ammazzarci di fatica nella foresta, ma questo sarebbe spingere la sfortuna troppo in là. — Domani — disse Dorthy, sperando di placare l'impazienza di lui. — Domani e domani e domani, come dice il tuo autore preferito. Qualunque sia il nostro domani. Senti, io cercherei di prendere un altro di questi mammiferi a coda lunga. Mi aspetti qui? — Vengo con te. Mi sento meglio, sul serio — disse lei, e si sentì ricompensata dal suo sorriso. Mai, da quando s'era nascosta fra i cespugli di una spiaggia australiana con sua sorella, mentre il loro padre e i suoi amici le cercavano dappertutto, s'era sentita così vicina a un altro essere umano.
Il canyon serpeggiava in salita tagliando il territorio boscoso, ed era percorso da un torrente bianco di spuma che ne occupava il centro, scorrendo fra i macigni e i detriti. Dorthy e Kilczer lo costeggiarono lungo il bordo destro, frequentemente tagliato da altri torrentelli che si gettavano nel vuoto disperdendo al vento le loro acque. Più avanti videro uno stormo di uccelli neri che roteavano in una corrente ascensionale, sfruttando la portanza delle loro ali biforcute larghe qualche metro. Mezzora dopo furono spaventati dal fracasso di un poderoso animale che si allontanava da loro, nascosto nel folto della boscaglia. Dorthy scorse per un attimo una schiena coperta da una lunga pelliccia scura, e lo giudicò più grosso di un elefante. Ma per la maggior parte del tempo la foresta offriva loro soltanto il silenzio, come se stessero attraversando un parco riservato a pochi animali selezionati. Quelli che si lasciavano vedere da loro erano di piccola taglia e non temevano l'uomo. Kilczer sparava a tutti quanti con entusiasmo, anche a quelli con sei zampe, che poi scaraventava giù nel canyon. — Tiro al bersaglio — spiegava. E Dorthy, pur sapendo che il caricatore conteneva soltanto un migliaio di microproiettili esplosivi, per non guastare il loro accordo evitava i commenti. Dopotutto, pensava, l'accampamento sul lago non doveva distare troppi giorni di marcia. Tuttavia dopo ogni pasto metteva da parte la carne avanzata, che poi mangiucchiavano senza interrompere il cammino. Occorsero loro sei giorni, tempo terrestre, per raggiungere la riva del lago. Dapprima dovettero risalire una lunghissima pendenza scivolosa a lato di una cascata, bagnandosi fino all'osso nella nebbia di spruzzi che se ne levava. Alberi dal legno durissimo affondavano le radici in ogni crepa della roccia porosa, protendendo rami contorti che i due usavano come punto d'appoggio a ogni passo. Ma le loro folte chiome schermavano la luce a tal punto che era difficile capire se si stava per appoggiare un piede sulla solida roccia oppure in una buca colma d'acqua. Poi si lasciarono alle spalle il pendio ed emersero su un territorio aperto, pavimentato d'erba violacea, e dinnanzi a loro ci fu d'improvviso la liscia distesa nera del lago al di là del quale si levavano le montagne e l'orlo del cratere. Dorthy impiegò qualche istante per capire, con uno sconvolgente brivido di sollievo, che era già stata in quel posto. Ma sulla lunga riva curvilinea del lago non c'era nessuna tenda-cupola arancione. Il campo era stato tolto.
Né lei né Kilczer aprirono bocca mentre s'incamminavano da quella parte. C'era un'area di terreno calpestato e privo di vegetazione, una buca mezza piena d'acqua sporca, impronte e solchi che svanivano in ogni direzione. Nient'altro. Dorthy sedette sull'erba; Kilczer si aggirò a passi lenti nel punto dov'era stata la tenda, con volto inespressivo, poi venne ad accovacciarsi accanto a lei. — Non ci resta che proseguire — disse. — Cosa credi che sia successo? — Non lo so. È chiaro che Andrews ha portato Angel Sutter a lavorare altrove. Concentrare tutto alla torre, se laggiù le cose promettono un risultato più concreto, sarebbe nel suo stile. Lui e le sue dannate luci! — Si tolse i capelli dalla fronte e le gettò un'occhiata. — Tu come ti senti? — Parlare di delusione sarebbe un eufemismo. Lui rise. — Il tuo morale è sempre alto, vero? — Povero Arcady: ancora intrappolato con me in un posto infame. — Io non ho l'animo di scherzarci sopra, credimi pure. Se avessi qui quel figlio d'un cane di Andrews sarei capace di strangolarlo. Altro che delusione! — Si volse di scatto e andò sulla riva, poi si aprì i pantaloni e orinò nell'acqua. Dorthy distolse lo sguardo. Durante i giorni in cui stavano male non avevano potuto appartarsi davvero per le loro necessità, e da allora Kilczer era diventato ancor più indifferente alla cosa. Un atteggiamento che lei detestava, una minaccia al bozzolo della sua intimità così faticosamente intessuto e nel quale non voleva permettere a nessuno di insinuarsi. Kilczer richiuse i pantaloni e tornò indietro, poi raccolse il fucile. — Ciondolare qui attorno è inutile. Dobbiamo... Nel vederlo imbracciare l'arma Dorthy si volse, allarmata. Il mandriano era al limite della foresta, appena fuori dell'oscurità che s'infittiva sotto gli alberi, e stava chino in avanti, con la testa più in basso della schiena curva e pelosa. I suoi larghi occhi scintillavano nell'ombra del cappuccio di pelle. Dorthy non riuscì a reprimere un brivido. Subito dopo sentì qualcosa che le sfiorava la superficie della mente, elusivo e pericoloso come la lama di un coltello nel buio, più complicato delle equazioni pentadimensionali che davano le coordinate di un punto dello spaziotempo. Per un attimo poté percepirlo, ma il suo Talento era inattivo e quella cosa aveva troppo di alieno... Chiuse gli occhi e cercò di concentrarsi sul punto della mente in cui la sentiva, però la sensazione era una sorta di arcobaleno che manteneva sempre la stessa ingannevole distanza da qua-
lunque parte lei lo volesse avvicinare. E quasi subito svanì. Quando riaprì gli occhi, il mandriano se n'era andato. Dietro di lei Kilczer lasciò uscire il fiato che aveva trattenuto. — Meglio andarcene da qui — disse. E con voce così rauca che soltanto allora Dorthy cominciò a spaventarsi, perché nelle difficoltà e nei pericoli che s'erano lasciati alle spalle, non importa quanto avesse sofferto, quella era la prima volta che Kilczer lasciava trasparire la paura. Più tardi si accamparono in un folto di cannicci alti e ruvidi presso la riva, fra cui non potevano esser visti da chi li spiasse dalla minacciosa oscurità della boscaglia. Per una volta Kilczer non disse che sarebbe andato a caccia, e rimase lì a guardare Dorthy che tagliava i cannicci e li intrecciava abilmente. Mentre seguivano la lunga curva del lago le aveva poggiato più volte una mano su una spalla, e la ragazza non s'era scostata. — Sembra comoda, per dormirci sopra — disse. — Dove hai imparato questo trucchetto? — Mia madre intrecciava stuoie. — Dorthy si accigliò al ricordo. La morte di lei. E poi quella terribile notte con Hiroko sotto l'immenso cielo dell'entroterra australiano. — Ne farò una anche per te, se vuoi. — Lasciamela provare — disse lui, e si distese sulla stuoia. Poi annuì, sorrise, e alzò una mano a farle una carezza. Quando le sue dita sfiorarono la guancia di Dorthy fu come se scattasse un interruttore chimico, e un improvviso desiderio la fece irrigidire. Gli prese le mani, si piegò sul suo corpo, e un attimo dopo le braccia di lui la stavano stringendo. Kilczer se la tirò sopra, passandole le dita fra i capelli; le loro bocche si cercarono e si unirono in un bacio tanto improvviso quanto ardente. Prima che Dorthy se ne rendesse conto lui le stava slacciando la tuta, e ansimando la ragazza se la lasciò abbassare fino ai piedi. Fu tutto molto rapido, pochi minuti appena, ma così intenso da sfibrarli entrambi. Poi Dorthy giacque sopra di lui, rilassandosi pian piano, mentre la repentina tensione del desiderio soddisfatto così d'istinto, quasi brutalmente, la abbandonava. A dispetto della paura e della disperazione s'era installato un rapporto fra loro, in quei giorni, e pur non sapendo quale Dorthy sentiva di accettarlo. Il suo cuore batteva ancora forte, echeggiando quello di lui. — Santo cielo! — mormorò Kilczer, e le cercò una mano. La strinse. — Sai, ero convinto che... — Credevi che facessi troppo la scontrosa. Lo ero? — No, non dentro di te. Devo dire che mi sento meglio. E tu?
— Se sposti questo ginocchio... sì, adesso anch'io. — Pensa un po' se un mandriano fosse capitato qui mentre... — Ma non è successo — disse Dorthy, e subito lo baciò per farlo tacere. Non voleva parlare; non le piaceva, dopo aver fatto l'amore. Nei suoi momenti più cinici vedeva il sesso come un istinto biologico, qualcosa che andava soddisfatto, e nient'altro. Ma tagliava sempre corto alle introspezioni, allo sgorgare di emozioni nascoste, di piccoli segreti e confessioni. Quella era la parte che detestava. Le ricordava troppo il lavoro della sua prima adolescenza all'Istituto Kamali-Silver. Una volta aveva stabilito una regola: non andare a letto con nessuno per più di tre volte. Nella società della Terra, emersa da un lungo periodo di repressione e culturalmente dominata dalle usanze di Grand Brazil, questo era visto come un comportamento insolito, perfino perverso, anche se lei di rado andava a letto con qualcuno, in realtà. Ma se un uomo poteva trovare preferibile una cosa simile, c'erano dei vantaggi anche per lei. In seguito s'era comunque trovata meglio all'Osservatorio Fra Mauro, più cosmopolita. Gli abitanti dei mondi coloniali, per lo più caduti nella barbarie dopo la reciproca distruzione di USA e URSS e riemersi alla civiltà da appena mezzo secolo, si prendevano gioco della pudicizia degli scienziati di origine terrestre. Ridevano della loro cavalleria vecchio stile verso il gentil sesso, e sarebbero inorriditi se avessero saputo che in certe zone di Grand Brazil le donne venivano ancora vendute a chi intendeva sposarsi e metter su famiglia. Dorthy preferiva le usanze coloniali, pur rendendosi conto che si trattava di una reazione al rigore puritano di suo padre. Ma ciò che le importava era lei stessa, le sue necessità. Le quali a volte, soltanto a volte, erano puramente il sesso. E fra le sue necessità non c'era quella di scaricarsi l'anima a parole, dopo aver scaricato le tensioni del corpo. Era stata bombardata da altre anime per troppo tempo, sia all'Istituto che negli anni in cui aveva lavorato per pagarsi gli studi al Fra Mauro. Prostituta, pensò. — Mi sembra — disse Kilczer nei capelli di lei, — che abbiamo conciato piuttosto male il nostro nuovo letto. — Ne farò un altro. — Dorthy rotolò da parte e si alzò, evitando il braccio con cui lui cercava di riprenderla. — No — disse, brusca. — Ora voglio lavarmi. Quando fece ritorno lo trovò in piedi, che guardava accigliato verso la foresta. Cominciò a tagliare altri cannicci. — Sei preoccupato per il viaggio che ci aspetta? — gli domandò. — Per favore, adesso non parliamo di questo. Sono stanco — disse lui,
scostandosi per lasciarle spazio. Dorthy sapeva di averlo irritato, e nel rimettersi al lavoro sorrise; non le piaceva recitare la parte della sentimentale, anche se mostrarsi casta e riservata era spesso conveniente per non essere disturbata dal suo Talento nevrotico. Di quei comportamenti standardizzati erano pieni i filmati della Tri-V. Kilczer si volse. — Alcuni anni fa lavoravo su Elysium, mi pare di avertene già accennato. Mi accampai in una zona selvaggia, da solo, e non mi piacque più di quanto mi piaccia questa, anche se avevo con me tutte le comodità necessarie. Ma lo facevo a scopo di studio, capisci? Qui tutto il tempo dobbiamo impiegarlo nella sopravvivenza. Parlare, parlare, pensò Dorthy. Sempre questo bisogno di rapportare il passato al momento presente. Continuò a intrecciare la stuoia senza guardarlo, torcendo ì cannicci e fermandoli all'estremità con un nodo, mentre Kilczer le raccontava delle pianure erbose nell'entroterra di Namerika, su Elysium, dei bizzarri villaggi degli aborigeni e del loro ancora poco comprensibile modo di comportarsi. Alla sola vista di un essere umano s'immobilizzavano come statue, reagendo a un istinto non giustificato dall'ambiente in cui vivevano. Kilczer disse che aveva osservato a distanza gli aborigeni di un villaggio, per sei settimane, senza mai vedere nulla che non fosse già stato descritto da altri. Nessuno era riuscito a capire se fossero da considerarsi intelligenti o no, e malgrado quel mese e mezzo di lavoro e tutta la sua strumentazione, rozza e ingombrante confronto a quella distrutta dal gregge di vermi, lui non era stato in grado di formulare alcuna conclusione valida. Allacciando un altro canniccio alla stuoia, Dorthy domandò: — Non sono mai state trovate città antiche su Elysium? Certa gente dice che gli indigeni ne avevano costruite. — È solo una leggenda — borbottò lui, sprezzante. — Storie inventate da dilettanti troppo fantasiosi, eccitati da ambigue formazioni geologiche. Favole dello stesso genere si sono raccontate anche su Novaya Rosya, la cui ipotetica civiltà sarebbe scomparsa mezzo milione di anni fa quando alcuni grossi asteroidi devastarono il pianeta. Te ne ho già parlato, se non sbaglio. Certi cacciatori di zithsa vanno dicendo di aver visto, a volte, creature di forma umanoide aggirarsi nelle depressioni meridionali. Demoni della nebbia, li chiamano, e affermano che sarebbero i fantasmi della leggendaria razza scomparsa. Io dico che all'analisi chimica questi esseri risultano composti per metà da nebbia e per l'altra metà da vodka scadente. Comunque i cacciatori di zithsa sono tipi bizzarri e interessanti. Il fatto è,
Dorthy, che a noi non piace essere soli nell'universo, e questo spinge la gente a lavorare di fantasia. Anche sulla Terra si racconta di civiltà scomparse. Atlantica, per dirne una. — Atlantide — lo corresse lei, stringendo forte l'ultimo nodo. Per una ragione che non capì le tornò in mente lo strato geologico, nero e sottile come un capello, che nelle carote rivelava un secondo e inspiegabile bombardamento con asteroidi di ferro e nikel. E nello stesso momento sentì un tocco mentale, come un'incontrollata espansione del suo Talento verso... ma dopo un istante era svanito. Si sdraiò sulla stuoia, e Kilczer abbassò lo sguardo su di lei. — Hai un aspetto molto appetitoso. — C'è rimasto qualcosa da mangiare, se hai ancora fame. Lui le si inginocchiò accanto, facendo scricchiolare i cannicci sotto il suo peso. — Non sono poi così famelico. Domani andremo a caccia, forse. — Si distese e le passò un braccio attorno alle spalle. La strinse a sé. — Ripensandoci, la tua non è un'idea malvagia. — L'hai avuta anche tu. Te l'ho letta negli occhi. Non dire niente, però, non è necessario. — A te non piace parlare... voglio dire, dopo? — Credo di avere qualche scrupolo. Dopotutto tu sei sposato. — Sposato? Ah... la mia compagna. No, da noi non è come sulla Terra. Non ci sposiamo in quel modo, ma solo per avere un figlio, o più di uno. Sulla Terra avete legami troppo impegnativi; anzi credo sia per questo che c'è tanta tensione fra i due sessi, tanta attività sprecata. Ho lavorato sulla Terra per qualche settimana, ad Ascension, e ricordo che proprio in quel periodo una mia collega uccise suo marito. Gelosia, dissero, a causa di un'altra donna. Non conoscevo bene quelle due parole, «marito» e «moglie»... un'usanza sbagliata, secondo me, e che serve solo a rovinare i rapporti. — Forse. — Ma tu hai delle tensioni tue. Il problema è questo, credo. — Si alzò su un gomito, per guardarla meglio in faccia. — Sei restia a parlare di te, l'ho notato. Abbiamo passato quello che abbiamo passato, insieme, e di te so sempre soltanto ciò che dice il tuo fascicolo personale. — E cosa dice il mio fascicolo? — Senza volerlo lei s'era rimessa sulla difensiva. — Ben poco. Com'è l'Australia? Mi sembra che abbia un entroterra desertico, come Elysium, ma non ci sono più gli aborigeni, vero?
— Sono anni che non ci vado. — Neppure per vedere la tua famiglia? — Io non... mia madre è morta. Mio padre, be', è sempre ubriaco. Spese tutti i miei risparmi in un ranch, nell'interno, ma dopo la morte di mia madre andò a pezzi. — E suo zio. Zio Mishio. Ma non voleva pensare a lui, né a sua sorella. La povera Hiroko, e il breve, enigmatico messaggio di addio che aveva lasciato. — Non devi affatto parlare, se non ti fa piacere. Dorthy lo baciò e sentì le labbra di lui rilassarsi in un sorriso. — Tu parla pure, però. Non mi dà fastidio — mentì. Ma erano vicini adesso, stretti com'era possibile esserlo, e Dorthy sentiva che per lui parlare era un buon modo di scacciare la paura. — Tutto quello che ti ho detto, prima, credo che fosse per spiegarti cosa mi ha portato qui. Mi chiedo in quale altro posto sarei ora, se non avessi buttato via le settimane steso fra l'erba, con un cannocchiale fra le mani sudate, a spiare il noioso vai e vieni di quegli aborigeni fra le loro capanne di fango. Eppure, quando vedo come la gente vive, mi sembra limitata proprio come loro. In tutte le esplorazioni, durante tutte le spedizioni scientifiche, quanti sono quelli che alzano gli occhi alle stelle, quanti si chiedono cosa ci sia lassù? Il mio primo giorno qui in superficie mi allontanai a piedi dal posto dove stavano costruendo il Campo Zero e dal fracasso delle macchine che scavavano il pozzo per il centro di comando. Era notte, non avrei visto sorgere il sole ancora per un pezzo, e faceva molto freddo. Dappertutto c'erano riflettori, e gente che gridava ordini e martellava e portava roba di qua e di là. Non era come avevo immaginato che sarebbe stato, no. Allora me ne andai verso l'interno, finché le luci furono un riflesso lontano. C'è un cratere là... — Lo so — mormorò Dorthy. Si sentiva a suo agio e insonnolita. Chiuse gli occhi per non vedere il sole rosso. — Sedetti su un sasso sopra l'orlo del cratere — continuò Kilczer. — L'aria era così fredda che mi tagliava la lingua, e l'unica luce era quella dell'impianto di riscaldamento della mia tuta. Restai lì forse due ore, guardando le stelle come se non le avessi mai viste in vita mia. Non erano diverse da quelle di Novaya Rosya e della Terra, non ci siamo allontanati molto dal Sole. Quando tornai, il colonnello Chung aveva la bava alla bocca. Aveva creduto che a farmi sparire fosse stato il Nemico. Credo che sia un po' paranoica. — Anch'io. È stata sua l'idea di scavare il centro di comando a quella
profondità? Kilczer s'irrigidì impercettibilmente. Quando parlò, lei seppe che non stava dicendo la verità. — È stato costruito su istruzioni del comando orbitale. Non so da cosa si aspettavano di doversi proteggere. — Ma lui conosceva la vera ragione, anche se Dorthy non riusciva a percepirla. Qualcosa di... conclusivo. La sensazione sfumò del tutto. Kilczer, ricordò a se stessa, era in Marina: naturalmente. — Dormi? — chiese lui. — Quasi. — Ma restò sveglia a lungo, cercando di afferrare quello che lui le stava nascondendo: la stessa cosa che aveva intuito nella mente del colonnello Chung. Un pericolo, un oscuro destino finale, e questo era legato al centro di comando scavato nel sottosuolo. Quando si svegliarono, Kilczer trasse a sé Dorthy per fare ancora all'amore, ma lei si oppose e lo respinse, dichiarando che avevano davanti a loro una giornata faticosa e il suo unico desiderio era di mettersi in marcia. L'impulso che l'aveva spinta a unirsi a lui era svanito, e inoltre lo spiacevole mistero celato dietro l'apparente candore di lui continuava a urtarla. Così si alzò e gli suggerì di fare una nuotata. — Mi sento terribilmente sporca, e potremmo non avere un'altra occasione di lavarci. — No, grazie. Non sappiamo cosa può esserci in quel lago. — Be', sulla terra non ci sono grossi carnivori, a parte i mandriani, dunque perché dovrebbero essercene nell'acqua? — Si sfilò la parte superiore della tuta, sganciò il reggiseno, poi tolse anche i pantaloni e s'incamminò nuda nell'acqua nera e fredda. Sotto i piedi aveva le radici marce delle canne sepolte nel fango. Quando fu immersa fino alle cosce si tuffò avanti, ansimando nel gelido abbraccio dell'acqua, ma nuotò avanti con energia per una dozzina di bracciate prima di voltarsi di nuovo verso la riva. Chiamò Kilczer e lo invitò a raggiungerla, lui però rifiutò subito, e si scostò per evitare gli schizzi che la ragazza gli lanciava addosso. La temperatura era troppo bassa per indugiare oltre il necessario. Dorthy tornò a riva e si asciugò con i suoi indumenti, accorgendosi solo allora dell'odore di cui li avevano impregnati quei giorni di sudore e di malattia. Il sole, incombente sul lago tenebroso, si specchiava nelle gocce che le scintillavano sulle braccia e le empiva di luce rossa, come se il suo corpo stillasse sangue da mille ferite. — Non c'è nessun pericolo — disse a Kilczer. — Dovresti rinvigorirti con un buon bagno, ti farebbe bene. — Si asciugò alla meglio i capelli,
mentre lui educatamente distoglieva lo sguardo dalle sue nudità. Quando la ragazza si chinò a raccogliere il reggiseno, Kilczer disse: — Vado a cercare qualcosa da mangiare. — E si allontanò prima che lei avesse cominciato a rivestirsi. Senza fretta lei indossò la tuta e si allacciò gli stivali, poi cercò di riunirsi i capelli in due brevi trecce. La presunzione di Kilczer la stava infastidendo. Si comportava come se per aver fatto all'amore si fosse instaurato fra loro un legame ben preciso, mentre come molte donne Dorthy sentiva che l'atto era soltanto parte di un rapporto non necessariamente impegnativo. Non più di tre volte? Con la maggioranza dei suoi partner era andata a letto una volta sola, e in metà dei casi non era rimasta per il resto della notte. In quanto a Kilczer, sapeva perché s'era opposta al suo abbraccio mattutino: mai immergere se stessa in un altro, mai aprirsi fino a quel punto. Ma lì era con lui ogni minuto, in un modo che volenti o nolenti li legava, e com'era ovvio lui si aspettava di non essere il solo ad aprirsi. Be', decise, lei non lo avrebbe fatto. E comunque, adesso dove diavolo era andato a cacciarsi? Uscì dal canneto, guardò a destra e a sinistra sulla fascia di spiaggia fra la foresta e il lago e non ne vide traccia. Spaventato da creature acquatiche che non c'erano, pensò, e poi spariva nella boscaglia per sparare ad animali che probabilmente non si sarebbero rivelati commestibili. Ma quel risvolto dell'acredine che provava per lui ebbe l'effetto di farle sentire il bisogno della sua compagnia. Fu solo mezzora più tardi che Kilczer ritornò, a mani vuote. Raccolsero le loro cose e partirono, masticando pezzi della carne avanzata dal giorno addietro. Lui le chiese se si sentiva bene, e la sua formale sollecitudine la irritò; quella, più il lieve prurito che precedeva sempre il suo periodo mensile, e che nel camminare aumentava. Senza dubbio aggravato dall'amplesso della sera prima. Cominciò a marciare tenendosi un passo dietro di lui, e dopo un po' Kilczer rinunciò alle sue chiacchiere e si limitò a precederla in silenzio, il fucile a tracolla, il piccolo sacco arancione che gli oscillava contro la gamba destra. Procedettero a quel modo per dodici ore di fila, fermandosi solo quando Kilczer abbatté un animale piuttosto veloce, una sorta di antilope non più grossa di un cane, fornita di piatte corna orizzontali affilate come lame di coltello e lunghe un braccio. Ma si accorsero che aveva sei zampe e la lasciarono dov'era caduta. In quella zona la riva era rocciosa, una scarpata di granito frantumata dalle acque e cosparsa di cavità terrose dove i cespugli riuscivano ad af-
fondare le radici. La foresta era una linea scura lontana qualche centinaio di metri. Più avanti, le montagne: l'orlo del cratere che avrebbero dovuto scalare per raggiungere il campo del maggiore Ramaro, al di là delle nebbie che velavano i dirupi. Fecero sosta al riparo di alcuni grossi macigni e cenarono con i resti della carne, che anche ammorbidita nell'acqua risultò difficile da masticare. Dopo quella misera cena Dorthy ebbe dei crampi all'addome; si appartò, strappò via la fodera a una manica della tuta e se ne fece un assorbente, irritata di avere necessità che agli uomini erano risparmiate. Quando più tardi Kilczer venne a metterle un braccio intorno alla vita lei gli disse chiaro e tondo che aveva le mestruazioni. — Oh, a me non importa — fu la sua cortese risposta. — Be', a me sì — disse Dorthy, e si sciolse dal suo abbraccio. Kilczer si alzò in piedi, girò intorno al fuoco che aveva acceso e lo ravvivò con qualche calcetto. Le scintille svolazzarono attorno come lucciole, e dai frammenti di legno si levarono infine fiammelle bianche e azzurrine. L'uomo si girò come se stesse per dirle qualcosa, ma poi scosse il capo e tacque. Si distesero a dormire a qualche metro di distanza l'uno dall'altra. Il giorno dopo fu più o meno uguale per loro, anche se Dorthy usò il fucile per tirare a un animale piuttosto grosso che li osservava da una cresta rocciosa distante circa mezzo chilometro. Kilczer aveva sprecato una dozzina di pallottole senza neppure disturbarlo, prima di consegnare l'arma a Dorthy. Lei si premette il calcio contro la spalla destra, vi poggiò la guancia e prese la mira con calma tenendo presente la deviazione del vento che scendeva dalle montagne. Il lieve rinculo contro la spalla le parve una pacca con cui il fucile si congratulava con lei, perché oltre la distesa di monticelli sassosi che li separava il goffo animale si abbatté come se gli avessero tagliato d'un colpo tutte le zampe. Kilczer si lasciò riconsegnare il fucile senza commenti, poi s'incamminarono verso la preda. Dorthy contò più di seicento passi, dunque circa mezzo chilometro. L'animale era stato colpito alla testa, piatta e ossuta, proprio dietro un occhio bulboso; c'era pochissimo sangue. Aveva quattro lunghe zampe pluriarticolate e un corpo biancastro e grinzoso come l'addome di un ragno. A parte una criniera rossiccia era privo di peluria. Le mandibole, simili alle ganasce di una scavatrice meccanica, avevano denti larghi e piatti. — Questo non compariva nel catalogo di Chavez, se ricordo bene — disse Kilczer girandogli attorno. — Che venga dalla Terra?
— Non so molto degli erbivori che c'erano un milione di anni fa, però non credo. — Neppure io. — Lui lo esaminò qua e là, incise la pelle e immerse un dito nel sangue, lo annusò, quindi lo dichiarò commestibile. Tagliò via spesse strisce di carne dai quarti posteriori, e dopo che ebbero acceso il fuoco le arrostirono su un sasso piatto. Dorthy le assaggiò dapprima cautamente, poi con avido appetito. Era carne un tantino fibrosa e dolciastra, ma all'altezza di quella che si poteva trovare in un ristorante. Mangiò fino a saziarsi del tutto e poi si appoggiò alla roccia dietro di lei, pervasa da una sensazione di benessere. — La sola cosa che mi manca, adesso, è un buon sorso di pinot noir. — Di cosa? — Vino rosso. Un bicchiere di quello, e magari una fetta di formaggio. Ehi... cosa c'è? — si allarmò, nel vederlo alzarsi all'improvviso. — Mi sembra di vedere del fumo, laggiù. Anche Dorthy si alzò. Qualche chilometro più avanti la foresta scendeva fino al lago. C'era una nebulosità che sembrava spiraleggiare sottile dalle chiome degli alberi, difficile da distinguersi sullo sfondo scuro e punteggiato di stelle del cielo. — Che sia un accampamento? Andrews? Ma perché avrebbero bisogno di un fuoco? — Forse è un bivacco. Ma non necessariamente di esseri umani — disse Kilczer. Per un poco fissarono quel lontano filo di fumo, ma non videro altro. Infine Dorthy tornò a sedersi, dopo aver radunato un po' di frasche sotto di sé. — Tanto vale metterci a dormire — suggerì. — Non hai torto. Per capire cos'è dovremmo avvicinarci. — sospirò Kilczer, e sedette pesantemente al suo fianco. Abbassò lo sguardo su di lei. Dorthy gli passò un braccio intorno alla cintura, attese che si chinasse a baciarla e aprì la bocca contro la sua. Stavolta fecero all'amore con più calma, lentamente, anche se quando non ebbero altro da darsi che un ultimo bacio ansimavano entrambi, sfiniti. Poi lei gli poggiò la testa su una spalla e chiuse gli occhi, addormentandosi in quella posizione. Dorthy si svegliò con un sussulto da un sogno nel quale aveva corso nella luce rossa di una vasta pianura all'inseguimento di qualcosa. Qualcosa che... ma l'immagine onirica era già scomparsa. Si alzò e andò dietro una
roccia per le sue necessità, e notò che perdeva ancora sangue. Sistemò meglio l'assorbente, si rivestì, poi percorse con lo sguardo la boscaglia presso la riva del lago, in distanza. La spirale di fumo era ancora là. Kilczer dormiva della grossa, con un'espressione innocente sul volto arrossato dal sole. Il suo Talento era inattivo, non le lasciava captare alcuna emanazione. Di nuovo insonnolita, troppo pigra per speculare sull'origine di quel fumo, tornò a sdraiarsi accanto a lui e si riaddormentò subito. Quando furono pronti per rimettersi in marcia, il fumo era sempre in vista. Kilczer fece l'ipotesi che ci fosse un tratto di sottobosco in fiamme. — Troppo grosso per essere un fuoco da campo, direi. Ma potrebbe essersi appiccato all'altra vegetazione. Si misero in cammino. La riva curvava all'interno, e la sponda percorribile si restrinse sempre più fino a trasformarsi in un acquitrino fangoso da cui spuntavano macigni e assembramenti di canne. Dorthy e Kilczer procedettero alla meglio cercando i tratti dove non si sprofondava troppo nella melma, ma aprirsi la strada fra le folte piante acquatiche era una fatica, e più volte furono costretti a passare a guado buche profonde, insozzandosi di fanghiglia nerastra fino alla cintura. Alla fine si arresero e deviarono all'interno verso la boscaglia, sul terreno solido. — Quel fuoco dev'essere da queste parti — disse Kilczer, — a meno che io non abbia valutato male la sua distanza dalla riva. — Supponiamo che sia la foresta in fiamme — si preoccupò Dorthy, ricordando la velocità con cui si propagavano gli incendi sulla costa australiana. — Correremo il rischio. — Nella speranza che sia Andrews? — A dire la verità, non lo credo. Ma dobbiamo accertarcene. Se fosse un incendio potremmo sempre rifugiarci nel lago, no? — Un programma poco invitante, senza una barca — borbottò lei. — Vuol dire che ti cercherò una barca. D'accordo? Rialzandosi, il terreno si faceva se non altro solido e meno roccioso. Poco dopo si trovarono a camminare fra alberi bassi e ben spaziati, fra cui era facile procedere malgrado la seccatura delle loro radici superiori che s'intrecciavano al suolo come fasci di serpenti. I rami avevano un aspetto rigonfio e molliccio, e molti erano cosparsi di una polvere fine come talco che al minimo urto si disperdeva nell'aria. Kilczer ricominciò a tossire. Infine si decise a raccogliere fra le dita un po' di quella polvere e la esaminò, ingrugnito. — Guarda che roba — disse, voltandosi. — Queste sono
spore, prodotte dai noduli dei tronchi più sottili. In seguito all'ultima pioggia, direi. Mi chiedo se lo facciano tutto l'anno. Ogni giorno planetario, intendo. — Ha importanza? — Dorthy si chinò per passare sotto un ramo basso e scavalcò un viluppo di radici contorte. — Ricordi i batteri marini, quelli che producono la maggior parte dell'ossigeno? Sono di origine artificiale. Mi chiedo se anche questi alberi lo siano. Con un successivo adattamento ambientale. — Ma cosa c'è di tanto speciale? La bioingegneria era all'ordine del giorno anche nell'Età dello Spreco. — Dopo l'Età dello Spreco, per esser precisi, prima dell'inizio della guerra e dell'Interregno. Ma allora i lavoratori non producevano microrganismi dal niente, su semplice progetto. Delle spore... mi chiedo fino a che distanza possano volare. Questo può significare che le zone fertili non sono geneticamente isolate, e spiegherebbe perché dai primi accertamenti non siano risultate differenze genetiche. Be', fra le piante, almeno. Ma per gli animali penso possa valere lo stesso ragionamento. Forse tutti gli scarti sono stati tolti dal loro codice genetico. — La civiltà potrebbe essersi spenta solo un migliaio di anni fa. O potrebbe esserci ancora. Quali scarti, comunque? — Circa metà dei geni che abbiamo nelle nostre cellule non servono a niente. Alcuni sono DNA parassiti, che vivono sui cromosomi semplicemente per riprodursi con la normale divisione cellulare. Virus interni, se vogliamo dir così, inattivi, vestigia sorpassate dall'evoluzione e senza più funzioni da espletare. Ma toglili di mezzo, e il potenziale evolutivo si abbasserà. Ecco perché mi chiedo se tutto qui non sia stato costruito o modificato. Passato in laboratorio. Questa stella ha una costante solare piuttosto stabile, perciò non origina mutamenti climatici tali da influenzare l'ecologia. Forse è per questo che il Nemico sceglie le nane rosse, non credi? Un progetto a lunghissima scadenza. Pensa a quante ce ne sono nella galassia, Dorthy. Che percentuale? Non contiamo le nane scure o quelle nere, che sono appena grossi pianeti. Quale sarà, il cinquanta, il sessanta per cento? — Più dell'ottanta per cento, se lasciamo stare le sub-stelle. Almeno, in questo braccio della spirale. Sul centro galattico non si possono fare che ipotesi. — Più di trecento miliardi di stelle come questa, dunque. Naturalmente molte sono variabili a breve termine. Però... e i pianeti intorno alle nane rosse non hanno una loro ecologia. Facili da inseminare, dopo che li hai
planiformati. — Purché tu sappia come dar loro il giorno e la notte con una buona spinta rotatoria. Ma suppongo che si possano esprimere le teorie più diverse. — Una per ogni scienziato venuto fin qui, ci scommetterei. Andrews fa più rumore di tutti, però ciascuno di noi ha le sue idee, com'è naturale. Be', speravo solo che potessimo restringere il campo. — Tu restringilo. Io farò del mio meglio per uscire da qui. Kilczer spinse via un ramo e fu avvolto da una nuvoletta di spore. Agitò l'aria davanti alla sua faccia, e quando ebbe finito di tossire disse: — Prendi su per quella scarpata. Muoviamoci. Sempre continuando ad arrampicarsi, girarono in semicerchio, e si accorsero che dietro la piccola altura c'era una baia. La foresta si sfoltiva, e fra le chiome degli alberi riapparvero squarci di cielo rosso, frammenti del gigantesco sole. Dorthy ruminava sulle diversità fra le stelle, e si figurò la bolla di spazio esplorato al confronto della galassia: una diatomea in quel lago, un minuscolo atollo nel più grande oceano della Terra. Poche dozzine di stelle fra quattrocento miliardi. Perduta nei suoi calcoli oziosi non si accorse che Kilczer s'era fermato, e gli urtò addosso. Più avanti, oltre i rami simili a quelli di pino, una spessa colonna di fumo saliva nel cielo scuro. Il terreno declinava bruscamente, e i due scesero appoggiandosi agli alberi e ai macigni che costellavano il versante. Più in basso, quella che avevano scambiato per una baia era l'estuario di un corso d'acqua piuttosto ampio. Scorreva in fondo a una valle i cui fianchi terrosi avevano ceduto, trascinando giù migliaia d'alberi che ora si accavallavano in caotiche collinette di tronchi, e grandi fuochi stavano bruciando sulla riva opposta. Anche a quella distanza, i mandriani che si muovevano fra essi erano chiaramente visibili. — Spero che tu non venga a dirmi che questo è un comportamento istintivo — sussurrò Dorthy, vincendo l'impulso di abbassarsi dietro qualche riparo. Kilczer si aggrappò con una mano a un alberello e alzò l'altra per ombreggiarsi gli occhi. Dopo un po' disse: — Laggiù devono essercene trenta o quaranta. Non vedo vermi. Sicuramente i vermi non sono loro, non possono essersi trasformati in così poco tempo. Saranno otto giorni, nove, che hanno cominciato la loro migrazione. — Ci sono altri gruppi oltre quello che stavamo seguendo — gli ricordò
Dorthy. E ripensò al primo mandriano da lei visto presso il campo sul lago. Che avesse appena subito la metamorfosi? — Lo so bene. Ma... vedi quel che vedo io, su questa riva? Dorthy gli si appoggiò a una spalla e guardò dove lui le stava indicando. In fondo al declivio che scendeva nel fiume, dalla loro parte, galleggiavano tre oggetti oblunghi di forma regolare. — Barche — disse Kilczer, spingendosi via dall'albero verso il basso. La sua voce vibrava d'eccitazione; ciò che vedeva era il modo per sfangarsi dalla foresta, una possibilità di azione. — Te l'ho detto che ti avrei procurato una barca! — esclamò, saltellando di qua e di là per ancorarsi agli alberi. Dorthy lo seguì per la discesa, immune a quell'improvviso attacco di euforia e fiducia in se stesso. Dentro di sé l'uomo era ancora convinto che i mandriani fossero semplici animali, e con il fucile in mano lui aveva già affermato la sua superiorità su ogni animale incontrato fin lì. Quando giunsero in un punto dove gli alberi tornavano ad infittirsi Kilczer si fermò, e attraverso i rami sbirciò i cumuli di tronchi caduti, le lente acque del fiume e i mandriani che si muovevano sull'altra riva. Dorthy si accovacciò al suo fianco, tolse la scatoletta di plastica del contro-agente dal taschino della tuta e spinse il pulsante, facendosi cadere una pastiglia sul palmo. Il click del piccolo meccanismo fece voltare di scatto Kilczer. — Che stai facendo? — le chiese, e quando Dorthy gli mostrò quel che aveva in mano, imprecò, cercando di fermarla. Ma lei fu svelta a evitarlo, si mise la pastiglia in bocca e la inghiottì. Kilczer la afferrò per un polso. — Ma sei impazzita? L'ultima volta che ci hai provato sei caduta in trance. Non riuscirò mai a portarti via in spalla da questo posto, se succede di nuovo! — I capelli gli erano ricaduti sulla faccia. La lasciò andare e se li scostò con un gesto rabbioso. — Speriamo che le cose vadano meglio, allora — disse lei. — Comunque ci vorrà un po' prima che cominci l'effetto. Kilczer scosse il capo e tornò a guardare oltre il fiume. Numerosi mandriani erano al lavoro intorno a uno dei grossi fuochi, e lo stavano circondando con un argine di terra. Due o tre, sulla riva più vicina, appiattivano lunghe tavole di legno. — Utensili — borbottò l'uomo. — Piuttosto primitivi. Quei fuochi... forse per ottenere carbone, o indurire il legname. Resina per calafatare le barche, magari. Ma perché possono volere delle barche? — Fra una mezz'oretta sarò in grado di toglierti la curiosità — disse Dorthy, sempre accovacciata accanto a lui.
— Sempre che tu riesca a capirli. E se non scapperai di nuovo via come una sonnambula. All'inferno! Il perché costruiscono barche non m'interessa troppo; quello che so io è che ne voglio una. Per aggirare il lago occorre una settimana di marcia, e forse più, se il terreno fosse difficile. Con una di quelle barche possiamo attraversarlo in mezza giornata. Guarda quella roba sull'altra riva: sembrerebbero delle pezze di stoffa. — Io so manovrare una barca a vela. Però quelle non hanno l'albero. — Non ancora. Ma non voglio aspettare che costruiscano gli alberi. Guarda sulla poppa. Se non sbaglio sono scalmi di legno, quelli. E là sulla piattaforma di tronchi ci sono dei lunghi remi. Devono avere una gran forza per riuscire a remare con quei pali. Credi che tu ed io ce la faremmo? Lei gli toccò un braccio. — Non essere impulsivo. Preferisco sette giorni di cammino intorno al lago che essere sbranata da uno di quei carnivori. — Quello laggiù è l'unico passo transitabile che porta su fino al cratere. Dobbiamo arrivarci prima dei mandriani, se è vero che stanno andando là. — Questa è il solo elemento certo che ho ottenuto dal mio primo tentativo. — Mmh! Dunque costruiscono barche per attraversare il lago, forse. Non gli va di attraversare la foresta, o magari sanno che per quella strada non è possibile andare. — Kilczer le gettò un'occhiata di traverso. — Non avresti dovuto provarci adesso. — Ormai non posso tornare indietro. Se mi lasci fare, mi preparerò meglio che posso. Conoscere le loro intenzioni non può peggiorare le nostre possibilità, no? — Ma ciò che voleva era di non fare un passo in più verso il fiume; per questo motivo soltanto aveva preso il contro-agente. Kilczer scosse il capo con un sogghigno un po' amaro che diede un'espressione truce al suo volto, pallido e barbuto. — Penso di no, infatti. Hai ragione, non avrei dovuto essere così precipitoso. Meglio aspettare il nostro momento. Dorthy capì che nulla lo avrebbe distolto dall'idea di rubare una delle barche, e sentì nascere in sé una paura gelida e strisciante. Con voce incerta mormorò: — Posso comprendere i tuoi impulsi, ma sono convinta che tu stia per fare una pazzia. Kilczer si issò a sedere su un ramo basso da cui poteva vedere tutto e osservò i mandriani al lavoro con l'espressione intenta di un antropologo nell'esercizio della sua professione. Dorthy sedeva a gambe incrociate, ascoltando i battiti del suo cuore e respirando con lentezza. Niente se non le onde alfa. Autoaffondarsi giù dalla superficie d'argento, nelle tenebre. Tene-
bre in cui lei si dissolveva, lasciando che le luci di altre menti cominciassero a lampeggiare attraverso il sipario. I pensieri analitici ma affilati di Kilczer erano una distrazione troppo vicina, che lei doveva aggirare per scoprire gli altri. Giù sul fiume non c'erano entità separate, si sarebbe detto, bensì menti legate a un singolo scopo, come onde che si muovessero verso una costa imprecisata, come pesci di un vasto branco che reagissero agli stessi stimoli con gli stessi colpi di coda, come impulsi lungo un nervo collegato a... d'un tratto Dorthy vide la visione che li univa tutti: la torre, verso la torre! Stavolta sapeva che quello stimolo non apparteneva a lei. Parlò quasi senza muovere le labbra, dal centro della sua immobilità: — Si stanno preparando ad andare. Alla torre. È urgente. Non so il perché... — Cosa faranno quando saranno arrivati? — Le parole di Kilczer erano l'eco dei pensieri che emergevano, come delfini che alzassero la testa, dalle complesse correnti delle sue emozioni, paura e curiosità, decisione e impazienza, ogni impulso che confluiva in tutti gli altri. Non più una superficie calma, ma uno specchio frammentato e tridimensionale. Dorthy doveva attraversarlo, adesso, non più aggirarlo. Fuori. Fuori verso l'unico scopo che lavorava a ritmi diversi. Ittaikan, pensò. Il legame di appartenenza. Tuttavia, dietro quell'apparente unità, stagnavano, si contraevano, e si dilatavano i pensieri dei singoli: brevi lampi d'individualità, sogghignanti, pericolosi come barracuda in attesa sui bassifondi. Dorthy mormorò: — Loro non sono mandriani, o non come quelli delle pianure. Qualcos'altro. Solo da poco tempo... venuti a riunirsi... verso la torre. È difficile. Non chiaro. — Per favore, calmati. — Attraverso la tenebra sentì la mano di lui che le stringeva un polso. Riaprì gli occhi. Per qualche istante tutti gli elementi della sua visione interna si sovrapposero a quelli concreti che le stavano attorno. — Ce la fai a camminare? — chiese Kilczer. — Sono tutti dall'altra parte del fiume, adesso. Trascinano dei tronchi. Per accendere un altro falò, suppongo. — Lo so. C'è qualcosa accanto al fiume... — Hanno sgombrato questa riva — disse lui con fermezza. — È il momento. Muoviamoci. I mucchi di alberi spezzati e di ramaglie rendevano difficile il cammino in quella mezza luce. Dorthy si concentrò su ogni passo che faceva, soprattutto per schermarsi dalle emozioni di Kilczer a cui si mescolavano gli or-
ribili e brulicanti pensieri dei mandriani concentrati sul loro unico scopo. Più volte dovettero chinarsi, quando parve loro che gli esseri sull'altra riva del fiume li guardassero; ma Dorthy sapeva che erano intenti ad ammassare pesanti tronchi ed a scavare un canale di scarico per raccogliere la resina che ne ottenevano. E ogni volta che si accucciava accanto a Kilczer poggiava al suolo le mani in un'inconscia imitazione dei loro atteggiamenti. — Vieni! — la incitò lui dandole di gomito, e Dorthy gli tenne dietro. Mancavano ormai pochi metri al fiume, dove le barche ondeggiavano appena nella corrente. Non erano che rozze scialuppe rettangolari, fatte di tavole distorte e unite con una grossolana tecnica a incastro. A poppa avevano una piattaforma di tronchi e un trespolo che fungeva da scalmo. Gli stivali di Dorthy sollevarono spruzzi e fanghiglia dietro una delle barche. Alle sue spalle sopraggiunse Kilczer, che gettò a bordo due dei grossi remi e poi la aiutò a scavalcare la sponda, saltando su dopo di lei. E in quel momento il mandriano che dormiva sul fondo dell'imbarcazione si alzò in piedi. Dorthy balzò indietro d'istinto, inciampò nella sponda e quasi rotolò di nuovo nell'acqua, mentre l'improvviso panico dell'essere peloso si mescolava al suo; poi i pensieri del mandriano si spensero con un'esplosione nera, perché Kilczer lo aveva violentemente colpito in pieno muso con il calcio del fucile, facendolo cadere all'indietro. L'uomo si guardò attorno, sprigionando pensieri frenetici e confusi; raccolse un'ascia di pietra a forma di scalpello, più grossa di un suo polpaccio, e prima che il mandriano potesse rialzarsi gliela abbatté sul cranio. Dalle zanne acuminate della creatura uscì un rantolo, e lungo la pelliccia del collo semicoperto dal cappuccio colò un rivolo di sangue nero. — Non l'ho ucciso — ansimò Kilczer dopo qualche istante. Le fece un cenno. — Dobbiamo andarcene. Presto! Dorthy fece un paio di passi e quasi cadde sopra il mandriano, che si agitava storditamente sul tavolato. Kilczer aveva estratto il coltello a serramanico. Lei percepì quello che il compagno voleva fare ancor prima che lui lo dicesse, poggiò uno dei pesanti remo sullo scalmo, alto quanto lei, e usò tutta la sua forza per spingere la barca nella corrente. Sull'altra riva i mandriani li avevano visti e accorrevano, scendendo a balzi giù per la scarpata; altri andavano in direzione del lago, forse per precederli. Dorthy puntò il remo contro il fondale di ghiaia e fango, spinse ancora e la prua dell'imbarcazione fu spostata a destra dalla corrente più veloce in cui erano entrati. Kilczer stava legando le braccia e le gambe del mandriano semisvenuto con strisce di stoffa che s'era tagliato via dalla tuta.
Alcuni dei mandriani stavano ora attraversando il fiume a nuoto, con i cappucci che ondeggiavano intorno alle loro facce. C'era qualcosa di sbagliato in quelle fronti pelose, ma Dorthy non poté riflettervi oltre, perché un oggetto fu scagliato contro di lei dalla riva e dovette chinarsi mentre la grossa pietra le passava sopra la testa come un proiettile. Un'altra colpì in pieno il bordo massiccio e rimbalzò nell'acqua. Kilczer afferrò il fucile e lasciò partire una dozzina di colpi facendo sollevare alti schizzi davanti all'orda dei nuotatori, che smisero di avanzare e si dispersero. China sul remo di poppa Dorthy ce la metteva tutta per spostare la pala da una parte e dall'altra. Più avanti le sponde rocciose si alzavano, e la ragazza vide che i mandriani accorsi laggiù avevano afferrato alcune funi di liane intrecciate, cominciando a tirare verso di loro una grossa rete appesa sulla riva opposta del fiume. Accorgendosi che quel viluppo di vegetali galleggianti avrebbe sbarrato del tutto l'uscita verso l'estuario, gridò un avvertimento a Kilczer. L'uomo corse a prua con il coltello in rnano mentre già impattavano nello sbarramento, e prese a tagliare con foga le liane bagnate. Molte cedettero subito, altre furono strappate dal peso della barca che la corrente portava avanti, e fra una pioggia di sassi scagliati rabbiosamente dai mandriani oltrepassarono l'ostacolo. Pochi secondi dopo erano al centro del piccolo estuario, e poi dinnanzi a loro ci fu la distesa aperta del lago. Kilczer venne a poppa e si mise al remo, che senza l'aiuto della corrente Dorthy non era più capace di manovrare, e la ragazza imbracciò il fucile. A ogni palata il rozzo barcone ondeggiava, facendola barcollare, ma lei si tenne salda e divise la sua attenzione fra la riva boscosa, ancora vicina, e il mandriano che avevano a bordo. S'era tirato a sedere contro la prua, con le braccia legate dietro la schiena, ma sembrava ancora completamente stordito dalla ferita che Kilczer gli aveva inferto alla testa. — Ce l'abbiamo fatta! — esultò l'uomo, lavorando al remo con energia. — Gliel'abbiamo fatta vedere a quei diavoli, eh, Dorthy? — Sicuro — annuì lei, contagiata dalla sua euforia. Dopotutto erano sfuggiti a un pericolo e di nuovo padroni del loro destino, almeno per il momento. Non sembrava che i mandriani avessero intenzione di inseguirli, e dopo un poco Kilczer trasse a bordo il remo e scese dalla piattaforma, facendosi consegnare il fucile. — Cosa leggi nella mente del nostro amico, qui? — È ancora più o meno privo di sensi. — È un maschio, secondo te?
— Quelli erano tutti maschi. — Ah! Ma c'è qualcosa di diverso nella sua testa. Vedi che strana fronte rigonfia? Idrocefalia, forse. Questo non è un mandriano normale. — Kilczer diede un colpetto a una gamba della creatura con la canna del fucile. Aveva piedi lunghi, arcuati, con il calcagno che sporgeva molto all'indietro e tre dita piatte fornite di artigli larghi e robusti. Il suo pelame nero rifletteva i raggi del sole con una lucentezza singolare, quasi che ogni singolo pelo avesse una struttura cristallina. L'uomo emise un borbottio. — Forse questo è lo stesso che hai visto nella foresta il giorno del nostro arrivo. Devono essersi radunati da ogni angolo della zona fertile, con i greggi di vermi, e tutti stavano cambiando. Per un breve istante la visione di un'orda di quegli esseri che si muoveva sui percorsi spiraliformi al centro del cratere sopraffece Dorthy. — È più magro degli altri. Un esemplare ancor meno piacevole a vedersi, eh? — Dietro i pensieri di Kilczer ci fu un fiotto di ripugnanza. — Il tuo Talento è ancora in funzione? — Naturalmente. — Vedi cosa puoi cavarne fuori, appena riprende i sensi — disse Kilczer. Le restituì il fucile e tornò al remo. Il rullio della barca e il monotono scricchiolio dello scalmo che Kilczer forzava a destra e a sinistra avevano un effetto soporifero. Dorthy non si accorse del momento preciso in cui il mandriano rinvenne, ma ad un tratto percepì la sua attenzione focalizzata su di lei. Quando lo guardò, l'essere ebbe un moto come per ritrarsi e piegò le gambe. Sotto il gonfiore della sua fronte i grandi occhi si allargarono, mentre due membrane chiare si aprivano scoprendo del tutto le pupille orizzontali. Dorthy seppe che si trattava di una reazione simile al panico, e indietreggiò anche lei, finché non sentì una mano di Kilczer su una spalla. La barca andava avanti da sola, sulla spinta della lieve corrente in uscita dal fiume. — Non preoccuparti — gli disse. — È lui che ha paura di me. Di noi. — Cos'altro sta pensando? La vivida fiamma del panico occludeva però ogni altra cosa, anche l'impellente visione-bisogno di arrampicarsi verso la torre. — Pensa che stiamo per ucciderlo — disse Dorthy. — No, peggio: per ucciderli tutti. Ci vede nell'atto di abbattere il cielo su di loro. Questa è l'interpretazione più vicina che riesco a darne. Kilczer fece un paio di vogate, poi disse: — Devono essere stati i suoi genitori a comunicargli che siamo scesi dal cielo. Ma mi chiedo come fa-
cessero loro a saperlo. — È tutto troppo mescolato alla sua paura. Non percepisco qualcosa di abbastanza nitido. — Devi continuare a provarci — disse Kilczer. Così, mentre lui remava, Dorthy sedette sul bordo della piattaforma di poppa e focalizzò l'attenzione dentro di sé, dove la mente del mandriano baluginava come il riflesso di una candela nella tenebra di percezioneimmobilità da cui lei la spiava. Cominciò a distinguere delle forme, dei simboli di creature visibili oltre la paura di lui, ciascuna isolata e pietrificata come strani pezzi di scacchi in una confusa scacchiera tridimensionale. La mente di lui tratteneva solo pochi ricordi, poca conoscenza appresa, e tuttavia sotto la sua superficie esistevano zone oscure a cui Dorthy non aveva accesso, sigillate, come riserve di capacità e conoscenza ancora mai toccate. La sua identità consapevole era uno schermo luminescente che racchiudeva il cuore isolato della memoria, qualcosa di simile alla mente di un essere umano colpito da amnesia ma senza gli stessi sprazzi di contatto casuale fra il conscio e l'inconscio. Dorthy tornò in superficie e riaprì gli occhi. Adesso erano molto distanti dalla riva, diretti verso il grande fiume che alimentava il lago, lontano chilometri e chilometri. Lo scafo ondeggiava appena sulle onde lunghe e basse, al ritmo del remo. Il sole era pressoché allo zenith, incombendo più che mai in quel cielo scuro, e l'aria sembrava finalmente più calda. Kilczer si tolse la giubba della tuta, e l'atto mandò un lampo di spavento, seguito da curiosità, nella mente del mandriano. — Si sta chiedendo perché indossi una falsa pelliccia — lo informò Dorthy. — È ancora impaurito? — Un po' meno. Ma non ho appreso niente di utile, salvo che ha una riserva di conoscenza a cui non ha mai attinto. Pensi che possa essere stata programmata nel suo cervello, in qualche modo? — Istinti, vuoi dire? — Manovrando il remo Kilczer grugniva e sbuffava. Ne aveva avvolto l'impugnatura con un pezzo di stoffa plasticata arancione, e se n'era annodata una striscia intorno alla fronte per tenere indietro i capelli. Questo, più i due centimetri di barba sul suo volto magro, gli dava un aspetto da pirata trasandato e malconcio. — Qualcosa di più. Questi mandriani potrebbero essere nati, se nati è la parola giusta, solo da pochi giorni, eppure li abbiamo visti lavorare insieme e costruire barche per raggiungere la torre. Non credo che abbiano già
una lingua, a parte forse qualche gesto espressivo, ma mentre lavoravano era come se facessero tutti parte dello stesso corpo. — Informazioni trasmesse a distanza. Così, più tardi potrebbero sviluppare un linguaggio? — Ricevendo lo stimolo adatto. — Come quei campioni di scrittura alla torre. — Forse — disse lei, captando la catena di ipotesi che si accavallavano nella mente dell'uomo come lastre di ghiaccio in collisione, un caos almeno familiare e confortevole dopo gli abissi d'ombra del mandriano. — Sto cominciando a chiedermi — disse Kilczer, come lei aveva previsto, — se non sia la nostra presenza a innescare questi cambiamenti. Andrews mi ha detto che l'analisi dei neutrini fa pensare che nella torre non ci siano state attività energetiche da migliaia di anni. Poi, quando arriviamo noi, gli invasori, la torre si sveglia. E invece di altri mandriani privi d'intelligenza nascono, o escono dal bozzolo, questi nuovi maschi in cui c'è l'impulso inarrestabile di andare alla torre. Una sorta di chiamata alle armi, forse, non credi? In questo caso... — Dobbiamo precederli al cratere, e avvertire Andrews. Fatto singolare, a Kilczer non importava affatto che lei gli strappasse così i pensieri dalla testa. Non era uno a cui l'intimità importasse in modo particolare. — Senza dubbio — affermò. — E più riesci a tirar fuori dal nostro amico, meglio è. — Ci proverò. Ma tu rema e non pensare a niente. Lui fece del suo meglio per accontentarla. Ma dopo aver sondato lo strato esterno del mandriano, rispecchiato nello spazio senza direzioni dentro di lei, Dorthy fu un po' più cauta con ciò che aveva davanti. Le enigmatiche zone di conoscenza erano come ombre che intravedeva negli abissi marini, prive perfino di contorni identificabili. Nella luce chiara c'erano solo i fatti isolati della sua breve esistenza: il trauma della nascita (o più esattamente rinascita) dal bozzolo di crisalide, dolorosi sforzi verso la luce, frammentate scene di caccia, vita più corporale che psichica, il lavoro in riva al fiume, l'impaziente eppure tranquilla collaborazione con gli altri, e quel caldo e grato senso di appartenenza. Ma su tutto, stampata come un marchio su ogni pezzo della sua identità, c'era la torre che spuntava dal piccolo lago nero. Come poteva conoscerne l'esistenza? Dorthy rimuginò su quegli interrogativi, mentre il sole si faceva più caldo sulle sue spalle e Kilczer sudava al remo. Il Talento era ormai nella sua
fase calante. Con gli ultimi residui empatici lei si rese conto che il mandriano aveva sete, un bisogno che scivolava sul baluginare della sua paura come olio su uno specchio. Raccolse la giubba di cui Kilczer s'era liberato, la sporse oltre il bordo della barca finché fu inzuppata d'acqua, e poi gettò il pesante fagotto di fronte al mandriano. Lui la fissò emanando nervosismo e sospetto. Spinse un piede contro il fianco destro dell'imbarcazione, conficcando gli unghioni nel legno, e mosse le spalle accucciandosi a prua finché fu seduto in quella che per un essere umano sarebbe stata una posa impossibile: le gambe ripiegate sotto di sé, le vestigia di braccia centrali troppo corte per raggiungere il muso che si aprivano e chiudevano sulla folta pelliccia del petto muscoloso. D'improvviso si piegò in avanti e prese il fagottello bagnato fra le zanne. Dorthy ne fu distratta un momento da un affilato impulso d'attenzione trasmesso da Kilczer, la cui monotona vogata non mutò tuttavia di ritmo. Il mandriano strizzò la stoffa fra i denti, fissandola da sotto le sopracciglia pelose. — Cerca di sapere se ha anche fame — le suggerì Kilczer. — Non ce l'ha — disse Dorthy, ma prese dall'involto un pezzo di carne e glielo gettò. Il mandriano lo osservò, senza smettere di masticare, e guardò ancora la ragazza. Poi con uno scatto della testa le scaraventò addosso la giubba inzuppata. Una delle maniche le sbatté sui seni, mentre lei la afferrava al volo. Il mandriano abbassò il capo e s'immobilizzò. Stava pensando di nuovo alla torre, ma con emozioni diverse, una sorta di bramosia angosciata che Dorthy non era in grado di capire. Il Talento, ora che il suo impianto si liberava del contro-agente, spariva con rapidità. Da lì a pochi minuti tutto ciò che captava era un desiderio dai contorni sfumati, a cui si mescolava la testarda determinazione con cui Kilczer ignorava la fatica di quelle dure ore di voga. Dorthy insisté per prendere il suo posto, anche se entrambi avevano già visto che lo scalmo su cui poggiava il remo era troppo alto per lei. Seduto sul fondo dell'imbarcazione, pieno di sporgenze lasciate dai rozzi attrezzi con cui le tavole erano state spianate, Kilczer sorrise dei suoi goffi sforzi. Dietro di lui, rannicchiato a prua, il mandriano li fissava immobile. Da lì a poco anche Dorthy si sedette. — Mi spiace — sospirò. — Non preoccuparti, ci penso io. — Lui si passò una mano sul petto magro e bianco, appoggiò una mano alla piattaforma e si sporse fuoribordo per gettarsi un po' d'acqua in faccia e berne qualche sorso. Poi gettò un'occhiata verso prua. — Il nostro amico si è tolta la sete, o ne vuole ancora?
— Non sono più in grado di dirtelo. — Be', non importa. — Kilczer si tirò in piedi e con una smorfia tornò a manovrare il remo. — Dovresti riposare — disse Dorthy. — Siamo finiti nella corrente del fiume che alimenta il lago. Non hai notato che ci spinge fuori rotta? — Si controllò i palmi delle mani, aggiustò meglio la stoffa con cui aveva fasciato il remo e riprese a vogare con palate lunghe e profonde. La prua era puntata sul fiume che scendeva dalle montagne, già abbastanza vicino da consentire a Dorthy di vedere i singoli alberi ed i macigni bianchi di cui era costellata la riva del lago. L'acqua, in cui non si vedeva altro che tenebra, stava cominciando a intorbidirsi, e quando Kilczer riuscì a spingere la barca fuori dalla corrente sfavorevole prese uno strano colore fangoso, simile a quello del tè al latte che nell'Australia del nord tutti bevevano. Ora dalle montagne scendeva una brezza fresca: all'orizzonte, alto sui versanti costellati di pini, il nudo orlo del cratere s'immergeva in una nuvolosa foschia dai toni violacei. Kilczer era costretto a fare pausa sempre più spesso per riposare le braccia e asciugarsi il sudore. Più avanti si fermò, scosso da una serie di violenti colpi di tosse che lo fecero piegare in due, ma ai commenti preoccupati di Dorthy scosse le spalle e ricominciò a remare. Quando finalmente entrarono nel grande estuario del fiume, fra le sue rive boscose, alla sua corrente si aggiunsero gorghi e mulinelli. Con lo sguardo fisso sugli alberi, fra le cui ombre impenetrabili chiunque poteva nascondersi e spiarli, Kilczer continuò a dirigere la barca con lenta e laboriosa manovra. Infine mugolò: — Credo di aver bisogno di un po' di riposo. — Forse dovremmo lasciare qui la barca. La parte più difficile ce la siamo lasciata indietro, attraversando il lago. Avevi ragione tu, quanto a questo. Lui spinse il remo, lo trasse a sé, spinse ancora. — Ho avuto fortuna. Tutti e due l'abbiamo avuta. No, questa barca ce la siamo sudata e non la getteremo via. Non potrei fidarmi del nostro amico, lì nella foresta. — Cosa ci impedisce di lasciarlo andare? — No, sono contrario. Potresti cavargli fuori qualcosa di utile. — Ho già fatto del mio meglio. È difficile che ci sia altro da scoprire in lui. Un colpo di remo a destra, uno a sinistra. Kilczer aveva messo la prua sulla riva rocciosa, dove gli alberi crescevano fra spunzoni di arenaria alti
come case. — Dentro di lui c'è una conoscenza occulta, hai detto. — Ma non posso penetrarla. Tu sai che posso ricevere solo quello che sta pensando attivamente. L'equivalenza è quella del contatto elettrico, non del miscuglio chimico. — Questa conoscenza aspetta di uscire in superficie, no? Il nostro amico ha solo pochi giorni di vita alle spalle, almeno nella sua forma attuale. Qualche giorno ancora... — S'interruppe, perché la barca aveva urtato in un ostacolo. Dorthy si girò e vide alcune fronde spelacchiate oscillare oltre la prua, immersa fra i rami di un albero che galleggiava trasversalmente. Quando si accorsero che il tronco era solidamente incastrato fra i sassi del fondo, a una decina di metri dalla riva, Kilczer tolse il remo dallo scalmo e lo usò per spingere la barca parallela ad esso. Dorthy riuscì a incastrare uno dei rami più flessibili sotto la piattaforma di poppa, e quell'ormeggio si rivelò sufficiente. Kilczer si massaggiò le braccia indolenzite, fissando il mandriano che non s'era ancora mosso dalla posa assunta qualche ora prima. — Non illuderti di scappare, mostriciattolo — disse, e impugnò il fucile. Il robusto carnivoro affondò gli artigli dei piedi nel legno, ingobbendo le spalle. — Ah, vedo che mi hai capito. Dorthy, te la senti di sorvegliare l'amico mentre faccio un sonnellino? — Certo — annuì lei. E quando il compagno si fu disteso, bocconi, gli massaggiò le spalle finché non sentì la muscolatura rilassarsi sotto le sue dita. — Ah, va meglio — sospirò lui. Dorthy gli passò ancora le mani sul collo sudato e poi giù lungo le costole della schiena ossuta: il suo magro ma tenace amante bianco. Si addormentò quasi subito, con una tempia poggiata su un polso e una ciocca di capelli umidi che gli ricadeva sul volto. Dorthy gli si sedette accanto, tenendo una mano sul fucile. A prua il mandriano era di nuovo immobile, imperscrutabile, con le sue strane palpebre orizzontali semichiuse. Forse dormiva anche lui. Trascorsero le ore. Dorthy guardò il fiume che scivolava via lento, in uno spolverio di riflessi sanguigni sempre uguale, sempre mutevole, in cui le sue ansie si dissolvevano torpidamente. Ogni tanto tronchi fronzuti la oltrepassavano, roteavano nell'improvviso valzer di un mulinello e la rapida corrente centrale tornava a impadronirsi di loro.
Due ore dopo dagli alberi della riva opposta sbucò uno stormo di uccelletti grigi, che compirono un paio di giri intorno alla barca (facendo alzare lo sguardo al mandriano) e poi volarono via verso valle. Il prigioniero li fissò un poco e quindi riabbassò la testa, tornando a essere un'immobile massa di pelame nero con il muso celato nell'ombra del cappuccio. Più tardi Kilczer si alzò a sedere, stiracchiò le braccia e si sfregò gli occhi con un dito. — Ho dormito troppo? — chiese. Dorthy guardò l'orologio. — Quattro ore, più o meno. — Non volevo dir questo. — L'uomo salì sulla piattaforma e orinò oltre la poppa, dando le spalle a Dorthy e al mandriano. — Meglio muoverci, adesso. Approfittane per dormire un po'. Sorveglierò io il nostro amico, mentre remo. — Non sono stanca. Finora non ho fatto niente. — Sciocchezze — disse allegramente Kilczer. Si fasciò le mani con la stoffa plasticata e afferrò il remo. Appena Dorthy ebbe staccato il loro ormeggio, si portò un paio di metri più al largo, e tenendosi fuori dalla corrente centrale riprese a vogare di lena verso monte. Le sponde si alzarono, diventando ben presto muraglie di roccia nelle cui fessure si radicavano cespugli neri. Alla loro base c'erano lunghe spiaggette sassose, e in alto le chiome di alberi simili a pini si stagliavano sullo sfondo del cielo. Il sole a picco inondava il canyon di luce rossa. Più avanti il fiume girò intorno a una collinetta di detriti, e quando ebbero oltrepassato l'ansa Dorthy sentì il ruggito di una cascata. A mezzo chilometro da loro l'acqua precipitava, liscia come il vetro, in una grande conca fra le alture, e sul suo volto giunse l'umido bacio della nebbia che il vento strappava via dal ribollire di quelle spume. Dietro di lei Kilczer grugnì qualcosa, fece forza sul remo e spinse la barca in una piccola insenatura. Dopo qualche urto sui sassi del bassofondo la tozza prua andò a incastrarsi sulla ghiaia della riva. Il mandriano sussultò e si guardò attorno, facendo ondeggiare il cappuccio di pelle. Kilczer indossò di nuovo la giubba, ora priva anche di una manica, consegnò il fucile a Dorthy e frugò nel suo fagotto arancione tirandone fuori il coltello. — Coprimi — ordinò, gridando per farsi udire nel fragore della cascata, e andò a prua. Nel vederlo avvicinarsi, il mandriano cercò di alzarsi e agitò i piedi legati, scavando solchi con gli artigli nel legno non stagionato. Kilczer si chinò e recise i legacci di stoffa intorno alle sue caviglie pelose. — Muoviti, maledetto! In piedi!
Il mandriano si schiacciò con le spalle contro la sponda, convinto, Dorthy ne era sicura, che stava per morire. Kilczer lo afferrò per un braccio e cercò di farlo alzare, ma il mandriano scalciò con violenza. Colpito a un fianco l'uomo vacillò indietro e per poco non cadde contro la piattaforma di poppa. Con il cuore in gola Dorthy puntò l'arma, e il dito le tremò sul grilletto. Ma il silenzioso carnivoro si limitò a fissarli con attenzione, senza muoversi da dove stava. — Dev'essere convinto che io stia per ammazzarlo, l'idiota — ringhiò Kilczer massaggiandosi l'anca. — Il fucile, per favore. — E tu convincilo del contrario. — Ci sto provando, no? — disse lui, e sparò un colpo in aria. La secca detonazione fu appena udibile nel rumore della cateratta. Il mandriano fremette ma non ebbe altra reazione. Spazientita, Dorthy cedette a un impulso e riprese il fucile al compagno, che sorpreso da quel gesto se lo lasciò togliere di mano. — Scendi tu per primo — gli disse. — Coraggio. — Ma cosa pensi di... — Oh, muoviti, insomma! Dopo un'esitazione lui raccolse il sacco e balzò fuori, nell'acqua bassa della riva. Dorthy mirò al rudimentale assito davanti ai piedi del mandriano e sparò alcuni colpi che sfondarono il legno. Contorcendosi freneticamente lui cercò di alzarsi, mentre le schegge gli fioccavano attorno. La ragazza sparò ancora più volte, scossa dal rinculo dell'arma contro la spalla, finché vide, con uno spasimo di sollievo quasi fisico, l'acqua fiottare dagli squarci della chiglia. Poi mise un piede sulla sponda e saltò giù anche lei, sguazzando nella corrente che le turbinava intorno alle ginocchia finché fu all'asciutto accanto a Kilczer. La pesante imbarcazione si empiva con rapidità, e cominciò ad abbassarsi di poppa. D'un tratto il mandriano si decise, e benché avesse le braccia legate dietro la schiena oltrepassò la sponda con un balzo agile. Con i piedi a mollo in mezzo metro d'acqua si ingobbì, rigido e teso; gettò un'occhiata lungo il fiume, poi guardò Dorthy e il fucile che lei teneva puntato in basso con noncuranza. Infine, stolidamente e come rassegnato, raggiunse la riva e si fermò a qualche metro da loro. La barca girò lentamente su se stessa e si allontanò, restando immersa di traverso e con la sola piattaforma di poppa fuori dall'acqua. Uno dei remi galleggiò via per conto suo e fu preso nella corrente più veloce. Un minuto più tardi anche l'imbarcazione sparì oltre la curva dell'ansa. — Per gli abissi partiva quel relitto — citò Dorthy. — Senz'alberi e sar-
tiame, né timone, sinanco i topi l'avevan disertato. — Farne a meno mi dispiace — brontolò Kilczer. — D'ora in poi la strada sarà più dura per noi. — Stava guardando l'immensa slavina di sassi e terriccio che aveva creato l'ansa, un declivio che scendeva dal bordo del canyon almeno duecento metri più in alto. Dorthy poteva captare la disperazione del mandriano. — Non sarebbe meglio lasciarlo andare? — Perché raggiunga i suoi compari, e gli dica in che direzione stiamo andando? Non credo che sia saggio. — Ma non possiamo portarcelo dietro per tutta la strada fino al cratere! — È la stessa strada che vuole fare anche lui, non è così? O preferisci sparargli qui? — Naturalmente no, Arcady. Però non so se possiamo correre il rischio di portarlo con noi. — Faremo del nostro meglio. — Kilczer si volse al mandriano. — Muoviti, sali! — esclamò, aiutandosi con qualche cenno. — In alto, capisci? Stupida bestia... be', il fucile, almeno, lo rispetta. Io faccio strada, Dorthy. Tu convincilo a venirmi dietro. Dapprima il percorso fu facile. I macigni più grossi avevano formato una serie di giganteschi scalini, collegati dal pietrisco che ne aveva riempito i varchi. Un po' dappertutto spuntavano i bassi cespugli neri, alle cui fronde dure come il cuoio era possibile aggrapparsi sulle scarpate. Intorno alle buche piene d'acqua cresceva un'erbetta dagli steli bulbosi, che sotto le suole degli stivali scoppiavano come vesciche. Il mandriano procedeva davanti a Dorthy, agitando i gomiti per mantenere l'equilibrio. Ogni tanto Kilczer si voltava a controllare la sua posizione, sbuffando di fatica e rosso in faccia. In un tratto di salita, vedendo che il prigioniero s'era fermato, raccolse una pietra e a gesti e urlacci lo incitò a muoversi. Il mandriano ignorò i suoi atti minacciosi, ma quando l'uomo disgustato gettò via la pietra lui riprese a salire, affondando gli unghioni dei piedi fra i sassi del declivio. Più in alto il terreno si fece umido e cedevole, e salire divenne faticoso. Ostacolata dal fucile Dorthy scivolò un paio di volte, graffiandosi la mano libera, e quando finalmente giunsero in cima era così stanca che la vista della radura erbosa, circondata dagli alberi, la sorprese. La cascata distava da lì non più di cento metri, visibile oltre i rami dei cespugli che sporgevano nel vuoto: un inferno tonante d'acque che precipitavano facendo vibrare le pareti del canyon. La corrente d'aria generata dalla cateratta agitava in
continuazione le fronde dei pini; veli di spruzzi fini come nebbia si allargavano ovunque inzuppando la boscaglia. Kilczer andò a fermarsi sul bordo, in un punto terroso da cui un albero era franato in basso. Avvolto in quell'umidità tossì raucamente, battendosi il petto con una mano come per farne uscire qualcosa. Pochi metri più indietro il mandriano, in piedi nell'erba alta fino alle ginocchia, spostava lo sguardo da lui a Dorthy. Kilczer si volse a mezzo, tossì ancora e si scostò i capelli dalla faccia. — Penso che dovremmo riposarci qui per un poco — ansimò, e portandosi una mano alla bocca riprese a tossire. — Vieni via da lì — lo esortò Dorthy, gridando per farsi sentire in quel boato. E solo allora le intenzioni del mandriano invasero la sua mente in un lampo gelido. — Attento! — urlò. — Sta cercando... Era troppo tardi. A testa bassa, con il cappuccio che sventolava indietro, il mandriano si gettò alla carica nello spazio erboso che li separava. Prima che Kilczer potesse girarsi gli arrivò addosso con tutto il suo peso, e l'impatto li portò entrambi al di là del bordo. Dorthy corse avanti appena in tempo per vederli rotolare su un declivio roccioso, una ventina di metri più in basso; poi i due corpi sfondarono alcuni cespugli e sotto di loro ci fu solo la nebbia dell'abisso in cui scomparvero. La ragazza mandò un grido rauco, e china sul cornicione chiamò Kilczer per nome, più volte, incredula e sgomenta, senza neppure sentire le folate di umidità da cui era investita e l'indifferente voce della cascata che divorava la sua. — Oh, Arcady... — singhiozzò. Alla fine si volse, con la gola che le doleva, e barcollò alla ricerca del fucile. Nell'erba fra cui lo aveva lasciato cadere si intravedeva ancora il passaggio di tre paia di piedi: quelli di Kilczer, i suoi, e quelli del mandriano. Soltanto allora si rese conto d'essere rimasta sola. Seduta su un sasso indugiò a lungo nella piccola radura, con gli occhi fissi nella schiuma che ribolliva ai piedi della cascata e sul nastro nero del fiume in fondo al canyon. La tuta, fredda e bagnata, le pesava addosso. Ma ripensare a ciò che aveva intuito prima del gesto del mandriano, e a quando lo aveva intuito, non serviva a niente. Sapeva di aver gridato con qualche attimo di ritardo, un paio di secondi al massimo, e tuttavia era probabile che lo stesso mandriano non avesse saputo ciò che stava per fare fino al momento in cui lo aveva fatto. E forse era consolatorio pensare che anche
con il suo Talento in azione lei non avrebbe potuto impedirlo. Tuttavia uno strisciante senso di colpa continuava a tormentarla. D'un tratto ricordò il comportamento del Nemico intorno a BD Venti, e il modo in cui, quando la cattura era inevitabile, sceglieva il suicidio: ogni astronave, ogni asteroide, liberava di colpo tutta la sua energia, spesso portandosi dietro gli avversari più vicini. Il Nemico, il Nemico... ma di certo i nuovi mandriani maschi, che spaccavano i tronchi con utensili di pietra per farne barche rudimentali, che non avevano neppure un abbozzo di linguaggio, non potevano essere il Nemico. Quei pensieri servivano se non altro a tenere la sua mente lontana dal ricordo del mandriano che Urtava addosso a Kilczer, e dall'immagine del volto di lui, stupito e quasi inespressivo, un attimo prima che entrambi oltrepassassero il confine fra la vita e la morte. Perché lui era morto, ripeté a se stessa guardando il fiume. Era morto. Lei lo aveva visto cadere, sparire dove nulla avrebbe potuto sopravvivere, e che tutto fosse stato tanto improvviso non lo rendeva meno reale. Ma ancora non riusciva a muoversi da lì, come se Kilczer potesse riapparire da un momento all'altro su per il pendio, togliendosi i capelli dalla fronte con il suo solito gesto, con il suo solito sorriso stanco e tenace. Trascorsero più di due ore prima che Dorthy si alzasse, riluttante, e attraversasse la piccola radura. La foresta si chiuse intorno a lei, il terreno prese a salire, e il rombo della cascata si affievolì alle sue spalle. Il tessuto bagnato della tuta le si appiccicava alla pelle, e faceva freddo. In quella zona gli alberi erano piuttosto radi, e i deboli raggi del sole spiovevano rossi su strati di aghi di pino e pianticelle dalle foglie nere, che riuscivano a crescere nelle numerose e minuscole radure. Si fermò in una delle più ampie, dove alcuni spunzoni di nera roccia lavica erosa dalla pioggia si levavano più alti degli alberi che li circondavano. Depose il fucile e si sdraiò su uno strato di aghi di pino per scaldarsi al sole, addormentandosi quasi subito di un sonno oscuro privo di immagini oniriche riconoscibili. A destarla fu l'impressione di un peso caldo sull'addome, e pensando che fosse una mano di Kilczer la cercò a tentoni, insonnolita. Le sue dita incontrarono invece una corta peluria, e la ragazza aprì gli occhi, poi con un ansito rotolò via e si alzò in piedi. Davanti a lei c'era un animale lungo e flessuoso, dal pelame rossiccio striato di giallo, che la guardava da sotto in su con grandi occhi neri da furetto. Sbalordita e tremante lei si chinò a raccogliere il fucile, ma la creatura fuggì via a balzelloni ondeggiando in mo-
do così buffo e sinuoso sulle sue tre paia di gambe che lo spavento di Dorthy si dissolse. Per la reazione scoppiò a ridere, ancora stordita e mezzo addormentata. Si guardò attorno in cerca di Arcady Kilczer, e ricordò quello che era successo. Più tardi, mentre camminava nella foresta fra gli alti alberi che lei chiamava pini (e che forse erano gli antenati dei pini delle montagne greche, dove per motivi di lavoro aveva trascorso una settimana troppo breve, calda e piena di profumi) si pentì di aver spaventato l'animale che s'era avvicinato a lei in cerca di calore, forse anche di compagnia... avrebbe potuto essere un piccolo amico per lei. E nel suo procedere solitario su per i boschi e le scarpate, lei, che aveva sempre scartato la compagnia in favore della tranquillità, sentì la mancanza di Kilczer con un senso di perdita che non era lutto né dolore. A volta lo immaginava in cammino qualche passo dietro di lei, seccato da tutta quella natura selvaggia e desideroso di uscirne, con un'impazienza ammorbidita dalla gentilezza. E a volte gli parlava. Ma senza voltarsi, perché sapeva che se avesse guardato indietro lui sarebbe davvero scomparso per sempre, come Euridice. Per la maggior parte del tempo il suo arrampicarsi lungo le pendici boscose fu privo di eventi. Da giorni aveva perso contatto con il ritmo delle ventiquattro ore terrestri scandito dal suo orologio. Mangiava non a intervalli regolari ma semplicemente quando aveva fame, e quando ebbe finito le fette di carne che aveva con sé andò a caccia... sempre che caccia fosse, perché sebbene rada quella selvaggina era inconsapevole del perìcolo rappresentato da un essere umano, e non fuggiva. Le sue prede erano di solito animaletti dalla pelliccia screziata non più grossi di una puzzola, con la testa molto allungata e zampe ossute. Trotterellavano qua e là appena disturbati dalla sua presenza, e lei uccideva senza alcun rimorso, facendoli poi allo spiedo su focherelli accesi con l'espediente di sparare contro un sasso abbondantemente coperto di minutaglia secca, finché qualcosa non cominciava ad accendersi. Si teneva il più vicina possibile al canyon, e per due volte dovette guadare affluenti che scorrevano in piccole gole. Man mano che saliva di quota gli alberi divenivano più piccoli e radi, separati da una bassa vegetazione cespugliosa fra cui crescevano anche pianticelle tenere ma irte di spine, sterpi i cui rami sembravano torcersi nell'aria come tentacoli a ogni soffio di vento, e fiori globulari semitrasparenti che spuntavano fitti in ogni luogo riparato. A volte vide stormi di grandi uccelli neri dalle ali doppie, larghe una dozzina di metri, che in quella zona volavano molto bassi e lenti. Un senso di timore superstizioso le impedì di sparare a quei
possenti veleggiatori che cavalcavano i venti delle montagne. Poiché non badava più allo scorrere del tempo le accadde di camminare a volte per trenta chilometri, e a volte soltanto per cinque, fra un periodo di sonno e l'altro. L'orlo del cratere era sempre davanti a lei, immerso nelle nuvole grigie e rosate. Spesso alzava gli occhi al cielo in cerca di un velivolo, spinta da una speranza inutile della quale rifiutava però di fare a meno. E talvolta fantasticava di abbandonare il viaggio, diventare un'ascetica e casta eremita nella silenziosa foresta aliena, vestirsi di pelli non conciate, trovare una caverna asciutta e incidere nella roccia i versi di Shakespeare. Così i padroni di quel triste mondo crepuscolare, quando fossero tornati a prenderne possesso, si sarebbero stupiti nell'esaminare il suo scheletro ormai antico e seguendo la direzione del dito scarnificato avrebbero letto, senza capirle, quelle parole eterne: essere o non essere? Come epitaffio non sapeva immaginarne per sé uno migliore. Dorthy vide la tempesta avanzare su di lei: un'ala di tenebra che occludeva il cielo e l'immane occhio del sole. Il diluvio esplose improvviso spazzando la montagna con raffiche di pioggia, mentre il vento scuoteva tanto gli alberi che lei, pur essendo corsa al riparo, in pochi minuti fu inzuppata come se fosse rimasta all'aperto. Vista l'inutilità della cosa riprese a camminare, lasciando che l'acqua le tempestasse la faccia e le scorresse giù lungo la tuta e sulla pelle. Il tuono rotolava basso sulla vegetazione stenta e rada, e il crepitare dei fulmini bianco-azzurri la faceva sobbalzare, abbagliandola con una luce troppo viva per i suoi occhi abituati a quella rossa del sole. Il vento faceva ballare i rami delle conifere e le strapazzava i capelli. Dorthy rise, improvvisamente esilarata, e continuò a inerpicarsi gridando in faccia alla tempesta le sonanti parole del poeta. Urla, bestia del vento! Che tu possa spezzarti i denti sulle rocce! E voi, o prodi, avanti! Siamo forse galline, che il falco delle nubi ci disperda? Alza quello stendardo, fai che lo vedano laggiù da quella piana! Finché, d'improvviso com'era cominciato, il temporale passò oltre e la pioggia si stemperò in goccioline uggiose a cui si aggiunse la nebbia che il terreno, scaldato dal sole, essudava lentamente. Soffia fuori tutto il vento che hai nella pancia, non lo temo! E un odore di resina, di foglie morte schiacciate dai suoi stivali pieni d'acqua, e di terriccio, si levò dolciastro fra i rami anneriti e spinosi dei cespugli. Più in alto e sempre più in alto: il terriccio su cui allignava la vegetazio-
ne ora lasciava spesso il posto alla nuda roccia. Giunta su una cresta che girava sovrastando una curva del canyon si volse, e scoprì che poteva vedere gli interminabili pendii per cui era salita in quei giorni. Alberi e cespugli punteggiavano i falsipiani e le scarpate, e più in basso s'infittivano, serravano le fila intorno al fiume, diventavano un esercito compatto che sembrava essersi immobilizzato mentre dalle foschie della pianura saliva ad aggredire le montagne. La liscia chiazza del lago era lontana, chiusa nell'abbraccio più chiaro della foresta. E più distante ancora, al limite delle sue possibilità visive, scorgeva la linea rosata della pianura dov'era cominciato il suo viaggio. Io sola sopravvivo... Si girò e riprese la marcia, cantando per darsi il ritmo, e in quegli immensi spazi aperti la sua voce affrontò senza timore le note più acute. Fu così che oltrepassò il limite della zona in cui potevano crescere le piante e penetrò nel regno delle nebbie, fatto di lava scaturita in seguito a un impatto avvenuto un milione di anni prima, dove soltanto croste di licheni ricoprivano i lati meno esposti delle rocce. Il fiume scorreva fra i macigni nella spaccatura apertasi durante lo stesso cataclisma; il sole era offuscato da banchi di umidità che si spostavano rapidi nel cielo. Il fiume si ramificò più volte mentre lei ne seguiva l'alveo roccioso. Di solito era facile vedere quale fosse il corso principale e quale l'affluente, ma infine giunse a una biforcazione dove i due che si univano avevano la stessa portata d'acqua. Perse oltre un'ora per stabilire che le conveniva seguire quello di sinistra, ma sei o sette chilometri più avanti, nel vedere come il suo letto si restringeva, fu chiaro che quel fiume non l'avrebbe condotta al passo sorvolato dal velivolo di Andrews sulla rotta per il campo del maggiore Ramaro. Sedette su un sasso e guardò la strada per cui era arrivata lì: frammenti di lava cosparsi nel panorama spoglio, il fiumiciattolo che gorgogliava fra rocce coperte di muschio, e un basso soffitto di nebbia. — Quello di cui ho bisogno è una buona tazza di caffè — disse. — Io sono abituata a berne tre o quattro tazzine al giorno, denso e forte, poco zuccherato. Preferibilmente un Giava appena tostato e macinato. Ne ho abbastanza di questa maledetta acqua! La sua voce destò una debole eco che si spense nella foschia. — Cristo! — esclamò, e fu scossa da un brivido. Poteva sentire un'ulcera in un angolo della bocca; continuava a soffrire di vesciche e contusioni, dolori muscolari e mal di pancia. Il cibo di cui s'era nutrita (e ormai l'aveva finito. Non ricordava più neppure da quanto non mangiava un boccone) mancava
della giusta combinazione di proteine e probabilmente di qualche vitamina essenziale. Da giorni non aveva il coraggio di togliersi gli stivali per vedere come si era ridotta i piedi. Puzzava di sudore e si sentiva sfinita. Ma non poteva dormire, non lì. Con quel freddo c'era il rischio di non svegliarsi più. Ebbe un breve scambio di parole con Kilczer, che nella sua immaginazione era diventato un interlocutore più paziente di quanto non fosse stato in realtà, e le parole di lui la convinsero ad alzarsi e a tornare sui suoi passi. Quando fu di nuovo alla confluenza dei due corsi d'acqua stava cadendo una pioggia sottile, poco più che nebbia condensata. A testa bassa si avviò lungo quello di destra, con il fucile in spalla e una mano stretta alla sua umida cinghia. Il fiumiciattolo curvò ad angolo retto, e nel guardarsi attorno Dorthy ebbe l'impressione di ricordare quel posto. Un grigio pendio di roccia nuda si sollevava verso un'altura più ripida la cui sommità era nascosta dalla foschia. La ragazza lasciò il corso d'acqua e si avviò su per il versante, e poco dopo vide che nella parete rocciosa si apriva un'enorme spaccatura. Dal varco usciva un vento piuttosto caldo, benché il terreno sotto ai suoi piedi fosse gelido. Il passo era così largo che nel seguirne una delle pareti di lava, inciampando fra massi e detriti, Dorthy non riusciva a vedere oltre la nebbia quella opposta. Stava camminando da dieci minuti quando vide una chiazza di cenere: ciò che restava di un piccolo fuoco intorno a cui erano stati disposti dei sassi per proteggerlo dal vento. Si chinò a tastare la cenere, e la sentì fredda come la pietra che la circondava. Lì accanto c'era la gabbia toracica di un animale che non doveva esser stato più grosso di un gatto. Stralci di carne annerita penzolavano dalle ossa ricurve, ma nonostante la sua fame disperata lei non osò toccarli. Da qualche parte, là fuori: mandriani. Mentre proseguiva, la cenere rimasta attaccata alle sue dita si staccò e fu portata via dal vento caldo. Pensò alla possibilità di prendere una pasticca di contro-agente, ma sapendo che il Talento avrebbe ritardato le sue reazioni fisiche finì per scartarla. Così cercò di camminare senza rumore, con il fucile in mano e i sensi tesi a captare ogni movimento sospetto fra le rocce che aveva davanti. Il terreno cominciò a scendere, e il vento si placò. Intorno a lei c'era sempre una nebbia così fitta da ridurre la visibilità a meno di venti metri. Soltanto allorché vide il primo albero si rese conto di aver oltrepassato il valico.
Era nell'interno del cratere. Ce l'aveva fatta. Proseguì la discesa e sul pendio comparvero altre piante, basse e curvate dal vento, con foglie simili a pezzi di pergamena arrotolati più volte da cui pendevano filamenti a coda di cavallo. I tronchi, corti e massicci, erano coperti da squame lignee larghe un palmo. La nebbia stava cominciando a dissolversi quando nell'aria si sparse un rumore, e la ragazza si fermò. Veniva dall'alto, alla sua sinistra. Il morbido e vibrante pulsare di un cuore eccitato: il motore di un aereo da trasporto. Vide il velivolo emergere da dietro un altura e rallentare, come stupito, mentre i suoi sensori individuavano qualcosa d'imprevisto, poi il suo riflettore di prua tagliò la nebbia e si puntò su di lei con infallibile precisione, inchiodando la sua ombra sul pendio dirupato che aveva alle spalle. L'aereo le girò intorno lentamente, a una dozzina di metri di quota e tenendola sotto la mira delle sue luci, quindi aprì il portello laterale come in segno di saluto e si abbassò verso di lei. Aveva attraversato la foresta e l'altipiano, s'era inerpicata sulle montagne e aveva raggiunto il cratere, conquistando la salvezza. Sedici giorni terrestri erano trascorsi da quando i vermi anulati avevano travolto l'accampamento, giù sulla pianura. Il sole stava appena cominciando a scendere al di là dello zenith. CAPITOLO TERZO LA TORRE Trasportarono Dorthy al campo sulla sommità del cratere da cui si vedeva la torre, e senza neppure chiederle di Kilczer e dei gemelli (lei era troppo stanca per fare un qualsiasi resoconto) la misero nella vasca di un autodoc. Un tecnico medico di media competenza avrebbe potuto dir loro che in lei non c'era niente di serio - tossine nel sangue e nei tessuti, disfunzioni intestinali, reazione istaminica e scorbuto dovuto alla malnutrizione - ma il solo tecnico medico in forza alle squadre di superficie era stato Kilczer, e lui era morto. L'autodoc era programmato per i militari. Mise in by-pass il suo sistema nervoso, facendola volare in un limbo grigio dove non esistevano più la vista e l'udito, l'odorato, il gusto, il tatto, e la addormentò con una dose di sonno russo. Poi sostituì il suo sangue con plasma artificiale, collegò in bypass anche il fegato, e cominciò a risucchiarle via le tossine dalle cellule;
tolse l'epidermide e lo strato sottocutaneo intorno a ogni infiammazione e ne stimolò la ricrescita. Un'attrezzatura per i non militari le avrebbe trasmesso al cervello un programma di sogni artificiali, magari registrato sulle spiagge di Serenità, o in qualche luogo panoramizzato di Titano, ma quel modello era efficiente e nulla più. La fece dormire perché la privazione sensoria non la sbalestrasse verso la follia, ma lavorò senza regalarle sogni: che si arrangiasse con i suoi. Così, a volte lei tornò con Kilczer dall'altra parte delle montagne e marciarono fianco a fianco nella foresta, seguiti da un'ombra scura che li minacciava. Altre volte lei non riusciva a vederlo intorno a sé, oppure era nella sua piccola astronave mentre la voce di Kilczer gracchiava dalla radio in tono urgente, ma lei non riusciva a capirlo perché stava parlando in russo. O rivedeva il mandriano precipitarsi addosso a Kilczer nella piccola radura sopra la cascata, o lei era Kilczer e l'urto la gettava al di là del bordo, ma si salvava e tornava su lungo la scarpata. E qualche volta sognò di andare a caccia sotto uno strano cielo notturno, cosparso di veli di ghiaccio e nebbia luminescente oltre i quali una singola stella brillava d'intensa luminosità, larga come una monetina di luce in fondo a un tunnel. Stava cominciando a capire che visioni di questo genere non erano affatto sogni ma qualcos'altro, qualcosa che cercava di arrivare a lei, quando il macchinario la liberò dall'incantesimo. I cinque sensi si accesero in lei in un istante. Era seduta in una vasca di liquido caldo come il sangue, lo stesso che le stava ancora colando fuori dalle narici. Un arcobaleno di luci brillava nelle goccioline imprigionate fra le sue ciglia. Qualcuno si chinò ad afferrarla sotto le ascelle e la sollevò come una bambola, tenendola sospesa a sgocciolare sopra la vasca, poi la depose sul pavimento. Sotto i suoi piedi le mattonelle erano fredde; Dorthy tossì e tossì. — Qui, tesoro — disse la donna alta, Angel Sutter, e la condusse a una sedia di plastica. — Come ti senti? La stanza era piccola, vivamente illuminata e per metà occupata dall'autodoc. Sotto l'apparecchiatura una pompa ronzava, aspirando via il fluido amniotico. I sensori che avevano tenuto il suo corpo sotto controllo si ritrassero nei candidi pannelli con un click ovattato. Uno dei muri era ricurvo: la parete esterna di una tenda a cupola. Dorthy si afflosciò nuda sulla sedia e vide che la sua epidermide luccicava come bronzo dorato sotto una patina scivolosa di siliconi e fluorocarbonati. Tutte le stimmate del suo calvario erano state cancellate.
— Come un verme anulato fuori dalla sua crisalide — mormorò, mentre Angel Sutter le drappeggiava un largo asciugamano sulle spalle. — Hai un aspetto alquanto migliore — disse Angel, massaggiandole le braccia e la schiena. — Quando sei arrivata qui eri conciata male. La tua pelle sembrava quella di una mummia vecchia mille anni. — Proprio come mi sentivo — annuì Dorthy. Poi deglutì un groppo di saliva. — Arcady Kilczer è morto. Il ritmo con cui Angel le soffregava le spalle non mutò. — Già, lo avevamo immaginato. Anche i gemelli, vero? — Loro sono stati uccisi quando... — Non devi parlarne ora, tesoro. Prendi tempo. Sei stata fortunata che ci abbiano mandato giù questa roba, con tutto il resto. Non credo che volare da qui fino al Campo Zero ti avrebbe fatto bene. Da queste parti ci sono stati molti cambiamenti, comunque, non tutti collegati alla torre. Dorthy le afferrò un polso. — Devo parlare con Duncan Andrews. Angel Sutter smise di massaggiarla; liberò la mano dalla stretta di lei. — Più tardi avrai tutto il tempo. Adesso devi riposare. — Ho già dormito per... — Dorthy guardò un display sull'apparecchiatura. — Per più di due giorni. Ci sono delle cose che devo dirgli, cose che riguardano i mandriani... ehi, se mi stritoli così le spalle dovrai rimettermi dentro quella vasca! — Scusa. Mi chiedo come abbia fatto a cavarsela una bambina fragile come te. D'accordo, aspetta un minuto. Ti porto qualcosa da metterti addosso. Quando Angel fece ritorno lei aveva finito di asciugarsi. Il liquido in cui l'autodoc l'aveva sommersa era defluito via, lasciando nell'aria un pesante odore dolciastro, così come i suoi sogni svanendo avevano lasciato in lei un residuo, l'imprecisa convinzione che qualcosa o qualcuno stava cercando di dirle... di dirle cosa? Angel le porse alcuni indumenti appena tirati fuori dal magazzino, trattenendo un momento per sé qualcos'altro, un pesante blocco di fogli alto quasi un palmo. Mentre Dorthy s'infilava i pantaloni e la blusa della tuta, la donna disse: — Quando ti hanno portata qui non avevi più quel tuo libro, Shakespeare. Così ho aggredito il maggiore con il mio sorriso più seducente e... be', lo sapevi che Ramaro ha una biblioteca fornita come quella del Museo dell'Uomo, a Rio? Ho fatto uscire questo da una stampante. Le mostrò la copertina di plastica, e Dorthy smise di allacciarsi gli stivali per leggere il titolo. Era Shakespeare. Tutte le opere in portoghese.
Sbatté le palpebre. — Grazie. Sei molto gentile — disse. Angel le consegnò un pettine, accennandole di usarlo. La tuta che indossava lei era stata abbondantemente allungata e modificata, ma da mani fantasiose. — Ne ho letto qualche capitolo. Non è malvagio, quando ci si abitua a quel linguaggio arcaico. Come mai ti piacciono le vecchie cose di questo genere? — Se ci guardi dentro, c'è tutto — disse Dorthy, soppesando il volume. — Amore, gelosia, avarizia, lealtà, delitto, follia... è rassicurante vedere come la natura umana non cambi mai. Angel scrollò le spalle. — Metti qualcosa nello stomaco prima di cercare Andrews. E non discutere, d'accordo? Se ti faccio da balia, voglio vederti mangiare. La tenda-cupola era larga oltre venti metri, per lo più occupata dallo spazio adibito a mensa: qualche fila di tavoli e sedie, e un grosso distributore automatico. Tutto intorno c'erano piccoli locali della stessa stoffa plasticata arancione, separati da sottili pannelli. Un militare in tuta sedeva a un tavolo, con la fronte appoggiata sui polsi, e per il resto il locale era vuoto. Dorthy perse un po' di tempo ai pannelli del distributore. Caffè nero Giava, naturalmente. Ma la scelta del pasto era più complicata, dato che lo schermo presentava quasi cento pagine di menù. Infine decise per un piatto di riso oyako donburi, con «madre» e «figlio». Quando sedette di fronte ad Angel, la donna si stiracchiò e chiese: — Dunque, cos'hai di bello da dire a Duncan? — Penso di poterlo aiutare a scoprire la verità sui mandriani. — Per un attimo le immagini che aveva estratto dalla mente del mandriano catturato tornarono vive, e il lungo volto bronzo-scuro di Angel Sutter vi si sovrappose trasformandosi in una maschera spaventevole ma stranamente nuda e rigonfia. Dorthy sorseggiò il suo Giava bollente, nel palato le si sparse il familiare e gradevole sapore, e quel momento passò, lasciandola un po' stordita. — Guarda, Duncan sa già tutto sui mandriani, o almeno crede di saperlo. Sei al corrente che vengono su nel cratere, diretti alla torre? Dorthy annuì, non fidandosi della propria voce. — Duncan ha abbandonato la sua teoria circa i mandriani come selvaggi discendenti del Nemico. Adesso pensa che stiano andando a preparare la strada per i veri proprietari del pianeta. Non spiegare niente a me, discutine con lui. Comunque, ecco il motivo per cui questo campo è diventato così
importante. La Marina ora ci punta tutte le sue carte, nella speranza di sorprendere il Nemico mentre si sveglia o qualunque altra cosa stia per fare. — L'ha già fatta — disse Dorthy. Angel si strinse nelle spalle. — Parlane con Duncan. Io non ne so molto, a dir la verità. Segreto militare e così via. Ma là fuori stanno succedendo molte cose. Qui scriveremo il nostro nome sui libri di storia, te lo dico io. Dorthy le restituì il sorriso. Non voleva guastare l'entusiasmo di Angel, così aperto e ottimista. — E cos'è che succede? Mi sembra che tu stia morendo dalla voglia di dirlo. Angel si appoggiò allo schienale della sedia e prese fiato. — Da dove posso cominciare? La cosa che mi ha colpito di più è una novità nel lago intorno alla torre. Negli ultimi giorni il livello dell'acqua è sceso, mettendo allo scoperto una strada che lo attraversa. Ma quello che interessa direttamente me è il cambiamento avvenuto nell'acqua: un carbonato idrico che si autoriproduce, carico di metalli pesanti e radicali liberi, roba maledettamente strana, credimi se te lo dico. È fosforescente, anche. Sono convinta che prenda l'energia per riprodursi dal trapasso quantico dei fotoni intrappolati. Il principio non è certamente nuovo, ce n'erano una dozzina di equivalenti già nell'Età dello Spreco. Ma quelli richiedevano un substrato stabile, e non sfruttavano che parte dell'energia. Mentre la roba che cresce là dentro è dannatamente efficiente, se ho visto giusto, dato il basso input solare. — Angel sogghignò. — Ma se tu andassi a dirlo a chiunque altro, qui, non ti lascerebbero parlare dieci secondi. Ramaro la chiama spazzatura teorica. Dorthy depose i bastoncini e spinse via il piatto. A parte le fettine di bianco d'uovo un po' crude, quell'oyako donburi era appetitoso, ma benché fosse vuoto il suo stomaco non chiedeva altro. L'autodoc le aveva tenuto alto il tasso di glucosio nel sangue. — Sai che scopo abbiano quegli idrocarbonati? — Potrebbero essere una fonte di cibo, o una base su cui costruire complessi biologici, tipo l'alfalfa che usano su Novaya Zyemlya. Ma chi diavolo può sapere cosa stia realmente accadendo? — C'è dell'altro, vero? Di che si tratta? — L'avvenimento più vistoso, suppongo, è l'arrivo dei mandriani attraverso il passo. È per questo che ti hanno individuata subito; la zona è satura di sensori. Il nome con cui Duncan Andrews adesso chiama i mandriani è «custodi», fra l'altro. — So cosa vuol dire, ma si sbaglia.
— Vero o no, c'è un gruppo di loro già sulle strutture della torre. Si stanno facendo strada verso la cima, anche se pare che se la prendano comoda, fermandosi a leggere tutte le dannate iscrizioni che si trovano davanti. — Angel si grattò il naso camuso. — Non sono andati molto avanti, però ne hanno tutte le intenzioni. — Ne arriveranno altri — disse Dorthy. — Già — borbottò Angel. — Non c'è rimasto un solo mandriano sulla pianura. Ecco perché qui stanno affluendo personale e mezzi. Gli effettivi di Ramaro sono raddoppiati, e anche così hanno difficoltà a tenere sotto controllo i nuovi arrivati, i custodi. Perfino la Chung è venuta qui, con una nuova mandata di tecnici e attrezzature. Tornerà ancora fra qualche giorno. — Il suo sorriso si allargò. — La buona notizia l'ho lasciata per ultima, eh? — Alludi al ritorno del colonnello Chung? Non m'importa particolarmente di lei. — No, ma potrà darti un passaggio per il Campo Zero. Contenta? — È strano, però questo non m'interessa più. — Sei ancora convalescente. Presto tornerà a importarti. — Angel guardò il voluminoso ma simpatico cronometro che aveva al polso. — Penso che ora potremmo andare a cercare Duncan, se vuoi. Dorthy vuotò la tazzina di caffè e permise all'amica di scortarla attraverso l'accampamento. Sulla lunga terrazza rocciosa c'erano una dozzina di tende a cupola, un enorme contenitore cilindrico e due aerei da trasporto. Dal fondo del cratere risaliva un vento caldo. — La Marina non ha più paura che qualcosa cada nelle mani del Nemico? — chiese Dorthy. — La nostra speranza è di far loro un brutto scherzo prima che siano loro a farlo a noi. Ma Dorthy sentiva che quella non era tutta la verità. — Andiamo, che altro c'è? — Suppongo che non sia un segreto. C'è una bomba da un chilotone sepolta qui, abbastanza per ripulire il fondo del cratere se appena il controllo computerizzato decidesse che c'è una minaccia. Una dannata macchina, quella, e anche paranoica. All'inferno, io cerco di non pensarci, sai. Lo spiacevole prezzo della conoscenza e via dicendo. Se non fosse per quella roba nel lago, laggiù, sarei con la squadra di McCarthy fuori nella foresta. Già, finalmente è riuscito a venire da queste parti. Anche Hussan. Stanno vivendo il momento magico della loro vita, come forse puoi immaginare. — Vorrei che Arcady e io li avessimo incontrati — sospirò Dorthy, e seguì Angel Sutter nella piccola camera stagna di una delle tende a cupola.
Andrews era più corpulento di come lei lo ricordava, portava i capelli più lunghi e spettinati, e aveva una tuta malconcia con le maniche ripiegate a scoprire gli avambracci possenti e lentigginosi. Si passò una mano sul volto e ascoltò Dorthy raccontare di come lei e Kilczer, insieme ai gemelli, avevano seguito i mandriani fino al raduno dei quattro gruppi, della devastante aggressione subita all'accampamento e del modo in cui loro due erano riusciti a salvarsi. Seduto al tavolo con lei e Andrews, il maggiore Ramaro consultava ologrammi e ogni tanto scriveva qualche appunto sullo schermo grigio di una tavoletta mnemonica, prestando a Dorthy appena un minimo di attenzione. Quando la ragazza parlò della crisalide che avevano scoperto e dell'ipotesi che i vermi anulati fossero i figli dei mandriani allo stadio larvale, Ramaro agitò languidamente una mano e disse: — Ma questo è già risaputo. Spero che le altre sue rivelazioni siano più originali, dottoressa Yoshida. Lei dimentica che ora abbiamo molti specialisti al lavoro, qui. — Lascia che lo racconti a suo modo — lo rimproverò amabilmente Andrews. — Continua, Dorthy. Lei parlò dell'incontro con i nuovi mandriani maschi, i «custodi» secondo la terminologia di Andrews, capaci di costruire barche, e riferì del suo tentativo di sondare quello ferito e fatto prigioniero da Kilczer. Andrews le fece numerose domande su quel contatto empatico, ma Ramaro esibì ancora una cortese indifferenza: — Apprendete la loro lingua sarebbe utile, ma tutte queste chiacchiere su una nascosta fonte di conoscenza mi sembrano speculazioni a vuoto. — Esiste — disse Dorthy. — È reale. — Non dubito che lei abbia sentito qualcosa — disse freddamente il maggiore, senza alzare lo sguardo dalla sua tavoletta elettronica. — Ma in quanto al significato di questo «qualcosa», be'... trovo discutibile la sua interpretazione. Perché i custodi, in questo stesso momento, stanno leggendo le indicazioni lungo il loro percorso a spirale intorno alla torre, se possiedono tali vaste riserve di conoscenza? Cos'è, allora, che stanno imparando? — Me lo dica lei — replicò Dorthy. — Questo è di sua pertinenza. — Vorrei che fosse così facile. Il linguaggio scritto è, se non altro, molto complicato. Ci sono almeno sessantaquattro lettere grafiche, e ho catalogato più di mille ideogrammi. Lei è giapponese, perciò non sto a dirle quanto possa essere difficoltosa una scrittura del genere. A seconda del contesto un singolo ideogramma può rappresentare una dozzina di concetti diversi, e io non ho una pietra di Rosetta, né tale posso considerare le sue vaghe
ipotesi. Non so cosa stiano leggendo, laggiù alla torre, ma dubito che lo facciano per divertimento. Apprendono nozioni, dunque. E se la conoscenza fosse già stampata nelle loro teste, perché si darebbero la pena di farlo? — Si concesse un sorrisetto, poi storse le labbra in una smorfia un tantino sprezzante. — Non voglio discutere — disse Dorthy. La superficie plasticata del tavolo era scivolosa sotto le sue mani sudate. Ramaro le era antipatico ancor più di quanto lei fosse antipatica a lui. — Larghe zone della mente del mandriano, del nuovo maschio o custode o come altro volete chiamarlo, erano chiuse alla sua consapevolezza. Forse quelli nella fortezza stanno ricevendo la chiave per accedervi. Ma tutto ciò era già là, predisposto. Ecco perché devo rifiutare l'opinione comune su ciò che i mandriani sono. Forse dovrei dirvi il resto, così capirete. Ramaro scrollò le spalle. Andrews disse: — D'accordo, Dorthy. Cos'è successo ad Arcady? — Dietro di lui c'erano tecnici al lavoro su diverse apparecchiature, e dagli schermi usciva la rossa luce del mondo esterno, come finestre aperte su una fornace. Dorthy riprese il racconto. Il loro viaggio sul lago, l'ingresso nel fiume. La cascata, dove avevano dovuto abbandonare la barca. La scalata alla parete del canyon. E l'improvvisa aggressione del mandriano, l'atto suicida con cui aveva portato Kilczer nel vuoto con sé. Andrews scosse il capo. — Una cosa terribile, dopo che avevate già lottato e faticato tanto. Mi spiace molto, Dorthy. Ramaro commentò: — Forse non avrebbe dovuto lasciare il fucile a una donna. Con le mani poggiate sul tavolo, Dorthy si alzò in piedi, e sporgendosi verso di lui esclamò: — Io so usare perfettamente un fottuto fucile. La cosa è stata troppo rapida perché chiunque potesse intervenire. Tenga per sé i suoi piccoli insulsi commenti! — E lei non è stata in grado di dire cosa il custode stava per fare, con il suo Talento? — Ramaro non alzò neppure lo sguardo per incontrare quello di lei. — Il contro-agente aveva cessato l'effetto. No, non potevo farlo. — La ragazza sedette di nuovo, ritraendo in sé la sua rabbia come la lama di un coltello a serramanico. — Dorthy, Luiz, per favore — disse Andrews. — Comunque sia andata, è andata. Ma cosa intendevi spiegarci, Dorthy? Perché pensi che stiamo sbagliando circa i custodi?
— Per l'atto compiuto da uno di essi, capisci? Appena ha stabilito di non avere via di scampo, ha scelto il suicidio. Proprio come fa il Nemico a BD Venti. — E questo è tutto? — disse Ramaro. — Sembra una deduzione un po' esile, Dorthy — osservò Andrews, stringendosi la larga radice del naso fra il pollice e l'indice. Lei capì che nessuno dei due voleva crederle. Troppe cose dipendevano dall'ipotesi che i nuovi mandriani maschi fossero soltanto i precursori dei veri padroni del pianeta. Perché in caso contrario, se il Nemico erano loro, il comando orbitale avrebbe trasferito le squadre in posizione più prudenziale e molto meno interessante. — Questo è ciò che penso — affermò testardamente, sapendo che era la cosa peggiore da dire. — Vedi, Duncan? — osservò sorridendo Ramaro. — È come ti dico sempre. Le donne preferiscono le intuizioni alla razionalità, e decidono in base al loro istinto. Dorthy lo ignorò. — Quelli che voi chiamate «custodi» sono il Nemico. I nuovi maschi sono un prodotto del nostro arrivo, e ora stanno riassorbendo la loro eredità culturale, laggiù alla torre. Una volta che abbiano fatto questo, come pensate di fermarli? — C'è una bomba — disse Ramaro, rimettendo i suoi ologrammi nella scatola. — Io ho da fare, Duncan. Seyoura Yoshida, le auguro un buon viaggio di ritorno. — Raccolse la tavoletta mnemonica e si allontanò a lunghi passi fra le apparecchiature che gremivano lo spazio circolare della tenda. — Difficile dargli torto — osservò Duncan Andrews. — Se non altro perché non posso dare l'avvio a un programma di questa portata con prove così poco concrete. — Quanti mandriani c'erano sulla pianura, prima che tutto questo cominciasse? — Oh, forse un migliaio di gruppi. — E quanti vermi in ogni gregge? — So cosa stai cercando di dire. La media era un centinaio, se ricordo bene, il che ci metterebbe di fronte alla simpatica cifra di centomila potenziali custodi. — O nemici. — Se insisti. Ovviamente non tutti i vermi sono sopravvissuti alla metamorfosi e al loro viaggio fin qui. — Ebbe un sorriso eccitato, passandosi una mano sui capelli. Gli stavano diventando riccioluti, sul colletto della
tuta. — Il loro stesso cambiamento è qualcosa d'incredibile. Prende appena pochi giorni. Estrudono il bozzolo e lo riempiono con un liquido organico, una sorta di zuppa dove nuotano agglomerati di cellule in rapida crescita, e queste formano il nuovo corpo. Maledettamente veloce, come il ramificarsi di un cancro. Una grossa percentuale però non completa la metamorfosi, forse perché si tratta di un processo così forzato. Diciamo dunque che qui ne arriveranno infine venti o venticinquemila. Supponiamo che questi siano il Nemico... — Alzò una mano. — Per me è un'ipotesi molto lontana. — Il suo sorriso era stanco. — Ma supponiamo pure che sia così. Non avrebbe importanza. Se iniziassero le ostilità, c'è una bomba che... — Lo so. Angel Sutter me lo ha già detto. — Un po' rozzo, non credi? Ma efficace. Vedi, che i custodi siano il Nemico oppure lo stiano solo risvegliando, non fa una vera differenza, perché se iniziano le ostilità... non è una frase tanto pulita? È così che parlano i pezzi grossi, lassù. L'inìzio delle ostilità innescherebbe l'esplosione della bomba sul fondo del cratere, annientando tutto. Noi compresi, se fossimo qui. Ma siamo volontari, no? E tu sarai andata via prima che questa diventi anche una remota possibilità. — E le altre zone fertili? Cosa sta succedendo là? — Le teniamo sotto controllo via satellite, naturalmente. Ma sembra che le altre torri si siano... — Le altre torri? — si stupì Dorthy. — Ce ne sono altre? Andrews parve imbarazzato. — Già. E mostrano lo stesso tipo di attività. In tutte le zone fertili i mandriani stanno abbandonando le pianure esterne e dirigono a queste strutture, proprio come accade qui. Lei scosse il capo, accigliata. — Se si riveleranno pericolosi, avrete fra le mani qualcosa di peggio che una minaccia locale. — Ah, non stare a preoccupartene. La Marina ha la situazione saldamente in pugno. Dorthy ripensò all'ombra di paura che aveva sentito nel colonnello Chung. Stavolta non era vera e propria paura quella che percepiva in Andrews, ma dietro il suo sorriso c'era un disagio di cui non riusciva a definire i contorni. — Senti, Dorthy, tu e io dovremo parlarne ancora. — L'espressione di lui si fece grave. — Voglio che tu mi dia altri particolari, sul povero Arcady e sui gemelli. — Arcady ha seppellito Marta Ade, ma non aveva trovato alcuna traccia di... — Il nome completo dell'altro le sfuggiva. Lo captò nella mente di
Andrews: — di Jon Chavez. — Li farò cercare. Voglio che abbiano degna sepoltura. Sì, ne riparleremo appena ti sarai ripresa meglio. Stai certa che troverò il tempo. Intanto forse potresti preparare un rapporto scritto, Dorthy. Mi spiace, ma bisogna occuparsi anche di queste formalità. La sua preoccupazione, vide lei, era sincera. E mista ai dubbi che provava per le sue facoltà analitiche «femminili» c'era della tenerezza. Le venne da pensare, un po' per intuito e un po' per gli sprazzi forniti dal Talento, che Andrews non corrispondeva alla sua reputazione: c'era del sentimento in lui, che ne moderava le ambizioni. Un sognatore, anche se pessimista. Ecco perché si coinvolgeva di persona, perché era lì quando avrebbe potuto supervisionare tutta l'operazione da una poltrona del comando orbitale, al sicuro fuori dall'atmosfera. La sua riluttanza a delegare le responsabilità non era dovuta all'egocentrismo dell'arrivista, come lei aveva dapprima creduto, ma a quel tipo di ideali che le vecchie famiglie aristocratiche inculcavano nei loro figli, uno dei quali gli imponeva di non chiedere agli altri ciò che non sarebbe stato disposto a fare lui stesso. E proprio questo genere di mentalità gli impediva d'essere obiettivo e di mettere costantemente alla prova le sue idee. Tutto questo era passato per la mente di Dorthy in un attimo, ma continuò a ripensarci a tratti, intanto che aspettava il ritorno del colonnello Chung e la possibilità d'essere rimandata a casa. Occupò il tempo registrando un rapporto conclusivo sul lavoro che era venuta a svolgere lì, e descrisse con dovizia di particolari il sondaggio eseguito sul gruppo di mandriani e quello sul maschio catturato e in seguito suicidatosi. Non c'erano altre attività a cui dedicarsi. I tecnici che dirigevano i sensori sparsi ovunque e ne controllavano i dati la evitavano, come lei evitava loro. Angel Sutter era scesa nel cratere con Andrews per un paio di giorni, e al ritorno s'era messa a lavorare sui campioni raccolti. Andrews trovò tuttavia il tempo di parlarle come aveva promesso, e Dorthy rivangò le difficoltà del viaggio nella foresta, evitando ogni accenno a quel che c'era stato fra lei e Kilczer nonostante l'effetto del brandy (distillato illegalmente) che Andrews insisté per dividere con lei. Trascorse anche qualche ora nella tenda del quartier generale, ignorando le occhiate di disapprovazione del maggiore Ramaro, ed esaminò le registrazioni delle telecamere puntate sui nuovi maschi fermi a leggere, con esasperante lentezza, la scrittura simile al corsivo incisa su un'alta parete, mentre tutto intorno brillavano le luci rosse della torre. Quella scena la riempì d'inquietudine e di una paura quasi
viscerale, ma sapeva che se avesse cercato di spiegare tali sensazioni ad Andrews, lui avrebbe sorriso pazientemente, impermeabile a stati d'animo così diversi dal suo. Nessuno dei pochi con cui parlò le credette, neppure Angel Sutter. Così attese l'arrivo del colonnello Chung, lesse gli stampati delle opere di Shakespeare, aiutò un poco Angel Sutter nel laboratorio di biologia e soprattutto dormì. Non s'era ancora completamente ripresa dalle traversie del viaggio. Quando l'aereo del colonnello atterrò sul bordo del cratere, Angel venne ad avvertirla e la trovò addormentata. Dorthy si vestì in fretta e attraversò lo spiazzo nudo e ventoso verso la tenda del comando. Trovò il colonnello Chung in mezzo a un gruppetto di persone fra cui Ramaro e Andrews, intenta a esaminare una dopo l'altra le ultime proiezioni olografiche realizzate attorno alla torre. Nel vederla unirsi a loro Andrews le sorrise. Ramaro stava spiegando qualcosa al colonnello. Nel campo tridimensionale c'era un'immagine a due dimensioni: una parete illuminata di luce rossa, sulla cui intera lunghezza correva una fascia alta un metro formata da nitide linee di scrittura. Ramaro ne indicò un paio di punti. — Qui, e qui. Abbiamo raggiunto un novanta per cento di certezza che Alea sia il nome della razza che ha planiformato P'thrsn. — Con uno sguardo cercò l'appoggio di Andrews, che si limitò a inarcare un sopracciglio. — Traduzione? — Il colonnello aveva a malapena notato la presenza di Dorthy. Ascoltava il maggiore con aria nervosa e impaziente. — Forse significa «la gente» — disse Ramaro. — È la nostra migliore ipotesi. Qui siamo su una certezza del cinquanta per cento. Deve tener presente che ogni nostro riferimento si appoggia sul contesto, e nella quasi totalità dei casi non siamo in grado di tradurlo a sufficienza. Temo che questi dati siano sempre gli stessi della sua ultima visita. — La luce dell'ologramma mimetizzò l'afflusso di sangue che gli era salito al viso con l'ultima frase. Riferire quella scarsità di progressi al suo diretto superiore era duro, ma che il suo superiore fosse una donna doveva essere un rospo assai più difficile da ingoiare. — Tutto sommato — continuò, — li ritengo risultati molto soddisfacenti, colonnello. Vorrei sapere cosa ne pensa la squadra al lavoro su in orbita. Questo silenzio radio è soltanto di ostacolo. — Non abbiamo bisogno di altri bastoni fra le ruote — aggiunse Andrews. Il colonnello Chung volse le spalle al proiettore. Dorthy pensò che sembrava stanca. — Non possiamo rilassare le misure di sicurezza — disse la
donna. — Ammetto che sia un ostacolo, ma qui in superficie dobbiamo ottenere il massimo rischiando il minimo. — La politica iniziale, lassù, era di ottenere il minimo rischiando ancora meno — brontolò Andrews. — Questo cambiamento dovrebbe esserle gradito, no? — disse il colonnello Chung. — Comunque, i brevi messaggi che ricevo dal comando orbitale non rivelano alcuna insoddisfazione per il vostro lavoro. Ma è allarmante vedere che l'attività intorno a questa torre continua ad aumentare. — Questi mandriani non sono una minaccia — disse Andrews. — Mi creda. Loro non sono il Nemico, ma soltanto custodi. Il Nemico si farà vedere senz'altro, presumo, però ci troverà pronti. — Nell'una o nell'altra eventualità, eh? — si accigliò il colonnello Chung. — Prima di questo cambiamento lei era convinto, se non sbaglio, che costoro fossero i discendenti imbarbariti del Nemico. E ora ha dovuto optare per un'altra teoria. — Be'... — Andrews ebbe un sorriso. — Così è la scienza. — Questo — continuò implacabilmente il colonnello Chung, — perché lei ha imparato qualcosa di più. Qui c'è ancora molto che resta da capire. Il maggiore Ramaro è assai preciso nell'assegnare punteggi di probabilità alle poche traduzioni eseguite. Lei quante probabilità concede alla sua teoria dei «custodi», capitano Andrews? — Non voglio definirla una teoria scientifica, ma semplicemente la migliore ipotesi disponibile. Quegli esseri non hanno mostrato segno di sviluppare una tecnologia avanzata, malgrado il tempo che hanno già trascorso nella torre. Se fossero il Nemico, a quest'ora si sarebbero già mossi contro il nostro campo. Ma da quanto lei mi ha accennato, la situazione nella zona fertile equatoriale sembra piuttosto diversa. Il colonnello Chung annuì. — È proprio così. Sarò più precisa. — Da una tasca dell'uniforme estrasse un cubo registrato, che mostrò a tutti i presenti. — Questo mi è stato trasmesso ieri dal comando orbitale. Dopo che la dottoressa Yoshida ebbe, durante la sua discesa nella capsula di caduta, un contatto mentale con una sospetta intelligenza superiore localizzabile a ovest del Campo Zero, il comando orbitale riprogrammò uno dei satelliti per tenere sotto stretto controllo tutte le zone fertili in quella direzione. Una di esse si trova esattamente sull'equatore. Originariamente non aveva nulla di analogo alle strutture trovate in questa e in quasi ogni altra. Nessuna torre, niente del tutto... fino a cinque giorni fa. — Cristo! — disse qualcuno.
Ramaro girò sui tecnici un'occhiata severa, poi si fece consegnare il cubo e lo inserì nel proiettore. Dorthy si protese verso l'immagine olografica. Sulla rossa superficie del deserto si scorgeva un anello di territorio scuro che racchiudeva un cerchio di colore nero. — Questa è una ripresa fatta da novanta chilometri d'altezza, e la velocità di transito era considerevole, tuttavia i dettagli sono affascinanti. — Il colonnello Chung allungò una mano e con la lunga unghia ovale del dito indice sfiorò un paio di pulsanti sul proiettore. Flick. Ora il disco oscuro, ingrandito, si rivelava chiaramente per l'interno di un cratere immerso nell'oscurità. — Per ora lasciamo da parte le riprese a infrarossi. Le caratteristiche della foresta circostante sono uguali a quelle delle altre zone fertili. — Flick. Un altro ingrandimento e il cratere non parve affatto un cratere: era una coppa simmetricamente perfetta, nera e liscia, con qualcosa di piccolo e bianco nel suo centro geometrico. Era stupefacente, familiare in modo sconcertante, e in Dorthy si accese un lampo di déjà vu. E poi venne il ricordo. — Arecibo! — esclamò. Tutti si voltarono a guardarla. — Sulla Terra — spiegò lei. — Oggi non ne resta nulla. Fu costruito nell'Età dello Spreco e distrutto in una delle guerre successive. Ma era un enorme radiotelescopio fisso, costruito sul fondo emisferico di una depressione naturale. Il colonnello Chung si schiarì la gola. — Precisamente — disse. — Un radiotelescopio. Sembra che vi siano degli edifici annessi, in un canyon o una cavità sul bordo del cratere. — Mosse un dito nell'aria entro l'ologramma. — Non c'è però abbastanza risoluzione da chiarire questi dettagli, e per lo più sono nascosti fra gli alberi, cosa che spiegherebbe perché non risultavano nelle riprese fatte da distanze superiori per cartografare la zona. — Come sappiamo che si tratta di un radiotelescopio? — obiettò uno dei tecnici. Lei si ficcò una forcina nel morbido concio in cui teneva avvolti i capelli grigi. — Potrebbe essere qualunque altra cosa, magari l'antenna di un generatore a energia solare... — O un campo di calcio — disse qualcun altro, e ci furono delle risate. — Per favore! — li azzittì Ramaro. — È ovvio che un radiotelescopio costruito dal Nemico dovrebbe essere simile ai nostri. Le leggi fisiche impongono la conservazione della forma. — Si guardò attorno, disapprovando il rilassarsi della tensione non meno che quell'improvviso scoppio d'ilarità.
Andrews si passò le dita sul naso, il suo abituale sintomo di cauta eccitazione. — Questo convincerà i signori lassù che dovremmo investigare quella zona fertile, invece di perdere tempo qui come abbiamo fatto finora? — Bisogna procedere con prudenza — disse il colonnello Chung. — Per ora non saranno fatti tentativi di esplorare altre località. Ciò che accade qui dovrà bastare a stimolare i suoi interessi, Andrews. — I miei interessi non concernono i particolari. Ciò che voglio è una visione dell'insieme. Mi ascolti: noi non sappiamo perché il Nemico abbia deciso di planiformare il pianeta di un sole così misero, né da dove venga, né quanto sia vasta la sua sfera d'azione in questo braccio della galassia. — Nel parlare enumerava quei punti sulle dita con energia. — Non sappiamo perché la sua colonia di BD Venti sia così ostile, e neppure chi sia in realtà questo Nemico. Io sono pronto a scommettere che non sono i mandriani, in qualunque forma si siano modificati. Non abbiamo ancora fatto un solo tentativo di contattare eventuali intelligenze presenti nelle altre zone fertili. Forse sarebbero ostili come gli insediamenti intorno a BD Venti, forse questo avverrà con ogni colonia tecnologicamente evoluta in cui ci imbatteremo, ma finora non ci abbiamo provato. E finché non lo faremo possiamo star qui seduti a spulciare teorie, però non avremo fatti con cui sostenerle. — Voi non siete qui per prendere contatto — disse il colonnello Chung. — Vi trovate qui per studiare, e nient'altro. Per favore, capitano Andrews, lasci la logistica della spedizione a quelli cui compete. Io non ho ricevuto neppure un accenno sull'eventualità che questa nuova scoperta possa cambiare la linea delle ricerche qui in superficie. Dobbiamo essere cauti. Le ricordo che, se le ostilità fossero già in corso, qui sarebbe molto difficile proseguire con un qualsiasi programma di ricerca. Per un momento Dorthy ebbe una visione, apocalittica e fiammeggiante, di ciò che il comando orbitale avrebbe potuto fare. Stavano già progettando di bombardare tutto, in caso di pericolo? Sarebbe stato nello stile della Marina. — Ti prego, Duncan — disse Ramaro. — Calmati, e abbi pazienza. Andrews sorrise. — Sai bene che non ho una gran riserva di questa virtù, Luiz. Rispetterò le consegne... quali altre scelte avrei? — Ma Dorthy seppe che non lo intendeva alla lettera. — Adesso diamo un'occhiata a questa istallazione — disse l'uomo, armeggiando con i pulsanti e trasferendo vari colori artificiali sull'ologramma per osservarne gli effetti. Intor-
no a lui i tecnici cominciarono a discutere fra loro chiedendosi se quello nella conca fosse un telescopio, un'antenna ricevente, una trasmittente, un apparato mobile o fisso al suolo, e quanta parte del cielo si trovasse nel suo raggio d'azione. Il colonnello Chung condusse Dorthy da parte. — Lei dovrebbe esser contenta di aver concluso il suo lavoro, dottoressa Yoshida. A bordo del mio aereo c'è posto anche per lei. Forse potrà trovare qualcosa d'interessante a cui applicarsi, al Campo Zero. — Che significa? Aspetti. Mi sta dicendo che non posso andarmene da questo pianeta? — Nessuno può andarsene, almeno per il momento. Finché la situazione resterà incerta, il comando non manderà giù nulla che possa essere usato dal Nemico per abbandonare la superficie. Dorthy si sentì storditamente incapace di crederle. — Ma dev'esserci uno sbaglio. Certo può fare in modo... lei mi ha detto che una volta finito il lavoro avrei potuto andarmene. — Mi spiace, dottoressa Yoshida, ma questo esula dalle mie facoltà. Io non posso fare in modo che il comando orbitale mandi giù una navetta. Posso solo eseguire gli ordini. Se questo le è di consolazione, tutti noi siamo sulla stessa barca, quaggiù. Sono certa che se riuscirà a tenersi occupata, il tempo le passerà in fretta. Lei è un'astronoma, no? Forse potrebbe studiare meglio le caratteristiche di questo sistema solare. — No! — disse Dorthy, e scosse il capo. — No! — esclamò ancora ad alta voce, conscia che gli scienziati e i tecnici sparsi nella penombra del locale si voltavano a guardarla. Non si sarebbe gettata tutto dietro le spalle, non dopo tutti quei giorni di pericoli, di fatiche e di sofferenze, nella foresta e fra le rocce. Non dopo l'assurda fine di Marta Ade e di Chavez, non dopo la tragica morte di Arcady... e rivide la sua espressione amichevole, risentì il flusso dei suoi pazienti, instancabili e acuti pensieri: Arcady non sarebbe mai andato a sedersi nel limbo del Campo Zero, con quegli enigmi ancora da risolvere. — Se non posso andarmene da questo pianeta, preferisco restare qui — disse con energia. — Lei vuole altre scoperte sul Nemico. Io userò il Talento. Va bene? — Si accorse che Andrews la stava fissando con faccia inespressiva. Non riuscì a immaginare cosa pensasse di lei. — Io le suggerisco caldamente di tornare indietro con me — replicò il colonnello Chung. — No! — Dorthy ebbe la soddisfazione di sentire la sorpresa, dietro la
fredda maschera della donna. — Non è me che lei vuole proteggere, è il mio Talento. Inoltre, c'è il fatto che la mia morte non sarebbe buona pubblicità per la Marina. Be', all'inferno tutto questo. Io starò qui, a meno che non mi portiate via a forza dopo avermi legata mani e piedi! — Benissimo — disse il colonnello Chung, impassibile. Se anche la ribellione di Dorthy la sbalordiva, dandolo a vedere avrebbe perduto la faccia. — Ma spero che lei non debba pentirsene, dottoressa Yoshida. Dorthy si allontanò, e vide che ora Andrews stava sorridendo, appena una piega a un lato della bocca, non avrebbe saputo dire se di approvazione o divertimento. Poi l'uomo si volse all'ologramma del radiotelescopio e riprese a parlare sottovoce con Ramaro. Lei poggiò le mani su un pannello di strumenti e pensò: in trappola. Quasi ogni giorno un gruppo di «nuovi maschi» mandriani emergeva dal valico per scendere nel cratere. Non erano mai meno di tre o quattro, a volte una dozzina, e avevano lunghi bastoni che aggiunti al cappuccio di pelle floscia li rendevano simili, visti da lontano sullo sfondo dei dirupi nebbiosi, a pellegrini medievali dall'aspetto sinistro. Quando arrivavano su un pendio da cui la torre era visibile, spesso si fermavano, accendevano un fuoco con le braci che portavano con sé in un tondo recipiente d'argilla e restavano nella zona a volte per alcuni giorni, andando a caccia e unendosi ad altri gruppetti giunti dopo di loro. Poi scendevano fra la boscaglia che s'infittiva sulle pendici inferiori del cratere, proseguivano fra i bassi alberi lungo un sentiero ormai molto battuto, attraversavano la dritta via di accesso lasciata allo scoperto dalle acque, e lì le loro figurette si stagliavano minuscole contro le imponenti strutture della torre che sovrastava quel panorama crepuscolare con la sua galassia di luci. Chini di fronte alla parete che costeggiava il loro percorso in salita, spiraleggiante su per le strutture esterne della torre, studiavano pazientemente le linee di scrittura incise su di essa, e come Andrews faceva notare di continuo, non avevano affatto l'aria di un esercito che si preparasse a respingere un invasore. Sembravano innocui studiosi occupati in un lavoro tranquillo. Il primo gruppo, arrivato alla torre due settimane addietro, si trovava in quel momento soltanto a metà della lunga spirale, dove le iscrizioni coprivano la parete da cima a fondo. Dorthy trascorse le due settimane successive cercando di capire quegli strani esseri, studiando lo schema dei loro arrivi (ma senza trovare elementi che riportati sui grafici Poisson avessero un significato per i computer) e
avventurandosi all'esterno per sondarli con il suo Talento. Voleva prove più concrete da fornire ad Andrews, mostrando i mandriani per quello che erano: non precursori venuti ad aprire la porta ai loro gloriosi creatori, ma eredi che tornavano pian piano ad appropriarsi di ciò che era stato loro. Non riusciva ancora a spiegarsi l'emotività con cui s'era opposta all'offerta di ritirarsi nella sicurezza del Campo Zero. La Marina s'era impegnata a rimandarla a casa, e prima di quell'avventura lei si sarebbe battuta con indignazione contro chi calpestasse così sfacciatamente i suoi diritti; ora invece accettava la cosa con la stessa rassegnazione con cui, da ragazzina, aveva accettato che il padre accampasse diritti sul denaro che lei guadagnava all'Istituto Kamali-Silver. Angel Sutter pensava che lei fosse impazzita, e glielo aveva detto quella sera stessa. — Forse hai ragione — era stata la mesta ammissione di Dorthy. — Se fossi al tuo posto non avrei esitato a schizzare via da qui, così! — Angel aveva schioccato le dita. — Da come ti comportavi al Campo Zero avrei giurato che su questo pianeta non ti ci potevi vedere neppure in fotografia. — Le cose sono cambiate — aveva mormorato lei a disagio, distogliendo gli occhi dallo sguardo franco e inquisitorio di Angel. Erano sole al tavolo. Dall'altra parte della mensa dieci o dodici tecnici dei due sessi stavano cenando, dopo esser stati rilevati dai colleghi insieme ai quali tenevano sotto osservazione la torre ogni minuto delle ventiquattr'ore giornaliere. — Puoi scommetterci che sono cambiate — aveva annuito Angel. — Non saprei dirti il perché — s'era decisa a confessare lei, — ma mi piacerebbe convincere Andrews che si sbaglia sui nuovi maschi, i custodi, anche se potrei gettarmi tutto dietro le spalle e infischiarmene di quel che fate voialtri, giusto? Solo, cos'altro potrei fare? — Far cambiare idea a Duncan una volta che si sia fissato su una cosa non è facile, tesoro. — Forse sto cercando di dare un senso a quello che mi è successo là fuori, alla morte dei gemelli, a quella di Arcady... — Ma sentendosi presuntuosa all'idea di poter dare, lei, un senso alla morte di un essere umano, era arrossita. Inoltre dentro di sé sentiva che questa non era neppure la verità. Al più, in un certo senso, era una porta che lei voleva aprire verso un'altra verità profonda e oscura, insondabile. Angel aveva stretto le labbra. — Ascolta, non è che io voglia dire niente con questo, ma penso che tu e Arcady foste diventati amanti. Non sei costretta a giustificare questa cosa, ora, cercando di...
Per un gelido momento Dorthy aveva avuto l'impressione d'essere sospesa nel vuoto. — Sì, è così — s'era costretta a dire. — Ma non credo che questo significasse qualcosa per me o per lui. Ci siamo sentiti attratti, nient'altro. Ed è successo solo quando fummo di nuovo al lago, dove prima c'era il campo. Suppongo che pensassimo che saremmo morti, che non ce l'avremmo fatta a scalare il cratere. Nulla aveva più molta importanza. — Scusa, tesoro, se ti parlo così. Sono proprio una dannata ficcanaso, eh? Ma il fatto è che non so se sia un bene per te restare qui dopo quello che hai passato. Neppure Duncan si sente soddisfatto, anche se gli fa comodo avere il tuo Talento che lavora per lui. — Voltare le spalle non mi sembra che risolverebbe molto, special mente se non potessi andare più in là del Campo Zero. Sarei ancora su questo maledetto pianeta, con la differenza che non potrei fare nulla salvo stare là seduta a guardare la Tri-V e ogni tanto i sorrisetti congelati del colonnello Chung. — Dorthy aveva sorseggiato il suo caffè, poi s'era mordicchiata un labbro. — Non dirai nulla di questo, vero? — Posso essere un'impicciona, ma ci sono cose su cui non apro mai bocca — aveva detto Angel con un sorriso. — Salvo quando mi sento scoppiare se non lo faccio. In questo ambiente i pettegolezzi di un certo genere sono veleno, sai? E solo in quel momento Dorthy aveva capito quella cosa, abbastanza ovvia e che malgrado il suo Talento lei non era stata capace di vedere. Gli occhi di Angel Sutter le stavano confermando che lei e Andrews erano amanti, forse anche da prima che lui la portasse con sé al campo sul lago. Se Dorthy non lo avesse intuito, presto le sarebbe stato quanto mai evidente, perché Angel Sutter e Duncan Andrews cominciarono ad accompagnarla in vari posti lungo i pendii interni del cratere, e nel circolo dei sistemi di allarme che disponevano per cautelarsi dai mandriani non c'era molta intimità. Dorthy scoprì che le loro effusioni, a qualche metro di distanza e peraltro discrete, non la disturbavano; teneva tanto alla sua intimità che s'era abituata a ignorare il più possibile quella altrui. Non provava neppure la sottile gelosia che la comunione psichica fra Jon Chavez e Marta Ade le aveva fatto conoscere. Quel tipo di sensibilità s'era smorzato in lei. Inoltre era contenta di potersi allontanare dall'accampamento, dai locali comuni affollati, e dall'eccessiva vicinanza di altre menti il cui brusio emozionale era come un noioso palpitare di luci ai margini del campo visi-
vo. E c'erano da esplorare le lunghe pendici cespugliose o coperte di alberi contorti, le cui fronde si alzavano a sei o sette metri dal suolo e che non erano più alieni dei pini fra i quali lei aveva marciato a fianco di Arcady Kilczer. Sapeva che il desiderio della sua compagnia le sarebbe passato. Avevano fatto all'amore due volte, soltanto due volte, e lui non s'era spinto a toccare altro che la superficie delle sue emozioni. Dorthy cominciava a chiedersi se qualcuno non avrebbe mai cercato sentimenti più profondi in lei. Camminava nella zona boscosa del cratere con il continuo stimolo dell'adrenalina nelle vene, eccitata dalla fiducia in se stesso che Andrews esibiva, divertita dalle acute osservazioni di Angel sulla biologia dell'ambiente, e vedeva quell'ecosistema cedere pian piano i suoi segreti. C'era sempre il pericolo che mentre spiavano i gruppi di nuovi maschi appena arrivati, fossero sorpresi da qualche mandriano in caccia. Gli alberi non erano fitti, ma lo spazio fra essi era colonizzato da cespugli spinosi e alti ciuffi d'erba, o piante grasse che alzavano braccia simili a canne d'organo i cui fiori azzurri, fosforescenti, avevano un odore di trementina. Un mandriano avrebbe potuto pedinare quel terzetto di essere umani senza difficoltà, o tender loro un agguato. Benché andassero a caccia soltanto nelle zone più basse, i nuovi maschi di solito sostavano a quota più alta prima di scendere nella foresta, fra le rocce spoglie e i banchi di nebbia, e ciò costringeva Dorthy a strisciare carponi per lunghi tratti se voleva avvicinarsi abbastanza da cominciare a sondarli. Andrews le teneva dietro per coprirla, armato di fucile a laser; aveva ormai smesso di fingere di ubbidire alle proibizioni del comando orbitale, e desiderava un buon bersaglio da abbattere. Dopotutto, borbottava, i custodi non erano altro che servi e bruti primitivi. Malgrado ogni suo tentativo, Dorthy non trovò nulla di solido con cui contraddire le idee di lui. La mente dei nuovi arrivati differiva ben poco da quella del mandriano catturato durante il furto della barca, con la sola variante che il cieco istinto di arrampicarsi sulla torre, la spinta che li aveva condotti fin lì, non c'era più: dissolto come una bolla di sapone, lasciando appena vaghi residui. Calmi, pacatamente soddisfatti di aver raggiunto e valicato il passo, i mandriani sedevano in silenzio attorno ai loro fuochi. Lo strato superficiale delle menti che Dorthy esplorava era quieto come uno stagno trasparente, ma non per questo le dava accesso alle misteriose zone occulte e imprecisate sotto di esso, in profondità. Allora la ragazza emergeva dal Sessan Amakuki, irritata e frustrata, tornava nel punto in cui Andrews era rimasto ad attenderla, scuoteva il capo e gli comunicava che
non aveva niente su cui valesse la pena di fare rapporto. Lui non se la prendeva. Anche se gli sarebbe piaciuto saperne di più, ogni fallimento di Dorthy lo convinceva d'essere nel giusto e rafforzava le sue pressioni sul comando orbitale per intervenire direttamente sulla torre e su chi vi stava salendo, con indagini ravvicinate e mettendo fine a ogni indugio. Angel Sutter, meno paziente del suo amante, o meno consapevole delle politiche da corridoio che si dovevano tessere negli alti comandi, non capiva perché Andrews non ordinasse semplicemente ai militari di occupare l'intera zona. — Ramaro ha il comando del campo, ma tu gli sei superiore di grado e dovrebbe ubbidirti, no? La risposta di Andrews fu un sorriso. Era disteso sull'erba e guardava il sole attraverso i rami dell'albero che divideva idealmente in due parti il loro campo: il sacco a pelo di Dorthy da una parte, il suo e quello di Angel dall'altra. Aveva appeso la centralina del loro sistema d'allarme a un ramo basso, e la spia luminosa verde continuava a indicare che nulla disturbava il perimetro. Dopo un po' disse: — Sì, certo, potrei dire a Ramaro di darmi una squadra e poi incamminarmi verso la torre. Ma due minuti dopo lui si aggrapperebbe alla radio e chiederebbe al comando orbitale il permesso di arrestarmi per aver violato le loro disposizioni. Potrebbero anche ordinargli di spararmi a vista, e lui lo farebbe senza pensarci due volte. — Ma via! — esclamò Angel. — Non esagero — disse Andrews. — Tu non sei d'accordo, Dorthy? Seduta accanto alla piastra a infrarossi su cui Angel stava improvvisando uno stufato di sua invenzione (fagioli bianchi, pezzi di pollo e altri misteriosi ingredienti che aveva ottenuto dal distributore della mensa), Dorthy annuì. — Perché dovrebbe esitare? Ma ammetto di avere dei pregiudizi femminili verso quel dannato bastardo pieno di pregiudizi maschilisti. — Cielo! — sospirò Andrews, e inarcò un sopracciglio. — Anche dando per buona la tua sentenza sul carattere di Ramaro, non è per questo che mi sparerebbe senza esitare un attimo, bensì per il fatto che è un classico uomo di carriera. Quando la Marina si aprì a tutte le rappresentanze nazionali, lui chiese il trasferimento dai Corpi della Pace di Grand Brazil, perché vide l'opportunità di un rapido avanzamento. È comprensibile che il sistema gerarchico gli piaccia, dato che offre posizioni sociali precise in cui accomodarsi e regolamenti ferrei come difesa e sostegno. È il figlio non primogenito di una famiglia della piccola aristocrazia... conosco il tipo, su Elysium ne avevamo tanti che quando uno entrava in un bordello di lusso
il primo odore che sentiva era quello delle loro pomate da quattro soldi. Tu non mi credi, eh, Angel? — Io provengo dalla Gilda, dove il sistema gerarchico è rigido come quello dei CP di Grand Brazil — disse la donna. — Ma non per questo sarei capace di spararti. Non ancora, almeno. — Ah, ma tu eri nelle squadre di esplorazione, una scienziata. Cosa conti di fare, quando tutto questo sarà finito? Angel Sutter alzò la testa dallo stufato e rise, divertita. — Che razza di domanda! Non lo so proprio. Forse una scrivania alla direzione scientifica. Non mi dispiacerebbe. Qualche volta sono maledettamente stanca di girare nel fango per raccattare reperti fra la cacca di qualche strano animale, magari col pericolo che quello torni e nel suo prossimo reperto qualcun altro raccatti me. Anche Andrews rise. — Vedi? Non puoi vantare ambizioni vere e proprie. Ramaro, invece... — Alzò una mano per placare le proteste di lei. — Ramaro di ambizioni ne ha tutta una lista, anche se sa di non poter mirare troppo in alto. Perciò lui resterà in Marina. E di conseguenza so come si comporterebbe qui. — E tu, Duncan? — chiese Dorthy. — Dov'è che ti può portare la tua ambizione? — Diavolo, alla conquista della galassia, naturalmente. Credevo che questo fosse chiaro. — A volte ho la precisa sensazione che tu non scherzi quando dici cose simili — commentò Angel. — Che ne pensi, Dorthy? Non vuoi sprecare una pillola per i segreti di questo misterioso individuo? Fai buon uso del tuo Talento! Lei poggiò un gomito sulla superficie metallizzata del suo sacco a pelo e scosse il capo. — Ha la testa troppo grossa. Se ci entrassi dentro mi perderei e non troverei più la via d'uscita. Dorthy aveva già parlato con lui dell'argomento in una precedente escursione, mentre aspettavano che Angel Sutter raccogliesse campioni biologici. Gli aveva chiesto perché fosse così fervido e trascinato dalle sue passioni, e cosa lo spingesse a impegnarsi tanto. Andrews lavorava su orari più lunghi di chiunque altro, e quando non era fuori con Angel o sull'altro lato delle montagne con la squadra di McCarthy lo si vedeva in laboratorio a studiare i rapporti o intento a elaborare dati su un computer. Era duro con se stesso e pretendeva il massimo dagli altri. Soltanto Angel sembrava refrattaria alle sue pressioni, scrollava le spalle con indifferenza e gli oppo-
neva commenti salaci sulle sue ambizioni. Quando Dorthy gli aveva fatto quella domanda, la sua risposta era stata: — Perché faccio questo dal momento che sono ricco, vuoi dire? — Erano seduti sull'erba accanto all'aereo da trasporto, immersi nella luce rossa, con il sole ormai sulla via del tramonto e per metà nascosto dall'orlo dirupato del cratere. Andrews aveva alzato uno sguardo fra pensoso e divertito sull'immenso emisfero sanguigno, mentre Dorthy, col Talento di nuovo sopito dopo un altro dei suoi inutili tentativi, si domandava invano cosa stesse pensando. Infine lui aveva detto: — La cosa buffa del denaro è che tu lo possiedi, ma quando supera un certo ammontare è lui che possiede te. I poveri sono convinti d'essere schiavi del denaro, o meglio delle necessità imposte dalla sua mancanza, ma al giorno d'oggi sono schiavi che danno assai poco di sé al loro padrone. Quando invece tu ne hai oltre un certo limite, un limite naturalmente molto elevato, il denaro stesso ti impone dei comportamenti obbligati, condizionanti. Questa è la situazione in cui vive mio padre. Egli è posseduto anima e corpo dal suo denaro... anche se gode nel sentire intorno a sé il potere e i suoi simboli: le riunioni, le strategie, e le guerre. Sicuro, le guerre. Manovre economiche impietose, spesso anche molto violente, in cui non di rado qualcuno perde la vita. Io sono il suo primogenito, capisci, destinato a ereditare tutto... anche se non per molto tempo ancora. Un secolo, forse due. Il primogenito e un agatherin, come chiamano da noi chi coltiva la pianta omonima. Certo noi ne controlliamo una piantagione, e abbiamo un'assistenza medica piuttosto privilegiata, ma nel frattempo... Tu hai presenti quelli che, sulla Terra, cominciano a chiamare «i Dorati»? Dorthy aveva annuito, anche se lo sguardo di lui sembrava essersi perso fra i rami degli alberi. — Sì. Ne ho conosciuti alcuni. — I loro eredi hanno spiegato le ali da un pezzo, scoprendo che preferivano andare a volare da qualche altra parte, anche se ne conosco alcuni come il mio vecchio amico Talbeck Barlstilkin che accettano di occuparsi degli affari di famiglia. I giovani ricchi (l'agatherin ha trasformato quasi in sinonimi queste due parole) sono continuamente alla ricerca di qualcos'altro, qualche altro brivido nuovo... viaggiare con un gruppo di loro è come vivere in una vacanza interminabile, sai. Dorthy aveva annuito, ma Andrews era tutto preso dalle sue spiegazioni. — Festicciole al tramonto sulla vetta dell'Arul Terrek a Novaya Rosya; sciare sul Ghiacciaio Eternità a Nuova America; sapori di vita selvatica sulle montagne di Taryscheena a Novaya Zyemlya; caccia grossa nella ri-
serva delle Filippine sulla Terra; fare l'alba su una spiaggia del Mare di Cristallo, su Rubino... un centinaio di gruppetti di edonisti, occupati nella scelta di passatempi costosi e privilegiati. Oh, alcuni hanno responsabilità a cui ogni tanto si piegano. Pochi, come il mio amico Talbeck, badano agli affari a tempo pieno. Ti ho citato, fra parentesi, un romanzo. La lunga estate. — Non credo che qualcuno legga ancora romanzi. — Non sulla Terra, forse. Ma su Elysium la cosa sta tornando di moda. Si parla di ristampare anche vecchie opere, come il libro che hai tu. Ma il punto è che quel genere di vita non era il mio. Molta gente snobba la scienza, ai nostri giorni, dicendo che non c'è più nulla che meriti d'essere scoperto... e del resto guarda cos'ha fatto la scienza nell'Età dello Spreco. Be', io studiai biologia perché la mia famiglia si reggeva sull'agatherin, che allo stato brado è un'erbaccia anche piuttosto nociva. Oggi i nostri interessi si sono diversificati molto, anche se allora l'agatherin e un vecchio castello era tutto ciò che avevamo. Ma resta in qualsiasi attività abbastanza a lungo e assumerai un certo potere, se non altro per forza d'inerzia. E suppongo che il nome della mia famiglia mi abbia aperto la strada. Ecco come mi sono intrufolato al comando del reparto scientifico di questa spedizione, lasciando la Gilda come fecero molti altri qui, quando la Marina dovette ampliare i quadri per accollarsi tutte le operazioni necessarie contro il Nemico. Ma non le aveva spiegato perché avesse lasciato gli affari di famiglia per la Gilda, e Angel era tornata prima che Dorthy potesse chiederglielo. Ed ora, osservando quel volto su cui si spandeva la luce verde della centralina appesa poco più in alto, Dorthy rifletté sull'esperta scivolosità di Andrews: la sua maschera era quella dell'uomo di azione, ma programmare complesse linee di condotta per irretire gli avversari era un gioco in cui non perdeva battuta. — Si mangia fra mezz'ora — annunciò Angel, sedendosi sul sacco a pelo dopo un'ultimo tocco allo stufato. Si volse a guardare il disco del sole, spezzato dalle zanne di roccia che orlavano il cratere. — Penso che le nostre scorribande siano finite. Io, comunque, non ho intenzione di metter piede in questa boscaglia quando qui non ci sarà più la luce del sole. — Io devo continuare a sondare i mandriani — disse Dorthy. — Sono sicura che c'è qualcosa da scoprire. — Ma dopo quattro tentativi falliti non era sicura di niente, e se rifiutava di ammetterlo era perché sarebbe stato come ammettere che restando lì aveva fatto uno sbaglio.
— Al buio, con quei dannati carnivori che girano attorno? Sei più matta di quel che credevo — sogghignò Angel. — Quasi matta come Duncan. — Posso sondarli prima che attraversino il passo — dichiarò Dorthy. — Quel lato della montagna sarà ancora illuminato per una settimana, più o meno. — Abbi pazienza — disse Andrews. — Se riesco a manovrare la cosa andremo a spiare nella mente dei custodi che stanno leggendo il loro prezioso libro murale. Pensa come ne sarà contento Ramare — Non contare su di me! — gridò Angel. — Nessuno può essere pazzo come te, Duncan. Vorresti andare laggiù di notte? — Perché no? La luce non manca. È più intensa di quella del sole, in realtà. — Oh, certo! Be', meglio tu che io. Quelle bestie ti possono mangiare in cinque minuti, stivali e tutto. Fai pure! — Nessuno li ha mai visti mangiare, da quando sono sulla torre — disse Andrews, e aggiunse: — La Chung ha trasmesso in orbita un insieme di brani tradotti in questi ultimi giorni. Risulta che questa lingua scritta ha molto in comune con il nostro sistema di scrivere la musica. Ecco perché Ramaro aveva tante difficoltà. E tuttavia forma un testo coerente, una cosa completa fatta di elementi interconnessi. Per lo più è ancora incomprensibile, e inoltre sembra mescolata con una sorta di bizzarra cosmologia, draghi o creature con le caratteristiche dei draghi, stelle che hanno un effetto sul destino, una paccottiglia di controsensi. È come se qualcuno volesse darti le istruzioni per costruire un propulsore di fase mescolando la mitologia medievale alla teoria della relatività di Einstein. Il cielo sa cos'altro c'è scritto. E forse tu potresti dircelo, Dorthy. Lei scrollò le spalle. Stava ripensando ai suoi sogni di caccia famelica sotto quel cielo notturno in cui brillava un'unica stella, oltre le gelide nuvole di gas interstellare. Il modo in cui Andrews descriveva quei testi sembrava collimare con le sensazioni, con il tessuto di quei sogni. Ma proprio come i sogni, che svanivano all'alba, la spiegazione di quel misterioso collegamento scomparve un attimo prima che lei la afferrasse. Comunque, non aveva mai parlato a nessuno dei suoi sogni. — Sarebbe meglio aspettare finché non cominciano a mettere in pratica quel che hanno imparato. Durante un sondaggio posso capire i concetti dietro le attività consapevoli, il rapporto fra l'azione e il pensiero da cui deriva, ma sarebbe difficile tradurre una strana lingua mentre viene letta da una creatura altrettanto aliena.
— Quando giungeranno in cima — disse tranquillamente Andrews, — avranno imparato la canzone che devono cantare per chiamare i loro padroni. Credimi, Dorthy, è così. E Dio solo sa cosa succederà, allora. — Probabilmente quella maledetta bomba deciderà di averne abbastanza di questo pianeta e ci farà saltare in aria — disse Angel. — Be', non è il caso di preoccuparsene. Prima che i custodi arrivino in cima alla torre avremo spostato il campo a una cinquantina di chilometri da qui, sulla pianura. Il satellite che hanno spostato su questa zona è sempre sopra l'orizzonte, e Ramaro potrà mandare e ricevere segnali dai suoi sensori. — Vuoi dire che questo è il piano, sul serio? — Angel scosse il capo. — E non mi hai mai detto una parola. Oh, che bastardo! — Non è cortese da parte tua. Non sei giusta, adesso. — Andrews allargò le braccia. — Guarda, tu fammi una domanda e io ti rispondo. D'accordo? — Con un sogghigno sollevò le mani per bloccare il cuscino che la sua amante gli aveva tirato in faccia. Dopo un momento anche Angel rise. — Sei un tale bastardo, Duncan! — Davvero? Di solito vedo me stesso come una figura ingenua e romantica, in questo mondo malvagio. Era una specie di verità, anche se si doveva sbucciare via un grosso strato di menzogna per vederne una fetta. Non si poteva negare che credesse appassionatamente nel destino dell'umanità, e che la sua fosse una visione romantica fondata su degli ideali, dunque ingenua... ma non c'era niente di ingenuo nel modo in cui combatteva per andare avanti con le sue idee. Vederlo quando si lavorava il maggiore Ramaro per ottenere il suo appoggio in un'azione diretta alla torre, divertiva Dorthy, che era stata presente a un paio di quei colloqui. Andrews aveva cominciato dicendosi contrario a qualsiasi intervento sulla struttura aliena, costringendo però il maggiore ad ammettere che lì i risultati erano scarsi e che questo non giovava alla loro reputazione. Poi era passato a suonare la campana opposta. Benché confuso da quel voltafaccia, Ramaro continuava a difendere lo status quo, ma con una nervosa testardaggine sotto cui cresceva la rabbia contro le prudenze del comando orbitale. Quella sera, a mensa, Andrews lo attaccò più apertamente. — Andiamo, Luiz — gli disse in tono ragionevole, — non mi sembra chiedere molto. Ormai hai già visto che con i nuovi arrivati non abbiamo avuto fortuna. Qui ci stiamo impantanando. E affonderemo ancora di più se non facciamo un passo per uscirne fuori.
— Hai sentito quello che ha detto il colonnello Chung: lassù sono soddisfatti dei nostri progressi — disse Ramaro, mangiando una tavoletta di concentrato proteico. Andrews lo aveva trovato seduto davanti alla sua cena abituale, quanto di meno fantasioso si potesse ottenere dal distributore. — Sono soddisfatti del metodo con cui si lavora qui, e questo li costringe a dirsi soddisfatti dei risultati, visto che il metodo lo hanno imposto loro. Ma sai bene quanto me che se andiamo a una conclusione imprevista vorranno due teste su un piatto, la mia e la tua. I due che lavorano sul campo. Mentre la Chung si tiene in disparte senza sporcarsi le mani e fa il suo gioco. — La Chung! — sbottò il baffuto maggiore, prendendo un'altra tavoletta. Poi scosse il capo. — No, senti: se lassù volessero una spedizione alla torre avrebbero ritirato la direttiva che proibisce il contatto diretto. Visto che non l'hanno fatto, devo dedurne che sono contrari. Inoltre, che utile trarresti da una spedizione del genere? Non ti bastano i dati che le sonde automatiche ci stanno trasmettendo? — No, naturalmente. La tua squadra ha fatto un lavoro fantastico, ma ci sono cose che richiedono un'investigazione di persona. — Stai alludendo alla tua piccola frugacervelli, immagino — borbottò Ramaro dando un'occhiata a Dorthy, che sedeva al tavolo accanto fingendo di guardare una registrazione alla Tri-V, mentre in realtà ascoltava sfacciatamente. — In che altro modo pensi di scoprire le intenzioni dei custodi? — chiese Andrews. — Con tutto il loro lavoro, gli studiosi al lavoro sulla lingua, lassù in orbita, non hanno la minima idea del significato ultimo di quei messaggi scritti. Naturalmente, ora che gli abbiamo fornito una base potrebbero procedere più velocemente di noi. — Se avessi le loro risorse... — brontolò Ramaro con una smorfia, — ci sarebbero già traduzioni complete, forse. L'ultimo piccolo progresso è stato soltanto un colpo di fortuna, ecco la verità. — Ma una risorsa tu ce l'hai, se non ti opponi al fatto che io la usi — insinuò Andrews. — Pensa all'effetto che farebbe un rapporto su ciò che i custodi pensano, mentre si leggono quella loro roba. — Non so, Andrews. La ragazza non ha avuto molto successo con i nuovi arrivati. — Questo perché loro non hanno un solo pensiero nella testa, a parte la smania di andare alla torre. È tutto laggiù, Luiz, se noi allunghiamo una mano a prenderlo. L'identità del Nemico, forse il suo pianeta di origine,
tutto quanto. Pensaci. Adesso ho del lavoro da finire. Più tardi Dorthy disse a Andrews: — Sai benissimo che una mente non è un libro. Io non potrei tradurre una parola di quella roba, anche se la la leggessero ad alta voce tutti quanti insieme. — Sicuro, ma Ramaro questo non lo sa. D'altra parte tu potresti trovare un indizio utile di qualche genere. — Non ne sono certa, Duncan. Non so neppure se voglio andare laggiù. — Be', con gli ultimi arrivati non hai concluso niente, e dopo il tramonto non potremo più muoverci con la stessa sicurezza in quella zona. Era vero: quando il sole si abbassò dietro l'orlo, la sola cosa che restò visibile nell'interno del cratere furono le miriadi di luci rosse della torre, mentre in alto le stelle non erano neppure velate dai riflessi sempre più smorti dell'astro al crepuscolo. Vista l'impossibilità di far la posta ai mandriani appena usciti dal valico, Dorthy convinse Andrews ad accompagnarla sul lato esterno del passo, dove i raggi del sole illuminavano orizzontalmente le scabre rocce bagnate dalla nebbia. Le fece un effetto strano rivedere le pendici su cui s'era trascinata più morta che viva, mentre sedeva nella posizione del loto sulle irregolarità della lava e ne sentiva il gelo anche attraverso la tuta termica. Sapeva ora che la geologia del territorio aveva uno scopo preciso. Nebbie e piogge scendevano da lì a irrigare la zona fertile, e l'afflusso d'aria calda che saliva a condensarsi in quota era anche la sorgente da cui, in modo ancora misterioso, la stessa torre estraeva la sua energia. Dorthy e Andrews localizzarono con gli infrarossi un gruppo di nuovi maschi che risalivano in fila indiana lungo un canalone, e la ragazza riuscì a sondarli per circa dieci minuti mentre passavano a un centinaio di metri da loro, invisibili oltre una parete di nebbia. Nella loro mente c'era soltanto il lavoro fisico dell'arrampicata, l'impulso soverchiante a proseguire, e la visione della torre che si levava immensa dall'acqua nera, con i suoi pinnacoli che salivano e si biforcavano cingendola di una strana, fantastica corona. Poi il loro contatto psichico si allontanò, e a lei non restò che contemplare di nuovo il suo fallimento. Dorthy rinunciò a uscire sul cratere. Trascorse buona parte della settimana successiva dormendo, dopo aver ingannato l'autodoc - con la scusa di far controllare il suo impianto - in modo che le fornisse una potente droga narcolettica. Sospettava che non pochi tecnici abusassero in modo analogo di quell'apparecchiatura; la tensione di quel continuo monitoraggio, con una bomba atomica controllata da un computer pronta ad esplodere
sotto i loro piedi, era abbastanza insopportabile da spingere Dorthy a rischiare un danno all'impianto pur di sfuggirle. Addormentata, era libera da quella perpetua oppressione e dal disturbo delle emozioni altrui che non cessavano di invaderla. E nel sonno la sua mente s'immergeva nelle fantasie di caccia che l'avevano accompagnata fin dalla morte di Kilczer, sogni che da sveglia lei non riusciva mai a ricostruire nel contenuto, trattenendone soltanto il sapore potente quanto alieno. Continuava a non parlarne a nessuno. Forse erano trasmessi da qualcuno, nella torre o altrove (quello sguardo alla luce abbagliante della nova che esplodeva da oltre il bordo del pianeta, sotto la sua capsula di caduta, e l'altro lampo penetrato in lei mentre assisteva al tormento del verme anulato chiuso in gabbia). O forse era lei stessa che stava crollando. Avere un Talento significava essere esposto al pericolo di danni psichici irreversibili. Ad alcuni era accaduto. E lei stessa c'era andata vicino un paio di volte, dopo esperienze particolarmente travagliate. Dorthy dormiva sedici o diciotto ore al giorno, uscendo dal suo scomodo cubicolo soltanto per usare l'impianto igienico e per mangiare. Cercò di convincere Angel Sutter a insegnarle gli scacchi sulla scacchiera tripla (da quando non osava più uscire in cerca di campioni anche Angel era giù di morale, e se non fosse stato per il suo amante si sarebbe unita alla squadra di McCarthy, oltre le montagne), ma le complessità del gioco la scoraggiarono. Esplorò il materiale della biblioteca, senza però trovare registrazioni che la interessassero troppo. Impiegava un'ora a bere una tazza di caffè. Poi tornava a letto. E stava dormendo il giorno in cui Andrews persuase finalmente Ramaro a lasciarlo andare alla torre. Non ne fu informata finché lo stesso Andrews, di ritorno dalla breve spedizione, non la incontrò alla mensa. — Angel ha ragione — commentò Dorthy. — Sei un gran bastardo. Perché non mi hai detto una parola? — Ma se stavi dormendo! — protestò candidamente lui. — E poi avevo fretta di andare, prima che Luiz cambiasse idea. Comunque non sono stato là molto, non preoccuparti. Appena un'occhiata, sullo spazio aperto alla fine della strada d'ingresso, quello che i tecnici chiamano «la piazza». Non ho visto neppure un custode. — Cosa volevi dimostrare? Hai trovato qualcosa che ai sensori di Ramaro era sfuggito? — Non molto. Però ho staccato via un pezzo di muro. Ecco qui. — Si frugò in tasca e glielo mostrò sul palmo della mano: una scheggia nera dai
bordi acuminati, non più grossa della falange di un dito. — Posso? — Quando lui annuì, Dorthy prese il frammento fra il pollice e l'indice. Ebbe un fremito. Il suo primo contatto con il prodotto di un'evoluta razza aliena. — È uno strano materiale — disse Andrews, mentre lei se lo rigirava fra le dita: freddo, duro, né metallo né pietra. — Per dirne una, ferma del tutto i neutrini. Ecco perché le sonde spedite laggiù non hanno mai svelato cosa ci sia dietro quei muri. Il metodo della risonanza ci ha detto che esistono dei locali interni piuttosto spaziosi, e masse solide di buone dimensioni dentro di essi, ma non è stato possibile capire di cosa si tratta. — Lo hai analizzato? — Per lo più è ferro, proprio come risultava già all'esame spettroscopico. Ma non ferro cristallino. Per staccare via questo pezzetto ho dovuto mettercela tutta. Il resto è carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, e qualche traccia di zolfo e di fosforo. Significa qualcosa per te? — Più o meno. Sono tutti elementi associati alla vita. Si possono trovare su certi tipi di comete, quelle di CHON, e c'è chi dice che queste ultime potrebbero sostenere una specie di vita. Ma niente è mai stato provato. — Lo credo. Be', sembra che qui ci sia qualcosa come un lattice organico insieme al ferro. Il quale, fra parentesi, non è magnetico. Niente struttura cristallina, capisci? Lo si direbbe parte di un intero molto più vasto e complesso. — Stai suggerendo che la torre sia viva, in qualche modo? — Dorthy rise. — Forse è lei il Nemico. Quando i mandriani arriveranno in cima si sveglierà, tirerà fuori i piedi dal lago e andrà a farsi una passeggiata... Senza sorridere, Andrews riprese il frammento e se lo mise in tasca. — Potrebbe esserci qualunque cosa laggiù. Non credi anche tu? — È proprio questo che mi eccita — disse lui, una volta tanto senza mimetizzare le sue vere emozioni. — E voglio tornarci presto, prima che Ramaro cominci a preoccuparsi troppo delle conseguenze. Tu mi aiuterai, Dorthy? Ecco perché era venuto a cercarla, dunque. Per un attimo s'irritò al pensiero d'essere una cosa, uno strumento, che lui usava o non usava a suo piacere. Ma quella sensazione passò; dopotutto era per questo che lei si trovava lì. — Quando si va? Lui fu sorpreso. — Stai dicendo che vuoi venire laggiù? Devo avvertirti che può essere molto pericoloso. Non c'è modo di uscirne facilmente, se dovessero vederci e darci la caccia.
— Si capisce che vengo anch'io. Sono rimasta qui perché non volevo ammuffire al Campo Zero, e sapevo già che avrei dovuto andare fino in fondo. — Sai una cosa? — disse lui. — Sei cambiata dalla prima volta che ti ho vista. Non credevo che ti saresti mai offerta volontaria per qualsiasi cosa. — Oh, non so — mormorò Dorthy, e nello stesso tempo si chiese se fosse vero. Era cambiata? E da cosa avrebbe potuto capire se in lei c'era qualcosa di diverso? Lasciarono il piccolo velivolo ai margini della foresta, con Angel Sutter a bordo, e s'incamminarono sul vasto spazio erboso verso l'acquitrino oltre cui si levavano le rosse costellazioni della torre. Dorthy era soggiogata dalle dimensioni di quella struttura aliena. Le spirali secondarie, unite a quella principale da rampe volanti, arcate e ponti, erano alte quanto i grattacieli che circondavano il Quadrado de Ciuco Outubro, alcune verticali e fusiformi, altre incurvate come enormi spine di rosa. In quanto alla spirale di centro, doveva rovesciare la testa all'indietro per vederne la cima, che svettava contro il cielo stellato a circa cinquecento metri dal suolo e da lì sembrava più alta dell'orlo del cratere. Più in basso le fonti luminose s'infittivano senza uno schema apparente. — Sbrigati — la incitò Andrews, impaziente, e senza aspettarla uscì dai cespugli. Appena fu sul tappeto d'erba dagli steli intrecciati, il suo mantello-camaleonte ne assunse subito il colore, viola-azzurro intessuto d'ombre. Dorthy fece scattare fuori una pasticca di contro-agente e la inghiottì, poi affrettò il passo dietro il compagno la cui figura le restava visibile più che altro per l'ombra. Mentre si avvicinavano all'inizio della strada che tagliava il pantano e la striscia d'acqua nera - con il suo lento e fantomatico gorgogliare di bolle fra masse fosforescenti di gelatina fotosintetica - cominciarono a distinguere i dettagli dell'imponente base della torre. Arcate dalla fine ed elegante intelaiatura, festoni di vegetazione che pendevano ovunque, e l'inizio della rampa a spirale diretta alla sommità, ingannevolmente delicata a paragone dei contrafforti da cui si distaccavano passaggi di collegamento con le torri secondarie. Andrews chiese a Dorthy come si sentiva, e la ragazza confessò: — Maledettamente nervosa. — Già parzialmente attivo, il Talento le lasciava captare i pensieri di lui, irritanti come punture nel loro continuo lavorio eccitato.
— Eppure conosci già le loro menti, no? — Le menti di quelli che non avevano ancora raggiunto il loro obiettivo, prima che cominciassero a leggere le iscrizioni. Questo posto li domina, così come domina il cratere. Dentro, non immagino cosa... ma è per questo che sono qui, suppongo. Andrews, che era stato sul punto di farglielo notare lui stesso, disse invece: — Come va il Talento? — Sono pronta. — Lei alzò lo sguardo, ma la torre centrale era ormai nascosta dalle alte spirali che la circondavano. — Dio, quant'è grande! — Mi sento come il cavaliere venuto a salvare la principessa — disse Andrews. Il suo volto era a malapena visibile sotto il cappuccio del mantello. Stava sorridendo. La strada era larga abbastanza da consentire il passaggio di tre cingolati affiancati, coperta da erba palustre ormai abbondantemente calpestata. Da ogni lato l'acqua pullulava di masse più o meno solide di materiale vivo e luminescente. Oltre l'acquitrino il percorso emergeva dalla fanghiglia e si alzava in una rampa liscia passando fra due torri, che più in alto si biforcavano e si biforcavano ancora. La luce rossa era intensa come nella bocca di una fornace. Scilla e Cariddi, pensò Dorthy, mentre seguiva Andrews oltre quella sorta d'ingresso. La rampa si trasformò in una vera e propria arteria soprelevata che continuava a salire in un'ampia curva. Doveva essere larga da venticinque a trenta metri, calcolò la ragazza. Dai bordi si staccavano rampe minori, anch'esse a spirale, che andavano a collegarsi a pinnacoli di altezza diversa, alcuni lisci, altri scolpiti da spesse costolature, e qualcuno brulicante di spine come un riccio. La torre non sembrava affatto progettata e costruita, ma piuttosto spuntata e cresciuta da un immenso seme. Il percorso girò intorno a uno spazio occupato dalle chiome scure di alberi che avevano messo radici più in basso, poi curvò ancora per unirsi alla parete. — Ecco — disse Andrews. — È lì che cominciano le scritte murali. C'era una sola riga, ma ondulata come la traccia di un elettrocardiogramma e d'incredibile complessità, con caratteri e ideogrammi che fluivano l'uno nell'altro. Erano riuniti in gruppi di quattro, ogni gruppo un concetto, ogni concetto collegato a un insieme di gruppi, quasi fossero molecole di aminoacidi nel codice del DNA concatenate a formare proteine, e che il tutto s'intrecciasse nelle spirali primarie e in quelle secondarie per determinare le sue funzioni finali.
Andrews tirò fuori un piccolo terminale multiuso e fece comparire qualcosa sullo schermo. Avvolto da capo a piedi nel mantello che imitava alla perfezione il muro, la sua faccia e il piccolo apparecchio sembravano aleggiare buffamente nell'aria. — Mi sto facendo mandare un'immagine dell'ultimo gruppo entrato qui — disse. — C'è una sonda che li sta seguendo, cento o centocinquanta metri sopra di noi. — Aspettami qui, allora — disse Dorthy, e poiché lui non protestò si avviò da sola, con un fremito di anticipazione, mentre il mantello la tramutava in un'immagine sfocata che scivolava lungo il muro seguita dalla sua ombra. La linea di criptogrammi era all'altezza della sua cintura e nel camminare vi passò sopra una mano, ma pur essendo con ogni evidenza incisa non dava la benché minima sensazione tattile: il materiale della parete sembrava trasmettere falsi segnali ai polpastrelli, l'impressione di qualcosa freddo e cedevole come la pelle di un drago dormiente. La ragazza si chiese quanto fosse antica la torre, se risalisse al tempo in cui il pianeta era stato planiformato, e se fosse davvero in un certo senso viva. Nessuna struttura poteva resistere alla corrosione di un milione di anni, a meno che non si autorimarginasse. Ripensò alle molecole organiche stese lungo la matrice di ferro cristallino: un sistema nervoso che in quel momento stava ascoltando i suoi passi? Poi captò l'ormai familiare presenza mentale di un mandriano, più avanti, e all'istante le sue speculazioni cessarono. Ma il contatto non si fece più chiaro allorché lei proseguì lungo la vasta curva della rampa, e non vide nessuna presenza. Nel suo auricolare la voce di Andrews disse: — Dovresti vedere una delle nostre sonde, adesso. Concentrata nella marea del proprio respiro, le pulsazioni che svanivano lasciandole la mente sempre più chiara, Dorthy avanzò senza curarsi di rispondere. Il contatto fu improvvisamente più chiaro, una nube di sensazioni, che però emergeva da un senso d'identità in qualche modo distorto, soffocato, ricoperto da un indefinibile imperativo. Lungo la parete saliva uno strato di rampicanti su cui spuntavano grovigli di foglie nere, simili a chiome di una Medusa vegetale. Mentre Dorthy si avvicinava, il mandriano apparve di corsa da oltre la curva dinnanzi a lei, sbandando e scivolando. Il panico la raggelò all'istante. Ma prima di arrivare alla sua altezza lui si gettò sui rampicanti e prese a tirarsi su, una mano dopo l'altra, con rapidità incredibile visto il peso del suo grosso corpo peloso. Poi oltrepassò un cornicione, più in alto, e scomparve.
— Cristo! — ansimò la ragazza. La voce di Andrews le risuonò in un orecchio: — Cosa succede? Dorthy aveva dimenticato il microfono fissato alla pelle della gola. — Niente — rispose. — Mi sto soltanto facendo coraggio, in questo posto dannato. Per favore, non parlare. Voglio concentrarmi. Dopo un minuto ebbe di nuovo la forza di proseguire. Poteva captare molte menti più avanti, e c'era lo scopo comune che univa ogni gruppo di nuovi maschi, ma ora questo si plasmava su una corrente fatta d'intelligenza vivida, benché incompleta. Un'intelligenza che possedeva delle informazioni, sfaccettata come i riflessi sulla superficie del mare. E nell'avvicinarsi Dorthy sentì se stessa immergersi fra quei flutti baluginanti e nuotarvi sotto, prima ancora di essersi preparata ad affrontarli. D'un tratto vide il gruppetto di maschi, all'estremità della curva. Erano quattro, chini davanti al muro, e con le mani pelose e stranamente piccole sfioravano l'iscrizione che stavano leggendo. La loro pazienza, là dove un lettore umano sarebbe balzato avanti e indietro con lo sguardo per riassumere, o per saltare i passaggi più ovvi, aveva un che di monacale. Quelle creature leggevano simbolo dopo simbolo... Dorthy non riuscì a capire esattamente cosa, ma il senso che ne percepiva era quello di una melodia che emergesse dalle dissonanze, una sinfonia di Mahler, un delfino capace di danzare fra il disordine delle onde. C'era la consapevolezza dell'intera ecologia di quelle zone: i rapidi schemi-entità degli animali, il lento crescere degli alberi, i cicli interconnessi dell'aria, dell'acqua e della terra, tutto insieme e mescolato. Capì che i cacciatori dovevano conoscere il loro territorio in modo molto più profondo di chi non dipendeva dai suoi capricci. Loro non lo soggiogavano come i contadini, che premevano in un solo punto e poi usavano energia per tenere il resto in equilibrio instabile: loro accettavano, e si muovevano all'unisono con i cicli che si susseguivano nella loro lenta pavana al di sotto del ribollire effimero delle piccole vite... Tutto ciò le giunse in un istante, e per un istante ne fu sopraffatta, quasi che avesse visto se stessa in uno specchio deformante e si fosse perduta fra le verità e le falsità di quel riflesso. Subito tornò lucida. I quattro nuovi maschi si alzarono, e i loro cappucci flosci ondeggiarono quando si volsero di scatto verso di lei. Non c'era dubbio che riuscissero a vederla, malgrado il suo mantello-camaleonte. Nuove informazioni si confissero nel cervello di Dorthy come spine. Cer-
cando di assorbirle e trattenerle, la ragazza si volse e scappò via. E in un fruscio di foglie un'ombra uscita dall'ombra la attanagliò alla cintura con un braccio, sollevandola dal suolo. Dorthy si sentì trascinare in alto da una forza terribile e vide la rampa allontanarsi sotto di lei mentre il suo catturatore, dopo essersela gettata su una spalla, risaliva sui rampicanti usando i piedi allo stesso modo della mano libera. Lo shock le impedì ogni reazione, facendole apparire tutto distante e remoto come qualcosa che non stava accadendo a lei. Ma sapeva che a prenderla era stato l'altro mandriano, il nuovo maschio da cui lei aveva così frettolosamente distolto i pensieri e l'attenzione. Doveva esser sceso dopo il suo passaggio, forse per seguirla... — Andrews! — riuscì ad ansimare. La risposta di lui fu immediata: — Hai già finito? — In un certo senso. In questo momento sono sulle spalle di un mandriano, un custode, che mi sta portando su per il muro come un sacco... ehi, maledizione! Mi fai male, dannato bastardo! — gemette. Il mandriano aveva scavalcato la balaustra, attraversato di corsa la rampa al di là di essa e stava cominciando a scalare i rampicanti che crescevano anche sul muro successivo. — Dorthy... rispondi, Dorthy! Sei svenuta? — gridò Andrews. — Stordita — riuscì a dire lei. — Mi porta in alto. — Con una parte della mente seppe che aveva già visto qualcosa di simile a ciò che, in quella posizione, le ballava davanti agli occhi. — Dove ti sta portando? Dimmi dove sei! Romperò il silenzio radio, e Ramaro potrà farti seguire da una sonda entro un minuto. — Non... ugh! — rantolò Dorthy, mentre il mandriano passava a un altro rampicante e la rampa rimpiccioliva sempre più in basso. Da lì scorgeva adesso la fosforescenza dell'acquitrino, oltre le torri secondarie. — Non so dove sono — disse. — Ho la sensazione che voglia portarmi fino in cima alla torre. Sale molto in fretta. — Non puoi sondarlo, capire che intenzioni ha? — Questa era la voce di Angel Sutter dall'aereo, allarmatissima. — Non posso concentrarmi. — Ma sebbene il suo Talento fosse sempre annebbiato dal non ancora assimilato flusso di conoscenze ricevuto dagli altri quattro, sentì un bagliore estraneo nella mente del suo catturatore, come se a dirigerlo fosse qualcun altro. — Posso portare l'aereo molto vicino alla parete! — esclamò Angel. — Se riesco a fermarmi qualche metro sopra di te, credo che...
— No — la interruppe Dorthy. — Ascolta, non credo che voglia farmi del male. E se tu cercassi di avvicinarti potrebbe spaventarsi e lasciarmi andare. Aveva chiuso gli occhi, perché lo strapiombo le stava dando le vertigini. Ma quando si accorse che il mandriano scavalcava un'altra ringhiera tornò ad aprirli. Erano su una sezione superiore della stessa rampa a spirale. Il suo catturatore si inginocchiò, e con una mossa priva di violenza se la tolse dalla spalla e la distese al suolo davanti a sé. — In un modo o nell'altro, ti vengo dietro — stava dicendo Andrews. — Tieni aperto il contatto, parla più che puoi. Io seguirò il segnale. Ma Dorthy non rispose, e osando a stento respirare fissò il volto allungato del mandriano chino su di lei. Quei larghi occhi, scuri e scintillanti nell'ombra del cappuccio, la stavano scrutando da capo a piedi con imprevedibile attenzione. Dopo qualche istante l'alieno le scostò il bordo del mantello-camaleonte e prese a manipolarle il braccio sinistro, quindi passò al destro. Dorthy cercò di star ferma e si lasciò piegare le articolazioni; sembrava particolarmente interessato alla sua possibilità di ruotare il polso. Poi con un borbottio cominciò ad esaminarle le gambe, le piegò un ginocchio, fece ruotare un po' il femore e ne saggiò le possibilità articolari. Tastò le fibbie dei suoi stivali, quindi le poggiò una mano sull'addome e spinse, abbastanza da strapparle un grido di dolore. Questo lo convinse a lasciarla stare. — Cos'è successo? — disse Angel, con voce tremante. Senza muovere le labbra lei farfugliò: — Tutto bene. Non preoccuparti. — Credo che tu sia maledettamente in alto — disse Andrews. — Ascolta, sto salendo per una specie di scala, ma ho idea che mi porti dalla parte sbagliata. Se riprendete a muovervi, dimmelo. — Dov'è quella dannata sonda? — si udì borbottare Angel. Dorthy guardò le mani del mandriano che le armeggiava con la cintura, toccando il coltello e i tre o quattro utensili che era solita portarsi dietro, senza staccarli ma chinandosi a guardarli bene prima di lasciarli ricadere. La ragazza provò una netta sensazione di déjà vu, e subito seppe da dove proveniva: un vecchio filmato a due dimensioni, in bianco e nero, visto all'osservatorio di Fra Mauro (un suo collega ne aveva una vasta collezione) e risalente all'epoca pre-Età dello Spreco. King Kong, era il titolo. E soffocò la risata nervosa che stava per salirle in gola. Il volto peloso del mandriano era inespressivo, il suo alito caldo e dolciastro sapeva vagamente di acetone. Larghi occhi infossati nelle orbite molto scure, strane pupille o-
rizzontali e palpebre che nel socchiudersi pensosamente formavano una fessura verticale. Ciò che captava da lui era una scintilla di autocoscienza e refoli di cognizioni appena acquisite, sotto uno strato più semplice e rigido, il genere di percezione che avrebbe ricevuto se fosse stata capace di usare il Talento su un computer. Lì c'era l'impulso, programmato da un'altra entità, di classificarla in base a una precisa lista di esperienze, con un solo metodo: tentativi e fallimenti. E qualcos'altro, un bagliore che a tratti emergeva dal fondo di quell'insieme. Qualcosa di luminoso... — Che stai facendo? — chiese Andrews nell'auricolare. Il mandriano ebbe uno scatto all'indietro e poi tornò ad accostarsi, incuriosito dal lieve suono che aveva potuto udire. — Non temere — disse sottovoce lei. — Sta cercando di capire chi sono. Per un momento ebbe paura che il mandriano volesse staccarle il microfono dalla pelle, ma lui si limitò a sfiorarlo con dita calde e asciutte. Infine si alzò, la tirò in piedi e se la mise in spalla come prima, avviandosi su lungo la rampa finché non trovò altri di quei lunghissimi e resistenti viticci. Riprese ad arrampicarsi, e Dorthy lo riferì brevemente ad Andrews. — Ho appena oltrepassato un bel po' di queste piante — ansimò l'uomo, col fiato mozzo. — Sono salito di un livello... ma tu ti trovi ad almeno duecento metri sopra di me, credo. Quel custode è incredibilmente svelto. — Lo so — disse Dorthy. Ora il laghetto era un nastro sottile oltre un dedalo di strutture spiraliformi. Poteva scorgere il prato, e la boscaglia che si confondeva con l'oscurità della notte. — Sei sicura che tutto vada bene, Dorthy? — Io non la metterei così. Ma se il mandriano non perde la presa posso resistere. Per favore, taci. Non voglio che si distragga. I rampicanti terminavano su una stretta terrazza, dove le loro radici si allargavano a far presa come tentacoli. Scavalcandole con inarrestabile energia (una di esse colpì alla testa Dorthy, che imprecò), il mandriano fece qualche passo verso un ampio varco, saltò avanti al di là di esso, e atterrò (con un contraccolpo che tolse il fiato alla ragazza) su un cornicione che sovrastava un abisso di tenebra. Dorthy si contorse per vedere oltre il fianco peloso di lui e chiuse gli occhi. Li riaprì dopo un nuovo balzo, e si accorse che un oggetto simile a una pallottola grossa e lenta attraversava il varco dietro di loro: una delle sonde di Ramaro. Pochi scossoni ancora ed
il mandriano raggiunse un tratto della rampa che spiraleggiava su per la torre. Lì era più stretta, e le linee di scrittura coprivano il muro dalla base alla sommità, sopra cui facevano capolino altri rampicanti dalle foglie nere. Il mandriano allentò un poco la stretta su Dorthy e si avviò sul percorso in salita; ma non per questo lei si rilassò, pojché ora captava la presenza di un gruppo di menti molto vicine, noduli di luce entro i quali pulsava un'intelligenza pericolosa. Poco più avanti il mandriano si fermò, emettendo un uggiolio modulato e quasi supplichevole. Dopo qualche istante si tolse Dorthy di spalla e la depose al suolo. Le ginocchia le si piegavano al punto che avrebbe voluto sdraiarsi, ma quando vide ciò che aveva di fronte deglutì un groppo di saliva e indietreggiò verso il muro. Davanti a lei c'erano quattro mandriani, dalla fronte rigonfia sotto i cappucci, che la stavano fissando in un silenzio minaccioso. Dorthy fece un passo di lato, intimorita dalla loro vicinanza, ma quello che l'aveva catturata la afferrò per una spalla con tale forza da farla gemere. Subito Andrews chiese cosa stesse succedendo. — Taci! Sto cercando di... E la luce abbagliante le si conficcò nel cranio come un fulmine che si ramificasse in scariche elettriche attraverso le nubi. Oltre un velo di lacrime vide i nuovi maschi indietreggiare, e uno di essi guardarsi freneticamente attorno. Sentì la loro paura, fu travolta da un incomprensibile garbuglio di immagini, e una sensazione sconosciuta la paralizzò: da qualche parte nella sua mente qualcosa di alieno stava frugando, esplorando, penetrando. Da bambina Dorthy aveva accettato l'intrusione di altre personalità; aveva concesso loro di parlare, lamentarsi e fantasticare al centro dello specchio oscuro dove lei le lasciava riflettere; talvolta penetrava in quelle luci con una domanda, e senza saper come ne tirava spesso fuori la risposta. Non le era mai sembrato troppo strano neppure in seguito. Ma quando aveva lasciato l'Istituto, rientrando sulla Terra all'aeroporto di Melbourne, la consapevolezza che quelle centinaia di menti intorno a lei erano chiuse l'una all'altra, e ciò malgrado la assalivano con le loro grida silenziose, le aveva dato una specie di panico. Questo era accaduto cinque anni prima. Ora si sentiva altrettanto assalita, altrettanto disorientata. In lei affluivano centinaia di immagini identiche: fiumi di stelle che cadevano dal cielo e bruciavano la terra. Ma c'era una luce, molto vicina, che
urlava immagini diverse: lì era il pericolo, lì fra loro! Il pericolo che li aveva svegliati era già lì, e lo si doveva combattere subito! Era troppo grave perché lo si potesse ignorare! Troppo vicino per esitare ancora... Qualcosa le impediva di indietreggiare e lei cercò di scostarsi, ma il mandriano che l'aveva catturata la gettò al suolo con una spinta. In ginocchio, con le mani sulla superficie ingannevolmente morbida della rampa, Dorthy scosse il capo come per scrollare via l'entità estranea che voleva penetrare in lei. Il mandriano stava agitando sia le braccia superiori che quelle mediane verso gli altri nuovi maschi, ed emetteva uggiolii concitati. Poi si avvicinò al muro e batté ripetutamente una mano sulle righe di scrittura, indicando attorno con l'altra. Stava cercando di far loro capire che il pericolo era lì, non sulle stelle, ma proprio lì e adesso. Dorthy era stordita dall'urgenza che scaturiva da quella mente allarmata. Qualcosa insinuava in lei altre immagini parassite, che le ricordavano sensazioni già prelevate dal substrato psichico di Andrews, di Kilczer e del colonnello Chung. Una minaccia: loro volevano bruciare il mondo... Il mandriano ringhiava, batteva le mani sulle iscrizioni, indicava Dorthy e faceva gesti violenti. Per un poco lei credette che li stesse incitando a ucciderla; invece i quattro si volsero e corsero via, avvolti nelle sensazioni di un istinto che li spingeva ad agire con decisione. Dorthy cercò di alzarsi, ma un segnale nervoso che non apparteneva a lei le fece piegare le ginocchia e cadde. Restò distesa, agitando le braccia e le gambe in movimenti stanchi e scoordinati. La cosa penetrata in lei voleva pensare con la sua mente, sovrapporre altri schemi ai suoi schemi, e cercava il controllo delle terminazioni nervose come se le frugasse nel midollo con mani immateriali. E c'erano dei pensieri dietro gli schemi che la assalivano: le sonde, ecco ciò che bisognava distruggere. Gli invasori elettronici che brulicavano attorno! Quelli e la forza ostile che li sosteneva e li dirigeva! — N-no... — riuscì a farfugliare. — Duncan, spegni la... spegni la... spegni... La cosa dentro di lei le bloccò la voce. Calmati, pensò. Calmati, focalizzati sul centro, agisci dal centro. Visualizzò le parole che voleva dire, le mise in fila e spinse da parte gli impulsi alieni da cui potevano essere bloccate. — Spegni la radio! Ti rintracceranno e ti uccideranno, se non lo fai! — gridò nel microfono. — Dorthy, che stai dicendo? Cosa succede, lì? Lei isolò lo schema estraneo e vi sovrappose di nuovo il suo. La voce di
Andrews era d'aiuto nel mettere a fuoco quei tentacoli di pensiero che non le appartenevano. — Spegni la radio, subito! Spegnila, o ti distruggeranno! — gridò. Lui non rispose. La cosa si contorse nella sua mente, ma lei ora la conosceva, poteva identificarne ogni diramazione. Non era che un analogo, uno schema di onde nervose venuto a fissarsi nell'equilibrio elettrochimico di un suo emisfero cerebrale. Ciò che poteva sembrare un comportamento deliberato era solo un insieme di pseudo-impulsi parassiti sovrapposti a quelli di lei. Era un modello di identità, non una personalità reale. Non poteva farle niente, salvo che reagire e rispondere. Sapere cos'era significava sapere come bloccarlo. Dorthy ne prese il controllo e ritirò quei tentacoli dal suo sistema nervoso, poi li spense uno ad uno. Fece un respiro profondo. Lei era la dottoressa Dorthy Yoshida. Lei era se stessa. Subito dopo fu in grado di spegnere sia l'interruttore del microfono che quello dell'auricolare. Il suo catturatore si volse di scatto a guardarla, con le piccole braccia mediane che si aprivano e chiudevano freneticamente intorno al torace, e lei sentì d'essere del tutto libera dalla rete che le aveva avvolto uno degli emisferi cerebrali, a parte un ultimo vago impulso che stava svanendo. Ma anche il mandriano doveva averlo capito, perché ingobbì le spalle e le sue zanne da carnivoro si scoprirono. Dorthy seppe cosa intendeva fare ancor prima di leggerlo nella sua mente; lo vide fare un passo avanti e indietreggiò. Proprio allora una vibrazione invisibile simile a un'onda passò nelle strutture della torre, facendola vacillare sulle gambe. Ogni oggetto solido fu per un istante come illuminato da una trasparenza interna, e le linee di scrittura parvero stagliarsi nere sulla luce del muro. Quando il mandriano riprese a muoversi verso di lei, incerto dopo quella pausa, strani contorni luminescenti restarono ad aleggiare nell'aria dietro il suo corpo, quasi che si lasciasse alle spalle repliche luminose di se stesso. Un violento flusso di elettricità statica sollevò i capelli di Dorthy e li fece ondeggiare, separandoli l'uno dall'altro. Dal ricevitore auricolare uscì un fischio, benché lei lo avesse spento. Nello stesso momento il mandriano si portò le mani alla testa; poi oscillò da una parte e dall'altra, battendo al suolo i piedi artigliati. Dorthy cercò il coltello, deglutì saliva e lo estrasse lentamente dal fodero. Oltre la balaustra, un gruppo di torri spiraliformi di altezza inferiore sta-
va baluginando d'impressionanti lampeggiamenti azzurrini. Fra le loro sporgenze spinose crepitarono scariche elettriche, sempre più violente, in archi che s'infittirono fino a solidificarsi in immagini oscillanti. Il fischio nell'auricolare divenne un ululato. Malgrado il suo tentativo di controllarsi, Dorthy gridò, mentre da qualche parte, più in alto, uno scopo prendeva forma, una volontà si trasformava in azione. Qualcosa di simile a un arco si tendeva, una freccia si puntava... Il mandriano si gettò avanti, e lei protese disperatamente il coltello. Le luci erano una tempesta abbagliante quando l'urto le si ripercosse lungo le braccia, e sentì l'acciaio affilato entrare nella carne. Poi l'urto la rovesciò all'indietro e cadde, con il corpo dall'assalitore sopra di sé. Stordita e dolorante, restò immobile, schiacciata dal peso del mandriano e conscia solo della sofferenza che le saliva da un polso, mentre attraverso le palpebre chiuse la luce di una nova le si imprimeva nella rètina. Poi il terribile lampo si spense. Riaprì gli occhi e vide soltanto il cielo stellato, appena pervaso di rossore. Tutto era improvvisamente finito. Si rese conto che il mandriano sopra di lei era inerte. Il suo sangue caldo le stava imbrattando il mantello-camaleonte e la tuta, sul petto. Nella mano destra stringeva ancora il manico del coltello, ma il polso era piegato malamente all'indietro e le doleva. Con uno sforzo trasse fuori il braccio, estraendo la lama dal corpo di lui, e dopo qualche contorsione riuscì a liberarsi e ad alzarsi in piedi. Lo guardò, ansante. Povero King Kong. L'unica luce rimasta era l'ormai familiare fosforescenza sanguigna. Le altre torri, più in basso, giacevano di nuovo nel buio. Fra le enormi strutture della torre echeggiavano gemiti e grida: i richiami spaventati da un gruppo di nuovi maschi all'altro, le domande e le risposte, i suggerimenti, i messaggi. Dorthy quasi finì in mezzo a una dozzina di loro, ma erano così eccitati e confusi che nel solo vederla fuggirono, alcuni correndo via lungo la rampa, altri appendendosi ai rampicanti con agilità raddoppiata dallo spavento. Per due volte Dorthy fu costretta a scendere anche lei lungo i robusti viticci, per evitare altri alieni che si riunivano in assembramenti sovreccitati. La mano destra, ingrumata di sangue che non era il suo, le faceva male. Il polso era un po' gonfio, Ma le tracce lasciate dall'analogo nella sua mente si riassorbivano come acqua nella sabbia. La paura che avesse fatto abbastanza presa in lei da riemergere e fissarsi - il termine tecnico era «so-
vrascrivere i circuiti neurali» - svanì mentre scendeva a passi svelti. Poi si disse che avrebbe potuto riaccendere l'auricolare, e subito sentì Andrews chiamare il suo nome. — Ti sento — rispose. — Avevo spento. Sto bene. — Da come ti ricevo, dovresti essere poco più in alto di me — disse lui. — Vuoi che ti venga incontro? — No, scendo io. Aspettami. — Dorthy proseguì sull'esterno della rampa finché non vide altri rampicanti che scendevano verso una terrazza sottostante, e scavalcò la balaustra. Mentre si faceva strada giù per i vegetali contorti sentì Andrews commentare: — Mai visto fuochi artificiali di questo genere. Credevo che questo maledetto posto stesse per esplodere. — Lo so. Io c'ero proprio in mezzo, lassù. — Ma cosa diavolo hanno fatto? — Loro... — Ma se non la conoscenza dei fatti, le ragioni che vi erano dietro la eludevano ancora. — Credo che ne abbiano imparato abbastanza da usare la torre, e la mia presenza ha fatto scattare il loro istinto di autodifesa. Il pericolo, la minaccia alla sopravvivenza... scusami, mi era chiaro, ma ora che ci penso sento che tutto mi scivola via dalla testa. È una cosa troppo... troppo aliena per la mia mente. — Più tardi cercheremo di capirci qualcosa — borbottò Andrews. — Adesso andiamocene di qui, prima che qualcun altro ti rimetta le mani addosso. — È esattamente quello che voglio fare — disse Dorthy, scendendo per gli ultimi metri che la separavano dalla rampa. Voltandosi vide un'ombra senza padrone apparire nella luce vermiglia oltre la curva: un istante dopo Andrews gettò indietro il mantello-camaleonte e alzò un braccio, correndo verso di lei. Mentre scendevano, l'uomo disse che gruppetti di custodi assai eccitati gli erano passati accanto, ed era riuscito a nascondersi con un miracolo di abilità. — Ma avevano l'aria d'essere fra spaventati e trionfanti. Non mi è piaciuto. — La guardò. — Cos'è successo, lassù? — Sanno che ci sono degli invasori, e questo non gli piace. — Ma non hanno mai neppure badato alle sonde di Ramaro. — Andrews scosse il capo. — Ho cercato di contattarlo, senza riuscirci. E anche Angel non risponde. Pensi che abbiano messo fuori uso i nostri sistemi di comunicazione? — Sì, almeno quelli che erano in funzione. I nuovi maschi, i tuoi custodi, hanno usato i segnali radio come guida per dirigere un impulso di qual-
che genere contro una località all'esterno della torre. O meglio... non sono stati veramente loro. — Cominciò a spiegargli come aveva agito il mandriano da cui era stata catturata, e quali impulsi estranei lo stessero dominando. — Un momento. — Andrews era incredulo. — Vuoi dire che qualcuno lo controllava? Come se fosse una sonda? E che cosa può fare una simile... ah! Naturalmente. L'intelligenza che hai contattato. — Sì — annuì Dorthy. — Sì, credo che fosse lei. Andrews si grattò una guancia. — Ma per quale ragione... — Tacque, perché in quel momento aveva visto una delle sonde. O ciò che ne restava. Il guscio bruciacchiato era caduto presso la ringhiera della rampa e stava ancora fumando. La parte posteriore sembrava scoppiata dall'interno. — Un corto circuito nelle bobine gravitazionali — diagnosticò Andrews dopo essersi chinato a esaminarla. Si rialzò. — Ho un brutto presentimento su Ramaro e gli altri, al campo. Muoviamoci. Scesero fino alla base della spirale senza incontrare altri mandriani, e attraversarono la «piazza». Dorthy si concentrò e fu certa che in lei non restava praticamente nulla dell'analogo. Allungò il passo per tenere dietro al compagno, e uscirono sulla strada che attraversava l'acquitrino. — Organismi — disse la ragazza, indicando le gelatine fosforescenti che si muovevano sotto la superficie. — Uh? — Andrews stava armeggiando con la sua trasmittente. — Mi chiedo perché Angel non risponde. — Lei estrae il ferro dalla roccia sottostante, ma non può immagazzinare componenti organici. Perciò, quando ne ha bisogno, deve fabbricarli. — Ma di cosa stai parlando? Dannazione, non ricevo niente. — La torre. Sta crescendo, e cambia. O sono i nuovi maschi a farla mutare, plasmandola. Avevi ragione: è viva, in un certo modo. Ma Andrews non la ascoltava più. S'era fermato, quasi al termine della strada, e con aria stranita stava alzando una mano a indicare qualcosa. Dorthy sollevò lo sguardo oltre la nera parete degli alberi, sulle pendici boscose del cratere e più alto, ai picchi che graffiavano il cielo stellato. L'orlo di roccia era vestito di tenebra ovunque, salvo che in un punto presso la sommità, dove ardeva un fuoco piccolo come un'unghia a quella distanza. Le lingue di fiamma stavano agonizzando, pallide e velate fra i banchi di nebbia. Andrews prese la corsa attraverso il prato, violaceo nei riflessi della torre, con la sua ombra che sembrava precederlo ansiosamente verso i cespugli. Esausta e stringendosi nel mantello-camaleonte Dorthy
arrancò dietro di lui. Ma già prima di raggiungere gli alberi, lo aveva visto sparire fra la vegetazione, e proseguendo nel buio ne seguì le tracce usando ciò che restava del suo Talento non meno che gli orecchi e le mani tese in avanti. Lo rivide soltanto quando sbucò nel tratto aperto dove avevano lasciato l'aereo. Stava abbracciando con forza Angel Sutter. La donna si sciolse dalla sua stretta e gli mise le mani sulle spalle. — Non avevo il coraggio di riaccendere la radio. Ma non hai visto? Davvero non avete visto nulla? — Era il campo, vero? — chiese stancamente Dorthy. La debolezza le faceva tremare le gambe. In gola aveva un sapore acido. Angel si volse verso di lei. Era così buio che Dorthy non poteva vederla in faccia, ma percepì con chiarezza la sua paura. — Stavo guardando la torre con il cannocchiale. Cercavo di localizzarvi. Ma c'erano quelle luci, migliaia di scariche e di saette. Mi sembrava che tutto quanto il posto fosse impazzito come un termitaio preso a calci... Dorthy ricordò il giorno che, da bambina, le era occorso molto più che qualche calcio per staccare via un pinnacolo da un termitaio. E le minuscole creature ne erano sciamate fuori inferocite, bianche, cieche, aliene. — ... e poi — disse Angel, — il campo è saltato in aria. Quasi senza rumore, credo. Ho visto il lampo dell'esplosione riflesso sulla cima della torre, tanto è stato violento. E quando mi sono voltata non ne restava più niente, solo fiamme. Anche la roccia del cornicione mi è sembrata fusa e spaccata. Un laser. Penso che fosse un raggio laser. Nel cielo è rimasta visibile una striscia d'aria ionizzata, per almeno un minuto. — Un laser a raggi X — annuì Andrews, accigliato. — Di grande potenza. Forse a raggi gamma. Troppo improvviso e veloce perché la bomba reagisse. Quella ci avrebbe vaporizzati in un picosecondo. Per fortuna il suo computer era programmato per ignorare le luci della torre, altrimenti... — scosse il capo, con gli occhi fissi sui lontani picchi rocciosi. Bruscamente si scostò da Angel ed entrò nella piccola cabina del velivolo, cominciando a esplorare tutte le frequenze radio. Dorthy si tolse il mantello e sedette sull'erba, cercando di staccare via il sangue raggrumato che le incrostava la mano destra. Poco dopo Andrews rinunciò ai suoi tentativi, spense rabbiosamente la radio e a denti stretti si appoggiò allo schienale della poltroncina, incrociando le braccia. — È meglio andarcene da qui — mormorò Angel. — Jesus Christos, è stato come aprire il Vaso di Pandora! — Lasciami pensare — disse Andrews dalla carlinga. — Dorthy, quei
custodi erano al corrente della nave che abbiamo in orbita? Il pericolo dalle stelle. — Credo di sì — rispose lei. — Maledizione! Speravo che... — Scese dal velivolo e cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro. Dopo un paio di minuti disse: — Non ha senso. Perché avrebbero voluto colpire il pericolo minore? Solo perché era più vicino? Quel laser potrebbe senza dubbio mettere fuori uso o distruggere l'astronave. Annientando il campo è come se avessero volutamente compiuto un atto provocatorio, per attirarsi sulla testa la nostra reazione. Dorthy ripensò al susseguirsi d'immagini eccitate che le menti dei mandriani avevano emesso. Il loro mondo in fiamme. — Forse sono pazzi, Duncan — disse Angel. — Forse con questi alieni abbiamo incontrato solo la pazzia su larga scala. Lui smise di camminare; si strinse nelle spalle. — È una teoria difficile da prendersi sul serio, questa. — Qualunque sia la verità, noi non possiamo fare niente. — Angel agitò una mano verso la torre. — Non tocca a noi combattere. Questo è il fottuto lavoro per cui esiste la Marina. — Ma io sono in Marina — le ricordò Andrews. — E guarda caso, so esattamente cosa farà la Marina, adesso. Volete che vi riveli un segreto? Dorthy, tu sai cosa sto per dirvi? — Il perché hanno costruito il bunker sotterraneo al Campo Zero? No, non lo so con precisione. Il mio Talento è andato a dormire. — Allora ascolta. Ascoltate entrambe. — La sua voce era calma, nel buio. — La Marina ha un piano d'emergenza, per il caso che qui il Nemico si riveli impossibile da controllare. Il sotterraneo della casamatta è stato costruito in previsione di dovervi ricorrere, e dopo quel che è successo qui penso che il comando orbitale lo metterà in atto. E senza perdere molto tempo. Queste creature non si limiteranno a ciò che hanno fatto. Stanno lavorando sulla torre, la modificano, scoprono sempre più cose su di noi. Forse la distruzione del campo è un test, non lo so. Ma gli invasori siamo noi, e hanno tutte le intenzioni di combattere. Ho ragione, Dorthy? — Allora riconosci che loro sono il Nemico? — disse lei. — Questo ha importanza? — Qual è il piano della Marina? — domandò Angel. — Hanno un'astronave in orbita molto stretta intorno al sole. Un mercantile riadattato, senza equipaggio e controllato a distanza. A bordo ci sono i propulsori a fase. — Vedendo che Dorthy e Angel non aprivano boc-
ca, continuò: — Quando un propulsore a fase viene acceso entro il Limite di Russel, la forza del campo gravitazionale impedisce alla massa della nave di passare nel controspazio. Ciò che accade è una specie di risucchio: per un istante il campo di fase si deforma, allungandosi verso la stella, e diviene un corridoio dove spazio e controspazio sono connessi. Il materiale della corona solare vi si precipita dentro, annienta l'astronave all'altra estremità di questo canale e solitamente si disperde nel vuoto. In una stella stabile non accade altro. Ma in una nana rossa la corona ha una stabilità relativa. Nel nostro caso il risucchio darà origine a un'eruzione, un fiotto di energia molto maggiore dei soliti, che investirà questo pianeta e lo ridurrà in una sterile palla di roccia. Il sotterraneo è un rifugio, dunque. Il colonnello Chung e tutti gli altri dovranno restarvi fino al termine dell'eruzione solare. Cinquanta giorni, forse sessanta. Abbastanza perché la temperatura in superficie diminuisca. Poi una navetta scenderà a recuperarli. — E la Marina sarebbe davvero convinta di avere a che fare con il Nemico, qui? — chiese Dorthy. — Puoi scommetterci. Guardati intorno. I custodi hanno avuto un paio di settimane appena per imparare, per agire. In altre due cosa saranno capaci di fare? Dimmelo tu. Non sappiamo neanche cosa potrebbero fare adesso. Quella non è una città, mi sbagliavo. È un'arma. L'intera maledetta cosa è un'arma. Angel Sutter rise. — E noi ce la siamo puntata alla testa da soli! Non è ironico? Jesus Christos, Dorthy aveva ragione. I mandriani sono il Nemico. — Non so ancora se avevo ragione — mormorò Dorthy. — Be', io non voglio stare qui a discuterne — disse Angel. — Dobbiamo andarcene, Duncan, prima che si accorgano di non aver eliminato anche noi. Dannazione, muoviamoci! Siamo troppo vicini. — Va bene, spostiamoci all'esterno del cratere — annuì Andrews. — Ancora non ho detto tutto quello che volevo dire. Andrews si mise ai comandi e portò il velivolo a bassa quota sulla foresta verso le buie pendici del cratere. Seduta scomodamente sul retro, Dorthy guardò le luci della torre allontanarsi, aspettandosi qualunque cosa. Non accadde niente. Davanti a loro l'alta parete di roccia sembrò dissolversi, e mentre l'aereo saliva Dorthy notò che fitti banchi di nebbia stavano scivolando giù per i burroni e le scarpate. Quando vi si immersero con i fari accesi, sentì che
quel biancore ovattato placava un poco la tensione di Angel. Con la barra di comando fra le mani, Andrews lasciava che a guidarli fosse il radar. Qualche minuto dopo disse: — Siamo a cinque o sei chilometri dal cratere. Atterreremo qui. — Tiriamo avanti, dannazione, Duncan! — protestò Angel. — Non c'è niente che possiamo fare. — Non da queste parti, forse — disse Andrews, e in quell'istante Dorthy ricordò ciò che aveva visto nella mente del suo catturatore quando era stato libero da ciò che lo possedeva. Un residuo: un indizio. L'aereo scese verticalmente a lato del fiume che la ragazza aveva seguito nella sua ascesa verso il passo. Momenti così lontani, ora. La nebbia scivolava bassa fra le rocce; il sole non ancora tramontato del tutto era una fetta di luce incolore oltre la foschia. Prima di aprire e lasciar entrare il vento, Andrews chiamò la squadra di biologi al lavoro nella foresta, più lontano e più in basso, e riferì a Jose McCarthy quel che era successo. — Dovete rientrare e fare subito rapporto al colonnello Chung — disse, e tagliò corto alle proteste dell'uomo: — No, non c'è niente che possiate fare. Vorrei che non fosse così, credimi. Noi saremo di ritorno al Campo Zero fra due giorni. Assicurati che la Chung lo capisca bene. Due giorni. — Chiuse il contatto, mentre Angel abbatteva un pugno sulla plastica del finestrino laterale. — Jesus Christos! Cosa accidenti significa questo? — La sua voce era angosciata e stridente. — Credo che mangerò qualcosa — disse Andrews in tono piatto, e aprì il portello. Mentre scendeva, l'aria fredda e umida penetrò nell'interno. Angel si volse, e fissò Dorthy con occhi ancora colmi d'ira. — Tu sai di cosa sta parlando, è vero? — Non riuscirai a fargli cambiare idea — disse lei. — Jesus Christos, non so neanche quale idea! Forse dovrei decollare e lasciarlo qui, con la sua dannata testardaggine. — Ma subito dopo scese e raggiunse il suo amante all'esterno. Dorthy regolò al massimo l'impianto di riscaldamento della tuta e si strinse le braccia al petto, dando le spalle al vento gelido. Il sangue raggrumato le si era scrostato via dalla mano, salvo un semicerchio nero alla base di ogni unghia. Andrews, accanto a lei, sembrava non sentire il freddo, forse perché era nato in un mondo dal clima piuttosto rigido. Con il vento che gli scompigliava i capelli color sabbia mangiava razioni di emer-
genza da una scatoletta autoriscaldante. Angel Sutter stava camminando avanti e indietro nella nebbia, sulla nuda roccia oltre la prua dell'aereo. Dorthy la guardò, staccandosi scagliette di sangue dalle unghie. Dopo un po' Andrews disse: — Coraggio, bevi un sorso di questo. Dorthy tirò fuori la cannuccia dalla scatola e succhiò il liquido. Era rum, distillato illegalmente e piuttosto forte, e le arse la gola fino a farla tossire. — Grazie — riuscì a dire poi. — Come ti senti? Lei gli mostrò la mano. — Vorrei un po' d'acqua per lavare via questa roba. — Guarda che puoi ancora tirartene fuori, se vuoi. Sul serio. — Perché fai questo? — chiese invece lei. — Sai, quando la Federazione fu creata, si pensava che questo fosse per il benessere e il progresso di tutti. — Nei suoi occhi c'era una luce malinconica e pensosa. — Suppongo che tu sia troppo giovane per ricordare. C'era molto sentimentalismo in quei giorni. La Terra aveva aiutato Elysium... be', almeno in Namerika, a uscire dalla barbarie in cui eravamo caduti. Io sono abbastanza vecchio, sai, da ricordare gli strascichi lasciati dall'Interregno, quei lunghissimi quattrocento anni in cui restammo tagliati fuori da ogni contatto con la Terra. Era stato più o meno lo stesso per tutti gli altri pianeti coloniali. E poi ecco che arrivarono le astronavi dalla Terra, e grazie ai propulsori di fase l'universo si apriva improvvisamente davanti a noi. Non più viaggi di una dozzina d'anni, non più sonno freddo per andare da un mondo all'altro con quello che praticamente era un biglietto di sola andata: ora si apriva la strada al commercio, al turismo, e soprattutto all'esplorazione. Le emozioni, gli ideali, il grande impulso a unirsi in una Federazione per la prosperità dei nostri mondi... quelli sono stati grandi giorni, Dorthy, grandi giorni. Ma poi le cose cominciarono ad andare come c'era da aspettarsi, e presto fu chiaro che dalla Federazione traevano i maggiori vantaggi la Terra e Grand Brazil, soprattutto quest'ultimo. Noi avevamo le materie prime, e la Terra ce le acquistava dandoci in cambio il minimo. E in quanto all'universo... be', noi siamo qui ai margini della zona esplorata, e non siamo più lontani dalla Terra di quanto lo sia Elysium. Due nuovi pianeti colonizzati, e questo è tutto. Due, in cinquant'anni. Avevano ottenuto molto di più gli americani e i russi con le loro arche spaziali piene di coloni addormentati, mandate verso l'ignoto a velocità inferiore a quella della luce. Ho sentito un sacco di discorsi sulla moderazione, sulla cautela, sui costi, e tutti portano a esempio le conseguenze dell'Età dello
Spreco. Ma la vera ragione è che se la gente uscisse in tutte le direzioni dai limiti dello spazio sconosciuto, trovandosi mondi fertili e autosufficienti, la Terra perderebbe il controllo su di loro. — Ebbe un sorriso. — Scusami. Dimentico che non sei esattamente dell'umore giusto per un discorso politico. — Non sapevo che tu ti occupassi di politica. — Chiunque abbia risorse finanziarie deve occuparsene. Anche i grossi criminali sono costretti a cercarsi agganci politici. Io non nuoto in certe acque torbide, ma mio padre deve starci dentro fino al collo. Comunque, adesso sono qui e quello che cerco è di aprire il coperchio su cui la Marina tiene un piede, nella speranza di avere dal Nemico qualcosa che ci serva. Dare una scrollata al sistema, e vedere cosa ne cade fuori. Loro vogliono sigillare tutto, qui, o in caso di pericolo dare un colpo di spugna. Io voglio la conoscenza. E tu? — Io non ho mai creduto che quel che vogliono gli altri sia davvero spiegabile, comprensibile. Anche se questo è il mio lavoro. — Non dopo Hiroko, comunque. Non dopo ciò che Hiroko aveva fatto, benché lei l'avesse salvata dal ranch... o almeno, questo era stata convinta di fare, quella notte, accovacciata fra i cespugli per sfuggire agli uomini mandati in giro da suo padre, quando era scivolata sotto il recinto. Tornando al presente, nella fredda nebbia di quelle montagne aliene, sospirò: — Tuttavia c'è qualcosa che non ti ho detto. Qualcosa che ho visto nella mente del mandriano che mi ha catturato. È successo dopo che fu libero da quella cosa che lo possedeva: non lo controllava più, ma aveva lasciato nella sua mente un'immagine. E penso che volesse che io la trovassi. — Continua — disse lui, fissandola. — Tu volevi andare nella zona fertile equatoriale, quella dove è stato costruito un radiotelescopio. Be', è questo che ho visto. Credo che qualcuno mi voglia là. — L'avrei giurato — annuì Andrews con un sogghigno. — È un pezzo che cerchi una dimostrazione del genere. Pensi che abbia a che fare con l'intelligenza, o qualunque cosa fosse, che hai captato mentre scendevi con la capsula di caduta? — Forse — disse Dorthy. Il substrato luminoso che irretiva la mente dei nuovi maschi: era questo ciò che cercava di penetrare in lei, attraverso i suoi sogni? O quei sogni erano i residui di un tentativo più profondo di qualche genere? Il pensiero non le piacque affatto. Perché quella cosa voleva che lei andasse nella sua tana? Non aveva forse cercato di ucciderla,
là sulla torre? Ebbe un brivido e distolse lo sguardo da Andrews. Dal pendio, poco più in alto, Angel li stava osservando. Quando vide che non parlavano più scese verso di loro, prese la scatoletta del rum dalle mani di Andrews e bevve, rovesciando indietro la testa nel vento che le scoteva i capelli cespugliosi. Poi si asciugò la bocca col dorso di una mano. — Suppongo che dovrei chiedervi cosa state complottando, no? Avanti, Duncan, in che razza di guaio stiamo per andare a cacciarci, adesso? — La zona fertile equatoriale. O se non altro, il suo territorio più esterno. Ma soltanto io e Dorthy proseguiremo nell'interno. Sembra che là ci sia qualcosa, Angel; forse il vero bandolo della matassa. E io voglio sapere cos'è. Angel guardò Dorthy. — È questo che hai scoperto sulla torre? Lei annuì. — Allora, molto probabilmente, non è amichevole. — Forse no — disse Andrews. — D'altra parte è ancora tutto da scoprire. Risale a un milione di anni fa, Angel, pensaci. Non abbiamo idea di come siano riusciti a far ruotare questo pianeta, non sappiamo ancora da dove vengono, né quale sia la loro storia. Ignoriamo perfino se siano veramente pericolosi. Non vale la pena di scoprirlo? E se fossimo stati vittima di un colossale malinteso, non sarebbe meglio cercare di capirci e mettere fine alla guerra intorno a BD Venti? — Be', penso che tu non voglia molto bene alla tua pelle. Credi davvero che il colonnello Chung aspetterà di vederti tornare? Quella non ti ha mai potuto soffrire, uomo. Il pulsante è là, e lei non starà alla finestra ad aspettarti. Lo premerà. — Non credo. Politicamente sarebbe una scelta inaccettabile. Angel Sutter sospirò, accettando l'inevitabile. — Sono ancora convinta che tu sia pazzo. E hai intenzione di andare a piedi, là dentro? — Forse sarà proprio questo a salvarci — disse Andrews. Prima di ripartire decisero di riposarsi per una dozzina di ore. Distesa nel retro della carlinga ad ascoltare i gemiti del vento, con la paura di Angel e l'impazienza di Andrews che non cessavano di logorarla, Dorthy riuscì però a dormire ben poco. Si appisolava a tratti, per poi emergere di colpo da rievocazioni oniriche nelle quali marciava a fianco di Kilczer nella foresta. In uno di quei brevi sogni lui le disse: — Sarò sempre con te, Dorthy. Non devi temere nulla. È un impegno, mi credi? — E quando si volse a guardarla in attesa della risposta, lei vide che aveva gli occhi stanchi di sua
madre. Ma d'un tratto si svegliò con un sussulto, sentendo l'aereo scuotersi e vibrare, e appena si rese conto che non erano in volo, capì che era la montagna a tremare sotto di loro. La nebbia aveva assunto una trasparenza rosata, inspiegabile e fantasmagorica, che sembrava provenire dall'alto. Anche Angel e Andrews erano stati svegliati dalle scosse, e mentre lei chiedeva con voce spaventata cosa stesse succedendo l'uomo afferrò la barra di comando. Dai motori uscirono alcuni ansiti sfiatati che lo fecero imprecare. — È un terremoto? — domandò ancora Dorthy. — Non lo so — ringhiò lui, accendendo e spegnendo. — Ma non voglio star qui ad aspettare di scoprirlo. — Le sue ultime parole furono quasi sommerse dal rombo di una slavina, e a pochi metri sulla loro destra si videro alcuni massi rotolare giù per il pendio. — Duncan! — gridò Angel. — Avanti, fai partire questa maledetta cosa! — Come per accontentarla, le eliche presero il via con un energico ruggito e dieci secondi dopo l'aereo si sollevò dal suolo. Una cinquantina di metri più in alto cominciarono a emergere dalla nebbia, e Dorthy si contorse per guardare fuori sulla destra del velivolo. Il bordo frastagliato del cratere si stagliava nitido contro uno sfondo di chiarissima luce vermiglia, che fiottava nella cabina. Andrews imprecò fra i denti. Angel Sutter emise un ansito: — Jesus Christos... Era come se tutta la zona chiusa fra le rupi stesse andando a fuoco, pensò Dorthy, stringendo le palpebre in quel bagliore. Ma una volta fuori dalla nebbia le fu evidente che non si trattava di un incendio: la colonna di luce si levava dall'intera circonferenza del cratere, salendo dritta nel cielo quasi fosse il raggio di un immenso riflettore puntato verso le stelle. E in quel fiume rosso e pulsante si torcevano scintille d'oro puro, che guizzavano in alto come creature vive. — Ma cosa accidenti è? — In quella luminosità irreale la pelle scura di Angel aveva riflessi d'un viola carico. — Qualunque cosa sia, non interferisce con la strumentazione — disse Andrews. — Nient'altro che luce, forse. Nient'altro che luce... se solo fosse così semplice, pensò Dorthy osservando l'immane colonna rosata rimpicciolire dietro di loro, mentre l'aereo accelerava, fuggendo da un mistero verso un altro mistero. CAPITOLO QUARTO GLI ALEA
Il cratere del radiotelescopio si alzò sull'orizzonte, ad est: un tronco di cono basso e dalle pendici simmetriche, stagliato contro freddi sciami di stelle più luminose del sole calante. Andrews teneva l'aereo a bassa quota sulle asperità del territorio deserto, e nel dirigersi da quella parte non rallentò. A differenza di Angel era tranquillo, o forse eccitazione e spirito d'avventura lo aiutavano a ignorare i suoi timori. In quanto a lei, Dorthy non provava niente. Un lieve tremito le percorreva le mani quando non le teneva poggiate in grembo, ma non si trattava che di esaurimento fisico. O almeno, questo era ciò che si ripeteva. A metà strada, un'ora prima, Andrews aveva preso due pastiglie di stimolante (senza un autodoc a dirle cosa sarebbe successo alla biochimica del suo impianto, Dorthy non osava seguire il suo esempio) e nel sorvolare quel panorama monotono tamburellava con le dita sulla barra di comando, sovraccarico di energia nervosa, spostando con impazienza lo sguardo dall'oscurità esterna allo schermo del radar. Infine ridusse i giri e proseguì in planata, girando verso l'imboccatura di un canyon sinuoso apparso sul radar. — Là vedo un'altura che può schermare l'aereo. A due chilometri circa dall'inizio del pendio. Sei pronta a una lunga arrampicata, Dorthy? — Preferirei che tu mi portassi in spalla, ma farò quello che posso. — Io vi aspetterò finché volete — disse Angel. — Ma non chiedetemi di venirvi a cercare. Piuttosto sparatemi subito. — Grazie, dolcezza — disse Andrews. E a Dorthy: — Puoi ancora tirarti indietro, senza vergognarti di niente. — Lieta di saperlo, ma il motivo per cui vengo te l'ho detto. — Benissimo. — Lui inquadrò sul reticolo un tratto di terreno piano, girò verticalmente i motori, poi mise l'aereo in stallo con una manovra rapida e atterrò, sollevando folate di polvere che gli ultimi raggi del sole dipinsero di una luce stanca. Angel Sutter li stava fissando con occhi pieni di parole, ma non disse verbo e rimase insolitamente calma anche mentre li aiutava a scaricare il leggero equipaggiamento di cui avrebbero avuto bisogno. Cinque minuti dopo erano pronti. — Buona fortuna — mormorò allora. — Bada che questo sciocco non faccia pazzie, Dorthy. Vi aspetterò per trenta ore, non di più. È un volo lungo da qui al Campo Zero. — Trenta ore — confermò Andrews. Diede a Dorthy un segnalatore e se ne agganciò un altro alla cintura. — Stai allerta, Angel. Non andare a zon-
zo e non metterti a dormire. — Qui fuori? Dico, mi prendi per matta? Non riuscirei a chiudere una palpebra neppure se la incollassi! Piuttosto voi rispettate l'orario, o dovrete farvi tutto il continente a piedi. — Tu chiuditi dentro e non aprire a nessuno, eh? — Andrews la abbracciò energicamente e le mormorò in un orecchio qualcosa che Dorthy non udì. Dopo qualche secondo Angel gli passò le braccia attorno alla schiena robusta. — Oh, dannazione a tutto! — gemette, con le lacrime agli occhi. — Sii prudente, ti prego. Imbarazzata, Dorthy si volse a guardare il profilo della zona fertile. Poteva appena distinguere la linea più scura che segnava l'inizio della vegetazione, e più oltre i bastioni rocciosi del cratere. Appariva minuscolo rispetto a quello dove sorgeva la torre, e la boscaglia che lo circondava era ridotta in proporzione. — Andiamo — disse Andrews, avviandosi. Dorthy lo seguì, e quando più avanti si volse a gettare un'ultima occhiata ad Angel la vide ferma accanto all'aereo, ma in quella luce scarsa non avrebbe potuto dire se li stesse ancora seguendo con lo sguardo. Andrews camminava in testa, con appeso a una spalla il fucile che aveva insistito per portarsi dietro malgrado le obiezioni di Dorthy. La ragazza notò che non si voltava. Non lo fece neppure quando l'aereo decollò e si allontanò sul deserto in cerca di un posto più sicuro per attenderli. Il pendio che da lontano era parso liscio si rivelò pieno di crepacci e scarpate dove il terreno cedeva, difficoltà che la luce scarsissima rendeva spesso insidiose. Dorthy e Andrews diedero il via a più di una slavina di sassi. Era una zona silenziosa e priva di vita, dove nulla, salvo le lentissime ombre dei macigni, sembrava essersi mosso da millenni. L'orologio di Dorthy segnava le dodici di mattina quando raggiunsero la prima vegetazione, un ciuffo di sterpi che affondava le radici nel terriccio secco di una fenditura. Riposarono qualche minuto, mangiarono una tavoletta di concentrato dolce e bevvero dalle loro borracce. Alzando lo sguardo alla fascia scura della foresta che orlava il cratere, Dorthy si chiese se fosse il caso di prendere una dose di contro-agente. No, non ancora. Pazienza. Pazienza e calma. Era certa che più avanti, qualunque cosa si fossero trovati di fronte, avrebbe avuto bisogno del massimo autocontrollo. — Come vanno i piedi? — chiese Andrews. — Sanno di averne ancora per un bel po'.
— Che tu sia venuta mi fa piacere, ma non troppo. Credi che sia lassù? Lei capì a cosa si riferiva. — Non ho preso il contro-agente. Aspetterò finché non ne vedrò la necessità. — Sulla torre continuavi a percepire anche quando il suo effetto era cessato — osservò Andrews. — È vero, ma mi trovavo in una specie di trance lucida. Non ero mai stata così sensitiva. E spero che non lo sarò mai più. Era come guardare il sole abbagliante a occhio nudo. Andrews si volse a darle un'occhiata. Era un'ombra sullo sfondo del firmamento, fra due rocce, e lei poté indovinare, più che vedere, il suo sorriso. — Sembra che avere il Talento non ti piaccia molto. — Suppongo di no. — Però non sei tu a essere esposta ai suoi effetti, no? Voglio dire, sono gli altri ad essere aperti a te. — Niente affatto. Gli effetti li subisco io. È un bombardamento, come avere dozzine di trasmissioni radio negli orecchi. Se non fossi stata addestrata a focalizzarmi istintivamente su una sola, diventerei pazza. E ad alcuni Talenti questo accade lo stesso. — Una volta con un coltello da tavola, una volta sott'acqua... ma a quel tempo lei era molto più giovane e indifesa. — Ho conosciuto due o tre Talenti — disse Andrews. — Erano tipi veramente strani. — E io? — Dorthy si pentì subito di aver fatto la domanda. — Be' — disse lui, — tu stai molto sulle tue, vero? Non vuoi che qualcosa ti ferisca. Ecco perché apprezzo che tu sia venuta qui con me. È una scelta più umana, se capisci quel che voglio dire. Non egoista. Stava cercando d'essere gentile, ma se un tempo ciò avrebbe incrinato la sua armatura d'indifferenza, ora non le faceva alcun effetto. Ricordava che Arcady le aveva detto qualcosa di simile, e per un momento rivide il suo sorriso stanco, il gesto con cui si toglieva l'eterna ciocca di capelli dalla fronte. Si mordicchiò le labbra. — Meglio riprendere il cammino. — D'accordo. Ma intendevo davvero quello che ho detto. Sono contento che tu sia con me. Proseguirono sul pendio scosceso del cratere, e da lì a poco furono fra gli alberi, basse piante dalle foglie sottili uguali a quelle dell'altra zona fertile, le cui radici emergevano dal suolo sassoso per allargare attorno reti di viticci in cerca d'acqua. Poi il terreno divenne pianeggiante e gli alberi lasciarono il posto a una distesa dell'erba dagli steli intrecciati, anch'essa già
nota. Dorthy si accorse che quello era il contorno del cratere. La fascia erbosa circondava una depressione emisferica, simmetrica, pavimentata di un materiale nero senza dubbio radio-riflettente. Il diametro, in quella luce debole che ostacolava le valutazioni, sembrava circa un chilometro. Quello che doveva essere il complesso dei ricevitori e degli apparati di analisi era sospeso nell'aria sulla verticale del centro; lo sostenevano tre massicci cavi, ognuno ancorato a una torre inclinata. Andrews s'incamminò verso il bordo e Dorthy lo seguì nervosamente, sentendosi troppo esposta. Da qualche parte, ne era certa, qualcosa la stava osservando e valutando in attesa del momento di agire. L'uomo indicò la gola che si apriva dalla parte opposta del cratere. — Le foto dei satelliti rivelano qualcosa laggiù — disse. Tolse il binocolo dalla custodia. Dopo un minuto lo porse a Dorthy. Con il circuito d'amplificazione al massimo la visuale era granulosa. — Sotto quegli alberi, a destra — disse Andrews. — Li vedi? — Sì, li vedo. Sul terreno ondulato c'era un complesso di muri, non molto alti e in parte nascosti dalla vegetazione. Qua e là emergevano torri dalla sommità piatta, di varie altezze. L'insieme aveva l'aria di una rovina abbandonata alle intemperie da moltissimo tempo. — Non mi meraviglio che quelle foto dicessero così poco — commentò Andrews quando lei gli restituì lo strumento. — Senti qualcosa? — Come se ci stessero spiando. — Diavolo, anch'io ho la stessa impressione. Ma è naturale, no? Qui siamo al cuore di ciò che esiste su questo pianeta. Vieni, voglio dare un'occhiata a quella torre. Si avviarono verso la più vicina delle tre strutture di supporto, Andrews a passi eccitati, ma Dorthy assai più circospetta e oppressa dalla certezza che qualcuno li guardasse. Benché Andrews non l'avesse presa sul serio, quella era una percezione reale. Ma non vedeva traccia di mandriani, né d'altri generi di vita animale. La torre di supporto era cementata proprio sull'orlo a strapiombo dell'immensa coppa, e si curvava nel vuoto con una struttura a doppia costola rafforzata da tralicci interni. Andrews saggiò quel materiale nero con il coltello e riuscì a graffiarlo profondamente. — Non è metallo — osservò, e ne staccò una scheggia che si mise in tasca. Poi poggiò un piede su uno dei supporti e si arrampicò. Col cuore in gola Dorthy lo guardò salire sempre più in alto, fino alla
cima che sporgeva nel baratro. Precipitare da li sarebbe stata una caduta allucinante, ma lui rimase a lungo lassù, esaminando il cavo che emergeva dalla stretta sommità ricurva e si arcuava per oltre mezzo chilometro fino al complesso dei ricevitori, un insieme irregolare di poliedri sospeso nel punto focale dell'emisfero sottostante. Infine Andrews scese, procedendo all'indietro, e con un ultimo saltello fu al suolo accanto a lei. La sua faccia era madida di sudore, ma le sorrise con entusiasmo infantile. — Dannatamente strana, questa cosa. Sembra tutta d'un pezzo, cavo e torre. — È solo per toglierti questa curiosità che sei andato lassù? — lo rimproverò lei. Era irritata di vederlo esporsi in quel modo; esporsi al rischio di precipitare, al rischio di essere visto. E nello stesso tempo sapeva che erano già stati individuati. Si costrinse alla calma, accorgendosi che il nervosismo la stava facendo tremare. — È ovvio che da qualche parte c'è un meccanismo per manovrare l'antenna. Il fuoco del paraboloide è fisso, perciò l'apparato ricevente deve potersi spostare per intercettare le onde radio provenienti da diverse parti del cielo. — Be', forse il motore si trova nella cabina stessa. Non preoccuparti, non ho intenzione di camminare sul cavo fin là per accertarmene. — Non capisco perché ti sembri importante sapere come funziona, ecco tutto. — Dorthy toccò una delle costolature. Era calda sotto la sua mano, quasi sensualmente morbida, liscia come la seta. — Non posso sapere cos'è importante, perciò parto dall'idea che tutto lo sia. — Andrews indietreggiò di alcuni passi. — Resta dove sei. Sorridi, ora — disse, e scattò in fretta una dozzina di foto olografiche. Dorthy sbatté le palpebre ai lampi del laser. Andrews riappese l'apparecchio alla cintura. — Te ne darò una. Potrai tenerla come ricordo della scampagnata. — Poi tornò serio. — Forse faresti meglio a svegliare il tuo Talento, Dorthy. Dovremo scendere laggiù — e accennò col pollice alla gola rocciosa, — se vogliamo saperne di più. Quella, si disse lei, era la porta che aspettava d'essere aperta. Tutto il resto, la discesa nella capsula di caduta, il travagliato viaggio nella foresta, l'avventura sulla torre, non era stato che un prologo. Dorthy tolse di tasca la scatoletta, ne fece scattare fuori una pasticca e la inghiottì a bocca asciutta. Poté sentirla mentre scendeva in lei, pochi istanti, per poi sciogliersi nella tenebra del suo metabolismo. Fatto, pensò. Avevano raggiunto il bordo superiore della gola quando Dorthy sentì
che il Talento cominciava a funzionare. Lo schema dei pensieri di Andrews, dapprima vago e sconnesso, si faceva più nitido a ogni passo, appaiandosi a ciò che pensava lei come le note a margine di un testo. Infine decise di sedersi a qualche metro dall'orlo, fra due lastroni di roccia inclinatisi uno verso l'altro, assunse la posizione del loto e aspirò profondamente, trattenne il fiato, lo lasciò uscire, e sentì le pulsazioni rallentare mentre cominciava a distaccarsi dal mondo esterno. Andrews, più instancabile che mai nel suo esame dei dintorni, s'era portato sul cornicione e guardava giù nel canyon di cui la gola costituiva l'imbocco, sassoso e spoglio lungo l'intero corso fino al deserto. Fra le costruzioni più in basso la vegetazione invece abbondava, e rampicanti spessi come alberelli si aggrappavano sugli strapiombi della gola salendo fino al bordo, per poi serpeggiare via fra gli alberi e i cespugli. Andrews poggiò un piede su uno dei grossi rampicanti, poi si staccò dalla cintura il lungo coltello da macchia e gli inferse alcuni colpi. Il legno cedeva facilmente e d'un tratto ne schizzò un getto d'acqua, che diminuì quasi subito ma continuò a scaturire a brevi intervalli come se fosse collegato a una pompa. Quel ritmico scroscio, in snervante contrappunto al respiro e alle pulsazioni di Dorthy, finì per incrinare la sua concentrazione. La ragazza si alzò e andò verso le rocce fra cui l'uomo, in piedi e con le mani sui fianchi, guardava l'acqua ruscellare sul bordo della gola e scorrere nel precipizio. — Dai un'occhiata qui — le disse. — Stai cercando di farci catturare? — chiese Dorthy. — Se qualcuno ci ha davvero visti arrivare — disse Andrews, spaccando in due il rampicante con qualche altro colpo del coltellaccio, — sa già che siamo qui. Non hai ancora scoperto di chi si tratta? — Ci stavo provando, ma tu fai del tuo meglio per disturbarmi. — Scusa — disse distrattamente lui. — Guarda qui, questa pianta è una pompa vera e propria. — Le indicò la membrana interna, che si contraeva a lenti intervalli. Il movimento riusciva ancora a portare fuori un po' d'acqua. — Che io sia dannato! Un sistema d'irrigazione vivente. Questi viticci tirano fuori l'acqua da qualche parte. Un pozzo artesiano, forse. Ecco cosa alimenta le radici di tutti questi alberi... una pianta al servizio di altre piante. Capisci? — Ascolta — sbottò Dorthy, irritata. — Hai voluto che io venissi qui, e hai detto che ti faceva piacere, ma se non la smetti di agitarti attorno non riesco a concentrarmi. — A seccarla era il fatto evidente che lui continuava a non prenderla sul serio: tutto ciò che faceva dimostrava che a suo avviso
il Talento era qualcosa di poco importante, uno strumento secondario rispetto alle osservazioni empiriche d'altro genere. — Non devi prendertela per una sciocchezza — disse lui. — Stavo semplicemente ingannando il tempo. Dorthy si volse a guardare già fra la vegetazione sul lato opposto della gola; squarci di muri che salivano e scendevano sulle irregolarità del terreno sotto le chiome degli alberi, le torri diroccate. C'era qualcosa laggiù, lo sentiva. Come una tensione, un bagliore sfocato. Andrews cominciò a parlare, ma la ragazza alzò una mano per zittirlo. Sorprendentemente, lui tacque. Dorthy si concentrò ancora e scese nel centro di se stessa, lontano dal groviglio dei pensieri di Andrews. E il contatto balzò dentro di lei prima che fosse davvero pronta a riceverlo: un'ondata di intelligenza bruciante che la toccò per un solo momento e poi svanì, come il riflesso di un lampo al di là di un angolo, nella notte. Dalle tenebre, una voce. Era un'impersonale voce maschile con una lieve sfumatura metallica, e stava elencando orari e destinazioni di astronavi in partenza. Poi, a riempire lo spazio in cui risuonava, il mormorio incessante della folla intorno a lei: menti come piccole candele tremolanti, ognuna chiusa nel suo involucro di carta colorata, ognuna isolata, ognuna fatta solo di se stessa... Con la sua sacca da viaggio gettata su una spalla, Dorthy si fece strada in quella ressa di facce sconosciute. Sotto i pannelli di vetro dell'alto soffitto lampeggiavano grandi tabelloni olografici; la voce senza origine ricominciò a recitare il suo elenco. Lastre di cristallo verde cinte da cornici tubolari d'alluminio scivolarono via per lasciarla uscire. E poi fu fuori. Calda e secca, la luce fiottava su di lei da un cielo azzurro senza limiti. Da un lato, il traffico s'incanalava su per le rampe d'uscita. Dall'altro, la gente si muoveva fra file di autopubbliche, autobus, vetture a decollo verticale e altri velivoli d'ogni genere che si alzavano e abbassavano come api intorno all'alveare, un enorme alveare di alluminio argenteo e vetro verde scintillante sotto i raggi del sole. E al di là, i recinti e le strutture dell'astroporto che si estendeva fino alla foschia dell'orizzonte, con i veicoli di servizio intorno agli scafi lucidi delle astronavi. Dopo gli anni trascorsi all'Istituto Kamali-Silver quella prospettiva così vasta le dava le vertigini. Dorthy riuscì a impadronirsi di un aereo semiautomatico e lo pilotò verso il suo albergo, approfittandone per guardare la
metropoli, con i suoi alti palazzi di forma spesso originale e gli interminabili viali alberati. Visto da duecento metri d'altezza quel panorama sembrava vagamente irreale, come un film alla Tri-V. Irreale, si disse, ma quell'impressione svanì presto. All'albergo passò meccanicamente attraverso le procedure d'arrivo, e in camera si fece subito la doccia. Poi uscì sul balcone, dove la brezza salmastra le spingeva l'accappatoio sulla pelle, e guardò le minuscole barche a vela che incrociavano in ogni direzione nelle acque verdi della baia. La Terra. La discesa dall'orbita su una scomoda navetta di collegamento, e la morsa della gravità, doppia di quella dell'Istituto, avevano un po' smorzato la sua euforia. Dorthy si gettò sul letto idraulico, allungò una mano verso un pannello ed esplorò una ventina di canali della Tri-V senza trovare nulla che le riuscisse nuovo: tutto era familiare e rassicurante. Verso la fine di un vecchissimo film di fantascienza (una ragazza rapita da una specie d'incrocio fra un monaco e un orso, che la portava su per un'enorme e indistinta torre) si addormentò, e dormì profondamente, del tutto inconscia dei rumori e delle voci che la Tri-V continuava ad emettere, svegliandosi soltanto verso le dodici del giorno dopo. Si fece un'altra doccia, ordinò la colazione al computer dell'albergo, si vestì, poi infilò il suo dischetto di credito in una fessura e se ne andò. Non aveva neppure tirato fuori la sua roba dalla sacca. La monorotaia tagliava in linea retta il disadorno paesaggio dell'entroterra australiano. Dorthy guardava pigramente gli scenari desertici che sfilavano via: distese di polvere gialla e grigia, resti consumati di crateri meteorici, lunghe scarpate sassose e alture orlate di rocce, il tutto in un arido miscuglio di colori ocra sotto un cielo troppo chiaro. Non provava nessun senso di anticipazione. Le sue capacità emotive erano sospese nella silenziosa vibrazione del treno che correva avanti. In fondo, quello non era un vero ritorno a casa per lei. «Casa» era una parola che associava al piccolo appartamento nella cittadina delle balene, sulla costa, e non a un ranch sperduto nei territori interni. Dormì, mangiò un pasto insipido, sonnecchiò ancora, e fu svegliata dal rumore dei freni quando il treno rallentò alla periferia della piccola città. Dorthy fu l'unica che scese sulla nuda banchina di cemento. L'abitato uno sparso insieme di cupole basse e larghe sotto cui si vedeva il verdeggiare degli orti, alcuni silos e una fabbrica di prodotti chimici - sembrava addormentato nella calura sotto il sole a picco. La guidatrice del fuoristrada che Dorthy noleggiò era una donna solida e
dai modi rustici, abbronzata e lentigginosa, dai capelli rossicci. Uscì dalla cittadina sulla camionabile a traccia metallica, e qualche chilometro più avanti sterzò con un gran polverone su una pista sabbiosa che sembrava perdersi nel deserto. Il terreno bruno dava sostentamento a cespugli spinosi e radi ciuffi d'erba, e non c'erano alberi. Più avanti Dorthy vide la carogna di una mucca, così malconcia che sembrava essere esplosa su una mina. Capì che a ridurla in quel modo doveva esser stato un branco di dingo. La donna intercettò il suo sguardo e disse: — Morta di sete. Il governo non spende soldi per far piovere un po', da queste parti. Dopo un po' oltrepassarono un gruppo di bovini emaciati che pascolavano attorno a una polla d'acqua quasi in secca, stretta fra decine di metri di fanghiglia calpestata. Ma il terreno sembrava più fertile. All'orizzonte comparvero degli alberi, oltre i quali scintillava un banco di fotocellule girato verso il sole. — Parenti suoi? — chiese la donna. — Il proprietario è mio padre — disse Dorthy, e finalmente sentì di nuovo quella curiosità che l'aveva portata lì. Suo padre aveva comprato il ranch con i soldi che lei si era guadagnata all'Istituto prima di diventare maggiorenne, ma non le aveva detto una parola più del necessario nelle sue brevi e rarissime lettere. Non s'era neppure sprecato a mandarle una olo. — Mai stata qui, eh? — La donna la guardò. Annuì fra sé. — Allora dia retta a un consiglio... lasci perdere questa gente. Non godono di una buona reputazione, se vuole la verità. Dorthy ricordò la Seyoura Yep, e s'irrigidì. La guidatrice rallentò fra i filari di eucalipti e nello spiazzo terroso davanti alla casa fermò il rotore. — Buona fortuna — disse, mentre lei scendeva. Poi fece rialzare il veicolo sul cuscino d'aria e si allontanò in un polverone. Con la sacca in mano, Dorthy fece qualche passo verso la casa. Era un edificio lungo e basso, con una profonda veranda e tetti in plastica ondulata. Un tempo era stato dipinto di bianco, ma la vernice cadeva a pezzi lasciando allo scoperto grigie chiazze di intonaco corroso. Sulla destra del cortile, fra mucchi di rifiuti e ciarpame accumulato, erano posteggiati due malridotti camion a ruote. Gli scheletri di altre due vetture arrugginivano nell'angolo opposto. Ma cos'ha fatto? pensò Dorthy. È tutto qui? Un cane lupo legato a una catena si tirò su dalla polvere e ringhiò la sua ostilità, mentre lei s'incamminava verso la veranda. Gli scalini di legno cigolarono sotto di lei. In quel momento udì delle voci, e sei o sette bambini, quasi tutti nudi,
comparvero di corsa da dietro un angolo e si fermarono nel cortile a qualche metro dalla veranda. Dorthy si volse e chiese loro dove fosse papà-san, parlando giapponese per la prima volta dopo molti anni. Ci furono mormoni, sguardi curiosi e scambi di gomitate, ma nessuno sorrise; poi la più anziana, una ragazzina sudicia e spettinata, scacciò le mosche che le ronzavano attorno alla faccia e si fece avanti. Condusse Dorthy lungo uno squallido corridoio che sfociava nella cucina, sul retro della casa, e qui svegliò una donna sciatta e grassottella che dormicchiava su una sedia a sdraio. Dorthy chiese ancora di suo padre e di sua sorella, con uno stupore ora sfumato di panico. La donna accennò un mezzo inchino e disse: — Gomen nasai, gomen nasai, scusami. Tu sei la figlia, sì? È un onore, un onore, se solo avessimo saputo quando saresti arrivata. Adesso dormono tutti, capisci, qui fa caldo. Dobbiamo dormire di giorno. Siediti, figlia di Yoshidasan, ti prego. — Le indicò un cuscino su una stuoia e ordinò alla ragazzina di cercare il padrone di casa. Dorthy sedette sul cuscino unto d'olio, mentre la donna s'indaffarava attorno e metteva a scaldare un tegame di misoshuri, perché naturalmente l'onorata ospite doveva essere nutrita. Dorthy si sentì stringere il cuore. Soltanto allora quell'ambiente cominciava ad apparirle reale, ed era peggio di qualunque cosa avesse mai immaginato. La zuppa di fagioli era insipida, una brodaglia spolverata di pepe, ma si sforzò di inghiottirne alcune cucchiaiate per non offendere la casa. Nel guardarla la donna si palpava un livido sulla mandibola. Gettò un'occhiata alla porta. — Ecco Yoshida-san — disse, e uscì in fretta. Dorthy si alzò. Nudo dalla cintura in su, i capelli grigiastri lunghi e spettinati, suo padre si appoggiò con una mano allo stipite della porta e con l'altra si sfregò gli occhi cisposi. Era sporco di grasso da motori e ai piedi portava solo dei vecchi calzini pieni di buchi. — Sono contento di vederti, figlia — disse con voce rauca. — Mmh! Avevo sperato di prepararti un benvenuto più adatto, ma non ti aspettavo così presto. Come vedi, qui ho alcune difficoltà economiche... Se l'incredulo stupore l'aveva quasi paralizzata emotivamente, nel vederlo sentì nascere in sé una rabbia mista a disprezzo. — È questo tutto ciò che hai da mostrarmi, in cambio del mio lavoro? — esclamò. Colto di sorpresa da una domanda così diretta, suo padre borbottò qualcosa circa la mancanza d'acqua, il governo, e diede la stura a una sequela di lamentele sui pregiudizi e l'imbecillità della gente del luogo, terminando
poi con la lista delle disgrazie accadute al bestiame in quegli ultimi anni. Era mezzo ubriaco e puzzava di vino di riso. Sul finire, il suo tono si fece battagliero e risentito. — So bene che qui le cose non hanno un buon aspetto. Credi che non lo sappia? Certo a te sembrano anche peggiori, dopo che hai abitato fra gente ricca e imparato i loro modi — disse. — Ma ora sei tornata nella tua casa, e per me sei sempre la mia chunan, Dorthy-san. Anche se sei femmina, hai portato alla tua famiglia più onore di un figlio maschio. Questa è la tua uchi, a cui tu appartieni, e due braccia in più ci faranno comodo. — Per me questo non è un onore — disse lei, fredda e rabbiosa. Strinse i pugni. — Per me questa non è la mia uchi. È onbu, è una cosa che hai comprato con i miei soldi, e l'hai mandata in rovina, disonorando il mio lavoro. — Tu non puoi sapere cosa ho dovuto... — L'uomo andò al lavandino, ci sputò dentro, poi si lavò la faccia e bevve. — Tu non sai. Dopo la morte di okaa-san io sono stato un uomo con il cuore spezzato, figlia — disse, battendosi una mano sul petto come a mostrarle che la ferita c'era. — Io so che sei stato tu a spezzare il cuore a lei — esclamò Dorthy. — Tu, con le tue dure pretese e i tuoi sogni impossibili. Non mi hai neppure scritto che era morta, se non molto tempo dopo! — Taci, figlia! — Per un momento la sua autorità di capofamiglia fece capolino. — Non devi dire parole di biasimo, nella casa di tuo padre! Ma Dorthy aveva superato ogni ortodossa deferenza. — Questo posto è il frutto dei miei risparmi? Onbu! L'hai riempito di gente che non ha il rispetto altrui, sconosciuti che vivono sopra il denaro sudato da me e lo sprecano. Qui io non trovo una casa, padre. Sentì le sue intenzioni e fece un passo indietro, evitando il pugno che lui le aveva sferrato. L'uomo alzò ancora la mano, ma poi sembrò pentito e se la passò sul mento con un borbottio. — Mmh! Be'... è il destino — disse. — È il destino. — D'un tratto chiuse gli occhi, e mentre scuoteva il capo due lacrime gli scivolarono sulle guance. — Scusami, figlia. Per un momento, solo un momento, Dorthy provò vergogna e pietà. — Dov'è Hiroko? — chiese. — Dov'è mia sorella? — Dorme. Stanno dormendo tutti, a quest'ora — rispose lui. — Aspetta, figlia, dove... aspetta! Ma Dorthy gli era già passata accanto, senza ascoltarlo. Si affrettò per il lungo corridoio che girava sulla parte interna della casa, aprendo una porta dopo l'altra. Molte della stanze che vide erano del tutto
vuote. In una c'erano dei mobili accatastati fino al soffitto. In un'altra c'era una dozzina di adulti dei due sessi che dormivano su materassi stesi al suolo, in un'aria fetida e calda. La successiva aveva la porta semiaperta, e Dorthy si fermò sulla soglia. Dal letto matrimoniale, vestito di un sudicio yukata e niente altro, suo zio Mishio la guardò con l'unico occhio sano, senza riconoscerla. Ma la ragazza nuda che giaceva accanto a lui emise un gemito e si portò le mani alla bocca. Era Hiroko. Dopo il primo shock, una gelida calma s'impadronì di Dorthy. Ordinò alla sorella di vestirsi, ignorando le spiegazioni che Mishio aveva preso a darle con voce da avvinazzato. Gli voltò le spalle e spinse Hiroko nel corridoio. Mentre se la tirava dietro sentì Mishio chiamare qualcuno in tono iroso. Quando gli altri cominciarono a uscire, insonnoliti, Dorthy e la sorella erano già sulla veranda. — Dove stiamo andando? — Ancora mezza addormentata, Hiroko si tolse i capelli dalla faccia, seguendola passivamente attraverso il cortile. Accucciato nella polvere, il cane le guardò passare senza muoversi. Dorthy si morse le labbra. — Oh, Hiroko...! — Lui... lui mi protegge dagli altri uomini — disse la ragazza. Dietro di loro ci furono delle grida. Dorthy si volse e vide che sulla veranda uscivano sei o sette persone, i cui sentimenti minacciosi la colpirono come l'addensarsi di un temporale. Afferrò con forza il polso sottile della sorella e la costrinse a correre con lei fuori dal cancello, quindi nel boschetto di eucalipti. Cinque minuti dopo erano al limite della zona cespugliosa, dove cominciavano i terreni aridi. Il sole stava scendendo, e le spine degli sterpi scintillavano come metallo brunito. In distanza si udì il borbottio di un camion che veniva messo in moto. — Verranno a cercarci — gemette Hiroko, stringendosi il vestituccio liso intorno al petto. — Oh, Dorthy, non dobbiamo scappare via! — Da che parte è il paese? Hiroko indicò vagamente il nord, e Dorthy scelse una direzione a novanta gradi rispetto a quella. — Staremo nascoste fino a buio, poi ce ne andremo da qui. Non aver paura, io so sempre se qualcuno si avvicina e sono brava a non farmi trovare. — Sì. Ricordo quando hai detto a tutti dov'era quel bambino, in fabbrica. Qualche volta ho desiderato essere come te, Dorthy-san. — Tu... siamo state entrambe sfortunate, credo. Da lì a poco furono fra le rocce. Sentivano ancora l'abbaiare del cane,
lontano e lamentoso, e videro la nuvola di polvere di uno dei camion sulla pista che conduceva all'incrocio. Hiroko guidò Dorthy fino a un canalone alluvionale in secca, e lì sedettero fra alcuni cespugli in attesa del tramonto. Sfumata la tensione, Dorthy ricordò di aver lasciato in casa la sua sacca. Be', si disse, non conteneva niente di cui avesse davvero bisogno: quella parte della sua vita era finita. Tutto intorno gli insetti strisciavano, volavano, si arrampicavano. Cercò di ricorrere al suo Talento, e quando ogni suo sforzo fu vano rimpianse di non avere una riserva di contro-agente. Intanto Hiroko le stava raccontando la storia del ranch. A quanto disse, il sogno del padre era sempre stato quello di aprire un centro di cultura giapponese, e aveva propugnato a lungo l'idea fra gli operai della fabbrica, scontrandosi però con il disinteresse di tutti e in particolare con l'ostilità degli amici di Mishio. Malgrado ciò, aveva cercato di realizzare al ranch quella sua aspirazione. — Ma dopo la morte di mamma, ha perso interesse in ogni cosa — disse Hiroko. — I pozzi sono seccati, ha smesso di usare le macchine per coltivare, e i campi sono diventati sterpaie. Il bestiame dimagriva e ora ce n'è rimasto poco. Anche l'impianto per l'energia solare si è guastato, ma lui non se ne cura. Non gli importa neanche di Zio Mishio e di me. La ragazza cominciò a piangere, e Dorthy le passò un braccio intorno alle spalle per consolarla. — Troverò un posto dove potremo vivere, tu ed io. Ho un po' di soldi da parte. Oh, Hiroko, che triste ritorno a casa per me! Le stelle riempivano già il firmamento di quella notte calda e limpida, quando lasciarono il loro rifugio per incamminarsi verso il paese più vicino. Poco più avanti si accorsero che alcuni uomini le stavano cercando, ma con tale baccano e inettitudine che non fu loro difficile tenersi alla larga nel buio. Mentre proseguivano Dorthy raccontò alla sorella dei suoi anni all'Istituto, e del suo progetto di laurearsi in astronomia. — Ecco perché tu puoi capire. Ecco perché devi capire. — Quella non era la voce di Hiroko. Non era neppure una voce umana. Dorthy si fermò. L'ombra che le stava accanto era troppo alta per essere sua sorella, ma c'era troppo buio per vedere chi fosse. — Non aver paura — disse la figura d'ombra, e alzò un braccio a indicare le fredde nubi di polvere interstellare che occludevano il cielo. Fra quei gelidi veli brillava una sola stella, così luminosa che bastava a illuminare il terreno scabro. — Quella era la strada che anche noi seguimmo — disse ancora. — All'interno, in cerca di stelle come la nostra. E un attimo dopo Dorthy provò un vertiginoso stordimento, come se
stesse rotolando via nel cielo. Il mondo tornò a Dorthy un pezzo dopo l'altro. Era distesa sulla schiena in una lieve depressione terrosa, circondata da viluppi di rampicanti contorti. Alcuni alberelli protendevano sopra di lei fronde debolmente illuminate da un riflesso rossastro, me tutto il resto era tenebra. Andrews stava dormendo qualche passo più in là, con un braccio sulla faccia, e il suo respiro era lento e regolare. Dorthy riuscì a captare il tessuto dei pensieri di lui: il suo Talento era ancora attivo. Quando guardò l'orologio si accorse che era trascorsa soltanto un'ora. Si inumidì la bocca con un sorso dell'acqua insapore della borraccia e rimase sdraiata, pensando al suo sogno. Con una parte della mente stava sempre camminando con sua sorella nella calda notte australiana verso il paese. Giunte a Melbourne aveva affittato un piccolo attico per Hiroko, aprendole un credito bancario. La ragazza aveva insistito per restare indipendente e cercarsi un lavoro, affermando che sapeva badare a se stessa, cosicché, pur riluttante, Dorthy era partita per Rio dove aveva firmato il suo primo contratto come Talento professionista. Ogni settimana s'era fatta un dovere di accreditare un po' di denaro alla sorella, ma pur avendole telefonato più volte non l'aveva mai trovata in casa, e durante i tre mesi trascorsi su Gran Brazil si era tormentata con le più diverse preoccupazioni. Ma non poteva lasciare quel suo primo lavoro; aveva troppo bisogno di guadagnare. Fra una spesa e l'altra, l'appartamento di Hiroko le era costato buona parte di ciò che aveva risparmiato. Ma quando era finalmente tornata a Melbourne, la sorella non c'era più. Una breve indagine le era bastata per capire che Hiroko aveva lasciato la città appena una settimana dopo la sua partenza, tornando allo squallido e cadente ranch nel deserto, da suo padre, da Zio Mishio. Il biglietto che le aveva lasciato su un tavolino non spiegava niente, ed era rimasto un enigma su cui Dorthy s'era invano interrogata per anni: Non posso vivere fra gente straniera. Malgrado ogni suo sforzo, Dorthy non riusciva ancora a capire del tutto. E il resto del sogno, specialmente quando s'era trasformato in un incubo, era uscito davvero dalla sua mente? Addestrata a individuare il sapore dei pensieri estranei che venivano a mescolarsi in lei, sospettava di no. Le era stato dato, per preparare la strada. Ma la strada per dove, o a cosa? Lasciò Andrews ai suoi sogni e s'incamminò fra la vegetazione intricata. Poco più avanti emerse sul bordo della gola, e sedette lì a guardare gli al-
beri che nascondevano in parte i resti degli edifici sotto di lei. Non riuscì a captare niente, e meno che mai quel qualcosa di bruciante e pericoloso che le aveva colpito la mente. Anche la spiacevole certezza d'essere spiata era svanita. Dubitava che fosse soltanto un caso. A disagio e riluttante cominciò a concentrarsi, staccandosi prima dal senso del mondo esterno, quindi dal suo corpo, fluttuando libera al centro di se stessa. Lentamente, molto lentamente, vaghe luci di altre coscienze fluttuarono verso di lei, simili alle creature fosforescenti degli abissi oceanici. Era troppo lontana per capirle, ma esse erano là, tutte pervase dallo stesso schema rigido e lineare che lei aveva captato nella mente del mandriano da cui era stata catturata sulla torre. Non era molto che le stava studiando quando si accorse che Andrews veniva verso di lei, e pur contrariata interruppe il contatto, tornando a fluire nella materia sensibile del proprio corpo. Si alzò, intorpidita, e vide la figura di lui avvicinarsi fra gli spunzoni di roccia e le ombre, con il fucile a tracolla. — Perché non mi hai svegliato? — sbottò Andrews, di malumore. — Non sapevo dove ti fossi cacciata! — Ma mi hai trovato subito, perciò di cosa di lamenti? — La sua rabbia la colpì: il fuoco pirotecnico di un ego oltraggiato. — Ci sono dei mandriani, laggiù. Non so quanti, né cosa stiano facendo. Dovrò scendere. Da sola. — Mandriani, ma non il Grande Boojum, eh? — Boojum? — L'intelligenza. Il Nemico. — Io ancora non so chi sia il Nemico. Ma adesso là non c'è. Andrews la fissò, fra iroso e preoccupato. — Però c'era, no? È per questo che sei venuta qui? — Credo di sì. Ma non ho appreso niente di nuovo. Senti, Andrews, qui sono troppo lontana. Bisogna che scenda. Soltanto io. Per un momento lui parve chiedersi se mettersi o no a discutere, poi scrollò le spalle. — Sia pure, dottoressa Yoshida. A mali estremi, estremi rimedi, eh? Io mi guarderò un po' attorno per conto mio. Ci ritroveremo nel posticino che ti avevo ripulito, fra i cespugli. D'accordo? Era così buio che lei riuscì appena a distinguere il suo sogghigno. — D'accordo. — Ti sei ripresa dal tuo attacco? — Credo di sì.
— Bene. Ma fammi il favore di non andare a intrufolarti in quegli edifici o qualunque cosa siano, là sotto gli alberi. Scoprire qualcosa non servirà a nulla, se non potrai tornare a riferirlo. — Oh, so badare a me stessa. Spero che sia così anche per te. Dorthy avrebbe potuto dirgli di più per spiegargli il pericolo, la trappola che poteva essersi già chiusa intorno a loro; ma sapeva che lui le avrebbe impedito di agire di sua iniziativa, e inoltre, oscuramente, desiderava sviscerare il mistero di cui sentiva la presenza proprio lì. Mentre si voltava in cerca di una via di discesa praticabile, alle sue spalle Andrews disse: — Be', in bocca al lupo — e si allontanò prima che lei potesse rispondere. Dopo una non facile discesa fra rocce e scarpate immerse nella fioca luce vermiglia, Dorthy saltò, una ventina di minuti più tardi, su un liscio gradino di lava. Sotto di lei c'era il letto asciutto di un torrente (asciutto da quante migliaia di anni?) attraversato da una quantità di grossi rampicanti, e più avanti i monticelli di terreno alberato che si susseguivano fino alla lunga parete opposta, immersa nell'ombra e su cui non si scorgeva nulla. Là fra quei muri c'erano i mandriani. Dorthy non percepiva traccia dello scopo comune che aveva trovato in tutti i nuovi maschi nella foresta, intorno al lago e sulla torre. Ogni singola mente era invece strutturata in uno schema che sembrava impostato su una routine, una gerarchia di entità separate. Adesso che era più vicina poteva scorgere delle differenze, notare che alcune delle menti erano poco più di scintille entro i limiti di uno schema che le soverchiava, mentre altre erano intelligenze quasi libere da ogni legame imposto. Ma dov'era l'entità individuale che dominava quel luogo? Inghiottì un'altra pasticca di contro-agente e attese, massaggiandosi le mani infreddolite e rabbrividendo nella brezza che spirava incessantemente dal deserto. Mentre esplorava e saggiava lo schema sovrimposto alle menti dei mandriani superficialmente riflesso dentro lei stessa — non vi si immergeva davvero, riluttante a sondare un singolo mandriano nel caso che quella fosse tutta una trappola - il sole calò di un'impercettibile frazione di grado. Lì vicino una torre isolata sporgeva sulle cime degli alberi con la sua sommità piatta, spoglia e senza finestre. A qualunque cosa servisse, non c'erano mandriani all'interno - li sentiva tutti raggruppati sotto gli alberi - ma Dorthy ebbe un sobbalzo quando d'un tratto su di essa nacque un bagliore rosso. Una strana distorsione simile a una lente, sopra la cima della torre, aveva catturato gli ultimi raggi del sole calante. E un attimo dopo
l'aria intorno a lei si accese di vampe scarlatte, mentre un raggio di luce s'incanalava nella gola riempiendo l'immensa coppa del radiotelescopio. Il complesso dei ricevitori parve infiammarsi di colpo. Poi il sole scese di un'altra frazione di grado. Il raggio impallidì, l'apparato dei ricevitori sospeso in alto scomparve nel buio, e la misteriosa lente sulla torre si spense con un ultimo barbaglio. I residui di quella luminosità avevano rivelato a Dorthy la presenza di alcune figurette scure che si inerpicavano sulla parete rocciosa, al di là degli alberi. Tirò fuori gli occhiali a infrarossi e ne distinse quattro, su una stretta scala tagliata nella lava. Cominciò a incamminarsi fra gli alberi, girando però verso lo sbocco della gola dove il terreno era in parte pavimentato da liscio materiale nero. Tuttavia quella specie di sentiero svaniva nel buio in mezzo alla vegetazione, e lì Dorthy ebbe di nuovo la certezza d'essere non soltanto osservata ma ora seguita, da qualcuno di cui avvertiva la presenza alle sue spalle. Quel segnale psichico era sempre intenso quando raggiunse la scala di pietra e si avventurò su di essa. I gradini erano più alti di quelli che avrebbero usato degli esseri umani, lisci come specchi, e non c'era nessuna ringhiera a cui aggrapparsi se fosse scivolata. Colta dal batticuore, proseguì sulle mani e sulle ginocchia, e allorché giunse alla sommità della parete stava sudando e aveva il fiato mozzo. L'impulso emotivo che riceveva adesso era un freddo e severo proposito, in allontanamento da lei lungo il bordo della gola. Lo seguì sotto gli alberi, tenendo sul naso le spesse lenti bulbose attraverso cui tutto le appariva grigio e piatto, granuloso a causa dell'ingrandimento, al punto che sentiva più che vedere gli oggetti entro la portata del suo braccio: il tronco di un albero, un rampicante penzoloni, rami e foglie con la consistenza del cuoio che le si materializzavano quasi a contatto del volto. Ed era acutamente conscia che le creature che stava seguendo erano cacciatori notturni, carnivori e pericolosi. Di sicuro loro vedevano benissimo dove mettevano i piedi, scegliendo i tratti aperti o il cornicione erboso della gola, mentre Dorthy arrancava nella stessa direzione fra i cespugli, più che altro con il solo aiuto del suo Talento. Malgrado ciò i mandriani continuarono a non accorgersi di lei, e quando infine si fermarono, Dorthy riuscì a spostarsi sul tratto dove cresceva solo erba, sul bordo del cratere, scoprendo che si trovava a poca distanza da una delle tre torri di sostegno: quella stessa su cui Andrews s'era arrampicato qualche ora prima. Era materiale freddo, e anche gli occhiali a infrarossi
non le consentivano di vederne che un sottile e vago riflesso. Accanto alla torre quattro mandriani - maschi, ma non «nuovi maschi», e stranamente tranquilli, con qualcosa di casto e verginale - s'erano disposti a formare un quadrato. E nel centro del quadrato c'era una luce. Strani lucori giocavano sul loro pelame nero, scivolavano sui cappucci di pelle mollemente chiusi intorno ai volti stretti, si riflettevano nei grandi occhi liquidi. Attraverso le lenti Dorthy vide, abbaglianti e amplificate, lunghe strisce di luce rossa e arancio che si torcevano in riccioli sinuosi lungo i quali salivano e scendevano noduli di un azzurro vibrante. A tratti rapide scintille guizzavano alte nell'aria, per dilatarsi e svanire nell'attimo stesso della loro formazione. Poco dopo uno dei mandriani allungò un braccio robusto entro le luci, ed esse si congelarono per un momento; poi assunsero uno schema diverso, mentre i noduli azzurri si radunavano di lato. Il cavo che partiva dalla cima della torre cominciò ad accorciarsi, e l'ombra dell'apparato ricevente al centro del cratere si mosse nel più completo silenzio contro lo sfondo del cielo. Dorthy attese finché l'oggetto tornò immobile, quindi alzò lo sguardo verso le costellazioni, non troppo diverse da quelle che si vedevano dalla Terra. Andrews lo aveva detto: quindici anni luce non erano una grande distanza nell'immensità della galassia. Anche lì la Croce del Sud e il Sagittario brillavano all'interno del fiume di pulviscolo latteo che percorreva tutto l'arco del cielo... naturalmente. I mandriani si sedettero e continuarono a fissare i mutevoli arabeschi di luce colorata. Dorthy si sentiva trascinare nella loro comunione mentale, lentamente, irresistibilmente, come una pianta eliotropica incapace di non girarsi verso il sole. E tornò in sé quasi un'ora più tardi, con le gambe indolenzite da crampi. Per tutto quel tempo non aveva battuto ciglio, come i mandriani. Li vide allontanarsi senza rumore lungo il bordo di roccia, in direzione della gola, senza che nessuna luce salvo i vaghi riflessi dell'erba li guidasse. Sapeva (e sapeva non soltanto questo) che avrebbero fatto ritorno, e che la prossima volta con essi sarebbe venuta la loro padrona. Non dovette andare lontano per ritrovare lo spazio che Andrews aveva aperto fra i cespugli, e fu lieta di potersi togliere gli occhiali, distendersi sull'erba e massaggiare un poco le gambe indolenzite. Gli insoliti concetti che aveva assorbito dai mandriani le roteavano nella testa come uccelli in gabbia, ed era così intenta a riesaminarli che non si accorse del ritorno di Andrews finché non lo sentì spostare gli sterpi. Ebbe subito l'impressione
che qualcosa stesse andando male. Lui le si accovacciò accanto, un'ombra massiccia nel buio della piccola depressione. — Ti ho visto seguire quei mandriani fin quassù — le disse. — Hai scoperto che razza di posto è questo? Dorthy si mise di nuovo gli occhiali a infrarossi. Andrews divenne una granulosa immagine grigia sullo sfondo piatto dei cespugli. Innervosita rispose: — Quelli erano soltanto servi, maschi, ma non nuovi maschi. Penso che li si possa definire neutri, in un certo senso. Stavano effettuando una manovra preparatoria; l'allineamento dell'antenna, per la precisione. Chiunque domini questo posto, il tuo Grande Boojum, verrà lassù più tardi. — Esitò, ma non poteva fingere di ignorarlo. — So cos'hai fatto. Era la prima volta che gli rivelava di aver spiato i suoi pensieri, e vide che malgrado l'eccitazione e la fiducia in se stesso Andrews s'irrigidiva. — Perché lo hai ucciso? — gli chiese. — Se mi leggi nella testa, sai anche la risposta. — Ora stai deliberatamente confondendo i tuoi pensieri. Dimmelo a voce. — Non cerco affatto di tenerlo segreto. Stava facendo qualcosa al grosso rampicante che avevo tranciato. Io ero chino fra l'erba e a causa sua non potevo muovermi per venirti dietro. Comunque avrebbe potuto vedermi e dare l'allarme da un momento all'altro, così gli ho sparato. Ma non preoccuparti, ho nascosto il corpo e non lo troveranno tanto presto. — Credo che il Grande Boojum abbia seguito ogni nostro passo fin da quando siamo scesi dall'aereo — disse lei. — Be', poco importa, dal momento che ho già saputo tutto quel che avevo bisogno di sapere. Quegli edifici laggiù fra gli alberi non sono collegati a nessun complesso sotterraneo, perciò nel ripulire la zona non ci saranno difficoltà. — Ripulire? — Spazzare via. Bombardare, dottoressa Yoshida. Un piccolo ordigno a neutroni non farà danni alle strutture del radiotelescopio, ma ucciderà i mandriani. E il Grande Boojum, se esiste. — Capisco. E cosa ne è stato della tua retorica sulla ricerca della verità, sul buon successo del programma scientifico? — Avrà successo. Questo è il centro dei nostri problemi, come mi Hai confermato tu stessa. L'intelligenza, il Grande Boojum, è il cardine dell'ostilità del pianeta. Tolto di mezzo, la Marina sarà finalmente soddisfatta. Certo, sappiamo bene che la Marina non è molto delicata nei suoi approc-
ci, però non ha ancora i mezzi e l'esperienza per sviluppare una politica di più ampie vedute. Mettila di fronte a una minaccia e la sua risposta sarà una sola. Ma quando avremo cauterizzato il nervo e il dente non farà più male, tornerà ad essere ragionevole. E allora ci darà modo di completare il nostro lavoro. — Ma tu non sai cos'è che stai distruggendo! No, non puoi, non devi sacrificare tutto questo. Non quando io sto per sapere chi sono gli Alea, e perché sono qui, e da dove vengono... e ogni altra cosa che tu stesso vuoi conoscere! — Non c'è tempo, dottoressa Yoshida. Noi due non possiamo starcene qui per sempre. È troppo pericoloso. E inoltre, se il colonnello Chung ci desse per morti, agirebbe di conseguenza. Angel non aspetterà oltre il limite di trenta ore. No, bisogna sacrificare qualcosa. E tu cosa preferiresti: questa zona fertile o l'intero pianeta? Perché la scelta si presenta in questi termini. — Ma ci resta ancora un po' di tempo. Tutto potrà essermi rivelato molto presto, io lo so. — Tu lo sai — disse lui con voce piatta, sprezzante. — Sì, lo so. Hanno messo degli indizi nei miei sogni. Credo che volessero... — I sogni non sono fatti, dottoressa Yoshida. La Marina non può prenderli sul serio. L'intelligenza è qui, e questo è un fatto. Lo hai scoperto perché ha cercato di influenzarti, e benché io sperassi che tu avresti trovato altri elementi, credo di potermi accontentare di questo. Mi dispiace, ma la politica è l'arte del possibile, e io non sono abbastanza influente. Qualunque cosa valga la pena di imparare sui mandriani la apprenderemo nelle altre zone fertili... o l'arma che ha distrutto il campo di Ramaro non ti ha convinto? Comunque ha convinto me. E io sono dell'opinione che i mandriani, i custodi, siano i servi di qualcuno che si trova qui. Dopo che lo avremo eliminato, saranno innocui. Andrews parlava con tale fredda logica - anche se, più che credere di essere nel giusto, doveva crederlo - che Dorthy l'aveva ascoltato come ipnotizzata. Poi scosse il capo, stancamente. — Tutto quel che sai l'hai avuto da me. Sei un bastardo, Andrews. Attraverso le lenti a infrarossi il sorriso di lui le apparve come una contrazione su una maschera di granito. — Ciò che ti irrita di più è di non essere riuscita a leggermelo nella mente, vero? Ah, dottoressa Yoshida, Dorthy, io ho conosciuto alcuni Talenti, e mi sono fatto insegnare qualche
trucco. È così che la mia mente normale e priva di ogni Talento ha saputo ingannare la tua. Ma non prendertela. E adesso andremo... — D'improvviso allungò una mano per afferrarle un braccio. Ma Dorthy l'aveva già anticipato: forse lui poteva celarle un pensiero o due, però non tutti, e neppure gli impulsi nervosi che sprizzava attorno a ogni movimento. Prima che l'uomo riuscisse a prenderla s'era gettata all'indietro, rotolando via nell'intrico della vegetazione. Andrews imprecò e girò intorno ai cespugli per inseguirla, mentre lei correva via inciampando fra le radici. Tutto ciò che vedeva oltre le lenti era a due dimensioni e incolore, come antiche fotografie in bianco e nero che diventassero tridimensionali solo quando lei vi penetrava a braccia tese. Sentì che l'uomo la chiamava irosamente, qualche decina di metri più indietro, ma continuò a fuggire fra le piante e le rocce. Era più piccola di Andrews, poteva muoversi nella boscaglia con maggiore agilità, e sapeva sempre dov'era lui e quali fossero le sue intenzioni. La sua voce si fece lontana e fioca, incrinata ora da una nota di paura. Pochi minuti dopo Dorthy non la udiva più, e poi anche i pensieri di lui svanirono nella notte. Adesso era sola. Più tardi, nascosta fra i cespugli presso la fascia erbosa che contornava il cratere e in attesa che i mandriani tornassero alla torre di sostegno, Dorthy si sdraiò e lasciò vagare lo sguardo sulle stelle che riempivano il firmamento da un orizzonte all'altro. Direttamente sulla sua verticale c'era il Sagittario, e un po' più a destra il centro della galassia, il perno della ruota intorno a cui miliardi di stelle giravano lentissime. Stelle e stelle e stelle. E questa era soltanto una delle circa mille galassie del gruppo locale, scaraventate nelle circonvoluzioni dello spaziotempo dalla Grande Esplosione... mentre il gruppo locale era uno fra i milioni di altri nell'universo conosciuto. Che cos'erano i comportamenti umani, o l'esistenza stessa dell'uomo, di fronte a questo? Nulla, naturalmente. E nello stesso tempo qualcosa di prezioso. Le stelle erano stelle e nient'altro. Una donna poteva essere più grande, poiché aveva la capacità di trascendere se stessa. Anche un microbo poteva essere più grande, dato che trascendeva le semplici leggi della materia e dell'energia per dilatare la sua individualità in quelle più eclatanti della vita... Andrews sembrava ragionare dal punto di vista opposto: l'individuo aveva scarso valore a confronto del concetto globale di razza, e l'umanità doveva soprattutto mirare a espandersi fra le stelle. Come un'erbaccia? Dorthy ricordava una settimana di lavoro volontario sulla Grande Barriera Corallina, a staccare con i guanti le grosse stelle marine dai coralli.
Voraci e cieche divoratrici, che minacciavano lo stesso ambiente da cui traevano la vita. Il sogno di Andrews era quello di un'umanità che si gettava attraverso la galassia, avida soltanto di usarla per i suoi scopi. Nobili, certo, e se non ora forse in futuro. Ma l'umanità, e qui stava la contraddizione di Andrews, aveva tanti scopi quanti erano gli uomini e le donne, e inoltre ogni ideale che si fermasse al concetto di «scopo» avrebbe trovato il suo limite nel proprio egoismo. La materia era molto più facile da capire e da prevedere della vita, e questa era in fondo una delle ragioni che avevano attratto Dorthy verso l'astronomia. Io non posso vivere fra gente straniera. Forse stava cominciando a trovare un senso al biglietto di Hiroko. E ripensò a ciò che le aveva detto Arcady: lei s'era tagliata fuori dall'integrazione con gli altri perché non sopportava il rilassarsi dei confini interiori necessario a chi voleva inserirsi. Si girò a pancia sotto. In quel momento non voleva pensare ad Arcady o a Hiroko. Fra gli alberi della gola che sfociava nell'oscurità del cratere si scorgevano ora deboli luci. Raggi isolati che illuminavano qui un tratto di muro, là il bordo di una torre o le fronde violacee. Si chiese se Andrews fosse sceso laggiù, per mettere una pezza a quei principi morali che s'era quasi compiaciuto di trafiggere con la lama della sua logica, e si disse che era troppo testardo per farlo. Ma se era tornato da Angel Sutter, e se l'avessero abbandonata lì? Che valore avrebbe avuto la conoscenza, allora? A suo modo, però, Dorthy era altrettanto testarda di Andrews, anche se sapeva di mancare di molte delle sue capacità. Fin troppo spesso s'era ripetuta che il Talento era una maledizione, una stimmate che aveva cercato di cancellare dal suo corpo divenendo un'astronoma (e per non averlo sfruttato a fondo s'era trovata senza gli appoggi politici che le avrebbero evitato di finire lì). Ma ora, nel buio di quella boscaglia aliena, sentiva di averne bisogno, anche se deliberatamente aveva smorzato le sue capacità ricettive per il timore del pieno contatto con quella terribile mente luminosa che cercava la sua. E poi smise di ruminare quei pensieri e si infilò gli occhiali a infrarossi, perché il suo Talento le diceva che i mandriani stavano venendo al luogo dell'appuntamento. Riconobbe i maschi neutri dominati dallo schema, gli stessi quattro di prima. Ma ora fra essi c'era quella che li comandava, una mente fulgida come un laser fra le candele. Benché il suo Talento fosse sul punto di spegnersi, Dorthy sentì il pericolo di quella luce, anche se non era rivolta verso di lei. E finalmente capì perché la tecnologia era sopravvissuta su quel
mondo. La loro dominatrice era una femmina neutra. Pesante nei movimenti e sostenuta da due dei maschi, la femmina neutra avanzò a passi lenti e penosi fino alla torre, quindi con un grugnito stanco sedette sull'erba. Gli altri quattro si accovacciarono rispettosamente alle sue spalle, e nell'aria tornarono ad accendersi le fluttuanti strisce di luce rossa e arancione. Dorthy poté scorgere il volto dell'aliena: una fronte molto convessa, larghi occhi infossati, bocca piccola e in continuo movimento come se stesse masticando qualcosa, e un cappuccio di pelle piena di grinze che le ricadeva in molli pieghe sulle spalle massicce e pelose. Sopra la gigantesca coppa del cratere, nero sullo sfondo nero, il complesso ricevente appeso ai cavi cominciò a spostarsi con lentezza finché non fu — Dorthy lo sapeva — nel centro esatto, focalizzando così l'antenna dritta allo zenith. Verso il Sagittario, presso il cuore della galassia. Con un certo ritardo comprese allora che la cerimonia doveva essere già cominciata, e con tocco leggero, cautamente, spinse quel che restava del suo Talento a sfiorare il gruppetto di esseri seduti sotto la torre di sostegno. E quasi nello stesso istante fu scaraventata in un maelstrom. Era come se il suo cranio fosse stato spaccato in due e tutto l'universo vi precipitasse dentro. Gli astri la bombardavano, comete incandescenti esplodevano su verso di lei da un groviglio che si districava e si apriva, campi gravitazionali e nubi cosmiche le salivano incontro squarciandosi e roteando via alle sue spalle. Poi volò avanti oltre i veli di polvere che racchiudevano il centro. Là c'era qualcosa, una presenza attenta, e lei stava cadendo in quella direzione lungo le geodesiche deformate dello spaziotempo. La polvere sparì. Intorno a lei rifulgevano enormi stelle tormentate da anomali processi di fusione atomica; flussi di atomi pesanti contaminavano la pura armonia idrogeno-elio, idrogeno-elio, atomi emessi da novae e supernovae, spazzati via dalle stelle strettamente raggruppate che fiammeggiavano di maligna luce rossa, o azzurra, o bianca. Nane rosse ruotavano alla loro periferia, mentre i sistemi di stelle doppie e triple erano inferiori di numero a quelli composti da sei o sette astri legati in quelle distanze ristrette. A causa di ciò pochi avevano pianeti, e tuttavia l'implacabile ricerca non conosceva stanchezza. Era l'appetito insaziabile del verme diretto verso il cuore del frutto, l'appetito che divora perfino se stesso mentre il suo sguardo fruga e brama lontano. Dorthy si spinse via, rimbalzando fra quei soli alla deriva. Qualcosa la
fermò. Si sentì rimpicciolire sempre più in quella luce mortale, il cuore ingioiellato della galassia roteò via fra nuvole di polvere cosmica e lei ricadde dentro di sé, nei familiari confini del suo corpo. Una luce rossa le premeva sulle palpebre. Il sordo pulsare del mal di testa, un acre odore nelle narici. Dorthy emise un mugolio e aprì gli occhi. E rotolò all'indietro, fremendo di spavento in ogni muscolo del suo corpo. Seduto dall'altra parte della piccola stanza rotonda un mandriano la fissava con occhi impassibili. Le sue oscure pupille orizzontali erano opali congelati nell'ombra del largo cappuccio di pelle; riflessi di luce smeraldina come la carne sanguinante gli ornavano ogni ciocca della pelliccia nera. La percettività di Dorthy era chiusa nei limiti della sua testa. Durante quell'intervallo d'incoscienza l'effetto del contro-agente era finito. Indossava ancora la tuta termica, e nulla di ciò che aveva in tasca o appeso alla cintura sembrava esserle stato tolto, ma la sola arma di cui disponeva era il coltello. Niente che potesse esserle d'aiuto, salvo l'intuito e la volontà di sopravvivere. Appena il mandriano vide che era rinvenuta, si volse e sgattaiolò fuori attraverso una bassa apertura. Dorthy stabilì che l'avevano portata in una specie di cella, dalle pareti lisce e quasi sferica, illuminata da una luce rossa di cui non vedeva la sorgente. Era come trovarsi all'interno di un grosso uovo. Da lì a un minuto il mandriano, o un altro con lo stesso aspetto, entrò di nuovo. Con un gesto delle dita lunghe e rigide - tre, prensili, che davano alle sue mani l'aspetto di artigli - le ordinò di precederlo fuori dalla piccola apertura. Dorthy dovette mettersi a quattro zampe per uscire, la stessa posizione che il mandriano assunse alle sue spalle. Si trovò in un locale spoglio, chiuso fra muri dalla cui sommità scaturivano strisce di luce mobili e sinuose. Sopra di esse Dorthy non vide che il buio, mentre al suolo la sua ombra si torceva in cento forme diverse. Il mandriano la spinse avanti. Lei si scostò dalla sua mano. — E va bene, dannato bastardo! Fammi vedere dove devo andare, d'accordo? Come se avesse capito, il mandriano le passò avanti e fece qualche passo, si volse a controllare che lei lo seguisse e quindi la precedette lungo stretti passaggi, gradini e svolte fra pareti lisce. C'erano alberi che crescevano dalla pavimentazione nera, chiusa attorno alla loro base senza una crepa, e quando le strisce di luce rossa sotto cui camminava erano maggiormente spaziate Dorthy notò sopra di esse rami d'albero e quello che
forse era il cielo. Non vide altri mandriani, ma qua e là erano accucciate creature vagamente simili a scimpanzé, con lunghe code biforcute e pelame argenteo, che li guardavano passare tenendosi il mento fra le dita di una zampa, come studiosi dinnanzi a un'improvvisa meraviglia venuta a distoglierli da altri profondi pensieri. Poi svoltarono un angolo e Dorthy seguì la sua guida in uno spiazzo quadrangolare, a ogni lato del quale si alzava una torre cilindrica. Sul lato più lontano era riunita a semicerchio una piccola folla di mandriani, alcuni seduti al suolo, altri in piedi, silenziosi e con le due paia di braccia strette intorno al torace. Tutti gli occhi erano fissi su di lei, mentre veniva condotta al centro del piazzale. Lì era seduta la grossa femmina neutra, sgraziata nella sua pesante immobilità. Una delle creature scimmiesche le stava appollaiata sulla spalla sinistra e frugava pigramente nella sua peluria con dita ricurve. Il Talento di Dorthy era bloccato dall'impianto, e solo i normali cinque sensi collegavano la sua mente all'esterno; malgrado ciò le parve che quella creatura fosse circondata da una specie di aura, densa di energie come l'atmosfera di una stella, sprizzante da centinaia di sorgenti e nell'insieme suddivisa in due lobi che pulsavano intorno a un centro comune. Senza che ci fosse alcun segnale, uno dei mandriani alle sue spalle si fece avanti a passi incerti. Aveva un aspetto malato, il cappuccio grinzoso, la peluria opaca e appiccicosa. Scosso da fremiti, spostò lo sguardo da Dorthy alla femmina neutra, e poi parlò. Aveva una voce acuta, un po' troppo rapida, che incespicava sulle consonanti, ma la lingua in cui cominciò a esprimersi era umana, un portoghese quasi perfetto e comprensibilissimo. — Ti parlerò attraverso questo servo. Egli ha imparato il vostro modo di esprimersi, pagando questo sforzo con la sua salute, ma era necessario. Benvenuta nella mia dimora. So che sei un'astronoma. Forse potremo imparare molto l'una dall'altra durante la nostra conversazione. Ti prego di capire che ora conosco voi umani. — Allora devi anche aver capito che non vogliamo farvi del male — disse Dorthy, cercando di tenere la voce ferma. Aveva sempre voluto pensare che la morte non era uno spauracchio per una come lei, ma soltanto un passo verso un riposante silenzio, e ora scopriva quanto desiderasse vivere. La femmina neutra la guardò. Benché fosse seduta, e neppure troppo eretta, davanti a Dorthy che era in piedi, i loro occhi erano allo stesso livello. Anche la creatura scimmiesca che le pettinava la peluria con una mano
la stava fissando. — Non tu, forse — fu la risposta. Se c'era dell'ironia, andò perduta nella traduzione che uscì dalla bocca del servo. — Noi abbiamo cercato di stabilire un contatto, in un'altra zona fertile. I due emisferi d'energia invisibile si dilatarono per un attimo. — Lo so. Naturalmente i miei fratelli e sorelle non volevano aver niente a che fare con voi, perché non potevano capirvi. E i loro figli mutati, che vi capivano, hanno desiderato distruggervi. — Ma tu ci conosci. Tu ci capisci. Posso chiedere perché... D'improvviso un groviglio di luci arancione si contorse nell'aria davanti alla femmina neutra, che allungò in quello schema immateriale una delle sue mani a tre dita e la agitò un poco. E nel piazzale echeggiò una cacofonia di voci umane. Il traduttore rabbrividì. Sulle strisce luminose nacquero scintille azzurre. La femmina ne toccò una, ed essa brillò più vivida, poi tutte le voci si smorzarono e rimase soltanto quella di una donna che stava elencando una lunga serie di numeri. — No, puntalo a due zero tre sull'azimuth, altrimenti lo avrai su tutto l'emisfero illuminato. Capisci? — disse la donna, e poi riprese a enumerare cifre. La femmina neutra mosse ancora la mano e il disegno di luci si spense. Le voci tacquero. — Molto tempo fa — disse il traduttore, — una delle mie sorelle costruì meccanismi analitici per osservare il cielo. Essi furono conservati, per una ragione che non vale la pena di ricordare, e quando la vostra flotta arrivò io li regolai perché studiassero la lingua in cui vi esprimete. Il mio povero fratello, qui, ne ha assorbito i risultati. Avrai capito che i vostri sistemi di comunicazione non mi sono inaccessibili. Il movimento di un elettrone sposta istantaneamente le orbite di miriadi di altri in tutto l'universo. In questo modo ho imparato molte cose, certo, ma ho poi ottenuto un documento religioso che mi ha fornito la chiave per la comprensione della vostra razza. — Religioso...? — Se nel leggerlo ho compiuto un atto blasfemo, ti chiedo scusa. Ma era necessario per capirvi. Le comunicazioni mi fornivano dati isolati dal contesto culturale. Ora te lo restituisco. — Di nuovo non ci furono segnali, ma un mandriano si fece avanti e depose un oggetto ai piedi di Dorthy. Mentre lui tornava al suo posto fra i compagni, Dorthy si chinò a raccoglierlo. Un libro. Il suo libro, quello dei sonetti, che era andato perduto quando i vermi avevano distrutto l'accampamento. Ma vide poi che non si trattava del suo libro: era un facsimile assai particolareggiato, con pagine
non di carta bensì in materiale non identificabile su cui la stampa sembrava fatta a laser. La copertina era in una specie di cuoio rigido, tuttavia segnata da un'imitazione della macchia che lei vi aveva fatto tre anni prima, al Fra Mauro, poggiandoci sopra un bicchiere di vino. I Sonetti. William Shakespeare. — Sei giunta alla comprensione grazie a questo? — chiese Dorthy. — Ora capisco un poco di ciò che voi umani cercate, forse. Naturalmente è un racconto mistico, ma i meccanismi analitici ne hanno rivelato i significati. — A gambe incrociate, le braccia inferiori chiuse sul petto, la femmina neutra aveva qualcosa dei Buddha che si potevano vedere in molte città della Terra. Fra distaccata e compiaciuta. Dorthy chiese: — Perché hai voluto che io venissi qui? Sei stata tu a trasmettermi quei sogni, non è vero? E hai ordinato a quel nuovo maschio di catturarmi, sulla torre... tu mi volevi morta, e ora vuoi che io viva. Ma cosa vuoi da me? Ci sono altre come te? — Non più. Io sono l'ultima di una discendenza di guardiane di questo mondo. Presto non ne serviranno altre. — I due emisferi dell'aura si unirono e si separarono, mentre in essi roteavano scintille come sciami di mosche improvvisamente disturbate. — L'ultima di una discendenza? Hai una famiglia? I mandriani sono tuoi parenti? Il traduttore alzò la testa ed emise un ululato, sottile e vibrante. La femmina neutra non si mosse, a parte una contrazione delle piccole mani inferiori strette al petto. — Il termine «nuovi maschi» è quello che voi umani usate per i figli mutati, credo. Sì, ho sovrimpresso uno schema a uno di loro. Volevo che i figli vi vedessero per ciò che siete: un pericolo, è così, il pericolo più grande che questo mondo abbia mai affrontato. Accanto a Dorthy il mandriano che aveva funto da suo carceriere si alzò in piedi e gentilmente, ma con fermezza, la afferrò per un braccio e la fece voltare, intanto che il traduttore concludeva: — Ti saranno date delle informazioni. Accettale. — Aspetta! — esclamò Dorthy mentre veniva portata via. — Non mi hai ancora detto niente! Cosa volete da me? Ma il servo abbassò il capo e non disse altro, e la ragazza fu condotta di nuovo attraverso il dedalo di passaggi sovrastati dalle fronde degli alberi. Si chiedeva cos'avesse voluto dire la femmina neutra definendo i sonetti un racconto mistico. Non c'era niente in essi che parlasse della razza umana: erano per lo più scritti autobiografici di Shakespeare e riguardavano i suoi
sentimenti verso il suo mecenate, il Conte di Southampton, e la donna che lui era stato accusato di aver fatto sposare al Conte, una cortigiana di nome Emilia Lanier, la quale era anche la sua amante. Quel triangolo in cui si mescolavano le geometrie dell'amore, del potere e della colpa, aveva dato origine ad alcune delle più belle poesie della perduta vecchia Inghilterra. Malgrado tutto era durato a lungo, e in quei versi erano riflesse le eterne profondità della mente umana. Ma definirli mistici...? Dorthy non riusciva a rammentare un brano che potesse esserlo. Anche le meditazioni sull'ineluttabilità della morte e la fine dell'amore erano espresse in termini concreti. Thus in his cheek the map of days outworn, When beauty liv'd and died as flowers do now... Il mandriano le premette sulla testa con le dita per incitarla a chinarsi e a entrare nella cella, poi la seguì in quell'ambiente cavo saturo di luce rossa. Aprì una mano, e Dorthy vide che aveva sul palmo un batuffolo di filo sottile. D'un tratto il mandriano glielo tirò in faccia. Nello stesso istante in cui il batuffolo le toccava la fronte, i suoi muscoli cedettero e si sentì piegare le gambe. Con occhi ormai storditi e vacui vide il filo svolgersi, aprirsi a irretirle la testa, e avvertì miriadi di piccole punture nel cuoio capelluto. Poi il mandriano e la cella sembrarono rimpicciolire via all'infinito. C'era una stella. Stavolta era lei il centro della visione, e ciò che le dava forma scaturiva da qualche recondita parte della sua mente. La conoscenza nasceva insieme alle immagini stesse. Vedere era capire, ogni oggetto nel proprio contesto. E per cominciare, c'era una stella. Era una supergigante rossa, con un diametro tremila volte maggiore di quello delle comuni stelle gialle come il Sole, tanto rarefatta da essere poco più di un vortice d'energia radioattiva in continua evoluzione. Da lì a dieci milioni di anni sarebbe diventata una variabile cefeide, mentre il suo strato esterno avrebbe consumato l'idrogeno racchiudendo con uno schermo sempre più spesso le reazioni del nucleo, finché una decompressione esplosiva non l'avesse fatta di nuovo espandere dando inizio a un ciclo successivo non molto dissimile. Ma era vecchia miliardi, non milioni, di anni, perché la zona in cui si trovava era il cuore della galassia, entro nubi di polvere cosmica ed a! centro dell'irradiazione di molte supernovae che la investivano con fiumi di energia libera, da cui la stella veniva alimentata e rinnovata. Era una stella pulsante, ma nella sua variabilità era stabile,
poiché i drammatici eventi gravitazionali che sconvolgevano le stelle del centro galattico non avevano alcun effetto sulla sua massa così ampia e rarefatta. Lungo gli eoni la supergigante aveva radunato intorno a sé un'eterogenea famiglia di pianeti, come anche una nana rossa il cui cuore collassato ardeva debolmente emettendo molta luce infrarossa e radiazioni dure. Fra questo insieme di satelliti ruotava un pianeta delle dimensioni della Terra, con il suo piccolo bagaglio di acqua e di atmosfera, di ossigeno e di vita. Era il pianeta d'origine dei mandriani, gli Alea, il Popolo. Nella sua visione Dorthy vide strane e fiere civiltà sorgere ogni volta che la supergigante passava attraverso una zona di alta compressione della polvere cosmica; vide i figli dei mandriani compiere la metamorfosi diventando maschi intelligenti, in risposta all'aumento di radiazioni locali, e sopravvivere solo abbastanza da consentire ai loro indolenti genitori di non estinguersi durante i periodi di maggiore attività della stella pulsante. E poi la civiltà e le brevi guerre territoriali si spegnevano; i mandriani tornavano al loro antichissimo sistema di vita nomade conducendo con sé i figli vermiformi (dei quali uno su cento sarebbe rimasto vivo dopo la rigorosa cernita in cui i mutanti venivano eliminati) e riprendevano a cacciare fra l'occhio scuro della nana rossa e quello assai più caldo della supergigante, che pur distando mezzo anno luce dal pianeta dominava il cielo. Il suo immane disco vermiglio si stagliava sulle nubi di polvere che rendevano invisibili tutte le altre stelle, salvo ogni tanto una nova o una supernova che ardevano per breve tempo oltre quegli spessi veli. E poi tutto cambiò. Dorthy vide una scintilla azzurra nascere e crescere in quel cielo opalescente, e seppe che era una supernova, distante neppure una dozzina di anni luce dal perimetro delle nubi di polvere. Con l'aumentare della luminosità giunse una pioggia di radiazioni dure, e subito dopo, assai più mortali, grandini di nuclei atomici privati degli elettroni e accelerati alla velocità della luce. Perfino di giorno il cielo era terribilmente striato di aurore boreali verdi e bluastre, mentre le nubi di materia interstellare avvampavano e il disco della supergigante rossa s'incancreniva di eruzioni nel fiammeggiante contagio della supernova. Come sempre, i figli dei mandriani compirono la metamorfosi in risposta all'aumento di radiazioni, ma stavolta essi stabilirono che l'instabilità avrebbe potuto durare per secoli e finire con il distruggere la loro grande stella. Con riluttanza cominciarono a evacuare il pianeta. Misero in movimento uno sciame di asteroidi che s'erano radu-
nati nel punto di equilibrio fra la supergigante e la nana rossa, e li spinsero su un'orbita stazionaria intorno a quest'ultima. Qui gli asteroidi furono forniti di gravità artificiale, svuotati all'interno, e poi riforniti con ciò che restava della flora e della fauna del pianeta natale, ormai già arso dalle radiazioni e sterilizzato fin quasi al fondo degli oceani. Nel frattempo la furia della supernova era assai diminuita, ma la superficie della supergigante stava collassando, e perfino l'inerte nana rossa mostrava qualche anomalia. Una dopo l'altra le famiglie dei mandriani decisero di andarsene, e si mossero nell'unica direzione in cui erano certi di trovare altre stelle a loro adatte: verso il cuore della galassia. Dorthy sentì trascorrere un milione di anni di monotona ricerca in pochi secondi, mentre prima l'una e poi l'altra le arche costituite dagli asteroidi completavano il loro lungo viaggio trovando nuovi sistemi nell'affollato centro della spirale: tutte nane rosse, poiché in quel fitto scrigno di astri preda di forze immani soltanto le nane rosse erano abbastanza stabili. Molti furono i pianeti trasformati, resi fertili e adatti alla vita, e una volta stabilizzati gli ecosistemi, i mandriani tornarono alle loro usanze primordiali. I figli che sopravvivevano alla cernita diventavano, dopo la metamorfosi, comuni mandriani, e la civiltà scomparve di nuovo. Dimenticati, gli asteroidi-arca continuarono a circolare nelle loro orbite di parcheggio. Ma una famiglia, una delle ultime che avevano lasciato il pianeta natale, era ancora alla ricerca di un sistema solare accogliente, e per poter proseguire l'esplorazione decise di creare una nuova casta: femmine neutre, che avevano la possibilità di vivere a lungo e di vigilare sui mandriani per preservare la civiltà. E quella famiglia colonizzò non uno ma dozzine di mondi, espandendosi in un arco attorno al cuore della galassia, senza tuttavia uscire dalla polvere cosmica che saturava metà di quelle regioni. Le femmine neutre delle sue nuove colonie furono le prime a notare le alterazioni nella costante solare delle nane rosse nel centro galattico: perturbazioni violente in stelle ritenute stabili, e i cui sistemi erano stati colonizzati da altre famiglie. Da dozzine di mondi furono mandate spedizioni a investigare sugli effetti di quelle anomalie, ma poche fecero ritorno e anche queste con gravi perdite. Esse riferirono di distorsioni nel continuum spazio-temporale, di afflussi d'energia attraverso falle nella stessa struttura del cosmo, di mondi appena resi sterili e sorvegliati da flotte di piccole astronavi fortemente armate. Su alcuni pianeti le femmine neutre, decise a resistere, organizzarono armate di figli mutanti; altre invece scelsero di fuggire, allevando anch'esse tutti i figli mutanti ma usandoli per costruire
nuove arche. Uno dopo l'altro gli asteroidi trasformati in piccoli mondi chiusi partirono in quelle regioni fittamente stellate, senza cessare di tenersi in contatto con i pianeti che avevano optato per combattere. Fra questi, uno degli ultimi a cedere all'attacco riuscì finalmente a identificare gli invasori: non erano affatto una razza straniera, bensì una famiglia del Popolo che aveva assorbito la tecnologia di altre creature scomparse da tempo. Ed ora questa famiglia s'era gettata alla conquista di tutti i mondi colonizzati dagli Alea, ripulendoli dagli abitanti con il crudele espediente di mandare fuori fase le stelle, per poi inseminarli e popolarli di nuovo. Nel frattempo le arche fuggivano verso l'esterno, lasciandosi alle spalle una guerra su scala interstellare che poteva sempre raggiungerli, poiché gli invasori si espandevano rapidamente e annientavano uno dopo l'altro i pianeti che avevano opposto resistenza. Ma presto la loro velocità superò un terzo di quella della luce, ed a questo punto nessun attaccante avrebbe potuto insidiarli senza incappare nelle distorsioni relativistiche dello spazio. Fu allora che oltrepassarono per la prima volta i confini delle nubi di polvere cosmica, e con immenso sbalordimento emersero in una zona di cui non avevano sospettato l'esistenza: i bracci della spirale galattica, dove ruotavano lente e ben distanziate miliardi di stelle. Come meteore saettanti nel cielo notturno le arche accelerarono in quell'immenso spazio libero, disperdendosi fra gli innumerevoli astri senza nome. Dorthy vide una di quelle navi di roccia, un asteroide dirupato e di forma irregolare, che giunto al termine di un viaggio più lungo della storia umana si immetteva in un'ampia curva, e dopo un secolo di decelerazione entrava in orbita attorno a una pallida nana rossa. Il pianeta scelto per la colonizzazione era così vicino a quel sole che la sua gravità ne aveva fermato il moto rotatorio, e quasi tutta la sua atmosfera giaceva congelata sull'emisfero voltato in permanenza verso la notte cosmica. Habitat temporanei furono costruiti con il materiale dell'arca e messi in orbita vicino alla debole stella. Sotto la guida delle femmine neutre i figli distesero una fragile rete intorno al pianeta, usando il sistema propulsivo dell'asteroide. Esso agiva sulla massa, non sul semplice momento d'inerzia bensì alterando i legami fra la struttura della massa e il resto dell'universo. L'arca era stata spinta a una velocità quasi prossima a quella della luce con un consumo di energia pari a quello che sarebbe occorso per bollire pochi ettolitri d'acqua, anche se altre forze erano intervenute per pareggiare i conti con la seconda legge della termodinamica.
Un giorno, dunque, il sistema propulsivo era stato attivato e per un momento attorno al pianeta aveva brillato una ragnatela di luce abbagliante. Quando essa s'era spenta, una frazione della sua massa non esisteva più; s'era trasformata in energia, producendo una spinta che aveva tolto quel mondo dalla sua orbita per dirigerlo verso un'altra, accuratamente calcolata e assai più vicina al sole. Il resto della planiformazione, benché fosse su scala più ridotta, aveva richiesto molti secoli. Asteroidi di ghiaccio, distolti dalle orbite dei giganti gassosi più esterni del sistema e fatti precipitare sul pianeta, avevano disperso nell'atmosfera grandi quantità di vapor d'acqua e dato il via a piogge decennali, da cui erano nati mari dal fondale basso ma già adatti alla vita. I grandi vulcani nati lungo i varchi apertisi nella crosta planetaria avevano immesso molte sostanze chimiche e altro vapore nell'atmosfera, e le acque furono seminate con batteri fotosintetici generatori di ossigeno. Al termine del processo l'ecosistema di flora e fauna dell'arca era stato messo a dimora sulla superficie. Pian piano, un pianeta che era esistito soltanto come roccia insignificante s'era trasformato in una casa per la vita: P'thrsn. Ma prima che i coloni si trasferissero sul nuovo mondo, fra le femmine neutre era scoppiata una disputa. Alcune di esse avevano già protestato contro l'eccesso di energia che s'era dovuto liberare durante la planiformazione, e infine determinarono che l'atto di spostare il pianeta dall'orbita aveva lasciato nel continuum una traccia rilevabile da grande distanza: teoricamente essa avrebbe potuto essere seguita dalla famiglia di Alea traditori che tante migliaia di anni prima s'era scatenata alla conquista del centro galattico. E nel suo nuovo paradiso la famiglia appena giunta intendeva tornare all'antico schema di allevamento e di caccia; perciò, se i traditori fossero piombati su una società così regredita, sarebbe occorso troppo tempo per preparare la difesa. Quella scoperta diede origine a una breve ma cruenta guerra. Le femmine neutre e i figli già scesi nelle foreste di P'thrsn erano stati bombardati con asteroidi ad alto contenuto metallico, a suo tempo lasciati in orbita per fornire materiale da costruzione. Quei tremendi impatti avevano decimato gli ancora fragili ecosistemi, e avvolto il pianeta in spesse nubi di polvere. Nella confusione che era seguita i ribelli avevano preso possesso dell'arca, e non avendo il tempo di rimontare il sistema propulsivo principale s'erano allontanati a bassa velocità, in cerca di un sistema senza pianeti da usare come base, dove i figli sarebbero rimasti intelligenti poiché la tecnologia era necessaria a far sopravvivere la loro famiglia, e dunque occorreva un
esercito in perpetuo allarme... C'era dell'altro, ma il sogno si spezzò e svanì prima di giungere alla conclusione. Dorthy fece ritorno alla coscienza, e il suo fu un risveglio spiacevole: una mano rude le tappava la bocca, e un'altra le teneva le braccia imprigionate dietro la schiena. — Non muoverti! — sibilò la voce di Andrews. Ci fu una pausa di silenzio teso. Ancora disorientata, Dorthy sentì il sapore del palmo sudato di Andrews, caldo e salato come burro rancido: sudore gaijin. Con i rimasugli del suo Talento poteva percepire il filo tagliente che in lui era la paura: una specie di selvaggia disperazione. — Dobbiamo andarcene — l'uomo la lasciò. — Avanti, muoviti. — Tu sei pazzo! — sussurrò Dorthy, massaggiandosi i polsi. Era seduta sul pavimento, e accanto a lei si stavano contraendo i resti calpestati della rete di filo che l'aveva nutrita con la saga dei mandriani, il Popolo, gli Alea. Andrews la fisso, accigliato. — Cosa ti hanno fatto? — Mi stavano dicendo da dove sono venuti, e perché. Ora lo so. Ma avrei voluto scoprire per te anche tutto il resto. Sono qui per nascondersi, Andrews. Si stanno nascondendo a un ramo della loro stessa razza che è giunto in possesso di armi e di energie terribili. Non ho ancora capito bene altri aspetti della situazione, ma ho incontrato la femmina che li governa, e credo che in lei ci sia qualcosa di sbagliato, come due fazioni opposte che si combattono nella sua mente. Se tu non mi strappavi via quei fili, forse avrei scoperto perché si sta comportando in questo modo. Andrews raccolse il fucile. — Mi sarei aspettato almeno una parola di ringraziamento. Ho rischiato la vita per venire a tirarti fuori da qui. E forse inutilmente, se non ci muoviamo subito. Sei in grado di camminare? Lei rispose di sì, ma quando fu in piedi si sentì girare la testa e per qualche istante i suoi occhi furono offuscati da un brulicare di puntolini luminosi. Vedendola vacillare Andrews la sostenne, e poi fu sollecito nell'aiutarla a uscire dalla scomoda porta; ma una volta fuori lei si scostò dalle sue mani con un ansito: — Cosa... perché hai fatto questo? Perché? — Direi che è piuttosto ovvio — rispose freddamente lui. Dorthy aggirò il cadavere del mandriano, passandosi una mano sulla fronte per scostare una ciocca di capelli. Le sue dita scivolarono sul sangue che le stava colando da molte piccole ferite, e si rese conto che Andrews doveva averle strappato via la rete dal cuoio capelluto. Si sentiva ancora
collegata ai residui di quella trance, quasi che il mondo materiale fosse appena uno strato sopra una realtà più profonda dove alla percezione si univa la comprensione. Scosse il capo. — Lo hai ucciso. Era necessario? Invece di rispondere, lui la afferrò per un braccio, irritato nel sentirla fare resistenza. — Ti avevo detto che qui le cose non stanno come credi — continuò lei. — E credo che potrei scoprire tutto di loro. Ascolta, se potessimo capire gli Alea, ci sarebbe il modo di comunicare, di accordarci. Non è meglio così che cercare di distruggerli? — Non essere ingenua. Tu non puoi cambiare la Marina. Questi esseri hanno già ammazzato più di trenta persone, o te ne sei dimenticata? Ora sei sotto il loro influsso. Dio sa cosa ti hanno fatto alla testa, con quella cosa. Da come ti comporti vedo che non sei in grado di pensare con chiarezza. — Le diede uno strattone. — Adesso andiamocene! — È troppo tardi — disse lei, sentendo l'avvicinarsi dei mandriani, cinque o sei, ancor prima che comparissero da dietro l'angolo. Andrews imbracciò il fucile, ma nello stesso istante Dorthy seppe quello che doveva fare: con entrambi i pugni colpì l'arma da sotto in su mentre lui sparava, e la pallottola si perse fra i rami degli alberi. Andrews non ebbe neppure il tempo di imprecare, né di spingerla da parte per riprendere la mira. I mandriani furono loro addosso, li separarono, strapparono il fucile dalle mani di Andrews e quando lui cercò di fare resistenza lo immobilizzarono a forza contro una parete. I due esseri umani furono costretti a camminare lungo gli esigui passaggi fra i muri, con un paio di mandriani davanti e altri tre alle loro spalle che li spingevano avanti. Dorthy cercò di convincere Andrews dell'importanza di parlare con la femmina neutra, gli riassunse ciò che aveva saputo sulla loro storia e insisté sulla dicotomia nella mente di lei. — I suoi pensieri vanno in due direzioni diverse — cercò di spiegare. — È come se sapesse che sta progettando qualcosa di sbagliato. — Ah, sì? E cosa sta progettando? — bofonchiò lui. Era depresso, e il fatto che non lo avessero ancora ucciso non sembrava sollevarlo molto. Gettò un'occhiata nervosa a un gruppetto di scimmie dalla coda biforcuta. — Questo non lo so, ma penso che voglia dirmelo. Mi è stato mostrato come hanno planiformato questo pianeta, Andrews, come lo hanno spostato per farlo girare così vicino al sole! — Ripensandoci, si chiese cosa ne fosse stato del sistema propulsivo dell'arca. — Quando la Marina è arrivata qui non ha trovato niente in orbita?
— In orbita? No, non credo. Ora ascolta — disse lui, — non voglio biasimarti per ciò che hai fatto. Loro ti hanno lavato il cervello, e non è colpa tua se non te ne accorgi neppure. Ma ormai non ha più importanza. Qualunque cosa questa femmina neutra stia macchinando, la Marina entrerà in azione fra quindici, massimo venti ore da questo momento. E allora sarà la fine per noi e per i mandriani, sempreché non ci ammazzino prima. — C'è ancora una possibilità — insisté Dorthy, ma non ne era più tanto sicura. E se qualche sottile cambiamento fosse stato davvero insinuato in lei mentre era sotto l'influsso della rete di filo? E se aveva sopravvalutato la sua capacità di analizzare ciò che era sepolto nella mente della femmina neutra? Da ragazzina l'avevano addestrata a identificare le neurosi nascoste nella psiche dei pazienti condotti all'Istituto, ma qui il caso era diverso. Eppure non poteva aggrapparsi a nient'altro. Li stavano portando al piazzale. Dorthy tolse di tasca il dispensatore e inghiottì un'altra pasticca di contro-agente. Andrews lo notò, ma non fece nulla per impedirglielo. — Se vedrò un modo di uscire da qui — disse, — ci proverò. E stavolta farai meglio a non cercare di fermarmi. Dorthy non rispose. Percepiva in lui ancora un po' di paura, ma non concreta e immediata come la sua, ed era deciso ad agire. Alla resa dei conti era uguale a tutti gli altri Dorati: incapace di credere veramente che anche lui poteva morire. Perfino mentre entravano nel piazzale fra le quattro torri cilindriche quella convinzione inconscia trapelava da lui, e i suoi timori restavano superficiali come i riflessi del sole su un mare profondo. Intanto che Andrews si guardava attorno, il mandriano che fungeva da traduttore si fece avanti, con il volto quasi nascosto dal suo floscio cappuccio di pelle grinzosa, e disse: — Spero che tu abbia potuto apprendere abbastanza prima di essere... interrotta. Nel sentirlo parlare Andrews s'era voltato di scatto, mascherando il suo stupore dietro un'espressione di sfida. Per un momento Dorthy vide quella scena attraverso gli occhi di lui: l'incomprensibile e minacciosa folla dei mandriani riuniti alle spalle della femmina neutra, un ambiente alieno immerso in una luce sanguigna sotto il cielo nero. Il tribunale di Minosse alla porta dell'inferno. — A quanto ho capito, volete spiegare le vostre azioni — esordì Andrews. — Molto bene. Allora forse mi direte perché la vostra gente ha agito in quel modo, sulla torre. Loro non sono sotto il vostro controllo? Si era rivolto al mandriano maschio, che fece un passo indietro e gettò
un'occhiata alla femmina neutra. Dorthy disse ad Andrews che a parlare era in realtà lei, per bocca del traduttore, e l'uomo ripeté la domanda guardando direttamente la massiccia figura seduta. — Un tempo potevo influenzarli abbastanza a fondo, ma ora che hanno acquistato consapevolezza è molto difficile. A Dorthy la femmina aliena faceva ora un'altra impressione. Non un Buddha, no, e per nulla calma e indifferente, ma piuttosto una solitaria e senile regina che sentisse le redini del potere scivolare via dalle sue mani. — Dove sono le tue sorelle, le altre come te? — le chiese. — Io sono l'ultima della discendenza. — Cos'è questa faccenda? — sbottò Andrews. — Ci sono altre uguali a lei su questo pianeta? — È l'ultima — ripeté Dorthy. — Non ricordi quel che ti ho detto? È una discendente, clonata, dell'equipaggio dell'arca che ha colonizzato questo mondo. Per bocca del traduttore l'aliena disse: — I miei antenati vivono in me. — E Dorthy infine capì la natura dell'aura o nuvola di noduli psicotropici che aleggiava intorno a lei: erano i frammenti vivi e reali di individualità esistite nel passato, decaduti in semplici residui dal comportamento ossessivo. Ma perché s'erano divisi, come in due campi opposti? Impaziente, Andrews si volse alla femmina neutra. — Devo chiederti quali sono le tue intenzioni. — Ora non farò niente. Tutto è già in movimento. — Cosa vuoi dire? Dorthy sentì nascere le prime avvisaglie del Talento; l'aura dell'aliena si fece più brillante e acquistò nitidezza, come il punto luminoso di una galassia che all'ingrandimento del telescopio si rivela una spirale di stelle. Poiché non rispondeva, la ragazza disse: — Be', se non vuoi parlarci di questo, spiegami le tue conclusioni su di noi, il mito che tu hai compreso in queste pagine. — Estrasse il libro dalla tasca in cui l'aveva infilato e lo porse ad Andrews, che dopo averne letto la copertina le restituì un'occhiata fra sorpresa e insospettita. La femmina neutra parve acquistare un'aria di maggiore autorità, e attraverso il maschio disse: — È un racconto di suppliche e di rivelazioni. Come un essere stregonesco, il narratore si rivolge a un saggio e lo lusinga con la sua padronanza del linguaggio, gli rivela misteri religiosi, e gli promette l'immortalità nelle parole scritte, cosicché le generazioni future si meraviglino della sua sapienza.
Dorthy cercò invano di capire a quale sonetto si riferisse, ma l'altra continuò: — La vostra razza è chiusa nei legami dello spazio e del tempo, ambiziosa nelle sue realizzazioni ma indifesa nell'ombra della mortalità dell'individuo. Più volte in questo scritto viene invocata l'oscura divinità, l'oscurità della non esistenza. È contro questo che voi lottate. L'aura brillava più intensamente intorno a lei, pullulando delle scintille che erano i suoi antenati. Al centro di quel doppio emisfero Dorthy vedeva il chiarore dell'intelligenza, lo stesso che l'aveva colpita più volte in passato, ma non più così abbagliante e irresistibile. Non più così terribile, anzi tragicamente offuscato e spezzato in due. Fu certa che se fosse riuscita a capire lo schema celato in quell'aura, svelarlo e risolverlo, tutto avrebbe potuto esser salvato, l'ostilità dei mandriani maschi spenta, la paranoia della Marina placata. Andrews disse: — E tu? Cosa ottengono i tuoi... familiari, i mandriani, stando nascosti qui? — Fece qualche passo avanti, con le mani sui fianchi. I maschi intorno alla femmina neutra si agitarono innervositi, e quelli dietro di lui gli si misero ai fianchi. Dorthy vide le loro mani contrarsi, e gli artigli emergere sui polpastrelli da felino. Andrews, la cui paura era evaporata, li guardò emanando sentimenti duri e rabbiosi. Trascorsero alcuni lunghi secondi prima che la femmina rispondesse, poi il traduttore ebbe un fremito e disse, in portoghese: — Ottengono di sopravvivere. — Ah, sì, sopravvivono. Senza far niente che giustifichi la loro esistenza. — Il solo significato della vita, se c'è bisogno di un significato, sta nel sopravvivere. I miei fratelli e sorelle, allevando i loro figli nelle pianure, trovano l'essenza di ogni significato nel semplice schema della loro vita. Sono immersi nei processi della natura. Questa è ciò che potresti chiamare la loro religione. Non hanno bisogno di uno scopo. — Fece una pausa. — La tua razza, invece, crede che espandersi sia tutto. Voi cercate di sconfiggere il vostro destino di oscurità, e pensate che l'intero universo sia vostro pur senza averlo compreso che in minima parte. — E anche tu credi in questo immergersi nella natura? — chiese Dorthy. — Io servo la mia famiglia — disse la femmina neutra e, benché apparisse calma come sempre, Dorthy vide i movimenti farsi più intensi nei due emisferi nebulosi: le scintille delle antiche individualità roteavano come moscerini intorno a una lampada, lottando per il predominio nel campo di battaglia che era la mente della loro discendente, proprio come le due fa-
zioni della famiglia giunta su quel pianeta avevano guerreggiato prima di prendere ciascuna la sua strada. Andrews disse: — Vi state nascondendo da quelli della vostra razza che hanno usufruito di una tecnologia creata da altri, non è vero? E loro sono sempre là, al centro della galassia? — È prudente supporre che esistano ancora. — C'è solo un modo di saperlo, ed è di andare ad accertarsene. Se vi alleaste con la Federazione... — Tu hai poca immaginazione, e ancor meno buon senso. Le armi usate dai traditori quando aggredirono le altre famiglie sono al di là della tua comprensione. Io possiedo uno strumento che può disturbare una stella... in realtà è così che ho stimolato i figli a mutarsi in «nuovi maschi», ma la famiglia che trovò quella tecnologia straniera lo riterrebbe un giocattolo. Essi potrebbero spegnere la fusione nucleare di un astro così come tu spegneresti una fiammella fra due dita. Questi ricordi sono stati trasmessi lungo la nostra discendenza, e così anch'io ricordo che quando fuggimmo dal cuore della galassia osservammo grandi strutture in orbita attorno al buco nero là nel suo centro, i resti di quella tecnologia trovati e sfruttati dalla famiglia traditrice. Strutture larghe più di un anno-luce, e non oso pensare quanto antiche. «Noi siamo una razza di conservatori, non abbiamo fretta. Forse siamo perfino stupidi a paragone di altri che si stabiliscono per brevi periodi fra le stelle. Lasciammo il nostro pianeta natale solo per causa di un disastro cosmico. In precedenza avevamo vissuto lì per milioni di anni... quanti, di preciso, non ci è dato saperlo, perché i figli non-mutati ignorano il tempo e la storia. E, salvo nei periodi di necessità, pochi di noi restano allo stadio di consapevolezza e in contatto con la tecnologia. Ma forse è per questo che siamo sopravvissuti così a lungo. La tecnologia è destabilizzante. Spesso, dopo un afflusso di energia solare, i figli mutati combattono guerre distruttive prima di estinguersi, e ciascun gruppo cerca di espandersi come la famiglia traditrice ha fatto. In tutto il tempo che trascorremmo nel cuore della galassia, e durante la fuga da esso, non abbiamo scoperto il principio della propulsione di fase, come la chiamate voi. Non capimmo neppure che la propulsione a velocità ultraluce era possibile, finché non la vedemmo usare dai traditori... stupidamente, dunque, ma questa fu anche una fortuna, perché i propulsori di fase lasciano una traccia indelebile nello spazio-tempo, ed essa si può leggere e seguire fino alla sorgente. Dorthy pensò: ecco! Ecco il punto, il motivo, la spaccatura!
— Questi traditori, come tu li definisci — chiese Andrews, — possono individuare i propulsori di fase? Volevi dire che potrebbero sapere della nostra esistenza? — Voi avete segnalato la vostra esistenza, ed essi verranno qui dal cuore della galassia. Ci vorrà tempo, ma verranno. Il mondo nascosto, l'occhio che lo cercava dallo spazio. Dorthy ricordò finalmente il suo primo sogno sugli Alea, e vide che era quella paura il nocciolo intorno a cui roteavano le scintille di vita residua. — Se questo è inevitabile — disse testardamente Andrews, bellicoso e nello stesso tempo senza crederci neppure lui, — diventa ancora più necessario che vi uniate a noi. — No. La prima volta che contattai la mente di questa femmina — e come una marionetta il traduttore alzò un braccio verso Dorthy, — vidi come siete, attraverso di lei. Più tardi, allorché il libro fu trovato da uno dei fratelli, ciò mi fu confermato. La vostra gente è chiusa in se stessa. Non ha senso di appartenenza, né lealtà... — Il traduttore scosse il capo, emise un uggiolio, poi disse: — Il mio servo non può trovare la parola adatta. E che la vostra lingua non la possieda è indicativo. — Uchi — disse Dorthy. Andrews si volse a guardarla, inarcando un sopracciglio. A lui, e alla femmina neutra, Dorthy spiegò: — Nella lingua dei miei antenati significa l'insieme della famiglia, delle sue tradizioni e della casa, e il senso di appartenenza a tutto ciò. — Io non posso vivere fra gente straniera. Sì. — Ascolta — disse Andrews, — noi non siamo così diversi. Tu sei fedele alla famiglia; la mia lealtà è più generica, verso la razza. Ma ho anch'io un senso di appartenenza particolare: al posto in cui sono nato, alla mia famiglia. Lo capisci questo? E Dorthy vide un'immagine passare rapida nella sua mente, quella di un castello dalle alte mura lisce, arroccato su un promontorio dinnanzi a un mare freddo e grigio. Ma continuava a vedere anche la falla al centro dell'aura della femmina neutra, e il motivo della sua esistenza era più nitido. Si volse all'uomo. — Non serve a niente, Andrews. Non l'hai capito? Lei vuole la guerra fra noi. Se lei non avesse innescato la mutazione fra i figli dei mandriani, non ci sarebbero stati atti ostili. I nuovi maschi non sono comparsi a causa nostra, ma in risposta a un aumento dell'attività solare. E lo ha innescato lei. Vuole la guerra! Il traduttore disse: — La vostra gente ha combattuto la mia, di questo
sono certa, nel sistema di asteroidi intorno all'altra stella che abbiamo colonizzato. Può darsi che i figli, laggiù, vi abbiano dapprima scambiato per i traditori, ma una volta iniziate le ostilità questo malinteso non ha più importanza. Finché resterete nel loro territorio vi combatteranno. È il loro istinto. Comunque, dopo tutto questo tempo, non è di loro che mi preoccupo. — E qui? — chiese Andrews. — Se voi lascerete la superficie di P'thrsn, i figli mutati non vi seguiranno. E finiranno con l'estinguersi. Andrews guardò Dorthy, poi disse: — Allora facciamo di questo una base per la nostra collaborazione. Io posso essere d'accordo che la mia gente smantelli i campi e abbandoni il pianeta. E terremo aperto un canale di comunicazione con te. Stava mentendo, naturalmente. Cercava solo di prendere tempo. Forse nutriva perfino la speranza reale che la femmina accettasse: lasciamola dire... e poi la Marina la distruggerà. Dorthy gli lesse questo nella mente, ma tacque. La femmina neutra disse, per bocca del suo servo: — Tu continui a non capire. Io non voglio la pace. È perciò che desideravo la morte di questa femmina: lei avrebbe potuto intuire la verità sui figli mutati prima che loro fossero in grado di difendere i loro genitori. Per due volte ho cercato di farla uccidere, e per due volte ho fallito. E infine è venuta qui. Ripensando alla visione che aveva avuto sulla torre, Dorthy disse: — Ma eri tu a volere che io venissi. — E ora che ti ho qui, la guerra scoppierà. — Non deve esserci nessuna guerra! — sbottò Andrews. — Insieme, il tuo popolo e il mio, potranno affrontare questi vostri traditori, se e quando arriveranno. — Fareste molto meglio a fuggire, come abbiamo fatto noi. Ma non sarà questa la vostra scelta. La tua razza è come altre che già in passato cercarono di spadroneggiare nella galassia. Perché questo è accaduto, e lo dimostra la scienza straniera trovata e pervertita dai traditori. Forse molte volte. Noi viviamo nelle rovine della storia galattica. La mia famiglia sarà distrutta dalla vostra gente, deve essere distrutta. Prima che i traditori vengano, perché verranno di certo. Sì, sì. E altri, nei rifugi sparsi fra le piccole stelle, pur senza capire vedranno nel cielo i lampi che indicheranno la distruzione dei soli dei vostri mondi. — E del vostro — disse Dorthy.
Ci fu una pausa di silenzio. Le braccia minori della femmina si strinsero al suo petto peloso; la creatura scimmiesca che aveva su una spalla saltò giù e corse via, tenendo alta la coda biforcuta. Due mandriani la seguirono oltre un passaggio a volta. Gli altri continuarono a guardare gli umani, con volti impassibili sotto i loro molli e ombrosi cappucci. Infine il traduttore rialzò il capo: — È necessario — dichiarò. — Se sopravvivessimo, verrebbe il giorno che i traditori seguendo la traccia dei vostri propulsori di fase troverebbero questo mondo. E allora saprebbero che vi sono Alea sfuggiti ai loro massacri, e cercherebbero su tutte le stelle rosse di questi cieli fino a sterminare ogni superstite di quell'antica guerra. — Non sai neppure se i traditori esistano ancora — disse Andrews. — Io devo agire in base all'ipotesi peggiore. — Allora sei pazza! — esclamò Andrews. — Se non ci lasci andar via da qui morirai sicuramente. Tutto ciò che vive su questo pianeta sarà annientato. — È necessario — ripeté la femmina neutra, mentre la nuvola di scintille roteava nella sua aura, intorno al nucleo segreto e alla spaccatura che la divideva in due. Stava mentendo, vide Dorthy. Mentiva. La sua lealtà era per i suoi parenti più vicini, quelli della famiglia che vivevano lì su P'thrsn, non per altre colonie della cui esistenza non era neppure certa. — Compirai il tuo dovere fino al punto di sacrificare la tua famiglia? — le chiese Dorthy. — Per il maggiore bene della razza — disse l'aliena. Una menzogna. Una menzogna. Dorthy tentò di isolare dagli altri quel pensiero, ma fu come cercare il fantasma di un fiocco di neve fra le scintille di un falò. Per un attimo la sua intera psiche fu aperta alla luce dell'aura: sapeva che il solo modo di afferrare quel nodo e svolgerne l'intreccio era di prenderlo dentro di sé, ignorando il pericolo del pieno contatto. Da un'immensa distanza sentì Andrews gridare: — Cosa le stai facendo? Lasciala stare, maledizione! Lasciala, altrimenti io... — E senza aver percepito un intervallo di tempo si trovò distesa al suolo, con il volto ansioso di Andrews chino su di lei. Per alcuni secondi lo vide sdoppiato, come se ai suoi lineamenti familiari fosse sovrapposta una maschera aliena, selvaggia e sconosciuta. Poi lo schema fatto di personalità multiple della femmina neutra svanì, e lei fu di nuovo se stessa. E comprese la spaccatura, il nodo centrale, la cosa terribile che molto tempo addietro aveva dovuto esser fatta per tener nascosto quel pianeta al pericolo che veniva dal cuore della galassia.
— Cristo! — disse Andrews. — Parlami, Dorthy. Ti senti meglio? Hai avuto come un attacco di convulsioni. — Sto bene — rispose lei, e avvertì il sapore del sangue. Doveva essersi morsa la lingua. Quando si alzò a sedere scoprì che s'era anche bagnata addosso. Petit mal. Ma ora sapeva. Quando Andrews la aiutò a tirarsi in piedi lei gli mormorò, in inglese: — Non tentare nulla. Adesso so perché vuole morire... e forse anche come farle cambiare idea. — Non è stata lei a farti questo? — Non proprio. Ho voluto penetrare a fondo la sua mente. Ho visto. — Dorthy sorrise. Aveva la fronte imperlata di sudore. — Forse avrei dovuto fare la terapista, invece di lasciare l'Istituto. — Rischia pure la salute, se credi, ma fra un'ora Angel non starà più in ascolto del segnalatore. Se ne andrà, e la Marina innescherà la vampa solare. Se puoi fare qualcosa, fallo subito. — Fidati di me. — Dorthy guardò la femmina neutra. Se anche sapeva ciò che lei aveva fatto, il suo volto imperscrutabile non lo rivelava. Tornò al portoghese e disse: — Avrei dovuto capire che volevi morire, quando hai dato quella ridicola spiegazione dei Sonetti. — Ero in errore? — L'oscura divinità non era una dea, ma soltanto una donna come le altre. Il poeta stava esortando il suo mecenate a sposarla, benché la amasse anch'egli. Questa è la dicotomia da cui emerge il filo conduttore dei Sonetti. C'è adulazione, sì, ma anche l'adempimento di un dovere, non importa quanto doloroso, e la promessa che l'amore del poeta sarà immortale, come la sua arte. Tu hai visto soltanto ciò che volevi vedere, un'ossessione per la morte, per la strada che le tue sorelle scelsero molto tempo fa. Ma non sei tu a dovertene vergognare: furono i tuoi antenati ad agire così per proteggere questo pianeta. Sbagliarono, certo, però desiderare oggi che la tua famiglia muoia è inutile. Ciò non cancellerebbe la vostra colpa. Dico questo perché so cosa avete fatto. — Sapevo che tu eri pericolosa. Sì, lo sapevo. — La femmina neutra distolse lo sguardo da Dorthy. Alle sue spalle i mandriani, intuendone lo stato d'animo, mostravano segni di crescente agitazione. — Cosa significa? — chiese Andrews. — Quale colpa? — Mezzo milione di anni fa — disse Dorthy, fissando l'aliena. — C'era una razza di umanoidi che stava cominciando a esplorare lo spazio, su un pianeta di una stella non lontana da qui. La stella che noi chiamiamo Epsi-
lon Eridani. — Novaya Rosya! — sussurrò Andrews. — Così sono stati loro a distruggerlo. — Sì. Nello stesso modo in cui avevano spostato questo pianeta, alcune femmine neutre rimossero dalla sua orbita una delle lune di un gigante gassoso e la diressero verso Epsilon Eridani. Ecco perché non abbiamo trovato qui il sistema propulsivo della loro arca. Lo usarono su quella luna. Un piccolo globo di roccia, poco più di un asteroide, ma quando colpì Novaya Rosya stava viaggiando a velocità elevatissima. Non fu abbastanza da distruggere il pianeta, ma la superficie fu devastata, e la catastrofe distrusse quella civiltà che stava alzando gli occhi allo spazio... perché esisteva il pericolo che attirasse involontanamente qui gli Alea traditori. Povero Arcady! i suoi cacciatori di zithsa non raccontavano favole, dopotutto. Le altre femmine neutre cercarono di impedire il genocidio, e vi fu guerra fra loro. Puoi immaginare chi vinse... — Dorthy tacque, perché l'aliena si stava muovendo. Con un grugnito si girò di lato, puntò al suolo le mani e le ginocchia e lentamente raddrizzò il suo corpo massiccio, alto quasi il doppio dei mandriani raggruppati dietro di lei. — Dannazione! — borbottò Andrews. Dorthy lo prese per un braccio, esortandolo con un'occhiata a non fare nulla. L'uomo invece scostò la mano di lei e mosse alcuni passi avanti. Era più che mai al di là della paura. — È vero quel che ha detto Dorthy? — esclamò. — Avete distrutto un'intera razza per tenere nascosto questo pianeta? — Lascia che le parli io — disse Dorthy. — Tu e la tua presunzione — brontolò lui. — Il tuo dannato Talento non può fare tutto. — È successo molto tempo fa — disse Dorthy alla femmina. — Un'eternità di tempo. Perché questo ti tormenta ancora? — Perché io sono molte, non una, e molte ricordano. Quando quella nuova civiltà nacque, così vicina al nostro rifugio, noi ricordammo come P'thrsn era stato devastato da pochi asteroidi scagliati dalle sorelle ribelli che avevano rubato l'arca. Nelle epoche successive viaggiammo allora su numerose stelle vicine, per prendere forme di vita e sostituire quelle che qui si erano estinte. Così scoprimmo quella nuova razza. Noi eravamo le più anziane, ma c'erano anche sorelle giovani fra noi, che non ricordavano il pericolo, ed esse si opposero. Oggi sono scomparse, ormai da tanto. Anche quelle che ci aiutarono sono scomparse. Soltanto io, noi, restiamo. Sol-
tanto noi ricordiamo. Quanto era vecchia, si disse Dorthy, quanto strana e sola, quanto stanca di vivere! La discendenza delle altre femmine neutre che l'avevano aiutata nel genocidio s'era estinta; quelle che avevano resistito erano state distrutte. Lei era rimasta sola, attanagliata dal suo bisogno di proteggere i mandriani. Quell'istinto, da cui era stata condotta al genocidio e alla guerra, l'aveva poi sostenuta per millenni... fino alla venuta degli umani. Ora non aveva più i mezzi e la volontà per ripetere quell'atto, ma nella loro comparsa aveva visto una possibilità di abbassare il sipario, di riposare, di metter fine al senso di colpa che spaccava in due la sua mente. E che ciò significasse la fine anche per la sua famiglia era il paradosso, il perno su cui l'aura empatica oscillava fra l'istinto di conservazione e il desiderio di morte. — Vuoi pagare questa colpa sacrificando la tua famiglia? — chiese Dorthy. — Loro non ne sanno niente. Come potrebbero? Tu stessa hai detto che sono innocenti, che ignorano tutto. Perché dovrebbero morire anch'essi? La femmina neutra non disse nulla, limitandosi a fissarla. Ma il traduttore rovesciò indietro la testa e ululò, artigliandosi il volto con le mani così forte da far sgorgare il sangue. Dietro l'alta figura di lei gli altri maschi fecero lo stesso, piantandosi gli artigli sulle guance in una cacofonia di grida. E in quell'allucinante momento di tensione Andrews fece la sua mossa. Dorthy percepì le sue intenzioni e si volse, ma era troppo tardi. L'uomo si staccò dalla cintura un razzo da segnalazione e lo innescò, gettandolo nel gruppo dei mandriani. La fiamma scaturì bianca come il cuore di una stella, accecante, sprizzando attorno nugoli di scintille. Alcuni mandriani ne furono investiti e si gettarono di lato in preda al panico travolgendone altri, mentre Andrews, approfittando della confusione, correva a riprendere il fucile che uno dei mandriani aveva lasciato cadere. Dorthy avvertì l'unico pensiero che lo muoveva, semplice e tagliente come una lama: era certo d'essere nel giusto, certo di dover uccidere qualcuno che voleva ucciderlo, e incapace d'immaginare nella femmina neutra istinti e desideri diversi da quelli che possedevano lui. Uccidere o essere ucciso. Tutto questo nell'istante in cui Andrews afferrava il fucile. Il suo primo colpo fece esplodere via polvere e schegge dal muro di una torre, alcuni metri dietro la femmina. Lei non si mosse neppure. Lo guardò con calma rassegnata, le due metà della sua aura empatica finalmente unite, mentre l'uomo prendeva meglio la mira e sparava ancora. Quando il suo pesante corpo si abbatté al suolo senza vita, i mandriani
s'immobilizzarono, storditi. Poi il servo che aveva funto da traduttore si afflosciò come una marionetta dai fili spezzati, e gli altri si gettarono avanti snudando gli artigli. Andrews afferrò Dorthy per una spalla e la spinse via. — Scappa! — urlò. — Corri, razza di sciocca, vattene da qui! — E si volse ad affrontare il Nemico. Dorthy fuggì via. CAPITOLO QUINTO QUATTROCENTO MILIARDI DI STELLE Più tardi. Una pietra smossa dai suoi stivali rotolò lungo il pendio immerso nel buio e Dorthy si fermò, ascoltando gli echi che creava più in basso. Aveva ancora paura che qualche mandriano l'avesse seguita giù per il canalone, fra i cespugli e i sassi, e continuava a sperare che Andrews apparisse dietro di lei, sogghignando in quel suo modo sfrontato. Ma Andrews era morto, così come Arcady Kilczer, così come i gemelli, e la gente al campo sul cratere della torre. Tutti morti. Il deserto intorno a lei sembrava dirglielo con il suo silenzio, immenso sotto il cielo stellato. Proseguì inciampando fra le rocce finché non giunse in uno spazio abbastanza liscio e aperto per l'aereo, quindi staccò il segnalatore dalla cintura e lo accese. Inforcò gli occhiali a infrarossi, sedette su un sasso e si passò stancamente una mano sulla faccia. Ora non le restava che aspettare l'arrivo di Angel. Pochi minuti appena. E poi? Avrebbe raccontato i fatti, e illustrato ciò che aveva saputo. Se fosse stata abbastanza convincente forse sarebbe riuscita a indurre la Marina a ritirarsi da BD Venti, e mettere così fine alla guerra; comunque era certa che quel pianeta non sarebbe stato sterilizzato. Quando i militari avrebbero saputo che l'aggressività del Nemico era una facciata, i rischi dell'esplorazione sarebbero stati giudicati esigui rispetto ai vantaggi. P'thrsn poteva essere isolato fino all'estinzione naturale dei figli mutati. Ma non lo avrebbero distrutto. E se gli Alea traditori esistevano ancora, al centro della galassia, Dorthy era certa che non sarebbero venuti durante la sua vita. Dalla mente della femmina neutra aveva saputo che gli effetti dei propulsori di fase si propagavano alla stessa velocità delle astronavi che li montavano. Sarebbero occorsi oltre due secoli prima che qualcuno venisse a cercare vicino a Sol. A
meno che Andrews non avesse avuto ragione, malgrado tutto, e che l'umanità non decidesse di portare la sfida a quegli Alea sulle loro stesse stelle... Be', il futuro era, come sempre, un'incognita. Ma Dorthy sapeva che in quanto a lei, quando al termine di quel lavoro l'avrebbero lasciata libera di tornare alla sua vita, non avrebbe potuto nascondersi come i mandriani, gli Alea, fra le loro piccole nane rosse insignificanti. Poveri alieni spaventati dal cielo, dalla luce di quattrocento miliardi di stelle. No, lei non poteva più negare ciò a cui apparteneva. Sarebbe andata a cercare quei misteri che erano ancora chiusi nelle strane e inquiete menti della sua gente. Contemplando quella decisione Dorthy si strinse le braccia al petto, seduta sulla roccia gelida, troppo stanca per chiedersi ancora se era giunta troppo tardi all'appuntamento. Ma infine udì il ronzio dei motori in lontananza, dapprima debole e poi sempre più nitido e più vicino, un rombo pulsante nella buia atmosfera del deserto. Si alzò in piedi e sparò un razzo da segnalazione. Al vertice della sua lenta parabola il bagliore esplose in una vampa di fiamma bianca, e per un attimo cancellò le stelle. FINE