EMMANUEL DONGALA L'UOMO DI VENTO Le feu des engines 1987 PREFAZIONE DI PAOLA ROSSI TRADUZIONE DI EGI VOLTERRANI PREFAZIO...
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EMMANUEL DONGALA L'UOMO DI VENTO Le feu des engines 1987 PREFAZIONE DI PAOLA ROSSI TRADUZIONE DI EGI VOLTERRANI PREFAZIONE Io sono Mankunku, il sovvertitore. Ho rovesciato gli ndembo, i tamburi dei potenti.1 L'uomo di vento, il secondo romanzo di Emmanuel Dongala, ha ottenuto nel 1988 il «Grand Prix littéraire d'Afrique Noire», uno dei premi più ambiti dagli scrittori africani; pubblicato ben quattordici anni dopo il primo romanzo, Un fusil dans la main, un poème dans la poche (1973), il testo è il frutto di molti anni di lavoro, ripensamenti e rielaborazioni da parte dell'Autore, che abbandona il realismo critico degli anni Settanta per realizzare una sorta di saga, una storia dal soffio epico il cui scenario è costituito dal Congo. Al lettore si prospettano due sovrapposti piani di lettura; a un primo livello, è semplicemente raccontata, in terza persona, l'avventurosa vita di un uomo, Mankunku. A un livello più profondo, Emmanuel Dongala mostra come una società «perfetta» affronti una trasformazione grande e sconvolgente quale è stata l'avvento del colonialismo nel continente africano. Situato al crocevia di un cambiamento così rapido quanto irreversibile, il tema più vistoso in L'uomo di vento non può che essere il rapporto fra Tradizione e Modernità. La società tradizionale africana, non ancora contaminata dall'Occidente, è raffigurata nella prima parte del romanzo, che si svolge interamente all'interno della foresta, la dimensione privilegiata del passato per ogni Congolese; il lettore, così, viene proiettato in una realtà idillica dove vige un'armoniosa corrispondenza tra i ritmi naturali e umani sebbene, nella cerchia ristretta della comunità di villaggio, appaiano già elementi negativi, legati alle superstizioni e alla corruzione del potere all'interno della gerarchia sociale. J. Cuvelier, L'Ancien Royaume de Congo, L'Édition Universelle, Bruxelles 1946, pagg. 13-14. 1
La civiltà rappresentata in questa prima parte è la tipica civiltà di tradizione orale; nel testo assumono grandissimo rilievo i concetti di memoria e di parola. Infatti, «l'insieme della tradizione è la memoria collettiva di una società che si spiega a se stessa»2 formando una catena che collega saldamente gli uomini viventi agli ancêtres; pertanto, nel mondo mitico ricreato dall'Autore, la presenza degli antenati è palpabile in ogni aspetto, individuale e associativo, della vita; essi sono invocati per guidare le azioni e le scelte attraverso ritualità ben precise che prendono forma da combinazioni sapienti e suggestive di gesti e parole. La parola, più di ogni altra cosa, possiede una funzione creatrice: la realtà acquisisce concretezza attraverso il procedimento della denominazione. Per esempio, il destino di Mankunku è annunciato, in primo luogo, dal suo nome (lo stesso del primo uomo che, come riporta Cuvelier, ardì rifiutare l'autorità del Mani fondatore del regno Kongo proclamandosi «il sovvertitore»). Inoltre, a ogni cambiamento nella sua vita corrisponde un appellativo diverso con cui gli altri cominciano a chiamarlo; alla fine della sua vita, egli sarà «colui che aveva portato tutti quei nomi, Mandala Mambu Mankunku Massimiliano Massini Mupepe» [pag. 245]. Il linguaggio costituisce uno strumento fondamentale per la rievocazione del passato mitico; in alcuni passaggi del libro, lo stile di Dongala, generalmente classico, viene contaminato con immagini e virtuosismi linguistici tipici della comunicazione orale africana: ripetizioni, appelli al destinatario, immagini simboliche i cui soggetti privilegiati sono il mito della creazione del mondo e la ciclicità dei fenomeni astronomici. L'oralità, inoltre, si manifesta per mezzo dell'inserimento nella narrazione dei suoi operatori tipici: gli anziani, il decano e, soprattutto, Nimi A Lukeni, lo ndzimi (l'equivalente del griot nell'Africa centrale), personaggio caratterizzato dal discorso vibrante e coinvolgente i cui momenti principali sono costituiti da proverbi, favole, premonizioni. Come abbiamo già accennato, la seconda parte della storia prende il via da un cambiamento, improvviso quanto irrecuperabile, l'arrivo dei colonizzatori, cui corrisponde uno spostamento spaziale: il protagonista si trasferisce nella città, una città già incredibilmente moderna, cassa di risonanza del progresso che giunge incontenibile dal lontano Paese dei Bianchi. La Modernità è individuabile, in primo luogo, negli oggetti: i grandi palazzi, il treno, le biciclette, la macchina fotografica. Modernità significa anche una VANSINA, La tradizione orale e la sua metodologia, in Storia generale dell'Africa, vol. 1, Jaca Book, Milano 1987. 2
rivoluzione nella modalità grazie alla quale il nuovo sapere viene diffuso e tramandato, non più oralmente bensì per mezzo della scrittura. La sintesi di questi due nuclei narrativi e la conciliazione della dicotomia Tradizione/Modernità si realizzano nella vita e nell'esperienza del protagonista, l'eroe alternativamente amato e perseguitato, Mandala Mankunku. Chi è Mandala Mankunku? Il mistero, presente fin dal momento della nascita, proietta il personaggio e l'intero racconto in una dimensione epica. La statura eccezionale dell'eroe è conferita da un aspetto fisico rilevante (i suoi magnetici occhi verdi), oltre che da un'intelligenza e una curiosità esuberanti e inestinguibili. Vivendo interamente la storia del suo Paese, il Congo, e del suo continente, l'Africa, grazie a una longevità fuori dal comune, Mankunku costituisce il trait d'union tra il passato, il presente e il futuro del suo popolo grazie a un atteggiamento positivo volto all'azione e al cambiamento, al bisogno di conoscenza e di giustizia che lo condurranno a combattere tanto contro le superstizioni del villaggio, quanto contro il potere arrogante dei colonizzatori, sentendosi, alla fine della sua vita, esiliato e tradito da entrambe le culture. Con questo libro, grazie al personaggio di Mankunku, con la sua curiosità e il suo desiderio di andare oltre l'apparenza, Emmanuel Dongala mostra l'atteggiamento migliore che dovrebbe assumere l'uomo africano dell'era moderna, liberandosi dei pregiudizi e da un'idealizzazione nostalgica e ipocrita del passato. II messaggio, che l'Autore ribadisce in tutta la sua produzione letteraria, è che se non si attuerà un processo di liberazione dalle lotte tribali, dalle superstizioni, l'uomo africano sarà sempre più debole e vulnerabile rispetto agli Occidentali; allo stesso tempo, non si può dimenticare la tradizione, pena l'alienazione e un impoverimento incolmabile nella vita di ciascun Africano. La nuova cultura africana o le nuove culture africane sorgeranno dall'unione di elementi di temporalità diverse, di Tradizione e di Modernità che devono forzatamente imparare a coesistere. Mankunku incarna la fiducia nei valori endogeni dell'Africa: il coraggio, la generosità e la fede che riusciranno a «cambiare questo mondo in un mondo migliore».3 Paola Rossi Prefazione dell'Autore alla seconda edizione di Un fusil dans la main, un poème dans la poche, Le Serpent à Plumes, Paris 2003, pag. 11. 3
Rituali Uomo, ti alzerai ogni mattina per spiare la nascita di un nuovo giorno guarderai l'alba e la stella, berrai la rugiada, acqua pura dell'inizio dei mondi. Forse così sorprenderai per lo spazio di un istante di una fenditura lo sfolgorare primo del fuoco delle nostre origini. CAPITOLO PRIMO Proclamo la Notte più veridica del giorno. L. S. SENGHOR 1 Quando nacque nganga Mankunku - che allora non era ancora nganga e non si chiamava ancora Mankunku -, il mondo non era né migliore né peggiore di oggi, era solamente diverso. La Terra aveva già smesso da molto tempo di contorcersi sotto gli spaventosi, giganteschi dolori geologici che avevano fatto spuntare le catene montuose e le vette, dato luogo alle faglie; la sua faccia primordiale era già stata profondamente sfigurata da fiumi e torrenti, dagli immensi fiumi lenti nelle savane, sornioni nella profondità delle foreste, tra le paludi mefitiche, violenti contro qualsiasi ostacolo incontrassero sui loro diversi percorsi verso l'oceano. Là dove non c'erano acque, vaste distese si erano rassegnate alla legge degli erg, dei reg, degli hamada e soprattutto del vento, spirito sovrano sotto l'occhio spietato del sole. Solo il mare non era cambiato, sempre violento e appassionato, profonda e feconda matrice originaria donde erano sorti la vita e gli esseri che condividevano la terra, l'aria e l'acqua. Il mondo era differente: gli antenati fondatori avevano già vissuto e stabilito le leggi e i riti che dovevano rendere coerente la vita sulla terra e, an-
che se oramai rivelavano agli anziani un minor numero di conoscenze, li guidavano ancora nei labirinti dell'esistenza: i giovani già rispettavano meno i vecchi, tuttavia li rispettavano ancora; la terra e le donne non producevano più con munificenza, tuttavia producevano ancora a sufficienza per nutrire a sazietà tutti gli uomini e i loro discendenti. Egli nacque, dunque, in un giorno della stagione secca, in mezzo a una piantagione di banani dove sua madre si trovava da sola mentre il villaggio era vuoto: gli uomini erano andati a caccia o a far razzia nelle terre vicine, le donne erano nei campi a preparare la terra per la nuova stagione. Non avendo niente per coprire il neonato, raccolse una grande foglia di banano e la passò sul fuoco di paglia secca che aveva acceso per cuocersi il cibo. Dopo quei suffumigi d'anima calorosa, la foglia si ammorbidì diventando più soffice di lanugine di kapok, altrettanto generosa e protettiva del seno della madre, e intanto il fumo depositava sulla sua superficie una patina untuosa d'olio, come d'olio di palma, per proteggere il corpicino tenero del neonato. Allora lei avvolse il bambino nella grande foglia, lo strinse al seno e levò gli occhi al cielo per testimoniare gratitudine alle creature che la circondavano nella sua solitudine di donna: agli uccelli tessitori che volteggiavano gaiamente intorno ai loro nidi acrobaticamente sospesi alle foglie di palma, al calao solitario che passava e ripassava facendo schioccare il suo grosso becco dalla protuberanza cornea, strano e sussiegoso tra i piccoli passeracei inebriati, tra le scimmie schernitrici e ladre di frutta che saltavano da una liana all'altra fischiando e sgranocchiando rumorosamente frutti selvatici, tra le farfalle e le libellule dagli abiti multicolori e fantastici che svolazzavano qua e là senza uno scopo, come stordite dalla luce che giocava a nascondino con le ombre delle foglie frementi sotto la carezza del vento leggero. Lei testimoniava gratitudine a tutte quelle creature che avevano udito il grido che annunciava la presenza del nuovo esserino nel grande cerchio della vita, tra coloro che ancora c'erano e coloro che già se n'erano andati. Silenziosi, per un momento madre e figlio condivisero nel corpo e nello spirito i bei fiori marezzati di lantana che facevano bordura sul limitare dei campi di manioca, offrirono i loro sguardi ai fiori viola delle jacaranda sperdute tra altri alberi d'essenze più consuete, apprezzarono il pallore dei fiori di taro e il verde profondo del fogliame delle arachidi che lottavano contro la bulimia dei cespitosi denti di cane: in questo modo, madre e figlio prendevano possesso del mondo e dal mondo si lasciavano possedere. Lei chiuse gli occhi per meglio scivolare via seguendo il mor-
morio lontano del fiume, per meglio sfumare nel vento. Gioia della natura, consacrazione della nascita! Infine, abbandonò la piantagione per rientrare al villaggio lasciando lungo il percorso una traccia del suo sangue che continuava a gocciolare, sangue che più tardi avrebbero leccato iene e pantere, sangue di dolore e di gioia che forse avrebbe intenerito il cuore degli antenati. Comunque, prima di andarsene, recise una foglia di palma che infisse nel posto dove era nato il bambino, contrassegnandolo per sempre. Così, anni dopo, quando il bambino diventato uomo - allora si chiamerà Mankunku e sarà ormai nganga -affronterà il re rinnegato davanti al villaggio riunito, si presenterà brandendo un tronco di palma per ricordare a tutti il suo destino di uomo solitario e straordinario come lo era stata la sua nascita. 2 Spesso, le donne rientrano al villaggio prima degli uomini. Quelle che rientrarono per prime rifiutarono di credere alla nascita del bambino. Come credere a una nascita senza grida di dolore e senza testimoni? Dov'era nato quel bambino, dov'erano quei tessuti anatomici che accompagnano sempre la nascita di una creatura da una donna, dov'erano il sangue e le acque della madre? Troppo stanca per accompagnarle sul luogo della nascita, la madre indicò loro il sentiero. Bastava seguire le tracce di sangue fino al posto dov'era infissa la palma: avrebbero visto le ceneri del fuoco di sterpi che aveva riscaldato il neonato e il luogo dove aveva seppellito tutto ciò che aveva espulso insieme con lui. Avrebbero incontrato i testimoni, le piante di banano, gli uccelli tessitori, le grandi foglie dei taro in fiore, i cercopitechi acrobati, avrebbero udito l'abbaiare dei cinocefali, il lontano mormorio del fiume... Allora seguirono le tracce di sangue che già cominciavano a ricoprirsi di formiche scacciatrici, riconobbero l'unica foglia di palma sperduta tra le grandi piante di banano e l'emozione fu viva. Ripulirono dai rovi lo spazio circostante, tagliarono altre palme che piantarono intorno a quella della madre, poi rientrarono cantando. Non tutte le donne del villaggio andarono a reperire il luogo della nascita, alcune per pigrizia, altre per gelosia. Rifiutarono così l'origine naturale del bambino e pretesero che fosse uno di quegli esseri che esistono pur senza esser nati. Per fortuna, la maggior parte delle donne non soltanto aveva visto il santuario di palme, ma aveva anche contribuito alla sua edi-
ficazione. Quelle donne avrebbero sempre testimoniato la sua nascita. Che cosa sarebbe successo il giorno in cui, scomparse quelle donne, nessuno avrebbe più potuto testimoniare? Si sarebbero confrontate due versioni, ma se avesse prevalso quella che dubitava dell'autenticità della sua nascita, non sarebbe rimasta alcuna traccia della realtà del suo passaggio sulla terra. Gli anziani del clan, che erano uomini molto saggi, non si affannarono minimamente a dargli subito un nome. Perché dare un nome a una cosa che magari si sarebbe rivelata effimera? D'altra parte, a vederlo com'era, neonato mingherlino che succhiava avidamente il seno enorme di sua madre a scatti brevi e nervosi come un porcellino, in molti non credevano che sarebbe sopravvissuto. Così, lo si chiamava soltanto «il bambino delle palme», poi «le palme», Mandala. In quei tempi, la settimana aveva soltanto quattro giorni, perciò l'anno contava molte settimane di più e dunque le persone vivevano più a lungo sulla terra. Il bambino sopravvisse a due settimane, a tre, poi a quattro. Si attesero tre lune complete. Il bambino cominciò a balbettare e a cinguettare. Poi divenne bello e forte come gli uomini del lignaggio di sua madre. Soltanto allora fu considerato una persona autentica, una creatura indipendente che meritava un proprio nome per distinguersi dal resto della creazione. Tenendo conto della sua nascita straordinaria, gli fu trovato un nome prestigioso, il nome di uno di quegli antenati le cui grandi imprese si perdevano nella notte della storia del suo popolo. Tutta la famiglia si riunì e il vecchio Nimi A Lukeni, memoria della nazione, lo presentò agli antenati: «E così, a partire da oggi, sarai un uomo chiamato a vivere, avrai un nome tutto per te, quello di Mankunku, colui che sfida i potenti e li fa cadere come cadono le foglie degli alberi. Che lo spirito del grande antenato, insieme con il vino di palma che sputo nel vento e con le foglie di kimbazia14 che mastico e sputo davanti a tutti, accetti di vegliare su di te. Impegnati a diventare forte come lui e a non temere nessuno, nemmeno i potenti. Sii degno del lignaggio di tua madre». E il vento rispose accettando il vino, che trasportò in goccioline sottili nelle quattro direzioni, si alzò baciando la faccia del cielo e sfiorando il sole prima di ricadere sulla madre e sul padre, grande fabbro. E lo spirito dell'antenato accettò il bambino ponendo definitivamente fine al dolore che aveva tormentato senza tregua il basso ventre della madre dopo il parPianta congolese che, secondo la tradizione, permetteva di scoprire gli adulteri che si rifiutavano dì ammettere la loro colpa [N.d.T.]. 4
to. Lo chiamarono dunque Mandala Mankunku. 3 Quando si scoprì che il bambino Mandala aveva gli occhi verdi, nella famiglia si diffuse il panico. Si aveva memoria di antenati con occhi grigi come la tristezza, grigi come il cielo della stagione secca, bruni come il calore, marroni come il capezzolo di una donna, neri come il segreto, neri come il cuore dello stregone. Ma occhi chiari, verde palma, fosforescenti di notte, mai! Mai si erano visti all'interno del clan occhi verdi di belva che vede nel buio, occhi di stregone maligno che viaggia di notte con gufi e civette! Come tutti i popoli della terra hanno sempre affrontato i fenomeni che minacciano l'equilibrio della loro società, così tutti i membri del clan cercarono di trovare un senso all'evento, allo scopo di scongiurare un'eventuale malasorte con le inevitabili conseguenze di traversie e tribolazioni. Non è un ragazzo naturale, ipotizzavano alcuni, è la reincarnazione di una pantera o, per meglio dire, di un uomo-pantera venuto a regolare i conti con il clan. No, dicevano quelli che non avevano mai creduto alla nascita del bambino, quegli occhi verdi sono indice del suo arrivo stravagante su questa terra, il segno della sua non-nascita. No e poi no, protestavano altri, noi possiamo testimoniare della sua nascita, il bambino non è strano né estraneo. Quegli occhi verdi e cerulei sono piuttosto una maledizione che dipende dal padre, la cui famiglia non ha mai accettato davvero il suo matrimonio; smettetela di proferire idiozie del genere, s'indignavano quelli dalla parte del padre, una simile tara può venire unicamente dalla famiglia materna perché non è possibile che da un lignaggio di fabbri, lavoratori che con la sola forza della volontà trasformano i metalli costringendoli ad acquisire qualsiasi forma immaginabile, venga fuori un errore, una qualsiasi debolezza genetica! Nzambi-a-Mpungu : occhi perversi, occhi perverdi! La famiglia materna, umiliata dalle malevole allusioni nei suoi riguardi, richiamò la madre dalla casa del marito e con lei il figlio. Il padre pretendeva il rimborso integrale di quanto aveva pagato come dote alla famiglia di sua moglie: due capre, alcuni polli, una decina di splendide conchiglie provenienti dalle rive dell'oceano, due asce e un pacchetto di sale; e lasciava correre per le decine di fiasche di vino di palma e d'ananas offerte per la cerimonia nuziale! La famiglia della moglie rifiutò le pretese del marito e
gli rimborsò solo un'infima parte della dote perché, dopotutto, durante il periodo in cui la donna aveva vissuto in casa di suo marito, non aveva forse lavorato per lui? Chi si alzava per prima tutte le mattine per andare a piantare, seminare, sarchiare? Chi andava due volte al mese a dissotterrare i tuberi di manioca per farli spurgare giorni e giorni nei lenti meandri del fiume per preparare il fufu, la farina che serviva per nutrire tutti quanti? Chi faceva i lavori di casa, lavava la biancheria, chi si occupava del bambino, chi... chi... chi...? La famiglia continuava a enumerare, contare e ricontare le molteplici attività della figlia, diligente libellula, lesta come una rondine, laboriosa come un'ape, dolce e tenera come una chioccia. Tra le due parti la polemica diventò sempre più aspra e in quella circostanza il bambino ricevette il soprannome di Mambu, figlio-della-discordia. Fu il vecchio Nimi A Lukeni - colui che aveva dato a Mandala il nome di Mankunku - che riconciliò le due famiglie, fece seppellire per sempre l'incidente ed evitò che Mandala Mankunku dovesse portare per tutta la vita il soprannome di Mambu. Lukeni era già così vecchio che non udiva quasi più, non vedeva quasi più: passava il tempo su una sedia a sdraio all'ombra di una ceiba, tenendo in mano uno scacciamosche. Ogni tanto lo si sentiva mormorare frasi incomprensibili oppure, quando non riusciva ad allontanare con un colpo del suo scacciamosche un insetto particolarmente ostinato, esplodere improvvisamente d'ira. Sembrava risuscitare soltanto alla sera quando, circondato dai giovani del villaggio, raccontava gli episodi storici e leggendari raccolti dal suo popolo per generazioni, ripescandoli nella biblioteca-museo della sua memoria. Cominciava sempre con voce sorda e monotona che si faceva pian piano più acuta, si scaldava, vibrava a mano a mano che proseguiva nel racconto: qualche volta intonava una canzone con voce tremula, l'aria veniva immediatamente ripresa in coro e poi prendeva il volo verso il paese degli antenati di cui tesseva le lodi. Alla fine, stanco, andava a dormire e il giorno dopo lo ritrovavi sulla sua sedia a sdraio sotto la ceiba. Così, quando venne a sapere delle dispute che opponevano le due famiglie, le convocò sotto quell'albero e ciascuna delle due dovette portare numerose fiasche di vino. Era presente anche tutto il villaggio: alcuni erano venuti per favorire la riconciliazione delle due famiglie, altri come partigiani dell'una o dell'altra, e il resto per assistere allo spettacolo e approfittare dell'abbondanza del vino offerto in quelle occasioni... ...Il vecchio Lukeni scaccia brutalmente la mosca che lo importuna e batte le mani. Tutti tacciono. Rituali e consigli d'uso, che gli antenati ci guidino! Distende le mani nel gesto generoso di colui che riceve e di colui
che dà: «Il tuo punto di vista, donna». Lei parla, accusa, piange, stringe il suo piccino adorato contro il seno protettivo. La famiglia e i suoi partigiani l'approvano, sostengono le sue affermazioni con gridi e frasi lanciate al vento. «E tu cosa dici, uomo?». Lui parla, accusa, vanta il suo lignaggio di fabbri. La parentela della sposa protesta e vanta il proprio. Parlano tutti insieme, si alza la voce, ci si riscalda; piccole ingiurie, le voci salgono ancora, si sentono volare le ingiurie grosse, le parole irripetibili che potrebbero determinare la rottura definitiva del clan. Si è quasi al punto di non ritorno, una parola in più, un gesto e... a questo punto, il vecchio alza la mano: un silenzio improvviso, malgrado il chiocciare delle galline e dei galli che si rincorrono sull'aia cercando di accoppiarsi. Gli occhi si voltano, le orecchie si tendono: la sua voce non è più la sua voce, è un'altra voce, carica del peso degli antenati, e lui è ieratico come una maschera: «Uomo e tu, donna, ho visto il sole sparire verso Mpemba e ritornarne più di quante volte lo possiate aver visto voi due insieme; tutti quanti, qui, siete figli miei. Io sono l'ultimo discendente diretto di coloro che, molto tempo fa, quando il paese precipitò completamente nel caos, lasciarono l'antico regno e attraversarono il fiume. Fu mio padre a scegliere il sito accanto al grande fiume di questo villaggio che chiamò Lubituku, Rinascita, mentre altri continuarono la loro fuga più lontano, verso il mare...». Fa una pausa per permettere al vento di portare le sue parole nei lobi delle orecchie, nei cuori degli astanti. «Sapete cosa aveva provocato quel caos? Ebbene, furono i clan, i lignaggi, le famiglie che litigavano, che si uccidevano tra loro per regnare sul trono; fu colpa dei clan che stabilivano e rompevano alleanze a ogni girar del vento, di persone che giungevano al punto di stringere patti con gli stranieri contro il proprio paese. Mio padre aveva scelto questo luogo perché il nostro clan vi trovasse un nuovo punto di partenza. Credetemi, mi fa davvero male vedere che tutto potrebbe ricominciare a causa di una brutta lite...». Parla a lungo proponendo domande senza risposte, rispondendo a domande non formulate, distribuendo il biasimo e l'elogio. Risale all'alba della storia, ritorna al presente, interroga gli avi e il mondo, le stagioni, la terra. Descrive i colori dell'arcobaleno e finalmente ritorna al villaggio, al clan, al bambino: «...Uno solo dei nostri antenati aveva gli occhi verdi, uno dei più grandi, colui che rovesciava i potenti: mi sto riferendo a Mankunku. Grazie a quegli occhi fosforescenti nel buio aveva uno sguardo che attraversava i corpi, leggeva nei cuori e nelle anime; di notte poteva interrogare gli occhi delle
fiere, spaventare quelli delle civette e dei gufi, inseguire gli stregoni notturni. Per noi è un onore avere questo ragazzo dagli occhi verde-palma perché è proprio Mankunku che torna da noi». Si ferma, beve vino di palma fresco da una fiasca immersa in acqua fredda, ha il volto calmo e sereno. Poi chiede il bambino, innocente oggetto della discordia. La madre lo stacca dal suo dolce petto protettivo e glielo consegna. Lui si piazza insieme con lui al centro di una croce, punto d'incontro delle quattro fasi del ciclo della vita: il levare del sole, il suo mezzogiorno, il suo crepuscolo quando sprofonda negli schizzi di sangue del mare e nel mondo degli antenati, e infine di nuovo il levare del sole. Con le dita deformi ma agili traccia linee e punti bianchi di caolino sulla fronte e sulle tempie del ragazzo: «Sei tu, Mankunku, che torni da noi. Che Lubituku t'accolga con la gioia di tutto il clan riunito». E il balsamo di quelle parole portate dal vento mette insieme i cuori, riconcilia gli spiriti, penetra nei petti e nelle orecchie per accarezzare gli angoli d'ogni incontro... 4 Mandala Mankunku, il figlio delle palme, crebbe tra le palme, gli animali, i corsi d'acqua e gli adulti. Ma quando fu in grado di correre e di parlare in modo intelligibile, passò la maggior parte del tempo a cercare di comprendere gli altri esseri. Discuteva con gli animali selvatici, interrogava gli adulti e i corsi d'acqua, invidiava le palme per la nobiltà del portamento. Il sole gli era diventato amico e grazie alla luna, che lo amava, la notte non gli faceva paura come agli altri ragazzi. Concesse interamente la sua fiducia a tutti gli esseri fino al giorno in cui il grande fiume Nzadi gli diede la lezione che lo segnò per tutta la vita e che gli avrebbe dato quel gusto inesauribile di sfidare i potenti. Alcuni dicevano che avesse ereditato quel gusto della provocazione dal suo illustre antenato Mankunku, che già ai suoi tempi si proclamava «colui che rovescia i potenti e i tamburi che rendono loro omaggio»; secondo altri doveva la sua stranezza alla nascita solitaria in una piantagione di banani. In ogni caso, fu sulle rive del grande fiume che prese la risoluzione di reagire violentemente, ogni volta che avrebbe potuto, contro i padroni di questo mondo. Lui amava il grande fiume e lo rispettava. Passava ore ed ore a guardare le onde del suo lungo corso calmo, di potenza contenuta e scintillante sotto il sole. Ammirava i pescatori che vi lanciavano le reti e riportavano a riva numerosi pesci: il fiume, come la terra, nutriva. Nei giorni di festa, Man-
kunku sentiva il fiume trasalire d'eccitazione per gli schiamazzi e i colpi di pagaia dei piroghieri che lottavano per il primo posto nella gara che ingaggiavano sulle sue acque. Talvolta gli veniva voglia di essere un pesce per potersi tuffare, risalire la corrente, vivergli in seno. Ma ecco che un giorno non riuscì a resistere, volle immergersi, mescolarsi a lui e attraversarlo a nuoto. Il fiume non era d'accordo; cominciò a increspare la sua superficie, che pure era sempre calma, e sulla riva scalpicciarono piccole onde minacciose. Mankunku non se ne preoccupò, voleva mantenere la sua sfida. Il fiume, abile, lo lasciò avanzare fino al centro della corrente, poco per volta; a quel punto, spinse un gorgo sotto i piedi del ragazzo. Mankunku fu aspirato verso il basso, la sua testa scomparve tra i flutti. Sprofonda, ragazzo testardo, bevimi, bevi la mia acqua sporca, che ti gonfi lo stomaco e ti soffochi! La testa di Mankunku rispunta fuori per una boccata d'aria, pietà, lasciami, non ti sfiderò più, ti rispetterò sempre; no, non hai ancora capito, stupido ragazzotto, la lezione non è durata abbastanza. La testa sprofonda di nuovo, si sente soffocare e il sangue gli batte alle tempie. Uno sforzo quasi sovrumano lo riporta in superficie, una vigorosa bracciata, all'ultimo respiro, l'allontana dal gorgo; lui si crede in salvo, ma il fiume srotola il suo lungo braccio, lo riacciuffa, lo riporta al centro del turbine. Sì, mi volevi provocare, ragazzo cocciuto, spero che ormai tu abbia capito chi è il più forte, il più potente; te ne prego, lasciami andare, prometto di non sfidarti più. La testa riappare, ancora una boccata d'aria e poi sprofonda, di nuovo, non ne posso più, annego, ho bisogno d'aria, aria, per pietà, sviene, diventa molle come un'alga, non si divincola più. Il grande fiume, stufo del gioco, ributta sulla spiaggia quel corpo vinto; la testa del ragazzo urta contro le rocce, si ferisce la fronte, sanguina. Alla fine è disteso sulla sabbia, sempre inerte. Il sole, che è suo amico, ha pietà di lui, lo accarezza, entra nel suo corpo, gli massaggia il cuore. Lui rigurgita, espelle la cattiva acqua del fiume, poi respira. Si risolleva, sfinito, e si siede sulla sabbia. Vede colare il sangue e si tasta la fronte, trova la piaga. Si adira, Mankunku si adira, si rizza sulle gambe ancora incerte, guarda con durezza il fiume, sputa, urla. Traditore! Hai tradito l'amicizia di qualcuno che aveva fiducia in te, ti credi potente? Io sarò più potente di te, guarda, sputo, risputo e piscio nella tua acqua sporca del sangue di un amico, verrà il giorno in cui ti attraverserò a nuoto! E il vento soffia per portare via quelle parole di provocazione, per portarle in testimonianza a tutti coloro che possono sentire, io sfido anche te, vento: vi sfido tutti! Io sono Mankunku, colui che distrugge, sono Mankunku, colui che rovescia...!
Mankunku tornò a casa correndo. Sua madre lo vide arrivare con la testa sanguinante e urlò spaventata. Le donne del villaggio lo attorniarono, lo consolarono, poi condussero il ragazzo dal guaritore. Appena quest'ultimo scomparve in casa con Mankunku, la madre ricominciò a piangere a dirotto e tutte le donne del villaggio si misero a dire di tutto per consolarla; la compiansero, si compiansero, spiegarono, si giustificarono: non è niente, madre di Mankunku, sono solo graffi, capita a tutti i ragazzi; ma sì, riprende un'altra, sono io, Nsona, che te lo dico, non è niente. Guarda, un giorno il mio dodicesimo figlio è rientrato dalla caccia con un enorme squarcio sul fianco destro e meno di un mese dopo non ce n'era più traccia, eh, calma!, grida Kimbanda, tu parli dimenticando che Mankunku non tornava dalla caccia, sai bene che è stato il grande fiume Nzadi a punirlo e quello non perdona mai, hai ragione, Kimbanda, ho sempre pensato come te che quel ragazzo non sia mai nato, quel ragazzo non morirà mai, ma state zitte, allora, malelingue, non parlate della morte di mio figlio, ma no, madre di Mankunku, non dar retta alle malelingue che si agitano inutilmente come foglie morte sotto la brezza, quelle vecchie bocche che blaterano, non è una cosa grave, raccogliamo le foglie d'erba limoncina, mettiamole a bollire e facciamogli bere la benefica infusione dopo aver curato la sua piaga con succo di foglie fresche di tabacco, ed è tutto un chiacchierare, un cianciare, piangere e gemere... Finalmente il guaritore esce dalla capanna con Mankunku, che ha la testa bendata con un pezzo di stoffa bianca leggermente chiazzata di rosso: il ragazzo non ha niente, una piccola ferita senza conseguenze, il cranio non è stato toccato; non dimenticate le mie due fiasche di vino di palma e un galletto per gli antenati del fiume... Fino all'età in cui diventò a tutti gli effetti un uomo della comunità e cominciò ad aiutare suo padre nel lavoro, Mandala Mankunku aveva pianto soltanto due volte. La seconda volta fu parecchio tempo dopo l'avventura del fiume, molto tempo dopo che la sua ferita sulla fronte fosse diventata una piccola cicatrice appena visibile. Stava giocando con il figlio di Ma5 Kimbanda, una di quelle donne che non avevano mai creduto alla sua nascita. Litigarono e si picchiarono. Allora l'altro lo insultò dicendogli che non sarebbe mai diventato un antenato rispettato e sarebbe invece rimasto un vecchio cieco, sordo, muto e invalido per l'eternità perché, siccome non era mai nato, non sarebbe mai morto. Come «Ta» (per gli uomini) è un termine di rispetto e affetto verso l'anziano, o comunque dall'inferiore verso chi è ritenuto superiore. Sta per «madre» [N.d.T.]. 5
«Sì, io morirò!». «No, sei condannato a vivere in eterno come tutte le cose che non sono nate». «Bugiardo, tu sai che io sono nato, nel posto in cui io sono venuto al mondo ci sono le palme e una coltivazione di piante di banano, e un giorno morirò!». «No, sei tu che sei bugiardo! Mia madre mi ha detto che sei come il vento...». Mankunku, già forte per la sua età, sbatté a terra il suo avversario, lo fece rotolare a calci e poi fuggì via piangendo infelice. Senza origine, senza fine; senza nascita, senza morte; sono dunque condannato a errare come il vento? «Ma no,» tentò di rassicurarlo sua madre «a chi vuoi credere? A me, tua madre, che ti ho portato in grembo, o a quelle vecchie streghe sterili e gelose? Ti confermo che tu sei nato, che sei uscito dal mio grembo». «D'altronde,» aggiunse suo padre «tutto il villaggio ha visto le palme là dove sei nato, perché dubitarne? Non c'è ragione perché tu non muoia, perché tu non possa prendere il tuo posto nella lunga catena degli antenati accanto al tuo avo Mankunku». Quelle argomentazioni non riuscirono a frenare i pianti del ragazzo. Si calmò soltanto quando il guaritore, lo zio Bizenga, gli confermò la sua mortalità. Ma quell'incidente lasciò una traccia indelebile nell'anima del ragazzo e spesso, durante la sua vita di uomo, in quei momenti di grande solitudine ai quali bisogna far fronte in ogni grande battaglia, si sarebbe ancora domandato più di una volta se, in ultima analisi, lui non fosse proprio quell'uomo senza inizio e senza fine, condannato a errare eternamente sulla terra al di fuori del tempo e degli orologi degli uomini. 5 «Ah, che nobile arte è il mestiere del fabbro! Si prende il ferro, lo si torce, lo si sfibra e lo si ricostituisce. Il mantice anima la fiamma del fuoco come quella della vita; poi l'acqua, che si attinge facendo coppa con le mani e con cui si asperge quell'anima viva e fiammeggiante per ucciderla quando si vuole. Signore del ferro, del fuoco e dell'acqua! E tu, Mankunku, tu dici che questo mestiere non ti interessa! «Noi fabbri abbiamo creato il coltello, arma maschia, pura come un grido all'alba della creazione del mondo, poi abbiamo creato la zappa, attrez-
zo femminile che apre le viscere della terra come l'attrezzo del maschio apre quelle della donna per inseminarla. E sempre noi abbiamo creato le campane che accompagnano i re, la lancia del guerriero, l'ascia del contadino, i gioielli leggiadri delle donne! E tu, Mankunku, tu dici che questo mestiere non ti interessa! «Tutti i maschi del mio lignaggio, mio padre, mio nonno, il mio bisnonno e così via fino all'alba delle nostre origini sono stati fabbri. Per loro, rame, ferro, piombo e oro non avevano segreto alcuno e come loro io conosco la sorgente del potere e sono pronto a rivelartela. Ma tu, Mankunku, figlio mio, tu dici che questo mestiere, che è un privilegio, non ti interessa!...». Dopo il grande fiume, suo padre fu il secondo potente che sfidò. Lui, il figlio primogenito che doveva continuare la tradizione famigliare, rifiutò, malgrado tutte le insistenze, di apprendere il mestiere del padre. Preferiva misurarsi col mondo degli alberi, degli animali, dei corsi d'acqua e degli uomini piuttosto che restare chiuso per giorni interi nell'officina della forgia a cuocere metalli. A poco a poco si attaccò allo zio materno che, grande guaritore e grande cacciatore, lo introdusse progressivamente nel mondo misterioso della caccia. Gli insegnò prima di tutto a sentire e riconoscere il respiro degli animali e i loro diversi odori. Poi gli insegnò a distinguere le due grandi categorie di animali: quelli che si possono uccidere e quelli che non si devono uccidere; poi, tra i primi, apprese a distinguere quelli che si possono mangiare e quelli che il clan vieta di consumare. Poco per volta assimilò i riti preparatori della caccia, come seguire le tracce di una bestia, come riconoscere il maschio dalla femmina per mezzo della pressione dei passi sull'erba, come stare attenti al vento... Bisognava anche riuscire a evitare le numerose trappole che gli tendeva il suo maestro. Ecco, Mankunku, dietro quella pietra calda è nascosto un serpente, fammi vedere che sei coraggioso e che io posso essere fiero di te: acchiappalo per la coda. No, zio, non bisogna mai acchiappare un serpente per la coda, ti morderebbe, bisogna prenderlo proprio alla base del collo, all'inizio delle vertebre... Ecco qua, Mankunku, siamo riusciti a chiudere la bocca di questo magnifico coccodrillo con il nostro laccio, non è più pericoloso, non può più mordere, avvicina la piroga e portiamolo vivo al villaggio. No, caro zio, il pericolo c'è sempre. Ma se ti dico che la sua bocca è legata, non può più spezzarci un braccio o strapparci una gamba. Non è la bocca che dobbiamo temere, zio, ma la forza che il coccodrillo ha nella coda. Soltanto allora Mankunku si mise a
cacciare sul serio. Si stufò ben presto della selvaggina comune e facile per lanciarsi alla caccia delle bestie da preda: la sua prima vittima fu un magnifico leopardo, che stanò facilmente grazie ai suoi occhi verdi che vedevano nel buio. «Ecco, caro zio, tu sei il mio maestro, il saggio che mi ha iniziato al mestiere della caccia e io ti regalo questa pelle di leopardo, il primo animale possente che ho ucciso». Lo zio accettò con gioia il primo regalo del suo allievo riconoscente e appese il nuovo simbolo di potenza nel posto adatto della sua collezione di pelli di felini, allineate dietro alla sedia da guaritore in un delicato miscuglio di colori. I successi del giovane Mankunku non si contavano più. Uccideva con la stessa facilità un leone o una lepre, un elefante o un topo; quando andava a caccia con i ragazzi della sua età, non riportava necessariamente più prede degli altri ma era sempre quello che inseguiva le più difficili da prendere. Tutto ciò, tuttavia, non lo soddisfaceva. In effetti, sebbene fosse riconosciuto grande cacciatore alla pari di suo zio, tanto che i leoni e le pantere lo evitavano quando ne avvertivano la presenza, Mankunku sentiva che gli mancava qualcosa di più profondo, di più fondamentale. Era forse l'assenza delle conoscenze e della conseguente potenza che dà il mestiere delle forge? Per la gioia di suo padre, tornò all'officina e si mise a imparare il nobile mestiere del fabbro. Riuscì a padroneggiare la tecnica ancestrale della cera persa con la stessa facilità con cui aveva imparato a cacciare. Quant'era abile! Si sarebbe detto che tra le dita gli colasse tutta la sapienza accumulata in quell'arte a partire dagli antenati più lontani. Sapeva creare gioielli d'ogni sorta, leggeri braccialetti di rame e d'oro per i polsi delle donne, collane e orecchini sottili per il collo delicato e le orecchie delle ragazze, grandi anelli con rumorosi sonagli per le caviglie delle ballerine, fabbricava campane per le cerimonie, triangoli per la musica, martelli enormi e pesanti per modellare altri ferri ancora. Oltre al vento magico sapeva maneggiare il mantice con tanta destrezza da riuscire a rianimare un fuoco quasi estinto, un bagliore pressoché invisibile per coloro che non avevano i suoi occhi verdi che vedevano nella notte. Ci sono due fondamentali ragioni per rispettare le persone: la loro veneranda età o la loro abilità; Mankunku era rispettato per la seconda. Era stato accettato dalla casta dei fabbri del paese, al cui interno aveva trovato il suo posto ed era ammirato. Cosa avrebbe potuto sperare di più, desiderare di più in una società dove il destino individuale non è che un aspetto visibile, per quanto indispensabile, del grande progetto la cui trama è stata definitivamente abbozzata fin dal tempo degli
antenati fondatori? Eppure, Mankunku non era soddisfatto. Certo, il suo contatto con i maestri del metallo, i grandi signori del ferro, del fuoco e dell'acqua aveva aperto un'altra dimensione alla sua visione del mondo: potete facilmente immaginare che fondere il piombo come volgare cera, modellare il ferro in tutte le forme immaginabili come si modella l'argilla, rendere il fuoco più caldo o più freddo implicava ovviamente un indubbio potere. Ma da dove veniva, allora, quella fame di altre conoscenze, quell'angoscia di aver come trascurato qualcosa? Esaurito dallo sforzo di serbare per sé dubbi e interrogativi, un giorno decise di andare a confidarsi col vecchio Lukeni, colui che aveva riportato la pace nel clan. Lo trovò sotto l'albero, com'era sua abitudine. Aveva portato con sé una grande fiasca di vino di palma che aveva spillato quel mattino stesso e alcune noci di cola per drammatizzare la sua visita e attirare così l'attenzione degli antenati, altrimenti occupati a prendere in esame altri sacrifici. Il vecchio, con le mani incrociate sul ventre dove aveva posato lo scacciamosche, sembrava dormire. Era l'inizio del pomeriggio, quelle ore in cui tutto l'universo si rilassa, vinto dal calore: i coccodrilli sui banchi di sabbia, gli ippopotami nel fango dove se ne stanno a mollo, i leoni nei boschetti della savana, i gechi sulle pietre calde, i serpenti arrotolati nelle buche della sabbia, i formicaleoni in fondo ai loro imbuti, il fiume calmo nel suo letto, gli uomini distesi sulle stuoie nelle verande o allungati sulle sedie a sdraio all'ombra degli alberi mentre le donne si godono il meritato riposo chiacchierando e intrecciandosi i capelli a vicenda. In quei momenti, a darsi da fare ci sono solo le cicale, inebriate dalla canicola, e qualche stridente locusta, incapace di smettere di rosicchiare foglie innocenti rese anch'esse molli dall'afa. Il vento indolente agitava appena le ramaglie. Mankunku si fermò accanto alla sedia del vecchio. Lo sveglio o non lo sveglio? Esitò. «Ti stavo aspettando, ragazzo mio». Sorpreso, guardò il vecchio Lukeni, che aveva afferrato il suo scacciamosche e tentava, per forza d'abitudine, di scacciare insetti inesistenti. «Mi aspettavi? Sapevi che sarei venuto a trovarti oggi pomeriggio?». «Magari non oggi pomeriggio, ma sapevo che un giorno o l'altro saresti venuto. Siediti. Sento dalla tua voce che non sei in pace con te stesso». «Io sono in pace con la famiglia, col clan e con tutta la nazione». «Tu non puoi veramente essere in pace col mondo se non sei in pace con te sesso. Siediti, Mandala Mankunku». Mankunku si sedette per terra a gambe incrociate e porse rispettosamente quanto aveva portato.
«Vecchio Nimi A Lukeni, prima che io ti parli accetta questo vino che t'ho portato e queste poche noci di cola». Il vecchio prese la fiasca, ne versò alcune gocce per terra per estinguere la sete degli avi e rendere loro omaggio. Poi bevve qualche lungo sorso. Tagliò un pezzo di noce di cola, lo masticò, poi lo sputò nel vento, dopodiché ne prese un altro pezzo e si mise a masticarlo con calma. «Abbiamo accettato il tuo vino e la cola, ragazzo mio. Parla senza paura, aprici il tuo cuore». «Ecco: sarebbe dar prova di eccessiva presunzione se dicessi che io sono il miglior cacciatore del clan dopo mio zio Bizenga? Che so far fondere il piombo e lavorare il ferro almeno quanto mio padre? Che meglio di chiunque altro so infondere forza in una scultura di legno o di bronzo, concentrare odio o gioia in una maschera, fare rifiorire sul volto di una statuetta, con una cesellatura, il sorriso interiore che può nascondere un essere?». «No, ragazzo mio, non è presunzione. Tu sei in assoluto il migliore della tua generazione». «Colui che sa fare tutto ciò non ha accesso a un certo livello di conoscenza e di potere?». «Certamente sì». Allora perché non sono soddisfatto? Che cosa mi manca? Sono troppo giovane? La gioventù è un ostacolo che inibisce I serenità e la saggezza che accompagna la conoscenza?». «Non starai mica a credere a quanto raccontano gli idioti in merito alla giovinezza, ragazzo mio! La giovinezza è una porta aperta sulla vita, e tu possiedi la verginità delle cose possibili». «Ma allora, perché?». «Come risponderti? In primo luogo, la serenità non accompagna sempre la conoscenza. E poi, ti ricordi quando eravate ragazzi e andavate in banda a preparare le trappole per gli animali selvatici, a scovare i camaleonti che si mimetizzavano rubando i colori delle foglie? Qualche volta vi capitava di abbattere quei grandi formicai che s'incontrano spesso nella foresta. Cosa ci vedevate dentro? C'era una regina, dei soldati, operaie, schiavi... Ogni formica conosceva il suo posto e la sua funzione: in quel modo la società girava bene, equilibrata, e ogni formica si sentiva indispensabile perché l'inadempienza di una rompeva la catena della solidarietà. Ma tu, io non so chi sei ed è la prima volta che non riesco a mettere qualcuno al posto giusto nella nostra società». «Io sono figlio di fabbro».
«E sei grande cacciatore». «Diciamo che sono cacciatore». «E poi sei un maestro della scultura in legno, in bronzo e in pietra». «Il fatto è, vecchio Lukeni, che vorrei sapere tutto. Perché dovrei limitarmi? Perché non potrei essere tessitore, se mi piacesse? Per il pretesto che mio padre è un fabbro?». «Nella nostra società, così stanno le cose». «E perché le cose non potrebbero stare diversamente? Perché non si possono buttare all'aria in modo che le persone come me possano trovare il posto più confacente alla loro natura?». «Attento a ciò che dici, non farti escludere dal clan per gli eccessi delle tue parole che, io lo so bene, traducono la sincerità del tuo cuore. Mankunku, figlio mio, tu sei un distruttore! Non lancio questa parola come un anatema, io constato. Tu sei una nuova varietà nel nostro campo di granturco e io guardo, perplesso: i semi che spargerai trasformeranno il nostro campo in un giardino d'abbondanza o in una piantagione di loglio? Va', lasciami dormire, non sono in grado di aiutarti: non capisco la sete che invade il tuo spirito». Posò lo scacciamosche sul ventre, incrociò le braccia e chiuse gli occhi. Mankunku sapeva che non bisognava insistere; si alzò e se ne andò. Il vecchio Lukeni non gli aveva dato la soluzione. Continuò a girovagare. Per esempio, andava a passare una giornata in riva al fiume guardandolo intensamente, come per ricordargli la sua sfida. Ma quello, impassibile, non usciva dal suo letto per colpirlo come il giovanotto avrebbe auspicato: continuava tranquillo il suo corso maestoso. Oppure andava passeggiando fino al santuario che secondo alcuni, compresa sua madre, era il posto dov'era nato: vi restava a lungo, interrogava gli alberi cercando di scoprire il legame che poteva unirlo a quell'angolo della piantagione appena liberato dalle erbacce e dai cespugli dov'era stato piantato l'albero di manda.6 Rientrava solo al calar della notte, strascicando i piedi nella polvere rossa dei sentieri di terra ferralitica e trascinando al tempo stesso la luna sulle polveri bianche della Via Lattea. Evidentemente, in quel periodo, Mankunku trascurava quanto si attendeva da lui una società in cui ciascun individuo ha il proprio ruolo. Si era posto lui stesso al di fuori delle norme ancestrali del clan. Non lo si vide più né alla forgia del padre né alla caccia. Nessuno sapeva che pensare di quelAlbero che veniva piantato nel luogo in cui si seppelliva un assassino, uno stregone o un ladro [N.d.T.]. 6
la condotta senza precedenti, la quale rischiava d'introdurre un anello debole nella maglia del clan. I suoi genitori erano preoccupati: bisognava intervenire? Trovargli moglie? Consultarono segretamente il vecchio Lukeni, che aveva sempre difeso il ragazzo, solitario sotto il suo albero e in mezzo a quegli insetti punzecchianti che continuava ad allontanare nervosamente con lo scacciamosche: «Nessuno della vostra generazione potrà comprendere quel ragazzo. Lasciatelo tranquillo, soprattutto non turbatelo. Non si risvegliano i sonnambuli. Quel giovanotto è abitato dallo spirito del suo avo Mankunku, colui che colpiva i potenti e talvolta li rovesciava. Lasciatelo andare, lasciate che insegua se stesso...». 6 Quel mattino, mentre stava lavorando alla forgia, il padre di Mankunku fu colto da coliche improvvise e violente. Cadde a terra torcendosi e urlando di dolore. Lo misero su una barella di bambù e lo portarono da Bizenga, lo stregone guaritore, zio materno di Mankunku. Quest'ultimo, sorpreso nelle sue solitarie fantasticherie dalle grida e dai pianti delle donne, arrivò a passo di corsa e, messo al corrente del male che aveva appena colpito il padre, si precipitò nella casa come gli altri. Bizenga fece uscire tutti quanti, Mankunku però rifiutò di abbandonare suo padre. Allora Bizenga chiuse la porta per sottrarsi agli occhi indiscreti e chiese a Mankunku di aiutarlo. Il padre continuava a torcersi tenendosi il ventre con le mani, col volto imperlato di sudore freddo. Gemeva. Il guaritore gli palpò lo stomaco, allungò le dita sul ventre del malato seguendo linee che lui solo sembrava conoscere e che lo sguardo verde di Mankunku, che vedeva attraverso le cose, non riuscì a discernere. Tastò, fece pressione in certi punti particolari, massaggiò. A poco a poco, il malato cessò di torcersi e di gemere. Allora Bizenga gli somministrò una pappa densa a base di papaia. Poi domandò a Mankunku, figlio di fabbro e fabbro egli stesso, di prendere il mantice di suo padre. Mankunku prese lo strumento che stava accanto alla stuoia e, seguendo le istruzioni dello zio, soffiò per quattro volte aria purificatrice sul volto del malato: come il vento allontana il fumo, così l'aria magica del mantice scacci il male dal corpo! Ora il paziente era completamente calmo; gli asciugarono il viso. Lo zio indossò un bel manto di pelle di leopardo, si infilò delle collane sulle quali erano infisse penne di uccelli diversi, denti e unghie di felini, sacchetti che contenevano miscugli di capelli, polveri e conchiglie... Si mise in modo teatrale davanti al malato tenendo in
mano una coda di bufalo e chiese a Mankunku di aprire porte e finestre affinché la folla potesse ammirarlo nel suo piccolo regno. Ah, quanto è potente lo stregone Bizenga! Sicuro di sé e dominatore, parla, si agita, apostrofa uomini e spiriti. Immerge la coda di bufalo in una giara d'acqua e ne asperge la sala, si riempie la bocca di vino di palma che sputa nei quattro angoli dell'ambiente. Spiriti malvagi, allontanatevi, stregoni alla ricerca di cadaveri da mangiare, se non lasciate in pace il padre di Mankunku, vi ucciderò: sapete bene che per me non esiste segreto, vedo quelli che si nascondono dietro questa malattia e dico loro solennemente, davanti al villaggio riunito, che se entro quarantott'ore non avranno lasciato il malato che tengono tra i denti, io li denuncerò pubblicamente e chiederò agli antenati di colpirli duramente. Ck ck ck, sputa ancora vino dalle finestre aperte, din din din, tintinnano i suoi campanelli e i sonagli. Che oggi le mie parole bastino a guarire il malato, che il potere delle mie parole, riprese come un'eco dagli antenati, restituisca la forza al padre di Mankunku... Mankunku, seduto per terra di fronte alla pelle di leopardo che aveva regalato allo zio, ascoltava affascinato l'arringa peripatetica del guaritore Bizenga e guardava perplesso suo padre, il più anziano dei fabbri, signore del ferro, del fuoco e dell'acqua, disteso su una stuoia come un bambino spaurito. Lo zio continuava ad andare, venire e a declamare i suoi sermoni. Mentre ascoltava il guaritore, una domanda confusa invase a poco a poco la mente di Mankunku, sommergendolo: era forse la conoscenza di quel mondo oscuro delle forze che reggono la vita e la salute degli individui a mancargli così disperatamente? In effetti, sapeva intuitivamente fin dalla più tenera età di trovarsi in un mondo dove, seppure ogni cosa non era necessariamente la materializzazione di una forza, perlomeno aveva una forza in se stessa: la forza che spinge la linfa delle piante, la forza del sesso degli uomini, quella che contiene il grande fiume, quella che fa in modo che la luna e il sole si spostino nel cielo, la forza che muta un cattivo pensiero, una cattiva parola, in un male fisico che colpisce un uomo e può ucciderlo! Seduto a gambe incrociate sul suolo duro di terra battuta, col mento appoggiato nel cavo costituito dai palmi delle mani giunte ai polsi ma aperte in forma di coppa, era talmente concentrato che non sentiva più il dolore dei suoi muscoli stirati dall'immobilità. Cercò di seguire coi suoi occhi verdi le parole dello zio, che però divennero ben presto banali e ordinarie, persero significato, si trasformarono in vacui mormorii e poi persero completamente la facoltà di fargli vibrare i timpani. Gli sembrò improvvi-
samente di trovarsi davanti a un grande silenzio, il silenzio dell'universo anteriore a ogni voce umana, al di là del tempo degli orologi degli uomini. Non era più nulla ed era tutto. Era là, da qualche parte, a guardare il fiume che sfociava nell'oceano immenso, turbolento qui, calmo laggiù, era preso nel turbinio delle galassie e delle nebulose, nello scintillio delle stelle, nel vento. Ascoltava e guardava stupefatto. Il mondo era nuovo, il mondo era bello. Gli sembrò quasi di esplodere per l'illuminazione della scoperta: la conoscenza che gli mancava di più era senza dubbio quella che permetteva d'individuare la forza, il potere che si nascondeva dietro ogni cosa, di prenderla in trappola e di volgerla utilmente al bene degli uomini. Sì, quello era l'inizio della saggezza; non era proprio anche ciò in cui consisteva la forza degli antenati? Allora il suo spirito e il suo corpo si distesero soddisfatti. D'un tratto sentì male alla schiena, alle gambe, e contemporaneamente le parole di suo zio gli attraversarono di nuovo i timpani: «...fategli mangiare molta papaia matura e per due settimane cuocetegli il cibo solo con un po' d'olio di palma, se si tratta di carne, ed evitate di farla frollare, lasciatela intenerire tra due foglie di papaia. Alla fine delle due settimane tornate da me, gli darò un lassativo che libererà i suoi intestini. Perderà un po' di desiderio virile, ma lo guarirò. Bisogna che per qualche mese eviti di far fondere il piombo e di respirarne i vapori». Tacque, riprese la coda di bufalo che immerse in un liquido e ne asperse di nuovo gli astanti, che assistevano rispettosi alle manifestazioni del suo potere. Mankunku, esausto nel corpo e nello spirito come dopo un lungo viaggio, non aveva più, cosa strana, la stessa ammirazione del neofita che pochi minuti prima dedicava allo zio; trovava addirittura beota il suo modo d'agire, soprattutto il modo d'insistere pesantemente su quanto gli fosse dovuto: «Dal momento che il malato appartiene alla mia famiglia, non chiederei nulla, ma vista la gravità del male bisognerà pure che mi portiate almeno una capra, tre galline e un gallo per far sì che le orecchie degli antenati mi ascoltino, mi aiutino e ci aiutino nella nostra incessante lotta contro gli stregoni che volevano mangiare il padre di Mankunku». Quest'ultimo si alzò, lasciò la sala dove suo zio continuava a officiare, tornò a casa, si mise a letto e si addormentò subito. Mankunku imparò avidamente tutto quanto volle insegnargli suo zio. Aveva una tale bulimia di conoscenza che faceva molte domande, forse persino troppe. Lo zio talvolta rispondeva chiaramente, altre volte in modo evasivo e altre ancora non rispondeva affatto: il maestro non deve svelare
tutto, l'allievo deve restare alle sue dipendenze. Ciò nondimeno, Mankunku subodorava i limiti delle conoscenze di suo zio perché, dopo la rivelazione che aveva vissuto durante la crisi di saturnismo del padre, gli capitava molto facilmente di scoprire i momenti in cui le parole di Bizenga oltrepassavano la frontiera ben definita che separa la conoscenza vera dalla ciarlataneria. E così si mise a cercare da solo, a caso. Non cacciava più, non lavorava più alla forgia. Nuovi borbottii, nuovi sospiri. Quel ragazzo avrebbe portato sfortuna al clan, dicevano gli uni, è un distruttore, dicevano gli altri. Il vecchio Lukeni, consultato dai genitori, disse loro: «Quel ragazzo mi piace. Tanto meglio se è un distruttore, perché per costruire bisogna prima demolire». Mankunku sperimentava piante e radici nuove all'insaputa dello zio; cercava di determinare l'azione di diverse acque mescolando i suoi medicamenti con la rugiada del mattino, con la rugiada della sera, con l'acqua piovana. Si spinse anche oltre. Suo zio gli aveva insegnato la regola d'oro di qualsiasi atto di guarigione: fare appello ogni volta agli antenati perché, in fin dei conti, erano loro che guarivano: se uno non lo avesse fatto, non soltanto il malato rischiava di morire, ma poteva soffrirne anche lo stesso guaritore. Mankunku, però, sperimentò dei medicamenti sui malati senza invocare gli antenati. Fece così una scoperta che l'avrebbe impressionato e segnato profondamente quanto l'esperienza del fiume: esistevano medicamenti che potevano guarire da soli, senza l'aiuto degli antenati. Segretamente trionfava, era il suo modo di mettere in crisi i potenti. Non disse niente allo zio e si dedicò alla ricerca di quelle sostanze talmente forti da poter guarire da sole. Fu cosi che scoprì il kimbiolongo, la radice che restituisce virilità e vitalità agli uomini. Fu sempre lui a scoprire il succo amaro del quinqueliba per curare la malaria, le foglie di mansunsu contro la febbre e la fatica muscolare, il kazu contro il sonno e la fatica mentale nei giorni di guerra e di caccia, e molte e molte altre cose ancora che il popolo stesso aveva dimenticato. Contrariamente allo zio, che preservava le sue conoscenze da qualsiasi indiscrezione, si mise a raccontare in pubblico e a diffondere quelle scoperte tra la gente e a insegnare come autocurarsi; grazie a lui, alcuni anziani vissero una nuova giovinezza con giovani spose dinamiche, gli stregoni non ebbero più facoltà di colpire la gente con la malaria e nessuno faceva più ricorso al guaritore Bizenga per un banale mal di pancia. Un bel giorno, lo zio sorprese Mankunku mentre svelava gli ingredienti
di una pozione a uno dei suoi ammalati e andò su tutte le furie. Strillò, gridò, urlò, ragazzo ingrato, tu vuoi rovinarmi, vuoi tradirmi malgrado tutto il bene , che ti ho fatto; ma zio, insegno alla gente a curarsi da sola, io non vedo cosa ci sia di male; ma sta' zitto, dimentichi che io sono il tuo maestro, che sono stato io a insegnarti tutto? No, non lo dimentico. Allora non dimenticare nemmeno che io sono più vecchio di te, che so molte più cose di te e che potrei nuocerti molto seriamente. Ma zio, quando vengono da te anche per un male da niente bisogna sempre che ti portino un pollo, una capra o una fiasca di vino di palma; ma sta' zitto, ragazzo insolente, sai bene che non sono regali, bensì offerte per gli antenati; sì, zio, voglio pur crederti, ma poi sei tu che mangi i polli e le capre, sei tu che bevi il vino di palma con le tue mogli; ragazzo testardo, testardo e insolente, vuoi venire da me, vero? E allora vieni e vedrai, se tu non fossi il figlio di mia sorella ti avrei fatto del male, ti avrei maledetto e cacciato da casa mia! Lo zio ha gli occhi rossi, le labbra gonfie e il volto deformato dalla collera; Mankunku capisce che la saggezza consiste nel non avvelenare la situazione, abbassa i toni, fa gli occhi tristi, s'umilia un po' e dà alla sua voce un'intonazione di pentimento, caro zio, perdonami, mi sono comportato come un bambino perché non ho ancora abbastanza saggezza, sono solo un apprendista ai tuoi ordini, ti devo rispetto sia per la tua età sia per le tue conoscenze, ti chiedo perdono. Il volto del maestro si distende e riprende una forma familiare, le labbra diventano meno spesse; hai ragione, zio, se sono venuto da te è stato per imparare; e tu hai fatto bene a dirmi che mi sbagliavo. Lo zio sorridente dà una pacca sulla spalla del ragazzo; uff, l'abbiamo scampata bella, la fiducia è ristabilita, il rispetto della tradizione ritrovato, il mondo non è più minacciato, il suo equilibrio è perpetuato; le capre, i polli, il vino e altri regali continueranno ad affluire, non cambierà niente: sempre gli antenati, il maestro, l'allievo e gli altri. «Non è grave, ragazzo mio, un giovane non ha la saggezza di un vecchio e un seme di follia può sempre infilarglisi nel cervello; l'essenziale è che ci sia qualcuno che vegli su di lui, io sono qua apposta. Non dimenticare che sempre, prima di cominciare qualsiasi cosa, bisognerà che tu me ne parli, i giovani devono rispettare gli anziani; il giorno in cui questa regola sarà infranta il clan sarà distrutto, gli antenati ci abbandoneranno e sarà la fine del mondo. Spero che tu abbia capito. Dai, va' a cercarmi la pipa con un po' di tabacco secco, poi mi spiegherai dove si trova codesta radice che ridà virilità agli uomini e come preparare quel rimedio contro la malaria».
Mankunku, obbediente, gli portò la pipa, poi tornò a casa. Quella discussione, che per un pelo poteva finire in litigio, lo convinse più che mai che c'erano cose da scoprire al di là degli antenati, al di là degli anziani del villaggio. Mio zio si attacca al poco che sa per potersi arricchire a spese degli altri, pensò. Quell'ipotesi fu confermata quando più tardi venne a sapere che suo zio aveva fatto spargere la voce di essere stato lui, Bizenga, ad aver scoperto il kimbiolongo, il quinqueliba, il mansunsu e via dicendo, ma che quell'ingrato di Mankunku gli aveva rubato l'invenzione per farsi valere. L'accusa era ridicola, perché non c'era motivo di cercare d'imporsi in una società dove non c'è lotta per la vita, dove ciascuno, nascendo, ha naturalmente il proprio posto. Mankunku non voleva scatenare inutili polemiche; continuò a lavorare agli ordini dello zio come nulla fosse stato. D'altronde, lo sostituiva così bene che tutti cominciarono a chiamarlo nganga, cioè colui che sa: il sapiente, il mago, il guaritore... Nganga alla sua età, cioè quando lui non aveva nemmeno ancora un figlio, era una cosa straordinaria. Sembrava proprio che nel paese qualcosa stesse cambiando. 7 Due donne esagitate, coi capelli arruffati e i seni al vento, arrivano correndo davanti alla casa dove stanno conversando lo zio Bizenga e nganga Mankunku: «Mankunku, grande cacciatore, presto, prendi un'arma, siamo state attaccate da una pantera che si aggira per le piantagioni di banani. Abbiamo avuto solo il tempo di scappare abbandonando il raccolto». Prima che Mankunku abbia detto una parola, gli occhi di Bizenga s'illuminano, le sue labbra si arricciano in un rictus di soddisfazione, come se avesse appena trovato la soluzione a un problema che lo tormentava da lungo tempo. Alza una mano e assume il ruolo di grande mago che sa tutto. «Donne, non si tratta di pantere, ma di uomini-pantera...». Ancora più spaventate, le donne scappano gridando lungo la strada: «Abbiamo visto gli uomini-pantera, abbiamo visto gli uomini-pantera...». Gli uomini e i bambini escono precipitosamente dalle loro dimore. Alcuni corrono verso Mankunku e suo zio: «Bizenga, Mankunku, qui attorno ci sono uomini-pantera...». Bizenga li interrompe prima che abbiano terminato la frase. «Non si tratta di uomini-pantera, sono spie jagas: ecco, è da mesi che si preparano ad attaccarci. Non ci resta che attaccarli prima noi. Bisogna che
il nostro capo dichiari la guerra!». Mankunku è un po' sorpreso dalle parole dello zio. Come ha ottenuto quelle informazioni? E perché non ne ha mai discusso con gli altri? Perché lui, che ha l'abitudine di fare lunghe passeggiate solitarie nella foresta notte e giorno, non ha mai incontrato quelle cosiddette spie? Ma è l'unico a porsi la domanda: la saggezza di uno stregone, di un grande guaritore come Bizenga, non si mette in discussione, gli si crede all'istante, ci si precipita dal capo. Questi, sorpreso, non ci crede, rifiuta di far partire subito un esercito e propone di inviare alcuni emissari dagli Jagas. Bizenga prende la parola, denuncia la debolezza del capo, le sue esitazioni che mettono in pericolo la vita del villaggio, spinge davanti alla folla le due donne terrorizzate che trattengono a stento le lacrime. La maggioranza segue Bizenga e si decide di muovere guerra contro il nemico. Battete il tam-tam, suonate ngunga7 e corni! Polvere rossa di tukula!8 Si formino due divisioni, una comandata da Bizenga e l'altra da suo fratello. Tutto è subito pronto, partenza, grida di donne, ngoma9 e ngunga. II villaggio è quasi vuoto... Meno di un'ora dopo, la divisione di Bizenga rientra sbandata, facendo finta di trascinarsi e lamentandosi: i combattenti gettano le armi alla rinfusa al centro del villaggio. Mezz'ora dopo arrivano i soldati di suo fratello, che si nasconde ostentatamente il volto per la vergogna. Tutti intonano canti di sconforto ai quali fanno coro le donne: «Il nostro capo non sa comandare, ha mandato i nostri uomini a combattere senza preparazione ed eccoli vinti. Sventura! Bizenga, aiutaci tu...». Il capo sembra aver capito tutta la macchinazione. Cammina solo, abbandonato, isolato. Non parla, non prende nemmeno le proprie difese: ascolta a testa bassa. «Un re che non sa difendere il suo popolo non merita di essere tenuto in carica». «Ha rovinato il paese lasciando i raccolti ai nostri nemici Jagas». «Non rispetta più gli anziani, fa tutto di testa sua». «Non è più in grado di governare». «Sì, ci ha portati alla disfatta». Uomini e donne approvano. Lui alza la testa e guarda Bizenga negli occhi, poi fa dietrofront e se ne va. Il suo trono viene preso e fatto a pezzi. La pelle di leopardo strappata dalla sua porta. Il re è morto, viva il nuovo Campane o campanelli che venivano utilizzati durante le cerimonie [N.d.T.]. Caolino rosso [N.d.T.]. Tam-tam [N.d.T.]. 7
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capo... Seguendo quegli avvenimenti inattesi, Mankunku assistette per la prima volta all'elezione di un nuovo capo. In effetti, era raro che per eliminare un capo si facesse uso di simili stratagemmi. Si trattava certamente di una maniera elegante inventata dagli anziani per sbarazzarsi di un capo invecchiato e impopolare, ma non era quello il caso. A Mankunku sembrò chiaro che suo zio avesse manipolato l'opinione pubblica. Guarda caso, a essere nominato fu proprio lui, Bizenga. «Che cosa ne pensi della scelta di Bizenga, vecchio Lukeni?». «Non voglio più vedere, non voglio più sentire, lasciatemi in pace» aveva risposto il vecchio. Molti compresero che non era soddisfattissimo della scelta. «E tu che cosa ne pensi, giovane nganga Mankunku?». Mankunku, indignato da quegli avvenimenti, si era tenuto lontano dalle elezioni. Adesso che gli domandavano il suo parere, gli tornò alla memoria una frase, la frase che, sembrerebbe, continuava a ripetere l'illustre avo di cui portava il nome. E la risposta fu questa: «Io sono Mankunku, colui che rovescia. Sono colui che abbatte i troni dei potenti e disperde i tamburi che rendono loro omaggio». Si stupì lui stesso del proprio coraggio. Tutti lo guardarono interdetti. Il vecchio Lukeni sorrise. Bizenga, imbarazzato, diede l'ordine di dare inizio ai festeggiamenti. In quei tempi, quando la settimana aveva soltanto quattro giorni e la gente viveva dunque molto più a lungo sulla terra, duravano più a lungo anche le cerimonie. Si ballò e si bevve per due intere settimane, il capo prese una nuova moglie e si chiuse in casa con lei per tre notti di seguito. Furono incise settantotto palme per raccoglierne il succo e ottenere il vino di palma che abbeverasse i festeggianti. Si mangiarono quaranta capre e montoni, due bufali e un elefante. Ci furono undici nascite, morirono cinque persone, delle quali due per soffocamento da cibo. Si scoprirono tre casi di adulterio. Alla fine, la festa finì. Quella nomina portò a Mankunku una nuova libertà. Per vivere - e arricchirsi -, suo zio non aveva più bisogno di esercitare il suo mestiere a tempo pieno. In tutto il paese restava un unico vero guaritore, Mankunku. Non soltanto curava molto bene i suoi pazienti, ma lo faceva gratuitamente. Perciò era molto amato e ammirato. Prese pienamente possesso della sua funzione e tra lui e l'universo non c'erano più filtri. Adattò il suo lavoro a un altro ritmo. Usciva di notte, restava fuori fino all'alba a osservare il cie-
lo cercando di vedere se qualche astro misterioso spuntasse per conversare con la Terra mentre gli uomini dormivano. Così scoprì qualche stella nuova, che si mostrava solo a notte inoltrata e spariva prima dell'alba. Individuò la loro traiettoria talmente bene da poter attribuire un nome a ciascuna. Molte volte si alzò all'improvviso nel mezzo della notte, quando gli alberi meno se l'aspettavano, per vedere se per caso non si spostassero anche loro, all'insaputa degli uomini, per riunirsi in segreti conclavi. Passò un'intera notte sulla riva del grande fiume Nzadi per vedere che cosa faceva in quelle ore. Grazie alle sue attività incessanti, Mankunku fece molte scoperte, ora di dominio pubblico perché il popolo le attribuisce tutte alle rivelazioni degli antenati. Alcune furono di scarsa importanza ed ebbero scarse conseguenze, altre invece sconvolsero la sua società. Scoprì che la Terra, vista dal Sole o dalla Luna, doveva essere una boccia come sono il Sole e la Luna visti dalla Terra. Fu lui a risolvere il problema della successione delle stagioni durante l'anno: la tradizione, osservando il cielo, contava durante l'anno tredici lune, cosa che rendeva il lavoro dei campi piuttosto aleatorio perché, se qualche volta la stagione dell'aratura arrivava nel mese previsto, spesso invece arrivava o un mese prima o un mese dopo. In tal caso, molti raccolti andavano perduti. Gli anziani del tempo di Lukeni non riuscirono a risolvere quel problema e suo zio Bizenga aveva potuto imporre la sua spiegazione: gli antenati non erano soddisfatti dei doni che venivano loro prodigati e per punire gli uomini facevano arrivare la stagione secca un mese prima o chiudevano la stagione delle piogge un mese dopo: e così, lui reclamava regali e offerte che prometteva di far pervenire agli spiriti offesi. Mankunku invece si spremeva le meningi per trovare una spiegazione a quel tredicesimo mese che spariva così, di tanto in tanto. Dove scompariva? Dapprima pensò che ci fossero diverse lune e che ciascuna facesse a turno il suo giro intorno alla Terra a velocità diversa, il che spiegava la variazione di lunghezza delle stagioni. Reperì allora sulla faccia di una luna una macchia particolare, come elemento di identificazione, ma ritrovò la stessa macchia ogni mese e ogni volta esattamente nello stesso posto: dunque, intorno alla Terra c'era una sola e unica Luna. Poiché, secondo gli antenati, la traiettoria del tempo non era rettilinea bensì circolare, vale a dire che c'era un eterno ritorno sempre e per tutto, si sarebbe dovuto ritrovare quel mese da qualche parte. Davanti a quella impasse, cercò di determinare le stagioni indipendentemente dai capricci della Luna. Dal momento che
conosceva così bene le stelle, riuscì a prevedere con esattezza l'inizio della stagione delle piogge basandosi sul movimento delle Pleiadi. Ma siccome per lui qualsiasi conoscenza non aveva valore se non poteva essere utilizzata dal popolo, cercò di spiegare alla gente come in generale grazie alle stelle e in particolare grazie alle Pleiadi si potesse rettificare la differenza tra i tredici mesi dell'anno e le irregolarità delle stagioni. Nessuno volle fare lo sforzo di capirlo. Tutti trovavano che fosse troppo complicato e che sarebbe stato necessario alzarsi ogni notte per guardare il cielo. Perciò gli avrebbero creduto sulla parola perché era nganga, sacerdote e mago. Aveva l'orecchio degli antenati e poteva penetrare nei loro segreti: si rimettevano a lui. Mankunku fu contrariato da quella rinuncia e se la prese violentemente con lo zio materno, che considerava responsabile perché, contrariamente ai suoi predecessori, teneva le proprie conoscenze gelosamente nascoste e le utilizzava senza vergogna facendo credere al popolo che il sapere fosse un dono riservato a pochi. Mankunku giurò di rompere quella tradizione e si mise alla ricerca di una soluzione più semplice, più accessibile... e la trovò! Fu sorpreso dalla sua scoperta. La soluzione era talmente semplice che per un istante si domandò se tutti gli antenati e gli anziani non fossero solo dei ciarlatani che non capivano niente di niente (si rimangiò ben presto quel suo momento sacrilego). La soluzione era facile e nessuno l'aveva trovata: bastava osservare i movimenti del sole! E questo il popolo l'avrebbe compreso facilmente. In quel modo, l'anno aveva soltanto dodici mesi, le stagioni cessavano di essere erratiche e diventavano logiche e semplici. Si potevano pianificare meglio i raccolti e i periodi della semina. Data da allora il celebre proverbio: «Fidatevi del sole, la luna è volubile». Ad affascinarlo non era solo il grande universo, ma anche il mondo vicino delle piante, delle erbe. Da quando aveva scoperto l'esistenza di medicamenti che agivano per forza propria, cioè senza l'aiuto degli antenati, gli sembrava di essere passato vicino a qualcosa di ancora più importante, e ciò lo tormentava continuamente. Dunque, andò alla riscoperta di quel mondo. Solo, nella calma estraniante della foresta, in un silenzio fatto di respiri trattenuti, alzò gli occhi verso quegli alberi giganteschi la cui cima sembra sfiorare il cielo in un istante fascinoso a causa dei colori della luce scomposta dalle vibrazioni delle foglie sotto l'azione del vento. Il suo sguardo scivolò lungo i tronchi vigorosi e s'aggrappò ai rami complicati, per poi scendere ad arrestarsi nel fitto sottobosco dove, nelle zone d'ombra, regna-
vano felci fosforescenti. La sua empatia per quegli esseri immobili fu così forte che gli sembrò che le sue stesse gambe avessero messo radici; sentiva quelle forze e quelle vite risalire dentro di lui, portare il suo sesso alla tumescenza, spingere la linfa dal suolo al tronco e dal tronco alla cima degli alberi per trasportarlo fino alla punta estrema delle foglie. Contemplò le liane dalle curve avventurose che scendevano dagli alberi afferrando nei loro arabeschi le radici aeree dei paletuvieri o filando dritte verso il fusto di un altro albero, come un cordone ombelicale che legava due vite. Con qualche movimento in più, si disse, sarebbero serpenti. Quant'era varia e inafferrabile la vita! Si riscosse dalla sua contemplazione, fece qualche passo a caso, come inebriato da quell'universo sensibile, e respirò a fondo per assicurarsi la padronanza dei muscoli motori, poi si mise alla ricerca del semplice, delle piante che riteneva interessanti per quello che voleva fare. Ne raccolse alcune giovani, piene di sangue verde e dalle forme inattese perché credeva alle corrispondenze tra forma e sostanza; raccolse anche fiori rari dai tropismi sottili che crescevano in posti difficilmente accessibili, come per evitare topografie banali; raccolse la linfa forte delle piante carnivore; s'arrampicò sulla cima degli alberi più alti per raccogliere i frutti che stavano a contatto permanente con l'acqua della pioggia, acqua pura, e con il sole. Con gli ingredienti raccolti inventò diverse droghe, alcune utili e altre nocive. Scoprì pozioni contro la tosse, generalizzò l'uso della citronella, incoraggiò l'impiego delle foglie dell'albero di papaia per le lavande gastriche. Tra le droghe nocive, trovò un miscuglio che poteva uccidere un elefante in un batter d'occhio. Ciò lo spaventò talmente che, sempre spinto dal suo spirito di contraddizione, si dedicò anima e corpo alla ricerca di una nuova mistura che potesse annullare gli effetti della precedente: «Se l'acqua spegne il fuoco,» si diceva «deve esistere un qualcosa che spenga la forza del mio nuovo prodotto». Vagò per la foresta per una luna intera raccogliendo erbe, fiori, frutta e radici. Dosandone e mescolandone gli estratti eseguiva i suoi test su bestie alle quali aveva fatto assumere quel prodotto letale: in tal modo uccise venticinque capre e pecore, trentasei polli e una ventina di cani. Il villaggio non capiva la causa di quella improvvisa epizoozia: la gente trovava strane quelle morti e cominciò a diffondersi il panico. Ne parlarono a Mankunku, che non li ascoltò nemmeno. In ogni caso, s'era allontanato dal villaggio come nel periodo in cui aveva abbandonato il mestiere di suo padre. Talvolta spariva improvvisamente per andare a raccogliere la
linfa di un albero, dissotterrare una radice o strappare un'alga dalle paludi eutrofiche che stagnano nei sottoboschi. Non curava più nessuno. A poco a poco la gente si allontanò da lui per tornare a consultare suo zio materno, Bizenga. Quest'ultimo ne approfittò per denigrare Mankunku, che contravveniva agli usi tradizionali non dedicando rispetto assoluto al suo maestro e iniziatore. «Quell'uomo è maledetto,» diceva «ha la mente esagitata». Avvalendosi della sua età e della sua funzione, riuscì ad attirare a sé l'intero villaggio e ne approfittò per chiedere compensi sempre più elevati. Un giorno, tra gli estratti di piante, polveri, ceneri e altre sostanze che aveva studiato, Mankunku riuscì a ottenere la giusta mistura che, ingoiata poco tempo prima o dopo il suo miscuglio letale, lo neutralizzava! Finalmente aveva conseguito la sua vittoria! A ogni forza si contrappone una forza uguale e contraria, a un veleno un contravveleno; al fuoco l'acqua! Al giorno la notte! Al sole la luna! Tutto era dinamicamente equilibrato. Alla mano destra corrispondeva la sinistra e fu folgorato da un'illuminazione: «Adesso ho capito il principio fondamentale che regge il mondo,» si disse «non l'avevano capito nemmeno gli antenati: ogni avvenimento aveva luogo perché non c'era il suo analogo equivalente per annullarlo. La mancanza di simmetria dev'essere condizione necessaria perché le cose si muovano, perché la vita esista». A partire dal giorno in cui aveva scoperto le simmetrie dell'universo, Mankunku si calmò. Siccome gli sembrava di aver trovato qualcosa di fondamentale, la sua anima finalmente riposava in pace. Per dare un segno di quel grande cambiamento, la sera della scoperta fece il bagno completamente nudo nel grande fiume Nzadi, con il quale trovò l'occasione di una grande riconciliazione. Nuotò fino al centro della corrente e là abbandonò i vecchi indumenti che aveva indossato per tutto il periodo della sua ricerca: il fiume li inghiottì. Uscì dall'acqua, si asciugò, indossò abiti nuovi e puliti, poi tornò al villaggio, dove riprese a partecipare alle attività comuni. Visitava di nuovo i malati, divideva i suoi pasti con tutti, prendeva parte alle discussioni come nulla fosse stato. Le persone esitavano, non sapendo che atteggiamento assumere davanti a quell'uomo dai comportamenti volubili come la luna, specialmente dopo tutto il male che ne aveva detto Bizenga. Ciò nonostante, a poco a poco, tornarono da lui e lo accettarono in foto. Ritornò a essere il loro Mandala Mankunku di sempre, il loro amatissimo nganga. D'altra parte, il suo atteggiamento era stato capito non appena il vecchio Lukeni aveva detto: «È partito, è ritornato. Per ritornare, a volte bisogna partire».
8 Mankunku passava molto tempo con il vecchio Lukeni, imprimendosi nella memoria le storie del passato che il vecchio gli raccontava. «La storia di un popolo non deve morire con coloro che l'hanno vissuta, dev'essere trasmessa di bocca in bocca, di memoria in memoria ai figli dei nostri figli» ripeteva. Mankunku annuiva, giovane anima che si abbeverava alla sorgente delle proprie origini. Nelle sue orecchie sfilavano i nomi dei re, i luoghi delle battaglie, gli itinerari delle diverse migrazioni, le date degli anni dei raccolti migliori, delle siccità più gravi. Tutti quei racconti erano intervallati da melopee che Mankunku cercava di accompagnare alla meno peggio con il suo kisansì, un piccolo strumento costituito da una cassa di risonanza sulla quale aveva adattato delle lamine di ferro che faceva vibrare coi pollici e la cui tonalità era calcolata in funzione della lunghezza. Talvolta, trasportato dall'emozione, il vecchio tremava e piangeva e chiedeva a Mankunku di accompagnarlo in una passeggiata attraverso i punti più significativi della sua vita: un albero, una tomba, un mucchio di pietre, un'ansa del fiume. Era visibilmente molto stanco. Mankunku se ne accorgeva quando sosteneva quel corpo rattrappito, dalle gambe indebolite, che cercava disperatamente l'appoggio del bastone per avanzare di un passo. Una mattina, Mankunku non scorse la sagoma familiare del vecchio ai piedi del suo grande albero. Andò in casa sua e lo trovò che giaceva sul letto. Il suo corpo bruciava di febbre, le labbra indurite dagli anni e asciugate ulteriormente dalla malattia erano incapaci di chiudere una bocca sdentata in cui si vedeva una lingua che si agitava cercando invano di umettarle. Mankunku fu molto turbato e per la prima volta pensò alla morte del suo vecchio mentore. «No, non è possibile, il vecchio Lukeni non può morire! E la memoria del nostro popolo, che cosa ci capiterebbe? Non possiamo perdere tutto quello che sa, un popolo non può vivere senza memoria». Improvvisamente, si mise a dubitare della propria memoria e provò un istante di panico. Sarebbe stato capace, lui, di ricordare tutto ciò che aveva imparato dal vecchio? E poi, aveva imparato proprio tutto? «Ah,» si disse «se potessi inventare qualcosa, un codice, dei segni per riprodurre in qualche modo tutto quello che so e tutto quello che sanno i nostri vecchi! Non occorrerebbe altro che imparare il codice e i segni per poter decifrare le ricchezze che conserveremmo accuratamente in un luogo benedetto». Un lamento richiamò la sua attenzione verso il malato: «Lo guarirò, lo guarirò ad ogni costo» si disse in preda all'ira. E uscì di corsa.
Dopo un'abbondante essudazione al vapore di foglie di mansunsu, il vecchio ingoiò diversi prodotti a base di quinqueliba, e ciò tre volte al giorno. In seguito, Mankunku lo nutrì con abbondanti succhi di frutta e con un frutto selvatico, il ntundu. Dopo diversi giorni, a poco a poco il malato riprese vigore. Si rimise a mangiare i suoi cibi preferiti e alla fine ritrovò l'arguzia di sempre: era guarito! Mankunku era trionfante. Per ottenere la guarigione del vecchio Lukeni non aveva fatto ricorso allo spirito degli antenati nemmeno una volta. Adesso era persuaso che fossero importanti solo le medicine somministrate al malato: gli antenati e i doni che venivano loro offerti avevano un ruolo molto meno importante di quanto si credesse. Quell'idea lo contrapponeva al suo maestro Bizenga, per il quale l'efficacia di un trattamento era proporzionale ai doni che gli portavano e che prometteva di offrire agli antenati. Mankunku osservava il suo malato che fumava avidamente la pipa in una sorta di ritrovata gioia di vivere. Mankunku attese pazientemente la partenza di chi era venuto a visitarli, fino a quando si ritrovarono soli. «Mankunku, ragazzo mio, ti ringrazio per quanto hai fatto per me». «Dovere...». «Te ne ringrazio comunque. Ti chiedo di portare questo vino fresco sulle tombe del villaggio per ringraziare anche gli antenati». Mankunku non protestò e portò il vino. Ritornò, si sedette sulla sedia di pelle di capra accanto al vecchio, che masticava le sue noci di cola. «Ta Lukeni, ho portato il vino sulle tombe. Cosa sarebbe accaduto se non l'avessi fatto?». «Tu lo sai bene, nganga, tu che sei stato scelto per la tua nascita e per i tuoi occhi verdi». «No, non lo so». «Tu hai fatto appello a essi per guarirmi e io devo ringraziarli». «Davvero credi che non possiamo far nulla senza di loro?». «Sì, ragazzo mio. Niente. Sono gli intermediari tra l'Onnipotente e noi: controllano tutto, la pioggia, il vento, le stagioni, le forze della natura. Senza di loro, noi non possiamo niente. E non sono mica tutti buoni. Tu che sei nganga, un sapiente, hai il compito di raccogliere quelle forze, quelle conoscenze, perché ciò possa servire a tutti, uomini di carne e ossa che viviamo sulla terra». «Non dubito della tua saggezza, Ta Lukeni, ma sono sicuro che senza di loro si possano fare molte cose». «No, mai! Quello che si fa senza il loro consenso è male».
«Ma no, io posso guarire la gente senza il loro aiuto». «Non si possono ottenere guarigioni senza di loro, è impossibile! Se tu non fossi ricorso ad essi, io sarei morto». Il giovane Mankunku tacque. Che dire? Lui non aveva fatto ricorso ad essi di proposito, ed era riuscito a guarire il vecchio. «Non mi credi?» domandò quest'ultimo di fronte al suo silenzio. «Sì, sì» s'affrettò a rispondere il giovane. Dopo un po', il vecchio riprese: «E poi bisogna credere, che cosa diventerebbe il clan, altrimenti? Quale legame comune ci unirebbe? Senza il rispetto per gli antenati, chi si ricorderebbe del nostro passato, della nostra storia? Sapresti tu, oggi, che i nostri bisnonni venivano da Kongo dia Ntotila? Chi si occuperebbe di noi anziani? Io starei magari morendo da solo in qualche capanna malandata col tetto che lascia passare la pioggia. È tutto coerente, ragazzo mio». «Sono d'accordo, tuttavia tra preservare ciò che abbiamo in comune e sottomettersi ciecamente agli antenati morti da tempo c'è una bella differenza». «Sta' attento, ragazzo mio, che la tua bocca non proferisca parole che possano rivoltarsi contro di te». «Ho scoperto il kimbiolongo da solo, che cosa c'entrano gli antenati?». «Hai scoperto quello che hai scoperto grazie a loro. Sono loro che hanno scelto di aiutare il popolo per tuo tramite». «Ma allora a cosa serve la conoscenza tenuta nascosta al popolo come fa lo zio Bizenga?». «Se fossero tutti fabbri, il fabbro non sarebbe più un nobile mestiere». «Tutti i mestieri dovrebbero essere considerati nobili». Il vecchio non rispondeva. Mankunku non riusciva più a trattenersi e adesso parlava con ardore: «Gli antenati non possono aver conosciuto tutto. Io mi sento stretto, Ta Lukeni, voglio muovermi, voglio spazio. Ho voglia di buttare tutto all'aria, di reinventare il mondo per trovare una collocazione che possa assicurarmi gioia e pace. È forse male aggiungere altre conoscenze a quelle lasciate dagli antenati? Loro non conoscevano il ritmo solare delle stagioni che io ho scoperto; adesso abbiamo raccolti migliori, è forse un male? Che possano essere i nostri ispiratori, d'accordo, ma il mondo cambia. E tutto cambia!». «Attento, non essere presuntuoso...». «Bisogna rinnovare le nostre conoscenze! Non basta più essere gli anelli di trasmissione del sapere degli antenati, e nemmeno essere soltanto i de-
positari di un sapere stabilito per sempre. Bisogna lasciare l'aspetto inerte della conoscenza e cercarne gli aspetti attivi, che consistono nell'inseguirla e stanarla dovunque si nasconda!». «Ricerca della conoscenza non vuol dire rompere con il suo retaggio, ragazzo mio, tutto deve venire di conseguenza: la luna raggiunge la luna, il giorno raggiunge il giorno, le stagioni le stagioni; tutto si sussegue ordinatamente». «Sì, ma prima che il giorno raggiunga di nuovo il giorno c'è la rottura della notte, che dà nuova verginità al giorno che si leva». «Il giorno che si leva è un giorno che s'è già levato. Tutto è soltanto perpetuo ricominciamento, tutto sta in un cerchio perfetto». «No, Ta Lukeni, il giorno che si leva è un giorno che non s'è ancora levato: è una nuova partenza; tutto è perpetuo cominciare, tutto è nuova partenza». «Tra noi non è più possibile discutere. Tu rifiuti la concezione del mondo tramandata dagli antenati». «In questo mondo non c'è più niente di nuovo da imparare!» gridò con veemenza. «Questo mondo è troppo vecchio, è arrivato alla fine della corsa! Ne ho abbastanza di tutti questi simboli utilizzati mille volte, di questo vino di palma che sputiamo nel vento a ogni piè sospinto, del rispetto dovuto a uno zio materno indegno, di...». E tacque improvvisamente, come se si fosse accorto di essere andato troppo oltre. Sul volto del vecchio passò un'ombra di tristezza. «Sei un distruttore, Mankunku». «No, non sono un distruttore». «Non è un'accusa, ragazzo mio, tu sei come sei. Io constato soltanto che sei ingiusto verso di noi perché giudichi la nostra società, i nostri usi e costumi sulla base di quanto vedi attualmente. Credimi, in altri tempi, quando uno zio si faceva carico del nipote, ne diventava davvero il tutore, lo guidava attraverso la vita meglio di quanto avrebbe fatto un padre. Analogamente, i guaritori non facevano quel mestiere per arricchirsi, ma coprivano semplicemente il ruolo loro assegnato nel grande disegno che nei secoli abbiamo tracciato insieme noi e i nostri antenati. Adesso ho la stessa tua impressione, vedo effetti perversi dappertutto, gli zii diventano indegni, i guaritori avidi, i riti simboli vuoti. Sono vissuto fino ad oggi in una società il cui ideale era la propria perpetuazione. I nostri antenati e noi stessi l'avevamo costruita così bene da aver paura di qualsiasi individuo che si discostasse dalle norme ammesse, perché il minimo falso movimen-
to, il minimo elemento sottratto o aggiunto rischiava di far crollare l'intero edificio. Orbene, tu hai fatto cose che non si dovevano fare, sei andato contro tutto e non si sa chi tu sia: sei un guaritore, un cacciatore, un tessitore, un fabbro? Hai ragione, questo mondo è arrivato alla fine della corsa, non reggerà più a lungo. E io che cosa posso dire o fare? Sono molto vecchio, Mandala Mankunku, forse sarà grazie a uomini come te se sopravviveremo ancora». «Ti ringrazio, Ta Lukeni, tu sei il solo al quale posso parlare così, a cuore aperto, senza essere colpito dall'ostracismo del clan». Dopo quella lunga discussione senza mezzi termini, i due tacquero. Il vecchio era sprofondato a occhi chiusi nella sua sedia. Mankunku si sentì invadere da un immenso slancio d'affetto, allungò il braccio e gli prese la mano. Non s'era mai sentito così vicino a qualcuno, nemmeno a sua madre. Lukeni aprì gli occhi e abbozzò la smorfia triste di un sorriso. «Ieri sera ho fatto un sogno strano, Mandala: ho visto dei cadaveri viventi con la faccia bianca come la luna e una pelosità bizzarra, come se ne può trovare soltanto nei paesi dell'ombra. Arrivavano dalle profondità del mare, dentro grandi balene. Ma ecco cosa mi ha fatto paura: si sono sparpagliati sulle nostre terre come una nuvola di cavallette. Hanno camminato sulle tombe degli antenati distruggendone i vasi votivi e saccheggiando le nostre cose. Io ho invocato gli antenati, li ho chiamati in aiuto, ma non mi hanno udito e non sono venuti... Tutto questo è troppo per me, sono troppo vecchio. È meglio che muoia, credimi». Mankunku era scosso. Avvertiva nello sguardo del vecchio Nimi A Lukeni una piccola incertezza, sentiva nella sua voce quel piccolo tremolio, appena percettibile, che spesso si scopre nei vecchi che si avvicinano alla fine della vita su questa terra. Cosa voleva dire tutto ciò? «È solo un sogno, Ta Lukeni. In ogni caso, se ciò capitasse davvero, troveremo un antidoto, una forza contraria. Suvvia, buona notte e cerca di dormire: non dimenticare che sei in convalescenza». Il vecchio Lukeni morì quella notte stessa. CAPITOLO SECONDO C'erano fortissimi venti su tutte le facce di questo mondo. Fortissimi venti esultanti per il mondo, che non avevano nido né riparo. Che non avevano cura né misura e ci abbandonavano nel-
la loro scia. Uomini di paglia nell'anno di paglia... Ah sì, fortissimi venti, su tutte le facce dei viventi! SAINT-JOHN PERSE, Venti 9 Si raccontava: Vengono dal fondo delle acque, dal paese delle ombre dove vivono i morti... oppure: Sono venuti dentro grandi balene che sbuffavano vapori, sono risaliti da sotto l'oceano dove abitano gli spiriti... I primi profughi giunsero dalle regioni sulle rive dell'oceano: erano famiglie disperse di esseri sfiancati che fuggivano dai lavori forzati e dalla schiavitù. Non erano più comunità, ma gruppi diversi spezzati, frammentati, che si aiutavano tra loro appoggiandosi gli uni agli altri, portando con sé misere risorse, chi una capra, chi una stuoia, chi un casco di banane. Siccome tutti fuggivano dallo stesso nemico invasore, le loro rivalità interne si erano spente. Non avevano nessuna meta, si fermavano nei territori inabitati che incontravano. Non appena cominciavano a organizzarsi sul territorio, ecco che il controllo straniero li riacchiappava. Allora si muovevano un po' più numerosi e riprendevano la strada verso l'interno, fino a quando non arrivavano presso altri clan, che spesso li accoglievano e altre volte li massacravano... Si raccontava anche: Non bisognerà toccarli, perché la loro pelle fragile lascerebbe sulle vostre mani delle pagliuzze luccicanti come pietra scistosa: il loro volto è pallido come la luna perché sono cadaveri viventi, degli zombi... Quando le prime popolazioni videro quegli strani esseri sbarcare sulle loro rive, ebbero paura. Alcuni scapparono come se si trovassero davanti a mostri, altri li ricevettero con onore credendo fossero messaggeri inviati dagli antenati. Quando compresero che erano solo conquistatori stranieri, era troppo tardi, la loro terra era stata occupata e il loro potere annientato. Si raccontava anche: Non bisognerà mai combatterli perché avranno armi straordinarie che sputeranno il tuono... e altri aggiungevano: Bisognerà accoglierli, allearsi con loro e con il loro potere per dominare a nostra volta le etnie vicine... All'inizio, gli invasori stranieri dirigevano da sé la conquista andando da un villaggio all'altro alla testa delle loro piccole bande armate. Ma ben pre-
sto s'erano impadroniti di territori molto più grandi dei loro paesi d'origine. Non potendo essere dappertutto nello stesso momento, per consolidare il potere e continuare a conquistare altre terre cambiarono strategia. Come lo stregone utilizza la civetta o il gufo per viaggiare o portare le sue maledizioni su una casa lontana, quelli utilizzarono delle milizie, gli mbulu-mbulu. Reclutavano uomini delle etnie che avevano sottomesso, sia con la forza delle armi sia - più spesso - con la corruzione dei capi. Li vestivano con uniformi color cachi dai pantaloni lunghi fino al ginocchio e con un fez rosso col pompon nero sulla testa e ripetevano loro mille e una volta: «Noi siamo i capi, noi siamo belli e intelligenti. Dio ci ha mandati per civilizzarvi, voi, esseri neri, del colore del demonio, della notte, dei servi. Voi siete schiavi, macachi, guardate che capelli crespi avete, che labbra carnose, che nasi camusi, noi invece abbiamo i capelli lisci, il naso fine e appuntito, le labbra sottili: siamo la razza dei signori: fate un passo indietro, su con la testa e attenti!...». Diedero loro fucili e galloni, insegnarono a mettersi sull'attenti davanti alla bandiera. Poi ripeterono mille e due volte: «Voi qui siete stati scelti perché siete fortunati, siete un pochettino più civili degli altri, e allora non lasciatevi scappare questo privilegio: adesso vi mandiamo ad ammazzare quei macachi che si nascondono nella foresta come le scimmie per non pagare le tasse e non consegnare le giuste quantità di caucciù o d'avorio. Acciuffateli, picchiateli, frustateli, fate tutto quello che volete, l'essenziale è che questo abbia un risultato redditizio e... sull'attenti! Voltatevi, piegate un po' la testa, più in fretta, sporchi negri selvaggi e antropofagi, mettete il fez un po' di traverso... ecco, così va bene, e adesso salutate la bandiera; obbedite a chi comanda sennò guai a voi, fianc'arm, riposo! Andate nei villaggi, acciuffate tutti quelli che resistono, tutti i pigri che non vogliono raccogliere caucciù, fateli prigionieri, frustateli fino a che tutto il villaggio non pagherà le imposte, capito sporchi macachi?, sennò sarete voi a pagare al posto loro, ma se voi fate bene il vostro lavoro sarete dei capi e noi faremo di voi dei capi come noi, anche voi, capito?, armi in spalla e: avanti, marsc'! uno due, uno due, uno due...». E li aizzarono come cani affamati, ciechi e neri, mbulu-mbulu della malora, gufi, civette, agenti vettori della dominazione, assassini, ladri, stupratori! Ma dove state andando così, correndo e razziando? ...Eccoli che arrivano in un villaggio, sbucano improvvisamente da tutte le parti con il fucile in mano urlando con voce rauca nella loro lingua barbara. Donne terrorizzate, strilli di bambini, uomini che scappano a nascondersi tra l'erba alta: quelli sparano qualche colpo in aria, distruggono due o
tre abitazioni, abbattono due o tre capre col fucile e poi si calmano. Allora il loro capo, quello che ha i galloni, urla: «Dov'è il capo del villaggio?». Quello esce dal posto dove s'è nascosto, viene avanti tremando sulle gambe che lo sostengono appena, lo prendono per il collo e lo buttano per terra, si prende qualche bastonata e viene umiliato davanti alla moglie, ai figli e ai suoi protetti. Colpi d'arma da fuoco in aria per ricordare da che parte si trova la forza, poi i vincitori chiedono il loro tributo: «Sei tu il capo? Facci portare immediatamente dieci polli grossi e grassi, due capre, due pecore, due bei caschi di banane. Poi fa' cuocere qualche galletto tenero, da mangiare subito». Il capo, sempre tremante, col sangue che gli cola dal naso e dalla bocca, articola appena: «Il villaggio non ha pecore». «Non è affar mio!». Si danno da fare, accorrono, cacciano: cococococooo, vieni qui pollastro, vieni che c'è il mais, vieni, forza, piccolino, avvicinati, ecco, ecco dell'altro mais, cococococooo, ecco, avvicinati, crac, l'ho beccato... decapitato. Lo gettano nell'acqua bollente insieme con altri nove. Venite, ragazzi, presto, spennate 'sti uccelli, non fate aspettare questi maledetti soldati, i ragazzi si precipitano: rischiando di sbollentarsi, strappano le penne... Più lontano, bee bee bee, le capre vengono tirate, trascinate, attaccate all'albero, i miliziani vanno avanti e indietro orgogliosi, fieri, indifferenti all'inquietudine degli abitanti del villaggio, col fucile carico sulle spalle, si sentono invulnerabili grazie allo straniero che sta dietro di loro. Le facce nere contrastano violentemente con i fez rossi a pompon neri che hanno sulla testa. Vengono da molto lontano, dal Nord per saccheggiare i villaggi del Sud, dal Sud per saccheggiare e terrorizzare i villaggi del Nord, per affermare la legge del nuovo padrone... Le donne hanno paura. Quella cerca di nascondersi, ma lui l'ha vista, avvicinati ragazza, no, non voglio, avvicinati, no; lei scappa cercando di aprirsi un varco tra i cespugli, lui la segue correndo: guarda il culo della donna che si agita nella corsa, i suoi occhi di fumatore di canapa brillano, è eccitato, è eccitato perché è un uomo. Corre più in fretta. Più in fretta, donna, no, troppo tardi, presa, l'ha presa e butta il fucile, la afferra con entrambe le mani. Lei grida, lui la getta per terra, lei ha la faccia graffiata dai cespugli spinosi. I suoi occhi pieni di lacrime e la sua bocca gridano pietà, grazia, ma lui non vuole sentire, non sente, le strappa il vestito di dosso, lei grida, lo morde, lui la schiaffeggia, fa saltare i bottoni, lei si gira sul ventre, lui la rigira sulla schiena, lei stringe le gambe, lui la stordisce con un pugno. Le divarica le gambe e il suo pene rigido
la penetra, la strazia, la stupra! Ah! Maledetti fucilieri, mbulu-mbulu assassini, ladri e stupratori!... I soldati hanno mangiato e bevuto; sono contenti. Il loro capo, quello con i galloni e che chiamano capità, ha mangiato la parte più ricercata del pollo, il ventriglio: dieci polli, dieci ventrigli. È bello sazio e con le mani incrociate sulla pancia piena sonnecchia all'ombra di una veranda, mentre due donne gli fanno aria al viso con ventagli di paglia intrecciata; un bambino accovacciato gli estrae dalle dita dei piedi aiutandosi con una spina grosse larve di pulce bianche e rotonde; qualche volta, con un falso movimento, affonda un po' troppo la punta del suo strumento nella carne, la pulce si apre versando migliaia di piccole uova bianche e il volto del miliziano trasale di dolore e di piacere. Gli altri soldati continuano a bere, a correre dietro alle donne, a fumare grossi sigari di canapa greggia... Attenzione, il capità ha finito la siesta. Si alza posando i piedi con precauzione, evitando d'irritare le piaghe lasciate dall'estrazione dei parassiti. Lancia un colpo di fischietto. I suoi subordinati accorrono, squilli di tromba, tutti vengono riuniti al centro del villaggio sotto il sole che brucia: «Ecco, siamo stati molto buoni con voi. Non abbiamo ucciso nessuno, non portiamo via nessuna donna...». Non può continuare la frase, il gusto della buona salsa piccante che accompagnava i ventrigli di pollo gli risale fino in gola; rutta di soddisfazione e si massaggia il ventre. Adesso può continuare: «Ma fate attenzione! Torneremo tra cinque giorni. Ogni uomo e ogni donna del villaggio dovrà consegnarci tre chili di caucciù! Tre chili, avete capito? Sennò, attenti a voi!». Alla parola «attenti», i suoi subordinati battono i tacchi e raddrizzano il fucile; nella precipitazione, uno preme il grilletto e lo sparo porta via il fez rosso del capità, che va su tutte le furie. Dà un calcio in culo al colpevole e questo cade con la faccia a terra, si rialza tutto tremante e tende al suo capo il fez che ha raccolto. «Riposo!» urla quello. «Tre chili per ogni abitante, sennò tratterremo prigioniere le vostre donne fino a quando non avrete consegnato la quantità richiesta! Capito? Oppure taglieremo un orecchio per ogni chilo che manca, poi un dito, poi una mano. Guai a voi, sudici macachi che vi nascondete nella foresta come scimmie per non pagare le imposte, noi siamo i capi, nati per comandare, armi in spalla e avanti, marsc'! Tre chili ciascuno, avete capito? O guai a voi!». È molto contento. Si mette a posto il fez, prende il fucile e si appresta a lasciare il villaggio. I soldati sparano qualche colpo in aria, poi obbligano alcuni abitanti a portare il bottino fino alla prossima tappa. Svoltano alla fine del villaggio, spariscono, se ne sono andati...
Ma si raccontava anche: Arriveranno e si sparpaglieranno dappertutto come formiche scacciatrici, divoreranno la nostra terra, cammineranno sui luoghi consacrati ai nostri antenati, disprezzandoli, ci spoglieranno di tutto! Bisognerà trovare un modo per combatterli, per fermarli e rimandarli per mare là donde sono venuti. E altri aggiungevano: Bisognerà starli a sentire, sorvegliarli. Così impareremo. Quando avremo imparato abbastanza, utilizzeremo le loro stesse armi per attaccarli e loro abbandoneranno la nostra terra più veloci di una freccia che insegue un 'antilope. 10 Sebbene alcuni villaggi fossero stati distrutti o sottomessi, alcuni clan e intere etnie dispersi o vinti, sebbene certi capivillaggio si fossero alleati ai nuovi venuti, non tutto era degenerato allo stesso modo e neppure nello stesso grado. C'erano quelli che non lottavano e scappavano abbandonando tutto, oppure s'inginocchiavano davanti allo straniero scambiandolo per l'antenato atteso da tanto tempo; c'erano quelli che lottavano un po' o accennavano a lottare e poi si sottomettevano; c'erano quelli che si facevano ingannare per via della loro ingenuità o del loro senso dell'ospitalità; c'erano quelli che lottavano eroicamente e si facevano massacrare; infine, c'erano quelli che avevano saputo resistere e fare prigionieri dei miliziani. Dopo la conversazione avuta con il vecchio Lukeni a proposito del suo ultimo sogno, Mankunku si sentiva oppresso, a disagio, e si aspettava di vedere abbattersi sul paese una catastrofe. L'arrivo di numerosi profughi impauriti e affamati confermò i suoi presentimenti e lo fece sprofondare in uno stato quasi depressivo. Non suonava più il suo kisansì e ricominciò a girovagare. Tornava a essere calmo e attento solo quando si presentavano nuovi profughi: li ascoltava, li interrogava, si faceva spiegare meglio un punto o due del racconto, poi si chiudeva in casa. Doveva pur esistere un rimedio contro quella disgrazia, una forza contraria, un contravveleno! L'universo non poteva secernere qualcosa che non fosse poi anche capace di ripulire! Cercava e cercava. I profughi, una volta interrogati e nutriti, venivano pregati di continuare la loro strada fuori dalle terre del clan. Dopo numerosi colloqui con quei poveracci strappati alle loro terre, Mandala Mankunku fece diverse volte il giro del villaggio prendendo nota di tutte le piste, le colline, i ruscelli... Un giorno, infine, chiese al capo Bizenga, che dopo la nomina si faceva
chiamare re, di convocare tutti gli abitanti, compresi i bambini, per discutere un piano nell'eventualità di un'invasione. Suo padre, il più anziano dei fabbri, parlò, altri vecchi parlarono, senza arrivare a una conclusione soddisfacente per Mankunku. Proponevano d'invocare gli antenati, di chiedere loro di benedire le armi che avrebbero depositato per quattro giorni e quattro notti sulle loro tombe per renderle temibili. Mankunku trovava tutto ciò puerile e inefficace, come se si volesse guarire qualcuno dalla fame raccontandogli quanto è buono e delizioso un piatto di pollo alla pasta di arachidi. Aspettava il suo turno con calma; tradivano impazienza soltanto i suoi occhi, con la loro incandescenza verde. Rimpiangeva vivamente l'assenza del vecchio Lukeni, quell'uomo che aveva tanto vissuto e che sapeva tante cose. Finalmente toccò a lui e cominciò a esporre le sue idee: «Ecco, credo di aver capito la strategia degli invasori, delle loro milizie e della loro facile vittoria. Arrivano sempre all'improvviso, giocando sulla sorpresa, che è l'alleata del panico come le pulci sono amiche dei cani, poi sottomettono rapidamente le popolazioni inconsapevoli. Orbene, non si può combattere la sorpresa se non con la sorpresa. Ecco dunque cosa faremo: collocheremo sentinelle sulle colline che circondano il villaggio e su tutte le piste praticabili che conducono qui; quando vedranno spuntare quei maledetti miliziani, le sentinelle emetteranno lo stridio della civetta, uccello del malaugurio. Tutti gli uomini, le donne e i bambini si precipiteranno fuori dal villaggio e si nasconderanno nei cespugli; nel villaggio lasceremo soltanto una decina di persone che fingeranno di occuparsi del loro trantran quotidiano. Gli mbulu-mbulu arriveranno, assalteranno il villaggio credendo di sottometterlo con il favore della sorpresa e del panico e...». Eccoli improvvisamente circondati, ogni uomo ha scelto il suo bersaglio; i soldati, sorpresi, non sanno reagire. Uno tra loro vuol fare il coraggioso e tenta d'imbracciare il fucile, ma la punta d'acciaio di una freccia affonda tra i suoi occhi. Cade all'indietro, il fez rosso col pompon nero vola per aria mentre lo sparo del suo fucile si perde tra le nuvole. Mankunku dà ordine di appropriarsi dei fucili. Grida di vittoria. Sono malmenati, battuti, i fez cadono, si strappano i galloni al capità, le donne gli sputano in faccia, ci si mettono anche i bambini, gli uni con grosse pietre, gli altri con grandi canne di bambù verde. Quegli uomini fieri che si credevano invincibili tremano di paura: chiedono perdono con volto contrito, ma si continua a picchiarli, stupratori di donne, ladri e assassini, non uccideteli!, grida Mankunku, basta, basta!, le donne continuano a strappar loro i capelli e a tirarli per le orecchie, li prendono a calci nel ventre e nei coglioni, quelli hanno
paura, il loro padrone non c'è; sono perduti, molti hanno le labbra tumefatte e spaccate, il sangue cola. Adesso li picchiano coi calci dei fucili, basta!, su, basta!, continua a gridare Mankunku, non uccideteli, non uccidiamoli... Alla fine gli danno retta e smettono di colpire. Li trascinano per terra e li legano l'uno all'altro tutti e quindici. Li lasciano sotto il sole al centro del villaggio. Quando gli uomini si sono allontanati, una profuga si avvicina lentamente al capo della squadra dei miliziani, lo apostrofa obbligandolo a guardarla, poi gli sputa in faccia; allora punta al basso ventre e gli molla un formidabile calcio nei testicoli. Il miliziano urla di dolore e, non potendosi massaggiare gli organi doloranti perché ha le mani legate, si rigira sul ventre cercando di calmare il dolore sfregando sul suolo la parte colpita con movimenti a strattoni, avanti e indietro. La donna sorride e riguadagna il suo riparo, all'ombra. Si è vendicata. Si fanno i conti: quindici fucili nuovi con le cartucce, centonovantanove vere cartucce da guerra! Vittoria. Basta con le zagaglie e anche con i vecchi fucili a pietra focaia. Entriamo in una nuova era. Chi diceva che quella gente era invincibile? Si distribuiscono le sigarette, i sigari di canapa, le uniformi, si tagliano i fez e ciascuno ne prende un pezzo per cucirne un borsellino dove conservare feticci e amuleti. Il re Bizenga, che in effetti regnava solo su un grande villaggio, fu obbligato a riconoscere l'abilità del nipote. Quanto alla madre, era così fiera del figlio che ormai si faceva chiamare soltanto «madre di Mankunku». Tutto il villaggio celebrò la vittoria: vino di palma e d'ananas, tam-tam e danze, balafon e sansì, canti. Per la prima volta, gli invasori erano stati vinti armi alla mano, e per un popolo quello contava. Tuttavia Mankunku sentiva che non era finita lì: sarebbe stato troppo facile. Era sicuro che gli stranieri non si sarebbero fermati, che avrebbero cercato di liberare i loro miliziani con ogni mezzo. Dunque era l'ora della vigilanza, bisognava prevedere nuove lotte, bisognava prepararvisi. I prigionieri furono obbligati a insegnare loro l'uso dei fucili e Mankunku costituì una formazione armata il cui equipaggiamento era costituito essenzialmente da quelle armi a cartucce. Il nuovo esercito si dispose ad attendere l'arrivo degli invasori. 11 Alla fine della terza settimana, cioè al dodicesimo giorno dello stato d'allerta - all'epoca la settimana era di quattro giorni -, Mankunku fu obbligato a cambiare strategia: troppi dei suoi uomini cadevano vittime dei feticci e
delle stregonerie dell'esercito degli invasori stranieri. Ciò s'era già visto durante la prima settimana. Dopo aver vegliato tre giorni e quattro notti grazie alle noci di cola, tre soldati della truppa di Mankunku credettero di vedere decine di militari con fez rosso, pantaloni al ginocchio e scarponi scatenarsi sul villaggio in un tuonare di colpi d'arma da fuoco. Senza esitare, si lanciarono eroicamente a loro volta all'assalto sparando in tutte le direzioni e ferendo così parecchi dei loro compagni. Fermarli fu impossibile. Urlavano, correvano, inseguivano i loro nemici fin nei posti più inverosimili. Quando finalmente si calmarono, Mankunku aveva perso due uomini e una ventina di cartucce. A metà della seconda settimana, l'incidente fu ancora più grave. Una decina di soldati si vide attaccata da esseri strani, col corpo trasparente e la faccia pallida come la luna; dopo un momento di panico segnato da grida e urla, afferrarono i fucili e fecero fuoco in tutte le direzioni. Ahimè, ciò non sembrava né uccidere né spaventare gli assalitori: quando ebbero esaurito le cartucce, le facce bianche coi corpi trasparenti erano sempre là, più minacciose che mai. I soldati tirarono fuori i coltelli, le lance e le zagaglie per lottare col nemico: nel disordine che regnava, alcuni pugnalarono i propri compagni, altri corsero per qualche metro per poi crollare esausti. Quando finalmente tutto si calmò, non si trovò nessun corpo di nemico; per contro, il loro schieramento contava numerosi feriti e una quarantina di cartucce erano andate perse. Dopo quegli incidenti il villaggio non capiva più niente, i miliziani prigionieri invece riprendevano speranza vedendo in tutto ciò l'opera evidente dei loro padroni. Il re Bizenga portò vino di palma fresco sulle tombe del villaggio ed esortò gli antenati a proteggere il suo esercito: sperava in tal modo di avere un segno che provasse che gli antenati smentivano Mankunku. Bizenga nascondeva tale speranza da molto tempo ma, dopo quelle offerte, prese la sua decisione: ancora un incidente del genere e avrebbe tolto di mezzo Mankunku. Mankunku, da parte sua, era perplesso. Come spiegare ciò che accadeva? Decise di sopprimere le noci di cola. Ma i soldati, privati di quel coadiuvante, non riuscivano più a vegliare e si addormentavano ai loro posti. Fu soltanto al dodicesimo giorno che comprese cosa stesse accadendo. Non erano gli invasori in carne ed ossa che agivano, ma i loro spiriti maligni che aggredivano gli uomini tenuti svegli per troppo tempo grazie agli effetti della cola. Sopprimere la cola e ridurre la durata dei turni di guardia erano gli unici rimedi possibili. Cambiò completamente sistema di difesa. Non fece più vegliare tutta la
squadra: la sera rimandò i soldati a casa a dormire, li autorizzò anche a giacere con le loro mogli, mantenne soltanto alcune sentinelle che si davano il cambio: in ogni caso, non c'era più nessuno che vegliasse per tutta la notte. Così Mandala Mankunku riuscì a far fallire le manovre degli spiriti maligni inviati dal nemico. Si aspettavano una truppa di miliziani armati fino ai denti che sarebbero arrivati di preferenza all'alba oppure nel bel mezzo della notte per attaccare il villaggio e liberare così i loro amici, sempre prigionieri. Invece, un giorno, ad arrivare nell'ora in cui il sole è esattamente in mezzo al cielo, furono tre uomini; o, per meglio dire, due uomini armati e un terzo essere insolito con la faccia non pallida, bianca o trasparente come nei sogni del vecchio Lukeni, ma rossa come la cresta d'un gallo. E sulla testa aveva un casco bianco. Indossava una camicia bianca a maniche lunghe, abbottonata fino al collo, con grandi tasche sui fianchi piene di non si sa che cosa. Diversamente dai miliziani, aveva pantaloni bianchi fino alle caviglie che ricadevano sui piedi ben protetti da solidi stivaletti. Alla cintura aveva un'arma piccola, una sorta di fucile in miniatura. I due uomini che lo accompagnavano, oltre al fucile portavano sulla schiena un grosso involto; parlavano la lingua del paese e non smettevano di gridare, di ripetere: «Siamo venuti come amici, non sparate, amici, siamo amici». Le sentinelle li circondarono, afferrarono le armi dei militari e condussero i tre uomini al centro del villaggio emettendo lo stridio della civetta. Tutti uscirono eccitati, curiosi di vedere quella strana creatura dalla faccia rossiccia, il naso lungo e grandi orecchie rosse. «Non sparate, siamo venuti come amici, non sparate, amici, amici...». Ed ecco che i bambini cominciano a piangere, si stringono alle madri, spaventati. Oppure, nascosti dietro la madre, tirano fuori la loro testolina domandando: mamma, mamma, che cos'è quella cosa?, indicando con il dito la cosa, è un uomo, bambino mio, ma perché ha la faccia rossa come la polvere di tukula?, al loro paese sono così, e dov'è il loro paese, mamma?, non lo so, dev'essere laggiù, dove scende il sole la sera dopo aver bevuto sangue, ma perché non resta a casa sua? cosa viene a fare a casa nostra?, ma sta' un po' zitto, brutto moccioso!, interviene una grossa voce maschile, lascia che i grandi discutano, il bambino si ritira e si stringe ancor di più contro lo scudo formato dal corpo della madre, «amici, non sparate, siamo venuti come amici...». Compare il capo Bizenga. Alla sua destra c'è Mankunku, suo nipote, l'uomo più ammirato del villaggio, medico, sapiente, guerriero e poeta; dietro di loro, i consiglieri del re. Il re si siede sul trono scolpito appoggiando i piedi sulla pelle di leopardo che gli ha regalato Mankunku. Tutta
la sua corte lo imita. Il corpo di guardia sta in piedi, mostrando ostentatamente non vecchi fucili a pietra focaia di fabbricazione locale e ad avancarica, bensì fucili a cartucce presi alle truppe dell'invasore. «Date una sedia allo straniero». Dispongono una sedia di pelle di capra all'ombra, di fronte al capo Bizenga. Lo straniero si siede e le sue guide siedono più lontano, si toglie il casco e si asciuga il sudore che gli cola dalla fronte. Mamma, mamma, perché i suoi capelli sono lisci come la barba del mais?, idiota, è il cappello che porta che li appiattisce, mamma, mamma, posso toccarli?, no, si possono staccare e ti resterebbero tra le dita come le ali delle termiti volanti, mamma, mamma..., sta' un po' zitto, grida la madre irritata. «Siamo amici, siamo venuti in pace». È la prima volta che lo straniero apre la bocca: tutti gli sguardi ci si tuffano dentro: sembra proprio che abbia una lingua rosa e denti bianchi come tutti, eppure i suoni che ne escono sono diversi, incomprensibili, sorprendenti. Che modo barbaro di parlare! Mentre l'interprete, una delle sue guide, traduce, lo straniero si sbottona le maniche e le arrotola fino ai gomiti, slaccia anche due bottoni della camicia a partire dal collo e si fa aria. Mamma, mamma, guarda, ha le braccia bianche come la farina di manioca e il petto peloso come uno scimpanzé, piccolo idiota, è perché viene da dove stanno le ombre, un paese dove non c'è il sole, mamma, mamma, posso toccare la sua pelle?, no, piccolo mio, te ne resterebbero in mano dei pezzetti, come le scaglie dei pesci, ho paura, mamma, ho paura di quel tipo con la faccia rossa e le braccia bianche, paf, una sberla, te l'ho detto di star zitto, sgrida una grossa voce maschile. Il capo Bizenga fa un segno: gli portano il vino di palma in una fiasca di zucca. La tende all'ospite, lo straniero allunga il braccio, prende il recipiente ma esita a portarselo alla bocca. Il capo Bizenga lo riprende, se lo porta alla bocca e ne beve parecchi sorsi per mostrare allo straniero che la bevanda non è avvelenata. Lo restituisce al suo invitato. Visibilmente imbarazzato, l'ospite asciuga furtivamente il posto dove le labbra del re hanno toccato la fiasca e assaggia appena, in punta di labbra. «Siamo amici, siamo venuti in pace» (l'interprete traduce). «E noi ti abbiamo offerto una sedia, ti abbiamo offerto del vino fresco» risponde Bizenga. Traduzione dell'interprete: «Anche noi ti riceviamo da amici». «Vi ringrazio,» riprende Bizenga «ma non riusciamo a capire questo tipo d'amicizia. Ci mandate degli uomini armati per portarci via il bestiame, per
rubarci i raccolti, per stuprare le nostre donne, per saccheggiare e bruciare le nostre case, e poi arrivate gridando pace, pace, siamo venuti come amici. Se nei vostri paesi lontani questo si chiama amicizia, da noi non funziona così». Traduzione dell'interprete: «Voi e gli uomini che avete mandato siete ladri di bestiame, stupratori di donne e razziatori. Fatelo pure nei vostri paesi lontani ma non venite qui a parlarci di pace, pace, di amici, amici!». Lo straniero non sembra contento di essere trattato da ladro e stupratore da quegli indigeni. La sua faccia diventa ancor più rossa. Mamma, mamma, la sua faccia brucia, prende fuoco, paf, una scoppola, t'ho già detto di star zitto, razza di testone, sta' zitto o ti rimando a casa! La faccia perde un po' del suo colore, è civilizzato e diplomatico e si trova da solo in mezzo a un'orda di facce ostili: deve dunque controllarsi. «Credimi, grande capo, vi siete ingannati sulle nostre intenzioni. Siamo davvero venuti come amici. È vero che qualche miliziano fuori controllo si dà al saccheggio; ne sono al corrente, ma è solo un'infima parte dei nostri che non ha seguito gli ordini. Del resto, so che ne avete qui alcuni prigionieri e me ne rallegro; rendeteceli e noi li castigheremo come esige la nostra legge. Quanto a noi, i nostri cuori sono bianchi come la neve e la mia presenza qui lo testimonia chiaramente». Traduzione dell'interprete: «Non siamo stati noi a mandarvi questi miliziani, non sono venuti dietro nostro ordine, restituiteceli e li fucileremo come esige la nostra legge. Quanto a noi, credetemi, i nostri cuori sono bianchi come... come...». L'interprete esita, cerca e trova: «I nostri cuori sono bianchi come i capelli bianchi della saggezza». «Sono molto contento di sapere che il cuore dello straniero è bianco come i capelli bianchi, segno di saggezza. Sono altrettanto contento di sapere che quei maledetti mbulu-mbulu non sono venuti qui su vostro ordine. Sono certamente degli ammutinati che hanno rubato le armi. Propongo allo straniero non di fucilarli come esigerebbe la sua legge, bensì di punirli noi stessi sotterrandoli vivi; e in quel posto sarà piantato un grande albero di nsanda per sancire e commemorare la nostra amicizia». Sentendo la proposta d'amicizia, Mankunku interviene senza domandare la parola: «Ma Bizenga, non darai mica retta a quell'uomo, la sua parola è viscida come linfa di gombo. Non si può tenerla per buona. Mente di sicuro. Sono stati lui e i suoi fratelli a mandare i miliziani. Io li ho interrogati, ci ho parlato e sono proprio questi stranieri che hanno dato loro i fucili e li hanno scagliati sui nostri villaggi e le nostre terre come avvoltoi affamati.
Quell'uomo mente, non cadere nella sua trappola!». Bizenga ascolta irritato le parole del nipote. Quel giovanotto, nato con l'ultima pioggia, comincia francamente a diventargli insopportabile. Che fare? Rimetterlo subito al suo posto per far vedere una volta per tutte chi è il capo del villaggio, oppure ignorare il suo intervento e continuare come nulla fosse? Esita un momento e, abilmente, fa passare il suo silenzio, specchio delle sue incertezze, come silenzio dei re, gravido di saggezza. Quanto allo straniero, sebbene non comprenda la lingua del paese crede d'indovinare le parole di quell'uomo alto con il volto duro e accigliato. Volge la testa e per la prima volta lo guarda davvero; si domanda come ha fatto a non notarlo prima. Quando vede il colore dei suoi occhi ha un soprassalto e, come preso da una vertigine davanti alla loro profondità, affascinato, v'immerge lo sguardo: si tuffa nella profondità del grande fiume Nzadi e si agita, e annega, e ha paura. Ne emerge e si ritrova nell'immensa foresta equatoriale verde e inaccessibile alla sua anima, ne ode i gridi e i rumori e, incapace di comprendere, inventa orrori e fantasmi che vanno ad accrescere la sua angoscia galoppante; il suo spirito s'inoltra ancor più nel cuore delle tenebre e si perde, non sapendo come sfuggire alla trappola di quel mondo fantasmagorico e misterioso. Il suo corpo, che ha la stessa paura, si riscalda e gocce di sudore gli luccicano sulla pelle. Al prezzo di uno sforzo sovrumano, il suo sguardo finalmente risale verso la luce del sole rovente di mezzogiorno. Uff, è salvo, allontana i suoi occhi da quelli verdi di Mankunku; si fa vento e prende il tempo necessario per ricomporsi. Anche Mandala Mankunku ha affondato lo sguardo negli occhi blu dello straniero, occhi blu oltremare: dentro a quegli occhi sfilano innumerevoli officine che fabbricano a velocità sorprendente un numero incalcolabile di fucili a cartucce, e forse persino di fucili a ripetizione; non capisce, è terrificato, cerca dietro a quelle officine e a quelle armi le tombe degli antenati, il segreto della loro potenza; non trova, la sua mente non capisce la logica di quel mondo e l'uomo davanti a lui diventa ancora più temibile. Vorrebbe andarsene, ritirare il suo sguardo, che però esita ancora sul mare blu degli occhi dello straniero; vi scopre grandi navi che solcano gli oceani, uomini incatenati trascinati per terra e per mare, interminabili equipaggi di rematori. La sua angoscia si fa più opprimente, respira male e ha paura. Improvvisamente il suo sguardo si libera, risale verso il sole splendente e rassicurante del mezzogiorno, verso l'immensa distesa verde e calma della foresta equatoriale. Il suo petto si dilata, respira meglio, ma l'impressione di disa-
gio non passa. Si alza di colpo e lascia la riunione senza una parola: il mondo nel quale lo straniero lo vuole attirare è un mondo con cui non vuole scendere a compromessi. Tutti lo seguono con gli occhi, fino a quando si riduce a un'ombra appena visibile che s'inoltra nella foresta. Il re non ha fatto un gesto per trattenerlo, al contrario, sospira liberato. Quanto allo straniero dal naso lungo, dai capelli lisci e dalle orecchie rosse che fa paura ai bambini, si rilassa visibilmente sulla sua sedia di pelle di capra. Tra i consiglieri gli sguardi esitano, le gambe vorrebbero muoversi, delle braccia si agitano e qualche lingua vorrebbe parlare per reclamare il ritorno di Mankunku, o perlomeno la sua presenza in quella discussione con lo straniero; ma ormai nessuno osa più, gli anziani tacciono, il capo fa quello che vuole, offre e chiede al potente straniero ciò che lui solo decide... Improvvisamente, tra il capo e i suoi consiglieri qualcosa si è spezzato! Lo straniero, seguito dall'interprete, accompagna il capo Bizenga nella sua dimora per un colloquio a porte chiuse. Entrano. Ancor prima che gli offrano una sedia, apre il borsone portato dai miliziani che l'accompagnano. Tessuti cerati di Olanda, perle delle Indie, stoffe di Aleppo, pezze di basino, una grande coperta rossa e oggetti di vetro. Bizenga è stupefatto, accarezza la stoffa di Aleppo, si fa scorrere le perle tra le dita, ride, vede la coperta rossa, la tocca, la tasta e la stende, se l'arrotola intorno alle spalle, la srotola, l'ammira tenendola sul braccio, ride e se la passa attorno alla vita. Ah, quello sarà il nuovo simbolo della regalità. Sì, gli dice lo straniero, con quella roba addosso sei davvero bello: e allora Bizenga non si trattiene più, cammina, ancheggia, si pavoneggia. Tutto questo è per te, riprende lo straniero, e molte altre cose ancora. Molte cose ancora? domanda Bizenga. Sì, è la risposta premurosa, anche dei fucili. Anche dei fucili? Sì, anche dei fucili. Ah, tasta, ritasta, gioca ancora con le perle, gira le collane intorno al collo. Sarò ricco, tornerò ad essere un grande re e ricostruirò il regno, sottometterò i clan nemici: voi combatterete con me, non è vero? Ma certo, appena avremo firmato un trattato d'amicizia saremo al vostro fianco, qualunque cosa accada. Ah, bisognava dirmelo prima: io firmo subito, subito! Lo straniero tira fuori il suo ultimo jolly, una strana fiasca di vetro e un bicchierino. Ci versa un po' di bevanda e ne beve lui stesso. Ne riempie di nuovo mezzo bicchiere e lo porge al re. Il re assaggia e tossisce, stupito. È forte, prende alla gola, è una bevanda da uomini più vigorosa del vino di palma, e anche di quello di mais. Vuota il bicchiere. È contento e ne chiede ancora.
«Prima firmiamo il trattato» gli dice lo straniero. «Datemene ancora un goccio, solo un goccetto». «No, prima firmiamo il trattato e poi ti do tutta la bottiglia». «Io firmo subito tutto quello che vorrai, poi tireremo il collo a qualche pollo, ammazzeremo delle capre e banchetteremo, pianteremo un albero, l'albero dell'amicizia». «Bisognerà firmare davanti a testimoni». Il re chiama una delle sue guardie: «Va' a chiamare Nkazi, Mbemba, Mahuku,» strizza l'occhio allo straniero «fanno sempre quello che voglio». I tre arrivano a passi lenti, imbarazzati, a disagio di fronte a quel modo di fare del capo, flagrante violazione di quella che era stata fino ad allora la tradizione della comunità. Si stupiscono soprattutto dell'assenza di Mandala Mankunku, l'uomo più celebre del paese. Ma lo straniero ha i suoi tre testimoni. Tira fuori dalla tasca un foglio sottilissimo. Incuriosito, Bizenga lo prende, lo tasta, lo accarezza, lo guarda in trasparenza e lo restituisce al proprietario, che spiega: «Devo spedire questo pezzetto di carta in patria affinché il capo che comanda nel mio paese sappia che voi siete miei amici; così vi manderà altri regali e, in caso di guerra, saremo sempre al vostro fianco. Proteggeremo il vostro paese come fosse il nostro. Evidentemente, vi chiederemo in cambio qualche piccola cosa - una vera amicizia non può essere a senso unico, dev'essere reciproca -, un paio di zanne d'avorio ogni tanto, un po' di caucciù o dei semi di palma e, se un giorno ne avremo bisogno, ci darete una mano per costruire una strada, per esempio, o un ponte. Vedete, non è poi gran cosa» (l'interprete traduce). Bizenga ascolta l'interprete, poi si rivolge ai suoi tre consiglieri come se volesse tener conto del loro parere. Esitano, poi Mahuku parla: «Capo Bizenga, il capo sei tu e non sta a noi ricordarti certe cose, ma non dovresti ignorare che in occasioni del genere dovremmo essere presenti tutti. Noi non conosciamo quest'uomo, non sappiamo da dove venga né cosa nasconda dietro i suoi occhi blu. I nostri antenati dicevano: se cerchi una fidanzata, aspetta la stagione secca, si può sapere se è una ragazza pulita solo in quella stagione perché non avrà paura di lavarsi malgrado il freddo. Dunque noi ti diciamo, capo Bizenga, di aspettare un po'. Niente ci prova che quest'uomo sia pulito. Lascialo ripartire e ne discuteremo, come è usanza, alla presenza di tutti e in particolare di Mankunku». Il nome di Mankunku scatena la collera di Bizenga. I consiglieri, sorpresi, lo ascoltano a testa bassa.
«Mandala Mankunku, Mandala Mankunku, ma c'è soltanto lui in questo paese, chi lo ha allevato? Chi gli ha insegnato quello che sa? Chi è il capo qui? Non riuscite a capire che le cose sono cambiate, che il mondo è cambiato? Non vedete che il nostro piccolo mondo chiuso è finito? Non siete abbastanza intelligenti per capire che la nostra salvezza, le nostre ricchezze future e il potere riposano sull'uomo qui presente? Mandala Mankunku, Mandala Mankunku, ne ho abbastanza! Abbastanza! Quest'uomo ci offre fucili, tessuti, pace e amicizia. Lui, insieme con i suoi fratelli, è pronto a farsi uccidere per noi nel caso in cui i nostri vicini ci attacchino. E cosa chiede in cambio? Qualche pezzo d'avorio, un po' di linfa di caucciù, che cresce da solo! E voi volete rifiutare tutto questo?» (l'interprete traduce). Lo straniero è contento di vedere la sottomissione dei tre consiglieri. La loro velleità di ribellione non è andata molto lontano. Lui controlla il capo e il capo controlla loro. Apre due copie del foglio di carta e si avvicina a Bizenga; con l'indice che scorre sul documento, spiega con atteggiamento amichevole: questo che vede qui è il mio nome, lei deve fare un questo segno di croce sotto il suo nome, che ho scritto qui insieme con quello dei suoi consiglieri. Tenga, prenda la stilografica. Bizenga impugna la stilografica con tutta la mano, come impugna il suo machete. Lo straniero corregge la posizione delle dita sul corpo dello strumento. Fa il segno di croce, gli altri tre fanno altrettanto. È finito, tutto finito! Quel semplice segno aveva cambiato la storia del mondo, la storia del loro mondo. Anni dopo, quando i loro discendenti andranno a manifestare davanti al palazzo del governatore per denunciare lo sfruttamento di cui sono vittime, verrà loro mostrato quello stesso pezzo di carta, ormai ingiallito e incartapecorito. Allora leggeranno che i loro antenati hanno davvero ceduto la sovranità del paese, che hanno accettato, con quel pezzo di carta, di fornire un chilo d'avorio in cambio di un chilo di sale, di fare giornate di lavoro non remunerate, di consegnare una quantità mensile di caucciù e così via, in breve che hanno accettato sia per ignoranza, sia per cupidigia, quello scambio ineguale che per molto tempo avrebbe stabilito i termini della loro relazione con il paese di quegli stranieri. Per il momento, scambi di congratulazioni. Lo straniero sistema accuratamente i documenti nelle sue grandi tasche e le abbottona. È contento, missione compiuta. Tira fuori altre bottiglie, ne dà due al capo Bizenga che, per precauzione, le ripone in un angolo solo per sé. Poi ne apre altre. Bevono tutti e sono allegri e le lingue si sciolgono, anche i tre consiglieri hanno dimenticato le loro riserve e fanno onore alla nuova bevanda. Tutti
escono e vanno al centro del villaggio, verso il grande albero amico del vecchio Lukeni. Bizenga si fa portare il suo vecchio fucile a pietra focaia, lo riempie di polvere, tira un colpo in aria, pum-pum-pum risuona l'arma lasciando uscire del fumo bianco. Il suono va, penetra nella foresta, riecheggia sulle pareti delle montagne e si trasforma in eco, l'eco risale verso la cima degli alberi e fa paura agli uccelli, che prendono il volo starnazzando. Yu-yu di gioia delle donne, grida di uomini e di bambini che applaudono. Bizenga fa scavare un buco e sotterra il fucile, fa portare le cartucce che sotterra insieme col fucile sotto l'albero: «A partire da oggi, tra noi la guerra è finita. Tra i nostri due paesi e tra i nostri popoli regnerà la pace fino a quando da questo fucile non nascerà un albero che avrà cartucce come frutti. Che gli antenati ci ascoltino» (l'interprete traduce). Alla fine, lo straniero tira fuori una bandiera, la pianta dov'è sepolto il fucile, la dispiega perché il pubblico ne distingua i colori. «Questa bandiera è il simbolo del mio paese, tutti coloro che la toccano sono liberi: voi l'avete toccata, voi siete liberi, voi siete sotto la protezione del mio grande paese». L'amicizia è sancita. Tam-tam, fuochi, danze, allegria. Si liberano i miliziani prigionieri, vengono perdonati, si offre loro da bere. Lo straniero guarda divertito; non ha più paura. È venuto, ha visto, ha vinto. Guarda le evoluzioni dei danzatori e delle danzatrici che vanno, vengono, si toccano. Improvvisamente, trasale: ma dov'è finito l'uomo dagli occhi verdi? 12 Lo straniero, stanco di cerimonie, con le orecchie affaticate dal rullare incessante dei tam-tam e la sua cultura melodica aggredita troppo a lungo da sincopi ritmiche inabituali, si alza, prende il suo Springfield a ripetizione e va a esplorare il suo nuovo territorio. Esce da Lubituku, il villaggio di Mankunku. Attraversa la piccola foresta incamminandosi sulla pista che lo porterà al fiume. Si sente bene: sotto le fronde l'aria è fresca e la luce filtrata dai rami sembra vibrare insieme con le foglie agitate dal vento; rompendo quei fremiti indistinguibili, negli spazi tra il fogliame appaiono fasci di luce spessi come il raggio di un proiettore. Innumerevoli uccelli multicolori svolazzano qua e là cinguettando, gli insetti stridono, qualche ramo si rompe. Si sente schiacciato dall'estraneità di quel mondo nuovo, rallenta il passo per osservare con occhio diffidente i grandi petali screziati degli indolenti fiori tropicali.
Finalmente, intravede il grande fiume, lento e maestoso: la sua pelle di grande serpente addormentato scintilla di scaglie composte da mille piccoli soli. Enormi coccodrilli satolli riposano sui banchi di sabbia, chiudendo di tanto in tanto le fauci con uno schiocco secco per acchiappare le decine di insetti imprudenti che si sono avventurati sulle loro lingue. Gruppi di ippopotami si divertono nell'acqua fangosa, s'inseguono con le loro zampacce enormi, si accarezzano con la dolcezza che può permettere loro il muso potente, proiettano geyser d'acqua dalle narici. Un'orda di potamoceri, dopo essersi ingozzata in una piantagione di manioca, gioca più lontano. Legioni di uccelli acquatici nuotano, sguazzano, prendono il volo per tornare a sfiorare la superficie dell'acqua e poi si librano di nuovo nell'aria. L'anima dello straniero non è rapita da quella scena fatata che si svolge davanti a lui: imbraccia il fucile a ripetizione, lo carica, mira e preme il grilletto: il rumore, amplificato dalle camere sonore costituite dalle zone di foresta, è così forte da farlo trasalire, sorpreso. Per quegli animali è il segnale di un cataclisma. Gli uccelli volano via in stormi disordinati, i coccodrilli si precipitano nell'acqua, anche gli ippopotami si gettano nel fiume in preda allo spavento. Lo straniero, invece, si è ripreso. Spara su tutto quello che vede muoversi, gli uccelli che volano via, i sauri che indugiano; gli passa davanti una grande antilope. La colpisce alla zampa. L'antilope rotola a terra, cerca di alzarsi appoggiandosi sulla zampa rotta ma ricade dal dolore nel suo sangue che schizza. Emette belati strazianti. L'uomo non ha il tempo per un colpo di grazia, sta già sparando su una cicogna che, colpita, cade nell'acqua. Alla fine si ferma. È contento. Tutto gli appartiene, può fare quello che vuole. S'allontana lentamente, tranquillamente, come un padrone che visita le sue proprietà, lascia il fremito delle foglie della foresta ripiombata di nuovo nel suo strano silenzio rumoroso. Si dirige verso la piantagione di banani, attraversa gli orti dai forti odori di piante aromatiche, sale sul piccolo costone che gli nasconde la savana... e il suo cuore per poco non s'arresta: gli elefanti! Non un elefante, ma un branco d'elefanti, un'orda di elefanti sorvolata dagli aironi guardabuoi, eleganti nel loro piumaggio bianco. Si sfrega gli occhi, è un miraggio? Guarda ancora, sono sempre là. «Sono miei!». Eh sì, sono suoi. Senza contestazioni, alla portata del suo fucile. Lo afferra un senso di potere, arma il fucile, il suo bello Springfield a ripetizione, mira un maschio gagliardo che porta immense zanne: la bestia crolla con un barrito di dolore. Gli altri, sorpresi, non capiscono, non vedono da dove proviene il pericolo. Adesso l'uomo è scatenato, carica e spara, carica
e spara, colpisce una femmina e l'abbatte, l'elefantino gira intorno al suo corpo e cerca di farla rialzare. Viene abbattuto a sua volta e crolla nel sangue della madre. Gli animali continuano a non capire, girano in tondo, cercano il vento, cercano il nemico tradizionale che possano caricare, ma non lo trovano. Il cacciatore non mira nemmeno più, gli basta sparare nel mucchio, le palle colpiranno fatalmente un animale. Carica e spara, carica e spara. A forza di girare in tondo, le bestie si stancano di cercare un nemico invisibile, si mettono a fuggire dal lato opposto del fiume in un inferno di barriti e alla fine scompaiono, sollevando una fitta polvere. L'uomo continua a sparare, sempre, carica e spara e non si ferma se non quando, ricaduta la polvere, si rende conto che non ci sono più animali e che sta sparando nel vuoto. Allora si dirige verso le sue vittime, non sono tutte morte, alcune sanguinano, grugniscono, soffrono e si lamentano. Lui continua ad avanzare verso la montagna di elefanti abbattuti camminando nel sangue, nel fango e nello sterco. Un sentimento di gioia gli percorre la colonna vertebrale, ce ne saranno trenta o quaranta, si arrampica sui corpi, passando accarezza le belle zanne d'avorio, arriva in cima al mucchio e, ricordandosi uno dei suoi eroi prediletti, si drizza, prende la posa del conquistatore pronto a farsi erigere un monumento per la storia: «Dall'alto di questi corpi di elefanti centenari, l'Africa misteriosa e millenaria mi contempla e...». D'un tratto si riprende e si sente un po' ridicolo perché gli abitanti del villaggio, attratti dai colpi d'arma da fuoco, gli si sono fatti intorno. Quaranta o cinquanta elefanti là ammucchiati, gli uni sugli altri! Non ci possono credere, loro che riescono appena a uccidere un elefante al mese, ciò che del resto è sufficiente per nutrirli. L'uomo dalla faccia rossa, i capelli lisci, le braccia bianche, che fa paura ai bambini, ha davvero una potenza ancora più grande di quanto avrebbero potuto credere. Ma cosa fare di tutte queste tonnellate di carne? Per la prima volta si confrontano a un problema di sovrapproduzione. Lo straniero, sicuro di sé e dominatore, finge di non vedere gli indigeni che lo ammirano a bocca aperta dopo quella nuova dimostrazione di potenza. Prende con noncuranza il suo fucile, il suo bello Springfield da sedici colpi, e risale verso il villaggio. 13 E allora sul paese si scatenarono quelli che venivano come pacificatori, accompagnati da scorte armate fino ai denti, quelli che portavano la civiltà
e s'insediavano come amministratori, quelli che venivano a sfruttare il paese per arricchirsi, quelli che sbarcavano brandendo la croce per salvare le anime di quei popoli ancora sprofondati nella barbarie; uomini di scienza che venivano a studiare la terra, gli animali, le piante e gli indigeni, avventurieri arditi che sognavano meravigliose Timbuctù, geografi alla ricerca di sconosciuti Monomotapa, febbrili cercatori d'oro alla ricerca dei talenti di un nuovo Ofir. Si sparpagliarono su tutto il territorio come uno sciame di locuste, divorarono le foglie, spostarono alberi e montagne, massacrarono uomini ed elefanti, attraversarono i corsi d'acqua, presero possesso delle terre, dei corpi e delle anime. Sfidarono le zanzare, le mosche tse-tse, le amebe e i serpenti; se la presero coi bufali, i facoceri e gli iloceri; resistettero al sole e alle piogge e ai venti e si spinsero fino a camminare sulle tombe degli antenati... Niente riusciva a fermare quella marcia trionfale, che cantava i giorni di gloria arrivati oppure che Dio salvasse il re. Un mondo più forte, più abile e cinico prendeva possesso di un mondo meno forte, meno abile e più ingenuo. Non era lo scontro che sentiamo quando due nuvole si urtano in pieno tornado fendendo la conchiglia del cielo con lampi folgoranti, era proprio come una semplice passeggiata, una passeggiata da cacciatore che si apre la strada a colpi di fucile e schiaccia con spregio, sotto gli stivali, i teneri ramoscelli che attraversano il sentiero, oppure come un valzer leggero e piroettante che permette di schivare e di aggirare gli ostacoli del percorso, un valzer che si svolge a passi di corruzione, di persuasione, di bluff e di altri artifici ancora. Ciò che vivevano i nuovi conquistadores era davvero straordinario! Era straordinario non quel mondo che ribolliva d'ogni sorta di forme di vita, quel mondo lussureggiante di piante, frutti e fiori sconosciuti, di originali specie di animali come la giraffa dal collo lungo o l'anfisbena, serpe dalle due teste che può spostarsi sia in un senso sia nell'altro, non quel mondo dove un semplice tornado diventava uno spettacolo meraviglioso nel quale si scatenavano tutte le forze cosmiche, ma era straordinaria l'incredibile facilità con la quale estendevano i loro nuovi imperi; non li compravano mica, e nemmeno li occupavano veramente, era molto, molto più semplice: dichiaravano, puramente e semplicemente, che quelle terre appartenevano loro, e allora diventavano loro, con tutto quello che c'era sopra e sotto. Quelli che conquistarono il paese di Mankunku si chiamavano Belgi o Francesi (che importa?). Avrebbero ben potuto chiamarsi Portoghesi, Inglesi, Tedeschi, Turchi o Mori; nelle loro azioni non sarebbe cambiato
niente perché tutti i popoli che si lanciano alla conquista di altri popoli si assomigliano. Occuparono il bacino del grande fiume Nzadi e furono arginati ad ovest soltanto dall'oceano. Verso nord non si fermarono mai, ad est si scontrarono con gli Arabi musulmani, primi negrieri schiavisti di quella parte del continente, che continuavano a spopolare intere regioni con le loro razzie, tanto frequenti quanto crudeli. Quegli Arabi, che con le loro arcaiche spingarde avevano terrorizzato intere popolazioni, distrutto famiglie, saccheggiato, rapito ragazze per i loro harem, proprio quegli Arabi che, per arricchirsi, avevano fatto marciare dall'interno del continente verso la costa orientale decine di migliaia di donne, uomini e bambini incatenati gli uni agli altri con catene così pesanti da impedire a un bufalo di camminare; proprio loro che avevano fatto marciare in condizioni tremende dall'interno verso la costa colonne e colonne di uomini con il collo infilato nella forcella di un solido ramo d'albero lungo solo un metro tra uno schiavo e l'altro e fissato fermamente alla gola da un gancio di ferro; nemmeno quegli Arabi seppero resistere ai nuovi arrivati, che riuscivano a spossessarli delle loro fonti di ricchezza: anche loro trovarono dei padroni, furono fatti a pezzi e sottomessi come gli altri. E gli invasori stranieri, dopo aver superato il bacino del grande fiume, continuarono la loro strada verso i grandi laghi. Scrivevano: Abbiamo una sacra missione, quella di portare la civiltà alle popolazioni primitive e non rinunceremo mai. Nello stesso tempo daremo al nostro paese un impero così vasto che su di esso il sole non tramonterà mai, un impero che renderà geloso il resto del mondo: in tal modo affermeremo la nostra potenza. Altri aggiungevano: Ci sono da prendere terre e servi a volontà. I diritti dell'uomo non si possono applicare ai Negri. D'altra parte, gli indigeni non hanno diritto a niente e quello che gli diamo è già una vera gratificazione. E altri ancora: Non ti starò a parlare dei costumi licenziosi di queste genti, la penna di un religioso si rifiuta di riportare su carta simili cose. Il Vangelo dice che siamo tutti fratelli, ciò è certamente vero, ma l'Africano è solo un nostro fratello minore. Bisogna però anche dire che altri scrivevano: Non abbiamo visto nulla che giustifichi l'ipotesi di una inferiorità naturale del Negro, niente che provi che il Negro sia di una specie diversa rispetto a quella dei più civilizzati. L'Africano è un uomo dotato di tutti gli attributi che caratterizzano la razza umana...
Continuarono a marciare, a scavalcare montagne, ad attraversare foreste e fiumi e si fermarono solo quando si scontrarono con altri stranieri, provenienti dagli stessi paesi ma loro rivali. Da quel momento, non avendo più altri territori da acquisire, si dedicarono a ciò che chiamarono la valorizzazione dei paesi conquistati. CAPITOLO TERZO E nella savana senz'anima abbandonata dal respiro degli antenati urlano le trombe, stridono senza tregua sopra i tam-tam maledetti notte nera! Notte nera! BIRAGO DIOP 14 Il paese di Mankunku fu diviso in grandi concessioni, che talvolta dividevano in due o in tre uno stesso villaggio. I nuovi proprietari sembravano avere un unico obiettivo: il caucciù. La vita, il villaggio non esistevano più, la settimana era cambiata e adesso contava sette giorni, dei quali l'ultimo era riservato al Signore. Mankunku aveva dovuto abbandonare come gli altri tutte le sue attività per la sola cosa che oramai contava: il caucciù. Ogni quindici giorni gli esattori, inviati dall'amministrazione, venivano a farsi consegnare il peso richiesto per ogni abitante e offrivano come pagamento un pacco di tessuti di cotone al capo Bizenga, che lo rifilava alle sue spose. Caucciù! Questione di vita o di morte! Quando qualche villaggio rifiutava di obbedire o non forniva le quantità richieste, gli stranieri mandavano una squadraccia di miliziani reclutati localmente, gli mbulu-mbulu. Arrivavano con i loro stivaletti rumorosi, sparavano qualche colpo in aria e mettevano al lavoro gli abitanti del villaggio, impauriti. Quando i miliziani, come talvolta capitava, non erano capaci di esercitare sufficiente autorità perché erano troppo vicini alla loro regione di appartenenza, gli stranieri spedivano altri soldati reclutati in territori diversi, che venivano tutti chiamati fucilieri senegalesi anche se non venivano affatto dal Senegal. La collera di quei «Senegalesi» era davvero terrificante. Se gli abitanti non obbedivano immediatamente, costoro non esitavano a frustare a sangue i recal-
citranti, a violentarne le donne e a bruciarne le abitazioni; e se provavano a scappare li rincorrevano, li spingevano in posti senza vie d'uscita e li facevano saltare con le granate. Nel Nord del paese li chiamavano i turugu perché, curiosamente, li scambiavano per Turchi. Comunque fosse, per il paese di Mankunku, che non aveva mai visto degli Arabi musulmani, avevano costumi singolari. Andavano in giro con un bidone d'acqua a tracolla che utilizzavano sia per prepararsi il tè sia per lavarsi gli organi sessuali prima di mangiare o di pregare. E il loro modo di pregare era strano: si toglievano gli stivaletti, si piazzavano di fronte al sol levante, stendevano per terra una stuoia o una coperta e ci poggiavano sopra la fronte in modo che le chiappe restassero più alte della testa, poi eseguivano una serie di dondolii da far venire il mal di mare, come un cammello al trotto, e gridavano Allah, Allah, Allah Akbar più e più volte al giorno. Dopo le preghiere, durante le quali invocavano la misericordia di Dio, sgranocchiavano una noce di cola, s'infilavano di nuovo gli stivaletti e riprendevano i fucili per continuare la loro missione sanguinaria. Gli mbulu-mbulu locali, invece, usarono talmente tante munizioni che i loro capi dovettero esigere che giustificassero l'utilizzo di ogni cartuccia. Il modo usato in risposta fu semplice: tagliarono la mano destra di tutti i recalcitranti che abbattevano. Tuttavia, non tutte le cartucce venivano utilizzate per la repressione: qualche volta se ne servivano per la caccia, altre volte andavano semplicemente perse per colpi di fucile partiti per sbaglio. In quei casi, per evitare il furore dei capi stranieri, riportavano comunque al campo delle mani giustificative, sia tagliando le mani di uomini vivi, sia approfittando della morte naturale di qualcuno per tagliargliene una. Il rituale era sempre lo stesso, il commissario straniero contava il numero delle cartucce, poi contava il numero delle mani (le mani erano spesso affumicate per evitarne la decomposizione durante il trasporto), e se il numero delle cartucce e delle mani corrispondeva dichiarava semplicemente: «Malamu (benissimo). Buttate le mani nel fiume». Ogni mattina, Mankunku e i suoi concittadini si alzavano molto presto, ancor prima del primo canto del gallo, e per trovare le ambite piante camminavano un paio d'ore nella foresta portando machete e recipienti. Incidevano quelle maledette piante, le quali versavano un sangue di lattice bianco che raccoglievano nei secchi. Per raccogliere la quantità richiesta occorrevano dodici o tredici giorni di lavoro. Quando quelle piante cominciarono a farsi rare, Mankunku salvò il villaggio dalle esazioni scoprendo delle liane che avevano la linfa simile alla guttaperca, ma quella soluzione durò
poco: la raccolta della linfa di caucciù diminuiva irreversibilmente e, parallelamente, la repressione aumentava. Caucciù, caucciù, caucciù! L'eco di quella parola risuona ancora oggi nel profondo delle foreste del paese di Mankunku! Né le lacrime né il sangue che ha fatto versare sono ancora veramente asciugati. Non c'era più il tempo di coltivare la manioca, le arachidi o gli ignami perché le donne raccoglievano il caucciù, non c'era più il tempo di disboscare per nuove piantagioni perché gli uomini raccoglievano il caucciù. Per la prima volta, il paese di Mankunku conobbe la fame! I tessitori avevano smesso di tessere, i fabbri di forgiare, i cantanti di cantare, tutti cercavano il caucciù. Anche il rapporto della gente con la foresta era cambiato: la foresta era diventata ostile perché non capiva quella sete di distruzione che li aveva improvvisamente invasi, cosicché tendeva spesso trappole fatali: mamba verdi che sbucavano dal fogliame degli alberi dove stavano nascosti per fulminare con il veleno mortale uno di loro; spine dalle ferite velenose; rovi traditori che straziavano la pelle. Oppure accadeva che perdessero l'equilibrio e precipitassero in buche che non riuscivano a vedere. Inoltre, la foresta celava sempre più accuratamente i frutti commestibili e la selvaggina. E loro ne avevano talmente paura da odiarla. La fiducia tra la foresta e gli uomini, che erano sempre vissuti in simbiosi materiale e spirituale, si era rotta: si escludevano mutualmente, gli uni erano diventati parassiti dell'altra e viceversa. Ah! Caucciù, caucciù, rosso del sangue di tutto un popolo! Quando la linfa di caucciù naturale non fu più sufficiente, lo sforzo collettivo fu spostato sulla raccolta dei palmisti, quelle mandorle di noci di palma dall'olio delicato. Ma quando non furono più sufficienti né caucciù né semi di palma, le cose si fecero davvero difficili. Siccome la logica degli stranieri era quella di trarre comunque qualcosa dal paese occupato, trovarono un succedaneo, un'imposta in denaro. Istituirono dunque un'imposta di tre franchi su ogni persona. Provate ad andare a parlare dei «tre franchi» nel paese di Mandala Mankunku! I fucilieri senegalesi furono inviati nel paese, i miliziani indigeni reclutati al Nord furono inviati al Sud, quelli reclutati al Sud furono mandati al Nord. Avevano diritto di vita e di morte. Al loro avvicinarsi, gli uomini fuggivano per nascondersi nelle foreste ostili. Guai all'uomo che moriva senza aver prima pagato la sua imposta di tre franchi! Stendevano il cadavere nudo davanti ai suoi familiari e chiedevano a uno dei parenti più stretti di assestargli venticinque frustate in pubblico. Ogni tanto lo stranie-
ro accompagnava i miliziani e una volta, in un villaggio vicino, per dimostrare la sua autorità e forse anche per divertirsi, fece allineare cinque ribelli e li trapassò tutti con una sola cartuccia! In quella vita di lavori forzati, solo il settimo giorno era il benvenuto. Ma non tutto, perché al mattino bisognava assistere a ogni costo alla grande cerimonia religiosa celebrata dal missionario straniero: vestito della sua tonaca, ben protetto dietro il suo altare di fortuna dominato da un'immensa croce, andava e veniva, borbottava incomprensibili biascicamenti, s'inginocchiava, suonava dei campanelli, aspergeva d'acqua le persone... Quanto era lungo quel cerimoniale! Ma valeva la pena aspettare, perché dopo veniva davvero il riposo del settimo giorno, il giorno in cui si dimenticavano il caucciù, i semi di palma e i tre franchi. Ah! Le danze della domenica! Si sceglievano i migliori percussionisti: prima di tutto, accordavano i loro strumenti scaldando la pelle del tam-tam su un fuoco di paglia perché assumesse la tensione ideale, poi si sistemavano leggermente all'interno del cerchio dei danzatori e via! L'orchestra poteva a suo piacimento comprendere o no i balafon, i sansì o i massikulu. Qualche volta c'era un coro che l'accompagnava, qualche volta no; ma i tam-tam, fonte di vibrazioni e di ritmo, fonte di vita, c'erano sempre. Ne esistevano d'ogni sorta: di molto grandi che ti arrivavano alla spalla, che si suonavano stando in piedi e davano un suono grave, quasi monotono, mantenendo così la vibrazione di base; e di più piccoli, che si suonavano da accovacciati, strumenti che non erano soltanto ritmici perché da essi un buon percussionista sapeva trarre modulazioni melodiche. Tra questi due estremi, tutta una gamma intermedia di tam-tam. E le natiche si agitavano, i torsi ondeggiavano come privi di colonna vertebrale, le mani battevano e monete di cauri cadevano ai piedi dei danzatori migliori. Improvvisamente formavano due file, da una parte le donne e dall'altra gli uomini. Quelle continuavano a scalpitare, a dimenare il loro agile deretano, a far sobbalzare i seni in un continuo movimento dall'alto al basso e di andirivieni laterali. Poi era il momento dell'assalto, lento e controllato, le donne da una parte e gli uomini dall'altra: e op!, mimavano il gesto dell'accoppiamento e si urtavano all'altezza dei sessi, uomini e donne, poi indietreggiavano, battevano i piedi, saltellavano, avanzavano di nuovo e op...! Smettetela con quegli atti osceni, mio Dio! Dolce Signor Gesù, perdona loro, che non sanno quello che fanno. Quella domenica, il missionario era casualmente arrivato proprio nel
momento in cui si eseguivano quelle danze che non aveva mai visto e fu colto da un'ira furiosa, diventando ancora più rosso dello straniero che, un tempo, fu il primo a metter piede nel villaggio di Lubituku. I tam-tam tacquero e tutti lo guardarono incuriositi. Tuonava, soffiava, urlava, vieni qui, interprete, e subito!, siete osceni, questa è pura licenza, fornicazione davanti a Dio, che il Signore perdoni ai miei occhi di aver visto codeste scene diaboliche, interrompete subito le danze!... E così furono soppresse le domeniche, giorni del Signore. Così la gente di Lubituku apprese che quelle danze, che risalivano ai tempi dei loro antenati, erano un'offesa a Dio Onnipotente e che il gesto che compivano per fare un figlio, quel gesto che meglio di ogni altro traduceva la comunione con il mondo e la continuità con la vita, era una manifestazione di oscenità. Quella sera, Mankunku sedeva accanto a suo padre, sotto l'albero dove aveva l'abitudine di mettersi il vecchio Lukeni, che tanto aveva amato e che tanto l'aveva amato. I tam-tam erano muti e i danzatori s'erano dispersi nella tristezza e nella collera represse. Era scesa la notte. In lontananza si vedeva la casa del capo Bizenga, la sola illuminata da una lampada a petrolio. Mankunku pensò al vecchio Lukeni: «Avevi ragione: il tuo sogno diceva che avrebbero camminato sulle tombe degli antenati e che questi non avrebbero reagito. Ebbene, è esattamente quanto avviene. Come vorrei essere con te, vecchio Lukeni!». Il suo sguardo si volse ancora, suo malgrado, verso la casa di suo zio Bizenga: quell'uomo e la stretta cerchia della sua famiglia erano i soli ad aver tratto vantaggio dall'arrivo degli stranieri. Si volse verso suo padre, che era addossato all'albero: era molto invecchiato, il lavoro l'aveva sfiancato. Quell'uomo, il più anziano dei fabbri, era diventato un individuo volgare dai vestiti rattoppati che correva per la foresta raccogliendo semi di palma o linfa di caucciù. Sentì un nodo alla gola. «Padre, come è potuto accadere tutto ciò?». Suo padre si mosse appena. I suoi occhi, debolmente illuminati dalle luci della notte, erano come rivolti all'interno di sé. Mormorò: «Figlio mio, quando si capisce è sempre troppo tardi! Prendi una foresta fitta, abbattine un albero, nessuno si accorgerà di niente; continua a tagliare e a un certo punto si avrà la sensazione diffusa che quella foresta non sia più quella di prima senza sapere veramente perché; continua ancora e un bel giorno, all'improvviso: toh, guarda, questa foresta è proprio cambiata! E allora è troppo tardi». «Sì» ammise Mankunku, era stato così che lentamente, insidiosamente,
nella loro vita l'ordine delle cose era cambiato per trasformarsi in un nuovo ordine confuso, instabile e soprattutto, secondo lui, irrazionale. Ma la risposta di suo padre non lo soddisfece affatto, gli ripropose la domanda: «Perché è capitato tutto questo?». «Perché fare una simile domanda quando l'evidenza è davanti a noi: apri gli occhi, figlio mio. Prima dell'arrivo di questi stranieri, noi vivevamo in un mondo giusto, nel nostro villaggio si andava d'accordo, la foresta ci dava da mangiare in abbondanza e la terra era fertile. Hanno portato con sé la sventura. Io li maledico» concluse sputando per terra. Ormai Mankunku si era incaparbito, come punto da una vespa. «Padre, so bene che non sta a un figlio insegnare al genitore come riconoscere un fiume, ma credo che quanto stai dicendo non sia esatto. Non eravamo giusti come dici! Hai dimenticato le storie di stregoneria tra i clan? Ricordati, ci è mancato poco che mi eliminassero e magari, chissà, mi avrebbero sepolto vivo sotto un albero di nsanda per la sola ragione che avevo gli occhi verdi. Anche la nostra società era una società di violenza». «Non era te, Mandala, che volevano eliminare. Eri diverso e loro pensavano che tu fossi uno stregone, uno spirito maligno, ed era questo che volevano togliere di mezzo». «Non ho sentito mai nient'altro in vita mia che "sei diverso"! Pensi che una società che non ha abbastanza tolleranza per tenersi coloro che sono diversi sia una buona società, una società giusta?». «Ti abbiamo pur tenuto, figlio mio». «Sono ancora qui grazie al vecchio Lukeni». «Nella nostra società ci sarà sempre un vecchio Lukeni per salvare e preservare ciò che dev'esserlo al momento giusto». Mankunku non seppe cosa rispondere a quella dichiarazione, che era più un atto di fede che un argomento. D'altra parte, non voleva contrapporsi frontalmente al padre, perciò cambiò l'angolatura da cui affrontare la conversazione: «Forse gli stranieri hanno una parte di responsabilità riguardo alla nostra attuale disgrazia, anzi, è certo, ma bisogna guardare in faccia la realtà, padre. Senza la nostra collaborazione le cose non sarebbero così dure, non sarebbe accaduto tutto così facilmente. Guarda con quale facilità ci siamo lasciati comprare: qualche pezza di tessuto di cotone, mentre i nostri tessitori sono i migliori della regione; paccottiglia di vetro, gioielli mediocri tagliati grossolanamente, mentre quelli prodotti dal tuo laboratorio sono mille volte più belli. Perché abbiamo questo gusto per le cose che vengono da fuori? Non abbiamo orgoglio né amor proprio!».
«È colpa di tuo zio Bizenga. È diventato estraneo al suo popolo». «Siete voi che lo avete messo al posto dove sta. Si ha soltanto il capo che si merita. Bisognerà fare tutto il possibile perché le generazioni future non pensino che tutto ciò sia accaduto solo per colpa degli stranieri. Non bisogna mai dimenticare, padre, le proprie cupidigie e le proprie debolezze». «Non ti capisco, Mankunku». «Non vuoi capirmi. Hai paura di riconoscere che la nostra società è arrivata a un'impasse. Il vecchio Lukeni l'aveva presentito. Ma chissà, le disgrazie possono servire a qualche cosa. Speriamo che lo shock provocato dagli stranieri ci aiuti a venirne fuori». Suo padre lo guardò perplesso. Comprese davvero perché si diceva che suo figlio era diverso. Distolse rapidamente lo sguardo prima che un cattivo pensiero gli sfiorasse la mente e andasse a colpire il figlio. La luna era già ben alta nel cielo, pur senza attenuare il chiarore della Via Lattea. All'orizzonte, proprio sulla cima degli alberi, brillava la stella del mattino, visibile in quella stagione; ciò voleva dire che il canto del gallo non avrebbe tardato, era tempo di andare a dormire, l'indomani bisognava lavorare. A sua volta egli guardò il padre, perduto nel suo mondo interiore. Gli mise un braccio intorno alle spalle: «Dobbiamo andare a dormire, padre». Si alzarono. Guardò ancora una volta quel vecchio volto: allora gli occhi del padre si fissarono su quelli del figlio. «Buonanotte, ragazzo mio. Siamo tutti responsabili, anche tu». «Lo so. Buonanotte, e buonanotte alla mamma». Così finì il settimo giorno della settimana. 15 Per pagare l'imposta dei tre franchi era necessario guadagnare del denaro, perché continuare a cercare caucciù era diventato impossibile: si era fatto talmente raro che all'amministrazione il suo sfruttamento costava sempre più caro. I giovani di interi villaggi si fecero arruolare per costruire strade e furono così esonerati dall'imposta in cambio del lavoro gratuito. Nella stessa epoca cominciarono anche i lavori della ferrovia che doveva collegare il grande fiume Nzadi all'oceano. Sembrava che la paga fosse buona e, per permettere ai suoi genitori di riposarsi, Mankunku si fece assumere con la speranza di guadagnare abbastanza per pagare l'imposta anche per loro. Durante le prime settimane di lavoro, lo misero a far pietrisco
dai grossi blocchi di pietra provenienti dalle rocce che gli ingegneri stranieri avevano precedentemente fatto saltare con la dinamite. Una volta individuato il blocco, Mankunku sollevava la pesante mazza e l'abbatteva sull'enorme masso di pietra. La mazza rimbalzava a ogni colpo, gli scuoteva l'avambraccio e gli correva lungo il corpo fino alla pianta dei piedi. Dopo molti colpi, riusciva a spaccare il masso, e i pezzi che ne derivavano venivano ammucchiati in un grande cesto che doveva trasportare sulla schiena o sulla testa fino al cantiere propriamente detto. E là, quei blocchi più piccoli venivano sminuzzati da una macchina pneumatica finché si riducevano a un mucchio di ghiaia più o meno uniforme. A fare quel lavoro erano un centinaio di operai, e il posto brulicava come un termitaio. La sera tornavano a casa rintronati, con la testa che rimbombava di colpi di mazza. La prima settimana, i palmi delle mani di Mankunku erano coperti di vesciche palpitanti di dolore; sua madre gli spalmò sulle bolle un unguento d'olio di palma, lamentandosi: «Mankunku, ti ho sempre detto di prender moglie: alla tua età dovresti avere almeno cinque figli. Dammi la gioia di vedere i miei nipoti prima di morire». «Mamma,» protestava lui «smettila di dire stupidaggini, non stai mica per morire. Penserò al matrimonio più in là, per il momento non ne ho il tempo, ci sono troppe cose da fare». «Ah, maledetta vita, cosa diavolo abbiamo fatto ai nostri avi perché ci abbandonino in questo modo?». «I nostri avi sono morti, madre, sta a noi vivi saperci arrangiare. Chiedi piuttosto a tuo fratello cos'ha fatto per noi». «Taci, Mandala, ti sentono, non bestemmiare e non parlare così di Bizenga: è il tuo zio materno e il tuo maestro». «Tu difendi sempre tuo fratello, non è vero?». «Non ne parliamo più, non puoi continuare a spaccare sassi, la tua mano è tutta una piaga». «Questo è niente; se sapessi che Lunda si è schiacciato due dita con la mazza, non mi compiangeresti. No, a farci più paura al cantiere sono le schegge, quando fanno saltare qualche enorme blocco con la dinamite. Ci sono già stati tre morti dall'inizio della settimana». «Sta' attento, Mandala, sei il mio unico figlio. Gli antenati non hanno voluto darmene altri». «Non ti preoccupare, mamma, ce la farò. L'essenziale è che voi non dobbiate preoccuparvi per quei maledetti tre franchi». All'inizio, al cantiere erano un centinaio; adesso, alla fine della seconda
settimana, non erano più di una ventina. La maggior parte degli operai aveva abbandonato quel lavoro, troppo faticoso. Il cantiere non progrediva per mancanza di manodopera. Gli amministratori diedero ordine di reclutare uomini e così tutto ricominciò come al tempo del caucciù e dei tre franchi. I soldati accerchiavano i villaggi e portavano tutti gli abitanti dal medico rurale, che sceglieva i futuri lavoratori in base al loro peso e al perimetro della gabbia toracica. Nel frattempo, alcuni clan e interi villaggi abbandonarono le zone di reclutamento per rifugiarsi in territori lontani o attraversarono il fiume per sfuggire all'amministrazione locale. Il reclutamento si trasformò in una vera caccia all'uomo e la selvaggina catturata in quel modo veniva ricondotta nei luoghi di raccolta con la corda al collo, come bestiame. Certe popolazioni resistettero coi coltelli e i machete, ma gli mbulu-mbulu non ci misero molto a vincere la loro resistenza. Dopo aver trascorso circa un mese a spaccare pietre, adesso Mankunku e i suoi compagni lavoravano nel cantiere principale. Erano allineati per chilometri e chilometri sotto un sole caldo come l'inferno cristiano che aveva descritto il missionario, per spostare e mettere in sede le pesanti, caldissime traversine di metallo sulla superficie di ghiaia e ciottoli, che era sempre opera loro. Il sudore colava dalla fronte e bruciava negli occhi. Il cantiere era così lontano dal villaggio che alla sera Mankunku non tornava più a casa, dormiva sotto le stelle negli accampamenti di fortuna predisposti dalla società delle ferrovie. I capi, invece, possedevano delle baracche smontabili che venivano trasportate e rimontate a ogni spostamento. Mankunku dormiva tra due compagni di lavoro che venivano da molto lontano e non parlavano la sua lingua. Dopo un periodo di totale incomprensione, riuscirono poi a esprimersi in un linguaggio pittoresco dove le parole e le onomatopee avevano la stessa importanza dei gesti. Si chiamavano Gibril e Germaquai. Mankunku non riusciva a capire come potessero venire da così lontano, perciò li interrogava spesso sul loro paese. «Io, Gibril, sono di etnia Sara, vengo dal Ciad: al cantiere siamo in molti». «Io, invece, Germaquai, sono Banda e vengo dall'Ubangui». «Quanti giorni di cammino ci vogliono per arrivare qui?» domandò Mankunku. «Ah, le dieci dita delle mani e le dieci dita dei piedi non basterebbero per contarli». «Non è possibile! Sapevo che la Terra è grande ma non fino a questo punto. Il vostro paese dev'essere vicino a quello degli stranieri, perché so
che loro vengono da ancora più lontano». «Non parlarmi di questo viaggio» disse Gibril. «Dopo averci catturati siccome avevamo paura di vedere il mare - ci hanno fatto camminare per una quindicina di giorni fino a Bangui». «E perché avevate paura di vedere il mare?». «Da noi si dice che quelli che vedono il mare si beccano una malattia mortale sia del corpo che dell'anima». «Io non ho ancora visto il mare,» disse Mankunku «non ho ancora lasciato la riva del fiume dove sono nato; ma mio padre, che ha visto l'oceano, sta che è una meraviglia». «Non so che dirti. Da noi si dice così». «Una volta a Bangui,» riprese Germaquai «ci hanno stipati in stretti barconi aperti al sole e alla pioggia; a volte non riuscivi a muovere un piede per ore e ore. Molti sono morti per asfissia mentre altri, forse stanchi di issarsi sulla ressa dei loro compagni per poter respirare, lasciavano la presa, scivolavano e cadevano nel fiume. Nel corso di questo lungo viaggio, mio padre è scomparso così». «Perché non cercavate di ripescare quelli che stavano annegando?». «Non era possibile fermare la barca per ripescare tutti quelli che cadevano: non si sarebbe mai arrivati a destinazione. E poi non appena facevano splash! nell'acqua venivano storditi da un colpo di coda di caimano e un istante dopo si trovavano tra due mascelle». «Dio mio» sospirava Mankunku, che non sapeva più che cosa dire. Le conversazioni finivano spesso di colpo perché le sentinelle passavano e chiedevano loro imperativamente di tacere, allora si distendevano sotto le stelle e il giorno dopo si risvegliavano intirizziti dal freddo e dall'umidità delle notti tropicali. Dormivano al coperto soltanto durante la stagione delle piogge, sotto un vasto capannone costruito alla meno peggio per proteggerli. Poi Gibril e Germaquai ripresero il lavoro di portatori: trasportavano ciascuno sacchi di cemento da cinquanta chili. Altri si sfiancavano sotto carichi troppo pesanti, scheletri di vagoncini, rotaie, barili di cemento, pannelli prefabbricati di case smontabili su un terreno eccessivamente difficile: bisognava salire e scendere piccole colline, evitare alberi, aggirare fossi e rii; nei giorni di pioggia, sul suolo vischioso tappezzato da uno spesso strato di foglie morte in decomposizione, era un vero esercizio di equilibrio. Quei trasporti furono micidiali quanto il resto: sotto le ceste piene di pietre, alcuni uomini si ruppero il collo, altri scivolarono dalle colline con il loro vagoncino per ritrovarsi schiacciati in fondo al fosso. Un gior-
no, una ventina di operai sfiniti si rifiutarono di riprendere il lavoro, malgrado le minacce dell'ingegnere capo. Il capocantiere prese cinque uomini a caso, tra i quali Germaquai, gli attaccò intorno al collo una collana di candelotti di dinamite e li fece saltare. Tutti gli altri ripresero immediatamente il lavoro. Gli uomini correvano da una parte e dall'altra, spaccavano pietre, spingevano vagoncini, sollevavano rotaie... tutto sotto l'occhio attento del capocantiere. E Mankunku era affascinato da quell'uomo, da quegli uomini: da dove traevano tutto il loro potere? Dai loro antenati? Guardate un po' quell'uomo solo, senza armi, con la faccia rossa per il caldo, al riparo di un casco bianco. Basterebbero due di noi, anche uno solo, io, per esempio, per metterlo fuori combattimento e ammazzarlo; eppure nessuno osa farlo, qualcosa ci ferma. Lui è là da solo che dà ordini e detta le sue volontà a dieci, cento, mille, migliaia di noi, e anche a me, Mandala Mankunku, il cui antenato rovesciava i potenti! Eppure non c'è niente che sembri poter resistere alla sua volontà. Se una roccia gli desse fastidio, la farebbe sparire con il rumore di dieci volte cento fucili; se una montagna gli desse fastidio, la farebbe dividere in due e vi farebbe scavare un tunnel per passarci sotto; se a infastidirlo fosse un fiume, vi farebbe gettare sopra un ponte e si continuerebbe ad andare avanti. Ma andare dove, inseguendo un orizzonte che fuggiva continuamente? Mankunku fasciava i suoi muscoli, prendeva la traversina che scottava e andava a posarla, ripartiva verso il suo compagno per prenderne un'altra, sì, cosa mai avrebbe potuto fermarli? Ovviamente, qualche volta gli antenati si vendicavano: certe mattine, gli operai trovavano dei tratti di rotaia ancora fissati alle loro traversine che pendevano in aria sul vuoto per via di qualche esplosione che aveva trascinato con sé metri cubi di terra; ebbene, ciò non scoraggiava lo straniero: ricominciava, faceva lavorare due volte più duramente per consolidare i bordi delle massicciate e si ripartiva. La morte di decine di operai gli era indifferente. Viaggiatore, se un giorno prenderai il treno che porta dal gran fiume all'oceano, ascolta attentamente il rumore delle ruote sulle rotaie, perché ogni tac tac, ogni rumore enumera un morto; allora pensa per un istante a tutti quegli uomini insepolti su quelle montagne dove passi e ricordati che là c'è un morto per ogni traversina ferroviaria. Forse ciò aiuterà le loro anime a riposare in pace. Quella sera, rientrando al campo, Mankunku trovò Gibril allungato sul giaciglio. Era molto dimagrito: gli occhi affondavano nelle orbite troppo grandi. La pelle del viso era tirata e segnava gli ossi della fronte e delle mascelle. Si teneva il ventre, gemendo. La sua razione di pesce salato era
lì, accanto al letto. Mankunku gli mise la mano sulla fronte: «Che cos'hai, Gibril?». «Te l'avevo detto, è il mare, adesso morirò perché ho visto il mare». «Ma non siamo ancora arrivati sulle rive dell'oceano». «È il suo spirito che mi gira intorno. Le feci sono piene di sangue. Ho dei crampi al ventre e mi manca il fiato». Era prossimo al delirio. La malattia era iniziata il giorno della morte di Germaquai: quella morte lo aveva molto impressionato. Da allora non mangiava più, non riusciva più a mandar giù il cattivo pesce salato che facevano arrivare dall'Angola. Pover'uomo, venire a più di duemila chilometri da casa sua a lavorare su una strada ferrata della quale non poteva capire l'utilità, morire solo, abbandonato, senza parenti né amici; perché Mankunku era persuaso che sarebbe morto, come migliaia d'altri, divorato da quel mostro che era la ferrovia. Molti Ciadiani o Ubanguiani, popolazioni dell'interno poco abituate a mangiare salato, soccombevano a gravi disturbi intestinali a forza di riempirsi del pesce salato e secco che costituiva l'essenziale della loro alimentazione. Quando il pesce era davvero marcio e si rifiutavano di mangiarlo, nei registri del capocantiere la razione risultava in ogni caso contata come distribuita, e il giorno dopo dovevano riprendere comunque il duro lavoro. Affamati, indeboliti, molti lavoratori morivano anche di tubercolosi. Mankunku decise di andare a cercare il responsabile del servizio sanitario per soccorrere il compagno. Arrivò davanti al prefabbricato dentro cui stavano mangiando i capi stranieri, e si fermò timidamente. Una sentinella, un Senegalese col fez rosso e vestito come uno zuavo, gli si avvicinò gridando: «Va' via. Cosa ci fai, qui?». «Un mio amico sta morendo. Vorrei chiedere al dottore di venirlo a visitare». «Il dottore non ha tempo, sta mangiando. Via, togliti dai piedi» fece quello alzando il calcio del fucile in modo minaccioso. Una sorda collera invase Mankunku: strinse i pugni, volse la schiena e si allontanò nella notte. Il servitore zelante continuava a far la ronda intorno alla casa dei padroni col fucile in spalla. Arrivato vicino a Gibril, lo vide torcersi e sputare sangue. Mankunku non capiva più niente, non capiva come una dissenteria potesse provocare vomiti di sangue. Altri lavoratori stavano intorno al letto e parlavano in modo spaventato e insieme minaccioso: «Portatelo via, portatelo lontano di qui...», «Non deve morire qui, porterebbe sfortuna a tutto il campo...». Due uomini robusti afferrarono Gibril a forza, lo portarono fuori dal campo e lo
gettarono ai bordi della foresta. Mankunku, che li aveva seguiti con una coperta, lo ricoprì e gli si sedette accanto. Cosi restarono tutt'e due sotto la luce delle stelle, nella penombra della foresta; e in quella notte umida e triste Mankunku gli tenne la mano per trasmettere il calore della propria amicizia a quell'uomo di un altro paese situato all'altro capo della Terra. Non parlarono. Tutt'a un tratto, in mezzo al fremito delle foglie degli alberi e ai frullii d'ali di uccelli notturni, Gibril si aggrappò a lui, tossicchiò leggermente, leggerissimamente, e abbandonò la stretta. Era morto. Mankunku restò a lungo accanto al corpo del suo compagno di lavoro, il suo amico, guardando in cielo le costellazioni che apparivano e scomparivano e pensando a quelle migliaia di morti che riposavano disperse sul territorio del paese. Erano tutti morti per la fatica e per l'angoscia di essere venuti da lontano; e a morire non erano soltanto quelli che venivano da lontano, ma anche gli autoctoni. La sola pace che la ferrovia aveva lasciato dietro di sé era la pace dei cimiteri. Ah! che orrore il tempo della macchina! Mankunku seppellì il suo amico il mattino presto, per evitare che le iene si portassero via il corpo, e tornò verso il cantiere completamente prostrato. Lui, che nella vita aveva sempre sfidato i grandi, cercava intensamente di capire. Quegli uomini erano forti, potenti, d'una potenza quasi infinita, pensava e si domandava - o eresia! - se non fossero più potenti degli antenati. E pensando agli avvenimenti della sera precedente, si rese conto della propria decadenza: di fronte alla malattia di Gibril, il suo primo impulso non era stato quello di utilizzare le proprie conoscenze di nganga, ma di far ricorso al medico straniero. Ma cosa diavolo possedevano quelli, che cosa fare per penetrare il loro segreto? Osservò minuziosamente i fatti e i gesti di quegli strani stranieri; cercò di vedere se mangiavano come lui, se avevano i denti, se il loro sangue era rosso, se scoreggiavano, se ruttavano e pisciavano, se i loro escrementi erano proprio escrementi, se avevano un pene e se scopavano come lui. Fece un esame metodico ma discreto e giunse alla conclusione che non avevano niente che lui non avesse. Allora, da dove veniva il loro potere? Mankunku sudava sotto il sole, faticava a stringere le grosse viti che fissavano le traversine sulla massicciata; le sue mani callose erano diventate dure e non s'irritavano più come all'inizio; afferrava le rotaie d'acciaio che scottavano, le girava, le esaminava. Lui era stato un fabbro e l'acciaio lo intrigava. A forza di pensare e di riflettere era diventato chiuso e taciturno; lavorava senza accorgersene con una sorta di zelo, turbando i suoi compa-
gni che lo accusavano di cercare il favore dei padroni stranieri. Lui non ci faceva caso, continuava a domandarsi cosa avesse potuto lasciarsi sfuggire durante quelle notti in cui, solo con il grande fiume, inseguiva la conoscenza e interrogava il cielo, durante quei giorni passati a raccogliere e a capire le piante. Quegli stranieri avevano risolto il problema del fucile a ripetizione, il problema dei segni in cui nascondere il pensiero, problemi che lui era stato incapace di risolvere. Ma allora, lui, Mandala Mankunku, aveva completamente sbagliato strada? 16 Tre miliziani, dei famosi mbulu-mbulu, arrivano stanchi a Lubituku, il villaggio di Mandala Mankunku. Fucile a tracolla e fez rosso col pompon nero fieramente inclinato sulla testa, si sforzano di mantenere un'aria padronale e altera. Stanno concludendo un giro dei villaggi sia per controllare la raccolta dei semi di palma, sia per l'esazione dell'imposta dei tre franchi. Come unico bagaglio portano una piccola cesta sulla schiena perché sanno di poter mangiare, dormire e avere una donna in qualsiasi villaggio al minimo cenno. Si dirigono verso la casa del capo Bizenga. Questi esce, li riceve ossequiosamente, li fa entrare e quelli si siedono: venite da lontano? Siete stanchi? Cosa volete bere, acqua, vino di palma o alcol di mais? Qui siete a casa vostra, fermatevi a mangiare prima di ripartire. Ehi, Nzumba, moglie mia, tira il collo a tre polli e preparali bene per i nostri invitati... Quelli si siedono sulla stuoia e mangiano. Bizenga si affanna a offrire a ciascuno di loro un ventriglio, la parte più fine e deliziosa del pollo. Quelli, soddisfatti, ficcano le dita nella salsa d'olio e peperoncino, arraffano golosamente la carne delle cosce, rompono le ossa per succhiare quello che potrebbe sembrare midollo, bevono, ruttano, scoreggiano per liberare lo stomaco e l'intestino da flatulenze spiacevoli. Hanno mangiato, si tolgono il fez e gli stivali, sbottonano pantaloni e camicia e si stendono sulle stuoie per fare la siesta. Bizenga ordina ai bambini che giocano di smettere di fare rumore, alle donne che parlano di tacere per non disturbare gli ospiti... La siesta è finita, è quasi ora di rimettersi in marcia. Uno dei miliziani, pronto prima degli altri, esce per fare due passi nel villaggio. Gli altri si stanno ancora vestendo e sistemano le loro cose. Il capo Bizenga vede le ceste che i miliziani portano sulla schiena e si accorge che sono piene di mani destre essiccate. Un lampo d'orrore gli attraversa lo sguardo e ha vo-
glia di vomitare. «Ma cosa fate di quelle mani?» domanda timidamente. I miliziani sorridono. «Se non ammazziamo quelli che rifiutano di consegnare il caucciù o di pagare l'imposta, siamo puniti molto severamente e qualche volta gli ufficiali bianchi di Stato arrivano al punto di farci fucilare. Allora, piuttosto di morire noi, uccidiamo i recalcitranti, e la prova del nostro lavoro sono le mani. Qualche volta, aggiunge con un sorriso allegro, tagliamo loro anche il pisello». «Ma... ma... che cosa se ne fanno delle mani?». «Oh, dipende dai capi. Certi le contano, poi le fanno gettare nel fiume; altri invece le fanno affumicare e le utilizzano come pigiatabacco per la pipa e le portano al loro paese... Ma lei non si preoccupi, è un ottimo capo, nel suo villaggio non succederà nulla, glielo garantiamo noi». Il miliziano uscito prima degli altri passeggia nel villaggio quasi deserto. Tutti i giovani sono andati a fare la loro giornata di lavori forzati, non restano che alcune vecchie e alcuni vecchi stanchi che passano il tempo a invecchiare ancor di più all'ombra del grande albero del villaggio o delle verande delle case. All'angolo di un'abitazione vede una donna, è la madre di Mankunku. «Avvicinati, donna». Lei si fa avanti, tremante. Non è giovanissima ma può andare, pensa il miliziano. Vuole strapparle il pagne di dosso, la madre di Mandala grida e lo respinge; lui si aggrappa e cerca di farla cadere. A quel punto accorrono gli uomini. Il marito della donna, il padre di Mankunku, è furioso. Si mette di fronte al miliziano e gli grida di lasciare in pace sua moglie. Il soldato è irritato: «E tu chi sei? E poi perché non sei in giro a cercare caucciù?». «Tu non puoi farmi niente, io sono in regola, mio figlio lavora e mia moglie e io abbiamo pagato l'imposta dei tre franchi; lascia in pace mia moglie». «Tu menti, coglione, schifoso macaco, animale della foresta, subito sull'attenti! Tirami fuori immediatamente i tuoi chili di caucciù e di semi di palma o ti faccio vedere io!». «Noi abbiamo pagato i tre franchi!». Il padre di Mankunku tira fuori dalla tasca i preziosi fogli timbrati da cui non si separa mai. Il miliziano li afferra e fa finta di esaminarli, benché non sappia leggere. «Questi fogli non valgono niente!».
Li strappa e li getta al vento. Allora il padre di Mankunku non riesce a trattenersi e sferra un pugno allo mbulu-mbulu, che cade a terra. Umiliato, si rialza con occhi inferociti. Punta il fucile e fa fuoco; il padre di Mandala stramazza al suolo, morto sul colpo. Sua moglie urla, si getta sul corpo del marito. I compagni della vittima sono paralizzati. Lo sparo attira altri due miliziani, che arrivano correndo e brandendo le armi. Tengono sotto tiro gli abitanti del villaggio. L'assassino taglia la mano destra del morto e la getta nella cesta posata a terra da un compagno; poi raggruppano tutti quanti e ordinano di andare a passo di corsa fino al centro del villaggio. La madre di Mankunku è rimasta sola accanto al marito disteso sotto il sole, nella polvere, vicino alla cesta piena di mani. Gli animali da cortile hanno sentito il dramma, girano intorno belando e chiocciando. I soldati fanno sedere in gruppo uomini e donne anziani sotto il sole e li riempiono di botte. Quelli gemono, si torcono, piangono, urlano, le loro vecchie gambe non permettono di scappare. Il capo Bizenga esce, guarda la scena, è inorridito ma non osa intervenire, e rientra in casa. I tre miliziani hanno finito il loro lavoro; lasciano i corpi gementi e sanguinanti dibattersi nella polvere con le mosche. Passando, incendiano qualche casa, sfondano qualche porta, poi rientrano nell'abitazione di Bizenga per recuperare i loro effetti personali, Bizenga non fa domande e stringe loro la mano. Uno si rende conto di aver dimenticato la cesta delle mani e torna vicino al corpo del padre di Mankunku, dove piange sua moglie. Gli sembra che qualcosa non vada. Allinea le mani per terra e le conta: ce ne sono diciotto, ne manca una: ha capito. Afferra brutalmente la madre di Mankunku e le strappa il pagne di dosso: la mano, che aveva pietosamente nascosto sotto il pagne, cade. Il miliziano la prende e la butta nella cesta. La donna, come impazzita, si precipita sul miliziano, urta la cesta e si rovescia tutto. Allunga il braccio per raccogliere la mano di suo marito, il miliziano la respinge con un calcio. Lei torna alla carica gridando, morde la mano del miliziano. Questi, furibondo, le assesta un colpo col calcio del fucile fracassandole il cranio. Raccoglie le diciannove mani, prende la cesta, raggiunge gli altri due e lascia il villaggio di Lubituku con i regali che gli ha fatto il capo Bizenga. La madre di Mandala, distesa per terra accanto al marito, muore lentamente in mezzo ai belati delle capre, al chiocciare dei polli e ai guaiti dei cani. 17
Finita la settimana di lavoro, nel tardo pomeriggio Mankunku si mise in marcia per andare a trascorrere il riposo del settimo giorno al villaggio, perché ormai la settimana aveva sette giorni. Lungo il cammino aveva una strana sensazione, di solitudine triste. Col corpo stanco, il morale a terra per la morte di Gibril e di Germaquai, si chiedeva se avrebbe passato la vita a spaccar pietre e posare rotaie per pagare le tasse. La vita non aveva più alcun senso, correva via irrazionale come i ruscelli dopo un tornado, che non sanno dove vanno, scolano in un senso o nell'altro o ristagnano da qualche parte prima di lasciarsi prosciugare dal sole. L'irruzione degli stranieri aveva come rotto un equilibrio; aveva portato un tale disordine che non si sapeva più qual era la causa delle cose. In quei pochi anni le cose erano cambiate al punto che non riconosceva più il villaggio dov'era cresciuto. Camminava immerso in pensieri nostalgici. Non si rese conto di essere ormai arrivato se non quando salì l'ultima collina che sovrastava il villaggio. Udì gli strani ululati dei cani e si sentì davvero a disagio. Affrettò il passo; il vento gli portò ben presto pianti e lamenti: la morte aveva colpito il villaggio. Mankunku vide qualche capanna sventrata, altre bruciate, ma la sua era ancora in piedi. Corse da suo padre: i pianti provenivano di là; sua madre e suo padre erano distesi su una stuoia. Le donne, sedute intorno con i capelli scarmigliati, piangevano, si trascinavano per terra, mentre gli uomini, silenziosi e tristi, formavano un cerchio un po' più lontano. Non ci fu bisogno di spiegazioni: i miliziani li hanno uccisi, i miliziani li hanno uccisi, ripeteva piangendo con altre parole che si mescolavano ai lamenti del villaggio. Restò immobile accanto ai suoi genitori fino al mattino. Durante la giornata i corpi furono preparati per la sepoltura, che avrebbe avuto luogo il mattino seguente, poi in tutto il villaggio cominciò una veglia di molti giorni, cui si era associato anche il capo Bizenga. Mankunku, seduto un po' più in là, guardò per un istante i volti segnati dal dolore di quanti piangevano i suoi genitori al pallido bagliore delle fiamme che tremavano sul focolare, poi scrutò a lungo la faccia enigmatica dello zio materno, il capo Bizenga. Si alzò di scatto e scomparve nella notte. Mankunku riprendeva contatto con quella terra, con quell'ambiente che una volta, prima dell'arrivo degli stranieri conquistatori, conosceva così bene. A piedi nudi, sentiva sotto i suoi passi la terra ancora calda del sole della giornata; una forza irresistibile lo spingeva verso il luogo della sua
nascita e sopra c'era la luna, che lo seguiva come fosse lui a trascinarsela dietro nella polvere della Via Lattea. Arrivò finalmente al posto delle palme, quello che aveva visto la sua nascita, nascita contestata da molti. Si domandò se il legame che lo riconduceva a quel tratto di piantagione, ormai invaso dalle erbe, avesse ancora un significato, ora che il paese era stato devastato e che i suoi genitori erano scomparsi. Si sedette al centro delle palme e si rimise a piangere i genitori, mentre il vento frusciava tra le piante di banano e le palme e il mormorio del fiume lo compativa. E il cielo pianse con lui lacrime di stelle: perché quella notte caddero talmente tante stelle da non poter essere sostituite tutte e infatti, ancora oggi, se guardate attentamente certe parti dello spazio, potrete vedere enormi buchi neri che non emanano alcuna luce; in compenso, se scorgete un nuovo astro, una stella nuova che non conoscete, andate nel paese dei Bakongo e vi spiegheranno che è il corpo della madre di Mankunku che, ricoperto di stelle, salì al cielo per fargli dono di questo nuovo astro, che essi chiamano Kitoko, cioè bellezza. Mandala restò là tutta la notte; pianse talmente che le sue lacrime si sparsero su tutto il paese sotto forma di rugiada e all'alba diedero luogo a una nebbia tale che da allora non se ne sono più viste di simili: quella nebbia si trasformò in pioggia e causò la frana che fece crollare il più grande tunnel della strada ferrata in costruzione, seppellendo decine di lavoratori insieme con i capi stranieri e i loro caschi bianchi. Passò laggiù ancora tutto un giorno e tutta una notte. Si concentrava rivedendo nella memoria tutta la sua vita: la nascita contestata, figlio unico di sua madre che non fu mai più fecondata, il tradimento dell'amicizia da parte del fiume, i suoi occhi verdi, la malattia del padre, gli antenati, il vecchio Lukeni: ah, il vecchio Lukeni, il solo che l'avesse davvero capito! Il ricordo del vecchio gli riscaldò l'anima e alleviò la sua tristezza; sentiva lo spirito di lui davvero presente; domani andrò a portare del vino fresco sulla sua tomba. Poi pensò allo zio materno, il capo Bizenga, e il suo cuore s'ingrossò, si gonfiò di collera. Rivide gli mbulu-mbulu, il caucciù, i tre franchi, i suoi compagni di lavoro sulla strada ferrata, Gibril e Germaquai: quelle immagini gli vorticavano in testa causandogli un dolore sempre maggiore nell'anima e nel corpo mortificato. Non era possibile, un popolo intero non poteva essere condannato a un simile destino. E allora lui, l'uomo che aveva sempre sfidato i potenti, prese una decisione. Con una palma in mano e gli occhi stralunati, Mankunku si mette a cor-
rere a piedi nudi sulla terra fresca, schiacciando le goccioline di rugiada che si lamentano e gridano no, no, no, non ci schiacciare, siamo solo acqua pura, acqua benedetta del mattino, siamo lacrime che piangono con te. Mankunku non dà retta, corre, schiaccia le formiche che gridano pietà, pietà, non ci fare male, siamo sempre state fedeli a questa terra e non la tradiremo mai. Corre Mankunku con le ali ai piedi e disturba gli uccelli che, svegliati di botto, cinguettano e protestano, chi sei tu che ci svegli, che ci disturbi, toh! guarda, è il nostro amico Mankunku, e cambiano linguaggio, riconoscendolo, lui capisce la nostra lingua ma non ci risponde, deve avere un grave problema. Mankunku continua con una palma in mano e lo sguardo stralunato. Ah, Bizenga, maledetto Bizenga, si lascia scappare tra le labbra strette. Gli uccelli odono il grido di maledizione e lo ripetono da un albero all'altro, di cima in cima. Arriva alle montagne, che lo rimbalzano di eco in eco sopra la terra, sopra gli uomini e sopra gli alberi, nell'alba pura del mattino. Quelle parole continuano a viaggiare, a piedi, in piroga, sulle ali degli uccelli, nei frinii delle cavallette, nei barriti degli elefanti, nel sibilare del boa, nei movimenti del vento. E tutto ciò che vive sulla terra smette per un istante di fare quello che sta facendo, di vivere quello che sta vivendo, per accompagnare la corsa di Mankunku: il grande fiume dimentica il suo letto e si rovescia nella pianura, inonda i campi, rovescia le piroghe e le capanne dei pescatori; gli alberi si agitano freneticamente sui tronchi, incapaci di strapparsi dalle loro radici per seguire Mandala. Le talpe dimenticano la loro paura della luce del sole ed escono dalle tane per assistere all'avvenimento. Quelle parole continuano a essere portate dal vento alle orecchie di tutti i viventi, dai camaleonti sornioni ai grandi paletuvieri silenziosi delle mangrovie, dagli immensi elefanti ai più piccoli ruscellamenti d'acqua nutriti dalla rugiada del mattino, dalle fragili gazzelle delle savane ai robusti alberi di guaiava in fiore... fino alle orecchie del vecchio gufo ipocrita che fugge la luce. Il gufo, creatura di malaugurio, uccello degli stregoni, batte le ali, prima corre sulle sue zampette poi spiega le ali e vola, vola, vola, vola verso la casa di Bizenga per avvertirlo. L'uccello popodì lo vede, drizza la cresta e lo ingiuria, odioso gufo, uccello del malaugurio, stregone nictalope, mangiatore di anime, perché voli così in fretta verso la casa di Bizenga? Gli altri uccelli riprendono quegli insulti nelle diverse lingue delle varie loro tribù e il pappagallo, con le ali rosso congo, grida ben forte a Mankunku, perché lo intenda bene, fa' attenzione, Mankunku, Bizenga è uno stregone e il gufo è il suo messaggero... Ah, Bizenga, maledetto capo, sei tu che ci hai traditi, urla Mankunku, è per colpa
tua che mio padre e mia madre sono morti e io ti ucciderò. Corre Mankunku, con la foglia tratta dalla palma della sua nascita in mano, con le ali ai piedi, più veloce della lepre di pianura, con i muscoli più potenti della coda del caimano, più elastici della proboscide dell'elefante, col cuore gonfio del sangue versato da sua madre, gonfio come il grande fiume nella stagione delle piogge, corre Mankunku, nganga Mankunku, colui che rovescia i potenti e i tamburi che rendono loro omaggio. Compare d'improvviso sulla piazza del villaggio. Lo zio Bizenga, il capo, è già stato avvertito dai suoi vari messaggeri, il gufo, il pipistrello, il corvo. È fuori, in piedi, con un sorriso ironico sulle labbra. Dal lato opposto c'è il cerchio degli abitanti del villaggio, svegliati bruscamente dal rumore dei passi di Mankunku e usciti precipitosamente dalle case. Mandala Mankunku arriva, conficca la palma al centro del cerchio e, senza dire una parola, se ne va e scompare. Tutti restano là, affascinati da quella grande foglia verde dalle mille dita, con le lunghe falangi che dondolano nel vento. Mankunku si è trasformato in palma verde come i suoi occhi verdi, Mandala è tornato a essere palma come il giorno della sua nascita, solitario come una nobile palma in mezzo agli alberi. Bizenga ha un momento di paura, arretra d'un passo, mastica più nervosamente la sua noce di cola, si riempie la bocca di vino di palma, ck ck ck, sputa sulla foglia, muori, foglia, secca e ingrigisci, perché muoia lo spirito del maledetto Mankunku, stregone che vive solo di notte, voi l'avete visto, non è vero? Prende la folla a testimone, è rimasto da solo nella foresta per due notti con i suoi piccoli demoni a spartire i corpi dei suoi genitori, che ha «mangiato» insieme con i suoi confratelli stregoni. Voi ne siete testimoni, non è vero? Non ha dormito qui per due notti; e io affermo, io giuro che quell'uomo dagli occhi verdi è uno stregone. La folla, titubante, esita, non sa che partito prendere, di Mankunku, il grande nganga, o di Bizenga, il grande capo. Mankunku però non c'è più mentre il capo è lì e parla bene, sa persuadere, ha con sé il potere degli stranieri... Sì, si mormora qua e là, in effetti quel Mankunku, con tutte le sue passeggiate solitarie nella notte, è troppo strano... Ma Nsona, te l'ho sempre detto che non era nato normalmente, oh, lascia che t'interrompa, Kimbanda, prima ne dubitavo, ma adesso credo che quell'uomo non sia mai nato, esiste senza essere mai nato. Non è strano? Lasciatemi riprendere la parola, bocche amiche, quando ho visto i suoi occhi verdi ho capito subito che sul villaggio sarebbe caduta una maledizione... Io, Lufua, dico che un uomo che alla sua età non ha figli non è un uomo normale. E cococooo, si ciancia, si brontola, e
bee bee bee, si bela, si racconta, s'inventa. Bizenga sente che sta vincendo la partita, raddoppia di tracotanza, sei finito, Mankunku, sei finito. Ma tutti tacciono di colpo, tutti stanno muti come i pesci nel fiume quando vedono avvicinarsi l'ombra della piroga del pescatore: Mandala si è materializzato all'improvviso al centro del cerchio. È stato a casa sua, ha bevuto molte delle sue pozioni e tiene in mano un'arma da lui stesso creata nell'officina del padre. È in piedi, Mankunku, il sapiente, il medico, il fabbro, Mankunku nei suoi abiti sporchi da operaio della ferrovia, con i piedi nudi fermamente piantati in terra. Bizenga lo guarda e vuol sembrare altero e dominatore. Dopo il suo patto con gli stranieri, è ingrassato: è lui che raccoglie tutto quello che il villaggio riceve in cambio del caucciù e dei semi di palma, senza contare i regali personali che gli fa l'amministrazione. È diventato ricco, la sua famiglia non lavora, ha cinque mogli, non ha mai più avuto fame. È vestito con pantaloni di tela bianca tenuti su, sopra il grosso ventre, da una cintura di pelle di coccodrillo; e ai piedi ha un bel paio di calzature importate; sulla camicia di flanella variopinta ha una coperta rossa gettata sulle spalle come un manto. Quella coperta, insieme con il berretto di pelle di leopardo che porta sulla testa, costituisce il nuovo simbolo della sua regalità. I due uomini si guardano, sordi e muti, davanti alla folla muta di cui si sente la respirazione pesante e oppressa. I due uomini si cercano con gli occhi e di colpo i loro sguardi escono dalle orbite, dagli occhi, e si guardano intorno, si evitano, bordeggiano. Quello di Mankunku vede sfilare in fondo allo sguardo del capo Bizenga prima di tutto lo straniero col casco dipinto di caolino bianco, poi catene di uomini che si alzano e si abbassano al ritmo della zappa sotto il sole torrido, e file di portatori trascinati di qua e di là sulla superficie della terra e del mare e sulla famosa strada delle carovane; in fondo a quello sguardo vede sfilare lo stesso Bizenga con uomini che gli somigliano, che portano il casco bianco e sorvegliano carovane di uomini. Hanno in mano una frusta di crine d'ippopotamo, sono vestiti dei più bei tessuti venuti da oltremare, bevono gli alcolici importati più forti, posseggono le case più belle... E lo sguardo di Bizenga scorge in fondo a quello di Mankunku una contrada vuota, deserta, dove le tombe degli antenati sembrano essere scomparse per essere sostituite da cattedrali di tristezze e di odi concentrati, dal treno, mostro immenso e fumante portato dagli stranieri, con Mankunku come macchinista e con altri uomini che gli somigliano. Vede Mankunku alla testa di una folla immensa che insegue gli stranieri i quali, dimenticando i caschi bianchi, fuggono gambe in spalla per imbarcarsi sulle navi che li riportano a casa
sotto gli urli e la violenza di un popolo in rivolta, liberato... I due sguardi non comprendono quel che vedono; non comprendono affatto, allora smettono di guardarsi, continuano a girarsi attorno, si evitano e poi improvvisamente si afferrano. Quando due elefanti si battono, le loro proboscidi si arrotolano l'una attorno all'altra come liane che si contorcono; le due bestie si spingono e si respingono, ciascuna tira dalla sua parte poi sciolgono le proboscidi, sfinite. Alla fine i due uomini recuperano il proprio sguardo, che fanno scorrere sulla folla per riposarsi, per riprendere vigore, per farsi insufflare nuova forza da una parola d'apprezzamento, da uno sguardo d'incoraggiamento, dall'approvazione di una testa che annuisce, insomma, da un gesto, nient'altro che un gesto di simpatia... Ma ecco, la folla è fatta in modo tale che essa non sa mai niente prima che il dramma si sia sciolto. Il popolo non può prendere partito per l'una o per l'altra delle due più grandi personalità del villaggio: se c'è uno scontro è perché l'hanno voluto gli antenati, e il vincitore sarà quello che aveva ragione. Si guardano di nuovo: la faccia di Bizenga si storce di collera, come il giorno in cui sorprese il suo allievo che stava svelando i segreti dei medicamenti alla popolazione. «Mankunku, sei uno stregone!». Mormorio della folla: si agita, si eccita, mormora. È un'accusa molto grave, non basta che uno neghi di essere uno stregone, un mangiatore di uomini, bisogna provarlo. Dai, Mankunku, prova che non sei uno stregone, accetta la sfida, la prova dello nkasa. Fa un segno: portano una cicuta di color biancastro, vero veleno, più velenoso del più mortale dei funghi. Sorridendo, Mankunku prende la fiasca, guarda intensamente Bizenga, che sbatte gli occhi non sapendo dove volgere lo sguardo, e la vuota d'un fiato. Ha bevuto il veleno, l'ha bevuto, crollerà, sì, adesso crolla, no, ha semplicemente cambiato posizione dei piedi, non ti sembra che abbia gli occhi leggermente rovesciati all'indietro, no, è il sole che l'abbaglia un po', sei sicuro che non siano vitrei?, no, sta' attenta mamma, nganga Mankunku sta per cadere, barcolla, no, si sposta verso la palma, oh, si tiene il ventre con le mani, ciondola con la testa in avanti, è piegato in due, santi numi, adesso cade, adesso muore fulminato... vomita ai piedi della palma! La folla applaude, giubila, adesso può scegliere da che parte stare, Mankunku non è uno stregone, è innocente. Le gambe di Bizenga sembrano sostenerlo male, non riesce a star fermo: si appoggia ora su un piede ora sull'altro. Non si può accusare impunemente un innocente. La folla aspetta che Mankunku chieda a sua volta al capo
Bizenga di sostenere la prova del veleno. Ma no, si raddrizza e il suo sguardo verde è profondo, più misterioso ancora della profondità delle grandi foreste equatoriali. Guarda Bizenga. Il vecchio Lukeni gli aveva raccontato che un giorno aveva visto due bufali che affrontandosi si erano incastrati con le corna: erano rimasti in piedi, immobili, per un'intera luna, finché non furono stroncati dalla fame e dalla sete. Mankunku ha imprigionato Bizenga con lo sguardo. Bizenga resta inchiodato sul posto e può soltanto dondolarsi da una gamba all'altra. La folla trattiene il respiro. Mankunku non dice una parola. Restarono così. Il sole se ne andò a Mpemba, nella grande pozza di sangue che si estende a occidente, apparve la luna tra i suoi milioni di figli, apparve un nuovo sole, un forte vento soffiò su tutto il paese seguito da una pioggia della quale nessuno seppe mai la durata perché le nubi avevano nascosto la luna e le stelle; e poi apparve una nuova luna. Continuarono a non muoversi. Si aspettava, si aspettava. Allora il grande fiume, affaticato, ritornò nel suo letto abbandonando sulla via del ritorno tonnellate di limo e di pesci; i semi di mais e d'arachide, che avevano smesso di crescere per non turbare il silenzio che il dramma faceva pesare sul mondo, ripresero a germinare rompendo la terra per uscirne; le noci di cocco, sfinite dall'attendere sospese al loro gambo, caddero a centinaia... Mankunku continuava a guardare il capo Bizenga, che nel frattempo era invecchiato. La cosa era durata così a lungo che gli spettatori si stancarono uno dopo l'altro, e ciascuno riprese le sue attività quotidiane. Si racconta che, quando finalmente Mankunku smise di tenere Bizenga prigioniero nel suo sguardo, i figli delle donne che partorirono in quel periodo avessero già cominciato a camminare; quanto agli alberi centenari, per i quali il tempo trascorre a una velocità minore che per gli uomini, dicono che il confronto tra i due avversari sia durato per un'intera stagione delle piogge. Solo l'orribile gufo, uccello malvagio, afferma che lo scontro sia durato lo spazio d'un mattino: ma andate a credere a quell'uccello maledetto che vive solo nell'ombra, uccello degli stregoni alleato del suo padrone stregone... Mankunku smette improvvisamente di guardare Bizenga. La folla è dunque liberata: le lingue si slegano, i bambini piangono, tutt'intorno la foresta è piena di rumori. Anche Bizenga è liberato; si agita, va da una parte all'altra, ma non può spezzare il cerchio che ha intorno. Mankunku tiene in mano il coltello dalla strana forma che lui stesso ha creato, che ha inventato nella forgia di suo padre prima dell'arrivo degli stranieri. Cammina verso Bizenga, che ha completamente perso la calma e non è più padrone di
sé. «Fermati, Mankunku, altrimenti ti maledirò». Mankunku continua a camminare verso di lui. «Io ti maledico! Faccio appello a tutti gli antenati perché ti maledicano! Ragazzo ingrato, è a me che devi tutto, sono io che ti ho formato, sono io che ti ho fatto crescere, sono il tuo maestro, tuo zio, capisci? Il tuo capo! Ti ordino di fermarti, sennò la mia maledizione sarà immarcescibile». «Traditore!» grida Mankunku. «Non ti accuso di essere stregone perché sarebbe troppo facile e te la caveresti. Io dico a voce alta che sei un traditore, che hai venduto il nostro paese, hai insultato i nostri antenati per arricchirti alle spalle del villaggio facendoci sprofondare nella miseria e nella disgrazia». «Non è vero, è grazie a me che il villaggio è stato risparmiato dagli mbulu-mbulu; guarda i villaggi vicini: tutti gli uomini sono stati uccisi o mutilati e non resta che qualche vecchia donna intristita e sola che muore di fame. Ho fatto quel che ho fatto per ridurre al minimo le sofferenze della gente di cui avevo la responsabilità, e tutti qui possono testimoniare che in questo villaggio, grazie alla mia politica, non ci sono mai stati drammi». «Se non ci sono mai stati drammi è perché abbiamo sempre lavorato, prima per il caucciù, poi per i semi di palma e per le strade e infine per la ferrovia e per i tre franchi. Tu non hai mai alzato la voce per difenderci, tu conoscevi soltanto i tuoi figli, le tue donne e i tuoi appetiti». «Ascolta, figlio mio...». «Io non sono figlio tuo, per colpa tua i miei genitori sono morti». «Mankunku, ti prego, ascoltami. Lascia che queste parole di saggezza ti entrino nelle orecchie...». «Non è da un traditore e da un vigliacco che potrò imparare la saggezza. Per cupidigia hai venduto il villaggio in cambio di un po' di sale, un po' d'alcol e un po' di stoffa. La tua parola non è che ipocrisia e menzogna. Mi hai trattato come uno stregone e non te lo perdonerò». Il volto di Mankunku è duro: vi è concentrata tutta la sua emozione, che accentua l'aggrottamento severo delle sopracciglia, la durezza delle mascelle serrate, il penetrare degli occhi, la palpitazione delle narici. Il volto di Mankunku si è trasformato in una maschera. La Maschera riprende la marcia di Mankunku, interrotta per un istante dalle sue parole. La folla è di nuovo completamente zittita. Bizenga è spaventato. «Fermati. Tu che avanzi verso di me, io sono un re, un capo potente, e dietro di me ci sono gli stranieri con i loro mbulu-mbulu. Fermati, altri-
menti saranno loro a spezzarti...». La Maschera non si ferma. Bizenga fa segno alla sua guardia del corpo, che punta il fucile, mira alla creatura che avanza e spara quasi a bruciapelo. Ma la Maschera continua ad avanzare, le pallottole non la possono uccidere. Idiota, si trasformano in acqua! Ciò che vedi sul suo corpo non è sudore, è il piombo che s'è fuso e s'è sciolto come una zolla d'argilla sotto la pioggia. La Maschera afferra di colpo il fucile e colpisce col calcio la testa di quello che aveva sparato e che adesso cade col cranio fracassato. A questo punto, Bizenga è pazzo di paura. Cerca di scongiurare il suo destino e tira fuori un amuleto, un talismano che ha comprato dai Senegalesi e che è considerato molto più potente di quelli fabbricati nel paese perché viene dall'estero. Lo stringe, lo serra tra le mani, se lo strofina sul corpo mormorando parole abracadabreggianti... Ahimè, la forza che avanza verso di lui non è annientata, continua ad avvicinarsi. Lui è furioso e getta l'amuleto, lo calpesta nella polvere, invoca gli antenati e grida istruzioni ai suoi uccelli messaggeri: ma la Maschera minacciosa è sempre lì. Bizenga urla, piange, io ti maledico, dove sono i miei signori stranieri, i miei protettori, parla per frasi singhiozzate, incomprensibili, esoteriche. La Maschera ne ha abbastanza e alza il suo strano coltello. Bizenga indietreggia, l'arma trova un raggio di sole, glielo riflette negli occhi abbacinandolo. Lui non sa più che fare, dove andare, dove nascondersi: la Maschera affonda il coltello nel cuore del capo Bizenga con un solo colpo secco e brutale, e ritira l'arma prima che il corpo abbia toccato terra. Il sangue sgorga dal cuore e forma un rivoletto che cola verso il centro del cerchio, evita la palma verde e continua dall'altra parte del cerchio, nell'erba. A questo punto, la folla e gli animali reagiscono, urlano, balbettano, implorano, piangono. «Che hai fatto?» grida qualcuno. È finita, la Maschera s'è dissolta e si rivede il volto di Mankunku che contempla la sua arma e il cadavere ai suoi piedi, segue con gli occhi il ruscello di sangue che, dopo aver attraversato la piazza del villaggio, si dirige verso il fiume: sangue di stregone. L'erba toccata dal sangue si secca, i cani evitano di leccarlo, i serpenti fanno dietrofront per non scivolarci sopra. È diventato nero come il liquido amaro della bile e continua il suo lungo cammino sinuoso fino al fiume, nel quale si getta ribollendo e uccidendo pesciolini innocenti. Ah, maledetto Bizenga! Mankunku pulisce il coltello e si dirige verso casa sua. È solo. «Ho ucciso il mio zio materno, sono fuori dal clan. Che fare? Che fare?».
18 Mankunku aveva dunque rotto con il clan. Rifletteva senza affannarsi troppo. Doveva scomparire, andarsene lontano per cominciare una nuova vita. Non poteva restare al villaggio, non perché considerasse un crimine aver ammazzato suo zio - al contrario, lo considerava un atto di giustizia necessario - ma perché temeva le rappresaglie dei miliziani che applicavano una forma di giustizia irrazionale importata dall'estero. Non avrebbero tardato a venire ad arrestarlo e torturarlo per poi farlo passare davanti a quella giustizia che lui non accettava. Come avrebbero potuto capire tutto il male che Bizenga aveva fatto al villaggio e agli antenati? Non poteva nemmeno tornare al cantiere, sarebbe stato il modo più sicuro di farsi arrestare. Non gli restava che un posto dove andare, la grande città costruita dagli stranieri e diventata capitale dello Stato. Si diceva che fosse una città immensa con gente di tutte le razze, di tutte le etnie, e che là si potesse sparire facilmente, come un chicco di riso in una spiaggia di sabbia. Mentre le sue mogli e i suoi figli piangevano il capo Bizenga, Mandala Mankunku andò per l'ultima volta nel posto dov'era nato. Non vi restò a lungo. Poi fece una visita alle tombe fresche di suo padre e di sua madre e a quella già antica del vecchio Lukeni. Riposate in pace, miei avi, vi domando di restare sempre accanto a me e di guidarmi. Io ho fatto quello che bisognava fare, cioè quello che avrebbe fatto il mio antenato Mankunku. Adesso non c'è più niente che mi trattenga qui e sono obbligato a lasciarvi: perdonatemi, e vi prometto che tornerò ogni volta che dovrò ritrovare le mie origini. Tornò a casa, preparò due grossi fagotti con tutte le sue erbe, le sue scoperte chimiche e le altre, le sue creazioni da fabbro, i suoi trofei di caccia più belli. Dormì un po' e all'alba, ancor prima che il primo gallo avesse annunciato l'arrivo del sole, si alzò, fece scivolare l'una e l'altra punta di un bastone nei nodi dei suoi fagotti, mise il bastone in equilibrio sulla spalla e uscì chiudendo la porta dietro di sé. Così Mankunku lasciò per la prima volta il villaggio che l'aveva visto nascere. Solo gli alberi e il vento gli augurarono buon viaggio, e tutti se ne ricordano ancora. Viaggiatore, quando attraverserai una foresta africana e sentirai il vento fremere tra le erbe e il fogliame, non ti potrai ingannare: quegli alberi centenari e quelle foglie di una stagione non raccontano soltanto la loro vita, ma trasmettono anche di generazione in generazione,
proprio come gli uomini, la leggenda di Mandala Mankunku, l'amico delle palme che aveva osato rovesciare un potente. CAPITOLO QUARTO Il giorno non li salverà e la notte ci appartiene. AMIRI BARAKA 19 Città, grande città! Era meraviglioso! Mai Mandala Mankunku avrebbe potuto immaginare che un posto fosse così diverso da un villaggio, anche da uno grosso. C'erano tante genti, tante etnie, razze, lingue differenti! Era preso, rapito, trascinato via in quel turbinio di suoni, di movimenti, di colori. Adesso anche i rumori erano differenti: mentre quelli della foresta avevano una causa e dunque un senso, una ragion d'essere, gli sembrava che quelli della città non esistessero che per esistere, senza scopo, indipendentemente dal mondo che stava loro intorno. All'inizio il fatto lo rassicurò perché, dopo l'assassinio dello zio materno, il suo desiderio era proprio perdersi in quel formicaio senza lasciare tracce. In quell'ambiente sconosciuto dove, a priori, non esisteva alcuna regola, alcun dovere preciso, provava una sorta di gioia sorda, si sentiva finalmente libero da tutte le costrizioni e da tutti gli obblighi. Era stupefatto della calma e della fiducia che sentiva: aveva lasciato un mondo dove tutto era più o meno regolato in anticipo per tuffarsi in un altro dove non c'erano parapetti, e la cosa non gli procurava la minima apprensione. Al contrario, pensava, in quel clima di libertà avrebbe potuto ampliare il campo delle sue conoscenze, imparare più facilmente ciò che costituiva la forza degli stranieri e infine, perché no?, arricchirsi. Entrò in città attraversando i quartieri periferici dove abitava la maggior parte dei suoi compatrioti: i suoi occhi non registrarono le vecchie baracche insalubri, le stradicciole sporche, le fogne scoperte e ingorgate d'acque stagnanti ricoperte di mosche e zanzare, i bordelli clandestini che adescavano abilmente i nuovi arrivati, i disoccupati che guardavano con occhi loschi i banchi dei mercanti di paccottiglia d'ogni genere. Notarono invece le biciclette, simbolo dei nuovi ricchi, i bei vestiti che alcuni indossavano, gli orologi e le scarpe. Sì, la città gli piaceva davvero, per lui
era veramente l'aprirsi del mondo reale di oggi e di domani perché, ne era convinto, il mondo degli antenati aveva fatto il suo tempo. Sempre carico dei suoi fagotti, continuò la marcia verso il centro della città e là lo colpì qualcosa di nuovo: il numero degli stranieri. In vita sua, tra il primo che giunse al villaggio e i capicantiere della ferrovia, ne aveva visti al massimo cinque o sei. In città erano dappertutto; indossavano pantaloni, magliette e camiciole d'ogni colore; molto raramente il casco coloniale, e ciò lo sorprese perché non riusciva a dissociare gli stranieri dal loro casco bianco e dai vestiti bianchi da safari. Poi vide le loro donne: dunque erano fatte così! Non osava guardarle apertamente per paura di farsi notare e si nascondeva per contemplarle. Ammirò con curiosità i capelli lunghi di diversi colori che fluttuavano nel vento come barbe di mais. Guardò i seni e scese dalle anche alle natiche, alle gambe e ai piedi calzati. Nessuna portava il casco ma parecchie, passeggiando distrattamente lungo i grandi viali di manghi, reggevano un ombrello. Le trovò belle ma d'una bellezza che lo lasciava indifferente, come quando si dice che un albero è bello, senza che ciò risvegli un qualsiasi piacere sensuale. Soddisfatta quella sua curiosità, spostò lo sguardo sul viale e vide le automobili, grandi scatole metalliche su ruote che avanzavano esalando fumo nero... Era evidente che gli stranieri erano là per restarci: regnavano su ogni cosa, offrivano lavoro e denaro; si poteva guadagnare molto di più che al tempo della raccolta del caucciù e anche molto di più di quanto offriva il lavoro sulla strada ferrata. Avevano trasformato il paese, lo avevano stravolto. Persino i bambini autoctoni avevano adottato la città; avevano dimenticato cos'era «il grande fiume», andavano a scuola, imparavano a leggere e a imprigionare le cose nei segni. Sarebbe mai riuscito, lui, a comprendere la forza di quegli stranieri che erano riusciti a sottomettere tutto un paese con un pugno di uomini? Mankunku bighellonò nella capitale per qualche mese, vivendo dei suoi magri risparmi e abitando in una camera che affittava a settimane. Si abituò talmente alla città che gli sembrava di esserci vissuto tutta la vita. Tuttavia un bisogno si faceva sempre più imperioso: quello del denaro. Bisognava guadagnarne, vivere senza quel valore nuovo imposto dagli stranieri non era più possibile. Uno dei suoi amici gli trovò un posto da boy nella casa di un funzionario dell'amministrazione coloniale. Non riuscì a terminare nemmeno la prima giornata: il mondo era cambiato, certo, ma in ogni caso per lui, figlio di
fabbro, fabbro lui stesso e grande cacciatore, lasciarsi trattare come un ragazzino da una donna che strascicava pigramente le pantofole per la casa, fosse pure la moglie di un capo bianco, era troppo. C'era pur sempre una dignità culturale che nessuna civiltà straniera, per potente che fosse, avrebbe potuto distruggere. Trovò altri impieghi, lavorò una settimana come badilante, un giorno come spazzino, due giorni come traslocatore. Sopportava sempre meno quei lavoretti sporadici che lo sballottavano da un posto all'altro. E poi, per caso, pensò alla strada ferrata che portava dal fiume all'oceano. La linea ferroviaria era stata completata, centinaia di morti seppelliti e dimenticati, i pianti e le lacrime portati via dal vento e dispersi sulle acque dell'oceano. La linea era stata terminata e inaugurata dal ministro delle colonie alla presenza del governatore generale. Avevano bevuto insieme a decine di altri stranieri una bevanda del colore del vino d'ananas, frizzante come il vino di palma in fermentazione. Dei Sara e dei Banda erano stati ricompensati e rimpatriati, e due stazioni erano state battezzate coi loro nomi, le altre avevano i nomi di eroi del paese straniero. Avevano tagliato con le forbici un nastro tricolore teso attraverso i binari e tutto ciò dopo molti discorsi seguiti da nutrite acclamazioni. La linea era stata terminata bene, non restava più altra traccia di pianto e di sudore se non il tac tac dei vagoni, carichi di legno tropicale, di manganese e di viaggiatori, trainati da grosse locomotive, macchine a vapore che si nutrivano d'acqua e di carbone, e successivamente macchine diesel che funzionavano con pesante olio di petrolio. Mandala Mankunku, che un tempo aveva costruito la massicciata, che un tempo aveva posato traversine e rotaie e aveva scavato tunnel, pensò con emozione a quella ferrovia e decise di andare a tentare la fortuna. 20 Davanti al grande fabbricato che racchiudeva gli uffici della compagnia ferroviaria, Mandala fu preso dal panico. Non sapeva da che porta cominciare, non sapeva in che lingua parlare quando si fosse trovato davanti allo straniero che credeva stare dietro a ogni porta. Ebbe fortuna, trovò un ragazzo della sua terra. Ormai erano in molti a sostituire gli stranieri negli uffici perché sapevano maneggiare il segreto dei segni, parlare la nuova lingua imposta e avevano adottato l'abbigliamento dei padroni. Non era affatto intimidito, perché il giovanotto che lo ricevette fu di un'amabilità incoraggiante. Si sedettero uno di fronte all'altro.
«Sono Mandala Mankunku. Ero operaio della strada ferrata: ho lasciato il mio villaggio da un anno, non ho più denaro per vivere qui in città e sto cercando lavoro». «Cosa faceva nella ferrovia? Meccanico, controllore?». «Posavo le rotaie. Sono di quelli che hanno costruito la lunga strada di metallo». «Toh!» esclamò il giovanotto stupito, e guardò Mankunku con tenerezza. «Anche mio padre ci ha lavorato; magari l'ha conosciuto...». «Eravamo talmente tanti...». «Mio padre veniva dalla costa, era un uomo dell'oceano». «Non credo di averlo conosciuto, io sono un uomo del fiume, ho posato le rotaie dal fiume verso l'oceano mentre quasi certamente suo padre ha fatto il percorso inverso». «Sembra che sia stato un lavoro molto duro». «Ah, questo sì, non lo dimenticherò mai. Ho visto villaggi decimati, Sara e Banda e persino dei coolie cinesi venuti da migliaia di chilometri di distanza per morire a decine. Non parliamo poi dei modi di reclutamento. Nella memoria della gente della mia regione, se prova a parlare del "tempo della macchina" vedrà gli occhi stralunati da un grande orrore, come se avesse evocato il tempo del caucciù e dei tre franchi». «Anche mio padre è morto per la macchina. Non hanno mai ritrovato il suo cadavere, è stato portato via da una frana». Mankunku sentì una stretta al cuore. «Ah! Quelle frane... Si aveva l'impressione che la terra intera scivolasse via in un rumore infernale». Questo lo avvicinò al giovanotto, gli sembrò che gli appartenesse un po' e che il suo cuore lo avesse adottato come un fratellino. «Alla fin fine,» concluse l'impiegato «queste disgrazie sono servite a qualcosa, per lo meno adesso abbiamo un asse di comunicazione di primaria importanza. Che lavoro vorrebbe fare?». «Qualunque, pur di guadagnare un po' di soldi, perché adesso è quello che conta di più al mondo». «Vediamo un po'». Si alzò, aprì un cassetto e cominciò a controllare alcune cartelline. Mandala lo guardava ammirato. Quel ragazzo deteneva di sicuro una parte del potere degli stranieri, una parte molto più grande di quella che lui, nganga Mankunku, avrebbe mai potuto ottenere. Ormai, visto che i più giovani di lui trovavano impieghi migliori di quelli che lui potesse sperare, considera-
va inutili le sue ricerche dei tempi andati; aveva un'unica speranza: quella d'integrarsi totalmente nella vita cittadina, fare il suo lavoro, guadagnare e dimenticare tutto il resto. L'impiegato tornò a sedersi, aprì una cartellina e ne trasse alcuni fogli. «Ecco, le farò un trattamento speciale perché lei è un ex lavoratore della strada ferrata. Abbiamo appena ricevuto una locomotiva di tipo Mikado e mi hanno chiesto di selezionare qualcuno per farne il primo macchinista indigeno. La proporrò per questo lavoro». «Cosa vuol dire macchinista?». «Lei imparerà a guidare la locomotiva». Mankunku fu stordito dalla proposta. «Lei... lei vuol dire che io potrei far muovere quella macchina pesante, farla viaggiare, attraversare montagne, tunnel e ponti?». L'impiegato rise dell'incredulità del suo interlocutore. «Ma certo, lo può fare e può farlo bene. Lei sarà il primo, dunque dovrà essere abile. Sarà motivo di fierezza per noi e soprattutto per me che gliel'ho proposto. Siamo d'accordo?». Mankunku si vedeva già sulla locomotiva. Ne era fiero e si sentiva potente: un largo sorriso gl'illuminò il volto. «Ma certo che sono d'accordo. Non so davvero come ringraziarla». «Oh, aspetti a ringraziarmi, non è ancora fatta. Mi dia i suoi documenti. La carta d'identità. Le attestazioni di lavoro, se ne ha». «Io non ho documenti». «Non le davano le ricevute per i salari che percepiva?». «No, non abbiamo mai ricevuto nessun foglio di carta». «Ah, è vero, dimentico sempre che si trattava di lavori forzati anziché di un lavoro normale remunerato con un salario. Erano davvero altri tempi!». Rifletté un istante. «Vado io a farle un certificato, anche se in realtà non ne avrei il diritto». Prese un foglio di carta, una matita e si mise a prendere appunti. «Il suo cognome?». «Mandala Mankunku». «Il nome?». Silenzio. «Un altro nome prima di questo, un nome di Dio...». «Non ne ho». «E allora bisogna sceglierne uno». Tirò fuori un calendario e si mise a leggere a caso. Thierry, Rodrigo, Egisippo, Zaccaria, Zefirino...
«Sono dei nomi?». «Sì». «Cosa significano?». «Oh, i nomi stranieri non vogliono dir niente». «Ebbene, se devo averlo per ottenere il lavoro me ne dia uno». «Aspetti». Chiuse gli occhi e lasciò cadere la matita su un nome: Massimiliano. «Ecco, lei si chiama Massimiliano Mandala Mankunku. Le piace?». «Va benissimo». «Quando è nato?». Mankunku ebbe improvvisamente paura che l'impiegato dubitasse della sua nascita, perciò s'infilò in una lunga spiegazione appassionata e ingarbugliata. «Sono nato a metà del secondo mese della stagione secca, quindici o sedici stagioni delle piogge prima dell'arrivo del capo Bizenga, ventidue o ventitré prima dell'inizio del reclutamento per la strada ferrata. Nel posto dove sono nato, vicino al fiume, ci sono delle palme. Il mio villaggio si chiama Lubituku. Vi si trovano ancora uomini e donne che possono testimoniare della mia nascita benché mio padre e mia madre siano morti e giuro che, malgrado le malelingue che raccontano di tutto sulla mia nascita, io sono nato per davvero...». L'impiegato era sorpreso dell'accanimento di Mankunku nel dimostrare di essere realmente nato, come se un essere umano avesse potuto esistere sulla terra in altro modo che per il parto di una madre. «Lo credo bene, sono sicuro che lei è nato da una madre, su questo non ci sono dubbi. Tuttavia, è difficile fissare una data. Vediamo. Diciamo che lei è nato nel mese di luglio e che ha trentacinque anni. No, forse sono troppi». Scrisse sul documento il nome di Massimiliano Mandala Mankunku, di anni venticinque... «Vada da un fotografo, si faccia fare due fotografie, torni domani alla stessa ora e avrà i suoi documenti». «Grazie mille. E lei come si chiama?». «Poaty, Ambrogio Poaty. Se per caso non fossi in ufficio, chieda a chiunque, qui mi conoscono tutti, sono io che mi occupo del reclutamento del personale indigeno». «Grazie ancora, e a domani». Uscì dall'ufficio e restò a lungo davanti alla porta per essere sicuro di
non aver sognato: sì, aveva davvero messo i piedi nel posto giusto, lo avevano ricevuto con amabilità e sarebbe ritornato l'indomani. Sorrise a se stesso e si mise in cerca di un fotografo. Trovò un fotografo pigramente stravaccato davanti al suo laboratorio, sulla cui insegna c'era scritto con lettere malsicure «Dekos, fotografo diplomato». Il laboratorio, in realtà, era una piccola capanna rettangolare di tavole di legno con il tetto di lamiera ondulata. Sul muro erano appese alcune foto ingiallite e incartapecorite per il forte calore e la luce del sole tropicale. Erano foto d'ogni tipo, che avevano in comune il fatto che le persone fotografate erano tutte in ghingheri. Qualche volta c'erano delle variazioni, il ritratto si trovava al centro di un cerchio, una foto di matrimonio all'interno di un cuore... Mankunku seguì il fotografo all'interno. Questi porse al suo cliente una spazzola e un pettine senza smettere d'imbonirlo: «Hai fatto proprio bene a venire da Dekos, persino i Bianchi vengono da me. Toh, pettinati, vedrai, sarà la foto della tua vita. Di' a tutti i tuoi amici di venire da Dekos, diplomato in Europa...». Spazzolò gli abiti di Mankunku, gli diede una polvere bianca «per asciugare il sudore, perché il sudore non va bene per una bella foto; inoltre, la polvere aiuta anche a ripartire bene la luce sulla faccia». Dopo quei preliminari, uscirono. Il fotografo stese un pezzo di tessuto bianco contro il muro e ci piazzò davanti Mankunku, seduto su uno sgabello. Poi sistemò il suo apparecchio su un treppiede, in modo da avere il sole alle spalle. Intorno alla macchina fotografica si accalcò una piccola folla e ciò rese il fotografo ancora più ciarliero e sicuro di sé. «Per una foto, venite dal maestro Dekos, la cui fama ha raggiunto l'Europa; da lui vengono persino i Bianchi...». Vero maestro tecnico, contò i passi che separavano la macchina da Mankunku, poi toccò qualcosa sull'obiettivo senza smettere di parlare. Mankunku, come del resto la folla, lo seguiva con ammirazione e rispetto. Pensate un po'! L'uomo che poteva captare la vostra immagine, un'immagine più che fedele in una scatola nera e restituirvela poi su un pezzo di carta. Prese una lastra rettangolare, la mise dietro alla camera oscura. «Adesso guardi dritto in quest'occhio» disse mostrando l'obiettivo. «Quando le dirò "Pronti!", non muova nemmeno un ciglio... E voi, che state a guardare, non passate tra la macchina e il signore che è seduto là perché il raggio misterioso che esce dall'apparecchio vi colpirebbe. L'ho regolato in modo che non nuocerà al soggetto fotografato, ma guai a tutti gli altri!».
Gli astanti si allontanarono di un passo dalla macchina, con rispetto. Allora il fotografo sollevò il grande velo nero che pendeva dietro all'apparecchio, si ricoprì e ci sparì sotto. «Pronti!» gridò. Mankunku drizzò il collo e smise di battere le ciglia. Proprio in quel momento una nuvola coprì il sole proiettandogli addosso la sua ombra. Il fotografo tirò fuori la testa e imprecò contro il cielo. «Aspettiamo che passi la nuvola». La folla mormorò delusa. Il fotografo fece finta di darsi da fare, diede un altro colpo di spazzola a Mankunku, ricontò la distanza, riguardò il cielo. Sapeva quello che faceva, gli altri non lo sapevano e lui sapeva che gli altri non lo sapevano. Qui stava la differenza. Finalmente la nuvola passò, la testa scomparve di nuovo sotto il velo. «Attenzione!». Mankunku s'irrigidì di nuovo, la mano del fotografo spostò l'otturatore che si trovava sull'obiettivo, attese qualche secondo e poi lo rimise al suo posto. Tutto finito. La testa del fotografo ricomparve. Applausi. «Torni stasera» disse a Mankunku. Mankunku era davvero impressionato. Creare con quell'apparecchio un'immagine di assoluta fedeltà poteva essere possibile soltanto perché quell'uomo deteneva una parte di quel famoso potere degli stranieri che lui aveva cessato d'inseguire. La folla si disperse e lui se ne andò. Mankunku arrivò nell'ufficio di Poaty al mattino presto e il giovanotto fu sempre altrettanto affabile. Ne uscì con una carta di identità professionale sulla quale era appiccicata una sua bella fotografia. Guardò la foto con rispetto perché era più vera di lui. Ovunque fosse andato, qualsiasi ufficio avesse dovuto visitare, avrebbe potuto affermare con sicurezza di essere Mandala Mankunku, che stava parlando lui in persona, ma nessuno gli avrebbe creduto finché non avesse mostrato quella carta, soprattutto con la foto. Ed era lui che doveva somigliare alla foto. In quel mondo che si stava schiudendo, gli sembrava che a custodire la verità fosse l'immagine, non l'oggetto stesso. Lui era Massimiliano Mandala Mankunku e presto sarebbe stato macchinista conduttore di locomotiva dal fiume all'oceano. Così, entrò di buon diritto in quella nuova civiltà che si stava creando sotto i suoi occhi, dove si parlava una nuova lingua passe-partout fatta di parole di lingue di diverse etnie tra cui quella degli stranieri. Piegò con cura i suoi documenti, se li
mise in tasca e tornò a casa per riposarsi. L'indomani mattina si sarebbe presentato al suo nuovo lavoro, che già trovava ancor più affascinante del mestiere della forgia, per imparare come domare quell'immensa macchina che supponeva corresse a una velocità che immaginava inimmaginabile. 21 L'apprendistato di Mankunku non fu molto lungo perché, grazie alla sua sete innata di imparare e di capire, assimilava tutto con notevole facilità. In primo luogo, cominciò col riconoscere le differenti parti della locomotiva a vapore, poi a manovrarla. Per lui, azionare la leva che distribuiva il vapore che metteva in movimento l'enorme macchina, era un vero e proprio piacere fisico; poi contemplava la nuvola di fumo sputata dai camini, azionava le sirene di avvertimento, accelerava e, dopo un po', premeva sul comando dei freni per ascoltare lo stridio delle ganasce che fermavano le ruote. Imparò a ingrassare a dovere le punte delle candele, a ripartire correttamente i carichi del tender... Eppure, malgrado quell'apprendimento meticoloso, malgrado l'aver smontato pezzo per pezzo il meccanismo che faceva muovere la macchina, non riusciva a essere del tutto convinto che essa non racchiudesse qualcos'altro. Non c'era forse un'altra forza più segreta, come la forza che fa muovere il bufalo? In capo a tre mesi, divenne il macchinista titolare del treno quotidiano che trasportava i passeggeri dal fiume all'oceano e dall'oceano al fiume. La linea era lunga circa seicento chilometri e, se non c'erano problemi, li percorreva mediamente in dodici ore. In realtà, arrivava quasi sempre in ritardo: spesso, il suo treno omnibus restava bloccato in una stazione per diverse ore in attesa del passaggio di un altro treno che veniva in senso inverso, perché la linea aveva un solo binario; altre volte restava bloccato da piccole frane provocate dalle piogge o da smottamenti dei rincalzi. Il viaggio era anche rallentato da frequenti soste per caricare acqua e carbone. I viaggiatori temevano quei momenti perché, alla fine del carico, il treno ripartiva avviluppato da un'enorme cappa di fumo che si depositava lentamente su di loro, sporcandoli: allora tossivano, soffocavano, si fregavano gli occhi irritati dalle scintille. Quelle macchine a vapore furono sostituite abbastanza rapidamente da locomotive diesel. Ciò migliorò la velocità del treno e rese il viaggio più gradevole. Eppure, per quante fossero le peripezie del tragitto, il treno di Mankunku entrava sempre in città in pompa magna.
Un lungo colpo di fischietto, due brevi, un altro lungo annunciavano l'arrivo. I bambini correvano ad allinearsi lungo la ferrovia per guardare il treno passare in un lampo, tra due folate di vento, in mezzo agli strilli di Mupepe, Mupepe, il vento, il vento! Era così che i bambini soprannominavano Mankunku, il Vento, talmente erano impressionati dal turbine d'aria che la lunga scia di vagoni lasciava dietro di sé. Gli adulti invece gli avevano dato il nome di Massini, l'uomo della macchina, ed erano ammirati quanto i bambini che correvano dietro ai vagoni illudendosi di raggiungerli... Mankunku continuava ad azionare il segnale del suo arrivo trionfale fino all'entrata in stazione tra gli evviva! e gli applausi degli spettatori. Molti venivano alla stazione non per aspettare amici che avevano viaggiato, ma per lo spettacolo, venivano per guardare il treno; era un momento importante della loro vita quotidiana, come l'ora del pasto. Si vestivano come se anche loro dovessero viaggiare e tenevano in mano il fazzoletto bianco di rito che bisognava agitare in segno di benvenuto o di addio. Quant'era fiero Massini Mupepe, l'unico, il solo, il primo meccanico macchinista di treno del paese che avesse domato la macchina dello straniero! Un fischio lungo, due brevi e un altro lungo, e lanciava la macchina che vomitava fumo attraverso la campagna, nelle foreste, sui ponti dei fiumi, passava sotto le montagne accompagnato dall'incessante tac tac delle ruote metalliche fino al capo opposto del paese, verso l'oceano. Chi non conosceva Massini Mupepe? Adesso erano migliaia le persone che arrivavano dai villaggi, attratte dalla grande metropoli di cui si cantavano tante meraviglie. Tra loro si trovavano molti giovani che, ahimè, non avevano tutti la fortuna di Massini Mupepe: arrivavano in quella grande città completamente spaesati, si trascinavano per le strade in cerca di un lavoro introvabile e finivano per darsi dapprima a piccoli furti, poi a crimini più gravi. Per venirne fuori, molti si raggrupparono in circoli etnici d'amicizia che diventarono raggruppamenti culturali, sportivi e di aiuto reciproco. Le persone dell'etnia di Massini formarono il loro circolo e non ebbero problemi per trovare un capo: si raggrupparono intorno a lui e lo elessero presidente. Era l'uomo più popolare del paese e non tardò a rendere la sua associazione la prima tra tutte. Per quanto non avesse mai imparato a maneggiare i segni che riassumono il pensiero insegnati nelle scuole aperte da poco, deteneva la potenza concreta della macchina, l'enorme treno che sapeva manovrare così perfettamente; inoltre, l'amministrazione straniera lo coccolava e lo mostrava innalzandolo come esempio, si diceva addirittura
che lo avrebbero mandato laggiù, nella madrepatria, perché imparasse a costruirsi un treno tutto da solo. E in ogni caso, durante la festa nazionale, gli appuntarono un gallone, a lui, l'impiegato modello che si sforzava di stare ben diritto davanti al governatore generale come aveva visto fare ai militari, in mezzo agli yu-yu e agli strilli scanditi dalla folla gioiosa. Tutti si sentivano un po' dei Massini Mupepe, quell'uomo che ben presto sarebbe andato lontano a imparare a costruire treni da solo. Nel paese, da quando Mankunku aveva lasciato il villaggio per diventare Massini Mupepe, le cose erano davvero cambiate. In effetti, dopo le atrocità delle compagnie concessionarie, nel paese degli stranieri molti uomini e molte organizzazioni protestarono: il governo della madrepatria creò diverse commissioni d'inchiesta che portarono all'abolizione dei lavori forzati. Parallelamente, fu intrapresa una grande campagna di lotta alle malattie tropicali, in particolare contro la malaria e la malattia del sonno, che avevano colpito la popolazione a causa delle migrazioni di lavoratori per la costruzione della ferrovia. Massini Mupepe incontrava qualche difficoltà a capire come potessero venire dallo stesso paese sia quei coloni sanguinari e barbari dei tempi del caucciù e della ferrovia, sia quei medici attenti che percorrevano i villaggi in condizioni difficili per andare a vaccinare le persone, operarle, curarle, talvolta a rischio della loro stessa vita, in un ambiente ostile. Non capiva il desiderio di alcuni di quegli stranieri di insegnare il segreto dei segni ai bambini del paese, segreto che a suo avviso costituiva la loro forza. D'altronde ormai non era più solo, c'erano altri Massini che sapevano guidare le macchine, leggere e scrivere, e in ogni caso si sentiva obbligato a riconoscere che quelle strade, aperte con tanto spargimento di sangue, erano diventate indispensabili al paese. Per la prima volta Massini, come gran parte della popolazione, non vedeva più gli stranieri come nemici ma come persone con le quali si poteva vivere. Sembrava che il trapianto avesse messo radici, che l'innesto fosse riuscito. Non tutto era perfetto, ma tutto andava bene, ci si avviava lentamente verso uno stato d'equilibrio che in seguito avrebbe soltanto richiesto di essere perpetuato: come generalmente accadeva per tutto ciò che era nell'ordine naturale delle cose. 22 L'epoca felice in cui la tacita accettazione degli stranieri da parte della popolazione indigena sembrava presagire la totale riuscita del progetto di
colonizzazione si concluse abbastanza presto, sotto la spinta di eventi che accadevano lontano dal paese di Massini. In effetti, dopo il caucciù, i tre franchi e la strada ferrata, si abbatté sul paese una nuova campagna di reclutamento. Si diceva che laggiù, sull'altra sponda del mare, il bel paese degli stranieri - che adesso era la loro madrepatria - fosse stato attaccato da altri stranieri, ancora più barbari e selvaggi degli indigeni di quaggiù, e che, se non fossero stati fermati, sarebbero arrivati fino al paese di Massini per sgozzare le donne e i bambini; secondo le voci diffuse da certuni, era la seconda volta dall'inizio del secolo che quei nemici ereditari si comportavano così. Il reclutamento cominciò nell'entusiasmo: numerosi capiclan o capivillaggio si fecero un punto d'onore di mandare uomini dalla loro regione, numerosi disoccupati si arruolarono volontari approfittando in tal modo non solo della stima e dell'ammirazione generale, ma anche del soldo accattivante che veniva loro offerto. Massini ebbe l'onore di condurre quel primo treno di combattenti per la libertà della madrepatria. Li avevano radunati di buonora sulla piazza della stazione - battezzata da allora Piazza della Partenza - con divise nuove, stivali ben allacciati e lustri, il tradizionale fez rosso sulla testa, sotto lo sguardo, per una volta bonario, dei graduati senegalesi, alti e nerissimi. Ridevano, cantavano, scherzavano in mezzo a parenti e amici che erano venuti a salutarli; bastava che una voce intonasse le prime parole della loro canzone portafortuna: La Francia è nostra madre perché altri riprendessero il canto con voce piena di tenerezza stupita: è lei che ben ci nutre con le sue belle patate e i maccheroni per terminare con voce virile e determinata, che non lasciava nessuna possibilità di vittoria al loro prossimo nemico, ancora sconosciuto: e allora andiamo, allora andiamo, andiamo allora alla guerra se ci sarà la guerra
noi saremo i soldati. Ogni tanto rivolgevano in modo ostentato lo sguardo all'equipaggiamento o prendevano il fucile facendo finta di controllare qualcosa, lo mettevano in spalla, sorridevano e lo posavano nuovamente per terra. Sicuri di sé, non avevano alcun dubbio sulla propria importanza e sull'importanza della loro missione. La gente li invidiava un po', quegli uomini che presto avrebbero scoperto il meraviglioso paese straniero. C'erano persone del villaggio di Massini: c'era soprattutto De Kelondi, che era stato soprannominato «D'oltremare». Andava e veniva, si toglieva il fez e lo rimetteva. Gran conquistatore di donne, De Kelondi pensava già alle storie che avrebbe riportato per raccontare le sue nuove conquiste. «De Kelondi!» gridava qualcuno nella folla. «D'oltremare!» rispondeva lui gonfiando il petto con la stessa naturalezza di un pavone che fa la ruota. E allora avanzava verso chi l'aveva chiamato borbottando qualche parola nella lingua civilizzata degli stranieri, per far vedere come, pur essendo solo un raccoglitore di vino di palma, fosse comunque una persona istruita. C'era anche Muzompa, l'uomo che dicevano fosse il più forte del mondo, e poi c'era anche... Massini ne conosceva tanti! Era triste di non poter partire, d'altra parte ne era fiero perché, come continuava a ripetere, se non era stato chiamato nei ranghi dei fucilieri - così chiamavano quelli che partivano -, era perché lui era un quadro troppo importante: era macchinista, quadro tecnico di prima necessità, indispensabile alla logistica dell'esercito coloniale. Finalmente giunse l'ora della partenza. Il governatore e un generale fecero ciascuno un discorso, tradotto frase per frase dall'interprete indigeno. Tutti applaudirono poi cantarono «La Marsigliese» accompagnati dalle trombe e dai tamburi e infine salirono sui vagoni. Ricominciarono a cantare «La Marsigliese» agitando le bandiere, e la folla continuava ad applaudire. Lacrime di fierezza - e magari di tristezza - subito asciugate scorrevano sulle guance qua e là, quando Massini lanciò un fischio lungo, due brevi e un altro lungo e, lentamente, mise in moto la pesante locomotiva che poco per volta prese velocità e scomparve presto, portando via quella gente allegra che tutti chiamavano «fucilieri senegalesi». Il treno scomparve in direzione del mare, dove si sarebbero imbarcati per difendere la civiltà minacciata mentre il vento continuava a portare alle orecchie di tutti quelli in grado di sentire le parole della loro canzone feticcio:
E allora andiamo, allora andiamo, andiamo allora alla guerra se ci sarà la guerra noi saremo i soldati. Quella prima partenza fu l'unica in cui ci furono volontari veri, perché l'entusiasmo calò molto presto. Non ci furono più arruolamenti volontari. Allora, l'amministrazione lanciò una campagna psicologica a sostegno del reclutamento. In città, si chiedeva ai capiquartiere di riunire gli amministrati per leggere loro le lettere entusiaste che si diceva essere state spedite dai soldati. Nei villaggi, quel compito fu affidato ai capiclan. Si raddoppiò il premio di arruolamento, si promise a tutti coloro che si arruolavano la cittadinanza, cioè l'insieme degli stessi diritti accordati agli stranieri. Tutte quelle misure restarono inefficaci, non ci furono più volontari. Allora, ancora una volta, sul paese furono scagliati i miliziani. Quelli braccavano la gente come ai tempi della strada ferrata, incatenavano l'uno all'altro gli uomini che riuscivano ad acciuffare e li facevano camminare a colpi di calcio di fucile in una lunga colonna, per chilometri, fino al luogo di raccolta: là, il medico militare indicava secondo il peso e la circonferenza toracica coloro che dovevano partire per difendere la libertà del mondo minacciata. Per evitare l'arruolamento molti si mutilarono, altri morirono per aver voluto digiunare troppo a lungo allo scopo di non raggiungere il peso minimo richiesto. Nel paese di Massini Mupepe furono reclutati esattamente sessantatremilatrecentoquarantaquattro uomini: agli uni fu insegnata «La Marsigliese», agli altri «La Brabançonne» e, tra quegli uomini, il sessantratremilatrecentoquarantesimo si chiamava Ambrogio Poaty, quel gentile giovanotto che aveva permesso a Massini di diventare ciò che era oggi. Quando quest'ultimo condusse il treno con l'infornata di soldati in cui si trovava Poaty al porto dove si sarebbero imbarcati, tutto gli sembrò lugubre. Per la prima volta lasciò la stazione senza lanciare i suoi fischi lunghi e brevi. Partì lentamente, guardando dolorosamente quegli uomini e quelle donne tristi che, con il cuore ancora sanguinante, restavano nel posto dove era stato strappato loro un parente o un amico. In ogni caso, si era ben lontani dall'entusiasmo di quei primi volontari, figli della patria, partiti per farsi ammazzare con la testa rintronante di sogni di giorni di gloria, con un fucile in mano e una canzone nel cuore.
23 I sommovimenti della guerra raggiunsero il paese di Massini Mupepe solo di rimbalzo. Ovviamente ci furono passaggi di truppe e di aerei da carico che facevano scalo là prima di partire per il Ciad; ma non ci furono azioni militari. Era pur vero che la ferrovia trasportava un numero sempre minore di passeggeri e sempre più materiale militare d'ogni sorta. Non fosse stato per il grande vuoto lasciato nel paese dalla partenza massiccia degli uomini validi, reclutati a forza fin nei villaggi più reconditi, Massini non avrebbe mai saputo che il mondo era in guerra. Per contro, sul paese era planata una sensazione mal definita di disagio, come l'ombra fugace di un uccello da preda che rende inquieti gli animali al suolo. Mancava un po' di gioia di vivere; forse perché il paese era stato svuotato della sua gioventù? Era per via di tutte quelle donne che si lamentavano, chi per un marito e chi per un figlio? In ogni caso, Massini non provava più alcun piacere a guidare la locomotiva e spesso arrivava in stazione o ne ripartiva come un ladro, cioè senza azionare le sue celebri segnalazioni. Si chiuse sempre di più in se stesso e, proprio lui che amava tanto la compagnia degli altri, divenne persino scontroso; ogni giorno pensava un po' di più di tornarsene al villaggio natio, abbandonando, ovviamente, il mestiere che aveva fatto di lui l'uomo più celebre del paese. Dopo qualche esitazione, alla fine rassegnò le dimissioni al suo capo. Questi fu sconvolto dalla notizia perché non poteva capire come mai Massini lasciasse un posto così prestigioso con il semplice pretesto che «la macchina non mi dà più gioia», come se si potesse concepire che un Negro provasse piacere non diciamo felicità - nel suo lavoro! «No,» rifiutò categoricamente il capo «non se ne parla neanche, soprattutto adesso che siamo in piena guerra. E poi, razza d'imbecille, se lasci questo lavoro ti sbatto immediatamente sul fronte tedesco!». Lui guardò il capo con gli occhi stupefatti dell'abitante di un villaggio quando scopre per la prima volta una locomotiva. Gli crebbe dentro un sentimento di odio. Che diritto ha, lui, di dirmi cosa io debba o non debba fare? Dopo tutto, sono a casa mia! Gli venne in mente il primo Bianco giunto al villaggio molto tempo prima: avrebbe dovuto ucciderlo quel giorno stesso, invece di abbandonare la cerimonia come aveva fatto. Oggi non sarebbe così dipendente dagli stranieri per guadagnarsi la vita. In quel momento, comprese appieno che tutto ciò che gli stranieri avevano fatto nel suo paese non era stato gratuito: le strade aperte servivano per portare i
semi di palma e il legname verso la capitale, la ferrovia permetteva di evacuare tutte le ricchezze del paese verso il mare, quegli autoctoni che sapevano leggere erano utili per far funzionare l'amministrazione e gli indigeni in buona salute erano indispensabili per lavorare sodo o per essere reclutati nell'esercito. Adesso, le persone del suo paese erano forse un po' più ricche, ma erano ricche come lo era stato suo zio Bizenga, cioè erano ricche perché asservite alla cultura che gli stranieri avevano portato con sé. A partire da quel giorno, nella sua considerazione degli stranieri si spezzò definitivamente qualcosa, anche se non avrebbe saputo dire cosa. Siccome non aveva nessuna voglia di andare a farsi ammazzare per il suo capo, quello straniero, Massini scelse il male minore e decise di restare al suo posto. Ricominciò a pensare al grande fiume, alle sue lunghe escursioni solitarie nella notte alla ricerca delle forze che si nascondono dietro alle cose. Era valsa la pena avere abbandonato tutto ciò per la città e per la locomotiva? La vita continuò così, a piccoli passi monotoni, fino al giorno in cui arrivò la notizia. Prima erano voci, poi fu ufficiale: la guerra era finita. Era il mese di maggio del 1945. Era la prima volta in vita sua che Massini imparava a memoria una data. Un brivido di eccitazione percorse il paese, che attese il ritorno dei suoi figli partiti per la guerra ancora per diversi mesi. Quel giorno, le donne spazzarono i pavimenti di casa, si fecero rifare le treccine, comprarono nuovi pagne per accogliere gli uomini che Massini ebbe l'onore di andare a prendere all'arrivo della nave che li riportava a casa. La folla intasava la stazione già ore prima che arrivasse il treno. La gioia era tornata. Le ragazze, carine e civettuole, belle nei loro vestiti a fiori tropicali, non cercavano di nascondere il luccichio malizioso che brillava nel loro sguardo e tradiva le scene di piacere e di desiderio che già s'immaginavano e che contavano di regalarsi quella notte stessa con l'amante ritrovato. La guerra era finita. Nella Piazza della Partenza, ribattezzata Piazza degli Ex Combattenti, una fanfara suonava arie militari alternate a motivi danzerecci. I miliziani si facevano amabili; si vedevano persino stranieri familiarizzare con gli indigeni. Il loro volto bianco, pallido o arrossato a seconda dei casi, era attraversato da un sorriso bonario: dappertutto risa e lacrime, lacrime di gioia. Un fischio lungo, due brevi, uno lungo. Ovazione della folla in delirio: Massini Mupepe entrava in stazione; il suo treno decorato di bandiere si
fermò lentamente. Lui diede un colpo di fischio supplementare e la gente prese d'assalto i vagoni. I nomi urlati si accavallavano, si saltava al collo del primo soldato sul quale era possibile mettere le mani, gioia, pianti e lacrime di gioia, spintoni e confusione. I miliziani ricevettero l'ordine d'intervenire per ristabilire la calma e, abbandonando come per magia l'aria bonaria che avevano affettato fino a quel momento, ritrovarono la loro atavica crudeltà: in men che non si dica, tutti quanti furono spinti di nuovo nella Piazza della Partenza - diventata Piazza degli Ex Combattenti - e tutti restarono in piedi, tranquilli e in ordine, ad aspettare i soldati. Finalmente apparvero gli eroi! Arrivavano chi con un moncherino al posto di un braccio, chi con una gamba o una mano di meno! Qualche azzoppato rutilante di medaglie cercava di mantenersi impettito, come dev'essere un buon soldato. Dalla folla proruppe un mormorio d'incredulità e delusione. Si cercava con lo sguardo un fratello e, appena lo si intravedeva, si controllava che non gli mancasse un pezzo. L'ordine fu rotto di nuovo. Si abbracciavano amici e parenti: quelli che non erano stati colpiti fisicamente avevano parole tristi. Ahimè, molti non ritornarono proprio, erano spariti laggiù, nel paese delle meraviglie. I pianti e le lacrime di gioia si trasformarono in lacrime di dolore, si aiutava un mutilato a spostarsi, si prendeva il bagaglio di un monco, si sostenevano le stampelle di uno rimasto con una gamba sola. Mabiala, del villaggio di Massini, laggiù aveva lasciato un occhio. Il seducente De Kelondi era irriconoscibile: si era beccato una scheggia nella gamba sinistra e zoppicava. Dei sessantremilatrecentoquarantaquattro uomini che erano partiti dal paese di Massini Mupepe, non ne ritornarono più esattamente ventiquattromiladuecentosettanta, e uno di quelli si chiamava Ambrogio Poaty. Massini lo cercò invano nella colonna, interrogò tutti i soldati che conosceva per chiedere notizie dell'amico. Quelli che erano partiti per salvare la madrepatria e la libertà del mondo con in bocca una canzone, ritornavano al loro focolare con il cuore stanco. Massini, in qualità di presidente dell'associazione, invitò tutti gli ex combattenti a un ricevimento per la domenica successiva, poi se ne andò, anche lui con la testa pesante e le palpebre gonfie. Superò una ragazza sola che piangeva: il suo volto triste contrastava dolorosamente con il vestito dai colori sgargianti. Si sentì cosi commosso che, dimenticando il proprio dolore, le si avvicinò. «Buongiorno, come ti chiami, donna?». «Mi... Milete» riuscì ad articolare tra un singhiozzo e l'altro.
«Era tuo marito?». «No, era mio fratello, il mio unico fratello!». Non seppe cosa aggiungere. L'abbracciò dolcemente e, prima di continuare per la sua strada, le disse: «Coraggio, anch'io ho perduto un carissimo amico, quasi un fratello». Ma era troppo. Le sue palpebre gonfie scoppiarono in lacrime calde che cadevano in memoria dell'amico partito per difendere la libertà del mondo. Ma quale libertà?, si domandò Massini. Sono libero, io? È libertà quella di subire le sevizie di tutti questi miliziani prima per il caucciù, poi per i tre franchi, adesso per il servizio militare? Passò accanto a un gruppo che stava intorno a un sergente maggiore, che aveva perso entrambe le braccia e un occhio. Senza volerlo, e per quanto la testa gli rintronasse, sentiva le parole dell'eroe vibrare nei suoi timpani, raggiungere il cervello e forzare un loro percorso nella memoria: udiva la voce offesa dell'uomo, mortificato dalla sua esperienza, che partiva dal cerchio delle teste che lo circondavano e approvavano bevendo le sue parole: «Sì, quello che vi dico è vero, ci chiamavano tutti "fucilieri senegalesi". Io, Senegalese? Eravamo sballottati da un campo all'altro, ci riempivano di alcol e ci facevano subire il primo assalto. Quando il nemico ci faceva prigionieri, non era certo per farci regali: ci facevano ballare, balla macaco, scuoti la pianta di banano, fa' un po' di smorfie, e la coda? Fammi vedere la tua sporca coda, la tua grande coda nera da scimpanzé, ullallà! Com'è grande, mein Führer, ballaci il bambula, agita il culo, sporco babbuino, ja ja ja, metteteli là al muro e bang... bang... bang... Ci annaffiavano di pallottole...». 24 Curioso percorso è quello della Storia. La guerra, che si era svolta a migliaia di chilometri di distanza, sconvolse la mentalità delle persone del paese di Massini più di tutto quanto avessero vissuto fino ad allora. Intanto, con la fine del conflitto, arrivò una nuova categoria di stranieri: Libanesi, Greci e soprattutto Portoghesi. Erano piccoli commercianti che correvano dietro ai soldi con lo stesso accanimento degli autoctoni, in contrasto con i primi coloni, che menavano una vita da gran signori nelle loro piantagioni e tra i loro schiavi. Quelli invece vivevano spesso in concubinato con donne del paese, facevano una scarampola di figli che, da un giorno all'altro, abbandonavano senza nessun senso di responsabilità paterna quando decidevano di cambiare regione se gli affari non andavano bene. Il
paese proliferò di piccoli meticci dal nome di Gomez, Henriquez o Fernandez che non sapevano molto bene se fossero Africani o Portoghesi. Quei nuovi venuti, avventurieri senza successo, contribuirono molto a distruggere il mito della superiorità degli stranieri. Si diffondevano immagini poco brillanti sulla loro sessualità e sulla loro igiene personale: non erano circoncisi, non sapevano soddisfare una donna a letto, mangiavano solo fagioli... Colmo dei colmi, massacravano allegramente la lingua dei padroni, quella che ogni uomo avrebbe dovuto parlare per accedere alla civiltà ed essere considerato «evoluto»: la parlavano meno bene degli stessi indigeni che erano andati a scuola; così dunque, laggiù, dall'altra parte del mare, nel paese da cui venivano gli stranieri, c'erano anche persone che non sapevano né leggere, né scrivere, né parlare correttamente! Ma furono gli ex combattenti che contribuirono più efficacemente a togliere di mezzo l'aura di mistero e quindi di superiorità che regnava intorno ai padroni stranieri. Quegli uomini che avevano valicato il Reno, quei soldati che avevano attraversato da conquistatori le città europee, bisognava vederli mentre si pavoneggiavano con le medaglie sul petto al ricevimento cui Massini li aveva invitati. C'erano tutti, quelli che erano tornati indenni, quelli che avevano perso un braccio, un occhio o una gamba. C'era De Kelondi, che rispondeva infaticabile «D'oltremare» quando si gridava il suo nome. Passabilmente brillo, si spostava a passetti zoppicanti e la sua claudicazione cresceva proporzionalmente al grado di ubriachezza. Piccoletto, col suo bel naso negroide che fremeva come le froge di un purosangue, aveva gli occhi rossi da avvinazzato. Da quando era tornato, si era dato all'alcol. Nella mano sinistra teneva un sottile bastone, che diceva di aver preso a un ufficiale tedesco da lui stesso ucciso. «De Kelondi, De Kelondi!» si gridava da ogni parte. «D'oltremare!» rispondeva lui con voce impastata. I suoi occhi furbeschi brillavano di allegria, come se si divertisse in anticipo per il prossimo scherzo che stava preparando. «Muoio di sete come un elefante che non ha bevuto per tutta la stagione! Ho sete!» gridava. Risero. Si voltò verso Massini. «Presidente, sono una locomotiva che non ha fatto il pieno di gasolio». Massini lo ignorò considerando che aveva bevuto abbastanza. «Massini,» continuò lui chiamando tutti quanti a testimone «se non mi dai ancora da bere ti faccio una magia con la mia valigetta nera!». Tutti tacquero di colpo e guardarono con interesse la valigetta nera. Fino a quel momento, nessuno l'aveva notata. Ci fu un silenzio rispettoso e pre-
occupato, perché quegli ex combattenti erano al tempo stesso ammirati e temuti. Erano tornati con poteri acquisiti laggiù, dall'altra parte dell'oceano, che qui non avevano equivalenti: superavano in efficacia tutti i feticci locali, tutti gli amuleti dei Senegalesi. Avevano portato talismani che li proteggevano dagli stregoni, dalle malattie, dagli avvelenamenti, talismani che permettevano di sedurre qualsiasi donna! Cosa avrebbe mostrato De Kelondi? Massini si affrettò a passargli mezzo litro di vino. Lui afferrò la bottiglia. «Guardate, uso il metodo della tromba». Alzò la bottiglia sopra la testa, aprì la bocca e un fiotto di liquido gli colò nel gozzo mentre il pomo d'Adamo saliva e scendeva al ritmo delle deglutizioni. Quando ebbe spento la sete, posò la bottiglia senza che ne fosse andata persa una sola goccia. Battimani. Un po' più incerto, zoppicò penosamente verso un tavolo e chiese che gli si portasse la valigetta. Assunse un'aria importante, cercò in tasca la chiave e l'aprì. Il coperchio della valigetta non si aprì completamente, ma girò attorno a una cerniera e restò aperto grazie a una barretta metallica fissata da una molletta. Estrasse un disco di cera e lo mise sul piatto al centro della valigetta; poi tirò fuori una manovella, la infilò in un buco e si mise a girarla, prima facilmente, poi con sforzo sempre maggiore, e si fermò quando sentì il massimo di resistenza. Poi prese un ago da una scatoletta, esaminò ostentatamente la sottigliezza della punta, fece un segno di approvazione, dispiegò un lungo tubo vuoto leggermente a forma di «S» che terminava con una grossa testa dove fissò l'ago. Tutti quanti continuavano a guardare in silenzio, senza comprendere nulla di quelle operazioni misteriose. Un clic, il disco si mise a girare e lui ci posò delicatamente l'ago della grossa testa. Dapprima uno scricchiolio, poi una voce, sì, niente meno che una voce d'uomo che cantava! Gli uomini ebbero un soprassalto, panico tra i bambini che si nascondevano dietro al padre o alla madre, momento di terrore tra le donne: De Kelondi ha una scatola dove si nasconde un diavoletto che imita la voce degli uomini! De Kelondi è fiero dell'effetto che ha prodotto. Ferma il disco e spiega: «Questo si chiama fonografo e quello è un disco: non c'è nessuno nascosto qui dentro, potete verificare». Massini guarda, prende l'apparecchio, lo tasta, lo esamina da tutte le parti, è vero, dentro non c'è nessuno. «Eh sì,» rincara De Kelondi «sta tutto nel disco». I bambini rassicurati vengono a loro volta a toccare l'apparecchio. De Kelondi li allontana, gira il disco e a cantare è una voce di donna!
«Così hanno imprigionato persino le voci!» dice Massini, a bocca aperta per l'ammirazione. Quell'unico disco fu fatto passare e ripassare molte volte benché le canzoni fossero in una lingua che non comprendevano. De Kelondi cambiò l'ago cinque volte; alla fine fermò l'apparecchio tra le ovazioni della folla entusiasta. Ricevette molti inviti - con promessa di un regalo di due litri di vino - per far suonare il fonografo a casa dell'uno o dell'altro. Ripose l'apparecchio e si concentrò sulle bevande. Ma la gente non lo lasciava tranquillo e gli poneva ogni sorta di domande. I suoi occhi brillavano come braci e il suo cervello registrava simultaneamente tutte le domande che gli venivano poste. E così, mescolava tutte le risposte. «...Si chiamano bombe, esplodono come tuoni, la terra si solleva, il vento si alza a una velocità che mette addosso il panico... Io, uomo senza paura, ho dormito notti intere nella neve... Ah, vedo che non sapete cos'è la neve, razza d'ignoranti, indigeni selvaggi, la neve non è ghiaccio e il ghiaccio non è neve, la neve è bianca e morbida come il kapok che scende lentamente dal cielo quando il vento agita i rami dell'albero: solamente che quel kapok là è freddo, freddissimo, e nel momento in cui uno lo tocca fonde e se ne va in acqua come ghiaccio... Allora ho paura di combattere quando ci sono le bombe che ti cascano dal cielo... e lo sai cosa ci facevano, a noi fucilieri senegalesi? Perché mi guardi? Non ho mica detto che ero Senegalese, no, sai cosa ci facevano, ci davano dell'acquavite, sì, piccolo mio, ed era buona, e allora uno non aveva più paura di niente, andava avanti senza paura e senza rimpianti... ah! ah! ah!, quando i Tedeschi hanno visto tutte queste facce nere davanti a loro per la prima volta hanno gridato Gottdämmerung! e sono scappati abbandonando i loro fucili, ah! ah! ah! È stato così che abbiamo vinto la prima battaglia... La guerra sarebbe bella se ci fossero solo nemici che scappano e gente che vince senza combattere...». «De Kelondi!» gridò Mabiala appena arrivato, orbo da un occhio e rutilante di medaglie. «D'oltremare!» replicò l'interpellato. «Già sbronzo?». «Io sbronzo? Eh, tu scherzi! Ti ricordi a Marsiglia? Prima dell'imbarco mi sono scolato una bottiglia di pastis e sono riuscito lo stesso a soddisfare cinque donne, una dopo l'altra. Eh, Mabiala, ti ricordi?, a Parigi, no, a Berlino, eh sì, quando Dresda bruciava, quante bombe scoppiavano dappertutto, quante centinaia di aeroplani impazziti lanciavano ordigni incendiari sulla città, sotto il fuoco, la mitraglia, gli odori di carne bruciata, le urla, il sangue, lo sai tu cosa facevo io, uomo senza paura e senza rimpianti, io,
caporale De Kelondi D'oltremare, ah! ah! ah!, io mi scopavo una bionda ariana con gli occhi blu in una cantina mezzo sfondata! Meglio salire al cielo tra le cosce di una donna bionda che con una bomba nel culo...». «De Kelondi...». «D'oltremare!». Mabiala non lo stava nemmeno a sentire; si allontanò con Massini dal gruppo dei chiacchieroni. Aveva portato un pacchetto che Poaty aveva chiesto di consegnargli personalmente: c'era la foto del giovanotto in divisa, una busta che conteneva denaro e una lettera. Il giovanotto gli chiedeva di accettare quei ricordi, lo considerava come il solo membro della sua famiglia dal momento che suo padre e sua madre erano morti. Massini si commosse. Quel giovanotto, che veniva da un'altra regione e da un'altra etnia, l'aveva adottato come genitore. Ma allora, ciò che si chiamava appartenenza etnica contava davvero davanti alla sofferenza? Tutti i combattenti non avevano forse sofferto allo stesso modo in quella neve bianca che si scioglieva di cui parlava De Kelondi? Ripose con cura la fotografia e si ripromise di trovare un membro della famiglia di Poaty, fosse pure un parente lontano, per consegnargli il denaro. Ringraziò Mabiala e tornarono entrambi da De Kelondi. Mabiala e Massini si sedettero accanto a lui. «Basta, De Kelondi,» l'interruppe Massini «smettila di parlarci delle tue bravate di guerra. Parlaci piuttosto della vita di tutti i giorni laggiù». De Kelondi sembrò riprendersi di colpo dalla sbronza. La sua voce perse il calore dell'ubriaco, le parole che pronunciò si fecero sporche e tristi come lacrime di una veglia funebre. E, come se le dighe del suo inconscio avessero ceduto improvvisamente, si mise a parlare con voce rotta di quella parte della loro vita che tutti avevano tenuto nascosta fino a quel momento. «Laggiù,» disse «noi non eravamo degli uomini, non ci conoscevano per nome. Io, che nel mio paese sono conosciuto da tutti, io, De Kelondi, mi chiamavano solamente "Ehi tu, fuciliere..."». «Ah,» riprese Mabiala «eravamo tutti "fucilieri". Nella madrepatria non c'erano clan, né tribù, né etnie. Eravamo trattati tutti allo stesso modo». L'ex combattente riprende più lentamente, come per far entrare meglio le parole nelle orecchie del presidente dell'associazione della sua etnia. «Laggiù, quando si rifiutavano di affittarci una camera o di servirci in un ristorante, non era sulla base della tribù; no, laggiù, qualunque fosse la nostra origine, eravamo tutti fratelli, tutti Negri. Guarda, te lo dico io, Massini, non valeva la pena andare a perdere una gamba o un occhio per difen-
dere quegli stranieri e poi tornare qui a litigare tra noi per stupide ragioni di etnia; no davvero, non ha senso difendere gli stranieri per poi ammazzarci tra noi nel nostro paese». I due soldati tacquero, poi Mabiala disse: «Hai bevuto abbastanza, De Kelondi, andiamocene». L'ex combattente viene approvato dal suo compagno d'armi con un cenno del capo. Finiscono di scolare la bottiglia di vino e si alzano. De Kelondi prende il bastone, raccoglie il fonografo e i due se ne vanno, zoppin zoppetto: il guercio segue lo sciancato con le medaglie che gli dondolano sul petto, eroi involontari di una guerra lontana. Massini Mupepe guarda quei due esseri invecchiati e mutilati seguire tristemente e dignitosamente le rotaie della loro vita lasciando dietro di sé, perché risuonino nella testa come il segnale d'avvertimento del passaggio di un treno, tre parole: il nostro paese. 25 I giorni successivi alla guerra portarono al paese un certo boom economico e un certo miglioramento nello stile di vita. I Portoghesi, i Libanesi e i Greci, seguiti più tardi da qualche Ungherese, che arrivavano per tentare di rifarsi una vita dopo le disgrazie dei loro paesi, aprirono molti laboratori, avviarono piccole attività economiche assumendo numerosi operai; e allora il denaro cominciò davvero a circolare. Nel sud del paese fu accelerato lo sfruttamento del rame, nel nord quello del ferro e del manganese. Massini Mupepe continuava a guidare i suoi convogli carichi di viaggiatori, di mercanzie, di tronchi d'albero e di minerali. Era l'epoca di una nuova gioia di vivere, l'epoca in cui si faceva di tutto, s'inventava qualsiasi cosa per far soldi. Così Wendo-Sor, un amico di Massini Mupepe, abbandonò il suo lavoro di meccanico presso un venditore di biciclette per cominciare una carriera di musicista insieme a un Greco, che aveva aperto una ditta di registrazioni fonografiche sotto il marchio Ngoma, tam-tam. II fonografo era diventato popolare e l'evoluzione della società si traduceva nel fatto che i ricevimenti mondani non si facevano più al ritmo del tam-tam, oramai trascurato dai giovani, ma al suono dei fonografi, che adesso funzionavano a corrente elettrica o a pile utilizzando dischi microsolco. Alcune persone inventarono un nuovo mestiere: attrezzavano un locale dove suonavano musica e facevano pagare la gente che veniva per ascoltare, ballare e bere. E uno dei primi successi di quei dancing, bar e ritrovi fu il disco di
Wendo nel quale cantava le sue gioie e i suoi dolori con una certa MarieLouise: Marie-Louise, solo e ngaï na yo mama... Dappertutto arie di rumba, di beguine, di cha-cha-cha, di merengue; erano ritmi che scioglievano le anche delle donne, le rendevano elastiche come corpi di boa, facevano salire e scendere le chiappe in movimenti di andirivieni suggestivi e lascivi: erano musiche che drogavano il cuore degli uomini, che permettevano ai loro sguardi languidi di scivolare sui seni delle donne gonfi di piacere, su quei posteriori che si agitavano e si dimenavano... Intorno a quei locali nacquero attività losche e aprirono i battenti i primi lupanari. Con «Marie-Louise», Wendo diventò non soltanto più popolare di tutti gli altri cantanti, ma ancora più popolare di Massini Mupepe. Alla nuova generazione che cresceva, la locomotiva banale e quotidiana non diceva assolutamente niente, volete mettere il successo di uno come Wendo! Emersero altri nomi, di sportivi, di ricchi commercianti. Erano persone di città che non avevano più alcun legame organico con il villaggio d'origine, gente che non aveva un angolino di foresta dove riposavano gli antenati, come invece Massini; gente che cercava di cogliere e afferrare tutte le novità che l'Europa paracadutava sul paese. Per la prima volta, quei cittadini autoctoni cominciarono anche a interiorizzare i valori culturali venuti d'oltremare. Il paese di Massini fu invaso dalle canzoni di Tino Rossi, dai tango di Carlos Gardel, dal duo Patrice e Mario. Comparvero le radio: Massini fu il primo a comprarne una e volle ripetere il colpo di De Kelondi con il fonografo su chi non ne aveva mai vista una. Organizzò una grande festa e invitò a nome della sua associazione tutte le persone di ogni etnia che conosceva, senza dimenticare ovviamente gli ex combattenti. Invitò anche Wendo e i suoi due concorrenti, Paul Kamba e Mundanda. Wendo interpretò alla grande «Marie-Louise», Mundanda il suo nuovo successo «Poto-Poto». Finalmente giunse il momento di Massini, che tra la folla riconobbe Milete, la giovane donna che aveva perso il fratello in guerra, e la chiamò accanto a sé. Tirarono fuori un'enorme cassa con molti bottoni e un lungo filo che saliva fin sul tetto. Attaccò su una batteria da automobile due pinze collegate a un altro filo che usciva da dietro l'apparecchio. Girò la prima manopola e si accese una lucina, all'inizio verde pallido, poi via via più intenso, e lui disse che era un occhio magico.
Poi girò un'altra manopola e dalla cassa uscì la musica. Sulla sua faccia si aprì un sorriso, gonfiò il petto in attesa delle felicitazioni: nessuno sembrò impressionato. «C'è un fonografo nascosto lì dentro!» gridò qualcuno. A quel punto, Mupepe si arrabbiò: «Avete già visto un fonografo captare il mondo intero?». Si mise a girare rapidamente la manopola delle stazioni: si udivano fischi e gracchiamenti, «sono navi sul mare», strane lingue, «sono gli Americani», altre lingue incomprensibili, «questo è tedesco, e questo è russo, o arabo, tanto è la stessa cosa», della musica, disturbi parassiti, «è il rumore degli aeroplani!». La folla sembrava finalmente convinta: sì, era davvero diverso dal fonografo. «Ma certo, ignoranti, questa è una radio: si possono captare notizie da tutto il mondo...». E allora gli ex combattenti aggiunsero i loro racconti di come, grazie alla radio, quando erano sul fronte di Verdun o delle Ardenne, in mezzo alla neve che bruciava, erano al corrente di tutto quanto accadeva nei loro villaggi; la radio aveva persino diffuso con chi erano andate a letto le loro mogli durante quell'assenza e chi aveva parlato male di loro, perché la radio era dappertutto, raccontava tutto e non mentiva mai! Alcuni invitati si eclissarono discretamente, credendosi smascherati, mentre alcune donne raddoppiarono le attenzioni per i loro mariti ex combattenti sperando così di stornare i sospetti... Alla fine dei programmi, Massini ripulì con cura i morsetti della batteria e li ricoprì con una fodera che Milete aveva cucito appositamente per impedire alla carica della batteria di «fuggire». Dopo quel primo successo, la casa di Massini Mupepe era diventata luogo di incontri nelle ore in cui la radio trasmetteva, che allora erano soltanto tre al giorno. Prima i giovani, che arrivavano presto, all'ora del concerto degli ascoltatori, e che sentivano Wendo, Keita Fodeba, i San Salvador, canterellavano «Adios pampa mia» e «La casetta in Canada»; poi gli adulti e gli ex combattenti, che venivano soprattutto per seguire le notizie dall'Indocina, dove allora si trovavano parecchi loro fratelli e amici. Così vennero a sapere che laggiù infuriava una battaglia in un posto chiamato Dien Bien Phu. Gli ex combattenti commentavano le diverse fasi della battaglia, spiegavano ai profani cos'era un mortaio, un cannone senza rinculo, un bombardiere. All'inizio, la simpatia degli ascoltatori era per i padroni perché molti avevano un fratello, un figlio, un parente o un amico nell'esercito degli stranieri, accerchiato nella valle infernale. Ma ogni giorno che passava vedeva crescere una corrente di simpatia sempre più forte che li avvicinava a quei Vietnamiti che tenevano testa alla forza dei padroni. Poi la simpatia e l'ammirazione diventarono decisamente partito preso e auspica-
vano la disfatta dell'esercito degli stranieri, dove si trovavano i loro fratelli. Fu dunque a casa di Massini che la gente del luogo apprese, con gioia mal dissimulata, che i padroni avevano perso la battaglia di Dien Bien Phu. Era il maggio del 1954, il secondo storico mese di maggio che s'imprimeva nella memoria di Massini. Da allora, in modo sotterraneo e ambiguo, come una talpa che si scava il suo cunicolo, nella coscienza collettiva del popolo cominciò a incrinarsi il dogma dell'intoccabilità e dell'invincibilità dei padroni. Gli ex combattenti non parlavano più di notizie dalla madrepatria e di neve che brucia, di Parigi-la-città-più-bella-del-mondo, ma insistevano invece sulle loro delusioni di laggiù, parlavano dei Bianchi che avevano visto verdi di paura prima di andare all'assalto, dei barboni e dei mendicanti ai quali avevano fatto l'elemosina: insomma, il paese degli stranieri non era più quel paradiso di cui avevano parlato. E poi si mise a circolare una voce, incontrollata, sotto il mantello, se si può dire, perché la radio ufficiale non l'aveva confermata ma, al contrario, l'aveva minimizzata o addirittura smentita (fu in quell'occasione che, per la prima volta, la popolazione prese coscienza che la radio poteva mentire); e quella voce, diffusa da alcuni autoctoni «evoluti» che leggevano i giornali metropolitani, raccontava che degli uomini non Bianchi, provenienti da tutto il mondo, si erano riuniti da qualche parte in Indonesia, a Bandung, e si erano giurati di liberare il paese, l'intero continente, tutti i Neri del mondo. Allora, accanto agli eroi della propaganda ufficiale, apparvero dei nomi nuovi: Kwame Nkrumah, Sukarno, Nasser, Nehru, Ciu En-lai... Era il 1955: erano sbocciati un nuovo mondo e una nuova speranza. CAPITOLO QUINTO Non avere paura, Bwana, sono soltanto io, che sono apparso da questa notte nera che mi somiglia e ci siamo ritrovati l'uno di fronte all'altro. MONGALE WALLY SEROTE (poeta sudafricano) Il lungo convoglio di vagoni carichi di manganese s'inerpicava a fatica su per una china; nonostante l'accelerazione che imprimeva il macchinista,
rallentò a poco a poco e poi si fermò del tutto; le ruote slittarono, consumando ancor di più le rotaie. Massini scese a gettar sabbia sui binari insieme con alcuni operai; allora le ruote fecero attrito e con uno sforzo violento la locomotiva smosse i vagoni, che andarono avanti per un breve tratto per poi slittare di nuovo: niente da fare, il convoglio era troppo pesante. Cinquanta vagoni pieni di manganese grezzo erano troppi per quelle vecchie rotaie consunte le cui ganasce tenevano a stento. Bisognava dividere il convoglio in due e, siccome la linea ferroviaria aveva un binario unico, ciò implicava bloccare la circolazione per un certo periodo di tempo. I treni non si mossero per due giorni. I viaggiatori che andavano dall'oceano al fiume o dal fiume all'oceano affollarono le stazioni con i bagagli e le mercanzie mentre quelli che venivano dai villaggi lontani, non potendo tornare a casa, srotolarono le stuoie per dormire in mezzo ai bambini che strillavano, ai caschi di banane, allo starnazzare delle galline che avevano portato con sé. Aspettarono treni che non arrivarono per due giorni, tesero invano le orecchie per cogliere i fischi inconfondibili del treno di Massini. Durante il prolungarsi dell'attesa, i caschi di banane iniziarono a marcire, l'odore degli escrementi di gallina si fece sempre più insopportabile, la stazione diventò un enorme immondezzaio fetido. I capistazione tentarono inutilmente di evacuare i luoghi e chiesero aiuto alla polizia. I viaggiatori e le loro famiglie risposero assaltando le biglietterie per farsi rimborsare, aggredirono i capistazione e i controllori, lapidarono la polizia. Per tentare di calmare gli animi, furono inviati dei funzionari incaricati di fornire delle spiegazioni: la linea ferroviaria era bloccata da un convoglio di manganese troppo pesante per la locomotiva; occorreva una macchina più potente oppure suddividere il convoglio in due. In entrambi i casi, ci voleva del tempo. Ma quelle spiegazioni non convinsero affatto i viaggiatori prima, né la popolazione dopo, perché per loro la «macchina» era più della macchina stessa e ammettere che la locomotiva fosse incapace di trainare i vagoni era come ammettere che un coccodrillo smettesse di vivere nell'acqua o che l'acqua smettesse di spegnere il fuoco. Dal momento che le condizioni igieniche diventavano sempre più precarie e gli animi s'infervoravano sempre più, l'amministrazione decise di evacuare le stazioni con la forza. Inviò i gendarmi che picchiarono i contestatori di santa ragione, sgozzarono le loro galline, distrussero gran parte delle mercanzie, schiaffarono alcuni in prigione. Alla fine i viaggiatori estenuati, amareggiati e più scettici che mai si rassegnarono a tornare ai villaggi o nei quartieri. C'era sicuramente qualcosa di losco nel fatto che venis-
sero fatti evacuare così brutalmente dalle stazioni; a tutti quei treni stava accadendo qualcosa di strano. Come credere altrimenti che una locomotiva così potente potesse immobilizzarsi senza motivo tra due stazioni? Era forse un segno del declino degli stranieri? Qualcosa che cominciava a sfuggire al loro controllo? La risposta venne da sé. La voce partì dal versante dell'oceano e proseguì come il treno sulla strada ferrata fino al fiume. Poi si diffuse in tutto il paese: i treni erano bloccati dall'uomo più forte del mondo, Muzompa. Nella sua regione, Muzompa era conosciuto per compiere prodezze fuori dal comune; successivamente si era venuto a sapere che per divertirsi quell'uomo lottava da solo a mani nude con elefanti e bufali; che sradicava un baobab con la forza dei bicipiti, che piantava un chiodo battendolo col palmo della mano, che non combatteva mai contro altri uomini e preferiva lasciarsi insultare anziché reagire essendo consapevole del suo gancio micidiale; che un giorno, per divertire gli astanti, lasciò che un camion a pieno carico gli passasse sui piedi senza palesare il minimo dolore. C'era una sola cosa che non aveva ancora sfidato e che lo affascinava: la locomotiva! E allora, volendo ancora una volta mettere alla prova la sua forza, s'era piazzato sui binari e fermava tutti i treni che passavano. Il nome di Muzompa era diventato sinonimo di resistenza allo straniero, un nome che veniva lanciato come una sfida in faccia ai gendarmi indigeni e ai loro padroni. Inizialmente lo straniero rise, si divertì della credulità di quella gente irrazionale, bambinoni che credevano a qualunque cosa. In seguito, il culto che sembrava ispirare il nome di Muzompa cominciò a inquietarlo e, quando si cominciò a mettere la forza di Muzompa sullo stesso piano della sua, si arrabbiò sul serio. La cosa doveva finire. Le autorità promossero una campagna informativa utilizzando i capi tradizionali, i presidenti d'associazione, i decani dei clan; quelli spiegarono che bisognava riflettere, ragionare, capire che nessun uomo poteva fermare una locomotiva con la sola forza delle braccia; di lui non si troverebbe intatto nemmeno un pezzo. Peraltro i treni avevano ripreso a circolare normalmente, i viaggiatori percorrevano nuovamente il tragitto dal fiume all'oceano e dall'oceano al fiume senza problemi e il treno di Massini tornava tutte le sere in stazione lanciando i suoi formidabili fischi. Durante quei viaggi, del grande Muzompa nessuno aveva visto neanche l'ombra. Ahimè, quel ragionamento logico e razionale non ebbe alcun effetto; per la gente, Muzompa continuò a essere l'idolo del momento, «l'uomo che fa paura agli stranieri». Diventò un eroe
da racconto popolare, da leggenda. A quel punto le autorità si ricordarono di Massini Mupepe, che avevano dimenticato non appena finita la guerra, più di dieci anni prima, lui, l'uomo che conosceva la ferrovia meglio di chiunque altro, lui che era stato l'eroe di tutta una generazione. Fu subito convocato dal governatore generale, gli fu assicurato che ben presto avrebbe fatto un viaggio laggiù, dall'altra parte del mare, nel paese dei padroni, nella madrepatria, come si diceva, per imparare a costruire un treno da solo. Gli furono ricordate le sue medaglie, i trascorsi da impiegato modello: «Tu che hai guidato la potente locomotiva, spiega a questa gente che nessun essere umano è in grado di fermarla! Parla della nostra potenza illimitata, lo sai, abbiamo conquistato il vento con l'aereo, che riesce a volare più veloce dell'aquila e della rondine nonostante sia più pesante dell'aria, abbiamo catturato il suono con il fonografo e la radio, abbiamo intrappolato l'immagine con la foto e il cinema, noi dominiamo tutto! Guarda le auto che corrono, i battelli che navigano, siamo noi ad aver inventato tutto, altro che tam-tam e balafon ! Tu che sei intelligente, spiega a questa gente che un povero Muzompa, paragonato a tutta questa potenza...». Ogni parola del capo degli stranieri non faceva che ravvivare l'amarezza di Massini, il quale capiva bene che gli veniva chiesto d'interpretare ancora un altro ruolo. Ecco che lo lusingavano e gli raccontavano di tutto per adescarlo, lui che non aveva mai superato il grado di semplice macchinista dopo una ventina d'anni di leali e buoni servigi, lui che avevano dimenticato dopo la guerra perché non ne avevano più bisogno... «Allora, valoroso Massini, primo conducente di treno del paese, uomo intelligente, se sarai tu a spiegare tutto, loro capiranno...». La popolazione è in fermento, grande raduno, è presente tutta la capitale; il governatore e il comandante militare stanno su un palco e Massini, al quale hanno fatto indossare le decorazioni, sta nel mezzo. Prima parla il governatore, si traducono le sue parole, la folla applaude educatamente. Poi si volta verso Massini: «Massini, spiega loro che nessun essere umano può fermare uno dei nostri treni». Massini si alza, lo applaudono calorosamente, più calorosamente del governatore. Sorride e si mette a parlare, l'interprete non gli serve. «Voi mi conoscete tutti, sono Massini Mupepe, l'uomo che ha dominato la locomotiva; molti tra voi hanno viaggiato sul mio treno e sapete tutti che sono il primo e il migliore macchinista di questo paese, il paese di tutti, che siano del Sud, del Nord, dell'Est o dell'Ovest». La folla applaude. Alcuni non avevano mai sentito un linguaggio simile
e scoprivano improvvisamente di avere molte più cose in comune tra loro che con lo straniero, il quale aveva sempre cercato di dividerli. Il governatore, preoccupato, guarda l'interprete, che gli traduce all'orecchio: «Dice che lui è il migliore conducente di treni di tutto il paese, che sia il Nord, il Sud e via dicendo». Il governatore si rilassa, sollevato. Massini Mupepe continua. Senza rendersene conto gli tornano in mente le parole degli ex combattenti, De Kelondi e Mabiala, emerge il ricordo del giovane Poaty, che pur non appartenendo alla stessa etnia lo aveva considerato il suo unico parente: «È chiaro, siamo tutti dello stesso paese. E lo posso dire tanto più che sono stato il primo ad aver detto pubblicamente che era stupido costituire delle associazioni in cui si reclutano solo i membri della propria etnia, perché ciò comporta che ogni incontro amichevole, sportivo o d'altro tipo diventi automaticamente uno scontro tra etnie. Abbiamo forse degli amici al di fuori della nostra regione o del nostro clan? Guardate gli stranieri, bisogna seguire il loro esempio; non sono tutti dello stesso villaggio né della stessa regione! Allora perché tra noi ci combattiamo sempre?». La folla è sorpresa e commossa; è la prima volta che vede uno dei suoi parlare pubblicamente in quel modo, con quel linguaggio fraterno: loro che sono raggruppati per quartiere in base all'etnia, al luogo d'origine; e le loro squadre sportive sono sorte intorno alle associazioni tribali incoraggiate dagli stranieri. Il governatore si volta verso l'interprete, che traduce: «Dice che dobbiamo prendere come esempio i nostri padroni stranieri». Il governatore è molto contento di Massini, è fiero della propria abilità politica, dell'ingegnosa idea di dare la parola in modo così generoso a un indigeno devoto alla causa. Sarà nominato cittadino della madrepatria! Massini continua a immergere il suo cuore nella folla, in quei visi di uomini e donne, fratelli e sorelle; attinge al fondo di se stesso, delle sue esperienze, ricorda l'arrivo dello straniero a Lubituku, il suo villaggio, ricorda i lavori forzati, il collaborazionismo dei notabili come suo zio, la morte del padre, della madre, gli ex combattenti storpi che scendono dai treni. Grida come fosse stato colpito da un dolore lancinante: «Perché non possiamo essere padroni in casa nostra? Perché lavorare per delle persone che non si sa da dove vengano? Uniamoci, fratelli miei, e se credete che io sia un uomo sincero, allora vi prego, ascoltatemi e non dimenticate ciò che vi ho appena detto». L'interprete: «Dice che sono tutti fratelli e che devono ascoltare quello che sta dicendo».
Il governatore approva con un cenno del capo. Massini: «Avete capito tutti ciò che vi ho detto?». La folla: «Sììììì!». Massini: «Avete capito bene?». La folla: «Sììììì!». Massini: «Siamo tutti...?». La folla: «...fratelli!». Massini: «Bene. E ora parliamo del treno, di quel grande treno. Ho sempre pensato che il giorno in cui avessimo fermato quel treno sarebbe stato l'inizio della fine per questi signori accanto a noi e per le loro signore. (Ammiccamenti ironici, bravo! della folla.) Ma siccome mi si chiede di raccontare ciò che ho visto, quello che so, per prima cosa vi dirò che non ho mai visto Muzompa». L'interprete: «Non ha mai visto Muzompa». Massini: «Non l'ho mai visto con i miei occhi, ma ciò non vuol dire che non ne sappia nulla: cosi, ecco quello che mi è stato raccontato. Nel punto in cui il treno attraversa la grande montagna e proprio all'uscita del grande tunnel di Mbamba, lui si è messo in piedi a gambe divaricate sulle rotaie per sorprendere il treno. Quando ha visto arrivare quel treno di manganese ha teso le braccia e il bolide ha cozzato contro i palmi delle sue mani, lui ha irrigidito i muscoli e il treno si è fermato di colpo!». La folla applaude e grida: «Muzompa, Muzompa, Massini, Massini!». Il governatore non sa più cosa succede. Chiede all'interprete. L'interprete: «Sta raccontando quello che le persone dicono di Muzompa ma che lui non ha visto». Il governatore, furioso: «Che parli della nostra potenza!». L'interprete: «Ti proibisce di parlare di Muzompa». Massini riprende al volo: «Fratelli miei, vi racconterei tutto quello che ha fatto Muzompa, l'uomo più forte del mondo, l'uomo che tiene testa a questi stranieri. Ma ecco, il governatore mi ha dato ordine di non parlare di lui. (Nella folla si vocifera.) Ma ora, se uno tra noi dicesse "Fermiamo il treno", spero che capireste. (Approvazioni e sorrisi di complicità.) Il governatore dice che a fermare i treni non è Muzompa, ma chi è, allora?». La folla: «È Muzompa, è Muzompa!». L'interprete: «Dice che Lei non vuole che parli di Muzompa». Il governatore: «Che parli della nostra potenza, altrimenti lo sbatto subito in prigione». L'interprete: «Se continui a parlare di Muzompa ti mette in prigione».
La voce dell'interprete è coperta dalle ingiurie della folla, che non rispetta più l'ordine, si agita; i gendarmi aumentano la vigilanza. Massini: «Non vuole che si parli di Muzompa, ha paura di lui!». La folla riprende in coro: «Sììììì! Muzompa!». Il governatore urla all'interprete di farli tacere. Lui lo dice a Massini. La folla lo subissa di grida e comincia a tirare sassi. Il comizio si trasforma in sommossa. Il governatore ha paura, ordina ai gendarmi di disperdere la folla e lascia precipitosamente il palco seguito dallo scherno generale. I gendarmi, che avevano ereditato le funzioni degli antichi mbulu-mbulu, ne avevano ereditato anche i metodi. Non ci furono morti, ma molti feriti gravi. Fu la prima sommossa popolare nel paese di Massini. Nei giorni che seguirono, il paese sembrava covare qualcosa di indecifrabile, di impercettibile. L'amministrazione, gli stranieri, la popolazione autoctona, tutti erano sulla difensiva; bisognava rompere quell'atmosfera opprimente. Le autorità decisero di passare all'azione e un giorno, all'alba, i gendarmi catturarono Muzompa in un villaggio, o almeno qualcuno che presumevano si chiamasse Muzompa. Fu condotto di villaggio in villaggio, fu trasportato dall'oceano al fiume, fu convocato un altro raduno per presentarlo al popolo della capitale: «Vedete questo omuncolo da quattro soldi che è solo pelle e ossa? Eccolo il vostro Muzompa, sì, guardatelo bene, spalancate gli occhi, è lui il vostro grande Muzompa che, a quanto pare, ferma le locomotive!». Gli vengono presentati dei bilancieri da cinquanta chili, il poveraccio si abbassa, li afferra e cerca faticosamente di sollevarli. Sulla spina dorsale la pelle si tende, traspaiono le vertebre, fragili, si teme che si spezzino; e lui molla, sfinito. Viene chiamato un gendarme grosso, forzuto e muscoloso accanto al quale Muzompa sembra un nanetto inconsistente. Grazie alla mediazione dell'interprete, il governatore chiede al gendarme se può fermare i treni, nossignore, non posso fermare treni, non posso neppure fermare una moto, benissimo, valoroso gendarme, e puoi sollevare questi pesi? Li solleva senza difficoltà, prima con un movimento, poi con due, quasi senza sforzo. «Vedete,» predica il governatore tramite l'interprete «vedete questo gendarme che ha appena sollevato senza sforzo questi pesi di cento chili? Non è capace di fermare un treno. Come potete pensare che quel povero diavolo mingherlino che voi chiamate Muzompa possa fermare un treno se non riesce neppure a sollevare dei bilancieri di venticinque chili? Sapete quanto pesa un treno? Svariate decine di tonnellate! Su, basta con gli infantili-
smi, riflettete, cercate di utilizzare con un po' di logica quel poco cervello che avete...». Il governatore è contento, la polizia e i gendarmi sono contenti, hanno dimostrato dal vivo che quel Muzompa è un impostore. La questione era risolta, non si sarebbe più parlato di lui. Muzompa - o colui che era stato presentato come tale -fu condotto in prigione e fu talmente picchiato a sangue che morì quella stessa notte. I gendarmi che lo avevano menato, impauriti, lo seppellirono di nascosto e alla svelta alla luce delle candele. Ancora oggi nessuno sa dove si trovi la tomba del grande Muzompa, l'uomo che per divertirsi lottava a mani nude contro bufali ed elefanti e che fermava i treni con la sola forza delle braccia... Ma Muzompa è morto davvero? Se è così, impostore, mostraci la sua tomba! Ci hanno presentato un poveraccio gracile che non riusciva neanche a sollevare bilancieri di dieci chili e vogliono farci credere che fosse Muzompa, l'uomo che solleva cento chili con un dito, l'uomo che sradica i baobab, l'uomo che spappola le mascelle di un gorilla con un pugno. Nossignore, è falso, assolutamente falso, Muzompa è semplicemente scomparso fino al giorno in cui tornerà per liberarci. Un po' dappertutto apparvero delle foto che si diceva raffigurassero Muzompa: nei medaglioni appesi ai vestiti con le spille o nei cammei portati al collo, al polso. Le persone, in particolar modo quelle originarie della sua regione, si riunivano in segreto, di notte, intorno a una foto del loro salvatore incorniciata di fiori e illuminata da candele. Si formò una vera e propria organizzazione muzompista mezzo religiosa e mezzo politica; e i Muzompisti decisero di non pagare più le imposte, di non portare più la carta d'identità finché Muzompa non fosse tornato a sbarazzare il paese da tutti quegli stranieri. Il governatore, che fino a quel momento era stato dolce come il miele delle api, si trasformò in pungiglione di vespa. Sul paese si abbatté una terribile repressione. Scomparvero tutti i ritratti di Muzompa e la legge proibì anche di pronunciarne il nome. Tutti i Muzompisti dichiarati furono messi in prigione. Ma non era abbastanza, bisognava picchiare duro e in alto: fu annunciato che Massini Mupepe, primo conducente di treni del paese, era stato licenziato per attività sovversive e muzompiste. Il provvedimento causò un vero e proprio shock. Il popolo ebbe paura, i Muzompisti si fecero sempre più discreti e, un anno più tardi, di Muzompa e delle sue prodezze ci si ricordava a malapena. Il governatore generale, capo degli stranieri nel paese, era felice, finalmente aveva vinto la battaglia. Fu richiamato in patria, gli furono conferite nuove decorazioni al merito per la politica di pacificazione oltre-
mare, salì di grado e si fece sostituire da un altro. Il primo grande movimento contro i padroni si concluse perciò con uno scacco; tuttavia, un seme era stato gettato. Massini Mupepe dovette abbandonare quella che era stata per vent'anni la sua unica passione: la locomotiva. Non era più Massini Mupepe che entrava come il vento nella città con un fischio lungo, due brevi e uno lungo; Massini Mupepe e il suo treno che i bambini correvano a vedere nel mezzo del tac tac, tac tac, tac tac incessante delle ruote metalliche; Massini Mupepe il cui treno lungo e pesante di vagoni carichi di manganese strappava sordi lamenti alle ganasce sulle rotaie. Era solo Mandala Mankunku. Che fare, ora che si ritrovava senza lavoro, per sopravvivere in un mondo in cui il nuovo valore era il denaro, soprattutto se uno non era mai stato a scuola e non sapeva né leggere né scrivere? Come imparare un nuovo mestiere alla sua età? Per un certo periodo pensò di tornare al villaggio, alle sue piante e alle sue ricerche. Nell'attesa, alla sera si sedeva spesso davanti a casa e guardava sorgere la luna nel rumore crepuscolare della città; e pensava al passato, alla giovinezza già così lontana. Pensava allo zio Bizenga e in lui non riaffiorava alcun rimorso, aveva fatto ciò che doveva. Tra le stelle cercava anche sua madre e, alla fine, il pensiero tornava sempre alle sue conoscenze, a tutto ciò che aveva scoperto, le foglie di mansunsu, il quinqueliba contro la malaria, il kimbiolongo afrodisiaco e tante altre cose ancora. Chissà cosa avrebbe potuto ancora scoprire se fosse rimasto al villaggio! Comunque, gli sembrava che agli stranieri ciò importasse ben poco. Cosa poteva inventare? Probabilmente non sarebbe cambiato nulla anche se avesse inventato l'acqua che non bagna. Tuttavia non si sentiva ancora superato, si sentiva a suo agio nella società in cui viveva, perché era ancora capace di prender parte alle lotte del paese, come aveva dimostrato nel caso di Muzompa. Ma sentiva anche che la Storia lo stava raggiungendo a grandi passi, lui che era sempre stato in anticipo sui comportamenti sociali o su una scoperta. II fatto che non avesse imparato a leggere? Probabilmente era quello, ora, il binario reale verso la conoscenza; ne sarebbe stato ancora capace, alla sua età? Così si perdeva nei meandri dei suoi pensieri e ne usciva solo quando veniva a trovarlo Milete. Si erano legati l'uno all'altra sin dal primo incontro, poco più di dieci anni prima, quando aveva rivolto la parola a quella giovane donna sconsolata venuta ad aspettare il fratello mai tornato dalla guerra lontana. Fu allora che quella ragazza spuntò improvvisamente dal Nord.
27 All'inizio si disse che veniva dal Nord, poi altre testimonianze successive affermarono che era una ragazza originaria del Sud, che si era smarrita nel Nord. In ogni caso, la sua fama e il suo nome infiammarono il paese come un fuoco di savana nella stagione secca. La sua storia era semplice, lei la raccontava a tutti i suoi fedeli: durante uno di quei terribili temporali, quando l'ira di Dio si manifesta nello scoppio folgorante dei lampi che squarciano la notte e fanno esplodere la conchiglia del cielo con boati terrificanti, aveva avuto una visione; aveva visto il figlio di Dio con Muzompa alla sua destra, che le diceva: «Ti ho scelta, donna. Va', va' a dire al popolo del nostro paese che è suonata l'ora della liberazione. Tu sei stata scelta per continuare l'opera che Muzompa ha iniziato ma che non ha terminato perché, nei piani di Dio, il suo adempimento era riservato a te. Percorri dunque il paese da nord a sud, da est a ovest, dal centro al centro. Unisci il nostro popolo e guidalo!». E allora lei si era alzata col vento e il sole e si era messa a percorrere il paese a piedi, in piroga e più tardi nelle tipoye, le portantine dei suoi fedeli. Aveva abbandonato la famiglia, rifiutato di prendere come marito l'uomo che le avevano destinato i genitori e si era messa a diffondere la buona novella su tutta la superficie del paese. Le sue parole viaggiavano ancora più velocemente di lei perché erano trasportate dalle ali delle libellule, diffuse dal fruscio delle foglie e delle erbe che si confondevano con il respiro degli antenati al calar della notte e arricchite dai conciliaboli degli mbonghi durante le sere. Aveva cominciato a predicare nei villaggi più piccoli, ad attraversare i ruscelli più piccoli; poi aveva camminato per giorni e notti nelle foreste, aveva affrontato il sole e le polveri che regnano sulle terre ferralitiche del Sud, aveva sudato tra le sabbie cocenti del Centro, si era impantanata nel fango del Nord. Era stata colpita diverse volte da crisi acute di malaria ma, quando la si credeva perduta, guariva improvvisamente senza l'aiuto di nessuna medicina nota in farmacia, si rialzava e riprendeva la predicazione con ardore rinnovato. Infine la sua parola e la sua fede scesero lungo il grande fiume e raggiunsero la grande città. Per preparare la meravigliosa parusia che andava annunciando, fondò un nuovo corpo di dottrina che da un lato s'ispirava alla religione dei padroni, dall'altro la rifiutava. Affermava che c'era un unico Dio Onnipotente che si
era espresso attraverso la mediazione di Gesù Cristo e di Muzompa, e ogni altro culto era idolatra; raccoglieva migliaia di statuette votive e di sculture idolatre e le bruciava pubblicamente dopo una seduta di preghiera collettiva per distruggere il potere di quelle icone. Proibì il consumo di alcol, fatta eccezione per il vino di palma e d'ananas. Alle donne chiedeva di sposare solo il marito da loro liberamente scelto e di affrancarsi come lei dalla tutela degli uomini; autorizzava gli uomini a prendere quante mogli volessero a condizione di non fare l'amore con due donne diverse nella stessa settimana, settimana che contava ormai da tempo sette giorni. A tutti e a tutte chiedeva di disertare le chiese straniere, luoghi di menzogne che fuorviavano dalla parola di Dio. Introdusse il nome di Muzompa nei suoi canti religiosi, ispirati tanto alla tradizione quanto agli inni corali cattolici e protestanti, e chiese ai fedeli di portare una foglia di palma verde oltre alla croce. Riguardo al peccato, si trattava di questione personale, perciò confessarsi era inutile: per purificarsi bastava esporsi alla pioggia, acqua divina e benevola... Bisognava vederla, quella Santa del Nord, Santu-a-Ntandu, tra le sue migliaia di fedeli mentre le chiese, i templi e le moschee venivano disertati. Bisognava vederla, ascoltarla, quella ragazza col pagne verde, la camicetta bianca, la testa coperta da un fazzoletto, una foglia di palma in mano e la luce degli occhi che cambiava a seconda dell'emozione di cui erano cariche le sue parole, come i colori cangianti e mutevoli dei fiori di lantana. «Sono stata inviata per liberarvi, per liberare il paese continuando l'opera di Muzompa; tuttavia, fino a quando il vostro cuore non sarà limpido come acqua piovana, fino a quando non avrete allontanato il falso vangelo degli stranieri dai vostri cuori e la vostra anima non avrà acquisito la nobiltà della palma e la bellezza dei fiori dell'albero corallo, resteremo ancora nella miseria e nella malattia, non ritroveremo mai la felicità che esisteva ai tempi degli antenati e che ci hanno promesso il Cristo e Muzompa...». Parlava, parlava, ispirata, irresistibile, la sua voce era calda, calorosa e generosa con quelle vibrazioni indefinibili che devono essere contenute nei canti degli angeli. «Alleluia» diceva lei. «Alleluia» le restituiva immediatamente l'eco della folla. Batteva le mani, intonava un cantico, la folla riprendeva battendo le mani e i tam-tam, facendo tintinnare i campanelli. Allora lo spirito di Dio scendeva sulle donne che avrebbe purificato, le quali gridavano «Yesu, Yesu» e, per un improvviso dono di glossolalia, si scatenavano in un cicaleccio babelico che solo la Santa sembrava comprendere, poi si rimettevano a gridare «Yesu, Yesu», si dimenavano, batte-
vano i piedi, saltavano, cadevano per terra in uno stato catalettico, rotolavano su se stesse, rantolavano, lasciavano uscire dalla bocca la bava bianca dello spirito maligno che se ne andava dal loro corpo finalmente purificato! E la Santa del Nord, Santu-a-Ntandu, rivolgeva loro uno sguardo materno, uno sguardo pieno d'amore che le covava con gli occhi, le calmava, le accarezzava come un balsamo mentre gli alleluia salvifici pronunciati senza sosta attraversavano la sostanza stessa dell'anima e del corpo. Ma ecco che un'altra, più ispirata, si alza improvvisamente con occhi limpidi: «Alleluia, Alleluia» le risponde l'assemblea; parla, si mette a vaticinare, guarda l'angolo dove sono seduti gli uomini: «Sì, Signore. Ta Malonga, alzati, rivela qui ciò che nasconde il tuo cuore di stregone». Ta Malonga cerca di nascondersi, di sprofondare sotto terra, lo fanno rialzare, lui trema, è stato smascherato come tutti gli ipocriti, i traditori, le spie degli stranieri, gli stregoni, i ladri, i maghi che aderivano alla nuova religione solo per ingannare i loro amici. Così, quando lo spirito del Bene scendeva sulla folla, quelle anime subdole venivano scoperte, battevano i piedi, urlavano «Yesu, Yesu» ma cadevano fulminate in uno stato di semiparalisi e non si rialzavano più... Ed è quello che sarebbe accaduto a Ta Malonga... Sente che sta per essere preso in trappola, allora guarda disperatamente intorno a sé e... si lancia a gambe levate in una fuga senza fine. Gridano, lo inseguono per un po', poi lo abbandonano al suo destino: la potenza della Santa nello scoprire gli spiriti malvagi è stata dimostrata ancora una volta. Erano dunque in molti a morire, e ciò non faceva che accrescere la gloria della nuova fede perché non poteva esserci religione senza ordalia. Per scoprire se mentivano, venivano condotte dinanzi a lei donne accusate di adulterio che negavano i fatti; le venivano portati stregoni accusati di aver «mangiato» qualcuno, le portavano donne sterili, paralitici, malati incurabili. Si muoveva tra loro, accarezzava una testa, sfiorava un altro con la palma verde, soffiava negli occhi di un cieco, calmava un grido di dolore con un movimento della mano: era una vera e propria regina benefattrice in mezzo al suo regno. E i ciechi ritrovavano la vista, i paralitici si alzavano, quelli senza gambe camminavano, le adultere confessavano, i ladri restituivano il maltolto e gli stregoni venivano smascherati; e chi non guariva era perché non aveva il cuore limpido come la rugiada del mattino, non era sincero nella sua fede. E allora veniva abbandonato al demonio... A dir la verità, sembrava che nel paese esistesse una sola persona: Santu-a-Ntandu. Era lontano il tempo in cui ci si appassionava per Massini Mupepe e la sua locomotiva, per Wendo e la sua «Marie-Louise». Le chie-
se cristiane assillavano l'amministrazione con le loro lamentele contro quella falsa profetessa che seminava disorientamento tra i loro fedeli; la polizia si lamentava col governatore dei disordini che avrebbe sicuramente causato quell'avventuriera, che non nascondeva di voler ricreare un movimento vietato, il Muzompismo. L'amministrazione esitò tra diverse forme d'intervento, alla fine decise di lasciare che le cose facessero il loro corso sperando che, come per tanti altri movimenti millenaristi, il tempo si facesse carico di smorzarlo se non addirittura di farlo scomparire del tutto. Non fu ciò che accadde, al contrario, il movimento non fece che allargarsi. Allora la polizia, l'esercito e la religione si misero insieme per combattere quel flagello, la Santa del Nord, Santu-a-Ntandu. Come aveva sempre fatto da quando si era imposta nel paese di Massini, l'amministrazione degli stranieri aveva una sola risposta definitiva a tutte le situazioni che si presentavano: la forza. L'esercito fu inviato alla ricerca della misteriosa Santa di cui nessuno sapeva il vero nome. Ma l'esercito arrivava sempre troppo tardi, la Santa non si trovava più nel posto dov'era stata segnalata la sua presenza. Allora i militari, come tutti i militari del mondo, esasperati, saccheggiavano i villaggi portando via galline, capre, stuprando le donne, picchiando gli uomini come ai bei vecchi tempi degli mbulu-mbulu prima della guerra. I soldati trascorsero così sei mesi a darle la caccia, con camion blindati, con elicotteri, a piedi, in piroga, di villaggio in villaggio, di foresta in foresta, di fiumiciattolo in fiumiciattolo. Un giorno credettero di averla presa in trappola nelle paludi del Nord; sembrava l'avessero circondata, gli elicotteri l'avevano intercettata, la cattura era solo questione di minuti, non abbandonate la vostra postazione radio, sono io, il capo di stato maggiore che vi sto parlando, la notizia dell'arresto di quella criminale sarà annunciata da un momento all'altro, forse anche prima che io abbia finito di leggere questo comunicato. Ma i minuti diventarono ore, le ore giorni, i giorni settimane e la Santa non era stata ancora catturata. Del resto, come sarebbe stato possibile arrestare una Santa capace di scomparire quando voleva, di andare a trovare Dio per far due chiacchiere e di tornare quando le pareva? Pensate, una volta la sua piroga era stata danneggiata dagli spari dei militari e faceva acqua da tutte le parti; ebbene, lei si era alzata e aveva attraversato il fiume camminando sulle acque, come Gesù. Un'altra volta le truppe la accerchiarono mentre si trovava in mezzo ai suoi fedeli; ma ecco che, tutt'a un tratto, lei non c'era più. Non si seppe mai cosa diventò quel giorno: vento, granello di sabbia, formica, foglia di palma? Un'altra volta, infine, come ultimo
tentativo, erano state mandate delle spie con cineprese e magnetofoni per coglierla in flagrante: predica sovversiva. Ebbene, non solo le pellicole non s'impressionarono, ma persino i magnetofoni dimenticarono quello che avevano registrato. Una volta srotolata la bobina, le parole della Santa volarono via per sempre con l'aria, e il nastro ritornò vergine. E non era tutto. Si fece appello a grandi maghi. Questi si riunirono e decisero di utilizzare un kipoyi. Bastava cioè appendere un oggetto dello scomparso a un ramo portato da due uomini e il ramo, dopo gli scongiuri di rito, vi conduceva immancabilmente alla persona o all'oggetto cercato. Così venivano individuati stregoni e altri malfattori dei villaggi. Perciò fu appeso un fazzoletto verde che la Santa aveva perso a un ramo d'albero di ntela portato da due robusti giovanotti; dei mezzi corazzati e una compagnia di soldati seguirono i portatori sorvolati a loro volta da un elicottero. E i grandi maghi scongiurarono, vaticinarono, sputarono sul fazzoletto vino di palma in fini goccioline, va', kipoyi, se è vero che lo spirito degli antenati è giusto e ama la verità, portaci da quella Santu-a-Ntandu, ovunque sia, ovunque si nasconda, che sia nel più profondo della foresta con i pigmei oppure che si rintani come un formicaleone nella sua buca di sabbia, va', kipoyi, va'... I portatori cominciarono a dondolare avanti e indietro e poi, come una moto che s'imballa, partirono di scatto e si misero a correre verso il luogo in cui si nascondeva la donna braccata seguiti dall'elicottero, dall'autoblindo e dai soldati. Il kipoyi era infallibile e la sua forza continuava a spingere i due portatori, che camminarono a piedi nudi sui cocci di bottiglia senza ferirsi, camminarono senza bruciarsi sulle braci lasciate dagli incendi di foresta che covavano sotto la torba, attraversarono cespugli spinosi senza che una spina li graffiasse, schiacciarono vipere senza essere morsi, corsero dritto davanti a sé attratti dalla forza del kipoyi come una calamita attrae la limatura di ferro... fino al grande fiume che li inghiottì tutti, portatori, mezzi corazzati, soldati e anche l'elicottero che si era impigliato con le pale nei rami degli alberi. Non riuscirono ad attraversare per raggiungere l'altra riva dove si trovava la Santa! Anche il grande fiume la proteggeva. E s'illudevano di arrestare una persona come quella! La Santa del Nord, Santu-aNtandu: era dappertutto e in nessun luogo. 28 Una notte che Mankunku si era coricato dopo aver riflettuto per ore sulla sua vita, come ormai faceva sempre più spesso, qualcuno bussò alla porta.
Si alzò, sorpreso. Chi poteva fargli visita? Accese la lampada a petrolio e aprì: era Milete, sola, con il volto celato dietro un fazzoletto. Mankunku era sbalordito; che cosa avrebbe raccontato la gente se l'avesse vista da lui a quell'ora? La fanciulla aveva l'aria preoccupata, non lo salutò neppure. «Ti prego, Mankunku, facci entrare prima che qualcuno ci veda». Si scansò e fu molto sorpreso di vedere che non era da sola, era accompagnata da un'altra donna. «Ecco,» riprese Milete con voce supplichevole «sono diversi anni che mi conosci, Mankunku, hai fiducia in me, non è vero?». «Certo! Cosa sta succedendo?». «Tu sei l'unica persona di cui mi fidi e vengo a chiederti un favore importante, molto importante. Ti prego di accogliere questa donna e di nasconderla per qualche giorno». «Ma Milete, non si nasconde qualcuno così! Chi è questa donna, cos'ha fatto? È scappata dal marito?». «No, sta' tranquillo, non è sposata, non si tratta di una storia tra uomo e donna; non ha ucciso nessuno, non ha commesso alcun crimine. Ha semplicemente bisogno d'aiuto, proteggila per due o tre giorni, non di più. Ti supplico, aiutami, aiutaci». Mankunku guardò la donna in piedi in un angolo. Era magra, sembrava sfinita, al limite delle forze. Portava con stanchezza evidente il fazzoletto che le copriva la testa. Per contrasto, in fondo alle pupille le bruciava una fiamma calda ed evanescente, che donava al suo viso emaciato una forza e una bellezza surreali. Mankunku sentiva quasi fisicamente il calore di quello sguardo che lo avvolgeva. Sembrava percepire qualcosa di familiare, riconoscere qualcosa che non riusciva ancora a cogliere, una specie di energia che emanava da quella persona. «Mi dica la verità, donna. Chi è lei? Mi sembra di conoscerla senza tuttavia conoscerla». «Sono Santu-a-Ntandu, la Santa del Nord». Mankunku restò basito. Era felice e aveva paura, si sentiva onorato e si sentiva tradito da Milete; tanti sentimenti contraddittori attraversarono il suo animo, che restò a lungo in silenzio. Le due donne non si muovevano, guardavano il viso mutevole di Mankunku. Alla fine, uscì dal suo confitto interiore col viso palesemente calmo e gli occhi raggianti di fierezza e determinazione. «Grazie, Milete, grazie, Santu-a-Ntandu, di aver pensato a me. È da tempo che parlo di liberare il paese, di unirci, ma sai, tra dire e fare... Lei è una
donna molto coraggiosa! Non merito di mangiare nel suo stesso piatto. Ah, sono onorato!». Sì, Mandala Mankunku è contento, felice. «Resti qui quanto vorrà, resti un mese, un anno, la sua lotta è anche la nostra e prima di arrestarla dovranno passare sul mio cadavere». «Grazie davvero, Mankunku,» disse Milete «sapevo che ci avresti aiutato». «Grazie,» disse la Santa «Dio la benedirà». «Le avrei dato ospitalità anche senza la benedizione di Dio, in nome dei nostri antenati comuni». «Non ne potevo davvero più, non ne posso più, sono stanca di correre da un posto all'altro, di spostarmi di notte nei villaggi e nelle foreste, di non dormire mai abbastanza. Ho bisogno di riposarmi, di riprendere le forze prima di continuare. Grazie anche a te, Milete». Milete si voltò verso Mankunku: «È da tempo che conosco la Santa, ma non volevo darti preoccupazioni viste le noie che già hai avuto con la faccenda di Muzompa». «In questo caso sono ben contento di averle avute perché, non fosse stato per quelle noie, la Santa non avrebbe mai cercato rifugio da me». «È vero,» disse Milete «è proprio per questo che mi ha chiesto di essere condotta da te». «Dice che sono una donna molto coraggiosa,» disse la Santa «ma lei non è da meno. Anche abbandonare il prestigio, la celebrità e il denaro come ha fatto lei è un atto di coraggio». «Ahimè, il coraggio non è tutto. Il mio singolo atto di coraggio non ha cambiato la situazione del paese, gli stranieri sono sempre qui e lei è sempre perseguitata. Avrebbero potuto mettermi in prigione o uccidermi, avrei sacrificato la mia vita per niente. No, occorre di più, ed è quel di più che io non ho e che lei invece ha». «Senza il suo atto di sfida al governatore, forse non avrei fatto ciò che ho fatto». «Forse, ma lei è riuscita a far insorgere un paese intero, a gettare l'amministrazione nel panico, è riuscita a ridicolizzare l'esercito e la polizia coloniale ai quali, fino a quel momento, niente era riuscito a resistere; già soltanto per questo, Santu-a-Ntandu, lei è una donna straordinaria. Resti qui quanto vorrà. Si riposi, riprenda forza. Io non ho paura. Nessuno sa cosa ci riserva il futuro ma, come ho sempre pensato, la Storia è come il grande fiume, ha i suoi flussi e riflussi. Su, buonanotte, Milete, non tardare troppo
a tornare a casa e sta' molto attenta». «Buonasera, Milete, e grazie» le disse la Santa. «Buonasera, Santu-a-Ntandu, buonasera, Mankunku. A domani. Contate su di me, il segreto sarà ben mantenuto». Aprì la porta, scrutò un istante l'oscurità, fece qualche passo fuori e la notte la inghiottì. 29 Mentre l'esercito era stremato, la polizia disonorata, il governatore imbarazzato davanti al ministro delle colonie e le autorità religiose continuavano laboriosamente le ricerche accentuando la repressione, la Santa si riposava da quasi quattro mesi presso Mandala Mankunku recuperando le forze. Durante quel periodo, continuavano a vederla dappertutto e in nessun luogo, al Nord, al Sud, nel Centro, ma nessuno aveva pensato che potesse nascondersi nella capitale, quella nuova metropoli cosmopolita. Cominciarono tuttavia a circolare voci secondo le quali l'esercito e la polizia si apprestavano a un'operazione di rastrellamento in tutti i quartieri della città, casa per casa. In quelle condizioni, la sicurezza della Santa non era più garantita, bisognava nasconderla altrove. Decisero che sarebbe andata a Lubituku, il villaggio di Mankunku. Lui si diede da fare per preparare la partenza, comprare il necessario per la vita di villaggio, poi trovò tre persone di fiducia, due uomini e una donna, per accompagnare la Santa. Partirono un po' prima dell'alba, seguendo i piccoli sentieri della foresta per non imbattersi in una pattuglia dell'esercito; attraversarono fiumiciattoli, scalarono montagne per scendere subito sul versante opposto e, quando il sole raggiunse lo zenit, la Santa era sfinita. Allora si fermarono in un piccolo villaggio per riposarsi. Diedero loro acqua da bere e, quando lei li ringraziò, le persone la riconobbero. La notizia si diffuse subito, più veloce del loro passo. Appena arrivavano in un posto, già li aspettavano con frutta, uova, galline, le donne accorrevano a darle bimbi da toccare e da benedire. Più avanzavano e più diventava impossibile nascondersi. Giungevano fedeli da tutti i paesi vicini, la Santa era là, la Santa era tornata! Il viaggio clandestino si trasformò in una marcia trionfale. Aveva ritrovato tutto l'ardore, lo zelo, il fuoco della fede. Arringava i fedeli: «Ero scomparsa per un periodo, per ricevere istruzioni da Dio e da Muzompa. Ora rieccomi in mezzo a voi. L'esercito e la polizia mi stanno cercando? Che non mi cerchino più! Dal momento che non sono capaci di trovarmi, sono io che an-
drò verso di loro, che mi arrestino se ne hanno il coraggio! Alleluia!» «Alleluia!» -. «Fratelli e sorelle, sono tornata per dirvi che l'ora della liberazione è suonata...». I fedeli applaudirono e fecero dietrofront al seguito della Santa per riprendere la via della capitale tra inni e canti corali. Erano a migliaia dietro la giovane Santa, trasportati dalla fede e dalle canzoni amplificate dall'eco delle montagne e dalla profondità delle foreste: Telema a a... Telema a a... Tenevano in mano migliaia di foglie di palma verde e alla fine, dopo le strade sassose che laceravano i piedi nudi di quei nuovi crociati e le pianure sabbiose e polverose, sbucarono sul grande viale asfaltato delle capitale, davanti alla popolazione cittadina sorpresa. Il traffico andò in tilt. Le colonne di fedeli avanzavano cantando, si fermarono davanti alla stazione, nella Piazza degli Ex Combattenti, la piazza più famosa della città. La Santa si mise dritta ai piedi del monumento eretto in onore di quei figli del paese, «fucilieri senegalesi» che andarono laggiù a difendere la libertà, e cominciò a esortare la folla dei fedeli e dei curiosi che si erano uniti a loro: «Alleluia!», «Alleluia!» riprese la folla. Tutti avevano lasciato l'ufficio, il negozio, il lavoro per andare ad ascoltarla, come se sulla città aleggiasse l'ombra di uno sciopero generale. Allora, istintivamente, come fosse stata in rapporto osmotico con tutti quei lavoratori che si accalcavano intorno a lei, il senso della sua predica cambiò, si fece più immediato, di rivendicazione: «Sono io, Santu-a-Ntandu in carne e ossa, non mi nascondo. Sembra che i soldati mi stiano cercando da due anni senza trovarmi, andate a dire loro che io sono qui ad aspettarli. E ora ascoltate ciò che vi dirò. Alleluia! - "Alleluia!" -. L'ora della liberazione è vicina, presto non soffrirete più sotto il sole per un salario di miseria mentre i padroni se ne stanno senza far niente sotto le verande; tutti gli uomini saranno uguali e le donne saranno alla pari degli uomini, la giustizia divina scenderà sulla terra. Gridiamo no alle ingiustizie che ci fanno subire, no allo sfruttamento!...». Brava! di entusiasmo da parte degli operai, Alleluia! da parte dei fedeli. «Andate a dire ai soldati che io sono qui; che aspettano? Non avranno mica paura, ora che sono qui? Sono stata mandata da Dio per annunciarvi che l'ora della liberazione è vicina...».
E all'improvviso si udirono sirene, rombi di elicotteri, di blindati. L'esercito e la gendarmeria non fecero intimazioni, avevano paura che la Santa scomparisse per incanto ancora una volta, come sua abitudine. Perciò caricarono all'improvviso, all'inizio a colpi di calcio di fucile, poi a suon di lacrimogeni e infine contemporaneamente con entrambi i mezzi. La Santa fu tirata giù dal monumento dove si trovava, fu buttata a terra, calpestata, percossa; trascinata per i capelli sull'asfalto ruvido, fu presa a calci e a pedate nelle costole fino al furgone in cui fu scaraventata. Così ci si vendicò di mesi di umiliazione. I disordini si estesero, l'intera città fu colpita da una follia di sommosse; le forze dell'ordine venivano lapidate a tutti i crocevia e, nel quartiere dei Bembé, gli abitanti assalirono i gendarmi a suon di machete. Le sommosse durarono tutto il giorno e tutta la notte. I negozi dei Portoghesi, dei Libanesi e dei Greci furono saccheggiati e bruciati, i padroni bianchi presi di mira. Allora fu proclamato un coprifuoco e ai soldati fu dato ordine di sparare a vista sui saccheggiatori. Ma, com'è scontato laddove sono i militari a dettare legge, a perire sotto le pallottole non furono solo i criminali. Per coronare il tutto, sulla città si abbatté un violento temporale che sradicò gli alberi e i pali della luce, i quali caddero sugli edifici provocando gravi incendi, mentre trombe d'acqua scaricate sui marciapiedi si portavano via automobili e parte delle abitazioni. La Santa fu consegnata nelle mani delle autorità religiose, che le chiesero di rinnegare pubblicamente tutte le parole eretiche che aveva pronunciato: aveva chiesto ai fedeli di non digiunare in quaresima, di non confessarsi ma di esporsi all'acqua piovana per essere lavati dai peccati, aveva incoraggiato gli uomini alla poligamia. Rifiutò l'ingiunzione e cominciò a lanciare incomprensibili imprecazioni. Tutte le minacce, fuoco, inferno e dannazione non riuscirono a piegarla. Ripeteva incessantemente che era l'inviata di Dio e di Muzompa, che il suo compito era metter fine alla dominazione straniera, stabilire la parità fra uomini e donne, così come il giusto salario per i lavoratori. Diceva pure che avrebbe aiutato gli operai e gli impiegati a impossessarsi delle fabbriche e degli uffici e a cacciarne via i proprietari. E tutto ciò, affermava, si sarebbe realizzato prima della nascita del bambino che un giorno avrebbe portato in grembo, perché costui doveva nascere libero! I capi religiosi, che temevano l'effetto di una tale fermezza sull'animo degli indigeni creduloni, pensarono di aver trovato un'occasione per svilire la Santa. Promossero una campagna di denigrazione contro l'eresiarca ripetendo, ripetendo ancora, ripetendo più volte nei sermoni e prendendo la
croce a testimone, attenzione a questa donna sacrilega di Dio, si dichiara santa ed è incinta, avete mai visto una santa adultera, una santa disonorata?... E la popolazione apprese la notizia, la Santa del Nord, Santu-a-Ntandu era incinta, sarebbe diventata madre! O benedizione! Era una vera Santa, come altrimenti adorare una donna sterile? E poi corse voce che non solo la Santa era incinta ma che aveva già partorito e, tant'era, non uno, ma due figli, dei gemelli! Aveva fatto ancor meglio della Vergine Maria! Ciò non fece che accrescere il rispetto per la Santa. Ormai non si parlava più di Santu-a-Ntandu, ma di Madre delle madri, Ma Ngudi, la Madre per eccellenza. Il paese intero rese omaggio ai gemelli di Ma Ngudi malgrado le minacce delle autorità. Una notte Ma Ngudi fu deportata, non si seppe mai dove. Alcuni dicono sia stata prelevata da un elicottero mandato da Muzompa, che la condusse lontano, e aspettano il suo ritorno trionfale. Questi tornarono a essere Muzompisti ferventi; nonostante le persecuzioni, si rifiutarono di nuovo di pagare le imposte e le tasse, di dichiarare i loro bambini all'anagrafe, di portare la carta d'identità. Le autorità religiose, dal canto loro, mantennero un discreto silenzio, ma fecero circolare con la loro radio diverse voci secondo cui Ma Ngudi avrebbe rinnegato tutto ciò che aveva predicato, si era riconvertita alla vera fede cristiana dopo aver fatto voto di castità e si era ritirata in un convento. L'agitazione continuò per settimane, mesi, in tutto il paese. L'esercito non riusciva più a ristabilire l'ordine facilmente come prima. Allora il governo, tramite un discorso alla radio tradotto in tutte le principali lingue locali, fece sapere che la missione della madrepatria era una missione civilizzatrice e disinteressata, e che essa lavorava solo per il bene degli indigeni. Ormai, grazie a una nuova legge quadro, il facchinaggio, i lavori forzati, i reclutamenti obbligatori erano aboliti. «Sarà creata un'assemblea territoriale con rappresentanti eletti dal popolo, cioè da voi stessi» e via dicendo. Poi si fecero parlare numerosi funzionari autoctoni, quelli che erano stati a scuola e sapevano leggere e scrivere; parlavano di «partiti politici» che si sarebbero formati, di «deputati» che bisognava eleggere e, grazie a tutti quei progressi, il paese sarebbe diventato per il mondo intero un modello di armonia e di buona intesa fra due civiltà. Mandala Mankunku, come la maggior parte dei suoi compatrioti che non erano mai stati a scuola, non capirono granché di quelle parole esoteriche che avrebbero dovuto simboleggiare le nuove istituzioni. Aveva la sensazione confusa che qualcuno, da qualche parte, stesse recuperando la batta-
glia. Comunque fosse, Mankunku non se ne preoccupava affatto per via dell'immenso dolore e della collera repressi. Pensava sempre a Ma Ngudi e ai gemelli. Per quel poco che sapeva dei costumi praticati dagli stranieri in casa loro, era convinto che Ma Ngudi fosse stata bruciata viva con i due bambini e che le sue ceneri fossero state sparse sul paese o gettate nel fiume allo scopo di evitare di offrire un luogo di pellegrinaggio ai fedeli. Non ne poteva più di starsene lì senza far niente. Si era forse così infiacchito, lui, Mandala Mankunku, l'uomo che aveva affrontato e vinto suo zio materno, che pure era un potente? No, bisognava davvero darsi una mossa! 30 In tutto il paese comparivano sporadicamente, come bolle d'aria che salgono, si gonfiano e scoppiano sulla superficie dell'acqua, decine di donne che dicevano di essere Ma Ngudi ritrovata, resuscitata. Alcune pretendevano di essere sue discendenti dirette, altre dichiaravano di essere sante indipendenti o specializzate nella guarigione di alcuni mali o d'incarnare la vera religione della liberazione nazionale mescolando le figure del Cristo, di Muzompa, di Ma Ngudi e della Vergine Maria. Su quell'onda di religione contestataria, apparvero anche alcune sette venute dall'America come i Testimoni di Geova, che predicavano la fine apocalittica del mondo e predicevano un nuovo ordine di cose sotto il governo del figlio di Dio. Aspettando quel nuovo ordine di cose, rifiutavano di fare politica, di partecipare alle elezioni e di salutare la bandiera, come i Muzompisti. Ci furono ancora tante e tante altre sette locali, i Kimbanguisti, i Croce-Koma, gli Zefirini: tutte proclamavano - più o meno - la fine della dominazione coloniale. Quelle sette affondavano le radici nel proletariato delle città, negli ambienti popolari e rurali delle campagne. Per aguzzare il senso politico o almeno contestatario della popolazione, fecero molto di più della campagna condotta da «consiglieri» e «deputati» indigeni che volevano farsi eleggere nella nuova assemblea territoriale creata da poco. Gli stranieri, che da qualche tempo erano sicuri di sé grazie alla liberalizzazione politica che avevano realizzato sulla scia degli avvenimenti provocati da Ma Ngudi abolendo l'antico codice dell'indigenato e creando una nuova legge-quadro, cominciarono a infastidirsi, a innervosirsi e a perdere l'atteggiamento paternalista. Da un lato si appoggiavano ai nuovi deputati, che avevano dato il cambio agli antichi capitribù per proclamare i benefici della madrepatria, dall'altro prendevano misure sempre più draconiane per
reprimere le rivendicazioni autonomiste. Anche le Chiese cristiane si adoperarono in una gigantesca propaganda allo scopo di eliminare una volta per tutte il culto eretico, idolatra e sacrilego di Ma Ngudi, che sembrava radicarsi sempre più nel cuore degli autoctoni. Promossero una campagna di distribuzione di medaglie sante con i bei profili della Madonna e dei santi stranieri. Le donne cui erano destinate le medaglie rifiutarono di accettarle e quelle che non avevano il coraggio di farlo correvano a nascondersi nella savana o nella foresta quando arrivavano i distributori. Allora si cambiò tattica e le autorità civili, militari e religiose collaborarono ognuna per il proprio interesse diretto. Prima arrivava l'esercito, circondava il villaggio all'alba e prendeva tutti in trappola; si verificavano i documenti di coloro che avevano pagato le imposte; quelli che non avevano pagato venivano messi in prigione. Dopo si verificavano i certificati elettorali, perché quelli che non avevano votato erano Muzompisti sovversivi. Quando l'esercito e la polizia avevano terminato le verifiche, i distributori di medaglie sante cominciavano il loro lavoro: distruzione di tutte le foto di Muzompa o di Ma Ngudi, aspersione d'acqua benedetta, distribuzione di croci di Nostro Signore, di medaglie di battesimo. Infine, l'operazione si concludeva con la consegna di un sacco di semi d'arachide a ogni contadino, uomo o donna, e l'agente agricolo precisava che, per ogni sacco, l'amministrazione contava di raccoglierne ben tre pieni al raccolto successivo. Poi se ne andavano e lasciavano i contadini a bofonchiare i loro rancori. Nelle città l'agitazione continuava. Il gesto più spettacolare fu quello di padre Zola, che ruppe con la Chiesa cristiana. Per protestare contro quelli che chiamava «crimini» contro il suo popolo, prese pubblicamente moglie, si chiuse in camera con lei mentre le sue pecorelle circondavano la casa e cantavano gloria e inni in lode di Ma Ngudi. Il sacerdote continuò il suo martirio per tre giorni e tre notti senza bere né mangiare, fino al mattino in cui si sentì un urlo da spezzare l'anima, seguito da grida di terrore della moglie: era morto nell'adempimento del suo dovere, primo martire volontario della lotta per l'indipendenza. Quanto a Mandala Mankunku, era sempre inconsolabile. Più solitario che mai, chiuso nel più profondo di se stesso, la Passione interrotta e il martirio di Ma Ngudi gli avevano strappato come una parte di sé che neanche Milete riusciva a restituirgli. Sembrava vivere fuori dal mondo, fuori dalla vita. E poi, poco per volta, gli crebbe dentro un rancore profondo contro gli stranieri. Lui, che in gioventù aveva provato un'ammirazione
quasi senza limiti per quegli stranieri, sembrava ossessionato solo da un'immagine, quella dell'uomo dal viso rosso come polvere di tukula, i capelli lisci come barba di mais, protetto da un casco bianco, quell'uomo che era entrato un giorno nel suo villaggio, tanto tempo fa. Cosa sarebbe accaduto se l'avesse ucciso, invece di abbandonare la riunione? La Storia sarebbe cambiata? Avrebbe avuto una svolta in meglio o in peggio? 31 Dopo la grande avventura vissuta accanto a Ma Ngudi, Mandala Mankunku sentiva di aver perso ancora una volta una grande battaglia. Quante sconfitte lui e il suo popolo avrebbero ancora subito per mano degli stranieri? Gli sembrava che tutte le sue lotte fossero sempre state insignificanti, dal giorno in cui aveva disapprovato lo zio Bizenga e lasciato bruscamente i luoghi delle trattative fra quest'ultimo e il primo straniero che aveva messo piede nel villaggio, al giorno dell'ultima battaglia di Ma Ngudi. All'inizio si lasciò andare a un profondo pessimismo rispetto all'esito della lotta per la liberazione; poi si ricordò del passato, del suo antenato Mankunku, del vecchio Lukeni, della rivolta di sempre contro tutto ciò che gli sembrava cozzare con l'idea che si faceva del mondo: sfida al grande fiume, sfida alla natura, sfida agli antenati, sfida contro Bizenga, sfida contro lo straniero! No, bisognava riscuotersi, rimboccarsi le maniche e continuare la lotta, fosse solo per vendicare la memoria di Ma Ngudi. Per un istante pensò di assassinare il capo degli stranieri o di uccidere il capo dei gendarmi; ma, lucido, si rese conto che quelle erano azioni irreali, buone soltanto a farlo fucilare come un volgare criminale. L'azione doveva avere un senso, un senso simbolico. Ma dove collocare un atto simbolico in un mondo dove tutto era senza radici, senza tradizioni, quindi senza simbolismo? Allora si ricordò di colpo di essere fabbro e figlio di fabbro. Costruì in fondo al suo appezzamento, nella periferia della città, una vecchia fucina tradizionale com'era stata quella di suo padre, dove aveva imparato il nobile mestiere di fabbro; e invece di lavorare con il ferro e con il piombo, ebbe l'idea di fare dei gioielli prendendo per materia prima le medaglie religiose che le persone non volevano tenere. Chiese agli uomini e alle donne di vendergli le loro medaglie sante e la risposta superò le aspettative: gliele diedero gratis. Le fece fondere secondo le tecniche ancestrali e ne uscirono gioielli delicati, collane, orecchini, braccialetti, cavigliere per la danza. Così, nelle sue mani, i santi diventavano scimmie bef-
farde appese per la coda o per una mano a un ramo di albero e con le dita nel naso; diventavano cerbiatte delicate e spaventate in piedi sulle zampe fragili» elefanti massicci, brutti ippopotami dalla gola spalancata, orrendi facoceri. Il fabbro Mankunku poteva fare tutto, inventare tutto. Trasformava Santa Maria in Ma Ngudi e Gesù Cristo in Muzompa. E le mogli degli stranieri si ornavano di quei gioielli fatti a loro insaputa con le medaglie dei santi, mentre i loro uomini vantavano quei meravigliosi prodotti dell'artigianato locale. Durante quel periodo, accadde un fatto strano che rassicurò le autorità amministrative e religiose: il paese fu apparentemente colto da un rinnovato fervore religioso; la richiesta di medaglie sante raddoppiò, triplicò, mentre meno di un anno prima per distribuirle era necessario impiegare l'esercito. I vescovi erano contenti, le vie del Signore sono impenetrabili, non bisogna mai disperare: meglio così, perché la religione è un atto individuale, non avrebbe dovuto essere imposta. L'epidemia di pietà non fece che peggiorare, al punto che vennero a mancare tutte le medaglie e perfino le croci di bronzo di Nostro Signore. I padroni stranieri, sempre sensibili alla felicità dei loro amministrati, promossero una campagna disperata sui giornali dei loro paesi, fratelli, aiutateci, ne va dell'anima dei nostri indigeni, i nostri beneamati fratellini nella religione... Allora quei popoli generosi inviarono tonnellate di croci, di medaglie, che si ritrovarono tutte nelle fucine di Mankunku. Ma la generosità di quei popoli non si fermò, offrirono al popolo pio del paese di Mankunku un Natale eccezionale: con aerei da carico speciali furono inviate delle renne, Babbi Natale vestiti di guarnacche rosse e con la barba bianca che circolavano a bordo di carretti e salutavano la popolazione; fu mandato vischio e pungitopo. In sostanza, mancava solo una cosa perché fosse un perfetto Natale bianco: la neve; perché nessuno era riuscito a risolvere il problema della sua importazione nei paesi tropicali. Grazie alla bellezza dei suoi gioielli, Mankunku guadagnava molto denaro, ma la sua grande felicità e la sua principale motivazione erano di aver bene o male vendicato Ma Ngudi. Sfortunatamente, nel paese sorsero migliaia di altri piccoli vulcani, non vendicatori come Mankunku ma avidi. Cottimisti, si misero a imitare Mankunku soltanto per denaro, senza possedere la sua arte, ed era facile riconoscere su una figura di scimmia una parte della croce del Cristo fusa male o su un ippopotamo il profilo della Vergine trasfigurato in modo grezzo. Così le autorità cominciarono a subodo-
rare il vero destino delle medaglie sante di cui veniva inondato il paese. Lo scandalo fu grande e il sacrilegio imperdonabile. Risalire a Mankunku non fu difficile. Arrivarono la mattina presto, circondarono la casa di Mankunku, aprirono le porte a pedate e coi calci dei fucili, tirarono Mankunku giù dal letto, misero la casa sottosopra e scoprirono uno stock di medaglie sacre che aspettavano il loro turno per essere trasformate in oggetti sacrileghi dal fuoco malefico della sua fornace. «Razza di sporco macaco negro indigeno dell'Africa nera tropicale subequatoriale!» tuonò infuriato il capo dei militari, ripetendo finalmente le ingiurie a lungo represse che invece i suoi padroni sciorinavano in tutta tranquillità. «E così sei un feticista, un idolatra che non rispetta i santi? Ti faccio vedere io!». Fece un cenno con la testa. Due soldati si avventarono su Mankunku e si misero a picchiarlo. Si difese a suon di calci e di pugni, ma su di lui si precipitarono altri soldati, venne tramortito e condotto col volto tumefatto dal capo. L'uomo di Chiesa, che li accompagnava per identificare il sacrilego, continuava a gridare: «Dio non lo perdonerà, perché sapeva ciò che faceva». I soldati lo legarono e lo gettarono in un camion per trasferirlo al carcere tra le accese proteste dei vicini accorsi. La notizia dell'arresto di Mankunku si allargò sul paese come l'ombra di una grossa nuvola. I contadini furono i primi a protestare, rifiutando i sacchi di sementi d'arachide e di mais distribuiti dall'amministrazione per le piantagioni di Stato. Appena sentivano il rumore dei motori diesel dei grossi camion arrancare sulle piste a malapena carrozzabili, fuggivano dai villaggi. I soldati, inferociti, radevano al suolo i villaggi e mettevano in una prigione speciale tutti quelli che non erano riusciti a sottrarsi alle loro retate. La repressione diventò così terrificante che i contadini adottarono una strategia più passiva: accettavano la distribuzione coatta delle sementi, che però sterilizzavano prima della semina facendole bollire in grossi bidoni. Col tempo, l'agitazione investì anche la popolazione cittadina. Ora, a seguire Muzompa e Ma Ngudi non erano più soltanto quei contadini analfabeti arrivati dalla campagna, ma anche dei giovani che erano andati a scuola. Apportavano il loro sostegno con il fascino che caratterizza la gioventù, quello di dare un senso nuovo anche alle cose già vecchie. Non avevano conosciuto l'epoca della macchina né i lavori forzati, non avevano mai provato come scottava il sole sul dorso curvo né i morsi delle frustate
nella loro carne, eppure parlavano con convinzione. Certo, per loro tutto era diventato parole, e la parola si era dissociata dalla realtà, tuttavia, come in ogni mutazione, le parole diventarono altro; erano meno reali, più indipendenti dalle cose concrete ma erano diventate più affascinanti, più potenti di per sé. Quei giovani non avevano bisogno di interpreti, dialogavano alla pari con il padrone, usavano le stesse sottigliezze dialettiche. Avevano abbandonato le vecchie associazioni tribali per creare le organizzazioni che chiamarono «partiti politici». Quei partiti organizzarono manifestazioni davanti alla prigione dove Mankunku e altri erano incarcerati, firmarono petizioni, distribuirono volantini, sostennero mozioni. Gli stranieri erano caduti nella loro stessa trappola e non sapevano più che comportamento adottare: picchiavano e massaggiavano, colpivano e accarezzavano, sbraitavano e cantavano. Alla fine, per disarmare la forza crescente dei partiti, il governatore generale decise di convocare i deputati indigeni della nuova assemblea territoriale per discutere della situazione. La manifestazione che i partiti politici volevano organizzare quello stesso giorno fu dunque rinviata. 32 I deputati e gli stranieri avevano concluso positivamente le conversazioni presiedute dal governatore generale; quegli indigeni detti evoluti, ben curati nelle loro giacche e cravatte, erano lusingati. Si era discusso tra persone civili; nessuno approvò l'iniziativa dei contadini contro le semine, al contrario, fu disapprovata perché la priorità delle priorità era lo sviluppo dell'agricoltura per affrancare il paese dal sottosviluppo. Non approvarono per niente l'agitazione sinistrorsa e irresponsabile degli studenti, e non approvarono nemmeno i partiti di quegli intellettuali marxisti la cui ideologia era estranea all'Africa; loro invece rispettavano la religione e la libertà, i diritti dell'uomo, volevano conservare l'amicizia con la madrepatria la cui missione civilizzatrice e disinteressata non era messa in dubbio da nessuno. Insorsero invece contro le brutalità perpetrate nei confronti dei contadini perché contrastavano con la tradizione umanista della madrepatria. Il governatore e la sua delegazione erano molto contenti di discutere con quelle persone evolute, realiste, che non incoraggiavano la disobbedienza e l'inciviltà. Si rammaricavano di qualche eccesso, ma quegli eccessi si manifestavano sempre quando si trattava di mantenere l'ordine; e comunque i responsabili sarebbero stati puniti duramente. Quando finalmente in questo
bel paese tornerà la calma, si terrà una conferenza plenaria allo scopo di discutere dell'avvenire politico ed economico del territorio. E gli indigeni evoluti si profusero in ringraziamenti, come usava tra persone civili, e promisero di far ragionare la popolazione. Uscirono tutti nella corte per un'ultima stretta di mano. «In nome dei miei colleghi e compatrioti, vi ringraziamo della vostra mansuetudine e della vostra comprensione». «L'importante è concertarsi, comprendersi, avere un linguaggio comune» rispose il governatore disteso e sorridente. «Sì, questo ci eviterà molti pianti e digrignar di denti; noi, da parte nostra, promettiamo di operare per il riavvicinamento dei due popoli perché una divisione del mondo in buoni e cattivi, amici e nemici, è un'estrema semplificazione in cui il bene e il male non sono più integrati in una stessa situazione istintiva e in una stessa relazione oggettivale» rispose tutto d'un fiato e senza esitare il portavoce del gruppo degli indigeni evoluti, quello che aveva gli occhiali e la ventiquattr'ore. Il governatore non aveva capito niente delle parole del delegato; aggrottò le sopracciglia ed ebbe paura; quelle persone cominciavano a parlare la nostra lingua meglio di noi, e ciò era molto più pericoloso di tutti i Mankunku del mondo. Si domandò di colpo se tutte quelle persone che trattava con accondiscendenza, quelle persone che credeva di manipolare, in realtà non si prendessero gioco di lui. Si domandò se, dietro all'abito adottato, all'apparente docilità e al sorriso sempre pronto e accondiscendente, non nascondessero qualcosa di più subdolo, di più pericoloso, in poche parole, se in fin dei conti non fossero loro a gestire la situazione! Per la prima volta vide i «suoi» indigeni. Assunse un atteggiamento freddo ma non ebbe il tempo di rispondere... A raggiungerli furono prima le O. Arrivarono veloci, rotolarono come cerchi poi volarono via volteggiando su se stesse come dischi volanti. OOO! Poi un'immensa nuvola di polvere, come quella che precede i grandi branchi di animali che corrono attraverso la savana inaridita. Alla fine li videro! Centinaia, migliaia di uomini e di donne, studenti, contadini, disoccupati. In effetti, mentre il governatore e i suoi deputati discutevano, la folla, guidata dagli studenti e dai leader di partito che il governatore aveva rifiutato di ricevere, si era diretta verso il luogo dov'erano stati rinchiusi Mankunku e i contadini, li aveva liberati e, presa dallo slancio, aveva continuato a marciare verso il palazzo del governatore nonostante fosse proibito manifestare. C'era chi teneva in mano foglie di palma verdi o rami di al-
beri verdi. Quelli che sapevano scrivere portavano grandi cartelloni con i nomi di Mankunku e di Ma Ngudi, mentre altri chiedevano puramente e semplicemente la partenza degli stranieri. Cantavano tutti: nsi ya beto ba mbuta zeto ba tu sisa yo e, quando smisero di cantare per riprender fiato, si sentiva il rumore dei loro passi che correvano dietro alle O come se tremasse la terra, eco profonda e misteriosa delle parole della canzone: ba mbuta zeto ba tu sisa yo ooo... Le bocche si arrotondavano intorno al cerchio delle labbra, i petti inspiravano ed espiravano, le gambe continuavano a marciare: erano là che circondavano la delegazione dei deputati e il loro gran capo, il governatore generale. Questi ultimi erano come magnetizzati. Sembrava loro che le O salissero, si allargassero, diventassero una O unica che aumentasse di circonferenza, una sfera che li imprigionasse. Quella O li circonda, li avvolge come cerchi di hula-hoop. Il governatore e la delegazione sudano, sanguinano, si torcono, strisciano, rantolano; si sentono schiacciati, pestati, la loro carne viene tagliata con rituali di cannibalismo: esplodono centoun colpi di cannone! L'esercito allertato è venuto alla riscossa. L'incantesimo è rotto, la bolla che l'imprigionava è crepata, respirano. Nella folla c'è il panico: uomini e donne uccisi, mani impigliate nei raggi e nelle catene di bicicletta, bambini schiacciati nella mischia... ancora una volta. Quello però fu l'ultimo scontro sanguinoso tra gli stranieri e gli autoctoni. Sul paese, l'eco delle O si estese così rapidamente che accerchiò completamente gli stranieri, i quali non riuscivano più a respirare né nella vita quotidiana né nei sogni. Non restava che partire. Così due popoli diversi, due mondi diversi erano vissuti quasi un secolo l'uno accanto all'altro senza essersi davvero conosciuti. 33 La fine di un regno è sempre triste. Partirono un mattino della stagione
secca, secca come lo possono essere solo le stagioni secche tropicali. La bandiera, che sembrava vecchia e stanca, fu abbassata lentamente in un rullio di tamburi davanti all'ultimo governatore generale, mentre nel frattempo si alzava la nuova bandiera del nuovo paese sotto gli applausi della folla e il suono di una tromba. Il vecchio e il nuovo padrone si strinsero a lungo la mano, i due erano profondamente commossi, come due esseri che si rendono conto un po' tardi di essere passati l'uno accanto all'altro senza vedersi né capirsi. Partirono dunque in un mattino di stagione secca. CAPITOLO SESTO Accuso la notte di avermi perduto. TCHIKAYA U'TAMSI 34 Allora, sul paese degli antichi padroni, si rovesciò un'ondata: chi voleva diventare ingegnere, chi voleva costruire treni da solo, chi voleva diventare medico, professore, avvocato, salumiere, tassista, chi, ancora, voleva diventare teologo per salvare le anime e chi, infine, voleva diventare ricco in fretta. Andarono a centinaia e a migliaia, sfidando la neve e il ghiaccio, lo scirocco e la tramontana, i fiumi e le città inquinate dall'industria. Sopportarono le aggressioni razziste e le camere da letto sovraffollate dove si beccavano la tubercolosi; non indietreggiarono nemmeno davanti al lavoro a catena, dove perdevano l'anima e il corpo. Niente riuscì a piegare la loro determinazione di andare. Alcuni s'imbarcavano clandestinamente nelle stive delle navi, dove si facevano divorare dai ratti. Altri credevano di sbarcare a Marsiglia e si ritrovavano schiavi in un emirato del Golfo. Altri ancora perivano sui Pirenei o sulle Alpi perché volevano rifare il percorso di Annibale senza elefanti. No, non c'era davvero niente che potesse scoraggiarli, l'essenziale era arrivare là. Una volta sul posto diventarono studenti, lavavetri, avvocati, spazzini, operai specializzati, ambasciatori, prosseneti: l'importante era tornare a casa con un diploma, vero o falso che fosse, perché aspiravano ad arrampicarsi in cima alla gerarchia sociale del loro paese e sapevano che il potere
non si conquistava più come al tempo della giovinezza di Mankunku: ormai era legato al sapere che avevano acquisito dagli stranieri. E quelli tra loro che non avevano potuto partire continuavano a sognare quei paesi dove non si moriva, dove tutto era pulito, dove la scienza aveva reso facile il lavoro ed equi i compensi, e dove tutto andava per il meglio nel migliore dei mondi possibili. CAPITOLO SETTIMO Ma siccome non voglio errare tra l'ombra e la luce preferisco ancora lasciarmi inghiottire dal buio. LU XUN, L'erba matta 35 Quando la lunga festa fraterna dell'indipendenza terminò, il paese conobbe una calma che non aveva provato da molto tempo, come se riprendesse un respiro regolare dopo tanti anni di tumulti e soprassalti. Anche la vita di Mankunku sembrava battere allo stesso ritmo di quello del paese, un ritmo lento. Si sentiva libero e contento: era fiero di vedere tutti quei giovani istruiti del suo paese sedere negli uffici degli antichi padroni, portare i loro titoli, farsi chiamare Signor Ministro, Signor Presidente, Eccellenza, e tra loro Bunseki Lukeni, bisnipote del vecchio Nimi A Lukeni. Qualcosa era certamente cambiato, quanta strada percorsa, quanti sbandamenti e ripiegamenti per arrivare là, a partire da quel giorno in cui lo straniero con la pelle rossa era entrato nel villaggio, ormai non ricordava più quanti lustri prima! Aveva partecipato alle feste nel palco d'onore, se così si può dire, perché, riconosciuto e consacrato come eroe nazionale, lui che non era mai andato a scuola e non sapeva né leggere né scrivere, durante la parata era stato ufficialmente invitato a stare accanto a quelle persone istruite e intelligenti che ora detenevano il potere. Aveva ammirato la parata di carri armati e di autocarri, aveva riso e applaudito ai giochi degli studenti che interpretavano le grandi scene della lotta per l'indipendenza, s'era lasciato prendere dal ritmo delle danze folcloristiche e alla fine aveva bevuto, bevuto tanto. Ma ecco, la festa era finita, le grandi battaglie terminate e non c'erano più nemici da abbattere, restava da affrontare solo la quotidianità e
la sfilata di presidenti civili e militari che si succedevano, ciascuno ben intenzionato a portare al popolo la felicità eterna. Era il momento in cui persino gli eroi si ritrovavano soli ed esausti. Mankunku si dedicò alla sua vita personale come non aveva mai fatto prima. Si sentiva vecchio e stanco, adesso aspirava al riposo, almeno per un certo periodo. Aveva bisogno di una cosa, una vita famigliare: si rese conto che non aveva figli. Oltretutto, non soltanto glielo rimproveravano sempre di più, ma si prendevano apertamente gioco di lui. Siccome la società africana è una delle più conservatrici al mondo, bisognava che certe cose fossero fatte perché un uomo potesse essere rispettato: per esempio, che avesse una moglie e dei figli. Orbene, malgrado tutte le sue imprese e la sua celebrità, quel titolo di padre gli mancava ancora. Forse non l'aveva proprio voluto, ma poco per volta i suoi rapporti con Milete cambiarono, e ciò che fino ad allora era stata semplice amicizia si trasformò in amore: dapprima le strette di mano si fecero più lunghe e gli sguardi più insistenti... fino al giorno in cui si ritrovarono a fare l'amore. Milete era felice, era il suo primo uomo: gemeva, piangeva di gioia e di dolore. Gridava il nome di Mandala Massini Mupepe e diceva che era forte come un bufalo, potente come una locomotiva, ma leggero su una donna come poteva esserlo il vento del mattino sul viso. E anche lui parlava e parlava. La stendeva davanti a sé sotto il raggio di sole che filtrava attraverso il tetto di paglia e faceva scorrere la sua rude mano di ex meccanico sulla morbida pelle di lei, che aveva il colore della papaia matura. E lei, docile come una canzone, soffice come il kapok, lo stringeva... Alla fine lei si alzò, si vestì e uscì nascondendosi il volto come se i vicini fossero stati testimoni della sua passione amorosa. Milete, alta e bruna, nobile come una palma solitaria. Continuarono così per molti mesi, vissero finalmente come marito e moglie. Mankunku era stupefatto di sentire alla sua età una simile gioia infantile. Con Milete riscopriva la giovinezza. Andavano spesso mano nella mano nella piccola foresta ai bordi della città, e là lui le insegnava il nome dei fiori e delle piante, le spiegava l'origine della rugiada del mattino che scorreva in perle luccicanti sulle grandi foglie verdi del taro e dei banani. Talvolta rincorreva le farfalle e le libellule, le acchiappava per posarle come fiori delicati sulle trecce di Milete e, mentre lei cercava di scappargli, lui tentava di tingerle la faccia con le polveri micacee variopinte prese dalle ali delle farfalle multicolori. Ma i loro momenti migliori venivano alla sera quando, seduti al chiaro di luna, lui raccontava le sue storie e sen-
tiva le risate di lei piene di stelle salire fino a perdersi tra le Pleiadi. Lui diceva: «Verrai al villaggio e ti mostrerò il grande fiume, mio compagno d'infanzia e nello stesso tempo amico e avversario, vedrai la piantagione dove sono nato, le piante di banano e le palme, e ti mostrerò la tomba del vecchio Lukeni...». Era felice, erano felici. Le persone originarie della regione di Mankunku guardavano il loro legame con crescente disapprovazione, non tanto perché vivevano in concubinato, quanto perché lei era una donna di un'altra etnia e soprattutto, come dicevano, una donna di città. Comunque nessuno aveva detto niente apertamente, perché pensavano si trattasse di uno di quegli amori episodici che fiorivano così spesso in città, quelle città dai costumi strani e dissoluti. Lo scandalo scoppiò solo quando Mankunku dichiarò le sue intenzioni di matrimonio. Oh, sventura, oh, scandalo! «Non puoi farci questo, tu, il presidente della nostra associazione, il nostro Massini Mupepe, il nostro eroe, sposare una di queste donne di città dalle origini sconosciute! Ma come, le nostre donne non sono abbastanza belle?». «Milete mi piace, e sono più di quindici anni che la conosco. Ci legano tante cose e tanti ricordi comuni!». «No, tu non puoi amarla, conosci bene queste ragazze di città, sono persone distratte e pigre che preferiscono l'apparenza alla sostanza, donne che sono soltanto rumore e furore. Non c'è nemmeno una ragazza delle nostre che ti sembri bella e ti piaccia?». Per la circostanza fu convocata una grande riunione di famiglia presieduta dal decano del villaggio di Mankunku. II vecchio parlò, invocò, declamò proverbi, fece pesare la sua età e i suoi capelli bianchi che, a quanto sembrava, erano segno di saggezza, blandì l'amor proprio di Mankunku, uomo celebre ed esemplare per tutta una generazione, e infine gli chiese di pronunciare la frase di saggezza, da uomo riflessivo, che tutti si aspettavano: «Avete ragione, rinuncio a Milete». Mandala Mankunku però non ascoltava, non ascoltava più. Pensava alle lotte che aveva guidato per l'indipendenza del paese, ai richiami alla fraternità che aveva lanciato con la Santa del Nord, a quei due ex combattenti mutilati che dicevano che era assurdo litigare tra noi nel nostro paese. Il nostro paese. Improvvisamente, per lui, quel paese dai confini tracciati a caso dalla conquista straniera, quel paese fatto d'incroci di etnie e di frammenti di etnie disparate assumeva un'esistenza reale, aveva un'anima. Si voltò verso il decano. «E perché mai vi imbarazza il fatto che io sposi una ragazza che non è
del mio villaggio, dal momento che è giovane e bella e che io l'amo?». Il decano l'interruppe con vigore: «Ti conosco bene, Mandala, tu possiedi sempre il tuo spirito di contraddizione e distruggi ogni cosa che tocchi: ebbene, noi non ti lasceremo distruggere la nostra famiglia e il nostro clan. Cerca dunque di capire. Evitiamo di diluire le nostre forze in matrimoni ancillari e per di più inopportuni». «No, decano, io sposerò Milete!». Gran vociare tra i presenti. Il volto del vecchio è convulso, i suoi occhi sono sbarrati, le labbra, già spesse, gonfie di rabbia. Quel volto ricorda a Mankunku la collera di fuoco di suo zio Bizenga. «Mandala Mankunku, uomo distruttore! Senti questa: un uomo amava talmente la sua donna che, per il miele delle sue parole e per la bellezza dei suoi seni, accettò di raccoglierle, come desiderava, i semi di una palma sacra che cresceva nel villaggio. Malgrado le parole degli anziani che gli sconsigliavano quel progetto stravagante, s'arrampicò sulla palma per andare a prendere i semi proibiti. Salì e salì. Ahimè, la palma non smise di crescere, di allungarsi, tanto che il pover'uomo scomparve tra le nuvole e nessuno lo rivide più!». I presenti approvano, mormorano, parlano, criticano. Il vecchio decano, sempre accigliato, lancia come un demiurgo la sua maledizione: «E allora vai, sposala! Ma sappi che noi non benediremo codesto matrimonio; al contrario, lo malediciamo. Se davvero per età io sono il decano, il più vecchio di questa grande famiglia, che gli antenati mi ascoltino, voi non avrete figli, nemmeno uno! Io sputo questo vino in loro onore». Si alza, fa mostra di sputare ai quattro angoli dell'orizzonte e prende il suo bastone. «A partire da oggi non ti conosciamo più: non fai più parte del nostro clan. Il giorno in cui comprenderai, tornerai da solo, contrito, a chiederci perdono. Solamente allora ti accetteremo di nuovo, ti reintegreremo nella nostra grande famiglia. Non prima». Volta le spalle e se ne va a piccoli passi di vecchio che trema per la rabbia e per l'età. Anche Mankunku si sente offeso: «Voi non avete alcun diritto su di me! Forza, maleditemi, voi dimenticate che sono nganga Mankunku, colui che distrugge anche i potenti! Vi sbagliate se credete di farmi paura. Io sposerò Milete, avete capito, io la sposerò!». Tutti si alzano per seguire il decano: protestano, si adirano, lo lasciano, addio Mankunku, addio, il tuo matrimonio è maledetto, tu non avrai figli fino a quando non avrai fatto ammenda come si deve.
Mandala Mankunku sposò Milete. Non riusciva a capire perché uno dovesse resistere alla bellezza, al fascino e al coraggio di una donna come Milete. Era ormai da molto che aveva incontrato quella ragazza rimasta sola, che piangeva suo fratello morto laggiù, sull'altra sponda del mare, per «difendere la libertà». Da allora, lei era sempre stata al suo fianco in tutte le grandi battaglie per la liberazione. Ed ecco che una banda di vecchi idioti che durante i giorni difficili non si erano quasi fatti vedere osava venirgli a fare la morale in nome della tribù. La società africana era già molto - per non dire troppo - conformista; la nuova Africa che stava nascendo avrebbe forse aggiunto l'intolleranza a quel conformismo che già stava soffocando tutto? Ma mi lascino vivere la mia vita come mi piace, fare le mie scelte. Per il momento, tutto ciò che voglio è vivere felice con mia moglie Milete e coi figli che verranno. 36 La moglie di Mankunku è incinta. Sono andati a consultare due medici diversi ed è tutto ufficiale: è incinta di sei settimane. Lui è contento, lo dimostra e si pavoneggia. Non manca occasione per gridare ai membri della sua famiglia che incontra: «Mia moglie è incinta malgrado le vostre maledizioni, d'ora in avanti vi proibisco di metter piede in casa mia o di girarci attorno. Tenetevi i vostri spiriti maligni a casa vostra perché se becco qualcuno di voi, banda di stregoni, intorno a casa mia, che sia sotto forma di civetta, di gufo, di pipistrello o di semplice scarafaggio, lo ucciderò, lo schiaccerò come si schiaccia una pulce! Non dimenticate che io sono nganga, grande nganga...». Coccola, cova con gli occhi, vizia la sua bella moglie di città. Le ha comprato la «Marie-Louise» di Wendo, successo della sua gioventù, e le canzoni che ricordano le lotte per l'indipendenza; le ha portato regali dal paese del mare, spende molto denaro per comprarle prodotti igienici importati dall'Europa. Al settimo mese di gravidanza di sua moglie, ha già comprato un corredino da neonato all'ultima moda. E vuole anche essere sicuro che ci saranno dei testimoni alla nascita di suo figlio, testimoni sicuri che risparmieranno al piccolo nuovo venuto la disavventura che lui ebbe a subire, quella di un uomo del quale si dubita della nascita: perciò ha preparato una lunga lista di persone il più possibile diverse tra loro. Altra novità: sua moglie partorirà in ospedale. Ha già scel-
to la levatrice, le ha già fatto un regalo perché si prenda cura in modo del tutto particolare di sua moglie, in quanto con stregoni come quelli della sua etnia le precauzioni non sono mai abbastanza. Non si sa mai cosa può capitare, non è vero signora levatrice? In ogni caso io sono qui, non esiti a chiamarmi se c'è qualcosa. Come, lei pensa che questi dolori siano normali, sì? Io le credo, no no no, io non voglio assistere al parto, penso che non lo sopporterei, si sì sì, se c'è bisogno del taglio cesareo potrò donare il mio sangue, ma no ma no, guardi, io sono calmo, vado a sedermi, il sudore che cola dalla mia fronte è perché fa caldo e ho dimenticato il fazzoletto... Evviva, Mandala Mankunku, ci siamo, è nato il bambino, un maschietto! Il suo viso s'illumina, si asciuga il volto diventato volto di un padre, le mani smettono di tremare, ride raggiante, ve l'ho fatta, stregoni, sono papà, e intravede appena il nuovo nato attraverso i vetri e le lacrime che gli velano lo sguardo. Tutto fatto, se ne va con le mani in tasca fischiettando allegramente, pensando a cosa avrebbe portato alla moglie l'indomani, non appena le porte dell'ospedale si sarebbero aperte per le visite. ...Si dice che la moglie di Mankunku abbia messo al mondo un essere teratologico, un bambino con la testa di cane, una testa enorme come una locomotiva con due occhi da civetta che temono la luce... Si dice che la moglie di Mankunku abbia messo al mondo un mostro con la testa di capra, con due occhi da gufo verdi come quelli di suo padre... Si dice che la moglie di Mankunku abbia messo al mondo un bambino con la pelle bianca coperta di scaglie come quella dei pesci... Vedete, era maledetto, il suo matrimonio era maledetto, non si sfida impunemente il clan... Il cortile dell'ospedale è pieno di persone della sua famiglia, della sua tribù; ci sono vecchie donne sdentate arrivate all'alba e che, già stanche, si sono allungate sulle loro stuoie; ci sono vecchi che sgranocchiano noci di cola per ritrovare un po' di slancio giovanile e sputano ogni tanto una saliva resa scura dal succo amaro, fieri davanti ai numerosi giovanotti e fanciulle che hanno fatto venire apposta per assistere de visu a una dimostrazione concreta del potere degli antenati e del clan; sono tutti là che si agitano, chiacchierano e aspettano Mankunku, Mankunku messo al bando, per assaporare la vendetta del clan sull'individuo. Mankunku arriva, le chiacchiere e il rumore cessano. È sorpreso di vedere tutta quella gente: colto alla sprovvista, si preoccupa. Se sono là non è certamente perché gli vogliono bene. Si riprende con un intenso sforzo interiore e decide d'ignorarli, di trattarli con disprezzo; in ogni caso avrebbe
assaporato la sua vittoria su quei conservatori arretrati, vittoria dell'individuo solo di fronte al potere organizzato del gruppo. Si destreggia tra gambe, stuoie, sgabelli e sputi, e sale le scale. Passa per diversi corridoi ed entra nella camera dove si trova sua moglie, le sorride affettuosamente e si avvicina alla culla a piccoli passi, senza far rumore per non svegliare il caro piccolo essere che è venuto al mondo. Cerca di fare la faccia strana del clown che si dice piaccia ai bambini, si china e... Oh, per tutti gli avi, cosa ho fatto! Il bambino è deforme, ha la testa oblunga, dei fari asimmetrici come occhi, no, non è possibile, il bambino ha la pelle bianca, bianca senza colore salvo un leggero rosa appena percettibile intorno agli occhi, i capelli sono bianchi come i capelli di un vecchio... un albino. Mankunku padre di un albino! Urla il suo dolore, grida la sua rabbia. Si volge per un istante verso sua moglie facendo segni d'incomprensione; va verso la finestra, getta un'occhiata di odio alla folla ammassata in basso nel cortile, torna verso la culla, cos'è capitato a mio figlio? Il medico che dirige il reparto maternità viene a calmarlo: gli spiega che non è niente di grave, un albino è un essere normale, gli mancano solo dei pigmenti, un po' di melanina, si tratta di una piccola omissione genetica accidentale, un accidente congenito non ereditario; crescerà normalmente, si sposerà, avrà dei figli normali. Mankunku si lascia calmare dalle parole del medico, ma il suo cuore è ancora pesante perché, malgrado tutta la scienza straniera del medico, lui ha sempre la spiegazione che viene da secoli di tradizione. Accarezza la testa del bambino. È pur sempre suo figlio, il sentimento paterno ha la meglio su tutto, lui ama suo figlio e ama sua moglie. 37 Dopo mature riflessioni, Mankunku decise di riunire i membri della grande famiglia per una franca spiegazione, allo scopo, come si diceva al suo paese, di «aprire il peccato» come si apre un ascesso. Così l'infezione sarebbe stata ripulita pubblicamente e, una volta risolta la situazione, sua moglie avrebbe potuto fargli dei bei bambini normali perché - pensava per quanto uno voglia allontanarsi dalle proprie origini, quelle finiscono sempre per riprenderti: in altri termini, nessuno poteva ignorare completamente le proprie radici. E Mankunku, rivolgendosi alle sue radici, si ricordò del vecchio Lukeni, l'uomo giusto che in qualsiasi disputa cercava di ristabilire l'equilibrio, quell'equilibrio instabile che paradossalmente era garante della responsabilità dell'individuo in una società per altri aspetti per-
fettamente organizzata. Forse gli altri non avevano capito la sua posizione di fronte a Milete, ecco la ragione del malinteso. Pensavano forse che lui volesse sfidarli per il solo piacere distruttivo della sfida? Bisognava risolvere la situazione. Arrivò dunque il giorno della riunione. Aveva comprato vino di palma, arachidi tostate, banane e mais cotto nell'acqua, vino rosso, bevanda che ormai cominciava a soppiantare il vino di palma. C'erano tutti, gli anziani del clan, i giovani, i membri della sua associazione, il decano del villaggio, cioè colui che aveva pronunciato la maledizione. Il cortile era gremito, la giornata serena e l'ombra gradevole sotto le palme, gli avocado e le piante di safù che crescevano qua e là nel giardino. Gli invitati bevevano il vino che Mankunku aveva fatto servire, sgranocchiavano le noccioline, rosicchiavano le pannocchie di mais. Soltanto Milete se ne stava in disparte, circondata da qualche sparuto membro della famiglia, seduta su una stuoia accanto alla culla del bambino che dormiva all'ombra di una palma a ventaglio. Mankunku li lasciò assaporare ben bene il vino e i cibi, quindi si alzò. Silenzio. «Vi saluto tutti, con il rispetto che abbiamo imparato dai nostri anziani» disse, e si mise a battere le mani che teneva leggermente concave. La folla ripeté a sua volta il gesto e tutto fu coperto per un istante dal rumore espresso dalla concavità della sua origine. Poi tornò il silenzio e lui riprese: «Cari parenti, cari amici, come hanno insegnato i nostri avi, è buona cosa aprire il cuore alla famiglia quando qualcosa non va. Voi siete tutti al corrente di cosa è successo e delle conseguenze su mio figlio. Se uno non si sciacqua la bocca dopo aver mangiato le arachidi, gli resta sempre qualcosa tra i denti: vi ho fatto venire perché ci laviamo tutti la bocca in modo da chiarire il malinteso che c'è stato tra noi. Io non ho mai voluto distruggere il clan; sono nato e cresciuto prima dell'arrivo degli stranieri e, credetemi, so quali disgrazie possono arrivare se non ci si preoccupa dell'interesse superiore del gruppo, del villaggio e del paese. Molti qui sono giovani e non conoscono il nostro passato. Voglio ricordare solamente che il nostro villaggio ha cominciato a morire il giorno in cui il capo Bizenga ha messo i suoi interessi personali davanti a quelli di tutti. Voi mi avete chiesto di non sposare una donna della città, e io vi ho risposto che non potevo obbedire alla vostra richiesta perché amavo quella donna, una donna che conosco da anni, che mi ha nutrito quando avevo fame, che mi ha curato quando ero ammalato. È una questione personale che non ha niente a
che vedere con il clan o con la tribù. Io penso che non abbiate capito bene; dunque, dopo quanto è accaduto, dobbiamo assumere un atteggiamento reciprocamente conciliante in modo che la nostra grande famiglia ritrovi l'unità. Non ho altro da dire». Tutti gli sguardi si volgono verso il decano. Vuota il suo bicchiere di vino rosso e sorride: «Mandala Mankunku, sono contento di avere udito quanto hai appena detto. Solo le bestie non cambiano sentimento. E tu hai capito che non potevi sfidare impunemente i valori stabiliti dagli antenati. Siamo pronti ad accoglierti di nuovo nella nostra grande famiglia. Siamo pronti a darti le assicurazioni necessarie sulla salute dei tuoi prossimi figli. Ti chiediamo un'unica cosa: rinuncia a quella donna straniera; è la sola condizione che poniamo». Mandala Mankunku ha un soprassalto, come fosse stato punto da una vespa. La sua emozione intensa, che non può trasparire dalla voce che riesce bene o male a controllare, si manifesta negli occhi, diventati fosforescenti. «Se vi ho convocati qui non è per fare onorevole ammenda né per chiedere perdono a chicchessia. Credevo che avreste compreso le mie spiegazioni; ahimè! Siete così settari e limitati! Se non mi volete più nel vostro clan, me ne infischio! Vi ripeto che amo mia moglie ancor più di prima e che se dovessi rifare ciò che ho fatto, lo rifarei...». Bicchieri sospesi a mezz'aria, mascelle che smettono di masticare, bocche aperte: sono tutti sorpresi e il decano più di tutti gli altri. Sono venuti per vedere il celebre Mankunku strisciare in ginocchio davanti a loro per scusarsi. Ebbene no, trovano Mankunku sempre altrettanto fiero, altrettanto arrogante e distruttore. Il vecchio decano allontana dalla bocca il bicchiere di vino rosso che si preparava a degustare e allontana da sé con sdegno il piatto di mais e arachidi che stava assaporando un istante prima. Mankunku continua: «Vi dico questo: colui che ha stregato mia moglie e gettato il malocchio su mio figlio confessi subito davanti a tutti. Io lo perdonerò. Poi ciascuno se ne andrà per i fatti suoi: ci lascerete soli. E che nessuno di voi metta mai più piede in casa mia. Per quanto mi riguarda, io vi dimenticherò completamente. Se lo stregone è tra voi, apra il suo cuore e prenda l'impegno solenne, davanti agli antenati, di non nuocere mai più a mia moglie e ai miei futuri figli. Ma se non si dichiara, lo scoprirò comunque e lo ammazzerò. Io sono nganga, non dimenticatelo. Ho finito, ora sta a voi parlare». Silenzio, sbandamento. Nessuno confessa niente o prende la parola per
dare forma a una pseudofilosofia buona per qualsiasi occasione, accompagnata da un proverbio per fare «saggezza bantu». In mancanza di argomenti, tutti si volgono verso il decano, anche lui rimasto zitto. Sputa il succo bruno-rossastro della noce di cola che sta masticando per dimenticare il gusto del vino offerto da quell'uomo colpito da ostracismo. «Mandala Mankunku, ciò che ci ha riuniti qui non è una questione banale ma qualcosa di eccezionale, come del resto tutto quello che ti riguarda. Nessuno stregone ti ha maledetto, nessuno ha maledetto tua moglie o i tuoi figli. È tutto il clan insieme con gli antenati che ti punisce per la tua arroganza e per la tua mancanza di rispetto verso di me e verso le nostre usanze. Guarda questo albino deforme e inespressivo, senza bellezza: non è un accidente, è il maledetto risultato dei tuoi amori ancillari; come dicevano i nostri vecchi, lo scimmiotto ha una coda, se non l'ha presa da sua madre, l'ha presa da suo padre. Spero che tu abbia imparato la lezione». La voce di Mankunku non riesce più a controllare l'emozione e l'ira, che esplode, tuona mentre Milete, vicino al suo bambino, sotto la palma a ventaglio, non sa più dove guardare tanto le occhiate di coloro che la circondano sono ostili. «Sta' zitto, vecchio imbecille,» grida Mankunku «vecchio stregone. Finora vi ho dato davvero troppa importanza. Non è certo il vostro potere la causa di quanto è capitato a mio figlio, perché il vostro potere è nullo, capite? Nullo! La scienza del medico straniero è più forte delle vostre stregonerie: mi ha spiegato che si tratta di un banale accidente e che il bambino crescerà normalmente. Non è la prima volta che in questo paese nasce un albino!». «E allora perché ci hai convocati, se non temevi il nostro potere? Hai paura di noi e non vuoi ammetterlo. Ti nascondi dietro la scienza degli stranieri che non può comprendere le faccende di casa nostra. Cerca di vedere come stanno le cose, piccolo arrogante. Sei come il coccodrillo che si getta nel fiume per scappare dalla pioggia. Ebbene, no, Mankunku, ti abbiamo maledetto e maledetto resterai, non avrai figli normali finché non ci avrai chiesto perdono! Tuo figlio è solo la materializzazione dei tuoi cattivi pensieri, delle brutte cose che ti passano per la testa, quella tua testa piena di idee mostruose». Mankunku non ha il tempo di rispondere. Quel suo figlio accidente-genetico, quel bambino rottura-di-clan, il bambino fantasma-materializzato, il mostro deforme con i capelli da vecchio, con le sue gambette nodose e un piccolo pene invisibile sperduto nella massa di carne bianca, ha fame.
Piagnucola, strilla, bela, fa sentire dei mugolii attraverso la sua boccuccia. Siccome non riceve niente, urla, e gli occhi gli escono dalle orbite come sostenuti da peduncoli: ha la faccia aggrottata come la vera Maschera dell'Indignazione. Tutti i presenti hanno paura perché credono che il bambino abbia inteso le parole del vecchio che lo trattava come un mostro, e che ciò abbia provocato la sua collera. Alcune donne si coprono il volto con un velo per sottrarsi alla vista del mostro, per evitare che invada il loro spirito passando attraverso gli occhi, altrimenti potrebbero partorire mostri anche loro. Una se ne va, poi un'altra, poi altre ancora e improvvisamente è il panico, si spingono per scappare e lanciano grida di terrore. Una si crede catturata dallo spirito malefico del bambino stregone, batte i piedi sul posto, si agita e va in trance rovesciando gli occhi; portano subito il nuovo simbolo contro il Male, una croce: quella grida: «Yesu, Yesu», cade, si rotola per terra, sbava come fosse epilettica, è il male che esce... Vade retro, Satana!, grida un prete cattolico che traccia croci e solleva i lembi della sottana fuggendo verso la via della salvezza, evitando di guardare dietro di sé e gridando: «È il diavolo, è il diavolo». Anche il vecchio De Kelondi, valoroso combattente della seconda guerra mondiale, ha avuto paura e ha alzato i tacchi zoppicando con la gamba sinistra e aiutato dal bastone conquistato a un ufficiale tedesco. E adesso non c'è più nessuno. Il cortile della casa di Mankunku sembra un paesaggio postbellico: bicchieri rovesciati e rotti, scarpe perse per la precipitazione, fazzoletti da donna... Restano solo Mankunku, sua moglie e il bambino che continua a reclamare cibo. Adesso Mankunku è calmo e guarda il neonato con tenerezza: dopotutto non ha poi una testa così enorme, gli occhi non sono molto asimmetrici, sono semplicemente un po' verdi, come i suoi. È un semplice albino, né più né meno. E mentre la madre si china a sua volta sulla culla, Mankunku entra in casa a prendere i soldi per andare in farmacia a comprare ciò che il medico ha raccomandato per il neonato. Milete è rimasta sola con il suo bambino-mostro. Lo accarezza e si mette a piangere. Prende tra le braccia il caro piccino deformato dalla stregoneria di tutta quella gente del paese di suo marito. Non può sopportare quella vita più a lungo, diventerebbe pazza. Si aggira per il cortile con il bambino in braccio; canta con il volto inondato di lacrime per cullare il piccolo. Il bambino continua ancora a piangere per reclamare il suo cibo. Smetti di piangere, bambino mio, non sei un mostro e io ti voglio bene. Si siede su uno sgabello, si apre la blusa e offre alla cara creatura il seno pieno di lat-
te. Il bambino succhia golosamente espirando rumorosamente l'aria dalle narici. Adesso smette di piagnucolare, rutta e si addormenta. La mente di Milete se ne va per un istante insieme con il respiro rumoroso del bambino, poi ritorna nel cortile. Allora Milete posa lo sguardo sul suolo disseminato di detriti e rottami d'ogni tipo lasciati dalla folla presa dal panico. Non ne può più, ha preso la sua decisione. Raccoglie rapidamente ciò di cui ha bisogno, mette tutto in valigia, prende il bambino e se ne va... Quando Mankunku torna dalla farmacia, non trova più sua moglie. La cerca dappertutto. La chiama e grida; corre da una parte all'altra come un matto supplicando, Milete, mia cara, moglie mia adorata, non te ne andare, io ti amo, sei la donna della mia vita, mi arrampicherò sulla palma più alta per portarti del vino fresco, ti regalerò una locomotiva nuova, Milete, mia stella, dove sei, torna, non andartene, daresti ragione a quei tribalisti idioti, il nostro matrimonio sarà felice: il bambino è un albino, e allora? Che cos'è un albino? Noi gli vorremo bene, lo coccoleremo, crescerà e poi ne faremo un altro, normale, bello come te, con la pelle color giuggiola, Milete, non andare via, ti amo, lo vedi, non bevo più, non dormo più, non mangio più, non vivo più... Chiese ai vicini, ma nessuno seppe dargli indicazioni utili: uno gli diceva che Milete aveva preso un tassì, un altro che aveva preso l'autobus, un altro ancora che aveva preso il treno e qualcuno gli disse addirittura che si era diretta all'aeroporto. Lui corse dappertutto, invano. Non rivide mai più sua moglie e suo figlio. 38 Dopo la scomparsa di Milete, per molti mesi Mankunku visse in un mondo irreale, lontano da tutto, sognando sua moglie, sognando una repubblica di esseri teratologici e di sirene, mangiando poco, bevendo poco. Di tutte le battaglie che aveva sostenuto nella vita, gli sembrava che fosse la prima veramente persa e l'ultima che avrebbe affrontato. Era invecchiato di colpo, il minimo sforzo lo affaticava e rimaneva prostrato per ore, solo nella casa vuota, senza Milete. Siccome spesso il tempo aggiusta le cose, a poco a poco uscì dal suo stordimento e riprese gusto alla vita. Si alzava prestissimo il mattino: innanzitutto per spiare la nascita del nuovo giorno, poi per raccogliere la rugiada depositata sulle foglie di ntundu o di banano e dissetarsi succhiandola molto lentamente, come fosse un elisir di lunga vita. Poi, prima che il
sole salisse troppo in alto nel cielo, tornava a casa e non ne usciva più se non per andare in cerca di qualcosa da mangiare. Ma se il suo spirito cominciava a riprendersi, il corpo non gli stava dietro. Era sempre più stanco e spesso rientrava dalla sua passeggiata mattutina ansimando come un asmatico. Dopo qualche tempo, al problema respiratorio si aggiunse un dolore alla schiena e ai ginocchi, e talvolta allo stomaco. Allora non uscì più di mattina, deluso dall'alba: la luce bianca è nuda e non è veritiera. Ormai preferiva la sera. Stava seduto sotto il portico di casa aspettando la fine del giorno e l'inizio della notte: questa non era forse più veridica del giorno ma la sua luce era più profonda, più sottintesa e conseguentemente più ricca di verità e di non verità. Ma quando uno ha vissuto tutta un'esistenza di lotta, non può sfuggire del tutto alla vita del suo paese, che lo voglia o no; e cosi una sera, stanco, con una caraffa d'acqua e qualche noce di cola, seduto davanti alla soglia di casa per guardar sorgere la luna con il rumore di fondo della Capitale risuonante di spettacoli, contrariamente alle sue abitudini accese la radiolina per conoscere la ragione dell'agitazione febbrile che aveva sconvolto la città durante tutta la giornata. Infatti, per tutta la mattina, avevano circolato dei camion con enormi ritratti del presidente, mentre gli altoparlanti invitavano la popolazione a recarsi allo stadio per un importante raduno. Adesso la radio stava ritrasmettendo il discorso della giornata. Ascoltò dapprincipio distrattamente poi, riconoscendo la voce del capo dello Stato, più attentamente: arringava la folla ridicolizzando il cadavere di un oppositore politico, abbattuto il giorno prima e disteso davanti a lui nella polvere, sotto il sole. Prima, i sostenitori del presidente, in delirio, avevano fatto il giro dello stadio portando il cadavere in alto sulle braccia, come calciatori che fanno il giro d'onore con la loro coppa, malmenando quel corpo, minacciando di sotterrarlo senza coglioni, strappandogli i capelli e la barba, ficcandogli a forza un sigaro in bocca, urlando istericamente in un atto di cannibalismo rituale. Nel frattempo, la guida suprema della rivoluzione continuava a vaticinare e a perorare dondolandosi e pavoneggiandosi vicino al cadavere. Mankunku ascoltava il lungo discorso senza sentirsi sollevato da nessuna passione né speranza. Le parole della guida della rivoluzione non avevano più dinamica, non avevano più quel potere vitale galvanizzante che la parola può trasmettere, soprattutto in una civiltà in cui essa era stata per molto tempo il filo principale della continuità storica. Parole come libertà, liberazione, imperialismo, giustizia, lotta erano state svilite e svuotate di senso, utilizzate a vanvera dai nuovi capi al punto che ormai ri-
sultavano usurate come il seno vuoto e flaccido di una vecchia prostituta; quelle parole erano diventate sporche, vili, tristi e pesanti: non salivano più all'altezza di Mankunku; non raggiungevano più né la sua mente né il suo cuore se non come pettegolezzi insignificanti e ridicoli, come possono essere le cose eccessive. Spense brutalmente la radio, molto spaventato. Si domandò se fosse ancora la stessa civiltà che aveva conosciuto dai tempi della sua giovinezza o se invece vivesse in una società sui generis, una specie di società spontanea, visto che si parlava di «generazione spontanea». Si domandò se non fosse un mondo che girava a vuoto, su se stesso, senza valori né radici ereditate. Altrimenti, dove si trovava la continuità tra una civiltà che aveva tra i suoi valori fondamentali il rispetto dovuto ai morti e quella nuova società dove un uomo poteva essere arrestato per un sì o per un no, torturato, mutilato e gettato in pasto ai cani? Mankunku, che credeva ci dovesse essere una morale nella politica, si sentiva completamente smarrito. Bevve un sorso d'acqua dalla sua caraffa e si mise a masticare una noce di cola. Ricominciò a pensare a se stesso. No, non si era posto deliberatamente al di fuori del corso degli avvenimenti del suo paese, erano proprio quegli avvenimenti che l'avevano raggiunto e superato a grandi passi e l'avevano ricacciato nella retroguardia di una nuova civiltà dove per lui non c'era più posto. Proprio come una volta il grande fiume, stanco, l'aveva abbandonato sulla riva per riprendere il suo corso, così anche la Storia l'aveva gettato lontano dai suoi gorghi. Ormai si vedeva soltanto come un vecchio, vinto dall'amore per una donna e per un bambino, epilogo derisorio di un vita da eroe. E se, dopotutto, l'amore non fosse derisorio e fosse davvero ciò che stava nascosto dietro alle cose? E se, alla fin fine, lui fosse stato vinto proprio da ciò che aveva cercato e inseguito invano per più di mezzo secolo? Quel pensiero sembrò calmarlo per un istante e si distese un po'. Ma a poco a poco, inarrestabile come l'ascesa dell'astro notturno, una domanda insistente e angosciosa gli cresceva dentro e gli invase la mente. Nella luce nera e ingannevole che lo circondava, il suo disagio spirituale si trasformò in paura fisica: e se dietro alle cose non ci fosse... niente? 39 Quella notte, Mankunku non riuscì a dormire: la sua mente si agitava, si agitava il suo corpo. Si mise addosso una coperta, la tolse, la rimise, la gettò di nuovo lontano; si sedette sul letto, andò alla finestra a guardare la
luna impassibile e le stelle fredde, poi tentò di rimettersi a letto. E se dietro alle cose non ci fosse niente? Quell'eventualità, che per tutta la vita non gli aveva mai sfiorato la mente, nello spazio di una sera era diventata una vera ossessione. Si rigirava nel letto lasciandosi sfuggire ogni tanto un sospiro, con la fronte madida di sudore. Come saperlo? A chi domandare? E poi si mise a pensare a Bunseki Lukeni e a sua moglie Muriel. Non si vedevano da molti mesi, mentre per molto tempo si erano visti quasi ogni giorno. Da quando erano tornati dagli Stati Uniti, dove Lukeni aveva fatto i suoi studi. Mankunku considerava quel bisnipote del vecchio Lukeni come un proprio nipote e la coppia gli ricambiava l'affetto, soprattutto Muriel, Afroamericana che cercava di imparare i rudimenti della lingua del paese di suo marito. Sì, sarebbe andato a trovarli, quei giovani intelligenti della nuova generazione, dottori in scienze o in filosofia, gli nganga dei tempi moderni. Avrebbe discusso con loro senza vergogna e umilmente perché, bisognava ammetterlo, nel mondo attuale non erano più gli anziani con i loro capelli bianchi a detenere il sapere ma le persone che avevano fatto lunghi studi accademici. Forse avrebbe finalmente compreso tutti quegli avvenimenti erratici, nel cui turbinio si sentiva sballottato in un mondo senz'asse. Quando il vecchio Mankunku si trovò seduto davanti al giovane Bunseki Lukeni e a sua moglie Muriel, sentì improvvisamente il peso dell'età che portava. Quei ragazzi erano nati quando gli uomini avevano conquistato la Luna già da tempo e tra quelli qualcuno, come il giovane Bunseki Lukeni, aveva raggiunto le vette di quel sapere che si poteva conseguire nelle scuole del mondo. Secondo gli attuali criteri della società era un giovanotto di successo e, per chi non se ne fosse ancora accorto, lo testimoniavano a sufficienza una bella macchina, una grande villa e i suoi tre figli. La pratica dello sport, in particolare del tennis, faceva sì che non dimostrasse affatto i suoi trentacinque anni. Anche Lukeni e Muriel erano contentissimi di rivederlo. Gli fecero vedere i bambini, poi cominciarono a parlare di cose senza importanza, del colore del cielo, del frinire delle cicale e dei grilli, dello sciamare delle termiti, del gusto del vino di palma in quella stagione. Poi, Bunseki Lukeni gli chiese di parlargli dei vecchi tempi, del suo bisnonno Nimi A Lukeni, di cui portava il nome. Allora Mankunku descrisse loro la vita del villaggio molto prima dell'arrivo degli stranieri, raccontò dell'amore che provava per lui il vecchio Lukeni, che probabilmente gli aveva salvato la vita, del colpo di Stato prima della lettera di suo zio materno Bizenga, del suo duello con lui, della morte dei suoi genitori, degli mbulu-mbulu, di quando era
venuto in città, degli anni di gloria quando lui era Massini Mupepe. I due giovani ascoltavano attentamente quel vecchio, museo e biblioteca vivente dei tempi passati. Lukeni lo interruppe più volte per domandargli se la colonizzazione fosse stata davvero così dura come si diceva, mentre Mankunku cercava di spiegare meglio che poteva ciò che per quel nipote era soltanto storia passata, senza riflessi reali nell'immediato, e cercava di fargli comprendere che ciò che raccontava non era esagerato; cercava di fargli rivivere il morso della frusta sulle schiene nude dei lavoratori curvi sotto il sole... L'Afroamericana Muriel ascoltava attentamente, appassionatamente. Aveva una percezione degli avvenimenti differente da quella di suo marito, non soltanto perché era una studiosa di storia, ma per via dell'esperienza accumulata della storia recente del popolo americano. Perciò gli interventi di suo marito, «distanti» e poco partecipi, la infastidivano un po'. Il vecchio s'interruppe e prese un sorso d'acqua fresca di frigorifero. «Credo di avervi raccontato tutto. D'altra parte, voi leggete tanti libri e queste cose le conoscete senz'altro bene. Ah, se avessi potuto imparare a leggere e a scrivere! Forse potrei capire meglio ciò che accade oggi». «Oh, lo sai bene, vecchio Mankunku, non si impara tutto sui libri. La conoscenza che hai tu, la tua saggezza, è quella che può provenire solo dall'esperienza di tutta una vita. È proprio questo tipo di conoscenza che noi non abbiamo. Ogni vita è una faccenda individuale che comincia sempre da zero, mentre la scienza è cumulativa e la prendiamo là dove i nostri predecessori l'hanno lasciata, e noi costruiamo a partire da quella somma. Allora bisogna che le due specie di conoscenza si nutrano reciprocamente». «Può darsi. Ma io non so più dove stia la verità, ragazzi miei, la realtà. Nelle frasi della gente e nei comportamenti non si fa più differenza tra un'azione vera e l'ombra di quell'azione. Quando ero giovane, credevo che a ogni forza si opponesse una forza contraria, così come un veleno ha il suo antidoto: in quel modo, il mondo poteva essere controllato; ma adesso, trovatemi la contro-immagine, in uno specchio, di un atto che è solo l'ombra di qualcosa che non esiste». «Capisco cosa vuoi dire» intervenne Lukeni. «La tua difficoltà di comprendere il mondo moderno si spiega molto bene. Prima della colonizzazione, tu e tutti quelli della tua generazione vivevate in un mondo chiuso, un sistema chiuso dove gli scambi con l'esterno erano controllabili e reversibili. Allora era semplice tenere il mondo sotto controllo. Dopo l'arrivo della colonizzazione, il sistema è diventato incontrollabilmente aperto,
ogni cosa tende naturalmente verso un disordine più grande. Non si può più distinguere facilmente causa ed effetto. In questo senso tu hai ragione, le cose sono più complicate di prima, gli antenati e il loro mondo equilibrato non hanno più posto». Mankunku, che aveva seguito più o meno il discorso di Lukeni, aveva assimilato soprattutto l'ultima frase. «No, non dire così!» disse in un grido d'orrore che risaliva dal più profondo dell'animo. «Non dire che gli antenati non hanno più posto, il mondo sarebbe vuoto, atrocemente vuoto». «Ma il mondo è vuoto, atrocemente vuoto! Lo spazio intergalattico...». «Ma in questo caso dietro alle cose non ci sarebbe niente, non avrebbe senso più niente!». «Perché cercare un senso alle cose? Il perché non ha interesse, è il come che importa». «Non ti voglio credere, non posso credere che non ci sia niente dietro l'apparenza delle cose, che non ci sia un senso... Sarei corso dietro a un'illusione per tutta la vita... Ho paura...». Per un breve istante il suo sguardo era cambiato, come se si fosse tuffato all'interno di sé, e le sue pupille avevano ritrovato la fosforescenza glauca della giovinezza. Muriel e Lukeni si sentirono improvvisamente afferrati da quel fuoco interiore che bruciava nello sguardo del vecchio, il quale, dopo un po', esclamò con voce da cui trasparivano insieme angoscia e rassegnazione: «Ah, era un mondo a nostra dimensione!». «Ma anche il mondo attuale ci appartiene,» disse con forza Bunseki Lukeni «non c'è mai stata un'età dell'oro». «Non ho mai creduto a un'età dell'oro,» replicò subito Mankunku, come punto sul vivo «nemmeno prima della colonizzazione! Perché altrimenti avrei passato la vita ad abbattere i potenti?». Fra i tre si formò un lungo silenzio, poi il volto di Mankunku tornò calmo, i suoi occhi persero quella strana luce. Con voce stanca, disse: «Perdonatemi, sono vecchio e mi sono lasciato trasportare un po' dalla nostalgia. Per me non c'è più posto, è ora che me ne vada. Ma sono certamente d'accordo con voi, il mondo continua a girare e bisogna continuare a vivere. Bisogna che ci sia speranza. E poi, siamo della razza di quelli che hanno assistito alla creazione del mondo, abbiamo il dovere di starci, di star qua fino a quando cesserà di esistere». «Ci puoi giurare» disse Lukeni, commosso da quelle parole. «Vecchio Mankunku, perché non scrivi le tue memorie?».
«Perché non so scrivere». «Le detterai a Muriel e sarà un documento straordinario per i nostri figli». «Oh, non credo che le memorie di un vecchio analfabeta interessino a molti. Sono stanco e lo è anche il mio cervello; ho vissuto abbastanza e la mia sola preoccupazione è di sapere se un giorno potrò morire». «Vedremo» disse ridendo Lukeni, che non sapeva dei dubbi che avevano aleggiato intorno alla realtà della nascita di Mankunku e il suo spirito razionale era divertito dai timori insensati del vecchio. «Vedremo,» riprese «bisognerà pur morire un giorno. Non ti scioglierai mica così, nell'universo cosmico». «Su, venite,» disse Muriel rivolgendosi ai due uomini «il pranzo è servito». 40 Quando ebbero finito di mangiare, mentre il domestico sparecchiava la tavola, passarono in salotto. Lukeni diede a Mankunku un grosso sigaro e questi, sprofondato in una soffice poltrona, si divertì a fare anelli di fumo. «Adesso ti farò una sorpresa. Mia moglie e io collezioniamo vecchi dischi, i dischi di quando eri giovane tu, e vogliamo farteli sentire». «Ne sarei davvero contentissimo, il mio fonografo non funziona più da un'eternità». «Hai un fonografo?». «Sì, uno vecchio». «E cos'ha che non va?». «S'è rotta la molla». «È vero, quei marchingegni funzionavano con una molla meccanica...». «Già, la molla è rotta e tutti gli aghi sono arrugginiti». «Io sto cercando di comprarne uno: mi venderesti il tuo?». «Vendertelo? Quel vecchio arnese che non funziona, quando tu hai questo magnifico stereo?». «Ma certo. Lo comprerei al prezzo del mio impianto videodisco». «Ve lo darò per niente, ragazzi. Io non ne ho più bisogno. Ve lo mando appena posso». «No, vecchio Mankunku, noi vogliamo comprarlo». «Non discutiamone nemmeno, ragazzi. È un apparecchio che è stato molto importante nella mia vita e non lo posso vendere. Ve lo regalo per-
ché vi voglio bene e vi considero come i figli che non ho avuto». «Grazie davvero, quel vecchio fonografo sarà importante per noi quanto lo è stato per te». Improvvisamente, Mankunku scoppiò a ridere. «Se penso che quando De Kelondi ha portato per la prima volta il suo apparecchio a casa mia e l'ha messo in moto, ha provocato il panico! Tutti avevano paura. Credevano che dentro ci fosse un diavoletto nascosto che imitava la voce degli uomini». Risero tutti insieme. E lui parlò della sua radio, della sua casa diventata luogo d'incontro per tutta la gioventù e per tutti gli ex combattenti: «Gli uni venivano per sentire le novità, gli altri per seguire le notizie della guerra d'Indocina. Quando adesso vediamo che il contadino che arriva dal fondo della sua boscaglia non trova niente di straordinario nelle radioline a transistor che uno può tenere nel palmo della mano, o nei microregistratori a cassette o nelle videocassette, ci si rende conto che i tempi sono cambiati davvero». Lukeni accese il suo impianto. Mankunku si sprofondò un po' di più nella poltrona, nel torpore del pomeriggio. E ascoltava quei vecchi dischi gracchianti dei bei vecchi tempi, dei tempi della sua belle époque. Sentiva che gli occhi gli si gonfiavano per l'emozione. Sentiva Wendo cantare «Marie-Louise», Wendo piangere la morte del suo amico Paul Kemba, ascoltava i San Salvador, Jimmy l'Hawaiano, i vecchi tanghi di Carlos Gardel... Ascoltava... Mio Dio, perché i ricordi sono così dolci e al tempo stesso così tristi? Milete, ah, Milete! Non resistette più e pianse, vinto ancora una volta dall'amore. Lacrime silenziose scorrevano sulle guance rugose del vecchio, sprofondato nel tempo perduto e ritrovato. Muriel, commossa, gli prese la mano. «Non sono sempre stato solo» le disse. «Nella mia lunga vita ho amato una donna, una sola. Si chiamava Milete ed era bella e intelligente, come te, bambina mia». Muriel gli diede un bacio. Mankunku emerse finalmente dai suoi ricordi. «È ora che me ne vada, vi ringrazio molto». «Resta ancora un po'!» protestò Muriel. «Ti riaccompagneremo stasera». «No, davvero, non voglio disturbarvi oltre». «Non disturbi affatto, e poi per oggi pomeriggio avevamo in programma di fare una passeggiata. Domani si lavora, allora approfittiamo del fine settimana». «Che lavoro fai esattamente, figlio mio?».
«Faccio ricerca nel campo delle reazioni molecolari. Vediamo se riesco a spiegarmi: cerco di vedere come si combinano gli elementi per provare a fabbricare nuovi prodotti». «Cerchi di scoprire, cioè, di sorprendere il posto dove si nascondono i prodotti e le cose che non si sono mai visti?». «Non esattamente, fabbrico, creo, invento molecole, prodotti che non esistono in natura, che non sono mai esistiti». «Creare... prodotti che non esistono in natura? Com'è possibile? Non capisco». Lukeni non seppe rispondere. Allora intervenne Muriel: «Perché non gli fai visitare il tuo laboratorio?». «È un'ottima idea, che sostituirà la passeggiata di oggi pomeriggio. Telefona a Sita per vedere se possiamo fargli visitare anche l'osservatorio». Il vecchio accettò con gioia. Muriel telefonò all'astronomo, poi presero l'auto per andare al laboratorio. Mankunku arrivò al laboratorio eccitato, ma intimidito dal camice bianco indossato dal professor Lukeni. Questi cominciò mostrando gli strani prodotti del suo laboratorio; preparava soluzioni dai colori cangianti, variabili. Mescolava due liquidi incolori che reagivano per dare luogo a un solido dai colori vivaci; gli mostrò dei gas liquefatti, dei gas solidificati... Mankunku si sentiva ronzare negli orecchi parole come atomi, molecole, orbite molecolari, elettroni, quark... Era davvero in uno stato d'ebbrezza mentale, sentiva la testa vorticare. Forse si poteva davvero trovare tutto in quel laboratorio chimico e nel cervello di quel ragazzo che aveva visto nascere, nemmeno tanto tempo fa? La sua eccitazione raggiunse l'acme quando Lukeni prese un flaconcino e versò sul piano d'appoggio una grossa goccia argentata. La grossa goccia esplose in goccioline più piccole che diventarono palline sferiche e continuarono a rotolare. Mankunku rimase senza fiato, il suo sguardo ritornò per un istante verde fosforescente e correva insieme con le palline. «L'acqua che non bagna! Sapevo che esisteva!» gridava. Incuriosito, Lukeni gli domandò di cosa stesse parlando, ma il vecchio si era messo a quattro zampe per correre dietro alle palline, sempre affascinato. «Cosa succede?». «Sapevo che esisteva!». «Ah, vuoi dire il mercurio?».
«Vedi, ragazzo mio, sapevo che c'era un elemento di passaggio tra l'acqua che possiamo trattenere tra le dita e il ferro solido che noi fabbri deformiamo e rifoggiamo». Lukeni, ancora incuriosito, cominciò a parlargli delle proprietà del mercurio in un linguaggio che voleva essere accessibile. «Vedi, è un metallo liquido, l'unico metallo liquido a temperatura ambiente. Il suo coefficiente di dilatazione... voglio dire la sua capacità di dilatarsi è notevole. Ecco perché lo usiamo nei termometri...». Mankunku l'interruppe, come se le parole che Lukeni pronunciava avessero poca importanza perché sembravano sfiorare soltanto la superficie delle cose. «Dopo aver visto quest'acqua che non bagna, sono sicuro che esiste un passaggio, una via, uno stato tra il mondo degli antenati scomparsi e i viventi, tra la vita e la non vita: è proprio quel passaggio che ho sempre cercato...». E abbassava la mano, cercando di schiacciare le goccioline di mercurio con le dita, di trattenerle, di sentirle; ma quelle si frammentavano all'infinito, fuggendo, imprendibili come uno specchio frantumato che moltiplica la stessa immagine all'infinito. «Attento, è un metallo che rende pazzi!». Lukeni gli prese bruscamente la mano, la liberò dalle goccioline di mercurio e gliela pulì di forza. Mankunku non sembrò particolarmente sorpreso da quanto Lukeni aveva appena detto. Replicò tranquillamente, come se fosse ovvio: «È nella natura stessa delle cose che renda pazzi. Non può essere diversamente». Lukeni era davvero incuriosito. Dove aveva sentito parlare del mercurio quel vecchio, l'argento vivo degli alchimisti, il principe dei liquidi... E soprattutto, per quali coincidenze insospettabili gli attribuiva tanta importanza quanto gli alchimisti del mondo intero dall'origine dei tempi? Soltanto allora fu colpito dall'intelligenza di Mankunku. Aveva conversato per ore con quell'uomo e mai la sua mente, chiusa nel pregiudizio che confondeva intelligenza con istruzione accademica, si era resa conto che stava parlando con un sapiente, anche se quell'uomo non era mai stato a scuola. Alla sua domanda sul passaggio tra vita e non vita, Lukeni gli avrebbe risposto che ovviamente quel legame esisteva, i virus, che si collocano sulla soglia che separa la materia vivente dalle molecole inerti, ma non lo fece perché cominciava a comprendere ciò che li separava più profondamente, ciò che c'era di fondamentalmente diverso nel loro approccio con il mondo. Lui,
Bunseki Lukeni, aveva un approccio scientifico alla conoscenza, il vecchio aveva una sapienza olistica. Le loro radici si nutrivano di fonti differenti: il vecchio, profondamente radicato in una cultura, in una civiltà millenaria della quale si sentiva erede e depositario; il giovane, impregnato di una scienza essenzialmente elaborata altrove, anche se affondava le radici originarie nelle terre di Egitto e di Nubia, una scienza che aveva dimostrato la sua efficacia universale e della quale nessuna civiltà poteva più fare a meno. L'ideale sarebbe stato combinare quei due approcci: lo sentiva nel più profondo di sé, c'era qualcosa di essenziale che veniva dall'Africa ed era ciò che quel vecchio intuiva, qualcosa che avrebbe potuto incontestabilmente dare nuovo slancio alla stessa sua conoscenza, a quella scienza occidentale che possedeva. Ma in quale modo? Non sarebbe stata un'indagine troppo lunga, visto che, nel timore di essere superato, doveva essere al corrente di quanto si aggiungeva ogni giorno alla sua disciplina? Come fare per appropriarsi o, per meglio dire, riappropriarsi di quella gnosi africana, dal momento che il mondo di Mankunku e tutto ciò che esso implicava si allontanava sempre più all'orizzonte, come si allontana sempre più rapidamente un paesaggio a mano a mano che il treno prende velocità? In pochi minuti era scesa la notte, come scende a quelle latitudini. Muriel ricordò loro che era ora di andare all'osservatorio. Lukeni versò un po' di azoto liquido sulle goccioline di mercurio, che diventarono dure e fragili, e le rimise facilmente nel flacone. Si lavò le mani e obbligò Mankunku a fare altrettanto, poi si tolse il camice, chiuse la porta e tornarono tutti e tre verso l'auto. L'astronomo Sita li ricevette davanti al cancello del grande fabbricato, che aveva una cupola centrale. Conosceva bene il vecchio e l'accolse calorosamente. Salirono la ripida scala che portava al telescopio. Regolò lo strumento con infinite precauzioni e, quando ogni cosa fu pronta, chiese a Mankunku di guardare. Non appena Mankunku mise l'occhio contro l'oculare dell'apparecchio, lo spettacolo andò ben oltre la sua immaginazione. La Luna spuntò verso di lui, o piuttosto fu lui ad avanzare verso di lei. Ne esplorò i crateri, i contorni, i mari. Poi l'astronomo regolò la grossa lente su Marte, spiegandogli: «È là che andranno gli astronauti che saranno lanciati in orbita il mese prossimo. Conosciamo molto meglio Marte di quanto non si conoscesse la Luna all'epoca in cui gli uomini ci sono andati per la prima volta. Si vedono quelle faglie geologiche: gli antichi pensavano trattarsi di canali d'irrigazione tracciati da creature intelligenti! Ed ecco Saturno, con i suoi innumerevoli anelli... Giove, il più grande pianeta del siste-
ma solare... Le Pleiadi, che tu conosci così bene...». Gli parlò delle nebulose, delle galassie, delle esplosioni delle supernove, dei buchi neri, delle stelle che si raffreddano e muoiono, dei quasar... «Gli uomini potrebbero raggiungere quelle galassie lontane che pullulano nell'universo infinito?» osò balbettare Mankunku. «Non è sicuro che l'universo sia infinito... o piuttosto l'universo potrebbe sì essere infinito, ma chiuso... e quindi finito... come potrei spiegarlo... diciamo che se uno guardasse dritto davanti a sé e potesse vedere all'infinito, potrebbe scorgere la propria nuca. Mi sono spiegato?». «Sì, sì,» disse il vecchio meravigliato «è... come un palloncino, non è vero? Un'arancia, per esempio, sulla quale una formica si sposterebbe indefinitamente mentre noi sappiamo che si tratta di un oggetto finito». «Bravo» disse il giovane Sita, stupefatto dalla rapidità con la quale la mente di Mankunku coglieva ciò che voleva fargli capire. «Per rispondere alla domanda, ciò che ci imbarazza di più in una spedizione del genere, almeno per il momento, è il fatto che la velocità della luce sembra una barriera insuperabile; nessun oggetto materiale può muoversi con una velocità maggiore. Comunque non bisogna disperare. Abbiamo buone speranze di comprendere davvero, un giorno, questo nostro universo». Il vecchio Mankunku si era abbandonato sulla sedia, esausto. E i pianeti, le stelle, i quasar, le piccolissime molecole, tutto turbinava nella sua testa, tutto ciò che aveva appena visto rendeva ridicolmente infimo quanto lui conosceva, lui che si vantava di essere nganga! Ah, si disse, adesso so di non sapere niente. «Ma... ma cosa sta dietro a tutto ciò?» balbettò. Sempre la stessa domanda ossessiva! «Niente, vecchio Mankunku, niente» gli dichiarò Lukeni. «Sì,» disse Sita «c'è la legge di gravitazione, che mantiene insieme quei pianeti e li guida...». «Che cos'è una legge?». «È quanto gli uomini hanno inventato per capire come funzionano o dovrebbero funzionare le cose». «Come funzionano, e non perché» insistette Lukeni. «Allora non c'è proprio niente!» concluse Mankunku con tono disperato. Mentre i due giovani tacevano, Muriel si avvicinò al vecchio e gli mise le mani sulle spalle. Mankunku non poteva adattarsi all'idea che gli antenati fossero sepolti e strasepolti e non avessero più il magistero del mondo, di quel nuovo mondo tecnocratico. Vedeva la propria anima nuda, senza nul-
la su cui poggiare. Quei giovani riuscivano a vivere con niente, con il nulla, lui non ci riusciva. Con voce stanca, disse: «Sono davvero contento di avere visto tutto quello che ho visto. Io non ho più un posto, qui. Riportatemi a casa». Lasciarono Sita, entrarono nell'automobile di Lukeni che stava al volante, e presero la direzione della casa di Mankunku. Ma dopo un po', Mankunku li fece fermare perché preferiva continuare da solo, a piedi, come se le loro strade si separassero là, come se non avessero più un percorso da fare insieme. I due giovani uscirono dalla vettura per dirgli addio. Muriel lo strinse affettuosamente tra le braccia poi, quando lei lo lasciò, lui prese la mano di Lukeni e la strinse lentamente prima di ritirare la sua come un corridore di staffetta ritira la mano dopo il passaggio del testimone. Guardò poi i due sposi che agitavano ancora la mano per salutarlo, due ragazzi che si tenevano per la vita, felici, con il mondo spalancato davanti. Per loro niente era impossibile: Lukeni aveva sposato una donna che veniva dall'altra parte del mondo senza nessun problema, lui invece non aveva potuto sposare la donna che amava col pretesto che era straniera e che la sua città, a una giornata di cammino dal suo villaggio, da quel villaggio, era troppo lontana. Volse la schiena ai due sposi, che entrarono nella loro vettura e partirono. Tornò a casa facendo il giro più lungo, camminando a passo sicuro, quanto gli permetteva l'età, per sentire la terra solida sotto di sé, anima solitaria sotto le stelle sparpagliate nella volta celeste come i chicchi di mais che si gettano alle galline col gesto ampio del seminatore. Trascinò ancora una volta la luna dietro di sé, nelle polveri della Via Lattea, mentre il suo spirito vogava nelle correnti d'onda del plasma cosmico. Cercò, tra tutte le costellazioni che conosceva, la stella di sua madre, ma non la vide. Si sentì ancora più solo, sperduto fra le galassie, le supernove e il big-bang iniziale della creazione. Fu allora che la pattuglia dei militanti che difendevano la rivoluzione, minacciata dalle forze del male e dall'imperialismo, piombò su di lui. 41 Dopo le scene di cannibalismo rituale dello stadio portate al calor bianco dal discorso del capo dello Stato, bande di militanti si erano riversate sulle strade per difendere la rivoluzione minacciata, per quanto questa conseguisse ogni giorno nuove vittorie sempre più grandi, come aveva imparato
a sue spese l'oppositore il cui cadavere era stato esposto allo stadio. Percorrevano le strade al grido «A morte, a morte», fermando le persone per verificarne l'identità al fine di scoprire le spie e i complici del vinto. Una delle pattuglie piombò sul vecchio Mankunku, viandante solitario sotto la volta stellata e sotto il dondolio delle palme alla brezza tiepida della sera. Due miliziani puntarono le armi su di lui mentre un terzo, probabilmente il capo, gli gridava: «Ehi, vecchio, facci vedere i tuoi documenti». Mankunku non lo udì, perché la sua mente navigava ancora all'altezza delle stelle; continuò per la sua strada ma il dolore acuto di un colpo assestato alle reni con il calcio del fucile l'obbligò a piegarsi in due e lo riportò brutalmente sulla terra. «I documenti, subito. Altrimenti, in galera!». Mankunku drizzò penosamente il suo vecchio corpo e guardò con aria perplessa i suoi interlocutori. «I documenti non li ho con me, li ho lasciati a casa... In ogni caso siamo nel mio quartiere... potete venire a verificare a casa mia...». «Forza, sporco spione reazionario, ti portiamo con noi!». Mankunku protestò, imprecò, supplicò; quelli lo trascinarono per una decina di metri e lo scaraventarono in un furgone stipato di altre spie, sprovviste di documenti d'identità come lui. L'auto continuò la ronda fino a notte inoltrata; finalmente, alle prime ore dell'alba, lo gettarono insieme a tutti gli altri sul pavimento di una stanza angusta e maleodorante, che richiusero con grosse serrature. Li tirarono fuori dalla stanza nauseabonda nel pomeriggio, con i vestiti pidocchiosi e infangati, il corpo indolenzito, per presentarli al membro del Partito incaricato della pubblica sicurezza. Li fecero sedere su dure panche di legno, davanti alle quali si ergeva, immenso, il ritratto del Presidente. Attesero più di un'ora, poi una voce gridò: «Ecco il compagno del Partito incaricato della pubblica sicurezza, il compagno Anastasio Kaduma». I miliziani s'irrigidirono presentando le armi e tutti si alzarono. Il compagno responsabile della sicurezza entrò nella sala tra gli applausi, applaudendosi anche da solo, e prese posto in tribuna. Tutti si sedettero. Allora cominciò a parlare, votando alla gogna i nemici della rivoluzione e le loro spie, alcune delle quali, arrestate durante la notte, si trovavano in quella sala. Aprì il grande registro nel quale erano riportati i nomi degli arrestati. Mankunku era in quinta posizione. Era manifestamente il più vecchio del gruppo. Stanco e affamato, l'ingobbimento della schiena leggermente accentuato, tentava con sforzo di sostenersi allo schienale della panca davan-
ti a lui. Il responsabile del Partito, uomo d'esperienza, si rese subito conto che quel povero vecchio non aveva niente della spia e si era semplicemente lasciato prendere nella rete di quei giovani militanti un po' troppo zelanti. No, davvero, non bisognava rendersi ridicoli. Conciliante, disse: «Vecchio, perché se ne va a spasso a ore indebite senza documenti?». «Li avevo dimenticati a casa». «Dimenticare non è una scusa». «Ero nel mio quartiere, a due passi da casa: ho chiesto loro di venire a controllare i documenti a casa mia, ma siccome quei cafoni sono ragazzi maleducati...». «Senti, vecchio, io ero abbastanza ben disposto verso di te, ma se ti metti a insultare pubblicamente questi giovani che si dedicano a difendere gratuitamente la rivoluzione, ti sbatto immediatamente in prigione». «Lei dovrebbe insegnare a quei giovani a rispettare le persone: lei non sa chi sono io». Era troppo, per il presidente. La sua indulgenza svanì e con tono severo e impietoso fulminò: «Me ne frego di sapere chi è lei, vecchio analfabeta; dal momento che minaccia la rivoluzione e lo Stato, lei è un individuo nocivo che il partito deve schiacciare come si schiaccia uno scarafaggio...». In quel momento, un membro del presidio seduto a destra del presidente Anastasio Kaduma gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Quest'ultimo aggrottò le sopracciglia, stupito, poi riprese: «Apprendo in questo momento che lei è stato dichiarato eroe nazionale il giorno dell'indipendenza. Ebbene, ciò non fa che aggravare il suo caso, perché il suo comportamento è indegno di un eroe nazionale. Invece di contribuire ad aiutare il paese...». Mankunku non lo ascoltava più. Il suono della voce del presidente non era che un mormorio lontano, inconseguente, che aveva perso il potere di fargli vibrare i timpani. Si ripiegò su se stesso. Che ci faceva là, lui che era stato un grande, lui che aveva collegato le stagioni alle Pleiadi, lui che aveva scoperto le proprietà afrodisiache del kimbiolongo, lui... Il suo pensiero sfuggì improvvisamente con voce forte, interrompendo il membro del Partito che continuava a fargli la morale: «Ho scoperto il quinqueliba contro la malaria, io!». Il responsabile della sicurezza, stupito da quelle parole che uscivano dal lessico del suo politichese, sorpreso, s'irritò ancora di più: «Che me frega a me del tuo quinqueliba? Quando ho la malaria, prendo due compresse di clorochina e rieccomi in piedi! Stai delirando, sei troppo vecchio. Non ti metterò in prigione, la rivoluzione è magnanima. Ti rispedisco al tuo vil-
laggio domani stesso e sarà là che passerai i tuoi ultimi giorni da eroe nazionale decaduto. Non rimettere mai più piede in città. Guardie, portatelo via». Mankunku si arrabbiò a sua volta, si raddrizzò improvvisamente. L'ingobbimento della schiena sparì di colpo, come fosse stato sostenuto da un'intensa forza interiore. Ansimava leggermente mentre i suoi occhi avevano ripreso l'ardore fosforescente dei tempi della giovinezza, quando affrontava momenti gravidi di avvenimenti. Le guardie che si avvicinarono per afferrarlo si fermarono improvvisamente, come ipnotizzate. «Io sono Mankunku, il distruttore, colui che sfida i potenti e i tamburi che rendono loro omaggio. Ho combattuto per tutta la vita, ho ucciso il mio zio materno, ho conosciuto Muzompa e Ma Ngudi». Poi si rese conto d'un tratto che le sue parole, per quei giovani, per i responsabili della sicurezza del Partito, erano parole vuote, cave, echi sonori di un'epopea che non diceva loro assolutamente niente: per loro lui delirava, raccontava cose senza senso. Di fronte a uno Stato moderno con le sue armi, le sue leggi e l'apparato del suo Partito, lui aveva solo la forza della fede e ciò risultava risibile. Un uomo solo non poteva resistere alla forza dello Stato. Comprese di essere completamente superato, gli antenati erano davvero strasepolti. Tacque di colpo, uscì dalla sala senza che nessuno accennasse il minimo gesto per fermarlo: per loro, non esisteva già più, non minacciava più la loro rivoluzione. La tensione che sosteneva Mankunku calò solo quando, tornato a casa, si sedette sulla sua sedia a sdraio. Era estenuato, fisicamente e moralmente. Gli sembrava di girare a vuoto in un mondo dove la storia l'aveva rifiutato come una volta aveva fatto il grande fiume, un mondo fatto per i Lukeni e per gli uomini del Partito che lo avevano interrogato nel pomeriggio. Dove andare? Chi vedere? Tutti i suoi vecchi compagni erano scomparsi; gli restava solo il suo villaggio che non aveva rivisto da lustri, dal giorno in cui l'aveva lasciato per diventare Massini Mupepe, uomo della locomotiva e del vento. Sì, aveva preso la sua decisione. Sarebbe tornato al villaggio per viverci gli ultimi giorni, per parlare un'ultima volta con gli uccelli, ascoltare il grande fiume, ascoltare il vento e forse, chissà, ritrovare la purezza delle cose e lo sfolgorare primo del fuoco delle sue origini. CAPITOLO OTTAVO Guarda, ora nel mio corpo è unificato l'universo intero –
tutto ciò che si muove e non si muove. La Bhagavad-gîta (Canto XI, 7) 42 Si alzò prima dell'alba, si lavò in fretta la faccia, prese il piccolo fagotto che aveva preparato, uscì, guardò un'ultima volta la casa diventata inutile, poi vi appiccò il fuoco. Contemplò per un momento le fiamme incendiare interamente il tetto di paglia e si allontanò in fretta senza voltarsi, mentre spettatori mezzo assonnati si precipitavano troppo tardi sui luoghi dell'incendio. Così del suo passaggio in quella città non sarebbe rimasto più niente. E per coloro che non lo avrebbero mai più rivisto, Mandala Mankunku non sarebbe stato altro che cenere confusa con quella della sua casa bruciata... Di solito, dopo una mezza giornata di cammino, s'intravedevano già i paesaggi familiari che gli indicavano la vicinanza della sua terra. Però oggi, dopo una decina d'ore di cammino, non riconosceva ancora niente. Si fermò un momento in piedi sotto la canicola cocente per asciugarsi il sudore della fronte, e lo sguardo incontrò un cristallo di sabbia che luccicava stranamente allo splendore del sole. Mankunku dimenticò tutto intorno a sé e restò affascinato da quello strano bagliore. E improvvisamente, il cristallo, bombardato dal sole, ricevette una scintilla di luce: incapace di trattenerla, la scaricò su un'erba secca che prese fuoco; l'erba s'infiammò e tutto si mise a bruciare. Mankunku si lasciò prendere dal panico, gettò il fagotto e si mise a fuggire, a correre dritto davanti a sé. Dietro era tutto fuoco, come se tutti i fuochi fossero diventati il Fuoco, spettacolo di un mondo che brucia e che crolla. Correva, correva, le spine gli strappavano i vestiti, gli laceravano la pelle, gli dilaniavano la carne; strappò i lembi dei vestiti che gli impedivano la corsa e li buttò nel fuoco che li inghiottì subito. Correva come una gazzella alata ma ansimava rumorosamente come una locomotiva. Il suo corpo cominciava ad essere affaticato, tuttavia la mente lo spingeva a continuare la corsa. Aveva sopravvalutato le sue forze perché, ora che il sole era sprofondato nell'altro lato della terra, non aveva ancora raggiunto il suo villaggio. Le vecchie membra gli dolevano, dopo quella corsa folle fu obbligato a fermarsi. In lontananza, dietro di lui, il mondo continuava a bruciare. Si tolse le scarpe consumate che gli facevano male e si mise a camminare a piedi
nudi nell'erba, che la rugiada della sera cominciava ad appesantire. Aveva freddo. Non c'era la luna ma tutte le stelle erano spuntate in un cielo eccezionalmente limpido. Camminava a fatica, il cuore gli batteva forte, forte come se si fosse imballato, e ogni volta che un battito mandava un'onda di dolore lancinante nel petto, aveva l'impressione di soffocare. Finalmente sbucò in una radura: riconobbe la piantagione dove, a detta di sua madre, era venuto alla luce, riconobbe l'albero di manda che la madre aveva piantato per perpetuare il ricordo della sua nascita. Perciò non era più lontano dal villaggio, perché affrettarsi, allora? Bisognava riposarsi, aveva corso troppo, era troppo stanco. Si sedette contro l'albero della sua nascita, a lungo, a lungo. Poi volle distendersi. Con molto sforzo colse una grande foglia di banano delle dimensioni di un uomo, la mise a terra e vi si allungò sopra; la dura nervatura centrale gli penetrò nelle costole insieme con il freddo della foglia già bagnata dalla rugiada: si rannicchiò un po' di più su se stesso, raggomitolato. Era da solo in quella vasta piantagione abbandonata, in quella notte fresca di stagione secca. Sentiva davvero la solitudine. Il fruscio delle palme e delle foglie di banano mosse dal vento si trasformò nella sua mente in crepitii di fiamme, come se l'incendio stesse per raggiungerlo: si domandò se non custodisse dentro di sé la propria negazione, se non fosse necessario consumare anche colui che aveva portato tutti quei nomi, Mandala Mambu Mankunku Massimiliano Massini Mupepe, così come aveva appiccato il fuoco alla sua dimora, come quel mondo che bruciava dietro di lui. Così l'avrebbe fatta finita una volta per tutte con quel mondo diventato per lui vecchio, talmente vecchio che certe cose avevano due, tre nomi e talvolta di più, dissimulando così l'essenza stessa delle cose, più belle e pure nella loro nudità. Come poteva un simile mondo rigenerarsi senza prima distruggersi? Si era promesso, all'epoca delle sue ricerche, di reinventare la creazione del mondo - o almeno il suo mito - al fine di comprenderlo; ora si chiedeva se non fosse ciò quello che stava vivendo, ovvero il mito della fine, lui che aveva sempre distrutto tutto. Ma c'era differenza? Ogni fine porta in sé una speranza, quella di un nuovo inizio. Forse in quel momento stava vivendo quella speranza, forse stava germogliando di nuovo con i chicchi di miglio e di mais. E improvvisamente, in un breve istante di lucidità, scoprì finalmente quello che aveva cercato per tutta la vita: ritrovare, come all'alba del mondo, lo sfolgorare primo del fuoco delle origini. Allora la mente e il corpo si rilassarono. Era là, sospeso, essere senza
inizio né fine, fuori dal tempo degli orologi degli uomini. Guardava il grande fiume riversarsi nell'oceano immenso, specchio di un cielo e di un mondo nuovi. Tutt'intorno c'era solo il silenzio rumoroso dell'universo, il turbinio delle galassie, il vento, spirito sovrano che regna su tutte le cose coscienti e sensibili. Ma certo, quelle stelle non erano stelle, quel vento non era più il vento, i pianeti, i soli non erano più pianeti e soli perché niente era stato ancora nominato. E lui, essere nato senza nascita, senza origine e quindi senza fine, ascoltava, contemplava, ammirato; non sapeva se era lui che soffiava, baciava la terra, saliva ad accarezzare la cima degli alberi, se era lui che brillava laggiù, lassù. Non osava nemmeno più posare lo sguardo su quelle cose commoventi e strazianti come un'onda sonora uscita dal sassofono di John Coltrane, quelle cose pure come un grido nel primo mattino del mondo, belle e gravide come un'alba, per paura di deformarle, di trasformarle. E ancora meno osava, per paura di sporcarle con la parola, dare un nome a quelle cose nude. Montpellier-Boko-Brazzaville-Tokyo, 1975-1978, 1983-1986 INDICE PREFAZIONE di Paola Rossi CAPITOLO PRIMO CAPITOLO SECONDO CAPITOLO TERZO CAPITOLO QUARTO CAPITOLO QUINTO CAPITOLO SESTO CAPITOLO SETTIMO CAPITOLO OTTAVO
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1. Calixthe Beyala, Gli onori perduti 2. Sony Labou Tansi, Nemico del popolo 3. Kateb Yacine, Il cerchio delle rappresaglie 4. Mohammed Dib, La casa grande 5. Rachid Boudjedra, Cerimoniale 6. Calixthe Beyala, Come cucinarsi il marito all'africana 7. Leila Marouane, Doppio ripudio
8. Mohammed Dib, L'incendio 9. Ahmadou Kourouma, Monnè, oltraggi e provocazioni