STORIE DI FANTASMI Le cento più belle storie di spettri da Montague Rhodes James a Joseph Sheridan Le Fanu, da Edgar All...
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STORIE DI FANTASMI Le cento più belle storie di spettri da Montague Rhodes James a Joseph Sheridan Le Fanu, da Edgar Allan Poe a Bram Stoker (1995) A cura di GIANNI PILO e SEBASTIANO FUSCO Indice Il Fantasma. Introduzione di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco STORIE DI FANTASMI Daniel Defoe, Il fantasma che stava in tutte le stanze, 1712 Daniel Defoe, Il fantasma di Dorothy Dingley, 1714 Anonimo, La danza del morto, 1770 Ann Letitia Barbauld, Sir Bertrand, 1773 Anonimo, Il calzolaio di Selkirk, 1800 Heinrich von Kleist, La mendicante di Locarno, 1810 Walter Scott, La storia di Willie il Vagabondo, 1824 Walter Scott, La Stanza delle Tappezzerie, 1829 Edgar Allan Poe, Metzengerstein, 1832 Edgar Allan Poe, Ligeia, 1833 Aleksandr Sergeevič Puškin, La Regina di Picche, 1834 Nathaniel Hawthorne, Il Campione Grigio, 1835 Joseph Sheridan Le Fanu, Schalken il pittore, 1843 Prosper Mérimée, La visione di Carlo XI, 1844 Joseph Sheridan Le Fanu, Il testamento del gentiluomo Toby. Un racconto di fantasmi, 1848 Elizabeth Cleghorn Gaskell, La storia della vecchia nutrice, 1852 Fitz-James O'Brien, La stanza perduta, 1858 Théophile Gautier, La caffettiera, 1858 Charles Dickens, Il fantasma nella camera del signorino B., 1859 Iginio Tarchetti, La leggenda del Castello Nero, 1861 Amelia Blandford Edwards, La carrozza fantasma, 1864 Giovanni Verga, Le storie del Castello di Trezza, 1875 Hermina Black, Il passo pesante, 1878
Mary Elizabeth Braddon, L'ombra nell'angolo, 1879 Francis Marion Crawford, Il fantasma della bambola, 1883 Robert Louis Stevenson, Janet la Storta, 1884 Mary Wilkins Freeman, Ombre sul muro, 1884 Ann Radcliffe, La camera dei fantasmi, 1885 Bram Stoker, Il segreto dei capelli d'oro, 1885 Ambrose Gwinnett Bierce, Un arresto, 1886 Edith Nesbit, La cornice d'ebano, 1886 Robert Louis Stevenson, Markheim, 1886 Wilkie Collins, La signora Zant e il fantasma, 1887 Mary Wilkins Freeman, Un fantasma gentile, 1887 Oscar Wilde, Il Fantasma di Canterville, 1887 Sabine Baring Gould, Sui tetti, 1888 Elizabeth Crowe, Intorno al fuoco, 1890 Violet Page, La leggenda di Madame Krasinska, 1891 Ambrose Gwinnett Bierce, Casa Manton, 1891 Ambrose Gwinnett Bierce, La casa del fantasma, 1893 Amilcare Lauria, Notizie dell'altro mondo, 1893 Mark Twain, Una storia di fantasmi, 1896 Emile Zola, Il fantasma di Angeline, 1898 Arthur Conan Doyle, La mano, 1899 Mary Wilkins Freeman, Il fantasma perduto, 1903 Edward Frederick Benson, La seduta spiritica del signor Tilly, 1904 Matthew Phipps Shiel, La promessa sposa, 1905 Mary Wilkins Freeman, La camera a sud-ovest, 1905 Rudyard Kipling, I bambini, 1906 Algernon Blackwood, Una storia di fantasmi, 1906 Edward Frederick Benson, Pirati, 1907 Oliver Onions, La nave fantasma, 1907 William Wymark Jacobs, Le tre sorelle, 1907 William Hope Hodgson, Middle Islet, 1908 Lord Dunsany, Povero, vecchio Bill, 1909 William Hope Hodgson, I pirati fantasma, 1909 Edoardo Calandra, Due spaventi, 1910 Saki, L'anima di Laploshka, 1910 Edgar Wallace, Uno straniero dalla notte, 1910 Herbert George Wells, Pollock, 1911 Edmund Gillian Swain, La finestra a oriente, 1912
«B», La bara di pietra, 1913 Hugh Walpole, La neve, 1914 Matthew Phipps Shiel, La storia di Henry e Rowena, 1915 Arthur Conan Doyle, Il «Bullo» di Brocas Court, 1921 Alfred Mc Lelland, La statua di cera, 1922 Arthur Gray, L'eredità di Fratello John, 1924 Katherine Yates, Sotto l'albero Hau, 1925 Arnold Smith, Il volto affrescato, 1928 Eleanor Scott, Celui-là, 1929 Winifred Galbraith, Qui riposa dove desiderava riposare, 1930 Emma Duffin, Festa di famiglia, 1930 Montague Rhodes James, Cuori perduti, 1931 Hugh Walpole, Il piccolo fantasma, 1931 Wallace George West, Il Duca Ridente, 1932 Harold Ward, La porta chiusa, 1933 Clifford Ball, L'ometto, 1934 Patrick Carleton, La stanza del dottor Morder, 1934 Ronal Kaiser, Il Principe Bianco, 1934 Laurence John Cahill, Caronte, 1935 Edith Wharton, Ognissanti, 1935 Chandler W. Whipple, Una telefonata nel cuore della notte, 1936 Paul Ernst, L'uomo in nero, 1936 Dermot Chesson Spence, Il buon acquisto del Decano, 1937 Henry James, Owen Wingrave, 1937 Hazel Heald, L'orrore nel camposanto, 1937 Rex Ernest, La locanda, 1937 John Fearn Russell, La campana del Giudizio, 1937 Roy Temple House, La testa alla finestra, 1938 Gene Lyle, Il presagio, 1939 Gans T. Field, La casa infestata, 1941 Edward Everett Evans, La spilla, 1943 Stanton Arthur Coblentz, La taverna disabitata, 1948 Harold Lawlor, Chi sta chiamando il fantasma?, 1948 Henry Russell Wakefield, Il cacciatore di spettri, 1948 Dorothy Quick, La donna sul balcone, 1949 Mariano Rampini, Fantasma di Demone, 1982 Antonio Bellomi, L'incredibile storia di Natale, 1988 Riccardo Reim, Oscure circostanze, 1990
Luigi Cozzi, Fantasma di cane, 1994 APPENDICI Appendice I. Il filosofo e il fantasma Appendice II. Il cacciatore infernale Appendice III. Le maschere di cera Appendice IV. Dal Dictionnaire Infernal di Jacques Collin de Plancy Filmografia Bibliografia Schede degli autori Titoli originali dei racconti e copyrights Indice alfabetico per autore Il Fantasma Di questi tempi, uno scrittore che non produca una certa quantità di storie raccapriccianti, difficilmente può essere accolto tra coloro che praticano la Narrativa Fantastica in genere e in particolare quella dell'Orrore. Deve obbligatoriamente narrare di sangue, teschi e scheletrì: insomma, se non spaventa i lettori, se non toglie loro il sonno, non è nessuno, e quindi è condannato al silenzio. Vogliamo subito precisarvi che noi, in generale, abbiamo un'opinione abbastanza scadente di questo genere di storie. Una storia che sia solo orribile, sanguinolenta e terrificante, e non contenga delle valenze che si appellino ai sentimenti umani e alle speranze, è soltanto un far leva sulla meno nobile, salutare e virile delle nostre passioni: ossia la paura. Coloro la cui attenzione viene fatalmente attratta da questo sentimento, si trovano nella condizione ideale per accettare qualsiasi assurdità con favore e rispetto, ed è proprio questa la ragione per cui questo genere di storie richiede molto minor talento di qualsiasi altro tipo di componimento letterario. Ciò premesso, possiamo assicurarvi di essere in grado di scrivere una decina di queste storie al giorno, ognuna delle quali sarebbe una vera e propria orgia di orrore. Potremmo raccontarvi di Scheletri Cannibali, di Risurgenti Assetati di Sangue, di Statue Assassine, e di tutta un'altra congerie di amenità del genere, ma pensate veramente che per fare questo ci
voglia del talento? Ricercare semplicemente il gusto del Macabro è facile come sorridere: ma ci vuole qualcosa di più per conferire a una storia uno spessore di un certo rilievo. Il valore di un racconto diminuisce in misura direttamente proporzionale alla quantità di sangue, lacerazioni e ferite di ogni genere che viene utilizzata dall'autore. Un bambino ha un sacro rispetto per un teschio o per delle ossa grondanti sangue, in quanto può immaginare qualsiasi dolore o terrore che per fortuna - data la sua età - gli sono sconosciuti, ma le sofferenze esclusivamente fisiche (a meno che non siano sublimate come quelle di Filottete) sono del tutto familiari per l'uomo adulto. Le immagini di un narrato, per creare del vero orrore nella mente di un adulto, devono essere ben distanti dalla grossolanità che è legata al sangue e alle carneficine. Un teschio è un oggetto degno di rispetto nelle mani di un monaco che prega, o di una suora obbligata a scartare qualsiasi idea di vita sociale, oppure di un eremita sepolto in un deserto. La Danza della Morte di Holbein, in cui ogni scheletro ghignante conduce seco un uomo di rango - dal Papa al Gentiluomo - è un ottimo memento mori, ma in quella rappresentazione gli scheletrì hanno un'aria ironica e comica. Se noi fossimo minacciati della stessa pena, non pensate che chiederemmo come fanno a camminare quegli scheletri se sono privi di muscoli...? Vediamo così che molti dei racconti scritti dagli autori dell'Orrore, sono in sostanza abbastanza puerili. Quando leggiamo di suore spettrali che vagano sanguinando, ci balza subito alla mente il pensiero che dovrebbero rivolgersi a un... chirurgo spettrale! Altrettanto dicasi per quei ghoul o zombie le cui diete vertono su cuori, interiora, e altre golosità del genere rigorosamente umane! - ma, a ben vedere, non ricordano forse coloro che mangiano dei cani o dei gatti per scommessa? Peraltro, le storie che procurano una sofferenza mentale come fine a se stessa, o con dei fini infinitesimali se paragonati alle spiacevoli sollecitazioni che agiscono sulla natura umana, sono altrettanto negative di quelle di cui abbiamo parlato in precedenza e, soprattutto, sono molto più pericolose perché diventano ridicole per le persone adulte. Esse hanno origine negli stessi estremi, nell'insensibilità e nella morbosa ricerca del sensazionalismo delle altre. Ma questo può formare oggetto di un saggio per la nostra collana de I Maestri del Terrore: quello che invece c'interessa ora, è tutto ciò che è
spettrale. Una storia di fantasmi, per essere valida, deve abbinare quanto più è possibile le cose reali della vita con una presenza soprannaturale. E per essere perfetta, ossia per aggiungere almeno all'utilità dell'eccitazione dovuta alla paura una finalità morale, deve implicare qualche nobile sentimento, qualcosa che provenga dall'Altro Mondo, per ricordarci dei nostri doveri in questo, oppure deve avere qualcosa che ci faccia trasporre la nostra idea di umanità nella vita eterna, anche quando non siamo propensi a credere di poterlo fare. Quando il Re di Danimarca torna sulla terra per parlare con suo figlio Amleto, viene completamente armato come era solito esserlo in vita. Il suo volto è celato nell'ombra dell'elmo la cui visiera è sollevata: solo, a dispetto del suo incarico punitivo e delle sue stesse sofferenze, ha un contegno più addolorato che infuriato. Il poeta Donne, nella sua ansia intimistica di conciliare vita e morte, s'immaginò avvolto in un sudario e deposto in una bara nel suo letto: così facendo, ottenne molto più che non i monaci e gli eremiti con i loro teschi. Infatti, stava portando con sé nell'Altro Mondo la sua umanità, senza diminuire la sensazione di effetto considerandola pezzo a pezzo o nella sua struttura. Burns, nel suo Tam O'Shanter, mostra i morti all'interno delle loro bare nello stesso modo: non ci propone scheletri nudi, per i quali non possiamo provare alcuna meraviglia e simpatia. Il ritorno di un'anima - di un fantasma o di uno spettro - è forse la più paurosa e terrificante tra le cose che generano spavento. Unisce infatti una naturale interferenza da parte di un essere dell'Altro Mondo con un'esperienza soprannaturale. La nostra coscienza è costretta a sconfinare dai limiti impostile dal suo autocontrollo. Gli estremi dell'abitudine e della novità, del luogo comune e dello stupore, si incontrano improvvisamente, senza la cortese intercessione della morte e del cambiamento: e la stranezza e l'inusualità ci sgomentano in proporzione. Forse, il personaggio più spaventoso di Spenser è Maleger nel Faerie Queenie: Cavalcava una tigre fiera e selvaggia che come il vento correva sotto il suo sprone, mentre le sue lunghe gambe sfioravano il terreno. Era di membra e di spalle possenti, ma di così lieve ed eterea sostanza,
che sembrava un fantasma le cui vesti funeree fossero cadute... Coleridge, in uno di quei suoi viaggi al limite di tutto ciò che si colloca ai confini e oltre la realtà - La Ballata del Vecchio Marinaio - non mette dei semplici fantasmi a condurre la nave una volta morto l'equipaggio, ma rianima - per un momento - l'equipaggio stesso. C'è una situazione dello stesso tipo nelle Note sul Corano di Sale. Salomone muore durante la costruzione del Tempio, ma il suo corpo rimane appoggiato contro un sostegno a osservare i lavoranti come se fosse vivo finché, avendo un verme divorato il sostegno, egli cade. Il contrasto delle sembianze di umanità con qualcosa di mortale o soprannaturale, è tanto più terribile quanto più è completo. Nei dipinti delle tentazioni di santi ed eremiti, dove il personaggio è circondato, tormentato e stuzzicato da demoni e figure fantastiche, il fantasma più sconvolgente è quello della bella fanciulla. Per ritornare alla Ballata del Vecchio Marinaio, il personaggio più terrificante di Coleridge è la donna-spettro, che è chiamata Vita in Morte. Lo scrittore rende la più orribile delle astrazioni, ancora più terribile di quanto non avrebbe potuto essere altrimenti, incarnandola nel suo stesso contrario. Non solo in essa vive la Morte, ma l'inesprimibile diventa palese e manifesto. Per vedere un simile passaggio ultraterreno da un punto di vista «mondano», egli sembra trasformare il luogo comune in una sorta di dubbio mefistofelico. Il marinaio, dopo aver descritto l'orribile calma e il mare marcescente in cui la nave era bloccata, parla di uno strano veliero che vede in lontananza. Sia ben chiaro però che dobbiamo avvicinarci a Coleridge con la nostra immaginazione più sottile, perché diversamente non saremmo in grado di percepire le infinite sfumature del suo narrato. Indispensabile è precisamente quella «volontaria sospensione dell'incredulità» invocata dallo stesso poeta. È peraltro un'attitudine pericolosa, che può condurre a stati d'animo inquietanti. Pensiamoci bene: qualsiasi cosa facciamo, i morti sono sempre con noi. Anche se li rinchiudiamo in avelli o ne spargiamo le ceneri ai quattro venti, essi ritornano come spettri alla nostra memoria, ed altro non ci resta che imparare a vivere con loro. Il sistema più efficace di disporne è, forse, quello di cristallizzarli in storie: le storie di morti vendicativi o benevoli
del folklore, i tetri fantasmi della parapsicologia, o gli imprevedibili Risurgenti della Narrativa Fantastica. ...ed era come il soffio d'un esile sussurro. Nell'ora in cui la notte nutre visioni che recano inquietudine, quando gli uomini sono incatenati dal sonno, la paura s'impossessò di me, tutte le mie ossa furono scosse da un tremito, e si arricciarono i peli della mia carne. Uno spirito venne dinanzi a me, e si fermò. Mi apparve uno, il cui volto non era a me noto, un simulacro di fronte agli occhi miei; e ne udii la voce, come il suono di un'aura leggera... Non è la citazione di un racconto di Poe, né una frase tolta da una storia di Lovecraft o di Machen: è un brano della Bibbia, dal «Libro di Giobbe» (IV, 12), composto fra il VI e il IV secolo a.C. Costituisce un esempio abbastanza interessante di come, nelle letterature arcaiche, veniva trattato il tema dell'incontro col fantasma. Non sarebbe azzardato pensare che le storie di fantasmi siano antecedenti alla letteratura registrata, ed appartengano al mondo primordiale, celato negli abissi del tempo. È comunque un fatto che, nelle religioni primitive, nella mitologia e nell'epica arcaica, la commistione di vivi e morti, di naturale e soprannaturale, sia un dato comune. Tutte le società nutrite di credenze animistiche hanno creduto (e credono) negli spettri; anzi, come hanno mostrato James Frazer, E.B. Tylor (il primo ad usare il termine «animismo») ed altri, è praticamente impossibile trovare società nelle quali non si riscontrino tali credenze. Anche quando, all'interno di una certa società, certe idee sulla sopravvivenza dei morti sono state razionalizzate o ripudiate, tuttavia esse continuano a mostrare una certa resistenza a scomparire, e trovano nuove forme per manifestarsi. Idee del genere erano diffuse in tutta la letteratura pre-cristiana, tanto in Europa che nel vicino e medio Oriente. Dal IV secolo in poi, nella Patrologia latina e greca, nei trattati morali e filosofici, nelle Cronache, nelle collazioni di leggende, negli exempla, omelie e sermoni, nei testi di teologia, nella poesia e nella letteratura d'intrattenimento, sono numerosi i riferimenti e gli aneddoti sui fantasmi. Di tempo in tempo sono state condotte inchieste rigorose su casi di presunte visitazioni di spettri. Sono stati registrati anche esempi di fenomeni che nel XX secolo è invalso l'uso di classificare col termine poltergeist,
«spiriti disturbatori». Gli annali dell'Abbazia di Fulda, per esempio, riportano che nell'anno 858 una fattoria presso Bingen risultò infestata da un poltergeist che scagliava pietre e appiccava incendi. Sottoposta ad esorcismo, l'entità investì gli astanti con una pioggia di sassi, poi chiamò per nome il prete e lo accusò d'essere un fornicatore. Aggiunse che, per ripararsi dagli spruzzi d'Acqua Santa, si era rifugiata sotto la sedia del sacerdote. Fatti analoghi sono frequentissimi, e un tempo erano considerati frutto dell'azione maligna di demoni. Nelle varie letterature citate, sono centinaia i casi riportati, relativi non soltanto a entità fastidiose, ma talvolta anche a spiriti benevoli. Per mille anni e più, il mutevole mondo del Soprannaturale si è stimato essere contiguo a quello della realtà, da esso separato soltanto da una fragile divisione. Così era, d'altronde, anche nelle epoche pre-cristiane. La dottrina cristiana, peraltro, fondata sull'Antico Testamento, i Vangeli e gli Atti, confermava l'esistenza di un ordine soprannaturale. Teologi e filosofi metafisici ribadirono poi questo concetto. Tanto che c'è da stupirsi che la storia di spettri come la intendiamo oggi (e come la si conosce da circa duecento anni), ovvero una narrazione imperniata sul manifestarsi dello spirito di una persona morta, non sia nata prima. Fino all'inizio dell'Ottocento, nella grande maggioranza, le storie di spettri avevano struttura aneddotica (spesso sulla base di fatti reali), e non possono essere considerate come esempi di una consapevole «narrativa spettrale», quali i racconti di - tanto per citare - Henry James o Edith Wharton. Tuttavia, qua e là si trovano esempi di storie molto vicine alla narrativa vera e propria, o quanto meno molto simili ad essa. Un caso del genere è il racconto del «sandalo infestato» fatto da Luciano di Samosata. Nel Satyricon di Petronio e nell'Asino d'oro di Apuleio, sono inserite storie di spettri molto vicine alla sensibilità moderna. Anche un trattatista come Plinio il Giovane si interessò agli spettri. In una lettera a Licinio Sura, scrive: ...Vorrei sapere se tu sia propenso a credere che i fantasmi esistano, abbiano forma loro propria e siano dotati di qualche potere soprannaturale, o invece non ritenga piuttosto che difettino di sostanza e realtà, e prendano forma soltanto in seguito alle nostre paure.
Procede quindi a narrare l'esperienza di Curzio Rufo (riferita anche da Tacito negli Annali, XI, 21) che, trovandosi in Africa, passeggiava verso mezzogiorno sotto il portico della sua casa. Mentre camminava a passo lento, gli sì manifestò un'apparizione: una figura di donna d'altezza e apparenza sovrumane. Dallo spettro apprese il proprio futuro, e le predizioni puntualmente si verificarono. Ancor più interessante è il racconto, sempre di Plinio, relativo a una casa infestata in Atene (vedi Appendice I). In tale narrazione troviamo già, in nuce, tutti gli elementi della moderna ghost story. Mille anni dopo, e in tutt'altro ambiente culturale, troviamo ancora un esempio di infestazione e maledizione nella Grettir Saga, anonima e scritta intorno al 1200 d. C. La fattoria di Thorhall - vi si legge - è infestata da un'entità maligna che procura disturbi e fa gran danni. Per proteggere le sue greggi e i suoi servi, Thorhall assolda il pastore Glam, «uomo grosso e rude, con folti capelli e grandi occhi fissi e grigi, la cui vista dava inquietudine». L'entità, tuttavia, uccide Glam, il cui spettro comincia anch'esso a infestare la fattoria. Un altro guardiano, Thorgaut, fa la medesima terribile fine. La disperazione di Thorhall è al colmo, quando il guerriero Grettir il Forte sente il suo caso e va a fargli visita. Gli offre la sua protezione e, quella stessa notte, ingaggia una lotta furibonda con le entità malefiche. Riesce a sconfiggerle, ma non prima che lo spettro di Glam abbia scagliato su di lui la sua maledizione. «Da allora», dice la Saga, «continuamente vide di fronte a sé lo sguardo fisso degli occhi spiritati del morto Glam.» Diversa è l'ispirazione di due storie spettrali incluse da Geoffrey Chaucer nei suoi Canterbury Tales, e ispirate probabilmente da Cicerone e Valerio. Nella prima, due compagni di viaggio arrivano in una città dove non trovano un posto per dormire. Infine, uno si accontenta di trovar riparo in una stalla per buoi annessa a una locanda, mentre l'altro trova una diversa sistemazione. Nottetempo, quest'ultimo sogna per due volte il suo amico che invoca soccorso perché sta per essere ucciso da malfattori che vogliono derubarlo. La terza volta il sogno cambia: appare la forma insanguinata dell'uomo, che annuncia di essere stato assassinato. Lo spettro esorta l'amico addormentato a recarsi il mattino dopo, presto, presso la porta occidentale della città: «Vedrai lì un carro pieno di letame, sotto il quale il mio corpo è occultato; con coraggio, ferma quel carro...». Così avviene, e i malfattori vengono impiccati.
Nella seconda storia, due uomini progettano un viaggio per mare. La notte prima dell'imbarco, uno di essi ha una visione: una figura gli appare accanto al letto e l'avverte di non partire il giorno dopo, se non vuole morire annegato. Decide di dare retta al monito soprannaturale e rimane a terra mentre l'amico, che non crede agli spettri, parte deridendolo. E, ovviamente, perisce in un naufragio. Il cronista francese Jean Froissart, uomo di molti viaggi e vasta cultura, fu quasi contemporaneo di Chaucer. Le sue Chroniques, che coprono il periodo dal 1325 al 1400, comprendono due lunghe e singolari storie di spettri. Sono narrazioni così complesse e ben congegnate da prefigurare quasi la ghost story classica, quale si sarebbe affermata soltanto quattrocento anni più tardi. L'episodio dell'infestazione di Pierre di Béarn è raccontato nel terzo libro, dedicato agli anni 1386-88 (proprio il periodo in cui Chaucer era impegnato a scrivere i Canterbury Tales). Il nobiluomo in questione aveva cominciato a soffrire di sonnambulismo, tanto da aver paura di dormire da solo. Nel corso delle sue crisi, si alzava dal letto, si armava di tutto punto, e ingaggiava feroci duelli con un avversario invisibile, tra lo sbigottimento dei suoi servitori, incaricati di sorvegliarlo. Il suo comportamento era conseguente all'uccisione da parte sua di un orso grande e feroce che aveva straziato e ucciso molti dei suoi cani da caccia. Dopo aver finito l'orso con la spada, il sieur Pierre era tornato nel suo castello in Biscaglia. Vedendo la carcassa dell'orso ucciso, la moglie del nobiluomo aveva perso i sensi e, poco dopo, cogliendo a pretesto un pellegrinaggio insieme con i figli, era andata a rifugiarsi presso la Corte del Re di Castiglia. La sua paura era motivata dal fatto che il proprio padre, anni prima, mentre dava la caccia al medesimo orso, aveva udito una voce disincarnata che diceva: «Tu vuoi uccidermi benché io non ti abbia fatto alcun male. La tua fine sarà atroce». E così avvenne, perché il Re lo fece decapitare. E adesso il nobile Pierre era perseguitato da un fantasma invisibile che lo assaliva ogni notte... L'altra storia di Froissart (appartenente allo stesso periodo) è più complessa. È chiamata La narrazione dello spirito familiare, ed ha alcune tinteggiature grottesche. Papa Urbano V aveva pronunziato in Avignone un giudizio in favore dei diritti di un ecclesiastico nei confronti di un possedimento sito nei domini di Raymond, Signore di Coresse. Il nobile tuttavia si era rifiutato di sottostare al giudizio del Papa, e aveva obbligato l'eccle-
siastico a sloggiare dalle proprie terre. Partendo, quest'ultimo gli aveva lanciato un severo monito: «...e presto ti manderò in mia vece un campione che ti spaventerà più di quanto non possa fare io». Il Barone non ne fu impressionato ma, circa tre mesi dopo, strani eventi cominciarono a manifestarsi nel suo castello. Ovunque si udivano colpi, tonfi, rumori improvvisi. La moglie ne era terrorizzata, e così i servitori. Tuttavia il Barone, che non aveva paura di nulla, cominciò a conversare con uno degli insoliti occupanti della sua magione, un'entità chiamata Orton. Alla fine, riuscì a convincerla a passare al suo servizio, lasciando l'ecclesiastico. Orton divenne così una specie di «spia fantasma», che gli recava notizie e informazioni da ogni parte d'Europa. La cosa andò avanti per cinque o sei anni. Alla fine, il Barone divenne curioso di conoscere l'aspetto del suo invisibile spirito familiare. Poi Orton gli annunciò che si sarebbe materializzato davanti a lui, ma non gli anticipò quale forma avrebbe assunto. Una mattina, il Barone vide nella sua aia una mucca enorme ma così magra da essere pelle e ossa, con «una lunga mammella pendente e un muso magro e famelico». Liberò i cani per scacciarla, ma troppo tardi si rese conto di ciò che aveva fatto. Orton non tornò più nel castello, ed entro l'anno il Barone morì. Questi pochi esempi - ai quali potrebbero aggiungersene molti altri, non ultima la visione di Nastagio degli Onesti narrata da Boccaccio nel Decamerone - mostrano come le potenzialità delle storie di spettri fossero state ben individuate già dai primordi della narrativa in Occidente, tanto da prefigurare le tematiche che sarebbero state affrontate organicamente soltanto negli ultimi due secoli. Durante il Rinascimento in Europa, e fin quasi alla fine del XVII secolo, si diffuse un vasto e approfondito interesse per le cosiddette «scienze occulte», in particolare la magia, l'alchimia, l'astrologia; interesse esteso spesso al versante «nero» di queste discipline, comprendente la stregoneria, l'evocazione diabolica, la necromanzia. La letteratura prodotta a metà del Seicento su queste tematiche, era ormai immensa. Era il prodotto di indagini continue, appassionate e approfondite; da questo corpus di osservazioni si svilupparono, in seguito, le ricerche su quello che Arthur Koestler battezzò «il paranormale». Intorno al 1650, il razionalismo cartesiano aveva ormai minato alle fondamenta le basi dottrinali sulle quali si sorreggeva la cosiddetta sapienza occulta. Ma, se riandiamo indietro fino all'XI secolo, vediamo una
successione di intelletti formidabili che si erano applicati a ricerche su ciò che oggi si chiama «Soprannaturale». Uomini come, per esempio, Michele Psello, filosofo bizantino, che nel 1050 pubblicò un dotto trattato sui demoni. E come Pietro Lombardo (c. 1100-c. 1160), autore del famoso Liber Sententiarum; Roger Bacon (12141294); John Bromyard, Cancelliere dell'Università di Cambridge, che scrisse la Summa Praedicantium (1495); Cornelio Agrippa (1466-1535), sommo autore del De Occulta Philosophia; Paracelso (1493-1541), fondatore della chimica moderna, che scrisse profondamente di magia, alchimia, astrologia; Girolamo Cardano (1500-1576), matematico e mago; Robert Fludd (1574-1637), medico e Cavaliere Rosacroce. Ma anche i due famosi Domenicani cacciatori di streghe, Sprenger e Kramer, il cui sinistro Malleus Maleficarum (1484) licitò orribili efferatezze. Ad essi si potrebbero aggiungere i nomi di Wyer, Bodin, Remigio e Delrio, che pubblicarono profondi trattati di demonologia e magia, e di Bloyer, autore della famosa Histoire des spectres (1605). Tutti questi personaggi (e molti altri) si interessavano a quelli che oggi verrebbero definiti «fenomeni psichici», e di conseguenza di spettri. Furono però gli autori di teatro inglesi del Periodo Tudor i primi a intuire appieno le possibilità drammatiche insite nell'impiego del fantasma come «personaggio». Furono probabilmente influenzati dalle tragedie di Seneca: per esempio dall'Agamennone, nel quale lo spettro di Tieste recita il prologo, e dal Tieste, nel quale il prologo è declamato dal fantasma di Tantalo. D'altra parte, già Euripide, nei Persiani, fece apparire in scena lo spettro di Dario. Spesso, nei drammi di Seneca e di altri, azioni di vendetta vengono ispirate ai personaggi di visioni in cui compaiono gli spiriti di trapassati. Nelle centinaia di opere teatrali rappresentate in Inghilterra fra il 1580 e il 1620, figurano innumerevoli fantasmi, soprattutto nei drammi storici e in quelli incentrati su macchinose vendette. Alcune di queste larve sono maligne, come lo spettro di Andrea nella Spanish Tragedy di Kyd; altri hanno un ruolo fondamentale nella trama, come l'ombra del padre di Amleto (ruolo - si dice - interpretato da Shakespeare stesso, con spaventosa efficacia); altri ancora hanno funzione premonitoria, come - sempre in Shakespeare - lo spettro di Cesare che appare a Bruto prima della battaglia di Filippi; alcuni infine si limitano a comparire sulla scena, per dare al pubblico un brivido addizionale: è così per le apparizioni di Isabella e Brachiano nel White Devil di Webster, per non parlare dello spettro di
Banquo in Macbeth. Il «fantasma di scena» dopo di allora ha avuto una storia ricca e varia. Ha fatto capolino anche nelle commedie, ed è apparso anche nel melodramma e nell'opera lirica, soprattutto nell'Ottocento. Ancor oggi, regge benissimo il palcoscenico. Al di là del palcoscenico, peraltro, i fantasmi scomparvero virtualmente dalla letteratura europea nella prima metà del Seicento, per non più riapparire fino all'avvento del Gotico nell'ultimo scorcio del Settecento. Comunque, sono menzionati con frequenza in opere riguardanti il Soprannaturale, compaiono costantemente nella tradizione orale, nelle ballate e nel folklore e sono anche protagonisti di liriche e poemi spesso pubblicati in opuscoli di larga diffusione. Nel 1706 Daniel Defoe pubblicò il celebre racconto A True Relation of the Apparition of One Mrs. Veal. Lo spunto gli era stato fornito da un caso di infestazione spettrale a Canterbury, sul quale Defoe condusse un'indagine personale interrogando la principale testimone, una certa signora Bargrave. Com'era lecito attendersi da Defoe, si tratta di un brano narrativo di straordinaria efficacia. È forse più giornalismo che vera letteratura, ma già prefigurava quella che sarebbe diventata la ghost story popolare nel XIX secolo. Defoe scrisse il suo racconto nel pieno del periodo della Regina Anna (1702-1714), un'epoca di razionalità e di gusto neoclassico, nella quale le virtù dominanti dal punto di vista letterario ed estetico erano il buon senso, l'ordine, l'armonia, l'eleganza, il decoro, il contegno. Le persone di cultura non erano propense a credere nei fantasmi. Quando l'argomento veniva sollevato, era accolto in genere da un atteggiamento di malcelato scetticismo e civile condiscendenza. Intorno al 1740, questo atteggiamento avrebbe tuttavia subito una sensibile modificazione, segnata dalla comparsa della cosiddetta «poesia sepolcrale». I poeti romantici, affascinati dal lato oscuro dell'esistenza, erano attratti dalla morte e dalla sofferenza, e subivano il fascino tenebroso dei cimiteri. Ribelli alle convenzioni della cultura dominante, contestavano il razionalismo e cercavano tonalità diverse - nei loro modi espressivi dal classicismo di Pope o Dryden. Le opere più significative, in ambito anglosassone, sono i Night Thoughts (1742-1745) di Edward Young, The Grave (1743) di Blair, le Meditations Among the Tombs (1745-1747) di James Hervey, e natural-
mente la Elegy Written in a Country Churchyard di Thomas Gray, oltre che On the Pleasures of Melancholy (1747) di Thomas Warton. Questi scritti esercitarono un influsso notevole sul romanzo gotico, che stava per apparire, e sulla figura dello spettro nella narrativa. Influenzarono anche profondamente la «Narrativa del Terrore», che sarebbe apparsa in Germania alla fine del XVIII secolo. Il romanzo gotico ha al suo centro il mistero e il terrore, e impiega uno stile narrativo studiato per far agghiacciare il sangue e far correre un brivido lungo la spina dorsale. L'elemento soprannaturale vi svolge un ruolo importante, e quasi sempre è presente il tòpos della magione infestata, oggetto nei secoli a seguire di infinite esplorazioni, estese non soltanto alla narrativa, ma a tutti i mass-media, cinema in testa. Oggetto dell'infestazione è sovente un castello medievale, denso di passaggi segreti, cupi sotterranei, scale malferme, camere di tortura, e afflitto da periodiche apparizioni di spettri e larve. Uno dei primi esempi di questo genere di narrativa in Inghilterra fu Ferdinand Count Fathom (1753) di Tobias Smollett, forse il primo romanzo a proporre terrore e crudeltà come tematiche principali. Molto più conosciuto (e certo titolare di ben più vasta influenza) fu The Castle of Otranto (1764) di Horace Walpole. Ancor oggi straordinariamente leggibile, malgrado le tediose diversioni, è una storia di malvagità, sangue e passioni, in cui fa la sua comparsa un fantasma spaventoso. È un libro sempre immensamente popolare. Nei successivi cinquant'anni apparve una folta serie di romanzi analoghi, seppur di qualità diversa, molti dei quali vennero ridotti per le scene. Alcuni degli esempi principali del genere furono Longsword (1762) di Thomas Leland, The Old English Baron (1778) di Clara Reeve, Mysteries of Udolpho (1794) di Ann Radcliffe, The Monk (1796) di Matthew Lewis, The Fatal Revenge (1807) e Melmoth the Wanderer (1820) di Charles Maturin e, naturalmente, il più celebre di tutti, Frankenstein (1818) di Mary Shelley. Negli stessi anni, gli scrittori tedeschi stavano elaborando un loro proprio stile nell'ambito della narrativa sensazionalistica e gotica, che segnò un contributo notevole alla letteratura spettrale. Nel corso del XVIII secolo i circoli letterari tedeschi mostrarono un grande interesse per la letteratura inglese; Klopstock, Gellert e Wieland, per esempio, vennero sostanzialmente influenzati da Shakespeare, Milton e Richardson; Goethe definì Edward Young come un pari dello stesso Mil-
ton. Fra le due letterature si stabilirono molte corrispondenze. M.G. Lewis, per esempio, tradusse opere dal tedesco, e a sua volta influenzò Hoffmann. Le prime traduzioni di «romanzi del terrore» tedeschi apparvero in Inghilterra nel 1794 con una versione di Hermann von Unna di Benedikte Naubert. Fra le opere tradotte figurano romanzi di Karl Grosse, Leonhard Wächter, C.H. Spiess e Heinrich Zschokke. Il Rinaldo Rinaldini di C.A. Vulpius divenne estremamente popolare. C'è peraltro una significativa differenza fra il gotico inglese e quello tedesco. Quest'ultimo infatti ha una precisa connotazione «politica»: gli intenti sociali sono insistiti, e vi appaiono palesi venature di anticlericalismo. L'intento rivoluzionario è evidente. Anche nel resto dell'Europa questo genere di narrativa era molto richiesto e riscuoteva grande successo. Eccetto che in Francia, tuttavia, pochi scrittori trassero ispirazione diretta dal romanzo gotico inglese. Sui francesi, invece, l'influsso della Narrativa Nera d'Inghilterra si sommò a quella degli scrittori gotici di lingua tedesca, con in prima linea Hoffmann, e si fece sentire soprattutto nella seconda metà dell'Ottocento. Charles Nodier, Balzac, Gérard de Nerval, Prosper Mérimée, Théophile Gautier, Petrus Borel, si cimentarono tutti con successo nel Gotico e nell'Orrore. Più tardi, Barbey d'Aurevilly, Maupassant e Villiers de l'Isle-Adam, firmarono veri e propri capolavori. Il Gotico trasmigrò anche in America, dove Isaac Mitchell (1758-1811) raggiunse una certa fama col suo romanzo The Asylum (1811) e Charles Brockden Brown (1771-1810), il primo letterato autenticamente americano, si conquistò un posto nella narrativa di lingua inglese con romanzi quali Wieland (1798), Arthur Mervyn (1799), Ormond (1799) e Edgar Huntly (1799), tutti influenzati principalmente da Richardson, Godwin e Ann Radcliffe. A sua volta, Brown influenzò Hawthorne e Poe, oltre che numerosi scrittori d'Inghilterra, in particolare Keats, Walter Scott, Hazlitt, Mary Shelley e lo stesso Percy Bysshe Shelley che, secondo il suo amico e biografo Peacock, era profondamente affascinato dai romanzi dell'americano. Questa «fertilizzazione incrociata» continuò per gran parte del XIX secolo, al cui termine la Narrativa Gotica di lingua inglese non soltanto era straordinariamente vivace, ma stava per attingere ulteriore linfa da un nuovo mezzo d'espressione, il cinema, che ne sarebbe stato profondamente influenzato. Nell'Ottocento, gli autori americani più rappresentativi furono Hawthorne, Poe e Ambrose Bierce; nel secolo successivo, H.P. Love-
craft, John Hawkes, James Purdy e Thomas Pynchon. All'inizio del XIX secolo il racconto breve, come forma letteraria, tornò a godere di una notevole popolarità, come più non accadeva dal Quattrocento e Cinquecento. Fra i suoi generi, la ghost story si affermò immediatamente, come se il terreno per il suo avvento fosse già stato preparato in anticipo. Le ragioni di questo successo sono molteplici. In primo luogo, il fatto che mezzo secolo di Narrativa Gotica e del Terrore aveva ormai abituato il pubblico all'idea dell'esistenza e della manifestazione di forze soprannaturali. In questo modo, la paura era stata accettata come materia letteraria. Ma anche altre influenze avevano giocato un ruolo nel determinare il successo delle storie di spettri. Nella cultura dell'epoca, per esempio, si registrava un rinnovato interesse verso il concetto di male, e nella sua stessa personificazione, il Diavolo. Il tema faustiano era tornato in vita (e vitale sarebbe rimasto da allora), e con esso l'inquietante figura dell'Ebreo Errante. C'era una ripresa degli studi riguardanti il folklore e le antiche ballate, fonti inesauribili di vicende di fantasmi. Inoltre, si registrava un grande fascino sul pubblico di argomenti quali gli aspetti più oscuri del Medioevo, le antiche superstizioni, il misticismo, gli aspetti controversi della personalità umana. Forte era la popolarità presso le masse di figure tenebrose emerse alla fine del secolo appena tramontato, come lo pseudo-mago Cagliostro e l'avventuriero Conte di Saint Germain. Mistici come Johann Hamann ed Emanuel Swedemborg avevano diffuso straordinarie visioni del mondo ultraterreno. Molti grandi poeti si erano lasciati attirare dal fascino del Magico e del Soprannaturale: citiamo Burger con Lenore, Coleridge con The Ballad of the Ancient Mariner, Keats con La belle Dame sans Merci. Il Fantastico era ormai accettato, in tutta Europa, come materia letteraria pienamente compatibile con la cultura. Quanto alla storia di spettri vera e propria, in un certo senso essa nacque da una certa stanchezza mostrata dal romanzo gotico tradizionale, oggetto ormai di parodie e versioni grottesche, come Northanger Abbey di Jane Austen e Nightmare Abbey di Thomas Love Peacock, apparsi entrambi nel 1818. Il pubblico, preparato ormai a credere nell'esistenza vera di fantasmi e visioni, rifiutava il terrore un po' artefatto del Gotico alla Walpole, frutto
più di scenografia che di sostanza. In un certo senso, desiderava qualcosa di più «realistico»: voleva essere spaventato da terrori autentici (o presunti tali), e non di maniera. Nel 1819 Leigh Hunt, nella sua introduzione a A Tale for a Chimney Corner, scrisse così: Lo scrittore che oggi non sforna la sua quota di storie raccapriccianti, sembra destinato all'esilio dalla repubblica delle lettere. Tanto vale che come proprio stemma adotti la testa di morto. Se non riesce a spaventare nessuno, non è nessuno. Se non riesce a impressionare le signore, che potete aspettarvi da lui? Ancora nel 1818 la pubblicazione di The Vampyre di Polidori rese immensamente popolare la figura dei non-morti, che da allora sono rimasti una presenza stabile nell'immaginario popolare, attirando decine di scrittori, anche di non mediocre conio. Fatto sta che, in quest'atmosfera, all'inizio dell'Ottocento troviamo i primi esempi di vere e proprie storie di spettri nel senso ormai accettato del termine. Apparve nel 1810, sul Berliner Abendblätter, il breve racconto Das Bettelweiss von Locarno di Heinrich von Kleist. In pochissime pagine, sintetizza le diverse componenti (già anticipate da Plinio e Froissart) del tradizionale racconto di fantasmi: la magione (in questo caso un castello) che si rivela infestata (e di conseguenza non trova acquirenti), il proprietario colpevole di aver dato inizio a una catena di eventi sinistri, la moglie terrorizzata, l'ospite travolto da visioni spaventose, il cane che avverte la presenza di forze preternaturali, il tema della colpa e l'espiazione... Il tutto steso in uno stile stringato ed estremamente efficace. Pochi anni più tardi, appare una storia molto più lunga, Das Majorat di E.T.A. Hoffmann, nella quale compaiono alcuni elementi stilistici che diventeranno anch'essi abituali nella ghost story moderna. In essa viene ricreato un vero e proprio microcosmo del terrore, con precise barriere che lo isolano dalla realtà esterna. L'atmosfera sinistra viene costruita gradualmente, quasi passo-passo; così l'elaborazione degli elementi di tensione e di incertezza. Qua e là fa capolino un tono ironico, e non è assente il Grottesco. Kleist e Hoffmann, peraltro, furono semplicemente pionieri della storia di spettri moderna, che successivamente si sviluppò soprattutto in lingua inglese. In tale lingua - segnala chi si è preso la briga di compilare elen-
chi bibliografici del genere - è stato scritto il 98 per cento delle storie di fantasmi che abbiano un qualche merito letterario; di queste, il 70 per cento è dovuta ad autori nati nelle Isole Britanniche. Perché sia così, è un'interessante questione, non semplice a risolversi. Il primo importante racconto di fantasmi di un autore americano fu The Legend of the Sleeping Hollow di Washington Irving, un testo non privo di toni umoristici, apparso nella raccolta The Sketch Book (1820); nello stesso volume è compreso The Spectre Bridegroom, in cui lo spettro nel finale si rivela falso. In Inghilterra, Sir Walter Scott, nel suo romanzo Regauntlet (1824) incluse come episodio separato una straordinaria storia di spettri, Wandering Willie's Tale, che include elementi tratti da antiche leggende. Altre narrazioni spettrali di Scott sono The Tapestried Chamber e My Aunt Margaret's Mirror, entrambe del 1828. Allo scrittore si deve anche un importante saggio dal titolo On the Supernatural in Fictitious Composition (1827) che individua i punti fondamentali della narrativa non realistica. Una delle sue osservazioni più interessanti è la seguente: «Il Soprannaturale... è un soggetto peculiare che risente in modo negativo di un trattamento rozzo e di una pressione troppo insistita. Di sua natura è estremamente difficile, e ben pochi ne sono gli esempi che emergono sugli altri». In effetti, molte storie di spettri e dell'orrore falliscono proprio a causa di un «trattamento rozzo e una pressione troppo insistita». Probabilmente per questo, ovvero per la difficoltà di mantenere a lungo la tensione e il terrore, è soprattutto nell'ambito del racconto breve - piuttosto che nel romanzo - che si trovano i veri capolavori della Narrativa Soprannaturale. Romanzi di autori di segnalato talento quali F. Marion Crawford, W. W. Jacobs, H.P. Lovecraft, confermano l'assunto. Fu a partire dal 1830 che Edgar Allan Poe cominciò a esercitare il suo influsso, con racconti apparsi su diversi periodici in America e Inghilterra: la sua prima antologia, Tales of the Grotesque and Arabesque è del 1840. I suoi scritti influenzarono notevolmente l'evoluzione del Racconto del Terrore, si diffusero nella cultura europea con la mediazione di Baudelaire, ed ebbero effetti notevoli su autori di lingua inglese come Rossetti, Swinburne, Dowson e Stevenson, oltre che, più tardi, su narratori americani come Ambrose Bierce, Hart Crane e H.P. Lovecraft. Poe, a sua volta, era stato influenzato da Hoffmann. Lui stesso scriveva per il grande pubblico, e sapeva bene come comportarsi. Nel suo sag-
gio/racconto How to Write a Blackwood Article, si rivolge così a un aspirante autore: «Le sensazioni sono dopotutto la cosa fondamentale. Se mai tu dovessi finire annegato o impiccato, tieni ben nota delle tue sensazioni: potranno valerti un sudario da dieci dollari». Poe, peraltro, non scrisse mai autentiche storie di spettri (sotto questo punto di vista, la più interessante è forse Ligeia). I suoi racconti sono piuttosto analisi della personalità, studi degli effetti che il terrore - quale che ne sia l'origine - produce sulla psiche umana. Un suo contemporaneo di minor talento ma di qualche merito fu l'ecclesiastico inglese R.H. Barham, che intorno al 1830 diede il suo contributo all'evoluzione del racconto spettrale. Fine versificatore, gran parte delle sue narrazioni di fantasmi hanno forma poetica. Tuttavia, gli si devono anche due lunghe narrazioni in prosa: The Spectre of Tappington e The Leech of Folkestone. Nel 1834, il poeta russo Alexandr Puskin pubblicò La Regina di Picche: storia di un giovane giocatore e di un'anziana Contessa che gli rende visita dopo la morte. Nella narrativa russa rappresenta un fenomeno pressoché isolato: non sono molti gli autori di quella lingua che abbiano prodotto autentiche storie di spettri, anche se Gogol e Dostoevskij, fra gli altri, hanno fatto ampio uso di elementi soprannaturali. Nel 1840 Charles Dickens, pur non avendo ancora trent'anni, era già divenuto famoso, e cominciò ad esercitare un importante influsso sull'evoluzione della ghost story. I suoi primi contributi al genere furono brevi narrazioni inserite nei Pickwick Papers (1837). Seguirono le storie di apparizioni e fantasmi apparse come «Libri di Natale» dal 1843 al 1848, la più celebre delle quali è di certo A Christmas Carol in Prose. Dei suoi racconti di fantasmi successivi, i più noti sono forse quelli scritti per due numeri speciali natalizi del periodico All the Year Round, intitolate The Trial for Murder e No. 1 Branch Line: The Signalman. Il contributo di Dickens allo sviluppo del racconto spettrale non si limita però ai suoi stessi scritti. Nel 1851 lanciò un supplemento speciale alla sua rivista Household Words, per il quale invitò i lettori ad inviargli racconti. Sul supplemento del 1852 apparve lo splendido racconto di Elizabeth Gaskell The Old Nurse's Story, e per molti anni in seguito ospitò un gran numero di eccellenti storie del genere. Molti degli autori erano donne: vale la pena di citare Amelia Edwards, cui si devono The Engineer e The Phantom Coach e Annie Oliphant, che
con The Open Door firmò una delle migliori storie di fantasmi mai pubblicate. Molti celebri scrittori inglesi della seconda metà dell'Ottocento si accostarono al genere. William Mackepiece Thackeray, per esempio, scrisse The Story of Mary Ancel. Wilkie Collins (amico e collaboratore di Dickens) fu, molto prolifico; diverse sue storie sono riunite nell'antologia After Dark. Anche Bulwer Lytton, il famoso scrittore-iniziato, pubblicò racconti spettrali; i più famosi sono The Haunters and the Haunted (1859) e A Strange Story (1861). Assai noto all'epoca fu l'irlandese Sheridan Le Fanu, che cominciò a pubblicare ghost stories nel 1838, proseguendo fino alla sua morte avvenuta nel 1873. I suoi titoli sono fra i più «realistici» e convincenti, e spesso si ispirano ad antiche leggende della sua terra. A lui si deve anche uno dei classici del vampirismo, il romanzo breve Carmilla. Lanciò anche la figura dell'Investigatore dell'Occulto, con il suo personaggio di Martin Hesselius, medico del Soprannaturale. Il cliché in seguito venne ripreso da molti scrittori, fra cui Algernon Blackwood con John Silence e William Hope Hodgson con Carnacki, detective del Paranormale. Alla morte di Le Fanu, la ghost story era un genere letterario ormai codificato. Il suo successo era amplificato dall'ondata di interesse verso lo spiritismo e le ricerche psichiche, diffusosi in Occidente in quello scorcio di secolo. Inoltre, la curiosità della gente era sollecitata anche da tematiche come la Magia Nera, la stregoneria, il diavolo e i riti diabolici, i disturbi della personalità (che all'epoca cominciavano ad essere studiati scientificamente), l'ipnosi e così via. In un'atmosfera del genere, non deve meravigliare il successo delle storie di fantasmi: dal 1870 in poi ne apparvero innumerevoli. Secondo alcuni, la loro diffusione rispondeva in qualche modo a un bisogno spirituale: in un'era di crescente materialismo, lo spettro testimoniava, con la sua presenza, della possibilità di una nuova vita dopo la morte. I fantasmi, inoltre, rappresentavano un legame col passato, con il nucleo di tradizioni ancestrali cui si rifacevano le leggende fondate sul Soprannaturale. Molti autori del secondo Ottocento non consideravano i loro racconti di fantasmi (e comunque tutta la letteratura non realistica) come una forma di escapismo, di narrativa popolare: al contrario, erano animati da ispirazioni serie, e cercavano di analizzare nuovi stati di coscienza, di investigare aspetti ignoti della realtà, di discutere il significato dell'esistenza. E non si rivolgevano più al passato - come gran parte della Letteratura Gotica -
ma anzi cercavano di portar luce negli «angoli oscuri» del sapere contemporaneo. Fra gli scrittori cui si devono straordinari contributi in questo senso, vi sono Kipling e Stevenson. Il primo, fra il 1887 e il 1888, pubblicò un buon numero di storie di spettri sulla Civil and Military Gazette. Successivamente, vennero racconti straordinari come The Return of Imray (1891), The Phantom Rickshaw (1895), They (1904). Quanto a Stevenson, due dei suoi titoli del genere più noti sono Thrawn Janet (1887) e il racconto Tod Lapraik incluso in Catriona (1893). In Francia, spicca la figura di Maupassant, che scrisse alcuni memorabili racconti del Terrore, fra cui Le Horla (1887), Apparition (1883), Qui sait? (1890). Anche l'iniziatore del Verismo, Emile Zola, pubblicò con Angeline (1898) uno splendido racconto dal tema spettrale. In America, negli ultimi vent'anni del XIX secolo, due autori ebbero una consistente produzione nell'ambito del Soprannaturale: Ambrose Bierce e O. Henry (pseudonimo di William Sidney Porter). Fra i racconti più noti di Bierce vi sono The Middle Toe of the Right Foot e An Occurence at Owl Creek Bridge (entrambi del 1891) e The Moonlit Road (1894); O. Henry è ricordato soprattutto per The Furnished Room (1906). Allo stesso periodo appartiene Vernon Lee (pseudonimo di Violet Page), la cui collezione Hauntings (1890) contiene tre delle sue storie più note: Amour Dure, Oke of Okehurst e A Wicked Voice. Fra tutti gli autori di lingua inglese che si sono occupati di spettri tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, spicca certamente il nome di Henry James. Cominciò a pubblicare racconti di fantasmi intorno al 1860, quando Dickens e Le Fanu erano ancora vivi, e quarant'anni dopo trattava ancora questa tematica. A quell'anno risalgono le sue prime due storie fantastiche pubblicate, The Romance of Certain Old Clothes e De Grey: A Romance, nelle quali è evidente l'influsso di Hawthorne. Successivamente vennero, fra gli altri, i racconti Owen Wingrave, Sir Edmund Orme, The Passionate Pilgrim, The Jolly Corner, e quello che secondo molti è il suo capolavoro assoluto, il romanzo The Turn of the Screw (1898). Verso la fine del secolo, in Inghilterra, un altro James fece del racconto di fantasmi il fulcro della propria produzione narrativa. Montague Rhodes James cominciò a scrivere le sue celebri Ghost Stories of an Antiquary verso il 1890. Una prima raccolta ne venne pubblicata nel 1904, una seconda nel 1911, e un'edizione finale apparve nel 1931.
Erano storie composte per essere lette ad alta voce (dunque sempre piuttosto brevi) ad una cerchia di amici, in genere il giorno della Vigilia di Natale. In esse, oltre a una straordinaria abilità di costruttore di trame appassionanti, M.R. James mette in gioco tutta la sua erudizione di bibliografo, paleografo e iconografo. Fra i suoi racconti più noti, figurano Oh, Whistle, and I'll Come to You, My Lad, Lost Hearts, The Mezzotint. Suo conterraneo e quasi contemporaneo (anche se visse più a lungo) fu Algernon Blackwood. Come molti altri scrittori fantastici dell'epoca, era assai interessato alle ricerche psichiche, e i suoi racconti risentono dell'influsso delle dottrine spiritiste. La sua prima raccolta, apparsa nel 1906, era intitolata The Empty House, e fu seguita nel 1908 da John Silence, Physician Extraordinary, serie di lunghi racconti il cui protagonista è un «Investigatore dell'Occulto». Anche William Hope Hodgson, altro scrittore inglese a cavallo dei due secoli, creò un celebre investigatore del Soprannaturale, il parapsicologo Carnacki, che impiegava gli strumenti della scienza per indagare nella realtà ultraterrena. Arthur Machen, scrittore di scarso successo in vita ma di notevole fama postuma - e soprattutto di notevole influsso su autori successivi (segnatamente H.P. Lovecraft) - rinnovò la tradizione dei Racconti dell'Orrore spostandone l'interesse dalla figura tradizionale del morto redivivo a più complessi simbolismi, legati al sopravvivere di forze ancestrali. Scrisse poche vere storie di fantasmi, ma un suo racconto del genere, The House of Souls (1906), è comunque memorabile. Interamente dediti a questo tipo di narrativa furono invece i tre fratelli Benson, A.C, R.H, e E.F., figli dell'Arcivescovo di Canterbury. Se i racconti dei primi due sono oggi poco letti, quelli di E.F. Benson sono ancora ristampati, ed accolti in ogni antologia di argomento spettrale. La sua prima raccolta, The Room in the Tower, apparve nel 1912 e fu seguita da Visible and Invisible (1923) e Spook Stories (1929). Più episodico, ma spesso assai felice, fu l'interesse per lo Spettrale di diversi altri autori del periodo, quali Oscar Wilde, Robert Hichens, Saki, W. W. Jacobs, E. M. Forster. Notevoli sono poi i racconti di Oliver Onions (in particolare The Beckoning Fair One, del 1911) e dell'americana Edith Wharton, che ha all'attivo due antologie: Tales of Men and Ghosts (1910) e Ghosts (1937). Negli anni fra le due guerre mondiali il racconto di fantasmi continuò ad essere largamente praticato, anche se non con lo stile, il vigore e l'ori-
ginalità del periodo fra il 1850 e il 1910. Negli anni Venti, A.J. Alan (pseudonimo di Leslie Harrison Lambert) scrisse diverse storie notevoli, di cui curò anche la riduzione radiofonica. Nel 1924 apparve l'antologia Night Fears di L.P. Hartley e nel 1922 il romanzo The Haunted Woman di David Lindsay, oggi ingiustamente dimenticato. Altri autori interessanti del periodo furono Hugh Walpole, Lord Dunsany, Cynthia Asquith, Margaret Irwin, A.M. Burrage. Anche Wells pose mano alla ghost story, per esempio con The Moth, The Red Room e The Inexperienced Ghost. Un gruppo di scrittori, principalmente inglesi, si è poi dedicato a continuare l'opera di M.R. James, con racconti «da caminetto» brevi e ricchi di notazioni erudite. I maggiori esponenti di questa tendenza sono H. Russell Wakefield (per esempio con They Walk at Night, 1928), W.F. Harvey (Moods and Tenses, 1933), A.N.L. Munby (The Alabaster Hand, 1949), e più recentemente William Croft Dickinson (Dark Encounters, 1963). Nel 1969 Kingsley Amis ha pubblicato The Green Man, un romanzo su un pub infestato dallo spettro di un Mago del XVII secolo, dichiaratamente scritto in uno stile mutuato da M.R. James. Del periodo fra le due guerre, non può non citarsi H.P. Lovecraft, l'americano semisconosciuto ai suoi tempi ma oggi definito il «Copernico dell'Orrore» per la profonda rivoluzione stilistica e sostanziale da lui apportata nella Narrativa dello Spavento. Materialista convinto, non credeva nell'Aldilà e nei fantasmi, ma scrisse ugualmente sul tema dei «morti-nonmorti», alcuni fra i più perfetti racconti del genere: The Outsider (1921), In the Vault (1925), The Dreams in the Witch House (1932). Più prolifici di lui nel campo furono Elizabeth Bowen (le cui storie migliori sono raccolte nell'antologia The Demon Lover, 1945) e l'inglese Walter de la Mare, probabilmente il più dotato scrittore di fantasmi del periodo, da molti considerato l'erede di Henry James. Parecchie le raccolte dei suoi racconti: citiamo The Riddle (1923), The Connoisseur, On the Edge (1930), The Wind Blows Over (1936), A Beginning (1955). Pur scrivendo largamente a partire degli anni Venti, gran parte delle storie di de la Mare sono ambientate in periodi precedenti la Prima Guerra Mondiale. In effetti, nella maggioranza dei racconti di fantasmi del periodo, è evidente la tendenza a ignorare i mutamenti avvenuti nella società. Forse molti degli autori ritenevano che le innovazioni tecnologiche (l'automobile, la radio, l'aereo, la luce elettrica) fossero incompatibili con l'atmosfera legata alle manifestazioni spiritiche. Anche se non mancano eccezioni: negli anni Trenta, per esempio, Ann Bridge scrisse un racconto
riguardante un autosalone infestato. Gli orrori indicibili della Seconda Guerra Mondiale (come già quelli della Prima), pur cambiando profondamente l'atteggiamento sociale verso la paura e la morte, non hanno fatto diminuire il successo popolare della ghost story. Dagli anni Cinquanta, molti autori - soprattutto sulle riviste popolari americane - hanno portato avanti il genere. Pur se nessuna personalità di levatura paragonabile a un Dickens o un Henry James si è più accostata al racconto di fantasmi, tuttavia molte eccellenti narrazioni sono apparse a firma di nomi quali James Turner, Elizabeth Walter, Robert Aickman, August Derleth e altri. GIANNI PILO/SEBASTIANO FUSCO STORIE DI FANTASMI Il lettore troverà nei dialoghi dell'intero volume talvolta l'uso del «lei», talvolta quello del «voi» La Casa Editrice ha voluto così rispettare le diverse scelte dei traduttori. DANIEL DEFOE Il fantasma che stava in tutte le stanze Una persona di un certo livello, che come al solito trascorreva l'estate con la famiglia nella sua casa di campagna, fu obbligata, per particolari motivi di salute, a lasciare la detta casa e ad andare ad Aix-la-Chapelle a fare la cura delle acque. Successe, si dice, nel mese di agosto, due mesi prima dell'epoca in cui solitamente tornava a casa per l'inverno. Andandosene così prima del solito, non smontò tutto, come usava fare la famiglia, né portò via l'argenteria e altri oggetti di valore, ma lasciò il maggiordomo e tre servi a custodire la casa. E il Padre, ossia il Parroco, fu pregato di sorvegliarli e di aiutarli dal villaggio vicino, se ce ne fosse stato bisogno. Il maggiordomo non ebbe dall'esterno alcun avviso di un prossimo incidente, ma per tre o quattro giorni di seguito colse strani e segreti segnali di paura e terrore, che la casa era assediata, e che sarebbe stata assalita da un gruppo di banditi o, come li chiamiamo qui, svaligiatori, che li avrebbero uccisi tutti e, dopo aver depredato la casa, le avrebbero dato fuoco. E questo accadeva così di frequente e gli faceva una tale impressione, che non
riusciva a pensare ad altro. Stando così le cose, il terzo giorno andò a lamentarsi con il Padre, o Parroco che dir si voglia. Il prete e il maggiordomo ebbero il seguente colloquio, che fu iniziato dal maggiordomo in questo modo: «Padre», disse, «voi sapete ciò che ho in custodia, e come il mio padrone mi abbia affidato tutta la casa, nella quale ci sono tutti i suoi beni. Sono molto preoccupato per questo e vengo a chiedervi un consiglio». Prete: «Bene, cosa c'è? Avete per caso sentito dire che si progetta di fare qualcosa di male?». Maggiordomo: «No, non ho sentito niente del genere. Ma provo certi timori, e questo mi ha fatto una tale impressione in questi tre giorni che...». A questo punto gli raccontò in dettaglio l'inquietudine che aveva provato, e aggiunse, oltre a quello che aveva già detto, che anche uno dei servi l'aveva provata e gliene aveva parlato, benché lui non gli avesse detto assolutamente nulla. Prete: «Non potreste aver sognato queste cose?». Maggiordomo: «Certo che no, Padre! Sono sicuro di non essermele sognate, perché non sono riuscito a dormire». Prete: «Cosa posso fare per voi? Cosa vorreste che facessi?». Maggiordomo: «Vorrei che prima di tutto mi diceste cosa pensate di tutto questo, e se credete che debba tenerne conto». A questo punto il Padre gli fece un interrogatorio scrupoloso nei particolari, poi mandò a chiamare il servo e lo interrogò da solo, e siccome era una persona molto onesta e seria, gli rispose così: Prete: «Sentite, signor maggiordomo: io non do molta importanza a queste cose ma, d'altra parte, non credo che non si debba prenderle in considerazione. Perciò vi consiglio di stare in guardia e, se qualcosa vi mette in allarme, fatemelo sapere». Maggiordomo: «Ci sarebbe poca soddisfazione per me nello stare in guardia, se fossi messo fuori combattimento. Suppongo che se dei furfanti hanno in mente di attaccarmi, essi siano a conoscenza delle forze a mia disposizione». Prete: «Volete che rinforzi la vostra guarnigione?». Maggiordomo: «Lo vorrei proprio». Prete: «Bene, vi manderò alcuni uomini con delle armi da fuoco a passare la notte laggiù». Di conseguenza il prete gli mandò cinque tipi ben messi con dei fucili, e in più una dozzina di granate a mano e, finché quelli stettero in casa, non
successe niente. Ma il Padre, vedendo che non succedeva niente, restio a imporre quel gravame continuo al suo padrone, mandò a chiamare il maggiordomo e, in tono gelido e adirato, gli disse quel che pensava. Prete: «Non so come ne risponderete al mio Signore, ma gli avete fatto fare delle spese ben grosse, mantenendo una guarnigione in casa per tutto questo tempo». Maggiordomo: «Me ne dispiace, Padre, ma cosa posso fare?». Prete: «Fare! Mettetevi l'animo in pace, fatevi coraggio, e non fate spendere al mio Signore due o trecento sterline per curare le vostre fisime». Maggiordomo: «Come avete detto anche voi, Padre, non bisognava passarci sopra». Prete: «È vero; ma ho anche detto che non ci avrei dato troppa importanza». Maggiordomo: «Cosa devo fare, allora?». Prete: «Mandate via gli uomini e prendete tutte le precauzioni possibili. E, se vi giunge qualche cattiva notizia che sia attendibile, fatemelo sapere: allora vi aiuterò». Maggiordomo: «Beh, allora che l'Angelo Custode protegga la casa del mio padrone, perché vedo che nessun altro lo farà». «Amen», disse il Padre. «Sono certo che gli spiriti buoni vi proteggeranno.» Così benedisse il maggiordomo (a modo suo), e il maggiordomo se ne andò brontolando perché gli toglieva la guarnigione e lo affidava agli spiriti buoni. Sembra, malgrado ciò, che gli avvisi ricevuti dal maggiordomo, per quanto misteriosi e di fonte a lui ignota, non fossero così trascurabili come pensava il Padre. Infatti, quando gli venne in mente quell'idea che si stava preparando qualche malefatta, era proprio così, come vedrete presto. Un gruppo di ladri, saputo che il nobile e la sua famiglia erano andati a Aix-la-Chapelle, ma che la casa era stata lasciata montata e che vi erano tutta l'argenteria e le cose di valore, aveva fatto il piano di saccheggiarla e poi di bruciarla, proprio come aveva detto il maggiordomo. Erano in tutto ventidue, e ben armati. Ma, finché i rinforzi che il Padre aveva mandato rimasero in casa - di cui tre, insieme agli altri quattro, vegliavano tutta la notte - non osarono metterlo in pratica. Non appena però sentirono che le guardie erano state tolte, ripresero il progetto primitivo e, per farla breve, attaccarono la casa verso mezzanotte. Avendo - penso - gli strumenti adatti, riuscirono subito ad aprire una finestra, e dodici di loro entrarono in casa, mentre gli altri stavano di sentinella
nei posti che parevano loro più idonei, per intercettare eventuali aiuti dalla città. Il povero maggiordomo e i tre servi erano disperati. Stavano al piano di sopra, e avevano barricato le scale come potevano, quando avevano sentito i briganti forzare la finestra. Ma, quando scoprirono che erano entrati, non si aspettarono altro che di essere trattenuti al piano superiore durante il saccheggio della casa, e poi di essere bruciati vivi. Ma pare che gli spiriti buoni di cui il Padre aveva parlato, oppure qualcun altro, avessero in serbo per loro qualcosa di meglio, come vedrete. Dopo che il primo brigante fu entrato in casa ed ebbe aperto la porta per far entrare tutti quegli appartenenti alla banda che lo giudicarono opportuno - come ho detto prima, furono dodici - essi accostarono la porta e si chiusero dentro, lasciando fuori due uomini con l'incarico di andare a chiamare gli altri in aiuto se ce ne fosse stato bisogno. I dodici perquisirono il grande atrio ma vi trovarono poca roba che soddisfacesse le loro avide speranze. Ma, quando irruppero in un salotto ben ammobiliato che la famiglia usava di solito, ecco! in una grande poltrona videro seduto un vecchio severo con una lunghissima parrucca nera, una ricca veste di broccato, e una baverina di pizzo da magistrato, che li guardò molto sorpreso, e parve chiedere pietà a gesti; però non disse loro una parola, né essi a lui, salvo uno di loro che, spaventato, esclamò: «Chi c'è?». Subito i furfanti si diedero a tirar giù le belle tende di damasco dalle finestre, e altre cose, ma uno disse a un altro con una bestemmia: «Facciamoci dire da quella vecchia canaglia dov'è nascosta l'argenteria». E un altro disse: «Se non te lo dice, tagliagli subito la gola». Il vecchio gentiluomo, facendo gesti di supplica come se chiedesse di non ucciderlo e avesse una gran paura, indicò una porta che, una volta aperta, li condusse in un altro salotto, che era la sala da gioco, che serviva da anticamera per il primo salotto, e che aveva un'altra porta che si apriva sul salone principale che dava nel giardino. Ci misero un po' a forzare l'ingresso ma, quando ci riuscirono, furono molto sorpresi nel vedere lo stesso vecchio, con lo stesso vestito e sulla stessa seggiola, seduto in fondo alla stanza, che faceva gli stessi gesti imploranti e silenziosi di prima. Dapprima, non se ne preoccuparono molto, perché pensarono che fosse entrato da un'altra porta, e cominciarono a insultarlo per aver fatto fare loro tutta quella fatica per aprire la porta quando c'era un altro modo per entrare. Ma un altro, più cattivo del primo, disse con una grossa bestemmia:
«Questa canaglia d'un vecchio è passato da un'altra porta apposta per portar via l'argenteria e il danaro; spacchiamogli la testa». Allora il primo lo minacciò dicendo che, se non avesse indicato subito dov'era il malloppo, sarebbe stato immediatamente ucciso. Così maltrattato, quello indicò le porte che davano nel salotto e che, essendo solo delle sottili porte pieghevoli, cedettero subito. Allora i briganti si precipitarono nel grande salone e, guardando verso il fondo della sala, ecco di nuovo il vecchio seduto lì, con lo stesso vestito e nello stesso atteggiamento. Appena lo videro, quelli che stavano in prima fila dissero ad alta voce: «Questo vecchio deve avere dei rapporti col Diavolo, di sicuro! Eccolo lì di nuovo prima di noi». Però il caso era un po' diverso perché, quando erano usciti dal primo salotto, avidi di argenteria e di danaro e tutti tesi a trovarli, si erano precipitati tutti insieme nel secondo salotto. Invece, quando il vecchio aveva indicato la terza stanza, non erano corsi tutti nel salone, ma quattro di loro erano rimasti indietro nel salotto o sala da gioco di cui abbiamo appena parlato, non in obbedienza a un ordine o secondo un piano, ma per caso. Così avvenne che caddero in una gran confusione: infatti, quando qualcuno gridò dal salone che il vecchio furfante si trovava di nuovo davanti a loro, altri risposero dal salotto: «Come diavolo può essere lì? È sempre qui sulla sua sedia, con tutte le sue cianfrusaglie». Allora due tornarono di corsa nel primo salotto, e ve lo trovarono seduto come prima. Ciononostante, invece di indovinare di cosa si trattava, pensarono di essere stati ingannati o presi in giro, e che ci fossero tre vecchi tutti vestiti allo stesso modo per l'occasione, che si volevano burlare di loro, come se volessero far loro capire che gli uomini al piano di sopra non li temevano. «Beh», disse uno della banda, «farò fuori uno di quei vecchi furfanti. Gli insegnerò io a ingannarci.» E, alzando il fucile quanto il braccio glielo permetteva, colpì il vecchio perché tale pensava che fosse - con tutta la sua forza. Ma ecco che non c'era niente sulla sedia, e il fucile andò in mille pezzi ferendogli gravemente la mano. E un pezzo della canna, colpendolo alla testa, gli spaccò la faccia e lo fece cadere all'indietro. Nello stesso momento, uno di quelli che stavano nel salone si lanciò contro il vecchio che stava seduto là dentro, giurando che gli avrebbe
strappato la sua bella barba bianca e gli avrebbe tagliato la gola. Ma, quando fece per afferrarlo, non c'era niente sulla sedia. Questo succedeva in quelle due stanze, perciò i briganti erano terribilmente confusi, e urlavano tutti insieme in modo terrificante. Erano rimasti molto colpiti da quei fatti e, dopo i primi clamori, si guardarono a lungo l'un l'altro, senza dir parola. Infine uno disse: «Torniamo nel primo salotto e vediamo se anche quello se n'è andato». A quelle parole, due o tre che stavano da quella parte corsero nella stanza, e videro subito la figura del vecchio. Allora chiamarono i compagni e dissero che pensavano che fossero tutti stregati, e che certamente si erano immaginati di aver visto il vecchio nelle altre stanze, perché quello vero stava dove lo avevano visto prima. Allora tutti corsero là, dicendo che volevano vedere se si trattava del Diavolo. E uno di loro esclamò: «Aspettate. Gli parlerò io. Non è la prima volta che parlo col Diavolo». «No», disse un altro, «lo farò io.» E aggiunse con una bestemmia che dei gentiluomini che facevano quello che stavano facendo loro, non dovevano aver paura di parlare col Diavolo. Un terzo (giacché il coraggio stava loro tornando) disse ad alta voce: «Che sia il diavolo o sua nonna, io gli parlerò. Sono deciso a sapere di cosa si tratta». E subito corse avanti prima di tutti, si fece il segno della croce e disse al vecchio sulla sedia: «In nome di san Francesco, e san ... (e qui sgranò i nomi dei due o tre santi nei quali confidava per sconfiggere il Diavolo), chi sei?». La figura non si mosse né parlò ma, guardandolo in faccia, videro che invece dell'aria miseranda - come di chi implora che gli si risparmi la vita che aveva prima, ora era cambiato nel più spaventoso mostro che si fosse mai visto, tale che non so descriverlo. E che, invece delle due mani alzate a chiedere pietà, c'erano due larghi pugnali lucenti, che non emanavano fiamme, ma rosseggiavano per il calore e terminavano in punta con una livida luce azzurrina; in una parola, il Diavolo, o qualcos'altro nella più spaventosa forma che si possa immaginare. E la mia opinione, quando sentii per la prima volta questa storia, è che i briganti fossero così spaventati che la loro fantasia foggiò in seguito qualcosa nei loro pensieri ancora più terribile di ciò che avrebbe potuto sembrare il Diavolo stesso. Sia come sia, il suo aspetto era tale che, quando gli si fecero addosso,
nessuno di loro ebbe il coraggio di guardarlo in faccia, tanto meno di parlargli. E quello che era stato così ardito, e si era riempito la bocca di un reggimento di santi, cadde bocconi per terra, svenuto, come si dice, per la paura. Il maggiordomo e i suoi tre uomini erano sempre al piano di sopra, molto preoccupati per la loro situazione pericolosa, e si aspettavano da un momento all'altro che i briganti cercassero di fare un'azione di forza per salire e tagliar loro la gola. Sentivano i rumori confusi che quelli stavano facendo di sotto, ma non potevano immaginare di cosa si trattasse, e ancora meno di cosa significasse. Nel frattempo, venne in mente a uno dei servitori che, giacché quelli di sicuro stavano in salotto ed erano molto occupati, lui avrebbe potuto salire sul tetto e gettare una delle granate a mano giù dal camino, e così forse ucciderne qualcuno. Il maggiordomo approvò il piano, con un'aggiunta. «Se la buttiamo in un solo salotto, scapperanno tutti nella sala da gioco, e non ci sarà nessun morto. Invece», disse, «portane su tre, e mettine una in ogni camino, così non sapranno dove scappare.» A quell'ordine, due degli uomini che conoscevano bene il posto salirono, accesero la miccia delle granate, e ne misero una in ciascuno dei comignoli: esse scesero giù ruggendo per la cappa con un rumore terribile e (cosa che fece più effetto di tutto il resto) arrivarono in fondo nel salotto dove stavano quasi tutti quei mascalzoni proprio nel momento in cui l'uomo che aveva parlato allo spettro era svenuto ed era caduto per terra. Tutta la banda si spaventò oltre ogni dire. Qualcuno si precipitò nella sala da gioco dalla quale erano venuti, altri corsero verso l'altra porta dalla quale erano entrati provenendo dall'atrio, ma tutti sentirono nello stesso momento il Diavolo - così credettero - che scendeva dal camino. Se fosse stato possibile che le micce delle granate continuassero a bruciare nel camino, dove il suono era mille volte amplificato dall'eco, e la fuliggine in fiamme cadeva in fiocchi di fuoco, i furfanti si sarebbero spaventati fino a non capire più niente; infatti avrebbero immaginato che, come c'era un diavolo spaventoso in mezzo a loro seduto sulla seggiola, così ce n'erano altri diecimila che scendevano dal camino per distruggerli tutti, e forse per portarli via. Ma non era possibile. Solo dopo che furono ben ben spaventati dal rumore, le tre bombe arrivarono in fondo contemporaneamente. Fu un fortunato accidente, anche se pareva fatto apposta, che la bomba che cadde nel salotto dove stavano tutti scoppiasse non appena toccò terra, sicché non
ebbero nemmeno il tempo di domandarsi cosa mai poteva essere, meno che mai rendersi conto che si trattava di una granata a mano vera e reale. Ma, siccome molti di loro rimasero uccisi, credettero fermamente che si trattasse del Diavolo, così come credevano che fosse un diavolo lo spettro seduto sulla sedia. Il rumore prodotto dallo scoppio della granata fu così improvviso e inaspettato, che persero la testa, e anche questo contribuì ad accrescere il danno. L'uomo che era svenuto e che stava sul pavimento era rimasto ucciso, e così pure altri due che stavano vicino al caminetto. Cinque erano feriti gravemente, tanto che uno di loro, che aveva le gambe spezzate, era così disperato che, quando i contadini entrarono, si sparò alla testa con la sua pistola per evitare di essere fatto prigioniero. Se gli altri fossero scappati dal salotto nelle altre due stanze, sarebbero stati probabilmente feriti dalle altre bombe. Ma siccome avevano sentito il rumore anche nelle altre stanze, ed erano rimasti sbalorditi dall'idea che si trattasse di ben altro che di granate a mano, non avevano la forza di muoversi. E se anche l'avessero avuta, non avrebbero saputo dove andare a mettersi al sicuro. Perciò rimasero immobili finché non ebbero sentito lo scoppio delle altre due bombe nelle altre stanze. Allora, confusi sia dal rumore che dal fumo, e aspettandosi che altri diavoli scendessero dal camino nella stanza dove si trovavano, scapparono belli lesti, e si precipitarono verso la porta, aiutando i loro compagni feriti come meglio potevano. Uno di quelli morì nei campi, dopo che furono usciti. Bisogna sottolineare che, mentre erano così preoccupati per quel che veniva giù dal camino, e non riuscivano a capire cosa fosse, gridavano a gran voce che il Diavolo sulla sedia aveva mandato a chiamare altri diavoli per annientarli. E si può pensare che, se le bombe non fossero cadute, sarebbero scappati tutti. Ma si può essere sicuri che il fatto che quel diavolo artificiale arrivasse in modo così drammatico al momento opportuno, quasi in accordo con i diavoli visionari - o quel che fossero - li sconvolse completamente e li spinse a fuggire. Quando raggiunsero i due uomini di guardia alla porta, segnalarono ai loro compagni appostati nei viali che portavano alla casa di venir loro in soccorso; cosa che quelli fecero aiutandoli a portare via i feriti. E, dopo aver sentito il racconto di quelli che erano stati in casa, e dopo aver tenuto un breve conciliabolo a una certa distanza dalla porta (sebbene facesse già molto buio il maggiordomo e i suoi uomini riuscirono a scorgerli dalla finestra), decisero di comune accordo di andarsene.
Contemporaneamente capitò un altro incidente, che devo qui riferire per completare il racconto, sebbene non abbia relazione con l'argomento: due di quelle granate appiccarono il fuoco ai camini con le fiamme delle loro micce. Non così la terza, che attraversò una cappa dove non c'era fuliggine, perché la stanza non era molto usata. Le fiamme che uscivano, cosa ben naturale, dall'alto, furono viste da qualcuno del paese che corse immediatamente ad avvertire il prete, o Padre, e questi a sua volta chiamò a raccolta l'intera cittadina, pensando che fosse successo qualche guaio e che qualcuno avesse dato fuoco alla casa. Se il resto della banda non avesse deciso di scappare, come abbiamo già detto, sarebbe certo caduta nelle mani degli abitanti del villaggio, che erano accorsi immediatamente armati di tutto quello che era capitato loro sottomano. Ma i furfanti erano fuggiti e avevano lasciato, come ho già detto, tre dei loro compagni morti nella casa, e uno all'aperto. DANIEL DEFOE Il fantasma di Dorothy Dingley All'inizio di quest'anno si verificò un'epidemia nella città di Launceston, di cui furono vittime alcuni miei allievi. Fra i giovani che perirono per il male che dilagava, ci fu anche John Elliot, il figlio minore del signor Edward Elliot di Treherse, un adolescente di circa sedici anni, di particolari virtù e ingegnosità. Il padre mi chiese personalmente di recitare l'orazione funebre durante la cerimonia, che si svolse il 20 giugno del 1665. Durante il mio discorso (ut mos reique locique postulabat) pronunciai alcune espressioni d'elogio per il giovane, con lo scopo di mantenerne viva la memoria in quelli che lo conoscevano, e contemporaneamente per proporlo come esempio ai giovani che frequentavano la scuola con lui e che avrebbero continuato a studiare dopo di lui. Un anziano gentiluomo che si trovava in chiesa fu molto colpito dal mio discorso, e quella sera stessa in molti lo sentirono ripetere spesso un'espressione che avevo usato, tratta da Virgilio: Et puer ipse fuit cantari digitus. Quel dignitoso gentiluomo fu molto colpito dalla descrizione delle qualità del giovane morto, perché lui stesso aveva un figlio, circa della stessa età, che però, pochi mesi prima, anche se dotato delle stesse virtù che ave-
vo elogiato nel giovane Elliot, per qualche strano fenomeno, aveva deluso le speranze dei suoi genitori e distrutto tutte le loro aspettative di ottenere consolazione da lui in futuro. Al termine del funerale, non appena uscii dalla chiesa, fui avvicinato molto cortesemente da quell'anziano gentiluomo che, con insistenza insolita, anche forzando il mio stato d'animo di quel momento, cercò di convincermi a recarmi in casa sua quella sera stessa; e non avrei potuto rifiutare il suo gentile invito se non fosse stato per l'intervento del signor Elliot che voleva che restassi con lui tutto il giorno e che non avrebbe rinunciato alla mia compagnia. Per quella volta riuscii a declinare l'invito, ma dovetti promettere che mi sarei recato a casa sua in visita il lunedì seguente. La mia assicurazione sembrò tranquillizzare l'anziano gentiluomo ma, prima che arrivasse il lunedì successivo, ricevetti la richiesta di anticipare la mia visita alla domenica, se era possibile. Rifiutai ancora una volta, adducendo come scusa che non mi era possibile acconsentire per motivi personali, e per i doveri che mi legavano ai miei parrocchiani. Tuttavia il gentiluomo non desistette, e infatti la domenica mi inviò un'altra lettera, chiedendomi di non venir meno al mio impegno di lunedì e di sistemare i miei affari in modo da poter trascorrere con lui almeno due o tre giorni. Ero veramente stupefatto per quell'impazienza e per la sollecitudine con cui veniva richiesta la mia visita, che non aveva come scopo alcun affare; cominciai a sospettare che dovesse esserci assolutamente qualche motivo recondito in quell'eccesso di cortesia. Fra l'altro non avevo alcuna confidenza e nemmeno amicizie comuni con il gentiluomo e la sua famiglia; inoltre, non riuscivo assolutamente a immaginare da cosa potesse dipendere un simile improvviso afflato d'amicizia. Il lunedì successivo mi recai in visita, come avevo promesso, e trovai un'accoglienza tanto generosa e cordiale, quanto l'invito era stato insistente. Trovai anche il ministro di una parrocchia confinante, che pretendeva di trovarsi lì per caso, anche se i fatti successivi mi convinsero del contrario. Dopo pranzo, questo mio fratello nel sacerdozio decise di farmi visitare il giardino dove, mentre stavamo passeggiando, feci la prima scoperta di quello che stava dietro gli onori e i complimenti di cui venivo onorato. Dapprima cominciò a parlarmi delle disgrazie di quella famiglia in generale, per poi soffermarsi sul caso del figlio più giovane. Mi riferì che fino a poco tempo prima era stato un ragazzo promettente e vivace, mentre adesso era diventato triste e istupidito. Poi si rammaricò con profondo sconfor-
to che questo malessere riuscisse a soggiogare completamente la ragione del giovane, dato che il povero ragazzo - almeno così diceva - era perseguitato dai fantasmi e gli aveva confidato di incontrarsi con uno spirito maligno in un campo a circa mezzo miglio di distanza, tutte le volte che si recava a scuola. Durante la nostra chiacchierata l'anziano gentiluomo e sua moglie (come se aspettassero solo l'imbeccata) spuntarono in lontananza. Mentre i due si avvicinavano, il parroco, accompagnandomi verso il pergolato, mi riassunse brevemente il suo racconto; e gli altri (i genitori del ragazzo) confermarono la sua storia e aggiunsero molti particolari, in una nuova narrazione di tutta la vicenda. Alla fine, tutti e tre espressero il desiderio di conoscere la mia opinione sulla vicenda. Non mi sentivo assolutamente in grado di formulare così all'improvviso un giudizio su quanto mi avevano riferito, e quindi risposi solo che il racconto del giovane era strano, se non incredibile, e che non sapevo cosa pensare o dire di tutta la storia; ma se il ragazzo aveva voglia di parlare con me e di raccontarmi la sua esperienza, avevo buone speranze di riuscire a esprimere un parere più preciso il giorno dopo. Difficilmente in precedenza mi sarei lasciato coinvolgere nel promettere una cosa simile, ma mi trovavo intrappolato nelle spire che avevano intessuto intorno a me con la loro gentilezza; l'anziana signora non riusciva a nascondere la sua impazienza e voleva chiamare subito il figlio. Fui costretto ad acconsentire, e così la donna si allontanò da noi quando giungemmo nelle vicinanze di un frutteto, e si recò di persona a cercare il ragazzo per accompagnarlo da me. Lo scopo principale di quelle tre persone fu di persuadermi che, o il giovane era un lazzarone, felice di trovare una scusa per marinare la scuola, o che era innamorato di qualche ragazza e aveva vergogna di confessarlo; oppure che inventava uno stratagemma per farsi dare dal padre del denaro e dei nuovi vestiti, da sfoggiare a Londra dove risiedeva un suo fratello maggiore. Per questi motivi mi pregavano di cercare di scoprire le ragioni del suo comportamento e in seguito di dissuaderlo, consigliarlo e anche rimproverarlo, ma soprattutto e con ogni mezzo di togliergli qualsiasi illusione sulle sue fantasie di spiriti e fantasmi. Mi misi subito a conversare con il giovane, e all'inizio fui molto attento a non contrariarlo, cercando con parole affabili di conquistare la sua confidenza, perché avevo paura che si sarebbe potuto mostrare troppo sospettoso o riservato. Ma, subito dopo i primi approcci, quando cominciammo a
parlare della vicenda, mi accorsi che non avevo bisogno di alcuna diplomazia per penetrare nel suo animo. Il ragazzo, con la massima franchezza e con un candore assoluto, mi confidò di amare la scuola e di non desiderare altro che di essere uno studente ben educato, che non aveva per il momento nessun interesse per una ragazza, come sospettava sua madre, e che la sola richiesta che avrebbe voluto fare ai suoi genitori era che credessero alle sue affermazioni riguardo alla donna che lo importunava nel campo denominato Higher-Broom Quartils. Mi confidò anche con assoluta libertà e con un torrente di lacrime, che i suoi amici erano crudeli e ingiusti con lui, che non gli credevano e non avevano comprensione per i suoi problemi; e che se qualcuno (e mi fece un inchino) fosse andato con lui in quel posto, si sarebbe convinto che tutta la vicenda era vera, eccetera. Intanto si era accorto della mia capacità di comprensione e della mia attenzione al suo caso, per cui continuò il racconto: «Questa donna che mi appare», proseguì, «viveva vicino alla proprietà di mio padre ed è morta da otto anni; si chiama Dorothy Dingley ed è molto alta, anziana e di bell'aspetto. Non mi rivolge mai la parola, ma mi passa accanto rapidamente, lasciandomi sempre la precedenza sul sentiero, e di solito l'incontro due o tre volte lungo tutta la distesa del campo. Da circa due mesi mi capitava raramente di fare questi incontri, e anche se i lineamenti del volto di quella donna erano impressi nella mia mente, non riuscivo a ricordarmi il suo nome. Non davo troppo peso alla cosa e immaginavo che dovesse vivere qui vicino e che avesse frequenti occasioni di percorrere quella strada. Non ho mai pensato nient'altro fino a quando non ho cominciato a incontrarla costantemente, al mattino e alla sera, e sempre nello stesso campo, anche due o tre volte lungo il percorso. L'ho incontrata per la prima volta circa un anno fa e, quando ho cominciato a sospettare e a credere che fosse un fantasma, ho avuto coraggio a sufficienza per non mostrarmi impaurito, conservando un aspetto tranquillo, solo un po' meravigliato. Le ho parlato spesso, ma non ho mai ottenuto una parola in risposta. Poi ho cambiato strada e, per andare a scuola, ho scelto la Under Horse Road, ma lei mi aspettava sempre nello stretto viottolo fra il Quarry Park e l'Asilo, e questo era ancora peggio. Alla lunga cominciai a essere terrorizzato e a pregare Dio in continuazione di liberarmi da quell'apparizione o di spiegarmene le ragioni. Giorno e notte, durante il sonno e la veglia, quella figura continuava ad apparire
nella mia mente e spesso ripetevo questi versetti della Scrittura (e nel dire queste parole estrasse da una tasca una piccola Bibbia) Giobbe, VII, 14: Tu mi spaventi coi sogni e mi atterrisci con le visioni. E anche Deuteronomio, XXVIII, 67: Al mattino dirai venga la sera e alla sera dirai venga il mattino per la paura che avrai nel tuo cuore e per le cose che vedrai con i tuoi occhi». Fui molto compiaciuto per l'abilità del ragazzo nell'applicare questi versetti delle Sacre Scritture alla sua esperienza, e desiderai che continuasse nel racconto. «Poi», proseguì, «poco alla volta divenni sempre più pensieroso, tanto che anche i miei familiari se ne accorsero; dopodiché ho sentito il bisogno di raccontare ogni cosa a mio fratello William; lui ha informato mio padre e mia madre, che per un po' di tempo non ne hanno parlato. Alla fine il risultato delle mie confidenze fu solo questo: a volte ridevano di me, a volte mi rimproveravano, ma mi ordinarono di continuare ad andare a scuola e di togliermi queste sciocchezze dalla testa. Continuai ad andare a scuola, ma incontravo sempre quella donna sul mio percorso.» Questo e anche altri particolari della vicenda, costituirono il contenuto del nostro dialogo nel frutteto, che durò quasi due ore e che terminò con la mia proposta al ragazzo di non rivelare a nessuno le nostre intenzioni e di recarci insieme al campo, il mattino dopo, verso le sei. Fu felicissimo del mio suggerimento e mi chiese: «Lo farete davvero, signore? Verrete con me? Grazie al Cielo! Adesso spero proprio di trovare un po' d'aiuto». Dopo queste conclusioni, ritornammo verso casa. Il gentiluomo, sua moglie e il signor Sam erano impazienti di sapere cosa fosse accaduto, tanto che ci vennero incontro nell'ingresso, uscendo dal salotto; e, vedendo che il figlio aveva un aspetto allegro, l'anziano genitore mi fece subito i suoi complimenti. «Bene, signor Ruddle, avete parlato con lui e spero che adesso il ragazzo avrà più buonsenso. È un ragazzo pigro! Veramente pigro!» A queste parole il giovane corse su per le scale diretto alla sua stanza, senza rispondere, e io bloccai immediatamente la curiosità delle tre persone in attesa, dicendo loro che avevo promesso il mio silenzio e che avevo tutta l'intenzione di mantenere la parola data; solo quando la vicenda fosse stata risolta, li avrei messi al corrente di tutto. Per il momento desideravo solo che si fidassero della mia promessa che avrei fatto tutto il possibile per aiutarli e per assicurare il bene del loro figliolo. Queste mie parole li
costrinsero al silenzio, ma non ero completamente soddisfatto. Il mattino successivo, prima delle cinque, il ragazzo era già nella mia stanza, pieno d'energia. Mi alzai e uscii con lui. Il campo in cui mi condusse doveva essere di venti acri, in aperta campagna e a circa seicento metri dalle vicine abitazioni. Entrammo nel campo e ne avevamo percorso più o meno la terza parte, quando lo spettro, per la precisione una donna, nelle esatte circostanze che il ragazzo mi aveva descritto nel frutteto il giorno prima (e mi sarei reso conto di persona della rapidità delle sue apparizioni e delle sue scomparse), ci venne incontro e ci passò vicino. Io restai un attimo sorpreso e, anche se avevo deciso fermamente di rivolgergli la parola, non riuscii a farlo e non osai nemmeno girarmi; feci attenzione a non mostrarmi spaventato davanti al mio protetto e alla mia guida e, mentre gli dicevo solo di essere soddisfatto della veridicità del suo racconto, camminammo fino alla fine del campo e tornammo indietro, ma il fantasma non si fece più vedere. Percepii nel ragazzo un sentimento di audacia misto a stupore; il primo provocato dalla mia presenza e dall'autenticità che aveva acquistato il suo racconto, e il secondo provocato dalla vista dello spirito che lo perseguitava. In breve tempo fummo a casa: io, almeno in parte, turbato, e lui molto agitato. Al nostro ritorno, la moglie del gentiluomo, la cui curiosità nei nostri riguardi era molto forte, chiese di parlare con me. Le diedi ascolto e l'informai che la mia opinione era che il disturbo del figlio non fosse né da deridere né da sottovalutare; e che comunque non avevo formulato ancora un giudizio completo. Le raccomandai di non far circolare la notizia in giro, altrimenti tutto il paese avrebbe spettegolato su una cosa di cui non avevamo nessuna certezza. Nel frattempo avevo degli affari urgenti da sbrigare, e per questo dovevo rientrare a Launceston la sera stessa, ma promisi di ritornare la settimana seguente. Tuttavia, potei evitare il successivo incontro, con una scusa credibilissima, dato che mia moglie quella settimana tornò a casa da una visita a dei nostri vicini molto ammalata. A ogni modo, la mia mente era sempre rivolta a questo caso. Esaminai attentamente tutta la vicenda e, circa tre settimane dopo, mi ripresentai, deciso, con l'aiuto di Dio, a risolvere il problema. Il mattino successivo, precisamente il 27 luglio 1665, mi recai da solo nel campo stregato e lo percorsi interamente, senza fare alcun incontro. Ritornai indietro e avevo ricominciato a camminare, quando il fantasma mi
apparve, circa nello stesso posto in cui l'avevo visto la prima volta, quando il ragazzo era con me. Secondo le mie impressioni si muoveva più rapidamente dell'altra volta, a circa tre metri di distanza, sulla mia destra, e non ebbi modo di parlargli, come avevo deciso di fare in precedenza. La sera di quello stesso giorno, mentre con i genitori e il ragazzo mi trovavo nella camera in cui alloggiavo, proposi a tutti di recarci insieme sul posto il mattino successivo e li tranquillizzai spiegando che non ci sarebbe stato nessun pericolo per noi; alla fine si dichiararono d'accordo. Il mattino dopo, per non preoccupare la servitù, uscirono con la scusa di controllare un campo di grano e io montai a cavallo, feci un altro giro, e li raggiunsi al muretto dove avevamo convenuto di incontrarci. Poi tutti e quattro camminammo nel Quartils, e avevamo appena superato la metà del campo, quando il fantasma apparve. Arrivava dall'altro lato, ma si muoveva con tale rapidità che, mentre noi facevamo sei o sette passi, ci aveva già superato. Immediatamente girai la testa e lo rincorsi, con il ragazzo al mio fianco; vedemmo che stava superando il muretto dal quale eravamo entrati, ma non riuscimmo a vedere oltre. Mi fermai vicino alla barriera, io da una parte, lui dall'altra, ma non si scorgeva più nulla: tuttavia oso dichiarare che nemmeno il più veloce cavallo d'Inghilterra sarebbe riuscito a scomparire dalla nostra vista in un così breve lasso di tempo. Notai due particolari nell'apparizione di quel mattino. In primo luogo che un cane spaniel che seguiva il nostro gruppo inosservato, si mise ad abbaiare e corse via quando lo spettro gli passò accanto; e da questo si può facilmente dedurre che non era il nostro terrore o la fantasia a creare quell'apparizione. In secondo luogo, che lo spettro non si muoveva in maniera graduale o in piccole progressioni, come se camminasse sui piedi, ma scivolava, come un bambino sul ghiaccio o una barca su un fiume rapido, cosa che corrisponde alla descrizione che gli antichi danno dei loro Lemuri e di cui ci parla anche Eliodoro. Ma intanto continuiamo il racconto. Quest'esperienza visiva ci convinse della veridicità del racconto del giovane, ma contemporaneamente terrorizzò il vecchio gentiluomo e sua moglie, che avevano conosciuto Dorothy Dingley in vita, avevano partecipato ai suoi funerali, e ora avevano visto la sua immagine riapparire in queste misteriose circostanze. Cercai di far loro coraggio come meglio potevo ma, dopo quest'esperienza, decisero di non tornare mai più nel campo. Tuttavia io ero fermamente intenzionato a proseguire e a usare tutti i mezzi consentiti che Dio aveva creato e che successivamente gli uomini istruiti avevano utilizzato
per fronteggiare casi anormali come quello. Il mattino successivo era giovedì e uscii molto presto da solo: camminai per circa un'ora meditando e pregando, nei campi vicini a Quartils. Poco dopo le cinque superai il muretto ed entrai nel campo infestato dallo spirito. Avevo appena percorso una trentina di passi, quando il fantasma apparve vicino al muretto di fronte. Gli parlai a voce alta, usando alcune formule che ritenevo adatte a un caso del genere mentre avanzava più lentamente e, quando mi avvicinai, non si mosse. Parlai di nuovo e il fantasma mi rispose, con una voce che in realtà non era né udibile, né comprensibile. Non ero molto spaventato nel mio intimo e per questo continuai finché non parlò di nuovo e non mi diede soddisfazione. Ma l'opera non era ancora conclusa per il momento; per questo, quella sera stessa, un'ora dopo il tramonto, mi incontrai di nuovo con il fantasma nello stesso posto e, dopo poche parole da entrambe le parti, lo spettro svanì semplicemente e non sarebbe riapparso mai più, né avrebbe disturbato nessun altro mortale. Il dialogo del mattino era durato circa un quarto d'ora. Questi fatti sono realmente accaduti, e io so che sono veri con la stessa certezza che gli occhi e le orecchie mi hanno trasmesso; e, fintantoché non sarò persuaso che i miei sensi possono ingannarmi nelle loro funzioni, anche se con questa certezza mi privo di un fondamento basilare per credere nella religione cristiana, devo e voglio affermare che i fatti contenuti in questi fogli sono veri. Per quanto riguarda il mio modo di procedere, non trovo motivo di vergognarmi, perché potrei giustificarmi facilmente davanti a uomini di buoni princìpi, dotati di discernimento e vera cultura: in questo caso ho scelto di limitarmi a verificare io stesso quest'esperienza, piuttosto che preoccuparmi di convincere gli altri a crederci, perché so abbastanza bene con quanta difficoltà vengano accolti e ottengano fiducia racconti di questo genere. Chi racconta una storia simile può attendersi di essere trattato come un viaggiatore in Polonia che incontri i briganti, e cioè prima ucciso e poi interrogato: prima sarei stato condannato come bugiardo e superstizioso e poi, quando sarebbe stato troppo tardi, avrebbero ascoltato le mie ragioni ed esaminato le mie prove. Si può attribuire questa generale incredulità: Primo: agli innumerevoli abusi subiti dal popolo e alle imposizioni di fede imposte da monaci e frati furbi, in periodi di oscurantismo e papismo; costoro creavano apparizioni a loro piacimento e ottenevano denaro e auto-
rità, calmando i terriculamenta vulgi che loro stessi con i loro inganni avevano sollevato. Secondo: al diffondersi del Somatismo e dei princìpi di Hobbs in questo periodo, che rappresentano un ritorno della dottrina dei Sadducei; e, poiché questa nega la natura, non può nemmeno ammettere l'apparizione degli spiriti; per questo basta riferirsi al Leviathan, p. 1, c. 12. Terzo: all'ignoranza degli uomini del nostro tempo, in questa particolare e misteriosa sfera della filosofia e della religione che riguarda i rapporti fra gli spiriti e gli uomini. Nessuno studioso in mille anni (nemmeno nei campi fondamentali dello scibile umano) ha approfondito questo argomento o i possibili modi di affrontarlo. L'ignoranza genera paura e orrore verso ciò che altrimenti potrebbe essere di enorme beneficio per l'umanità. Ma, essendo un sacerdote, e per di più giovane e straniero da queste parti, per salvaguardare la mia sicurezza, è meglio che eserciti il silenzio e la segretezza. In rebus abstrusissimis abundans cautela non nocet. ANONIMO La danza del morto Molti secoli fa, se dobbiamo dar credito alle antiche Cronache germaniche, un anziano ed errabondo suonatore di cornamusa si fermò a Neisse, una cittadina della Slesia. Visse tranquillamente e onestamente, e in principio suonò le sue melodie in segreto per proprio divertimento; ma, dato che i vicini di casa, incantati nell'ascoltarlo, si raccoglievano spesso nella pace di una calda sera di piena estate attorno alla sua porta mentre lui produceva le gioiose note, non passò molto tempo prima che Mastro Willibald facesse la conoscenza di vecchi e giovani, che fosse adulato e vezzeggiato, e che quindi vivesse in contentezza e prosperità. I galanti damerini del luogo, che avevano visto vicino alla sua porta quelle belle creature, per amore delle quali avevano scritto tanta cattiva poesia e perduto ancor più tempo prezioso, furono suoi fedeli clienti di canzoni struggenti, i cui passaggi più teneri soffocavano con la profondità dei loro sospiri. I vecchi cittadini l'invitavano a solenni banchetti; e non c'era sposa che avrebbe considerato la sua festa nuziale ben celebrata se Mastro Willibald non avesse suonato la danza dello sposalizio di sua composizione.
Per questo scopo aveva inventato una melodia molto dolce, che univa gaiezza e gravità, idee scherzose e sentimenti malinconici, formando un vero emblema della vita matrimoniale. Un'esigua traccia di quest'aria si trova tuttora in quella che viene chiamata la «Danza del nonno» che al tempo dei nostri genitori era importante elemento di una festa nuziale, e di tanto in tanto la si sente ancor oggi. Tutte le volte che Mastro Willibald suonava questa melodia, la più pudica zitella non si rifiutava di ballare, la madre curva rimetteva in azione le sue giunture arrugginite dal tempo, e il nonno dai capelli grigi ballava allegramente con le giovani figlie dei suoi figli. Questa danza sembrava ridare veramente gioventù ai vecchi, e per questo fu chiamata, dapprima per burla e poi per abitudine «Danza del nonno». Un giovane pittore di nome Wido abitava con Mastro Willibald; pensavano che fosse suo figlio o figlio adottivo. L'effetto dell'arte del musicista su quel giovane andò perduto. Rimaneva silenzioso e triste quando Willibald gli suonava arie che ispiravano allegria; e ai balli ai quali era spesso invitato, Wido si mescolava raramente con la gaia comitiva. Si ritirava in un angolo e fissava gli occhi sulla più bella bionda presente nella stanza, senza osare rivolgerle la parola né offrirle la sua mano. Il padre di lei, Sindaco della cittadina, era un uomo fiero e altezzoso, che avrebbe considerato sminuita la propria dignità se uno sconosciuto pittore avesse posato gli occhi su sua figlia. Ma la bella Emma non condivideva l'opinione del padre: infatti la ragazza amava con tutto l'ardore della prima passione segreta quel giovane timido di bell'aspetto. Spesso, quando coglieva gli occhi espressivi di Wido che cercavano di osservarla di nascosto, perdeva la sua vivacità e concedeva al giovane del suo cuore una visione indisturbata del suo bel volto mutevole. Poi leggeva facilmente sulla faccia di lui, che si illuminava, l'eloquente gratitudine del suo cuore; e, sebbene lei distogliesse lo sguardo arrossendo, il colore delle sue guance e il luccichio dei suoi occhi alimentavano nuove fiamme d'amore e di speranza nel petto dell'innamorato. Mastro Willibald aveva promesso da tempo di aiutare il giovane malato d'amore a ottenere l'oggetto più caro alla sua anima. Talvolta pensò, come i maghi di un tempo, di tormentare il Sindaco con una danza incantata e di costringerlo, in stato di spossatezza, a concedere qualsiasi cosa; talvolta, come un novello Orfeo, propose di portar via con il potere della sua musica, la. dolce sposa dalla dimora tartarea di suo padre. Ma Wido ebbe sempre delle obiezioni: mai avrebbe permesso che il genitore della sua bella
fosse minimamente danneggiato, e sperava di conquistarlo con perseveranza e compiacenza. Willibald gli disse: «Sei un idiota, se speri di ottenere con un sentimento sincero e onorevole come il tuo amore, l'approvazione di quel ricco e orgoglioso vecchio sciocco. Non si arrenderà a meno che qualcuna delle Piaghe d'Egitto non lo colpisca. Allorché Emma sarà tua, e lui non potrà più cambiare ciò che è accaduto, lo troverai più amichevole e gentile. Mi rimprovero di averti promesso di non fare nulla contro la tua volontà, ma la morte salda ogni debito, e quindi ti aiuterò a modo mio». Il povero Wido non era il solo sul cui cammino della vita il Sindaco spargesse spine e rovi. L'intera comunità nutriva scarsissimo affetto per il capo della cittadina e coglieva ogni occasione per contrastarlo; infatti lui era duro e crudele e puniva severamente gli abitanti per trascurabili e innocenti manifestazioni d'allegria, a meno che non comprassero il perdono con forti multe e doni. Dopo l'annuale fiera del vino nel mese di gennaio, il Sindaco aveva l'abitudine di obbligarli tutti a versare i loro guadagni nelle sue casse per fare ammenda di passati divertimenti gioiosi. Un giorno, il Tiranno di Neisse aveva messo troppo a dura prova la loro pazienza e spezzò l'ultimo vincolo d'obbedienza degli oppressi cittadini. Il malcontento aveva scatenato una sommossa e riempito di terribile paura il persecutore; infatti i popolani avevano minacciato addirittura di dar fuoco alla sua casa e di bruciare lui insieme a tutte le ricchezze che aveva accumulato opprimendoli. In quel momento critico Wido andò da Mastro Willibald e gli disse: «Adesso, mio vecchio amico, è ora che tu mi aiuti con la tua arte, come spesso ti sei offerto di fare. Se la tua musica è davvero così potente come dici, vai e libera il Sindaco, calmando le masse infuriate. Come premio lui ti concederà qualsiasi cosa tu gli chieda. Spendi allora una parola per me e per il mio amore, e chiedi la mia amata Emma come prezzo del tuo aiuto». Il suonatore di cornamusa rise a quelle parole e rispose: «Dobbiamo soddisfare le follie dei bambini, al fine di impedire loro di piangere». Così prese la cornamusa e s'incamminò a lenti passi verso la piazza del municipio, dove i rivoltosi, armati di forconi, lance e torce accese, stavano per saccheggiare la residenza del molto poco onorevole Sindaco. Mastro Willibald si mise vicino a una colonna e cominciò a suonare la sua «Danza del nonno». Appena le note della canzone preferita furono udi-
te, le facce alterate dall'ira si rasserenarono e sorrisero, forconi e torce caddero dai pugni minacciosi, e gli infuriati assalitori si mossero con passi che seguivano il ritmo della musica. Alla fine la folla cominciò a ballare e la piazza, già teatro di rivolta e confusione, ebbe l'aspetto di un'allegra riunione festaiola. Il suonatore, con la sua magica cornamusa, avanzò per le strade e il popolo danzava dietro di lui; ognuno tornò ballando alla propria casa che poco prima aveva lasciato con sentimenti molto diversi. Il Sindaco, salvato dall'incombente pericolo, non sapeva come esprimere la propria gratitudine; promise a Mastro Willibald qualsiasi cosa lui avesse chiesto, anche se fosse stata la metà dei suoi beni. Ma il suonatore rispose, sorridendo, che le sue aspettative non erano così grandiose e che per se stesso non desiderava beni terreni di alcun genere; poiché, tuttavia, Sua Signoria il Sindaco aveva dato la sua parola di concedergli qualsiasi cosa gli avesse chiesto, lo implorò, con il dovuto rispetto, di concedere la mano della bella Emma al suo Wido. Ma, a quella proposta, l'altezzoso Sindaco fu fortemente contrariato. Trovò ogni possibile scusa e, poiché Mastro Willibald continuava a ricordargli la promessa, lui fece quello che i despoti del suo tempo erano abituati fare, e che quelli della nostra epoca illuminata fanno ancora: dichiarò che era stata offesa la sua dignità, accusò Mastro Willibald di essere un sovvertitore dell'ordine, un nemico della sicurezza pubblica, e gli concesse di dimenticare in prigione la promessa del suo Signore, il Sindaco. Non ancora soddisfatto, l'accusò di stregoneria, lo fece processare come colui che sosteneva essere il Pifferaio e l'Acchiappatopi di Hamlin, il quale godeva allora, e gode adesso, di cattiva fama nelle province germaniche per aver portato via mediante la sua arte infernale tutti i bambini di quella cittadina sfortunata. La sola differenza fra i due casi, disse l'erudito Sindaco, era che a Hamlin solo i bambini erano stati fatti ballare con la sua musica, ma lì giovani e vecchi parevano aver subito la stessa influenza magica. Con tali abili inganni, il Sindaco allontanò dal prigioniero ogni cuore pietoso. La paura della Negromanzia e l'esempio dei bambini di Hamlin agirono così fortemente che Balivi e Cancellieri scrivevano giorno e notte. Il segretario calcolò già la spesa del rogo funebre; il sagrestano chiese una nuova corda per suonare la campana a morto per il povero peccatore; i falegnami prepararono tribune per gli spettatori della prevista esecuzione capitale; e i giudici fecero le prove della grande scena che avrebbero recitato alla condanna del famoso Pifferaio Acchiappatopi. Ma se la giustizia era
abile, Mastro Willibald lo fu di più: infatti, dopo aver riso di cuore degli importanti preparativi per la sua fine, si distese sul pagliericcio e morì! Poco prima della sua morte aveva mandato a chiamare Wido e gli aveva parlato per l'ultima volta: «Giovanotto», gli aveva detto, «come vedi, con il tuo modo di considerare l'umanità e il mondo io non posso darti aiuto. Sono stanco dei capricci che la tua follia mi ha obbligato a fare. Ora hai acquistato abbastanza esperienza per comprendere che nessuno dovrebbe calcolare, o almeno fondare, i suoi piani sulla bontà della natura umana, anche se la persona stessa fosse troppo buona per perdere completamente la fede nella bontà degli altri. Per quanto mi riguarda, non conterei sull'adempimento della mia ultima richiesta a te, se il tuo stesso interesse non ti inducesse a eseguirla. Quando sarò morto, fai in modo che la mia cornamusa venga sepolta con me. Conservarla non ti servirebbe ma, se giace sottoterra con me, può essere motivo della tua felicità». Wido promise di osservare puntualmente gli ultimi ordini del vecchio amico, che poco dopo chiuse gli occhi. Non appena si diffuse la notizia dell'improvvisa morte di Mastro Willibald, vecchi e giovani vennero ad accertarne la verità. Il Sindaco fu più di ogni altro soddisfatto della svolta che la faccenda aveva preso; infatti l'indifferenza con cui il prigioniero aveva ricevuto la notizia della preparazione del rogo funebre aveva indotto Sua Signoria a supporre che il vecchio suonatore si sarebbe reso un bel giorno invisibile nella prigione, o meglio che non lo si sarebbe trovato più lì; oppure lo scaltro mago, posto sul rogo, avrebbe potuto far bruciare una pagliuzza invece della propria persona, con eterna vergogna del tribunale di Neisse. Perciò ordinò che il morto fosse sepolto il più rapidamente possibile, dato che non era stata ancora pronunciata la sentenza di bruciare il corpo. Un angolo non consacrato del cimitero, vicino al muro, fu il luogo assegnato all'eterno riposo del povero Willibald. Il secondino, come erede legale del defunto prigioniero, avendo esaminato gli oggetti di sua proprietà, chiese cosa si dovesse fare della cornamusa, il corpo del reato. Wido, che era presente, stava per fare la sua richiesta, quando il Sindaco, pieno di zelo, emise il suo giudizio: «Per evitare ogni possibile male, questo malvagio strumento senza valore sarà seppellito con il suo padrone». Così lo misero nella bara a fianco del morto, e al mattino presto suonatore e cornamusa furono portati via e seppelliti. Ma strane cose accaddero la
notte successiva. Le sentinelle sulla torre stavano vegliando, secondo l'uso dell'epoca, per dare l'allarme in caso d'incendio nella campagna attorno, e verso la mezzanotte videro, nel chiarore lunare, Mastro Willibald alzarsi dalla tomba vicino al muro del cimitero. Teneva la cornamusa sotto il braccio e, appoggiandosi a un'alta pietra tombale sulla quale la luna gettava i suoi raggi più luminosi, cominciò a suonare lo strumento usando il fiato e le dita, proprio come faceva da vivo. Mentre le sentinelle, stupite a quella vista, si guardavano l'una con l'altra circospette, molte altre tombe si aprirono e gli scheletri che le occupavano sbucarono fuori con i loro crani nudi, si guardarono attorno, dondolarono il capo al ritmo della musica, uscirono completamente dalle bare e mossero le loro scricchiolanti membra in un'agile danza. Dalle finestre della chiesa e dai cancelli dei sepolcri sotterranei altre orbite vuote guardarono il luogo della danza; le braccia rinsecchite cominciarono a scuotere i cancelli di ferro, finché serrature e catenacci si ruppero e gli scheletri uscirono, ansiosi di unirsi alla danza dei morti. Così i leggeri danzatori girarono tra tumuli e pietre tombali, turbinarono in un allegro valzer facendo svolazzare i loro sudari attorno alle membra senza carne, fino a quando l'orologio della chiesa non suonò le dodici e allora tutti i danzatori, grandi e piccoli, tornarono nelle loro strette celle. Allora il suonatore rimise la cornamusa sotto il braccio e parimenti tornò nella bara vuota. Molto prima dell'alba una sentinella svegliò il Sindaco e, con labbra tremanti e ginocchia deboli, gli fece un pauroso rapporto sull'orribile scena notturna. Il Sindaco ordinò alle sentinelle di mantenere il segreto e promise di montare la guardia con loro la notte seguente. Ciò nonostante, la notizia si diffuse presto nella cittadina, e quella sera tutte le finestre e i tetti lì intorno brulicavano di amatori e conoscitori delle vecchie Arti Magiche, i quali, anticipatamente, furono impegnati in discussioni sulla possibilità o impossibilità degli eventi che speravano di vedere prima di mezzanotte. Il suonatore di cornamusa non era in ritardo. Al primo rintocco della campana che annunciava le undici si alzò lentamente, si appoggiò alla pietra tombale e cominciò a suonare. Gli ospiti del ballo apparentemente aspettavano la musica, perché alle prime note si affrettarono a uscire dalle tombe e dai sepolcri sotterranei, dai tumuli erbosi e dalle pesanti pietre. Cadaveri e scheletri, in sudari o nudi, alti e bassi, uomini e donne, corsero avanti e indietro, muovendo passi di danza e giravolte, vorticando attorno
al suonatore, più svelti o più lenti secondo il ritmo della canzone, finché l'orologio non batté la mezzanotte. Allora danzatori e suonatore tornarono a riposare. Gli spettatori vivi, alle finestre e sui tetti, confessarono allora che «ci sono più cose in cielo e sulla terra di quante non ne contempli la nostra filosofia». Il Sindaco, che si era appena ritirato dalla torre, ordinò che il pittore fosse imprigionato quella notte stessa, sperando di venire a sapere, interrogandolo o magari sottoponendolo alla tortura, come quel fastidio magico del suo padre adottivo potesse essere eliminato. Wido non mancò di rammentare al Sindaco quanto fosse stato ingrato nei confronti di Mastro Willibald, e sostenne che il defunto turbava la cittadina, privava i morti del loro riposo e i vivi del loro sonno solo perché aveva ricevuto il suo sprezzante rifiuto, invece della promessa ricompensa per averlo liberato, e che inoltre era stato gettato in prigione molto ingiustamente e sepolto in modo umiliante. Questo discorso impressionò molto i magistrati; ordinarono subito che il corpo di Mastro Willibald fosse tolto dalla tomba e messo in un luogo più rispettabile. Il sagrestano, per dimostrare l'intuizione del caso, tolse la cornamusa dalla bara e l'appese sopra il letto. Ragionò così: se il suonatore incantatore o incantato non poteva fare a meno di esercitare la sua professione anche nella tomba, almeno non avrebbe potuto suonare per i danzatori senza il suo strumento. Ma quella notte, dopo che l'orologio aveva battuto le undici, lui udì distintamente un colpetto alla porta e, quando l'aprì, aspettandosi un incidente mortale e lucroso che richiedesse la sua esperienza, vide il sepolto Mastro Willibald in persona. «La mia cornamusa», disse quello molto tranquillamente e, passando davanti al tremante sagrestano, la staccò dalla parete dove era appesa; poi tornò alla pietra tombale e cominciò a suonare. Gli ospiti, invitati dalla melodia, giunsero come la notte precedente, e si stavano preparando per la loro danza di mezzanotte nel cimitero. Ma questa volta il suonatore si mise in marcia e varcò il cancello con il suo numeroso e spettrale seguito per andare in città; guidò la parata notturna per tutte le strade fino a quando l'orologio non batté le dodici e tutti tornarono nel loro luogo di riposo. Gli abitanti di Neisse cominciarono a temere che gli spaventosi vagabondi notturni potessero presto entrare nelle loro case. Alcuni dei magistrati principali supplicarono caldamente il Sindaco di spezzare l'incantesimo rispettando la parola data al suonatore. Il Sindaco non ne volle sape-
re; anzi sostenne che Wido partecipava alle arti infernali del vecchio Acchiappatopi e aggiunse: «L'imbrattatele si merita il rogo funebre più che il letto nuziale». Ma la notte seguente gli spettri danzanti tornarono in città e, sebbene non si udisse la musica, essa era visibile grazie alle loro emozioni, perché i danzatori eseguivano le evoluzioni della «Danza del nonno». Quella notte si comportarono molto peggio di prima. Si fermarono alla casa dove abitava una fanciulla fidanzata, e qui volteggiarono in una danza scatenata, attorno a un'ombra che somigliava perfettamente alla nubile in onore della quale fecero la notturna danza nuziale. L'indomani tutta la cittadina era in lutto, perché tutte le fanciulle le cui ombre erano state viste danzare con gli spettri erano morte improvvisamente. La stessa cosa successe la notte dopo. Gli scheletri danzanti volteggiarono davanti alle case e, dovunque furono visti, l'indomani mattina c'era una sposa morta sul cataletto. I cittadini erano decisi a non esporre figlie e amanti a tale incombente pericolo. Minacciarono il Sindaco di trascinare via Emma con la forza e di portarla da Wido, a meno che lui non acconsentisse alla loro unione da celebrarsi prima del calare della sera. La scelta fu difficile ma, trovandosi nell'insolita situazione in cui un uomo può scegliere in piena libertà, lui, come essere libero, dichiarò liberamente che la sua Emma andasse sposa a Wido. Molto prima dell'ora degli spettri, gli ospiti si sedettero al tavolo nuziale. Il primo rintocco della campana suonò e immediatamente si udì la canzone preferita della nota danza nuziale. Gli ospiti, spaventati a morte e temendo che l'incantesimo durasse ancora, si affrettarono ad andare alle finestre e videro il suonatore di cornamusa, seguito da una lunga fila di figure in sudari bianchi, avanzare verso la casa degli sposi. Lui rimase sulla porta e suonò; ma la processione andò avanti lentamente e raggiunse perfino il salone della festa. Qui gli strani ospiti pallidi si strofinarono gli occhi e si guardarono attorno pieni di stupore, come dei sonnambuli appena svegliatisi. I partecipanti al banchetto fuggirono a nascondersi dietro sedie e tavoli, ma presto le guance dei fantasmi si colorirono, le labbra bianche divennero boccioli di rosa; essi si guardarono l'un l'altro pieni di meraviglia e di gioia, e voci conosciute chiamarono nomi di amici. Presto resuscitarono, tutti fiorenti di giovinezza e di salute; e chi potevano essere se non le promesse spose la cui morte improvvisa aveva gettato nel lutto la cittadina intera e
che, ripresesi da un sonno incantato, erano state condotte da Mastro Willibald, con la sua cornamusa magica, fuori dalle loro tombe e alla festa nuziale. Il meraviglioso vecchio suonò un'ultima allegra canzone d'addio e scomparve. Non fu più visto. Wido ritenne che il suonatore di cornamusa altri non fosse che il famoso Spirito dei Monti della Slesia. Il pittore lo aveva incontrato una volta quando viaggiava sulle colline e aveva ottenuto (non seppe mai come) il suo favore. Lui aveva promesso al giovane di assisterlo nella sua causa d'amore e aveva mantenuto la parola, benché alla sua maniera burlesca. Wido rimase per tutta la vita il beniamino dello Spirito dei Monti. Si arricchì, divenne celebre. La sua cara Emma gli diede ogni anno un bel figlio, i suoi quadri furono richiesti persino in Italia e in Inghilterra; e gli esemplari della Danza dei morti che Basilea, Anversa, Dresda, Lubecca e molte altre città si vantano di avere, sono soltanto copie o imitazioni del dipinto originale di Wido, che lui aveva eseguito in ricordo della vera Danza dei morti a Neisse! Ma, ahimè! quella pittura è perduta, e nessun collezionista di quadri è stato ancora capace di trovarla per la gratificazione dei conoscitori e a vantaggio della storia dell'arte. ANN LETITIA BARBAULD Sir Bertrand Sir Bertrand fece girare il suo destriero verso le lande desolate, sperando di attraversare le tetre brughiere prima del coprifuoco. Ma non aveva percorso metà del suo cammino quando fu disorientato dai troppi sentieri e, non riuscendo a scoprire, fin dove l'occhio vedeva, niente all'infuori della scura erica tutta intorno, fu molto incerto su che direzione prendere. L'oscurità lo colse in quella situazione. Era una di quelle notti in cui la luna manda un debole chiarore da dietro una cappa di nuvole nere in un cielo minaccioso. Di tanto in tanto emergeva in tutto il suo splendore, e poi d'un tratto si nascondeva dietro il velo delle nubi, dopo aver dato al povero Sir Bertrand un'ampia visione della distesa desolata. Speranza e coraggio innato lo spronarono ad andare avanti, ma poi l'infittirsi dell'oscurità e la stanchezza del corpo e della mente ebbero ragione di lui; non volle muoversi da dove era, per paura di trovare burroni e paludi che non conosceva; disperato, scese da cavallo e si distese sul terreno. Non era da molto in quella posizione quando il cupo rintocco di una
campana lontana colpì le sue orecchie; si alzò di scatto e, volgendosi nella direzione del suono, scorse il debole balenio di una luce. Afferrò subito le briglie del cavallo e avanzò a cauti passi verso quel chiarore. Dopo una marcia penosa si fermò davanti a un cinto di fossato che circondava il luogo da cui la luce proveniva; in un momentaneo sprazzo di chiarore lunare vide un grande maniero antico, con torri agli angoli e un ampio cortile al centro. I danni provocati dal tempo erano visibili ovunque. In vari punti il tetto era crollato, i bastioni erano mezzi demoliti, le finestre rotte e spoglie. Un ponte levatoio con un rovinatissimo portone a ciascuna estremità, conduceva al cortile antistante l'edificio. L'uomo entrò, e subito la luce che veniva dalla finestra di una delle torri, si mosse e svanì; nello stesso momento, la luna si nascose dietro una nube nera e la notte fu più buia che mai. Silenzio totale. Sir Bertrand legò il destriero sotto una tettoia e, avvicinatosi al maniero, ne percorse la facciata con passi leggeri e lenti. C'era una quiete di morte. Guardò le finestre più basse, ma non distinse nulla nelle tenebre impenetrabili. Dopo un breve colloquio con se stesso, entrò nel cortile e, scorto un massiccio battente di ferro al portone lo sollevò, esitò un momento e poi lo picchiò con forza. Il rumore risuonò per tutto il maniero con echi cavernosi. Ancora silenzio; ripeté i colpi più arditamente; seguì un intervallo; bussò la terza volta e il silenzio continuò. Allora retrocesse un po' per vedere se c'era qualche luce sulla facciata. Essa riapparve al solito posto, ma si dileguò velocemente come prima, e nello stesso istante un cupo rintocco giunse dalla torre. Il cuore di Sir Bertrand quasi si fermò per la paura e lui restò immobile; poi il terrore lo costrinse a muoversi in fretta verso il cavallo... ma la vergogna gli impedì di fuggire e, sia per una questione d'onore, sia per l'irrefrenabile desiderio di vivere fino in fondo l'avventura, ritornò nel cortile; infondendo nell'anima fermezza e risolutezza, con una mano estrasse la spada e con l'altra sollevò la nottola del portone. Il pesante battente, cigolando sui cardini, cedette riottoso alla sua mano tanto che lui dovette aiutarsi con la spalla per aprirlo; entrò e andò avanti, mentre il portone si richiudeva all'istante con un rumore fragoroso. A Sir Bertrand si gelò il sangue; si voltò per ritrovarlo a tentoni e gli ci volle un po' prima di afferrarlo; ma, per quanta forza impiegasse, non riuscì a riaprirlo. Dopo vari, inutili tentativi, guardò alle sue spalle e vide, su
un largo scalone oltre un vestibolo, una fiamma celestina che gettava un lugubre chiarore tutto intorno. Raccolse tutto il suo coraggio e andò verso la luce. Essa si ritirò. Giunse ai piedi dello scalone e, dopo averci pensato un momento, proseguì. Mentre saliva lentamente, la fiamma si ritirò, e infine arrivarono a un'ampia galleria. La fiamma la percorse e lui la seguì in silenzioso orrore, con andatura leggera perché l'eco dei propri passi lo spaventava. La luce lo guidò ai piedi di un'altra scala e svanì. In quell'istante, dalla torre, risuonò un altro rintocco. Sir Bertrand lo sentì rimbombare nel cuore. Era nella totale oscurità, e con le braccia tese in avanti cominciò a salire la seconda scala. Una mano freddissima trovò la sua sinistra e gliel'afferrò, tirandolo decisamente; lui tentò di liberarsi, ma non poté; assestò un furibondo colpo di spada e un forte strillo gli squarciò le orecchie; la mano tagliata restò senza forza nella sua. Lui la lasciò andare e si precipitò in avanti con il coraggio della disperazione. La scala era stretta e ricurva, interrotta da frequenti rotture e da frammenti sparsi di pietra. Divenne sempre più stretta e finì di fronte a un basso cancello di ferro. Sir Bertrand l'aprì con una spinta; oltre trovò un intricato passaggio tortuoso, grande appena perché una persona vi camminasse carponi. Un debole chiarore di luce servì a mostrargli la natura del luogo. Sir Bertrand vi entrò. Risuonò un cupo lamento proveniente da lontano. Lui andò avanti e, superata la prima curva, scorse la stessa fiamma celestina che l'aveva guidato in precedenza. La seguì. Infine il cunicolo sboccò in una galleria alta, al centro della quale apparve una figura in completa armatura, che protendeva il moncone sanguinante di un braccio con un cipiglio terribile e un gesto minaccioso, brandendo la spada. Impavido, Sir Bertrand balzò in avanti, pronto a sferrare un violento colpo alla figura; essa scomparve all'istante, lasciando cadere una grossa chiave di ferro. La fiamma si era posata su un'ampia porta scorrevole a due battenti in fondo alla galleria. Sir Bertrand andò lì e infilò la chiave in una serratura d'ottone, ebbe difficoltà a girarla, ma poi la porta si aprì, mostrando una grande stanza in fondo alla quale stava una bara su un cataletto, con una candela accesa a ogni lato. Lungo le pareti laterali c'erano statue gigantesche di marmo nero, in abbigliamento moresco e con enormi sciabole nella mano destra. Ognuna di
esse portò un braccio indietro e una gamba avanti quando il cavaliere entrò; nello stesso momento, il coperchio della bara si sollevò e la campana suonò. La fiamma continuò a scivolare avanti e Sir Bertrand la seguì con determinazione finché non arrivò a sei passi dalla bara. D'un tratto una signora avvolta in un sudario e con un velo nero si alzò da essa e tese le braccia verso l'uomo; contemporaneamente, le statue fecero risuonare le loro sciabole e vennero avanti. Sir Bertrand si precipitò verso la signora e la prese tra le braccia; lei sollevò il velo e lo baciò sulle labbra; immediatamente il maniero tremò come per un terremoto e crollò a pezzi con un fracasso terribile. Sir Bertrand cadde in un'improvvisa trance e, quando riprese i sensi, si ritrovò seduto su un divano di velluto nella stanza più bella che avesse mai visto, illuminata da numerose candele su lampadari a goccia di puro cristallo. In mezzo era preparato un sontuoso banchetto. La porta che si aprì fece entrare una dolce musica e una dama d'incomparabile bellezza, splendidamente vestita e circondata da uno stuolo di allegre ninfe più bionde delle Grazie. La dama si avvicinò al Cavaliere e, inginocchiatasi, lo ringraziò per essere stato il suo salvatore. Le ninfe posero una ghirlanda di lauro sulla testa di lui e la donna lo condusse per mano alla tavola imbandita, dove i due sedettero. Le ninfe presero i loro posti, mentre una musica deliziosa continuava a suonare. Sir Bertrand non riuscì a parlare per lo stupore; agli onori che gli tributavano rispose con sguardi e gesti cortesi. ANONIMO Il calzolaio di Selkirk C'era una volta a Selkirk un calzolaio di nome Rabbie Heckspeckle, assai noto per la sua abilità di artigiano e per altri requisiti di natura meno lucrosa. Rabbie era un uomo magro, dall'aria miserabile, con capelli neri lisci, dall'aspetto cadaverico, e con un lungo naso flessibile che fiutava i segreti. In breve era lo spione della cittadina. Se una comare del luogo comprava una nuova mantella scarlatta, Rabbie lo sapeva al primo lamento sul costo; se il dottore cenava con il prete, Rabbie poteva dire se la testicciola o il guazzetto di frattaglie era stato il loro piatto principale; si diceva anche che lui fosse edotto sul grugnito di ogni scrofa e sullo schiamazzo di ogni gallina del vicinato, ma questo richiede conferma.
Sua moglie, Bridget, tentava di limitare la sua digressiva inclinazione e di costringerlo a stare in bottega con la lesina; ma la sua interferenza otteneva quel grado di attenzione che i mariti usualmente concedono ai consigli delle loro metà; in altre parole, Rabbie le diceva che lei non sapeva nulla della cosa, che avrebbe dovuto ampliare la sua conoscenza, e infine che se si permetteva di impicciarsi dei suoi affari lui sarebbe stato costretto a darle una bella lezione. Per avere il tempo libero necessario per le sue indagini, Rabbie aveva l'abitudine di mettersi al lavoro molto prima dell'alba. Una mattina era occupato a dare gli ultimi punti a un paio di scarpe per il daziere, quando la porta del suo alloggio, che lui credeva ben sprangata, si aprì all'improvviso e un'alta figura avvolta in un largo mantello nero, con cappello a larghe falde calato sugli occhi, entrò con passo maestoso nella bottega. Rabbie strabuzzò gli occhi a quella vista, chiedendosi cosa avesse portato lì quel visitatore a un'ora così insolita, e si stupì soprattutto che uno sconosciuto fosse arrivato nella cittadina senza che lui fosse venuto a saperlo. «Siete in piedi molto presto, signore», disse Rabbie. «Il gallo di Lucky Wakerife non canterà che fra mezz'ora.» Lo sconosciuto non diede alcuna risposta; ma, prendendo una delle scarpe che Rabbie aveva appena finito, se l'infilò al piede e fece il giro della bottega per provare se gli andava stretta. Durante queste operazioni, Rabbie non perse d'occhio il suo cliente. «Emana un odore schifoso», borbottò Rabbie tra sé, «e sarei pronto a giurare che è uscito dal vomere dell'aratro.» Lo sconosciuto, apparentemente soddisfatto della prova, fece cenno a Rabbie di dargli l'altra scarpa, e tirò fuori un sacchetto per pagare l'acquisto; ma si può immaginare la sorpresa di Rabbie quando, guardando il sacchetto, notò che era macchiato da una specie di muffa del terreno. «Bontà divina», pensò Rabbie, «questo strano uomo deve avere preso quel sacchetto da sotto terra. Vorrei sapere dove. Dicono che ci siano dei sacchi d'argento seppelliti qui vicino.» Intanto lo sconosciuto aveva aperto il sacchetto e, così facendo, un rospo e uno scarabeo caddero sul pavimento, e un grosso baco, strisciando fuori, gli si attorcigliò al dito. Rabbie sgranò gli occhi, ma lo sconosciuto, con aria indifferente, gli tese una moneta d'oro e indicò l'altra scarpa. «È una cosa moralmente impossibile», rispose Rabbie a quella muta proposta. «Devo dirvi che ho promesso al daziere di fargliele trovare pronte alla prima luce del giorno, che non tarderà molto ad arrivare», in quel
mentre lo sconosciuto guardò con ansia verso la finestra, «e, credetemi, è meglio offendere il re in persona che il daziere.» Lo sconosciuto batté energicamente sul pavimento il piede con la scarpa, ma Rabbie fu irremovibile; tuttavia si offrì di fargliene un paio in ventiquattr'ore; e siccome lo sconosciuto, a ragione in fondo, pensò che mezzo paio di scarpe era utile quanto mezza forbice, si vide costretto a venire a patti. Si sedette sullo sgabello a tre gambe e tese la gamba al calzolaio, il quale, accosciatosi, prese sulle ginocchia il piede del taciturno cliente e procedette alle misurazioni. «L'avete un po' largo e piatto, signore», disse Rabbie con aria saputa. Nessuna risposta. «Dove devo portare le scarpe quando sono fatte?», chiese Rabbie, curioso di scoprire il domicilio del visitatore. «Passerò io a prenderle prima che il gallo canti», rispose l'altro con voce assai strana e indescrivibile. «Oh no, signore», disse Rabbie. «Non posso darvi il disturbo di venire voi stesso; sarà un piacere per me portarvele a casa.» «Su questo ho i miei dubbi», rispose lo sconosciuto con la medesima voce strana, «e in ogni caso la mia casa non ci conterrebbe entrambi.» «Dev'essere davvero piccola», rispose Rabbie, «ma ora che ho preso le misure di Vostro Onore...» «Prendete le vostre!», replicò lo sconosciuto e, data una pedata a Rabbie, che finì a terra, uscì dalla bottega con disinvoltura. L'inaspettato smacco suo e dei suoi progetti contrariò momentaneamente il calzolaio; ma poi, rimessosi svelto in piedi, si precipitò alla porta, che raggiunse proprio quando il gallo di Lucky Wakerife annunciava l'alba. Rabbie corse lungo un lato della via, ma tutto era tranquillo; corse dal lato opposto, dove la via terminava al cimitero presso la chiesa; vide soltanto le immobili tombe dall'aspetto freddo sotto la grigia luce del mattino invernale. Rabbie spinse indietro il berretto da notte rosso e si grattò la testa, perplesso. «Ebbene», brontolò tornando sui suoi passi, «questa volta me l'ha fatta, ma che mi pigli un colpo se non lo seguirò domani mattina.» Con indicibile sorpresa di sua moglie, Rabbie rimase tutto il giorno inchiodato al suo sgabello, come se fosse stato sfidato da un fratello del mestiere, e per ventiquattr'ore il suo lungo naso non fu visto gettare un'ombra sulla soglia della bottega; la cosa apparve così straordinaria che i vicini, tutti quanti, la considerarono indizio di un prodigio; ma se avesse assunto
la forma di una cometa che li avrebbe inondati con la sua ardente coda, o di un terremoto che li avrebbe inghiottiti, non poté essere appurato con soddisfazione degli interessati. Intanto Rabbie continuò diligentemente il suo lavoro, senza curarsi delle faccende dei vicini. Cosa importava a lui se la mucca di Jenny Thrifty aveva figliato, se la serva del prete, con qualcosa nel grembiale, era stata vista entrare due volte da Lucky Wakerife, se la ragazza che lavorava nella cascina del proprietario terriero era stata vista rubare il denaro contante al calar della notte, se il tamburo era passato per la cittadina annunciando che una pecora doveva essere uccisa venerdì? Davanti ai suoi occhi c'era soltanto la figura dello sconosciuto, e mucca, ragazza della cascina, o tamburo, potevano andare a farsi friggere. Era notte fonda quando Rabbie finì di lavorare e, messe le scarpe nuove a lato del letto, si distese vestito e si addormentò, ma la paura di non essere ben vigile quando fosse arrivato il nuovo cliente, lo spinse ad alzarsi assai prima dello spuntar del giorno. Aprì la porta e guardò in strada, ma era ancora tanto buio che non vedeva a un metro dal naso; rientrò in casa borbottando: «Che guaio lo trattiene?». E proprio allora una voce al suo fianco disse: «Dove sono le mie scarpe?». «Qui, signore», rispose Rabbie in un impeto di gioia. «Eccole, giuste e ben fatte, e le porterete con grande piacere perché è meglio avere addosso scarpe che lenzuola, come dice il vecchio proverbio.» «Forse io ho addosso le une e le altre», disse lo sconosciuto. «Dio ci salvi!», esclamò Rabbie. «Dormite con le scarpe?» Lo sconosciuto non rispose ma, lasciata una moneta d'oro sul tavolo, prese le scarpe e uscì. «Adesso tocca a me», disse Rabbie fra sé, mettendosi furtivamente a seguirlo. Lo sconosciuto camminava lentamente e Rabbie lo pedinò con attenzione; seguiva la via dalla parte della chiesa, e il calzolaio dietro. «Santo cielo, dove va?», disse fra sé Rabbie vedendo che lo sconosciuto entrava nel cimitero. «Si dirige verso quella tomba in angolo; ora si ferma... ora si siede. Per l'amor di Dio! Che fine ha fatto?» Rabbie si strofinò gli occhi, guardò in tutte le direzioni, ma, mira e rimira, lo sconosciuto era svanito. «C'è qualcosa di misterioso in questo», pensò, «comunque metterò un
segno sul posto.» E dopo avere conficcato la lesina nella tomba si affrettò a tornare a casa. La notizia si diffuse di bocca in bocca e, quando il sole rosso fu alto sulla cittadina, tutti gli abitanti erano in subbuglio; dopo aver tenuto vari conciliaboli, fu deciso all'unanimità di andare in corteo al cimitero e di aprire la tomba ritenuta sospetta. L'intera popolazione del Kirk Wynd affluì per adempiere a tale servizio. Uomini, donne, bambini, tutti si affrettarono a seguire Rabbie alla rinfusa. Egli condusse i suoi Mirmidoni direttamente alla tomba in cui il suo misterioso cliente era scomparso e dove ritrovò la sua lesina ancora infilata, così come l'aveva lasciata. Tutte le braccia si misero subito al lavoro: la tomba fu aperta, il coperchio della bara forzato, e fu esposto alla vista un cadavere in abiti funebri, ma con un paio di scarpe nuove calzate da lunghi piedi ossuti. A quella vista spaventosa la folla fuggì disordinatamente, in testa a tutti Lucky Wakerife, lasciando Rabbie e pochi altri ardimentosi artigiani a sistemare le cose come preferivano con lo scheletro peripatetico. Si tenne un conciliabolo e si decise di richiudere la bara e di rimetterla nella fossa. Prima di far ciò, tuttavia, Rabbie propose di togliere le scarpe al suo cliente, rilevando che a lui non servivano, così come a un carro non servono tre ruote. Non essendovi obiezioni, Rabbie si avvicinò ai piedi del morto e sfilò le scarpe in un baleno. Poi inchiodarono il coperchio con una cinquantina di grossi chiodi e, dopo avere ricoperto la fossa con uno spesso strato di zolle erbose, tornarono ognuno alla propria abitazione. Successivamente Rabbie fu preso da qualche rimorso di coscienza riguardo all'opportunità di avere privato il cadavere di quanto era stato onestamente comprato e pagato. Non poté fare a meno di pensare che, se il fantasma era disturbato dai piedi freddi, circostanza nient'affatto improbabile, il suo desiderio di rimediarvi era stato naturale. Tuttavia, considerando che l'aver fatto un paio di scarpe per un defunto sarebbe stata una macchia perenne sulla reputazione degli Heckspeckle e riflettendo che il suo cliente, legalmente morto, non poteva appellarsi a nessun tribunale per avere soddisfazione, il nostro calzolaio decise audacemente di accettare le conseguenze del suo atto. L'indomani mattina, secondo le abitudini, si alzò molto prima che facesse giorno e si mise a lavorare cantando a squarciagola le vecchie canzoni dei «Calzolai di Selkirk». Ma, poco prima dell'alba, sua moglie, che era a letto nella stanza posteriore, notò che nel bel mezzo del suo canto preferito
la voce di Rabbie si era tramutata in un suono tremulo per poi esplodere in un urlo di terrore; poi udì un rumore come di persone che lottavano, e infine un silenzio di tomba. La buona donna s'infilò svelta i vestiti e corse nella bottega, dove trovò lo sgabello a tre gambe ridotto a pezzi, il pavimento cosparso di peli ruvidi, la porta spalancata, e Rabbie sparito! Bridget corse alla porta e là scoprì subito delle orme di passi ben impresse nel terreno. Seguendole con ansia, quale non fu il suo terrore nel vedere che terminavano nel cimitero, alla tomba del cliente di Rabbie! La terra attorno alla tomba mostrava segni di una violenta lotta, e parecchi ciuffi di capelli neri e lisci erano sparsi sull'erba. Mezza impazzita, la donna percorse la cittadina comunicando la spaventosa notizia. Una folla si radunò e si levò il grido di riaprire la tomba. Vanghe, picconi e zappe furono presto requisiti; la terra fu rimossa, il coperchio della bara nuovamente tolto, e dentro giaceva lo spettrale occupante con le scarpe nuove ai piedi e la berretta rossa di Rabbie stretta nella mano destra! La popolazione, costernata, fuggì dal cimitero e nulla è mai più trapelato che gettasse qualche luce sul triste fato del calzolaio di Selkirk. HEINRICH VON KLEIST La mendicante di Locarno Nell'Italia settentrionale, nelle Prealpi vicine a Locarno, sorgeva una volta un castello di proprietà di un vecchio Marchese italiano: venendo dal Passo San Gottardo se ne scorgono ancora le rovine. Il castello aveva ampie stanze dagli alti soffitti e, in una di queste, un giorno la castellana, impietositasi per una vecchia inferma che si era presentata alla sua porta per chiedere l'elemosina, le aveva permesso di riposare su un pagliericcio che aveva fatto preparare per lei. Per caso il Marchese, tornando dalla caccia, era entrato nella sala per appendere come al solito il suo fucile. Adirato, aveva ordinato alla donna di alzarsi dal suo angoletto e di accucciarsi dietro la stufa. Mentre la vecchia si alzava, una delle sue stampelle le sfuggì sul pavimento lucido, ed essa cadde. La caduta le causò una brutta frattura alla parte bassa della schiena, ma riuscì non senza grandi difficoltà ad alzarsi in piedi, attraversò la stanza, e crollò gemendo e rantolando dietro la stufa, dove spirò. Diversi anni più tardi, quando il Marchese si trovava in difficoltà finanziarie a causa della guerra e a causa di un periodo di cattivi raccolti, rice-
vette la visita di un Cavaliere fiorentino, che desiderava acquistare il castello a causa della sua posizione molto favorevole. Il Marchese, desideroso di effettuare la vantaggiosa transazione, ordinò alla moglie di far preparare per il loro ospite la stanza che abbiamo menzionato, che era rimasta vuota ed era arredata con mobili sontuosi e belli. Ma, nel mezzo della notte, con grande costernazione, i due coniugi videro il gentiluomo scendere le scale, pallido e sconvolto. Egli diede loro la sua parola d'onore che la stanza era stregata. Qualcosa, rimasta invisibile all'occhio umano, si era alzata da un angolo e si era udito un rumore come di un corpo che si alzasse da un giaciglio di paglia. Poi, a passi lenti e incerti, aveva attraversato la stanza da un lato all'altro, per poi crollare, gemendo e rantolando, dietro la stufa. Il Marchese, in preda a un sentimento di sconcerto che lui stesso non riusciva a spiegarsi, tentò di dissipare i timori del suo ospite con un'ilarità forzata, dichiarando che, per calmarli, si sarebbe alzato e avrebbe passato le ore della notte che ancora rimanevano a fare compagnia al Cavaliere nella sua stanza. Ma il Cavaliere lo pregò di permettergli di rimanere nella stanza da letto del Marchese, e di poter dormire in una poltrona. Al mattino ordinò la sua carrozza, si congedò, e partì. L'incidente fece una grande impressione e il Marchese fu molto contrariato dal fatto che quella vicenda finì per scoraggiare diversi possibili acquirenti. Quindi, quando i suoi stessi servi cominciarono a ripetere le strane e inspiegabili voci circa un fantasma che camminava a mezzanotte per la stanza, egli si decise a mettere fine a quella diceria verificando di persona la faccenda durante la notte seguente. Fu così che, quando scese la sera, fece preparare il suo giaciglio in quella stanza particolare dove, senza addormentarsi, avrebbe atteso la mezzanotte. Agghiacciato, infatti, al rintocco dell'ora delle streghe, udì dei suoni inspiegabili. Pareva che qualcuno si alzasse da un giaciglio di paglia frusciante, attraversasse la stanza da una parte all'altra per poi crollare gemendo, con rantoli di agonia mortale, dietro la stufa. Quando scese - il giorno seguente - la Marchesa gli chiese il risultato delle sue ricerche. Egli allora, gettando attorno sguardi apprensivi e incerti, sbarrò la porta e l'assicurò del fatto che quelle voci dicevano il vero. Nel sentire quelle parole, la donna fu colta dal terrore come non le era mai accaduto prima in vita sua, e lo supplicò di non rendere nota la cosa finché non avesse di nuovo fatto la prova, a sangue freddo, in sua presenza.
Ma ecco che, durante la notte seguente, i due coniugi e il loro fedele servitore, che aveva acconsentito ad accompagnarli, udirono tutti gli stessi inspiegabili suoni misteriosi. Solo grazie al loro forte desiderio di disfarsi a tutti i costi del castello i due riuscirono a mascherare il loro terrore in presenza del servitore, e ad attribuire l'accaduto a una causa fortuita e accidentale che prima o poi avrebbe fornito la spiegazione. La terza sera i due erano ormai decisi a chiarire una volta per tutte quella faccenda, e si erano recati con il cuore in subbuglio nella stanza degli ospiti, quando casualmente, il cane di casa, che era stato slegato, andò loro incontro sulla porta. Senza consultarsi circa la motivazione del loro gesto, forse spinti dall'istintivo desiderio di poter godere della compagnia di un altro essere vivente, i Marchesi presero con loro il cane ed entrarono nella stanza. Verso le undici i due si sedettero sul letto. Sul tavolo ardevano due candele. La Marchesa era vestita di tutto punto, mentre il Marchese aveva una spada e delle pistole che aveva preso dall'armadio, e che teneva pronte al fianco. E, mentre stavano seduti tentando come meglio potevano di distrarsi conversando, il cane si accucciò a terra nel mezzo della stanza, poggiò la testa sulle zampe e si addormentò. Ben presto, allo scoccare della mezzanotte, si udirono nuovamente quegli orribili suoni: un essere invisibile agli occhi degli esseri umani, qualcuno con delle grucce, si era alzato, ed era fermo nell'angolo della stanza; poi si udì il fruscio della paglia, il toc toc dei passi che avanzavano: dapprima il cane si era svegliato e, tutto teso, con le orecchie rizzate, aveva cominciato a ringhiare e ad abbaiare proprio come se una persona gli stesse venendo incontro, ma poi si ritrasse verso la stufa. A quella vista la Marchesa, con i capelli ritti sul capo per il terrore, fuggì fuori dalla sala. Suo marito, afferrando la spada, urlò: «Chi va là?» e, quando non ricevette alcuna risposta, si lanciò in tutte le direzioni come un indemoniato, fendendo l'aria. Allora la nobildonna ordinò la sua carrozza, decisa a partire in direzione della città. Ma aveva appena finito di radunare pochi oggetti, e la carrozza aveva cominciato a sferragliare attraverso il portale d'ingresso, quando vide l'intero castello illuminarsi in preda alle fiamme che si sprigionavano attorno a lei. Il Marchese, in preda all'orrore, aveva afferrato una candela e, ormai stanco della vita, aveva appiccato fuoco ai quattro angoli della costruzione, le cui stanze erano interamente rivestite di legno. Invano essa mandò i suoi servitori per tentare di soccorrere lo sfortunato.
Egli era già perito miseramente, e ancora oggi le sue ossa biancheggianti, ricomposte dalla gente del luogo, giacciono in quell'angolo della stanza in cui aveva ordinato alla mendicante di Locarno di alzarsi dal suo giaciglio. WALTER SCOTT La storia di Willie il Vagabondo Forse avrete sentito parlare di Sir Robert Redgauntlet di Ilk, che viveva da queste parti prima degli anni d'oro. Il paese se lo ricorderà a lungo; e i nostri padri trattenevano il respiro ogni volta che lo sentivano nominare. Stava con gli Highlanders ai tempi di Montrose, e poi sulle colline con Glencairn nel Seicentocinquantadue cosicché, quando diventò re Carlo II, chi godeva più favori del Signore di Redgauntlet? Fu fatto Cavaliere alla Corte di Londra, con la stessa spada del re e, siccome era un ardente fautore del governo, venne qui ruggendo come un leone, con il grado di Luogotenente (e di pazzo, a quanto mi risulta), per sottomettere i Whigs e i Covenanters del paese. Ne sortì un macello, perché i Whigs erano tenaci quanto i Cavalieri erano feroci, ed era solo questione di chi avrebbe stancato l'altro per primo. Redgauntlet propendeva per la fermezza: e il suo nome è conosciuto in tutto il paese come quello di Claverhouse o di Tom Dalyell. Né la brughiera, né le grotte, né la montagna, né le cantine, potevano nascondere la povera gente che Redgauntlet cacciava con corno e muta, come i cervi selvatici. E davvero, quando li trovava, non faceva più cerimonie con un Highlander che con un daino, ma chiedeva solo: «Sei disposto a giurare?». Se quello negava, ordinava: «Puntate... mirate... fuoco!» e il disgraziato cadeva a terra. Sir Robert era odiato e temuto dappertutto. Si pensava che avesse un filo diretto con Satana, che fosse a prova d'acciaio, che le pallottole rimbalzassero sul suo giubbotto di pelle come chicchi di grandine sul terreno, che avesse un cane che stanava le lepri dalle parti dei Piani di Carrifra, e altre cose del genere, ma ne parleremo poi. La miglior benedizione che gli mandavano era: «Il Diavolo si porti Redgauntlet!». Non era un cattivo padrone per la sua gente, i suoi fittavoli gli volevano bene e, quanto ai lacchè e ai soldati che lo seguivano nelle sue persecuzioni, come i Whigs chiamavano quei tempi di eccidio, si sarebbero ubriacati bevendo alla sua salute in qualsiasi momento. Ora dovete sapere che mio padre viveva sulle terre di Redgauntlet, in un
posto che si chiama Primrose-Knowe. Avevamo vissuto su quelle terre, e sotto i Redgauntlet, fin dai tempi in cui si andava a cavallo, e anche prima. Era un bel posticino, e penso che l'aria lì sia più calda e più fresca che in ogni altra parte del paese. Ora è abbandonato: io mi sono seduto sulla porta tre giorni fa, e sono stato contento di non poter vedere lo stato in cui si trovava, ma questo non c'entra. Lì abitava mio padre, Steenie Steenson, che era stato un vagabondo chiacchierone durante la sua giovinezza, e che sapeva suonare la cornamusa: era famoso per «Hoopers and Girders» - Cumberland non poteva superarlo a «Jackie Lattin» - e aveva il tocco migliore per l'accompagnamento da Berwick a Carlisle. La stoffa di Steenie non era quella con cui si facevano i Whigs. E così diventò un Tory, ossia quelli che ora chiamiamo Giacobiti, solo per necessità, perché doveva pur appartenere a un partito o all'altro. Non ce l'aveva con i Whigs, e non gli piaceva veder scorrere il loro sangue però, siccome era obbligato a seguire Sir Robert nelle sue cacce e battaglie, sia guardando che montando la guardia, vide molte cose malfatte, e forse ne fece anche, senza poterlo evitare. Ora Steenie era una specie di favorito del suo padrone, e conosceva un mucchio di gente al castello: spesso lo mandavano a chiamare per suonare la cornamusa quando volevano divertirsi. Il vecchio Dougal MacCallum, il maggiordomo, che aveva seguito Sir Robert nel bene e nel male, all'aperto e nei boschi, negli stagni e nei fiumi, aveva una vera passione per la cornamusa, e metteva una buona parola per mio padre con il suo Signore; perché Dougal poteva rigirarsi il padrone intorno a un dito. Beh, venne la Rivoluzione, e quasi spezzò il cuore a Dougal e al suo padrone, ma il cambiamento non fu poi così grande come loro avevano temuto, e come altri avevano sperato. I Whigs dissero in lungo e in largo quel che avrebbero fatto ai loro vecchi nemici, e specialmente a Sir Robert Redgauntlet. Ma c'era troppa altra gente che gli aveva tenuto mano, per poter rifare il mondo da capo. Così il Parlamento ci passò sopra; e Sir Robert, promettendo che si sarebbe limitato a cacciare le volpi invece dei Covenanters, rimase dov'era. Le sue feste erano gaie e la sua sala illuminata come sempre, anche se gli mancavano le offerte dei non conformisti, che prima gli rifornivano la cantina e la dispensa; è certo infatti che diventò più esigente per gli affitti di quanto i suoi fittavoli non lo avessero conosciuto prima, e questi impararono ad essere puntuali il giorno del pagamento, o il Signore se ne sarebbe dispiaciuto. E lui metteva tanta paura che nessuno se la sentiva di farlo
montare in collera, perché le bestemmie che diceva, la rabbia che lo possedeva, e l'aspetto che assumeva, lo facevano a volte somigliare a un demonio incarnato. Beh, mio padre non era granché come uomo d'affari - non che fosse proprio un pasticcione - ma non aveva il dono del risparmio, e si trovò in arretrato di due semestri. Riuscì a spostare la prima scadenza, quella di Pentecoste, con delle belle parole e la cornamusa; ma a san Martino fu invitato dal fattore a pagare in un giorno determinato, o avrebbe dovuto andarsene. Gli ci volle parecchio per trovare il denaro; ma tutti gli volevano bene e, alla fine, riuscì a raccoglierlo - mille marchi - quasi tutto da un vicino chiamato Laurie Lapraik, un brutto tipo. Laurie era molto abile - sapeva cacciare con il cane e correre con la lepre - essere un Whig o un Tory, un santo o un peccatore, a seconda del vento. Era stato un professore nel mondo della Rivoluzione, ma gli piaceva anche questo mondo e una canzone sulla cornamusa ogni tanto, e pensava di aver sufficienti garanzie per il denaro che aveva prestato a mio padre, dato il bestiame di PrimroseKnowe. Mio padre andò al castello di Redgauntlet, con la borsa pesante e il cuore leggero, felice di essersi salvato dal pericolo del padrone. Beh, la prima cosa che venne a sapere al castello fu che Sir Robert aveva avuto un attacco di gotta, e che non sarebbe comparso prima delle dodici. Non era solo per amore del denaro, credeva Dougal, ma perché non voleva che mio padre lasciasse la terra. Dougal era contento di vedere Steenie, e lo fece entrare nella grande sala di quercia: là sedeva il padrone solo soletto se non fosse per il fatto che c'era lì vicino una grossa e brutta scimmia, che era la sua favorita. Era una bestiaccia, e faceva dei brutti scherzi - non le andava bene niente e si arrabbiava facilmente - correva per tutto il castello, parlottando, ululando, e pizzicando e mordendo la gente, soprattutto prima dei temporali. Sir Robert la chiamava il Maggiore Weir, come lo stregone che era stato bruciato, e a pochi piacevano sia il nome che il carattere di quell'essere - pensavano che ci fosse qualcosa di strano - e mio padre non era tanto tranquillo quando la porta si chiuse dietro di lui, e si trovò nella sala solo con il padrone, Dougal MacCallum, e il Maggiore, cosa questa che non gli era mai capitata prima. Sir Robert sedeva, o meglio dovrei dire giaceva, in un gran seggiolone, avvolto nella sua vestaglia di velluto, con i piedi su uno sgabello: infatti soffriva sia di gotta che di calcoli, e la sua faccia metteva spavento tanto
sembrava quella del Diavolo. Il Maggiore Weir gli sedeva di fronte, in un abito rosso coi pizzi e la parrucca del padrone in testa e, ogni volta che Sir Robert si lamentava per il dolore, la scimmia si lamentava anche lei, come una testa di pecora fra le tenaglie: costituivano una brutta coppia, che metteva timore. La giacca di cuoio del padrone era appesa vicino a lui, e la sua spada e le pistole erano a portata di mano, perché manteneva l'antica abitudine di tenere le armi pronte e un cavallo sellato giorno e notte, proprio come quando riusciva ancora a cavalcare e a correre per le colline dietro la gente. Qualcuno diceva che lo faceva perché aveva paura che qualche Whig volesse vendicarsi, ma penso che fosse solo una vecchia abitudine: non era tipo da aver paura di nessuno. Il registro degli affitti, con la copertina nera e le borchie, stava vicino a lui, e un libro di canzonacce stava fra le pagine, per tenerlo aperto nel punto in cui stava scritto quel che riguardava il fittavolo di Primrose-Knowe, in arretrato con i suoi obblighi. Sir Robert diede a mio padre un'occhiata che avrebbe inaridito a chiunque il cuore nel petto. Dovete sapere che aveva un modo di aggrottare le sopracciglia, per cui si vedeva sulla sua fronte un segno a ferro di cavallo, profondo, come se ci fosse stato inciso. «Sei venuto a mani vuote, figlio di uno zufolo vuoto?», chiese Sir Robert. «Perdiana! Se è così...» Mio padre, facendo buon viso a cattivo gioco, si chinò e posò la borsa con il denaro sulla tavola con un ampio gesto, come chi fa qualcosa di molto ardito. Il padrone se la tirò lesto vicino. «C'è tutto, Steenie?», chiese. «Vostro Onore lo troverà tutto», rispose mio padre. «Tieni, Dougal», disse il padrone. «Dà a Steenie un bicchiere di brandy giù di sotto mentre io conto il denaro e scrivo la ricevuta.» Ma non erano ancora usciti dalla stanza, che Sir Robert lanciò un urlo che fece tremare le fondamenta del castello. Dougal tornò subito dentro, e accorsero i valletti: il padrone lanciava urla su urla, ognuna più tremenda dell'altra. Mio padre non sapeva se stare o scappare, poi rientrò nel salone, dove tutto era sottosopra: nessuno gli disse «entra» o «vattene». Il padrone ruggiva spaventosamente che voleva acqua calda per i piedi e vino per rinfrescarsi la gola, e che l'Inferno e le sue fiamme erano tutto quello che aveva in bocca.
Gli portarono dell'acqua ma, quando gli misero i piedi gonfi nella tinozza, gridò che scottava; e la gente disse poi che ribolliva e fumava come una caldaia in ebollizione. Lui tirò la coppa in testa a Dougal, e disse che gli aveva dato sangue invece del Borgogna, e veramente la sguattera il giorno dopo dovette lavare del sangue rappreso dal tappeto. La scimmia che chiamavano Maggiore Weir si lamentava e piangeva come se facesse il verso al padrone: a mio padre la testa cominciava a girare, e dimenticò sia il denaro che la ricevuta. Si precipitò giù per le scale ma, mentre correva, le urla diventavano sempre più deboli: poi si udì un lamento roco e corse voce per il castello che il padrone era morto. Bene, mio padre se ne venne via a mani vuote, e non poteva far altro che sperare che Dougal avesse visto la borsa del denaro e sentito il padrone dire che voleva scrivere la ricevuta. Il padrone giovane, che ora era Sir John, venne da Edimburgo a mettere ordine. Sir John e suo padre non erano mai andati d'accordo. Sir John aveva studiato da avvocato, e più tardi aveva avuto un seggio in Parlamento e aveva votato per l'Unione, perché, si credeva, era stato compensato bene: se suo padre fosse potuto uscire dalla tomba, gli avrebbe rotto la testa sul suo stesso focolare. Qualcuno pensava che era più facile trattare con il vecchio Cavaliere scontroso che con quel giovane che parlava così bene, ma di questo parleremo dopo. Dougal MacCallum, poveretto, non pianse e non gridò, ma andava in giro per la casa come un cadavere, disponendo, come di dovere, ogni cosa per il funerale. Ora Dougal sembrava che stesse sempre peggio man mano che annottava, e fu l'ultimo ad andare a letto, in uno stanzino che stava proprio di fronte alla camera che il suo padrone occupava da vivo e dove ora giaceva in pompa magna, come dicevano, allora! La notte prima del funerale Dougal non riuscì a trattenersi; lasciò da parte l'orgoglio, e chiese al vecchio Hutcheon di tenergli compagnia in camera per un'ora. Mentre stavano lì, Dougal prese un bicchiere di brandy, ne diede uno a Hutcheon, e gli augurò salute e lunga vita e disse che, quanto a lui, non ne aveva più per molto: infatti, ogni notte, da quando Sir Robert era morto, il suo fischietto d'argento aveva suonato nella camera davanti a lui proprio come faceva di notte quando era vivo, per chiamare Dougal in modo che venisse a rigirarlo nel letto. Dougal disse che, finché stava solo con il morto in quel piano della torre (giacché nessuno aveva voglia di vegliare Sir Robert Redgauntlet), non aveva mai avuto il coraggio di rispondere alla chiamata, ma che ora la sua coscienza lo rimproverava di non aver fatto il suo dovere; perché, «sebbe-
ne la morte interrompa il servizio», disse MacCallum, «non interromperà mai il mio servizio a Sir Robert. Quindi risponderò al suo prossimo fischio: perciò, sta' qui con me, Hutcheon». Hutcheon non ne aveva nessuna voglia, ma era stato vicino a Dougal in battaglia e nelle risse, e non poteva abbandonarlo in quel frangente, così i due compagni si sedettero con la bottiglia del brandy, e Hutcheon, che era un po' prete, avrebbe voluto leggere un capitolo della Bibbia; ma Dougal non volle sentire altro che un poema di David Lindsay, che era di preparazione alla guerra. Quando venne mezzanotte, e la casa era silenziosa come una tomba, ecco il fischietto d'argento risuonare così forte e acuto come se Sir Robert ci stesse soffiando: allora i due vecchi servitori si alzarono e andarono nella stanza dove giaceva il morto. Hutcheon vide tutto al primo sguardo; infatti c'erano parecchie torce nella stanza, che gli mostrarono l'orribile bestiaccia - proprio lei - seduta sulla bara del padrone! Cadde giù come se fosse morto. Non seppe dire quanto tempo era rimasto sbigottito sulla soglia ma, quando si riprese, chiamò il suo amico e, non ricevendo risposta, svegliò tutta la casa: trovarono Dougal morto a due passi dal letto sul quale si trovava la bara del padrone. Quanto al fischietto era sparito, ma lo sentivano spesso in cima alla casa sui merli, e fra i vecchi comignoli e le torrette, dove fanno il nido i gufi. Sir John mise la cosa a tacere, e il funerale ebbe luogo senza altri scandali. Ma quando fu finito, e il padrone cominciò a mettere ordine nei suoi affari, ogni fittavolo fu chiamato per i suoi arretrati, e mio padre per tutta la somma che stava scritta nel registro degli affitti. Bene, andò lesto lesto al castello a raccontare la sua storia, e lì fu presentato a Sir John, che sedeva sul seggiolone di suo padre, vestito a lutto, con nastri di crespo, una cravatta larga, e uno spadino da passeggio al fianco, invece del vecchio spadone che pesava un quintale, fra lama, elsa e impugnatura. Mi hanno raccontato tante volte ciò che si dissero, che mi pare quasi di esserci stato anch'io, sebbene allora non fossi ancora nato. «Vi auguro ogni felicità, Signore, dalla sedia a capotavola e dal pane bianco, a felici proprietà. Vostro padre era cortese verso gli amici e i seguaci: felicità a Voi, Sir John, che state nelle sue scarpe, o dovrei dire i suoi stivali, perché portava poco le scarpe, e solo le pantofole quando aveva la gotta.» «Ah, Steenie», disse il padrone, sospirando profondamente e accostando il fazzoletto agli occhi, «mio padre è stato chiamato all'improvviso, e se ne
sentirà la mancanza in paese. Non ha avuto il tempo di mettere in ordine i suoi affari - era ben preparato verso Dio, che è senza dubbio la cosa più importante - ma ci ha lasciato una matassa arruffata da sbrogliare. Ehm! Ehm! Mettiamoci al lavoro, Steenie: c'è molto da fare, e il tempo è poco.» A questo punto aprì il volume fatale. Ho sentito di una cosa che si chiama il Libro del Giudizio: sono certo che era un registro dei fittavoli in arretrato. «Stephen», disse Sir John con la stessa voce sommessa, cortese, «Stephen Stevenson, o Steenson: sei segnato qui per un anno di arretrati, dovuti all'ultima scadenza.» Stephen: «Con buona pace di Vostro Onore, Sir John, li ho pagati a vostro padre». Sir John: «Allora avrai certo una ricevuta: me la fai vedere?». Stephen: «Ecco, non ne ha avuto il tempo, Vostra Signoria: infatti, non appena gli ho dato il denaro, e non appena Sua Signoria Sir Robert, che è defunto, lo prese per contarlo, lo hanno colto i dolori che poi lo hanno ucciso». «Che peccato!», disse Sir John, dopo una pausa: «Ma può essere che tu l'abbia pagato in presenza di altre persone. Voglio una prova talis qualis, Stephen. Non voglio esser severo con nessun poveraccio». Stephen: «A dir la verità, Sir John, non c'era nessuno nella stanza all'infuori di Dougal MacCallum, il maggiordomo. Ma, come Vostra Signoria sa, ha seguito il suo padrone». «Che peccato, che peccato, Steenie!», disse Sir John senza cambiare tono di voce. «L'uomo al quale hai pagato il denaro è morto, l'uomo che ha visto il pagamento è morto anche lui, e il denaro, che avrebbe dovuto essere lì, non è stato neanche scritto nei registri. Come posso crederti?» Stephen: «Vostro Onore, non lo so, ma c'è una traccia di quelle monete: infatti che Dio mi aiuti, ho dovuto prenderlo a prestito da venti borse, e sono sicuro che ogni persona da cui l'ho preso, sarà pronta a giurare il motivo per cui l'ho preso a prestito». Sir John: «Non dubito affatto che tu abbia preso a prestito il denaro, Steenie. È il pagamento a mio padre quello di cui voglio una prova». Stephen: «Il denaro può essere in giro per casa, Sir John. E siccome Vostra Signoria non l'ha mai ricevuto, e l'altra Signoria non può averlo portato con sé, forse l'ha visto qualcuno della famiglia». Sir John: «Interrogheremo i servitori, Stephen: mi pare ragionevole». Ma i lacchè e le sguattere, i paggi e gli stallieri, tutti negarono ferma-
mente di aver mai visto una borsa di denaro simile a quella descritta da mio padre. Ancor peggio, lui non aveva mai detto ad anima viva di aver pagato l'affitto. Uno aveva notato che aveva qualcosa sotto il braccio, ma l'aveva preso per la cornamusa. Sir John Redgauntlet allontanò i servitori dalla stanza, poi disse a mio padre: «Ora, Steenie, vedi che ti ho trattato con giustizia e, siccome non dubito affatto che tu sappia dove trovare il denaro, ti invito chiaramente, e per il tuo bene, a che tu metta fine a questa farsa perché, Stephen, o paghi, o te ne vai». «Dio Vi perdoni per quel che pensate», disse Stephen, mezzo fuori di sé. «Sono un uomo onesto.» «Anch'io, Stephen», disse Sua Signoria, «e così pure tutte le persone della casa, immagino. Ma se c'è un furfante tra noi, dev'essere colui che racconta una storia che non può provare.» Tacque, poi aggiunse, con maggior severità: «Capisco la tua furbizia: tu vuoi trarre profitto da alcuni pettegolezzi maliziosi che corrono in questa famiglia, soprattutto riguardo alla morte improvvisa di mio padre, per cercare di truffarmi del denaro e forse danneggiare la mia reputazione, insinuando che ho già ricevuto l'affitto che ti sto chiedendo. Dove supponi che sia il denaro? Insisto per saperlo». Mio padre si accorse che tutto pareva essergli contro, e quasi si disperò, tuttavia si dondolò da un piede all'altro, guardò tutti gli angoli della casa, e non rispose. «Parla, furfante!», disse il padrone, con la stessa espressione di suo padre quando si arrabbiava: sembrava che le rughe della fronte prendessero la stessa spaventosa forma a ferro di cavallo. «Parla, furfante! Voglio sapere cosa pensi: pensi che abbia io il denaro?» «Lungi da me dire questo», disse Stephen. «Accusi qualcuno della mia gente di averlo preso?» «Non voglio accusare nessun innocente», disse mio padre, «e, se uno di loro è colpevole, io non ho le prove.» «Il denaro dev'essere da qualche parte, se c'è una parola di vero nella tua storia», disse Sir John. «Ti chiedo dove pensi che sia... e voglio una risposta esatta!» «All'Inferno, se volete sapere quello che penso», disse mio padre, spinto agli estremi, «all'Inferno con suo padre, la scimmia e il fischietto d'argento.» Si precipitò quindi giù per le scale (perché il salotto non era più un posto per lui dopo tali parole), e sentì il padrone che gli bestemmiava dietro,
proprio come faceva Sir Robert, chiamando a gran voce l'assessore e l'ufficiale della Baronia. Mio padre corse dal suo principale creditore (quello che chiamavano Laurie Lapraik) per vedere se poteva cavarne qualcosa ma, quando gli raccontò la sua storia, ricevette solo i nomi peggiori: ladro, mendicante e spendaccione erano i termini più gentili e, dopo tutte quelle parole scortesi, Laurie ripeté la vecchia storia che lui si era macchiato le mani con il sangue dei santi di Dio, proprio come se un fittavolo avesse potuto rifiutarsi di andare con il suo padrone, soprattutto quando il suo padrone era Sir Robert Redgauntlet. Mio padre, in quel momento, aveva superato i limiti della pazienza e, mentre lui e Laurie litigavano, si mise a denigrare la dottrina di Laurie e a dire certe cose che fecero venire la pelle d'oca a chi li ascoltava: era proprio fuori di sé, e aveva vissuto in una brutta compagnia ai suoi tempi. Alla fine si separarono, e mio padre si diresse verso casa attraverso il bosco di Pitmurkie, che è fatto di abeti neri, come li chiamano: conosco il bosco, ma non posso dire se gli abeti sono bianchi o neri. All'entrata del bosco c'è un prato incolto, e sul margine del prato una piccola, solitaria stazione di posta, tenuta da un'ostessa che si chiamava Tibbie Faw, e lì il povero Steenie implorò un boccale di brandy, perché non aveva preso niente tutto il giorno. Tibbie lo incitò a prendere un boccone, ma lui non riusciva neanche a pensarci, e non volle togliere il piede dalla staffa; poi bevve il brandy in due sorsate, per ognuna delle quali fece un brindisi: il primo, alla memoria di Sir Robert Redgauntlet, e che non potesse aver pace nella tomba finché non avesse reso giustizia al suo povero fittavolo, e il secondo, alla salute del Nemico del genere umano, perché gli restituisse il denaro, e gli facesse sapere cosa ne era successo, dato che si rendeva conto che tutti pensavano che fosse un ladro e un furfante, e lui pensava che questo fosse peggio della rovina della sua casa. Continuò ad andare avanti, senza preoccuparsi dove. Si era fatto notte, gli alberi erano ancora più scuri, e lui lasciò che la sua bestia si cercasse la strada nel bosco; a un tratto, da stanco che era, il ronzino cominciò a saltare, a correre e a galoppare, tanto che mio padre riusciva a stento a tenersi in sella. Allora un cavaliere, che comparve improvvisamente vicino a lui, gli disse: «La tua è una bella bestia, amico: vorresti venderla?». E, così dicendo, toccò il collo del cavallo col suo frustino, e quello tornò al passo di prima.
«Però gli passa presto l'ardire, mi pare», continuò lo sconosciuto, «e in questo somiglia al coraggio di un uomo, che pensa di fare grandi cose finché non viene messo alla prova.» Mio padre lo stava appena a sentire, e spronò il cavallo con un «Buona sera, amico». Ma pareva che lo sconosciuto fosse un tipo che non mollava perché, per quanto Steenie aumentasse l'andatura, gli stava sempre vicino allo stesso passo. Alla fine mio padre, Steenie Steenson, si arrabbiò e, a dire la verità, cominciò ad aver paura. «Cosa vuoi da me, amico?», disse. «Se sei un ladro, non ho denaro; se invece sei una persona per bene, e cerchi compagnia, non ho voglia di ridere né di parlare e, se vuoi sapere la strada, non la so neanch'io.» «Se mi racconti i tuoi guai», disse lo sconosciuto, «io sono uno che, sebbene non sia ben conosciuto nel mondo, sono l'unico che può aiutare i suoi amici.» Così mio padre, per scaricarsi l'animo, più che per speranza di aiuto, gli raccontò la storia dal principio alla fine. «È un brutto guaio», disse lo sconosciuto, «ma penso di poterti aiutare.» «Se m'impresti il denaro, signore, e mi dai tempo... Non so quale altro aiuto puoi darmi sulla terra», disse mio padre. «Ma posso dartene sottoterra», disse lo sconosciuto. «Ecco, sarò franco con te: ti impresterò il denaro, ma le mie condizioni non ti piaceranno. Ora, ti posso dire che il tuo vecchio padrone è disturbato nella tomba dalla tua maledizione e dai lamenti della tua famiglia e, se tu hai il coraggio di andargliela a chiedere, ti darà la tua ricevuta.» A mio padre si rizzarono i capelli in testa a quella proposta, ma pensò che il suo compagno doveva essere un tipo scherzoso che cercava di spaventarlo e che avrebbe finito col prestargli il denaro. Inoltre, il brandy lo rendeva coraggioso e la disgrazia disperato, così disse che aveva abbastanza coraggio da andare fino alle porte dell'Inferno, e anche oltre, per quella ricevuta. Lo sconosciuto si mise a ridere. Bene, avevano continuato ad avanzare nel folto del bosco quando, tutto a un tratto, il cavallo si fermò alla porta di una grande casa e, se non avesse saputo che il posto stava a dieci miglia di distanza, mio padre avrebbe detto che si trattava del castello di Redgauntlet. Entrarono a cavallo nella corte esterna, sul vecchio ponte levatoio, e videro che la facciata intera della casa era illuminata, e che c'erano cornamuse e pifferi, e danze e risa come a casa di Sir Robert a Pasqua e a Natale e
nelle altre grandi occasioni. Balzarono a terra, e mio padre ebbe l'impressione di legare il cavallo allo stesso anello al quale lo aveva legato la mattina, quando era andato a parlare a Sir John. «Beh», disse mio padre, «forse la morte di Sir Robert è stata solo un sogno.» Bussò alla solita porta, e il suo vecchio amico, Dougal MacCallum - che sembrava sempre il solito, anche lui - venne ad aprire la porta, e disse: «Steenie, sei tu, ragazzo? Sir Robert ti aspettava con ansia». Mio padre era come un uomo in un sogno: cercò lo sconosciuto, ma se ne era andato. Alla fine provò a dire: «Ah, Dougal Driveover, sei vivo? Credevo che fossi morto». «Non scherzare con me», disse Dougal, «ma pensa a te stesso, e vedi di non prendere niente qui: né vivande, né bevande, né denaro, all'infuori della ricevuta che è tua.» Dicendo così, lo portò attraverso sale e corridoi che erano ben noti a mio padre, fino al grande salone di quercia, e lì c'era un gran cantare canzoni oscene, si beveva vino rosso, e si pronunciavano bestemmie e parolacce, come era sempre stato al castello di Redgauntlet. Ma che Dio ci protegga! Che compagnia di spettrali gaudenti sedeva intorno a quel tavolo! Mio padre ne conosceva molti che erano morti da tempo, perché aveva spesso suonato per gran parte di quella compagnia nella sala di Redgauntlet. C'era il feroce Middleton, il dissoluto Rhodes, e l'astuto Lauderdale; e Dalyell, con la testa calva e la barba che gli arrivava alla vita; ed Earlshall, con le mani macchiate dal sangue di Cameron; e il selvaggio Bonshaw, che aveva stretto le membra del beato signor Cargill fino a farne uscire il sangue; e Dunbarton Douglas, due volte traditore della patria e del re. C'era il sanguinario avvocato MacKenyie che, per la sua saggezza e ingegno mondano, era stato seppellito come un re. E c'era Claverhouse, bello come da vivo, con i suoi riccioli lunghi e neri, che ricadevano sul giubbotto di cuoio, e la mano sinistra sempre sulla scapola destra per nascondere il buco fatto dalla pallottola d'argento. Sedeva un po' in disparte, e li guardava con melanconia e alterigia, mentre gli altri urlavano, cantavano e ridevano tanto, che tutta la stanza rimandava l'eco. Ma i loro sorrisi erano spaventosamente contorti di tanto in tanto, e la loro risata assumeva toni sinistri, che facevano diventare blu le unghie di mio padre e gli gelavano il midollo delle ossa. Quelli che servivano a tavola erano gli stessi malvagi servitori e soldati
che avevano fatto il loro lavoro ed eseguito i crudeli ordini quando erano sulla terra. C'era il Long Lad di Nethertown, che aveva aiutato a prendere Argyle, e il Prevosto del Vescovo, quello che chiamavano il «Sonaglio del Diavolo»; e le malvage guardie con i loro abiti ornati di pizzi: e i feroci Amoriti delle Highlands, che versavano il sangue come se fosse acqua; e molti orgogliosi servitori, con il cuore altero e le mani insanguinate, che si attaccavano ai ricchi, e li rendevano ancor più malvagi di quel che erano, riducendo i poveri in polvere, dopo che i ricchi li avevano ridotti in frammenti. E tanti, tanti, tanti altri andavano e venivano, occupati nel loro lavoro come lo erano stati in vita. Sir Robert Redgauntlet, nel mezzo di quel chiasso terribile, chiamò con voce di tuono Steenie Piper e gli ordinò di andare all'estremità del tavolo dove stava lui: aveva le gambe allungate davanti a sé, ed era avvolto nella flanella, con le sue pistole da sella vicino, mentre il grande spadone era appoggiato al seggiolone, proprio come mio padre lo aveva visto l'ultima volta sulla terra. C'era anche il cuscino per la scimmia, ma quella bestia non c'era: evidentemente, non era venuta ancora la sua ora, perché li sentì dire mentre avanzava: «Non è ancora arrivato il Maggiore?». E un altro rispose: «La scimmia sarà qui prima di domattina». Quando mio padre lo ebbe raggiunto, Sir Robert, o il suo spettro, o il Diavolo nelle sue sembianze, disse: «Beh, suonatore, ti sei accordato con mio figlio per il tuo affitto annuale?». Con gran fatica mio padre raccolse abbastanza fiato per dire che Sir John non sarebbe stato soddisfatto senza la ricevuta di Sua Signoria. «Prima facci sentire la cornamusa, Steenie», rispose la figura di Sir Robert. «Suonaci "Weel hoddled, Luckie".» Ora quella era una canzone che mio padre aveva imparato da uno stregone che l'aveva udita mentre adorava Satana durante i loro incontri, e qualche volta mio padre l'aveva suonata alle folli cene nel castello di Redgauntlet, ma mai troppo volentieri. A quel punto rabbrividì nell'udirla nominare, e disse, per scusarsi, che non aveva portato la cornamusa. «MacCallum, figlio di Belzebù», disse il tremendo Sir Robert, «porta a Steenie la cornamusa che ho messo da parte per lui!» MacCallum portò un paio di cornamuse che avrebbero soddisfatto anche Donald delle Isole, ma diede di gomito a mio padre mentre gliele offriva e, guardando di nascosto più attentamente, Steenie vide che l'imboccatura era di acciaio, e rovente; così si rese conto che non doveva toccarla. Perciò si scusò di nuovo, e disse che si sentiva male, che aveva paura, e che non a-
veva abbastanza fiato per riempire l'otre. «Allora puoi mangiare e bere, Steenie», disse la figura. «Infatti non facciamo altro qui, e poi si parla male fra un uomo sazio e uno a digiuno.» Ora queste erano proprio le parole che il sanguinario Conte di Douglas aveva detto al messaggero del re per trattenerlo, mentre tagliava la testa a MacLellan di Bombie, nel castello di Threave: e questo mise Steenie sempre più in guardia. Così parlò da uomo, e disse che non era andato lì per mangiare, bere, o fare il menestrello, ma solo per avere quello che gli spettava: sapere cos'era successo del denaro che aveva pagato, e avere la ricevuta del pagamento. Ed era diventato così ardito, che chiese a Sir Robert in nome della sua coscienza (non aveva avuto il coraggio di pronunciare il nome divino), e come sperava per la sua pace e il suo riposo, di non tendergli trappole, ma solo di dargli ciò che era suo. L'apparizione digrignò i denti e rise, ma prese da un grosso libro la ricevuta e la porse a Steenie: «Ecco la tua ricevuta, povero demente e, in quanto al denaro, quel cucciolo di mio figlio può cercarlo nella Culla del Gatto». Mio padre espresse il suo vivo ringraziamento, e stava per ritirarsi, quando Sir Robert ululò: «Fermati, figlio di puttana! Non ho finito con te. Qui non facciamo niente per niente; e tu devi tornare fra un anno da oggi, per rendere al tuo padrone l'omaggio che mi devi per la mia protezione». La lingua di mio padre si sciolse ad un tratto, ed egli disse forte: «A Dio piacendo, e non a voi». Non aveva ancora finito di pronunciare quelle parole, che fu avvolto dalle tenebre e cadde a terra con un colpo così forte, che perse il fiato e i sensi. Quanto rimase a terra, Steenie non avrebbe saputo dirlo ma, quando tornò in sé, stava disteso nel vecchio camposanto di Redgauntlet proprio davanti alla cappella della famiglia, e lo stemma del vecchio Cavaliere, Sir Robert, gli pendeva sulla testa. C'era una fitta nebbia mattutina sull'erba e sulle tombe tutt'intorno a lui, e il suo cavallo pascolava tranquillo vicino alle due vacche del pastore. Steenie avrebbe creduto che tutto fosse stato un sogno, ma aveva la ricevuta in mano, scritta chiaramente e firmata dal vecchio padrone: solo le ultime lettere del suo nome erano un po' storte, come se chi le aveva vergate fosse stato preso da un dolore improvviso. Molto turbato, lasciò quel triste luogo, cavalcò attraverso la nebbia fino al castello di Redgauntlet, e con molta fatica ottenne un'udienza dal padro-
ne. «Bene, spendaccione», furono le prime parole, «mi hai portato il mio affitto?» «No», rispose mio padre, «non l'ho portato; ma ho portato la ricevuta che mi ha dato Sua Signoria Sir Robert.» «Come, furfante? La ricevuta di Sir Robert! Mi avevi detto che non te l'aveva data.» «Che Vostra Signoria abbia la cortesia di vedere se quel che c'è scritto va bene.» Sir John esaminò ogni riga ed ogni lettera con molta attenzione; e infine la data, che mio padre non aveva osservato: «Dalla mia destinazione», lesse, «oggi venticinque novembre». «Come! Era ieri! Furfante, devi essere andato all'Inferno per questo!» «L'ho avuta dal padre di Vostra Signoria: se fosse all'Inferno o in Paradiso, non lo so», rispose Steenie. «Ti denuncerò come Stregone al Gran Consiglio», disse Sir John. «Ti manderò dal Diavolo tuo padrone, con l'aiuto di un barile di catrame e di una torcia!» «Ho intenzione di denunciarmi da solo ai Presbiteri», disse Steenie, «e di raccontare tutto quello che ho visto stanotte, che sono cose che loro possono giudicare meglio di un testone come me.» Sir John tacque, si ricompose e chiese di sentire tutta la storia, che mio padre gli raccontò dall'A alla Z, come io ve l'ho raccontata: parola per parola, né più né meno. Sir John rimase a lungo in silenzio, e infine disse: «Steenie, questa tua storia riguarda l'onore di molte famiglie nobili oltre la mia e, se si arriva al dunque, per salvarti dalla mia ira corri il rischio che ti passino un ferro rovente attraverso la lingua, e questo non sarà meglio che scottarsi le dita con un'incudine rovente. Ma potrebbe esser vera, Steenie e, se il denaro salta fuori, non saprei cosa pensare. Ma dove possiamo trovare la Culla del Gatto? Ci sono tanti gatti in questa vecchia casa, ma credo che partoriscano i gattini senza cerimonie di letti o di culle». «Sarà meglio che chiediamo a Hutcheon», disse mio padre. «Lui conosce un mucchio di vecchi cantucci come... come un altro servitore che se n'è andato, e che non voglio nominare.» Beh, Hutcheon, quando glielo chiesero, rispose che una torretta in rovina, fuori uso da tempo, vicino all'orologio, che si poteva raggiungere solo con una scala a pioli, perché l'apertura dava all'esterno e molto in alto al di
sopra dei merli, era chiamata la Culla del Gatto. «Ci andremo subito», disse Sir John, e prese (con quali propositi, lo sa il cielo) una delle pistole di suo padre che stava sul tavolo dove erano state fin da quando era morto, e andò di corsa verso i bastioni. Era un posto pericoloso da scalare, perché la scala a pioli era vecchia e fragile, e le mancavano due o tre scalini. Tuttavia Sir John vi salì e raggiunse la porta della torretta, dove il suo corpo intercettò la poca luce che vi arrivava. Qualcosa si lanciò verso di lui e tentò di buttarlo fuori: bang fece la pistola del padrone, e Hutcheon, che reggeva la scala, e mio padre che gli stava accanto, sentirono un forte stridio. Un minuto dopo, Sir John gettò giù il corpo della scimmia, gridò che aveva trovato il denaro, e che loro salissero ad aiutarlo. Ed ecco c'era proprio la borsa del denaro, e tante altre cose per di più, che mancavano da molto tempo. Sir John, quando ebbe vuotato la torretta, condusse mio padre nella sala da pranzo, lo prese per mano, gli parlò gentilmente, e gli disse che gli dispiaceva di aver dubitato della sua parola, e che per l'innanzi sarebbe stato un buon padrone per lui, per farsi perdonare. «E ora, Steenie», disse Sir John, «sebbene la visione che hai avuto sia, dopotutto, favorevole a mio padre, come un uomo onesto che, anche dopo la sua morte, ha desiderato che ti fosse resa giustizia, devi capire che vi sono uomini mal disposti che potrebbero giungere a delle conclusioni errate circa la sua salvezza eterna. Così, credo che potremmo dare tutta la colpa a quella cattiva bestia, il Maggiore Weir, e non parlare del tuo sogno nel bosco di Pitmurkie. Hai bevuto tanto brandy da non poter essere sicuro di niente e, Steenie, questa ricevuta» (la sua mano tremava mentre gliela porgeva) «è uno strano documento, e faremmo meglio, credo, a metterla nel fuoco.» «Per strano che sia, è la ricevuta del mio affitto», disse mio padre, temendo forse di perdere il vantaggio della ricevuta di Sir Robert. «Riporterò quel che dice nel registro degli affitti, e ti darò una ricevuta di mia mano», disse Sir John, «e lo farò subito. E, Steenie, se sei capace di tacere su tutto questo, potrai avere per questo semestre un affitto più basso.» «Ringrazio Vostra Signoria», disse Steenie, che capì subito il vento che tirava. «Mi conformerei certo a tutti gli ordini di Vostra Signoria; ma vorrei almeno parlare con qualche sacerdote al riguardo, perché non mi piace il tipo di appuntamento che il padre di Vostra Signoria...» «Non chiamare quello spettro mio padre!», disse Sir John interrompen-
dolo. «Bene, allora, quello che gli somigliava tanto», disse mio padre, «ha parlato del mio ritorno fra dodici mesi da oggi, e questo è un peso sulla mia coscienza.» «Beh, allora», disse Sir John, «se hai questa preoccupazione ne parlerò al ministro della nostra parrocchia: è un uomo di buon carattere, ed ha riguardo per l'onore della nostra famiglia, tanto più che si aspetta un appoggio da me.» Con questo, mio padre accettò prontamente che la ricevuta fosse bruciata, e il padrone la gettò nel caminetto con la sua stessa mano. Non voleva saperne di bruciare, ma volò via attraverso la cappa, con un lungo seguito di scintille e sibilando come una biscia. Mio padre andò al Vicariato, e il Parroco, dopo aver ascoltato la storia, disse che credeva in buona fede che, sebbene mio padre avesse pasticciato in cose molto pericolose, siccome aveva rifiutato le offerte del Diavolo (cioè di mangiare e di bere), e aveva rifiutato di rendergli omaggio suonando ai suoi ordini, sperava che, se si comportava bene d'allora in poi, Satana avrebbe tratto scarso profitto da ciò che era successo. E, infatti, mio padre, di sua propria volontà, abbandonò la cornamusa e il brandy per lungo tempo e, solo dopo che fu trascorso l'anno e il giorno fatale fu passato, prese in mano il piffero e bevve un po' di birra. Sir John arrangiò una storia circa la scimmia secondo i propri gusti, e qualcuno ancora oggi crede che la causa di tutto non sia stato altro che la pessima natura di quella bestia. In realtà, non riuscireste a convincere nessuno che la creatura che Dougal e mio padre avevano visto saltare sulla bara del padrone non era il Vecchio Nemico, ma la scimmia; e che a soffiare nel fischietto del padrone come si era sentito dopo la sua morte, quel sudicio animale ci riuscisse come il padrone in persona, se non meglio. Ma il Cielo conosce la verità, che fu messa in giro la prima volta dalla moglie del Parroco, dopo che Sir John e suo marito furono scesi nella tomba. E allora mio padre, che si era indebolito nelle membra, ma non nel cervello o nella memoria - almeno non in modo grave - dovette raccontare la vera storia ai suoi amici, per il suo buon nome. Altrimenti sarebbe stato accusato di stregoneria. WALTER SCOTT La Stanza delle Tappezzerie
Verso la fine della Guerra di Secessione Americana, gli ufficiali di Lord Cornwallis si arresero a Yorktown, ed altri che erano stati fatti prigionieri durante quel conflitto tanto sfortunato ed improvvido, stavano tornando verso il loro paese a raccontare le loro avventure e a ristorarsi dalle loro fatiche. Tra loro vi era un Generale di nome Browne: era un valoroso ufficiale, nonché un gentiluomo che godeva di grande considerazione sia per i suoi natali che per il suo passato. Certi affari avevano portato il Generale Browne a compiere un viaggio nelle Contee occidentali. Alla fine di una giornata di viaggio si ritrovò per caso vicino a un paesello di campagna, la cui bellezza non comune e il cui carattere erano tipici dell'Inghilterra. La cittadina, con la sua dignitosa vecchia chiesa e un campanile che testimoniava la devozione dei tempi passati, sorgeva tra pascoli e campi di grano, limitati e divisi da filari di alberi maestosi e vetusti. Pochi erano i segni impressi dalla modernità. Nei dintorni non si avvertiva la solitudine del declino, né il brusio delle novità. Le case erano vecchie, ma ben tenute. Un incantevole fiumicello mormorava libero lungo il suo tragitto nella parte sinistra della città, libero dalle briglie delle dighe, né vi era un sentiero per i cavalli da traino addetti alle chiatte da rimorchio, che ne costeggiasse la riva. Su un'altura poco pronunciata, a una distanza di circa un miglio a sud della città, in mezzo a certe antiche querce e all'intrico dei rovi, si scorgevano le torrette di un castello del tempo delle guerre tra gli York e i Lancaster, che tuttavia sembrava essere stato fortemente modificato al tempo di Elisabetta e dei suoi successori. Non aveva mai avuto dimensioni spettacolari, tuttavia offriva ancora le comodità che aveva offerto nel passato. Questo lo si poteva supporre - e così pensò anche il Generale Browne - osservando un filo di fumo librarsi festoso da diversi dei camini istoriati e coperti di vegetazione. Il muro di cinta costeggiava la strada maestra per circa due o trecento iarde. Da quanto si poteva dedurre dalla vista che se ne godeva in certi punti, il terreno boscoso pareva ricco di selvaggina. In altri punti, la vista che si offriva era quanto mai varia: ora una vista d'insieme della facciata del castello, oppure uno scorcio di certe torri. La prima vista mostrava tutta la bizzarria della scuola elisabettiana, mentre la semplice solida vigoria di altre parti della costruzione, pareva mostrare che esse erano state edificate per la difesa più che per bellezza. Favorevolmente impressionato dalle vedute parziali che aveva ottenuto
attraverso la boscaglia e le radure che circondavano l'antica fortezza feudale, il nostro viaggiatore si decise a scoprire se fosse il caso di tentare di dare uno sguardo più da vicino, e se l'edificio contenesse ritratti di famiglia o altri oggetti meritevoli della curiosità di un forestiero. Quindi, allontanandosi dal parco, si diresse lungo una strada pulita e ben tenuta, e si fermò alla porta di una locanda ben frequentata. Prima di ordinare altri cavalli per continuare il viaggio, il Generale Browne si informò circa il nome del proprietario di quel castello che aveva tanto attirato la sua attenzione, e la sua sorpresa fu pari alla sua felicità, quando seppe che questi era un nobiluomo che chiameremo Lord Woodville. Che fortuna! Molti dei primi ricordi di Browne, sia a scuola che in collegio, erano infatti collegati al nome del giovane Woodville; infatti ebbe modo di accertare facilmente, che era proprio lui il proprietario di quella bella tenuta. Era divenuto un Pari del Regno alla morte del padre pochi mesi prima, e il Generale seppe dall'oste che il periodo di lutto era finito, e che ora il giovane aveva preso possesso delle terre paterne proprio nell'allegra stagione autunnale, ed era venuto in compagnia di una comitiva di amici per praticare la caccia in un paese che andava famoso per la selvaggina. Queste erano davvero ottime notizie per il nostro viaggiatore. Frank Woodville era stato il beniamino di Richard Browne a Eton, e il suo più intimo amico a Christ Church. I loro piaceri e i loro compiti erano stati gli stessi. Il cuore del soldato si riempì di gioia nello scoprire che il suo amico d'infanzia era entrato in possesso di una residenza tanto piacevole, e di una tenuta che, l'oste affermò strizzando l'occhio, era del tutto adeguata a mantenerne e ad aumentarne la dignità. Niente di più naturale quindi, che decidere di sospendere il viaggio - che non aveva necessità impellenti - in modo da poter visitare il vecchio amico in circostanze tanto felici. I cavalli freschi servirono solo a portare la carrozza da viaggio del Generale al Castello dei Woodville. Il portiere lasciò entrare la vettura che si diresse verso una loggia di stile neo-gotico, costruita in modo corrispondente al castello vero e proprio. Il portiere, intanto, con un campanello, annunciò l'arrivo del visitatore. Evidentemente il suono del campanello aveva momentaneamente ritardato la partenza della comitiva, che era pronta ad accingersi ai vari divertimenti che erano in programma per quella mattina. Infatti, quando la car-
rozza entrò nel cortile del castello, vi erano già diversi giovanotti in tenuta da caccia, intenti a osservare e a discutere circa l'aspetto dei cani, che i servitori tenevano pronti per loro. Quando il Generale Browne scese dalla carrozza, il giovane Lord venne al cancello, e per un istante guardò il suo amico come se fosse un estraneo; infatti la guerra, le fatiche e le ferite riportate, avevano molto alterato le sue sembianze. Ma l'incertezza durò solo finché il visitatore non cominciò a parlare. Il saluto affettuoso che seguì fu di quelli che si fanno solo tra coloro che hanno passato assieme i giorni spensierati dell'infanzia e della prima giovinezza. «Se avessi potuto formulare un desiderio, mio caro Browne», disse Lord Woodville, «avrei voluto averti qui, tu primo tra tutti, in quest'occasione, che i miei amici hanno gentilmente consentito a festeggiare. Non credere che ci siamo dimenticati di te in tutti questi anni di assenza. Ti ho seguito tra pericoli, trionfi e sfortune, e sono stato contento di sapere che nella vittoria come nella sconfitta, il nome del mio vecchio amico si è sempre distinto e si è fatto onore.» Il Generale rispose con parole adatte, congratulandosi con il suo amico per la dignità alla quale era pervenuto, e per il possesso di un luogo e di una tenuta tanto belli. «Non hai ancora visto che una piccola parte», disse Lord Woodville, «e credo che non vorrai lasciarci finché non l'avrai vista bene. È vero, confesso, che la comitiva oggi è abbastanza grande e la vecchia casa, come altri posti di questo genere, non è capace quanto le mura esterne sembrano promettere. Ma posso farti sistemare in una stanza comoda e di vecchio stile. Credo di poter supporre che le campagne militari ti abbiano insegnato ad accontentarti di alloggi ben miseri.» Il Generale scrollò le spalle e rise. «Presumo», rispose, «che il peggior appartamento del tuo castello sia molto superiore al vecchio barile per il tabacco nel quale dovetti acquartierarmi quando mi trovavo nella zona del Bush, come lo chiamano i virginiani, con la fanteria leggera. Lì ho dormito come Diogene, tanto contento del mio rifugio, al riparo dagli elementi atmosferici, che ordinai ai soldati di farlo rotolare fino al nostro prossimo bivacco. Ma il mio comandante non volle concedermi un lusso così stravagante, e con le lacrime agli occhi dovetti dire addio al mio amato barile.» «Beh, dal momento che non temi di star scomodo», disse Lord Woodville, «rimarrai con me almeno una settimana. Abbiamo grandi quantità di
fucili, cani, canne da pesca ed esche, e divertimenti acquatici e terrestri di ogni tipo. Non potrai rifiutare di divertirti, ma potrai scegliere quali mezzi usare. Ma se preferisci i fucili e i cani da caccia, io stesso verrò con te per verificare se hai migliorato le tue qualità di tiratore da quando sei stato tra gli indiani del confine.» Il Generale accettò prontamente la proposta del suo amichevole ospite. Dopo una giornata di esercizi virili, la compagnia s'incontrò per pranzo, e Lord Woodville mostrò al suo amico ritrovato le nuove proprietà, e allo stesso tempo lo lodò davanti ai suoi amici, per la maggior parte gente molto distinta. Convinse quindi il Generale Browne a parlare delle avventure che aveva vissuto. I suoi racconti mostrarono al meglio le sue qualità di ufficiale coraggioso e sensibile, che era riuscito a mantenere il sangue freddo anche in caso di pericolo imminente, suscitando quindi nei commensali il rispetto generalizzato che si attribuisce a colui che ha provato un coraggio non comune: una qualità, questa, che gli uomini desiderano riconosciuta più di qualsiasi altra. La giornata al Castello dei Woodville si chiuse come avviene di solito in tali circostanze; la comitiva fu trattata con liberale cortesia, senza trascendere i limiti del decoro. La musica, un campo in cui il giovane Lord primeggiava, contribuì a far circolare le bottiglie. Le carte e il biliardo per coloro che preferivano tali distrazioni erano stati preparati per tempo. Ma l'esercizio fisico del mattino seguente richiedeva che gli invitati si alzassero di buon'ora e, poco dopo le undici, gli ospiti cominciarono a ritirarsi, per andare nei loro appartamenti. Il giovane Lord condusse il suo amico, il Generale Browne, fino alla camera che gli era stata destinata, che corrispondeva alla descrizione fatta; era cioè confortevole, ma di vecchio stile. Il letto era molto ampio, del tipo che si usava nel XVII secolo, e le tende erano di seta scolorita, piene di orpelli dorati e lisi. Ma le lenzuola, i guanciali e le coperte, parvero molto confortevoli al veterano di tante campagne, quando ripensava al suo alloggiamento nel barile. L'aria lugubre della stanza era dovuta ai tendaggi antichi e logori che pendevano dalle pareti, ondeggiavano leggermente nella brezza autunnale che entrava dall'antica finestra a vetrate, che vibrava e fischiava al passaggio di quel vento. Anche il lavabo, con lo specchio decorato da un turbante, come si usava all'inizio del secolo, fatto di seta color rosso, e le sue miriadi di scatole di strane forme, era di un tipo caduto in disuso da oltre cin-
quant'anni, e aveva un aspetto antico e melanconico. Ma niente poteva brillare più forte, in maniera più accogliente, delle due grandi candele di cera. Solo i due ciocchi che scoppiettavano nel camino potevano rivaleggiare con le candele, e irradiavano i loro bagliori e il loro calore in tutto l'appartamento; nonostante l'aria vetusta, esso non difettava di nessuna di quelle cose che la vita moderna rende necessarie o desiderabili. «Questo è un appartamento vecchio stile, Generale», disse il giovane Lord, «ma spero che non rimpiangerete in nulla il vostro vecchio barile per il tabacco.» «Non sono di gusti difficili rispetto all'alloggio», rispose il Generale, «eppure, se dovessi scegliere, preferirei di molto questa camera rispetto alle stanze più gaie e moderne della vostra casa di famiglia. Credetemi, quando penso ai pregi moderni di cui dispone, alla sua aria vetusta, e per di più rammento che si tratta di una vostra proprietà, penso che mi sentirei più a mio agio qui che nel miglior albergo di Londra.» «Spero - e non ho dubbi in proposito - che vi troverete comodo quanto io stesso desidero, mio caro Generale», disse il giovane nobiluomo. E, augurando nuovamente la buonanotte al suo ospite, strinse la sua mano fra le sue e si ritirò. Il Generale si guardò attorno, congratulandosi fra sé per essere tornato alla vita pacifica, in cui gli agi gli erano ancora più cari al ricordo delle difficoltà e dei pericoli che aveva recentemente sostenuto. Si spogliò e si preparò a un riposo notturno molto piacevole. A quésto punto, contrariamente a quanto accade di solito in questi racconti, lasciamo il Generale nel suo appartamento fino al giorno dopo. La comitiva si radunò per la colazione di buon mattino, ma il Generale Browne non era presente, nonostante fosse l'invitato che Lord Woodville desiderava onorare più di tutti. Il padrone di casa espresse più volte sorpresa per la sua assenza, e finalmente mandò un servo a chiedere sue notizie. L'uomo tornò, dicendo che il Generale Browne era stato fuori a camminare fin dall'alba, nonostante il tempo fosse inclemente e vi fosse una fitta nebbia. «Abitudini da soldato», disse il giovane nobiluomo ai suoi invitati. «Molti acquistano un'istintiva vigilanza, e non riescono a dormire dopo le prime ore dell'alba, poiché il dovere impone loro di rimanere sempre all'erta.» Eppure la spiegazione che Lord Woodville offriva alla compagnia non
parve soddisfacente, ed egli attese silenzioso e distratto il ritorno del Generale. Questi rientrò circa un'ora dopo l'ora di colazione. Aveva l'aspetto affaticato e febbrile. La capigliatura, che a quel tempo si portava impomatata e curata, e costituiva quindi una delle più importanti occupazioni della giornata di un gentiluomo, e ne dichiarava l'eleganza quanto la cravatta o l'assenza della stessa, aveva invece l'aspetto trascurato, scapigliato, e non era stata affatto impomatata, mentre era madida di rugiada. Gli abiti erano stropicciati, indossati negligentemente, una cosa alquanto insolita per un soldato, i cui doveri, reali o supposti tali, comprendevano una certa attenzione all'aspetto esteriore. Aveva insomma un aspetto stanco e veramente terribile a vedersi. «Vi siete messo in marcia prima di noi questa mattina, Generale», osservò Lord Woodville. «Oppure non avete trovato il letto comodo quanto desideravo, o quanto voi stesso vi aspettavate. Come avete dormito la scorsa notte?» «Oh, benissimo! Molto bene! Mai dormito meglio in vita mia», si affrettò a confermare il Generale Browne, ma aveva un'aria imbarazzata che il suo amico notò subito. Trangugiò rapidamente una tazza di tè, trascurando e rifiutando qualunque altra cosa gli venisse offerta, per rimanere poi assorto e distante per un certo tempo. «Oggi prenderete il vostro fucile, Generale», disse il suo amico ed ospite, ma dovette ripetere la frase due volte, prima di ricevere una brusca risposta. «No, Mylord; purtroppo non posso avere l'onore di passare un altro giorno con voi. I miei cavalli sono stati ordinati e ben presto saranno qui.» Tutti i presenti si mostrarono sorpresi, e Lord Woodville rispose immediatamente: «Cavalli da posta, che diamine, amico mio! Perché mai credete di averne bisogno, quando avete promesso di rimanervene quieto a casa mia per almeno una settimana?». «Credo effettivamente», disse il Generale con evidente imbarazzo, «che, in preda alla gioia di rivedere Vostra Signoria, ho forse detto che sarei rimasto per qualche giorno. Ma da allora mi sono accorto che in realtà era una cosa assolutamente impossibile.» «È una cosa molto strana», rispose il giovane nobiluomo. «Sembravate del tutto libero da impegni ieri, ed è impossibile che siate stato richiamato proprio oggi. La posta non è ancora arrivata dalla città, e quindi non potete aver ricevuto alcuna lettera.» Il Generale Browne, senza offrire ulteriori spiegazioni, mormorò qualco-
sa circa un impegno improrogabile, e insistette dicendo che era assolutamente necessario che partisse. Questo zittì ogni ulteriore opposizione da parte del padrone di casa, che vide bene che ormai la decisione era stata presa e non volle importunare oltre il suo amico. «Tuttavia», disse, «mi dovete permettere, mio caro Browne, di mostrarvi la vista che si gode dal terrazzo, ora che la nebbia si sta finalmente dissipando.» Così dicendo, aprì la grande vetrata, ed uscì sul terrazzo. Il Generale lo seguì meccanicamente, ma non parve per nulla interessato a ciò che il suo amico gli diceva, indicandogli differenti punti degni della sua attenzione. Camminarono per un poco in questo modo, finché Lord Woodville riuscì finalmente a trarre il suo ospite lontano dal resto della comitiva, poi, volgendosi verso di lui con un'aria di grande solennità, gli rivolse queste parole: «Richard Browne, mio vecchio e carissimo amico, ora siamo soli. Permettetemi di rivolgermi a voi e di ottenere una risposta sincera, fidandomi della parola di un amico e dell'onore di un soldato. Come avete dormito in verità questa notte?». «Molto male, Mylord», rispose questi con lo stesso tono solenne. «In maniera tanto miserevole, che non voglio rischiare di trascorrere così un'altra notte, né per tutte le terre di questo castello, né per tutte le terre che si vedono da questo punto.» «Questa è una cosa straordinaria», disse il giovane Lord, parlando tra sé. «Allora ci deve essere del vero nei racconti che riguardano quell'appartamento.» Poi, rivolto al generale: «Per carità, mio caro amico, siate sincero con me, e fatemi sapere gli spiacevoli dettagli circa ciò che vi è accaduto sotto il mio tetto, poiché io non desideravo altro che il vostro piacere». Il Generale parve scosso da queste parole, e fece una breve pausa prima di rispondere. «Mylord», disse finalmente, «ciò che mi è accaduto durante la notte scorsa è tanto strano e spiacevole, che non ho alcun desiderio di descrivervi i dettagli. Tuttavia desidero esaudire ogni vostro desiderio, e per giunta spero che la mia sincerità possa portare a spiegare almeno in parte queste circostanze dolorose e misteriose. Altri, sentendo la narrazione, potrebbero concludere che sono un debole di mente, uno sciocco superstizioso, che ha permesso alla sua stessa immaginazione di illuderlo e confonderlo. Ma voi mi conoscete fin dalla prima infanzia, e non avrete il sospetto che abbia adottato in età virile i sentimenti e le debolezze che non avevo in gioventù.»
A questo punto fece una pausa, e il suo amico rispose: «Non abbiate dubbi: crederò alle vostre parole, per quanto strana possa risultare la narrazione. Conosco bene la vostra natura, e non crederei mai che ciò che mi state per raccontare non corrisponda alla verità: so bene che, allo stesso modo, il vostro onore e la vostra amicizia vi impediranno di esagerare ciò che avete visto». «Ebbene», disse il Generale, «comincerò a raccontarvi la storia come meglio posso, affidandomi alla vostra schiettezza d'animo. Eppure, preferirei affrontare una batteria di cannoni, piuttosto che riportare alla mente i terribili ricordi della scorsa notte.» Fece una seconda pausa, poi si accorse che Lord Woodville era rimasto in silenzio, in un atteggiamento attento, e così cominciò, sia pure con evidente riluttanza, la storia delle avventure notturne che gli erano accadute nella Stanza delle Tappezzerie. «Mi spogliai e mi coricai non appena mi lasciaste solo ieri sera. Ma il fuoco nel camino, che era quasi di fronte al mio letto, scoppiettava allegramente, ed anche a causa delle centinaia di ricordi felici della mia infanzia e della mia giovinezza suscitate dal piacere inaspettato del mio incontro con voi, non mi addormentai subito. Dovrei puntualizzare tuttavia che queste riflessioni furono tutte felici e piacevoli, poiché sentivo che per un poco di tempo avrei scambiato i doveri, le fatiche, e i pericoli della mia professione, con i godimenti di una vita tranquilla, riaffermando quei legami di amicizia e d'affetto che avevo lacerato al brusco richiamo della guerra. Mentre la mia mente era piena di tali piacevoli riflessioni, e stavo lentamente prendendo sonno, improvvisamente mi svegliai udendo un suono che pareva il fruscio di una veste di seta, accompagnato dal ticchettio di tacchi alti, come se una donna camminasse per l'appartamento. Prima che potessi scostare la tenda per capire cosa stesse succedendo, la sagoma di una piccola donna passò davanti al fuoco. Essa mi volgeva le spalle, ed osservai dalle spalle e dal collo che si trattava di una vecchia, vestita con uno di quegli abiti vecchio stile che credo le signore chiamino sacque. Cioè una sorta di veste larga in vita, raccolta in grandi pieghe sul collo e sulle spalle, e che ricadono a terra formando una specie di strascico. Pensai che una simile intrusione fosse abbastanza singolare, ma non pensai nemmeno per un attimo che non si trattasse di una donna mortale, qualche vecchia domestica che aveva l'abitudine magari di vestirsi come al tempo di una sua ava, e che (visto che avevate detto quanto poco spazio avevate a disposizione), era stata costretta a lasciare la sua stanza per po-
termi ospitare, e forse se ne era dimenticata, ed era tornata a mezzanotte nei suoi appartamenti. Convinto di ciò, mi mossi nel letto e tossicchiai un poco, in modo che l'intrusa si accorgesse della mia presenza. Lei si voltò lentamente ma, per Diana, Mylord!, che aspetto mi mostrò in quel momento! Non vi potevano essere altri dubbi: non era certo un essere vivente! Sul suo viso si leggeva l'espressione fissa di un cadavere, e vi erano impresse le tracce delle più vili e orrende passioni che l'avevano animata durante la sua vita mortale. Il corpo di qualche terribile criminale pareva esser stato riesumato dalla tomba, e l'anima stessa era tornata dalle fiamme infernali, per formare - per poco tempo - una nuova unione con l'antico complice delle sue colpe. Trasalii lì nel letto, e mi alzai a sedere, irrigidito, reggendomi sulle palme delle mani, mentre contemplavo quell'orribile spettro. L'arpia parve compiere un solo agile balzo verso il letto sul quale giacevo, e vi si accucciò assumendo il mio stesso atteggiamento orripilato, spingendo il suo viso diabolico finché non fu a meno di un palmo dal mio, con un ghigno diabolico pieno di malizia e di scherno, come una furia incarnata.» A quel punto il Generale Browne si fermò, e si asciugò il sudore freddo che gli aveva coperto la fronte a quel ricordo. «Mylord», disse, «io non sono un codardo. Ho affrontato tutti i pericoli mortali della mia professione, e posso vantarmi del fatto che nessuno ha mai avuto occasione di vedermi mancare alla parola data. Ma con quelle orribili circostanze sotto gli occhi, a quanto pareva, in potere di uno spirito demoniaco incarnato, il coraggio mi abbandonò, il mio valore si squagliò come la cera in una fornace, e i capelli mi si rizzarono uno per uno sulla testa. Il sangue mi si gelò nelle vene, e svenni, vittima del terrore panico come una ragazza o un bambino di dieci anni. Non so quanto tempo rimasi in quelle condizioni. Quando mi riebbi, udii l'orologio del castello battere l'una tanto forte, che mi parve che fosse proprio in quella stanza. Mi ci volle molto tempo prima di avere il coraggio di riaprire gli occhi, per timore di rivedere quell'orribile spettacolo. Quando, tuttavia, ripresi coraggio e guardai in su, essa era ormai scomparsa. Il mio primo impulso fu quello di suonare il campanello, svegliare i servi, e di trovare una stanzetta o un pagliaio per evitare di dover sostenere una seconda visita. Devo confessarvi che ero molto scosso, ma cambiai idea non tanto per la vergogna, ma proprio per la paura che, nel raggiungere il campanello accanto al camino, avrei potuto incontrare di nuovo quella
vecchia orribile, che forse era ancora nascosta in qualche angolo dell'appartamento. Non riuscirei mai a descrivervi che febbri calde e gelide mi tormentarono per tutto il resto della notte, il sonno agitato, le veglie spossanti, e quello stato di limbo che si interpone tra il sonno e la veglia. Cento terribili oggetti mi apparvero e mi ossessionarono. Ma vi era una grande differenza tra la visione che mi era apparsa e quelle che seguirono, e che sapevo erano solo parti della mia fantasia e dei miei nervi sovreccitati. Finalmente si fece giorno, e mi alzai dal letto, indolenzito e umiliato nel corpo e nello spirito. Provavo un senso di profonda vergogna, come uomo e come soldato, e ancor più a causa del desiderio che nutrivo di fuggire da quell'appartamento stregato, e questo vinse su ogni altra considerazione. Così mi vestii in tutta fretta, e fuggii dal vostro castello, per tentare di trovare qualche sollievo per i miei nervi scossi dalla tremenda visione a cui avevo assistito, da quella donna che ormai consideravo una visitatrice di un altro mondo. Ora sapete qual è la causa del mio stato, e il motivo che mi spinge a lasciare la vostra dimora ospitale. Spero che potremo incontrarci spesso in altri luoghi, ma Dio non voglia che io debba mai passare un'altra notte sotto questo tetto!» Per quanto strana, la storia del Generale era stata raccontata con grande convinzione, tanto da zittire tutti quei commenti che solitamente interrompono simili racconti. Lord Woodville non chiese nemmeno una volta se fosse sicuro di non aver sognato, né diede una di quelle spiegazioni che sono oggi in voga per spiegare simili apparizioni come febbrili creazioni della fantasia o illusioni provocate dai nervi preposti alla visione. Al contrario, pareva profondamente impressionato dalla veridicità e dalla realtà di ciò che aveva udito. Dopo una lunga pausa, si rammaricò con evidente senso di compassione, del fatto che il suo amico d'infanzia avesse tanto sofferto in casa sua. «Mi dolgo ancor più del vostro dolore, mio caro Browne», riprese, «per il fatto che esso è il risultato inaspettato di un mio esperimento! Dovete sapere che, al tempo di mio padre e di mio nonno, l'appartamento che vi avevo assegnato è sempre stato chiuso, a causa delle voci circa il fatto che fosse spesso teatro di visioni soprannaturali e che vi si udivano strane voci. Quando sono venuto qui, alcune settimane orsono, a prendere possesso della tenuta, ho pensato che lo spazio dove accogliere i miei amici non fosse sufficiente da permettere agli abitanti del mondo visibile di avere diritto
a un intero appartamento. Quindi ho fatto aprire la Stanza delle Tappezzerie. E, senza distruggere il suo aspetto antico, vi ho fatto porre alcuni mobili nuovi tipici dei tempi moderni. Tuttavia, siccome la servitù era convinta che quella stanza fosse stregata, ho pensato che il primo di loro ad occupare la Stanza delle Tappezzerie avrebbe certo contribuito a rinverdire la fama maligna che attorniava quel luogo, e che non sarei mai riuscito a rendere quella stanza abitabile. Devo confessare, caro Browne, che il vostro arrivo ieri è stata comunque un'occasione felice per mille motivi, ma mi parve anche un'occasione per dissipare per sempre le leggende oscure che erano legate alla stanza. Infatti il vostro coraggio è indiscutibile e la vostra mente è libera da pregiudizi. Non avrei potuto quindi scegliere meglio il soggetto per tale esperimento.» «Sulla mia vita vi giuro», disse in fretta il Generale Browne, «che vi sono molto obbligato, Mylord... veramente molto obbligato. Mi ricorderò a lungo le conseguenze di quello che voi chiamate il vostro "esperimento".» «No, siete ingiusto, amico mio», disse Lord Woodville. «Dovete solo riflettere per un momento e vi convincerete che non avrei mai potuto augurarvi il dolore al quale siete stato malauguratamente esposto. Ieri mattina io ero completamente scettico circa le apparizioni soprannaturali. No, sono sicuro che, se vi avessi raccontato la storia di quella stanza, quegli stessi racconti vi avrebbero indotto a scegliere quell'appartamento. Per mia sfortuna, o per mio errore, ma non per mia colpa, voi siete stato afflitto da una disavventura assai strana.» «Strana davvero!», disse il Generale, ritornando di buon umore. «E riconosco che non ho il diritto di offendervi per avermi considerato alla maniera in cui io stesso mi consideravo in passato: un uomo valente e di coraggio. Ma vedo che i miei cavalli sono arrivati, e non devo trattenervi oltre dalle vostre distrazioni.» «No, mio caro amico», disse Lord Woodville, «dal momento che non potete rimanere con noi un altro giorno, ed io non posso più esortarvi a farlo, concedetemi solo un'altra mezz'ora. Una volta vi piacevano i quadri, ed io ho una galleria di ritratti, alcuni dei quali sono stati dipinti da Van Dyck, che rappresentano gli antenati a cui questo castello è appartenuto. Credo che diversi di essi vi colpiranno per la loro qualità.» Il Generale Browne accettò l'invito, sia pure malvolentieri. Evidentemente non si sentiva a suo agio, e desiderava lasciare il Castello dei Woodville alle spalle. Non poteva tuttavia rifiutare l'invito del suo amico. E, ancor meno, pensò, dopo la dimostrazione di malagrazia che aveva offerto
poco prima al suo ospite che aveva agito in buona fede. Il Generale seguì quindi Lord Woodville, e assieme attraversarono diverse stanze, giungendo in una lunga galleria piena di quadri, che il padrone di casa illustrò al suo ospite, informandolo circa i loro nomi, e circa le vicende dei personaggi al quale essi erano appartenuti. Erano quadri caratteristici del tipo che si trova nelle antiche gallerie di quadri di famiglia. Vi era un Cavaliere che aveva dilapidato il patrimonio per la causa del Re. Vi era una bella dama che era riuscita a salvare il nome sposando un ricco uomo della gente della parte avversa. Vi era un giovane galante che si era esposto al pericolo per avere intrattenuto una corrispondenza con la Corte in esilio a Saint Germain. Un altro invece si era unito prima al partito dei Whig e poi a quello dei Tory. Mentre Lord Woodville affastellava tutte queste informazioni a beneficio del suo ospite, «contro il volere delle sue stesse capacità» essi giunsero a metà della quadreria, e lì vide il Generale Browne trasalire, stupito, e non poco intimorito. I suoi occhi si erano posati e poi improvvisamente si erano fissati sul ritratto di una vecchia signora vestita in un sacque, un abito in voga alla fine del XVII secolo. «Eccola qui!», esclamò. «Eccola, con le stesse forme e le stesse fattezze, benché non abbia la stessa espressione demoniaca con la quale questa maledetta arpia mi ha visitato solo ieri sera!» «Se ciò è vero», disse il giovane nobiluomo, «non vi possono essere altri dubbi circa la veridicità della vostra visione. Quel quadro rappresenta una mia sciagurata antenata, che commise crimini nefandi che sono ricordati negli annali della mia famiglia e che custodisco in una cassetta antichissima. La lista delle sue colpe sarebbe troppo orribile. Vi basti sapere che in quell'appartamento furono commessi crimini terribili quali l'incesto e un assassinio bestiale. Ora lo riporterò allo stato di solitudine nel quale lo avevano lasciato coloro che mi avevano preceduto. Nessuno, per quanto mi è possibile, sarà mai esposto alla ripetizione di tali orrori sovrannaturali, che sono riusciti a scuotere un coraggio pari al vostro.» Così i due amici, che si erano riincontrati con tanta gioia, si lasciarono con sentimenti tanto differenti. Lord Woodville ordinò che la Stanza delle Tappezzerie fosse spogliata di ogni orpello, e che la porta fosse murata. Il Generale Browne partì alla ricerca di un luogo meno bello, della compagnia di un amico meno altolocato, e dell'oblio di quella notte tremenda che aveva trascorso al Castello dei Woodville.
EDGAR ALLAN POE Metzengerstein Pestis eram vivus - moriens tua mors ero.1 Martin Lutero Orrore e fatalità hanno traversato il mondo in ogni tempo. Allora perché dare una data alla storia che devo narrare? Sarà sufficiente dire che, nel periodo di cui parlo, esisteva, all'interno dell'Ungheria, una fede convinta, anche se tenuta segreta, nelle dottrine della metempsicosi. Delle dottrine in sé - cioè, di quanto possano essere false o attendibili - non dico nulla. Affermo, comunque, che molta della nostra incredulità (come dice La Bruyère, di tutta la nostra infelicità) «vient de ne pouvoir être seuls»2. Ma c'erano alcuni punti nella superstizione ungherese che rasentavano l'assurdità. Essi - gli ungheresi - si differenziavano in modo sostanziale dai loro maestri orientali. Per esempio: «L'anima», dicevano i primi - secondo le parole di un parigino acuto e intelligente - «ne demeure qu'une seule fois dans un corps sensible: au reste - un cheval, un chien, un homme même, n'est que la ressemblance peu tangible de ces animaux3». Le famiglie Berlifitzing e Metzengerstein erano state in lotta per secoli. Mai prima di allora due casate, così illustri, furono tanto esacerbate da reciproca ostilità. L'origine di quest'odio sembra si trovasse nelle parole di un'antica profezia: «Un nome superbo cadrà spaventosamente quando, come il cavaliere sul suo cavallo, la mortalità dei Metzengerstein trionferà sull'immortalità dei Berlifitzing». Certo tali parole di per sé avevano poco o nessun significato. Ma cause ancora più insensate hanno dato origine - e questo non molto tempo fa - a conseguenze ugualmente importanti. Inoltre, i feudi, che erano contigui, avevano a lungo esercitato un'influenza contrastante sugli affari di un governo irrequieto. Per di più, i vicini sono di rado amici, e gli abitanti del Castello di Berlifitzing potevano guardare dai loro contrafforti elevati proprio dentro le finestre del Palazzo Metzengerstein. La magnificenza più che feudale, così ostentata, non era certo capace di placare i sentimenti irritabili dei meno antichi e meno ricchi Berlifitzing. Perché meravigliarsi allora, che le parole - per quanto sciocche - di quella profezia, dovessero riuscire a creare e mantenere il contrasto tra due famiglie già predisposte alla lite dall'istigazione di una gelosia ereditaria? La profezia sembrava significare - se significava qualcosa - un trionfo finale
della casata già più potente; e veniva naturalmente ricordata con l'animosità più profonda dalla più debole e meno influente. Guglielmo, Conte di Berlifitzing, sebbene disceso da nobile stirpe, era, all'epoca di questa narrazione, un vecchio infermo e rimbambito, senza nulla di notevole se non un'antipatia personale, smodata e inveterata per la famiglia del suo rivale, e un amore per i cavalli e la caccia così appassionato che né l'infermità del corpo, né l'età avanzata, né il decadimento mentale, gli impedivano di esporsi quotidianamente ai pericoli della caccia. Federico, il Barone di Metzengerstein, non era, d'altro canto, ancora maggiorenne. Il padre, il ministro G., era morto giovane. La madre, Lady Mary, lo aveva seguito presto. Federico era, a quel tempo, nel suo diciottesimo anno. In una città, diciotto anni non sono un periodo lungo ma, in un deserto, in un deserto così sontuoso come quel vecchio Principato, il pendolo oscilla con un significato più profondo. Per alcune circostanze particolari riguardanti l'amministrazione del padre, il giovane Barone, alla morte del predecessore, entrò subito in possesso delle sue vaste proprietà. Raramente simili tenute erano state possedute prima da un nobile ungherese. I suoi castelli erano innumerevoli. Il primo in splendore e dimensioni era il «Palazzo Metzengerstein». La linea di confine dei suoi domini non fu mai tracciata chiaramente, ma il parco principale aveva un perimetro di cinquanta miglia. Visto che a succedere nella proprietà fu uno così giovane, con un carattere ben noto e una fortuna così incomparabile, circolarono poche congetture riguardo alla sua probabile linea di condotta. E, infatti, per tre giorni, il comportamento dell'erede vinse Erode in efferatezza e corruzione e oltrepassò del tutto le attese dei suoi più entusiastici ammiratori. Orge vergognose, flagranti tradimenti e atrocità senza nome, fecero capire, entro breve tempo ai suoi tremanti vassalli che nessuna sottomissione servile da parte loro e nessuno scrupolo di coscienza da parte sua, da allora in poi potevano offrire una qualche protezione contro le zanne senza rimorsi di quel piccolo Caligola. Nella notte del quarto giorno, le scuderie del Castello di Berlifitzing furono trovate in fiamme e l'unanime opinione del vicinato aggiunse la taccia di incendiario alla lista già orribile delle colpe e mostruosità del Barone. Ma, durante il tumulto causato da questo evento, il giovane nobile sedeva, apparentemente immerso in meditazione, in una delle stanze superiori, enorme e desolata, del palazzo di famiglia dei Metzengerstein. I drappeggi della tappezzeria ricca, anche se sbiadita, che pendevano malinconicamen-
te dai muri, rappresentavano le tenebrose e maestose forme di mille illustri antenati. Qui, preti riccamente rivestiti di ermellino, e dignitari pontifici, seduti familiarmente con l'autocrate e il sovrano, ponevano un veto ai voleri di un re temporale, o bloccavano con il fiat della supremazia papale lo scettro ribelle dell'Arcinemico. Là, le oscure, alte statue dei Principi Metzengerstein - i loro muscolosi corsieri gettantisi sulle carcasse degli avversari caduti - facevano sussultare i nervi più saldi con la loro espressione vigorosa; e qui ancora le figure voluttuose e simili a cigni delle dame dei giorni andati, fluttuavano nei labirinti di un'irreale danza sulle note di una melodia immaginaria. Ma, mentre il Barone ascoltava, o ostentava di ascoltare, il clamore che cresceva gradualmente nelle scuderie di Berlifitzing - o forse meditava su qualche nuovo atto di audacia più brutale - i suoi occhi si volsero inconsapevolmente sull'immagine di un enorme cavallo innaturalmente colorato raffigurato nella tappezzeria come appartenente a un antenato saraceno della famiglia del suo rivale. Il cavallo, in primo piano nel disegno, stava immobile e simile a una statua mentre, più indietro, il suo cavaliere sconfitto periva sotto la spada di un Metzengerstein. Sulle labbra di Federico comparve un'espressione diabolica, quando si rese conto della direzione che, senza volere, aveva assunto il suo sguardo. Ma non lo distolse. Al contrario, non poteva in nessun modo spiegarsi l'ansia opprimente che, come un drappo funebre, sembrava scendere sui suoi sensi. Fu con difficoltà che riconciliò i suoi sentimenti di sogno incoerenti, con la certezza di essere sveglio. Quanto più a lungo fissava lo sguardo, tanto più avvincente diventava la malia... tanto più impossibile gli sembrava di poter mai distogliere lo sguardo dall'incanto di quella tappezzeria. Ma, divenendo improvvisamente più violento il tumulto all'esterno, con uno sforzo si costrinse a dirigere l'attenzione verso il bagliore rosseggiante delle scuderie in fiamme che investiva in pieno le finestre della stanza. Il gesto, tuttavia, fu solo momentaneo; il suo sguardo ritornò meccanicamente al muro. Con suo estremo orrore e stupore, la testa del gigantesco destriero aveva, nel frattempo, mutato posizione. Il collo dell'animale, prima arcuato - come per compassione - sul corpo prostrato del padrone, era ora teso in tutta la sua lunghezza nella direzione del Barone. Gli occhi, prima invisibili, ora avevano un'energica espressione umana mentre luccicavano di un insolito rosso ardente, e le labbra dilatate del cavallo chiaramente irritato lasciavano in piena vista, sepolcrali e rivoltanti, i denti.
Sbalordito e terrificato, il giovane nobile barcollò verso la porta. Quando la aprì, un lampo di luce rossa, riversandosi nella stanza, proiettò nettamente la sua ombra contro la tappezzeria tremolante; rabbrividì nell'accorgersi che quell'ombra, mentre egli vacillava indugiando sulla soglia, assumeva l'esatta posizione, e precisamente riempiva il contorno, dello spietato e trionfante uccisore del saraceno Berlifitzing. Per dare sollievo al suo animo, il Barone si affrettò a uscire all'aria aperta. Al portone principale del palazzo incontrò tre scudieri. Con molta difficoltà, e con grande pericolo per le loro vite, stavano trattenendo gli scatti convulsi di un gigantesco cavallo color fuoco. «Di chi è il cavallo? Dove lo avete preso?», chiese il giovane, con voce querula e rauca, accorgendosi istantaneamente che il misterioso destriero nella camera tappezzata era l'esatto duplicato del furioso animale che stava dinanzi ai suoi occhi. «È vostra proprietà, signore», rispose uno degli scudieri, «o almeno non lo reclama nessun altro proprietario. Lo abbiamo catturato mentre fuggiva, tutto fumante e schiumante rabbia, dalle scuderie in fiamme del Castello Berlifitzing. Supponendo che appartenesse all'allevamento di cavalli stranieri del vecchio Conte, glielo abbiamo riportato come fuggitivo. Ma gli stallieri là negano ogni diritto sulla creatura; il che è strano, poiché porta tracce evidenti di essere sfuggito a fatica dalle fiamme.» «Ha anche le lettere G.V.B. marchiate molto chiaramente sulla fronte», interruppe un secondo scudiero. «Ho supposto, naturalmente, che fossero le iniziali di Guglielmo Von Berlifitzing... ma tutti nel castello sono sicuri di non aver mai visto il cavallo.» «È estremamente singolare!», disse il giovane Barone, con aria riflessiva, ed evidentemente inconsapevole del significato delle proprie parole. «È, come dite, un cavallo notevole... un cavallo prodigioso! Benché, come potete vedere molto esattamente, sia di carattere diffidente e intrattabile. Voglio che sia mio, in ogni caso», aggiunse dopo una pausa, «forse un cavaliere come Federico di Metzengerstein, potrà domare perfino il Diavolo uscito dalle scuderie di Berlifitzing.» «Siete in errore, mio Signore; il cavallo, come credo di aver detto, non viene dalle scuderie del Conte. Se fosse stato così, avremmo saputo qual era il nostro dovere, anziché condurlo in presenza di un nobile della vostra famiglia.» «Vero!», osservò il Barone, seccamente; e in quel momento un paggio addetto alla stanza da letto uscì dal palazzo rosso in viso a passi precipito-
si. Sussurrò all'orecchio del suo Signore informandolo dell'improvvisa scomparsa di una piccola parte della tappezzeria, in una sala che indicò, addentrandosi nello stesso tempo in particolari minuziosi e circostanziati; ma li riferì con un tono di voce tanto basso che nulla sfuggì, che potesse appagare la curiosità eccitata degli scudieri. Il giovane Federico, durante il colloquio, sembrò agitato da una varietà di emozioni. Presto, in ogni caso, ritrovò la sua compostezza, e un'espressione di maligna determinazione si formò sul suo volto, quando diede ordini perentori che la stanza in questione fosse immediatamente chiusa, e che gli fosse consegnata la chiave. «Avete sentito dell'infelice morte del vecchio cacciatore Berlifitzing?», disse uno dei suoi vassalli al Barone dopo la partenza del paggio, mentre l'enorme destriero che quel nobile aveva adottato come proprio, si impennava e corvettava con raddoppiato furore giù per il lungo viale che si stendeva dal palazzo alle scuderie di Metzengerstein. «No!», disse il Barone, voltandosi bruscamente verso il vassallo. «Morto, hai detto?» «Proprio così, mio Signore, e, per un nobile del vostro nome, sarà, immagino, una notizia non sgradita.» Un rapido sorriso spuntò sul volto del Barone. «Come è morto?» «Nel tentativo temerario di salvare la parte prediletta della scuderia dei cavalli da caccia, è perito miseramente fra le fiamme.» «D-a-v-v-e-r-o-!», esclamò il Barone, come se lentamente e deliberatamente fosse colpito dalla verità di un'idea eccitante. «Davvero», ripeté il vassallo. «Terribile!», disse calmo il giovane, e tornò tranquillamente nel palazzo. Da quel giorno la condotta esteriore del giovane e dissoluto Barone Federico Von Metzengerstein cambiò radicalmente. In realtà il suo contegno deluse non poco le aspettative generali e si accordò assai meno alle speranze delle mamme intraprendenti della zona; il suo abbigliamento e le sue maniere, ancor meno che in passato, somigliavano in qualche modo a quelli della locale aristocrazia. Non lo si vedeva mai fuori dei confini dei suoi domini e, nella vasta società che lo circondava, non aveva un compagno a meno che non si voglia riconoscere il diritto al titolo di amico a quell'innaturale, impetuoso cavallo colore del fuoco, sul quale da quel giorno lo si vedeva sempre cavalcare. Numerosi inviti gli pervennero a lungo periodicamente da parte dei vici-
ni. «Vorrà il Barone onorare della sua presenza la nostra festa?» «Vorrà il Barone unirsi a noi in una caccia al cinghiale?» «Metzengerstein non va a caccia» e «Metzengerstein non sarà presente», erano le sprezzanti, laconiche risposte. Questi ripetuti insulti non furono tollerati a lungo dalla altezzosa nobiltà e gli inviti divennero meno cordiali... meno frequenti... e ad un certo punto cessarono del tutto. La vedova dello sfortunato Conte Berlifitzing fu sentita esprimere la speranza «che il Barone potesse trovarsi in casa quando non lo desiderava, visto che disdegnava la compagnia dei suoi pari; e potesse trovarsi a cavalcare anche quando non lo desiderava, visto che preferiva la compagnia di un cavallo». Questa frase era certamente lo sciocco scoppio di un risentimento ereditario e prova soltanto quanto particolarmente prive di significato possano diventare le nostre frasi, quando desideriamo essere insolitamente energici. I più comprensivi, tuttavia, attribuivano il cambiamento di condotta del giovane nobiluomo al dolore di un figlio per la recente perdita dei suoi genitori... dimenticando, però, il suo contegno crudele e sconsiderato nel breve periodo seguito immediatamente a quelle dolorose perdite. Altri ancora attribuivano il comportamento ad eccessiva superbia e presunzione. Altri ancora (tra i quali si può citare il medico di famiglia) non esitavano a parlare di malinconia morbosa e di malattia ereditaria, mentre oscure chiacchiere di natura più equivoca circolavano tra la moltitudine. Comunque, il perverso attaccamento del Barone al destriero recentemente acquisito - un attaccamento che sembrava rafforzarsi a ogni nuovo esempio di tendenze feroci e demoniache dell'animale - alla lunga divenne agli occhi di tutti i benpensanti una manifestazione di orribile e innaturale mania. Nel pieno splendore del mezzogiorno, nelle morte ore della notte, in salute o in malattia, nella calma come nella tempesta, il giovane Metzengerstein sembrava inchiodato alla sella del suo colossale cavallo, le cui ingovernabili audacie si accordavano così bene col suo spirito. Si verificarono, inoltre, circostanze che, unite agli ultimi eventi, conferivano un carattere ultraterreno e portentoso all'ossessione del cavaliere e alla capacità del destriero. Misurata accuratamente la lunghezza di un salto, si era trovato che superava di gran lunga le valutazioni più audaci dei più fantasiosi. Il Barone, dal suo canto, non aveva dato un nome all'animale, sebbene tutti gli altri cavalli della sua scuderia fossero distinti da uno specifico appellativo. Inoltre, la sua stalla era situata in un luogo distante dalle
altre, e di tutto quello che si riferiva al governo della bestia, nessuno al di fuori del padrone aveva il permesso di occuparsi, e addirittura nessuno poteva entrare nel recinto particolare del cavallo. Fu anche osservato che, sebbene i tre stallieri, che avevano catturato il cavallo quando filava via da Berlifitzing in fiamme, fossero riusciti ad arrestare la sua corsa mediante una briglia con un cappio, nessuno dei tre poteva affermare con sicurezza di aver messo, durante la faticosa lotta, le mani sul corpo della bestia. Esempi di intelligenza particolare nel comportamento di un cavallo nobile e focoso non si ritiene che siano sufficienti a suscitare un irragionevole interesse; ma in questo caso vi furono circostanze che si imposero per forza anche ai più scettici e flemmatici; si diceva che talvolta l'animale costringeva ad arretrare con terrore la folla che gli stava intorno a bocca aperta con il suo cupo e impressionante incedere; e si diceva che, a volte, anche il giovane Metzengerstein impallidisse e si ritraesse di fronte all'espressione improvvisa e penetrante dei suoi occhi quasi umani. Nella Corte del Barone nessuno osava dubitare dell'ardore dello straordinario affetto del giovane gentiluomo per le focose qualità del suo cavallo; nessuno, tranne un insignificante piccolo paggio deforme, la cui deformità dava fastidio a tutti e le cui opinioni avevano ben poca importanza. Questi (non so nemmeno se valga la pena di riferire le sue idee) aveva la sfrontatezza di asserire che il suo padrone non era mai balzato sulla sella senza un inavvertito, impercettibile tremore; e che quando ritornava dalle sue lunghe, continue, abituali cavalcate, aveva una espressione di malvagità che alterava tutti i muscoli del suo volto. Una notte tempestosa Metzengerstein, svegliatosi da un sonno pesante, scese come un folle dalla sua stanza e, montando in fretta e furia sul cavallo, scomparve nei meandri della foresta. Una circostanza abbastanza abituale che non attrasse più di tanto l'attenzione; ma il suo ritorno fu atteso con grande ansia dai suoi domestici quando, dopo alcune ore di assenza, si scoprì che gli stupendi, grandiosi spalti merlati del Palazzo Metzengerstein, stavano vacillando e crepitando dalle fondamenta, in preda alla massa densa e livida di un incendio ingovernabile. Poiché le fiamme, quando erano state scorte, avevano già compiuto un così terribile progresso che tutti gli sforzi per salvare una qualsiasi ala dell'edificio sarebbero stati inutili, gli attoniti confinanti rimasero immobili a guardare in un silenzioso anche se non indifferente stupore. Ma, un nuovo pauroso oggetto ben presto attirò l'attenzione della moltitudine, dimostrando come il turbamento di una folla nella contemplazione d'una agonia
umana sia tanto più forte dell'eccitazione suscitata da uno spettacolo sia pure pauroso che riguardi materia inanimata. In cima al lungo viale di antiche querce che portava dalla foresta all'ingresso principale del Palazzo Metzengerstein, un destriero con in groppa un cavaliere a capo scoperto e con gli abiti in disordine, galoppava con un impeto che superava anche quello del Demone della Tempesta. Il cavaliere non era evidentemente in grado di controllare quella corsa furiosa. L'espressione angosciata, la lotta convulsa del corpo erano la prova di uno sforzo sovrumano, ma dalle sue labbra lacerate, morse a sangue per il terrore, non usciva alcun suono, ad eccezione di un solo grido. Un solo istante, poi lo scalpitio degli zoccoli risuonò chiaro e penetrante, sopra il ruggito delle fiamme e il gemito del vento... ancora un altro istante e, superato d'un solo balzo porta e fossato, il destriero si lanciò su per la vacillante scalinata del palazzo e, con il suo cavaliere, sparì tra i vortici del caotico incendio. La furia della tempesta immediatamente si placò e seguì una calma mortale. Una bianca fiamma avviluppava ancora l'edificio come un sudario e, fluttuando fuori nella quieta atmosfera, emanava una luce soprannaturale, mentre una nuvola di fumo sovrastava pesantemente i bastioni formando nitidamente la figura colossale di un cavallo. 1
«Da vivo ero peste - morendo sarò la tua morte.» (N.d.T.) Mercier sostiene con serietà le dottrine della metempsicosi in Van deux mille quatre cents quarante, e J. D'Israeli afferma che «non esiste un sistema più semplice e poco ripugnante all'intelletto». Il colonnello Ethan Allen, «il ragazzo della Montagna Verde», sembra fosse un serio sostenitore della metempsicosi (N.d.A.). 3 «...dimora una sola volta in un corpo sensibile: del resto, un cavallo, un cane, perfino un uomo, non sono che la somiglianza poco tangibile di questi animali.» (N.d.T.) 2
EDGAR ALLAN POE Ligeia Ed ivi giace la volontà che non muore. Chi conosce i misteri della volontà con tutta la sua forza? Perché anche Iddio è una grande volontà che riempie tutte le cose dell'essenza dei propri intendimenti. L'uomo non concede se stesso agli angeli e nemmeno inte-
ramente alla morte, se non quando s'indebolisce la sua volontà. Joseph Glanvill Non posso, per l'anima mia, ricordare come, quando e perfino dove, precisamente, feci la conoscenza di Lady Ligeia. Ora gli anni sono passati e la mia memoria è indebolita dalle molte sofferenze o, al contrario, non sono forse in grado di riportare ora alla memoria questi punti perché, in verità, la personalità della mia adorata, la sua rara cultura, il suo singolare ma sereno tipo di bellezza, la vivace e affascinante eloquenza del suo lento e musicale modo di parlare, si fecero strada nel mio cuore così furtivamente e insieme decisamente, che quasi non me ne sono reso conto. In ogni caso credo di averla incontrata la prima volta, e poi molte altre ancora, in qualche grande e antica città decadente in vicinanza del Reno. Della sua famiglia ho certamente sentito parlare. Che fosse di antichissima origine, non c'è dubbio. Ligeia! Ligeia! Seppellito in studi di un genere più idoneo di ogni altro ad affievolire le sensazioni provenienti dal mondo esterno, è soltanto con questa dolce parola - Ligeia - che riesco a evocare davanti agli occhi della mia immaginazione la visione di colei che ora non è più. Ed ora, mentre scrivo, mi viene in mente come in un lampo, che non ho mai saputo il cognome di colei che fu la mia amica, la mia fidanzata, che divenne la fedele compagna dei miei studi, e infine la mia sposa adorata. È stato per una dolce pretesa della mia Ligeia? Oppure è stata una dimostrazione della forza del mio affetto il fatto che io non abbia mai indagato su questo punto? O è stato piuttosto un mio capriccio... una romantica, insensata offerta, sull'altare della più appassionata devozione? Se ricordo confusamente il fatto in se stesso - come meravigliarsi se ho completamente dimenticato le circostanze che lo hanno originato e nelle quali si è verificato? Se mai lo spirito che si può chiamare Fantasia, se mai lei, l'evanescente Astofet, dell'Egitto idolatra, alata di nero, presiede, come si dice, ai matrimoni sfortunati, certamente ha governato il mio. C'è un argomento a me caro sul quale la memoria non mi tradisce, ed è la figura di Ligeia. Era alta di statura, piuttosto sottile, negli ultimi giorni perfino emaciata. Non riuscirò mai a descrivere la maestà, la tranquilla sicurezza del suo portamento o la incredibile leggerezza ed elasticità del suo incedere. Arrivava e si dileguava come un'ombra. Non mi accorgevo mai del suo ingresso nel mio piccolo studio se non per la cara musica della sua dolce, bassa voce, o
per la sua diafana mano poggiata sulla mia spalla. Nessuna fanciulla aveva un volto bello come il suo. Era lo splendore di un sogno oppiaceo, una visione ariosa, capace di esaltare lo spirito, più selvaggiamente divina delle fantasie che aleggiavano intorno alle dormienti figlie di Delo. Eppure, le sue fattezze non rispondevano ai canoni dei modelli che erroneamente ci hanno insegnato ad ammirare nelle opere della classicità pagana. «Non esiste bellezza squisita», dice Bacone, il Lord di Verulam, parlando in realtà di forme e genera di bellezza, «senza qualche stranezza nelle proporzioni.» Sebbene mi rendessi conto che le fattezze di Ligeia non avevano la regolarità classica, sebbene sentissi che la sua bellezza era «squisita» e che c'erano molte «stranezze» in lei, avevo tuttavia tentato invano di scoprire le irregolarità e di approfondire la mia intuizione dello «strano». Esaminavo il profilo della sua fronte alta e pallida, perfetta - come risulta fredda questa parola quando si riferisce alla sua maestosità quasi divina - la sua pelle, che rivaleggiava con l'avorio più puro, l'aggraziata forma del capo e la regolarità delle sue movenze e ancora le chiome corvine, lucenti, naturalmente ondulate, del tutto degne dell'epiteto omerico «giacintine». Rimiravo il delicato profilo del suo naso e non trovavo in nessun esemplare, se non nei graziosi medaglioni degli ebrei, una simile perfezione. C'era la stessa levigatezza sensuale della superficie, la stessa impercettibile tendenza al profilo aquilino, la stessa armoniosa curva delle narici che esprimevano libertà di spirito. Guardavo poi la sua dolce bocca. Era proprio un trionfo di bellezza celestiale - la magnifica curva del breve labbro superiore e la dolce, voluttuosa quiete di quello inferiore -, le fossette divertenti e l'incarnato espressivo, e i denti che riflettevano, con sorprendente brillantezza, ogni raggio di luce festoso che li colpiva quando lei, serena, calma, sorrideva raggiante di gioia. Esaminavo la conformazione del mento e anche qui ritrovavo la grazia della linea, la dolcezza, la maestà, la pienezza, la spiritualità dell'esemplare greco, quel profilo che il Dio Apollo aveva rivelato, ma solo in sogno, a Cleomene, il figlio dell'Ateniese. E infine mi perdevo dentro i grandi occhi di Ligeia. Sugli occhi non abbiamo modelli dall'antichità. Può darsi che proprio negli occhi della mia adorata, risiedesse il segreto cui alludeva Lord Verulam. Essi erano, debbo ritenere, molto più grandi di quanto lo siano normalmente gli occhi della nostra razza. Erano più grandi dei grandissimi occhi delle gazzelle della razza che vive nella valle di Nourjahad. Peraltro solo a intervalli - nei momenti di intensa emozione - questa ca-
ratteristica diventava più chiaramente evidente, in Ligeia. In tali momenti la sua bellezza era - oppure appariva alla mia ardente fantasia - la bellezza di un essere che non apparteneva a questa terra: la bellezza delle favolose Urì dei Turchi. Il colore delle pupille era il nero più brillante, le ciglia lunghissime, e le sopracciglia dalla linea lievemente irregolare, erano della stessa tinta. La «stranezza» che trovavo negli occhi, era tuttavia di natura estranea al colore o allo splendore della forma, e riguardava in sostanza l'espressione. Parola senza senso! Dietro questa, che è in larga misura un mero suono, noi nascondiamo la nostra ignoranza di tutto ciò che è spirituale. L'espressione degli occhi di Ligeia! Quante lunghe ore ho passato a riflettere su di essi! Quanto ho pensato, per tutta una notte di mezza estate per coglierne la profondità! Che cos'era? Qualcosa di più profondo del pozzo di Democrito, che giaceva nel fondo delle pupille della mia amata? Che cosa era? Ero preda della smania di scoprirlo. Quegli occhi! Quelle grandi, brillanti, divine pupille! Esse divenivano per me le due stelle gemelle di Leda e io, di conseguenza, il più devoto degli astrologi. Tra le molte, incomprensibili anomalie delle scienze dell'intelletto, non ce n'è una più emotivamente eccitante del fatto - mai trattato, credo, in alcun caso scolastico - che nei nostri sforzi, per richiamare alla memoria qualcosa dimenticata da lungo tempo, spesso veniamo a trovarci molto vicini al limite del ricordo, senza tuttavia riuscire a ricordare effettivamente. Quante volte, nelle lunghe analisi degli occhi di Ligeia, mi sono sentito vicino alla piena conoscenza della loro espressione... l'ho sentita avvicinare... non ancora del tutto in mio possesso... e alla fine svanire interamente! E trovavo (strano, tra tutti i misteri più strani) una cerchia di analogie, con questa espressione, nei più comuni oggetti dell'universo. Voglio dire che, essendo già la bellezza di Ligeia divenuta parte del mio spirito, e in esso avendo preso dimora come su un altare, ricavai da molti oggetti e fatti del mondo materiale sensazioni del tutto simili a quelle che sempre avevano suscitato in me i suoi grandi occhi luminosi. Non saprei definire, analizzare, e neanche capire più chiaramente, queste sensazioni. Ho riconosciuto - ripeto - qualcosa di quelle espressioni, nella rapida crescita di una vite, nello scroscio di un torrente o nella visione di una falena, di una farfalla, di una crisalide. L'ho ritrovata nell'oceano, nella caduta di una meteora, negli sguardi di qualche persona molto vecchia. Ci sono una o due stelle in cielo (una, di magnitudo sei, è la stella doppia della costellazione della Lira) che, scrutate al telescopio, mi hanno dato
quella sensazione, così come taluni suoni tratti da strumenti a corda e, non raramente, alcuni brani di libri. Tra innumerevoli altri esempi, ricordo bene il brano di un libro di Joseph Glanvill, che (forse soltanto per la sua singolarità: - chi può dirlo?) non mancava mai di ispirarmi quella sensazione: «Ed ivi giace la volontà che non muore. Chi conosce i misteri della volontà con tutta la sua forza? Perché anche Iddio è una grande volontà che riempie tutte le cose dell'essenza dei propri intendimenti. L'uomo non concede se stesso agli angeli e nemmeno interamente alla morte, se non quando si indebolisce la sua volontà». Il trascorrere di lunghi anni e le riflessioni seguite, mi hanno consentito di ritrovare un sottile nesso tra questo passo del moralista inglese e il carattere di Ligeia. Un fervore di pensiero, di azione, di linguaggio, era in lei il risultato, o comunque l'indizio, di questa sua straordinaria volontà che, durante il nostro lungo rapporto, non dette nessun altro, più immediato, segno di esistenza. Fra tutte le donne che ho conosciuto, lei, Ligeia, apparentemente calma e perfino placida, era quella che più violentemente cadeva preda di tumultuosi cambiamenti di umore. Di tale passionalità non potevo avere un'esatta stima, se non per il dilatarsi miracoloso di quei suoi occhi, che ad un tempo mi deliziavano e spaventavano, per la magica melodia, l'armonia, la chiarezza e la dolcezza della sua voce, e per la fiera energia (resa doppiamente efficace per il contrasto con il suo modo di esprimersi) delle concitate parole che abitualmente pronunciava. Ho accennato alla cultura di Ligeia: era immensa, e non ne avevo mai ritrovata una simile nelle donne che conoscevo. Nelle lingue classiche era così preparata che, fin dove si spingeva la mia conoscenza dei moderni dialetti europei, non sono mai riuscito a trovarla in errore. E, sui temi più in voga - solo perché tra i più astrusi della vantata erudizione accademica ho forse mai colto Ligeia in errore? Quanto singolarmente e acutamente, almeno negli ultimi tempi, ha attratto la mia attenzione questo particolare aspetto del carattere della mia sposa! Ho detto che la sua cultura era quale non ho mai conosciuto in una donna, ma dove esiste un uomo che abbia percorso, e con pieno successo, tutto il vasto cammino delle scienze morali, fisiche e matematiche? Non ho mai compreso allora qualcosa che ora percepisco con evidenza, ossia che, in Ligeia, la preparazione era enorme, stupefacente; eppure ero talmente conscio della sua supremazia incontestabile che mi affidavo, con la fiducia di un bambino, alla sua guida attraverso il caotico mondo degli
studi sulla metafisica, ai quali mi consacrai pienamente durante i primi anni del nostro matrimonio. E, allorché lei volgeva il suo delizioso sguardo su di me, assorto in studi peraltro elementari e ancora confusi, e mi apriva così, passo passo, il lungo, splendido, inesplorato cammino, con quale sensazione di trionfo, con quanta vivida gioia, e con quanto di tutto ciò che di etereo vi è nella speranza, io sentivo di poter raggiungere la meta di una saggezza troppo preziosa, divina per non considerarla vietata! Con quale disperato dolore, dopo alcuni anni, vidi le mie concrete speranze prendere il volo e dileguarsi! Senza Ligeia, io ero come un bambino che brancola nel buio della notte! Solo la sua presenza, i suoi suggerimenti, rendevano chiari i molti misteri degli studi sulla trascendenza in cui eravamo immersi. Mancando la raggiante luce dei suoi occhi, le lettere che apparivano illuminate e auree, divennero più oscure del piombo saturnino. Ora quegli occhi brillavano di meno e più raramente sulle pagine che io ero intento a studiare. Ligeia era malata. I suoi occhi ardevano di bagliori troppo accesi; le sue pallide dita erano divenute trasparenti come la cera delle candele funerarie, le vene azzurre della sua fronte diafana si gonfiavano e si contraevano per ogni pur lieve emozione. Vedevo che stava per morire e che lottava disperatamente con tutta l'anima contro il tristo Azrael. La lotta della mia adorata sposa era, con mia grande sorpresa, perfino maggiore della mia. C'era nel suo carattere fermo qualcosa che mi aveva indotto a pensare che la morte sarebbe arrivata per lei senza timori, ma non fu così. Le parole non bastano per dare una precisa idea della grande resistenza con la quale si batté contro l'Ombra. Io gemevo angosciato di fronte a quel pietoso spettacolo. Avrei voluto consolare, ragionare, ma di fronte al suo disperato desiderio di vita - di vita, solo di vita - il conforto e il ragionamento finivano per sembrare solo la più insensata delle follie. Eppure, fino all'ultimo istante, tra le convulse agitazioni del suo spirito fiero, niente aveva scosso la calma esteriore del suo comportamento. La sua voce era divenuta più lieve, più bassa, ma io non volevo comprendere il vero significato di quelle parole pronunciate con tanta calma. Il mio cervello vacillava mentre ascoltavo, come in trance, una melodia non più terrena, e concetti e speranze sconosciuti ai comuni mortali. Che mi amasse non avevo dubbi; potevo altresì comprendere facilmente che in un animo come il suo l'amore non avrebbe potuto esprimere una passione normale. Tuttavia, solo nella morte compresi fino in fondo la pro-
fondità del suo affetto. Per lunghe ore mi tenne la mano e lasciò sgorgare dal profondo del cuore il tormento di una passione che, al di là della devozione, sfiorava l'idolatria. Come avevo potuto meritare la gioia di essere oggetto di tali confessioni? Come potevo, del pari, meritare il dolore di perdere la mia adorata nel momento stesso in cui lei me le esternava? Non voglio dilungarmi su questo argomento. Voglio solo aggiungere che scoprii in Ligeia più che un femminile abbandono a un amore, del tutto immeritato da parte mia, un disperato desiderio, un selvaggio attaccamento a quella vita che le stava rapidamente sfuggendo. Proprio questo disperato attaccamento, questo aspro e veemente desiderio di vita - solo di vita - io non sono in grado di rappresentare, non sono capace di esprimere. A tarda ora, nella notte in cui spirò, chiamandomi con ostinazione accanto a sé, mi pregò di ripeterle alcuni versi da lei stessa composti qualche giorno prima. Obbedii. I versi erano questi: Ascolta! È una notte di gala dopo la malinconia degli ultimi anni! Una folla di angeli alati, vestiti di veli, piangenti, siedono nel teatro, per assistere a una recita di speranza e di paure mentre l'orchestra soffia negli ottoni a tutto fiato la musica delle sfere. Mimi, nelle vesti del Dio dei Cieli, mormorano, bisbigliano basso, volando vicino e poi lontano... Semplici marionette, che vanno e vengono a un'asta di grandi oggetti senza forma, che scivolano sulla scena avanti e indietro, sventolando le loro ali di condor, invisibile sventura! Questo dramma multiforme! Sta' certo: non lo dimenticherai! Con i suoi Fantasmi sempre inseguiti da una folla che non sa misurarli,
lungo un cerchio che sempre ritorna all'unico, medesimo punto, e mossa dalla Follia, ma ancor più dal Peccato e dall'Orrore, è l'anima della trama. Ma guarda: nella folla dei mimi, s'insinua una forma strisciante, qualcosa rosso-sangue si contorce dall'esterno della scena deserta! Si torce, guizza! Con spasimi di morte i mimi diventano suo pasto, e i serafini singhiozzano, per le zanne di bestia macchiate di sangue umano. Spente, spente sono le luci! Tutte spente! E sopra ciascuna forma tremante, la cortina di un funebre drappo, cala giù con furia di tempesta, e gli angeli tutti, pallidi e diafani, sollevandosi gettano i veli, e sentenziano che la rappresentazione è la tragedia «Uomo» e che il suo eroe è il Verme Trionfante. «Oh, Dio!», urlò quasi Ligeia, sollevandosi bruscamente e stendendo le braccia con un movimento spasmodico, non appena fui giunto alla fine dei versi, «Oh, Dio! O Padre Divino! Le cose non dovranno mai cambiare? Questo vincitore non sarà mai vinto? Non siamo noi una particella di te? Chi conosce i misteri della volontà in tutta la sua potenza? L'uomo non concede se stesso agli angeli e nemmeno interamente alla morte, se non quando s'indebolisce la sua volontà.» Poi, come se fosse esausta per l'emozione, lasciò cadere le sue bianche braccia e tornò solennemente al suo letto di morte. E, mentre si affannava negli ultimi sospiri, confusi con essi arrivavano lievi mormorii dalle sue labbra. Accostai l'orecchio e riconobbi ancora le parole conclusive di quel brano di Glanvill «L'uomo non si concede agli angeli e nemmeno interamente alla morte, se non quando si indebolisce la sua volontà». Poi morì ed io, distrutto dal dolore, non resistetti più a lungo nella solita-
ria desolazione di quella oscura, decadente città renana. Non mi mancavano quelle che il mondo chiama ricchezze. Ligeia mi aveva portato molto, molto più di quanto tocchi a gran parte degli uomini. Dopo pochi mesi di stanco vagabondare senza meta, acquistai e feci sommariamente restaurare una abbazia - che non nomino - situata in una delle più antiche e meno frequentate lande della bella Inghilterra. La tenebrosa e triste imponenza dell'edificio, l'aspetto quasi selvaggio della tenuta, le numerose, malinconiche e venerate memorie che ad entrambi si accompagnavano, erano in assoluto all'unisono con i sentimenti di totale annullamento che mi avevano guidato in quella remota e solitaria regione del paese. Tuttavia, mentre apportavo all'esterno dell'abbazia, con la verdeggiante decadenza pendente all'intorno, solo piccole trasformazioni, con infantile perversità e, forse, con la vaga speranza di alleviare il mio dolore, detti sfogo all'interno a una magnificenza più che regale. Anche nell'infanzia avevo nutrito una predilezione per queste follie, ed ora esse riaffioravano in me come se nel dolore tornassi bambino. Sento - ahimè! - quanta incipiente follia potesse essere scoperta nelle lussuose, fantastiche tappezzerie, nelle solenni sculture egizie, nelle astruse cornici e nel mobilio incoerente, nei disegni pazzeschi dei tappeti intessuti d'oro! Ero diventato uno schiavo prigioniero delle pastoie dell'oppio, e i miei lavori - come i miei ordini prendevano i colori dei miei vaneggiamenti. Ma non voglio indugiare oltre sui dettagli delle mie follie. Voglio parlare solo di una stanza, per sempre maledetta, nella quale, in un momento di alienazione mentale, condussi all'altare come mia sposa - perché succedesse alla mia indimenticata Ligeia - la bionda, occhicerulea Lady Rowena Trevanion, di Tremaine. Non c'è una sola parte dell'architettura e della decorazione di quella camera nuziale che non sia ora davanti ai miei occhi. Dove erano gli spiriti altezzosi della famiglia della sposa quando, per questioni di vile denaro, permisero a una fanciulla, a una figliola tanto amata, di varcare la soglia di un appartamento così arredato? Ho già detto che ricordo minutamente i dettagli della camera, ma dimentico alcuni momenti cruciali; in fondo, in questo quadro fantastico, non c'era alcuna logica da tenere a mente. La stanza, situata in una alta torretta del castello-abbazia, era di forma pentagonale e di ampie dimensioni. L'intera parete sud del pentagono era costituita da un'unica finestra, un'immensa lastra di vetro veneziano tutta d'un pezzo, tinteggiata di un grigio piombo così che i raggi del sole o della
luna, penetrando attraverso di essa, dessero agli oggetti un'aria spettrale. Sulla parte superiore dell'enorme finestra si stendeva l'intrico dei rami di un annoso rampicante che si aggrappava alle massicce mura della torretta. Il soffitto di quercia scura a volta, eccessivamente alto, era minuziosamente ornato dei più strani e grotteschi disegni tra gotici e druidici. Dall'alto, al centro di quella lugubre volta, pendeva, tenuto da un'unica catena di grandi anelli d'oro, un enorme incensiere dello stesso metallo, di foggia saracena, con molti fori, così disposti che la successione continua di mutevoli luci colorate sembrava avere la stessa capricciosa mobilità di un serpente. Alcune ottomane, e candelabri d'oro, di foggia orientale, erano disposti qua e là; e anche il letto, il letto nuziale, di modello indiano, era basso, scolpito nel duro ebano, sovrastato da un baldacchino simile a una cortina funebre. In ciascun angolo della stanza si ergeva un gigantesco sarcofago di granito nero proveniente dalle Tombe dei Re presso Luxor, con i coperchi pieni di antichissime, memorabili sculture. Le tappezzerie della stanza erano il capolavoro di tutta la fantasia ispiratrice. Le pareti, di altezza gigantesca - addirittura sproporzionate - erano ricoperte dalla sommità alla base di un pesante tessuto che formava ampie pieghe, di aspetto massiccio, e che era uguale a quello del tappeto sul pavimento. Lo stesso tessuto era usato come copertura per le ottomane e il letto di ebano, come baldacchino, e formava le fastose volute delle tende che schermavano parzialmente la finestra. La stoffa era un ricchissimo tessuto d'oro. A intervalli irregolari vi erano ricamati, un po' dovunque, arabeschi, del diametro di circa trenta centimetri, del nero più lucente. Queste figure avevano le caratteristiche di un vero arabesco solamente se osservate da un singolo punto di vista. Grazie a un procedimento ormai consueto, che risale però a un periodo molto remoto dell'antichità, erano realizzati in modo che il loro effetto risultasse mutevole. A chi entrava nella stanza apparivano come semplici mostruosità; man mano che si avanzava, questa apparenza svaniva, e gradualmente, come cambiava posizione nella stanza, il visitatore si trovava circondato da una successione senza fine di forme orrende, care alle superstizioni dei Normanni, o che si ritrovano nei sogni peccaminosi dei monaci. L'effetto fantasmagorico era largamente aumentato dall'introduzione artificiale di una corrente d'aria violenta e ininterrotta dietro la tappezzeria, che provocava una complessa e sinistra animazione dell'insieme. In ambienti come questi, in una camera nuziale come questa, io passai con la Lady di Tremaine le ore, certo non benedette, del primo mese del
nostro matrimonio; le passai senza eccessivo fastidio. Che mia moglie temesse la cupa malinconia del mio temperamento, che mi evitasse e non mi amasse granché, non potevo ignorarlo, anzi, questo fatto mi procurava più piacere che altro. Io la detestavo con un odio più demoniaco che umano. La mia memoria volava via, con un rimpianto senza limiti, alla mia adorata, bella, divina Ligeia, ormai purtroppo sepolta. Mi deliziavo nel ricordo della sua purezza, saggezza, nobiltà, della sua natura eterea, della passione e dell'amore idolatra. Ora, il mio spirito ardeva pienamente, liberamente, più caldo ancora degli ardori di Ligeia stessa. Nell'eccitazione dei sogni dell'oppio (ricorrevo abitualmente all'uso della droga) gridavo ad alta voce il suo nome nel silenzio della notte, o nei più nascosti recessi della campagna durante il giorno, quasi che il folle desiderio, la sfrenata passione, l'ardore struggente per colei che mi aveva lasciato, potessero farla tornare di nuovo ai suoi itinerari terreni, quelli che aveva abbandonato - poteva mai essere? - per sempre. Quasi all'inizio del secondo mese di matrimonio, Lady Rowena cadde preda di un'improvvisa malattia da cui si riprese molto lentamente. La febbre che l'aveva consumata rendeva difficili le sue notti. Nel suo stato agitato di semiincoscienza, parlava di suoni, di movimenti entro e intorno alla camera del torrione, ed io pensavo che avessero origine soltanto dal turbamento della sua immaginazione o, forse, proprio dall'influenza di quel fantasmagorico ambiente. Ebbe una lunga convalescenza, e alla fine guarì. Non passò molto tempo, che un secondo, violento disturbo, la riportò nuovamente sul letto di dolore. Da questo attacco la sua fibra, da sempre fragile, non si riprese più. Le sue infermità furono, dopo tale periodo, di un genere più preoccupante e di più allarmante ricorrenza, e misero a dura prova la preparazione scientifica e l'impegno senza limiti dei suoi medici. Con il progredire della sua malattia ormai cronica, che sembrava sempre più certo non si potesse sradicare dal suo corpo con mezzi umani, osservai anche una parallela crescita degli squilibri nervosi del suo temperamento e della sua morbosa eccitabilità per ogni più banale motivo di paura. Parlava di nuovo, e ora con maggiore frequenza e fantasia, dei suoni, dei leggeri suoni e degli inconsueti movimenti tra le tappezzerie, ai quali aveva già accennato in precedenza. Una notte, si era alla fine di settembre, ripropose alla mia attenzione, con maggiore enfasi del solito, questo stressante argomento. Si era appena svegliata da un sonno angoscioso e io ero stato a guardare, con ansietà mista a un vago terrore, le contrazioni dei suoi lineamenti disfatti.
Ero seduto dal suo lato del letto d'ebano su una delle ottomane indiane. Si sollevò appena e parlò, in un sussurro basso ma risoluto, dei suoni che lei sentiva, ma io non potevo udire, dei movimenti che lei vedeva, ma io non potevo scorgere. Il vento soffiava energicamente dietro le tappezzerie e desideravo mostrarle (ma non ci credevo del tutto, lo confesso) che quei sospiri quasi inarticolati e quei vaghi spostamenti delle figure sulle pareti erano l'effetto naturale del consueto passaggio di una corrente d'aria. Un pallore mortale, che si diffuse su tutto il suo volto, dimostrò che i miei tentativi di rassicurarla sarebbero risultati inutili. Sembrava sul punto di svenire e non c'era alcun servitore a portata di voce. Ma ricordai dove era conservata una caraffa di vino leggero che le era stato ordinato dai medici, e attraversai la stanza per andare a prenderla. Non appena arrivai vicino all'incensiere illuminato, due circostanze sorprendenti attrassero la mia attenzione. Sentii che qualcosa di palpabile, anche se invisibile, aveva sfiorato la mia persona, e vidi nel bel mezzo della zona illuminata dall'incensiere, sul tappeto dorato, un'ombra evanescente, una indefinita ombra dall'aspetto angelico. Tale quale poteva essere immaginata l'ombra di uno spirito. Io ero sotto l'effetto eccitante di una smodata dose d'oppio ed evitai di farne parola a Rowena. Trovato il vino, riattraversai la stanza, riempii un calice e lo portai alle labbra della donna semisvenuta. Ora si era intanto riavuta, e prese lei stessa il bicchiere mentre mi lasciavo cadere su un divano lì vicino con gli occhi fissi sulla sua persona. Fu allora che sentii distintamente un leggero rumore di passi sul tappeto vicino al letto. Nel momento stesso in cui Rowena stava per portare il vino alle labbra, vidi, o può darsi che sognai di vedere, cadere dentro il calice, come se fossero schizzate da un punto qualsiasi dell'atmosfera della casa, tre o quattro gocce di un liquido colorato di un brillante rosso rubino. Se io le vidi, altrettanto non fu per Rowena. Lei bevve il vino senza esitazioni, e io evitai di parlarle di quell'evento che ritenni fosse, dopotutto, dovuto alle suggestioni di una fervida immaginazione, stimolata morbosamente dal terrore della donna, dall'oppio e dall'ora notturna. Non posso nascondere di aver avvertito, subito dopo la caduta delle gocce color rubino, un repentino peggioramento nelle condizioni già malandate di mia moglie. Tanto che, la terza notte successiva, la servitù cominciò a prepararla per la tomba mentre nella quarta io sedevo solo con il suo corpo avvolto nel sudario nella fantastica camera che l'aveva accolta come sposa. Visioni folli, generate dall'oppio, svolazzavano come ombre davanti a
me. Fissavo con occhi inquieti i sarcofagi agli angoli della stanza, le figure cangianti della tappezzeria, il brillio dei fuochi multicolori dell'incensiere sovrastante. I miei occhi caddero, nel momento in cui riandavo con la mente ai fatti delle notti precedenti, sul cerchio illuminato dall'incensiere dove avevo visto le tracce leggere dell'ombra. Lì non vedevo più nulla e, respirando più liberamente, volsi lo sguardo alla pallida, rigida figura che giaceva sul letto. Mi assalirono migliaia di ricordi di Ligeia: ritornava nel mio cuore, con la violenza di un torrente in piena, tutto l'infinito timore con il quale avevo guardato «lei» avvolta nel sudario. La notte declinava e io, con il petto ancora pieno di amari pensieri dell'unica donna veramente adorata, rimanevo con gli occhi fissi sul corpo di Rowena. Doveva essere passata la mezzanotte, o forse era più tardi... o più presto: in realtà non avevo più nozione del tempo, quando un singhiozzo flebile, basso, ma molto distinto, mi strappò dai miei sogni... Ebbi la sensazione che venisse dal letto d'ebano, dal letto di morte. Rimasi in ascolto trattenendo il respiro per terrore superstizioso, ma il suono non si ripeté. Concentrai lo sguardo per scoprire qualsiasi movimento del corpo... ma non se ne notava nessuno, foss'anche appena percettibile. Eppure non mi ero ingannato. Avevo sentito il suono, sia pure flebile, e il mio spirito si era ridestato. Risolutamente, tenacemente, concentrai la mia attenzione sul corpo. Passarono molti minuti prima che avvenisse un qualsiasi fatto capace di far luce sul mistero. Infine si vide chiaramente che un lieve, debolissimo, appena rilevabile colorito affluiva alle guance e lungo le disseccate piccole vene delle palpebre. Con una sorta di indefinibile orrore e di timore, per il quale il linguaggio dei mortali non ha espressioni abbastanza efficaci, sentii che il mio cuore cessava di battere e le membra mi si irrigidivano. Poi il senso del dovere mi ridette la padronanza di me stesso. Non ebbi dubbi: eravamo stati troppo frettolosi nella preparazione... perché Rowena viveva ancora. Bisognava fare subito qualcosa, ma la torre era troppo lontana dall'ala dell'abbazia assegnata ai servitori, e non c'era nessuno a portata di voce, né avevo modo di invitarli ad aiutarmi senza lasciare per molti minuti la stanza... e questo non potevo arrischiarmi a farlo. Perciò concentrai i miei sforzi per richiamare indietro lo spirito che ancora aleggiava. In breve tempo fui certo tuttavia che una ricaduta c'era stata; il colorito le scomparve di nuovo dalle palpebre e dalle guance, lasciandovi un pallore marmoreo. Le labbra si erano raggrinzite e serrate in una
spaventosa espressione di morte, un repellente, viscido gelo si diffuse sulla superficie del corpo, e la consueta rigidità della morte sopravvenne immediatamente. Caddi di nuovo con un brivido sul divano da cui ero stato così bruscamente strappato, e di nuovo mi abbandonai alle appassionate visioni di Ligeia. Passò così un'ora, quando (sarà mai possibile?) per una seconda volta sentii un suono vago provenire dalla zona del letto. Ascoltai, ai limiti dell'orrore. Il suono tornò... era un sospiro. Mi precipitai verso la salma e vidi... vidi distintamente un tremore sulle sue labbra. Un minuto dopo le labbra si aprirono scoprendo una linea di denti brillanti come perle. Ora lo stupore lottava nel mio petto con il timore che prima vi aveva regnato da solo. Sentivo che la mia vista si appannava, che la mia ragione vaneggiava. Fu soltanto con un violento sforzo su me stesso che riuscii a convincermi di portare a termine il compito al quale ancora una volta il dovere mi chiamava. Era di nuovo tornato un po' di colore sulla fronte, sulle guance, sulla gola; un colore appena percettibile pervadeva l'intero corpo, e si avvertiva persino un leggero battito del cuore: la signora viveva. Con raddoppiato ardore mi accinsi ad adoperarmi per far tornare la vita. Inumidii e strofinai le tempie e le mani, e misi in atto ogni accorgimento che l'esperienza e una non trascurabile conoscenza medica potevano suggerire. Fu tutto vano. Improvvisamente il colore svanì, le pulsazioni cessarono, le labbra riassunsero l'espressione della morte e qualche minuto dopo l'intero corpo divenne rigido, gelido, livido, rinsecchito e repellente come quello di chi è ormai da molti giorni nella tomba. Di nuovo mi abbandonai alle visioni di Ligeia... e di nuovo (c'è da stupirsi se rabbrividisco mentre lo scrivo?) arrivò alle mie orecchie un leggero singhiozzo proveniente dal letto d'ebano. Perché dovrei spiegare minutamente gli indicibili orrori di quella notte? A che scopo soffermarsi a descrivere come, una volta dopo l'altra fino alla luce grigia dell'alba, si ripeté quel terribile dramma della reviviscenza; come ciascuna delle terrificanti ricadute portasse solo a una più dura e apparentemente irrimediabile morte; come ogni agonia avesse il carattere di una lotta contro qualche nemico invisibile e ogni lotta fosse seguita da un non so che di mutato nella fisionomia del cadavere? Lasciate che mi affretti alla conclusione. Era trascorsa gran parte della paurosa notte, quando colei che era stata una morta, ancora una volta si agitò, questa volta molto più vigorosamente di prima, sebbene risorgesse da una dissoluzione più paurosa nella sua to-
tale disperazione, di qualsiasi altra precedente. Io avevo da parecchio tempo smesso di lottare e perfino di muovermi, e rimanevo seduto rigidamente sull'ottomana, preda disperata di un turbine di violente emozioni, di cui l'estrema paura mi parve la meno terribile, la meno devastante. Il cadavere, ripeto, si muoveva e ora più energicamente di prima. I colori della vita rifluivano con insolita energia in quell'involucro, le membra si rilasciavano e, se non fosse stato per le palpebre ancora rigidamente serrate e per le bende e i drappi funebri che ancora fasciavano in forma sepolcrale il contorno della sua figura, avrei potuto pensare che Rowena avesse scrollato via da sé definitivamente la stretta della Morte. Sebbene non fossi ancora giunto a tale completa convinzione, non potei avere più dubbi quando, sollevandosi dal letto, e muovendo piccoli, malfermi passi, gli occhi ancora chiusi, alla maniera delle deliranti immagini di un incubo, la cosa che si era liberata dal sudario - avanzò nettamente, palpabilmente fino al centro della stanza. Non tremai... non mi agitai... per l'affollarsi di infinite fantasticherie legate all'aspetto, alla statura, al contegno della figura, che, attraversando tumultuosamente il mio cervello, mi avevano paralizzato... impietrito. Non mi mossi... guardai con attenzione l'apparizione. C'era un folle disordine nei miei pensieri... un tumulto che non aveva pace. Poteva dunque essere Rowena viva che mi si parava davanti? Poteva essere proprio Rowena, la bionda, Lady Rowena Trevanion di Tremaine dagli occhi azzurri? Perché, perché dovevo dubitarne? La benda le serrava pesantemente la bocca... poteva non essere quella la bocca sospirante della Lady di Tremaine? E quelle guance... colorite del rosa della giovinezza... sì quelle erano certo le belle guance della Lady di Tremaine vivente. E il mento con le fossette di quando era in salute, poteva non essere il suo?... ma poteva essere cresciuta di statura dopo la malattia? Quale inesprimibile follia si impadronì di me dopo questo pensiero? Un balzo e fui ai suoi piedi. Sfuggendo al mio tocco, lei lasciò cadere dalla testa, liberandola, l'orrendo sudario che l'aveva imprigionata, e così, nell'atmosfera agitata della stanza, una grande massa di lunghi, arruffati capelli, precipitò come una cascata: erano più neri delle ali corvine della notte! E allora, lentamente, si aprirono gli occhi della figura che era di fronte a me. «Ecco, finalmente», gridai, «non posso... non posso più sbagliarmi... questi sono i grandi, neri, fulgenti occhi... del mio perduto amore, della mia Signora... di LADY LIGEIA.»
ALEKSANDR SERGEEVIČ PUŠKIN La Regina di Picche 1. Quando il tempo era clemente essi si incontravano per giocare a carte... Dio li perdoni! Alcuni vincevano, altri perdevano,. e calcolavano il costo delle loro giocate nella brumosa stagione autunnale quando si incontravano assieme. Quella sera si giocava a carte nelle stanze di Narumov, un ufficiale della Guardia a Cavallo. La lunga notte invernale era trascorsa inosservata e, solo dopo le quattro del mattino, la compagnia si sedette finalmente per la cena. Coloro che avevano vinto gustarono con piacere il cibo. Gli altri si sedettero soprappensiero davanti ai piatti vuoti. Ma, quando arrivò lo champagne, la conversazione si ravvivò e divenne generale. «Come è andata, Surin?», chiese Narumov. «Oh, come al solito: ho perso. Devo confessare di non avere proprio fortuna: mi attengo alla mirandole, non mi agito, non perdo la testa, eppure non vinco mai.» «Vuole dirmi che non ha mai avuto la tentazione di puntare sul rosso per tutta la serata? Lei controlla le proprie pulsioni in maniera ammirevole.» «Ma guardate Hermann», esclamò un tale indicando un giovane ufficiale del Genio. «Non ha mai tenuto una carta in mano, non ha mai fatto una scommessa in vita sua, eppure rimane alzato fino alle cinque di mattina per guardarci giocare.» «Le carte mi interessano molto», disse Hermann, «ma non sono in una posizione che mi permetta di rischiare il necessario nella speranza di acquisire il superfluo.» «Hermann è tedesco: è cauto, ecco cos'è!», ribatté Tomsky. «Ma se c'è una persona che non capisco è proprio mia nonna, la Contessa Anna Fedorovna.» «E perché?», chiesero i convitati. «Non capisco come mai non giochi a carte.» «Ma sicuramente non vi è nulla di sorprendente nel fatto che una vec-
chia signora che ha passato gli ottant'anni non voglia scommettere al gioco», obiettò Narumov. «Allora voi non la conoscete?» «Affatto!» «Beh, ascoltate allora. Dovete sapere che, sessant'anni fa, mia nonna andò a Parigi e vi riscosse grande successo. La gente accorreva per poter vedere anche per un minuto la Vénus moscovite (la Venere moscovita). Richelieu era pronto a obbedire ad ogni suo ordine, e la nonna sostiene che l'alto prelato fu quasi sul punto di spararsi a causa della crudeltà che lei gli aveva dimostrato. A quel tempo, le signore giocavano a «faro». Durante una serata a Corte, lei perse una somma considerevole nei confronti del Duca di Orleans. Quando tornò a casa, mentre si toglieva i nei artificiali del viso e si liberava della martingala, raccontò l'accaduto a mio nonno, ordinandogli di pagare il suo debito. Mio nonno, a quanto mi ricordo, si comportava verso mia nonna come una sorta di maggiordomo. La temeva come il fuoco. Tuttavia, quando seppe l'ammontare della perdita, quasi perse la testa. Prese tutti i conti da pagare e le fece osservare che in sei mesi avevano speso mezzo milione di rubli, aggiungendo inoltre che a Parigi essi non avevano la possibilità di attingere ai loro beni delle tenute di Mosca e di Saratov, e quindi si rifiutò di pagare. Nonna gli tirò le orecchie, poi andò a coricarsi senza di lui per mostrargli quanto era contrariata. La mattina seguente fece chiamare suo marito, ma lo trovò irremovibile. Per la prima volta in vita sua, si mise addirittura a ragionare con lui, e a spiegare, pensando di potersi appellare alla sua coscienza, circa il fatto che vi erano debiti di diversa natura, e che essere un Principe comportava doveri diversi rispetto a un falegname per carrozze. Ma fu tutto invano: mio nonno non ne voleva sapere. "Una volta per tutte, no!", fu la sua risposta definitiva. Nonna non sapeva più cosa fare. Tra le sue amicizie più fidate vi era un uomo notevole. Avete mai sentito parlare del Conte di Saint-Germain, sul quale si raccontano tante belle storie? Come sapete, si atteggiava a Ebreo Errante e dichiarava di aver scoperto l'Elisir di Lunga Vita, la Pietra Filosofale e così via. La gente rideva di lui, giudicandolo un ciarlatano, e Casanova nelle sue Memorie dice addirittura che fosse una spia. Sia come sia, Saint-Germain, nonostante la miseria che lo circondava, aveva un aspetto molto dignitoso ed era molto affabile quando si trovava
in società. Ancora oggi la nonna conserva un ottimo ricordo di lui e si arrabbia se qualcuno ne parla in maniera poco rispettosa. Nonna sapeva che Saint-Germain aveva molto denaro a disposizione, e decise di rivolgersi a lui, così gli scrisse un biglietto chiedendogli di venire da lei immediatamente. L'eccentrico vecchietto venne subito, e la trovò in uno stato di grande agitazione. Lei gli descrisse a fosche tinte l'inumano comportamento di suo marito, e concluse dichiarando di confidare pienamente nella sua amicizia e nella sua gentilezza. Saint-Germain rifletté. "Potrei facilmente darvi la somma che volete", disse, "ma so bene che non sareste tranquilla finché non mi avreste ripagato, e io non voglio causarvi altri guai. Vi è un'altra via di uscita." "Ma caro Conte", rispose la nonna, "io non ho un soldo." "Non importa", rispose Saint-Germain. "Ascoltate ora quello che vi dirò." E fu così che lui le rivelò il segreto per il quale molti di noi pagherebbero una fortuna...» I giovani giocatori ascoltarono con attenzione ancor maggiore. Tomsky accese la pipa, tirò qualche boccata, e continuò: «Quello stesso pomeriggio nonna si recò a Versailles, per giocare al jeu de la reine. Il Duca di Orleans teneva il banco. La nonna si scusò con tono sereno per non aver portato il denaro per pagare il suo debito, inventando una storiella che servisse da spiegazione, e cominciò a giocare contro di lui. Scelse tre carte e le giocò una dopo l'altra: tutte e tre si rivelarono vincenti, e la nonna si rifece completamente della perdita subita». «È stata solo fortuna!», disse un tale. «Una favola!», commentò Hermann. «Forse le carte erano segnate», disse un terzo giocatore. «Non credo», rispose Tomsky, con aria decisa. «Cosa volete dire?», s'interpose Narumov. «Mi vorreste far credere che avete una nonna che sa come trovare tre carte successive vincenti e che non avete ancora appreso il suo segreto?» «È questa la cosa più sorprendente!», rispose Tomsky. «Lei ha avuto quattro figli, uno dei quali era mio padre. Tutti e quattro erano giocatori impenitenti, eppure lei non rivelò a nessuno di loro il suo segreto, benché non sarebbe stata una cattiva cosa, anche per me. Ma state a sentire quel che diceva mio zio, il Conte Ivan Ilych, che mi diede la sua parola d'onore. Tchaplitsky - lo conoscete: è morto in povertà dopo aver dissipato milioni di rubli - era un giovane che una volta perse trecentomila rubli al gio-
co contro Zorich, se ricordo bene. Era disperato. La nonna era sempre molto severa nei confronti degli stravizi dei giovanotti, ma per qualche motivo prese a cuore il caso di Tchaplitsky. Gli diede tre carte, ordinandogli di giocarle una dopo l'altra, ma allo stesso tempo gli fece promettere che non avrebbe mai più toccato una carta per tutta la vita. Tchaplitsky andò da Zorich, e si sedette a giocare. Tchaplitsky puntò cinquantamila rubli sulla prima carta e vinse. Raddoppiò la posta e vinse. Ripeté la puntata e si rifece della perdita ritrovandosi addirittura ricco... Ma, dico io, è proprio ora di andare a dormire: sono già le sei meno un quarto!» Infatti sorgeva l'alba. I giovani vuotarono i loro bicchieri e andarono a casa. 2. La vecchia Contessa X era seduta di fronte allo specchio nella sua camera. Era attorniata da tre cameriere. Una teneva un barattolo di fard, un'altra aveva una scatola di fermagli per i capelli, e la terza aveva un alto cappello pieno di nastri color fiamma. La Contessa non aveva alcuna pretesa di aspirare alla bellezza - ormai svanita da tempo - ma aveva conservato le abitudini della giovinezza, e seguiva con rigore la moda degli anni Settanta del secolo, e alla sua toilette dedicava la stessa cura e lo stesso tempo che era solita dedicarle sessant'anni prima. La giovane che aveva allevato era seduta a ricamare vicino alla finestra. «Buon giorno, nonna!», disse il giovane ufficiale, entrando nella stanza. «Buon giorno, signorina Lisa. Nonna, ho un favore da chiederti.» «Di cosa si tratta, Paolo?» «Voglio che mi permetti di presentarti un mio amico, e di portarlo al tuo ballo di venerdì.» «Portalo al ballo direttamente, e me lo presenterai lì. Hai trascorso tutta la sera dalla Principessa ieri?» «Naturalmente! È stata una serata molto piacevole: abbiamo ballato fino alle cinque di mattina. Mademoiselle Yeletsky è affascinante questa mattina!» «Suvvia caro! Cos'ha di affascinante? Non ha nulla che le permetta di confrontarsi con sua nonna, la Principessa Daria Petrovna. A proposito, immagino che la Principessa Daria Petrovna dev'essere molto invecchiata, vero?»
«Cosa intendi per "invecchiata"?», rispose con aria assente Tomsky. «È morta da almeno sette anni.» La ragazza alla finestra sollevò lo sguardo e fece un segno al giovane. Lui si ricordò del fatto che ormai tutti avevano preso a nascondere alla vecchia Contessa la dipartita dei suoi coetanei, e si morse il labbro. Ma la Contessa apprese la notizia con grande indifferenza. «È morta! Non lo sapevo», disse. «Siamo state Damigelle d'Onore assieme, e mentre ci presentavano all'Imperatrice...» E per la centesima volta la Contessa raccontò la storia al nipote. «Ebbene, Paolo», disse infine, «aiutami ad alzarmi. Lisa: dov'è la mia scatola di tabacco da fiuto?» E la Contessa andò dietro un paravento per finire di vestirsi. Tomsky rimase solo con la giovane donna. «Chi vuoi presentare?», chiese piano Lizaveta Ivanovna. «Narumov. Lo conosci?» «No. È un ufficiale?» «Sì.» «È nel Genio?» «No, nella Guardia a Cavallo. Perché mai hai pensato che fosse nel Genio?» La ragazza rise, ma non rispose. «Paolo!», lo chiamò la Contessa da dietro il paravento. «Mandami un nuovo romanzo da leggere, ma per favore non uno di quelli moderni.» «Cosa vuoi dire, nonna?» «Voglio un libro nel quale l'eroe non strangola il padre né la madre, e nel quale non appaiano cadaveri affogati. Mi fanno orrore gli affogati.» «Non ci sono più romanzi così, oggigiorno. Non ti piacerebbe un romanzo russo?» «Esistono romanzi russi?... Mandami qualcosa, caro, mandami qualsiasi cosa!» «Scusami, nonna: devo scappare... Addio, Lizaveta Ivanovna! Mi chiedo: come mai hai creduto che Narumov potesse essere nel Genio?» Tomsky lasciò la stanza, e Lizaveta Ivanovna rimase sola. Lasciò cadere il lavoro di ricamo e prese a guardare fuori dalla finestra. Ben presto dall'angolo della casa, sul lato opposto della strada, apparve un giovane ufficiale. Le guance della giovane arrossirono; riprese il suo lavoro, chinando la testa sul drappo ricamato. In quel momento entrò la Contessa, che aveva appena terminato la sua vestizione.
«Ordina la carrozza, Lisa», disse, «e andiamo a passeggio.» Lizaveta Ivanovna lasciò il ricamo e cominciò a mettere via il suo lavoro. «Cos'hai, figliola, sei diventata sorda?», le disse la Contessa. «Presto: ordina la carrozza.» «Vado subito», rispose lestamente la ragazza, e corse verso l'anticamera. Un domestico entrò e diede alla Contessa un pacchetto di libri da parte del Principe Paolo Alexandrovich. «Bene! Ringrazialo tanto da parte mia», disse la Contessa. «Lise, Lise, dove vai ora?» «Vado a vestirmi.» «Abbiamo molto tempo, mia cara. Siediti ora. Apri il primo volume e leggi ad alta voce.» La ragazza prese il libro e lesse le prime righe. «Più forte!», disse la Contessa. «Cosa ti succede, mia cara? Hai perso la voce, forse? Aspetta un momento... Dammi quello sgabello. Vieni un po' più vicino. Così va bene!» Lizaveta Ivanovna lesse altre due pagine. La Contessa sbadigliò. «Butta via quel libro», disse. «Che sciocchezze! Rimandalo al Principe Paolo con i miei ringraziamenti... È pronta la carrozza?» «La carrozza è pronta», disse Lizaveta Ivanovna, gettando uno sguardo in strada. «Come mai non sei vestita?», chiese la Contessa. «Ti fai sempre aspettare. È una cosa veramente intollerabile!» Liza corse verso la sua stanza. Erano trascorsi appena due minuti, quando la Contessa cominciò a suonare il campanello con tutte le sue forze. Tre cameriere entrarono frettolosamente da una porta mentre il maggiordomo entrava dall'altra. «Perché non rispondete quando vi chiamo?», disse loro la Contessa. «Dite a Lizaveta Ivanovna che la sto aspettando.» Lizaveta Ivanovna ritornò. Indossava il cappello e la pelliccia. «Finalmente, mia cara!», disse la Contessa. «Cos'è tutto questo lusso? Come mai?... A beneficio di chi?... E che tempo fa? C'è molto vento, vero?» «No, Eccellenza», rispose il maggiordomo. «Non c'è vento oggi.» «Dici sempre la prima cosa che ti viene in mente! Apri la finestra. Proprio come pensavo: c'è vento, e fa anche freddo. Disdici la carrozza. Lise, ragazza mia, non usciremo: non c'era bisogno che ti vestissi, dopotutto.»
«Questa è la storia della mia vita!», pensò tra sé Lizaveta Ivanovna. Infatti, Lizaveta Ivanovna era molto sfortunata. «...Come è duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale», dice Dante; nessuno poteva conoscere meglio l'amaro sapore della dipendenza di una povera orfana come lei, allevata da una vecchia signora della buona società. La Contessa non era cattiva, ma era capricciosa quanto le donne viziate dalla società in cui vivevano. Era avara e fredda, egoista, come le persone anziane che non hanno più amore e vivono senza contatti con la vita che le circonda. Prendeva parte a tutte le manifestazioni di vanità del mondo alla moda, e si trascinava ai balli, per poi sedere in un angolo, truccata e vestita secondo una moda passata da molto tempo, come un bizzarro e tuttavia indispensabile ornamento della sala. Al loro arrivo gli ospiti andavano da lei, la salutavano con profondi inchini, come per osservare un antico rito, ma poi nessuno le prestava più attenzione. Lei riceveva tutta la città in casa sua, osservando rigidamente il protocollo, e senza riconoscere i volti degli invitati. I suoi numerosi domestici erano diventati grassi ed erano ingrigiti nel suo vestibolo e negli appartamenti della servitù. Facevano quel che volevano e rivaleggiavano fra loro nel sottrarre quel che potevano alla vecchia, decrepita nobildonna. Lizaveta Ivanovna era la martire della casa. Serviva il tè e veniva rimproverata per aver usato troppo zucchero. Leggeva ad alta voce per la Contessa e veniva incolpata degli errori dell'autore. La accompagnava durante le sue passeggiate in carrozza, e veniva considerata responsabile per la situazione del tempo e per la percorribilità delle strade. In teoria avrebbe dovuto ricevere un salario, che però non le veniva mai del tutto corrisposto, ma allo stesso tempo la Contessa si aspettava che fosse ben vestita quanto tutti gli altri... ossia molto pochi. In società aveva un ruolo veramente triste. Tutti la conoscevano e nessuno si curava di lei. Ai balli veniva invitata a danzare solo se qualcuno era rimasto senza dama, e le signore la prendevano a braccetto ogni volta che desideravano andare al guardaroba per rassettare qualche dettaglio della loro toilette. Era una giovane donna molto sensibile e sentiva fortemente la propria difficile posizione. Si guardava attorno con impazienza, attendendo il suo liberatore. Ma i giovanotti, nella loro frivola superficialità, le prestavano pochissima attenzione, nonostante il fatto che Lizaveta Ivanovna fosse cento volte più affascinante delle fredde ereditiere dal volto inespressivo che essi rincorrevano. Molte volte si allontanava di soppiatto dalle noiose sale sovraccariche
per andare a piangere nel suo piccolo attico con il paravento di carta, il mobile a cassetti, il piccolo specchio e la testiera dipinta, illuminata dalla candela di sego che brillava fioca sul candeliere di ottone. Una mattina, due giorni dopo la serata delle carte descritta all'inizio di questa storia e una settimana prima della scena alla quale abbiamo appena assistito, Lizaveta Ivanovna, seduta al suo ricamo accanto alla finestra, guardò per caso giù in strada e vide un giovane ufficiale del Genio fermo impalato a guardare la sua finestra. Lei abbassò lo sguardo e riprese il suo lavoro. Cinque minuti dopo lanciò di nuovo uno sguardo fuori... e vide l'ufficiale ancora fermo nello stesso punto. Non avendo l'abitudine di civettare con gli ufficiali di passaggio, non guardò più fuori, e riprese il suo lavoro d'ago e filo, continuando così per circa un paio d'ore senza sollevare mai lo sguardo. Fu annunciato che il pranzo era pronto. Si alzò per riporre il suo lavoro e, lanciando per caso uno sguardo in strada, rivide l'ufficiale. Questa era una cosa piuttosto strana. Dopo pranzo tornò alla finestra con un certo senso d'inquietudine, ma l'ufficiale non c'era più, e lei si dimenticò di lui... Un paio di giorni più tardi, proprio mentre si apprestava a salire in carrozza con la Contessa, lo rivide. Era fermo davanti alla porta, e aveva il volto nascosto dal bavero rialzato. I suoi occhi scuri brillavano sotto il cappello di pelliccia. Lizaveta Ivanovna si spaventò un poco, senza sapere esattamente perché, e si sedette nella carrozza sentendosi stranamente agitata. Quando rincasarono, corse alla finestra: l'ufficiale era fermo al solito posto, e la fissava. La giovane si ritrasse, piena di curiosità, ed eccitata da un sentimento che le era del tutto nuovo. Da allora non era passato un solo giorno senza che il giovane apparisse a una certa ora sotto le finestre della loro casa, e tra lui e lei si stabilì una sorta di silenziosa familiarità. Seduta al suo lavoro, lei percepiva il suo arrivo e, sollevando il capo, lo guardava sempre più a lungo ogni giorno che passava. Il giovane sembrava esserle grato di questo. Con la vista acuta della giovinezza, lei percepì il rossore sulle guance pallide di lui ogniqualvolta i loro occhi si incrociavano. Dopo una settimana, lei gli aveva già concesso un sorriso... Quando Tomsky chiese alla Contessa il permesso di presentarle un suo amico, il cuore della giovane aveva cominciato a battere all'impazzata. Ma, sentendo che Narumov apparteneva alla Guardia a Cavallo, e non al Genio, rimpianse di aver rivolto delle domande indiscrete, che avevano tradito il
suo segreto all'irresponsabile Paolo Tomsky. Hermann era il figlio di un tedesco che si era stabilito in Russia e che gli aveva lasciato un piccolo capitale. Essendo fermamente convinto che fosse essenziale guadagnarsi un certo livello di indipendenza, Hermann non aveva toccato nemmeno gli interessi relativi a quell'eredità, e viveva grazie alla sua paga, negandosi anche la più piccola stravaganza. Aveva un carattere riservato ed ambizioso, e solo raramente i suoi compagni riuscivano a canzonarlo per la sua estrema parsimonia. Era animato da forti passioni e da un'ardente immaginazione, ma il suo carattere forte lo metteva al riparo dagli errori tipici della giovinezza. Ad esempio, benché nel cuore fosse un giocatore nato, non aveva mai giocato a carte, poiché aveva deciso che queste non lo avrebbero potuto aiutare (come diceva lui) «a rischiare il necessario con la speranza di acquisire il superfluo». Eppure passava le notti al tavolo da gioco, osservando con ansia febbrile le vicissitudini della fortuna. La storia delle tre carte aveva esercitato su di lui una forte impressione, finendo per ossessionarlo specialmente di notte. «Supponiamo», pensò tra sé e sé la sera seguente mentre vagava per Pietroburgo, «supponiamo che la vecchia Contessa mi riveli il suo segreto? O mi riveli quali sono queste tre carte vincenti! Perché non dovrei tentare la fortuna?... Potrei farmi presentare a lei, entrare nelle sue grazie... diventare forse il suo amante. Ma questo richiederebbe del tempo, e lei ha già ottantasette anni. Potrebbe morire la prossima settimana, o dopodomani, addirittura!... E la storia in sé? È possibile che sia vera? No, l'economia, la moderazione e il duro lavoro, sono le mie tre carte vincenti. Con quelle posso triplicare il mio capitale: aumentarlo di sette volte e ottenere la mia ricchezza e l'indipendenza!» Rimuginando questi pensieri, si trovò d'un tratto in una delle strade principali di Pietroburgo, di fronte a una casa dall'aspetto antico. Lungo la strada erano allineate le carrozze che si susseguivano fino a un portico illuminato. Da una delle carrozze sporgeva il piedino aggraziato di una giovane bellezza, oppure uno stivale militare con gli speroni tintinnanti oppure le calze a strisce e le calzature con le fibbie di qualche alto diplomatico. Le pellicce e i mantelli passavano in rapida processione davanti al maggiordomo dall'aria regale. Hermann si arrestò. «A chi appartiene questa casa?», chiese al guardiano che sostava nella garitta all'angolo. «Alla Contessa X», rispose l'uomo. Si trattava proprio della nonna di
Tomsky. Hermann trasalì. Gli tornò in mente la strana storia delle tre carte. Prese a camminare in su e in giù davanti alla casa pensando alla proprietaria e al suo meraviglioso segreto. Era tardi quando finalmente tornò al suo umile alloggio. Non riuscì a prendere sonno per molto tempo e, quando finalmente il sonno arrivò, sognò le carte, il tavolo ricoperto di panno verde, i mucchi di biglietti di banca e i cumuli d'oro. Giocava carta dopo carta, piegando in giù gli angoli delle carte, vincendo sempre. Accumulava l'oro e si riempiva le tasche di biglietti di banca. Quando si svegliò a mattino inoltrato, sospirò al pensiero di aver perso quel tesoro, poi, uscendo di nuovo per vagare per la città, si ritrovò di nuovo di fronte alla casa della Contessa. Una forza soprannaturale lo attirava. Si fermò per guardare in alto verso le finestre. A una delle finestre vide una testa scura china su di un libro, o intenta al cucito. La testa si levò. Hermann vide per un attimo un volto roseo e due occhi neri. Quel momento decise il suo destino. 3. Lizaveta Ivanovna si era appena tolto il cappello e il mantello, quando la Contessa la mandò di nuovo a chiamare, e ordinò nuovamente la carrozza. Uscirono per prendere posto nel veicolo. Proprio mentre i due maggiordomi erano occupati a sollevare la vecchia signora per aiutarla ad entrare nella carrozza, Lizaveta Ivanovna vide il suo ufficiale del Genio che sostava proprio accanto alla ruota. Lui le afferrò una mano. La giovane non ebbe il tempo di riprendersi, che il giovane era già sparito, lasciandole una lettera fra le mani. Lei la nascose nel guanto, e per il resto della passeggiata non vide né sentì più nulla. La Contessa aveva di solito l'abitudine di rivolgerle ininterrottamente delle domande: «Chi era la persona che abbiamo incontrato?». «Come si chiama questo fiume?» «Cosa dice quel segnale stradale?» Questa volta Lizaveta Ivanovna le diede risposte tanto casuali e irrilevanti che la Contessa si irritò con lei. «Cosa ti prende, mia cara? Hai per caso perso la ragione? Non hai sentito o non capisci quel che ti dico?... Parlo abbastanza chiaramente, grazie al cielo, e non sono ancora affetta dalla senilità!»
Lizaveta Ivanovna non le prestò attenzione. Quando tornarono a casa, corse in camera sua e sfilò la lettera dal guanto: si accorse che non portava alcun sigillo. La lesse. La lettera conteneva una dichiarazione d'amore: le parole erano tenere e rispettose, ed erano state copiate parola per parola da un romanzo tedesco. Ma Lizaveta Ivanovna non sapeva il tedesco e ne fu deliziata. Nonostante ciò, la lettera la preoccupò molto. Per la prima volta in vita sua stava per intraprendere una relazione segreta e intima con un uomo. La sua audacia l'atterriva. Si rimproverò per il suo comportamento imprudente, e non sapeva cosa fare: non doveva più sedersi accanto alla finestra, e mettere fine al corteggiamento del giovane mostrandosi indifferente? Poteva restituirgli la lettera? O doveva rispondere con freddezza e fermezza? Non vi era nessuno a cui potesse rivolgersi per chiedere consiglio: non aveva un'amica né una tutrice. Lizaveta Ivanovna decise di rispondere alla lettera. Si sedette al suo piccolo scrittoio, prese la penna e il calamaio... e cominciò a pensare. Iniziò diverse volte e poi strappò in due il foglio di carta: quel che aveva scritto le pareva di volta in volta troppo indulgente o troppo duro. Finalmente riuscì a comporre alcune righe e si sentì soddisfatta. «Sono sicura», scrisse, «che le vostre intenzioni sono oneste e che non avevate alcuna intenzione di nuocermi con un comportamento sconsiderato. Ma la nostra conoscenza non avrebbe dovuto iniziare in questo modo. Vi restituisco la vostra lettera, e spero che in futuro non avrò alcun motivo di lamentarmi di una mancanza di rispetto che è del tutto immeritata.» Il giorno seguente, non appena vide Hermann avvicinarsi, Lizaveta Ivanovna si alzò e lasciò il suo ricamo, poi si recò nel salone e aprì la piccola finestra di ventilazione, gettando la lettera in strada, fidando nella prontezza del giovane ufficiale. Hermann corse avanti, prese la lettera da terra, ed entrò in un negozio di confetture. Era successo proprio come si aspettava, e così tornò verso casa assorto nel suo piano. Tre giorni dopo questo episodio, una giovane dall'aria sveglia portò a Lizaveta Ivanovna un biglietto dal negozio di cappelli. Lizaveta Ivanovna l'aprì con una certa trepidazione, temendo che si trattasse di una richiesta di soldi, ma all'improvviso riconobbe la calligrafia di Hermann. «Avete sbagliato, mia cara», disse. «Questo biglietto non è per me.» «Sì, invece, è proprio per voi!», ribatté audacemente la giovane, senza prendersi la briga di nascondere il suo sorriso sornione. «Leggetelo, per
favore.» Lizaveta Ivanovna diede uno sguardo alla lettera. Vi era scritto che Hermann desiderava un incontro con lei. «È impossibile!», gridò, allarmata dalla sua richiesta, dal fatto che era giunta tanto presto e dal mezzo che lui aveva usato per trasmetterla. «Sono sicura che questa lettera non era affatto indirizzata a me.» E, così dicendo, stracciò la lettera. «Se la lettera non era per voi, perché l'avete stracciata?», domandò la ragazza. «L'avrei riportata al mittente.» «Siate buona, mia cara», disse Lizaveta Ivanovna, che era arrossita violentemente sentendo le sue parole. «Non mi portate altre lettere. E dite alla persona che vi ha mandato che dovrebbe vergognarsi...» Ma Hermann non si diede per vinto. Ogni giorno, con stratagemmi sempre diversi, Lizaveta Ivanovna riceveva una sua lettera. Non erano più traduzioni dal tedesco. Hermann ormai le componeva ispirato dalla sua passione, facendo uso del suo stile personale: le sue parole riflettevano il suo inesorabile desiderio e il subbuglio che regnava nella sua sfrenata immaginazione. Lizaveta Ivanovna non si preoccupava più di restituirle: ormai le leggeva avidamente e prese a rispondere: e i biglietti che mandava divennero di ora in ora più lunghi e affettuosi. Finalmente, un giorno lanciò in strada questa lettera: Questa sera all'ambasciata si terrà un piccolo ballo. La Contessa sarà presente. Staremo lì fino alle due. Avrete quindi la possibilità di incontrarmi da sola. Non appena la Contessa uscirà, i domestici andranno nei loro appartamenti, lasciando solo il portiere nel salone, ma lui tornerà alla foresteria. Venite alle undici e mezza, e salite subito le scale. Se incontrate qualcuno nel vestibolo, domandate se la Contessa è in casa. Se vi diranno di no, non ci sarà più niente da fare: dovrete andarvene. Ma probabilmente non incontrerete nessuno. Le domestiche passano la serata tutte assieme in una sala. Svoltate a sinistra uscendo dal vestibolo e andate diritto finché non giungerete alla stanza da letto della Contessa. Lì troverete due porticine: quella a destra è quella dello studio, dove la Contessa non mette mai piede; quella a sinistra porta a un corridoio con una scala a chiocciola che conduce alla mia stanza.
Hermann attese l'ora convenuta come una tigre bramosa della preda. Alle dieci era già di fronte alla casa della Contessa. Era una notte terribile. Il vento fischiava, e la neve gelata cadeva a grossi fiocchi. I lampioni stradali bruciavano fiocamente: le strade erano deserte. Di tanto in tanto passava una slitta trainata da un misero ronzino, guidata da un conducente in cerca di qualche passeggero ritardatario. Hermann era fermo in strada senza cappotto, ma non avvertiva né il vento né la pioggia. Finalmente la carrozza della Contessa venne portata dinanzi al portone. Hermann vide i due maggiordomi sollevare la vecchia signora infagottata nelle sue pellicce, ed essa entrò nella carrozza. Poi, per un breve istante, vide Liza, che indossava un mantello leggero e portava dei fiori nei capelli. Le porte della carrozza si chiusero quindi di scatto, e il veicolo si mosse pesantemente sulla neve bagnata. Il portiere chiuse il portone, e le luci alle finestre si spensero una ad una. Hermann cominciò a camminare avanti ed indietro davanti alla casa deserta. Si avvicinò a un lampione, e diede un'occhiata all'orologio. Rimase immobile accanto al lampione, gli occhi fissi sulle lancette dell'orologio. Alle undici e mezza precise, Hermann salì le scale ed entrò nell'ingresso, ancora illuminato a giorno. Il portiere non c'era. Hermann salì di corsa lo scalone, spalancò la porta del vestibolo e vide un maggiordomo addormentato su una poltrona logora e fuori moda, accanto a una lampada. Gli passò velocemente accanto con passo leggero e fermo. La sala da ballo e il salone erano immersi nell'oscurità, ma la lampada accesa nel vestibolo riusciva a gettarvi qualche debole barlume di luce. Hermann entrò nella stanza da letto. L'altare era pieno di antiche icone ed era illuminato da una lampada dorata. Le poltrone erano ricoperte di damasco scolorito e i sofà erano pieni di cuscini di piume d'oca, ornati di orpelli che avevano perso la loro doratura. Tutti i mobili erano stati ordinati con deprimente simmetria attorno alle pareti, ricoperte di carta da parati di stile cinese. Su una delle pareti c'erano due ritratti dipinti a Parigi da Madame Lebrun: il primo rappresentava un uomo dall'aspetto rubizzo di circa quarant'anni, che indossava una uniforme verde acqua con una stella sul petto. L'altro era una bellissima giovane dal naso aquilino che indossava una rosa tra i capelli impomatati e pettinati all'indietro a scoprire le tempie. In ogni angolo della stanza si vedevano pastorelle di porcellana, orologi del celebre Leroy, scatoline, roulettes, ventagli e centinaia di quelle distrazioni inventate per le signore alla moda alla fine del secolo scorso, assieme al pallone di Montgolfier e al magnetismo di Mesmer.
Hermann passò oltre il paravento e trovò una piccola testiera di ferro. Sulla destra vi era la porta dello studio e, a sinistra, la porta che dava sul corridoio. La spalancò e vide la piccola scala a chiocciola che portava alla stanzetta della povera Liza. Ma a quel punto si voltò ed entrò nello studio buio. Il tempo passò lentamente. Era tutto molto tranquillo. L'orologio del salone batté le dodici: uno dopo l'altro, tutti gli altri orologi annunciarono la mezzanotte, poi tutto tacque. Hermann stava fermo accanto alla stufa spenta. Era calmo. Il suo cuore batteva regolarmente, come quello di un uomo deciso a correre un rischio pericoloso, ma inevitabile. Gli orologi batterono l'una e poi le due, ed egli udì il lontano fragore di una carrozza. Suo malgrado venne preso dall'agitazione. La carrozza si avvicinò alla casa e si fermò. Udì il rumore della scaletta che veniva abbassata e la casa si riempì di confusione. I servi correvano avanti e indietro, poi si udì un brusio di voci e apparvero luci ovunque. Tre vecchie domestiche entrarono frettolosamente nella stanza da letto, seguite dalla Contessa che, mezza morta dalla fatica, si lasciò cadere su una poltrona stile Voltaire. Hermann osservò la scena attraverso una fessura nella porta. Lizaveta Ivanovna gli passò vicino ed egli udì i suoi passi risuonare mentre la ragazza correva su per le scale verso la sua stanza. Per un attimo qualcosa di simile al rimorso lo assalì, ma lui rapidamente indurì il suo cuore contro quel sentimento. La Contessa cominciò a spogliarsi di fronte allo specchio. Le sue domestiche le tolsero il cappellino ornato di rose e sollevarono la parrucca impomatata dalla testa grigia e rasata. Una pioggia di forcine le cadde attorno. L'abito giallo dalle guarnizioni argentate le cadde rigonfio ai piedi. Hermann assistette ai ripugnanti misteri della sua toilette. Finalmente la Contessa indossò una vestaglia da notte e la cuffietta e così, in un abbigliamento più consono alla sua età, gli parve meno orribile e ripugnante. La Contessa, come la maggior parte delle persone anziane, soffriva d'insonnia. Una volta spogliata, si sedette su una grande poltrona accanto alla finestra e mandò via le domestiche. Esse portarono via le candele, lasciando solo la lampada di fronte alle icone. La Contessa rimase lì, con la pelle giallognola per l'età, le grosse labbra che si muovevano febbrilmente, mentre il suo corpo ondeggiava avanti e indietro. I suoi occhi erano del tutto vuoti d'espressione e, guardandola, si sarebbe potuto immaginare che il movimento della vegliarda fosse dovuto non a un moto volontario, quanto a un segreto meccanismo di galvanizzazione.
Improvvisamente sul suo volto avvenne una trasfigurazione inspiegabile. Le labbra cessarono il loro movimento e gli occhi le brillarono: di fronte alla Contessa era apparso un giovane sconosciuto. «Non vi allarmate, per carità, non vi allarmate!», disse questi con voce chiara e bassa. «Non ho intenzione di farvi alcun male: sono solo venuto per un favore.» La vecchia rimase ad osservarlo in silenzio, come se non avesse udito. Hermann pensò che doveva essere sorda e si chinò per ripeterle nell'orecchio quello che le aveva appena detto. La vecchia rimase in silenzio. «Voi potete assicurarmi la felicità per tutta la vita», continuò Hermann, «senza che questo vi costi nulla. So che sapete scegliere tre carte successive...» Hermann si fermò. La Contessa sembrava aver compreso quel che lui desiderava da lei e cercava le parole per esprimere una risposta. «Era uno scherzo», disse finalmente. «Le giuro che era uno scherzo.» «No, madame», ribatté Hermann irato. «Ricordate Tschaplitsky, e come gli avete permesso di riacquistare quanto aveva perso.» La Contessa appariva evidentemente turbata. Sul viso le si leggeva una profonda agitazione. Ma ben presto ricadde nello stato abulico precedente. «Non potete dirmi nulla circa quelle tre carte vincenti?», aggiunse Hermann. La Contessa non disse nulla. Hermann riprese: «Per chi avete tenuto il segreto? Per i vostri nipoti? Sono già abbastanza ricchi: non apprezzano il valore del denaro. Le vostre tre carte non aiuterebbero uno spendaccione. Un uomo che non sa prendersi cura dell'eredità che ha ricevuto morirà in miseria anche se tenesse in suo potere tutti i demoni della Terra. Io non sono uno spendaccione. Conosco il valore dei soldi. Le vostre tre carte non sarebbero sprecate nel mio caso. Allora?». Rimase in silenzio, aspettando con febbrile impazienza la risposta di lei. La donna non aprì bocca. Hermann cadde in ginocchio dinanzi alla vecchia. «Se il vostro cuore ha mai conosciuto il sentimento dell'amore, se ricordate l'estasi della passione, se mai avete sorriso con tenerezza sentendo i vagiti del vostro figlio appena nato, se un sentimento umano vi ha mai turbato l'animo, mi appello a voi come moglie, come donna amata, come madre... vi imploro in nome di tutto ciò che è sacro in questa vita, di non rifiutare questa mia preghiera. Ditemi il vostro segreto. A cosa vi serve ormai? È forse associato a qualche terribile peccato, alla perdita sella salvez-
za eterna, a qualche patto col Demonio... Riflettete: siete ormai vecchia. Non avete molto tempo da vivere, ed io sono pronto a prendere su di me il vostro peccato. Solo, vi prego di dirmi il vostro segreto. Ricordate solo che la felicità di un uomo è nelle vostre mani, e che non solo io, ma i miei figli e i figli dei miei figli benediranno la vostra memoria e la custodiranno con venerazione...» La vecchia signora non disse una parola. Hermann si alzò in piedi. «Vecchia megera!», disse digrignando i denti. «Allora ti farò parlare io...» Con queste parole si tolse dalla tasca una pistola. Alla vista dell'arma, il viso della Contessa tradì nuovamente la stessa agitazione di poco prima. Scosse la testa e sollevò una mano come per proteggersi dallo sparo... Poi ricadde improvvisamente... e rimase immobile. «Allora, basta con queste sciocchezze infantili!», disse Hermann, afferrandola per un braccio. «Ve lo chiedo per l'ultima volta: mi rivelerete quelle tre carte? Sì o no?» La Contessa non rispose. Hermann si accorse che era morta. 4. Lizaveta Ivanovna era seduta in camera sua, e indossava ancora l'abito da ballo: era immersa nei suoi pensieri. Tornata a casa, si era liberata frettolosamente della domestica assonnata che di malavoglia si era offerta di aiutarla, dicendo che si sarebbe spogliata da sola, e con il cuore in tumulto era salita fino alla sua stanza, aspettandosi si trovare Hermann e sperando che non sarebbe stato così. Uno sguardo solo la convinse che non c'era, e ringraziò la sua buona stella per aver impedito quell'incontro. Si sedette senza svestirsi e cominciò a ricordare le circostanze che l'avevano portata tanto lontana in così poco tempo. Non erano trascorse nemmeno tre settimane da quando aveva visto per la prima volta quel giovane dalla sua finestra, eppure aveva cominciato ad intrattenere una relazione epistolare con lui, e lui era già riuscito a persuaderla a un incontro notturno! Lei conosceva il suo nome solo perché lui aveva firmato alcune sue lettere. Non gli aveva mai parlato, ma non conosceva il suono della sua voce, né lo aveva mai sentito nominare... fino a quella sera. Strano a dirsi, quella stessa sera al ballo, Tomsky, piccato per il fatto che le civetterie della Prin-
cipessa Paolina fossero indirizzate a un altro invece che a lui, aveva deciso di vendicarsi, dimostrando una grande indifferenza. Aveva chiesto a Lizaveta Ivanovna di ballare con lui, e avevano danzato insieme un'interminabile mazurka. Durante tutto quel tempo, l'aveva stuzzicata circa la sua preferenza per gli ufficiali del Genio, dicendole che lui sapeva molto di più di quel che lei potesse supporre, tanto che alcuni dei suoi strali colpirono il bersaglio, e diverse volte Lizaveta Ivanovna fu indotta a sospettare che conoscesse il suo segreto. «Chi vi ha raccontato tutto questo?», chiese lei ridendo. «Un amico di una persona che conosci», rispose Tomsky, «un uomo notevole.» «E chi è quest'uomo tanto notevole?» «Si chiama Hermann.» Lizaveta Ivanovna non disse nulla; ma sentì che le si gelavano le mani e i piedi. «Questo Hermann», riprese Tomsky, «è una figura veramente romantica; ha il profilo di un Napoleone e l'animo di un Mefistofele. Io credo che debba avere almeno tre crimini sulla coscienza. Che aspetto pallido che avete!» «Ho una terribile emicrania... Allora, cosa aveva questo tale - questo Hermann - da raccontarvi?» «Hermann è molto adirato con il suo amico: dice che al suo posto si comporterebbe in maniera molto diversa... In realtà sospetto che lui stesso abbia fatto dei progetti sul vostro conto; ad ogni modo, ascolta le esclamazioni estatiche del suo amico con sentimenti ben lontani dall'indifferenza.» «Ma dove mi avrebbe vista?» «Forse in chiesa, o mentre eravate fuori a passeggio... chi lo sa! Forse nella vostra stessa camera da letto, mentre dormivate, poiché non c'è nulla che egli non...» Tre signore si avvicinarono per invitare Tomsky a scegliere tra «oubli ou regret?», e interruppero la conversazione che era ormai divenuta di doloroso interesse per Lizaveta Ivanovna. La signora scelta da Tomsky era la Principessa Paolina in persona. Lei riuscì a riconciliarsi con lui approfittando di un altro giro di danza che i due eseguirono prima che lui la riaccompagnasse al suo posto. Quando lui ritornò a sedere, Hermann e Lizaveta Ivanovna erano ormai ben lontani dai suoi pensieri. Lizaveta Ivanovna desiderava molto riprendere la conversa-
zione interrotta, ma la mazurka terminò e, poco dopo, la Contessa si congedò. Le parole di Tomsky non erano state altro che un'inane conversazione da sala da ballo, ma impressionarono fortemente il cuore romantico della ragazza. Il ritratto abbozzato da Tomsky somigliava alla figura che lei stessa si era creata e, grazie ai romanzi del tempo, una simile figura era abbastanza comune: la impauriva e l'affascinava allo stesso tempo. Lizaveta rimase dunque con le braccia nude conserte, con la testa ancora adorna di fiori abbassata sul petto scoperto... Improvvisamente la porta si aprì ed entrò Hermann: la giovane rabbrividì. «Dove eravate?», bisbigliò spaventata. «Ero nella camera da letto della Contessa», rispose Hermann. «L'ho appena lasciata. La Contessa è morta.» «Santo cielo!... Cosa dite?» «E credo», aggiunse Hermann, «di essere io stesso la causa della sua morte.» Lizaveta osò lanciargli uno sguardo e le parole di Tomsky le echeggiarono nel profondo dell'animo: «...deve avere almeno tre crimini sulla coscienza». Hermann si sedette accanto a lei vicino alla finestra e le narrò l'accaduto. Lizaveta Ivanovna lo ascoltò sgomenta. Tutte quelle lettere appassionate, quelle suppliche ardenti, l'audace e impetuosa determinazione non erano state ispirate dall'amore! Denaro! Ecco cosa egli agognava più di ogni altra cosa! Non era certo lei che poteva soddisfare i suoi desideri e farlo felice! Povera ragazza, non era stata altro che il cieco strumento di un ladro, dell'assassino della sua anziana benefattrice! Pianse amaramente e invano, in preda all'agonia del pentimento. Hermann la guardava in silenzio: anche lui soffriva di un interno tormento. Ma, né le lacrime della povera ragazza né la sua indescrivibile bellezza, pur così triste, riuscirono a toccare il suo animo gelido. Non avvertì il pungolo della coscienza pensando alla donna anziana che giaceva morta. Una sola cosa lo riempiva di orrore: la perdita irreparabile del segreto che avrebbe potuto procuragli la ricchezza. «Siete un mostro!», disse finalmente Lizaveta Ivanovna. «Non volevo che morisse», rispose Hermann. «La pistola non era carica.» Tacquero entrambi. Venne l'alba. Lizaveta Ivanovna spense la candela che era ormai ridotta
al lumicino. Una pallida luce illuminava l'interno della stanza. Lei si asciugò gli occhi gonfi di pianto e sollevò lo sguardo verso Hermann. L'uomo era seduto sul davanzale con le braccia conserte, e le ciglia aggrottate minacciosamente. Il suo atteggiamento lo rendeva stranamente somigliante a un ritratto di Napoleone. Quella somiglianza colpì anche Lizaveta Ivanovna. «Come farò a farvi uscire di casa?», disse finalmente. «Avevo pensato di accompagnarvi lungo la scala segreta, ma così dovremo passare per la camera da letto, ed io ho troppa paura.» «Ditemi dov'è questa scala segreta: ci andrò da solo.» Lizaveta si alzò, prese una chiave da un cassetto e la diede a Hermann, dandogli precise istruzioni. Hermann strinse la mano fredda e immobile di lei, la baciò sulla fronte china e la lasciò. Si diresse lungo la scala a chiocciola ed entrò nuovamente nella stanza della Contessa. La defunta era seduta come se fosse diventata di pietra. Sul suo viso vi era un'espressione di profonda serenità. Hermann rimase di fronte a lei e la guardò a lungo, come per convincersi della terribile realtà che aveva di fronte, poi si diresse verso lo studio, cercò dietro la tappezzeria la porta segreta e cominciò a discendere la scala buia, in preda a strane emozioni. «Forse sessant'anni fa, a questa stessa ora», pensò, «qualche giovanotto felice - ormai divenuto polvere da lungo tempo - saliva furtivo lungo queste scale diretto a quella stessa camera, indossando una tunica ricamata, con i capelli acconciati à l'oiseau royal, e premendosi al petto il suo cappello a tre punte. Ed oggi il cuore della vecchia amante ha cessato di battere...» Alla fine delle scale Hermann vide una porta che aprì con la stessa chiave, poi si trovò nel passaggio che portava in strada. 5. Tre giorni dopo quella notte fatale, alle nove di mattina, Hermann si recò al Convento di..., per presentare l'estremo saluto ai resti mortali della Contessa defunta. Benché non avvertisse alcun rimorso, non poteva del tutto azzittire la voce della coscienza che continuava a ripetergli: «Tu sei l'assassino di quella vecchia!». Avendo pochissimo senso religioso, era molto superstizioso. Credendo che la Contessa defunta potesse esercitare un'influenza maligna sulla sua vita, decise di recarsi al suo funerale per implo-
rare e ottenere il suo perdono. La chiesa era gremita. Hermann si fece strada con difficoltà attraverso la folla. La bara era stata posta su un ricco catafalco sovrastato da un baldacchino di velluto. La defunta giaceva con le mani incrociate sul petto, indossava una cuffia di pizzo, e un abito di satin bianco. Attorno alla carrozza stavano i membri della servitù: i domestici indossavano abiti neri, decorati sulle spalle da fiocchi dorati che denotavano il nobile casato a cui appartenevano, mentre nelle mani tenevano delle candele accese. Vi erano i parenti in lutto stretto: i figli, i nipoti ed i pronipoti. Nessuno piangeva: le lacrime sarebbero parse un segno d'affettazione. La Contessa era così vecchia che la sua morte non aveva sorpreso nessuno, e la sua famiglia aveva cessato da lungo tempo di considerarla come un membro del mondo dei vivi. Un famoso predicatore era stato incaricato dell'orazione funebre: con frasi semplici e toccanti descrisse il sereno trapasso di quella santa donna la cui lunga vita era stata una quieta e toccante preparazione in vista di una morte cristiana. «L'angelo della morte», dichiarò, «l'ha trovata intenta a una vigile e devota meditazione, in attesa dell'arrivo dello sposo a mezzanotte.» Il servizio funebre terminò su una nota di dignitosa melanconia. Prima di tutto i parenti si appressarono per rendere l'estremo saluto al cadavere. Seguì poi una lunga processione di coloro che erano venuti a presentare il loro ultimo omaggio a colei che per tanti anni aveva partecipato ai loro frivoli divertimenti. Poi fu la volta dei domestici della casa della Contessa. L'ultima fu la governante, coetanea della defunta: due giovani ragazze la sorreggevano per le braccia. Non ebbe la forza di prostrarsi, e fu l'unica a versare qualche lacrima mentre baciava la gelida mano della sua padrona. Hermann decise di avvicinarsi dopo di lei alla bara. Si inginocchiò sulla pietra gelata cosparsa di rami di abete, e rimase così per alcuni minuti. Finalmente si rialzò in piedi, e, pallido quanto la defunta, salì le scale fino al catafalco e si chinò sul corpo... In quel momento gli parve che la morta gli lanciasse uno sguardo di scherno, strizzando l'occhio. Hermann si ritrasse, mise un piede in fallo e cadde pesantemente a terra. Lo aiutarono a rialzarsi. In quello stesso istante, Lizaveta Ivanovna fu portata fuori dalla chiesa in preda a uno svenimento. Questo incidente, per un momento disturbò la solennità del rito funebre. Nella folla dei fedeli serpeggiò un indistinto mormorio, e un uomo alto e magro vestito con l'uniforme di Ciambellano di Corte, un parente stretto della defunta, bisbigliò nell'orecchio di un in-
glese in piedi al suo fianco, che quel giovane ufficiale era il figlio naturale della Contessa. L'inglese accolse freddamente la notizia con un «Ah sì?». Per tutto il giorno Hermann rimase stranamente turbato. Avendo trovato una piccola taverna poco frequentata in cui desinare, bevve molto vino, contrariamente al solito, nella speranza di acquietare la sua agitazione interiore, ma il vino servì solo ad infervorare la sua immaginazione. Rincasando, si gettò sul letto senza spogliarsi, e piombò in un sonno profondo. Quando si svegliò era già notte fonda, e la luna brillava nella sua stanza. Diede uno sguardo all'orologio: erano le tre meno un quarto. Il sonno lo aveva ormai abbandonato del tutto. L'uomo si sedette sul letto, pensando al funerale dell'anziana Contessa. Proprio in quel momento qualcuno, fuori in strada, fece capolino dalla finestra per guardarlo, per poi riprendere immediatamente il cammino. Hermann non gli prestò attenzione. Dopo alcuni istanti però udì la porta del vestibolo che si apriva. Hermann pensò che fosse il suo attendente che ritornava - ubriaco come al solito - da qualche escursione notturna, ma ben presto udì il suono di un passo che non gli era familiare. Qualcuno avanzava piano con passi fruscianti, come di pianelle. La porta poi si aprì, e una donna in bianco entrò. Hermann la scambiò per la sua vecchia governante e si chiese cosa l'avesse spinta fin lì a quell'ora. Ma la donna in bianco scivolò attraverso la stanza e gli si parò di fronte: Hermann riconobbe la Contessa! «Sono venuta da voi contro la mia volontà», disse lei con voce ferma, «ma mi è stato ordinato di acconsentire alla vostra richiesta. Il tre, il sette e l'asso vinceranno se li giocherete l'uno di seguito all'altro, a condizione che non scommettiate su più di una carta ogni ventiquattr'ore e che promettiate di non giocare mai più per tutta la vita. Vi perdono per avermi uccisa, a condizione che sposiate la mia protetta, Lizaveta Ivanovna.» Con queste parole si voltò e, frusciando fino alla porta con le sue pianelle, svanì. Hermann udì lo scatto del portone d'ingresso e vide di nuovo qualcuno che lo osservava dalla finestra. Gli ci volle molto tempo prima che potesse riprendersi, e andare nella stanza accanto. Il suo attendente dormiva per terra: Hermann lo svegliò, non senza qualche difficoltà. Come al solito l'uomo era ubriaco: riusciva a pronunciare solo frasi sconnesse. Il portone che dava sulla strada era chiuso a chiave. Hermann tornò in camera sua e accese una candela, pronto a mettere per iscritto i dettagli dell'apparizione.
6. «Aspettate!» «Come osate dire: "Aspettate!" a me?» «Vostra Eccellenza, io ho detto: "Aspettate, Signore".» Due idee fisse non possono coesistere nella sfera morale più di quanto due corpi possano occupare uno stesso spazio nel mondo fisico. «Il tre, il sette, l'asso» ben presto scacciarono ogni pensiero riguardante la morta dalla mente infervorata di Hermann. «Tre, sette, asso» erano sempre presenti nella sua mente e sulle sue labbra. Se vedeva una giovane donna, diceva: «Quanto è graziosa! Sembra un vero e proprio tre di cuori!». Se gli si chiedeva l'ora rispondeva: «Cinque minuti alle sette». Gli uomini corpulenti gli ricordavano tutti l'asso. «Tre, sette, asso» ossessionavano i suoi sogni, assumendo mille strane forme. Il tre gli sbocciava davanti come un fiore lussureggiante, il sette gli si presentava come un portale gotico, gli assi si trasformavano in ragni giganteschi. La sua attenzione era tutta concentrata su un solo pensiero: come far uso di un segreto che gli era costato tanto caro. Cominciò a pensare di congedarsi per poter viaggiare all'estero. Sui tavoli da gioco di Parigi avrebbe costretto la fortuna a offrirgli il suo magico tesoro. Il caso tuttavia gli risparmiò questa incombenza. A Mosca esisteva un circolo di giocatori facoltosi, che era presieduto dal celebre Tchekalinsky, che passava la vita al tavolo da gioco e aveva ammassato milioni, accettando dei «pagherò» quando vinceva, e pagando in contanti i suoi debiti di gioco. La sua lunga esperienza ispirava fiducia nei suoi compagni di gioco, e la sua casa sempre aperta, il suo famoso cuoco e le sue maniere amichevoli e allegre, gli avevano guadagnato il rispetto di tutti. Era originario di Pietroburgo. I giovanotti della capitale sciamavano verso le sue stanze, trascurando i balli in favore delle carte, preferendo l'emozione delle scommesse alle seduzioni del corteggiamento. Fu Narumov a portare Hermann da lui. Attraversarono una serie di magnifiche stanze piene di domestici zelanti. Vi era una gran folla. Diversi Generali e Consiglieri di Stato giocavano a whist. Giovanotti intenti a fumare lunghe pipe erano mollemente adagiati sui sofà damascati. Nel salone, una ventina di giocatori si accalcavano attorno a un lungo tavolo, dove il padrone di casa teneva banco. Tchekalinsky era un uomo di circa sessant'anni, e aveva un aspetto molto dignitoso. I capelli inargentati e il viso pieno e florido, gli conferivano un aspetto
bonario, e i suoi occhi brillanti sorridevano sempre. Narumov gli presentò Hermann. Con una cordiale stretta di mano, Tchekalinsky gli disse di fare come a casa sua, e riprese a distribuire le carte. Il gioco continuò a lungo. Sul tavolo giacevano più di trenta carte. Tchekalinsky faceva una pausa ogni giro di carte per dare ai giocatori il tempo di ordinare le carte e di annotare le perdite, ascoltava cortesemente le loro osservazioni, e con cortesia ancor maggiore ripianava l'angolo di una carta che qualcuno aveva piegato inavvertitamente. Finalmente il gioco volse al termine. Tchekalinsky mischiò le carte e si preparò nuovamente a distribuirle. «Mi permettete di prendere una carta?», domandò Hermann, e stese la mano da dietro le spalle di un gentiluomo corpulento che stava giocando. Tchekalinsky sorrise e s'inchinò con grazia verso di lui, in silenzioso segno di consenso. Narumov si congratulò ridendo con lui per aver finalmente rotto la sua lunga astensione dalle carte e gli augurò un inizio fortunato. «Ecco!», disse Hermann, scrivendo alcune cifre sul retro della sua carta. «Quanto?», chiese il banchiere, aguzzando gli occhi. «Scusate, non riesco a vedere.» «Quarantasettemila», rispose Hermann. A quelle parole tutte le teste dei giocatori si girarono di scatto, e tutti fissarono Hermann. «È diventato pazzo!», pensò Narumov. «Mi permetta di farle notare», disse Tchekalinsky, sorridendo come sempre, «che lei sta giocando una posta piuttosto alta: nessuno qui ha mai scommesso più di duecentosettantacinque rubli alla volta.» «Ebbene?», ribatté Hermann. «Accettate la mia posta oppure no?» Tchekalinsky s'inchinò leggermente con lo stesso atteggiamento di umile acquiescenza. «Desideravo solamente farvi osservare che», disse, «essendo onorato dalla fiducia che i miei amici ripongono in me, posso solo giocare contro coloro che hanno contanti alla mano. Da parte mia, naturalmente sono completamente sicuro che la vostra parola costituisca garanzia sufficiente, ma per rispettare le regole del gioco e quelle dei conti vi devo chiedere di porre il danaro sulla vostra carta.» Hermann tirò fuori dalla tasca un biglietto di banca e lo porse a Tchekalinsky il quale, dopo aver dato un'occhiata veloce al biglietto, lo pose sulla carta di Hermann. Cominciò a distribuire le carte. A destra apparve un nove, ed a sinistra un tre.
«Ho vinto!», disse Hermann, indicando la sua carta. Si diffuse un mormorio sbalordito tra la folla. Tchekalinsky aggrottò le ciglia, ma subito sul suo volto riapparve un sorriso. «Volete riscuotere subito?», chiese a Hermann. «Se non vi dispiace.» Tchekalinsky prese dalla tasca un certo numero di biglietti di banca e pagò lì per lì. Hermann prese il denaro e lasciò il tavolo. Narumov non riusciva a credere ai suoi occhi. Hermann bevve un bicchiere di limonata e tornò a casa. La sera seguente tornò di nuovo da Tchekalinsky. Il padrone di casa teneva di nuovo banco. Hermann si diresse verso il tavolo. I giocatori gli fecero subito spazio. Tchekalinsky s'inchinò con grazia. Hermann attese la mano seguente, prese una carta e vi pose sopra i suoi primi quarantasettemila rubli assieme alla sua vincita del giorno prima. Tchekalinsky cominciò a distribuire le carte. A destra apparve un fante, e a sinistra un sette. Hermann mostrò il suo sette. Si levò un'ovazione. Tchekalinsky era evidentemente sconcertato. Contò novantaquattromila rubli e li diede ad Hermann, che li intascò con grande distacco, e si congedò immediatamente. La sera seguente Hermann riapparve nuovamente al tavolo da gioco. Tutti lo stavano aspettando. I Generali e i Consiglieri di Stato avevano lasciato il tavolo del whist per assistere a quella straordinaria partita. I giovani ufficiali si alzarono di scatto dai loro sofà e tutti i camerieri si diressero verso il salone. Tutti facevano ressa attorno a Hermann. Gli altri giocatori smisero di puntare, impazienti di vedere cosa sarebbe accaduto. Hermann era fermo accanto al tavolo, pronto a giocare solo contro Tchekalinsky, che era pallido, ma sorridente. Ognuno dei due aprì un mazzo fresco. Tchekalinsky mischiò le carte. Hermann pescò una carta e la coprì con una pila di banconote. Era come un duello. Nella stanza regnava un profondo silenzio. Tchekalinsky cominciò a dare le carte. Le mani gli tremavano. Una regina cadde sul mucchio di sinistra, e un asso a destra. «Asso vince!», disse Hermann, mostrando la carta. «La regina perde», disse piano Tchekalinsky. Hermann trasalì: infatti, di fronte a lui, invece di un asso vi era una regina di picche. Non riusciva a credere ai suoi occhi o a pensare come potesse aver commesso un simile errore. In quel momento gli parve che la regina di picche aprisse e chiudesse un
occhio, e lo schernisse con un sorriso. Lo colpì la straordinaria somiglianza... «La vecchia signora...», gridò in preda al terrore. Tchekalinsky raccolse la sua vincita. Hermann rimase dov'era, impietrito. Quando lasciò il tavolo, tutti cominciarono a parlare allo stesso momento. «Una bella partita, quella», dicevano i giocatori. Tchekalinsky mischiò nuovamente le carte e il gioco riprese come al solito. Conclusione Hermann perse la ragione. Ora è nella stanza numero 17, all'Ospedale Obukhov. Non risponde alle domande che gli vengono rivolte, e mormora in continuazione con incredibile rapidità: «Tre, sette, asso! Tre, sette, regina!». Lizaveta Ivanovna ha sposato un uomo molto amabile. È un impiegato statale e gode di un buon stipendio. È il figlio dell'ex intendente della vecchia Contessa. Anche a Lizaveta Ivanovna è toccato di allevare una parente povera. E Tomsky, che è stato promosso al rango di Capitano, ha sposato la Principessa Paolina. NATHANIEL HAWTHORNE Il Campione Grigio Ci fu un tempo in cui il New England gemeva sotto l'oppressione di torti ancor peggiori di quelli tanto temuti che provocarono la Rivoluzione. Giacomo II, il bigotto successore di Carlo il Lussurioso, aveva annullato le costituzioni di tutte le colonie, e aveva inviato un soldato duro e senza scrupoli a eliminare le nostre libertà e mettere in pericolo la religione. All'amministrazione di Sir Edmund Andros non mancava praticamente nessuna delle caratteristiche della tirannia: un Governatore e un Consiglio, nominati dal Re, e completamente staccati dal paese; leggi emanate e tasse imposte senza il concorso del popolo, sia direttamente che per mezzo dei suoi rappresentanti; violati i diritti dei privati cittadini, dichiarati nulli tutti i titoli di proprietà terriera; la voce della protesta soffocata mediante restrizioni alla stampa; e, infine, il disagio causato dalla prima banda di merce-
nari che avesse marciato sul nostro patrio suolo. Per due anni i nostri antenati furono mantenuti in una sottomissione torva da quell'amore filiale che aveva invariabilmente assicurato la loro fedeltà alla madrepatria, che il suo capo fosse un Parlamento, un Protettore o un Re papista. Fino a quei brutti momenti, tuttavia, tale fedeltà era stata solo nominale, e i coloniali si erano governati da soli, godendo di maggior libertà di quella che era propria dei sudditi nativi della Gran Bretagna. Infine, una voce raggiunse le nostre spiagge: il Principe di Galles si era imbarcato in un'impresa il cui successo avrebbe significato il trionfo dei diritti civili e religiosi e la salvezza del New England. Era solo un vago sussurro; poteva essere falso, oppure il tentativo avrebbe potuto fallire e, in ambedue i casi, colui che si fosse opposto a Re Giacomo avrebbe perso la testa. Eppure, venirne a conoscenza produsse un notevole effetto. La gente sorrideva per le strade con aria di mistero, e lanciava sguardi audaci ai propri oppressori mentre, da ogni parte, si svolgeva un'attività sommessa e silenziosa, come se il minimo indizio dovesse destare il paese dal suo inerte abbattimento. Consci del pericolo che correvano, i capi decisero di affrontarlo con un imponente dispiego di forze, e forse anche per confermare il proprio dispotismo con misure ancor più severe. In un pomeriggio di aprile del 1689, Sir Edmund Andros e i suoi consiglieri favoriti, riscaldati dal vino, riunirono le Giubbe Rosse della Guardia del Governatore e fecero la loro apparizione per le vie di Boston. Il sole era prossimo al tramonto quando la marcia cominciò. Il rullo del tamburo, in quel momento critico, parve correre per le strade come un appello all'adunata per gli abitanti piuttosto che come la marziale musica dei soldati. Una folla proveniente da varie vie si radunò in King Street, che era destinata ad essere la scena, circa un secolo dopo, di un altro incontro fra le truppe britanniche e un popolo che lottava per liberarsi della loro tirannia. Sebbene fossero passati quasi sessant'anni dall'arrivo dei Padri Pellegrini, quella folla dei loro discendenti mostrava ancora le forti e cupe particolarità del loro carattere, forse ancor più in questa severa emergenza che in occasioni più festose. C'era il sobrio modo di fare, la generale severità nell'aspetto, l'espressione seria ma sicura, il modo di parlare ispirato alle Scritture, e la fiducia nella benedizione del Cielo su una causa giusta, che avrebbe contrassegnato una banda di Puritani originali, minacciati da un pericolo nella foresta.
In effetti, non era ancora passato abbastanza tempo perché il loro spirito dignitoso si estinguesse; c'erano ancora uomini nella strada, quel giorno, che avevano adorato laggiù sotto gli alberi, prima che gli fosse costruita una casa, quel Dio per il quale si erano esiliati. C'erano vecchi soldati del Parlamento, che sorridevano cupamente al pensiero che le loro braccia invecchiate avrebbero potuto colpire ancora la Casa degli Stuart. C'erano anche i veterani della guerra di Re Filippo, che avevano bruciato villaggi e ucciso giovani e vecchi con pia ferocia, mentre le anime sante di tutto il paese li aiutavano con le preghiere. Alcuni ministri stavano sparsi tra la folla che, diversamente da altre, li trattava con tale riverenza che pareva che persino nei loro abiti risiedesse la santità. Questi santi uomini esercitavano la loro influenza per quietare il popolo, ma non per disperderlo. Nel frattempo, lo scopo del Governatore, cioè turbare la pace della città in un momento in cui la minima emozione avrebbe potuto gettar il paese in un fermento, era il soggetto favorito di conversazione, e veniva commentato in vari modi. «Satana farà il suo colpo maestro fra poco», gridava uno, «perché sa che il suo tempo è breve. Tutti i nostri buoni Pastori trascinati in prigione! Li vedremo su un rogo nella King Street!» A questo punto la popolazione di ogni parrocchia si radunò intorno al proprio ministro, che alzò calmo lo sguardo al cielo e assunse una dignità apostolica, come conveniva a un candidato al più alto onore della sua professione: la corona del martirio. Si pensò addirittura, in quel momento, che il New England avrebbe potuto avere il proprio John Rogers, che prendesse il posto di quel degno Primate. «Il Papa di Roma ha ordinato una nuova Notte di San Bartolomeo!», gridavano altri. «Saremo massacrati, noi uomini e i bambini maschi!» Nessuna delle due voci era del tutto priva di fondamento, sebbene i più saggi ritenessero che lo scopo del Governatore fosse un po' meno atroce. Bradstreet, che era stato suo predecessore quando la vecchia Carta era in vigore, era in città e lo si sapeva. C'era motivo di credere che Sir Edmund Andros avesse la duplice intenzione di incutere terrore con la parata della sua forza militare e di confondere la fazione opposta impossessandosi del suo capo. «Sosteniamo il Governatore della vecchia Carta!», gridava la folla, infiammandosi all'idea. «Il buon vecchio Governatore Bradstreet!» Proprio mentre le urla erano al massimo, la gente vide con sorpresa la ben nota figura dello stesso Governatore Bradstreet, un patriarca di circa
novant'anni, apparire sulla scala esterna di una casa, e con la sua caratteristica dolcezza pregarli di sottomettersi alle autorità costituite. «Figli miei», concluse quella veneranda persona, «non fate niente di azzardato. Non gridate, ma pregate per il benessere del New England, e aspettate con pazienza ciò che il Signore vorrà fare!» Presto si seppe in cosa consisteva. Per tutto il tempo, il rullo del tamburo si era avvicinato attraverso Cornhill, sempre più forte e profondo finché, echeggiando fra una casa e l'altra, e al suono cadenzalo di passi marziali, sboccò nella strada. Fece la sua comparsa una doppia fila di soldati, che occupò l'intera larghezza del passaggio, con i moschetti a spall'arm e le micce accese, sicché nella penombra sembrava una fila di fuochi. La loro marcia regolare era come l'avanzata di una macchina, che avrebbe potuto schiacciare irresistibilmente tutto quello che trovava sul suo cammino. Quindi, camminando lentamente, con un confuso rumore di zoccoli sul selciato, veniva un gruppo di gentiluomini a cavallo, al cui centro si teneva Sir Edmund Andros, anziano, ma dritto e dall'aspetto marziale. Intorno a lui c'erano i suoi consiglieri favoriti, e le peggiori canaglie del New England. Alla sua destra stava Edward Randolph, il nostro arcinemico, quel «dannato mascalzone», come lo chiama Cotton Mather, che aveva fatto cadere il nostro vecchio governo ed era seguito da una maledizione per tutta la vita fino alla morte. Dall'altra parte c'era Bullivant, che lanciava facezie e scherzava lungo il cammino. Dudley li seguiva con gli occhi bassi, perché temeva - e ben a ragione - di incontrare lo sguardo indignato della gente che lo riteneva il solo che, loro compatriota per nascita, fosse uno degli oppressori della patria. C'erano anche il Capitano di una fregata ancorata in porto e due o tre ufficiali civili della Corona. Ma la figura che attirava maggiormente gli sguardi della folla ed eccitava più profondamente gli animi era il Sacerdote Episcopale della Cappella del Re, che cavalcava altero fra i magistrati con i suoi abiti sacerdotali, e rappresentava benissimo la gerarchia e la persecuzione, l'unione fra Chiesa e Stato, e tutti quegli abomini che avevano spinto i Puritani a ritirarsi nel deserto. Un'altra schiera di militari, in doppia fila, chiudeva il corteo. L'intera scena rappresentava la condizione del New England e il suo stato morale, la deformità di ogni governo che non nasce dalla natura delle cose e dal carattere della gente. Da una parte la pia folla, con visi tristi e abiti scuri, e dall'altra il gruppo di capi dispotici, con l'alto prelato al centro, e qua e là un crocifisso sui petti, tutti splendidamente vestiti, i volti ar-
rossati dal vino, orgogliosi di un'autorità ingiusta, e sprezzanti il favore popolare. E i mercenari, che aspettavano solo un ordine per inondare la strada di sangue, erano l'esempio dell'unico mezzo per mantenere l'ubbidienza. «O Signore degli Eserciti!», gridò una voce fra la folla. «Manda un campione al tuo popolo!» Questa frase era stata appena pronunciata, che parve essere il grido con cui un araldo introduceva un personaggio notevole. La folla si era ritirata, e ora si ammassava in fondo alla strada, mentre i soldati avevano percorso non più di un terzo della sua lunghezza. Lo spazio in mezzo era vuoto: una solitudine pavimentata, fra alti edifici, che vi gettavano un'ombra simile a quella del crepuscolo. A un tratto si vide la figura di un vecchio, che sembrava uscita dalla folla, camminare al centro della strada verso la banda armata. Era vestito alla maniera dei vecchi Puritani, con un vestito scuro e un cappello a pan di zucchero, che erano di moda circa cinquant'anni prima, una pesante spada al fianco, e un bastone in mano per aiutare l'incerto passo della vecchiaia. Giunto a una certa distanza dalla folla, il vecchio si girò lentamente, mostrando un viso dall'antica maestà, reso doppiamente venerabile dalla barba canuta che gli scendeva sul petto. Fece un gesto insieme di incoraggiamento e di avvertimento, poi si voltò di nuovo e riprese a camminare. «Chi è quel grigio patriarca?», chiedevano i giovani ai loro padri. «Chi è quel venerabile fratello?», si chiedevano a vicenda gli anziani. Ma nessuno sapeva rispondere. I padri del popolo, quelli che avevano più di ottant'anni, erano turbati, perché pareva loro strano l'essersi dimenticati di una persona così autorevole, che doveva aver conosciuto i compagni di Winthrop, e tutti i vecchi consiglieri che emanavano le leggi, componevano le preghiere, e li conducevano verso i luoghi selvaggi. Gli uomini più anziani avrebbero dovuto ricordarlo anch'essi, con i riccioli già così grigi in gioventù come i loro erano adesso. E i giovani! Come potevano averlo dimenticato così completamente? Quel vecchio dalla barba canuta, quella reliquia di tempi antichissimi, la cui tremenda benedizione era stata certamente impartita sul loro capo quando erano bambini? «Di dove è venuto?» «Cosa vuol fare?» «Chi può essere quel vecchio?», mormorava la folla attonita. Intanto il venerabile sconosciuto, con il bastone in mano, proseguiva la sua marcia solitaria nel centro della strada. Man mano che si avvicinava ai
soldati in attesa, e il rullo del tamburo giungeva più distinto alle sue orecchie, il vecchio si ergeva e la decrepitezza dell'età sembrava cadergli dalle spalle, lasciandolo vestito di una grigia ma intatta dignità. Ora stava marciando con passo marziale, seguendo il ritmo della musica militare. Così la figura dell'anziano avanzò da una parte, e l'intera parata di soldati e magistrati dall'altra finché, quando fra loro non vi furono che circa venti iarde, il vecchio afferrò il suo bastone a metà, e lo sollevò davanti a sé come lo scettro di un capo. «Fermi!», esclamò. Gli occhi, il viso, l'atteggiamento di comando, il suono solenne, anzi marziale di quella voce, fatta sia per dar ordini a un esercito sul campo di battaglia che per alzarsi a Dio in preghiera, erano irresistibili. Alle parole e al gesto del vecchio, il rullo del tamburo tacque immediatamente, e la linea che avanzava si fermò. Un tremulo entusiasmo si impossessò della folla. Quella figura piena di dignità, che univa in sé il capo e il santo, così grigia, così indistinta, così vestita all'antica, poteva appartenere solo al campione di una causa giusta, che il tamburo dell'oppressore aveva richiamato dalla tomba. La folla lanciò un grido di timore e di esultanza, e attese la liberazione del New England. Il Governatore e i gentiluomini che erano con lui, vistisi fermare nel modo più inaspettato, si spinsero avanti come se avessero voluto dirigere i loro cavalli spaventati e nitrenti contro quella canuta apparizione. Questa, tuttavia, non fece un solo passo indietro, ma rivolse uno sguardo severo sul gruppo che formava un semicerchio intorno a lei, e lo fermò infine su Sir Edmund Andros. Si sarebbe potuto pensare che quel nero vecchio fosse il capo, e che il Governatore e il Consiglio, con i soldati alle spalle - che rappresentavano il potere e l'autorità della Corona - non avessero altra alternativa che l'ubbidienza. «Cosa fa qui questo vecchio?», gridò alteramente Edward Randolph. «Su, Sir Edmund! Ordini ai soldati di avanzare e di offrire a quell'idiota la stessa alternativa che ha dato ai suoi compatrioti: farsi da parte o essere schiacciato!» «Ma no! Rispettiamo questo nonnino!», disse Bullivant, ridendo. «Non vedi che si tratta di qualche dignitario delle Teste Rotonde che ha dormito per questi ultimi trent'anni e non sa niente dei cambiamenti avvenuti? Senza dubbio pensa di sottometterci con un proclama in nome del Vecchio Noll!» «Sei pazzo, vecchio?», chiese Sir Edmund Andros, con voce forte ed a-
spra. «Come osi arrestare la marcia del Governatore di Re Giacomo?» «Ho fermato addirittura la marcia del Re, una volta», rispose la grigia figura con severa compostezza. «Sono qui, signor Governatore, perché il grido di un popolo oppresso mi ha svegliato nel mio rifugio segreto: e, quando lo chiesi come un favore al Signore, mi fu concesso di apparire ancora una volta sulla Terra, per la buona causa di tutti i suoi santi. Ma perché parli di Giacomo? Non c'è più un Re papista sul trono d'Inghilterra, e domani a mezzogiorno il suo nome sarà oggetto di scherno in questa stessa via, dove ora tu ne fai oggetto di terrore. Indietro, tu che fosti Governatore, indietro! Con questa notte termina il tuo potere: domani ci sarà per te la prigione! Indietro, prima che ti predica il patibolo!» La gente era andata man mano avvicinandosi, e beveva le parole del proprio campione, che parlava con accenti desueti, come uno che abbia perso l'abitudine di conversare fuorché con i morti delle ere passate. Ma la sua voce faceva vibrare gli animi. Essi affrontarono i soldati, con quelle poche armi che avevano, pronti a trasformare le pietre della strada in strumenti di morte. Sir Edmund Andros guardò fisso il vecchio, poi girò il suo occhio crudele sulla folla, e la vide bruciare di quell'ardente collera così difficile da ravvivare o da spegnere; quindi riportò il suo sguardo sul vecchio, che stava cupo nello spazio libero, dove né amico né nemico si era avventurato. Quali che fossero i suoi pensieri, non pronunciò parola che potesse svelarli ma, sia che l'oppressore fosse colpito dall'aspetto del Campione Grigio, sia che intravedesse un pericolo nella minacciosa attitudine della gente, è certo che arretrò, e che ordinò ai suoi soldati di cominciare una ritirata lenta e cauta. Prima del tramonto seguente, il Governatore e tutti coloro che avevano così orgogliosamente cavalcato con lui erano prigionieri, e già prima si era saputo che Giacomo aveva abdicato. Guglielmo fu proclamato Re in tutto il New England. Ma dov'era il Campione Grigio? Alcuni riferirono che, mentre la truppa si ritirava da King Street e la folla la seguiva minacciosa, Bradstreet, il vecchio Governatore, aveva abbracciato una persona ancora più vecchia di lui. Altri affermarono più assennatamente che, mentre si stupivano del suo venerabile aspetto, il vecchio era scomparso alla loro vista confondendosi pian piano con le ombre del crepuscolo finché, nel posto dove era stato, vi fu il vuoto. Ma tutti furono d'accordo sul fatto che la figura canuta era sparita. Gli uomini di quella generazione attesero il suo ritorno, nella luce del sole e in quella del crepuscolo, ma non lo videro più, né seppero quando
passò il suo funerale, né dove stava la sua pietra tombale. Chi era il Campione Grigio? Forse il suo nome può esser trovato fra quelli di quella povera Corte di Giustizia che pronunciò una sentenza troppo grande per il suo tempo, ma gloriosa nei secoli a venire, per la lezione di umiltà che diede al monarca e l'alto esempio che diede ai sudditi. Ho sentito dire che, ogni volta che i Puritani devono dimostrare di possedere lo spirito dei loro padri, il vecchio appare di nuovo. Ottant'anni più tardi, passò ancora una volta per King Street. Cinque anni dopo, nel crepuscolo di un mattino di aprile, stava sul prato vicino alla sala di ritrovo, a Lexington, dove ora l'obelisco di granito commemora i primi caduti della Rivoluzione con la sua lapide. E, quando i nostri padri soffrivano sulle barricate di Bunker's Hill, per tutta la notte il vecchio guerriero montò la guardia. Può passare ancora molto tempo, molto tempo, prima che lo si riveda! La sua ora è quella del pericolo, della tenebra e dell'avversità. Ma, se la tirannia domestica ci opprimesse, o il piede dell'invasore macchiasse il nostro suolo, di nuovo il Campione Grigio tornerà. Infatti lui è il prototipo dello spirito del New England: e la sua lenta marcia, nella vigilia del pericolo, sarà sempre il pegno che il New England farà onore ai suoi antenati. JOSEPH SHERIDAN LE FANU Schalken il pittore Perché non è fatto di carne come me, né può unire alcuno i nostri destini. Lasciate, perciò, che prenda la sua strada, e non permettete che mi terrorizzi. Esiste tuttora un'opera eccezionale di Schalken in ottimo stato di conservazione. La particolare tecnica della luce costituisce, come del resto in tutto il suo lavoro, il primo pregio apparente del quadro. Dico apparente perché è nel soggetto, e non nel procedimento artistico, sicuramente eccellente, che risiede il suo vero valore. Il quadro raffigura l'interno di una sorta di stanza di un antico edificio religioso, dove, in primo piano, spicca una figura di donna che indossa una specie di tunica bianca, parte della quale drappeggiata a mo' di velo. L'abito, tuttavia, non appartiene a nessun Ordine religioso. In mano lei sorregge una lanterna, la cui luce è sufficiente ad illuminare il volto e la figura, e sul suo viso appare un sorriso così malizio-
so da farci pensare che la bella sia in procinto di ricorrere a qualche astuzia. Sullo sfondo, in completa ombra, eccettuato nel punto in cui la fioca luce rossa di un fuoco che si sta spegnendo serve allo scopo di definirne la sagoma, c'è un uomo in piedi vestito secondo l'antica foggia fiamminga, in atteggiamento d'allarme, con la mano posata sull'elsa della spada che sembra pronto a sguainare. Ci sono certi quadri che ti danno la netta sensazione, non so bene come, che non rappresentino mere forme e combinazioni ideali uscite dalla fantasia dell'artista, bensì scene, fatti e situazioni verificatisi veramente. E quello strano dipinto ha il potere di evocare un fatto davvero accaduto. E in effetti così è, perché la tela ritrae fedelmente un avvenimento particolarmente misterioso ed immortale nei tratti del viso della figura femminile, la quale occupa il primo piano della pittura, un fedele ritratto di Rose Velderkaust, nipote di Gerard Douw I e, come credo, unico amore di Godfrey Schalken. Il mio bisnonno conosceva bene questo pittore, e da Schalken medesimo apprese la terribile storia ritratta nel quadro; è da lui che ho ricevuto di recente in eredità il dipinto. La storia e il quadro sono diventati degli autentici cimeli di famiglia, e adesso, avendo descritto il secondo, cercherò, se me lo permettete, di raccontarvi la leggenda tramandatami insieme alla tela. Su poche cose il manto del romanticismo cade più sgraziatamente che sul rude Schalken, il più scortese e il più abile dei pittori ad olio, l'artista le cui opere mandano in visibilio i critici del nostro tempo almeno quanto i suoi modi offendevano gli uomini manierati del suo. Eppure quest'uomo così sgarbato, così caparbio, così trascurato, all'apice della celebrità in giorni oscuri ma più felici, aveva fatto la parte dell'eroe in un tempestoso romanzo di mistero e di passione. Quando Schalken studiava sotto la guida dell'immortale Gerard Douw, era ancora molto giovane e, malgrado il temperamento flemmatico, si innamorò perdutamente anima e corpo della bella nipote del facoltoso maestro. Rose Velderkaust era persino più giovane di lui, non avendo ancora compiuto i diciassette anni e, se la leggenda dice la verità, possedeva tutte le grazie delicate delle bionde fanciulle fiamminghe dalla pelle chiara. Il giovane pittore l'amava con fervore ed onestà, e la sua adorazione sincera alla fine fu ricompensata. Quando le dichiarò il proprio amore, ottenne infatti a sua volta una timida confessione zoppicante. Da quel momento si sentì il pittore più felice e orgoglioso di tutta la cristianità. Ma c'era qualcosa che gli impediva di esaltarsi: era povero e sconosciuto. Non osava
chiedere al vecchio Gerard la mano della nipote; prima doveva farsi una reputazione. Lo aspettavano, perciò, molti giorni incerti e freddi, e molti colpi della fortuna contro cui combattere. Ma aveva conquistato il cuore dell'amata Rose Velderkaust, perciò aveva già vinto metà della battaglia. Inutile dire che raddoppiò l'impegno nel lavoro, e la celebrità di cui gode ancora oggi dimostra che la sua alacrità venne ricompensata dal successo. Le ardenti fatiche e, peggio ancora, le speranze che le incitavano per poi tradirle, avrebbero subito tuttavia un'interruzione improvvisa... un'interruzione talmente strana e misteriosa, da sfuggire ad ogni spiegazione e gettare sugli avvenimenti medesimi un'ombra d'orrore ultraterreno. Una sera Schalken, mentre gli altri allievi erano andati tutti via, era rimasto ancora a lavorare nella stanza deserta. Quando la luce del giorno si spense rapidamente, posò i colori e si mise a contemplare uno schizzo nel quale stava tentando di esprimere una sofferenza straordinaria. Si trattava di un soggetto religioso, e rappresentava le tentazioni di un panciuto sant'Antonio. Il giovane artista, sebbene ancora sconosciuto, aveva tuttavia abbastanza capacità critica per ritenersi insoddisfatto del lavoro, e così aveva fatto molti ritocchi ed apportato modifiche al diavolo e al santo, ma invano. Il grande stanzone antico era silenzioso e, ad eccezione della sua presenza, si era completamente svuotato degli abituali frequentatori. E così erano passate quasi due ore senza apprezzabili risultati. La luce del giorno si era già spenta, e il crepuscolo si faceva strada con le tenebre della notte. La pazienza del giovane pittore si era esaurita, e l'artista stava davanti all'opera incompiuta con un misto di rabbia e di mortificazione, con una mano infilata tra i lunghi capelli e l'altra che stringeva ancora il carboncino che aveva adempiuto così male al proprio compito, e che adesso sfregò, senza preoccuparsi delle strisce scure che lasciava, sui calzoni larghi alla fiamminga. «Maledizione al soggetto!», disse ad alta voce il giovanotto. «Maledizione al quadro, ai diavoli, al santo...» In quell'attimo qualcuno che tirava su col naso fece girare repentinamente l'artista, il quale si accorse soltanto in quel momento che le sue fatiche erano state seguite da uno sconosciuto. A circa un metro e mezzo di distanza, alle sue spalle, c'era infatti un uomo anziano, con un mantello e un cappello conico a larghe tese; nella mano, che calzava un guanto lungo e pesante, costui stringeva un lungo bastone da passeggio sormontato da quella che sembrava, a giudicare dallo scintillio che emetteva nella pe-
nombra, una testa d'oro massiccio, mentre sul petto, tra le pieghe del mantello, luccicava una catena del medesimo metallo. La stanza era talmente avvolta dal buio che non era possibile scorgere altro della misteriosa figura; il cappello, inoltre, teneva in ombra la faccia. Non sarebbe stato facile indovinare l'età dell'intruso, ma un ciuffo di capelli scuri che uscivano dal cappello, e il contegno fermo ed eretto stavano a indicare che non doveva superare i sessant'anni. Dall'intera persona emanava un'aria di solennità e importanza, e qualcosa di ineffabilmente strano - potrei dire spaventoso che si sprigionava dalla perfetta rigidità marmorea della figura, smorzò sul nascere il commento pungente dell'irritato artista. Il giovanotto, perciò, non appena si riebbe sufficientemente dalla sorpresa, invitò cortesemente lo sconosciuto a sedersi e a comunicargli se voleva lasciare qualche messaggio per il Maestro. «Dite a Gerard Douw», disse l'intruso senza scomporsi di un millimetro, «che Minheer1 Wilken Vanderhausen di Rotterdam desidera parlargli domani sera a quest'ora e, se gli aggrada, in questa stessa stanza, a proposito di certe questioni importanti. È tutto.» Lo sconosciuto, dopo aver terminato il messaggio, si voltò bruscamente e, a passo rapido e silenzioso, lasciò la stanza prima che Schalken avesse il tempo di dire una sola parola. Il giovane ebbe la curiosità di vedere in quale direzione sarebbe andato il borghese di Rotterdam dopo aver lasciato lo studio, e così si portò alla finestra vicino alla porta. Tra la porta interna della stanza del pittore e l'ingresso sulla strada correva un atrio piuttosto lungo, sicché Schalken raggiunse il suo posto d'osservazione prima che il vecchio potesse uscire in strada. Tuttavia rimase a guardare invano, malgrado non esistessero altre uscite. Quello strano vecchio era scomparso, o si era nascosto tra le ombre dell'atrio per qualche scopo sinistro? Quest'ultima ipotesi mise a Schalken una misteriosa inquietudine, la quale divenne inspiegabilmente talmente forte da incutergli la paura di restare solo in quella stanza nonostante temesse, al tempo stesso, di attraversare l'ingresso di casa. Tuttavia, con un enorme sforzo, trovò il coraggio di lasciare la stanza e, dopo aver chiuso la porta ed aver infilato la chiave in tasca, senza guardare né a destra né a sinistra, attraversò l'atrio dove era appena passato il misterioso visitatore, osando a malapena respirare finché non ebbe raggiunto la strada aperta. «Minheer Vanderhausen!», ripeté tra sé e sé Gerard Douw mentre l'ora designata si avvicinava. «Minheer Vanderhausen di Rotterdam! Mai sentito parlare di quest'uomo prima di ieri. Che cosa può volere da me? Un ri-
tratto forse; o che prenda sotto di me un suo conoscente; o che stimi qualche collezione; o... bah! Non c'è nessuno a Rotterdam che possa avermi fatto un lascito. Beh, qualunque cosa voglia, tra poco lo sapremo.» Il giorno stava morendo, ed ogni cavalletto, tranne quello di Schalken, era di nuovo deserto. Gerard Douw camminava su e giù per l'appartamento con l'agitazione dell'impazienza, fermandosi a tratti a guardare il lavoro di uno degli allievi, o portandosi più frequentemente alla finestra, dalla quale poteva osservare i passanti che andavano e venivano per il vicolo buio sul quale sorgeva lo studio. «Non mi avevi detto, Godfrey», esclamò Douw dopo un'ultima occhiata infruttuosa dal suo posto d'osservazione, voltandosi verso Schalken, «che l'ora stabilita erano le sette dell'orologio del Municipio?» «Ha detto proprio le sette, quando l'ho visto, signore», rispose l'allievo. «L'ora è vicina, dunque», disse il maestro, guardando un orologio largo e rotondo come un'arancia. «Minheer Vanderhausen di Rotterdam... giusto?» «Così ha detto di chiamarsi.» «È anziano e sfarzosamente vestito?», insistette Douw, meditabondo. «Così mi è sembrato», replicò lo studente. «Non mi è parso giovane, ma nemmeno molto vecchio; e portava abiti lussuosi e austeri, quali si addicono a un cittadino benestante ed illustre.» In quel momento il fragoroso orologio del Municipio batté le sette. Gli occhi di allievo e maestro andarono immediatamente alla porta, e soltanto quando l'ultimo colpo ebbe cessato di echeggiare, Douw esclamò: «Bene, bene. Tra poco vedremo Sua Signoria... sempreché arrivi puntuale. In caso dovesse tardare, Godfrey, puoi aspettarlo tu, se tieni a far la sua conoscenza. E se invece, dopotutto, fosse soltanto uno scherzo di Vankarp o di qualche burlone come lui? Avrei preferito che ti fossi assunto ogni rischio e avessi preso a sonore randellate il vecchio Borgomastro. Scommetto dodici bottiglie di vino del Reno che Sua Signoria sarebbe stata smascherata e avrebbe confessato che era uno scherzo nel giro di pochi minuti». «Eccolo che arriva, signore», disse Schalken a bassa voce in tono d'avvertimento, e in quel momento, voltandosi verso la porta, Gerard Douw vide il medesimo personaggio che il giorno prima era apparso all'improvviso dietro le spalle del suo allievo Schalken. Dalla sua persona emanava qualcosa che fece capire subito al pittore che non si trattava di una mascherata, e che si trovava veramente alla presenza di un uomo illustre; sicché, senza esitazione alcuna, sollevò il cappello, sa-
lutò cortesemente lo sconosciuto e lo invitò a sedersi. Il visitatore mosse leggermente la mano, quasi a significare che apprezzava la gentilezza, ma rimase in piedi. «Ho l'onore di conoscere Minheer Vanderhausen di Rotterdam?», disse Gerard Douw. «Proprio lui», rispose laconicamente il visitatore. «Mi sembra di aver capito che Vostra Signoria desidera parlare con me», continuò Douw, «e io sono qui per servirvi.» «È una persona di vostra fiducia?», chiese Vanderhausen voltandosi verso Schalken, che si trovava a qualche metro dal Maestro. «Certamente», replicò Gerard. «Allora ditegli di prendere questa scatola e di portarla al più vicino gioielliere perché ne stimi il contenuto e di tornare subito con un certificato che ne attesti la valutazione.» Mentre parlava, depose uno scrigno di circa venti centimetri quadrati nelle mani di Gerard Douw, il quale rimase sorpreso dal suo peso almeno quanto lo fu dalla brusca repentinità con cui gli veniva consegnato. Assecondando il desiderio dello sconosciuto, lo affidò a Schalken e, ripetendogli le istruzioni, mandò questo in missione. Schalken nascose prudentemente il prezioso carico sotto il mantello e, dopo aver attraversato velocemente due o tre stradine, si fermò davanti una casa d'angolo al cui piano inferiore si trovava il negozio di un orafo ebreo. Entrò nel negozio e, chiamando forte il piccolo giudeo perché uscisse dall'ombra del retro, posò sul banco lo scrigno di Vanderhausen. Esaminato alla luce della lampada, l'oggetto pareva interamente di piombo, e la superficie esterna era stata scalfita e quasi sbiancata dal tempo. Dopo aver tolto l'involucro esterno, apparve al suo interno una scatola di legno. Forzarono anche questa e, dopo aver rimosso due o tre strati di stoffa, scoprirono che il contenuto era un mucchio di lingotti d'oro legati uno vicino all'altro e, come dichiarò l'ebreo, di ottima qualità. Il piccolo giudeo esaminò i lingotti uno per uno, con un piacere quasi epicureo nel toccare e mordere il glorioso metallo, ed ogni volta che ne riponeva uno esclamava: «Mein Gott, quale perfezione! Neppure un granello di piombo... Bellissimo, bellissimo!». Alla fine ultimò il proprio compito e certificò il valore dei lingotti da lui esaminati, stimandolo diverse migliaia di talleri d'argento. Con il desiderato documento in tasca e la scatola d'oro ben stretta sotto il braccio e nasco-
sta dal mantello, il pittore tornò allo studio, dove trovò il Maestro e lo sconosciuto intenti nella conversazione. Schalken aveva da poco lasciato la stanza per eseguire la commissione, quando Vanderhausen aveva apostrofato Gerard Douw nei seguenti termini: «Non intendo trattenermi più di due minuti, perciò vi dirò direttamente per quale motivo sono venuto da voi. Qualche mese fa avete visitato la città di Rotterdam, ed è stato allora che ho visto nella chiesa di S. Lorenzo vostra nipote, Rose Velderkaust. Desidero sposarla e, se riuscirò a convincervi che non potreste sognare per lei un marito più benestante di me, presumo che le inoltrerete la mia richiesta con tutta la vostra autorità. Se approvate la mia proposta, dovete dirmelo immediatamente, perché non posso attendere né calcoli né indugi». Gerard Douw era rimasto completamente esterrefatto dalla richiesta di Minheer Vanderhausen, ma non osò esprimere la propria sorpresa poiché, a parte le ragioni consigliate dalla cortesia e dalla prudenza, il pittore, alla presenza di quell'uomo eccentrico, provava una sensazione di gelo e di oppressione come quella che si dice intervenga quando ci si trova in inconsapevole prossimità con l'oggetto di una naturale antipatia; una sensazione indefinita ma potente, che gli impediva di dire qualunque cosa potesse offenderlo. «Non dubito minimamente», disse Gerard, dopo due o tre esitazioni iniziali, «che il sodalizio che mi proponete sarebbe al tempo stesso vantaggioso ed onorevole per mia nipote. Ma dovete sapere che la ragazza ha una sua volontà, e potrebbe non essere d'accordo su quello che noi riteniamo per lei conveniente.» «Non cercate di ingannarmi, Maestro», disse Vanderhausen, «voi siete il suo protettore... ella è stata affidata alla vostra tutela. Diventerò io il suo tutore, se solo voi deciderete in tal senso.» Mentre parlava, l'uomo di Rotterdam si avvicinò leggermente, e Gerard Douw, senza sapere perché, pregò dentro di sé che Schalken tornasse presto. «Desidero», disse il misterioso gentiluomo, «mettere subito nelle vostre mani una prova della mia ricchezza, che sia al tempo stesso l'assicurazione del trattamento liberale che intendo prodigare a vostra nipote. Il ragazzo tornerà tra pochi minuti con una somma cinque volte maggiore della fortuna che lei può ragionevolmente aspettarsi da un marito. Essa sarà riposta nelle vostre mani, insieme alla sua dote, e voi potrete disporre dell'intera somma come più risponde ai suoi interessi. Sarà tutto esclusivamente di
vostra nipote: lo trovate vantaggioso o no?» Douw assentì, e dentro di sé riconobbe che la fortuna era stata straordinariamente buona con sua nipote; lo sconosciuto, rifletté, doveva essere molto ricco e molto generoso, e un'offerta simile non si poteva rifiutare, anche se veniva da un pretendente non molto simpatico e attraente. Rose non aveva aspirazioni eccessive, disponendo di una dote modesta che doveva interamente alla generosità dello zio; né poteva avanzare particolari pretese sul casato del marito, venendo da una famiglia d'origini tutt'altro che illustri. Quanto alle altre obiezioni, decise Gerard - aiutato dalle usanze del tempo - per il momento non volle pensarci. «Signore», disse allo sconosciuto, «la vostra offerta è vantaggiosa, e se ho delle esitazioni a concludere immediatamente, queste nascono solamente dal fatto che non ho l'onore di conoscere la vostra famiglia e la vostra posizione. Su questi punti, naturalmente, potrete soddisfarmi senza difficoltà?» «Quanto alla mia rispettabilità», disse lo sconosciuto, asciutto, «al momento dovete darla per scontata. Non cercate di sapere altro, perché sul mio conto non potete scoprire più di quello che io voglio farvi sapere. Se siete un uomo onorato, vi basterà la mia parola: se invece siete un uomo avido, considerate il mio oro una prova della mia rispettabilità.» «Un altezzoso gentiluomo vecchio stampo», pensò Douw. «Avrà le sue usanze. Tutto sommato, comunque, non ho nessun motivo per respingere la sua offerta. E in ogni caso non mi impegnerò più del necessario.» «Non volete impegnarvi più del necessario», disse Vanderhausen, dando sorprendentemente voce alle parole che erano passate per la mente dell'altro, «ma lo farete se sarà necessario, presumo. Ed io vi dimostrerò che lo ritengo indispensabile. Se l'oro che intendo lasciarvi vi soddisferà, e se non desiderate che ritiri immediatamente la mia proposta, prima che lasci questa stanza dovete sottoscrivere il contratto con la vostra firma.» Dopo aver detto questo, mise un foglio nelle mani del Maestro, nel quale si dichiarava che Gerard Douw si impegnava a dare in matrimonio a Wilken Vanderhausen di Rotterdam Rose Velderkaust entro una settimana dalla data apposta sul documento. Mentre il pittore era impegnato a leggere il contratto alla luce della lampada a petrolio in fondo alla stanza, Schalken, come abbiamo detto, entrò nello studio e, dopo aver consegnato allo sconosciuto lo scrigno e la stima fatta dall'ebreo, stava per ritirarsi, quando Vanderhausen gli disse di aspettare. Porgendo lo scrigno e il certificato a Gerard Douw, l'uomo rimase in silenzio finché il Maestro non eb-
be esaminato entrambi con sommo rispetto. Alla fine disse: «Siete soddisfatto?». Il pittore disse che avrebbe voluto pensarci su un altro giorno. «Neanche un'ora di più», disse il pretendente. «Bene, allora», disse Douw con un grosso sforzo. «Sono soddisfatto, e l'affare è concluso.» «Allora firmate immediatamente», disse Vanderhausen, «perché sono stanco.» Nello stesso momento prese dal mantello un astuccio con tutto il materiale necessario per scrivere, e Gerard firmò l'importante documento. «Che questo giovane sia testimone al contratto», disse il vecchio, e Godfrey Schalken avvalorò senza saperlo lo strumento che lo privava per sempre della sua amata Rose Velderkaust. Conclusa così la transazione, il misterioso visitatore piegò il documento e lo infilò al sicuro in una tasca interna. «Verrò a farvi visita domattina alle nove in casa vostra, Gerard Douw, per conoscere l'oggetto del nostro contratto.» E, così dicendo, Wilken Vanderhausen uscì velocemente, tutto impettito, dalla stanza. Schalken, deciso a risolvere i propri dubbi, si era messo alla finestra per sorvegliare il portone sulla strada; ma la prova servì soltanto ad avvalorare i suoi sospetti, in quanto il vecchio non spuntò più dalla porta. Era molto strano, quasi spaventoso. Insieme al Maestro, si avviò verso casa. Lungo la strada parlarono poco, perché ognuno dei due aveva i propri pensieri e le proprie speranze. Schalken, però, non sapeva nulla della minaccia che incombeva sui suoi progetti più cari. Gerard Douw era del tutto all'oscuro dell'attaccamento nato tra l'allievo e la nipote, ed anche se ne fosse stato al corrente, difficilmente l'avrebbe considerato un serio ostacolo alla realizzazione dei desideri di Minheer Vanderhausen. A quel tempo i matrimoni erano calcolati, e sarebbe parso assurdo agli occhi del tutore ritenere l'affetto reciproco una condizione indispensabile in un contratto di quel tipo. Il Maestro, tuttavia, non comunicò alla nipote il passo importante che aveva intrapreso per lei: una dimenticanza che non nasceva tanto dal timore della sua opposizione, quanto dalla certezza che lei gli avrebbe chiesto di descriverle l'aspetto del futuro sposo, e in questo caso sarebbe stato costretto a confessarle che non lo aveva visto in faccia e che, se glielo avessero chiesto, non sarebbe riuscito assolutamente ad identificarlo. Il giorno seguente, dopo cena, Gerard Douw chiamò la nipote e, dopo averla osser-
vata bene con un'aria soddisfatta, le prese la mano e, guardando il suo innocente visino con un sorriso gentile, le disse: «Rose, ragazza mia, quella faccetta che hai farà la tua fortuna». Rose arrossì e sorrise. «Un viso e un carattere come il tuo di rado si accoppiano e, quando questo succede, il risultato è un fascino al quale pochi cuori e pochi spiriti possono resistere. Credimi, tra poco ti mariterai, ragazza mia. Ma adesso basta dire sciocchezze; ho molto da fare, perciò rassetta la stanza grande per le otto di stasera, e di' alla cuoca di preparare la cena per le nove. Aspetto un amico. Cerca di vestirti bene, bambina mia. Non voglio che pensi di noi che siamo poveri o trasandati.» Con queste parole la lasciò e tornò nella stanza dove lavoravano gli allievi. Quando si avvicinò la sera, Gerard chiamò Schalken, che stava per avviarsi verso la sua buia e spartana dimora, e gli chiese di venire a casa sua per cenare con Rose e Vanderhausen. L'invito, naturalmente, venne accettato, e Gerard Douw e l'allievo si trovarono ben presto nella bella stanza antica che era stata preparata per ricevere lo straniero. Nel focolare scoppiettava un allegro fuoco, vicino al quale un tavolo antico che brillava come oro attendeva la cena, per la quale fervevano i preparativi. Le sedie dall'alto schienale, la cui comodità compensava l'aspetto estetico sgraziato, erano allineate in perfetto ordine. Rose, lo zio e l'artista attendevano l'arrivo dell'ospite con notevole impazienza. Alla fine si fecero le nove, ed insieme al rintocco dell'orologio si udì bussare alla porta di casa, questa venne aperta in fretta, e poi si udirono dei passi lenti e pesanti sulle scale. I passi attraversarono il corridoio sul quale dava la porta aperta della stanza in cui era riunito il gruppetto che abbiamo descritto, dalla quale entrò una figura che fece sussultare il flemmatico olandese e quasi urlare Rose di terrore. Era sempre Minheer Vanderhausen - stessa aria, stessa andatura, stessa altezza - ma nessuno di loro aveva mai visto il suo viso. Lo sconosciuto si fermò sull'uscio, mostrando in piena luce il corpo e la faccia. Portava un mantello scuro corto e sontuoso che gli arrivava appena alle ginocchia, calze di seta rosso porpora e scarpe ornate con rosette del medesimo colore. L'apertura sul davanti del mantello lasciava intravedere il corpetto fatto della medesima stoffa scura, probabilmente zibellino, mentre le mani erano coperte da un pesante paio di guanti di pelle che gli arrivavano sopra il polso, a mo' di guanto di ferro. In una mano teneva la canna da passeggio e il cappello che si era tolto; l'altra, libera, ricadeva pesantemente sul fianco.
Diverse trecce di capelli spruzzati di grigio, che scendevano sul collare rigido, nascondevano perfettamente il collo. Fin qui niente da dire... ma la faccia! La faccia aveva un color piombo bluastro, il medesimo che appare sull'incarnato quando vengono assunte medicine a base di metalli in quantità eccessiva; le sclerotiche degli occhi erano troppo bianche, e facevano pensare a qualche malattia; il colore delle labbra, uguale a quello della pelle, era quasi nero; e dall'intero volto emanava un'aria sensuale, maligna, addirittura satanica. Era evidente che il facoltoso forestiero non amava molto esporre la propria pelle, e per tutta la visita non si tolse mai i guanti. Vedendo che era rimasto diverso tempo sulla porta, alla fine Gerard Douw trovò il sangue freddo necessario per dargli il benvenuto, e lo straniero, con un tacito cenno del capo, venne avanti nella stanza. C'era qualcosa di ineffabilmente strano, quasi di orribile, nei suoi movimenti, qualcosa di indefinibile e di innaturale, di inumano: pareva che gambe e braccia venissero guidate e dirette da uno spirito poco avvezzo a far muovere la macchina del corpo. Il forestiero parlò molto poco nel corso della visita, la quale non durò più di mezz'ora, e perfino l'ospite non riuscì a trovare il coraggio necessario per esprimergli le consuete parole di commiato e di cortesia; a dire il vero, il terrore e il nervosismo che la presenza di Vanderhausen ispirava erano tali che sarebbe bastato poco a far fuggire dalla stanza tutti i presenti in preda al panico. Tuttavia, questi non avevano perso completamente la lucidità mentale da non accorgersi di due strane peculiarità del visitatore. Durante la sua permanenza, innanzitutto, lui non aveva mosso minimamente gli occhi; secondariamente, dall'intera persona emanava una rigidità mortale, come se il petto, perfettamente immobile, non respirasse. Queste due particolarità, sebbene possano apparire insignificanti ora che vengono descritte, producevano un effetto sconcertante e sgradevole se osservate dal vero. Alla fine Vanderhausen sollevò il pittore di Leida dalla sua infausta presenza, e fu con autentico senso di sollievo che il gruppetto udì il portone sulla strada richiudersi al suo uscire. «Zio caro», disse Rose, «che uomo spaventoso! Non vorrei vederlo di nuovo per tutto l'oro degli Stati!» «Taci, sciocchina», disse Douw, sentendosi in realtà tutt'altro che a suo agio. «Un uomo può essere brutto come il Diavolo, ma se il suo cuore e le sue azioni sono giusti, vale molto di più di quei pupazzi profumati dal fac-
cino incipriato che si vedono a passeggiare sul Mall. Rose, ragazza mia, riconosco che non ha una bella faccia, ma so che è molto ricco e molto generoso; ed anche se fosse dieci volte più brutto, queste due virtù basterebbero da sole a controbilanciare tutta la sua bruttezza, e potrebbero, se non cambiargli il colorito e i lineamenti del viso, aiutare almeno a non vedere troppo i suoi difetti.» «Sai, zio caro», disse Rose, «quando l'ho visto lì davanti alla porta, non ho potuto fare a meno di pensare a quella vecchia statua di legno dipinto che mi spaventava tanto quanto entravo nella chiesa di S. Lorenzo a Rotterdam.» Gerard rise, anche se dentro di sé doveva riconoscere che il paragone era proprio giusto. Tuttavia era deciso ad impedire alla nipote, se poteva, di continuare a deridere la bruttezza del promesso sposo, sebbene non gli facesse affatto piacere - anzi, sebbene lo trovasse sconcertante - vedere che la ragazza non provava quel misterioso timore che lo straniero ispirava innegabilmente sia in lui che nel suo allievo Godfrey Schalken. La mattina presto del giorno dopo, arrivarono dai diversi quartieri della città ricchi doni in seta, velluto, gioielli e così via, destinati a Rose, e anche un pacchetto diretto a Gerard Douw il quale, una volta aperto, rivelò contenere un contratto di matrimonio, formalmente redatto tra Wilken Vanderhausen del Boom di Rotterdam e Rose Verlderkaust di Leida, nipote di Gerard Douw, Maestro Pittore della medesima città. Si leggeva, inoltre, che Vanderhausen si impegnava a fare elargizioni alla sposa molto più munifiche di quanto avesse lasciato intendere al tutore, le quali dovevano essere messe a completa disposizione della sposa nel modo più semplice possibile: mettendo, cioè, il denaro nelle mani di Gerard Douw medesimo. A questo punto non ci sono scene sentimentali da descrivere, crudeltà di tutore, bontà di pupilla, sofferenze o trasporti di innamorati. I fatti che mi accingo a riportare sono meschini, cinici e spietati. In meno di una settimana dal primo colloquio che ho appena descritto, il contratto di matrimonio venne ottemperato, e Schalken vide la colombella per la quale avrebbe rischiato la propria vita portata via in sontuosa pompa dal repellente rivale. Per i due o tre giorni seguenti si assentò dalla scuola; poi tornò e si accinse al lavoro con meno gioia ma molta più determinazione di prima, perché il pungolo dell'amore aveva ceduto il posto a quello dell'ambizione. Passarono i mesi e, contrariamente alle aspettative, anzi, all'accordo stabilito tra le due parti, Gerard Douw non seppe più nulla né della nipote, né del suo facoltoso sposo. Gli interessi del denaro che avevano maturato una forte
somma, rimanevano irreclamati in mano sua. Il pittore cominciò a preoccuparsi seriamente. Conosceva bene l'indirizzo di Rotterdam di Minheer Vanderhausen, sicché, dopo un periodo di indecisione, si risolse alla fine a mettersi in viaggio per la città - impresa semplice e facilmente portata a compimento - per accertarsi che la sua pupilla, per la quale nutriva un affetto profondo e sincero, stesse bene. Tuttavia le sue ricerche furono vane: nessuno, a Rotterdam, aveva mai sentito parlare di Minheer Vanderhausen. Gerard Douw bussò in tutte le case del molo di Boom, ma senza successo. Nessuno sapeva dargli la minima informazione sull'oggetto delle sue ricerche, e così, alla fine, fu costretto a tornarsene a Leida più dubbioso e più preoccupato di prima. Al proprio arrivo si recò di corsa alla rimessa presso la quale Vanderhausen aveva preso a noleggio la pesante - ma lussuosissima, per quei tempi - carrozza con la quale la novella coppia era tornata a Rotterdam. Dal vetturino seppe che, dopo aver fatto lunghe tappe, erano arrivati a Rotterdam soltanto la sera tardi; prima di entrare in città, tuttavia, ad appena un miglio per l'esattezza, un gruppo d'uomini dall'abbigliamento austero e fuori moda, con le barbe a punta e i baffi, si era messo al centro della strada impedendone la percorribilità. Il conducente aveva tirato i cavalli per le redini, temendo, data l'ora e l'aspetto deserto della strada, che fossero male intenzionati. Le sue paure, però, erano leggermente diminuite quando si era accorto che quegli strani uomini trasportavano una larga lettiga antica che deposero immediatamente in terra non appena lo sposo aprì la portiera della carrozza ed aiutò la sposa, che si torceva le mani e piangeva amaramente, ad accomodarsi insieme a lui sulla lettiga. Poi gli uomini sollevarono quest'ultima e si diressero velocemente in città e, non appena si furono allontanati, il buio li nascose alla vista del vetturino olandese. All'interno della carrozza egli aveva trovato una borsa che conteneva una somma di denaro sufficiente a pagare tre volte il nolo della vettura e del cocchiere. Non sapeva dire altro su Minheer Vanderhausen e sulla sua bella signora. Questo mistero fu un'autentica fonte di preoccupazione e addirittura di dolore per Gerard Douw. Vanderhausen non era stato onesto con lui, anche se non riusciva ad immaginare a quale scopo. Dubitava fortemente che un uomo così importante potesse essere un furfante, e ogni giorno che passava senza che gli giungessero notizie dalla nipote, anziché fugare i suoi timori, li raddoppiava. La perdita della sua allegra compagnia, inoltre, gli deprimeva lo spirito, e, per scacciare l'umore tetro che l'assaliva quando la giornata di lavoro era finita, chiedeva spesso a Schalken di accompagnarlo a
casa, invitandolo a dividere con lui quella che altrimenti sarebbe stata una cena solitaria. Una sera, il pittore e l'allievo erano seduti accanto al fuoco; dopo aver terminato un buon pasto, si erano abbandonati in silenziosa e dolce malinconia alla digestione, quando le loro riflessioni vennero interrotte da un forte rumore al portone di casa, come se qualcuno vi si fosse buttato con violenza contro. Un domestico scese immediatamente di sotto ad accertare la causa del fracasso, e i due lo sentirono interrogare più volte la persona che aveva bussato, ma senza ottenere da questa alcuna risposta. Poi lo udirono aprire la porta sul corridoio, e videro immediatamente una luce e sentirono dei passi rigidi su per le scale. Schalken si avvicinò alla porta, l'aprì prima di arrivarvi e Rose si precipitò nella stanza. Aveva uno sguardo fiero e selvaggio, con il volto terrorizzato ed esausto; ma il modo in cui era vestita li lasciò ancora più sbalorditi della sua comparsa improvvisa. Era avvolta, difatti, in un drappo di lana bianca che le girava intorno al collo e scendeva fino a terra, strappato e sporco. La poverina non fece in tempo ad entrare che cadde esanime sul pavimento. Con un po' di difficoltà riuscirono a farle riprendere i sensi e, quando si riebbe, con un tono più terrorizzato che impaziente, la ragazza esclamò: «Il vino! Il vino! Presto, o sono perduta!». Sbalorditi e quasi impauriti dall'agitazione che trapelava dalla sua richiesta, i due le obbedirono immediatamente, e Rose bevve il vino con una velocità e un'ingordigia che li lasciò sconcertati. Non l'aveva neanche inghiottito, che tornò a pregarli con la medesima fretta di prima: «Del cibo, per amor di Dio, del cibo, o morirò». Sulla tavola era rimasto un cosciotto d'arrosto, e Schalken cominciò immediatamente a tagliare delle fettine, ma venne anticipato dalla ragazza, la quale, non appena lo vide, lo afferrò avidamente con le mani e cominciò a strappare voracemente la carne con i denti come se stesse morendo di fame. Quando i morsi della fame si furono placati, lei provò improvvisamente una grande vergogna, o forse venne impaurita da nuovi pensieri, perché cominciò a piangere amaramente e a torcersi le mani. «Oh, andate a chiamare un ministro di Dio», disse. «Non sono salva finché non arriva. Mandatelo a chiamare subito, svelti!» Gerard Douw mandò immediatamente un messaggero, e riuscì a persuadere la nipote ad accettare la sua camera da letto. La convinse anche a mettersi subito a dormire, cosa alla quale acconsentì a patto che non la lascias-
sero sola neanche un attimo. «Ah, se arrivasse il sant'uomo», esclamò. «Lui può liberarmi: il morto e il vivo non possono essere una cosa sola. Dio l'ha proibito.» Con queste misteriose parole si arrese ai due uomini, i quali la portarono nella stanza da letto che le aveva assegnato Gerard Douw. «Non lasciatemi sola neanche per un attimo», disse. «Se lo farete, sono perduta.» Alla camera da letto di Gerard Douw si arrivava passando per uno spazioso appartamento, nel quale stavano appunto per entrare. Lo zio e Schalken avevano una candela ciascuno, sicché facevano abbastanza luce sugli oggetti circostanti. Adesso stavano entrando nello stanzone che, come ho detto, comunicava con l'appartamento di Douw, quando Rose improvvisamente si fermò e, in un sussurro che riempì entrambi di orrore, disse: «Oh, Dio! Lui è qui! Lui è qui! Eccolo: sta andando laggiù!». Indicò col dito la porta della camera interna, e a Schalken parve di vedere una sagoma in ombra, poco definita, che sgusciava dentro l'appartamento. Sfoderò la spada, quindi, sollevando la candela in modo da illuminare meglio gli oggetti dentro la stanza, entrò dove aveva visto passare l'ombra. Non c'era niente, oltre al mobilio, eppure non poteva ingannarsi sul fatto che nella camera c'era stato qualcuno prima di loro. Lo invase un terrore mortale, e la fronte gli si imperlò di sudore freddo, e ancora non si era calmato, quando udì Rose implorarli con un tono disperato di non lasciarla sola neanche per un momento. «L'ho visto», disse, «è qui. Non mi posso ingannare: lo conosco, è vicino a me... è con me... è dentro la stanza. Perciò, se volete salvarmi, per l'amor di Dio, non vi allontanate da me.» Alla fine riuscirono a convincerla a sdraiarsi sul letto, dove lei continuò a pregarli di rimanerle accanto. Spesso diceva cose strane, e ripeteva in continuazione: «Il morto e il vivo non possono essere uniti. Dio l'ha proibito». E poi ancora: «Riposo a chi è sveglio... sonno a chi cammina nel sonno». Seguitò a mormorare queste frasi smozzicate e misteriose fino all'arrivo del sacerdote. Gerard Douw cominciava a temere, cosa alquanto naturale, che il terrore dei maltrattamenti subiti avesse scosso la ragione della ragazza; inoltre, data la sua comparsa improvvisa, l'ora tarda e, soprattutto, la sua espressione terrorizzata, cominciava a sospettare che fosse fuggita da qualche asilo per malati di mente ed avesse paura di essere inseguita. Decise di chiedere consiglio al medico non appena gli uffici del sacerdote, la cui presenza la donna tanto ardentemente desiderava, l'avessero cal-
mata, e finché non fosse stato raggiunto questo scopo, non osò porle alcuna domanda, per timore di farla agitare di più. Il sacerdote arrivò presto; era un uomo dall'aspetto ascetico e di veneranda età - Gerard Douw lo rispettava profondamente, ammirandolo forse più per lo spirito combattivo che per le virtù di cristiano - di assoluta moralità, di profonda intelligenza e con un cuore gelido. Entrò nella stanza che comunicava con quella in cui era distesa Rose e, non appena arrivò da lei, Rose gli chiese di pregare per lei come se si trovasse nelle mani di Satana e la sua unica speranza di salvezza dipendesse dal cielo. Affinché possiate comprendere bene le circostanze dell'avvenimento che mi accingo a narrare, è necessario specificare la posizione delle parti che vi furono coinvolte. L'anziano sacerdote e Schalken si trovavano nell'anticamera di cui ho già parlato; Rose riposava nella stanza interna, la cui porta era aperta, e accanto al letto, per suo espresso desiderio, c'era il tutore. Nella camera da letto bruciava una candela, e nell'appartamento esterno ne erano accese altre tre. Il vecchio si schiarì la voce in procinto di cominciare, ma prima che ne avesse il tempo un improvviso soffio d'aria spense la candela che illuminava la stanza della ragazza, e lei, mettendosi immediatamente in allarme, gridò: «Godfrey, portami un'altra candela. Il buio non è sicuro». Dimenticando per un attimo le ripetute preghiere della nipote, Gerard Douw passò nell'altra stanza per prenderle quello che desiderava. «In nome di Dio, non andare, zio caro!», strillò l'infelice, e in quel momento stesso si alzò come un fulmine dal letto e gli corse dietro per trattenerlo. Ma l'avvertimento arrivò troppo tardi, perché lo zio aveva appena varcato la soglia, e la nipote aveva appena avuto il tempo di richiamarlo, quando la porta di separazione tra le due stanze si chiuse violentemente alle spalle del pittore, come se ci fosse stata una forte raffica di vento. Schalken e Douw si precipitarono ai battenti, ma i loro sforzi congiunti e disperati non valsero ad aprirli. Dalla camera interna giungevano strilli sempre più forti, nei quali vibrava il terrore più disperato, Schalken e Douw spinsero le ante con tutta la forza, ma invano. Dall'interno non si udivano rumori di lotta, ma le grida parevano crescere d'intensità e, in quello stesso momento i due uomini udirono il cedimento dei cardini del lattice della finestra, mentre i vetri stridevano sopra il davanzale come se venissero aperti. Vi fu quindi un ultimo strillo, protratto e agonizzante, seguito da un silenzio di tomba. Dei passi leggeri attraversarono il pavimento, andando dal
letto alla finestra e, quasi nel medesimo istante, la porta cedette, facendo quasi cadere nella stanza i due che vi avevano esercitato pressione. La stanza era vuota. La finestra era aperta, e Schalken, salito su una sedia, scrutò attentamente in strada e nel canale sottostante. Non vide nessuno, tuttavia notò, o così gli parve, che le acque del canale disegnavano degli ampi cerchi sulla superficie, come se vi fosse caduto qualcosa di pesante. Da quel momento di Rose non si ebbe più traccia, né si seppe nulla del suo misterioso corteggiatore: neppure un indizio per dipanare quel problema e pervenire a una soluzione dell'enigma. Tuttavia si verificò un fatto che, pur se il nostro razionale lettore non lo reputerà una prova attendibile, fece ciononostante una forte e durevole impressione su Schalken. Molti anni dopo gli eventi che abbiamo riportato, Schalken, che all'epoca risiedeva lontano, ebbe notizia della morte del padre e della sepoltura fissata per un certo giorno nella chiesa di Rotterdam. Il pittore riuscì ad arrivare soltanto con difficoltà e nella tarda giornata il giorno stesso del funerale. Il corteo funebre non era ancora giunto. Scese la sera, e ancora niente. Schalken arrivò alle porte della chiesa e le trovò aperte; era stato dato avviso dell'arrivo del corteo, e la cripta nella quale doveva essere sepolto il defunto era stata aperta. Il sagrestano, vedendo un gentiluomo ben vestito venuto a partecipare alle esequie, gli venne incontro dalla navata e lo invitò gentilmente a dividere con lui il calduccio di un bel fuoco che, com'era sua abitudine fare d'inverno in queste occasioni, aveva acceso nel camino in una stanza in cui soleva attendere l'arrivo dei mesti ospiti e questa stanza comunicava, mediante una rampa di scale, con la cripta sottostante. Schalken e il religioso vi si accomodarono, e il sagrestano, dopo diversi tentativi infruttuosi di intavolare una conversazione con l'ospite, si vide costretto a rifugiarsi nella sua pipa per alleviare la solitudine. Malgrado il dolore e le preoccupazioni, la fatica di un viaggio di quaranta ore fatto così di corsa, alla fine ebbe la meglio sul corpo e sulla mente di Godfrey Schalken, ed egli cadde in un sonno profondo dal quale lo svegliò qualcuno scuotendolo gentilmente per le spalle. La prima cosa che pensò fu che era stato il sagrestano a chiamarlo, ma poi si accorse di non trovarsi più nella stanza di prima. Si alzò e, prima ancora di vedere con chiarezza l'ambiente circostante, scorse una figura di donna che indossava una sorta di tunica bianca molto leggera sistemata a mo' di velo e che portava una lanterna. Stava andando nella direzione opposta, verso le scale che conducevano alle cripte.
Alla sua vista, Schalken provò nel medesimo tempo un vago senso di allarme e un impulso irresistibile di seguirla. Allora la seguì verso le cripte ma, quando fu arrivato alle scale, lì si fermò; anche la figura si fermò e, girandosi dolcemente, alla luce della lanterna gli rivelò il volto del suo primo amore, Rose Velderkaust. Non aveva nulla di orribile, e neppure di triste, nell'aspetto: al contrario, le illuminava il viso il medesimo sorriso che tanto tempo prima, in giorni più felici, incantava sempre l'artista. Allora lo prese un desiderio fortissimo di seguire lo spettro, malgrado avesse paura. Lo spettro scese le scale e, girando a sinistra, lo condusse per uno stretto passaggio che portava, con sua enorme sorpresa, in un antico appartamento olandese, simile a quelli che Gerard Douw aveva immortalato nei propri quadri. Intorno alla stanza era disposto un sontuoso mobilio antico e pregiato, e in un angolo c'era un letto a quattro colonne protetto da pesanti tendaggi di stoffa nera. La figura si girava continuamente verso di lui, guardandolo col medesimo sorriso aperto, e quando fu arrivata alle sponde del letto, aprì le tende e, alla luce della lampada che sollevò per illuminarlo al centro, mostrò all'orripilato pittore, seduta a schiena eretta sul letto, la sagoma demoniaca di Vanderhausen. Non appena lo vide Schalken cadde svenuto sul pavimento, dove la mattina dopo venne trovato dai guardiani che avevano il compito di chiudere i corridoi di accesso alle cripte. Giaceva in un'ampia cella, rimasta indisturbata da molto tempo, ed era caduto vicino ad una grande bara sorretta da piccoli pilastri che la proteggevano dall'assalto dei vermi. Schalken morì con la certezza che quella visione era stata reale, e lasciò una prova insolita dell'esperienza vissuta: un dipinto eseguito poco dopo l'evento che ho narrato, di valore non tanto perché presenta le medesime caratteristiche pittoriche che resero Schalken famoso, quanto perché ci offre un ritratto del suo primo amore, Rose Velderkaust, la cui sorte misteriosa rimarrà per sempre un enigma. 1
Il termine olandese Minheer corrisponde all'inglese Mister (N.d.T.). PROSPER MÉRIMÉE La visione di Carlo XI There are more things in heav'n and hearth, Horatio, Than are dreamt of your philosophy1. Shakespeare
1. Siamo soliti deridere le visioni e le apparizioni soprannaturali, eppure se ne hanno talvolta così autorevoli conferme che, a non volerci credere, si dovrebbe, per coerenza, respingere in complesso tutte le testimonianze storiche. Un verbale in perfetta regola, con le firme di quattro testimoni degni di fede, ecco quel che garantisce l'autenticità del fatto che ora vi narrerò. Aggiungerò che la predizione contenuta nel verbale stesso era nota e citata assai prima che taluni avvenimenti, prodottisi ai giorni nostri, potessero in un certo qual modo figurarne il reale adempimento. Carlo XI, padre dal famoso Carlo XII, fu uno dei sovrani più dispotici, ma anche più saggi, che avesse mai avuto la Svezia: ridusse i mostruosi privilegi dei nobili, esautorò del tutto il Senato, legiferò in proprio nome; in una parola, mutò la costituzione del paese, precedentemente oligarchica, costringendo gli Stati del regno a conferirgli un potere assoluto. Era, peraltro, un uomo illuminato, valoroso, attaccatissimo alla religione luterana, di carattere inflessibile, freddo, positivo, assolutamente sprovvisto di fantasia. Aveva perso da poco la moglie, Ulrica Eleonora e, benché si affermi che la sua durezza per quella Principessa ne avesse affrettato la fine, egli la stimava e si mostrò addolorato della morte di lei più di quanto l'aridità del suo cuore avesse lasciato supporre. Dopo tale evento, divenne ancor più cupo e taciturno di prima, e si dedicò tutto al lavoro, con un'applicazione che palesava il bisogno imperioso di allontanare le idee penose che lo assediavano. Una sera d'autunno, sul tardi, stava seduto in veste da camera e in pantofole davanti a un gran fuoco, nel suo studio della reggia di Stoccolma. Erano con lui il Conte Brahé, suo Ciambellano, che onorava dei suoi favori, e il medico Baumgarten il quale, sia detto tra parentesi, ostentava in tutto la massima spregiudicatezza, e di tutto voleva che si dubitasse, fuorché della medicina. Quella sera, lo aveva chiamato per consultarlo su non so quale disturbo. La veglia si prolungava, e il Re, contro il suo solito, tardava a dare la buonasera ai due, che aspettavano quel segnale per ritirarsi. La testa china e gli occhi fissi sui tizzoni, manteneva un profondo silenzio, annoiato dalla compagnia, ma inquieto, senza una ragione plausibile, al pensiero di restar
solo. Il Conte Brahé si accorgeva benissimo che la sua presenza non era molto gradita, e a più riprese aveva manifestato il timore che Sua Maestà avesse bisogno di riposo; ma sempre un gesto del Re lo aveva trattenuto al suo posto. A sua volta, il medico parlò del danno che le veglie recano alla salute; ma Carlo gli rispose tra i denti: «Restate, non ho ancora voglia di dormire». Anche i vari argomenti su cui tentarono allora di portare il discorso si esaurirono alla seconda o alla terza battuta. Era chiaro che Sua Maestà si trovava, in uno dei suoi accessi d'ipocondria, e in simili circostanze la posizione di un cortigiano è assai delicata. Il Conte Brahé, supponendo che la tristezza del Re provenisse dal cordoglio per la perdita della consorte, guardò per alcuni minuti il ritratto della Regina appeso nello studio, poi esclamò con un lungo sospiro: «Com'è somigliante quel ritratto! Vi si ritrova proprio l'espressione dell'augusto modello, maestosa e dolce a un tempo». «Mah!», rispose bruscamente il Re, il quale credeva di udire un rimprovero ogni volta che sentiva pronunciare il nome della Regina, «è un ritratto un po' troppo abbellito. La Regina era brutta.» Poi, scontento nel suo intimo della propria ruvidezza, si alzò e fece una volta il giro della stanza per nascondere una commozione della quale arrossiva. Giunto davanti alla finestra che dava sul cortile, si fermò. La notte era cupa e la luna al primo quarto. In quel tempo, il palazzo ove risiedono oggi i sovrani di Svezia non era ancora terminato, e Carlo XI, che ne aveva iniziato la costruzione, abitava il vecchio palazzo sulla punta del Ritterholm, che si specchiava sul lago Moeler. Era un grande edificio a forma di ferro da cavallo. Lo studio del Re occupava una delle estremità, quasi dirimpetto all'Aula Magna, ove si riunivano gli Stati le rare volte che avevano da ricevere qualche partecipazione dalla corona. Le finestre della sala parevano in quel momento illuminate da una forte luce, cosa che sembrò strana al Re, il cui primo pensiero fu tuttavia che l'illuminazione fosse dovuta a un candelabro portato da qualche domestico. Ma che andavano a fare, a quell'ora, in una sala chiusa da un pezzo? Inoltre, la luce era troppo abbagliante per potersi attribuire a un unico candelabro. Si sarebbe potuto credere a un incendio, ma non si vedeva fumo, i vetri erano intatti, e non si udiva alcun rumore. Tutto faceva pensare piuttosto a un'illuminazione solenne. Carlo osservò le finestre per un certo tempo senza parlare. Intanto, il
Conte Brahé, che aveva già steso la mano verso il cordone di un campanello, stava per chiamare un paggio che andasse a investigare la causa di quella luce singolare, ma il Re lo trattenne, dicendo: «Voglio andare io stesso in quell'aula». Nel pronunziare l'ultima parola, videro che impallidiva, mentre la sua fisionomia esprimeva una specie di terrore religioso. Uscì, tuttavia, con passo fermo, seguito dal Ciambellano e dal medico, ciascuno dei quali portava una candela accesa. Il portinaio, che aveva in consegna le chiavi, era già a letto. Baumgarten andò a svegliarlo e gli ordinò, da parte del Re, di aprire immediatamente le porte della Sala degli Stati. La sorpresa dell'uomo per quell'ordine inaspettato fu grande. Si vestì in fretta e raggiunse il Re con il suo mazzo di chiavi. Per primo, aprì l'uscio di una galleria che faceva da anticamera e da sala di sgombero alla Sala degli Stati. Il Re entrò. Ma quale non fu la sua meraviglia nel vedere le pareti addobbate da cima a fondo di nero! «Chi ha dato l'ordine di addobbare così questa sala?», domandò con voce aspra. «Nessuno, che io sappia, Sire», rispose vivamente turbato il portinaio, «e anche l'ultima volta che feci spazzare la galleria, era rivestita di quercia, com'è sempre stata... Sono certo che questi arredi non provengono dal guardaroba di Vostra Maestà.» Intanto il sovrano, che camminava con passo rapido, aveva già percorso i due terzi dalla galleria. Il Conte e il portinaio lo seguivano da vicino, mentre il medico era rimasto un po' indietro, combattuto fra il timore di restare solo e quello di esporsi alle possibili conseguenze di un'avventura che si presentava in modo così singolare. «Non andate oltre, Sire!», esclamò il portinaio. «Sull'anima mia, deve svolgersi qualche stregoneria, là dentro. A quest'ora... da quando è morta la Regina, la vostra graziosa consorte... dicono che si aggiri in questa galleria... Che Dio ci protegga!» «Fermatevi, Sire!», gridò dal canto suo il Conte. «Non sentite il rumore che proviene dalla Sala degli Stati? Chissà a quali pericoli va incontro Vostra Maestà!» «Sire», propose Baumgarten, che si era visto spegnere la candela da un soffio di vento, «consentitemi almeno di far venire una ventina dei vostri alabardieri.» «Entriamo», disse il Re con voce decisa, fermandosi davanti alla porta
dell'Aula Magna; «e tu, portiere, apri subito quell'uscio.» Spinse il battente con il piede, e il rumore, ripetuto dall'eco delle volte, rintronò nella galleria come una cannonata. Il portiere tremava tanto che la chiave batteva contro la serratura senza che riuscisse a infilarla. «Un vecchio soldato che trema!», osservò Carlo alzando le spalle. «Andiamo, Conte, apriteci voi questa porta.» «Sire», rispose il Conte, ritraendosi di un passo, «che Vostra Maestà mi ordini di avanzare sotto la bocca di un cannone danese o tedesco, e ubbidirò senza esitare; ma voi pretendete che sfidi l'Inferno.» Il Re strappò le chiavi di mano al portiere. «Vedo bene», rispose con voce sprezzante, «che questo riguarda me solo.» E, prima che le persone del seguito potessero trattenerlo, aprì la pesante porta di quercia ed entrò nell'aula proferendo queste parole: «Con l'aiuto di Dio!». I suoi tre accoliti, spinti dalla curiosità, più forte in loro della paura, e forse anche vergognosi al pensiero di abbandonare il proprio sovrano, entrarono con lui. L'ampia sala era illuminata da un numero infinito di torce. L'antica tappezzeria istoriata era stata sostituita con parati neri. A ogni muro si vedevano disposti nell'ordine consueto gli stendardi tedeschi, danesi, o moscoviti, trofei dei soldati di Gustavo Adolfo, inframmezzati con bandiere svedesi coperte di crespi funebri. Un'immensa assemblea gremiva i banchi. I quattro Ordini dello Stato nobili, ecclesiastici, borghesi e contadini - sedevano ai rispettivi posti. Erano tutti quanti vestiti di nero, e quella moltitudine di volti umani, che sembravano sbalzati in luce su fondo scuro, abbagliava gli occhi a tal punto che nessuno dei quattro testimoni di quella scena straordinaria riuscì a distinguere tra la folla una figura nota. Similmente un attore, in presenza di un pubblico numeroso, non vede che una massa confusa di gente, in mezzo alla quale i suoi sguardi non riescono a individuare nessuno in particolare. Sull'alto trono da cui il sovrano era solito arringare l'assemblea, scorsero un cadavere insanguinato, rivestito delle insegne della regalità. Alla sua destra, un fanciullo, in piedi e con la corona in fronte, reggeva in pugno uno scettro; alla sua sinistra, un uomo anziano, o piuttosto un altro fantasma, si appoggiava al trono, avvolto nel mantello da cerimonia che usavano portare gli antichi reggitori della Svezia, prima che Vasa ne facesse un
regno. Dirimpetto al trono, vari personaggi dal contegno grave e austero, con lunghe toghe nere, e che, dall'aspetto, sembravano giudici, stavano seduti davanti a un tavolo coperto di grandi in-folio e di alcune pergamene. Nello spazio fra il trono e i banchi dell'assemblea, si vedeva un ceppo coperto anche quello da un crespo nero, e, giacente lì accanto, una scure. Nessuno, in quell'assemblea ultraterrena, mostrò di accorgersi della presenza di Carlo e dei tre personaggi che l'accompagnavano. Appena entrati, questi non intesero che un mormorio indistinto, in mezzo al quale l'orecchio non riusciva a cogliere nessuna parola articolata. Poi, il più venerando dei giudici in toga nera, quello, cioè, che sembrava adempiere alle funzioni di presidente, si alzò e picchiò tre volte con la mano sopra un in-folio che gli stava aperto davanti. Di colpo, si fece un profondo silenzio. Alcuni giovani di bell'aspetto, riccamente vestiti, ma con le mani legate dietro la schiena, entrarono nell'aula, da un uscio opposto a quello aperto poc'anzi da Carlo XI. Avanzavano con la fronte alta e lo sguardo fermo, seguiti da un uomo atticciato, con un giustacuore di pelle scura, il quale reggeva i capi delle corde che legavano loro le mani. Colui che camminava in testa e che pareva il prigioniero di maggior riguardo, si fermò in mezzo alla sala, davanti al ceppo, che guardò con occhio sprezzante e superbo. Nello stesso momento, il cadavere parve scosso da un tremore convulso e un sangue vermiglio sgorgò dalla sua ferita. Il giovane s'inginocchiò, poi tese il collo; la scure lampeggiò nell'aria, e subito ricadde con uno schianto. Un rivolo di sangue sprizzò sui gradini del trono e si mischiò con quello del cadavere; la testa invece rimbalzò più volte sul pavimento arrossato, rotolando sino ai piedi di Carlo, che si tinsero di sangue. Il Re, fino a quel momento era rimasto muto per lo stupore. Ma, a quello spettacolo orrendo, la sua lingua si sciolse; fece qualche passo in direzione del trono e, rivolto all'uomo dal manto di Amministratore, scandì senza batter ciglio la formula sacramentale: «Se sei di Dio, parla: se sei dell'Altro, lasciaci in pace». Il fantasma gli rispose in tono lento e solenne: «Re Carlo! Questo sangue non scorrerà sotto il tuo regno... (e qui la voce si fece meno distinta), ma al quinto regno dopo il tuo. Guai, guai, guai al Sangue di Vasa!». Allora le forme dei personaggi di quella sconcertante assemblea cominciarono ad affievolirsi. Già non sembravano più che ombre colorate, e pre-
sto scomparvero del tutto; la fantastica fiaccolata si spense, e le candele di Carlo e del suo seguito non illuminarono più che i vecchi arazzi, lievemente mossi dal vento. Per qualche momento ancora, si udì un rumore abbastanza melodioso, che uno dei testimoni paragonò al sussurro del vento tra le foglie, e un altro al suono prodotto dalle corde dell'arpa che vengono a spezzarsi mentre si accorda lo strumento. Tutti furono concordi sulla durata dell'apparizione, che giudicarono di una decina di minuti all'incirca. I paramenti neri, la testa recisa, le pozze di sangue che tingevano il pavimento, tutto era scomparso insieme con i fantasmi; soltanto la pantofola di Carlo serbò una macchia rossa, che sarebbe certo bastata a fargli ricordare le scene di quella notte, se queste non si fossero fin troppo profondamente incise nella sua memoria. Appena rientrato nel suo studio, il Re fece stendere la relazione di quello che aveva visto, la fece firmare dai compagni e la firmò lui stesso. Molte precauzioni furono prese per nascondere al pubblico il contenuto del documento; il che tuttavia non impedì che il segreto venisse presto a conoscenza di tutti, sotto lo stesso regno di Carlo XI. Quella relazione esiste tuttora, e a nessuno è mai venuto in mente, fino a oggi, d'impugnarne l'autenticità. La chiusa è degna di nota: «E se quanto ho riferito non fosse la pura verità», dice il Re, «rinunzio a ogni speranza di quella miglior vita che io mi fossi potuto meritare per qualche buona azione, e soprattutto per lo zelo che ho sempre posto nel lavorare per la felicità del mio popolo e nel difendere la religione dei miei antenati». E ora, chi voglia por mente alla morte di Gustavo III e alla condanna di Ankarstroem, il suo uccisore, troverà più di una concordanza tra questo evento e le circostanze di quella singolare profezia. Nel giovane decapitato al cospetto dell'Assemblea degli Stati sarebbe da vedersi la prefigurazione di Ankarstroem. Nel cadavere coronato, Gustavo III. Nel fanciullo, Gustavo Adolfo IV, suo figlio e successore. Il vecchio, infine, sarebbe stato il Duca di Sudermania, zio di Gustavo IV, che fu Reggente del regno, e poi Re, dopo la deposizione del nipote. 1
«Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante possa fantasticare la vostra filosofia.» Amleto, atto I, sc. V (vv. 166-167) (N.d.T.). JOSEPH SHERIDAN LE FANU
Il testamento del gentiluomo Toby. Un racconto di fantasmi Molte persone abituate a viaggiare sulla vecchia strada di York e di Londra all'epoca delle carrozze, ricorderanno d'essere passate, diciamo un pomeriggio d'autunno, durante il viaggio per la capitale, a circa tre miglia a sud della città di Applebury, e ad un miglio e mezzo dalla Old Angel Inn, una di quelle vecchie costruzioni ingabbiate, una grande casa bianca e nera diroccata e macchiata dal tempo, con ampie finestre a grata che scintillano al sole del tardo pomeriggio con i loro piccoli vetri adamantini tra il fitto fogliame di antichi olmi. Un ampio viale, oramai ricoperto d'erba e gramigna come i cimiteri, e fiancheggiato da due file doppie dei medesimi alberi scuri, vecchi e giganteschi, interrotti qui e là da un'apertura o da un albero caduto di traverso sulla strada, conduce alla porta principale. Osservando questo viale triste e spento dalla carrozza diretta a Londra come io ho fatto di sovente, si rimane colpiti da tanti segni di decadenza ed abbandono: ciuffi d'erba che spuntano tra gli scalini e negli interstizi delle finestre, comignoli spenti sorvolati dalle taccole, totale assenza di vita umana... E da quei segni capisci immediatamente che il posto è disabitato e abbandonato alla devastazione del tempo. Il nome di questa casa vetusta è Gylingden Hall. Le alte siepi e il vecchio timpano nascondono immediatamente l'edificio alla vista, e circa un quarto di miglio dopo averlo superato, si incontra, circondata da malinconici alberi, una piccola cappella sassone tutta dissestata che, molto tempo fa, era il luogo di sepoltura della famiglia Marston, e che partecipa all'abbandono e alla desolazione che aleggiano sulla sua antica dimora. La profonda malinconia della reclusa valle di Gylingden, solitaria come una foresta incantata, dove le cornacchie tornano ai loro trespoli tra gli alberi, e i cervi erranti che fanno capolino tra i rami paiono avere indisturbato e completo dominio, accentua ulteriormente l'aspetto abbandonato di Gylingden Hall. Negli ultimi anni le riparazioni sono cessate, e qui e là il tetto rotto avrebbe bisogno di ben più di un'accomodatura. Sul fianco della casa, che è esposto ai venti che spazzano la valle come un torrente viene trascinato nel canale, non è rimasta intatta neanche una finestra, e dalle imposte filtra la pioggia. I soffitti e le pareti sono incrostati di muffa. In certi punti, dove l'umidità trasuda dall'intonaco, il pavimento è marcito. Nelle notti tempestose, così dice il guardiano, si possono sentire i cani che cercano riparo nel vecchio edificio, e i loro latrati arrivano fino al ponte di Gryston, men-
tre il vento ulula e geme per i corridoi deserti. Circa settant'anni fa in quella casa morì il vecchio Lord, Toby Marston, famoso in quella parte del mondo per i suoi cani da caccia, la sua ospitalità e i suoi vizi. Aveva fatto cose buone, ed aveva sostenuto diversi duelli: aveva sperperato il denaro e aveva frustato la gente. Si era portato nella tomba alcune benedizioni e numerose maledizioni, lasciandosi dietro cumuli di debiti e tasse sulle proprietà che terrorizzavano i due figli, i quali non avevano il bernoccolo degli affari e nessuna predisposizione per i conti, e non avevano mai immaginato, fino alla morte del vecchio gentiluomo dissoluto e blasfemo, che il padre avesse condotto la famiglia al tracollo finanziario. I due si incontrarono a Gylingden Hall. Davanti a loro c'era il testamento e c'erano i legali per spiegar loro con chiarezza i gravami cui il deceduto li aveva sottoposti. Il testamento era congegnato in modo da mettere istantaneamente in lotta mortale i due fratelli. I due differivano per molti versi, ma nell'attaccamento al denaro erano identici, e in questo somigliavano al defunto padre. In una disputa si buttavano sempre a capofitto e, una volta cominciata, non si risparmiavano nessun colpo basso. Il maggiore, Scroope Marston, il più pericoloso dei due, non era mai stato il prediletto del vecchio Lord. Non amava gli sport da prato e i piaceri della vita campestre, non era atletico e non era bello. E il padre si risentiva molto di tutto questo. Il giovane, che non aveva alcun rispetto per lui, e che aveva superato la paura che il genitore gli incuteva una volta cresciuto, lo ripagava con gli stessi sentimenti. L'avversione del burbero gentiluomo per il figlio, perciò, era diventata aperto odio. Si augurava sempre che quella mela marcia, quell'inetto di Scroope, non intralciasse la strada a uomini migliori - riferendosi al figlio minore Charles - e, quando beveva, perfino i vecchi e i giovani che andavano a caccia con lui e dividevano il suo Porto, e che non erano scevri da una certa volgarità, lo trovavano disgustoso. Scroope Marston era lievemente gobbo, con una faccia magra e incavata, due occhi neri penetranti e lunghi capelli neri, caratteristiche queste spesso tipiche delle persone deformi. «Non sono io il padre di quella schiena d'asino. Non l'ho generato io, m... a lui! Dovrei chiamare mie quelle molle?», sbraitava il vecchio, riferendosi alle gambe lunghe e magre del figlio. «Charlie sì che è un uomo, mentre quell'altro è uno scimmione. Non ha una buona indole; e non ha né il senso pratico né la virilità dei Marston.»
E quando era completamente ubriaco, il vecchio Lord soleva giurare che non si sarebbe mai «seduto a capotavola con lui, né avrebbe spaventato la gente, facendola fuggire da Gylingden Hall, con quella sua d... faccia da corvo... lo zotico!». «Il Bel Charlie sì che era il suo degno erede. Lui sapeva come trattare un cavallo, sapeva dominare la bottiglia, e le ragazze facevano le fusa con lui. Lui sì che era un Marston dalla testa ai piedi.» Ma anche con il Bel Charlie, però, aveva avuto qualche litigio. Il vecchio Lord aveva la mano lesta con il frustino quanto era lesta la sua lingua, e una volta in cui non c'erano armi a portata di mano, aveva dato al ragazzo una bella «bussata» di pacche. Il Bel Charlie era dell'avviso che il periodo della mortificazione della carne dovesse finire, e una notte, con il Porto che scorreva a fiumi, qualcuno fece una certa allusione a Marion Hayward, la figlia del mugnaio, che al vecchio Lord per qualche motivo non piacque. Avendo alzato il gomito, e avendo le idee più chiare sul pugilato che sull'autocontrollo, l'uomo allungò un pugno, fra la sorpresa di tutti i presenti, verso il Bel Charlie. Il giovane allontanò la testa con destrezza e non successe niente, a parte il boccale che cadde sul pavimento. Ma il vecchio Lord si era scaldato, e balzò giù dalla sedia. Il Bel Charlie saltò giù a sua volta, deciso a non sopportare simili sciocchezze. Il gentiluomo Lilbourne, sbronzo anche lui, nel tentativo di mediare la situazione, cadde lungo sul pavimento, e si tagliò un orecchio con i vetri del bicchiere. Il Bel Charlie bloccò a mano aperta il pugno che il vecchio genitore avrebbe voluto assestargli, poi, afferrandolo per il colletto, lo lanciò di schiena contro il muro. Dissero che il vecchio non era mai stato più paonazzo di così, con quello sguardo stralunato. E allora il Bel Charlie lo bloccò con le braccia contro la parete. «Avanti... andiamo... Non dire più quelle strampalaggini che hai detto prima, che non mi piacciono», gracchiò il vecchio Lord. «L'hai smessa di fare lo stupido, è vero? L'ha smessa, no? Avanti, Charlie, dammi la mano, e torna a sederti con noi, ragazzo.» E così finì l'alterco, e credo che quella fu l'ultima volta che il Lord provò ad alzare le mani sul Bel Charlie. Ma quei giorni erano passati. Adesso Toby Marston riposava in pace sotto la terra umida del grande albero cinerino della diroccata cappella sassone dove tanti Marston erano tornati alla polvere per giacere lì dimenticati. Gli stivali macchiati dalla pioggia e le brache di pelle, il tricorno che solevano portare gli anziani gentiluomini di quei tempi, il famoso gilet rosso che gli arrivava sotto i fianchi e la fiera faccia da pugile del vecchio Lord
ormai erano solo un ricordo. E i fratelli tra i quali aveva fatto scoppiare una lotta intestina, indossavano adesso i vestiti nuovi a lutto, ancora lucidi, mentre discutevano furiosamente al tavolo del grande salone di quercia dove tanto spesso avevano risuonato le canzoni goliardiche, le oscenità e le risate dei vicini che il vecchio Signore di Gylingden Hall amava radunare in casa sua proprio lì. I due gentiluomini, cresciuti a Gylingden Hall, non erano abituati a tenere a freno la lingua, né, se ce n'era bisogno, a tenere le mani a posto. Nessuno dei due aveva partecipato al funerale del vecchio. La sua morte era stata improvvisa. Portato a letto in quello stato ilare e litigioso nel quale lo inducevano sempre il Porto e il punch, la mattina dopo era stato trovato morto con la testa penzoloni sul letto e la faccia tutta livida e gonfia. Il testamento del nobile espropriava il figlio maggiore di Gylingden, che veniva tramandata all'erede legittimo da tempi immemorabili. Scroope Marston era furioso. Si udiva la sua voce profonda inveire contro il defunto padre e il fratello, e i pugni che assestava al tavolo per dare maggiore enfasi alle proprie recriminazioni risuonavano per tutta la sala. Poi si intromise la voce più rude di Charlie, cui seguì un breve scambio di battute, e alla fine le due voci parlarono contemporaneamente in tono sempre più forte ed irato. A quel punto intervennero i pacifici e spaventati legali, i quali cercarono di placare il tumulto, e l'alterco ebbe fine. Scroope uscì dalla stanza col volto pallido e furioso - che sembrava ancora più bianco sotto i lunghi capelli neri - gli occhi scuri fiammeggianti, i pugni serrati e l'aspetto reso ancora più deforme dalla collera che lo scuoteva tutto. Dovevano essersi detti delle parole molto brutte, perché Charlie, sebbene fosse il vincitore, era quasi adirato quanto Scroope. Il maggiore avrebbe voluto prendere possesso della casa e costringere il rivale a ricorrere all'azione legale per cacciarlo via, ma gli avvocati si dissero categoricamente contrari. E così, con il cuore gonfio d'odio, Scroope se ne andò a Londra, e trovò la compagnia che si era occupata degli affari del padre. Gli impiegati controllarono la situazione economica, e dissero che Gylingden non rientrava negli accordi. Era molto strano, ma era proprio così: Gylingden era specificamente esclusa, sicché il diritto del vecchio Lord di poterne disporre liberamente nel proprio testamento era insindacabile. Nonostante questo, Scroope, giurando vendetta anche a costo di rovinarsi, pur di schiacciare il fratello, partì all'offensiva e impugnò il testamento del vecchio Toby davanti alla Corte dei Privilegi e alla Corte di Giustizia, e la faida tra fratelli andò avanti per mesi e mesi, esasperando entrambi.
Scroope perse la causa, e la sconfitta non lo intenerì. Charlie avrebbe potuto dimenticare le brutte parole che si erano detti, ma le lunghe schermaglie e le mosse tattiche tipiche della contesa legale, nella quale i due Marston figuravano come opposti combattenti, lo avevano indurito; anche i rovinosi costi legali lo avevano colpito, con il consueto effetto che sortiscono su un uomo che non naviga in acque economicamente tranquille. Gli anni volarono, ma senza medicare le ferite riportate dalle loro ali. Al contrario, la corrosione operata dall'odio col tempo divenne più profonda. Nessuno dei due prese moglie. Ma al minore, Charles Marston, capitò una cosa diversa che accorciò le sue gioie in senso reale. Si trattò di una brutta caduta da cavallo. Charles riportò gravi fratture e una contusione alla testa. Per un po' credettero che non si sarebbe più ripreso, ma egli smentì quegli uccelli di malaugurio. Si riebbe, infatti, anche se avvennero in lui due cambiamenti. La botta presa all'anca non gli consentì mai più di rimontare in sella, e la spensieratezza di un tempo lo abbandonò per sempre. Era rimasto cinque giorni in stato di coma - insensibilità assoluta - e, quando aveva ripreso conoscenza, era stato animato da un'incredibile agitazione. Tom Cooper, che all'epoca del vecchio Toby era stato il maggiordomo di Gylingden Hall, conservava ancora il posto con una fedeltà quasi patetica, in quei tempi di sbiadito splendore e frugale gestione domestica. Erano passati vent'anni dalla morte del vecchio padrone. Era diventato ossuto e ingobbito, la faccia si era ricoperta delle tipiche chiazze marroni della vecchiaia, assumendo un'espressione cupa ed arcigna, e col prossimo, eccettuato il padrone, si era anche inacidito. Il padrone si era recato a Bath e a Buxton, ed era tornato claudicando, aiutandosi con il bastone. Quando il cavallo venne venduto, scomparve con lui l'ultima tradizione di Gylingden. Il giovane Lord - veniva chiamato ancora così - non potendo più andare a caccia dopo la disgrazia, si chiuse in una vita solitaria, facendo lente passeggiate intorno alla vecchia proprietà, sollevando di rado gli occhi, ed assumendo un'aria infinitamente triste. Il vecchio Cooper aveva l'abitudine di parlare con franchezza al padrone, e così un giorno, mentre gli porgeva il cappello e il bastone, gli disse: «Dovreste cercare di tirarvi su, Padron Charles!». «Sono passati i bei tempi, vecchio Cooper.» «Secondo me il problema è solo questo: avete qualcosa in mente e non volete dirlo a nessuno. Non fa bene tenersi tutto sullo stomaco. Vi sentire-
ste più leggero dicendolo a qualcuno. Suvvia, di che si tratta, Padron Charlie?» Il Lord lo guardò dritto in faccia con quei suoi occhi grigi e tondi. Gli sembrava che si fosse rotto un incantesimo. Era come la proverbiale proibizione del fantasma che non può parlare finché non viene interrogato. Guardò ansiosamente il vecchio Cooper per qualche secondo, poi sospirò gravemente. «Non è la prima volta che indovini, Cooper, e sono lieto che tu abbia parlato. È un tarlo che ho qui nel cervello da quando sono caduto. Seguimi e chiudi la porta.» Il Lord aprì la porta del salotto di quercia e guardò pensierosamente i dipinti. Era diverso tempo che non entrava lì dentro e, dopo essersi seduto al tavolo, prima di parlare scrutò nuovamente Cooper. «Non è molto, Cooper, ma mi preoccupa, e non lo direi neanche al dottore e al parroco, perché Dio solo sa che cosa penserebbero, anche se è una cosa sciocca. Ma tu sei stato sempre fedele alla mia famiglia, perciò non mi preoccupa dirtelo.» «Dirlo a Cooper, Padron Charles, è come chiuderlo in una cassa e gettarlo in fondo a un pozzo.» «È tutto qui», disse Charles Marston, abbassando gli occhi sulla punta del bastone col quale stava tracciando delle linee e dei cerchi. «Per tutto il tempo in cui sono rimasto come morto, come credevate tutti, sono stato con il vecchio padrone.» Mentre parlava, sollevò nuovamente lo sguardo verso Cooper, poi, con una terribile imprecazione, ripeté: «Sono stato con lui, Cooper!». «Era un brav'uomo, Signore... a modo suo», disse il vecchio Cooper, ricambiando lo sguardo impaurito. «Con me era un buon padrone, e con voi un buon padre, e spero che sia felice. Che il Signore gli dia riposo!» «Ebbene», disse Charles, «il fatto è questo: per tutto il tempo sono stato con lui, o forse lui è stato con me... non so quale delle due cose. Ad ogni modo eravamo insieme, ed io pensavo che non sarei più riuscito ad allontanarmi da lui, e per tutto il tempo continuava ad assillarmi su una cosa. E se è stato questo a salvarmi la vita, Tom Cooper, per... non appena mi sono svegliato non ho più saputo qual era, e credo che avrei dato una mano per saperlo. E se tu hai idea di cosa possa essere... per amor di Dio, non aver paura di parlare, Tom Cooper, perché mi ha minacciato, e sono sicuro che era proprio lui.» Seguì il silenzio.
«E secondo voi cosa potrebbe essere, Padron Charles?», domandò Cooper. «Non ne ho la più pallida idea. Non sono riuscito ancora a scoprirlo. Ho pensato che poteva trattarsi di qualcosa che sapeva sul conto di quel m... farabutto di Scroope, che giurò davanti all'avvocato Gingham che io avevo distrutto certi documenti... io e mio padre. Giuro sulla mia anima, Tom Cooper, che non si è mai sentita una bugia più grossa! Solo che l'avvocato Gingham non vuole fare niente per me, visto che il denaro a Gylingden scarseggia, ed io non posso cambiare legale, dal momento che gli devo un mucchio di quattrini. Ma quel farabutto lo fece; giurò che mi avrebbe fatto impiccare. Disse proprio queste parole: che non avrebbe mai avuto pace finché non mi avesse fatto impiccare. E credo che fosse questo, è molto probabile, ad angustiare il vecchio padrone, ma a me sembra di impazzire. Non riesco a ricordarlo... non ricordo una parola di quello che mi ha detto, a parte il tono incredibilmente minaccioso, e aveva una faccia - il Signore abbia pietà di noi! - orribilmente spaventosa.» «Non ne vedo la ragione. Che il Signore abbia pietà di lui!», disse il vecchio maggiordomo. «Certo che non c'è. Ma tu non devi dirlo a nessuno, Cooper... non dire ad anima viva, bada, che aveva un'espressione cattiva... non una sola parola.» «Che Dio me lo proibisca!», esclamò il vecchio Cooper. «Ma stavo pensando, Signore, stavo pensando che potrebbe essere per la mancanza di rispetto che gli è stata dimostrata lasciandolo senza lapide, senza neanche un nome che dica chi è.» «Ah! Beh, non credo che sia questo. Comunque mettiti il cappello, vecchio Cooper, e vieni con me, perché intendo scoprirlo io stesso.» C'è una stradina laterale che conduce al parco, e da qui al pittoresco cimitero, che sorge in un angolo lungo la strada, nascosto da antichi alberi. Era un bel tramonto autunnale, e luci malinconiche e lunghe ombre si erano diffuse sul paesaggio mentre il Bel Charlie e l'anziano maggiordomo si avvicinavano lentamente al posto in cui avrebbe riposato anche il Bel Charlie, prima o poi. «Quale dei nostri cani ha abbaiato per tutta la notte?», domandò il Lord quando ebbero fatto un po' di strada. «Era uno strano cane, Padron Charles, che si è messo di fronte alla casa. I nostri erano tutti in cortile. Un cane bianco con la testa nera, così mi è parso, e annusava gli scalini che fece costruire il vecchio padrone - Dio lo
assista! - quando gli faceva male il ginocchio. Quando quella bestia è salita su in cima, e si è messa ad abbaiare sotto le finestre, avrei voluto tirarle addosso qualcosa.» «Un momento! Era come quello lì?», disse il Lord, fermandosi di colpo per indicare col bastone un cane bianco-sporco, con una grossa testa nera, che correva intorno a loro due in un ampio cerchio, con quell'aria di incertezza e di biasimo che i cani sanno assumere così bene. Gli fischiò. Era un grosso bulldog mezzo morto di fame. «Deve aver fatto un lungo viaggio: è magro come un chiodo e tutto sporco. E guarda le zampe... sembrano due moncherini», osservò il Lord. «Non è un cane cattivo, Cooper. A mio padre piacevano i bulldog, e aveva un bastardo.» Il cane stava guardando in faccia il Lord con quel tipico muso ingrugnito della sua razza, e il nobile pensò con irriverenza a quanto somigliasse alla faccia da pugile del padre quando questi impugnava il frustino e urlava contro il guardiano. «Fosse per me gli sparerei. Disturberà il bestiame e ucciderà i nostri cani», disse il Lord. «Senti che facciamo, Cooper: dirò al guardiano di occuparsene lui. Quella bestia riuscirebbe ad assalire una pecora, e non intendo sfamarla con i miei cosciotti d'agnello.» Ma il cane non voleva saperne di muoversi. Guardò il Lord con uno sguardo triste e, quando i due uomini ebbero fatto qualche passo, li seguì timidamente. Inutile cercare di levarselo di torno. Correva in circolo intorno a loro, come il cane infernale nel Faust, a parte il fatto che non lasciava una scia di fuoco alle sue spalle. E faceva queste mosse con un'aria così implorante, da commuovere alla fine l'oggetto della sua strana simpatia. Così, alla fine, il nobile lo chiamò di nuovo, lo accarezzò e, per farla breve, lo adottò. Adesso il cane li seguiva impettito, come se fosse sempre appartenuto al Bel Charlie. Cooper aprì il cancelletto di ferro, e il cane gli si mise dietro e li seguì dentro la cappella scoperta. I Marston riposavano in file ordinate sotto il pavimento della piccola costruzione. La cappella era priva di volta; ogni defunto aveva il proprio sepolcro ben delineato dalle mattonelle e sormontato da un coperchio di pietra che recava sulla lastra superiore l'epitaffio. Il vecchio Toby non l'aveva. Sul suo sepolcro c'erano solo l'erba e la fila di piastrelle che indicava dove andava messo il coperchio, qualora la famiglia avesse voluto provvedere a farne costruire uno.
«In effetti sembra un po' trascurato. È compito di mio fratello maggiore, ma se lui non vuole provvedere, ci penserò io, e metterò bene in chiaro che è stato il figlio minore a far deporre la lapide.» Camminarono nel piccolo terreno di sepoltura. Il sole, ormai, era dietro l'orizzonte, e il chiarore metallico emanante dalle nuvole, ancora illuminate dal sole che scompariva, fiammeggiava nel tramonto. Quando Charlie rientrò di nuovo nella cappella, vide il cane seduto sulla tomba del nobile Toby che pareva il doppio di quello che era e che faceva delle mosse talmente curiose da lasciare interdetto il giovane Lord. Se avete mai visto un cane allungato sul pavimento, con un mazzo di valeriana, che si distende, si contorce e si sfrega le mascelle in un'autentica estasi sensuale, allora avete assistito a un fenomeno simile a quello che vide il Bel Charlie. La testa della bestia pareva così grossa, il corpo talmente lungo e sottile, e le giunture così sgraziate e slogate, che il Lord, col vecchio Cooper accanto, rimase a guardarlo con una sensazione di ribrezzo e uno sbalordimento tali da cedere all'impulso di colpirlo ben due volte col bastone. La bestia si riebbe dall'estasi, si rialzò sulle zampe e poi, all'improvviso, si parò davanti al nobile con un ghigno terribile e due occhi luccicanti di furia canina. Un attimo dopo si accucciò tutto obbediente ai piedi del Bel Charlie. «Questa bestia è davvero bizzarra!», disse il vecchio Cooper, lanciandogli un'occhiataccia. «A me piace», disse il Lord. «A me no», disse Cooper. «Ma non deve più entrare qui dentro», aggiunse il nobile. «Non mi stupirebbe se fosse una strega», mormorò il vecchio Cooper, che ricordava molte storie di stregoneria oramai dimenticate in quella parte del mondo. «È un bravo cane», disse il Lord con voce sognante. «Se penso che un tempo mi sarei fatto in quattro per lui... Ma adesso non faccio più niente per niente. Vieni qui.» Si abbassò ad accarezzarlo, e il cane sollevò le zampe e lo guardò negli occhi come se cercasse un segno, anche il più piccolo, al quale obbedire. A Cooper non piaceva neanche un po', e non riusciva a capire che cosa ci trovasse di bello il padrone. Lo teneva per tutta la notte nella sala delle armi, e il cane lo accompagnava nelle sue passeggiate zoppicanti intorno alla casa. Più il padrone si affezionava alla bestia, e meno questa riusciva simpatica a Cooper e agli altri servitori.
«Quel cane non ha nulla di buono», mugugnava il vecchio Cooper. «Secondo me, Padron Charlie è cieco. E il vecchio Capitano», (un anziano pappagallo rosso incatenato con una zampetta al trespolo del salotto di quercia che parlava da solo e beccava il trespolo per tutto il giorno), «...il vecchio Capitano, l'unico ancora in vita oltre a me e al Signore che ricordi il vecchio padrone, la prima volta che ha visto il cane ha cominciato a schiamazzare come se l'avessero ferito, scuotendo le penne quasi impazzito, e si è messo a saltare su e giù sul trespolo.» Ma quello che passa per la mente della gente non si può mai sapere, e il Lord era una di quelle persone testarde che si ostinano nei propri capricci quanto più trovano opposizione alla realizzazione dei loro desideri. Le condizioni delle sue gambe, tuttavia, continuavano a peggiorare. Il passaggio da una vita attiva e sportiva ad una statica aggravava infatti la sua salute, ed egli cominciò a soffrire di tutta una serie di disturbi dispeptici che non avrebbe mai immaginato. Tra questi il frequente problema del sonno tormentato da sogni ed incubi, nei quali compariva invariabilmente il suo cane prediletto, che vi aveva spesso una parte centrale o si presentava a volte come una figura solitaria. In queste visioni la bestia allungava le zampe sul letto del gentiluomo e poi, assumendo proporzioni gigantesche, si accucciava ai suoi piedi mostrando una somiglianza spaventosa con la faccia da pugile del vecchio Toby, agitando la testa e sollevando il muso. Quindi gli parlava di Scroope, dicendogli che «le cose non andavano troppo bene» e che «doveva riappacificarsi con Scroope», e che lui, il vecchio, «gli aveva giocato un brutto tiro», che «l'ora era vicina», che «quello che era giusto era giusto», e che il vecchio, nel posto in cui si trovava, «era preoccupato per Scroope». Poi, nel sogno, la bestia semiumana gli si avvicinava alla faccia, passandogli sul corpo pesante come piombo, e cominciava a torcere le zampe e fargli quelle ripugnanti carezze che Charles gli aveva visto fare sulla tomba del vecchio Lord. Allora si svegliava gridando, col fiato corto, e si metteva seduto sul letto, completamente madido di sudore, con la sensazione di vedere qualcosa di bianco che si allontanava dai piedi del letto. Certe volte pensava che fosse la tendina bianca caduta sul letto o il copriletto scivolato giù per via del suo sonno agitato, ma in certi momenti aveva la netta impressione di vedere qualcosa di bianco che si allontanava velocemente dal letto. E, ogni volta che faceva uno di questi sogni, il cane, la mattina dopo, era più espansivo e servile del solito, come se volesse fargli dimenticare la sensazione di disgusto e di orrore che gli aveva lasciato la
notte. Il dottore tranquillizzò in parte il Bel Charlie dicendogli che quei sogni non avevano nulla di strano, essendo con tutta probabilità collegati ai problemi di digestione di cui soffriva. Per un po', quasi a conferma di tale teoria, il cane non comparve più, ma alla fine Charles ebbe una visione più sgradevole che mai, nella quale la bestia assumeva di nuovo il ruolo centrale. Nell'incubo la stanza pareva completamente buia: sentiva il cane che si avvicinava lentamente al suo letto dalla porta, accostandosi al lato su cui si metteva sempre. Una parte della camera non aveva tappeto, e da lì giungevano i passi felpati caratteristici di un cane. Malgrado fossero estremamente leggeri, ad ogni passo tutta la stanza tremava violentemente. Poi sentiva qualcosa che si posava ai piedi del letto, e vedeva due occhi verdi che lo fissavano nel buio, magnetizzando il suo sguardo. E poi gli pareva di udire il vecchio Toby che lo avvertiva: «L'undicesima ora è passata, Charlie, e tu non hai fatto niente... Tu ed io abbiamo fatto a Scroope un torto!». Altre parole, quindi: «L'ora è giunta... sta per colpire». E con un lungo ringhio cupo, la creatura cominciava a strisciare avanti; il ringhio proseguiva, e il nobile vedeva il riflesso degli occhi verdi sulle lenzuola, mentre la bestia si avvicinava lentamente con tutto il corpo verso la sua faccia. Il Bel Charles si svegliò con un urlo. La lampada, che negli ultimi tempi aveva preso l'abitudine di portarsi in camera, si era incidentalmente rotta. Aveva paura di alzarsi, perfino di guardarsi intorno, tanto era certo di sentirsi addosso quegli occhi verdi che lo scrutavano da qualche angolo. Si era appena ripreso dal turbamento in cui ti lascia un incubo al risveglio, e stava cominciando a riordinare i pensieri, quando udì l'orologio battere la mezzanotte. Allora ripensò alle parole: «L'undicesima ora è passata... l'ora è giunta... sta per colpire», ed ebbe quasi il terrore di sentire nuovamente la voce che ripeteva quelle frasi. Il mattino dopo scese giù con il viso stravolto. «Vecchio Cooper, conosci una stanza», disse, «che un tempo chiamavano la Camera di Re Erode?» «Certo, Signore. La storia di Re Erode era affissa al muro, quand'ero ragazzo.» «Dovrebbe esserci uno stanzino lì dentro, giusto?» «Non ne sono sicuro, ma credo che non valga la pena entrarci. Le tende sono marcite e sono state tolte dalle pareti prima della vostra nascita, e l'unica cosa che ci è rimasta sono vecchi oggetti rotti e mobili sgangherati.
Ho visto io stesso il povero Twinks metterceli dentro; era rimasto orbo da un occhio, così l'avevano fatto lacchè. Vi ricordate di lui? Morì in questa casa all'epoca della grande nevicata. Fu una bella faticaccia seppellirlo, povero Twinks!» «Prendi la chiave, Cooper. Voglio dare un'occhiata a quella camera», disse il gentiluomo. «E che diavolo cercate, lì dentro?», domandò Cooper con il tono permesso un tempo ai maggiordomi di campagna. «E a te che diavolo importa? Comunque te lo dico lo stesso. Non voglio più tenere il cane nella sala delle armi. Vorrei metterlo da qualche altra parte, e lì dentro potrebbe andare bene.» «Un bulldog in una camera da letto! Signore, la gente dirà che vi ha dato di volta il cervello!» «Lascia che parlino. Va' a prendere la chiave e andiamo a dare un'occhiata alla stanza.» «Fareste bene a sparargli, Padron Charlie. Non immaginate che baccano ha fatto tutta la notte nella sala delle armi, camminando su e giù come una tigre in gabbia. E poi, dite quello che vi pare, ma quella bestia non merita d'essere nutrita: non è un cane, è un cagnaccio.» «Conosco i cani meglio di te... e ti dico che è un buon cane!», disse il Lord, ostinato. «Se aveste un po' di giudizio, lo fareste impiccare», borbottò Cooper. «Non ho nessuna intenzione di farlo, e la discussione finisce qui. Va' a prendere la chiave, e tieni la bocca chiusa mentre scendi. Potrei cambiare idea.» In realtà, questo strano capriccio di andare a vedere la camera di Re Erode rispondeva a uno scopo completamente diverso da quello dichiarato dal gentiluomo. La voce udita nell'incubo gli aveva impartito un ordine preciso, e non gli avrebbe dato pace finché non le avesse obbedito. Tutt'altro che preoccupato per il cane, adesso cominciava a guardarlo con un orrendo sospetto; e se il vecchio Cooper non lo avesse contrariato, oserei dire che si sarebbe sbarazzato dell'inquilino quella sera stessa. Salì insieme al vecchio Cooper le scale che conducevano al terzo piano, da lungo tempo in disuso. Alla fine di una polverosa galleria c'era la porta della camera. L'antica tappezzeria dalla quale la stanza aveva preso il nome, era stata sostituita molto tempo prima dalla carta, la quale trasudava umidità e si era scollata in diversi punti dalle pareti. Il pavimento era ricoperto da uno strato di polvere. In fondo alla stanza erano state ammucchia-
te sedie e tavole rotte sulle quali si era posata una coltre di polvere. Entrarono nello stanzino, che era quasi vuoto. Il gentiluomo si guardò intorno, difficile dire se con sollievo o delusione. «Niente mobilio», osservò il gentiluomo, e si mise a scrutare dalla finestra polverosa. «Non mi hai detto qualcosa, ultimamente - non intendo stamattina - a proposito di questa camera o dello stanzino, che adesso non ricordo più?» «Dio vi benedica! No. Erano quarant'anni che non pensavo più a questa camera.» «Non c'è un vecchio mobile, un buffet, che tu ricordi?», domandò il gentiluomo. «Un buffet? Ah, sì... c'era un buffet in questo stanzino, una volta, adesso che me lo fate venire in mente», disse Cooper. «Ma è stato rivestito di carta.» «E che cos'è?» «Un ripostiglio a muro», rispose il vecchio. «Capisco... Ed è rimasto qui dentro, sotto la carta? Mostrami in che punto era.» «Dunque... mi sembra che stesse qui», rispose il maggiordomo picchiando con le nocche sul muro di fronte alla finestra. «Sì, eccolo», disse, sentendo che rispondeva il suono cupo di una porta di legno. Il gentiluomo tolse via tutta la carta dalla parete, e scoprì le ante di un ripostiglio incassato nel muro. «Il posto adatto per le mie pistole e tutto il mio ciarpame», disse il gentiluomo. «Andiamocene. Lasceremo il cane dov'è. Hai la chiave di quel ripostiglio?» Cooper non l'aveva. Il vecchio padrone l'aveva svuotato e chiuso a chiave, ordinando che venisse ricoperto con la carta, e la storia era finita lì. Il gentiluomo scese giù e prese un robusto cacciavite dalla cassettina degli attrezzi, dopodiché risalì tranquillamente alla camera di Re Erode dove, senza troppa difficoltà, riuscì a forzare la serratura del ripostiglio. Al suo interno trovò delle lettere e dei contratti d'affitto annullati, e anche un incartamento legale che portò alla finestra e lesse con molta trepidazione. Si trattava di un atto supplementare redatto circa due settimane dopo gli altri e precedente il matrimonio di suo padre, con il quale Gylingden veniva assegnata al figlio maggiore, il cosiddetto «erede maschio». Il Bel Charlie, nel corso della causa con il fratello, aveva acquisito una certa perizia tecnica, sicché conosceva benissimo l'effetto che quel documento avrebbe pro-
dotto, non solo facendo passare la casa e i terreni nelle mani di Scroope, ma lasciando anche lui alla mercé del dissanguato fratello, che avrebbe potuto esigere la restituzione di ogni ghinea ricavata dagli affitti dal giorno della morte del padre. Era una giornata triste e nuvolosa, vagamente minacciosa, e il buio della stanza veniva reso ancora più opprimente dalla cima di un enorme albero che copriva la finestra. In uno stato di confusione terribile cercò di riflettere bene sulla propria situazione. Si mise in tasca il documento, propenso a distruggerlo. Poco tempo prima non avrebbe esitato un attimo a farlo, date le circostanze: ma adesso i suoi nervi erano scossi, e aveva un terrificante sospetto che la strana scoperta confermava energicamente. Mentre era in questo stato di profonda agitazione, udì sniffare dietro la porta dello stanzino, poi grattare con impazienza e ringhiare cupamente. Raccogliendo tutto il coraggio senza sapere che cosa aspettarsi, aprì la porta e vide il cane... e stavolta non era un sogno. La bestia tremava di gioia, si accucciava e gli faceva le feste con sottomissione. Poi, girando intorno alla credenza, si mise a ringhiare spaventosamente, in preda a un'incontrollabile agitazione. Infine tornò da lui, gli fece le feste e si accucciò di nuovo ai suoi piedi. Superato il primo momento, l'orrore e la paura cominciarono a passare, e il gentiluomo quasi si rimproverò per aver ricambiato l'affetto di quel povero bestione solitario con un'antipatia che non si meritava affatto. Il cane lo seguì giù per le scale. Cosa strana, la vista dell'animale, dopo il primo attimo di repulsa, lo rassicurava: aveva uno sguardo così affettuoso, così devoto, da povero cane. Prima di sera il gentiluomo aveva preso una decisione di compromesso: non avrebbe messo il fratello al corrente della scoperta, ma non avrebbe neanche distrutto il documento. Non si sarebbe mai sposato: ormai l'età era passata. Avrebbe lasciato una lettera in cui rivelava l'esistenza dell'atto di donazione indirizzata all'unico beneficiario superstite - il quale, probabilmente, aveva dimenticato tutto - facendo sì che tutto tornasse in ordine dopo la sua morte. Non era onesto? Ad ogni modo, quel diabolico compromesso metteva a tacere la sua coscienza e, quando scese il tramonto, il Lord uscì fuori a fare la consueta passeggiata. Quando rincasò, al crepuscolo, il cane, che come al solito lo stava aspettando, cominciò a dimostrarsi nervoso. Inizialmente gli saltava intorno compiendo ampie giravolte, quasi al massimo della velocità, tenendo la te-
sta tra le zampe. Poi, poco a poco, divenne sempre più eccitato, descrivendo giravolte più serrate e ringhiando con maggiore ferocia, tanto che il gentiluomo, vedendo quello sguardo lucido, temendo che lo attaccasse, si fermò e si appoggiò con forza al bastone. Girandosi continuamente intorno per sorvegliare la bestia e colpendo a vuoto con il bastone, alla fine si era stancato a tal punto da disperare quasi di riuscire a tenerla a bada quando, all'improvviso, il cane si fermò e si accucciò ubbidiente ai suoi piedi. Non poteva trovare un modo più efficace e sottomesso per scusarsi e, quando il Lord gli assestò due pesanti colpi di bastone, il cane si limitò ad uggiolare e gli leccò i piedi. Il gentiluomo si mise a sedere sul tronco di un albero caduto, e il suo muto compagno, ritrovando immediatamente lo spirito, cominciò ad annusare e ruzzare tra le radici. Il gentiluomo controllò il documento che aveva in tasca: era ancora al suo posto. E di nuovo, in quel posto solitario, valutò se era meglio conservarlo dopo la morte sua e del fratello, oppure distruggerlo immediatamente. In verità cominciava a propendere per quest'ultima soluzione, quando il ringhiare cupo del cane, che si aggirava nei pressi, lo fece sobbalzare. Si trovava in un malinconico boschetto di vecchi alberi che declinava dolcemente ad ovest. Il medesimo effetto bizzarro di luce che ho descritto in precedenza, un debole chiarore rosso rimasto in cielo dopo il tramonto del sole, conferiva all'incipiente oscurità una persistente luminescenza. Il boschetto, accoccolato in un dolce incavo del terreno, con quella forma circolare che delimitava l'orizzonte su tre lati, ispirava una peculiare sensazione di solitudine. Si alzò in piedi e scrutò da una sorta di barriera naturale formata da alberi caduti l'uno sull'altro, e dall'altra parte vide il cane che si allungava orrendamente, col suo brutto testone che, visto da quel punto, sembrava il doppio. Stava rivivendo il sogno. E tra i tronchi apparve il muso della bestia, seguito dal lungo collo che si intrufolava tra le fronde e poi dal corpo attorcigliato come quello di un enorme lucertolone bianco. E, mentre si infilava contorcendosi tra i tronchi, il cane ringhiava e lo guardava inferocito come se volesse sbranarlo. Al massimo della velocità consentitagli dalla gamba zoppa, il gentiluomo abbandonò di corsa quel luogo solitario dirigendosi verso casa. I pensieri che gli passarono per la testa in quel momento sono sicuro che non li avrebbe rivelati a nessuno. Ma, quando il cane lo raggiunse, gli parve che si fosse calmato, che fosse perfino allegro, e non più la bestia che lo tormentava nei sogni. Quella notte, intorno alle dieci, il nobile, molto agitato, mandò a chiama-
re il guardiano, e gli disse che doveva uccidere il cane poiché riteneva che fosse impazzito. Poteva sparargli direttamente nella sala delle armi: un paio di proiettili nella carta del muro non avrebbero avuto importanza, e il cane, in tal modo, non avrebbe potuto scappare. Il signore consegnò al guardacaccia la propria doppietta caricata a pallottole, ma non volle seguirlo oltre l'ingresso. Posò una mano sul braccio dell'uomo, e il guardiano si accorse che tremava, e che sembrava «pallido come un morto». «Ascolta», disse il Lord a bassa voce. Sentirono il cane che si muoveva nella stanza in uno stato di grande eccitazione: ringhiava minacciosamente, saltava sul davanzale della finestra e poi si metteva a correre per tutta la sala. «Devi essere deciso, bada bene! Non dargli l'opportunità di attaccare. Portati di fianco, capito? E scaricagli addosso la doppietta!» «Non è il primo cane impazzito che sistemo, Signore», disse l'uomo, assumendo un'espressione molto seria mentre inclinava il fucile. Non appena il guardacaccia aprì la porta, il cane si infilò dentro il camino vuoto. L'uomo esclamò che non aveva mai visto «un demonio simile». La bestia si girò su se stessa, come se volesse saltare dentro la cappa, e lanciò un urlo... un urlo non da cane, ma da uomo finito sotto la macina del mulino e, prima che potesse saltare, il guardacaccia gli sparò. Il cane balzò verso di lui, ricevendo una seconda scarica di fucile alla testa, quindi si acquattò ansimando ai piedi dell'uomo. «Mai vista una bestia come questa. Mai sentito un cane urlare a quel modo!», disse il guardiano, riavendosi dallo stupore. «Mi ha messo i brividi!» «È morto veramente?», domandò Lord Charles. «Non si muove neppure un pelo», rispose l'uomo, trascinandolo sul pavimento per il collo. «Adesso portalo fuori», disse il padrone, «poi, stanotte, buttalo fuori dal cancello. Il vecchio Cooper dice che è una strega reincarnata», aggiunse sorridendo, «perciò non può essere seppellito dentro la proprietà.» Adesso che era stato eliminato il cane, non esisteva uomo più felice del nobile, e per tutta la settimana successiva egli dormì come non faceva più da giorni e giorni. Quando si prende una saggia decisione è bene agire subito, perché c'è una certa tendenza al male che, se lasciata libera, finisce per soffocare la buona intenzione iniziale. Anche se in un momento di paura superstiziosa
il Lord si era deciso al grande sacrificio di agire onestamente verso il fratello, dopo un po', infatti, aveva optato per il compromesso, rimandando la restituzione dell'eredità a un periodo successivo in cui il fratello non avrebbe più potuto goderne. Poi arrivarono nuovi messaggi minatori e violenti da parte di Scroope, i quali ripetevano sempre la medesima minaccia, che non avrebbe lasciato nulla di intentato, cioè, per dimostrare che esisteva un documento che Charles aveva nascosto o distrutto, e che non avrebbe mai avuto pace finché non l'avesse visto impiccato. Ovviamente erano solo parole. All'inizio, Charles si era semplicemente irritato, ma adesso che sapeva e che era colpevole, era sopraggiunta la paura. L'esistenza del documento lo metteva in pericolo e, poco a poco, giunse alla decisione di distruggerlo. Ebbe molti tentennamenti e ripensamenti prima di risolversi a commettere il crimine, ma alla fine lo fece, e si sbarazzò di quello che col tempo avrebbe potuto trasformarsi nello strumento della sua disgrazia e della sua rovina. Quando l'ebbe fatto si sentì sollevato, ma provò anche un nuovo e terribile senso di colpa. Ormai non aveva più timori superstiziosi: era un problema di natura differente ad agitarlo. Ma quella notte immaginò di essere svegliato da un violento scossone del letto. Nella luce fioca che regnava nella stanza, vide due figure ai piedi del letto, appoggiate alle colonne. Una somigliava a suo fratello Scroope, mentre l'altra era sicuramente il vecchio Lord, ed erano stati loro a destarlo dal sonno. Quando Charlie si svegliò, il genitore stava parlando, e diceva: «Buttati fuori da casa nostra da te! Ma non durerà per molto. Torneremo insieme, da buoni amici, e ci resteremo. Eri stato avvertito di tenere gli occhi ben aperti... e adesso Scroope ti impiccherà! Ti impiccheremo insieme! Guardami, figlio del demonio!». E il vecchio, tremando, avvicinò la faccia, che era crivellata di pallottole e ricoperta di sangue, e somigliava sempre di più a quella di un cane. Poi cominciò ad arrampicarsi sul letto, e Charles vide che anche l'altro personaggio, poco più di un'ombra, faceva altrettanto, e nella camera, all'improvviso, scoppiò una terribile confusione, con botti, strepiti e risa. Non riusciva a distinguere le parole, e poi si svegliò con un urlo, ritrovandosi in piedi sul pavimento. I fantasmi e il fracasso erano spariti, ma gli restava ancora nelle orecchie l'eco del frastuono. La grande caraffa di porcellana, con la quale erano state battezzate generazioni di Marston, era caduta dalla mensola del camino, fracassandosi sulla pietra del focolare. «Ho sognato per tutta la notte il signor Scroope, e non mi meraviglierei,
vecchio Cooper, se fosse morto», disse il nobile quando, la mattina dopo, scese giù. «Misericordia divina! L'ho sognato anch'io, Signore. Ho sognato che si dibatteva e sprofondava in una fossa, e il vecchio padrone, Dio lo benedica - giurerei che era proprio lui - l'ho sentito chiaramente che mi diceva: "Cooper, alzati, m... ladro vagabondo, e dammi una mano a impiccarlo... che è una stupida carogna, non è il mio cane". Parlava del cane ammazzato l'altra notte, penso, e quello che mi diceva mi ronzava dentro questa vecchia zucca. Il padrone mi diede un pugno, e io mi svegliai e dissi: "Al vostro servizio, Signore", e per un po' non riuscii a togliermi dalla testa l'idea che il padrone fosse ancora nella camera.» Certe lettere giunte dalla città, tuttavia, convinsero ben presto il Lord che il fratello Scroope, ben lungi dall'essere morto, era vivo e vegeto e si stava dando particolarmente da fare. E l'avvocato, seriamente allarmato, scrisse a Charlie che per caso aveva sentito che suo fratello intendeva portare in tribunale un atto di donazione supplementare, del quale possedeva una copia, che gli avrebbe fatto riavere Gylingden. Nel sentire tale minaccia, il Bel Charlie schioccò le dita e scrisse coraggiosamente al proprio avvocato di aspettare quello che succedeva, ma aveva uno strano presentimento. Adesso Scroope lo minacciava forte, lo ingiuriava com'era suo solito, e ripeteva la vecchia promessa che alla fine lo avrebbe fatto impiccare. Nel bel mezzo delle minacce e dei preparativi legali, però, si ebbe improvvisamente la pace: Scroope morì, senza avere nemmeno il tempo di preparare un'offensiva contro il fratello. Fu uno di quegli attacchi di cuore in cui la morte arriva sparata come un proiettile. L'esultazione di Charlie fu manifesta, ma non maligna, perché significava la fine della sua segreta paura. Ed ebbe anche la paradossale fortuna che, proprio il giorno prima, Scroope aveva distrutto il vecchio testamento - in cui lasciava tutti i suoi averi ad uno sconosciuto - con l'intenzione di dettarne un altro nel giro di due giorni a favore della medesima persona, con la condizione aggiuntiva che questa proseguisse la causa contro Charlie. Il risultato fu che tutti i suoi beni passarono incondizionatamente al fratello Charles e ai suoi eredi: un motivo di autentico giubilo. Ma restava anche l'odio profondo di metà di una vita passata in mutue offese e insulti: e il Bel Charlie era capace di nutrire rancore e godere della vendetta con tutto il cuore. Avrebbe volentieri impedito che il fratello venisse sepolto nell'antica
cappella di Gylingden, dove lui desiderava essere seppellito, ma i suoi legali gli dissero che dubitavano molto che potesse prendersi un tale diritto. Inoltre non era immune allo scandalo che sarebbe scoppiato se non avesse partecipato al funerale al quale, come sapeva, sarebbe intervenuta quasi tutta la nobiltà di campagna, più altra gente che stimava i Marston. Tuttavia impose ai propri servitori di non partecipare alle esequie del fratello, minacciando, con strilli e improperi, che avrebbe chiuso la porta in faccia a chiunque avesse disubbidito ai suoi ordini. Personalmente non credo, ad eccezione del vecchio Cooper, che ai servitori importasse molto della proibizione fatta loro, a parte il fatto che accendeva una forte curiosità in quell'angolo solitario di campagna. Cooper era molto contrariato dal fatto che il figlio maggiore del vecchio gentiluomo venisse sepolto nell'antica cappella di famiglia senza che Gylingden Hall gli mostrasse il dovuto rispetto. Domandò al padrone se aveva almeno l'intenzione di far servire del vino e dei rinfreschi nel salotto di quercia, nel caso qualche gentiluomo di campagna fosse venuto in casa a presentare i propri rispetti alla famiglia. Ma il Lord lo prese a male parole, gli disse di pensare agli affari suoi e gli ordinò di dire, in questa eventualità, che lui era fuori e che non era stato fatto alcun preparativo, e di mandare via chiunque immediatamente. Cooper dissentì apertamente, il nobile si adirò ancora di più e, dopo una scena tumultuosa, prese bastone e cappello ed uscì, proprio mentre si vedeva il corteo funebre che scendeva a valle dalla collina dell'Old Angel Inn. Il vecchio Cooper se ne andava in giro sconsolato, contando le carrozze che passavano davanti al cancello. Quando il funerale finì e la gente cominciò ad andarsene, tornò verso casa, la quale, come al solito, era deserta. Prima di raggiungerla, però, arrivò una carrozza funebre, dalla quale scesero due gentiluomini con i mantelli neri e i cappelli con la fascia nera che salirono le scale di casa senza guardare in faccia nessuno. Cooper li seguì piano piano. La carrozza, dedusse, doveva essersi spostata dall'altra parte del cortile perché, quando arrivò all'ingresso, non c'era più. Così seguì dentro i due uomini in lutto. Nell'atrio trovò un servitore che gli disse di aver visto due signori con i mantelli neri che attraversavano l'ingresso e salivano su per le scale senza levarsi il cappello e senza chiedere il permesso a nessuno. Era un comportamento molto strano, pensò il vecchio Cooper, e anche ineducato, così decise di salire su anche lui ad indagare. Tuttavia non li trovò da nessuna parte, neppure in seguito. Ma, da quel
momento in poi, la casa non ebbe più pace. Non c'era domestico che non avesse qualcosa da raccontare. Passi e voci che li seguivano per i corridoi, mezzi sussurri, sempre minatori, che li atterrivano agli angoli delle gallerie o nei punti più bui. In preda al panico, correvano a riferirlo alla signora Beckett, ma questa non dava nessun credito a storie simili. Dopo un po', tuttavia, la stessa signora Beckett cominciò a cambiare parere. Anche lei, infatti, cominciava a sentire queste voci, e per di più con l'aggravante che arrivavano sempre quando recitava le preghiere - dovere che la donna non scordava mai di adempiere da tutta una vita - interrompendola all'improvviso. La spaventavano con mezze parole e frasi che si trasformavano, se lei continuava a pregare, in minacce e imprecazioni blasfeme. Le voci non venivano sempre dalla stanza. La chiamavano, così le pareva, attraverso i muri spessi della casa, degli appartamenti vicini, a volte da uno e a volte dall'altro; certe volte sembravano echeggiare da androni lontani, e giungevano soffocate, ma minacciose, dai lunghi corridoi pannellati. Mano a mano che si avvicinavano diventavano furiose, come se parlassero tutte insieme. Ogni volta, come ho detto, che questa pia donna si applicava alla preghiera, sentiva quelle frasi orribili, e allora, presa dal panico, si rialzava di colpo dalla genuflessione, e tutti i rumori istantaneamente tacevano, tranne i tonfi sordi del suo cuore e i tremiti dei suoi nervi. Che cosa dicessero le voci, la signora Beckett non lo ricordava più non appena queste cessavano di parlare. Ogni frase copriva l'altra; allusioni, minacce e denunce si perdevano nell'aria non appena pronunciate. E il fatto che lei, malgrado ogni sforzo, non riuscisse a ricordare il contenuto esatto di quelle invettive terrificanti, sebbene le restasse ben impresso nella mente il loro carattere orribile, peggiorava decisamente le cose. Per un po' il signore parve l'unica persona in tutta la casa a restare completamente immune da simili disturbi. La signora Beckett aveva deciso ben due volte, quella settimana, di andarsene; essendo una donna prudente, tuttavia, e trovandosi perfettamente a suo agio in quella casa da più di vent'anni, ci stava pensando bene, prima di farlo. La signora e il vecchio Cooper erano gli unici domestici che ricordavano la buona gestione della casa ai tempi del signor Toby; gli altri, non potevano neanche essere considerati attendenti regolari. Meg Dobbs, la cameriera, non dormiva alla residenza, e tornava tutte le sere alla casa del padre sotto la scorta del fratellino. L'anziana signora Beckett, che aveva sempre trattato con distacco i domestici di fortuna della decaduta Gylingden, d'un tratto si lasciò andare
e disse alla signora Kymes e alla cuoca di spostare i loro letti nel suo stanzone dalla carta sbiadita, dove, a dirla sinceramente, condivise i propri terrori notturni con loro. Il vecchio Cooper era capzioso e critico nei confronti di queste storie. Già era abbastanza perplesso per via dell'entrata dei due personaggi vestiti di nero, in merito ai quali non poteva sbagliarsi, dal momento che li aveva visti con i propri occhi. Si rifiutava, però, di credere ai racconti delle donne, cercando di convincersi che i due uomini, non trovando nessuno a riceverli, potevano essersene andati benissimo. Una sera il vecchio Cooper venne convocato nel salotto di quercia dove il padrone stava fumando. «Dico io, Cooper», disse il nobile, che aveva l'aspetto pallido e l'espressione adirata, «perché mai hai deciso di terrorizzare quelle povere donne con le tue storie assurde? M... a me, se cominci a vedere i fantasmi è tempo che tu faccia i bagagli, perché non ho nessuna intenzione di restare senza servitù. Sono venute da me la vecchia Beckett, la cuoca e la cameriera, bianche come la cera, in fila una dietro all'altra, a dirmi che devo far venire un prete a dormire da loro per scacciare il Demonio con le preghiere! Giuro che sei stato proprio bravo a metter loro questi grilli per la testa! E Meg se ne torna a casa sua tutte le sere, terrorizzata all'idea di dormire qui... sempre opera tua, tua e delle tue assurde storie da comare. Hai fatto spaventare anche il vecchio Tom O'Bedlam!» «Non è colpa mia, Padron Charles. Non sono storie che ho messo in giro io, perché io non ho fatto altro che dire a tutti che sono soltanto fantasie e invenzioni. La signora Beckett ve lo può dire, e ci sono state brutte parole tra di noi proprio per questo motivo. A prescindere da quello che penso io», disse il vecchio Cooper con un tono allusivo, guardandolo fisso e leggendo la paura sulla faccia del nobile. Il Lord allontanò gli occhi e borbottò qualcosa tra sé e sé, gli girò le spalle per svuotare la pipa sulla mensola del camino, e poi, bruscamente, si voltò di nuovo verso Cooper, con la faccia pallida ma meno adirata di prima. «Lo so che non sei uno sciocco, Cooper, quando vuoi. Ipotizzando che ci fosse davvero un fantasma, non andrebbe di certo a parlare con quelle beccacce. Di che ti preoccupi, vecchio, se non mi preoccupo io? Una volta facevi funzionare la testa, come diceva mio padre. M..., vecchio mio, non devi permettere che mettano in giro delle chiacchiere che non dovrebbero su Gylingden e sulla famiglia. Sono sicuro che non lo vuoi neanche tu,
vecchio Cooper. Le donne hanno finito in cucina: accendi un po' di fuoco e prendi la pipa... Verrò a farti compagnia quando avrò finito: ci faremo una fumatina insieme e ci berremo un bicchiere di brandy.» L'anziano maggiordomo, avvezzo a simili familiarità in quella casa disordinata e solitaria, scese giù come gli era stato detto: quelli che possono scegliersi le compagnie non siano troppo severi con il nobile che non poteva. Quando ebbe sistemato le cose, si mise a sedere nella vecchia cucina posando i piedi sulla grata del camino; la candela bruciava nel grande candeliere d'ottone sul tavolino accanto al suo gomito, vicino alla bottiglia di brandy, ai bicchieri e alla pipa già carica. Avendo terminato tali preparativi, il vecchio maggiordomo, che ricordava tempi e generazioni migliori, si abbandonò ai ricordi e, poco a poco, si addormentò profondamente. Il vecchio Cooper venne disturbato da una risata leggera che gli giungeva vicino alla testa. Stava sognando dei vecchi tempi nella Sala, e immaginava uno dei «giovani Signori» che stava per fargli uno scherzo. Mormorò qualcosa nel sogno, e poi venne svegliato da una voce severa e profonda che gli diceva: «Non eri al funerale. Potrei toglierti la vita, ma mi accontenterò del tuo orecchio». Nello stesso istante ricevette una spinta violenta alla testa che lo fece saltare in piedi. Il fuoco si era spento, e lui stava gelando. La candela si stava estinguendo, gettando sul muro bianco lunghe ombre che danzavano dal soffitto al pavimento, i cui contorni scuri somigliavano ai due uomini col mantello, che gli tornarono in mente con profondo orrore. Prese immediatamente la candela ed uscì nel corridoio, sulle cui pareti continuavano a danzare quelle ombre scure, con la frenesia di raggiungere la propria camera prima che la fiammella si spegnesse. Il trillo improvviso del campanello del padrone, che suonava furiosamente, gli mise una paura terribile. «Ah, ah! Sentitelo!», disse Cooper, facendosi coraggio nell'udire la propria voce mentre si affrettava a rispondere al furioso suonare del campanello. «Si è addormentato, proprio come è successo a me, e la candela si è spenta...» Quando abbassò la maniglia della porta del salotto di quercia, il Lord esclamò di soprassalto: «Chi è la?», col tono di chi pensa che sia entrato un ladro. «Sono io, il vecchio Cooper, Padron Charlie. Vi aspettavo in cucina, Signore.»
«Sto molto male, Cooper. Hai incontrato qualcuno, venendo qui?», volle sapere il nobile. «No», rispose Cooper. Si guardarono. «Entra... rimani qui! Non mi lasciare. Da' un'occhiata in giro, e dimmi se è tutto a posto. E dammi la mano, vecchio Cooper.» Il Lord era madido di sudore e tremava di freddo. Ormai mancava poco all'alba. Dopo un po' riprese a parlare: «Ho fatto molte cose che non avrei dovuto fare. Non sono pronto ad andarmene, e con l'aiuto di Dio intendo rimediare. Perché non dovrei? Sono zoppo come il vecchio Billy... non sarò mai più capace di fare qualcosa di buono, e smetterò di bere e penserò al matrimonio, come avrei dovuto fare molto tempo fa. Non voglio una signora raffinata, ma una brava donna di casa. C'è la figlia minore del fattore Crump, una brava ragazza molto discreta. Perché non dovrei sposarla? Si prenderebbe cura di me senza esigere smancerie e senza pretendere fronzoli e vestiti. Parlerò con il parroco, e farò quello che è giusto per tutti e, bada, ho detto che mi dispiace di molte cose che ho fatto». Sopraggiunse una gelida alba. Il padrone, disse Cooper, aveva un aspetto terribile e, invece di andarsene a letto, volle prendere cappello e bastone per uscire a fare una passeggiata, con l'ovvia intenzione di evadere da quella casa. Era mezzogiorno quando comparve in cucina, con la certezza di trovare qualche domestico: pareva invecchiato di dieci anni in un giorno solo. Si tirò uno sgabello davanti al fuoco, senza dire una parola, e si mise seduto lì. Cooper aveva mandato a chiamare il dottore ad Applebury, che era appena arrivato, ma Lord Charles non voleva saperne di raggiungerlo. «Se vuole vedermi, che venga qui», borbottò, mentre Cooper lo pregava. E così il dottore andò da lui, e lo trovò in condizioni peggiori di quelle che si aspettava. Il nobile si oppose all'ordine di rimanere a letto, ma il dottore lo spaventò dicendogli che sarebbe morto, sicché alla fine il paziente si arrese. «E va bene, farò come dite. Però dovete permettere al vecchio Cooper e a Dick Keeper di restare con me. Non devo essere lasciato solo, e loro due devono farmi la guardia tutte le notti. Quando mi ristabilirò, andrò a vivere in città. Mi intristisce vivere qui, adesso che non posso più fare quello che facevo prima. In città farò una vita migliore, è sicuro. Voi mi avete sentito, e non mi interessa se rideranno. Parlerò con il parroco. Che ridano pure, e che si impicchino. Significa che è la decisione giusta, alla fin fine.» Il dottore non fu d'accordo sulla compagnia che il Lord si era scelto, e
fece venire due infermiere dall'ospedale della Contea, scendendo a Gylingden di persona a riceverle. Il vecchio Cooper ebbe l'ordine di sistemarsi nello spogliatoio, dove avrebbe fatto la guardia notturna, e tale soluzione soddisfò Lord Charles, il quale versava in uno stato di estrema agitazione, debolezza e minaccia di febbre. Arrivò anche il sacerdote, un vecchietto dolce e istruito sui libri, che rimase a pregare e a parlare con lui fino a tardi. Quando se ne fu andato, il gentiluomo chiamò le infermiere e disse loro: «Ogni tanto viene un tizio: voi non ci badate. Si affaccia alla porta e fa dei cenni. È un tipo magro e gobbo, col cappello a lutto e guanti neri. Lo riconoscerete dalla faccia smunta e scura come la carta del muro. Non fate caso al suo sorriso. Non avvicinatevi e non chiedetegli nulla: lui non parlerà. E se si arrabbia e mi guarda con ira, non abbiate paura, perché non può farvi alcun male, e si stancherà di aspettare e se ne andrà. Per amor di Dio, non invitatelo ad entrare e non lo seguite!». Al termine del colloquio, le infermiere discussero della cosa, e poi decisero di parlarne con il vecchio Cooper. «In nome di Dio! No, non ci sono pazzi in questa casa», protestò questi, «non c'è nessun altro oltre a quelli che vedete... È solo uno scherzo della febbre... nient'altro.» Con il passare della notte le condizioni del nobile peggiorarono. Cadde in delirio, farfugliando di cani, del vino, di avvocati, e poi cominciò a credere di parlare con il fratello Scroope. Nel frattempo la signora Oliver, l'infermiera che sedeva accanto al letto, ebbe l'impressione di udire una mano che si posava piano sulla maniglia esterna della porta e cercava di girarla. «Che Dio ci benedica!», esclamò, con il cuore in tumulto al pensiero di vedere l'uomo gobbo vestito di nero affacciarsi alla porta sorridendo con dei cenni. «Signor Cooper! Signore! Siete voi?», gridò. «Venite qui, signor Cooper, vi prego... presto!» Il vecchio Cooper, svegliato dal pisolino davanti al fuoco, arrivò traballando dallo spogliatoio e, non appena lo vide, la signora Oliver gli afferrò un braccio. «L'uomo gobbo ha cercato di aprire la porta, signor Cooper... è vero come è vero che io sono qui.» Il nobile vaneggiava in preda alla febbre, e non capiva quel che diceva la donna. «No, no! Signora Oliver, madame, è impossibile, perché non c'è nessun gobbo in questa casa. Cosa sta dicendo Padron Charles?» «Continua a ripetere che è Scroope, ma non so cosa significa, e... e...
Shhh! Ascolti... di nuovo la maniglia...» e con uno strillo aggiunse: «Guardi, ha messo la testa e il collo dentro la porta!». Folle di terrore, abbracciò con tutte le forze il vecchio Cooper. La candela stava per spegnersi, e sulla porta c'era un'ombra che pareva la testa di un uomo dal collo lungo e il naso affilato che scrutava dentro la stanza e poi si ritraeva. «Non fate la s... la sciocca, madame!», esclamò Cooper, pallidissimo, scuotendola energicamente. «È solo la candela, ve lo assicuro... non c'è nessuno. Non vedete?» E alzò la luce. «Sono sicuro che non c'era nessuno alla porta, e ve lo dimostrerò, se mi lasciate andare.» L'altra infermiera dormiva sul divano, e la signora Oliver, in preda al panico, la svegliò per avere compagnia mentre il vecchio Cooper apriva la porta. Non c'era nessuno davanti all'uscio, ma all'angolo del corridoio Cooper scorse un'ombra simile a quella che aveva visto nella camera. Sollevò leggermente la candela, e gli parve che l'ombra lo chiamasse con una lunga mano mentre ritirava la testa. «È solo l'ombra della candela!», esclamò il vecchio maggiordomo, deciso a non farsi prendere dal panico com'era successo alla signora Oliver e, con la candela in mano, arrivò fino all'angolo. Non c'era nessuno, ma non poté fare a meno di scrutare nella lunga galleria e, quando mosse la candela, vide la stessa ombra, stavolta un po' più giù, che lo chiamava a gesti. «Sciocchezze!», si disse. «È solo la candela.» Così continuò ad avanzare nel corridoio, in parte irritato e in parte spaventato dalla persistenza di quella strana ombra, perché altro non era. Quando fu vicino al punto in cui la vedeva, l'ombra parve raccogliersi e quasi scomparire nel pannello centrale di un vecchio mobiletto. Il pannello centrale recava scolpita una testa di lupo. La luce della candela la illuminava bizzarramente, e l'ombra fuggitiva parve rompersi e ricomporsi su di essa. Le pupille del lupo brillavano di luce riflessa, la quale illuminava anche le fauci digrignate, e il maggiordomo vide il lungo naso affilato di Scroope Marston e i suoi occhi fieri che lo guardavano minacciosamente. Il vecchio Cooper rimase immobile a guardare, incapace di reagire, prima la faccia, e poi l'intera figura, che uscivano lentamente dal legno. Nello stesso tempo udì avvicinarsi rapidamente delle voci lungo il corridoio, e allora, invocando la misericordia divina, trovò la forza di voltarsi e di correre via, inseguito da un suono che pareva scuotere la vecchia casa come una potente raffica di vento. Il vecchio Cooper entrò precipitosamente nella camera del padrone,
sconvolto dalla paura, quindi afferrò la porta e la chiuse in un baleno, con la faccia di chi è inseguito da un assassino. «Lo sentite?», sussurrò, mettendosi vicino alla porta dello spogliatoio. Le donne si misero in ascolto, ma nemmeno il più piccolo rumore disturbava la quiete della notte. «Dio ci benedica! Credo che la mia vecchia testa sia diventata matta!», esclamò Cooper. Non volle dire niente alle infermiere, continuando a ripetere che era «un vecchio matto», e che ormai gli bastava «un colpo di vento o la caduta di uno spillo» per mettergli paura. Passò tutta la notte a bere brandy e a chiacchierare davanti al fuoco del padrone. Il nobile lentamente si riprese dalla febbre cerebrale, ma non perfettamente. Bastava un'inezia, disse il dottore, a sconvolgerlo. Non era ancora sufficientemente in forze per fargli cambiare aria, cosa necessaria per farlo ristabilire completamente. Cooper dormiva nello spogliatoio, ed era il suo unico attendente notturno. L'invalido aveva strani capricci: gli piaceva stare con la schiena sollevata sul letto a fumare la pipa di terracotta tutte le sere, e diceva al vecchio Cooper di fargli compagnia mettendosi a fumare davanti al fuoco. E così il Lord e il suo umile amico restavano per ore a fumare in silenzio, e soltanto quando aveva finito la terza pipa il padrone di Gylingden apriva la conversazione, e tutte le volte che la cominciava, non era mai l'argomento che Cooper avrebbe gradito. «Ehi, vecchio Cooper, guardami in faccia, e non aver paura di parlare», diceva Lord Charles, guardandolo con un sorriso furbesco. «Hai sempre saputo come me chi c'è in casa. Non c'è alcun bisogno di negarlo, no? Scroope e mio padre, no?» «Non parlate in questo modo, Lord Charles», ribatteva il vecchio Cooper, piuttosto spaventato e sulle sue, dopo un lungo silenzio, continuando a guardarlo in faccia. «A che scopo fingere, Cooper? Scroope si è preso il tuo orecchio destro... lo sai, che è così. Sembra arrabbiato. Non è riuscito a togliermi la vita con questa febbre. Ma con me non ha ancora finito, e sembra che abbia in mente qualcosa di orrendo. Tu l'hai visto... lo sai che è vero.» Cooper era già terrorizzato, e lo strano sorriso del nobile lo spaventava ancora di più. Si toglieva la pipa di bocca e guardava in silenzio il padrone, con la sensazione di vivere in un sogno. «Se è questo che pensate, non dovreste sorridere a quel modo», diceva Cooper.
«Sono stanco, Cooper, e ridere non fa alcuna differenza. Così sorrido finché posso. Lo sai che cosa hanno intenzione di farmi. Volevo dirti soltanto questo. E adesso, amico mio, rimettiti a fumare... voglio dormire.» Così il Lord si girava sul letto e si sdraiava serenamente, con la testa sul cuscino. Il vecchio Cooper lo sorvegliava e lanciava continue occhiate alla porta, si riempiva il bicchiere di brandy, lo ingollava, si sentiva meglio e andava a dormire nello spogliatoio. Una sera venne svegliato nel cuore della notte dal padrone, che era in piedi sul suo letto in vestaglia e pantofole. «Ti ho portato un regalo. Ieri ho riscosso gli affitti di Hazelden, e tu ti terrai la metà... e domani darò l'altra metà a Nelly Carwell, così dormirò meglio. E poi ho visto Scroope. Non è così brutto, in fin dei conti, vecchio mio! Porta un cappello a lutto calato sulla faccia... perché gli ho detto che non potevo sopportarla. Ma adesso farei molte cose per lui. Non ho mai sopportato i tentennamenti. Buona notte, vecchio Cooper!» E il nobile posò delicatamente la mano tremante sulla spalla del vecchio, quindi tornò in camera sua. «Non mi piace per niente lo stato in cui sta. Il dottore viene troppo poco. Non mi piace quel suo sorrisetto strano, e la sua mano era fredda come la morte. Preghiamo Dio che non si sia mangiato il cervello!» Fatte queste riflessioni, Cooper si mise a pensare all'aspetto più piacevole del proprio presente, e alla fine si addormentò. La mattina dopo, quando entrò nella camera del padrone, scoprì che questi si era alzato. «Non importa; tornerà indietro come uno scellino falso», pensò il vecchio Cooper, preparando la stanza come al solito. Ma il Lord non tornò. Allora cominciò l'agitazione, seguita dal panico quando fu chiaro che il nobile non era in casa. Che fine aveva fatto? I vestiti erano ancora là, ma mancavano le pantofole e la vestaglia. Aveva forse lasciato la casa abbigliato in quel modo? E se era così, era ancora sano di mente? Sarebbe riuscito a sopravvivere all'aria aperta, con quel gelo della notte? Poi si presentò Tom Edwards e disse loro che quella mattina, verso le quattro circa - non c'era più la luna - mentre era in compagnia del fattore Nokes, che stava portando il carretto al mercato, aveva visto tre uomini camminare nel buio a meno di venti metri da loro che si dirigevano al cimitero di Gylingden. Qualcuno aveva aperto loro il cancello da dentro, i tre erano entrati e il cancello si era richiuso. Tom Edwards aveva pensato che stessero facendo dei preparativi per il funerale di uno dei membri della famiglia Marston. A Cooper, invece, che sapeva che non era così, il fatto
parve di pessimo augurio. Così cominciò un'attenta ricerca in tutta la casa, e alla fine gli venne in mente il piano disabitato con la camera di Re Erode. Non vi trovò nulla di cambiato, ma la porta dello stanzino era chiusa e nell'oscurità del primo mattino, vide una specie di batuffolo bianco e grosso sulla porta. Inizialmente la porta non volle saperne di aprirsi, perché un grosso peso la teneva incollata al pavimento; ma alla fine cedette, e con un cigolio tremendo che fece rimbombare tutti i corridoi deserti, si aprì con un rumore somigliante ad una risata che si allontanava e talmente forte da stordire. Quando Cooper aprì la porta, trovò il padrone morto sul pavimento. Il fazzoletto da collo gli stringeva la gola come un capestro, e aveva fatto bene il proprio lavoro. Il corpo era freddo: il decesso era avvenuto da diverse ore. A tempo debito venne fatta un'inchiesta, e il giudice disse che «Il deceduto, Charles Marston, si era ucciso con le sue stesse mani in un attimo di insanità mentale». Ma il vecchio Cooper aveva una sua opinione al riguardo, anche se tenne le labbra chiuse e non ne parlò mai a nessuno. Si trasferì a York, dove passò il resto della sua vita, e dove chi lo ricorda ne parla come di un vecchio acido e taciturno che andava in chiesa regolarmente e ogni tanto alzava il gomito. Si diceva che avesse messo da parte parecchio denaro. ELIZABETH CLEGHORN GASKELL La storia della vecchia nutrice Come sapete, bambini miei, vostra madre era orfana e figlia unica. Avrete anche sentito dire che vostro nonno era un uomo di chiesa su nel Westmoreland, dove io sono nata. Io ero soltanto una ragazzina, e frequentavo la scuola del villaggio, quando un giorno vostra nonna venne a chiedere alla direttrice se c'era qualche alunna disposta a fare la bambinaia. Mi sentii molto orgogliosa, ve lo posso garantire, quando la direttrice fece il mio nome e mi descrisse come una ragazza forte, onesta e brava a cucire; disse che i miei genitori erano persone molto rispettabili, anche se erano poveri. Pensai che nulla mi sarebbe piaciuto di più che servire presso quella giovane, graziosa signora, che arrossiva violentemente, come capitava a me, quando parlava del bambino che stava per nascere, e di quello che avrei dovuto fare per prendermi cura di lui. Ma vedo che questa parte della mia storia non vi interessa molto, e che aspettate invece con ansia che io arrivi
a parlare di quel che accadde dopo: ci arriverò subito, non temete. Fui dunque assunta e mi trasferii nella parrocchia, prima che la signorina Rosamond (la bambina che venne al mondo allora, e che adesso è vostra madre) nascesse. Per essere sincera, io avevo ben poco da fare quando lei arrivò, perché sua madre non la lasciava mai, e dormiva con lei persino la notte. Io mi sentivo molto orgogliosa quando, ogni tanto, la signora si fidava a lasciarmela. Non ci fu mai, e non credo vi sarà neppure in futuro, una creatura come lei, sebbene voi tutti, a vostra volta, siate stati piuttosto belli. Ma quanto a dolcezza e grazia nessuno di voi ha potuto esser pari a vostra madre, che assomigliava in tutto a vostra nonna, che aveva nel sangue il carattere di una vera signora; era la nipote di Lord Furnivall del Northumberland. Credo non avesse né fratelli né sorelle, ed era cresciuta nella famiglia del mio padrone, fino a quando non sposò vostro nonno, che era solo un curato, figlio di un negoziante del Carlisle - comunque era un uomo bello e intelligente - il quale si dedicava instancabilmente alla sua parrocchia, che era molto vasta e si estendeva fino ad oltre Westmoreland Fells. Quando vostra madre, la piccola signorina Rosamond, aveva quattro o cinque anni, i suoi genitori morirono a distanza di due settimane l'uno dall'altro. Ah, che tristi tempi furono! La mia graziosa e giovane signora ed io ci stavamo preparando all'arrivo di un altro bambino, quando il mio padrone tornò a casa un giorno da una delle sue lunghe cavalcate, esausto e fradicio, e s'ammalò della febbre di cui poi morì; lei non si riprese più da quel colpo; ma visse quanto bastò per vedere, prima di esalare l'ultimo respiro, il suo bambino che le veniva poggiato sul petto, morto. La mia padrona, dal suo letto di morte, mi aveva pregato di non abbandonare mai la signorina Rosamond; ma anche se non m'avesse detto nulla, avrei seguito la piccola fino in capo al mondo. Subito dopo, ancora prima che i nostri singhiozzi si fossero spenti, giunsero gli esecutori testamentari e i tutori, a sistemare gli affari. Erano il cugino della mia povera signora, Lord Furnivall, e il signor Esthwaithe, un negoziante di Manchester, fratello del padrone. Non era ancora ricco come divenne poi, e aveva una famiglia molto numerosa. Bene! Non so se fu una loro decisione, o se dipese da una lettera che la mia padrona aveva scritto dal suo letto di morte a suo cugino, il mio padrone; comunque sia, venne stabilito che la signorina Rosamond ed io dovessimo andare a stare nella residenza dei Furnivall, nel Northumberland. Il mio padrone ci fece capire che era stato desiderio della madre che la bimba vivesse con la famiglia,
cosa cui non aveva nulla da obiettare, perché una persona o due in più non avrebbero fatto differenza in una casa tanto grande. Così, sebbene non fosse questo il modo in cui avrei voluto fosse considerato l'arrivo della mia beniamina - che, graziosa e bella com'era, avrebbe dovuto essere salutata come un raggio di sole da qualunque famiglia, per quanto numerosa fosse provai un certo compiacimento, perché tutta la gente di Dale avrebbe sgranato tanto d'occhi alla notizia che io sarei diventata la cameriera della giovane signora nella residenza di Lord Furnivall, Furnivall Manor. Ma sbagliavo quando credevo che saremmo andate a vivere con il padrone. Scoprii che la famiglia aveva lasciato Furnivall Manor da cinquant'anni o più. Non riuscii a sapere se la mia povera signora vi era mai stata, anche se era cresciuta presso la famiglia; e io me ne rattristai, perché mi sarebbe piaciuto che la signorina Rosamond trascorresse la sua giovinezza negli stessi luoghi in cui era cresciuta sua madre. Gli uomini del mio padrone, a cui, quando ne ebbi l'ardire, feci molte domande, mi dissero che la Manor House si trovava ai piedi di Cumberland Fells, e che era un posto molto grande. Vi abitava una Furnivall, prozia del mio padrone, con intorno a sé solo pochi servitori; era un posto davvero molto salubre e il Lord pensava che per alcuni anni sarebbe stato molto indicato per la signorina Rosamond, che con la sua presenza avrebbe rallegrato la vecchia zia. Mi fu ordinato dal Lord di avere pronto per un certo giorno il bagaglio della signorina Rosamond. Il Lord era un uomo austero e orgoglioso, così com'era fama di tutti i Furnivall; non pronunciava mai una parola più del necessario. Si diceva che avesse molto amato la mia povera padrona; ma lei, poiché sapeva che il padre di lui si sarebbe opposto, non lo aveva mai assecondato, e aveva sposato invece il signor Esthwaithe. Io so ben poco di queste cose; comunque il Lord non si sposò mai. Ma non si curò mai granché della signorina Rosamond, come io mi aspettavo avrebbe dovuto fare, se avesse davvero amato la madre ora morta. Mandò insieme a noi a Manor House un uomo di sua fiducia, dicendogli di tornare da lui a Newcastle quella sera stessa; così questi non ebbe molto tempo, prima di liberarsi anche lui di noi, di presentarci a tutti gli estranei. Dimodoché noi due, povere creature (io non avevo ancora diciotto anni), fummo lasciate sole nella vecchia, grande Manor House. Mi sembra solo ieri quando arrivammo in carrozza. Avevamo lasciato molto presto la nostra vecchia cara dimora, ed entrambe avevamo pianto, fin quasi a spezzarci il cuore, sebbene stessimo viaggiando nella carrozza
del Lord, di cui una volta pensavo tanto bene. Era il tardo pomeriggio di un giorno di settembre, quando ci fermammo a cambiare i cavalli per l'ultima volta in una piccola città piena di carbonai e di minatori. La signorina Rosamond si era addormentata, ma il signor Henry mi disse di svegliarla, in modo che potesse vedere il parco e Manor House quando vi fossimo arrivati. Pensai ch'era un peccato, ma feci come aveva detto, per timore che poi si lamentasse di me con Lord Furnivall. Non si vedeva più traccia né di città né di villaggi, e ci accorgemmo di stare passando un cancello che si apriva su di un parco vasto e selvaggio - non come i parchi del nord; si sentiva il rumore dell'acqua che scorreva, c'erano rocce, acacie nodose e vecchie querce, tutte scortecciate per l'età. La strada continuò in salita per circa due miglia, poi vedemmo una grande, maestosa casa, con molti alberi intorno, tanto vicini che in alcuni punti i loro rami frustavano le mura quando il vento soffiava. Alcuni, enormi, giacevano a terra spezzati; non sembrava che ci fosse chi si prendesse cura del posto, ammassando la legna o tenendo puliti i viali ricoperti di muschio. Solo di fronte alla casa tutto era in ordine. Sul grande viale non c'era un'erbaccia; e nessun albero, o pianta rampicante, ingombrava il muro della facciata, su cui si aprivano molte finestre. Su entrambi i lati della casa c'era un'ala sporgente, ognuna delle quali era la parte terminale di altre estensioni laterali; la casa, sebbene apparisse così desolata, era addirittura più grande di quanto mi sarei aspettata. Dietro di essa si alzava la collina rocciosa, che sembrava spoglia e non recintata. Sul lato sinistro della casa, guardandola di fronte, c'era un piccolo giardino di foggia antica, come scoprii più tardi. Una porta si apriva su di esso dalla facciata ovest: era stato ricavato da un folto, buio boschetto, per iniziativa di qualche vecchia Lady; ma i rami degli alberi della foresta erano cresciuti e gettavano di nuovo la loro ombra su di esso, e vi erano rimasti ormai ben pochi fiori. Arrivammo con la carrozza fino al grande ingresso principale ed entrammo nel salone; pensai che avremmo potuto sperderci, tanto era largo e grandioso. Un candeliere di bronzo pendeva dal centro del soffitto; ed io, che non ne avevo mai visto uno, lo guardai affascinata. A una estremità della sala c'era un grande camino, largo quanto un lato delle case del mio paese, con alari ed enormi molle per la legna; accanto a esso c'erano dei pesanti sofà di stile antico. Dalla parte opposta della sala, a sinistra entrando - sul lato ovest - vi era un organo, costruito dentro la parete, e tanto largo da occuparne una gran parte. Dietro, sullo stesso lato, c'era una porta;
dall'altra parte, da ogni lato del camino, vi erano altre porte che conducevano all'ala est. Per tutto il tempo che fui in quella casa non vi andai mai, quindi non posso dirvi cosa ci fosse. Il pomeriggio stava finendo, e la sala, dato che il fuoco non era stato acceso, appariva buia e tetra; ma noi non vi restammo per molto. Il vecchio servitore che ci aveva aperto il portone si inchinò al signor Henry e ci condusse, attraverso la porta che si apriva dalla parte opposta dell'enorme organo, attraverso molte stanze più piccole ed un corridoio, nel salotto ovest dove, egli disse, si trovava la signorina Furnivall. La povera, piccola signorina Rosamond si teneva stretta a me, impaurita, come se si sentisse sperduta in quel posto tanto grande; ma anch'io, per parte mia, non mi sentivo molto meglio di lei. Il salotto ad ovest aveva un aspetto molto allegro; c'era un bel fuoco, ed era arredato con una quantità di bei mobili di legno. La signorina Furnivall era una donna non lontana dall'ottantina, probabilmente, ma non ne sono sicura. Era alta e magra e aveva un volto tutto pieno di rughe che sembravano tracciate con la punta di un ago. I suoi occhi erano molto vigili: per compensare, suppongo, la totale sordità, che la costringeva a usare una cornetta. Seduta accanto a lei, intenta a lavorare sullo stesso grande arazzo, c'era la signora Stark, sua cameriera e amica, che aveva quasi la stessa età. Aveva vissuto con la signorina Furnivall fin da quando erano entrambe giovani, e ora sembrava più un'amica che una domestica; era estremamente fredda, grigia e dura - come se non avesse mai amato, o non si fosse mai presa cura di nessuno. Non credo, in realtà, che avesse mai amato altri che la sua padrona che, per via della sua grave sordità, lei trattava spesso come se fosse stata una bambina. Il signor Henry fece alcune comunicazioni da parte di Lord Furnivall, poi fece un cenno di saluto a tutti noi - senza neppure accorgersi della mano che la mia piccola, dolce signorina Rosamond gli tendeva - e ci lasciò là, in piedi, sotto gli sguardi indagatori che le due signore ci lanciavano attraverso gli occhiali. Fui molto sollevata quando chiamarono il vecchio cameriere che ci aveva introdotto e gli dissero di condurci alle nostre stanze. Così uscimmo dal grande salotto, per entrare in un'altra camera di soggiorno e, passata questa, andammo su per una lunga rampa di scale e attraversammo una lunga galleria - che doveva essere qualcosa di simile ad una libreria, dal momento che c'erano libri lungo tutta una parete, e finestre con scrittoi lungo tutta l'altra -finché arrivammo alle nostre stanze che, appresi con soddisfazione,
erano proprio sopra la cucina: avevo infatti cominciato a pensare che mi sarei perduta in quella casa terribilmente vuota. C'era una vecchia camera dei bambini, usata, molti anni prima, da tutti i bambini della famiglia, con un bel fuoco che ardeva dietro la grata ed il bricco che bolliva sulla fiamma, e tutto l'occorrente per il tè già pronto sul tavolo; oltre a questa stanza c'era la camera per la notte, con un lettino a sbarre vicino al letto destinato a me. Il vecchio James chiamò Dorothy, sua moglie, ad augurarci il benvenuto, ed entrambi furono tanto ospitali e gentili che, poco alla volta, la signorina Rosamond e io ci sentimmo quasi come a casa nostra; dopo il tè, lei sedette sulle ginocchia di Dorothy, chiacchierando con tutta la scioltezza che la sua piccola lingua le consentiva. Presto scoprii che Dorothy era del Westmoreland, e questo ci legò molto; non avrei mai pensato di incontrare delle persone gentili come il vecchio James e sua moglie. James aveva vissuto quasi tutta la vita presso la famiglia dei padroni, ed era convinto che nessuno fosse nobile quanto loro. Sentiva addirittura una certa superiorità nei confronti di sua moglie perché, fino a che l'aveva sposata, ella era vissuta nella casa di un agricoltore. Ma era molto innamorato di lei; tanto quanto poteva esserlo. Avevano alle loro dipendenze una ragazza, per i lavori pesanti. Si chiamava Agnes; così lei ed io, James e Dorothy, con la signorina Furnivall e la signora Stark, formavamo la famiglia; senza scordare, naturalmente, la mia dolce signorina Rosamond. Mi capitò spesso di domandarmi cosa mai avessero fatto prima che arrivasse la piccola, tanto erano presi da lei. Sia in cucina che in salotto avveniva la stessa cosa. La dura, triste signorina Furnivall e la impassibile signora Stark sembravano rianimarsi quando lei arrivava, saltellando come un uccellino, e giocava pavoneggiandosi qua e là, con un continuo, delizioso cinguettio di felicità. Sono sicura che le due anziane signore ci dovettero rimanere male molte volte, vedendola scomparire in cucina, anche se erano troppo orgogliose per chiederle di fermarsi con loro. Si stupivano dei suoi gusti; per quanto, come diceva la signora Stark, non c'era di che meravigliarsi, se si pensava da quale famiglia proveniva suo padre! La vecchia residenza era un posto straordinario per la piccola signorina Rosamond. Compì esplorazioni tutt'intorno, con me sempre dietro di lei; andò dappertutto, tranne che nell'ala est, che era sempre chiusa, e in cui non ci venne neppure in mente di andare. Ma nella parte nord e ovest c'erano parecchie stanze interessanti, piene di oggetti che erano delle vere curiosità, anche se probabilmente non sarebbero state tali per gente che avesse più esperienza del mondo. Le finestre erano ombreggiate dai rami on-
deggianti degli alberi e dall'edera che le aveva circondate; ma nella penombra riuscivamo a distinguere vecchie brocche di porcellana, scatole d'avorio intarsiate e grossi, pesanti libri; vecchi quadri erano disseminati un po' dappertutto. Ricordo che una volta la mia cara bambina volle che Dorothy venisse con noi per dirci chi erano tutte quelle persone: erano infatti ritratti di familiari, anche se Dorothy non poté dirci i nomi di tutti loro. Eravamo state quasi in tutte le stanze, quando arrivammo al salone di rappresentanza, sopra la sala d'ingresso; riscoprimmo un ritratto della signorina Furnivall o, piuttosto, della signorina Grace, come veniva chiamata una volta, dato che aveva una sorella maggiore. Come doveva essere stata bella! Aveva uno sguardo risoluto e fiero, in cui brillava una punta di alterigia, e teneva le sopracciglia un poco sollevate e le labbra leggermente storte, come se si stesse chiedendo come potessimo avere l'ardire di starla a guardare. Indossava un abito di foggia per me molto strana, ma che doveva essere molto alla moda quando lei era giovane: un cappello di stoffa morbida, bianca, leggermente inclinato sulla fronte, con una meravigliosa serie di piume d'uccello che ne adornava un lato, e un vestito di satin blu, che si apriva sul davanti su di un corsetto bianco trapuntato. «È proprio vero quel che dicono», notai, quando fui stanca di guardarla. «La bellezza è davvero una cosa fugace! Chi avrebbe potuto immaginare, a vederla adesso, che la signorina Furnivall era stata così eccezionalmente bella?» «Sì», disse Dorothy, «la gente cambia, purtroppo. Ma se è vero quello che il padre del mio padrone diceva sempre, la signorina Furnivall, la sorella più vecchia di Grace, era ancora più bella. Il suo ritratto è qui, da qualche parte; ma se vuoi che te lo mostri, non devi mai lasciarti scappare che l'hai visto, nemmeno con James. Pensi che la piccina riuscirà a tenere a freno la lingua?», mi chiese. Io non ne ero troppo sicura, perché era una bimba molto aperta e chiacchierona, cosicché preferii dirle di andare a nascondersi. Quando se ne fu andata, aiutai Dorothy a voltare un grande quadro appeso con la faccia rivolta alla parete. La donna che vi era rappresentata batteva senza dubbio, in bellezza, la signorina Grace; e credo anche nell'espressione di sprezzante orgoglio. Avrei potuto guardarla per un'ora intera, ma Dorothy era in apprensione, e si affrettò a girarlo di nuovo, ingiungendomi di correre a cercare la signorina Rosamond, perché vicino alla casa c'erano molti posti pericolosi in cui non avrebbe voluto che la bambina andasse. Ero una ra-
gazza fiera e coraggiosa, e detti poco peso a quello che aveva detto la vecchia governante, perché a me piaceva giocare a nascondino, come a tutti i bambini della parrocchia; ma corsi ugualmente a cercare la mia piccola. Man mano che l'inverno avanzava e le giornate divenivano più brevi, qualche volta mi sembrava di udire un suono, come se qualcuno stesse suonando il grande organo della sala d'ingresso. Non lo sentivo tutte le sere, ma sicuramente molto spesso; di solito ciò avveniva quando stavo seduta accanto alla signorina Rosamond, dopo averla messa a letto, a tenerla buona fino a che non s'addormentava. Allora lo sentivo risuonare, sempre più forte, in lontananza. La prima volta, quando scesi, chiesi a Dorothy chi fosse stato a suonare quella musica, e James disse subito, bruscamente, che ero una sciocca, se scambiavo il rumore del vento che sibilava tra gli alberi per una musica; ma io vidi che Dorothy lo guardava molto spaventata e Bessy, la sguattera, disse qualcosa tra i denti e se ne andò in fretta. Capii che non avevano gradito la domanda, così mi controllai fino a che non mi trovai sola con Dorothy; sapevo infatti che da lei mi sarebbe stato molto più facile sapere qualcosa. Perciò, il giorno dopo, scelsi il momento opportuno, e le chiesi chi fosse che suonava l'organo; dato che lo sapevo bene che si trattava di un organo e non del vento, nonostante avessi taciuto di fronte a James. Ma Dorothy era stata preparata, ne sono certa, e non riuscii a tirarle fuori una parola. Allora tentai con Bessy, per quanto l'avessi sempre tenuta un po' a distanza, perché io ero al livello di James e Dorothy, e lei era poco più che una sguattera. Così lei mi disse che non avrei dovuto mai, mai parlarne; e che se lo avessi fatto non avrei mai dovuto rivelare che era stata lei a farmi quelle confidenze. Era un suono molto strano, e lei lo aveva udito molte volte, soprattutto nelle notti d'inverno, e prima dei temporali. La gente diceva che era il vecchio Lord che suonava sul grande organo del salone, proprio come faceva quando era vivo; ma chi fosse il vecchio Lord, o perché suonasse, e perché suonasse nelle tempestose serate d'inverno in particolare, lei non avrebbe potuto né saputo dirmelo. Bene! Vi ho detto che sono coraggiosa, perciò pensai che era piuttosto piacevole avere quella musica grandiosa che rimbombava nella casa, chiunque fosse il suonatore; infatti a volte si innalzava sopra le forti raffiche di vento, e gemeva ed esultava come una creatura vivente, e poi cadeva in toni del tutto sommessi; solo che era sempre un motivo musicale, perciò era assurdo chiamarla vento.
Pensai dapprima che potesse essere la signorina Furnivall che suonava, all'insaputa di Bessy; ma un giorno in cui ero nel salone da sola, aprii l'organo e sbirciai sopra e intorno ad esso, come avevo fatto una volta tempo addietro con l'organo di Crosthwaite Church; vidi che all'interno era completamente distrutto, sebbene sembrasse così robusto e bello. Allora, sebbene fosse giorno pieno, cominciai a rabbrividire; lo chiusi, corsi via velocemente verso la mia camera, e per un certo periodo dopo questo episodio non mi piacque udire la musica, più di quanto non piacesse a James o a Dorothy. Nel frattempo la signorina Rosamond si faceva amare sempre di più. Le anziane signore gradivano la sua presenza durante il pranzo; James stava in piedi dietro la sedia della signorina Furnivall, e io dietro quella della signorina Rosamond, con gran pompa; e, dopo pranzo, giocava in un angolo del grande salotto, ferma come un topolino, mentre la signorina Furnivall dormiva, e io pranzavo in cucina. Ma le piaceva poi venire con me nella camera dei bambini, dato che, come diceva, la signorina Furnivall era così triste e la signora Stark così noiosa; invece lei e io eravamo sempre allegre; e, pian piano, arrivai a non far caso a quella misteriosa, insinuante musica, che non faceva alcun danno, purché non sapessimo da dove veniva. L'inverno fu molto freddo. A metà ottobre cominciò il gelo e durò per molte, molte settimane. Ricordo che un giorno, a pranzo, la signorina Furnivall sollevò i suoi occhi tristi e pesanti e disse alla signora Stark: «Temo che avremo un terribile inverno», con una strana, significativa espressione. Ma la signora Stark finse di non udire, e parlò a voce alta di qualcos'altro. La mia piccola dama e io non ci curavamo del gelo; non noi! Fintanto che non pioveva ci arrampicavamo lungo le scarpate dietro la casa, e andavamo su per le creste rocciose che erano esposte al vento e piuttosto brulle, e lì facevamo gare di corsa nell'aria fresca e tagliente; una volta scendemmo per un nuovo sentiero che ci portò oltre i due vecchi, nodosi alberi di agrifoglio che crescevano a metà strada lungo il lato orientale della casa. Ma i giorni si facevano sempre più corti; e il vecchio Lord - se era lui suonava con sempre più tormento sul grande organo. Una domenica pomeriggio, deve essere stato verso la fine di novembre, chiesi a Dorothy di prendersi cura della piccola quando usciva dal salotto, dopo che la signorina Furnivall aveva fatto il suo sonnellino; perché era troppo freddo per portarla con me in chiesa, e tuttavia io volevo andarci. Dorothy promise di farlo; era così affezionata alla piccola che tutto sembrava filare a meravi-
glia. Bessy e io uscimmo in fretta, sebbene il cielo gravasse pesante e scuro sopra la terra bianca, quasi che la notte non si fosse diradata del tutto; e l'aria, anche se immobile, era aspra e pungente. «Avremo una nevicata», mi disse Bessy. E infatti, già mentre eravamo in chiesa, la neve cominciò a venire giù fitta, a grandi fiocchi, così fitta che quasi oscurava le finestre. Smise di nevicare prima che uscissimo, ma c'era uno strato soffice e spesso sotto i nostri piedi mentre arrancavamo verso casa. Prima che raggiungessimo il salone spuntò la luna e credo che ci fosse più luce, grazie alla luna o alla neve bianca e abbagliante, di quando eravamo andate in chiesa, tra le due o le tre. Non vi ho detto che la signorina Furnivall e la signora Stark non andavano mai in chiesa; esse erano solite leggere le preghiere insieme, in un loro quieto, malinconico modo; sembrava che per loro la domenica fosse molto lunga, con il lavoro di ricamo che le teneva occupate. Perciò, quando andai da Dorothy in cucina per prendere la signorina Rosamond e portarla di sopra con me, non mi meravigliai quando la vecchia mi disse che le signore avevano tenuto la piccola con loro, e che non era mai andata in cucina, come io le avevo ordinato di fare quando fosse stata stanca di stare in salotto. Perciò presi le mie cose e andai a cercarla, per portarla a cena nella sua cameretta. Ma, quando entrai nel salotto, vi trovai sedute le due anziane signore che, molto quiete e tranquille, si scambiavano di tanto in tanto qualche parola come se non ci fosse mai stata vicino a loro la luce dell'allegria della signorina Rosamond. Pensai che forse si era nascosta - era uno dei suoi giochi favoriti - e le aveva convinte a fingere di non saper nulla; perciò andai in silenzio a sbirciare dietro il divano e dietro la sedia, facendo credere di essere seriamente spaventata nel non trovarla. «Cosa c'è, Hester?», chiese la signora Stark vivacemente. Non so se la signorina Furnivall si fosse accorta di me, poiché, come vi ho detto, era molto sorda, e continuò a sedere, ferma, fissando gravemente il fuoco, con la sua faccia inespressiva. «Sto solo cercando la mia piccola Rosy-Posy», risposi, ancora pensando che la bimba fosse lì, vicino a me, sebbene non potessi vederla. «La signorina Rosamond non è qui», disse la signora Stark. «Se ne è andata più di un'ora fa a cercare Dorothy.» Si voltò anche lei e continuò a guardare il fuoco. A questo punto ebbi un tuffo al cuore, e desiderai di non aver mai lasciato la mia piccola.
Ritornai da Dorothy e glielo dissi. James era uscito per tutta la giornata; così lei, io e Bessy prendemmo dei lumi e salimmo prima nella camera della bambina, poi girammo per la grande casa, chiamando e supplicando la signorina Rosamond di venir fuori dal suo nascondiglio e di non spaventarci a morte in quel modo. Ma non ci fu risposta; nulla. «Oh!», dissi alla fine. «Può essere andata a nascondersi nell'ala est!» Ma Dorothy disse che non era possibile; che lei stessa non ci era mai stata, perché le porte erano sempre chiuse e, a quanto le risultava, solo l'amministratore del padrone ne aveva le chiavi. Comunque, né lei né James le avevano mai viste. Allora dissi che sarei tornata a vedere se, dopotutto, non fosse nascosta in salotto, all'insaputa delle due signore; e dissi che se l'avessi trovata lì l'avrei frustata ben bene, per la paura che mi aveva fatto prendere; ma certo non intendevo farlo davvero. Dunque, ritornai nel salotto a ovest, dissi alla signora Stark che non riuscivamo a trovarla da nessuna parte, e chiesi il permesso di cercare dietro ai mobili, poiché pensavo che si poteva essere addormentata al caldo in qualche angolo nascosto; ma no! Cercammo dappertutto. La signorina Furnivall si alzò e guardò, tremando, in tutti gli angoli, ma la piccola non c'era; poi uscimmo di nuovo, tutti quelli della casa, e cercammo in tutti i posti dove avevamo cercato prima, ma non la trovammo. La signorina Furnivall rabbrividiva e tremava tanto che la signora Stark la ricondusse al caldo in salotto; ma non prima di avermi fatto promettere che l'avrei portata da loro, quando fosse stata ritrovata. Ohimè! Cominciavo a pensare che non sarebbe mai stata ritrovata, quando mi venne in mente di guardare fuori nel grande cortile antistante, tutto coperto di neve. Ero di sopra quando guardai giù; ma c'era una luna così luminosa che riuscii a vedere chiaramente due piccole serie d'impronte, che sembravano partire dalla porta d'ingresso e girare l'angolo dell'ala orientale. Non so come mi precipitai giù, ma aprii con furia il grande, pesante, portone; mi tirai la veste sulla testa a mo' di mantello e corsi fuori. Girai l'angolo; ma mi trovai in una zona completamente buia; quando però ritornai nella luce della luna, ritrovai le piccole impronte che salivano - salivano verso le rocce. Faceva molto freddo; così freddo che l'aria quasi mi strappava la pelle dal viso mentre correvo; ma continuai a correre, piangendo al pensiero di come la mia povera piccina doveva essere stanca e spaventata. Ero in vista degli alberi di agrifoglio, quando scorsi un pastore che scendeva per la collina, portando qualcosa tra le braccia, avvolto in una coper-
ta. Egli mi gridò qualcosa, e mi chiese se avevo smarrito una bambina; e, poiché non potevo rispondere per il pianto, protese verso di me il suo fardello e io vidi la mia dolce piccolina che giaceva immobile, bianca e rigida, tra le sue braccia, come se fosse morta. Il pastore mi raccontò di essere andato sulle rocce per radunare il suo gregge, prima che scendesse il freddo intenso della notte, e che sotto gli alberi di agrifoglio (macchie nere sul profilo della collina, dove per miglia attorno non c'erano cespugli) aveva trovato la mia bimba, il mio agnello, la mia regina, la mia dolcezza; rigida e fredda, nel terribile intorpidimento causato dal congelamento. Oh, la gioia, e le lacrime, nel riaverla tra le braccia! Non gliela lasciai portare; ma la presi in braccio, coperta e tutto e, mentre me la tenevo stretta al cuore, al caldo, sentii la vita che lentamente ritornava in quel piccolo, tenero corpo. Ma non si era ancora riavuta quando arrivammo all'ingresso; e io non avevo più fiato per parlare. Entrammo attraverso la porta della cucina. «Portate il braciere», dissi; la trasportai di sopra, e cominciai a spogliarla vicino al fuoco, che Bessy aveva alimentato. Chiamai la mia creatura con tutti i dolci, teneri nomi che mi venivano in mente - mentre i miei occhi erano accecati dalle lacrime; e finalmente, oh! alla fine aprì i suoi occhioni blu. Allora la misi nel suo caldo lettino e spedii Dorothy al piano di sotto a dire alla signorina Furnivall che andava tutto bene; decisi di sedere al suo capezzale per quella lunghissima notte. Lei si addormentò dolcemente appena la sua testolina ebbe toccato il cuscino, e io la vegliai fino all'alba, quando si risvegliò tutta radiosa - così io subito pensai - e, miei cari, così penso anche ora. Mi disse che aveva pensato di andare da Dorothy, perché tutte e due le vecchie signore si erano addormentate, e si annoiava in salotto; e poi che, mentre attraversava l'anticamera, aveva visto la neve cadere soffice e fitta, attraverso l'alta finestra. La voleva vedere poggiarsi, candida e bella, sul terreno; perciò si era avviata verso il grande ingresso; e allora, andando alla finestra, l'aveva vista posarsi, luminosa e soffice, sul viale; ma, mentre stava lì, aveva visto una bambina, più piccola di lei, «ma così graziosa», come disse la mia piccina; «e questa bambina mi invitò a uscire; era così graziosa e così dolce, che non potei far altro che andare». E allora quest'altra bimba l'aveva presa per mano, e l'una accanto all'altra, erano andate oltre l'angolo est. «Sei una bambina impertinente e racconti bugie», dissi, «che cosa direb-
be la tua dolce mamma, che è in cielo, e che non ha mai detto una bugia in vita sua, alla sua piccola Rosamond, se la sentisse - e io credo che la senta - dire le bugie?» «Veramente, Hester!», singhiozzò la mia piccina, «Ti sto dicendo la verità. Davvero!» «Non dire così!», risposi con severità. «Ti ho rintracciata grazie alle impronte sulla neve; si vedevano solo le tue; se ci fosse stata un'altra bambina che saliva, dandoti la mano, su per la collina, non credi che avrebbe lasciato le sue impronte accanto alle tue?» «Non posso farci niente, cara, cara Hester», disse lei in lacrime, «se non le ha lasciate. Non le ho mai guardato i piedi, ma con la sua piccola mano teneva stretta la mia, ed era una mano freddissima. Mi ha portato sul sentiero delle rocce, verso gli alberi di agrifoglio; e lì ho visto una signora che piangeva e singhiozzava; ma, quando mi ha vista, ha smesso di piangere e mi ha rivolto un sorriso pieno di orgoglio e di dignità; mi ha preso sulle ginocchia e ha cominciato a cullarmi per farmi addormentare; è tutto qui, Hester, ma è la verità, e la mia cara mamma lo sa», disse piangendo. Allora pensai che la bambina stesse delirando, così finsi di crederle quando raccontò la sua storia di nuovo, e poi di nuovo ancora, sempre nello stesso modo. Alla fine Dorothy bussò alla porta con la colazione della signorina Rosamond; mi disse che le due signore erano già nella sala da pranzo, e che mi volevano parlare. Tutte e due erano state nella camera della bambina la sera precedente, ma la signorina Rosamond si era già addormentata; perciò l'avevano solo guardata senza rivolgermi alcuna domanda. «Adesso sentirò!», pensai tra me e me, mentre camminavo lungo la galleria nord. «Eppure», ripresi coraggio, «era proprio a loro che l'avevo affidata; ed è colpa loro se ha potuto uscire inosservata.» Perciò entrai con sicurezza e raccontai ciò che avevo da raccontare. Parlai con la signorina Furnivall, gridandole dritto nell'orecchio, ma quando nominai la piccola bimba nella neve che con le sue moine l'aveva invitata a uscire e l'aveva condotta verso una nobile e bella signora sotto l'albero di agrifoglio, lei gettò le braccia al cielo - due vecchie braccia avvizzite - e gridò forte: «Oh, Cielo, perdono! Abbi pietà!». La signora Stark la afferrò: piuttosto bruscamente, mi parve; ma lei era fuori di sé e la signora Stark mi indirizzò una specie di pauroso ammonimento: «Hester, tenetela lontana da quella bambina! La porterà alla rovina! Quella perfida creatura! Ditele che quella è una bambina malvagia!». Poi la signora Stark mi spinse in fretta fuori della stanza dove, in verità, io fui
molto felice di andare; ma la signorina Furnivall continuò a gridare: «Oh! abbi pietà! Non potrai mai perdonare? Sono passati tanti anni...». Rimasi piuttosto sconvolta. Non osai più lasciare la signorina Rosamond, né di giorno né di notte, per il timore che mi sfuggisse di nuovo, spinta da qualche fantasticheria; o ancor più perché temevo di aver scoperto che la signorina Furnivall era pazza, per lo strano modo in cui la trattavano; temevo che qualcosa di simile (che poteva essere ereditario, voi capite) potesse minacciare la mia cara bambina. Il tremendo gelo non passava mai e ogni volta che c'era una notte più tempestosa del solito, tra le raffiche e il rumore del vento, udivamo il vecchio Lord suonare sul grande organo. Ma, fosse o non fosse il vecchio Lord, dovunque la signorina Rosamond andasse, io la seguivo; poiché il mio amore per lei, dolce orfana indifesa, era più forte della paura per quel solenne, terribile suono. Tra l'altro, spettava a me tenerla serena e allegra, come si conveniva alla sua età. Perciò giocavamo insieme, e giravamo un po' dappertutto; io non osavo perderla di vista una seconda volta in quella casa così vasta e piena di angoli sconosciuti. Così accadde che un pomeriggio, poco prima di Natale, stavamo giocando insieme sul tavolo da biliardo nel grande salone (non che ne fossimo capaci, ma le piaceva far rotolare le lisce palle di avorio con le sue manine, e a me piaceva assecondarla); gradatamente, senza che ce ne accorgessimo, nel salone si fece buio, sebbene fuori ci fosse ancora luce, e io stavo pensando di portarla in camera, quando all'improvviso, lei gridò: «Guarda, Hester! C'è la mia povera bambina fuori nella neve!». Mi girai verso le finestre, lunghe e strette, e lì vidi davvero una bambina più piccola della signorina Rosamond - vestiva in modo inadeguato all'aria gelida di una simile notte - che piangeva, e picchiava contro i vetri della finestra, come per chiedere di entrare. Sembrava che singhiozzasse e gemesse, tanto che la signorina Rosamond non riuscì a sopportarne la vista, e già correva verso la porta per aprirla, quando, tutt'a un tratto, vicinissimo a noi, il grande organo tuonò così forte e rimbombante, che mi fece tremare; e per di più, mi venne allora in mente che, anche nel silenzio di quel terribile gelo, non avevo udito il suono delle piccole mani che battevano sul vetro della finestra, sebbene la Bimba Fantasma avesse apparentemente usato tutta la sua energia; e, sebbene l'avessi vista gemere e piangere, non mi era giunto all'orecchio il benché minimo rumore. Non so se ricordai tutto questo proprio in quel momento; il suono dell'organo mi aveva assordata, terrorizzandomi. Solo
questo so: afferrai la signorina Rosamond prima che aprisse la porta d'ingresso e, tenendola stretta, la trasportai via, mentre urlava cercando di divincolarsi, fino alla grande cucina, dove Dorothy e Agnes erano impegnate a cucinare. «Che cosa ha la mia piccina?», esclamò Dorothy, quando portai dentro la signorina Rosamond, che singhiozzava come se le si spezzasse il cuore. «Non mi lascia aprire la porta per fare entrare la bambina; e lei morirà se resterà fuori nella neve tutta la notte. Crudele, cattiva Hester!», diceva, colpendomi; ma avrebbe potuto colpirmi anche più duramente e non ci avrei badato, perché avevo visto sul volto di Dorothy uno sguardo atterrito che mi aveva gelato il sangue. «Chiudi la porta posteriore della cucina, e assicurala bene con il chiavistello», disse ad Agnes. Non disse altro; mi diede dell'uvetta e delle mandorle per acquietare la signorina Rosamond; ma questa singhiozzava, e parlava della piccina nella neve, e non volle nemmeno toccare quelle leccornie. Fui felice quando alla fine si addormentò. Allora scivolai giù in cucina e dissi a Dorothy che avevo preso una decisione. Avrei portato la mia cara piccina a casa di mio padre, ad Applethwhaite; laggiù la vita era modesta, ma serena. Dissi che mi ero spaventata a sufficienza con la faccenda dell'organo che suonava; adesso che avevo visto con i miei occhi questa bambina che si lamentava, tutta vestita come nessuna bambina dei dintorni poteva essere vestita, che picchiava per entrare - e senza che si potesse sentire alcun suono - con la ferita sulla spalla destra; ora che la signorina Rosamond l'aveva riconosciuta per il fantasma che l'aveva quasi portata alla morte (e Dorothy sapeva che era vero), non intendevo più sopportare quella situazione. Vidi Dorothy cambiare colore una o due volte. Quando ebbi finito disse che non credeva potessi portare con me la signorina Rosamond, perché era la pupilla del mio padrone, e io non avevo alcun diritto su di lei; e mi domandò se avrei avuto il coraggio di lasciare una bimba alla quale volevo tanto bene solo per dei rumori e delle visioni che non potevano farmi alcun male, e a cui tutti loro si erano adattati! Io ero tutta sconvolta e tremante; dissi che era facile parlare, per lei che sapeva cosa volevano dire quelle visioni e quei suoni e che, forse, aveva avuto a che fare con la bambinafantasma mentre era ancora in vita. La convinsi a raccontarmi tutto quello che sapeva, e, alla fine, quasi desiderai che non m'avesse detto nulla, tanto ne rimasi spaventata. Disse che aveva sentito raccontare quella storia dai vecchi dei dintorni
che erano ancora vivi al tempo del suo matrimonio; allora la gente veniva ancora in visita nel salone, prima che si facesse quella brutta fama in tutta la regione. Il vecchio Lord era il padre della signorina Furnivall - signorina Grace, come la chiamava Dorothy, dato che la signorina Maude era più grande e perciò il titolo di signorina Furnivall spettava a lei. Il vecchio Lord era divorato dall'orgoglio. Nessuno aveva mai conosciuto un uomo orgoglioso come lui, e le sue figlie erano come lui. Nessuno era considerato degno, quando si parlava del loro matrimonio, sebbene avessero da scegliere; infatti erano allora due bellissime ragazze, come avevo potuto notare dai loro ritratti appesi nel salotto di rappresentanza. Ma, come dice un vecchio detto, «l'orgoglio non dà frutti». Quelle due splendide, altere fanciulle si innamorarono dello stesso uomo: si trattava di un semplice musicista che il loro padre aveva fatto venire da Londra perché suonasse con lui a Manor House. Il vecchio Lord, infatti, nonostante la sua alterigia, amava la musica più di ogni altra cosa. Sapeva suonare quasi tutti gli strumenti conosciuti; però, stranamente, la musica non lo inteneriva. Era un vecchio duro e ostinato che, si diceva, con la sua condotta aveva spezzato il cuore della povera moglie. Aveva una grande passione per la musica ed era pronto a spendere per assecondarla. Per tale motivo aveva fatto venire questo straniero, il quale pare suonasse così bene che perfino gli uccelli sugli alberi interrompevano il loro cinguettio per ascoltarlo. Piano piano, questo musicista acquistò un tale ascendente sul vecchio Lord che questi, ogni anno, lo attendeva ansiosamente; era stato lui che aveva fatto portare il grande organo dall'Olanda e lo aveva fatto montare nel salone, dove era ancora adesso. Egli insegnò al vecchio Lord a suonarlo, ma molto spesso, mentre Lord Furnivall era tutto preso dal suo organo e dalla sua musica, il bruno straniero andava a passeggio per i boschi con una delle due figlie, ora la signorina Maude, ora la signorina Grace. La signorina Maude ebbe la meglio, e fu la prescelta; si sposarono, all'insaputa di tutti. Prima ch'egli tornasse l'anno successivo, lei aveva partorito una bimba in una fattoria della brughiera, mentre suo padre e la signorina Grace la credevano a Doncaster Races. Il matrimonio e la maternità non l'avevano affatto addolcita; anzi, era più altera e irascibile che mai, forse perché gelosa della signorina Grace, alla quale suo marito rivolgeva qualche attenzione galante - per mantenere il loro segreto - come diceva lui alla moglie. Ma la signorina Grace sembrava sul punto di divenire la favorita e la signorina Maude diventava sempre più scontrosa, sia nei confronti
della sorella che del marito. Questi si sottraeva a una situazione per lui ormai spiacevole, trattenendosi a lungo in paesi lontani. Quell'estate se ne partì un mese prima del solito, lasciandosi dietro l'impressione che non sarebbe più ritornato. Nel frattempo la bimba cresceva nella casa di campagna e la madre almeno una volta a settimana faceva sellare il cavallo e si lanciava in una selvaggia cavalcata attraverso le colline per andarla a trovare; lei, quando amava, amava davvero, e quando odiava, odiava fino in fondo. Il vecchio Lord continuava a suonare - a suonare l'organo - e la servitù pensava che quella dolce musica avrebbe addolcito il suo terribile carattere del quale (a detta di Dorothy) si raccontavano cose tremende. Si ammalò, e per camminare dovette servirsi di una stampella; suo figlio - padre dell'attuale Lord Furnivall - era in America con l'esercito, e poiché l'altro figlio si trovava in Marina, la signorina Maude poteva fare quel che voleva. I rapporti fra lei e la sorella Grace divenivano di giorno in giorno più freddi ed ostili: alla fine non si parlarono quasi più, se non alla presenza del vecchio Lord. Il musicista straniero tornò l'estate successiva, ma fu quella l'ultima volta. Tanto gli amareggiarono la vita con le loro gelosie e le loro sfuriate che, dopo che fu ripartito, non se ne sentì più parlare. La signorina Maude, che da tempo aveva programmato di rendere pubblico il suo matrimonio alla morte del padre, si trovò sola, con un matrimonio segreto e una figlia adorata - ma che non osava riconoscere - a vivere con un padre che temeva e una sorella che odiava. Trascorsa l'estate successiva senza che lo straniero comparisse, le sorelle divennero entrambe tristi e cupe; avevano nello sguardo un'espressione di sofferenza che peraltro non toglieva nulla alla loro bellezza. La signorina Maude alle volte si consolava, perché il padre, che era sempre più preso dalla musica, diveniva ogni giorno più grave. Lei e la signorina Grace vivevano ormai del tutto separate, in camere diverse; l'una nel lato ovest e la signorina Maude in quello est, cioè nelle camere che ora erano chiuse. Lei pensò quindi di poter tenere con sé la figlioletta senza che nessuno venisse a saperlo, se non coloro che non avrebbero osato parlarne, e che avrebbero dovuto accettare la versione fornita da lei stessa, che cioè si trattava della figlioletta di un contadino che lei voleva tenere presso di sé. Tutto questo era risaputo, disse Dorothy; ma quel che accadde in seguito nessuno lo sapeva esattamente, tranne la signorina Grace e la signora Stark, che già da allora era la sua cameriera, e le era molto più vicina di quanto non lo fosse la sorella. La servitù, da qualche allusione, da qualche
parola sfuggita involontariamente, intuì che la signorina Maude, con il bruno straniero, aveva avuto ben più successo della signorina Grace. A questa fu reso noto l'inganno del corteggiatore, e il matrimonio segreto della sorella. A quella notizia i colori abbandonarono, per sempre, le guance e le labbra della signorina Grace; e più di una volta la si udì minacciare che prima o poi si sarebbe vendicata. La signora Stark cominciò ad essere usata come spia nelle camere ad est. In una terribile nottata, proprio all'inizio del nuovo anno, mentre una spessa coltre di neve copriva ogni cosa, e i fiocchi cadevano tanto fitti da annebbiare la vista di chiunque si trovasse all'aperto, si udì un forte, violento rumore; al di sopra di tutto la voce del vecchio Lord, che pronunciava terribili bestemmie e agghiaccianti maledizioni, e poi le grida di una bambina e gli orgogliosi toni di sfida di una donna altera. Un colpo, e un silenzio di morte, gemiti e pianti che si spegnevano in lontananza verso la collina. Il vecchio Lord radunò la servitù e comunicò a tutti, con terribili imprecazioni, che sua figlia era disonorata e che l'aveva cacciata di casa lei e la sua bambina - e se qualcuno avesse osato andare in suo aiuto, o fornirle cibo o alloggio, sarebbe stato maledetto per sempre. La signorina Grace gli era accanto, pallida e immobile, come pietrificata: quand'egli ebbe terminato, emise un lungo sospiro, come se si fosse liberata da un peso e avesse finalmente soddisfatto un antico desiderio. Da quel giorno il Lord non toccò più l'organo, e morì prima che l'anno fosse finito; né c'era da meravigliarsene! Infatti, la mattina successiva a quella notte di paura e di crudeltà, i pastori trovarono la signorina Maude seduta sotto gli alberi di agrifoglio, che, con un sorriso da demente, cullava una bimba morta, che aveva una brutta ferita sulla spalla destra. «Ma non fu quella ferita ad ucciderla», disse Dorothy, «bensì il freddo e il gelo. Ogni animale aveva la sua tana, ogni gregge il suo ovile - solo la bimba e la sua mamma erano state condannate a vagare tra le rupi! Ora sai tutto e mi chiedo se tu sia meno spaventata di prima!» Io avevo più paura che mai e non lo negai; avrei voluto che la signorina Rosamond e io fossimo lontane da quella casa spaventosa; ma non volevo lasciarla e non osavo portarla con me. Ma quale guardia le facevo, e come la tenevo sotto il mio controllo! Serravamo a chiave le porte e chiudevamo le imposte un'ora prima del buio, piuttosto che correre il rischio di farlo con cinque minuti di ritardo. Ciononostante, la mia piccola sentiva sempre i pianti e i lamenti della sventurata bambina, né riuscivamo a distoglierla dal desiderio di soccorrerla e salvarla dal vento e dalla neve. In questo pe-
riodo mi tenni il più possibile lontana dalla signorina Furnivall e dalla signora Stark: avevo paura di loro - capivo che nulla di buono poteva venire da quegli occhi vitrei, sempre assorti nei cupi ricordi di anni ormai trascorsi. Eppure, nel mio timore, nutrivo per loro, soprattutto per la signorina Furnivall, una strana pietà. Coloro che scendevano nella fossa non potevano avere uno sguardo più disperato del suo! Alla fine provai una tale pena per lei - che non parlava se non quando ve la costringevano - che cominciai a pregare per lei; insegnai anche alla signorina Rosamond a pregare per chi aveva commesso grave peccato; ma spesso, mentre lo faceva, lei si fermava ad ascoltare, si alzava ed esclamava: «Sento la bimba lamentarsi e piangere disperatamente, lasciala entrare, o morirà!». Una notte, subito dopo Capodanno, udii il campanello del salotto ovest che suonava tre volte, per chiamarmi. Non volevo lasciare sola la signorina Rosamond, benché fosse addormentata, poiché il vecchio Lord aveva suonato con più disperazione che mai, e temevo che la mia piccina potesse essere svegliata dalla voce della bambina fantasma; sapevo però che non avrebbe potuto vederla, perché le imposte erano ben chiuse. Così la sollevai dal letto, l'avvolsi in alcune coperte e la portai giù nel salotto, dove le vecchie signore erano intente al solito ricamo. Alzarono lo sguardo quando entrai, e la signora Stark mi chiese stupita: «Perché mai avete strappato la signorina al caldo del suo letto?». «Perché temevo», sussurrai, «che potesse essere attirata dalla misteriosa bambina sulla neve.» Mi interruppe bruscamente (con un'occhiata alla signorina Furnivall) e disse che la signorina Furnivall desiderava che disfacessi un lavoro sbagliato, che nessuna delle due riusciva a riprendere. Adagiai la mia piccina sul divano e sedetti su di uno sgabello vicino a loro, cercando di indurire il mio cuore, perché sentivo il vento alzarsi e ululare. La signorina Rosamond dormiva, malgrado il frastuono del vento che fischiava, la signorina Furnivall non diceva una parola, né alzava lo sguardo, quando le raffiche facevano tremare le finestre. Ma tutt'a un tratto si alzò e sollevò una mano, come per imporci silenzio. «Sento delle voci», disse, «sento delle urla terribili - sento la voce di mio padre!» Proprio in quel momento la mia piccola si destò con un sobbalzo: «La mia piccola amica sta piangendo, oh come sta piangendo!». Cercò di alzarsi per andare da lei, ma si trovò i piedi impigliati nella coperta, ed io l'afferrai perché non cadesse. Tutto il mio corpo era scosso da brividi, a sentire parlare di questi rumori e di queste parole che noi non potevamo udire.
Ma in pochi minuti crebbero fino a giungere anche alle nostre orecchie, e così udimmo voci, urla, lamenti, invece dell'infuriare del vento invernale. La signora Stark e io ci guardammo, ma non osammo parlare. Improvvisamente la signorina Furnivall si avviò verso la porta, attraversò l'anticamera, passando per il corridoio ovest, e aprì la porta del grande salone. La signora Stark la seguì e io non osai rimanere sola, anche se il mio cuore sembrava sul punto di fermarsi per la paura. Tenendo stretta fra le braccia la piccola, andai con loro. Nel salone le grida erano ancora più forti; sembravano provenire dall'ala est, e avvicinarsi sempre più alle porte chiuse a chiave. Notai allora che il grande candelabro d'argento appariva tutto illuminato, anche se la sala era al buio e un fuoco ardeva nel vasto camino, ma senza dare calore; rabbrividii di terrore e strinsi ancora di più la mia bambina. Ed ecco che improvvisamente la porta est tremò e lei, divincolandosi per liberarsi, si mise a gridare: «Hester, devo andare! La mia bambina è lì; la sento, sta venendo! Hester, devo andare!». La tenni stretta con tutte le mie forze; la stringevo a me con grande decisione. Anche se fossi morta, le mie mani sarebbero rimaste aggrappate a lei, tanto radicata nella mia mente era questa volontà. La signorina Furnivall rimaneva in ascolto, senza far caso alla mia piccina che ora era a terra, e a cui io, in ginocchio, cingevo il collo con le braccia, mentre lei continuava a gridare e ad agitarsi per liberarsi. All'improvviso la porta est cedette con un grande frastuono, come spalancata da una forza irresistibile, e in una vivida e misteriosa luce, entrò un uomo alto, con i capelli grigi e gli occhi scintillanti. Spingeva, con un'espressione di odio implacabile, una donna bellissima, che procedeva rigida, con una bimba aggrappata alle vesti. «Oh Hester! Hester», urlò la signorina Rosamond. «È la signora. La signora che era sotto l'albero di agrifoglio; e la mia bambina è con lei. Hester! Hester! Lasciami andare da lei; mi chiamano, lo sento. Devo andare!» Faceva sforzi convulsi per staccarsi e io la tenevo tanto stretta da temere di farle del male; ma sarebbe comunque stato meglio che consentirle di avvicinare quei fantasmi terrificanti! Essi avanzarono verso la grande porta del salone, dove i venti ululavano e infuriavano in cerca di preda; prima di raggiungerla, la donna si voltò, sfidando il vecchio con altero disprezzo, ma subito ebbe paura e con un gesto disperato sollevò le braccia per proteggere la figlia, la sua piccina, da un colpo della stampella, che era già alzata.
La signorina Rosamond era più sconvolta di me, e rabbrividì fra le mie braccia singhiozzando (la povera piccina a questo punto si sentiva mancare). «Vogliono ch'io vada sulle rupi con loro, mi chiamano. Oh, piccola mia! Vorrei venire, ma questa malvagia e crudele Hester mi trattiene a forza!» Ma quando vide la gruccia alzata, svenne e io ne resi grazie a Dio. In quel momento, mentre il vecchio, con la chioma scarmigliata e ondeggiante, stava per colpire la bambina atterrita, la signorina Furnivall, accanto a me, esclamò: «Padre, padre! Risparmia la bambina innocente!». Allora io vidi, noi tutti vedemmo, un'altra figura materializzarsi e farsi distinta nella incerta luce azzurrognola della sala; nessuno l'aveva vista finora: era un'altra figura di donna, accanto a quella del vecchio, con uno sguardo carico di odio implacabile e di trionfante disprezzo. Era molto bella, con un ampio e morbido cappello bianco, un po' ripiegato in avanti sulla fronte orgogliosa e le labbra vermiglie atteggiate in un'espressione di disprezzo. Indossava un abito di satin blu aperto sul davanti; io avevo già visto quell'immagine. Era quella della signorina Furnivall da giovane. I paurosi fantasmi avanzavano, incuranti della supplica della signorina Furnivall. La gruccia colpì la spalla destra della bambina, mentre la sorella più giovane guardava con atroce impassibilità. In quel momento le deboli luci e il fuoco senza calore si spensero e la signorina Furnivall cadde ai nostri piedi, colpita da paralisi, vicina alla morte. Quella notte fu portata nel suo letto; non se ne alzò mai più. Giaceva con il volto verso il muro, mormorando piano, ma continuamente: «Ahimè! Alle colpe di gioventù non si può porre rimedio in vecchiaia! Alle colpe di gioventù non si può porre rimedio in vecchiaia!». FITZ-JAMES O'BRIEN La stanza perduta Il caldo è oppressivo. Il sole, da lungo scomparso, sembra aver lasciato dietro di sé lo spirito vitale del suo calore. L'aria è immobile; le foglie delle acacie che ombreggiano le mie finestre, pendono come piombo dai rami delicati. Il fumo del mio sigaro si solleva appena al di sopra della mia testa, ma mi avvolge in una nuvola azzurrina, che devo dissipare con languidi movimenti della mano. La mia camicia è sbottonata sul collo, e il petto mi si solleva faticosamente nello sforzo di respirare qualche boccata di aria più fresca. I rumori della città sembrano avvolti nel sonno, e il ronzio delle
zanzare è l'unico rumore che spezza la quiete. Mentre sono disteso, con i piedi appoggiati alla spalliera di una sedia, preso da quella particolare disposizione della mente nella quale il pensiero assume un movimento senza vita, vengo colto dalla strana fantasia di fare un languido inventario dei principali pezzi che arredano la mia stanza. È un compito adatto all'umore del momento. Le loro forme sono definite vagamente nella penombra che riempie d'ombre la camera. Non è una fatica prendere nota e osservare i particolari di ciascun pezzo. Dal posto in cui mi trovo, posso vedere tutti i miei possedimenti senza nemmeno voltare il capo. C'è, in primis, quella litografia spettrale di Calame. È solo una macchia nera sulla parete bianca, ma la mia vista interiore esamina ogni particolare del quadro: una brughiera selvaggia, desolata, con una quercia spettrale in primo piano. Il vento soffia violento, e i rami frastagliati, a malapena coperti di foglie malaticce, sono continuamente spinti verso sinistra dalla sua forza gigantesca. Un manto informe di nubi sciama nel cielo spaventoso, e la pioggia cade sferzante, quasi parallela all'orizzonte. Al di là, la brughiera si stende nelle tenebre infinite, all'estremità delle quali la fantasia oppure l'arte hanno evocato delle forme indefinibili che sembrano innalzarsi verso lo spazio. Alla base dell'enorme quercia si erge una figura ammantata. Il suo mantello è avvolto dalla furia del vento in strette pieghe intorno al suo corpo, e la lunga piuma di gallo sul cappello si innalza, come se fosse ritta per la paura. I suoi tratti non sono visibili, perché tiene fermo il mantello con entrambe le mani, e con quel lembo si copre il volto. Quel quadro sembra senza scopo. Non racconta niente, ma in esso c'è un potere magico che fa paura. Dopo il quadro viene la macchia rotonda che è appesa al di sotto della litografia. So che si tratta del mio cappello. Ha il mio stemma ricamato sul davanti, e per questa ragione non l'indosso mai; anche se quando è messo nel modo appropriato sulla mia testa, con la lunga nappa di seta azzurra che mi pende lungo la guancia, credo che mi doni. Ricordo il periodo in cui stavano facendo quel cappello. Ricordo le sottili manine che spingevano con abilità la seta colorata attraverso la stoffa che era tesa sul telaio da ricamo. Rammento il grande problema che creai desiderando di avere una copia a colori delle mie insegne per il lavoro araldico che doveva decorare la parte anteriore del cappello. Ricordo l'in-
cresparsi della piccola bocca, e il corrugarsi della giovane fronte, mentre la loro proprietaria si immergeva in un profondo mare di meditazioni sul modo in cui rappresentare la nuvola da cui la mano armata, che è la mia insegna, emerge. Ricordo il momento celestiale in cui le piccole mani lo posarono sul mio capo, in una posizione tale che non si manteneva per più di qualche secondo. E io, simile a un re, assunsi immediatamente le mie prerogative regali dopo l'incoronazione, e all'istante riscossi il tributo dal mio unico suddito, che fu, però, ben lieto di pagarlo. Ah, il cappello era ancora lì, ma la ricamatrice era fuggita. Atropos stava recidendo la tela della vita al di sopra del suo capo mentre lei intesseva quello scudo di seta per me! Quanto grottesco si profila nell'incerta penombra l'enorme piano che occupa l'angolo alla sinistra della porta! Io non suono né canto, eppure ho un piano. È una consolazione per me guardarlo, e sentire che la musica è lì, anche se non sono capace di rompere l'incantesimo che la tiene avvinta. È piacevole sapere che Bellini e Mozart, Cimarosa, Porpora, Gluck, e tutti i loro pari - o almeno, le loro anime - dormono in quella goffa cassa. Lì giacciono imbalsamate, per così dire, tutte le opere, le sonate, gli oratori, i notturni, le marce, le canzoni e le danze, che sono venute alla luce attraverso le quattro sbarrette che imprigionano una melodia. Una volta fui interamente ripagato dell'investimento dei miei fondi in quello strumento che non ho mai usato. Blokeeta, il compositore, venne a trovarmi. Naturalmente, il suo istinto lo spinse irresistibilmente verso il mio piano, come se al suo interno vi fosse un potere magnetico che lo costringeva ad avvicinarsi. Lo accordò, e lo suonò. Per tutta la notte, finché non sorse un'alba grigia e spettrale, egli suonò, e io fumai accanto alla finestra, e ascoltai. Selvagge, ultraterrene, e a volte intollerabilmente dolorose, erano le improvvisazioni di Blokeeta. Le corde dello strumento sembravano spezzarsi per l'angoscia. Anime perdute urlavano nei suoi preludi disperati. Le grida indistinte degli spiriti in pena, che cercavano da distanze inconcepibili qualcosa di bello o di armonioso, sembravano emergere cupe dalle onde di suono che si raccoglievano sotto le sue mani. L'amore umano per la malinconia errava su brughiere lontane, o al di sotto di cipressi foschi e stillanti, mormorando il suo dolore senza riposo. Odiosi gnomi scherzavano e cantavano nelle paludi stagnanti, e cantavano in toni ultraterreni il loro trionfo sul cavaliere che avevano attirato verso la morte. Tale fu l'intrattenimento notturno di Blokeeta; e, quando alla fine chiuse il piano e si affrettò ad uscire nella gelida mattina, lasciò un ricordo in
quello strumento da cui non mi sono mai più liberato. Quelle racchette da neve che sono appese nello spazio tra lo specchio e la porta mi ricordano i vagabondaggi canadesi. Una lunga corsa attraverso le fitte foreste, sulla neve ghiacciata, nella cui crosta scintillante gli snelli zoccoli del caribù che inseguivamo affondavano ad ogni passo, finché la povera creatura fu braccata dai cani in un piccolo bosco di ginepri, e noi senza cuore - lo abbattemmo. E ricordo come Gabriel, il canadese d'origine francese, e François, il mezzosangue, gli tagliarono la gola, e come il sangue caldo scorresse in un torrente sulla terra innevata. E ricordo la cabane di neve che Gabriel costruì, dove noi tre dormimmo nel tepore. E rammento il grande fuoco che bruciava ai nostri piedi, dipingendo ogni sorta di forme demoniache sullo schermo nero della foresta. Ricordo le bistecche di cervo che arrostimmo per la colazione, e l'ubriachezza selvaggia di Gabriel la mattina, visto che per tutta la notte aveva bevuto da solo la sua fiaschetta di brandy. Quel lungo pugnale senza elsa, appeso al di sopra della mensola del camino, gonfia d'orgoglio il mio cuore. L'ho trovato, da bambino, in un castello antico e venerabile nel quale un tempo visse uno dei miei antenati materni. Quello stesso antenato - che, tra parentesi, vive ancora negli annali storici - era uno strano capo di pirati, che dimorava nella punta più estrema della costa sud-occidentale dell'Irlanda. Possedeva tutta quella fertile isola chiamata Inniskeiran, che fronteggia Cape Clear. Tra l'isola e il promontorio, l'Atlantico infuria formando quello che i pescatori locali chiamano Sound. È un posto orribile d'inverno quel Sound. Certi giorni non può traversarlo nessuna imbarcazione, e Cape Clear è spesso tagliato fuori per giorni e giorni da ogni comunicazione con la terraferma. Questo vecchio capo di pirati - di nome Sir Florence O'Driscoll - trascorse una vita tempestosa. Dall'alto del suo castello guardava l'oceano e, quando un vascello dal ricco carico, diretto da sud agli industriosi mercati del Galloway, appariva all'orizzonte, Sir Florence innalzava le vele del suo galeone, ed erano guai se non riusciva a trainare nel porto la nave e la ciurma. Questo era il modo in cui viveva; non un modo molto onesto di guadagnarsi da vivere, certamente, secondo le nostre idee moderne, ma assolutamente conciliabile con la morale del tempo. Come è prevedibile, a un certo punto Sir Florence si trovò nei guai. I mercanti depredati si lagnarono di lui presso la Corte inglese, e il vichingo irlandese partì per Londra, a perorare la propria causa davanti alla Buona Regina Bess, com'era chiama-
ta. Lui aveva una sola raccomandazione potente: era un uomo meravigliosamente bello. Non celtico d'origine, ma metà spagnolo e metà danese, aveva l'alta statura settentrionale con i tratti regolari, gli occhi di fuoco e i capelli scuri della razza iberica. Questo può spiegare il fatto che il suo soggiorno presso la Corte inglese fu più lungo del necessario, così come la leggenda tramandata da uno storico locale, secondo la quale la Regina inglese maturò una predilezione per il pirata irlandese, di natura diversa da quella di solito mostrata da un monarca verso i propri sudditi. Prima della partenza, Sir Florence aveva affidato la cura delle sue proprietà a un inglese di nome Hull. Durante la lunga assenza del Cavaliere, questa persona riuscì a ingraziarsi le autorità locali, e a guadagnarsi i loro favori, al punto che erano disposti ad appoggiarlo in ogni trama, anche la più perversa. Dopo un soggiorno protrattosi a lungo, Sir Florence, perdonato di tutti i suoi misfatti, tornò alla sua casa. Ma non era più la sua casa. Hull se n'era impossessato, e rifiutava di cedere anche un solo acro delle terre che aveva acquistato illegalmente. Fu inutile appellarsi alla legge, perché i suoi rappresentanti difendevano gli interessi del suo nemico. E fu inutile appellarsi alla Regina, perché lei ora aveva un amante, e aveva ormai dimenticato il suo povero cavaliere irlandese. Di conseguenza, il vichingo trascorse la parte migliore della sua vita in vani tentativi di reclamare la sua vasta proprietà, e infine, in tarda età, fu costretto ad accontentarsi del suo castello a picco sul mare e dell'isola di Inniskeiran, le uniche proprietà di cui l'usurpatore non era riuscito a privarlo. La vecchia storia del mio antenato si staglia nelle tenebre che avvolgono il pugnale senza elsa. Fu nel modo succitato che feci un inventario della mia proprietà personale. Quando spostavo lo sguardo su ciascun oggetto, uno dopo l'altro oppure sui posti dove si trovavano gli oggetti, visto che la stanza era ormai così buia che era quasi impossibile vedere distintamente - una folla di ricordi connessi a ciascuno mi attorniava e, per forza, dovevo indulgere ad essi. Di conseguenza procedetti con grande lentezza e, alla fine, il mio sigaro divenne un mozzicone amaro e bruciante che riuscivo a malapena a tenere tra le labbra, mentre mi sembrava che la notte divenisse ad ogni momento più intollerabilmente oppressiva. Mentre consideravo alcuni sistemi impossibili per raffreddare il mio
sventurato corpo, il mozzicone di sigaro cominciò a bruciarmi le labbra. Lo gettai con rabbia dalla finestra aperta, e mi chinai fuori a guardarlo cadere. Dapprima illuminò le foglie dell'acacia, sprigionando un turbine di scintille rosse, poi, continuando a rotolare, cadde a piombo sul buio vialetto del giardino, illuminando per un attimo gli alberi cupi e i fiori immobili. Forse a causa del contrasto tra il lampo rossastro del mozzicone e la silenziosa oscurità del giardino, o forse perché alla luce improvvisa scorsi un lieve ondeggiare delle foglie, pensai che il giardino fosse più fresco. Farò una passeggiata, pensai, così come sto. Non può fare più caldo che in una stanza e, per quanto l'aria sia immobile, c'è sempre una sensazione di libertà e di spazio all'aria aperta, che in parte soddisfa i desideri. Con quest'idea in mente, mi alzai, accesi un altro sigaro, e passai nei lunghi corridoi intricati che portavano alla scala principale. Con quale diverso sentimento avrei attraversato la soglia della mia stanza, se avessi saputo che non vi avrei più rimesso piede! Vivevo in una casa molto grande, nella quale occupavo due stanze al primo piano. La casa era antica, e tutti i piani comunicavano grazie a un'enorme scalinata circolare che saliva a spirale al centro della costruzione, mentre ad ogni pianerottolo lunghi tortuosi corridoi si perdevano in lontananza in misteriosi angoli e recessi. La mia casa era molto alta, e le sue risorse, sotto forma di crepe e sinuosità, sembravano infinite. Niente sembrava mai fermarsi in qualche punto. I cul-de-sac erano ignoti in quell'edificio. I corridoi e i passaggi, come linee matematiche, sembravano capaci di estensioni indefinite. Lo scopo dell'architetto doveva essere stato quello di erigere un edificio nel quale la gente potesse camminare all'infinito. Tutta la costruzione era tetra, non tanto perché era grande, ma perché una nudità ultraterrena sembrava pervaderne la struttura. Le scale, i corridoi, le sale e i vestiboli, condividevano tutti una desolazione angosciosa. Non c'era niente sulle pareti a interrompere la triste monotonia di quelle lunghe visioni d'ombra. Nessun intaglio sul legno che rivestiva le pareti, nessuna maschera di gesso guardava in basso dalle cornici semplici e severe, nessun vaso di marmo sui pianerottoli. C'erano una tetraggine e una mancanza di vita - tanto rare in una casa americana - che incombevano su tutta la dimora. Era una casa abitata dai fantasmi, rimessa a posto e ridipinta. Anche la servitù era tenebrosa, e parca di visite. I campanelli suonavano tre volte prima che la tetra cameriera venisse indotta a presentarsi. E il cameriere
negro, una creatura dall'aria di un ghoul, proveniente dal Congo, obbediva ai richiami solo quando la pazienza del padrone si esauriva, oppure quando i suoi bisogni venivano soddisfatti in qualche altro modo. Quando poi arrivava, ci si rammaricava di averlo chiamato, tanto fosco e selvaggio era il suo aspetto. Si muoveva lungo i corridoi privi di eco, con uno zoppichio lento, silenzioso, finché la sua figura cupa, emersa dalle tenebre, non appariva, simile a un genio cattivo, costretto dal potere del suo padrone a rivelarsi. Quando le porte di tutte le camere erano chiuse, e nessuna luce illuminava il lungo corridoio tranne il bagliore rossastro ed empio di una piccola lampada a olio posta su un tavolo, dove i defunti inquilini accendevano le loro candele, non si poteva non evocare prospettive ancora più tristi e desolate. Eppure quella casa mi si adattava. Dalle abitudini meditative e sedentarie, apprezzavo l'estrema quiete. C'erano solo pochi inquilini, dal che dedussi che al padrone di casa non andavano bene gli affari. Quei pochi inquilini, probabilmente oppressi dallo spirito cupo del luogo, erano silenziosi e spettrali nei loro movimenti. Il proprietario lo avevo visto raramente. I miei conti erano depositati da mani invisibili sul mio tavolo una volta al mese, mentre io ero fuori a camminare o a cavalcare, e il mio corrispettivo pecuniario veniva affidato al servo spettrale. In complesso, se si prende in considerazione lo spirito dinamico e vigile di New York, il carattere tetro, semianimato della casa in cui vivevo, era un'anomalia che nessuno poteva apprezzare meglio di me che vi abitavo. Scesi a tentoni lungo l'ampia e buia scalinata, alla ricerca degli zefiri. Il giardino, quando uscii, sembrava alquanto più fresco della mia stanza, e allora fumai un sigaro lungo il viale buio e oscurato dai cipressi, con una sensazione di relativo sollievo. Era molto buio. Gli alti fiori che bordavano il sentiero, erano così avvolti nel buio, da presentare l'aspetto di solide masse piramidali, visto che i particolari delle foglie e dei petali erano sepolti in un'oscurità che avvolgeva tutto. Gli alberi avevano perso ogni forma, e sembravano masse di nubi incombenti. Erano un luogo e un momento che eccitavano l'immaginazione; perché, nelle impenetrabili cavità delle tenebre infinite, c'era spazio per le fantasie più ribelli. Camminai, e gli echi dei miei passi sul sentiero muschioso e privo di ghiaia suggerivano una duplice sensazione. Mi sentivo solo, eppure in compagnia, nello stesso tempo. La solitudine del luogo era evidente nel si-
lenzio, rotto solo dall'eco sordo dei miei passi, mentre quella stessa eco sembrava pervadermi della sensazione indefinita di non essere solo. Non fui perciò molto sorpreso, quando venni d'improvviso interpellato da una voce proveniente dalla solitaria oscurità di un immenso cipresso. La voce disse: «Mi fareste accendere, signore?». «Certamente», replicai, cercando invano di scorgere la persona che aveva parlato con quel tono impenetrabile. Qualcuno si fece avanti, e io porsi il mio sigaro. L'unico particolare che riuscii a scorgere dell'individuo che mi si avvicinò, fu la sua statura estremamente bassa. Io, che non sono assolutamente alto, dovetti chinarmi considerevolmente per passargli il mio sigaro. La vigorosa boccata che diede al sigaro fece brillare con violenza il mio avana, e mi parve di vedere in quel breve attimo un viso pallido, strano, incorniciato da capelli lunghi e incolti. La luce fu, però, così veloce, che non potrei dire con certezza se fu un'impressione reale o solo uno sforzo dell'immaginazione a dare corpo a quello che i miei sensi non avevano distinto. «Signore, siete in ritardo», mi disse lo sconosciuto, mentre, con un grazie sussurrato, mi restituiva il sigaro, che dovetti afferrare a tentoni nel buio. «Non è più tardi del solito», replicai seccamente. «Uhm! Siete amante delle passeggiate notturne, allora?» «Solo quando me ne prende la fantasia.» «Vivete qui?» «Sì.» «Strana casa, non è vero?» «Io la trovo tranquilla.» «Uhm! Ma la troverete di certo più strana: avete la mia parola!» Quest'ultima frase fu pronunciata in fretta; e, nello stesso tempo, avvertii un dito ossuto posarsi sul mio braccio, tagliente come la lama di un coltello. «Non posso prendere per buona la vostra parola circa un'asserzione come questa», replicai con maleducazione, allontanando il dito ossuto con un irrefrenabile moto di disgusto. «Non offendete, non offendete...», mormorò rapidamente il mio invisibile compagno, con una voce strana e sommessa che, se fosse stata più alta, sarebbe stata stridula. «La vostra ira non cambia la faccenda. La troverete una strana casa... Tutti la trovano una strana casa. Sapete chi vi abita?»
«Non mi occupo mai dei fatti altrui, signore», risposi in tono tagliente, perché le maniere di quell'individuo, unite alla mia assoluta ripugnanza riguardo al suo aspetto, mi opprimevano con un desiderio tedioso di liberarmi di lui. «Oh, voi non ve ne occupate? Beh, io sì. Io so chi sono... bene, bene, bene!» E, mentre pronunciava le ultime tre parole, la sua voce si alzò progressivamente, finché l'ultima non fu altro che uno strillo acuto che echeggiò orribilmente tra i viali solitari. «Sapete che cosa mangiano?», continuò. «No, signore, non mi importa.» «Oh, vi importerà... Ve ne dovrà importare! Ve ne importerà. Vi dico io chi sono. Sono stregoni... Sono ghoul... Sono cannibali. Non avete mai notato i loro occhi, e in che modo vi divorano con lo sguardo quando passate? Non avete mai notato il cibo che vi servono? Non avete mai sentito, nel cuore della notte, passi felpati e soprannaturali scivolare lungo i corridoi, e mani furtive girare la maniglia della vostra porta? Non vi sentite avvolto da una forza magnetica quando passano e fanno fremere la vostra anima e il vostro corpo e li fanno tremare di un brivido freddo che nessun sole riesce a scacciare? Oh, l'avete sentito! Avete sentito tutte queste cose! Lo so!» L'ansiosa rapidità, i toni sommessi, e l'urgenza con cui tutto ciò fu detto, mi fecero una pessima impressione. Mi parve di ricordare veramente tutti quegli avvenimenti insoliti e quegli influssi maligni di cui aveva parlato. Mio malgrado tremai, in quel buio impenetrabile che mi circondava. «Uhm!», dissi assumendo, senza rendermene conto, un tono confidenziale. «Posso chiedervi come fate voi a sapere queste cose?» «Come faccio a saperle? Perché io sono loro nemico, perché essi tremano al mio sussurro, perché seguo le loro tracce con la perseveranza del segugio e la furtività di una tigre, perché... perché un tempo ero uno di loro!» «Sventurato!», gridai eccitato, dato che involontariamente i suoi timbri di voce ansiosi mi avevano portato all'apice del nervosismo. «Allora volete dire che voi...» Mentre pronunciavo questa parola, obbedendo a un impulso incontrollabile, tesi in avanti la mano in direzione dello sconosciuto, e tentai di toccarlo. Le punte delle mie dita toccarono una superficie levigata come il vetro, che scivolò istantaneamente sotto di loro. Un sibilo rabbioso, acuto, risuonò nel buio, seguito da un ronzio, e il momento successivo sentii istintivamente di essere rimasto solo. Una sensazione sgradevole mi assalì improvvisamente: il presentimento
che una terribile disgrazia mi minacciava, unito a un'ansia incontrollabile e violenta di tornare nella mia stanza senza perdere tempo. Mi girai e corsi ciecamente lungo il cupo viale di cipressi, e ogni macchia più scura di fiori che si alzava ai bordi, faceva cessare di battere il mio cuore. Gli echi dei miei passi parvero raddoppiare e assumere il rumore di sconosciuti inseguitori che fossero sulle mie tracce. I rami dei cespugli di serenelle e di lillà che in alcuni punti sporgevano sul viale, sembravano improvvisamente muniti di mani a uncino che cercavano di afferrarmi. Da un momento all'altro poi, mi aspettavo di veder cadere una barriera orribile e invalicabile sul mio cammino, che mi bloccasse per sempre. Alla fine raggiunsi l'ampia entrata. Con un balzo oltrepassai i quattro o cinque scalini che conducevano alla porta, e mi precipitai lungo l'atrio, dove salii la scalinata ampia ed echeggiante. Corsi lungo i corridoi bui e funerei finché non mi fermai, senza fiato e ansimante, alla porta della mia stanza. Arrivato alla mia meta, mi fermai per un istante e mi appoggiai con tutto il peso a uno dei pannelli, stremato da quella mia ultima corsa. Ma avevo appena appoggiato tutto il mio peso alla porta, quando questa improvvisamente cedette, e mi ritrovai nella stanza. Con mio grande stupore, la camera che avevo lasciato nel buio più profondo era ora abbagliante di luci. L'illuminazione era così intensa che, per qualche secondo, mentre le mie pupille si contraevano per l'improvviso cambiamento, non vidi assolutamente niente tranne il bagliore accecante. Il fatto in sé, che mi aveva colto di sorpresa, fu sufficiente a prolungare la mia confusione, e solo dopo parecchi minuti mi accorsi che la stanza non solo era illuminata, ma anche occupata. E da quali persone! Lo stupore nel vedere quella scena fu tale che fui incapace sia di muovermi sia di dire una sola parola. Riuscii solo ad appoggiarmi alla parete, e a fissare con lo sguardo vacuo quello strano quadro. Avrebbe potuto essere una scena tratta da Faublas, o dalle Memorie di Grammont, o accaduta in uno dei palazzi del ministro Fouquet. Intorno a un grande tavolo nel centro della stanza, dove avevo lasciato il disordine di carte e libri tipico di uno studioso, era seduta una mezza dozzina di persone. Erano tre uomini e tre donne. La tavola era apparecchiata con sfarzo. Succulenti frutti esotici erano sistemati a piramide in vasi di filigrana d'argento, attraverso i cui trafori le bucce brillanti scintillavano in mille sfumature di colore. Piattini d'argento che avrebbe potuto disegnare Benvenuto Cellini, colmi di cibi saporiti e aromatici, erano sparsi su una
tovaglia di candido damasco. Bottiglie d'ogni forma, quelle snelle del Reno, quelle robuste dell'Olanda, quelle grasse della Spagna, e le bottiglie impagliate e graziose dell'Italia, erano sparpagliate su tutto il tavolo. Bicchieri d'ogni misura e colore riempivano gli spazi vuoti, e gli assetati boccali tedeschi stavano fianco a fianco agli aerei calici di vetro veneziano che si poggiavano lievi sugli steli filiformi. Un odore di lussuria e sensualità riempiva la stanza. Le lampade che bruciavano in ogni direzione sembravano diffondere in aria un incenso delicato e, in un grande vaso posato a terra, vidi una massa di magnolie, tuberose e gelsomini che, strette le une alle altre, si soffocavano a vicenda con la loro fragranza mieloide e pesante. Gli occupanti della stanza sembravano adatti a una simile atmosfera sensuale. Le donne erano di una strana bellezza, ed erano abbigliate con vesti dagli ornamenti e dai colori fantastici e brillanti. Avevano figure rotonde, morbide, ed elastiche. I loro occhi erano scuri e languidi, e le labbra piene, mature, e di un rosso acceso. I tre uomini indossavano delle maschere, cosicché riuscii a vederne solo le mascelle pesanti, le barbe a punta, e le gole muscolose che emergevano come massicce colonne dai farsetti. Tutti e sei erano semisdraiati su dei triclini romani che attorniavano il tavolo, e bevevano i vini purpurei a grandi sorsi, gettando indietro la testa e ridendo selvaggiamente. Restai - credo tre minuti - con la schiena appoggiata alla parete a fissare quella visione bacchica, prima che qualcuno dei gozzoviglianti si accorgesse della mia presenza. Alla fine, senza farmi capire se ero stato notato fin dal primo momento, due delle donne si alzarono dai triclini e, avvicinatesi, mi presero ognuna per una mano e mi condussero al tavolo. Obbedii meccanicamente ai loro cenni. Sedetti su un triclinio che era tra di loro, come mi avevano indicato. Senza oppormi, permisi loro di avvolgermi le braccia intorno al collo. «Devi bere», disse una, e mi riempì un grande bicchiere di vino rosso, «questo è un Clos Vougeot di un'annata rara, e questo è», aggiunse, spingendo verso di me un vino ambrato, «il Lachryma Christi.» «Devi mangiare», disse l'altra, e tirò verso di sé alcuni piatti d'argento. «Qui ci sono cotolette stufate con le olive, e qui ci sono fette di filet imbottite di castagne dolci.» Mentre parlava, senza aspettare una risposta, procedette ad aiutarmi. La vista del cibo mi ricordò gli avvertimenti che avevo ricevuto in giardino. Questo improvviso sforzo della memoria mi restituì nello stesso i-
stante tutte le altre facoltà. Balzai in piedi, e allontanai le due donne, ognuna con una mano. «Demoni!», gridai. «Non mangerò nessuno dei vostri cibi maledetti. Vi conosco. Siete cannibali, siete ghoul, siete stregoni! Andatevene, ve lo ordino! Lasciate stare la mia stanza!» Uno scoppio di risate da parte di tutti e sei fu l'unico effetto prodotto dal mio appassionato discorso. Gli uomini si rotolavano sui triclini, e le loro maschere tremavano per le convulsioni della loro allegria. Le donne strillavano, e lanciavano in aria gli alti bicchieri di vino. Si girarono verso di me e si gettarono sul mio petto a singhiozzare per le risate. «Sì», continuai, non appena la rumorosa allegria si fu calmata. «Sì, vi dico, lasciate immediatamente la mia stanza! Non voglio che teniate qui le vostre orge contro natura!» «La sua stanza!», strillò la donna alla mia destra. «La sua stanza!», fece eco quella alla sua sinistra. «La sua stanza! La chiama la sua stanza!», gridò tutto il gruppo, mentre ognuno si rotolava in preda a risate convulse. «Come fai a sapere che questa è la tua stanza?», disse alla fine uno degli uomini seduto di fronte a me, dopo che le risate si furono placate. «Come faccio a saperlo?», replicai, indignato. «Come faccio a sapere che questa è la mia stanza? Come potrei sbagliarmi? Ci sono i miei mobili, il mio piano...» «Lo chiama piano!», gridarono tutti. L'enfasi particolare che avevano dato alla parola «piano» mi fece esaminare con più attenzione l'oggetto che indicavo. Fino a quel momento, sebbene stupefatto dall'intrusione di quelle persone nella mia stanza, e pur collegandola ai racconti tremendi che avevo sentito in giardino, avevo ancora la vaga idea che tutta quella faccenda fosse una sorta di grossa presa in giro allestita frettolosamente durante la mia assenza, e anche che l'orgia baccanalesca cui avevo assistito non fosse altro che una parte di quell'elaboratissima beffa di cui a me era stato assegnato il ruolo della vittima. Ma, quando i miei occhi si fissarono sull'angolo dove avevo piazzato il mio grande e austero piano, e lo vidi invece occupato da un massiccio organo le cui canne si elevavano fino al soffitto, l'aria tranquilla che fino a quel momento, malgrado tutto, mi aveva ancora pervaso, svanì di colpo e mi fece sprofondare nello sbalordimento più completo. In un modo o nell'altro, in quel luogo ogni cosa era infatti cambiata. Al posto di quel vecchio pugnale senza manico, collegato a tante associazioni
storiche mie personali, stavo invece fissando una spada turca che pendeva da una splendida cintura di bellissima seta cremisi, mentre le gemme dell'elsa scintillavano sotto la luce della lampada. Dove invece avevo appeso il mio classico cappelletto un po' consumato, ora c'era un luccicante elmo da cavaliere, sulla cui cresta spiccava il simbolo di un drago sul punto di prendere il volo. La strana litografia di Calame non era più una litografia, ma sembrava che la porzione di muro che essa aveva ricoperto, fosse stata letteralmente ritagliata via, e in luogo del disegno, era adesso visibile una scena autentica con la medesima prospettiva, e con personaggi reali. Anche la vecchia quercia era lì, e c'era pure il cielo tempestoso; ma adesso i rami dell'albero si piegavano sotto la sferza del vento infuriato, mentre le nubi minacciose si muovevano ribollenti in alto. Il vagabondo con il mantello se n'era andato via, ma al suo posto ora stavo fissando un gruppo di uomini e di donne che, tenendosi per mano, formavano un cerchio attorno all'enorme albero antico, elevando strane cantilene cupe mentre il lugubre gemito del vento sembrava quasi un contrappunto naturale. Erano infine svaniti anche gli stivali da neve con i quali avevo vagato su tante distese immacolate del Canada, sostituiti da un paio di curiose scarpe turche leggerissime e con la punta ricurva. Tutto era mutato. Dovunque si posava il mio sguardo, non trovavo più gli oggetti familiari, ma solo cose del tutto sconosciute. Eppure, in un certo senso, ognuna di quelle nuove cose ricordava vagamente gli oggetti di cui esse avevano preso il posto, tanto che poteva quasi sembrare che quel mutamento prodigioso dovesse essere solo momentaneo e che comunque, anche se in senso lato, l'atmosfera e il tono non erano cambiati. Di conseguenza potevo ancora affermare che quella era la mia stanza, anche se lì dentro non c'era più una sola cosa che mi appartenesse. «Allora, hai deciso o no se questa è la tua stanza?», chiese la ragazza alla mia sinistra, tendendomi un largo calice colmo di champagne ed emettendo un sinistro risolino mentre mi parlava. «È la mia!», risposi confuso, e afferrai il bicchiere con un gesto troppo brusco, provocando così la caduta di un po' di quel vino aromatico sulla bianca coperta. «Guarda, guarda!», commentò lei, per nulla preoccupata dalla mia evidente tensione. «Sei troppo agitato. Alf ti suonerà qualcosa per calmarti un po'...» La ragazza fece un cenno, e uno degli uomini si sedette all'organo. Dopo
un breve, furioso e quasi spasmodico preludio, l'uomo prese a suonare con l'organo una melodia che pareva evocare in poche note un'intera sequenza di immagini. Cupa ma sobria, vibrante e come pregna di un'intensa agonia, quella musica pareva infatti ricreare l'atmosfera di una notte illune su una scogliera battuta dal vento, con l'oceano che sbatteva in continuazione contro le rocce con la furia senza tempo delle sue onde inquiete. Mi sembrò di vedere una coppia su quegli scogli sperduti: un uomo vivo e una donna morta. Lo sconosciuto stringeva teneramente tra le braccia l'amata, cercando disperatamente di riportarla alla vita, mentre il calore del suo corpo veniva ridotto sempre più dall'alito gelido del vento tempestoso. Di tanto in tanto, una nota acuta echeggiava nella melodia cupa, quasi a imitare il canto secco dei gabbiani che sfioravano le onde minacciose... o forse, più giustamente, quella nota riproduceva il grido di una persona morente. La musica dell'organo era proprio come una malia e di colpo mi resi conto che solo Blokeeta poteva suonare così. Il ricordo della meravigliosa notte di tormento e di piacere sublime che avevo passato ascoltandolo suonare, mi inondò all'improvviso e mi fece capire che forse quella esperienza meravigliosa era ricominciata, riprendendo esattamente dal punto e dal momento in cui era terminata la prima volta. Per questo fissai con gli occhi sgranati l'uomo che doveva chiamarsi Alf e che se ne stava seduto all'organo con indosso un ampio mantello e il volto coperto da una maschera di velluto nero: mi pareva ormai di riconoscere qualcosa di inequivocabilmente familiare nella sua barba appuntita e nella massa di capelli scarmigliati che gli cadevano sulle spalle... «Blokeeta! Blokeeta!», gridai a piena voce, rialzandomi di scatto dal giaciglio sul quale ero, e protesi le braccia in avanti come se solo in quell'istante le avessi finalmente avute sciolte da delle catene che me le avevano tenute bloccate. «Blokeeta! Amico mio... parla, ti imploro! Parla, e di' a questi orridi incantatori di andarsene via e di lasciarmi in pace! Di' loro che non li voglio più vedere. Di' che esigo che se ne vadano istantaneamente da questa stanza insieme a tutte le loro malie!» L'uomo seduto all'organo non rispose al mio appello. Smise di suonare, e il suono morente dell'ultima nota che aveva toccato si spense in un gemito malinconico. «Perché insisti a chiamarla la tua stanza?», disse la donna che mi era più vicina, con un sorriso che voleva essere gentile, ma che mi ispirò una ripugnanza inesprimibile. «Non ti abbiamo forse dimostrato col mobilio e con
l'aspetto generale che ti sei sbagliato, e che questo non può essere il tuo appartamento? Allora, resta con noi.» «Restare con voi?», risposi infuriato. «Vivere con dei fantasmi! Mangiare cibi orribili, e vedere scene spaventose! Mai, mai!» «Piano, piano!», disse un'altra sirena. «Sistemiamo la faccenda amichevolmente. Questo pover'uomo sembra ostinato e incline a fare una scenata.» «Allora», continuò, «ho una proposta da fare. Sarebbe ridicolo che noi cedessimo questa stanza solo perché questo signore afferma che è sua: eppure sono ansiosa di soddisfare, fin dove è possibile, la sua pretesa di proprietà. Una stanza, dopotutto, non è molto per noi. Possiamo trovarne facilmente un'altra, ma pure dovremmo essere riluttanti a cedere questa camera a una richiesta così imperiosa. Siamo disposti, però, a rischiare di perderla. Vale a dire», si rivolse a me, «che propongo di giocarci la stanza. Se tu vinci, noi te la cederemo immediatamente; se, al contrario, perdi, dovrai andartene.» Angosciato dai misteri sempre più oscuri che si infittivano intorno alla mia persona, e disperando di riuscire a svelarli con il solo esercizio della mia volontà, colsi quasi con gioia l'occasione che mi si presentava. «Sono d'accordo!», gridai, con ansia. «Sono d'accordo! Tutto pur di liberarmi di una simile compagnia ultraterrena!» La donna toccò una campanella d'oro che si trovava accanto a lei sul tavolo. Non appena finì di tintinnare, un nano negro entrò con un vassoio d'argento, sul quale c'erano dei bussolotti e dei dadi. Un brivido mi trapassò quando in quel rachitico negro mi parve di scorgere una rassomiglianza con il servo negro, simile a un ghoul, cui mi ero abituato durante il soggiorno in quella casa. «Dunque», disse la mia vicina, mentre afferrava uno dei bussolotti e porgeva a me l'altro, «il punto più alto vince. Tiro io per prima?» Annuii distrattamente. Lei fece risuonare il bussolotto, e a me parve che si togliesse un peso dal cuore quando tirò quindici. «Tocca a te!», disse, con un sorriso di derisione. «Ma, prima che tu tiri, ti ripeto l'offerta che ti ho fatto. Vivi con noi. Sii uno di noi.» La mia risposta fu una violenta bestemmia. Poi agitai il bussolotto con nervosismo spasmodico e lanciai i dadi sul tavolo. Quelli rotolarono e, durante quel breve istante, provai un'ansia di intensità inusitata. Alla fine si fermarono. Un urlo di risate orribili e ossessionanti mi risuonò nelle orecchie. Guardai inutilmente i dadi, ma avevo la vista così annebbiata che non
riuscii a vedere la somma del tiro. Durò per qualche istante, poi la vista mi si schiarì, e ricaddi all'indietro, distrutto dalla disperazione quando vidi che avevo fatto solo dodici. «Ha perduto! Peccato!», urlò la mia vicina, con una risata violenta. «Perduto! Perduto!», gridarono le voci più profonde degli uomini mascherati. «Vattene, vigliacco», gridarono tutti. «Non sei degno di essere uno di noi. Ricorda la tua promessa; vattene!» Poi mi parve che un potere invisibile mi afferrasse per le spalle e mi spingesse verso la porta. Invano feci resistenza. Invano gridai e chiamai aiuto. Invano gridai e mi contorsi disperatamente. Invano implorai pietà. L'unica risposta furono quegli irrisori scoppi di risate mentre, spinto dalla forza invisibile, barcollavo come un ubriaco verso la porta. Quando raggiunsi la soglia, l'organo suonò una melodia trionfante e violenta. Il potere che mi spingeva si concentrò in un unico impulso vigoroso che mi buttò nel corridoio rimbombante. Quando la porta si chiuse, scorsi per un istante la stanza che avevo lasciato per sempre. Si trasformò come se un'ombra vi si fosse posata. Le luci si spensero, le sirene e gli uomini mascherati svanirono, i fiori, i frutti, l'argento scintillante e i bizzarri arredamenti scomparvero rapidamente, e io rividi, per un decimo di secondo, la mia vecchia stanza. L'istante successivo la porta si chiuse con violenza, e io rimasi solo nel corridoio, stordito e disperato. Non appena ebbi recuperato in parte la ragione, mi avventai follemente contro la porta, con la vaga intenzione di abbatterla. Le mie dita toccarono un muro freddo e solido. Non c'era nessuna porta! Tastai entrambe le pareti del corridoio per parecchi metri. Non c'era nemmeno una fessura a darmi una speranza. Nessuno rispose. Nel vestibolo incontrai il negro. Lo afferrai per la collottola, e gli chiesi della mia stanza. Quel demonio mostrò i denti bianchi e spaventosi, allineati come i denti di una sega e, liberatosi dalla mia stretta con un movimento improvviso, scappò lungo il passaggio con una risata delirante. Niente oltre l'eco rispose alle mie urla disperate. Dopo quell'orribile momento, non ho mai più trovato la mia stanza. La cerco dovunque, ma non la vedo. La troverò mai? THÉOPHILE GAUTIER La caffettiera
Vidi sotto veli di tenebra undici stelle e poi la Luna e il Sole che mi riverivano in silenzio finché il sonno è durato. La visione di Giuseppe 1. Lo scorso anno, insieme con due compagni, studenti come me, Arrigo Cohic e Pedrino Borgnioli, venni invitato a trascorrere qualche giorno in una proprietà in Normandia. Il tempo, che quando partimmo pareva splendido, d'improvviso pensò bene di mutare idea; si mise a piovere in tal maniera che i bassi sentieri lungo i quali camminavamo si trasformarono in altrettanti letti di torrente. Avevamo la melma fino alle ginocchia, sotto le suole dei nostri stivali era ingrommato uno spesso strato di terra grassa, e il suo peso rallentava talmente i nostri passi che non riuscimmo ad arrivare a destinazione che una buona ora dopo il tramonto. Eravamo sfiniti, tanto che il nostro ospite, vedendo la fatica con la quale riuscivamo a soffocare gli sbadigli e a tenere gli occhi aperti, subito dopo cena ci fece accompagnare nelle nostre camere. Quando entrai nella mia, che era assai vasta, mi sentii percorso da un brivido come di febbre, perché avevo avuto la sensazione di penetrare in un nuovo mondo. In effetti, osservando l'ambiente, sembrava quasi di essere tornati al tempo della Reggenza, testimoniato dagli arazzi di Boucher raffiguranti le Quattro Stagioni, dai mobili sovraccarichi di decorazioni rococò di gusto discutibile, e dalle specchiere con le cornici pesantemente scolpite. Tutto era intatto. Il boudoir, sul cui ripiano erano poggiati portapettini e piumini da cipria, pareva fosse servito il giorno prima. Due o tre abiti dal colore indefinibile e un ventaglio ornato di lustrini d'argento erano sparsi sul parquet, e con grande stupore vidi sul ripiano del caminetto una tabacchiera di tartaruga, aperta e colma di tabacco ancora odoroso. Tutte queste cose le notai soltanto dopo che il cameriere ebbe posato il candelabro acceso sul mio comodino, augurandomi la buona notte. Con-
fesso che, non so per quale ragione, mi misi a tremare come una foglia. Mi svestii più in fretta possibile, mi infilai nel letto e, per farla finita con quelle assurde paure, chiusi subito gli occhi, voltandomi verso il muro. Ma non fu possibile rimanere a lungo in quella posizione: il letto sembrava agitarsi sotto di me come un'onda, e le palpebre, irresistibilmente, mi si schiudevano. Fui costretto, infine, a girarmi e a guardare. Le fiamme nel caminetto proiettavano nella camera riflessi rossastri, alla cui luce si potevano distinguere senza difficoltà le figure degli arazzi e i volti dei ritratti anneriti dal fumo che ornavano le pareti. Dovevano essere gli antenati del nostro ospite: cavalieri cinti di ferro, dignitari imparruccati e splendide dame dal viso coperto di belletto e i capelli incipriati, che fra le dita stringevano una rosa. All'improvviso, il fuoco si mise a lingueggiare con inspiegabile violenza; un bagliore livido illuminò la stanza, e mi accorsi senza possibilità di dubbio che quelli che mi erano sembrati semplici dipinti erano invece persone reali: e le loro pupille si muovevano brillando in modo inquietante, le loro labbra si aprivano e chiudevano come se stessero parlando, anche se non udivo altro che il ticchettare della pendola e il sibilo del vento d'autunno. Un terrore invincibile calò su di me. I capelli mi si rizzarono sul cranio, i denti cominciarono a battermi con violenza, e un sudore gelido mi inondò da capo a piedi. La pendola suonò le undici. La vibrazione dell'ultimo rintocco rimase a lungo nell'aria e, quando si fu spenta del tutto... Oh, no! Non oso dire quello che accadde. Non mi credereste, e in più verrei preso per un pazzo. Le candele si accesero da sole; il mantice del camino, senza essere azionato da alcun essere visibile, si mise a soffiare sul fuoco sibilando come un vecchio asmatico, mentre i mollettoni attizzavano le braci e la paletta raccoglieva la cenere. Dopodiché, una caffettiera si buttò giù dal tavolo su cui poggiava e si diresse ondeggiando verso il fuoco, dove andò a sistemarsi tra i tizzoni accesi. Dopo qualche attimo cominciarono a muoversi anche le poltrone che, agitando in maniera stupefacente le gambe istoriate, andarono a sistemarsi attorno al camino. 2.
Non sapevo che pensare di quanto stavo vedendo, ma quello che accadde poi fu ancora più incredibile. Uno dei ritratti, il più antico, che raffigurava un imponente personaggio, pingue e con la barba grigia, che assomigliava come una goccia d'acqua all'immagine che mi sono sempre fatta del vecchio John Falstaff, con grandi smorfie tirò fuori la testa dalla cornice e dopo diversi sforzi per far passare anche le spalle e il ventre ben tondo, cadde pesantemente sul pavimento. Appena ripreso fiato, trasse dalla tasca del farsetto una chiave incredibilmente piccina, vi soffiò dentro per assicurarsi che il foro fosse ben pulito e l'applicò successivamente a tutte le cornici. E tutte le cornici si dilatarono in modo da far passare agevolmente le figure che racchiudevano. Abatini paffuti, vecchie dame pallide e segaligne, severi magistrati avvolti in grandi toghe nere, damerini con le calze lucide, brache di lana e seta, la punta della spada rivolta verso l'alto: lo spettacolo di tutti quei personaggi era così bizzarro che, malgrado lo spavento, non potei trattenere una risata. Tutti quei rispettabili signori si accomodarono in poltrona, e la caffettiera saltò con leggerezza sul tavolo. Sorbirono il caffè in tazzine giapponesi bianche e blu che accorsero da sole da un secrétaire, già munite di una zolletta di zucchero e di un cucchiaino d'argento. Finito il caffè, le tazzine, la caffettiera e i cucchiaini scomparvero all'unisono, e cominciò la conversazione: di certo la più strana che abbia mai udito, giacché, nel parlare, nessuno di quegli strani conversatori guardava l'altro: gli occhi di tutti erano fissi sulla pendola. Neppure io riuscivo a distoglierne lo sguardo, e a non seguire la lancetta che avanzava lentissima verso la mezzanotte. Infine scoccò l'ora, e si sentì una voce dal timbro identico a quello della pendola, che disse: «È tempo: bisogna ballare». Tutti si alzarono. Le poltrone si fecero indietro da sole, e a quel punto ogni cavaliere prese la mano di una dama, mentre la medesima voce diceva: «Orsù, signori dell'orchestra, incominciate!». Dimenticavo di dire che l'arazzo rappresentava da un lato un concerto italiano, e dall'altro una caccia al cervo con numerosi scudieri che suonavano il corno. Battitori e musicisti, che fino a quel momento non avevano
fatto un solo gesto, chinarono il capo in segno di assenso. Il maestro alzò la bacchetta e, ai due lati della sala, si levò una melodia vivace e ballabile. Dapprima tutti danzarono il minuetto, ma le rapide note della partitura eseguita dai musicisti, mal si accordavano con le profonde riverenze. Dopo pochi minuti, ogni coppia di ballerini si mise a piroettare come una trottola tedesca. Gli abiti di seta delle dame, fruscianti nel vortice della danza, facevano un rumore che evocava uno stormo di piccioni in volo. L'aria li gonfiava in maniera tale da farli sembrare campane che oscillavano. L'archetto dei suonatori passava così rapidamente sulle corde dei violini da farne scaturire scintille elettriche. Le dita dei flautisti si alzavano e si abbassavano quasi fossero d'argento vivo; le guance dei suonatori di corno erano gonfie come palloni, e ne seguiva un diluvio di note e di trilli così accelerati e di armonie ascendenti e discendenti così ingarbugliate, così inconcepibili, che neanche un'orchestra di diavoli avrebbe potuto seguire per due minuti un ritmo del genere. Era davvero penoso assistere a tutti gli sforzi dei ballerini per tener dietro alla cadenza: saltavano, facevano capriole, ronds, jetés e entrechats alti un metro, sicché il sudore, scendendo dalla fronte sugli occhi, portava via nei finti e belletto. Ma, per quanto facessero, l'orchestra era sempre in anticipo di tre o quattro note. Quando la pendola batté l'una, tutti si fermarono, e a quel punto notai un particolare che mi era sfuggito: c'era una donna che non ballava. Era seduta in una poltrona vicino al caminetto, e sembrava estranea a ciò che le accadeva intorno. Mai, neppure in sogno, il mio sguardo aveva visto nulla di così perfetto: una pelle dal candore abbagliante, capelli biondo-cenere, lunghe ciglia e occhi azzurri così chiari e trasparenti che attraverso di essi scorgevo distintamente la sua anima come un sasso sul fondo di un torrente. E sentii che, se mai mi fosse capitato di amare, non avrei potuto amare altri che lei. Mi gettai giù dal letto, dal quale fino a quel momento non ero riuscito a muovermi, e mi diressi verso di lei, spinto da qualcosa che agiva in me senza che potessi resistere. Mi ritrovai alle sue ginocchia, con una sua mano tra le mie, a conversare con lei come se l'avessi conosciuta da vent'anni. Ma, per un portento davvero singolare, mentre le parlavo, la mia testa oscillava accompagnando la musica che continuava a suonare e, benché fossi felicissimo di potermi intrattenere con una persona così bella, i miei
piedi ardevano dal desiderio di ballare con lei, senza però trovare il coraggio di proporglielo. Probabilmente lei capì da sola quel che volevo poiché, alzando verso l'orologio la mano che non tenevo tra le mie, mi disse: «Quando la lancetta sarà su quel punto, vedremo, mio caro Théodore». Non so perché, ma non restai sorpreso nel sentirmi chiamare per nome, e continuammo a discorrere. Finalmente suonò l'ora indicata, e nella camera vibrò ancora la voce dal timbro argentino: «Angela, puoi danzare con il signore se ti fa piacere, ma sai quello che accadrà». «Non importa», rispose Angela in tono contrariato, circondandomi le spalle con un braccio d'avorio. «Prestissimo!», gridò la voce. Cominciammo allora a ballare un valzer. Il seno della fanciulla poggiava sul mio petto, la sua guancia vellutata sfiorava la mia, e la mia bocca respirava il suo alito dolcissimo. In vita mia non avevo mai provato una simile emozione: i nervi mi vibravano come molle d'acciaio, il sangue mi scorreva nelle arterie come un fiume di lava, e mi sentivo battere il cuore come un orologio quando lo si accosta all'orecchio. Il mio, però, non era affatto uno stato di sofferenza. M'inondava una gioia indicibile, e avrei voluto rimanere sempre così. La cosa più incredibile era che non dovevamo fare alcuno sforzo per seguire l'orchestra, sebbene avesse triplicato il ritmo. I presenti, meravigliati dalla nostra agilità, gridavano «bravi» e applaudivano con tutte le forze: ma le loro mani non emettevano alcun suono. A un certo punto Angela, che fino a quel momento aveva ballato con un'energia e una precisione sorprendenti, di colpo parve stanca. Pesava sulla mia spalla come se le gambe le avessero ceduto; i suoi piedini, che un minuto prima sfioravano il pavimento, ora se ne staccavano a fatica, quasi fossero trattenuti da pesi di piombo. «Angela, lei è stanca», le dissi, «riposiamoci.» «Volentieri», fece lei asciugandosi la fronte con un fazzoletto. «Ma, mentre noi ballavamo, tutti gli altri si sono seduti: c'è soltanto una poltrona, e noi siamo in due.» «Che importa, mio bell'angelo? La prenderò sulle ginocchia.» 3.
Senza fare obiezioni, Angela si sedette circondandomi con le braccia come fossero una candida sciarpa, e appoggiò la testa sul mio petto come per riscaldarsi un poco, giacché era diventata fredda come il marmo. Non so per quanto tempo rimanemmo in quella posa, poiché la contemplazione di quella misteriosa e fantastica creatura assorbiva tutti i miei sensi. Avevo perso la nozione dell'ora e del luogo: la realtà per me non esisteva più, e ogni mio legame con essa si era troncato. La mia anima, liberata dalla sua prigione di fango, si librava nell'infinito; capivo ciò che nessun uomo può capire, giacché i pensieri di Angela mi si manifestavano senza che lei avesse bisogno di parlare. L'anima le risplendeva infatti nel corpo come in una lampada di alabastro, e i raggi che si diffondevano dal suo petto trapassavano il mio da parte a parte. L'allodola cantò, e un pallido chiarore folleggiò tra le tende. Appena Angela lo scorse, si alzò precipitosamente, mi fece un gesto d'addio e, dopo qualche passo, cadde lunga distesa, lanciando un grido. In preda al terrore mi precipitai per rialzarla... Solo a pensarci mi si ghiaccia il sangue: tutto quel che trovai fu la caffettiera ridotta in mille pezzi. A quella vista, convinto di essere stato vittima di una illusione infernale, fui colto da un tale spavento che persi i sensi. 4. Quando ripresi conoscenza ero nel mio letto e, accanto a me, c'erano Arrigo Cohic e Pedrino Borgnioli. Appena ebbi aperto gli occhi, Arrigo esclamò: «Era tempo! È quasi un'ora che ti sto sfregando le tempie con l'acqua di Colonia. Che diavolo hai fatto stanotte? Stamattina, vedendo che non scendevi, sono entrato in camera tua e ti ho trovato disteso per terra in abito di gala, che stringevi fra le braccia un pezzo di porcellana rotta come se fosse stata una bella fanciulla». «Perdio! È l'abito di nozze di mio nonno», fece l'altro, stringendo una delle falde di seta rosa arabescata di verde. «Ecco i bottoni di Strass e di filigrana di cui ci parlava tanto. Théodore l'avrà scovato da qualche parte e se lo sarà infilato per divertirsi. Ma perché poi ti sei sentito male?», soggiunse Borgnioli. «Una cosa del genere ce la si aspetterebbe da un'amichetta dalle spalle bianche: le si slaccia il cor-
setto, le si tolgono le collane, la sciarpa, ed ecco una bella occasione per fare un po' di scena.» «È stato solo un mancamento: a volte mi succede», risposi seccamente. Mi alzai e mi tolsi il ridicolo abbigliamento. Poi andammo a pranzo. I miei compagni mangiarono molto e bevvero anche di più. Io invece non toccai quasi cibo, distratto dal ricordo delle cose incredibili che erano accadute. Finito il pranzo, visto che pioveva a dirotto, restammo in casa e ciascuno si trovò qualcosa da fare. Borgnioli tamburellava marce guerriere sui vetri; Arrigo e l'ospite facevano una partita a dama, mentre io tiravo fuori dal mio album un foglio di carta e mi mettevo a disegnare. Le linee quasi impercettibili, tracciate senza pensarci dalla mia matita, finirono col rappresentare in modo straordinariamente preciso la caffettiera che aveva avuto un parte così importante negli eventi della notte. «È incredibile come questa testa assomigli a mia sorella Angela», disse l'ospite, che dopo aver terminato la partita si era messo alle mie spalle per guardarmi disegnare. In effetti, quella che poco prima mi era sembrata una caffettiera, era in realtà il profilo dolce e malinconico di Angela. «Per tutti i santi del Paradiso! È morta o viva?», esclamai con voce tremante, come se la mia vita dipendesse dalla risposta. «È morta due anni fa per una congestione polmonare, dopo una festa da ballo.» «Ahimè!», risposi con un gemito. E, trattenendo una lacrima, rimisi il foglio nell'album. Avevo compreso che per me non ci sarebbe più stata felicità sulla terra. CHARLES DICKENS Il fantasma nella camera del signorino B. Era venuto il mio turno, perciò «presi la parola», come dicono i francesi, e continuai: Quando mi stabilii nella soffitta triangolare che aveva acquisito una così particolare reputazione, i miei pensieri andarono naturalmente al signorino B. Le mie speculazioni su di lui erano incerte e multiformi. Se il suo nome di battesimo fosse Beniamino, Bisestile (per essere nato in quell'anno), Bartolomeo o Bill. Se la lettera fosse l'iniziale del suo cognome, e se questo fosse Baxter, Black, Brown, Barker, Buggins, Baker o Bird. Se fosse
stato un trovatello, e l'avessero battezzato B. Se avesse avuto un cuor di leone, e B fosse l'abbreviazione di Britannico, o di Bufalo. Se fosse stato parente prossimo di un'illustre dama che aveva illuminato la mia fanciullezza, e fosse venuto dal sangue della brillante Mamma Branco? Con queste inutili meditazioni mi stavo tormentando molto. Applicai la misteriosa lettera all'aspetto e alle abitudini del morto; mi domandai se si vestiva di Blu, se portava Stivali (non poteva esser stato Calvo), se era un ragazzo di Cervello, se gli piacevano i Libri1, se era bravo al Bowling, se era abile nella Boxe, se nella sua bollente Gioventù aveva mai fatto il Bagno in una cabina da Bagno a Bagnor, Bangor, Bournemouth, Brighton o Broadstairs, come una Boccia da Biliardo Balzellante? Perciò fui, fin dal principio, tormentato dalla lettera B. Mi resi ben presto conto che mai, assolutamente mai, sognavo il signorino B. né qualcosa che gli apparteneva. Ma, appena mi svegliavo dal sonno, a qualsiasi ora della notte, i miei pensieri si rivolgevano a lui, e spaziavano lontano, cercando di mettere la sua iniziale in rapporto con qualcosa che la giustificasse e mi tranquillizzasse. Per sei notti mi ero così tormentato nella stanza del signorino B., quando cominciai ad accorgermi che le cose non andavano per il loro verso. La prima apparizione si presentò al mattino presto, quando cominciava appena a vedersi la luce del giorno. Mi stavo radendo davanti al mio specchio quando scoprii a un tratto, con mia costernazione e stupore, che stavo radendo - non me: io ho cinquant'anni - ma un ragazzo. Forse il signorino B.? Fremetti e guardai al di sopra della mia spalla; non c'era niente. Guardai di nuovo lo specchio, e vidi chiaramente i lineamenti e l'espressione di un ragazzo che si stava radendo, non per liberarsi della barba, ma per averne una. La mia mente fu scossa al massimo grado, così feci qualche giro per la stanza, poi tornai allo specchio, deciso a calmare il fremito della mia mano e a completare l'operazione durante la quale ero stato disturbato. Aprii gli occhi, che avevo chiuso mentre cercavo di recuperare il mio equilibrio, e incontrai nello specchio gli occhi di un giovanotto di ventiquattro o venticinque anni che mi guardava fissamente. Atterrito da questo nuovo fantasma, chiusi gli occhi, e feci forza a me stesso per riprendermi. Aprendoli di nuovo, vidi mio padre, morto da tempo, che si stava radendo la sua guancia nello specchio. Anzi, vidi anche mio nonno, che non avevo mai visto in vita mia. Sebbene fossi naturalmente molto colpito da queste notevoli visite, deci-
si di mantenere il segreto, fino al momento in cui avevo deciso di fare questo racconto. Agitato da una folla di pensieri strani, mi ritirai quella sera nella mia stanza preparato ad incontrare qualche nuova esperienza di carattere spettrale. E mi ci voleva proprio quella preparazione perché, al risvegliarmi da un sonno inquieto esattamente alle due del mattino, quale non fu la mia emozione nello scoprire che dividevo il mio letto con lo scheletro del signorino B.! Balzai su, e lo scheletro balzò su anch'esso. Allora udii una voce piagnucolosa che chiedeva: «Dove sono? Cosa mi è successo?», e, guardando in quella direzione, vidi lo spettro del signorino B. Il giovane spettro aveva un abbigliamento fuori moda: anzi, non sembrava vestito ma infilato in un sacco di un tessuto sale e pepe di cattiva qualità, imbruttito da bottoni lucenti. Osservai che quei bottoni partivano, in doppia fila, dalle spalle del giovane spettro e che a quel che pareva scendevano giù per la schiena. Aveva intorno al collo una gala increspata. La sua mano destra (che, come potevo vedere distintamente, era macchiata d'inchiostro) era posata sullo stomaco; mettendo quest'atteggiamento in relazione con alcuni foruncoletti sul suo viso, e la sua aria nauseata, dedussi che quello spettro doveva essere lo spettro di un ragazzo che si era purgato troppo spesso. «Dove sono?», disse il piccolo spettro in tono patetico. «E perché sono nato nei giorni del Calomelano, e perché mi hanno dato tutto quel Calomelano?» Risposi, con profonda sincerità, che sull'anima mia non avrei saputo dirglielo. «Dov'è la mia sorellina?», disse lo spettro, «e dov'è quell'angelo della mia mogliettina, e dov'è quel ragazzo con il quale andavo a scuola?» Supplicai lo spettro di farsi coraggio, e soprattutto di non turbarsi per la mancanza del ragazzo con il quale andava a scuola. Gli feci presente, sulla base dell'esperienza umana, che probabilmente quel ragazzo non sarebbe stato una buona conoscenza, se mai l'avesse incontrato. Gli dissi seriamente che io stesso, da adulto, avevo ritrovato molti ragazzi con i quali ero andato a scuola, e che nessuno di essi aveva mai corrisposto. Espressi il mio umile parere che quel ragazzo non corrispondeva mai. Feci presente che era un personaggio mitico, un'illusione e una trappola. Gli raccontai che, l'ultima volta che lo avevo trovato, era stato a una cena, dietro un muro di cravatte bianche, con un'opinione superficiale su tutti gli
argomenti, e una forza di noia silenziosa assolutamente titanica. Raccontai che, basandosi sul fatto che eravamo stati insieme ad «Old Doylance's», si era invitato a colazione da me (una infrazione sociale gravissima); che, soffiando sulle deboli braci della mia fiducia nei ragazzi di Doylance's, lo avevo fatto entrare; e che lui aveva dimostrato di essere un tremendo vagabondo sulla terra, che perseguitava la razza di Adamo con inesplicabili teorie sulla moneta, e con la proposta che la Banca d'Inghilterra avrebbe dovuto, pena l'immediata chiusura, stampare e mettere in circolazione Dio sa quante migliaia di milioni di biglietti da dieci scellini e sei pennies. Lo spettro mi ascoltò in silenzio, e fissandomi negli occhi. «Barbiere!», mi apostrofò quando ebbi finito. «Barbiere?», ripetei, perché quella non è la mia professione. «Condannato», disse lo spettro, «a far la barba a clienti che cambiano continuamente - ora a me - ora a un giovanotto - ora a te stesso così come sei - ora a tuo padre - ora a tuo nonno; condannato, anche, a giacere ogni notte con uno scheletro, e ad alzarti con lui ogni mattina.» (Rabbrividii nell'udire il lugubre annuncio.) «Barbiere! Seguimi!» Avevo sentito, ancor prima che egli pronunciasse queste parole, che una malia mi obbligava a seguire il fantasma. Ubbidii senza indugio, e all'istante non fui più nella stanza del signorino B. La maggior parte delle persone sa quali lunghi e faticosi viaggi notturni furono imputati alle streghe che usavano confessare e che, senza dubbio, dicevano l'esatta verità - soprattutto perché erano aiutate con domande mirate, e la Tortura era sempre pronta. Io asserisco che, mentre occupavo la stanza del signorino B., fui trascinato dallo spettro che la frequentava in spedizioni altrettanto lunghe e selvagge di quelli. Certo non fui presentato a nessun vecchio signore malvestito con corna e coda di capra (qualcosa fra Pan e un rivenditore di abiti vecchi), che dava ricevimenti convenzionali, stupidi quanto quelli della vita reale e molto meno decenti; ma mi capitarono altre cose che mi sembrarono più significative. Sicuro di raccontare la verità e fiducioso di essere creduto, dichiaro senza esitare che seguii il fantasma, dapprima su un manico di scopa e poi su un cavallo a dondolo. L'odore della tinta dell'animale - soprattutto quando ne provocai l'emanazione, per averlo scaldato - era estremamente forte: sono pronto a giurarci su. Seguii in seguito lo spettro in una carrozza da nolo; un'istituzione con il cui particolare odore la presente generazione non ha familiarità, ma che possono nuovamente giurare essere una combina-
zione di scuderia, cane rognoso, e vecchissimi mantici. (E per questo faccio appello alle generazioni passate perché lo confermino o lo neghino.) Seguii il fantasma su un asino senza testa: o almeno su un asino così interessato allo stato del proprio stomaco che la sua testa ci stava sempre ficcata dentro ad esplorarlo; su dei ponies addestrati espressamente a sgroppare; su giostre ed altalene, prese dalle fiere; nella prima vettura di piazza un'altra istituzione dimenticata in cui il cliente si metteva regolarmente a dormire ed era messo a letto insieme al conducente. Per non seccarvi con il racconto dettagliato di tutti i miei viaggi dietro lo spettro del signorino B., che sono stati più lunghi e più meravigliosi di quelli di Sinbad il Marinaio, mi limiterò ad una sola esperienza dalla quale potrete giudicare tutte le altre. Ero cambiato in modo straordinario. Ero io, eppure non ero io. Ero cosciente di qualcosa dentro di me, che non era mai cambiato durante tutta la mia vita, e che avevo sempre riconosciuto in tutte le fasi e i cambiamenti come immutabile, eppure non ero quell'Io che era andato a letto nella stanza del signorino B. Avevo un viso liscio liscio e delle gambe corte corte, e avevo portato un'altra creatura simile a me, con lo stesso viso liscio liscio e le gambe corte corte, dietro una porta, e gli stavo confidando una proposta di natura stupefacente. La proposta era che mettessimo su un Serraglio. L'altra creatura acconsentiva con calore. Non aveva alcuna nozione di rispettabilità come non l'avevo io. Era l'usanza dell'Oriente, era l'abitudine del buon Califfo Harun al Rashid (lasciatemi ripetere ancora una volta questo nome corrotto, così olezzante di soavi memorie!), l'usanza era altamente lodevole, e degna di essere imitata. «Oh, sì», disse l'altra creatura facendo un salto, «facciamoci un Serraglio.» Non fu perché nutrissimo il minimo dubbio sul carattere lodevole dell'istituzione orientale che ci proponevamo di importare che ci persuademmo che avremmo dovuto tenerlo nascosto alla signorina Griffith. Era perché sapevamo che la signorina Griffith era priva di simpatia umana, ed incapace di apprezzare la grandezza del grande Harun. Mistero impenetrabilmente celato alla signorina Griffith dunque, ma che decidemmo di confidare alla signorina Bule. Eravamo dodici nell'istituzione della signorina Griffith presso Hampstead Pond; dieci signore e due signori. La signorina Bule, che penso avesse raggiunto la matura età di otto o nove anni, aveva un ruolo eminente nella società. La misi a parte della faccenda durante la giornata, e le proposi di
diventare la Favorita. La signorina Bule, dopo aver lottato con la diffidenza così naturale, e così affascinante, nel suo sesso, dichiarò di essere lusingata dall'idea, ma volle sapere cosa si era pensato di offrire alla signorina Pipson? La signorina Bule - che, si sapeva, aveva giurato a quella signorina amicizia, condivisione, e nessun segreto fino alla morte, sul Servizio e Lezioni Cristiane edizione completa in due volumi con contenitore e lucchetto - la signorina Bule disse che, come amica di Pipson, non poteva nascondere a se stessa e a me che Pipson era una creatura fuori del comune. Ora, siccome la signorina Pipson aveva i capelli biondi e ricci e gli occhi azzurri (il che era la mia idea di tutto quel nonsoché di mortale e femminile chiamato Bellezza), io risposi prontamente che avevo preso in considerazione la signorina Pipson per il ruolo di Bella Circassa. «Cioè?», chiese pensosamente la signorina Bule. Replicai che avrebbe dovuto essere adescata da un mercante, portata a me tutta velata, e comprata come schiava. (L'altra creatura aveva già avuto in sorte la seconda posizione maschile nello Stato, quella di Gran Visir. In seguito si ribellò a questa disposizione, ma i suoi capelli gli furono tirati fino a che non cedette.) «Dovrò essere gelosa?», chiese la signorina Bule, abbassando gli occhi. «Zobeide, no», risposi; «tu sarai sempre la mia Sultana favorita; il primo posto nel mio cuore, e sul mio trono, sarà sempre tuo.» La signorina Bule, così rassicurata, consentì a presentare la mia idea alle sue sette belle compagne. Siccome mi venne in mente, nel corso dello stesso giorno, che sapevamo di poter contare su una persona sorridente e di buon carattere, detta Tabby, che era la serva sgobbona della casa, e non aveva maggior figura di un letto, e sul cui viso c'era sempre un po' di grafite, feci scivolare nella mano della signorina Bule, dopo cena, un bigliettino sull'argomento: sottolineando che la grafite era in qualche modo un indizio lasciato dalla Provvidenza perché dessimo a Tabby la parte di Mesrur, il celebre Capo dei Negri dell'Harem. Ci furono difficoltà nella formazione della desiderata istituzione, come ce ne sono in tutte le combinazioni. L'altra creatura svelò tutta la sua meschinità, e quando le sue aspirazioni al trono non ebbero successo, pretese di avere degli scrupoli di coscienza riguardo al prostrarsi davanti al Califfo; rifiutò di chiamarlo Comandante dei Fedeli; parlava di lui in modo irriverente e superficiale come di «quel tale», diceva che lui, l'altra creatura, «non ci sarebbe stato» - stato! - ed era volgare ed offensivo in mille modi.
Il suo meschino comportamento fu però stigmatizzato da tutto il Serraglio, ed io fui benedetto dai sorrisi di otto fra le più belle figlie degli uomini. I sorrisi potevano essere distribuiti solo quando la signorina Griffith guardava da un'altra parte, e solo con molta cautela, perché circolava fra i seguaci del Profeta la leggenda che lei vedeva mediante un piccolo ornamento rotondo che stava nel centro della parte posteriore del suo scialle. Ma ogni giorno, dopo pranzo, stavamo tutti insieme per un'ora, ed allora la Favorita e il resto dell'Harem Reale facevano a gara su chi avrebbe addolcito maggiormente il riposo del Sereno Harun dalle preoccupazioni dello Stato - che generalmente, come la maggior parte degli affari di Stato, avevano un carattere aritmetico, giacché il Comandante dei Fedeli era un gran pasticcione nelle addizioni. In queste occasioni il devoto Mesrur, Capo dei Negri dell'Harem, era sempre presente (la signorina Griffith nel frattempo suonava con veemenza il campanello per chiamare quel funzionario), ma non si comportò mai in modo degno della sua reputazione storica. Anzitutto, il fatto che introducesse una scopa nel Divano del Califfo, sebbene Harun portasse l'abito rosso dell'ira (la pelliccia della signorina Pipson) non fu mai giustificato in modo soddisfacente. In secondo luogo, il suo modo di esclamare inaspettatamente: «Dio che carine!» non era né orientale né rispettoso, in terzo luogo, mentre le era stato raccomandato di dire «Bismillah!» diceva sempre «Alleluia!». Quel funzionario, a differenza degli altri della sua classe, era sempre troppo allegro, spalancava troppo la bocca, esprimeva approvazione in modo incongruo e persino una volta - in occasione dell'acquisto della Bella Circassa per cinquecentomila borse d'oro, e a buon mercato, per di più - aveva abbracciato la Schiava, la Favorita e il Califfo, tutti insieme. (Fra parentesi lasciatemi dire che Dio benedica Mesrur, e possano esserci stati tanti figli e figlie su quel seno tenero, a compensare molti giorni tristi!) La signorina Griffith era un modello di decoro, e non riesco ad immaginare quali sarebbero stati i sentimenti di quella donna virtuosa se avesse saputo, mentre ci portava in giro per Hampstead in fila per due, che stava camminando con passo solenne alla testa della Poligamia e del Maomettanesimo. Penso che la misteriosa e terribile gioia che ci ispirava la contemplazione della signorina Griffith nel suo stato di incoscienza, e l'oscura sensazione diffusa fra noi che ci fosse un terribile potere nel fatto che noi sapevamo qualcosa che la signorina Griffith (che sapeva tutto quel che si può imparare nei libri) non sapeva, fossero il motivo principale per cui
mantenevamo il segreto. Era molto ben custodito, ma una volta fu sul punto di essere svelato. Successe di domenica. Stavamo tutti e dieci in fila in una parte ben visibile del matroneo della chiesa, con la signorina Griffith in testa - come tutte le domeniche - facendo pubblicità all'istituzione in un modo non secolare - quando venne letta la descrizione di Salomone in tutta la sua gloria domestica. Nel momento in cui si fece il nome del monarca; la coscienza mi sussurrò: «Anche tu, Harun!». Il ministro celebrante aveva un occhio storto, il che diede un aiuto alla coscienza perché gli dava l'aria di predicare personalmente per me. Un rossore cremisi accompagnato da un'abbondante traspirazione si diffuse sul mio volto. Il Gran Visir sembrava più morto che vivo, e il Serraglio al completo arrossì come se il tramonto di Bagdad splendesse proprio sui loro deliziosi visi. In quel momento solenne la terribile Griffith si alzò, e osservò con occhio funesto i figli dell'Islam. Ebbi l'impressione che la Chiesa e lo Stato congiurassero con la signorina Griffith per smascherarci, e che saremmo stati tutti avvolti in lenzuola bianche e messi in mostra nella navata centrale. Ma il senso di rettitudine della signorina Griffith era così occidentale - se posso usare questa espressione in contrasto con l'ambiente orientale - che lei sospettò soltanto le Mele, e noi fummo salvi. Ho detto che il Serraglio era molto unito. Soltanto sulla questione se il Comandante dei Fedeli potesse esercitare o no il diritto di bacio in quel santuario del palazzo, erano divise le sue incomparabili ospiti. Zobeide rivendicò il controdiritto della Favorita a graffiare, e la Bella Circassa nascose il viso, per proteggersi, in una borsa di feltro verde, originariamente destinata a contenere libri. All'opposto, una giovane antilope di beltà trascendente proveniente dalle fertili pianure della città di Camden (da cui alcuni commercianti l'avevano portata con la carovana semestrale che attraversava il deserto che ce ne separava dopo le vacanze) aveva idee più liberali, ma pattuì di limitarne il beneficio a quel cane figlio di cane, il Gran Visir - che non aveva diritti, ed era fuor di questione. Alla fine la difficoltà fu risolta con un gran compromesso, perché installammo una giovanissima schiava nel ruolo di Sostituta. Questa, issata su uno sgabello, riceveva ufficialmente sulle guance i saluti che Sua Grazia Harun destinava alle altre Sultane, ed era compensata segretamente dai cofanetti delle Signore dell'Harem. Ed ecco che, all'apice del godimento della mia felicità, cominciai a provare forti turbamenti. Cominciai a pensare a mia madre, e a quel che avrebbe detto se avessi portato a casa nelle vacanze di san Giovanni otto
delle più belle fra le figlie degli uomini, però assolutamente inaspettate. Pensai a quanti letti avevamo in casa, al reddito di mio padre, al fornaio, e la mia preoccupazione raddoppiò. Il Serraglio e il malizioso Visir, che avevano indovinato il motivo dell'infelicità del loro Signore, facevano il possibile per accrescerla. Professavano una fedeltà illimitata, e dichiaravano che avrebbero vissuto con lui e con lui sarebbero morti. Ridotto al massimo della disperazione dalle loro proteste di attaccamento, giacevo sveglio per ore e ore, ruminando la mia triste sorte. Penso che nel mio stato compassionevole avrei potuto afferrare la prima opportunità di cadere in ginocchio davanti alla signorina Griffith per confessare la mia somiglianza con Salomone e pregarla di esser trattato secondo le indegne leggi del mio paese, se non mi si fosse aperta davanti un'imprevista via d'uscita. Un giorno eravamo a passeggio, a due a due - occasione in cui il Visir doveva solitamente osservare se il ragazzo alla barriera guardava in modo irriverente (come sempre faceva) le bellezze dell'harem, per farlo strozzare durante la notte - e successe che i nostri cuori fossero avvolti dalla tristezza. Un'azione inspiegabile da parte dell'Antilope aveva sommerso lo Stato nella disgrazia. Quell'incantatrice, con la scusa che il giorno precedente era il suo compleanno, e che grandi tesori erano stati inviati in un cesto per celebrarlo (asserzioni completamente infondate), aveva segretamente ma insistentemente invitato trentacinque principi e principesse dei dintorni ad un ballo e una cena: con la raccomandazione speciale che «non venissero a prenderli prima delle dodici». Questo delirio dell'immaginazione dell'Antilope causò il sorprendente arrivo alla porta della signorina Griffith, in diversi mezzi di trasporto e con diverse scorte, di un gran numero di persone con il vestito più bello, che furono depositate sul gradino più alto tutte traboccanti di aspettativa, e che furono mandate via in lacrime. Quando si cominciò a sentir bussare alla porta nel modo caratteristico di queste cerimonie l'Antilope si ritirò in una soffitta sul retro e ci si chiuse dentro; ad ogni nuovo arrivo la signorina Griffith perdeva un po' di più la testa, tanto che alla fine fu vista strapparsi i capelli. La capitolazione definitiva da parte della delinquente era stata seguita dall'isolamento nel guardaroba, a pane ed acqua, e da una ramanzina a tutti, di una lunghezza punitiva, nella quale la signorina Griffith aveva usato le espressioni: primo, «Credo che tutti foste al corrente»; secondo, «Siete tutti ugualmente cattivi»; terzo: «Un mucchio di ragazzacci». Date le circostanze ci trascinavamo tristemente; soprattutto io, con il peso delle mie responsabilità musulmane, avevo il morale molto basso;
quando uno sconosciuto si avvicinò alla signorina Griffith e, dopo aver camminato al suo fianco per un po' parlando con lei, guardò nella mia direzione. Pensando che fosse un ministro della legge, e che la mia ora fosse suonata, mi misi a correre immediatamente, con l'idea di fuggire in Egitto. Tutto il Serraglio diede un urlo, quando mi videro correre con le gambe in spalla (avevo l'impressione che la prima svolta a sinistra, dietro il municipio, fosse la via più breve per le Piramidi), la signorina Griffith mi chiamò, il Visir mi corse dietro, e il ragazzo della barriera mi spinse in un angolo, come una pecora, e mi bloccò. Nessuno mi sgridò quando mi raggiunsero e mi riportarono indietro; solo la signorina Griffith disse, con una gentilezza sorprendente: Che strano! Perché ero scappato quando quel signore mi aveva guardato? Se avessi avuto abbastanza fiato per rispondere, oso dire che non avrei risposto; siccome non avevo fiato, certo non risposi. La signorina Griffith e lo sconosciuto mi misero in mezzo a loro, e tornammo a palazzo in una specie di corteo; ma assolutamente (non potei fare a meno di sentirlo, con mio grande stupore), non nello stato di accusato. Quando arrivammo, entrammo da soli in una stanza, e la signorina Griffith chiamò ad aiutarla Mesrur, il Capo delle Guardie More dell'Harem. Dopo che le ebbe bisbigliato qualcosa, Mesrur cominciò a lacrimare. «Dio t'aiuti, poverino!», disse quell'ufficiale, rivolgendosi a me; «il tuo Papà ha avuto un accidente!» Io chiesi, con il cuore palpitante: «Sta molto male?». «Il Signore acquieti il vento per te, agnellino!», disse il buon Mesrur, inginocchiandosi perché io potessi avere una spalla confortevole su cui appoggiare la testa, «il tuo Papà è morto!» Harun al Rashid prese il volo a queste parole; il Serraglio svanì; da quel momento non vidi più nemmeno una delle otto fra le più belle figlie degli uomini. Mi portarono a casa, e c'era il Debito a casa oltre alla Morte, e dovemmo vendere la nostra roba. Il mio lettino fu guardato in modo così spregiativo da una Potenza che mi era sconosciuta, nebulosamente detta «Il Battitore», che un secchio di ottone per il carbone, uno spiedo e una gabbia da uccelli dovettero essere aggiunti per formare un Lotto, e poi fu venduto per una sciocchezza. Così sentii dire, e mi domandai a lungo quale sciocchezza, e pensai che doveva essere una ben triste sciocchezza da raccontare! Poi fui mandato a una grande, fredda, nuda scuola di soli ragazzi; dove tutto quel che mangiavamo era spesso e appiccicoso, senza essere suffi-
ciente; dove tutti, grandi e piccoli, erano crudeli; dove i ragazzi sapevano già tutto dell'asta ancor prima che arrivassi, e mi chiedevano quanto mi avevano pagato, e chi mi aveva comprato, e mi gridavano: «E uno, e due, e tre, aggiudicato!». Non mi lasciai mai sfuggire in quell'orribile posto che ero stato Harun e che avevo avuto un Serraglio: perché sapevo che se avessi accennato alle mie disgrazie mi avrebbero tormentato tanto che non mi sarebbe rimasto che affogarmi nello stagno fangoso vicino al terreno da gioco, che sembrava birra. Ahimè, ahimè! Nessun altro fantasma ha abitato la camera del ragazzo, amici miei, da quando io l'ho occupata, se non il fantasma della mia fanciullezza, il fantasma della mia innocenza, il fantasma della mia noncurante fiducia. Molte volte ho inseguito lo spettro: mai con questo mio passo d'uomo sono riuscito a raggiungerlo, mai con queste mie mani d'uomo sono riuscito a toccarlo, mai e poi mai con questo mio cuore d'uomo sono riuscito a trattenerlo nella sua purezza. E qui mi vedete mentre, gaio e grato quanto posso, cerco di portare a termine il mio destino di radere nello specchio clienti sempre diversi, e di giacere ed alzarmi insieme allo scheletro che mi è stato assegnato come compagno mortale. 1
In inglese sono tutte parole che cominciano con la B: Stivali, Boots; Calvo, Bold; Cervello, Brain; Libri, Books (N.d.T.). IGINIO TARCHETTI La leggenda del Castello Nero «Non so se le memorie che io sto per scrivere possano avere interesse per altri che per me - le scrivo ad ogni modo per me. Esse si riferiscono pressoché tutte ad un avvenimento pieno di mistero e di terrore, nel quale non sarà possibile a molti rintracciare il filo di un fatto, o desumere una conseguenza, o trovare una ragione qualunque. Io solo il potrò, io attore e vittima a un tempo. - Incominciato in quell'età in cui la mente è suscettibile delle allucinazioni più strane e più paurose; continuato, interrotto e ripreso dopo un intervallo di quasi venti anni, circondato di tutte le parvenze dei sogni, compiuto - se così si può dire d'una cosa che non ebbe principio evidente - in una terra che non era la mia, e alla quale mi avevano attratto delle tradizioni piene di superstizioni e di tenebre; io non posso considerare questo avvenimento imperscrutabile della mia vita che come un enimma
insolvibile, come l'ombra di un fatto, come una rivelazione incompleta, ma eloquente d'un'esistenza trascorsa. Erano fatti, od erano visioni? L'uno e l'altro - né l'uno né l'altro, forse. Nell'abisso che ha inghiottito il passato non vi sono più fatti od idee, vi è il passato: i grandi caratteri delle cose si sono distrutti come le cose, e le idee si sono modificate con esse - la verità è nell'istante -; il passato e l'avvenire sono due tenebre che ci avviluppano da tutte le parti, e in mezzo alle quali noi trasciniamo, appoggiandoci al presente che ci accompagna e che viene con noi, come distaccato dal tempo, il viaggio doloroso della vita. Ma abbiamo noi avuta una vita antecedente? Abbiamo previssuto in altro tempo, con altro cuore e sotto un altro destino, alla esistenza dell'oggi? Vi fu un'epoca nel tempo, nella quale abbiamo abitato quei luoghi che ora ignoriamo, amato quegli esseri che la morte ha rapito da anni, vissuto fra quelle persone di cui vediamo oggi le opere, o cerchiamo la memoria nelle storie o nella oscurità delle tradizioni? Mistero! - E nondimeno... sì, io ho sentito spesso qualche cosa che mi parlava di una esistenza trascorsa, qualche cosa di oscuro, di confuso, è vero, ma di lontano, di infinitamente lontano. Vi sono delle rimembranze nella mia mente che non possono essere contenute in questo limite angusto della vita, per giungere alla cui origine io devo risalire la curva degli anni, risalire molto lontano... due o tre secoli... Anche prima di oggi mi era avvenuto più volte nei miei viaggi di arrestarmi in una campagna e di esclamare: ma io ho veduto già questo sito, io sono già stato qui altre volte!... questi campi, questa valle, questo orizzonte io li conosco! E chi non ha esclamato talora, parendogli di ravvisare in qualche persona delle sembianze già note: quell'uomo l'ho già veduto: dove? quando? chi è egli? non lo so, ma per fermo noi ci siamo veduti altre volte, noi ci conosciamo! - Nella mia infanzia vedeva spesso un vecchio che certo aveva conosciuto fanciullo, da cui certo era stato conosciuto già da vecchio: non ci parlavamo, ma ci guardavamo come persone che sanno di conoscersi da tempo. - Lungo una via di Poole, rasente la spiaggia della Manica, ho trovato un sasso sul quale mi rammento benissimo di essermi seduto, saranno circa settant'anni, e ricordo che era un giorno triste e piovoso, e vi aspettava una persona di cui ho dimenticato il nome e le sembianze, ma che mi era cara. - In una galleria di quadri a Gratz ho veduto un ritratto di donna che ho amato e la conobbi subito benché ella fosse allora più giovine, e il ritratto fosse stato fatto forse vent'anni dopo la nostra separazione. La tela portava la data del 1647: press'a poco a quell'epoca risale la maggior parte di queste mie memorie.
Vi fu un tempo della mia fanciullezza durante il quale non poteva ascoltare la cadenza di certe canzoni che cantano da noi le donne di campagna nelle fattorie, senza sentirmi trasportare ad un tratto in un'epoca così remota della mia vita, che non avrei potuto risalirvi anche moltiplicando un gran numero di volte gli anni già vissuti nella esistenza presente. Bastava che io ascoltassi quella nota per cadere sull'istante in uno stato di paralisi, come di letargia morale che mi rendeva estraneo a tutto ciò che mi circondava, qualunque fosse lo stato d'animo in cui essa mi avesse sorpreso. Dopo i venti anni non ho più riprovato quel fenomeno. Non aveva io più ascoltata quella nota? o la mia anima, già abbastanza immedesimata colla vita presente, si era resa insensibile a quel richiamo? O che la mia natura è inferma, o che io concepisco in modo diverso dagli altri uomini, o che gli altri uomini subiscono, senza avvertirle, le medesime sensazioni. Io sento, e non saprei esprimere in qual guisa, che la mia vita - o ciò che noi chiamiamo propriamente con questo nome - non è incominciata col giorno della mia nascita, non può finire col giorno della mia morte: lo sento colla stessa energia, colla stessa pienezza di sensazione con cui sento la vita dell'istante, benché ciò avvenga in modo più oscuro, più strano, più inesplicabile. E d'altra parte come sentiamo noi di vivere nell'istante? Si dice, io vivo. Non basta: nel sonno non si ha coscienza dell'esistere - e nondimeno si vive. Questa coscienza dell'esistere può non essere circoscritta esclusivamente negli stretti limiti di ciò che chiamiamo la vita. Vi possono essere in noi due vite - è sotto forme diverse la credenza di tutti i popoli e di tutte le epoche - l'una essenziale, continuata, imperitura forse; l'altra a periodi, a sbalzi più o meno brevi, più o meno ripetuti: l'una è l'essenza, l'altra è la rivelazione, è la forma. Che cosa muore nel mondo? La vita muore, ma lo spirito, il segreto, la forza della vita non muore: tutto vive nel mondo. Ho detto il sonno. E che cosa è il sonno? Siamo noi ben certi che la vita del sonno non sia una vita a parte, un'esistenza distaccata dall'esistenza della veglia? Che cosa avviene di noi in quello stato? chi lo sa dire? gli avvenimenti a cui assistiamo o prendiamo parte nel sogno non sarebbero essi reali? Ciò che noi chiamiamo con questo nome non potrebbe essere che una memoria confusa di quegli avvenimenti?... Pensiero spaventoso e terribile! Noi forse, in un ordine diverso di cose, partecipiamo a fatti, ad affetti, ad idee di cui non possiamo conservare la coscienza nella veglia; viviamo in altro mondo e tra altri esseri che ogni giorno abbandoniamo, che rivediamo ogni giorno. Ogni sera si muore di una vita, ogni notte si rinasce
d'un'altra. Ma ciò che avviene di queste esistenze parziali, avviene forse anche di quell'esistenza intera e più definita che le comprende. Gli uomini hanno sempre rivolto lo sguardo all'avvenire, mai al passato; al fine, mai al principio; all'effetto, mai alla causa; e non di meno quella porzione della vita a cui il tempo può nulla togliere o aggiungere, quella su cui la nostra mente avrebbe maggiori diritti a posarsi, e dalla cui investigazione potrebbe attingere le più grandi compiacenze e gli ammaestramenti più utili, è quella che è trascorsa in un passato più o meno remoto. Perocché noi abbiamo vissuto, noi viviamo, vivremo. Vi sono delle lacune tra queste esistenze, ma saranno riempite. Verrà un'epoca in cui tutto il mistero ci sarà rivelato; in cui si spiegherà tutto intero ai nostri occhi lo spettacolo di una vita, le cui fila incominciano nell'eternità e si perdono nella eternità; nella quale noi leggiamo, come sopra un libro divino, le opere, i pensieri, le idee concepite o compiute in un'esistenza trascorsa, o in una serie di esistenze parziali che abbiamo dimenticate. Se gli altri uomini serbino o no questa fede, non so; ma ciò non potrebbe né fortificare, né abbattere il mio convincimento. Ad ogni modo, ecco il mio racconto. Nel 1830 io aveva quindici anni, e conviveva colla famiglia in una grossa borgata del Tirolo, di cui alcuni riguardi personali mi costringono a sopprimere il nome. Non erano passate più di tre generazioni dacché i miei antenati erano venuti ad allogarsi in quel villaggio: essi vi erano bensì venuti dalla Svizzera, ma la linea retta della famiglia era oriunda della Germania: le memorie che si conservavano della sua origine erano sì inesatte e sì oscure, che non mi fu mai dato di poterne dedurre delle cognizioni ben definite: ad ogni modo, mi preme soltanto di accertare questo fatto, ed è che il ceppo della mia casa era originario della Germania. Eravamo in cinque: mio padre e mia madre, nati in quel villaggio, vi avevano ricevuto quella educazione limitata e modesta che è propria della bassa borghesia. Vi erano bensì delle tradizioni aristocratiche nella mia famiglia, delle tradizioni che ne facevano risalire l'origine al vecchio feudalismo sassone; ma la fortuna della nostra casa si era talmente ristretta che aveva fatto tacere in noi ogni istinto di ambizione e di orgoglio. Non vi era differenza di sorta tra le abitudini della mia famiglia, e quelle delle famiglie più modeste del popolo; i miei genitori erano nati e cresciuti tra di esse, la loro vita era tutta una pagina bianca; né io aveva potuto attingere dalla loro convivenza, né trarre dal loro metodo di educazione alcuna di quelle idee, di quelle memorie di fanciullezza che predispongono alla su-
perstizione e al terrore. L'unico personaggio la cui vita racchiudeva qualche cosa di misterioso e d'imperscrutabile, e che era venuto ad aggiungersi, per così dire, alla mia famiglia, era un vecchio zio legato a noi, dicevasi, da una comunanza di interessi, di cui però non ho potuto decifrarmi in alcun modo le ragioni, dopo che, e per la morte di lui e per quella di mio padre, io venni in possesso della fortuna della mia casa. Egli toccava allora - e parlo di quella età a cui risalgono queste mie memorie - i novant'anni. Era una figura alta e imponente, benché leggermente curvata; aveva tratti di volto maestosi, marcati, direi quasi plastici: l'andamento fiero quantunque vacillante per vecchiaia, l'occhio irrequieto e scrutatore, doppiamente vivo su quel viso, di cui gli anni avevano paralizzato la mobilità e la espressione. Giovine ancora, aveva abbracciato la carriera del sacerdozio, spintovi dalle pressioni insistenti della famiglia; poi aveva buttata la tonaca e s'era dato al militare; la Rivoluzione francese lo aveva trovato nelle sue file; egli aveva passato quarantadue anni lontano dalla sua patria e quando vi ritornò - poiché non aveva rotti i voti contratti colla Chiesa -riprese l'abito di prete che portò senza macchie e senza affettazione di pietà fino alla morte. Lo si sapeva dotato di indole pronta benché abitualmente pacata, di volontà indomabile, di mente vasta ed erudita, quantunque s'adoperasse a non parerlo. Capace di grandi passioni e di grandi ardimenti, lo si teneva in concetto di uomo non comune, di carattere grande e straordinario. Ciò che contribuiva per altro a circondarlo di questo prestigio, era il mistero che nascondeva il suo passato, erano alcune dicerie che si riferivano a mille strani avvenimenti cui volevasi che egli avesse preso parte - certo egli aveva reso dei grandi servigi alla Rivoluzione; quali e con quale influenza non lo si seppe mai; egli morì a novantasei anni portando seco nella sua tomba il segreto della sua vita. Tutti conoscono le abitudini della vita del villaggio; non mi tratterrò a discorrere di quelle speciali della mia famiglia. Noi ci radunavamo tutte le sere d'inverno in una vasta sala a pian terreno e ci sedevamo in circolo intorno ad uno di quegli ampii camini a cappa sì antichi e sì comodi, che il gusto moderno ha abolito, sostituendovi le piccole stufe a carbone. Mio zio, che abitava un appartamento separato nella stessa casa, veniva qualche volta a prendere parte alle nostre riunioni e ci raccontava alcune avventure dei suoi viaggi e alcune scene della Rivoluzione che ci riempivano di terrore e di meraviglia. Taceva però sempre di sé; e richiesto della parte che vi aveva preso, distoglieva la narrazione da quel soggetto.
Una sera - lo ricordo come fosse ieri - eravamo riuniti, secondo il solito, in quella sala: era d'inverno, ma non vi era neve; il suolo gelato e imbiancato di brina rifletteva i raggi della luna in guisa da produrre una luce bianca e viva come quella di una aurora. Tutto era silenzio, e non si udiva che il martellare alternato di qualche goccia che stillava dai ghiacciuoli delle gronde. Ad un tratto un rumore sordo e improvviso di un oggetto gettato nel cortile dal muracciuolo di cinta, viene ad interrompere la nostra conversazione; mio padre si alza, esce e si precipita fuori della porta che mette sulla via, ma non ode rumore alcuno di passi, né vede per tutto quel tratto di strada che si distende dinanzi a lui, alcuna persona che si allontani. Allora raccoglie dal suolo un piccolo involto che vi era stato gettato, e rientra con esso nella sala. Ci raccogliamo tutti d'intorno a lui per esaminarlo. Era, meglio che un involto, un grosso plico quadrato in vecchia carta grigiastra macchiata di ruggine, e cucita lungo gli orli con filo bianco e a punti esatti e regolari che accusavano l'ufficio di una mano di donna. La carta tagliata qua e là dal filo, e arrossata e consumata sugli orli, indicava che quel piego era stato fatto da lungo tempo. Mio zio lo ricevette dalle mani di mio padre, e lo vidi tremare ed impallidire nell'osservarlo. Tagliatane la carta, ne trasse due vecchi volumi impolverati; e non v'ebbe gettato su gli occhi, che il suo volto si coperse di un pallore cadaverico, e disse, dissimulando un senso di dolore e di meraviglia più vivo: "È strano!". E dopo un breve istante in cui nessuno di noi aveva osato parlare riprese: "È un manoscritto, sono due volumi di memorie che risalgono alle prime origini della nostra famiglia, e contengono alcune gloriose tradizioni della nostra casa. Io ho dato questi due volumi ad un giovine che, quantunque non appartenesse direttamente alla nostra famiglia, vi era congiunto per certi legami che non posso ora qui rivelare. Furono il pegno d'una promessa, cui non io, ma il tempo mi ha impedito di mantenere: sì, il tempo...", aggiunse tra di sé a bassa voce. "Io lo aveva conosciuto all'Università di ***, allorché vi studiava teologia: egli fu ghigliottinato sulla piazza della Grève, e la sua famiglia fu distrutta dalla Rivoluzione saranno ora quarant'anni... non uno gli sopravvisse... È strano!" E dopo un breve intervallo, osservando che verso la cucitura dei fogli si era accumulata una polvere rossastra leggerissima, ci disse, come si fosse risovvenuto di un pericolo: "Lavatevi le mani". "Perché?" "Nulla..."
Ubbidimmo. Si passò tutta quella sera in silenzio: mio zio era in preda a tristi pensieri, e si vedeva che egli si sforzava di evocare o di scacciare delle memorie assai dolorose. Si ritirò assai presto, si rinchiuse nel suo appartamento, e vi stette due giorni senza lasciarsi vedere. In quella sera io mi coricai in preda a pensieri strani e paurosi di cui non sapeva darmi ragione. Era preoccupato dall'idea di quell'avvenimento più che non avrei dovuto, più che un fanciullo della mia età non avrebbe potuto esserlo. Indarno io tenterei ora di rendere qui colla parola i sentimenti inesplicabili e singolari che si agitavano dentro di me in quell'istante. Parevami che tra quei volumi e mio zio, e me stesso, corressero dei rapporti che non aveva avvertito fino allora, delle relazioni misteriose e lontane, e di cui non giungeva a decifrarmi in alcun modo la natura né a comprendere il fine. Erano, o mi parevano rimembranze. Ma di che cosa? Non lo sapeva. Di che tempo? Remote. Nella mia giovine intelligenza tutto si era alterato e confuso. Mi addormentai sotto l'impressione di quelle idee, e feci questo sogno. Aveva venticinque anni: nella mia mente si erano come agglomerate tutte quelle idee, tutte quelle esperienze, tutti quegli ammaestramenti che segnavano quella differenza tra l'età sognata e l'età reale; ma io rimaneva nondimeno estraneo a questo maggiore perfezionamento, benché il comprendessi. Sentiva in me tutto lo sviluppo intellettuale di quella età, ma ne giudicava col senno e cogli apprezzamenti propri dei miei quindici anni. Vi erano due individui in me, all'uno apparteneva l'azione, all'altro la coscienza e l'apprezzamento dell'azione. Era una di quelle contraddizioni, di quelle bizzarrie, di quelle simultaneità di effetti che non sono proprie che dei sogni. Mi trovava in una gran valle fiancheggiata da due alte montagne: la vegetazione, la coltivazione, la forma e la disposizione delle capanne, e un non so che di diverso, di antico nella luce, nell'atmosfera, in tutto ciò che mi circondava, mi dicevano ch'io mi trovava colà in un'epoca assai remota dalla mia esistenza attuale - due o tre secoli almeno. Ma come era ciò avvenuto? come mi trovava in quelle campagne? Non lo sapeva. Ciò era bensì naturale nel sogno: vi erano degli avvenimenti che giustificavano il mio ristarmi in quel luogo, ma non sapeva quali fossero; non aveva coscienza del loro valore, della loro entità, non l'aveva che della loro esistenza. Era solo e triste. Camminava per uno scopo determinato, prefisso, per un fine che mi attraeva in quel luogo, ma che ignorava. All'estremità della valle si
innalzava una rupe tagliata a picco, alta, perpendicolare, profonda, solcata da screpolature dove non germogliava una liana; e sulla sua sommità vi era un castello che dominava tutta la valle, e quel castello era nero. Le sue torri munite di balestriere erano gremite di soldati, le porte dei ponti calate, le altane stipate d'uomini e di arnesi da difesa; negli appartamenti del castello era rinchiusa una donna di prodigiosa bellezza, che nella consapevolezza del sogno io sapeva essere la dama del Castello Nero e quella donna era legata a me da un affetto antico, e io doveva difenderla, sottrarla da quel castello. Ma giù nella valle a' piedi della rupe ove io mi era arrestato, un oggetto colpiva dolorosamente la mia attenzione: sui gradini d'un monumento mortuario sedeva un uomo che n'era uscito allora; egli era morto e tuttavia viveva; presentava un assieme di cose impossibile a dirsi, l'accoppiamento della morte e della vita, la rigidità, il nulla dell'una temperata dalla sensitività, dall'essenza dell'altra: le sue pupille che io sapeva essere state abbacinate con un chiodo rovente, erano ancora attraversate da due piccoli fori quadrati che davano al suo sguardo qualche cosa di terribile e di compassionevole a un tempo. A quel fatto si legavano delle memorie di sangue, delle memorie di un delitto a cui io avevo preso parte. Fra me e lui e la dama del castello correvano dei rapporti inesplicabili. Egli mi guardava colle sue pupille forate; e col gesto, e con una specie di volontà che egli non manifestava, ma che io, non so come, leggeva in lui, m'incitava a liberare la dama. Una via scavata lateralmente nella rupe conduceva al castello. Una immensa quantità di proiettili lanciatimi dai mangani delle torri mi impedivano di giungervi. Ma, strana cosa, tutti quei proiettili enormi mi colpivano, ma non mi uccidevano - nondimeno mi arrestavano. Attraverso le mura del castello, io vedeva la dama correre sola per gli appartamenti coi capelli neri disciolti, col volto e coll'abito bianchi come la neve, protendendomi le braccia con espressione di desiderio e di pietà infinita; e io la seguiva collo sguardo attraverso tutte quelle sale che io conosceva, nelle quali aveva vissuto un tempo con lei. Quella vista mi animava a correre in suo soccorso, ma non lo poteva; i proiettili lanciatimi dalle torri me lo impedivano: a ogni svolto del sentiero la grandine diventava più fitta e più atroce; e quegli svolti erano molti - dopo questo un altro, dopo quello ancora un altro... io saliva e saliva... la dama mi chiamava dal castello, si affacciava dalle ampie finestre coi capelli che le piovevano giù sul seno, mi accennava colla mano di affrettarmi, mi diceva parole piene di dolcezza e di amore, né io poteva giungere fino a lei - era una impotenza straziante. Quanto durasse
quella terribile lotta non so; tutta la durata del sogno, tutto lo spazio della notte. Finalmente, e non sapeva in che modo, era arrivato alle porte del castello; esse erano rimaste indifese, i soldati erano spariti: le imposte serrate si spalancarono da sé cigolando sui cardini arrugginiti, e nello sfondo nero dell'atrio vidi la dama col suo lungo strascico bianco, e colle braccia aperte, correre verso di me, attraversando con una rapidità sorprendente, e rasentando appena lo spiazzo, la distanza che ci separava. Essa si gettò tra le mie braccia coll'abbandono di una cosa morta, colla leggerezza, coll'adesione di un oggetto aereo, flessibile, soprannaturale. La sua voce era dolce, ma debole come l'eco di una nota; la sua pupilla, nera e velata come per pianto recente, attraversava le più ascose profondità della mia anima senza ferirla, investendola anzi della sua luce come per effetto di un raggio. Noi passammo alcuni istanti così abbracciati: una voluttà mai sentita da me né prima, né dopo quell'ora, mi ricercava tutte le fibre. Per un momento io subii tutta l'ebbrezza di quell'amplesso senza avvertirla: ma non m'era posato su questo pensiero, non era appena discesa in me la coscienza di quella voluttà, che sentii compiersi in lei una orribile trasformazione. Le sue forme piene e delicate, che sentiva fremere sotto la mia mano, si appianarono, rientrarono in sé, sparirono; e sotto le mie dita incespicate tra le pieghe che si erano formate a un tratto nel suo abito, sentii sporgere qua e là l'ossatura di uno scheletro... Alzai gli occhi rabbrividendo e vidi il suo volto impallidire, affilarsi, scarnirsi, curvarsi sopra la mia bocca; e colla bocca priva di labbra imprimervi un bacio disperato, secco, lungo, terribile... Allora un fremito, un brivido di morte scorse per tutte le mie fibre; tentai di svincolarmi dalle sue braccia, respingerla... e nella violenza dell'atto il mio sonno si ruppe - mi svegliai urlando e piangendo. Tornai ai miei quindici anni, alle mie idee, ai miei apprezzamenti, alle mie puerilità di fanciullo. Tutto quel sogno mi pareva assai più strano, assai più incomprensibile che spaventoso. Quali erano i sentimenti che si erano impossessati di me in quello stato? Io non aveva ancora conosciuta la voluttà di un bacio, non aveva pensato ancora all'amore, non poteva darmi ragione delle sensazioni provate in quella notte. Ciò non ostante era triste, era posseduto da un pensiero irremovibile; mi pareva che quel sogno non fosse altrimenti un sogno, ma una memoria, una idea confusa di cose, la rimembranza di un fatto molto remoto dalla mia vita attuale. Nella notte seguente ebbi un altro sogno.
Mi trovava ancora in quel luogo, ma tutto era cambiato; il cielo, gli alberi, le vie non erano più quelli; i fianchi della rupe erano intersecati da sentieri coperti di madreselve; del castello non rimanevano che poche rovine, e nei cortili deserti e negli interstizii delle stanze terrene crescevano le cicute e le ortiche. Passando vicino al monumento che sorgeva prima nella valle e di cui pure non restavano che alcune pietre, l'uomo abbacinato che stava ancora seduto sopra un gradino rimasto intatto, mi disse porgendomi un fazzoletto bruttato di sangue: "Recatelo alla signora del castello". Mi trovai assiso sulle rovine: la signora del castello era seduta al mio fianco eravamo soli - non si udiva una voce, una eco, uno stormire di fronde nella campagna - essa, afferrandomi le mani, mi diceva: "Sono venuta tanto da lontano per rivederti, senti il mio cuore come batte... senti come batte forte il mio cuore!... tocca la mia fronte e il mio seno: oh! sono assai stanca, ho corso tanto; sono spossata dalla lunga aspettazione... erano quasi trecento anni che non ti vedeva". "Trecento anni!" "Non ti ricordi? Noi eravamo assieme in questo castello: ma sono memorie terribili! non le evochiamo." "Sarebbe impossibile; io le ho dimenticate." "Le ricorderai dopo la tua morte." "Quando?" "Assai presto." "Quando?" "Fra venti anni, al venti di gennaio: i nostri destini, come le nostre vite, non potranno ricongiungersi prima di quel giorno." "Ma allora?" "Allora saremo felici, realizzeremo i nostri voti." "Quali?" "Li ricorderai a suo tempo... ricorderai tutto. La tua espiazione sta per finire, tu hai attraversate undici vite prima di giungere a questa, che è l'ultima. Io ne ho attraversate sette soltanto, e sono già quarant'anni che ho compiuto il mio pellegrinaggio nel mondo: tu lo compirai con questa fra vent'anni. Ma non posso rimanere più a lungo con te, è necessario che ci separiamo." "Spiegami prima questo enimma." "È impossibile... Può avvenire però che tu lo abbia a comprendere. Ho rinfacciato ieri a lui la sua promessa: te ne ho restituito il mezzo, quei due volumi, quelle memorie scritte da te, quelle pagine sì colme di affetto... le
avrai, se quell'uomo che ci fu allora sì fatale non t'impedirà di averle." "Chi?" "Tuo zio... egli... l'uomo della valle." "Egli? Mio zio!" "Sì, e lo hai tu veduto?" "Lo vidi, e ti manda per me questo fazzoletto insanguinato." "È il tuo sangue, Arturo", diss'ella con trasporto, "sia lodato il cielo! egli ha mantenuto la sua promessa." Dicendo queste parole la signora del castello sparve - io mi svegliai atterrito. Mio zio stette rinchiuso per due giorni nel suo appartamento: appena ne fu uscito mi precipitai nelle sue stanze per impadronirmi di quei volumi, ma non vi trovai che un mucchio di cenere; egli li aveva dati alle fiamme. Quale non fu però il mio terrore quando nel rimescolare quelle ceneri vi rinvenni alcuni frammenti che parevano scritti di mio pugno; e da alcune parole sconnesse che erano rimaste intelligibili, potei ricostruire con uno sforzo potente di memoria degli interi periodi che si riferivano agli avvenimenti accennati oscuramente in quei sogni! Io non poteva più dubitare della verità di quelle rivelazioni; e benché non giungessi mai ad evocare tutte le mie rimembranze per modo da dissipare le tenebre che si distendevano su quei fatti, non era più possibile che io potessi metterne in dubbio la esistenza. Il Castello Nero era spesso nominato in quei frammenti, e quella passione d'amore che pareva legarmi alla signora del castello, e quel sospetto di delitto che pesava sull'uomo della valle vi erano in parte accennati. Oltre a ciò, per una combinazione singolare altrettanto che spaventevole, la notte in cui aveva fatto quel sogno era appunto la notte del venti gennaio: mancavano dunque venti anni esatti alla mia morte. Dopo quel giorno io non aveva dimenticato mai quel presagio, ma quantunque non ponessi in dubbio che vi fosse un fondo di verità in tutto quell'insieme di fatti, era riuscito a persuadermi che la mia gioventù, la mia sensibilità, la mia immaginazione, avevano contribuito in gran parte a circondarli del loro prestigio. Mio zio, morto sei anni dopo, mentre io era assente dalla famiglia, non aveva fatto alcuna rivelazione che si riferisse a quegli avvenimenti; io non aveva più avuto alcun sogno che potesse considerarsi come uno schiarimento od una continuazione di quelli; e degli af-
fetti nuovi, e delle cure nuove, e delle nuove passioni erano venute a distogliermi da quel pensiero, a crearmi un nuovo stato di cose, un nuovo ordine di idee, ad allontanarmi da quella preoccupazione triste e affannosa. Non fu che diciannove anni dopo che io dovetti persuadermi per una testimonianza irrefragabile, che tutto ciò che io aveva sognato e veduto era vero, e che il presagio della mia morte doveva conseguentemente avverarsi. Nell'anno 1849 viaggiando al Nord della Francia, aveva disceso il Reno fin presso al confluente della piccola Mosa e m'era trattenuto a cacciare in quelle campagne. Errando solo un giorno lungo le falde di una piccola catena di monti, mi era trovato ad un tratto in una valle nella quale mi pareva essere stato altre volte, e non aveva fatto questo pensiero che una memoria terribile venne a gettare una luce fosca e spaventosa nella mia mente, e conobbi che quella era la valle del castello, il teatro dei miei sogni e della mia esistenza trascorsa. Benché tutto fosse mutato, benché i campi prima deserti, biondeggiassero adesso di messi, e non rimanessero del castello che alcuni ruderi sepolti a metà dalle ellere, ravvisai tosto quel luogo e mille e mille rimembranze, mai più evocate, si affollarono in quell'istante nella mia anima conturbata. Chiesi ad un pastore che cosa fossero quelle rovine, e mi rispose: "Sono le rovine del Castello Nero; non conoscete la leggenda del Castello Nero? Veramente ve ne sono di molte e non si narrano da tutti allo stesso modo; ma se desiderate di saperla come la so io... se...". "Dite, dite", io interruppi, sedendomi sull'erba al suo fianco. E intesi da lui un racconto terribile, un racconto che io non rivelerò mai benché altri il possa allo stesso modo sapere, e sul quale ho potuto ricostruire tutto l'edificio di quella mia esistenza trascorsa. Quando egli ebbe finito, io mi trascinai a stento fino ad un piccolo villaggio vicino donde fui trasportato, già infermo, a Wiesbaden, e vi tenni il letto tre mesi. Oggi, prima di partire, mi sono recato a rivedere le rovine del castello - è il primo giorno di settembre, mancano sei mesi all'epoca della mia morte sei mesi, meno dieci giorni - giacché non dubito che morrò in quel giorno prefisso. Ho concepito lo strano desiderio che rimanga alcuna memoria di me. Assiso sopra una pietra del castello ho tentato di richiamarmi tutte le circostanze lontane di questo avvenimento, e vi scrissi queste pagine sotto la impressione di un immenso terrore.»
L'autore di queste memorie, che fu mio amico e letterato di qualche fama, proseguendo il suo viaggio verso l'interno della Germania, morì il 20 gennaio 1850, come gli era stato presagito, assassinato da una banda di zingari nelle gole così dette di Giessen presso Freiburgo. Io ho trovate queste pagine tra i suoi molti manoscritti e le ho pubblicate. AMELIA BLANDFORD EDWARDS La carrozza fantasma Le circostanze che mi appresto a narrarvi sono del tutto vere. Sono cose che sono successe a me, e i miei ricordi sono molto vivi, tanto che gli eventi che sto per descrivervi potrebbero essere accaduti ieri. Invece sono trascorsi vent'anni da quella notte. Durante quei vent'anni ho raccontato questa vicenda a una sola persona. La ripeterò ora con una riluttanza che riesco a vincere a stento. Tutto quello che chiedo nel frattempo, è che vi asteniate dall'obbligarmi ad accettare le vostre conclusioni. Io ne sono convinto, e i miei sensi mi confortano in questa mia convinzione: dunque preferisco attenermi ad essi. Allora! Sono trascorsi esattamente vent'anni, e mancavano un paio di giorni alla fine della stagione della caccia. Ero stato tutto il giorno fuori con il fucile, e non avevo preso nulla. Il vento soffiava da est, il mese era dicembre, e il luogo, un'ampia e desolata palude nell'estremo nord dell'Inghilterra. Mi ero perso. Non era un posto piacevole in cui perdersi, poiché i primi soffici fiocchi che annunciavano l'arrivo di una bufera di neve avevano cominciato a cadere tra le felci, e tutt'attorno scendeva la sera, mentre il cielo diventava color piombo. Con la mano feci scudo agli occhi, e scrutai con ansia l'oscurità che avanzava, verso un punto in cui la palude violacea si addolciva e si vedevano sorgere delle basse colline, a circa dieci o dodici miglia di distanza. Da qualsiasi parte guardassi, non vedevo né un fil di fumo, né un campicello coltivato, né uno steccato, né un sentiero per il gregge. Non c'era altro da fare: dovevo continuare il mio cammino, sperando di trovare un rifugio lungo la strada. Così mi rimisi in spalla il fucile, e mi spinsi stancamente in avanti. Ero in piedi fin dall'alba, e non avevo toccato cibo dall'ora della colazione. Intanto, la neve cominciava a scendere con minacciosa regolarità, e il
vento era cessato. A quel punto il freddo divenne più intenso, e la notte calò velocemente. Per quanto mi riguardava, il mio futuro diventava più incerto man mano che incalzavano le tenebre, e con il cuore pesante pensai alla mia giovane sposa che certo già aspettava alla finestra della nostra piccola locanda, e riflettei sulla sofferenza che le avrebbe portato quella lunga notte che si avvicinava. Eravamo sposati da quattro mesi, avevamo trascorso tra le Highlands tutto l'autunno, ed ora alloggiavamo in un villaggetto remoto situato al confine delle grandi paludi inglesi. Eravamo molto innamorati, e naturalmente anche molto felici. Quella mattina, al momento della partenza, lei mi aveva supplicato di tornare prima del tramonto, ed io glielo avevo promesso. Cosa non avrei dato per aver potuto mantenere la parola! Anche in quel momento, per quanto fossi stanchissimo, sentivo che avevo solo bisogno di una cena, di un'ora di riposo, e di una guida per tornare da lei prima della mezzanotte, se solo fossi riuscito a trovare quella guida e quel rifugio. La neve aveva continuato a cadere per tutto il tempo, e l'oscurità diventava sempre più fitta. Ogni tanto mi fermavo e gridavo, ma le mie grida sembravano rendere solo più profondo il silenzio che mi circondava. Mi assalì uno strano senso d'inquietudine, e cominciai a ricordare tante storie di viaggiatori che avevano camminato e camminato nella neve finché non erano caduti a terra stremati, per dormire di un sonno che ben presto diventava eterno. Era possibile, mi chiesi, continuare così per tutta quella notte tanto fredda e buia? Non sarebbe arrivato il momento in cui le mie membra non mi avrebbero più risposto, e il mio coraggio mi avrebbe lasciato? Il momento in cui anch'io mi sarei addormentato nel sonno mortale. La morte! Ebbi un tremito. Com'era difficile morire proprio allora, quando la vita mi si presentava tanto piacevole! Quanto sarebbe stato difficile per la mia amata, che con il cuore pieno d'amore... un simile pensiero era intollerabile. Per cacciarlo urlai ancora, più forte e più a lungo, e rimasi in trepidante attesa. Avevo forse udito un grido di risposta, o me lo ero solo immaginato? Urlai ancora, e di nuovo seguì un'eco. Poi una fioca luce spuntò all'improvviso dall'oscurità, brillò, ondeggiò e quindi sparì, per poi diventare sempre più forte e più vicina. Corsi in quella direzione a tutta velocità, e con grande gioia mi trovai faccia a faccia con un vecchio che reggeva una lanterna. «Grazie a Dio!», fu l'esclamazione che mi sfuggì involontariamente dal-
le labbra. Aggrottando le ciglia e sbattendo le palpebre, sollevò la lanterna e mi scrutò in volto. «Per cosa?», brontolò, corrucciato. «Beh... per voi. Avevo cominciato a temere di essermi perso nella neve.» «Eh, è vero: la gente di tanto in tanto si perde da queste parti, e cosa impedirebbe che anche a voi succedesse una cosa del genere, se il Signore avesse così deciso?» «Se il Signore avesse deciso che voi ed io ci perdessimo assieme, amico mio, ci dovremmo rassegnare», risposi, «ma non intendo perdermi con voi. Quanto siamo distanti da Dwolding?» «Più di venti miglia, direi.» «E dal villaggio più vicino?» «Il villaggio più vicino è Wyke, a dodici miglia nella direzione opposta.» «E voi dove abitate?» «Laggiù», rispose, con un vago gesto della lanterna. «Andate a casa, immagino?» «Forse sì.» «Allora vengo con voi.» Il vecchio scosse la testa, grattandosi il naso con la maniglia della lanterna, riflettendo. «Non serve a niente», brontolò. «Lui non vi farà entrare... nossignore.» «Vedremo», risposi bruscamente. «Chi è Lui?» «Il padrone.» «Chi è il padrone?» «Non vi riguarda!», rispose senza tante cerimonie. «Bene, bene; andate avanti voi, e io cercherò di farmi dare un rifugio e una cena dal vostro padrone per stanotte.» «Eh... potete provare!», mormorò la mia guida riluttante. E, scuotendo ancora la testa, si avviò zoppicando come uno gnomo, attraverso la neve che fioccava. Ben presto riuscii a scorgere una grossa costruzione che si stagliava contro le tenebre, e un cane enorme si lanciò verso di noi, abbaiando furiosamente. «È questa la casa?», chiesi. «Sì, la casa è questa. A cuccia, Bey!»
E si mise a cercare a tastoni in una tasca, per trovare la chiave. Io mi accostai a lui, pronto a non perdere l'occasione di entrare, e vidi all'interno del piccolo cerchio di luce che gettava la lanterna, che la porta era ricoperta fittamente di grandi chiodi borchiati di ferro, come quella di una prigione. Un minuto dopo, lui aveva girato la chiave nella toppa e, spintola da parte, ero entrato nella casa. Una volta all'interno, mi guardai attorno pieno di curiosità, e mi trovai in una grande sala con il soffitto di travi di legno, che era stata adibita a diversi usi. Da una parte c'era un mucchio di grano che arrivava fino al tetto, come in un silos. Dall'altra erano ammucchiati dei sacchi per la farina, strumenti agricoli, delle botti, e pezzi di legno di vario tipo. Dalle travi pendevano file di prosciutti, zappe, e mazzi di erbe essiccate per l'inverno. Al centro del pavimento vi era un enorme oggetto coperto di un telo sporco, che arrivava fin quasi al soffitto. Quando alzai un lembo del telo, vidi con sorpresa che si trattava di un telescopio molto grande, montato su una rozza piattaforma mobile, munita di quattro piccole ruote. Il tubo era fatto di legno dipinto, ed era tenuto insieme da certe bande metalliche piuttosto rozze. La lente, per quanto riuscivo a vedere nella penombra che regnava nella stanza, sembrava misurare almeno quindici pollici di diametro. Mentre ero ancora occupato ad esaminare lo strumento, chiedendomi se non fosse forse l'opera di un ottico autodidatta, all'improvviso suonò un campanello. «È per te», disse la mia guida, con un sorriso malevolo. «La stanza è quella.» Indicò una porta bassa e nera sul lato opposto della sala. Attraversai la stanza, bussai un po' forte, ed entrai, senza attendere la risposta. Un enorme vecchio dai capelli bianchi si alzò dal tavolo coperto di libri e di carte, e mi affrontò accigliato. «Chi siete?», disse. «Come siete arrivato qui? Cosa volete?» «Mi chiamo James Murray, e sono un avvocato. Sono arrivato a piedi attraverso la palude. Desidero della carne, da bere, e da dormire.» Aggrottò le ciglia, assumendo un'espressione terribile. «La mia non è una casa di divertimenti», disse con alterigia. «Jacob, come hai osato far entrare questo forestiero?» «Non l'ho fatto entrare», brontolò il vecchietto. «Mi ha seguito nella palude, ed è entrato sgomitando. Non potevo far nulla contro un uomo alto sei piedi e due pollici.» «E di grazia, signore, con quale diritto vi siete introdotto a forza in casa
mia?» «Con lo stesso diritto con il quale mi sarei aggrappato alla vostra barca, se stessi affogando. Il diritto alla sopravvivenza.» «Alla sopravvivenza?» «La neve caduta è già spessa un pollice», risposi brevemente, «e prima dell'alba diventerà abbastanza alta da coprire il mio corpo.» Quello si avvicinò alla finestra, tirò da parte la pesante tenda nera che la ricopriva, e guardò fuori. «È vero», disse. «Potete rimanere, se lo desiderate, ma solo fino al mattino. Jacob, servi la cena.» Con quelle parole fece un gesto per invitarmi a sedere, riprese il suo posto, e tornò ad occuparsi dei suoi studi, che io avevo momentaneamente interrotto. Posai il fucile in un angolo, portai una sedia vicino al camino, ed esaminai senza fretta la stanza. Si trattava di un ambiente più piccolo e meno incongruo rispetto al salone, ma conteneva molte cose che stimolavano la mia curiosità. Non vi erano tappeti. Le pareti dipinte di bianco erano in parte ricoperte di strani diagrammi, e in parte erano occupate da scaffali pieni di strumenti e libri filosofici, molti dei quali mi erano del tutto ignoti. A fianco del camino c'era una libreria ingombra di fogli scoloriti; dall'altra parte, si vedeva un piccolo organo, ricoperto di decorazioni scolpite e dipinte, che rappresentavano santi medievali e diavoli. Attraverso lo sportello semiaperto di un armadio sul lato opposto della stanza, scorsi una grande varietà di reperti geologici, preparazioni chirurgiche, alambicchi, almanacchi e barattoli di prodotti chimici. Invece, sulla mensola accanto a me, assieme a un certo numero di altri piccoli oggetti, vedevo un modello del sistema solare, una piccola pila galvanica e un microscopio. Ogni sedia era occupata. Ogni angolo era pieno di mucchi di libri. Il pavimento era ricoperto di mappe, modelli in gesso, calchi, e materiale scientifico di ogni tipo. Mi guardavo attorno sempre più stupito dagli oggetti che mi circondavano. Non avevo mai visto una stanza del genere. Eppure, era ancora più insolito il fatto di trovare una stanza simile in un casale sperduto tra quelle selvagge lande solitarie! Con lo sguardo passavo dal mio ospite all'ambiente che lo circondava, e viceversa, chiedendomi chi e che cosa fosse mai quell'uomo. Aveva una testa molto ben modellata. Ma sembrava più quella di un poeta che di un filosofo. Le ampie tempie e la fronte prominente al di sopra delle orbite e-
rano ricoperte di una fluente chioma di capelli perfettamente bianchi, che suggerivano l'altezza di ideali e la ruvidezza che caratterizzano le fattezze di Beethoven. Aveva delle rughe profonde attorno alla bocca, profondi solchi gli attraversavano la fronte, e aveva la stessa espressione di estrema concentrazione. Mentre ero ancora intento ad osservarlo, si spalancò una porta, e Jacob ci portò la cena. Il suo padrone chiuse il libro, si alzò, e con maggior cortesia di quanto avesse dimostrato fino a quel momento, mi invitò ad avvicinarmi alla tavola. Mi vennero offerti un piatto di prosciutto e uova, una pagnotta di pane nero, e una bottiglia di ottimo sherry. «Posso offrirvi solo i semplici cibi di campagna, signore», disse il padrone di casa. «Mi auguro che il vostro appetito compensi le manchevolezze della mia dispensa.» Mi ero già avventato sul cibo, e protestai con tutto l'entusiasmo di uno sportivo affamato che non avevo mai assaggiato nulla di tanto saporito. Il mio ospite si inchinò rigidamente e si sedette a consumare la sua cena piuttosto primitiva, che consisteva in una brocca di latte e una ciotola di porridge. Mangiammo in silenzio e, quando terminammo il pasto, Jacob portò via il vassoio. Riportai la mia sedia accanto al camino. Rimasi alquanto sorpreso nel vedere che il mio ospite mi imitò di lì a poco, rivolgendomi bruscamente la parola: «Signore, ho vissuto qui in assoluta solitudine per ventitré anni. Durante quel tempo non ho visto molti volti di estranei, e non ho letto nemmeno un giornale. Voi siete il primo forestiero che ha varcato la mia soglia in quattro anni. Mi potreste riferire qualche informazione circa il mondo esterno dal quale mi sono ormai separato da lungo tempo?». «Prego, interrogatemi pure», risposi. «Mi pongo volentieri al vostro servizio.» Inchinò la testa in segno di ringraziamento. Si sporse quindi verso di me, con i gomiti appoggiati alle caviglie, e il mento sulle palme delle mani. Fissò le fiamme e cominciò a interrogarmi. Le sue domande erano per lo più incentrate su materie di carattere scientifico, poiché ignorava quasi totalmente i recenti progressi e le loro applicazioni pratiche nella vita di tutti i giorni. Io stesso non ero certo uno studente di materie scientifiche, e quindi risposi come meglio potevo. Ma il compito era tutt'altro che facile e, con mio grande sollievo, passammo poi dalle domande alla conversazione, durante la quale parlò a lungo delle sue
conclusioni circa i fatti che avevo tentato di spiegare. Ascoltavo affascinato le sue parole: parlò fin quasi a dimenticare la mia stessa presenza, e cominciò a pensare ad alta voce. Non avevo mai sentito nessuno parlare così, né da allora ho mai più sentito discorsi simili. Pareva conoscere tutti i sistemi filosofici, era capace di compiere sottili analisi e ardite generalizzazioni, seguendo il filo dei suoi pensieri che fluivano come un fiume ininterrotto di concetti, e, curvo in quell'atteggiamento malinconico, con gli occhi fissi sulle fiamme, vagava da un soggetto all'altro, da un'ipotesi all'altra, come un sognatore ispirato. Passò dalle scienze pratiche alla filosofia dei processi mentali, dall'elettricità condotta dal filo a quella che passa attraverso i nervi. Da Watts a Mesmer, da Mesmer a Reichenbach, da Reichenbach a Swedenborg, Spinoza, Condillac, Descartes, Berkeley, Aristotele, Platone, ai Magi e ai mistici orientali, quelle transizioni, per quanto fonti di meraviglia e disorientamento a causa della loro varietà ed ampiezza, uscendo dalle sue labbra apparivano invece facili e armoniose come sequenze musicali. Piano piano - non ricordo attraverso quale serie di congetture, o quali esemplificazioni - passò ad esaminare quel campo che rimane al di là della linea di confine perfino della filosofia delle ipotesi, e che arriva Dio sa dove. Parlò dell'anima e delle aspirazioni che le sono proprie, dello spirito, e dei poteri che lo caratterizzano. Del sesto senso. Del dono della profezia. Di tutti quei fenomeni i quali, sotto il nome di fantasmi, spettri, apparizioni sovrannaturali, sono stati negati dagli scettici e attestati dai creduloni di ogni tempo. «Il mondo», disse, «di ora in ora diventa più scettico circa tutto ciò che si trova al di fuori del suo raggio limitato; i nostri scienziati alimentano questa tendenza nefasta. Considerano favole tutte le cose che non possono essere soggette a sperimentazioni scientifiche, e rifiutano come falso tutto ciò che non può essere sottoposto a prove di laboratorio, o introdotto in una sala di dissezione. Quale è stata la superstizione contro la quale hanno dichiarato una guerra annosa e ostinata tanto quanto quella contro la credenza nelle apparizioni inspiegabili? Eppure, quale altra superstizione ha mantenuto la sua presa sulle menti degli uomini tanto tenacemente e tanto a lungo? Mostratemi un esempio, un fatto qualsiasi attinente la fisica, la storia, o l'archeologia, che goda di un corredo tanto ricco e vario di testimonianze. Le attestazioni riguardano tutte le razze umane, tutti i periodi storici, tutti i climi, e si tratta spesso di testimonianze offerte dai più assennati saggi
dell'antichità, dai più rudi selvaggi di oggi, da cristiani, pagani, panteisti e materialisti. Tuttavia, i filosofi del nostro tempo considerano questo fenomeno una favola per bambini. Le prove circostanziate per loro contano quanto una piuma sulla bilancia. La comparazione delle cause con gli effetti, per quanto valida nel campo della fisica, è considerata inutile e inaffidabile. I resoconti di testimoni competenti in materia, considerati tanto importanti in un'aula di tribunale, non contano nulla in questi casi. Colui che si permette una pausa di riflessione prima di pronunciarsi, viene considerato un perditempo. Colui che crede, invece, è un sognatore o uno sciocco.» Parlava con una certa amarezza e, dopo aver pronunciato quelle parole, tacque per alcuni minuti. Ben presto sollevò la testa dalle mani, e aggiunse con voce e aspetto alterati. «Io, signore, ho esitato, ho ricercato, ed ho creduto, ma non mi vergogno di dichiarare ciò di cui sono convinto di fronte al mondo intero. Anch'io sono stato bollato come visionario, esposto al ridicolo davanti alle persone del mio tempo, e infine cacciato dal campo scientifico nel quale mi ero condotto con onore durante gli anni migliori della mia vita. Queste cose accaddero ventitré anni or sono. Da allora, ho vissuto come vedete, il mondo mi ha dimenticato, ed io a mia volta l'ho dimenticato. Ecco, adesso sapete la mia storia.» «È una storia molto triste», mormorai, senza sapere bene cosa rispondere. «È una storia piuttosto comune», rispose. «Ho solo sofferto in nome della verità, come molti uomini più valenti e più saggi hanno sofferto prima di me.» Si alzò, come se fosse desideroso di troncare quella conversazione, e si avvicinò alla finestra. «Ha smesso di nevicare», osservò, poi lasciò cadere la tenda che aveva scostato, e tornò accanto al focolare. «Ha smesso!», esclamai, saltando in piedi. «Oh, se solo fosse possibile... ma no! È inutile. Anche se riuscissi a trovare la strada attraverso la palude, non potrei percorrere venti miglia a piedi stanotte.» «Percorrere venti miglia a piedi questa notte!», ripeté il mio anfitrione. «Cosa state dicendo?» «Penso a mia moglie», risposi in tono impaziente. «Penso alla mia giovane moglie, che non sa che mi sono perso. In questo esatto momento avrà il cuore spezzato, in preda all'angoscia e al terrore.»
«Dov'è ora?» «A Dwolding, a venti miglia da qui.» «A Dwolding», mi fece eco l'uomo, con aria pensosa. «Sì, è vero, la distanza è all'incirca venti miglia. Ma... siete veramente tanto ansioso di risparmiare sei o sette ore?» «Tanto ansioso, che darei dieci ghinee in cambio di una guida e di un cavallo.» «Il vostro desiderio sarà esaudito a un prezzo assai più modesto», disse l'uomo, sorridendo. «La diligenza della posta che proviene da nord, e che cambia i cavalli a Dwolding, passa a meno di cinque miglia da qui, e transiterà per un certo incrocio tra un'ora e un quarto. Se Jacob vi guidasse attraverso la palude, e vi indicasse la vecchia strada della corriera, credete di riuscire a trovare la strada fino al punto in cui si congiunge con la strada nuova?» «Facilmente... volentieri.» Sorrise di nuovo, suonò il campanello, diede le istruzioni al vecchio servo, poi, prendendo una bottiglia di whisky e un bicchiere per il vino dall'armadio in cui teneva i suoi prodotti chimici, aggiunse: «La neve è molto alta, e sarà difficile camminare nella palude. Vorreste un bicchiere di usquebaugh prima di partire?». Avrei preferito rifiutare, ma lui insistette, e così bevvi il liquore. Mi scese in gola come una fiamma liquida, e rimasi quasi senza fiato. «È forte», disse, «ma aiuta a combattere il freddo. Ed ora dovete affrettarvi: non c'è tempo da perdere. Buona notte!» Lo ringraziai per la sua ospitalità, e volevo stringergli la mano, ma lui mi voltò le spalle prima che potessi finire la frase. In appena un minuto attraversai la stanza, Jacob serrò la porta esterna alle mie spalle, e ci trovammo fuori, sulla sconfinata palude ricoperta di neve. Benché il vento fosse cessato, il freddo era ancora molto intenso. Non si vedeva nemmeno una stella brillare sulla nera volta che ci sovrastava. Non si sentiva il minimo rumore, eccettuato il rapido scalpiccio dei nostri passi sulla neve, l'unico suono che disturbasse il silenzio di quella notte. Jacob, niente affatto contento di dover portare a termine un tale compito, strascicava i piedi davanti a me, accigliato e silenzioso, tenendo alta la lanterna, e vedevo la sua ombra, raccolta attorno ai suoi piedi. Lo seguivo con il fucile in spalla, e anch'io mi sentivo poco incline alla conversazione. I miei pensieri erano tutti dedicati al mio anfitrione di poco prima. La sua voce ancora mi risuonava nelle orecchie: la sua eloquenza aveva affascina-
to la mia immaginazione. Ricordo ancora con sorpresa che la mia mente sovreccitata aveva registrato intere frasi e spezzoni di frasi, migliaia di vivide immagini, frammenti di splendidi ragionamenti, e le parole stesse che lui aveva usato per esprimerli. Rimuginando così su quanto avevo udito e tentando di richiamare alla memoria qualche nesso che avevo dimenticato, seguivo passo passo la mia guida, assorto, senza osservare i dintorni. Di lì a poco - erano trascorsi, o almeno così mi pareva, solo pochi minuti - egli si arrestò bruscamente, e disse: «Ecco la strada che dovete fare. Tenetevi a destra del muretto di pietra: non potete sbagliare». «Questa allora è la vecchia strada della diligenza?» «Sì, è questa.» «Quanta strada devo fare, prima di arrivare all'incrocio?» «Più o meno tre miglia.» Tirai fuori il portafoglio, e lui divenne più loquace. «La strada è abbastanza buona», disse, «da fare a piedi; ma per il traffico proveniente da nord era troppo ripida e stretta. Fate attenzione al punto in cui il parapetto è sfondato, vicino al segnale stradale. Non è stato mai riparato da quando è accaduto l'incidente.» «Quale incidente?» «Eh, la diligenza della posta notturna l'ha sfondata, ed è caduta nella valle sottostante - un salto di più di cinquanta piedi - proprio nel pezzo di strada più brutto di tutta la Contea.» «Che cosa orribile! Ci sono stati dei morti?» «Tutti. Quattro vennero trovati già morti, e gli altri due morirono la mattina seguente.» «Quando accadde questo incidente?» «Nove anni fa.» «Vicino al segnale stradale, dite? Lo terrò a mente. Buona notte.» «Buona notte, signore, e grazie.» Jacob intascò la sua mezza corona, fece un gesto che avrebbe dovuto essere di saluto, e sparì nella direzione dalla quale era venuto. Guardai la luce della sua lanterna sparire nel buio, e poi mi voltai, pronto a proseguire da solo. Non sarebbe stata cosa difficile, poiché, nonostante l'oscurità impenetrabile del cielo, il muretto di pietra si vedeva abbastanza chiaramente contro il candore pallido della neve. Che profondo silenzio regnava, ora che l'unico rumore era quello dei miei passi! Com'era silen-
zioso e solitario! Uno strano e inquietante senso di solitudine si impadronì di me. Allungai il passo, e mormorai qualche battuta di una canzone. Sommai enormi somme a mente, e le accumulai calcolando gli interessi. In breve, feci il possibile per dimenticare i ragionamenti straordinari che avevo appena udito, e più o meno raggiunsi il mio scopo. Intanto l'aria notturna sembrava sempre più fredda e, benché camminassi rapidamente, sentivo sempre più freddo. I miei piedi sembravano fatti di ghiaccio. Con le mani intirizzite stringevo meccanicamente il fucile, senza sentirlo. Anche respirare era diventato difficile, come se stessi attraversando le più alte vette di una montagna altissima, e non quella silenziosa strada del nord. Alla fine, questo sintomo divenne tanto forte, che dovetti fermarmi per alcuni minuti per appoggiarmi al muretto di pietra. Mentre ero fermo, lanciai per caso un'occhiata lungo la strada e, con infinito sollievo, vidi un lumicino distante, come il bagliore di una lanterna che si avvicinava. Dapprima pensai che Jacob fosse tornato sui suoi passi e mi avesse seguito ma, proprio nel momento in cui quel pensiero mi si era formato in mente, apparve una seconda luce - una luce evidentemente parallela alla prima che si avvicinava alla stessa velocità. Non avevo bisogno di interrogarmi oltre, perché quelle dovevano certamente essere le luci di una carrozza, forse un veicolo privato, benché paresse strano che un veicolo privato percorresse una strada tanto poco usata e pericolosa. Tuttavia, era indubbiamente così. Infatti le lampade diventavano sempre più grandi e luminose, e immaginai perfino di riuscire a distinguere la sagoma scura della carrozza. Si avvicinava a grande velocità, senza alcun rumore: la neve sulla strada era spessa quasi un piede. Finalmente riuscii a distinguere bene il corpo della carrozza dietro le luci di posizione. Mi sembrava stranamente alta. Improvvisamente un sospetto mi assalì. Avevo forse passato l'incrocio al buio senza vedere il segnale? Era forse quella la carrozza che ero venuto ad aspettare? Non vi fu bisogno di pensare oltre alla risposta. Infatti, in quel momento uscì dalla svolta che la strada compiva in quel punto, e vidi la guardia e il conducente, un passeggero seduto all'esterno, e quattro rapidi cavalli grigi, tutti avvolti in una pallida luce luminescente attraversata dai bagliori delle lampade, come delle meteore infuocate. Mi lanciai in avanti, agitando il cappello e urlando. La corriera della po-
sta mi passò accanto a tutta velocità. Per un attimo temetti che non mi avesse visto né udito, ma solo per un momento. Il cocchiere fermò i cavalli. La guardia, intabarrata fino agli occhi, coperta di mantelli e sciarpe, pareva profondamente addormentata nonostante il rumore. Non rispose al mio saluto e non diede il minimo segno di voler scendere. Il passeggero seduto all'esterno non si voltò neppure. Spalancai la porta da solo, e guardai all'interno. Vidi solo tre uomini silenziosi. Non sembravano addormentati, ma ognuno era appoggiato al suo angoletto, come se fosse assorto nei propri pensieri. Tentai di cominciare una conversazione. «Che freddo intenso stasera!», dissi, rivolto al mio dirimpettaio. L'uomo sollevò la testa, mi guardò, ma non rispose. «L'inverno», aggiunsi, «sembra sia proprio cominciato, ormai.» Benché l'angolo in cui sedeva fosse immerso nell'oscurità, e non riuscissi a distinguerne chiaramente le fattezze, vidi che mi fissava. Eppure non pronunciò nemmeno una parola. In un'altra situazione avrei forse avvertito, e magari espresso la mia contrarietà, ma in quel momento mi sentivo troppo male. La gelida aria notturna mi aveva intirizzito fino all'osso, e lo strano odore che regnava all'interno della carrozza suscitava in me una nausea quasi intollerabile. Dei brividi mi percorrevano dalla testa ai piedi e, rivolto al mio vicino di sinistra, gli chiesi se gli desse fastidio che aprissi il finestrino. Quello non parlò e non si mosse. Rifeci la domanda a voce più alta, ma ottenni lo stesso risultato. Allora persi la pazienza e tirai la cinghia. Mentre lo facevo, la cinghia di cuoio mi si spezzò in mano, e mi accorsi che il vetro era ricoperto da uno spesso strato di muffa, apparentemente accumulatasi per molti anni. Esaminandola con più attenzione alla luce incerta delle lampade che proveniva dall'esterno, notai che la carrozza era all'ultimo stadio del disfacimento. Non solo ogni parte era logora e rotta: ovunque era visibile il marciume. Le cinghie si sgretolavano al tocco. Le parti in cuoio erano ricoperte di muffa e marcivano, staccandosi dal legno. Il pavimento sottostante pareva sul punto di cadere da un momento all'altro sotto i nostri piedi. L'intero veicolo insomma era marcio e umido, e a quanto pareva era stato tirato fuori da qualche rimessa dove era rimasto a fare la muffa per anni, per compiere un'altra volta il proprio dovere sulle strade. Mi rivolsi al terzo passeggero, che non avevo ancora interpellato, e azzardai un ultimo commento.
«Questa carrozza», dissi, «è in condizioni deplorevoli. Suppongo che la carrozza utilizzata solitamente per la consegna della posta sia in riparazione.» Quello voltò lentamente la testa verso di me, e mi guardò in faccia, senza pronunciare parola. Non dimenticherò mai quello sguardo, per tutta la vita. Il cuore mi si gelò a quella vista. Mi si gela ancora quando ci ripenso. I suoi occhi brillavano di una luce infuocata e innaturale. Il volto livido era quello di un cadavere. Le labbra esangui erano contratte in un'espressione di agonia mortale, e mostravano i denti biancheggianti. Le parole che stavo per pronunciare mi morirono in gola, e uno strano orrore - un terribile orrore - s'impadronì di me. Ormai i miei occhi si erano abituati all'oscurità che regnava all'interno della carrozza, e riuscivo a vedere abbastanza distintamente. Mi voltai a guardare l'uomo che avevo di fronte. Anche lui mi guardava, e vidi lo stesso terribile pallore sul suo volto, e la stessa luce innaturale nel suo sguardo. Mi passai la mano sulla fronte, poi mi voltai verso il passeggero sul sedile accanto al mio e vidi... oh, cielo! come descrivere quel che vidi? Mi resi conto che non era un uomo vivo... nessuno di loro era vivo, come lo ero io! Una pallida luce fosforescente - un'emanazione della putrefazione - si rifletteva sui loro volti, sulle capigliature ammuffite nelle tombe umide, sui loro abiti macchiati di terra, che cadevano a pezzi; sulle loro mani, che erano quelle di cadaveri seppelliti da tempo. Solo i loro occhi, i loro occhi terribili, vivevano ancora: e quegli occhi mi fissavano minacciosi! Con un urlo di terrore, un selvaggio e inarticolato grido di aiuto che chiedeva pietà, mi scaraventai verso la porta, tentando invano di aprirla. In quello stesso istante, breve e vivido come un paesaggio intravisto nel tempo di un temporale estivo, vidi la luna splendente attraverso una nube lacerata e gravida di pioggia... un sinistro segnale si stagliò come un dito levato in segno di avvertimento sul ciglio della strada... un parapetto sfondato... i cavalli che cadevano a capofitto... e il burrone tenebroso sotto di noi. Poi, la carrozza beccheggiò come una nave nella tempesta. Quindi si udì un rumore fortissimo... avvertii un dolore tremendo... e poi, il buio. Mi parve che fossero trascorsi degli anni quando finalmente mi svegliai una mattina da un sonno profondo, e trovai mia moglie accanto al mio capezzale che mi guardava. Vi risparmio la descrizione della scena che seguì, e vi dico in poche parole quello che lei mi raccontò, con le lacrime agli oc-
chi per il sollievo. Ero caduto in un precipizio, vicino all'incrocio tra la vecchia strada della posta e quella nuova, ed ero stato salvato dalla morte da un alto cumulo di neve, formatosi alla base dello strapiombo. In quel mucchio di neve mi avevano rinvenuto all'alba un paio di pastori, che mi avevano trasportato al rifugio più vicino, e avevano condotto un dottore per visitarmi. Il dottore mi aveva trovato in uno strato di profondo delirio: aveva riscontrato inoltre che avevo un braccio rotto e che avevo riportato una frattura multipla al cranio. Le lettere nel mio portafoglio avevano rivelato loro il mio nome e il mio indirizzo. Avevano quindi chiamato mia moglie che era venuta ad assistermi: la mia età ancora giovane e la mia costituzione robusta, avevano scongiurato il terribile pericolo. Il punto dal quale ero caduto, non c'è neanche bisogno di dirlo, era proprio quello in cui era accaduto il terribile incidente della corriera della posta, nove anni prima. Non ho mai raccontato a mia moglie le terribili vicende che vi ho appena descritto. Le rivelai al medico che mi curava. Ma lui liquidò l'intera storia come un semplice sogno dovuto alla febbre. Discutemmo a lungo la faccenda, finché scoprimmo che non riuscivamo più a parlarne serenamente, e lasciammo perdere l'argomento. Altri uomini potranno formulare la conclusione che preferiscono: io so che, venti anni fa, fui il quarto passeggero all'interno della Carrozza degli Spettri. GIOVANNI VERGA Le storie del Castello di Trezza I. La signora Matilde era seduta sul parapetto smantellato, colle spalle appoggiate all'edera della torre, spingendo lo sguardo pensoso nell'abisso nero e impenetrabile; suo marito, col sigaro in bocca, le mani nelle tasche, lo sguardo vagabondo dietro le azzurrine spirali del fumo, ascoltava con aria annoiata; Luciano, in piedi accanto alla signora, sembrava cercasse leggere quali pensieri si riflettessero in quegli occhi impenetrabili come l'abisso che contemplavano. Gli altri della brigata erano sparsi qua e là per la spianata ingombra di sassi e di rovi, ciarlando, ridendo, motteggiando; il mare andavasi facendo di un azzurro livido, increspato lievemente, e seminato di fiocchi di spuma. Il sole tramontava dietro un mucchio di nuvole fantasti-
che, e l'ombra del castello si allungava melanconica e gigantesca sugli scogli. «Era qui?», domandò ad un tratto la signora Matilde, levando bruscamente il capo. «Proprio qui.» Ella volse attorno uno sguardo lungo e pensieroso. Poscia domandò con uno scoppio di risa vive, motteggiatrici: «Come lo sa?». «Ricostruisca coll'immaginazione le volte di queste arcate, alte, oscure, in cui luccicano gli avanzi delle dorature, quel camino immenso, affumicato, sormontato da quello stemma geloso che non si macchiava senza pagare col sangue; quell'alcova profonda come un antro, tappezzata a foschi colori, colla spada appesa al capezzale di quel signore che non l'ha tirata mai invano dal fodero, il quale dorme sul chi vive, coll'orecchio teso, come un brigante -che ha il suo onore al di sopra del suo Dio, e la sua donna al di sotto del suo cavallo di battaglia: - cotesta donna, debole, timida, sola, tremante al fiero cipiglio del suo signore e padrone, ripudiata dalla sua famiglia il giorno che le fu affidato l'onore ombroso e implacabile di un altro nome; - dietro quell'alcova, separato soltanto da una sottile parete, sotto un'asse traditrice, quel trabocchetto che oggi mostra senza ipocrisia la sua gola spalancata - il carnaio di quel mastino bruno, membruto, baffuto, che russa fra la sua donna e la sua spada; - il lume della lampada notturna che guizza sulle immense pareti, e vi disegna fantasmi e paure; il vento che urla come uno spirito maligno nella gola del camino, e scuote rabbiosamente le imposte tarlate; e di tanto in tanto, dietro quella parete, dalla profondità di quel trabocchetto attorno a cui il mare muggisce, un gemito soffocato dall'abisso, delirante di spasimo, un gemito che fa drizzare la donna sul guanciale, coi capelli irti di terrore, molli del sudore di un'angoscia più terribile di quella dell'uomo che agonizza nel fondo del trabocchetto, e, fuori di sé, le fa volgere uno sguardo smarrito, quasi pazzo, su quel marito che non ode e russa.» La signora Matilde ascoltava in silenzio, cogli occhi fissi, intenti, luccicanti. Non disse «È vero!» ma chinò il capo. Il marito si strinse nelle spalle e si alzò per andarsene. Le ombre sorgevano da tutte le profondità delle rovine e del precipizio. «Se tutto ciò è vero», ella disse con voce breve; «s'è accaduto così come ella dice, essi debbono essersi appoggiati qui, a questi avanzi di davanzale, a guardare il mare, come noi adesso...», ed ella vi posò la mano febbrile,
«qui.» Ei chinò lo sguardo sulla mano, poi guardò il mare, poi la mano di nuovo. Ella non si muoveva, non diceva motto, guardava lontano. «Andiamo», disse a un tratto, «la leggenda è interessante, ma mio marito a quest'ora deve preferire la campana del desinare. Andiamo.» Il giovane le offrì il braccio, ed ella vi si appoggiò, rialzando i lembi del vestito, saltando leggermente fra i sassi e le rovine. Passando presso uno stipite sbocconcellato, osservò che c'erano ancora attaccati gli avanzi degli stucchi. «Se potessero raccontare anche questi!», disse ridendo. «Direbbero che allo stesso posto dove s'è posata la sua mano, ci si è aggrappata la mano convulsa della baronessa, la quale tendeva l'orecchio, ansiosa, verso quell'andito dove non si udiva più il rumore dei passi di lui, né una voce, né un gemito, ma risuonavano invece gli sproni sanguinosi del barone.» La signora si tirò indietro vivamente, come se avesse toccato del fuoco; poi vi posò di nuovo la mano, risoluta, nervosa, increspata; sembrava avida d'emozione; avea sulle labbra uno strano sorriso, le guance accese e gli occhi brillanti. «Vede!», disse. «Non si ode più nulla!» «Alla buon'ora!», esclamò il signor Giordano; «dunque possiamo andare.» La moglie gli rivolse uno sguardo distratto, e soggiunse: «Scusami, sai!». Il raggio di sole prima di tramontare si insinuò per un crepaccio a fior d'acqua, e illuminò improvvisamente il fondo di quella specie di pozzo ch'era stato il trabocchetto, le punte aguzze delle nere pareti, i ciottoli bianchi che spiccavano sul muschio e l'umidità del fondo, e i licheni rachitici che l'autunno imporporava. Il sorriso era sparito dal viso della signora spensierata, e volgendosi al marito, timida, carezzevole, imbarazzata: «Vieni?», gli disse. «Bada», rispose il signor Giordano col suo ironico sorriso; «ci vedrai le ossa di quel bel cavaliere, e farai brutti sogni stanotte.» Ella non rispose, non si mosse, stava chinata sulla buca; appoggiandosi ai sassi che la circondavano; infine, con voce sorda: «Infatti... c'è qualcosa di bianco, laggiù in fondo...». E senza attender risposta: «Se quest'uomo è caduto qui, ha dovuto afferrarsi per istinto a quella
punta di scoglio... vedete? si direbbe che c'è ancora del sangue». Suo marito vi buttò il sigaro spento, e volse le spalle; ella rabbrividì, come se avesse visto profanare una tomba, si fece rossa, e si rizzò per andarsene. Era una graziosa bruna, palliduccia, delicata, nervosa, con grandi e begli occhi neri e profondi; il piede le sdrucciolò un istante sul sasso mal fermo, vacillò, e dovette afferrarsi alla mano di Luciano. «Grazie!», gli disse con un sorriso intraducibile. «Si direbbe che l'abisso mi chiama.» II. Il pranzo era stato eccellente; non per nulla il signor Giordano preferiva la campana del desinare alle leggende del Castello. Verso le undici alla villa si pestava sul piano, si saltava nel salotto e si giuocava a carte nelle altre stanze. La signora Matilde era andata a prendere una boccata d'aria in giardino, e s'era dimenticata di una polca che aveva promessa al signor Luciano, il quale la cercava da mezz'ora. «Alfine!», le disse scorgendola. «E la nostra polca?» «Ci tiene proprio?» «Molto.» «Se la lasciassimo lì?» «Povera polca!» «Francamente, sa... Ella racconta così bene certe storie, che non l'avrei creduto un ballerino cotanto arrabbiato...» «Ci crede dunque alle storie?» «Ma... secondo il quarto d'ora.» Il silenzio era profondo; il vento cacciava le nuvole rapidamente, e di tanto in tanto faceva stormire gli alberi del giardino; il cielo era inargentato a strappi; le ombre sembravano inseguirsi sulla terra illuminata dalla luna, e il mormorio del mare e quel susurrio delle foglie, sommesso, ad intervalli, a quell'ora aveano un non so che di misterioso. La signora Matilde volse gli occhi qua e là, in aria distratta, e li posò sulla mole nera e gigantesca del castello che disegnavasi con profili fantastici su quel fondo cangiante ad ogni momento. La luce e le ombre si alternavano rapidamente sulle rovine, e un arbusto che avea messo radici sul più alto rivellino, agitavasi di tanto in tanto, come un grottesco fantasma che s'inchinasse verso l'abisso. «Vede?», diss'ella con quel sorriso incerto e colla voce mal ferma. «C'è qualche cosa che vive e si agita lassù!»
«Gli spettri della leggenda.» «Chissà!» «Cotesto è il quarto d'ora delle storie...» «Oppure cosa?» «Chissà... Cosa fa mio marito?» «Giuoca a tresette.» «E la signora Olani?» «Sta a guardare.» «Ah!...» «Mi racconti la sua storia...», riprese da lì a poco, con singolare vivacità, «se non le rincresce per la sua polca.» La storia che Luciano raccontò era strana davvero! La seconda moglie del barone d'Arvelo era una Monforte, nobile come il re e povera come Giobbe, forte come un uomo d'arme e tagliata in modo da rispondere per le rime alla galanteria un po' manesca di don Garzia, e da promettergli una nidiata di d'Arvelo, numerosi come le uova che avrebbe potuto covare la chioccia più massaia di Trezza. Prima delle nozze, le avevano detto degli spiriti che si sentivano nel Castello, e che la notte era un gran tramestio pei corridoi e per le sale, e si trovavano usci aperti e finestre spalancate, senza sapere come né da chi - usci e finestre ch'erano stati ben chiusi il giorno innanzi - che si udivano gemiti dell'altro mondo, e scrosci di risa da far venire la pelle d'oca al più ardito scampaforche che avesse tenuto alabarda e vestito arnese. Donna Isabella avea risposto che, fra lei e un marito come, al vedere, prometteva esserlo don Garzia, ella non avrebbe avuto paura di tutte le streghe di Spagna e di Sicilia, né di tutti i diavoli dell'inferno. Ed era donna da tener parola. La prima volta che si svegliò nel letto dove avea dormito l'ultima notte la povera donna Violante, mentre Grazia, la cameriera della prima moglie del barone, le recava il cioccolatte e apriva le finestre, ancora mezzo addormentata, domandò svogliatamente: «E così, come va che gli spiriti non hanno ballato il trescone di benvenuto alla nuova castellana?». «Non s'è sentito stanotte?...», rispose la povera Grazia, che anche a parlare ne avea una gran paura. «Sì, ho udito il russare di don Garzia; e ti so dire che russa come dieci guardie vallone.» «Vuol dire che il cappellano ha benedetto la camera meglio che altre volte.»
«Ah! sarà così, oppure che faccio paura al diavolo e agli spiriti.» «O che sarà per domani.» «Eh! hanno dunque il loro cerimoniale, messeri gli spiriti, come nostro signore il re? Racconta dunque!» «Io non so nulla, madonna.» «Chi sa dunque questa storia?» «Mamma Lucia, Brigida, Maso il cuoco, Anselmo ed il Rosso, i due valletti di messere il barone, e messer Bruno, il capocaccia.» «E cosa hanno visto costoro?» «Nulla.» «Nulla! Cosa hanno udito dunque?» «Hanno udito ogni sorta di cose, che Dio ce ne liberi!» «E da quando si sono udite di queste cose che Dio ce ne liberi?» «Dacché è morta la povera donna Violante, la prima moglie di messere.» «Qui?» «Proprio qui, in questo lato del castello; ma dalla cima dei merli sino in fondo alle cucine, di cui le finestre danno sulla corte.» La baronessa si mise a ridere, e la sera narrò al marito quel che le era stato detto. Don Garzia, invece di riderne anch'esso, montò in una tal collera che mai la maggiore, e incominciò a bestemmiar Dio e i santi come donna Isabella non avea visto né udito fare dagli staffieri più staffieri che fossero a casa de' suoi fratelli, e a minacciare che se avesse saputo chi si permetteva di spargere cotali fandonie, l'avrebbe fatto saltare dal più alto rivellino del castello. La baronessa fu estremamente sorpresa che quel pezzo di uomo, il quale non doveva aver paura nemmen del diavolo, avesse dato tanto peso a delle sciocche storielle, e in cuor suo ne fu contenta, ché si sentiva più degna del marito di portare i calzoni, e di far la castellana come andava fatto. «Dormite in santa pace, madonna», le disse don Garzia, «ché qui, nel castello e fuori, pel giro di dieci leghe, sin dove arriva il mio buon diritto e la mia buona spada, non c'è da temere altro che la mia collera.» Però la baronessa, sia che le parole del marito l'avessero colpita, sia che delle sciocchezze udite le fosse rimasta qualcosa in mente, si svegliò di soprassalto verso la mezzanotte, credendo d'avere udito, o d'aver sognato, un rumore indistinto, non molto lontano, proprio dietro la parete dell'alcova. Stette in ascolto con un po' di batticuore; ma non s'udiva più nulla, la lampada notturna ardeva ancora, e il barone russava della meglio. Ella non ardì svegliarlo, ma non poté ripigliar sonno. Il giorno dopo la sua donna la
trovò pallida e accigliata, e mentre la pettinava dinanzi allo specchio, la baronessa, coi piedi sugli alari e bene avvolta nella sua veste da camera di broccato, le domandò, dopo aver esitato alquanto: «Orsù, dimmi tutto quel che sai degli spiriti del castello». «Io non so altro che quel che ne ho udito raccontare dal Rosso e da Brigida. Volete che vi chiami Brigida?» «No!», rispose con vivacità donna Isabella. «Anzi non dire ad anima viva che io te n'abbia parlato... Raccontami quel che t'hanno detto Brigida e il Rosso.» «Brigida, quando dormiva nella stanzuccia accanto al corridoio qui vicino, udiva tutte le notti, poco prima o poco dopo dei dodici colpi della campana grossa, aprire la finestra che dà sul ballatoio, e la porta del corridoio. La prima volta che Brigida udì quel rumore fu la seconda domenica dopo Pasqua, la ragazza avea avuto la febbre e non poteva dormire; l'indomani tutti coloro ai quali raccontò il fatto credettero che fosse stato inganno della febbre; ma la poverina a misura che il giorno tramontava aveva una gran paura, e cominciò a parlare in tal modo del gran via vai della notte, che tutti credettero fosse delirante, e mamma Lucia rimase a dormire con lei. L'indomani anche mamma Lucia disse che in quella camera non avrebbe voluto passarci un'altra notte per tutto l'oro del mondo. Allora anche coloro i quali s'erano mostrati più increduli cominciarono ad informarsi e del come e del quando, e Maso raccontò quello che non avea voluto dire per timore di farsi dar la baia dai più coraggiosi. Da più di un mese avea udito rumore anche nel tinello, e s'era accorto che gli spiriti facevano man bassa sulla credenza. A poco a poco raccontò pure quel che aveva visto.» «Visto?» «Sì, madonna; sospettando che alcuno dei guatteri gli giocasse quel tiro, si appostò nell'andito, dietro il tinello, col suo gran coltellaccio alla cintola, e attese la mezzanotte, ora in cui solevasi udire il rumore. Quando tutt'ad un tratto - non si udiva ronzare nemmeno una mosca - si vede comparir dinanzi un gran fantasma bianco, il quale gli arrivava adosso senza dire né ahi né ohi, e gli passa rasente senza fare altro rumore di quel che possa fare un topo che va a caccia del formaggio vecchio. Il povero cuoco non volle saperne altro, e fu a un pelo di buscarne una bella e buona malattia.» «Ah!», disse la baronessa ridendo. «E cosa fece in seguito?» «Non fece nulla, fece acqua in bocca, andò a confessarsi, a comunicarsi, ed ogni sera, prima di mettersi in letto, non mancava di recitare le sue orazioni, e di raccomandarsi ben bene a tutte le anime del purgatorio che so-
gliono gironzare la notte, in busca di requiem e di suffragi.» «Giacché sono degli spiriti i quali rubano in tinello come dei gatti affamati o dei guatteri ladri, se fossi stata messer Maso, invece d'infilar paternostri, mi sarei raccomandata alla mia miglior lama, onde cercare di scoprire chi fosse il gaglioffo che si permetteva di scambiar le parti coi fantasmi.» «Oh madonna, la stessa cosa disse il Rosso il quale è un pezzo di giovanotto che il diavolo istesso, che è il diavolo, non gli farebbe paura; e si mise a rider forte, e gli disse bastargli l'animo di prendere lo spirito, il fantasma, il diavolo stesso per le corna, e fargli vomitare tutto il ben di Dio di cui dicevasi si desse una buona satolla in cucina; mai non l'avesse fatto! La notte seguente s'apposta anche lui nel corridoio, come avea fatto il cuoco, colla sua brava partigiana in mano, ed aspetta un'ora, due, tre. Infine comincia a credere che Maso si sia burlato di lui, o che il vino gli abbia fatto dire una burletta, e comincia ad addormentarsi, così seduto sulla panca e colle spalle al muro. Quand'ecco tutt'a un tratto, tra veglia e sonno, si vede dinanzi una figura bianca, la quale toccava il tetto col capo, e stava ritta dinanzi a lui, senza muoversi, senza che avesse fatto il minimo rumore nel venire, senza che si sapesse da dove fosse venuta; un po' di barlume veniva dalla lampada posta nella sala delle guardie, dal vano dell'arco al disopra della parete, e il Rosso giura d'aver visto i due occhi che il fantasma fissava su di lui, lucenti come quelli di un gatto soriano. Il Rosso, o non fosse ancora ben sveglio, o provasse un po' di paura a quella sùbita apparizione, senza dire né una né due, mise mano alla sua partigiana e menò tal colpo da spaccare in due un toro, fosse stato di bronzo; ma la spada gli si ruppe in mano, così come se fosse stata di vetro, o avesse urtato contro il muro; si vide un fuoco d'artifizio di faville, a guisa dei razzi che si sparano per la festa della Madonna dell'Ognina, e il fantasma scomparve, né più né meno di come fa un soffio di vento, lasciando il Rosso atterrito, col suo troncone di spada in mano, e talmente pallido da far paura a chi lo vide per il primo, e d'allora in poi, invece di chiamarlo il Rosso, gli dicono il Bianco.» La baronessa rideva ancora in aria d'incredulità; ma le sue ciglia si corrugavano di tanto in tanto, e pur tenendo gli occhi fissi nello specchio, non avea badato né al come Grazia la stesse pettinando, né al come le avesse increspato i cannoncini della sua gorgierina ricamata. O che la convinzione della cameriera fosse talmente sincera da esser comunicativa, o che il sogno della notte avesse fatto una potente impressione su di lei, pensava più che non volesse alla notte che doveva passare un'altra volta in quella me-
desima alcova. «E cosa si dice nel castello di coteste apparizioni?», domandò dopo un silenzio di qualche durata. «Madonna...» «Parla!» «Madonna... si dicono delle sciocchezze...» «Raccontamele.» «Messere il barone andrebbe su tutte le furie se lo sapesse.» «Tanto meglio! raccontamele.» «Madonna... io sono una povera fanciulla... Sono un'ignorante... Avrò parlato senza sapere quel che mi dicessi... Messere il barone mi butterebbe dalla finestra più facilmente ch'io non butti via questo pettine che non serve più. Per carità, madonna, non vogliate espormi alla collera di messere!» «Preferiresti esporti alla mia?», esclamò la baronessa aggrottando le ciglia. «Ahimè!... Madonna!» «Orsù, spicciati; voglio saper tutto quel che si dice, ti ripeto, e bada che se la collera del barone è pericolosa, la mia non ischerza.» «Si dice che sia l'anima della povera donna Violante, la prima moglie del barone», rispose Grazia messa alle strette, e tutta tremante. «Come è morta donna Violante?» «S'è buttata in mare.» «Lei?» «Proprio lei, dal ballatoio mezzo rovinato che gira dinanzi alle finestre del corridoio grande, sugli scogli che stanno laggiù; in fondo al precipizio fu trovato il suo velo bianco... Era la notte del secondo giovedì di Pasqua.» «E perché s'è uccisa?» «Chi lo sa? Messere dormiva tranquillamente accanto a lei, fu svegliato da un gran grido, non se la trovò più al fianco, e prima che fosse ben sveglio vide una figura bianca la quale fuggiva. Si udì un gran baccano pel castello, tutti furono in piedi in men che non si dica un'avemaria, si trovarono gli usci e le finestre del gran corridoio spalancati, e il barone che correva sul ballatoio come un gatto inferocito; se non era il capocaccia, il quale l'afferrò a tempo, il barone sarebbe caduto dal parapetto rovinato, nel punto dove cominciava la scala per la torretta di guardia, di cui non rimangono altro che le testate degli scalini. Il fantasma era scomparso giusto in quel luogo.» La baronessa s'era fatta pensierosa.
«È strano!», mormorò. «Della povera signora non rimase né si vide altro che quel velo; nella cappella del castello e nella chiesa del villaggio furono dette delle messe per tre giorni, in suffragio della morta, e una gran folla assisté ginocchioni ai funerali, ché tutti le volevano un ben dell'anima per le gran limosine che faceva quand'era in vita; però, sebbene messere avesse dato ordine che le esequie fossero quali si convenivano a così ricca e potente signora, e la bara, colle armi della famiglia ricamate sulle quattro punte della coltre, stesse tre dì e tre notti nella cappella, con più di quaranta ceri accesi continuamente, e lo stendardo grande ai piedi dell'altare, e drappelloni e scudi intorno che mai non si vide pompa più grande, il barone partì immediatamente, né si vide mai più al castello prima d'ora.» «Meno male!», mormorò donna Isabella. «Don Garzia non mi ha detto nulla di tutto ciò, ma è bene ch'io lo sappia.» «Alcuni pescatori poi ch'erano andati sul mare assai prima degli altri, raccontano d'aver visto l'anima della baronessa, tutta vestita di bianco, come una santa che ella era, sulla porta della guardiola lassù, e passeggiare tranquillamente su e giù per la scala rovinata, ove un gabbiano avrebbe paura ad appollaiarsi, quasi stesse camminando su di un bel tappeto turco, e nella miglior sala del castello.» «Ah!», esclamò la baronessa; e non disse altro, si alzò e andò a mettersi alla finestra. Il giorno era tiepido e bello, e il sole festante che entrava dall'alta finestra sembrava rallegrasse la tetra camera; ma donna Isabella non se ne avvedeva, sembrava meditabonda, e voltandosi a un tratto verso la Grazia: «Mostrami dov'è caduta donna Violante», le disse. «Colà in quel punto dove il muro è rotto e cominciava la scala per la guardiola della sentinella, quando vi si metteva una sentinella.» «E perché non ci si mette più adesso?», domandò la baronessa con un singolare interesse. «Bisognerebbe aver le ali per arrampicarsi lassù; adesso che la scala è rovinata il più ardito manovale non metterebbe i piedi su quel che rimane degli scalini.» «Ah, è vero!...» E rimase contemplando lungamente la torricciuola, la quale isolata com'era sembrava attaccarsi, paurosa dell'abisso che spalancavasi al di sotto, alla cortina massiccia, e gli avanzi della scalinata, cadenti, smantellati, senza parapetto, sospesi in aria a quattrocento piedi dal precipizio sembra-
vano un addentellato per qualche costruzione fantastica. «Infatti», mormorò come parlando fra di sé, «sarebbe impossibile; c'è da averne il capogiro soltanto a guardare.» Si tirò indietro bruscamente, e chiuse la finestra. Grazia, vedendo la sua beffarda padrona così accigliata, e accorgendosi che la sua storia avea fatto tale inattesa impressione su di lei, sentiva una tale paura come se avesse dovuto passare la notte nella camera di Brigida. «Ahimè! madonna, io ho detto tutto per obbedirvi e senza pensare che ci va della mia vita se lo risapesse il barone. Abbiate pietà di me, madonna!» «Non temere», rispose donna Isabella con un singolare sorriso; «coteste cose, vere o false, non si raccontano al mio signore e marito. Ma dimmi anche quel che si dice del motivo che abbia spinto donna Violante ad uccidersi; poiché un motivo qualunque ci sarà stato; qualcosa si dirà, a torto o a ragione, di'.» «Giuro per le cinque piaghe di Nostro Signore e per la santa giornata di venerdì che è oggi, che non si dice nulla, o almeno che non so nulla. Da principio, quando si è incominciato a sentire dei gemiti nelle notti di temporale, ed anche tutte le notti dal sabato alla domenica, e tutte le volte che fa la luna, o che qualche disgrazia deve avvenire nel castello o nei dintorni, si credeva che la baronessa fosse morta in peccato mortale, e perciò la sua anima chiedesse aiuto dall'altro mondo, mentre i demoni l'attanagliavano; ma poi Beppe, il pescatore, raccontò la visione che gli apparve sull'alto della guardiola, e alcuni giorni dopo quel bravo vecchio di suo zio Gaspare la ebbe confermata, e si ebbe la certezza che l'anima benedetta della baronessa era in luogo di salvazione, e si pensò invece a quella di Corrado il paggio, poveretto!» «Come era morto il paggio? s'era ucciso anche lui?» «Non era morto, era scomparso.» «Quando?» «Due giorni prima della morte di donna Violante.» «E chi lo aveva fatto sparire?» «Chi?...», balbettò la ragazza facendosi pallida. «Ma chi può far sparire un'anima del Signore e portarsela a casa sua, come un lupo ruba una pecora? Messer demonio.» «Ah! era dunque un gran peccatore cotesto messer Corrado!» «No, madonna, era il giovane più bello e gentile che sia stato al castello.» La baronessa si mise a ridere.
«Eh! mia povera Grazia, quelli sono i peccatori che messer demonio suol rapire a cotesta maniera!...» E poi, rifacendosi pensosa, volse un lungo e profondo sguardo su quel letto dove il gemito pauroso l'avea fatta sussultare la notte. «Quando si odono questi gemiti dell'altro mondo?», domandò. «In quelle notti in cui il fantasma non si fa vedere.» «È strano! E dove?» «Qui, madonna, in quest'alcova e nell'andito che c'è accanto, nel corridoio che passa vicino a questa camera, e nello spogliatoio che è dietro l'alcova.» «Insomma qui vicino?» Per tutta risposta Grazia si fece il segno della croce. «Va bene», le disse bruscamente. «Ora vattene. Non temere. Non dirò nulla di quel che mi hai detto.» III. Donna Isabella passò la giornata ad esaminare minutamente tutte le stanze, anditi, e corridoi vicini alla sua camera, e don Garzia le chiese inutilmente il motivo della sua preoccupazione. La notte dormì poco e agitata, ma non udì nulla; soltanto il vento che s'era levato verso l'alba faceva sbattere una delle finestre che davano sul ballatoio. L'indomani la baronessa era ancora in letto, quando da dietro il cortinaggio udì il seguente dialogo fra suo marito e il Rosso che l'aiutava a calzare i grossi stivaloni: «Dimmi un po', mariuolo, cos'è stato tutto questo baccano che hanno fatto le mie finestre stanotte?». Il Rosso si grattò il capo e rispose: «È stato che un'ora prima dell'alba si è messo a soffiare lo scirocco». «Sarà benissimo, ma se le finestre fossero state ben chiuse, lo scirocco non avrebbe potuto farle ballare come una ragazza che abbia il male di San Vito. Ora bada bene al tuo dovere, marrano! ché nel castello intendo tutto vada come l'orologio che è sul campanile della chiesa, adesso che son qua io.» «Messere, voi siete il padrone», rispose il Rosso esitando, «ma quella finestra lì bisogna lasciarla aperta.» «Dimmi il perché.» «Perché quando si chiude la finestra si sente...»
«Eh?» «Si sente, messere!» «Malannaggia l'anima tua!», urlò il barone dando di piglio ad uno stivale per buttarglielo in faccia. «Messere, voi potete ammazzarmi, se volete, ma ho detto la verità.» «Chi te l'ha soffiata cotesta verità, briccone maledetto?» «Ho visto e udito come vedo ed odo voi, che siete in collera per mia disgrazia e senza mia colpa.» «Tu?» «Io stesso.» «Tu mi rubi il vino della mia cantina, scampaforche!» «Io non avevo bevuto né acqua né vino, messere.» «Tu mi diventi poltrone, dunque! un gatto che fa all'amore ti fa paura. Diventi vecchio, Rosso mio, arnese da ferravecchi, e ti butterò fuori del castello con un calcio più sotto delle reni.» «Messere, io sono buono ancora a qualche cosa, quando mi metterete in faccia a una dozzina di diavoli in carne e ossa, che possano raggiungersi con un buon colpo di partigiana, o che possano ammazzare me come un cane; ma contro un nemico il quale non ha né carne né ossa, e vi rompe il ferro nelle mani come voi fareste di un fil di paglia, per l'anima che darei al primo cane che la volesse! non so cosa potreste fare voi stesso, sebbene siate tenuto il più indiavolato barone di Sicilia.» Il barone questa volta si grattò il capo, e si accigliò, ma senza collera, o almeno senza averla col Rosso. «Orbé», gli disse, «chiudimi bene tutte le finestre stanotte, e vattene a dormire senza pensare ad altro.» Donna Isabella si levò pallida e silenziosa più del solito. «Avreste paura?», domandò don Garzia. «Io non ho paura di nulla!», rispose secco secco la baronessa. Ma la notte non poté chiudere occhio, e mentre suo marito russava come un contrabasso ella si voltava e rivoltava pel letto, e ad un tratto scuotendolo bruscamente pel braccio, e rizzandosi a sedere cogli occhi sbarrati e pallida in viso: «Ascoltate!», gli disse. Don Garzia spalancò gli occhi anche lui, e vedendola così, si rizzò a sedere sul letto e mise mano alla spada. «No!» diss'ella, «la vostra spada non vi servirà a nulla.» «Cosa avete udito?» «Ascoltate!» Entrambi rimasero immobili, zitti, intenti; alfine don Garzia buttò la
spada con dispetto in mezzo alla camera e si ricoricò sacramentando. «Mi diventate matta anche voi!», borbottò. «Quella canaglia del Rosso vi ha fatto girare il capo! gli taglierò le orecchie a quel mariuolo.» «Zitto!», esclamò la donna nuovamente, e questa volta con tal voce, con tali occhi, che il barone non osò replicare motto. «Udiste?» «Nulla! per l'anima mia!» Ad un tratto si rizzò a sedere una seconda volta, se non pallido e turbato come la sua donna, almeno curioso ed attento, e cominciò a vestirsi; mentre infilava gli stivali trasalì vivamente. «Udite!», ripeté donna Isabella facendosi la croce. Egli attaccò una grossa bestemmia invece della croce; saltò sulla spada che avea gettato in mezzo alla camera, e così com'era, mezzo svestito, colla spada nuda in pugno, al buio, si slanciò nell'andito che era dietro all'alcova. Ritornò poco dopo. «Nulla!», disse, «le finestre son chiuse, ho percorso il corridoio, l'andito, lo spogliatoio; siamo matti voi ed io; lasciatemi dormire in pace adesso, giacché se domani il Rosso venisse a sapere quel che ho fatto stanotte, e sino a qual segno sia stato imbecille, dovrei vergognarmi anche con lui.» Né si udì più nulla; la baronessa rimase sveglia, e don Garzia, sebbene avesse attaccato di nuovo due o tre russate sonore, non poté dormire di seguito come al solito; all'alba si alzò con tal cera che il Rosso, spicciatosi alla svelta dei soliti servigi, stava per battersela. «Chiamami Bruno», gli disse il barone, e ricominciò a passeggiar per la camera, mentre la baronessa stava pettinandosi. Donna Isabella, preoccupata, lo seguiva colla coda dell'occhio, e lo vide andare per l'andito, l'udì camminare nello spogliatoio; poi lo vide ritornare scuotendo il capo, e mormorando fra di sé: «No! è impossibile...». Bruno e il Rosso comparvero. «Vecchio mio», gli disse il barone, «ti senti di buscarti un bel ducato d'oro, e passare una notte nel corridoio qui accanto, senza tremare come la rocca di una donnicciuola cui si parli di spiriti?» «Messere, io mi sento di far tutto quel che comandate», rispose Bruno, ma non senza alquanto esitare. Il barone che conosceva da un pezzo il suo Bruno per un bravaccio indurito a tutte le prove, fu sorpreso da quell'esitazione, e dallo scorgere che il Bruno, contro ogni aspettativa, s'era fatto serio. «Per l'inferno!», gridò battendo un gran pugno sulla tavola, «mi diventa-
te tutti un branco di poltroni qui!» «Messere, per provarvi come poltroni non lo siamo tutti, farò quel che mi ordinerete.» «E anch'io», rispose il Rosso, vergognoso di non esser messo alla prova invece del capocaccia. «Così, non avrete più a dubitare delle parole nostre.» «Orbene! giacché tutti avete visto, giacché tutti avete udito, giacché tutti avete toccato con mano, fatemi buona guardia stanotte, appostatevi sul cammino che suol tenere cotesto gaglioffo che ha messo la tremarella addosso a tutta la mia gente. Da qual parte si suol vedere questo fantasma?» «Nel corridoio qui accanto, di solito... Ma nessuno ha più visto nulla dacché quest'ala del castello non è stata più abitata...» «Tu, Bruno, ti porrai a guardia dietro l'uscio che mette nella sala grande, e il Rosso dietro la finestra, in capo al corridoio. Allorché cotesto spirito malnato sarà dentro, e voi avrete accanto le vostre brave daghe, e non vi tremerà né la mano né il cuore, il ribaldo non potrà scappare altro che dalla mia camera... e allora, pel mio Dio o pel suo Diavolo! l'avrà da fare con me. Andate, e buona guardia!» «Io credo che fareste meglio ad ordinare delle messe per l'anima della vostra donna Violante», gli disse la baronessa seria seria, allorquando furono soli. Il barone fu sul punto di mettersi in collera, ma seppe padroneggiarsi, e rispose in aria di scherno: «Da quando in qua mi siete divenuta credula come una femminuccia, moglie mia?». «Dacché vedo ed odo cose che non ho mai udite né viste.» «Cos'avete udito, di grazia?» «Quel che avete udito voi!», ribatté essa senza scomporsi. Don Garzia s'accigliò. «Io non ho udito né visto nulla», esclamò dispettosamente. «Ed io ho visto voi come vi vedo in questo momento e come sareste sorpreso voi stesso di vedervi se lo poteste!» «Ah!», esclamò il barone con un riso che mostrava i suoi denti bianchi ed aguzzi al pari di quelli di un lupo, «è che mi avete fatto girare il capo anche a me, ed ho paura anch'io!» «Credete che io abbia paura, messere?» Il messere non rispose e andò a mettersi alla finestra di un umore più nero delle grosse nuvole che s'accavallavano sull'orizzonte.
IV. Il barone fu insolitamente sobrio a cena quella sera. Donna Isabella andò a coricarsi senza dire una parola, senza fare un'osservazione, ma pallida e seria. Don Garzia, quando si fu accertato che il Rosso e il Bruno erano già al loro posto, andò a letto e disse alla moglie motteggiando: «Stanotte vedremo se il diavolo ci lascerà la coda». Donna Isabella non rispose, ma don Garzia non russò e dormì di un occhio solo. Mezzanotte era suonata da un pezzo, il barone avea levato il capo ascoltando i dodici tocchi, poi s'era voltato e rivoltato pel letto due o tre volte, avea sbadigliato, infine s'era addormentato per davvero. Tutto era tranquillo, e taceva anche il vento; donna Isabella, che era stata desta sino all'alba, cominciava ad assopirsi. Ad un tratto un grido terribile rimbombò per l'immenso corridoio; era un grido supremo di terrore, di delirio, che non poteva riconoscersi a qual voce appartenesse, che non aveva nulla d'umano; nello stesso tempo si udì un gran tramestìo, l'uscio e la finestra della camera furono spalancati con impeto, quasi da un violento colpo di vento, e al lume dubbio della lampada parve che una figura bianca in un baleno attraversasse la camera e fuggisse dalla finestra. La baronessa, agghiacciata dal terrore fra le coltri, vide il marito slanciarsi dietro il fantasma colla spada in pugno, e saltare dalla finestra sul ballatoio. Egli correva come un forsennato, seguito da Bruno, inseguendo il fantasma che fuggiva come un uccello, sull'orlo del parapetto rovinato; entrambi, coi capelli irti sul capo, videro al certo, non fu illusione, la bianca figura arrampicarsi leggermente pei sassi che sporgevano ancora dalla cortina, al posto dov'era stata la scala, e sparire nel buio. «Per la Madonna dell'Ognina!», esclamò il barone dopo alcuni istanti di stupore, «lo toccherò colla mia spada, o che si prenda l'anima mia, s'è il Diavolo in carne ed ossa!» Don Garzia non credeva né a Dio né al Diavolo, sebbene li rispettasse entrambi; ma senza saper perché, si ricordò delle parole dettegli da donna Isabella la mattina, e fremette. Donna Isabella non gli avea fatto la più semplice domanda, o si spaventasse a farla, o la credesse inutile. Il barone del resto era di tale umore da non permetterne talune. L'indomani però dissegli risolutamente che non in-
tendeva dormire più oltre in quella camera. «Aspettate ancora stanotte», rispose il marito, «farò buona guardia io stesso, e se domani non riderete delle vostre paure, vi lascerò padrona di far quel che meglio vorrete.» Ella non osò aggiunger verbo, soltanto qualche momento dopo gli domandò: «Di che malattia è morta la vostra prima moglie, messere?». Ei la guardò bieco, e rispose: «Di mal caduco, madonna». «Io non avrò cotesto male, vi prometto!», disse ella con strano accento. Don Garzia, insieme a tutti i vizi del soldato di ventura e del gentiluomo-brigante, ne avea la sola virtù: una bravura a tutta prova. Egli fece quel che non osava più fare Bruno, il terribile Bruno, e per cui era mezzo morto anche il Rosso, giovanotto ardito se mai ce ne fossero; e passò tre notti di seguito nel corridoio, senza batter ciglio, senza muoversi più che non si muovesse il pilastro al quale stava appoggiato, colla mano sull'elsa della spada e l'orecchio teso: il vento sbatteva le imposte della finestra ch'era stata lasciata aperta per ordine suo, i gufi svolazzavano sul ballatoio, i pipistrelli s'inseguivano stridendo per l'andito; il lume della lampada riverberavasi pel vano dell'arco della sala delle guardie e sembrava vacillante; ma del resto tutto era queto, e don Garzia sarebbesi stancato di passar le notti in sentinella, come un uomo d'armi, se il ricordo di quel che avea visto coi propri occhi non fosse stato ancora profondamente impresso nella sua mente, e se una parola della moglie non gli avesse messo in corpo una di quelle preoccupazioni che non lasciano più dormire né lo spirito né il corpo, uno di quei dubbi che imperiosamente domandano uno schiarimento; la sua coscienza dormiva ancora, ma le sue reminiscenze, talune circostanze lasciate passare inosservate, si svegliavano ad un tratto, gli si rizzavano dinanzi in forma di tal sospetto, che don Garzia, zotico, brutale, dispotico signore, scettico e superstizioso ad un tempo, ma in fondo sinceramente barone, vale a dire ossequioso al re, e alla Chiesa, che lo facevano quello che egli era, se ne sentiva padroneggiato, e provava il bisogno di scioglierlo colla persuasione, o colla spada. Era la quarta notte che don Garzia attendeva; il mare era in tempesta, il tuono scuoteva il castello dalle fondamenta, la grandine scrosciava impetuosamente sui vetri, e le banderuole dei torrioni gemevano ad intervalli; di tanto in tanto un lampo solcava il buio del corridoio per tutta la sua lunghezza, e sembrava gettarvi un'onda di spettri; tutt'a un tratto il lume ch'era
nella sala delle guardie si spense. Don Garzia rimase al buio. Le tenebre che lo avvolgevano sembravano stringerlo ed opprimerlo da tutte le parti, soffocargli il respiro nel petto, la voce nella gola, e inchiodargli il ferro nella guaina; improvvisamente quel soldataccio risoluto sentì un brivido che gli penetrava tutte le ossa: fra le tenebre, in mezzo a tutti quei rumori vari, confusi, ma che aveano un non so che di pauroso, parvegli udire un altro rumore più vicino, più spaventoso, tale da far battere di febbre il polso di quell'uomo; le tenebre furono squarciate da un lampo, e videsi di faccia, ritta, immobile, quella figura bianca che aveva visto fuggire un'altra volta dinanzi a lui, e d'allora in poi aveva inseguito lui nella coscienza o nel pensiero, - ora lo guardava con occhi lucenti e terribili. Tutto ciò non fu che un istante, una visione; - coi capelli irti, vibrò una stoccata formidabile, sentì l'elsa urtare contro qualche cosa, udì un grido di morte che gli agghiacciò tutto il sangue nelle vene, e in un delirio di terrore gli fece ritirare la spada e fare un salto indietro, atterrito, chiamando la sua gente con quanta voce aveva in corpo. Scorsero due o tre minuti terribili, in cui non si udì più nulla; egli rimase in mezzo a quel buio, vicino a quella cosa che la sua spada aveva toccato. Pel castello si udì un gran tramestìo, si vide correre della gente, e sulle pareti cominciarono a riflettersi le fiaccole dei valletti. Don Garzia si slanciò sull'uscio gridando: «Non entri nessuno all'infuori del Bruno, se v'è cara la vita!». Tutti s'erano fermati attoniti vedendo il barone così pallido, coll'occhio stralunato e la spada in pugno, ancora macchiata di sangue. Bruno entrò, e vide uno spettacolo orribile. Vicino alla parete giaceva il cadavere di donna Violante, vestita del suo accappatoio bianco, com'era fuggita dal letto del marito la notte in cui s'era creduto che si fosse buttata in mare. Il viso avea pallido come cera e dimagrato enormemente, i capelli arruffati ed incolti, gli occhi spalancati, lucidi, fissi, spaventosi. La ferita era stata mortale e non sanguinava quasi, solo alcune gocce di sangue le erano uscite dalla bocca e le rigavano il mento. «Avevi ragione, Bruno!», disse il barone con voce sorda. «Non volevo crederci ai fantasmi; le credevo sciocchezze di femminucce; ma adesso ci credo anch'io. Bisogna buttare in mare questa forma della mia povera moglie che ha preso lo spirito maligno... e senza che nessuno al castello e fuori ne sappia nulla, ché sarebbero capaci d'inventarci su non so quale storia assurda...»
Bruno capiva e non ebbe bisogno di altre spiegazioni; però il suo signore non dimenticò di aggiungere sottovoce: «Senti, vecchio mio, sai bene che se la cosa si risapesse così come sembra essere avvenuta, io sarei stato bigamo e peggio, e la tua testa sarebbe assai malferma sulle tue spalle, in fede mia!». In chiesa, ricorrendo l'anniversario della morte di donna Violante, le furono resi dei pomposi e costosi suffragi; però, non si sa come, cominciavasi a buccinare al castello e fori che la cosa fosse proprio avvenuta come sembrava, e come don Garzia non voleva che sembrasse; e Bruno, il quale perciò cominciava a dubitare che la sua testa non fosse ben ferma sulle sue spalle, un bel giorno a caccia mise per distrazione una palla d'archibugio fra la prima e la seconda vertebra del suo signore. Donna Isabella, che aveva una gran paura del mal caduco, era andata a villeggiare presso la sua famiglia, e siccome l'aria le faceva bene, non era più ritornata. V. Questa era la leggenda del Castello di Trezza, che tutti sapevano nei dintorni, che tutti raccontavano in modo diverso, mescolandovi gli spiriti, le anime del Purgatorio, e la Madonna dell'Ognina. I terremoti, il tempo, gli uomini, avevano ridotto un mucchio di rovine la splendida e forte dimora di signori i quali, al tempo di Artale d'Alagona, aveano sfidato impunemente la collera del re, e sembravano avervi impresso una stimmate maledetta, che dava una misteriosa attrattiva alla leggenda, e affascinava lo sguardo della signora Matilde, mentre ascoltava silenziosamente. «E di quell'uomo?», domandò improvvisamente, «di quel giovanetto che per sua disgrazia non era morto cadendo nel trabocchetto, e che vi agonizzava lentamente, cosa ne è avvenuto?» «Chissà? Forse il barone avrà udito ancora dei gemiti soffocati, o delle grida disperate che imploravano la morte, forse dopo alcuni giorni, si sarà sentito il lezzo del cadavere da quella specie di pozzo, forse avrà voluto prevenire che ciò avvenisse, vi fece gettar della calce viva, e non si sentì più nulla.» «È una storia spaventosa!», mormorò la signora Matilde. «Togliamone pure i fantasmi, il suono della mezzanotte, il vento che spalanca usci e finestre, e le banderuole che gemono, è una spaventosa storia!»
«Una storia la quale non sarebbe più possibile oggi che i mariti ricorrono ai Tribunali, o alla peggio si battono», rispose Luciano ridendo. Ella gli agghiacciò il riso in bocca con uno sguardo singolare. «Lo credete?», domandò. Luciano ammutolì per quello sguardo, per quell'accento, pel sentirsi dar del voi distrattamente e a quella guisa. Sopraggiungeva il signor Giordano. «Parlatemi d'altro», diss'ella sottovoce, con singolare vivacità, «non discorriamo più di cotesto...» VI. Il signor Luciano e la signora Matilde si vedevano quasi tutti i giorni, in quella piccola società d'amici che le veglie o le escursioni pei dintorni riunivano quotidianamente. La signora fu indisposta due o tre giorni, e non si fece vedere. Allorché s'incontrarono la prima volta parve così mutata a Luciano che ei le domandò premurosamente della salute; il contegno di lei, le sue risposte, furono così imbarazzate, che il giovane ne fu imbarazzato egli pure, senza saper perché. Evidentemente ella lo evitava. Era sempre allegra, spiritosa ed amabile con tutti, ma con lui era cambiata. Anche il marito avea cambiato maniere senza che nulla fosse avvenuto, senza che una parola fosse stata detta, senza che Luciano stesso sapesse ancora perché ei fosse così turbato, perché l'imbarazzo di lei rendesse imbarazzato anche lui, e perché si fosse accorto del cambiamento del signor Giordano. Una bella sera di luna piena tutta la comitiva era uscita a passeggiare, e Luciano offrì risolutamente il braccio alla signora Matilde; ella esitò alquanto, ma non osò rifiutare: camminavano lentamente, in silenzio, mentre gli altri ciarlavano e ridevano; ad un tratto ella gli strinse il braccio, e gli disse con un soffio di voce: «Vedete!». Il signor Giordano era lì presso, dando il braccio alla signora Olani. La mano che stringeva il braccio di Luciano era convulsa e tremante, la voce avea una vibrazione insolita. Quando il signor Giordano ebbe lasciata al cancello della villa la signora Olani, sembrò lasciare anche una maschera che si fosse imposta sino a quel momento, e mostrossi soprappensieri, taciturno e accigliato. «Ho paura!... ho paura di lui!...», mormorò Matilde sottovoce. Luciano premette quel braccio delicato che s'appoggiava leggermente al suo, e che gli rispose tremante e gli si abbandonò confidente e innamorato, a lui che non avrebbe potuto proteggerla neppure dando tutto il sangue del-
le sue vene. Si volsero uno sguardo, uno sguardo solo, lucente nella penombra - quello della donna smarrito - e chinarono gli occhi. Sull'uscio della casa si lasciarono. Ei non osò stringerle la mano. Ella partì, né seppe giammai quali notti ardenti di visioni egli avesse passato, quali febbri l'avessero roso accanto a lei, mentre sembrava così calmo e indifferente, quante volte fosse stato a divorarla, non visto, cogli occhi, e quel che si fosse passato dentro di lui allorché sorridendo dovette dirle addio dinanzi a tutti, e quando la vide passare, rincantucciata nell'angolo della carrozza, colle guance pallide e gli occhi fissi nel vuoto, e qual nodo d'amarezza gli avesse affogato il cuore allorché rivide chiusa quella finestra dove l'avea vista tante volte. L'indovinò? indovinò egli stesso che avesse sofferto ella pure? Quando s'incontrarono di nuovo, dopo lungo tempo, parvero non conoscersi, non vedersi, impallidirono e non si salutarono. Finalmente s'incontrarono un'altra volta - al ballo, in chiesa, al teatro, auspice Dio o la fatalità; ei le disse: «Come potrei vedervi?». Ella impallidì, si fece di bracia, chinò gli occhi, glieli fissò ardenti nei suoi, e rispose: «Domani». E il domani si videro - un'ora dopo ella avea l'anima ebbra di estasi, i polsi tremanti di febbre, e gli occhi pieni di lagrime. «Perché m'avete raccontato quella storia?», ripeteva balbettando come in sogno. Era pentimento, rimprovero, o presentimento? Alcuni mesi dopo, in autunno, la medesima compagnia d'amici s'era riunita ad Aci Castello. I due che s'amavano avevano saputo nascondere la loro febbre, o il marito avea saputo dissimulare la sua collera, o la signora Olani era stata più assorbente. Si vedevano come prima, si riunivano come prima, erano allegri, o sembravano, come prima. Qualche fuggitivo rossore di più sulle gote, e qualche lampo negli occhi - null'altro! Si facevano le solite scampagnate, i soliti ballonzoli, si andava in barca o a cavallo sugli asini, e si progettò anche il solito pranzo sulla vecchia torre del castello. La signora Matilde mise in mezzo tutti gli ostacoli; il marito la guardò in un certo modo, e le domandò la ragione dell'insolita ripugnanza... Andò anche lei. Il pranzo fu allegro come quello dell'anno precedente. Si mangiò sull'erba, si ballò sull'erba, e si buttarono sull'erba le bottiglie dopo che ne furono fatti saltare i turaccioli. Si ciarlò del castello, di memorie storiche, dei Normanni e dei Saraceni, della pesca delle acciughe e dei secoli cavallere-
schi, e tornarono in campo le vecchie leggende, e si raccontò di nuovo a pezzi e a bocconi la storia che Luciano avea raccontato la prima volta in quel luogo medesimo, e che alcuni nuovi venuti ascoltavano con avidità, digerendo tranquillamente, ed assaggiando il buon moscato di Siracusa. Luciano e la signora Matilde stavano zitti da lungo tempo, ed evitavano di guardarsi. VII. Don Garzia d'Arvelo era diventato inaspettatamente, a cinquant'anni, signore dei numerosi feudi che dipendevano dalla baronia di Trezza; il barone suo nipote era stato trovato in un burrone, lungo stecchito, un bel dì, o una brutta notte, che era andato a caccia di non so qual selvaggina. Il cavaliere d'Arvelo, ora che era barone, fece impiccare preliminarmente due o tre vassalli i quali avevano la disgrazia di possedere bella selvaggina in casa, e la triste riputazione di tenere all'onore come altrettanti gentiluomini; poi era montato a cavallo, e siccome sospettavasi anche che il signore di Grevia avesse saldato in quel tal modo spicciativo alcuni vecchi conti di famiglia, era andato ad aspettarlo ad un certo crocicchio, e senza stare a sofisticare sulla probabilità del si dice, aveva messo il saldo della partita. Soddisfatti i suoi obblighi di d'Arvelo e di signore non uso a farsi posare mosca sul naso, era andato ad assidersi tranquillamente sul seggio baronale, avea appeso la spada al chiodo del suo antecessore, e, tanto per farsi la mano da padrone, avea fatto sentire come la sua fosse di ferro a tutti quei poveri diavoli che stavano nei limiti della sua giurisdizione, ed anche delle sue scorrerie, ché un po' del predone gli era rimasto colle vecchie abitudini di cavalier di ventura. Tutti coloro che nel requiem ordinato in suffragio del giovane barone avevano innescato sottovoce certi mottetti che non erano nella liturgia, ebbero a pentirsene, e dovettero ripetere, senza che sapessero di storia, il detto della vecchia di Nerone. - Lupo per lupo, il vecchio che succedeva al giovane mostrava tali ganasce e tale appetito, che al paragone il lupacchiotto morto diventava un agnellino. Il cavaliere, cadetto di grande famiglia, era stato tanto tempo ad aguzzarsi le zanne e ad ustolare attorno a tutto quel ben di Dio in cui sguazzava il nipote, capo della casa e suo signore e padrone, che malgrado le scorrerie di tutti i generi, sulle quali il fratello e poscia il nipote avevano chiuso un occhio, si poteva dire di lui che fosse affamato da cinquant'anni; sicché era naturalissimo che allorquando poté darsi una buona satolla di tutti gli intingoli del potere più
sfrenato, lo fece da ghiottone, il quale abbia stomaco di struzzo. Del resto il Re, suo signore dopo Dio, era lontano, e i d'Arvelo erano d'illustre famiglia, grandi di Spagna, di quelli che non si sberrettano né dinanzi al Re, né dinanzi a Dio, titolari di diverse cariche a Corte, baroni ricchi e potenti, un po' alleati della mano sinistra coi Barbareschi, di quei mastini insomma che andavano lisciati pel verso del pelo. Don Garzia andò a Corte; si batté con un gentiluomo che osò ridere dei suoi baffi irsuti e dei suoi galloni consunti, e gli mise tre pollici di ferro fra le costole, prestò il suo omaggio di sudditanza al Re, il quale lo invitò alla sua tavola, e fra il caciocavallo e i fichi secchi gli disse, che poiché la famiglia d'Arvelo non avea altri successori, il suo buon piacere era che don Garzia sposasse una damigella Castilla, la quale attendeva marito nel Monastero di Monte Vergine. Don Garzia, buon suddito e buon capo di buona famiglia, sposò la damigella senza farselo dir due volte, e senza vederla una volta sola prima di condurla all'altare, ma dopo aver ben guardato nelle pergamene della famiglia della sposa e nei quattro quarti del suo blasone; la mise in una lettiga nuova, con buona mano d'uomini d'arme e di cagnotti davanti, ai lati, e dietro; montò il suo cavallo pugliese, e se la menò a Trezza. La sera dell'arrivo degli sposi si fecero gran luminarie al castello, nel villaggio, e nei dintorni, la campana della chiesuola suonò sino a creparne, si ballò tutta la notte sulla spiaggia, e del vino del Bosco e di terreforti delle cantine del barone ne bevve persino il mare. Nondimeno, allorché la sposa fu entrata in quella cameraccia scura e triste, in fondo all'alcova immensa della quale ergevasi come un catafalco il talamo nuziale, non poté vincere un senso di ripugnanza e quasi di paura, e domandò al marito: «Come va, mio signore, che essendo voi tanto ricco, avete una sì brutta cameraccia?». Don Garzia, il quale ricordavasi di dover essere galante pel quarto d'ora, rispose: «La camera sarà bella ora che ci starete voi, madonna». Però la prima volta che donna Violante si svegliò in quella brutta cameraccia, e al fianco di quel brutto sire, dovette essere un gran brutto svegliarsi. Ma ell'era damigella di buona famiglia, bene educata all'obbedienza passiva, fiera soltanto del nome della sua casa e di quello che le era stato dato in tutela; era stata strappata bruscamente alla calma del suo convento, ai tranquilli diletti, ai sogni vagamente turbati della sua giovinezza, ad un romanzetto appena abbozzato, ed era stata gettata - ella che aveva sangue di re nelle vene, - nell'alcova di quel marrano, cui per caso era ca-
duto in capo un berretto di barone: ella avea accettato quel marrano, perché il Re, il capo della sua famiglia, le leggi della sua casa glielo imponevano, e avea soffocato la sua ripugnanza, allorché la mano nera e callosa di quel vecchio s'era posata sulle sue spalle bianche e superbe, perché era suo marito: dolce e gentile com'era, cercava a furia di dolci e gentili maniere raddolcire quel vecchio lupo che le ringhiava accanto, e le mostrava i denti aguzzi allorché voleva sembrare amabile. Però quello non era tal lupo cui l'acqua santa del matrimonio potesse far cambiare di pelo; e quanto ai vizi avea tutti quelli che s'incontrano sulla strada di un soldato di ventura, dietro le insegne delle bettole. Per giunta, e per disgrazia, donna Violante dopo due anni di matrimonio non solo non avea messo al mondo il dito mignolo d'un baroncino, ma non avea nemmen l'aria di darsene per intesa, e d'aver capito il motivo per cui don Garzia s'era tolto in casa la noia e la spesa di una moglie. Quella moglie delicata, linfatica, colle mani bianche, che gli parlava a voce bassa, che arrossiva alle sue canzonette allegre ed alle sue esclamazioni gioviali, che scappava spaventata allorché il sire era in buon umore, che non gli sapeva condire i suoi intingoli prediletti, e che non era stata buona nemmeno a dargli un successore, gli faceva l'effetto d'un ninnolo di lusso, da tenersi sotto chiave come i diamanti di famiglia, perciò, lungi di smettere le sue abitudini di lanzichenecco, ci s'era lasciato andare allegramente, senza prendersi nemmeno la pena di nasconderlo alla moglie, la quale era così timida, e tremava talmente, allorché ei si metteva in collera alla menoma osservazione, da sembrargli stupida. Cacciava, beveva, correva pei tetti e scavalcava le siepi, e quando ritornava ubbriaco, o di cattivo umore, guai alle mosche che si permettevano di ronzare! Un'ultima scappata di don Garzia però avea fatto tale scandalo, che andò a colpire nel vivo quella vittima rassegnata. La fierezza di patrizia, l'amor proprio di donna, la gelosia di moglie, si ribellarono alfine in donna Violante, e le diedero per la prima volta un'energia fittizia. «Mio signore», dissegli con voce tremante, ma senza chinare gli occhi dinanzi al brusco cipiglio del marito, «rimandatemi al convento dal quale m'avete tolta, poiché sono tanto scaduta dalla vostra stima!» «Che vuol dire ciò?», borbottò don Garzia, «e chi vi ha detto di esser scaduta?» «Come va dunque, che vi rispettiate così poco voi stesso, da scendere sino alla Mena?» Il barone stava per attaccare una dozzina di quei sacrati che facevan tre-
mare il castello sino dalle fondamenta, ma si contentò di sghignazzar forte: «Da quando in qua, madonna, al castello di Trezza le galline si permettono di alzar la cresta? badate a covarmi dei baroni, piuttosto, com'è vostro dovere, e lasciatemi cantar mattutino e compieta secondo il mio buon piacere». La baronessa l'indomani s'era levata pallida e sofferente, ma cogli occhi luccicanti di un insolito splendore; sembrava rassegnata, ma di una rassegnazione cupa, meditabonda, lampeggiante di tratto in tratto la ribellione e la vendetta; quel marito istesso così rozzo, così brutale, fu una volta sorpreso e impensierito dell'aria indefinibile ed insolita di quella donna che posava il capo sul suo medesimo guanciale, quantunque un sol muscolo della fisonomia di lei non si movesse, e volle mostrarle che le avea perdonato la sua velleità di resistenza con un bacio avvinazzato. Ella non lo respinse, non si mosse, rimase cogli occhi chiusi, le labbra scolorite e serrate, le guance pallide e ombreggiate dalla lunga frangia delle sue ciglia: soltanto una lagrima ardente luccicò un momento fra quelle ciglia, e scese lenta lenta. VIII. Una sera il barone tardava a venire; la luna specchiavasi sui vetri istoriati dell'alta finestra, e il mare fiottava sommessamente. La baronessa stava da lunga pezza assorta, sulla sua alta seggiola a braccioli, col mento nella mano, distratta o meditabonda. Corrado, il bel paggio del barone d'Arvelo, le aveva domandato inutilmente due volte se gli comandasse di montare a cavallo, e d'andare in traccia del suo signore. Alfine donna Violante gli fissò in viso lo sguardo pensoso. Era un bel giovanetto, Corrado, dall'occhio nero e vellutato, e dalle guance brune e fresche come quelle di una vaga fanciulla di Trezza, così timido che quelle guance dorate si imporporarono alquanto sotto lo sguardo distratto della sua signora. Ella lo fissò a lungo senza vederlo. «No!», disse poscia. «Perché?...» Si alzò, andò ad aprire la finestra, e appoggiò i gomiti al davanzale. Il mare era levigato e lucente; i pescatori sparsi per la riva, o aggruppati dinanzi agli usci delle loro casipole, chiacchieravano della pesca del tonno e della salatura delle acciughe; lontan lontano, perduto fra la bruna distesa, si udiva ad intervalli un canto monotono e orientale, le onde morivano come un sospiro ai piedi dell'alta muraglia; la spuma biancheggiava un istante, e
l'acre odore marino saliva a buffi, come ad ondate anch'esso. La baronessa stette a contemplare sbadatamente tutto ciò, e sorprese se stessa, lei così in alto nella camera dorata di quella dimora signorile, ad ascoltare con singolare interesse i discorsi di quella gente posta così basso al piede delle sue torri. Poi guardò il vano nero di quei poveri usci, il fiammeggiare del focolare, il fumo che svolgevasi lento lento dal tetto; infine si volse bruscamente, quasi sorpresa dal paggio che, ritto sull'uscio, attendeva i suoi ordini, guardò di nuovo la spiaggia, il mare, l'orizzonte segnato da una sfumatura di luce, l'ombra degli scogli che andava e veniva coll'onda, e tornò a fissar Corrado, questa volta più lungamente. Ad un tratto arrossì, come sorpresa della sua distrazione, e per dir qualche cosa domandò sbadatamente: «Che ora è, Corrado?». «Son le due di notte, madonna.» «Ah!» Le sue ciglia si corrugarono di nuovo, chinò gli occhi un istante, e con un suono d'amarezza indicibile: «Tarda molto stasera il barone!...». «Non temete, madonna; la campagna è sicura, la sera è bella, e la luna non ha una nube.» «È vero!» diss'ella con uno strano sorriso. «È proprio una sera da amanti!...» E seguitò a fissare il giovinetto col suo sguardo da padrona, senza pensare a lui che ne era colpito. Lasciò la finestra e andò a sedere sulla seggiola stemmata, ai piedi della quale si teneva il paggio; non più melanconica, né meditabonda, ma inquieta, agitata, e nervosa. «Conosci la Mena?», domandò ad un tratto bruscamente. «La mugnaia del Capo dei Molini?» «Sì la mugnaia del Capo dei Molini!», ripeté con un singolare sorriso. «La conosco, madonna.» «E anch'io!», esclamò con voce sorda. «Me l'ha fatta conoscere mio marito!» Per l'altera castellana Corrado non era altro che un domestico, un giovanetto che portava il suo stemma ricamato sul giustacuore di velluto, e che era leggiadro, e avea la chioma bionda e inanellata per far onore alla casa. Ella dunque parlava come fra sé, colla sua eco, perché il suo cuore era troppo pieno, perché l'amarezza non s'era sfogata in lagrime, e gli fece una singolare domanda, con singolare accento e cogli occhi fissi al suolo:
«Perché non sei l'amante della Mena anche tu?». «Io, madonna?» «Sì, tutti vanno pazzi per cotesta mugnaia!» «Io sono un povero paggio, madonna!...» Ella gli fissò in viso quello sguardo accigliato, e a poco a poco le sopracciglia si spianarono. «Povero o no, tu sei un bel paggio. Non lo sai?» I loro occhi si incontrarono un istante e si evitarono nello stesso tempo. Se la vanità del giovinetto si fosse risvegliata a quelle parole, tutto sarebbe finito fra di loro, e l'orgoglio della patrizia si sarebbe inalberato così all'audacia del paggio, che il cuore della donna si sarebbe chiuso per sempre. Ma il giovinetto sospirò, e rispose chinando gli occhi: «Ahimè! madonna!». Quel sospiro aveva un'immensa attrattiva. Mille nuovi sentimenti confusi e violenti andavano gonfiandosi nell'animo della baronessa, come le nubi su di un mare tempestoso. Ella pura, bianca, superba, ella che discendeva da principi reali e da re castigliani, non poté fare a meno di paragonare quel giovinetto ingenuo, leggiadro, che avea cuore di cavaliere sotto una livrea di domestico, a quell'uomo rozzo, brutto, villano, coronato di barone, cui s'era data, e il quale la posponeva ad una bellezza da trivio, che portava zoccoli ai piedi e sacchi di farina sul dorso. Lagrime ardenti le luccicarono nell'orbita, asciugate subito da qualcosa di più ardente ancora, divorate in segreto; tutto quel movimento interno, sembrava aver voce e parola, sembrava gridare da tutte le sue membra e da tutti i suoi pori, e il paggio osava fissare per la prima volta su quella sovrana bellezza, delirante in segreto e che faceva delirare, i suoi begli occhi azzurri, scintillanti di luce insolita. «Corrado!», esclamò ella all'improvviso, con voce sorda e interrotta, come perdesse la testa; «tu la conosci... tu che sei uomo... dimmi se cotesta mugnaia... è bella... s'è più bella di me... Oh dimmelo! non aver paura...» Il giovanetto guardava affascinato quella donna corrucciata, fremente, gelosa, rossa di onta e di dispetto, bella da far dannare un angelo; impallidì e non rispose: poi colla voce tremante, colle mani giunte, con un accento che fece scuotere e trasalire la sua signora, esclamò: «Oh... abbiate pietà di me!... madonna!...». Ella gli lanciò un'occhiata fosca, senza sguardo, e si allontanò rapidamente, fuggendo; andò ad appoggiarsi al davanzale, a bere avidamente la fresca brezza della notte. Quattro ore suonavano in quel momento; non si
vedeva un sol lume, né si udiva una voce. Che cosa avveniva in quell'anima combattuta? Nessuno avrebbe saputo dirlo, lei meno di ogni altro, ché tali pensieri sono vertiginosi, tempestosi anche, come è complesso il sentimento da cui emanano. E ad un tratto volgendosi bruscamente verso di lui: «Senti», gli disse. «Hai torto! Paggio o no, povero o no, sei bello e giovane da far perdere la testa, e hai torto a non essere l'amante della Mena; il tuo padrone, che è vecchio e brutto, l'ama... l'amore è la giovinezza, la beltà, il piacere; non ci credevo... ma mio marito me l'ha insegnato, e questo marito non è né giovane, né bello, né gentile. Io mi son data a lui - ero bella, ti giuro, ero bella allora, delicata, tutta sorriso, col cuore ansioso e trepidante arcanamente sotto la ruvida mano che m'accarezzava. Nel convento avevo sognato tante volte che quella prima carezza mi sarebbe venuta da un'altra mano bianca e delicata che mi avea salutato, e che le mie vergini labbra avrebbero rabbrividito la prima volta sotto quelle altre che m'aveano sorriso, ombreggiate da baffetti d'oro, attraverso la grata. Invece furono le labbra irsute del barone d'Arvelo... Colui era bello, come te, biondo come te, giovane come te; io gli rapii la mia beltà, la mia giovinezza, il mio primo bacio che gli avevo promesso col primo sguardo, il mio cuore, che era suo, per darli a quest'uomo cui m'avevano ordinato di dargli, e glieli diedi lealmente. Ora senti, io sono povera come te, non possedevo che il mio bel nome e gli ho dato anche quello, e ho combattuto i miei sogni, le mie ripugnanze, i palpiti stessi del mio cuore. Adesso quest'uomo, cui ho sacrificato tutto ciò, che mi ha rapito tutto ciò, questo ladro, questo sleal cavaliere, questo marito infame, ha mescolato il mio primo bacio di vergine al bacio impuro di una cortigiana...» Ella chiuse gli occhi con un'espressione indicibile di raccapriccio. «Tu non sai, non puoi sapere qual effetto possano far tali infamie sull'animo di una patrizia... Ma giuro, per santa Rosalia! che mi vendicherò in tal modo, che farò tale ingiuria a quest'uomo, che lo coprirò di tale vergogna, quale non basterà a lavare tutto il sangue delle sue vene e delle mie... Io son giovane ancora, sarò ancora bella quando amerò... Ti giuro!... Vuoi? di'! vuoi?» Egli tremava tutto. Ella gli afferrò il capo con gesto risoluto, con occhi ardenti e foschi, e gli stampò sulla bocca un bacio di fuoco. IX.
Donna Violante non chiuse occhio in tutta la notte. Stava col gomito sul guanciale, fissando uno sguardo intraducibile, immobile, instancabile, su quel marito che dormiva tranquillo accanto a lei, di cui l'alito avvinazzato le sfiorava il viso, e il quale l'avrebbe stritolata sotto il suo pugno di ferro, se avesse potuto immaginare quali fantasmi passassero per gli occhi sbarrati di lei. E all'indomani, colle guance accese di febbre, e il sorriso convulso, gli disse: «Non vi pare che sarebbe tempo di cercare un altro paggio, don Garzia?». «Perché?» «Corrado non è più un ragazzo; e voi lasciate troppo spesso sola vostra moglie, perché egli possa starle sempre vicino senza dar da ciarlare ai vostri nemici.» Il barone aggrottò le ciglia, e rispose: «Amici e nemici mi conoscono abbastanza perché né la cosa né le ciarle siano possibili». Sugli occhi della donna lampeggiò un sorriso da demone. «E poi», aggiunse don Garzia, «vi stimo abbastanza per temere che voi, nobile e fiera, possiate scendere sino ad un paggio.» E buttandole galantemente le braccia al collo accostò le sue labbra a quelle di lei. Ella, bianca come una statua, gli rese il bacio con insolita energia. Nondimeno, malgrado l'alterigia baronale, e la fiducia nella sua pazienza, don Garzia era tal vecchio peccatore da non dormir più tranquillo i suoi sonni una volta che gli era stata messa nell'orecchio una pulce di quella fatta, e, andato a trovar Corrado: «Orsù, bel giovane», gli disse, «eccoti questo borsellino pel viaggio, e queste due righe di benservito, e vatti a cercar fortuna altrove». Il giovane rimase sbalordito, e non potendo aspettarsi da che parte gli venisse il congedo, temette che qualcosa del terribile segreto fosse trapelata; e tremante, non per sé, ma per colei di cui avea sognato tutta la notte gli occhi lucenti, e l'ebbrezze convulse: «Almeno, mio signore», balbettò, «piacciavi dirmi, in grazia, perché mi scacciate!». «Perché sei già in età da guadagnarti il pane dove c'è da menar le mani, invece di stare a grattare la chitarra, ed è tempo di pensare a vestir l'arnese, piuttosto che il farsettino di velluto.» «Orbé, messere lasciatemi al vostro servizio, in mercé, se in nulla vi dispiacqui, e in quell'ufficio che meglio vi tornerà.»
Il barone si grattò il naso, come soleva fare tutte le volte che gli veniva voglia di assestare un ceffone. «Via!», gli disse con tal cipiglio da non dover tornar due volte sulle cose dette: «levamiti dai piedi, mascalzone; ché dei tuoi servigi non so che farmene, e bada che se la sera di domani ti trova ancora nel castello non ne uscirai dalla porta». Il povero paggio aveva perduto la testa; malgrado la gran paura che mettevagli addosso il suo signore tentò tutti i mezzi di cercar di vedere quella donna che gli avea irradiato di luce la vita in un attimo, e che amava più della vita. Ma la baronessa lo evitava, come avesse voluto fuggire se stessa, o le sue memorie. Tutti i progetti e i timori più assurdi si affollarono nella testa delirante del giovane innamorato, e credendo la vita di donna Violante minacciata dal barone, decise di far di tutto per salvarla. Finalmente, mentre sollevava una tenda sotto la quale ella passava, fiera, calma e impenetrabile, le sussurrò sottovoce: «Se il mio sangue può giovarvi a qualcosa, prendetevelo, madonna!». Ella non si volse, non rispose, e passò oltre. Ei rimase come fulminato. X. La sera che non dovea più trovar Corrado nel castello si avvicinava rapidamente, ed egli non si rammentava nemmeno della terribile minaccia di quel signore che giammai non minacciava invano. Era pazzo di amore; avrebbe pagato colla testa un quarto d'ora di colloquio colla sua signora. Il barone prima di andare a dormire soleva fare tutte le sere la visita del castello. Corrado contava su quel momento per avere un'ultima spiegazione, o un ultimo addio dalla baronessa. Allorché tutto fu buio, s'insinuò non visto nel ballatoio, e venne a riuscire dietro la finestra di donna Violante. Don Garzia era seduto colle spalle alla finestra, e stava cenando. La moglie eragli di faccia, col mento sulla mano e gli occhi fissi, impietrati. Ad un tratto, fosse presentimento, fosse fluido misterioso, fosse qualche lieve rumore fatto dal giovane coll'appoggiare il viso ai vetri, ella trasalì, alzò il capo vivamente, e i suoi sguardi s'incontrarono con quelli del paggio a guisa di due correnti elettriche. «Cos'avete?», domandò il barone. «Nulla», diss'ella, bianca e impassibile come una statua. Il barone si voltò verso la finestra: «Che rumore è cotesto?». Donna Violante chiamò la cameriera; e le ordinò di chiudere bene; era
fredda e rigida come una statua di marmo. «Sarà il vento», soggiunse, «o la finestra non è ben chiusa.» Corrado ebbe appena il tempo di rannicchiarsi rasente il muro. Il barone di tanto in tanto volgeva alla sfuggita sulla moglie uno sguardo singolare, e, cosa più singolare, era sobrio! «Non bevete un sorso?», domandò versandole del vino. Ella non osò rifiutare, alzò lentamente il bicchiere, e si udirono i suoi denti urtare due o tre volte contro il vetro. Poi rimase pensierosa, ma con certa ansietà febbrile, gettando sguardi irrequieti qua e là. «Bisogna che vi cerchi un altro paggio, ora che Corrado è partito», disse il barone figgendole gli occhi in viso. Donna Violante non rispose, ma levò gli occhi anche lei, e si guardarono. Il barone bevve un altro bicchier di moscato, e si alzò per andare a far la ronda della sera. Come fu sola la donna, si levò anch'essa, quasi spinta da una molla, e si diede a passeggiar per la camera, agitata e convulsa. Ogni volta che passava dinanzi alla finestra vi gettava un'occhiata scintillante. Ad un tratto vi andò risolutamente, e l'aperse. Essi si trovarono faccia a faccia, e si guardarono in silenzio. «Ma che fai qui?», domandò donna Violante con accento febbrile. «Son venuto a morire», rispose il paggio con calma terribile. «Ah», esclamò ella con un sorriso amaro. «Lo sai che t'ho fatto scacciar io?» «Voi!» «Io!» «Perché m'avete fatto scacciare?» «Perché non ho potuto far scacciar me stessa, e perché non ho avuto il coraggio di uccidermi dopo di essermi vendicata.» «Cosa vi ho fatto?», esclamò egli colle lagrime nella voce. «Che m'hai fatto?...», rispose la donna fissandolo con occhi stralunati. «Che m'hai fatto?... Ebbene, cosa vuoi ancora? cosa sei venuto a fare?» «Son venuto a dirvi che vi amo!», diss'egli senza entusiasmo e senza amarezza. «Tu!», esclamò la baronessa celandosi il viso fra le mani. «Perdonatemelo, madonna!», aggiunse il paggio sorridendo tristemente, «cotesto amore che vi offende lo sconterò in un modo terribile.» «No!», diss'ella con voce delirante. «Non voglio che tu muoia, non vo-
glio più amarti, e non voglio rivederti mai più!... no! no! vattene!» Egli scosse il capo rassegnato. «Andarmene? È tardi, il ponte levatoio è tirato, e il barone mi ha detto che questa sera non avrebbe voluto trovarmi più qui. Bisognava che io arrischiassi qualche cosa per vedervi un'ultima volta, così bella come vi ho sempre dinanzi agli occhi, e che io paghi con qualcosa di prezioso il potervi dire la terribile parola che vi ho detto.» «Ebbene!», rispose donna Violante, pallida come lui, tremante come lui, «anche io sconterò il mio fallo... È giusto!» In questo momento si udirono i passi del barone che ritornava accompagnato da qualcuno. «Sia!», esclamò convulsamente la baronessa. «Ti amo, son tua, sia! moriamo!» E gli cinse le braccia al collo, e gli attaccò alle labbra le labbra febbrili. Si udì la voce di don Garzia che diceva al Bruno: «Tu va sul ballatoio e sta a guardia da quella parte». Corrado si strappò da quell'amplesso di morte, con uno sforzo più grande di quel che ci sarebbe voluto per precipitarsi dalla finestra di cui gli veniva chiuso lo scampo, e stringendole la mano risolutamente: «No! voi no! Ricordatevi di me, Violante, e non temete per voi. Il povero paggio saprà morire come un gentiluomo». E mentre si udivano già i passi del barone dietro l'uscio, e Bruno che percorreva il ballatoio, si slanciò nell'andito ch'era dietro l'alcova, e in fondo al quale spalancavasi il trabocchetto. Don Garzia entrò con passo rapido, non guardò nemmen la moglie, la quale sembrava un cadavere, gittò un'occhiata alla finestra chiusa, ed entrò nell'andito senza dire una parola. Non si udì più nulla. Poco dopo riapparve d'Arvelo, calmo e impenetrabile come al solito. «Tutto è tranquillo», disse. «Andiamo a dormire, Madonna.» XI. La notte s'era fatta tempestosa, il vento sembrava assumere voci e gemiti umani, e le onde flagellavano la rocca con un rumore come di un tonfo che soffocasse un gemito d'agonia. Il barone dormiva. Ella lo vedeva dormire, immobile, sfinita, moribonda d'angoscia, sentiva la tempesta dentro di sé, e non osava muoversi per timor di destarlo. Avea gli occhi foschi, le labbra semiaperte, il cuore le si rompeva nel petto, e
sembravale che il sangue le si travolgesse nelle vene. Provava bagliori, sfinimenti, impeti inesplicabili, vertigini che la soffocavano, tentazioni furibonde, grida che le salivano alla gola, fascini che l'agghiacciavano, terrori che la spingevano alla follia. Sembravale di momento in momento che la vòlta dell'alcova si abbassasse a soffocarla, o che l'onda salisse e traboccasse dalla finestra, o che le imposte fossero scosse con impeto disperato da una mano che si afferrasse a qualcosa, o che il muggito del mare soverchiasse un urlo delirante d'agonia: il gemito del vento le penetrava sin nelle ossa, con parole arcane ch'ella intendeva, che le dicevano arcane cose, e le facevano dirizzare i capelli sul capo, e teneva sempre gli occhi intenti e affascinanti nelle orbite incavate ed oscure di quel marito dormente, il quale sembrava la guardasse attraverso le palpebre chiuse, e leggesse chiaramente tutti i terrori che sconvolgevano la sua ragione. Di tanto in tanto si asciugava il freddo sudore che le bagnava la fronte, e ravviava macchinalmente i capelli che sentiva formicolarsi sul capo, come fossero venuti cose animate anch'essi. Quando l'uragano taceva, provava un terrore più arcano, e con un movimento macchinale nascondeva il capo sotto le coltri, per non udire qualcosa di terribile. Ad un tratto quel suono che parevale avere udito in mezzo agli urli della tempesta, quel gemito d'agonia, visione o realtà, s'udì più chiaro e distinto. Allora mise uno strido che non aveva più nulla d'umano, e si slanciò fuori del letto. Il barone, svegliato di soprassalto, la scorse come un bianco fantasma fuggire dalla finestra, si precipitò ad inseguirla, saltò sul ballatoio e non vide più nulla. La tempesta ruggiva come prima. Sul precipizio fu trovato il fazzoletto che avea asciugato quel sudore d'angoscia sovrumana. XII. La storia avea divertito tutti, anche quelli che la conoscevano diggià, e che la commentavano ai nuovi venuti colla leggenda degli spiriti che avevano abitato il castello. La sera era venuta, l'ora e il racconto aiutavano le vagabonde fantasticherie dell'eccellente digestione. Luciano e la signora Matilde avevano impallidito qualche volta durante quel racconto che conoscevano. «Badate», le sussurrò egli sottovoce. «Vostro marito vi osserva!» Ella si fece rossa, poi impallidì, guardò il mare che imbruniva, e s'avviò la prima. Scesero le scale crollanti, e giunti al basso era quasi buio. La
grossa tavola che faceva da ponte levatoio sull'abisso spaventoso il quale spalancasi sotto la rocca, a quell'ora era un passaggio pericoloso. I più prudenti si fermarono prima di metterci piede, e proposero di mandare al villaggio per cercar dei lumi. «Avete paura?», esclamò il signor Giordano con un sorrisetto sardonico. E si mise arditamente sullo strettissimo ponte. Sua moglie lo seguì tranquilla e un po' pallida, Luciano le tenne dietro e le strinse la mano. In quell'attimo, a 150 metri sul precipizio, accanto a quel marito di cui s'erano svegliati i sospetti, quella stretta di mano, di furto, fra le tenebre avea qualcosa di sovrumano. L'altro li vide forse nell'ombra, lo indovinò, avea calcolato su di ciò... Si volse bruscamente e la chiamò per nome. Si udì un grido, un grido supremo, ella vacillò, afferrandosi a quella mano che l'avea perduta per aiutarla, e cadde con lui nell'abisso. A Trezza si dice che nelle notti di temporale si odano di nuovo dei gemiti, e si vedano dei fantasmi fra le rovine del castello. HERMINA BLACK Il passo pesante 1. Nonostante il mio scarso successo in campo giornalistico, non sono una persona ricca d'immaginazione. Intendo raccontare questa storia solamente perché gli eventi sono così impressi nella mia mente che non potrò mai dimenticarli. Nel dicembre del '98 mi trovavo solo a Londra, piuttosto depresso e debilitato, in attesa di un Natale che sarebbe stato triste, quando incontrai, inaspettatamente, Owen Flaxham. Eravamo stati assieme al Magdalen ed era il mio compagno preferito ma, non so bene per quale motivo, quando ero venuto in città per intraprendere la mia carriera e lui era diventato Baronetto, ci eravamo persi di vista, più a causa delle vicissitudini della vita che per colpa nostra. Tuttavia fu felice di rivedermi e, sentendo che avrei passato il Natale tutto solo, insistette perché andassi con lui, a casa sua, il giorno dopo. Non potevo accontentarlo, ma promisi che l'avrei raggiunto durante la settimana. Quindi partii da Euston il venerdì seguente, e arrivai a Manorsfield nel Cheshire poco dopo il tramonto.
Owen venne a prendermi con il calesse e percorremmo circa sei miglia prima di raggiungere la casa. Durante il tragitto venni a sapere, con rammarico, che la casa era tutta occupata; con molte scuse il mio ospite mi chiese di dividere la sua camera, solo per quella notte, poiché la persona che occupava la mia sarebbe partita la mattina seguente. Naturalmente non avevo obiezioni, e glielo dissi. Flaxham Hall era un grande e tortuoso edificio elisabettiano a eccezione dell'ala est, cioè quanto rimaneva della costruzione originale che risaliva al X secolo. La casa possedeva i migliori rivestimenti di quercia che avessi mai visto, ed era il luogo ideale per ambientarvi un centinaio di storie di fantasmi. Questa idea mi attraversò la mente mentre disfacevo la valigia; Owen era seduto su uno dei letti della sua immensa e allegra camera, e mi voltai verso di lui ridendo chiedendogli se avevano il fantasma di famiglia. Accennò di sì col capo. «Sì, ma per amor del cielo, non parlarne di fronte alle donne! Mia madre è piuttosto irascibile di questi tempi. Te ne parlerò più avanti se me lo ricorderai.» Quindi, cambiando argomento, mi parlò delle difficoltà che avevano avuto nell'installare l'energia elettrica in un edificio così immenso. «Ora c'è solo una parte della casa che ne è priva», concluse. «Non è molto grave, poiché nell'ala est c'è una sola camera da letto che è raramente usata. Tuttavia sarà proprio quella camera che tu occuperai, dopo questa notte, e non sarà molto confortevole vecchio mio!» «Non importa», risposi allegramente. «Non ho mai avuto il vizio di leggere a letto e, una volta addormentato, nemmeno il terremoto potrebbe svegliarmi.» Trovai la madre di Owen una deliziosa signora appartenente alla classe aristocratica. Anche la signora Dawson, sorella del mio amico, faceva parte del gruppo: subito notai la sua bellezza e vidi anche quanto fosse infelice e a disagio ogni volta che le si avvicinava suo marito, un ricco e affascinante americano. Vi era anche un'altra persona che non sembrava trovarsi a suo agio, un giovane alto e dinoccolato che vantava il nome di Mundy e che, come venni a sapere in seguito, avrebbe occupato la camera che sarebbe stata mia il giorno seguente. Non ebbi tuttavia mai occasione di parlargli prima che partisse; più tardi pensai che avrebbe potuto avere qualcosa d'interessante da dire.
2. Il giorno seguente restammo fuori a caccia fin dal primo mattino. Il cameriere di Owen portò i miei bagagli dalla camera del suo padrone al mio nuovo alloggio e, quando rientrai, lo trovai che mi aspettava per accompagnarmi. Ci voleva davvero una guida! La stanza era sistemata molto lontana dalle altre camere da letto. Per raggiungerla bisognava, percorrere tutta la galleria dei ritratti di famiglia, luogo piuttosto buio e misterioso, illuminato a intervalli da cupe lampade a olio dove i Flaxham deceduti lanciavano dall'alto uno sguardo solenne, ed enormi armature apparivano luccicanti nell'oscurità. All'estremità della galleria, pochi gradini di pietra scendevano verso un piccolo passaggio quadrato e, di fronte, una porta di quercia tutta guarnita di borchie dava accesso alla mia camera. Vedendola, capii immediatamente il disagio di Mundy: era terribilmente isolata. La camera di per sé era abbastanza confortevole: un fuoco scoppiettante ardeva nel camino e numerose candele, poste in enormi candelabri d'argento, erano accese sopra di esso e su un'antica toeletta. Le alte finestre erano guarnite con pesanti tende rosse che insieme a un tappeto cremisi e a due comode poltrone, rendevano meno triste il cupo arredamento di quercia e il grande letto a quattro colonne posto in un angolo sopra tre gradini. Congedai il cameriere, che mi sembrò molto felice di potersene andare. Quando fu sulla porta si arrestò. «Spero non avrete problemi, signore; se vi serviranno altre candele, le troverete là.» E indicò una scatola su un tavolo attaccato alla parete. Lo ringraziai e lui se ne andò; lo sentii correre lungo la galleria e non potei fare a meno di ridere per quella sua fretta nell'allontanarsi. Lasciato solo, ricordo di aver guardato il letto e di aver pensato che avrei preferito dormire su di una sedia; non ebbi tuttavia tempo per questi pensieri perché il primo gong era già suonato: velocemente mi cambiai d'abito. Quando, dopo un'altra piacevole serata, raggiunsi il mio solitario appartamento, la mezzanotte era già passata. Il fuoco ardeva ancora allegramente, le candele erano accese e Davis mi stava preparando la camera per la notte. Con mia grande sorpresa notai, su un tavolo vicino al camino, un vassoio con whisky e soda, tre o quattro riviste e il giornale della sera. «Sembra tutto preparato per una notte piacevole, Davis», osservai.
L'uomo mi spiegò, malcelando un certo senso di colpa: «Vedete, signore, è una notte molto fredda, e il signor Mundy si era lamentato del gelo della stanza; aveva detto di aver avuto difficoltà a dormire, così ho pensato che avreste gradito qualcosa da bere e uno o due libri. Desiderate altro, signore?». Risposi di no; Davis se ne andò con la stessa velocità che aveva mostrato precedentemente. Giunto alla porta si voltò, aprì la bocca come per parlare, ma immediatamente cambiò idea, mi augurò rispettosamente «buona notte», e svanì. Mentre mi spogliavo, non potei fare a meno di chiedermi quali fossero le ragioni che spingevano quell'uomo a comportarsi così stranamente, tuttavia devo dire che fino a quel momento non ero per nulla turbato. Dopo essermi messo il pigiama, mi preparai un po' di whisky e soda e ne bevvi un sorso. Presi una candela e andai a controllare il letto da vicino. Tutto sembrava perfetto: un po' alto, ma comodo, e decisi quindi di dormirci. Mentre scendevo i tre gradini, i miei occhi si posarono sul mio orologio che avevo appoggiato sulla toeletta e vidi che segnava l'una. In quell'istante un rintocco risuonò dalla torre della scuderia. Contemporaneamente accadde una cosa alquanto curiosa: sebbene non avessi più letto l'Amleto da anni, il suono di quell'orologio mi richiamò alla mente le cupe parole del vecchio poeta: L'ora delle streghe è giunta, l'ora in cui le tombe si spalancano... Mentre mi ripetevo questo verso, udii qualcuno che si avvicinava lungo la galleria. Pensai subito a Davis, quindi a Owen che stesse ritornando per continuare la nostra chiacchierata, ma il passo era troppo pesante per appartenere a quelle persone. Appoggiai la candela che tenevo in mano e rimasi immobile ad ascoltare. I passi si avvicinavano, ritmati, pesanti, finché si udì distintamente un suono metallico, proprio come se una delle armature che decoravano la galleria stesse facendo una passeggiata notturna. Fino a quel momento ero ancora abbastanza calmo e sicuro che qualche ospite, completamente folle, avesse indossato una delle armature fatta di maglia di ferro e mi volesse fare un terribile scherzo. Andai alla porta senza fare il minimo rumore, girai la chiave, e misi il catenaccio: quindi aspettai. I passi si avvicinavano con ritmo regolare; allora, quando raggiunsero i gradini e li scesero, mi accorsi che, senza rendermene conto, mi trovavo
nel mezzo della stanza. A tutt'oggi non ho alcun ricordo di essermi mosso dalla porta. Sentii come se una mano, ricoperta di maglia di ferro, battesse alla porta; le candele sopra il camino si spensero e mi trovai sdraiato per terra, il viso rivolto verso il soffitto, incapace di muovere qualsiasi parte del mio corpo, nemmeno un dito. In quello stesso istante capii che non ero più solo nella stanza. Sebbene fossi sicuro di aver chiuso la porta così che nessuno potesse entrare, lui si trovava lì, e io pure ero lì, incapace di muovermi, per nulla spaventato, ma maledettamente contrariato! Non potevo girare il capo, ma capivo che, qualunque cosa fosse entrata, si trovava ora ritta presso la porta e mi stava guardando intensamente. Quindi cominciò a muoversi lentamente nella stanza. Intuii, vagamente, che stesse muovendosi attorno lungo le pareti e che in questo suo movimento non fosse per nulla impedito dai mobili. Giacevo per terra e fantasticavo, e per quanto sforzassi i miei occhi, non riuscivo a scorgere nulla. Alla fine capii cosa stesse facendo il mio ospite. Lui si muoveva lentamente, in cerchi concentrici sempre più piccoli, e ogni volta che si avvicinava alla porta, sentivo la sua presenza farsi più vicina. Sebbene ora mi sentissi veramente turbato, avevo anche la sensazione che il mio ospite non mi fosse per nulla ostile. Poi, mentre si faceva sempre più vicino, cominciai a sudare, poiché ebbi la sensazione che mi stesse guardando fisso in volto. Trattenni il respiro, aspettandomi da un momento all'altro di essere schiacciato da un piede di metallo. Ci fu un momento in cui sembrò proprio alzarlo per quello scopo. Poi, con mio stupore, si voltò e se ne andò verso la porta. Se ne andò come era venuto: il suo rumore si allontanava sempre più lungo la galleria. Seguì quindi un silenzio profondo, come di morte; poi, con mio grande sollievo, mi accorsi che potevo muovermi. Balzai in piedi e corsi alla porta, che era ancora chiusa a chiave con il catenaccio tirato. Per la prima volta i miei nervi ebbero il sopravvento: non osai aprire la porta per seguire quell'orribile cosa sconosciuta. Non osai neppure spegnere le altre candele: mi precipitai a letto ma rimasi sveglio per un po' ad ascoltare se il mio spettrale visitatore fosse ritornato. Poi mi addormentai e fui svegliato dalla voce di Davis che mi aveva portato l'acqua per radermi.
3. Mi alzai e aprii la porta. L'uomo entrò, tirò le tende, e con uno sguardo di disapprovazione mi chiese: «Dormito bene, signore?». Nella fredda luce di quella mattina di dicembre, l'esperienza della notte precedente mi sembrò assurda e impossibile. Capii che, se ne avessi parlato, avrebbe dubitato della mia integrità mentale; quindi risposi sorridendo che avevo dormito molto bene, il che sembrò sollevarlo. Dopo aver sistemato perfettamente tutto quello che era di suo compito, mi lasciò. Dopo essermi lavato, sbarbato e vestito, gli eventi della notte precedente li avevo del tutto dimenticati. L'esperienza vissuta mi sembrava davvero incredibile e mi convincevo sempre più che la causa dell'incubo che mi aveva tormentato in quel modo era stata sicuramente un'indigestione per qualcosa che avevo mangiato. Alla fine mi sembrò così sciocca che decisi di non parlarne ad anima viva. Il mio aspetto doveva essere, tuttavia, abbastanza sgradevole, poiché la mia ospite, che pure non era nel migliore stato d'animo, lo notò immediatamente chiedendomi se avessi dormito bene e se la camera fosse stata confortevole. Intuii, in un lampo, che fosse a conoscenza della cosa: fui sul punto di chiederglielo, quando ricordai la richiesta di Owen, e mi trattenni dal parlarne. Mentre stava dando una rapida scorsa alla posta del mattino, le dissi che avevo dormito abbastanza bene, e notai in lei lo stesso sollievo che avevo visto in Davis. Owen, sua madre e io eravamo le sole persone che stavano facendo colazione; gli altri erano usciti a pattinare. Immediatamente la mia ospite passò a suo figlio una lettera, con un'occhiata alquanto preoccupata. «È di Godfrey, caro. Arriverà oggi!» Il viso di Owen si oscurò. «Vada al diavolo! Dove lo sistemerete?» La donna esitò. «Non c'è una camera libera. Mi spiace, ma dovrà dormire con te.» Owen aggrottò le sopracciglia, manifestando dissenso. «Ritengo alquanto maleducato da parte sua farsi vivo in questo modo! Poteva pensare che non ci sarebbe stato posto... mi piacerebbe mandargli un telegramma per dirgli di non venire!»
«Non vedo proprio come potremmo farlo», replicò sua madre cortesemente, sebbene non sembrasse più felice di lui dell'arrivo di quell'ospite inaspettato. Flaxham guardò la lettera che teneva fra le mani con un riso alquanto irritato. «Neppure io: quel buono a nulla non ci ha mandato il suo indirizzo!» La signora si alzò, raccogliendo tutte le lettere. «Non c'è altra scelta, quindi. Dovrà accontentarsi della sistemazione che troverà.» Detto ciò, lasciò la stanza. Flaxham resto lì, visibilmente contrariato, battendo il suo cucchiaino contro la tazzina del caffè vuota. Dopo un attimo di esitazione dissi: «Non mi sembri molto contento dell'arrivo di questo ospite, vecchio mio». «No, di certo!», mi rispose prontamente. «A dire il vero, George, è un nostro cugino che non riesco assolutamente a sopportare. Arriverà con il suo servo e un'enorme quantità di bagagli, e si comporterà come se fosse a casa sua.» Fu proprio allora che d'impulso gli chiesi: «Perché non gli diamo la mia camera? Io non ho alcun problema ad accettare un'altra sistemazione». Le parole furono pronunciate prima che le pensassi e Owen mi guardò con sollievo. «Sei veramente molto buono, George, ma mi sembra scortese spostarti ancora. Naturalmente potresti dormire ancora insieme a me; preferisco di gran lunga dividere la mia camera con te piuttosto che con Godfrey, se a te non spiace, naturalmente!» «Per nulla», lo interruppi. «Sono felicissimo: vado subito a prendere le mie cose.» Mi assicurò che Davis avrebbe pensato a tutto e andò a riferire a sua madre la nostra decisione, lasciandomi così felice della possibilità di abbandonare quella stanza così misteriosa. Cercai di calmare la mia coscienza pensando che, se anche il mio notturno visitatore fosse stato una realtà, era del tutto innocuo: irritava soltanto il sistema nervoso. Inoltre, esisteva anche la possibilità, anche se remota, che non fosse stato altro che un sogno. Per un attimo pensai di parlarne a Owen, ma subito decisi che avrebbe
solo riso delle mie preoccupazioni: quindi sentii le mie labbra sigillate da una forza più potente della semplice paura di sembrare ridicolo. 4. All'ora del tè arrivò il signor Godfrey Leyton. Era uno degli uomini più belli che avessi mai visto - spalle ampie, capelli scuri e ricci - solo le labbra erano crudeli, quasi bestiali. Non appena arrivò, andò a sedersi accanto alla signora Dawson - eravamo tutti raccolti nella grande sala dalle pareti ricoperte di quercia e Lady Flaxham ci stava servendo il tè - e si trattenne con lei per qualche tempo in intima conversazione. Apparentemente la signora Dawson sembrava a disagio, tuttavia lì vidi più di una volta scambiarsi degli sguardi su cui, se fossi stato il marito, avrei trovato da obiettare. Non potei fare a meno di domandarmi se il raffreddaménto dei rapporti fra marito e moglie avesse a che vedere con quell'attraente cugino. Quella sera, dopo cena, lasciai gli altri al loro bridge e ai loro giochi e mi ritirai nello studio, una piccola stanza accanto alla biblioteca, per scrivere una lettera che desideravo partisse con la posta del mattino seguente. Mi sentivo nervoso, giù di corda e avevo un forte mal di testa, senza dubbio a causa della terribile notte che avevo trascorso. Non desideravo nemmeno tornare con gli altri nella sala, quindi, quando ebbi finito la lettera, spensi la luce, cercai una comoda poltrona e mi sedetti per fare una tranquilla fumata. Dovevo essermi anche appisolato perché, quando mi svegliai, sebbene la stanza fosse ancora immersa nell'oscurità, percepii la presenza di altre due persone. Ero sul punto di chiedere chi ci fosse, quando una voce femminile esclamò: «Cosa volete Godfrey? Mi state rovinando! Pensate se mio marito dovesse arrivare!». «State tranquilla, non verrà nessuno se non accendiamo la luce», rispose il suo compagno; capii quindi che erano la signora Dawson e il giovane Leyton. Mi trovavo davvero in una curiosa situazione! Tutto quello che dovevano dirsi non aveva alcun interesse per me, ma la mia presenza avrebbe fatto sicuramente immaginare loro che stessi origliando. Decisi di rimanere dove mi trovavo, tappandomi le orecchie, fino al momento in cui avrebbe-
ro deciso di andarsene ma, prima che avessi il tempo di fare ciò, Leyton parlò di nuovo e il tono della sua voce mi indusse ad ascoltare. Ho sempre avuto un debole per una fanciulla in pena. «In quanto a infelicità, Cecily, voi me ne avete causata abbastanza. Sono venuto qui proprio per parlare con voi di questo.» «È stato molto scorretto da parte vostra!», lo interruppe la donna. «Sapete bene che, dal momento in cui Jack ha trovato quella vostra lettera, ha sospettato di me. Vi prego Godfrey, andate via domani! Se rimarrete, farete solo peggiorare le cose.» «È proprio per le vostre lettere che vi ho voluto incontrare, Cecily. Voi mi avete scritto chiedendomi...» «Sì, sì!», esclamò lei con impazienza. «Avete fatto quello che vi ho chiesto? Le avete stracciate?» Godfrey rispose immediatamente: «No!». A queste parole lei reagì con un breve grido di terrore. Il mascalzone sembrò prendere le sue mani per consolarla! Avrei potuto, e di buon grado, dargli un calcio. Dopo un attimo lui riprese: «Non potete pensare che mi separi facilmente da quanto mi rimane di voi; ma guardate, cara, vi prometto in buona fede di restituirvele tutte, se voi stessa verrete a prenderle». «Ma come posso?», chiese Cecily affannosamente. «Venite questa notte nella galleria dei ritratti, un'ora dopo che tutti saranno andati a dormire», rispose. «Allora ve le darò e voi potrete distruggerle. Dopodiché, giuro che me ne andrò domani, se voi ancora lo desidererete.» Subito rifiutò, istintivamente, ma intuivo dal suo tono di voce quanto fosse preoccupata di riavere quelle lettere compromettenti; poco dopo infatti promise di fare quello che lui chiedeva. Mentre stavano per lasciare la stanza, la signora Dawson si fermò per dire qualcosa che mi fece drizzare le orecchie. La sua voce era colma di terrore. «Ma io non oso venire nella galleria dei ritratti a quell'ora della notte. Oh, Godfrey, state attento! Sapete che occupate l'ultima camera, quella in fondo alla galleria?» E, mentre lui rideva apertamente, aggiunse: «Aspettate, il fantasma in armatura si aggira per il castello! Mia madre l'ha udito, e la scorsa notte l'ho udito pure io. Persino i servitori si sono lamentati di a-
ver udito strani rumori provenienti dall'ala orientale. Voi potete pure ridere, ma io ho paura». «Sciocchezze!», esclamò. «Chi crede più in queste storie di vecchie comari? Se volete le vostre lettere, dovete venire a prendervele.» Rinnovò la sua proposta con un tono molto sottomesso, e infine, con mio grande sollievo, se ne andarono: rimasi solo e mi sentii molto colpevole. Per tutta la sera fui molto preoccupato per quello che avevo udito. Intuivo, in qualche modo, che avrei dovuto avvertire Flaxham, perché capivo che non sarebbe servito a nulla parlare alla signora Dawson. Ciò che non riuscivo a capire era se lei fosse realmente innamorata di Leyton o semplicemente terrorizzata da lui, ma ero sicuro che, fino a quel momento, non era altro che un amore superficiale, anche se appassionato. Sapevo che tipo di uomo fosse Leyton, e temevo quell'appuntamento. Ma quale diritto avevo io di interferire? 5. Fu proprio a mezzanotte che tutti ci ritirammo per andare a dormire. Ricordando che la signora Dawson avrebbe dovuto avere quell'incontro un'ora dopo nella galleria dei ritratti, mi sollevò l'idea che il mio amico sconosciuto avrebbe potuto visitare Godfrey Leyton prima. Pensavo inoltre, conoscendo il suo carattere, che non avrebbe lasciato la camera prima dell'alba, e ritenevo che un improvviso e grande spavento non gli avrebbe fatto male. Né io né Flaxham avevamo sonno. Con indosso la vestaglia, ci sedemmo ai lati del camino e, dopo aver acceso le nostre pipe, iniziammo una piacevole conversazione. Chiacchieravamo dei vecchi tempi e fumavamo con soddisfazione, quando improvvisamente pensai di farmi raccontare la leggenda alla quale aveva accennato la sera del mio arrivo. Rimase in silenzio per qualche momento, poi svuotò la sua pipa della cenere, la riempì di tabacco e cominciò a parlare lentamente: «Non c'è motivo per cui non possa parlartene. Come ben sai, tutte le antiche famiglie hanno il loro fantasma, e noi Flaxham non siamo un'eccezione. Soltanto non vogliamo parlarne, perché esso riesuma storie che preferiamo dimenticare. Ben poche persone, al di fuori della famiglia, sono a conoscenza del "fantasma in armatura"». A queste parole mi raddrizzai nella poltrona. «Continua!», insistetti con curiosità..
Flaxham sorrise. «Personalmente non posso dire di prestare molta attenzione a queste cose. Prima di credere in qualcosa, devo averla vista realmente o almeno aver avuto delle prove tangibili della sua esistenza. Io non ho mai incontrato questo fantasma, eppure, anche ora, ci sono delle persone nella casa che giurano di averlo sentito. La leggenda risale ai tempi di Riccardo I, quando il castello era una fortezza normanna, e qui regnava il discendente diretto del capostipite, Sir Edward Flaxham. Tutto ciò che rimane di quell'edificio è l'ala est, dove hai dormito tu la scorsa notte. Sir Edward, così racconta la leggenda, aveva una bella figlia che lui amava con tutto il cuore, in altre parole era la pupilla dei suoi occhi. Tuttavia due cose venivano prima di lei: il suo Re e il suo onore. Era veramente un accanito sostenitore dell'onore. A un certo punto fu preso dalla mania delle Crociate e partì per la Guerra Santa, lasciando la sua adorata figlia alle cure dei servitori più fedeli, poiché la mamma era morta. Rimase lontano da casa per un lungo periodo di tempo e puoi immaginare quello che provò quando, ritornando, venne a sapere che sua figlia Edith si era uccisa con le proprie mani per non dover sopportare il disonore che un certo Cavaliere le aveva causato. Sir Edward giurò di trovare l'uomo e di vendicarsi: primo perché aveva amato sua figlia, e poi perché l'onore della famiglia lo richiedeva. Le donne dei Flaxham erano sempre state famose per la loro virtù. Dopo qualche tempo scoprì chi era il suo nemico. Catturò l'uomo e lo fece portare al castello: quindi lo rinchiuse, prigioniero, nella stanza all'estremità della galleria dei ritratti. Il pavimento, come ben sai, è di pietra spero che tu non l'abbia trovato troppo freddo, vecchio mio - e là fu incatenato saldamente. La storia racconta inoltre che, quando l'innamorato di Edith fu portato al castello, Sir Edward stava per partire di nuovo per le Crociate. La notte precedente la sua partenza visitò il prigioniero vestito di un'armatura di maglia di ferro e, girando in cerchi concentrici nella stanza, gli disse, con tutta calma, che l'avrebbe calpestato fino a ucciderlo. Non ricordo esattamente quali si dice siano state le sue parole, ma dovevano all'incirca dire che il suo bel volto aveva già causato troppo danno e che lui stesso glielo avrebbe deturpato. E così continuò a girare attorno in quella stanza immensa e quasi vuota, mentre il poveretto era incatenato al pavimento, il viso rivolto verso il soffitto, senza poter muovere un dito. I cerchi si stringevano sempre più attorno a lui e, quando il mio nobile ante-
nato raggiunse la sua vittima, alzò deliberatamente il suo piede ricoperto di ferro e lo schiacciò fino a ucciderlo.» «Santo cielo!» Questo fu tutto quello che riuscii a dire. «L'idea fu geniale, non è vero?», chiese Flaxham. «Ora è rimasta la superstizione che ogni volta che una donna della nostra famiglia si trova in pericolo, si sente camminare Sir Edward e, se riesce a raggiungere il colpevole, lo uccide così come ha fatto con il traditore di sua figlia.» «Ma», gridai con il fiato mozzo, «e questo è mai capitato? Voglio dire...» «A dire il vero», disse Owen, diventando improvvisamente serio, «la cosa buffa è che due o tre volte degli uomini sono stati trovati morti in quella stanza senza cause apparenti, e i loro volti erano irriconoscibili come se fossero stati calpestati da un piede ricoperto di ferro. L'ultima volta accadde nel XVIII secolo, quando Denis Hallam, uomo di rinomata bellezza, fu trovato là ridotto in queste condizioni. Si venne a sapere in seguito che, quella stessa notte, egli avrebbe dovuto fuggire con Lady Betty Flaxham, moglie del Baronetto che allora regnava. Si dice che i passi di Sir Edward siano stati uditi anche le notti precedenti quella in cui la vittima dormì in quella stanza. Tuttavia il fantasma colpisce solamente i traditori, o i possibili traditori, delle donne della nostra famiglia.» Non so perché non mi fosse venuto in mente prima, ma alle sue parole mi ricordai immediatamente della conversazione che avevo udito nello studio e la mia esperienza nella camera in fondo alla galleria dei ritratti acquistò un nuovo significato. Mi resi immediatamente conto che dovevo raggiungere Godfrey Leyton ad ogni costo prima che l'orologio suonasse la una per informarlo che era in pericolo di morte. Mentre ero assorto in questi pensieri, udii l'orologio fuori della porta battere la una: mi alzai di scatto e gridai afferrando il mio amico per il braccio: «Owen, per amor del cielo, vieni con me nella galleria dei ritratti, su, in fretta». Corsi verso la porta, la spalancai ma, prima che potessi uscire, Flaxham mi trattenne. Mi confessò in seguito che in quel momento aveva avuto seri dubbi sul mio equilibrio mentale. «Aspetta, vecchio mio, cosa diavolo c'è che non va?», mi disse afferrandomi un braccio come in una morsa. «Non ho tempo per darti spiegazioni, ora. Mi sento perfettamente bene.
Per amor del cielo non farmi domande: vieni con me. Leyton si trova in quella stanza ed è in pericolo, lo so.» Il tono della mia voce era così preoccupato che lo convinse. Abbandonò il mio braccio così io potei prendere un candelabro e, correndo verso il corridoio, accesi la candela. Flaxham mi seguiva da vicino insistendo perché gli fornissi qualche spiegazione. Noncurante di lui, camminavo in silenzio finché, lasciata la parte moderna della casa, raggiungemmo la scala che portava alla galleria dei ritratti. Le luci erano state spente da lungo tempo e, mentre passavo fra le austere armature, un certo disagio prese il posto della mia iniziale eccitazione. In cima alla scala mi fermai, apparentemente per riprendere fiato: Owen mi raggiunse. Nell'attimo d'attesa udii distintamente il rumore metallico dell'armatura che si perdeva nella lunga e oscura galleria di fronte a noi. 6. Per la prima volta il suono di quel passo metallico mi riempì di terrore. Era stato nella mia stanza e così vicino da potermi fare del male, ma mai aveva suscitato in me la paura che in quel momento provavo nell'udire quei passi che si allontanavano rimbombando lungo la galleria deserta. Controllando con un grande sforzo la sensazione di terrore, afferrai il mio amico e lo trascinai. «Non lo senti?», gli chiesi. Non ci fu bisogno di risposta: intravidi l'espressione del suo volto alla luce tremolante della candela che tenevo in mano. Aveva capito tutto e anche lui era ansioso di raggiungere la camera dove Leyton dormiva e dalla quale, poco prima, avevamo udito provenire il rumore dei passi del fantasma. A questo punto accadde una cosa veramente inaspettata. Come raggiungemmo i pochi scalini che portavano alla porta ricoperta di borchie, ci trovammo entrambi immobili, incapaci del più piccolo movimento. Eravamo là, senza alcun aiuto, a guardarci in volto, con la candela gocciolante in mano mentre continuavamo a sentire quel rumore nella stanza a pochi passi da noi. Sapevo che dietro quella porta sarebbe avvenuta, da un momento all'altro, una tragedia raccapricciante. Ma ero impotente; incapace di emettere un grido o di muovere un dito per impedirlo. Intanto i passi continuavano: pesantemente ritmati. Non mi aveva mai sfiorato l'idea che un fantasma potesse avere lo stesso
spaventoso effetto anche all'esterno della stanza. Restammo là immobili, credo per circa cinque minuti; il nostro cervello era l'unica parte di noi che ancora reagiva. Poi, improvvisamente, il silenzio fu rotto dall'urlo di una donna e da passi affrettati che correvano lungo la galleria. La mia impazienza mi aveva fatto dimenticare Cecily Dawson, ma capii subito che era lei che si stava avvicinando. Come ci vide là, immobili, gridò a suo fratello: «Owen, Owen, per amor del cielo, entra! Non senti? Godfrey è là dentro! Uno di voi faccia qualcosa. Oh, vi prego!». Si avvicinò a noi disperata: la sua esile figura era avvolta in un abito leggero. Come afferrò il braccio di suo fratello, la stanza piombò nel silenzio. Quasi immediatamente i passi si avvicinarono alla porta. Ebbi appena il tempo di prendere fra le braccia la ragazza svenuta e spostarmi di lato contro la parete, quando qualcosa passò accanto a me sfiorandomi: posso giurare di aver sentito contro le mie mani il freddo dell'acciaio! Quando ritornò la calma, fummo liberati dalla nostra immobilità, ma tutto accadde così rapidamente che quasi non ce ne rendemmo conto. Nel prendere fra le braccia la signora Dawson, avevo lasciato cadere la candela che si era spenta. Ora eravamo nella più completa oscurità: io tenevo fra le braccia un corpo privo di sensi, e sentivamo l'eco dei passi ritmati che si allontanavano. La stanza era lontana da tutte le altre. A un tratto sentii la mano tremante di Flaxham sul mio braccio. «Dobbiamo entrare», disse. «Lasciala qui e vieni con me.» Adagiai dolcemente il corpo sul pavimento e lo seguii. Cercò il chiavistello, lo aprì ed entrò nella stanza prima di me. Una candela ardeva sopra il camino. Si mosse per prenderla, ma inciampò in qualche cosa e, chinandosi, mi chiamò perché gli facessi luce. Ovviamente gli ubbidii. Ciò in cui aveva inciampato era il corpo di Godfrey Leyton; mi abbassai per avvicinargli la candela e vidi che giaceva supino. Il suo volto, tutto calpestato, era irriconoscibile. Spaventoso! veramente spaventoso! Nessuno, tranne Flaxham, io e il dottore di famiglia, poté mai vedere il corpo di Leyton. Si disse che era morto per collasso cardiaco.
MARY ELIZABETH BRADDON L'ombra nell'angolo Wildheath Grange era un po' arretrata rispetto alla strada, con una deserta striscia di brughiera dietro e alcuni alti abeti con le chiome scapigliate dal vento, come solo riparo. Era una casa solitaria lungo una strada solitaria, poco più di un sentiero, che conduceva attraverso una successione desolata di campi sabbiosi fino alla spiaggia, ed era una casa che godeva di cattiva fama fra i nativi del villaggio di Holcroft, che era il primo posto in cui si poteva trovare qualche esemplare della razza umana. Però era una buona, vecchia casa, costruita solidamente nei giorni in cui non vi era penuria di pietre né di legname, una buona vecchia casa di pietra grigia con tanti abbaini, profonde incassature delle finestre, e un'ampia scala, lunghi corridoi oscuri, porte nascoste negli angoli più impensati, sgabuzzini grandi come certe stanze dei nostri giorni, e cantine in cui una compagnia di soldati si sarebbe persa. Quella spaziosa, vecchia dimora, era lasciata in balia di topi e ragni, solitudine, echi, ed era occupata da tre persone anziane: Michael Bascom, i cui antenati erano stati proprietari terrieri di un certo livello nella regione, e i suoi due servitori, Daniel Skegg e sua moglie, che avevano servito il padrone di quella lugubre, vecchia casa, fin da quando aveva lasciato l'Università, dove aveva passato quindici anni della sua vita: cinque come studente e dieci come professore di scienze naturali. A trentatré anni Michael Bascom sembrava un uomo di mezza età, e a cinquantasei sembrava un vecchio anche nel modo di muoversi e di parlare. Durante quei ventitré anni aveva vissuto da solo in Wildheath Grange, e i locali si dicevano che era la casa ad averlo reso così com'era. Era senza dubbio un'idea peregrina e superstiziosa, eppure non sarebbe stato impossibile trovare una certa affinità fra il cupo edificio grigio e l'uomo che l'abitava. Sembravano ambedue egualmente distanti dalle preoccupazioni e dagli interessi normali dell'umanità; avevano ambedue un'aria di malinconia profonda, generata dalla perpetua solitudine, e avevano ambedue lo stesso colorito smorto, lo stesso aspetto di lento decadimento. Eppure, per quanto solitaria fosse la sua vita a Wildheath Grange, Michael Bascom non avrebbe mai voluto alterarne il ritmo. Era stato lieto di scambiare la relativa reclusione delle stanze del collegio per l'ininterrotta solitudine di Wildheath Grange. Era fanatico nel suo amore per la ricerca scientifica, e le sue giornate tranquille erano piene fino all'orlo di lavori
che raramente risultavano poco interessanti o soddisfacenti. C'erano periodi di depressione, rari momenti di dubbio, quando la meta per cui lottava sembrava irraggiungibile e il suo spirito si abbatteva. Fortunatamente gli succedeva di rado. Aveva una rara forza di perseveranza che avrebbe dovuto farlo arrivare ai vertici del successo, e che forse avrebbe finito per fargli guadagnare un grande nome e una fama mondiale, se non fosse stato per la catastrofe che pesò sugli ultimi anni della sua vita innocua con un rimorso invincibile. Una mattina di autunno - proprio quando si compiva il ventitreesimo anno dal suo arrivo a Wildheath, e aveva appena cominciato ad accorgersi che il suo fedele maggiordomo e cameriere personale, che era stato un uomo di mezza età quando era entrato al suo servizio, stava diventando vecchio - le meditazioni mattutine del signor Bascom sull'ultimo trattato sulla teoria atomica furono interrotte da un'improvvisa richiesta dello stesso Daniel Skegg. L'uomo di solito serviva il suo padrone nel più assoluto silenzio, e il suo improvviso scoppio di parole fu quasi altrettanto dirompente come se il busto di Socrate che stava sopra la libreria si fosse improvvisamente messo a parlare. «Non si può andare avanti così», disse Daniel. «La mia signora deve avere una ragazza.» «Una cosa?», chiese il signor Bascom, senza staccare gli occhi dalla riga che stava leggendo. «Una ragazza... una ragazza che vada in giro e lavi e aiuti la vecchia. Sta diventando debole di gambe, poveretta. Non siamo certo ringiovaniti in questi vent'anni.» «Vent'anni!», fece eco Michael Bascom con disprezzo. «Cosa sono vent'anni nella formazione di uno strato... nella crescita di una quercia... o nel raffreddamento di un vulcano?» «Non tanto, forse, ma si fanno sentire nelle ossa di un essere umano.» «Le macchie di manganese trovate su certi crani indicano con una certa sicurezza...», cominciò pensierosamente lo scienziato. «Vorrei che le mie ossa non sentissero i reumatismi come facevano vent'anni fa», continuò Daniel con pertinacia, «e forse in quel caso non farei caso a vent'anni. Comunque, per farla breve, la mia signora deve avere una ragazza. Non può continuare a trottare su e giù per questi corridoi, e stare in piedi in quella lavanderia di pietra un anno dopo l'altro, come se fosse una ragazzina. Deve avere una ragazza che l'aiuti.» «Per me può avere anche venti ragazze», disse il signor Bascom, tornan-
do al suo libro. «Che bisogno c'è di dir così, signore? Venti ragazze, eh? Ce ne vorrà per riuscire a trovarne una.» «Perché? La regione è scarsamente popolata?», chiese il signor Bascom continuando a leggere. «No, signore. Perché si sa che nella casa ci sono i fantasmi.» Michael Bascom posò il libro e rivolse uno sguardo di severo rimprovero al suo servitore. «Skegg», disse con voce severa, «pensavo che avesse vissuto con me abbastanza a lungo per essere superiore a una stupidaggine del genere.» «Non dico che io credo ai fantasmi», rispose Daniel con un'aria di scusa, «ma ci credono i locali. Non c'è anima viva che si azzarderebbe a passare la nostra porta dopo il tramonto.» «Solo perché Anthony Bascom, che aveva vissuto a Londra una vita dissoluta, e aveva perso soldi e terre, è tornato a casa con il cuore spezzato, e si pensa che si sia ucciso in questa casa... l'unico avanzo della sua bella proprietà che gli fosse rimasto.» «Si pensa che si sia ucciso!», esclamò Skegg. «Si è così sicuri che sia successo, come della morte della Regina Elisabetta o dell'incendio di Londra. Come mai non è stato seppellito al crocevia fra qui e Holcroft?» «Una semplice storia, per la quale non potreste portarmi una prova sicura», replicò il signor Bascom. «Non so niente di prove, ma i locali ci credono fermamente come al Vangelo.» «Se la loro fede nel Vangelo fosse solo un pochino più salda, non si preoccuperebbero di Anthony Bascom.» «Bene!», brontolò Daniel cominciando a sparecchiare. «Bisogna trovare comunque una ragazza, ma dovrà essere una forestiera, o una che ha proprio tanto bisogno di un posto.» Quando Daniel Skegg diceva «una forestiera», non intendeva un'indigena di qualche posto lontano, ma una ragazza che fosse nata e cresciuta a Holcroft. Daniel era stato allevato in quell'insignificante villaggio e, per quanto fosse piccolo e noioso, pensava che il mondo al di là fosse del tutto irrilevante. Michael Bascom era troppo assorto nella teoria atomica per riflettere sulle necessità di una vecchia domestica. La signora Skegg era una persona con cui lui entrava raramente in contatto. Lei viveva per la maggior parte del tempo in una regione nebulosa all'estremità settentrionale della casa,
dove regnava sulla solitudine di una cucina che sembrava una cattedrale, e numerose stanzette dove c'erano la lavanderia, la dispensa, e il retrocucina, dove portava avanti una lotta incessante con scarafaggi e ragni, e consumava la sua vecchia vita spazzando e lucidando. Era una donna dall'aspetto severo, dalla pietà dogmatica e dalla lingua sferzante. Era una cuoca di livello medio, e accudiva diligentemente alle necessità del suo padrone. Questi non era un epicureo, ma gli piaceva che la sua vita scorresse placida e tranquilla, e l'equilibrio delle sue facoltà mentali sarebbe stato sconvolto da un cattivo pranzo. Non sentì più parlare dell'aggiunta proposta alla sua casa per dieci giorni, quando Daniel Skegg lo disturbò durante il suo riposo nello studio con l'annuncio repentino: «Ho trovato una ragazza!». «Oh», disse Michael Bascom, «davvero?» E continuò a leggere. Questa volta leggeva un saggio sul fosforo e le sue funzioni in relazione al cervello umano. «Sì», continuò Daniel col solito tono brontolone, «è una ragazza abbandonata, o non sarei riuscito a convincerla. Se fosse stata del posto, non sarebbe mai venuta qui.» «Spero che sia perbene», disse Michael. «Perbene! È l'unico difetto che ha, poverina. È troppo buona per questo posto. Non è mai stata a servizio, ma dice che ha voglia di lavorare, e penso che la mia vecchia sarà capace di insegnarle. Suo padre era un piccolo negoziante di Yarmouth. È morto un mese fa, e l'ha lasciata senza casa. La signora Midge - di Holcroft - è sua zia, e ha detto alla ragazza: "Vieni a stare con me finché trovi un posto", e la ragazza è stata con la signora Midge per tre settimane, cercandosi un posto. Quando la signora Midge ha sentito che la mia signora cercava una ragazza per aiutarla, ha pensato che fosse proprio il posto adatto per sua nipote Maria. Per fortuna Maria non ha sentito niente su questa casa, così la povera innocente mi ha fatto un inchino, e ha detto che era molto contenta di venire, e che avrebbe fatto del suo meglio per imparare quello che doveva fare. Non ha avuto la vita facile con suo padre, che l'ha educata al di sopra del suo stato, da quel pazzo che era», brontolò Daniel. «Da quel che mi dite, temo che abbiate fatto un cattivo affare», disse Michael. «Non ci serve una signorina per lustrare padelle e pentole.» «Fosse anche una Duchessa, la mia vecchia la farebbe lavorare», replicò
Skegg fermamente. «E, scusate, dove metterete la ragazza?», chiese il signor Bascom, in tono alquanto irritato. «Non voglio un'estranea che corra su e giù per i corridoi davanti alla mia camera. Lei, Skegg, sa come dormo male. Un topo dietro il lavandino mi è sufficiente per non riuscire a riposare. «Ci ho pensato», rispose il maggiordomo, con un'aria di ineffabile saggezza. «Non la metterò sul suo piano. Dormirà nella mansarda.» «In che stanza?» «Quella grande a nord. È l'unico soffitto che non faccia passare l'acqua. Tanto varrebbe che dormisse in una doccia.» «La camera a nord», ripeté il signor Bascom sovrappensiero, «non è quella...?» «Certo che lo è», replicò Skegg, «ma lei non ne sa niente.» Il signor Bascom tornò ai suoi libri, e dimenticò l'orfana di Yarmouth, finché una mattina, entrando nello studio, vide con stupore una ragazza sconosciuta, con un vestitino di cotone bianco e nero, occupata a spolverare i volumi che stavano in pila sulla sua spaziosa scrivania: lo faceva con mani così abili e attente, che non si sentì incline ad arrabbiarsi per quella inaudita licenza. La signora Skegg si era religiosamente astenuta da tutto quello spolverare, con la scusa che non voleva interferire con le abitudini del padrone. Una delle abitudini del quale era stata quindi quella di inalare un buon quantitativo di polvere nel corso dei suoi studi. La ragazza era esile, con un viso pallido e un po' fuori moda, capelli color paglia, intrecciati sotto una impeccabile cuffietta di mussolina, carnagione molto chiara, e occhi azzurri chiari. Erano gli occhi azzurri più chiari che Michael Bascom aveva mai visto, ma c'era nella loro espressione tanta dolcezza e tanta gentilezza che cancellavano quell'insipido colore. «Spero che non si opporrà a che spolveri i suoi libri, signore», disse lei facendo un inchino. Parlava con una correttezza che colpì favorevolmente il signor Bascom. «No; non sono contrario alla pulizia, fintantoché i miei libri e le mie carte non sono messi in disordine. Se togli un volume dalla scrivania, rimettilo nel posto esatto da cui l'hai preso. È tutto quello che chiedo.» «Farò attenzione, signore.» «Quando sei arrivata?» «Proprio stamattina, signore.» Lo studioso sedette alla scrivania, e la ragazza si ritirò, fluttuando fuori della stanza silenziosa come un fiore spinto dal vento oltre la soglia. Mi-
chael Bascom la seguì incuriosito con lo sguardo. Aveva visto molto poca gioventù femminile nella sua carriera arida come la polvere, e considerò quella ragazza come una creatura di una specie fino ad allora sconosciuta. In che modo delicato e fatato era fatta; che pelle trasparente; che accenti dolci e piacevoli erano usciti da quelle labbra color di rosa! Proprio bellina, davvero, quella sguattera! Peccato che in quel mondo così occupato non ci fosse per lei di meglio da fare che lustrare pentole e padelle. Assorto in riflessioni, il signor Bascom non pensò più alla cameriera pallida. Non la vide più nelle sue stanze. Tutto il suo lavoro lei lo svolgeva al mattino, prima che lo studioso facesse colazione. Lei stava in casa da una settimana, quando lui la incontrò nell'atrio. Fu colpito dal suo cambiamento. Le labbra fanciullesche avevano perso il loro colore di bocciolo di rosa, i pallidi occhi azzurri avevano uno sguardo spaventato, e intorno c'erano occhiaie scure, come se passasse le notti sveglia, o fosse disturbata da brutti sogni. Michael Bascom fu così impressionato da un'espressione indefinibile sul volto della ragazza che, per riservato che fosse per carattere e per abitudine, si aprì al punto di chiederle cosa aveva. «C'è di sicuro qualcosa che non va», disse. «Di cosa si tratta?» «Nulla, signore», balbettò lei, assumendo un'aria ancor più spaventata. «Proprio niente, o niente per cui valga la pena di disturbarvi.» «Sciocchezze! Pensi forse che, siccome vivo in mezzo ai libri, non provi simpatia per i miei simili? Dimmi cosa c'è che non va, bambina. Sei addolorata per aver appena perso tuo padre, suppongo.» «No, signore, non è quello. Non smetterò mai di rimpiangerlo. È un dolore che porterò con me per tutta la vita.» «Bene: allora c'è qualcos'altro?», chiese Michael con impazienza. «Vedo che non ti trovi bene qui. Lavorare molto non ti piace. Lo sapevo.» «Oh, signore, per favore, non pensi questo», esclamò la ragazza molto seriamente. «Invece sono molto contenta di lavorare, contenta di stare a servizio; solo che...» Balbettò e si interruppe, mentre le lacrime scendevano lentamente dai suoi occhi tristi, malgrado gli sforzi che faceva per trattenerle. «Solo cosa?», gridò Michael, arrabbiato. «Questa ragazza mi sembra piena di misteri e di segreti. Cosa vuoi dire, disgraziata?» «Io... lo so che è una cosa molto sciocca, signore, ma mi fa paura la stanza dove dormo.»
«Paura! Perché?» «Devo dire la verità, signore? Mi promette che non si arrabbierà?» «Non mi arrabbierò solo se parli chiaro, ma mi provochi con questo tuo dire e non dire.» «E per favore, signore, non dica alla signora Skegg che gliel'ho detto. Mi sgriderebbe; o forse mi manderebbe via.» «La signora Skegg non ti sgriderà. Avanti, bambina.» «Forse lei non conosce la mia camera da letto, signore: è una grande stanza dall'altra parte della casa, che si affaccia sul mare. Posso vedere la linea scura dell'acqua dalla mia finestra, e certe volte penso che sia lo stesso oceano che vedevo da bambina a Yarmouth. Si è molto soli, signore, lassù in cima alla casa. I signori Skegg dormono in una stanzetta vicino alla cucina, signore, e io sto tutta sola all'ultimo piano.» «Skegg mi ha detto, Maria, che sei stata educata al di sopra della tua posizione sociale. Avrei pensato che il primo effetto di una buona educazione fosse quello di renderti superiore a tutte le sciocchezze circa le stanze vuote.» «Oh, scusi, signore, non è un difetto della mia educazione. Papà si è dato tanto da fare per me! Non ha risparmiato spese per darmi la miglior educazione che la figlia di un commerciante potesse desiderare. Ed era un uomo religioso. Lui non credeva», a questo punto fece una pausa, e soppresse un fremito, «che gli spiriti dei morti apparissero ai vivi, dai giorni dei miracoli, quando lo spirito di Samuele apparve a Saul. Non mi ha mai messo in testa delle idee così stupide, signore. Non avevo la minima paura la prima volta che mi sono coricata in quella grande stanza lassù.» «Beh, e allora?» «Ma proprio la prima notte», continuò la ragazza quasi senza fiato, «sentivo nel sonno qualcosa che mi pesava addosso come se un grosso fagotto mi stesse sul petto. Non era un brutto sogno, ma un senso di malessere che mi perseguitava nel sonno; e proprio all'alba - comincia a far chiaro un po' dopo le sei - mi sono svegliata di colpo, con la faccia coperta di sudore freddo, e sapendo che nella stanza c'era qualcosa di terribile.» «Cosa vuoi dire con qualcosa di terribile? Hai visto qualcosa?» «Non molto, signore, ma quello che ho visto mi ha gelato il sangue nelle vene, e ho capito che era quello che mi aveva perseguitato e che aveva pesato su di me durante il sonno. Nell'angolo, fra il caminetto e l'armadio, ho visto un'ombra... un'ombra vaga, senza forma...» «Prodotta, oserei dire, dall'angolo del guardaroba.»
«No, signore; potevo vedere l'ombra del guardaroba, chiara e distinta, come se fosse stata dipinta sul muro. Quest'ombra invece stava nell'angolo... un'ombra strana, senza forma. Se avesse avuto una forma, sarebbe stata...» «Cosa?», chiese Michael avidamente. «La forma di un cadavere che pendeva dal muro!» Michael Bascom impallidì, ma dimostrò ancora una certa incredulità. «Povera bambina», disse gentilmente, «sei addolorata per tuo padre, e ora i tuoi nervi sono a pezzi e hai delle fantasie strane. Un'ombra nell'angolo, davvero! All'alba ogni angolo è pieno d'ombre. La mia vecchia giacca, buttata su una sedia, sarebbe per te il miglior fantasma che potresti desiderare.» «Oh, signore, ho cercato di pensare che fosse una fantasia. Ma ho sentito lo stesso peso su di me notte dopo notte. Ho visto la stessa ombra ogni mattina.» «Ma quando c'è più luce, non puoi vedere di che cosa è fatta quell'ombra?» «No, signore; l'ombra scompare prima che sia giorno pieno.» «Naturalmente, come tutte le altre ombre. Su, su, togliti queste stupidaggini dalla testa, o non ce la farai più a lavorare di giorno. Potrei parlare con la signora Skegg, e dirle di darti un'altra camera, se volessi incoraggiarti nella tua follia. Ma sarebbe la peggior cosa che potrei fare per te. Per di più, lei mi ha detto che le altre stanze sullo stesso piano sono umide, e certo, se lei ti spostasse in una di quelle, tu scopriresti un'altra ombra in un angolo, e per soprammercato ti prenderesti i reumatismi. No, cara la mia ragazza, devi provare a te stessa quanto sei superiore per l'educazione che hai ricevuto.» «Farò del mio meglio, signore», rispose Maria docilmente, facendo un inchino. Maria tornò in cucina estremamente depressa. Conduceva una vita molto noiosa a Wildheath Grange: noiosa di giorno, e spaventosa di notte; perché il vago peso e l'ombra senza forma - che sembravano così trascurabili al vecchio studioso - erano per lei indicibilmente terrificanti. Nessuno le aveva detto che la casa era stregata, eppure, quando passava per quei corridoi echeggianti, era avvolta da una nuvola di paura. Non riceveva alcuna comprensione da Daniel Skegg e da sua moglie. Quelle due anime pie avevano deciso che la caratteristica della casa doveva esser mantenuta segreta, riguardo a Maria. Per lei, forestiera, Wildheath Grange do-
veva rimanere un edificio immacolato, non macchiato dal vapore sulfureo del mondo sotterraneo. Una ragazza volenterosa e ubbidiente era un elemento indispensabile nell'esistenza della signora Skegg: ora quella ragazza era stata trovata, e doveva esser trattenuta. Tutte le fantasie di carattere soprannaturale dovevano essere scacciate con mano ferma. «Fantasmi, proprio!», esclamò il cortese Skegg. «Leggiti la Bibbia, Maria, e non parlare più di fantasmi.» «Ci sono fantasmi anche nella Bibbia», disse Maria, rabbrividendo al ricordo di certi brani tremendi della Scrittura che conosceva molto bene. «Ah, stavano al posto loro, o non ci sarebbero stati», replicò la signora Skegg. «Spero, Maria, che non andrai cercando dei difetti nella Bibbia, alla tua età.» Maria sedette in silenzio all'angolo del focolare, e si mise a girare le pagine dell'amata Bibbia di suo padre finché giunse ai capitoli che avevano amato di più e che avevano spesso letto insieme. Lui, un ebanista di Yarmouth, era stato un uomo semplice e onesto, un uomo che aspirava a tutto ciò che è buono, ed era raffinato per natura, religioso per istinto. Lui e la figlia avevano vissuto soli insieme senza la madre, nella graziosa casetta che Maria aveva presto imparato ad amare e ad abbellire; e si erano amati a vicenda di un amore quasi romantico. Avevano avuto gli stessi gusti, le stesse idee. Poco bastava loro per essere felici. Ma la morte inesorabile aveva separato padre e figlia: una di quelle separazioni improvvise che sono come l'urto di un terremoto, ossia rovina, desolazione e disperazione istantanee. La fragile figura di Maria si era piegata sotto la tempesta. Aveva vissuto un periodo pesante che avrebbe schiacciato una natura più forte. Le sue profonde convinzioni religiose, e la certezza che quella crudele separazione non sarebbe stata eterna, l'avevano sostenuta. Fece fronte alla vita, alle sue preoccupazioni e ai suoi doveri, con una pazienza gentile che era la più nobile forma di coraggio. Michael Bascom disse a se stesso che la sciocca fantasticheria della servetta sulla camera che le era stata data non era da prendersi sul serio. Ma l'idea gli rimase in testa in modo spiacevole, e lo distraeva durante il lavoro. Le scienze esatte impegnano tutte le facoltà cerebrali, ed esigono la massima attenzione: proprio quella sera, Michael si accorse che prestava al suo lavoro solo una parte della sua attenzione. Il pallido viso e i toni tremuli della voce della ragazza si spingevano fino alla superficie dei suoi pensieri.
Chiuse il libro con un sospiro di sconforto, girò la poltrona verso il caminetto, e si abbandonò alla riflessione. Tentare di studiare mentre la mente era così disturbata era inutile. Era una sera grigia e buia, tipica dei primi di novembre; la lampada da lettura dello studio era accesa, ma le imposte non erano ancora chiuse, e le tende non erano tirate. Poteva vedere, al di là dei vetri, il cielo plumbeo e gli abeti agitati dal forte vento. Udiva il soffio invernale soffiare fra i comignoli, prima di precipitarsi verso il mare con un urlo selvaggio che sembrava un grido di guerra. Michael Bascom rabbrividì e si accostò al fuoco. «È una cosa sciocca, infantile», si disse, «ma è strano che abbia quelle idee circa l'ombra: infatti si dice che Anthony Bascom si sia ucciso in quella stanza. Mi ricordo di averlo sentito dire quando ero bambino, da un vecchio servo la cui madre era governante nella casa padronale ai tempi di Anthony. Non ho mai saputo come sia morto, poveraccio: se si è avvelenato, o se si è sparato o tagliato la gola, ma mi hanno detto che la stanza era quella. Anche il vecchio Skegg l'ha sentito dire. L'ho capito dal modo in cui mi ha detto che ci avrebbe fatto dormire la ragazza.» Rimase seduto a lungo, finché il grigio della sera fuori dalle finestre si tramutò nel nero della notte, e il grido di guerra del vento si ridusse a un sussurro lamentoso. Sedeva guardando il fuoco, e lasciava che i suoi pensieri tornassero al passato e alle storie che aveva sentito raccontare nella fanciullezza. Era una storia triste e stupida, quella del suo prozio Anthony Bascom: la storia miserabile di una fortuna e di una vita sprecate. Una carriera di collegiale ribelle a Cambridge, una scuderia da corsa a Newmarket, un matrimonio imprudente, una vita dissipata a Londra, una moglie scappata; una proprietà impegnata a degli usurai ebrei e, in ultimo, la fine fatale. Michael aveva sentito spesso quella triste storia: quando la bella e infedele moglie di Anthony Bascom lo aveva lasciato, quando il suo conto in banca si era inaridito e i suoi amici si erano stancati di lui, e non gli era rimasto niente salvo Wildheath Grange, Anthony, l'uomo di mondo fallito, era arrivato inaspettatamente una notte in quella casa solitaria, e aveva ordinato che gli si facesse il letto nella stanza in cui dormiva quando veniva per la caccia alle anitre, quando era giovane. Il suo vecchio schioppo era ancora appeso sul caminetto, dove l'aveva lasciato quando aveva ereditato la proprietà, e poteva permettersi di comprare gli ultimi modelli di fucili per la caccia alle anitre. Non era andato a Wildheath Grange per quindici anni; anzi, per la maggior parte di quegli anni aveva addirittura dimentica-
to che quella vecchia casa cadente gli apparteneva. La donna che era stata governante a Bascom Park, fino al momento in cui casa e terreni erano passati nelle mani degli ebrei, era a quel tempo l'unica abitante di Wildheath. Preparò la cena per il padrone, e fece il possibile perché si trovasse bene nella sala da pranzo che non si usava più da tanto tempo, ma rimase desolata nel constatare, quando si mise a sparecchiare dopo che lui fu salito per coricarsi, che non aveva mangiato quasi niente. L'indomani mattina preparò la colazione nella stessa camera, e si diede da fare per renderla più allegra e attraente che non la sera prima. Scope, spazzoloni e buon fuoco, fecero molto per migliorare l'aspetto delle cose. Ma la mattina giunse al mezzogiorno, e la vecchia governante attese invano il passo del suo padrone sulle scale. Mezzogiorno scivolò nel pomeriggio. Lei non aveva fatto nulla per disturbarlo, pensando che fosse molto stanco per il lungo viaggio a cavallo, e che dormisse esausto. Ma, quando il breve giorno di novembre si oscurò con le prime ombre del crepuscolo, la vecchia cominciò seriamente a preoccuparsi e salì fino alla porta del suo padrone, dove aspettò invano una risposta alle sue ripetute chiamate. La porta era chiusa dall'interno, e la governante non era abbastanza forte per sfondarla. Si precipitò al pianterreno piena di paura, e corse fuori a testa nuda nella strada deserta. Non c'era altra casa sulla vecchia carrozzabile, dalla quale partiva quella traversa verso il mare. C'era ben poca speranza che passasse qualcuno. La vecchia fece la strada di corsa, quasi inconsapevole di dove andava e di quel che faceva, ma con la vaga idea di dover trovare qualcuno che l'aiutasse. La fortuna l'assisté. Un carretto carico di alghe veniva lentamente avanti dalla linea piatta della sabbia dove la terra si confondeva con l'acqua. Un grosso contadino gli camminava pesantemente a fianco. «Per amore di Dio, venite a sfondare la porta della camera del mio padrone!», lo supplicò, afferrandolo per un braccio. «Dev'essere morto, o aver avuto un attacco, e io non riesco ad aiutarlo.» «Certo, signora», rispose l'uomo, come se un invito simile fosse cosa di tutti i giorni. «Uh, Dobbin! Fermati, cavallo, e sta' fermo.» Dobbin fu molto lieto di avere l'opportunità di gettare l'ancora sulla sparuta erba davanti al giardino della Grange. Il suo padrone seguì la governante al piano superiore, e mandò in pezzi la serratura antiquata con un colpo solo del suo pugno poderoso. I peggiori timori della vecchia si erano realizzati. Anthony Bascom era
morto. Ma il modo e la maniera della sua morte, Michael non era mai riuscito a saperli. La figlia della governante, che gli aveva raccontato la storia, era vecchia quando lui era un ragazzo. Aveva soltanto scosso la testa, e accennato a cose indicibili, quando lui aveva fatto domande troppo stringenti. Lei non aveva mai ammesso che il vecchio proprietario si fosse suicidato. Eppure la storia del suicidio era radicata nei cervelli degli abitanti di Holcroft, e c'era la credenza profonda che in certi tempi e in certe stagioni il suo spirito tornasse a Wildheath Grange. Ora Michael Bascom era un materialista convinto. Per lui l'universo, con tutti i suoi abitanti, era una grande macchina governata da leggi inesorabili. Per un uomo simile il concetto stesso di fantasma era un'assurdità, un'assurdità come il fatto che due e due facessero cinque, o che un cerchio fosse formato da una linea retta. Tuttavia provava un certo interesse dilettantesco per l'idea che esistesse un cervello che credeva nei fantasmi. Il soggetto offriva un divertente studio psicologico. Quella povera ragazza pallida, per esempio, provava evidentemente un terrore soprannaturale, che poteva esser vinto solo con un trattamento razionale. «So quel che devo fare», si disse a un tratto Michael Bascom. «Starò io in quella camera stanotte, e dimostrerò a quella sciocca che le sue idee sull'ombra non sono altro che una stupida fantasia, che viene dalla sua timidezza e dal suo morale basso. Un'oncia di prova val più di una libbra di discussione. Se riesco a provarle che ho passato la notte in quella stanza e che non ho visto nessun'ombra, capirà che stupidaggine è la superstizione.» Daniel entrò in quel momento per chiudere le imposte. «Dite a vostra moglie di prepararmi il letto nella camera dove dorme Maria, e di mettere lei in una delle camere del primo piano, Skegg», disse il signor Bascom. «Signore?» Il signor Bascom ripeté l'ordine. «Quella stupida ragazza si è lamentata con lei della stanza», esclamò Skegg indignato. «Non merita di essere ben nutrita e ben seguita in una casa comoda. Dovrebbe andare in fabbrica.» «Non ve la prendete con quella poverina, Skegg. Ha in testa delle idee storte, e io voglio dimostrarle quanto è sciocca», disse il signor Bascom. «E lei vuol dormire nella sua... in quella stanza», disse il maggiordomo. «Esattamente.» «Bene», brontolò Skegg, «se lui cammina - cosa che non credo - dopo-
tutto si tratta della sua carne e del suo sangue, e non penso che le farà del male.» Quando Daniel Skegg tornò in cucina, rimproverò aspramente la povera Maria, che sedeva pallida e silenziosa nel suo angolo vicino al focolare, rammendando le vecchie calze grigie della signora Skegg, che erano l'armatura più ruvida e dura che mai piede umano avesse rivestito. «Si è mai vista una signorina così distinta, capricciosa, delicata», chiedeva Daniel, «andare in casa di un signore e cacciarlo dalla sua stanza a dormire in soffitta, con tutte le sue sciocchezze e le sue fantasie?» Se quello era ciò che risultava dall'essere educata al di sopra del proprio stato, dichiarò Daniel, lui ara contento di non aver mai proseguito gli studi fino al punto da leggere parole di due sillabe tutte di fila. L'istruzione poteva andare a farsi friggere per quel che lo riguardava, se era questo a cui portava. «Mi dispiace», bisbigliò Maria, piangendo senza rumore sul suo lavoro. «Ma io, signor Skegg, non mi sono affatto lamentata. Il padrone mi ha fatto delle domande, e io gli ho detto la verità. Ecco tutto.» «Tutto!», esclamò adirato il signor Skegg. «Tutto! credo proprio che sia stato abbastanza.» La povera Maria rimase zitta. La sua mente, sconvolta dalla scortesia di Daniel, si era allontanata da quella cucina buia fino alla casa perduta del suo passato, il salottino confortevole dove lei e suo padre erano stati seduti accanto al fuoco in notti come quella; lei con il suo bel cestino da lavoro e il suo cucito semplice, lui con il giornale che gli piaceva leggere, il gatto favorito sul tappeto, la teiera che cantava sul fornelletto di ottone lucente, e il vassoio per il tè che ricordava il pasto più piacevole della giornata. Oh, quelle notti felici, quella cara compagnia! Erano veramente finite per sempre, non lasciando dietro di sé che cattiveria e solitudine? Michael Bascom andò a dormire più tardi del solito. Aveva l'abitudine di sedere fra i suoi libri fino a molto dopo che ogni lampada fuorché la sua non fosse stata spenta. Gli Skegg erano scomparsi nel buio e nel silenzio della loro triste camera nel seminterrato. Quella sera i suoi studi erano particolarmente interessanti, e appartenevano al tipo di lettura ricreativa piuttosto che a quello del lavoro serio. Era sprofondato nella storia del popolo misterioso che abitava i laghi della Svizzera, ed era molto attratto da certe speculazioni e teorie che lo riguardavano. Il vecchio orologio delle scale, che si caricava ogni otto giorni, suonava
le due quando Michael salì lentamente, con la candela in mano, fino alla regione ancora sconosciuta delle soffitte. In cima alla scala si trovò di fronte uno stretto corridoio buio che si dirigeva verso nord, un corridoio che bastava da solo a terrorizzare una mente superstiziosa, tanto era nero e pauroso. «Povera bambina!», rifletté il signor Bascom. «Queste soffitte sono proprio tristi, e per un cervello giovane disposto a fantasticare...» Intanto aveva aperto la porta della camera a nord, e si stava guardando intorno. Era una camera grande, con il soffitto in pendenza, basso da una parte ma molto alto dall'altra, una stanza all'antica, piena di mobili antichi grossi, pesanti, sgraziati - associati a tempi che erano passati e a persone che erano morte. Un armadio di noce gli stava proprio di fronte: un armadio con le maniglie di ottone, che luccicavano nell'ombra come occhi diabolici. C'era un alto letto a quattro colonne, tagliate da una parte per adattarlo alla pendenza del soffitto, e che di conseguenza aveva un aspetto deforme. C'era una grande scrivania di mogano, che mandava odore di segreti, delle pesanti, vecchie seggiole con i sedili impagliati, ammuffite dal tempo e molto sciupate, e un lavabo nell'angolo, con un grande catino e una piccola brocca: pezzi e relitti dei tempi passati. Tappeti non ce n'erano, salvo una stretta striscia vicino al letto. «Che camera lugubre», pensò Michael, con lo stesso tocco di pietà per la debolezza di Maria che aveva provato poco prima sul pianerottolo. A lui non importava il posto dove dormiva ma, essendo diminuito il suo interesse verso gli abitanti dei laghi svizzeri, si era in certo modo umanizzato per la leggerezza delle sue letture serotine, ed era persino incline a compatire la debolezza di una sciocchina. Si coricò, deciso a dormire come un ghiro. Il letto era comodo, ben provvisto di coperte, lussuoso più che altro, e lo studioso provava quel gradevole senso di stanchezza che promette un sonno profondo e ristoratore. Si addormentò quasi subito, ma si svegliò di colpo dieci minuti dopo. Cos'era quel senso di peso dovuto alle preoccupazioni che l'aveva svegliato - quel senso di inquietudine diffusa che pesava sul suo spirito e opprimeva il suo cuore - quell'orrore glaciale di qualche crisi terribile della sua vita attraverso cui doveva inevitabilmente passare? Per lui quelle sensazioni erano tanto nuove quanto dolorose. La sua vita era fluita come una corrente pigra e calma, non turbata nemmeno da una
piccola onda di dispiacere. Eppure, quella notte, provava tutte le fitte di un rimorso insostenibile, il ricordo angoscioso di una vita sprecata, gli stimoli dell'umiliazione e della disgrazia, la vergogna, la rovina; e infine una morte orrenda, che lui si era votato a darsi per propria mano. Quelli erano gli orrori che lo circondavano e lo opprimevano mentre era coricato nella stanza di Anthony Bascom. Sì, anche lui, l'uomo che non riconosceva nulla nella natura, o nel dio della natura, che fosse migliore o superiore a una macchina irresponsabile e invariabile soggetta a leggi meccaniche, si sentiva portato ad ammettere di trovarsi faccia a faccia con un mistero trascendentale. Quell'inquietudine che si frapponeva fra lui e il sonno, era la stessa inquietudine che aveva perseguitato Anthony Bascom l'ultima notte della sua vita. Quello aveva provato il suicida mentre giaceva in quella stanza solitaria, mentre cercava forse di riposare il cervello stanco con un ultimo sonno terreno prima di passare nello sconosciuto territorio intermedio dove tutto è tenebra e sonno. E quella mente turbata doveva aver sempre abitato la stanza da allora. Non era il fantasma del corpo dell'uomo che tornava nel luogo dove aveva sofferto ed era morto, ma il fantasma della sua mente... il suo stesso io, non un simulacro insignificante degli abiti che aveva portato, e del corpo che li aveva riempiti. Michael Bascom non era uomo da abbandonare le alte zone della filosofia scettica senza lottare. Fece del suo meglio per vincere l'oppressione che gravava sulla sua mente e sui suoi sensi. Riusciva di tanto in tanto a calmarsi e dormire, ma si svegliava sempre con gli stessi pensieri torturanti, con lo stesso rimorso perché, sebbene dicesse a se stesso che l'inquietudine non era la sua inquietudine, che nella realtà non esisteva quel peso, e che non c'era ragione per quel rimorso, quelle vivide fantasie erano dolorose come se fossero vere, e avevano una forte presa su di lui. La prima striscia di luce scivolò dalla finestra... indistinta, fredda e grigia: poi venne il crepuscolo, e lui guardò verso l'angolo fra l'armadio e la porta. Sì, ecco l'ombra. Non solo l'ombra dell'armadio - quella era ben chiara ma un qualcosa di informe e vago che oscurava il muro color marrone. Era così debole, così indistinto, che lui non riusciva a formulare alcuna ipotesi sulla sua natura o su ciò che essa raffigurava. Decise di osservare quell'ombra finché non fosse giorno fatto, ma la stanchezza della notte l'aveva esaurito e, prima che la prima debole luce dell'alba fosse svanita, era caduto addormentato, e stava gustando il benefico balsamo di un sonno in-
disturbato. Quando si svegliò, il sole invernale stava brillando sui vetri, e la stanza aveva perso il suo aspetto tetro. Sembrava fuori moda, grigia, scura e logora, ma la profondità della sua tetraggine era fuggita con le ombre e le tenebre notturne. Il signor Bascom si alzò ristorato da un sonno profondo che era durato circa tre ore. Gli tornarono in mente le sensazioni dolorose che erano scomparse dopo il sonno ristoratore, ma ricordò quelle inusuali sensazioni solo per disprezzarle, e disprezzò se stesso per aver dato loro tanta importanza. «Probabilmente si tratta di un'indigestione», si disse, «o forse solo di fantasie, provocate dalla storia di quella sciocca. I più saggi di noi sono più soggetti all'immaginazione di quanto non vogliano confessare. Beh, Maria non dormirà più in quella stanza. Non c'è nessun motivo per cui dovrebbe farlo, e non sarà infelice solo per far piacere al vecchio Skegg e a sua moglie.» Quando si fu vestito con calma, come al solito, il signor Bascom andò verso l'angolo dove aveva visto o immaginato l'ombra, e lo esaminò con cura. A prima vista non riuscì a scoprire niente di misterioso. Non c'era nessuna porta nella parete tappezzata di carta, e nessuna traccia che ci fosse stata una porta in passato. Non c'erano botole nelle assi tarlate. Non c'erano nere macchie incancellabili a indicare un delitto. Non c'era la minima allusione a un segreto o a un mistero. Alzò lo sguardo al soffitto. Era abbastanza in ordine, salvo per una macchia scura qua e là, dove la pioggia era filtrata. Sì: c'era qualcosa... una cosa insignificante, ma con una sfumatura truce che lo colpì. A circa trenta centimetri dal soffitto vide un grosso gancio di ferro che usciva dal muro, proprio sopra il punto dove aveva visto l'ombra di una forma vagamente definita. Salì su una sedia per esaminarlo meglio e per capire, se possibile, a quale scopo vi fosse stato messo. Era vecchio e rugginoso. Doveva essere lì da anni. Chi poteva avercelo messo, e perché? Non era il tipo di gancio a cui si appende un quadro o i propri vestiti. Stava in un angolo oscuro. Forse Anthony Bascom ce l'aveva messo la notte in cui era morto, o ce l'aveva trovato già pronto per l'uso fatale? «Se fossi superstizioso», pensò Michael, «sarei portato a pensare che
Anthony Bascom si è impiccato a quel gancio rugginoso.» «Ha dormito bene, signore?», chiese Daniel, mentre serviva la colazione al padrone. «Benissimo», rispose Michael, deciso a non dare soddisfazione alla curiosità del vecchio. Gli aveva sempre dato fastidio l'idea che Wildheath Grange fosse infestata dai fantasmi. «Davvero, signore. Si è alzato così tardi che pensavo...» «Tardi, sì! Ho dormito così bene che ho passato la solita ora del mio risveglio. Però, già che ci siamo, Skegg, visto che quella povera ragazza non si trova bene in quella camera, mettetela a dormire da un'altra parte. Non fa differenza per noi, ma può farne molta per lei.» «Uhm!», brontolò Daniel nel suo solito modo. «Lei non ha visto niente di strano lassù, vero?» «Visto niente? No, certo che no.» «Beh, allora, perché dovrebbe vedere qualcosa lei? Sono tutte stupidaggini.» «Non importa, mettetela a dormire in un'altra stanza.» «Non c'è nessuna stanza in quel piano che sia asciutta.» «Allora mettetela a dormire al piano di sotto. Va in giro così silenziosa, poverina. Non mi disturberà.» Daniel brontolò qualcosa e il suo padrone lo interpretò come un consenso obbediente, ma il signor Bascom si sbagliava. L'ostinazione proverbiale dei suini è nulla in confronto con l'ostinazione di un vecchio di cattivo carattere, la cui mente ristretta non è mai stata illuminata dall'istruzione. Daniel cominciava ad essere geloso dell'interesse compassionevole del suo padrone verso l'orfana. Lei era un tipo dolce e insinuante che poteva facilmente farsi strada nel cuore di uno scapolo anziano senza che lui se ne accorgesse, e farcisi un nido confortevole. «Ne vedremo delle belle, e io e la mia vecchia finiremo male, se non mi oppongo fermamente a queste sciocchezze», brontolò Daniel fra sé, mentre portava in cucina il vassoio della colazione. Maria lo incontrò nel corridoio. «Ebbene, signor Skegg, cos'ha detto il padrone?», chiese a bassa voce. «Ha visto qualcosa di strano nella camera?» «No, ragazza. Cosa avrebbe dovuto vedere? Ha detto che sei una stupida.»
«Niente lo ha disturbato? Ha dormito tranquillo?», mormorò Maria. «Mai dormito meglio in tutta la sua vita. Ora non cominci a vergognarti di te stessa?» «Sì», rispose lei mitemente, «mi vergogno di avere fatto tante storie. Tornerò in camera mia stanotte, signor Skegg, se lei vuole, e non mi lamenterò mai più.» «Lo spero bene!», disse Skegg acidamente. «Ci hai dato già abbastanza seccature.» Maria sospirò e si mise a lavorare triste e silenziosa. Il giorno passò lentamente, come tutti gli altri giorni in quella casa senza vita. Lo studioso stava nel suo studio, e Maria si spostava senza rumore da una stanza all'altra, spazzando e spolverando nella triste solitudine. Il sole si stinse nel grigiore del pomeriggio, e la sera venne come una maledizione sulla vecchia casa uggiosa. Per tutto il giorno Maria e il padrone non si incontrarono. Chiunque si fosse interessato alla ragazza al punto di osservarne l'aspetto, avrebbe visto che era insolitamente pallida, e che i suoi occhi avevano uno sguardo risoluto, come quello di chi è deciso ad affrontare una prova dolorosa. Non mangiò quasi niente tutto il giorno. Era stranamente silenziosa. Skegg e sua moglie interpretarono quei sintomi come malumore. «Non vuol mangiare né parlare», disse Daniel alla compagna delle sue gioie. «Questo significa tenere il broncio, e non ho mai lasciato che il broncio avesse la meglio su di me quando ero giovane, per cui non mi lascerò vincere dal broncio ora che sono vecchio.» Venne l'ora di coricarsi, e Maria diede gentilmente la buona notte agli Skegg, e si ritirò nella sua soffitta solitaria senza dir parola. La mattina dopo giunse, e la signora Skegg cercò invano la sua paziente sguattera, quando le servì l'aiuto di Maria per preparare la colazione. «Quella dorme sodo stamattina», disse la vecchia. «Va' a chiamarla, Daniel. Le mie povere gambe non possono fare le scale.» «Le tue povere gambe stanno diventando un po' troppo inutili», brontolò Daniel di cattivo umore, mentre ubbidiva alla richiesta di sua moglie. Picchiò alla porta e chiamò Maria: una, due, tre, molte volte, ma non ebbe risposta. Provò ad aprire la porta, e si accorse che era chiusa a chiave. La scosse con violenza, gelato dalla paura. Poi si disse che la ragazza si stava burlando di lui. Se ne doveva essere andata prima dell'alba, e aveva lasciato la porta chiusa per spaventarlo. Ma no: non poteva esser così perché, quando si inginocchiò e guardò dal buco
della serratura, vide che la chiave c'era e gli impediva di vedere all'interno della stanza. «È là dentro, che ride di me sotto i baffi», si disse, «ma presto saremo pari.» C'era una grossa sbarra sulla scala, che serviva a chiudere le imposte della finestra che dava luce alle scale. Era staccata, e stava sempre in un angolo vicino alla finestra, perché ci se ne serviva di rado. Daniel corse sul pianerottolo e afferrò la massiccia sbarra di ferro, poi tornò di corsa alla porta della soffitta. Un solo colpo della pesante sbarra fece a pezzi il vecchio lucchetto, quello stesso che il carrettiere aveva rotto con un pugno settant'anni prima. La porta si spalancò e Daniel entrò nella soffitta che aveva scelto come camera da letto per la forestiera. Maria pendeva dal gancio del muro. Era riuscita a coprirsi decentemente la faccia con un fazzoletto. Si era deliberatamente impiccata un'ora prima che Daniel la trovasse, nella grigia luce dell'alba. Il dottore, chiamato da Holcroft, poté stabilire l'ora in cui si era uccisa, ma nessuno poté dire quale improvviso accesso di terrore l'avesse spinta a quel gesto disperato, o a quale lenta tortura nervosa avesse ceduto la sua mente. La giuria del Coroner emise il solito pietoso verdetto di «insanità temporanea». Il destino malinconico della ragazza oscurò il resto della vita di Michael Bascom. Fuggì da Wildheath Grange come da un luogo maledetto, e dagli Skegg come dagli assassini di una ragazza innocente. Terminò i suoi giorni a Oxford, dove aveva trovato la compagnia di menti congeniali e i libri che amava. Ma il ricordo del triste viso di Maria, e della sua morte ancor più triste, fu per lui un dolore inestinguibile. Da quella profonda ombra la sua mente non uscì mai più. FRANCIS MARION CRAWFORD Il fantasma della bambola Fu un terribile incidente, e per un attimo l'ottima organizzazione di Cranston House s'interruppe e calò un profondo silenzio. Il maggiordomo apparve dalla stanza isolata nella quale stava trascorrendo il suo periodo di riposo, e due camerieri spuntarono contemporaneamente da opposte direzioni. C'erano tutti i domestici sullo scalone, e quelli che ricordavano gli avvenimenti con maggior esattezza asserirono che la signora Pringler si trovava proprio sul pianerottolo. La signora Pringler era la governante. Per
quanto riguarda la bambinaia, l'aiuto-bambinaia e una terza cameriera addetta alla nursery, i loro sentimenti non possono essere descritti. Lady Gwendolen Lancaster-Douglas-Scroop, la figlia più giovane del nono Duca di Cranston, che aveva sei anni e tre mesi, si alzò da sola e rimase seduta sul terzo scalino della grande scala di Cranston House. «Oh!», esclamò il maggiordomo, e scomparve di nuovo. «Ah!», risposero i camerieri, e pure loro si allontanarono. «Si tratta solo di quella bambola», dichiarò la signora Pringler in tono di disprezzo, e le sue parole furono intese da tutti. L'aiuto-bambinaia la sentì chiaramente. Poi le tre bambinaie circondarono Lady Gwendolen, l'accarezzarono, le diedero qualche caramella estratta dalle tasche e corsero con lei fuori da Cranston House, il più in fretta possibile, per impedire che là dentro scoprissero che avevano permesso a Lady Gwendolen Lancaster-Douglas-Scroop di cadere dallo scalone con la bambola fra le braccia. E poiché la bambola era rotta in modo grave, l'aiuto-bambinaia l'avvolse nel piccolo mantello di Lady Gwendolen. La casa non era lontana da Hyde Park e, quando raggiunsero un posto tranquillo, si preoccuparono immediatamente di controllare che Lady Gwendolen non avesse ammaccature. La passatoia era molto alta e soffice e aveva anche una spessa imbottitura che la rendeva ancora più morbida. Qualche volta Lady Gwendolen Lancaster-Douglas-Scroop strillava, ma non piangeva mai. Era stato proprio perché aveva strillato, che la bambinaia le aveva permesso di scendere da sola le scale con Nina, la bambola, sotto un braccio, reggendosi con l'altra mano alla balaustra, camminando con passo leggero sui lucidi gradini di marmo oltre il margine della passatoia. Così era caduta e Nina si era rotta in modo grave... Il signor Bernard Plucker e la sua figlioletta vivevano in una piccola casa, in un vialetto di fianco a una strada tranquilla, non molto distante da Belgrave Square. Lui era un abile riparatore di bambole e svolgeva la sua professione nei quartieri più aristocratici. Aggiustava bambole di tutte le grandezze ed epoche, bambole maschili e femminili, bambole piccole con abiti lunghi e bambole grandi con vestiti alla moda, bambole che parlavano e bambole mute, bambole che chiudevano gli occhi quando venivano appoggiate e bambole a cui si potevano chiudere grazie a un meccanismo nascosto. Sua figlia Elsa aveva poco più di dodici anni, ma era già molto esperta e sapeva aggiustare i vestiti delle bambole e sistemare i loro capelli, un'attività che è molto più faticosa di quanto non si possa credere, anche se le
bambole se ne restano tranquille mentre il lavoro viene svolto. Il signor Puckler era di origine tedesca, ma aveva rinunciato alla sua nazionalità nell'oceano di Londra, molti anni prima, come del resto molti altri immigrati. Aveva ancora uno o due amici tedeschi, comunque, che venivano a trovarlo il sabato sera, per fare una fumata insieme e giocare a carte pochi centesimi. Lo chiamavano «Signor Dottore», e questo sembrava piacere molto al signor Puckler. Sembrava più anziano, poiché aveva una barba lunga e incolta, i capelli brizzolati e sottili, e inoltre portava occhiali con una montatura d'osso. Per quanto riguarda Elsa, era una ragazzina magra e pallida, molto tranquilla e a modo, con occhi scuri e capelli castani che le scendevano sulle spalle trattenuti da un pezzetto di nastro nero. Aggiustava gli abiti delle bambole e le riportava ai loro proprietari quando erano rimesse completamente a nuovo. La casa era piccola, ma sufficientemente spaziosa per le due persone che vi abitavano. C'era un piccolo salotto che dava sulla strada, il laboratorio era sul retro e al primo piano si trovavano altre tre stanze. Ma il padre e la figlia trascorrevano la maggior parte del tempo nel laboratorio, perché di solito lavoravano anche di sera. Il signor Puckler appoggiò Nina sul tavolo e l'esaminò a lungo, fino a quando le lacrime non cominciarono a inondare i suoi occhi nascosti dagli occhiali con la montatura d'osso. Era un uomo molto sensibile, e spesso si innamorava delle bambole che riparava e trovava molto difficile separarsi da loro quando gli avevano sorriso anche solo per pochi giorni. Per lui erano piccoli esseri viventi, con un carattere preciso, pensieri e sentimenti, ed era sempre molto delicato nel trattarle. Qualcosa lo attraeva in particolar modo fin dall'inizio e, quando le bambole venivano portate da lui mutilate e ferite, la loro condizione gli sembrava così dolorosa che facilmente si commuoveva. Bisogna ricordare che aveva trascorso gran parte della vita in mezzo alle bambole e che le capiva profondamente. «Come possiamo sapere con certezza che non sentano niente?», continuava a ripetere a Elsa. «Devi essere delicata con loro. A noi non costa nulla essere gentili con questi piccoli esseri, ma forse per loro il nostro atteggiamento può creare qualche differenza.» Ed Elsa lo capiva: anche se era una bambina, sapeva di rappresentare per lui qualcosa di più importante di tutte le bambole. Il signor Puckler si innamorò di Nina al primo sguardo, forse perché i suoi begli occhi marroni di vetro assomigliavano un po' a quelli di Elsa, e
lui amava Elsa profondamente, con tutto il suo cuore. E inoltre si trattava di un caso particolarmente pietoso. Nina chiaramente non era da molto tempo al mondo, perché il suo stato di conservazione generale era perfetto, i suoi capelli erano completamente lisci dove dovevano esserlo, e arricciati dove dovevano essere arricciati, e i vestitini di seta erano del tutto nuovi. Ma sul viso c'era quello sfregio spaventoso, come un taglio di sciabola, profondo e indistinto al centro, ma chiaro e netto agli angoli. Quando esercitò una leggera pressione sulla testa della bambola per chiudere la ferita aperta, i due lembi emisero un sottile suono stridente, doloroso da sentire, e le ciglia degli occhi scuri palpitarono e tremarono come se Nina soffrisse terribilmente. «Povera Nina!», esclamò addolorato. «Ma non ti farò molto male, anche se ci vorrà un po' di tempo per farti guarire completamente.» Chiedeva sempre il nome delle bambole rotte che gli venivano portate e qualche volta i suoi clienti sapevano come i bambini le chiamavano e glielo dicevano. Il nome «Nina» gli piaceva molto. Nell'insieme e nei particolari Nina gli piaceva più di tutte le altre bambole che aveva curato nel corso degli anni: si sentì attratto da lei e decise di farla tornare perfettamente sana, senza preoccuparsi della fatica che gli sarebbe costato quel compito. Il signor Puckler lavorò pazientemente poco alla volta, mentre Elsa l'osservava. Non poteva fare nulla per la povera Nina, perché i suoi vestiti non avevano bisogno di riparazioni. Più a lungo il dottore lavorava, e più profondamente si sentiva attratto dai capelli biondi e dagli scuri occhi di vetro di Nina. A volte si dimenticava di tutte le altre bambole che doveva riparare, che giacevano una di fianco all'altra su uno scaffale, e stava seduto per ore ad ammirare il volto di Nina, mentre si sforzava di inventare qualche tecnica nuova capace di nascondere anche la minima traccia del terribile incidente. Ormai era perfettamente riparata. Lui stesso fu costretto ad ammetterlo; ma la cicatrice era ancora visibile ai suoi occhi acuti, una sottile linea che attraversava la faccia, scendendo verso il mento da destra a sinistra. Del resto le condizioni erano state le più favorevoli per una cura, dato che il cemento si era solidificato al primo tentativo e il tempo era stato bello e asciutto, fattori questi che consentono di lavorare in modo ottimale in un ospedale di bambole. Alla fine dovette ammettere che non avrebbe potuto fare più nulla, e l'aiuto-bambinaia era venuta già due volte per controllare se il lavoro era finito, come si esprimeva grossolanamente la ragazza.
«Nina non è ancora sufficientemente in forze», aveva risposto il signor Puckler ogni volta, dato che non riusciva a rassegnarsi all'inevitabile separazione. E ora stava seduto davanti al tavolo quadrato di legno d'abete al quale lavorava e Nina giaceva davanti a lui per l'ultima volta, con una grande scatola di cartone marrone accanto. Sembrava una bara pronta ad accoglierla, pensò. Doveva metterla nella scatola, appoggiare della carta di protezione sul suo caro viso e poi mettere il coperchio, e al pensiero di dover legare lo spago gli occhi gli si riempirono nuovamente di lacrime. Non avrebbe più potuto affondare il suo sguardo nella vitrea profondità dei bellissimi occhi marroni e non avrebbe più sentito la voce leggermente inespressiva chiamare «Pa-pà» e «Mam-ma». Era un momento molto doloroso. Sperando inutilmente di guadagnare un po' di tempo prima della separazione, sollevò le piccole bottiglie appiccicose di cemento, colla, gomma e vernici, guardandole una a una, prima di fissare nuovamente il volto di Nina. La bambola era abbastanza forte adesso, e in un paese dove non c'era nessun bambino tanto crudele da poterle fare ancora del male, avrebbe potuto vivere ancora per cento anni, con solo quella piccola linea quasi completamente impercettibile che le attraversava il viso, e avrebbe potuto raccontare dell'incidente spaventoso che le era accaduto sui gradini di marmo di Cranston House. Improvvisamente il cuore del signor Pucker fu ricolmo di dolore, ed egli si alzò dalla sedia di scatto, girandosi. «Elsa», mormorò con indecisione, «devi farlo per me. Non posso sopportare di rinchiuderla nella scatola.» Quindi si allontanò e restò in piedi vicino alla finestra senza girarsi, mentre Elsa svolgeva il lavoro che il padre non aveva l'animo di portare a termine. «Hai finito?», chiese senza voltarsi. «Allora portala via, mia cara. Mettiti il cappello e consegnala a Cranston House in fretta, e quando sarai uscita io mi girerò.» Elsa era abituata ai modi eccentrici con cui il padre trattava le bambole, e anche se non l'aveva visto mai tanto commosso per una separazione, non era particolarmente sorpresa dal suo comportamento. «Torna indietro in fretta», le chiese, quando sentì che la figlia appoggiava la mano sul chiavistello. «Si sta facendo tardi e forse non dovrei mandarti a quest'ora. Ma non posso sopportare di guardarla di nuovo.»
Quando Elsa fu uscita, si allontanò dalla finestra e si sedette di nuovo al suo posto davanti al tavolo, ad aspettare che la figlia tornasse. Toccò con delicatezza il posto dove Nina era stata sdraiata e si ricordò del viso rosato dalle sfumature delicate, degli scuri occhi di vetro, dei capelli biondi coi bei riccioli, tanto che gli sembrò di poterli vedere di nuovo. Le serate erano diventate lunghe, poiché era ormai primavera inoltrata. Ma ormai si era fatto buio e il signor Puckler si chiese come mai Elsa non fosse ancora rientrata. Era uscita ormai da un'ora e mezza ed era passato più tempo di quanto ci sarebbe voluto, perché c'era poco più di mezzo miglio da Belgrave Square a Cranston House. Pensò che forse sua figlia era stata trattenuta ma, mentre l'oscurità si faceva più profonda, cominciò a diventare ansioso e a camminare avanti e indietro nello stretto laboratorio, non pensando più a Nina, ma a Elsa, la sua bambina, che amava profondamente. Una sensazione indefinibile e densa d'angoscia lo sommerse lentamente, un brivido freddo e incerto percorse i suoi sottili capelli, unito al desiderio di essere in compagnia di qualcuno invece di restare da solo ancora a lungo. Era l'inizio della paura. Disse a se stesso in modo deciso, usando termini inglesi e tedeschi, che era un vecchio pazzo, e cominciò a cercare i fiammiferi al buio. Sapeva esattamente dove dovevano trovarsi, dato che li teneva sempre allo stesso posto, vicino alla piccola scatola di latta che conteneva pezzetti di ceralacca di vari colori, utili per qualche tipo di riparazione. Ma stranamente non gli riuscì di trovare i fiammiferi nel buio. Doveva essere successo qualcosa a Elsa, ne era sicuro, e mentre la sua paura cresceva, pensò che forse avrebbe potuto calmarsi se fosse riuscito ad accendere una luce per vedere che ora fosse. Poi si diede nuovamente del vecchio pazzo a voce alta, e il suono della sua stessa voce lo fece trasalire nel buio. Non riuscì ancora a trovare i fiammiferi. Dalla finestra proveniva un leggero chiarore; avrebbe potuto vedere prima che ore fossero, se si fosse avvicinato, e poi avrebbe cercato di prendere i fiammiferi dalla credenza. Si allontanò dal tavolo, per evitare di inciampare nella sedia e cominciò a camminare sul pavimento di assi. Qualcosa lo stava seguendo nelle tenebre. C'era un leggero scalpiccio, come di minuscoli passi sul legno. Si fermò per ascoltare meglio, sentendo le radici dei capelli che fremevano. Non era nulla ed egli era solo un vecchio pazzo. Fece ancora due passi e fu sicuro di aver sentito nuovamente il leggero scalpiccio. Girò la schiena verso la finestra, appoggiandosi al tela-
io tanto che i vetri cominciarono a scricchiolare, e si trovò di fronte l'oscurità. Tutto era immobile e nell'aria come sempre si sentivano gli odori di colla, cemento e limatura di legno. «Sei tu Elsa?», chiese e si stupì per la paura che sentì tremare nella sua voce. Non ci fu nessuna risposta nella stanza e allora sollevò l'orologio e cercò di vedere che ore fossero alla grigia foschia esterna, dato che non era ancora buio completo. Per quanto poté vedere, mancavano due o tre minuti alle dieci. Era rimasto solo molto a lungo. Era preoccupato e spaventato per Elsa, in giro per Londra a un'ora così tarda, e perciò attraversò la stanza di corsa diretto alla porta. Mentre muoveva le mani nervosamente sul chiavistello, udì distintamente dei piccoli passi dietro di lui avanzare di corsa. «Il gatto», esclamò con voce flebile nel medesimo istante in cui aprì la porta. La richiuse in fretta alle sue spalle ed ebbe l'impressione che qualcosa di freddo gli fosse salito sulla schiena e stesse dimenandosi sopra di lui. Il corridoio era completamente buio, ma trovò il cappello e in un attimo fu fuori lungo il vialetto, respirando più liberamente, sorpreso per il chiarore che c'era ancora all'esterno. Poteva vedere chiaramente il selciato sotto i suoi piedi, e lontano, nella strada a cui conduceva il vialetto, poteva sentire le risate e le voci dei bambini che stavano giocando fuori dalle case. Si stupì di essere stato tanto nervoso e per un attimo pensò di rientrare in casa e di attendere tranquillamente Elsa. Ma all'improvviso sentì quel brivido nervoso di terrore che lo assaliva nuovamente. In ogni caso era meglio andare fino a Cranston House a chiedere notizie della bambina alla servitù. Forse qualche cameriera aveva provato della simpatia per Elsa e le aveva offerto del tè con dei dolci. Si incamminò velocemente verso Belgrave Square e poi lungo gli ampi viali, cercando di percepire mentre proseguiva il rumore di piccoli passi alle sue spalle. Ma non sentì nulla, e stava ridendo di se stesso quando suonò alla porta di servizio della grande casa. Certamente la bambina si trovava ancora lì. La persona che venne alla porta era certamente un membro della servitù... dato che aveva aperto la porta del retro... ma assunse un atteggiamento di superiorità, fissando il signor Puckler con arroganza. Non aveva visto nessuna bambina e non sapeva «nulla di nessuna bambola».
«Si tratta della mia bambina», spiegò il signor Puckler timidamente, sentendosi nuovamente sommerso dall'angoscia, «e ho paura che possa esserle successo qualcosa.» Il cameriere chiarì in modo brusco che «nulla sarebbe potuto succedere alla bambina in quella casa, dato che non era mai stata lì, e questa sembrava una ragione più che logica»; il signor Puckler fu costretto ad ammettere che quell'uomo doveva avere ragione poiché era suo compito aprire la porta e far entrare i visitatori. Chiese di poter parlare con l'aiuto-bambinaia, che lo conosceva; ma l'uomo fu ancora più brusco di prima e alla fine gli chiuse la porta in faccia. Quando il dottore delle bambole si ritrovò di nuovo da solo nella strada, si appoggiò alla ringhiera, poiché si sentiva come spezzato in due, proprio come si rompe qualche bambola, esattamente nel mezzo del torace. Fu subito consapevole di dover fare qualcosa per ritrovare Elsa e questo gli diede nuova forza. Cominciò a camminare il più rapidamente possibile nelle strade, seguendo tutte le vie principali e quelle secondarie che la figlia avrebbe potuto percorrere nel suo vagabondare. Chiese anche inutilmente a diversi poliziotti se l'avessero vista, e quasi tutti gli risposero gentilmente, perché si accorgevano che era una persona equilibrata, completamente consapevole, e perché qualcuno di loro aveva a sua volta dei figli. Era ormai l'una del mattino successivo quando arrivò davanti alla porta della sua abitazione, sfinito, privo di speranza, col cuore a pezzi. Mentre girava la chiave nella serratura il cuore gli si fermò perché, anche se era completamente sveglio e non sognava, sentì nuovamente quei piccoli passi che gli venivano incontro dall'interno della casa lungo il corridoio. Ma era troppo infelice per provare di nuovo terrore, e il suo cuore riprese a battere con un profondo, cupo dolore, che a ogni attimo lo sommergeva. Entrò, appese il cappello nel buio e trovò i fiammiferi sulla credenza e la candela al suo posto nell'angolo. Il signor Puckler era così sopraffatto dal dolore e completamente esausto che si sedette sulla sedia davanti al tavolo da lavoro, quasi privo di conoscenza, e si lasciò cadere in avanti sulle mani incrociate. Davanti a lui la candela bruciava in modo regolare, con una piccola fiamma che si levava alta nell'aria immobile. «Elsa! Elsa!», gemeva contro le nocche ingiallite. Era tutto quello che riusciva a dire, e non gli procurava alcun sollievo. Al contrario, il suono di quel nome costituiva un nuovo e acuto dolore, che colpiva le sue orecchie, la sua mente e la profondità della sua anima. Ogni volta che ripeteva il
nome della figlia pensava che forse era morta, scomparsa da qualche parte nelle strade di Londra, al buio. Era così profondamente addolorato che non sentì nemmeno qualcosa che toccava con delicatezza l'orlo della sua vecchia giacca, così gentilmente che avrebbe potuto essere benissimo un topolino che mordicchiava la stoffa. E infatti, qualora se ne fosse accorto, avrebbe certamente pensato che si trattasse proprio di un topo. «Elsa! Elsa!», gemeva, chino sulle mani. Poi un brivido freddo colpì i suoi capelli sottili e la piccola fiamma della candela si trasformò in un minuscolo lumicino, che non ondeggiava come se qualcuno cercasse di spegnerlo, ma che diminuiva lentamente come se fosse stanco morto. Il signor Puckler sentì le mani rabbrividire per il terrore sotto il suo viso; e c'era un debole rumore frusciante, come quello prodotto dalla seta agitata dal vento. Si mise a sedere perfettamente diritto, rigido e spaventato, e una sottile voce inespressiva parlò nel silenzio. «Pa-pà», disse la voce, con una breve pausa fra le due sillabe. Il signor Puckler si alzò in piedi con un balzo e la sedia cadde all'indietro, sul pavimento di legno, con un rumore molto intenso. La candela era quasi completamente spenta. Era la voce da bambola di Nina che aveva parlato, e lui avrebbe potuto riconoscerla fra le voci di cento altre bambole. Inoltre c'era qualcosa di nuovo in quella voce, un leggero timbro umano che esprimeva una richiesta di compassione e di aiuto, e il gemito di un bambino ferito. Il signor Puckler stava in piedi, irrigidito e teso, cercando di guardarsi intorno, ma per il momento non ci riusciva, perché sembrava completamente gelato dalla testa ai piedi. Poi fece uno sforzo immane e sollevò una mano alla tempia, imprimendo una leggera pressione alla testa, come avrebbe fatto con quella di una bambola. Dalla candela emanava una luce così tenue, che avrebbe anche potuto essere spenta, perché non diffondeva nessuna luce e la stanza era completamente al buio. Poi vide qualcosa. Non avrebbe mai creduto di poter provare il profondo terrore che sentiva in quel momento. Ma era terrorizzato e le ginocchia gli tremavano, mentre osservava la bambola in piedi in mezzo al pavimento della stanza, splendente di una luminosità spettrale appena percettibile, con i bellissimi, vitrei occhi scuri fissi nei suoi. E sul suo viso la sottile linea di rottura brillava come se fosse illuminata da un piccolo punto di una fiamma bianca. Inoltre c'era anche qualcosa di più profondo nei suoi occhi; c'era un'e-
spressione umana, come se fossero quelli di Elsa, ma come se solo la bambola potesse vederlo e non invece Elsa. E vi scorse un'espressione così simile a quella della figlia, che provò nuovamente un immenso dolore e dimenticò la paura. «Elsa! Mia cara Elsa!», gridò. Il piccolo fantasma si mosse e le braccia della bambola si sollevarono e ricaddero con un movimento meccanico e rigido. «Pa-pà», disse di nuovo. Questa volta il signor Puckler ebbe l'impressione che la voce di Nina assomigliasse ancora di più al timbro vocale di Elsa, che risuonava come un'eco fra le tonalità inespressive, arrivando alle sue orecchie in modo molto distinto, anche se lontano. Elsa lo stava chiamando, ne era certo. Nella penombra il volto del signor Puckler era completamente pallido, ma le ginocchia non gli tremavano più e sentì di essere meno spaventato. «Sì, bambina mia! Ma dove? Dove?», chiese. «Dove sei Elsa?» «Pa-pà!» Le sillabe si spensero nella quiete della stanza. Si sentiva ancora un leggero fruscio di seta. Gli occhi scuri di vetro si volsero lentamente altrove, e il signor Puckler udì lo scalpiccio dei piccoli piedi nelle scarpette di capretto marrone, mentre la figuretta correva diritta verso la porta. Allora la fiamma della candela divenne più forte, la stanza fu nuovamente illuminata e il signor Puckler si ritrovò ancora solo. Si passò le mani sugli occhi e si guardò intorno. Adesso poteva capire ogni cosa con maggior chiarezza e pensò che doveva aver sognato, anche se era in piedi e non seduto, come si sarebbe dovuto trovare se si fosse appena risvegliato. La candela mandava una luce ancora brillante. C'erano le bambole che dovevano essere riparate, disposte in fila sullo scaffale con i piedi rivolti verso l'alto. La terza aveva perso la scarpina destra ed Elsa ne stava confezionando una. Lo sapeva che ora non stava sicuramente sognando. Ma non stava sognando nemmeno quando era tornato dalla sua ricerca infruttuosa e aveva udito i passi della bambola correre verso la porta. Non si era addormentato sulla sedia. Come avrebbe potuto addormentarsi, con il cuore spezzato? Era rimasto perfettamente sveglio tutto il tempo. Cercò di ritrovare un po' di calma, rimise a posto la sedia che aveva fatto cadere, e disse a se stesso di nuovo con enfasi che era un vecchio pazzo. Avrebbe dovuto essere in giro per le strade a cercare la sua bambina, facendo domande e ricerche alle centrali di polizia, dove arrivano le notizie di tutti gli incidenti non appena si verificano, o presso gli ospedali.
«Pa-pà!» Il grido inespressivo, carico però di impazienza e di lamento, si levò nel corridoio, fuori dalla porta, e il signor Puckler si fermò per un attimo, con il volto pallido, trafitto e inchiodato al suolo. Un attimo dopo la sua mano era sulla maniglia. Poi si trovò nel corridoio, con la luce che proveniva dalla porta aperta alle sue spalle. All'altra estremità vide il piccolo fantasma che brillava nitidamente nell'ombra, con la mano destra che gli faceva un cenno, mentre le braccia si alzavano e si abbassavano nuovamente. Seppe immediatamente con estrema chiarezza che non doveva avere paura di lui, ma doveva seguirlo e, quando scomparve, si incamminò con coraggio verso la porta. Dimenticò di sentirsi stanco e di essere completamente digiuno dalla sera precedente, e avrebbe camminato per molte miglia, perché si sentiva pervaso da un'improvvisa speranza, che attraversava il suo corpo come una linfa dorata di vita. Fu abbastanza certo di vedere il piccolo fantasma che volteggiava davanti a lui, sia all'angolo del vialetto che a quello della strada principale e anche in Belgrave Square. In alcuni momenti era solo un'ombra, quando la strada era illuminata da altre luci, anche se il chiarore delle lampade creava un pallido riflesso verde sul suo piccolo abito di seta di Mamma Hubbard; in altri momenti invece, quando le strade erano buie e silenziose, tutta la figuretta risplendeva luminosa con i riccioli biondi e il collo rosato. Trotterellava come un bimbo piccolo, e il signor Puckler poteva sentire lo scalpiccio delle sue scarpette di capretto marrone sul selciato, mentre correva. Avanzava molto rapidamente e lui poteva solo stargli dietro, procedendo di gran carriera con il cappello gettato all'indietro, i sottili capelli scompigliati dalla brezza notturna e gli occhiali dalla montatura di corno sistemati sul naso piuttosto largo. Continuò a camminare e non aveva la minima idea di dove si trovasse. Questo particolare non gli importava molto, perché sapeva con assoluta certezza che stava andando nel posto giusto. Poi, alla fine, in una strada ampia e tranquilla, si trovò davanti a una grande porta molto imponente che aveva due lampade su ogni lato e un pomolo d'ottone lucido per suonare: il signor Puckler si affrettò a tirarlo. Quando si trovò all'interno, non appena la porta fu aperta, nella luce vivida intravide una piccola ombra e il pallido riflesso verde dell'abito di seta, e di nuovo giunse alle sue orecchie il debole grido, che questa volta gli sembrò meno compassionevole e più impaziente.
«Pa-pà!» La figuretta tornò nuovamente a brillare e in quella luminosità i bellissimi occhi marroni di vetro erano rivolti verso di lui pieni di felicità, mentre la bocca rosata sorrideva in maniera tanto mirabile da trasformare il fantasma della bambola in un piccolo angelo. «Ieri sera, poco dopo le dieci, hanno portato qui una ragazzina», stava dicendo la voce tranquilla del portiere dell'ospedale. «Penso che fosse solo priva di sensi. Aveva con sé una grossa scatola di cartone marrone e nessuno è riuscito a togliergliela dalle mani. Mentre la trasportavano ho visto che aveva una lunga treccia di capelli marroni.» «È mia figlia!», esclamò il signor Puckler senza nemmeno udire quel che stava dicendo. Si chinò sul viso di Elsa nella tenue luce del reparto dei bambini, e dopo appena un minuto che se ne stava lì in piedi la bambina aprì i bellissimi occhi marroni e guardò verso di lui. «Pa-pà!», chiamò con voce dolce. «Sapevo che saresti venuto.» Per un momento il signor Puckler non seppe cosa fare o dire, e quel che sentiva era molto più profondo della paura, del terrore e della disperazione che stavano per distruggerlo la notte precedente. Ma intanto Elsa gli raccontava la sua storia: l'infermiera le aveva permesso di parlare, perché nella camera c'erano solo due bambini, che stavano abbastanza bene e che dormivano profondamente. «Erano dei ragazzi grandi, con delle facce cattive», raccontò Elsa, «e volevano portarmi via Nina, ma io la tenevo con forza e ho cercato di resistere come meglio potevo, finché uno di loro non mi ha colpito con qualcosa e poi non ricordo più nulla, perché sono caduta a terra e suppongo che quelli siano scappati di corsa. Poi qualcuno mi ha soccorso. Ma ho paura che Nina si sia rotta.» «Ecco la scatola», intervenne l'infermiera. «Non siamo riusciti a togliergliela dalle mani fino a quando non è rinvenuta. Volete vedere se la bambola è rotta?» Slegò la corda con cura: Nina era tutta in frantumi. La tenue luce del reparto bambini dell'ospedale creava un pallido riflesso verde sul piccolo abito di Mamma Hubbard. ROBERT LOUIS STEVENSON Janet la Storta
Il Reverendo Murdoch Soulis fu per lungo tempo curato della parrocchia di Balweary, nella valle del Dule, nella brughiera. Era un vecchio dall'aspetto severo, pallido in volto, che incuteva timore in chi lo ascoltava: trascorse gli ultimi anni della sua vita completamente solo, senza parenti né domestici, nel piccolo e isolato presbiterio sotto l'Hanging Shaw. Nonostante la ferma compostezza dei suoi lineamenti, aveva lo sguardo agitato, spaventato, incerto; e quando si soffermava, durante le confessioni, sul futuro dell'uomo impenitente, sembrava che il suo occhio penetrasse attraverso le tempeste del tempo fino ai terrori dell'eternità. Molti giovani che venivano a prepararsi alla Prima Comunione rimanevano terribilmente impressionati dai suoi discorsi. Ogni anno, la prima domenica dopo il diciassette di agosto, teneva un sermone sull'ottavo versetto della prima epistola di san Pietro, «il diavolo come un leone ruggente», in cui superava se stesso nel commento al testo, sia per la terribile natura del soggetto, sia per il terrore che ispirava il suo atteggiamento dal pulpito. I bambini ne erano spaventati fino alle convulsioni, e i vecchi per il resto della giornata apparivano più sentenziosi del solito, pieni di tutte quelle allusioni tanto deprecate da Amleto. Lo stesso presbiterio, situato tra i folti alberi presso le acque del Dule, con il boschetto che lo sovrastava da un lato e dall'altro le fredde e brulle cime dei monti che si innalzavano numerose verso il cielo, aveva cominciato, fin dai primi tempi del ministero del Reverendo Soulis, a essere evitato verso il crepuscolo da tutti quelli che si consideravano prudenti; e i capifamiglia, seduti nella birreria del villaggio, scuotevano la testa al pensiero di passare a tarda ora nei paraggi di quella località così sinistra. Anzi, per essere precisi, c'era un punto soprattutto che ispirava particolare timore. Il presbiterio sorgeva fra la strada maestra e il Dule, con una facciata su ciascuno dei due; il retro guardava verso il villaggio di Balweary, lontano circa mezzo miglio, e sul davanti un giardino spoglio circondato da siepi di rovo occupava il terreno tra il fiume e la strada. La casa era a due piani, ciascuno di due ampie stanze. Non si apriva direttamente sul giardino, bensì su una specie di viottolo o passaggio selciato, che da una parte dava sulla strada maestra e dall'altra era chiuso dagli alti salici e dai sambuchi che crescevano lungo la riva del torrente. Ed era proprio questo viottolo ad avere una così brutta fama tra i giovani parrocchiani di Balweary. Il curato vi passeggiava spesso dopo il tramonto, talvolta gemendo ad alta voce nel fervore della sua orazione mentale; e quando egli si assentava e la porta del presbiterio era chiusa a chiave, solo gli scolaretti più coraggiosi si avventuravano, giocando a «seguire il capo», in quel luo-
go quasi leggendario, col cuore che batteva forte. Quest'atmosfera di terrore che circondava, di fatto, un ministro di Dio dal carattere e dall'ortodossia immacolati, era comunemente ragione di stupore e argomento di domande da parte dei pochi forestieri che il caso o gli affari conducevano in quel paese sconosciuto e fuori mano. Ma anche molta gente della parrocchia era all'oscuro degli strani eventi che avevano marcato il primo anno del ministero del Reverendo Soulis; e, tra i meglio informati, alcuni erano reticenti per natura, altri, invece, si mostravano particolarmente restii a parlare di quella faccenda. Solo di tanto in tanto qualcuno dei più vecchi, verso il terzo bicchiere, acquistava coraggio e cominciava a raccontare la causa dello strano aspetto e della vita solitaria del curato. Cinquant'anni fa1, quando il Reverendo Soulis venne per la prima volta a Balweary, era ancora un giovanotto - un ragazzo, diceva la gente - assai colto e bravissimo nel predicare, ma, com'era naturale in un uomo tanto giovane, senza alcuna esperienza vissuta in fatto di religione. I più giovani rimanevano incantati dalle sue doti e dalla sua eloquenza, ma le persone anziane, più serie e riflessive, si sentivano perfino spinte a pregare per quel giovanotto che consideravano un povero illuso e anche per la loro parrocchia che sembrava così mal fornita di una guida. Tutto questo avveniva prima del tempo dei «Moderati» - maledizione a loro! ma le cose cattive sono come quelle buone - vanno e vengono piano piano, un po' alla volta; già allora, comunque, c'era chi diceva che il Signore aveva abbandonato tutti i professori e che i ragazzi che andavano a studiare presso di loro avrebbero fatto di più e meglio restandosene seduti in una torbiera, come i loro antenati al tempo della persecuzione, con una Bibbia sotto il braccio e lo spirito della preghiera nel cuore. Ma insomma, senza dubbio il Reverendo Soulis era rimasto troppo a lungo in collegio: si curava e si preoccupava di molte cose oltre alla sola necessaria. Aveva un mucchio di libri con sé, più di quanti se ne fossero mai visti in tutto il presbiterio; e il facchino ebbe il suo bel da fare a trasportarli fin là, perché rischiarono di impantanarsi nella Palude del Diavolo, tra Balweary e Kilmackerlie. Erano libri di teologia, si capisce, o almeno così si diceva, ma le persone serie erano dell'opinione che fosse proprio inutile possederne così tanti quando tutti i Vangeli si possono portare nella cocca di uno scialle. E poi, se ne stava seduto a scrivere per metà della giornata e metà della notte, il che non stava neanche bene; sulle prime si pensò che stesse rileggendo i suoi
sermoni, ma in seguito si seppe che stava scrivendo un libro lui stesso, il che non era davvero appropriato per uno della sua età e di così poca esperienza. Ad ogni modo, occorreva prendere una donna anziana e perbene che si occupasse del presbiterio e provvedesse ai suoi pasti frugali, e gli fu raccomandata una vecchiaccia - una certa Janet Mc Clour - e lui si lasciò persuadere troppo facilmente, facendo di testa sua. Furono in parecchi a metterlo in guardia, poiché quella Janet risultava più che sospetta alla gente migliore di Balweary. Diverso tempo prima aveva avuto un bambino da un soldato dei Dragoni, da circa trent'anni non riceveva la comunione, e i ragazzi l'avevano sentita borbottare qualcosa tra sé e sé, al buio, dalle parti del sentiero di Key, luogo poco adatto, a quell'ora, per una donna timorata da Dio. Comunque, era stato lo stesso sindaco del paese a parlare per primo di Janet al curato, e costui a quel tempo sarebbe andato molto più in là per far piacere al sindaco del paese. Quando la gente gli diceva che Janet era parente del Diavolo, secondo lui si trattava soltanto di superstizione; e quando gli tiravano fuori la Bibbia e la strega di Endor, controbatteva con foga e ricacciava a tutti le parole in gola affermando che quei giorni erano ormai passati e che il Demonio era, grazie alla misericordia divina, molto meno potente. Bene, quando per il villaggio si sparse la voce che Janet Mc Clour andava a fare la governante al presbiterio, la gente divenne furiosa sia con lei che con il curato, e alcune comari non trovarono di meglio da fare che piazzarsi di fronte alla porta della sua casa e accusarla di tutto ciò che si sapeva sul suo conto, dal figlio avuto col soldato alle due vacche di John Tomson. Janet di solito parlava poco: la gente, in genere, la lasciava andare per la sua strada e altrettanto faceva lei senza tanti buongiorno e buonasera, ma quando ci si metteva aveva una lingua da assordare un mugnaio. Saltò su, e spiattellò ai quattro venti tutti i vecchi pettegolezzi di Balweary, facendo inferocire le donne: se le dicevano una cosa, lei ne rispondeva due, finché a un certo momento le comari l'afferrarono, le strapparono i vestiti di dosso e la trascinarono per il villaggio, giù, fino alle acque del Dule, per vedere se era una strega o no, se restava a galla o se affogava2. La vecchia urlava tanto che la si poteva sentire fino dal boschetto, lottando come dieci persone, e ci furono parecchie di quelle comari che portarono addosso i suoi segni, il giorno dopo e molti altri ancora; ed ecco, proprio nel mezzo della mischia, arrivare (per sua sventura) il nuovo curato. «Donne», disse (e la sua voce era solenne), «nel nome del Signore io vi
ordino di lasciarla andare.» Janet corse verso di lui, sconvolta dal terrore, e gli si aggrappò, e lo scongiurò, per amore di Cristo, di salvarla dalle comari; e quelle, da parte loro, gli dissero tutto ciò che sapevano sul conto di lei e forse ancora di più. «Donna», domanda allora lui a Janet, «è vero tutto questo?» «Come il Signore mi vede», risponde quella, «come è vero che mi ha creata, non una sola parola! A parte il bambino, sono sempre stata una donna a posto.» «Sei disposta», dice allora il Reverendo Soulis, «nel nome di Dio e davanti a me, Suo indegno ministro, a rinunciare al Diavolo e alle sue tentazioni?» Bene, sembra che quando egli le pose questa domanda la vecchia fece una smorfia che mise abbastanza paura a quanti la videro, e la si udì battere forte i denti; ma non c'era altra scelta in quel frangente, e Janet alzò la mano e rinunciò al Diavolo davanti a tutti. «E ora», dice il Reverendo Soulis rivolto alle comari, «tornatevene a casa, tutte quante, e pregate Dio affinché vi perdoni.» E diede il braccio a Janet, nonostante avesse indosso sì e no la camicia, e l'accompagnò su per il villaggio fino alla porta di casa come se si trattasse di una gran dama, mentre lei gridava e rideva che era uno scandalo starla a sentire. Ci furono molte persone assennate che si trattennero a lungo a pregare quella notte: ma quando venne il mattino una tale paura si abbatté su Balweary che i bambini correvano a nascondersi e perfino gli uomini se ne stavano zitti a spiare dietro le porte. Perché c'era Janet che scendeva giù per il villaggio - lei o il suo fantasma, nessuno avrebbe potuto dirlo - col collo torto e la testa girata da una parte come quella di un impiccato, e sul viso una smorfia che la faceva somigliare a un cadavere non ancora ricomposto. Col passare del tempo ci si fece l'abitudine, e ci fu perfino chi la interrogò per sapere cosa le fosse successo; ma da quel giorno in avanti non fu più capace di parlare come una cristiana: sbavava, i denti le battevano come un paio di cesoie e le sue labbra non riuscirono più, da allora in poi, a pronunciare il nome di Dio. Tentava a volte di pronunciarlo, ma non le era possibile. Chi più sapeva più taceva, ma nessuno chiamò mai quella cosa Janet Mc Clour, poiché la vecchia Janet, secondo loro, era sprofondata quel giorno nell'Inferno.
Il curato, tuttavia, non era tipo da lasciarsi influenzare dagli altri: andava dicendo che la crudeltà di quella gente le aveva fatto venire un attacco di paralisi, distribuiva scapaccioni ai bambini che la importunavano e la notte stessa di quel famoso giorno la fece traslocare su al presbiterio, e abitò là, a Hanging Shaw, tutto solo con lei. Il tempo passò e la gente più superficiale cominciò a pensare sempre meno a quella brutta faccenda. Il curato godeva di buona stima: faceva sempre tardi a scrivere, è vero, e dal fiume si poteva vedere la luce della sua candela fino a mezzanotte passata, ma appariva soddisfatto e pieno di fiducia in se stesso come nei primi tempi, sebbene tutti si accorgessero che deperiva. Per quanto riguarda Janet, andava avanti e indietro: se prima non parlava molto, adesso aveva motivo di parlare ancora meno: non si impicciava di niente, ma era orribile a vedersi, e nessuno si sarebbe sognato di imbrogliarla nei conti dei terreni della parrocchia. Verso la fine di luglio venne un tempo come non se n'era mai visto da queste parti. L'aria era immobile, calda e opprimente: le greggi non ce la facevano a salire fin sopra la Collina Nera, i bambini erano troppo stanchi per giocare; pure, a tratti si levava anche il vento, con raffiche roventi che brontolavano sordamente per le vallate e brevi acquazzoni che non riuscivano a mitigare la calura. Si pensava sempre che il giorno dopo dovesse scoppiare il temporale; ma veniva il mattino, ne veniva un altro ed era sempre quello stesso tempo spossante che affliggeva gli uomini e il bestiame. Fra tutti quelli che stavano peggio, nessuno soffriva come il Reverendo Soulis; non riusciva né a dormire né a mangiare, come diceva ai suoi consiglieri parrocchiali, e quando non se ne stava a scrivere quel suo noioso libro, vagava per la campagna come un ossesso, mentre chiunque altro era ben felice di starsene al fresco dentro casa. Al di sopra dell'Hanging Shaw, al riparo della Collina Nera, c'è un piccolo terreno recintato con un cancello di ferro: sembra che nei tempi andati fosse il cimitero di Balweary, consacrato dai Papisti prima che la luce benedetta splendesse sul regno. Ad ogni modo, era uno dei posti frequentati abitualmente dal Reverendo Soulis: è lì che si sedeva di solito per pensare ai suoi sermoni, e in verità è un luogo ben riparato. Dunque, un giorno, mentre superava la parte ovest della collina, egli vide prima due, poi quattro, poi sette corvi volare in tondo sopra il vecchio cimitero. Volavano bassi e pesanti, roteando e gracchiando tra loro. Era chiaro che qualcosa doveva aver disturbato le loro abitudini, ma il Reverendo Soulis non era tipo
da lasciarsi impressionare facilmente, e andò dritto fino al muretto di cinta, e cosa trovò? Un uomo, o qualcosa che ne aveva l'apparenza, seduto nel recinto sopra una tomba. Era alto di statura, nero come l'Inferno e con degli occhi stranissimi3. Il Reverendo Soulis aveva sentito molte volte parlare di uomini neri, ma in quello lì c'era qualcosa di indecifrabile che lo intimoriva. Con tutto il caldo che aveva, provò come un gelido brivido d'orrore nel midollo delle ossa, ma riuscì lo stesso a dire con voce ben chiara: «Amico mio, non siete di qui, vero?». L'uomo nero non aprì bocca; si alzò in piedi e cominciò a camminare come strisciando, dirigendosi verso il lato opposto del muretto di cinta; e intanto non staccava gli occhi dal curato, e il curato rimaneva lì e lo fissava a sua volta. Poi, in un attimo, l'uomo nero fu con un balzo al di là del muretto e corse a rifugiarsi tra gli alberi. Il Reverendo Soulis, quasi senza sapere perché, prese a rincorrerlo, ma era stanco morto per la camminata fatta poco prima con quel caldo terribile e, per quanto corresse, riuscì appena a scorgere l'uomo nero tra le betulle, finché non arrivò ai piedi del pendio, dove lo vide ancora una volta mentre a passi e salti attraversava le acque del Dule dirigendosi verso il presbiterio. Il Reverendo Soulis non fu molto contento che quello spaventoso vagabondo si pigliasse la libertà di entrare nel presbiterio, e corse ancora più forte, e traversò il torrente bagnandosi le scarpe, e si ritrovò finalmente sul viottolo; ma non c'era nessun uomo nero lì. Andò sulla strada maestra: nessuno; fece il giro del giardino: niente, nessun uomo nero. Alla fine, un po' spaventato, com'era naturale, tirò il saliscendi ed entrò in casa. E lì, davanti ai suoi occhi, ecco Janet Mc Clour, col suo collo torto e non troppo contenta di vederlo. E il Reverendo lo disse sempre in seguito che, appena pose gli occhi su di lei provò quello stesso brivido freddo e mortale di prima. «Janet», le dice, «hai visto un uomo nero?» «Un uomo nero?», ripeté lei. «Dio ci salvi tutti! Vi sbagliate, Reverendo. Non c'è nessun uomo nero a Balweary.» Ma non parlava chiaro, lo capite bene: farfugliava come un cavalluccio col morso in bocca. «Bene», dice Soulis. «Janet, se non c'è nessun uomo nero, io ho parlato col Diavolo in persona4.» E così dicendo cadde a sedere, battendo i denti come chi ha la febbre. «Sciocchezze», dice Janet, «dovreste vergognarvi, Reverendo», e gli servì un sorso di acquavite che teneva sempre a portata di mano. Il curato se ne andò nello studio, tra i suoi libri. Quello studio è una
stanza lunga, bassa e male illuminata, mortalmente fredda d'inverno e umida anche nel colmo dell'estate, poiché il presbiterio sorge vicino al torrente. Dunque, il Reverendo si mise a sedere e pensò a tutto quello che era successo da quando era arrivato a Balweary, e pensò alla sua casa e ai giorni in cui era un bambino e correva per i prati; ma quell'uomo nero gli tornava sempre in testa come il ritornello di una canzone. Più pensava, più quell'uomo nero gli veniva in mente. Provò a pregare, ma non si ricordava le parole; cercò di mettersi a scrivere il suo libro, ma non riusciva ad andare avanti. Vi erano momenti in cui gli sembrava che l'uomo nero gli stesse accanto, e allora il sudore gli si gelava addosso come acqua di pozzo, mentre vi erano altri momenti in cui si riprendeva e non aveva più paura di nulla, come un bimbo appena battezzato. Infine andò alla finestra e se ne restò lì in piedi a osservare le acque del Dule con uno sguardo intenso e corrucciato. Vicino al presbiterio gli alberi sono particolarmente fitti e l'acqua è profonda e scura; e c'era Janet che lavava i panni, con gli abiti rimboccati: voltava le spalle al curato e questi, d'altro canto, si era appena accorto di starla a guardate. A un certo momento si voltò, mostrando la faccia, e il Reverendo Soulis risentì ancora lo stesso brivido freddo che aveva già provato due volte quel giorno, e gli venne in mente ciò che la gente diceva: che Janet era morta da molto tempo e quella era soltanto una larva rivestita delle sue carni fredde come la terra. Si fece un po' indietro, osservandola attentamente: stava sbattendo i panni e canticchiava tra sé, ma oh! Dio ci guidi, aveva una faccia spaventosa. A tratti cantava più forte, ma nessuno al mondo avrebbe saputo ripetere le parole della sua canzone; e poi, ogni tanto guardava in giù, di lato, sebbene non ci fosse nulla da guardare da quella parte. Il Reverendo provò un moto di paura e di ribrezzo in tutto il suo essere, e di certo era un avvertimento del Cielo; ma invece si rimproverò di pensare così male di una povera vecchia malata senza altri amici che lui. Così, recitò una breve preghiera per lei e per sé, bevve un sorso d'acqua fresca - poiché gli si rivoltava lo stomaco solo al pensiero di mangiare - e salì a coricarsi nel suo semplice letto, mentre cadevano le ombre della sera. Quella notte, la notte del diciassette agosto millesettecentododici, non è mai più stata dimenticata a Balweary. Era stato caldo fino allora, come ho detto, ma quella notte era più calda che mai. Il sole tramontò fra nuvole mai viste e venne un buio fitto come la pece, senza una stella, senza un alito di vento; non avresti visto la tua mano davanti al viso: perfino i vecchi avevano gettato via le coperte dal letto e respiravano a fatica. Con tutto
quello che aveva in mente era piuttosto improbabile che il Reverendo Soulis potesse dormire molto. Si voltava e rivoltava di continuo: il buon letto fresco in cui era entrato sembrava che gli bruciasse le ossa; si assopiva per svegliarsi subito dopo; sentiva battere le ore, poi un cane ululare nella brughiera come se fosse morto qualcuno; a tratti credeva di udire dei folletti5 bisbigliargli qualcosa all'orecchio, poi gli pareva di vedere dei fuochi fatui6 danzare per la stanza. Pensò di essere ammalato: e lo era, infatti, anche se non sospettava neppure di quale malattia. Infine ebbe un momento di lucidità: si rizzò a sedere in camicia da notte sulla sponda del letto e cominciò di nuovo a pensare all'uomo nero e a Janet. Non avrebbe saputo spiegare bene come - forse fu il freddo del pavimento ai piedi - ma di colpo ebbe la sensazione che vi fosse un qualche nesso tra i due, e che l'uno o l'altra, o forse entrambi, fossero dei fantasmi. E proprio in quel momento, dalla stanza di Janet, che si trovava accanto alla sua, venne un tramestio come di persone che stessero lottando, poi un forte tonfo; quindi una folata di vento passò frusciando nelle quattro stanze della casa, e di nuovo tutto tornò silenzioso come una tomba. Il Reverendo Soulis non aveva paura né degli uomini né dei diavoli. Prese l'esca e l'acciarino, accese una candela e fece qualche passo verso la porta di Janet. Il saliscendi era alzato: spinse l'uscio e guardò dentro risolutamente. La stanza era ampia, grande quanto la sua, piena di mobili imponenti, vecchi e solidi, dato che non ne aveva altri. C'era un letto con quattro colonne, il baldacchino di vecchia tappezzeria, e un bell'armadietto di quercia pieno di libri di teologia del curato, messi lì perché non fossero d'ingombro: le povere, poche cose di Janet erano sparse qua e là sul pavimento. Ma il Reverendo Soulis non riusciva a scorgere né Janet né alcun segno di lotta. Entrò dentro (e pochi, credo, lo avrebbero seguito), si guardò intorno, ascoltò. Ma non c'era nulla da ascoltare, nulla dentro il presbiterio né in tutta la parrocchia di Balweary, e nulla da vedere, tranne le lunghe ombre che danzavano intorno alla candela. E poi, ad un tratto, il cuore del curato ebbe un violento palpito e si arrestò, mentre un vento freddo gli passava fra i capelli. Che triste visione fu quella per il poveretto! C'era Janet lì, appesa a un chiodo accanto al vecchio armadietto di quercia: la testa sempre piegata sulla spalla, gli occhi stralunati, la lingua tutta fuori dalla bocca e i piedi a due palmi dal pavimento. «Dio ci perdoni tutti!», pensò il Reverendo Soulis. «La povera Janet è morta.» Fece un passo verso il cadavere e il cuore gli sussultò nel petto perché,
per qualche stregoneria incomprensibile a mente umana, la vecchia era appesa a un unico chiodo, per un unico filo di lana ritorta, di quello da rammendare le calze. È una cosa orribile trovarsi soli, di notte, con tali sinistri prodigi, ma il Reverendo Soulis era forte nel Signore. Si voltò e uscì da quella stanza chiudendo la porta a chiave dietro di sé, poi, un gradino dopo l'altro, scese le scale sentendosi pesante come il piombo e posò la candela sul tavolino. Non riusciva a pregare, non riusciva a pensare: gocciava sudore freddo e non avvertiva altro che i battiti accelerati del suo cuore. Era lì forse da un'ora, forse da due, non ci aveva fatto attenzione, quando, all'improvviso, sentì un leggero, misterioso rumore al piano di sopra: un passo andava avanti e indietro nella stanza dove pendeva impiccato il corpo di Janet; poi la porta venne aperta, benché egli l'avesse chiusa a chiave, come ricordava bene, e si udì un passo sul pianerottolo. Gli sembrò che il cadavere si fosse affacciato alla ringhiera delle scale e guardasse in basso, verso di lui. Prese di nuovo la candela (non ce la faceva a stare senza luce) e facendo meno rumore possibile uscì fuori dal presbiterio e si diresse fino in fondo al viottolo. Era sempre buio come la pece: la fiamma della candela, quando la posò in terra, brillò ferma e chiara come in una stanza chiusa. Nulla si muoveva, tranne le acque del Dule che scorrevano pigre singhiozzando giù per la valle, mentre quel passo infernale scendeva lentamente le scale all'interno del presbiterio. Era un passo che il curato conosceva fin troppo bene, poiché era quello di Janet e, man mano che si faceva più vicino, il gelo gli penetrava sempre più nelle viscere. Raccomandò la sua anima al Creatore che lo teneva in vita: «O Signore», diceva, «dammi questa notte la forza per combattere contro le Potenze del Male». In quel momento il passo stava percorrendo l'andito verso la porta di casa: si poteva sentire una mano che strusciava lungo il muro, come se quella cosa spaventosa stesse cercando la strada a tentoni. I salici si agitarono gemendo, un lungo sospiro venne dalle colline, la fiamma della candela vacillò; ed ecco, lì, in piedi sulla soglia del presbiterio c'era il cadavere di Janet, la Storta, col suo vestito di percalle e la cuffia nera, la testa sempre piegata verso la spalla e quella smorfia ancora scolpita sul viso - viva, avresti detto - morta, come il Reverendo Soulis ben sapeva. È strano come l'anima dell'uomo sia così legata alla sua spoglia mortale: pure, il curato vide tutto questo e il suo cuore non venne meno. Essa non rimase a lungo lì in piedi: cominciò di nuovo a muoversi, dirigendosi lentamente verso il Reverendo Soulis che era rimasto fermo sotto i
salici. Tutta la vitalità del suo corpo, tutta la forza della sua anima le risplendevano negli occhi. Sembrò che essa stesse per parlare, ma fece solo un cenno con la sinistra, come se le mancassero le parole. Venne una raffica di vento, come il soffio di un gatto; la candela si spense, i salici mandarono un lamento simile a una voce umana, e il Reverendo Soulis a un tratto comprese che, ne uscisse vivo o morto, era lì che si doveva concludere la storia. «Strega, maga, demonio!», urlò. «Io ti ordino, in nome di Dio, di andartene: se sei morta alla tomba, se sei dannata all'Inferno.» E allora la mano stesa del Signore colpì dall'alto dei Cieli l'Orrore lì dove si trovava: il vecchio, morto, sconsacrato corpo della strega, così a lungo sottratto alla tomba e portato in giro dai diavoli, prese fuoco come uno zolfanello e cadde a terra ridotto in cenere; seguì, vibrante, il tuono, un rombo dietro l'altro, poi la pioggia scrosciante. Il Reverendo Soulis attraversò con un balzo la siepe del giardino e corse urlando verso il villaggio. Quella stessa mattina, John Christie vide l'uomo nero passare vicino il Muckle Cairn mentre rintoccavano le sei; prima delle otto, passò accanto alla locanda di Knockdow; poco dopo, Sandy Mc Lellan lo vide correre giù per la discesa di Kilmackerlie. Non ci sono dubbi che fosse stato lui ad abitare per tanto tempo nel corpo di Janet, ma era andato via, finalmente, e da quel giorno il Diavolo non è più tornato a Balweary. Ma fu una prova assai dura per il curato: rimase molto, molto a lungo delirante nel suo letto, e dal quel momento è divenuto l'uomo che oggi conoscete. 1
Da questo punto in poi il racconto è scritto in dialetto scozzese (N.d.T.). 2 Era una credenza diffusa anche in Italia (N.d.T.). 3 Secondo una credenza popolare piuttosto diffusa in Scozia, il Diavolo era solito manifestarsi sotto le spoglie di un «uomo nero». Ciò è confermato da parecchie testimonianze che si riscontrano, ad esempio, nei vari processi alle streghe (N.d.T.). 4 Nel testo inglese «the Accuser of Brethren», l'Accusatore dei Confratelli (N.d.T.). 5 Il termine usato da Stevenson è bogles, che sta ad indicare una classe di folletti cattivi, comunque degli spiriti dispettosi, temibili e spesso pericolosi. William Henderson, in Folk-Lore of the Northern Counties, specifica (proprio a proposito dei bogles scozzesi) che, pur essendo dispettosi, non
sono malvagi, e che «non danno fastidio a nessuno tranne che agli assassini e a coloro che cercano di imbrogliare le vedove e gli orfani». Cfr. Katharine Briggs, Fate, gnomi, folletti e altri esseri fatati, a cura di Cecilia Casorati e Giovanni Iovane, Roma, Lucarini Editore, 1985, p. 24 (N.d.T.). 6 Il termine usato da Stevenson è spunkies. Riporta Katharine Briggs nel già citato Fate, gnomi, folletti: «Nei Lowlands della Scozia, Spunkies è il nome dato ai fuochi fatui (Will o' the Wisp). In Country Folk-Lore, Simpson cita un racconto reso da History of Buckhaven di Graham, nel quale uno Spunkie è accusato di aver provocato dei naufragi e di aver depistato dei viaggiatori» (p. 254) (N.d.T.). MARY WILKINS FREEMAN Ombre sul muro «Henry ha litigato a lungo con Edward nello studio, la sera prima che morisse», disse Caroline Glynn. Era una donna attempata, alta, legnosa e magra, con un volto duro e scialbo. Non parlò con acrimonia, ma con grave severità. Rebecca Ann Glynn, più giovane, più robusta e con il volto roseo tra i ciuffi di capelli grigi e ricci, sospirò a mo' di assenso. Sedeva, avvolta in un'ampia balza di seta nera, su un angolo del sofà, e spostava gli occhi terrorizzati dalla sorella Caroline all'altra sorella, signora Emma Brigham - Emma Glynn da signorina - l'unica bellezza della famiglia. Infatti la donna era ancora bella, di una bellezza imponente: splendida e matura, riempiva una grande sedia a dondolo con la mole superba della sua femminilità, e oscillava leggermente avanti e indietro, mentre le sue sete nere frusciavano e le gale ondeggiavano. Nemmeno la morte (infatti il cadavere di suo fratello Edward era ancora in casa) riusciva a disturbare la serenità esteriore del suo aspetto. Era addolorata per la perdita del fratello: era il più giovane, e lei gli era affezionata, ma Emma Brigham non perdeva mai di vista il proprio aspetto anche tra i morsi della tribolazione. Era sempre cosciente della propria solidità di fronte alle vicissitudini, e della ineccepibilità della propria condotta. Ma perfino la sua espressione di quiete mutò davanti all'annuncio di sua sorella Caroline, e al terrore e all'angoscia di sua sorella Rebecca Ann. «Penso che Henry avrebbe dovuto controllare la propria collera, visto che il povero Edward era tanto prossimo alla fine», disse con un'asprezza
che turbò lievemente le curve rosee della sua bella bocca. «Naturalmente non lo sapeva», mormorò Rebecca Ann con una voce debole, stranamente in disaccordo con il suo aspetto. Le si rivolgeva involontariamente un secondo sguardo, per accertarsi che un così flebile bisbiglio provenisse da quel torace talmente sviluppato. «È ovvio che non lo sapeva», disse in fretta Caroline. Poi si girò verso la sorella con uno sguardo penetrante e sospettoso. «Come avrebbe potuto saperlo?», chiese. Quindi si ritrasse, come per sfuggire all'altra possibile risposta. «Naturalmente noi due sappiamo che Henry non lo sapeva», disse in tono conclusivo, ma il suo volto era più pallido di prima. Rebecca sospirò ancora. La sorella sposata, Emma, sedeva adesso ritta sulla sua sedia e aveva smesso di dondolarsi: le osservava entrambe attentamente, e sul suo viso si erano accentuati d'improvviso i tratti caratteristici della famiglia. Quando l'intensità delle emozioni era comune e si evidenziavano tratti simili, nelle tre sorelle diventava chiaramente visibile l'appartenenza alla stessa famiglia. «Che cosa vuoi dire?», chiese rivolta a entrambe. Poi, anche lei parve ritrarsi davanti a una possibile risposta. Rise perfino, di una risata evasiva. «Immagino che non volessi dire nulla», mormorò, ma sul suo volto c'era ancora quell'espressione di orrore. «Nessuno vuol dire nulla», disse Caroline con fermezza. Quindi si alzò e andò verso la porta con estrema decisione. «Dove vai?», le chiese Emma Brigham. «Ho qualcosa da fare», replicò Caroline, e le altre compresero subito dal suo tono che aveva un dovere solenne e triste da compiere nella camera dove aleggiava la morte. «Oh!», esclamò Emma Brigham. Dopo che la porta si fu chiusa alle spalle di Caroline, Emma Brigham si rivolse a Rebecca. «Henry ha litigato aspramente con lui?», le domandò. «Parlavano a voce molto alta», rispose Rebecca in tono evasivo, ma i suoi miti occhi blu si accesero per un attimo, e quel barlume rispose prontamente alla curiosità dell'altra. Emma Brigham la guardò. Non aveva ripreso a dondolarsi. Sedeva ancora ritta con la bella fronte lievemente corrucciata sotto le graziose onde dei capelli biondo rame. «Hai sentito qualcosa?», chiese a bassa voce, lanciando uno sguardo verso la porta.
«Ero dall'altra parte del corridoio, nel salotto a sud: questa porta era aperta e quella del salotto socchiusa», replicò Rebecca, e arrossì leggermente. «Allora devi aver...» «Non ho potuto farne a meno.» «Hai sentito tutto.» «Quasi tutto.» «Di che cosa discutevano?» «Di quella vecchia storia.» «Credo che Henry fosse infuriato, come sempre, perché Edward viveva qui gratis, dopo aver dissipato tutti i soldi che gli aveva lasciato nostro padre.» Rebecca annuì, lanciando uno sguardo intimorito verso la porta. Quando Emma parlò, la sua voce era ancora più bassa. «So che cosa provava», disse. «Da parte sua, era sempre stato assai avveduto, e si era dedicato con impegno alla sua professione, mentre Edward non aveva mai fatto nient'altro che spendere. Gli doveva sembrare che Edward vivesse alle sue spalle, ma questo non era vero.» «No. Non era vero.» «Era questa la volontà di nostro padre: che tutti i figli avessero una casa qui. Così lasciò il denaro sufficiente a comprare il cibo e tutto il necessario, se fossimo tornati tutti a casa.» «Sì.» «E Edward aveva il diritto di vivere qui, in base al testamento di nostro padre: Henry avrebbe dovuto tenerlo a mente.» «Sì, avrebbe dovuto.» «È stato molto duro con lui?» «Abbastanza duro, a giudicare da quello che ho sentito.» «Che cosa hai sentito?» «Gli ho sentito dire a Edward che qui non aveva nulla da fare, e che avrebbe fatto meglio ad andarsene.» «Che cosa ha risposto Edward?» «Che sarebbe rimasto qui fino alla morte e anche dopo, se lo avesse desiderato, e che gli sarebbe piaciuto vedere Henry provare a mandarlo via, e poi...» «Che cosa?» «Poi è scoppiato a ridere.» «Che cosa ha detto Henry?»
«Non gli ho sentito dire nulla, ma...» «Ma che cosa?» «L'ho visto quando è uscito da questa stanza.» «Era infuriato?» «Lo hai mai visto quando è così?» Emma annuì, e l'espressione di orrore sul suo viso si accentuò. «Ti ricordi quella volta che uccise il gatto perché l'aveva graffiato?» «Sì. No!» Poi Caroline rientrò nella stanza. Si avvicinò alla stufa nella quale ardeva la legna - era una giornata fredda e cupa d'autunno - e si scaldò le mani, che erano arrossate per un recente lavaggio in acqua fredda. Emma Brigham la guardò ed esitò. Lanciò un'occhiata alla porta, di nuovo socchiusa, dato che non si chiudeva agevolmente poiché era ancora gonfia per l'umidità estiva. Si alzò e la chiuse con un colpo secco che fece risuonare tutta la casa. Rebecca trasalì violentemente con un'esclamazione soffocata. Caroline la guardò con disapprovazione. «È ora che controlli i tuoi nervi, Rebecca», disse. «Non riesco a evitarlo», replicò Rebecca con una sorta di gemito. «Sono nervosa. Dio sa se non ne ho motivo!» «Che cosa vorresti dire con questo?», chiese Caroline con la sua solita espressione di sfida, e per la paura che venisse confermato il suo sospetto. Rebecca si ritrasse. «Nulla», disse. «Allora, se fossi in te, non parlerei in quel modo.» Emma, tornata dopo aver chiuso la porta, disse in tono autoritario che avrebbe dovuto essere accomodata, visto che era così difficile chiuderla. «Si restringerà a sufficienza dopo che avremo tenuto acceso il fuoco per qualche giorno», replicò Caroline. «Se la ripariamo adesso, dopo sarà troppo piccola, e si spaccherà.» «Penso che Henry dovrebbe vergognarsi per aver parlato in quel modo a Edward», disse Emma Brigham all'improvviso, ma con un tono di voce quasi impercettibile. «Zitta!», mormorò Caroline, con un'occhiata colma di paura alla porta chiusa. «Nessuno può sentire con la porta chiusa.» «Henry deve aver sentito che veniva chiusa, e...» «Ebbene; posso dire quello che voglio prima che nostro fratello scenda, e non ho paura di lui.»
«Non so chi debba aver paura di lui! C'è qualche ragione per aver paura di Henry?», domandò Caroline. Emma Brigham tremò davanti all'espressione della sorella. Rebecca singhiozzò di nuovo. «Non c'è nessuna ragione, naturalmente. Perché dovrebbe esserci?» «In tal caso, sarebbe stato opportuno non parlare in questa maniera. Qualcuno avrebbe potuto sentirti e ritenere strane le tue parole. Miranda Joy sta cucendo nel salotto a sud, lo sai.» «Pensavo che fosse salita al primo piano a cucire a macchina.» «Lo ha fatto, ma è tornata a pianterreno.» «Ma non può sentirci.» «Ripeto che, secondo me, Henry dovrebbe vergognarsi. Non avrei mai pensato che sarebbe arrivato a questo punto: litigare con il povero Edward proprio la sera in cui è morto. Edward aveva un carattere migliore di Henry, malgrado i suoi difetti. Io ho sempre pensato un gran bene del povero Edward.» Emma Brigham si passò un lembo di fazzoletto sugli occhi, e Rebecca singhiozzò apertamente. «Rebecca!», disse Caroline, in tono di rimprovero, serrando le labbra e deglutendo con fermezza. «Non gli ho mai sentito pronunciare una parola di rabbia, a meno che quell'ultima sera non abbia parlato con rancore a Henry. Non lo so, ma deve averlo fatto, a giudicare da quanto ha sentito Rebecca», disse Emma. «Non tanto parole di rabbia, quanto paroline miti, dolci e irritanti», replicò Rebecca tirando su col naso. «Non alzava mai la voce», disse Caroline, «ma aveva il suo sistema.» «Ne aveva il diritto in quel caso.» «Sì, lo aveva.» «Aveva lo stesso diritto di Henry di vivere qui», sospirò Rebecca, «e, adesso che è morto, non abiterà mai più in questa casa che nostro padre lasciò a lui come a tutti noi.» «Di che cosa soffriva Edward, secondo te?», chiese Emma, in un sussurro. Non guardava la sorella. Caroline si sedette su una poltrona vicina, e strinse convulsamente i braccioli finché le magre nocche non le si sbiancarono. «Te l'ho detto», rispose. Rebecca, con il fazzoletto sulla bocca, le guardava con occhi terrorizzati e lacrimosi.
«Hai detto che aveva dolori terribili allo stomaco e degli spasmi, ma quale ne era la causa, secondo te?» «Henry diceva che si trattava di un problema gastrico. Sai che Edward aveva sempre sofferto di dispepsia.» Emma Brigham ebbe un attimo di esitazione. «Si è parlato di fare una... autopsia?», chiese. Allora Caroline le si rivolse con ira. «No», disse con voce terribile. «No!» L'anima delle tre sorelle si unì in una comune comprensione, attraverso gli sguardi. L'antiquato saliscendi della porta cigolò, e una spinta dall'esterno scosse la porta senza aprirla. «È Henry», disse Rebecca, in un singhiozzo più che in un sussurro. Emma Brigham, dopo una silenziosa corsa attraverso la stanza, si risedette nella sedia a dondolo e, stava oscillando avanti e indietro con la testa comodamente poggiata allo schienale, quando infine la porta si spalancò ed Henry Glynn entrò. Lanciò un'occhiata penetrante e comprensiva a Emma che dimostrava una calma forzata, a Rebecca accoccolata silenziosamente in un angolo del sofà con il fazzoletto sul viso e un orecchio rosso e vigile come quello di un cane che rivelava la sua attenzione, e a Caroline seduta con compostezza innaturale nella poltrona accanto alla stufa. Quest'ultima incontrò i suoi occhi con fermezza, ma con un'espressione di paura insondabile e di sfida nei suoi confronti. Henry Glynn somigliava più a Caroline che alle altre sorelle. Avevano entrambi la stessa finezza di tratti e di figura, entrambi erano alti e quasi emaciati, avevano radi capelli biondi con l'attaccatura alta sulla fronte intellettuale, ed entrambi avevano lineamenti fini e nobili. Si fronteggiarono l'un l'altro con la spietata immobilità di due statue sui cui volti tratti ed emozioni erano fissi per l'eternità. Poi Henry Glynn sorrise, e il sorriso gli trasformò il volto. A un tratto sembrò più giovane di anni, e una noncuranza e un'irrequietezza da ragazzino comparvero sulla sua faccia. Si lasciò cadere su una sedia con un gesto che era sorprendente per la sua incongruenza con l'aspetto complessivo dell'uomo. Appoggiò la testa allo schienale, accavallò le gambe e guardò con un sorriso Emma Brigham. «Emma: ringiovanisci a ogni anno che passa!», constatò. Lei arrossì leggermente, e la sua placida bocca si allargò agli angoli. Era sensibile ai complimenti. «I nostri pensieri di oggi devono essere dedicati all'unico di noi che non
invecchierà mai», disse Caroline, con voce dura. Henry la guardò, sorridendo ancora. «Naturalmente, nessuno di noi lo dimentica», disse l'uomo, con una voce gentile e profonda, «ma dobbiamo parlare con i vivi, Caroline, e non vedo Emma da molto tempo. I vivi sono cari quanto i morti.» «Non per me», disse Caroline. Si alzò e uscì improvvisamente dalla stanza. Anche Rebecca si alzò e si affrettò a seguirla, singhiozzando senza ritegno. Henry le seguì lentamente con lo sguardo. «Caroline è fuori di sé», disse. Emma Brigham era indecisa. Era stata presa alla sprovvista da un sentimento di fiducia in lui, originato dalle sue maniere. Grazie a quel sentimento, parlò con calma e naturalezza. «La sua morte è stata troppo improvvisa», disse. Le palpebre di Henry tremarono leggermente, ma il suo sguardo restò fermo. «Sì», disse, «è stata troppo improvvisa. È stato male solo per qualche ora.» «Qual è stata la tua diagnosi?» «Gastrite.» «Non hai pensato a fare un'autopsia?» «Non ce n'è stato bisogno. Sono assolutamente sicuro circa la causa della sua morte.» All'improvviso, Emma Brigham rabbrividì, come se un orrore abissale le avesse riempito l'anima. Il corpo le si coprì di pelle d'oca, per il tono che aveva avuto la voce del fratello. Si alzò, e vacillò sulle ginocchia che non la reggevano. «Dove vai?», le chiese Henry, con una strana voce ansante. Emma Brigham pronunciò una frase incoerente a proposito di cucire qualcosa di nero per il funerale, e uscì dalla stanza. Quindi entrò nella sua, che si trovava sul davanti della casa. C'era Caroline. Le si avvicinò e le afferrò le mani: le due sorelle si guardarono. «Non parlare: no, non voglio!», disse infine Caroline, in un bisbiglio terrorizzato. «Va bene!», replicò Emma. Quel pomeriggio le tre sorelle erano nello studio, una grande stanza a pianterreno sul davanti della casa di fronte al salotto a sud, quando cominciò a farsi scuro.
Emma stava facendo l'orlo a una stoffa nera. Era seduta vicino alla finestra esposta a occidente, per avere più luce. Infine posò il lavoro in grembo. «È inutile. Non posso più mettere nemmeno un punto finché non accendiamo la lampada», disse. Caroline, che stava scrivendo una lettera sul tavolo, sì rivolse a Rebecca, seduta nel suo solito angolino del sofà. «Rebecca, sarebbe opportuno che andassi a prendere la lampada!», disse. Rebecca trasalì: anche nella penombra il suo viso rivelava l'agitazione. «Non mi sembra che abbiamo già bisogno della lampada», disse con una voce implorante e supplichevole, simile a quella di un bambino. «Sì, ne abbiamo bisogno», ribatté Emma in tono perentorio. «Dobbiamo accendere una lampada. Devo finire questo vestito stasera, altrimenti non potrò andare al funerale, e ormai non riesco a mettere più nemmeno un punto, perché non vedo nulla.» «Caroline riesce a scrivere delle lettere, ed è molto più lontana di te dalla finestra!», replicò Rebecca. «Cerchi di risparmiare il cherosene o sei pigra, Rebecca Glynn?», gridò Emma. «Posso andare anch'io a prendere la lampada, ma ho tutto il lavoro in grembo.» La penna di Caroline smise di scricchiolare. «Rebecca, abbiamo bisogno di una lampada», disse. «Preferite averla qui dentro?», chiese Rebecca, in tono poco convinto. «Naturalmente! Perché no?», gridò Caroline con severità. «Sono sicura di non voler portare il mio lavoro di cucito nell'altra stanza, che è già stata messa in ordine per domani», disse Emma. «Non ho mai sentito tante storie per una lampada.» Rebecca si alzò e uscì dalla stanza. Dopo poco entrò con una lampada grande e un paralume di porcellana bianca. Lo posò su un tavolo, un vecchio tavolino da gioco che era appoggiato sulla parete opposta alla finestra. La parete era spoglia, senza le librerie e i libri che occupavano i tre lati della stanza. Su quella parete si aprivano tre porte, e lo spazio restante era occupato dal tavolo. Al di sopra di esso, sul vecchio parato bianco e satinato attraversato da una vaga voluta verde, era appesa una piccola miniatura d'avorio, con una cornice in oro e nero: era il ritratto della madre da ragazza. Quando la lampada fu posata sul tavolino, il minuscolo volto grazioso di-
pinto sull'avorio sembrò illuminarsi di una espressione intelligente. «A che scopo hai messo la lampada lassù?», chiese Emma, con impazienza maggiore di quella solitamente espressa dalla sua voce. «Già che c'eri, potevi metterla nel corridoio e farla finita. Né io né Caroline possiamo vedere, se sta su quel tavolino.» «Pensavo che forse vi sareste spostate», replicò Rebecca, con voce rauca. «Anche se mi spostassi, non potremmo sederci entrambe intorno a quel tavolino. Caroline ha i fogli sparsi tutt'intorno. Perché non metti la lampada sulla scrivania che è al centro della stanza, in modo che possiamo vedere entrambe?» Rebecca esitò. Era molto pallida. Guardò la sorella Caroline con una supplica tormentosa nello sguardo. «Perché non metti la lampada su questo tavolo, come dice Emma?», chiese Caroline, quasi con ira. «Perché ti comporti così, Rebecca?» «Stavo aspettando di vedere se glielo avresti chiesto», disse Emma. «Lei non si comporta affatto come al solito.» Rebecca prese la lampada e la posò sul tavolo che era al centro della stanza, senza aggiungere una parola. Poi le voltò rapidamente le spalle, si sedette sul sofà, e si mise una mano sugli occhi come per ripararli dalla luce, quindi restò così. «La luce ti dà fastidio agli occhi: per questo motivo non volevi la lampada?», chiese con gentilezza Emma. «A me è sempre piaciuto stare al buio», replicò Rebecca, con voce soffocata. Poi prese in fretta il fazzoletto dalla tasca e cominciò a piangere. Caroline continuò a scrivere, e Emma a cucire. A un tratto Emma, mentre cuciva, lanciò un'occhiata alla parete opposta. L'occhiata diventò uno sguardo fisso. Guardò intensamente, sempre con il lavoro tra le mani. Poi distolse lo sguardo, mise qualche altro punto e guardò di nuovo, quindi ritornò al suo lavoro. Alla fine posò la stoffa in grembo e fissò con concentrazione. Dalla parete spostò lo sguardo su tutta la stanza, osservando i vari oggetti. Guardò la parete a lungo e intensamente. Poi si rivolse alle sorelle. «Che cos'è?», disse. «Che cosa?», chiese Caroline con asprezza. La penna grattò rumorosamente sulla carta. Rebecca singhiozzò convulsamente. «Quella strana ombra sulla parete», ribatté Emma.
Rebecca si nascose la faccia. Caroline affondò la penna nel calamaio. «Perché non alzi gli occhi e guardi?», chiese Emma in tono interrogativo e alquanto risentito. «Ho fretta di finire la lettera, in modo che la signora Wilsonebbit riceva la notizia in tempo per venire al funerale», fu la breve replica di Caroline. Emma Brigham si alzò, lasciando cadere a terra il lavoro, e cominciò a camminare per la stanza e a muovere i vari soprammobili, con gli occhi sempre fissi sull'ombra. Poi strillò improvvisamente. «Guardate quell'ombra orribile! Che cos'è? Caroline, guarda, guarda! Rebecca, guarda! Che cos'è?» Tutta la trionfante placidità di Emma era scomparsa. Il suo bel volto era livido per l'orrore. Si irrigidì, indicando l'ombra. «Guardate!», disse ancora con l'indice puntato. «Guardate! Che cos'è?» Allora Rebecca emise un gemito selvaggio, dopo aver dato un'occhiata tremante alla parete. «Oh, Caroline, è di nuovo lì! È di nuovo lì!» «Caroline Glynn, guarda!», disse Emma. «Guarda! Che cos'è quell'ombra spaventosa?» Caroline si alzò, si girò, e restò a guardare la parete. «Perché dovrei saperlo?», chiese. «È su quella parete ogni sera, da quando è morto Edward», gridò Rebecca. «Ogni sera?» «Sì. Nostro fratello è morto giovedì, e oggi è sabato: sono tre sere», disse Caroline, rigida. Sembrava riuscisse a rimanere calma, stringendosi in una morsa di volontà concentrata. «So... so... somiglia... a...», balbettò Emma, con voce colma di orrore. «So molto bene a che cosa somiglia», disse Caroline. «Ho gli occhi per vedere.» «Somiglia a Edward», esplose Rebecca, in un delirio di paura. «Solo che...» «Sì, gli somiglia», assentì Emma, il cui tono inorridito era pari a quello della sorella, «solo che... Oh, è orribile! Che cos'è, Caroline?» «Te lo domando di nuovo: perché dovrei saperlo?», ribatté Caroline. «Lo vedo come te. Perché dovrei saperne di più di te?» «Deve essere qualcosa nella stanza», disse Emma, guardandosi intorno, con espressione disperata.
«La prima sera in cui è comparsa, abbiamo spostato tutto quello che c'è nella stanza», disse Rebecca. «Non è prodotta da nulla che si trovi nella stanza.» Caroline l'aggredì con ira. «È ovvio che deve essere prodotta da qualcosa della stanza», disse. «Ma perché ti comporti così? Che cosa vuoi dire? È ovvio che deve essere prodotta da qualcosa nella stanza.» «Certo», convenne Emma, guardando Caroline con sospetto. «Deve essere così. È solo una coincidenza: un caso. Forse è quella piega nella tenda della finestra che la crea. Dev'essere qualcosa nella stanza.» «Non è qualcosa che è nella stanza!», ripeté Rebecca con ostinato orrore. La porta si aprì all'improvviso ed entrò Henry Glynn. Cominciò a parlare, poi i suoi occhi seguirono la direzione degli sguardi delle sorelle. Restò immobile come un sasso a fissare l'ombra sulla parete. Era a grandezza naturale e si allungava sul bianco rettangolo di una porta, e per metà sulla parete dove era appeso il ritratto. «Che cos'è?», domandò con voce strana. «Deve dipendere da qualcosa che è nella stanza», disse debolmente Emma. «Non dipende da nulla che è nella stanza!», insisté Rebecca, di nuovo con la stridula insistenza del terrore. «Ma come ti comporti, Rebecca Glynn!», esclamò Caroline. Henry Glynn guardò ancora l'ombra. Sul suo volto si manifestò una gamma di emozioni: orrore, colpa, poi rabbiosa incredulità. All'improvviso, cominciò a camminare a passi rapidi per la stanza. Spostò i mobili con gesti violenti, ogni volta girandosi per vedere l'effetto sull'ombra. Non mutava nemmeno un tratto di quella terribile sagoma. «Dev'essere qualcosa nella stanza!», dichiarò con una voce che risuonò sferzante come un colpo di frusta. Poi il suo volto cambiò. Diventarono manifesti i segreti intimi della sua natura, fino al punto che i suoi lineamenti ne furono sopraffatti. Rebecca rimase in piedi, accanto al sofà, guardandolo con occhi tristi e affascinati. Emma strinse una mano di Caroline. Entrambe erano in un angolo, lontano dal raggio d'azione del fratello. Per qualche istante questi si aggirò nella stanza come un animale selvaggio in gabbia. Spostò tutti i mobili: quando lo spostamento di un mobile non influiva sull'ombra, lo gettava a terra, sotto gli sguardi attoniti delle sorelle. Poi, improvvisamente, rinunciò. Rise e cominciò a raddrizzare i mobili
che aveva buttato a terra. «Che assurdità», disse con leggerezza. «Tante storie per un'ombra!» «È vero», assentì Emma, con una voce spaventata che la donna si sforzava di rendere naturale. Nel parlare, sollevò una sedia che era caduta lì vicino. «Penso che tu abbia rotto la sedia a cui Edward era tanto affezionato», osservò Caroline. Terrore e ira lottarono per trovare posto sul volto della donna. La sua bocca era ferma, gli occhi socchiusi. Henry sollevò la sedia con finta ansia. «È buona come prima», disse, in tono scherzoso. Quindi rise di nuovo, guardando le sorelle. «Vi ho spaventate?», chiese. «Ormai dovreste essere abituate ai miei modi di fare. Conoscete la mia maniera di andare al fondo di un mistero, e quell'ombra ha un aspetto... bizzarro, forse. Ho pensato che, se ci fosse stato un modo di spiegarla, mi sarebbe piaciuto farlo senza indugi.» «A quanto pare, non hai avuto successo», osservò Caroline, in tono asciutto, con un fuggevole sguardo alla parete. Gli occhi di Henry seguirono i suoi, e l'uomo rabbrividì visibilmente. «Oh, non c'è spiegazione per le ombre», disse, e rise di nuovo. «È stupido cercare di spiegare le ombre.» Poi suonò la campanella per la cena, e tutti lasciarono la stanza: Henry rivolse la schiena alla parete come, del resto, fecero anche le sorelle. Mentre attraversavano il corridoio, Emma si avvicinò a Caroline. «Sembrava un demone!», le sussurrò all'orecchio. Henry faceva strada con un'andatura agile, da ragazzo. Rebecca chiudeva la fila: camminava a malapena, tanto le tremavano le ginocchia. «Stasera non ce la faccio a stare ancora in quella stanza», sussurrò a Caroline dopo la cena. «Benissimo!», replicò Caroline. «Penso che andremo nel salotto a sud», disse poi a voce alta, «è meno umido dello studio, e io sono raffreddata.» Si accomodarono tutte nella stanza a sud con i loro lavori di cucito. Henry leggeva il giornale, con la sedia accostata alla lampada che stava sul tavolo. Verso le nove si alzò all'improvviso e attraversò il corridoio per andare nello studio. Le tre sorelle si guardarono. Emma si alzò, raccolse le gonne fruscianti intorno alle gambe e si avvicinò alla porta in punta di piedi. «Che cosa hai intenzione di fare?», domandò Rebecca, agitata. «Voglio vedere che cosa fa!», replicò Emma con cautela.
Indicò la porta dello studio, che si trovava dall'altra parte del corridoio: era socchiusa. Henry aveva tentato di chiuderla dietro di sé, ma quella si era gonfiata oltre ogni limite con una strana rapidità. Era ancora socchiusa e ne trapelava una striscia di luce. La lampada del corridoio non era accesa. «Sarebbe meglio che restassi dove sei», disse Caroline, con asprezza. «Voglio vedere!», ripeté Emma con decisione. Poi raccolse il vestito intorno a sé con tanta aderenza che le mature curve del suo corpo si palesarono nella guaina di seta. Attraversò il corridoio con andatura lenta e incerta, quindi si fermò davanti alla porta dello studio, con lo sguardo sulla fessura. Nella stanza a sud, Rebecca smise di cucire e restò con lo sguardo fisso nel vuoto. Caroline continuò a cucire. Ma ecco quello che vide Emma, ferma davanti alla porta dello studio, attraverso la fessura. Henry Glynn, che evidentemente aveva concluso che la fonte della strana ombra doveva trovarsi tra il tavolo su cui era la lampada e la parete, menava stoccate e affondi su tutto lo spazio che gli stava davanti con una vecchia spada appartenuta al padre. Non trascurò nemmeno un centimetro. Doveva aver diviso lo spazio in sezioni matematiche. Brandiva la spada con gelida rabbia e lucidità, e la lama emetteva lampi di luce, ma l'ombra restava intatta. Emma si sentì gelare per l'orrore. Infine Henry si fermò e restò con la spada in mano, pronto a colpire, guardando minacciosamente l'ombra sulla parete. Emma riattraversò il corridoio e chiuse la porta della stanza a sud, prima di riferire che cosa aveva visto. «Sembrava un demone!», ripeté. «C'è ancora in casa un po' di quel vecchio vino, Caroline? Sento di non riuscire a sopportare oltre.» Sembrava effettivamente distrutta. Il suo bel volto tranquillo era esausto, teso e pallido. «Sì, ce n'è in abbondanza», disse Caroline. «Te ne darò un goccio prima di andare a letto.» «Penso che faremmo bene tutte a prenderne un po'», disse Emma. «Oh, mio Dio, Caroline, che cosa...» «Non fare domande e non parlare», disse Caroline. «No, non ne ho l'intenzione!», replicò Emma. «Ma...» Rebecca si lamentò a voce alta. «Perché ti lamenti?», chiese con asprezza Caroline.
«Povero Edward!», rispose Rebecca. «Questo è l'unico motivo per cui devi piangere», disse Caroline. «Non ce ne sono altri.» «Vado a letto», disse Emma. «Non riuscirò a venire al funerale, se non vado subito a dormire.» Poco dopo, le tre sorelle si recarono ciascuna nella propria stanza, e il salotto a sud restò vuoto. Caroline disse a Henry, che si trovava ancora nello studio, di mettere la lampada fuori, prima di salire al primo piano. Le sorelle se ne erano andate da circa un'ora, quando l'uomo entrò nel salotto con in mano la lampada. La posò sul tavolo e aspettò qualche minuto, camminando avanti e indietro. Il suo viso aveva un aspetto terribile, il suo bel colorito era livido, e aveva gli occhi azzurri che sembravano delle orbite nere colme di orrore. Poi prese la lampada e ritornò nella biblioteca, la posò sul tavolo centrale, e l'ombra spuntò sulla parete. Studiò ancora una volta il mobilio e lo spostò, ma con attenzione, senza la precedente frenesia. Nulla fece mutare l'ombra. Allora Henry ritornò nella stanza a sud con la lampada e attese. Poi rientrò nello studio e sistemò la lampada sul tavolo: l'ombra spuntò nuovamente sulla parete. Era mezzanotte quando infine salì al piano superiore. Emma e le altre sorelle, che non riuscivano a dormire, lo sentirono. Il giorno seguente ebbe luogo il funerale. La sera la famiglia era seduta nella stanza a sud. Alcuni parenti erano con loro. Nessuno entrò nello studio finché Henry non vi portò la lampada, dopo che le sorelle si furono ritirate per la notte. Rivide l'ombra sulla parete animarsi alla luce. La mattina dopo, a colazione, Henry Glynn annunciò che si sarebbe recato in città per tre giorni. Le sorelle lo guardarono sorprese. Lasciava raramente la casa e, proprio in quel periodo, aveva trascurato i pazienti a causa della morte di Edward. Era medico. «Come fai a lasciare i tuoi pazienti adesso?», chiese con stupore Emma. «Non so come fare, ma non ho altre possibilità», replicò Henry con disinvoltura. «Ho ricevuto un telegramma dal Dottor Mitford.» «Un consulto?», domandò Emma. «Ho delle faccende da sbrigare», replicò Henry. Il Dottor Mitford era un suo vecchio compagno di studi che viveva in una città vicina e che ogni tanto lo chiamava in caso di un consulto. Dopo che il fratello se ne fu andato, Emma disse a Caroline che, dopotutto, Henry non aveva detto che sarebbe andato dal Dottor Mitford per un consulto, e che lei lo riteneva molto strano.
«Tutto è molto strano!», disse Rebecca, rabbrividendo. «Che cosa vuoi dire?», domandò Caroline con durezza. «Niente!», ribatté Rebecca. Nessuno entrò nella biblioteca quel giorno, né il successivo, né l'altro ancora. Il terzo giorno aspettavano il ritorno di Henry, ma lui non rientrò nemmeno dopo l'arrivo dell'ultimo treno dalla città. «È una faccenda veramente strana», disse Emma. «Un dottore che abbandona i suoi pazienti per tre giorni, in un momento simile! E so che ne ha alcuni gravemente malati: me lo ha detto lui. E un consulto che dura tre giorni! Non c'è alcun senso, e Henry ancora non è tornato. Io, da parte mia, non lo capisco.» «Io nemmeno», disse Rebecca. Erano tutt'e tre nel salotto a sud. Non c'era luce nello studio, che si trovava di fronte, e la porta era socchiusa. Poco dopo, Emma si alzò: non avrebbe saputo dire perché, ma qualcosa la spinse a farlo, qualcosa al di fuori di lei. Uscì dalla stanza, si avvolse di nuovo le gonne fruscianti intorno alle gambe in modo da camminare senza far rumore, e cominciò a spingere la porta dello studio. «Non ha la lampada», osservò Rebecca con voce tremante. Caroline, che stava scrivendo delle lettere, si alzò, prese la lampada (ce n'erano due nella stanza) e seguì la sorella. Rebecca si alzò, ma poi si fermò, scossa da un tremito, senza il coraggio di seguirle. Il campanello della porta suonò, ma le altre non lo sentirono: si trovava dal lato opposto della casa, rispetto allo studio. Rebecca esitò finché il campanello suonò per la seconda volta, poi andò alla porta. Si era ricordata che la cameriera non c'era. Caroline e la sorella Emma entrarono nello studio. Caroline posò la lampada sul tavolo. Guardarono la parete. «Oh, mio Dio!», ansimò Emma. «Ci sono... ci sono due... ombre.» Le sorelle si strinsero l'una all'altra, con lo sguardo fisso sulle due orribili ombre. Poi entrò Rebecca, barcollando, con un telegramma in mano. «È arrivato... un telegramma», disse con voce tremula. «Henry è... morto!» ANN RADCLIFFE La camera dei fantasmi Il Conte diede ordine che si aprissero le stanze a nord, e che venissero
preparate per ricevere Ludovico; ma Dorothee, memore di quanto recentemente aveva visto in quell'ala, ebbe paura a obbedire e, poiché nessuno degli altri servi osò avventurarvisi, le stanze rimasero chiuse fino all'ora in cui Ludovico vi sarebbe andato per la notte, un momento atteso da tutti nel castello con grandissima impazienza. Dopo cena, per ordine del Conte, Ludovico lo seguì nello studio dove i due rimasero per quasi mezz'ora; uscendo, il Signore gli consegnò una spada. «Questa ha ben servito in contese mortali», disse il Conte con allegria. «Tu la userai onorevolmente, non ne dubito, in una contesa spirituale. Domani fammi sapere che non è rimasto neppure un fantasma nel castello.» Ludovico prese l'arma con un rispettoso inchino. «Vi ubbidirò, mio Signore», disse. «M'impegnerò perché nessuno spettro disturbi la pace del castello dopo questa notte.» Tornarono in sala da pranzo, dove gli ospiti del Conte aspettavano per accompagnare lui e Ludovico nelle stanze a nord; Dorothee, a cui fu chiesto di portare le chiavi, le consegnò a Ludovico che subito dopo si mosse per primo, seguito dalla maggioranza dei presenti. Raggiunta la scala posteriore, diversi servi arretrarono e si rifiutarono di andare oltre, ma gli altri lo seguirono fino in cima alle scale, dove un largo pianerottolo consentì loro di radunarsi intorno a Ludovico, che intanto infilava la chiave nella serratura; lo osservarono con impaziente curiosità, come se stesse compiendo un rito magico. Non pratico della serratura, Ludovico non riuscì a girare la chiave e Dorothee, che indugiava in basso, fu chiamata su e sotto la sua mano esperta la porta si aprì lentamente; sbirciò nella stanza oscura, emise uno strillo e si ritirò. A quel segnale d'allarme, la maggior parte dei presenti fuggì di sotto, e il Conte, Henri e Ludovico, rimasero soli a proseguire la visita; si precipitarono dentro, Ludovico con la spada che aveva avuto appena il tempo di sguainare, il Conte con un lume in mano, e Henri con un cesto di provviste per il coraggioso avventuriero. Dopo avere guardato frettolosamente la prima stanza, dove nulla pareva giustificare lo spavento, passarono nella seconda; anche qui era tutto tranquillo, ed entrarono quindi nella terza con passo più moderato. Il Conte ebbe il tempo di sorridere dell'agitazione che aveva mostrato e di chiedere a Ludovico in quale stanza contasse di passare la notte.
«Ci sono diverse stanze oltre a queste, Vostra Eccellenza», disse Ludovico indicando una porta, «e in una di esse c'è un letto, dicono. Passerò là la notte; e, quando sarò stanco di vegliare, potrò distendermi.» «Bene», concluse il Conte. «Andiamo avanti. Vedi: queste stanze non mostrano che pareti umide e mobili marci. Sono stato così occupato da quando sono arrivato al castello, che finora non mi sono curato di questo settore. Ricordati, Ludovico: domani devi dire alla governante di spalancare le finestre. I tendaggi di damasco cadono a pezzi; li farò tirare giù, e farò togliere questa vecchia mobilia.» «Caro signore», intervenne Henri, «qui c'è una poltrona così ricca di dorature da somigliare moltissimo a una di quelle regali del Louvre.» «Sì», annuì il Conte soffermandosi a esaminarla, «questa poltrona ha una sua storia, ma ora non ho tempo di raccontarla: procediamo. Questa serie di stanze è più estesa di quanto immaginassi; sono passati tanti anni da quando vi abitavo! Ma dov'è la camera da letto di cui parli, Ludovico? Queste sono anticamere del salotto grande. Io le ricordo nel loro splendore.» «Il letto, mio Signore», rispose Ludovico, «da quanto mi hanno detto, è in una stanza oltre il salone, l'ultima di questo settore.» «Oh, ecco il salone», disse il Conte quando entrarono nella spaziosa stanza in cui Emily e Dorothee erano state. Lì si fermò un momento, esaminando i resti della passata grandezza: i sontuosi arazzi, i lunghi e bassi divani di velluto con intelaiatura di legno massiccio intagliato e dorato, il pavimento a mosaico di marmo coperto al centro da un prezioso tappeto, le finestre dai vetri istoriati, e i grandi specchi veneziani di dimensioni e qualità che la Francia di quell'epoca non faceva più, specchi che riflettevano la grande stanza da ogni lato. Avevano rispecchiato anche scene gaie e brillanti, perché quella era la sala di ricevimento del castello, e lì la Marchesa aveva radunato gli ospiti per le feste delle sue nozze. Se la bacchetta di un mago avesse potuto far rivivere lì quelle persone - molte delle quali ormai erano scomparse dalla terra - che un tempo erano passate davanti a quei lucidi specchi, quale immagine variegata e lontana avrebbero mostrato rispetto al presente! In quel momento, anziché lo sfavillio delle luci e una folla splendida e in movimento, gli specchi riflettevano solo il chiarore del lume che il Conte teneva in mano, e che appena serviva a mostrare le tre persone che stavano esaminando la stanza e le grandi pareti scure attorno a loro. «Ah!», disse il Conte a Henri, scuotendosi dalle sue profonde fantasti-
cherie. «Com'è cambiata la scena da quando la vidi l'ultima volta! Ero giovane allora, e la Marchesa era viva e nel suo fulgore; c'erano tante altre persone qui che ora non ci sono più. Là stava l'orchestra, qui ci urtavamo l'uno con l'altro in una briosa confusione; le pareti echeggiavano della musica dei balli. Ora risuonano soltanto di una debole voce, e anche quella, fra non molto, non si udirà più. Figlio mio, ricordati che un tempo ero giovane come te, e che tu dovrai morire come coloro che ti hanno preceduto, come coloro che quando cantavano e ballavano in questa allegra stanza, dimenticarono che gli anni sono fatti di una somma di minuti e che ogni passo compiuto li portava più vicini alla tomba. Ma queste riflessioni sono inutili, stavo per dire criminali, a meno che non c'insegnino a prepararci per l'eternità, perché altrimenti offuscano la nostra attuale felicità senza guidarci a quella futura. Ma basta con questo... andiamo avanti.» Ludovico aprì allora la porta della camera da letto, e il Conte, entrando, fu colpito dall'aspetto funereo conferito alla stanza dal drappo scuro. Si avvicinò al letto con commossa solennità, e accorgendosi che era coperto da un drappo di velluto nero, si fermò. «Cosa significa tutto ciò?», disse, guardandolo. «Ho sentito dire, mio Signore», rispose Ludovico che stava ai piedi del letto e guardava all'interno dei veli del baldacchino, «che la Marchesa de Villeroi morì in questa camera e che vi rimase fino a quando non fu sepolta, e questo forse può spiegare il drappo.» Il Conte non rispose, ma rimase assorto nei suoi pensieri, evidentemente molto colpito. Poi, rivolto a Ludovico, gli chiese con aria seria se riteneva di avere tanto coraggio da passare lì la notte. «Se hai timore», aggiunse, «non vergognarti di dirlo; ti libererò dal tuo impegno senza esporti agli scherni dei tuoi compagni.» Ludovico tacque; l'orgoglio e qualcosa che somigliava molto alla paura lottarono dentro di lui; ma l'orgoglio prevalse, il servo arrossì e ruppe ogni indugio. «No, mio Signore», disse, «porterò a compimento ciò che ho iniziato; e vi sono grato per la vostra premura. In quel caminetto accenderò il fuoco, e con le buone cose contenute in questo cesto non dubito che agirò bene.» «Così sia», disse il Conte. «Ma come combatterai la noia della notte, se non dormi?» «Quando sarò stanco, mio Signore», rispose Ludovico, «non avrò paura di dormire; per la veglia ho un libro che mi farà compagnia.»
«Bene!», disse il Conte. «Spero che nulla ti disturbi ma, se dovessi spaventarti seriamente durante la notte, vieni da me. Ho troppa fiducia nel tuo buonsenso e nel tuo coraggio per credere che tu ti possa spaventare per poco, o che soffra del buio della stanza, o della sua posizione lontana, lasciandoti prendere da terrori immaginari. Domani dovrò ringraziarti dell'importante servizio; queste stanze saranno aperte, e la mia gente si convincerà del proprio errore. Buonanotte, Ludovico; fatti vedere presto domani mattina, e ricordati quel che ti ho detto prima.» «Sì, mio Signore. Buona notte a Vostra Eccellenza... vi accompagno con il lume.» Fece luce al Conte e a Henri ripercorrendo le stanze fino alla porta sulle scale. Sul pianerottolo c'era un lume, lasciato lì da un servo spaventato; Henri lo prese e rinnovò la buonanotte a Ludovico, il quale, ricambiando rispettosamente, chiuse la porta e la sprangò. Poi, tornando verso la camera da letto, esaminò via via le stanze con più meticolosità di prima; infatti temeva che qualcuno potesse esservisi nascosto per spaventarlo. Ma non c'era nessuno e, lasciando aperte le porte mentre andava avanti, arrivò nel salone, la cui spaziosità e oscurità silenziosa lo fecero trasalire un poco. Guardò indietro la lunga teoria di stanze comunicanti che aveva attraversato poi, girandosi, vide una luce e la sua immagine riflesse in uno dei grandi specchi e sobbalzò. Anche altri oggetti erano vagamente visibili nello specchio, ma lui non indugiò oltre e si affrettò a raggiungere la camera: l'esaminò e aprì la finestra del balcone chiuso a vetrata. Tutto lì era silenzio. Guardando attorno, il suo occhio fu attirato dal ritratto della defunta Marchesa, che lui fissò a lungo, con grande attenzione e con una certa sorpresa; poi, controllato lo spogliatoio, tornò in camera dove accese un fuoco di legna, la cui fiamma vivace gli rallegrò lo spirito, che aveva cominciato a risentire della tetraggine e del silenzio del luogo, interrotto soltanto da sporadiche raffiche di vento. Avvicinò un tavolino e una poltrona al caminetto, prese una bottiglia di vino e del cibo freddo dal cesto, e si concesse un buon pasto. Quando ebbe finito, depose la spada sul tavolo e, non sentendo il bisogno di dormire, tirò fuori dalla tasca il libro di cui aveva parlato. Conteneva vari antichi racconti provenzali. Attizzato il fuoco per avere una fiamma più viva, sistemò il lume e avvicinò la poltrona al caminetto; cominciò a leggere, e la sua attenzione fu presto assorbita interamente dalle scene descritte. Intanto il Conte era tornato nella sala da pranzo, dove quelli che l'aveva-
no seguito verso il settore nord erano rientrati dopo il grido di Dorothee, e ora facevano domande su domande riguardo a quelle stanze. Il Conte rimproverò i suoi ospiti per la loro fuga precipitosa e per le tendenze superstiziose che l'avevano dettata, e questo portò al quesito: lo spirito, dopo aver abbandonato il corpo, ha la possibilità di rivisitare la terra? E, in caso affermativo, possono mai gli spiriti diventare visibili ai sensi? Il Barone espresse l'opinione che la prima cosa fosse possibile, la seconda no; e si sforzò di giustificare le proprie idee citando autorevoli fonti antiche e moderne. Il Conte, invece, fu di parere opposto; ne seguì una lunga conversazione nella quale furono intavolati i soliti argomenti pro e contro, discussi con perizia e con franchezza, ma alla fine ognuno rimase della propria opinione. L'effetto della conversazione sui partecipanti fu vario. Sebbene il Conte avesse, rispetto al Barone, più argomenti a suo favore, ottenne meno consensi; perché quell'amore, così naturale per la mente umana, di tutto ciò che può allargare le proprie facoltà con meraviglia e stupore, portò la maggioranza della comitiva dalla parte del Barone; e, sebbene molte delle asserzioni del Conte non trovassero risposta, i suoi oppositori furono inclini a credere che questo dipendesse dalla loro mancanza di conoscenza di una materia tanto astratta, e non piuttosto da mancanza di argomenti abbastanza validi per convincerlo. Blanche, pallida nella sua attenzione, arrossì quando vide l'ironia nello sguardo di suo padre, e allora cercò di dimenticare i racconti superstiziosi ascoltati in convento. Emily ascoltava con grandissima attenzione la discussione, che per lei racchiudeva un problema interessante; ricordando l'apparizione della Marchesa da lei vista nella stanza, spesso il timore la raggelò. Più volte fu sul punto di dire quello che aveva visto, ma la paura di dare un dolore al Conte e di metterlo in ridicolo, la frenò; quindi, aspettando con ansiosa trepidazione il risultato dell'azione intrepida di Ludovico, decise che il suo futuro silenzio sarebbe dipeso da quello. Quando la comitiva si separò per la notte e il Conte andò nel suo spogliatoio, il ricordo delle desolate scene che aveva visto nel castello lo colpì profondamente, ma alla fine fu riscosso dai suoi pensieri e dal suo silenzio. «Che musica è questa che sento?», chiese al suo valletto. «Chi suona a quest'ora di notte?» L'uomo non rispose. Il Conte continuò ad ascoltare e poi aggiunse: «Questo non è un suonatore qualunque; tocca lo strumento con mano delicata. Chi è, Pierre?».
«Mio Signore!», esclamò l'uomo titubante. «Chi suona questo strumento?», ripeté il Conte. «Non lo sa, dunque, Vostra Signoria?», chiese il valletto. «Cosa intendi dire?», chiese il nobiluomo severamente. «Niente, mio Signore, non intendo dire niente», replicò l'uomo con aria sottomessa, «solo che... questa musica la si sente spesso attorno alla casa a mezzanotte, e pensavo che Vostra Signoria l'avesse già sentita.» «Una musica attorno alla casa a mezzanotte! Poveretto! C'è qualcuno che balla anche al suono di questa musica?» «Non è nel castello, credo, mio Signore. Il suono viene dal bosco, dicono, anche se sembra vicinissimo; ma del resto uno spirito può fare qualsiasi cosa.» «Ah, poveretto!», disse il Conte. «Mi sembri sciocco come tutti gli altri; domani ti convincerai del tuo ridicolo errore. Ma ascolta, che rumore è questo?» «Oh, mio Signore! Questa è la voce che spesso udiamo con la musica.» «Spesso!», disse il Conte. «Quanto spesso, dimmi? È molto bella.» «Diamine, mio Signore: io stesso non l'ho udita più di due o tre volte, ma altri che sono qui da più tempo l'hanno udita abbastanza spesso.» «Che cosa magnifica!», esclamò il Conte ascoltando. «E adesso che modulazione agonizzante! Questa è sicuramente una voce più che mortale.» «È ciò che dicono, mio Signore», disse il valletto. «Dicono che non è mortale la cosa che la emette; e se mi consentite di esprimere i miei pensieri...» «Zitto!», l'interruppe il Conte, e ascoltò fino a quando il canto non svanì. «Tutto ciò è strano», disse ritirandosi dalla finestra. «Chiudi le finestre, Pierre.» Pierre obbedì e, poco dopo, il Conte lo congedò, ma non cancellò il ricordo della musica, che vibrò a lungo nella sua fantasia con tonalità di struggente dolcezza, mentre sorpresa e perplessità occupavano i suoi pensieri. Frattanto Ludovico, nella sua stanza lontana, udiva di tanto in tanto la debole eco di una porta che si chiudeva quando la famiglia andò a dormire; poi la pendola del vestibolo, molto distante, batté dodici rintocchi. «È mezzanotte», disse, e guardò sospettosamente la grande stanza. Il fuoco nel caminetto stava quasi per spegnersi, perché aveva concentrato nel libro la sua attenzione, dimenticando ogni altra cosa; allora aggiunse nuova legna, non perché avesse freddo, nonostante la notte burrascosa, ma
perché era triste; e, dopo aver di nuovo regolato il lume, si versò un bicchiere di vino, accostò di più la poltrona al fuoco crepitante, cercò di non ascoltare il vento che ululava lugubremente contro le finestre, si sforzò di allontanare la mente dalla malinconia che si stava insinuando in lui, e riprese in mano il libro. Glielo aveva prestato Dorothee, la quale a sua volta l'aveva pescato in un oscuro angolo della biblioteca del Marchese; avendolo aperto e avendovi scorto le meraviglie che narrava, se l'era tenuto per il proprio piacere, giustificata in questo dalle condizioni del volume. L'angolo umido in cui il libro era caduto ne aveva rovinato la copertina, che era ammuffita, mentre le pagine si erano scolorite e macchiate, tanto è vero che i caratteri di stampa erano difficili da leggere. La novellistica degli autori provenzali, derivata da leggende arabe portate dai Saraceni in Spagna, o basata sulle gesta cavalleresche compiute dai Crociati che i trovatori avevano accompagnato in Oriente, era generalmente splendida, e sempre prodigiosa negli scenari e negli episodi; e non fa meraviglia che Dorothee e Ludovico fossero affascinati da scene che avevano catturato la sbadata immaginazione di ogni classe sociale in epoche precedenti. Tuttavia alcuni racconti del libro che Ludovico aveva davanti erano di semplice struttura, e nulla mostravano degli stupendi intrecci e delle gesta eroiche che usualmente caratterizzavano le favole del XII secolo. Tale era il racconto che lui si accinse a leggere; nella sua forma originaria era assai lungo, ma può essere riferito brevemente. Il lettore si accorgerà che è fortemente impregnato delle superstizioni dell'epoca. Il racconto provenzale In Bretagna viveva un illustre Barone, famoso per la sua magnificenza e la sua ospitalità raffinata. Il suo castello era abbellito da dame di squisita beltà e affollato da nobili Cavalieri, perché l'onore che lui rendeva alle imprese cavalleresche sollecitava i coraggiosi di lontani paesi a entrare nelle sue liste, così la sua Corte era più splendida di quelle di molti Principi. Al suo servizio c'erano otto menestrelli, che suonavano l'arpa raccontando romantiche storie tratte dagli Arabi, avventure cavalleresche capitate ai Cavalieri durante le Crociate, o azioni marziali del Barone loro Signore, mentre lui, circondato da Dame e Cavalieri, banchettava nella grande sala del castello, dove i costosi arazzi che adornavano le pareti illustrando le
imprese dei suoi antenati, le finestre con vetri istoriati arricchite di stemmi, gli sgargianti stendardi che sventolavano lungo il tetto, i sontuosi baldacchini, la profusione d'oro e d'argento che scintillava sulle credenze, i numerosi piatti che coprivano la tavola, la quantità dei servi in vivaci livree, nonché l'abbigliamento cavalleresco e splendido degli ospiti, contribuivano a formare uno scenario di una magnificenza che non possiamo sperare di vedere nell'attuale degenerazione. Del Barone si narra la seguente avventura. Una notte, ritiratosi tardi in camera dopo un banchetto e fatti allontanare i valletti, fu sorpreso dall'apparizione di uno sconosciuto dall'aria nobile, ma in atteggiamento addolorato e sconsolato. Credendo che la persona fosse stata nascosta nella stanza, poiché sembrava impossibile che avesse attraversato l'anticamera poco prima senza essere notata dai paggi che vi stazionavano, e che gli avrebbero precluso quell'intrusione, il Barone chiamò a gran voce la sua gente, estrasse la spada che non si era ancora tolto dal fianco e assunse una posizione di difesa. Lo sconosciuto, avanzando lentamente, gli disse che non c'era nulla da temere; che lui non veniva con intenzioni ostili, ma per comunicargli un terribile segreto che doveva necessariamente conoscere. Tranquillizzato dai modi cortesi dello sconosciuto, il Barone, dopo averlo esaminato un po' in silenzio, rinfoderò la spada e volle che l'uomo gli spiegasse con quali mezzi fosse arrivato in quella stanza e quale fosse lo scopo dell'inattesa visita. Senza rispondere alle due domande, lo sconosciuto disse che non poteva dare spiegazioni, ma che se il Barone avesse accettato di seguirlo fino al margine della foresta, a breve distanza oltre le mura del castello, l'avrebbe convinto là di avere qualcosa d'importante da rivelargli. Tale proposta allarmò di nuovo il Barone, che poco credeva che lo sconosciuto volesse attirarlo in un luogo così solitario a quell'ora di notte senza covare il proposito di attentare alla sua vita; rifiutò di andare, osservando altresì che se l'intenzione dello sconosciuto fosse stata onorevole, non avrebbe continuato a rifiutarsi di rivelare il motivo della sua presenza in quella stanza. Mentre diceva questo, scrutò lo sconosciuto più attentamente, senza scorgervi cambiamenti d'espressione, né sintomi che denunciassero la consapevolezza di cattive intenzioni. Era vestito come un Cavaliere, di statura alta e maestosa, dai modi dignitosi e cortesi. Tuttavia non volle comunicare il motivo della sua visita, a meno che non andassero nel luogo indicato;
e, al tempo stesso, accennò al segreto che avrebbe rivelato, il che risvegliò nel Barone un certo grado di curiosità, che alla fine lo indusse ad aderire alla richiesta, ma a determinate condizioni. «Signor Cavaliere», disse, «vi accompagnerò nella foresta, e condurrò con me solo quattro persone che saranno testimoni della nostra conversazione.» A questo, però, il Cavaliere si oppose. «Quanto vi svelerò», disse con solennità, «è per voi soltanto. Vi sono unicamente tre persone viventi alle quali la circostanza è nota; è di grande rilievo per voi e per la vostra famiglia che non lo chiarisca adesso. Negli anni futuri ripenserete a questa notte con soddisfazione o pentimento, secondo quanto deciderete di fare. Se vorrete prosperare d'ora in avanti, seguitemi; sul mio onore di Cavaliere vi garantisco che non vi capiterà del male. Se vi accontentate di sfidare il futuro, restate nella vostra camera, e io me ne andrò così come sono venuto.» «Signor Cavaliere», rispose il Barone, «com'è possibile che la mia futura pace dipenda dalla decisione presente?» «Questo non va detto adesso», replicò lo sconosciuto. «Mi sono spiegato il più possibile. È tardi; se avete deciso di seguirmi, affrettiamoci; farete bene a considerare l'alternativa.» Il Barone rifletté e, guardando il Cavaliere, notò che la sua espressione si era fatta particolarmente solenne. (A questo punto Ludovico ebbe l'impressione di sentire un rumore, diede una rapida occhiata attorno alla stanza e poi sollevò il lume per controllare meglio; quindi riprese il libro e continuò a leggere.) Il Barone camminò avanti e indietro in silenzio, colpito dalle parole dello sconosciuto, la cui eccezionale richiesta temeva tanto di accettare quanto di rifiutare. Infine disse: «Signor Cavaliere, non vi conosco affatto; ditemi, è ragionevole che mi avventuri solo con uno sconosciuto a quest'ora nella foresta solitaria? Ditemi almeno chi siete e chi vi ha aiutato a nascondervi in questa camera». Il Cavaliere a quelle parole corrugò la fronte e rimase momentaneamente in silenzio; poi, con espressione un po' severa, disse: «Sono un Cavaliere inglese, mi chiamo Sir Bevys di Lancaster e le mie imprese non sono sconosciute nella Città Santa; da là stavo tornando alla mia terra natia quando la notte mi ha sorpreso nella foresta». «Il vostro nome è divenuto famoso», disse il Barone. «L'ho sentito.» Il Cavaliere aveva un atteggiamento altezzoso. «Ma dato che il mio castello è
noto per accogliere tutti i veri Cavalieri, perché il vostro araldo non vi ha annunciato? Perché non vi siete mostrato al banchetto dove la vostra presenza sarebbe stata gradita, invece di nascondervi nel mio castello e sgattaiolare in camera mia a mezzanotte?» Lo sconosciuto si accigliò e girò la testa in silenzio; ma il Barone ripeté le domande. «Non vengo», disse il Cavaliere, «per rispondere a domande, ma per rivelare fatti. Se volete saperne di più, seguitemi; e vi garantisco sul mio onore di Cavaliere che tornerete incolume. Fate presto a decidere... devo andarmene.» Dopo qualche ulteriore incertezza, il Barone decise di seguirlo e di accertare l'esito di quell'insolita richiesta; sfoderò di nuovo la spada e, preso un lume, ordinò al Cavaliere di andare avanti. Questi obbedì e, aperta la porta, passarono nell'anticamera dove il Barone, stupito di trovarvi tutti i suoi paggi addormentati, si fermò; con subitanea violenza stava per rimproverarli della loro trascuratezza, ma il Cavaliere fece un cenno con la mano e guardò il Barone in modo così espressivo che quest'ultimo frenò il risentimento e passò oltre. Scese le scale, il Cavaliere aprì una porta segreta di cui il Barone credeva di essere l'unico a conoscere l'esistenza; e, avanzando per diversi cunicoli stretti e tortuosi, giunsero infine a un cancelletto al di là delle mura del castello. Resosi conto che quei passaggi segreti erano noti a uno sconosciuto, il Barone ebbe voglia di ritirarsi da un'avventura che aveva sapore d'inganno e di pericolo. Poi, considerando che era armato e che la sua guida aveva un'aria cortese e nobile, gli tornò il coraggio, si vergognò di averlo perso momentaneamente, e decise di risalire all'origine del mistero. Si ritrovò sulla solida piattaforma davanti alla maestosa porta del castello e, guardando in su, vide le finestre illuminate delle stanze in cui gli ospiti si erano ritirati per la notte; mentre rabbrividiva a causa del vento impetuoso e osservava il paesaggio scuro e desolato tutto intorno, pensò alle comodità della sua camera calda, rallegrata da un bel fuoco di legna e sentì per un attimo tutto il contrasto dell'attuale situazione. (Ludovico interruppe la lettura e, guardando il suo fuoco, lo attizzò un po'.) Il vento era forte e il Barone guardava il suo lume con ansia, aspettandosi di vederlo spegnersi da un momento all'altro; ma la fiamma, pur tremolante, non sì estinse, e lui continuò a seguire lo sconosciuto, che spesso so-
spirava, ma non diceva nulla. Quando giunsero al margine della foresta il Cavaliere si girò e sollevò la testa come per rivolgersi al Barone, ma richiuse le labbra e proseguì in silenzio. Quando si addentrarono nell'oscurità dei fitti rami, il Barone, colpito dalla solennità della scena, esitò incerto se avanzare, e chiese quanto ancora dovessero camminare. Il Cavaliere rispose con un gesto e il Barone, con passi esitanti e occhio guardingo, lo seguì per un sentiero oscuro e intricato, finché, dopo avere fatto un bel pezzo di strada, chiese di nuovo dove stessero andando, e si rifiutò di proseguire se non gli fosse stato risposto. Dicendo questo guardò ora la sua spada, ora il Cavaliere, che scosse il capo e mostrò un'espressione così abbattuta che tolse al Barone ogni sospetto, almeno per il momento. «Un po' più avanti c'è il luogo a cui vi sto conducendo», disse lo sconosciuto. «Non vi capiterà alcun male... l'ho giurato sul mio onore di Cavaliere.» Il Barone, rassicurato, lo seguì in silenzio, e presto arrivarono in un profondo recesso della foresta, dove scuri e alti castagni nascondevano completamente il cielo, e dove il sottobosco era tanto rigoglioso da farli procedere con difficoltà. Il Cavaliere faceva lunghi sospiri e talvolta si fermava. Quando infine raggiunsero un punto in cui gli alberi fitti erano impenetrabili, si voltò e con un'espressione terribile indicò il terreno. Lì il Barone vide il corpo di un uomo lungo disteso, in una pozza di sangue; aveva un'orribile ferita sulla fronte e pareva che la morte gli avesse già irrigidito i lineamenti. Il Barone, a quella vista, sobbalzò inorridito, guardò il Cavaliere per avere spiegazioni, e stava poi per sollevare il corpo per accertarsi se vi fosse ancora un filo di vita, ma lo sconosciuto fece un gesto con la mano e fissò su di lui uno sguardo così serio e triste che non solo lo sorprese, ma lo fece desistere. Ma quali furono le emozioni del Barone quando, sollevando il lume sopra il volto del morto, scoprì l'esatta rassomiglianza di questi con lo sconosciuto, la sua guida, al quale rivolse uno sguardo di stupore e di muta domanda! Guardandolo, vide l'espressione del Cavaliere mutare e dissolversi, e tutta la sua figura svanire! (Ludovico sobbalzò e posò il libro, perché gli parve di aver sentito una voce nella stanza; guardò verso il letto dove, tuttavia, vide soltanto i tendaggi scuri e il drappo. Ascoltò, quasi non osando respirare, ma udì soltan-
to il lontano rumoreggiare del mare in tempesta, e le raffiche di vento che investivano le finestre; allora, concludendo di essere stato ingannato da quei sibili, riprese il libro per finire il racconto.) Mentre, immobile, il Barone fissava il punto, si udì una voce pronunciare queste parole: «Il corpo di Sir Bevys di Lancaster, nobile Cavaliere d'Inghilterra, giace davanti a voi. Questa notte, mentre viaggiava dalla Città Santa verso la sua terra natia, è stato vittima di un agguato e assassinato. Rispettate l'onore e la dignità dei Cavalieri e la legge di umanità; seppellite il corpo in terra cristiana e fate che i suoi assassini siano puniti. A seconda se osserverete o trascurerete quest'obbligo, possano pace e felicità, o guerra e infelicità, accompagnare voi e la vostra famiglia per sempre!». Quando si riprese dal timore reverenziale e dallo stupore che quell'avventura gli aveva procurato, il Barone tornò al castello e ordinò che il corpo di Sir Bevys fosse rimosso; il giorno seguente fu sepolto con gli onori dovuti a un Cavaliere, nella cappella del castello, alla presenza di tutti i nobili Cavalieri e delle Dame che abbellivano la corte del Barone de Brunne. Finito il racconto, Ludovico mise da parte il libro, perché sentiva una certa sonnolenza; messa altra legna nel caminetto, bevve un ultimo bicchiere di vino e si addormentò nella poltrona vicino al fuoco. In sogno gli parve di essere nella sala e, una volta o due, si riscosse da un assopimento superficiale, immaginando di vedere la faccia di un uomo che guardava da sopra l'alto schienale della sua poltrona. Quest'idea gli si impresse tanto che, quando alzò gli occhi, si aspettò quasi di incontrare altri occhi che lo fissavano; abbandonò il suo posto e guardò dietro la poltrona prima di convincersi che non c'era nessuno. Così passò il tempo. Il Conte, che aveva dormito poco la notte, si alzò presto e, ansioso di parlare con Ludovico, andò nelle stanze a nord; ma, poiché la porta sul pianerottolo era stata sprangata la sera precedente, dovette bussare con energia perché gli venisse aperta. Né il bussare né la sua voce furono uditi: chiamò a gran voce, poi regnò un silenzio totale. Il Conte, vista l'inutilità dei suoi sforzi, cominciò a temere che fosse capitato a Ludovico qualche incidente: il terrore di un essere immaginario poteva averlo privato dei sensi. Perciò si allontanò dalla porta con l'intenzione di chiamare i suoi servi per farla aprire con la forza: sentì che alcuni di loro si stavano già
muovendo nelle stanze inferiori. Alla domanda del Conte, se avessero visto o avuto notizie di Ludovico, i servi risposero, spaventati, che nessuno di loro si era avventurato nel settore nord del castello dopo la sera precedente. «Dorme profondamente, allora», disse il Conte, «e si trova tanto lontano dalla porta sprangata sul pianerottolo, che per entrare dovremo forzarla. Portate una leva e seguitemi.» I servi rimasero muti e sconsolati, e solo quando quasi tutta la gente della casa fu radunata, gli ordini del Conte furono eseguiti. Intanto Dorothee disse di una porta che si apriva da una galleria che andava dallo scalone all'ultima anticamera della grande sala e, poiché quella era molto più vicina alla camera da letto, era probabile che Ludovico si sarebbe svegliato facilmente tentando di aprirla. Il Conte, dunque, andò là; ma la sua voce fu inefficace a quella porta come lo era stata all'altra più lontana; seriamente preoccupato per Ludovico, stava per colpire personalmente la porta con la leva, quando notò la sua eccezionale bellezza e vi rinunciò. A prima vista pareva d'ebano, scura e levigata, lucidissima; in realtà era di larice, di quelli che crescevano in Provenza, allora famosa per tali foreste. La bellezza del colore lucido e la finezza degli intarsi indussero il Conte a risparmiarla, e così tornò all'altra in cima alla scala posteriore, che fu aperta con la forza. Il Conte entrò nella prima anticamera, seguito da Henri e da pochi servi, i più coraggiosi, mentre gli altri aspettavano il risultato dell'indagine stando sulle scale e sul pianerottolo. Regnava il più assoluto silenzio nelle stanze che il Conte attraversò e, quando fu nella sala, chiamò a gran voce Ludovico; poi, non ricevendo risposta, spalancò la porta della camera da letto ed entrò. La profonda quiete gli confermò le sue apprensioni per Ludovico: non si udiva neppure il respiro di una persona addormentata; e la sua inquietudine non era ancora finita perché, essendo le imposte tutte chiuse, la stanza era in un buio totale in cui nessun oggetto si distingueva. Il Conte ordinò a un servo di aprire le imposte e costui, nell'attraversare la stanza, inciampò su qualcosa e cadde, provocando con il suo grido il panico tra i pochi compagni che si erano avventurati fin là, i quali si diedero immediatamente alla fuga, lasciando il Conte e Henri a completare l'avventura. Fu Henri ad attraversare la stanza e ad aprire l'imposta di una finestra, e allora videro che l'uomo era caduto su una poltrona vicino al caminetto,
quella in cui si era seduto Ludovico; ma lì non c'era più, né lo si vedeva altrove nella luce imperfetta che filtrava. Il Conte, seriamente allarmato, aprì le altre imposte per poter esaminare meglio la stanza ma, non essendovi traccia di Ludovico, rimase un momento sbigottito, poco fidandosi dei propri sensi, finché i suoi occhi non guardarono sul letto, a cui si avvicinò per vedere se fosse lì addormentato. No, non c'era nessuno; allora andò al balcone chiuso a vetrata dove tutto era come la sera precedente; ma Ludovico era introvabile. Il Conte frenò il suo sbigottimento, pensando che Ludovico potesse avere lasciato le stanze durante la notte, sopraffatto dallo spavento che la solitaria desolazione e il ricordo delle cose che si raccontavano in proposito avevano alimentato. Tuttavia, se così era stato, l'uomo avrebbe cercato compagnia, ma gli altri servi avevano dichiarato di non averlo visto; la porta sul pianerottolo era stata trovata sprangata, con la chiave all'interno; quindi era impossibile che fosse passato di lì, e tutte le altre porte sul corridoio di quel settore erano state trovate ugualmente chiuse e sprangate, con le chiavi all'interno. Il Conte, costretto a credere che il ragazzo fosse fuggito dalle finestre, passò a esaminarle; ma quelle abbastanza larghe per far passare il corpo di un uomo erano state trovate perfettamente chiuse o da inferriate o da imposte, e non c'era traccia che una persona avesse tentato di scavalcarle; né era probabile che Ludovico avesse corso il rischio di rompersi l'osso del collo gettandosi dall'alto, quando avrebbe potuto passare incolume dalla porta. Lo sbigottimento lasciò il Conte senza parole; comunque tornò a esaminare la camera da letto, dove non c'erano segni di disordine, a parte quello prodotto dal ribaltamento della poltrona vicino alla quale c'era un piccolo tavolo; e su quello erano rimasti la spada di Ludovico, il lume, il libro che aveva letto, e la bottiglia con l'avanzo del vino. Ai piedi del tavolo c'era il cesto con il resto delle provviste e la legna. Henri e il servo espressero il loro stupore senza riserve e, sebbene il Conte dicesse poco, c'era una gravità nei suoi modi che esprimeva molto. Pareva che Ludovico avesse lasciato la stanza attraverso qualche passaggio segreto, perché il Conte non credeva che mezzi soprannaturali avessero provocato l'evento; eppure, se un tale passaggio esisteva, era inspiegabile perché lui l'avesse usato; come era sorprendente che non si vedesse traccia della via di fuga. Nelle stanze tutto era in ordine, come se Ludovico se ne fosse andato per la via normale.
Il Conte stesso aiutò a sollevare gli arazzi che adornavano le pareti della camera da letto, della sala e di una delle anticamere, onde scoprire se dietro uno di essi si celasse una porta; ma, dopo faticose ricerche, non se ne trovò nessuna; alla fine abbandonò le stanze dopo aver sprangato la porta sul pianerottolo e aver preso con sé la chiave. Poi diede ordine che si facessero intense ricerche su Ludovico, non solo nel castello, ma anche nel vicinato e, ritiratosi con Henri nel suo studio, conversò con lui per molto tempo. Qualunque fosse l'argomento, fece perdere a Henri molta della sua vivacità; di lì in avanti i suoi modi furono particolarmente austeri e riservati, ogniqualvolta veniva introdotto l'evento che ora agitava di stupore e spavento la famiglia del Conte. Il castello era stato abitato prima che il Conte ne divenisse proprietario. Lui non sapeva che le mura apparentemente esterne contenevano una serie di passaggi e di scale che portavano a sotterranei sconosciuti, e quindi non pensò mai di cercare una porta nelle parti della stanza presumibilmente più vicine all'esterno. Lì c'era una via d'uscita. Il castello (perché qui non siamo a Udolfo) si trovava sul litorale marino della Linguadoca; i suoi sotterranei erano diventati magazzini di pirati, i quali fecero del loro meglio per mantenere vive le illusioni soprannaturali che impedivano alla gente di perlustrare i locali; e forse erano stati quei pirati che avevano portato via Ludovico. BRAM STOKER Il segreto dei capelli d'oro Quando Margaret Delandre andò a vivere a Brent's Rock, tutto il vicinato si destò al piacere di un nuovo scandalo. Gli scandali connessi con la famiglia Delandre o con i Brent di Brent's Rock non erano pochi. Se fosse stata scritta la storia segreta della Contea, entrambi i nomi sarebbero stati ben rappresentati. È vero che la condizione sociale delle due famiglie era così diversa che sarebbero potute appartenere a continenti diversi - oppure, in quanto a questo, a due pianeti diversi - perché, fino ad allora, le loro orbite non si erano mai incrociate. I Brent avevano il predominio sociale su tutta la regione, e si erano sempre tenuti al di sopra della classe dei piccoli proprietari terrieri a cui apparteneva Margaret Delandre, così come un hidalgo spagnolo di sangue blu mantiene le distanze dai propri contadini. I Delandre erano una famiglia antica e, a modo loro, ne erano orgogliosi,
come i Brent erano orgogliosi della loro. Ma la famiglia Delandre non si era mai elevata al di sopra della classe dei piccoli proprietari. E, sebbene fossero stati benestanti nei vecchi tempi delle guerre straniere e del protezionismo, le loro fortune si erano avvizzite al sole cocente del libero mercato e dei «giorni sereni del tempo di pace». Come gli anziani del paese erano soliti affermare, i Delandre «si erano abbarbicati alla terra», con il risultato di mettervi le radici, anima e corpo. In effetti, poiché avevano scelto la vita dei vegetali, erano cresciuti come cresce la vegetazione: avevano messo i germogli ed erano fioriti nella buona stagione, e avevano sofferto nella cattiva. Il loro podere, Dander's Croft, aveva un aspetto corrispondente alla famiglia che vi abitava. Quest'ultima era decaduta una generazione dopo l'altra. Aveva generato di tanto in tanto dei tentativi abortiti di energia insoddisfatta sotto forma di soldati o marinai. Si erano conquistati i gradi minori del corpo in cui prestavano servizio, e lì si erano fermati, bloccati da quel fattore che è distruttivo per uomini senza una buona educazione: il riconoscere che al di sopra di loro esiste una funzione che si sentono incapaci di ricoprire. Così, poco a poco, la famiglia era caduta sempre più in basso. Gli uomini, tristi e insoddisfatti, bevevano fino a morirne, le donne sgobbavano a casa, oppure si sposavano con qualcuno di condizione inferiore, o peggio. Nel corso del tempo, erano scomparsi tutti, lasciando solo due persone nella piccola fattoria, Wykham Delandre e sua sorella Margaret. L'uomo e la donna sembravano aver ereditato, rispettivamente al maschile e al femminile, le brutte tendenze della loro famiglia. Avevano in comune la caratteristica, sebbene la manifestassero in maniere differenti, di abbandonarsi alle passioni cupe, alla sensualità e all'avventatezza. La storia dei Brent era stata alquanto simile, ma aveva manifestato la decadenza in maniera aristocratica e non plebea. Anche loro avevano avuto i propri soldati, ma questi avevano fatto una carriera diversa. Spesso si erano guadagnati delle onorificenze, perché erano coraggiosi e avevano compiuto atti eroici, prima che l'egoismo e la dissipazione minassero il loro vigore. Il capo attuale della famiglia - se così la si poteva definire, dal momento che ne restava un solo membro in linea diretta - era Geoffrey Brent. Era il tipico rappresentante di una stirpe decaduta della quale manifestava a volte le qualità migliori, e altre la degradazione più totale. Era bello, di una bellezza cupa, rapace, severa, a cui le donne riconoscono general-
mente autorità. Con gli uomini era distante e freddo; ma un comportamento simile non scoraggia mai le donne. Le misteriose leggi del sesso sono ordinate in maniera tale che perfino una donna timida non teme un uomo orgoglioso e arrogante. Di conseguenza, non c'era una donna nei dintorni di Brent's Rock, che non nutrisse qualche forma di ammirazione segreta per quel bel fannullone. Finché Geoffrey Brent limitò la propria condotta dissipata a Londra, Parigi e Vienna - comunque lontano da casa sua - l'opinione pubblica mantenne il silenzio. È facile ascoltare echi lontani, restando impassibili. Possiamo trattarli con incredulità, disprezzo o disdegno, o con qualsiasi altro atteggiamento si addica meglio alla nostra indifferenza. Ma, quando lo scandalo arriva vicino, è un'altra questione. Quel sentimento di indipendenza e di integrità che anima la popolazione di ogni comunità, si impone ed esprime la condanna del caso. Ma c'era una certa reticenza in tutti, e non si prestava più attenzione del necessario alla nuova situazione. Margaret Delandre si comportava con tanta sicurezza e franchezza, accettava la sua condizione di compagna di Geoffrey Brent con tanta naturalezza, che la gente cominciò a credere che si fossero sposati in segreto. Perciò si ritenne più saggio tenere la lingua a freno, per tema che il tempo le desse ragione e la rendesse ostile a tutto il villaggio. L'unica persona che, per la sua posizione, avrebbe potuto chiarire ogni dubbio, era ostacolata da circostanze sfavorevoli. Wykham Delandre aveva litigato con sua sorella - o forse era lei che aveva litigato con lui - e i rapporti tra loro erano improntati più all'odio aperto che alla neutralità armata. Il litigio era stato antecedente al trasferimento di Margaret a Brent's Rock. Lei e Wykham erano quasi venuti alle mani. C'erano certamente state minacce da una parte e dall'altra; e, alla fine, Wykham, sopraffatto dalla passione, aveva ordinato a sua sorella di andarsene da casa. Lei si era alzata immediatamente e, senza nemmeno indugiare a prendere i propri effetti personali, si era avviata verso l'uscio. Sulla soglia si era fermata un attimo a lanciare una terribile minaccia alla volta di Wykham: avrebbe vissuto nella vergogna e nella disperazione fino alla morte per l'azione spregevole che aveva commesso quel giorno. Era trascorsa qualche settimana. Il vicinato aveva supposto che Margaret si fosse trasferita a Londra, quando la donna ricomparve d'improvviso al
fianco di Geoffrey Brent. Tutti capirono prima di sera che aveva preso dimora a Brent's Rock. Non era una sorpresa che Brent fosse tornato all'improvviso: era una sua abitudine. Perfino i suoi domestici non sapevano mai quando aspettarselo: c'era una porta privata, di cui lui solo aveva la chiave e da cui talvolta entrava senza che nessuno in casa se ne accorgesse. Questo era il suo metodo abituale di ricomparire dopo una lunga assenza. Wykham Delandre si infuriò nel sentire le novità. Invocava vendetta... e, per tenere la mente alla pari con la sua ira, beveva più del solito. Cercò parecchie volte di incontrare sua sorella, ma lei rifiutò con disprezzo di vederlo. Cercò di parlare con Brent e fu respinto anche da lui. Allora cercò di fermarlo per strada, ma inutilmente, perché Geoffrey non era uomo da farsi fermare contro la propria volontà. Avvennero molti incontri tra i due uomini, ma ancor più furono quelli minacciati ed evitati. Alla fine Wykham Delandre si rassegnò a un'accettazione riottosa e vendicativa della situazione. Né Margaret né Geoffrey avevano un carattere pacifico, e ben presto cominciarono a litigare. Di tanto in tanto i litigi assumevano un aspetto più violento, e la coppia si scambiava minacce terribili che terrorizzavano i domestici in ascolto. Ma questi litigi in genere terminavano come terminano tutti i litigi domestici, con la riconciliazione e con il rispetto reciproco per le capacità combattive dell'altro. Geoffrey e Margaret si assentavano ogni tanto da Brent's Rock, e in ognuna di queste occasioni si assentava anche Wykham Delandre. Ma poiché, in genere, era informato dell'assenza della coppia troppo in ritardo perché potesse essere di qualche utilità, ritornava sempre a casa amareggiato e scontento. Infine, cominciò un periodo in cui le assenze da Brent's Rock divennero più lunghe. Solo qualche giorno prima, c'era stato un litigio più violento di tutti i precedenti, ma anche questo era stato ricomposto, e davanti ai domestici la coppia aveva parlato di un viaggio sul Continente. Qualche giorno più tardi anche Wykham Delandre era partito, ed era ritornato alcune settimane dopo. Era stato notato che aveva una strana aria: orgogliosa, soddisfatta, esaltata, non si sapeva come definirla. Andò subito a Brent's Rock, e chiese di vedere Geoffrey Brent. Quando gli fu detto che non era ancora tornato, disse, con un'aria decisa che colpì i domestici: «Tornerò. La mia informazione è importante: può aspettare!», e se ne andò.
Passarono settimane, poi passarono mesi; quindi arrivò la voce, confermata in seguito, che era accaduto un incidente nella valle di Zermatt. Nell'attraversare un passo pericoloso, una carrozza, che portava una signora inglese e il cocchiere, era caduta in un precipizio. Il signore che faceva parte del gruppo, Geoffrey Brent, si era salvato per puro caso, in quanto stava risalendo la montagna a piedi per far riposare i cavalli. Aveva lanciato l'allarme, ed erano state fatte le ricerche. Il parapetto rotto, le tracce che avevano lasciato i cavalli lungo il dirupo prima di cadere nel torrente: tutti si raccontavano la triste storia. Era una stagione umida, e nell'inverno c'era stata molta neve, perciò il fiume era in piena e i gorghi erano pieni di ghiaccio. Furono fatte lunghe ricerche e, alla fine, il relitto della carrozza e il corpo di un cavallo furono trovati in un'ansa del fiume. In seguito, fu trovato il corpo del cocchiere sulle rive del torrente, nei pressi di Täsch. Ma il corpo della donna, come quello dell'altro cavallo, era scomparso completamente e - si disse all'epoca - probabilmente vorticava tra i gorghi del Rodano nel suo corso verso il Lago di Ginevra. Wykham Delandre fece tutte le indagini possibili, ma non trovò alcuna traccia della donna scomparsa. Trovò, comunque, nei registri dei vari alberghi i nomi dei «Signori Brent», e fece erigere una lapide a Zermatt in memoria della sorella, con il suo cognome da sposata, poi pose una targa nella chiesa di Bretten, la parrocchia alla quale apparteneva sia Brent's Rock che Dander's Croft. Passò un anno, l'agitazione provocata dall'incidente si era acquietata, e il villaggio aveva ripreso a vivere nel solito modo. Brent era ancora assente, e Delandre era più ubriaco, più cupo e più vendicativo di prima. Poi ci fu un nuovo motivo d'agitazione. Brent's Rock si preparava ad accogliere una nuova padrona. Lo stesso Geoffrey aveva annunciato ufficialmente al Vicario, con una lettera, di essersi sposato qualche mese prima con una signora italiana e di essere in procinto di tornare a casa con la nuova moglie. Allora un gruppo di operai invase la casa; risuonarono la pialla e il martello, e l'odore di colla e di pittura pervase l'aria. Un'ala della vecchia dimora, quella a sud, fu interamente rifatta. Poi gli operai se ne andarono, lasciando solo il materiale per ristrutturare il grande salone, al ritorno di Geoffrey Brent. Infatti, questi aveva ordinato che la decorazione di quella stanza doveva avvenire sotto i suoi occhi. Aveva portato con sé i disegni accurati di una sala che era nella casa del padre di sua moglie, perché desiderava riprodurre il posto cui lei era abituata.
Visto che l'intonaco era tutto da rifare, tavole e ponteggi erano stati portati nel salone, ed erano accostati a una parete. C'era anche una grande vasca di legno per mescolare la calce che era ammucchiata in sacchi. Quando la nuova padrona di Brent's Rock arrivò, le campane della chiesa suonarono a festa, e ci fu giubilo generale. Era bella, era piena della poesia, del fuoco e della passione del Sud. Le poche parole inglesi che aveva imparato, venivano pronunciate in una maniera così goffa e così dolce che si conquistò il cuore di tutti. Altrettanto affascinanti erano la musica della sua voce e la tenera bellezza dei suoi occhi scuri. Geoffrey Brent sembrava più felice di quanto non lo fosse mai stato; ma sul volto aveva un'espressione cupa, misteriosa, che era nuova per quelli che lo conoscevano da anni. A volte sussultava, come per un rumore udito solo da lui. Passarono i mesi e si cominciò a sussurrare che Brent's Rock stava finalmente per avere un erede. Geoffrey era molto affettuoso con sua moglie, e il nuovo legame tra loro parve addolcirlo. Si interessò di più ai suoi fittavoli e ai loro bisogni. E, sia da parte sua che della sua dolce moglie, non mancavano le opere di carità. Sembrò aver riposto tutte le speranze nel bambino che stava per nascere e, man mano che il momento si avvicinava, l'ombra che gli aveva incupito il volto si attenuava. Nel frattempo, Wykham Delandre nutriva i suoi propositi di vendetta. Nel suo cuore era nato un sentimento che attendeva solo l'opportunità di cristallizzarsi, di prendere una forma definitiva. Il suo vago proposito era incentrato sulla moglie di Brent, perché sapeva che gli avrebbe fatto più male, colpendolo nell'essere che amava di più. E il futuro sembrava portare in seno l'opportunità che lui desiderava. Una sera sedeva da solo nel soggiorno della sua casa. Un tempo era stata una bella stanza nel suo genere, ma gli anni e l'abbandono avevano compiuto la propria opera, e ormai era poco più di un rudere, senza né dignità né bellezza di sorta. Era da ore che beveva, ed era più che intontito. Gli parve di udire un rumore, come se qualcuno fosse alla porta, e alzò gli occhi a guardare. Poi urlò con rabbia di entrare. Ma non ci fu risposta. Mormorando una bestemmia, ricominciò a bere. Dopo poco, dimenticò tutto quello che aveva intorno e si addormentò. Ma improvvisamente si destò e si vide davanti un'edizione malconcia e spettrale della sorella. Per qualche istante fu preso dalla paura. La donna che gli stava davanti, aveva i tratti distorti e gli occhi di fuoco, e non aveva
un aspetto umano. L'unica caratteristica che aveva in comune con sua sorella erano i lunghi capelli d'oro, che ora erano striati di grigio. Fissò il fratello con uno sguardo intenso, freddo. Anche Wykham, nel guardarla e nel comprendere la realtà della sua presenza, ritrovò l'odio che aveva nutrito per lei. Tutta la fosca passione del passato sembrò ritrovare la voce di colpo, quando lui le chiese: «Perché sei qui? Sei morta e sepolta». «Sono qui, Wykham Delandre, non per amor tuo, ma perché odio un'altra persona più di quanto odio te!» Un'ira intensa fiammeggiò nei suoi occhi. «Lui?», chiese il fratello con una tale ferocia nella voce che perfino la donna ne fu spaventata per un istante. «Sì, lui!», rispose. «Ma non equivocare, la vendetta è mia: tu mi darai solo il tuo aiuto.» Wykham chiese a un tratto: «Ti sposò?». Il volto distorto della donna si allargò in un sorriso spettrale. Era un'orribile scimmiottatura, perché le cicatrici assumevano strane forme e strani colori, e bizzarre striature bianche apparivano, quando i muscoli tendevano le vecchie cicatrici. «E così ti piacerebbe saperlo! Appagherebbe il tuo orgoglio sapere che tua sorella era sposata davvero! Bene, non lo saprai. Questa è la mia vendetta su di te, e non ho alcuna intenzione di cambiare idea. Sono venuta qui questa sera solo per farti sapere che sono viva, cosicché, se mi viene fatta violenza nel luogo in cui sto per andare, ci sarà un testimone.» «Dove vuoi andare?», le domandò il fratello. «Sono fatti miei! E non ho la minima intenzione di dirtelo!» Wykham si alzò, ma era ubriaco e cadde. Steso a terra, annunciò la sua intenzione di seguire la sorella; e, in uno scoppio di umore bilioso, le disse che l'avrebbe seguita, perché la luce dei suoi capelli e della sua bellezza splendeva nel buio. Allora lei si voltò verso il fratello, e disse che c'erano altri, oltre lui, che avrebbero rimpianto i suoi capelli e la sua bellezza. «Come li rimpiangerà lui», sibilò, «perché i capelli restano, anche se la bellezza è scomparsa. Quando manomise le ruote della carrozza e ci fece cadere nel precipizio, non tenne in gran conto la mia debolezza. Forse anche la sua bellezza si sarebbe guastata, se fosse rotolato, come me, tra le rocce del Visp, e si fosse congelato sui ghiacci alla deriva sul fiume. Che stia in guardia! È arrivata la sua ora!»
E con un gesto irato, spalancò la porta e uscì nel buio. Più tardi, quella stessa notte, la signora Brent, che era in dormiveglia, si destò di colpo e disse al marito: «Geoffrey, non hai sentito lo scatto di una serratura, al di sotto della nostra finestra?». Ma Geoffrey - benché lei avesse pensato che anche lui fosse sobbalzato al rumore - sembrava profondamente addormentato e aveva il respiro pesante. La signora Brent si assopì di nuovo; ma questa volta si destò perché suo marito si era levato e si era rivestito. Era mortalmente pallido e, quando la luce della lampada che aveva in mano gli illuminò il volto, lei si spaventò per l'espressione dei suoi occhi. «Che c'è, Geoffrey? Che fai?», chiese. «Zitta, piccola mia!», rispose lui, con voce rauca, strana. «Dormi. Io non riesco ad addormentarmi, e voglio terminare un lavoro che ho lasciato a metà.» «Portalo qui, marito mio», disse lei. «Sono sola e ho paura quando non ci sei.» Per tutta risposta, lui la baciò e uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Lei restò sveglia per qualche minuto, poi la natura ebbe la meglio, e si addormentò. Si destò di colpo, con ancora nelle orecchie l'eco di un grido soffocato che proveniva da qualche punto della casa. Balzò in piedi e corse alla porta ad ascoltare, ma non si sentiva più nulla. In ansia per il marito, gridò: «Geoffrey! Geoffrey!». Dopo qualche secondo, la porta della grande sala si aprì, e Geoffrey comparve, ma senza la lampada. «Zitta!», disse in un bisbiglio, e la sua voce era dura e aspra. «Zitta! Va' a letto! Sto lavorando, e non voglio essere disturbato. Va' a dormire, e non svegliare tutta la casa!» Con il gelo nel cuore - perché quella durezza nella voce del marito le era nuova - ritornò a letto e vi giacque tremante, troppo spaventata per gridare. Era tesa ad ascoltare ogni rumore. Ci fu un lungo silenzio, poi si udirono i colpi smorzati di un attrezzo di ferro! Risuonò il fragore di una pietra pesante che cadeva, seguito da un'imprecazione soffocata. Poi si sentì il rumore di qualcosa che veniva trascinata, e di nuovo il fragore di pietre che cadevano su altre pietre. Lei era terrorizzata, e il cuore le batteva con violenza. Sentì uno strano stridore, e poi ricadde il silenzio.
Dopo poco la porta si aprì piano, e apparve Geoffrey. Sua moglie finse di dormire; ma tra le ciglia lo vide pulirsi le mani di qualcosa di bianco, che sembrava calce. La mattina dopo lui non fece nessuna allusione alla notte precedente, e lei non aveva il coraggio di fare domande. Da quel giorno, su Geoffrey Brent sembrò incombere un'ombra. Non mangiava e non dormiva, e rinacque la sua vecchia abitudine di voltarsi di scatto, come se qualcuno si muovesse alle sue spalle. La grande sala sembrava esercitare uno strano fascino su di lui. Aveva l'abitudine di andarvi più volte al giorno, ma si spazientiva se qualcun altro - anche la moglie - vi entrava. Quando arrivò il capomastro a chiedere se doveva riprendere i lavori, Geoffrey non era in casa. L'uomo entrò nella sala e, quando Geoffrey ritornò, un domestico gli disse che il capomastro era nella sala. Bestemmiando, spinse di lato il domestico e si precipitò nell'antico salone. Incontrò l'operaio sulla soglia. L'uomo si scusò: «Chiedo scusa, signore, ma stavo per andare a fare qualche domanda ai domestici. Avevo ordinato che venissero portati dodici sacchi di calce, ma ne vedo solo dieci». «Alla malora i sacchi di calce!», fu la replica scortese e incomprensibile dell'uomo. L'operaio lo guardò sorpreso, e cercò di cambiare discorso. «Mi sono accorto, signore, che i nostri operai devono aver combinato un piccolo guaio. Ma il padrone lo farà riparare a sue spese.» «A che cosa ti riferisci?» «A quella pietra del focolare, signore: qualche idiota deve averci appoggiato un ponteggio e l'ha spaccata nel centro, anche se è abbastanza spessa da sopportare qualsiasi peso.» Geoffrey restò in silenzio per qualche minuto, poi disse con una voce innaturale, e in modo molto più gentile: «Dite ai vostri operai che per ora non voglio proseguire i lavori del salone. Voglio lasciarlo così com'è per qualche tempo». «Va bene, signore. Manderò qualcuno dei ragazzi a prendere i ponteggi e i sacchi di calce, e a rimettere in ordine la stanza.» «No! No!», disse Geoffrey. «Lasciateli dove sono. Manderò io a dirvi quando dovrete riprendere i lavori.» Allora il capomastro se ne andò, e il suo commento al padrone dell'im-
presa fu: «Se fossi in voi, signore, gli manderei il conto dei lavori che sono già stati fatti. Mi pare che in quella casa i soldi comincino a scarseggiare». Un paio di volte, Delandre cercò di fermare Brent per strada e, alla fine, non riuscendo nell'intento, seguì a cavallo la carrozza e urlò: «Che fine ha fatto mia sorella, tua moglie?». Geoffrey spronò i cavalli al galoppo, e l'altro, comprendendo dal volto pallido dell'uomo e dallo svenimento di sua moglie di aver ottenuto il suo scopo, si allontanò con una risata maligna. Quella sera, quando Geoffrey entrò nel salone, passò davanti al grande camino, e di colpo balzò all'indietro con un grido soffocato. Poi, con uno sforzo, si calmò e andò a prendere una lampada. Si chinò sulla pietra del focolare incrinata per vedere se la luce della luna, che entrava attraverso le finestre istoriate, lo aveva ingannato. Poi, con un gemito d'angoscia, cadde in ginocchio. Tra le fessure della pietra incrinata sporgeva una moltitudine di capelli d'oro, appena tinti di grigio! Disturbato da un rumore alla porta, si guardò intorno e vide sua moglie sulla soglia. Nella disperazione del momento, decise di agire per evitare la scoperta: accese un fiammifero alla lampada, e si chinò a bruciare i capelli che crescevano attraverso la pietra incrinata. Poi si alzò con quanta più disinvoltura poté, e finse di essere sorpreso nel vedere la moglie accanto a sé. Visse tutta la settimana seguente nell'angoscia se, per caso o per un impegno, non poteva restare da solo nella sala per qualche tempo. Ogni giorno i capelli ricrescevano attraverso la fessura, e lui doveva stare in guardia se non voleva che il suo terribile segreto fosse scoperto. Cercò di trovare all'esterno della casa un nuovo nascondiglio per il cadavere della donna assassinata, ma c'era sempre qualcuno a interromperlo. Una volta, mentre usciva dalla porta privata, incontrò sua moglie che cominciò a fargli domande su quell'uscita segreta. Egli finse di essere sorpreso del fatto che lei non avesse mai notato la chiave che ora le mostrava con riluttanza. Geoffrey amava appassionatamente sua moglie, cosicché la possibilità che lei scoprisse il suo spaventoso segreto o che dubitasse di lui, lo riempiva d'angoscia. Ma, dopo qualche giorno, arrivò alla conclusione che lei sospettava qualcosa.
Quella stessa sera lei entrò nella sala, dopo la cavalcata quotidiana, e lo trovò seduto malinconicamente accanto al camino. Gli parlò con franchezza. «Geoffrey, Delandre mi ha parlato e mi ha detto delle cose orribili. Mi ha detto che una settimana fa sua sorella è tornata a casa, ridotta al fantasma di se stessa - solo la sua chioma d'oro era la stessa di un tempo - e gli ha annunciato di avere cattive intenzioni. Lui mi ha chiesto dov'è sua sorella... e oh, Geoffrey, ma lei è morta, è morta! Allora come ha fatto a tornare? Oh! Ho paura, e non so a chi rivolgermi!» Per tutta risposta, Geoffrey esplose in un torrente di bestemmie che la fecero tremare. Maledisse Delandre, sua sorella e tutta la loro stirpe, e soprattutto coprì di maledizioni i capelli d'oro di Margaret. «Oh, basta, basta!», disse sua moglie, e poi non parlò più, perché temeva il marito quando lo vedeva di quell'umore così violento. Geoffrey, in un impeto d'ira, si alzò e si allontanò dal camino. Ma si fermò all'improvviso, appena vide l'espressione terrorizzata negli occhi di sua moglie. Seguì la direzione del loro sguardo, e allora anche lui fu preso da un tremito. Perché, sulla pietra rotta del focolare, c'era uno strato d'oro: erano le punte dei capelli che crescevano attraverso la fessura. «Guarda, guarda!», strillò la donna. «È il fantasma della morta! Andiamo via... andiamo via!» Afferrò quindi il marito per un polso e, con la frenesia della pazzia, lo trascinò fuori dalla stanza. Quella notte fu presa da un accesso di febbre violenta. Il medico arrivò subito, e telegrafò a Londra per richiedere l'aiuto di uno specialista. Geoffrey era disperato e, angosciato dal pericolo che correva la sua giovane moglie, dimenticò il suo crimine e le conseguenze di esso. La sera il medico dovette allontanarsi per badare agli altri malati. Affidò a Geoffrey l'inferma. Le sue ultime parole furono: «Ricordate: dovete starle vicino finché non ritorno domani mattina, o finché non arriva un altro medico. Quello che dovete temere è un'altra emozione. Badate che stia al caldo. Non si può fare nient'altro». Nella tarda serata quando tutti i domestici si erano ritirati, la moglie di Geoffrey si alzò dal letto e chiamò suo marito. «Andiamo!», disse. «Andiamo nella sala! So da dove viene quell'oro. Voglio vederlo crescere!» Geoffrey avrebbe voluto fermarla, ma da una parte temeva per la vita e per la ragione della donna, e dall'altra aveva paura che nel delirio urlasse il suo terribile sospetto. Comprendendo che era inutile cercare di fermarla,
l'avvolse in una coperta e l'accompagnò nella sala. Quando furono entrati, lei chiuse a chiave la porta. «Noi tre non vogliamo estranei, questa notte!», sussurrò la donna con un sorriso esangue. «Noi tre! Ma siamo solo due», disse Geoffrey con un brivido: ebbe paura di dire altro. «Siediti», gli disse la moglie nello spegnere la lampada. «Siediti accanto al camino a guardare crescere l'oro. La luce d'argento della luna è gelosa! Guarda, si avvicina piano piano all'oro... al nostro oro!» Geoffrey, guardando con orrore crescente, si accorse che, nelle ore trascorse, i capelli d'oro erano cresciuti. Cercò di nasconderli, mettendo un piede sulla pietra rotta del focolare. Sua moglie avvicinò la sedia, si chinò verso di lui, e gli pose una mano sulla spalla. «Non ti muovere, caro», disse. «Stiamo fermi a guardare. Scopriremo il segreto della crescita dell'oro!» Lui la cinse con un braccio e restò in silenzio. La luce della luna camminava piano lungo il pavimento, e lei si addormentò. Aveva paura di svegliarla, e perciò restò immobile. Le ore fuggivano. Davanti ai suoi occhi inorriditi, i capelli d'oro crescevano. Loro crescevano, e il suo cuore diventava sempre più freddo, finché non poté più muoversi, e restò a guardare la sua condanna con gli occhi colmi di terrore. Quando la mattina arrivò il medico da Londra, non si riusciva a trovare né Geoffrey né sua moglie. Si cercò in tutte le stanze, ma inutilmente. Come ultima risorsa, si forzò la grande porta della antica sala, e chi entrò vide una scena triste e tremenda. Accanto al camino spento, Geoffrey Brent e la sua giovane moglie sedevano freddi, bianchi e morti. La faccia di lei era serena e sembrava immersa nel sonno. Ma il volto di lui fece rabbrividire chiunque lo vide, perché esprimeva un orrore infinito. Con occhi aperti e vitrei fissava i propri piedi, avviluppati da lunghe ciocche di capelli d'oro che spuntavano dalla pietra del focolare. AMBROSE GWINNETT BIERCE Un arresto Poiché aveva ucciso suo cognato, Orrin Brower, originario del Kentucky, era un fuggiasco. Era scappato dalla prigione della Contea nella
quale era stato confinato in attesa del processò, atterrando il carceriere con una sbarra di ferro: dopo avergli rubato le chiavi, ed aver aperto la porta esterna, era uscito nella notte. Poiché il carceriere era disarmato, Brower non aveva un'arma con la quale difendere la libertà da poco recuperata. Non appena fu fuori dalla città, ebbe la cattiva idea di entrare nella foresta. Questo accadde molti anni fa, quando quella regione era più selvaggia di quanto non sia ora. La notte era abbastanza buia, non erano visibili né la luna né le stelle e, siccome Brower non aveva mai abitato da quelle parti e non sapeva nulla della configurazione del terreno, non ci volle molto perché si perdesse. Non riusciva a dire se si era allontanato dalla città o se stava avvicinandosi: il problema era molto importante per lui. Sapeva che, in ogni caso, una squadra di cittadini armati con una muta di segugi sarebbero presto stati sulle sue tracce, e la sua possibilità di fuga era molto esigua; ma non aveva intenzione di assistere al proprio inseguimento. Anche un'ora in più di libertà valeva la pena di essere vissuta. Improvvisamente, spuntò dalla foresta su una vecchia strada, e lì davanti a lui vide, confusamente, la figura di un uomo, immobile nell'oscurità. Era troppo tardi per scappare: il fuggitivo sentì che al primo movimento verso il bosco sarebbe stato, come spiegò in seguito, «riempito di pallettoni». Così i due rimasero lì immobili simili ad alberi, Brower quasi soffocato dall'attività del suo cuore, l'altro... le emozioni dell'altro non sono indicate. Un attimo dopo - poteva esser stata un'ora - la luna scivolò in uno squarcio di cielo senza nubi e l'uomo braccato vide l'incarnazione visibile della Legge sollevare un braccio e indicare significativamente verso di lui ed oltre. Comprese. Voltò la schiena al suo inseguitore, camminò obbedientemente nella direzione indicata, non guardando né a destra né a sinistra, osando a malapena respirare, e la testa e la schiena gli dolevano per l'impressione di aver ricevuto una scarica di pallettoni. Brower era un criminale tanto coraggioso quanto uno che vive solo per essere impiccato. Questo risultava dalle circostanze di enorme rischio personale che aveva corso quando aveva ucciso freddamente suo cognato. È inutile raccontarle qui; vennero fuori al processo, e l'ostentazione della sua calma nel confutarle arrivò quasi a salvargli il collo. Ma cosa volete?... Quando un uomo coraggioso è sconfitto, si sottomette. Così i due proseguirono il loro viaggio verso la prigione lungo la vec-
chia strada attraverso il bosco. Solo una volta Brower si arrischiò a voltare la testa: guardò indietro appena una volta, mentre lui era in ombra e sapeva che l'altro era illuminato dalla luna. L'uomo che l'aveva catturato era Burton Duff, il carceriere, bianco come la morte, e portava sulla fronte il segno della sbarra di ferro. Orrin Brower non ebbe altre curiosità. Finalmente entrarono in città, che era tutta illuminata, ma deserta; rimanevano solo le donne e i bambini, e non erano per strada. Il criminale si diresse direttamente verso la prigione. Andò direttamente all'entrata principale, portò la mano alla maniglia della pesante porta di ferro, l'aprì senza alcun ordine, entrò, e si trovò alla presenza di una mezza dozzina di uomini armati. Allora si voltò. Non entrò nessun altro dopo di lui. Sul tavolo nel corridoio giaceva il cadavere di Burton Duff. EDITH NESBIT La cornice d'ebano Essere ricchi è una sensazione molto piacevole, tanto più piacevole quando si è toccato il fondo della miseria più nera, lavorando come conducente di una carrozza a nolo in Fleet Street, come tuttofare, come reporter e come giornalista poco apprezzato. Tutte professioni assolutamente in conflitto con la sensibilità familiare, e con il fatto che si discende dai Duchi di Piccardia. Quando la zia Dorcas morì, lasciandomi settecento sterline l'anno e una casa ammobiliata a Chelsea, pensai che la vita non potesse più offrirmi nulla al di fuori dell'immediato possesso di quell'eredità. Anche Mildred Mayhew, che fino ad allora avevo considerato come la luce che illuminava la mia vita, mi sembrò che brillasse di luce meno intensa. Non ero fidanzato con Mildred, ma avevo una stanza in affitto a casa di sua madre, cantavo duetti con Mildred e, quando potevo permettermelo, e cioè raramente, le regalavo dei guanti. Era una cara ragazza, di buon cuore, ed io intendevo sposarla un giorno. È bello sapere che una brava donnina ci sta pensando - ci aiuta nel lavoro - ed è bello sapere che lei dirà «Sì», quando le si domanderà: «Vorresti?». Ma quell'eredità quasi scacciò Mildred dai miei pensieri anche perché lei era in campagna, ospite di certi suoi amici. Il mio nuovo lutto non aveva ancora perso la patina, quando mi ritrovai a sedere sulla poltrona di mia zia davanti al fuoco nel salotto di casa mia.
Casa mia! Era molto grande, ma piuttosto solitaria. Allora, effettivamente, pensai a Mildred. La stanza era arredata in maniera molto confortevole, in legno di rosa e damasco. Sulle pareti vi erano alcuni dipinti ad olio di buona fattura, ma lo spazio al di sopra della mensola del camino era deturpato da una stampa veramente brutta. Il Processo di Lord William Russell, incorniciato da una cornice scura. Mi alzai in piedi per dare un'occhiata. Con doverosa regolarità ero venuto in visita da mia zia, ma non mi ricordavo di aver mai visto quella cornice. Era stata adattata alla stampa, ma in realtà era stata concepita per incorniciare un dipinto a olio. Era di ebano fine, ed era ricoperta di intagli curiosi e belli. La osservai a lungo, con interesse crescente e, quando la domestica di mia zia entrò portando la lampada - infatti non avevo licenziato i pochi domestici - le chiesi da quanto tempo quella stampa era lì. «La padrona l'ha comprata solo due giorni prima di ammalarsi», disse, «ma non la cornice - non ha voluto comprarne una nuova - e così ha preso questa dalla soffitta. Lì sopra ci sono un sacco di vecchie cose molto curiose, signore.» «Mia zia aveva questa cornice da molto tempo?» «Oh, sì, signore! È in casa da molto tempo prima che arrivassi io, e a Natale saranno sette anni che sono qui. Incorniciava un quadro. Anche quello è in soffitta... ma è tanto brutto e nero che lo si potrebbe scambiare per una fodera di camino.» Volli vedere quel quadro. E se fosse stato invece un dipinto senza prezzo di qualche antico maestro, che agli occhi di mia zia era parso solo robaccia? Il giorno seguente, dopo colazione, andai ad esplorare la soffitta. Era tanto zeppa di vecchi mobili da poter tranquillamente rifornire un negozio di antichità. Tutta la casa era stata ammobiliata nel solido stile vittoriano, e in quella stanza erano conservati tutti i pezzi che non si adattavano all'ideale del salotto buono. Tavoli di cartapesta e di madreperla, sedie dallo schienale rigido e le gambe ritorte, cuscini dai ricami scoloriti, paraventi per il fuoco con intagli dorati, bandiere imperlate, scrittoi in quercia dalle maniglie d'ottone, e un piccolo tavolino da lavoro attorno al quale pendevano le decorazioni in seta, ormai scolorite e mangiate dalle tarme, ridotte a brandelli. Quando spalancai le tende, la luce scese a fiotti su quegli oggetti e sulla
polvere che li ricopriva. Mi ripromisi di divertirmi a riportare quegli antichi lari domestici agli onori del mio salone, e di portare i mobili vittoriani in soffitta. Ma per il momento dovevo trovare quel dipinto «nero come l'interno di un camino»; e ben presto lo trovai, dietro un mucchio di alari e scatole. Jane, la domestica, lo identificò subito. Con grande cautela lo portai giù e lo esaminai attentamente. Non si distinguevano né il soggetto né il colore. Vi era una singola macchia di colore più scuro al centro, ma nessuno avrebbe potuto distinguere se si trattasse di una figura, di un albero o di una casa. Sembrava dipinto su un pannello molto spesso rivestito di cuoio. Decisi di mandarlo a una di quelle persone che riversano sui ritratti di famiglia ormai marciti e vecchi le acque dell'eterna giovinezza. Ma, proprio mentre prendevo quella decisione, pensai: perché non provare io stesso a restaurarne almeno un angoletto? Con il mio sapone da bagno e con lo spazzolino per le unghie, strofinai energicamente per alcuni secondi, prima di accorgermi che non esisteva alcun dipinto da pulire. Il mio pennello zelante scoprì il pannello di quercia. Provai ad applicare i miei sforzi al lato opposto. Jane mi osservava con indulgenza. Ottenni lo stesso risultato. Poi ebbi un'illuminazione. Perché il pannello era tanto spesso? Strappai la copertura di cuoio, e il pannello si divise in due metà che caddero a terra in una nube di polvere. Erano due quadri, ed erano stati inchiodati l'uno all'altro. Li appoggiai al muro ma, pochi secondi dopo, dovetti appoggiarmi io stesso alla parete della stanza. Infatti in uno dei due quadri ero rappresentato proprio io - era un ritratto perfetto - senza alcun difetto di rappresentazione né nell'espressione, né nelle fattezze del volto. Ero proprio io... e indossavo gli abiti che portavano gli uomini quando Giacomo I era Re d'Inghilterra. Quando era stato eseguito? E come, senza che io ne sapessi nulla? Era stato un qualche capriccio di mia zia? «Cielo, signore!», disse Jane con voce acuta e sorpresa, accanto a me. «Che bella foto! Eravate a un ballo in maschera, signore?» «Sì», balbettai. «Non... non credo che avrò bisogno d'altro. Potete andare.» Si allontanò. Mi voltai, con il cuore che mi martellava nel petto, verso l'altro quadro. Era il ritratto di una donna bellissima: era veramente splendida. Osservai tutti i dettagli: il naso diritto, le ciglia basse, le labbra piene, le mani affusolate, e i grandi occhi luminosi. Indossava una veste di velluto nero. Era un ritratto a mezzo busto. Le braccia erano poggiate su un ta-
volo al suo fianco, e i suoi occhi fissavano quelli dell'osservatore, suscitando un senso di sgomento. Sul tavolo accanto a lei giacevano dei compassi e degli strumenti luccicanti di cui ignoravo l'uso, dei libri, una coppa, e un mucchio di carte e di penne. Ma vidi tutto questo solo dopo. Mi ci volle un quarto d'ora, credo, prima di riuscire a smettere di fissarla negli occhi. Non ho mai visto occhi come i suoi: attiravano, come quelli di un bambino o di un cane, ma avevano un'aria di comando, come quelli di un'imperatrice. «Vuole che spazzi via la polvere, signore?» Jane era tornata, spinta dalla curiosità. Dissi di sì. Mi tenni sempre fra lei e il ritratto della donna in velluto nero. Quando rimasi finalmente solo, tirai giù Il Processo di Lord William Russell e al suo posto posi il ritratto della donna nella sua massiccia cornice d'ebano. Poi scrissi al corniciaio per ordinare una nuova cornice per il mio ritratto. Era rimasto tanto a lungo faccia a faccia con quella bellissima strega, che non avevo il coraggio di bandirlo dalla sua presenza. Suppongo di essere un sentimentale in realtà... ammesso che sia sentimentale pensare una cosa del genere. Quando arrivò la nuova cornice, la sistemai di fronte al camino. Una ricerca accurata tra le carte di mia zia non ebbe alcun esito riguardo al mio ritratto, e nessuna notizia emerse circa il ritratto della donna dagli occhi meravigliosi. Appresi solo che tutti quei vecchi mobili erano divenuti proprietà di mia zia alla morte del mio prozio, il capofamiglia. Avrei dovuto concludere che la somiglianza era dovuta a ragioni familiari, ma tutti coloro che entravano nella stanza esclamavano che si trattava di un «ritratto identico». Adottai la spiegazione di Jane, quella del «ballo in maschera». A quel punto, si poteva supporre che la faccenda dei ritratti si fosse conclusa. E infatti così si penserebbe, se non fosse evidente che invece qui è stato scritto ancora molto sull'argomento. Tuttavia, a me pareva che la faccenda fosse conclusa. Andai a trovare Mildred. La invitai insieme alla madre a venire a stare a casa mia. Evitavo di guardare il quadro nella cornice d'ebano. Non potevo dimenticare, né ricordare senza una certa emozione, lo sguardo di quella donna la prima volta che l'avevo vista. Non volevo incrociare nuovamente quello sguardo. Riorganizzai un po' la casa, per predisporre tutto in vista dell'arrivo di Mildred. Portai giù molti dei mobili antichi, e passai una lunga giornata a
disporli e a ridisporli. Poi mi sedetti di fronte al camino in preda a un piacevole languore, mi allungai sulla poltrona, e sollevai gli occhi per caso verso il ritratto della donna. Trovai i suoi scuri occhi profondi color grigio-verdi che mi fissavano, e nuovamente mi trovai a fissarla come sotto l'influsso di un profondo incantesimo... come accade quando per interi minuti si rimane affascinati a fissare i propri occhi in uno specchio. La fissai negli occhi, e avvertii che le mie pupille si dilatavano sempre più, poi li sentii stimolati da un impulso simile a quello del pianto. «Vorrei», dissi, «oh, quanto vorrei, che tu fossi una donna, e non un dipinto! Vieni giù! Oh, ti prego, vieni giù da lì!» Risi di me stesso a quelle parole ma, nello stesso momento in cui ridevo, allungai le braccia verso di lei. Non sognavo. Non ero ubriaco. Ero ben sveglio, e sobrio quanto chiunque. Eppure, spalancando le braccia, vidi i suoi occhi dilatarsi, e le labbra le tremarono: che possa essere impiccato se non dico la verità! Le sue mani si mossero leggermente. L'ombra di un sorriso le illuminò il viso. Mi alzai in piedi. «Così non va!», dissi ad alta voce. «Il bagliore delle fiamme gioca strani scherzi. Mi serve una lampada.» Mi avvicinai al campanello. Lo toccavo quasi con la mano, ma in quell'istante udii un suono alle mie spalle, e mi voltai... senza aver suonato. Il fuoco era ormai debole, e gli angoli della stanza erano immersi nell'ombra, ma ero sicuro che lì, dietro una sedia dall'alto schienale, vi fosse qualcosa di più scuro dell'ombra. «Devo affrontare questa situazione con decisione», dissi tra me e me, «altrimenti perderò ogni stima in me stesso.» Lasciai il campanello, afferrai l'attizzatoio, e presi a colpire i tizzoni finché non ripresero a bruciare. Poi arretrai risolutamente, e guardai il dipinto. La cornice d'ebano era vuota! Dall'ombra dietro la poltrona dallo schienale alto provenne un leggero fruscio, e vidi uscire la donna del ritratto: veniva verso di me. Spero di non dover mai sperimentare un momento di terrore tanto cieco e assoluto. Non mi sarei potuto muovere né parlare, neanche per salvarmi, oppure ero impazzito. Rimasi lì a tremare, ma ricordo che almeno riuscii a rimanere fermo, mentre l'abito di velluto nero frusciava sul tappeto verso di me.
Pochi secondi dopo sentii il tocco di una mano - una mano soffice e calda, umana - e una voce bassa disse: «Mi hai chiamato. Sono qui». Sentendo quel tocco e quella voce, mi sembrò che il mondo compisse una specie di mezza giravolta. Non saprei come esprimerlo, ma in quel momento non mi parve tanto terribile, né tanto insolito, che i ritratti potessero diventare carne ed ossa: solo una cosa molto naturale, molto giusta, e anche un'incredibile fortuna. Posai la mia mano sulla sua. Guardai lei e poi il mio ritratto. Non riuscivo a scorgerlo alla luce delle fiamme. «Non siamo degli sconosciuti», dissi. «Oh, no, non siamo degli sconosciuti.» Quegli occhi luminosi guardavano in alto cercando i miei, e quelle labbra rosse erano vicine alle mie. Con un grido appassionato, con la sensazione di aver ritrovato l'unico bene della vita intera, perduto per sempre, la presi fra le braccia. Non era un fantasma: era una donna, l'unica donna al mondo. «Quanto tempo è passato», dissi, «da quando ti ho perduta?» Lei si sporse indietro, lasciando che tutto il suo peso gravasse sulle mani che aveva intrecciato dietro la mia nuca. «Come faccio a saperlo? Non c'è modo di contare le ore nell'Inferno», rispose. Non era un sogno. Ah, no! Non si sognano certe cose. Vorrei tanto che fosse possibile. Quando nei sogni vedo i suoi occhi, sento la sua voce e le sue labbra sulla guancia, quando porto le sue mani alle labbra, come ho fatto quella notte, la notte suprema di tutta la mia esistenza! Dapprima non parlammo quasi. Ci pareva abbastanza ...dopo tanto lungo penare e soffrire, sentire le braccia del mio vero amore, attorno a me di nuovo... È molto difficile raccontare la mia storia. Le parole non possono esprimere il senso di felicità nell'averla ritrovata: la completa realizzazione di ogni speranza e di ogni sogno della mia vita pareva giunta, mentre sedevo con le mie mani tra le sue, e la fissavo negli occhi. Come poteva essere stato un sogno? La lasciai seduta sulla sedia dallo schienale diritto, e scesi in cucina a dire alle domestiche che non avevo bi-
sogno d'altro, che ero occupato, e non volevo essere disturbato. Poi, con le mie stesse mani presi della legna per il fuoco e, quando lo portai nella stanza, la ritrovai seduta lì: la sua piccola testa dai capelli color nocciola si voltò mentre entravo, e lessi l'amore nei suoi occhi. Mi gettai ai suoi piedi, benedicendo il giorno in cui ero nato, perché la vita mi aveva dato quello. Non pensai affatto a Mildred. Tutte le altre cose della mia vita erano un sogno: quella solo era l'unica, splendida realtà. «Mi chiedo», disse lei dopo un po' di tempo, dopo esserci rallegrati l'uno con l'altro come fanno gli amanti dopo essere stati a lungo distanti, «mi chiedo quanto ricordi del nostro passato...» «Ricordo solo che ti amo... che ti ho amato tutta la vita.» «Non ricordi nulla... assolutamente nulla?» «Ricordo solo di essere completamente tuo. Che abbiamo sofferto entrambi. Che... Dimmi, mia signora carissima, tutto quello che ricordi tu. Spiegamelo. Fai in modo che io capisca. Eppure... no, non voglio capire. Siamo insieme e questo basta.» Se era veramente un sogno, perché non ho mai più fatto quel sogno? Lei si sporse verso di me, il suo braccio posato sul mio collo, e portò la mia testa a poggiare sulla sua spalla. «Io sono un fantasma, suppongo», disse ridendo piano; la sua risata suscitò in me delle memorie che avevo tentato di afferrare, invano. «Ma tu ed io sappiamo la verità, vero? Ci amiamo - ah! tu non l'hai dimenticato - e quando saresti tornato dalla guerra, ci saremmo dovuti sposare. I nostri ritratti furono dipinti prima che tu partissi. Tu sai che io ero più istruita delle donne di quel tempo. Mio caro, mentre eri via, dissero che ero una strega. Mi portarono in tribunale. Dissero che dovevo morire sul rogo. Solo perché guardavo le stelle e avevo imparato più delle altre donne, essi pensavano di dovermi legare a un palo e lasciare che fossi divorata dalle fiamme. E tu eri lontano!» Il suo corpo prese a tremare e a fremere. Oh amore, quale sogno mi avrebbe potuto dire che i miei baci avevano il potere di cancellare anche simili ricordi? «La notte della vigilia», continuò lei, «venne da me il Diavolo. Prima di allora ero innocente: lo sai, vero? Ed anche allora peccai per te - per te per il grande amore che avevo per te. Il Diavolo venne, ed io vendetti la mia anima consacrandola alle fiamme eterne. Ma il prezzo fu buono. In cambio ebbi il diritto di tornare attraverso il mio ritratto (se qualcuno, guardandolo, mi avesse desiderata), fin quando il mio ritratto sarebbe ri-
masto nella sua cornice d'ebano. Quella cornice non è stata fatta da un uomo. Mi sono guadagnata il diritto di tornare da te, mio unico amore. E un'altra cosa ho avuto, della quale presto saprai tutto. Mi hanno messo al rogo come strega, mi hanno fatto soffrire l'inferno qui sulla terra. Quei volti che si accalcavano attorno, la legna che scoppiettava e l'odore soffocante del fumo...» «Oh, amore, non dire altro, non dire altro!» «Quando mia madre quella sera vegliò davanti al dipinto, lei pianse e gridò: "Torna, mia povera figlia perduta!". E io andai da lei con il cuore in tumulto. Ebbene, mio caro, lei mi rifiutò, fuggì, urlò e gemette parlando di fantasmi. Fece ricoprire i nostri ritratti, e li rimise nella cornice d'ebano. Mi aveva promesso che il mio ritratto sarebbe rimasto qui per sempre. Ah, tutti questi anni il tuo viso è stato contro il mio.» Essa fece una pausa. «Ma cosa accadde all'uomo che amavi?» «Tu sei tornato. Ma il mio dipinto era sparito. Ti hanno mentito, e tu hai sposato un'altra donna. Ma sapevo che un giorno saresti tornato su questa terra, e che io ti avrei trovato.» «E l'altra cosa che hai guadagnato?», domandai. «L'altra cosa», disse piano, «è ciò per cui ho dato l'anima. Si tratta di questo. Se anche tu rinuncerai alla speranza della vita eterna, io posso rimanere una donna, posso rimanere nel tuo mondo... essere tua moglie. Oh, mio caro, dopo tutti questi anni, finalmente... finalmente!» «Se io rinuncio alla mia anima», dissi lentamente, e le parole non mi parvero frutto dell'imbecillità, «se sacrifico la mia stessa anima, ti avrò? Ma, amore, questa è una contraddizione in termini. Tu sei la mia anima.» I suoi occhi mi fissarono. Qualsiasi cosa fosse accaduta, qualsiasi cosa sarebbe accaduta, qualsiasi cosa fosse mai potuta accadere, in quell'istante le nostre anime s'incontrarono e divennero una. «Allora scegli liberamente di rinunciare alla speranza di guadagnarti il Paradiso, come vi ho rinunciato io per te?» «Non rinuncerò alla speranza di guadagnarmi il Paradiso a nessun costo. Dimmi quello che io e te dovremo fare per avere un Paradiso qui sulla terra, ora.» «Te lo dirò domani», disse. «Fatti trovare solo, qui, domani sera: è la mezzanotte l'ora dei fantasmi, vero? Allora uscirò dal quadro, e non vi farò più ritorno. Vivrò con te, morirò e verrò seppellita, e quella sarà la mia fine. Ma prima vivremo insieme, cuore del mio stesso cuore.»
Posai la testa sulle sue ginocchia, poi caddi preda di uno strano torpore. Tenendo la sua mano contro la mia guancia, persi conoscenza. Quando mi svegliai, una grigia alba di novembre cominciava a spuntare, diafana come un fantasma, attraverso la finestra, dove le tende non erano state tirate. Avevo la testa posata su un braccio, che tenevo - alzai di scatto la testa - ah! non sulle ginocchia della mia donna, ma sul cuscino ricamato della sedia dall'alto schienale. Balzai in piedi. Ero intirizzito e scombussolato dal sogno, ma mi voltai verso il ritratto. Lei era lì seduta: la mia signora, il mio amore! Spalancai le braccia, ma il grido appassionato mi morì sulle labbra. Lei aveva detto mezzanotte. Ogni sua parola era per me un ordine. Così rimasi fermo davanti al quadro, e fissai quegli occhi grigio-verdi finché non mi spuntarono lacrime di felicità appassionata. «Oh! mia cara, mia cara, come trascorrerò le ore prima di poterti stringere di nuovo fra le mie braccia?» Non mi passò allora per la mente che il completamento e la consumazione di tutta la mia vita potesse essere solo un sogno. Con passo malfermo salii in camera mia, caddi di traverso sul letto, e dormii profondamente senza fare sogni. Quando mi svegliai era mezzogiorno: Mildred e sua madre sarebbero arrivate all'ora di pranzo. All'una finalmente mi ricordai di Mildred, del suo arrivo e della sua esistenza. Ora iniziava veramente il sogno. Avvertendo tutta la futilità di una mia azione separata dalla sua, diedi gli ordini necessari per ricevere le mie ospiti. Quando Mildred e sua madre arrivarono, le ricevetti cordialmente. Ma le mie frasi gentili parevano essere pronunciate da un altro. La mia voce mi giungeva come un'eco. Il mio cuore era altrove. Eppure, la situazione non divenne intollerabile, fino all'ora in cui il tè del pomeriggio non venne servito nel salotto. Mildred e sua madre tennero viva la conversazione con una grande profusione di luoghi comuni, ed io sopportai la cosa come una persona giunta in vista del Paradiso sopporterebbe un leggero Purgatorio. Sollevai lo sguardo verso la mia amata nella sua cornice d'ebano, ed ebbi la sensazione che, qualsiasi cosa fosse successa, qualsiasi irresponsabile imbecillità, qualsiasi attacco di noia, erano nulla al pensiero che, dopo tutto quello, lei sarebbe tornata da me. Eppure, quando anche Mildred alzò lo sguardo verso il ritratto, e disse: «Si crede proprio una gran dama, vero? Un'attrice di teatro, vero? Una del-
le vostre fiamme, signor Devigne?», caddi in preda a un nauseante senso di irritazione e d'impotenza, che si tramutò in una vera e propria tortura nel momento in cui Mildred - come avevo mai potuto ammirare le sue attrattive da camerierina, il suo stile «scatola di cioccolatini»? - a un certo punto si lasciò cadere nella sedia dall'alto schienale, coprendo i ricami con i suoi ridicoli falpalà, e disse: «Chi tace acconsente! Di chi si tratta, signor Devigne? Raccontateci tutto: sono sicura che è una storia avvincente». Povera piccola Mildred, seduta a sorridere, serena, sicura che ogni sua parola mi avrebbe incantato, seduta con il suo vitino di vespa, i suoi stivaletti un po' stretti, la sua vocina un po' volgare, seduta nella sedia nella quale la mia amata signora si era seduta a raccontarmi la sua storia! Non lo potevo tollerare. «Non state seduta lì», dissi, «è una sedia scomoda!» Ma la ragazza non colse quell'avvertimento. Con una risata che mi fece vibrare tutti i nervi in corpo per la stizza, disse: «Oh, povera me! Non mi posso nemmeno sedere nella stessa sedia in cui si è seduta la vostra signora in velluto nero?». Lanciai uno sguardo alla sedia nel dipinto. Era proprio la stessa, e Mildred ora vi era seduta. Poi avvertii tutta la tremenda realtà dell'esistenza di Mildred. Era quella allora la realtà? Se non fosse stato per una felice coincidenza, Mildred avrebbe forse occupato, invece che la sua sedia, il suo posto nella mia vita? Mi alzai. «Spero che non mi giudicherete maleducato», dissi, «ma ora devo uscire.» Ormai ho dimenticato quale scusa inventai. La bugia mi venne spontanea. Affrontai il muso lungo di Mildred sperando che lei e sua madre non si aspettassero un invito a cena. Fuggii. In un minuto mi trovai al sicuro, solo, sotto il freddo cielo autunnale pieno di nubi... libero di pensare, pensare, pensare, solo alla mia cara signora. Camminai per ore per le strade e nelle piazze; avevo rivissuto ogni sguardo, ogni parola, ogni tocco della mano... ogni bacio. Ero completamente, indicibilmente felice. Mildred era stata completamente dimenticata. La mia signora della cornice d'ebano mi riempiva il cuore, l'anima, lo spirito! Quando udii il rintocco delle undici attraverso la nebbia, mi voltai e tornai verso casa. Quando svoltai ed entrai nella strada in cui sorgeva casa mia, mi accorsi
che la via era piena di gente e che una forte luce rossastra riempiva l'aria. Una casa bruciava. La mia! A gomitate mi aprii un varco attraverso la folla. Il ritratto della mia amata signora... quello, almeno, potevo salvarlo. Salii le scale a grandi balzi, e come in un sogno vidi - sì questo mi parve veramente un sogno - vidi Mildred sporgersi da una finestra del primo piano, torcendosi le mani. «Tornate indietro, signore», gridò un vigile del fuoco, «la salveremo noi la donna, non abbia paura.» Ma cosa ne sarebbe stato della mia donna? Le scale scricchiolavano, ed usciva del fumo, e c'era un caldo infernale. Salii nella stanza in cui era appeso il suo ritratto. Strano a dirsi, sentivo che quel quadro sarebbe stata l'unica cosa che avremmo desiderato tenere con noi durante i lunghi anni felici di matrimonio che ci attendevano. Non mi era affatto venuto in mente che il quadro e la mia amata fossero una cosa sola. Giunto al primo piano sentii delle braccia circondarmi il collo. Il fumo era troppo denso, e non riuscii a distinguere le fattezze. «Salvami», bisbigliò una voce. Presi tra le braccia quel corpo e con una certa inquietudine lo portai lungo le scale pericolanti, verso la salvezza. Era Mildred. Me ne accorsi non appena l'abbracciai. «Indietro», gridò la folla. «Sono tutti in salvo», gridò il vigile del fuoco. Le fiamme si sprigionavano da ogni finestra. Il cielo divenne sempre più infuocato. Mi liberai delle mani che mi avrebbero voluto trattenere e con un balzo salii i gradini. A carponi cominciai a salire le scale. Improvvisamente venni assalito da un impeto d'orrore. «Finché il mio quadro rimarrà nella sua cornice d'ebano.» Cosa sarebbe accaduto se il quadro e la cornice fossero andati distrutti insieme tra le fiamme? Lottai contro le fiamme e contro la mia impotenza davanti all'incendio che avanzava. Mi spinsi ancora più avanti. Dovevo salvare quel quadro. Finalmente raggiunsi il salotto. Mi lanciai all'interno, e vidi la mia signora, lo giuro, attraverso una cortina di fiamme e di fumo, ed essa spalancò le braccia verso di me... ma ero giunto troppo tardi per poterla salvare, per salvare la gioia della mia vita. Non la rividi mai più. Prima che potessi salvarla, o chiamarla, avvertii il pavimento sprofondarmi sotto i piedi, e caddi nelle fiamme sottostanti. Come riuscirono a salvarmi? Cosa importa? In qualche modo vi riusci-
rono... maledetti! Tutto il mobilio di mia zia andò distrutto. I miei amici osservarono che, dal momento che i mobili erano assicurati per una somma notevole, la negligenza di qualche domestica che studiava di notte non mi aveva procurato poi un grande danno. Non mi aveva procurato un grande danno! Ecco come ho trovato e perso il mio unico amore. Nego con tutta l'anima che si fosse trattato di un sogno. Non esistono sogni del genere. Esistono i sogni pieni di dolore e di desiderio. Ma sogni di tale completa, indicibile felicità... ah, no, è il resto della vita che è sogno. Ma, allora, perché ho sposato Mildred, diventando grasso, noioso, e prospero? Vi dico che questo è sogno; la mia cara signora è l'unica cosa vera. E cosa importa cosa si fa durante i sogni? ROBERT LOUIS STEVENSON Markheim «Sì», disse il mercante, «i nostri inattesi guadagni sono di vario genere. Ci sono dei clienti ignoranti, e allora riscuoto un dividendo per la mia scienza maggiore della loro. Alcuni sono disonesti», e a questo punto sollevò la candela in modo da far cadere la luce sul suo visitatore, «e in tal caso», continuò, «metto a profitto la mia virtù.» Markheim era appena entrato lasciando le strade inondate dalla luce del sole, e i suoi occhi non si erano ancora abituati a quel miscuglio di splendore e di tenebre che regnava nel negozio. A quelle parole ambigue, e davanti alla fiamma della candela, sbatté le palpebre, quasi fosse in preda a una acuta sofferenza, e voltò gli occhi da un'altra parte. Il mercante sogghignò. «Venite da me il giorno di Natale», riprese, «quando sapete che sono solo in casa, ho chiuso le imposte e mi faccio un dovere di rifiutare qualsiasi affare. Ebbene, dovrete pagarmi anche per questo; dovrete pagarmi anche per la perdita di tempo, perché ora dovrei essere occupato a chiudere il bilancio, e per di più dovrete pagarmi per un certo atteggiamento che oggi noto molto marcato in voi. Sono la discrezione fatta persona: io non faccio domande imbarazzanti, ma un cliente, quando non può guardarmi negli occhi, deve pagare anche questo.» Il mercante sogghignò ancora, poi riprese il suo solito tono affaristico, dal quale però traspariva un certo accento
di ironia. «Potete provare, come è di norma, in che modo siete venuto in possesso di quell'oggetto?», continuò. «Viene, come sempre, dalla raccolta di vostro zio? Un collezionista davvero meraviglioso, signore.» E il piccolo mercante pallido, dalle spalle ricurve, si alzò quasi sulla punta dei piedi, guardando al di sopra delle lenti cerchiate d'oro e scuotendo il capo come se non fosse affatto convinto. Markheim rispose al suo sguardo con una occhiata di infinita pietà e con una sfumatura di orrore. «Questa volta vi sbagliate», disse. «Non sono venuto a vendere, ma a comperare. Non ho oggetti bizzarri di cui disfarmi; là raccolta di mio zio è ormai ridotta agli scaffali e, anche se fosse intatta, ho guadagnato bene in Borsa, e sarebbe più probabile che l'arricchissi piuttosto che la spogliassi, e la mia visita di oggi è quanto di più semplice si possa immaginare. Cerco un regalo di Natale per una signora», continuò, parlando con maggior spigliatezza, perché si trattava del discorso che aveva già preparato, «e vi sono debitore di tutte le mie scuse se vi disturbo a questo modo per una faccenda così poco importante. Ma me ne sono dimenticato ieri: è necessario che porti il mio piccolo dono per cena, e, come sapete benissimo, un ricco matrimonio non è certo cosa da trascurare.» Qui ci fu una pausa, durante la quale il mercante parve considerare con incredulità la dichiarazione del suo interlocutore. Il ticchettio dei molti orologi, nel curioso disordine del negozio, e il rumore delle carrozze che arrivava attutito da una strada vicina riempirono l'intervallo di silenzio. «Va bene allora, signore», disse alla fine il mercante. «Siete un vecchio cliente, dopotutto, e se, come affermate, avete la possibilità di concludere un buon matrimonio, non intendo certo crearvi ostacoli. Ecco qui qualcosa di bello per una signora», proseguì: «questo specchio a mano del XV secolo, garantito. Viene da una splendida collezione, ma non posso farvi nomi, nell'interesse del mio cliente, il quale era, proprio come voi, mio caro signore, il nipote e l'unico erede di un importante collezionista di cose antiche». Mentre pronunciava queste parole con la sua voce secca e tagliente, il mercante si era chinato a prendere l'oggetto dal suo posto e intanto un tremito aveva scosso tutto il corpo di Markheim, un tremito delle mani e dei piedi, mentre dal suo volto traspariva la lotta di molti e tumultuosi sentimenti. Tutto però passò, rapido come era venuto, lasciando, quale unica traccia, un ondeggiare appena percettibile della mano che in quel momento riceveva lo specchio. «Uno specchio», fece, roco e, dopo una pausa, ripeté con voce più chia-
ra: «Uno specchio? Per Natale? No certo». «E perché no?», domandò il mercante. «Perché non uno specchio?» Markheim lo guardò con una espressione indefinibile. «Perché no, mi chiedete?», disse. «Bene, guardatevi qui dentro: guardatevi! Vi piace vedervi? No, e nemmeno a me, e a nessun altro.» L'ometto aveva fatto un balzo indietro quando Markheim aveva teso verso di lui lo specchio ma, quando vide che in fondo non si trattava di nulla di grave, sogghignò. «La vostra futura sposa non deve essere molto bella, signore», disse. «Vi chiedo un regalo per Natale», replicò Markheim, «e voi mi date questo... questo maledetto memento di anni, di peccati, di follie, questa coscienza da portare in mano! Ci avete pensato? Avanti, parlate! Sarà meglio per voi se parlerete. Avanti, ditemi tutto di voi. Ora mi arrischio ad azzardare una ipotesi: sono convinto che, nel vostro intimo, voi siete un uomo molto caritatevole.» Il mercante scrutò con attenzione il suo compagno. Strano davvero, non sembrava che Markheim ridesse: nel suo viso c'era qualcosa di simile a una ansiosa scintilla di speranza, ma nemmeno la più lontana traccia di allegria. «A che cosa state mirando?», chiese il mercante. «Non siete caritatevole», ripeté l'altro, corrugando la fronte. «Non siete caritatevole, non siete pio, non siete scrupoloso. Non siete amato e non amate; una mano per prendere il denaro, una cassaforte per conservarlo. È tutto qui? Mio Dio, è tutto qui?» «Vi spiegherò io com'è», cominciò il mercante, con una certa quale asprezza, ma subito dopo riprese a sogghignare. «Vedo che il vostro è un matrimonio di amore e che avete bevuto alla salute della vostra bella.» «Ah!», esclamò Markheim, con una strana curiosità. «Ah, siete mai stato innamorato? Parlatemi di questo.» «Io?», rispose il mercante. «Innamorato io? Non ne ho mai avuto il tempo, e non ho tempo adesso per sciocchezze del genere. Volete lo specchio?» «Perché tanta fretta?», replicò Markheim. «È divertente starsene qui a chiacchierare, e la vita è così breve e così poco sicura che non intendo negarmi alcun piacere, no, nemmeno uno piccolo come questo. Dovremmo piuttosto attaccarci, abbarbicarci a quello che possiamo avere, come un uomo all'appiglio di una rupe. Ogni secondo è una rupe, se solo ci pensate, una rupe alta un miglio, alta quanto basta, se cadiamo, per sfracellarci in
modo tale da privarci di ogni parvenza umana. Perciò è meglio chiacchierare allegramente. Parliamo di noi: perché dovremmo portare questa maschera? Dobbiamo confidarci a vicenda. Chi lo sa, potremmo anche diventare amici.» «Non ho che una parola da dirvi», rispose il mercante. «O fate il vostro acquisto o uscite dal mio negozio.» «Giusto, giusto», convenne Markheim, «basta con le sciocchezze. Passiamo agli affari. Mostratemi qualcosa d'altro.» Il mercante si chinò di nuovo, questa volta per rimettere lo specchio nello scaffale. Mentre si chinava, i capelli biondi e sottili gli piovevano sugli occhi. Markheim si avvicinò un poco una mano nella tasca del cappotto, poi s'irrigidì e trasse un profondo respiro mentre emozioni diverse passavano in rapida successione sul suo viso: terrore, orrore, decisione, fascino, e una ripugnanza fisica. Il suo labbro superiore si era sollevato in modo da scoprire i denti. «Questo forse andrà bene», disse il mercante e, mentre accennava a risollevarsi, Markheim balzò alle spalle della sua vittima. Il lungo pugnale, simile a uno spiedo, balenò e si abbassò. Il mercante si dibatté come una gallina, urtò lo scaffale con una tempia e si afflosciò per terra. Il tempo aveva tante piccole voci in quel negozio: alcune maestose e lente, come si conveniva alla loro età, altre garrule e rapide. Tutte scandivano i secondi in un intricato tic-tac. Poi lo scalpiccio di un ragazzo che correva sul marciapiede soffocò le piccole voci e riportò Markheim alla coscienza del luogo dove si trovava. Si guardò attorno, terrorizzato. La candela era sul banco e la fiamma ondeggiava, solenne, nel filo di una corrente; per quel movimento minimo tutta la stanza sembrava riempita da un moto silenzioso e continuava a fluttuare come un mare. Le alte ombre accennavano, le grandi chiazze di tenebra si gonfiavano e diminuivano come se respirassero, i volti dei ritratti e degli Dèi di porcellana mutavano e dondolavano come immagini nell'acqua. La porta interna era socchiusa e scrutava quell'assedio di ombre con una lunga fessura di luce simile a un dito teso. Da quei vagabondaggi pieni di paure, gii occhi di Markheim tornarono al punto dove giaceva il corpo della vittima, disteso e contorto a un tempo, incredibilmente piccolo e stranamente più meschino che non in vita. In quei poveri abiti da avaro, in quell'atteggiamento goffo, il mercante ricordava un mucchio di segatura. Markheim aveva avuto paura di guardare, ed ecco invece che non era
niente! Eppure, mentre lo fissava, quel mucchio di vecchie vesti e quella pozza di sangue cominciavano a trovare voci eloquenti. Doveva rimanere là, non c'era nessuno che riuscisse a far muovere le ingegnose giunture o a dirigere il miracolo del moto; doveva rimanere là fino a quando non lo avessero trovato. Trovato, sì; e allora? Allora da quella carne morta si sarebbe levato un grido che avrebbe echeggiato per tutta l'Inghilterra, che avrebbe riempito il mondo con gli scalpiccii della caccia. Morto o meno, quello era ancora il suo nemico. «Tempo vi fu nel quale i cervelli si spensero», pensò, e la prima parola lo colpì con una violenza inaudita. Il tempo, ora che il delitto era compiuto, il tempo, che era finito per la vittima, era diventato urgente e importante per l'uccisore. Questo pensiero era ancora nella sua mente quando, prima l'uno poi l'altro, su tutta la gamma di passo e di voce, uno profondo come la campana della torre di una cattedrale, un altro con le note sottili del preludio di un valzer, gli orologi cominciarono a suonare le tre del pomeriggio. Lo scoppio improvviso di tante voci nella stanza muta lo fece barcollare. Cominciò a darsi da fare, andando avanti e indietro con la candela, assediato dalle mobili ombre e trasalendo in fondo all'anima per ogni casuale riflesso. In molti, bellissimi specchi - alcuni di stile inglese, altri di Venezia o di Amsterdam - vide il proprio volto ripetuto e ripetuto, come se si trattasse di un esercito di spie; i suoi stessi occhi lo incontravano e lo scoprivano, e il suono dei suoi passi così leggeri turbava la quiete circostante. E ancora, mentre continuava a riempirsi le tasche, la sua mente lo accusava, con una insistenza tale da spingerlo alla disperazione, di mille e mille errori nel suo piano. Avrebbe dovuto scegliere un'ora più tranquilla, avrebbe dovuto prepararsi un alibi, non avrebbe dovuto servirsi del coltello, avrebbe dovuto essere più cauto e avrebbe dovuto soltanto legare e imbavagliare il mercante, non ucciderlo, avrebbe dovuto essere più audace e uccidere anche la domestica, avrebbe dovuto far tutto in un altro modo: un pungente rammarico, un incessante lavorio della mente per mutare quello che era immutabile, per progettare quello che era ormai inutile, per essere l'architetto dell'irrevocabile passato. Intanto, dietro a tutta quella attività, terrori bruti, simili a fughe di topi in una soffitta deserta, riempivano le più remote parti del suo cervello in tumulto: aveva l'impressione che la mano di un poliziotto lo afferrasse per una spalla, e i suoi nervi sussultavano come quelli di un pesce preso all'amo, o vedeva, in rapidissima successione, il tribunale, il carcere, la forca e
la bara nera. Il terrore della gente che passava per la strada gli stava davanti alla mente come un esercito che lo assediasse. Era impossibile, pensava, che il rumore di quella lotta non fosse giunto fino al loro orecchio, che non avesse suscitato la loro curiosità, ed ora li indovinava in tutte le case vicine, seduti, immobili, con le orecchie tese: gente condannata a passare il Natale da sola, indugiando sulle memorie del passato, ed ora strappata, con un sobbalzo, alla dolcezza dei ricordi. Felici gruppi familiari improvvisamente silenziosi intorno alla tavola, la madre ancora con il dito alzato: ogni grado di età e di umore, ma tutti che, presso il focolare, scrutavano stando in ascolto, e filavano la corda che lo avrebbe impiccato. A volte aveva l'impressione di non muoversi abbastanza adagio: il tintinnio degli alti calici di Boemia risuonava forte come quello delle campane e, allarmato dalla forza del ticchettio, egli sentiva la tentazione di fermare gli orologi. E poi, ancora, con un rapido voltafaccia dei terrori, lo stesso silenzio del locale gli pareva una sorgente di pericolo, o tale da colpire e far rabbrividire il passante, e allora camminava con maggiore arditezza, e si affaccendava rumorosamente fra gli oggetti del negozio, e imitava, con forzata spavalderia, i gesti di un uomo in faccende e perfettamente a suo agio a casa sua. Ma ora si sentiva così diviso fra i diversi allarmi che, mentre una parte della sua mente era ancora alacre ed acuta, un'altra già tremava sull'orlo della pazzia. Una allucinazione in particolar modo, si impresse profondamente nel suo spirito. Il vicino in ascolto, con il viso pallido accanto alla finestra, il passante fermo sul marciapiede per un orribile sospetto; costoro, al massimo, potevano immaginare ma non sapere; attraverso i muri di mattoni e le finestre dalle imposte chiuse, soltanto i suoni potevano filtrare. Ma lì in casa, era solo? Sapeva di esserlo; dal suo nascondiglio aveva visto la domestica uscire per andare a fare all'amore nei suoi poveri abiti della festa, con un «libera tutto il giorno» scritto su ogni nastro e ogni sorriso. Sì, era solo, naturalmente, eppure, nella massa della casa vuota, sopra la sua testa, poteva udire uno scalpiccio di passi leggeri: era conscio, inesplicabilmente conscio, di una presenza. Sì, certo, in ogni stanza e in ogni angolo della casa, la sua fantasia lo seguiva, ed ora era una cosa senza un volto, eppure aveva occhi per vedere; e poi era un'ombra di lui, e poi ancora, ecco, l'ombra del mercante morto, richiamata in vita dall'astuzia e dall'odio. Ogni tanto, con uno sforzo sovrumano, lanciava uno sguardo alla porta
aperta che sembrava respingere i suoi occhi. La casa era alta, il lucernario piccolo e sudicio, il giorno era soffocato dalla nebbia, e la luce che filtrava al piano terreno era straordinariamente debole e si rifletteva incerta sulla soglia del negozio. Eppure, in quella striscia di dubbio chiarore, non pendeva, ondeggiante, un'ombra? A un tratto, nella strada, un signore molto gioviale prese a bussare con il bastone sulla porta del negozio, accompagnando i colpi con grida e insulti nei quali continuava a tornare il nome del mercante. Markheim, come impietrito, guardò il morto. Ma no, era là, assolutamente immobile: era volato lontano, dove quei colpi e quelle grida non potevano raggiungere il suo orecchio; era affondato sotto mari di silenzio, e il suo nome, che una volta avrebbe riconosciuto fra l'infuriare di una tempesta, era diventato un suono vuoto. Poco dopo, il signore gioviale smise di bussare e se ne andò. Questo era un chiaro suggerimento ad affrettarsi per ciò che ancora restava da fare, ad andarsene da quel luogo accusatore, a tuffarsi in un bagno di folla londinese, a raggiungere, alla fine del viaggio, quel porto sicuro e di apparente innocenza che era il suo letto. Era venuto un visitatore, e da un momento all'altro poteva apparirne un altro, magari più ostinato. Sarebbe stato un fallimento troppo odioso commettere il delitto e non raccoglierne il frutto. Il danaro: ecco lo scopo di Markheim, e il mezzo per ottenerlo erano le chiavi. Si voltò a guardare la porta aperta dove l'ombra indugiava e tremava, poi, senza accorgersi della ripugnanza della propria mente, ma con un tremore in fondo alle viscere, si avvicinò al cadavere della sua vittima. Ogni traccia umana era assolutamente scomparsa. Come un vestito gonfio a metà di crusca, le membra apparivano abbandonate, e il tronco era ripiegato sul pavimento; eppure la cosa lo respingeva. Per quanto sbiadito e privo di importanza per gli occhi, aveva paura che quel corpo potesse avere un maggiore significato per il tatto. Prese il cadavere per le spalle e lo rovesciò sul dorso. Era stranamente leggero e flessibile, e le membra, quasi fossero rotte, si atteggiavano alle cose più strane. Il volto era privo di qualsiasi espressione, ma pallido come cera e orribilmente macchiato di sangue su una tempia. E fu questo particolare a scuotere maggiormente Markheim. Lo riportò infatti indietro, per un attimo, a una lontana giornata di fiera, in un villaggio di pescatori: una giornata grigia, un vento frizzante, la folla nella strada, lo scintillio degli ottoni, il rullare dei tamburi, la voce nasale di un can-
tastorie e un ragazzo che andava qua e là schiacciato e nascosto dalla folla, diviso fra l'interesse e il timore, fino a quando, giunto nella piazza principale, scorgeva un baraccone e un grande schermo di quadri schizzati alla meno peggio, dai colori violenti: Brownrigg con la sua apprendista, i Mannings con il loro ospite assassinato, Weare nella stretta mortale di Thurtell, e tanti e tanti altri delitti famosi. La cosa era chiara come una illusione. Lui era ancora quel ragazzetto, ancora stava guardando - e con lo stesso senso di repulsione fisica - quegli spaventosi quadri: era ancora intontito dal rullare dei tamburi. Gli tornò alla memoria una frase della musica di quel giorno, e allora, per la prima volta, lo colse uno sbigottimento, un accesso di nausea, una debolezza delle membra che dovette immediatamente controllare e dominare. Gli parve più prudente affrontare che non fuggire quei pensieri; guardò più arditamente il viso del morto e costrinse la propria mente a rendersi conto della natura e della grandezza del delitto commesso. Pochissimo tempo prima quel viso si era mosso, mutevole ad ogni sentimento, quella pallida bocca aveva parlato, quel corpo era stato tutto un fuoco di obbedienti energie, ed ora, a causa del suo atto, quella cosa viva si era fermata, come quando l'orologiaio, con un dito, arresta il battito del meccanismo. Così ragionava, ma invano. Non riusciva ad accrescere il rimorso della sua coscienza; lo stesso cuore che aveva tremato davanti a scene dipinte di delitti, guardava ora la realtà di quel delitto senza la minima commozione. Al massimo, avvertiva un barlume di pietà per chi era stato dotato inutilmente di tutte le facoltà che possono fare del mondo un giardino incantato, per chi non era mai vissuto ed ora era morto. Ma di pentimento no, neppure un palpito. Poi, liberandosi da quei pensieri, trovò le chiavi e andò verso la porta aperta del negozio. Fuori, aveva cominciato a piovere a dirotto, e lo scroscio dell'acqua sul tetto aveva bandito il silenzio. Come una caverna gocciolante, le stanze erano piene di un ticchettio incessante che riempiva l'orecchio del battito degli orologi. Mentre si avvicinava alla porta, parve a Markheim di udire, in risposta alla cautela del suo passo, lo scalpiccio di altri piedi che si allontanavano su per le scale. L'ombra palpitava ancora, incerta, sulla soglia. Forzando i propri muscoli con una intera tonnellata di decisione, spinse il battente. La debole e nebbiosa luce del giorno illuminò, opaca, il pavimento nudo e i gradini, la lucente armatura, ritta con l'alabarda in mano sul pianerottolo, le nere sculture dei mobili e i quadri incorniciati sui gialli pannelli di
legno che ricoprivano le pareti. Lo scrosciare della pioggia era così forte per tutta la casa che, per le orecchie di Markheim, esso cominciò a distinguersi in molti suoni diversi. Passi e sospiri, lo scalpiccio di un reggimento in marcia lontano, il tintinnio delle monete contate e lo scricchiolio delle porte socchiuse continuamente sembravano unirsi al picchiettio delle gocce sulla cupola e al gorgoglio violento dell'acqua nelle grondaie. La sensazione di non essere solo crebbe in lui fino a portarlo alle soglie della pazzia. Dappertutto era perseguitato e incalzato da quelle presenze. Le sentì muoversi nella stanza di sopra, sentì il morto alzarsi in piedi nel negozio e, mentre cominciava con grande sforzo a salire gli scalini, udì dei passi che fuggivano senza fretta davanti a lui e lo seguivano furtivi. Se fosse stato sordo, pensò, come sarebbe stato tranquillamente padrone della propria anima! E poi, ancora, e in ascolto con sempre nuova attenzione, fu lieto di quel suo senso senza riposo che era come un avamposto, una fedele sentinella della sua vita. Girava di continuo la testa; gli occhi, che sembravano uscirgli delle orbite, scrutavano da ogni parte, e da ogni parte erano ricompensati a mezzo dalla visione di una cosa senza nome che svaniva. I ventiquattro scalini che portavano al primo piano furono ventiquattro agonie. A quel primo piano le porte erano socchiuse, e gli scossero i nervi quasi fossero bocche di cannone. Lo sapeva, non si sarebbe mai più sentito abbastanza chiuso da mura e fortificato contro gli occhi vigili degli uomini; desiderava essere a casa sua, stretto fra le pareti, sepolto sotto le coperte, invisibile a tutti fuorché a Dio. A questo pensiero si meravigliò un poco, ricordando di aver sentito raccontare di altri assassini e della paura che si diceva avessero dei vendicatori celesti. Non era così, almeno per lui. Temeva le leggi della natura; temeva che, nel loro procedere insensibile e immutabile, conservassero una testimonianza incriminante del suo delitto. Temeva dieci volte di più, con terrore abbietto, superstizioso, una scissione nella continuità dell'esperienza umana, una intenzionale illegalità della natura. Giocava un gioco di abilità contando sulle norme, calcolando le conseguenze dalle cause; e se la natura, come il tiranno vinto che aveva buttato all'aria la scacchiera, avesse rotto la serie della loro successione? La stessa cosa era accaduta a Napoleone (così dicevano gli scrittori) quando l'inverno aveva mutato il tempo del suo apparire. La stessa cosa poteva accadere a Markheim: le solide mura potevano diventare trasparenti e rivelare i suoi atti come quelli delle api in un alveare di vetro; le solide
assi potevano cedere sotto i suoi piedi come sabbie mobili e trattenerlo nella loro morsa. Sì, e c'erano avvenimenti meno pazzeschi che avrebbero potuto essere la sua rovina: se, per esempio, la casa fosse crollata e lo avesse imprigionato accanto al corpo della sua vittima, o se la casa vicina fosse andata a fuoco e i pompieri l'avessero circondata da tutte le parti. Quelle erano le cose che temeva e, in un certo senso, quelle cose potevano essere chiamate la mano di Dio tesa contro il peccato. Ma, per quello che riguardava Dio stesso, era tranquillo: l'atto che aveva commesso era eccezionale, certo, ma lo erano anche le giustificazioni che aveva, e Dio lo sapeva; era là, e non fra gli uomini, che lui era certo di trovare giustizia. Quando fu al sicuro nel salotto e si fu chiusa la porta alle spalle, si accorse di una tregua negli allarmi. La stanza era completamente spoglia, senza tappeti, con casse da imballaggio qua e là e mobili stranamente assortiti, alcune grandi specchiere, nelle quali si vide sotto angoli diversi come un attore sulla scena, molti quadri, con cornice e senza, rivolti contro il muro, una bella credenza di Shareton, un mobiletto intarsiato e un grande letto antico con le cortine di damasco. Le finestre si aprivano fino a terra ma, per buona fortuna, la parte bassa delle imposte era chiusa, e questo lo nascondeva ai vicini. Allora Markheim portò una cassa da imballaggio vicino al mobiletto e cominciò a cercare fra le chiavi. Era una faccenda lunga, perché le chiavi erano molte, e fastidiosa per di più perché, dopotutto, poteva anche non esserci niente nel mobiletto, e il tempo volava. Ma il fatto di doversi concentrare in ciò che faceva lo calmò. Con la coda dell'occhio vedeva la porta, e ogni tanto la guardava direttamente, come un capitano assediato che si compiace di verificare il buono stato delle sue difese. Ma, in verità, era tranquillo. La pioggia che cadeva nella strada aveva un suono naturale e piacevole. Poco dopo, dall'altra parte, le note di un piano furono destate alla musica da un inno, e le voci di molti bambini attaccarono l'aria e le parole. Com'era solenne e tranquilla quella melodia! Come erano fresche le voci giovani! Markheim ascoltò, sorridendo, mentre sceglieva le chiavi, e nella sua mente si affollarono idee e immagini conformi: bambini che andavano in chiesa e l'armonia di un grande organo, bambini nei campi che facevano il bagno in un ruscello, che vagavano per la spianata di rovi, che facevano volare aquiloni nel cielo ventoso attraverso il quale galoppavano le nubi, e poi, a un'altra cadenza del salmo, di nuovo in chiesa, la sonnolenza delle domeniche estive, e la voce squillante del Pastore piena di bellissime sfuma-
ture (sorrise un poco, ricordandola), le tombe giacobite dipinte, e le incerte lettere dei Dieci Comandamenti nel coro. Mentre se ne stava così seduto, affaccendato e distratto a un tempo, trasalì e balzò in piedi di scatto. Sentì passare in sé un lampo di ghiaccio, un baleno di fuoco, un impetuoso trascorrere del sangue, poi rimase rigido, scosso da brividi. Un passo saliva le scale, lento e sicuro e, poco dopo, una mano si posò sulla maniglia della porta: la serratura scattò e il battente si aprì. La paura stringeva Markheim in una morsa. Non sapeva che cosa doveva aspettarsi: se il morto che camminava o i ministri ufficiali della giustizia umana, o un testimone casuale capitato lì alla cieca per mandarlo al patibolo. Ma quando un viso passò dall'apertura, diede una occhiata alla stanza, lo guardò, fece un cenno con il capo e sorrise amichevolmente quasi lo riconoscesse, poi si ritirò, tirandosi dietro la porta, egli perse ogni controllo e la sua paura proruppe in un grido roco. A quel rumore, lo sconosciuto ricomparve. «Mi avete chiamato?», chiese allegramente, ed entrò nella stanza, chiudendosi il battente alle spalle. Markheim rimase immobile e lo fissò, con gli occhi sbarrati. Forse c'era un velo davanti alla sua vista, ma i lineamenti del nuovo venuto sembravano mutare e ondeggiare come quelli degli idoli alla luce incerta delle candele, giù nel negozio; ora gli pareva di conoscerlo, ora aveva l'impressione gli somigliasse; e sempre, come un grumo di terrore vivente, era nel suo petto la convinzione che quella cosa non era terrena e non era di Dio. Eppure quella creatura aveva una strana aria comune mentre guardava Markheim con un sorriso, e quando aggiunse: «Cercate il danaro vero?», lo chiese con un tono di normalissima cortesia. Markheim non rispose. «Dovrei avvertirvi», continuò l'altro, «che la domestica ha lasciato il suo innamorato più presto del solito e che presto sarà qui. Non occorre che vi descriva le conseguenze, se il signor Markheim venisse trovato in questa casa.» «Mi conoscete?», esclamò l'assassino. Il visitatore sorrise. «Da lungo tempo siete uno dei miei prediletti», rispose. «Vi ho osservato attentamente, e spesso ho cercato di aiutarvi.» «Chi siete?», gridò Markheim. «Il Diavolo?»
«Quello che posso essere non ha influenza alcuna sul servizio che mi propongo di rendervi.» «Certo che ne ha!», replicò Markheim. «Forse sono stato aiutato da voi? No, mai, da voi no! Non mi conoscete ancora, grazie a Dio, non mi conoscete ancora.» «Vi conosco», replicò il visitatore, con qualcosa di simile a una cortese severità, o forse sarebbe più esatto dire fermezza. «Vi conosco fino in fondo all'anima.» «Mi conoscete!», esclamò Markheim. «Chi può conoscermi? La mia vita non è altro che un travestimento e una calunnia di me stesso. Ho vissuto per tradire la mia natura. Così fanno tutti gli uomini; tutti gli uomini sono migliori di questo travestimento che cresce loro attorno e li soffoca. Li vedete tutti quanti trascinati via dalla vita, come chi sia stato preso e stretto in un mantello dai briganti. Se avessero il controllo di sé, se potessero vedere i loro volti, sarebbero completamente diversi, risponderebbero come eroi o come santi. Io sono peggiore della media, il mio io è più gravato, e la mia giustificazione è nota a me e a Dio. Ma, se ne avessi il tempo, mi potrei svelare.» «A me?», chiese il visitatore. «A voi prima che a tutti», rispose l'assassino. «Credevo che foste intelligente. Credevo, dato che esistete, che vi sareste mostrato capace di leggere nei cuori. Eppure vorreste giudicarmi dalle azioni! Pensateci: le mie azioni! Sono nato e vissuto in un paese di giganti; i giganti mi hanno trascinato per i polsi prima che nascessi dal grembo di mia madre, i giganti del caso. E voi vorreste giudicarmi dalle mie azioni! Ma non potete guardarmi dentro? Non vedete che odio il male? Non vedete dentro di me la chiara scritta della coscienza, mai cancellata da ostinati sofismi, sebbene troppo spesso dimenticata? Non potete leggermi come un essere che sicuramente è comune quanto l'umanità: un peccatore involontario?» «Tutto questo è espresso con molto sentimento», fu la risposta, «ma non mi riguarda. Tali questioni di coerenza non sono affar mio, e non mi curo minimamente della costrizione che può avervi trascinato, così come avrebbe potuto portarvi nella giusta direzione. Ma il tempo vola; la domestica indugia nel guardare i visi della folla e i cartelloni sulle staccionate, tuttavia continua ad avvicinarsi; e, tenetelo presente, è come se il patibolo stesso muovesse a grandi passi verso di voi per le strade natalizie. Devo aiutarvi, io che so tutto? Devo dirvi dove potrete trovare il denaro?» «A quale prezzo?», chiese Markheim.
«Vi offro i miei servigi come dono di Natale», rispose l'altro. Markheim non poté fare a meno di sorridere, con una specie di amaro trionfo. «No», disse, «non accetterò niente dalle vostre mani; e, se morissi di sete e fosse la vostra mano ad avvicinare l'acqua alle mie labbra, troverei la forza di rifiutare. Posso essere credulo, ma non farò nulla per affidarmi al Male.» «Non faccio obiezioni al pentimento sul letto di morte», fece osservare il visitatore. «Perché non credete nella sua efficacia!», esclamò Markheim. «Non dico questo», replicò l'altro, «ma considero le cose da un punto di vista diverso e, quando la vita è terminata, il mio interesse non ha più motivo di esistere. L'uomo è vissuto per servirmi, per spargere nere occhiate sotto il pretesto della religione, o per seminare il loglio nel campo di grano, come voi, nel cedere per debolezza ai desideri. Quando si avvicina tanto alla liberazione, non può aggiungere che un atto servile: pentirsi, morire sorridendo e far così nascere, in fiducia e speranza, il più timoroso dei seguaci che gli sopravviveranno. Non sono un padrone così duro. Mettetemi alla prova. Accettate il mio aiuto. Godetevi la vita come avete fatto finora; godetela ancora più ampiamente, allargate i gomiti sulla tavola; e, quando la notte comincia a cadere e le cortine vengono abbassate, vi dirò, per vostro maggior conforto, che troverete ancora più facile comporre il vostro dissidio con la coscienza e fare una umile pace con Dio. Vengo proprio ora da un letto di morte come questo, e la stanza era piena di gente che piangeva in tutta sincerità, che ascoltava le ultime parole dell'uomo e, quando ho guardato quel volto, che era stato duro come una pietra alla misericordia, l'ho visto sorridere di speranza.» «E voi allora credete che io sia una creatura come quella?», chiese Markheim. «Credete che non abbia aspirazione più generosa che il peccato, per poi alla fine entrare furtivamente in cielo? Il mio cuore si ribella a un pensiero del genere. È questa, dunque, la vostra esperienza degli uomini? O pensate a tanta viltà solo perché mi trovate con le mani rosse di sangue? Ed è questo delitto, l'assassinio, tanto empio da inaridire le sorgenti stesse del bene?» «Per me l'assassinio non rappresenta una categoria particolare», rispose l'altro. «Tutti i peccati sono assassinii, allo stesso modo in cui ogni vita è guerra. Io vedo la vostra specie, come marinai languenti su una zattera, strappare il tozzo di pane dalle mani di un affamato e nutrirsi delle vite de-
gli altri. Seguo i peccati oltre il momento nel quale sono commessi, e trovo che in tutti la conseguenza ultima è la morte; e ai miei occhi la graziosa fanciulla che discute con la madre con candore attraente per una questione che riguarda il ballo, non gocciola meno visibilmente sangue umano di un assassino come voi. Ho detto che seguo i peccati? Seguo anche le virtù; non differiscono della grossezza di un'unghia, gli uni e le altre, sono tutti e due falci per l'Angelo della Morte che Miete. Il Male per il quale io vivo, non consiste nell'azione, ma nel carattere. Mi è caro l'uomo cattivo, non l'azione cattiva, i cui frutti, se li potessimo seguire lontano giù per la ripida cateratta del tempo, potrebbero sembrarci più sacri delle virtù più rare. E non è perché avete ucciso un mercante, ma perché siete Markheim, che vi offro di aiutarvi a fuggire.» «Vi aprirò il mio cuore», rispose Markheim. «Il delitto nel quale mi avete sorpreso sarà l'ultimo che commetterò. Spingendomi fino a questo punto, ho imparato molte cose, e ciò è di per se stesso una lezione, una lezione molto importante. Finora sono stato indotto, benché mi rivoltassi, a fare quello che non volevo: ero schiavo della povertà, la preda che essa flagellava. Ci sono virtù forti in grado di sopportare queste tentazioni, ma la mia non era così: ero assetato di piacere. Però oggi, e da questo misfatto, ricavo allo stesso tempo un avvertimento, la ricchezza, il potere e, contemporaneamente, la ferma decisione di essere me stesso. Divento, in tutto e per tutto, libero di agire nel mondo; comincio a vedermi completamente mutato: queste mani, fatte per operare il bene, questo cuore in pace... Qualche cosa torna in me dal passato, qualcosa di ciò che sognai nelle sere estive al suono dell'organo in chiesa, di ciò che progettai mentre versavo le mie lacrime su nobili libri, o mentre parlavo, bambino innocente, con mia madre. Quella sarà la mia vita; ho errato per pochi anni, ma ora vedo ancora una volta la città del mio destino.» «Speculerete in Borsa con questo danaro, vero?», osservò il visitatore. «E, se non mi sbaglio, avete già perduto diverse migliaia di sterline!» «Ah», esclamò Markheim, «ma questa volta ho qualcosa di sicuro!» «Perderete anche questa volta», replicò tranquillamente il visitatore. «Oh, ma terrò da parte del denaro!», fece Markheim. «Perderete anche quel denaro», disse l'altro. La fronte di Markheim si imperlò di sudore. «Ebbene, che importa?», gridò. «Ammettiamo che lo perda, ammettiamo che piombi ancora nella povertà; dovrà per questo una parte di me, la peg-
giore, continuare a vincere sulla migliore? Il Male e il Bene scorrono potenti in me, trascinandomi dall'una e dall'altra parte. Non amo una sola cosa: amo tutte le cose, io. So pensare a grandi azioni, a rinunce, a martini e, anche se sono caduto in un delitto quale l'assassinio, la pietà non è estranea ai miei pensieri. Ho pietà dei poveri; chi conosce le loro prove meglio di me? So che cosa vale l'amore, e non c'è cosa buona sulla terra che io non prediliga con tutto il mio cuore. E devono i miei vizi soltanto guidare la mia vita e deve la mia virtù rimanere senza effetto, come un passivo ingombro della mente? No, non deve essere così! Anche il bene è fonte di azioni.» Ma il visitatore alzò un dito. «Per i trentasette anni che siete rimasto in questo mondo», disse, «attraverso molti mutamenti di forma e varietà di umori, vi ho osservato e vi ho visto cadere sempre più in basso. Quindici anni addietro un furto vi avrebbe spaventato. Tre anni fa sareste impallidito a sentire parlare di assassinio. C'è un delitto, c'è una crudeltà, c'è una viltà davanti alla quale potreste ancora indietreggiare? Fra cinque anni vi coglierò sul fatto. Sempre più giù, sempre più giù dovete andare, e soltanto la morte vi potrà fermare.» «È vero», disse Markheim, con voce roca, «fino a un certo punto ho accettato il male. Ma così fanno tutti. Gli stessi santi, vivendo, diventano meno difficili e accettano il dono di ciò che li circonda.» «Vi rivolgerò una domanda semplice», fece l'altro, «e dalla risposta ricaverò il vostro oroscopo morale. Siete diventato più immorale in molte cose; forse avete fatto bene e, ad ogni modo, è ciò che accade a tutti gli uomini. Ma, ammesso questo, siete - in un solo particolare per quanto trascurabile - più severo nell'accettare la vostra condotta, o agite in tutte le cose con rilassatezza ancora maggiore?» «In qualche particolare?», ripeté Markheim, pensieroso e pieno di angoscia. «No», aggiunse poi, disperato, «in nessuno. Sono sceso sempre più in basso in ogni cosa.» «Allora», disse il visitatore, «accontentatevi di essere quello che siete, perché non cambierete mai, e le parole della vostra parte su questa scena sono irrevocabilmente scritte.» Markheim rimase a lungo in silenzio, anzi fu il visitatore a rompere per primo questo silenzio. «Dato che le cose stanno così», chiese, «debbo mostrarvi dov'è il danaro?» «E la grazia?», chiese Markheim.
«Non avete provato anche questo?», rispose l'altro. «Due o tre anni addietro non vi ho visto sul palco alle adunate religiose, e non era la vostra voce la più forte nel canto dei Salmi?» «È vero», ammise Markheim, «e vedo con perfetta chiarezza che cosa rimane da fare, qual è il mio dovere. Vi ringrazio dal profondo dell'anima per questa lezione; ho aperto gli occhi, finalmente, e mi vedo quale realmente sono.» In quel momento il trillo acuto del campanello echeggiò per tutta la casa, e il visitatore, quasi si fosse trattato di un segnale predisposto del quale era in attesa, mutò subito contegno. «La domestica!», esclamò. «È tornata, come vi avevo avvertito, ed ora vi trovate davanti a un altro, difficile passo. Il suo padrone, dovete dirle, è ammalato. Dovete farla entrare, con aria disinvolta ma piuttosto seria; niente sospiri, niente esagerazioni, e vi prometto il successo. Quando la ragazza sarà entrata, la stessa abilità che vi ha liberato del mercante vi solleverà da questo ultimo pericolo che si trova sul vostro cammino. Poi avete tutta la sera - tutta la notte, se sarà necessario - per saccheggiare i tesori di questa casa e mettervi in salvo. Ciò che viene a voi con la maschera del pericolo è un aiuto. Avanti», esclamò, «avanti, amico mio! La vostra vita trema sulla bilancia! Avanti, agite!» Markheim guardò fissamente il suo consigliere. «Se sono condannato ad azioni malvage», disse, «c'è ancora una porta che si apre per me verso la liberazione: posso astenermi dall'agire. Se la mia vita è una cosa cattiva, la posso abbandonare. Sebbene sia, come dite giustamente, pronto al cenno delle piccole tentazioni, posso ancora, con un gesto deciso, mettermi in salvo là dove nessuno potrà raggiungermi. Il mio amore del bene è destinato a rimanere sterile, e così sia. Ma mi resta ancora il mio odio per il male, e da questo, con vostro profondo disappunto, vedrete che saprò derivare tanto l'energia quanto il coraggio.» Il volto del visitatore cominciò a mutare in modo meraviglioso e stupendo, si illuminò e si raddolcì di tenero trionfo, e mentre si illuminava, svaniva e si dileguava. Ma Markheim non indugiò nell'osservare o nel cercare di comprendere quella trasformazione. Aprì la porta e scese lentamente, riflettendo fra sé. Il suo passato gli sfilò davanti agli occhi adagio, ed egli allora lo vide com'era, brutto e audace come un sogno, senza scopo, come un casuale miscuglio di fatti: una scena di sconfitta. La vita, così come la rivide, non lo tentava più, ma dall'altra parte intravvedeva un porto di sicura quiete per
la sua nave. Si fermò nel corridoio e guardò nel negozio, dove la candela era ancora accesa accanto al morto. C'era uno strano silenzio. Ricordi del mercante turbinarono nella sua mente mentre guardava. E di nuovo il campanello eruppe in un impaziente clamore. Andò incontro alla domestica sulla soglia, con qualcosa di simile a un sorriso. «Sarà meglio che andiate a chiamare la polizia», disse. «Ho ucciso il vostro padrone.» WILKIE COLLINS La signora Zant e il fantasma 1. Questo racconto descrive il ritorno di uno spirito disincarnato sulla terra, e conduce il lettore in un territorio nuovo ed insolito. Non nell'oscurità della piena notte, ma nella luce splendente del giorno, si fece conoscere l'influenza supernaturale. Non rivelata da una visione, né annunziata da una voce, raggiunse la conoscenza mortale per mezzo del senso che meno facilmente si inganna: il senso del tatto. La relazione di quest'evento produrrà necessariamente impressioni contrastanti. Solleverà, in alcune menti, il dubbio della ragione; rinvigorirà, in altre, la speranza giustificata dalla fede e lascerà la terribile domanda sui destini dell'uomo, al punto in cui l'hanno lasciata secoli di ricerche... nell'oscurità. Avendo con il seguente racconto soltanto tentato di condurre il lettore lungo una successione di eventi, lo scrittore rifiuta di seguire gli esempi attuali imponendo se stesso e la sua opinione al pubblico. Ritorna nell'ombra dalla quale è emerso, e lascia le forze opposte dell'incredulità e della fede a combattere l'antica battaglia, sull'antico terreno. 2. Questi fatti sono accaduti poco dopo la fine dei primi trent'anni del nostro secolo. Una bella mattina, nei primi giorni del mese di aprile, un signore di mezza età (che si chiamava Rayburn) portò la sua figlioletta Lucy a fare
una passeggiata in quella zona boscosa dell'ovest di Londra detta Kensington Gardens. I pochi amici che possedeva dicevano del signor Rayburn (senza cattiveria) che era un uomo solitario e riservato. Lo si sarebbe potuto descrivere con maggior esattezza come un vedovo devoto alla sua sola figlia sopravvissuta. Sebbene non avesse che quarant'anni, il solo piacere che rendeva gradita la vita al padre di Lucy gli era offerto proprio da Lucy. Giocando con la palla, la bambina arrivò correndo al limite meridionale dei Giardini, a quella parte di essi che rimane la più vicina al vecchio palazzo di Kensington. Vedendo lì vicino uno di quegli ampi sedili coperti che in Inghilterra si chiamano «alcove», il signor Rayburn si ricordò di avere in tasca il giornale del mattino, e gli venne in mente che poteva sedersi a riposare e a leggere. A quell'ora mattutina il posto era deserto. «Continua a giocare, cara», disse, «ma sta' attenta a rimanere dove ti vedo.» Lucy tirò in aria la sua palla, e il padre di Lucy aprì il suo giornale. Non aveva letto per più di dieci minuti, che sentì una manina familiare posarglisi sul ginocchio. «Sei stanca di giocare?», chiese, sempre con gli occhi sul giornale. «Ho paura, papà.» Alzò subito gli occhi. Il viso pallido della bimba lo preoccupò. Allora la prese sulle ginocchia e la baciò. «Non devi aver paura, Lucy, quando ci sono io», le disse dolcemente. «Cosa c'è?» Guardò fuori dall'alcova mentre parlava, e vide un cagnolino fra gli alberi. «Si tratta del cane?», chiese. Lucy rispose: «Non è il cane... è la signora». La signora non era visibile dall'alcova. «Ti ha detto qualcosa?», chiese il signor Rayburn. «No.» «Cos'ha fatto per spaventarti?» La bambina gettò le braccia attorno al collo di suo padre. «Parla piano, papà», disse. «Ho paura che ci senta. Penso che sia matta.» «Perché lo pensi, Lucy?» «Mi è venuta vicino. Pensavo che mi dicesse qualcosa. Sembrava che stesse male.» «Bene. E poi?» «Mi ha guardata.»
Qui Lucy rimase senza parole per esprimere quel che doveva dire dopo... e si rifugiò nel silenzio. «Non c'è niente di tanto strano, fin qui», insinuò suo padre. «Sì, papà... ma sembrava che non mi vedesse mentre mi guardava.» «Bene, e poi cos'è successo?» «La signora aveva paura... e questo mi ha fatto paura. Penso», ripeté solennemente la bambina, «che sia matta.» Al signor Rayburn venne in mente che la signora fosse cieca. Si alzò subito per chiarire quel dubbio. «Aspettami qui», disse. «Tornerò subito.» Ma Lucy gli si aggrappò con le due mani, e dichiarò che aveva paura a stare da sola. Uscirono insieme dall'alcova. Il nuovo punto di vista rivelò subito la sconosciuta, appoggiata al tronco di un albero. Era vestita con gli abiti da lutto di una vedova. Il pallore del suo volto, lo sguardo vitreo nei suoi occhi, giustificavano il terrore della bambina, e chiarivano l'allarmante conclusione alla quale era arrivata. «Va' più vicino», sussurrò Lucy. Fecero qualche passo. Si vedeva bene che la signora era giovane, e sciupata da una malattia ma (arrivando a una conclusione forse dubbia date le circostanze) che aveva posseduto in tempi più felici rare attrattive personali. Come il padre e la figlia si avvicinarono un po', lei li scoprì. Dopo qualche esitazione si staccò dall'albero, si avvicinò con l'evidente intenzione di parlare e, a un tratto, si fermò. Stupore e timore animarono i suoi occhi vuoti. Se non fosse stato già evidente prima, sarebbe stato ora fuor di dubbio che non si trattava di un essere cieco, abbandonato e indifeso. Al tempo stesso, l'espressione del suo viso non era chiaramente comprensibile. Non avrebbe potuto sembrare più stupita e sconvolta, se i due estranei che la stavano osservando fossero improvvisamente spariti dal posto in cui si trovavano. Il signor Rayburn le parlò con la massima gentilezza nella voce e nei modi. «Mi dispiace che non si senta bene», disse. «C'è qualcosa che posso fare...» Le parole seguenti si fermarono sulle sue labbra. Era impossibile credere ad un tale stato di cose, ma la strana impressione che lei aveva già prodotto su di lui veniva ora confermata. Se doveva credere ai propri sensi, il viso di lei gli stava dicendo che era inudibile e invisibile alla donna alla quale si
stava rivolgendo! Lei si allontanò con un profondo sospiro, come se fosse delusa e desolata. Seguendola con gli occhi, lui vide di nuovo il cane, un piccolo terrier dal pelo liscio della comune razza inglese. Il cane non mostrava nulla della frenetica attività tipica della sua razza. Testa bassa e coda fra le gambe, stava accucciato come se fosse paralizzato dalla paura. La sua padrona lo chiamò e lui si mosse; la seguì inquieto mentre lei si allontanava. Dopo pochi passi, si fermò di colpo. Il signor Rayburn la sentì parlare da sola. «L'ho sentito di nuovo?», diceva lei, come se un dubbio la preoccupasse o la tormentasse. Poco dopo, le sue braccia si alzarono lentamente, e si aprirono in un gesto dolcemente carezzevole... un abbraccio stranamente offerto all'aria vuota! «No», si disse tristemente, dopo un momento, «forse di più domani: basta per oggi.» Alzò lo sguardo al cielo azzurro e limpido. «Che bel sole! Che caro sole!», mormorò. «Sarei morta se fosse successo al buio.» Chiamò di nuovo il cane, e di nuovo riprese il cammino. «Torna a casa, papà?», chiese la bimba. «Cercheremo di scoprirlo», rispose il padre. A quel punto era convinto che la povera creatura non fosse in grado di uscire senza che qualcuno la accompagnasse. Per motivi di umanità, era deciso a fare un tentativo per mettersi in contatto con i suoi amici. 3. La signora lasciò i Giardini dal cancello più vicino, e si fermò ad abbassare il velo prima di entrare nell'affollata via che porta a Kensington. Un po' più avanti, sulla High Street, entrò in una casa dall'aspetto rispettabile: in una delle finestre c'era un cartello che avvertiva che vi erano delle camere da affittare. Il signor Rayburn attese un momento, poi suonò alla porta, e chiese di parlare con la padrona di casa. La cameriera lo fece entrare in una stanza al pianterreno, con pochi mobili ma belli. Un piccolo oggetto bianco interrompeva la monotonia scura della tavola vuota. Era un biglietto da visita. Con la curiosità spontanea dei bambini, Lucy si impadronì del biglietto e sillabò il nome, lettera per lettera: «Z.A.N.T.», ripeté. «Cosa vuol dire?» Suo padre osservò il biglietto, mentre glielo toglieva per rimetterlo sul
tavolo. Il nome era stampato, l'indirizzo aggiunto a matita: «Signor John Zant, Purley Hotel.» La padrona di casa comparve. Il signor Rayburn desiderò con tutto il cuore di esser fuori della casa nel momento in cui la vide. I modi in cui è possibile coltivare le virtù sociali sono più numerosi e più vari di quel che generalmente si crede. Il modo di quella signora l'aveva evidentemente abituata ad incontrare i suoi simili sul terreno solido della giustizia senza pietà. Qualcosa nei suoi occhi, mentre guardava Lucy, diceva: «Mi chiedo se questa bambina venga castigata quando lo merita.» «Desidera vedere le stanze da affittare?», cominciò. Il signor Rayburn espose subito il motivo della sua visita: chiaramente, educatamente e concisamente per quanto era possibile ad un uomo. Si rendeva conto (aggiunse) che si era forse reso colpevole di una intrusione. Le maniere della padrona di casa mostrarono che lei era perfettamente d'accordo con lui su quel punto. Egli insinuò, tuttavia, che i suoi motivi potevano forse scusarlo. L'atteggiamento della padrona di casa cambiò, e mise in luce una divergenza d'opinioni. «Conosco la signora di cui lei parla», disse, «come una persona della massima rispettabilità, di salute delicata. Ha preso l'appartamento del primo piano, con referenze eccellenti, e mi dà pochissimo fastidio. Non ho alcuna giustificazione per interferire nel suo modo di vivere, né ragione di dubitare che non sia capace di assumere la cura di se stessa.» Il signor Rayburn tentò poco saggiamente di dire qualche parola per difendersi. «Mi permetta di ricordarle...», cominciò. «Che cosa, signore?» «Quel che io ho osservato, quando ho per caso incontrato la signora nei Giardini di Kensington.» «Non sono responsabile di ciò che lei ha visto nei Giardini di Kensington. Se il suo tempo ha valore, non lasci che la trattenga.» Licenziato in questi termini, il signor Rayburn prese Lucy per mano e si ritirò. Era appena arrivato alla porta, che questa si aprì dal di fuori. La signora dei Giardini di Kensington stava davanti a lui. Nella posizione che ora occupavano lui e sua figlia, davano le spalle alla finestra. Si sarebbe ricordata di averli visti nei Giardini di Kensington? «Mi scusi se disturbo», disse la donna alla padrona di casa. «La sua cameriera mi ha detto che mio cognato è venuto mentre io ero fuori. Qualche volta mi lascia un messaggio sul biglietto da visita.»
Cercò il messaggio, e assunse un'espressione delusa: non c'era scritto niente sul biglietto. Il signor Rayburn si attardò sulla porta, sperando di sentire qualcosa di più. Gli occhi vigili della padrona di casa lo scoprirono. «Conosce questo signore?», chiese con cattiveria alla sua pensionata. «Non lo ricordo.» Nel dire quelle parole, la signora guardò il signor Rayburn per la prima volta, e subito si ritrasse da lui. «Sì», disse, correggendosi; «credo che ci siamo incontrati...» L'imbarazzo la sopraffece; non poté aggiungere altro. Il signor Rayburn finì compassionevolmente la frase per lei. «Ci siamo incontrati per caso nei Giardini di Kensington», disse. Lei sembrava incapace di apprezzare la delicatezza delle sue intenzioni. Dopo aver esitato alquanto, gli fece una proposta che pareva indicare una mancanza di fiducia nella padrona di casa. «Vorrebbe salire a parlare con me nelle mie stanze?», chiese. Senza aspettare risposta, si avviò verso le scale. Il signor Rayburn e Lucy la seguirono. Avevano appena cominciato a salire al primo piano, che la maliziosa signora lasciò la stanza dabbasso e parlò alla sua pensionante sopra le loro teste: «Stia attenta a quel che dice a quest'uomo, signora Zant! Lui pensa che lei sia matta». La signora Zant si girò sul pianerottolo e lo guardò. Le sue labbra non pronunciarono parola. Lei soffriva e temeva, in silenzio. Qualcosa nella triste sottomissione di quel viso fece scattare la molla dell'innocente pietà nel cuore di Lucy. La bambina scoppiò in pianto. Questa spontanea espressione di simpatia spinse la signora Zant giù per i gradini che la separavano da Lucy. «Posso dare un bacio alla sua cara bambina?», disse al signor Rayburn. La padrona di casa, in piedi sullo stuoino, espresse la sua opinione sullo scarso valore delle carezze in confronto a un metodo più sano di trattare i bambini in lacrime. «Se quella bambina fosse mia», disse, «le darei io un buon motivo per piangere.» Intanto la signora Zant si era avviata verso le sue stanze. Le prime parole che pronunciò, dimostrarono che la padrona di casa era riuscita fin troppo bene a metterla in guardia contro il signor Rayburn. «Mi permette di chiedere alla sua bambina», gli disse, «perché lei crede che io sia matta?»
Lui rispose alla strana richiesta in modo fermo. «Lei non sa ancora quello che io penso davvero. Mi presterà attenzione per un minuto?» «No», rispose lei con determinazione. «La bambina mi compatisce. Io voglio parlare con la bambina. Cosa mi hai visto fare nei Giardini di Kensington, carina, che ti ha tanto sorpreso?» Lucy si girò inquieta verso suo padre, e la signora Zant insisté. «Ti ho vista prima da sola, e poi ti ho vista con il tuo papà», continuò. «Quando ti sono venuta vicina, avevo l'aria molto strana... come se non ti vedessi?» Lucy esitò di nuovo, e il signor Rayburn intervenne. «Lei confonde la mia bambina», disse. «Permetta che risponda io alle sue domande... o mi permetta di lasciarla.» Qualcosa nel suo aspetto - o nel suo tono - la sopraffece. Si portò una mano alla fronte. «Non credo che riuscirei a sopportarlo», rispose con aria assente. «Il mio coraggio è stato già duramente provato. Se riesco a riposare e a dormire un po', mi troverà tutta diversa. Sto molto sola; e ho delle ragioni per cercare di riordinare le mie idee. Posso vederla domani? O scriverle? Dove abita?» Il signor Rayburn depose in silenzio il suo biglietto da visita sul tavolo. Lei aveva fortemente risvegliato il suo interesse. Desiderava onestamente esser d'aiuto a quell'essere solitario, così crudelmente abbandonato come pareva - alla sola propria guida. Ma non poteva esercitare alcuna autorità, non aveva alcun diritto nel dirigere le di lei azioni, nemmeno se la donna avesse acconsentito ad accettare i suoi consigli. Come ultima risorsa, osò accennare al parente di cui lei aveva parlato quando stavano al pianterreno. «Quando pensa di rivedere suo cognato?», disse. «Non so», rispose lei. «Vorrei vederlo: è così gentile con me!» Si voltò per salutare Lucy. «Arrivederci, mia piccola amica. Se vivi tanto da diventare grande, spero che non sarai mai infelice come me.» A un tratto si rivolse al signor Rayburn. «Ha una moglie a casa?», chiese. «Mia moglie è morta.» «E lei ha una figlia che la conforta! Mi lasci, la prego; lei mi indurisce il cuore. Oh, signore, non capisce? Mi rende invidiosa di lei!» Il signor Rayburn non disse parola mentre lui e Lucy tornavano in strada. Anche Lucy, come una brava bambina, stava zitta. Ma ci sono limiti alla sopportazione umana, e la capacità di autocontrollo di Lucy si esaurì
presto. «Pensi alla signora, papà?», chiese. Lui rispose solo con un cenno del capo. Sua figlia lo aveva interrotto in quel momento critico delle riflessioni di un uomo, in cui sta sul punto di prendere una decisione. Prima di arrivare a casa, il signor Rayburn aveva già preso la sua. Il cognato della signora Zant era evidentemente all'oscuro della seria necessità di un intervento da parte sua, o avrebbe preso provvedimenti per ripetere immediatamente la sua visita. In quello stato di cose, se fosse successo qualcosa di male alla signora Zant, il silenzio da parte del signor Rayburn sarebbe stato indirettamente da biasimare. Arrivato a quella conclusione, decise di correre il rischio di esser ricevuto scortesemente, per la seconda volta, da un altro estraneo. Lasciando Lucy alle cure della sua governante, si recò subito all'indirizzo che era scritto sul biglietto da visita, lasciato alla pensione, e diede il suo nome. Un cortese messaggio gli fu trasmesso in risposta. Il signor John Zant era in casa, e sarebbe stato felice di riceverlo. 4. Il signor Rayburn fu introdotto in uno dei salottini privati dell'albergo. Egli osservò che l'abituale disposizione dei mobili in una stanza era stata in qualche modo alterata. Una poltrona, un tavolino e un poggiapiedi, erano stati portati vicino alla finestra, ed erano stati messi il più possibile vicino alla luce. Sulla tavola c'era un grosso involto di cuoio aperto, che conteneva file e file di piccoli strumenti eleganti d'acciaio e d'avorio. Vicino al tavolo attendeva il signor John Zant. Disse «Buongiorno» con una voce di basso così profonda e melodiosa, che quelle due parole comuni assunsero una nuova importanza sulle sue labbra. L'aspetto della sua persona era in armonia con la sua magnifica voce: era un uomo alto, dalla figura armoniosa e la carnagione scura, con grandi occhi neri e lucenti, e una nobile barba ricciuta che nascondeva la parte inferiore del viso. Dopo che si fu inchinato con una felice sintesi di dignità e di cortesia, l'aspetto convenzionale della personalità del gentiluomo svanì di colpo; e un aspetto folle, almeno apparentemente, prese il suo posto. Cadde in ginocchio davanti al poggiapiedi. Aveva forse dimenticato di dire le preghiere del mattino, e aveva tanta fretta di rimediare a tale mancanza da non poter perdere tempo per le apparenze? Tale dubbio si era appena manifestato, che venne messo a tacere nel modo più inaspettato. Il signor Zant osservò
il suo visitatore con un debole sorriso e disse: «Prego, mi mostri i suoi piedi». Per un attimo il signor Rayburn perse la sua presenza di spirito. Guardò gli strumenti posati sul tavolino. «Lei toglie i calli?», fu tutto quel che seppe dire. «Scusi, signore», replicò il cortese operatore, «il termine da lei usato è alquanto obsoleto nella mia professione». Si alzò in piedi e aggiunse modestamente: «Sono un chiropodista». «Voglia scusarmi.» «Non c'è di che! Lei, immagino, non è qui per i miei servigi professionali. A cosa devo l'onore della sua visita?» Ormai il signor Rayburn aveva ripreso la padronanza di sé. «Sono venuto», rispose, «spinto da circostanze che richiedono scuse come pure spiegazioni.» Il modo di fare altamente raffinato del signor Zant tradì alcuni sintomi di allarme; i suoi sospetti tendevano a una temibile conclusione - una conclusione che lo scosse negli intimi recessi della tasca in cui teneva i soldi. «Le numerose richieste che ricevo...», cominciò. Il signor Rayburn sorrise. «Si tranquillizzi», rispose. «Non voglio denaro. Il mio scopo è quello di parlare a proposito di una signora che è imparentata con lei.» «Mia cognata!», esclamò il signor Zant. «Si sieda, per favore.» Temendo di non aver scelto un momento adatto per tale visita, il signor Rayburn esitò. «Non vorrei impedire ad altre persone di consultarla», disse. «No davvero! Il mio orario di visita è dalle undici all'una.» L'orologio sul caminetto batté l'una e un quarto mentre parlava. «Spero che lei non mi porti cattive notizie?», chiese, seriamente. «Quando sono andato a trovare la signora Zant stamattina, mi hanno detto che era andata a fare una passeggiata. È indiscreto da parte mia chiederle come ha fatto la sua conoscenza?» Il signor Rayburn raccontò subito quel che aveva visto e sentito nei Giardini di Kensington, senza omettere di aggiungere poche parole per descrivere la sua intervista successiva con la signora Zant. Il cognato della signora ascoltava con un interesse e una simpatia che offrivano il massimo contrasto possibile con la sgarberia immotivata della padrona della pensione. Egli dichiarò che poteva rendere giustizia al suo senso del dovere solo seguendo l'esempio del signor Rayburn nell'espri-
mersi con la stessa franchezza che avrebbe usato nel parlare a un vecchio amico. «La triste storia della vita di mia cognata», disse, «spiegherà, penso, alcune cose che possono aver destato in lei delle perplessità. Mio fratello l'ha conosciuta in casa di un signore australiano che visitava l'Inghilterra. Allora era governante delle sue figlie. La famiglia aveva per lei una stima così sincera che i genitori, su richiesta delle bambine, le avevano chiesto di accompagnarli quando fossero tornati in colonia. La governante aveva accettato con gratitudine tale proposta.» «Non aveva parenti in Inghilterra?», chiese il signor Rayburn. «Era letteralmente sola al mondo, signore. Quando le avrò detto che era cresciuta nell'Ospizio dei Trovatelli, capirà quel che intendo dire. Oh, non ci sono aspetti romantici nella storia di mia cognata! Non ha mai saputo, né mai saprà, chi sono stati i suoi genitori, né perché l'hanno abbandonata. Il momento più felice della sua vita è stato quello in cui lei e mio fratello si sono incontrati per la prima volta. È stato, da ambedue le parti, un colpo di fulmine. Sebbene non fosse ricco, mio fratello aveva messo insieme commerciando una rendita sufficiente. La sua personalità parlava da sola. In una parola, cambiò le prospettive della povera ragazza, come noi allora speravamo e credevamo, per il meglio. I suoi datori di lavoro rinviarono il loro ritorno in Australia, in modo che potesse sposarsi partendo da casa loro. Dopo una vita felice che durò solo poche settimane...» La voce gli mancò: tacque, e distolse il viso dalla luce. «Mi scusi», disse, «ancora adesso non mi riesce di parlare senza emozione della morte di mio fratello. Lasci che le dica soltanto che la povera giovane moglie divenne vedova prima che terminassero i giorni felici della luna di miele. Quella terribile disgrazia la abbatté. Prima che mio fratello fosse affidato alla tomba, la sua vita versava in pericolo per una febbre cerebrale.» Quelle parole gettarono una luce nuova sui primi timori del signor Rayburn che l'intelletto di lei fosse sconvolto. Osservandolo attentamente, il signor Zant parve rendersi conto di ciò che passava per la mente del suo ospite. «No!», disse. «Se si può aver fiducia nelle opinioni dei medici, dalla sua malattia è derivato un danno per la sua forza fisica... non per la sua mente. Ho osservato in lei, senza dubbio, una certa mutevolezza di carattere dopo la malattia, ma è roba da poco. Come esempio di quanto le dico, le racconterò che l'ho invitata a venire a trovarmi dopo che sarà guarita. Non abito a
Londra - il clima non mi si confà - ma risiedo a St. Sallins-on-Sea. Io non sono sposato; ma la mia ottima governante avrebbe ricevuto la signora Zant con la massima cortesia. Era decisa - testardamente decisa, poverina a rimanere a Londra. Inutile dire che, nella sua triste situazione, sono attento ai suoi minimi desideri. Le ho trovato un appartamento; e, su sua particolare richiesta, ho scelto una casa che fosse vicino ai Giardini di Kensington.» «C'è qualche motivo per cui la signora Zant ha fatto questa richiesta?» «Oh sì, il ricordo di suo marito. Vorrei esser sicuro di trovarla a casa quando passerò da lei domani mattina. Lei mi ha detto, mi pare, durante il suo racconto così interessante, che lei intendeva - o così suppone - ritornare ai Giardini di Kensington domani? La mia sola idea, al presente, è un cambiamento d'aria e di ambiente. Cosa ne pensa lei?» «Penso che lei abbia ragione.» Il signor Zant era ancora incerto. «Non mi sarebbe facile in questo momento», disse, «lasciare i miei pazienti e andare all'estero.» Al signor Rayburn venne in mente una risposta ovvia. Un uomo di maggior esperienza del mondo avrebbe forse provato qualche sospetto, e sarebbe rimasto zitto. Il signor Rayburn parlò. «Perché non la invita di nuovo a casa sua al mare?», disse. Nello stato d'incertezza del signor Zant, quel semplicissimo modo d'agire non gli era evidentemente venuto in mente. La sua faccia rannuvolata si rischiarò immediatamente. «Proprio quel che ci vuole!», esclamò. «Seguirò senz'altro il suo consiglio. Anche se non servisse ad altro, l'aria di St. Sallins migliorerà la sua salute e l'aiuterà a rimettersi. Non le sembra che in giorni più felici sia stata una bella donna?» Quella era una domanda un po' troppo confidenziale da fare, forse anche indelicata, nelle circostanze. Una certa espressione furtiva negli occhi del signor Zant pareva implicare che fosse stata fatta con uno scopo preciso. Era possibile che sospettasse che l'interesse del signor Rayburn per la cognata fosse ispirato da un motivo non perfettamente altruista e non perfettamente puro? Arrivare a una simile conclusione avrebbe voluto dire formulare un giudizio affrettato e crudele su un uomo che forse era colpevole soltanto di mancare di delicatezza di sentimenti. Il signor Rayburn fece onestamente del proprio meglio per porsi da un punto di vista caritatevole. Al tempo
stesso non si può negare che le sue parole, quando rispose, furono più riservate, e che si alzò per prendere congedo. Il signor Zant protestò, da buon ospite. «Perché tanta fretta? Deve proprio andarsene? Avrò l'onore di restituirle la visita domani, dopo aver preso accordi per approfittare del suo eccellente consiglio. Arrivederla. Dio la benedica.» Gli offrì la mano: una mano dalla superficie liscia e il colore abbronzato, che strinse con fervore le dita di un amico che se ne andava. «È forse un mascalzone quest'uomo?», fu il primo pensiero del signor Rayburn quando uscì dall'albergo. Il suo senso morale acquietò tutte le esitazioni e rispose: «Sei uno stupido se ne dubiti». 5. Turbato dai suoi presentimenti, il signor Rayburn tornò a casa a piedi, cercando di utilizzare quell'esercizio fisico per tranquillizzare la propria mente. Non vi riuscì. Andò di sopra a giocare con Lucy; bevve un bicchier di vino di più a pranzo, portò la bambina e la governante al circo nel pomeriggio, mangiò poco a cena, un altro bicchiere di vino prima di coricarsi, e tuttavia quegli inusuali presagi di pericolo continuavano a torturarlo. Ripensando alla sua vita passata, si chiese se qualche donna (a eccezione naturalmente, della sua defunta moglie!) aveva mai avuto nei suoi pensieri la parte predominante che la signora Zant occupava, senza alcun motivo evidente per farlo. Se avesse avuto il coraggio di rispondere alla sua stessa domanda, la risposta sarebbe stata: mai! Tutto il giorno successivo rimase a casa, aspettando la visita promessa dal signor Zant, ma attese invano. Verso sera la cameriera apparve alla tavola del tè e consegnò al padrone una busta insolitamente grande sigillata con ceralacca nera e con l'indirizzo vergato da una mano sconosciuta. La mancanza di francobollo e di timbro postale indicavano che era stata consegnata a casa da un fattorino. «Chi l'ha portata?», chiese il signor Rayburn. «Una signora in lutto.» «Ha lasciato detto qualcosa?» «No, signore.» Avendo tirato l'inevitabile conclusione, il signor Rayburn si chiuse nello studio. Temeva la curiosità di Lucy e le domande di Lucy, se avesse letto
la lettera della signora Zant in sua presenza. Guardando meglio la busta aperta dopo averne tolto le pagine scritte che conteneva, notò queste righe tracciate all'interno della busta: La mia unica scusa per disturbarla, quando avrei potuto consultare mio cognato, la troverà nelle pagine accluse. Per parlare chiaramente, lei è stato indotto a credere che io non sia sana di mente. Proprio per questo motivo mi rivolgo a lei. Il terribile dubbio che lei ha su di me, signore, è anche il mio. Legga quanto ho scritto su di me, e poi mi dica, la supplico, quello che sono: una persona che è stata oggetto di una rivelazione soprannaturale? O una sfortunata creatura che è fatta solo per essere imprigionata in un manicomio? Il signor Rayburn aprì il manoscritto. Con la massima attenzione, a volte mutata in interesse spasmodico, lesse quanto segue: 6. Il manoscritto della signora Ieri mattina, il sole brillava in un sereno cielo azzurro... dopo una serie di giorni nuvolosi, a partire dal primo del mese. La luce raggiante ebbe un effetto rianimatore sul mio basso morale. Avevo passato la notte in modo più tranquillo del solito, senza esser disturbata dal sogno, così crudelmente familiare, che il mio perduto sposo fosse ancora vivo, quel sogno dal quale sempre mi desto in lacrime. Mai, dagli oscuri giorni del mio dolore, ero stata così poco turbata dalle fantasie e dalle paure che tormentano le donne infelici, come quando lasciai la casa e diressi i miei passi verso i Giardini di Kensington, per la prima volta dopo la morte di mio marito. Seguita dal mio solo compagno, il cagnolino che era stato il suo beniamino così come il mio, andai nel tranquillo angolo dei Giardini che si trova più vicino a Kensington. Su quell'erba soffice, all'ombra di quegli enormi alberi, ci eravamo intrattenuti insieme all'epoca del nostro fidanzamento. Era la nostra passeggiata favorita, e lui mi ci aveva portato fin dai primi giorni della nostra conoscenza. Là mi aveva chiesto per la prima volta di diventare sua moglie, e
là avevamo provato l'estasi del nostro primo bacio. Non era forse naturale che desiderassi rivedere ancora una volta un luogo sacro a tali memorie? Ho solo ventitré anni: non ho un bambino che mi conforti, nulla da amare all'infuori della creatura muta che mi è così fedelmente affezionata. Mi diressi all'albero sotto il quale stavamo quando gli occhi del mio amato mi avevano espresso il suo amore prima che lui potesse dirlo a parole. Il sole di quel giorno scomparso brillò di nuovo su di me: la stessa solitudine mi circondava. Avevo temuto il primo effetto del tremendo contrasto tra passato e presente. No! Ero tranquilla e rassegnata. I miei pensieri, staccandosi dalla terra, si fermarono su una vita migliore oltre la morte. Mi vennero le lacrime agli occhi, ma non ero infelice. Posso credere a tutto ciò che ricordo, anche a piccolezze che non riguardano che me: non ero infelice. La prima cosa che vidi, quando i miei occhi si furono asciugati, fu il cane. Stava accucciato a qualche passo da me, e tremava in modo compassionevole, ma non piangeva. Da cosa era prodotta la paura che lo sopraffaceva? Stavo per saperlo. Chiamai il cane, ma lui rimase immobile: la percezione che qualcosa di misterioso stesse per manifestarsi, lo teneva soggiogato. Mi mossi per raggiungere la povera bestia e coccolarla e confortarla. Al primo passo avanti che feci, qualcosa mi fermò. Non si vedeva e non si sentiva, ma mi fermò. La figura immobile del cane scomparve dalla mia vista, come scomparve l'ambiente solitario che mi circondava... fuorché la luce del cielo, l'albero che mi proteggeva, e l'erba davanti a me. Un senso di indicibile aspettativa tenne i miei occhi fissi sull'erba. Improvvisamente vidi le sue miriadi di steli sollevarsi e tremare. Provai il timore di qualcosa che passava su di essi con l'invisibile velocità del vento. Il fremito avanzava... mi circondava. Raggiunse le foglie dell'albero al di sopra della mia testa: esse fremettero senza che un suono tradisse la loro agitazione: il loro piacevole fruscio naturale era ammutolito. Il canto degli uccelli era cessato, e il richiamo delle anitre nello stagno non si sentiva più. C'era un silenzio spaventoso. Ma l'amata luce del sole pioveva su di me, più brillante che mai. In quella luce accecante, in quel silenzio tremendo, sentii accanto a me una Presenza Invisibile. Poi essa mi toccò.
Al tocco, il mio cuore vibrò di una gioia che mi sopraffaceva. Un piacere squisito percorse ogni nervo del mio corpo. La riconoscevo! Dal mondo invisibile - lui stesso invisibile - era tornato a me. Oh, se lo riconoscevo! Eppure, la mia mortalità disperata desiderava un segno che potesse darmi una prova della verità. Il desiderio interiore prese la forma di parole. Cercai di pronunciare quelle parole. Avrei detto, se avessi potuto parlare: «Oh, angelo mio, dammi un segno che sei tu!». Ma ero come chi ha perso la favella: potevo solo pensarlo. La Presenza Invisibile lesse il mio pensiero. Sentii che toccava le mie labbra, come le labbra di mio marito erano solite toccarle quando mi baciava. E quella fu la risposta per me. Un pensiero mi tornò. Avrei detto, se avessi potuto parlare: «Sei qui per portarmi in un mondo migliore?». Attesi. Nulla che potessi sentire mi toccò. Ero conscia di pensare ancora. Avrei detto, se avessi potuto parlare: «Sei qui per proteggermi?». Mi sentii stringere in un abbraccio delicato, come le braccia di mio marito erano solite stringermi quando mi teneva sul suo petto. E quella fu la risposta per me. Il tocco che era uguale al tocco delle sue labbra, indugiò e svanì, così come la stretta che era simile alla stretta delle sue braccia mi strinse e svanì. Il giardino riprese il suo aspetto naturale. Vidi un essere umano lì vicino, un'adorabile bambina che mi osservava. In quel momento, quando fui di nuovo sola come al solito, la vista della bambina mi calmò e mi attirò. Avanzai: volevo parlarle. Con mio grande orrore, a un tratto non la vidi più: era scomparsa come se fossi improvvisamente diventata cieca. Eppure potevo vedere il paesaggio che mi circondava, potevo vedere il cielo sopra di me. Passò un certo tempo - solo pochi minuti, mi parve - e la bambina riapparve davanti ai miei occhi: camminava dando la mano a suo padre. Mi avvicinai; ero abbastanza vicina per vedere che mi guardavano con pietà e sorpresa. Provai l'impulso di chiedere loro se scorgevano qualcosa di strano in me o nel mio modo di fare. Prima che potessi parlare, l'orribile prodigio avvenne di nuovo: scomparvero entrambi dalla mia vista. L'Invisibile Presenza era di nuovo vicina? Si stava frapponendo fra me e i miei simili: la comunicazione era proibita, in quel luogo e a quell'ora? Doveva essere così. Quando mi voltai, il tremendo vuoto che mi aveva per due volte separata dagli esseri della mia stessa razza, non si frapponeva fra me e il cane. La povera creatura mi colmò di compassione: lo chiamai.
Si mosse al suono della mia voce, e mi seguì controvoglia: non si era completamente ridestato dallo stupore terrorizzato che lo aveva paralizzato. Prima di aver fatto qualche passo mi resi conto della vicinanza della Presenza. Gli aprii le mie braccia desiderose. Attesi nella speranza di un tocco che mi dicesse che potevo tornare. Forse mi rispose in modo indiretto? So soltanto che presi spontaneamente la decisione di tornare nello stesso posto, alla stessa ora, e che questo tranquillizzò la mia mente. La mattina del giorno successivo era cupa e nuvolosa, ma la pioggia non cadeva. Partii per i Giardini. Il cane mi precedeva correndo sulla strada... e si fermò, aspettando per vedere da che parte volevo dirigermi. Quando voltai verso i Giardini, si mise dietro a me. Dopo un momento mi voltai a guardarlo. Non mi seguiva più: sembrava indeciso. Lo chiamai. Fece qualche passo... esitò... e scappò via verso casa. Continuai da sola. Devo confessare la mia superstizione? Considerai la diserzione del cane nei miei confronti come un cattivo presagio. Arrivata all'albero, mi ci sistemai sotto. I minuti si susseguivano e non succedeva niente. Il cielo nuvoloso si incupì. La scura superficie del prato non mostrava col suo fremito di essere conscia del passaggio di una creatura ultraterrena. Aspettai ancora, con un'ostinazione che si stava rapidamente trasformando nell'ostinazione della disperazione. Quanto tempo sia passato, mentre osservavo attentamente il suolo davanti a me, non posso dirlo. So soltanto che qualcosa cambiò. Sotto la cupa luce grigia, vidi l'erba muoversi... ma non come si era mossa il giorno prima. Si accartocciava come se una fiamma la stesse bruciando. Non si vedeva alcuna fiamma. La terra bruna sottostante formava uno stretto sentiero zigzagante: avrebbe potuto essere un sentiero tracciato dal fuoco. Mi spaventai. Desideravo intensamente la protezione della Presenza Invisibile, e pregai che mi fosse dato un segno, se il pericolo era vicino. Un tocco fu la risposta. Era come se una mano invisibile avesse preso la mia mano... l'avesse alzata, lentamente, poi l'avesse lasciata, indicando il sentiero bruno e stretto che veniva verso di me sotto gli steli bruciacchiati dell'erba. Guardai all'estremità del sentiero. La mano invisibile strinse la mia con una pressione d'avvertimento: la rivelazione del pericolo che si avvicinava era vicina... l'aspettavo, poi lo
vidi. Apparve la figura di un uomo che avanzava verso di me lungo lo stretto sentiero bruno. Lo guardai in viso mentre si avvicinava. Mi apparve indistintamente il volto del fratello di mio marito: John Zant. La coscienza di me stessa come essere vivente mi abbandonò. Non seppi più nulla; non sentii più nulla: ero morta. La tortura del tornare alla vita mi fece aprire gli occhi, e mi trovai distesa sull'erba. Delle mani gentili mi sollevavano la testa, mentre riprendevo i sensi. Chi mi aveva riportato in vita? Chi si stava occupando di me? Alzai gli occhi e vidi - curvo su di me - John Zant. 7. Qui terminava il manoscritto. Alcune righe erano state aggiunte all'ultima pagina; ma erano state cancellate in modo così accurato da essere illeggibili. Quelle parole di spiegazione apparivano al di sotto delle frasi cancellate: Avevo cominciato a scrivere il poco che mi rimane da dire, quando mi è venuto in mente che avrei potuto, senza averne l'intenzione, influenzare illecitamente la sua opinione. Mi permetta soltanto di ricordarle che credo assolutamente alla rivelazione soprannaturale che ho tentato di descrivere. Lo ricordi... e decida per me ciò che io non oso decidere per me stessa. Non vi era alcun serio ostacolo nell'adempiere a questa richiesta. Giudicando da un punto di vista materialista, la signora Zant poteva senza dubbio essere vittima di illusioni (prodotte dallo stato disordinato del suo sistema nervoso), di cui si sa che esistono - come nel celebre caso del libraio Nicolai di Berlino - senza essere accompagnate da turbamenti delle facoltà mentali. Ma al signor Rayburn non si chiedeva di risolvere un problema così spinoso. Gli era stato soltanto chiesto di leggere il manoscritto, e di dire quale impressione gli aveva fatto lo stato mentale di chi l'aveva redatto: quel dubbio su se stessa le era stato probabilmente insinuato dal ricordo della malattia di cui aveva sofferto in principio, la febbre cerebrale. Date le circostanze, ci si poteva senza difficoltà formare un'opinione. Il ricordo che aveva richiamato, e il discernimento che aveva messo in ordine la successione degli eventi esposti nel racconto, rivelavano una mente in
pieno possesso delle sue facoltà. Essendosi così rassicurato, il signor Rayburn si astenne dal prendere in considerazione il problema più serio presentato da quello che aveva letto. Il suo genere di vita e la sua maniera di pensare, lo avrebbero reso in ogni circostanza inadatto a soppesare gli argomenti che affermano o negano la rivelazione soprannaturale nelle creature terrestri. Ma in quel momento la sua mente era così distratta dal vivo racconto dell'esperienza che aveva appena letto, che era solo cosciente di provare certe impressioni, senza avere la capacità di rifletterci sopra. Che la sua ansietà nei confronti della signora Zant fosse accresciuta, e che i suoi dubbi sul signor John Zant fossero stati incoraggiati, erano i soli risultati pratici della fiducia che era stata riposta in lui, dei quali egli fosse allora cosciente. Nelle ordinarie esigenze della vita di un uomo di carattere indeciso, il suo interesse per il benessere della signora Zant e il suo desiderio di scoprire cosa era avvenuto fra lei e il cognato dopo il loro incontro nei Giardini, lo spinse a un'azione immediata. Mezz'ora dopo, era già al suo domicilio. Fu fatto entrare immediatamente. 8. La signora Zant era sola, in una stanza scarsamente illuminata. «Spero che scuserà la cattiva illuminazione», disse. «La mia testa non ha fatto che bruciare come se mi fosse tornata la febbre. Oh, non se ne vada! Dopo quello che ho sofferto, non sa quanto è terribile essere soli.» Il tono della sua voce gli disse che lei aveva pianto. Subito cercò di mettere a proprio agio la povera signora, parlandole della conclusione cui era arrivato dopo aver letto il suo manoscritto. Immediatamente fu evidente il lieto risultato: il suo viso si rischiarò e il suo modo di fare cambiò. Era avida di saperne di più. «Ho fatto un'altra impressione su di lei?», chiese. Lui comprese l'allusione. Esprimendo un sincero rispetto per le sue convinzioni, le disse onestamente che non era preparato ad entrare nell'oscura e terribile questione dell'intervento soprannaturale. Grata per il tono della sua risposta, lei saggiamente e delicatamente cambiò argomento. «Devo parlarle di mio cognato», disse. «Mi ha detto della sua visita, e sono ansiosa di sapere cosa pensa di lui. Le piace il signor John Zant?» Il signor Rayburn esitò. Un'espressione preoccupata ricomparve sul viso di lei.
«Se avesse provato per lui la simpatia che lui prova per lei», disse, «sarei andata a St. Sallins con il cuore più leggero.» Il signor Rayburn pensò all'apparizione soprannaturale descritta alla fine del suo racconto. «Lei crede a quel terribile avvertimento», la rimproverò, «eppure va a casa di suo cognato!» «Io credo», rispose lei, «allo spirito dell'uomo che mi ha amata al tempo del nostro legame terreno. Sono sotto la sua protezione. Cosa posso fare se non cacciare i miei timori, e attendere con fede e speranza? La mia decisione sarebbe stata più facile se avessi avuto vicino un amico per incoraggiarmi.» Tacque e sorrise tristemente. «Devo ricordare», riprese, «che il modo in cui lei vede le cose non è il mio. Avrei dovuto dirle che il signor John Zant è inutilmente preoccupato per la mia salute. Ha dichiarato che non mi perderà di vista finché non sarà tranquillo. È inutile che io cerchi di fargli cambiare opinione. Dice che i miei nervi sono a pezzi... e chi mi vede può forse dubitarne? Mi dice che l'unico modo per me di migliorare è provare un cambiamento d'aria e il riposo assoluto: come posso contraddirlo? Mi ricorda che non ho altri parenti salvo lui, né altra casa che la sua, e Dio sa che ha ragione!» Pronunciò le ultime parole con accenti di malinconica rassegnazione, che addolorarono quell'uomo buono il cui unico scopo compassionevole era di servirla e consolarla. Egli parlò d'impulso con la libertà di un vecchio amico. «Voglio conoscere meglio sia lei che il signor John Zant, di quanto non vi conosca ora», disse. «Ho un motivo migliore che la mera curiosità. Mi crede se le dico che provo un interesse sincero per lei?» «Con tutto il cuore!» Questa risposta lo incoraggiò a dire quel che doveva. «Quando si è ripresa dallo svenimento», cominciò, «il signor John Zant le ha fatto delle domande?» «Mi ha chiesto cosa poteva esser successo in un posto tranquillo come i Giardini di Kensington per farmi svenire.» «E lei gli ha risposto?» «Risposto? Non riuscivo neanche a guardarlo!» «Non gli ha detto niente?» «Niente. Non so cos'avrà pensato di me: sarà stato sorpreso, o si sarà offeso.» «Si offende facilmente?», chiese il signor Rayburn.
«No, per quanto ne so.» «Vuol dire per quanto ne sa prima della sua malattia?» «Sì. Da quando sono guarita, gli impegni con i suoi pazienti lo hanno sempre tenuto lontano da Londra. Non l'avevo più visto da quando aveva affittato la casa per me. Ma ha sempre molto riguardo. Mi ha scritto più di una volta per chiedermi di non pensare che mi stia trascurando, e per dirmi (cosa che sapevo già dal mio povero marito) che non ha capitali propri, e che deve vivere della sua professione.» «Quando suo marito era vivo, i due fratelli andavano d'accordo?» «Sempre. Il solo rimprovero che sentii mio marito fare a John Zant fu che non si faceva vedere abbastanza spesso, dopo il nostro matrimonio. C'è in lui una malvagità che non ho mai sospettato? Forse... ma come può essere? Ho mille motivi per esser grata all'uomo contro il quale sono stata soprannaturalmente messa in guardia! La sua condotta verso di me è stata sempre perfetta. Non posso dirle quanto devo alla sua influenza per la tranquillità della mia mente, quando sorse in me un tremendo dubbio circa la morte di mio marito.» «Vuol dire che dubita che sia morto di morte naturale?» «Oh no, no! Stava morendo di etisia rapida, ma la sua morte improvvisa colse i dottori di sorpresa. Uno di loro pensò che avesse preso una dose eccessiva di gocce di sonnifero, per sbaglio. L'altro contrastò questa conclusione, sennò ci sarebbe stata un'inchiesta in casa. Oh, non ne parliamo più! Parliamo di qualcos'altro. Mi dica quando la rivedrò.» «Non lo so. Quando lascia Londra con suo cognato?» «Domani.» Guardò il signor Rayburn con una compassionevole richiesta negli occhi, poi disse timidamente: «Non va mai al mare, con la sua cara bambina?». La domanda, alla quale aveva solo osato fare un accenno, si incontrò con l'idea che si stava formando nella mente del signor Rayburn. Interpretato in base ai suoi forti pregiudizi contro John Zant, ciò che lei aveva detto di suo cognato lo colmava di presagi di pericolo per lei, più potenti ancora nella loro influenza, per il fatto che lui rifiutava deliberatamente di realizzarli. Se un'altra persona fosse stata presente all'intervista, e gli avesse detto in seguito: «La riluttanza di quell'uomo a far visita a sua cognata durante la vita di suo marito, si associa a un segreto senso di colpa che la sua innocenza non può nemmeno immaginare. Lui - e lui solo - conosce la causa della morte improvvisa di suo marito: la sua falsa ansietà per la salute di
lei non è che il mezzo che lui ha adottato per attirarla con tutta sicurezza in casa sua», se queste formidabili conclusioni fossero state presentate al signor Rayburn, lui avrebbe ritenuto suo dovere rigettarle, come ingiustificabili calunnie nei riguardi di un assente. Eppure, quando quella sera prese congedo dalla signora Zant, si era impegnato a far fare a Lucy una vacanza al mare, e aveva detto, senza arrossire, che la bambina se lo meritava, come ricompensa per la sua buona condotta e l'attenzione alle lezioni! 9. Tre giorni dopo, padre e figlia arrivarono verso sera a St. Sallins-on-Sea. Trovarono la signora Zant alla stazione. La gioia della povera donna quando li vide, si espresse come quella di un bambino. «Oh, sono così contenta! Così contenta!», fu tutto quello che riuscì a dire quando si incontrarono. Lucy fu mezzo soffocata dai baci, e resa supremamente felice con il dono della più bella bambola che avesse mai avuto. La signora Zant accompagnò quindi i suoi amici nelle camere che erano state prenotate all'albergo. Poté parlare a quattr'occhi col signor Rayburn, mentre Lucy stava sul balcone a coccolare la sua bambola e a guardare il mare. L'unica cosa successa durante la breve sosta della signora Zant a St. Sallins, era la partenza di suo cognato per Londra, quella mattina. Era stato chiamato per operare i piedi di un ricco paziente che conosceva il valore del suo tempo: la governante lo aspettava di ritorno per pranzo. Quanto alla sua condotta verso la signora Zant, non solo era premuroso come sempre, ma il suo affetto si manifestava in modo quasi opprimente nel suo modo di parlare e di agire. Non c'era servizio che un uomo potesse rendere che lui non le avesse premurosamente offerto. Aveva dichiarato che già vedeva un notevole miglioramento nella sua salute, si era congratulato con lei per la decisione di accettare il suo invito e, forse come prova della sua sincerità, le aveva ripetutamente stretta la mano. «Ha idea di cosa significhi tutto questo?», disse lei con semplicità. Il signor Rayburn tenne la sua idea per sé. Si dichiarò ignorante, e chiese poi che tipo fosse la governante. La signora Zant scosse la testa tristemente. «Un tipo così strano!», disse. «E ha l'abitudine di prendersi tali confi-
denze, che comincio a pensare che sia un po' matta.» «È vecchia?» «No, di mezza età. Questa mattina, dopo che il suo padrone è partito per Londra, mi ha addirittura chiesto cosa pensavo di mio cognato! Le ho detto, più freddamente che ho potuto, che pensavo che fosse molto gentile. È stata assolutamente insensibile al tono con cui ho parlato anzi, di male in peggio. "Direbbe mai che è il tipo d'uomo a cui piacciono le giovani?", fu la domanda successiva. Mi guardò in faccia (posso essermi sbagliata, e spero che sia così) come se "la giovane" a cui pensava fosse io! Le dissi: "Non ci penso, e non ne parlo". Con tutto questo non si scoraggiò affatto, anzi fece un'osservazione personale. "Mi scusi... ma ha l'aria spaventosamente pallida." Mi parve che le facesse piacere trovare un difetto nella mia carnagione: penso addirittura che questo mi abbia rialzato nella sua stima. "Andremo sempre più d'accordo col passar del tempo", disse. "Lei comincia a piacermi." Uscì canticchiando. Non è d'accordo con me? Non pensa che sia matta?» «Non posso farmene un'opinione finché non la vedo. Ha l'aria di essere stata una bella donna in gioventù?» «Non il tipo di bella donna che io ammiro!» Il signor Rayburn sorrise. «Pensavo», riprese, «che la strana condotta di questa persona potesse essere spiegata così. Probabilmente è gelosa di ogni giovane donna che è invitata in casa del suo padrone e, finché non ha notato il suo colorito, cominciava ad esser gelosa di lei.» Incapace, nella sua innocenza, di capire come lei potesse essere l'oggetto della gelosia della governante, la signora Zant guardò stupita il signor Rayburn. Prima che potesse dar voce al suo sentimento di sorpresa, ci fu un'interruzione, una gradita interruzione. Un cameriere entrò nella stanza, e annunciò un visitatore, descritto come «un signore». La signora Zant si alzò subito per ritirarsi. «Chi è questo signore?», chiese il signor Rayburn, trattenendo la signora Zant mentre parlava. Una voce che ambedue riconobbero rispose allegramente dall'altra parte della porta: «Un amico da Londra».
10. «Benvenuto a St. Sallins!», esclamò il signor John Zant. «Sapevo che vi si aspettava, mio caro signore, e ho colto l'opportunità di trovarvi all'albergo.» Si rivolse a sua cognata e le baciò la mano con una galanteria elaborata degna dello stesso Sir Charles Grandison. «Quando sono arrivato a casa, mia cara, e ho saputo che eri uscita, ho immaginato che il tuo scopo fosse quello di ricevere il nostro eccellente amico. Non ti sei sentita sola mentre non c'ero? Benissimo! Benissimo!» Guardò verso il balcone e scoprì Lucy davanti alla finestra aperta, che fissava il magnifico estraneo. «La sua piccolina, dottor Rayburn? Che cara bambina! Vieni a darmi un bacio.» Lucy rispose con una sola, decisa parola: «No». Il signor Zant non si lasciava scoraggiare facilmente. «Fammi vedere la tua bambola, tesoro», disse. «Vieni a sederti sulle mie ginocchia.» Lucy rispose con due parole decise: «Non voglio». Suo padre si avvicinò alla finestra per somministrarle il necessario rabbuffo. Il signor Zant si interpose con la miglior grazia del mondo. Alzò le mani in gesto di supplica. «Caro signor Rayburn! Le fate sono timide a volte; e a questa fatina a prima vista non piacciono gli estranei. Cara bambina! Tutto a tempo debito. E quanto si fermerà a St. Sallins? Possiamo sperare che le nostre misere attrazioni la tenteranno a prolungare la sua visita?» Fece questa domanda lusinghiera con una semplicità troppo carica per essere spontanea, e osservò il signor Rayburn con un'attenzione che pareva attribuire un'importanza esagerata alla risposta. Quando disse: «Quanto si fermerà a St. Sallins», voleva dire in realtà: «Quando ci lascerà soli?». Incline ad adottare questa conclusione, il signor Rayburn rispose prudentemente che la durata del suo soggiorno al mare dipendeva dalle circostanze. Il signor John Zant guardò sua cognata che sedeva silenziosa in un angolo con Lucy in grembo. «Metti in opera le tue attrattive», disse. «Rendi le circostanze piacevoli per il nostro caro amico. Vuol pranzare con noi oggi, caro signore, e portare con sé la sua piccola fata?» Lucy non era disposta a ricevere quella complimentosa allusione nello
spirito in cui le veniva offerta. «Non sono una fata», dichiarò. «Sono una bambina.» «E una bambina cattivella», aggiunse suo padre, con tutta la severità che gli fu possibile raggranellare. «Non so cosa farci, papà; quell'uomo con la barba lunga mi fa paura.» L'uomo con la barba lunga fu divertito - amabilmente, paternamente divertito - dalle sincere parole di Lucy. Ripeté il suo invito a pranzo, e fece del suo meglio per mostrarsi deluso quando il signor Rayburn gli presentò le sue doverose scuse. «Un altro giorno», disse (senza però fissare il giorno). «Penso che le piacerà la mia casa. La mia governante è piuttosto eccentrica, ma in sostanza è una donna fra mille. Sente già un cambiamento da Londra? La nostra aria di St. Sallins è veramente all'altezza della sua fama. Gli ammalati che vengono qui guariscono come per miracolo. Cosa pensa della signora Zant? Che aspetto ha?» Si aspettava evidentemente che il signor Rayburn dicesse che aveva un aspetto migliore. Così egli disse. Il signor John Zant ebbe l'aria di essersi aspettato un'espressione più forte. «Sorprendentemente migliore!», affermò. «Infinitamente migliore! Dobbiamo essere riconoscenti ambedue. La prego di credere che siamo riconoscenti.» «Se intende dire di essere riconoscente a me», osservò il signor Rayburn, «davvero non capisco...» «Davvero non capisce? Possibile che abbia dimenticato la nostra conversazione quando ebbi l'onore di riceverla per la prima volta? Osservi di nuovo la signora Zant.» Il signor Rayburn osservò; e il cognato della signora Zant si spiegò. «Lei nota il ritorno del colore, la sana lucentezza dei suoi occhi (no, mia cara, non ti sto facendo dei complimenti inutili; sto esponendo dei dati di fatto). Di questo bel risultato, signor Rayburn, le siamo debitori.» «Certo che no!» «Certo che sì! È stato dietro suo valido consiglio che ho pensato di invitare mia cognata a casa mia a St. Sallins. Ah, se lo ricorda ora! Mi scusi se guardo l'orologio: sto pensando all'ora di pranzo. Non, come sembra pensare la sua cara piccolina, perché sono goloso, ma perché sono sempre puntuale, per riguardo alla cuoca. Ci vedremo domani? Venga presto: ci troverà in casa.» Porse il braccio alla signora Zant, si inchinò, sorrise, mandò un bacio a
Lucy, e uscì dalla stanza. Ripensando al loro colloquio nell'albergo di Londra, il signor Rayburn capì quale era stato lo scopo del signor Zant (in quell'occasione) nell'assumere la parte di un uomo che aveva bisogno di un suggerimento valido. Se il soggiorno della signora Zant sotto il suo tetto avesse avuto conseguenze nefaste, avrebbe potuto dichiarare che lei non ci sarebbe mai andata se non fosse stato per il consiglio del signor Rayburn. Con il giorno successivo si presentò l'odiosa necessità di rendere visita a quell'uomo. Il signor Rayburn si trovava di fronte a due alternative. Nell'interesse della signora Zant era suo dovere rimanere - a costo del sacrificio delle sue inclinazioni - in buoni rapporti con suo cognato, oppure ritornare a Londra, e lasciare la povera donna al suo destino. La sua scelta, non c'è bisogno di dirlo, non fu mai in dubbio. Andò a trovarla a casa, e fece del suo meglio senza ingannare affatto il signor John Zant - per rendersi simpatico nel breve corso della sua visita. Mentre scendeva le scale verso l'uscita, accompagnato dalla signora Zant, fu sorpreso nel vedere nell'atrio una donna di mezza età che pareva stare lì proprio per farsi notare da lui. «La governante», bisbigliò la signora Zant. «È tanto impudente da cercare perfino di fare la sua conoscenza.» Era proprio quello che la governante si aspettava. «Spero che le piaccia la nostra piccola stazione balneare, signore», cominciò. «Se posso esserle di aiuto in qualche modo, sono a sua disposizione. Tutti gli amici della signora hanno dei diritti su di me, e lei è un vecchio amico, senza dubbio. Sono solo la governante, ma credo di nutrire un sincero interesse verso la signora Zant, e mi fa molto piacere vederla qui. Nessuno di noi sa - vero? - quando si può aver bisogno di un amico. Senza offesa, vero? Grazie, signore. Buongiorno.» Non c'era nulla negli occhi della donna che desse l'indizio di un cervello malato; nulla nell'aspetto delle sue labbra che insinuasse l'abitudine al bere. Che quello strano scoppio di familiarità procedesse da qualche forte motivo sembrava più che probabile. Tenendo conto di ciò che la signora Zant gli aveva detto prima, sommato a quello che aveva osservato di persona, il signor Rayburn sospettò che il motivo andasse cercato nella profonda gelosia della governante per il suo padrone. 11. Riflettendo nella solitudine della sua stanza, il signor Rayburn sentì che
l'unica cosa prudente da fare era quella di consigliare alla signora Zant di lasciare St. Sallins. Cercò di prepararla a quel modo di procedere quando, l'indomani mattina, lei venne a prendere Lucy per portarla a passeggio. «Se le dispiace di essersi forzata ad accettare l'invito di suo cognato», fu tutto quel che osò dirle, «non dimentichi che lei è assolutamente padrona delle sue azioni. Deve solo venire da me all'albergo, e io l'accompagnerò a Londra con il primo treno.» Lei rifiutò assolutamente di pensarci. «Sarei veramente un'ingrata», disse, «se accettassi la sua proposta. Pensa che sia così ingrata da coinvolgerla in dissapori personali con John Zant? No! Se mi troverò obbligata a lasciare la casa me ne andrò da sola.» Nulla riuscì a smuoverla da quella decisione. Quando lei e Lucy furono uscite, il signor Rayburn rimase in albergo, inquieto. Un uomo con maggior prontezza di mente si sarebbe trovato senza risorse sul da farsi, nell'emergenza che stava ora attraversando. Mentre era ancora molto lontano dall'aver preso una decisione, qualcuno bussò alla porta. La signora Zant era di ritorno? Alzò gli occhi mentre la porta si apriva, e con grande meraviglia vide... la governante del signor John Zant. «Non si spaventi, signore», disse la donna. «La signora Zant si è sentita poco bene, davanti alla porta di questa casa. Il mio padrone se ne sta occupando.» «Dov'è la bambina?», chiese il signor Rayburn. «La stavo accompagnando qui, signore, quando sulla porta dell'albergo abbiamo incontrato una signora con una bambina. Stavano andando alla spiaggia, e la signorina Lucy ha chiesto di andare con loro. La signora ha detto che le bambine si conoscevano, e che era sicura che lei sarebbe stato d'accordo.» «La signora ha ragione. Il malessere della signora Zant non è niente di serio, vero?» «Penso di no, signore. Ma le dirò qualcosa nel suo interesse. Posso?» Fece un passo verso di lui e pronunciò le successive parole in un bisbiglio. «Porti la signora Zant via di qui, e senza perder tempo.» Il signor Rayburn stava in guardia. Chiese soltanto: «Perché?». La governante rispose in modo stranamente indiretto... un po' scherzando, pareva, un po' sul serio. «C'è una divergenza di opinioni in Parlamento», disse, «se quando un
uomo perde la moglie fa male o bene a sposarne la sorella. Aspetti! Vengo subito al dunque. Il mio padrone è uno che ha la testa ben piantata sulle spalle: vede le conseguenze di ciò che sfugge alle persone come me. A suo modo di vedere, se un uomo può sposare la sorella di sua moglie, e non c'è niente di male, che obiezione può esserci se un altro uomo fa un complimento alla famiglia, e sposa la vedova di suo fratello? Il mio padrone, col vostro permesso, è quest'altro uomo. Porti via la vedova prima che lui se la sposi.» Tutto questo era insopportabile. «Lei insulta la signora Zant», rispose il signor Rayburn, «pensando a una simile possibilità!» «Oh! Io la insulto, vero? Mi ascolti. Succederà una di queste tre cose. Lei finirà per accettare perché sarà intrappolata... o perché sarà terrorizzata... o perché sarà drogata...» Il signor Rayburn era troppo indignato per lasciarla continuare. «Lei dice delle stupidaggini», disse. «Non possono sposarsi; è contro la legge.» «Lei è una di quelle persone che non vedono più in là del proprio naso?», chiese lei con insolenza. «Pensa che la legge non accetterebbe del denaro? È forse obbligato, lui, a dichiarare che sono parenti per matrimonio, quando compra la licenza?» Tacque, cambiò umore, poi batté con furia i piedi per terra. Il vero motivo che l'aveva spinta si rivelò in ciò che disse poi, e convinse il signor Rayburn a porgerle un orecchio più favorevole di quel che aveva fatto fino ad allora. «Se lei non lo fermerà», scoppiò, «lo farò io! Se sposa qualcuno, deve sposare ME. Vuol portarla via? Glielo chiedo per l'ultima volta: vuole o no portarla via?» Il tono con cui pronunciò quest'ultima richiesta, ebbe il suo effetto su di lui. «L'accompagnerò a casa del dottor Zant», disse, «e giudicherò di persona.» Lei gli posò una mano sul braccio. «Bisogna che io vada avanti, o può darsi che non la faccia entrare. Venga fra cinque minuti; e non bussi al portone principale.» Mentre stava per lasciarlo, si voltò di botto. «Abbiamo dimenticato una cosa», disse. «Supponiamo che il mio padrone rifiuti di riceverla. Il suo cattivo carattere può aver la meglio su di lui; può render la cosa così spiacevole, che lei sarà costretto ad andarsene.» «Il mio cattivo carattere può aver la meglio su di me», rispose il signor
Rayburn, «e - se io pensassi che fosse nell'interesse della signora Zant potrei rifiutare di lasciare la casa senza di lei.» «Questo non può farlo, signore.» «Perché no?» «Perché sarei io a soffrirne.» «Come?» «Così. Se lei litiga col mio padrone, sarò sgridata per averla fatto salire. E poi, pensi alla signora. Potrebbe spaventarla a morte, se ci fosse una lotta fra voi due.» L'espressione era enfatica, ma vi era in quella obiezione una forza che il signor Rayburn fu costretto a riconoscere. «E dopotutto», proseguì la governante, «lui ha su di lei più diritti di chiunque altro. È un suo parente, e lei è solo un suo amico.» Il signor Rayburn rifiutò di lasciarsi influenzare da quella considerazione. «Il signor John Zant è suo parente soltanto per matrimonio», disse. «Se lei preferisce aver fiducia in me, succeda quel che vuol succedere, sarò degno della sua fiducia.» La governante scosse la testa. «Questo significa solo un'altra lite», rispose. «La cosa saggia, con un uomo come il mio padrone, è prenderlo con le buone. Bisogna fare in modo di ingannarlo.» «L'inganno non mi piace.» «In questo caso, signore, la saluto. Lasceremo che la signora Zant faccia da sola quel che può.» Il signor Rayburn era irragionevole. Rifiutò decisamente di adottare questa alternativa. «Vuol sentire quello che ho da dirle?», chiese la governante. «Non c'è niente di male in questo», ammise lui. «Continui.» Lei lo prese in parola. «Quando è venuto a casa nostra», prese a dire, «ha notato le porte del corridoio, al primo piano? Benissimo. Una di queste è la porta del salotto, e l'altra quella della biblioteca. Si ricorda il salotto, signore?» «Mi è parsa una grande stanza piena di luce», rispose il signor Rayburn. «E ho notato una porta nel muro, con una bella tenda davanti.» «È quel che serve al nostro scopo», riprese la governante. «Dall'altra parte della tenda, se avesse guardato, avrebbe visto la biblioteca. Supponga che il mio padrone sia gentile come al solito, e le chieda di scusarlo se non
la riceve, perché non è il momento buono. E supponga di essere altrettanto cortese e di uscire dalla porta del salotto. Mi troverà giù ad aspettarla, sul primo pianerottolo. Capisce ora?» «Non posso dire che sia tutto chiaro.» «Mi stupisce, signore. Cosa ci impedisce di tornare piano piano nella biblioteca dalla porta del corridoio? E perché non dovremmo usare quel secondo ingresso alla biblioteca per scoprire quello che succede in salotto? Al sicuro dietro la tenda, lei potrà vedere se lui si comporta in modo incivile verso la signora Zant, e sentirla se lei chiama aiuto. In ogni caso, lei dev'essere pronto a comportarsi col mio padrone nel modo che riterrà più opportuno: sarà lui a spaventarla, non lei. E chi può biasimare una povera governante se il signor Rayburn ha fatto il suo dovere e ha protetto una donna indifesa? Questo è il mio piano, signore. Le sembra che valga la pena di metterlo in pratica?» Lui rispose, con una certa asprezza: «Non mi piace». La governante aprì di nuovo la porta, e lo salutò. Se il signor Rayburn non avesse provato che un normale interesse verso la signora Zant, avrebbe lasciato andare la donna. Così, invece, la fermò; e dopo altre proteste (che risultarono inefficaci), finì per arrendersi. «Promette di seguire le mie istruzioni?», chiese lei. Lui promise. Lei sorrise, acconsentì col capo e lo lasciò. Fedele alle sue istruzioni, il signor Rayburn lasciò passare cinque minuti d'orologio prima di seguirla. 12. La governante lo aspettava dietro il portone socchiuso. «Sono in salotto tutti e due», sussurrò, mentre lo faceva salire al piano di sopra. «Faccia piano, e lo coglierà di sorpresa.» Una tavola di forma ovale stava nel centro del salotto. All'estremità più vicina alla finestra c'era la signora Zant che camminava su e giù per la larghezza della stanza. All'estremità opposta del tavolo sedeva John Zant. Preso di sorpresa, mostrò il suo vero carattere. Balzò in piedi, e con una bestemmia protestò contro l'intrusione commessa ai suoi danni. Senza badare alla sua azione né alle sue parole, il signor Rayburn non riusciva a guardare niente; non riusciva a pensare a niente, se non alla signora Zant. Lei stava sempre passeggiando lentamente avanti e indietro, senza sentire le parole di simpatia che lui le rivolgeva, addirittura insensi-
bile, pareva, alla presenza di altre persone nella camera. La voce di John Zant ruppe il silenzio. Aveva ripreso di nuovo il controllo di sé: aveva le sue ragioni per rimanere in rapporti amichevoli col signor Rayburn. «Mi dispiace di essermi lasciato andare», disse. L'interesse del signor Rayburn era concentrato sulla signora Zant: non fece caso alle scuse. «Quando è successo?», chiese. «Circa un quarto d'ora fa. Per fortuna ero a casa. Senza parlarmi, senza accorgersi di me, lei ha salito le scale come una persona in sogno.» Il signor Rayburn indicò a un tratto la signora Zant. «Guardi!», disse. «Qualcosa sta cambiando.» L'inquietudine dei suoi movimenti si era calmata. Lei stava ferma all'estremità della tavola più vicina alla finestra, con il viso pienamente illuminato dalla luce del sole. I suoi occhi erano fissi davanti a lei... assolutamente privi di espressione. Le labbra erano socchiuse, e la testa era chinata verso la spalla, come se stesse ascoltando qualcuno o aspettando qualcosa. Nella calda luce brillante, stava fra i due uomini, simile a un essere vivente completamente isolato in una quiete che sembrava la quiete della morte. John Zant fu pronto a esprimere la sua opinione. «Un attacco di nervi», disse. «Qualcosa che somiglia alla catalessi, come vede.» «Ha chiamato un dottore?» «Non c'è bisogno di dottori.» «Scusi: mi sembra che la visita di un dottore sia assolutamente necessaria.» «Abbia la bontà di tener presente», rispose il signor John Zant, «che sta a me decidere, come parente della signora. Sono sensibile all'onore che mi fa con la sua visita, ma ha scelto male il momento. Mi scusi se le suggerisco che farebbe bene a ritirarsi.» Il signor Rayburn non aveva dimenticato il consiglio della governante né la promessa che lei gli aveva estorto. Ma l'espressione del viso di John Zant metteva a dura prova il suo autocontrollo. Esitò, e si voltò verso la signora Zant. Se provocava una lite rimanendo nella stanza, la sola alternativa rimasta era di portarla via con la forza. Temendo per lei le conseguenze di un brusco risveglio dallo stato di trance, si persuase a sottomettersi. Si ritirò. La governante lo aspettava dabbasso, sul primo pianerottolo. Quando la
porta del salotto si richiuse, lei gli fece segno di seguirla, e risalì le scale. Dopo un'altra lotta interiore, lui la seguì. Entrarono nella biblioteca dal corridoio, e si sistemarono dietro la tenda chiusa che copriva il vano della porta. Fu facile sistemare il bordo della tenda in modo da osservare, senza creare sospetti, tutto quello che succedeva nella stanza vicina. Il cognato della signora Zant si stava avvicinando a lei, nel momento in cui il signor Rayburn lo rivide. Un momento dopo, lei si mosse: prima che lui avesse completamente superato lo spazio che li divideva, la sua figura immobile cominciò a tremare. Alzò la testa. Per un momento, parve che si stringesse nelle spalle... come se qualcosa l'avesse toccata. Parve che lei riconoscesse il tocco: era di nuovo immobile. John Zant osservò il cambiamento. Capì che stava per rientrare in sé. Provò a parlarle. «Amor mio, mio caro angelo, vieni sul cuore che ti adora!» Fece un altro passo, ed entrò nel raggio di sole che la cingeva. «Svegliati!», ordinò. Lei rimase nella stessa posizione; alla sua mercé, a quanto pareva, senza sentirlo né vederlo. «Svegliati!», ripeté lui. «Amor mio, vieni da me!» Nel momento in cui tentava di abbracciarla - nel momento in cui il signor Rayburn si precipitò nella stanza - le braccia di John Zant si irrigidirono di colpo, e rimasero tese. Con un urlo di orrore, lui tentò di ritrarle: lottò, nella vuota brillantezza della luce solare, come se un pugno invisibile l'avesse afferrato. «Cosa mi è successo?», gridò il disgraziato. «Chi mi tiene le mani? Oh, che freddo, che freddo!» I suoi lineamenti si contorsero, e i suoi occhi si girarono vero l'alto finché solo la parte bianca fu visibile. Cadde a terra con un colpo che fece tremare la stanza. La governante si precipitò dentro. Si inginocchiò vicino al corpo del padrone. Con una mano gli disfece il nodo della cravatta. Con l'altra indicò l'estremità del tavolo. La signora Zant era sempre nello stesso posto; ma c'era stato un altro cambiamento. Poco a poco, i suoi occhi ripresero la loro naturale espressione vivace, poi si chiusero lentamente. Indietreggiò barcollando verso il tavolo, e alzò le mani in un gesto disperato, come se volesse afferrare qualcosa ed aggrapparvisi. Il signor Rayburn corse verso di lei prima che
cadesse - la prese tra le braccia - e la portò fuori dalla stanza. Una delle cameriere li incontrò nell'atrio. Lui la mandò a cercare una carrozza. Un quarto d'ora dopo, la signora Zant era al sicuro sotto la sua protezione all'albergo. 13. Quella sera un biglietto, scritto dalla governante, fu recapitato alla signora Zant. Il dottore dà poche speranze. La paralisi si sta estendendo al viso. Se la morte lo risparmia, sarà un invalido. Avrò cura di lui fino alla fine. Quanto a lei... lo dimentichi. La signora Zant passò il biglietto al signor Rayburn. «Lo legga e lo distrugga», disse. «Lo ha scritto ignorando la terribile verità.» Lui obbedì, e la osservò in silenzio, aspettando che parlasse. Lei nascose il viso. Le poche parole che gli rivolse, dopo aver lottato con se stessa, caddero lentamente e con riluttanza dalle sue labbra. Disse: «Nessuna mano mortale ha trattenuto le mani di John Zant. La protezione promessa era con me. Lo so. Non voglio sapere altro». Quando ebbe finito, si alzò per ritirarsi. Lui le tenne la porta aperta, perché capiva che aveva bisogno di riposare nella sua stanza. Rimasto solo, si mise a riflettere sulle sue prospettive future. Cosa doveva pensare circa la donna che lo aveva appena lasciato? Era una povera creatura indebolita dalla malattia, vittima delle sue illusioni nervose? Oppure l'oggetto eletto per una rivelazione soprannaturale, che non aveva nulla di simile a tutto quello che lui aveva sentito o letto nei libri? La prima scoperta da parte sua del posto che lei teneva nella sua stima, la fece quando capì che si ritraeva dalla conclusione che la presentava come un oggetto di pietà, e aderiva alla più nobile convinzione che si avvicinava alla sua fede, innalzandola in un luogo a parte fra tutte le donne. 14. Lasciarono St. Sallins il giorno dopo. Arrivati alla fine del viaggio, Lucy strinse forte la mano della signora Zant. Le lacrime salirono agli occhi della bambina. «Dobbiamo dirle addio?», chiese tristemente al padre.
Sembrava che lui avesse timore di parlare. Disse solo: «Cara, chiediglielo tu». Ma il risultato gli diede ragione. Lucy fu di nuovo felice. MARY WILKINS FREEMAN Un fantasma gentile Davanti al cimitero erano fermi un carro coperto e un cavallo bianco. Il cavallo non era legato, ma stava perfettamente immobile, con le quattro zampe piantate saldamente a ferra e la testa bianca e mansueta penzoloni. L'ombra delle foglie danzava sul suo dorso. C'erano molti alberi intorno al cimitero, e il fogliame era insolitamente lussureggiante per il mese di maggio. Le quattro donne che erano arrivate con il carro coperto lo notarono. «Non ho mai visto una fioritura così precoce come quest'anno, o almeno così mi pare», disse una di loro, alzando gli occhi verso dei magnifici rami di un verde dorato che si protendevano al di sopra di lei. «Dicevo la stessa cosa a Mary, questa mattina», aggiunse un'altra. «È insolitamente precoce, secondo me.» Camminavano lentamente lungo gli stretti viottoli tra le tombe: quattro donne di aspetto comune, di mezza età, con i volti sciupati, illuminati da una gioia dignitosa e sommessa. Leggevano con tranquilla curiosità e interesse le iscrizioni sulle lapidi. Si giravano a guardare i teneri cespugli primaverili, in fiore: mandorli e spiree fiorite. Ogni tanto arrivano a una nuova lapide, che immediatamente veniva circondata dalle quattro donne e sottoposta alle loro osservazioni. Quando si fermarono in un punto in cui erano sepolti alcuni parenti di una del gruppo, calò un silenzio solenne. La donna posò un mazzo di fiori su una tomba, poi rimase a guardarla con gli occhi lucidi. Le altre si tennero rispettosamente a distanza. Non incontrarono nessuno nel cimitero fino a poco prima di uscire. Quando ebbero raggiunto la parte posteriore e più antica del camposanto, e pensavano di ritornare sui propri passi, si accorsero improvvisamente che c'era una bambina seduta in un lotto alla loro destra. Il lotto conteneva sette vecchie lapidi inclinate, scurite e coperte di muffa, con le iscrizioni a malapena leggibili. La bambina era seduta vicino a una tomba, e alzò gli occhi sul gruppetto di donne che la guardavano con uno sguardo penetrante e innocente, simile a quello di un neonato. Aveva
il volto piccolo, grazioso ed emaciato. Le donne si fermarono a fissarla. «Come ti chiami, bambina?», le domandò una. Aveva un fiore vivace appuntato sul cappello, il mento volitivo, e aveva l'aria di essere la portavoce della comitiva. Si chiamava Holmes. La bambina girò la testa da un lato e mormorò qualcosa. «Che cosa hai detto? Non sentiamo. Parla a voce più alta: non aver paura! Come ti chiami?» La donna fece muovere il fiore vivace che aveva sul cappello, e parlò con voce chiara e gradevole. «Nancy Wren», disse la bambina, trattenendo il respiro per la timidezza. «Wren?» La bambina annuì. Teneva la piccola bocca rosea, curva, leggermente socchiusa. «Non è una famiglia che conosco», osservò in tono riflessivo la donna che aveva parlato. «Credo che abiti... lassù.» Fece un significativo cenno col capo verso destra. «Dove abiti, Nancy?», chiese. Anche la bimba fece un cenno verso destra. «Ne ero convinta», disse la donna. «Quanti anni hai?» «Dieci.» Le donne si scambiarono delle occhiate. «Sei sicura di dire la verità?» La bambina annuì. «Non ho mai visto una bambina della sua età così minuta», disse una donna a un'altra. «Sì», disse la signora Holmes, guardando la ragazzina con espressione critica, «è spaventosamente minuta. È molto più minuta della mia Mary alla sua età. Ci sono dei tuoi parenti sepolti in questo lotto?», chiese poi, rivolgendosi alla bambina con affabilità e condiscendenza. La bambina rivolse in su la faccia che le si era accesa d'improvviso. Cominciò a parlare con una dolce volubilità, stranamente in contrasto con la sua esitazione precedente. «Qui c'è la mamma», disse, indicando una delle lapidi, «e qui c'è papà. Lì John, Margaret, Mary, Susan, la neonata, e Jane.» Le donne la guardarono con stupore. «Era tutta la tua...», cominciò la signora Holmes, ma un'altra, una donna robusta, fece un passo avanti, con foga. «Oh Signore! È il lotto dei Blake!», disse. «Questa bambina non può avere nessun rapporto di parentela con loro. Non dovresti dire queste cose,
Nancy.» «È vero», disse la bambina, schiva ma insistente. Non aveva afferrato il significato dell'osservazione della donna. La guardarono con stupore crescente. «È impossibile», disse la donna alle altre. «Tutti i Blake sono morti anni fa.» «Io ho visto Jane», disse ingenuamente la bambina, con un candido sorriso. Allora la donna robusta si inginocchiò accanto alla lapide di Jane e la guardò con attenzione. «È morta quarant'anni fa, a maggio», disse respirando affannosamente. «La conoscevo, quando ero piccola. Aveva dieci anni quando è morta. Non puoi averla vista! Non dovresti raccontare storie del genere!» «Non la vedo da molto tempo», disse la bambina. «Ma perché dici di averla vista, se non è possibile?», chiese la signora Holmes, con asprezza, pensando di ottenere la resa. «La vedevo molto tempo fa: lei portava un vestito bianco e una ghirlandina sul capo. Veniva qui a giocare con me.» Le donne si guardarono l'un l'altra con i volti pallidi, sconvolti; una era tesa, un'altra tremava. «Si sbaglia», sussurrò la signora Holmes. «Andiamo!» Le donne si avviarono una dietro l'altra. La signora Holmes, che era l'ultima della fila, restò indietro per dire una parola di commiato alla bambina. «Non puoi averla vista», disse con severità, «e sei una monellaccia a raccontare storie simili. Non devi farlo mai più: tienilo a mente!» Nancy stava con una mano sulla lapide di Jane e la guardava. «Jane veniva a giocare con me», ripeté con mite insistenza. «C'è qualcosa che non va in quella bambina, credo», sussurrò la signora Holmes, quando raggiunse le altre facendo frusciare la gonna. «Mi è sembrata strana dal primo momento in cui l'ho vista», disse la donna, tesa. Quando le quattro donne arrivarono nella parte anteriore del cimitero, si sedettero a riposare per qualche minuto. Era una giornata tiepida, e dovevano ancora percorrere un bel tratto a piedi - quasi tutta l'ampiezza del camposanto - per arrivare all'angolo anteriore, dove si trovavano il cavallo e il carro. Si sedettero in fila su un sedile: la donna robusta si asciugò il volto, e la signora Holmes si raddrizzò la cuffia. Dall'altra parte della strada c'erano
due case, così vicine l'una all'altra, che le loro mura quasi si sfioravano. Una era grande e quadrata, di un bianco splendente, con le persiane verdi. L'altra era bassa, con la facciata in muratura, imbiancata solo fino alle finestre del pianterreno, il che le dava un'aria misera e umile; per giunta, non aveva persiane. Di fianco all'edificio si stendeva un ampio campo arato, nel quale numerose figure dai movimenti incerti erano impegnate nella semina. In loro non c'era nulla dell'ottimismo e della forza del seminatore. Anche dall'altra parte della strada si notavano la rigidità dei loro gesti e il tremulo slancio delle loro braccia. «Io dico che quei vecchi laggiù non riusciranno mai a seminare quel campo», disse la signora Holmes, energica e attenta. Sul gradino della porta della grande casa bianca era seduta una ragazza dai capelli vistosi. Il giardino era inondato dalla luce verde filtrata dalle chiome di due alti aceri, e i capelli della ragazza formavano una vivace macchia di colore su quello sfondo. «È Flora Dunn, quella persona seduta laggiù sul gradino?», chiese la donna robusta. «Sì. È impossibile sbagliarsi con quei suoi capelli rossi.» «Lo so. Non avrei mai creduto che la signora Dunn avrebbe sopportato l'idea di avere l'ospizio dei poveri così vicino alla sua casa. Non lo avrei mai creduto!» «Oh, non se ne cura», disse la signora Holmes. «È una persona tranquilla come il vecchio Tilly. Non gli avrebbe dato fastidio nemmeno se l'avessero costruito nel suo giardino. Ma credo che a lei dia fastidio. Così ho sentito dire... John dice che non ce n'era alcun bisogno. Il Comune non lo avrebbe costruito così vicino, se il signor Dunn avesse puntato i piedi. Credo che volessero lasciare libero quel grande campo che si trova di lato, ma l'avrebbero edificato qualche metro più in là, se lui si fosse ribellato. Ve la dico io la verità, dato che me ne sono fatta un'idea: non so che cosa dicano le Scritture, ma non posso fare a meno di pensare che, se la gente non si ribella, perde i propri diritti. Se si resta fermi e non ci si oppone, si viene calpestati. Se a qualcuno piace, che faccia pure: a me non piace!» «Non avrei mai creduto che avrebbe sopportato l'ospizio così vicino a casa sua», mormorò la donna robusta. A un tratto, la signora Holmes si sporse e infilò la testa tra quella delle altre due. Era seduta ad una delle estremità della fila. «Ditemi», disse, in un misterioso sussurro, «voglio sapere se avete senti-
to la storia che si racconta sulla casa dei Dunn.» «No. Qual è questa storia?», risposero in coro le altre, curiose di sapere. Poi si chinarono verso di lei finché i loro volti non furono uno vicino all'altro. «Ebbene», disse la signora Holmes cautamente, lanciando uno sguardo alla ragazza dai capelli rossi che stava dall'altra parte della strada, «io l'ho sentito con le mie orecchie: si dice che quella casa sia abitata dai fantasmi.» La donna robusta tirò il fiato e si raddrizzò. «Si dice che, da quando Jane è morta, ci siano strani e inspiegabili rumori nella casa. Vedete quelle finestre laggiù, le più vicine all'ospizio? Ebbene, quella è la stanza, si dice.» Tutte si girarono a guardare le finestre della camera dove svolazzavano delle bianche tende increspate. «Quella è la camera in cui dormiva Jenny, sapete?», continuò la signora Holmes, «ed è lì che è morta. Ebbene, si dice che, prima della morte di Jenny, Flora abbia sempre dormito con lei in quella stanza, ma che, dopo la morte della sorella, non se la sia più sentita di dormirvi, e perciò abbia deciso di cambiare camera. Ebbene, quando lo ha fatto, si sono sentiti dei gemiti e dei rumori terribili nella camera di Jenny, cosicché Flora è stata costretta a tornarci.» «Non avrei mai creduto che lo avrebbe fatto», sussurrò la donna tesa, che era pallidissima. «I gemiti sono cessati non appena Flora è entrata nella stanza con una luce. Vedete: Jenny aveva sempre avuto molta paura di dormire da sola, e teneva una lampada accesa tutta la notte. A loro deve essere sembrato che fosse proprio lei a lamentarsi, secondo me.» «Non credo una sola parola di questa storia», disse la donna robusta, alzandosi. «Mi fa perdere la pazienza sentire la gente raccontare sciocchezze simili, solo perché ai Dunn è toccato abitare di fronte a un cimitero.» «Io ho riferito solo quello che ho sentito», disse la signora Holmes, con freddezza. «Oh, non è te che biasimo: mi fanno perdere la pazienza le persone che mettono in giro storie simili. Figuratevi se quella povera ragazzina, dolce e graziosa, potrebbe mai infastidire qualcuno sotto forma di fantasma!» «Io, ho solo riferito quello che ho sentito!», ripeté la signora Holmes, in tono ancora lievemente offeso. «Anch'io non do molto credito a storie simili.»
Le quattro donne si diressero lentamente verso il carro coperto e vi salirono. «Ve la dico io la verità», disse la donna robusta in tono conciliante. «Era un pezzo che non facevo una gita come questa. Mi sembra che mi abbia fatto bene. Era molto tempo che desideravo andare al cimitero, ma per me la strada è troppo lunga per farla a piedi. Vi sono veramente grata, signora Holmes.» Le altre salirono. La signora Holmes si schermì con gentilezza da tutti i ringraziamenti, poi si sistemò sul sedile anteriore e tirò le redini del cavallo bianco. Allora la comitiva si avviò verso il paese, procedendo a balzelloni tra i campi verdi e lussureggianti, macchiettati dai denti di leone. I denti di leone erano in pieno rigoglio, e i bottoni d'oro non erano ancora sbocciati. Flora Dunn, la ragazza seduta sul gradina d'ingresso, alzò gli occhi a guardare il carro quando questo si avviò lungo la strada, poi riportò gli occhi sul lavoro: cuciva in fretta e con nervosismo. «Chi erano quelle persone? Le hai viste, Flora?», le chiese la mamma dal salotto. «Non le ho notate», rispose Flora, in tono assente. Proprio in quel momento, la bambina che avevano incontrato le donne, uscì lentamente dal cimitero e attraversò la strada. «C'è quella bambina dei Wren», osservò la voce dal salotto. «Sì», assentì Flora, Dopo un po' si alzò ed entrò in casa. Quando entrò nella stanza, la madre la guardò con ansia. «Ho perso la pazienza con te, Flora», le disse. «Sei bianca come un lenzuolo. Ti ammalerai! Ti comporti da stupida.» Flora si lasciò cadere su una sedia. Il suo sguardo, teso e penoso, era fisso davanti. «Non posso farne a meno... non posso agire in un'altra maniera», disse. «Non avrei mai creduto che mi avreste rimproverato, madre.» «Rimproverarti... io non ti rimprovero, figlia mia, ma non c'è alcun senso in quello che fai. Ti ammalerai, e tu sei tutto quello che mi è rimasto. Non posso permettere che ti succeda qualcosa, Flora.» All'improvviso, la signora Dunn scoppiò in un pianto sommesso, nascondendosi il volto tra le mani. «Non mi pare che stiate molto meglio, madre», disse Flora, con tristezza.
«Non so come sto», singhiozzò la madre, «ma tu ti devi preoccupare di tutto il resto, oltre a... Oh, cara! Oh, cara, cara!» «Non vedo il bisogno di preoccuparsi per me.» Flora non piangeva, ma il suo volto si era incupito di una malinconia che si addensava come una nube. Aveva dei capelli meravigliosi e una carnagione delicata ed attraente, ma non era bella: i suoi tratti erano troppo affilati, la sua espressione troppo intensa e nervosa. Sua madre le somigliava, in quanto all'espressione, ma i loro tratti erano molto diversi. Era come se entrambe fossero passate attraverso un elemento corrosivo che aveva prodotto su di loro le stesse cicatrici. Un estraneo avrebbe notato immediatamente la forte somiglianza tra il volto grosso, dai lineamenti pesanti, della signora Dunn, e quello fine e delicato della figlia: una somiglianza che tre mesi prima non si sarebbe percepita. «Io lo vedo, anche se tu non lo vedi», ribatté la madre. «Non sono cieca.» «Non capisco: di che cosa mi incolpate?» «Non ti incolpo, ma mi sembra che potresti far salire me a dormire al tuo posto.» A un tratto, anche la ragazza scoppiò in un pianto violento. «Non la lascerò. Povera piccola Jenny! Non dovete cercare di farmi rinunciare, madre, non rinuncerò!» «Flora, no!» «Non rinuncerò! No! No! Povera piccola Jenny! Oh, cara! Oh cara!» «Ma se fosse vero, se fosse vero che è... lei? Non vorrebbero me quanto te? Sua madre non può stare con lei?» «Non la lascerò. No! No!» A un tratto, la calma della signora Dunn diventò assoluta, intensificata dal violento impeto dell'angoscia dell'altra. «Flora», disse, con malinconica solennità, «non devi fare così: è sbagliato! Non devi consumarti per qualcosa che un giorno o l'altro si rivelerà diversa da quello che sembra!» «Madre, voi non pensate... non è vero?» «Non so che cosa pensare, Flora.» Proprio in quel momento una porta si chiuse nel retro della casa. «È arrivato tuo padre», osservò la signora Dunn, e si alzò. «Non abbiamo ancora acceso il fuoco.» Anche Flora si alzò, e aiutò la madre a preparare la cena. Entrambe, d'improvviso, placarono il loro nervosismo in una rigida compostezza. Avevano gli occhi rossi, ma le labbra ferme. C'era una vena risoluta nel loro
carattere: riuscivano a dominare le proprie afflizioni, e sapevano essere dure anche con il proprio dolore. Prepararono il tè per il signor Dunn e i suoi due operai. Poi sparecchiarono e si sedettero nella camera che si affacciava sul davanti, con i lavori di cucito. Anche il signor Dunn, un uomo anziano, gentile e ottuso, era seduto nel salotto a leggere il giornale. La signora Dunn e Flora cucivano con concentrazione, senza mai alzare gli occhi dal lavoro. Nella vicina camera c'era un grande orologio a pendolo, che ticchettava rumorosamente. Poco prima di suonare le ore, la pendola produceva uno strano stridio. Quando annunciò in questa maniera le nove, la signora Dunn e Flora si guardarono. La ragazza era pallida, ed i suoi occhi sembravano più grandi. Cominciò a ripiegare il lavoro di cucito. Ad un tratto, un lamento cupo risuonò nella casa: sembrava provenire dalla camera soprastante. «Eccola!», strillò Flora. Afferrò una lampada e corse. La signora Dunn stava per seguirla, quando il marito, seduto vicino alla porta, l'afferrò per un lembo del vestito con aria stupita; sonnecchiava. «Che cosa è successo?», chiese, in tono distratto. «Non hai sentito? Non hai sentito?» Il vecchio lasciò immediatamente il lembo del vestito. «Non ho sentito niente!», disse. «Ascolta!» Ma il lamento, in realtà, era cessato. Si sentiva Flora muoversi nella stanza soprastante, e questo era tutto. Dopo qualche istante, la signora Dunn corse al primo piano. Il vecchio restò a fissare il vuoto. «Sono tutte stupidaggini», mormorò tra sé. Poco dopo si riaddormentò, e il suo volto vacuo e sorridente cadde in avanti. Erano tre mesi che il signor Dunn, lento di comprendonio, paziente e privo di fantasia, veniva destato dai suoi sonnellini serali in quella maniera, e non cessava di stupirsi. Si occupava solo delle luci semplici e chiare della vita, e le ombre non rientravano nei suoi ragionamenti. Per lui, la figlia Jenny era morta ed era andata in cielo. Non era capace di sentire i suoi gemiti spettrali provenienti dalla cameretta del primo piano, tanto meno di dar loro credito. Quando la moglie tornò infine a pianterreno, lo guardò dormire, con un sentimento di amarezza. Si sentiva assalita dal vento gelido della solitudine. La figlia, che aveva preso da lei, era l'unica che poteva darle affetto e
comprensione in quell'incertezza che l'aveva presa. Ma avrebbe volentieri fatto a meno di quella comprensione ed avrebbe preferito sentire da sola quelle grida pietose, soprannaturali, perché era folle di paura per la salute di Flora. La ragazza non era mai stata molto forte. La guardò preoccupata, quando la mattina successiva scese al pianterreno. «Questa notte, sei riuscita a dormire un po'?», le chiese. «Un po'», rispose Flora. Poco dopo la colazione, videro la piccola Wren attraversare furtivamente la strada, diretta verso il cimitero. «Va sempre lì», osservò la signora Dunn. «Credo che scappi.» «Sì», disse Flora, in tono apatico. Era quasi l'una quando sentirono una voce dalla casa vicina. «Nancy! Nancy! Nancy Wren!» La voce era sonora e impetuosa, ma lenta e pacata. Dava un'indicazione precisa riguardo alla sua proprietaria. Una donna che sapeva dominare i toni della propria voce adirata sapeva anche dominare gli altri. La signora Dunn e Flora la ascoltarono e compresero. «Quella povera creatura le prenderà, quando tornerà a casa», disse la signora Dunn. «Nancy! Nancy! Nancy Wren!», gridò di nuovo la voce. «Compiango quella bambina, se la signora Gregg dovrà andare a prenderla. Forse si è addormentata sulla lapide. Flora, perché non corri a prenderla?» La voce risuonò di nuovo. Flora prese il cappello ed attraversò furtivamente la strada, un po' al di sotto della casa, in modo che la signora Gregg non la vedesse. Quando entrò nel cimitero, chiamò la bambina, tenendo bassa la sua voce dolce. Infine si imbatté nella bambina. Era nel lotto dei Blake, e il suo corpicino magro, coperto da un abito scolorito, era raggomitolato vicino a una delle tombe. Nessuno oltre la Natura, si prendeva ormai cura di quelle tombe, ed Essa sembrava farle cadere con dolcezza tra i suoi solchi, secondo il Suo volere. Dei cespugli piantati intorno alle lapidi non restava nulla, tranne un basso cespuglio di rose bianche, che aveva appena messo le foglie nuove. Il lotto dei Blake si trovava nella parte posteriore del cimitero, laddove questo confinava con un boschetto, che si faceva silenziosamente strada al di là dei suoi propri confini. Alle spalle del lotto c'era un folto di alberelli dalle foglie argentee e scintillanti. La terra era completamente azzurra per le pervinche in fiore.
La bambina alzò la testolina bionda e guardò Flora, come se si fosse appena svegliata. Teneva la boccuccia aperta, e i suoi innocenti occhi blu avevano un'espressione sorpresa, come se la scena cui assistevano fosse mutata all'improvviso. «Dov'è andata?», chiese con una voce dolce e flautata. «Chi?» «Jane.» «Non so che cosa vuoi dire. Vieni, Nancy, devi tornare a casa subito.» «Non l'hai vista?» «Non ho visto nessuno», rispose Flora, con impazienza. «Vieni!» «Era proprio lì.» «Che cosa vuoi dire?» «Jane era proprio lì. E indossava il vestito bianco, e la corona di fiori.» Flora rabbrividì e si guardò intorno timorosa. La fantasia della bambina aveva sopraffatto la sua propria natura. «Non c'era nessuno qui: sognavi, bimba. Vieni!» «No, non sognavo. Per tutto il tempo, ho visto i fiori azzurri e le foglie d'argento. Jane stava proprio lì.» La bambina indicò con il ditino un punto al suo fianco. «Era molto che non veniva», aggiunse. «È stata lì sotto.» E, così dicendo, indicò la tomba a lei più vicina. «Non devi dire queste cose», disse Flora, con tremula severità. «Devi alzarti subito e tornare a casa. La signora Gregg ti ha chiamato più volte. Non ne sarà contenta.» Nancy impallidì, strinse la piccola bocca, e balzò in piedi. «La signora Gregg sta venendo?», chiese. «Verrà, se non ti affretti.» La bambina non disse più niente. Volò lungo gli stretti sentieri davanti alla ragazza, ed era già davanti alla porta dell'ospizio quando Flora attraversò la strada. «Ha molta paura della signora Gregg», spiegò la ragazza alla madre, quando tornò a casa. Nancy l'aveva distratta dalle sue meditazioni, e Flora era tornata per un po' quella di prima. «Povera creatura, mi fa pena!», disse la signora Dunn. Alla signora Dunn, la signora Gregg non era simpatica. Di rado Flora raccontava una storia, senza averla prima rimuginata tra sé e sé. Era pomeriggio, e le due donne erano nel salotto, intente a cucire, quando la figlia raccontò alla madre l'episodio di «Jane». «È chiaro che deve aver sognato», disse Flora.
«Sì, dev'essere così», replicò la madre. Ma le due donne si guardarono e i loro occhi si dissero di più delle lingue. Ecco un nuovo prodigio, una nuova prova di quello che fino ad allora quelle due rigide anime del New England avevano solo intuito. Due anime, però, che camminavano lungo stretti sentieri tra i prati oscuri del misticismo. Qualora fossero inciampate, i vapori umidi dei prati avrebbero loro investito il volto. Quella loro fantasia, illusione, superstizione, o comunque la si volesse definire, durava ormai da tre mesi, fin da quando era morta la giovane Jenny Dunn. Non c'era nessuna ragione evidente perché non dovesse durare ancora per molto, se di illusione si trattava. Il temperamento delle due donne, per natura nervoso e fantasioso, spossato dalle lunghe veglie e dal dolore, avrebbe contribuito a perpetuarla. Se non si trattava di illusione, quale esorcismo, quale sortilegio di libro e di campana avrebbe potuto placare il fantasma di una fanciulla timorosa che aveva paura del buio? I giorni passavano, e Flora si affrettava sempre a salire nella propria camera allo scoccare delle nove. Se arrivava in ritardo, o se non arrivava affatto, quel pietoso lamento risuonava per tutta la casa. A poco a poco, quella strana storia si diffuse nel paese. La signora Dunn e Flora non ne parlavano: il pettegolezzo è di per se stesso di natura spettrale, e non si cura né di chiavi né di sbarre. Si creò una certa eccitazione intorno alla faccenda. La gente, in preda a curiosità morbosa e a compassione, andava a casa dei Dunn. Un pomeriggio vi andò il Pastore a pregare. La signora Dunn e Flora ricevevano tutti con una certa reticenza. Non assecondavano il desiderio dei loro visitatori di poter restare ad ascoltare con le proprie orecchie i misteriosi rumori. La gente le definiva «terribilmente chiuse». Avevano maggiori soddisfazioni dal signor Dunn, che era pronto a fornire tutte le informazioni in proprio possesso nonché le sue teorie in proposito. «Ho sentito quel lamento solo una volta», diceva, «e mi ha dato l'impressione che fosse il miagolio di un gatto. Credo che mia moglie e Flora siano troppo nervose.» La primavera era già avanzata quando una sera Flora salì nella sua camera con poco olio nella lampada. Non se ne accorse finché non si fu svestita: allora pensò che avrebbe dovuto spegnerla. Teneva la lampada accesa tutta la notte, come se con lei ci fosse la piccola Jenny. Anche Flora aveva paura del buio, ormai.
Spense la lampada. Aveva appena posato la testa sul cuscino, quando il lamento risuonò nella stanza. Flora si alzò a sedere nel letto ed ascoltò, con i pugni stretti. Il lamento acquistò forza e volume: parole e frasi spezzate, nonché esclamazioni di terrore ed angoscia, cominciarono a prendere forma. Flora balzò fuori dal letto e corse a tentoni verso la finestra ad ovest: era la più vicina all'ospizio. Si sporse fuori e ascoltò per un attimo, poi chiamò la madre con urgenza. Ma la madre era già sulla soglia della camera con una lampada. Quando entrò, il lamento cessò. «Madre», strillò Flora, «non è Jenny. È qualcuno qui vicino, nell'ospizio. Mettete la lampada fuori dalla porta e tornate a sentire.» La signora Dunn portò fuori la lampada, poi rientrò nella stanza e chiuse la porta. Trascorse qualche minuto, quindi le grida ricominciarono. «Ci andrò io stessa», disse la signora Dunn. «Mi vesto e vado. Adesso voglio vederci chiaro in questa faccenda.» «Vengo anch'io», disse Flora. Erano solo le nove e mezza quando le due donne entrarono furtivamente nel cortile dell'ospizio. C'era una luce nella stanza al pianterreno, che la famiglia del sorvegliante usava come salotto. Quando vi entrarono, il sorvegliante dormiva su una sedia, la moglie cuciva seduta a tavola, e una vecchia vestita di rosa stava senza far nulla. Tutti e tre trasalirono e guardarono le intruse. «Buona sera», disse la signora Dunn, cercando di parlare con calma. «Abbiamo pensato di entrare, perché ci siamo spaventate. Oh, eccolo! Che cos'è, signora Gregg?» In realtà in quel momento si sentì il lamento, più forte e più distinto. «Beh, è Nancy», replicò la signora Gregg, con dignitosa sorpresa. Era una donna robusta e di calma suprema. «L'ho sentita qualche minuto fa», continuò, «ed avevo deciso di salire a vedere, se non avesse smesso.» Il signor Gregg, un uomo grosso e dall'aria malinconica, le guardava con espressione vacua. La vecchia vestita di rosa li osservava tutti con un sorriso impersonale. «Nancy!», ripeté la signora Dunn, guardando la signora Gregg. Quella donna non le era mai stata molto simpatica, e le due non avevano fraternizzato, sebbene fossero vicine di casa. In effetti, la signora Gregg non aveva un carattere socievole, e si curava solo dei propri doveri. «Sì, Nancy Wren», disse la signora Gregg, con stupore crescente. «Grida in questo modo quasi tutte le notti. Ha dieci anni, ma ha paura del buio
come una bambina piccola. È una bambina strana. Forse è troppo nervosa. Immagino che passare tanto tempo nel cimitero le metta delle strane idee in testa. Corre nel camposanto non appena può, e racconta una storia incoerente a proposito dei suoi giochi con Jane, che è vestita di bianco e porta una corona di fiori sulla testa. Ho scoperto che si riferisce a Jane Blake, che è sepolta nel lotto dei Blake. Sapevo che non c'erano bambini qui intorno e pensavo di indagare sulla faccenda; Nancy davanti a quelle vecchie lapidi dice "Nostro Padre" e "Nostra Madre". E sta lì, e li chiama madre e padre. Si potrebbe credere che ci siano veramente. Ho perso la pazienza con quella bambina. Non so come trattare questo tipo di persone.» Il lamento continuava. «Ora andrò nella sua camera», concluse la signora Gregg con decisione, prendendo una lampada. La signora Dunn e Flora la seguirono. Quando entrarono nella camera, precedute dalla donna, videro la piccola Nancy seduta sul letto, con il volto pallido e convulso, gli occhi blu pieni di lacrime, e la rosea boccuccia tremante. «Nancy...», cominciò a dire la signora Gregg, in tono severo. Ma la signora Dunn si lanciò e gettò le braccia intorno alla bambina. «Hai avuto paura, non è vero?», sussurrò, e Nancy le si aggrappò disperatamente. Un'ondata di gioiosa tenerezza invase il cuore della donna, colpita dalla perdita della figlioletta. Non era, dopotutto, l'errante spirito solitario e intimorito della sua cara Jenny. Jenny riposava in pace, al di là delle angosce e dei terrori infantili, mentre quella bambina era viva. Lo capì con chiarezza. In seguito, pensò che solo una donna con i nervi tesi e l'immaginazione morbosamente acuita dalle lunghe veglie e dal dolore, non se ne sarebbe accorta prima. Teneva Nancy stretta a sé e l'accarezzava. Le sembrava di abbracciare la sua Jenny. «Credo che la porterò a casa con me, se non vi dispiace», disse alla signora Gregg. «Beh, non ho nessuna obiezione da fare, se questo è il vostro desiderio», rispose la signora Gregg, con gelida magnanimità. «Nancy Wren ha avuto tutto quello che potevo darle», aggiunse poi, quando la signora Dunn ebbe coperto la bambina e stavano scendendo le scale. «Non l'ho vezzeggiata e coccolata, perché non è mia abitudine. Non l'ho mai fatto nemmeno con i miei figli.» «Oh, so che avete fatto quanto potevate», disse la signora Dunn, in tono di scusa. «Mi farebbe solo piacere tenerla a casa con me questa notte. Non
pensate che vi incolpi di qualcosa, signora Gregg.» Quindi si chinò a baciare il faccino bagnato di lacrime che era posato sulla sua spalla: portava Nancy in braccio come una bimba piccola. Flora le teneva stretta una delle manine penzolanti. «Dormirai con Flora nella sua stanza», sussurrò la signora Dunn nell'orecchio della bambina, quando ebbero attraversato il cortile, «e avrai la lampada accesa tutta la notte. Prima di andare a dormire, ti darò una fetta di torta.» Era abitudine dei Dunn visitare il cimitero e portare dei fiori sulla tomba di Jenny ogni domenica pomeriggio. La domenica successiva, la piccola Jenny li accompagnò. Camminò lieta con loro e non pensò alle tombe dei Blake. Quella pietosa fantasia - se di fantasia si trattava - che aveva popolato il suo vuoto mondo infantile di fantasmi, che le aveva dato per compagna di giochi un angelo vestito di bianco e con una corona di fiori, era stata messa da parte ormai. Non ce n'era più bisogno. Nancy aveva trovato il suo posto in un nido di cuori vivi, e si alimentava del cibo naturale dell'amore umano. Avevano vestito Nancy con uno degli abitini bianchi che Jenny aveva indossato nell'infanzia, e la bimba aveva il cappello ornato del nastro e dei boccioli di rosa che anni prima avevano adornato la testa della fanciulla morta. Era una bella domenica. Quando uscirono dal cimitero passeggiarono lungo una strada che si allungava tra prati verde scuro e aie di fattorie. Non era il tempo delle rose, e i lillà stavano diventando grigi. I bottoni d'oro erano fioriti sui prati, ma i denti di leone avevano perso le corone gialle e avevano messo allo scoperto piccoli teschi trasparenti. Si ergevano come fantasmi tra la folla dei bottoni d'oro, ma nessuno della famiglia lo notò: i loro fantasmi ormai riposavano in pace. OSCAR WILDE Il Fantasma di Canterville Romanticheria ilo-idealistica1 1. Quando il signor Hiram B. Otis, vice-ambasciatore degli Stati Uniti, acquistò Canterville Chase, tutti gli dissero che aveva fatto una grossa stupi-
daggine, perché non v'era dubbio che quel luogo fosse infestato da fantasmi. E a dir la verità, lo stesso Lord Canterville, uomo scrupolosissimo, s'era sentito in dovere di far menzione del fatto al signor Otis, quando erano state discusse le condizioni dell'acquisto. «Neanche noi ci abbiamo più abitato volentieri», disse Lord Canterville, «dal giorno in cui la mia prozia, la vecchia Duchessa di Bolton, si spaventò al punto da avere una crisi dalla quale non s'è mai veramente rimessa: mentre si stava vestendo per il pranzo, le mani di uno scheletro le si posarono sulle spalle. Inoltre sento il dovere di dirle, signor Otis, che il fantasma è stato scorto anche da diversi altri membri viventi della nostra famiglia, come pure dal parroco, il Reverendo Augustus Dampier, che insegna al King's College di Cambridge. Dopo lo sfortunato incidente capitato alla Duchessa, nessuno dei domestici più giovani è voluto rimanere presso di noi e spesso mia moglie, Lady Canterville, non riusciva a dormire di notte per i misteriosi rumori che venivano dal corridoio e dalla biblioteca.» «Signore», rispose il diplomatico, «sono disposto ad acquistare insieme con i mobili anche il fantasma. Io vengo da una nazione moderna in cui è possibile avere tutto ciò che il danaro può comprare, inoltre con tutti i nostri intraprendenti giovanotti che stanno mettendo a soqquadro il vostro vecchio mondo, e accaparrandosi le vostre migliori dive e primedonne, sono certo che se in Europa esistesse davvero qualcosa di simile a un fantasma, l'avremmo già trasferito da noi in men che non si dica per sistemarlo in un museo o esibirlo in tournée.» «Temo che lo spettro esista veramente», replicò Lord Canterville sorridendo, «anche se non ha ceduto ancora alle offerte dei vostri attivissimi impresari. È noto da tre secoli, dal 1584, se vogliamo esser precisi, e non manca mai di fare la sua apparizione prima della morte d'un membro della nostra famiglia.» «Anche i medici di famiglia si comportano allo stesso modo, Lord Canterville. Il fatto è che i fantasmi non esistono, signore, e non credo che le leggi della natura facciano qualche eccezione per l'aristocrazia inglese.» Lord Canterville, che non era riuscito ad afferrare il senso dell'ultima frase del signor Otis, rispose: «Certo voi americani siete molto più naturali... e, se non le dispiace avere in casa un fantasma, benissimo. Si ricordi però che io l'avevo avvisata». Qualche settimana dopo la vendita fu conclusa e, verso la fine della stagione mondana, il diplomatico si trasferì a Canterville Chase con la famiglia. La signora Otis si chiamava da nubile Lucretia R. Tappan, abitava
nella Cinquantatreesima Strada Ovest ed era stata una delle ragazze più belle di New York. Anche ora, coi suoi begli occhi e lo splendido profilo, era una signora di mezz'età assai avvenente. Molte americane, quando lasciano il loro paese, assumono l'aria di ammalate croniche, convinte che questa sia una forma di raffinatezza europea, ma la signora Otis non aveva mai commesso un simile errore; aveva una splendida costituzione ed era dotata di una meravigliosa vitalità. Sotto parecchi aspetti era molto inglese, e costituiva un ottimo esempio del fatto che oggi abbiamo davvero tutto in comune con l'America. Tutto tranne la lingua, naturalmente. Il figlio maggiore, battezzato dai genitori col nome di Washington in uno slancio d'ardore patriottico, che lui non cessò di deplorare per tutta la vita, era un giovanottone biondo, abbastanza bello, che si era procurato i requisiti per entrare nella diplomazia americana dirigendo per tre anni di seguito le feste del Casinò di Newport. Persino a Londra era ritenuto un ballerino di prim'ordine. Aveva due sole debolezze: le gardenie e i titoli nobiliari. Per il resto si comportava con molto buonsenso. Virginia E. Otis era una ragazza di quindici anni, snella e delicata come una cerbiatta e con una franca espressione di indipendenza negli occhioni azzurri. Era un'amazzone eccellente e in passato aveva fatto per due volte il giro del parco cavalcando il suo pony in gara col vecchio Lord Bilton, superandolo infine d'una lunghezza e mezzo proprio davanti alla statua di Achille, con grande divertimento del giovane Duca di Cheshire, il quale le aveva immediatamente proposto di diventare sua moglie, ma la sera stessa era stato rispedito a Eton dai suoi tutori, in un mare di lacrime. Dopo Virginia venivano i gemelli soprannominati familiarmente «Stelle e Strisce» perché assaggiavano spesso le carezze della frusta. Erano ragazzi simpaticissimi, gli unici veri repubblicani della famiglia, oltre al rispettabilissimo diplomatico. Poiché Canterville Chase dista sette miglia da Ascot, la stazione ferroviaria più vicina, il signor Otis aveva telegrafato che venissero a prenderli con una grande carrozza a quattro ruote, su cui salirono tutti, di ottimo umore. Era una deliziosa serata di luglio e nell'aria aleggiava il profumo delle pinete. Ogni tanto si sentivano tubare i colombi selvatici con le loro dolci voci, o tra le felci fruscianti si intravedeva il petto brunito di un fagiano. Piccoli scoiattoli li spiavano incuriositi dall'alto dei faggi, mentre avanzavano e i conigli fuggivano nel sottobosco e su per i pendii muschiosi alzando in aria la candida coda. Ma appena gli Otis entrarono nel viale alberato di Canterville Chase, il cielo si coprì improvvisamente di nubi,
l'atmosfera parve imprigionata in una immobilità innaturale, un grande stormo di corvi passò silenziosamente sulle loro teste e, prima che raggiungessero la casa, cominciarono a cadere grosse gocce di pioggia. In cima alla scala li ricevette una donna anziana che indossava un abito di seta nera con cuffia e grembiule candidi. Era la governante, la signora Umney: in seguito alle pressanti insistenze di Lady Canterville, la signora Otis aveva acconsentito a confermarla nelle sue incombenze. Mentre scendevano dalla carrozza, ella fece a tutti un profondo inchino e disse con tono cortese e un po' vecchio stile: «Siate i benvenuti a Canterville Chase». Seguendo la governante, gli Otis attraversarono un elegante vestibolo in stile Tudor e entrarono nella biblioteca, un lungo salone dal soffitto basso, con le pareti rivestite di quercia scura, in fondo al quale c'era un'ampia vetrata istoriata. Trovarono il tè già pronto e, dopo essersi tolti i mantelli da viaggio, tutti si sedettero e cominciarono a guardarsi attorno, mentre la signora Umney li serviva. All'improvviso la signora Otis notò sul pavimento una macchia di color rosso cupo, proprio accanto al caminetto, non si rese ben conto di cosa fosse e allora disse alla signora Umney: «Mi sembra che laggiù sia stato versato qualcosa». «Sì, signora», rispose a bassa voce l'anziana governante. «Sangue.» «Che orrore!», esclamò la signora Otis. «Bisogna far sparire quella macchia al più presto. Detesto le macchie di sangue nel soggiorno.» La Umney sorrise e rispose con la stessa bassa voce misteriosa: «È il sangue di Lady Eleanore di Canterville, che fu uccisa in quel punto preciso dal marito, Sir Simon di Canterville, nel 1575. Sir Simon visse ancora per altri nove anni, poi sparì improvvisamente in circostanze molto misteriose. Il suo corpo non fu mai ritrovato, ma il suo spirito peccatore non ha lasciato questa dimora. La macchia di sangue interessa particolarmente i turisti e altre persone ed è impossibile cancellarla». «Che assurdità!», esclamò Washington Otis. «L'Imbattibile Supersmacchiatore e Detergente Esemplare Pinkerton la eliminerà in quattro e quattr'otto» e, prima che la governante terrorizzata potesse intervenire, il giovanotto s'era già inginocchiato e strofinava con forza il pavimento con un bastoncino del tutto simile a quei cosmetici che le signore usano per gli occhi. Pochi momenti dopo la macchia di sangue era sparita. «Sapevo che il mio Pinkerton ce l'avrebbe fatta!», esclamò trionfante il giovane, rivolgendosi alla famiglia che lo guardava piena d'ammirazione. Ma, non appena ebbe pronunciate queste parole, un lampo terribile illumi-
nò la stanza buia e il terribile fragore di un tuono fece balzare tutti in piedi. La signora Umney scivolò a terra svenuta. «Che clima spaventoso!», disse con calma il diplomatico americano accendendosi un lungo sigaro. «Evidentemente questo vecchio paese deve essere talmente sovrappopolato che non c'è abbastanza bel tempo per tutti. Ho sempre pensato che l'unica soluzione per i problemi dell'Inghilterra è l'emigrazione.» «Caro Hiram», esclamò la signora Otis, «che ne facciamo d'una donna facile agli svenimenti?» «Addebitale i danni. Vedrai che, dopo, non sverrà più.» E difatti, appena qualche istante dopo, la signora Umney riprese i sensi, però era certamente molto sconvolta e in tono austero ammonì il signor Otis di fare attenzione perché qualche sventura sarebbe accaduta nella casa. «Ho visto, signore, con i miei occhi cose da far rizzare i capelli a qualsiasi cristiano», disse. «Ho passato molte notti senza chiudere occhio per i terribili eventi che succedono qui.» Ma sia il signor Otis che sua moglie rassicurarono la brava donna dicendole che non avevano paura dei fantasmi. Dopo aver invocato le benedizioni della Divina Provvidenza sui nuovi padroni, e dopo essersi accordata su un aumento di salario, l'anziana governante si affrettò a ritirarsi nella propria stanza. 2. Il temporale infuriò per tutta la notte, ma non accadde niente degno di nota. E tuttavia, quando scesero per la prima colazione il mattino dopo, ritrovarono sul pavimento l'orrida macchia di sangue. «Non credo sia colpa del Supersmacchiatore», osservò Washington, «perché io l'ho sperimentato con tutto. Dev'essere stato lo spettro.» Detto questo, cancellò la macchia per la seconda volta, ma la mattina dopo ricomparve di nuovo. Riapparve anche il mattino del terzo giorno, sebbene la biblioteca fosse stata chiusa a chiave la notte precedente dal signor Otis in persona, e la chiave portata al piano superiore. Tutta la famiglia era ormai molto interessata; al signor Otis venne il dubbio d'essere stato un po' troppo dogmatico nel negare l'esistenza dei fantasmi; la signora Otis espresse il desiderio di associarsi alla Associazione Psichica e Washington scrisse una lunga lettera ai Signori Myers & Podmore, a proposito della permanenza delle macchie di sangue in connessione con alcuni delitti. La sera stessa scomparve ogni dubbio
sull'esistenza effettiva dei fantasmi. La giornata era stata calda e soleggiata, e nel fresco della sera la famiglia al completo andò a fare una passeggiata in carrozza. Rientrarono solamente verso le nove e consumarono una cena leggera. A tavola nessuno parlò di fantasmi e in tal modo non si verificarono nemmeno quelle condizioni preliminari di aspettativa, che tanto spesso precedono le manifestazioni di fenomeni psichici. Come mi raccontò qualche tempo dopo il signor Otis, gli argomenti trattati erano quelli di una normale conversazione di americani colti delle classi sociali più alte: e cioè la straordinaria superiorità artistica di Fanny Davenport su Sarah Bernhardt; la difficoltà di trovare germi di grano o focacce di grano saraceno e mais persino nelle migliori case inglesi; l'importanza di Boston per lo sviluppo d'una coscienza universale; i vantaggi del sistema degli scontrini dei bagagli nei viaggi in ferrovia e la dolcezza dell'accento dei cittadini di New York a paragone con la pronuncia strascicata dei londinesi. Non fu fatto alcun accenno al Soprannaturale, né alcuna allusione a Sir Simon di Canterville. Alle undici ognuno andò in camera sua e, verso le undici e mezzo, tutte le luci erano spente nel castello. Poco dopo, il signor Otis fu risvegliato da uno strano rumore proveniente dal corridoio, appena fuori la sua camera. Era un rumore metallico e sembrava avvicinarsi di momento in momento sempre di più. Scese subito dal letto, accese un fiammifero e guardò l'ora. Era l'una in punto. Era calmissimo e si tastò il polso: aveva un battito regolare. Lo strano rumore continuava ad avvicinarsi, e insieme egli udì distintamente il suono di passi. S'infilò le pantofole, prese un flaconcino oblungo dal suo nécessaire da viaggio e aprì la porta. Proprio davanti a sé, nella pallida luce della luna, vide un vecchio dall'aspetto terrificante. Aveva occhi rossi come tizzoni ardenti, capelli grigi e ricadenti fin sulle spalle in ciocche arruffate; l'abito, di taglio molto antiquato, era lacero e sudicio e dai polsi e dalle caviglie pendevano manette e catene arrugginite. «Egregio signore», disse il signor Otis, «devo pregarla di dare un po' d'olio a quelle catene. A tale scopo ho qui con me una bottiglietta del lubrificante del Sol Levante Tammany. Funziona sin dalla prima applicazione, dicono; sulla etichetta glielo confermeranno vari attestati di alcuni tra i massimi teologi nostrani. Gliela lascio qui sul tavolino vicino alle candele e sarò lieto di dargliene un'altra, se dovesse ancora averne bisogno.» Detto questo, il diplomatico degli Stati Uniti posò il flacone su un tavolo di
marmo e tornò a dormire nella sua camera, chiudendo la porta. Per un attimo il Fantasma di Canterville rimase paralizzato per la naturale indignazione, poi, dopo aver scagliato il flacone sul pavimento lucidato a specchio, scappò emettendo cupi gemiti ed emanando una spettrale luce verdastra. Ma, proprio quando stava per arrivare in cima all'ampio scalone di quercia, si aprì improvvisamente una porta, comparvero due figurette vestite di bianco e un enorme guanciale sibilò a un pelo della sua testa! Di certo non c'era tempo da perdere e, ricorrendo alla Quarta Dimensione come unico mezzo di scampo, egli si dileguò attraverso il rivestimento ligneo della parete e la casa fu completamente immersa nel silenzio. Raggiunta una piccola stanza segreta nell'ala sinistra del castello, il fantasma si appoggiò a un raggio di luna per riprender fiato, e cercare di rendersi conto della situazione in cui si trovava. Mai, durante la sua brillante e ininterrotta carriera trisecolare, mai era stato così volgarmente insultato. Ripensò alla vecchia Duchessa che aveva spaventato sino a farle avere un attacco di convulsioni, mentre se ne stava davanti allo specchio addobbata in trine e diamanti; pensò alle quattro cameriere a cui aveva provocato una crisi isterica con qualche semplice sghignazzata da dietro le tendine d'una camera degli ospiti; pensò al parroco al quale aveva spento la candela mentre usciva dalla biblioteca una notte tardi e che da quel momento aveva dovuto affidarsi alle cure di Sir William Gull, essendo ormai diventato un nevrastenico irrecuperabile; pensò alla vecchia Madame de Tremouillac che, destatasi una mattina presto e avendo visto uno scheletro seduto in poltrona accanto al caminetto intento a leggere il suo diario intimo, era dovuta restare confinata a letto per sei settimane con febbre cerebrale; appena guarita s'era riconciliata con la Chiesa e aveva interrotto tutti i contatti con quel famoso scettico che era il signor de Voltaire. Ricordò la terribile notte in cui il malvagio pronipote, Lord Canterville, fu trovato agonizzante nel suo spogliatoio con il fante di quadri infilato nella gola, e subito prima di morire confessò d'aver barato al gioco e vinto a Charles James Fox cinquantamila sterline al Crockford Club, proprio grazie a quella carta e giurò che era stato lo spettro a fargliela ingoiare. Gli tornavano alla mente tutte le sue memorabili imprese: dal maggiordomo che s'era sparato nella dispensa per aver veduto una mano verde bussare al vetro della finestra, alla bella Lady Stutfield, che era stata costretta a portare un nastro di velluto nero attorno al collo per nascondere l'impronta di cinque dita marchiate a fuoco sulla sua nivea pelle e che s'era annegata nello stagno delle carpe, in fondo al King's Walk. Con l'egocentrismo fanatico del vero artista, riandò
col pensiero alle sue più celebri esibizioni e sorrise amaramente tra sé mentre ricordava la sua ultima comparsa come «il Rosso Reuben ovverosia il Fanciullo Strangolato», il suo début come «il Macilento Gibeon, il vampiro della palude di Bexley», e il furore2 che aveva suscitato, in una splendida serata di giugno, soltanto per aver giocato a birilli con le proprie ossa in mezzo al campo da tennis. E, dopo tutto questo, ecco alcuni miserabili americani moderni venuti a offrirgli il lubrificante del Sol Levante e lanciargli addosso dei cuscini! Era veramente intollerabile! Mai, prima d'ora nel corso della storia, un fantasma era stato trattato così! Prese allora la decisione di vendicarsi, e rimase sino all'alba immerso in profondi pensieri. 3. Il giorno seguente, quando la famiglia Otis si riunì per colazione, si fece un gran parlare del fantasma. Il diplomatico degli Stati Uniti era ovviamente un po' dispiaciuto del fatto che il suo dono non fosse stato gradito. «Non ho alcuna intenzione di far del male al fantasma», disse, «e devo dire che, considerando da quanti secoli abita questa casa, non ritengo affatto educato riceverlo con lanci di cuscini...» L'onesta osservazione fu accolta dai due gemelli con uno scoppio di risa, sono dolente di doverlo dire. «Ciò nonostante», proseguì il signor Otis, «se continua a non usare l'imbattibile lubrificante bisognerà levargli le catene, perché con tutto quello sferragliare davanti alla porta delle camere da letto non si riuscirebbe più a dormire.» Per tutta la settimana non successe nulla: l'unica cosa che destava un po' di interesse era il costante riapparire della macchia di sangue sul pavimento della biblioteca, fatto certamente strano se si pensa che ogni sera immancabilmente le finestre erano sprangate e la porta veniva chiusa a chiave dal signor Otis in persona. E inoltre suscitò molti commenti il fatto che la macchia mutasse spesso colore, come un camaleonte: certe mattine era di un rosso cupo, quasi da pellerossa, altre volte vermiglia, altre volte ancora purpurea e, un giorno che erano scesi per dire le orazioni secondo il semplice rito della Libera Chiesa Episcopale Americana Riformata, la trovarono di un verde smeraldo acceso. Inutile dire che tutti questi cambiamenti caleidoscopici divertivano un mondo tutta la famiglia, e alla sera scommettevano tra di loro circa il colore che avrebbe avuto la macchia il giorno dopo. Soltanto la piccola Virginia non partecipava mai agli scherzi; inspiegabilmente, sembrava che la vista del sangue la impressionasse molto, e il
mattino in cui la macchia era apparsa verde smeraldo, per poco non era scoppiata in lacrime. La notte della domenica seguente, il fantasma fece la sua seconda apparizione. La famiglia si era appena coricata, quando un gran fracasso proveniente dall'ingresso mise tutti in allarme: scesero immediatamente, e trovarono che una grande armatura antica, staccatasi dal piedistallo, era rovinata a terra. Poco distante, seduto su una poltrona dall'alto schienale, il fantasma di Canterville si stava massaggiando i ginocchi con una smorfia di dolore sul volto. I gemelli, che prima di scendere si erano armati di cerbottana, subito lo bersagliarono di palline con la mira infallibile che si acquisisce solo dopo un lungo e paziente esercizio contro l'insegnante di calligrafia. Dal canto suo, il vice-ambasciatore degli Stati Uniti aveva puntato contro il fantasma la propria rivoltella, e gli stava intimando, da buon californiano, un «mani in alto». Il fantasma si alzò con un selvaggio urlo di rabbia, guizzò tra loro come una folata di nebbia spegnendo la candela di Washington Otis e lasciando la famiglia nel buio più completo. Quando fu giunto in cima alle scale, si riprese e decise di esibirsi nella sua celebre risata satanica, che in tante occasioni era stata di sicuro effetto. Pare che questa risata avesse fatto diventare grigi in una notte i capelli di Lord Raker, e certamente aveva spinto tre governanti francesi di Lady Canterville a licenziarsi prima dello scadere del primo mese di servizio. Il fantasma lanciò dunque la sua tremenda risata, che riecheggiò ripetutamente sotto le antiche volte: ma, non appena l'eco si fu spenta, la porta della signora Otis si aprì e lei comparve, avvolta in una vestaglia azzurro chiaro. «Ho l'impressione», disse, «che lei non si senta troppo bene: le ho portato una boccetta di sciroppo del dottor Dobell, se è colpa dell'indigestione lo troverà un rimedio eccellente...» Il fantasma le rivolse uno sguardo terribile, e si preparò a trasformarsi in un gigantesco cane nero, impresa per la quale era giustamente rinomato, e alla quale il medico di famiglia aveva attribuito la demenza incurabile dello zio di Lord Canterville, l'onorevole Thomas Horton. Ma un rumore di passi che si avvicinava lo distolse dal suo terribile proposito, e così dovette limitarsi a farsi un po' fosforescente; un attimo prima di essere raggiunto dai gemelli, si dileguò con un profondo, funereo gemito. Raggiunse spossato il suo nascondiglio, dove cadde in preda a una violenta agitazione. La sfacciataggine dei gemelli e il grezzo materialismo della signora Otis naturalmente lo irritavano assai, ma la cosa più umiliante era non essere riuscito a indossare la cotta di maglia; aveva sperato di
spaventare quegli americani moderni con la vista di uno Spettro in Armatura, se non per un motivo logico, almeno per rispetto del loro poeta nazionale Longfellow, sulle cui poesie leggiadre e affascinanti aveva trascorso piacevolmente molte ore di inattività quando i Canterville erano in città. Inoltre era la sua armatura e l'aveva indossata con successo nel torneo di Kenilworth ed era stato molto complimentato nientemeno che dalla Regina Vergine in persona. Ma, quando l'aveva indossata, aveva trovato insostenibile il peso dell'enorme pettorale e dell'elmo d'acciaio e così era caduto di schianto sul pavimento di pietra sbucciandosi malamente le ginocchia e ammaccandosi le nocche della mano destra... Per alcuni giorni fu molto malato, e uscì dalla sua stanza soltanto per rifare la macchia nella biblioteca. Tenendosi molto riguardato guarì e decise di fare un terzo tentativo per spaventare il diplomatico e la famiglia. Per la sua nuova apparizione scelse venerdì 17 agosto, e trascorse buona parte del giorno rovistando nel suo guardaroba: optò alla fine per un cappello con la tesa ripiegata in giù e una piuma rossa, per un sudario con polsi e colletto sfilacciati, e per un pugnale arrugginito. Al sopraggiungere della sera scoppiò un violento temporale: e il vento era così impetuoso che tutte le finestre e le porte dell'antica dimora tremavano e sbattevano: era proprio il tempo che amava. Il piano del fantasma era il seguente: sarebbe penetrato silenziosamente in camera di Washington Otis, gli avrebbe sussurrato parole senza senso ai piedi del letto, e si sarebbe conficcato per tre volte il pugnale nella gola alle note di una musica melodiosa. Per Washington egli provava un odio particolare, perché sapeva benissimo che era lui che sistematicamente puliva la famosa macchia di sangue di Canterville con l'Imbattibile Smacchiatore Pinkerton. Dopo aver così precipitato nel più vile terrore l'audace e sconsiderato giovanotto, sarebbe entrato nella stanza dei coniugi Otis, avrebbe posato una viscida mano sulla fronte della signora e avrebbe bisbigliato con voce sibilante all'orecchio del tremante marito gli agghiaccianti segreti della tomba. Per la piccola Virginia non aveva deciso nulla: ma era così bella e così buona, e poi non gli aveva mai fatto del male! Insomma, gli pareva che per lei bastasse emettere qualche ruggito dall'armadio, e se ciò non l'avesse svegliata, avrebbe potuto spingersi fino a tirare le coperte del suo letto con dita contratte. Ma per quanto riguardava i gemelli, era deciso a dar loro una bella lezione: tanto per cominciare, si sarebbe seduto sul loro petto così da produrre la soffocante sensazione dell'incubo; poi si sarebbe rizzato nello spazio tra i loro letti, che erano molto vicini, sotto forma di un cadavere
verdognolo e freddo come il ghiaccio, finché il terrore non li avesse letteralmente paralizzati; infine, liberatosi dal sudario, avrebbe assunto le sembianze di uno scheletro bianchissimo e si sarebbe trascinato per la stanza roteando un unico occhio e rappresentando così «Daniele il Muto, o lo Scheletro del Suicida», parte in cui si era cimentato molto spesso con strepitoso successo e che considerava pari alla sua interpretazione di «Martino il Maniaco ovvero il Mistero in Maschera». Alle dieci e trenta udì la famiglia ritirarsi per la notte; per un po' fu disturbato dalle risate dei gemelli, che evidentemente, nella loro spensieratezza di scolaretti, inventavano ancora giochi prima di coricarsi; poi, alle undici e un quarto, tutto fu silenzio: ai rintocchi della mezzanotte, il fantasma uscì. Il gufo batteva le ali contro le vetrate, il corvo gracchiava in cima al vecchio tasso e il vento errava ululando intorno alla casa come un'anima dannata, ma la famiglia Otis dormiva ignorando il destino che l'aspettava. Al di sopra del rumore della pioggia e della tempesta poteva udire il russare regolare del diplomatico degli Stati Uniti. Il fantasma attraversò furtivo il rivestimento di legno delle pareti, con un ghigno diabolico sulle grinzose labbra crudeli. La luna scomparve dietro una nube mentre egli passava davanti al grande bovindo dove il suo stemma e quello della moglie assassinata erano dipinti in azzurro e oro. Procedeva come un'ombra maledetta, e sembrava che al suo passaggio le tenebre stesse inaridissero. Gli parve a un tratto di sentire una voce e si arrestò: nulla, era solo l'abbaiare di un cane alla Fattoria Rossa. Andò avanti, proferendo strane maledizioni del sedicesimo secolo e brandendo di tanto in tanto nella notte il pugnale arrugginito. Infine giunse all'angolo del corridoio su cui si affacciava la camera del povero Washington. Si fermò; il vento gli scompigliava le lunghe ciocche di capelli grigi, e agitava in pieghe grottesche e fantastiche l'orrore senza nome del sudario del morto. Quando l'orologio suonò il quarto, sentì che era arrivato il momento: voltò l'angolo con un sorriso malvagio, ma aveva fatto appena un passo che cadde all'indietro con un penoso gemito di terrore, coprendosi il volto sbiancato con le mani adunche. Un mostruoso spettro gli stava davanti, immobile come un'immagine scolpita, angoscioso come l'incubo di un pazzo! La testa era pelata e lucente; nel volto tondo, grasso e bianco, un riso spaventoso pareva avergli contorto i lineamenti in una smorfia eterna; gli occhi ardevano di bagliori scarlatti e la bocca era un enorme pozzo di fuoco; un orribile sudario simile al suo era avvolto come neve silenziosa intorno a quelle gigantesche fattezze. Sul petto recava un cartello con una scritta in antichi caratteri, un cartiglio
di vergogna presumibilmente, un elenco di atroci peccati, uno spaventoso calendario di delitti commessi, e con la mano destra impugnava una scimitarra di acciaio lucente. È comprensibile che egli, non avendo mai veduto un fantasma prima di allora, si spaventasse enormemente: gli lanciò un'altra rapida occhiata, poi se ne tornò a gambe levate nella sua stanza, inciampando ripetutamente nel suo lungo sudario mentre correva nel corridoio e facendo cadere alla fine il pugnale arrugginito negli stivali del diplomatico (dove venne scoperto il mattino dopo dal maggiordomo). Raggiunto il suo appartamento, si buttò sul suo giaciglio nascondendo il volto sotto le coperte. Poco dopo, però, in lui si ridestò una parte del coraggio degli antichi Canterville, per cui si ripropose di andare a parlare, allo spuntare del giorno, con l'altro fantasma. Perciò, quando l'aurora incominciò a tingere d'argento le colline, fece ritorno sul luogo dove aveva incontrato il mostruoso spettro, pensando che, in fin dei conti, due fantasmi valevano più di uno solo, e con l'aiuto del nuovo amico avrebbe potuto affrontare meglio i gemelli. Quando però giunse sul posto, lo attendeva uno spettacolo orripilante. Certo allo spettro doveva essere successo qualcosa, poiché la luce era scomparsa dai suoi occhi vuoti, la scimitarra scintillante gli era scivolata di mano, ed egli se ne stava malamente appoggiato contro una parete, con un'aria distrutta. Si precipitò da lui e lo prese tra le braccia, ma quale fu il suo raccapriccio quando vide la testa rotolare a terra, mentre il corpo si accasciava sul pavimento. Si rese conto che stava stringendo una tenda di cotonina bianca, e ai suoi piedi c'erano una scopa, un coltello da cucina e una zucca vuota. Incapace di spiegarsi una simile trasformazione, afferrò convulsamente il biglietto e, nella luce grigia del mattino, riuscì a decifrare queste tremende parole: Fantasma degli Otis Unico Spettro Autentico e Originale Diffidate delle Imitazioni Tutti gli altri sono contraffazioni. All'improvviso, tutta la verità apparve chiara nella sua mente: lo avevano beffato, dileggiato, oltraggiato! L'antico sguardo dei Canterville tornò ad accendersi nei suoi occhi; digrignò le gengive sdentate e giurò, alzando le mani di scheletro sopra il capo, con il linguaggio pittoresco degli elisabettiani, che allorquando Can-
tachiaro avesse fatto udire per due volte la sua allegra voce, sarebbe avvenuta una carneficina e il Delitto sarebbe uscito allo scoperto con passi felpati. Aveva appena terminato di formulare questo terribile giuramento che dal tetto rosso d'un lontano casolare si sentì il canto d'un gallo. Egli proruppe in una cupa risata, lunga e amara, e attese. Attese, un'ora dopo l'altra, ma per qualche misteriosa ragione il gallo non cantò più. Finalmente, alle sette e mezzo, l'arrivo delle domestiche lo costrinse a rinunciare alla terribile veglia e a riparare nella sua stanza, ripensando alle sue inutili speranze e ai piani di vendetta falliti. Consultò quindi diversi antichi libri di cavalleria, che gli erano estremamente cari: scoprì che tutte le volte che qualcuno aveva pronunciato quel solenne giuramento, Cantachiaro aveva sempre cantato per due volte. «Maledetto gallinaceo!», borbottò dentro di sé. «E dire che ai miei tempi d'oro gli avrei trapassato la gola con la mia forte lancia facendogli cantare per me tutte le note della sua agonia!» Poi si sistemò nella sua comoda bara e rimase lì sino a sera. 4. Il giorno dopo il fantasma si sentiva molto debole e stanco. Le terribili emozioni delle ultime quattro settimane avevano cominciato a lasciare un segno su di lui: aveva i nervi a pezzi e sobbalzava a ogni fruscio. Per cinque giorni non lasciò la sua stanza, decidendo alla fine di soprassedere sulla questione della macchia di sangue sul pavimento della biblioteca. Dal momento che gli Otis non la volevano, peggio per loro: non se la meritavano. Erano di certo persone grossolane, vilmente attaccate al lato materiale dell'esistenza e del tutto incapaci di apprezzare e capire il valore simbolico dei fenomeni sensibili. La questione delle apparizioni spettrali, come gli sviluppi dei corpi astrali, era, ovviamente, una questione del tutto diversa e che sfuggiva al suo controllo. Era suo imprescindibile dovere farsi vedere nel corridoio una volta a settimana e mugolare suoni inarticolati dal grande bovindo il primo e il terzo mercoledì di ogni mese: nulla avrebbe potuto sottrarlo a questi impegni presi sul suo onore. La sua vita terrena era stata, è vero, macchiata da iniquità, ma d'altra parte egli era ormai diventato estremamente coscienzioso nell'osservanza in tutto quanto riguardava il soprannaturale; così nella notte dei tre sabati successivi, fra la mezzanotte e le tre, prendendo ogni precauzione per non esser visto né udito, percorse come sempre il corridoio. Si tolse gli stivali e camminò con la
maggiore leggerezza possibile sulle vecchie tavole tarlate, ravvolto in un gran mantello di velluto nero. Ebbe persino cura di lubrificarsi le catene col lubrificante del Sol Levante. È mio dovere riconoscere che adottò quest'ultimo mezzo di protezione soltanto dopo una lunga esitazione. Una sera, infatti, mentre la famiglia era riunita a cena, s'era introdotto nella camera del signor Otis e aveva trafugato un flacone. Da principio si sentì un po' umiliato, ma si accorse presto che quell'invenzione moderna era un ottimo rimedio e, in una certa misura, serviva anche ai suoi scopi. Eppure, nonostante questo, non lo lasciarono in pace. Gli Otis stendevano continuamente lungo il corridoio corde traditrici che lo facevano inciampare nel buio; una volta, mentre era vestito per la parte di «Isacco il Nero ovvero il Cacciatore del Bosco di Hogley» cadde in malo modo mettendo il piede su uno scivolo imburrato che i gemelli avevano costruito in cima alla scala di quercia, dall'entrata del Salone degli Arazzi alla sommità della scala di quercia. Quest'ultima offesa gli procurò una rabbia così forte che decise di riaffermare la sua dignità, apparendo la notte seguente a quegli insolenti studentelli di Eton nella celebre personificazione di «Rupert il Temerario ovvero il Conte senza Testa». Era da oltre settant'anni che non si esibiva in quella interpretazione, da quando aveva talmente spaventato la graziosa Lady Barbara Modish che lei aveva rotto istantaneamente il fidanzamento col nonno dell'attuale Lord Canterville ed era scappata a Gretna Green con l'aitante Jack Castletown, dopo aver dichiarato che niente al mondo poteva convincerla a far parte d'una famiglia che permetteva a uno spettro così orrendo di passeggiare al tramonto sulle terrazze del castello. Lo sfortunato Jack era stato poi ucciso in duello alla pistola da Lord Canterville nel parco comunale di Wandsworth e, prima che l'anno finisse, anche Lady Barbara era morta di crepacuore a Turnbridge Wells. Quindi quel travestimento era stato un trionfo da ogni punto di vista. Richiedeva tuttavia un «trucco» molto complicato, se mi è lecito usare un'espressione così spiccatamente teatrale in riferimento a uno dei più profondi segreti del mondo soprannaturale o, per usare una terminologia più scientifica, del mondo preternaturale. Gli ci vollero più di tre ore per quei preparativi, ma alla fine tutto fu pronto ed egli rimase molto contento del proprio aspetto. Gli alti stivali di cuoio che accompagnavano il vestito erano leggermente troppo grandi per lui e riuscì a trovare soltanto una delle due pistole da sella ma, nel complesso, si sentiva abbastanza soddisfatto e all'una e un quarto scivolò fuori dal pannello di legno e si avviò strisciando lungo il corridoio. Giunto alla camera dei gemelli, cono-
sciuta dal colore della tappezzeria come «la camera azzurra», trovò la porta socchiusa. Per ottenere un ingresso d'effetto la spalancò: una pesante caraffa colma d'acqua gli cadde addosso inzuppandolo fino alle ossa e mancando la sua spalla sinistra di appena qualche centimetro. Udì contemporaneamente delle risatine soffocate che provenivano dai letti a baldacchino. I suoi nervi ne rimasero così profondamente scossi da indurlo a rifugiarsi quanto più in fretta poté nella sua camera, e il giorno seguente dovette restare a letto per un tremendo raffreddore. L'unica cosa che riuscì a consolarlo fu il pensiero di non aver portato con sé la propria testa perché, se l'avesse fatto, le conseguenze sarebbero state forse gravissime. Lasciata ormai ogni speranza di spaventare quella volgare famiglia americana, si limitò alle passeggiatine nei corridoi indossando pantofole con suole di feltro, con una pesante sciarpa di lana rossa annodata al collo per paura delle correnti d'aria, nonché un archibugio di limitate dimensioni, qualora fosse stato attaccato dai gemelli. Il colpo finale lo ebbe il 19 settembre. Era sceso nel grande vestibolo centrale, convinto che almeno lì non sarebbe stato molestato; si divertiva a commentare con ironia le espressioni del diplomatico degli Stati Uniti e della consorte in alcuni ingrandimenti fotografici che avevano preso il posto dei ritratti della famiglia dei Canterville. Era avvolto in modo semplice ma dignitoso in un lungo sudario macchiato di terra di sepolcro; si era legato le mascelle con una striscia di tela gialla e portava una vanga da becchino e una piccola lanterna: doveva infatti interpretare il ruolo di «Giovanni senza Tomba ovvero il Ladro di Cadaveri di Chertsey Barn», una delle sue migliori interpretazioni che i Canterville avevano motivo di ricordare bene in quanto era stata la vera causa del litigio col vicino Lord Rufford. Erano circa le due e un quarto di notte e, a quanto aveva potuto accertare, nessuno era ancora in piedi. Ma, mentre si dirigeva in tutta tranquillità verso la biblioteca per vedere se rimanesse qualche traccia della macchia di sangue, improvvisamente gli balzarono addosso dal buio due sagome che agitavano selvaggiamente le braccia sopra le teste e che urlavano «Buuum!» nel suo orecchio. Preso dal panico - cosa naturalissima in frangenti del genere - si precipitò verso la scala, ma trovò lì ad aspettarlo Washington Otis con un lungo tubo per innaffiare. Trovandosi circondato ovunque da nemici, quasi sconfitto, si dileguò dentro una grande stufa di ghisa che per sua fortuna non era accesa e dovette tornarsene nel suo asilo, attraverso tubi e cappe di camini, giungendovi coi vestiti ricoperti di fuliggine e prossimo alla dispera-
zione. Da quella notte non lo si rivide più in spedizioni notturne. I gemelli lo attesero in varie occasioni, e disseminarono ogni notte i corridoi di gusci di noci, con gran fastidio dei genitori e della servitù. Ma non servì a niente. Evidentemente i suoi sentimenti erano stati feriti al punto che non voleva più farsi vedere. Il signor Otis riprese a scrivere la sua grande opera sulla storia del Partito Democratico alla quale stava lavorando da vari anni; la signora Otis preparò una festa campestre che stupì tutta la Contea; i ragazzi si dedicarono al lacross, all'euchre, al poker e ad altri giochi nazionali americani, mentre Virginia cominciò a cavalcare per la campagna sul suo pony in compagnia del giovane Duca di Cheshire, tornato a Canterville Chase per l'ultima settimana di vacanze. Era ormai opinione di tutti che il fantasma se ne fosse andato. Anzi, il signor Otis scrisse in proposito a Lord Canterville che in risposta gli espresse il suo piacere a quella notizia e inviò le sue congratulazioni alla degna moglie del diplomatico. Ma gli Otis si sbagliavano perché il fantasma era rimasto nel castello e, nonostante fosse ridotto a mal partito, non intendeva affatto metter fine alla propria carriera, tanto più quando venne a sapere che tra gli ospiti del castello c'era il giovane Duca di Cheshire, il cui prozio, Lord Francis Stilton, aveva scommesso cento ghinee con il colonnello Carbury che avrebbe giocato ai dadi con il fantasma di Canterville ed era stato trovato la mattina del giorno seguente sul pavimento della sala da gioco, irrimediabilmente paralizzato, e benché avesse vissuto sino a tarda età, da quel momento non era stato più in grado di pronunciare altre parole che «Doppio sei». La cosa ebbe all'epoca una certa risonanza, anche se per rispetto della dignità delle due nobili famiglie si fece di tutto per metterla a tacere; un resoconto completo degli avvenimenti si può trovare nel terzo volume delle Memorie del Principe Reggente e dei suoi amici, opera di Lord Tattle. Il fantasma, dunque, era molto ansioso di mostrare di non aver perso il suo potere sopra la famiglia Stilton, di cui era lontano parente, avendo una sua cugina carnale sposato en secondes noces il Sieur de Bulkeley, dal quale, come è noto, discendono i Duchi di Cheshire. Perciò cominciò a prepararsi ad apparire al giovane spasimante di Virginia sotto le celebri vesti del «Monaco Vampiro ovvero il Benedettino Dissanguato», esibizione talmente orrenda che quando l'anziana Lady Startup la vide, nel fatale Capodanno del 1764, si abbandonò a grida spaventose che culminarono in un attacco apoplettico, e morì tre giorni dopo non senza aver prima diseredato i Canterville, suoi congiunti più prossimi, lasciando tutto il suo patrimonio al suo farmacista
di Londra. All'ultimo momento, tuttavia, il terrore che aveva ormai dei fratelli gemelli impedì al fantasma di lasciare il suo rifugio e fu così che il giovane Duca dormì sonni tranquilli sotto il gran baldacchino piumato della Camera Reale e sognò Virginia. 5. Pochi giorni dopo questi avvenimenti, Virginia e il suo ricciuto cavaliere andarono a cavalcare nei prati di Brockley, dove la ragazza, saltando una siepe, si procurò un tale strappo al vestito che, tornando a casa, preferì salire dalla scala di servizio per evitare d'essere veduta. Mentre correva dinanzi alla Sala degli Arazzi, la cui porta era per caso aperta, le parve di scorgervi dentro qualcuno e, pensando si trattasse della cameriera di sua madre, che spesso si ritirava lì per lavorare, si affacciò per domandarle di ricucirle l'abito. La sua sorpresa fu grande quando si accorse che si trattava del Fantasma di Canterville in persona! Era seduto davanti alla finestra, e seguiva con lo sguardo l'oro sciupato degli alberi disperdersi nell'aria e le foglie rosse travolte in una folle danza lungo il viale. Aveva la testa poggiata sulla mano, in un atteggiamento di profonda depressione. Le apparve anzi così infelice e così desolato che la piccola Virginia, il cui primo pensiero era stato di scappare e richiudersi in camera, ne ebbe pietà e decise di tentare di confortarlo. Tanto leggero era il passo della fanciulla e tanto profonda la malinconia del fantasma che egli non s'accorse della sua presenza, fino a quando lei non gli rivolse la parola. «Mi dispiace per lei», disse Virginia, «ma domani i miei fratelli torneranno a Eton e allora, se lei si comporterà bene, nessuno le darà più disturbo.» «Che assurdità! Chiedermi di comportarmi bene!», rispose lui guardando stupito la graziosa ragazzina che aveva avuto l'audacia di rivolgergli la parola. «È davvero assurdo, io devo strascicare le catene, ululare attraverso i buchi delle serrature, passeggiare tutta la notte, se è questo a cui alludi. Queste sono le sole ragioni della mia esistenza.» «Non mi sembrano valide ragioni per un'intera esistenza, e lei sa benissimo d'essere stato molto malvagio. Il primo giorno che siamo arrivati qui, la signora Umney ci ha detto che lei ha ucciso sua moglie.» «Ebbene, lo ammetto», disse il fantasma sfacciatamente, «ma fu una faccenda familiare che non riguarda nessun altro.» «Ma è un peccato molto grave uccidere qualcuno!», disse Virginia che
prendeva a volte una dolce aria puritana ereditata da qualche antenato della Nuova Inghilterra. «Oh, io detesto la severità a buon mercato di un'etica astratta! Mia moglie era una donna bruttissima, non mi inamidava mai le gorgiere come piaceva a me e in cucina era un disastro. Ci crederesti? Una volta uccisi un magnifico daino nei boschi di Hogley... indovina come me lo presentò a tavola? Beh, non ha importanza, da allora è passato tanto di quel tempo... Comunque non è stato carino da parte dei suoi fratelli farmi morire di fame, anche se l'avevo uccisa io.» «Morir di fame? Oh, signor fantasma, voglio dire: Sir Simon, ha forse fame? Ho un panino nella borsa, se lo gradisce...» «No, grazie, ormai non ho più bisogno di mangiare, ma è stato comunque un pensierino gentile da parte tua. Tu sei molto più simpatica del resto della tua orrenda, maleducata, volgare e disonesta famiglia!» «Basta!», lo interruppe Virginia pestando i piedi. «Volgare e orrendo sarà lei! E per quanto riguarda la disonestà, lei sa benissimo di aver rubato i colori dalla mia scatola per ridipingere continuamente quella ridicola macchia sul pavimento della biblioteca. Prima lei s'è preso tutti i rossi, vermiglione compreso, e così non ho più potuto dipingere i tramonti, poi s'è preso il verde smeraldo e il giallo cromo. Alla fine mi sono rimasti solo l'indaco e il bianco di Cina, e non ho potuto far altro che scene al chiaro di luna, che danno tanta malinconia a chi le guarda e sono tanto difficili a dipingere. Non ho mai fatto la spia, per quanto fossi irritata e tutta la faccenda fosse estremamente ridicola. Chi ha mai visto il sangue color verde smeraldo?» In tono umile il fantasma rispose: «Va bene, ma cos'altro potevo fare? Non è facile procurarsi sangue vero al giorno d'oggi. E dato che tuo fratello aveva cominciato lui a sfidarmi col suo Supersmacchiatore e Detergente Esemplare, non c'era motivo perché non dovessi adoperare i tuoi colori. Quanto alle tinte, è questione di gusti. I Canterville per esempio sono di sangue blu, il blu più blu di tutta l'Inghilterra. Ma per voialtri americani queste sono cose senza importanza». «Lei non capisce niente. La cosa migliore che può fare è emigrare e migliorare la sua cultura. Mio padre sarebbe felicissimo di offrirle un viaggio gratis negli Stati Uniti, e sebbene gli spiriti d'ogni genere paghino un diritto di dazio molto alto, non credo che avrà problemi alla dogana, perché gli addetti sono tutti democratici. A New York lei otterrà di certo un successo strepitoso. Conosco centinaia di persone che pagherebbero centomila dol-
lari per poter dire di avere un nonno e molto di più per vantare un fantasma di famiglia!» «Non credo che l'America mi piacerebbe.» «Forse perché da noi non esistono ruderi e stranezze del genere?», disse Virginia ironicamente. «Non avete ruderi? E neanche stranezze? E allora cos'altro sono la vostra flotta e le vostre maniere?» «Buonasera. Andrò subito da papà per chiedergli di accordare un'altra settimana di vacanza ai gemelli.» «No, Virginia!», gridò il fantasma. «Ti prego di non andartene. Mi sento così solo e così infelice, non so più cosa fare. Cerco il sonno e non mi riesce di dormire.» «Che scemenza! Non deve far altro che andare a letto e spegnere la candela. Il difficile è restare svegli in certe occasioni, specie in chiesa, ma dormire non lo è affatto. Persino i neonati lo sanno fare, e sì che non sono molto intelligenti!» «Non dormo da trecento anni», disse il fantasma con aria triste, e i begli occhi azzurri di Virginia si spalancarono dalla meraviglia. «Non dormo da trecento anni e mi sento così stanco!» Virginia si fece molto seria e le sue labbra sottili tremarono come petali di rosa. Gli si avvicinò, e, inginocchiandoglisi accanto, osservò quel vecchio volto avvizzito. «Povero, povero fantasma», sussurrò, «non ha un posto dove andare a dormire?» «Lontano, oltre il bosco dei pini», rispose, con voce bassa, sognante, «c'è un piccolo giardino; l'erba vi cresce alta e rigogliosa, lì fioriscono le stelle bianche della cicuta; l'usignolo vi canta tutta la notte. Vi canta tutta la notte e la fredda luna di cristallo guarda giù mentre il tasso stende i suoi giganteschi rami sui dormienti.» Gli occhi di Virginia si velarono di pianto ed ella nascose il viso dietro le mani. «Allude», bisbigliò, «al Giardino della Morte.» «Sì, della Morte. La morte dev'essere tanto bella. Riposare sotto la soffice terra bruna, con l'erba che ti ondeggia sopra la testa e ascoltare il silenzio: non aver più né passato né futuro; dimenticare il tempo; perdonare alla vita; avere la pace. Tu puoi aiutarmi, puoi aprire per me i portali della Casa della Morte, poiché Amore è sempre con te e Amore è più forte della Morte.»
Virginia tremò; un brivido freddo la scosse tutta e per qualche minuto regnò il silenzio. Le sembrava d'essere vittima di un sogno pauroso. Poi parlò di nuovo il fantasma. La sua voce sembrava il sussurro del vento. «Hai mai letto l'antica profezia incisa sopra la finestra della biblioteca?» «Sì, molte volte», esclamò la fanciulla sollevando lo sguardo, «la ricordo bene. È dipinta in strani caratteri neri e si legge appena. Sono soltanto sei righe. Quando otterrà una bionda fanciulla La preghiera dalle labbra del peccatore, Quando rifiorirà lo sterile mandorlo E un giovane innocente verserà le sue lagrime, Allora tutta la casa sarà quieta E la pace tornerà a Canterville. Ma non comprendo cosa vuol dire.» «Queste parole significano», disse lui mestamente, «che tu dovrai piangere per me e per i miei peccati, poiché io non ho lacrime, e con me dovrai pregare per l'anima mia, poiché io non ho fede. Poi, se sarai stata sempre dolce e buona e gentile, l'Angelo della Morte avrà pietà di me. Vedrai nel buio apparizioni terribili e voci malvage ti bisbiglieranno nell'orecchio, ma non ti sarà fatto alcun male perché le forze infernali non possono prevalere sulla purezza d'una fanciulla.» Virginia non rispose e il fantasma si torceva le mani disperato mentre osservava la testa china di lei e i suoi capelli d'oro. Improvvisamente ella si alzò pallidissima e con una strana luce negli occhi. «Non ho paura», dichiarò con voce ferma, «e chiederò all'Angelo di aver pietà di lei.» Anche lui si alzò in piedi con un debole grido di gioia, le prese una mano e, chinandosi con la grazia dei tempi antichi, gliela baciò. Le sue dita erano di ghiaccio, le sue labbra bruciavano come fuoco, ma Virginia non vacillò mentre lui la guidava attraverso la sala buia. Sulla tappezzeria d'un verde sbiadito erano ricamati piccoli cacciatori che soffiavano nei corni infiocchettati e con le minuscole mani intimavano a Virginia di tornare indietro. «Torna indietro piccola Virginia, torna indietro!», gridavano, ma il fantasma strinse la tenera mano di lei con maggior forza e la fanciulla chiuse gli occhi per non vederli. Orribili animali con coda di lucertola e occhi da rospo la fissavano dal
camino scolpito e mormoravano: «Attenta, piccola Virginia, attenta! Potremmo non vederti più!», ma il fantasma scivolò via ancor più velocemente e Virginia non stette ad ascoltarli. Quando furono giunti in fondo al salone, lui si fermò e borbottò alcune parole che Virginia non poté capire. Allora aprì gli occhi e vide la parete dileguarsi lentamente come una nebbia e aprirsi davanti a lei una immensa caverna tenebrosa. Un vento sferzante e gelido soffiava intorno a loro e lei sentì che qualcuno le tirava la veste. «Presto, presto!», gridò il fantasma, «altrimenti sarà troppo tardi.» Un attimo dopo i pannelli di legno si chiusero dietro di loro e il Salone degli Arazzi rimase vuoto. 6. Dieci minuti più tardi, o giù di lì, la campana chiamò per il tè e poiché Virginia non compariva, la signora Otis incaricò un domestico di andare ad avvertirla, ma qualche minuto dopo questi tornò e disse che non era riuscito a trovare la signorina Virginia da nessuna parte. Poiché lei era solita scendere ogni sera in giardino a cogliere fiori per la tavola, la signora Otis da principio non ne fu allarmata, ma poi, quando suonarono le sei e la figlia non era ancora rientrata, cominciò a preoccuparsi molto e mandò i ragazzi a cercarla in giardino, e lei stessa e il marito ispezionarono tutte le stanze della casa. I ragazzi rientrarono alle sei e mezza dicendo che non erano riusciti a trovare alcuna traccia della sorella. Adesso erano tutti in grandissima apprensione e non sapevano cosa fare, quando il signor Otis si ricordò che pochi giorni prima aveva permesso a una carovana di zingari di accamparsi nel parco, perciò si mosse subito in direzione di Blackfell Hollow, dove sapeva di trovarli, facendosi accompagnare dal figlio maggiore e da due contadini. Il giovane Duca di Cheshire, fuori di sé per l'ansia, li aveva pregati insistentemente di concedergli di unirsi a loro, ma il signor Otis non glielo permise perché temeva che ci potesse essere una rissa. Quando furono sul posto, però, scoprirono che gli zingari erano partiti ed era evidente che la loro partenza doveva esser stata improvvisa, perché il fuoco era ancora acceso e qualche piatto era stato abbandonato sul prato. Dopo aver mandato Washington e gli altri due uomini in giro per il distretto, egli corse a casa e da lì mandò telegrammi a tutti gli uffici di polizia della Contea, chiedendo di ricercare una giovinetta rapita dagli zingari o da vagabondi. Poi si fece sellare un cavallo e, dopo aver insistito perché moglie e figli si
mettessero a tavola, prese la strada di Ascot con uno stalliere. Aveva percorso solamente due miglia, quando udì che qualcuno galoppava dietro di lui e, voltatosi, vide che era il giovane Duca di Cheshire sul suo pony, rosso in viso e a capo scoperto. «Mi dispiace molto, signor Otis», disse il giovane ansimando, «ma non me la sento di mangiare sinché non si trova Virginia. La prego, non sia adirato con me; se lei ci avesse permesso di fidanzarci un anno fa, avremmo evitato questo guaio. La prego, non mi rimandi indietro. Non posso! Non voglio!» Il diplomatico non poté trattenersi dal sorridere a quel bel giovane ribelle e fu sinceramente commosso del suo affetto per Virginia; curvandosi sul cavallo, gli batté benevolmente la mano sulla spalla dicendogli: «Ebbene, se non vuoi tornare indietro, Cecil, immagino verrai con me, ma dovrò comprarti un cappello ad Ascot». «All'inferno il cappello! Io voglio ritrovare Virginia!», gridò ridendo il giovane Duca e galopparono insieme fino alla stazione ferroviaria. Qui il signor Otis chiese al capostazione se fosse stata vista partire una fanciulla con i connotati di Virginia, ma non ottenne nessuna notizia. Il capostazione telegrafò lungo tutta la linea e assicurò che avrebbero tenuto d'occhio attentamente tutti i viaggiatori. Comperato un cappello per il giovane Duca da un mercante che stava per chiudere il negozio, il signor Otis cavalcò verso Bexley, un villaggio a quasi quattro miglia di distanza, che gli era stato segnalato come luogo di ritrovo degli zingari, poiché c'era nelle vicinanze un terreno in cui potersi accampare. Qui svegliarono la guardia campestre, ma non ottennero da lui informazioni di sorta; allora, dopo aver percorso in lungo e largo il terreno comunale, si diressero verso casa, e alle undici circa erano a Canterville Chase, stanchi e sfiduciati. Trovarono Washington e i gemelli che li aspettavano al cancello con lanterne accese, poiché il viale era completamente al buio. Non era stata trovata nessuna traccia di Virginia. Gli zingari erano stati sorpresi in un campo di Broxley, ma la ragazza non era con loro e avevano spiegato la loro partenza improvvisa dicendo di essersi sbagliati sulla data della Fiera di Chorton e di essere quindi partiti in tutta fretta nel timore di arrivarci in ritardo. Erano anzi rimasti molto dispiaciuti alla notizia della scomparsa di Virginia, perché erano molto grati al signor Otis per aver loro concesso di accamparsi nel parco e quattro di loro si erano fermati per partecipare alle ricerche. Era stato scandagliato lo stagno delle carpe e perlustrato tutto il castello, ma senza risultato. Era evidente che Virginia, almeno per quella notte, era introvabile. Il signor Otis e i ragazzi tornarono a casa profondamente depres-
si, mentre lo stalliere li seguiva con il pony e i due cavalli. Nell'atrio trovarono un gruppo di domestici spaventati; la povera signora Otis giaceva sdraiata sul sofà della biblioteca, quasi fuori di sé per la paura e per l'angoscia, mentre la vecchia governante le inumidiva la fronte con eau-decologne. Il signor Otis pregò la moglie di mangiare qualcosa e ordinò di preparare la cena per tutti. Fu un pasto quanto mai triste e silenzioso; persino i due gemelli erano taciturni e depressi perché volevano molto bene alla sorella. Dopo cena, nonostante le suppliche del giovane Duca, Otis mandò tutti a letto, dicendo che per quella notte non c'era altro da fare e che l'indomani avrebbe telegrafato a Scotland Yard perché mandassero al più presto qualche investigatore. Proprio nel momento in cui stavano uscendo dalla sala da pranzo, l'orologio della torre cominciò a battere la mezzanotte e, quando risuonò l'ultimo tocco, si udì un gran tonfo, seguito da un grido acuto; un tuono fragoroso scosse il castello, echeggiò nell'aria una musica soprannaturale, in cima alla scala si spalancò un pannello con grande fracasso e sul pianerottolo apparve Virginia, pallida e smorta. Aveva in mano un piccolo scrigno. Subito tutti si precipitarono verso di lei: la signora Otis la strinse appassionatamente tra le braccia, il Duca la soffocò di baci e i gemelli iniziarono una pazza danza di guerra intorno al gruppo. «Santo Cielo! Ma dove t'eri cacciata, bambina mia?», disse il signor Otis abbastanza in collera, perché pensava che avesse voluto burlarsi di loro. «Cecil e io abbiamo galoppato per tutto il paese in cerca di te, e tua madre è quasi morta di paura. Non devi più farci uno scherzo simile!» «Falli solo al fantasma! Solo al fantasma!», strillarono i gemelli continuando il loro balletto. «Tesoro mio! Grazie a Dio ti abbiamo ritrovata! Non devi più allontanarti da me», sussurrò la signora Otis, baciando la figlia e carezzandole i capelli color d'oro. «Papà», disse calma Virginia, «sono stata col fantasma. È morto e dovete venire a vederlo. È stato molto cattivo, ma si è sinceramente pentito di tutto quello che ha commesso e prima di morire mi ha fatto dono di questo scrigno ricolmo di splendidi gioielli.» Tutta la famiglia la guardò ammutolita dallo stupore, ma lei rimase calma e seria; e, voltatasi, li condusse attraverso l'apertura nei pannelli lignei lungo uno stretto corridoio segreto, mentre Washington chiudeva il gruppo tenendo in mano una candela accesa che aveva preso dalla tavola. Alla fine arrivarono davanti a una grande porta di quercia costellata di chiodi arrugginiti. Virginia la sfiorò con la mano e la fece ruotare sui pesanti cardini: si
trovarono allora in una angusta stanzetta dal basso soffitto a volta e con una minuscola finestra munita di grata. Nel muro era infisso un robusto anello di ferro e all'anello era incatenato un nudo scheletro, proteso sul pavimento di pietra, come se stesse cercando di afferrare con le lunghe dita scarne un vassoio e una brocca di foggia antica, posti appena fuori della sua portata. La brocca era stata un tempo colma d'acqua, come rivelava un po' di muffa verdastra che v'era rimasta; nel vassoio non c'era che un mucchietto di polvere. Virginia si inginocchiò vicino allo scheletro e giunte le piccole mani cominciò a pregare in silenzio, mentre gli altri osservavano con stupore la terribile tragedia il cui segreto era ora svelato. «Ehi!», osservò all'improvviso uno dei gemelli, che stava guardando fuori della finestrina per cercar di capire in quale parte del castello si trovassero. «Guardate! È fiorito il vecchio mandorlo che s'era seccato. Al chiaro di luna riesco a vederne i fiori.» «Dio gli ha perdonato», mormorò Virginia alzandosi, e una dolce luce sembrava rischiararle il viso. «Tu sei un angelo!», esclamò il giovane Duca e, gettandole le braccia al collo, la baciò. 7. Quattro giorni dopo questi strani fatti, verso le undici di sera, un corteo funebre usciva da Canterville Chase. Il carro era trainato da otto cavalli neri, ciascuno dei quali aveva la testa ornata da un gran pennacchio di penne di struzzo. Sul drappo purpureo che ricopriva la bara di piombo era ricamato in oro lo stemma dei Canterville. Ai lati del carro procedevano i domestici che recavano torce accese sicché l'aspetto generale del corteo era davvero imponente. Veniva per primo Lord Canterville, giunto appositamente dal Galles per partecipare al funerale ed era seduto nella prima carrozza insieme alla giovane Virginia: seguivano poi il diplomatico americano e sua moglie; nella terza carrozza era Washington con i due ragazzi e nell'ultima la signora Umney. Poiché il fantasma l'aveva terrorizzata per oltre mezzo secolo, era opinione di tutti che ora avesse il diritto di scortarlo all'ultima dimora. Una profonda fossa era stata scavata in un angolo del cimitero, sotto al vecchio albero di tasso e il Reverendo Augustus Dampier lesse il servizio nel modo più solenne. Alla fine della cerimonia, secondo un'antica tradizione sempre rispettata dei Canterville, i servi spensero le
torce, e mentre la bara scendeva lentamente nella fossa, Virginia si fece avanti e lasciò cadere su di essa una grande croce di bianchi e rosei fiori di mandorlo. Allora la luna spuntò tra le nubi e diffuse la sua argentea luce silente sul piccolo cimitero, e dal bosco un usignolo cominciò a cantare. La fanciulla ricordò quel che il fantasma le aveva detto del Giardino della Morte, le lacrime le offuscarono lo sguardo e, commossa, tacque durante il ritorno a casa. La mattina seguente, prima che Lord Canterville tornasse in città, il signor Otis discusse con lui circa i gioielli che il fantasma aveva dato a Virginia: erano una meraviglia, specialmente una collana di rubini con un'antica montatura in stile veneziano che era un superbo esemplare di gioielleria del XVI secolo. Il loro valore era tale che il signor Otis provava scrupolo a permettere che la figlia li accettasse. «Mylord», disse, «so che in questo paese il diritto di mano morta si applica tanto ai beni mobili che ai terreni ed è chiaro quindi che questi gioielli sono, o dovrebbero essere, parte dell'eredità della sua famiglia. Devo dunque pregarla di portarli con sé a Londra e di considerarli semplicemente parte della sua proprietà restituita per uno strano seguito di avvenimenti. Quanto a mia figlia, è ancora una bambina e sono lieto di dire che non si interessa a questi inutili monili di lusso. Mia moglie, che s'intende di oggetti d'arte, poiché da giovinetta ha trascorso vari inverni a Boston, mi ha anche detto che queste pietre hanno un grande valore finanziario e che si potrebbero vendere a un altissimo prezzo. Perciò, Lord Canterville, lei capirà - ne sono certo - che io non posso permettere che restino in possesso di un membro della mia famiglia. Inoltre, se tutti questi gingilli e ornamenti sono necessari per la dignità dell'aristocrazia britannica, sarebbero completamente fuori posto tra coloro che sono stati allevati seguendo i severi e io credo imperituri - princìpi della semplicità repubblicana. Dovrei forse segnalarle che Virginia sarebbe molto contenta se lei le permettesse di conservare lo scrigno, quale ricordo del suo sventurato - ma anche corrotto - antenato. Poiché è molto antico e di conseguenza anche un po' sciupato, forse lei potrebbe, credo, acconsentire alla sua richiesta, anche se da parte mia confesso d'esser sorpreso che una mia figlia dimostri qualche simpatia verso una qualsiasi espressione di epoca medievale. Posso spiegarlo soltanto con la circostanza che Virginia è nata vicino a Londra, poco dopo il ritorno della signora Otis da un viaggio ad Atene.» Lord Canterville ascoltò con grande attenzione il discorso del diplomatico, lisciandosi ogni tanto i baffi grigi per nascondere un involontario sorri-
so. Quando il signor Otis ebbe terminato di parlare, gli strinse con cordialità la mano e gli rispose: «Mio caro signore, la sua deliziosa figliola ha reso al mio sfortunato antenato Sir Simon un servizio importantissimo e io e la mia famiglia le dobbiamo una viva riconoscenza per il suo straordinario coraggio e la sua audacia. I gioielli appartengono a lei senza alcun dubbio, e, perbacco, credo che se fossi così privo di cuore da toglierglieli, quel vecchio malvagio uscirebbe immediatamente dalla tomba nel giro di due settimane e renderebbe la mia vita un inferno. Quanto a essere beni mobili spettanti agli eredi, nulla è bene di famiglia se non è menzionato in un testamento o in un documento legale, e nessuno di noi conosceva l'esistenza di questi gioielli. Le assicuro che ho su di loro gli stessi diritti che potrebbe vantare il suo maggiordomo; quando la signorina Virginia sarà più grande credo che sarà ben felice di possedere oggetti graziosi da indossare. Infine, lei dimentica, caro signor Otis, di aver comprato in blocco e i mobili e il fantasma, quindi qualunque proprietà del fantasma è passata automaticamente nelle sue mani, in quanto, nonostante le attività notturne di Sir Simon nei corridoi, egli era da un punto di vista legale un defunto: lei ha preso possesso di ogni sua proprietà con un regolare acquisto». Il signor Otis rimase alquanto sconcertato dal rifiuto di Lord Canterville e lo pregò di tornare sulla sua decisione, ma l'ottimo Pari d'Inghilterra fu irremovibile e così riuscì a persuadere il diplomatico a permettere che Virginia conservasse il dono del fantasma e quando, nella primavera del 1890, la giovane Duchessa di Cheshire, in occasione delle nozze, venne presentata a Corte, i suoi gioielli furono ammirati da tutta l'aristocrazia britannica. Virginia aveva infatti sposato il suo giovane spasimante non appena era diventato maggiorenne, ricevendo in tal modo quella corona nobiliare che è il sogno di ogni giovane americana. Erano così incantevoli e si amavano tanto che tutti approvarono la loro unione, con due sole eccezioni: la vecchia Marchesa di Dumbleton, la quale aveva cercato di accaparrarsi il Duca per una delle sue sette figliole zitelle, con tre inutili e dispendiosi banchetti, e - strano a dirsi - anche il signor Otis. Egli nutriva personalmente molta simpatia per il giovane Duca di Cheshire, ma teoricamente avversava i titoli nobiliari e, per usare le sue stesse parole, temeva che «potessero esser trascurati i veri princìpi innati alla semplicità repubblicana, sotto la snervante influenza di una aristocrazia tutta dedita ai piaceri». Una dopo l'altra, le sue obiezioni erano tuttavia destinate a cadere e credo che, quando si trovò ad avanzare verso l'altare della chiesa di San Giorgio, in Hanover Square, dando il braccio a sua figlia,
non esistesse in tutta l'Inghilterra un uomo più soddisfatto di lui. Trascorsa la luna di miele, il Duca e la Duchessa fecero ritorno al castello di Canterville e il giorno dopo l'arrivo, verso sera, visitarono il solitario cimitero vicino alla pineta. C'era stato dapprima molto imbarazzo per la scelta dell'epigrafe da scolpire sul sepolcro di Sir Simon, ma si era deciso alla fine di farvi incidere le iniziali del nome del vecchio gentiluomo ed i versi scritti sulla finestra della biblioteca. La Duchessa aveva portato con sé un fascio di bellissime rose e con esse coprì la tomba: dopo essersi fermati lì accanto per un po', si incamminarono verso la cadente cancellata della vecchia abbazia. Virginia si era seduta su una colonna abbattuta, mentre il marito, sdraiato ai suoi piedi, fumava una sigaretta fissandola negli occhi bellissimi. D'un tratto gettò la sigaretta e le prese una mano esclamando: «Virginia, la moglie non deve avere segreti per il proprio marito». «Ma caro Cecil, io non ho segreti per te.» «Veramente sì», rispose lui sorridendo. «Non mi hai mai detto cosa ti è accaduto mentre eri rinchiusa insieme al fantasma.» Virginia si fece seria: «Non l'ho mai rivelato a nessuno». «Lo so. Ma a me puoi dirlo.» «Ti prego di non domandarmelo. Non posso dirtelo! Povero Sir Simon! Gli debbo moltissimo. Davvero, Cecil! Ti prego di non ridere. Mi ha fatto capire cosa sono la vita e la morte e perché l'amore è più forte d'entrambe.» Il Duca si alzò in piedi e baciò la moglie appassionatamente. «Puoi tener per te il segreto fino a quando il tuo cuore mi apparterrà», le sussurrò. «È sempre stato tuo, Cecil.» «Ma un giorno lo svelerai ai nostri figli, non è vero?» Virginia arrossì. 1
Il sottotitolo del racconto («A Hylo-Idealistic Romance») si riferisce alle teorie filosofiche sulla inseparabilità della materia e del principio della vita (hylo-zoismo) (N.d.T.). 2 In italiano nel testo (N.d.T.). SABINE BARING GOULD Sui tetti
Essendomi assicurato una rendita in Australia, e mosso da un insopprimibile desiderio di trascorrere i giorni che mi restavano in una tranquilla vita agreste nella mia terra, tornato in Inghilterra mi recai da un agente immobiliare con l'intenzione di affittare una casa con un pezzo di terreno per andare a caccia, almeno tremila acri, con l'intesa che avrei potuto acquistarla se l'avessi trovata di mio gradimento. Non intendevo infatti acquistare una villa di campagna a occhi chiusi, senza averla prima sperimentata, più di quanto un sovrano sia disposto a imbarcarsi in una guerra senza avere almeno un'idea dell'esercito con cui dovrà scontrarsi. Ero piuttosto attirato dalle fotografie di una dimora chiamata Fernwood che mi affascinò anche di più vedendola in una bella giornata d'ottobre, quando l'Estate di san Martino spandeva sulla campagna un arcobaleno di colori sotto un sole tiepido e una tenue, vaporosa foschia azzurrina tingeva le ombre di cobalto e conferiva alle colline una tale maestosità da farle sembrare montagne. Fernwood era un'antica costruzione a forma di H e quindi probabilmente risalente agli inizi della dinastia Tudor. Il portico dava nell'atrio, sulla sinistra della barretta trasversale della H: sulla destra c'era il salotto. La casa aveva un'unica pecca: due scalinate partivano dalle estremità della barretta trasversale e al piano superiore non c'era alcuna via di comunicazione fra le due ali dell'edificio. Ma il mio senso pratico mi suggerì come ovviare all'inconveniente. L'ingresso anteriore era rivolto a sud e l'atrio non aveva finestre a nord. Nulla di più facile che creare un corridoio lungo il retro, che congiungesse il piano inferiore a quello superiore senza bisogno di passare attraverso l'atrio. L'intero lavoro sarebbe venuto a costare al massimo duecento sterline e non avrebbe arrecato alcun danno estetico all'edificio. Concordai di prendere in affitto Fernwood per un anno, durante il quale avrei potuto rendermi conto se il posto mi si adattava, se i vicini erano persone simpatiche, e se il clima si confaceva a mia moglie. Ci recammo subito a Fernwood e, per la prima settimana di novembre, ci eravamo già comodamente sistemati. La casa era ammobiliata: apparteneva a un anziano signore, scapolo, un certo Framett, che viveva in un appartamento in città e trascorreva quasi tutto il suo tempo al Circolo. Correva voce che fosse stato piantato in asso dalla promessa sposa e che, da allora, avesse accuratamente evitato ogni compagnia femminile, rimanendo scapolo. Andai a trovarlo, prima che ci stabilissimo a Fernwood; era un tipo un po' blasé, apatico, distaccato, per nulla fiero di possedere una sontuosa di-
mora che apparteneva alla sua famiglia da quattro secoli; era dispostissimo a venderla per far dispetto a un cugino che contava di entrarne in possesso alla sua morte e che il signor Framett, con la malignità a volte tipica delle persone anziane, era particolarmente desideroso di lasciare a bocca asciutta. «Immagino che la casa sia stata già affittata in precedenza», gli dissi. «Oh, sì», rispose in tono indifferente, «credo di sì, molte volte.» «Per lunghi periodi?» «Noooo... no, non credo.» «C'era qualche particolare motivo per cui gli inquilini non vi rimanevano - se posso osare chiederlo?» «Tutti hanno dei motivi, ma, ammesso che ve li espongono non è detto che si debbano prendere per buoni.» Non riuscii a cavargli di bocca altro che questo. «Se fossi in lei, credo che non andrei a Fernwood fino a dopo novembre.» «Ma», obiettai, «non voglio perdermi la caccia.» «Ah, certo... già, la caccia! Avrei preferito che aveste aspettato fino ai primi di dicembre.» «Questo scombinerebbe i miei piani», risposi, e la cosa finì lì. Ci insediammo nella casa occupandone l'ala destra. L'ala sinistra, quella a ovest, era scarsamente ammobiliata e aveva un'aria squallida e deprimente, come se raramente fosse stata abitata. La nostra non era una famiglia numerosa, solo mia moglie e io; quindi nell'ala est avevamo tutto lo spazio necessario. La servitù venne alloggiata sopra la cucina, in una parte della casa che non ho ancora descritto. Era una mezza ala, per così dire, sul lato nord, parallela al tratto superiore del lato occidentale dell'atrio e della H. Questa parte aveva un timpano a nord, come le due ali dalle quali lo separava un ampio compluvio di lamine di piombo che, come mi informò l'agente immobiliare, bisognava controllare dopo la caduta delle foglie e ripulire dopo una nevicata. Il compluvio si poteva raggiungere dall'interno attraverso una finestrella ad abbaino sul tetto. Una scala a pioli consentiva di salire dal corridoio fino alla finestrella per aprirla o chiuderla. A questo corridoio, che portava agli alloggi della servitù nella parte nuova e alle stanze vuote nell'ala vecchia, si accedeva mediante la scalinata a ovest. Dato che alle due estremità non c'erano finestre, il corridoio, che si estendeva verso nord e verso sud, riceveva la luce dall'abbaino di cui ho parlato. Una sera, dopo circa una settimana che abitavamo nella casa, me ne sta-
vo seduto a fumare, con un po' di whisky e acqua a portata di mano, leggendo la recensione di un libro assurdo, e scritto malissimo, sul New South Wales, quando sentii bussare alla porta ed entrò la cameriera che in tono agitato mi disse: «Chiedo scusa, signore, ma né la cuoca né io, né nessuna di noi ha il coraggio di andare a dormire». «Perché mai?», chiesi, alzando gli occhi sorpreso. «Scusi, signore, non abbiamo il coraggio di entrare nel corridoio per andare nelle nostre camere.» «Cosa c'è che non va, nel corridoio?» «Oh, niente, signore, nel corridoio. Le dispiacerebbe, signore, di venire a dare un'occhiata? Non riusciamo a capire.» Misi giù la recensione, con un borbottio seccato, posai la pipa e seguii la ragazza. Mi condusse attraverso l'atrio, su per la scalinata all'estremità ovest. Arrivati che fummo sul pianerottolo del piano superiore, trovai tutte le domestiche raggruppate e tutte palesemente terrorizzate. «Cos'è questa sciocchezza?», chiesi. «Prego, signore, vuol guardare lei? Noi non lo sappiamo.» La cameriera indicò una chiazza oblunga di chiarore lunare sul muro del corridoio. La notte era limpida e la luna piena brillava obliquamente attraverso l'abbaino, dipingendo una brillante striscia argentea sul muro opposto. La finestra stava sul lato est del tetto e quindi la luna non era visibile, mentre lo era la sua luce proiettata sulla parete. Questa chiazza di luce riflessa si trovava a poco più di due metri dal pavimento. La finestra era a un'altezza di circa tre metri e mezzo e il corridoio era largo non più di un metro e venti. Mi addentro in questi particolari per motivi che saranno evidenti quanto prima. La finestra era divisa in tre parti da montanti di legno e ciascuna parte era composta da quattro pannelli di vetro. Ora potevo scorgere distintamente il riflesso della luna attraverso la finestra, con le sbarre scure in alto e in basso e la divisione dei pannelli. Ma c'era dell'altro: attraverso parte della finestra scorsi l'ombra di un braccio scarno, una mano, dita lunghe e sottili che sembravano cercare a tentoni il nottolino che permetteva di aprire il battente. La mia prima impressione fu che sul compluvio ci fosse un ladro che cercava di introdursi in casa attraverso l'abbaino. Senza un attimo di esitazione mi precipitai nel corridoio e guardai in su, verso la finestra che però potevo scorgere solo in parte in quanto era di
forma bassa e larga e, come ho già detto, situata molto in alto. Ma in quell'attimo qualcosa la attraversò svolazzando, qualcosa di simile a un ondeggiare di tessuto, che oscurò la luce. Avevo sistemato la scala che avevo trovato agganciata alla sommità del muro e avevo messo piede sul primo gradino, quando arrivò mia moglie. Già allarmata dalla cameriera, ora si aggrappò a me dichiarando che non dovevo salire senza la mia pistola. Per farla contenta presi la Colt, che tenevo sempre carica, e solo allora, sia pure a malincuore, mi lasciò salire. Mi inerpicai fino al telaio della finestra, sganciai il nottolino e mi affacciai. Fuori non si vedeva nulla. La scala era troppo corta e si faceva fatica a issarsi e uscire attraverso la finestra sul compluvio. Sono piuttosto corpulento e non più così agile come lo ero da giovane. Dopo un paio di tentativi che, in qualsiasi altro momento, avrebbero provocato l'ilarità, visti dal basso, riuscii a uscire sulle lamine di piombo. Guardai su e giù per il compluvio; non c'era assolutamente nulla da vedere salvo un mucchio di foglie autunnali trasportate lì dal vento. La situazione era quanto mai sconcertante. Per quel che potevo vedere, non c'era modo di scendere dal tetto, e nessun'altra finestra dava sul compluvio, sul quale però non mi avventurai; era notte, e la luce lunare fa brutti scherzi. Inoltre, non conoscevo affatto la disposizione del tetto e non avevo nessuna voglia di rischiare una caduta. Mi calai dalla finestra, cercando a tastoni col piede il gradino più alto della scala in modo ancor più grottesco della mia ascesa attraverso l'abbaino, ma né mia moglie - solitamente sempre pronta a cogliere un qualsiasi lato comico del mio aspetto - né le domestiche erano nello stato d'animo adatto a far dello spirito. Chiusi la finestra dietro di me, ma non ero nemmeno arrivato al fondo della scala, quando un'ombra attraversò di nuovo, vacillando, la chiazza di luce lunare. Ero davvero molto perplesso e rimasi lì a riflettere. Poi mi ricordai che, subito dietro la casa, il terreno saliva: infatti, in realtà, la casa sorgeva ai piedi di una collina piuttosto alta. Risalendo il pendio, sarebbe stato possibile raggiungere il livello della grondaia e perlustrare con gli occhi il tetto da una parte all'altra. Ne accennai a mia moglie e subito le domestiche, una dietro l'altra, ci seguirono tutte giù per le scale, timorose di rimanere nel corridoio e curiose di vedere se davvero c'era qualcuno sul tetto. Uscimmo sul retro della casa e risalimmo il pendio fino a trovarci al li-
vello dell'ampia grondaia fra i timpani. Mi resi conto allora che la grondaia non girava tutto intorno ma si arrestava contro il tetto dell'atrio; quindi, a meno che ci fosse qualche apertura a me sconosciuta, la persona sul tetto non poteva allontanarsi se non attraverso la finestra dell'abbaino, una volta aperta, o lasciandosi scivolare giù per il pluviale. Mi venne subito in mente che, se quella che avevo visto era l'ombra di un ladro, questi avrebbe potuto salire arrampicandosi sul pluviale. Ma in quel caso, come aveva fatto a sparire nel nulla nel momento in cui avevo sporto il capo dalla finestra? E come mai avevo visto l'ombra fluttuare attraverso la chiazza di luce appena sceso dalla scala? L'unica spiegazione plausibile era che l'uomo si fosse nascosto nell'ombra del tetto dell'atrio e avesse approfittato dell'attimo in cui mi ero ritirato per passare di corsa davanti alla finestra, raggiungere il pluviale e scivolare giù. Ma non avevo visto nessuno scappare, come invece avrei dovuto uscendo quasi subito dopo la sua presunta discesa. Tutta la faccenda si fece ancora più sconcertante quando, guardando verso il tetto, scorsi nel chiarore lunare qualcosa, avvolto in indumenti svolazzanti, che correva su e giù per il compluvio. Non c'era da sbagliarsi: il qualcosa era una donna e gli indumenti, puri e semplici stracci. Non si sentiva alcun suono. Girai lo sguardo su mia moglie e sulle domestiche: vedevano quella strana e misteriosa cosa con la stessa chiarezza con cui la vedevo io. Più che una forma umana sembrava un gigantesco pipistrello, eppure non c'era dubbio che fosse una donna, che ogni tanto agitava le braccia sopra la testa con gesti scomposti; a un certo punto si voltò di profilo e vedemmo, o credemmo di vedere, una lunga chioma sciolta e svolazzante. «Devo tornare alla scala», dissi. «Voi aspettate qui e non perdetela di vista.» «Oh, Edward, non andare da solo», mi implorò mia moglie. «Mia cara, chi dovrebbe venire con me?» Mi avviai. Avevo lasciato aperta la porta sul retro e, salendo per la scalinata, raggiunsi il corridoio. Vidi di nuovo l'ombra che fluttuava attraverso la chiazza di luce sulla parete, di fronte alla finestra. Salii la scala e aprii l'abbaino. Fu allora che la pendola dell'atrio suonò l'una. Mi issai faticosamente sul davanzale e stavo cercando di incunearmi attraverso la finestra, quando udii dei passi sulla scalinata e subito dopo la voce di mia moglie, dal basso, ai piedi della scaletta. «Edward! Edward! Ti
prego, non tornare là fuori. È svanita. All'improvviso. Adesso non si vede più niente.» Mi tirai indietro, esplorai cautamente la scaletta col piede, richiusi la finestra e scesi, forse non con molta eleganza. Poi andai dabbasso con mia moglie e con lei risalii il pendio fino al punto dove erano raggruppate le domestiche. Non avevano visto altro e, sebbene rimanessi lì in osservazione per una mezz'ora, neanche io vidi nulla. Le cameriere erano troppo spaventate per coricarsi e decisero quindi di rimanere alzate in cucina per il resto della notte, accanto a un bel fuoco; diedi loro una bottiglia di sherry da riscaldare per riaversi e rincuorarsi. Andai a letto ma non riuscii a prendere sonno. Ero profondamente sconcertato per quanto avevo visto. Non riuscivo in alcun modo a spiegarmi cosa fosse quella «cosa» e come fosse scomparsa dal tetto. Il giorno seguente mandai a chiamare il muratore del villaggio e gli chiesi di fissare una lunga scala contro il bocchettone del pluviale e di esaminare il compluvio tra i timpani. Al tempo stesso, sarei salito fino alla finestrella per dare un'occhiata da quella parte. L'uomo dovette mandare a prendere una scala sufficientemente lunga, il che richiese un certo tempo. Comunque, alla fine, la collocò in posizione e salì. Quando fu vicino all'abbaino, «Mi dia una mano», gli dissi, «e mi tiri su; vorrei assicurarmi con i miei occhi che non esiste altro sistema per salire sul tetto o discenderne». Mi afferrò sotto le braccia e mi tirò fuori, e rimasi in piedi con lui sull'ampia grondaia. «Non c'è nessun'altra apertura», mi disse, «e, che Dio la protegga, signore, credo che quello che avete visto sia solo questo», e indicò il ramo di un maestoso cedro che si ergeva proprio accanto al lato ovest della casa. «Scommetto», riprese, «che quello che avete visto, signore, è questo ramo, trasportato qui da un temporale e che ieri sera il vento agitava su e giù sul tetto.» «Ma c'era vento ieri sera?», chiesi. «Non mi sembra di ricordarmene.» «Non saprei, signore», rispose. «Prima di mezzanotte già dormivo sodo: avrebbe potuto soffiare a raffiche che non l'avrei sentito.» «Pensavo che ci fosse stato vento e che io fossi troppo sorpreso e le donne troppo spaventate per rendersene conto», risposi ridendo. «E così, il mio straordinario fantasma ha una spiegazione molto prosaica e naturale. Senta, butti giù il ramo e questa sera lo bruceremo.» Il ramo finì oltre il bordo del tetto, cadendo dietro l'edificio. Abbandonai
il tetto, scesi e, uscendo, raccolsi il ramo, lo portai in casa, convocai le domestiche e dissi in tono ironico: «Ecco un esempio di come delle donne suggestionabili si lascino spaventare. Adesso bruceremo il ramo o il fantasma che abbiamo scorto. Come vedete, non era che questo ramo che il vento faceva rotolare su e giù sul tetto». «Ma Edward», osservò mia moglie, «non c'era un alito di vento.» «Dev'esserci stato. Solo che eravamo al riparo e non ce ne siamo accorti; là in alto però soffiava sui tetti, ha formato un mulinello che ha preso il ramo, l'ha sollevato e, facendolo girare, l'ha trascinato prima da una parte poi dall'altra. In altre parole, fra i due tetti il vento ha creato un vortice. Spero che ora siate tutte persuase. Io lo sono.» Così il ramo venne bruciato e le nostre paure - quelle delle donne, voglio dire - si acquietarono. La sera, dopo cena, me ne stavo seduto con mia moglie, quando mi disse: «Bastava mezza bottiglia, Edward. Anzi, secondo me, sarebbe stata anche troppo; non dovresti incoraggiare le ragazze ad apprezzare lo sherry, potrebbe portare a brutti risultati. Se fosse stato vino di sambuco, sarebbe stata un'altra cosa». «Ma in casa non abbiamo vino di sambuco», obiettai. «Beh, spero che non succedano guai, ma non mi fido affatto...» «Scusi, signore, è di nuovo lì.» La cameriera stava sulla soglia col viso sbiancato. «Sciocchezze», risposi. «L'abbiamo bruciato.» «Ecco i risultati dello sherry», commentò mia moglie. «Adesso vedranno fantasmi tutte le sere.» «Ma, mia cara, l'hai visto anche tu, come me!» Mi alzai e mia moglie mi seguì. Andammo come il giorno prima sul pianerottolo e infatti, contro la chiazza di luce che la luna proiettava attraverso la finestra sul tetto, ecco di nuovo quel braccio e le ombre fluttuanti, simili a un riflesso di indumenti. «Non era il ramo», disse mia moglie. «Se questo l'avessimo visto subito dopo lo sherry non mi sarei meravigliata ma, stando così le cose, è davvero inspiegabile!» «Farò chiudere questa parte della casa», dichiarai. Ordinai alle domestiche di trascorrere un'altra notte in cucina, «E tenetevi su col tè», dissi, perché sapevo che mia moglie non mi avrebbe permesso di dare loro un'altra bottiglia di sherry. «Domani vi trasferirete a dormire nell'ala est.»
«Chiedo scusa», interloquì la cuoca, «ma parlo a nome di tutte. Riteniamo di non poter restare in questa casa: dobbiamo licenziarci.» «Ed ecco i risultati del tè», sussurrai a mia moglie. «Allora», continuai rivolto alla cuoca, «visto che avete avuto un altro spavento, per questa sera vi concederò una bottiglia di Porto caldo.» «Signore», rispose la cuoca, «se lei riuscirà a liberarsi del fantasma, noi non lasciaremo un padrone così cortese. Ritiriamo le dimissioni.» Il giorno seguente feci trasferire tutto ciò che apparteneva alle domestiche nell'ala est, dove sistemai le loro camere da letto. Dal momento che il settore della casa loro assegnato era totalmente isolato dall'ala ovest, le domestiche si tranquillizzarono. Nella settimana successiva si scatenò un violento temporale, prima avvisaglia dei disagi dell'inverno. In quell'occasione scoprii che, fosse colpa del ramo di cedro o degli scarponi chiodati del muratore non saprei dirlo, comunque la conversa del compluvio fra i due timpani si era spaccata e l'acqua entrava scendendo in rivoli lungo le pareti e minacciando di danneggiare seriamente i soffitti. Dovetti chiamare un idraulico appena il tempo si fu un po' rimesso. Contemporaneamente mi recai in città dal signor Framett. Avevo deciso che Fernwood non andava bene per me e, secondo i termini del contratto, potevo disdire l'accordo entro il primo del mese, nel qual caso la durata della mia locazione si sarebbe limitata a sei mesi. Trovai il gentiluomo al suo Circolo. «Ah», commentò, «le avevo detto di non andarci in novembre. A nessuno piace Fernwood in novembre; in qualsiasi altro periodo, va bene.» «Cosa intende dire?» «Non c'è nessun inconveniente, salvo che a novembre.» «E perché ci debbono essere degli inconvenienti, come lei li chiama, proprio allora?» Il signor Framett si strinse nelle spalle. «Come diamine vuole che lo sappia? Non sono mai stato uno spirito, né niente del genere. Forse potrebbe dirglielo Madame Blavatsky. Io no di certo. Ma è così.» «Cosa è così?» «Insomma, in altri periodi non c'è nessuna apparizione. Solo a novembre, quando incappò in una piccola disgrazia. È allora che la si vede.» «Si vede chi?» «Mia zia Elisa... voglio dire, la mia prozia.» «Sta parlando per enigmi.»
«Non ne so molto e me ne importa ancora meno», dichiarò il signor Framett ordinando una limonata. «Si tratta di questo: avevo una prozia che era pazza. La famiglia non ne parlò con nessuno e non la rinchiuse in un manicomio, ma la relegò in una camera nell'ala ovest. Vede, quella zona della casa è in parte isolata dal resto. Credo che la trattassero in modo piuttosto meschino, ma era difficile combatterci, e si stracciava le vesti a brandelli. Non si sa come, aveva trovato il modo di uscire sul tetto, dove si metteva a correre avanti e indietro. La lasciarono fare; se non altro, così prendeva una boccata d'aria. Ma una sera di novembre si arrampicò in alto e, credo, precipitò di sotto. La cosa fu messa a tacere. Mi spiace che lei ci sia andato a novembre. Mi sarebbe piaciuto che acquistasse la casa. Io non vedo l'ora di levarmela di torno.» Acquistai Fernwood. E a decidermi fu questo: aggiustando le lamiere, gli operai, con la capacità di far danni di cui a volte danno prova, riuscirono a dar fuoco al tetto e, di conseguenza, l'ala ovest fu ridotta in cenere. Per fortuna, un muro la separava così totalmente dal resto della casa che l'incendio non si propagò. L'ala non fu ricostruita e io, ritenendo che una volta sparita quella parte del tetto mi sarei liberato del fantasma che l'infestava, acquistai Fernwood. Sono lieto di dire che da allora nulla più ci ha disturbato. ELIZABETH CROWE Intorno al fuoco «Ho viaggiato moltissimo», raccontò l'oratore successivo, il Cavaliere di La C.G., «e sicuramente non sono mai stato in un paese dove le apparizioni di spiriti non fossero avallate da qualche persona autorevole, degna di fiducia. Ho ascoltato numerose storie di questo genere, ma quella che adesso vorrei esporvi mi fu raccontata non molto tempo fa a Parigi dal Conte P., il nipote del famoso Conte P., il cui nome fu coinvolto nella storia dei sorprendenti incidenti connessi con la morte dell'Imperatore Paolo. Il Conte P., garante della veridicità della storia che sto per narrarvi, era addetto all'Ambasciata Russa e una sera, poiché la conversazione verteva sugli inconvenienti che si incontrano nel viaggiare nell'Europa Orientale, mi raccontò che una volta, in Polonia, si trovò su una strada che attraversava la foresta, in una sera d'autunno, verso le sette, senza possibilità di trovare un rifugio nel raggio di molte miglia. C'era una tempesta spaventosa; la strada, che non era confortevole
nemmeno in condizioni di tempo buono, era impraticabile per l'uragano, e i cavalli erano completamente sfiniti. Si consultò con il suo seguito per concordare la soluzione migliore in quel frangente, ma gli assicurarono che in quelle condizioni era impossibile sia tornare indietro che proseguire ma che, se si fossero allontanati un poco dalla strada principale, avrebbero potuto raggiungere un castello dove trovare rifugio per la notte. Il Conte acconsentì volentieri a questa proposta e, poco dopo, si trovarono davanti al cancello di quello che appariva come un edificio di imponenti dimensioni. La guida scese e suonò un campanello e, mentre aspettavano di essere ricevuti, il Conte chiese a chi appartenesse il castello e gli fu risposto che era del Conte X. Passò qualche tempo prima che arrivasse una risposta, ma finalmente apparve al portoncino un vecchio con una lanterna, e fece capolino. Scorgendo l'equipaggio, uscì fuori e si fermò davanti alla carrozza, tenendo la lampada in alto per vedere chi c'era all'interno. Il Conte P. gli porse i suoi documenti e gli spiegò la difficoltà in cui si trovava. "Non c'è nessuno in casa, signore", spiegò l'uomo, "al di fuori di me e della mia famiglia; il castello non è abitato." "Questa è una cattiva notizia", dovette ammettere il Conte, "ma forse voi siete in grado di offrirmi ciò di cui ho più bisogno e cioè... un riparo per la notte." "Volentieri", rispose l'uomo, "se Vossignoria si accontenterà della sistemazione che riusciremo a preparare in fretta." "Così", continuò il Conte, "scesi dalla carrozza ed entrai, mentre il vecchio apriva il grande cancello per fare passare le carrozze e il mio seguito. Ci trovammo in un immenso cortile, con il castello en face, e stalle e costruzioni sugli altri lati. Dato che eravamo forniti di un fourgon con il foraggio per il bestiame e le provviste per noi, avevamo bisogno solo di un letto e di un buon fuoco; il vecchio guardiano ci condusse subito nel suo alloggio, dove si trovava l'unico fuoco acceso. L'alloggio era composto da una serie di piccole stanze nell'ala sinistra, che probabilmente in precedenza erano state usate dalla servitù di grado più elevato. Erano ammobiliate con cura e sembrava che l'uomo e la sua famiglia fossero sistemati con ogni comodità. Oltre alla moglie c'erano tre figli, con le spose e i bambini, e due nipoti; mi fu spiegato che nell'altra parte dell'edificio, dove avevo intravisto una luce, alloggiavano due manovali e delle donne di fatica e che, dato che la
tenuta era molto estesa, con una grande foresta, i figli del guardiano svolgevano anche la funzione di gardes chasse. 'C'è molta selvaggina nella foresta?', domandai. 'Una grande quantità di tutti i tipi', risposero. 'Allora devo supporre che, durante la stagione, la famiglia risieda al castello?' 'Mai', fu la risposta. 'Nessun membro della famiglia ha mai abitato qui.' 'Davvero?', mi meravigliai. 'Per quale motivo? Sembra un posto molto piacevole.' 'Bellissimo!', confermò la moglie del guardiano. 'Ma il castello è stregato.' Pronunciò quelle parole con un tono così grave che mi fece sorridere, e allora tutti mi fissarono con grande costernazione. 'Vi prego di scusarmi', mi giustificai subito, 'ma, come certamente sapete, nelle grandi città, dove sono solito abitare, non ci sono fantasmi.' 'Davvero?', esclamarono sorpresi. 'Non ci sono fantasmi!' 'Io almeno non ne ho mai sentito parlare', confermai. 'E noi non crediamo a queste storie.' Si fissarono l'un l'altro sorpresi, ma non dissero nulla e non sembravano nemmeno particolarmente ansiosi di convincermi. 'Ma voi volete dire', continuai, 'che è questa la ragione per cui i padroni del castello non vivono qui e che il castello è completamente abbandonato per questo motivo?' 'Sì', risposero, 'questa è la ragione per cui nessuno è venuto ad abitare qui da moltissimi anni.' 'Ma allora voi come riuscite a viverci?' 'Non siamo mai stati disturbati in questa parte dell'edificio', spiegò la moglie del guardiano. 'Sentiamo dei rumori, ma ormai ci siamo abituati.' 'Bene, se c'è veramente un fantasma, spero di poterlo vedere.' 'Che Dio vi salvi!', esclamò la donna facendosi il segno della croce. 'Ma staremo attenti che non succeda; Vossignoria dormirà qui vicino, dove sarà completamente al sicuro.' 'Oh', continuai, 'ma io sono assolutamente serio: se c'è uno spirito, sarei particolarmente felice di poterlo vedere, e vi sarei molto grato se voleste sistemarmi nella camera che il fantasma visita più volentieri.' Erano assolutamente contrari a questa mia proposta, e mi implorarono di non pensarci nemmeno; inoltre aggiunsero che, se mi fosse successo qualcosa, ne sarebbero stati responsabili; ma, poiché insistetti, le donne anda-
rono a richiamare i membri della famiglia che stavano accendendo i fuochi e preparando i letti in alcune stanze sullo stesso piano dove alloggiavano. Quando ritornarono, anche gli uomini si mostrarono contrari a soddisfare il mio desiderio, esattamente come lo erano state poco prima le loro mogli. Tuttavia continuai a insistere. 'Voi avete paura', chiesi, 'di recarvi nelle camere stregate?' 'No', mi risposero. 'Siamo i custodi del castello e dobbiamo tenere le stanze pulite e ben areate, altrimenti i mobili si rovinerebbero... il padrone ci ha sempre detto di spostarli, ma finora non l'abbiamo mai fatto... ma non dormiremmo in quelle camere per tutto l'oro del mondo.' 'Allora sono i piani superiori a essere stregati?' 'Sì, specialmente la stanza lunga. Nessuno ci potrebbe passare la notte; l'ultimo che l'ha fatto adesso si trova in un manicomio a Varsavia', mi spiegò il guardiano. 'Cosa gli è successo?' 'Non lo so', mi rispose l'uomo, 'non è mai stato in condizioni di poterlo raccontare.' 'Chi era?' 'Un avvocato. Il mio padrone trattava degli affari con lui, e un giorno gli ha parlato di questo posto e gli ha spiegato che era un vero peccato che non potesse radere al suolo questa costruzione e vendere il terreno; non poteva farlo perché fa parte del patrimonio di famiglia e a questo bene è legato il titolo nobiliare; ma l'avvocato gli rispose che avrebbe voluto che il castello fosse suo e che nessun fantasma sarebbe riuscito a tenerlo lontano da qui. Il mio padrone ribatté che era facile fare un'affermazione di quel genere per qualcuno che non conosceva il castello, anche se era assurdo pensare che la famiglia avesse abbandonato quel bellissimo posto senza una ragione estremamente valida. Ma l'avvocato spiegò che c'erano dei trucchi e che esistevano degli imbroglioni, o dei ladri, che potevano creare dei rumori di passi nel castello, riuscendo a mandar via la gente in modo da poterci sistemare comodamente. Allora il mio padrone gli disse che, se fosse riuscito a dimostrare quell'ipotesi, gli sarebbe stato molto riconoscente e gli avrebbe elargito una grossa somma di denaro... non so quanto. L'avvocato accettò l'offerta, e il mio padrone mi scrisse che l'avvocato sarebbe venuto a fare un giro d'ispezione nella proprietà e che dovevo lasciargli fare tutto quel che desiderava. Bene, l'avvocato venne insieme al figlio, un soldato molto giovane e distinto. Mi posero tantissime domande e visitarono tutto il castello, esami-
nandolo attentamente da cima a fondo. Dalle loro parole riuscii a capire che consideravano la storia dei fantasmi una vera sciocchezza, e che ritenevano che io e la mia famiglia fossimo complici dei ladri e degli imbroglioni. Tuttavia non mi preoccupavo per questo; il mio padrone sapeva che il castello era stato occupato dagli spiriti ancor prima della mia nascita. Preparai delle stanze su questo piano... le stesse che stavo preparando per Vossignoria, e loro avrebbero dormito qui, tenendo le chiavi dei piani superiori, in modo che non potessi interferire con le loro operazioni. Ma una mattina, molto presto, fummo svegliati da qualcuno che bussava alla nostra camera da letto e, quando aprimmo, vedemmo il signor Thaddeus è il nome del figlio dell'avvocato - in piedi sulla soglia, mezzo svestito e pallido come un fantasma. Ci disse che il padre stava molto male e ci pregò di seguirlo; con nostra sorpresa ci condusse al piano di sopra, e nella stanza stregata trovammo il povero gentiluomo incapace di parlare; pensammo che dovevano essere saliti di sopra quel mattino molto presto e che l'avvocato fosse stato colto da un colpo apoplettico. Ma le cose non erano andate in quel modo: il signor Thaddeus ci spiegò che dopo che noi tutti eravamo andati a letto, loro due erano saliti al piano di sopra per trascorrervi la notte. Sapevo benissimo che loro pensavano che non ci fosse nessun fantasma, a eccezione di qualche membro della nostra famiglia che fingeva di esserlo, e che per questa ragione non avevano voluto informarci delle loro reali intenzioni. Si erano sdraiati su dei divani, avvolti nei mantelli di pelliccia, ben decisi a restare svegli; ci riuscirono per un po' di tempo, ma poi il giovane fu sopraffatto dalla sonnolenza; cercò di resistere, ma non ci riuscì, e l'ultima cosa di cui si ricordava era il padre che lo stava scuotendo, dicendogli: Thaddeus, per amor del cielo, non addormentarti! Ma lui non ci riuscì e non ricordava più nulla di quello che era successo nella stanza, fino al momento in cui si svegliò: vide che era ormai giorno e trovò il padre in un angolo della camera, privo di parola, con l'aspetto di un cadavere; e si trovava nello stesso posto quando salimmo di sopra. Il giovane aveva pensato che si fosse sentito male o che avesse avuto un colpo, come anche noi avevamo pensato in un primo momento; ma, quando fummo informati che aveva trascorso la notte nelle camere infestate dai fantasmi, non ci restò alcun dubbio su quello che era realmente accaduto... doveva aver avuto qualche terribile visione ed era uscito di senno...' 'Forse', mi azzardai a dire, 'è impazzito per la paura quando si è accorto che il figlio si stava addormentando e che sarebbe rimasto solo. Probabil-
mente non era un uomo molto coraggioso. Ad ogni modo il vostro racconto ha fatto aumentare la mia curiosità. Vi dispiace accompagnarmi di sopra e mostrarmi le camere?' 'Volentieri', rispose l'uomo afferrando un mazzo di chiavi e una lanterna. Pregò quindi uno dei figli di seguirci con un'altra luce e ci fece strada verso l'ampia scala, fino a una serie di stanze al primo piano. Le camere erano alte e ampie e l'uomo ci spiegò che i mobili erano molto belli, ma antichi. Poiché tutto era ricoperto con teli di canapa, non potei esprimere alcun giudizio in merito. 'Qual è la stanza lunga?', chiesi. In risposta alla mia domanda, l'uomo mi condusse in una lunga stanza stretta, che avrebbe potuto piuttosto essere considerata una galleria. Lungo le pareti erano sistemati dei divani: in fondo si elevava una specie di baldacchino, e alcuni quadri di dimensioni notevoli erano appesi alle pareti. Avevo con me un bulldog, di razza eccellente, che mi era stato regalato in Inghilterra da Lord F. La cagna mi aveva seguito al primo piano... in effetti mi seguiva praticamente ovunque... e la osservai attentamente mentre annusava intorno, ma non diede segno di aver fiutato qualcosa di particolarmente interessante. Al di là di quella galleria c'era solo una piccola stanza ottagonale, con una porta che conduceva a un'altra scala. Dopo aver esaminato tutto con grande attenzione, tornai nella stanza lunga e dissi al guardiano che, se quella era la camera che il fantasma preferiva frequentare, gli sarei stato molto grato se mi avesse permesso di trascorrervi la notte. Mi assumevo io la responsabilità di affermare che il Conte X non avrebbe avuto obiezioni da fare alla mia richiesta. 'Non si tratta di questo', replicò l'uomo, 'ma piuttosto del pericolo che correrà Vossignoria.' E mi scongiurò di non insistere in un esperimento tanto pericoloso. Quando si accorse che ero assolutamente deciso a portare a termine quello che mi ero prefissato, acconsentì a malincuore, ma a una condizione ben precisa: dovevo firmare un documento in cui dichiaravo che, nonostante tutti i suoi sforzi, ero ugualmente deciso a dormire nella stanza lunga. Devo confessare che più quella gente cercava di impedirmi di dormire in quella camera, più ero incuriosito, anche se devo dire che non credevo assolutamente ai fantasmi. Pensavo che l'ipotesi dell'avvocato fosse degna di essere presa in considerazione, ma che quell'uomo non avesse avuto suffi-
ciente coraggio per continuare le indagini dopo aver visto o sentito qualcosa, e che gli altri fossero riusciti a spaventarlo fino a farlo uscire di senno. Mi rendevo perfettamente conto che quella gente aveva trovato un'ottima sistemazione per vivere e che aveva tutto l'interesse a far credere che il castello fosse inabitabile. Del resto io ho degli ottimi nervi... e li ho messi alla prova in diverse situazioni... ed ero sicuro che non sarei stato particolarmente scosso né da qualche spirito, se di questo si trattava, né da qualche imbroglio che potesse simulare la presenza di un fantasma. Inoltre, non ritenevo che esistesse per me qualche vero pericolo; quella gente sapeva benissimo chi ero e, qualsiasi danno avessi subito, avrebbe provocato delle conseguenze di cui erano ben consapevoli. Per questo accesero dei fuochi in entrambi i camini della galleria e, dato che avevano usato dell'ottima legna secca, le fiamme si levarono subito molto alte. Ero ben deciso a non lasciare la stanza dopo esserci entrato, perché altrimenti, se i miei sospetti erano giusti, avrebbero avuto il tempo di sistemare i loro trucchi; per questo chiesi che mi portassero da mangiare di sopra e cenai in camera. La mia guida mi confidò che aveva spesso sentito raccontare che il castello era stregato, ma che si permetteva di dire che secondo luì non c'era nessun fantasma, ma solo qualche imbroglio organizzato dalla famiglia del guardiano, che aveva trovato un alloggio molto confortevole; si offrì di passare la notte con me, ma io preferivo evitare ogni compagnia e mi fidavo solo di me stesso e del mio cane. Un domestico invece cercò con tutti i mezzi di dissuadermi dall'impresa, assicurandomi che in passato aveva vissuto con una famiglia, in Francia, il cui castello era abitato dai fantasmi e che per questo aveva preferito venirsene via. Quando terminai la cena erano circa le undici, e tutto era pronto per la notte. Il mio letto, anche se era stato improvvisato, era molto comodo, con grandi cuscini imbottiti e pesanti coperte, sistemato proprio davanti al camino. Il fuoco era acceso e c'era ancora molta legna da ardere; avevo la sciabola del mio reggimento e un astuccio di eccellenti pistole, che innescai e caricai in presenza del guardiano dicendo: 'Come potete ben vedere, sono assolutamente deciso a sparare al fantasma, per cui se non può evitare le pallottole è meglio che resti lontano da me'. Il vecchio scosse la testa con calma, ma non rispose nulla. La guida, che non sarebbe andata a dormire, mi chiese il permesso di poter salire subito di sopra se avesse sentito uno sparo, e io allontanai il mio seguito, chiu-
dendo a chiave la porta e barricandola anche con un pesante divano alla turca. Non c'erano arazzi o pannelli di nessun tipo, dietro ai quali potesse celarsi una porta, e io feci il giro completo della stanza, le cui pareti erano ricoperte di tappezzeria bianca e dorata, picchiando dappertutto con le nocche delle dita, ma nessun suono e nemmeno la mia cagna Dido mi segnalarono di aver trovato qualcosa di insolito. Poi mi svestii e mi sdraiai, con la sciabola e le pistole al mio fianco e Dido ai piedi del letto, dove dormiva d'abitudine. Confesso che mi sentivo in uno stato di piacevole eccitazione; la curiosità e l'amore per l'avventura vibravano dentro di me e, sia che si trattasse di un fantasma, di un ladro o di un imbroglione, avrei comunque ricevuto una visita, e chiunque mi fosse apparso, sarebbe stato ugualmente un incontro interessante. Erano le undici e mezza quando mi coricai; ero troppo eccitato per potermi addormentare e tentai di leggere una novella di uno scrittore francese, ma fui costretto a rinunciare alla lettura: non riuscivo a concentrare la mia attenzione sul libro. Inoltre, la mia principale preoccupazione era di non essere colto alla sprovvista. Non riuscivo a liberarmi dal pensiero che il guardiano e la sua famiglia conoscessero qualche passaggio segreto per entrare nella stanza, e speravo di poterli cogliere in flagrante; per questo restai sdraiato con gli occhi e le orecchie ben aperti in una posizione che mi permetteva di vedere ogni angolo della stanza, fino a quando la mia sveglia da viaggio non suonò la mezzanotte - che era generalmente l'ora preferita dai fantasmi - pensando che il momento critico fosse finalmente giunto. Ma non era così: non sentivo nessun suono, nessuna interruzione del silenzio e della solitudine della notte. Quando suonarono le dodici e mezza e poi l'una, cominciai a pensare che forse le mie aspettative non si sarebbero realizzate e che il fantasma, chiunque fosse, avesse di meglio da fare che affrontare Dido e le pallottole delle mie pistole. Ma, proprio mentre stavo arrivando a questa conclusione, mi sentii colto da un inesplicabile frisson e vidi Dido, che fino a quel momento aveva dormito tranquilla, raggomitolata su se stessa, stanca per il viaggio della giornata precedente, che cominciava a muoversi e lentamente si metteva sulle zampe. Per un attimo pensai che volesse solo girarsi, ma invece di sdraiarsi di nuovo restò in posizione eretta, con le orecchie sollevate e la testa rivolta verso il baldacchino, emettendo un ringhio cupo.
Il baldacchino, di cui vi ho già parlato, consisteva solo nel suo scheletro, dato che i drappeggi erano stati tolti. Erano rimaste solo una coperta di velluto cremisi e una poltrona, pure ricoperta di velluto, ma riparata dalla tela di canapa come il resto dei mobili. Avevo esaminato attentamente questa parte della stanza e avevo spostato la poltrona per controllare che sotto non ci fosse nulla. A ogni modo rimasi seduto sul letto a fissare con attenzione nella stessa direzione in cui guardava il cane; dapprima non vidi nulla, mentre sembrava che il cane avesse visto qualcosa, ma, continuando a fissare con insistenza, cominciai a intravedere una sorta di nuvola sul divano, mentre contemporaneamente sentivo un brivido che sembrava penetrare nei punti più reconditi delle mie ossa, avanzando lentamente dentro di me, anche se il fuoco nel camino era ancora acceso. E non era un brivido di paura: avevo infatti afferrato le pistole con perfetta padronanza delle mie reazioni, ed evitavo di dare a Dido il segnale d'attacco perché desideravo profondamente continuare a vivere quell'avventura. Gradualmente la nuvola prese forma e assunse le sembianze di un'alta figura, che occupava fino al soffitto tutta l'altezza del baldacchino, sollevato da terra solo da due gradini. 'Prendilo Dido! Prendilo!', gridai e Dido si lanciò verso i gradini, ma improvvisamente si girò e strisciò indietro, completamente terrorizzata. Ero sicurissimo del suo coraggio e devo ammettere che il suo comportamento mi stupì, e avrei certamente fatto fuoco, se non fossi stato assolutamente convinto che quella che vedevo non fosse una reale forma umana, poiché avevo visto crescere la piccola nuvola, che era inizialmente apparsa sulla sedia fino a raggiungere le dimensioni attuali e a toccare il soffitto. Tenevo la mano sul cane, che si era rannicchiato al mio fianco, e sentivo che tremava. Stavo per alzarmi e avvicinarmi alla figura, anche se devo ammettere che ero profondamente spaventato, quando il fantasma scese con aria maestosa dai gradini del baldacchino e sembrò avanzare verso di me. 'Prendilo!', ordinai. 'Prendilo Dido!' Cercai di trasmettere al cane tutto l'incoraggiamento possibile per farlo avanzare; Dido fece un miserando tentativo, ma indietreggiò a metà strada e venne ad accovacciarsi di nuovo vicino a me, uggiolando per il terrore. Il fantasma avanzava e il freddo dentro di me si tramutò in gelo, il cane stava immobile e tremante e io, mentre la figura si avvicinava, devo confessare", raccontò il Conte P., "che nascosi la testa sotto le coperte e non
mi arrischiai a guardar fuori fino al mattino dopo. Non so cosa potesse essere... quando lo spirito è passato sopra di me ho provato una sensazione di orrore indefinibile, che nessuna parola potrebbe descrivere... posso solo dire che niente sulla terra mi convincerebbe a trascorrere un'altra notte in quella stanza, e sono sicuro che, se Dido potesse parlare, esprimerebbe un'opinione del tutto simile alla mia. Avevo espresso il desiderio di essere chiamato alle sette e, quando il guardiano che accompagnava il mio cameriere mi trovò salvo e completamente presente a me stesso, manifestò sinceramente un grande sollievo; quando scesi al piano inferiore, tutta la famiglia mi guardò come se fossi un eroe. Pensai che fosse onesto ammettere con loro che qualcosa di terribile, che non riuscivo a descrivere, era successo quella notte e che non avrei consigliato a nessuno di ripetere l'esperimento a meno che non fosse eccezionalmente saldo di nervi."» Quando il Cavaliere concluse la sua storia straordinaria, suggerii che l'apparizione del fantasma al castello assomigliava molto a quella a cui aveva accennato il defunto Professor Gregory, nelle sue lettere sul mesmerismo. L'apparizione era avvenuta nella Torre di Londra alcuni anni fa e aveva suscitato molto scalpore, dato che aveva provocato la morte di una donna - la moglie di un ufficiale acquartierato alla Torre - e di una delle sentinelle. Tutti quelli che avevano letto quella pubblicazione furono colpiti dalle sorprendenti rassomiglianze dei due episodi. VIOLET PAGE La leggenda di Madame Krasinska Prima di accingermi a raccontare questa storia, è necessario che spieghi in che modo ne sia venuto a conoscenza, o meglio, come sia capitato che la scrivessi. Un giorno rimasi straordinariamente impressionato da una monaca, appartenente all'Ordine Eletto delle Piccole Sorelle dei Poveri. Mi ero recato da queste suore in compagnia del mio amico Cecco Bandini, il quale desiderava ricoverare nell'ospizio una vecchietta, ex portinaia del suo studio, e voleva che lo aiutassi a raccomandarla. Naturalmente Cecchino si rivelò perfettamente in grado di perorare la sua causa senza la mia assistenza, così, mentre lui blandiva la Madre Superiora nella cucina spaziosa e allegra, mi allontanai e chiesi che mi venisse mostrato il resto dell'edificio. A una delle sorelle fu affidato il compito di accompagnarmi, ed è proprio di que-
sta che vorrei parlare. Era una donna alta e snella; nel precedermi su per le scale strette e attraverso le sale imbiancate, notai che la sua figura era straordinariamente elegante e ricca di fascino. La rapidità quasi fanciullesca dei suoi movimenti, m'impediva di vedere chiaramente il suo volto ma, non appena riuscii a scorgerlo, ne fui profondamente turbato. Quel viso era giovane e molto bello, con una finezza nei lineamenti che è tipica delle donne americane, ma inesprimibilmente e solennemente tragico; e, sotto lo stretto copricapo di lino, si immaginava una capigliatura bianca come la neve. La tragedia, se mai c'era stata, era ormai cessata, e l'espressione della donna, allorché si rivolgeva a quelle vecchie creature mentre dissodavano la terra nel giardino, stiravano le lenzuola nella lavanderia o semplicemente si raggruppavano attorno ai bracieri nel freddo sole invernale, era patetica solo in virtù della strana tenerezza presente e della traccia di una terribile sofferenza passata. Rispondeva laconicamente alle mie domande e, a differenza delle altre donne appartenenti alla comunità ecclesiastica, che assai spesso sono molto loquaci, era taciturna. Solo quando espressi la mia ammirazione per l'istituzione grazie alla quale decine di vecchi mendicanti riuscivano ad alimentarsi con i cibi avanzati elemosinati alle case private e alle locande, posò il suo sguardo su di me, e con una serietà quasi appassionata, mi disse: «Ah, la vecchiaia! La vecchiaia! È tanto, tanto peggiore per loro, che per chiunque altro. Avete mai provato a immaginare cosa significhi essere povero, abbandonato e vecchio?». Queste parole e lo strano timbro della sua voce, quella luce che brillò nei suoi occhi, si impressero nella mia memoria. Quale non fu allora la mia sorpresa quando, ritornati in cucina, mi accorsi che lei, non appena vide Cecco Bandini, trasalì e fu costretta ad appoggiarsi alla spalliera di una sedia. Cecco, dal canto suo, fu visibilmente turbato, ma solo dopo qualche istante; fu quindi chiaro che la donna lo aveva riconosciuto prima che anche lui la identificasse. Quale storia romantica potevano mai condividere il mio eccentrico pittore e quella serena ma tragica Sorella dei Poveri? Una settimana dopo, Cecco Bandini venne da me con l'intenzione - fu ben presto evidente - di svelarmi il mistero. Dal suo imbarazzo mi resi conto che stava tentando di inventare una di quelle bugie sorprendente-
mente elaborate, a cui ricorrono occasionalmente le persone più sincere. Ma non era il caso. Cecchino voleva veramente spiegarmi il significato di quella scena muta, che la settimana prima lo aveva visto protagonista assieme alla Piccola Sorella dei Poveri. Non era venuto, comunque, per soddisfare la mia curiosità o per allontanare da me qualche sospetto, ma per portare a compimento una missione che gli stava a cuore: in tal modo avrebbe aiutato - così si espresse - una vera santa nell'adempimento della sua opera pia. Col suo buon sorriso che si apriva sotto le ciglia nere e i baffi bianchi, mi disse che, naturalmente, non pretendeva che io credessi ogni parola della storia che si accingeva a farmi scrivere. Voleva solo, com'era desiderio della donna, che io scrivessi il racconto senza alcun commento: in questo modo il cuore del lettore avrebbe giudicato la veridicità o la falsità di esso. Per questo motivo, e ancor più per raggiungere il lettore profano, piuttosto che il religioso, ho preferito trasformare la pia leggenda della Piccola Sorella dei Poveri, in una storia più terrena. 1. Cecco Bandini era appena tornato dalla Maremma, nelle cui foreste e paludi solitarie si era rifugiato durante uno dei suoi accessi di rabbia verso la stupidità e la cattiveria del mondo civile. Lì aveva trascorso molti mesi tra i bufali e i cinghiali e conversato soltanto con quei ciliegi selvatici, di cui era solito dire, in maniera del tutto stravagante, «sono delle persone così a modo...». Ne era tornato con una voglia irrefrenabile di civiltà, che lo portava a considerare tutti i suoi prodotti, umani o no, straordinari, pittoreschi e suggestivi. Si trovava in tale disposizione d'animo, quando sentì picchiare leggermente alla porta, e due signore apparvero sulla soglia dello studio, sovrastate dalla faccia rasata e dal cappello con la coccarda di un alto lacchè che stava dietro a loro. Una delle due non era nota al nostro pittore, l'altra, invece, rientrava nel numero, assai esiguo, delle conoscenze importanti di Cecchino. «Perché non siete ancora venuto a trovarmi, selvaggio?», chiese quest'ultima. Avanzò rapida e gli strinse bruscamente la mano, con uno splendore abbagliante negli occhi e nei denti, bene educata, ma audace e un po' feroce. Si lasciò cadere sul divano, annuì col capo prima alla sua compagna e poi in direzione dei quadri attorno a lei, e aggiunse: «Ho por-
tato qui la mia amica, Madame Krasinska, a vedere i vostri lavori». Cominciò allora a frugare in una cartella aperta con il suo ombrellino. La Baronessa Fosca - poiché tale era il suo nome - era una delle donne più argute e libertine del luogo, amante dell'arte e delle conversazioni crudelmente sincere. Sdraiata su quel divano logoro, avvolta nella sua pelliccia, appariva agli occhi di Cecco Bandini come una moderna Lucrezia Borgia, la pantera domata del gran mondo. «Quanto è interessante la civiltà!», pensò lui, nell'osservare ogni suo movimento con gli occhi della fantasia; «potresti trascorrere anni e anni tra la gente selvaggia della Maremma, ma non riusciresti mai a incontrare una creatura così tremenda e terribile, così pittoresca e potente!» Cecchino era talmente affascinato dalla Baronessa Fosca - che in realtà non era affatto una Lucrezia Borgia, bensì una donna irrequieta, incline ai piaceri e ad essi abituata - da aver quasi dimenticato la presenza della sua compagna. Aveva notato che era molto giovane, bella ed elegante, le aveva dedicato il migliore degli inchini e le aveva offerto la sedia meno traballante. Ma poi si era seduto di fronte alla sua Lucrezia Borgia dei tempi moderni la quale, nel frattempo, aveva acceso una sigaretta e, mentre ne soffiava via il fumo, gli annunciava che avrebbe dato un ballo in costume, il più audace, l'unico divertimento dell'anno. «Oh», esclamò Cecco, eccitato al pensiero, «lasciate che vi disegni un abito, tutto bianco e nero con un tocco di verde malvagio; sembrerete la Belladonna Atropa.» «La Belladonna Atropa! Ma i costumi dovranno essere buffi.» La Baronessa stava rispondendo sprezzantemente, quando un'esclamazione dell'altra visitatrice richiamò verso la parte opposta dello studio l'attenzione di Cecchino. «Ditemi tutto di lei: ha un nome? È veramente pazza?», chiese la giovane, che gli era stata presentata col nome di Madame Krasinska. Con una mano reggeva una cartella aperta, e nell'altra teneva sollevato uno schizzo a colori che aveva estratto da essa. «Cosa avete preso? Oh, è solo la Sora Lena!», e Madame Fosca riprese a contemplare gli anelli di fumo che stava facendo. «Parlatemi di lei; Sora Lena avete detto?», chiese con ardore la più giovane. Nonostante il nome polacco, parlava francese, ma con un grazioso, lieve, accento americano. Era incantevole, si disse Cecchino; una radiosa personificazione dello splendore giovanile e dell'eleganza. Stava lì, nella sua
lunga pelliccia argentea e, con le minuscole mani inguantate, teneva il disegno mentre spargeva intorno a sé una fragranza vaga e squisita. No, non un vero e proprio profumo - sarebbe stato troppo ordinario - ma qualcosa di personale, simile ad esso. «L'ho notata così spesso», continuò con quella sua voce argentina. «È pazza, vero? Come avete detto che si chiama? Vi prego, ditemelo ancora.» Cecchino era deliziato. «Com'è vero», rifletté, «che solo la raffinatezza, l'istruzione, il lusso, possano dare alle persone questo genere di sensibilità, di rapida intuizione! Una donna appartenente a un'altra classe non avrebbe mai scelto quel disegno, o comunque non lo avrebbe guardato senza prorompere in una stupida risata.» «Desiderate conoscere la storia della povera, vecchia Sora Lena?», chiese Cecchino e, guardando il giovane volto affascinante e appassionato di Madame Krasinska, prese dalla sua mano lo schizzo. Questo poteva sembrare una caricatura ma, chiunque avesse trascorso anche soltanto una settimana a Firenze, sei o sette anni prima, avrebbe riconosciuto immediatamente in esso un ritratto fedele. La Sora Lena - o più precisamente la Signora Maddalena - costituiva infatti una delle peculiarità cittadine meglio visibili. Con qualsiasi tempo era possibile incontrare quella vecchia grossa e pesante, col volto rossastro e lo sguardo fisso nel vuoto. Si trascinava lungo le strade o si fermava davanti ai negozi, col suo bizzarro abito di trent'anni prima, l'enorme crinolina su cui la gonna di seta e la sottana lacera pendevano fiaccamente, la gigantesca cuffia che pareva quasi uno di quei recipienti per il carbone, lo scialle, gli stivaletti di prunella, il grande manicotto o l'ombrellino. Insomma, tutto un equipaggiamento d'altri tempi, indicibilmente sporco e a brandelli. Col bello e col cattivo tempo, imperturbabile, andava per la sua strada, indifferente ai pochi sguardi sprezzanti di una Firenze ormai abituata a lei. La si incontrava con qualsiasi tempo, ma soprattutto col peggiore, quasi che lo squallore del fango e della pioggia avessero un'affinità con quel triste frammento melmoso e insudiciato di umano squallore, con quel brandello deplorevole di istupidita miseria. «Desiderate che vi parli della Sora Lena?», ripeté Cecco Bandini, pensieroso. Le due donne, quella nello schizzo e quella che gli stava davanti, creavano un contrasto stranissimo. E, nell'interesse dell'una verso l'altra, lui trovava qualcosa di commovente.
«Da quanto tempo vagabonda da queste parti? Fin da quando le strade di Firenze sono nei miei ricordi, ed è», aggiunse Cecchino con una certa tristezza nella voce, «un tempo assai più lungo di quanto io riesca a calcolare. Mi sembra quasi che sia sempre esistita, come gli olivi e le pietre delle strade e, se il Campanile di Giotto non era al suo posto prima che Giotto lo creasse, la povera vecchia Sora Lena invece... Ma no, c'è un limite anche per lei. Si racconta una leggenda che dice che un tempo fosse sana di mente e che avesse due figli i quali, partiti volontari nel '59, erano rimasti uccisi a Solferino; e, sempre secondo la storia, da allora lei si sarebbe recata ogni giorno, d'estate e d'inverno, ad aspettarli alla stazione con indosso i suoi abiti migliori. Può darsi. Secondo me non ha importanza se questa storia sia vera o falsa. Comunque è possibile», e Cecco Bandini prese a spolverare delle tele che avevano attirato l'attenzione della Baronessa Fosca. Mentre Cecchino l'aiutava a sfilarsi la pelliccia, Fosca, con un sorriso ironico sulle labbra, annuì in direzione della sua compagna. «Madame Krasinska», disse ridendo, «desidererebbe possedere uno dei vostri schizzi, ma è troppo educata per chiedervene il prezzo. Il che è tipico delle persone come noi, che ignorano totalmente cosa significhi guadagnarsi un soldo, vero, signor Cecchino?» Madame Krasinska arrossì e apparve così ancora più giovane, più delicata e affascinante. «Non sapevo se avreste acconsentito a separarvi da uno dei vostri disegni», disse con la sua voce argentina e quasi infantile, «...è... è questo... che mi sarebbe tanto piaciuto... che mi sarebbe piaciuto... comprare.» Cecchino sorrise all'imbarazzo che la parola «comprare» produceva nella sua squisita visitatrice. Povera piccola, incantevole creatura, pensò; per lei l'unica cosa che una persona poteva venderle era se stesso, il che era chiamato matrimonio. «Dovreste spiegare alla vostra amica», disse Cecchino mentre frugava in un cassetto alla ricerca di un pezzo di carta pulita, «che questa robaccia non si vende né si compra; e nemmeno è possibile che un povero diavolo di pittore la offra in dono a una signora, ma», e così dicendo porse il piccolo rotolo a Madame Krasinska, col migliore degli inchini, «è possibile che una signora gli voglia fare la grazia di accettarla.» «Vi ringrazio moltissimo», rispose Madame Krasinska facendo scivolare il disegno nel manicotto. «È così gentile da parte vostra farmi dono di uno schizzo così... così interessante», e strinse le dita brune di Cecco nella sua
piccola mano, infilata in un guanto grigio. «Povera Sora Lena!», esclamò Cecchino, quando solo un debole profumo gli rimase di quella visita; e pensò all'orribile vecchia sudicia e pazza, la cui effigie arrotolata era riposta in quel raffinato manicotto grigio. 2. Dopo una quindicina di giorni, ebbe luogo il ballo in maschera di Madame Fosca: fu un grande avvenimento. Agli invitati fu chiesto di presentarsi in un costume comico; alcuni tuttavia chiesero il permesso di indossare il loro abituale abbigliamento. E tra questi anche Cecco Bandini, il quale, tra l'altro, era convinto che il suo abito a coda di rondine del tutto fuori moda, che sfoggiava solo ai matrimoni, fosse un costume abbastanza buffo. Ciò non gli impediva affatto di divertirsi. Anzi, dato il suo carattere stravagante, c'era un certo fascino nel trovarsi in mezzo a una folla di persone sconosciute, senza essere notato, eppure confuso tra i camerieri, mentre ciondolava lungo le scale o girovagava per le stanze del palazzo. Era come se indossasse un mantello invisibile, e potesse vedere tutto senza essere visto; grazie alle sue percezioni fantasiose, gli sembrava di essere temporaneamente dotato di una facoltà simile a quella di comprendere il linguaggio degli uccelli e, potendo così ascoltare e osservare indisturbato, venne a conoscenza di innumerevoli storie d'amore tenute segrete dalle persone più importanti, ma meno privilegiate. A poco a poco, le grandi sale bianche e dorate cominciarono a riempirsi. Le dame, dapprima in splendido isolamento, mettevano vanitosamente in mostra le loro gonne, simili a code di pavone, poi gradualmente diventavano visibili solo dalla cintola in su, e sulle pareti scintillanti si distinguevano soltanto i rami delle felci e delle palme. Anziché vagare tra broccati variopinti, sete iridescenti e incredibili acconciature di piume e fiori, la folla sempre più fitta costringeva gli occhi di Cecchino a guardare in alto: era il fulgore costellato di diamanti sui colli e sulle teste che ora lo abbagliava, e lo strano, insolito splendore delle braccia e delle spalle bianche. E più la sala si riempiva, più il nostro amico Cecchino si sentiva protetto da quel manto invisibile, crescendo così la straordinaria facoltà di appropriarsi dei deliziosi segreti d'amore nascosti nei cuori altrui. Nel fruscio dei loro abiti fantastici, gli sembravano tutti dei bambini squisitamente raffina-
ti: pastori e pastorelle incipriate con diamanti che sprizzavano fuoco tra i nastri e i ciuffi; cinesi e giapponesi ornati con fiori e ramoscelli; figure antiche e medievali; esseri nascosti tra piume d'uccello o petali di fiori. Bambini, ma bambini in qualche modo già maturi, trasfigurati dal lusso e dal galateo, bambini dai modi cortesi e leziosamente gentili. Naturalmente, c'erano dei costumi che lasciavano molto a desiderare: avrebbero potuto essere ideati o realizzati meglio, o forse - per non dire di peggio - sarebbe stato meglio non farli per niente. Dopo un po', ci si annoiava a stare tra quelle persone vestite come marionette, tra bottiglie di champagne, bastoncini di ceralacca, palloncini; un giovane era vestito come una ballerina, un altro travestito da nutrice e col bimbo attaccato al seno: avrebbe potuto farne a meno. Inoltre, Cecchino non riusciva a non sussultare alla vista della giovane padrona di casa, camuffata e truccata in modo da sembrare sua nonna, una vecchia signora rispettabile il cui ritratto era appeso nella sala da pranzo: quante volte le aveva raccolto gli occhiali quando era un ragazzo. Ma questi erano dettagli di poco conto. Nel complesso il ballo era fantastico. Così Cecchino andava avanti e indietro, invisibile nel suo logoro abito nero, spinto qua e là dalla pressione educatamente contenuta della folla variopinta; piacevolmente accecato dalle luci innumerevoli, dallo scintillio dei pendagli dei lampadari e dalle fiammate di luce che lanciavano i gioielli; e infine, dolcemente assordato dal mormorio confuso di mille voci, dal fruscio delle stoffe e dei ventagli, dalla musica da ballo in lontananza. Nelle narici aveva una fragranza indistinta e, più che l'infusione di abili profumieri, sembrava l'emanazione squisita di quel fiore di personalità. Certamente, disse a se stesso, non esisteva piacere tanto delizioso quanto il vedere delle persone che si divertivano con raffinatezza: nella ricchezza, nell'eleganza e nelle buone maniere, è insita una magia trasfigurante, quasi una potenza moralizzatrice. Era immerso in queste riflessioni, lo sguardo perso tra due file di danzatori: un fiume di soffici piume ondeggiava nella corrente calda attraverso lo spazio vuoto, come un vortice nella sala da ballo. Improvvisamente, un'esplosione di voci si udì dal salone d'ingresso. I costumi multicolori svolazzarono come farfalle verso un punto della sala dove si era formato un piccolo mucchio di colori brillanti e gioielli luccicanti. I giovani colli delicati e le teste piumate si allungavano per guardare, molti si intrufolavano reggendosi sulle punte dei piedi, poi la folla si fece da parte. Si aprì così un varco e, nel mezzo del salone bianco e dorato, avanzò pe-
santemente un'orrenda figura, dal volto rossastro e assente, sprofondato in una enorme cuffia di raso opaco, la gonna di seta lilla sbiadita e sudicia sopra una crinolina fuori posto. I piedi si muovevano pesanti sugli stivaletti di prunella laceri, il manicotto cencioso in pelo di coniglio pendeva molle per la sua andatura cascante. Sotto l'enorme lampadario, all'improvviso si arrestò e, con gli occhi velati e lo sguardo stralunato, cominciò a guardare lentamente intorno a sé. Era la Sora Lena. La sala esplose in uno scroscio di applausi. 3. Cecchino Bandini non rallentò il passo finché non si trovò davanti alla porta del suo studio col sottile soprabito e il cilindro bagnati fradici, tra i riflessi dei lampioni a gas e le pozzanghere. Quello scroscio di applausi, quell'esplosione fragorosa, lo avevano inseguito lungo le scale del palazzo e attraverso le strade bagnate dalla pioggia. Poche braci ardevano nella stufa: vi buttò sopra una fascina, accese una sigaretta, e riprese a riflettere; il cilindro bagnato era ancora lì, sul suo capo. Era stato uno sciocco, un selvaggio. Si era comportato come un bambino: precipitarsi via, rispondere in quel modo ridicolo alle domande della sua ospite: «Scappo via perché la sfortuna è entrata nella vostra casa». Come aveva fatto a non intuirlo subito? Per quale altro motivo avrebbe potuto desiderare quello schizzo? Decise di dimenticare quell'episodio e credette di esservi riuscito. Ma, il giorno successivo, sul giornale della sera, notò due colonne dedicate al ballo di Madame Fosca e, in particolare, a «quella maschera» che, come il cronista scriveva, «tra tante graziose e geniali ha conquistato la palma per la sua brillante novità». Allora gettò il giornale a terra e con un calcio lo tirò in direzione della cassetta di legno. Ebbe però vergogna di sé, lo raccolse, lo stese e lo lesse tutto - sia la cronaca interna che quella estera - e anche la descrizione del ballo di Madame Fosca, e con molta attenzione. Alla fine passò ad esaminare, con ostinata decisione, la colonna dedicata ai piccoli fatti di cronaca: un ragazzo era stato morso al polpaccio da un cane che non aveva la rabbia; era stato sventato un furto in un negozio di panettiere: la lista dei mazzi di chiavi, degli ombrelli, i due portasigari erano stati raccolti dalla Polizia e consegnati all'Ufficio Municipale compe-
tente. Finché scorse le seguenti righe: «Stamattina le Guardie di Pubblica Sicurezza, chiamate dal vicinato, sono penetrate in una stanza all'ultimo piano di una casa situata nel vicolo del Beccamorto, e hanno rinvenuto il cadavere di Maddalena X.Y.Z. che pendeva da una trave. La defunta era ben nota in Firenze per il suo aspetto e le sue abitudini eccentriche». Il trafiletto era titolato in grassetto: «Suicidio di una folle». La sigaretta di Cecchino si era consumata, ma lui continuava ad aspirare. Con gli occhi della mente vedeva una figura alta e snella, avvolta nella pelliccia e nel peluche argenteo, in piedi accanto a una cartella aperta, con un disegno nella mano minuscola e un sottile braccialetto d'oro sul guanto grigio. 4. Madame Krasinska era di pessimo umore. La vecchia Chanoinesse, zia del defunto marito, se n'era accorta; gli ospiti se n'erano accorti; la cameriera se n'era accorta: e anche lei stessa se n'era accorta. Perché tra tutti gli esseri umani, Madame Krasinska - Netta, come la gente del suo mondo usava chiamarla familiarmente - era la meno incline al cattivo umore. Costantemente gaia, come forse solo gli uccelli lo sono, non aveva mai conosciuto alcun motivo di ansia o di tristezza, come inevitabilmente, anche il più proverbiale degli uccelli, doveva aver occasionalmente conosciuto. Aveva sempre posseduto denaro, salute e bellezza e, fin dalla prima infanzia - a New York, a Londra, Parigi, Roma e San Pietroburgo - la gente le aveva ripetuto che la sua unica preoccupazione doveva essere quella di divertirsi. L'anziano gentiluomo che allegramente e semplicemente aveva accettato di sposare, le aveva offerto una quantità di bonbon e di diamanti, ed era sempre stato tanto gentile con lei, soprattutto quando era morto improvvisamente di bronchite, mentre era via da casa da un mese. Aveva così lasciato la sua giovane vedova con un ricordo di lui affettuosamente indifferente, nessun genere di rimorso e una grande quantità di denaro, per non parlare dell'eccellente Chanoinesse, un'inestimabile chaperon1. Fin dal suo sereno decesso, nessuna nube aveva oscurato la vita allegra e i sentimenti di Madame Krasinska. Innumerevoli cause di infelicità angustiavano le altre donne, oppure, se non ve n'erano, le affliggeva la loro mancanza. Alcune avevano figli che le rendevano infelici, altre erano infe-
lici perché non avevano figli, e così anche per gli amanti. Ma lei non aveva mai avuto né figli né amanti, e non aveva mai provato il minimo desiderio di averne. Le altre donne soffrivano d'insonnia o di sonnolenza, ricorrevano alla morfina o se ne astenevano, con i medesimi disturbi; altre ancora erano già stanche di tutti i divertimenti. Invece, Madame Krasinska dormiva sempre beatamente, si svegliava allegramente e non era mai stanca di divertirsi. Forse proprio grazie a questo, nella sua vita non aveva mai invidiato o odiato nessuno e, allo stesso modo, apparentemente almeno, nessuno l'aveva mai invidiata o odiata. Non desiderava oscurare o superare nessuno, non voleva essere più ricca, più giovane, più bella o più adorata degli altri. Voleva solo divertirsi, e ci riusciva. Ma il giorno dopo il ballo di Madame Fosca, Madame Krasinska non si divertiva. Non era affatto stanca: non lo era mai; e poi, era rimasta a letto fino a mezzogiorno. Né si sentiva male, non le capitava mai; e nessuno aveva potuto in alcun modo irritarla. Ma le cose stavano così. Non riusciva ad essere allegra. Non sapeva spiegarne il motivo, né riusciva a capire perché fosse pervasa da un vago senso d'infelicità. Quando il primo gruppo di visitatori pomeridiani se ne fu andato, e agli altri fu detto di andar via, lasciò cadere il volume della Gyp e si avvicinò alla finestra. Pioveva: una continua e fitta pioggerella primaverile. Si vedevano passare solo poche vetture con i tetti bagnati e lucidi, un carro o qualche omnibus rumoroso, con i cavalli ansimanti, affaticati, il muso rivolto a terra. Uno o due negozi erano illuminati da una piccola luce fioca, ben poca cosa in quel grigio pomeriggio. Madame Krasinska restò a guardare qualche minuto poi, improvvisamente, si voltò, sfiorando le grandi palme e le azalee, e suonò il campanello. «Fate preparare la carrozza immediatamente», disse. Non avrebbe saputo in alcun modo spiegare quale motivo la spingesse ad uscire. Quando il servitore le chiese dove avrebbe voluto andare, perplessa, non seppe rispondere: certamente non aveva intenzione di far visita a nessuno, non doveva far compere, né le occorreva informarsi su qualcosa. Ma cosa voleva veramente? Madame Krasinska non era solita uscire con la pioggia per proprio diletto, tanto meno senza sapere neppure dove andare. Cosa voleva? Era seduta, raggomitolata nella pelliccia, e guardava fuori
le strade grigie e bagnate, mentre la carrozza correva senza meta. Voleva, sì voleva una cosa, ma non sapeva cosa fosse. E la voleva a tutti i costi. Di questo era certa. La pioggia, le strade bagnate, i crocicchi melmosi, oh, com'era brutto tutto questo! Eppure desiderava proseguire. Istintivamente, il cocchiere aveva optato per i quartieri più eleganti, procedendo per il Lungarno. La banchina del fiume era deserta, e un tiepido vento umido spazzava pigramente i basoli infangati. Madame Krasinska abbassò il vetro. Che tristezza! Dal lato opposto del fiume, volavano nel cielo grigio scintille rosse provenienti dall'alta ciminiera della fonderia; l'acqua scrosciava monotona sullo sbarramento; un lampionaio avanzava in fretta. Madame Krasinska tirò la cordicella per fermare la carrozza. «Voglio scendere», disse. Il compito lacchè la seguì sul lastricato melmoso e pieno di pozzanghere, e la carrozza veniva dietro di lui. Passeggiare sul Lungarno non rientrava affatto nelle abitudini di Madame Krasinska, e tantomeno sotto la pioggia. Dopo qualche minuto, tornò a sedersi nella carrozza e ordinò di tornare a casa. Quando fu tra le strade illuminate, tirò di nuovo la cordicella e ordinò che la carrozza procedesse a passo d'uomo. A un certo punto si rammentò di qualcosa, e disse al cocchiere di fermarsi davanti a un negozio. Era la grande farmacia. «Cosa comanda la Signora Contessa?», chiese il valletto, sollevando il cappello sopra l'orecchio. In un certo qual modo lo aveva dimenticato. «Oh», rispose, «aspetta un momento. Ora ricordo, è il negozio accanto, quello del fioraio. Di' che mi mandino delle azalee fresche domani, e fai portare via le vecchie.» Le azalee erano state cambiate proprio quella mattina, ma il compito valletto obbedì. E Madame Krasinska si fermò a guardare per qualche minuto, stretta nella sua pelliccia, il marciapiede bagnato e illuminato e la vetrina della farmacia. C'erano gli scrigni rossi a forma di cuore, i guanti da massaggio, le tovaglie da bagno, ogni cosa al suo posto. E ancora scatole di acqua di colonia, una quantità di bottiglie di tutte le dimensioni, scatole grandi e piccole, oggetti di natura e uso indescrivibili, e grossi vasi di vetro, gialli, azzurri, verdi e rosso rubino, nei quali si rifletteva lo scintillio della lampada a gas. Fissava tutto questo intensamente, e senza la minima cognizione di cosa
fossero quegli oggetti. Sapeva soltanto che i vasi di vetro brillavano in modo straordinario e che ciascuno di essi celava nel suo cuore un rubino, un topazio o uno smeraldo di dimensioni gigantesche. Il servitore tornò. «Andiamo a casa», ordinò Madame Krasinska. Mentre la cameriera l'aiutava a spogliarsi, un pensiero - il primo dopo tanto tempo - balenò nella sua mente alla vista di una sottana e di una curiosa maschera di cartone in un angolo dello spogliatoio. Stranamente non aveva incontrato la Sora Lena quella sera... Eppure andava sempre in giro per le strade illuminate a quell'ora. 5. Il mattino dopo, Madame Krasinska si risvegliò di ottimo umore. Ciononostante cominciò a soffrire, dal giorno successivo al ballo di Fosca, per una inspiegabile depressione senza precedenti. Le sue giornate cominciarono ad essere attraversate da momenti durante i quali le era impossibile sentirsi allegra e, gradualmente, questi momenti crebbero fino a diventare ore. La gente l'annoiava senza un motivo particolare e le cose che avrebbero dovuto allietarla, le davano invece un senso di infelicità, talvolta vago, talvolta meglio definito. Cosicché, nel bel mezzo di un ballo o di un pranzo, le succedeva di sentirsi improvvisamente assalita da una confusa malinconia o da un cattivo presagio, ma senza sapere quale. Una volta che le erano giunti dei vestiti da Parigi, mentre ne indossava uno, scoppiò in lacrime, poi, anziché recarsi alla festa dei Tornabuoni, si mise a letto. Naturalmente, tutti cominciarono ad accorgersi di questo cambiamento, di cui anche lei stessa, del resto, si era lamentata. Qualcuno ipotizzò che fosse affetta da un lento avvelenamento del sangue, e le suggerirono di farsi visitare al più presto. Altri le consigliarono di prendere dell'arsenico, della morfina o qualche antipiretico. Un'amica intima le procurò una scatola di sigarette particolari; un'altra le fece avere un pacco di romanzi ancor più particolari; quasi tutti avevano un medico fidato di cui vantarsi; una o due persone le consigliarono di cambiare il professore; per non parlare del tentativo di ipnotizzarla per sopprimere la sua tristezza. Nel frattempo, alle sue spalle, tutti questi amici generosi ipotizzavano che la causa della sua trasformazione fosse un amore infelice, una forte perdita di denaro in Borsa, o qualcosa di simile. E, mentre un'amica devota cercava di strapparle il nome dell'amante infedele e della rivale a causa della quale era stata tradita, un'altra l'assicurava che la sua sofferenza era
dovuta alla mancanza di affetto. Era una buona occasione per far mostra di pietismo, idealismo, realismo, scienza della psiche e teosofia esoterica. Piuttosto stranamente, Madame Krasinska non era preoccupata dallo zelo che tutti manifestavano nei suoi confronti, reazione che certamente non ci si sarebbe aspettata da qualsiasi altra donna. Lei invece provò tutte le droghe eccitanti o soporifere; e lesse qualcosa da ciascuno di quei romanzi leziosamente romantici, violenti o garbatamente sconvenienti. Si lasciò condurre da svariati medici; si alzò all'alba e stette per un'ora in piedi, su una sedia, tra la folla, per trarre qualche benefico effetto dalla predica del famoso Padre Agostino. E fu molto paziente persino con coloro che la commiseravano per la cattiveria del suo amante o per l'infelicità di non averne uno. Perché Madame Krasinska diventava sempre più indifferente a tutte quelle cose irreali: pure illusioni che non avevano alcun significato in confronto alla terribile realtà. Stava perdendo rapidamente tutta la sua capacità di essere allegra, e se occasionalmente le capitava di vivere qualche momento lieto, lo pagava poi a caro prezzo sprofondando ulteriormente nell'apatia e nella malinconia: questa era la realtà. Non era il genere di malinconia o di apatia di cui soffrivano le altre donne, le quali attribuivano al mondo esterno tutta la colpa, o parte di questa, delle loro crisi depressive. Ma, per Madame Krasinska, il mondo non era per nulla cambiato, e in esso tutto procedeva per il verso giusto. Era in lei che qualcosa non andava. Le stava accadendo, nel vero senso della parola, ciò che credeva gli altri intendessero, allorché dicevano che Tizio non era più se stesso; solo che, in fondo, a guardarlo bene, Tizio era sempre lo stesso, forse un po' peggiorato nel carattere. Lei invece... Sembrava veramente non essere più la stessa. Una volta, a un pranzo di gala, all'improvviso smise di mangiare e di conversare con un commensale, e si ritrovò a chiedersi chi fossero tutte quelle persone e perché fossero venute. Nella sua mente, di tanto in tanto, si apriva un vuoto; un vuoto in cui si delineavano immagini confuse, annebbiate, che era incapace di afferrare; sapeva soltanto che erano spaventose e che la opprimevano, come se un peso le gravasse sulla testa o sulla schiena. Qualcosa era accaduto o stava per accadere, non riusciva a ricordare cosa ma, ciononostante, scoppiava in lacrime. E se un domestico o un visitatore si presentavano a lei in uno di questi momenti, doveva, talvolta, chiedere chi fossero. Una volta un signore venne a farle visita durante una di
queste crisi; sforzandosi, fu in grado di riceverlo e di rispondergli più o meno casualmente, e tutto il tempo fu come se qualcun altro stesse parlando al posto suo. Infine il visitatore si alzò per andarsene e tutti e due rimasero in piedi, per un istante, nel mezzo del salotto. «È davvero una casa molto bella; appartiene certamente a una persona ricca. Sapete a chi appartiene?», osservò improvvisamente Madame Krasinska, guardando lentamente attorno a sé i mobili, i quadri, le statuine, i soprammobili, i paraventi e le piante. «Sapete a chi appartiene?», ripeté. «Appartiene alla donna più incantevole di Firenze», balbettò il visitatore educato, e scomparve. «Mia cara Netta», esclamò la Chanoinesse dall'angolo in cui era seduta accanto al fuoco, intenta a confezionare indumenti frivoli all'uncinetto; «non dovresti scherzare in quel modo. Quel povero giovanotto era terribilmente spaventato dalle tue sciocchezze.» Madame Krasinska appoggiò le braccia su un paravento e prese a fissare il volto della sua rispettabile parente. «Sembrate una brava donna», disse alla fine. «Siete vecchia, ma non siete povera, perciò non posso darvi della pazza. Questa è la differenza.» Cominciò allora a cantare, tamburellando il motivo sul paravento, la canzone militare del '59, «Addio, mia bella, addio». «Netta!», gridò la Chanoinesse e, uno dopo l'altro, i gomitoli le caddero sul pavimento, «Netta!» Madame Krasinska si passò una mano sulla fronte e tirò un lungo sospiro. Estrasse una sigaretta dal portasigarette smaltato, appoggiò un legnetto nel fuoco e osservò: «Volete che faccia preparare la carrozza per andare a trovare la zia Teresa al Sacro Cuore? Ho promesso a Molly Wolkonsky e a Bice Forteguerra che le avrei aspettate qui. Dobbiamo pranzare da Doney col giovane Pomfret». 6. Le passeggiate serali in carrozza di Madame Krasinska continuarono. Anzi, cominciò a passeggiare a piedi, incurante delle condizioni del tempo. La cameriera le chiese se il medico le avesse ordinato di fare del moto, e lei disse di sì. Ma perché scegliesse sempre per le sue passeggiate le grandi strade fangose e non il Lungarno o le Cascine, non lo chiese. Inoltre, Madame Krasinska non mostrava né ripugnanza né dispiacere per lo stato in cui tornava a casa e talvolta, mentre la donna le slacciava gli stivaletti
sudici e infangati, rimaneva a contemplarli e mormorava parole che Jeffries non riusciva a capire. I servitori dicevano che la Contessa doveva essere uscita di senno. Il lacchè riferiva che faceva fermare la carrozza, scendeva a guardare nei negozi illuminati, e lui doveva starle dietro per evitare che giovani rubacuori le sussurrassero villanamente all'orecchio parole di ammirazione. E una volta, raccontava con orrore, si era fermata davanti a una trattoria economica e si era messa a guardare i fasci di asparagi e le braciole crude esposte in vetrina. Poi, aveva aggiunto il lacchè, si era voltata verso di lui e aveva detto: «Hanno del buon cibo qui dentro». Allo stesso tempo, Madame Krasinska partecipava a banchetti e a feste, e ne dava lei stessa: in primavera poi, e anche oltre, organizzava il maggior numero possibile di picnic. Non si lamentava più per la sua depressione; assicurava tutti che ne era guarita completamente, e che non era mai stata tanto allegra in vita sua. Lo diceva di frequente e con un'eccitazione tale, che le persone di giudizio affermavano che ormai quell'amante doveva averla definitivamente abbandonata, o che la Borsa Valori l'aveva condotta sull'orlo del fallimento. Questo nuovo stato d'animo si manifestava in maniera così clamorosa da trasformarla in molti modi. Nonostante vivesse in un ambiente libertino, Madame Krasinska non era mai stata una donna dissoluta. C'era qualcosa d'infantile nella sua natura, che la rendeva pudica e decorosa. Non aveva mai imparato a parlare in dialetto, ad assumere atteggiamenti volgari o a raccontare storie inverosimili; e non aveva mai perso l'abitudine un po' sciocca di arrossire a certe espressioni o aneddoti riferiti da altre donne, che comunque non giudicava riprovevoli. I suoi divertimenti non erano mai stati insaporiti dal piccante aroma dell'indecenza, della curiosità o del male, come era comune nel suo ambiente. Amava indossare bei vestiti, avere un bell'arredamento, girare in carrozze ben tenute, mangiar bene, ridere molto e ballare altrettanto, ma questo era tutto. Ma ora, all'improvviso, Madame Krasinska era cambiata. Era ansiosa di provare quelle sensazioni esotiche che una donna onesta può conoscere solo imparando le abitudini di una donna per niente onesta, e frequentando i luoghi malfamati in cui questa è assidua. Organizzava delle comitive per andare a teatri e caffè concerto di infima categoria; proponeva agli spiriti più avventurosi, di andare in giro di sera, travestiti, nei quartieri più equivoci della città. Per di più, lei, che non aveva mai toccato una carta da gioco, cominciò a giocare forti somme di dena-
ro e a sorprendere la gente estraendo dalla tasca, piegato, un tappeto verde da roulette e dei rastrelli da croupier in miniatura. E cominciò a rendere pubbliche, in maniera così clamorosa le sue avventure amorose (lei che non ne aveva mai avute), a diventare poi così apertamente volgare nei modi e nei suoi commenti, che gli amici più intimi azzardarono qualche rimostranza... Ma ogni rimostranza era vana; lei scuoteva la testa, rideva cinicamente e rispondeva con una voce sfacciata e roca. Madame Krasinska sentiva che doveva vivere, vivere rumorosamente, scandalosamente, vivere la sua vita ricca e dissoluta, perché... Si svegliava di notte col terrore di quel sospetto. E, durante il giorno, si tirava i vestiti, si strappava i capelli, si precipitava allo specchio e fissava la sua immagine, stringeva convulsamente ogni orlo di seta, ogni merletto, o ciocca di capelli, tutto ciò che potesse provarle che la donna nello specchio fosse veramente lei. Perché lentamente, gradualmente, cominciava a rendersi conto che non era più se stessa. Se stessa, ma sì: era certamente lei. Non era forse lei a gettarsi in quell'orgia di piacere; non erano sue quelle guance rosse e quegli occhi lucidi, quel collo e quel seno in bella mostra che vedeva nello specchio; non appartenevano forse a lei quella voce rumorosa e beffarda e quella risata stridula? E poi la servitù, i visitatori, non la riconoscevano come Netta Krasinska? E non era forse lei a indossare quegli abiti, a ballare, a scherzare, a incoraggiare gli uomini per poi scoraggiarli? Tutto ciò, si diceva spesso durante le lunghe notti di veglia quando rimaneva a giocare e a far baldoria fino all'alba, provava inconfutabilmente che fosse veramente lei. Se lo ripeteva mentalmente quando rientrava infangata, distrutta, o quando si svegliava terrorizzata da un incubo, dopo il lungo girovagare per le strade, dopo le sue passeggiate quotidiane verso la stazione. Eppure... quegli strani, oscuri presagi, quelle paure confuse di una terribile calamità... Qualcosa che era accaduto, o che stava per accadere... La povertà, la fame, la morte... la morte di chi, la sua morte? O di qualcun altro? Quella consapevolezza che fosse tutto, tutto finito; quella raffica tagliente e accecante che in certi momenti la annientava... Sì, l'aveva provata per la prima volta alla stazione ferroviaria. Alla stazione? Ma cosa era successo alla stazione? O doveva ancora accadere? Da allora, i suoi piedi la conducevano lì quasi inconsciamente ogni giorno. Cosa significava tutto questo? Ah! Ora lo sapeva. C'era una donna,
anziana, che andava alla stazione ad aspettare... Sì, ad accogliere i soldati che tornavano dal fronte, tra le grida trionfali della gente. Ricordava le luci, le lanterne bianche, rosse e verdi, e le ghirlande che riempivano le sale d'aspetto. E una quantità di bandiere. Le bande suonavano. Così gioiosamente! Suonavano l'inno di Garibaldi e «Addio, mia bella». Quei canti la facevano sempre piangere. La stazione era zeppa di persone, e tutti i giovani con le uniformi sudicie e a brandelli si gettavano tra le braccia dei genitori, delle mogli, degli amici. Poi, ecco come una luce accecante, uno schianto... Un ufficiale condusse via gentilmente una donna, asciugandosi gli occhi. E lei, tra tutta quella gente, fu l'unica a tornare a casa da sola. Era veramente accaduto tutto questo? E a chi? Era accaduto proprio a lei, i suoi figli erano... Ma Madame Krasinska non aveva mai avuto figli... Era terribile quanto piovesse a Firenze: nel fango, le scarpe di stoffa si logoravano così in fretta... Quanto fango sulla via che portava alla stazione. Ma bisognava assolutamente andare alla stazione ad aspettare che arrivasse il treno dalla Lombardia: bisognava accogliere i ragazzi. C'era un posto dall'altro lato del fiume in cui, se appoggiavi l'orologio o una spilla sul bancone, ti davano dei soldi e un pezzo di carta. Una volta la carta andò perduta. C'era anche il materasso. Ma un uomo di buon cuore un tale che vendeva ferramenta - gliela riportò. Faceva un freddo terribile in inverno, ma la cosa peggiore era la pioggia. E, senza l'orologio, si rischiava di arrivare tardi per quel treno; poi bisognava camminare tanto tempo per quelle strade melmose. Naturalmente ci si sarebbe potuto fermare un po' in quei bei negozi. Ma i ragazzini erano così sgarbati. Oh no, no, questo no... qualsiasi cosa, ma non rinchiusa in ospedale. La povera vecchia non faceva del male a nessuno. Perché rinchiuderla? «Faites votre jeu, messieurs», gridava Madame Krasinska, ammassando le fiches col piccolo rastrello di tartaruga dal manico d'oro a forma di testa di drago. «Rieri ne va plus - vingt-trois - Rouge, impair et manque.» 7. Come aveva saputo di quella donna? Non era mai stata nella sua casa, lì, sul negozio del tabaccaio, al terzo piano, a sinistra; eppure sapeva esattamente come era la carta da parati. Era verde, con una graticciata rosea, nel soggiorno buono, quello che veniva aperto solo la domenica sera, quando
venivano gli amici e discutevano delle ultime notizie o giocavano a tressette. Ci si arrivava passando per la sala da pranzo; questa non aveva finestre e la luce arrivava da un lucernario. C'era sempre un appetitoso odore di cibo dentro. Le camere dei ragazzi erano nel retro. Nell'anticamera, vicino alle mollette per i panni, c'era una Giovanna d'Arco di gesso; era dipinta in modo da sembrare argento, e uno dei ragazzi le aveva rotto un braccio e sembrava un tubo del gas. Era stato Momino, che per gioco era saltato sulla tavola. Momino era un monellaccio, quante paia di pantaloni aveva consumato sulle ginocchia! Ma aveva un cuore! E poi, a scuola, vinceva lui tutti i premi, tutti dicevano che sarebbe diventato un ottimo ingegnere. Quei cari ragazzi! Non avevano mai chiesto un centesimo alla loro mamma da quando avevano compiuto sedici anni. E Momino con i suoi guadagni di allievo maestro, le aveva regalato un grande e bel manicotto. Eccolo! Non potete immaginare come fosse di conforto quando faceva freddo, specialmente se i guanti erano troppo costosi. Sì, era in pelo di coniglio, ma era confezionato in modo da sembrare d'ermellino: proprio bello! Assunta, la donna delle pulizie, non aveva mai voglia di pulire la cucina. Le serve sono così sciatte! È per la sua trascuratezza un chiodo puntato nel muro aveva lacerato le fodere damascate del sofà. Doveva accorgersi di quel chiodo! Ma non bisogna essere troppo severi con una povera creatura, orfana per di più. Oh, Dio! Dio! Ora giacciono nella grande trincea a San Martino, senza una croce, neanche un pezzo di legno col loro nome. Ma i cappotti bianchi degli austriaci si sono tinti di rosso, ve lo assicuro! E il nuovo colore che chiamano magenta è fatto con terra da pipa - la terra da pipa con cui si pulisce il pelo bianco dei cani - e col sangue degli austriaci. È un colore magnifico, credetemi! Signore, Signore, come sono bagnati i piedi della povera donna! E non c'è il fuoco per riscaldarli. Quando non si possono asciugare i vestiti, la miglior cosa è mettersi a letto, così si risparmia il petrolio della lampada. Era ottimo quello che mi ha regalato il parroco... Ahi, ahi, come dolgono le ossa sulle tavole, anche se c'è una coperta sopra! Quel buon materasso al banco dei pegni! È assurdo che gli italiani perdano! Hanno fatto a pezzi gli austriaci, ne hanno fatto carne da macello; e i volontari tornano domani. Temistocle e Momino - Momino sta per Gi-
rolamo, sapete - tornano domani; le loro camere sono state pulite, e troveranno un fiasco di autentico Montepulciano... Le grosse bottiglie nella vetrina del farmacista sono bellissime, specialmente quella verde. Anche il negozio in cui vendono guanti e sciarpe è molto bello; ma la Farmacia Inglese è la più bella, grazie a quelle bottiglie. Ma dicono che contengano solo robaccia e non medicina vera... Non parlatemi di San Bonifazio! Io l'ho visto. Vi tengono rinchiusi i matti e le vecchie sporche e miserabili... Sulla tavola del soggiorno migliore c'era un bel libro rilegato in rosso: l'Eneide tradotta da Caro. Era uno dei premi di Temistocle. E il cuscino in lana di Berlino... sì, il cagnolino con le ciliege che sembravano vere... «Penso che mi piacerebbe andare in Sicilia, a vedere l'Etna, Palermo e tutti gli altri luoghi», disse Madame Krasinska, affacciata al balcone accanto al Principe Mongibello, mentre fumava la quinta o sesta sigaretta. Vedeva l'odioso naso adunco, simile al becco di un falco, sopra la barba nera, e gli occhi neri, languidi e maliziosi, che guardavano il tramonto. Sapeva bene che genere d'uomo fosse Mongibello. Nessuna donna si avvicinava a lui, né gli consentiva di avvicinarsi; e lei era lì su quel balcone sola con lui, al buio, lontani dal resto della comitiva che danzava e conversava dentro. E per di più gli parlava della Sicilia, proprio a lui che era un siciliano! Ma era proprio quello che lei desiderava: uno scandalo, un terribile spavento, qualsiasi cosa che avesse potuto smorzare quei pensieri che si insinuavano dentro di lei... Il pensiero di quello strano luogo dai muri imbiancati che non aveva mai visto, con un altare nel mezzo, e file e file di letti, ognuno con la sua esposizione di bottiglie e cestini, e quelle vecchie che sbavavano e farfugliavano in maniera orribile. Oh... riusciva a sentirle! «Mi piacerebbe andare in Sicilia», disse in un tono che ormai era solita adottare, aggiungendo lentamente e con enfasi, «ma vorrei che qualcuno me ne mostrasse le bellezze...» «Contessa», e la barba nera di quell'essere si curvò su di lei, vicinissima al suo collo, «com'è strano: anch'io ho una gran voglia di rivedere la Sicilia, ma non da solo. Quelle incantevoli valli solitarie...» Ah! una di quelle creature era seduta in mezzo al letto e cantava, sì, cantava «Casta Diva»! «No, non da sola», continuò precipitosamente. Una soddisfazione furiosa, la soddisfazione di distruggere qualcosa, di distruggere la sua reputa-
zione, la sua stessa vita, la riempiva, mentre la mano dell'uomo si poggiava sul suo braccio. «Non da sola Principe! con qualcuno che mi spieghi le cose, qualcuno che conosca bene il posto, e proprio in questa primavera incantevole. Sapete, io non amo viaggiare, e ho paura... di rimanere sola...» Le ultime parole fuoriuscirono dalla sua gola rauche, spezzate e stridule; e, nel momento in cui le braccia del Principe stavano per stringerla, si precipitò selvaggiamente dentro la stanza, esclamando: «Ah, sono lei, sono lei. Sono pazza!». Perché in quella voce improvvisa, tanto diversa dalla sua, Madame Krasinska aveva riconosciuto la voce uscita dalla maschera di cartone che lei una volta aveva indossato, la voce della Sora Lena. 8. Sì, Cecchino l'aveva certamente riconosciuta. Stava passando, nel tramonto di quel maggio piovoso, tra le vecchie strade tortuose, quando meccanicamente si era messo a guardare i grossi cavalli neri attaccati ai paletti che chiudevano quel labirinto di vicoli cupi e stretti. Il servitore dall'impermeabile bianco aprì la porta, e la donna alta e snella scese e prese a camminare velocemente. Meccanicamente, distratto come sempre, seguì la signora, compiacendosi per quella nota affascinante di rosa tenue e grigio che il suo abito opponeva al nero delle case, sotto quel cielo scuro e umido, striato di rosa dalle luci del tramonto. Camminava in fretta, da sola: il lacchè e la carrozza erano fermi all'ingresso di quel cuore di Firenze vecchio e maledetto. Non si curava degli sguardi e delle parole dei ragazzi che giocavano per strada, dei venditori ambulanti che riponevano le carrette sotto le arcate nere, e delle donne affacciate alle finestre. Sì, non c'era alcun dubbio. Lo aveva scoperto all'improvviso, quando l'aveva vista passare sotto un arco doppio e in una specie di ampio cortile, simile a quello di un castello, tra le alte case minacciose del vecchio quartiere ebreo. Case piene di borchie e puntelli, un tempo residenza di nobili ghibellini, abbandonate ormai a straccioni, gente equivoca e covo di mestieri indicibili. Non appena la riconobbe, si fermò e fu sul punto di tornare indietro: a che scopo un uomo segue una signora, e ficca il naso nei suoi affari mentre lei se ne va in giro al crepuscolo, dopo aver lasciato la carrozza e il lacchè due o tre strade dietro di lei, e cammina tutta sola per strade improbabili?
E Cecchino, che in quel periodo era intenzionato a tornare in Maremma, perché era approdato alla conclusione che il mondo civile fosse qualcosa di odioso e nauseante, si mise a pensare al genere di commissioni che nei romanzi francesi effettuavano le signore che lasciavano la carrozza e il lacchè dietro l'angolo... Ma per Cecchino era un pensiero ignobile, e ingiusto nei confronti di quella donna; no, no! In quel momento si arrestò, perché lei si era fermata pochi passi davanti a lui e fissava il grigio cielo serale. C'era qualcosa di particolare nel suo sguardo; non era lo sguardo di una donna che volesse nascondere un'azione vergognosa. E, nel guardarsi intorno, doveva averlo visto ma, ciononostante, era rimasta immobile, come fosse assorta in pensieri agitati. Poi, ad un tratto, passò sotto un'altra arcata e scomparve nell'androne buio di una casa. Cecco Bandini non sapeva decidersi, come avrebbe già dovuto da parecchio, a tornare indietro. Superò l'arcata melmosa e puzzolente e si fermò davanti alla casa. Era alta, stretta e nera come l'inchiostro, col tetto dal profilo ineguale, contro l'umido cielo rosato. Dal gancio di ferro, che in altri tempi sosteneva i tappeti persiani e i broccati nei giorni di festa, sventolavano degli stracci, osceni e sinistri. Quasi tutti i vetri delle finestre erano rotti. Era evidentemente una di quelle case che il Comune aveva ordinato di demolire per motivi d'igiene, e da cui gli inquilini erano stati gradualmente sfrattati. «Questa casa la butteranno giù, vero?», chiese in tono disinteressato all'uomo che stava all'angolo, che teneva una specie di tavola calda, in cui il castagnaccio e i fagioli lessi fumavano su un braciere, dentro un bugigattolo. Posò allora gli occhi su un nome mezzo cancellato vicino ad un lampione: «Vicolo del Beccamorto». «Ah», aggiunse velocemente, «questa è la strada in cui si è suicidata la vecchia Sora Lena... e... è... è questa la casa?» Poi, cercando di trarre un'idea ragionevole da quel groviglio di assurdità che all'improvviso si affollavano nella sua mente, si frugò in tasca alla ricerca di una moneta d'argento, e disse in fretta all'uomo col braciere fumante: «Vedi, in quella casa, sono sicuro, dev'esserci gente poco raccomandabile. Quella signora ci è andata per fare un'opera di carità... ma... ma non si può mai sapere: qualcuno là dentro potrebbe importunarla. Eccoti cinquanta centesimi per l'incomodo. Guarda! Sono le sette in punto. Se fra tre quarti d'ora la signora non sarà uscita, tu vai alle colonne di pietra: ci tro-
verai la sua carrozza - i cavalli sono neri e le livree grigie - e dirai al lacchè di correre dalla padrona, hai capito?». E Cecchino Bandini scappò via, sopraffatto dal pensiero della sua indiscrezione, ma con l'immagine di quegli stracci che, ondeggiando, parevano salutarlo in maniera sinistra dalla tetra casa desolata, dal tetto irregolare, che si stagliava contro l'umido cielo crepuscolare. 9. Madame Krasinska attraversò in fretta il lungo corridoio nero dai mattoni viscidi e dal puzzo tifoideo poi, lenta ma risoluta, si avviò su per la scala buia. I gradini probabilmente risalivano all'epoca del nonno di Dante, quando l'unico ornamento delle dame fiorentine era una cintura di cuoio con la fibbia di corno. Erano straordinariamente alti, e i bordi erano stati consumati dalle innumerevoli generazioni di nobili e di poveracci che si erano alternate. La scala si attorcigliava strettamente su se stessa, ed era illuminata a rari intervalli da finestre sbarrate che affacciavano alternativamente sulla piazza scura, coi bordi irregolari dei tetti sovrastanti, e su un cupo cortile, dove c'era un pozzo fuori uso, circondato da un mucchio di piume di gallina e di stracci abbandonati. Sul primo pianerottolo c'era una porta aperta e, davanti, una fila di panni stesi che cadevano a pezzi; dall'interno si udivano voci stridule che si scambiavano improperi, e brani di canzoni di ubriachi. Madame Krasinska la oltrepassò senza badarvi, e la parte anteriore del suo abito raffinato sfiorava la sporcizia invisibile di quei gradini neri, dalla cui tenebrosità e gelo tombale si sprigionava sempre più un odore da ossario. Più su, sempre più su, rampa dopo rampa, gradino dopo gradino. Senza guardare a destra o a sinistra, senza fermarsi per prendere fiato, continuava a salire lentamente a passi regolari. Infine raggiunse l'ultimo pianerottolo, sul quale cadeva un debole raggio di sole, proveniente da una stanza la cui porta era spalancata. Madame Krasinska entrò. La stanza era completamente vuota e relativamente luminosa. Oltre a una sedia in un angolo buio e una gabbia per uccelli vuota alla finestra, non c'erano mobili. I vetri erano rotti ed erano stati riparati qua e là con pezzi di carta. Della carta annerita, a brandelli, pendeva anche dalle pareti. Madame Krasinska si avvicinò alla finestra e volse lo sguardo, oltre i tetti delle case vicine, fino al vecchio campanile buio da cui si udivano
provenire i rintocchi della campana che intonavano l'Ave Maria. Più in là, in cima ad una casa, si scorgeva una loggia con dei portici, sulla quale si distinguevano pochi vasi di terracotta in cui crescevano delle piante e uno stenditoio. La conosceva così bene! Sul davanzale della finestra c'era una bacinella incrinata e, dentro, una pianta di basilico morta, secca e grigia. Stette per un po' a guardarla, smuovendo con le dita la terra indurita. Allora si volse verso la gabbia vuota. Povero storno solitario! Quante volte doveva aver cantato per la povera vecchia! Cominciò a piangere. Dopo qualche istante si risollevò. Meccanicamente si diresse alla porta e, con molta attenzione, la chiuse. Poi andò dritta nell'angolo buio, dove stava la sedia di paglia sfondata. La trascinò nel mezzo della stanza, sotto il gancio piantato nella grossa trave. Salì sulla sedia e misurò l'altezza del soffitto. Era così basso che riusciva a sfiorarlo col palmo della mano. Si sfilò i guanti, poi si tolse la cuffia che si trovava in direzione del gancio. Si slacciò la cintura, una di quelle strette fasce russe di stoffa intessuta con fili d'argento. Ne fissò saldamente un'estremità al grosso gancio e sciolse il nastro di mussola del colletto. Era in piedi sulla sedia rotta, proprio sotto la trave. «Pater noster qui es in coelis», mormorò, come faceva ogni notte fin da quando era bambina, quando appoggiava la testa sul cuscino. La porta cigolò e si aprì lentamente. La donna grossa e pesante, col volto rossastro e assente e gli occhi velati, con il manicotto di pelo di coniglio, dondolante sulla gonna con l'enorme crinolina, entrò piano nella stanza trascinandosi a stento. Era la Sora Lena. 10. Quando l'uomo della tavola calda sotto l'arcata e il lacchè entrarono nella stanza, era buio pesto. Madame Krasinska giaceva sul pavimento, nel mezzo della stanza, accanto a una sedia rovesciata, sotto un gancio piantato in una trave, da cui pendeva la sua cintura russa. Quando rinvenne si guardò lentamente intorno, poi si alzò, si allacciò il colletto e mormorò, facendosi il segno della croce: «O Dio la Tua misericordia è infinita». Gli uomini dissero che sorrideva. Questa è la storia di Madame Krasinska, nota col nome di Madre Maria Antonietta delle Piccole Sorelle dei Poveri.
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Accompagnatrice (N.d.T.). AMBROSE GWINNETT BIERCE Casa Manton 1.
È bene sapere che la vecchia Casa Manton è infestata dagli spiriti. In tutto il distretto rurale lì intorno, e anche nella città di Marshall, a un miglio di distanza, non una persona dalla mente imparziale nutre alcun dubbio; l'incredulità è limitata a quelle persone ostinate che sarebbero state chiamate «maniaci» non appena questa parola avesse penetrato il dominio intellettuale dell'Advance di Marshall. Ci sono due tipi di prova che la casa sia infestata: la testimonianza di persone disinteressate che hanno avuto una prova tangibile, e la casa stessa. L'ultima può essere trascurata e scartata sulla base delle diverse obiezioni che possono essere fatte valere contro da parte degli ignoranti; ma i fatti concernenti l'osservazione diretta sono materiali e controllabili. In primo luogo, Casa Manton non era stata occupata da mortali per più di dieci anni e, per quanto concerne le sue parti esterne, è caduta lentamente in rovina: una circostanza che in se stessa una persona prudente difficilmente oserà ignorare. Si trova non molto lontano dal tratto più solitario della strada di Marshall e Harriston, in uno spazio che un tempo era una fattoria, ed è ancora deturpato dalle fasce di recinti marciti e semicoperti da rovi che invadono il suolo pietroso e sterile da tempo sconosciuto all'aratro. La casa stessa è in condizioni abbastanza buone, sebbene sia molto rovinata dalle intemperie e abbisogni di cure da parte del vetraio: la popolazione maschile più giovane della regione ha dichiarato con i modi tipici del suo genere la propria disapprovazione per un'abitazione senza abitanti. È a due piani, pressoché quadrata, e la facciata è forata da una singola porta affiancata su ciascun lato da una finestra chiusa da assi fino a sopra. Le finestre corrispondenti, in alto, non protette, servono a lasciar entrare luce e pioggia nelle stanze del piano superiore. Erba e malerba crescono abbastanza rigogliosamente tutto intorno, e alcuni alberi ombrosi, un po' rovinati dal vento e inclinati tutti in una direzione, sembrano fare uno sforzo comune per correre via.
In breve, come l'umorista della città di Marshall spiegava nelle colonne dell'Advance, «l'asserzione che Casa Manton sia terribilmente infestata da spiriti, è l'unica conclusione logica a queste premesse». Il fatto che in questa abitazione il signor Manton trovasse vantaggioso, durante una notte di circa dieci anni prima, tagliare la gola di sua moglie e dei due figli piccoli trasferendosi subito dopo in un'altra zona del paese, aveva avuto senza dubbio la sua parte nell'attirare la pubblica attenzione sull'appropriatezza del luogo per dei fenomeni soprannaturali. Una sera d'estate, arrivarono in questa casa quattro uomini su un carro. Tre scesero prontamente, e quello che conduceva il carro legò i cavalli all'unico paletto restante di quello che era stato il recinto. Il quarto rimase seduto nel carro. «Vieni», disse uno dei suoi compagni avvicinandosi, mentre gli altri si muovevano in direzione dell'abitazione, «questo è il luogo.» L'uomo al quale si era rivolto non si mosse. «Per Dio!», disse duramente. «Questo è un inganno, e mi sembra che voi ci siate implicato.» «Forse», disse l'altro, guardandolo dritto in viso e parlando con un tono di voce che suonava sprezzante. «Ricorderai, comunque, che la scelta del luogo era stata lasciata da parte con il tuo consenso. Naturalmente, se hai paura dei fantasmi...» «Non ho paura di nulla!», l'interruppe l'uomo con un'altra imprecazione, e saltò a terra. I due allora si unirono agli altri alla porta, che uno di loro aveva già aperto con difficoltà, a causa della ruggine nella serratura e nei cardini. Entrarono tutti. All'interno era buio, ma l'uomo che aveva aperto la porta tirò fuori una candela e dei fiammiferi, e fece luce. Poi aprirono una porta alla loro destra nel corridoio. Questa dava in una grande stanza quadrata che la candela a malapena illuminava. Il pavimento era coperto da uno spesso strato di polvere che in parte smorzava il rumore dei loro passi. Ragnatele coprivano gli angoli delle pareti e pendevano dal soffitto come strisce di merletto imputridito, muovendosi ondulatoriamente nell'aria smossa. La stanza aveva due finestre sui lati contigui, ma da nessuna delle due si poteva vedere nulla tranne la rozza superficie interna delle assi di legno a pochi centimetri dal vetro. Non c'era un camino, né mobili; non c'era nulla. Oltre le ragnatele e la polvere, i quattro uomini erano i soli oggetti nella stanza che non facevano parte della struttura. Apparivano abbastanza strani nella luce gialla della candela. L'uomo che era stato così riluttante a scendere dal carro era particolarmente spettacola-
re, si poteva dire addirittura sensazionale. Era di mezza età, di stazza forte, dal petto ampio e dalle spalle larghe. Guardando la sua figura si sarebbe potuto dire che avesse una forza da gigante; guardando la sua fisionomia, che l'avrebbe usata come un gigante. Era completamente sbarbato, e i suoi capelli erano grigi e tagliati piuttosto attentamente. La fronte bassa era segnata da rughe sopra gli occhi che, sopra il naso, diventavano verticali. Le severe sopracciglia nere seguivano la stessa regola: non si incontravano solo grazie a una svolta verso l'alto che diversamente sarebbe stato il punto di contatto. Profondamente incavati al di sotto di queste, brillavano nell'oscura luce un paio di occhi di un colore indefinibile, ma evidentemente troppo piccoli. C'era qualcosa di proibito nella loro espressione, che non era certo migliorata dalla bocca crudele e dalla larga mascella. Il naso andava abbastanza bene, come possono andare i nasi; non ci si dovrebbe aspettare molto da loro. Tutto ciò che era sinistro nel viso dell'uomo sembrava accentuato da un pallore innaturale; appariva completamente esangue. L'aspetto degli altri era abbastanza comune: erano quel tipo di persone che uno incontra e dimentica di aver incontrato. Erano tutti più giovani dell'uomo descritto; tra questo e il più vecchio degli altri, che si teneva in disparte, non correva apparentemente buon sangue. Evitavano di guardarsi l'un l'altro. «Signori», disse l'uomo che teneva in mano la candela e le chiavi, «credo che sia tutto a posto. Siete pronto, signor Rosser?» L'uomo appartato dal gruppo si inchinò e sorrise. «E voi, signor Grossmith?» L'uomo robusto si inchinò e aggrottò le ciglia. «Sareste così gentili da togliervi gli abiti?» I loro cappelli, giacche, panciotti e cravatte, furono velocemente tolti e lanciati fuori dalla porta, nel corridoio. L'uomo con la candela allora annuì, e il quarto uomo, quello che aveva costretto Grossmith a scendere dal carro, tirò fuori dalla tasca del suo cappotto due lunghi coltelli da caccia dall'aspetto crudele, che tolse dai foderi di pelle. «Sono proprio uguali», disse presentandoli a ognuno dei duellanti: poiché ormai anche l'osservatore più tardo avrebbe capito la natura di quell'incontro. Si trattava di un duello a morte. Ciascun combattente prese un coltello, lo esaminò attentamente vicino alla candela, e ne provò la resistenza della lama e dell'impugnatura sul ginocchio sollevato. Le loro persone furono perquisite a turno, ognuno dal
padrino dell'altro. «Se non avete da obiettare, signor Grossmith», disse l'uomo che teneva la candela, «prenderete posto in quest'angolo.» Indicò l'angolo della stanza più lontano dalla porta, nel quale Grossmith si ritirò, e il suo padrino si allontanò da lui con una stretta di mano che non aveva nulla di cordiale. Nell'angolo più vicino alla porta si pose Rosser e, dopo una consultazione bisbigliata, il suo padrino lo lasciò, unendosi all'altro accanto alla porta. In quel momento la candela si spense di colpo, lasciando tutti in un buio pesto. Questo fatto poteva essere stato causato da una corrente d'aria proveniente dalla porta aperta; qualunque ne fosse stata la causa, l'effetto fu allarmante. «Signori», disse una voce che suonava stranamente sconosciuta nella condizione alterata che faceva risaltare le reazioni dei sensi. «Signori, non dovete muovervi fin quando non sentite la porta esterna chiudersi.» Seguì un rumore di passi, poi quello della porta interna che si chiudeva. E infine quello della porta esterna: una scossa che fece tremare l'intero edificio. Pochi minuti dopo, un ragazzo del fattore, sorpreso dal buio, incontrò un carro leggero che procedeva a tutta velocità verso la città di Marshall. Affermò che dietro alle due figure sedute davanti ce ne era una terza con le mani sulle spalle chine degli altri che sembravano lottare invano contro la presa di quest'ultima. Quella figura, come le altre, era vestita di bianco, ed era salita senza dubbio sul carro mentre passava davanti alla casa infestata dagli spiriti. Siccome il ragazzo poteva vantare una considerevole esperienza precedente con il Soprannaturale nei dintorni, la sua parola ha il peso giustamente dovuto alla testimonianza di un esperto. La storia (in connessione con gli eventi del giorno seguente) alla fine apparve sull'Advance, con alcuni abbellimenti letterari e un avviso conclusivo ai signori ai quali si consigliava di usare le colonne del giornale per la loro versione dell'avventura di quella notte. Ma l'offerta rimase senza neppure una risposta. 2. Gli avvenimenti che avevano portato a questo «duello nel buio» erano abbastanza semplici. Una sera, tre giovani sedevano in un angolo tranquillo della veranda dell'albergo del villaggio, fumando e discutendo di quegli argomenti che tre giovani educati di un villaggio del Sud trovano natural-
mente interessanti. I loro nomi erano King, Sancher e Rosser. A poca distanza da loro, a portata d'ascolto ma senza prendere parte alla conversazione, sedeva un quarto. Era sconosciuto agli altri. Sapevano solamente che quel pomeriggio, al suo arrivo con la diligenza, aveva scritto sul registro dell'albergo il nome di Robert Grossmith. Non lo si era visto parlare con nessuno, tranne l'impiegato dell'albergo. Sembrava, in verità, singolarmente contento della propria compagnia - o, come si espresse il personnel dell'Advance, «abbondantemente abituato a cattive compagnie». Ma allora si sarebbe detto, in difesa dello straniero, che il personnel stesso era di indole troppo conviviale per giudicare uno differentemente dotato, e aveva inoltre provato una leggera mortificazione nel tentativo di fargli una «intervista». «Odio ogni tipo di deformità in una donna», stava dicendo King, «sia naturale che... acquisita. Ho una teoria per cui ogni difetto fisico ha un suo corrispettivo difetto mentale e morale.» «Ne deduco allora», disse gravemente Rosser, «che una signora a cui manca il vantaggio morale di un bel naso, troverebbe lo sforzo di diventare la signora King un'impresa assai ardua.» «Naturalmente puoi mettere le cose così», fu la risposta. «Ma, seriamente, una volta abbandonai una ragazza estremamente affascinante per aver appreso del tutto accidentalmente che aveva subito l'amputazione di un dito del piede. Potete anche pensare che la mia condotta fu brutale ma, se avessi sposato quella ragazza, sarei stato infelice per tutta la vita e avrei reso anche lei tale.» «Mentre», disse Sancher, con una lieve risata, «sposando un gentiluomo dalle vedute più liberali, ha avuto la gola tagliata.» «Ah, sai a chi mi riferisco. Sì, sposò Manton, ma non sapevo delle sue inclinazioni: non ne sono sicuro, ma le tagliò la gola perché scoprì che le mancava quella cosa stupenda in una donna: un dito medio del piede destro.» «Guardate quell'individuo!», disse Rosser a bassa voce, e i suoi occhi fissarono lo straniero. Quell'individuo stava ovviamente ascoltando la conversazione. «Che dannata impudenza!», mormorò King. «Cosa dobbiamo fare?» «La cosa più facile», rispose Rosser, alzandosi. «Signore», continuò rivolto verso lo straniero, «penso che sarebbe meglio se spostaste la sedia dall'altra parte della veranda. Evidentemente non siete abituato alla presenza di gentiluomini.»
L'uomo saltò in piedi e si avventò in avanti a pugni stretti, il viso bianco dalla rabbia. Ora erano tutti in piedi. Sancher si pose tra i due belligeranti. «Sei sconsiderato e ingiusto», disse a Rosser: «questo signore non ha fatto nulla per meritare un linguaggio simile». Ma Rosser non ritirò neppure una parola. Secondo le usanze del luogo e del tempo, ci sarebbe stata una sola conseguenza possibile alla lite. «Domando la soddisfazione dovuta a un gentiluomo», disse lo straniero, che era diventato più calmo. «Non ho alcun conoscente in questa regione. Forse voi, signore», si inchinò a Sancher, «sareste così gentile da rappresentarmi in questa faccenda.» Sancher accettò l'incarico: pur con qualche riluttanza, bisogna confessarlo, poiché l'aspetto dell'uomo e i suoi modi non erano del tutto di suo gradimento. King, che durante il colloquio aveva spostato con difficoltà gli occhi dal volto dello straniero e non aveva detto una parola, acconsentì con un cenno a rappresentare Rosser, e il risultato di ciò fu che, quando i duellanti si furono ritirati, venne concordato un incontro per la sera seguente. La natura di questo accordo è stata già svelata. Il duello con i coltelli in una stanza buia era un tempo una caratteristica comune nella vita del SudOvest più di quanto probabilmente lo sia stato in seguito. Vedremo quanto sottile fosse la maschera di «condotta cavalleresca» che copriva la brutalità essenziale del codice per il quale tali incontri erano possibili. 3. Nella vampa di un mezzogiorno di mezza estate, la vecchia Casa Manton fu a malapena conforme alle sue tradizioni. La luce del sole l'accarezzava tiepidamente e con affetto, con evidente disprezzo per la sua cattiva reputazione. L'erba rendeva verde tutta l'estensione del suo frontale e sembrava crescere, non rigogliosamente, ma con un'esuberanza naturale e gioiosa, mentre la malerba fioriva proprio come le piante. I trascurati alberi ombrosi, pieni di luci e ombre affascinanti, e popolati da uccelli canterini, non lottavano più per correre via, ma si piegavano con reverenza sotto il peso del sole e del canto. Perfino nelle finestre senza vetri del piano superiore, c'era un'espressione di pace e gioia dovuta alla luce interna. Sui campi pietrosi, il calore visibile danzava con un tremolio vivace incompatibile con la gravità che è un attributo proprio del Soprannaturale. Questo era l'aspetto sotto il quale il luogo si presentò allo Sceriffo Adams e ad altri due uomini che erano venuti da Marshall a vedere. Uno di
questi uomini era King, il Vicesceriffo; l'altro, il cui nome era Brewer, era il fratello della defunta signora Manton. Per una generosa legge dello Stato relativa a una proprietà abbandonata per un certo tempo dal proprietario la cui residenza non si riusciva ad accertare, lo Sceriffo era il legittimo custode della fattoria Manton e degli accessori a essa connessi. Questa sua visita era una semplice ottemperanza agli ordini di una Corte nella quale il signor Brewer aveva agito per prendere possesso in qualità di erede delle proprietà della sorella defunta. Per pura coincidenza, la visita fu fatta il giorno successivo alla notte in cui il Vicesceriffo King aveva aperto la casa per un altro scopo molto diverso. Ora si trovava lì non per sua scelta: aveva ricevuto l'ordine di accompagnare il suo superiore e, al momento, non trovava niente di più prudente che simulare alacrità nell'obbedire agli ordini. Aprendo con attenzione la porta principale, che con sua sorpresa non era chiusa, lo Sceriffo si stupì di vedere, sul pavimento del corridoio nel quale si apriva, un confuso cumulo di abiti maschili. Un esame immediato mostrò che si trattava di due cappelli, e di un egual numero di giacche, panciotti, cravatte, tutte eccezionalmente in buono stato di conservazione, quantunque in qualche modo sporche per la polvere in cui stavano. Il signor Brewer fu egualmente stupito, ma l'emozione del signor King non è degna di nota. Lo Sceriffo, spinto da un nuovo interesse per le sue azioni, tirò un saliscendi, aprì una porta sulla destra e i tre entrarono. La stanza era apparentemente vuota... no; quando i loro occhi cominciarono ad abituarsi alla fioca luce, apparve qualcosa nell'angolo più distante. Era una figura umana, quella di un uomo rannicchiato nell'angolo. Qualcosa nella sua posizione fece fermare gli intrusi non appena ebbero varcato la soglia. La figura si delineava sempre più chiaramente. L'uomo era su un ginocchio, la schiena nell'angolo della parete, le spalle sollevate all'altezza delle orecchie, le mani davanti al viso, i palmi all'esterno, le dita aperte e curve come artigli; il viso bianco sollevato sul collo rientrato aveva un'espressione di indescrivibile paura, la bocca era semiaperta e gli occhi spalancati. Era morto stecchito. Ma, a eccezione di un coltello da caccia che gli era caduto di mano, non c'era alcun altro oggetto nella stanza. Nella spessa polvere che copriva il pavimento c'erano alcune impronte confuse vicino alla porta e lungo la parete nella quale la stessa si apriva. Lungo uno dei muri adiacenti, vicino alle finestre chiuse da assi, c'era anche la traccia fatta dall'uomo nel raggiungere il suo angolo. Istintivamente i tre uomini, nell'avvicinarsi al corpo, seguirono quella traccia. Lo Sceriffo
afferrò un braccio sollevandolo; era rigido come il ferro, e l'applicazione di una leggera forza scosse l'intero corpo senza alterare la relazione delle sue parti. Brewer, pallido per l'eccitazione, guardò attentamente il viso distorto. «Dio misericordioso!», urlò improvvisamente. «È Manton!» «Hai ragione», disse King facendo uno sforzo evidente per rimanere calmo. «Conoscevo Manton. Allora aveva una fluente barba e i capelli lunghi, ma questo è proprio lui.» Avrebbe potuto aggiungere: «L'ho riconosciuto quando ha sfidato Rosser. Ho detto a Rosser e a Sancher chi era prima di giocargli quell'orribile tiro. Quando Rosser lasciò la stanza dietro di noi, scordammo nell'eccitazione i suoi abiti, e lui venne via con noi in maniche di camicia: durante tutta questa azione indegna, sapevamo con chi avevamo a che fare, assassino e codardo che non era altro!». Ma King non disse niente di tutto ciò. Tentava di penetrare il mistero della morte dell'uomo. Che non si fosse mosso una volta dall'angolo in cui era stato posto, che la sua posizione non fosse quella né dell'attacco né della difesa, che avesse lasciato cadere l'arma, che fosse morto evidentemente per il puro orrore di qualcosa che aveva visto, queste erano tutte circostanze che la mente agitata di King non riusciva a comprendere giustamente. Brancolando nelle tenebre mentali dietro a un filo nel suo labirinto di dubbi, il suo sguardo, diretto meccanicamente verso il basso nell'atteggiamento di chi riflette su argomenti passeggeri, cadde su qualcosa che, lì, nella luce del giorno e alla presenza dei suoi compagni vivi, lo atterrì. Sulla polvere di anni che giaceva spessa sul pavimento, c'erano tre linee parallele di impronte che portavano dalla porta da cui erano entrate, direttamente attraverso la stanza fino a un metro circa dal cadavere rannicchiato di Manton. Erano leggere ma ben definite impronte di piedi nudi: quelle esterne erano di bambini piccoli, quelle interne di una donna. Dal punto in cui finivano non facevano ritorno; puntavano tutte in un senso. Brewer, che le aveva osservate nello stesso istante, stava piegato in avanti in un atteggiamento di rapita attenzione, terribilmente pallido. «Guardate!», urlò indicando con entrambe le mani l'impronta più vicina del piede destro della donna, dove apparentemente si era fermata. «Manca il dito medio... era Gertrude!» Gertrude era stata la defunta signora Manton, la sorella di Brewer! AMBROSE GWINNETT BIERCE
La casa del fantasma Sulla strada che porta verso nord da Manchester, nel Kentucky orientale, a Booneville, a venti miglia di distanza, nel 1862 c'era una casa coloniale in legno di qualità migliore della maggior parte delle altre abitazioni della regione. La casa fu distrutta dal fuoco nell'anno seguente, probabilmente incendiata da alcuni soldati rimasti indietro della colonna in ritirata del Generale George W. Morgan, mentre era incalzato dal Passo di Cumberland al fiume Ohio dal Generale Kirby Smith. Al tempo della sua distruzione, era stata per quattro o cinque anni vuota. I campi che la circondavano erano coperti di rovi, gli steccati non c'erano più, e perfino i pochi negri nonché i bianchi poveri del vicinato, trovavano nell'edificio e negli steccati un abbondante rifornimento di combustibile del quale si servivano senza esitazione, apertamente e alla luce del giorno. Solo alla luce del giorno: dopo il calar della notte, non un essere umano, tranne gli stranieri di passaggio, si avvicinava al luogo. Era conosciuta come «La Casa dello Spettro». Che fosse occupata da spiriti maligni, visibili, udibili e attivi, nessuno in tutta quella regione dubitava più di quanto dubitasse di quel che veniva detto la domenica dal Pastore viaggiante. L'opinione del suo proprietario era sconosciuta: lui e la sua famiglia erano scomparsi una notte e non furono mai più trovate tracce di loro. Avevano lasciato ogni cosa: i beni domestici, abiti, provviste, i cavalli nella stalla, le mucche nei campi, i negri negli alloggi: tutto era al suo posto. Nulla andò smarrito, tranne un uomo, una donna, tre ragazze, un ragazzo e un neonato! Quindi non era del tutto sorprendente che una piantagione nella quale sette esseri umani erano stati cancellati senza che se ne sapesse più nulla, fosse ritenuta un po' sospetta. Una notte di giugno del 1859, due abitanti di Frankfort, il Colonnello J.C. McArdle avvocato, e il Giudice Myron Veigh, della Guardia Nazionale, stavano viaggiando da Booneville a Manchester. I loro affari erano così importanti, che decisero di continuare per la loro strada nonostante l'oscurità e il brontolio di un temporale che si avvicinava, e che alla fine li sorprese proprio mentre arrivavano di fronte alla «Casa dello Spettro». Il lampeggiare era così incessante che trovarono facilmente la via attraverso il cancello e, sotto una tettoia, legarono e staccarono dal giogo i loro cavalli. Poi andarono fino alla casa, sempre sotto la pioggia, e bussarono a
tutte le porte senza riceverne risposta. Attribuendo questo al continuo rombare del tuono, spinsero una delle porte, che si aprì. Entrarono senza ulteriori cerimonie e chiusero la porta. In quell'istante rimasero al buio e nel silenzio. Non un bagliore dell'incessante splendore dei lampi si diffondeva dalle finestre e dalle fessure. Non un sussurro di quel tremendo tumulto che c'era al di fuori, li raggiungeva. Era come se fossero diventati improvvisamente ciechi e sordi, e McArdle, in seguito, disse che per un momento aveva pensato di essere stato ucciso da un fulmine mentre oltrepassava la soglia. Il resto di questa avventura può anche essere raccontato con le sue parole, tratte dall'Advocate di Frankfort, del 6 agosto 1876. «Quando in qualche modo mi ripresi dall'effetto del passaggio dal chiasso al silenzio, il mio primo impulso fu di riaprire la porta che avevo chiuso, dal pomo della quale avevo inconsciamente staccato la mano e che sentivo distintamente ancora nella stretta delle mie dita. La mia idea era di sapere, camminando di nuovo nel temporale, se fossi stato privato della vista e dell'udito. Girai il pomo della porta e la aprii. Portava in un'altra stanza! La camera era soffusa di una pallida luce verdastra, la fonte della quale non riuscivo a determinare, che rendeva ogni cosa distintamente visibile, sebbene nulla fosse definito nettamente. Ogni cosa dico ma, in verità, gli unici oggetti entro quelle bianche mura di pietra della stanza, erano cadaveri umani. Erano forse otto o dieci: si può ben capire perché non li contai con precisione. Erano di età diverse, o piuttosto di misure diverse, dall'infanzia in su, e di entrambi i sessi. Erano tutti distesi sul pavimento, tranne uno, apparentemente una giovane donna, che stava seduta con le spalle appoggiate a un angolo del muro. Un neonato era stretto tra le braccia di un'altra donna più vecchia. Un ragazzetto giaceva a faccia in giù tra le gambe di un uomo dalla barba fluente. Uno o due erano pressoché nudi, e la mano di una ragazza tratteneva un frammento di un vestito che aveva aperto lacerandolo sul petto. I corpi erano in vari stadi di decomposizione, tutti assai contratti nei visi e nelle figure. Alcuni erano poco più che scheletri. Mentre restavo stupefatto per l'orrore di quella scena spettrale e mantenevo ancora aperta la porta, per un'inesplicabile perversità, la mia attenzione fu deviata da quella scena scioccante, e venne interessata dalle inezie e dai dettagli. Forse la mia mente, per un istinto di autodifesa, cercava sollievo in argomenti che avrebbero scaricato quella nociva tensione. Tra le altre cose, notai che la porta che tenevo aperta era di lastre di ferro
pesante. Equidistanti l'una dall'altra, da cima a fondo, tre forti spranghe spuntavano dal margine smussato. Girai il pomo e quelle si ritirarono rasenti al margine; lo lasciai, ed esse uscirono. Era una serratura a scatto. All'interno non c'era alcun pomo, né alcun tipo di oggetto: era una superficie liscia di ferro. Nel notare quelle cose con un interesse e un'attenzione che ora mi stupisce ricordare, mi sentii mettere da parte e spingere nella stanza dal Giudice Veigh, che nell'intensità e nell'avvicendarsi delle mie sensazioni avevo completamente dimenticato. "Per l'amor di Dio", urlai, "non entrare lì! Andiamocene da questo posto spaventoso!" Non prestò alcuna attenzione alle mie preghiere, ma (intrepido come tutti i gentiluomini che vivono al Sud) camminò velocemente verso il centro della stanza, si inginocchiò accanto ad uno dei corpi per un esame più attento, e delicatamente sollevò nella mano quella testa scurita e raggrinzita. Un forte odore sgradevole arrivò attraverso la porta e mi oppresse completamente. I miei sensi vacillarono; mi sentii cadere e, nell'afferrarmi al margine della porta, la chiusi con uno scatto netto! Non ricordo più nulla: sei settimane dopo ripresi i sensi in un albergo a Manchester, nel quale ero stato portato da alcuni sconosciuti il giorno dopo. Per tutte quelle settimane avevo sofferto di una febbre nervosa, seguita da costante delirio. Ero stato trovato sdraiato in strada a parecchie miglia dalla casa; ma come fossi scappato da là per ritrovarmi lì, non l'ho mai saputo. Alla guarigione, o non appena i medici mi permisero di parlare, indagai sul destino del Giudice Veigh il quale (per tranquillizzarmi, come ora so) mi dissero fosse in piena forma ed a casa sua. Nessuno credeva a una parola della mia storia, e chi si stupisce? E chi può immaginare il mio dolore quando, tornando a casa a Frankfort due mesi più tardi, appresi che non si erano più avute notizie del Giudice Veigh da quella notte? Allora rimpiansi amaramente l'orgoglio che dai primi giorni dopo la mia guarigione mi aveva impedito di ripetere la mia storia discreditata e di insistere sulla sua verità. Con tutto quel che seguì - l'esame della casa, l'incapacità di trovare una stanza corrispondente a quella che avevo descritto, il tentativo di farmi giudicare folle, e il trionfo sui miei accusatori - i lettori dell'Advocate sono in rapporti familiari. Dopo tutti questi anni, sono ancora fiducioso che degli scavi, che non ho
né il diritto legittimo di iniziare né le possibilità economiche di fare, svelerebbero il segreto della sparizione del mio infelice amico, e probabilmente dei precedenti occupanti e proprietari della casa deserta ed ora distrutta. Non dispero ancora di effettuare una tale ricerca, ed è fonte di profondo dolore per me che sia stata ostacolata da una immeritata ostilità e da una sciocca incredulità da parte della famiglia e degli amici del defunto Giudice Veigh.» Il Colonnello McArdle morì a Frankfort il tredici dicembre del 1879. AMILCARE LAURIA Notizie dell'altro mondo La sera, le casigliane si riunivano nella stanzetta della signora Checchina, al primo piano. E intorno alla tavola da lavoro, ognuna delle cinque donne aveva il suo posticino favorito. La Marchesa Magni - una nobiluccia malandata per gli scialacqui del padre - donna Eufrasia, moglie del droghiere, che aveva il negozio presso la casa, con la figlia Giulietta - una signorina sentimentale, tradita da un giovinetto che, dopo averla tenuta in fresco per tutti i quattro anni ne' quali studiava per addottorarsi in Legge, tornò in paese dopo la Laurea, lasciando lei e la mamma a nuotare in un mare di lacrime. E finalmente la signora Eleonora, sposa d'un capitano di mare, una turbolenta donnetta, belloccia, che s'era pentita del suo matrimonio fin dal primo viaggio del marito; comprendendo troppo tardi che le lunghe separazioni non erano possibili per lei. Tutte avevano una venerazione per quella vecchietta aggraziata che era la signora Checchina; tutte, financo quella tremenda chiacchierona della signora Eufrasia, pendevano dalle sue labbra, allorché ella narrava qualcuna delle peripezie della sua esistenza; e la sera, nelle tranquille riunioni abituali, illuminate dalla fievole luce del cristallo verde della ventola, la signora Checchina evocava le memorie della sua giovinezza o narrava del suo primo matrimonio con un artigliere morto nella ritirata di Mosca; ora intratteneva le amiche raccontando la vita tristissima dell'unico suo figliuolo, suicidatosi per un amore infelice due anni prima del suo secondo matrimonio; ma, arrivata a quel punto, ella era certa d'essere interrotta dalla Giulietta, che, con le lacrime agli occhi, soffiandosi rumorosamente il naso, le domandava: «Signora Checchina, ma Guglielmo non vi aveva fatto supporre niente? Non avreste potuto prevedere...».
«Tante volte i proverbi e le sentenze hanno torto! Andate un po' a dire che il cuore della madre ha la doppia vista!», diceva la Marchesa Magni, tentennando il capo. «Figlia mia, a me il Signore non volle far la grazia della previdenza», rispondeva la signora Checchina, con la voce tremula per l'emozione delle memorie. «Quel giorno, Guglielmo era meno accigliato del solito; e, nel levarsi, invece d'imprecare contro la madre perversa che non voleva dargli la figlia in isposa, come faceva sempre, pareva meno agitato, tanto che pensai: forse ieri sera la sua innamorata gli avrà scritto qualche buona nuova; e, quando stava per domandarglielo, egli era già uscito. Poi... poi... non tornò più, poi. Non lo si trovava; lo spasimo durò per un'intera giornata, prima che mi giungesse il colpo di grazia!... E me lo portarono... una massa informe, coperta di sangue aggrumito... in un sudario... e dovetti riconoscerlo! Mi gettai...» «Basta!... basta!... Donna Eufrasia, questo è il vostro argomento preferito!... E lo mettete sempre in campo! Non vedete che nel cuore della madre certe ferite non si rimarginano nemmeno con lo scorrere degli anni?», esclamava la signora Eleonora, la sola che davvero si commoveva, anche a sentir narrare per la millesima volta di quel suicidio. «Piuttosto, diteci, signora Checchina, era un bell'uomo Don Eustachio quando s'innamorò di voi?» «Altro se era bello! Ma io non l'avrei mai sposato: l'amore per Guglielmo mio non poteva aver rivali nel cuore della sua mamma. Eppure, allorché Eustachio, profondamente addolorato per la mia sventura, mi volle abbandonare, io pregai tanto che, quando tornò, finii per acconsentire a lasciar la vita di disperazione e di lacrime nella quale mi struggevo, per rimaritarmi con lui; e di questo non ho avuto mai a pentirmi!» «Ah! ma ammettete però che Don Eustachio lavorò molto per conquistarvi: egli dovette essere ben seducente!», chiedeva sorridendo la Marchesa Magni. «Seducente?... Egli agì da perfetto gentiluomo; e mi vinse col circondarmi di tanto rispetto e devozione, ch'io non ho dimenticato mai più. Allorché tornò dopo un anno dal viaggio che aveva intrapreso, per tentare di dimenticarmi, lo rividi diventato tutt'altro uomo: quasi sempre taciturno, malinconico, pareva come se la sventura di mio figlio gli avesse lasciato uno squilibrio mentale; perché, parlando di Guglielmo dinanzi a lui, egli si commoveva quanto io stessa. Capirete che questa appunto fu una delle ragioni per cui fui vinta.»
«Allora eravate molto ricca?», chiedeva donna Eufrasia. «Sì, abbastanza; poi, dopo il mio matrimonio, Eustachio volle speculare e perdette la metà della mia fortuna. Fu davvero disgraziato; ma di ciò io non gli ho mosso mai rimprovero.» «E vi fece sempre buona compagnia?» «Eccellente; tanto che se mi lagnassi di lui...» Così continuavano a discorrere quasi ogni sera le cinque donne; ed ora si finiva coi progetti di matrimonio della Giulietta, ora con le malattie di... nervi della signora Eleonora, oppure con gli antenati - tutti famosi - della Marchesa. La serata trascorreva; i primi sbadigli incominciavano, partendo dalla larga bocca di donna Eufrasia, che somigliava ad una specie di forno, e la lunga figura preoccupata di Don Eustachio, tornando, un po' prima della mezzanotte dal caffè ove era solito ad andarsi a trattenere, compariva all'uscio d'entrata per metter termine alla conversazione. Quella sera non si lavorava. Tutte e cinque le donne erano come affascinate da una persona originalissima, che sedeva in mezzo a loro per la prima volta. Era una donnetta sui quarant'anni, bruttina, tozza, mezzo sciancata, con gli occhi loschi nuotanti nel giallume della faccia volgare; aveva un'espressione apatica che costituiva la caratteristica di quel corpicino esile, coperto da una vestaglia nera. Non era certamente lei che interessava tanto le donne, ma quello che di essa aveva raccontato la signora Eleonora la sera precedente, e quello che la nuova conoscenza confermava ed aggiungeva di se medesima con tanta semplicità da sbalordire tutti. «Gesù!... Gesù!...», esclamava donna Eufrasia, «io non ci dormirò per parecchie notti!» «E come avete detto che vi chiamano gli spiritisti?», domandava la Marchesa alla nuova casigliana. «Una medium delle più potenti, e, vedete, io guadagno assai bene, perché faccio il mestiere della crestaia durante il giorno, e la sera vado da quei signori che fanno gli esperimenti, come li chiamano.» «Ah! adesso capisco perché talvolta rincasate dopo la mezzanotte!...», disse Giulietta. «Dopo la mezzanotte? Ma spessissimo io vengo via all'alba! Questa sera sono libera per un raro caso.» «Tanto meglio per noi! Su, dunque! profittiamone, presto!», soggiunse
allegramente la signora Eleonora. «No, no, lasciate stare; queste mi sembrano opere diaboliche; ne voglio parlare prima al mio confessore», interruppe la signora Checchina. «Ma che confessore!... Sì, sì, ficcate sempre i preti in mezzo, voi: quelli una cosa dicono e un'altra ne fanno! Vorrei vedere se fossero certi di avere tre numeri al lotto, non invocherebbero tutti i diavoli dell'inferno!...» «Donna Eleonora, va bene che siete una donna spregiudicata; ma voi ci scandalizzate tutte!... Io ho una figlia zitella!», rispondeva donna Eufrasia facendo le smorfie. «Ma piano... piano, signore mie; voi che credete? Non sono cose contro la religione queste che io faccio!», strillò la medium. «Le famiglie dalle quali vado, sono tutte gente cristiana e timorata di Dio... dovete credermi!...» «Eh!... Ha ragione!», sentenziò la Marchesa Magni. «Via, via, non perdiamo più tempo; cerchiamo un tavolino», disse Giulietta, appassionata del soprannaturale. «Signora Checchina, possiamo servirci di quello su cui stanno le tazze ed il lume?» «Sì, sì, quello è buono», aggiunse Rosalia, la nuova casigliana. «Ma facciamo presto; son già le nove!», disse la signora Eleonora; e, senza aspettare la padrona di casa, tolse dal tavolino le tazze, il lume, il tappeto, ed andò a collocarlo nel mezzo del salottino. Rosalia fece sedere la Marchesa alla sua destra, e la signora Eleonora alla sinistra; le altre due erano dirimpetto. Mise le loro mani sulla tavola, e poi: «Signora Checchina, voi non venite?». «No, no, lasciatemi qui; io sono già troppo vecchia per evocare spiriti!» Tutte erano impazienti; e, lasciando in pace la padrona di casa, si chiusero in un silenzio pieno di perplessità. Rosalia girò lo sguardo intorno, poi fissò con insistenza la superficie del tavolino; la sua voce, con tono confidenziale, dopo alcuni minuti di raccoglimento, disse: «Volete darci questa sera una prova della vostra presenza fra noi? Se lo volete, incominciate a muovervi, poi battete tre colpi col piede che è alla mia destra». Alle donne pareva dovessero venir fuori gli occhi, tanto li avevano spalancati; ma, quando il tavolino parve si alzasse, donna Eufrasia gettò un grido. «Ebbene che vi piglia? Ah, cominciamo molto male», ammonì Rosalia.
«Ma state zitta! Se avete paura, salitevene in casa vostra!», esclamò rabbiosamente la signora Eleonora. «Mamma, mi sembrate una bambina!», aggiunse stizzosa Giulietta. Donna Eufrasia mortificata, non fiatò più, nemmeno quando il tavolino diede tre colpi. Tutte udirono, mentre lo spirito rispondeva con battiti affievoliti che si facevano sentire nel centro della piccola tavola. Da un'ora tutte le casigliane strabiliavano per i fenomeni sbalorditivi a cui stavano assistendo. La signora Checchina aveva lasciato il lavoro, e seguiva tutto con gli occhi sbarrati: talvolta era assalita da un tremito nervoso. Il rosso era sparito dal volto di donna Eufrasia, ed invece le guance le si stavano coprendo di un pallore terreo. Giulietta aveva scatti come di brividi per tutta la persona; e la Marchesa Magni, quasi stecchita, non fiatava. Dalle contrazioni della sua bocca aggrinzita, si vedeva chiaro che era in preda ad una violenta emozione!... La signora Eleonora non rideva più, e si dimenava sulla seggiola; ma, quando la tavola cominciò a muoversi, per poco non svenne. Frattanto Rosalia, con monotona flemma, continuava a far ballare la tavola, che talvolta pareva in preda ad un furore bestiale, gettandosi tutta da un lato, levandosi fino ad un metro dal solaio della stanza. Le donne trattenevano piccoli gridi; e la signora Checchina, tentennando il capo per lo spavento, si faceva il segno della croce. «Vediamo se stasera lo spirito che mi assiste è disposto oppure no, a farci venire un'anima di qualche defunto appartenente a queste signore.» Nella stanza non si sentiva nemmeno il rumore della respirazione delle donne. Dall'interno del tavolino risonarono leggermente i tre colpi secchi, con cui lo spirito acconsentiva a quanto gli chiedeva la medium. Questa girò intorno gli occhi con un sorriso di soddisfazione; poi cavò di tasca un logoro pezzo di cartoncino, su cui era stampato un alfabeto, con lettere disposte in cinque serie, se lo pose dinanzi, e disse a Giulietta: «Signorina, prendete carta, calamaio e penna, e mettetevi a scrivere attentamente quello che io vi detterò; poi, quando la parola sarà terminata, voi la pronunzierete a voce alta. E così di seguito; badate però a non distrarvi, né interrompervi mai». Giulietta parve contenta dell'attenzione usatale dalla medium, e si preparò senza parlare.
La tavola incominciò a dimenarsi di nuovo; poi batté tre colpi fortissimi: la medium disse con molta eccitazione: «Eccolo, è venuto. Attenta, signorina Giulietta». Poi, inclinando un po' il capo sul tavolino chiese: «Vorreste dirci chi siete?». Si sentirono altri tre colpi. «Lo volete?... bene, parlate.» Subito risuonarono vari colpi, che Rosalia interpretava tenendo gli occhi fissi sull'alfabeto: nel contempo dettava le lettere a Giulietta. «Scrivete. G-U-G-L-I-E-L-M-O.» «Ah! Guglielmo!», gridò fuori di sé la signora Checchina. «Tacete!... Tacete; altrimenti lo spirito ci lascia!... Ve ne prego, signora, qualunque cosa voi sentiate d'ora innanzi, non c'interrompete più!» Alla luce verde della ventola i volti delle donne parevano quelli di cinque cadaveri, tanto erano impalliditi; la mano tremante di Giulietta poteva appena vergare qualche tratto delle lettere che le dettava la medium. «Volete dirci in che modo siete morto?», chiese la medium, ed il tavolino batté tre colpi. «Bene, parlate. Attenta, signorina Giulietta.» La fanciulla cominciò a pronunziare le parole sbocconcellandole smozzicatamente per il frequente doversi interrompere a causa dei sussulti nervosi che l'assalivano e che spesso rendevano incomprensibile quello che leggeva: «Presso... la... lanterna... sugli... scogli... del... molo... mi... condusse... a... passeggiare... quando... giungemmo... dissi... che... non... volevo... il... mo...nio...». «Ripetete, ripetete... non si capisce signorina Giulietta!» Ed ella riprese: «Matrimonio; ecco». «Appresso.» E Rosalia continuò a dettare le lettere, e la ragazza a pronunziare le parole complete: «di... mia... madre... egli... mi... spinse... violentemente». Nella stanza si sentiva appena qualche gemito sommesso della signora Checchina, che doveva soffrire orrendamente. «...e... caddi... mi... sfracellai... il... capo... sugli... scogli...» «Chi?... Chi me l'uccise?», urlò terribile nel silenzio generale una voce che pareva d'oltretomba. «Rispondete: chi vi uccise?», chiese la medium, poi dettò a Giulietta: «E-U-S-T-A-C-H-I-O». La porta della stanza si spalancò.
Tutte gettarono un grido: un uomo sui cinquant'anni era entrato col cappello in mano. «Ah! assassino!...», urlò la signora Checchina alzandosi; e stramazzò al suolo. MARK TWAIN Una storia di fantasmi Affittai una grande stanza, quasi in cima a Broadway, in un enorme vecchio edificio i cui piani superiori erano rimasti sfitti per anni prima della mia venuta. Quel posto era da lungo tempo in balia della polvere e delle ragnatele, della solitudine e del silenzio. Mi sembrò di muovermi fra le tombe e di disturbare l'intimità dei morti, quella prima sera in cui salii nel mio appartamento. Per la prima volta nella mia vita, un timore superstizioso entrò in me e, quando superai un angolo oscuro della scala e una ragnatela invisibile fece ondeggiare la sua trama inconsistente sul mio viso e vi si appiccicò, fremetti come se avessi incontrato un fantasma. Fui ben contento quando raggiunsi la mia stanza e chiusi fuori la polvere e le tenebre. Un allegro fuoco bruciava nel caminetto, e mi ci sedetti davanti con un piacevole senso di sollievo. Rimasi lì per due ore, a pensare ai tempi andati; a ricordare vecchie scene, e richiamare visi quasi dimenticati dalle nebbie del passato; ad ascoltare con l'immaginazione delle voci che da lungo tempo tacevano per sempre, e canzoni già familiari che nessuno canta più. E, man mano che la mia fantasticheria si addolciva in un pathos sempre più triste, l'ululare del vento all'esterno si spegneva in un lamento, l'irato battere della pioggia contro i vetri si trasformava in un tranquillo ticchettio, e uno ad uno i rumori della strada si spegnevano, finché i passi frettolosi dell'ultimo ritardatario svanirono in lontananza senza lasciar eco. Il fuoco non fiammeggiava più. Un senso di solitudine mi assalì. Mi alzai e mi svestii, camminando per la stanza in punta di piedi, facendo quello che dovevo fare furtivamente, come se fossi circondato da nemici addormentati di cui sarebbe stato pericoloso rompere il sonno. Mi rifugiai nel letto, e giacqui ascoltando la pioggia, il vento e lo scricchiolio di lontane persiane, finché quei suoni mi indussero al sonno. Dormii profondamente, non so quanto a lungo. Mi risvegliai di colpo, colmo di un senso di tremante aspettativa. Ogni cosa era immobile. Ogni cosa tranne il mio cuore: potevo sentirlo battere. A un tratto le coperte cominciarono a scivolare lentamente verso i piedi del letto, come se qualcuno le stesse tirando!
Non riuscivo a muovermi; non riuscivo a parlare. Le coperte continuavano deliberatamente a scivolare, finché il mio petto rimase scoperto. Allora, con un grande sforzo, le afferrai e me le tirai sopra la testa. Aspettai, ascoltai..., aspettai... Di nuovo ricominciò quel tiro regolare, e di nuovo giacqui immobile per un secolo di lenti secondi fino a quando il mio petto fu di nuovo scoperto. Infine richiamai le mie energie e tirai con forza le coperte al loro posto e le tenni strette strette. Aspettai. Dopo un po' sentii un lieve strappo, e le afferrai meglio. Lo strappo divenne più forte, divenne una tenace tensione... sempre più forte. Le lasciai andare, e per la terza volta le coperte scivolarono via. Brontolai. Un brontolio di risposta venne dai piedi del letto! Grosse gocce di sudore mi bagnarono la fronte. Ero più morto che vivo. Poi sentii dei passi pesanti che si muovevano per la stanza - il passo di un elefante, mi sembrò - ma non somigliavano a niente di umano. Però si stavano allontanando da me: questo era un sollievo. Li sentii avvicinarsi alla porta - passarci attraverso senza toccare la serratura né il lucchetto - e allontanarsi per i tetri corridoi, pesando sui pavimenti e i travetti che scricchiolavano al loro passaggio: infine il silenzio regnò di nuovo. Quando la mia eccitazione si fu calmata, dissi a me stesso: «Questo è un sogno... è soltanto un bruttissimo sogno». Rimasi così sdraiato a pensarci su finché mi convinsi che era un sogno, e allora una risata di contentezza distese le mie labbra e fui di nuovo felice. Mi alzai, accesi la luce e, quando vidi che le serrature e le sbarre erano esattamente come le avevo lasciate, un'altra risata di sollievo salì dal mio cuore e sgorgò dalle mie labbra. Presi la pipa e l'accesi: mi ero appena seduto davanti al camino che... la pipa cadde dalle mie dita senza forze, il sangue si ritirò dalle mie guance, e il mio tranquillo respiro si arrestò con un singulto! Sulle ceneri del caminetto, vicino all'orma del mio piede nudo, ce n'era un'altra, così grande che al confronto la mia pareva quella di un bambino! Allora avevo ricevuto una visita, e il passo da elefante che avevo sentito aveva una spiegazione. Spensi la luce e tornai a letto, gelato dalla paura. Rimasi lì a lungo a scrutare le tenebre e ad ascoltare. Poi sentii al di sopra della mia testa un suono stridente, come se un corpo pesante fosse trascinato sul pavimento; quindi il colpo del corpo gettato a terra, e il vibrare delle mie finestre in risposta all'urto. Da qualche parte dell'edificio udii il soffocato sbattere delle porte. Sentivo, ad intervalli, passi furtivi che correvano su e giù per i corridoi, e su per le scale. A volte quei rumori si avvicinavano alla mia porta, esitavano,
e poi svanivano. Sentivo un debole tintinnio di catene in corridoi lontani, e tesi l'orecchio mentre il tintinnio si avvicinava... mentre saliva stancamente le scale, sottolineando ogni movimento con le catene troppo lunghe che cadevano con un frastuono più forte sopra i gradini man mano che il folletto che le trascinava saliva. Sentivo delle frasi bisbigliate, delle grida strozzate che venivano soffocate con la violenza, il fruscio di abiti invisibili e il frullo di invisibili ali. Poi fui consapevole del fatto che la mia stanza era stata invasa... che non ero solo. Sentivo sospiri e respiri vicino al mio letto, e sussurri misteriosi. Tre piccole sfere di luce fosforescente comparvero sul soffitto proprio sopra la mia testa, si fermarono, risplendettero lassù un momento, poi caddero: due sulla mia faccia e una sul cuscino. Spruzzarono qualcosa di liquido, intorno, ed erano calde. L'intuizione mi disse che nel cadere si erano cambiate in gocce di sangue: non avevo bisogno di luce per capirlo. Poi vidi delle facce pallide, che spandevano una luce fioca, e bianche mani alzate, che fluttuavano senza corpo nell'aria: fluttuavano un momento e poi sparivano. I bisbigli quindi cessarono, come le voci e i suoni, e si fece un silenzio solenne. Aspettai tendendo l'orecchio. Sentivo che dovevo accendere la luce o sarei morto. Ero indebolito dalla paura. Pian piano mi sollevai a sedere, e il mio viso venne in contatto con una mano umidiccia! Persi ogni forza, e caddi all'indietro come se avessi avuto un colpo. Poi sentii il fruscio di un abito: sembrò che superasse la porta ed uscisse. Quando tutto fu di nuovo silenzio, scivolai fuori dal letto, nauseato e debole, e accesi il gas con una mano che tremava come se avessi avuto cent'anni. La luce risollevò un po' il mio spirito. Mi sedetti e caddi in una vaga contemplazione della grande orma sulla cenere. Poco a poco il suo contorno divenne indistinto, quindi cominciò a svanire. Alzai gli occhi e vidi che la grande fiamma del gas si stava lentamente spegnendo. Nello stesso istante udii di nuovo quel passo da elefante. Lo sentii avvicinarsi sempre più lungo le sale polverose, mentre la luce diventava sempre più fioca. Il passo raggiunse la mia porta e si fermò: la luce si era ridotta a un fievole azzurro, e tutte le cose intorno a me nuotavano in una penombra spettrale. La porta non si aprì, eppure sentii una debole corrente d'aria sfiorarmi la faccia, e fui conscio di una grande e nebulosa presenza vicino a me. La guardai con occhi affascinati. Un pallido lucore avvolgeva quella Cosa; poco a poco le sue pieghe nebulose presero forma... apparve un brac-
cio, poi le gambe, poi un corpo, infine una grande faccia triste si affacciò attraverso il vapore. Spogliato del suo bozzolo, nudo, muscoloso e attraente, il maestoso Gigante di Cardiff stava dinanzi a me! Tutta la mia tristezza svanì: infatti, anche un bambino sapeva che nessun male poteva venirmi da quell'aspetto benigno. Il mio spirito tornò subito allegro, e per simpatia anche il gas ricominciò a splendere. Mai un emarginato solitario è stato così contento di avere compagnia, come io di salutare l'amico gigante. Dissi: «Sei solo? Sai che mi sono spaventato a morte per due o tre ore? Sono veramente contento di vederti. Vorrei avere una sedia... Ehi, ehi, non ti sedere lì!». Era ormai troppo tardi. Ci si era seduto prima che potessi fermarlo, e cadde: non ho mai visto in vita mia una sedia così malridotta. «Fermo, fermo, romperai anche...» Di nuovo troppo tardi. Ci fu un altro schianto, e un'altra sedia fu scissa nei suoi componenti naturali. «Accidenti, non hai proprio cervello? Vuoi rompermi tutti i mobili? Ehi, ehi, sciocco di pietra...» Ma non serviva a niente. Prima che potessi fermarlo, si era seduto sul letto che ora era ridotto a una malinconica rovina. «Che modo di fare è questo? Prima vieni a far chiasso con una legione di folletti vagabondi e mi spaventi a morte poi, quando passo sopra a dei modi così villani che sarebbero tollerati dalla gente civile solo in un teatro rispettabile, e nemmeno lì se la nudità fosse quella del tuo sesso, tu mi ripaghi rompendo tutti i mobili che trovi per sederti! E perché poi? Fai danno a te quanto a me. Ti sei rotto il fondo della spina dorsale, e hai sparso su tutto il pavimento le schegge delle tue mani, così che sembra di stare nel laboratorio del marmista. Dovresti vergognarti di te stesso: sei abbastanza grande per essere più furbo.» «Beh, non romperò altri mobili. Ma cosa posso farci? Non ho avuto la possibilità di sedermi per secoli.» E, così dicendo, le lacrime gli salirono agli occhi. «Povero diavolo», dissi, «non avrei dovuto essere così aspro con te. E sei un orfano per giunta, non c'è dubbio. Ma siediti sul pavimento - solo quello può sopportare il tuo peso - e, per di più, non possiamo fare conversazione se ti trovi tanto al di sopra della mia testa. Siediti mentre io mi arrampico su questo sgabello da contabile e chiacchieriamo faccia a faccia.» Così lui si sedette per terra, accese la pipa che gli diedi, si gettò una delle
mie coperte rosse sulle spalle, si rovesciò il semicupio sulla testa come se fosse stato un elmetto, e si mise a suo agio in modo pittoresco. Poi incrociò le caviglie, mentre io soffiavo nel fuoco, ed espose le piante piatte e bucherellate dei suoi enormi piedi al piacevole calore. «Cosa ti è successo alle piante dei piedi e al retro delle tue gambe, che sono così scalpellate?» «Quegli infernali geloni... me ne sono riempito fino al collo mentre giravo intorno alla fattoria di Newell. Quel posto mi piace; mi piace come la mia vecchia casa. Non mi sento mai così in pace come quando sono là.» Parlammo per un'ora, poi mi accorsi che aveva l'aria stanca e glielo dissi. «Stanco?», rispose. «Beh, ci credo. E ora ti racconterò il perché, visto che sei così gentile con me. Sono lo spirito dell'Uomo Pietrificato che sta nel museo dall'altra parte della strada. Sono il fantasma del Gigante di Cardiff. Non posso trovar riposo, né pace, finché non avranno seppellito di nuovo quel povero cadavere. Ora, qual era la cosa più naturale da fare, per ottenere che gli uomini soddisfino il mio desiderio? Spaventarli! Perciò andavo in giro per il museo notte dopo notte. Convinsi gli altri spiriti ad aiutarmi, ma non servì a niente, perché non c'era nessuno nel museo dopo mezzanotte. Allora mi venne in mente di cambiare un po' e di venire qui. Mi pareva che, se fossi riuscito ad avere degli spettatori, avrei avuto successo, perché avevo la migliore compagnia che la tradizione può fornire. Notte dopo notte abbiamo rabbrividito fra queste mura umide, trascinando catene, lamentandoci, bisbigliando, correndo su e giù per le scale finché, per dirti tutta la verità, mi sono sentito quasi esausto. Ma quando stasera ho visto la luce nella tua stanza, ho chiamato a raccolta le mie energie e mi ci sono messo con un bel po' dell'antica freschezza. Ma sono stanco... sono stanchissimo. Dammi, per favore, una speranza!» Saltai giù dal mio trespolo tutto eccitato, ed esclamai: «Questo supera ogni immaginazione! Tutto quello che è successo... Ma come, povero stupido fossile, hai fatto tutto questo per niente... ti sei dato tanto daffare per un calco di gesso di te stesso: il vero Gigante di Cardiff sta ad Albany! Accidenti, non riconosci neanche i tuoi resti?». Non ho mai visto un'espressione così eloquente di vergogna e di penosa umiliazione, comparire su un viso. L'Uomo Pietrificato si alzò in piedi lentamente, e disse: «Non è una bugia, vero?».
«È vero come è vero che sto seduto qui.» Si tolse la pipa dalla bocca e la posò sul caminetto, poi rimase un momento indeciso (inconsciamente, per lunga abitudine, infilò le mani dove avrebbero dovuto trovarsi le tasche dei pantaloni, e lasciò cadere meditabondo il mento sul petto), poi disse: «Beh, non mi sono mai sentito così stupido. L'Uomo Pietrificato si è venduto tutto, e ora quel bugiardo matricolato ha finito per vendersi il suo fantasma! Figlio mio, se c'è ancora un po' di carità nel tuo cuore per un povero fantasma senza amici come me, non andare a dirlo in giro. Pensa come ti sentiresti tu se ti fossi comportato allo stesso modo». Sentii il suo passo maestoso svanire in lontananza, un gradino dopo l'altro giù per le scale e per la strada deserta, e mi rincrebbe che se ne fosse andato, poveraccio... e ancor più che si fosse portato via la mia coperta e il mio semicupio. ÉMILE ZOLA Il fantasma di Angeline 1. Sono trascorsi ormai quasi due anni, dal giorno in cui, in sella alla mia bicicletta, percorrevo un isolato viottolo di campagna nella regione di Orgevai, proprio a nord di Poissy, quando rimasi fortemente sorpreso dall'apparizione improvvisa di una grande villa, vicina alla strada. Scesi dalla bicicletta per vederla meglio. Si ergeva sotto il cielo grigio di novembre, mentre il vento freddo spazzava via le foglie cadute; era una costruzione in mattoni, non rispondente a uno stile particolare, nel mezzo di un vasto giardino, fitto di alberi vecchi. Ma ciò che la rendeva insolita, ciò che di fatto le conferiva un'inquietante singolarità, da cui scaturiva un profondo turbamento, era il terribile stato di abbandono in cui era stata lasciata. E infatti la villa era proprio abbandonata, giacché uno dei cancelli di ferro era scardinato, e su una grossa tavola di legno, una scritta in vernice, sbiadita dalla pioggia, annunziava che la proprietà era in vendita. Perciò mi inoltrai nel giardino, in preda a una curiosità frammista a un senso di inquietudine. La casa doveva essere disabitata da trenta o forse quarant'anni. Durante numerosi inverni, alcuni mattoni si erano staccati dai cornicioni e dai bordi delle finestre, consentendo la proliferazione di muschio e licheni. I muri
erano attraversati da crepe, che come rughe premature segnavano quella che era una costruzione ancora abbastanza solida, ma della quale nessuno si era più preso cura. Sotto la porta principale, i gradini di pietra, corrosi dal gelo e coperti dalle ortiche e dai rovi, parevano condurre alla soglia della desolazione e della morte. Ma, più di ogni altra cosa, le finestre nude e glauche emanavano un'atmosfera di malinconia: ormai prive di tende, i vetri erano stati frantumati dalle pietre scagliate da qualche bambino di passaggio, e lasciavano intravedere il vuoto tetro delle stanze, come gli occhi aperti di un cadavere, la cui anima sia estinta. Intorno alla casa, il vasto giardino era uno scenario di devastazione. Ciò che una volta era stata un'aiola, era a stento riconoscibile sotto le erbacce cresciute a dismisura; interi sentieri erano stati divorati da piante voraci, la boscaglia era tornata allo stato di foresta vergine, e quel giorno, sotto l'ombra opprimente degli alberi antichi, le cui ultime foglie il vento portava via col suo triste lamento, ebbi l'impressione di trovarmi in un cimitero abbandonato. Vi rimasi a lungo, circondato da quel gemito di disperazione che sembrava provenire da ogni cosa intorno a me. Un terrore sordo, un'inquietudine crescente, opprimevano il mio cuore, eppure ero sopraffatto da una compassione ardente, dal bisogno di sapere, e provare pietà per tutta quell'infelicità e quella sofferenza che mi avvolgevano. Infine mi risolsi a lasciare quel luogo; un po' più avanti, alla biforcazione di due strade, scorsi una specie di locanda, un misero posto dove si poteva bere qualcosa, e vi andai, deciso a soddisfare la mia curiosità, incoraggiando la gente del luogo a chiacchierare. L'unica persona che vi trovai fu una donna anziana, che tra mille lamentele mi servì un bicchiere di birra. Si lamentava del fatto di trovarsi su una strada dimenticata, dove in un'intera giornata non passavano più di due ciclisti. Si mise a chiacchierare senza volerlo; mi raccontò la storia della sua vita, rivelò che la chiamavano «mère Toussaint», che era venuta da Vernon col marito per rilevare l'osteria, e che al principio gli affari erano andati discretamente, ma poi, da quando era rimasta vedova, la situazione era andata di male in peggio. Quando finalmente questo fiume di parole cessò, le chiesi se sapesse qualcosa a proposito della villa lì vicino, e lei tutto a un tratto divenne circospetta, e prese a guardarmi con diffidenza, come se stessi cercando di strapparle un segreto terribile.
«Ah, vi riferite alla Sauvagière, la "casa degli spettri", come la chiamano qui intorno... Non ne so niente, Monsieur: è accaduto prima che venissi qua. La prossima Pasqua saranno esattamente trent'anni, e il fatto risale quasi a quarant'anni fa. Quando ci trasferimmo qui, la villa era già pressappoco nello stato in cui si trova adesso. Le estati e gli inverni si succedono, e lì dentro, oltre a qualche pietra che cade ogni tanto, è tutto immobile.» «Ma», chiesi, «come mai nessuno l'ha comprata, visto che è in vendita?» «Oh, come mai? E chi lo sa!... Beh, corrono tante voci...» Alla fine riuscii a conquistare la sua fiducia, e apparve evidente che lei morisse dalla voglia di raccontarmi cosa diceva la gente. Mi disse, innanzitutto, che nessuna ragazza del villaggio avrebbe mai osato avventurarsi nei giardini della Sauvagière dopo il crepuscolo, perché si diceva che di notte vi vagasse un'anima in pena. Espressi allora il mio stupore per il fatto che si desse credito a una storia simile in un luogo tanto vicino a Parigi. Lei alzò le spalle, e cercò di mascherare il suo indicibile terrore, sforzandosi di apparire tranquilla. «Ma giudicate voi, Monsieur. Perché non è stata venduta? Ho visto tanti probabili acquirenti andare e venire, ma se ne vanno sempre via alla svelta, e nessuno è mai tornato una seconda volta. E una cosa è certa: se qualche visitatore osa penetrare nella villa, accadono cose straordinarie. Le porte sbattono fragorosamente da sole, come se soffiasse un vento terribile; dai sotterranei giunge il suono di pianti, lamenti e singhiozzi; e se qualcuno ha il coraggio di rimanerci ancora un po', una voce che strazia il cuore comincia a chiamare senza arrestarsi "Angeline! Angeline! Angeline!", in un tono così angoscioso, da gelare il midollo nelle ossa... Sono fatti provati, nessuno può negarli.» Vi assicuro che cominciai a provare una certa agitazione, e un brivido mi corse lungo la schiena. «Ma chi è Angeline?» «Monsieur, vedo che siete deciso a conoscere l'intera storia, ma vi ripeto che io, personalmente, non so nulla.» Cionondimeno, finì col raccontarmi ogni cosa. Una quarantina d'anni prima, più o meno nel 1858, proprio all'epoca in cui il glorioso Secondo Impero celebrava una vittoria dopo l'altra, Monsieur de G., il quale ricopriva una carica al Palazzo delle Tuileries, perse sua moglie. Aveva avuto da lei una figlia, che allora aveva circa dieci anni. Si chiamava Angeline, ed era di una bellezza indescrivibile, l'immagine vivente di sua madre.
Due anni dopo Monsieur de G. si risposò, e la seconda moglie, vedova di un generale, era anch'essa nota per la sua bellezza. Una gelosia manifesta e terribile crebbe tra Angeline e la sua matrigna: l'una schiacciata dal dolore di vedere sua madre già dimenticata e il suo posto in famiglia così presto usurpato da un'estranea; l'altra ossessionata dalla follia, per aver costantemente davanti a sé il ritratto vivente della donna, il cui ricordo non sarebbe mai riuscita a cancellare. La Sauvagière apparteneva alla nuova Madame de G., e fu lì che una sera, così narrava la storia, nel vedere suo marito abbracciare affettuosamente la figlia, furiosa di gelosia, Madame de G. colpì la ragazzina con una tale violenza, che la poveretta cadde a terra morta, col collo spezzato. La fine della storia era raccapricciante. Il padre, pazzo di dolore, pur di salvare l'assassina, acconsentì a seppellire lui stesso la figlia in una delle cantine della villa. Il corpo vi rimase nascosto per anni, e fu fatta circolare la voce che la bambina fosse andata a stare presso una zia. Poi, un giorno, un cane prese ad abbaiare e a scavare febbrilmente nel terreno, e il crimine venne alla luce: tuttavia, in seguito, lo scandalo fu soffocato dalle autorità delle Tuileries. Monsieur e Madame de G. erano poi morti entrambi, ma Angeline ogni notte tornava per rispondere alla voce che la chiamava pietosamente da quel mondo misterioso, oltre l'oscurità. «Nessuno negherà ciò che vi ho detto», concluse la donna. «È vero, come è vero che sto qui.» Intimorito, ascoltai il suo racconto, turbato dall'assoluta mancanza di plausibilità, eppure affascinato dalla cupa e violenta singolarità di quel dramma. Avevo sentito parlare di Monsieur de G., e mi pareva di aver saputo che si fosse risposato e che poi una tragedia familiare lo avesse colpito. Era vero? Che storia tragica e commovente, lasciarsi travolgere dalla passione, al punto da abbandonarsi a una frenesia esasperata. Il delitto passionale più orribile che mai si possa immaginare: una ragazzina bella come un giorno d'estate, amata e coccolata, colpita a morte dalla sua matrigna, e poi seppellita da suo padre nell'angolo di uno scantinato! Il più sottile degli orrori! Desideravo saperne di più, parlarne, ma mi domandavo a quale fine. Perché non ripartire, portando con me quel racconto terrificante, frutto della fantasia popolare? Rimontai sulla bicicletta e lanciai un ultimo sguardo alla Sauvagière. La notte stava calando, e la casa desolata alle mie spalle mi guardava attraverso gli occhi senza vita delle finestre tetre e vuote, mentre il vento autunna-
le sibilava lamentoso tra gli alberi rinsecchiti. 2. Perché mai quella storia si fissò nella mia mente fino a diventare una tormentosa ossessione? È uno di quei misteri dell'intelletto ai quali è arduo dare una spiegazione. Mi dissi che leggende del genere dovevano essere assai diffuse nelle zone rurali, e che quella in particolare non poteva suscitare in me alcun interesse particolare. A dispetto di ciò, la bambina morta ossessionava i miei pensieri: dolce, tragica Angeline, chiamata ogni notte per quarant'anni da una voce che gemeva tra le stanze vuote di una casa abbandonata! Così, durante i primi due mesi dell'inverno, mi accinsi a condurre delle ricerche. Era ovvio che, se la notizia di una scomparsa tanto drammatica si fosse diffusa, i giornali dell'epoca ne avrebbero certamente parlato. Cercai tra le collezioni alla Libreria Nazionale, ma senza successo: non un rigo era in qualche modo connesso a quella storia. Allora mi rivolsi a delle persone che in quel periodo avrebbero potuto sapere qualcosa, ad alcuni impiegati delle Tuileries: nessuno fu in grado di darmi una risposta esauriente, ma ricevetti soltanto informazioni contraddittorie. Avevo praticamente perso ogni speranza di scoprire la verità, sebbene fossi ancora tormentato dal mistero, quando, una mattina, il destino mi guidò verso una nuova traccia. Ogni due o tre settimane, in virtù di un sentimento di amicizia, affetto e ammirazione, era mia abitudine far visita all'anziano poeta V., che morì lo scorso aprile, all'età di settanta anni. Da molto tempo le sue gambe erano paralizzate, ed era costretto in una poltrona, nel suo piccolo studio di rue Assas, la cui finestra affacciava sui Jardins du Luxembourg. Si avviava verso la fine di una vita di sogni: era vissuto grazie alla sua immaginazione, e si era creato un palazzo favoloso, entro il quale, lontano dal mondo reale, aveva amato e sofferto. Chi di noi non ricorda il suo volto gentile e delicato, i capelli bianchi dai riccioli infantili, l'innocenza giovanile di quegli occhi di un azzurro pallido? Sarebbe falso affermare che non dicesse mai la verità, ma sta di fatto che lui inventava continuamente, e nessuno era mai in grado di capire dove finisse per lui la realtà e cominciasse l'illusione. Era un vecchio affascinante, che da lungo tempo aveva cessato di prender parte alla vita di tutti i giorni, i cui discorsi spesso mi turbavano profondamente, quasi offrissero una vaga e discreta rivelazione
dell'ignoto. Cosicché quel giorno mi ritrovai a chiacchierare con lui presso la finestra, nella sua minuscola stanza, riscaldata come sempre da un fuoco sfavillante. Fuori il gelo era rigido, e i Jardins du Luxembourg, ammantati da un bianco tappeto di neve, offrivano agli occhi un vasto orizzonte di purezza immacolata. Per qualche motivo, a un tratto presi a parlargli della Sauvagière e a raccontargli la storia che ancora mi angustiava: il secondo matrimonio del padre, la gelosia malvagia della matrigna nei confronti della ragazzina che era il ritratto vivente della madre, la sepoltura segreta nel sotterraneo. Mi ascoltò con quel sorriso tranquillo, che mostrava anche nei momenti di tristezza. Seguì un silenzio; i suoi occhi azzurri guardavano lontano, oltre le bianche distese dei Jardins du Luxembourg, e l'ombra di una visione, che promanava da lui, parve tremolargli intorno, incerta. «Conoscevo molto bene Monsieur de G.», disse lentamente. «Conoscevo la sua prima moglie, una donna divinamente bella, e conoscevo anche la seconda, la cui bellezza era assolutamente abbagliante; le amai entrambe appassionatamente, quantunque non lo avessi mai rivelato. Conoscevo anche Angeline, che era ancora più adorabile, e chiunque l'avrebbe venerata... Ma le cose non andarono esattamente nel modo in cui mi avete raccontato.» Cominciai a sentirmi molto eccitato. Era dunque lì, la verità inattesa, che avevo ormai disperato di conoscere? Stavo per scoprire tutto? Fui subito pronto a credere ciò che mi avrebbe detto, e replicai. «Oh, mio caro amico, che servigio mi renderete! Finalmente la mia povera testa si acquieterà. Presto, ditemi tutto, devo sapere.» Ma non mi ascoltò: il suo sguardo era rivolto lontano. Quando alla fine parlò, fu come in un sogno, come se desse vita a quelle cose e a quegli esseri evocati per me. «Angeline, all'età di dodici anni, possedeva già il potere di amare come una donna, con tutta la relativa capacità di provare gioia e dolore. Fu lei a diventare pazza di gelosia nei confronti della seconda moglie di suo padre, che vedeva ogni giorno tra le sue braccia. Soffriva alla vista di quel terribile tradimento da parte della nuova coppia. Stavano offendendo sua madre, ed era lei stessa a torturarsi, era il suo cuore che era ferito. Ogni notte sentiva sua madre chiamarla dalla tomba; e una notte, decisa a raggiungerla, incapace di sopportare ancora il dolore e già colpita a morte dall'eccesso di amore, quella ragazzina di dodici anni si trafisse il cuore con un pugnale.»
«Mio Dio!», gridai. «Come può essere?» Proseguì senza darmi ascolto. «Immaginate con quale terrore, con quale orrore, la mattina dopo Monsieur e Madame de G. scoprirono Angeline, nel suo letto, con un pugnale conficcato nel petto fino al manico! Il giorno dopo avrebbero dovuto partire per l'Italia, e non c'era nessuno nella villa oltre all'anziana governante che aveva allattato la bambina. Temendo di essere accusati di un delitto, si fecero aiutare dalla vecchia governante a seppellire il giovane corpo; e difatti lo seppellirono in un angolo della serra dietro la casa, ai piedi di un gigantesco arancio. E fu lì che venne trovato, quando la vecchia governante raccontò la storia, dopo la morte di entrambi i genitori.» A questo punto cominciò a sorgermi qualche dubbio, e lo guardai preoccupato, domandandomi se stesse inventando. «Ma», chiesi, «credete che Angeline possa davvero ritornare ogni notte, per rispondere a quel pianto straziante, a quella voce misteriosa che la chiama?» «Ritornare, amico mio? Ah, ma tutti ritornano. Perché mai l'anima della povera bambina non dovrebbe ritornare nel luogo in cui ha amato e sofferto? Se una voce la chiama, allora ciò significa che la vita non è ancora ricominciata per lei, ma ricomincerà, siatene certo, perché tutto ricomincia. L'amore non muore mai, e neanche la bellezza... Angeline! Angeline! Angeline! Un giorno rivivrà tra i fiori, sotto il sole.» Decisamente la cosa non mi convinceva, né mi confortava. Il mio vecchio amico V., il poeta bambino, non aveva fatto altro che accrescere la mia agitazione. Era chiaro che stava inventando. Ma forse, come tutti i profeti, era capace di presagire la verità. «Siete certo che tutto ciò che mi avete detto corrisponda alla verità?», mi azzardai a chiedergli con una risata. «Naturalmente. È la verità. La verità non è forse tutt'uno con l'Infinito?» Non lo avrei mai più rivisto, perché un po' di tempo dopo fui costretto a lasciare Parigi. Rimane comunque nella mia memoria lo sguardo pensoso, perso nella bianca distesa dei Jardins du Luxembourg, quieto nella certezza del suo sogno infinito, mentre io ero ancora torturato dal desiderio di stabilire, una volta per tutte, quel fenomeno inafferrabile, la verità. 3. Trascorse un anno e mezzo. Avevo dovuto viaggiare: la mia vita era sta-
ta agitata da molte gioie e molte sofferenze, tra i mari tempestosi che conducono noi tutti verso sponde sconosciute. Ma sempre, a una certa ora, prima distante, poi insinuandosi nella mia coscienza, sentivo quel grido disperato: «Angeline! Angeline! Angeline!». E mi lasciava tremante, pieno di dubbi, tormentato dal bisogno di sapere. Non riuscivo a dimenticare, e per me non esiste nulla di peggio dell'inferno dell'incertezza. Non so dire come accadde che una splendida sera di giugno mi ritrovassi ancora una volta sulla mia bicicletta, nel viottolo deserto, presso la Sauvagière. Avevo desiderato consapevolmente di rivederla? Oppure l'istinto mi aveva indotto a deviare dalla via maestra e a tornare da quelle parti? Erano quasi le otto ma, alla fine di una delle giornate più lunghe dell'anno, il cielo brillava ancora, mentre il sole tramontava trionfalmente, senza una nuvola, un'immensità di azzurro e oro. E l'aria, com'era dolce e delicata, che profumo soave emanava dall'erba e dagli alberi, che sottile delizia la pace immensa dei campi! Come era accaduto la prima volta che mi ero trovato dinanzi alla Sauvagière, sbalordito, saltai giù dalla bicicletta. Per un istante esitai: ma era proprio lo stesso posto? Un bel cancello nuovo luccicava nella luce del sole del tramonto, i muri dei giardini erano stati riparati, e la casa, che a stento intravedevo dietro gli alberi, sembrava aver ritrovato la gaiezza gioiosa della gioventù. Era dunque questa la resurrezione promessa? Angeline era tornata alla vita, rispondendo a quella voce lontana? Ero sulla carreggiata, paralizzato, quando il rumore di un passo strascicato mi fece trasalire. Era la «mère Toussaint», che riportava a casa la mucca da un campo vicino. «E così, non hanno avuto paura?», chiesi, accennando alla casa. Mi riconobbe e fermò l'animale. «Ah, Monsieur, c'è gente che non ha timore neanche di Dio. È un anno che hanno comprato la villa. L'ha presa un pittore, l'artista B., e sapete come sono gli artisti.» Dopodiché lasciò avanzare la mucca, e aggiunse scuotendo la testa: «Beh, staremo a vedere quello che accadrà». Il pittore B., quell'artista delicato e ricco d'inventiva, che aveva fatto il ritratto a tante deliziose parigine! Lo conoscevo appena: ci eravamo stretti la mano a teatro, per cortesia; sono luoghi in cui ci si imbatte in tanta gente! Improvvisamente fui sopraffatto dal desiderio irresistibile di entrare, di confessargli tutto, di implorarlo di dirmi se sapesse la verità su quella Sau-
vagière, il cui mistero mi ossessionava. E, senza indugiare, senza badare al mio abbigliamento da ciclista, che comunque il costume attuale comincia a tollerare, appoggiai la bicicletta al tronco di un vecchio albero coperto di muschio. Al suono chiaro del campanello, la cui leva aveva colpito accidentalmente il cancello, apparve un domestico il quale, allorché gli consegnai il mio biglietto da visita, mi pregò di attendere nel giardino. Il mio stupore crebbe quando mi guardai intorno. La facciata della villa era stata riparata: non vi erano più crepe, né mattoni staccati. I gradini, adornati con delle rose, erano di nuovo la soglia di un'accoglienza gioiosa. Le finestre, vive, ora sorridevano, comunicando la gioia della casa, dietro le bianche tende di pizzo. Quanto al giardino, era stato liberato dalle ortiche e dai rovi, l'aiola era riapparsa, simile a un gigantesco bouquet profumato, i vecchi alberi avevano conosciuto una nuova giovinezza nella loro quieta vecchiaia, sotto la pioggia dorata dello splendido sole primaverile. Quando il domestico riapparve, mi condusse in salotto, e mi informò che il suo padrone si era recato nel villaggio vicino, ma che sarebbe tornato di lì a poco. Ero pronto ad attendere per ore. Trascorsi il tempo esaminando la stanza nella quale mi trovavo: era arredata lussuosamente con grossi tappeti, e le tende di cretonne si intonavano al massiccio divano e alle profonde poltrone. Queste tappezzerie erano così ampie che, quando tutto a un tratto sopraggiunse il crepuscolo, fui colto di sorpresa. Poco dopo, fu quasi completamente buio. Non so quanto aspettai. Evidentemente si erano dimenticati di me, dato che non mi fu portata neanche una lampada. Seduto tra le ombre, cominciai a rivivere tutta la tragica storia, in un sogno ad occhi aperti. Angeline era stata uccisa? O si era trafitta il cuore con un pugnale? Devo confessare che in quella casa, posseduta dagli spettri, sulla quale l'oscurità si era abbattuta ancora una volta, cominciai ad aver paura. Quello che dapprima era solo un senso di inquietudine, un lieve brivido, cominciò poi a crescere oltre misura, fino a diventare un terrore irrazionale, che gelò tutto il mio essere. In un primo momento mi parve di udire dei suoni incerti, provenienti da lontano, probabilmente dalle profondità dei sotterranei: un gemere incerto, singhiozzi soffocati, passi pesanti e spettrali. Qualunque cosa fosse, cominciò ad arrivare su dal basso, ad avvicinarsi, fino a che tutta la casa, nella sua oscurità, parve invasa da una terribile angoscia.
Improvvisamente risuonò l'orribile grido: «Angeline! Angeline! Angeline!», e crebbe al punto che mi sembrò di avvertire un alito freddo sul viso. Una delle porte del salotto si aprì rumorosamente, e Angeline entrò e attraversò la stanza senza vedermi. La riconobbi nella luce fioca che era penetrata insieme a lei dalla sala fuori. Era proprio una bambina morta di dodici anni, incredibilmente bella, con i suoi deliziosi capelli biondi sulle spalle, vestita di bianco, il bianco della terra dalla quale tornava ogni notte. Passò in silenzio, assorta, e svanì attraverso un'altra porta, mentre ancora una volta, ma più lontana, la voce chiamava: «Angeline! Angeline! Angeline!». Rimasi in piedi, la frante sudata, ogni pelo del mio corpo sollevato dal vento terribile che promanava da quell'enigma. Poi, quasi immediatamente, quando il servitore giunse con una lampada, mi resi conto che l'artista B. era lì, mi stava stringendo la mano, e si scusava per avermi fatto attendere così a lungo. Senza provare in alcun modo a proteggere il mio amor proprio, mi affrettai a raccontargli la mia storia, scosso ancora dai brividi. Dapprima mi ascoltò senza stupirsi minimamente poi, allegramente, mi rassicurò alla svelta. «Mio caro, probabilmente ignorate che io sono un cugino della seconda Madame de G. Povera donna! Accusata dell'assassinio di quella bambina che lei amava e che pianse quanto il padre! Soltanto una parte di questa storia è vera: la povera creatura morì proprio qui, ma non per sua mano, per amor del cielo, ma per una febbre improvvisa. Il dolore fu così forte, che i genitori, provando orrore per questa casa, desiderarono non tornarci mai più. Ciò spiega perché la villa fosse rimasta disabitata per tanto tempo mentre loro erano in vita. Quando morirono, seguì una serie interminabile di procedure legali, che ne impedirono la vendita. Io la volevo, l'avevo desiderata per molti anni; e posso assicurarvi che non abbiamo mai visto fantasmi qui!» Il brivido mi riassalì quando mormorai: «Ma ho appena visto Angeline: era qui, solo un momento fa... Quella voce terrificante la chiamava, ed è passata di qui, proprio attraverso questa stanza...». Mi guardò preoccupato, credendo forse che stessi uscendo di senno. Poi all'improvviso scoppiò a ridere: la risata sonora di un uomo felice. «Quella che avete visto è mia figlia. Monsieur de G. le fece da padrino, e volle chiamarla Angeline per devozione alla sua memoria. Deve averla chiamata certamente sua madre, e lei è passata attraverso questa stanza.»
Allora aprì lui stesso la porta e chiamò ancora: «Angeline! Angeline! Angeline!». La bambina ritornò, viva, vibrante di gaiezza. Era lei, con l'abito bianco, i deliziosi capelli biondi sulle spalle, così bella, così radiosa di speranza, da sembrare la primavera stessa, recante in forma di gemma la promessa dell'amore, la perenne felicità della vita. Che spettro incantevole questa bambina, rinata alla vita dall'altra che era morta. La morte era stata vinta. Il mio vecchio amico, il poeta V., non aveva mentito; nulla è perduto per sempre, la bellezza e l'amore, tutto ricomincia. Le loro madri le chiamano, queste ragazzine di oggi, queste amanti di domani, ed esse rivivono nel sole, tra i fiori. La casa era stata prigioniera della promessa di questo risveglio; ora, era ancora più giovane e felice nella gioia riscoperta della vita eterna. ARTHUR CONAN DOYLE La mano È ormai una circostanza nota a tutti che Sir Dominic Holden, il famoso chirurgo indiano, mi elesse a suo erede, e che la sua morte portò un grande cambiamento nella mia vita in una sola ora perché, da medico povero e oberato dal lavoro com'ero, mi cambiò in un agiato proprietario terriero. Molte persone sono anche consapevoli del fatto che c'erano almeno cinque persone che aspiravano a quell'eredità, e che la scelta di Sir Dominic all'apparenza sembrò arbitraria e al tempo stesso stravagante. Potrei comunque assicurare queste persone che sbagliano giudicando così la decisione e che, sebbene abbia conosciuto Sir Dominic soltanto negli ultimi anni della sua vita, ci sono state delle ragioni molto vere e reali perché lui mi dimostrasse la sua benevolenza. Per essere esatti - sebbene io dica queste cose di me stesso - non c'è mai stato nessuno che abbia fatto per un altro uomo quello che io ho fatto per il mio zio indiano. Non mi illudo che questa storia sia creduta da tutti, ma, proprio perché è così insolita, sento che mancherei al mio dovere se non ne lasciassi una testimonianza scritta: perciò eccola qui, ed è affar vostro se la crederete vera o no. Sir Dominic Holden, C.B., K.C.S.L, e Dio solo sa quanti altri titoli avesse, era il più famoso chirurgo indiano dei suoi tempi. Dapprima cominciò la sua professione nell'esercito, poi iniziò la carriera di medico civile a Bombay e visitò tutta l'India, chiamato a far parte di vari consulti. Il suo nome sarà sempre ricordato come quello del fondatore dell'Ospedale O-
rientale che non solo istituì, ma che diresse sempre. Purtroppo, arrivò il momento in cui la sua costituzione ferrea cominciò a mostrare segni di stanchezza perché, in verità, l'aveva sottoposta a sforzi enormi, e i suoi colleghi medici (non del tutto disinteressati su questo punto) lo consigliarono all'unanimità di ritornare in Inghilterra. Lui cercò di resistere il più possibile ma, alla fine, cominciò a soffrire di disturbi così forti che lo forzarono a ritornare, ormai malato e malridotto, nella sua Contea nativa dello Wiltshire. Là comprò una grande tenuta insieme a un antico castello vicino alla pianura di Salisbury e si dedicò in vecchiaia allo studio della Patologia Comparata, materia che era stata sempre il suo hobby di uomo dotto e nella quale era diventato una vera e propria autorità. Com'è facile immaginare, noi membri della famiglia avevamo accolto con molto entusiasmo la notizia del ritorno in Inghilterra di questo zio ricco e senza figli. Da parte sua, lui non si dimostrò particolarmente generoso e ospitale, ma ebbe il buon senso di far vedere che si considerava un membro della famiglia e, a turno, ci invitò a fargli visita. Dal racconto dei miei cugini, queste visite non erano affatto allegre, e fu perciò con un po' di esitazione che anch'io accolsi alla fine l'invito a recarmi a Rodenhurst. Mia moglie era stata così accuratamente esclusa dall'invito, che il mio primo impulso fu quello di rifiutarmi di andare, ma bisognava avere a cuore gli interessi dei nostri figli e perciò, col suo consenso, un giorno di ottobre partii per il Wiltshire per fare questa visita, non immaginando affatto quello che avrebbe implicato. La tenuta di mio zio era situata là dove la terra coltivabile cominciava ad innalzarsi per formare le colline rotonde di calcare che sono caratteristiche di quella regione. Mentre mi recavo al castello, lasciata la stazione di Dinton, nella luce crepuscolare di quel giorno autunnale, fui colpito dallo strano, quasi misterioso panorama. Le poche casette dei contadini, situate qua e là, sembravano rimpicciolite da quello che era rimasto e che si poteva ancora vedere della vita preistorica: resti enormi ed imponenti, e il presente sembrava solo un sogno, mentre il passato pareva una realtà incongrua, ma piena di maestosità. La strada si snodava attraverso valli formate da colline erbose che si susseguivano l'una all'altra: la cima di ciascuna era stata pareggiata e vi si ergevano fortificazioni di varie forme, alcune rotonde, altre quadrate, ma così grandi da aver sfidato per molti secoli il vento e le piogge. Alcuni credono che siano romane, altri britanniche, ma la loro vera origine e la ra-
gione per cui questo particolare tratto della regione sia così pieno di fortificazioni è sempre rimasto un mistero. Qua e là, nei pendii lunghi, levigati, dal colore verde oliva, si ergevano dei piccoli rigonfiamenti rotondi o tumuli. Sotto di essi giacevano i resti della razza che scavò così profondamente le colline, ma le tombe di questi popoli non ci spiegano nulla, ci restituiscono soltanto urne piene delle ceneri raccolte dopo la cremazione: ciò che rimane di chi - un giorno - fu un uomo che lavorò e visse sotto il sole. Attraversai quella regione misteriosa e mi avvicinai alla residenza di Rodenhurst; la casa, come mi accorsi subito, era in armonia con la natura che la circondava. Due pilastri rotti e consumati dal tempo, sormontati da emblemi araldici nobiliari nelle s'tesse condizioni, si ergevano da un lato e dall'altro dell'entrata di un viale alquanto trascurato. Un vento freddo soffiava fischiando attraverso gli olmi che lo fiancheggiavano, e l'aria era piena di foglie volteggianti. All'estremità di questo triste viale c'era l'unica lampada accesa che illuminava il luogo con una luce giallastra. Nella semioscurità della notte incombente, vidi un edificio lungo e basso che aveva due irregolari ali laterali sporgenti, con cornicioni profondi, un tetto inclinato in rigida pendenza, mentre i muri esterni erano intersecati da strisce di legno in stile Tudor. La luce allegra di un fuoco filtrava attraverso le grandi finestre verdi istoriate, a sinistra di un basso portico, sotto cui c'era la porta d'ingresso. La stanza era lo studio di mio zio, e qui mi condusse il maggiordomo perché potessi fare la sua conoscenza. Lui si era rannicchiato vicino al fuoco perché l'umidità e il freddo dell'autunno inglese lo facevano tremare. La lampada era spenta, e io vedevo soltanto il riverbero delle braci accese illuminare una grande faccia ossuta, con naso e guance da pellerossa e rughe profonde che solcavano la pelle, dagli occhi fino al mento, quasi fossero segni sinistri di nascosti fuochi vulcanici. Quando entrai, si alzò di scatto con cortesia un po' antiquata, e mi diede un cordiale benvenuto a Rodenhurst. Allo stesso tempo, mentre la lampada accesa veniva portata nella stanza, mi accorsi che un paio di occhi azzurro pallido mi scrutavano sotto due sopracciglia ispide; mi davano l'impressione di esploratori nascosti in un cespuglio, e mi sembrava che questo bizzarro zio leggesse fino in fondo attentamente il mio carattere, con tutta la disinvoltura di qualcuno solito osservare gli altri, come un uomo che conosce il mondo ed è pieno di esperienza.
Da parte mia non gli staccavo gli occhi di dosso perché non avevo mai visto un uomo il cui aspetto fosse più interessante del suo. La sua corporatura era di struttura gigantesca ma era tanto dimagrito che la giacca gli cadeva in linea retta giù dalle spalle larghe ma ossute, con un effetto sorprendente. Tutte le membra erano grandi, ma emaciate, e non riuscivo a distogliere gli occhi dai suoi polsi nodosi e dalle lunghe mani deformate. Ma i suoi occhi - quegli occhi azzurro chiaro così penetranti - erano la più suggestiva delle sue caratteristiche. Quel che notai non era solo il loro colore, né quel ciuffo di peli sotto cui rimanevano nascosti, ma la loro espressione. Dato che sia l'apparenza che il portamento dell'uomo erano autoritari, ci si sarebbe aspettati di vedere una certa arroganza nei suoi occhi: invece, vidi lo sguardo di uno spirito intimorito e sconfitto; sembrava lo sguardo furtivo e pieno di attesa di un cane che ha visto il padrone prendere la frusta dalla rastrelliera. In quanto a me, non potei fare a meno di fare la mia diagnosi medica dopo aver guardato quegli occhi critici ma supplichevoli al tempo stesso, e pensai che soffrisse di una malattia mortale e che, sapendo di dover morire all'improvviso, vivesse con quel terrore. Questo pensai allora, ma il mio giudizio non era esatto, come gli avvenimenti dimostrarono; sto menzionando tutto ciò per aiutarvi a capire l'espressione che captai nel suo sguardo. Il benvenuto di mio zio, come ho detto, fu cortese e, dopo un'ora circa, mi trovai seduto a tavola fra lui e sua moglie, mentre cenavo in maniera confortevole con delle portate sane, esotiche e piccanti, e con un cameriere orientale e silenzioso dietro la sua sedia. La vecchia coppia aveva raggiunto quella fase di tragica imitazione dell'aurora della vita, quando marito e moglie, perduti o dispersi coloro con cui hanno vissuto intimamente, si trovano da soli di nuovo faccia a faccia, dopo aver portato a termine il loro lavoro, e con la morte che si avvicina in fretta. Coloro che hanno raggiunto questo stadio della vita con dolcezza e amore, e che possono far diventare l'inverno una gentile estate di san Martino, sono giunti come vincitori attraverso le dure prove della vita. Lady Holden era una donna piccola e vivace dagli occhi gentili, e la sua espressione, mentre guardava il marito, ne tradiva il carattere. Eppure, mentre notai un amore reciproco nei loro sguardi, osservai al tempo stesso un reciproco terrore, e riconobbi nella faccia di lei il riflesso di quella paura che avevo scorto in quella di lui.
La loro conversazione era qualche volta allegra e qualche volta triste; ma anche quando parlavano allegramente, c'era una nota forzata in loro, mentre, quando parlavano tristemente, c'era una inflessione naturale: il che mi fece capire che i loro due cuori, pieni di preoccupazione, battevano all'unisono vicino a me. Stavamo seduti bevendo il primo bicchiere di vino e i domestici avevano lasciato la stanza, quando la conversazione cadde su un argomento che ebbe un effetto notevole sui miei ospiti. Non riesco a ricordare cosa fu che condusse il discorso sull'argomento del Soprannaturale, ma terminai la conversazione dicendo loro che tutto ciò che è anormale nelle esperienze psichiche costituiva una materia cui io, come molti altri neurologi, avevo dedicato moltissima attenzione. Conclusi raccontando le mie esperienze quando, come membro della Società per le Ricerche Psichiche, avevo formato un comitato di tre persone che passarono una notte in una casa abitata dagli spiriti. La nostra avventura non fu né interessante né convincente, ma quella storia, così come l'avevo raccontata, aveva destato un grande interesse nei miei ospiti. Entrambi mi ascoltarono avidamente in silenzio, ogni tanto scambiandosi uno sguardo d'intesa che io captai senza poterlo capire. Lady Holden si alzò immediatamente dopo e lasciò la stanza. Sir Dominic mi porse la scatola dei sigari e, per un po' di tempo, fumammo in silenzio. Quella sua grande mano ossuta stava tremando mentre portava alle labbra il sigaro, e avvertii che i nervi dell'uomo vibravano come corde di violino. Il mio istinto mi disse che era sul punto di farmi delle confidenze intime, e mi astenni dal parlare per paura di interrompere la sua decisione. Alla fine si voltò verso di me con un gesto spasmodico, come fa un uomo che ha rotto gli ultimi indugi. «Da quel poco che ho visto di voi, mi pare, dottor Hardacre, che siate proprio l'uomo che volevo incontrare», mi disse. «Son felice di sentirmelo dire, signore.» «Mi sembra che la vostra testa pensi ed agisca in maniera fredda ed equilibrata. Mi dovrete esonerare da qualsiasi desiderio abbia di adularvi, perché le circostanze sono troppo serie per potermi permettere di non essere sincero. Voi avete una conoscenza speciale di queste cose, ed è ovvio che le giudicate da un punto di vista che toglie loro ogni terrore volgare. Scommetto che la vista di un fantasma non vi turberebbe molto, no?» «Non credo, signore.» «Vi interesserebbe, magari?»
«Moltissimo.» «Da osservatore psichico, probabilmente investighereste la cosa in maniera impersonale, come un astronomo studia una cometa di passaggio?» «Precisamente.» Sospirò profondamente. «Credetemi dottor Hardacre, una volta anch'io avrei parlato come parlate voi ora. I miei nervi erano famosi in India. Neppure il Tempo dell'Ammutinamento riuscì a scuotermi per un minuto. Eppure, voi ora vedete come sono ridotto: l'uomo più pauroso, forse, di tutta la Contea del Wiltshire. Non parlate di questo argomento con troppo coraggio, altrimenti potreste trovarvi sottoposto ad un "test" prolungato, proprio come lo sono io... Un "test" che potrà solo finire in due modi: o al manicomio, o al cimitero.» Aspettavo con pazienza che decidesse se il proseguire nelle sue confidenze fosse la cosa giusta da fare. Infatti il suo preambolo - non c'è bisogno di dirlo - mi aveva riempito d'interesse e speranza. «Da qualche anno, dottor Hardacre», continuò, «la vita di mia moglie - e la mia - è diventata molto infelice per una causa così grottesca da rasentare il ridicolo. Eppure il protrarsi di questa "convivenza" non l'ha resa più facile a sopportarsi: al contrario, col passare degli anni, i miei nervi sono peggiorati, sono addirittura a pezzi per il costante logorio. Se non avete paura fisicamente, dottor Hardacre, gradirei moltissimo la vostra opinione su questo fenomeno che ci angoscia in tale maniera.» «La mia opinione, imperfetta com'è, sarà a vostra completa disposizione. Posso chiedervi che cos'è questo fenomeno?» «Credo che la vostra esperienza avrà un più alto valore di evidenza se voi non saprete prima nulla di ciò che potrete vedere. Voi stesso siete consapevole delle scappatoie che può trovare il lavorio mentale dell'inconscio, e delle impressioni soggettive che, suggerite da una mente scettica, possono influenzare il vostro giudizio. È meglio guardarsi da loro in anticipo.» «Che cosa dovrò fare allora?» «Ve lo dirò io. Vi dispiacerebbe venire con me da questa parte?» Lasciata la sala da pranzo, mi condusse giù per un lungo corridoio delimitato da una porta. Dentro, c'era una grande e nuda stanza adibita a laboratorio, piena di strumenti scientifici e bottiglie. Da una parte, una intera parete era occupata da una mensola piena di vasi di vetro, posti l'uno accanto all'altro, che contenevano esemplari patologici e anatomici. «Come vedete, mi diletto ancora dei miei vecchi studi», disse Sir Dominic. «Questi vasi sono solo una rimanenza di quella che fu una volta una
magnifica collezione ma, sfortunatamente, ne ho perduta la maggior parte quando la mia casa di Bombay fu distrutta da un incendio nel 1892. Fu una disgrazia per me e per più di un motivo. Avevo degli esemplari di molte malattie rare, e la mia collezione splenica era molto probabilmente unica. Qui ci sono solo i sopravvissuti.» Li guardai e vidi che erano veramente di grande valore e rarità dal punto di vista patologico: organi gonfi, cisti aperte, ossa storte, parassiti orribili, una mostra unica dei prodotti dell'India! «C'è qui, come vedete, un piccolo divano», disse il padrone di casa. «Eravamo ben lontani dal volervi offrire un giaciglio così modesto ma, poiché le cose hanno preso questa piega, ci fareste la massima gentilezza se acconsentirete a passare la notte in questa stanza. Ma vi prego di dirmi senza esitare se questa idea vi ripugna.» «Al contrario», dissi. «Mi piace molto.» «La mia stanza è la seconda a sinistra e, se sentirete il bisogno di compagnia, chiamatemi, e verrò subito da voi.» «Credo che non avrò ragione alcuna di disturbarvi.» «Le probabilità che io stia dormendo sono scarse. Non dormo molto, e perciò non esitate a chiamarmi.» Essendoci messi d'accordo, ritornammo da Lady Holden in salotto e parlammo di argomenti più frivoli. Non esagero quando affermo che la prospettiva di quell'avventura notturna mi faceva piacere. Non penso di aver un coraggio fisico maggiore di altre persone, ma la conoscenza di un certo argomento porta via quei vecchi e indefiniti terrori che più spaventano una mente piena di immaginazione. Il cervello umano è capace di una sola emozione alla volta e, se è pieno di curiosità o di entusiasmo scientifico, non c'è posto per la paura. È pur vero che mio zio aveva egli stesso condiviso questa storia, ma io non potevo fare a meno di riflettere che i quarant'anni passati in India potevano essere la vera causa del suo esaurimento nervoso, e non solo quelle esperienze psichiche in cui era caduto. Io almeno avevo nervi e cervello saldi come acciaio, e fu con un senso di eccitazione, non dissimile da quello che prova un cacciatore quando si piazza vicino alla tana della sua preda, che chiusi la porta del laboratorio e, spogliandomi a metà, mi stesi sopra il sofà coperto da una morbida pelliccia. Quella stanza non era un luogo ideale per dormire. L'aria era piena di
molti odori di sostanze chimiche, e quello dello spirito metilato era il più forte. Né ciò che decorava la stanza era riposante. Quell'odiosa fila di vasi di vetro pieni di quello che rimaneva di malattie e sofferenze, si stendeva proprio davanti ai miei occhi. Non c'erano scuri davanti alle finestre e la luna, nel suo terzo quarto, inondava di luce bianca la stanza, tracciando sulla parete opposta un riquadro di chiarore arabescato dai vetri a piombo della finestra. Quando spensi la candela, questo quadrato brillante aveva un aspetto strano, quasi sconvolgente. Regnava nella casa un silenzio assoluto e ininterrotto, così che il frusciare dei rami degli alberi del giardino mi arrivava alle orecchie come un suono dolce e rassicurante. Può darsi che fosse quel suono che agiva come una ipnotica ninna-nanna con il suo gentile mormorio, oppure fosse il risultato del mio giorno alquanto faticoso che mi faceva ogni tanto chiudere gli occhi, ma per quanto lottassi contro il sonno e volessi conservare la mia lucidità di mente, alla fine caddi in un sonno pesante e senza sogni. Mi svegliò un suono che proveniva dall'interno della stanza e, all'istante, mi sollevai su un gomito sul sofà. Erano passate diverse ore, perché il quadrato di luce sulla parete aveva cambiato posizione ed era quasi obliquo ai piedi del mio letto. Il resto della stanza era completamente buio. Dapprima non riuscii a veder nulla ma, dopo un po', quando i miei occhi si abituarono all'oscurità, mi accorsi con una tale eccitazione che tutta la mia scientifica conoscenza non poteva prevenire, che qualcosa si muoveva lungo la mensola della parete. Mi giunse alle orecchie un suono trascinato come di pantofole e, a malapena, riuscii a vedere una figura umana che furtivamente avanzava dalla direzione della porta. Mentre entrava nel quadrato di luce lunare, vidi chiaramente com'era e che cosa faceva. Era un uomo basso e tozzo, vestito di una specie di tunica grigio scuro che gli arrivava fino ai piedi. La luna gli illuminava la faccia e vidi che era scura come cioccolata, con una crocchia di capelli neri, come quella delle donne, sul dietro del capo. Camminava lentamente, tenendo gli occhi fissi sulla fila di vasi che contenevano quei raccapriccianti resti umani. Sembrava che esaminasse ogni vaso con attenzione prima di passare a quello vicino. Quando arrivò alla fine della fila, che era proprio davanti al mio letto, si fermò, mi guardò, e alzò le mani con una espressione di disperazione, svanendo dalla mia vista.
Ho detto che alzò le mani, ma avrei dovuto dire che alzò le braccia perché, mentre mostrava quell'atteggiamento di disperazione, notai una cosa insolita nella sua figura. Aveva solo una mano! Le maniche si abbassarono mentre alzava le braccia e vidi la mano sinistra chiaramente, mentre la destra era ridotta a un moncherino nodoso e sgradevole a vedersi. In tutte le altre cose appariva naturale: lo avevo visto e sentito così chiaramente che avrei potuto benissimo credere che fosse uno dei servi indiani di Sir Dominic entrato nella stanza a cercare qualcosa. Fu solo quando sparì all'improvviso, che mi fece pensare a qualcosa di più sinistro. Mi alzai di scatto, accesi la candela, e guardai in ogni angolo della stanza. Non c'era alcun segno del visitatore, e fui così costretto ad ammettere che nella sua apparizione c'era qualcosa al di fuori delle normali leggi della natura. Non riuscii a dormire per tutto il resto della notte, ma non accadde nient'altro e non fui più disturbato. Io mi alzo presto la mattina, ma mio zio si alzava ancora prima di me perché lo trovai che passeggiava sul prato a fianco della casa. Quando mi vide uscire, mi venne incontro correndo, pieno di curiosità. «Ebbene!», gridò. «Lo avete visto?» «Un indiano con una mano sola?» «Proprio lui.» «Sì, l'ho visto», e gli raccontai quello che era successo. Quando ebbi finito, mi condusse nel suo studio. «Abbiamo un po' di tempo prima di colazione», mi disse, «e sarà sufficiente a darvi la spiegazione di questo straordinario avvenimento... per quanto io possa spiegare quello che, in se stesso, è del tutto inspiegabile. Prima di tutto, vi devo dire che per quattro anni, sia a Bombay, o sulla nave, o qui in Inghilterra, non ho mai potuto dormire una sola notte senza essere svegliato da quell'uomo. Ora vi spiegherò perché sono diventato l'ombra di me stesso. Lui fa sempre la stessa cosa. Appare vicino al mio letto, mi sveglia scuotendomi violentemente per le spalle, passa dalla mia camera al laboratorio, cammina lentamente davanti alla fila di vasi e poi svanisce. Per più di mille volte ha fatto questa stessa cosa.» «Che cosa vuole?» «Vuole la sua mano.» «La sua mano?» «Sì. Accadde in questo modo. Circa dieci anni fa fui chiamato per un
consulto a Peshawar e, mentre ero là, qualcuno mi chiese di dare un'occhiata alla mano di un nativo indiano che passava con una carovana. Quell'uomo veniva da una delle tribù montane che vivevano lontano, dietro i monti del Kaffristan. Parlava il Pushtoo, un dialetto di cui avevo qualche cognizione, e riuscii almeno a capirlo. Soffriva di un molle gonfiore sarcomatoso in una delle articolazioni del metacarpo e gli feci capire che poteva sperare di salvarsi la vita solo perdendo la mano. Ci misi molto tempo prima di persuaderlo, ma finalmente acconsentì all'operazione e mi chiese, quando questa fu terminata, quale onorario richiedessi. Quel pover'uomo era poco più di un mendicante, perciò l'idea di farmi pagare era assurda, ma gli risposi, scherzando, che il mio onorario sarebbe stata la sua mano che pensavo di aggiungere alla mia collezione. Con mia grande sorpresa, sollevò delle grandi difficoltà alla mia richiesta e mi spiegò che, secondo la sua religione, era una cosa importantissima che il suo corpo dovesse essere intero dopo la morte per formare un perfetto involucro per lo spirito. Questa credenza, naturalmente, è molto antica, e le mummie d'Egitto sono un esempio di analoghe superstizioni. Gli risposi che la sua mano era già tagliata; gli chiesi come intendesse conservarla. Mi rispose che l'avrebbe messa sotto sale e l'avrebbe portata dappertutto con sé. Io gli suggerii che la mano poteva essere più sicura se me ne fossi preso cura io, perché avevo dei mezzi migliori del sale per conservarla. Quando si convinse che intendevo veramente conservarla con attenzione, non si oppose più. "Ricordati, però, signore", mi disse, "che io la vorrò indietro quando morirò." Mi venne da ridere a quelle parole e la faccenda terminò lì. Io ritornai al mio lavoro e l'uomo deve aver continuato il viaggio e raggiunto l'Afghanistan. Bene, come vi ho detto ieri sera, la mia casa fu quasi distrutta da un incendio a Bombay. La metà della casa fu bruciata e, tra le altre cose, la mia collezione di patologia fu quasi del tutto distrutta dal fuoco. Quello che vedete sono solo i pochi esemplari rimastimi. La mano dell'uomo delle montagne andò bruciata con tutto il resto, ma, al momento, non vi detti alcun peso. Accadde esattamente sei anni fa. Quattro anni fa, due anni dopo l'incendio, fui svegliato una notte da qualcuno che mi tirava con forza una manica. Mi misi a sedere pensando che fosse il mio mastino favorito che volesse svegliarmi. Invece vidi il mio paziente indiano di tanto tempo prima, vestito con la sua lunga tunica gri-
gia che è quasi la divisa della sua gente. Teneva alzato il moncherino e mi guardava con aria di rimprovero. Dopo, andò verso i vasi che, a quel tempo, tenevo nella mia stanza e li esaminò uno per uno, dopodiché ebbe un gesto di rabbia e svanì. Mi resi conto che era appena morto e che era venuto a prendersi la mano perché gli avevo promesso che l'avrei conservata con cura. Bene, dottor Hardacre, adesso sapete tutto. Ogni notte di questi ultimi quattro anni, lui ha fatto la sua apparizione. È una cosa semplice, dopotutto: ma mi ha ridotto così, consumato come una roccia su cui cade una goccia d'acqua. Mi ha fatto venire una terribile insonnia perché non riesco a dormire mentre aspetto la sua venuta. Questo ha avvelenato la mia vita nella vecchiaia e ha avvelenato anche la vita di mia moglie, perché lei divide con me questa grande disgrazia. Tutti e due siamo in debito con voi per il vostro coraggio perché, quando dividiamo la nostra sfortuna con un amico, anche per una sola notte, essa diviene meno pesante e ci rassicura circa la nostra sanità mentale. Spesso, infatti, siamo portati ad avere dubbi in proposito.» Questo fu il curioso racconto di Sir Dominic, che mi fu fatto in confidenza; una storia che sarebbe sembrata a molti grottesca e impossibile ma che, dopo la mia esperienza della notte precedente, unita alla mia conoscenza di certe cose, io accettavo come un fatto vero. Mi misi a pensare a quanto mi aveva detto con la massima concentrazione, e cercai di ricordare tutte le mie letture e i miei esperimenti perché mi fossero di aiuto in quella faccenda. Dopo colazione annunciai il mio ritorno a Londra con il primo treno, provocando una grande sorpresa nei miei padroni di casa. «Mio caro dottore», disse a voce alta Sir Dominic, che era addolorato, «mi fate sentire in colpa per aver mancato ai miei doveri di ospitalità, avendovi così coinvolto in questo infelice affare. Avrei dovuto portare da solo questa croce.» «Ma è proprio questa faccenda che mi fa andare a Londra», gli risposi. «Sbagliate nel dire che l'esperienza della notte scorsa è stata sgradevole. Al contrario: sto per chiedervi il permesso di ritornare stasera e passare nel laboratorio ancora una notte. Desidero moltissimo ricevere il nostro visitatore notturno.» Mio zio era assai curioso di sapere quello che intendevo fare, ma ebbi paura di dargli delle false speranze, e perciò non dissi nulla. Dopo pranzo, mi recai nel mio laboratorio e lessi di nuovo un brano da un libro di recen-
te pubblicazione sull'occultismo di cui mi ero ricordato, e che mi era rimasto in mente dopo la lettura. «Nel caso di spiriti che visitano la terra», scriveva l'autore, «un'idea dominante che li ossessiona al momento della morte è sufficiente a trattenerli in questo mondo della materia. Agiscono come anfibi tra questa vita e l'altra poiché sono capaci di passare dall'una all'altra, come una tartaruga di mare può passare dalla terra all'acqua. Le cause che possono trattenere così fortemente legata alla vita un'anima il cui corpo l'ha abbandonata, sono generalmente cause di emozioni violente. L'avarizia, la vendetta, l'ansietà, l'amore e la pietà, sono cause riconosciute a produrre questo effetto. Di regola, esse si formano per un desiderio insoddisfatto e, quando questo viene esaudito, il legame materiale finisce. Ci sono molti esempi documentati di casi del genere che mostrano la particolare persistenza di questi visitatori, e ci sono altrettante testimonianze della loro sparizione quando il loro desiderio è stato esaudito o, in alcuni casi, quando un compromesso soddisfacente è stato raggiunto.» «Un compromesso soddisfacente è stato raggiunto...»: queste erano le parole che avevo avuto in testa tutta la mattina e che adesso avevo potuto verificare nel testo originale. Non si poteva in questo caso raggiungere una vera riparazione... ma un compromesso ragionevole, sì! Mi recai in fretta in treno all'Ospedale Shadwell dei Marinai, dove il mio vecchio amico Jack Hewett era il Primario di chirurgia. Senza dargli tante spiegazioni, gli feci capire che cosa volevo. «Una mano umana scura!», esclamò sorpreso. «Ma che cosa ne vuoi fare?» «Non importa. Un giorno te lo dirò. So che le corsie sono piene di indiani.» «Sì, è vero. Ma una man...» Pensò un po', poi suonò il campanello. «Travers», disse a uno studente suo assistente, «che cosa ne è stato delle mani del Lascar che abbiamo amputato ieri? Voglio dire quell'uomo che lavorava sul molo dell'India Orientale e che fu intrappolato nella manovella del vapore?» «Sono nella stanza mortuaria, signore.» «Mettetene una nei disinfettante, fatene un pacco e datelo al dottor Hardacre.» E così mi ritrovai di nuovo a Rodenhurst prima di pranzo, con quella
strana soluzione trovata durante la giornata a Londra. Non dissi nulla a Sir Dominic, ma quella notte dormii nel laboratorio e misi la mano del Lascar in uno dei vasi di vetro posti alla estremità del mio sofà. Ero così pieno di interesse per il risultato del mio esperimento che di dormire non era possibile parlare. Mi misi a sedere vicino alla lampada oscurata e aspettai con impazienza. Questa volta lo vidi subito. Apparve vicino alla porta, poco chiaro dapprima e poi divenne sempre più distinto, e assunse la forma di un uomo vivo. Le pantofole sotto la tunica grigia erano rosse e senza tacco e perciò producevano quel suono basso e strascicato mentre camminava. Come la notte precedente, passò lentamente davanti ai vasi di vetro finché si fermò davanti a quello che conteneva la mano. L'afferrò tremando di desiderio, la tirò fuori e la esaminò con attenzione ma poi, con la faccia livida d'ira e di delusione, la gettò per terra. Ci fu un rumore che risuonò per tutta la casa e, quando alzai gli occhi, l'indiano mutilato era sparito. Un momento dopo la porta si spalancò, e Sir Dominic si precipitò dentro. «Siete ferito?», gridò. «No, sono solo profondamente deluso.» Lui guardò con stupore il vaso rotto e la mano scura che giaceva sul pavimento. «Mio Dio!», gridò, «che cosa è questo?» Gli raccontai della mia idea e del fiasco che ne era seguito. Ascoltò attentamente, ma scosse la testa. «Era una buona idea», disse, «ma non credo che le mie sofferenze possano finire così presto. Insisto che voi non dormiate più in questa stanza. La paura che stanotte qualcosa potesse esservi accaduta, quando ho sentito quel rumore, mi ha causato grande pena, la più grande di quelle subite fino ad ora. Non vi esporrò più ad una simile esperienza.» Mi permise comunque di passare quello che restava della notte dove mi trovavo, e io giacqui sul sofà pensando con apprensione al problema e sentendomi deluso del mio insuccesso. Quando spuntò il giorno, vidi sul pavimento la mano del Lascar che mi faceva ricordare sempre di più il mio fiasco. Stavo lì a guardarla, quando un'idea mi attraversò la mente come un proiettile e mi fece alzare dal letto tremando di eccitazione. Raccattai quello schifoso oggetto dal punto dove era caduto. Sì, era proprio così: la mano del Lascar era la mano sinistra. Presi il primo treno e tornai in città. Non appena arrivai, mi affrettai ad
andare subito all'Ospedale dei Marinai. Mi ricordavo che ambedue le mani del Lascar erano state amputate, ma avevo paura che quell'organo così prezioso che stavo cercando potesse essere stato cremato. Questa mia ansia passò presto: la mano era ancora nella sala mortuaria. E così ritornai quella sera a Rodenhurst, dopo aver adempiuto alla mia missione e con quel che occorreva al mio esperimento. Ma Sir Dominic Holden non volle saperne di farmi dormire di nuovo nel laboratorio. Fu irremovibile e non ascoltò le mie preghiere. Il suo senso dell'ospitalità era stato offeso e non voleva ripetizioni di ciò che era accaduto. Perciò lasciai la mano come avevo fatto con l'altra la notte prima, e fui messo a dormire in una comoda camera in un'altra ala della casa, distante dalla scena della mia precedente avventura. Ma, nonostante tutto, ero destinato ad essere svegliato: nel cuore della notte il padrone di casa entrò di corsa nella mia camera tenendo in mano una lampada. La sua figura alta e magra era coperta da una larga vestaglia e la sua apparizione avrebbe spaventato un uomo dai nervi deboli più di quella dell'indiano della notte precedente. Quel che mi colpì, non fu l'entrata, ma piuttosto la sua espressione. Era ringiovanito improvvisamente di vent'anni almeno. Gli brillavano gli occhi, i suoi lineamenti erano raggianti e faceva segni di trionfo agitando la mano sopra la testa. Io sedevo attonito guardandolo con gli occhi pieni di sonno. Ma quello che disse, fece subito dissipare questo mio sonno. «Ce l'abbiamo fatta! Abbiamo vinto!», urlava. «Mio caro Hardacre, come potrò mai ricompensarvi?» «Volete dire che è andato tutto bene?» «Proprio così. Ero sicuro che non vi sarebbe importato di esser svegliato per udire queste buone notizie!» «Importarmi? Proprio no davvero! Ma ne siete certo?» «Non ho alcun dubbio su questo punto. Vi sono debitore, mio caro nipote, come mai nessuna persona prima d'ora, e come non avrei mai pensato di poter essere. Che cosa mai posso fare per voi che possa essere proporzionato alla vostra azione? Avete salvato sia la mia ragione che la mia vita perché, se avessi vissuto altri sei mesi in questo incubo, sarei finito o al manicomio o al cimitero! In quanto a mia moglie, si consumava davanti ai miei occhi. Non avrei mai potuto credere che un altro uomo potesse liberarmi da questo fardello.» Mi afferrò quindi la mano e la strinse fra le sue mani ossute. «Era solo un esperimento - una vaga speranza - ma sono contento, felice
che sia riuscito! Ma come sapete che va tutto bene? Avete visto qualcosa?» Mio zio si mise a sedere ai piedi del letto. «Ho visto abbastanza», disse, «per essere convinto che non sarò più disturbato. È facile raccontare quello che è successo. Voi sapete che a una certa ora quella creatura viene sempre da me. Anche stanotte è arrivata all'ora solita e mi ha svegliato con una violenza ancor maggiore dell'usuale. Posso solo immaginare che la sua delusione della notte scorsa ne avesse fatto aumentare l'amarezza e la rabbia contro di me. Mi ha guardato pieno di ira, poi se ne è andato a fare il solito giro. Ma pochi minuti dopo l'ho visto ritornare nella mia stanza, la prima volta dacché la sua persecuzione era cominciata. Sorrideva, e potei vedere il lampo dei suoi denti bianchi nella luce bassa della camera. Si è fermato ai piedi del letto a guardarmi, e per tre volte ha fatto il "salam", cioè il saluto orientale, che è il loro modo per dire addio in maniera solenne. E, dopo essersi inchinato per la terza volta, ha alzato le braccia al di sopra della testa e ho visto le sue mani protese verso l'alto. Poi è svanito, e credo per sempre.» Perciò, questa curiosa esperienza mi ha procurato l'affetto e la gratitudine del mio illustre zio, il famoso chirurgo indiano. Come aveva previsto, non fu mai più disturbato dalle visite dell'irrequieto montanaro che cercava il suo arto perduto. Sir Dominic e Lady Holden trascorsero una vecchiaia felice, senza avere, per quanto ne sappia, altri guai, e morirono durante la grande epidemia d'influenza a poche settimane l'una dall'altro. Mentre era vivo, mio zio mi consultava su tutto quello che riguardava la vita inglese che non conosceva molto bene. Lo aiutai anche quando doveva acquistare o ampliare le sue proprietà. Non fu perciò una sorpresa per me il ritrovarmi favorito rispetto agli altri cinque cugini esasperati e, in un solo giorno, da semplice dottore di campagna divenni il capo di una importante famiglia del Wiltshire. Io, almeno, ho tutte le ragioni possibili e immaginabili per benedire la memoria dell'uomo con la mano scura, e il giorno in cui fui così fortunato da liberare Rodenhurst della sua presenza sgradita. MARY WILKINS FREEMAN Il fantasma perduto La signora Emerson, seduta con il lavoro da cucito accanto alla finestra,
guardò fuori dai vetri e vide la signora Meserve che veniva giù per la strada; dalla sua andatura e dall'inclinazione del capo, comprese immediatamente che meditava di fermarsi al suo cancello. Seppe anche, da un certo nonsoché nel portamento - la spinta in avanti del collo, il muovere di continuo le spalle - che aveva delle importanti novità. Rhoda Meserve veniva sempre a conoscenza dei fatti non appena si verificavano, e di solito la signora Emerson era la prima persona che ne metteva a parte. Le due donne erano amiche sin da quando la signora Meserve aveva sposato Simon Meserve ed era venuta a vivere in paese. La signora Meserve era una donna graziosa, che si muoveva facendo ondeggiare le pieghe della gonna; di sotto la falda piumata di un cappello nero, il suo viso nervoso, dai lineamenti decisi, lievemente colorito, lanciò uno sguardo luminoso alla signora Emerson che la osservava dalla finestra. La signora Emerson era lieta di vederla arrivare. Restituì il saluto con entusiasmo, poi si alzò in tutta fretta, corse in salotto e prese una delle migliori sedie a dondolo, che trascinò accanto all'alta finestra. Fece appena in tempo ad accogliere l'amica sulla porta. «Buon pomeriggio», disse. «Sono davvero felice di vederti. Sono stata sola tutto il giorno. John è andato in città stamattina. Avevo pensato di fare un salto da te, ma non potevo portarmi dietro il lavoro. Sto mettendo le balze alla gonna nera, quella nuova.» «Beh, io non avevo da fare altro che il mio uncinetto», rispose la signora Meserve, «e così ho pensato di venire un po' da te.» «Sono davvero felice che tu l'abbia fatto», ripeté la signora Emerson. «Togliti scialle e cappello. Li poggerò in camera da letto. Prendi la sedia a dondolo.» La signora Meserve si sistemò nella sedia a dondolo in salotto, mentre la signora Emerson portava scialle e cappello nella piccola camera da letto adiacente. Quando ritornò, la signora Meserve si stava dondolando beatamente, e faceva già lavorare il suo uncinetto su una bella lana blu. «È davvero grazioso!», disse la signora Emerson. «Sì, lo penso anch'io», replicò la signora Meserve. «È per la fiera della chiesa, non è vero?» «Sì. Quello che se ne ricaverà, non basterà neppure per pagare la lana, temo, per non parlare poi del lavoro; ma mi sembra di dover fare qualcosa.» «A quanto è stato venduto quello che facesti per la fiera dell'anno scorso?»
«Venticinque cents.» «È una miseria, non ti pare?» «Penso proprio di sì. Mi ci vuole un'intera settimana di lavoro. Vorrei che quelli che lo comprano, dovessero farlo loro! Sono sicura che poi lo pagherebbero diversamente. Beh, non dovrei lamentarmi, visto che è per il Signore, ma a volte mi sembra che il Signore non ci guadagni granché.» «Certo, è un bel lavoro!», disse la signora Emerson, sedendosi alla finestra di fronte e prendendo la sua gonna. «Sì, è proprio grazioso. Adoro lavorare all'uncinetto.» Le due donne si dondolarono, poi cucirono e sferruzzarono per qualche minuto. Entrambe aspettavano. La signora Meserve attendeva che la curiosità dell'altra raggiungesse l'intensità che le nuove di cui era a conoscenza meritavano. La signora Emerson attendeva le novità. Infine, non riuscì più a trattenersi. «Ebbene, cos'hai da dirmi?», chiese. «Mah, non so se si tratta di qualcosa di interessante», esitò l'altra donna, prolungando l'attesa. «Sì che lo sai, non mi inganni», replicò la signora Emerson. «E tu come fai a dirlo?» «Ti si legge in volto.» La signora Meserve scoppiò in una risata consapevole e piuttosto vanitosa. «Beh, Simon dice che, per quanti sforzi faccia, il mio viso è talmente espressivo che non riesco a nascondere nulla per più di cinque minuti», commentò. «Sì, ci sono novità: me le ha portate Simon dopo pranzo. Ne ha sentito parlare a South Dayton: era lì stamattina per sbrigare alcune faccende. La vecchia Casa Sarget è stata affittata.» La signora Emerson lasciò cadere il cucito e la fissò. «Stai scherzando?» «No, è proprio così.» «E a chi?» «Sono delle persone di Boston, trasferitesi a South Dayton l'anno scorso. Non erano soddisfatte della loro casa: trovavano che non fosse abbastanza grande. Sai, lui ha una considerevole proprietà e può permettersi di vivere agiatamente. In famiglia, oltre alla moglie, c'è una sorella non sposata, che dispone anche lei di buoni mezzi. Lui ha degli affari a Boston, e da qui raggiungere Boston è altrettanto agevole che da South Dayton. Così, si sono trasferiti... Sai: la vecchia Casa Sarget è splendida.»
«Sì, è la più bella della città, ma...» «Oh, Simon mi ha detto che ne aveva già sentito parlare, ma si è fatto una risata. Lui non ha paura, dice, e neanche sua moglie e sua sorella. Preferisce i fantasmi alle stanzette da letto buie che avevano nella casa di South Dayton. Preferisce vedere i fantasmi piuttosto che diventare un fantasma lui stesso, ha aggiunto. Secondo Simon, è un tipo a cui piace molto scherzare.» «Oh, bene», disse la signora Emerson, «la casa è così bella, e forse in queste storie non c'è niente di vero. Tutto sommato, sono voci a cui non ho mai dato molto credito. Mi chiedevo soltanto se sua moglie non fosse un tipo nervoso...» «Per niente al mondo andrei in una casa di cui avessi sentito dire cose del genere», dichiarò enfaticamente la signora Meserve. «Io non andrei in quella casa neanche se mi pagassero l'affitto. Ho visto abbastanza case infestate dai fantasmi perché mi bastino per tutta la vita.» La signora Emerson assunse l'espressione di un segugio. «Davvero?», bisbigliò in tono vivace. «Sì, e ne ho abbastanza.» «Prima di venire qui?» «Sì, prima di sposarmi... quando ero molto giovane.» La signora Meserve si era sposata tardi. La signora Emerson cercò di fare dei calcoli mentali. «Davvero hai vissuto in una casa che era...», sussurrò spaventata. La signora Meserve annuì solennemente. «Davvero hai visto qualcosa...» La signora Meserve annuì. «Non avrai visto qualcosa che ti ha fatto del male, spero.» «No, non ho visto nulla che mi abbia fatto del male direttamente, ma non fa bene a nessuno vedere cose che al mondo non si dovrebbero vedere. Non si riesce mai a superarlo.» Seguì un attimo di silenzio. I lineamenti della signora Emerson sembrarono affilarsi. «Beh, non voglio costringerti», disse, «se non te la senti di parlarne; ma, se continua a turbarti, forse raccontarlo ti farebbe bene.» «Io cerco di cancellarlo dalla mia mente», disse la signora Meserve. «Non l'ho detto ad altri che a Simon: parlarne non mi è mai sembrato ragionevole. Non sapevo che cosa ne avrebbe pensato la gente. Molti non credono a nulla di ciò che non comprendono, e avrebbero potuto prender-
mi per pazza. Simon mi consigliò di non raccontarlo in giro. Disse che non credeva che si trattasse di cose soprannaturali, ma riconosceva di non essere in grado di dare spiegazioni razionali, e non pensava che altri potessero farlo. Poi aggiunse che non ne avrebbe parlato. Molta gente, aggiunse, avrebbe detto in giro che la mia testa non funzionava, piuttosto che ammettere di non poter venire a capo della faccenda.» «Sono sicura che io non lo direi», ribatté la signora Emerson in tono di biasimo. «Lo sai bene, spero.» «Sì», replicò la signora Meserve. «So che non lo diresti.» «E non lo racconterei ad anima viva, se tu non volessi.» «Sì, preferirei che tu non lo facessi.» «Non ne parlerò neppure con il signor Emerson.» «Preferirei che tu non ne parlassi neppure con lui.» «Ti ho detto che non lo farò.» La signora Emerson riprese la sua gonna; la signora Meserve lavorò un po' un'altra maglia di lana blu. Poi cominciò. «Naturalmente», disse, «non posso affermare con sicurezza di credere o non credere ai fantasmi: mi limiterò a raccontarti ciò che ho visto. È qualcosa che non posso spiegare; non pretendo di essere in grado di farlo, perché non lo sono. Se tu potrai, benissimo; ne sarò lieta e cesserò di tormentarmi, come ho sempre fatto e continuerò a fare. Da quando è accaduto, non c'è stato giorno o notte che non ci abbia pensato ed in cui non abbia sentito un brivido percorrermi la schiena.» «Ma è terribile!», commentò la signora Emerson. «Già, non ti pare? Beh, accadde prima che mi sposassi, quando ero ancora giovane e vivevo ad East Wilmington. Era il primo anno che vivevo lì. Sai che tutta la mia famiglia era morta cinque anni prima: te l'ho detto.» La signora Emerson annuì. «Dunque: andai lì per insegnare, e mi stabilii a pensione da una certa signora Amelia Dennison e sua sorella, la signora Bird. Si chiamava Abby... Abby Bird. Era vedova e senza figli. Aveva un po' di denaro - la signora Dennison non ne aveva affatto - e si era trasferita ad East Wilmington, dove aveva comprato la casa in cui vivevano. Era una casa davvero bella, anche se molto vecchia e piuttosto diroccata. Rimetterla in sesto era costato alla signora Bird un bel po' di quattrini. Credo che fosse questa la ragione per cui mi presero a pensione; con i soldi che pagavo, immagino che provvedessero al vitto per tutti. Avrebbero avuto abbastanza da vivere, se fossero state accorte nell'amministrare il denaro, ma avevano speso troppo per
i lavori in casa e dovevano trovarsi in ristrettezze. Ad ogni modo, mi presero a pensione, ed io pensai di aver avuto una bella fortuna. La mia stanza era bella, grande e piena di sole, i parati e la pittura erano nuovi e tutto profumava di pulito. La signora Dennison era una delle cuoche migliori che avessi mai incontrato, senza contare che avevo una stufa nella mia stanza e che trovavo sempre un bel fuocherello acceso quando tornavo da scuola. Insomma, non ero mai stata in un posto così bello da quando avevo perso la mia casa; o almeno, così credevo, finché non trascorsero tre settimane. Ero lì già da tre settimane, quando lo scoprii, anche se penso che la cosa andasse avanti fin da quando loro si erano stabilite in quella casa, cioè più o meno da quattro mesi. Non ne avevano mai parlato, e non me ne meravigliai, perché avevano appena comprato la casa e speso tanti soldi per rimetterla a nuovo. Beh, mi stabilii lì a settembre. La scuola cominciò il primo lunedì. Ricordo che era un autunno molto freddo: a metà settembre gelava, e dovetti mettermi il cappotto. Quando tornai a casa quella sera (vediamo, la scuola era cominciata di lunedì e dovevano essere trascorse due settimane dal giovedì successivo), mi tolsi il cappotto e lo lasciai sul tavolo all'ingresso. Era davvero un bel cappotto ampio e pesante, orlato di pelliccia; l'avevo comprato l'inverno precedente. Mentre salivo le scale, la signora Bird mi gridò di non lasciarlo all'ingresso, perché temeva che qualcuno potesse entrare e prenderlo, ma io mi limitai a ridere e le gridai di rimando che non avevo paura dei ladri. Beh, anche se era solo la metà di settembre, quella sera faceva davvero freddo. La mia stanza affacciava ad ovest; il sole stava calando e il cielo era tinto di giallo e di porpora chiari, come accade talvolta d'inverno, quando sta per venire la morsa del gelo. Credo proprio che il gelo fosse arrivato quella sera per la prima volta. Ricordo che la signora Dennison aveva guardato fuori e aveva visto un suo vecchio plaid verde disteso sul letto di verbene. Nella mia stanza, la stufa a legna era accesa; era stata la signora Bird. Era una donna nata per far sentire gli altri felici e a loro agio. La signora Dennison mi disse che era sempre stata così. Disse che aveva curato amorevolmente suo marito e che era una fortuna che non avesse avuto figli, perché li avrebbe viziati tanto da rovinarli. Dunque, quella sera ero seduta dinanzi alla stufa e mangiavo una mela. Sul mio tavolo c'era un piatto di mele che aveva portato la signora Bird.
Mi sono sempre piaciute moltissimo le mele. Bene, ero seduta a mangiare una mela, e stavo pensando a quanto fossi stata fortunata a capitare in un così bel posto con delle persone così affettuose, quando udii uno strano rumore alla porta. Era un suono debole, un po' esitante, che faceva pensare, più che a un colpo alla porta, a qualcuno molto timido, dalle mani piccole che, non osando bussare, stesse tastando l'anta. Per un attimo, credetti che si trattasse di un topo, ma aspettai, e il rumore si ripeté, per cui mi convinsi che qualcuno stesse bussando piano e dissi: "Avanti". Ma non entrò nessuno, e in quel momento udii bussare di nuovo. Allora mi alzai e aprii la porta, pensando che la cosa fosse piuttosto strana. Mi sentivo spaventata, senza sapere perché. Beh, aprii la porta, e la prima cosa che notai fu una folata d'aria fredda, come se la porta d'ingresso fosse spalancata, ma l'aria portava con sé uno strano odore, come se venisse non dall'esterno ma da uno scantinato chiuso da anni. Poi vidi qualcosa. Dapprima fu il mio cappotto. La cosa che lo teneva era così piccola che di sotto quasi non si scorgeva. Poi vidi una faccina bianca dagli occhi così atterriti e bramosi da spezzare il cuore a chiunque. Era una faccina spaventosa, con qualcosa che la rendeva diversa da qualsiasi altro viso sulla faccia della terra, ma faceva talmente pena da non far quasi caso a quanto fosse spaventosa. E c'erano due manine arrossate dal freddo che tenevano stretto il mio cappotto mentre una vocina diceva, come da lontano: "Non riesco a trovare mia madre". "Per amor del cielo", chiesi, "chi sei?" E la vocina ripeté: "Non riesco a trovare mia madre". Per tutto il tempo sentii il freddo, e mi accorsi che circondava la bambina; era fredda come se fosse Venuta da qualche gelido luogo di morte. Beh, presi il cappotto, visto che non sapevo cos'altro fare, e sentii che era gelido come se fosse stato appena tirato fuori da una ghiacciaia. Quando lo ebbi in mano, riuscii a vedere la bambina più chiaramente. Indossava un indumento bianco, molto semplice. Era una camicia da notte troppo lunga, che le copriva i piedi e mi permetteva di vedere a stento il suo corpicino magro arrossato dal freddo. La faccia, che non sembrava tanto infreddolita, era bianca come cera. I capelli erano scuri, ma forse sembravano tali perché erano umidi, quasi bagnati, mentre dovevano essere chiari. Le pendevano accanto alla fronte, bianca e rotonda. "Chi sei?", ripetei, guardandola. Lei mi guardò con i suoi terribili occhi imploranti e non disse nulla. "Chi sei?", chiesi di nuovo. Poi lei se ne andò. Sembrava che non corres-
se o camminasse come gli altri bambini. Volava, come una di quelle farfalline bianche che sembrano finte perché sono lievissime e si muovono come se non avessero peso. In cima alle scale, si girò. "Non riesco a trovare mia madre", disse, ed io non avevo mai udito una simile voce. "Chi è tua madre?", le chiesi, ma lei era scomparsa. Per un attimo credetti di essere sul punto di svenire. La stanza era immersa nel buio e le orecchie mi ronzavano. Poi stesi il cappotto sul letto. Avevo le mani ghiacciate e, stando in piedi nella mia stanza, chiamai a gran voce la signora Bird e la signora Dennison. Non osavo scendere quelle scale dove lei era scomparsa. Pensavo che, se non avessi visto subito qualcuno, sarei impazzita. Pensavo che non mi avrebbero mai udito ma, quasi immediatamente, mi giunse il rumore dei loro passi dabbasso, e la fragranza dei biscotti che venivano cotti per la cena. Chissà perché, il profumo di quei biscotti mi riportò alla realtà e mi tranquillizzò. Non osavo scendere le scale. Rimasi lì in piedi a gridare, finché non udii aprirsi la porta d'ingresso e la signora Bird urlare di rimando: "Che cosa c'è? Avete chiamato, signorina Arms?". "Venite qui; venite qui subito, tutt'e due!", urlai. "Presto, presto!" Udii la signora Bird dire alla signora Dennison: "Fai presto, Amelia: c'è qualcosa che non va in camera della signorina Arms". Le sue parole mi colpirono, perché aveva usato un'espressione piuttosto strana, così come mi accorsi con sorpresa, non appena furono su, che sapevano cos'era accaduto, o almeno che sapevano la natura di ciò che era accaduto. "Che cosa c'è, cara?", chiese la signora Bird, e la sua bella voce carezzevole aveva un tono teso. Colsi lo sguardo che lei e la signora Dennison si scambiarono. "Per amor di Dio", dissi, e non avevo mai parlato così prima, "per amor di Dio, che cos'era quella cosa che ha portato su il mio cappotto?" "Che cos'era?", chiese la signora Dennison, mentre la voce le mancava e scambiava di nuovo uno sguardo con la sorella. "Era una bambina che non ho mai visto prima. Sembrava una bambina che indossava una camicia da notte e non riusciva a trovare sua madre. Chi era? Che cos'era?" Per un attimo credetti che la signora Dennison fosse sul punto di svenire, ma la signora Bird la sostenne con un braccio e le strofinò le mani, bisbi-
gliandole qualcosa all'orecchio, mentre io correvo a prèndere un bicchiere d'acqua. Ti dico che mi ci volle tutto il mio coraggio per scendere giù da sola, ma per fortuna avevano messo una lampada sul tavolo all'ingresso e c'era abbastanza luce. Non credo che avrei avuto il fegato di scendere giù al buio, al pensiero che quella cosa potesse venirmi vicino in qualsiasi momento. La lampada e il profumo dei biscotti che stavano cuocendo mi sostenevano, ma ti giuro che non mi ci volle molto tempo per scendere le scale ed entrare in cucina a prendere l'acqua. Mi precipitai come se la casa andasse a fuoco, ed afferrai il primo recipiente che mi capitò sotto mano: era un recipiente dipinto che avevano regalato alla signora Dennison gli allievi della scuola di catechismo e che veniva usato come vaso per i fiori. Beh, lo riempii e corsi di sopra. Lo mantenni accanto alle labbra della signora Dennison, mentre la sorella le reggeva la testa. Bevve un lungo sorso, poi guardò accigliata il vaso. "Sì", dissi, "lo so, ma è la prima cosa che ho trovato..." "Non bagnate i fiori dipinti", disse la signora Dennison con voce flebile, "altrimenti la pittura sparirà." "Starò molto attenta!", l'assicurai, e la udii sospirare. L'acqua sembrò farle bene, perché allontanò subito la sorella e si mise a sedere. Era distesa sul mio letto. "È passato", disse, ma era terribilmente pallida, e sembrava che i suoi occhi avessero visto cose dell'altro mondo. La signora Bird non stava molto meglio, ma aveva sempre uno sguardo buono e dolce che nulla sembrava capace di alterare. Io dovevo avere un aspetto spaventoso, perché colsi la mia immagine nello specchio e stentai a riconoscermi. La signora Dennison scivolò giù dal letto e andò barcollando verso una sedia. "Sono stata una sciocca a lasciarmi andare così", disse. "No, non sei stata sciocca, mia cara", ribatté la signora Bird. "Non so se tu intendessi dire questo, ma nessuno dovrebbe essere chiamato sciocco se si sente sopraffatto da cose tanto diverse da quelle che ha sempre conosciuto in tutta la sua vita." La signora Dennison guardò la sorella, poi guardò me e ritornò con lo sguardo alla sorella. La signora Bird parlò come se stesse rispondendo a una domanda. "Sì", disse, "credo che dovremmo dirle ciò che sappiamo." "Non è molto", aggiunse la signora Dennison con una specie di sospiro. Sembrava sul punto di perdere i sensi da un momento all'altro. Era una
donna dall'aspetto molto delicato, ma si rivelò di costituzione molto più forte della povera signora Bird. "No, non sappiamo molto", disse la signora Bird, "ma quel poco deve saperlo anche lei. Credo che avrebbe dovuto saperlo subito." "Sì, forse abbiamo sbagliato a non parlarne", replicò la signora Dennison, ma abbiamo continuato a sperare che la cosa avrebbe avuto fine o che potesse non turbarla. Poi tu avevi investito tanto nella casa, noi avevamo bisogno di denaro, e lei avrebbe potuto impressionarsi e decidere di non venire, e noi non volevamo un uomo come pensionante." "E a parte il denaro, eravamo così ansiose di avervi qui, cara", aggiunse la signora Bird. "Sì", confermò la signora Dennison, "volevamo la compagnia di una persona giovane; eravamo così sole, e voi ci siete piaciuta fin dal primo momento che vi abbiamo vista." Capivo ciò che intendevano dire. Erano due bravissime donne e non avrebbero potuto essere più gentili con me: io non le ho mai biasimate per non avermene parlato prima, senza contare, come dissero loro, che non c'era granché da raccontare. Avevano appena comprato la casa e vi si erano trasferite, quando cominciarono a vedere e a udire delle strane cose. La signora Bird disse che la prima volta era accaduto una sera in cui erano sedute insieme nel soggiorno. Sua sorella stava lavorando a un merletto (la signora Dennison faceva dei bei merletti) e lei leggeva il Missionary Herald (la signora Bird si interessava molto al lavoro delle Missioni), quando ad un tratto udirono qualcosa. Lei lo udì per prima, posò il Missionary Herald, e si mise in ascolto; poi la signora Dennison la vide e mise giù il merletto. "Che cosa stai ascoltando, Abby?", le chiese. Allora il rumore si ripeté e lo udirono entrambe e, nell'udirlo, un brivido percorse le loro schiene, anche se non ne sapevano il motivo. "È il gatto, non è vero?", disse la signora Bird. "Non è il gatto", rispose la signora Dennison. "Oh, deve essere il gatto; forse ha acchiappato un topo", ribadì la signora Bird in tono allegro per calmare la signora Dennison, perché la vedeva spaventata a morte e temeva che potesse svenire. Poi aprì la porta e chiamò: "Micio, micio, micio!". Quando si erano trasferite ad East Wilmington, avevano portato con loro il gatto in un canestro. Era un bel gatto tigrato, un gattone tranquillo.
Beh, lei chiamava "Micio, micio, micio" e il micio naturalmente arrivò. Ma, quando entrò dalla porta, emise un miagolio che non somigliava affatto al suono che avevano udito. "Vedi, cara eccolo; vedi che era il gatto?", disse la signora Bird. "Povero micio!" Ma la signora Dennison guardò il gatto e lanciò un urlo. "Che cos'è? Che cos'è?", disse. "Che cos'è cosa?", chiese la signora Bird, fingendo di non capire quello che intendeva sua sorella. "Qualcosa tiene la coda del gatto", disse la signora Dennison. "Qualcosa tiene quella coda. Qualcosa gli sta tirando la coda e lui non riesce a muoversi. Senti come miagola!" "Non è niente!", disse la signora Bird ma, proprio mentre parlava, vide una manina che teneva stretta la coda del gatto, e poi la bambina sembrò venir fuori dalla nebbia che le avvolgeva la mano. Ed era come se ridesse, invece di avere l'aria triste, il che, secondo la signora Bird, era molto peggio. Quella risata, disse, era la cosa più terribile e triste che avesse udito. Era così sbalordita da non sapere che fare e, sulle prime, non si accorse che si trattava di qualcosa di soprannaturale. Pensò che dovesse essere uno dei bambini dei vicini, che era scappato via ed ora si prendeva delle libertà in casa loro, tirando la coda al gatto, e che loro due erano troppo nervose per impressionarsi per così poco. Disse in tono aspro: "Non sai che non devi tirare la coda al gatto? Non sai che fai male a quel povero micio e che, se non farai attenzione, ti graffierà? Povero micio, non devi maltrattarlo!". Allora la bambina smise di tirare la coda al gatto, e gli si avvicinò per strofinarlo e accarezzarlo dolcemente: il gatto inarcò la schiena e cominciò a fare le fusa: non sembrava affatto spaventato, e la cosa era strana, perché ho sempre sentito dire che gli animali hanno una paura tremenda dei fantasmi; ma quello era proprio un piccolo fantasma innocuo. Beh, la signora Bird disse che la bambina accarezzava il gatto, mentre lei e la signora Dennison stavano in piedi a guardarla e si tenevano l'una all'altra; per quanto si sforzassero di pensare che andava tutto bene, non andava così. Alla fine, la signora Dennison parlò. "Come ti chiami, piccola?", chiese. Allora la bambina alzò lo sguardo, smise di accarezzare il gatto e disse che non riusciva a trovare sua madre, proprio come l'aveva poi detto a me. La signora Dennison emise un suono strozzato e sua sorella credette che
stesse svenendo, ma non svenne. "Ma chi è tua madre?", chiese. La bambina ripeté soltanto: "Non riesco a trovare mia madre... non riesco a trovare mia madre". "Dove abiti, cara?", le chiese ancora la signora Bird. "Non riesco a trovare mia madre", rispose la piccola. Insomma, andò proprio così. Non accadde nulla. Le due donne rimasero in piedi, vicine l'una all'altra, mentre la bambina stava loro di fronte; le facevano delle domande e tutto quello che lei rispondeva era: "Non riesco a trovare mia madre". Allora, la signora Bird cercò di prendere la bambina perché, a dispetto di ciò che vedeva, pensò che forse era nervosa: una bambina vera, magari con la testa che non funzionava molto, scappata in camicia da notte dopo essere stata messa a letto. Cercò di prenderla. Aveva in mente di avvolgerla in uno scialle ed uscire - era così piccola che pensava di portarla in braccio - per vedere a quale dei vicini appartenesse. Ma, nell'attimo in cui si mosse verso la piccola, non c'era più nessuna bambina; rimaneva solo quella vocina che sembrava provenire dal nulla e che si spense subito, dopo aver ripetuto un'ultima volta: "Non riesco a trovare mia madre". Bene, quella stessa cosa, o qualcosa di molto simile, continuò ad accadere. Una volta, mentre la signora Bird stava lavando i piatti, la bambina apparve accanto a lei con uno straccio e si mise ad asciugarli. Ovviamente, era terribile. La signora Bird smise di lavare i piatti. A volte la vedeva, ma non diceva niente alla sorella, perché la cosa la rendeva nervosa. A volte, quando facevano dei dolci, scoprivano che qualcuno aveva portato via tutta l'uva passa, e di tanto in tanto ritrovavano accanto al fornello della cucina dei fiammiferi per accendere il fuoco. Non sapevano mai in anticipo quando avrebbero incontrato la bambina, che continuava a ripetere invariabilmente di non riuscire a trovare sua madre. Non tentavano mai di parlarle, tranne una volta quando la signora Bird, presa dalla disperazione, le rivolse delle domande. Ma la bambina continuò a ripetere che non riusciva a trovare sua madre. Dopo avermi raccontato della loro esperienza con la bambina, mi parlarono della casa e della gente che vi aveva vissuto prima di loro. Qualcosa di terribile era accaduto in quella casa, e l'agente immobiliare non ne aveva fatto parola con loro. Se avessero saputo qualcosa, non credo che l'avrebbero comprata, per quanto fosse a buon mercato, perché le per-
sone, anche se non hanno paura di niente, non vogliono vivere in case nelle quali sono accadute cose così orribili che non si può smettere di pensarci. Sono sicura che, dopo aver sentito il loro racconto su quella casa, non sarei rimasta lì un altro giorno, se non fosse stato per la considerazione che avevo per loro, ed io non sono mai stata un tipo impressionabile. Ma rimasi. Certo, non era accaduto nella mia stanza. Se fosse accaduto nella mia stanza, non sarei rimasta per tutto l'oro del mondo.» «Di che si trattava?», chiese la signora Emerson con voce terrorizzata. «Di qualcosa di spaventoso. Quella bambina era vissuta lì col padre e con la madre due anni prima. Venivano - almeno il padre - da un'ottima famiglia. Lui aveva una buona situazione economica: era rappresentante di una grossa ditta di pellami della città, e vivevano nell'agiatezza. Ma la madre era una donna davvero malvagia. Bella come un angelo, era nata nella buona società di Boston, ma era perfida, nonostante le sue belle maniere. Si agghindava molto e faceva vita mondana, e non sembrava occuparsi molto della bambina. La gente cominciò a chiacchierare e a dire che maltrattava la figlia. La donna aveva difficoltà a mantenere una domestica. Per una ragione o per l'altra, se ne andavano tutte e, dopo essersene andate, raccontavano di lei cose terribili. Dicevano che faceva fare alla figlia, per quanto avesse solo poco più di cinque anni e fosse così delicata, quasi tutto il lavoro di casa, che non era poco perché, quando non aveva aiuti, la casa diventava una specie di porcile. Dicevano che la bambina veniva messa in piedi su una sedia a lavare i piatti, e che l'avevano vista trascinare carichi di legna molto più grandi di lei, e avevano sentito la madre rimproverarla con toni acuti ed isterici. Il padre stava via per la maggior parte del tempo e, quando la cosa accadde, era all'Ovest da alcune settimane. Da qualche tempo un uomo sposato ronzava intorno alla madre e la gente aveva cominciato a spettegolare; ma non si poteva esser certi che ci fosse davvero qualcosa di male, e lui era un uomo molto in vista, pieno di soldi. Così, nessuno parlò per paura che lui lo venisse a sapere e si vendicasse, anche se in seguito si disse che il padre avrebbe dovuto essere informato della situazione. Ma questo era il senno di poi; allora, non era così facile trovare qualcuno disposto a raccontare una cosa simile, soprattutto se non se ne poteva essere sicuri al cento per cento. Senza contare che l'uomo stravedeva per sua moglie e non pensava che a far soldi per farla vivere nel lusso. E dissero
che adorava la bambina. Dicevano che era davvero un brav'uomo. Quando un uomo viene trattato così male, è quasi sempre un brav'uomo, facci caso. Bene: un bel mattino, l'uomo di cui si era spettegolato scomparve. In realtà, quando si accorsero che era scomparso, lui era già via da un pezzo; se ne era andato dicendo alla moglie che andava a New York per affari, che forse sarebbe stato via una settimana, e di non preoccuparsi se non fosse tornato a casa e non avesse scritto, perché non poteva sapere con certezza quando sarebbe potuto rientrare: avrebbe potuto prendere un treno da un momento all'altro e scrivere non aveva senso. Così, la moglie aspettò finché non furono trascorsi dieci giorni, poi corse a casa di una vicina e svenne, cadendo sul pavimento come morta; quindi, fecero delle ricerche e scoprirono che lui era scappato... con del denaro che non gli apparteneva. Allora la gente prese a chiedersi dove fosse quella donna, e si scoprì che nessuno l'aveva più vista da quando l'uomo era andato via; ma tre o quattro persone ricordarono di averle sentito dire che aveva intenzione di prendere la bambina e andare a far visita a certi suoi parenti di Boston, per cui, quando non l'avevano più notata in giro e avevano visto la casa chiusa, avevano concluso che se ne fosse andata veramente a Boston. Erano proprio i suoi vicini di casa, ma non avevano mai avuto molto a che fare con lei, e quando la donna, contrariamente alle sue abitudini, aveva parlato loro dei suoi programmi per Boston, non ci avevano fatto molto caso. Insomma, la casa era chiusa, e l'uomo, la donna e la bambina, erano scomparsi. Fu allora, all'improvviso, che una delle donne che vivevano lì accanto ricordò qualcosa. Ricordò di essere rimasta sveglia tre notti di seguito, pensando di sentir piangere un bambino da qualche parte, e che una notte aveva svegliato suo marito, ma quando lui le aveva risposto che doveva trattarsi della piccola dei Bisbee, lei aveva pensato che doveva essere così. La piccola stava male e piangeva sempre. Andava soggetta a coliche, soprattutto di notte. Così, non ci aveva più pensato fino a quel momento, quando le era tornato in mente di colpo. Raccontò ciò che aveva udito e, finalmente, la gente cominciò a pensare che sarebbe stato meglio entrare in casa per accertarsi che non ci fosse qualcosa che non andava. Beh, entrarono e trovarono la bambina morta, chiusa in una delle stanze (la signora Bird e la signora Dennison non usavano mai quella stanza; era una stanza sul retro, al secondo piano).
Sì, trovarono lì quella povera bambina, morta di fame e gelata, anche se pare che non fosse morta di freddo, perché era a letto con indumenti sufficienti a tenerla calda. Ma era lì da una settimana, e si era ridotta solo pelle ed ossa. Pare che la madre, prima di andarsene, l'avesse chiusa in casa, dicendole di non fare rumore per paura che i vicini la sentissero e scoprissero che era andata via. La signora Dennison non credeva che la donna avesse avuto realmente intenzione di far morire di fame la figlia. Probabilmente aveva pensato che la piccola avrebbe chiamato aiuto e che qualcuno avrebbe cercato di entrare in casa e l'avrebbe trovata. Beh, qualunque cosa avesse pensato, la bambina era là, morta. Ma ancora non è tutto. Proprio in quel mentre, il padre tornò a casa; la piccola era appena stata sepolta e lui era fuori di sé. Si mise sulle tracce della moglie, la ritrovò e l'uccise; uscì su tutti i giornali di allora. Poi scomparve. Da quel momento, non se ne seppe più nulla. Secondo la signora Dennison, doveva essersi suicidato oppure aver lasciato il paese. Certo è che nessuno ebbe più sue notizie, ma tutti cominciarono a pensare che quella casa fosse maledetta. "Ecco perché la gente aveva un atteggiamento così strano, quando ci chiedeva come ci trovavamo qui", disse la signora Dennison. "Ma noi non immaginavamo nulla del genere finché non vedemmo la bambina quella sera."» «Non ho mai sentito niente del genere in tutta la mia vita», disse la signora Emerson, fissando l'amica con occhi colmi di orrore. «Ero certa che avresti detto così», replicò la signora Meserve. «Adesso non ti stupisci che io sia turbata quando sento dire che c'è qualcosa di strano in una casa, non è vero?» «No, non dopo quello che mi hai raccontato», rispose la signora Emerson. «Ma non è finita!», aggiunse la signora Meserve. «L'hai vista ancora?», chiese la signora Emerson. «Sì, la vidi ancora molte volte. Per fortuna non sono un tipo nervoso, altrimenti non sarei mai rimasta lì, per quanto il posto mi piacesse e volessi bene alle due donne; erano proprio delle brave persone, non c'è dubbio. Ero affezionata a loro. Spero che la signora Dennison venga a trovarmi, un giorno o l'altro. Insomma, rimasi, e rividi la bambina, senza mai saperlo in anticipo. Ero sempre molto attenta a portare tutte le mie cose di sopra e a non lasciare
nulla di incompiuto nella mia stanza, per paura che lei si trascinasse dietro il mio cappotto, o il mio cappello, oppure i guanti, o che potessi trovare che qualcuno avesse fatto nella mia camera delle cose che nessun essere umano avrebbe potuto fare dato che non c'era nessuno. Non puoi immaginare quanto mi terrorizzasse l'idea di vederla e soprattutto di udirla dire "Non riesco a trovare mia madre". Ti si gelava il sangue nelle vene. Nessun bambino vivo che piangesse per la madre, mi ha mai fatto tanta pena quanto quella bambina morta. Mi si spezzava il cuore! Di solito, si recava dalla signora Bird più spesso che da noi. Una volta sentii la signora Bird dire che forse la piccola non riusciva a trovare sua madre neanche nell'altro mondo, tanto quella donna era stata malvagia! Ma la signora Dennison le disse che non avrebbe dovuto parlare così e neppure pensare cose del genere, e la signora Bird ribatté che non si sarebbe stupita d'avere ragione. Eppure, la signora Bird ammetteva sempre facilmente di non fare abbastanza per gli altri. Sembrava che vivesse per quello. Credo che quel povero piccolo fantasma le ispirasse molta più pietà che orrore, e che lei avesse il cuore spezzato dal fatto di non poter fare per lei le cose che avrebbe fatto per un bambino vivo. "A volte mi sembrava di morire all'idea di non poterle togliere di dosso quell'orribile camicia da notte, di non poterla rivestire, nutrire e farle smettere di cercare sua madre", la udii dire una volta, e faceva sul serio. Gridava nel dirlo. Questo accadde poco prima che morisse. Ma adesso, ti racconto la cosa più strana di tutte: la signora Bird morì all'improvviso. Una mattina - era sabato e non c'era scuola - scesi di sotto per colazione, e la signora Bird non c'era; trovai solo la signora Dennison. Quando entrai, stava versando del caffè. "Dov'è la signora Bird?", chiesi. "Abby non si sente molto bene questa mattina", mi rispose. "Credo che abbia dormito male, ha mal di testa ed è raffreddata, così le ho consigliato di rimanere a letto finché la casa non si riscalderà." Quel giorno faceva molto freddo. "Forse ha preso un'infreddatura", dissi. "Sì, credo di sì", replicò la signora Dennison. "Ma credo che sarà qui fra poco. Abby non riesce a rimanere a letto un minuto più del necessario." Beh, continuammo a mangiare, quando all'improvviso un'ombra tremolò lungo una parete della stanza e sul soffitto, come accade quando qualcuno passa di fuori davanti ad una finestra. La signora Dennison ed io guardammo in alto e poi fuori della finestra; quindi lei lanciò un grido. "Ma Abby è pazza! È uscita con questo freddo e..."
Non finì la frase, ma si riferiva alla bambina. Perché entrambe, guardando fuori, avevamo visto, con la stessa chiarezza con cui vediamo qualsiasi altra cosa, la signora Abby Bird camminare lungo il viale coperto di neve, tenendo stretta per la mano la bambina, che le stava attaccata come se avesse trovato la sua vera mamma. "È morta!", disse la signora Dennison, stringendomi forte. "È morta, mia sorella è morta!" Era così. Ci precipitammo su per le scale il più in fretta possibile: lei era morta nel suo letto, sorrideva come se stesse sognando, e aveva un braccio e una mano tese come per seguire la presa di qualcuno. Fino all'ultimo non riuscimmo a raddrizzarle il braccio; al funerale, pendeva fuori della bara.» «E la bambina, si vede più?», chiese sconvolta la signora Emerson. «No», rispose la signora Meserve; «dopo quella volta, la bambina non venne più.» EDWARD FREDERICK BENSON La seduta spiritica del signor Tilly Il signor Tilly ebbe solo un attimo di smarrimento quando, mentre scivolava e cadeva sul marciapiede di legno lucido di High Park Corner, che stava attraversando a passo rapido, vide l'enorme rullo compressore con le sue pesanti ruote torreggiare sopra di lui. «Oh, Dio! oh, Dio», si lamentò. «Di sicuro mi schiaccerà come una frittata, e non potrò andare alla seduta della signora Cumberbatch! Che disdetta!» Non fece in tempo a pronunciare queste parole, che la prima parte delle sue orribili previsioni si avverò in pieno. Le pesanti ruote gli passarono sopra dalla testa ai piedi, schiacciandolo come una frittata. Poi il conduttore (troppo tardi) fece girare l'automezzo e gli ripassò sopra, e alla fine perse la testa, suonò forte la sirena e si fermò. Il poliziotto di guardia all'angolo sbiancò alla vista di quella tragedia, ma riuscì lo stesso a fermare il traffico per correre poi a vedere che diavolo si poteva fare. Le «speranze» per il signor Tilly erano talmente inutili, che l'unica cosa che rimaneva da fare era far spostare il più in fretta possibile l'isterico conducente. Poi venne chiamata un'ambulanza, e i resti del signor Tilly, staccati con grande difficoltà dalla strada, tanto vi erano rimasti spiaccicati, furono portati rispettosamente all'obitorio... Durante tutto questo tempo, il signor Tilly aveva provato un attimo di
dolore pazzesco, simile alla peggiore delle sue nevralgie, quando le ruote gli erano passate sopra la testa ma, quasi prima ancora di accorgersene, il dolore era passato, e lui si era ritrovato, ancora piuttosto stordito, a ondeggiare o a stare in piedi (non sapeva bene quale delle due cose) in mezzo alla strada. Non aveva perso neanche per un attimo la coscienza; ricordava perfettamente di essere scivolato, e si domandava come fosse riuscito a salvarsi. Vide il traffico bloccato, il poliziotto con la faccia sconvolta che faceva dei segni al conducente del rullo che balbettava, ed ebbe la buffa sensazione che quel veicolo avesse a che fare con lui. Aveva l'impressione di essere circondato da carboni incandescenti e acqua in ebollizione, tuttavia non si sentiva né bruciare né scottare. Al contrario, si sentiva benissimo, completamente libero e fluttuante. Poi la macchina sbuffò, le ruote girarono e, immediatamente, con sua immensa sorpresa, vide i suoi resti spiaccicati sulla strada, piatti come un biscotto. Riconobbe con assoluta certezza i propri vestiti, visto che li aveva indossati quella mattina per la prima volta, e anche uno stivale di pelle che era scampato alla distruzione. «Ma che diavolo è successo?», si chiese. «Io sono qui, ma anche quel povero ammasso di braccia e di gambe sono io. E che faccia spaventosa ha quel conducente! Dio, credo proprio di essere stato investito! Per un attimo ho sentito un dolore, adesso che mi ricordo... Buon uomo, dove spinge? Non mi vede?» Rivolse queste due domande al poliziotto, che parve passargli attraverso. Ma l'uomo non se ne rese conto, e uscì tranquillamente dall'altra parte: era evidente che non si era accorto di lui, e che neanche lo aveva sentito. Il signor Tilly si sentiva ancora frastornato da quelle stranezze, ma poi cominciò a intuire il fatto, che era del tutto chiaro alla folla che aveva formato un cerchio di curiosi, pur se rispettosi, intorno al suo corpo. Gli uomini si erano tolti il cappello, e le donne strillavano, distoglievano lo sguardo, poi tornavano a guardare. «Credo proprio di essere morto», disse. «È l'unica ipotesi che spieghi i fatti. Ma devo esserne assolutamente sicuro, prima di fare qualche mossa. Ah! Eccoli che arrivano con l'ambulanza. Devo essere orrendamente ferito, eppure non sento alcun dolore. Lo sentirei, se fossi ferito. Quindi, devo essere morto.» Questa gli sembrava l'unica cosa certa, ma ancora non ne aveva compreso appieno il significato. Tra la folla si era aperto un varco per far passare i
portantini con la barella, e lui si ritrovò a chiudere gli occhi quando cominciarono a staccarlo dalla strada. «Eh, state attenti!», disse. «Quello che esce lì è il nervo sciatico, non è vero? Oh! No, non mi ha fatto male, in fin dei conti. E i miei vestiti nuovi! Li avevo messi oggi per la prima volta. Che sfortuna! Adesso mi state rovesciando la gamba. Di sicuro usciranno tutti i soldi dalla tasca dei pantaloni. E c'è anche il mio biglietto per la seduta spiritica. Quello devo averlo: potrei ancora usarlo, dopotutto.» Lo sfilò dalle dita dell'uomo che lo aveva raccolto, e scoppiò a ridere nel vedere l'espressione stupita sulla faccia di costui quando il cartoncino improvvisamente scomparve. Il che gli dette una nuova cosa cui pensare, e rimase un attimo a rincorrere con la mente un'associazione di idee venutagli in quel momento. «Ci sono!», pensò. «È chiaro che, nel momento in cui sono venuto a contatto con il cartoncino, questo è diventato invisibile. Io sono invisibile (ovviamente in senso lato), e tutto quello che tocco diventa invisibile. Davvero interessante! Questo spiega l'apparizione improvvisa di piccoli oggetti durante le sedute. È lo spirito che li tiene e, finché li tiene, sono invisibili. Poi li lascia andare, ed ecco la fotografia dello spirito sul tavolino. Spiega anche la loro sparizione improvvisa. Li prende lo spirito, sebbene gli increduli sostengano che è stato il medium a nasconderseli addosso. È vero che certe volte si scopre che è stato proprio così; ma, in fin dei conti, potrebbe essere uno scherzetto da parte dello spirito. Adesso, che cosa devo fare di me stesso?... Vediamo un po': ecco un orologio. Sono appena le dieci e mezza. È successo tutto in pochi minuti, perché erano le dieci e un quarto quando sono uscito. Adesso sono le dieci e mezza: che cosa significa, questo, esattamente? Una volta lo sapevo, ma adesso mi sembra una cosa senza senso. Le dieci cosa? Le ore dieci, no? Ma che cos'è, un'ora?» Si sentiva confuso. Una volta lo sapeva qual era il significato di un'ora e di un minuto, ma la loro comprensione, com'era naturale, era cessata con la sua uscita dal tempo e dallo spazio e il tuffo nell'eternità. La concezione del tempo era come una sorta di ricordo che, ostinandosi a non voler tornare alla coscienza, rimane perduto in qualche angolo oscuro della mente, ridendo degli sforzi che compie il cervello per farlo riaffiorare. Mentre continuava a interrogarsi su questo problema, scoprì che anche lo spazio, oltre al tempo, era diventato una cosa obsoleta per lui, perché scorse la sua amica, la signorina Ida Soulsby - la quale, come sapeva, sa-
rebbe venuta alla seduta - che correva come un uccellino sul marciapiede opposto. Dimenticando per un attimo di essere uno spirito disincarnato, fece lo sforzo di volontà che nella sua passata esperienza umana avrebbe mosso le sue gambe all'inseguimento della donna, e scoprì invece che bastava semplicemente volerlo per ritrovarsi accanto a lei. «Mia cara signorina Soulsby», le disse, «stavo andando dalla signora Cumberbatch, quando mi hanno investito e sono morto. È stato estremamente sgradevole: per un attimo ho avuto un forte mal di testa...» Fino a quel momento la sua naturale loquacità aveva avuto il sopravvento, ma poi si ricordò di essere invisibile e non udibile per quelli ancora prigionieri nella misera argilla umana, e si interruppe subito. Però, nonostante sapesse benissimo che le orecchie larghe della signorina Soulsby, non lo avrebbero udito, parve che con la sua fine sensibilità lei avvertisse la sua presenza, perché improvvisamente si bloccò, le venne un acceso rossore alle guance, e mormorò: «Davvero strano. Mi chiedo perché ho avuto un'impressione così netta della presenza del caro Teddy». Il che arrecò al signor Tilly un piacevole shock. Ammirava la signorina non si sa da quanto tempo, e adesso che credeva di essere sola, lei lo chiamava «caro Teddy». La scoperta gli fece provare un breve rimpianto per essere stato ucciso: gli sarebbe piaciuto averlo saputo prima, perché allora avrebbe seguito quel sentiero dell'amore fiorito di primule al quale il «caro» sembrava preludere. (Le sue intenzioni, ovviamente, sarebbero state, come al solito, assolutamente onorevoli e la strada dell'amore avrebbe condotto entrambi, se lei avesse acconsentito, all'altare, dove le primule sarebbero diventate fiori d'arancio.) Ma il rimpianto fu molto breve: anche se l'altare pareva irraggiungibile, infatti, il sentiero delle primule poteva restare aperto, perché molti occultisti da lui frequentati erano in termini molto affettuosi con i loro amici e guide spirituali che, come lui, erano trapassati. Da un punto di vista umano, questi flirt innocenti e al tempo stesso elevati, a lui erano sempre sembrati privi di significato; ma adesso che stava dall'altra parte, capiva quanto fossero affascinanti, poiché gli davano la sensazione di avere ancora un posto e un'identità nel mondo che aveva appena lasciato. Toccò la mano della signorina Ida (o meglio, si mise nella condizione spirituale di farlo), e ne avvertì - anche se in maniera fioca - il calore e la consistenza. Era gratificante, perché gli mostrava che, sebbene fosse uscito dal piano della materia, poteva mantenere ancora il contatto. E ancora più
gratificante era osservare che si era diffuso un sorriso compiaciuto sul viso della signorina Ida non appena le aveva dato quel segno della sua presenza: forse ripensava semplicemente a qualche cosa di bello, ma in tutti i casi era stato lui a ispirarglielo. Incoraggiato, si permise una manifestazione ancora più intima di affetto salutandola con rispetto, ma si avvide che era andato troppo oltre, perché Ida si disse «Basta, adesso!», e affrettò il passo, come se volesse abbandonare i pensieri d'amore. Il signor Tilly cominciò a capire che si stava abituando a quella nuova condizione nella quale ormai avrebbe vissuto, o forse cominciava a farsi una vaga idea di quello che essa significava. Il tempo, per lui, non esisteva più, come neppure lo spazio, visto che il semplice desiderio di trovarsi al fianco della signorina Ida lo aveva trasportato istantaneamente lì. E, allo scopo di potersene sincerare meglio, desiderò essere di nuovo nel suo appartamento. Con la stessa rapidità di un cambio di scena al cinema, si ritrovò lì, e comprese che la notizia della sua morte doveva essere già arrivata all'orecchio delle sue domestiche, perché la cuoca e la cameriera ne stavano parlando con un'espressione eccitata. «Povero signore», diceva la cuoca. «Mi sembra una vergogna! Non faceva mai male a una mosca, e pensare che una di quelle grosse macchine lo ha spiaccicato al suolo. Spero che dall'ospedale lo portino direttamente al cimitero: non riesco a sopportare l'idea di un cadavere in casa.» La robusta cameriera scosse la testa. «Beh, io non sono poi così sicura che non se lo sia meritato!», commentò. «Sempre a trafficare con gli spiriti, e tutti quei colpi e quelle litanie mi mettevano una paura del diavolo, certe volte, quando apparecchiavo per la cena in sala da pranzo! Adesso, forse, verrà qui di persona a visitare gli altri matti. Però mi dispiace lo stesso. Non ho mai visto un signore meno difficile di lui. Sempre così gentile, poi, e puntuale nel pagare il salario.» Quei commenti dispiaciuti e quelle lodi furono una specie di shock per il signor Tilly. Aveva sempre pensato che le sue ottime domestiche nutrissero per lui un rispettoso affetto, come si conveniva a un piccolo semidio, ma il ruolo del «povero» signore era decisamente fuori dai suoi schemi. La rivelazione di quello che pensavano veramente di lui, sebbene la loro opinione non avesse più per lui la minima importanza, in verità lo irritava profondamente. «Mai vista una simile impertinenza!», disse (così credeva) abbastanza
forte e, attaccato com'era ai legami terreni, rimase stupito nel vedere che le due non si erano accorte della sua presenza. Allora alzò la voce, caricandola di pungente sarcasmo, e si rivolse alla cuoca. «Riserva le critiche circa il mio carattere alle tue padelle!», le disse. «Quelle senza dubbio le potranno apprezzare. Quanto alle disposizioni per il mio funerale, ho già provveduto nel mio testamento, e non cercare di fare come più ti piace. Al momento...» «Misericordia!», disse la signora Inglis. «Le dico che mi sembra di sentire la sua voce: quella di quel poveretto! Era rauca, come di chi abbia bisogno di schiarirsela. Forse farei meglio a darmi un colpo in testa. I suoi legali e tutti gli altri saranno qui a momenti.» Al signor Tilly non piacque quel suggerimento. Era enormemente cosciente di essere piuttosto vivo, e l'idea che le sue domestiche si comportassero come se fosse morto, e specialmente il modo in cui avevano parlato di lui, erano davvero fastidiosi. Voleva dar loro qualche prova inconfutabile della sua presenza, così - in preda all'ira - colpì violentemente con un pugno il tavolo che era rimasto ancora apparecchiato dalla colazione. Gli dette tre botte tremende, e finalmente ebbe la soddisfazione di veder trasalire la cameriera. Ma la faccia della signora Inglis rimase del tutto tranquilla. «Ehi, ho sentito davvero una specie di botto», disse la signora Talton. «Da dove veniva?» «Sciocchezze! Lei ha le traveggole mia cara», disse la signora Inglis, infilzando con la forchetta l'ultima fettina di pancetta e infilandosela nella capace bocca. Il signor Tilly era davvero felice di poter impressionare almeno una di quelle arroganti femmine. «Talton!», chiamò, più forte che poté. «Chi è? Che succede?», esclamò la Talton. «Sento quasi la sua voce: glielo giuro, signora Inglis. Le dico che ho sentito la sua voce!» «Sta dicendo un mucchio di sciocchezze, cara», disse la signora Inglis in tutta tranquillità. «Ecco un bel bocconcino di pancetta, e ne è rimasto ancora un bel pezzo da tagliare. Ma perché trema tutta? È solo la sua immaginazione.» Improvvisamente al signor Tilly venne in mente che, con un po' di esercizio, avrebbe potuto fare assai meglio che limitarsi a impressionare con la sua presenza la domestica, e che la seduta in casa della signora Cumberbatch, una medium, gli avrebbe fornito maggiori opportunità di riprendere
i contatti con il piano terreno. Dette qualche altro colpo al tavolo poi, desiderando di trovarsi nell'abitazione della signora Cumberbatch, che distava circa un miglio, quasi non sentì lo strillo lontano lanciato dalla Talton quando udì il rumore dei suoi colpi, perché in pochi secondi già si trovava in West Norfolk Street. Conosceva bene la casa, così si diresse direttamente in soggiorno, dove si svolgevano le sedute alle quali aveva tanto spesso e così ansiosamente partecipato. La signora Cumberbatch, che aveva una faccia a forma di cucchiaio allungato, aveva già abbassato le tende, lasciando la stanza nel buio totale, fatta eccezione per la lampadina da notte, posta sotto un paralume di vetro rosso, sulla mensola del caminetto, di fronte alla fotografia a colori del Cardinale Newman. Intorno al tavolo sedevano la signorina Ida Soulsby, il signore e la signora Meriott (che pagavano le loro ghinee almeno due volte a settimana per consultare la loro guida spirituale Abibel, ricevendo da lui misteriosi suggerimenti sui loro investimenti), e completava il cerchio Sir John Plaice, il quale era estremamente interessato a conoscere i particolari della sua precedente incarnazione in un sacerdote caldeo. La sua guida, che gli aveva rivelato l'antecedente carriera sacerdotale, veniva chiamata scherzosamente Mespot. Naturalmente facevano loro visita anche altri spiriti, perché la signorina Soulsby aveva nientemeno che tre guide nella sua dimora spirituale: Zaffiro, Semiramide e il Dolce William, mentre Napoleone e Platone non erano visitatori inconsueti. Anche il Cardinale Newman era un ospite ben accetto, e il circolo incoraggiava la sua presenza cantando all'unisono «Vieni, luce gentile», visto che il Cardinale non riusciva mai a resistere a tale richiamo... Il signor Tilly notò con piacere che c'era un posto libero, al tavolo, che senza dubbio era stato lasciato per lui. Non appena entrò, la signora Cumberbatch scrutò l'orologio. «Già le undici», disse, «e il signor Tilly ancora non si vede. Mi chiedo cosa l'abbia trattenuto. Che facciamo, amici cari? Abibel diventa molto impaziente, a volte, se lo si fa aspettare.» Anche il signore e la signora Merriot stavano spazientendosi, perché il marito voleva chiedere informazioni sugli oli messicani, mentre la moglie aveva una questione che le stava molto a cuore. «E neanche a Mespot piace aspettare», disse Sir John, geloso del prestigio del proprio protettore. «Per non parlare poi del Dolce William.»
La signorina Soulsby fece una risatina argentina. «Oh, ma il mio Dolce William è così buono e gentile», disse. «E poi, signora Cumberbatch, ho la sensazione - una percezione meramente psichica - che il signor Tilly sia molto vicino.» «Anch'io», disse il signor Tilly. «A dire il vero, mentre venivo qui», proseguì la signorina Soulsby, «ho sentito la vicinanza del signor Tilly. Povera me! Che mi succede?» Il signor Tilly era così felice che avvertisse la sua presenza, da non riuscire a frenare l'impulso di bussare sul tavolo, in una sorta di compiaciuto applauso. Lo sentì anche la signora Cumberbatch. «Sono sicura che Abibel viene a dirci che è pronto», disse. «Riconosco i colpi di Abibel. Un po' di pazienza, Abibel. Diamo ancora tre minuti al signor Tilly, e poi cominciamo. Forse, se alziamo le tendine, Abibel capirà che non abbiamo ancora incominciato.» Venne fatto, e la signorina Soulsby gettò un'occhiata fuori dalla finestra per vedere se il signor Tilly arrivava, perché veniva sempre dal marciapiede opposto e attraversava allo spartitraffico. Dovevano essere appena usciti i giornali con le ultime notizie, perché i lettori delle prime edizioni si andavano tutti affollando, e fu allora che lei vide in uno dei titoli l'annuncio del terribile incidente di Hyde Park Corner. Tirò il fiato facendo sibilare i denti e voltò la faccia, non volendo sconvolgere la propria serenità psichica con l'impressione di quel doloroso incidente. Ma il signor Tilly, che l'aveva seguita alla finestra e aveva visto quello che aveva letto, non riuscì più a contenere la propria esultanza spirituale. «Eh, parlano proprio di me!», disse. «E guarda che titolone! Davvero gratificante. Nelle prossime edizioni di sicuro diranno anche il mio nome.» Bussò un'altra volta sul tavolo per richiamare l'attenzione su di sé, e la signora Cumberbatch, che era tornata a sedere sull'antica sedia appartenuta a Madame Blavatsky, l'udì di nuovo. «Questo è di nuovo Abibel», disse. «Calmati, birichino! Forse sarà meglio cominciare.» Recitò le consuete invocazioni alle guide e agli angeli, poi si rilassò sulla sedia. In quello stesso istante cominciò a torcersi e a gemere e, dopo un po', emettendo diversi respiri profondi, cadde in una immobilità catalettica. Rimase lì seduta, rigida come un manico di scopa, una porta aperta, per così dire, a qualunque intelligenza vagante. Con piacevole anticipazione, il signor Tilly attese la venuta degli spiriti. Che soddisfazione se Napoleone,
con il quale aveva parlato tante volte, lo avesse riconosciuto e gli avesse detto: «Piacere di conoscerla, signor Tilly. Vedo che si è unito a noi...». La stanza era buia, fatta eccezione per la lampada dalla luce rossa di fronte al Cardinale Newman, ma per i sensi preternaturali del signor Tilly la mancanza della mera luce corporea non faceva alcuna differenza, e si chiese oziosamente perché tutti credevano che gli spiriti disincarnati come lui producessero i loro migliori effetti al buio. Non riusciva a immaginarne la ragione e, cosa che lo lasciava ancora più stupito, non avvertiva la minima presenza dei suoi colleghi (visto che ormai poteva chiamarli così), i quali, al contrario, arrivavano solitamente in gran numero alle sedute della signora Cumberbatch. Sebbene la medium già da parecchio tempo gemesse e mormorasse, il signor Tilly non sentiva la minima presenza di Abibel o di Dolce William, di Zaffiro o di Napoleone. «Ormai dovrebbero essere qui», disse tra sé e sé. Mentre si stupiva della loro assenza, tuttavia, con sua grande sorpresa e delusione, vide che la mano della medium - coperta da un guanto nero stava trafficando intorno al tavolo cercando chiaramente la cornetta del megafono lì nascosto. Scoprì che riusciva a leggerle nel pensiero con la stessa facilità, pur se con minore soddisfazione, con la quale aveva letto nella mente della signorina Ida un'ora e mezza prima, e seppe che intendeva avvicinarsi la cornetta alla bocca fingendo che fosse Abibel, oppure Semiramide, o chiunque altro, per parlare, mentre sosteneva di non aver toccato la cornetta in tutta la sua vita. Profondamente offeso, afferrò il megafono, e scoprì che la medium non era neppure in trance, visto che aprì di colpo i suoi occhi neri, che gli avevano sempre fatto pensare a dei bottoni ricoperti di tela americana, sussultando spaventata. «Il signor Tilly!», esclamò. «Anche lui tra gli spiriti!» Gli altri stavano cantando «Vieni, luce gentile», per incoraggiare il Cardinale Newman, e la conversazione tra i due venne coperta dal loro gracidare. Ma il signor Tilly aveva la sensazione che, sebbene la signora Cumberbatch lo vedesse e lo sentisse, gli altri non avvertissero affatto la sua presenza. «Sì, sono stato ucciso», le disse, «e voglio entrare in contatto con il mondo materiale. È per questo che sono venuto. Ma voglio entrare in con-
tatto anche con gli altri spiriti, e di sicuro Abibel o Mespot dovrebbero essere già qui, ormai.» Non ebbe alcuna risposta, e gli occhi di lei lo guardarono sgomenti, come chi viene colto sul fatto. Lo invase un terribile sospetto. «Che cosa? Lei è una ciarlatana, signora Cumberbatch?», domandò. «Oh, che vergogna! E con tutte le ghinee che le ho pagato!» «Le riavrà tutte», disse la signora Cumberbatch. «Ma non lo dica a nessuno.» La donna cominciò a piagnucolare, e il signor Tilly ricordò che si metteva a tirare su col naso in quel modo quando Abibel si impadroniva del suo corpo. «Questo di solito significa che Abibel sta arrivando», disse, con pungente sarcasmo. «Vieni, Abibel: ti stiamo aspettando.» «Mi dia la cornetta», sussurrò la disgraziata medium. «La prego, me la dia!» «Non farò niente del genere», dichiarò il signor Tilly, indignato. «Preferisco usarla io.» La donna emise un sospiro di sollievo. «Oh, la prego, signor Tilly!», disse. «Che idea meravigliosa! Sarà interessantissimo per tutti sentirla parlare appena morto prima che gli altri lo sappiano. Sarebbe la mia fortuna! Non sono una ciarlatana, almeno, non completamente. A volte ho delle percezioni extrasensoriali, e gli spiriti comunicano veramente attraverso me. E, quando non vogliono venire, è una tentazione tremenda per una povera donna... integrare il soprannaturale con l'intervento umano. Come farei a vederla e a sentirla, e come potrei parlarle - così piacevolmente, glielo assicuro - se non avessi veramente dei poteri paranormali? Lei è stato ucciso, così mi dice, eppure io riesco a vederla e sentirla piuttosto chiaramente. Dove è successo, se posso chiederlo e se non è per lei un argomento troppo doloroso?» «In Hyde Park Corner, un'ora e mezza fa», disse il signor Tilly. «No, ho sofferto solo per un momento, grazie. Ma quanto all'altro suo suggerimento...» Mentre cominciava la terza strofa di «Vieni, luce gentile», il signor Tilly si concentrò sulla sua difficile situazione. Era vero che, se la signora Cumberbatch non avesse avuto il potere di comunicare con l'Aldilà, non avrebbe potuto vederlo. Ma evidentemente era proprio così che era avvenuto, perché la loro conversazione si era svolta su un piano soprannaturale, e con assoluta chiarezza. Certo, adesso che scopriva di essere un vero spirito,
non intendeva essere coinvolto nei trucchetti della medium, perché sentiva che questo lo avrebbe seriamente compromesso sull'altro piano dove, probabilmente, era risaputo che la signora Cumberbatch era una persona da evitare. D'altra parte, avendo trovato una medium tramite la quale comunicare con i suoi amici, era difficile seguire un'integerrima linea morale e dire che non avrebbe avuto niente a che fare con lei. «Non so se mi posso fidare», le disse. «Non avrei più un momento di pace se sapessi che lei potrebbe inviare dei messaggi menzogneri alla catena, dei quali non sarei io l'artefice. Lo ha già fatto con Abibel e Mespot. Come posso sapere che quando io non ho voglia di comunicare, lei non racconterà ogni genere di bugie attribuendole a me?» La medium si agitò in segno di protesta sulla sedia. «Oh, volterò completamente pagina», dichiarò. «Mi lascerò alle spalle tutto quello che è stato. Sono una medium. Mi guardi! Non sono forse più reale degli altri, per lei? Non appartengo al suo stesso piano di esistenza come nessun altro? A volte ho potuto anche ricorrere a qualche imbrogliuccio, e non sono in grado di evocare Napoleone così come non so volare, ma non mento del tutto. Oh, signor Tilly, sia indulgente con noi povere creature umane! Solo poche ore fa anche lei faceva parte di noi...» Il riferimento a Napoleone, con l'informazione che la signora Cumberbatch non aveva mai controllato lo spirito di quel grande, ferì nuovamente il signor Tilly. Spesso, nel buio della stanza, aveva parlato con lui, e Napoleone gli aveva raccontato i particolari più interessanti della sua vita a Sant'Elena, che il piacevole volume di Lord Rosebery, L'ultimo periodo, sovente tralasciava. Ma adesso tutta la faccenda acquistava una luce sinistra, e la sua mente fu afferrata da un sospetto solido come la certezza. «Confessi!», disse. «Dove ha preso tutte quelle chiacchiere sul conto di Napoleone? Ci aveva detto di non aver mai letto il libro di Lord Rosebery, e ci aveva fatto guardare nella sua libreria per sincerarci che non c'era. Sia onesta, per una volta, signora Cumberbatch.» La donna represse un singulto. «Lo sarò», disse. «Il libro è sempre stato lì. L'ho messo in una vecchia copertina intitolata Eleganti Estratti... Ma non sono del tutto una ciarlatana. Noi due stiamo parlando: lei uno spirito, e io una mortale. Loro non possono sentirci. Mi guardi, e capirà... Può parlare con loro tramite me, se solo vuole farlo. Non mi capita spesso di entrare in contatto con uno spirito autentico come lei.» Il signor Tilly guardò gli altri e poi tornò a guardare la medium la quale,
per tenere desto l'interesse dei partecipanti, stava facendo degli strani gorgoglii come un sifone otturato. Di sicuro per lui era più lucida degli altri, e la spiegazione che la donna dava di questo fatto era la propria capacità di vedere e di udire più del normale. Poi gli venne una nuova intuizione. La mente della medium era aperta davanti a lui come una pozza d'acqua sporca di fango, e lui si immaginava in piedi sul bordo, perfettamente in grado, se voleva, di tuffarcisi dentro. A frenarlo era il luridume dell'acqua, la sua materialità, mentre lo spingeva la possibilità di essere visto dagli altri, di venire certamente a contatto con loro. Nel suo stato attuale, riusciva a farsi sentire soltanto dando i colpi più forti che poteva sul tavolino. «Comincio a capire», disse. «Oh, signor Tilly! Deve solo saltare dentro come tutti i bravi spiriti», disse lei. «Controlli lei stesso. Mi metta una mano davanti alla bocca per essere sicuro che non parlerò, e si tenga la cornetta.» «E lei mi promette di non ingannare più nessuno?», le domandò. «Mai più!» Si decise. «Va bene, allora», disse e, per così dire, si tuffò nella mente di lei. Provò una sensazione stranissima. Era come passare da un'aria fine e luminosa, in una stanza soffocante priva di ventilazione. Lo spazio e il tempo lo imprigionarono di nuovo: la testa gli girava, e sentiva gli occhi pesanti. Poi, tenendo la cornetta in una mano, mise l'altra mano sulla bocca della donna. Guardandosi intorno, vide che la stanza sembrava quasi completamente buia, ma che i contorni della persone sedute intorno al tavolo avevano acquistato di gran lunga maggiore concretezza. «Sono qui», disse bruscamente. La signorina Soulsby era sbalordita. «Ma questa è la voce del signor Tilly!», mormorò. «Certo!», disse il signor Tilly. «Sono stato appena investito da un rullo compressore in Hyde Park Corner...» Sentiva il peso morto della mente della medium, le sue nozioni convenzionali, la sua tenera, irreale pietà che lo premeva da tutte le parti, soffocandolo e confondendolo. Qualunque cosa dicesse doveva passare attraverso l'acqua sporca... «Si prova una meravigliosa sensazione di gioia e di luce», disse. «Non posso descrivervi questa leggerezza e felicità. Siamo tutti molto attivi e impegnati ad aiutare gli altri. Ed è un tale piacere, amici miei, poter tornare di nuovo in contatto con voi! La morte non è morte: è il cancello della vi-
ta...» S'interruppe bruscamente. «Oh, questo non lo sopporto!», disse alla medium. «Mi fa dire delle tali stupidaggini! Si tolga subito di mezzo con la sua stupida mente. Non posso fare nulla per non farla interferire troppo con me?» «Può illuminare la stanza con della luce psichica?», gli propose la signora Cumberbatch con voce addormentata. «È entrato in maniera splendida, signor Tilly. Come è caro!» «Sicuro che non ha già predisposto qualche lucetta fosforescente?», domando il signor Tilly, sospettoso. «Sì, ce ne sono due vicino al caminetto», rispose la signora Cumberbatch, «ma soltanto lì. Caro signor Tilly, le giuro che non ce ne sono altre. Faccia soltanto apparire una bella stella con una lunga coda sul soffitto!» Il signor Tilly era l'uomo più gentile del mondo, sempre pronto ad aiutare le donne più brutte che si trovassero in difficoltà, così le sussurrò: «Voglio però che, al termine della seduta, mi vengano consegnate le luci fosforescenti». Quindi, con un semplice sforzo d'immaginazione, fece accendere una bella stella grossa con la coda rossa e viola sopra il soffitto. Certo, non brillava come lui l'aveva concepita, perché la sua luce era costretta a passare attraverso l'opacità della mente della medium, ma era pur sempre un oggetto sorprendente, tale da suscitare l'applauso del suo pubblico. Per aumentare ancora l'effetto, declamò alcuni versi su una stella scritti da Adelaide Ann Procter, le cui poesie gli erano sempre sembrate scendere dalla cima più alta del Parnaso. «Oh, grazie signor Tilly!», mormorò la medium. «È stato incantevole! Sarebbe permesso fare una fotografia, la prossima volta, se sarà così gentile da farlo di nuovo?» «Oh, non saprei...», disse il signor Tilly, un po' irritato. «Adesso voglio uscire. Sento molto caldo e non mi trovo a mio agio. Ed è tutto così volgare!» «Volgare?», protestò la signora Cumberbatch. «Non c'è un solo medium in tutta Londra che non farebbe la propria fortuna con la semplice apparizione di una stella autentica come quella, diciamo, due volte a settimana.» «Ma io non sono venuto a farvi visita per fare la fortuna dei medium», disse il signor Tilly. «Voglio andarmene: è tutto piuttosto degradante. E voglio conoscere meglio il mio nuovo mondo. Non so ancora come è fatto.»
«Oh, ma signor Tilly», balbettò la donna, «ci ha detto delle cose stupende sul suo mondo, di come siete impegnati e quanto siete felici.» «No, non è vero. È stata lei a dirlo, o perlomeno è stata lei a mettermelo in testa.» Nell'attimo stesso in cui lo desiderava, si ritrovò fuori dalle acque torbide della mente della signora Cumberbatch. «C'è un mondo completamente nuovo che mi aspetta», disse. «Devo andare a vederlo. Tornerò a raccontarle tutto, perché deve essere pieno di fantastiche rivelazioni...» Improvvisamente sentì la vanità di simili speranze. C'era quel denso fluido di materialità da oltrepassare, e, mentre quel fluido si scioglieva nuovamente su di lui, cominciò a capire che niente di quella rara e fine qualità della vita che aveva appena cominciato a sperimentare poteva penetrare in quelle opacità. Era forse quella la ragione del perché tutto ciò che era al di fuori del mondo dello spirito era così stupido, così banale. Gli spiriti, di cui adesso faceva parte anche lui, potevano dare colpi al mobilio, accendere le luci, dire luoghi comuni, leggere come in un libro aperto nella mente del medium e dei partecipanti alla catena, ma nient'altro. Prima dovevano passare per la regione delle percezioni corporee, in modo da essere uditi da orecchi sordi e visti da occhi ciechi. La signora Cumberbatch si mosse. «Il potere mi viene meno», disse, con una voce profonda con la quale voleva imitare quella del signor Tilly. «Adesso devo lasciarvi, cari amici....» Si sentì veramente esasperato. «Il potere non sta venendo meno», urlò. «Non sono stato io a dirlo.» Ma ormai era uscito troppo, e si rendeva conto che soltanto la medium poteva sentirlo. «Oh, non si arrabbi, signor Tilly», disse lei. «È solo una formula. Ma presto ci lascerà. Non c'è tempo per una piccola materializzazione? Sono la cosa più convincente di tutte.» «Assolutamente no!», le rispose. «Lei non riesce a capire com'è opprimente il solo parlare attraverso lei, e far apparire le stelle. Ma tornerò presto, non appena avrò qualche nuova notizia da comunicare suo tramite. Che senso ha ripetere tutte quelle sciocchezze sul fatto che qui abbiamo molto da fare e che siamo felici? Già sono state ripetute più che abbastanza. E poi, devo ancora verificare se è vero. Arrivederci: non imbrogli più la
gente.» Lasciò quindi cadere sul tavolo il suo invito per la seduta, e udì dei mormorii eccitati mentre fluttuava via. La notizia della meravigliosa stella e della presenza del signor Tilly alla seduta un'ora e mezza dopo la sua morte, che in quel momento era ignota a ognuno dei partecipanti, si diffuse rapidamente in tutti i circoli dell'Occulto. La Psychical Research Society mandò degli investigatori a interrogare i presenti, ma questi erano propensi ad attribuire l'avvenimento alla sottile mescolanza di trasmissione del pensiero e impressione sensoriale inconscia, dopo aver sentito che la signorina Soulsby, qualche minuto prima, aveva letto i titoli dei giornali nell'edicola che si trovava in strada, i quali riportavano l'incidente di Hyde Park Corner. Questa spiegazione era piuttosto elaborata, perché postulava che la signorina Soulsby, preoccupata dal mancato arrivo del signor Tilly, l'avesse associato all'incidente di Hyde Park Corner, e avesse letto probabilmente (pur se inconsciamente) il nome della vittima in un'altra edicola, trasferendo i suoi pensieri nella mente della medium per telepatia. Quanto alla stella sul soffitto, sebbene non riuscissero a spiegarla, trovarono dei resti di vernice fosforescente sui pannelli sopra il caminetto, e giunsero alla conclusione che la stella doveva essere stata prodotta con qualche trucco. Perciò confutarono la veridicità dell'intera vicenda: un vero peccato, visto che, una volta tanto, il fenomeno era proprio autentico. La signorina Soulsby continuò a essere una fedele frequentatrice delle sedute della signora Cumberbatch, ma non avvertì più la presenza del signor Tilly. Quanto a quest'ultimo, il lettore può dare l'interpretazione che preferisce. Io, personalmente, ho l'impressione che abbia trovato qualcos'altro da fare. MATTHEW PHIPPS SHIEL La promessa sposa Lui non vedrà più i fiumi, i mari, i torrenti di miele e burro. Job I due si incontrarono alla Krupp & Mason, una fabbrica di strumenti musicali situata nella zona centro-orientale di Little Britain, dove Walter
aveva lavorato per due anni come impiegato; in un secondo momento arrivò anche Annie, quando cioè si rese necessaria l'opera di una dattilografa. I due cominciarono ad «uscire» insieme dopo le sei di pomeriggio e, quando la signora Evans, la mamma di Annie, perse il suo inquilino, Annie gli accennò la cosa, per cui Walter andò a vivere con loro, al numero tredici di Culford Road; da quel momento in poi, Annie e Walter poterono considerarsi realmente fidanzati. Il salario di Walter, comunque, era di trenta scellini la settimana. Il suo nome per intero era Walter Cockney: a quel tempo era un uomo ben messo di una trentina d'anni, con la fronte squadrata, un bel paio di baffi, il volto pallido e dei piccoli segni scuri sul naso lasciati dall'acne giovanile. Fu la sera del suo arrivo al numero tredici di Culford Road che Walter vide per la prima volta Rachel, la sorella più giovane di Annie. Entrambe le ragazze si chiamavano «Rachel», come la rimpianta madre della signora Evans; ma, mentre Annie Rachel veniva chiamata più semplicemente «Annie», Mary Rachel veniva chiamata soltanto «Rachel». Rachel aiutò Walter a sistemare il suo bagaglio nella stanza sul retro e lì, alla luce della lampada, ebbe modo di capire che era una ragazza piuttosto alta, con degli stupendi capelli corvini, e con una spruzzatina di lentiggini sul naso molto bianco e sottile, sul cui apice di solito si notavano delle piccolissime gocce di sudore. Aveva un volto sottile, ma i denti superiori un po' sporgenti, per cui le labbra si chiudevano con un po' di sforzo. Rachel non era graziosa come Annie, nonostante chiunque potesse arguire, con una semplice occhiata, che era una persona anche più rispettabile della sorella. «Beh, cosa ne pensi di lui?», le chiese Annie quando la sorella scese di sotto. «Sembra un tipo simpatico», le rispose Rachel. «Piuttosto carino. Ed abbastanza forte di spalle, naturalmente.» Walter trascorse la serata con loro nel salotto, fumando una pipa bruttissima: sembrava un bulldog che gorgogliava quando aspirava; e la signora Evans, un'anziana signora tutta sospiri, con grandi difficoltà respiratorie, quasi immediatamente decise di avere a che fare con un «ragazzo educato e onesto». Quando arrivò l'ora di andare a letto, Walter propose loro di raccogliersi in preghiera, e la famiglia Evans accettò senza discutere la cosa, perché Annie le aveva già informate sul fatto che era un «Cristiano». Mentre
l'uomo si dirigeva verso la sua stanza, l'affezionata ragazza pensò bene di trovare una scusa per seguirlo, e nel corridoio del primo piano ci fu un piccolo bacio. «Soltanto uno», gli disse, facendogli segno col dito indice. «E cosa ne pensi di questo piccolo fratello, allora?», sogghignò Walter... con un ghigno che accompagnava sempre tutti i suoi scherzi: un tipo di ghigno gutturale che sembrava scendere a soffocargli la gola, più che sorgere dalle labbra. «Continua», gli rispose Annie dandogli un colpetto sulle guance e correndo di sotto. E così, Walter s'apprestò a passare la sua prima notte in casa Evans. Col passar del tempo imparò moltissimo del mondo femminile: perché non sopportava granché il teatro, e allora trascorreva le sere nel salottino al pianterreno, condividendo la cena degli Evans a base di pane e formaggio, e familiarizzando sempre più con i sospiri dell'anziana signora sul suo status passato. Rachel rimaneva sempre in silenzio, a cucire; Annie, la cui relazione con Walter non era ancora stata annunciata, malgrado forse tutti congetturassero la cosa, si divertiva a suonare delle melodie sacre sul vecchio piano di famiglia. Alla fine della serata, Walter riponeva la sua immancabile pipa, e raccoglieva tutti in preghiera, per poi andare a letto. La maggior parte delle mattine lui ed Annie uscivano insieme di casa per recarsi a Little Britain. Un bel giorno Walter confidò alla ragazza la sua intenzione di chiedere un aumento di «stipendio» e, quando il suo «Terrore», il Boss, promise d'accordarglielo, i due furono presi da una grande euforia e cominciarono a parlare di anelli, matrimonio, e di una «Casa» loro. Annie si sentì non molto lontana dal regno di Imene: era al settimo cielo. Tuttavia i due non dissero niente a casa Evans: infatti, considerando i fasti passati dell'anziana signora, Walter ritenne opportuno non parlarne. Del resto, trenta scellini alla settimana erano proprio uno stipendio da fame. La domenica seguente, comunque, subito dopo il pranzo, avvenne una cosa un po' strana: Rachel, la silenziosa Rachel, scomparve. La signora Evans ed Annie la chiamarono un bel po', sino a quando si resero conto che Rachel non era in casa, malgrado il suo compito quotidiano, quello cioè di riporre le cose usate per il pranzo, una volta che fosse stato portato completamente a termine. All'ora del tè Rachel ritornò a casa. La ragazza era fredda, accigliata e un po' pallida; le sue labbra inoltre erano chiuse perfettamente sui denti
sporgenti. Quando la famiglia le fece timidamente delle domande - perché la sorella e la madre temevano moltissimo il suo risentimento - Rachel rispose loro di essere stata a pochi isolati da casa, e che aveva fatto soltanto una semplice chiacchierata con Alice Soulsby: e questo era vero. Non era, comunque, tutta la verità. Rachel aveva fatto un piccolo salto anche alla Scuola Domenicale Parrocchiale che si trovava sulla sua strada: ma questo Rachel lo nascose intenzionalmente. Per una buona mezz'ora era rimasta appoggiata a una parete dell'edificio, in un cantuccio, ad ascoltare il «discorso». Questo discorso era tenuto da Walter. Ogni domenica, dopo pranzo, Walter riponeva infatti la sua orribile pipa per recarsi a tenere il suo discorso in quella scuola. E questo perché ne era il «Sovrintendente». Dopo quel fatto, quella casa non fu più la stessa, e nella sua banalità s'introdusse un vero e proprio elemento infernale. Il problema principale fu quello se Rachel potesse o meno «esperimentare la religione», una cosa che sua madre ed Annie non si sarebbero mai sognate che facesse. Pregare la gente, e fare il membro dell'Esercito della Salvezza, era stata una cosa che la sua mente forte ed insensibile aveva sempre disprezzato. Ma ormai, ogni domenica sera, Rachel usciva da casa sola e, se qualcuno le chiedeva spiegazioni, lei rispondeva semplicemente «vado in cappella». La ragazza non specificava di quale cappella si trattasse: in realtà, Rachel si recava presso la Newton Street Hall dove Walter andava spesso a «pregare». Nella sala della Scuola Parrocchiale si tenevano delle riunioni di preghiera ogni giovedì sera e, due volte al mese, Rachel usciva per parteciparvi: di giovedì sera... subito dopo Walter. La malattia segreta che devastava la povera ragazza ora poteva difficilmente essere nascosta. In un primo tempo sopportava la solitaria ed amara vergogna, si lamentava durante le innumerevoli crisi, e sperava di stendere un velo sulla sua infermità. Ma la sua ferita era troppo vistosa. Nelle lunghe sere estive del sabato, mentre Walter pregava agli angoli delle strade, Rachel, talvolta segretamente, talaltra apertamente, riusciva a partecipare a questi incontri di preghiera, cantando umilmente gli inni di quel moderno evangelista. Le altre sere, in presenza di Walter, nel salottino, Rachel sedeva tranquilla in poltrona, ed era raro che parlasse: pensava soltanto a cucire. Quando alle sette di sera Rachel sentiva la chiave nella toppa della porta d'ingresso, il suo povero cuore cominciava a sussultarle nel petto; quando poi di mattina Walter usciva di casa per andare al lavoro, l'universo della
ragazza s'inceneriva. «Per me è un miracolo quello che sta accadendo alla nostra Rachel da un po' di tempo a questa parte», disse Annie a Walter in treno, durante il viaggio di ritorno a casa. «Stai facendo diventare buona la sua anima, non è vero?» Il suo compagno fece uno strano rumore, succhiandosi la saliva tra la lingua e i molari. «Che io sia dannato se dico una bugia!», disse. «Lei è a posto, è una persona onesta.» «Io sono sua sorella e la conosco un po' meglio di te. Rachel è completamente cambiata... da quando sei arrivato. A me sembra felicissima, come se avesse toccato il cielo con un dito.» «Poverina! Vuole soltanto riguardarsi e preservare la sua anima, non è così?» Anche Annie sorrise: ma meno brutalmente, e un po' più turbata dalla cosa. Walter le disse: «Ma lei non dovrebbe avere il cielo, se sta offrendo la sua anima al Signore! Sembra che la gente pensi che un Cristiano sia questo e quello. Un Cristiano, se arriva ad esserlo, dovrebbe essere la creatura più allegra del mondo intero!». Quella discussione si verificò di giovedì, la sera degli incontri di preghiera presso la parrocchia, e Walter ebbe soltanto il tempo di precipitarsi al numero tredici di Culford Street, lavarsi la faccia, afferrare la Bibbia, ed uscire di casa come un fulmine. Rachel, da parte sua, in quel momento doveva sentirsi molto presa dalla furia del suo amore, perché nessuna persona con la testa sulle spalle se la sarebbe sentita di seguire per la terza volta un uomo, di sera tardi, senza pensare di incorrere nel pericolo di qualche osservazione non del tutto benigna. Ma considerazioni del genere non sarebbero mai riuscite a penetrare nel cervello di una persona accecata ed estasiata dalla personalità di Walter. Rachel aveva sbrigato le faccende di casa con una furia incredibile, perché non vedeva l'ora che giungesse la sera e, nel momento in cui Walter sbatté la porta d'ingresso dietro di lui, la ragazza si trovava davanti allo specchio, vestita di bianco, tutta tremante. Mentre si curvava per dare un'ultima aggiustatina alla sua frangetta, la ragazza lanciò uno sguardo d'intenso odio all'immagine riflessa delle sue labbra, dischiuse sui suoi terribili denti sporgenti. Quella sera, per la prima volta, Rachel aspettò nella cappella la conclu-
sione del rito religioso, e s'incamminò lentamente verso casa facendo la strada che di solito prendeva Walter; infatti l'uomo, col suo passo lungo, la raggiunse quasi subito, con la sua Bibbia di cuoio marocchino sotto il braccio, una Bibbia facilmente identificabile perché i vari passaggi al suo interno erano ben sottolineati con inchiostro nero e rosso. «Cos'è quella cosa lì?», le chiese, prendendo nella sua mano quella sudata della ragazza. «È quello che vedi», gli rispose in tono di voce abbastanza formale e duro la ragazza. «Vorresti farmi intendere che sei stata anche tu all'incontro di preghiera?» «Certo.» «E dove avevo gli occhi? Io non t'ho vista.» «Forse sarebbe meglio dire che non mi hai voluto vedere, caro signor Teeger.» «Ma va'... piantala! Cosa vuoi da me? Io sono soltanto molto felice! Ed ora ti dirò quello che il Signore Gesù disse una volta ad un giovane: "Tu non sei molto lontano dal Regno de Cieli".» Lei era lì... vicino a lui, da sola, in una strada completamente buia, ancora troppo sofferente delle fiammate di una passione che di solito consuma soltanto i temperamenti più resistenti. Rachel si aggrappò a un braccio che Walter non le offrì e, quando l'uomo si diresse per prendere la via di casa, Rachel gli disse con voce trepidante: «Non voglio andare già a casa. Vorrei fare una piccola passeggiata. Hai nulla in contrario, signor Teeger?». «No, nulla. Andiamo», e i due si immersero in un intrico di stradine e cortili, parlando di argomenti normali, ma anche del «lavoro» di Walter. Dopo una mezz'oretta, Rachel cominciò a dire: «Desidero spesso essere un uomo. Un uomo può dire e fare quello che più gli aggrada ma, per una ragazza, la situazione è alquanto diversa. Guarda te, per esempio, signor Teeger: sempre in movimento, con un grandissimo seguito di persone che ti ascoltano e seguono i tuoi consigli religiosi. Ho desiderato spesso essere un uomo». «Oh, beh, tutto dipende da come vedi la cosa», le rispose Walter. «Eh, a proposito, tu puoi benissimo chiamarmi Walter. Il mio nome è Walter.» «Oh, non credo sia il caso», replicò Rachel. «Non fino a...» La mano della ragazza tremò sul braccio di Walter. «Beh, di' quello che devi dire: sputa fuori l'osso. Perché non potresti
chiamarmi per nome?» «Non credo sia il caso sino a quando non sapremo qualcosa di più preciso su te... ed Annie.» Walter si rabbuiò un po' mentre la ragazza lo costringeva a girare per l'ennesima volta intorno a un isolato. «Ah, voi ragazze!», urlò. «Parlottate tra di voi come fanno tutte le vostre compagne! Ci vuole un uomo intelligente per nascondervi le cose, non è vero?» «Ma non c'è molto da nascondere in questo caso, per quanto possa capirne io: c'è qualcosa o no?» Sempre col sorriso sulle labbra, Walter si schiarì un po' la gola. E disse: «Oh, andiamo... vorresti veramente che ti dicessi una cosa del genere?». Dopo un minuto di silenzio, dalla bocca di Rachel uscì questa frase alquanto sibillina: «Annie non ama nessuno, signor Teeger». «Suvvia... è una cosa assurda quella che stai affermando: nessuno. Annie è una brava ragazza.» «Ma lei non ama nessuno. Naturalmente, la maggior parte delle ragazze sono delle sciocchine, e forse per sposarsi con...» «Beh, ma questa è una cosa naturale, non credi?» Era uno scherzo; e la risata gli rimase in gola, come se avesse dovuto combattere contro il catarro. «Sì, ma non capiscono cosa significhi amare una persona», continuò Rachel. «Non hanno idea di cosa significhi essere innamorate. A loro piace essere delle donne sposate, avere un marito, e tutte le comodità del caso. Ma non sanno assolutamente cosa significa amare: devi credermi! E neppure gli uomini sono capaci di tanto.» Rachel tremava come una foglia... non aveva più voce... così strinse forte il braccio di Walter mentre la luna, trionfante sulle nuvole, sfolgorava di bianco sul suo volto spettrale. «Beh, io non so... Ma credo di capire, cara ragazza, cosa significhi», le disse. «Tu non sai cosa significa, signor Teeger.» «Allora spiegamelo tu, d'accordo?» «Quando l'amore ti stringe nella sua stretta mortale, ti fa diventare...» «Beh, continua. A quanto pare, parli proprio per esperienza personale.» Allora Rachel cominciò a spiegargli cosa fosse l'amore per lei... fornendogli delle definizioni appassionate e deliranti. L'amore era una follia bella e buona, era come essere posseduti dalle furie; era uno spasmo violento al-
la gola, una malattia delle membra, e uno struggimento degli occhi, un fuoco nel midollo. Per lei significava catalessi, estasi, apocalisse; qualcosa di alto come la galassia, di pericoloso come la droga. Era il Vesuvio, l'Aurora boreale, il tramonto; l'amore poteva paragonarsi all'arcobaleno che si forma in un luogo immondo, a san Giovanni più Eliogabalo, a Beatrice più Messalina; era una trasfigurazione, una lebbra contagiosa, una metempsicosi, e una neurosi; era la danza delle menadi, la morsicatura della tarantola, un battesimo in un sole. Quelle terribili definizioni si riversarono fuori dalla bocca di Rachel in parole molto semplici, ma con l'impeto di chi sta lottando per la propria vita. E non era ancora arrivata a metà, quando Walter comprese la sua furia; ma, non appena la capì pienamente, diventò più calmo e, d'un tratto, soccombette. «Non intendevi parlare sul serio, non è vero?», balbettò Walter. «Ah, signor Teeger», gli rispose Rachel, «non esistono al mondo persone più cieche di quelle che non vogliono vedere.» Il braccio di Walter strinse il corpo tremante di Rachel. Ognuno ha le sue debolezze; e quell'uomo, Walter, non aveva assolutamente un animo forte; stava attraversando la fase amatoria, qualcosa d'improvviso, promiscuo e fiacco. E questa tendenza veniva, semmai, accresciuta ed elevata dalla predisposizione completamente sincera della sua mente verso le «cose spirituali»: perché, sotto l'improvvisa tentazione, il suo essere fece marcia indietro nel suo canale naturale. Dopotutto, lui non era un puritano, e sarebbe potuto essere benissimo un Don Giovanni. In un istante Rachel s'aggrappò al collo dell'uomo, e lui le schioccò un bacio molto passionale. Dopo di ciò, Rachel gli chiese: «Ma tu l'hai fatto per pura compassione, Walter. Dimmi la verità, tu sei innamorato di Annie?». Walter, come san Pietro, si lanciò in una bugia. «Questo è quello che dici tu!» «Lo sei», insisté Rachel, sicura della bugia dell'uomo. «Bah! Non ne sono innamorato. Non lo sono mai stato. Tu sei la ragazza che fa per me.» Di ritorno a casa, i due entrarono separati. Entrò prima Rachel, e Walter aspettò venti minuti per strada; poi, entrò anche lui. La casa era piccolina, per cui le due sorelle dormivano insieme nella stanza del primo piano che affacciava sul davanti: Walter invece stava nella stanza sul retro dello stesso piano, e la signora Evans nella stanza sul retro del pianterreno, dal momento che la camera sul davanti era «il salotto».
Le ragazze, di solito andavano a letto insieme: e quella notte, mentre si svestivano, avvenne un vero e proprio litigio. Dapprima vi fu un lungo silenzio. Poi Rachel, per iniziare il discorso, indicò un paio di guanti nuovi di Annie e le chiese: «Quanto ti è costato questo paio di guanti?». «Del denaro, e qualche parola gentile», replicò Annie. E questo fu solo l'inizio. «Beh, non c'è alcun bisogno di fare la maleducata», le disse Rachel. Era felice, si sentiva come se fosse in paradiso, ma quella notte trattò male Annie. «Calma», disse Annie, dopo un silenzio durato dieci minuti, trascorso davanti allo specchio, «calma, io non potrei mai correre dietro a un uomo del genere. Piuttosto, preferirei morire.» «Non ho la minima idea di quello di cui stai parlando», replicò Rachel. «Non fare la finta tonta. Se fossi in te mi vergognerei.» «Continua, continua. Tu sei una piccola demente.» «A me sembra che la pazza sia tu. Ti sei messa in testa un uomo che non ti considera affatto. Come potresti chiamarti se non una pazza scatenata?» Rachel scoppiò a ridere: era felice, pericolosamente contenta. «Non te la prendere, ragazza mia», le disse. «Credi di passare inosservata ogni sera quando cerchi di incontrare un uomo che va per la sua strada? Quello che fai è semplicemente disgustoso, Rachel!» «Dici sul serio?» «E tu vorresti negare per esempio che questa sera sei stata col signor Teeger?» «Io non sono stata col signor Teeger.» «Non è vero. Sei una bugiarda. Chiunque se ne accorgerebbe, dalla gioia che sprizzi da tutti i pori.» «Beh, supponiamo che fosse vero: e allora?» «Una ragazza dovrebbe comportarsi decorosamente, dovrebbe essere discreta, dovrebbe essere capace di controllare i suoi sentimenti, e non esporsi come fai tu. Devi credermi: al solo pensiero, il tuo comportamento mi fa accapponare la pelle.» «Non prendertela, e non fare la gelosa, carina.» A quella provocazione, la gentile Annie s'infiammò tremendamente. «Gelosa! Di te!» «Non ce n'è bisogno, e tu lo sai... per ora.»
«Ma io non lo sono! Non ne sentirò mai il bisogno! Credi che il signor Teeger sia pazzo? Se fossi al tuo posto, la prima cosa che farei sarebbe quella di mettermi qualche dente nuovo!» Ora Annie era caduta nella volgarità più cruda; ma lei sapeva che tutto quello era necessario perché Rachel ne venisse toccata in prima persona; voleva farle confessare la sua malattia, voleva costringerla a scoprirsi, ed infatti, a quella tremenda considerazione sulla sua natura, Rachel impallidì ed urlò come una forsennata: «Non ti preoccupare dei miei denti! Non sono i denti che un uomo guarda in una donna! Quando un uomo guarda una donna sa riconoscere quelle che hanno un animo gentile: di solito non scelgono mai quelle che assomigliano a delle galline tozze e grasse!». «Grazie, mille grazie. Sei davvero gentile», replicò Annie, alquanto intimidita da quella personalità più forte della sua. «Calmati: è un'assurdità parlare della mia gelosia nei tuoi confronti, Rachel. Io conosco il signor Teeger da prima di te, e precisamente da circa sei mesi. Del resto non lo vedrai certo ancora per molto in questa casa, perché io non voglio far vergognare nostra madre: lei la prenderebbe male. Il signor Teeger dovrà trovarsi una nuova sistemazione. Posso facilmente costringerlo a lasciare questa casa al più presto...» A quelle parole Rachel non riuscì più a trattenersi, e con la mano alzata, si avvicinò alle guance di Annie, pronta a colpirla. «Non osare costringerlo ad andarsene! Ti strapperò la tua piccola...» Annie sbatté le palpebre, si fece un po' indietro e, senza più forze, trattenne un singhiozzo. Quella difficile situazione di convivenza si protrasse per circa due settimane. Dopo quella notte tremenda, l'amarezza e l'accanimento tra le due sorelle crebbe sempre più, per cui Annie si spostò a dormire nella stanza della madre, con grande stupore da parte della signora Evans. Per quanto riguardava Walter, il suo cuore era diviso in due. Lui amava Annie, ma era affascinato e incantato dalla piccola Rachel. In un altro paese e in un'altra epoca, molto probabilmente le avrebbe sposate entrambe. Una cosa era evidente: era necessario comprare un anello nuziale, e Walter effettivamente ne comprò uno, ma era indeciso, fortemente indeciso a quale ragazza regalarlo come pegno del suo amore. «Guarda qua, ragazza mia», disse ad Annie in treno, di ritorno verso casa. «Mettiamo la parola fine a questa imbarazzante situazione. Il capo, a quanto sembra, non si decide ad aumentarmi lo stipendio; quindi credo non sia più il caso di aspettare: sposiamoci e facciamola finita.»
«Privatamente?» «Certo. Tua madre e tua sorella non debbono sapere niente... almeno per adesso.» «E tu continuerai a vivere a casa mia?» «Beh, naturalmente; almeno per il momento.» Annie lo guardò in faccia e sorrise. Era tutto stabilito. Tuttavia, due sere dopo, Walter incontrò Rachel di ritorno a casa dagli incontri di preghiera; dapprima si comportò onestamente e si tenne distante, ma poi commise l'incredibile debolezza di andare con lei a fare una passeggiata nei dintorni, finendo per farsi strappare una promessa di matrimonio negli stessi identici termini di quella fatta ad Annie, che fu facilmente accettata. Quando, all'ora del pranzo, Walter varcò la soglia dell'ufficio dell'Anagrafe per comunicare la sua decisione di sposarsi, la sua mente si trovava ancora in uno stato terribile di confusione e di indecisione riguardo al nome che avrebbe dovuto pronunciare davanti all'impiegato. Quando infatti l'impiegato gli disse: «Qual è il nome dell'altra persona?», Walter ebbe un attimo di esitazione, strisciò i piedi per terra, e poi rispose: «Rachel Evans». Una volta in strada però, si ricordò che Rachel era il nome di entrambe le ragazze, per cui tirò un profondo sospiro di sollievo: gli rimaneva ancora un bel po' di tempo per scegliere liberamente la sua sposa. Dal giorno della «notifica» a quello del matrimonio vero e proprio, secondo la legge dovevano trascorrere almeno ventuno giorni; Walter, allora, malgrado il suo timore d'informare le due sorelle del passo che aveva fatto, fu molto attento e cercò di dar loro soltanto un'idea vaga sulla data fissata. La chiara coscienza di una volta, nel frattempo, si era gravemente turbata, e i suoi piedi erano come intrappolati: aveva paura di guardare in se stesso e d'interrogarsi, aveva paura di parlare con Dio, e andava alla deriva come un relitto sul fiume del Fato. E fu soltanto il caso, la sorte, che alla fine lo lanciò sulla terraferma. Cinque giorni prima del matrimonio, ricorreva una festa civile, e Walter si era messo d'accordo con Rachel per portarla ad Hyde Park; le aveva dato un appuntamento in un posto convenuto alle due del pomeriggio. Alle due, dunque, Rachel si fece trovare all'angolo della strada in questione. Camminava avanti e indietro facendo roteare il suo ombrellino da sole. Era preoccupata: Walter non si vedeva ancora, ma quello che era accaduto andava ben oltre le sue intuizioni. Aveva capito male lui, o era lei
ad aver sbagliato strada? Anche se una cosa simile sembrava incredibile, era l'unica possibile ed immaginabile. Ad ogni modo, Rachel si diresse da sola verso Hyde Park triste e sconsolata, nella vaga speranza di incontrarlo da un momento all'altro. Era accaduto l'imprevedibile: Walter era arrivato quasi a metà strada dal luogo dell'appuntamento con Rachel, quando incontrò Annie sulla sua strada. La ragazza era andata a trascorrere il giorno di festa in casa di un'amica sposata che abitava a Stroud Green, ma era ritornata indietro perché il marito dell'amica era ammalato. Vedendo Walter, il suo volto si illuminò di un largo sorriso. «Harry è ammalato, ha l'influenza», gli riferì, «e allora ho ritenuto opportuno non infastidire ulteriormente la povera Ethel ed ho promesso loro di tornare a trovarli in un'occasione più felice. E tu dove stavi andando?» Per la prima volta dalla sua «conversione», avvenuta dodici anni prima, Walter, con un visibilissimo rossore che gli imporporava il volto, mentì coscientemente ad un essere umano. «Stavo andando nell'aula», disse, «per cercare una cosa.» «Beh, sono libera ora, se qualche amico sarà tanto gentile da portarmi a passeggio», replicò Annie molto teneramente. Quella mattina aveva promesso a se stesso di sposare Rachel, e in quel momento si ricordò della promessa fatta. Doveva tener fede al suo giuramento: quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrebbe «portato a spasso» Annie. Walter aveva finalmente fatto la sua scelta. «Andiamo, allora, ragazza mia», le rispose felice. «Dove vorresti andare?» «Andiamo ad Hyde Park», replicò Annie. E così s'incamminarono verso Hyde Park, mentre Walter, di tanto in tanto, veniva martellato dal triste pensiero di Rachel che lo aspettava nel posto convenuto. Alle cinque i due passeggiavano lungo la sponda settentrionale della Serpentine diretti a occidente verso un ponte a doppio arco, attraversato anche da un terzo arco un po' più stretto al di sopra della sponda. I due fidanzatini si trovavano proprio sotto quell'arco per cercare di ripararsi dalla pioggerellina insistente che cadeva, quando Rachel, una persona dalla vista acutissima, riconobbe i due colombi dalla sponda meridionale del fiume. Sul momento la cosa la fece imbestialire. Annie non doveva trovarsi a Stroud Green da Ethel? Che tradimento! Era questo il motivo per cui Walter... Cominciò a correre lungo la sponda, in direzione del ponte, poi l'attraversò, si diresse verso nord, e si nascose nei pressi dell'arco dove i due
colombi stavano parlando... del matrimonio. Sfortunatamente, proprio in quel punto si ergeva un blocco in muratura, che impedì a Rachel di appoggiarsi direttamente sull'arco per ascoltare i discorsi degl'innamorati. Del resto aveva un'assoluta necessità d'ascoltare quello che si dicevano, perciò ritornò verso il blocco in muratura e si piegò sul parapetto, in fuori, di lato, sempre in direzione dell'arco, allungando il collo, il corpo e le orecchie, e chiunque l'avesse guardata in quegli occhi sbarrati, in quel momento avrebbe compreso la dottrina dell'Anima Selvaggia. Rachel comunque, partiva svantaggiata, perché sentiva soltanto dei mormorii e dei brusii, ma... quello non era un bacio? Cercò allora di tendersi quanto più poteva... si allungò sempre più avanti. E, all'improvviso, con un urlo bestiale, Rachel si ritrovò nelle acque del fiume, in un punto fortunatamente non molto profondo. Nella caduta, però, Rachel era andata ad urtare con la testa una pietra nascosta dalla melma. Per tre giorni Rachel urlò continuamente il nome di Walter, e le sue urla si sentivano persino giù, in strada. La terza notte, nel bel mezzo di una terribile crisi di grida, Rachel tutto d'un tratto, morì. «Oh, Rachel, dimmi che non sei morta!», le urlò Annie disperata. La morte di Rachel avvenne due giorni prima della data fissata per il matrimonio, e il giorno dopo, Walter, gravemente colpito dal triste evento che aveva colpito la famiglia Evans, si avvicinò ad Annie e le disse: «La morte di tua sorella, naturalmente fa cadere tutto quanto avevamo stabilito». Annie per qualche minuto non fiatò. Poi, un po' imbronciata, gli rispose: «Non ne capisco il motivo. Dopotutto, lo sbaglio è stato completamente suo. Noi due cosa c'entriamo? Per quale motivo dovremmo soffrire per una colpa non nostra?». L'inimicizia tra le due sorelle era diventata crudele come lo è soltanto la morte, ed era sopravvissuta anche alla morte. Annie, quando l'argomento in discussione riguardava Rachel e Walter, non era più la stessa persona gentile di sempre: il suo cuore diventava duro come il marmo, non aveva più rispetto, né pietà. E così, nonostante la trepidazione e l'esitazione di Walter, il matrimonio ebbe luogo, mentre la povera Rachel riposava nella pace eterna, distesa sul suo letto, al numero tredici di Culford Street. La cerimonia non filò, comunque, liscia come l'olio, perché si verificarono degli intoppi, veri e propri presagi di sventura. Per prima cosa, Walter fu costretto ad avvertire Annie del fatto che l'aveva registrata all'Anagrafe col suo secondo nome «Rachel»... un modo d'agire tipico di un pazzo, che
fu quasi la causa di una rottura che soltanto l'ardente spiegazione di Walter fu in grado di evitare. Ad ogni modo, il dato di fatto era che lui era sposato con «Rachel» e non con «Annie». Dopo la cerimonia, avvenuta all'ora di pranzo, i due sposi ritornarono al lavoro. Alle dieci della stessa sera Walter stava andando a letto, quando Annie si precipitò verso di lui e, nel corridoio, gli schioccò un lungo bacio furtivo... il loro ultimo bacio sulla terra. «A mezzanotte?», sussurrò intensamente. Annie sollevò in aria il suo dito indice. «No, all'una!» «Oh, facciamo a mezzanotte!» La ragazza non gli rispose, ma gli accarezzò le guance col palmo della mano per avere un suo consenso, dal momento che la signora Evans dormiva profondamente. Walter andò di sopra. Fece attenzione a lasciare la porta semisocchiusa, spense la candela, ed andò a letto. Nella stanza accanto, disteso nell'oscurità delle tenebre, c'era... con le palpebre chiuse... il corpo senza vita di Rachel. Walter non riusciva a non pensare alla presenza assai vicina di Rachel. «Povera ragazza!», sospirò. «Povera Rachel! La sua strada è nel mare, e il suo sentiero nella Grande Profondità, ma non si vedono le impronte del suo piede.» Poi pensò ad Annie... la sua piccola moglie! Ma, invece di Annie, nella sua mente c'era Rachel. Le due donne lottavano selvaggiamente per conquistarsi lo spazio dei pensieri di Walter... e la morta sembrava sopraffare la viva... Invece di Annie c'era Rachel, Rachel... sempre e soltanto Rachel. Quando Walter sentì i dodici colpi del campanile, si sedette in mezzo al letto, ascoltando esitante ogni piccolo rumore, in attesa che si aprisse la porta, o di sentire dei passi sul pavimento. Nella stanza un piccolo orologio suonò l'ora; e dalla gola del camino uscì fuori un mormorio, quasi un canto, appena udibile. All'improvviso la ragazza entrò nella stanza e si avvicinò a Walter... incredulo. Non aveva sentito il rumore dei suoi passi avvicinarsi alla stanza, né aveva sentito aprire la porta: la sola cosa sicura era che in quel momento, si trovava lì, vicino a lui, e all'improvviso, era sopra di lui; e gli parlava ansimando in un orecchio. La sua prima reazione fu un tremito che lo scosse da capo a piedi, come i brividi del freddo gelo russo. Lei lo tenne giù per le spalle, poi si allungò sopra di lui per tutta la lunghezza del letto. La stanza sembrava risuonare
di un mormorio molto strano, simile alle mussole inamidate sospinte da un tumulto tempestoso. Lei gli parlava ansimando come se avesse una grande fretta, uggiolando un barbugliamento segreto simile a quello di un cucciolo incollerito... sull'amore e le sue definizioni, sull'anima, il rimorso, l'eternità, la passione della morte, lo sposalizio della tomba, la cupidigia e la falsità del vuoto. Allora anche Walter le parlò sussurrandole a denti stretti: «Sh-h-h, Rachel... Annie, sh-h-h, ragazza mia... tua madre potrebbe sentirti! Rachel non... Sh-h-h: fa' silenzio ora, ti prego!». Ma, mentre continuava a ripetere questa specie di ritornello: «Sh-h-h, cara... sh-h-h, fa' silenzio, ora», Walter sentì l'invasione di una strana passione, fortissima, come se qualche potenza divina gli stesse pompando nel corpo un'energia infinita. Walter non era del tutto in grado di distinguere la figura sopra di lui, perché la stanza era avvolta nell'oscurità delle tenebre della notte, ma sentiva i vestiti della ragazza ondeggiare in un continuo svolazzamento, col mormorio tipico di migliaia di veli inamidati, come il flusso di una bandierina nel vento, e il velo tremolante ora sembrava gonfiarsi e riempire la camera, ora sembrava abbassarsi ancora per coprire la donna. Così, la rapsodia dell'amore e della morte continuava, frammista al borbottio di Walter: «Sh-h-h, Rachel... Annie, ti prego», quando, all'improvviso, l'uomo fu coinvolto in un amplesso così terribile, si sentì schiacciato da una potenza talmente intollerabile, che la sua anima gli venne meno all'interno del corpo. Si lasciò cadere sul letto esausto: per qualche secondo riacquistò una certa lucidità, poi ricadde nelle tenebre, sotto l'incantesimo di quella sorta di ninna-nanna. Quindi mormorò: «Ricevi il mio spirito...». Dopo due giorni, Walter, sempre incosciente, morì. E il suo corpo fu sepolto in una tomba non molto distante da quella della giovane Rachel. MARY WILKINS FREEMAN La camera a sud-ovest «Quell'insegnante di Acton arriva oggi», disse la maggiore delle signorine Gill, Sophia. «Sì», assentì la minore, Amanda. «Ho deciso di sistemarla nella camera a sud-ovest», disse Sophia. Amanda guardò la sorella con un'espressione mista di dubbio e di terrore. «Non credi che...», cominciò a dire con esitazione.
«Non credo... che cosa?», domandò Sophia in tono aspro. Era più decisa della sorella. Entrambe erano al di sotto della media come statura ed erano robuste, ma Sophia era soda laddove Amanda era flaccida. Amanda indossava un vecchio abito di mussola morbida (era una giornata calda) mentre Sophia era inflessibilmente intrappolata in un abito di cambrì, inamidato e con le stecche, che le copriva la figura dai fianchi larghi. «Non ne sono sicura, ma potrebbe avere qualcosa in contrario a dormire in quella stanza, visto che poco tempo fa vi è morta la zia Harriet!», balbettò Amanda. «Bene!», disse Sophia, «Che idea sciocca! Se in questa casa vuoi trovare una stanza in cui non è morto nessuno, resterai sempre sveglia. Il nonno Ackley aveva sette figli: quattro sono morti qui, lo so per certo, oltre al nonno e alla nonna. Penso che anche la bisnonna Ackley, la madre del nonno, sia morta qui, così come il bisnonno Ackley e la sorella zitella del nonno, la prozia Fanny Ackley. Non credo che in questa casa ci sia una stanza o un letto in cui non sia defunto qualcuno.» «Bene, credo di essere una sciocca a pensare una cosa simile, e che sia una buona idea farla dormire lì.» «Lo so. La stanza a nord-ovest è piccola e calda, e lei è robusta, quindi è probabile che soffra il caldo. Inoltre, ha messo da parte una bella sommetta, ed è in grado di pranzare fuori per anni: forse verrà qui anche l'anno prossimo, se si troverà bene...», disse Sophia. «Credo che adesso faresti bene ad andare nella camera a vedere se si è impolverata di nuovo da quando è stata pulita, e ad aprire le finestre ad ovest in maniera che vi entri il sole, mentre io mi occupo della torta», concluse. Amanda si recò nella camera a sud-ovest a svolgere i compiti che le erano stati affidati, mentre la sorella scendeva con passo pesante le scale del retro per andare in cucina. «Penso che faresti bene a disfare il letto mentre dai aria alla stanza e la spolveri. Poi riordinalo!», le gridò alle spalle. «Va bene», rispose Amanda, e rabbrividì. Nessuno sapeva quanto avesse paura ad entrare nella camera a sud-ovest quella donna anziana dall'immaginazione fervida di un bambino, eppure lei non avrebbe saputo dire perché aveva quel timore. Era entrata ed aveva vissuto in camere che un tempo erano state di persone ora morte. La stanza che era stata sua, nella casetta in cui lei e la sorella avevano abitato prima di trasferirsi in quella, era appartenuta alla madre morta. Aveva sempre pensato a quel fatto solo con amore e reverenza, e non aveva mai provato
alcuna paura. Ma questo caso era diverso! Amanda entrò, ed il cuore le pulsava con violenza nelle orecchie. Aveva le mani fredde. La stanza era molto grande: le quattro finestre, due a sud e due a ovest, erano chiuse, così come le tende. La stanza era avvolta da una luce cupa e verdastra, e i mobili si distinguevano appena. La cornice dorata di una vecchia incisione sbiadita, appesa alla parete, rifletteva un po' di luce. Il copriletto bianco sembrava una pagina bianca. Amanda attraversò la stanza, aprì con un movimento nervoso della schiena e delle spalle una delle finestre ad ovest, e tirò le tende. Diventarono visibili gli antichi mobili di mogano e il drappo di chintz ornato di pavoni che abbelliva la lettiera. Lo stesso chintz copriva anche una sedia, ampia e comoda, che era stata il posto preferito della precedente occupante della stanza. La porta dello spogliatoio era socchiusa. Amanda lo notò con meraviglia. Si intravvedeva una stoffa color porpora che pendeva da un attaccapanni all'interno dello spogliatoio. Amanda si avvicinò e prese l'indumento appeso. Si meravigliò che la sorella lo avesse lasciato lì quando aveva pulito la stanza. Era una vecchia veste larga che era appartenuta alla zia. La prese tremando, e chiuse la porta dello spogliatoio, dopo aver gettato uno sguardo timoroso nelle sue oscure profondità. Era uno spogliatoio grande, ed emanava un intenso odore di sedano. La zia Harriet aveva l'abitudine di mangiare sedano, e lo portava costantemente in tasca. Era probabile che ci fosse un pezzetto di quel saporito ortaggio nella tasca dell'antiquata veste color porpora che Amanda gettò sulla sedia. Amanda percepì l'odore con un sussulto, come se si trovasse davanti a una presenza reale. L'odore, in un certo senso, è parte di una personalità. Può sopravvivere al corpo cui apparteneva, quale ombra persistente, come se avesse in sé qualcosa della sostanza cui era pertinente. Amanda avvertì continuamente la fragranza di sedano mentre ordinava la stanza. Spolverò puntigliosamente i pesanti mobili di mogano, dopo aver disfatto il letto, così come le aveva ordinato la sorella. Stese degli asciugamani puliti sul portacatino e sul cassettone, quindi rifece il letto. Poi pensò di prendere la veste color porpora dalla sedia e di portarla in soffitta per metterla nel baule insieme agli altri articoli del guardaroba della morta, ma la veste color porpora non era più sulla sedia! Amanda Gill non era una donna dalle forti convinzioni, nemmeno se si
trattava delle sue proprie azioni. Pensò subito che forse si era sbagliata e che non doveva averla tolta dallo spogliatoio. Lanciò un'occhiata alla porta dello spogliatoio e vide con sorpresa che era aperta, mentre lei aveva creduto di averla chiusa, ma non ne fu più sicura. Allora entrò nello spogliatoio e cercò la veste color porpora. Non c'era! Amanda Gill uscì con passo incerto dallo spogliatoio e guardò di nuovo la sedia. La veste color porpora non c'era! Si guardò disperatamente intorno. Poi si abbassò sulle ginocchia tremanti e scrutò sotto il letto, aprì i cassetti del cassettone, e guardò nuovamente nello spogliatoio. Quindi si fermò nel mezzo della stanza a torcersi le mani. «Che cosa significa?», disse in un bisbiglio sconvolto. Era certa di aver visto la larga veste color porpora della defunta zia Harriet. In ogni persona sana di mente esiste un limite all'autoconfutazione, e Amanda Gill l'aveva raggiunto. Sapeva di aver visto l'abito color porpora nello spogliatoio. Sapeva di averlo preso e di averlo messo sulla sedia. Sapeva anche di non averlo portato via dalla stanza. Avvertiva uno strano senso di inversione mentale. Era come se tutte le sue abituali norme di vita fossero rovesciate. Secondo la sua memoria elementare, mai un indumento non era rimasto dove lei lo aveva messo, a meno che non fosse stato spostato da un essere umano in carne ed ossa. Allora le venne in mente che forse la sorella Sophia era entrata inosservata nella stanza, mentre lei era girata di spalle, ed aveva preso l'abito. Una sensazione di sollievo la pervase. Il sangue sembrò rifluire nei soliti canali, e la tensione dei nervi si rilassò. «Quanto sono sciocca!», disse a voce alta. Si affrettò ad uscire e a scendere le scale. Entrò nella cucina dove Sophia stava preparando la torta: muoveva con splendidi movimenti circolari un cucchiaio di legno in una massa gialla e cremosa. Alzò gli occhi sulla sorella, quando entrò. «Hai fatto tutto?», disse. «Sì», replicò Amanda. Poi esitò. L'aveva sopraffatta un terrore improvviso. Dopotutto, non sembrava affatto probabile che Sophia avesse lasciato per un secondo quell'impasto spumoso per andare nella camera della zia Harriet a prendere la veste color porpora. «Bene», disse Sophia, «se hai fatto, vorrei che togliessi il filo a quei fagiolini. Altrimenti, non faremo in tempo a lessarli per la cena.»
Amanda si diresse verso il tegame pieno di fagiolini che era sul tavolo, poi guardò la sorella. «Sei salita nella camera di zia Harriet mentre ero li?», domandò con voce fioca. Mentre parlava, sapeva già quale sarebbe stata la risposta. «Su in camera di zia Harriet? Certamente no. Non avrei potuto lasciare l'impasto senza farlo smontare. Lo sai bene! Perché?» «Niente», replicò Amanda. Ad un tratto si rese conto che non avrebbe potuto dire alla sorella che cosa era successo perché, considerando l'assoluta assurdità di tutta la faccenda, le veniva a mancare la fiducia nella propria sanità mentale. Sapeva che cosa avrebbe detto Sophia, se lei le avesse raccontato l'accaduto. Le pareva già di sentirla. «Amanda Gill, sei diventata completamente pazza?» Decise che non avrebbe detto niente a Sophia. Si lasciò cadere su una sedia e cominciò a pulire i fagiolini con dita fiacche. Sophia la guardò con curiosità. «Amanda Gill, che cosa mai ti affligge?», le domandò. «Niente!», replicò Amanda. Poi chinò la testa sui baccelli verdi. «Sì, c'è qualcosa! Sei bianca come un lenzuolo e le mani ti tremano tanto che non riesci a togliere il filo ai fagiolini. Pensavo che avessi più buon senso, Amanda Gill!» «Non so che cosa tu voglia dire, Sophia.» «Sì, tu sai che cosa voglio dire; non devi fingere il contrario. Perché mi chiedi se sono stata in quella camera e perché ti comporti in una maniera tanto strana?» Amanda esitò. Era stata educata a dire la verità. Poi mentì. «Mi chiedevo se avessi notato che durante l'ultima pioggia l'acqua si è infiltrata nella parete e ha macchiato il parato al di sopra del cassettone», disse Amanda. «Perché sei così pallida?» «Non lo so. Credo che dipenda dal caldo.» «Non avrei mai pensato che facesse tanto caldo in quella stanza, dopo essere stata chiusa così a lungo», disse Sophia. Era evidente che non era soddisfatta, ma in quel momento il droghiere bussò alla porta, e l'argomento fu lasciato cadere. Durante l'ora successiva, le due donne furono molto occupate. Non tenevano servitù. Quando erano entrate in possesso di quella casa bella e antica
grazie alla morte della zia, era loro sembrata una dubbia fortuna. Non c'era un centesimo con cui pagare riparazioni, tasse e assicurazione, tranne quei milleduecento dollari che avevano ottenuto dalla vendita della casetta nella quale erano nate ed avevano vissuto tutta la vita. Molti anni prima si era creata una grave discordia nella vecchia famiglia Ackley. Una delle figlie si era sposata contro la volontà della madre ed era stata diseredata. Si era sposata con un uomo povero, di nome Gill, e aveva diviso con lui la sua umile casetta dalla quale si vedeva la sua precedente dimora e la sorella e la madre che vivevano in prosperità. Le erano nate tre figlie, poi era morta, logorata dal troppo lavoro e dalle preoccupazioni. La madre e la sorella maggiore non avevano avuto pietà fino alla fine. Non le avevano mai più rivolto la parola da quando aveva lasciato la casa la sera del matrimonio. Erano delle donne dure. Le tre figlie della sorella diseredata avevano vissuto una vita tranquilla e povera, ma non misera. Jane, la sorella di mezzo, si era sposata ed era morta in meno di un anno. Amanda e Sophia avevano preso con loro la figlioletta lasciata dalla sorella, quando il padre si era risposato. Sophia aveva insegnato per molti anni in una scuola elementare e aveva messo da parte abbastanza denaro da comprare la casetta in cui vivevano. Amanda aveva lavorato merletti all'uncinetto, ricamato flanelle e fatto cestini e puntaspilli, ed aveva guadagnato abbastanza da provvedere ai vestiti propri e della bambina, la piccola Flora Scott. Il padre, William Gill, era morto prima che le due sorelle arrivassero ai trent'anni. Adesso che erano giunte alla mezza età, era morta la zia con cui non avevano mai parlato sebbene l'avessero vista spesso, che aveva vissuto in solitudine nell'antica dimora degli Ackley fino ad oltre ottant'anni. Non aveva fatto testamento, e le due sorelle erano le uniche eredi, fatta eccezione per la giovane Flora Scott, la figlia della sorella morta. Sophia e Amanda avevano pensato subito a Flora, quando avevano saputo dell'eredità. «Sarà splendido per lei: avrà abbastanza da vivere quando noi ce ne saremo andate», disse Sophia. Aveva immediatamente deciso il da farsi. La casetta doveva essere venduta e si dovevano trasferire nella vecchia casa degli Ackley e dare le stanze in affitto per pagarne la manutenzione. Scartò subito l'idea di venderla. Aveva un enorme orgoglio familiare. Aveva sempre tenuto la testa alta quando era passata davanti a quella bella dimora, la casa d'origine della sua famiglia, in cui le era proibito entrare. Restò anche impassibile quando
l'avvocato le rivelò il fatto che Harriet Ackley aveva speso fino all'ultimo centesimo il denaro degli Ackley. «Ho capito che dovremo lavorare», disse, «ma mia sorella e io siamo decise a tenere quella casa.» Questo segnò la fine della discussione. Sophia e Amanda Gill vivevano nella vecchia casa degli Ackley da quindici giorni, e avevano già tre pensionanti: un'anziana vedova con una comoda rendita, un giovane sacerdote congregazionalista, e una donna sola, di mezza età, che si occupava della Biblioteca del paese. Adesso aspettavano l'insegnante di Acton, la signorina Louisa Stark, e sarebbero arrivate a quattro. Sophia riteneva che avessero tutto il necessario per una vita comoda. I bisogni suoi e di sua sorella erano pochissimi, e perfino la nipote, sebbene fosse giovanetta, aveva poche spese, dal momento che per gli anni a venire il suo guardaroba sarebbe stato rifornito da quello della zia defunta. Nella soffitta di casa Ackley erano conservate voluminose sete nere, nonché rasi e bambagine a sufficienza da farla vestire con lugubre eleganza per tutti gli anni a venire. Flora era una ragazza dal carattere mite, con grandi e seri occhi azzurri, una bocca graziosa, raramente sorridente, e lisci capelli biondi. Era delicata e giovanissima: avrebbe compiuto sedici anni l'anno seguente. Tornò a casa presto con i pacchetti di zucchero e di tè del droghiere. Entrò in cucina con espressione seria e depositò gli involti sul tavolo, al quale era seduta la zia Amanda che stava togliendo il filo ai fagiolini. Flora indossava un obsoleto cappello a forma di turbante, di paglia nera, che era appartenuto alla prozia morta: le poggiava sulla testa come una corona lasciandole scoperta la fronte. Il vestito era un vecchio cotone stampato, rosso e bianco, troppo lungo e troppo largo, tranne nel petto, dove si stringeva a mo' di bustino. «Faresti bene a toglierti il cappello, Flora», disse Sophia. Poi si voltò subito verso Amanda. «Hai riempito la brocca nella camera dell'insegnante?», chiese con severità. Era certa che Amanda non avesse riempito la brocca. Amanda arrossì e trasalì colpevolmente. «Confesso di non averlo fatto», disse. «Lo sapevo che non lo avevi fatto!», disse la sorella con enfasi sarcastica. «Flora, sali nella camera che è stata della tua prozia Harriet, prendi la brocca dal portacatino, e riempila di acqua. Stai molto attenta a non rom-
pere la brocca e a non versare l'acqua.» «In quella stanza?», chiese Flora. Parlò con molta calma, ma il suo volto cambiò espressione. «Sì, in quella stanza», ribatté sua zia Sophia, con asprezza. «Vai subito.» Flora salì. Si sentirono i suoi passi leggeri sulle scale. Tornò molto presto con la brocca bianca e blu, e la riempì con attenzione dall'acquaio della cucina. «Adesso sta' attenta a non versarla», disse Sophia quando la ragazza uscì dalla stanza, portando la brocca con circospezione. Amanda le lanciò una timida occhiata: si chiese se avesse visto la veste color porpora. Poi trasalì, perché vide la diligenza del paese arrivare davanti alla casa. La casa sorgeva a un angolo della via. «Amanda, hai un aspetto migliore del mio: vai a darle il benvenuto!», disse Sophia. «Io metterò l'impasto in una teglia, lo infilerò nel forno e poi verrò. Accompagnala nella sua stanza.» Amanda si tolse in fretta il grembiule ed obbedì. Sophia si affrettò a completare l'impasto e lo versò nella teglia. Aveva appena messo la torta nel forno, quando la porta si aprì ed entrò Flora con la brocca blu e bianca. «Perché mai hai riportato giù la brocca?», domandò Sophia. «Vuole dell'acqua, e zia Amanda mi ha mandato a prenderla», replicò Flora. Il suo grazioso visino pallido aveva un'espressione stupita. «Per amor del cielo, ha usato così in fretta tutta l'acqua di quella grande brocca?» «Non c'era acqua nella brocca», replicò Flora. L'alta fronte infantile era lievemente corrugata per lo stupore quando la fanciulla guardò la zia. «Non c'era acqua?» «No.» «Non ti ho visto riempire la brocca d'acqua meno di dieci minuti fa?» «Sì.» «Che cosa hai fatto di quell'acqua?» «Niente.» «Hai portato la brocca piena d'acqua nella camera e l'hai messa sul portacatino?» «Sì.» «Non l'hai versata?»
«No.» «Flora Scott, voglio la verità! Hai riempito la brocca d'acqua e l'hai portata su, e non c'era acqua nella brocca, quando l'insegnante ha voluto usarla?» «È così.» «Fammi vedere la brocca!» Sophia esaminò la brocca. Non solo era perfettamente asciutta da cima a fondo, ma perfino un po' impolverata. Si girò a guardare con severità la ragazza. «Questo dimostra», disse, «che non hai affatto riempito la brocca. Hai lasciato scorrere l'acqua fuori perché non volevi portare la brocca piena al primo piano. Mi vergogno di te. Essere così pigri è già abbastanza disdicevole, ma quando si arriva a non dire la verità...» Sul viso della giovane si dipinse una patetica espressione di imbarazzo e i suoi occhi azzurri si riempirono di lacrime. «Io ho riempito la brocca, lo giuro», balbettò. «L'ho fatto, zia Sophia. Chiedilo a zia Amanda.» «Non lo chiederò a nessuno. Questa brocca è una prova sufficiente. L'acqua non può evaporare e lasciare l'interno della brocca impolverato, se vi è stata messa solo dieci minuti prima. Adesso riempi la brocca fino all'orlo e portala di sopra e, se ne fai cadere solo una goccia, non ci limiteremo a parlarne.» Flora riempì la brocca mentre le lacrime le scorrevano sulle guance. Uscì tirando su col naso e cercando di tenere in equilibrio la brocca contro il fianco. Sophia la seguì. «Smettila di piangere», le disse in tono aspro. «Dovresti vergognarti di te stessa. Cosa credi che penserà Louisa Stark? Prima non c'era acqua nella brocca e poi tu torni in lacrime come se non avessi voluto prenderla.» Suo malgrado, la voce di Sophia si stava addolcendo. Voleva molto bene alla ragazza. La seguì per le scale fino alla stanza in cui la signorina Stark stava aspettando l'acqua per rinfrescarsi dopo il viaggio. Si era tolta la cuffia, che col mazzolino di gerani rossi illuminava l'oscurità del cassettone in mogano, e aveva sistemato con cura la mantellina ornata di perle sul letto. Stava rispondendo ad una tremula osservazione di Amanda, quasi sul punto di venir meno per il nuovo mistero della brocca, e le diceva che faceva caldo e che mal sopportava quel tempo. Louisa Stark era robusta e costruita solidamente. Era molto più grossa delle sorelle Gill. Avvezza al comando da anni di insegnamento, portava
con maestosità la sua grossa mole; perfino il volto, sudato e rosso per il caldo, non perdeva nulla della sua dignità. Era ritta in mezzo alla stanza con l'aria di ergersi su un piedistallo. Quando entrarono Sophia e Flora con la brocca dell'acqua, si voltò. «Questa è mia sorella Sophia», disse Amanda con voce tremante. Sophia si fece avanti, strinse la mano di Louisa Stark, le diede il benvenuto, poi disse che sperava che la stanza le piacesse. Quindi si diresse verso lo spogliatoio. «In questa stanza c'è un ampio spogliatoio, il più bello della casa. Potete sistemare il baule...», disse, poi si interruppe di colpo. La porta dello spogliatoio era socchiusa. Una veste porpora sembrò ondeggiare all'improvviso come se fosse stata mossa da un soffio di vento. «Beh, in questo spogliatoio qualcosa è rimasto!», disse Sophia in tono mortificato. «Credevo che fosse stato portato via tutto.» Tirò giù la veste con uno strattone, mentre Amanda le passava davanti correndo verso la porta. «Temo che vostra sorella non si senta bene», disse l'insegnante di Acton. «Quando avete tirato giù il vestito, è impallidita. L'ho notato subito. Non fareste meglio ad andare a vedere che cos'ha? Forse sta per svenire.» «Non va soggetta a svenimenti», replicò Sophia, ma seguì Amanda. La trovò nella stanza che occupavano insieme, distesa sul letto, pallidissima e affannata. Si chinò su di lei. «Amanda, cosa c'è che non va? Non ti senti bene?», le chiese. «Mi sento venir meno.» Sophia prese una bottiglia di canfora e cominciò a strofinarle la fronte. «Ti senti meglio?», disse. Amanda annuì. «Deve essere stata la torta di mele verdi che hai mangiato a mezzogiorno», disse Sophia. «Che cosa ho combinato, mi chiedo, con quel vestito di zia Harriet? Penso che, se ti senti meglio, andrò su a prenderlo e lo porterò in soffitta. Farò un salto da te più tardi. Tu fai meglio a rimanere a letto. Flora può portarti una tazza di tè. Io non mangerei nulla a cena.» Il tono di Sophia nel lasciare la stanza era pieno di affettuosa sollecitudine. Tornò presto; sembrava turbata, ma per la rabbia. Nella sua espressione non c'era il minimo segno di paura. «Vorrei sapere», disse, lanciando intorno uno sguardo rapido e penetrante, «se ho lasciato qui quel vestito porpora...» «Non t'ho vista», replicò Amanda.
«Devo averlo fatto. Non è nella camera, né nello spogliatoio. Non mi hai mentito, vero?» «Mi sono distesa prima che tu entrassi», replicò Amanda. «Sì, è vero. Bene, andrò a vedere ancora una volta.» Poco dopo, Amanda udì il passo pesante della sorella sulle scale della soffitta. Poi Sophia tornò con una strana espressione di sfida sul volto. «L'avevo portato in soffitta, e l'avevo messo nel baule», disse. «Devo essermene dimenticata. Immagino che il tuo svenimento me l'abbia fatto uscire dalla testa. Era lì, ripiegato per bene così come l'avevo sistemato.» La bocca di Sophia era serrata; gli occhi fissi sulla sorella erano colmi di spavento, e il suo viso sconvolto aveva una dura espressione di sfida. «Bene», mormorò Amanda. «Devo scendere a controllare quella torta», disse Sophia uscendo dalla stanza. «Se non ti senti bene, appoggiati all'ombrello.» Amanda la seguì con lo sguardo. Sapeva che Sophia non aveva messo la veste porpora della defunta zia Harriet nel baule che era in soffitta. Nel frattempo, Louisa Stark si stava sistemando nella stanza a sud-ovest. Svuotò il baule ed appese con cura gli abiti nel guardaroba. Riempì i cassetti del comò di biancheria di lino ben ripiegata e di altri indumenti. Era una donna molto ordinata. Poi indossò un abito di seta indiana nera a fiori rossi. Quindi si pettinò i capelli biondo-grigi in morbide onde che le scendevano dall'ampia fronte. Appuntò sul colletto una spilla molto bella anche se di foggia un po' antiquata: si trattava di un grappolo di perle montato con filigrana d'oro su onice nera. L'aveva acquistato parecchi anni addietro spendendo una considerevole parte dello stipendio di quel settembre estivo. Mentre si esaminava nel piccolo specchio che sormontava l'antiquato comò di mogano, all'improvviso si chinò in avanti e guardò la spilla più da vicino. Le era sembrato che ci fosse qualcosa che non andava, ma adesso ne era certa! Invece del familiare grappolo di perle su onice nera, vide un nodo di capelli biondi e neri sottovetro circondati da un bordo d'oro intrecciato. Provò un brivido d'orrore, anche se non sapeva spiegarne il motivo. Sganciò la spilla, ma ora era la solita, ossia il grappolo di perle e l'onice. «Che sciocca!», pensò. Si appuntò di nuovo la spilla al colletto e si guardò nello specchio. E... c'era di nuovo: il nodo di capelli biondi e neri e l'oro intrecciato. Louisa Stark guardò il suo volto risoluto al di sopra della spilla, e lo vide
con una nuova espressione di terrore e disperazione. Immediatamente si chiese se la sua testa funzionasse bene. Si ricordò che una zia di sua madre era diventata pazza. Una specie di furia contro se stessa si impossessò di lei. Fissava la spilla nello specchio con occhi insieme rabbiosi e terrorizzati. Infine si appuntò di nuovo la spilla con gesto deciso e, voltate le spalle allo specchio con aria di sfida, scese per la cena. A tavola incontrò gli altri pensionanti; l'anziana vedova, il giovane sacerdote, e la bibliotecaria di mezza età. Osservò l'anziana vedova con riserbo, il sacerdote con rispetto, e la bibliotecaria di mezza età con sospetto. Quest'ultima indossava una camicetta molto giovanile e aveva una pettinatura da ragazza, che l'insegnante, la quale aveva raccolto i capelli in un morbido chignon sulla nuca, condannò come poco adatta alla sua età. La bibliotecaria, che aveva modi bruschi, le si rivolse chiedendole quale stanza occupasse, e ripeté la domanda malgrado l'evidente riluttanza dell'insegnante a prestarle attenzione. Poiché le sedeva accanto, le diede persino di gomito nel fianco rigido fasciato di seta nera. «In quale stanza siete, signorina Stark?», chiese. «Non so come indicarla», replicò rigida la signorina Stark. «È quella grande a sud-ovest?» «Di certo dà in quella direzione», disse la signorina Stark. La bibliotecaria, il cui nome era Eliza Lippincott, si girò di scatto verso Amanda Gill, sul cui viso delicato si stava dipingendo uno strano colore, misto di rossore e pallore. «In quale stanza è morta vostra zia, signorina Amanda?», chiese all'improvviso. Amanda lanciò un'occhiata terrorizzata alla sorella, che stava servendo una seconda porzione di pudding al sacerdote. «In quella stanza», rispose con voce flebile. «Era proprio quello che pensavo!», disse la bibliotecaria con una certa aria di trionfo. «Ho dedotto che doveva essere la stanza in cui era morta, perché è la migliore della casa e finora non ci avete mai sistemato nessuno. In genere, la stanza in cui qualcuno è morto di recente viene data per ultima. Suppongo che voi siate di animo così forte da non avere remore a dormire in una stanza in cui qualcuno è morto qualche settimana fa, non è vero?», indagò poi, lanciando a Louisa Stark uno sguardo penetrante. «No, non ne ho», replicò la signorina Stark con enfasi. «Nemmeno a dormire nello stesso letto?», insisté, con un tono scherzoso ed insinuante.
Il giovane religioso alzò lo sguardo dal pudding. Era molto spirituale, ma nella pensione precedente aveva mangiato quasi degli avanzi, e non poteva fare a meno di ricavare un certo astratto godimento dalla cucina della signorina Gill. «Voi avreste paura, signorina Lippincott?», osservò con la sua inflessione dolce, quasi carezzevole. «Credereste, anche solo per un attimo, che un potere superiore potrebbe permettere qualsiasi manifestazione da parte di uno spirito disincarnato - che noi crediamo si trovi nella sua casa celeste per fare del male ad uno dei suoi servi?» «Oh, signor Dunn, certo che no!», rispose Eliza Lippincott, arrossendo. «Certo che no. Non intendevo dire...» «Vi credo», disse il giovane sacerdote con dolcezza. Era molto giovane, ma aveva già una ruga in mezzo agli occhi, segno di un'ansia costante, e sulle labbra un perenne sorriso. Le linee del sorriso erano marcate profondamente, come la ruga. «Di certo la cara signorina Harriet Gill doveva essere una buona cristiana», osservò la vedova, «e non credo che una buona cristiana tornerebbe a spaventare la gente. Non avrei nemmeno un po' di paura a dormire in quella stanza; la preferirei a quella che ho. Se avessi paura di dormire in una stanza in cui è morta una brava donna, non lo direi. Se avessi visto o udito delle cose, penserei che sono il frutto della mia cattiva coscienza.» Poi si rivolse alla signorina Stark: «In qualsiasi momento vi sentiste a disagio in quella stanza, sono pronta a far volentieri a cambio con voi», disse. «Grazie; non ho alcun desiderio di cambiare. Sono assolutamente soddisfatta della mia stanza», replicò la signorina Stark con dignità sussiegosa. «Beh!», replicò l'altra. «In qualsiasi momento, se aveste problemi, sapete che cosa fare. In verità, io ho una bella stanza; guarda ad est e prende il sole del mattino, ma non è bella quanto la vostra, secondo il mio modo di pensare. Preferirei sempre una stanza in cui qualcuno è morto ad una calda d'estate. Per parte mia, ho più paura dei colpi di sole che dei fantasmi.» Sophia Gill, che non aveva detto nemmeno una parola, ma le cui labbra erano sempre più rigide e serrate, si alzò all'improvviso dalla tavola, costringendo il religioso a lasciare un po' di pudding, cui lanciò un'occhiata di rimpianto. Louisa Stark non si accomodò nel salotto insieme agli altri pensionanti. Andò direttamente nella sua stanza. Si sentiva stanca per il viaggio, e meditava di avvolgersi in una vestaglia e scrivere tranquillamente qualche lettera prima di andare a letto. Era consapevole del fatto che, se avesse ri-
mandato il ritorno nella sua stanza, la cosa avrebbe potuto assumere dimensioni terrificanti. Era piena di sfida verso se stessa e la sua debolezza latente. Così si avviò risolutamente ed entrò nella camera a sud-ovest. La stanza era avvolta in un dolce crepuscolo. Distingueva gli oggetti con difficoltà; la voluta di satin bianco sul parato e il copriletto bianco sul letto erano i più visibili. Di conseguenza, entrambi attirarono subito la sua attenzione. E vide contro il parato, che si trovava di fronte alla porta, il corpetto del suo bel vestito di satin nero appeso ad un quadro. «È molto strano», si disse, e di nuovo un leggero brivido di orrore la percorse. Sapeva, o credeva di sapere, di aver messo quel corpetto ben ripiegato tra gli asciugamani nel baule. Teneva molto al suo vestito di satin nero. Tirò giù il corpetto nero e lo stese sul letto in attesa di ripiegarlo ma, mentre si apprestava a farlo, scoprì che le due maniche erano cucite strettamente insieme. Louisa Stark fissò le maniche cucite. «Che cosa significa?», si chiese. Esaminò attentamente le cuciture; i punti erano piccoli, regolari e stretti, di filo nero. Si guardò intorno nella stanza. Su un ripiano accanto al letto c'era qualcosa che non aveva notato prima: una piccola cassetta da lavoro di foggia antica, sul cui coperchio c'era l'immagine di un ragazzino in grembiule. Accanto alla cassetta da lavoro si trovavano, come se fossero stati appena lasciati dalla persona che li aveva usati, un rocchetto di filo nero, un paio di forbici, ed un grosso ditale di acciaio con un buco all'estremità, secondo un vecchio modello. Louisa fissò gli oggetti e poi le maniche del suo abito. Poi si diresse alla porta. Per un attimo pensò che si trattasse di qualcosa su cui aveva il diritto di chiedere spiegazioni; quindi le vennero dei dubbi. E se quella cassetta da lavoro fosse sempre stata lì? Se se ne fosse dimenticata? Se fosse stata lei stessa ad aver fatto quella cosa assurda? Che cosa avrebbe impedito agli altri di crederlo, che cosa avrebbe impedito loro di avere dei dubbi sulla sua memoria e sulle sue facoltà mentali? Louisa Stark era sull'orlo di una crisi di nervi, a dispetto della sua costituzione d'acciaio e della sua grande forza di volontà. Nessuna donna può insegnare per quarant'anni senza riportarne dei danni. Era più disposta a credere a delle sue possibili debolezze di quanto lo fosse mai stata in tutta la sua vita. Era gelata dall'orrore e dal terrore, e tuttavia non tanto dall'or-
rore e dal terrore del Soprannaturale, quanto di se stessa. La debolezza di credere nel Soprannaturale era quasi impossibile per la sua natura forte. Riusciva più facilmente a credere che le sue facoltà mentali la stessero abbandonando. «Forse diventerò come zia Marcia», si disse, e il suo volto grassoccio si irrigidì per la paura. Si avviò allo specchio per slacciarsi l'abito, poi si ricordò dello strano caso della spilla e si fermò di colpo. Drizzatasi con aria di sfida, marciò verso il cassettone e si guardò allo specchio. Vi vide riflesso, a chiuderle il colletto, quell'oggetto antiquato, di forma ovale; un nodo di capelli biondi e neri sotto vetro, chiusi da un bordo d'oro intrecciato. Lo tolse con mani tremanti e lo guardò. Era la sua spilla: il grappolo di perle su onice nera. Louisa Stark sistemò il gioiello nella sua scatolina su un batuffolo d'ovatta rosa e lo mise via nel cassetto del comò. Solo la morte avrebbe potuto cambiare le sue abitudini. Mentre si slacciava l'abito, le sue dita erano così fredde da non avere quasi sensibilità; nello sfilarselo dalla testa barcollò. Andò allo spogliatoio per appenderlo e si ritrasse di scatto. Un forte odore di sedano le penetrò le narici, e una veste color porpora accanto alla porta ondeggiò lievemente contro il suo volto, come se fosse mossa da un soffio di vento proveniente dall'interno. Tutti gli attaccapanni erano pieni di indumenti non suoi: la maggior parte era di un colore tetro, ma c'erano anche abiti in seta e satin di fogge strane. All'improvviso, Louisa Stark si riprese. Questo, disse a se stessa, era qualcosa di concreto e tangibile. Qualcuno si era preso delle libertà col suo guardaroba. Qualcuno aveva appeso gli abiti di un'altra nel suo spogliatoio. Si infilò in fretta il vestito e si avviò dritta in salotto. Erano tutti seduti lì; la vedova e il religioso giocavano a backgammon, mentre la bibliotecaria li guardava. Amanda Gill rammendava accanto alla grande lampada posta sul tavolo centrale. Quando Louisa Stark entrò, tutti la guardarono sorpresi. C'era qualcosa di strano nella sua espressione. La notò solo Amanda. «Dov'è vostra sorella?», le chiese in tono perentorio. «È in cucina ad impastare il pane», disse Amanda con voce tremula. «C'è qualcosa...» Ma l'insegnante era scomparsa. Trovò Sophia Gill in piedi davanti al tavolo della cucina che impastava il pane. La giovane Flora stava portando della farina dalla dispensa. Si
fermò a fissare la signorina Stark, e il suo volto grazioso e delicato assunse un'espressione allarmata. La signorina Stark andò subito al nocciolo. «Signorina Gill», disse in tono severo. «Vorrei sapere perché avete fatto togliere i miei abiti dallo spogliatoio della mia stanza e li avete fatti sostituire con altri.» Sophia Gill rimase ritta a guardarla con le mani affondate nella pasta. Il suo volto impallidì lentamente e con riluttanza, mentre la bocca le si irrigidiva. «Cosa? Non capisco assolutamente che cosa volete dire, signorina Stark», disse. «I miei abiti non sono nello spogliatoio della mia stanza, che invece è pieno di cose che non mi appartengono», replicò Louisa Stark. «Passami quella farina», disse Sophia in tono aspro alla ragazza. Questa obbedì, lanciando delle timide occhiate perplesse alla signorina Stark, mentre le passava davanti. Sophia Gill cominciò a strofinarsi le mani per ripulirle dalla pasta. «Sono certa di non saperne nulla», disse, cercando di controllare l'asprezza del tono. «Tu ne sai qualcosa, Flora?» «Oh, no, io non so niente, zia Sophia!», rispose la ragazza, agitandosi. Poi Sophia si rivolse alla signorina Stark. «Verrò di sopra con voi, Louisa Stark», disse, «e vedremo di che si tratta. Ci deve essere un errore.» Parlava con tono forzatamente educato. «Molto bene!», ribatté dignitosamente la signorina Stark. Poi lei e Sophia andarono di sopra. Flora le seguì con lo sguardo. Sophia e Louise Stark si recarono nella camera a sud-ovest. La porta dello spogliatoio era chiusa. Sophia la spalancò con violenza, poi guardò la signorina Stark. Sugli appendiabiti c'erano gli indumenti dell'insegnante bene ordinati. «Non ci vedo nulla di strano», osservò Sophia in tono arcigno. Louisa Stark si sforzò di parlare, ma non ci riuscì. Si lasciò andare sulla sedia più vicina. Non tentò neppure di difendersi: si vedeva che nello spogliatoio c'erano i suoi abiti. Sapeva che nessun essere umano avrebbe avuto il tempo di togliere quelli che credeva di aver visto e sostituirli con i suoi. Sapeva che era impossibile. Di nuovo ebbe orrore di se stessa. «Dovete esservi sbagliata», udì che diceva Sophia. Mormorò qualcosa, senza sapere neppure cosa. Poi Sophia uscì dalla
stanza, e lei si spogliò subito ed andò a letto. Al mattino non scese per colazione e, quando Sophia venne a informarsi del motivo, chiese di avere una carrozza per il treno di mezzogiorno. Si disse spiacente, ma era malata e temeva di poter peggiorare, per cui riteneva di dover tornare immediatamente a casa. Sembrava stesse male, e non riuscì neppure a prendere il tè ed il toast che Sophia aveva preparato per lei. Sophia provò una certa pena per l'insegnante, ma la pena era largamente mista all'indignazione. Credeva di sapere la vera ragione della sua malattia e della sua improvvisa partenza, e questo la rendeva furibonda. «Se le persone si comportano da matti, non riusciremo mai a mantenere questa casa», disse ad Amanda, dopo che la signorina Stark se ne fu andata, ed Amanda sapeva ciò che intendeva dire. Appena la vedova, Elvira Simmons, seppe che l'insegnante se n'era andata e la stanza a sud-ovest era vuota, chiese di averla in cambio della propria. Sophia esitò un attimo, poi guardò la vedova con occhi penetranti. C'era qualcosa in quel viso roseo e largo, solcato dai segni dell'umorismo e della decisione, che la rassicurava. «Non ho alcuna obiezione, signora Simmons», disse, «se...» «Se cosa?», chiese la vedova. «Se avete abbastanza buon senso da non fare storie perché in quella stanza è morta mia zia», disse Sophia in tono brusco. «Sciocchezze!», disse Elvira Simmons, la vedova. Il pomeriggio stesso si trasferì nella camera a sud-ovest. La giovane Flora l'aiutò, sebbene malvolentieri. «Voglio che adesso porti i vestiti della signora Simmons nello spogliatoio di quella stanza, che li appendi ordinatamente, e che le procuri tutto quello che vuole», disse Sophia Gill. «E puoi rifare il letto, con delle lenzuola pulite. Perché mi guardi in quel modo?» «Ho paura.» «Paura di che cosa? Dovresti stare a capo chino. No: andrai in quella stanza e farai tutto quello che ti ho detto.» Poco dopo, Flora tornò di corsa nel soggiorno in cui si trovava Sophia, pallida come una morta, e tra le mani stringeva una strana cuffia da notte plissettata, di foggia antiquata. «Che cos'è?», domandò Sophia. «L'ho trovata sotto il cuscino.» «Quale cuscino?»
«Nella camera a sud-ovest.» Sophia la prese in mano e la guardò con espressione severa. «È della prozia Harriet», disse Flora con voce flebile. «Tu vai di corsa dal droghiere per quella commissione: mi occuperò io della stanza!», disse Sophia con dignità. Prese la cuffia da notte e la ripose nel baule della soffitta, dove pensava di averla conservata insieme a tutti gli altri indumenti della morta. Poi si recò nella camera a sud-ovest, rifece il letto ed aiutò la signora Simmons a trasferirvicisi. Non ci furono ulteriori incidenti. La vedova si vantava trionfalmente della sua camera nuova. Ne parlò molto a cena. «È la migliore camera della casa, e mi aspetto che siate tutti invidiosi di me!», disse. «E voi siete sicura di non aver paura dei fantasmi?», chiese la bibliotecaria. «Fantasmi?», ripeté la vedova con disprezzo. «Se arriverà un fantasma, lo manderò da voi. Abitate nella stanza di fronte a quella a sud-ovest.» «Non ce n'è bisogno», replicò Eliza Lippincott, con un brivido. «Non dormirei mai in quella stanza, dopo...» Si interruppe, dando un'occhiata al sacerdote. «Niente!», replicò Eliza Lippincott con imbarazzo. «Spero che la signorina Lippincott abbia troppo buon senso e fede per credere in cose del genere», disse il religioso. «Anch'io lo spero», disse in fretta Eliza. «Voi avete visto e udito qualcosa: vorrei sapere che cosa...», disse la vedova quella sera, quando si trovarono sole nel salotto. Il sacerdote era andato a fare una visita. Eliza esitò. «Che cosa avete visto?», insisté la vedova. «Beh», disse Eliza, esitante, «se promettete di non dirlo a nessuno...» «Sì, lo prometto: che cosa avete visto?» «Beh, la settimana scorsa, poco prima che arrivasse l'insegnante, sono andata in quella stanza per vedere com'era il tempo. Volevo indossare il mio vestito grigio, e avevo paura che minacciasse pioggia, perciò desideravo guardare il cielo da tutti i punti. Allora sono entrata nella stanza a sud-ovest e...» «E che cosa?» «Beh, conoscete quel drappo di chintz che è sopra il letto, e la mantova-
na e la poltrona: descrivetemi la decorazione della stoffa.» «Mi pare che ci siano dei pavoni su fondo blu. Buon Dio, non avrei mai creduto che fosse possibile dimenticare quella stoffa, dopo averla vista.» «Pavoni su fondo blu: ne siete sicura?» «Certamente. Perché?» «Quando quel pomeriggio sono entrata in quella stanza non c'erano dei pavoni su fondo blu, ma grandi rose rosse su fondo giallo.» «Ma che cosa volete dire?» «Quello che ho detto.» «La signorina Sophia aveva cambiato la tappezzeria?» «No. Un'ora dopo sono ritornata nella stanza a sud-ovest e i pavoni erano tornati.» «Non avevate visto bene la prima volta.» «Mi aspettavo che avreste detto così.» «Adesso i pavoni sono lì: li ho visti poco fa.» «Sì, immagino di sì: immagino che siano tornati.» «Ma non è possibile!» «Così sembra.» «Come sarebbe mai possibile una cosa simile? È impossibile.» «Beh, tutto quello che so è che, quel pomeriggio, i pavoni sono usciti per un'oretta e che al loro posto c'erano delle rose rosse su fondo giallo.» La vedova la fissò per un attimo, poi cominciò a ridere istericamente. «Beh», disse, «credo che non rinuncerò alla mia bella camera per una sciocchezza simile. Credo che mi piacciano sia le rose rosse su fondo giallo sia i pavoni su fondo blu. Ma è inutile parlarne: penso che non abbiate visto bene. Come potrebbe essere successa una cosa simile?» «Non lo so», disse Eliza Lippincott, «ma so che non dormirei in quella stanza, nemmeno se mi deste mille dollari.» «Beh, io sì», disse la vedova; «ed è quello che sto per fare.» Quando la signora Simmons, quella sera, entrò nella stanza a sud-ovest, lanciò un'occhiata alla lettiera ed alla poltrona. C'erano i pavoni su fondo blu. Pensò con disprezzo a Eliza Lippincott. «Non credevo che fosse un tipo tanto nervoso», pensò. «Mi chiedo se nella sua famiglia non ci siano dei casi di pazzia.» Ma, poco prima che la signora Simmons fosse pronta ad andare a letto, guardò nuovamente la lettiera e la poltrona, e vide delle rose rosse su fondo giallo, invece di pavoni su fondo blu. Guardò a lungo e con attenzione, poi chiuse gli occhi, quindi li riaprì e guardò. Vide ancora delle rose rosse
su fondo giallo. Poi attraversò la stanza e girò le spalle al letto, e guardò il buio della notte dalla finestra a sud. La notte era limpida e splendeva la luna piena. La signora Simmons per un attimo guardò la luna veleggiare nel cielo blu scuro, circondata dalla sua aureola dorata, poi tornò a guardare la lettiera. Vide ancora delle rose rosse su fondo giallo. La signora Simmons fu colpita nei suoi princìpi più saldi. Quella contraddizione evidente alle leggi della ragione, che si manifestava in una cosa così banale come il chintz di una tappezzeria, colpiva quella donna priva di fantasia, come l'apparizione di un fantasma non avrebbe mai fatto. Quelle rose rosse su fondo giallo erano per lei molto più spettrali di una strana figura rivestita di un sudario bianco che fosse entrata nella stanza. Fece un passo verso la porta, poi si voltò con aria risoluta. «Quanto a scendere dabbasso, confessare che ho paura e far cantare vittoria a quella Lippincott, non lo farò per nessuna rosa rossa al posto di un pavone. Credo che non possano farmi del male e, poiché le abbiamo viste in due, non credo che siamo entrambe impazzite!», disse. Elvira Simmons spense la luce, si coricò e guardò la stanza illuminata dalla luna. Disse le sue preghiere a letto come sempre: era più comodo ed altrettanto accettabile, dal momento che si trattava di una fedele dal corpo un po' troppo robusto. Poi, dopo un po', si addormentò: aveva una natura troppo pratica per restare a lungo sveglia a causa di qualcosa che non avesse effetti fisici sul corpo. Nessuna sofferenza spirituale aveva mai disturbato i suoi sonni. Perciò dormì tra le rose rosse, o forse tra i pavoni: lei non lo sapeva. Ma, intorno alla mezzanotte, fu svegliata da una strana sensazione al collo. Aveva sognato che qualcuno la strangolava con lunghe dita bianche, e aveva visto china su di lei la faccia di una vecchia con una cuffia da notte bianca. Quando si svegliò, non c'era nessuna vecchia, la camera era illuminata quasi a giorno dalla luna, e aveva un aspetto tranquillo. Ma la sensazione di strangolamento continuava, e inoltre, si sentiva faccia e orecchie coperte da qualcosa. Portò una mano al capo e scoprì che era fasciato da una cuffia da notte arricciata e legata sotto il mento così strettamente da essere fastidiosa. L'orrore la scosse. Si strappò dal capo la cuffia con gesti frenetici e la gettò a terra con uno sforzo convulso, come se fosse stata un ragno. Nel farlo, lanciò un breve grido di terrore. Saltò giù dal letto e corse verso la
porta: poi si fermò. Le era improvvisamente venuto in mente che forse Eliza Lippincott era entrata nella stanza e le aveva legato la cuffia sotto il mento mentre lei dormiva. Non aveva chiuso a chiave la porta. Guardò nello spogliatoio, sotto il letto, ma non c'era nessuno. Poi cercò di aprire la porta, ma con suo grande stupore, scoprì che era chiusa a chiave dall'interno. «Devo averla chiusa, dopotutto!», pensò con meraviglia, perché non chiudeva mai a chiave la porta. A quel punto, non poté più nascondersi che c'era qualcosa fuori dell'usuale in tutta quella faccenda. Era certa che nessuno sarebbe potuto entrare nella stanza ed uscire chiudendo la porta dall'interno. Non riuscì a controllare il lungo fremito di orrore che l'attraversò da capo a piedi, ma era ancora risoluta. Decise quindi di gettare la cuffia fuori della finestra. «Non mi importa chi è a farmi scherzi del genere, basta che la finisca!», disse a voce alta. Non riusciva ancora a credere completamente nel Soprannaturale. Aveva sempre in mente l'idea di un agente umano, e quel pensiero la riempiva di rabbia. Si diresse nel punto in cui aveva gettato la cuffia - l'aveva calpestata nell'andare verso la porta - ma non la trovò. Frugò tutta la stanza, illuminando ogni angolo con la lampada, ma non riuscì trovarla. Infine ci rinunciò. Spense la lampada e tornò a letto. Si riaddormentò e fu risvegliata nello stesso modo. Questa volta si strappò la cuffia dalla testa, come la prima volta, ma non la gettò in terra. La strinse, invece, con forza. Aveva il sangue in subbuglio. Tenendo stretta la cuffia bianca e trasparente, si alzò, corse verso la finestra, che era aperta, scostò le tende e gettò la cuffia fuori. Ma un'improvvisa folata di vento, sebbene la notte fosse serena, gliela ributtò in faccia. Lei la scostò, come fosse stata una ragnatela, e cercò di afferrarla. Era veramente infuriata! La cuffia le sfuggì dalle dita. Poi non la vide più. Esaminò il pavimento, riaccese la lampada e frugò dappertutto, ma non ce n'era traccia. La signora Simmons si arrabbiò tanto che tutto il terrore momentaneamente scomparve. Non sapeva con chi ce l'avesse, ma aveva l'impressione che una misteriosa presenza la deridesse e si dimostrasse più forte di lei. Le sue capacità di resistenza erano sottoposte a un enorme sforzo. Essere presa in giro da qualcosa che non era percepibile dai suoi sensi tesi la riempiva di un profondo risentimento.
Infine ritornò a letto, ma non si addormentò. Avvertiva una strana sonnolenza, ma le oppose resistenza. Era completamente sveglia e stava guardando la luna piena, quando all'improvviso sentì i morbidi lacci della cuffia stringersi intorno al collo e capì che il nemico era tornato. Afferrò i lacci, li sciolse, poi afferrò la cuffia, corse verso il tavolo su cui erano posate le forbici, e con furia la tagliò a pezzetti. La tagliò e la strappò, con malignità e folle soddisfazione. «Ecco!», disse a voce alta. «Credo che non avrò più problemi con questa vecchia cuffia.» Gettò i pezzetti di mussola in un cestino e ritornò a letto. Quasi subito avvertì i morbidi lacci stringersi intorno alla sua gola. Allora cedette, infine vinta. Quella nuova confutazione di tutte le leggi della ragione con cui aveva imparato, per così dire, a sillabare la sua teoria della vita, era stata troppo per il suo equilibrio. Con mani tremanti sciolse i lacci, si tolse la cuffia dalla testa, si alzò con lentezza dal letto, indossò la veste da camera e si affrettò a lasciare la stanza. Percorse silenziosamente il corridoio verso la sua vecchia camera: entrò, si infilò nel solito letto, e tutto il resto della notte lo trascorse a tremare e ad ascoltare. Quando si assopiva, si destava di colpo con la sensazione di sentirsi stringere il collo dai lacci, e anche se scopriva che non era vero, non riusciva a liberarsi dell'orrore di quella sensazione. Quando si fece giorno, tornò di soppiatto nella camera a sud-ovest e prese in fretta gli abiti da indossare. Ci volle tutto il suo coraggio per entrare nella stanza, ma non accadde niente di insolito, mentre era lì. Si affrettò allora a tornare nella vecchia camera, si vestì e andò a fare colazione con un volto imperturbabile. Il suo colorito non era svanito. Quando Eliza Lippincott le chiese come avesse dormito, replicò, con un'espressione incredibilmente calma, che non aveva dormito molto bene. Non dormiva mai bene nei letti nuovi, ed aveva deciso di tornare nella vecchia camera. Eliza Lippincott però non si fece ingannare, così come non le credettero le sorelle Gill, né la giovanetta, Flora. Eliza Lippincott disse bruscamente: «Non c'è bisogno che diciate di non aver dormito bene. Io so che la notte scorsa è successo qualcosa di strano in quella stanza: lo si capisce dal modo in cui vi comportate». Tutti guardarono la signora Simmons con aria interrogativa: la bibliotecaria con curiosità maligna ed un'aria di trionfo, il religioso con triste incredulità, Sophia Gill con timore e indignazione, Amanda e Flora con puro terrore. Ma la vedova si comportò con dignità.
«Non ho né visto né sentito niente che non si possa spiegare in maniera razionale», disse. «Che cosa avete visto?», insisté Eliza Lippincott. «Non desidero discutere oltre la questione», replicò la signora Simmons seccamente. Poi chiese di avere un'altra porzione di patate alla panna. Sarebbe morta piuttosto che confessare quella orrenda assurdità della cuffia da notte, o di essere stata turbata dal fatto che dei pavoni fossero volati via dal fondo blu di un drappo di chintz, dopo essersi fatta beffe della possibilità di una cosa simile. Lasciò nel vago tutta la faccenda e, in un certo senso, dominò la situazione. In ogni caso, impressionò tutti con la sua freddezza al cospetto di un terrore che nessuno, tranne lei, aveva conosciuto. Dopo colazione, con l'aiuto di Amanda e Flora, si ritrasferì nella vecchia stanza. Fu detta solo qualche parola durante il trasferimento, ma tutte lavorarono con ansiosa fretta ed i loro sguardi erano colpevoli quando incontravano l'una gli occhi dell'altra, come se fossero coscienti di tradire una paura comune. Quel pomeriggio, il giovane sacerdote, John Dunn, andò da Sophia Gill e le chiese il permesso di occupare per quella notte la camera a sud-ovest. «Non voglio che vi vengano trasferiti i miei effetti personali», disse, «perché potrei a malapena permettermi una camera tanto superiore a quella che occupo adesso, ma vorrei, se siete d'accordo, dormirci stanotte allo scopo di confutare con la mia esperienza personale qualsiasi disgraziata superstizione che possa aver avuto origine in quella stanza.» Sophia Gill ringraziò di cuore il religioso ed accettò con gioia la sua offerta. «Non riesco a capire come una persona di buon senso possa credere per un attimo a un'assurdità del genere!», disse la donna. «Io non riesco a capire come una persona di fede cristiana possa credere ai fantasmi», replicò il sacerdote con gentilezza, e Sophia Gill si sentì gratificata nella sua femminilità quando lo udì. Il sacerdote era come un figlio per lei, non provava alcun sentimento amoroso nei suoi confronti, eppure le piacque sentire il giovane condannare implicitamente altre due donne e, di conseguenza, esaltare lei. Quella sera, verso le undici, il Reverendo John Dunn tentò di andare a dormire nella camera a sud-ovest. Fino a quell'ora era stato occupato a scrivere il sermone. Attraversò il corridoio con una piccola lampada da notte in mano, aprì la
porta della camera a sud-ovest e cercò di entrare. Ma sarebbe stata la stessa cosa, se avesse cercato di attraversare il muro di una casa. Non credeva ai suoi stessi sensi. La porta era certamente aperta, e vedeva la stanza piena di luci soffuse ed ombre alla luce della luna che entrava dalle finestre. Vedeva il letto in cui si era aspettato di passare la notte, ma non riusciva ad entrare. Ogniqualvolta si sforzava di entrare, provava la strana sensazione di spingere una persona invisibile che gli opponeva una resistenza impossibile da vincere. Il sacerdote non era un uomo atletico, ma aveva una forza considerevole. Gonfiò i muscoli degli avambracci, serrò le labbra e cercò di penetrare nella stanza. La resistenza che gli venne opposta era inflessibile e silenziosamente terribile, come se davanti a lui ci fosse la solida roccia di una montagna. Per mezz'ora, John Dunn dubitò e si infuriò, vinto da una sofferenza spirituale che concerneva le condizioni della sua anima più che derivare dalla paura. Per mezz'ora si sforzò di entrare nella camera a sud-ovest, ma era semplicemente impotente al cospetto di quel misterioso ostacolo. Infine lo assalì un grande orrore, come se stesse lottando contro il Male stesso. Era un uomo nervoso e molto giovane. Fuggì nella sua camera e la chiuse a chiave, come una fanciulla terrorizzata. La mattina dopo andò dalla signorina Gill e le raccontò sinceramente quello che era avvenuto pregandola di non dire niente a nessuno, altrimenti la sua debolezza avrebbe danneggiato la causa: infatti si era convinto che in quella stanza c'era qualcosa che non andava. «Non so che cosa sia, Sophia», disse, «ma credo fermamente, contro la mia volontà, che in quella stanza ci sia un potere malvagio e maledetto di cui la fede e la scienza moderna non sanno niente.» Sophia Gill lo ascoltò con espressione truce ed arcigna. Aveva un rispetto innato per il clero, ma era propensa a credere che la camera a sud-ovest dell'adorata casa dei suoi padri fosse libera da ogni colpa. «Penso che stanotte dormirò io in quella camera», disse, quando il sacerdote ebbe terminato. Il giovane la guardò con dubbio e disperazione. «Provo una grande ammirazione per la vostra fede e il vostro coraggio, Sophia», disse, «ma pensate che sia prudente?» «Sono assolutamente decisa a dormire in quella stanza stanotte», disse la donna in tono conclusivo. C'erano delle occasioni in cui Sophia Gill assumeva un'aria maestosa, e
in quel momento lo fece. Quella sera, alle dieci, Sophia Gill entrò nella camera a sud-ovest. Aveva detto alla sorella che cosa intendeva fare, e aveva resistito alle sue suppliche lacrimose. Amanda fu pregata di non dire nulla alla giovane Flora. «È inutile spaventare la bambina», disse Sophia. Sophia, quando entrò nella camera a sud-ovest, posò sul comò la lampada che aveva portato con sé, e cominciò a muoversi per la stanza. Tirò le tende, tolse il grazioso copriletto bianco e si preparò per la notte. Nel compiere tutte quelle azioni, con grande freddezza e decisione, si accorse di stare rimuginando dei pensieri che le erano estranei. Cominciò a ricordare cose che non avrebbe potuto ricordare, poiché allora non era ancora nata; la tragedia del matrimonio della madre, la terribile opposizione della famiglia, l'allontanamento della giovane donna dalla sua casa e dai suoi affetti. Avvertì una strana sensazione di amaro risentimento contro la sua stessa madre. Poi si accorse che il rancore si estendeva anche alla sua persona. Provò una grande ostilità nei confronti di sua madre da ragazza, sebbene non l'avesse conosciuta tanto giovane, e provò del malanimo verso se stessa, verso la sorella Amanda e nei confronti di Flora. Idee malvage le affluirono nel cervello: idee che le agghiacciarono il cuore, eppure l'affascinavano. E, contemporaneamente, grazie ad una sorta di doppia coscienza, Sophia sapeva che i suoi pensieri erano strani e non dipendevano dalla sua volontà. Sapeva che quelli erano i pensieri di un'altra persona e sapeva anche di chi. Si sentiva posseduta. Ma c'era una forza tremenda nella natura di quella donna. Aveva ereditato dalla forza malvagia dei suoi antenati la determinazione per una buona e giusta affermazione di sé. Essi avevano rivolto contro se stessi le loro stesse armi. Fece uno sforzo che le parve quasi mortale, ma si accorse di essersi liberata di quell'orribile cosa. Adesso i pensieri erano i suoi. Poi respinse con disprezzo l'idea che vi fosse qualcosa di soprannaturale nella terrificante esperienza che aveva vissuto. «Ho sognato tutto!», si disse, e continuò a prepararsi. Poi si avvicinò al cassettone per sciogliersi i capelli. Guardò nello specchio e, invece dei suoi soffici capelli ondulati, vide degli ispidi fili grigio-ferro acconciati all'antica. Invece della fronte ampia e liscia, ne vide una su cui le considerazioni egoistiche di una lunga vita avevano tracciato rughe profonde. Invece dei suoi severi occhi blu, vide degli occhi neri colmi di una maligna
compiacenza che sconfinava nel malanimo. Invece della sua bocca ferma e benevola, vide delle labbra dure, sottili, ed una rete di malinconiche rughe. Invece della sua faccia, di mezza età e di aspetto gradevole, espressione di una vita di onestà, di amore per gli altri e di sopportazione delle difficoltà della vita, vide il volto di una vecchia che guardava torva e con odio incessante se stessa, gli altri, la vita e la morte, quello che era stato e quello che era ancora da venire. Invece della sua faccia, nello specchio vide la faccia della defunta zia Harriet e le sue spalle coperte del ben noto vestito! Sophia Gill lasciò la stanza e si recò in quella che divideva con la sorella Amanda. Amanda alzò gli occhi e la vide. Aveva posato la lampada su un tavolo e stava in piedi, coprendosi il volto con un fazzoletto. Amanda la guardò con terrore. «Che cosa c'è? Che cosa c'è, Sophia?», chiese tremante. Sophia continuava a premersi il fazzoletto sul volto. «Oh, Sophia, ti sei ferita il volto? Sophia, che cosa ti sei fatta?», strillò Amanda. Sophia si tolse di scatto il fazzoletto dalla faccia. «Guardami, Amanda Gill!», disse con voce terribile. Amanda la guardò e si ritrasse. «Che cosa c'è? Non sei ferita. Che cosa c'è, Sophia?» «Che cosa vedi?» «Beh, vedo te.» «Me?» «Sì, te. Cosa credi che avrei dovuto vedere?» Sophia Gill guardò la sorella. «Finché vivrò, non ti dirò mai che cosa credevo che avresti visto, e tu non dovrai mai chiedermelo!», disse. «Non te lo chiederò mai, Sophia», l'assicurò Amanda, piangendo per il terrore. «Non dormirai più in quella stanza, Sophia?» «No», disse Sophia, «e venderò questa casa.» RUDYARD KIPLING I bambini Una veduta mi chiamava a un'altra, una cima alla sua compagna, quasi dall'altra parte della Contea e, poiché non avevo altro da fare se non far stridere una leva, lasciavo che la Contea mi scorresse sotto le ruote. Le
pianure dell'Est tempestate d'orchidee cedevano al timo, al leccio, e alla grigia erba delle dune, e queste agli ubertosi campi di grano e ai fichi della costa più bassa, dove il battito della marea continuava sulla sinistra per più di ventiquattro chilometri. Cosicché, quando all'ultimo svoltai all'interno attraverso un accalcarsi di tonde colline e boschi, mi ero portato decisamente fuori dei confini ben noti. Oltre quel lindo villaggio che fa da madrina alla capitale degli Stati Uniti, scoprii altri villaggi nascosti dove le api, le sole cose sveglie, bombivano su tigli d'una trentina di metri che pendevano su grige chiese normanne; miracolosi ruscelli si tuffavano sotto ponti di pietra costruiti per un traffico più pesante che poi non li avrebbe mai più infastiditi; granai per le decime si alzavano più grandi delle chiese, e una vecchia mascalcìa era talmente rumorosa come se una volta fosse stata una sala dei Cavalieri del Tempio. Su una brughiera dove il ginestrone, la felce ramosa e l'erica si disputavano il terreno per un paio di chilometri di strada romana trovai degli zingari e, un poco più oltre, disturbata, una volpe rossa ruzzolò via alla maniera dei cani nella nuda luce del sole. Siccome le colline boscose mi circondavano, mi alzai in piedi nell'auto per orientarmi su quella grande duna la cui cima ad anello è un punto di riferimento per ottanta chilometri dall'altra parte delle campagne basse. Giudicai che la disposizione del terreno doveva avermi portato lungo qualche strada che correva al suo piede verso ponente, ma non riuscii ad accertarmene per le arruffate coltri dei boschi. Una rapida svolta mi tuffò, prima, in uno scavo verde ricolmo di liquida luce solare, poi in una galleria cupa dove le foglie morte dell'anno scorso frusciavano e si arruffavano intorno ai miei pneumatici. Il folto intreccio di noccioli che avevo sul capo non era stato tagliato da almeno un paio di generazioni, né alla quercia e al faggio, coperti di muschio, sarebbe bastata la scure per balzare sopra di esso. Qui la strada mutava nettamente in una soffice pista per cavalli sul cui velluto bruno consunti ciuffi di margherite parevano di giada, e poche campanule malaticce dagli steli bianchi si curvavano insieme. Siccome il pendio era favorevole, spensi il motore e scivolai sulle foglie che mulinavano, aspettandomi da un momento all'altro d'imbattermi in qualche guardiacaccia; invece, lontanissima, sentivo una ghiandaia protestare contro il silenzio, sotto il crepuscolo arboreo. Il sentiero scendeva ancora. Ero sul punto di tornare indietro e rifare la strada prima di andarmi a cacciare in qualche pantano, quando vidi la luce
del sole filtrare attraverso l'intrico che avevo davanti, e allentai il freno. Lo tirai di nuovo immediatamente. Mentre la luce mi batteva sul viso, le ruote anteriori morsero il verde tappeto d'erba d'un grande prato silenzioso sul quale balzavano cavalieri a più di tre metri di altezza con le lance abbassate, e giravano dei pavoni enormi, con flessuose damigelle d'onore puritane - azzurre, nere e luccicanti - tutte stupende. Dall'altra parte del prato - i boschi schierati l'assediavano da tre lati sorgeva un'antica casa in pietra, coperta di licheni e logorata dal tempo, con finestre a regoli e tetti d'embrici d'un rosa che dava sul rosso. La casa era fiancheggiata da mura semicircolari: anch'esse dello stesso rosa-rosso, chiudevano il prato sul quarto lato, mentre ai loro piedi si stendeva una siepe di bosso alta come un uomo. C'erano piccioni sul tetto intorno agli slanciati comignoli di mattoni, e feci appena in tempo a vedere una piccionaia ottagonale dietro il muro che la nascondeva. Allora, mi fermai - la verde lancia d'un cavaliere mi si era puntata sul petto - trattenuto dalla grande bellezza di quel gioiello lì incastonato. «Se non mi buttano fuori come si fa con chi entra abusivamente in una bandita, o se questo cavaliere non mi somministra un fracco di legnate», pensai, «almeno Shakespeare e la Regina Elisabetta dovrebbero uscire da quella porta semiaperta del giardino e invitarmi al tè.» Un bambino comparve a una finestra del piano superiore e mi parve che quella piccola creatura agitasse una mano amichevolmente. Invece chiamava un compagno perché, dopo un po', si mostrò un'altra testolina lucente. Poi sentii una risata fra i pavoni di tasso e, voltandomi per assicurarmene (fino ad allora avevo osservato soltanto la casa), vidi l'argento d'una fontana, dietro una siepe, lanciato in aria contro il sole. I piccioni sul tetto tubavano col tubare dell'acqua, ma fra le due note colsi il riso felice di un bambino assorto in qualche ingenua malizia. La porta del giardino - di pesante quercia che sprofondava nello spessore del muro - si aprì un po' di più: una donna con un largo cappello da sole poggiò lentamente il piede sul gradino di pietra logorato dal tempo, ed attraversò lentamente il tappeto erboso. Stavo preparando qualche scusa, quando lei sollevò il capo: mi accorsi, allora, che era cieca. «Vi ho sentito», disse. «Questa è un'automobile?» «Devo aver sbagliato strada. Stavo per tornare indietro... non mi sognavo nemmeno...», cominciai. «Ma io sono molto contenta. Immaginare che un'automobile potesse entrare nel giardino! Sarà un tale avvenimento...» La donna si voltò e fece
come l'atto di guardarsi intorno. «Voi... voi avete visto qualcuno, forse?» «Nessuno a dire il vero, ma i bambini da lontano mi sembravano interessati.» «Che cosa?» «Proprio ora ne ho visto un paio alla finestra e mi pare di sentire del rumore sui prati.» «Oh, beato voi!», esclamò la donna e il viso le si illuminò. «Io, naturalmente, li sento, ma questo è tutto. Voi li avete visti e sentiti?» «Sì», risposi. «E, se capisco qualcosa di loro, uno si deve divertire molto con quella fontana laggiù. Sono scappati, immagino.» «Vi piacciono i bambini?» Le dissi una o due ragioni per le quali non li odiavo interamente. «È naturale, è naturale», disse la donna. «Allora voi capite. Perciò non penserete che sia sciocco chiedervi di far girare la vostra auto nel giardino, una volta o due... lentamente. Sono certa che avranno piacere di vederla. Sono tanto piccoli, povere creature! Si cerca di render loro la vita piacevole ma...», e tese le braccia verso i boschi, «qui siamo fuori del mondo.» «Sarà splendido», dissi. «Ma non potrò fare a meno di sciupare la vostra erba.» La donna si voltò verso destra. «Aspettate un momento», disse. «Siamo alla porta rivolta verso sud, vero? Dietro a quei pavoni c'è il lastricato. Lo chiamiamo il Viale dei Pavoni. Di qui non potete vederlo, mi dicono, ma, se vi portate al margine di quel bosco, potete girare al primo pavone e salire sul selciato.» Era un sacrilegio svegliare quella facciata della casa con il rombo del motore, ma feci girare l'auto per liberare il tappeto erboso, sfiorai la siepe al margine del bosco e svoltai in un largo sentiero di pietra dove la vasca della fontana giaceva come uno zaffiro stellato. «Posso venire anch'io?», gridò lei. «No, per favore, non aiutatemi. Avranno più piacere se mi vedranno.» Saggiò leggermente il terreno sul davanti della vettura e con un piede sul predellino chiamò: «Bambini, oh, bambini! Venite a vedere che cosa sta accadendo!». La sua voce avrebbe tratto le anime perdute fuori dall'Inferno per il vivo desiderio che ne sosteneva la dolcezza, e non fui sorpreso di sentire un grido di risposta dietro i tassi. Doveva essere stato il bimbo presso la fontana, ma scappò al nostro avvicinarsi, lasciando una barchetta nell'acqua. Vidi il lampo della sua blusa azzurra fra i cavalieri immobili.
Sfilammo molto piano per tutta la lunghezza della passeggiata e, a richiesta della donna, tornai indietro. Questa volta il ragazzino si era un po' ripreso dal panico, ma si teneva a distanza ed era indeciso. «Il piccolino ci sta osservando», dissi. «Forse gli piacerebbe fare un giretto.» «Sono ancora molto timidi. Timidissimi. Ma, oh, beato voi che potete vederli! Ascoltate.» Fermai la macchina a un tratto e l'umida quiete, greve dell'intenso odore di bosso, ci avvolse. Si sentivano le cesoie laddove qualche giardiniere stava tagliando, e un barbugliar di api e di voci rotte che potevano essere i piccioni. «Oh, cattivi!», disse la donna. «Forse hanno paura del motore. La ragazzina alla finestra sembrava molto interessata.» «Sì?» La donna alzò il capo. «Non sta a me dirlo. Mi vogliono molto bene. È la sola cosa che rende la vita degna d'esser vissuta... Voglio dire quando vi vogliono molto bene, no? Non cerco nemmeno di pensare a cosa sarebbe questo luogo senza di loro. Ma, a proposito, è bello?» «Credo che sia il più bel posto che abbia mai visto.» «Così mi dicono tutti. Anch'io, naturalmente, la penso così, ma non è proprio la stessa cosa.» «Allora voi non avete mai?...», cominciai, ma m'interruppi vergognandomi per quanto stavo per dire. «No, da quando mi ricordi. Avvenne quando avevo soltanto pochi mesi, mi dicono. E tuttavia devo ricordare qualcosa, altrimenti, come potrei sognarmi i colori? In sogno vedo luce e colori, ma loro non li vedo mai. Li sento soltanto, proprio come quando sono sveglia.» «È difficile vedere le facce nei sogni. Certi ci riescono, ma la maggior parte di noi non ha questo dono», continuai, alzando gli occhi verso la finestra, dove la piccola stava a guardare, ma di nascosto. «Ho sentito dire anche questo», disse lei. «E mi raccontano che nessuno ha mai visto in sogno la faccia di una persona morta. È vero?» «Credo di sì... ora che ci penso.» «Ma a voi come succede... a voi in persona?» I suoi occhi ciechi si voltarono verso di me. «In sogno non ho mai visto i visi dei miei morti», risposi. «Allora dev'essere brutto come l'essere ciechi.» Il sole si era tuffato dietro i boschi e lunghe ombre s'impadronivano de-
gli insolenti cavalieri, a uno a uno. Vedevo la luce morire sulla punta d'una lucente lancia frondosa e tutto il verde spavaldo e intrepido cambiarsi in un morbido nero. La casa, accettando un altro giorno che volgeva alla fine, come ne aveva accettati centinaia di migliaia già trascorsi, sembrava affondare sempre più nella pace fra le ombre. «L'avete mai desiderato?», chiese lei dopo un lungo silenzio. «Moltissime volte», risposi. La bambina aveva lasciato la finestra, mentre le ombre si richiudevano su di essa. «Anch'io, ma non credo che si possa... Dove abitate?» «Dall'altra parte della Contea... cento chilometri e più da qui, e dovrei tornare indietro. Sono venuto senza usare i fari grossi.» «Ma non è ancora buio. Lo sento.» «Credo che sia ora di tornare a casa. Potreste mandarmi qualcuno che mi indichi la strada? Mi sono completamente smarrito.» «Manderò Madden ad accompagnarvi fino al crocicchio. Siamo così fuori del mondo, e non mi sorprende che vi siate smarrito. Vi guiderò intorno alla facciata della casa, ma voi dovrete procedere lentamente finché non sarete fuori dei prati. Non è sciocco, vero?» «Vi prometto che andrò a questa velocità», dissi, e l'auto procedette lungo il viale selciato. Costeggiammo l'ala sinistra della casa, la cui grondaia, elaboratamente aggettata, era da sola degna di un viaggio; passammo sotto una grande porta divenuta rosa nel muro rosso, e poi intorno all'alta facciata della casa, che per bellezza e maestosità sorpassava di gran lunga quella posteriore, come tutte le altre che avevo visto. «È molto bella?», mi chiese malinconicamente la donna quando percepì il mio entusiasmo. «E vi piacciono anche le figure di piombo? Dietro, c'è un antico giardino d'azalee. Dicono che questo posto doveva essere stato fatto per i bambini. Volete aiutarmi a scendere, per favore? Mi farebbe piacere venire con voi fino al crocicchio, ma non posso lasciarli. Sei tu, Madden? Vorrei che mostrassi a questo signore la strada fino al crocicchio. Ha perduto la via, ma... li ha visti.» Senza rumore, un maggiordomo comparve in quel miracolo di vecchia quercia che era la porta d'ingresso, e scivolò via da una parte per mettersi il cappello. Lei stava in piedi, rivolta verso di me, con gli azzurri occhi spalancati ma privi di vista e, per la prima volta, mi accorsi che era bella. «Ricordatevi», disse con calma, «che, se vi piacciono, potete tornare.» Poi scomparve nell'interno della casa. Il maggiordomo, nell'automobile, non parlò finché fummo vicini alle
porte della loggia, dove colsi di sfuggita una blusa azzurra in un frutteto, e quindi deviai ampiamente nel timore che quel diavolo che spinge i ragazzi a giocare potesse trascinarmi all'uccisione d'un bambino. «Scusatemi», mi disse ad un tratto il maggiordomo, «ma perché avete girato così, signore?» «Quel bimbo laggiù.» «Il nostro giovanotto in azzurro?» «Certo.» «Corre in giro di continuo. L'avete visto alla fontana, signore?» «Oh, sì, parecchie volte. Dobbiamo girare qui?» «Sì, signore. E li avete visti anche al piano superiore?» «Alla finestra di sopra? Sì.» «E questo prima che la signora uscisse e parlasse con voi?» «Un poco prima. Perché me lo chiedete?» Il maggiordomo rimase in silenzio per un breve istante. «Soltanto per assicurarmi che... che abbiano visto l'automobile, signore, perché, con i ragazzi che corrono in giro, sebbene io sia sicuro che voi guidiate con molta attenzione, può sempre capitare un incidente. Questo è tutto, signore. Qui siamo al crocicchio. Dovete aver smarrito la strada da questo punto. Vi ringrazio, signore, ma non è nostra abitudine, non con...» «Scusatemi», dissi, e misi via il denaro che gli avevo offerto. «Oh, di regola, con tutti gli altri va benissimo. Arrivederci, signore.» Il maggiordomo si ritrasse nella torre corazzata della propria casta e se ne andò. Era evidentemente un maggiordomo cui stava a cuore l'onore della propria casa, e forse era interessato, per via di qualche governante, alla camera dei bambini. Non appena fui oltre i segnali del crocicchio, guardai indietro, ma le corrugate colline s'accavallavano in tal modo che non riuscii a vedere dov'era situata la casa. Quando ne chiesi il nome in un cottage lungo la strada, la cicciona che vendeva confetti mi fece capire che quelli con le automobili hanno ben poca ragione di stare al mondo, e molto meno di andare in giro e parlare come la gente che va in carrozza. Gli automobilisti non appartenevano a nessuna comunità civile, secondo lei. Quando quella sera rintracciai sulla carta la strada fatta, fui un poco più accorto. Sembrava che il nome del luogo fosse l'Antica Fattoria di Hawkin, ma il vecchio dizionario geografico della Contea, di solito tanto ricco di notizie, nemmeno vi alludeva. La casa più grande da quelle parti era Hodnington Hall, georgiana, con abbellimenti della prima epoca vittoriana,
come attestava un'orribile incisione in acciaio. Comunicai le mie difficoltà a un vicino e costui mi fornì il nome di una famiglia che non mi diceva nulla di nuovo. Circa un mese dopo tornai sul posto, ma può anche darsi che la mia macchina prendesse la strada di sua iniziativa. Corse sulle sterili dune, infilò ogni giravolta di quel labirinto di stradine sotto i monti, attraversò le alte muraglie dei boschi, impenetrabili nel loro folto fogliame, uscì al crocicchio dove il maggiordomo mi aveva lasciato e, un poco più in là, mi capitò una noia al motore che mi costrinse a svoltare in una stradina erbosa che tagliava un bosco di noccioli. Per quanto potei accertarmene dal sole e da una carta militare, questa doveva essere la strada che fiancheggiava il bosco che avevo esplorato la prima volta dalle alture più sopra. Mi detti molto da fare intorno alle mie riparazioni e a uno scintillante laboratorio tratto dal mio corredo di arnesi, chiavi per dadi, pompa e simili, che avevo esposti in ordine sopra un tappeto. Quella era una trappola per bloccare tutti i ragazzi per l'intera giornata, pensavo: non dovevano essere molto lontani. Quando m'interruppi durante il lavoro, mi misi in ascolto, ma il bosco era talmente pieno dei rumori dell'estate (sebbene gli uccelli si fossero già da tempo accoppiati) che dapprima non riuscii a distinguere questi dai passi di piccoli piedi cauti che avanzavano alla chetichella, fra le foglie secche. Suonai la tromba in modo allettante, ma i piedi fuggirono, e allora me ne pentii, perché per un bimbo un rumore improvviso è un vero terrore. Dovevo essere al lavoro da una mezz'ora, quando sentii nel bosco la voce della donna cieca che gridava: «Bambini, oh, bambini! Dove siete?», e il silenzio fu lento a richiudersi sulla perfezione di quel grido. Lei veniva verso di me, a metà intuendo la strada fra i tronchi degli alberi e, sebbene un bimbo almeno - o così sembrava - le si aggrappasse alla sottana, deviava nel fogliame come un coniglio mentre se lo traeva più vicino. «Siete voi?», chiese la donna. «Siete voi che venite dall'altra parte della Contea?» «Sì, sono io che vengo dall'altra parte della Contea.» «Allora perché non siete passato dai boschi di sopra? Erano lì proprio ora.» «Erano qui pochi minuti fa. Mi aspettavo che si accorgessero che l'automobile si era guastata e venissero a vedere.» «Nulla di serio, spero? Com'è che si può guastare?» «In una cinquantina di modi. Soltanto che la mia macchina ha scelto il
cinquantunesimo.» Alla battuta la donna scoppiò a ridere allegramente: il suo riso parve il tubare d'un piccione, poi si buttò indietro il cappello. «Fatemi sentire», disse. «Aspettate un momento», esclamai, «e vi darò un cuscino.» La donna mise il piede sul tappeto tutto coperto di parti di ricambio e vi si chinò sopra con precauzione. «Che belle cose!» Le sue mani, attraverso le quali vedeva, splendettero improvvisamente nella screziata luce del sole. «Qui c'è una scatola... un'altra scatola! Beh, le avete disposte proprio come in una bottega di giocattoli!» «Ora posso confessarvi che avevo messo fuori tutta questa roba per attirare i ragazzi. In realtà non avevo bisogno che della metà di tutto questo.» «Com'è simpatico da parte vostra! Ho sentito le vostre trombe nel bosco di sopra. Avete detto che prima erano qui?» «Ne sono certo. Perché sono tanto timidi? Quel piccolino vestito d'azzurro che era con voi proprio ora, deve aver avuto la sua parte di paura. Mi stava guardando come se fossi un pellerossa.» «Devono essere state le vostre trombe», disse lei. «Ho sentito uno di loro sorpassarmi impaurito quando stavo venendo giù. Sono timidi... tanto timidi anche con me.» Poi voltò il viso e gridò di nuovo: «Bambini, oh, bambini! Venite a vedere!». «Se ne devono essere andati per i fatti loro», dissi, perché dietro di me si udiva un mormorio di voci sommesse e spezzate dagli improvvisi e squillanti risolini caratteristici dell'infanzia. Tornai al mio lavoro e lei si piegò in avanti con il mento appoggiato sulla mano, ascoltando con interesse. «Quanti sono?», chiesi infine. Il lavoro era finito, ma non c'era nessuna ragione di andarsene. La fronte le si aggrottò un poco al pensiero. «Non so con precisione», disse, con semplicità. «Talvolta di più... qualche volta di meno. Vengono e stanno con me perché li amo, sapete?» «Dev'essere molto piacevole», dissi, rimettendo a posto un cassetto e, mentre parlavo, avvertii la futilità delle mie parole. «Ma voi... non vi state prendendo gioco di me?», chiese lei. «Io... io non ne ho nessuno di mio. Non mi sono mai sposata. La gente talvolta ride di me per questo proprio perché... perché...» «Perché sono dei selvaggi», ribattei. «Non c'è motivo d'irritarsi. La gente ride di tutto quello che non rientra nelle sue abitudini.» «Non so. Come potrei? Soltanto, non mi piace che ridano di me per que-
sto motivo. Questo mi offende e, quando non ci si vede... Ma non voglio sembrare sciocca.» Il mento le tremava come quello d'un bambino mentre parlava. «Noi ciechi abbiamo un solo strato di pelle, credo. Tutte le cose dell'esterno ci colpiscono fino in fondo all'anima. Per voi è diverso. Voi avete tante buone difese nei vostri occhi... voi vedete... prima che qualcosa possa davvero rattristarvi l'anima. E con noi la gente dimentica tutto ciò.» Me ne stavo zitto e mi rendevo conto dell'inesauribile problema relativo alla più che ereditata (poiché è anche insegnata con cura) brutalità del cristiano, accanto alla quale il semplice paganesimo del negro è schietto e limitato. E queste considerazioni mi portarono molto lontano a scrutare dentro di me. «Non fate così!», mi disse lei a un tratto, ponendosi le mani davanti agli occhi. «Che cosa?» La donna fece un gesto con la mano. «Così! È... è tutto viola e nero. Non fatelo: quel colore mi urta!» «Ma che ne sapete mai dei colori?», chiesi, perché questa per me era infatti una rivelazione. «Colori come colori?», mi domandò. «No. Quei colori che vedevate proprio ora.» «Lo sapete bene quanto me», disse, mettendosi a ridere. «Altrimenti non avreste fatto la domanda. Non ce ne sono nel mondo. Sono in voi... quando siete molto arrabbiato.» «Volete dire una macchia viola, come il Porto mescolato all'inchiostro?», dissi. «Non ho mai visto l'inchiostro o il Porto, ma i colori non sono mescolati. Sono separati... tutti separati.» «Intendete dire delle strisce nere e delle intaccature attraverso il viola?» La donna fece un cenno affermativo con il capo. «Sì... se sono a questo modo», e con il dito fece ancora dei segni a zig-zag, «ma è più rosso che viola... è un brutto colore.» «E come sono i colori sopra... sopra qualsiasi cosa vedete?» Lentamente lei si piegò in avanti e tracciò sul tappeto la figura d'un uovo. «Li vedo così», disse, indicando con uno stelo. «Bianco, verde, giallo, rosso, viola e, quando la gente è arrabbiata o cattiva, nero sul rosso... come eravate voi proprio ora.» «Vi hanno mai detto qualcosa su questo...?», domandai.
«Sui colori? Mai nulla. Di solito, da piccola, chiedevo che cosa fossero i colori... sulle tovaglie, sulle tende e i tappeti, sapete... perché certi colori mi davano noia e certi mi rendevano felice. La gente me lo diceva e, quando sono diventata più grande, così vedevo la gente.» Di nuovo la donna tracciò il contorno dell'uovo com'è dato a pochi di noi fare. «Avete fatto tutto da voi?», ripetei. «Tutto da me. Non c'era nessun altro. Soltanto dopo ho scoperto che gli altri non vedevano i colori.» Si appoggiò contro il tronco dell'albero intrecciando e disfacendo degli steli d'erba che aveva colto a caso. I bimbi nel bosco si erano fatti più vicini. Li vedevo con la coda dell'occhio saltellare come scoiattoli. «Ora sono sicura che non riderete mai di me», continuò, dopo un lungo silenzio. «Né di loro.» «Bontà divina! No!», esclamai, balzando fuori dai binari dei miei pensieri. «Un uomo che ride d'un bambino, a meno che non rida anche il bambino... non ha cuore.» «Non voglio dire questo. Voi non avrete mai riso dei bambini, ma io credevo... che forse potevate riderne. Così, ora vi prego di scusarmi... Di che cosa state ridendo?» Non avevo fatto rumore, ma lei lo capiva lo stesso. «All'idea che mi chiediate scusa. Se aveste fatto il vostro dovere come proprietaria terriera, dovevate ammonirmi per essere entrato nella proprietà altrui, quando attraversai i vostri boschi, l'altro giorno. Era disonesto da parte mia... imperdonabile.» La donna mi guardò, la testa appoggiata contro il tronco dell'albero, a lungo e fermamente: quella donna che riusciva a vedere l'anima a nudo. «Com'è curioso!», mormorò piano. «Com'è curioso.» «Perché, che cosa ho fatto?» «Non capite... e tuttavia vi siete reso conto dei colori. Non capite?» Parlava con una collera che nulla aveva di giustificato e allora affrontai la sua sorpresa mentre si alzava. I bimbi si erano raccolti in fondo, dietro un cespuglio di more. Una testa lucente si chinò sopra qualcosa di più piccolo, e il crocchio delle piccole spalle mi rivelò che le loro dita erano state appoggiate sulle labbra. Anche loro avevano qualche tremendo segreto di bambini. Soltanto io ero disperatamente smarrito lì nella luce del sole. «No», dissi, e scossi la testa come se gli occhi spenti della mia interlocutrice mi potessero notare. «Qualunque cosa sia, non capisco ancora. Forse più tardi ce la farò... se mi permetterete di tornare.»
«Tornerete», rispose. «Tornerete di certo e passeggerete nel bosco.» «Forse allora i bimbi mi conosceranno abbastanza bene e mi faranno giocare con loro... come se mi facessero un favore. Sapete di che cosa sono capaci i bambini.» «Non si tratta d'un favore, ma di un diritto», ribatté lei e, mentre mi chiedevo che cosa intendesse dire, una donna con i capelli sciolti si precipitò verso di noi dalla curva della strada, tutta in disordine, paonazza, quasi muggendo nel parossismo con il quale correva. Era la mia scortese e grassa amica della bottega di confetture. La donna cieca la sentì e si fece avanti. «Che c'è, signora Madehurst?», chiese. La donna si gettò il grembiule sul capo e si trascinò letteralmente nella polvere gridando che il suo nipotino era ammalato da morire, che il medico del posto era a pescare, che Jenny, la madre, era fuori di sé, e così via, con ripetizioni e lamenti. «Dove sta il medico più vicino?», domandai, fra un lamento e l'altro della donna. «Madden ve lo dirà. Girate intorno alla casa e fatevi accompagnare. Baderò io a questa donna. Fate presto!» Sostenendola a metà, condusse la donna grassa all'ombra. Due minuti dopo, stavo suonando a distesa tutte le Trombe di Gerico sotto la facciata di Casa Bella, e Madden, in dispensa, si alzò nell'udire quel pandemonio e venne fuori. Un quarto d'ora di velocità non consentita dal regolamento ci portò a pescare un medico a otto chilometri di distanza. Entro la mezz'ora successiva, l'avevamo scaricato alla porta della bottega di confetterie, e ce ne andammo in strada ad aspettare il verdetto. «Utili cose queste automobili!», disse Madden. «Se ne avessi avuta una quando la mia bambina s'ammalò, non sarebbe morta.» «Di che cosa è morta?», domandai. «Crup. Mia moglie non c'era. Nessuno sapeva che cosa si dovesse fare. Con una carrozza presa a nolo, feci dodici chilometri in cerca d'un dottore. Quando tornammo indietro, la piccola era già soffocata. Quest'automobile l'avrebbe salvata. Ora avrebbe avuto quasi dieci anni.» «Mi dispiace», dissi. «Da quel che mi diceste l'altra volta quando mi accompagnaste al crocicchio, avevo capito che i bambini dovevano piacervi.» «L'avete rivisti, signore... stamattina?» «Sì, ma loro hanno molta paura delle automobili. Non sono riuscito a
farli avvicinare a meno di venti metri dalla mia.» Madden mi guardò con attenzione così come una sentinella squadra uno sconosciuto e non come il servo che alza gli occhi verso il suo superiore designato per grazia divina. «Chissà perché?», disse, appena un po' più forte del respiro che emetteva. Continuammo ad aspettare. Un vento leggero proveniente dal mare, vagava su e giù per le lunghe linee dei boschi e le erbe sull'orlo della strada che, già imbiancate dalla polvere dell'estate, si alzavano e si abbassavano in scialbe onde. Una donna, asciugandosi l'acqua insaponata dalle braccia, uscì dal cottage più vicino alla bottega di confetture. «Ho sentito dal cortile di dietro», disse forte. «Ha detto che Arthur sta male in un modo che non si sa spiegare. Lo avete sentito urlare ora? Ha un male che non si sa spiegare. Credo che toccherà a Jenny di "passeggiare nel bosco" tutta la prossima settimana, signor Madden.» «Scusatemi, signore, ma la vostra giacca sta scivolando», disse Madden con deferenza. La donna trasalì, fece un inchino, e se ne andò in fretta. «Che cosa intendeva dire con "passeggiare nel bosco"?», chiesi. «Dev'essere qualche detto di queste parti. Anch'io sono di Norfolk», disse Madden. «È gente indipendente quella di questa Contea. Vi aveva preso per uno chauffeur, signore.» Vidi il medico uscire dal cottage seguito da una ragazza trasandata che gli si attaccava al braccio come se al medico fosse dato di stipulare per lei un patto con la morte. «A questo modo», diceva piangendo, «sia per noi che per loro, è come se fossero figli nostri. È la stessa cosa! E Dio sarebbe contento se voi lo salvaste, dottore. Non portatemelo via! La signorina Florence vi dirà la stessa cosa. Non lasciatelo, dottore!» «Lo so, lo so», diceva il medico, «ma ora starà più calmo. Troveremo l'infermiera e le medicine al più presto possibile.» Mi fece quindi un segno perché venissi avanti con l'auto e io cercai di non perdere quello che stava accadendo; ma vidi il viso della ragazza, scolorito e agghiacciato dal dolore, e ne sentii la mano, senza anello, aggrapparsi alle mie ginocchia quando ci mettemmo in moto. Il medico era un uomo d'un certo umorismo. Ricordo che pretendeva che mettessi la mia auto sotto il segno d'Esculapio e usò l'auto e me senza misericordia. Dapprima accompagnammo la signora Madehurst e la donna
cieca ad assistere il malato in attesa che l'infermiera giungesse, poi facemmo irruzione in una linda cittadina di provincia per le ricette (il medico aveva detto che la malattia era meningite cerebro-spinale) e, quando il County Institute, arginato dai banchi e fiancheggiato dallo spaventato bestiame del mercato, si dichiarò sprovvisto, al momento, d'infermiere, ci lanciammo letteralmente attraverso tutta la Contea. Conferimmo con proprietari di grandi case, magnati che abitavano alla fine di viali sinuosi e le cui donne dai tratti marcati si staccavano dalle loro tavole da tè per ascoltare l'imperioso dottore. Infine, una dama dai capelli bianchi, seduta sotto un cedro del Libano e circondata da una corte di magnifici Borzoi, tutti ostili alle auto, dette al medico, che li ricevette come da una principessa, degli ordini scritti che portammo per molti chilometri a tutta velocità, attraverso un parco, fino a un convento francese, dove in cambio ricevemmo una tremante e pallida suora. Costei s'inginocchiò sul fondo della vettura, sgranando il rosario senza tregua finché, dopo diverse scorciatoie inventate dal dottore, la deponemmo ancora una volta sulla soglia della bottega di confetture. Fu un lungo pomeriggio affollato di pazzi episodi che nacquero e si dissolsero come la polvere delle nostre ruote: sezioni trasversali di remote e incomprensibili vite, attraverso le quali corremmo ad angolo retto. E io me ne tornai a casa al crepuscolo, spossato, a sognare di corna cozzanti di bestiame, di monache dai tondi occhi in un giardino pieno di tombe; di piacevoli tè sotto gli alberi ombrosi, dei corridoi del County Institute che mandavano odore di acido fenico ed erano pitturati di grigio; di timidi passi fanciulleschi in un bosco, e di mani che mi afferravano le ginocchia mentre l'automobile si muoveva. Avevo intenzione di tornare dopo un giorno o due, ma il fato si compiacque di tenermi lontano da quella parte della Contea con molti pretesti, finché anche la rosa più vecchia e selvaggia fu sfiorita. Ci tornai invece in una giornata splendida, resa limpida dal libeccio che faceva apparire i monti a portata di mano, una giornata di arie instabili e di alte nuvole. Senza nessun merito, ero libero, e avviai l'auto per la terza volta su quella strada ormai nota. Mentre raggiungevo la cresta delle dune, sentii il leggero cambiamento d'aria, vidi lo splendore del sole, guardando in giù verso il mare, e in quell'istante scorsi l'azzurro della Manica mutare dal lucido argento allo scuro colore dell'acciaio e del peltro. Un bastimento carico di carbone rasentava la costa dirigendosi verso ac-
que più profonde e, attraverso la cuprea foschia, vedevo le vele alzarsi a una a una sulla flottiglia di pescherecci all'ancora. In una profonda vallata, dietro di me, un improvviso vortice di vento tamburellò attraverso le querce nascoste e fece roteare in alto i primi esemplari secchi delle foglie autunnali. Quando raggiunsi la strada della spiaggia, la nebbia marina fumava sulle fornaci di mattoni e la marea stava raccontando tutti i danni della tempesta oltre Ushant. In meno di un'ora l'Inghilterra estiva era svanita in un freddo grigio. Eravamo di nuovo l'isola chiusa del Nord. Tutte le navi del mondo muggivano alle nostre pericolose porte, e fra i loro clamori correva il fischio sorpreso dei gabbiani. Il mio berretto stillava umidità, le pieghe dei tappetini la trattenevano in pozzanghere o la versavano via in rigagnoli, e il salmastro mi si attaccava alle labbra. Nell'entroterra l'odore dell'autunno gravava sulla folta nebbia fra gli alberi, e lo stillicidio diventava uno scroscio continuo. Tuttavia gli ultimi fiori - malve sul bordo della strada, scabbiose nei campi e giorgine nei giardini - si mostravano gai nella nebbia e, oltre il respiro del mare, c'era qualche segno di decadenza nelle foglie. Tuttavia, nelle borgate, tutte le porte di casa erano aperte, e ragazzi con le gambe e la testa nudi stavano a sedere a loro agio sui gradini umidi e gridavano «pip-pip». Ebbi l'ardire di far visita alla bottega di confetture dove la signora Madehurst mi venne incontro con le lacrime agli occhi. Il bambino di Jenny, mi disse, era morto due giorni dopo l'arrivo della monaca. Era stato meglio così, forse, ma non lo riteneva giusto, anche se la società d'assicurazione, per ragioni che lei non pretendeva di capire, non aveva voluto assicurare quelle vite. «Senonché, Jenny aveva tenuto Arthur, come se fosse stato un figlio legittimo, per tutto quel primo anno... proprio come se fosse stato suo.» Grazie a Florence, il bambino era stato sepolto con una solennità che, secondo l'opinione della signora Madehurst, aveva più che coperto la piccola irregolarità della nascita. Essa mi descrisse con dovizia di particolari la bara di dentro e di fuori, il carro funebre di vetro e la guarnizione di sempreverdi della tomba. «Ma come sta sua madre, ora?», chiesi. «Jenny? Oh, si consolerà. Mi sono sentita così anch'io con uno o due dei miei. Si consolerà. Ora sta passeggiando nel bosco.» «Con questo tempo?» La signora Madehurst mi guardò dall'altra parte del banco con occhio
indagatore. «Non so come spiegarvi, ma è come aprire il cuore. Sì, questo apre il cuore. Ecco dove il morire e il mettere al mondo a lungo andare diventano tanto simili, come si suol dire.» La saggezza delle vecchie spose è più grande di quella di tutti i padri, e questo ultimo oracolo mi fece sprofondare nei miei pensieri a tal punto, mentre percorrevo la strada, che per poco non accoppavo una donna e un bambino all'angolo boscoso della porta della loggia di Casa Bella. «Che tempo terribile!», gridai, mentre rallentavo per voltare. «Non tanto cattivo», rispose lei placidamente venendo fuori dalla nebbia. «I miei di solito corrono. Troverete i vostri dentro, credo.» Dentro, Madden mi ricevette con cortesia professionale e con diverse domande sullo stato dell'automobile, che voleva sistemare al coperto. Aspettai in una tranquilla hall color nocciola, rallegrata da fiori tardivi e riscaldata da un delizioso fuoco a legna: un luogo calmo e di grandissima pace. (Uomini e donne talvolta, dopo un grande sforzo, possono dire una menzogna credibile, ma la casa, che è il loro tempio, non può dire altro che la verità circa quelli che vi hanno vissuto.) Un carrettino da bambini e una bambola giacevano sul pavimento bianco e nero, dove un tappeto era stato tirato da parte. Sentivo che i bimbi lo avevano spinto via in fretta per poi, molto verosimilmente, nascondersi nelle svolte della grande scala ad arcata che saliva maestosa fuori della hall, o per rannicchiarsi dietro i leoni e le rose della loggia superiore intarsiata, sopra di me. Sentii la voce di lei che cantava come cantano i ciechi, dall'anima: Negli ameni recinti del frutteto. E tutti i giorni della prima estate mi tornarono in mente a quel richiamo. Negli ameni recinti del frutteto, Iddio benedica tutti i nostri guadagni, Ma possa Iddio benedire ogni perdita nostra, Miglior preghiera per il nostro stato. Saltò l'accenno matrimoniale del quinto verso e ripeté: Miglior preghiera per il nostro stato!
La vidi quindi chinarsi sulla loggia, con le mani congiunte, bianche come perla contro la quercia. «Siete voi... che venite dall'altra parte della Contea?», chiese. «Sì, sono io... che vengo dall'altra parte della Contea», risposi ridendo. «Quanto tempo è passato prima che tornaste!» Corse giù per le scale, con una mano che sfiorava la larga ringhiera. «Sono due mesi e quattro giorni. L'estate è finita.» «Avevo intenzione di venire prima, ma le circostanze me l'hanno impedito.» «Lo so. Per favore, fate qualcosa a quel fuoco. Non vogliono che ci scherzi, ma sento che si sta spegnendo. Battetelo!» Guardai dall'altro lato del profondo camino e trovai un palo mezzo carbonizzato con il quale battei il nero tronco finché si attizzò. «Non è mai stato spento, giorno e notte», disse, come se mi volesse spiegare. «Nel caso fosse venuto qualcuno con i piedi freddi...» «È anche più bello dentro che fuori», mormorai. La luce rossa giungeva a fiotti sui pannelli bruniti, lucidati dal tempo, finché le rose Tudor e i leoni della loggia assunsero colore e moto. Un vecchio specchio convesso, sormontato da un'aquila, raccolse il quadro nel proprio cuore misterioso sformando di nuovo le già distorte ombre e curvando le linee della loggia nei fianchi d'una nave. Il giorno si stava chiudendo in una mezza bufera mentre la nebbia si mutava in una pioggerella filamentosa. Attraverso i regoli senza tende della larga finestra, vedevo i valorosi cavalieri del prato impennarsi e riprendersi contro il vento che scagliava loro addosso legioni di foglie morte. «Sì, dev'essere bello», disse. «Vi piacerebbe vederlo? C'è ancora abbastanza luce di sopra.» La seguii su per la scala salda e spaziosa fino alla loggia dove si aprivano le sottili e scanalate porte elisabettiane. «Sentite come mettono basso il saliscendi per i bambini.» Fece girare verso l'interno una porta leggera. «A proposito, dove sono?», chiesi. «Non li ho sentiti, oggi.» Lei non rispose subito. Poi disse dolcemente: «Io posso soltanto sentirli. Questa è una delle loro stanze... tutto è pronto, vedete?». M'indicava una stanza rivestita di legno pesante. C'erano piccole tavole basse e sedie per i bimbi. Una casa di bambola, dalla facciata curva e semiaperta, stava di fronte a un grosso cavallo a dondolo pomellato, la cui
sella imbottita era soltanto un punto d'appiglio per arrampicarsi sul vasto sedile sotto la finestra che sovrastava il prato. Un fuciletto giaceva in un angolo accanto a un cannone di legno dorato. «Di certo se ne sono andati», mormorò. Nella luce che s'affievoliva, una porta scricchiolò cautamente. Sentii il fruscio d'una sottana e un rumore di passi... rapidi passi attraverso una stanza più in là. «Ho sentito!», gridò lei con aria di trionfo. «Avete sentito anche voi? Bambini, oh, bambini! Dove siete?» La voce riempì le pareti che la trattennero affettuosamente sull'ultima nota perfetta, ma non si udì nessun grido di risposta, come avevo sentito in giardino. Ci affrettammo ad uscire dalla stanza e ci dirigemmo verso quella dal pavimento di quercia, uno scalino su per di qui, tre scalini giù per di là, fra un labirinto di corridoi, sempre beffati dalla nuova preda. Era come cacciare in una conigliera aperta con un solo furetto. C'erano innumerevoli nascondigli, nicchie nei muri, profondi vani di finestre da dove loro potevano balzare dietro di noi; e caminetti non più in uso di almeno due metri di pietra, oltre ad un garbuglio di porte comunicanti. Soprattutto, loro avevano il crepuscolo che li aiutava nel nostro gioco. Avevo colto una o due allegre risate di fuga, e un paio di volte avevo visto i contorni d'una sottana di bambina contro la finestra in fondo al corridoio; ma ce ne tornammo a mani vuote nella loggia, proprio mentre una donna di mezza età stava mettendo una lampada nel suo alloggio. «No, non l'ho vista stasera, Florence», sentii che diceva, «ma quel Turpin dice che vuol parlarvi per quella rimessa.» «Oh, il signor Turpin mi vuole parlare? Ditegli di venire nella hall, signora Madden.» Guardai giù nella hall la cui sola luce era il fuoco debole e, in fondo all'ombra, infine li vidi. Dovevano essere sgusciati via mentre eravamo nei corridoi e ora si credevano perfettamente nascosti dietro un vecchio paravento di cuoio dorato. Nel codice dei bambini, la mia caccia infruttuosa valeva quanto una presentazione ma, poiché mi ero dato tanta noia, decisi di costringerli a farsi avanti con un semplice stratagemma, che i bimbi detestano: quello di far finta di non accorgersi di loro. Se ne stavano stretti in un piccolo mucchio, non più che ombre, eccetto quando una rapida fiamma tradiva un loro contorno. «E ora andiamo a prendere il tè», disse lei. «Credo di avervelo offerto prima, ma non si può fare migliore figura quando si vive soli, e si considera il tè come la cosa principale.» Poi, scherzando graziosamente, aggiunse:
«Preferireste una lampada per vedere mentre mangiate?». «Credo che la luce del fuoco sia più piacevole.» Scendemmo quindi nella penombra e Madden portò il tè. Misi la sedia nella direzione del paravento pronto per poter sorprendere, o essere sorpreso, a seconda di come fosse andato il gioco e, con il permesso di lei, poiché un focolare è sempre sacro, mi curvai in avanti a scherzare con il fuoco. «Dove avete preso queste belle taglie?», domandai con noncuranza. «Sono molto comode.» «Naturalmente», disse lei. «Siccome non posso né leggere né scrivere, sono tornata alle taglie inglesi. Datemene una, e vi dirò che cosa significa.» Le porsi una taglia di nocciolo non bruciata della lunghezza di circa trenta centimetri: lei corse con il pollice alle tacche. «Questo è il resoconto del latte per il mese d'aprile dell'anno scorso, in galloni», disse lei. «Non so che cosa avrei fatto senza le taglie. Questo metodo me lo ha insegnato un mio vecchio guardaboschi. Ora non lo usa più nessuno, ma i miei fittavoli lo rispettano. Uno di loro viene spesso a farmi visita. Oh, non importa. Non ha nulla da fare qui, fuori dalle ore di lavoro. È un uomo avido, ignorante... molto avido, e non vorrebbe venir qui dopo che cala il buio.» «Allora avete molta terra?» «Soltanto una decina di ettari che controllo di persona, grazie a Dio. Gli altri trenta sono quasi tutti affidati a gente che conosceva la mia famiglia prima di me, ma questo Turpin è un uomo completamente nuovo... e un vero ladro.» «Ma siete sicura che non me ne debba andare...» «Certamente no! Ne avete il diritto. Lui non ha bambini.» «Ah, i bambini», dissi, e feci strisciare la sedia bassa all'indietro finché quasi toccai il paravento che li nascondeva. «Chissà che non vengano fuori per me.» Ci fu un mormorio di voci - quella di Madden e un'altra più profonda vicino alla porta laterale bassa e scura, e un gigante dalla testa brizzolata e con le ghette di tela del tipo che portano soltanto i fittavoli, entrò inciampando o fu spinto dentro. «Venite vicino al fuoco, Turpin», disse lei. «Se... se vi fa piacere, signorina, ma io... starei benissimo vicino alla porta.» L'uomo si aggrappò al saliscendi, mentre parlava come un bimbo
spaventato. Ad un tratto capii che era in preda a qualche paura che non riusciva a controllare. «Beh?» «A proposito di quella nuova tettoia per le giovenche... Cominciano le burrasche di primo autunno... ma verrò un'altra volta, signorina.» I denti dell'uomo non stridevano meno del saliscendi della porta. «Meglio di no», rispose lei con calma. «La nuova tettoia... Che cosa vi scrisse il mio fattore il giorno 15?» «Io... credevo che, se fossi venuto da voi... di persona, signorina, forse... Ma...» L'uomo stralunò gli occhi verso ogni angolo della stanza, sbarrati per lo spavento. Aprì a metà la porta dalla quale era entrato, ma notai che quella si richiuse... dal di fuori e con fermezza. «Vi scrisse che cosa gli dissi io», continuò lei. «Avete anche già troppo bestiame. La fattoria di Dunnett non ha mai sopportato più d'una cinquantina di giovenche... anche al tempo di Wright. E lui dava degli ottimi risultati, cosa che non fate voi. A questo riguardo non avete rispettato il contratto d'affitto. State facendo inaridire la fattoria.» «Io sto dando... darò dei minerali... dei superfosfati... la prossima settimana. Ne ho già ordinato un vagone. Andrò domani alla stazione per riceverlo. Poi posso venir da voi di persona, signorina, di giorno... Questo signore non se ne sta mica andando, vero?» Il contadino quasi urlava. Feci soltanto scivolare la sedia un poco più indietro riuscendo a battere leggermente dietro di me sul cuoio del paravento, ma l'altro fece un balzo come un topo. «No! Per favore aspettate. Signor Turpin!» Lei si voltò con la sedia e gli si mise di fronte mentre lui volgeva le spalle alla porta. Era un vecchio progetto quello che lei lo costrinse a esporre: un pretesto per una nuova tettoia per le nuove giovenche a spese della padrona, che lui poteva pagare con il concime dell'anno seguente dopo l'estimo, mentre lei gli faceva notare che lui aveva ridotto all'osso i ricchi pascoli. Non potevo non ammirare l'intensità dell'ingordigia del contadino quando vidi che per essa sopraffaceva il terrore che gli imperlava la fronte di sudore, qualunque fosse. Smisi di battere leggermente il cuoio - infatti, stavo calcolando il prezzo della tettoia - quando mi sentii prendere la mano che tenevo rilassata e che mi fu rivoltata dolcemente fra le soffici mani d'un bambino. Così, alla fine, avevo vinto! Tra un momento avrei potuto voltarmi e scoprire quelle vaganti creature dai piedi veloci...
Un piccolo e rapido bacio mi cadde nel mezzo del palmo: era come un dono che le dita avrebbero dovuto afferrare subito, un segno di fedeltà e di rimprovero di un bambino che stava in attesa, non abituato a essere trascurato anche quando gli adulti hanno da fare; un brano del muto codice stabilito tanti anni prima. Allora compresi. Era come se lo avessi saputo fin dal primo giorno quando avevo guardato dal prato la finestra del piano superiore. Sentii la porta chiudersi. La donna si rivolse a me in silenzio e allora capii che sapeva. Quanto tempo passò dopo questo fatto non posso dirlo. Fui riscosso dalla caduta d'un ceppo e mi alzai meccanicamente per rimetterlo a posto. Poi mi rimisi a sedere sulla sedia vicina al paravento. «Ora capite», mormorò lei attraverso le ombre più intense. «Sì, ora... capisco. Grazie.» «Io... io li sento soltanto», disse lei e chinò il capo nelle mani. «Non ho nessun diritto, sapete, nessun altro diritto. Non ne ho messi al mondo, né ne ho perduti... né messi al mondo, né perduti.» «Siatene contenta allora», dissi, e la mia anima ne soffrì dentro di me. «Perdonatemi!» Lei si calmò e io tornai al mio dispiacere e alla mia gioia. «Era perché li amavo», disse infine, con voce rotta. «Questo perché era così anche prima... anche prima che sapessi che loro... erano tutto quello che non avrei mai avuto. E io li amavo tanto!» Tese le braccia all'ombra, e alle ombre entro l'ombra. «Venivano perché li amavo... perché ne avevo bisogno. Io... sono io che devo averli fatti venire. Credete che questo sia un male?» «No... no.» «Io... io vi assicuro che i balocchi... e tutta quell'altra roba, erano dei controsensi ma... da piccola odiavo le stanze vuote... E come avrei potuto sopportare che fosse chiusa la porta del giardino? Immaginiamo...» «No. Per l'amor di Dio, no!», gridai. Il crepuscolo aveva portato una pioggia fredda con raffiche temporalesche che aprivano le finestre piombate. «E lo stesso avviene con il mantenere il fuoco acceso tutta la notte. Non credete che sia pazza... vero?» Guardai il vasto focolare di mattoni. Attraverso le lacrime, vedevo che non c'era nessuna barriera invalicabile sopra o vicino ad esso, e chinai la testa.
«Ho fatto tutte queste cose e tante altre... proprio per farlo credere. Poi vennero. Li sentivo, ma sapevo che non erano miei, finché non me lo disse la signora Madden...» «La moglie del maggiordomo? Che cosa?» «Una di loro... io la sentivo... ma lei la vedeva, la conosceva. Prima non lo sapevo. Forse ero gelosa. Dopo cominciai a capire che era soltanto perché li amavo, non perché... Oh, voi dovete metterli al mondo o perderli», disse con un lamento. «Non c'è scampo... e tuttavia mi amano. Lo devono! Non è vero?» Non si udiva nessun rumore nella stanza eccetto le voci del fuoco, ma noi due ascoltavamo intensamente, e lei infine attinse conforto da ciò che sentiva. Si riprese e si alzò a metà. Io ero ancora seduto presso il paravento sulla mia sedia. «Non credetemi una sciagurata che si autocommisera ma... ma sono tutta al buio, sapete, mentre voi vedete.» Infatti vedevo, e il fatto che vedessi mi confermava nella mia decisione, sebbene questo fosse come separare lo spirito dalla carne. Tuttavia mi sarei trattenuto un po' più a lungo perché era l'ultima volta. «Credete che sia male, allora?», gridò lei, con asprezza, sebbene non avessi detto nulla. «Non per voi. Mille volte no. Perché per voi è bene... Non ho parole per dirvi quanto vi sono grato. Ma per me sarebbe male. Soltanto per me...» «Perché?», chiese lei, ma si passò la mano davanti al viso come aveva fatto nel nostro secondo incontro nel bosco. «Oh, vedo», continuò semplicemente, come una bambina. «Per voi sarebbe male.» Poi con un sorrisetto trattenuto continuò: «Ricordatevi, che vi chiamai beato... una volta... dapprincipio. Voi non dovete tornare più qui!». Mi lasciò mentre stavo ancora presso il paravento, e sentii il rumore dei suoi passi svanire sulla loggia di sopra. ALGERNON BLACKWOOD Una storia di fantasmi «Sì», disse lei, seduta in un angolo buio, «vi racconterò una storia, se lo desiderate. E, per di più, ve la racconterò in breve, senza tanti giri: voglio dire, senza particolari superflui. È una cosa che i narratori non fanno mai, come ben sapete», rise. «Si perdono in una serie di cose senza importanza e lasciano i loro ascoltatori a sbrogliare la matassa; io invece vi dirò solo
l'essenziale e potrete farne ciò che vi piacerà. Ma ad una condizione: che alla fine non mi facciate domande, perché non sono in grado di rispondervi e comunque non avrei voglia di farlo.» Fummo d'accordo. Eravamo tutti seri. Dopo aver ascoltato una dozzina di storie prolisse raccontate da gente che desiderava solo «chiacchierare» senza aver nulla da dire, volevamo «l'essenziale». «A quel tempo», cominciò, sentendo dalla qualità del nostro silenzio che eravamo pronti a prestarle ascolto, «a quel tempo mi interessavo ai fenomeni psichici, e avevo deciso di trascorrere una notte da sola in una casa stregata che si trovava nel centro di Londra. Era una casa tetra, non ammobiliata, situata in una strada principale, e si dava in affitto per poco. Quel pomeriggio l'avevo già esaminata alla luce del sole, ed avevo in tasca le chiavi datemi dal custode, che abitava alla porta accanto. La storia era buona - almeno, io credevo che valesse la pena di fare delle ricerche - e non voglio stancarvi con i particolari dell'assassinio della donna e tutte le complicate congetture che portavano a credere che in quel posto ci fossero delle presenze. Vi basti sapere che c'erano. Per questo mi infastidì non poco, quando giunsi lì alle undici di sera, trovare ad attendermi per le scale un uomo, che presi per il vecchio e loquace custode. Eppure ero stata sufficientemente chiara nel dire che desideravo rimanere sola, quella notte. "Vorrei mostrarle la stanza", borbottò lui, e naturalmente non potevo proprio rifiutare, visto che l'avevo seccato chiedendogli temporaneamente in prestito una sedia e un tavolo. "Entri, allora, e facciamo in fretta", dissi. Entrammo: lui che si trascinava dietro di me attraverso l'ingresso fino al primo piano dove era avvenuto il delitto, ed io che mi preparavo ad ascoltare l'inevitabile resoconto, prima di accompagnarlo alla porta con la mezza corona che si sarebbe guadagnato con la sua insistenza. Dopo aver acceso la lampada a gas, mi misi a sedere nella poltrona che mi aveva fornito - una poltrona di felpa, di un marrone stinto - e mi voltai per la prima volta a guardarlo, decisa a liberarmi di lui il più presto possibile. Fu in quell'istante che ebbi il primo shock. L'uomo non era il custode. Non era Carey, il vecchio rimbambito con cui avevo parlato al mattino e preso accordi. Il mio cuore diede un balzo. "Ora, chi è lei, di grazia?", dissi. "Lei non è Carey, l'uomo con cui mi sono accordata nel pomeriggio. Chi è?" Mi sentivo un po' a disagio, come potrete immaginare. Ero una "studiosa
di fenomeni psichici" e una giovane donna emancipata, ma non avevo nessuna voglia di trovarmi sola in una casa con uno sconosciuto. Persi un po' della mia sicurezza. Nelle donne, la sicurezza, oltre un certo limite, è tutto un imbroglio, come sapete. O forse non lo sapete, perché per la maggior parte siete uomini. Ad ogni modo, il mio coraggio se ne andò in fumo, ed ebbi paura. "Chi è lei?", ripetei in fretta, nervosamente. Il tipo era ben vestito, dall'aspetto sano e giovanile, ma con un'espressione di profonda tristezza. In quanto a me, avevo allora circa trent'anni. Questi particolari sono essenziali, altrimenti non ve ne parlerei. Questa storia è completamente al di fuori dell'ordinario. Credo che sia interessante proprio per questo. "No", disse; "io sono l'uomo che fu spaventato a morte." La sua voce e le sue parole mi attraversarono come un coltello, e fui sul punto di perdere i sensi. In tasca avevo il taccuino per prendere appunti. Sentivo la matita infilata nel reggicalze. Sentivo anche tutte le cose calde che mi ero messa addosso per passare la notte lì, visto che non erano disponibili né un letto né un divano: un centinaio di cose sconnesse e senza senso mi passarono per la testa, come accade sempre quando si è realmente spaventati. Particolari senza importanza mi assalivano e mi sconcertavano, ed io pensavo a quello che avrebbero scritto sui giornali, a quello che avrebbe pensato il mio "affascinante" cognato, e se avrebbero detto che tenevo in tasca le sigarette ed ero una libera pensatrice. "L'uomo che fu spaventato a morte!", ripetei atterrita. "Sono io", disse lui, stupidamente. Lo fissavo proprio come avreste fatto voi - ognuno di voi uomini che ora mi ascoltate - e sentivo che la vita si allontanava da me come una sorta di liquido bollente. Non dovete ridere! È proprio quello che provai. Quando nella mente c'è il terrore - terrore vero - ogni minima cosa, si sa, la colpisce con grande chiarezza. Ma avrei potuto trovarmi ad un party della buona borghesia, a giudicare dalle idee che mi venivano, tutte terribilmente ordinarie! "Ma io pensavo che lei fosse il custode a cui oggi pomeriggio ho chiesto di farmi dormire qui!", dissi con voce strozzata. "È stato Carey a mandarla qui?" "No", rispose con una voce che in qualche modo mi toccò nel profondo dell'essere. "Sono l'uomo che fu spaventato a morte. E per di più sono spaventato adesso!" "Anch'io!", riuscii a dire, parlando istintivamente. "Sono semplicemente
terrorizzata." "Sì", replicò con la stessa voce strana, che sembrava risuonare dentro di me. "Ma lei è ancora in carne ed ossa, ed io... non lo sono." Sentii il bisogno di un'energica autoaffermazione. Stavo lì impalata, in quella stanza vuota e senza mobili, con le unghie conficcate nei palmi delle mani, a denti stretti. Ero decisa ad affermare la mia individualità e il mio coraggio di donna moderna e di spirito libero. "Intende dire che non è in carne ed ossa?", ribattei a fatica. "Di che diavolo sta parlando?" Il silenzio della notte inghiottì la mia voce. Per la prima volta realizzai che le tenebre erano calate sulla città; che l'oscurità avvolgeva le scale; che il piano di sopra non era abitato, e che quello di sotto era vuoto. Ero sola in una casa infestata dai fantasmi, senza protezione. Ed ero una donna. Mi sentii ghiacciare. Udivo il vento intorno alla casa e sapevo che le stelle erano nascoste dalle nuvole. I miei pensieri corsero agli autobus, ai poliziotti, a tutto quello che poteva essere di qualche utilità e qualche conforto. All'improvviso compresi quanto fosse stato sciocco da parte mia venire da sola in una casa simile. Ero spaventata a morte. Credevo di essere giunta alla fine della mia vita. Ero veramente una stupida ad andare in giro a fare strani esperimenti senza avere il sangue freddo necessario. "Buon Dio!", mi uscì a stento. "Se lei non è Carey, l'uomo con cui ho preso accordi, chi è?" Ero irrigidita dalla paura. L'uomo avanzò lentamente verso di me attraverso la stanza vuota. Alzai una mano per fermarlo, e nello stesso istante feci un salto dalla poltrona. Lui si fermò proprio di fronte a me, con un sorriso stanco sul viso triste. "Le ho detto chi sono", ripeté con un sospiro, guardandomi calmo con gli occhi più tristi che avessi mai visto, "e sono ancora spaventato." Allora mi convinsi di aver a che fare con un vagabondo o con un pazzo, e maledissi la mia stupidità, per averlo fatto entrare senza guardarlo in volto. Ripresi animo e seppi che cosa dovevo fare. Fantasmi e fenomeni psichici se ne andarono all'aria. Se lo avessi fatto arrabbiare, ne sarebbe potuto andare della mia vita. Dovevo distrarlo e riuscire ad arrivare alla porta, poi mi sarei precipitata in strada. Mi piantai in piedi di fronte a lui e lo affrontai baldanzosa. Eravamo all'incirca della stessa altezza, ed io ero una donna forte e atletica, che d'inverno giocava ad hockey e d'estate scalava le montagne. La mia mano reclamava un bastone, ma non ne avevo. "Certo, ora ricordo", dissi con un sorriso stiracchiato, che mi costò un
notevole sforzo. "Ora ricordo il suo caso e il modo meraviglioso in cui si comportò..." L'uomo mi fissò con un'aria stupida, e mi seguì con lo sguardo mentre arretravo sempre più in fretta verso la porta. Ma quando la sua faccia si aprì in un sorriso, non riuscii più a controllarmi. Raggiunsi di corsa la porta, e mi precipitai sul pianerottolo. Come una sciocca, presi la strada sbagliata, e finii per le scale che conducevano al piano di sopra. Ma era troppo tardi per tornare indietro. L'uomo mi aveva raggiunta, ne ero sicura, anche se non udivo alcun rumore di passi. Corsi su per la scala buia, tenendo sollevata la gonna, e mi lanciai nella prima stanza che vidi. Fortunatamente la porta era spalancata, e, per una fortuna ancora più incredibile, la chiave era nella serratura. In un attimo avevo sbattuto la porta, mi ci ero gettata contro con tutto il mio peso, e avevo girato la chiave. Ero salva, ma il mio cuore batteva come un tamburo. Un attimo dopo sembrò fermarsi addirittura, perché mi accorsi che c'era qualcun altro nella stanza, oltre a me. Un uomo stava in piedi tra me e la finestra, proprio nel punto in cui dalla strada giungeva luce sufficiente a delineare i contorni della sua figura contro i vetri. Sono una donna coraggiosa, evidentemente, perché neanche allora abbandonai le speranze, ma posso assicurarvi di non aver mai provato un terrore simile da quando sono nata. Mi ero chiusa dentro con lui! L'uomo si appoggiò alla finestra e rimase a guardarmi, mentre giacevo sul pavimento in preda a una specie di collasso. Dunque in casa c'erano due uomini, riflettei. Forse anche le altre stanze erano occupate! Che cosa poteva significare? Ma, mentre ero lì con lo sguardo fisso, qualcosa cambiò nella stanza, oppure in me - è difficile da stabilire - e mi accorsi del mio errore, cosicché la mia paura, che fino allora era stata fisica, all'improvviso cambiò natura e divenne psichica. Seppi immediatamente chi era quell'uomo, e questa volta a spaventarsi fu la mia anima, invece del mio cuore. "Come ha fatto ad arrivare qui!", balbettai, mentre lo stupore frenava momentaneamente la paura. "Beh, lasci che le spieghi", cominciò, con quella sua voce strana e lontana, che scese giù per la mia schiena come un coltello. "Io sono in uno spazio differente, e lei mi troverebbe in qualunque stanza andasse. Perché, almeno dal suo punto di vista, io sono in tutta la casa. Lo spazio è una condizione corporea, ma io sono fuori del corpo, e lo spazio non mi riguarda. È la mia condizione a mantenermi qui. Io voglio qualcosa che
cambi la mia condizione, perché allora potrei andare via. Ciò che voglio è comprensione. Anzi, più che comprensione; voglio affetto... voglio amore!" Mentre parlava, mi misi lentamente in piedi. Avrei voluto urlare e strillare e ridere nello stesso tempo, ma mi riuscì solo di singhiozzare, perché le mie energie si erano esaurite e cominciavo a sentirmi intontita. Cercai i fiammiferi nella tasca e feci un movimento verso la lampada a gas. "Sarei molto più contento se lei non accendesse la lampada", disse allora, "perché le vibrazioni della luce mi procurano sofferenza. Non deve aver paura che io le faccia del male. Per cominciare, non posso toccare il suo corpo, perché tra di noi c'è un abisso invalicabile; e poi, davvero preferisco la penombra. Ora, mi permetta di continuare ciò che stavo cercando di dirle. Vede, molte persone sono venute in questa casa per vedermi, e la maggior parte di loro mi ha visto, e si sono spaventati tutti, dal primo all'ultimo. Se soltanto, oh! se soltanto qualcuno non si spaventasse, ma fosse gentile e amabile con me! Allora, vede, potrei cambiare la mia condizione e andare via." La sua voce era così triste, che sentii spuntarmi le lacrime; ma la paura mi frenava, e rimasi ad ascoltarlo fredda e agitata. "Chi è lei, allora? Naturalmente non l'ha mandata Carey, ora lo so", riuscii a dire. I miei pensieri erano orribilmente confusi e non trovavo niente da dire. Avevo paura che mi venisse un colpo. "Non so niente di Carey: non so neanche chi sia", continuò piano l'uomo, "ed ho dimenticato il nome che aveva il mio corpo, grazie a Dio. Ma sono l'uomo che dieci anni fa fu spaventato a morte in questa casa: da allora sono spaventato, e lo sono ancora, perché la successione di persone curiose e crudeli che viene qui per vedere il fantasma, e così tiene viva l'atmosfera di terrore della casa, non fa che peggiorare la mia condizione. Se solo qualcuno fosse gentile con me - se solo ridesse, mi parlasse con dolcezza e con raziocinio, se solo mi desse pietà, conforto, consolazione - ma vengono qui per curiosità e tremano, proprio come lei sta facendo ora in quell'angolo. Signora, non vuole avere pietà di me?" La sua voce divenne un grido disperato. "Non vuole avvicinarsi e cercare di volermi un po' di bene?" Nell'udire queste parole, mi salì in gola un'orribile risata, ma la pietà fu più forte, e mi trovai davvero a lasciare la parete e a muovermi verso il centro della stanza. "Dio mio!", gridò, drizzandosi contro la finestra. "Lei è stata gentile.
Questa è la prima dimostrazione di simpatia che ricevo da quando sono morto, e mi sento già meglio. Da vivo, sa, ero un misantropo. Tutto mi dava fastidio, ed arrivai ad odiare gli altri uomini tanto da non sopportarne la vista. Naturalmente, una cosa genera l'altra, e quest'odio era ricambiato. Alla fine presi a soffrire di orribili allucinazioni, e la mia camera si riempì di demoni che sghignazzavano e facevano smorfie, finché una notte, accanto al mio letto, mi imbattei in un intero conciliabolo di questi orrori. La paura mi fermò il cuore e ne morii. Sono l'odio ed il rimorso, oltre al terrore, che mi opprimono e mi tengono qui. Se solo qualcuno provasse compassione per me, e simpatia, e forse un po' d'amore, io potrei andarmene ed essere felice. Quando lei è venuta questo pomeriggio a vedere la casa, io l'ho guardata, e per la prima volta ho avuto una piccola speranza. Ho capito che lei ha coraggio, originalità, risorse... amore. Se solo io potessi toccare il suo cuore, senza spaventarla, forse potrei liberare quell'amore che è chiuso nel suo essere, e così avere le ali per la fuga!" A questo punto devo confessare che il mio cuore cominciava a soffrire, mentre la paura mi abbandonava e il triste significato delle parole dell'uomo si incideva profondamente dentro di me. E tuttavia, l'intera faccenda era così incredibile, così straordinaria, ed era evidente ormai che la storia dell'omicidio della donna non aveva niente a che fare con la casa, che io mi sentivo in una specie di sogno selvaggio. Probabilmente l'incubo avrebbe avuto fine da un momento all'altro ed io mi sarei risvegliata nel mio letto. Per di più, le sue parole avevano un tale effetto su di me, da impedirmi di riflettere e di considerare razionalmente un mezzo o un sistema per fuggire da quella situazione. Mi avvicinai ancora a lui nell'oscurità, orribilmente spaventata, certo, ma con una specie di strana determinazione in cuore. "Voi donne", continuò, e mentre mi avvicinavo gli si incrinò leggermente la voce, "voi donne meravigliose, a cui spesso la vita non offre alcuna possibilità di spendere il vostro patrimonio d'amore, oh, se solo poteste sapere quanti di noi ne sono semplicemente assetati! Se solo lo sapeste, questo salverebbe le nostre anime. Poche hanno la possibilità che lei ha ora ma, se solo voi deste il vostro amore liberamente, senza un oggetto definito, lasciandolo scaturire da voi per tutti quelli che ne hanno bisogno, raggiungereste centinaia, migliaia di anime come la mia, e ci liberereste! Oh, signora, le chiedo ancora di avere comprensione per me, di essere dolce e gentile e, se può, di amarmi un po'."
Ebbi un tuffo al cuore, e questa volta le lacrime mi sgorgarono dagli occhi, perché non riuscii a trattenerle. Mi misi anche a ridere, perché il modo in cui mi chiamava "signora" suonava così strano, in quella stanza vuota, a mezzanotte, in una strada di Londra: ma la risata mi morì in gola e fu sommersa da un fiume di pianto, quando vidi le reazioni che il mio cambiamento aveva provocato in lui. Aveva lasciato la finestra ed ora era in ginocchio ai miei piedi, con le braccia tese verso di me, mentre intorno al suo capo apparivano i vaghi segni di una specie di aureola. "Mi stringa tra le sue braccia e mi baci, per amor di Dio!", gridò. "Baciami, oh, baciami, ed io sarò libero! Hai fatto già tanto... fa' anche questo!" Stavo lì immobile, incerta, sconvolta, sul punto di muovermi e tuttavia incapace di farlo. Ma il terrore era quasi scomparso. "Dimentica che io sono un uomo e tu una donna", continuò con la voce più supplichevole che abbia mai udito. "Dimentica che sono un fantasma, e vieni avanti coraggiosamente, e stringimi a te, baciami, lascia che il tuo amore scorra dentro di me. Dimentica te stessa solo per un minuto, sii audace! Oh, amami, amami, AMAMI! Ed io sarò libero!" Quelle parole, o la forza profonda che scatenavano nel centro del mio essere, mi scossero, e un'emozione infinitamente più grande della paura salì dentro di me e mi trascinò. Senza esitare, mi chinai verso di lui e aprii le braccia. In quel momento pietà ed amore erano nel mio animo, lo giuro, vera pietà e vero amore. Dimenticai me stessa e i miei tremori nel grande desiderio di aiutare un'altra anima. "Ti amo! povero essere infelice! Ti amo!", gridai attraverso le lacrime cocenti. "E non ho neanche un po' di paura." L'uomo emise un suono curioso, come una risata, e tuttavia non era una risata, poi girò il viso verso di me. Era illuminato dalla luce che proveniva dalla strada, ma intorno a lui splendeva anche un'altra luce, che sembrava irradiarsi dai suoi occhi e dalla sua pelle. Si alzò in piedi, si avvicinò a me, ed in quell'attimo lo strinsi al mio petto e lo baciai sulle labbra e poi ancora e ancora.» Tutte le nostre pipe si erano spente, e nello studio avvolto dalla penombra non si udì neanche un fruscio, quando la narratrice fece una pausa per rendere ferma la voce e portarsi delicatamente una mano agli occhi, prima di continuare. «Cosa posso dirvi ora, come posso spiegare a voi, a tutti voi uomini scettici che sedete lì con la pipa in bocca, le stupefacenti sensazioni che
provai nel tenere stretta al cuore una cosa intangibile, impalpabile, di cui sentivo però il contatto su tutto il corpo, e che poi in qualche modo si fuse con il mio stesso essere? Perché fu come essere investiti da una folata di vento gelido, quando, nel momento in cui passa sul nostro corpo, sentiamo una specie di calore bruciante. Una serie di incredibili emozioni mi attraversò; in un'estasi fulminea, fui percorsa da una fiamma di dolcezza e di meraviglia; di nuovo sentii il cuore in gola... e poi fui sola. La stanza era vuota. Per averne la certezza accesi la lampada a gas. La paura mi aveva abbandonato del tutto e qualcosa cantava nell'aria intorno a me e nel mio cuore, qualcosa che somigliava alla gioia di un mattino di primavera in gioventù. Neanche i diavoli, le ombre, e tutti gli spettri del mondo, avrebbero potuto provocarmi un solo tremito. Aprii la porta e girai per tutta la casa buia: andai persino in cucina, nello scantinato e su in soffitta. Ma la casa era vuota. La presenza l'aveva lasciata. Rimasi ancora per circa un'ora, a pensare, meravigliarmi, fare congetture - forse potete immaginare come e su cosa, ma non voglio darvi i particolari, perché, ricordate?, vi ho promesso solo l'essenziale, - e poi tornai a dormire nel mio appartamento, chiudendo dietro di me la porta di una casa non più infestata dai fantasmi. Ma mio zio, Sir Henry, il proprietario della casa, mi chiese di raccontargli la mia avventura e, naturalmente, mi sentivo in dovere di presentargli una storia almeno plausibile. Prima che potessi cominciare, ad ogni modo, mi fece cenno di aspettare. "Prima", disse, "vorrei dirti che ho usato con te un piccolo sotterfugio. Era stata così tanta la gente che aveva visitato la casa e visto il fantasma, che ero arrivato a pensare che la storia agisse sulla loro immaginazione, e così ho deciso di fare un esperimento migliore. Ho inventato un'altra storia, con l'idea che, nel caso in cui tu avessi visto qualcosa, avrei potuto essere sicuro che non fosse dovuto semplicemente alla tua fantasia eccitata." "Allora tutto quello che mi hai detto della donna assassinata e del resto, non era la vera storia del fantasma?" "No, non lo era. La verità è che un mio cugino diventò pazzo in quella casa e, dopo anni di miserabile ipocondria, si uccise in preda a un attacco di terrore. È lui quello che la gente vede." "Allora questo spiega...", dissi con voce strozzata. "Spiega cosa?" Pensai alla povera anima sofferente, che in tutti quegli anni aveva bramato la fuga, e decisi per il momento di tenere la mia storia per me.
"Volevo dire, spiega il fatto che io abbia visto il fantasma della donna assassinata", conclusi. "Precisamente", concluse Sir Henry, "e per questo, se tu avessi visto qualcosa, avrebbe avuto davvero valore, perché non avrebbe potuto esserne responsabile il lavoro esercitato dalla tua immaginazione su una storia che ti era già nota."» EDWARD FREDERICK BENSON Pirati Da molti anni oramai l'idea di ricomprare la casa era un pensiero fisso nella mente di Peter Graham. Tuttavia, quando esaminava l'idea con un atteggiamento più pragmatico, certe ragioni si ostinavano a impedirglielo. Per prima cosa, la casa era molto distante dal suo posto di lavoro, immersa nel cuore della Cornovaglia, e sarebbe stato impossibile pensare di andarci solo nei fine settimana, e se mai avesse avuto intenzione di stabilircisi per periodi più lunghi, cosa avrebbe fatto, sepolto in quella mite e remota terra di Lotofagi? Era un uomo molto occupato e, quando la sera terminava il lavoro, amava frequentare il suo club e i teatri, ma raramente si permetteva delle vacanze fuori dalla City, e le brevi ferie le passava di solito sul fiume a pescare salmoni, o sui campi da golf, o in compagnia di amicizie solide e simili a lui. Visto in questi termini, il suo progetto era irto di obiezioni. Erano già passati quarant'anni, sia pure in maniera quasi impercettibile e, durante tutto questo periodo, il desiderio di trovarsi di nuovo a casa, a Lescop, era rimasto sempre persistente, anzi, di tanto in tanto, gli aveva procurato dei piccoli sussulti, proprio nei momenti in cui la sua mente conscia era occupata a pensare a tutt'altro. Questo desiderio - lo capiva bene - era dettato dal sentimentalismo, e spesso si meravigliava di se stesso: che proprio lui, così ben corazzato contro quel tipo di emozioni dall'incalzare dell'esistenza, avesse questa unica spina nel cuore. Non aveva più rivisto quel posto da quando aveva sedici anni, ma il ricordo era più vivo di qualsiasi altro scenario tratto dalle sue esperienze successive. Da allora si era sposato, aveva perso la moglie e, benché per molti mesi si fosse sentito terribilmente solo, il dolore della solitudine era poi cessato e ora, se si fosse posto una domanda diretta, avrebbe dovuto confessare che la vita da scapolo gli si addiceva molto più della vita co-
niugale. Quest'ultima non era stata un gran successo, e non sentiva la tentazione di ripetere l'esperimento. Tuttavia avvertiva una nuova forma di solitudine, che né la vita coniugale né il suo grande interesse per i propri affari aveva mai soppiantato del tutto, e questo era collegato direttamente al desiderio di possedere quella casa sul verde declivio fra le colline dietro la città di Truro. Penultimo di una famiglia di cinque fratelli, vi aveva vissuto per soli sette anni, e ora di tutta quella allegra brigata era rimasto lui solo. Uno ad uno erano caduti dallo stelo della vita. Mentre ciascuno a turno se ne andava verso il silenzio, Peter non aveva sentito particolarmente la loro perdita. La sua vita era troppo piena, e pertanto non aveva avuto il tempo di sentire la mancanza di nessuno; essendo così vitale per sua stessa costituzione, non poteva far altro che guardare in avanti, verso il futuro. Di tutta quella nidiata non si era sposato nessuno tranne lui, e lui stesso non aveva avuto figli: fu proprio quando si rese conto di non essere più legato ad alcun essere vivente da stretti vincoli di parentela, che una spessa coltre di solitudine gli si era chiusa attorno. Questa solitudine non aveva nulla di tragico o di disperato: non sentiva alcun desiderio di seguire gli scomparsi fidando nell'eventualità piuttosto remota e mai verificata di poterli ritrovare. Inoltre, non sapeva che farsene di un'esistenza incorporea: per lui la vita significava carne, sangue, interessi e attività materiali, e non riusciva a concepire un'esistenza separata da queste cose. Tuttavia, alle volte, lo tormentava questo sordo dolore della solitudine, peggiore di ogni altro, quando pensava alla quiete che giaceva come congelata, simile a ghiaccio limpido al di sopra di quegli anni così pieni di gioventù e di gioia, gli anni in cui Lescop era stato un posto rumoroso, vivace e pieno del suono delle risate, col giardino risonante di giochi e la casa di spettacolini teatrali, di partite a nascondino e di mille progetti. Naturalmente c'erano stati litigi, dispute, e cadute in disgrazia abbastanza cocenti a quel tempo, ma ora non c'era più nessuno con cui litigare. «Non si può litigare veramente con le persone che non ami», pensò Peter, «perché non hanno importanza.» Eppure era ridicolo sentirsi soli; era molto più che ridicolo, era una debolezza, e Peter nutriva un bonario disprezzo per un uomo di successo, in buona salute e poco incline all'emozione che manifestasse debolezze di quel tipo. Vi erano così tante cose interessanti e divertenti a questo mondo, e lui aveva così tanti ferri al fuoco ancora da forgiare, per così dire, nell'oro che stava lavorando, e un tale numero di amene distrazioni da provare
nei momenti in cui non era occupato (poiché dedicava ancora lo stesso entusiasmo di un ragazzo al lavoro e al gioco), da non permettere scusanti alle sterili emozioni. Così, per mesi interi non gli accadde quasi mai che un pensiero vagante lo riportasse verso gli anni remoti passati nella casa sul pendio sopra Truro. Di recente aveva ottenuto la presidenza di una nuova Compagnia molto promettente, la British Tin Syndicate, tra le cui proprietà vi erano anche certe miniere in Cornovaglia che erano state abbandonate in precedenza, perché non rendevano. Un abile chimico minerario aveva recentemente inventato un processo che consentiva di estrarre il minerale molto più a buon mercato di quanto era stato possibile prima. La British Tin Syndicate ne aveva acquistato i diritti e, come proprietaria di queste miniere abbandonate di Cornovaglia, stava ottenendo ottimi risultati dal minerale ferroso che non era stato raffinato fino ad allora. Peter, prendendo la responsabilità della sua carica di Presidente piuttosto sul serio, cercava di acquistare una certa dimestichezza con gli aspetti pratici delle sue attività, e ora si dirigeva in Cornovaglia per ispezionare di persona le miniere in cui era stato attivato il nuovo procedimento. Portava con sé certi rapporti tecnici che aveva ricevuto, per poterli leggere durante le lunghe ore di viaggio, e fu solo quando il treno lasciò Exeter che interruppe finalmente la lettura e, riposti i rapporti nella valigetta, posò lo sguardo sul panorama che gli passava rapido dinanzi. Era passato molto tempo da quando era stato l'ultima volta nella West Country, e ora, con l'emozione vivida che si prova al momento di ritrovare posti noti, riconobbe le rosse scogliere di Dawlish, sperse tra grandi distese di spiagge assolate, sorprendentemente familiari. Sicuramente doveva averle viste di recente, pensò fra sé, e poi, frugando nella memoria, si ricordò che erano passati quarant'anni da quando le aveva viste l'ultima volta, ritornando da Eton per trascorrere la sua ultima vacanza a Lescop. Intense, cristalline impressioni della giovinezza! La sua destinazione per quella notte era Penzance: in quel momento, con un senso di aspettativa insolitamente intenso, si rammentò che, poco prima di raggiungere la stazione di Truro, dalla ferrovia si poteva scorgere la casa sulla collina. Infatti, spesso, nei suoi viaggi da casa a scuola e viceversa, si era proteso tutt'occhi per gettare il primo o l'ultimo sguardo sulla casa. Forse, in questo frattempo, gli alberi erano cresciuti, frapponendosi tra la ferrovia e la casa ma, mentre filavano spediti oltre la stazione prima di
Truro, si spostò sul lato opposto della carrozza, e di nuovo cercò di intravederla... Era lì, a circa un miglio di distanza, sul lato opposto della vallata, con la sua facciata di pietra grigia e il grande faggio che ne proteggeva un lato! Il suo cuore ebbe un sussulto quando la vide. Eppure, a che gli poteva servire ormai quella casa? Non erano certo le pietre e i mattoni di cui era fatta, né i campi pieni di paglia che le sorgevano davanti, né il giardino pieno di rovi che si stendeva dietro: erano i giorni che vi aveva trascorso che lui rivoleva. Si sporse dal finestrino per vederla ancora, fin quando un arbusto la nascose del tutto, e provò la sensazione di stare contemplando una fotografia che richiamava una presenza viva. Tutti coloro che avevano contribuito a rendergli Lescop cara e a tenerne vivida la memoria nella mente, erano morti, ma questa registrazione era rimasta, come l'immagine su una lastra fotografica... Poi sorrise tra sé con una punta di disprezzo per quella sua debolezza sentimentale. I tre giorni che seguirono lo coinvolsero in un gradevole turbine di lavoro: le miniere di zinco erano una novità per Peter, e lui fu assorbito da quella novità come se fosse stata un nuovo gioco e un ingegnoso rompicapo. Scese nelle miniere che erano state riaperte, e ispezionò il processo chimico, lo vide in azione e ne verificò i risultati. Analizzò i costi confrontandoli con il valore del metallo ricavato. Inoltre, c'era una notevole quantità di argento nel metallo, e cercò di stabilire se valesse la pena di estrarlo. Certo anche dalle miniere che erano state chiuse si sarebbe potuto ricavare un dividendo di qualche interesse grazie a quel processo chimico, mentre quelle poste sulle vene più grandi avrebbero di gran lunga incrementato il loro gettito. Ma l'economia, l'economia... Sicuramente l'avrebbe salvata alla fine, benché fosse necessario un impiego piuttosto massiccio di capitale per costruire una ferrovia leggera dalle gallerie fino al treno, in modo da fare a meno dei grandi autocarri. È vero, vi era una ripida scarpata ma, con una piccola diversione, e gettando un ponte sul ruscello, si sarebbe potuto evitarla. S'incamminò lungo il percorso progettato insieme all'ingegnere e si arrampicarono lungo il greto del ruscello per localizzare la testata di un ponte a traliccio. Durante tutto quel tempo, nelle remote regioni del suo subcosciente, passavano infinite immagini della casa e della collina, le stanze, i corridoi, i campi e il giardino; alle immagini si accompagnava, come una musica in sottofondo, la sofferenza della solitudine. Sentiva che doveva
tornare a visitarla nuovamente da capo a fondo come allora: sicuramente, se si fosse presentato, il proprietario gli avrebbe permesso una solitaria passeggiata di una mezz'oretta. Sarebbe riuscito a vedere tutti i cambiamenti e le alterazioni portate dalla vita degli estranei che ora l'abitavano, e la fotografia si sarebbe sbiadita, divenendo una semplice ombra, per poi sparire del tutto. E sarebbe stato meglio così. Animato da questa intenzione, dopo aver esplorato ogni possibilità di profitto da parte della sua Compagnia, partì da Penzance su uno dei primi treni del mattino per poter passare qualche ora a Truro e tornare a Londra in giornata. Appena lasciata la stazione, i ricordi vecchi di quarant'anni, molto più vivi di quelli degli ultimi tre giorni, gli si affollarono attorno come per salutarlo. C'era il passaggio a livello e la strada che portava al ruscello dove lui e sua sorella Sybil avevano pescato i pesci per il loro acquario, e di là dal ponte passava il sentiero incassato tra alte scarpate che portava attraverso i campi fino a Lescop. Sapeva esattamente dov'era lo stagno pieno di lunghe alghe, che aveva regalato loro tanti pesci: sapeva bene che i fiori rossi e bianchi sul margine del sentiero e i fiordalisi nei campi sarebbero stati in fiore. Ma, per il momento, era meglio andare in città, pranzare all'albergo, e informarsi presso l'agente immobiliare su chi fosse l'attuale proprietario della casa di Lescop. Poi, forse, avrebbe potuto prendere la nota scorciatoia per arrivare alla stazione in tempo per il treno del pomeriggio. I ricordi, ormai fitti come i fiori della pianura in primavera, gli spuntavano attorno pieni di colore e di fragranza. C'era il negozio dove aveva portato il canarino ad impagliare (era un uccellino molto bello!), e poi c'era il negozio del «Becchino e Falegname», che portava ancora lo stesso nome sull'insegna sopra la porta. In occasione di uno dei compleanni più memorabili, la sua deliziosa famiglia - dietro sua richiesta - gli aveva offerto un segno di stima sotto forma di denaro contante, e lui aveva ordinato lì un armadietto con cinque cassetti e due ripiani, verniciato e odoroso di legno nuovo, per potervi collocare la collezione di conchiglie... Ora un ragazzino in maglione e pantaloni di flanella stava guardando dentro la vetrina, e Peter si disse improvvisamente: «Dio mio, com'ero simile a quel ragazzo: avevo persino lo stesso abbigliamento». Infatti era proprio così, e Peter, curiosamente interessato, si accinse ad attraversare la strada per osservarlo meglio.
Ma era giorno di mercato, e un gregge di pecore lo ostacolò: quando infine riuscì ad attraversare, il ragazzino era svanito tra i passanti. Più avanti c'era una facciata dignitosa preceduta da una scalinata di larghi gradini, e di nuovo Peter si disse senza volerlo: «Ma... quella ragazza assomiglia incredibilmente a Sybil!». Prima però che potesse darle un altro sguardo, la porta si aprì, lei entrò, e Peter fu piuttosto contrariato quando si accorse che sulla porta non vi era più la targa che indicava come il signor Tuck fosse ancora al suo trapano... In fondo alla strada c'era il ponte sul fiume Fal, sotto il quale prendevano spesso una barca per andare a fare un picnic sul fiume. Proprio in quel momento c'era un'allegra famigliola pronta a partire dal pontile: vide tre ragazzi e anche una coppia di ragazzine, e una donna appena entrata nella mezz'età. Discesero rapidamente la corrente, e lui si disse con un mezzo sospiro: «Proprio lo stesso numero, come noi con la mamma». Si diresse verso il «Red Lion» per pranzare: era un locale nuovo e poco interessante, poiché non riusciva a ricordare di averci mai messo piede prima. Ma, mentre masticava il suo roast-beef freddo, delle cose molto interessanti stavano accadendo in fondo al suo cervello: stava tentando (fidando peraltro di poterci riuscire) di collegare quel ragazzino che aveva visto di fronte al falegname con la ragazza sulla soglia della casa che era appartenuta al signor Tuck, e con la famigliola pronta per il picnic sul fiume. Invano si ripeteva che né il ragazzino, né la ragazza, né la famigliola, potevano aver niente a che vedere con lui; appena si distraeva, quella caccia sotterranea, come quella di un furetto nella tana del coniglio, ricominciava implacabile... Peter ebbe un moto di sorpresa, poiché si era ricordato con limpida chiarezza della mattina di quel suo memorabile compleanno, quando lui e Sybil erano partiti prima degli altri da Lescop: lui con il piacevole compito di prenotare il suo armadietto, e lei per una dolorosa visita a Tuck. Gli altri li avevano raggiunti mezz'ora dopo, per celebrare con una colazione al sacco sul fiume Fal il grande avvenimento: infatti la sua età, da quel giorno, doveva scriversi con due cifre (anche se una delle cifre era zero). «Ci vorranno novant'anni caro», gli aveva detto sua madre, «prima di aggiungere la terza, quindi, stai attento a te!» Il ricordo lo aveva emozionato, quasi quanto quel giorno. Non significava nulla, si disse, perché non c'era niente che potesse significare. Ma gli sembrò strano, come se qualcosa di quei giorni fosse rimasta lì attorno... Terminò rapidamente il pranzo, poi si recò dall'agente immobiliare per
compiere la sua indagine. Sarebbe stato facilissimo passeggiare a Lescop, perché da due anni la casa era disabitata. Non c'era bisogno di permesso per la visita: anzi, gli diedero le chiavi, perché non c'era custode. «Ma la casa andrà in rovina», disse Peter con aria indignata. «Una casa così bella! È una falsa economia risparmiare la spesa di un custode. Ma naturalmente sono affari vostri, non miei. Riavrete le chiavi questo pomeriggio: farò una passeggiata fin lì.» «È meglio che prendiate un taxi, signore», disse l'uomo. «È una giornata calda, e c'è un miglio e mezzo di strada in salita.» «Oh, chiacchiere!», disse Peter. «È appena un miglio. Con mio fratello, spesso non impiegavamo più di dieci minuti.» Si ricordò che le gesta atletiche di quarant'anni prima non rivestivano un grande interesse per il mondo moderno... Pyder Street era piena di bambini come sempre, ed era forse un po' più lunga e più scoscesa di quanto non fosse una volta. Svoltando a destra tra le strane nuove ville di periferia, sbucò finalmente sul sentiero così ben noto e, cinque minuti dopo, era giunto al grande cancello che precedeva la carrozzabile che portava alla casa. Il cancello era uscito dai gangli, e dovette sollevare il chiavistello, sgusciare attraverso i battenti cadenti, e rialzarlo. La carrozzabile era coperta di erbacce e, con un nuovo moto d'indignazione, si accorse che il cancelletto che portava al sentiero verso i campi era rotto, e aveva trascinato nella sua caduta anche il fil di ferro del recinto. Infine arrivò alla casa vera e propria, e vide che sulle finestre i rampicanti erano cresciuti e, quando aprì la porta, rimase ritto nel vestibolo dal soffitto scolorito circondato dalle macchie d'umidità che erano fiorite sulle pareti. La casa aveva un aspetto liso e vergognoso, la vernice degli infissi era scrostata, i vetri erano sporchi, e nell'aria vi era il tanfo delle stanze rimaste a lungo chiuse. Eppure lo spirito della casa era ancora lì presente, benché si sentisse che era melanconico e corrucciato, e lo seguiva stancamente da una stanza all'altra... «Tu sei Peter, vero?», sembrava dirgli. «Sei venuto solo a vedermi... Comprendo: non hai intenzione di restare. Ma io mi ricordo bene dei bei tempi, proprio come te!» Lui passò di stanza in stanza, da quella da pranzo al salone, al salottino di sua madre, allo studio di suo padre: poi salì le scale, entrando in quella che era stata la stanza dedicata ai bambini, che era servita da aula, ai tempi in cui vi era stata una maestra, e che era stata poi trasformata in una stanza
dei giochi per i bambini. Lungo quel corridoio vi era la vecchia camera dei giochi, la camera da letto e, sopra a quelle, c'era la soffitta. Una delle stanze dell'attico era diventata la sua camera da letto personale, che gli era stata assegnata quando aveva cominciato a frequentare la scuola. Il tetto era pieno di buchi, e vi era una macchia bordata di marrone proprio sopra il punto in cui una volta c'era stato il suo letto. «L'hanno proprio ridotta in un bello stato!», bofonchiò Peter. «Come faccio a dormire sotto quella perdita? Va proprio male!» La forza della sua indignazione lo sorprese molto. Non avvertiva in sé la presenza di due personalità che formavano un solo Peter Graham, in momenti diversi della sua esistenza. Una, quella del Presidente del British Tin Syndicate, protestava vedendo il giovane Peter Graham messo a dormire in un posto così umido e gocciolante, mentre l'altra (oh, che estatica vista era stata per un momento!) che era proprio il giovane Peter che, ritornato nel suo meraviglioso attico appena rientrato a casa da scuola, si guardava attorno con occhi vivaci per convincersi che tutto era meravigliosamente vero, prima di scendere a prendere il tè nella stanza dei bambini. C'erano un sacco di domande da fare! Come stavano i suoi conigli, come stavano le cavie di Sybil, se Violet era riuscita a imparare la canzone «Oh, è solo un po' di pioggia», e se i piccioni di bosco stavano costruendo di nuovo il nido sull'albero di limoni. Tutti argomenti che rivestivano la massima importanza... Il Peter Graham più anziano si sedette accanto alla finestra. Si affacciava sul prato e, proprio di fronte, c'era l'albero di limoni: i rami, ricadendo, formavano una sorta di caverna verdeggiante, ma quelli più alti crescevano diritti, e lui sentì il tubare borbottante dei piccioni di bosco provenire dal folto dei rami. Nidificavano ancora lì: la domanda del giovane Peter Graham aveva ricevuto una risposta. «È molto strano che stia pensando proprio a questo», si disse: sembrava non esserci una distanza cronologica tra lui e il giovane Peter, perché la soffitta faceva da tramite, da ponte, attraverso i decenni che nel goffo conteggio materiale del tempo si erano interposti tra di loro. Poi il Peter più anziano sembrò riprendere il controllo della situazione. Quella casa era un posto molto triste, pensò: gli procurò una fitta vedere come fosse decaduto il luogo in cui aveva trascorso i suoi anni più gioiosi. Nessun segno di un rinnovamento, e né i figli di estranei, né i figli dei loro figli, crescendovi, ne avrebbero potuto cancellare il vecchio spirito quanto
quell'abbandono. Uscì dalla stanza del giovane Peter, fermandosi sul pianerottolo; due brevi rampe di scale portavano al piano inferiore, e allora, per un momento, fu nuovamente il giovane Peter, pronto ad allungare la mano verso la ringhiera, preparandosi a saltarne la prima rampa in un solo balzo. Ma poi il vecchio Peter si accorse che era una cosa impossibile per le sue giunture, ormai molto meno elastiche. Beh, c'era ancora il giardino da esplorare, e poi sarebbe tornato all'agenzia per restituire le chiavi. Non voleva più prendere la scorciatoia che scendeva per la collina fino alla stazione e passare accanto allo stagno dove lui e Sybil avevano pescato, perché tutto il suo desiderio di tornare, che era stato alle volte così impellente, ora si era afflosciato, rinsecchito. Avrebbe passeggiato per una decina di minuti in giardino e, mentre tornava al piano di sotto con passo lento, i ricordi del giardino, e di quello che vi facevano di solito, incominciarono a invadere la sua mente. Vi erano gli alberi su cui si arrampicavano, e i cespugli - in particolare un cespuglio di lillà in cui nidificavano gli uccelli - da rastrellare in cerca di nidi e talpe. Ma soprattutto vi potevano giocare a quél gioco, molto più emozionante del tennis sul prato o del cricket giocato sui campi bitorzoluti (che in effetti era già molto emozionante di per sé), il gioco dei «Pirati», come lo chiamavano... C'era in cima al giardino il padiglione estivo, con le mattonelle e il tetto, con vere e proprie pareti in muratura, e quella era la «casa» o la «Baia di Plymouth», e da lì le «navi» (ossia i bambini) si dirigevano agli ordini dell'Ammiraglio a prendere il tesoro senza farsi acchiappare dai pirati. I pirati erano solo due, e si potevano nascondere ovunque nel giardino, e saltavano fuori per assaltare le tre navi (che comprendevano anche l'Ammiraglio il quale, dopo aver dato gli ordini, diventava la nave ammiraglia). Le navi dovevano navigare nel frutteto, nelle aiole, o nel campo, e portare a casa sano e salvo il tesoro, colto nel posto designato. Peter si ricordò che una volta, mentre stava risalendo di corsa il sentiero fino al padiglione estivo con un pirata alle calcagna, era stramazzato a terra, e il pirata cavallerescamente lo aveva scavalcato con un salto per paura di calpestarlo, ed era caduto anche lui. Così Peter era riuscito a tagliare il traguardo, perché Dick era finito faccia a terra, e il naso aveva cominciato a sanguinargli... «Dio mio, sembra ieri», pensò Peter. «E Harry lo aveva chiamato "Pirata Insanguinato", e papà, che lo aveva sentito, aveva pensato che stesse di-
cendo delle parolacce finché non gli avevano spiegato l'equivoco.» I giardini erano ridotti ancora peggio della casa, completamente trascurati e ricoperti di erbacce e, per trovare il punto in cui c'era stato un sentiero, Peter dovette farsi strada attraverso rovi e cespugli. Ma perseverò, sbucando finalmente nel roseto in cima al giardino, e vide la Baia di Plymouth con il tetto crollato, le mura gonfie di umidità, e il muschio che cresceva folto tra le fessure delle mattonelle. «Bisogna ripararlo subito», disse Peter ad alta voce... «Cos'è quello?» Si diresse velocemente verso i cespugli attraverso cui era sbucato, perché a un tratto aveva sentito una voce - fioca e lontana - che proveniva da lì, e quella voce gli era familiare, benché avesse taciuto per gli ultimi trent'anni. Infatti era la voce di Violet che gli aveva parlato, e aveva detto: «Oh, Peter: eccoti finalmente!». Sapeva di aver udito la voce di lei, e sapeva che quella era una cosa assolutamente impossibile. Ma si spaventò: eppure, com'era assurdo spaventarsi! In fondo, era solo la sua immaginazione, rinfocolata dalle memorie e dai luoghi familiari, che gli aveva giocato uno scherzo. Infatti, era proprio bello il solo fatto di aver potuto immaginare di aver sentito di nuovo la voce di Violet. «Vi!», chiamò ad alta voce, ma naturalmente nessuno rispose. I piccioni di bosco tubavano nell'albero di limoni, si sentiva il ronzio delle api e il sussurro del vento tra le fronde degli alberi, e tutto attorno c'era la dolce aria incantata della Cornovaglia, imbevuta di sogni. Si sedette sul gradino del padiglione estivo, invocando la presenza del suo buon senso. Era stato un pomeriggio faticoso, era contrariato dal fatto che il posto fosse andato in rovina, trascurato, e non voleva immaginare quelle voci che lo richiamavano dal passato, o vedere quelle strane immagini momentanee che appartenevano alla sua infanzia. Non apparteneva più a quel periodo ormai coperto dall'erba e sul quale ormai presiedevano le pietre tombali; doveva lasciare tutto quello che lo evocava poiché, più di ogni altra cosa, lui era il presidente di floride Compagnie con grandi capitali che dipendevano da lui. Così, rimase seduto per un po' cercando di calmarsi, sfidando Violet, per così dire, a chiamarlo di nuovo. E poi, con l'instabilità di umore che sembrava caratterizzare il suo comportamento quel giorno, si sorprese ad aspettare la chiamata. Ma Violet faceva sempre presto a capire quando non era desiderata, e doveva essersene andata a raggiungere gli altri... Ritornò sui suoi passi, fissandosi in mente lo scenario circostante. L'ace-
ro dorato in cima al sentiero, era stato un virgulto come lui, l'ultima volta che l'aveva visto, ed era ormai diventato un albero dal grosso fusto, mentre il cespuglio d'alloro era ormai un'alta colonna di foglie fragranti e, proprio mentre passava accanto al lillà, un cardellino se ne staccò, volando basso. Era arrivato di nuovo alla casa, e la fucsia rampicante spingeva i rami fioriti attraverso i vetri della finestra della camera di sua madre, e un caldo, intenso sentore (come se lo ricordava bene!) si riversava dai calici della grande magnolia. «È stata un'idea pazzesca tornare a vedere questa casa!», si disse. «Non ci penserò mai più: è finita. Ma è stata una cosa cattiva, non occuparsene.» Tornò in città per riportare all'agenzia le chiavi della casa. «Vi ringrazio molto», disse. «Era una bella casa, anni addietro. Perché è stata lasciata andare in rovina così?» «Non so, signore», disse l'uomo. «È stata affittata un paio di volte negli ultimi dieci anni, ma gli inquilini non si sono mai fermati a lungo. Il proprietario sarebbe ben felice di poterla vendere.» All'improvviso, Peter ebbe un'idea fantastica, assurda. «Ma perché non ci abita?», chiese. «Perché gli inquilini non si fermano? C'era qualcosa che non gli piaceva? Fantasmi, per esempio, o qualcosa del genere? Non voglio affittarla né comprarla, quindi non mi scoraggerebbe dall'acquisto.» L'uomo esitò per un momento. «Beh, ci sono delle dicerie», disse, «se posso parlare in confidenza. Ma sono tutte sciocchezze, naturalmente.» «Certo!», disse Peter. «Voi ed io non crediamo a queste cose. Mi chiedevo una cosa: per caso vi hanno detto di aver sentito voci di bambini che chiamavano dal giardino?» La discrezione dell'agente ebbe la meglio. «Non saprei proprio», disse. «Tutto quello che so è che si può acquistare la casa a un ottimo prezzo. Ecco il nostro biglietto.» Peter tornò a Londra molto tardi quella sera. Lo attendeva un vassoio di sandwich e bevande e, una volta rifocillato, si sedette a fumare un po' pensando ai suoi tre giorni di lavoro presso le miniere di Cornovaglia. Al più presto si sarebbe tenuta una riunione per considerare i suoi suggerimenti... Poi si sorprese a fissare il tavolo rotondo di legno pregiato sul quale posava il vassoio. Una volta era appartenuto al salotto di sua madre a Lescop, e la sedia su cui sedeva ora, un bell'esemplare in stile Stuart, era stata la sedia di suo padre alla tavola da pranzo, e la libreria che stava nel vestibo-
lo, e il suo tavolo da gioco in stile Chippendale... non ricordava esattamente dove era collocato allora. Quella collezione di poesie di Browning era stata di Sybil: apparteneva agli scaffali nella stanza dei bambini. Ma ormai era ora di andare a dormire, e fu felice di non dover dormire nella soffitta del giovane Peter. È poco probabile che un uomo, una volta che un'idea abbia attecchito nella sua mente, riesca ad estirparla. Egli può tagliarne i boccioli, può staccarne le gemme che porta o, se sono invece già maturi, distruggerne il seme, ma le radici lo sfidano indenni. Se egli le tira, qualcosa si spezza, lasciando la parte vitale ancora interrata, e così, dopo poco tempo, fresche prove della loro vitalità si manifestano salendo dalla terra nel punto in cui meno se lo aspettava. A Peter accadeva la stessa cosa: nel mezzo di una riunione d'affari, il viso di un suo collega direttore gli ricordava quello del cocchiere a Lescop. Se andava a giocare a golf per un week-end a Dormy House a Rye, la finestra centrale della stanza da biliardo era proprio della stessa forma e della stessa grandezza di quella del salotto della casa in Cornovaglia, e il banco di ginestra spinosa vicino alla decima buca altro non era che il cespuglio accanto al campo da tennis: quasi si aspettava di trovarci una palla da tennis quando andava a frugarci. Qualsiasi cosa facesse, ovunque andasse, qualcosa gli ricordava Lescop, e la sera, quando rincasava, vi erano i mobili, molto più numerosi di quel che pensava, che richiedevano di tornare laggiù: i tappeti, i quadri, e i libri, nonché l'argenteria sulla tavola, si univano in un muto coro di supplica. Ma Peter si tappava le orecchie: era una cosa insensata e sentimentale, puramente materialistica, pensare che quella vita sopra la quale erano passati tanti anni, e della quale nessun attore era sopravvissuto eccetto lui stesso, lui potesse ricatturarla semplicemente riportando la casa ai suoi vecchi splendori e ricominciando a viverci. Avrebbe solo enfatizzato ancor più la sua solitudine, mettendo in visibile contrasto la scena com'era stata prima, piena di gioia e di persone, con la desolazione del presente. E questo «sgomitare» come lui lo chiamava, da parte del sentimentalismo materialistico, serviva solo a confermare la sua intenzione di non aver più niente a che fare con Lescop. Era stata un'esperienza amara ma tonificante, ed ora l'avrebbe dimenticata. Eppure, nel momento stesso in cui prendeva questa risoluzione, gli tornava alla mente, portato da una sconsiderata brezzolina dell'ovest, il ricordo di quel ragazzino e di quella ragazza che aveva visto in città, della gaia
famiglia pronta per la loro gita lungo il fiume, e il tenue richiamo di benvenuto che proveniva dai cespugli del giardino ma, più di tutto, il sospetto che quel posto fosse considerato un luogo frequentato da fantasmi. Era proprio perché vi erano i fantasmi che lo desiderava e, più si struggeva e più si diceva con fortissima determinazione e buon senso che era una follia acquistarla, tanto più il suo desiderio aumentava, colorando costantemente i suoi sogni. Erano sogni felici! Era tornato lì con gli altri: come ai vecchi tempi erano bambini in vacanza, e, come lui, erano contenti di essere di nuovo a casa, e tutti festeggiavano Peter, perché era lui che aveva organizzato tutto. Spesso in quei sogni si diceva: «Ho già sognato questo, e poi mi sono svegliato e mi sono ritrovato vecchio e solo, ma questa volta è tutto vero!». Le settimane passarono, indaffarate e prosperose, divennero mesi e, un giorno d'autunno, rincasando dal golf, Peter ebbe uno svenimento. Non si era sentito molto bene negli ultimi tempi, avvertiva una certa languidezza, e si stancava facilmente, ma la sua abitudine mentale alla robustezza lo aveva spinto a etichettare quei sintomi come mera pigrizia, e si era spinto in avanti con la frusta. Ma a quel punto pensò che forse era meglio fare un controllo medico generale tanto per prendersi la soddisfazione di sapere che andava tutto bene. Il responso non fu proprio quello... «Non posso assolutamente», disse, «starmene un mese a letto e un inverno a bighellonare in Riviera! Perbacco, ho appuntamenti da qui fin sotto Natale, e poi ho in programma una gita con degli amici. Inoltre, la Riviera è un buco pestilenziale. Non si può fare. Supponiamo che io vada avanti come al solito: cosa succederebbe?» Il dottor Dufflin fece un esame mentale del suo ostinato paziente. «Morirete, signor Graham!», rispose in tono allegro. «Il vostro cuore non va come dovrebbe e, se desiderate che faccia il suo lavoro, e vi assicuro che, se sarete giudizioso, potrebbe farlo per molti anni ancora, dovete permettergli di riposare. Naturalmente, non insisto per la Riviera: era solo un suggerimento che ho fatto perché pensavo che probabilmente aveste degli amici lì, che avrebbero potuto tenervi compagnia. Ma insisto nel raccomandare un clima più mite, dove possiate stare a lungo all'aperto senza far nulla. Londra, con il suo gelo e le sue nebbie, non fa per voi.» Peter tacque per un po'. «Che ne dite della Cornovaglia?», chiese. «Sì, se vi piace. Naturalmente, escludo la costa settentrionale.»
«Ci penserò», rispose Peter. «Manca ancora un mese.» Peter sapeva che non c'era bisogno di pensarci su. Gli eventi stavano cospirando irresistibilmente per spingerlo verso ciò che desiderava fare, una cosa contro la quale aveva lottato risolutamente, convinto che fosse assolutamente stravagante e irrazionale. Ma ora tutto era stato stabilito ih modo da rendergli più facile la resa, e la bandiera del partito dell'ostinazione venne rapidamente ammainata. Alcuni scambi telegrafici con l'agente immobiliare gli garantirono il possesso di Lescop, e un altro messaggio gli fornì l'indirizzo di un buon muratore e di un arredatore, e con la pianta della casa - in realtà quasi superflua - stesa sul vetro della sua finestra, Peter impartì degli ordini molto urgenti. Tutte le riparazioni strutturali, i tetti pericolanti e i soffitti che perdevano, le travi marce e l'intonaco cadente, dovevano essere riparati immediatamente e, una volta fatto questo, bisognava passare la vernice e posare la carta da parati. Il salone una volta aveva avuto della carta tipo Morris; ci dovevano essere fiori primaverili, prugnolo selvatico, viole, e dama a scacchiera; una orribile carta piena di ghirigori, l'aveva chiamata allora, ma nessun'altra sarebbe andata bene ora. Il vestibolo doveva essere tinteggiato di verde pastello, e la stanza di sua madre invece in una tinta rosa. «Un rosa terribile, gli dica», disse Peter alla segretaria, «con un po' di blu: devono mandarmene un campione a stretto giro di posta, pezzi grandi, non pezzettini.» Poi c'era il mobilio a cui pensare: tutti i mobili che erano nella casa di Londra, e che erano appartenuti a Lescop, dovevano tornarci. Per il resto, avrebbe mandato delle cose da Londra: lenzuola, accessori per la camera da letto, e utensili da cucina; ai tappeti avrebbe pensato una volta sul posto. La camera degli ospiti poteva aspettare. Solo quattro stanze della servitù dovevano essere restaurate, e anche la soffitta, che egli segnò sulla pianta, e che intendeva prendere per sé. Ma nessuno doveva toccare il giardino finché non fosse giunto lui stesso. Avrebbe sorvegliato di persona i lavori, ma per la metà del prossimo mese dovevano esserci pronti un paio di giardinieri. «Questo è tutto», disse Peter, «almeno per il momento.» «Tutto?», pensò, mentre piuttosto annoiato di doversi occupare di cose che solitamente andavano avanti da sole, ripiegava le sue piantine. «Anzi, questo è solo l'inizio: solo i preliminari.» La cura di riposo del mese successivo portò molti benefici, e Peter rice-
vette ordini tassativi di non sforzare la mente o il corpo, di rimanere inattivo, stare all'aperto il più possibile, e fare tranquille passeggiate e riposare molto; ebbe il permesso di andare a Lescop e, una sera di dicembre, vide la porta aprirsi e una luce di benvenuto uscirne al suo passaggio. Il momento che vi pose piede qualcosa dentro di lui gli disse che aveva fatto bene, perché non vi era solo il calore e il conforto dell'ordine restaurato nella casa deserta a dargli il benvenuto, ma anche la solida conoscenza del fatto che coloro la cui perdita aveva causato la sua solitudine, lo stavano accogliendo... Questa idea gli balenò in mente, fantastica eppure pacatamente convincente; era la cosa fondamentale, tutto si basava su di essa. La casa era stata riportata al suo vecchio aspetto, benché si fosse permesso di trasformare la stanza della soffitta adiacente alla camera da letto del vecchio Peter in un bagno: «Dopotutto», pensò, «è casa mia, e devo starci comodo. Loro non hanno bisogno di bagni, ma io sì, ed eccolo qui». E infatti c'era, con la luce elettrica, ed egli cenò, seduto nella sedia di suo padre, e poi si aggirò indaffarato di stanza in stanza, beandosi di quell'atmosfera amichevole che lo circondava ovunque andasse, perché loro erano contenti. Ma né una voce né una visione lo manifestava: forse era solo la sua contentezza per essere tornato che lui stava loro attribuendo. Ma gli sarebbe tanto piaciuto che gli arrivasse un'occhiata o un sussurro, e di tanto in tanto, mentre sedeva a sfogliare i rapporti del British Tin Syndicate, gettava uno sguardo negli angoli della stanza, pensando di aver visto qualcosa muoversi; infine, quando un rametto della pianta rampicante scossa dal vento sembrò bussare contro il vetro, si alzò e guardò fuori. Ma, scrutando il giardino, non vide altro che la fioca luce delle stelle cadere come rugiada sul prato trascurato. «Ma loro sono lì, però», disse tra sé e sé, mentre faceva ricadere la tenda. Il giorno seguente trovò i giardinieri pronti ad eseguire i suoi ordini e, seguendo le sue direttive, cominciarono a domare la giungla inselvatichita. E fu una cosa molto piacevole, perché uno di loro era il figlio del fattore Calloway, che era stato lì per quarant'anni, e tra i suoi ricordi infantili c'era anche il giardino che suo padre attraversava per andare dalle stalle alla casa con i secchi ricolmi. E ricordò Sybil, che teneva le sue cavie nel terreno dietro casa. Sentendolo nominare, anche Peter se ne ricordò, e diede ordine che anche lo spiazzo tutto coperto di rovi e erbacce fosse ripulito. «Sì, certo, li consideravo dei brutti topacci!», disse il giovane Calloway,
«ma era qui che la signorina Sybil teneva le gabbie e un recinto tutto per loro. E ci fu una grande scenata quando il terrier di mio padre riuscì ad entrare e ne ammazzò la metà, e quanto piangeva la signorina guardando quei corpicini.» La strage degli innocenti per Peter era un ricordo confuso; forse era successo durante il periodo in cui era a scuola e, prima delle vacanze successive - ne era sicuro - le abitudini prolifiche delle bestioline dovevano aver lenito il dolore di Sybil. Lo spiazzo fu dunque ripulito, e così il sentiero tortuoso che portava dalle aiole fino al padiglione estivo, che allora era stato il porto sicuro per i velieri insidiati dai pirati. Adesso veniva ricostruito, il tetto riceveva delle nuove travi di legno, le mura venivano raddrizzate e imbiancate, e i gradini antistanti e il pavimento di mattonelle venivano ripuliti dal muschio. Il lavoro fu presto terminato, e Peter spesso si sedeva a riposare e a leggere i giornali dopo una mattina spesa a girare per il giardino ad ispezionare tutto. Infatti aveva scoperto che passare più di un'ora o due in piedi, lo stancava stranamente, e così si ritirava a sonnecchiare in quel posto riparato, pieno di sole. Ora non sognava più il ritorno a Lescop, e le presenze accoglienti. «Forse perché sono tornato», pensava, «e quei sogni dovevano spingermi a tornare. Ma penso che potrebbero almeno mostrarmi che sono contenti: sto facendo tutto quello che posso.» Eppure sapeva che erano contenti perché, mentre il lavoro nel giardino procedeva, la sensazione della loro presenza e della loro contentezza si avvertiva attorno ai sentieri ripuliti, ed era tangibile quanto la fragranza della terra umida e delle felci sradicate che li avevano invasi. Ogni sera Calloway radunava il raccolto della giornata, ammucchiandolo sul cumulo delle cose da bruciare, nel frutteto. Le felci s'infiammavano, gli umidi steli sfrigolavano accendendosi, e l'odore del fumo prodotto dal legno arrivava fino alla casa. Dopo circa tre settimane, tutto il lavoro fu terminato, e quel pomeriggio Peter non fece la siesta nel padiglione estivo, perché non riusciva a smettere di camminare attraverso le aiole, l'orto e il frutteto, ormai perfettamente ritornati come erano stati prima. Cominciò a piovere, e allora si rifugiò sotto il limone in cui nidificavano i piccioni, ma poi tornò il sole e, in quella luce chiara alla fine della giornata invernale, fece un'ultima passeggiata lungo la carrozzabile, chiusa dal cancello ormai ben saldo sui suoi gangli. Il cancello allora impiegava molto tempo prima di chiudersi se un ragaz-
zino lo lasciava oscillare avanti e indietro con la serratura che scattava sfiorando l'aggancio: Peter spalancò il cancello, lo lasciò andare, e quello dondolò oscillando sempre meno finché finalmente si agganciò e si chiuse. Per qualche motivo, questo fatto gli fece un gran piacere: amava l'accuratezza nei dettagli. Ma indubbiamente si sentiva molto stanco: aveva anche la spiacevole sensazione come se ci fosse un fil di ferro tirato stretto proprio sopra il suo cuore che veniva fatto vibrare. Il fil di ferro gli procurava un dolore sordo, e le vibrazioni gli causavano delle piccole fitte di dolore. Tutto il giorno aveva avuto una sensazione di quel tipo, ma era stato troppo assorto nella felicità che gli dava il giardino finito per badare a quei piccoli segnali del suo stato fisico. Una bella dormita lo avrebbe sicuramente rimesso in forma, altrimenti, avrebbe potuto rimanere a letto l'indomani. Salì presto in camera, senza alcuna ansia circa la sua salute, e istantaneamente si addormentò. La dolce aria della notte si spinse fin dentro la sua finestra aperta, e l'ultimo suono che sentì fu quello del cordone della tenda che sbatteva contro lo stipite della finestra. A un tratto si ritrovò completamente sveglio: qualcuno lo aveva chiamato. La stanza era stranamente illuminata, ma non era la luce della luna; sembrava una valle immersa nell'ombra, al di sopra della quale splendesse la forte luce del mezzogiorno. Peter sentì qualcuno chiamare di nuovo il suo nome, e seppe che il suono di quella voce proveniva dalla finestra spalancata. Era proprio Violet che lo chiamava: lei e gli altri erano fuori in giardino. «Sì, vengo», gridò, e balzò giù dal letto. Non rimase sorpreso nel constatare di essere già vestito: indossava un maglione e un paio di pantaloni di flanella, ma era scalzo, così si infilò velocemente un paio di scarpe e corse giù, facendo la prima rampa di scale in un solo balzo, come il Peter giovane. La porta della stanza di sua madre era aperta, e fece capolino: la vide lì, naturalmente, seduta al tavolo a scrivere delle lettere. «Oh, Peter, che bello riaverti di nuovo a casa!», gli disse. «Sono tutti fuori in giardino, e ti stanno chiamando, caro. Ma più tardi vieni a trovarmi, così facciamo una chiacchierata.» Lui corse fuori lungo il sentiero che passava sotto le finestre, lungo il tortuoso sentiero attraverso le aiole fino al padiglione estivo, perché sapeva che avrebbero giocato ai «Pirati». Si doveva sbrigare, o i pirati si sarebbero nascosti prima che lui ci arrivasse, e così gridò: «Aspettate un secondo: sto arrivando!».
Costeggiò l'acero dorato, vicino all'alloro, e li vide nel padiglione estivo che era la «casa». Superò i gradini con un gran balzo e si ritrovò fra loro. Fu lì che Calloway lo ritrovò il giorno seguente. Doveva aver corso su per il sentiero proprio come un ragazzino, perché la ghiaia appena sparsa portava le tracce molto spaziate della punta delle sue scarpe. OLIVER ONIONS La nave fantasma 1. Abel Keeling era disteso sul ponte del galeone trattenuto dal rotolare solo dal peso del corpo e dalla mano annerita dal sole che era abbrancata alle tavole. Il suo sguardo vagava, ma tornava sempre alla campana che oscillava, spinta dalle pericolose sbandate del vascello, nel piccolo campanile ornamentale posto subito a poppa dell'albero maestro. La campana era di bronzo, con protuberanze semicancellate che erano state un tempo teste di cherubini. Ma il vento e la salsedine l'avevano coperta di una spessa incrostazione di un bel verde brillante e muschioso. Quel colore piaceva ad Abel Keeling. Perché, in qualsiasi altro posto si posassero, i suoi occhi trovavano solo bianco: il bianco della vecchiezza estrema. In un punto il bianco luccicava come grani di sale, in un altro era grigio e gessoso, e in un altro ancora aveva la sfumatura giallastra della decadenza. Ma dovunque c'era il lieve, inquietante biancore delle sostanze da cui la vita se ne andava. I cordami erano sbiancati come sbianca la paglia vecchia, e metà delle cime mantenevano la forma quanto la mantiene la cenere di uno spago dopo che il fuoco si è spento. Le pallide ordinate erano bianche e pulite come ossa trovate tra la sabbia. E perfino l'incenso con il quale (per mancanza di catrame, all'ultimo attracco) la nave era stata impeciata, si era seccato ed era diventato una pallida sostanza gommosa che scintillava come quarzo nei comenti aperti. Il sole era ancora così pallido, un piccolo scudo d'argento tra la nebbia bianca e immobile, ma non c'erano ombre né di una cima né di un asse. E solo la faccia e le mani di Abel Keeling erano nere, carbonizzate dall'esposizione ai raggi ardenti. Il galeone era il Mary of the Tower, ed era spaventosamente inclinato a
dritta. Era così inclinato che il pennone di maestra affondava le falci d'acciaio nell'acqua calma. Se fosse restato l'albero maestro, o più di un troncone spezzato dell'albero di mezzana, si sarebbe rovesciato completamente. Molti giorni prima avevano disarmato il pennone di maestra, e avevano fatto passare la vela sotto lo scafo della Mary, nella speranza di fermare la falla. Era andata bene finché il galeone aveva continuato a navigare su un fianco e a scivolare sull'altra fiancata, poi le cime si erano staccate, e l'imbarcazione si era trascinata dietro la vela, lasciando un'ampia macchia sul mare d'argento. Il galeone galleggiava su un fianco, e scivolava impercettibilmente, senza mai affondare. Scivolava come se una calamita l'attirasse, attirasse il suo ferro, lo trascinasse tra le nebbie perlacee che si stendevano sull'acqua come un velo. Ma poi Abel Keeling aveva capito che non era una calamita ad attrarre il ferro del vascello. Il movimento era dovuto - non poteva essere altrimenti all'immobilità assoluta del mare in quel canale largo diverse miglia, silenzioso e sinistro. Con l'immaginazione vide quella calamita, mentre era appoggiato a un cannone che vacillava sul ponte. Presto sarebbe accaduto quello che era già accaduto nei cinque giorni precedenti. Avrebbe sentito di nuovo il chiacchiericcio delle scimmie e l'urlo dei pappagalli, il groviglio delle erbe verdi e gialle avrebbe stretto la Mary sul mare di piombo, e ancora una volta la ripida parete di roccia si sarebbe alzata, e gli uomini sarebbero corsi... Ma no, gli uomini non sarebbero corsi questa volta a mettere i parabordi. Non ne erano restati per farlo, a meno che Bligh non fosse ancora vivo. Sì, forse Bligh era ancora vivo. Era sceso a metà della scaletta del casseretto poco prima dell'improvviso calar delle tenebre del giorno prima, poi era caduto ed era rimasto immobile per un minuto (morto, aveva immaginato Abel Keeling, guardandolo dal proprio posto, accanto al cannone), quindi si era alzato e aveva barcollato verso il castello di prua, con l'alta figura ondeggiante e le lunghe braccia penzoloni. Abel Keeling non lo aveva più rivisto da allora. Era molto probabile che fosse morto nel castello di prua durante la notte. Se non era morto, sarebbe andato a poppa a prendere l'acqua... Al ricordo dell'acqua, Abel Keeling alzò la testa. Le magre fasce muscolari intorno alla bocca entrarono in funzione, ed egli premette leggermente la mano emaciata e annerita dal sole sul ponte, come per verificare la ripi-
dità delle assi e il suo equilibrio. L'albero principale era a sette, otto metri di distanza... Infilò una gamba rigida sotto di sé e cominciò, seduto dov'era, a strisciare lungo il pendio. All'albero maestro, vicino al campanile, era attaccato il suo congegno per prendere l'acqua. Consisteva in un anello di corda sistemato più in basso sia da una parte che dall'altra (ma era così prima che l'albero s'inclinasse di tanti gradi), e ingrassato al di sotto. La nebbia indugiava in quel canale più di quanto non facesse in mare aperto, e il collare di corda serviva a raccogliere la rugiada che si condensava sugli alberi. Le gocce cadevano in un pentolino di terracotta messo sul ponte, sotto al collare di corda. Abel Keeling arrivò al pentolino e vi guardò dentro. Era pieno per un terzo di acqua dolce. Bene! Se Bligh, il Secondo, era morto, ci sarebbe stata più acqua per Abel Keeling, Capitano del Mary of the Tower. Immerse due dita nel pentolino e le infilò in bocca. Lo fece più volte. Non osava portare il pentolino alle labbra annerite e spaccate per paura di rivivere una terribile sofferenza. Molti giorni prima, non avrebbe saputo dire quanti, un demone gli aveva sussurrato qualcosa, e lui aveva bevuto in un sorso tutto il contenuto del pentolino. Era accaduto di mattina, e per tutto il resto della giornata era restato senz'acqua... S'inumidì di nuovo le dita e le succhiò. Poi si distese contro l'albero, a guardare pigramente le gocce d'acqua cadere nel pentolino. Era strano come si formavano le gocce. Si raccoglievano lentamente sull'orlo del collare ingrassato, tremavano per il loro peso per qualche istante, e cadevano, mentre l'altra goccia ricominciava istantaneamente il processo. Abel Keeling si divertiva a guardarle. Perché (si chiedeva) tutte le gocce erano della stessa grandezza? Quale causa e quale impulso obbiettivo, e quale fragile sottigliezza manteneva intatti quei piccoli globuli? Era certamente dovuto a una causa... Ricordò che la gomma arabica dell'incenso selvatico, con il quale avevano incatramato i comenti, restava appesa ai secchi in grandi gocce vischiose, e obbediva a un impulso diverso. L'olio obbediva ancora a un altro impulso, come i succhi e i balsami. Solo il mercurio (forse il mare pesante e immobile gli aveva fatto venire in mente il mercurio) sembrava non obbedire a nessuna legge... Perché? Bligh, naturalmente, avrebbe avuto la sua spiegazione: era la Mano di Dio. Questo bastava a Bligh, che era andato a prua la sera prima. Ad Abel Keeling sembrava di ricordare vagamente, in lontananza, la voce profonda di quel fanatico che cantava i suoi inni mentre, uno dopo l'altro, affidava i
corpi dell'equipaggio alle profondità marine. Bligh era quel genere di uomo: accettava le cose senza farsi domande, era soddisfatto di prendere le cose così com'erano e di tenersi pronto con i parabordi quando la parete rocciosa emergeva da quelle nebbie opalescenti. Anche Bligh, come le gocce d'acqua, aveva la propria legge, che era sua e di nessun altro... Dalla coffa volò giù il minuscolo frammento di una cima fradicia, che atterrò nel pentolino. Abel Keeling lo guardò galleggiare verso il bordo del pentolino. Quando, poco dopo, immerse di nuovo le dita nel contenitore, l'acqua formò dei piccoli vortici, che attiravano la scaglia. Poi l'acqua si placò, e il minuscolo frammento si riavvicinò all'orlo e vi aderì come se il bordo avesse il potere di attirarlo... Era nello stesso modo che il galeone scivolava verso la parete rocciosa, verso le erbe verdi e gialle, e verso le scimmie e i pappagalli. Rimesso al centro del canale (quando c'erano ancora degli uomini per farlo), il galeone era scivolato verso l'altra parete. La stessa forza attirava il frammento nel pentolino e la nave sul mare. Era la Mano di Dio, diceva Bligh... Abel Keeling, che a tratti notava le minuzie e a tratti aveva la mente annebbiata dal torpore, sulle prime non sentì la voce che si alzava tremolante dal castello di prua. Una voce che si avvicinava, con un accompagnamento di acqua turbinante. O tu, che Giona nella balena Tre giorni proteggesti dal dolore, Immagine della Tua morte E della Tua Resurrezione. O Tu, che Noè proteggesti dal diluvio E Abramo, giorno dopo giorno, Quando egli attraversava l'Egitto Guidasti lungo il cammino... La voce s'interruppe, lasciando incompleto il pio versetto. Bligh era vivo, a ogni modo... Abel Keeling riprese le proprie disordinate riflessioni. Sì, quella era la legge della vita di Bligh: chiamare le cose la Mano di Dio. Ma la legge di Abel Keeling era diversa: né migliore, né peggiore, solo diversa. La Mano di Dio, che attirava frammenti e galeoni, doveva funzionare secondo una regola, e gli occhi di Abel Keeling erano di nuovo fissi sul pentolino, come se cercasse lì la regola...
Poi la coscienza lo abbandonò per un intervallo di tempo e, quando tornò in sé, riprese a pensare senza nessun nesso logico. Le cose, naturalmente, erano remi. Coi remi gli uomini se la possono ridere delle bonacce. I remi, che allora usavano solo le scialuppe, avevano i loro vantaggi. Ma i remi (vale a dire il metodo, perché si poteva dire, se si preferiva, che la Mano di Dio aveva afferrato l'impugnatura dei remi, o che il Fiato di Dio aveva gonfiato le vele), i remi erano antiquati, appartenevano al passato, e significavano il rifiuto di tutto quello che era buono e nuovo, il ritorno allo schieramento fianco a fianco per dare effetto al colpo del rostro, un paio di giorni di mare e poi di nuovo in porto per i rifornimenti. I remi... no. Abel Keeling era uno degli uomini nuovi, quegli uomini che credevano ciecamente nello schieramento delle navi in fila, nel fuoco di fila di falconetti e cannoni, e settimane e mesi senza un attracco. Forse, un giorno, gli ingegni degli uomini si sarebbero uniti e avrebbero inventato un'imbarcazione, non spinta da remi (perché i remi non potevano penetrare nei mari più lontani del mondo), non spinta dalle vele (perché gli uomini che confidavano nelle vele, si trovavano in un canale senz'aria, largo tre miglia, immobile, sospesi tra le nuvole e l'acqua, alla deriva verso una parete di roccia), ma una nave... una nave... A Noè e ai suoi figli con lui Dio parlò, e così disse: Un patto ho fatto con te E con i tuoi posteri... Era di nuovo Bligh, che vagava nella parte centrale della nave. La mente di Abel Keeling ebbe di nuovo un vuoto. Poi, lentamente, come le gocce d'acqua si raccoglievano sul collare di corda, i suoi pensieri ripresero forma. Una galeazza? No, non una galeazza. La galeazza tentava di essere due cose in una, e non ne era nessuna. Quella nave, che un giorno la mano dell'uomo avrebbe dovuto costruire perché fosse guidata dalla Mano di Dio, avrebbe preso e conservato la forza del vento, così come conservava i viveri. Ferma quando voleva, in movimento quando voleva. Avrebbe rivolto la forza della bonaccia e la forza della tempesta contro loro stesse. Perché, naturalmente, la sua forza doveva essere il vento - vento conservato - un otre pieno di venti, come quello della favola. Un vento che probabilmente sarebbe stato diretto sull'acqua a poppa, in modo da spingere
per reazione la nave in avanti. Avrebbe avuto una camera del vento, nella quale il vento sarebbe stato pompato per mezzo di pompe. ...Bligh l'avrebbe ugualmente chiamata Mano di Dio, quella forza della nave del futuro che Abel Keeling oscuramente prevedeva mentre giaceva tra l'albero e il campanile, e spostava gli occhi dalle assi sbiancate al verde vivo della campana di bronzo arrugginito che lo sovrastava... La faccia di Bligh, arrossata dal sole e devastata dalla sete che lo consumava, apparve sulla cima della scaletta del casseretto. La sua voce gridò incontrollata. E sulla terra non c'è Luogo in cui rifugiarsi Nemmeno nei profondi corsi d'acqua Che scorrono sottoterra... 2. Gli occhi di Bligh erano socchiusi, come se fosse in contemplazione della sua estasi interiore. Aveva la testa rovesciata all'indietro, e le sue sopracciglia si muovevano instancabilmente. La sua grande bocca restò aperta quando l'inno fu interrotto all'improvviso sulla nota prolungata. Dalla nebbia scintillante la nota fu ripresa e tambureggiò, risuonò, e si riverberò attraverso il canale in un muggito ventoso, rauco, cupo, allarmante e prolungato. Un tremito scosse Bligh. Si mosse come un cieco, e inciampò nella cima della scaletta del casseretto: Abel Keeling avvertì la sua sparuta figura alle proprie spalle, più alta per la ripidità del ponte. Quando quel suono vasto e cupo si spense, Bligh rise nella sua follia. «Signore, la grande bocca della tomba ha la lingua per lodare Te? Ahimè, di nuovo...» Il suono cavernoso si impadronì di nuovo dell'aria, più forte e più vicino. Poi arrivò un altro suono, un lento battito, un battito... un altro battito... Quindi i rumori cessarono. «Anche il Leviatano ha alzato la sua voce in Tua lode!», sospirò Bligh. Abel Keeling non alzò la testa. Gli era tornato alla mente il ricordo di quel giorno in cui, prima che la nebbia mattutina si fosse alzata dal canale, egli aveva vuotato tutto il pentolino d'acqua, che era la razione per tutto il giorno. Durante quel delirio di sete aveva visto forme e udito suoni con
qualcosa di diverso dalle sue orecchie e dai suoi occhi mortali. Proprio nei momenti in cui capiva che erano allucinazioni, quelle visioni e quei suoni tornavano. Aveva sentito le campane della domenica nella sua casa del Kent, le grida dei bambini che giocavano, lo spensierato canto di uomini al lavoro, e le risa e le chiacchiere di donne che filavano il lino all'aperto o distribuivano il pane nei piatti. Quelle voci risuonavano nel suo cervello, interrotte di tanto in tanto dai gemiti di Bligh e dei due altri uomini che erano ancora vivi allora. Alcune delle voci che aveva udito non parlavano su questa terra da molti anni ormai, ma Abel Keeling, torturato dalla sete, le aveva sentite, proprio come ora sentiva quel muggito cupo e inframezzato da battiti, che riempiva il canale di paura... «LodaLo, lodaLo, lodaLo!», urlava Bligh nel delirio. Poi una campana parve risuonare nelle orecchie di Abel Keeling, e, come se fosse scattato qualcosa nel meccanismo del suo cervello, un'altra immagine nacque nella sua fantasia: la scena della partenza della Mary of the Tower, tra una magnificenza di campane risuonanti, di acuti pifferi e di audaci trombe. Allora non era un galeone bianco e lebbroso. La voluta ornamentale sulla prua scintillava d'oro; la campana di bordo, i ponti di poppa e le elaborate lanterne emettevano lampi dorati alla luce del sole. Le coffe da combattimento e i pavesi erano splendenti di scudi e stemmi dipinti. Sulle vele erano stati cuciti due vistosi leoni rampanti di seta scarlatta. E dall'albero maestro, ora immerso nell'acqua, pendeva il vessillo triangolare, a due code, con la Vergine e il Bambino ricamati al centro... Poi, all'improvviso, una voce intorno a lui sembrò dire: «È un sette e mezzo... è un sette e mezzo...». E in un attimo l'immagine nella mente di Abel Keeling cambiò di nuovo. Era tornato a casa, e stava insegnando a suo figlio, il giovane Abel, a lanciare la lenza da pesca dalla barchetta con la quale si erano allontanati dal porto. «È un sette e mezzo!», sembrò urlare il bambino. Le labbra annerite di Abel Keeling mormorarono: «Un bel lancio, Abel, un bellissimo lancio!». «È un sette e mezzo... è un sette e mezzo... sette... sette...» «Ah», mormorò Abel Keeling, «l'ultimo lancio non è stato un lancio netto... dammi la lenza... Così devi lanciarlo... sì, così. Presto solcherai i mari con me sulla Mary of the Tower. Conosci già perfettamente le stelle e i movimenti dei pianeti. Domani ti insegnerò a usare il telescopio.»
Continuò a mormorare per qualche minuto, poi si assopì. Quando tornò allo stato di semicoscienza, sentì di nuovo il suono di campane, sulle prime flebile, poi più forte, e infine un enorme frastuono immediatamente al di sopra del suo capo. Era Bligh. Bligh, in preda a un nuovo attacco di delirio, aveva afferrato il cordone della campana e la suonava follemente. La corda gli si spezzò tra le mani, ma lui continuò a scuotere la campana con una mano, e a urlare. «Su un'arpa e su uno strumento a dieci corde... che il Cielo e la Terra rendano lode al Tuo Nome!...» Continuò a urlare, e a percuotere la campana di bronzo arrugginita. «Ehi di bordo! Che nave è questa?» Si sarebbe detto che quel grido uscisse dalla nebbia, ma Abel Keeling conosceva quei richiami che uscivano dalla nebbia. Provenivano da navi che non erano lì. «Sì, sì, fai buona guardia, e governa bene la nave», mormorò di nuovo a suo figlio... Ma, come a volte il dormiente si alza a sedere durante il sogno, oppure scende dal letto e cammina, così, d'improvviso, Abel Keeling si trovò carponi sul ponte, a guardare oltre le proprie spalle. In una regione profonda della sua coscienza, si rese conto che l'inclinazione del ponte era diventata più pericolosa, ma il suo cervello ricevette l'informazione e la dimenticò subito. Abel guardava la nebbia scintillante ed elusiva. Lo scudo del sole era di un argento più vivo. E tra mare e cielo, sospesa nella foschia, reale quanto una vaga macchia scura che si muoveva davanti a occhi abbagliati dal sole, c'era una forma piramidale. Abel Keeling si passò la mano sugli occhi ma, quando la tolse, la forma era ancora lì, che scivolava lentamente verso la poppa della Mary. La forma cambiò mentre Abel la guardava. La piramide grigia e spettrale parve dissolversi in quattro persone in piedi, allineate in ordine d'altezza: quella più vicina alla poppa della Mary era la più alta e quella più lontana la più bassa. Avrebbe potuto essere l'ombra delle gigantesche canne d'organo da cui era partita quella nota acuta e lugubre. Mentre guardava quell'allucinazione, anche le sue orecchie cominciarono ad avere allucinazioni: «Ehi di bordo! Che nave è questa? Siete una nave?... Ecco, datemi il megafono...». Poi si sentì un latrato metallico. «Ehi di bordo! Chi diavolo siete? Non avete suonato una campana? Suonatela di nuovo, o suonate
qualcos'altro, e andate piano!» Tutte queste parole gli arrivarono indistintamente, e al di sopra di un acuto ronzio. Poi immaginò di sentire una breve risata di meraviglia, seguita da un dialogo che si svolgeva in qualche punto tra cielo e mare. «Ecco, Ward, dammi un pizzico, per favore! Dimmi che cosa vedi. Voglio sapere se sono sveglio.» «Dove devo guardare?» «Lì a prua, a dritta. (Spegni quel ventilatore, non riesco nemmeno a pensare.) Vedi qualcosa. Non dirmi che è l'Olandese Maledetto... Non darmi a bere che è la storia del vecchio Vanderecken... raccontamene una più credibile, qualcosa su un serpente marino... Hai sentito quella campana, non è vero?» «Sta' zitto un attimo... ascolta...» La voce di Bligh si alzò di nuovo: Questo è il patto che faccio: Da oggi in avanti, mai più Distruggerò di nuovo il mondo Con l'acqua, come ho fatto prima. La voce di Bligh si spense di nuovo nelle orecchie di Abel Keeling. «Oh... per... tutti... i... diavoli...!» La voce che proveniva in un punto tra il mare e il cielo risuonò nuovamente. Poi parlò più forte. «Per favore», cominciò con prudente cortesia, «se siete una nave, vi dispiacerebbe dirci che cosa significa questa mascherata? La nostra radio è rotta, e non ne abbiamo sentito parlare... Oh, tu la vedi, Ward, non è vero?... Per favore, per favore, diteci chi diavolo siete!» Abel Keeling si mosse come un sonnambulo. Si era alzato accanto alle assi del campanile, e Bligh era affondato in un mucchio di cordami sul ponte. Il movimento di Abel Keeling rovesciò il pentolino, dal quale scorse un rivoletto d'acqua che percorse il ponte e si fermò nel punto in cui il mare calmo e scintillante formava, per così dire, una catena con la balaustra scolpita del ponte: un anello della catena era il bordo ancora brillante, poi veniva la balaustra scura, e poi un altro anello brillante. Per un attimo Abel Keeling si sorprese a notare che Bligh era stato spinto a prua perché il livello dell'acqua era salito al centro del galeone. Poi fu assorbito di nuovo dal suo sogno, dalle voci e dalla forma nella nebbia, che aveva assunto di nuovo l'aspetto di una piramide.
«Naturalmente», sembrò protestare di nuovo una voce, e Abel Keeling si sentì rintronare le orecchie per quel confuso ronzio, «non possiamo avvicinarci... E, naturalmente, Ward, non ci credo... Vogliamo chiamare il vecchio A.B.? Questo fatto potrebbe interessare la sua Capitaneria Scientifica...» «Oh, fai mettere a mare una lancia e accostiamoci: saliamo a bordo...» «Guarda i tuoi uomini, affollati laggiù sulla barbetta. L'hanno vista. Meglio non dare un ordine che sai non sarà eseguito...» Abel Keeling, aggrappato all'antica campana di bordo, aveva cominciato a trovare interessante il suo sogno. Infatti, sebbene non ne riconoscesse lo stile, quel miraggio aveva la forma di una nave. Senza dubbio, era una proiezione delle sue meditazioni sulle navi di mezz'ora prima; ed era strana. Ma forse, dopotutto, non era molto strana. Sapeva che non esisteva veramente. Esisteva solo la sua apparenza; ma le cose dovevano esistere in quel modo, prima di esistere realmente. Prima che la Mary of the Tower fosse esistita, era solo la forma dell'immaginazione di qualcuno. Prima ancora, un sognatore aveva sognato la forma di una nave con i remi. E prima ancora, nei tempi remoti dell'alba e dell'infanzia dell'uomo, un visionario aveva avuto la visione di una zattera, prima che gli uomini si avventurassero sulle acque con due assi legate insieme. E, poiché quella forma che navigava davanti agli occhi di Abel Keeling era la forma nata in un sogno di Abel Keeling, lui, Abel Keeling, ne era il padrone. Il suo cervello l'aveva inventata, e ora la nave era lanciata sull'illimitato oceano della sua mente... E non dimenticherò Questo Patto, stabilito Tra me, te e ogni uomo, Finché il mondo vivrà cantò Bligh in estasi... Ma come un sognatore, mentre sogna, inciderà sul muro accanto al letto una parola o un segno che gli possano ricordare la visione il giorno dopo, quando essa lo avrà abbandonato, così Abel Keeling si sorprese a cercare un segno che potesse costituire una prova per coloro cui non era stata concessa nessuna visione. Perfino Bligh lo cercava: non poteva restare in silenzio nella sua perfetta beatitudine, ma era disteso sul ponte e pronunciava appassionatamente Amen e lodi al suo Creatore, come aveva detto, al
suono di un'arpa e di uno strumento a dieci corde. Così era anche per Abel Keeling. Sarebbe stato l'Amen della sua vita aver lodato Dio, non su un'arpa, ma su una nave che poteva trasportare la propria energia, che poteva conservare il vento o un suo equivalente, così come conservava le provviste. Una nave che sarebbe stata strappata al caos del noninventato per essere sottomessa, disciplinata e subordinata alla volontà di Abel Keeling... E ora c'era davanti ai suoi occhi quella cosa dalla forma di nave, grigia e spettrale, con le quattro canne che somigliavano a un organo fantasma. E l'equipaggio fantasma di quella nave stava parlando di nuovo... La catena d'argento, interrotta dalla balaustra del ponte, era diventata continua, e i riflessi immobili sulle balaustre formavano un disegno a spina di pesce. L'acqua uscita dal pentolino si era asciugata, e il pentolino non era visibile. Abel Keeling stava accanto all'albero, eretto così come Dio aveva creato gli uomini per farli camminare. Con la mano coriacea percosse la campana. Aspettò un minuto, e poi gridò: «Ehi!... Ehi di bordo!... Che nave è quella?». 3. Nei sogni non siamo coscienti di giocare un gioco il cui inizio e la cui fine sono dentro di noi. Nel sogno di Abel Keeling una voce replicò: «Ehi, ha trovato la lingua... Ehi di bordo! Chi siete?». Con voce alta e chiara, Abel Keeling gridò: «Siete una nave?». La risposta arrivò con una risatina nervosa: «Siamo una nave, non è vero, Ward? Non ne sono più molto sicuro. Sì, naturalmente, siamo una nave. Non c'è nessun problema riguardo a noi. Il problema è chi diavolo siete voi». Non tutte le parole che usavano quelle voci erano comprensibili ad Abel Keeling, e qualcosa nel tono di quelle ultime gli ricordò l'onore dovuto alla Mary of the Tower. Per quanto fosse bianca e coperta di vesciche e alla fine della sua vita, Abel Keeling era ancora geloso della dignità della sua nave. La voce sembrava giovane, e non era opportuno che un giovane parlasse in quel tono del suo galeone. Lo apostrofò duramente. «Voi che avete parlato... siete il Capitano di quella nave?» «Ufficiale di Guardia», risuonarono le parole dalla nebbia, «il Capitano è sotto coperta.» «Allora mandatelo a chiamare. È con i Comandanti che parlano i Co-
mandanti», replicò Abel Keeling. Vide le due forme, piatte e senza rilievo, stagliarsi su una struttura alta e stretta, munita di battagliola. Uno di loro emise un fischio sommesso, e sembrò che si facesse aria in faccia, ma l'altro brontolò qualcosa in una specie di imbuto. Dopo poco le due forme diventarono tre. Si sentì mormorare, come se si consultassero, e poi a un tratto parlò una nuova voce. Nel sentire il suo tono eccitato, Abel Keeling fu scosso da un tremito. Si chiese quale reazione avesse scatenato quella voce nei recessi dimenticati della sua memoria... «Ehi?», gridò quella voce nuova, eppure vagamente familiare. «Che diavolo succede? Ascoltate. Noi siamo il cacciatorpediniere Seapink di Sua Maestà, partito da Davenport lo scorso ottobre. E non c'è nulla di particolare per quanto ci riguarda. Ma chi siete voi?» «La Mary of the Tower, partita da Rye Port il giorno di Sant'Anna, e solo due uomini...» Un'esclamazione lo interruppe. «Da dove?», disse tremante quella voce che turbava così stranamente Abel Keeling, mentre Bligh ricominciava i suoi gemiti in una nuova estasi. «Da Rye Port, nella Contea del Sussex... ma, prestate ascolto, altrimenti non riesco a farmi sentire con quest'uomo il cui spirito e la cui carne lottano l'uno contro l'altro!... Ehi! Siete andati via?» Le voci erano diventate un flebile mormorio, e la nave era svanita davanti agli occhi di Abel Keeling. Continuò a chiamare. Voleva avere informazioni sulla disposizione e sull'economia della camera del vento... «La camera del vento!», gridò, angosciato all'idea che quell'informazione potesse sfuggirgli dalle mani ora che l'aveva quasi afferrata. «Vorrei sapere qualcosa a proposito della camera del vento...» Come un'eco, arrivarono in risposta delle parole, pronunciate in tono interrogativo: «La camera del vento?...». «...quella che guida la nave... forse non è il vento, ma un arco d'acciaio curvato per produrre forza, la forza che voi conservate, per spostarvi quando volete nelle bonacce e nelle tempeste...» «Riuscite a capire che cosa vuol dire questo delirio?» «Oh, ci sveglieremo, tra poco...» «Zitti. Ho capito: parla dei motori. Vuole avere informazioni sui motori. Tra poco vorrà vedere anche le nostre carte. Rye Port!... Beh, non c'è niente di male ad assecondarlo; vediamo che cosa riuscirà a capire. Ehi di bordo!», arrivò la voce ad Abel Keeling, forte, come se fosse portata dal
vento, e parlava sempre più in fretta, man mano che andava avanti. «Non c'è vento, ma vapore; avete sentito? Vapore, vapore. Vapore in otto caldaie ad acqua Yarrow. V-a-p-o-r-e, vapore. Avete afferrato? E abbiamo motori a due eliche e a tripla espansione, quattromila cavalli, e possiamo fare 430 rivoluzioni al minuto, capito? C'è qualcosa che Vostra Signoria il Fantasma vorrebbe sapere riguardo al nostro armamento?...» Abel Keeling mormorava nervosamente tra sé e sé. Gli dava fastidio il fatto che ci fossero parole nelle sue visioni di cui non sapeva il significato. Com'era possibile che in un sogno ci fossero parole che non conosceva quando era sveglio? La Seapink: quello era il nome della nave, ma un pinco era un'imbarcazione lunga e stretta, con il carico basso e la prua quadrata... «E per quanto riguarda il nostro armamento», continuò la voce i cui toni turbavano così profondamente la memoria di Abel Keeling, «abbiamo due lanciasiluri rotanti Whitehead, tre pezzi da sei sul ponte superiore, e due accanto alla torre di comando. Ho dimenticato di dire che siamo rivestiti di acciaio nichelato, con una capacità di sessanta tonnellate di carbone sistemate nelle stive, e che raggiungiamo una velocità massima di trenta nodi. Volete salire a bordo?» Ma la voce stava parlando più rapidamente e con ancora più frenesia, come per riempire il silenzio con non importava che cosa... La forma che pronunciava quelle parole si sporgeva ansiosamente dalla battagliola. «Ugh! Ma io sono felice che sia successo alla luce del giorno», stava mormorando un'altra voce. «Io vorrei essere sicuro che stia veramente accadendo... Povero vecchio fantasma!» «Credo che resterebbe in piedi, se il ponte fosse completamente verticale. Pensi che affonderà o si scioglierà semplicemente?» «Penso che affonderà... senza spruzzi...» «Ascolta... ecco l'altro...» Bligh stava di nuovo cantando: Signore, Tu conosci la nostra natura: Otteniamo grandi cose E per ottenerle Non badiamo né a fatica né a dolore. «Ma guarda, oh, guarda... guarda l'altro! Oh, non è un grande vecchio!
Guarda!» La figura di Abel Keeling si trasfigurò, così come la figura di un profeta viene trasfigurata nel momento dell'estasi. La sua mente fu inondata dalla luce bianca della conoscenza perfetta, a cui l'aveva condotto il suo sogno. Conosceva quella nave del futuro, come se il Dito di Dio ne avesse scolpito le linee nel suo cervello. La conosceva nello stesso modo in cui i morti conoscono le cose, miracolosamente, completamente, accettando le impossibilità della vita con un cenno del capo e un «naturalmente». Dalle bocche ardenti delle sue otto fornaci fino all'ultima goccia dei suoi lubrificanti, dalle sue lastre metalliche alle culatte dei suoi cannoni, lui la conosceva. Ne leggeva gli strumenti indicatori, studiava i suoi rilevamenti, dava le distanze sul telemetro, e viveva la vita che viveva il suo Comandante. E il giorno non avrebbe dimenticato, come aveva dimenticato sempre, perché finalmente aveva visto l'acqua intorno ai propri piedi, e sapeva che non ci sarebbe stato un altro giorno per lui in questo mondo... E perfino in quel momento, quando solo qualche granello di sabbia restava da scorrere nella sua clessidra, indomabile, insaziabile, sognando un sogno dopo l'altro, egli non poteva morire se non ne sapeva di più. Aveva due domande da fare, nonché una terza di importanza vitale, e gli era rimasto solo qualche momento. La sua voce risuonò acuta. «Ehi di bordo!... Questa antica nave, la Mary of the Tower, non cammina a vapore, a trenta nodi, ma può navigare a vela. Che cos'altro fa la vostra nave? Può librarsi in volo al di sopra delle acque, come si librano in volo gli uccelli del cielo?» «Dio mio, crede che siamo un aeroplano!... No, non può...» «E potete immergervi, come fanno i pesci delle profondità?» «No... Quelli sono i sottomarini... noi non siamo un sottomarino...» Ma Abel Keeling non aspettò di sentire altro. Lanciò un grido di gioia. «Oho, oho... trenta nodi, ma solo sull'acqua, e niente di più? Oho!... La mia nave, la nave che vedo come una madre vede adulto il figlio che ha appena concepito... la mia nave... oho!... la mia nave... Ehi, laggiù... fuoco a quel cannone!» Il grido fu improvviso e spaventoso, mentre un suono soffocato saliva dal basso e un orribile tremito scuoteva il galeone. «Per Giove, i cannoni si sono sganciati e scivolano... è la fine...» «Fuoco a quel cannone e caricate gli altri!» La voce di Abel Keeling risuonò, come se ci fosse qualcuno a obbedire. Si aggrappò alla campana e poi, a metà dell'ordine successivo, la voce gli mancò. La nave-ombra, che
aveva dimenticato per un attimo, gli passò di nuovo davanti agli occhi. Era la fine, e la domanda vitale, unita all'ansia per la risposta, gli torturava il viso e gli gonfiava il cuore. «Ehi... l'uomo che ha parlato con me... il Comandante», gridò con una voce acuta. «È lì?» «Sì, sì!», arrivò l'altra voce dall'altra parte dell'acqua, tremante per l'ansia. «Oh, fate in fretta!» Ci fu un momento in cui si mescolarono grida rauche di molte persone, un tonfo pesante e un rimbombo sul legno, uno schianto di assi di legno, poi un gorgoglio e uno sciabordio. Si erano spezzate le cinghie del cannone al quale si appoggiava Abel Keeling, e il cannone aveva sfondato il ponte, trascinandosi dietro il corpo immobile di Bligh. Il ponte divenne verticale e, per un altro istante, Abel Keeling si aggrappò alla campana di bordo. «Non vedo la vostra faccia», gridò, «ma mi sembra di riconoscere la vostra voce. Come vi chiamate!» La risposta arrivò dall'altra parte del mare, accompagnata da un singhiozzo spezzato: «Keeling... Abel Keeling... Oh, mio Dio!». E il grido di trionfo di Abel Keeling, che divenne un vittorioso «Urrà!», si spense nell'affondamento della Mary of the Tower, che lasciò vuoto il canale. Restarono solo i raggi ardenti del sole e l'ultima evaporazione della nebbia, simile a fumo. WILLIAM WYMARK JACOBS Le tre sorelle Trent'anni fa, durante un'umida serata autunnale, tutti i familiari di Mallet Lodge erano riuniti intorno al letto di morte di Ursula Mallow, la più anziana delle tre sorelle che vi abitavano. I tendaggi sporchi e tarmati del vecchio letto di legno erano scostati, e la luce di una lampada a olio che esalava fumo illuminava l'espressione ormai spenta della donna morente, mentre fissava le sorelle con gli occhi velati. Nella stanza regnava un profondo silenzio, interrotto solo da qualche singhiozzo di Eunice, la sorella minore. Fuori la pioggia cadeva con insistenza quasi torrenziale sulle paludi in piena. «Non dovrai cambiare niente, Tabitha», mormorò Ursula col respiro affannoso, rivolta all'altra sorella, che le assomigliava in maniera straordina-
ria anche se aveva un aspetto più severo e freddo, «questa stanza dev'essere chiusa a chiave e non dovrà mai più essere riaperta.» «Va bene», la rassicurò Tabitha in maniera brusca, «anche se non capisco perché sia tanto importante per te.» «Per me è importante», confermò Ursula con energia impressionante. «Come puoi tu essere certa, come posso essere io sicura che non tornerò qualche volta a visitare questa stanza? Ho vissuto in questa casa così a lungo che sono sicura che la rivedrò ancora. Io tornerò! Tornerò per vegliare su di voi e per assicurarmi che nessun pericolo vi minacci.» «Stai parlando in modo assurdo», intervenne Tabitha, per nulla commossa dalla preoccupazione della sorella per il suo benessere. «La tua mente vacilla; sai benissimo che non ho mai creduto in queste storie.» Ursula sospirò e chiamò con un cenno Eunice, che singhiozzava in silenzio di fianco al letto; le cinse le spalle con le deboli braccia e la baciò. «Non piangere cara», cercò di consolarla in tono flebile. «Forse è meglio così. La vita di una donna sola non ha molto valore. Non abbiamo né speranze né desideri; altre donne avrebbero avuto mariti felici e bambini, ma noi, in questo posto dimenticato da tutti, siamo diventate vecchie insieme. Io me ne vado per prima, ma anche voi mi seguirete presto.» Tabitha, del tutto consapevole di aver solo quarant'anni e di poter contare su una salute di ferro, scrollò le spalle e sorrise con espressione cinica. «Me ne vado per prima», ripeté Ursula con una voce insolita, mentre chiudeva lentamente gli occhi stanchi, «ma tornerò per ognuna di voi, quando sarà giunta la vostra ora. In quel momento sarò accanto a voi per guidare i vostri passi verso il luogo che sto per raggiungere.» Mentre parlava la lampada tremolante si spense all'improvviso, come se fosse stata colpita dal movimento rapido di una mano, e la stanza sprofondò nell'oscurità. Uno strano gemito soffocato si levò dal letto e, quando le donne tremanti riuscirono a riaccendere la lampada, quello che restava di Ursula Mallow era pronto per essere sepolto. Le sopravvissute trascorsero insieme la notte. La sorella morta aveva avuto una fede incrollabile nell'esistenza di un mondo di confine misterioso, una zona inviolata che unisce la vita e la morte, e anche Tabitha, nonostante la sua apparenza imperturbabile, soltanto un poco scalfita dagli avvenimenti di quella notte, non riusciva a liberarsi dal pensiero che forse la sorella poteva avere ragione. Al sorgere di un nuovo giorno luminoso, i loro timori furono dissipati. Il sole irruppe dalla finestra e, scorgendo il povero volto terreo che giaceva
sul cuscino, lo raggiunse e lo illuminò, mettendone in risalto la bellezza e l'abbandono, e tutti i presenti si meravigliarono per aver provato terrore in un luogo così calmo e tranquillo. Erano ormai trascorsi uno o due giorni quando il cadavere venne deposto in una cassa di legno massiccio, considerata uno dei capolavori creati nel laboratorio di falegnameria del villaggio. Poi un lento e malinconico corteo, guidato da quattro uomini che portavano la bara a spalla, si avviò solennemente attraverso le paludi verso la tomba di famiglia nella vecchia chiesa di pietra grigia, e tutto quel che restava di Ursula fu deposto accanto al padre e alla madre, che avevano fatto quello stesso viaggio una trentina d'anni prima. Mentre ritornavano lentamente verso casa, Eunice ebbe l'impressione che quel giorno fosse insolito, simile a un giorno di festa; la monotona distesa delle paludi sembrava più selvaggia e solitaria del solito, il rombo del mare più cupo. Tabitha non si lasciava trasportare da simili fantasticherie. La maggior parte del patrimonio della sorella morta spettava a Eunice, e il suo animo avaro era profondamente turbato da quel pensiero, che interferiva di continuo coi suoi corretti sentimenti di sorella colpita dal dolore. «Cosa farai con tutto il denaro che hai ereditato, Eunice?», le domandò mentre stavano sorseggiando tranquillamente una tazza di tè. «Lascerò le cose come stanno», rispose Eunice con calma. «Abbiamo entrambe un patrimonio sufficiente per vivere, e destinerò l'eredità alla creazione di nuovi posti letto in un ospedale per bambini.» «Se Ursula avesse voluto donare il suo denaro a un ospedale», ribatté Tabitha con un tono di voce cupo, «l'avrebbe fatto di sua spontanea volontà. Mi stupisco che tu non rispetti i suoi desideri.» «Cos'altro potrei fare con quel denaro?», chiese Eunice. «Conservarlo», rispose la sorella con occhi brillanti, «conservarlo.» Eunice scosse la testa. «No», aggiunse, «lo devolverò ai bambini ammalati, ma non intaccherò il mio capitale e, se dovessi morire prima di te, i soldi saranno tuoi e potrai farne quel che vuoi.» «D'accordo», convenne Tabitha frenando a fatica la rabbia, «ma non credo che questa tua scelta rispetti la volontà di Ursula, e immagino che non riposerà tranquilla nella tomba, mentre dilapidi il denaro che ha risparmiato con tanta cura.» «Cosa vuoi dire?», chiese Eunice, a cui erano impallidite le labbra. «Stai
cercando di impaurirmi; pensavo che tu non credessi a queste storie.» Tabitha non le rispose e, per evitare lo sguardo ansioso e interrogativo della sorella, girò la sedia verso il camino e, incrociando le braccia magre, si sistemò per schiacciare un pisolino. Per un po' di tempo l'esistenza continuò a trascorrere tranquilla nella vecchia casa. La stanza della sorella morta, per rispettare il suo ultimo desiderio, era chiusa a chiave, e le finestre sporche contrastavano stranamente con lo splendore brillante di tutte le altre. Tabitha, che non era mai stata troppo loquace, divenne ancora più taciturna, e passeggiava a passi lenti all'interno della casa e nel giardino abbandonato come uno spirito irrequieto, con la fronte increspata in profonde rughe che lasciavano trasparire profondi pensieri. Quando arrivò l'inverno, con le buie e lunghe notti, la vecchia casa divenne più solitaria e sembrava schiacciata sotto una cappa di mistero e di terrore che penetrava nelle stanze vuote e nei bui corridoi. Il profondo silenzio della notte era interrotto da strani rumori, per i quali non si potevano accusare né il vento né i grossi topi. La vecchia domestica Martha, seduta nella cucina appartata, sentiva dei rumori strani sulle scale, e una volta, dopo essersi recata di corsa a vedere di cosa si trattasse, ebbe l'impressione di scorgere una sagoma scura accovacciata sul pianerottolo, anche se un'ispezione più approfondita con candela e occhiali non rivelò nulla di sospetto. Eunice restò turbata per una serie di strani incidenti, e poiché soffriva di un disturbo al cuore, si sentiva sempre meno bene. Anche Tabitha dovette ammettere che nella casa c'era qualcosa di strano, ma, fiduciosa nella sua virtù e nella sua forza d'animo, non dette troppo peso alle circostanze, anche perché la sua mente era occupata da pensieri completamente diversi. Dopo la morte della sorella, Tabitha aveva perso ogni forma di controllo e conduceva una vita rigorosa e austera, resa ancora più ossessiva da un sentimento d'avarizia che rasentava il fanatismo. Vigilava con cura che le spese per la casa fossero tenute attentamente separate da quelle di Eunice, i suoi pasti erano semplicissimi e, per quanto riguardava i vestiti, la vecchia domestica era senz'altro meglio vestita di lei. Seduta da sola nella camera da letto, quella creatura dall'indole strana ed energica trovava conforto solo nel suo denaro, ma era riluttante persino nel comprare una nuova candela che le avrebbe consentito di ammirare il suo tesoro. Quell'ossessione aveva cambiato così profondamente il suo temperamento, che sia Eunice che Martha avevano paura di lei e, notte dopo not-
te, giacevano sveglie e tremanti nei loro letti, ascoltandola mentre contava le monete durante le sue terribili veglie. Un giorno Eunice decise di intervenire. «Perché non metti i tuoi soldi in banca, Tabitha?», le suggerì. «Non credo che sia prudente conservare tanto denaro in una casa così isolata.» «Tanto denaro!», ripeté Tabitha in tono esasperato. «Tanto denaro! Che sciocchezze vai dicendo? Sai benissimo che ho soldi sufficienti solo per sopravvivere.» «Ma potrebbero costituire una grossa tentazione per degli scassinatori», aggiunse Eunice, senza dar peso allo sfogo della sorella. «Sono sicura di aver sentito qualcuno nella casa la notte scorsa.» «Hai sentito qualcuno?», l'interruppe Tabitha, afferrando il braccio della sorella con un'espressione orribile sul volto. «Anch'io. Ho avuto l'impressione che dei rumori provenissero dalla stanza di Ursula, e allora sono scesa dal letto e mi sono avvicinata alle scale per ascoltare meglio.» «E allora?», chiese Eunice impaurita, affascinata dall'espressione dipinta sul viso della sorella. «C'era qualcuno in quella stanza», rispose Tabitha lentamente. «Potrei giurarlo, perché sono rimasta in piedi sul pianerottolo accanto alla porta e ho origliato: qualcosa si muoveva sul pavimento, per tutta la stanza. Dapprima ho pensato che potesse essere il gatto, ma quando mi sono alzata stamattina, la porta era ancora chiusa a chiave e il gatto era in cucina.» «Oh, andiamocene da questa casa terrificante», piagnucolò Eunice. «Cosa?», l'interruppe la sorella con aria feroce. «Hai paura della povera Ursula? Perché dovresti aver paura? Si tratta di una sorella che ti ha allevato quando eri ancora una bimba e che probabilmente torna ancora in questa casa per vegliare su di te.» «Oh!», mormorò Eunice stringendosi le mani contro i fianchi. «Se la vedessi, morirei. Penserei che sia venuta a prendermi perché è giunta la mia ora, come ha promesso in punto di morte. O Dio! Abbi pietà di me, sto per morire.» Mentre parlava barcollò e, prima che Tabitha potesse sorreggerla, cadde priva di sensi sul pavimento. «Porta dell'acqua», gridò Tabitha mentre la vecchia Martha saliva di corsa le scale. «Eunice si è sentita male.» La vecchia donna le rivolse un'occhiata impaurita, obbedì e riapparve subito dopo con l'acqua, con cui si preoccupò di far riprendere i sensi alla padrona a cui era maggiormente affezionata. Non appena Eunice si fu ri-
presa, Tabitha si ritirò nella sua stanza, lasciando la sorella e Martha ancora abbastanza turbate in un piccolo salotto, sedute davanti al fuoco a chiacchierare sottovoce. Era evidente per la vecchia domestica che quella situazione non poteva durare più a lungo, e con insistenza cercò di convincere la sua padrona ad andarsene da quella casa così solitaria e misteriosa. Con grande sollievo di Martha alla fine Eunice acconsentì nonostante la decisa opposizione della sorella e, alla sola idea di andarsene, la ragazza si sentì già meglio sia fisicamente che nello spirito. Le donne affittarono un piccolo appartamento molto comodo a Morville e organizzarono rapidamente i preparativi per il trasloco. Era l'ultima notte che Eunice doveva trascorrere nella vecchia casa, e tutti gli spiriti selvaggi delle paludi, il vento e il mare, sembravano aver unito le forze per un ultimo attacco. Quando il vento, a brevi intervalli, si calmava, si sentiva il rombo del mare provocato dalle onde che si frangevano sulla spiaggia lontana, insolitamente frammisto al rumore delle boe colpite dalla violenza dei marosi. Quando il vento cominciava nuovamente a soffiare con forza, il rombo del mare era soffocato dalle violente raffiche che, non trovando ostacoli nelle paludi aperte, percuotevano con furia selvaggia la casa sull'estuario. Le strane voci dell'aria si infilavano nei camini, scuotevano le persiane, facevano sbattere le porte e anche le pareti sembravano vive e in movimento. Eunice giaceva sul letto, completamente sveglia. Una piccola luce per la notte in un contenitore d'olio spandeva un pallido chiarore sui vecchi mobili divorati dai tarli, trasformando anche gli oggetti più innocui in figure spaventose. Una raffica di vento più forte delle precedenti, le tolse anche il senso di sicurezza che quella debole luce le trasmetteva, ed Eunice restò sdraiata ascoltando con terrore i cigolii e gli altri rumori che provenivano dalla scala, profondamente dispiaciuta di non aver chiesto a Martha di venire a dormire con lei. Ma non era troppo tardi nemmeno adesso. Si alzò, si diresse verso l'armadio e, mentre prendeva la vestaglia dall'attaccapanni, sentì un inconfondibile rumore di passi sulle scale. La vestaglia cadde dalle sue mani tremanti e con il cuore in tumulto raggiunse nuovamente il letto. I rumori cessarono all'improvviso e cadde un profondo silenzio che Eunice era assolutamente incapace di interrompere con un grido, anche se lo desiderava intensamente. Una selvaggia raffica di vento scosse le persiane
e fece ondeggiare la piccola luce. Quando la fiamma tornò a essere stabile, la ragazza vide che la porta della camera si stava aprendo lentamente, mentre una mano tastava la tappezzeria sulla parete. La sua lingua era ancora immobile, assolutamente incapace di muoversi. La porta si aprì con fracasso e una figura, ricoperta da un velo, entrò. Eunice, aggrappandosi alle coperte, scorse con orrore indicibile il volto velato della sorella Ursula, ormai morta, che le sorrideva in modo terribile. Nei suoi ultimi istanti di vita, la ragazza cercò di muovere gli occhi ormai inanimati in cerca d'aiuto e, quando la figura avanzò silenziosa e appoggiò una mano fredda sulla sua fronte, l'anima di Eunice abbandonò il corpo con un grido selvaggio e si avviò verso l'Eternità. Martha, risvegliata dall'urlo e tremante per la paura, corse verso la stanza e osservò con terrore la figura china al capezzale di Eunice. Mentre osservava, la figura sollevò lentamente il cappuccio e il velo e apparve il volto funesto di Tabitha, stranamente contorto in un'espressione di terrore e di trionfo, tanto che la vecchia domestica la riconobbe a fatica. «Chi c'è?», gridò Tabitha con voce spaventata quando scorse l'ombra della vecchia donna contro la parete. «Mi era sembrato di sentire un grido», disse Martha mentre entrava. «Una di voi due ha chiamato?» «Sì, è stata Eunice», rispose l'altra osservandola con sguardo fisso. «Anch'io ho sentito un grido e mi sono precipitata qui. Come mai Eunice sembra tanto strana? Forse è caduta in catalessi?» «Ah», proruppe Martha cadendo in ginocchio accanto al letto e singhiozzando amaramente, «è la catalessi della morte. Ah, mia cara, mia povera piccola ragazza, non dovevi fare questa brutta fine. Eunice è morta di paura...», continuò la vecchia domestica indicando gli occhi della ragazza, nei quali era ancora impresso un profondo orrore. «Deve aver visto qualcosa di diabolico.» Tabitha abbassò lo sguardo. «Ha sempre avuto dei problemi col cuore», mormorò, «e questa notte terribile deve averla spaventata a morte. Ero terrorizzata anch'io.» Stava in piedi, ritta in fondo al letto, mentre Martha ricopriva col lenzuolo il volto della ragazza morta. «Prima Ursula, poi Eunice», esclamò Tabitha emettendo un profondo sospiro. «Non posso più rimanere qui. Mi vestirò e aspetterò il sorgere del nuovo giorno.» Uscì dalla stanza pronunciando quelle parole e con passo deciso si avviò
verso la sua camera da letto. Martha rimase accanto al capezzale e, dopo aver chiuso con delicatezza gli occhi ancora spalancati di Eunice, cadde nuovamente in ginocchio e pregò a lungo e profondamente per l'anima che se n'era andata. Sconvolta dal dolore e dall'orrore, rimase a testa china fino a quando un improvviso grido penetrante di Tabitha non la fece balzare in piedi. «Che c'è?», chiese la vecchia domestica dirigendosi verso la porta. «Dove sei?», gridò Tabitha, un poco tranquillizzata dopo aver udito la voce di Martha. «Nella camera della signorina Eunice. Volete qualcosa?» «Vieni subito giù. In fretta. Sto male.» La voce di Tabitha si trasformò in un urlo. «Di corsa! Per amor di Dio! Subito o divento pazza. In casa c'è una donna sconosciuta.» La vecchia domestica si precipitò di corsa verso le scale buie. «Cosa succede?», gridò entrando nella stanza. «Chi c'è? Cosa volete dire?» «Ho visto qualcosa», mormorò Tabitha, afferrandola convulsamente per le spalle. «Stavo venendo da te quando ho visto la figura di una donna davanti a me, che saliva le scale. Era... avrebbe potuto essere Ursula che veniva a prendere l'anima di Eunice, come ci aveva detto in punto di morte?» «O forse la vostra anima», suggerì Martha pronunciando le parole inaspettatamente, in modo completamente involontario. Tabitha aveva un aspetto spettrale e si aggrappò al fianco di Martha, afferrandole gli abiti. «Accendi le luci», gridò in modo isterico. «Accendi il fuoco, fai un po' di rumore; oh, che oscurità spaventosa! Non verrà mai il giorno!» «Verrà presto», la rassicurò Martha, cercando di vincere l'avversione per Tabitha e di tranquillizzarla. «L'ho uccisa!», gridò la miserabile donna. «L'ho uccisa io terrorizzandola. Perché non mi ha dato il denaro? Per lei non era importante. Ah! Guarda là.» Martha, scossa da un tremito di spavento, seguì l'occhiata di Tabitha diretta alla porta, ma non vide nulla. «È Ursula», sibilò Tabitha fra i denti. «Mandala via! Mandala via!» La vecchia domestica, che grazie a una sensibilità sconosciuta percepiva la presenza di una terza persona nella stanza, fece un passo avanti e si fermò davanti a Tabitha. Contemporaneamente la padrona agitò le braccia
come per liberarsi dalla presa mortale di una mano invisibile, si sollevò in punta di piedi e senza una parola cadde morta davanti alla domestica. A quello spettacolo Martha fu abbandonata dal poco coraggio che ancora sentiva dentro di sé e corse fuori dalla stanza, ansiosa di andarsene da quella casa di morte e di mistero. Il chiavistello della grande porta era vecchio e funzionava male e la vecchia domestica udiva delle strane voci che le risuonavano nelle orecchie mentre cercava di forzarlo con tutta la sua energia. Pensieri terribili turbinavano nel suo cervello. Pensò che la Morte stesse chiamandola dalla stanza che aveva appena abbandonato, e che un diavolo fosse fuori, davanti all'ingresso e le impedisse di uscire. Poi, con la forza della disperazione, riuscì ad aprire la porta e, indossando solo la camicia da notte, si immerse nella notte profonda. Il sentiero attraverso le paludi era nascosto dall'oscurità, ma riuscì a trovarlo; i ponti di assi sopra i canali erano stretti e scivolosi, ma riuscì ad attraversarli incolume: alla fine, con i piedi insanguinati e col respiro affannoso, arrivò al villaggio e si abbatté più morta che viva davanti alla porta di una casa. WILLIAM HOPE HODGSON Middle Islet «Eccola lì», urlò il vecchio nostromo al mio amico Trevor, mentre il nostro battello girava lentamente attorno alla costa dell'isola di Nightingale. Il vecchio puntò il fornelletto della sua pipa di radica scura verso una minuscola isoletta a tribordo. «Eccola lì, signori», ripeté esitante, «Middle Islet! Attraccheremo nella baia fra un momento solo. Badate bene signori, io non posso affermare che la nave sia ancora lì, e se c'è ancora, beh, dovete convincervi che io non vidi nessuno, quando vi salii sopra la prima volta.» Il vecchio si rimise la pipa in bocca, con aria truce, tirando boccate di fumo aromatico, mentre Trevor ed io scrutavamo attentamente l'isoletta con i cannocchiali. Ci trovavamo nell'Atlantico del Sud. Alquanto in lontananza, verso nord, si poteva scorgere tra la nebbia e le tempeste, il tenebroso picco dell'Isola di Tristano, la più grande del gruppo delle Isole Da Cunha, mentre lungo l'orizzonte, verso ovest, a volte si riusciva a scorgere la sagoma caratteristica dell'Isola Inaccessibile. Ma il panorama non ci interessava minimamente, ovvio.
Tutta la nostra attenzione era focalizzata su Middle Islet, al largo delle coste dell'Isola Nightingale. Soffiava un debole venticello, e il nostro battello scivolava pigramente sopra le cupe acque. Il mio amico era tormentato da una ridda di sentimenti contrastanti; andava a vedere se quella baia conservava ancora il relitto della nave che aveva imbarcato la sua donna. Io, personalmente, oltre alla curiosità, provavo un senso di sgomento per le strane circostanze che ci avevano portato lì. Per più di sei mesi il mio amico aveva invano aspettato il ritorno... del Felice Ritorno, la nave che per ironia della sorte trasportava la sua donna, diretta in Australia per motivi di salute. Nessuno aveva saputo più niente di quella nave, e la ragazza era stata data per dispersa da tutti... tranne che da noi. Trevor, quasi impazzito, spendendo parecchio, aveva inviato costose inserzioni a quasi tutti i più importanti giornali del mondo, e questo disperato tentativo aveva ben presto condotto da lui il vecchio nostromo che ora stava al suo fianco. Quell'uomo infatti, attirato dalla lauta ricompensa offerta, aveva risposto agli appelli, fornendo alcune informazioni sul relitto di una nave, senza alberi, che portava la scritta del Felice Ritorno sulla poppa e sulla prua, e che egli aveva intravisto durante il suo ultimo viaggio per mare, in una strana, piccola baia sul versante sud di Middle Islet. Tutto questo non lasciava grandi speranze al mio amico, inquantoché il nostromo ci disse che era salito a bordo con una parte della sua ciurma, senza trovare assolutamente niente nella nave deserta. Devo dire che questa versione non mi persuadeva granché, perché conosco il carattere profondamente superstizioso dei vecchi lupi di mare, e probabilmente quel relitto solitario aveva eccitato un poco la loro fosca fantasia, e quindi... Comunque, tra breve, avremmo potuto svelare il mistero. Il nostromo si lasciò sfuggire qualche parola di troppo, che andò a rinvigorire la mia tesi personale sull'argomento. «Nessuno dei miei uomini volle trattenersi su quella nave. Tirava un'aria poco attraente. Era una nave troppo maledettamente ordinata e pulita per essere un vero relitto.» «Cosa diavolo intendete dire?», chiesi con noncuranza. «Beh, è difficile spiegarlo, sapete. Sembrava quasi che la ciurma di quella nave se ne fosse andata solo momentaneamente, in attesa di tornare da
un momento all'altro. Ma capirete meglio quando vi salirete a bordo, potete contarci...» Sputò per terra disgustato, continuando a fumare la pipa. Lo guardai fisso, incominciando a dubitare delle sue facoltà mentali. Poi guardai il mio amico Trevor, che non aveva udito il nostro discorso, troppo intento a scrutare con il cannocchiale l'isoletta per accorgersi d'altro. Trevor si voltò verso il nostromo, tremando. «William, è proprio questo il luogo?», domandò, esitante. Il nostromo si scostò le lunghe ciocche unte dalla fronte, poggiandosi le mani in testa a mo' di visiera. «Sissignore, ci siamo proprio!», affermò. «Sì, ma dov'è la nave? Io non vedo niente...» «Non preoccupatevi capo, siamo ancora lontani dall'ingresso della baia! La nave è nell'interno, e tra un po' la vedremo.» Trevor staccò la mano dalla spalla del vecchio, tremando. Il suo volto si fece pallidissimo, come in preda a un collasso. Si appoggiò alla balaustra per non cadere, e poi si voltò. «Hearnshaw, amico mio, mi sento svenire... io...» «Coraggio, fatti forza. Prenditi un bicchiere di questo rum stravecchio, e ti sentirai un po' meglio. Dai!» Diedi gli ordini per far preparare un canotto, in modo da essere pronti a scendere in mare a tempo debito. Cinque minuti più tardi, ci addentrammo con la nave in quella stretta apertura rocciosa, più simile a un fiordo che a una baia, scrutando attentamente in ogni direzione. L'insenatura si addentrava profondamente nell'isoletta... Finalmente tra le ombre, apparve qualcosa, per scomparire quasi subito. Era senz'altro la poppa di una nave! Lanciai un grido di eccitazione, facendo cenno a Trevor di fermare. La scialuppa fu calata in mare, e Trevor, io, e una ciurma con il vecchio nostromo al timone, puntammo verso quell'apertura sulle coste di Middle Islet. Superata una larga fascia di alghe puzzolenti che circondava letteralmente la costa, dopo un po' avanzammo speditamente sulle lisce, nere acque della profonda baia, costellata di rocce a strapiombo che sembravano piombare nell'infinito. Superato uno stretto passaggio, ci ritrovammo in una insenatura perfettamente ovale, dalle acque morte, glaciali.
Le pareti tutt'attorno erano lisce e biancastre, come il condotto di un immenso pozzo. E, alla fine di quel pozzo, trovammo la poppa di una nave con la bianca insegna Felice Ritorno. Guardai Trevor. Era pallidissimo, e sudava come una bestia. Mastro William ci fece accostare lungo la fiancata del relitto, e Trevor e io ci arrampicammo faticosamente a bordo. Il nostromo ci seguì, ormeggiando la fune della scialuppa. Con un'agilità straordinaria per un uomo della sua età, balzò a sua volta sul relitto, facendosi strada. Mentre camminavamo cautamente, i nostri passi risuonavano sul ponte con un lugubre rumore, procurandoci un senso quasi insopportabile di cupa desolazione. Le nostre voci creavano un'eco a dir poco spaventosa, rimbalzando sul budello di roccia, per cui fummo costretti anche a parlare sottovoce, come in chiesa, o come in un cimitero... Allora cominciai a capire le sibilline parole del nostromo, sulla strana aria che tirava a bordo di quel relitto. Mastro William sembrò indovinare i miei pensieri. «Dannazione! Guardate come è pulita ed ordinata. Non mi sembra naturale. Sembra quasi che sia stata lavata da poco, altro che naufragio! E ne ho visti di naufragi, io.» Riprendemmo ad avanzare, seguendolo. Benché non ci fossero più né gli alberi né le scialuppe, il resto della nave era in perfetto ordine. Il ponte era pulito, le funi annodate nelle bitte, i rotoli di cordame al loro posto preciso, perfino il barile dell'acqua dolce era pieno. Anche Trevor si rese conto della estrema stranezza di tutto ciò, e incominciò di nuovo a tremare, sull'orlo di una crisi. «Amico mio, hai visto? Questo significa che qualcuno della ciurma è ancora vivo... è ancora qui, ne sono certo... ma dove... dove... dove potrebbe essere?» «Di sotto?», suggerii, tentando di assumere un tono disinvolto. I suoi occhi si fissarono nei miei con la forza della disperazione, cercando un coraggio che certamente non avevo. Mastro William ci chiamò davanti all'imboccatura della scala. «Signori, se non venite con me, io non scendo certo da solo!» «Forza Trevor, coraggio. Pensa a lei!» Ci avviammo giù per la scala, scendendo verso i saloni. Entrammo in quello di destra, rimanendo ancora una volta colpiti
dall'eccessiva pulizia degli ambienti. Nessun segno di abbandono, incuria, polvere. Eppure quel relitto doveva trovarsi lì da più di sei mesi, come minimo! «Vedi! Deve esserci per forza qualcuno!», mormorò il mio amico, sentendo rinascere le speranze, mentre io pensavo sempre più, con aria cupa, alle sibilline parole del nostromo. Mastro William entrò nel salone di sinistra, nell'ala delle cabine. Con un calcio ne aprì una ed entrò, per uscirne quasi subito, le braccia cariche di sottovesti e biancheria intima. «Guardate, capo! Questa doveva essere la cabina di vostra moglie, perché c'è un mucchio di questa roba in giro...» Trevor guardò William con un'espressione folle, poi gli saltò al collo e tentò goffamente di strozzarlo. «Maledetto... maledetto ladro... come osate profanare le sue cose... Io vi ammazzo, capite? Nessuno... nessuno può!» Il nostromo si liberò con un solo movimento dalla stretta del mio povero amico, mandandolo lungo disteso sul pavimento, mentre io lo scrutavo preoccupato, temendo che mettesse mano al coltello che gli pendeva dietro la schiena. «Badate a come parlate, signor mio», disse il vecchio con aria offesa, livido dalla rabbia. «Io non ho rubato proprio niente, e tantomeno questa robaccia che porta sfortuna!» Trevor si rialzò, come spinto da una molla, quindi entrò nella cabina, urlando il nome della sua donna a più riprese. Il nostromo si voltò a guardarmi, facendo segno che il mio amico doveva essere diventato matto. Dopo un poco, Trevor uscì, con aria trionfante. In mano aveva uno di quei calendari da muro a fogli staccabili. «Guardate! Leggete la data! Leggetela!» Guardai il calendario con gli occhi sbarrati, respirando appena. Il primo foglio indicava la data di quel giorno. «Ma non è possibile! Si tratta di un caso, di un errore!» «No!», urlò Trevor, con voce esultante. «È stato girato oggi, capisci! Lei è viva... ed io la troverò!» Con aria autoritaria, si voltò verso il nostromo. «Che data portava questo calendario quando siete venuto qui l'altra volta? Avanti, parlate, perdio!» Mastro William lo guardò con stupore. «È la prima volta in vita mia che vedo questo calendario», affermò, lugubremente. «Questa dev'essere una nave dannata.»
«Non dite fesserie! Sono stanco delle vostre fisime! Qui a bordo devono esserci dei superstiti, è chiaro. Su, forza! Un po' di coraggio! Andiamo a cercarli.» E andammo. Cercammo, cercammo per ore e ore. Niente di niente. Nessun segno di vita, da nessuna parte. Eppure, in ogni dove regnava la più perfetta pulizia, un contrasto stridente con il disordine selvaggio dei relitti veri e propri. Visitando le varie cabine, avvertivo come un'impressione inspiegabile, come un ansito caldo e freddo allo stesso tempo. Finite le nostre ricerche senza aver trovato niente, ci guardammo in faccia con espressioni di sgomento e di terrore. Mastro William storse la bocca con disprezzo. «È come vi avevo detto io, signore... qui non c'è nessuno.» Trevor non rispose, immerso in un cupo silenzio minaccioso. «Tra poco sarà notte, signore, ed è meglio per noi abbandonare il relitto prima che calino le tenebre...» Portammo fuori quasi di peso il povero Trevor, che si fece condurre via senza emettere una sola parola, quindi salimmo lestamente nella scialuppa mentre il sole tramontava all'orizzonte. Ben presto tornammo sulla nostra nave all'ancora. Durante la notte, Trevor propose di sbarcare sull'isoletta di Middle Islet, per cercare le tracce della ciurma del Felice Ritorno, che forse si era rifugiata sulla terraferma. In caso di esito negativo delle ricerche, allora avremmo perlustrato anche l'Isola Nightingale e le rocce di Stoltenkoff, prima di far rotta verso casa, sconfitti. Appena spuntò l'alba, ci apprestammo con impazienza allo sbarco. Prima di sbarcare sull'isoletta, ordinammo a Mastro William di mantenere la scialuppa nella baia. Trevor credeva follemente che la ciurma del relitto, il giorno prima, avesse abbandonato la nave per sbarcare sull'isola, in cerca di erbe, muschio, qualche raro capo di cacciagione... Ricordandomi il mistero del calendario, mi persuasi anch'io che forse qualche cosa di vero c'era, dopotutto. Di nuovo ci addentrammo con la scialuppa in quello stretto budello, avvolto da una luce quasi irreale, tentando di incoraggiarci a vicenda, e in parte riuscendoci, merito dei forti liquori che tacitamente giravano sottobanco. Questa volta fu Trevor a salire per primo sul relitto, correndo verso le cabine. Mastro William ed io lo seguimmo senza alcun entusiasmo, arre-
standoci alla vista di Trevor che si era fermato davanti alla cabina di sua moglie. Con un sorriso demente, Trevor alzò il pugno, bussando cortesemente alla porta della cabina, aspettandosi una risposta. Io lo guardai con terrore, pregando che nessuno rispondesse, come in effetti avvenne, mentre Trevor, incurante, continuava a bussare, a bussare... Lo scostai di lì, aprendo la porta della cabina. Ovviamente non c'era nessuno, ma con un urlo trionfale il mio amico si precipitò sul calendario, sventolandomelo sulla faccia. Sconcertati, lo guardammo, non credendo ai nostri occhi. Il giorno prima, portava la data del 27; adesso, ben visibile, portava la data del 28... era stato spostato ancora una volta. «Hai visto Hearnshaw? Deve esserci per forza qualcuno a bordo!» Scossi la testa, guardandolo con un misto di paura e sospetto. «Trevor, amico mio... sei sicuro di non averlo spostato tu, inconsciamente, il calendario... quando lo posasti ieri?» «Che dici, sei matto? Certo che ne sono sicuro!» «Ma allora... a che gioco stanno giocando?», sbottai. «Iddio solo lo sa», fece Mastro William, segnandosi rapido. Mi voltai verso il vecchio nostromo, guardandolo sorpreso. «Anche voi credete che qui sia venuto qualcuno, allora?» «Questa è opera dei fantasmi, signore!» «Tenete la bocca chiusa, William! E guai a voi se mi spaventate la ciurma, capito?», gridò Trevor. Gratificandoci di un'occhiata sprezzante, senza rispondere, Mastro William ci voltò le spalle, dirigendosi alla scala. «Un momento! Dove state andando?», gli urlai dietro. «Sulla scialuppa, signore. Non ho alcuna intenzione di stare qui ad aspettare gli spettri, sapete.» Trevor lo lasciò andare senza tentare di fermarlo, assorto in una specie di ragionamento deduttivo. Poi: «È tutto chiaro. Se non vivono a bordo, una ragione ci deve pur essere. Forse stanno in qualche caverna, chissà». «E allora come lo spieghi il fatto del calendario?» «Penso che escano solo di notte. Ci deve essere qualcosa, di giorno, che li tiene lontani. Magari una belva feroce. Sicuramente si nascondono da qualche pericolo.» Scossi la testa, spazientito.
«Che io sia impiccato se ci capisco qualche cosa!» Sapevo bene che su quello scoglio brullo non esistevano belve feroci. E non c'era posto più sicuro di quella torpida baia, e di quella nave arenata, ancora solida e pulita. Eppure... quel maledetto calendario... un vero mistero. Dopo un altro inutile giro di perlustrazione, rientrammo nella nostra scialuppa, costeggiando l'isoletta, finché trovammo un approdo abbastanza sicuro fra le rocce. Mastro William prese con sé due uomini, io gli altri due, avviandoci ad esplorare ognuno una metà diversa dell'isoletta, mentre Trevor si arrampicava sulla sommità del picco. Dopo un'ora, ritornammo tutti vicino alla scialuppa; nessuno aveva trovato la benché minima traccia, e neppure le fantomatiche caverne di cui avevamo caldeggiato l'esistenza. Trevor era ancora lassù, sul picco roccioso. Arrancai bestemmiando sulla strada, per andare ad avvisarlo. «Trevor! Andiamo, scendi di lì, si torna alla nave!» Lui si voltò facendo cenno di avvicinarmi in silenzio. «Chinati qui. Vedi anche tu quello che vedo io?» Mi chinai proprio sull'orlo del precipizio, guardando incuriosito nel cupo budello di roccia che finiva a piombo nella piccola baia delle acque morte. «E che diavolo c'è da guardare? Io non vedo niente!» «Non lì, sciocco, più a destra! Proprio sotto al relitto!...» Guardai nella direzione indicata, aguzzando la vista. «Ma sì... li vedo... dev'essere un branco di pesci.» «Come pesci? Dei pesci dalla forma ovale?» Guardai ancora meglio, sforzandomi al massimo. «Effettivamente, sono pesci un po' strani... Pesci Luna, forse, o Pesci Palla... e magari qualche specie sconosciuta.» Trevor continuò a guardare, orribilmente affascinato. «Quei pesci hanno dei visi strani... come dei volti umani, di annegati... con le gote gonfie e gli occhi biancastri.» «Ma piantala con queste scempiaggini! Forse sono proprio quei pesci, la causa di tutto. Forse sono dei piccoli squali, chissà. E per questo i naufraghi hanno abbandonato le vicinanze della nave, tornando solo ogni volta che fosse possibile!» Sapevo di mentire spudoratamente, ma il mio amico, ridotto allo stremo, volle crederci, approvando entusiasticamente. «Sì, è vero, dev'essere così... qualche pericolo li tiene lontani, e loro tornano solo di notte... e lei rimette a posto il calendario, pensando a me, a
me, capisci!» Guardai ancora nel precipizio, ma gli strani pesci non c'erano più, e cominciai a dubitare di averli effettivamente visti. «Andiamo, Hearnshaw, torniamo a bordo. Voglio andare a prendere delle armi per massacrare tutti quei pesci mostruosi!» Un'ora più tardi, salimmo di nuovo sul relitto, armati di fucili di precisione, fiocine d'osso, e tridenti acuminati. Io e Trevor impugnavamo due grossi revolver, con estrema sicurezza. Per tutto il giorno i marinai montarono la guardia al relitto, girando in ronde armate fino ai denti la nave, ed esplorando ogni minimo pertugio con aria cupa. Finalmente, mentre il sole stava calando, scoppiarono dei clamori, e Mastro William venne a comunicarci, con aria contrita, che la ciurma si rifiutava di restare sul relitto di notte, minacciando di ammutinarsi in caso contrario. «Dovete capirli, signore, sono uomini coraggiosi, che non hanno mai indietreggiato davanti ai pirati o ai selvaggi, ma combattere contro i fantasmi... beh, è tutt'altra cosa.» Trevor, con disprezzo, lasciò liberi gli uomini di tornare sulla nave, affermando che lui invece avrebbe passato la notte sul Felice Ritorno, ad ogni costo. Naturalmente io, in nome della nostra vecchia amicizia, non mi sentii di abbandonarlo, e decisi di restare con lui. Presi un paio di coperte, un po' di gallette e di carne fredda, e scesi con lui nel salone. Dissi a Mastro William di ritornare a prenderci il mattino dopo, al primo spuntar dell'alba, e rimasi sul ponte a guardare la scialuppa che si allontanava, cominciando già a pentirmi amaramente della mia decisione. Il tempo cominciò a passare, lento, mentre entrambi camminavamo in lungo e in largo, parlando futilmente degli argomenti più disparati, tanto per distrarci. Un silenzio terrificante, innaturale, riempiva ogni angolo del relitto; tendevo ansiosamente le orecchie, nella speranza di sentire almeno il risuonare delle onde, ma anche il mare taceva. Trevor fece cadere malaccortamente per terra la sua pistola, che esplose un colpo secco. L'eco dello sparo si ingigantì tra le rocce che ci circondavano, trasformandosi in un sordo, agghiacciante boato. Con i nervi tesi allo spasimo, avvertii un lontano ansito bestiale, giù nel profondo, in risposta a quello sparo. Una nebbia fittissima circondò pian piano il relitto.
Cercando di tirarci su il morale, consumammo il nostro frugale pasto freddo, annaffiandolo con un bel po' di cognac che mi ero portato nella fiaschetta metallica da tasca. Trevor cominciò a guardarsi attorno con una strana luce negli occhi, realizzando finalmente la situazione poco invidiabile in cui ci eravamo cacciati. Consultai a fatica il mio orologio: era mezzanotte. Tirammo a sorte per stabilire i turni di guardia, e a me toccò il secondo. Mi avvolsi nelle coperte tremando, osservando Trevor che si installava su una sedia, impugnando saldamente il suo revolver. Poi crollai di botto, addormentandomi. Mi ritrovai subito immerso in un sogno, un sogno talmente nitido, lucido e preciso, da rasentare la realtà. Nel sogno vidi Trevor che balzava in piedi, attirato da una voce dolcissima che lo invocava con parole d'amore. Dalla porta del salone, vidi avanzare un volto angelico, due occhi di fiamma, e un corpo celestiale avvolto da una vaporosa vestaglia trasparente, che sembrava tessuta nelle onde. Un Angelo del Signore! mormorai sgomento, nel sogno, accorgendomi di quanto fosse sbagliata la mia impressione, poiché riconobbi con terrore il volto lussurioso e maligno della moglie di Trevor, che, ahimè, avevo purtroppo ben conosciuta, prima del suo matrimonio col mio povero amico. Trevor gettò la rivoltella per terra, obbedendo a un preciso richiamo, e si alzò, buttandosi fremente tra le braccia della donna, che si chiusero sul suo corpo. I due s'incamminarono insieme, lentamente, svanendo nella nebbia, e il mio sogno continuò così senza di loro. Dopo un intervallo di tempo indefinibile, fui svegliato bruscamente da un urlo terrificante, simile a quello di un maiale sgozzato; uno di quegli urli che non si dimenticano! Ghiacciato dalla paura, trassi il capo fuori dalle coperte, puntando verso il buio la canna della mia rivoltella. Niente! Il solito glaciale silenzio di sempre. Mi voltai verso l'angolo in cui avevo lasciato Trevor di guardia, e mi accorsi con sgomento che non c'era più. Allora balzai in piedi, col cuore che batteva forte, e avanzai. Il suo revolver giaceva scagliato in un angolo del salone. Allora... forse... non era stato un sogno. Un sogno? Alla fioca luce lunare che pioveva dal lucernario scheggiato, chiamai più volte, con voce disperata, il mio amico. Nessuna risposta... solo un'eco spaventata, che risuonò a lungo nei corri-
doi delle cabine, dove forse... Corsi lungo la scala e sbucai sul ponte, sempre continuando ad urlare: Nelle tenebre, l'eco assumeva un aspetto orrendo. Mi chinai sul parapetto per guardare se per caso Trevor non fosse caduto in mare, in preda alla sua follia. Un'ondata di freddo, nero orrore, mi attanagliò il cuore. A pelo d'acqua affioravano una ventina di volti, volti pallidi, esangui, spaventosamente tristi. Quei volti fremevano, ondeggiando sul mare, bisbigliando una strana nenia dolorosa, che mi entrò nel cervello come un tarlo. Non so come riuscii a sottrarmi all'orrido fascino di quelle povere creature, a metà strada fra dei cadaveri d'annegati e delle translucide mante giganti, e mi gettai indietro, sul ponte, urlando con tutte le mie forze. Corsi lungo il ponte fino a farmi male, non osando rientrare nel cupo abisso dei saloni di sotto, e non osando gettare un altro sguardo a quelle strane, orride creature. Mi misi a sparare contro le ombre che turbinavano nella nebbia, piangendo disperatamente, e mormorando tutte le preghiere che mi avevano insegnato da piccolo e che da allora non avevo recitato più. Quando i proiettili finirono, scagliai il revolver nel vuoto, in preda all'impotenza e alla disperazione. Un chiarore all'orizzonte mi fece urlare dalla felicità. Il giorno stava spuntando! I primi timidi raggi del sole scesero a bucare la nebbia, che ben presto si diradò, mentre io, con i nervi tesi fino allo spasimo, mi guardavo intorno freneticamente, tenendomi pronto al peggio. In lontananza, risuonò l'inconfondibile rumore dei remi. La scialuppa! La scialuppa! Ero salvo! Mastro William si accostò a prua, urtando la fiancata destra. «Siamo qui, signori! Da questa parte!» Urlando, mi tuffai letteralmente nella scialuppa, urtando contro qualcosa di ferroso e rompendomi una gamba. «Cosa diavolo...», iniziò il nostromo, guardandomi stupito. «Andiamo via! Andiamo via di qua! Svelti, svelti!» «Ma come... e il signor Trevor! Dove si è cacciato?» «Trevor è morto! Morto! Allontaniamoci, presto! Presto!» I marinai remarono forte, contagiati dal mio terrore. Io mi tastai la gamba sanguinante, straziata come da un artiglio... Nel momento in cui la scialuppa passò sotto la poppa del relitto, alzai lo sguardo automaticamente,
come nel sogno. Affacciata alla balaustra, una donna incantevole mi fissava, con i suoi occhi di ghiaccio, lanciandomi un muto richiamo. I suoi seni erano duri e spinosi, e la sua bocca colava sangue; tese le braccia verso di me, ed io urlai con tutte le mie forze, perché le sue braccia erano due artigli mostruosi. Prima di svenire, riuscii ancora a sentire la voce possente di Mastro William, che, bestemmiando, urlava ai suoi uomini che piangevano terrorizzati: «VOGA! VOGA! VOGA! VOGA!...». LORD DUNSANY Povero, vecchio Bill In un antico ritrovo di marinai, una taverna sul mare, la luce del giorno stava ormai calando. Già da diverse sere frequentavo quel posto, nella speranza che i marinai, seduti davanti ai loro vini esotici, mi dicessero qualcosa in merito a una voce che mi era giunta alle orecchie. Riguardava una flotta di galeoni della vecchia Spagna, che si diceva navigasse ancora in una zona non segnata sulle carte, nei Mari del Sud. Ma anche quella volta ero rimasto deluso. I discorsi erano brevi e rari, ed ero sul punto di andarmene, quando un marinaio, dagli orecchini di oro zecchino, sollevò la testa dal suo vino e, mentre guardava dritto il muro davanti a sé, raccontò questa storia a voce alta: (Quando più tardi si levò la tempesta di pioggia e cominciò a tuonare contro i vetri plumbei della taverna, l'uomo, senza alcuno sforzo, sollevò la voce, e continuò a parlare calmo. E più si faceva buio, più i suoi occhi feroci splendevano.) «Un veliero dei tempi antichi si avvicinò a delle isole fantastiche. Non avevamo mai visto isole come quelle. Tutti odiavamo il Capitano, e lui odiava noi. Ci odiava tutti allo stesso modo, senza fare preferenze. Non parlava mai con noi, tranne qualche volta, di sera, quando si faceva buio: si fermava a guardare in alto e diceva qualche parola agli uomini che aveva fatto impiccare in cima al pennone. Eravamo una ciurma di ammutinati. Ma il Capitano era l'unico ad avere delle pistole. Quando dormiva, ne teneva una sotto il cuscino, e un'altra stretta in mano. Quelle isole avevano un aspetto sinistro. Erano piccole e piatte, come se fossero emerse da poco dal mare, e non avevano sabbia o scogli, come ogni isola che si rispetti, ma solo dell'erba verde che scendeva fino al mare. E c'erano delle case il cui aspetto non ci piaceva. I tetti coper-
ti di paglia arrivavano fin quasi a terra, ed erano curiosamente rivoltati agli angoli. Sotto le basse gronde vi erano delle strane finestre cupe, i cui vetri plumbei erano troppo spessi per potervi vedere attraverso. E non c'era in giro anima viva, né uomini né bestie, così non si poteva sapere chi vi abitasse. Ma il Capitano lo sapeva. Sbarcò e andò in una di quelle piccole case: qualcuno vi accese le luci, e dalle finestre si sprigionò un'aura malvagia. Era buio quando ritornò a bordo, augurò allegramente la buona notte agli uomini che penzolavano in cima al pennone, e ci guardò in un modo che terrorizzò il povero vecchio Bill. La notte seguente scoprimmo che aveva imparato a operare strani malefici. Infatti ci raggiunse nelle nostre cuccette - c'era anche il povero vecchio Bill - ci puntò addosso un dito e pronunziò un sortilegio, per il quale le nostre anime avrebbero dovuto stare per tutta la notte in cima agli alberi della nave. E, a un tratto, l'anima del povero vecchio Bill era seduta come una scimmia sull'albero, a guardare le stelle e a gelarsi dal freddo. Protestammo, ma il Capitano puntò ancora il dito e stavolta il povero vecchio Bill e gli altri si ritrovarono nella gelida acqua verde a nuotare dietro la nave, mentre i loro corpi erano rimasti sul ponte. Fu il mozzo a scoprire che il Capitano non riusciva a fare malefici quando era ubriaco, anche se però era perfettamente in grado di sparare. Saputo ciò, si trattava solo di aspettare e di perdere due uomini quando fosse giunto il momento. Tra noi c'erano degli individui sanguinari, che volevano uccidere il Capitano, ma il povero vecchio Bill suggerì di trovare un isolotto, fuori dalle vie di navigazione, e di lasciarlo lì con la sua porzione di provviste sufficienti per un anno. Tutti diedero ascolto al povero vecchio Bill, e decidemmo di abbandonare il Capitano non appena lo avessimo catturato, nei momenti in cui non era capace di fare sortilegi. Dovemmo aspettare tre intere giornate, prima che il Capitano si ubriacasse di nuovo, e il povero vecchio Bill e gli altri passarono dei brutti quarti d'ora, perché il Capitano inventava ogni giorno nuovi malefici, e le nostre anime erano costrette ad andare lì dove il suo dito indicava. Così i pesci e le stelle ci conobbero, e né gli uni né le altre ebbero pietà di noi quando gelavamo dal freddo sugli alberi della nave, o eravamo inseguiti tra foreste di alghe marine nelle quali ci perdevamo. Le stelle e i pesci se ne stavano per i fatti loro con occhi freddi e indifferenti. Una volta, dopo che il sole era calato ed era sopraggiunto il crepuscolo, e la luna era apparsa nel cielo sempre più luminosa, allora lui improvvisa-
mente decise di mandare le nostre anime lassù, sulla Luna. Di notte era più fredda del ghiaccio, c'erano delle montagne dalle ombre terribili, tutto era silenzioso come in un cimitero, e la Terra brillava nel cielo, grande come la lama di una falce: noi tutti ne avevamo nostalgia, ma non potevamo né parlare né piangere. Era buio quando facemmo ritorno, e il giorno dopo fummo molto rispettosi verso il Capitano, ma lui ben presto colpì di nuovo con i suoi malefici alcuni degli uomini. Ciò che temevamo maggiormente era che mandasse le nostre anime all'Inferno, e tutti facemmo attenzione a non menzionare quella parola, nel terrore che potesse venirgli in mente. Ma la terza sera il mozzo venne da noi e ci disse che il Capitano era ubriaco. Andammo tutti nella sua cabina, e lo trovammo disteso sulla branda. Sparò come non aveva mai fatto prima, ma aveva solo quelle due pistole, e avrebbe ucciso soltanto due uomini, se non fosse riuscito a colpire Joe sulla testa col calcio di una di quelle armi. Lo legammo, il povero vecchio Bill gli gettò il rum tra i denti, e così rimase ubriaco per due giorni e non poté fare sortilegi, finché non avessimo trovato un'isola che facesse al caso nostro. E, prima che il sole tramontasse, il secondo giorno, trovammo un'isola completamente deserta per il Capitano, fuori dalle linee di navigazione, lunga circa cento iarde e larga circa ottanta. Lo trasportammo lì con la barca e gli lasciammo provviste sufficienti per un anno, uguali a quelle che avevamo per noi, perché il povero vecchio Bill volle comportarsi in modo leale. Lo lasciammo seduto comodamente, con la schiena appoggiata a uno scoglio, mentre cantava una canzone di marinai. Quando non sentimmo più la sua voce, diventammo molto allegri e facemmo un banchetto con le nostre provviste di un anno, poiché speravamo di tornare a casa in meno di tre settimane. Per una settimana banchettammo tre volte al giorno: a ognuno veniva dato più di quanto potesse mangiare, e gettavamo gli avanzi sul pavimento, come i signori. Poi, un giorno, vedemmo San Huëlgédos, e decidemmo di attraccare per spendere un po' di soldi, ma il vento cambiò dietro di noi e ci ricacciò al largo. Non riuscimmo a virare di bordo e a entrare nel porto, mentre le altre navi passavano accanto a noi e si ancoravano. In certi momenti la bonaccia si abbatteva su di noi, mentre i pescherecci sfrecciavano come il vento, e altre volte il vento ci spingeva al largo, quando niente attorno si muoveva. Provavamo tutta la giornata: la notte ci riposavamo, e il giorno dopo ri-
tentavamo. Tutti i marinai delle altri navi spendevano i loro soldi a San Huëlgédos e noi non eravamo capaci neanche di avvicinarci. Allora imprecammo in maniera orribile contro il vento e contro San Huëlgédos e ce ne andammo. Accadde lo stesso a Norenna. A quel punto ci riunimmo e parlammo sottovoce. Tutto a un tratto il povero vecchio Bill cominciò ad aver paura. Mentre navigavamo lungo la costa Sirtica, provammo ancora, ma il vento ci aspettava in ogni porto e ci ricacciava al largo. Allora capimmo che non ci sarebbe stato nessun porto per il povero vecchio Bill, e tutti rimproverammo il suo buon cuore, per il quale avevamo abbandonato il Capitano su uno scoglio per non macchiarci del suo sangue. Non potevamo far altro che andare alla deriva per i mari. Non festeggiammo più, perché temevamo che il Capitano sopravvivesse per un anno e continuasse a spingerci al largo. Sulle prime facevamo cenni alle navi di passaggio e cercavamo di salire a bordo raggiungendole con le barche; ma non potevamo nulla contro il maleficio del Capitano e dovemmo arrenderci. Allora trascorremmo un anno a giocare a carte nella sua cabina, notte e giorno, col bello e col cattivo tempo, e tutti promettevano di pagare il povero vecchio Bill quando saremmo approdati. Pensavamo con orrore a quanto fosse frugale in realtà il Capitano, lui che si ubriacava un giorno sì e uno no quando era in mare, e invece era ancora vivo e sobrio, perché il suo sortilegio ci teneva ancora lontani da qualsiasi porto mentre le provviste erano finite. Cominciammo a tirare a sorte. Jim ci bastò solo per tre giorni, poi tirammo ancora a sorte, e stavolta toccò al negro. Non ci mantenne più a lungo; tirammo ancora a sorte, e stavolta toccò a Charlie, ma il Capitano era ancora vivo. Rimasti in pochi, uno ci bastava più a lungo. E, per periodi sempre più lunghi, uno dei nostri compagni ci manteneva in vita, e tutti ci domandavamo come facesse il Capitano a sopravvivere. L'anno era terminato già da cinque settimane, quando toccò a Mike, che ci sostenne per una settimana, ma il Capitano era ancora vivo. Ci chiedevamo se non si fosse stancato di colpirci con lo stesso, vecchio maleficio; ma immaginavamo che le cose si vedessero diversamente stando soli su un'isola. Quando rimasero solo Jakes, il povero vecchio Bill, il mozzo e Dick, non tirarono più a sorte. Decisero che il mozzo era stato fortunato e non dovesse più aspettare. Allora il povero vecchio Bill rimase solo con Jakes
e Dick, ma il Capitano era ancora vivo. Quando il ragazzo non fu più a disposizione, Dick, un uomo grosso e forte come il povero vecchio Bill, disse che era giunto il turno di Jakes, che era stato fortunato per aver vissuto tanto. Ma il povero vecchio Bill ne parlò con Jakes e decisero che fosse meglio scegliere Dick. Rimasero allora Jakes e il povero vecchio Bill, e il Capitano non si decideva a morire. Ora che Dick non c'era più e non era rimasto più nessuno, quei due cominciarono a osservarsi giorno e notte. Alla fine, il povero vecchio Bill perse i sensi e giacque lì per un'ora. Jakes gli si avvicinò lentamente col coltello in mano e gli inferse una coltellata mentre era lì sul ponte. Ma il povero vecchio Bill gli afferrò il polso e affondò due volte il coltello dentro di lui per essere sicuro, anche se in quel modo rovinò la parte migliore della sua carne. Adesso il povero vecchio Bill era solo in mezzo al mare. La settimana dopo, prima che il cibo fosse esaurito, il Capitano doveva essere morto, perché il povero vecchio Bill sentì la sua anima urlare malefici sul mare, e il giorno dopo la nave approdò su una costa rocciosa. Ora sono più di cento anni che il Capitano è morto e il povero vecchio Bill è salvo a terra. Eppure sembra che il Capitano non voglia lasciarlo in pace, perché il povero vecchio Bill non invecchia e, in un modo o nell'altro, sembra non debba morire mai. Povero vecchio Bill!». Quando il racconto fu finito, l'incanto svanì di colpo e tutti ci alzammo e ce ne andammo. Non fu solo questa storia rivoltante, ma lo sguardo spaventoso negli occhi dell'uomo che la raccontò, e la calma terribile con la quale la sua voce superava il rombo della pioggia, a farmi decidere di non entrare mai più in un ritrovo di marinai, in una taverna sul mare. WILLIAM HOPE HODGSON I pirati fantasma La ballata dell'Inferno O! O! Solista: All'argano, marinai! Marinai: Ha!-o-o! Ha!-o-o! Solista: Alle barre dell'argano, anime incatramate! Marinai: Ha!-o-o! Ha!-o-o!
Solista: Date un giro! Marinai: Ha!-o-o! Solista: Pronti a spostare! Marinai: Ha!-o-o! Solista: Pronti a mollare! Marinai: Ha!-o-o! Solista: Ha!-o-o-o-o! Marinai: MOLLA! E via andiamo! Solista: Ascolta lo scalpitio dei vecchi marinai! Marinai: Zitto! Scalpitano! Solista: Scalpitano, scalpicciano... pestano, calpestano, Mentre la gomena si tende Marinai: Ascolta! Scalpicciano! Solista: Molla quando si tende! È bello-o-o-o quando si allenta! Marinai: Ha!-o-o-o-o! Si tendono! Ha! o-o-o-o- scalpicciano! Ha! o-o-o-o-o-o-! Ha! o-o-o-o-o-o-! Coro: Gridano ora; oh! Sentili Scampanii, scalpiccii Ha!-o-o-o-! Ha!-o-o-o! Ha!-o-o-o! Grida, Scalpitii! Solista: O ascolta l'indimenticabile coro dell'argano e delle barre! Il canto-o-o-o, lo schiocco e lo schianto Urtano contro le stelle! Marinai: Ha!-o-o-o! Molla e andiamo Ha-a!-o-o-o! Ha-a!-o-o-o! Solista: Senti la canzone dell'argano. Senti la Ballata dei Marinai; Lo stridio li copre Le campane rispondono alle barre. Marinai: Senti e ascolta! Sentili! Ha-a!-o-o! Ha-a!-o-o! Solista: Senti le canzoni che lanciano contro il cielo! Marinai: Ha-a!-o-o! Ha-a!-o-o! Solista: Zitto! Sentili! Ascolta O sentili! Lanciano bestemmie tra le cime! Marinai: Ascolta! O, sentili!
Zitto! O, sentili! Solista: Scalpitano tra le barre! Coro: Gridano ora; oh! sentili Scampanii, scalpiccii: Ha-a!-o-o-o! Ha-a!-o-o-o! Ha-a!-o-o-o! Grida, scalpitii! Solista: O senti il canto dell'argano! Romba l'argano! Marinai: Clic e clac, clic Molla, E si alza il vocio! Solista: Clic e clac, miei bei ragazzi. Com'è bello! Marinai: Ha-a!-o-o! Senti il clic e il clac. Solista: Ha-a!-o-o! Clic e clac! Marinai: Zitto, Oh, sentili pulsare! Ascolta! Oh, sentili bestemmiare! Solista: Clic, clac, clic clac Marinai: Ha-a!-o-o! Molla e andiamo! Solista: Molla! Lascia la cima! Marinai: Ha-a!-o-o! Lascia la cima: Ha-a!-o-o! Clic e clac! Solista: Si affanna ora ogni bel marinaio. Molla tutto! Molla t-u-t-t-o!! Marinai: Ha-a!-o-o! Molla tutto! Solista: Clic clac... Molla, avanti così! Fermi! Tutto pronto? Marinai: Ha-a!-o-o! Ha-a!-o-o! Solista: Clic e clac, miei bei ragazzi. Marinai: Ha-a!-o-o! Molla e andiamo! Solista: Alza le castagne, e torna indietro. Marinai: Ha-a!-o-o! Avanti così-o-o-o-o! Solista: Grande è la ballata! Grande è l'argano! Lascia andare le «castagne»! F-e-r-m-a! Coro: Ha!-o-o! Disarma le barre! Ha-a!-o-o! Molla e andiamo! Ha-a!-o-o! Carica le barre! Ha-a!-o-o! E via voliamo!
Ha-a!-o-o-o! Ha-a!-o-o-o-o! Ha-a!-o-o-o-o-o! 1. La figura che uscì dal mare Cominciò senza alcun preambolo. Raggiunsi la Mortzestus a San Francisco. Prima di essere ingaggiato, avevo sentito che giravano delle storie strane intorno a quella nave, ma ero senza imbarco e troppo ansioso di partire per preoccuparmi di sciocchezze. Inoltre, a quanto si diceva, su quel vascello il cibo e la paga erano buoni. Quando chiesi a qualcuno di chiarirmi quelle voci, nessuno vi riuscì. Mi fu detto solo che la Mortzestus era sfortunata, e che faceva delle traversate straordinariamente lunghe e incontrava spesso brutto tempo. E poi, per due volte, era stata disalberata e aveva perso il carico. Inoltre le erano accadute un mucchio di altre cose che possono succedere a qualsiasi nave, e in cui non è piacevole essere coinvolti. Ma erano cose normali, ed ero disposto a rischiarle pur di tornare a casa. Ciò nonostante, se ne avessi avuto la possibilità, mi sarei imbarcato su qualche altro vascello, solo per una questione di comodità. Quando posai la mia sacca sulla nave, scoprii che avevano già ingaggiato il resto della ciurma. Vedete, tutto l'equipaggio era fuggito quando la nave era arrivata a San Francisco, cioè, tutti tranne un ragazzo, un «cockney» che era rimasto sulla nave. In seguito, quando lo conobbi, mi disse che aveva avuto l'intenzione di ricavarne un giorno di paga sia che lo facesse qualcun altro sia che non lo facesse nessuno. La prima notte che passai a bordo, scoprii che tra gli altri uomini della ciurma l'argomento generale di conversazione era il fatto che la nave avesse qualcosa di strano. Dicevano, come se fosse un fatto scontato, che la nave era abitata dai fantasmi. Eppure tutti trattavano l'argomento in modo scherzoso, tutti tranne il giovane «cockney» di nome Williams che, invece di ridere alle facezie degli altri, sembrava prendere sul serio tutta la faccenda. Tutto ciò m'incuriosì. Cominciai a chiedermi se, dopotutto, quelle chiacchiere avessero un fondamento di verità. Colsi la prima occasione per chiedere al giovane «cockney» se avesse qualche ragione di credere che le voci sulla nave fossero fondate. Sulle prime sembrò poco disposto a parlare, ma poi cambiò idea, e mi disse di non sapere di nessun incidente in particolare che si potesse definire insolito nel senso che intendevo io. Eppure c'era un mucchio di piccole
cose che, messe insieme, davano da pensare. Per esempio, la Mortzestus faceva sempre traversate molto lunghe e trovava sempre tempo molto brutto: bonacce e venti di prua. Poi accadevano altre cose: le vele che, come egli stesso sapeva, erano state riposte con cura, di notte venivano trovate spiegate. E poi disse una cosa che mi sorprese. «Ci sono troppe ombre su questa nave. Danno sui nervi come nient'altro che abbia mai visto.» Parlò tutto d'un fiato, senza riflettere, e io mi voltai a guardarlo. «Troppe ombre!», dissi. «Che diavolo vuoi dire?» Ma lui rifiutò di dare spiegazioni o di dirmi dell'altro. Scosse solo stupidamente il capo, quando lo interrogai. Sembrava aver preso improvvisamente un atteggiamento scontroso. Fui certo che si stesse comportando di proposito così ottusamente. Pensavo che provasse, in un certo senso, vergogna per essersi lasciato andare, per aver espresso i propri pensieri sulle «ombre». Quel tipo d'uomo talvolta pensa delle cose, ma spesso non le esprime in parole. A ogni modo, capii che era inutile fargli altre domande, perciò lasciai cadere l'argomento. Eppure, per parecchi giorni dopo quest'episodio, mi ritrovai a chiedermi, di tanto in tanto, che cosa avesse voluto intendere per «ombre». Il giorno dopo partimmo da San Francisco con un bel vento a favore, che sembrava smentire le chiacchiere sulla sfortuna della nave. Eppure... Esitò per un momento, e poi riprese a parlare. Nelle prime due settimane di viaggio, non accadde nulla d'insolito, e il vento si mantenne ancora favorevole. Cominciai a pensare di essere stato piuttosto fortunato a imbarcarmi su quella nave. La maggior parte degli uomini era soddisfatta, e l'equipaggio cominciava a pensare che le chiacchiere sui fantasmi della Mortzestus fossero tutte sciocchezze. Ma poi, proprio quando stavo cominciando ad ambientarmi, accadde qualcosa che mi aprì gli occhi. Era il turno di guardia dalle otto a mezzanotte, e io ero seduto sulla scaletta di tribordo che portava al castello di prua. La notte era bella e c'era una luna splendida. A poppa udii il mozzo battere i quattro colpi per segnalare che erano passate quattro ore di guardia, e udii la vedetta, un vecchio di nome Jaskett, rispondergli. Mentre mollava la cima della campana, mi vide. Io ero seduto tranquillamente a fumare. Si sporse oltre la murata, e guardò in basso verso di me. «Sei tu, Jessop?», chiese. «Credo di sì», risposi.
«Abbiamo visto le nostre nonne e tutti i nostri parenti in gonnella venire in mare in nottate come questa», osservò pensosamente, indicando con un ampio movimento della pipa e della mano, la tranquillità del mare e del cielo. Non vidi nessun motivo di contraddirlo, ed egli continuò: «Se questa vecchia nave è abitata dai fantasmi, come dice qualcuno, allora tutto quello che posso dire è che vorrei avere la fortuna d'incontrare un fantasma dello stesso genere. Cibo buono, il budino la domenica, una ciurma decente, e tutte le comodità così da sentirsi a proprio agio. E quanto al fatto che sulla nave ci siano i fantasmi, è tutta una dannata assurdità. Sono stato su un mucchio di navi che si diceva fossero abitate dagli spettri, e qualcuna lo era, ma mai da fantasmi donna. In una nave su cui sono stato imbarcato, gli spettri non ti facevano chiudere occhio durante il turno sottocoperta finché non li avevi scacciati dalla tua cuccetta. A volte...». In quel momento arrivò un marinaio a sostituire la vedetta, salì sul castello di prua lungo l'altra scaletta, e il vecchio si voltò a chiedergli perché diavolo non fosse venuto a dargli il cambio per tempo. Il marinaio rispose qualcosa che non afferrai perché d'improvviso, a poppa, il mio sguardo piuttosto assonnato si era fermato su qualcosa di straordinario e di terribile. Era la figura di un uomo che si arrampicava a bordo, lungo la murata di tribordo, a poppa del sartiame di coperta. Mi alzai, mi afferrai al corrimano e guardai. Dietro di me, qualcuno parlò. Era la vedetta, che era scesa dal castello di prua e si stava dirigendo a poppa per comunicare al Secondo Ufficiale il nome del marinaio che gli aveva dato il cambio. «Che cosa c'è, amico?», mi chiese curioso, notando il mio atteggiamento attento. La cosa, qualsiasi fosse, era scomparsa tra le ombre che erano dal lato sottovento del ponte. «Niente!», risposi brevemente. Perché allora ero troppo stupito di quello che avevo visto per dire qualcos'altro. Volevo pensare. Il vecchio lupo di mare mi lanciò uno sguardo, mormorò qualcosa, e s'incamminò verso poppa. Rimasi lì a guardare, forse per un minuto, ma non vidi niente. Allora camminai lentamente verso poppa, fino all'estremità della tuga. Da lì vedevo la maggior parte del ponte di coperta, ma non scorsi nulla tranne, naturalmente, le ombre delle cime, degli alberi e delle vele che oscillavano avanti e indietro al chiaro di luna.
Il vecchio che aveva appena finito il turno di guardia, era ritornato a prua, e io ero solo in quella parte del ponte. Allora, improvvisamente, mentre scrutavo tra le ombre dal lato sottovento, ricordai che Williams aveva detto che c'erano troppe ombre. Ero stato troppo sorpreso per capire che cosa avesse voluto dire, allora. Ora, non avevo difficoltà. C'erano troppe ombre. Eppure, ombre o no, capii che, per la mia tranquillità, dovevo stabilire una volta per tutte se la cosa, che mi era sembrato fosse salita a bordo dall'oceano, fosse una realtà o una creazione - come direste voi - della mia fantasia. La ragione mi diceva che non era stato nient'altro che fantasia, un sogno veloce: forse mi ero appisolato. Ma qualcosa di più profondo della ragione mi diceva che non era così. Decisi di verificarlo, e mi diressi verso le ombre: non c'era niente. Divenni più coraggioso. Il buon senso mi diceva che dovevo essermi immaginato tutto. Mi avvicinai all'albero maestro, e guardai dietro la battagliola che lo circondava in parte e, in basso, tra le ombre delle pompe, ma anche lì non c'era niente. Allora m'infilai nell'interruzione di poppa. Lì sotto era più buio che sul ponte. Guardai su entrambi i lati del ponte, e vidi che non c'era ciò che cercavo. Questa certezza era confortante. Lanciai un'occhiata ai barcarizzi, e ricordai che niente poteva essere salito a bordo da lì, senza che il Secondo Ufficiale o il mozzo lo avessero visto. Allora appoggiai la schiena contro le paratie, e riflettei su tutta la faccenda rapidamente, fumando la pipa e tenendo lo sguardo fisso sul ponte. Conclusi la mia riflessione, e dissi «No!» ad alta voce. Poi mi venne qualcosa in mente, e dissi: «A meno che...» e mi avvicinai alla murata di tribordo, dove guardai su e giù il mare: ma non c'era nient'altro che acqua. Allora mi voltai e m'incamminai verso prua. Il mio buonsenso aveva trionfato, e io mi ero convinto che l'immaginazione mi aveva giocato un brutto scherzo. Arrivai alla porta di babordo che dava sul castello di prua e, stavo per entrare, quando qualcosa mi spinse a voltarmi indietro. Lo feci, e un tremito mi scosse tutto. A poppa, nella scia ondeggiante della luna che illuminava il ponte e l'albero maestro, c'era una figura scura, indistinta. Era la stessa figura che avevo appena attribuito alla mia immaginazione. Devo ammettere che mi sentivo più che sorpreso: ero terrorizzato. Ero ormai convinto che non si trattasse di una fantasia. Era una figura umana. Ma le ombre e la luce della luna che si alternavano, mi rendevano impos-
sibile vedere di più. Allora, mentre rimanevo lì indeciso e spaventato, pensai che qualcuno stesse facendo la parte del fantasma, benché smettessi di chiedermi per quale ragione o scopo. Ma ero felice di qualsiasi idea che il buonsenso non ritenesse impossibile e, per il momento, mi sentii sollevato. Prima non avevo considerato questa possibilità. Cominciai a farmi coraggio. Mi accusai di avere troppa fantasia, altrimenti l'avrei capito. Ma, strano a dirsi, nonostante tutti i miei ragionamenti, avevo ancora paura di andare a poppa per scoprire chi fosse la persona ferma sul lato sottovento del ponte di coperta. Eppure sentivo che, se non l'avessi fatto, sarei stato da buttare ai pesci. Perciò m'incamminai, benché non molto velocemente, come potete immaginare. Avevo già percorso metà della distanza, e la figura era ancora lì, immobile e silenziosa. La luce della luna e le ombre si intrecciavano su quella forma, a ogni rollio della nave. Penso che mi sforzassi di essere sorpreso. Se era uno dei marinai che faceva il buffone, doveva avermi sentito arrivare, e allora, perché non se la svignava quando ne aveva ancora l'opportunità? E dove poteva essersi nascosto prima? Mi feci tutte queste domande rapidamente, con uno strano miscuglio di dubbio e di certezza e, nel frattempo - vedete - mi stavo avvicinando. Avevo oltrepassato la tuga, ed ero a meno di venti passi di distanza quando, d'improvviso, la figura silenziosamente fece tre ampi passi verso la battagliola di babordo, e saltò in mare. Mi precipitai a guardare, ma non vidi niente, tranne l'ombra della nave che ondeggiava sul mare illuminato dalla luna. Sarebbe impossibile dire per quanto tempo rimasi a fissare l'acqua con uno sguardo assente: certamente trascorse un intero minuto. Mi sentivo vuoto, solo orribilmente vuoto, tanto violenta era stata la conferma della mostruosità di quella cosa che io avevo ritenuto fosse solo una fantasia. Mi sembrò per qualche minuto, sapete, di essere privo della capacità di pensare coerentemente. Credo che fossi stordito, intontito. Come ho detto, trascorsi più o meno un minuto a fissare l'acqua scura che era sotto la fiancata della nave. Poi ritornai improvvisamente in me. Il Secondo Ufficiale stava urlando: «Mettete sottovento i bracci di trinchetto». Mi avvicinai ai bracci, come in sogno. 2. Che cosa vide Tammy il mozzo
La mattina seguente, durante il mio turno di guardia sottocoperta, andai a dare un'occhiata ai punti dove quella cosa strana era salita a bordo e aveva lasciato la nave. Ma non scoprii niente d'insolito e nessun indizio che mi aiutasse a chiarire il mistero di quell'uomo strano. Per parecchi giorni dopo, tutto fu tranquillo, sebbene la notte mi aggirassi sui ponti cercando di scoprire qualcosa di nuovo che servisse a gettare una luce sulla faccenda. Fui attento a non dire niente a nessuno della cosa che avevo visto. Ad ogni modo, ero certo che mi avrebbero solo riso in faccia. Trascorsero molte notti nello stesso modo, e io non ero nemmeno un briciolo più vicino a una soluzione del problema. E poi, durante il secondo turno di guardia, accadde qualcosa. Era il mio turno al timone. Tammy, uno dei mozzi al primo imbarco, controllava il tempo, camminando su e giù lungo il lato sottovento della poppa. Il Secondo Ufficiale stava più avanti, appoggiato al corrimano di poppa e fumava. Il tempo era ancora bello, e la luna, benché calante, era tanto luminosa da far risaltare ogni particolare. Erano già passate tre ore, e devo ammettere che avevo sonno. In realtà, credo di aver sonnecchiato, perché la vecchia nave rispondeva bene al timone e c'era pochissimo da fare, oltre che dare di tanto in tanto un colpetto. Ma poi, all'improvviso, mi sembrò che qualcuno mi chiamasse, sottovoce. Non potevo esserne certo, e lanciai prima un'occhiata al punto dove il Secondo Ufficiale stava fumando, e poi guardai nella chiesuola. La nave era sulla rotta giusta, e mi sentivo sollevato. Poi, improvvisamente, udii di nuovo la voce. Questa volta non c'erano dubbi, per cui gettai un'occhiata sottovento. Allora vidi Tammy allungarsi sul ponte, con la mano tesa, nell'atto di toccarmi un braccio. Stavo per chiedergli che diavolo volesse, quando si portò un dito alla bocca per farmi segno di non parlare, e indicò verso la prua, lungo il lato sottovento di poppa. Alla luce fioca, il suo viso era pallido, e pareva molto agitato. Per qualche secondo fissai nella direzione che indicava, ma non vidi niente. «Che cos'è?», domandai a voce bassa, dopo aver scrutato inutilmente. «Non vedo niente.» «Shhh!», sussurrò, senza guardarmi. Poi, con un improvviso singulto, saltò nel chiostro del timone, e si fermò accanto a me, tremando. Il suo sguardo seguiva i movimenti di qualcuno che io non vedevo.
Devo confessare che ero sorpreso. Il suo atteggiamento, che aveva rivelato tanto terrore, e il modo in cui fissava sottovento, mi fecero pensare che vedesse qualcosa di soprannaturale. «Che diamine ti è successo?», chiesi aspramente. Poi mi ricordai del Secondo Ufficiale. Lanciai un'occhiata verso il punto più avanti, in cui oziava. Ci volgeva ancora le spalle, e non aveva visto Tammy. Allora mi voltai verso il ragazzo. «Per l'amor di Dio, torna al tuo posto prima che il Secondo ti veda!», dissi. «Se vuoi dirmi qualcosa, dimmela dall'altra parte del chiostro del timone. Stavi sognando.» Mentre parlavo, quel furfantello mi afferrò con una mano per la manica e, indicando con l'altra il solcometro, urlò: «Sta venendo! Sta venendo...». In quell'istante, il Secondo Ufficiale arrivò correndo, e chiese che cosa stesse accadendo. Allora, all'improvviso, vidi qualcosa che somigliava a un uomo, accucciato sotto la battagliola che era vicina al solcometro. Ma era così vaga e irreale, che potevo a stento dire di aver visto qualcosa. Poi, come in un lampo, i miei pensieri corsero alla figura silenziosa che avevo visto alla luce tremolante della luna, una settimana prima. Il Secondo Ufficiale mi raggiunse, e io indicai la figura, senza parlare. Eppure, mentre lo facevo, ero consapevole che lui non avrebbe visto quello che vedevo io. (Strano, non è vero?) E poi, in un attimo, persi di vista la cosa, e mi accorsi che Tammy mi stringeva le ginocchia. Il Secondo continuò a fissare il solcometro per qualche secondo, poi si voltò verso di me con un sorriso di scherno. «Dormivate tutti e due, suppongo!» Quindi, senza aspettare un mio diniego, disse a Tammy di andare all'inferno e di smettere di fare baccano, o l'avrebbe buttato a calci giù dalla poppa. Dopodiché, andò a poppa e riaccese la pipa. Qui cominciò a camminare avanti e indietro, lanciandomi, di tanto in tanto, delle occhiate che mi sembrava avessero un'espressione mista di dubbio e di stupore. Più tardi, non appena mi fu dato il cambio, mi affrettai alla volta della cabina del mozzo. Ero ansioso di parlare a Tammy. C'erano una decina di domande che mi preoccupavano, ed ero incerto sul da farsi. Lo trovai coricato su una cuccetta, con le ginocchia tirate su fino al mento, e lo sguardo fisso sull'entrata con un'espressione terrorizzata. Infilai la testa nella cabina e lui sobbalzò, poi vide chi era, e il volto gli si rilassò. Disse: «Entra», con una voce bassa, che cercava di non far tremare. Scavalcai il battente della porta, e mi sedetti su una cuccetta di fronte a lui.
«Che cos'era?», chiese, mettendo i piedi a terra e chinandosi in avanti. «Per l'amor di Dio, dimmi che cos'era!» La sua voce era salita di tono, e io alzai una mano per ammonirlo. «Shhh!», dissi. «Sveglierai gli altri.» Il ragazzo ripeté la domanda, ma a voce più bassa. Esitai prima di rispondergli. Sentii, improvvisamente, che sarebbe stato meglio negare tutto, dire che non avevo visto niente d'insolito. Pensai rapidamente, e gli diedi una risposta in un batter d'occhio. «Che cos'era che cosa?», dissi. «È proprio quello che sono venuto a chiederti. Ci hai fatti sembrare una bella coppia di pazzi lassù a poppa, con le tue buffonate isteriche.» Conclusi il mio rimprovero in tono adirato. «Non era una buffonata!», rispose con un bisbiglio veemente. «Sai che non lo era. Sai che l'hai visto anche tu. L'hai indicato al Secondo Ufficiale. Ti ho visto.» Il furfantello stava quasi per gridare, sia per la paura che per l'offesa della mia falsa incredulità. «Sciocchezze!», replicai. «Sai bene che ti eri addormentato durante il tuo turno. Hai sognato qualcosa e ti sei svegliato all'improvviso. Eri fuori di te.» Ero deciso a rassicurarlo se fosse stato possibile, sebbene, buon Dio! volessi rassicurare anche me. Se avesse saputo che avevo visto un'altra cosa sul ponte di coperta, che cosa sarebbe successo? «Non dormivo, proprio come te», disse in tono astioso. «E tu lo sai. Mi stai solo imbrogliando. Sulla nave ci sono i fantasmi.» «Che cosa?», dissi in tono aspro. «Sulla nave ci sono i fantasmi», ripeté. «Ci sono i fantasmi.» «Chi lo dice?», chiesi in tono incredulo. «Io lo dico! E tu lo sai. Tutti lo sanno, ma non ci credono molto... Io non ci credevo fino a stanotte.» «Dannate sciocchezze!», risposi. «Sono tutte chiacchiere di vecchi marinai. Se questa nave è abitata da fantasmi, io sono uno spettro.» «Non sono dannate sciocchezze», rispose, non persuaso. «E non sono chiacchiere di vecchi marinai... Perché non vuoi dire che l'hai visto!», gridò, eccitato fino alle lacrime, e alzando di nuovo la voce. Lo ammonii di non svegliare gli altri. «Perché non vuoi dire che l'hai visto!», ripeté. Mi alzai dalla cuccetta e andai verso la porta.
«Sei un piccolo idiota!», conclusi. «E ti devo raccomandare di non andare in giro per la nave a dire queste sciocchezze. Accetta il mio consiglio: mettiti a letto e fai una buona dormita. Stai parlando come un pazzo. Domani forse ti accorgerai che hai fatto la figura dello stupido.» Scavalcai il battente della porta, e me ne andai. Credo che mi seguì fino alla porta per dirmi qualcos'altro, ma nel frattempo mi ero già allontanato. Durante i due giorni successivi, lo evitai per quanto mi fu possibile, facendo attenzione a non trovarmi mai solo con lui. Ero deciso, se fosse stato possibile, a convincerlo che si era sbagliato nel credere di aver visto qualcosa quella notte. Eppure, dopotutto, fu inutile, come vedrete tra poco. Perché, due notti dopo, si ebbe un ulteriore e straordinario sviluppo della faccenda, che rese del tutto inutili i miei dinieghi. 3. L'uomo sull'albero maestro Accadde durante il primo turno di guardia, poco dopo che erano suonati i sei colpi. Ero a prua, seduto sul portello del boccaporto. Non c'era nessuno sul ponte di coperta. La notte era molto bella e il vento era calato quasi del tutto, cosicché la nave era molto tranquilla. A un tratto, udii la voce del Secondo Ufficiale... «Sulle sartie di maestra... ehi tu! Chi sta salendo in coffa?» Mi sollevai dal portello del boccaporto e ascoltai. Seguì un silenzio profondo. Poi si risentì la voce del Secondo. Si stava chiaramente adirando. «Mi senti bene? Che diavolo stai facendo lassù? Scendi!» Mi alzai e mi avvicinai al lato controvento. Da lì potevo vedere il boccaporto di poppa. Il Secondo Ufficiale era accanto al barcarizzo di tribordo. Aveva l'aria di guardare qualcosa che mi era nascosta dalle vele di gabbia. Mentre lo fissavo, urlò di nuovo: «Inferno e dannazione, maledetto bastardo, devi scendere quando te lo dico!». Sbatté i piedi sulla tolda, e ripeté l'ordine, furibondo. Ma non ci fu nessuna risposta. Cominciai ad andare verso poppa. Che cos'era successo? Chi era salito in coffa? Chi sarebbe stato così pazzo da salirvi, senza che gli fosse stato ordinato? E allora, all'improvviso, mi ricordai di qualcosa: la figura che avevamo visto io e Tammy. Il Secondo Ufficiale aveva visto qualcosa, qualcuno? Mi affrettai poi, ad un tratto, mi fermai. Proprio in quel momento si udì il suono stridulo del fischio del Secondo. Chiamava i marinai in coperta. Io mi girai e corsi al
castello di prua per svegliarli. Un minuto dopo, mi affrettavo con loro a poppa per vedere che cosa volesse. La sua voce ci arrivò, quando eravamo a metà del ponte: «Qualcuno di voi salga sull'albero maestro per scoprire chi è quel dannato pazzo che è lassù. Che veda che cosa sta combinando». «Io, io, Signore», urlarono molti uomini, e un paio di marinai saltarono sul sartiame di babordo. Li raggiunsi, e anche gli altri si apprestavano a seguirci, ma il Secondo urlò che qualcuno andasse dal lato di tribordo, nel caso che quell'uomo cercasse di scendere da quella parte. Mentre seguivo gli altri due che salivano in coffa, sentii che il Secondo Ufficiale diceva a Tammy - che era di turno a controllare il tempo - di scendere sul ponte di coperta con l'altro mozzo, e di controllare gli stragli di prua e di poppa. «Se viene messo in difficoltà, può tentare di scendere per uno degli stragli», lo udii spiegare. «Se vedi qualcosa, chiamami subito.» Tammy esitava. «Ebbene?», disse in tono aspro il Secondo Ufficiale. «Niente, Signore», rispose Tammy e scese sul ponte di coperta. Il primo marinaio dal lato di tribordo aveva raggiunto le rigge, la sua testa era già oltre la coffa, e si era fermato per dare un'occhiata preliminare, prima di avventurarsi più in alto. «Vedi qualcosa, Jock?», chiese Plummer, che era l'uomo che mi precedeva. «No!», rispose Jock, decisamente, e si arrampicò sulla coffa scomparendo alla mia vista. Il marinaio che mi precedeva, lo seguì. Raggiunse le rigge, e si fermò a sputare. Io ero vicino ai suoi talloni, e lui guardò in basso verso di me. «Che cosa sta succedendo, ad ogni modo?», borbottò. «Che cosa ha visto? A chi stiamo dando la caccia?» Dissi che non lo sapevo, e lui si issò tra le sartie della cima dell'albero. Lo seguii. I marinai, che erano saliti dal lato di tribordo, erano circa alla nostra altezza. Ai piedi della vela di gabbia, vidi Tammy e l'altro mozzo che stavano sul ponte di coperta e guardavano in alto. La ciurma era eccitata, ma reprimeva l'eccitazione, benché fossi incline a pensare che si trattasse più che altro di curiosità e - forse - della sensazione che la faccenda fosse strana. Capii, guardando verso tribordo, che c'era la tendenza a restare uniti, tendenza con la quale ero d'accordo. «Dev'essere un passeggero clandestino», suggerì uno degli uomini.
Mi aggrappai subito a quest'idea. Forse... E poi, dopo un momento, la respinsi. Ricordai che la prima figura era saltata oltre la battagliola in mare. Questo fatto non poteva essere spiegato così. Riguardo a quest'ultimo episodio, ero curioso e ansioso. Io non avevo visto niente questa volta. Che cosa aveva visto il Secondo Ufficiale, mi chiesi. Stavamo inseguendo un'allucinazione oppure, tra le ombre che ci sovrastavano c'era veramente qualcuno, qualcosa di reale? I miei pensieri tornarono a quella cosa che io e Tammy avevamo visto vicino al solcometro. Ricordai che allora il Secondo Ufficiale era stato incapace di vedere. Ricordai quanto mi fosse sembrato naturale che lui non potesse vedere. Udii di nuovo la parola «clandestino». Dopotutto, avrebbe potuto essere la spiegazione di questa faccenda. Avrebbe... La mia catena di pensieri fu bruscamente interrotta. Uno degli uomini stava urlando e gesticolando. «Lo vedo! Lo vedo!», e indicava un punto in alto, al di sopra delle nostre teste. «Dove?», chiese l'uomo che mi precedeva. «Dove?» Io guardavo in alto, cercando di fare del mio meglio. Mi accorsi di provare sollievo. «È reale, allora», dissi tra me e me. Girai il capo, e guardai lungo i pennoni che erano al di sopra di noi. Eppure non vedevo niente, niente tranne le ombre e le zone di luce. Udii la voce del Secondo Ufficiale, che era sul ponte. «L'avete preso?», urlava. «Non ancora, Signore», gridò il marinaio che era più in basso dal lato di tribordo. «Lo vediamo, Signore», aggiunse Quoin. «Io non lo vedo!», dissi. «È un vecchio», affermò. Avevamo raggiunto il sartiame del velaccio, e Quoin indicava in alto il pennone del controvelaccio. «Sei uno stupido, Quoin. Questo sei.» La voce proveniva dall'alto. Era quella di Jock, e ci fu uno scoppio di risate a spese di Quoin. Ora vedevo Jock. Stava sul sartiame, proprio al di sotto del pennone. Si era arrampicato velocemente, mentre noi stavamo con il naso in aria a guardare la coffa. «Sei uno stupido, Quoin», ripeté. «E penso che anche il Secondo Ufficiale sia stupido.»
Cominciò a scendere. «Allora non c'è nessuno?», domandai. «No», disse brevemente. Quando arrivammo sul ponte, il Secondo Ufficiale corse dalla poppa. Ci venne incontro con aria speranzosa. «L'avete preso?», domandò, in tono fiducioso. «Non c'era nessuno», dissi. «Che cosa!», urlò. «Mi state nascondendo qualcosa», continuò furibondo, lanciando occhiate a ognuno di noi. «Tiratela fuori. Chi era?» «Non stiamo nascondendo niente», replicai, parlando a nome di tutti. «Non c'è nessuno lassù.» Il Secondo ci abbracciò con un'occhiata. «Sono forse uno stupido?», chiese in tono sprezzante. Seguì un silenzio di assenso. «L'ho visto con i miei occhi», continuò. «Tammy l'ha visto. Non era oltre la coffa, quando l'ho visto per la prima volta. Non c'è possibilità d'errore. È una dannata sciocchezza dire che non c'è nessuno lassù.» «Ebbene, non c'è nessuno, Signore», risposi. «Jock è arrivato fino al pennone di controvelaccio.» Il Secondo Ufficiale non rispose niente, ma fece qualche passo verso poppa e guardò in su l'albero maestro. Poi si voltò verso i due mozzi. «È sicuro che voi due non abbiate visto nessuno scendere dall'albero maestro?», domandò in tono sospettoso. «Sì, Signore», risposero in coro. «Ad ogni modo», lo udii mormorare tra sé e sé, «se fosse accaduto, l'avrei visto io stesso.» «Avete qualche idea, Signore, di chi fosse la persona che avete visto?», chiesi a questo punto. Mi guardò con uno sguardo penetrante. «No!», rispose. Pensò per qualche attimo, mentre tutti eravamo intorno a lui ad aspettare che ci lasciasse andare a dormire. «Perbacco!», esclamò a un tratto. «Avrei dovuto pensarci prima.» Si voltò e ci guardò uno per volta. «Siete tutti qui?», chiese. «Sì, Signore», rispondemmo in coro. Mi accorsi che ci stava contando. Poi parlò di nuovo. «Tutti voi rimanete qui dove siete. Tammy, tu andrai nella tua cabina a
vedere se gli altri sono nelle loro cuccette. Poi verrai a dirmelo. Presto!» Il ragazzo partì, ed egli si voltò verso l'altro mozzo. «Tu andrai a prua, al castello», disse. «Conta gli uomini di guardia, poi ritorna a poppa per riferirmelo.» Mentre il ragazzotto spariva lungo il ponte del castello di prua, Tammy ritornava dalla sua visita al ripostiglio per dire al Secondo Ufficiale che gli altri due mozzi dormivano della grossa nelle proprie cuccette. Allora, il Secondo lo mandò in tutta fretta alle cabine del Maestro d'Ascia e del Veliere, per vedere se si fossero coricati. Mentre Tammy scompariva, l'altro ragazzo arrivò a poppa, e riferì che tutti gli uomini erano nelle proprie cuccette e dormivano. «Sei sicuro?», gli domandò il Secondo. «Sicurissimo, Signore», rispose. «Va' a vedere se il Cambusiere è nella sua cabina», disse di scatto. Ma era chiaro che era molto perplesso. «Avete ancora qualcosa da imparare, Signor Secondo Ufficiale», pensai. Poi cominciai a pensare a quali conclusioni sarebbe giunto. Dopo qualche secondo, Tammy ritornò a dire che il Maestro d'Ascia, il Veliere e il «Dottore» erano tutti a letto. Il Secondo Ufficiale mormorò qualcosa, e gli ordinò di andare giù nell'Alloggio Ufficiali per vedere se, per caso, il Primo e il Terzo Ufficiale non fossero nelle loro cabine. Tammy partì, poi si fermò. «Devo dare un'occhiata anche nella cabina del Comandante, Signore, visto che mi ci trovo?», chiese. «No!», disse il Secondo Ufficiale. «Fai ciò che ti ho ordinato e poi vieni a riferire. Se qualcuno deve andare nella cabina del Comandante, tocca a me.» Tammy balbettò: «Sì, sì, Signore», e schizzò verso la poppa. Mentre Tammy se ne andava, l'altro mozzo arrivò e riferì che il Cambusiere era nella propria cabina, e che voleva sapere perché diavolo il mozzo stava facendo lo stupido da quelle parti. Il Secondo Ufficiale rimase zitto (per quasi un minuto). Poi si voltò verso di noi e ci disse che potevamo andare a prua. Mentre ce ne andavamo tutti insieme, parlando sottovoce, Tammy arrivò dalla poppa, e andò dal Secondo Ufficiale. Lo sentii riferire che i due ufficiali dormivano nelle proprie cabine. Poi aggiunse, come riflettendo... «E anche il Comandante.»
«Pensavo di averti detto...», cominciò il Secondo Ufficiale. «Non ho fatto niente, Signore», disse Tammy. «La porta della sua cabina era aperta.» Il Secondo Ufficiale si avviò a poppa. Afferrai un frammento del discorso che stava facendo a Tammy. «...è esclusa tutta la ciurma. Io sono...» Salì a poppa. Non afferrai il resto. Mi ero attardato un momento poi, comunque, mi affrettai dietro gli altri. Quando eravamo vicini al castello di prua, suonò un colpo, e noi svegliammo gli altri marinai di guardia e raccontammo loro che cosa avevamo fatto. «Penso che doveva essere sbronzo», azzardò uno dell'equipaggio. «Secondo me», disse un altro, «stava facendo un sonnellino sul boccaporto, e ha sognato che sua suocera era venuta a trovarlo con intenzioni amichevoli.» Ci fu qualche risata a questo suggerimento, e io mi sorpresi a ridere con tutti gli altri, benché non avessi ragioni per condividere la loro fiducia nel fatto che non fosse accaduto niente. «Avrebbe potuto essere un clandestino, sai?» Sentii che Quoin, l'unico che l'aveva suggerito prima, lo riferiva a uno dei marinai scelti, Stubbins, un tipo basso e dall'aspetto piuttosto rozzo. «Ma che diavolo dici!», rispose Stubbins. «I clandestini non sono così stupidi.» «Non lo so», disse il primo. «Mi sarebbe piaciuto chiedere al Secondo Ufficiale che cosa ne pensava.» «Non penso che fosse un clandestino, comunque», mi intromisi. «Che cosa avrebbe fatto un clandestino sulla coffa? Immagino che avrebbe tentato piuttosto di trovare la dispensa del Cambusiere.» «Scommetto che l'avrebbe fatto», disse Stubbins. Accese la pipa, e l'aspirò con lentezza. «Comunque, non lo capisco», notò, dopo un momento di silenzio. «Nemmeno io», convenni. Dopodiché restai in silenzio ad ascoltare come si svolgeva la conversazione sull'argomento. Poco dopo, il mio sguardo cadde su Williams, l'uomo che mi aveva parlato delle ombre. Era steso nella sua cuccetta a fumare, e non faceva nessun tentativo di unirsi alla conversazione. Mi avvicinai. «Che cosa ne pensi, Williams?», gli domandai. «Tu pensi che il Secondo
Ufficiale abbia veramente visto qualcosa?» Mi guardò con un'aria tetra e diffidente, ma non disse niente. Mi sentii un po' infastidito dal suo silenzio, ma fui attento a non darlo a vedere. Dopo qualche attimo, continuai. «Lo sai, Williams? Sto cominciando a capire che cosa volevi dire quella notte, quando hai detto che c'erano troppe ombre.» «Che cosa vuoi dire?», disse, tirando via la pipa dalla bocca, colto alla sprovvista. «Quello che ho detto, naturalmente», dissi. «Ci sono troppe ombre.» Si alzò a sedere e si sporse fuori dalla cuccetta, allungando una mano e la pipa. Gli occhi esprimevano chiaramente la sua eccitazione. «Hai visto...», esitò e mi guardò, lottando dentro di sé per esprimersi. «Allora?», lo incitai. Forse per un intero minuto tentò di dire qualcosa. Poi il suo volto perse l'espressione dubbiosa e indefinibile e prese un'aria risoluta e decisa. Parlò. «Che io sia maledetto», disse, «se non riesco a ricavarne un giorno di paga, ombre o no.» Lo guardai stupito. «Che cosa c'entra il fatto che devi ricavarne un giorno di paga?», domandai. Annuì, con una specie di decisione ottusa. «Vedi...», cominciò. Io aspettai. «La ciurma fuggì», continuò, e indicò con la mano e con la pipa la poppa. «Intendi dire a San Francisco?», chiesi. «Sì», rispose, «e senza prendere nemmeno un cent della loro paga. Io sono rimasto.» Lo compresi subito. «Pensi che videro», esitai, poi dissi, «le ombre?» Annuì, ma non disse niente. «E perciò hanno tagliato tutti la corda?» Annuì di nuovo, e cominciò a ripulire la pipa, sbattendola sul bordo della cuccetta. «Anche gli Ufficiali e il Comandante?», domandai. «Sì, anche loro», affermò, e si alzò dalla cuccetta, perché stavano suonando otto colpi.
4. L'episodio della vela spiegata Era stato venerdì notte che il Secondo Ufficiale aveva mandato i marinai di guardia a cercare l'uomo sull'albero maestro e, nei cinque giorni seguenti, a bordo se ne parlò ancora benché, tranne Williams, Tammy e io, nessuno sembrava prendere sul serio la faccenda. Forse non dovrei escludere Quoin, che ancora insisteva, a ogni occasione, che c'era un clandestino a bordo. Per quanto riguardava il Secondo Ufficiale, ora avevo pochi dubbi che lui non stesse cominciando a capire che c'era qualcosa di più profondo e di meno comprensibile di quanto avesse immaginato all'inizio. Ma, nondimeno, sapevo che doveva tenere per sé le proprie intuizioni e vaghe opinioni, perché il Comandante e il Primo Ufficiale lo prendevano in giro senza pietà per il suo «folletto». Questo lo appresi da Tammy, che li aveva uditi entrambi prendersi gioco del Secondo Ufficiale durante il secondo turno di guardia, il giorno seguente. Ci fu un'altra cosa che Tammy mi disse, che indicava quanto il Secondo Ufficiale si preoccupasse della propria incapacità a capire la misteriosa apparizione e scomparsa dell'uomo che aveva visto salire in coffa. Aveva chiesto a Tammy di dargli tutti i particolari sulla figura che avevamo visto vicino al solcometro. La cosa più notevole era che il Secondo non aveva nemmeno ostentato di trattare l'argomento con leggerezza né con sarcasmo, ma aveva ascoltato seriamente e aveva fatto moltissime domande. Mi era molto chiaro che stesse arrivando all'unica conclusione possibile. Benché, Iddio sa, fosse l'unica che era impossibile ed improbabile. Fu mercoledì notte, dopo i cinque giorni di conversazioni cui ho accennato, che io e coloro che sapevano avemmo un altro elemento di timore. Eppure, capisco perfettamente che, a quel tempo, coloro che non avevano visto niente, avrebbero trovato poco da spaventarsi nel fatto che sto per raccontarvi. Eppure, perfino loro rimasero molto stupiti e perplessi e, forse, dopotutto, anche un po' intimoriti. C'erano molte cose in questa faccenda che erano inspiegabili, eppure ce n'erano molte altre che erano naturali e banali. Il fatto nudo e crudo fu solo che trovammo una delle vele alla deriva. Ma l'avvenimento fu accompagnato da particolari molto significativi, significativi, cioè, alla luce di ciò che sapevamo io, Tammy e il Secondo Ufficiale. Stavano per suonare gli otto colpi che segnalavano la fine del primo turno di guardia, e il nostro gruppo era stato svegliato per andare a sostituire
quello del Primo Ufficiale. La maggior parte degli uomini era già fuori dalle cabine, o sedeva sulle cuccette per vestirsi. A un tratto, uno dei mozzi dell'altro turno di guardia, infilò la testa attraverso la porta di babordo. «Il Secondo Ufficiale vuole sapere», disse, «chi di voi ha serrato il controvelaccio di trinchetto, durante l'ultima guardia.» «Perché lo vuole sapere?», chiese uno degli uomini. «Il controvelaccio del lato sottovento è spiegato», disse il mozzo. «E dice che il marinaio che lo ha serrato deve andare a dargli un'occhiata, appena viene dato il cambio alla guardia.» «Oh! Davvero? Non sono stato io, comunque», replicò l'uomo. «Faresti bene a chiederlo a qualcun altro.» «Chiedere che cosa?», domandò Plummer, uscendo assonnato dalla propria cabina. Il mozzo ripeté il messaggio. L'uomo sbadigliò e si stirò. «Fammi pensare», mormorò, e si grattò la testa con una mano, mentre con l'altra armeggiava con i pantaloni. «Chi ha serrato il controvelaccio di trinchetto?» Si infilò i pantaloni e si alzò. «Bene, il Marinaio Semplice, naturalmente, chi altro pensavi?» «È tutto quello che volevo sapere!», disse il mozzo, e se ne andò. «Ehi! Tom!», urlò Stubbins rivolto al Marinaio Semplice. «Svegliati maledetto pigrone. Il Secondo Ufficiale ha appena mandato a chiedere chi ha serrato il controvelaccio di trinchetto, e dice che devi salire a serrarlo, non appena suonano gli otto colpi.» Tom saltò fuori dalla cuccetta, e cominciò a vestirsi rapidamente. «È spiegato!», disse. «Non c'è tutto questo vento, e io ho serrato bene i matafioni, durante gli altri turni.» «Forse uno dei matafioni è fradicio, e ha ceduto», suggerì Stubbins. «Ad ogni modo, faresti meglio ad affrettarti: stanno per suonare gli otto colpi.» Un minuto dopo, risuonarono gli otto colpi, e noi ci radunammo a poppa per l'appello. Non appena furono chiamati tutti i nomi, vidi il Primo chinarsi verso il Secondo e dirgli qualcosa. Poi il Secondo Ufficiale urlò: «Tom!». «Signore!», rispose Tom. «Sei stato tu a serrare il controvelaccio di trinchetto durante l'ultimo turno di guardia?» «Sì, Signore.»
«Com'è possibile che ora è spiegato?» «Non lo so, Signore.» «Bene, lo è, e tu faresti meglio ad arrampicarti in coffa e serrare di nuovo i matafioni. E bada di fare un lavoro migliore, questa volta.» «Sì, sì, Signore», disse Tom, e seguì gli altri che andavano a prua. Raggiunto il sartiame di trinchetto vi si arrampicò, e cominciò a salire lentamente in coffa. Lo vedevo distintamente, perché la luna era chiara e luminosa, benché fosse solo al primo quarto. Mi avvicinai alla battagliola di controvento, e mi appoggiai per guardarlo, mentre riempivo la pipa. Gli altri marinai, sia quelli di guardia in coperta che quelli di guardia sottocoperta, erano entrati nel castello di prua, cosicché pensai di essere solo sul ponte di coperta. Ma, un minuto dopo, scoprii di essermi sbagliato perché, mentre accendevo la pipa, vidi Williams, il giovane cockney, uscire dal riparo del cassero, e voltarsi a guardare in alto il Marinaio Semplice che si arrampicava con calma. Rimasi un po' sorpreso, perché sapevo che il ragazzo, insieme ad altri tre marinai, stava giocando a poker, e stava vincendo più di sei libbre di tabacco. Credo che aprii la bocca per chiedergli perché non stesse giocando, e allora, d'improvviso, mi ritornò alla mente la mia prima conversazione con lui. Ricordai che aveva detto che le vele venivano sempre trovate spiegate, di notte. Ricordai anche, l'enfasi che aveva messo su quelle due parole e, ricordandolo, provai immediatamente paura. Perché, all'improvviso, mi aveva colpito l'assurdità del fatto che una vela - sia pure una vela assicurata male - fosse spiegata con un tempo bello e calmo come quello che c'era quella notte. Mi stupii di non essermi accorto prima che c'era qualcosa di strano e d'inverosimile in quella faccenda. Le vele non si aprono da sole col tempo bello, con il mare calmo e la nave salda come uno scoglio. Mi spostai dalla battagliola e mi avvicinai a Williams. Sapeva qualcosa o, almeno, sospettava qualcosa che per me, in quel momento, era del tutto incomprensibile. Lassù, il ragazzo si stava arrampicando, verso che cosa? Era questo che mi spaventava di più. Dovevo dire tutto quello che sapevo e sospettavo? E poi, a chi avrei dovuto dirlo? Avrebbero solo riso di me... Williams si voltò verso di me, e parlò. «Dio mio!», disse, «Ricomincia!» «Che cosa?», dissi a mia volta. Sebbene sapessi perfettamente che cosa
voleva dire. «Le vele», rispose, e fece un gesto verso il controvelaccio di trinchetto. Lanciai una breve occhiata verso l'alto. Tutto il lato sottovento della vela era spiegato, dal matafione della parte concava della vela verso l'esterno. Più in basso, vidi Tom che si stava issando sul sartiame del velaccio. Williams parlò di nuovo. «Perdemmo due uomini proprio nello stesso modo.» «Due uomini!», esclamai. «Sì!», disse concisamente. «Non capisco», continuai. «Non ne ho mai sentito parlare.» «Chi te ne avrebbe dovuto parlare?», mi chiese. Non risposi alla sua domanda. In realtà, l'avevo compresa a malapena, perché nella mia mente era sorto di nuovo il problema su che cosa dovessi fare. «Mi è venuta l'idea di andare a poppa e dire al Secondo Ufficiale tutto quello che so», dissi. «Egli stesso ha visto qualcosa che non riesce a spiegarsi e, a ogni modo, non posso sopportare questo stato di cose. Se il Secondo Ufficiale sapesse tutto...» «Ma va!», mi interruppe. «Direbbe che sei un maledetto idiota. Non andarci. Resta dove sei.» Ero indeciso. Quello che aveva detto Williams era giusto, e io ero perplesso, benché sarebbe stato difficile scoprire le ragioni di questa mia convinzione. Eppure ero sicuro dell'esistenza di un pericolo, come l'avessi già visto con i miei occhi. Mi chiesi se, pur non sapendo quale forma avrebbe assunto, avrei potuto fermarlo, raggiungendo Tom sul pennone. Quest'idea mi venne mentre fissavo in alto il pennone di controvelaccio. Tom aveva raggiunto la vela, e stava sul poggiapiedi vicino alla parte concava della tela. Era chino sul pennone, e si protendeva per raggiungere l'imbando della vela. Poi, mentre guardavo, vidi il ventre del controvelaccio agitarsi all'improvviso, come se fosse stato colpito da una raffica di vento. «Che io sia dannato...!», cominciò Williams, con un'espressione di aspettativa e di eccitazione. Poi si fermò di colpo come aveva cominciato. Infatti, in un attimo, la vela aveva colpito il lato sottovento del pennone e sembrava che avesse spinto Tom giù dal poggiapiedi. «Mio Dio!», urlai. «È caduto!» Per un attimo gli occhi mi si offuscarono. Intanto Williams gridava qualcosa che non riuscii a capire. Poi, rapidamente, la vista mi ritornò.
Williams indicava qualcosa, e io vidi una macchia scura che oscillava al di sotto del pennone. Williams urlò qualcos'altro, e corse verso il sartiame di trinchetto. Afferrai solo le ultime parole... «...il matafione». Allora capii che Tom era riuscito ad afferrarsi al matafione mentre cadeva, e mi lanciai dietro Williams per dargli una mano a portare in salvo il ragazzo. Correndo lungo il ponte, udii il rumore di passi affrettati, e poi la voce del Secondo Ufficiale. Chiedeva che diavolo stesse succedendo, ma non mi preoccupai di rispondergli: volevo conservare il fiato per salire in coffa. Sapevo bene che alcuni dei matafioni erano poco più di cime fradice e, a meno che Tom non si fosse aggrappato a qualcosa che si trovava sul pennone di controvelaccio al di sotto, avrebbe potuto cadere a ogni istante. Raggiunsi la vela di gabbia e mi arrampicai velocemente. Williams era un po' più alto di me. In meno di mezzo minuto arrivai al pennone di velaccio. Williams era salito fino al controvelaccio. Mi lasciai scivolare sul poggiapiedi del velaccio finché non fui proprio sotto Tom. Allora gli urlai di lasciarsi cadere tra le mie braccia perché l'avrei afferrato. Non mi rispose, e mi accorsi che penzolava in uno strano modo floscio e che era appeso per una sola mano. Dal pennone di controvelaccio mi arrivò la voce di Williams. Mi gridava di salire a dargli una mano per tirare Tom giù dal pennone. Quando lo raggiunsi, mi disse che il matafione si era attorcigliato intorno al polso del ragazzo. Mi chinai accanto al pennone, e scrutai verso il basso. Era come aveva detto Williams, e capii come il giovane si fosse salvato per un pelo. Ma, perfino in quel momento, mi venne in mente quanto fosse debole il vento quella notte. E ricordai con quale violenza la vela avesse urtato il ragazzo. Nel frattempo, ero impegnato a liberare il caricamezzo di babordo. Ne presi l'estremità, feci un nodo scorsoio a gassa d'amante intorno al matafione, e lasciai scivolare il cappio sulla testa e sulle spalle del ragazzo. Poi diedi uno strattone e lo tesi al di sotto delle sue braccia. Un minuto più tardi era in salvo sul pennone, tra noi due. Alla luce incerta della luna, vidi solo un grande bernoccolo sulla sua fronte, là dove la vela lo doveva aver colpito quando l'aveva spinto giù. Mentre eravamo lì fermi a riprendere fiato, sentii la voce del Secondo Ufficiale, proprio al di sotto di noi. Williams lanciò un'occhiata in basso, poi alzò gli occhi verso di me e scoppiò in una risata breve e rauca.
«Caspita!», disse. «Che cosa c'è?», chiesi in fretta. Lui scosse il capo avanti e indietro. Mi girai un poco, afferrandomi al pennone con una mano e tenendo con l'altra il Marinaio Semplice, che non dava segni di vita. In questo modo riuscii a guardare in basso. Sulle prime non vidi niente. Poi mi arrivò di nuovo la voce del Secondo Ufficiale. «Chi diavolo siete? Che cosa state facendo?» Allora lo vidi. Era ai piedi delle sartie del velaccio di controvento, aveva la faccia rivolta verso l'alto, e scrutava il lato sottovento dell'albero. Il suo volto mi appariva solo come un ovale indistinto e pallido alla luce della luna. Ripeté la domanda. «Siamo Williams e io, Signore», dissi. «Tom ha avuto un incidente.» Mi fermai. Lui cominciò a salire verso di noi. Dal sartiame di sottovento si alzò un brusio di voci. Il Secondo Ufficiale ci raggiunse. «Allora, che cosa è successo?», domandò in tono sospettoso. «Che cosa è accaduto?» Si era chinato, e scrutava il volto di Tom. Cominciai a spiegare, ma m'interruppe: «È morto?». «No, Signore», dissi. «Non penso, ma il poveraccio ha fatto una brutta caduta. Pendeva dal matafione quando l'abbiamo preso. La vela lo ha spinto giù dal pennone.» «Che cosa?», disse in tono tagliente. «Il vento ha afferrato la vela, e l'ha buttata contro il pennone...» «Quale vento?», mi interruppe. «Soffia a mala pena un filo di vento.» Spostò il proprio peso sull'altro piede. «Che cosa vuoi dire?» «Voglio dire quello che ho detto, Signore. Il vento ha spinto la vela contro la cima del pennone e ha fatto cadere Tom dal poggiapiedi. Sia io che Williams l'abbiamo visto.» «Ma non c'è un vento così forte da provocare una cosa simile: stai dicendo un'assurdità!» Mi parve che la sua voce suonasse smarrita, eppure direi che fosse sospettoso, benché dubitassi che egli stesso sapesse che cosa sospettare. Lanciò un'occhiata a Williams e sembrò sul punto di dire qualcosa. Poi parve cambiare parere, si voltò, e urlò a uno degli uomini, che l'avevano seguito in coffa, di scendere e di fargli arrivare una duglia nuova, un cavo
di manila di tre pollici e un bozzello. «Subito!», concluse. «Sì, sì, Signore», disse l'uomo, e si calò rapidamente. Il Secondo Ufficiale si voltò verso di me. «Quando avrete portato Tom sottocoperta, voglio una spiegazione migliore di quella che mi hai dato. Quella non regge.» «Va bene, Signore», risposi. «Ma non ne avrete nessun'altra.» «Che cosa vuoi dire?», urlò. «Sappi che non sopporto alcuna insolenza né da te né da nessun altro.» «Non intendevo essere insolente, Signore, volevo solo dire che questa è l'unica spiegazione che posso darvi.» «Ti ho detto che non regge!», ripeté. «C'è qualcosa di strano in questa faccenda. Riferirò tutto al Comandante. Non posso raccontargli quella stupidaggine...» Si interruppe di colpo. «Non è l'unica cosa strana che sia accaduta a bordo di questa vecchia carretta», risposi. «Voi dovreste saperlo, Signore.» «Che cosa vuoi dire?», chiese in fretta. «Va bene, Signore», dissi, «a essere sinceri, che cosa ne dite di quel tipo che l'altra notte ci avete mandato a cercare sull'albero maestro? Quello era un fatto strano, non è vero? Questo è molto meno strano.» «Basta così, Jessop!», urlò furibondo. «Non voglio più discutere con te.» Eppure c'era qualcosa nel tono della sua voce che mi rivelò che avevo segnato un punto a mio favore. Sembrò di colpo meno convinto che gli stessi raccontando una frottola. Dopodiché, forse per quasi un minuto, non disse niente. Intuii che stava pensando a qualcosa di molto complesso. Quando parlò di nuovo, fu a proposito del problema di portare il Marinaio Semplice giù dal ponte. «Uno di voi deve scendere lungo il lato sottovento e tenerlo fermo dal basso», concluse. Si voltò e guardò in basso. «Avete portato la cinghia?», urlò. «Sì, Signore», udii rispondere uno degli uomini. Dopo un attimo, vidi la testa di un uomo spuntare oltre la cima. Aveva un bozzello avvolto intorno al collo, e sulle sue spalle era poggiata l'estremità di una cinghia. Ben presto montammo il bozzello, e Tom fu tirato giù sul ponte. Poi lo portammo nel castello di prua e lo mettemmo nella sua cuccetta. Il Secon-
do Ufficiale aveva mandato a prendere del brandy, e subito cominciò a somministrarlo al giovane. Contemporaneamente, un paio di uomini gli strofinavano le mani e i piedi. In poco tempo, cominciò a dare segni di vita. Ben presto, dopo un improvviso attacco di tosse, aprì gli occhi con uno sguardo sorpreso e meravigliato. Poi si afferrò al bordo della cuccetta e si alzò a sedere, barcollando. Uno degli uomini lo tenne fermo, mentre il Secondo Ufficiale si teneva in disparte e lo guardava con espressione critica. Il ragazzo oscillava avanti e indietro, e portò una mano alla testa. «Ecco», disse il Secondo Ufficiale, «bevi ancora.» Tom inspirò e trattenne per un attimo il respiro, poi cominciò a parlare. «Perdinci!», disse. «Come mi fa male la testa!» Portò di nuovo una mano alla testa, e si toccò il bernoccolo che aveva sulla fronte. Poi si chinò in avanti e si girò intorno a guardare gli uomini raggruppati intorno alla sua cuccetta. «Che cosa è successo?», domandò, in modo confuso. Sembrava che non ci vedesse chiaramente. «Che cosa è successo?», chiese di nuovo. «È proprio quello che voglio sapere!», disse il Secondo Ufficiale, parlando per la prima volta con una certa severità. «Per caso mi sono appisolato, mentre lavoravo?», domandò Tom ansioso. Si guardò intorno con espressione supplichevole. «Ho l'impressione che la botta l'abbia fatto diventare un po' tocco», disse uno degli uomini ad alta voce. «No», dissi, rispondendo alla domanda di Tom. «Tu sei...» «Chiudi la bocca, Jessop!», disse il Secondo Ufficiale, interrompendomi in fretta. «Voglio sapere qual è la versione del ragazzo.» Si voltò di nuovo verso Tom. «Tu eri sul pennone del controvelaccio», lo incitò a continuare. «Non lo so, Signore», disse Tom, con espressione dubbiosa. Notai che il ragazzo non aveva capito che cosa intendesse il Secondo Ufficiale. «Ma tu eri lassù», disse il Secondo, con una certa impazienza. «Il controvelaccio era spiegato, e io ti ho mandato a serrare un matafione intorno alla vela.» «Era spiegato, Signore?», disse Tom, ottusamente. «Sì! Era spiegato. Non parlo in modo comprensibile?» Immediatamente, dal volto di Tom scomparve l'espressione ottusa.
«Sì, è vero, Signore», disse, mentre la memoria gli tornava. «La vela era gonfia di vento. Mi è sbattuta in faccia.» Si fermò un attimo. «Credo...», cominciò, e poi si fermò nuovamente. «Continua!», disse il Secondo Ufficiale. «Sputa fuori!» «Non so, Signore», disse Tom. «Non capisco...» Esitò di nuovo. «Non ricordo nient'altro», mormorò, e portò la mano alla contusione che aveva sulla fronte, come se tentasse di ricordare qualcosa. Nel momentaneo silenzio che seguì, risuonò la voce di Stubbins. «Non c'era vento», diceva, in tono perplesso. Si udì un mormorio di assenso provenire dagli uomini presenti. Il Secondo Ufficiale non disse niente, e io gli lanciai un'occhiata, con curiosità. Cominciava a capire, mi chiesi, quanto fosse inutile cercare di trovare una spiegazione razionale all'episodio? Aveva cominciato a collegarlo a quel fatto strano dell'uomo sull'albero maestro? Ora propendo a pensare di sì perché, dopo aver fissato Tom per qualche momento con espressione dubbiosa, uscì dal castello di prua, dicendo che l'indomani avrebbe approfondito le indagini sulla faccenda. Ma, la mattina dopo, non fece niente del genere. E dubito anche che avesse riferito il fatto al Comandante. Anche se l'avesse fatto, doveva essere stato in modo superficiale, perché non ne sentimmo più parlare benché, naturalmente, tra di noi ne parlassimo a lungo. Per quanto riguarda il Secondo Ufficiale, anche ora sono piuttosto perplesso rispetto all'atteggiamento che aveva verso di noi. Talvolta ho pensato che sospettasse che noi gli stessimo facendo qualche brutto tiro. Forse, allora, ancora sospettava che qualcuno di noi fosse in qualche modo collegato con l'altro fatto. Oppure, tentava di lottare contro la convinzione che gli stava nascendo dentro, che su quella vecchia goletta c'era veramente qualcosa di impossibile e di innaturale. Naturalmente, queste sono solo ipotesi. E poi, subito dopo, ci furono ulteriori sviluppi. 5. La fine di Williams Come ho già detto, noi dell'equipaggio di prua parlammo molto dello strano incidente di Tom. Nessuno degli uomini sapeva che io e Williams l'avevamo visto accadere. Stubbins diceva che, secondo lui, Tom era ancora assonnato, e aveva mancato il poggiapiedi. Tom, naturalmente, non a-
vrebbe mai fatto una cosa del genere. Ma, non aveva nessuno a cui appellarsi, perché allora egli ignorava, come tutto il resto della ciurma, che noi avevamo visto la vela sbattere contro il pennone. Stubbins insisteva che era ovvio che non poteva essere stato il vento. Non c'era vento quella notte, diceva, e gli altri uomini erano d'accordo con lui. «Bene», dissi. «Non ne so niente. Ma propendo a pensare che Tom abbia detto la verità.» «E come riesci a spiegarlo?», chiese Stubbins, in tono incredulo. «Non c'era abbastanza vento.» «E che cosa ne dici del bernoccolo che ha sulla fronte?», domandai a mia volta. «Come lo spieghi?» «Immagino che abbia urtato quando è scivolato», rispose. «Abbastanza probabile», concordò il vecchio Jaskett, che era seduto a fumare su una cuccetta vicina. «Bene, state sbagliando tutti e due!» Tom ci interruppe, pieno di rabbia. «Non dormivo, e la vela mi ha colpito.» «Non essere impertinente, ragazzino», disse Jaskett. Mi unii di nuovo alla conversazione. «C'è un'altra cosa, Stubbins», dissi. «Il matafione a cui Tom era appeso, era dal lato controvento del pennone. Ti sembra possibile che la vela lo sbattesse lassù? Se ci fosse stato abbastanza vento da spostare i matafioni, mi pare che si sarebbe dovuto spostare l'altro, quello del lato sottovento.» «Vuoi dire che il matafione era sotto il pennone o sopra la coffa?», domandò. «Sopra la coffa, naturalmente. Per di più, il piede della vela pendeva al di sopra della parte controvento del pennone, ed era ripiegato su se stesso.» Stubbins fu chiaramente sorpreso nel sentire questa affermazione e, prima che riuscisse a formulare una nuova obiezione, Plummer parlò. «Chi l'ha visto?», chiese. «Io l'ho visto!», dissi, in tono un po' aspro. «E l'ha visto anche Williams e, quanto a questo, l'ha visto anche il Secondo Ufficiale.» Plummer rimase in silenzio, e intanto fumava. Stubbins esclamò: «Credo che Tom dovesse tenere stretti il piede della vela e il matafione, e che li abbia spinti al di sopra del pennone, quando è caduto». «No!», lo interruppe Tom. «Il matafione era sotto la vela. Non lo vedevo nemmeno. E non ho avuto il tempo di afferrare il piede della vela, prima che si alzasse e mi colpisse in faccia.»
«Allora, come hai fatto ad afferrare quel matafione, quando sei caduto?», chiese Plummer. «Non lo ha afferrato», risposi al posto di Tom. «Il matafione si è arrotolato intorno al suo polso: è così che noi l'abbiamo trovato appeso.» «Intendi dire che Tom non stringeva il matafione?», chiese Quoin, interrompendo l'accensione della propria pipa. «Sì», dissi. «Nessuno può mantenersi sospeso a una cima, quando è svenuto.» «Hai ragione», assentì Jock. «Hai proprio ragione su questo punto.» Quoin accese la pipa. «Non lo so», disse. Continuai, senza curarmi di lui. «A ogni modo, quando io e Williams l'abbiamo trovato, Tom era appeso al matafione, che aveva fatto un paio di giri intorno al suo polso. E, oltretutto, come ho già detto, il piede della vela pendeva al di sopra del lato controvento del pennone, e il peso che Tom esercitava sul matafione lo manteneva lassù.» «È maledettamente strano», disse Stubbins, con espressione perplessa. «Sembra che non esista nessun modo di dare una spiegazione giusta a questa faccenda.» Lanciai un'occhiata interrogativa a Williams, per chiedergli se fosse il caso di dire tutto quello che avevamo visto, ma questi scosse il capo e, dopo un attimo di riflessione, mi sembrò inutile farlo. Non avevamo le idee molto chiare su ciò che era accaduto, e le nostre intuizioni e i nostri sospetti avrebbero solo contribuito a rendere l'episodio più grottesco e improbabile. L'unica cosa da fare era aspettare e stare in guardia. Solo se avessimo avuto qualche prova tangibile, avremmo potuto sperare di dire tutto ciò che sapevamo, senza diventare lo zimbello di tutti. Improvvisamente, fui distolto dalle mie riflessioni. Stubbins stava parlando di nuovo. Stava discutendo la questione con un altro marinaio. «Vedi, visto che non c'era vento, la cosa è impossibile, eppure...» L'altro lo interruppe con un'osservazione, che non riuscii a sentire. «No», udii Stubbins rispondere. «Ho fatto male i miei conti. Non capisco proprio niente. Somiglia maledettamente a una favola.» «Guarda il suo polso!», dissi. Tom sollevò la mano e il braccio destro per farseli guardare. Era molto gonfio proprio dove la cima si era arrotolata.
«Sì», ammise Stubbins. «È vero, ma non mi dice niente.» Non risposi. Come diceva Stubbins, quel gonfiore non diceva «niente». A quel punto lasciai perdere. Ecco, ve ne ho parlato per mostrarvi come veniva considerata la questione dall'equipaggio. Ma il problema non ci preoccupò a lungo: come ho già detto, ci furono ulteriori sviluppi. Le tre notti successive trascorsero tranquillamente e poi, la quarta notte, tutti quegli strani presagi e indizi culminarono improvvisamente in qualcosa di orribile. Eppure, tutto era stato così sottile e impalpabile e, in effetti, era così il fatto in se stesso, che solo quelli che avevano conosciuto veramente la paura, furono in grado di comprendere il terrore dell'evento. La maggioranza dei marinai cominciò a dire che la nave era sfortunata e naturalmente - come al solito! - si diceva che c'era uno iettatore a bordo. Ma non posso affermare che nessuno avesse capito che c'era qualcosa di orribile e di spaventoso in tutta la faccenda. Sono sicuro che qualcuno l'avesse capito, e penso che Stubbins fosse uno di loro, benché fossi certo che, allora, lui non afferrasse il significato reale di quegli strani avvenimenti che avevano turbato le nostre notti. Sembrava non comprendere l'elemento di pericolo fisico che a me era già chiaro. Non aveva abbastanza immaginazione, credo, per mettere insieme tutti i fatti, per delineare la sequenza naturale degli avvenimenti e il loro sviluppo. Ma non devo dimenticare, naturalmente, che non conosceva quei due primi incidenti. Forse, se li avesse conosciuti, sarebbe potuto giungere alle mie stesse conclusioni. Sta di fatto, che Stubbins non sembrava comprendere fino in fondo nemmeno la storia di Tom e del controvelaccio. Comunque, dopo il fatto che sto per raccontarvi, cominciò ad avere le idee più chiare e a capire i possibili sviluppi della faccenda. Ricordo bene quella quarta notte. Era una notte limpida, stellata e senza luna. Almeno, penso che non ci fosse la luna o, in ogni caso, forse c'era una falce sottile nel cielo, perché il novilunio era passato da poco. Il vento si era leggermente rinforzato, ma rimaneva ancora costante. Navigavamo a circa sei, sette nodi all'ora. Eravamo al secondo turno di guardia in coperta, e la nave risuonava del fischio e del ronzio del vento che soffiava tra le sartie. Williams e io eravamo soli sul ponte di coperta. Lui era appoggiato alla battagliola del lato controvento, mentre io passeggiavo tra lui e il boccaporto di prua. Stubbins era di vedetta. Da qualche minuto erano suonati due colpi, e io mi auguravo che fossero già suonati gli otto colpi e che fosse l'ora del cambio. A un tratto, risuonò
uno scoppio secco, come l'eco di un colpo di fucile. Fu subito seguito dallo schianto e dal rumore secco di una vela che sbatteva al vento. Williams balzò dalla battagliola, e fece qualche passo verso poppa. Lo seguii e, insieme, alzammo lo sguardo verso l'alto per vedere che cos'era accaduto. Vagamente vidi che la scotta di controvento del velaccio di trinchetto era stata spazzata via, mentre la bugna della vela roteava e sbatteva contro l'aria e, urtando continuamente contro il pennone d'acciaio, provocava un rumore sordo simile a quello di una violenta martellata. «Si è rotta la maniglia oppure una delle maglie, credo», urlai a Williams, sovrastando il rumore della vela. «È l'occhiello che colpisce il pennone.» «Sì!», urlò in risposta, e si mosse per afferrare la bugna. Corsi a dargli una mano. In quello stesso momento sentii urlare la voce del Secondo Ufficiale lontano a poppa. Poi risuonò il rumore di passi affrettati e, quasi contemporaneamente, arrivarono il Secondo Ufficiale e il resto degli uomini di guardia. In pochi minuti ammainammo il pennone e imbrogliammo la vela. Allora io e Williams salimmo sulle sartie per vedere dov'era andata a finire la scotta. Era come avevo immaginato: l'occhiello era a posto, ma il perno era scappato dalla maniglia, e la stessa maniglia si era incastrata nella puleggia dell'estremità del pennone. Williams mi mandò giù a prendere un altro perno, mentre scioglieva la bugna e la rimetteva al suo posto sotto la scotta. Quando ritornai con un perno nuovo, lo avvitai nella maniglia, vi legai la bugna, e urlai agli uomini di tirare la cima. Lo fecero e, al secondo strattone, la maniglia se ne venne. Quando fu abbastanza in alto, salii sul pennone di controvelaccio, e afferrai la catena mentre Williams l'ammanigliava nell'occhiello. Poi si chinò di nuovo sulla bugna, e urlò al Secondo Ufficiale che eravamo pronti a issare. «Faresti bene a scendere e darle uno strattone», disse. «Io rimarrò a tirare su quella vela.» «Va bene, Williams», assentii, infilandomi tra le sartie. «Non ti far portare via dal folletto della nave.» Feci quest'osservazione in un momento di quella spensieratezza che prende talvolta chi si trova in coffa. Ero euforico, e completamente libero da quella paura che mi aveva accompagnato negli ultimi tempi. Credo che fosse dovuto al vento frizzante. «Ce n'è più di uno!», disse, in quel modo d'esprimersi conciso, che gli era solito. «Che cosa?», domandai.
Ripeté la sua osservazione. Ritornai di colpo serio. La realtà di tutti gli avvenimenti assurdi delle settimane precedenti mi ritornò alla mente, vivida e sgradevole. «Che cosa vuoi dire, Williams?», gli domandai. Ma lui si era zittito, e non mi rispose niente. «Che cosa sai? Quanto sai?», continuai rapidamente. «Perché non mi hai mai detto che tu...» La voce del Secondo Ufficiale m'interruppe improvvisamente: «Allora, voi lassù! Ci volete far aspettare tutta la notte? Uno di voi due scenda a tirare le drizze. Gli altri tireranno la sartia». «Sì, sì, Signore», urlai in risposta. Poi mi voltai in fretta verso Williams. «Guarda, Williams», dissi. «Se pensi che sia veramente pericoloso che tu rimanga solo qui sopra...» Esitai nel trovare le parole per esprimermi. Poi continuai. «Ebbene, posso rimanere benissimo qui con te.» Arrivò di nuovo la voce del Secondo Ufficiale. «Che uno di voi due scenda subito! Muovetevi! Che diavolo state facendo?» «Sto venendo, Signore!», urlai. «Rimango?», chiesi alla fine. «Dio mio!», Williams rispose. «Non ti agitare. Riuscirò a ricavare un giorno di paga da questa nave. Che siano dannati. Non ho paura di loro.» Me ne andai. Queste furono le ultime parole che Williams disse a un essere vivente. Arrivai sul ponte e afferrai le drizze. Avevamo quasi issato la vela fino alla cima dell'albero, e il Secondo Ufficiale guardava in alto verso l'estremità superiore della vela pronto a urlare «ferma!», quando, a un tratto, sentimmo provenire da Williams uno strano urlo smorzato. «Fermi!», urlò il Secondo Ufficiale. Rimanemmo in silenzio ad ascoltare. «Che cosa c'è, Williams?», gridò. «Va tutto bene?» Per un minuto rimanemmo in ascolto, ma non arrivò nessuna risposta. In seguito, qualcuno degli uomini disse che dall'alto risuonò un rumore secco e vibrante, che sovrastò debolmente il fischio e il turbinio del vento. Somigliava al rumore che fanno delle cime slegate sbattendo l'una contro l'altra. Non saprei dire se quel rumore fosse reale o se esistesse solo nella loro fantasia. Io non lo udii, ma in quel momento ero alla fine della cordata ed
ero il più lontano dalle sartie di trinchetto, mentre quelli che lo sentirono erano nella zona di prua della drizza, e vicini alle sartie. Il Secondo Ufficiale portò le mani alla bocca. «Va tutto bene lassù», urlò di nuovo. La risposta arrivò, incomprensibile e inattesa. Suonava più o meno così: «Che siano dannati... Sono rimasto... Tu pensi... scacciarli... ric... giorno di paga». E poi cadde un silenzio improvviso. Alzai lo sguardo verso la vela scura, stupito. «È un po' tocco!», disse Stubbins, a cui era stato ordinato di lasciare il posto di vedetta e di venire a tirare con noi. «È matto come una capra», disse Quoin, che mi stava davanti. «È sempre stato strano.» «Silenzio laggiù!», urlò il Secondo Ufficiale. E poi: «Williams!». Nessuna risposta. «Williams!», a voce più alta. Ancora nessuna risposta. Poi: «Che tu sia dannato, cockney! Non senti? Sei completamente sordo?». Non ci fu nessuna risposta, e il Secondo Ufficiale si voltò verso di me. «Sali subito sull'albero, Jessop, e vedi che cosa c'è che non va!» «Sì, Signore», dissi e corsi verso le sartie. Provavo una sensazione strana. Williams era diventato pazzo? Certamente, era sempre stato un po' bizzarro. Oppure - e quest'idea mi venne all'improvviso - aveva visto... Non riuscii a concludere. A un tratto risuonò un urlo spaventoso. Mi fermai, con una mano sulla biga. Subito dopo, qualcosa cadde dal buio che mi sovrastava. Era un corpo pesante, che colpì il ponte, vicino agli uomini in attesa, con un tonfo tremendo e con un rumore acuto, stridente e ansante che mi diede la nausea. Molti degli uomini urlarono per il terrore e mollarono le drizze ma, per fortuna, la bozza le trattenne, e il pennone non cadde. Poi si sparse un silenzio mortale tra l'equipaggio, e mi parve che il vento gemesse. Il Secondo Ufficiale fu il primo a parlare. La sua voce risuonò così repentina che sobbalzai. «Che uno di voi porti una lampada, presto!» Ci fu un attimo di esitazione. «Tammy, vai a prendere la lampada della chiesuola.» «Sì, Signore», disse il ragazzo con voce tremante, e corse a poppa.
In meno di un minuto, vidi una luce lungo il ponte. Il giovane correva. Ci raggiunse e porse la lampada al Secondo Ufficiale, che la prese e si avvicinò alla macchia scura che era sul ponte. Manteneva la lampada avanti a sé e fissava l'oggetto. «Dio mio!», disse. «È Williams!» Abbassò la lampada, e io vidi meglio. Era Williams, senza dubbio. Il Secondo Ufficiale ordinò a un paio di uomini di sollevarlo e sistemarlo sul portello del boccaporto. Poi andò a poppa a chiamare il Comandante. Ritornò dopo qualche minuto con una vecchia bandiera che stese sul corpo del povero marinaio. Subito dopo, il Comandante arrivò correndo lungo i ponti. Sollevò un lembo della bandiera e guardò. Poi rivolse lo sguardo intorno con calma, e il Secondo Ufficiale riferì tutto quello che sapevamo, in poche parole. «Lo lasciamo qui dove si trova, Signore?», domandò, quando ebbe detto tutto. «La notte è bella», disse il Comandante. «Potete lasciare qui questo povero diavolo.» Si girò e s'incamminò lentamente verso poppa. L'uomo che manteneva la lampada, la fece girare in modo da illuminare il punto del ponte dove era caduto Williams. Il Secondo Ufficiale parlò all'improvviso. «Qualcuno di voi vada a prendere una ramazza e due secchi.» Si voltò bruscamente e ordinò a Tammy di andare a poppa. Non appena vide che il pennone era drizzato e le cime erano sistemate, seguì Tammy. Sapeva bene che non avrebbe dovuto permettere che la mente del giovane mozzo indugiasse a lungo sul pover'uomo steso sul portello del boccaporto e, poco dopo, scoprii che aveva dato da fare al ragazzo qualcosa che gli tenesse occupata la mente. Quando il mozzo e il Secondo se ne furono andati a poppa, noi entrammo nel castello di prua. Eravamo tutti cupi e spaventati. Per un po' di tempo sedemmo sulle nostre cuccette, senza dire una parola. I marinai sotto coperta dormivano tutti, e nessuno di loro sapeva che cos'era accaduto. A un tratto Plummer, che era di turno al timone, entrò nel castello di prua attraverso l'ingresso di tribordo. «Che cosa è successo, insomma?», chiese. «Williams è ferito?» «Shhh!», dissi. «Sveglierai gli altri. Chi ti ha dato il cambio al timone?» «Tammy. Il Secondo lo ha mandato e mi ha detto che potevo andare a prua a fumare. Ha detto che Williams è caduto.»
S'interruppe e si guardò intorno nel castello di prua. «Dov'è?», domandò, in tono perplesso. Lanciai un'occhiata agli altri, ma nessuno sembrava disposto a parlarne. «È caduto dal sartiame del controvelaccio!», dissi. «Dov'è?», ripeté. «Fracassato», dissi. «È sul portello del boccaporto.» «È morto?», chiese. Annuii. «Ho immaginato che fosse successo qualcosa di brutto, quando ho visto il Comandante andare a prua. Com'è accaduto?» Girò lo sguardo su di noi, che sedevamo a fumare in silenzio. «Nessuno lo sa», dissi, e lanciai un'occhiata a Stubbins. Lo sorpresi a fissarmi, con espressione dubbiosa. Dopo un momento di silenzio, Plummer parlò di nuovo. «L'ho sentito gridare, mentre ero al timone. Deve essersi ferito lassù in coffa.» Stubbins accese un fiammifero e si apprestò a riaccendere la pipa. «Come pensi che sia successo?», chiese, parlando per la prima volta. «Come penso che sia successo? Bene, non saprei. Forse si è schiacciato le dita tra l'albero e il pennone.» «E che cosa ne dici delle sue imprecazioni contro il Secondo Ufficiale? Che cosa gli ha fatto schiacciare le dita?», intervenne Quoin. «Non l'ho sentito», disse Plummer. «Chi l'ha sentito?» «Penso che tutti su questa nave l'abbiano sentito», rispose Stubbins. «Comunque, non sono sicuro che stesse imprecando contro il Secondo Ufficiale. Sulle prime ho pensato che fosse impazzito e stesse bestemmiando contro di lui. Ma ora mi è venuto in mente che non è verosimile. È assurdo che dovesse maledirlo. Non c'era nessun motivo di maledirlo. Per di più, non sembrava che si rivolgesse a noi che eravamo sul ponte, per quanto ho potuto capire. E poi, perché avrebbe dovuto parlare al Secondo del giorno di paga?» Stubbins spostò lo sguardo alla cuccetta dove ero seduto. Jock, che fumava tranquillamente sulla cuccetta accanto alla mia, tirò lentamente dalla pipa che teneva fra i denti. «Non ti sbagli, Stubbins, penso. Non ti sbagli», concluse, annuendo. Stubbins continuava a fissarmi. «E tu, che cosa ne pensi?», disse all'improvviso. Forse fu solo una mia impressione, ma mi sembrò che la domanda aves-
se un significato più profondo di quello apparente. Lo guardai. Non avrei saputo dire che cosa ne pensavo. «Non lo so!», risposi, senza riflettere. «Non mi ha dato l'impressione che bestemmiasse contro il Secondo Ufficiale. Cioè, così mi è sembrato dopo il primo minuto.» «Proprio quello che dico io», replicò. «Un'altra cosa: non ti sembra strano che prima Tom stesse quasi per precipitare, e che poi è capitato questo fatto?» Annuii. «Sarebbe potuta accadere la stessa cosa a Tom, se non fosse stato per il matafione.» Fece una pausa. Dopo un momento continuò. «È successo solo tre o quattro notti fa!» «Bene», disse Plummer. «Dove vuoi arrivare?» «A niente», rispose Stubbins. «Dico solo che tutto è maledettamente strano. Sembra che, dopotutto, questa nave sia sfortunata.» «Sì», convenne Plummer. «Ultimamente sono successe delle cose un po' strane. E poi c'è il fatto di stanotte. La prossima volta che salirò in coffa, mi terrò ben stretto.» Il vecchio Jaskett tolse la pipa dalla bocca, e sospirò. «Le cose stanno peggiorando ogni notte», disse, in tono quasi patetico. «Era tutto diverso, quando abbiamo cominciato questa traversata. Pensavo che il fatto che la nave fosse piena di fantasmi fosse una dannata sciocchezza. Ma non lo è a quanto pare.» Si fermò e sputò. «Non ci sono i fantasmi», disse Stubbins. «Almeno, non come li intendi tu...» Fece una pausa, come se cercasse di afferrare un pensiero che gli sfuggiva. «Eh?», chiese Jaskett, durante la pausa. Stubbins continuò a parlare, senza tener conto della domanda dell'altro. Sembrava rispondere a un pensiero che gli si stava formando nella mente, piuttosto che a Jaskett: «Tutto è strano, e quello di stanotte è un brutto affare. Non ho capito un'acca di quello che Williams diceva lassù. Spesso ho pensato che avesse qualcosa in mente...». Poi, dopo un intervallo di quasi un minuto, disse: «A chi parlava?».
«Eh?», disse di nuovo Jaskett, con espressione perplessa. «Stavo pensando», disse Stubbins, sbattendo la pipa contro il bordo della cuccetta. «Forse hai ragione, dopotutto.» 6. Un altro uomo al timone La discussione si spense. Eravamo tutti cupi e scossi. E, per quanto mi riguardava, io avevo dei pensieri che mi turbavano. A un tratto sentii il fischio del Secondo. Poi dal ponte arrivò la sua voce. «Un altro uomo al timone!» «Sta urlando che qualcuno deve dare il cambio al timone!», disse Quoin, che si era avvicinato alla porta per ascoltare. «Faresti meglio ad affrettarti, Plummer.» «Che ore sono!», chiese Plummer, alzandosi a sedere e sbattendo la pipa. «Tra poco suoneranno i quattro colpi. Chi è il prossimo di turno al timone?» «È tutto a posto, Plummer», dissi, alzandomi dalla cuccetta dove ero seduto. «Andrò io. È il mio turno al timone, e mancano solo pochi minuti ai quattro colpi.» Plummer si risedette, e io uscii dal castello di prua. Quando arrivai a poppa, incontrai Tammy sul lato controvento. Camminava avanti e indietro. «Chi è al timone?», gli chiesi, stupito. «Il Secondo Ufficiale», disse con voce tremante. «Aspetta che gli venga dato il cambio. Ti racconterò tutto appena ne avrò la possibilità.» Andai a poppa, al timone. «Chi è?», chiese il Secondo. «Sono Jessop, Signore», risposi. Mi cedette il posto e poi, senza aggiungere una parola, s'incamminò verso prua. All'altezza del boccaporto, lo sentii chiamare Tammy, quindi sentii che gli parlava, benché non riuscissi ad afferrare le parole. Per quanto mi riguardava, ero tremendamente curioso di sapere perché il Secondo Ufficiale avesse preso posto al timone. Sapevo che, se fosse stato solo per l'incapacità di Tammy a governare la nave, non si sarebbe mai sognato di fare una cosa del genere. Doveva essere successo qualcosa di strano che io dovevo ancora apprendere. Di questo, ero certo. Poco dopo, il Secondo Ufficiale si allontanò da Tammy, e cominciò a
camminare lungo il lato controvento del ponte. Quando arrivò a poppa si fermò, e scrutò al di sotto del recinto del timone, ma non mi disse nemmeno una parola. Qualche minuto dopo, scese lungo la scaletta di tribordo sul ponte di coperta. Subito dopo, arrivò Tammy correndo lungo il lato di babordo del timone. «L'ho vista di nuovo!», disse, ansimando, preso da una paura evidente. «Che cosa?», chiesi. «Quella cosa», rispose. Poi si chinò sul timone, e abbassò la voce. «Ha scavalcato la battagliola di sottovento: è venuta dal mare», aggiunse, con l'aria di dire qualcosa di incredibile. Mi voltai verso di lui, ma era troppo buio per vedere bene il suo volto. Mi sentii male. «Mio Dio!», pensai. E poi feci uno stupido tentativo di protestare, ma lui m'interruppe con un tono impaziente e rassegnato. «Per l'amor di Dio, Jessop», disse, «smettila di dire sciocchezze. Ho bisogno di parlare con qualcuno, altrimenti diventerò pazzo.» Capii quanto fosse inutile fingere di non sapere niente. In realtà, lo sapevo già fin dall'inizio e, come sapete, proprio per questo motivo, avevo evitato il giovane. «Parla», dissi. «Ti ascolterò. Ma bada al Secondo Ufficiale, potrebbe saltare fuori da un momento all'altro.» Per un attimo non disse niente, e mi accorsi che scrutava furtivamente la poppa. «Parla», dissi. «Faresti meglio a sbrigarti, altrimenti il Secondo arriverà prima che tu abbia finito. Che cosa stava facendo al timone, quando sono salito a dare il cambio? Perché ti ha mandato via?» «Non mi ha mandato via», replicò Tammy, girando la faccia verso di me. «Sono io che ho tagliato la corda.» «Perché?», domandai. «Aspetta un poco», rispose, «e ti racconterò tutta la faccenda. Sai che il Secondo Ufficiale mi ha mandato al timone dopo quel...» Accennò con la testa verso prua. «Sì», dissi. «Bene, sono stato al timone circa dieci minuti o un quarto d'ora. Mi sentivo male pensando a Williams. Cercavo di non pensarci e di mantenere la nave sulla rotta giusta quando, a un tratto, mi è capitato di guardare verso sottovento, e ho visto la cosa che scavalcava la battagliola. Mio Dio! Non sapevo che cosa fare. Il Secondo Ufficiale era davanti a me, sul boccaporto di poppa, e io ero qui da solo. Mi sono sentito raggelare. Quando la cosa è
venuta verso di me, ho lasciato andare il timone, ho strillato e sono fuggito verso il Secondo Ufficiale. Mi ha afferrato e mi ha scosso, ma io ero tanto spaventato che non riuscivo a parlare. Riuscivo solo a indicare. Il Secondo continuava a chiedermi "Dove?". E poi, a un tratto, ho scoperto che non vedevo più la cosa. Non so se lui l'ha vista. Non ne sono certo. M'ha solo detto di ritornare al timone, e di smettere di fare la figura dello stupido. Gli ho detto chiaro e tondo che non ci sarei andato. Perciò ha fischiato, e ha urlato che qualcuno andasse a poppa a tenere il timone. Poi è corso al timone lui stesso. Tutto il resto lo sai.» «Sei sicuro che pensare a Williams non ti abbia fatto immaginare di vedere qualcosa?», dissi, più per prendere tempo che perché credessi veramente a un caso simile. «Pensavo che mi avresti ascoltato seriamente!», disse in tono amaro. «Se non mi credi, allora che cosa ne dici del tipo che ha visto il Secondo Ufficiale? Che cosa ne dici di Tom? E di Williams? Per l'amor di Dio! Non cercare d'imbrogliarmi come hai fatto l'ultima volta. Stavo quasi impazzendo dalla voglia di parlare con qualcuno che mi avrebbe ascoltato senza ridere di me. Posso sopportare tutto, tranne che sentirmi solo. Sei un brav'uomo, non fingere di non capirmi. Dimmi che cosa significa tutto ciò. Che cos'è quell'uomo orribile che ho visto due volte? So che sai qualcosa, e credo che tu abbia paura di parlarne, perché temi che ti deridano. Perché non parli con me? Non devi temere che io rida di te.» Si fermò di colpo. Per un momento, non risposi niente. «Non mi trattare come un bambino, Jessop!», esclamò con impeto. «Non ne ho l'intenzione», dissi, con la decisione improvvisa di raccontargli tutto. «Ho bisogno di qualcuno con cui parlare, proprio come te.» «Allora, che cosa vuol dire tutto questo?», esplose. «Sono reali? Ho sempre pensato che le storie di fantasmi fossero tutte chiacchiere.» «Sono sicuro di non sapere che cosa significhi tutto ciò, Tammy», risposi. «Sono all'oscuro di tutto, proprio come te. E non so se essi siano reali, cioè nel senso in cui consideriamo reali gli oggetti. Tu non sai che io ho visto una figura strana giù sul ponte di coperta, molte notti prima che tu vedessi quella cosa quassù.» «E la cosa l'hai vista?», m'interruppe in fretta. «Sì», risposi. «Allora, perché fingevi di non averla vista?», disse in tono di rimprovero. «Non sai in che stato mi hai ridotto, visto che io ero certo di averla vista e tu eri così sicuro che non c'era niente. Allora ho pensato di stare am-
mattendo, finché il Secondo Ufficiale non ha visto l'uomo che si arrampicava sull'albero maestro. Solo in quel momento ho capito che si nascondeva qualche mistero nella cosa che ero certo di aver visto.» «Forse ho pensato che se ti dicevo di non averla vista, avresti pensato di esserti ingannato», dissi. «Volevo che tu pensassi che si trattasse di una fantasia, di un sogno o di qualcosa del genere.» «E nel frattempo sapevi di aver visto quell'altra cosa?», chiese. «Sì», risposi. «È stato gentile da parte tua», disse. «Ma non è stato per niente buono.» Si fermò un attimo. Poi continuò: «È terribile la storia di Williams. Pensi che abbia visto qualcosa lassù?». «Non lo so, Tammy», risposi. «È impossibile dirlo. Forse è stato solo un incidente.» Esitavo a dirgli ciò che pensavo realmente. «Che cosa diceva a proposito del suo giorno di paga? A chi lo diceva?» «Non lo so», dissi di nuovo. «Era fissato sul fatto di dover ricavare un giorno di paga da questa nave. Sai, è rimasto di proposito sulla nave, quando tutti gli altri se ne sono andati. Mi ha detto che non si sarebbe fatto imbrogliare da nessuno.» «Perché l'altro equipaggio scappò?», mi chiese. Poi un'idea sembrò colpirlo. «Per Giove! Pensi che videro qualcosa e si spaventarono? È possibile. Sai che ci siamo tutti imbarcati a San Francisco. Non avevano mozzi nella traversata di ritorno. La nostra nave è stata venduta, perciò ci hanno imbarcato per farci tornare a casa.» «Forse videro qualcosa», dissi. «In realtà, da quello che ho sentito dire a Williams, ho capito che lui, per quanto lo riguardava, sospettava o sapeva molto di più di quanto immaginiamo.» «E ora è morto!», disse Tammy in tono solenne. «Non potremo più sapere niente da lui ora.» Per qualche momento, non parlò. Poi passò a un altro argomento. «È mai successo qualcosa durante il turno di guardia del Primo Ufficiale?» «Sì», risposi. «Ultimamente, sono successe molte cose strane. Qualcuno della Guardia del Primo ne ha parlato in giro. Ma lui è troppo cocciuto per vedere qualcosa. Maledice i suoi uomini e dà tutta la colpa a loro.» «Eppure», insisté Tammy, «sembra che accadano più cose durante il nostro turno di guardia che durante il suo. Voglio dire, cose più grandi. Guarda, per esempio, stanotte.» «Non ne abbiamo nessuna prova, lo sai», dissi.
Scosse il capo, con espressione dubbiosa. «Io, d'ora in poi, cercherò sempre di evitare di salire sulle sartie.» «Che assurdità!», gli dissi. «Può essere stato solo un incidente.» «Non lo è stato!», disse. «Sai di non pensarla veramente così.» Non risposi niente, perché sapevo molto bene che aveva ragione. Rimanemmo in silenzio per qualche momento. Poi Tammy parlò: «Ci sono i fantasmi sulla nave?». Esitai per un attimo. «No», dissi alla fine. «Non penso che sia così. Voglio dire, non in quel senso.» «In quale senso allora?» «Bene, ho una teoria, che un momento mi pare giusta, e il momento dopo crolla. Naturalmente, è probabile che sia tutta sbagliata. Ma è l'unica spiegazione che mi pare possibile di tutti questi strani avvenimenti.» «Va' avanti!», mi incitò con un gesto impaziente e nervoso. «Bene, penso che non ci sia niente nella nave che ci possa fare del male. Ho delle difficoltà ad esprimermi ma, se ho ragione, è la nave stessa che è la causa di tutto.» «Che cosa vuoi dire?», chiese in tono perplesso. «Dopotutto, vuoi dire che sulla nave ci sono i fantasmi?» «No!», risposi. «Ti ho appena detto di no. Aspetta che abbia finito di dirti tutto.» «Va bene!», disse. «A proposito della cosa che hai visto stanotte», continuai. «Dici che è salita a poppa, scavalcando la battagliola del lato sottovento?» «Sì», rispose. «Bene, la cosa che ho visto io, è uscita dal mare ed è ritornata in mare.» «Per Giove!», disse, e poi: «Sì, va' avanti!». «La mia idea è che questa nave sia aperta agli attacchi di quelle cose», spiegai. «Che cosa siano, naturalmente non lo so. Sembrano uomini, sotto molti aspetti. Ma Dio solo sa che cosa ci sia nelle profondità del mare. Benché non dobbiamo immaginare cose sciocche. Ma poi, sai, è da testardi definire sciocca ogni cosa. È per questo che continuo a muovermi in una specie di circolo vizioso. Non so se siano in carne e ossa, o se siano quelli che potremmo definire fantasmi o spiriti.» «Non possono essere in carne e ossa», m'interruppe Tammy. «In questo caso, dove vivrebbero? Inoltre, quella prima cosa che ho vi-
sto, mi dava l'impressione di essere trasparente. E quest'ultima, anche il Secondo Ufficiale dovrebbe averla vista. E poi affogherebbero, se non fossero spiriti...» «Non necessariamente», dissi. «Oh, ma sono sicuro che non siano di carne e ossa», insisté. «È impossibile...» «Allora sono fantasmi, se ti sembra più ragionevole», risposi. «Ma io dico che sono di carne e ossa, benché nello stesso tempo, non voglio dire chiaro e tondo che siano fantasmi. Non ancora, in ogni caso.» «Da dove vengono?», chiese, abbastanza stupidamente. «Dal mare», gli dissi. «L'hai visto tu stesso!» «Allora perché non salgono a bordo anche degli altri vascelli?», disse. «Come te lo spieghi?» «In un modo che, benché talvolta mi sembri fragile, mi pare si accordi alla mia teoria», risposi. «Come?», chiese di nuovo. «Perché credo che questa nave sia aperta, come ti ho già detto, esposta, indifesa, o come preferisci dire. Ritengo che tutte le cose del mondo materiale siano separate da quelle del mondo immateriale, ma in alcuni casi la barriera può essere abbattuta. Questo deve essere il caso di questa nave. E, se è così, essa è scoperta agli attacchi degli esseri che appartengono a qualche altro stato dell'esistenza.» «Chi l'ha resa così?», chiese in tono sgomento. «Dio solo lo sa!», risposi. «Forse qualcosa collegata ai campi magnetici, ma tu non puoi capirlo e, in realtà, nemmeno io. E dentro di me penso che non si tratti di qualcosa del genere, per essere precisi. Non sono di questo parere. Eppure non lo so! Forse... forse devono essere accaduti brutti episodi a bordo di questa nave. Oppure, è qualcosa che va al di là delle mie cognizioni...» «Allora, se sono immateriali, sono spiriti?», mi domandò. «Non lo so», dissi. «Sai, è così difficile dire ciò che realmente penso. Ho una strana idea che la mia mente ritiene buona, ma che forse il mio cuore non crede giusta.» «Va' avanti!», mi incitò. «Bene», dissi. «Supponi che la terra sia abitata da due specie di esseri viventi. Noi siamo una, ed essi sono l'altra.» «Va' avanti!», disse. «Bene», continuai. «Non capisci che, in uno stato normale, noi potrem-
mo essere incapaci di comprendere la realtà dell'altra specie? Ma essi possono essere reali e materiali rispetto al loro mondo, come noi lo siamo rispetto al nostro. Capisci?» «Sì», disse. «Va' avanti!» «Bene», spiegai. «La terra può essere reale per loro, come lo è per noi. Voglio dire che può avere delle qualità materiali per loro, come le ha per noi. Ma né noi né loro possiamo comprendere la realtà degli altri. Né possiamo comprendere la realtà della terra, che è reale per gli altri. È molto difficile da spiegare. Capisci?» «Sì», disse. «Va' avanti!» «Bene. Se noi vivessimo in quello che chiamerei un ambiente sano, non potremmo né vederli né sentirli. E la stessa cosa sarebbe per loro. Ma quanto più viviamo in un ambiente come questo, tanto più essi diventano per noi reali e veri. Capisci? Cioè, tanto più diveniamo capaci di comprendere la loro forma di realtà. Questo è tutto. Non so spiegarmi meglio.» «Allora, dopotutto, tu credi veramente che a bordo ci siano i fantasmi o qualcosa del genere?», disse Tammy. «Suppongo che la conclusione sia questa», risposi. «Voglio dire che, comunque, non penso che essi corrispondano all'idea che noi abbiamo degli esseri in carne e ossa. Ma naturalmente è stupido dire di più. E, dopotutto, devi ricordare che forse mi sbaglio.» «Penso che dovresti dire tutto questo al Secondo Ufficiale», disse. «Se è veramente come dici tu, la nave dovrebbe essere portata al porto più vicino, e bruciata.» «Il Secondo Ufficiale non potrebbe fare niente», replicai. «Anche se ci credesse, del che non siamo sicuri.» «Forse no», rispose Tammy. «Ma, se tu riuscissi a convincerlo, potrebbe spiegare tutta la faccenda al Comandante, e poi si potrebbe fare qualcosa. Così com'è, la nave non è sicura.» «Non lo derideranno più», dissi, non molto convinto. «No», affermò Tammy. «Non dopo ciò che è successo stanotte.» «Forse no», replicai, in tono dubbioso. E, proprio in quel momento, il Secondo Ufficiale tornò a poppa, e Tammy fuggì dal chiostro del timone, lasciandomi con la sensazione tormentosa che avrei dovuto fare qualcosa. 7. La comparsa della nebbia e ciò che essa portò Buttammo in mare il corpo di Williams a mezzogiorno. Poveraccio! Era
morto così all'improvviso. Per tutto il giorno, gli uomini furono intimoriti e tristi. Parlavano del fatto che c'era uno iettatore a bordo. Se solo avessero saputo quello che sapevamo io, Tammy, e forse anche il Secondo Ufficiale! E poi arrivò la nebbia. Ora non ricordo se accadde lo stesso giorno in cui seppellimmo Williams, oppure il giorno dopo. Quando la notai per la prima volta, come tutti gli altri, pensai che fosse una caligine dovuta al calore del sole, perché la nebbia si alzò in pieno giorno. Il vento si era attenuato in una brezza lieve. Io lavoravo alle sartie di maestra insieme a Plummer, che era impegnato alle legature. «Sembra che faccia caldo», notò. «Sì», dissi e, per il momento, non notai nient'altro. Poco dopo parlò di nuovo: «Sta salendo la caligine!», e il tono indicava la sua sorpresa. Lanciai una rapida occhiata in alto. Sulle prime non vidi niente. Poi capii che cosa voleva dire. L'aria aveva un aspetto strano, innaturale e tremolante, era simile all'aria calda che si vede al di sopra di una ciminiera quando non ne esce fumo. «Dev'essere il caldo», dissi. «Anche se non ricordo di aver mai visto una cosa del genere.» «Nemmeno io», convenne Plummer. Dopo qualche minuto alzai di nuovo lo sguardo, e fui stupito di vedere che tutta la nave era circondata da un esile strato di caligine che nascondeva completamente l'orizzonte. «Per Giove, Plummer», dissi. «Com'è strano!» «Sì», rispose, girando lo sguardo intorno. «Non ho mai visto niente del genere prima: non in questi paraggi.» «Il caldo non provoca un fenomeno simile!», replicai. «N... no», disse dubbioso. Continuammo a lavorare, scambiando di tanto in tanto qualche parola. Dopo qualche minuto di silenzio, mi chinai verso di lui e gli chiesi di passarmi l'arpione. Si fermò e lo sollevò dal ponte dove era caduto. Mentre me lo porgeva, vidi l'espressione stolida del suo volto mutarsi improvvisamente in un atteggiamento di sorpresa. Aprì la bocca. «Per Bacco!», disse. «È scomparsa!» Mi voltai rapidamente e guardai. Ed era vero: si vedeva il mare limpido e brillante fino all'orizzonte.
Io e Plummer ci guardammo negli occhi. «Che io sia dannato!», esclamò. Penso che non risposi nulla, perché ebbi improvvisamente la strana sensazione che il fatto non fosse normale. E poi, subito dopo, mi diedi dello stupido, ma non potevo liberarmi di quella sensazione. Guardai di nuovo il mare: avevo la vaga impressione che fosse cambiato qualcosa. Il mare sembrava più brillante e l'aria più limpida, pensai, ma qualcosa mi sfuggiva. Solo qualche giorno dopo, capii che, prima della comparsa della nebbia, all'orizzonte erano visibili molti vascelli, mentre dopo erano scomparsi tutti. Durante il resto del turno di guardia, e in realtà per tutto il giorno, non accadde nient'altro d'insolito. Solo quando arrivò la sera (era durante il secondo turno di guardia) vidi salire una nebbia leggera. Il sole al tramonto ne trapelava fioco e irreale. Allora capii che non era provocata dal caldo. Fu così che cominciò. Il giorno seguente, fui molto attento durante la mia guardia sul ponte, ma l'atmosfera si mantenne limpida. Eppure, avevo sentito da uno degli uomini dell'Aiutante, che c'era stata caligine durante il suo turno al timone. «È venuta e se ne è andata», mi disse, quando gli chiesi di parlarmene. Pensava che potesse essere il caldo. Ma, benché sapessi che non era così, non lo contraddissi. Allora nessuno, nemmeno Plummer, pareva dedicare molti pensieri alla faccenda. E, quando ne parlai a Tammy e gli chiesi se l'avesse notata, osservò che doveva essere il caldo o il sole che faceva evaporare l'acqua. Io lasciai perdere, perché non avevo nulla da guadagnare suggerendo che il fatto era più grave. Poi, il giorno seguente, accadde qualcosa che mi stupì più del solito, e mi mostrò quanto avessi ragione nel ritenere la nebbia qualcosa di innaturale. Le cose andarono così: Erano già suonati i cinque colpi del turno dalle otto alle dodici della mattina. Io ero al timone. Il cielo era limpidissimo: non si vedevano nubi, nemmeno all'orizzonte. Faceva caldo lassù al timone, perché soffiava appena un filo di vento. Io avevo sonno. Il Secondo Ufficiale era giù sul ponte di coperta con gli altri marinai, che davano un'occhiata a un lavoro che aveva ordinato di fare, perciò io ero solo a poppa. Ben presto, il caldo e il sole, che batteva a picco su di me, mi fecero venire sete e, per trovare un po' di sollievo, presi una tavoletta di tabacco che
avevo con me, e ne staccai una presa benché, di regola, non fosse una mia abitudine. Dopo un poco, naturalmente, mi guardai intorno in cerca di una sputacchiera, ma scoprii che non c'era. Probabilmente era stata portata a prua quando erano stati lavati i ponti. Perciò, visto che non c'era una sputacchiera a poppa, lasciai il timone e mi diressi alla ringhiera della poppa. Fu così che vidi qualcosa di inaspettato: una nave a piene vele, che virava a dritta, a poche centinaia di yarde dal tribordo della nostra nave. Le sue vele erano appena gonfiate dalla lieve brezza e sbattevano ogniqualvolta il veliero si sollevava sui flutti. Non sembrava molto veloce: sicuramente non faceva più di un nodo all'ora. A poppa pendeva dal picco della randa una fila di bandierine. Evidentemente, ci stavano facendo delle segnalazioni. Vidi tutto ciò in un attimo, e rimasi a fissare, stupefatto. Ero stupefatto perché non l'avevo vista prima. Con quella brezza lieve, sapevo che avrebbe dovuto essere visibile da almeno un paio d'ore. Ma non riuscivo a pensare nulla di razionale che potesse soddisfare la mia meraviglia. La nave era lì, di questo ero certo. Ma come vi era arrivata, senza che la vedessi? Improvvisamente, mentre ero fermo a fissare, sentii che dietro di me il timone roteava velocemente. D'istinto, balzai ad afferrare le maniglie, perché non volevo che il dispositivo di comando s'inceppasse. Poi mi voltai di nuovo per dare un'altra occhiata a quel veliero ma, con mio grande stupore, non ce n'era traccia. C'era solo un mare calmo che si stendeva fino all'orizzonte. Sbattei le palpebre e scostai i capelli dalla fronte. Poi guardai di nuovo, ma non c'era nulla. Non c'era niente, assolutamente niente d'insolito, tranne un debole tremolio nell'aria. E la superficie del mare era vuota fino all'orizzonte lontano e spoglio. Era affondata? mi posi la domanda ovviamente e, in quel momento, me lo domandai sul serio. Frugai il mare alla ricerca di relitti, ma non c'era niente, nemmeno un'asse isolata o un pezzo di attrezzatura del ponte. Perciò rigettai l'idea, ritenendola impossibile. Allora mi venne un'altra idea, o forse un'intuizione, e mi chiesi se la nave scomparsa potesse essere collegata in qualche modo agli altri strani avvenimenti. Mi venne allora in mente che il vascello non fosse reale, e che forse non fosse mai esistito se non nel mio cervello. Presi quest'idea in seria considerazione. Mi serviva a spiegare il fenomeno, e non riuscivo a pensare a nient'altro che potesse servire da spiegazione. Se fosse stata reale, ero sicuro che gli altri a bordo l'avrebbero dovu-
ta vedere molto prima di me. A questo punto della riflessione mi sentii confuso e poi, di colpo, la realtà di quel veliero mi ritornò in mente: le sue cime, le sue vele e i suoi pennoni. E ricordai come si sollevava sulle onde e come sbattevano le vele alla brezza lieve. E la fila di bandierine! Stava facendo segnalazioni. Alla fine, mi sembrò impossibile credere che non fosse stata reale. Le mie considerazioni non mi avevano portato a nessuna conclusione. La mia schiena era appoggiata in parte al timone. Lo reggevo con la mano sinistra, e intanto guardavo il mare alla ricerca di qualcosa che mi aiutasse a capire. All'improvviso, mentre guardavo, mi sembrò di rivedere la nave. Ora si mostrava più di fianco che di poppa, ma non ci pensai molto, stupito com'ero di rivederla. Ne ebbi solo una visione fugace, indistinta e tremula, come se la vedessi attraverso delle spire di aria calda. Poi divenne indistinta e scomparve di nuovo, ma ora mi ero convinto della sua realtà e del fatto che era stata sempre visibile, se avessi potuto vederla. Quell'aspetto strano, indistinto e tremulo mi aveva suggerito qualcosa. Ricordai l'aspetto strano e ondeggiante che l'aria aveva avuto qualche giorno prima, poco prima che la nebbia circondasse la nave. E collegai i due fenomeni. Non c'era niente di strano nell'altra goletta. La stranezza era tutta nostra. C'era qualcosa che circondava (o assediava) la nostra nave, e che impediva a me, e in realtà a chiunque altro fosse a bordo, di vedere l'altra nave. Era evidente che l'equipaggio dell'altra goletta riusciva a vederci, come era testimoniato dalle loro segnalazioni. Mi chiesi in modo ozioso, che cosa avevano pensato della nostra indifferenza - chiaramente voluta ai loro segnali. Dopodiché, riflettei sulla stranezza di tutta la faccenda. Perfino in quel momento, essi riuscivano a vederci distintamente, eppure, per quanto ci riguardava, l'intero oceano era vuoto. Allora mi sembrò la cosa più soprannaturale che potesse accaderci. E poi mi venne un'altra idea. Da quanto tempo navigavamo in quelle condizioni? Rimasi perplesso per qualche momento. Allora ricordai che, la mattina in cui era comparsa la nebbia, erano visibili molti vascelli ma, da allora in poi, non avevamo visto niente. Questo fatto, a dir poco, avrebbe dovuto colpirmi per la sua stranezza, perché alcune delle altre golette erano dirette in patria, e seguivano la nostra stessa rotta. Di conseguenza, visto che il tempo era bello e il vento era quasi inesistente, avrebbero dovuto essere sempre visibili. Questo ragionamento mi indicava, senza possibilità
d'errore, una connessione tra la venuta della nebbia e la nostra incapacità a vedere. Perciò è possibile che fossimo in quella condizione di straordinaria cecità da quasi tre giorni. Mi ritornò alla mente l'ultima visione di poppa che avevo avuto della nave. E, ricordo, ebbi lo strano pensiero di averla guardata da una delle altre dimensioni. Per un istante, credetti veramente in questo mistero e pensai che potesse essere la verità, invece di capire che cosa significasse esattamente. Mi sembrava che esprimesse in maniera adeguata i pensieri indefiniti che mi erano venuti in mente da quando avevo visto quell'altra goletta di poppa. A un tratto, dietro di me risuonò un fruscio e un crepitio di vele e, nello stesso momento, sentii il Comandante dire: «Dove diavolo la porti, Jessop?». Mi voltai verso il timone. «Non lo so, Signore», balbettai. Avevo perfino dimenticato di essere al timone. «Non lo so», urlò. «Metti a dritta, stupido. Ci stai portando indietro!» «Sì, certo, Signore», risposi, e girai il timone. Lo feci meccanicamente, perché ero ancora stordito e non avevo avuto ancora il tempo di ritornare in me. Durante il minuto successivo, fui cosciente, in modo confuso, solo del fatto che il Comandante inveiva contro di me. Questa sensazione di smarrimento poi svanì, e io mi ritrovai a fissare in modo vacuo la bussola eppure, fino ad allora, del tutto incosciente dei miei movimenti. Ora, comunque, vidi che la nave ritornava sulla rotta esatta. Dio sa per quanto tempo era stata fuori rotta! Quando compresi di aver fatto quasi invertire la rotta, mi tornò il ricordo improvviso del cambiamento di posizione dell'altro vascello. All'inizio si era mostrato di poppa, e alla fine di fianco. Allora, comunque, poiché il mio cervello ricominciava a funzionare, capii la causa di quel cambiamento evidente e, fino a quel momento, inspiegabile. Era dovuto, naturalmente, al nostro avvicinamento, finché non avevamo incrociato l'altra goletta di poppa. È strano come tutto ciò attraversò la mia mente in un lampo, e trattenne la mia attenzione nonostante il Comandante continuasse a dare in escandescenze. Penso che avessi a stento compreso che stava ancora urlando contro di me. A ogni modo, il fatto successivo che ricordo è che mi scuoteva per un braccio.
«Che cos'hai, marinaio?», urlava. E io lo fissavo come uno scemo, senza dire una parola. Mi sentivo ancora incapace di parlare in modo ragionevole. «Sei andato fuori di testa?», continuò a urlare. «Sei pazzo? Hai preso un colpo di sole? Parla, idiota!» Cercai di dire qualcosa, ma le parole non mi uscivano chiare. «Io... io... io...», dissi, e mi fermai stupidamente. Stavo bene, veramente, ma ero veramente stupito della cosa che avevo scoperto e, in qualche modo, mi pareva di essere tornato da un luogo molto lontano. «Sei pazzo!», disse di nuovo. Ripeté questa frase molte volte, come se fosse l'unica che potesse esprimere bene l'opinione che aveva di me. Poi lasciò andare il mio braccio, e indietreggiò di qualche passo. «Non sono pazzo!», dissi con un sussulto improvviso. «Non sono pazzo, Signore, più di quanto non lo siate voi.» «Perché diavolo non rispondi alle mie domande, allora?», gridò, irato. «Che cos'hai? Che cosa facevi con il timone? Rispondimi, ora!» «Guardavo quella nave a tribordo, Signore», mi lasciai uscire di bocca, senza riflettere. «Stavano facendo delle segnalazioni...» «Che cosa?», m'interruppe. «Quale nave?» Si voltò rapidamente e guardò oltre la poppa. Poi si girò di nuovo verso di me. «Non c'è nessuna nave! Che cosa pensi di fare, cercando di farmi bere questa storiella?» «C'è, Signore», risposi. «È lì fuori...», indicai. «Chiudi la bocca!», disse. «Non dire sciocchezze: pensi che sia cieco?» «L'ho vista, Signore», insistei. «Non ribattere!», esplose con uno scatto di rabbia. «Io non l'ho vista!» Poi, con la stessa rapidità, smise di parlare. Fece un passo verso di me, e mi fissò negli occhi. Credo che il vecchio stupido pensasse che fossi un po' pazzo. Ad ogni modo, senza aggiungere una parola, andò verso il ponte di poppa. «Signor Tulipson», urlò. «Sì, Signore», udii rispondere il Secondo Ufficiale. «Mandi un altro marinaio al timone.» «Va bene, Signore», rispose il Secondo. Dopo un paio di minuti, il vecchio Jaskett salì a poppa per darmi il cambio. Gli dissi la rotta, ed egli la ripeté. «Che cosa succede, marinaio?», mi chiese, mentre mi allontanavo.
«Niente», risposi, e mi avviai avanti, dove il Comandante si era fermato, vicino al ponte di poppa. Gli diedi la rotta, ma il bisbetico vecchiaccio non mi notò. Quando scesi sul ponte di coperta, mi avvicinai al Secondo e la diedi a lui. Mi rispose in modo abbastanza gentile, e poi mi chiese che cosa avessi fatto per fare uscire dai gangheri il Comandante. «Gli ho detto che c'era una nave a tribordo che ci faceva segnalazioni», dissi. «Non c'è nessuna nave lì fuori, Jessop», replicò il Secondo Ufficiale, guardandomi con un'espressione strana ed ermetica. «C'è, Signore», cominciai. «Io...» «Fa' una cosa, Jessop», disse. «Va' a prua e fuma un po'. Poi ti darò una mano ad aggiustare questi poggiapiedi. Faresti meglio a portare con te il maglio, quando ritorni a poppa.» Esitai un istante, un po' adirato ma, più che altro, dubbioso. «Sì, Signore», mormorai alla fine, e andai a prua. 8. La luce verde Dopo la comparsa della nebbia, le cose sembrarono precipitare. Nei due o tre giorni seguenti, gli avvenimenti furono molti. La notte dello stesso giorno in cui il Comandante mi aveva mandato via dal timone, il nostro turno di guardia in coperta era dalle otto a mezzanotte, e il mio turno di vedetta era dalle dieci a mezzanotte. Mentre camminavo lentamente avanti e indietro sul tetto del castello di prua, pensavo all'affare del mattino. Sulle prime, pensai al Comandante. Lo maledicevo tra me e me, perché era un vecchio stupido dalla testa dura. Poi mi venne in mente che, se fossi stato al suo posto, se avessi trovato la nave fuori rotta e il marinaio addetto al timone che fissava il mare, avrei fatto sicuramente una scenata tremenda. E poi, ero stato un imbecille a parlargli della nave. Non avrei mai fatto una cosa del genere se non fossi stato fuori di me. Era molto probabile che il vecchio pensasse che fossi ammattito. Smisi di preoccuparmi di lui, e cominciai a chiedermi perché il Secondo Ufficiale mi aveva guardato in maniera così strana, quella mattina. Aveva intuito la verità più di quanto pensassi? E, se era così, perché aveva rifiutato di ascoltarmi? Dopodiché, passai a scervellarmi sulla faccenda della nebbia. Durante il giorno le avevo dedicato molti dei miei pensieri. Un'idea mi andava molto
a genio: quella nebbia visibile e reale era la materializzazione dell'atmosfera straordinariamente sottile in cui ci muovevamo. A un tratto, mentre passeggiavo avanti e indietro lanciando di tanto in tanto delle occhiate al mare (che era quasi calmo), i miei occhi afferrarono il bagliore di una luce lontana nell'oscurità. Rimasi fermo a guardare. Mi chiesi se era la luce di un vascello. In tal caso non eravamo più avvolti da quella atmosfera straordinaria. Mi sporsi in fuori, e dedicai alla cosa la mia più grande attenzione. Allora notai che era senza dubbio la luce verde di un vascello, posta a babordo della prua. Era chiaro che stava per incrociare la nostra prua. E, per di più, era pericolosamente vicina: le dimensioni e l'intensità della luce lo mostravano chiaramente. L'altra nave stava virando, mentre noi andavamo diritti cosicché, naturalmente, toccava a noi darle la precedenza. Mi voltai subito, portai le mani alla bocca, e chiamai a gran voce il Secondo Ufficiale: «Luce a babordo della prua, Signore». Un attimo dopo, arrivò la sua risposta: «Dove?». «Deve essere cieco», dissi a me stesso. «A circa due gradi a prua, Signore», urlai. Poi mi voltai a vedere se aveva cambiato posizione. Ma, quando lanciai un'occhiata, non si vedeva più nessuna luce. Corsi a prua, mi sporsi oltre la battagliola e guardai, ma non c'era niente, assolutamente niente, oltre il buio che ci avvolgeva. Rimasi così forse per qualche secondo, e un sospetto mi attraversò la mente: tutta la faccenda non era che una replica del fatto che era avvenuto la mattina. Evidentemente, quel velo impalpabile che assediava la nave, si era assottigliato per un istante tanto da permettermi di vedere la luce a prua. Ora, si era richiuso. Eppure, vedevo o non vedevo, ma non dubitavo del fatto che davanti a noi ci fosse un vascello, e anche molto vicino. Avremmo potuto entrare in collisione con la sua prua da un momento all'altro. La mia unica speranza era che, vedendo che non gli davamo la precedenza, avrebbe virato tanto da permetterci di passare con lo scopo, poi, di incrociarci a poppa. Aspettavo, ansioso, guardando e ascoltando. Poi, a un tratto, udii lungo il ponte dei passi che avanzavano verso prua, e il mozzo, che era di turno al barometro salì sul tetto del castello di prua. «Il Secondo Ufficiale dice che non vede nessuna luce, Jessop», disse, salendo su. «Dov'è?» «Non lo so», risposi. «Anch'io l'ho persa di vista. Era una luce verde, a
circa due gradi a babordo di prua. Sembrava molto vicina.» «Forse si è spenta la lampada», suggerì, dopo aver scrutato nel buio della notte per un minuto. «Forse», dissi. Non gli dissi che la luce era stata così vicina che perfino nel buio ora avremmo dovuto vedere la nave stessa. «Sei sicuro che era una luce, e non una stella?», chiese, in tono dubbioso, dopo aver dato un'altra lunga occhiata. «Oh! no», dissi. «Forse era la luna, ora che ci penso.» «Non preoccuparti», replicò. «È abbastanza facile ingannarsi. Che cosa devo dire al Secondo Ufficiale?» «Digli che è scomparsa, naturalmente!» «Dove?», chiese. «Come diavolo faccio a saperlo?», gli dissi. «Non fare domande stupide!» «Va bene, tieniti per te i tuoi rimproveri», concluse e andò a poppa a fare rapporto al Secondo Ufficiale. Forse cinque minuti dopo, rividi la luce. Era lontana a prua, il che mi diceva chiaramente che aveva virato per evitare la collisione. Non indugiai, ma urlai subito al Secondo Ufficiale che c'era una luce verde a circa quattro gradi a babordo di prua. Per Giove! Dovevamo averla scampata per un pelo. La luce non sembrava essere a più di cento yarde di distanza. Era una fortuna che non eravamo molto veloci. «Ora», pensai tra me e me, «il Secondo vedrà la nave. E forse, il mozzo sarà in grado di dare alla stella il nome adatto.» Proprio mentre questo pensiero mi veniva alla mente, la luce si affievolì e svanì. E io sentii la voce del Secondo Ufficiale: «Dove?», urlava. «È scomparsa di nuovo, Signore», risposi. Un minuto dopo, lo sentii venire lungo il ponte. Arrivò ai piedi della scaletta di tribordo. «Dove sei, Jessop?», domandò. «Qui, Signore», dissi, e mi avvicinai alla cima della scaletta del lato sopravvento. Lui salì lentamente sul tetto del castello di prua. «Che cosa gridavi a proposito di una luce?», chiese. «Indicami solo dov'era esattamente, quando l'hai vista l'ultima volta.» Lo feci, ed egli si avvicinò alla battagliola di babordo e fissò lo sguardo
nel buio, ma senza vedere niente. «È scomparsa, Signore», osai ricordargli. «Anche se l'ho vista due volte: una volta, a circa due gradi dalla prua, e l'ultima volta, lontana dalla prua, ma è sparita entrambe le volte, quasi immediatamente.» «Non capisco proprio, Jessop», disse in tono perplesso. «Sei sicuro che fosse la luce di una nave?» «Sì, Signore. Una luce verde. Era molto vicina.» «Non capisco», disse un'altra volta. «Corri a poppa e vai a chiedere al mozzo di darti i miei occhiali per la notte. Cerca di fare il più in fretta possibile.» «Sì, Signore», replicai, e corsi a poppa. In meno di un minuto, ero di ritorno con i suoi occhiali. Li indossò e fissò per un po' dalla sua parte. Poi si girò verso di me con una domanda improvvisa: «Dove se ne è andata? Se ha cambiato direzione così velocemente, deve essere vicinissima. Dovremmo vedere i pennoni e le vele, oppure la luce della cabina o qualcos'altro!». «È strano, Signore», assentii. «Maledettamente strano», confermò. «Così maledettamente strano che sono propenso a credere che hai fatto un errore.» «No, Signore. Sono certo che fosse una luce.» «Allora, dov'è la nave?», domandò. «Non saprei, Signore. È proprio questo che mi sconcerta.» Il Secondo non rispose nulla, ma fece un paio di rapidi giri sul tetto del castello di prua. Si fermò alla battagliola di babordo, e diede un'altra occhiata sottovento con i suoi occhiali per la sera. Forse vi rimase un minuto. Poi, senza dire una parola, scese lungo la scaletta di tribordo, e se ne andò a poppa lungo il ponte di coperta. «È stupito», pensai. «Oppure pensa che abbia immaginato ogni cosa.» Comunque, sospettavo che fosse vera l'ultima ipotesi. Poco dopo, cominciai a chiedermi se, dopotutto, aveva un'idea di quale potesse essere la verità. Un momento ne ero certo, il momento dopo ero sicuro che non intuisse nulla. Ebbi nuovamente l'impulso di dirgli tutto: forse sarebbe stato meglio. Mi pareva che avesse visto abbastanza da essere disposto ad ascoltarmi. Eppure, non potevo esserne certo in nessun modo. Avrei potuto fare solo la figura dello stupido. O fargli pensare che fossi un po' matto. Camminavo sul tetto del castello di prua, preso da questi pensieri, quan-
do vidi per la terza volta la luce. Era molto luminosa e grande e, nel guardarla, la vedevo spostarsi. Questo m'indicò di nuovo che doveva essere molto vicina. «Sicuramente», pensai, «il Secondo Ufficiale ora la deve vedere.» Questa volta non urlai subito. Pensai che avrei lasciato che il Secondo vedesse da solo che non mi ero sbagliato. Inoltre, non avevo l'intenzione di rischiare che svanisse di nuovo, non appena avessi parlato. La guardai per mezzo minuto, e non sembrava stesse svanendo. Da un momento all'altro, mi aspettavo di sentire il richiamo del Secondo Ufficiale, che mi avrebbe detto che finalmente l'aveva vista, ma non sentii niente. Non ce la facevo più, e corsi alla battagliola, sul lato controvento del tetto del castello di prua. «Una luce verde a poppa, Signore!», urlai al massimo delle mie possibilità. Ma avevo aspettato troppo. Proprio mentre urlavo, la luce si affievolì e svanì. Sbattei i piedi a terra e bestemmiai. Quella cosa mi stava facendo impazzire. Ma avevo la vaga speranza che gli uomini a poppa l'avessero vista poco prima che scomparisse. Capii inoltre che era una speranza vana, direttamente dalla voce del Secondo. «Che sia dannata questa luce!», gridò. Poi soffiò nel suo fischietto, e uno dei marinai corse a poppa, uscendo dal castello di prua, per vedere che cosa volesse. «Chi è il prossimo di vedetta?», lo udii chiedere. «Jaskett, Signore.» «Allora di' a Jaskett di dare subito il cambio a Jessop. Mi hai sentito?» «Sì, Signore», disse l'uomo e andò a prua. Dopo un minuto, Jaskett arrivò barcollando sul tetto del castello di prua. «Che cosa succede, marinaio?», chiese con voce assonnata. «È quello stupido del Secondo Ufficiale!», dissi furibondo. «Gli ho riferito di aver visto una luce, tre volte e, poiché quello stupido cieco non la vede, ti ha chiamato a darmi il cambio!» «Dov'è la luce?», domandò. Guardò il mare scuro. «Non vedo nessuna luce», osservò, dopo qualche momento. «No», dissi. «È scomparsa.» «Eh?», esclamò in tono interrogativo. «È scomparsa!», ripetei, irritato.
Si voltò a guardarmi in silenzio, nell'oscurità. «Andrei a farmi una bella dormita, se fossi in te», disse alla fine. «Non c'è niente di meglio di un pisolino, quando ti succedono queste cose.» «Quali cose!», dissi. «Quali?» «Va tutto bene. Domani mattina starai benissimo. Non ti preoccupare per me.» Il suo tono era comprensivo. «All'inferno!», fu tutto quello che dissi, e scesi dal tetto del castello di prua. Mi chiesi se il vecchio pensava che stessi rimbecillendo. «Dormire, per Giove!», borbottai tra me e me. «Mi chiedo chi se la sentirebbe di dormire dopo quello che ho visto e capito oggi!» Mi sentivo male a pensare che nessuno capisse quale fosse veramente il problema. Mi sentivo solo con tutte quelle cose che avevo appreso. Poi mi venne l'idea di andare a poppa per parlare della faccenda con Tammy. Sapevo che sarebbe stato in grado di capire, naturalmente, e sarebbe stato un grande sollievo. Dietro la spinta di quest'impulso, mi voltai e andai a poppa lungo il ponte verso l'alloggio dei mozzi. Mentre mi avvicinavo al ponte di poppa, alzai gli occhi e vidi la figura in ombra del Secondo Ufficiale, che si sporgeva dalla battagliola che mi sovrastava. «Chi è?», chiese. «Sono Jessop, Signore», dissi. «Che cosa fai in questa parte della nave?», domandò. «Vorrei andare a poppa a parlare con Tammy, Signore», replicai. «Vai a prua e coricati», disse, non senza gentilezza. «Una dormita ti farà meglio delle chiacchiere. Stai immaginando troppe cose!» «Sono sicuro di no, Signore! Sto perfettamente bene. Io...» «Lo farai!», m'interruppe con asprezza. «Vai a dormire!» Bestemmiai sottovoce, e andai lentamente a prua. Stavo impazzendo nell'essere trattato come se non fossi sano di mente. «Per Dio!», dissi tra me e me. «Aspetta solo che quegli stupidi sappiano quello che sai tu: aspetta!» Entrai nel castello di prua attraverso l'ingresso di babordo, andai alla mia cuccetta e mi sedetti. Mi sentivo stanco, solo e infuriato. Quoin e Plummer sedevano accanto a me, giocando a carte e fumando. Stubbins, disteso nella cuccetta, li guardava e fumava anche lui. Mentre mi sedevo, sporse il capo dalla cuccetta e mi guardò con un'espressione strana e pensierosa. «Che cosa è accaduto con il Secondo Ufficiale?», chiese, dopo avermi
osservato per qualche momento. Lo guardai, e gli altri due marinai alzarono gli occhi verso di me. Sentivo che sarei esploso se non avessi detto qualcosa, se non mi fossi sfogato raccontando loro tutta la faccenda. Ma avevo visto abbastanza da sapere che non era bene tentare di spiegare le cose, perciò raccontai loro solo i fatti nudi e crudi, e lasciai perdere le spiegazioni per quanto mi fosse possibile. «Tre volte, dici?», disse Stubbins, quando ebbi finito. «Sì», assentii. «E il Comandante ti ha mandato via dal timone questa mattina perché avevi visto una nave che lui non vedeva», aggiunse Plummer, in tono riflessivo. «Sì», dissi di nuovo. Mi sembrò che lanciasse a Quoin un'occhiata piena di sottintesi, ma notai che Stubbins guardava solo me. «Suppongo che il Secondo pensi che tu sia fuori di te», osservò, dopo una breve pausa di silenzio. «Il Secondo Ufficiale è uno stupido!», dissi, con una certa amarezza nella voce. «Uno stupido dalle idee confuse!» «Non ne sono così sicuro», replicò. «Deve per forza sembrargli strano. Non lo capisco io stesso...» S'interruppe, e intanto fumava. «Non riesco a capire come mai il Secondo Ufficiale non l'ha vista», disse Quoin in tono perplesso. Mi parve che Plummer gli desse delle gomitate per non farlo parlare. Sembrava che Plummer condividesse l'opinione del Secondo Ufficiale, e l'idea mi rese pazzo di rabbia. Ma l'osservazione che fece Stubbins, attirò la mia attenzione. «Non lo capisco», disse ancora, parlando con ponderatezza. «Dopotutto, il Secondo dovrebbe sapere abbastanza da non mandarti via dal posto di vedetta.» Annuì lentamente, continuando a fissarmi negli occhi. «Che cosa vuoi dire?», domandai sorpreso, ma con la vaga sensazione che l'uomo avesse capito di più - forse - di quanto avessi pensato fino a quel momento. «Voglio dire: di che cosa è tanto sicuro il Secondo?» Aspirò una boccata dalla pipa, la tolse dalla bocca, e si sporse dalla cuccetta.
«Non ti ha detto niente, dopo che hai lasciato il posto di vedetta?», domandò. «Sì», risposi, «mi ha spedito a prua. Mi ha detto che sto cominciando a immaginare troppe cose. Ha detto che avrei fatto meglio ad andare a prua a dormire.» «E tu che cosa hai detto?» «Niente. Sono andato a prua.» «Perché non gli hai chiesto se era uno scherzo dell'immaginazione anche quando ci ha mandati sull'albero maestro a prendere il folletto che aveva visto?» «Non ci ho pensato», gli dissi. «Avresti dovuto.» Si fermò, si alzò a sedere sulla cuccetta e mi chiese un fiammifero. Mentre gli passavo la mia scatola, Quoin alzò gli occhi dalle sue carte. «Avrebbe potuto essere un clandestino, lo sapete. Visto che non è stato confermato il contrario, non si può dire che non lo fosse.» Stubbins mi ripassò la scatola di fiammiferi e continuò, senza tener conto dell'osservazione di Quoin. «Ti ha detto di andare a dormire, è vero? Non capisco che cosa cerca di nascondere.» «Che cosa vuoi dire?», chiesi. Annuì con aria saggia. «La mia idea è che lui sa che hai visto la luce, proprio come lo so io.» Sentendo questo, Plummer distolse gli occhi dalla sua partita a carte, ma non disse niente. «Allora non dubiti che io l'abbia veramente vista?», chiesi in tono sorpreso. «No», osservò in tono rassicurante. «Non sei il tipo che farebbe un errore del genere per tre volte.» «No», ripetei. «Io so di aver visto la luce, lo so molto bene, ma - esitai un attimo - è maledettamente strano.» «È maledettamente strano!», convenne. «È dannatamente strano! E ci sono un mucchio di altre cose dannatamente strane, che sono accadute a bordo di questa goletta, negli ultimi giorni.» Rimase in silenzio per qualche secondo. Poi parlò improvvisamente: «Non è normale, ne sono totalmente sicuro». Aspirò qualche boccata dalla pipa e, nel silenzio, sentii la voce di Jaskett che proveniva da sopra. Chiamava a gran voce da poppa.
«Luce rossa a tribordo della poppa, Signore», lo sentii urlare. «Ecco», dissi con un tremito della voce. «È all'incirca dove ora dovrebbe trovarsi la goletta che ho visto. Non ha potuto incrociare la nostra prua, allora ha virato e ci ha lasciato passare: ora ha virato di nuovo e ci sta incrociando a poppa.» Mi alzai dalla cuccetta e mi avvicinai alla porta: gli altri tre mi seguirono. Mentre salivamo sul ponte, sentii che il Secondo Ufficiale urlava per sapere dove era la luce. «Per Giove, Stubbins», dissi. «Credo che quella dannata cosa sia scomparsa di nuovo.» Corremmo a tribordo tutti insieme e guardammo il mare, ma non c'era nessuna luce nell'oscurità che circondava la poppa. «Non posso dire di aver visto una luce», disse Quoin. Plummer non disse niente. Alzai gli occhi al tetto del castello di prua. Vi potei a stento distinguere la sagoma di Jaskett. Era accanto alla battagliola di tribordo, con le mani alzate a fare schermo agli occhi. Era chiaro che fissava il punto dove aveva visto per l'ultima volta la luce. «Dove se ne è andata, Jaskett?», urlai. «Non saprei», rispose. «È la cosa più assurda che mi sia mai capitata. Un momento era chiara e visibile, e il momento dopo, era scomparsa, sparita.» Mi voltai verso Plummer. «Ora, che cosa ne pensi?», gli chiesi. «Va bene», disse. «Devo ammettere che all'inizio ho pensato che la luce non esistesse. Pensavo che ti fossi ingannato, ma ora sembra che tu abbia visto veramente qualcosa.» Da poppa sentimmo venire dei passi lungo il ponte. «Il Secondo viene a prua per avere una spiegazione, Jaskett», urlò Stubbins. «Faresti meglio a scendere e prepararti.» Il Secondo Ufficiale ci oltrepassò, e salì lungo la scaletta di tribordo. «Che cosa c'è adesso, Jaskett?», disse in fretta. «Dov'è la luce? Né io né il mozzo la vediamo!» «Quella luce maledetta è sparita, Signore», rispose Jaskett. «Scomparsa!», disse il Secondo Ufficiale. «Scomparsa! Che cosa vuoi dire?» «Un momento era lì, Signore, chiara e visibile, e un momento dopo era scomparsa.» «Ma che stupidaggini mi racconti?», rispose il Secondo Ufficiale. «Ti
aspetti forse che ci creda?» «È la sacrosanta verità in ogni modo, Signore», rispose Jaskett. «E Jessop ha visto la stessa cosa.» Sembrò aggiungere quest'ultima frase come dopo una riflessione. Evidentemente, il vecchiaccio aveva cambiato opinione riguardo al mio bisogno di una buona dormita. «Sei un vecchio stupido, Jaskett», disse il Secondo in tono aspro. «Ed è stato quell'idiota di Jessop a mettere queste idee nel tuo cervello vecchio e scemo.» Si fermò per un istante. Poi continuò: «Che diavolo avete, per fare giochetti del genere? Sai molto bene di non aver visto nessuna luce! Ho mandato via Jessop dal posto di vedetta, e adesso devi venire tu a cominciare lo stesso giochetto». «Noi non abbiamo...», Jaskett iniziò a dire, ma il Secondo lo zittì. «Smettila!», disse, e scese lungo la scaletta oltrepassandoci, senza dire una parola. «Non mi pare, Stubbins», dissi, «che il Secondo creda che abbiamo visto la luce.» «Non ne sono così sicuro», rispose. «È un uomo misterioso.» Il resto del turno di guardia trascorse tranquillamente e, quando suonarono gli otto tocchi, mi affrettai a coricarmi perché ero stanchissimo. Quando fummo chiamati per il turno di guardia dalle quattro alle otto, venni a sapere che uno dei marinai del Primo Ufficiale aveva visto una luce subito dopo che noi eravamo andati sotto coperta, e l'aveva riferito, ma la luce era scomparsa immediatamente. Questo fatto, come scoprii, era accaduto due volte, e il Primo si era tanto infuriato (avendo l'impressione che il marinaio facesse lo spiritoso) che era quasi arrivato alle mani con lui. Alla fine, gli aveva ordinato di lasciare il posto di vedetta, e aveva mandato un altro marinaio al suo posto. Se anche questo marinaio aveva visto la luce, aveva badato bene a non farlo sapere al Primo, così la faccenda era finita lì. E poi, la notte seguente, mentre ancora parlavamo dell'affare delle luci, accadde qualcos'altro che, temporaneamente, mi fece dimenticare la nebbia, e l'atmosfera straordinaria e accecante che essa aveva introdotto. 9. L'uomo che gridò aiuto Come ho già detto, la notte seguente accadde qualcosa. E fece sentire a
me, e forse a ogni altro, che a bordo esisteva un pericolo per tutti noi. Eravamo scesi sotto coperta per il turno dalle otto a mezzanotte. Alle otto, la mia ultima impressione riguardo al tempo era che il vento si stesse rinforzando. A poppa si stava alzando un grande banco di nubi, che l'avrebbe reso ancora più forte. A mezzanotte meno un quarto, quando fummo chiamati per il nostro turno di guardia in coperta, da mezzanotte alle quattro, capii subito, dal rumore, che soffiava un vento forte. Contemporaneamente, sentii le voci dei marinai dell'altro turno, che urlavano nel tirare le cime. Udii il crepitio delle vele al vento, e sospettai che stessero ammainando i controvelacci. Guardai l'orologio che tenevo sempre appeso alla mia cuccetta: segnava pochi minuti a mezzanotte cosicché, con un po' di fortuna, avremmo evitato di salire sugli alberi. Mi vestii velocemente, e poi mi avvicinai alla porta per dare un'occhiata al tempo. Scoprii che il vento era girato dal quartiere di tribordo al dritto di poppa e, guardando il cielo, si capiva che sarebbe rinforzato in poco tempo. Alzando gli occhi verso la coffa, scorgevo i controvelacci di trinchetto e di mezzana sbattere al vento. Il controvelaccio di maestra era stato lasciato. Sul sartiame di trinchetto, Jacobs, il Marinaio Semplice del turno del Primo Ufficiale si arrampicava dietro a un altro marinaio di coffa. I due mozzi del Primo Ufficiale erano già sul sartiame di mezzana. Sul ponte, gli altri uomini erano occupati a sbrogliare le cime. Ritornai alla cuccetta, e guardai l'orologio: stavano per suonare gli otto tocchi. Allora preparai la mia cerata, perché sembrava che volesse piovere. Mentre ero intento ai preparativi, Jock entrò per dare un'occhiata. «Che fai qui, Jock?», domandò Tom, uscendo in fretta dalla cuccetta. «Penso che forse il vento soffierà forte e avrete bisogno delle cerate», rispose Jock. Quando suonarono gli otto tocchi, e ci radunammo a poppa per l'appello, ci fu un ritardo notevole, perché il Primo Ufficiale si rifiutava di fare l'appello finché Tom (che, come al solito, si era alzato all'ultimo momento) non fosse arrivato a poppa a rispondere di persona. Quando alla fine arrivò, il Secondo e il Primo si unirono per fargli una buona strigliata per la sua pigrizia, perciò passarono molti minuti prima che potessimo tornare a prua. Questa fu una faccenda di poca importanza in se stessa, eppure, per le conseguenze che ebbe su uno di noi, fu veramente terribile.
Infatti, proprio mentre eravamo vicini al sartiame di trinchetto, si sentì un grido provenire dall'alto, più forte del rumore del vento e, subito dopo, qualcosa precipitò tra noi, con un grande tonfo - qualcosa di massiccio e pesante che colpì Jock. Egli cadde, emettendo un rantolo orribile e forte, e poi non disse più una parola. Un urlo di terrore si alzò tra noi, e poi tutti fuggimmo verso il castello di prua che era illuminato. Non mi vergogno di dire che corsi con tutti gli altri. Una paura cieca e irrazionale mi aveva preso e non mi fermai a pensare. Una volta che arrivammo al castello di prua e alla luce, ci fu la reazione. Restammo a guardarci l'un l'altro, per qualche momento. Poi qualcuno fece una domanda, e si alzò un mormorio generale di disapprovazione. Provavamo vergogna per la nostra fuga e qualcuno andò a prendere la lampada di babordo. Io feci la stessa cosa con quella di tribordo, e poi ci muovemmo rapidamente verso la porta. Quando uscimmo sul ponte, sentii le voci degli Ufficiali. Evidentemente, erano arrivati dalla poppa per scoprire che cos'era accaduto. Ma era troppo buio per vedere dov'erano. «Dove diavolo andate tutti quanti?», sentii che urlava il Primo Ufficiale. Subito dopo, dovettero vedere la luce delle nostre lanterne, perché sentii che correvano lungo il ponte. Arrivarono lungo il lato di tribordo e, a poppa del sartiame di trinchetto, uno di loro inciampò e cadde su qualcosa. Era il Primo Ufficiale che era incespicato. Lo capii dalle bestemmie che si sentirono subito dopo. Si rialzò e, evidentemente senza fermarsi a vedere in che cosa era inciampato, corse verso la battagliola. Il Secondo Ufficiale si precipitò verso il cerchio di luce delle nostre lanterne, e si arrestò, guardandoci con espressione perplessa. Ora non ne sono sorpreso e non lo sono nemmeno del comportamento che ebbe subito dopo il Primo. Ma, nello stesso tempo, devo dire che non riesco a concepire quello che era venuto loro in mente, soprattutto al Primo Ufficiale. Uscì dal buio verso di noi, correndo e ruggendo come un toro, e brandendo una caviglia. Non avevo tenuto conto della scena che gli si doveva essere parata davanti: l'intero equipaggio era sparso sul ponte nel caos più assoluto, e davanti c'erano due marinai che reggevano le lanterne. E, prima di questo, c'era stato il grido proveniente dalla coffa, e il tonfo sul ponte seguito dalle grida di terrore dell'equipaggio, e poi, il rumore di molti piedi che correvano. Lui poteva aver preso il grido per un segnale, e i nostri atti per qualcosa di non lontano dall'ammutinamento. In realtà, le sue parole ci fecero comprendere che questa era la sua idea.
«Darò un pugno in faccia al primo marinaio che fa un passo avanti!», urlò, agitandomi la caviglia davanti alla faccia. «Vi farò vedere chi comanda qui! Che diavolo vuol dire tutto ciò? Andate a prua nel vostro canile!» Dai marinai si alzò un basso brontolio a quest'ultima osservazione, e il vecchio toro arretrò di qualche passo. «Calmatevi, compagni!», urlai. «State zitti per un minuto.» «Signor Tulipson!», gridai al Secondo, che non era riuscito ad inserirsi nella conversazione. «Non so che diavolo abbia il Primo Ufficiale, ma non ricaverà niente a parlare in questo modo a un equipaggio come il nostro: potrebbe esserci una sommossa a bordo.» «Basta! Basta! Jessop! Così non va! Non posso permetterti di parlare in questo modo di un Ufficiale!», disse in tono duro. «Fatemi sapere che cosa è successo, e poi tornate tutti a prua.» «Ve l'avremmo detto subito, Signore», dissi, «se solo il Primo Ufficiale ci avesse dato la possibilità di parlare. È accaduto un incidente terribile, Signore. È caduto qualcosa dalla coffa, investendo in pieno Jock...» Mi fermai di colpo, perché si era sentito un forte grido provenire dalla coffa. «Aiuto! Aiuto! Aiuto!», gridava qualcuno, e ben presto il grido si trasformò in un urlo. «Mio Dio, Signore», urlai. «È uno dei marinai che sono sul controvelaccio di trinchetto!» «Ascoltate!», ordinò il Secondo Ufficiale. «Ascoltate!» Proprio mentre parlava, il grido ritornò, rotto e, per così dire, ansimante. «Aiuto!... Oh!... Dio!... Oh!... Aiuto! A-i-u-t-o!» Improvvisamente, si sentì la voce di Stubbins. «Saliamo, uomini! Per Dio! Saliamo!», e fece un balzo sul sartiame di trinchetto. Infilai il manico della lanterna fra i denti, e lo seguii. Plummer stava venendo, ma il Secondo Ufficiale lo tirò indietro. «È sufficiente», disse. «Vado io», e mi seguì. Salimmo sulla coffa di trinchetto, correndo come diavoli. La luce della lanterna m'impediva di vedere a distanza ma, alla croce dell'albero, Stubbins, che era qualche grisella più avanti di noi, gridò all'improvviso ansimando: «Stanno lottando... come... diavoli». «Che cosa?», gridò il Secondo Ufficiale, ormai senza fiato. Evidentemente Stubbins non lo sentì, perché non rispose. Superammo la croce dell'albero e ci arrampicammo lungo il sartiame del velaccio. Il ven-
to lassù era forte, e da sopra risuonava il rumore secco della vela sbattuta dal vento. Ma, fin da quando avevamo lasciato il ponte, non si sentiva nessun altro suono provenire dall'alto. Allora, all'improvviso, si alzò un grido selvaggio dall'oscurità che ci sovrastava. Era un miscuglio strano e selvaggio di urla d'aiuto e maledizioni violente e ansanti. Al di sotto del pennone di controvelaccio, Stubbins si fermò e guardò in basso verso di me. «Sali in fretta... con quella... lanterna... Jessop!», urlò trattenendo il respiro tra una parola e l'altra. «Ci sarà... un omicidio... tra poco!» Lo raggiunsi e sollevai la lanterna in modo che l'afferrasse. Si fermò e la prese. Poi, reggendola al di sopra della testa, salì qualche grisella. Così raggiunse l'altezza del pennone del controvelaccio. Dalla mia posizione, un poco più basso di lui, la lanterna sembrava gettare lungo l'albero solo qualche raggio sparso e tremolante, eppure riuscivo a vedere qualcosa. Prima di tutto, avevo guardato il lato sopravvento, e avevo visto subito che non c'era niente sull'estremità del pennone di quel lato. Da lì il mio sguardo si spostò al lato sottovento. Vidi una figura indistinta che si aggrappava al pennone, divincolandosi. Stubbins si chinò da quel lato alzando la lampada, e allora vidi più chiaramente. Era Jacobs, il Marinaio Semplice. Con il braccio destro si teneva stretto al pennone, e con l'altro, sembrava difendersi da qualcosa che era dall'altra parte, sull'estremità del pennone. Di tanto in tanto, gemeva e ansimava e, a tratti, bestemmiava. Ad un tratto, quando sembrò perdere la presa sul pennone, urlò come una donna. Il suo atteggiamento suggeriva una disperazione tenace. Non riesco a dirvi quanto mi colpì questa visione straordinaria. Fissavo la scena, senza capire che il fatto stava accadendo realmente. In quei pochi secondi che avevo trascorso a fissare e a riprendere fiato, Stubbins si era arrampicato intorno all'albero dal lato di poppa, e allora cominciai a seguirlo. Dalla sua posizione, più in basso, il Secondo non aveva visto che cosa accadeva sul pennone, e mi chiese che cosa stesse succedendo. «È Jacobs, Signore», risposi. «Sembra che stia lottando con qualcuno. Ancora non vedo bene.» Stubbins era passato al poggiapiedi di tribordo, e ora reggeva la lanterna in alto, scrutando nel buio, e io mi affiancai rapidamente a lui. Il Secondo Ufficiale ci seguì ma, invece di scendere sul poggiapiedi, passò sul pennone, e lì rimase, mantenendosi alla cima. Urlò che qualcuno di noi gli pas-
sasse la lanterna, Stubbins me la porse e io gliela passai. Il Secondo la mantenne sollevata e a distanza, in modo da illuminare la parte sottovento del pennone. La lampada gettava un fascio di luce nelle tenebre fino al punto in cui Jacobs lottava in modo così misterioso. Al di là di lui, non si vedeva niente. C'era stata una pausa, quando avevamo passato la lanterna al Secondo Ufficiale. Ora, comunque, Stubbins e io ci spostammo lentamente lungo il poggiapiedi. Camminavamo lentamente, ma facevamo bene a muoverci senza far mostra di audacia, perché tutto l'affare era veramente orribile e soprannaturale. È impossibile descrivervi realmente la strana scena che si svolgeva sul pennone del controvelaccio. Forse riuscite a immaginarlo da soli. Il Secondo Ufficiale stava sul pennone e manteneva la lanterna. Il suo corpo ondeggiava a ogni rollio della nave, e il suo collo si allungava, mentre scrutava lungo il pennone. Alla nostra sinistra, Jacobs, folle di terrore, lottava, malediceva, pregava, ansimava, e al di là c'erano solo le ombre e le tenebre. Il Secondo Ufficiale parlò improvvisamente. «Fermatevi un momento!», disse. Poi: «Jacobs!», urlò. «Jacobs mi senti?» Non si udì nessuna risposta, solo ansiti e maledizioni. «Andate avanti», ci disse il Secondo Ufficiale. «Ma state attenti. Mantenetevi forte!» Alzò la lanterna più in alto e noi lasciammo con prudenza il poggiapiedi. Stubbins raggiunse il Marinaio Semplice, e gli mise una mano sulla spalla con un gesto tranquillizzante. «Calmati ora, Jacobs», disse. «Calmati.» Al suo tocco, come per magia, il giovane si calmò, e Stubbins girò intorno a lui afferrando il pennone dall'altra parte. «Afferralo dalla tua parte, Jessop», gridò. «Io lo prenderò da questa parte.» Feci ciò che mi aveva detto, e Stubbins lo circondò con un braccio. «Non c'è nessuno qui», mi disse Stubbins, ma la sua voce non esprimeva sorpresa. «Che cosa?», gridò il Secondo Ufficiale. «Non c'è nessuno! Dov'è Svensen, allora?» Non afferrai la risposta di Stubbins perché, a un tratto, mi parve di scorgere un'ombra all'estremità del pennone accanto alla drizza. La fissai. Si
alzò sul pennone, e vidi che era la figura di un uomo. Si afferrò alla drizza, e cominciò a scivolare verso l'alto, rapidamente. Passò in diagonale al di sopra della testa di Stubbins, e protese verso il basso un braccio e una mano indistinti. «Guarda! Stubbins!», urlai. «Guarda!» «Che succede ora?», gridò, in tono sorpreso. Nello stesso momento, il suo berretto volteggiò via verso sotto vento. «Dannato vento!», esclamò. Allora, all'improvviso, Jacobs, che ogni tanto gemeva, cominciò a gridare e a divincolarsi. «Mantienilo forte!», strillò Stubbins. «Si getterà giù dal pennone.» Con la mano sinistra circondai il corpo del Marinaio Semplice afferrando il pennone dall'altra parte. Poi alzai gli occhi. Al di sopra di noi mi parve di vedere qualcosa di scuro e di vago muoversi velocemente verso l'alto, lungo la drizza. «Tenetelo stretto mentre prendo un matafione», gridò il Secondo Ufficiale. Dopo un attimo si sentì uno schianto, e la luce scomparve. «Dannazione!», gridò il Secondo Ufficiale. Mi girai in qualche modo, e guardai nella sua direzione. Lo distinguevo a stento sul pennone. Stava evidentemente scendendo sul poggiapiedi, quando la lanterna si era fracassata. Da lui il mio sguardo si spostò al sartiame di tribordo. Mi parve di scorgere un'ombra che scendeva furtivamente nel buio, ma non potevo esserne certo e poi, in un attimo, scomparve. «C'è qualcosa che non va, Signore?», gridai. «Sì», rispose. «Ho fatto cadere la lanterna. Quella vela maledetta l'ha spinta via dalla mia mano!» «Andrà tutto bene, Signore», replicai. «Penso che possiamo farcela anche senza. Jacobs ora sembra più tranquillo.» «Va bene, state attenti quando vi arrampicate sul sartiame», ci ammonì. «Andiamo, Jacobs», dissi. «Andiamo: scendiamo sul ponte.» «Vai avanti, ragazzo», intervenne Stubbins. «Ora stai bene. Ci prenderemo cura di te.» E cominciammo a guidarlo lungo il pennone. Camminava abbastanza volentieri, benché non parlasse. Sembrava un bambino. Una o due volte rabbrividì, ma non disse niente. Lo aiutammo ad arrampicarsi sul sartiame di tribordo. Poi, mentre uno scendeva accanto a lui e l'altro lo manteneva da sotto, arrivammo lentamente in basso sul ponte. Scendemmo lentamente, tanto lentamente che il
Secondo Ufficiale - che si era fermato ad agganciare il matafione intorno al lato sottovento della vela - arrivò subito dopo di noi. «Portate Jacobs a prua nella sua cuccetta», disse, e andò a poppa, dove molti marinai, uno dei quali reggeva una lanterna, stavano intorno alla porta di una cuccetta vuota, che era al di sotto del ponte di poppa, dal lato di tribordo. Noi ci affrettammo a prua verso il castello. Lo trovammo al buio. «Sono a poppa con Jock e Svenson.» Stubbins aveva esitato un istante prima di dire quel nome. «Sì», replicai. «È questo che deve essere accaduto, sicuramente.» «Penso di averlo sempre saputo», disse. Entrai nel castello e accesi un fiammifero. Stubbins mi seguì, guidando Jacobs davanti a lui e, insieme, lo appoggiammo sulla sua cuccetta. Lo coprimmo con le coperte, perché era scosso da brividi di freddo. Poi uscimmo. In tutto quel tempo, Jacobs non disse nemmeno una parola. Mentre andavamo verso poppa, Stubbins osservò che tutta la faccenda doveva aver fatto impazzire il Marinaio Semplice. «Lo ha fatto ammattire», continuò. «Non ha capito nemmeno una parola di quello che gli abbiamo detto.» «Forse domani mattina starà meglio», risposi. Mentre ci avvicinavamo alla poppa e alla folla di marinai in attesa, parlò di nuovo: «Li hanno messi nella cabina vuota del Secondo». «Sì», dissi. «Poveri diavoli.» Raggiungemmo gli altri ed essi aprirono un varco per farci avvicinare alla porta. Molti ci chiesero a bassa voce se Jacobs stava bene, e io risposi affermativamente, senza aggiungere niente riguardo alle sue condizioni. Mi avvicinai alla porta e guardai nella cabina. La lampada era accesa e vedevo tutto distintamente. C'erano due cuccette, e in ognuna era disteso un uomo. Il Comandante era lì, appoggiato alla paratia. Aveva l'aria turbata, ma era silenzioso, sembrava assorto nei propri pensieri. Il Secondo Ufficiale era impegnato con due bandiere, che stava stendendo sui due corpi. Il Primo Ufficiale stava parlando: evidentemente gli diceva qualcosa, ma il tono della voce era così basso che afferravo appena le parole. Mi colpì il fatto che aveva un'aria sottomessa. Afferrai qualche squarcio, per così dire, del suo discorso. «... rotto», lo sentii dire. «E l'olandese...» «L'ho visto», rispose concisamente il Secondo Ufficiale.
«Due, in pochi secondi», disse il Primo Ufficiale. «... tre in...» Il Secondo non rispose. «Naturalmente, sapete... un incidente.» Il Primo Ufficiale continuò. «Sì, è così!», disse il Secondo, con una voce strana. Vidi che il Primo Ufficiale gli lanciava un'occhiata dubbiosa, ma il Secondo stava coprendo il volto del povero vecchio Jock, e non diede segno di notare l'espressione dell'altro. «È... è...», disse il Primo Ufficiale, e si fermò. Dopo una breve esitazione, disse qualcos'altro che non riuscii a sentire, ma si sentiva la paura nella sua voce. Il Secondo Ufficiale non mostrava di averlo sentito, ad ogni modo non rispose, ma si chinò ad aggiustare un lembo della bandiera sulla figura rigida che era sulla cuccetta inferiore. C'era una certa gentilezza nel suo gesto, che me lo rese caro. «È pallido!», pensai. Ad alta voce dissi: «Abbiamo messo Jacobs nella sua cuccetta, Signore». Il Primo Ufficiale ebbe un sussulto, poi si voltò di scatto e mi fissò come se fossi stato un fantasma. Anche il Secondo si voltò ma, prima che potesse parlare, il Comandante fece un passo verso di me. «Sta bene?», chiese. «Sì, Signore», dissi. «È un po' strano, ma penso che, dopo una buona dormita, starà meglio.» «Anch'io lo spero», replicò e uscì sul ponte. Andò verso la scaletta di tribordo della poppa, camminando lentamente. Il Secondo si avvicinò alla lampada e si fermò, mentre il Primo Ufficiale, dopo avergli lanciato una rapida occhiata, uscì e seguì il Comandante verso poppa. Allora mi venne in mente, come in un lampo, che il Primo si era per caso imbattuto in una parte della verità. Questi incidenti che si susseguivano rapidamente l'uno all'altro! Era evidente che aveva scoperto i nessi che li collegavano. Misi insieme i frammenti della conversazione con il Secondo Ufficiale, e poi quei piccoli avvenimenti che erano accaduti spesso e di cui lui aveva sogghignato. Mi chiesi se aveva cominciato a comprendere il loro significato, il loro orribile, sinistro significato. «Ah! Signor Buffone», pensai. «Sei nei guai se hai cominciato a capire.» A un tratto i miei pensieri si fermarono sul futuro incerto che ci attendeva. «Che Dio ci protegga!», mormorai.
Il Secondo Ufficiale, dopo aver dato un'occhiata in giro, spense la lampada e uscì, chiudendo la porta dietro di sé. «Ora, marinai», disse agli uomini del Primo Ufficiale, «andate a prua: non possiamo fare nient'altro. Fareste meglio ad andare a dormire.» «Sì, Signore», risposero in coro. Poi, mentre ci accingevamo ad andare a prua, chiese se qualcuno aveva dato il cambio alla vedetta. «No, Signore», rispose Quoin. «Tocca a te?», domandò il Secondo. «Sì, Signore», replicò. «Allora sbrigati a dargli il cambio», continuò il Secondo. «Sì, Signore», rispose il marinaio, e venne a prua con tutti noi. Mentre camminavamo, chiesi a Plummer chi fosse al timone. «Tom», rispose. Mentre parlava, caddero delle gocce di pioggia, e io lanciai un'occhiata al cielo. Era fittamente annuvolato. «Sembra che il vento rinfrescherà», dissi. «Sì», replicò. «Dovremo ridurre la velatura tra poco.» «Forse ci sarà bisogno di tutto l'equipaggio», osservai. «Sì», rispose. «In questo caso, è inutile che i marinai dell'altro turno vadano a dormire.» L'uomo che reggeva la lanterna entrò nel castello di prua, e noi lo seguimmo. «Dov'è l'altra lanterna, quella che appartiene al nostro lato?», domandò Plummer. «Si è fracassata in coffa», rispose Stubbins. «Com'è successo?», domandò Plummer. Stubbins esitò. «L'ha fatta cadere il Secondo Ufficiale», rispose. «L'ha colpito la vela, o qualcos'altro.» I marinai dell'altro turno non sembrava avessero l'intenzione di coricarsi subito. Sedevano nelle loro cuccette e sulle cassapanche. Molti accesero le pipe: intanto si alzò un gemito da una delle cuccette della parte anteriore del castello, una zona che era sempre un po' buia, e quella notte lo era ancora di più, visto che avevamo una sola lanterna. «Chi è?», domandò uno degli uomini che dormivano nell'altra parte del castello. «Shhh!», disse Stubbins. «È lui.»
«Chi?», domandò Plummer. «Jacobs?» «Sì», risposi. «Povero diavolo!» «Che cosa stava succedendo, quando siete arrivati lassù?», chiese il marinaio dell'altra parte, indicando con un cenno del capo il controvelaccio di trinchetto. Prima che potessi rispondere, Stubbins saltò su dalla cassapanca. «Il Secondo Ufficiale sta fischiando!», disse. «Andiamo», e corse fuori sul ponte. Plummer, Jaskett e io lo seguimmo velocemente. Aveva cominciato a piovere forte. Mentre andavamo, la voce del Secondo Ufficiale risuonò nel buio. «Alle cime del controvelaccio di trinchetto!», gridò e, subito dopo, si sentì il rumore sordo della vela che cominciava a calare. Dopo pochi minuti l'avevamo ammainata. «Un paio di voi salga su a serrarla», urlò. Mi avvicinai al sartiame di tribordo, poi mi fermai. Non si era mosso nessun altro. Il Secondo Ufficiale ci venne vicino. «Su andiamo, ragazzi», disse. «Muovetevi. Si deve serrare la vela.» «Ci vado», dissi, «se viene qualcun altro con me.» Nessuno si mosse e nessuno rispose. Tammy venne verso di me. «Vengo io», si offrì, con voce nervosa. «No, per Dio, no!», disse improvvisamente il Secondo Ufficiale. Lui stesso saltò sul sartiame di maestra. «Vieni, Jessop!», gridò. Lo seguii, ma ero meravigliato. Mi sarei aspettato che si mangiasse vivi gli altri marinai. Non mi sarebbe mai venuto in mente che facesse loro concessioni simili. Allora ero semplicemente perplesso, ma in seguito capii il perché del suo comportamento. Solo quando cominciai a salire dietro il Secondo Ufficiale, Stubbins, Plummer e Jaskett salirono in fretta dietro di noi. A circa metà strada dalla coffa di maestra, il Secondo Ufficiale si fermò e guardò in basso. «Chi sta salendo dietro di te, Jessop?», chiese. Prima che potessi rispondere, Stubbins disse: «Siamo noi, Signore, io, Plummer e Jaskett». «Chi diavolo vi ha detto di salire ora? Scendete subito, tutti quanti!» «Saliamo a tenervi compagnia, Signore», fu la risposta.
Dopodiché, mi aspettavo uno scoppio di rabbia del Secondo, ma per la seconda volta in pochi minuti, mi ero sbagliato. Invece di inveire contro Stubbins egli, dopo una breve pausa, continuò a salire senza dire una parola, e tutti noi lo seguimmo. Raggiungemmo il controvelaccio, e in breve lo serrammo: in realtà eravamo troppi per quel lavoro. Quando finimmo, notai che il Secondo Ufficiale era rimasto sul pennone finché fummo tutti sul sartiame. Evidentemente, aveva deciso di prendere su di sé tutti i rischi eventuali. Ma io badai a mantenermi vicino, per essere a portata di mano, nel caso fosse accaduto qualcosa. Comunque raggiungemmo il ponte senza che accadesse niente. Ho detto «senza che accadesse niente» ma non sono stato preciso perché, quando il Secondo Ufficiale oltrepassò la croce dell'albero, lanciò un grido breve e improvviso. «C'è qualcosa che non va, Signore?», chiesi. «No... o!», disse. «Niente! Ho urtato un ginocchio.» Ma ora credo che mentisse. Infatti, durante lo stesso turno di guardia, dovevo sentire i marinai lanciare grida simili, ma Dio solo sa se non avevano un motivo reale. 10. Le mani che tiravano Appena toccammo il ponte, il Secondo Ufficiale diede l'ordine: «Alle cime del velaccio di mezzana», e ci fece strada verso poppa. Si fermò accanto alle drizze, pronto a calare la vela. Mentre mi recavo alle cime di tribordo, vidi che il Comandante era sul ponte e, mentre afferravo la cima, lo sentii gridare al Secondo Ufficiale: «Chiamate tutto l'equipaggio a ridurre la velatura, signor Tulipson». «Va bene, Signore», rispose il Secondo Ufficiale. Poi alzò il tono della voce: «Tu, Jessop, vai a prua a chiamare tutto l'equipaggio per ridurre la velatura. Mentre vai, dai una voce anche al Nostromo». «Sì, Signore», dissi, e mi precipitai a prua. Mentre mi allontanavo sentii che diceva a Tammy di scendere a chiamare il Primo Ufficiale. Quando arrivai al castello di prua, infilai la testa dall'ingresso di tribordo e vidi che qualcuno degli uomini si accingeva a coricarsi. «Tutto l'equipaggio sul ponte a ridurre la velatura», dissi. Entrai.
«Proprio come avevo detto», brontolò uno dei marinai. «Non possono credere veramente che saliamo in coffa stanotte, dopo quello che è successo!», intervenne un altro. «Noi siamo saliti sul controvelaccio di maestra», risposi, «e il Secondo Ufficiale è venuto con noi.» «Che cosa?», disse il primo marinaio. «Il Secondo Ufficiale in persona?» «Sì», risposi. «Tutti siamo saliti.» «E che cosa è successo?», chiese. «Niente», dissi. «Assolutamente niente. Abbiamo solo fatto un pezzetto di lavoro a testa, e siamo ritornati sul ponte.» «Comunque», osservò il secondo marinaio, «non mi va proprio di salire in coffa, dopo quello che è successo.» «Insomma», risposi. «Non è un problema di scelta. Dobbiamo ammainare le vele, o sarà un bel guaio. Uno dei mozzi mi ha detto che il barometro sta scendendo.» «Andiamo, ragazzi. Dobbiamo farlo», disse uno dei marinai più anziani alzandosi a questo punto da una cassapanca. «Com'è il tempo, compagno?» «Piove», dissi. «Avrete bisogno delle cerate.» Indugiai un attimo prima di ritornare sul ponte. Mi era parso di sentire un debole gemito provenire da una delle cuccette della parte anteriore. «Povero diavolo!», pensai. Poi, il vecchio marinaio che aveva parlato per ultimo attirò la mia attenzione. «È tutto a posto!», disse. «Non c'è bisogno che aspetti. Saremo sul ponte tra un minuto.» «Va bene. Non stavo pensando a voi», replicai, e andai avanti verso la cuccetta di Jacobs. Qualche tempo prima aveva montato delle tende, tagliate da un vecchio sacco di iuta, per ripararsi dalle correnti d'aria. Qualcuno le aveva abbassate, così le dovetti scostare per vederlo. Era disteso sulla schiena e respirava in modo strano e irregolare. Non gli vedevo bene la faccia ma, nella penombra, sembrava piuttosto pallido. «Jacobs», dissi. «Jacobs, come ti senti ora?» Ma non diede segno di avermi udito. Perciò, dopo qualche attimo, tirai di nuovo le tende, e me ne andai. «Come sta?», chiese uno dei marinai, mentre mi avviavo alla porta. «Male», dissi. «Maledettamente male! Penso che il Cambusiere dovreb-
be venire a dargli un'occhiata. Lo dirò al Secondo, appena ne avrò la possibilità.» Uscii sul ponte, e corsi a poppa a dare una mano agli altri per ammainare la vela. L'ammainammo, e andammo a prua al velaccio di trinchetto. E, dopo un minuto, anche gli uomini dell'altro turno erano fuori e, con il Primo Ufficiale, si occuparono del velaccio di maestra. Mentre preparavano il velaccio di maestra, ammainammo quello di trinchetto cosicché, alla fine, tutti e tre i velacci erano calati e pronti a essere riposti. Poi arrivò l'ordine: «Salite in coffa a serrare!». «Su, ragazzi», disse il Secondo Ufficiale. «Non facciamo storie, questa volta.» A poppa, intorno all'albero maestro, i marinai del Primo Ufficiale sembravano tutti accalcati intorno all'albero, ma era troppo buio per vedere bene. Sentii che il Primo Ufficiale cominciava a inveire, poi si sentì un brontolio, ed egli gridò. «Rendetevi utili, marinai! Rendetevi utili!», urlava il Secondo Ufficiale. Al che, Stubbins saltò sulle sartie. «Su!», gridò. «Serreremo questa benedetta vela prima che gli altri abbiano ancora incominciato.» Plummer lo seguì, poi Jaskett, io e Quoin, che era stato chiamato dal suo posto di vedetta per venire a dare una mano. «Così dovete fare, ragazzi!», disse il Secondo, in tono incoraggiante. Poi corse a parlare con l'equipaggio del Primo Ufficiale. Sentii lui e il Primo Ufficiale parlare agli uomini e, subito dopo, mentre noi salivamo sulla coffa di trinchetto, vidi che gli altri si apprestavano a salire lungo il sartiame. In seguito, notai che, non appena il Secondo Ufficiale li aveva visti lasciare il ponte, salì sul velaccio di mezzana insieme ai quattro mozzi. Da parte nostra, noi salimmo lentamente verso la coffa tenendoci con una mano, mentre con l'altra ci mantenevamo alla nave, come potete immaginare. In questo modo, eravamo arrivati quasi alla croce dell'albero quando Stubbins, che era il primo, all'improvviso lanciò un grido simile a quello che il Secondo aveva lanciato qualche tempo prima. Ma, in questo caso, egli si voltò a maledire Plummer. «Maledizione a te, vuoi farmi volare sul ponte?», gridò. «Se credi che sia uno scherzo divertente, fallo a qualcun altro...» «Non sono stato io!», lo interruppe Plummer. «Non ti ho proprio toccato. Contro chi diavolo bestemmi?»
«Contro di te...!», lo sentii rispondere, ma il resto della sua frase fu coperto da un urlo di Plummer. «Che succede, Plummer?», gridai. «Per l'amor di Dio, voi due, smettetela di lottare, lassù!» Ma una bestemmia, urlata in tono spaventoso, fu tutta la sua risposta. Poi Plummer cominciò ad urlare a più non posso e, nelle pause di silenzio, udivo la voce di Stubbins bestemmiare con violenza. «Precipiteranno sul ponte!», urlai, impotente. «Cadranno sicuramente giù.» Afferrai Jaskett per i piedi. «Che fanno? Che fanno?», urlai. «Li vedi?» Gli scossi le gambe mentre parlavo. Ma, non appena lo toccai, il vecchio idiota - così lo giudicai in quel momento - cominciò ad urlare con voce terrorizzata: «Oh! Oh! Aiuto! Ahi...!». «Chiudi la bocca!», gridai irosamente. «Chiudi la bocca, vecchio stupido. Se non vuoi fare niente, lasciami almeno passare oltre.» Ma lui gridò ancora di più. E poi, di colpo, sentii il clamore di molte voci spaventate provenire dalla coffa di maestra. Erano bestemmie, grida, urla e, al di sopra di tutto, risuonava la voce di qualcuno che urlava di scendere sul ponte: «Scendete! scendete! Giù! Giù! Maledi...». Il resto fu soffocato da nuove grida rauche che echeggiarono nel silenzio della notte. Cercai di oltrepassare il vecchio Jaskett, ma era abbarbicato al sartiame - steso su esso, è il modo migliore per descrivere la sua posizione - per quanto potessi vedere nel buio. Al di sopra di lui, Stubbins e Plummer ancora gridavano e bestemmiavano, e i loro strilli erano tremanti e incerti, come se stessero lottando disperatamente. Stubbins sembrò urlare qualche parola precisa, ma non le afferrai. La mia impotenza mi fece infuriare, allora scossi e pungolai Jaskett, per farlo muovere. «Che tu sia dannato, Jaskett!», ringhiai. «Che tu sia dannato, vecchio stupido! Fammi passare! Fammi passare!» Ma, invece di farmi passare, scoprii che si apprestava a scendere. Allora lo afferrai per i pantaloni con la mano destra, e con l'altra acchiappai la sartia seguente, che era poco più sopra del suo fianco sinistro: in questo modo riuscii a sollevarmi al di sopra del vecchio. Poi, con la mano destra, raggiunsi la sartia superiore, che era al di sopra della sua spalla destra e, tenendola forte, sollevai la mano sinistra alla stessa altezza. Contempora-
neamente, riuscii a mettere i piedi su una grisella e così mi sollevai più in alto. Poi mi fermai un attimo, e alzai gli occhi. «Stubbins! Stubbins!», urlai. «Plummer! Plummer!» E, proprio mentre gridavo, i piedi di Plummer, che uscirono all'improvviso dall'oscurità, si posarono in pieno sulla mia faccia voltata verso l'alto. Alzai la mano destra dal sartiame, e lo colpii furiosamente su una gamba, maledicendolo per la sua goffaggine. Allora, lui sollevò i piedi e, nello stesso momento, mi arrivò alle orecchie una frase di Stubbins, con una chiarezza singolare: «Per l'amor di Dio, di' loro di scendere sul ponte!». Proprio mentre ascoltavo queste parole, qualcosa nell'oscurità mi afferrò per la vita. Mi acchiappai disperatamente al sartiame con la mano destra che avevo libera. E feci bene ad aggrapparmi così in fretta perché, nello stesso momento, fui tirato con una ferocia tanto brutale che mi atterrì. Non dissi niente, ma scalciai nel vuoto con la gamba sinistra. È strano, ma non posso dire con sicurezza che colpii qualcosa. Ero troppo preso dalla disperazione e dalla paura, per esserne sicuro. Ma mi parve che il mio piede incontrasse qualcosa di soffice che cedette dietro la spinta. Forse fu solo immaginazione, ma sono incline a pensare diversamente, perché, all'istante, la stretta attorno alla mia vita si allentò. Allora cominciai a scendere, afferrando disperatamente le sartie. Ho solo un ricordo confuso di quello che accadde in seguito. Non saprei dire se scivolai oltre Jaskett, o se fu lui a farmi passare. So solo che arrivai sul ponte, stordito dalla paura e dall'eccitazione. Poi ricordo che mi trovai circondato da una folla di marinai impazziti dal terrore e urlanti. 11. Alla ricerca di Stubbins Ero vagamente cosciente che il Comandante e gli Ufficiali erano tra noi e cercavano di calmarci. Alla fine ci riuscirono, e ci ordinarono di andare a poppa, alla porta del Quadrato. Ci andammo tutti insieme. Lì, il Comandante stesso ci servì una grande quantità di rum a testa. Poi, dietro suo ordine, il Secondo Ufficiale fece l'appello. Chiamò prima il turno di guardia del Primo Ufficiale, e risposero tutti i marinai. Poi passò al nostro turno, e doveva essere molto turbato, perché il primo nome che pronunciò fu quello di Jock. Cadde un silenzio mortale, sentii il lamento e il gemito del vento, e il rumore sordo dei tre velacci non serrati.
Il Secondo Ufficiale passò in fretta al nome successivo: «Jaskett», disse. «Presente», rispose Jaskett. «Quoin.» «Presente, Signore.» «Jessop.» «Presente», replicai. «Stubbins.» Nessuno rispose. «Stubbins», ripeté il Secondo Ufficiale. Nessuno rispose. «Stubbins è presente?» La voce del Secondo suonò rauca e ansiosa. Ci fu un momento di silenzio. Poi uno dei marinai parlò: «Non c'è, Signore». «Chi l'ha visto per l'ultima volta?», chiese il Secondo. Plummer avanzò nella luce che usciva dal Quadrato. Non aveva più né la giubba né il berretto, e la camicia gli pendeva a brandelli. «Io l'ho visto per l'ultima volta, Signore», disse. Il Comandante, che era accanto al Secondo Ufficiale, fece un passo verso di lui e si fermò a guardarlo, ma fu il Secondo a parlare. «Dove?», domandò. «Era proprio sopra di me, alla croce dell'albero, quando, quando...», il marinaio s'interruppe all'improvviso. «Sì! Sì!», replicò il Secondo Ufficiale. Poi si voltò verso il Comandante. «Qualcuno dovrà salire, Signore, e vedere...» Ebbe un momento d'esitazione. «Ma...», disse il Comandante e si fermò. Il Secondo intervenne. «Intanto, salirò io, Signore», disse con calma. Poi si voltò verso di noi. «Tammy», disse, «prendi un paio di lanterne dallo stipo.» «Sì, Signore», rispose Tammy, e corse via. «Ora», disse il Secondo Ufficiale, rivolgendosi a noi, «voglio che un paio di marinai salgano con me in coffa per cercare Stubbins.» Non rispose nessun marinaio. Mi sarebbe piaciuto fare un passo avanti e offrirmi volontario, ma il ricordo di quella stretta orribile era ancora vivo in me, e quant'è vero Iddio, non riuscii a trovare il coraggio. «Andiamo, su, marinai!», disse. «Non possiamo lasciarlo lassù. Prende-
remo con noi le lanterne. Chi viene con me, allora?» Uscii dal gruppo. Ero terrorizzato, ma non resistevo più per la vergogna. «Verrò io con voi, Signore», dissi, a voce non molto alta, mentre i miei nervi erano tesi al massimo. «È bello da parte tua, Jessop!», replicò, in tono che mi rese felice di essermi offerto. A questo punto, Tammy arrivò con le lampade. Le portò al Secondo che ne prese una, e gli disse di darmi l'altra. Il Secondo Ufficiale sollevò la lanterna al di sopra della testa, e lanciò un'occhiata agli uomini che esitavano. «Allora, marinai!», disse. «Non vorrete lasciare salire da soli me e Jessop? Deve venire un altro marinaio, o due. Non comportatevi come un branco di pecore!» Quoin fece un passo avanti e parlò a nome dell'equipaggio. «Non so se ci stiamo comportando come pecore, Signore. Ma guardate lui», e indicò Plummer, che era ancora illuminato dalla luce del Quadrato. «Che genere di cosa gli ha fatto questo, Signore?», continuò. «E voi ora ci chiedete di salire di nuovo in coffa! Non abbiamo nessuna fretta di farlo.» Il Secondo Ufficiale guardò Plummer, e certamente, come ho già detto, il povero diavolo era ridotto male. La camicia stracciata sbatteva al vento che arrivava attraverso la porta. Il Secondo lo guardò, ma non disse niente. Era come se il comprendere le condizioni in cui si trovava Plummer, l'avesse lasciato senza parole. Fu lo stesso Plummer che alla fine ruppe il silenzio. «Verrò con voi, Signore», disse. «Solo che dovete portare altre lampade, oltre quelle due lanterne. Sarebbe inutile salire con poche lampade.» Quell'uomo aveva veramente fegato. E io ero stupito che si fosse offerto di andare, dopo ciò che doveva aver passato. Ma dovevo stupirmi ancora di più perché, all'improvviso, il Comandante, che per tutto quel tempo non aveva quasi parlato, fece un passo avanti, e mise una mano sulla spalla del Secondo Ufficiale. «Verrò con voi, signor Tulipson», disse. Il Secondo Ufficiale girò di scatto il capo e lo fissò, stupito. Poi aprì la bocca. «No, Signore. Non penso...», cominciò a dire. «Basta così, signor Tulipson», lo interruppe il Comandante. «Ho preso la mia decisione.» Si rivolse al Primo Ufficiale, che stava lì accanto, senza dire una parola.
«Signor Grainge», disse. «Prendete con voi una coppia di mozzi e portatemi una scatola di luci blu e qualche torcia.» Il Primo Ufficiale rispose qualcosa e si affrettò nel Quadrato con i due mozzi del suo turno. Allora il Comandante si rivolse ai marinai. «Allora, marinai!», cominciò. «Non è il momento di esitare. Io e il Secondo Ufficiale saliremo in coffa, e voglio che una mezza dozzina di marinai ci accompagnino e portino le lampade. Plummer e Jessop già si sono offerti volontari. Ne voglio altri quattro o cinque. Che faccia un passo avanti qualcuno di voi!» Allora non ci fu più nessuna esitazione, e il primo uomo a offrirsi fu Quoin. Lo seguirono tre marinai del gruppo del Primo Ufficiale, e poi il vecchio Jaskett. «Va bene, va bene», disse il Comandante. Si voltò verso il Secondo Ufficiale. «È già arrivato il signor Grainge con quelle luci?», chiese, con un po' d'irritazione nella voce. «Sono qui, Signore», disse il Primo Ufficiale, che era dietro di lui, sulla soglia del Quadrato. Tra le braccia aveva la scatola di luci blu, e dietro di lui venivano i due mozzi con le torce. Il Comandante prese la scatola dalle sue mani con un gesto rapido, e l'aprì. «Allora, che uno di voi venga qui», ordinò. Uno dei marinai del turno del Primo Ufficiale corse verso di lui. Prese parecchie luci dalla scatola e le porse all'uomo. «Attenzione», disse. «Mentre saliremo, tu andrai sulla coffa di trinchetto e terrai una di queste luci accesa per tutto il tempo: hai capito?» «Sì, Signore», replicò il marinaio. «Sai come si accendono?», domandò improvvisamente il Comandante. «Sì, Signore», rispose. Il Comandante disse al Secondo Ufficiale: «Dov'è quel vostro mozzo... Tammy, signor Tulipson?». «Sono qui, Signore», disse Tammy, rispondendo da sé. Il Comandante prese un'altra luce dalla scatola. «Ascoltami, ragazzo!», disse. «Prendi questa luce e stai vicino alla tuga di prua. Mentre saliamo in coffa, devi farci luce finché il marinaio non è arrivato in coffa. Hai capito?» «Sì, Signore», rispose Tammy, e prese la luce. «Un momento!», disse il Comandante, e si fermò a prendere una seconda luce dalla scatola. «Tu che porti la prima luce puoi salire, prima che
cominciamo noi. Faresti meglio ad andare con un altro, nel caso ce ne sia bisogno.» Tammy prese la seconda luce e se ne andò. «Quelle torce sono pronte per essere accese, signor Grainge?», chiese il Comandante. «Sono tutte pronte, Signore», replicò il Primo Ufficiale. Il Comandante infilò una delle luci blu nella tasca della giubba, e si eresse in tutta la statura. «Molto bene», disse. «Datene una a testa. E controllate che tutti abbiano i fiammiferi.» Poi si rivolse ai marinai: «Non appena saremo pronti, gli altri due uomini del Primo Ufficiale saliranno sui cavi orizzontali, e si fermeranno lì con le torce. Portate con voi i barattoli di paraffina. Quando raggiungeremo la vela di gabbia, Quoin e Jaskett usciranno sull'estremità dei pennoni, e da lì ci faranno luce con le torce. State attenti a mantenere le torce lontane dalle vele. Plummer e Jessop saliranno con me e con il Secondo Ufficiale. Avete capito bene?». «Sì, Signore», dissero i marinai in coro. Al Comandante sembrò venire un'idea improvvisa. Si voltò ed entrò nel Quadrato. Dopo un attimo, ritornò e porse al Secondo Ufficiale qualcosa che brillava alla luce delle lanterne. Vidi che era un revolver e che anche lui ne aveva un altro. Mi accorsi che lo infilava nella tasca laterale della giubba. Il Secondo Ufficiale mantenne per un attimo la pistola, guardandola con espressione dubbiosa. «Non penso, Signore...», cominciò a dire. Ma il Comandante lo interruppe bruscamente. «Non si sa mai!», disse. «Mettetela in tasca.» Poi si rivolse al Primo Ufficiale. «Voi avrete la responsabilità del ponte, signor Grainge, mentre noi saremo in coffa», disse. «Sì, Signore», rispose l'Ufficiale, e disse a uno dei suoi mozzi di riportare le luci blu nella cabina. Il Comandante si voltò e ci fece strada verso la prua. Mentre camminavamo, la luce delle due lanterne illuminava i ponti, rivelando il disordine dell'attrezzatura dei velacci. Le cime erano una contro l'altra, aggrovigliate e disordinate. Penso che quella baraonda fosse provocata dall'equipaggio, che aveva calpestato le cime nell'eccitazione e nella fretta di raggiungere il
ponte. E poi, a un tratto, come se quella vista mi avesse risvegliato la coscienza, mi venne alla mente il pensiero nuovo e vivido, di quanto fosse dannatamente strana tutta la faccenda... Provai un po' di disperazione, e mi domandai quale sarebbe stata la fine di tutti quegli avvenimenti orribili. Riuscite a capirlo? Improvvisamente, sentii che il Comandante urlava, a prua. Ordinava a Tammy di salire sul tetto della tuga con la luce blu. Arrivammo al sartiame di trinchetto e, in quel momento, la fiamma strana e spettrale della luce blu di Tammy esplose nella notte, facendo risaltare ogni cima, ogni vela e pennone in un'atmosfera soprannaturale. Allora mi accorsi che il Secondo Ufficiale era pronto sul sartiame di tribordo, con la lanterna in mano. Gridava a Tammy di non far gocciolare la lampada sulla vela di straglio che era riposta sulla tuga. Poi, da babordo, si alzò la voce del Comandante che ci incitava a salire. «Veloci, marinai», diceva. «Veloci.» L'uomo a cui era stato ordinato di prendere posto sulla coffa di trinchetto, era dietro al Secondo Ufficiale. Plummer era due griselle più sotto. Sentii di nuovo la voce del Comandante. «Dov'è Jessop con l'altra lanterna?», lo udii gridare. «Sono qui, Signore», risposi. «Portala da questa parte», ordinò. «È inutile tenere le due lanterne dalla stessa parte.» Corsi dal lato di prua della tuga. Poi lo vidi. Era sul sartiame, e saliva velocemente in coffa. Uno dei marinai del Primo Ufficiale e Quoin erano con lui. Me ne accorsi, quando girai attorno alla tuga. Poi feci un salto, mi afferrai alla biga, e mi sollevai sulla battagliola. E poi, all'improvviso, per contrasto, un buio nero come la pece. Rimasi dov'ero, con un piede sulla battagliola e un ginocchio sulla tuga. La luce della mia lanterna era solo un debole bagliore giallastro nell'oscurità e, più in alto, a circa quaranta o cinquanta piedi, a poche griselle al di sotto del sartiame del lato di tribordo, c'era un altro bagliore giallastro che brillava nella notte. Oltre queste due luci, tutto era buio. E allora, dall'alto, da molto in alto, echeggiò nelle tenebre un grido soprannaturale e singhiozzante. Non so che cosa fosse, ma aveva un suono orribile. La voce del Comandante arrivò a scatti. «Veloce con quella luce, ragazzo!», urlò. E la luce blu risplendette, pri-
ma ancora che egli avesse finito di parlare. Alzai lo sguardo verso il Comandante. Era ancora dove l'avevo visto prima che la luce se ne andasse, e anche i due marinai occupavano la stessa posizione. Mentre lo guardavo, cominciò ad arrampicarsi di nuovo. Lanciai un'occhiata a tribordo. Jaskett e l'altro marinaio del turno di guardia del Primo Ufficiale erano a metà strada tra la tuga e la coffa di trinchetto. Le loro facce erano straordinariamente pallide alla luce smorzata delle lampade blu. Più in alto, vidi il Secondo Ufficiale sul sartiame, che manteneva la luce al di sopra della coffa. Poi salì più sopra, e scomparve. Il marinaio che portava le luci blu lo seguì, e anche lui scomparve. A babordo, e proprio sopra di me, i piedi del Comandante si arrampicavano al di sopra delle rigge. A questo punto, mi affrettai a seguirlo. Poi, all'improvviso, quando fui vicino alla coffa, mi arrivò da sopra il bagliore di una luce blu e, quasi nello stesso istante, la luce di Tammy si spense. Guardai in basso verso i ponti. Pullulavano delle ombre tremolanti e grottesche, gettate dalle luci che erano in alto. Un gruppo di marinai era accanto alla porta di babordo della cambusa: i volti, girati verso l'alto, parevano pallidi e irreali alla luce delle lanterne. Poi arrivai al sartiame del controvelaccio e, subito dopo, ero in coffa accanto al Comandante. Stava urlando ai marinai che erano usciti sui cavi orizzontali. L'uomo a babordo sembrava in difficoltà con la luce blu ma, alla fine, dopo che l'altro marinaio accese la propria, ci riuscì anche lui. Nel frattempo, il marinaio che era in coffa aveva acceso la sua seconda luce blu, e noi fummo pronti a salire sul sartiame dell'albero di gabbia. Prima di tutto, comunque, il Comandante si sporse oltre il lato di poppa della coffa, e gridò al Primo Ufficiale di mandare un marinaio sul tetto del castello di prua con una torcia. Il Primo Ufficiale rispose, e allora ripartimmo con il Comandante in testa. Per fortuna aveva smesso di piovere, e sembrava che il vento non stesse rinforzandosi. In realtà, semmai, sembrava essere diminuito, eppure la brezza ogni tanto sollevava dalle torce delle fiammate, simili a serpenti attorcigliati di fuoco, lunghi almeno una yarda. A circa metà strada del sartiame di gabbia, il Secondo Ufficiale chiese al Comandante se Plummer doveva accendere la torcia, ma egli rispose che era meglio aspettare finché non raggiungevamo la croce dell'albero. Allora Plummer si sarebbe potuto spostare dalle sartie in un punto dove c'era meno pericolo di appiccare fuoco a qualcosa.
Ci avvicinammo alla croce dell'albero, e il Comandante si fermò e mi gridò di passare la lanterna a Quoin, che l'avrebbe data a lui. Poche griselle più sopra, egli e il Secondo Ufficiale si fermarono quasi simultaneamente, sollevando le loro lanterne il più in alto possibile, e scrutarono nelle tenebre. «Vedete qualche traccia di Stubbins, Signor Tulipson?», domandò il Comandante. «No, Signore», rispose il Secondo. «Nessuna traccia.» Allora alzò la voce. «Stubbins», gridò. «Stubbins, sei lassù?» Rimanemmo in ascolto, ma non ci arrivò nessun suono, tranne il lamento del vento e il rumore sordo del velaccio gonfio di vento, al di sopra di noi. Il Secondo Ufficiale s'inerpicò al di sopra della croce dell'albero, e Plummer lo seguì. Il marinaio uscì dal paterazzo del velaccio, e accese la torcia. Con quella luce vedevamo chiaramente, ma non c'era nessuna traccia di Stubbins, fin dove arrivava la luce. «Andate sulle estremità del pennone con quelle torce, voi due», urlò il Comandante. «Svelti! Mantenetele lontane dalle vele!» I marinai passarono ai poggiapiedi: Quoin a babordo e Jaskett a tribordo. Alla luce della torcia che reggeva Plummer, li vedevo chiaramente sistemati sul pennone. Mi accorsi che camminavano con circospezione, il che non era sorprendente. E poi, quando si spostarono alle estremità del pennone, si allontanarono dalla luce, cosicché non li vidi più chiaramente. Dopo pochi secondi, la luce della torcia di Quoin scaturì dal buio, per quasi un minuto oscillò avanti e indietro, ma Jaskett non si vedeva. Poi, dalla semioscurità che circondava l'estremità del pennone a tribordo, si udì una bestemmia provenire dalla gola di Jaskett, seguita quasi immediatamente dal rumore di qualcosa che vibrava. «Che succede?», gridò il Secondo Ufficiale. «Che succede, Jaskett?» «È quel poggiapiedi, Si...gno...re!», pronunciò l'ultima parola in una specie di ansito. Il Secondo Ufficiale si chinò in fretta, con la lanterna. Girai il capo intorno al lato di poppa dell'albero di gabbia, e guardai. «Che cosa c'è, signor Tulipson?», gridò il Comandante. Dall'estremità del pennone, Jaskett cominciò a chiedere aiuto e poi, all'improvviso, alla luce della lanterna del Secondo Ufficiale, vidi che il poggiapiedi di tribordo, posto sul pennone della vela di gabbia, era scosso violentemente: scosso selvaggiamente, è forse più appropriato.
E poi, quasi nello stesso istante, il Secondo Ufficiale passò la lanterna dalla mano destra alla sinistra. Infilò la destra in tasca ed estrasse con un movimento rapido la pistola. Tese la mano e il braccio, come se mirasse a qualcosa che era poco al di sotto del pennone. Poi un lampo veloce trafisse le tenebre e seguì subito uno schiocco acuto e sonoro. In quel momento, mi accorsi che il poggiapiedi aveva cessato di tremare. «Accendi la torcia! Accendi la torcia, Jaskett!», urlò il Secondo. «Fa' in fretta!» All'estremità del pennone brillò la scintilla di un fiammifero e poi, subito dopo, una grande fiammata, quando la torcia prese fuoco. «Va meglio così, Jaskett. Adesso stai bene!», gli gridò il Secondo Ufficiale. «Che cos'era, signor Tulipson?», domandò il Comandante. Alzai gli occhi, e vidi che si era avvicinato al punto dove si trovava il Secondo Ufficiale. Il Secondo Ufficiale glielo spiegò, ma non parlò a voce abbastanza alta perché io riuscissi ad ascoltare. Fui colpito dalla posizione di Jaskett, quando la luce della sua torcia lo illuminò. Era accucciato con il ginocchio destro alzato oltre il pennone, e la gamba sinistra abbassata tra il pennone e il poggiapiedi, mentre i gomiti erano piegati sul pennone per fargli da sostegno mentre accendeva la torcia. Poi, comunque, fece scivolare entrambi i piedi sul poggiapiedi, e si appoggiò con la pancia sul pennone, tenendo la torcia un poco al di sotto del lembo superiore della vela. Fu così, grazie alla luce che era sul lato di prua della vela, che vidi un piccolo foro poco al di sotto del poggiapiedi, che era illuminato da un raggio di luce. Era senza dubbio il foro provocato dalla pallottola del revolver del Secondo Ufficiale. Poi sentii che il Comandante gridava qualcosa a Jaskett. «Sta' attento con quella torcia!», gridò. «Oppure brucerai quella vela!» Lasciò quindi il Secondo Ufficiale e ritornò al lato di babordo dell'albero. Alla mia destra, la fiamma della torcia di Plummer sembrò diminuire. Lanciai un'occhiata al suo volto, attraverso il fumo. Non era attento alla torcia, ma fissava un punto al di sopra della sua testa. «Aggiungi un po' di paraffina, Plummer», gli dissi. «Altrimenti si spegnerà, tra un minuto.» Lui abbassò in fretta lo sguardo verso la luce, e fece ciò che gli avevo suggerito. Poi allungò il braccio che reggeva la torcia e scrutò nelle tene-
bre. «Vedi qualcosa?», domandò all'improvviso il Comandante, osservando la sua posizione. Plummer lo guardò, trasalendo. «Guardo il controvelaccio, Signore», rispose. «È spiegato.» «Che cosa!», esclamò il Comandante. Era a poche griselle al di sopra del velaccio, e si chinò in avanti per guardare meglio. «Signor Tulipson!», urlò. «Lo sapete che il controvelaccio è spiegato?» «No, Signore», rispose il Secondo Ufficiale. «Se è così, è opera del demonio!» «È completamente spiegato», disse il Comandante e, insieme al Secondo Ufficiale, salì qualche grisella più sopra, mantenendosi sempre alla stessa altezza dell'altro. Salii oltre la croce dell'albero e mi trovai proprio al di sotto dei calcagni del Comandante. Ad un tratto, gridò: «È qui! Stubbins! Stubbins!». «Dove, Signore?», domandò il Secondo ansiosamente. «Non lo vedo!» «È lì, lì!», replicò il Comandante, indicando un punto. Mi sporsi dal sartiame, e guardai in alto, oltre la sua testa, nella direzione indicata dal suo dito. Sulle prime non vidi nulla poi, lentamente, ai miei occhi divenne man mano visibile una figura indistinta, accucciata sulla parte inferiore del controvelaccio, e parzialmente celata dall'albero. Guardai fissamente e, a poco a poco vidi che le figure erano due, e inoltre sul pennone scorsi una protuberanza che avrebbe potuto essere qualcosa, ma era poco visibile tra gli sventolii della vela. «Stubbins!», urlò il Comandante. «Stubbins, scendi di là! Mi senti?» Ma non scese nessuno e nessuno rispose. «Sono in due...», cominciai a dire, ma il Comandante urlò di nuovo: «Scendi di là! Mi senti bene?». Di nuovo non ci fu nessuna risposta. «Possa essere impiccato, se lo vedo, Signore!», gridò il Secondo Ufficiale dal punto dell'albero dov'era appoggiato. «Non lo vedete!», disse il Comandante, infuriato. «Ve lo farò vedere subito!» Si chinò verso di me con la lanterna. «Accendila, Jessop», disse, e io eseguii.
Allora egli estrasse dalla tasca la luce blu e, mentre lo faceva, vidi che il Secondo sbirciava da dietro l'albero. Evidentemente, nella luce incerta, doveva aver equivocato il gesto del Comandante perché, ad un tratto, gridò con voce spaventata: «Non sparate, Signore! Per l'amor di Dio, non sparate!». «Maledizione alla pistola!», esclamò il Comandante. «Guardate!» Tolse il coperchio alla lampada. «Ce ne sono due, Signore», gli urlai un'altra volta. «Che cosa?», disse ad alta voce, e intanto sfregò l'estremità della luce, che esplose in una fiammata. La mantenne in alto in modo da illuminare a giorno il pennone di controvelaccio e, subito dopo, due figure si lasciarono cadere silenziosamente dal pennone del controvelaccio a quello del velaccio. Nello stesso momento, la protuberanza, che era a metà del pennone, si alzò. Corse verso l'albero e la persi di vista. «Dio mio!», singhiozzò il Comandante, e annaspò con la mano nella tasca laterale. Vidi le due figure, che si erano lasciate cadere sul pennone di velaccio, correre rapidamente, una sull'estremità del pennone sul lato di tribordo e l'altra sul lato di babordo. Dall'altra parte dell'albero, risuonarono due colpi dalla pistola del Secondo Ufficiale. Poi, sopra di me, il Comandante fece fuoco due volte, e poi di nuovo un'altra volta, ma non saprei con quale risultato. All'improvviso, sparò l'ultimo colpo. Mi accorsi che qualcosa d'indistinto si lasciava scivolare giù, lungo il paterazzo del controvelaccio dal lato di tribordo. Scendeva nella direzione di Plummer che, del tutto all'oscuro di ciò che gli stava piombando addosso, fissava il pennone del velaccio. «Guarda sopra di te, Plummer!», strillai. «Che cosa? Dove?», gridò, e si aggrappò allo straglio, agitando la torcia, in preda all'eccitazione. Più giù, sul pennone della vela di gabbia, echeggiarono simultaneamente le voci di Quoin e Jaskett e, nello stesso momento, si spensero le loro torce. Allora Plummer gridò, e anche la sua torcia si spense. Erano rimaste solo le due lanterne, e la luce blu mantenuta dal Comandante che, però, dopo pochi secondi si esaurì e si spense. Il Comandante e il Secondo Ufficiale urlavano ai marinai che erano sul pennone, e io li udii rispondere con voci tremanti. Oltre la croce dell'albero vedevo, alla luce della mia lanterna, che Plummer si manteneva con e-
spressione atterrita al paterazzo. «Stai bene, Plummer?», gridai. «Sì», disse, dopo una breve pausa, e poi bestemmiò. «Rientrate dal pennone, marinai!», il Comandante gridava. «Rientrate! Rientrate!» Sentii qualcuno urlare sul ponte, ma non riuscii a distinguere le parole. Sopra di me, il Comandante, con la pistola in pugno, si guardava intorno a disagio. «Solleva quella lanterna, Jessop», disse. «Non vedo!» Al di sotto di noi, i marinai lasciarono il pennone e passarono al sartiame. «Scendete sul ponte!», ordinò il Comandante. «Il più velocemente possibile!» «Rientra, Plummer!», gridò il Secondo Ufficiale. «Scendi con gli altri!» «Scendi, Jessop», disse il Comandante, parlando in fretta. «Scendi!» Oltrepassai la croce dell'albero, ed egli mi seguì. Dall'altra parte, il Secondo Ufficiale scendeva insieme a noi. Aveva passato la lanterna a Plummer, e scorsi il luccichio del revolver che teneva con la destra. In questo modo, raggiungemmo la coffa. Il marinaio, che si era fermato lì con le luci blu, se ne era andato. In seguito, scoprii che era disceso sul ponte, non appena le luci si erano esaurite. Sul cavo orizzontale di tribordo non c'era traccia del marinaio che manteneva la torcia. Anche lui, come appresi in seguito, si era lasciato scivolare dai paterazzi sul ponte, solo poco prima che noi raggiungessimo la coffa. Giurava che una grande ombra nera era piombata su di lui dall'alto. Quando sentii questo, ricordai la cosa che avevo visto discendere su Plummer. Ma il marinaio che era salito sul cavo orizzontale di babordo l'unico che aveva avuto difficoltà ad accendere la torcia - era ancora dove l'avevo lasciato, anche se la sua luce era ormai fioca. «Vieni via di là, tu!», urlò il Comandante. «Fa' presto a scendere sul ponte!» «Sì, Signore», replicò il marinaio, e si accinse a rientrare. Il Comandante aspettò finché non fu rientrato sul sartiame di maestra, e poi mi disse di scendere dalla coffa. Stava per seguirmi quando, a un tratto, si alzò un alto grido dal ponte, e poi si sentì un uomo urlare. «Fammi passare, Jessop!», ruggì il Comandante, e si lasciò cadere accanto a me.
Il Secondo Ufficiale urlò qualcosa dal sartiame di tribordo. Poi corremmo tutti il più velocemente possibile. Intravidi un uomo correre fuori dalla porta di babordo del castello di prua. In meno di mezzo minuto, eravamo tutti sul ponte, attorniati dall'equipaggio che si affollava attorno a qualcosa. Ma stranamente, non guardavano la cosa che era tra loro, ma qualcosa che era a poppa, avvolta dalle tenebre. «È sulla battagliola!», gridarono molte voci. «È fuoribordo!», urlò qualcuno, con voce eccitata. «È saltato oltre la murata!» «Non era niente!», disse un marinaio. «Silenzio!», urlò il Comandante. «Dov'è il Primo Ufficiale? Che cosa è successo?» «Sono qui, Signore», disse il Primo Ufficiale, con un tremito nella voce dal centro del gruppo di marinai. «È Jacobs, Signore. È... è...» «Che cosa?», disse il Comandante. «Che cosa?» «È... è... è., morto, penso!», disse il Primo Ufficiale in un singulto. «Fammi vedere», disse il Comandante, in tono più calmo. I marinai si fecero da parte per fargli spazio, ed egli si inginocchiò accanto all'uomo disteso sul ponte. «Vieni qui con quella lanterna, Jessop», disse. Mi fermai accanto a lui, mantenendo la lampada. L'uomo giaceva con il volto contro il ponte. Alla luce della lanterna, il Comandante lo voltò e lo guardò. «Sì», disse, dopo un breve esame. «È morto.» Si alzò e guardò il corpo per un momento, in silenzio. Poi si voltò verso il Secondo Ufficiale, che gli si era affiancato da qualche minuto. «Tre!», disse, in tono truce. Il Secondo Ufficiale annuì e si schiarì la voce. Sembrò sul punto di dire qualcosa, poi si girò a guardare Jacobs e non disse nulla. «Tre!», ripeté il Comandante. «Da quando sono suonati gli otto tocchi!» Si fermò a guardare di nuovo Jacobs. «Povero diavolo! Povero diavolo!», mormorò. Il Secondo Ufficiale si schiarì di nuovo la voce e parlò. «Dove lo dobbiamo portare?», domandò con calma. «Le due cuccette sono già piene.» «Lo metterete giù sul ponte, accanto alla cuccetta inferiore», replicò il Comandante.
Mentre lo portavano via, sentii che il Comandante emetteva un suono che era quasi un lamento. Gli altri uomini se ne erano andati a prua, e non penso che egli si accorse che gli stavo vicino. «Mio Dio! Oh, mio Dio!», mormorò, e si avviò lentamente a poppa. Aveva dei buoni motivi per gemere. Tre marinai erano morti, e Stubbins era scomparso senza lasciar traccia. Non lo rivedemmo mai più. 12. Il consiglio Qualche minuto dopo, il Secondo Ufficiale ritornò a prua. Io ero ancora accanto al sartiame, reggendo la lanterna senza nessuno scopo. «Sei tu, Plummer?», chiese. «No, Signore», dissi. «Sono Jessop.» «Dov'è Plummer, allora?», domandò. «Non lo so, Signore», risposi. «Penso che sia andato a prua. Gli devo andare a dire che lo volete?» «No, non c'è bisogno», disse. «Appendi la lampada al sartiame, su quella biga. Poi va' a prendere la sua e mettila a tribordo. Dopodiché, faresti meglio ad andare a poppa a dare una mano ai due mozzi che stanno sistemando le lampade nello stipo.» «Sì, Signore», replicai, e feci quanto mi aveva ordinato. Dopo aver preso la lampada di Plummer e averla assicurata alla biga di tribordo, mi affrettai a prua. Trovai Tammy e l'altro mozzo della nostra guardia, impegnati ad accendere le lampade. «Che state facendo?», domandai. «Il Comandante ha dato ordini di legare tutte le lampade che ci restano, al sartiame, in modo da illuminare il ponte», disse Tammy. «Ed è proprio un lavoraccio!» Mi porse due lampade e ne prese due per sé. «Andiamo», disse e uscì sul ponte. «Assicureremo queste al sartiame di maestra, e poi ti voglio parlare.» «E il sartiame di mezzana?», chiesi. «Oh!», replicò. «Lui (intendendo l'altro mozzo), se ne occuperà. Ad ogni modo, illumineremo il ponte a giorno.» Legammo le lampade alle bighe, due su ogni lato. Poi Tammy mi si avvicinò. «Vedi, Jessop», disse, senza indugi. «Devi dire al Comandante e al Secondo Ufficiale tutto quello che sai su questa faccenda.»
«Che cosa vuoi dire?», chiesi. «Devi dire che c'è qualcosa nella nave che ha provocato tutti questi avvenimenti», replicò. «Se l'avessi spiegato al Secondo Ufficiale quando ti dissi di farlo, tutto questo non sarebbe successo.» «Ma io non lo so», dissi. «Potrei sbagliarmi. È solo una mia idea. Non ho prove...» «Prove!», m'interruppe. «Prove! E quello che è successo stanotte? Abbiamo tutte le prove possibili!» Esitai prima di rispondergli. «È vero quello che dici», dissi alla fine. «Ma penso di non avere nulla che il Comandante e il Secondo Ufficiale considererebbero come prove. Non mi prenderebbero mai sul serio.» «Sicuramente ti ascolterebbero», replicò. «Dopo quello che è accaduto durante questo turno di guardia, ascolterebbero qualsiasi cosa. Comunque, è tuo dovere raccontare quello che sai!» «Ad ogni modo, che cosa potrebbero fare?», dissi, scoraggiato. «Per come vanno le cose, saremo tutti morti prima di una settimana, in ogni caso.» «Glielo dirai», rispose. «È quello che devi fare. Se solo riesci a far comprendere loro che hai ragione, saranno felici di dirigersi verso il porto più vicino e di mandarci tutti a terra.» Scossi il capo. «Va bene, comunque, faranno qualcosa», replicò, rispondendo al mio gesto. «Non possiamo doppiare Capo Horn, con tutti i marinai che abbiamo perso. Non siamo abbastanza per manovrare la nave, se arriva il vento forte.» «Dimentichi qualcosa, Tammy», dissi. «Anche se riesco a far credere al Comandante che dico la verità, lui non potrebbe fare niente. Non capisci: se ho ragione, non vedremmo nemmeno la terraferma, anche se ci arrivassimo. Siamo ciechi...» «Che diavolo vuoi dire?», m'interruppe. «Per qual motivo dici che siamo ciechi? Naturalmente, vedremmo la terraferma...» «Aspetta! Aspetta!», dissi. «Non capisci. Non te l'ho detto?» «Detto che cosa?», domandò. «Della nave che ho intravisto», dissi. «Pensavo che lo sapessi!» «No», disse. «Quando?» «Ma come», replicai, «non ti ricordi quando il Comandante mi ha mandato via dal timone?»
«Sì», rispose. «Ti riferisci al turno di guardia della mattina dell'altro ieri?» «Sì», dissi. «Bene, non sai qual era la questione?» «No», replicò. «Cioè, ho sentito dire che sonnecchiavi al timone, e che il Comandante è arrivato su e ti ha sorpreso.» «Queste sono tutte stupide chiacchiere!», sbottai. E poi gli raccontai la verità su quella faccenda. Dopodiché, gli spiegai che cosa ne pensavo. «Adesso capisci che cosa voglio dire?», gli domandai. «Vuoi dire che questa strana atmosfera - o qualsiasi cosa sia - in cui siamo immersi, non ci permette di vedere le altre navi?», domandò, un po' sgomento. «Sì», dissi. «Ma il punto che ti volevo chiarire è che se non possiamo vedere gli altri vascelli, allo stesso modo non possiamo vedere la terraferma. A tutti gli effetti, siamo ciechi. Pensaci! Siamo al centro dell'oceano e corriamo ciecamente. Il Comandante non potrebbe portare la nave al porto più vicino, anche se volesse. Ci farebbe arenare contro la costa, senza nemmeno vederla.» «Che possiamo fare, allora?», domandò, in tono disperato. «Vuoi dire che non possiamo fare niente? Certamente, si può fare qualcosa! È terribile!» Forse per qualche minuto passeggiammo avanti e indietro, alla luce delle varie lanterne. Poi parlò di nuovo. «Allora potremmo entrare in collisione con un altro vascello», disse, «senza mai vederlo?» «È possibile», replicai, «benché, da quello che ho visto, è evidente che noi siamo perfettamente visibili. Allora, sarebbe facile per un'altra nave vederci ed evitarci, anche se noi non possiamo vederli.» «E possiamo entrare in collisione con qualcosa, e non vederla?», mi chiese, seguendo il filo dei propri pensieri. «Sì», dissi. «Solo se l'altro vascello non riuscisse ad evitarci.» «Ma se non è un vascello?», insisté. «Potrebbe trattarsi di un iceberg, o di una roccia, o addirittura di un relitto.» «In questo caso», dissi, parlando in tono leggero e naturale, «probabilmente, lo danneggeremmo.» Non mi rispose, e per qualche attimo restammo in silenzio. Poi parlò all'improvviso, come se l'idea gli fosse venuta in mente proprio in quel momento. «Quelle luci dell'altra notte!», disse. «Erano luci di navi?»
«Sì», replicai. «Perché?» «Perché», rispose, «non capisci che, se erano veramente luci di vascelli, possiamo vederli?» «Bene, questo è un fatto che dovrei sapere bene», replicai. «Dimentichi che il Secondo Ufficiale mi ha mandato via dal posto di vedetta, perché ho osato dire la stessa cosa?» «Non mi riferivo a questo», disse. «Non capisci che, se le abbiamo viste, questo dimostra che quell'atmosfera non ci circondava in quel momento?» «Non necessariamente», risposi. «Può darsi che si trattasse solo di una crepa nell'atmosfera benché, naturalmente, è possibile che io sia in errore. Ma, ad ogni modo, il fatto che le luci scomparissero non appena le vedevamo, dimostra che l'atmosfera era molto vicina alla nave.» Queste spiegazioni gli fecero provare le sensazioni che provavo io e, quando parlò, la sua voce aveva perso quel tono di speranza. «Allora pensi che sia inutile parlarne al Secondo Ufficiale e al Comandante?», mi domandò. «Non lo so», replicai. «Ci ho pensato, e non sarebbe male farlo. Ho proprio l'intenzione di andarci.» «Dovresti», disse. «Non devi temere, ora, che qualcuno rida di te. Potrebbe essere una cosa utile. Tu hai visto più di qualsiasi altro.» Smise di camminare e si guardò intorno. «Aspetta un minuto», disse, e fece qualche passo verso poppa. Lo vidi guardare il ponte di poppa, poi ritornò da me. «Va' ora», disse. «Il Comandante è a poppa a parlare con il Secondo Ufficiale. Non potresti più avere un'occasione migliore.» Esitavo ancora, ma lui mi afferrò per una manica, e quasi mi trascinò alla scaletta di babordo. Scossi il capo. «Va bene», dissi, quando vi fui arrivato. «Va bene, ci andrò. Ma che sia impiccato se so che cosa dire, una volta arrivato a poppa.» «Di' solo che vuoi parlare con loro», disse. «Loro ti chiederanno che cosa vuoi, e allora butterai fuori tutto quello che sai. Lo troveranno abbastanza interessante.» «È meglio che venga anche tu», suggerii. «Mi aiuterai a ricordare un sacco di cose.» «Vengo sicuramente», replicò. «Va' ora.» Salii la scaletta e mi avvicinai al punto dove il Comandante e il Secondo Ufficiale erano impegnati in una conversazione seria, accanto alla batta-
gliola. Tammy si manteneva dietro di me. Mentre mi avvicinavo, afferrai due o tre parole, benché allora non riuscissi ad attribuire loro un significato. Le parole erano: «...mandato a prenderlo». Poi i due si voltarono a guardarmi, e il Secondo Ufficiale mi chiese che cosa volessi. «Voglio parlare con voi e con il Comandante, Signore», risposi. «Che c'è, Jessop?», mi chiese il Comandante. «Non so proprio come esprimermi, Signore», dissi. «È... è a proposito di queste... queste cose.» «Quali cose? Parla, marinaio», disse. «Bene, Signore», esclamai, «c'è una cosa spaventosa, o più cose, che salgono a bordo di questa nave da quando abbiamo lasciato il porto.» Vidi che lanciava una rapida occhiata al Secondo Ufficiale, che la ricambiò. Poi il Comandante rispose. «Che cosa vuoi dire con l'espressione: "salgono a bordo"?», domandò. «Vengono dal mare, Signore», dissi. «Le ho viste. E anche Tammy le ha viste.» «Ah!», esclamò, e dalla sua faccia, mi sembrò che capisse meglio qualcosa. «Dal mare!» Guardò di nuovo il Secondo Ufficiale, ma questi mi stava fissando. «Sì, Signore», dissi «È la nave. Non è sicura! Me ne sono accorto. Qualcosa la riesco a capire, ma sono molte le cose che non capisco.» Mi fermai. Il Comandante si era voltato verso il Secondo Ufficiale. Il Secondo annuì con espressione grave. Poi lo udii mormorare sottovoce, e il Comandante rispose, dopodiché, si girò di nuovo verso di me. «Vedi, Jessop», disse. «Ti parlerò chiaramente. Mi dai l'impressione di essere molto al di sopra di un marinaio comune, e penso che tu abbia abbastanza buon senso per tenere a freno la lingua.» «Ho il brevetto di Ufficiale, Signore», dissi semplicemente. Dietro di me, sentii Tammy sussultare. Fino a quel momento, non ne sapeva niente. Il Comandante annuì. «Tanto meglio», rispose. «In seguito, forse avrò qualcosa da dirti.» Si fermò, e il Secondo Ufficiale gli disse qualcosa, sottovoce. «Sì», disse, come se rispondesse a qualcosa che gli aveva detto il Secondo. Poi mi parlò di nuovo. «Hai visto delle cose uscire dal mare, hai detto?», mi domandò. «Allora dimmi tutto quello che ti ricordi, fin dal principio.»
Mi misi all'opera, e gli raccontai tutto nei particolari, a cominciare dalla strana figura che era salita a bordo dal mare, e continuando con tutto quello che era accaduto durante i miei turni di guardia. Mi attenni ai fatti concreti e, di tanto in tanto, lui e il Secondo Ufficiale si guardavano e annuivano. Alla fine, si voltò verso di me con un movimento improvviso. «Allora sostieni ancora di aver visto una nave l'altra mattina, quando ti ho mandato via dal timone?», domandò. «Sì, Signore», dissi. «Sono sicurissimo di averla vista.» «Ma sai bene che non c'era nessuna nave!», disse. «Sì, Signore», replicai, in tono di scusa. «C'era e, se me lo permetterete, credo che potrei spiegare questa faccenda.» «Va bene», disse. «Procedi.» Ora che sapevo che mi avrebbe ascoltato volentieri e con serietà, mi passò tutta la paura di parlargli. Continuai, e gli parlai delle mie idee a proposito della nebbia, e dell'effetto che sembrava aver provocato. Finii col dirgli che Tammy si era preoccupato di farmi andare a raccontare tutto quello che sapevo. «Tammy pensava, Signore», continuai, «che voi potreste anche decidere di fare rotta verso il porto più vicino, ma gli ho detto che non penso che potreste, anche se voleste.» «Come è possibile?», mi chiese, profondamente interessato. «Ebbene, Signore», replicai. «Se non riusciamo a vedere le altre navi, non dovremmo nemmeno vedere la terraferma. Fareste arenare la nave senza vedere dove la state portando.» Questo punto di vista colpì il Comandante in modo straordinario e, credo, anche il Secondo Ufficiale ne fu colpito. Per un momento nessuno parlò. Poi il Comandante esclamò: «Perdio, Jessop. Se hai ragione, che il Signore abbia pietà di noi». Meditò per un paio di secondi. Poi parlò di nuovo, e mi accorsi che era sconvolto: «Mio Dio!... Se tu hai ragione!». Il Secondo Ufficiale intervenne. «I marinai non lo devono sapere, Signore», lo ammonì. «Sarebbe un guaio, se lo sapessero!» «Sì», disse il Comandante. Poi parlò a me. «Ricordalo, Jessop», disse. «Qualsiasi cosa tu faccia, non parlare di que-
sta faccenda tra l'equipaggio.» «No, signore», replicai. «E anche tu, ragazzo», disse il Comandante. «Tieni a freno la lingua. Siamo già in un bel guaio, senza che tu peggiori le cose. Mi hai sentito?» «Sì, Signore», rispose Tammy. Il Comandante mi rivolse di nuovo la parola. «Queste cose, o creature, che dici di aver visto uscire dal mare», disse, «le hai mai viste, di giorno?», domandò. «No, Signore», replicai. «Mai.» Si rivolse al Secondo Ufficiale. «Per quanto possa capire, signor Tulipson», osservò, «il pericolo sembra sussistere solo di notte.» «È sempre accaduto di notte, Signore», rispose il Secondo. Il Comandante annuì. «Avete qualcosa da proporre, signor Tulipson?», domandò. «Ebbene, Signore», replicò il Secondo Ufficiale. «Penso che dovreste far ammainare le vele ogni sera, prima che cali il buio!» Parlò con decisione. Poi lanciò un'occhiata verso l'alto e fece un cenno col capo verso i velacci non serrati. «È veramente un bene, Signore», disse, «che il vento non sia più forte.» Il Comandante annuì di nuovo. «Sì», osservò. «Dovremo farlo. Ma Dio sa quando arriveremo in patria!» «Meglio tardi che mai», sentii che il Secondo mormorava, sottovoce. Ad alta voce poi disse: «E le luci, Signore?». «Sì», disse il Comandante. «Dovremo attaccare le luci al sartiame, tutte le sere, dopo il tramonto.» «Molto bene, Signore», assentì il Secondo. Poi si voltò verso di noi. «Sta facendo giorno, Jessop», osservò, lanciando un'occhiata al cielo. «Sarebbe meglio che tu e Tammy andaste a riporre le lampade nello stipo.» «Sì, Signore», dissi, e scesi dalla poppa con Tammy. 13. L'ombra nel mare Quando suonarono gli otto tocchi, alle quattro, e l'altro turno venne sul ponte a darci il cambio, era già giorno pieno da qualche tempo. Prima che scendessimo sottocoperta, il Secondo Ufficiale volle che sistemassimo i tre
velacci e, ora che era giorno, eravamo molto curiosi di dare un'occhiata in coffa, soprattutto sull'albero di trinchetto. Tom, che era salito su ad aggiustare la sartia, fu interrogato a lungo quando scese sul ponte, su che cosa avesse visto di strano lassù. Ma ci disse che non c'era niente d'insolito da vedere. Alle otto, quando salimmo in coperta per il turno di guardia dalle otto a mezzogiorno, vidi il Veliere andare verso prua lungo il ponte, provenendo dalla vecchia cabina del Secondo Ufficiale. Aveva il metro in mano, e sapevo che era andato a misurare quei poveri diavoli che giacevano nella cabina, per preparare i loro drappi funebri. Dall'ora di colazione fino all'una, lavorò ricavando tre drappi da una vecchia tela. Poi, con l'aiuto del Secondo Ufficiarle e di uno dell'equipaggio, portò i tre marinai morti sul portello del boccaporto di poppa, lì avvolse i drappi intorno ai corpi e li cucì, e poi pose ai loro piedi dei mucchietti di terra consacrata. Aveva quasi finito, quando suonarono gli otto tocchi, e sentii che il Comandante diceva al Secondo Ufficiale di chiamare tutto l'equipaggio a poppa per la cerimonia funebre. Quando tutto l'equipaggio fu a poppa, una delle passerelle fu disarmata. Non avevamo una grata abbastanza grande, cosicché dovettero togliere uno dei portelli dei boccaporti e usarlo al posto della grata. Il vento durante la mattina era calato, e il mare era quasi calmo: la nave si alzava lievemente su qualche rara onda lunga. Gli unici rumori che si udivano erano il fruscio lento e dolce e il raro fremito delle vele, e il cigolio monotono e continuo degli alberi e delle sartie a ogni lieve movimento del vascello. E fu in questa solenne quiete che il Comandante lesse il servizio funebre. Per primo misero sul portello del boccaporto l'Olandese (lo riconobbi dalla statura) e, quando alla fine il Comandante diede il segnale, il Secondo Ufficiale inclinò il portello e il corpo scivolò giù nelle acque profonde. «Povero vecchio Olandese», sentii che diceva uno dei marinai, e immagino che tutti quanti provassimo la stessa sensazione. Poi sollevarono sul portello Jacobs e, quando anche il suo corpo scomparve, toccò a Jock. Quando Jock fu sollevato, un fremito improvviso percorse l'equipaggio. Tutti gli volevano bene e, a un tratto, mi sentii strano. Ero accanto alla battagliola, sulla bitta di poppa, e Tammy era al mio fianco, mentre Plummer era un po' più indietro. Quando il Secondo Ufficiale inclinò per l'ultima volta il portello, i marinai ruppero in un coro flebile e rauco: «Arrivederci, Jock! Arrivederci, Jock!».
Poi, quando echeggiò il tonfo nell'acqua, si precipitarono alla murata, per vederlo un'ultima volta, mentre scompariva nelle profondità. Perfino il Secondo Ufficiale non riuscì a resistere a questo sentimento generale, e anche lui scrutò oltre la murata. Da dov'ero, avevo visto il corpo toccare l'acqua e ora, per qualche secondo, vidi il biancore della tela velarsi del blu del mare, e poi rimpicciolire, rimpicciolire negli abissi del fondo. D'improvviso, mentre lo fissavo, scomparve, troppo d'improvviso, mi parve. «Se n'è andato!», dissero molte voci, e poi il nostro turno di guardia cominciò ad andare lentamente a prua, mentre uno o due marinai dell'altro turno si apprestavano a rimettere a posto il portello del boccaporto. Tammy indicò un punto e mi diede una gomitata. «Guarda, Jessop», disse. «Che cos'è?» «Che cosa?», domandai. «Quella strana ombra», replicò. «Guarda!» E allora vidi a che cosa si riferiva. C'era un'ombra grande, che diveniva sempre più visibile. Occupava lo stesso posto - così mi parve - in cui Jock era scomparso. «Guardala!», disse Tammy, di nuovo. «Diventa più grande!» Era sovreccitato, come, del resto, anch'io. Guardai attentamente in acqua. La cosa sembrava emergere dalle profondità. Stava prendendo forma. Quando capii qual era la forma, mi prese un terrore gelido e strano. «Guarda», disse Tammy. «Somiglia proprio all'ombra di una nave!» Ed era veramente così. L'ombra di una nave emergeva dalle immensità inesplorate che erano al di sotto della nostra chiglia. Plummer, che non era ancora andato a prua, afferrò l'ultima osservazione di Tammy, e gettò un'occhiata fuoribordo. «Che cosa vuol dire?», domandò. «Parlo di quell'ombra!», replicò Tammy e indicò. Gli detti una gomitata tra le costole, ma era troppo tardi. Plummer aveva visto. Abbastanza stranamente, comunque, parve non pensarne niente. «Non è nient'altro che l'ombra di questa nave», disse. Tammy, dopo il mio gesto, lasciò perdere l'argomento. Ma, quando Plummer se ne fu andato a prua con gli altri, gli dissi di non andar facendo chiacchiere del genere tra l'equipaggio. «Dobbiamo essere attentissimi!», osservai. «Sai che cosa ha detto il Comandante stanotte!» «Sì», disse Tammy. «Non ci pensavo: sarò attento la prossima volta.»
A poca distanza da me, il Secondo Ufficiale fissava ancora il mare. Mi girai verso di lui e gli parlai. «Che cosa pensate che sia, Signore?», domandai. «Iddio solo lo sa!», disse, lanciando un rapido sguardo intorno per vedere se c'era qualche marinaio in giro. Scese dalla battagliola, e si diresse a poppa. Sulla sommità del barcarizzo, si chinò verso di noi. «Voi due potreste armare quella passerella», ci disse. «E ricorda, Jessop: mantieni la bocca chiusa su questa faccenda.» «Sì, Signore», risposi. «E anche tu, giovanotto!», aggiunse, e si diresse a poppa. Io e Tammy eravamo impegnati con la passerella, quando il Secondo ritornò. Aveva portato con sé il Comandante. «Proprio al di sotto della passerella, Signore», sentii che il Secondo diceva, indicando a mare. Per qualche istante, il Comandante rimase a fissare. Poi parlò. «Non vedo niente», disse. Allora il Secondo Ufficiale si chinò più in avanti a scrutare in acqua. Lo feci anch'io, ma la cosa, qualsiasi fosse, era scomparsa completamente. «È scomparsa, Signore», disse il Secondo. «Era ancora lì quando sono venuto a chiamarvi.» Dopo circa un minuto, avendo finito di armare la passerella, me ne andavo a prua, quando mi sentii chiamare dal Secondo. «Di' al Comandante che cosa hai visto proprio ora», disse a bassa voce. «Non saprei dirlo con precisione, Signore», replicai. «Ma mi pareva l'ombra di una nave che emergeva dal mare.» «Era lì, Signore», osservò il Secondo Ufficiale. «Proprio come vi ho detto.» Il Comandante mi guardò attentamente. «Sei sicuro?», domandò. «Sì, Signore», risposi. «Anche Tammy l'ha vista.» Aspettai un minuto. Poi i due si voltarono per andarsene a poppa. Il Secondo stava dicendo qualcosa. «Posso andare, Signore?», domandai. «Sì, va bene, Jessop», disse, girandosi indietro. Ma il Comandante ritornò alla sommità della scaletta, e mi parlò. «Ricorda, non una parola su quello che hai visto!», disse. «No, Signore», replicai, e quello tornò dal Secondo Ufficiale, mentre io
me ne andai al castello di prua per mangiare qualcosa. «La tua porzione è nella gamella, Jessop», disse Tom, mentre entravo nel castello. «E puoi bere del succo di limetta dal mio boccale.» «Grazie», dissi, e mi sedetti. Mentre mi rimpinzavo, non feci caso alle chiacchiere degli altri. Avevo la testa troppo piena dei miei pensieri. L'ombra di quel vascello che emergeva dalle profondità marine mi aveva fatto un'impressione tremenda. Era stato uno scherzo dei sensi? L'avevamo vista in tre: in realtà, in quattro, perché Plummer l'aveva vista chiaramente, anche se non vi aveva scorto niente di straordinario. Come potete immaginare, rimuginai molto intorno all'ombra che avevo visto. Ma, sono sicuro, che per un poco le mie idee girarono in un circolo vizioso. Poi mi venne un'altra idea, perché cominciai a pensare alle figure che avevo visto in coffa quella notte, e cominciai a immaginare qualcosa di nuovo. Vedete, la prima cosa che era salita oltre la murata, era uscita dal mare. E vi era ritornata. E ora c'era questo vascello-ombra, questa navefantasma, come la soprannominai. Ed era proprio un nome appropriato. E quegli uomini neri e silenziosi... pensai molto in questa nuova direzione. Inconsapevolmente, mi posi la domanda ad alta voce: «Erano dell'equipaggio?». «Eh?», disse Jaskett, che era seduto sulla sedia accanto alla mia. Ripresi il controllo e gli lanciai un'occhiata, in modo apparentemente noncurante. «Ho detto qualcosa?», domandai. «Sì, compagno», replicò, dandomi un'occhiata strana. «Hai detto qualcosa a proposito di un equipaggio.» «Dovevo star sognando», dissi, e mi alzai per rimettere a posto la mia gamella. 14. La nave fantasma Alle quattro, quando ritornammo sopra coperta, il Secondo Ufficiale mi disse di continuare a fare il paglietto che avevo incominciato, e mandò Tammy a prendere la gomena che stava intrecciando. Io avevo appeso il paglietto al lato di prua dell'albero di maestra, tra quest'ultimo e l'estremità della tuga. Dopo qualche minuto, Tammy appese il suo sartiame e i fili all'albero e li assicurò a uno dei perni.
«Che cosa pensi che fosse, Jessop?», domandò all'improvviso, dopo una breve pausa di silenzio. Lo guardai. «E tu che cosa ne pensi?», replicai. «Non so che cosa pensare», disse. «Ma ho l'impressione che abbia qualcosa a che fare con tutto il resto», e indicò la coffa con un cenno del capo. «Anch'io l'ho pensato», osservai. «Cioè?», chiese. «Sì», risposi, e gli dissi come mi era venuta in mente l'idea che quegli strani uomini-ombra, che salivano a bordo, potessero provenire da quel vascello-ombra che avevamo visto in mare. «Buon Dio!», esclamò, quando comprese quello che volevo dire. E poi, per un poco, si soffermò a pensare. «Vuoi dire che è lì che vivono?», disse alla fine, e rimase di nuovo in silenzio. «Ebbene», replicai. «Non è il genere di esistenza a cui noi daremmo il nome di vita.» Annuì con espressione dubbiosa. «No», disse, e rimase di nuovo zitto. Poco dopo, espresse l'idea che gli era venuta in mente. «Pensi allora, che quel... vascello ci segua già da qualche tempo, a nostra insaputa?», domandò. «Per tutto il tempo», risposi. «Voglio dire, fin da quando sono cominciate ad accadere queste cose.» «Supponiamo che ce ne siano altri», disse improvvisamente. Lo guardai. «Se ci sono», dissi. «Bisogna pregare Iddio che non s'imbattano nella nostra nave. Ho l'impressione che, fantasmi o no, siano pirati assetati di sangue.» «Mi sembra orribile», disse con solennità, «stare a parlare seriamente di cose del genere.» «Ho tentato di smettere di pensare in questo modo», gli dissi. «Ho avuto l'impressione che sarei impazzito, se non l'avessi fatto. Succedono cose dannatamente strane in mare, lo so, ma questa non è una di quelle.» «In certi momenti, sembra così strana e irreale, non è vero?», disse. «In altri momenti, sai che è vero, e non riesci a capire come hai fatto a non averlo sempre immaginato. Eppure, a terra, non ci crederebbe nessuno, se glielo raccontassimo.»
«Ci crederebbero, se fossero stati su questo vascello durante la seconda guardia di stanotte», dissi. «Inoltre», continuai, «non capiscono. Noi non capivamo... la penserò diversamente ora, quando leggerò di quei vascelli che scompaiono senza lasciar traccia.» Tammy mi guardò intensamente. «Ho sentito qualche vecchio marinaio parlare di queste cose», disse. «Ma non li ho mai presi sul serio.» «Bene», dissi. «Immagino che dovremo prenderli sul serio. Come vorrei essere a casa!» «Dio mio! Anch'io!», disse. Dopodiché, per molto tempo, entrambi lavorammo in silenzio, ma poi Tammy passò ad un altro argomento. «Pensi che ammaineremo veramente tutte le vele ogni notte, prima che faccia scuro?», domandò. «Certamente», replicai. «Non farebbero mai salire i marinai in coffa di notte, dopo quello che è successo.» «Ma, ma... supponiamo che ci diano l'ordine di salire in coffa...», cominciò a dire. «Ci andresti?», lo interruppi. «No!», disse con calore. «Piuttosto, mi farei mettere ai ferri!» «Questo allora decide tutto», replicai. «Tu non ci andresti, e non ci andrebbe nessun altro.» In quel momento arrivò il Secondo Ufficiale. «Mettete via quel paglietto e quel sartiame, voi due», disse. «Poi andate a prendere le ramazze e pulite tutto.» «Sì, Signore», dicemmo, ed egli andò a prua. «Salta sulla tuga, Tammy», dissi, «e slega l'altra estremità di questa cima, per favore.» «Va bene», disse, e fece quello che gli avevo chiesto. Quando tornò, gli chiesi di darmi una mano ad arrotolare il paglietto, che era molto grande. «Finirò io di chiuderlo», dissi. «Tu vai a mettere via il sartiame.» «Aspetta un momento», replicò, e raccolse una manciata di fili dal ponte dove io avevo lavorato. Poi corse alla murata. «No», dissi. «Non andare a gettarli. Rimarranno a galla, e il Secondo Ufficiale e il Comandante li vedranno sicuramente.» «Vieni qui, Jessop!», disse a bassa voce, e senza tenere conto di ciò che gli stavo dicendo.
Mi alzai dal portello del boccaporto su cui ero inginocchiato. Tammy guardava intensamente oltre la murata. «Che succede?», domandai. «Per l'amor di Dio, fa' in fretta!», disse, e io saltai sulla controcoperta, accanto a lui. «Guarda!», disse, e puntò la mano piena di fili verso il basso, proprio al di sotto di noi. Qualche filo gli cadde di mano e offuscò momentaneamente l'acqua, cosicché non riuscii a vedere. Poi, quando le increspature cessarono, vidi a che cosa si riferiva. «Ce ne sono due!», disse, sussurrando. «E ce n'è un'altra lì fuori», e indicò di nuovo con la mano piena di fili. «Ce n'è un'altra un po' più verso poppa», mormorai. «Dove?... dove?», chiese. «Lì», dissi, e indicai. «Ce ne sono quattro», bisbigliò. «Quattro!» Non dissi niente, ma continuai a guardare attentamente. Mi sembravano essere molto in profondità, e completamente immobili. Ma, nonostante il loro profilo fosse offuscato e indistinto, non c'era possibilità d'errore che fossero la rappresentazione precisa, benché fatta d'ombra, di vascelli. Per qualche minuto le guardammo senza parlare. Alla fine parlò Tammy. «Sono proprio reali», disse a bassa voce. «Non lo so», risposi. «Voglio dire che stamattina non ci sbagliavamo», disse. «No», replicai. «Non ho mai pensato che ci sbagliassimo.» Sentii che il Secondo Ufficiale tornava a poppa. Si fece più vicino e ci vide. «Che cosa state combinando, voi due?», urlò in tono aspro. «Non avete pulito!» Sollevai una mano per fargli cenno di non gridare e attirare così l'attenzione degli altri marinai. Fece qualche passo verso di me. «Che c'è? Che c'è?», disse, leggermente irritato, ma a voce più bassa. «Fareste bene a dare un'occhiata oltre la murata, Signore», replicai. Il mio tono gli doveva aver fatto capire che avevamo scoperto qualcosa di nuovo perché, alle mie parole, fece un balzo e salì sulla controcoperta accanto a me. «Guardate, Signore», disse Tammy. «Ce ne sono quattro.»
Il Secondo Ufficiale guardò in basso, vide qualcosa e si chinò di scatto in avanti. «Dio mio!», mormorò, tra sé e sé. Dopodiché, per un minuto, rimase a guardare, senza dire nemmeno una parola. «Ce ne sono altre due lì fuori, Signore», gli dissi, e indicai il punto con un dito. Passò qualche secondo prima che riuscisse a localizzarle e, quando ci riuscì, le sogguardò brevemente. Poi scese dalla controcoperta, e ci parlò. «Scendete da lì», disse rapidamente. «Prendete le ramazze e pulite. Non fatene parola a nessuno!... Forse non è niente.» Sembrava che stesse per aggiungere qualcos'altro, forse un pensiero che gli era venuto alla mente, ma sapevamo che non avrebbe detto niente. Poi si girò e se ne andò velocemente a poppa. «Immagino che sia andato ad avvertire il Comandante», osservò Tammy mentre ci dirigevamo a prua, portando con noi il paglietto e il sartiame. «Hum», dissi, notando appena quello che diceva, perché ero assorto nel riflettere su quei quattro vascelli-ombra che aspettavano tranquilli sul fondo. Prendemmo le ramazze e andammo a poppa. Lungo il cammino, fummo oltrepassati dal Secondo Ufficiale e dal Comandante. Anch'essi andarono a prua accanto al braccio di trinchetto e salirono sulla controcoperta. Vidi che il Secondo indicava col braccio e aveva l'aria di dire qualcosa a proposito delle sartie. Sospettai che facesse così di proposito, nel caso lo stesse guardando qualcun altro dei marinai. Poi il Comandante guardò in basso, oltre la murata, in modo casuale, e così fece anche il Secondo Ufficiale. Dopo un minuto o due, andarono verso poppa e tornarono indietro, risalendo sulla controcoperta. Vidi di sfuggita il volto del Comandante, mentre mi passava accanto per ritornare indietro. Mi diede l'impressione di essere preoccupato, ma smarrito è la parola più appropriata. Sia io che Tammy avevamo una voglia tremenda di dare un'altra occhiata ma, quando finalmente ne avemmo l'opportunità, il cielo si rifletteva sul mare rendendoci impossibile vedere qualcosa. Avevamo appena finito di ramazzare, quando suonarono i quattro tocchi, e noi ce ne andammo sottocoperta per bere un tè. Qualcuno dei marinai chiacchierava, mentre mangiava. «Ho sentito dire», osservò Quoin, «che ammaineremo tutte le vele, pri-
ma che faccia scuro.» «Eh?», disse il vecchio Jaskett, al di sopra del suo boccale di tè. Quoin ripeté la propria osservazione. «Chi lo dice?», chiese Plummer. «L'ho sentito dire dal "Dottore"», rispose Quoin. «Lui l'ha sentito dal Cambusiere.» «E come fa a saperlo?», chiese Plummer. «Non lo so», disse Quoin. «Immagino che ne abbiano sentito parlare a poppa.» Plummer si voltò verso di me. «Hai sentito qualcosa, Jessop?», mi domandò. «Che cosa, a proposito di ammainare tutte le vele?», replicai. «Sì», disse. «Stamattina, a poppa, il Comandante non parlava con te?» «Sì», risposi. «Diceva qualcosa al Secondo Ufficiale a proposito di ammainare le vele, ma non lo diceva a me.» «Hai visto?», disse Quoin. «Non avevo detto proprio così?» In quel momento, uno dei marinai dell'altra guardia, infilò la testa attraverso la porta di tribordo. «Tutto l'equipaggio in coperta ad ammainare le vele!», urlò. In quello stesso momento, echeggiò sui ponti il fischio del Primo Ufficiale. Plummer si alzò e tese la mano per prendere il berretto. «Bene», disse. «È evidente che non hanno l'intenzione di perdere qualcun altro di noi!» Poi uscimmo sul ponte. La calma era assoluta ma, ciò nonostante, ammainammo i tre velacci e i tre controvelacci. Dopodiché ammainammo la maestra e il trinchetto, e le riponemmo. La mezzana, naturalmente, era già stata ammainata da qualche giorno, poiché il vento soffiava in poppa. Mentre eravamo impegnati con il trinchetto, il sole tramontò. Avevamo finito di riporre la vela sul pennone, e io aspettavo che gli altri scendessero per spostarmi dal poggiapiedi. Perciò, non avendo niente da fare per quasi un minuto, restai a guardare il tramonto, e così vidi qualcosa che, diversamente, mi sarebbe sfuggita. Il sole si era immerso a metà nel mare, e sembrava una grande cupola rossa di fiamma. A un tratto, al largo dalla prua dal lato di babordo, una nebbia lieve si levò dal mare. Si sparse davanti al sole, in modo tale che la luce brillava come attraverso un velo grigio di fumo. Rapidamente, questa nebbia o caligine divenne più spessa ma, nello stesso tempo, si divise e as-
sunse strane forme, cosicché il rosso del sole divenne color vermiglio. Poi, mentre guardavo, quella foschia soprannaturale si raccolse e assunse una forma: si sollevò in tre torri. A poco a poco, divennero più definite, e comparve qualcosa di oblungo al di sotto di esse. La nebbia continuava a trasformarsi, e quasi all'improvviso mi accorsi che era divenuta una grande nave. Subito dopo, vidi che si muoveva. Aveva la fiancata rivolta verso il sole, ma ora si stava girando. Le fiancate girarono con un movimento lento e solenne, finché i tre alberi si allinearono. Si dirigeva verso di noi. Divenne più grande, ma meno distinta. A poppa di essa, il sole era diventato solo una linea di luce. Poi, all'imbrunire, mi parve che la nave si inabissasse di nuovo nell'oceano. Il sole scomparve al di sotto del mare, e la cosa che avevo visto, si fuse, per così dire, con il grigiore uniforme del giorno che finiva. Mi arrivò una voce proveniente dal sartiame. Era quella del Secondo Ufficiale. Era salito sull'albero per darci una mano. «Allora, Jessop», diceva. «Scendi! Scendi!» Mi voltai in fretta, e mi accorsi che gli altri erano già tutti scesi dal pennone. «Sì, Signore», mormorai, e mi lasciai scivolare sul poggiapiedi e poi scesi sul ponte. Mi sentivo confuso e spaventato. Poco dopo, suonarono gli otto tocchi e, dopo l'appello, andai a poppa per dare il cambio al timone. Quando presi il timone, per un po' la mia mente mi sembrò vuota e incapace di ricevere impressioni dall'esterno. Dopo qualche tempo questa sensazione passò, e notai che sul mare c'era una grande calma. Non c'era assolutamente vento, e perfino l'eterno cigolio delle sartie sembrava attutirsi di tanto in tanto. Al timone non c'era niente da fare. Avrei potuto essere a prua a fumare nel castello. Lungo il ponte di coperta, vedevo la luce delle lanterne che erano state appese alle bighe del sartiame di maestra e di trinchetto. Ma illuminavano poco, perché erano state velate nella parte posteriore per non abbagliare l'Ufficiale di Guardia più del necessario. La notte era stranamente buia, eppure ero cosciente del buio, della calma e delle lanterne solo nei brevi intervalli di lucidità. Perché, ora che la mia mente funzionava, pensavo soprattutto a quella visione strana, fatta di nebbia, che era emersa dal mare e aveva preso forma. Continuai a guardare nel buio, verso occidente, e poi tutto intorno a me perché, naturalmente, il ricordo più pressante era che la nebbia veniva verso di noi quando era scesa la notte, ed era un pensiero inquietante. Avevo
la sensazione orribile che stesse per succedere qualcosa di violento, da un momento all'altro. Ma suonarono i due tocchi, e tutto era ancora calmo, stranamente calmo, mi sembrava. E, naturalmente, oltre lo strano vascello di nebbia che avevo visto a occidente, ricordavo anche le quattro navi d'ombra, che erano sott'acqua, a babordo della nostra nave. Ogni volta che le ricordavo, ero felice che sul ponte di coperta ci fossero le lanterne, e mi chiedevo perché non ne era stata messa nessuna sul sartiame di mezzana. Avrei voluto con tutto il cuore che l'avessero fatto, e presi la decisione di parlarne al Secondo Ufficiale, la prossima volta che fosse venuto a poppa. In quel momento, si sporgeva oltre la battagliola, di fronte all'interruzione di poppa. Non fumava perché, se l'avesse fatto, avrei visto ogni tanto la brace della pipa. Mi era chiaro che si sentiva a disagio. Già tre volte era sceso sul ponte di coperta, aggirandosi con aria diffidente. Sospettavo che fosse andato a guardare il mare, per scorgere qualche traccia di quei quattro macabri vascelli. Mi chiedevo la notte se fossero visibili. A un tratto, il marinaio che controllava l'ora suonò tre colpi, a cui risposero le note più profonde della campana di prua. Sussultai. Mi sembrava che fossero state suonate accanto a me. C'era qualcosa di strano nell'aria, quella notte. Poi, proprio mentre il Secondo Ufficiale rispondeva al «tutto bene» della vedetta, si sentì il fruscio e il ronzio di sartie che venivano tirate, dal lato di babordo dell'albero maestro. Simultaneamente, si udì lo stridio di un pennone, e io capii che qualcuno, o qualcosa, aveva drizzato la vela di gabbia dell'albero maestro. Dalla coffa arrivò il rumore di qualcosa che si rompeva, poi il tonfo del pennone, quando cessò di cadere. Il Secondo Ufficiale gridò qualcosa d'incomprensibile e balzò verso la scaletta. Dal ponte di coperta arrivò il rumore di passi di corsa, e le voci dei marinai di turno. Poi sentii la voce del Comandante: doveva essersi precipitato sul ponte attraverso la porta del quadrato. «Prendete altre lampade! Prendete altre lampade!», urlava. Poi imprecò. Gridò qualcos'altro. Afferrai solo le due ultime parole. «...portati via», mi sembrò che dicesse. «No, Signore», urlò il Secondo Ufficiale. «Non penso.» Seguì un minuto di confusione, quindi si sentì lo scatto metallico delle castagne dell'argano. Mi pareva che avessero dato mano all'argano di poppa. Mi arrivavano parole isolate. «...tutta quest'acqua?», disse il Comandante. Era evidente che chiedeva
qualcosa. «Non saprei, Signore», rispose il Secondo Ufficiale. Seguì uno spazio di tempo in cui si sentì solo lo scatto metallico delle castagne dell'argano, il cigolio di un pennone e lo stridio di sartie. Poi risentii la voce del Secondo Ufficiale. «Sembra che sia tutto a posto, Signore», disse. Non sentii mai la risposta del Comandante perché, in quel momento, avvertii un soffio gelido lungo la schiena. Mi voltai di scatto, e vidi qualcosa che guardava dalla ringhiera di poppa. Vidi un paio d'occhi che riflettevano in modo soprannaturale la luce della chiesuola. Erano occhi spaventosi e crudeli. Ma, oltre a ciò, non riuscii a distinguere nient'altro. Guardavo intensamente. Ero agghiacciato dall'orrore: era così vicino! Poi riuscii a muovermi. Saltai verso la chiesuola e ne presi la lampada. Mi girai e illuminai quella cosa. La cosa, quale che fosse, si era avvicinata ma, investita dalla luce della lampada, rimbalzò indietro con un'agilità strana e orribile. Scivolò all'indietro e in basso, in modo da scomparire alla mia vista. Mi era rimasta solo l'impressione confusa di qualcosa umida e luccicante e di due occhi orribili. Poi cominciai a correre, folle di paura, verso l'interruzione di poppa. Mi precipitai alla scaletta, inciampai, e mi ritrovai seduto a terra, in fondo agli scalini. Nella mano sinistra stringevo la lampada ancora accesa che avevo staccato dalla chiesuola. I marinai stavano riponendo le barre dell'argano, ma la mia apparizione improvvisa e l'urlo che avevo lanciato nel cadere ne fecero indietreggiare due o tre. Erano atterriti, poi capirono che ero io. Da qualche parte, a prua, il Comandante e il Secondo Ufficiale si precipitarono a poppa. «Che diavolo succede ora?», gridò il Secondo, fermandosi e chinandosi a guardarmi. «Che cosa fai qui, invece di essere al timone?» Mi alzai e cercai di rispondergli, ma ero così scosso che riuscii solo a balbettare. «Io... io... lì...», farfugliai. «Dannazione!», urlò furibondo il Secondo Ufficiale. «Ritorna al timone!» Esitai, e cercai di spiegare. «Mi hai sentito, maledizione?», gridò. «Sì, Signore, ma...», cominciai a dire. «Va' a poppa, Jessop!», disse. Me ne andai. Intendevo spiegare tutto quando fosse salito. Sulla cima
della scaletta mi fermai. Non volevo ritornare da solo al timone. In fondo alla scaletta, sentii parlare il Comandante. «Che diavolo succede, signor Tulipson?», diceva. Il Secondo Ufficiale non rispose subito, ma si rivolse ai marinai, che evidentemente lo attorniavano. «Basta così, marinai!», disse con asprezza. Sentii che i marinai di guardia si avviavano a prua. Sentii il mormorio delle loro voci che si allontanavano. Poi il Secondo Ufficiale rispose al Comandante. Non avrebbe mai immaginato che fossi tanto vicino da origliare. «È Jessop, Signore. Deve aver visto qualcosa, ma non dobbiamo spaventare l'equipaggio più del necessario.» «No», convenne il Comandante. Cominciarono a salire lungo la scaletta, e io mi tirai indietro di qualche passo. Sentii la voce del Comandante, mentre arrivavano su. «Come mai non ci sono lampade, signor Tulipson?», disse in tono sorpreso. «Ho pensato che quassù non ce ne fosse bisogno, Signore», replicò il Secondo Ufficiale. Poi aggiunse qualcosa a proposito di risparmiare l'olio. «È meglio metterle, penso», disse il Comandante. «Molto bene, Signore», rispose il Secondo, e gridò al marinaio di vedetta di portare un paio di lampade. Poi si avviarono verso poppa, verso il punto dove mi ero fermato. «Che fai qui, lontano dal timone?», chiese il Comandante, in tono severo. Ero ritornato in me, ormai. «Non ci andrò, Signore, finché non ci saranno le luci», dissi. Il Comandante pestò un piede sul ponte, preso dall'ira, ma il Secondo Ufficiale mi si avvicinò. «Su! Jessop, andiamo!», esclamò. «Così non va, lo sai! Torna al timone, senza altri indugi.» «Aspettate un momento», disse il Comandante a quel punto. «Quali sono i motivi per cui non vuoi tornare al timone?», mi domandò. «Ho visto qualcosa», dissi. «Si arrampicava oltre la ringhiera di prua, Signore...» «Ah!», disse, interrompendomi con un gesto rapido. Poi, di colpo: «Siediti! siediti, stai tremando tutto, marinaio». Mi lasciai cadere a terra. Come aveva detto il Comandante, tremavo tut-
to e la lampada della chiesuola dondolava nella mia mano in modo tale che la luce danzava qui e lì sul ponte. «Ora», continuò, «raccontaci che cosa hai visto.» Raccontai loro la mia storia in tutti i particolari e, nel frattempo, la vedetta portò le luci e le appese alle bighe di ciascuna sartia. «Appendine una al boma della randa», disse il Comandante, quando il ragazzo finì di appendere le altre due. «Fa' in fretta.» «Sì, Signore», disse il mozzo, e si affrettò. «Ora», osservò il Comandante, quando la lampada fu appesa al boma, «non devi più temere di ritornare al timone. C'è una lampada a poppa, e io o il Secondo Ufficiale saremo quassù per tutto il tempo.» Mi alzai. «Grazie, Signore», dissi, e andai a poppa. Rimisi la lampada nella chiesuola e afferrai il timone ma, ogni tanto, mi guardavo alle spalle e fui molto felice quando, dopo qualche minuto, suonarono i quattro tocchi e io fui sostituito. Sebbene gli altri fossero tutti nel castello di prua, io non ci andai. Volevo evitare di essere interrogato a proposito della mia apparizione improvvisa ai piedi della scaletta di poppa, e perciò accesi la pipa e vagai sul ponte di coperta. Non mi sentivo particolarmente nervoso, poiché ormai c'erano due lanterne su ciascuna sartia, e ce n'erano due su ognuno dei pennoni delle teste degli alberi, al di sotto delle murate. Eppure, poco dopo i cinque tocchi, mi sembrò di vedere l'ombra di un volto spiare al di sopra della battagliola, un po' a poppa delle rizze di trinchetto. Staccai una lanterna da un pennone, e indirizzai la luce verso l'ombra, ma non c'era più niente. Ma nella mia mente, immagino, rimaneva la visione strana di occhi scrutatori e umidi: quando li ricordai, li sentii violentissimi. Capii allora quanto fossero brutali... imperscrutabili. Durante quel turno di guardia provai di nuovo un'esperienza simile, solo che quella volta svanì prima che avessi il tempo di raggiungere la luce. E poi suonarono gli otto tocchi, e il nostro turno di guardia finì. 15. La grande nave fantasma Quando fummo chiamati di nuovo, alle quattro meno un quarto, il marinaio che ci svegliò, aveva strane informazioni da darci. «Toppin è scomparso, svanito!», ci disse, mentre cominciavamo ad alzarci. «Non sono mai stato su una nave dannata e spaventosa come questa
qui. Non è sicuro andare in giro per i ponti.» «Chi è scomparso?», chiese Plummer, alzandosi a sedere di colpo sul letto e mettendo le gambe a terra. «Toppin, uno dei mozzi», replicò il marinaio. «L'abbiamo cercato dovunque. Lo cerchiamo ancora, ma non lo troveremo mai», concluse, con una sicurezza lugubre. «Oh, non lo so», disse Quoin. «Forse dorme da qualche parte.» «Non è possibile», replicò il marinaio. «Ti dico che abbiamo frugato dovunque. Non è a bordo di questa benedetta nave.» «Dov'era, quando l'avete visto per l'ultima volta?», domandai. «Qualcuno deve sapere qualcosa!» «Controllava l'ora a poppa», replicò. «Il Comandante ha quasi ucciso il Primo Ufficiale e il marinaio che era al timone. Ma loro hanno detto di non sapere niente.» «Che cosa vuoi dire?», domandai. «Che cosa vuol dire "niente"?» «Bene», rispose. «Un momento prima, il ragazzo era lì, il momento dopo, era scomparso. È tutto quello che sanno. Hanno giurato e spergiurato che non si è sentito nemmeno un bisbiglio. Toppin è scomparso dalla faccia della terra.» Scesi dalla mia cuccetta e mi allungai per prendere le scarpe. Prima che potessi parlare, il marinaio stava già dicendo qualcosa. «Vedete, compagni», continuò, «se le cose vanno così, vorrei sapere che fine faremo voi e io!» «Finiremo tutti all'Inferno», disse Plummer. «Non mi piace pensare a questa faccenda», disse Quoin. «Dobbiamo pensarci!», replicò il marinaio. «Dobbiamo pensarci molto. Ho parlato con quelli del mio turno, e loro sono pronti.» «Pronti a che cosa?», domandai. «Ad andare a parlare al Comandante», disse, agitando un dito verso di me. «Facciamo rotta per il porto più vicino, e cercate di non sbagliare.» Aprii la bocca per dirgli che probabilmente non avremmo potuto farlo, anche se egli fosse riuscito a convincere il Comandante. Poi ricordai che il marinaio non aveva nessuna idea di quello che avevo visto, e scoperto. Perciò dissi: «Supponiamo che non voglia, che succede?». «Allora dovremo costringerlo», replicò. «E quando arrivi al porto più vicino», dissi, «che cosa succederà? Sarai imprigionato per ammutinamento.»
«Preferirei essere imprigionato», disse. «Almeno sarei vivo!» Dagli altri si alzò un mormorio di consenso, poi seguì un momento di silenzio, durante il quale, lo so, i marinai pensarono. La voce di Jaskett ruppe il silenzio. «All'inizio, non avrei mai creduto che ci fossero i fantasmi su questa nave...», cominciò a dire, ma Plummer lo interruppe. «Non dobbiamo ferire nessuno, lo sapete», disse. «Vorrebbe dire l'impiccagione, e poi non sono stati cattivi come Ufficiali.» «No», assentirono tutti, compreso il marinaio che era venuto a chiamarci. «Comunque», aggiunse, «bisogna ribellarsi, e portare la nave al porto più vicino.» «Sì», dissero tutti, poi suonarono gli otto colpi, e noi salimmo sul ponte. Subito dopo l'appello - durante il quale ci fu una breve pausa strana e imbarazzante quando fu pronunciato il nome di Toppin - Tammy mi si avvicinò. Gli altri marinai erano andati a prua, e io sospettavo che stessero preparando folli piani per forzare la mano al Comandante e costringerlo a fare rotta per un porto: poveri diavoli! Mi sporgevo dalla battagliola del lato sottovento, accanto al braccio di trinchetto, a fissare il mare, quando Tammy mi venne vicino. Forse per un minuto non disse niente. Quando alla fine parlò, disse che i vascelli-ombra erano scomparsi fin dall'alba. «Che cosa?», dissi, sorpreso. «Che ne sai?» «Mi sono svegliato quando gli altri cercavano Toppin», replicò. «Da allora sono rimasto sveglio. Sono venuto subito qui.» Cominciò a dire qualcos'altro, ma si bloccò di colpo. «Sì», dissi in tono incoraggiante. «Non sapevo...», cominciò e s'interruppe. Mi afferrò un braccio. «Oh, Jessop!», esclamò. «Come finirà questa storia? Si può fare qualcosa?» Non dissi niente. Provavo la sensazione disperata che potevamo fare ben poco per salvarci. «Non possiamo fare qualcosa?», chiese e mi scosse il braccio. «Qualsiasi cosa è meglio di questo! Saremo uccisi tutti!» Non dissi ancora niente, ma guardai malinconicamente l'acqua. Non potevo progettare niente, benché la mia mente fosse piena di pensieri che mi facevano impazzire. «Mi senti?», disse. Gridava quasi. «Sì, Tammy», replicai. «Ma io non lo so! Non lo so!»
«Non lo sai!», esclamò. «Non lo sai! Vuoi dire che dobbiamo solo arrenderci ed essere uccisi, uno dopo l'altro?» «Abbiamo fatto tutto il possibile», replicai. «Non so che cos'altro possiamo fare, oltre che andare sottocoperta a chiuderci dentro, ogni notte.» «Sarebbe meglio che non fare niente», disse. «Tra poco non ci sarà nessuno che vada sottocoperta!» «Ma che cosa succederà se arriva il vento forte?», domandai. «La nave sarà disalberata.» «Che cosa succede se ora arriva il vento forte?», rispose. «Nessuno andrebbe in coffa, di notte: l'hai detto tu stesso! Inoltre, potremmo ammainare tutte le vele, prima. Ti dico che tra qualche giorno non ci sarà nessuno vivo a bordo di questo vascello, a meno che non facciamo qualcosa!» «Non gridare», lo ammonii. «Altrimenti il Comandante ti sentirà.» Ma il ragazzo era sovreccitato, e non prese in considerazione le mie parole. «Griderò», replicò. «Voglio che il Comandante mi senta. Ho deciso di andare su a parlargli.» Passò a un altro argomento. «Perché i marinai non fanno qualcosa?», cominciò a dire. «Devono costringere il Comandante a dirigersi verso un porto! Devono...» «Per l'amor di Dio, chiudi il becco, piccolo stupido!», dissi. «Che utilità c'è nel dire tutte queste dannate sciocchezze? Ti metterai nei guai.» «Non mi importa», replicò. «Non ho intenzione di essere ucciso!» «Guarda», dissi. «Ti ho già detto che non potremmo vedere la terra, anche se vi fossimo vicini.» «Non hai prove», rispose. «È solo una tua idea.» «Bene», replicai. «Prove o no, il Comandante farebbe solo arenare la nave se tentasse di attraccare, per com'è ora la situazione.» «E facciamola arenare», rispose. «Facciamola arenare! Sarebbe meglio che restare qui al largo e essere buttati a mare o essere spinti giù dalla coffa!» «Guarda, Tammy...», cominciai a dire, ma proprio allora il Secondo Ufficiale lo chiamò, ed egli fu costretto ad andarsene. Quando ritornò, avevo cominciato a camminare avanti e indietro, davanti al lato di prua dell'albero maestro. Mi raggiunse e, dopo un minuto, ricominciò con i suoi discorsi folli. «Guarda, Tammy», dissi ancora una volta. «È inutile che parli in questo modo. Le cose stanno così: non è colpa di nessuno, e nessuno può impedirlo. Se vuoi parlare sensatamente, ti ascolterò, altrimenti va' a parlare a
vanvera con qualcun altro.» Dopodiché, ritornai al lato sottovento, e risalii in coperta, con l'intenzione di sedermi sulla battagliola e chiacchierare un po' con Tammy. Prima di sedermi, guardai il mare. Il mio gesto era stato quasi meccanico ma, dopo qualche istante, mi trovai in uno stato di eccitazione fortissima e, senza distogliere lo sguardo, stesi una mano e afferrai un braccio di Tammy per attirare la sua attenzione. «Dio mio!», mormorai. «Guarda!» «Che c'è?», chiese, e si chinò oltre la battagliola, accanto a me. Ed ecco che cosa vedemmo: a poca distanza sotto la superficie del mare, c'era un disco leggermente a cupola e di colori chiari. Sembrava che si trovasse solo a pochi piedi di profondità. Al di sotto del disco vedemmo chiaramente, dopo qualche occhiata attenta, l'ombra di un pennone di controvelaccio e, più in profondità, le sartie e il sartiame fisso di un grande albero. Molto in profondità tra le ombre mi parve, dopo poco, di distinguere la distesa immensa e indefinita di vasti ponti. «Mio Dio!», sussurrò Tammy, e tacque. Ma, poco dopo, diede in una breve esclamazione, come se gli fosse venuto in mente qualcosa. Scese dalla coperta e corse a prua, sul tetto del castello. Ritornò di corsa, dopo aver dato una breve occhiata al mare, a dirmi che c'era il pomo di un altro grande albero che emergeva vicino alla fiancata, a pochi piedi dalla superficie del mare. Nel frattempo, ero rimasto a fissare intensamente quell'albero enorme e vago che emergeva dal mare. A poco a poco, riuscii a intravedere meglio, finché potei distinguere il pennone del controvelaccio, e... il controvelaccio era issato. Ma, vedete, la sensazione che mi prese più forte, era che sott'acqua, tra le ombre del sartiame qualcosa si muovesse. Pensai di vedere, ogni tanto, delle cose che si muovevano e baluginavano lievi ma rapide, tra le sartie. E, una volta, fui certo che qualcosa si muovesse dal pennone di controvelaccio verso l'albero, come se dovesse salire lungo il lembo verticale della vela. E così, ebbi l'impressione sgradevole che là sotto ci fossero delle cose che si arrampicavano. Senza accorgermene, devo essermi sporto sempre di più al di là della battagliola, e all'improvviso - mio Dio! Quanto strillai! - mi sbilanciai. Feci il tentativo di afferrarmi, e acchiappai il braccio di trinchetto e così, in un attimo, ritornai sulla coperta. Quasi nello stesso momento, mi sembrò che la superficie dell'acqua, al
di sopra del pomo d'albero sommerso, fosse increspata, e ora, sono sicuro, vidi qualcosa sollevarsi nell'aria, vicino alla murata della nave. Era una specie di ombra che si muoveva nell'aria, benché allora non lo comprendessi. Comunque, subito dopo, Tammy emise un urlo orribile, e in un istante lo vidi a testa in giù al di là della battagliola. Allora pensai che stesse saltando fuoribordo. Lo acciuffai per la cintura dei pantaloni e per un ginocchio, poi lo stesi sul ponte e mi sedetti di peso su di lui, perché continuava a saltare e a gridare, e io ero troppo ansante, scosso e debole, per potermi fidare solo delle mie mani per mantenerlo. Vedete, allora pensai che si trattasse solo di un cattivo influsso che agiva su di lui, e che tentasse di liberarsi per buttarsi in mare. Ma ora so che vidi l'uomo-ombra che lo tirava. Ma allora ero così sconvolto e preso da un'idea fissa che non riuscii a notare niente. Ma, in seguito, compresi (mi capite?) che cosa avevo visto in quel momento, senza capire di che cosa si trattasse. E perfino ora, ritornando indietro con la memoria, so che l'ombra era solo un debole grigiore alla luce del giorno contro il bianco del ponte, e che era abbarbicata a Tammy. E c'ero io, tutto sudato, ansimante e tremante per la mia caduta, che sedevo sul ragazzo che urlava e lottava come un pazzo, tanto che pensai che non sarei riuscito a trattenerlo. E poi sentii urlare il Secondo Ufficiale e sentii arrivare i marinai di corsa. Molte mani mi spingevano e mi tiravano, per allontanarmi da Tammy. «Maledetto vigliacco!», gridò qualcuno. «Mantenetelo! Mantenetelo!», urlai. «Si butterà fuori bordo!» Allora capirono che non stavo maltrattando il ragazzo, perché smisero di strattonarmi e mi fecero alzare, mentre due marinai afferravano Tammy e lo tenevano saldamente. «Che cosa gli è successo?», gridava il Secondo Ufficiale. «Che cosa è accaduto?» «È impazzito, credo», dissi. «Che cosa?», chiese il Secondo Ufficiale. Ma prima che potessi rispondergli, Tammy improvvisamente smise di lottare e si afflosciò sul ponte. «È svenuto», disse Plummer, con una certa simpatia nella voce. Mi guardò con un'espressione perplessa e diffidente. «Che cosa è accaduto? Che stava facendo?» «Portatelo a poppa nella cuccetta!», ordinò il Secondo Ufficiale in fretta. Ebbi l'impressione che desiderasse evitare domande. Doveva aver capito
che avevamo visto qualcosa della quale sarebbe stato meglio non parlare davanti all'equipaggio. Plummer si fermò a sollevare il ragazzo. «No», disse il Secondo Ufficiale. «Non tu, Plummer. Jessop, prendilo tu.» Si voltò verso gli altri marinai. «Ora andate», disse loro, ed essi se ne andarono a prua, brontolando. Sollevai il ragazzo e lo portai verso poppa. «Non c'è bisogno di portarlo nella cuccetta», disse il Secondo Ufficiale. «Mettilo sul portello del boccaporto di poppa. Ho mandato l'altro ragazzo a prendere un po' di brandy.» Quando il brandy arrivò, lo somministrammo a Tammy, che ben presto rinvenne. Si alzò a sedere, con aria smarrita. Per il resto, sembrava tranquillo e sano di mente. «Che c'è?», domandò. Scorse il Secondo Ufficiale. «Mi sono sentito male, Signore?», esclamò. «Ora stai bene, giovanotto», disse il Secondo Ufficiale. «Sei svenuto. Faresti bene ad andare a stenderti per un po'.» «Ora sto bene, Signore», replicò Tammy. «Non penso...» «Fa' come ti ho ordinato!», lo interruppe il Secondo. «Non farti ripetere sempre le cose due volte! Se ti voglio, ti mando a chiamare.» Tammy si alzò, e s'incamminò sulle gambe ancora malferme. Immagino che fosse felice di andarsi a riposare. «Allora Jessop», esclamò il Secondo Ufficiale, voltandosi verso di me. «Qual è stata la causa di tutta questa storia? Dimmelo in fretta!» Cominciai a dirglielo ma, quasi immediatamente, alzò una mano. «Aspetta un minuto», mi fermò. «Si sta alzando il vento!» Saltò sulla scaletta di babordo e gridò qualcosa al marinaio al timone. Poi scese. «Braccio di trinchetto a tribordo», urlò. Si voltò verso di me. «Dopo, finirai di raccontarmi tutto», disse. «Sì, Signore», replicai, e andai a raggiungere gli altri marinai che erano già ai bracci. Non appena finimmo di bracciare a babordo, mandò dei marinai in coffa a spiegare le vele. Poi mi chiamò. «Continua a raccontare, Jessop», disse. Gli parlai del grande vascello-ombra, e dissi qualcosa a proposito di Tammy, e cioè del fatto che non ero più sicuro che avesse tentato di saltare in acqua. Perché, vedete, avevo cominciato a capire di aver visto l'ombra, e
ricordai l'increspatura dell'acqua, al di sopra del pomo d'albero sommerso. Ma il Secondo, naturalmente, non aspettò di sentire le mie teorie, ma si precipitò come un fulmine a vedere con i propri occhi. Corse alla murata e guardò in basso. Lo seguii e restai accanto a lui ma, ora che la superficie del mare era increspata dal vento, non vedemmo niente. «Così non va bene», osservò, dopo un minuto. «È meglio che ti allontani dalla battagliola prima che ti veda qualcun altro. Porta quelle drizze all'argano di poppa.» Da allora fino agli otto tocchi, lavorammo pesantemente a issare le vele e, quando suonarono gli otto tocchi, avevo fretta di buttare giù la colazione e dormire. A mezzogiorno, quando salimmo sopracoperta per la guardia del pomeriggio, corsi alla murata, ma non c'era traccia della grande nave-ombra. Per tutta la guardia, il Secondo Ufficiale mi fece lavorare al paglietto, e a Tammy ordinò d'intrecciare le sue sartie. Mi disse di tenere d'occhio il ragazzo. Ma Tammy stava bene, non ne dubitavo ormai benché - e per lui era veramente insolito - non aprisse quasi bocca per tutto il pomeriggio. Poi, alle quattro, andammo sottocoperta a bere il tè. Ai quattro tocchi, ritornammo in coperta e scoprii che la lieve brezza che ci aveva spinti durante il giorno, era caduta, e ci muovevamo appena. Il sole era basso all'orizzonte e il cielo era limpido. Una o due volte, guardando verso l'orizzonte, mi sembrò di scorgere di nuovo quello strano tremolio nell'aria che aveva preceduto la comparsa della nebbia. E in realtà, in due occasioni, vidi un sottile strato di foschia alzarsi dal mare. Era a poca distanza di traverso a babordo. Per il resto, era tutto tranquillo e sereno e, benché guardassi attentamente l'acqua, non riuscii a scorgere i segni della grande nave-ombra che avevo visto sott'acqua. Poco dopo i sei tocchi arrivò l'ordine di ammainare tutte le vele per la notte. Ammainammo i tre velacci e i tre controvelacci. Subito dopo cominciò a circolare tra i marinai la voce che quella notte, dopo le otto, non ci sarebbe stato il turno di vedetta. Questa notizia, naturalmente, provocò scalpore tra l'equipaggio, soprattutto quando girò la voce che le porte del castello di prua sarebbero state chiuse a chiave dopo l'imbrunire, e che nessuno sarebbe potuto uscire sopracoperta. «E chi starà al timone?», chiese Plummer. «Penso che faranno come al solito», replicò uno dei marinai. «Uno degli Ufficiali sarà a poppa, e così il marinaio al timone non sarà solo.» Oltre queste osservazioni, si diceva che - se era vero - era una decisione
ragionevole da parte del Comandante. Come disse uno dei marinai: «È sicuro che domani mattina non mancherà nessuno di noi, se rimaniamo nelle cuccette tutta la notte». E, subito dopo, suonarono gli otto tocchi. 16. I pirati fantasma Quando suonarono gli otto tocchi, io ero nel castello di prua a parlare con quattro marinai dell'altro turno di guardia. Improvvisamente sentii gridare a poppa, e poi, sul ponte in alto, rimbombò il rumore assordante dell'argano. Subito corsi alla porta di babordo, insieme ai quattro marinai. Ci precipitammo sul ponte. Stava annottando, ma il buio non mi celò una visione terribile e straordinaria. Lungo tutta la battagliola di babordo, c'era una massa grigia ondeggiante che saliva a bordo e si spargeva sui ponti. Man mano che guardavo, riuscivo a vedere sempre meglio. E, improvvisamente, quella massa grigia si dissolse in centinaia di strani uomini. Nella luce dell'imbrunire, avevano un aspetto irreale e impossibile, come se ci avessero assalito gli abitanti di un fantastico mondo di sogno. Dio mio! Pensai di essere impazzito. Ci aggredirono in una grande ondata di ombre vive e crudeli. Da qualcuno dei marinai, che doveva essere andato a poppa per l'appello, si alzò un grido acuto e orribile nell'aria della sera. «In coffa!», strillava qualcuno ma, quando guardai verso le coffe, mi accorsi che quelle orribili creature sciamavano verso le cime degli alberi a centinaia. «Gesù Cristo...!», urlò la voce di un uomo, subito interrotta, e il mio sguardo si spostò agli alberi verso il basso. Vidi due dei marinai, che erano usciti con me dal castello di prua, rotolare sul ponte. Erano due masse informi che si contorcevano sul tavolato. Le ombre brutali li coprivano. Dai due marinai arrivavano urla e gemiti soffocati. Io rimasi fermo, e con me gli altri due marinai. Un marinaio guizzò accanto a noi ed entrò nel castello di prua, inseguito da due uomini grigi, poi sentii che lo uccidevano. I due marinai che erano accanto a me, corsero verso il ponte di prua, e salirono lungo la scaletta di tribordo sul tetto del castello di prua. Ma, quasi nello stesso istante, vidi che molti degli uomini grigi sparivano lungo l'altra scaletta. Dal tetto del castello di prua, sentii che i due marinai cominciavano a gridare, ma le urla si spensero tra i rumori soffocati di una lotta.
Allora, cominciai a guardarmi intorno per vedere dove fuggire. Guardai dovunque, disperatamente, e poi con due balzi saltai sul tetto della tuga. Mi appiattii e aspettai, trattenendo il fiato. All'improvviso, mi parve che fosse più buio di prima, e sollevai la testa con molta cautela. Mi accorsi che la nave era avvolta da una grande nube di nebbia e poi, a meno di sei piedi da me, intravidi qualcuno disteso a faccia in giù. Era Tammy. Ora che eravamo nascosti dalla nebbia, mi sentivo più sicuro, e strisciai verso di lui. Sussultò dal terrore quando lo toccai ma, quando si accorse che ero io, cominciò a singhiozzare come un bambino. «Silenzio!», dissi. «Per l'amor di Dio, sta' zitto!» Ma non dovevo preoccuparmi, perché le urla dei marinai che venivano uccisi sui ponti tutt'intorno a noi, soffocavano qualsiasi altro suono. Mi alzai sulle ginocchia, mi guardai intorno, e poi lanciai un'occhiata in coffa. Al di sopra di me, riuscii a distinguere le cime e le vele, e poi mi accorsi anche che i velacci e i controvelacci erano stati spiegati e pendevano dai barcarizzi. Quasi nello stesso momento, le terribili grida dei poveri diavoli cessarono, e seguì un silenzio orribile nel quale sentii distintamente i singhiozzi di Tammy. Lo raggiunsi e lo scossi. Sentendo il mio bisbiglìo e accorgendosi che lo toccavo, lottò per smettere di piangere. Poi, al di sopra di noi, vidi che i sei pennoni venivano rapidamente issati. Le vele erano state appena alzate, quando sentii il sibilo e lo schiocco dei matafioni che venivano gettati sui pennoni inferiori, e capii che i fantasmi stavano lavorando sulla parte bassa degli alberi. Per qualche attimo ci fu silenzio, e io mi spinsi prudentemente all'estremità della tuga per scrutare al di là. Ma, a causa della nebbia, non vidi niente. Poi, di colpo, da dietro di me, arrivò un gemito isolato di dolore e di terrore, proveniente da Tammy. Finì immediatamente in una specie di rantolo. Mi alzai e corsi nel punto dove avevo lasciato il ragazzo, ma era scomparso. Rimasi stordito. Avrei voluto urlare. Al di sopra di me, sentii il battito delle vele che venivano tirate giù dai pennoni. Sui ponti, si udivano i rumori di una folla che lavorava in un silenzio soprannaturale e disumano. Poi risuonò lo stridio e lo schiocco delle pulegge e dei bracci. Stavano drizzando i pennoni. Rimasi fermo. Guardai i pennoni issati e poi vidi che le vele si gonfiavano immediatamente. Dopo un attimo, la tuga su cui mi trovavo, si inclinò in avanti. L'inclinazione aumentò, cosicché riuscivo a stento a stare in piedi, e mi aggrappai a uno degli argani. Mi chiesi, smarrito, che cosa stesse accadendo. Subito dopo echeggiò dal ponte, a babordo della tuga, un grido
acuto proveniente da un uomo, e immediatamente, da varie parti del ponte, si alzarono orribili urla di agonia da vari uomini. Crebbero fino a essere strilli fortissimi che mi scuotevano la mente, e poi si risentì il rumore di lotte brevi e disperate. Poi un soffio di vento gelido sembrò aprire la nebbia, e io riuscii a vedere l'inclinazione del ponte. Guardai sotto di me, verso le fiancate. Mentre le fissavo, scomparvero nel mare. La tuga era ormai completamente verticale, e io pendevo dall'argano, che era ora al di sopra di me. Vidi l'oceano lambire il tetto del castello di prua e irrompere sul ponte di coperta, schiumando nel castello di prua ormai vuoto. E ancora, intorno a me, echeggiavano le grida dei marinai. Sentii che qualcosa colpiva l'angolo della tuga che mi sovrastava, con un tonfo sordo, e poi vidi Plummer immergersi nel pavimento sottostante. Ricordai che era al timone. Dopo un attimo, l'acqua mi arrivava ai piedi. Poi risuonarono un coro cupo di grida gorgoglianti e un ruggito di acque, e io precipitai nelle tenebre. Lasciai andare l'argano e nuotai disperatamente cercando di mantenere il fiato. Sentivo un forte ronzio nelle orecchie. Divenne più forte. Aprii la bocca. Sentivo di stare per morire. E poi, grazie a Dio, mi ritrovai in superficie. Ero accecato dall'acqua e dalla mancanza di aria. Sentendomi meglio, mi tolsi l'acqua dagli occhi e vidi a meno di trecento yarde una grande nave, che galleggiava quasi immobile. Sulle prime non riuscii a credere a quello che vedevo. Poi, quando capii che avevo ancora una possibilità di vivere, cominciai a nuotare verso di voi. Sapete già tutto il resto della storia. «E tu pensi...?», disse il Comandante in tono interrogativo, e s'interruppe bruscamente. «No», replicò Jessop. «Io non penso. Io so. Nessuno di noi pensa. È un fatto innegabile. La gente parla di cose strane che avvengono in mare, ma questa cosa non è una di quelle. Questo è un fatto reale. Tutti voi avete visto cose strane, forse più di quante ne abbia viste io. Dipende. Ma non vengono scritte sul giornale di bordo. Questo genere di cose non viene mai scritto. Anche questa storia non sarà scritta: almeno, non come è realmente accaduta.» Annuì lentamente, e continuò, rivolgendosi soprattutto al Comandante. «Scommetto», disse con intenzione, «che voi scriverete questa storia nel vostro Giornale di Bordo, più o meno così:
18 maggio, Lat.-S. Long. W. ore 14. Venti deboli da Sud e da Est. Vista una nave a velatura piena, a tribordo. Superata durante il primo turno di guardia. Fatte segnalazioni, ma non ricevuta nessuna risposta. Durante il secondo turno di guardia rifiutava di comunicare con noi. Verso gli otto tocchi, si è osservato che era inclinata a prua. Dopo un minuto è affondata, con tutto l'equipaggio. È stata messa a mare una scialuppa e raccolto uno dei marinai, un marinaio scelto di nome Jessop. È incapace di dare una spiegazione della catastrofe. E voi due», e indicò il Primo e il Secondo Ufficiale, «probabilmente firmerete questo resoconto. Lo firmerò anche io, e forse anche uno dei vostri marinai scelti. Poi, quando torneremo in patria, ne verrà stampato un estratto sui quotidiani, e la gente dirà che era una nave non adatta alla navigazione. Forse qualche esperto dirà sciocchezze a proposito di ribattini e di lamiere di chiglia difettose e così via.» Rise cinicamente. Poi continuò a parlare. «E voi saprete, quando tornerete a pensare a questa storia, che nessun altro, oltre noi, saprà mai com'è avvenuto realmente il disastro. I vecchi marinai non contano niente. Sono solo quelle bestie, quegli ubriaconi di marinai comuni, poveri diavoli! Nessuno si sognerebbe mai di considerare le loro parole più di sciocchezze. E poi, i poveracci raccontano queste cose solo quando sono un po' sbronzi. Non lo farebbero nemmeno allora (per paura di essere derisi), ma non ne sono coscienti...» S'interruppe, e ci guardò uno per uno. Il Comandante e i due Ufficiali annuirono, in un assenso silenzioso. Appendice: la nave silenziosa Sono il Terzo Ufficiale della Sangier, il vascello che ha raccolto Jessop, sapete, e lui ci ha chiesto di scrivere un breve resoconto di quello che abbiamo visto dalla nostra nave e di firmarlo. Il Comandante mi ha messo all'opera, perché dice che so scrivere meglio di lui. Bene, durante il primo turno di guardia la raggiungemmo, la Mortzestus voglio dire. Ma fu durante il secondo turno che accadde il fatto. Il Primo Ufficiale e io eravamo a poppa a guardarla. Vedete, le avevamo fatto delle segnalazioni, ma non aveva risposto. Era una cosa strana, perché eravamo a tre o quattrocento yarde dalla sua fiancata di babordo, e il tempo era bel-
lo, tanto che avremmo potuto quasi prendere il tè insieme, se fosse stata una ciurma simpatica. E così, decidemmo che erano un branco di maiali, e li lasciammo perdere, anche se lasciammo le segnalazioni. Comunque, la osservammo a lungo. E ricordo che perfino allora pensai che era strano quanto fosse silenziosa. Non sentivamo nemmeno i tocchi della campana. Ne parlai al Primo Ufficiale, e lui disse che aveva notato la stessa cosa. Poi, verso i sei tocchi, ammainarono tutte le vele, e vi dico che questo fatto ci stupì ancora di più, come chiunque può immaginare. E ricordo che allora notammo soprattutto che non sentivamo provenire nemmeno un rumore da quella nave, anche quando venivano lasciate le drizze. Eppure, senza occhiali, vidi il loro Comandante urlare qualcosa, ma non sentimmo nemmeno un suono, e avremmo dovuto sentire parola per parola. Poi, poco prima degli otto tocchi, successe il fatto di cui Jessop ci ha parlato. Sia il Primo Ufficiale che il Comandante dissero che avevano visto degli uomini salire a bordo della nave. Erano un po' vaghi, sapete, perché stava annottando, ma io e il Secondo Ufficiale non eravamo sicuri di averli visti. Però c'era qualcosa di strano, tutti lo sapevamo. Sembrava che una nebbia si muovesse lungo la fiancata della nave. Ebbi paura, ma non era il genere di cosa di cui essere troppo sicuri e convinti, finché non si era veramente certi di averla vista. Dopo che il Primo Ufficiale e il Comandante avevano detto di aver visto gli uomini abbordare la nave, cominciammo a sentire dei rumori. All'inizio erano molto strani, somigliavano a quelli che fa un fonografo quando prende velocità. Poi si sentì che i rumori provenivano proprio dalla nave. Sentimmo gridare e strillare e, sapete, perfino ora, non so che cosa pensai. Mi sentii strano e confuso. La cosa successiva che ricordo è che una nebbia fitta la circondò, e poi tutti i rumori furono soffocati, come se fossimo dall'altra parte di una porta chiusa. Ma vedevamo ancora gli alberi, le cime e le vele al di sopra della nebbia. Sia il Comandante che il Primo Ufficiale dissero di vedere degli uomini in coffa: anche a me sembrò di vederli, ma il Secondo Ufficiale non ne era certo. Comunque, tutte le vele furono spiegate in un minuto, e i pennoni furono issati. Al di sopra della nebbia non vedevamo le vele inferiori, ma Jessop dice che erano state spiegate e assicurate con la scotta alle vele superiori. Poi vedemmo che i pennoni erano issati, e vidi che le vele si gonfiavano per il vento. Eppure, le nostre sbattevano. Poi successe qualcosa che mi colpì più di ogni altra. Gli alberi si inclina-
rono in avanti. Quindi vidi la poppa emergere dalla nebbia che circondava la nave. Poi, all'improvviso, risentimmo dei rumori provenire dal vascello. E quei marinai non gridavano, ma urlavano disperatamente. La poppa si alzò ancora di più. Era straordinario da vedersi. Poi la nave si inabissò con la prua, dritta nella nube di nebbia. È proprio come diceva Jessop e, quando lo vedemmo nuotare (io fui l'unico a vederlo), mettemmo a mare una scialuppa che navigò velocissima. Il Comandante, il Primo, il Secondo Ufficiale e io, sottoscriviamo questo resoconto. (Firmato) William Nawston, Comandante J.E.G. Adams, Primo Ufficiale Ed. Browns, Secondo Ufficiale Jack T. Evans, Terzo Ufficiale EDOARDO CALANDRA Due spaventi Verso la fine d'aprile dell'anno 1836, il mio amico e fratello d'armi Paolo Gagliardi mi scrisse di venire a tenergli un po' di compagnia alla Vernea, presso Lombriasco, dove viveva ritiratamente, vigilando le faccende campestri di tre o quattro contadini. Non essendo occupato, potevo partir subito; se non che era una stagionaccia incostante, bisbetica, ora primaverile, ora autunnale; in cui si passava dal vento piovoso al nevischio, da questo alla gragnuola. La mattina di lunedì, 2 maggio, fui preso d'impazienza, e benché il tempo fosse chiuso, la gola del Moncenisio e le falde delle Alpi biancheggianti di neve, feci attaccare, montai nel mio legnetto, e uscii di città. Nel viaggio fino a Carignano, non mi accadde nulla di particolare. A Carignano mi fermai più del solito per dar riposo al cavallo, che le strade erano guaste e faticose. E ripartii. Il tempo si era andato sempre più rabbuiando; balenava e brontolava. Vennero pochi goccioloni, e subito dietro una pioggia che in un momento diventò diluvio. Il mantice del legnetto e la mia coperta da campo mi riparavano molto bene, il cavallo trottava come niente fosse, eppure andavo avanti mal volentieri. Il rimbombo del tuono mi urta i nervi, promuove in me inquietudine, irritazione, direi quasi una avversione d'istinto. Invece il
rimbombo delle artiglierie, in guerra, ha sempre raddoppiato il mio spirito marziale e infusa la volontà di assalire braveggiando il nemico; in pace, quando è segno di saluto e di gioia, mi fa provare un misto di desiderio e di malinconia, un senso di nostalgia bellicosa. Andavo avanti contro voglia: e come i lampi a zig-zag, sinuosi, diffusi, ora bianchissimi, ora rosseggianti, si riflettevano nella strada già allagata e mi accecavano; come lo strepito orrendo echeggiava nelle nuvole basse e mi assordava: maledicevo il momento in cui mi ero messo in cammino, e mormoravo fra i denti, a mo' di giaculatoria, la famosa frase del Maréchal Ney: «Je voudrais bien savoir quel est la Jean-f... qui dit n'avoir jamais eu peur!»1. Di repente una scintilla immane, un globo di fuoco, scoccò da nube a nube, turbinò veementissimo a mezz'aria, esplose dentro un albero che s'alzava con maestosa chioma a destra della strada, e lo guastò da cima a fondo. In quel subito vidi tutto color di sangue, mi credetti incenerito, annientato; e, senza sapere quel che facevo, menai una violenta frustata al cavallo esterrefatto. La povera bestia s'impennò, voltò corvettando e saltabeccando in un viale a sinistra, andò a dar di cozzo in un portone serrato. Smontai: ma ero così abbacinato, così intronato, che invece di picchiare e chiedere ricovero, mi diedi a strigare le guide, che mi ero lasciato scappar di mano. In quella che mi affannavo, tremando convulsamente, il portone si spalancò, un contadinotto tirò sotto il portico il cavallo e il legnetto; un uomo attempato, in mezza livrea, mi porse un ombrello aperto, dicendo premurosamente: «Entri, entri! Gesù e Maria, ero all'ultimo piano e ho visto tutto! Sono io che ho avvertito monsù e madama. Venga, venga. Vuole appoggiarsi al mio braccio? Passi, passi...». Così dicendo, stava lì, senza avvedersi che m'impediva il passo. Alla fine se ne accorse, si mosse, e io gli andai dietro. Traversato un cortile, che in quell'ora, con tutta quell'acqua, pareva un lago in burrasca, arrivammo alla porta di casa. Il padrone e la padrona mi aspettavano ritti sulla soglia. Lui, era alto, asciutto, con una capigliatura di splendida candidezza, che faceva parere più bronzina la sua faccia rasa e rugosa. Lei anzi piccola che no, e un po' pingue, aveva conservato pure molti capelli, e due folte ciocche castagne tirate indietro, le ornavano la faccia pallidetta, ove traspariva una bellezza passata, sfiorita, ma non ancora senile. Tutti e due portavano il bruno grave, e la loro presenza dimostrava una dignità riposata, un po' malinconica, che moveva a venerazione in-
sieme e a simpatia. Non si perdettero in parole di complimento, mi condussero in un salotto vicino, mi fecero sedere dinanzi al caminetto, e prendere una buona fiammata e una tazza di caffè. Io dissi il mio nome, il vecchio signore mi disse il suo: Pietro Francesco Gindri. Si parlò del più e del meno. Tanto il marito che la moglie mostravano quell'urbana disinvoltura di modi che è propria delle persone sfranchite nel conversare con tutti. L'uno amava la pittura, l'altra la musica. Di faccia al caminetto vi era un pianoforte; e alle pareti, come tappezzeria, un chiaroscuro in cui erano figurate le quattro stagioni: un vecchierello tutto intirizzito, con le braccia ficcate fino ai gomiti in un gran manicotto, simboleggiava l'Inverno; una vispa forosetta, emergente da una rigogliosa fioritura, la Primavera; l'Estate era un adulto seminudo che percoteva le biade con coreggiato; l'Autunno una venditrice di frutta con una pezzuola annodata intorno al capo e un po' di scialluccio. Il signor Gindri mi disse che quella tela, eseguita sul luogo, era opera di Antonio Amaretti, da Pancalieri, un giovane che attendeva con molto profitto alle bellezze dell'arte e agli studi che si competono a un artista giudizioso. S'avvicinava intanto l'oscurità della notte; la pioggia continuava alla dirotta, scrosciando più rovinosamente che mai. Il padrone chiamò il servitore perché accendesse il lume, poi si rivolse a me: «Come si fa a viaggiare con questo tempaccio? Il diavolo non andrebbe per un'anima». E la padrona con una gentilezza che veniva direttamente dall'animo: «Faccia delle necessità virtù, e per questa sera, accetti di stare con noi». E poiché rimanevo sospeso, non per dubbio ma così per cerimonia, il signore riprese: «Parlo sul serio, sa. Sono pratico delle strade: a quest'ora devono essere assolutamente impraticabili. Le acque dei fossi rigurgitano e allagano. E poi, e poi... Badiamo di non fare qualche imprudenza». Si cenò in una stanza dipinta tutta a fresco, rappresentante un pergolato fatto di pampini, ricco d'uva, sparso di augelletti variopinti che rallegravano l'occhio. Però la cena non fu lieta. Il contegno dei due ospiti verso di me continuava ad essere correttissimo, ma a momenti vedevo divenire più intensa, più cupa quella malinconia che quasi sempre stava sul volto del marito; vedevo la moglie abbassare mollemente la testa e rimanere come assorta in un pensiero nascosto, famigliare alla mente e più forte su quella che la mia presenza. Poi si cambiavano, sorridevano a fior di labbra e riprendevano il discorso.
Da queste e da altre cose che vedevo e sentivo, cominciavo a comprendere che i signori Gindri vivevano tutto l'anno in quel luogo appartato e solitario. Essi dovevano avere idee e opinioni particolari, ben radicate nel cervello, modi di operare divenuti per lungo uso ordinari e abituali: mi proposi quindi di non contraddirli, di fare il possibile per non riuscire noioso o importuno, per non recar loro il minimo incomodo. Dopo cena si tornò nel salotto delle quattro Stagioni, dinanzi al caminetto. Qui bisognava indovinare come i coniugi usassero passare la serata: se giocando, se sonando, se leggendo. Mentre stavo facendo qualche congettura, la signora Gindri disse: «Oggi è giorno di posta. Fortuna che è arrivata prima del solito, se no ci mancherebbe la Gazzetta Piemontese». «Sarebbe un inconveniente», mormorò il signor Gindri; e soggiunse volgendosi a me: «La gazzetta è una gran bella invenzione. Siamo qui, lontani dalla città, quasi segregati dal genere umano, eppure ogni giorno corrispondiamo in certo modo con tutti i popoli della terra!». «Penso anch'io così», risposi. «La sera, dopo passeggiato, me ne vado al caffè. Lì combino tre o quattro amici, leggiamo le gazzette, poi c'ingolfiamo nella politica: e ognuno, secondo la propria opinione, ordina eserciti, allestisce navigli, apre arsenali, sottoscrive alleanze o bandisce asprissime guerre.» Il signor Gindri aveva già preso e spiegato un foglio che stava sul caminetto, vicino al lume; e la signora s'era rigirata sul suo seggiolone e spingeva innanzi la faccia, come chi si dispone a sentir cosa che assai gli prema. «Permette?», mi domandò ancora il vecchio signore accomodandosi gli occhiali. «Si figuri!», esclamai. «Anzi, mi fa un favore.» E così egli cominciò a leggere, tralasciando certi passi, fermandosi su certi altri. «Dunque vediamo un po'!: America Settentrionale. (Dai fogli di Nuova York del 24 marzo.) Il generale Gaines ha fatto il seguente accomodamento con gl'indiani della Florida: Gl'indiani ed i loro capi si ritireranno al di là di Wildocooclui... Me ne rallegro moltissimo. Impero ottomano. Niente. Grecia. Leggesi nella Gazzetta d'Augusta: Scrivono da Larissa che le truppe turche quivi concentrate cominceranno quanto prima le loro operazioni contro le bande dei malandrini... E va bene, facciano pure. Una lettera da Lamia, in data dell'11 marzo, parla di un combattimento accaduto coi Clefti. Devo leggere? No, eh? Tiriamo via. Impero russo.
Niente d'importante. Alemagna, Berlino, 15 aprile. Dappertutto si attende a piantar fabbriche di zucchero di barbabietole... Oh gioia! Gran Bretagna. Londra, 22 aprile. Nessuna nuova politica è corsa stamattina alla Borsa... Uhm! Portogallo... Spagna... Francia... Notizie d'Algeri. Il Moniteur stampa un lunghissimo ragguaglio del generale Rassatel al maresciallo Clauzel sulla recente spedizione di Medeah... Ah, ah!» S'interruppe, percorse con l'occhio tutta la pagina e riprese: «Insomma i Cabaili combattono da eroi, ma che vale? Oh, oh! Dicesi dagli arabi che Abd el Kader, abbandonato dai suoi, si è ritirato verso Marocco. Possibile? Ehm! sarà un inganno militare, uno stratagemma. Notizie posteriori. Vediamo le notizie posteriori... 2 maggio, 11 antim. Il corriere del Moncenisio di questa mattina è tuttavia in ritardo... Al solito. Oggi perdura il freddo... Infatti! Il Journal de Paris reca, che il 21 Iriarte con un battaglione sostenuto dal presidio di Pamplona, assalì i Carlisti trincerati a Balascoin... Se la facessero finita? E qui? Non avevo veduto! Il dissapore fra Mendizabal ed Isturitz finì con un duello alla pistola: niun dei combattenti rimase ferito: essi si separarono a mediazione dei padrini, ma più nemici che mai. Bella riuscita!... Sua Maestà l'arciduchessa di Parma, è arrivata il 28 aprile a Milano da Piacenza, scendendo col suo seguito all'I.R. Palazzo di Corte. Amen! Interno. Genova, 27 aprile. Notizie marittime. Notizie commerciali. Questo non fa per noi. Torino. Osservazioni metereologiche... Annunzi Avvisi... spettacoli...» «Appunto», disse la signora, «che cosa si rappresenta al Carignano?» «Ecco qui: Teatro Carignano... Ballo Sofia di Moscovia; composto e diretto dal Coreografo Monticini. Teatro D'Angennes. Compagnia Drammatica al servizio di S.S.R.M. La Fiera, Circo Sales (alle ore 5,30). Esercizi di cavallerizza eseguiti dalla Compagnia Guillaume.» Domandai alla signora se le piacesse il teatro. Ella si scosse un poco, a guisa di chi è colto da un'interrogazione imbarazzante, poi accennò di sì, e stette a capo basso, quasi la sua anima, sollevata un momento, ricadesse ad un tratto in un abbandono estremo. «Se le piaceva il teatro?», esclamò il signor Gindri. «Altro! L'opera seria, l'opera buffa, l'opera-ballo, il dramma, la commedia... Ma poi è venuta la tragedia, la catastrofe. E addio!» Un lungo silenzio successe a queste parole. Marito e moglie guardavano fisso fisso il fuoco, immobili come due statue. Io pensavo: «O mi diranno ciò che fu questa catastrofe, e mostrerò di condolermi; o non mi diranno niente, e io rispetterò il loro segreto».
Non mi dissero niente. A un punto il marito pigliò le molle come per rattizzare o ravvivare il fuoco; tramestò la cenere, scompigliò tizzi e carboni, e riprese, riponendo lo strumento al suo posto: «Mutiamo discorso, parliamo d'altro. Adesso rileggerò la gazzetta, la spedizione di Tencah, di Medeah... Tanto per far tardi». Poi, voltandosi meno afflitto, meno crucciato, e con una specie di rammarico d'aver parlato in quel tono e in quel modo, mi disse: «Ma lei dev'essere stracco morto? Senza complimenti...». E la moglie, con una voce ancora un po' alterata, ma quanto mai si può immaginare dolce e persuasiva: «Senta: se mai la camera è pronta...». Accettai volentieri quell'offerta opportuna e cordiale: dal canto mio avevo sonno, e probabilmente dal canto loro i miei ospiti non vedevano l'ora di rimaner di nuovo soli a pascersi di malinconia. La signora scosse un campanello e al servitore che entrò disse: «Giacomo, accompagnate questo signore alla camera gialla». Ci augurammo scambievolmente la buona sera e la buona notte, e ci separammo. Giacomo mi fece lume su per una scala di pietra, fino al primo pianerottolo, m'introdusse nella camera che mi era destinata e disse: «La sua sacca da viaggio è già lì sul sofà. Se ha bisogno di qualche altra cosa?...». «Grazie, non ho bisogno di nulla.» «Oggi ha passato un brutto quarto d'ora. Si ha un bel dire. Uno può aver più coraggio di Napoleone, ma, cospetto! col fulmine non si scherza. Basta, il dormire le farà bene... Mi comanda?» «Andate pure.» Il servitore mi porse il candeliere e se ne andò. La camera gialla era molto grande e sfogata, parata con carta canarina, simile nel colore alla stoffa un po' sbiadita che soprastava alle finestre, al letto e ricopriva i mobili. Questi erano tutti di mogano, di classico disegno, eccetto una consolle alla rococò, sopra la quale stava uno specchio con la luce tutt'un pezzo e la cornice a fogliami. Cavai dalla sacca la biancheria da notte, posai sul comodino, accanto all'orologio e all'anello, il tomo decimo di Lo spettatore Italiano, mi spogliai ed entrai in letto. Siccome per solito non posso addormentarmi senza scorrere qualche pagina, presi il volume, lo aprii a caso, trovai un articolo intitolato «Filosofia», e lessi quanto segue: Mercé della filosofia, i vampiri sono iti fuori di moda. Perché
dir non possiamo lo stesso degli spettri e delle fantasime? Tuttavia, se la fede alle apparizioni non è ancora morta del tutto, essa almeno più non vive che nelle menti ristrette e nel volgo, pusillanime e rozzo. Nel libro di Flegone, liberto dell'imperatore Adriano, in mezzo a mille racconti da veglia, trovasi la seguente storiella ch'ei dice avvenuta in Ipate, città di Tessaglia. È dessa una delle poche favole di questo genere, trasmesseci dagli antichi, che molto si rassomigli alle superstiziose invenzioni moderne. Filinnione, unica figlia di Demostrato e di Carito, morì in età da marito: gl'inconsolabili suoi genitori fecero seppellire insieme col suo cadavere gli ornamenti e gli arredi che la fanciulla aveva avuto più cari mentre viveva. Alcun tempo dopo ch'ella fu morta, un giovane signore, per nome Macate, venne ospite in casa di Demostrato, ch'era suo amico. Una sera, essendo Macate in sua camera, Filinnione, di cui questi non sapeva la morte, gli apparisce, gli dichiara il suo nome, e lo induce con mille vezzi a corrisponderle. Macate in pegno di affetto, regala a Filinnione una coppa d'oro, e si lascia trarre di dito un anello di ferro che usava portare. Filinnione dal canto suo, gli fa dono del suo monile e di un anello d'oro; indi prima dell'aurora sen parte. La notte seguente, ella ritorna all'ora medesima. Nel frattempo che stavano insieme, Carito mandò una vecchia fantesca nella stanza di Macate onde vedere ciò ch'egli facesse. Questa donna tornò indietro ben presto, tutta smarrita, a dire alla sua padrona che Filinnione trovavasi con Macate in ragionamenti. La trattarono qual visionaria, ma siccome ella persisteva in accertare che quanto diceva era vero, giunto che fu il mattino, Carito andò dal suo ospite e gli chiese se la fantesca non l'avesse tratta in errore. Macate confessò che la vecchia non aveva mentito, narrò tutte le circostanze di quanto gli era accaduto, e mostrò il monile e l'anello d'oro, che la madre riconobbe per quei di sua figlia. Questa vista ridestò nel suo animo il dolore d'averla perduta; ella gettò spaventevoli grida, e supplicò Macate di avvertirla quando la sua fanciulla ritornasse il che egli fece. Il padre e la madre la videro, e le corsero incontro per abbracciarla. Ma Filinnione, abbassando gli occhi, con mestissimo sembiante lor disse: «O padre mio! O madre mia! Voi distruggete la mia felicità coll'impedirmi, me-
diante l'intempestiva vostra presenza, di vivere soltanto tre giorni, insieme col vostro ospite, nella paterna magione, e di avervi qualche dolcezza, senza in nulla turbarvi. La vostra curiosità vi riuscirà funesta, perché io men ritorno all'asilo della morte, e voi mi piangerete non meno di quanto faceste quando fui posta sotterra per la prima volta. Ma io vi ammonisco che non son qui venuta senza il volere de' numi». Dette queste parole, ella cadde morta, e il suo corpo venne esposto sopra di un letto, agli occhi di tutta la gente di casa. Si andò poscia a visitare il sepolcro di Filinnione e non vi si rinvenne il suo cadavere; eranvi solamente l'anello e la coppa d'oro che Macate le aveva regalato. Macate, pien di vergogna per aver dormito con uno spettro, di propria mano si uccise. Riesce inutile il far commenti sopra l'assurdità di questa favola. Chiusi il volume, tenendovi dentro l'indice per segno, e volli meditare un poco sulla credenza nelle apparizioni dei morti, credenza di tutti i tempi, comune a tutti i popoli. Che mai può essere? Una prova dell'insanabile debolezza della mente umana? Un argomento confermativo dell'immortalità dell'anima? Quante volte non mi sono affaticato a rintracciare nella memoria l'origine di certe impressioni sottilissime e misteriose avute Dio sa quando, forse in un'altra vita! Quante volte non ho desiderato con tutte le potenze del cuore di rivedermi dinanzi, sia pure per pochi istanti, l'immagine di qualcuno dei miei poveri morti! Intanto, a poco a poco, la sconnessione delle idee divenne confusione; i sensi si assopirono; perdetti ogni volontà, ogni intenzione. Nel dormiveglia mi parve ancora di dover fare qualche cosa, ma non seppi più che... Passò un'ora, forse due, forse tre. D'improvviso mi scossi, spalancai gli occhi, feci quasi un balzo nel letto. Non ero più solo. Alla luce tremola e impura della candela fungosa vedevo una fanciulla, vestita da ballo con eleganza congiunta a semplicità, che si moveva per la camera senza fare il più piccolo rumore; e ogni poco si fermava a guardarsi nello specchio ch'era sopra la consolle, come vagheggiasse la sua bellezza, la sua acconciatura, il suo abbigliamento. Chi poteva essere? Una povera pazza? Una sonnambula? Non volevo credere a quello che vedevo, e stavo lì senza batter occhio, senza trar fiato. Tutt'a un tratto osservai, o mi parve d'osservare che le carni e le vesti di quella figura non avevano rilievo e colore distinto, che quel corpo non gettava ombra né sul soffitto, né sulle pareti, né sul pa-
vimento! Volli accertarmi. La maledetta candela, filò, si affiochì e si spense. Pensai di riaccenderla, di rompere quel silenzio sepolcrale con qualche domanda: il pensiero se ne arretrò spaventato. Fu uno spavento istantaneo, prepotente, atroce. Fu come se il cervello si vuotasse di sangue e d'un tratto si riempisse da scoppiare; come se il midollo, i nervi, tutto ciò che conferisce alle membra la forza del muoversi si disfacesse nel sudore di morte che m'inondò la persona. Non vedevo, ma sentivo tuttavia la presenza della forma femminile. Ecco che ella si staccava dallo specchio e veniva verso il letto, leggera come una piuma, trasparente come un velo, e allungava le mani verso gli oggetti d'oro che stavano sul comodino. Ero più certo di questo che della morte; provavo un impulso, una smania di fuga, e insieme un intormentimento strano, resistente all'impero della volontà. Mi trovavo come rinfanciullito, rimbambinito, tornato al tempo in cui non ardivo salire le scale di casa all'oscuro o penetrare da me solo nel boschetto che stava dietro la nostra villa... Sì, ero andato soldato pauroso come una lepre, ma mi avevano guarito. E mi si affacciava alla mente il giorno in cui avevo ricevuto il battesimo del fuoco, e quello in cui avevo fatto la mia comparita in Parigi con la rilucente divisa di capo squadrone degli ussari e la sciabola d'onore guadagnata un mese avanti in battaglia. I militari spagnuoli fanno distinzione tra bravura, coraggio, intrepidezza, valore. Essi dicono: Egli fu bravo in quel giorno. Io ero stato bravo in parecchi giorni della mia vita, ma in quella notte non ero più buono a niente. A che mi servivano l'età, l'educazione, l'esperienza, e il fatalismo quasi maomettano acquistato sui campi? Un altro po' e cadevo in deliquio come una femminuccia! Come mai? Come mai? E cercavo di comprendere, di raccapezzarmi. Che mi era accaduto? Cos'è stato? Un fenomeno morboso, sintomo di una malattia che stavo covando? Un abbaglio, un vedere che aveva fatto la mia mente d'un'immagine non vera, tutta di fantasia? La continuazione a occhi aperti d'un sogno incominciato a occhi chiusi? Avrei dato la metà del mio sangue per potermi capacitare che quello era stato un sogno, magari d'un'intensità, d'un'evidenza, d'una persistenza straordinaria; per poter cancellare dalla memoria quelle ore ignominiose. Ma era impossibile. Di tanto in tanto mi accomodavo, mi rannicchiavo per dormire: ma l'oscurità e il silenzio, invece di conciliarmi il sonno, me lo guastavano. Avevo certi arricciamenti di capelli sensibili, quasi dolorosi, certi brividi veementi e prolungati; e un odore, non so se vero o immaginario: l'odore ingrato delle stanze state molto serrate, mi mozzava il respiro...
Alla fine, quando meno me l'aspettavo, mi arrivò all'orecchio il canto di un gallo. Mi parve che quella voce balda dissipasse l'orrore della notte. Riebbi come per incanto il sentimento della realtà, e vestitomi a mezzo, andai francamente ad aprire una finestra. Era già fatta l'alba, un'alba senza albore, e si distinguevano gli alberi rabbaruffati dal soffiar tempestoso del vento, e la campagna disfiorata dalla tropp'acqua caduta. Mi appoggiai al davanzale, esposi la faccia all'aria pura, e stetti lì finché non ebbi preso ristoro, finché non fui di nuovo ben presente a me stesso. Mentre finivo di vestirmi, riandavo le impressioni della torbida nottata trascorsa, e guardavo d'intorno per vedere se potevo scoprire un segno che mi cavasse di dubbio, una traccia indicante la via seguita dalla misteriosa fanciulla nell'entrare o nell'uscire. L'uscio di scala era chiuso, l'altro dirimpetto, che metteva in qualche stanza più interna, era mezzo aperto. Si vedeva un ragnatelo lassù in cima, che andava dal battente allo stipite con tutti i suoi cerchi fini fini e i suoi raggi come una ruota. Se l'uscio fosse stato aperto un po' più o chiuso affatto, il ragnatelo si sarebbe subito stracciato. Provai, mossi il battente, il ragnatelo si stracciò e una parte rimase penzoloni dallo stipite. Dunque quell'uscio non era stato toccato... Stando così fermo, in atto di chi pensa, mi parve di sentire un calpestìo. Mi affacciai al pianerottolo e vi trovai Giacomo. «Cospetto!», diss'egli, facendomi un inchino. «Lei è molto mattiniero. Come ha riposato stanotte?» «Così, così», risposi, rientrando in camera. Il servitore mi seguì. «Solo così così? Me ne rincresce. Un po' d'agitazione, eh? C'era da aspettarsela.» Mi annodai la pezzuola al collo, mi abbottonai il panciotto, indossai l'abito e mi lasciai andare sul sofà. «Vuol prendere il caffè?» riprese Giacomo. «Grazie; lo prenderò più tardi.» «Bene, lo prenderà con monsù e madama. Si levano sempre presto. Oggi poi c'è la messa da morti qui nella cappella di casa.» «La messa da morti?» «Sì, signore. Questa è una giornata molto malinconica, è l'anniversario di madamigella Rosa. Il babbo e la mamma fanno dire una messa in suffragio dell'anima. Una volta venivano anche gli zii, i cugini e qualche altro parente, ma ora, dopo cinque anni... M'immagino che ieri sera i miei padroni l'avranno informato della loro disgrazia?»
Accennai di no. «Eh già!», esclamò Giacomo. «O non smettono più di parlarne, o li sgomenta solamente il pensiero di doverla ridire.» Mi alzò gli occhi in viso, stette alquanto senza parlare e non potendo indovinare la farragine d'idee che mi passava per la mente, mi domandò di nuovo se non volevo prender niente. «Creda che un bicchierino di alchermes è una medicina di effetto sicuro. Lei forse preferisce il maraschino?» Crollai il capo e poi risposi: «Su via, ditemi come andò la cosa». «Come andò la cosa? Sì, signore, le racconterò tutto dal principio alla fine. Oh! deve dunque sapere che madamigella Rosa era l'unica figlia dei signori Gindri, nata assai tempo dopo il loro matrimonio. I genitori, ai quali non pareva vero d'aver avuto una figlia quando ormai non speravano più prole, la compiacevano in ogni cosa, e si guardavano fino dal contrariarla, temendo che il pianto le facesse male. Un'altra si sarebbe creduta nata per dominar tutti, per comandare a bacchetta. Lei no, lei sapeva che la superbia è il primo dei peccati mortali, e trattava bene tanto la servitù che i contadini. Cresceva ch'era una bellezza... E se ne teneva. Da bambina non avrebbe fatto altro che stare allo specchio, e di nulla si offendeva, tanto come di essere chiamata brutta. Era una meraviglia di speranza, e diventò un modello delle fanciulle da marito. Appena cominciò a farsi vedere nel bel mondo, cioè nelle conversazioni, nei concerti, nei balli di famiglia, piacque moltissimo. Tutti ammiravano le cose che diceva e faceva; e il padre e la madre toccavano il cielo col dito. Per farla corta, l'ultimo giorno di carnevale madama Cordara, sorella della mia padrona, invitò parenti e amici a passare la serata in casa sua. Per sentita dire, madamigella Rosa ballò assai e, finita la festa, era molto accaldata. La mamma insisteva perché si riposasse; ma lei si mise il suo pardessus di pelliccia, e niente paura. Io stavo di piantone nell'anticamera, ma il cocchiere, quel birbante di Gaudenzio, non era al suo posto. Cerca di qua, cerca di là, gira e rigira: nessuno sapeva dove si fosse cacciato. E la padrona e la padroncina aspettavano nell'atrio, dove circolava una corrente d'aria che pareva venire da un ghiacciaio! Pochi giorni dopo madamigella Rosa era in letto con mal di capo, grande spossatezza e molto affanno. Io dicevo fra me e me: "Gesù e Maria aiutatela! Fate che non si sia pigliato un male di pericolo!". Ma il dottor Rodella, che la visitava, si conservava tranquillo, si dava le sue solite fregatine di mani: "Santa pazienza! la malattia vuol fare il suo corso... La malattia rimane stazionaria, vedremo domani... La malattia è superata, la signorina entra in con-
valescenza". Già; ella uscì dal letto, ma... Basta, sentirà. Passò l'inverno e il medico, sperando che l'aria della campagna l'avrebbe finita di guarire, ordinò che fosse portata qui, nella villa dov'era nata. Si fecero queste poche miglia in una carrozza che pareva un letto, e tutto andò bene. Tutto andò di bene in meglio per qualche tempo: pareva che madamigella Rosa si fosse non solo riavuta dal piccolo strapazzo del viaggio, ma cominciasse davvero a ricuperare le forze. Ecco che una mattina, tornando da Carignano, dove ero andato a far le provviste, trovo le persone di servizio tutte sotto sopra; Orsola, la cameriera, che piangeva come una vite tagliata. Domando subito: "Cosa c'è? Cosa c'è?". Orsola risponde: "La signorina se ne va". Io non capisco e dico: "Se ne va dove?". "In paradiso, bestia." "Oh, poveri noi!".» Qui Giacomo si fermò, non potendo andare innanzi per la commozione che una tal memoria svegliava nel suo cuore. Dopo un momento si ricompose e continuò: «Già, la mia padroncina moriva, e non voleva morire. Si distaccava dai suoi, dai beni di questa terra con tanto dolore, rammentava e rimpiangeva i bei giorni della sua gioventù così corta, diceva cose che ferivano il cuore. Il babbo e la mamma si sarebbero fatti crocifiggere per tenerla viva. Noi... Oh, misericordia! Basta; madama Cordara, ch'era accorsa subito, ebbe un'ispirazione dal cielo. Cominciò a pigliarla larga, a passare da una cosa all'altra, finché fece cadere il discorso sull'abbigliamento alla moda; e allora le domandò con naturalezza, per qualunque caso possibile, come voleva essere vestita. Madamigella Rosa, ch'era stata attentissima, non rispose subito. Volle riflettere un poco, e poi disse: "Ormai è finita, non si torna addietro. Che serve disperarsi? Ma io abbandono le vanità del mondo proprio mentre cominciavo ad assaporarle: fate almeno che la funzione funebre sia perfetta... Desidero... aspettate... Ah! un guanciale di seta color rosa. È un desiderio perdonabile, non è vero? Ricordatevi che l'essere e il parere bella fu il gran pensiero della mia vita. Abbiate cura che il mio velo sia amplissimo... Troverete in quel guancialino gli spilli d'argento per appuntarlo con grazia... Mi farete con le treccie una corona come quella che porta la signorina Paoletti... Ma vorrei aver la fronte un po' più scoperta; mi starà meglio". Venne il prete. Ella fece santamente le sue devozioni, e poi stette tutta raccolta come se pregasse. Poco dopo si rivolse alla zia: "Pensa che col velo tornerà bene la veste di mussolina che il babbo ha fatto venir da Parigi...". Uno sfinimento le impedì di continuare. Quando si risentì si dolse di non sapere a quali scarpini dare la preferenza. Madama Cordara le suggerì
quelli di raso bianco che aveva al ballo di casa Préville. Sì, quelli calzavan bene, ma erano troppo attillati; la molestava il pensiero di tenerli per tutta l'eternità. Insomma si rimetteva in lei. Si ricordasse che voleva sembrare addormentata; non dimenticasse che aveva sempre amato i fiori... Le parole le morivano in bocca, le si annebbiava la vista, e tanto aveva ancora quel suo sorriso! Abbracciò, come poté, il babbo e la mamma...». Giacomo s'interruppe di nuovo, che gli venne da piangere, e voltò il capo dall'altra parte. Andò poi pianamente all'uscio del ragnatelo, aprì e disse: «La sua camera è ancora intatta. Venga a vedere». Provai, entrando in quel luogo, come un tumulto di sentimenti indefinibili: curiosità e tema rispettosa, ansietà mista di commozione, tristezza prossima a ribrezzo. Vidi una cameretta tutta color dell'innocenza, mobiliata con molto gusto; c'era un letto gentile col cortinaggio chiuso, un'elegante toelette con padiglione e pedana, un cassettone di noce intagliato... Sopra il cassettone stava un ritratto a matita, due mazzi di fiori dentro ai loro vasi, un guancialino di spilli, una coppa di porcellana della più graziosa fattura. «Ecco», sussurrò Giacomo, indicando il ritratto, «hanno voluto far lei, la mia padroncina. Le somiglia nei capelli, ma le fattezze non sono proprio quelle. Basta, io non me n'intendo. Ci sono sotto delle parole scritte da sua madre.» Mi accostai e lessi i notissimi versi: Elle était de ce monde où les plus belles choses Ont le pire destin; Et, Rose, ella a vécu ce que vivent les roses, L'espace d'un matin. Nella coppa c'era un finimento di coralli, una crocellina à la Jeannette, pendenti, fermagli, anellini. «Sono i suoi gioielli», disse Giacomo, sempre a voce bassa. «Amava anche tanto i gioielli!» Portavo alla catenella dell'orologio un bel ninnolo esotico, dono del dottor Salvatori, addetto all'Ambasciata francese in Persia. Lo staccai e lo posi nella coppa, come avrei posto un fiore sopra una tomba. D'allora in poi non dubito più: l'anima separata dal corpo può conservare o riprendere l'apparenza delle forme corporee.
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«Vorrei proprio sapere chi è quel... che dice di non aver mai avuto paura!» (N.d.C.) SAKI L'anima di Laploshka Laploshka era uno degli uomini più avari che avessi mai incontrato, ma anche uno dei più divertenti. Diceva cose orribili circa le altre persone, ma in una maniera tanto incantevole, che gli si perdonava perfino tutte quelle cose, ugualmente orribili, che raccontava alle nostre spalle. Noi odiavamo tutto ciò che somigliasse lontanamente alla maldicenza, ma eravamo sempre grati nei confronti di coloro che la facevano per noi e che la facevano tanto bene. E Laploshka la faceva veramente bene. Naturalmente Laploshka aveva un gran numero di conoscenze ed esercitava una certa cura nel selezionarle. Di conseguenza, la sua cerchia era costituita per lo più da uomini provvisti di un conto in banca che permetteva loro di mostrare indulgenza verso le sue concezioni piuttosto singolari circa l'ospitalità. Quindi, benché fosse solo moderatamente fornito di mezzi economici, egli riusciva a vivere in maniera confortevole del suo reddito, ed ancor più felicemente grazie al reddito di amici ben disposti e tolleranti. Ma verso i poveri e verso coloro che godevano delle sue stesse limitate risorse, aveva un atteggiamento di ansia solerte. Pareva ossessionato dal timore che anche una sola frazione di una sterlina o di un franco, o di qualsiasi moneta corrente, potesse essere stornata dalle sue tasche, e andasse invece a favore di un compagno in difficoltà. Poteva offrire con gran facilità un sigaro da due franchi a un ricco benefattore, secondo il principio che facendo del male avrebbe potuto venirne del bene, ma al momento in cui vi era bisogno di spiccioli per dare la mancia al cameriere, l'ho visto affrontare le agonie dello spergiuro, piuttosto che ammettere il criminale possesso di una monetina di bronzo. La monetina sarebbe certo stata sostituita appena se ne fosse presentata l'occasione - egli avrebbe certo fatto di tutto per evitare una dimenticanza da parte del debitore - ma poteva sempre succedere un incidente, e anche un'assenza temporanea della sua moneta era una calamità da evitare ad ogni costo. La conoscenza di questa amabile debolezza costituiva una continua tentazione, che ci spingeva a sfruttare il suo timore di dimostrare un'involontaria generosità. Gli offrivamo un passaggio in taxi, per poi fingere di non avere abbastanza denaro per pagare il conducente, e altre volte lo riduce-
vamo in uno stato di profonda ansietà chiedendogli una monetina da sei penny quando gli era stato appena restituito il resto e aveva ancora la mano piena di monetine argentate. Questi erano solo alcuni dei piccoli tormenti che l'ingegno ci ispirava a seconda dell'occasione. Per la verità, bisogna ammettere che lui possedeva grandi risorse, e riusciva a districarsi dal dilemma più imbarazzante senza mai compromettere la sua reputazione dicendo «No». Ma gli Dèi garantiscono una qualche opportunità a quasi tutti gli uomini, e la mia occasione si presentò una sera in cui Laploshka ed io avevamo in programma di cenare in un modesto ristorante sul boulevard (Laploshka tendeva a vivere in maniera austera quando non era ospite di una persona dal reddito incontestabilmente alto; solo in tali occasioni si lasciava andare alle gozzoviglie). Alla fine del pasto, a causa di un messaggio urgente, dovetti congedarmi frettolosamente e, senza curarmi delle proteste agitate del mio commensale, con grande crudeltà gli lanciai un «Paga la mia parte: ti ripagherò domani». La mattina seguente, di buon'ora, Laploshka mi diede la caccia e, grazie al suo istinto infallibile, mi trovò mentre camminavo in una stradina secondaria che non frequentavo quasi mai. Aveva l'aria di un uomo che aveva passato la notte in bianco. «Mi devi due franchi da ieri sera», mi disse senza fiato a mo' di saluto. Io gli parlai in maniera evasiva della situazione in Portogallo, dove pareva si delineasse un periodo di crisi. Ma Laploshka ascoltò le mie parole con l'aria astratta di una vipera sorda, e rapidamente tornò a parlare dei due franchi. «Temo che mi dovrai considerare tuo debitore», dissi con leggerezza e brutalità. «Non ho un centesimo al mondo», e aggiunsi, mentendo: «Parto per sei mesi o forse più». Laploshka rimase muto, ma i suoi occhi divennero un poco più protuberanti e le sue guance assunsero una tinta paonazza, simile ad una mappa etnografica della Penisola Balcanica. Quello stesso giorno, al tramonto, egli morì. «Insufficienza cardiaca», fu il verdetto del medico. Ma io sapevo bene che era morto di crepacuore. Si profilava il problema di cosa fare dei suoi due franchi. Aver ucciso Laploshka era una cosa: tenermi i suoi amati danari avrebbe costituito un esempio di cinismo del quale non sono assolutamente capace. La soluzione solita in questi casi, quella di devolvere la somma ai pove-
ri, era fuori discussione, data la situazione. Un uso tanto sconsiderato della sua proprietà, avrebbe certo causato grande affanno al morto. D'altra parte, la distribuzione dei due franchi tra i ricchi, sarebbe stata un'operazione alquanto delicata. Comunque, una via di uscita sembrò delinearsi la domenica seguente. Mi trovai imbottigliato tra la folla cosmopolita che solitamente affolla le navate laterali di una delle più frequentate chiese di Parigi. Il sacchetto della colletta, per «i poveri di Monsieur le Curé», si faceva strada tortuosamente attraverso una marea umana apparentemente impenetrabile, e un tedesco che avevo di fronte, che evidentemente non apprezzava il fatto che il suo godimento della musica sublime fosse ostacolato dalla richiesta di danaro, fece alcuni commenti ad alta voce diretti al suo compagno circa la suddetta forma di carità. «Non vogliono soldi», disse. «Hanno troppi soldi. Non sono nemmeno poveri. Sono tutti benestanti.» Se tutto ciò corrispondeva a verità, la via che dovevo seguire mi era stata indicata. Feci cadere i due franchi di Laploshka nel sacchetto, mormorando una benedizione per i ricchi del Signor Curato. Tre settimane dopo mi trovavo per caso a Vienna e, una sera, mi sedetti a godermela in una piccola ma eccellente Gasthaus nel quartiere Währinger. Il servizio era piuttosto rozzo, ma lo Schnitzel, la birra e il formaggio, erano impareggiabili. Il buonumore che ispirava il locale portava una fitta clientela e, ad eccezione di un solo piccolo tavolo accanto alla porta, il locale era pieno. A metà della cena mi capitò di lanciare uno sguardo verso quel posto vuoto, e mi accorsi che era stato occupato. Assorto, intento a scrutare il menù per ordinare il cibo più a buon mercato che potesse esserci, vidi Laploshka. Lui lanciò uno sguardo verso di me e ai resti della mia cena; come per dire: «Stai mangiando con i miei due franchi», poi volse subito altrove lo sguardo. Evidentemente i poveri del Signor Curato erano dei poveri autentici. Lo Schnitzel si tramutò in cuoio nella mia bocca, e la birra mi parve tiepida. Lasciai l'emmenthal senza averlo neppure assaggiato. Il mio unico desiderio era di allontanarmi dalla sala, allontanarmi dal tavolo dove era seduto quello. Mentre fuggivo, avvertii l'espressione di rimprovero negli occhi di Laploshka quando diedi la mancia al giovanotto: anch'essa veniva dai suoi due franchi. Il giorno seguente pranzai in un ristorante di lusso: da vivo, Laploshka
non avrebbe mai messo piede in un posto del genere, e speravo che da morto avrebbe osservato gli stessi limiti. Non mi sbagliavo ma, uscendo, lo trovai intento a studiare corrucciato il menù affisso alla porta. Poi si diresse lentamente verso una latteria. Per la prima volta in vita mia non apprezzai l'incanto e la gaiezza della vita a Vienna. Dopo quella volta, a Parigi, a Londra, ovunque mi capitava, continuai spesso a vedere Laploshka. Se avevo un posto in balconata a teatro, avvertivo sempre i suoi occhi che mi scrutavano furtivamente dalle tenebre della galleria. Entrando nel mio club durante un pomeriggio piovoso, lo vedevo mentre tentava di ripararsi trovando rifugio in un portone sul lato opposto della strada. Anche se mi permettevo qualche modesta stravaganza, ad esempio una sdraio da un penny al Parco, egli di solito mi si parava di fronte, sedendo su una delle panchine non a pagamento, senza mai fissarmi, ma si vedeva dal suo modo di fare studiatamente indifferente che si era accorto della mia presenza. I miei amici cominciarono a fare osservazioni circa il fatto che avevo cambiato aspetto, e mi consigliarono di lasciar stare un sacco di cose. Per parte mia, avrei preferito che fosse Laploshka a lasciarmi stare. Una certa domenica - probabilmente durante la Pasqua, perché la calca era peggiore del solito - mi ritrovai di nuovo imbottigliato nella folla, intento ad ascoltare la musica di una chiesa alla moda di Parigi, e nuovamente il sacchetto della colletta tentava fortunosamente di attraversare la marea umana. Una signora inglese alle mie spalle tentava invano di raggiungere il sacchetto ancora lontano, per deporvi una moneta e così, dietro sua richiesta, presi il danaro per contribuire a farlo giungere a destinazione. Era una moneta da due franchi. Ebbi un'improvvisa illuminazione, e mi limitai a far cadere la mia monetina di bronzo nel sacchetto, facendo scivolare la moneta d'argento all'interno della tasca. Avevo ritirato dai poveri i due franchi di Laploshka, poiché essi non avevano diritto a quell'eredità. Mentre mi allontanavo nella folla, udii la voce della donna che diceva: «Non credo abbia messo il mio denaro nel sacchetto. A Parigi ci sono mucchi di persone di quel tipo!». Ma la mia mente era leggera, come non lo era più da tempo. Ma dovevo ancora affrontare la delicata missione consistente nel distribuire la somma recuperata ai ricchi meritevoli. Nuovamente mi affidai all'ispirazione causata dal caso, e nuovamente la fortuna mi arrise. Un temporale mi spinse due giorni più tardi ad entrare in una delle anti-
che chiese del lato sinistro della Senna, e lì trovai il vecchio Barone R., uno dei più ricchi e sciatti gentiluomini di Parigi, intento a scrutare i vecchi intagli di legno. Ora o mai più, pensai. Aggiungendo un forte accento americano al francese che parlo solitamente con un'inconfondibile inflessione anglosassone, cominciai a catechizzare il Barone circa la data di costruzione della chiesa, le dimensioni, e altri dettagli che un turista americano avrebbe senza dubbio desiderato sapere. Avendo acquisito tutte le informazioni che il Barone poteva darmi in un tempo tanto limitato, con un gesto solenne gli diedi la moneta da due franchi, assicurandolo vivacemente che era pour vous, e mi voltai per andarmene. Il Barone rimase leggermente stupito, ma accettò la situazione con buona grazia. Si diresse verso una piccola scatola attaccata alla parete, e fece cadere la moneta di due franchi di Laploshka nella fessura. Sulla scatola vi era un'iscrizione che diceva: Pour les pauvres de M.le Curé. Quella sera, in un angolo affollato del Café de la Paix, intravidi per un attimo Laploshka. Sorrise, sollevò leggermente il cappello, e svanì. Non lo vidi mai più. Dopotutto, il denaro era stato dato ai ricchi meritevoli, e l'anima di Laploshka riposava finalmente in pace. EDGAR WALLACE Uno straniero dalla notte Il piccolo strumento sul tavolo dell'ispettore faceva tic-tac. Poi tacque, come se stesse considerando il modo più efficace di esprimere il proprio messaggio. Nella stanza regnava una profonda quiete, e si udiva chiaramente il ticchettio del grande orologio che pendeva sopra il camino. Quel suono, insieme allo scricchiolio provocato dal movimento della penna d'oca dell'ispettore sulla carta gialla posta sulla scrivania davanti a lui, erano gli unici suoni che si udivano nella stanza. Fuori cadeva una pioggerellina fine, le strade erano deserte e le file di lampioni che si snodavano da est a ovest contribuivano a sottolineare ancor di più la solitudine che vi regnava. «Tic-tac...», disse lo strumento sul tavolo con tono agitato, «tic-tac... tictac!» L'alto sgabello su cui era seduto l'ispettore scricchiolò quando egli raddrizzò la schiena e rimase in ascolto.
C'era un poliziotto di guardia alla porta, ed anche lui sentì l'accorato richiamo. «Cos'era quel rumore, Gill?», chiese l'ispettore, con tono seccato. Il poliziotto entrò nell'ufficio con passo pesante. «Tic-tic-tic-tac», sproloquiava lo strumento, e il poliziotto decifrò il messaggio. A tutte le stazioni di polizia fermare ed arrestare George Thomas, provvisto di foglio di congedo, di anni 35, altezza cinque piedi e otto pollici, carnagione e capelli scuri, occhi marroni, di aspetto signorile. Sospettato di complicità in furti in magazzini. Stazioni di Walthamstown e Canning Town prendano nota particolare e rispondano. S.Y. «Nel bel mezzo della notte!», esclamò l'ispettore con tono esasperato. «Mi chiamano per dirmi quel che ho riferito loro da ore! Che sistema balordo!» Scosse la testa sconsolato. Fuori, nella pioggia leggera, si poteva scorgere un uomo avanzare lungo la strada con le mani affondate nelle tasche, il bavero alzato, e la testa china sul petto. Procedeva strascicando i piedi, mentre gli stivali sguazzavano nella pioggia. Giunto davanti alla stazione di polizia, rallentò il passo. Il poliziotto che si aspettava di trovare all'entrata non c'era. L'uomo sostò indeciso ai piedi della scalinata, serrò i denti e cominciò a salire lentamente i gradini. Si arrestò nuovamente nel corridoio che portava all'ufficio... Si udì la voce dell'ispettore: «Proprio una strana storia, questa faccenda di Thomas: pensavo avesse messo la testa a posto». «È stata la moglie, signore», disse il poliziotto. Seguì una lunga pausa, durante la quale si udì solo il forte ticchettio dell'orologio. «E allora perché è stata la moglie a tradirlo?», chiese l'ispettore. «È stata lei, signore?» Il poliziotto parve sorpreso, ma l'uomo fermo in corridoio non lo sentì. Era appoggiato contro la parete verniciata, aveva portato la mano alla gola, e il suo viso smagrito e ispido era divenuto color bianco sporco, e le labbra erano agitate da un forte tremito. «È stata lei a tradirlo», disse l'ispettore. Parlava con l'aria di un uomo che stia godendo del piacere di poter offrire una notizia esclusiva. «La conoscevate?» «Poco signore», disse la voce del poliziotto.
«Una bella donna... avrebbe potuto trovarsi un uomo molto migliore di Thomas.» «Credo che abbia fatto proprio questo», disse il poliziotto seccamente, e risero entrambi. «Allora è questo il motivo, eh? Lo vuole dietro le sbarre... beh, ho già sentito casi del genere...» L'uomo nel corridoio uscì in punta di piedi. Era scosso da un forte tremito. Quasi inciampò nell'ultimo gradino, e afferrò il corrimano che circondava la stazione di polizia per tenersi in piedi. La pioggia scendeva a fiotti, ma lui non se ne accorse nemmeno. Era imprigionato, paralizzato da quel che aveva appena saputo. Aveva scassinato un magazzino perché lei aveva riso, schernendolo per aver tentato di ravvedersi. Aveva tentato di rigare diritto e lei aveva fatto in modo che cadesse di nuovo in fallo... e poi, quando il lavoro era finito, e lui era riuscito con la sua solita astuzia a non lasciare alcuna traccia che rivelasse la sua identità, lei era corsa dalla polizia e lo aveva tradito. Ma quello era niente. Le donne facevano spesso cose del genere. Per gelosia, o in preda ad una follia rabbiosa per qualche torto, vero o immaginario. Lei invece lo aveva fatto intenzionalmente, con malvagità, perché amava qualche altro uomo più di quanto amasse lui. Lui ormai era tornato a ragionare freddamente, e vedeva le cose molto chiaramente. Affrettò l'andatura, e prese a camminare speditamente, con leggerezza, la testa eretta, come al tempo in cui era stato un commesso assunto da poco nell'ufficio dell'agente di borsa, e lei era ancora una signorina che leggeva romanzi a Balham. La pioggia gli scendeva lungo il viso, i polsini della sua giacca leggera gli si erano incollati ai polsi, e i pantaloni erano zuppi dalla coscia fino alla caviglia. Conosceva un negozietto in una strada laterale parallela alla Commercial Road, in cui si vendeva formaggio, burro e legna. Aveva comprato un pezzo di pane e formaggio per un penny. Si ricordò che la donna dietro il bancone aveva affilato il formaggio con un coltello pesante, affilato da poco e molto appuntito... Ripensò alla faccenda mentre si dirigeva verso il negozio. Coltelli di quel tipo di solito si tenevano in un cassetto vicino alla cassa, assieme alla sega per affettare la pancetta, l'arnese per l'esame del latte, e il piccolo timbro per marchiare la margarina secondo le disposizioni di legge. Sapeva bene che avrebbe trovato le serrande del negozio già abbassate, e non aveva alcuno strumento per scassinare la porta. Gli «arnesi del mestie-
re» erano rimasti in mano alla polizia: si era chiesto come avevano fatto a scoprirlo quei piedipiatti, e ora lo sapeva. Soffocò un singhiozzo. Eppure, doveva esserci un modo. Gli serviva quel coltello. Era ancora debole a causa dell'ultimo periodo di prigionia. Non poteva ucciderla a mani nude, lei era così forte e bella: ah, tanto bella! Con la mente piena di idee sconnesse arrivò davanti al negozio. Si trovava in una stradina secondaria. Un lampione solitario illuminava il passaggio. Non si sentiva altro suono al di fuori del deprimente gocciare della pioggia, non si vedeva nessuno... Al di sopra della porta sprangata vi era un lucernario, e capì subito che quella costituiva la sua unica possibilità. Infatti, certe volte, finestre di quel tipo non venivano chiuse bene. Si alzò in punta di piedi e a tastoni passò cautamente la mano lungo la parte bassa della finestra. Con le dita sentì qualcosa che giaceva sul bordo e il suo cuore ebbe un guizzo. Era una chiave... Aveva indovinato, si trattava di un negozio molto facile da scassinare: conosceva bene il carattere poco guardingo dei piccoli negozianti, e non si sorprese di quanto fosse stato agevole trovare il modo di entrare. Infilò la chiave nella toppa, la girò, ed entrò all'interno chiudendo piano la porta. L'aria all'interno del negozio era un po' stantia, e calda, carica degli odori della mercanzia in vendita... Formaggi e prosciutti, e l'odore resinoso della legna da ardere. Aveva dei fiammiferi in tasca, ma erano zuppi e non si accesero. Cercò a tastoni tra gli scaffali e trovò un pacchetto. Ne accese uno, alzando poi il palmo della mano per proteggerne la fiamma. Il negozio era stato spazzato e riordinato per la notte. I pesi erano stati ordinati con cura ai lati della bilancia, e vi era un pezzo di mussola steso sopra il burro che era rimasto sulla tavola di pietra. Sul bancone era stato posto bene in vista un biglietto. Conteneva istruzioni scritte a matita a grandi lettere un po' rozze, indirizzate a «Fred». Doveva accendere il fuoco, mettere a bollire la teiera, prendere il latte, e servire «la signora Smith». Fred era il ragazzo, il primo ad entrare la mattina, per il quale era stata nascosta la chiave in quel punto. Era una cosa veramente notevole che lui potesse spiegarsi tutti quei particolari fino ad esserne completamente soddisfatto, mentre intanto, accendendo diversi cerini uno dopo l'altro, cercava il pesante coltello dalla punta acuminata e dalla lama affilata di fresco. Avvertiva un certo senso di esultanza per la facilità con cui era riuscito ad accedere all'interno del negozio, e provò il folle impulso di mettersi a fi-
schiettare e a parlare. Trovò il coltello. Si trovava sotto il bancone, assieme al tagliere logorato dall'uso e a un altro coltello d'acciaio. Prese il coltello e lo avvolse in un pezzo di giornale, poi si ricordò che aveva fame. Non vi era pane, ma a portata di mano c'era un barattolo aperto di biscotti per bambini. Tenendo in mano il cibo, con il coltello in tasca riprese la sua esplorazione. Dietro il negozio vi era un piccolo saloncino. La porta non era chiusa a chiave, ed allora entrò. Accendendo un fiammifero dopo l'altro, esitò un attimo, poi accese la lampada a gas. Era una stanza piccolissima, arredata con mobili di poco prezzo, ma ben tenuta. Sulla mensola del camino vi erano degli ornamenti in porcellana, alle pareti vi erano alcune litografie da pochi soldi, e un orologio dal ticchettio molto rumoroso. Anche alla stazione di polizia vi era stato un orologio... Fece una smorfia, come in preda a un dolore improvviso, poi cercò a tastoni il coltello e sorrise. Si sedette per un poco al tavolino in mezzo alla stanza e mangiò meccanicamente il cibo, fissando intensamente il muro dinanzi a sé. Aveva fatto di tutto per lei. Il suo primo crimine... Poco denaro tolto dalla cassa... Era stata lei l'ispiratrice. Le sue piccole follie, le sue piccole stravaganze, le sue vanità, questi erano stati i motivi che l'avevano spinto a compiere ogni suo passo... fissando il muro con gli occhi sgranati, ripercorse la sua discesa verso il basso. Sul muro c'era una scritta. L'aveva fissata senza vederla: un testo scritto goffamente in nero e oro, con il verde e un forte color cremisi, tristemente stonato, e sull'angolo inferiore sinistro vi era la vistosa confessione, che attestava che era stato «Stampato in Sassonia». I suoi pensieri erano molto complessi, ma avevano la tendenza a divagare seguendo sentieri casuali. Involontariamente aveva fissato gli occhi su quel testo in un tentativo inconscio di concentrarsi. Metà del suo cervello seguiva il percorso a ritroso, in vista del crimine che meditava di compiere, mentre l'altra metà si cimentava svogliatamente nel decifrare le parole sulla parete. Lesse solo quelle scritte a lettere maiuscole. ECCO... AGNELLO... DIO... TOGLIE... PECCATI... MONDO... Tre anni di prigione per rapina, due condanne a sei mesi per furto con scasso... Lei allora era stata al suo fianco... Anni fa, egli era stato membro della chiesa, aveva cantato in un coro, e per lui le questioni religiose ave-
vano rivestito una certa importanza. Allora. Strano come certe cose si perdano nell'uomo maturo, come il dolce bocciolo della fede possa avvizzire... Lui l'aveva sposata all'ufficio civile di Marylebone, ed erano andati a Brighton per la luna di miele. Lei sapeva bene che lui non poteva permettersi il tenore di vita che avevano scelto. Lui non aveva mai immaginato che lei potesse indovinare che lui derubasse il suo datore di lavoro. Quando, con freddezza, leggermente divertita, lei glielo aveva rivelato, era rimasto di sasso, sconvolto. ECCO... AGNELLO... Se si fosse tenuto più vicino agli insegnamenti della religione, questa sarebbe stata in grado di aiutarlo? Se lo chiedeva ora, mangiando lentamente un biscotto con il formaggio, gli occhi fissi sul testo vistoso. Trovò del latte, si dissetò, poi si alzò in piedi. Nel punto in cui era stato seduto vi erano due piccole pozze d'acqua: una sul pavimento, l'altra sul tavolo, nel punto in cui aveva appoggiato le braccia. Spense la luce, attraversò a passi felpati il negozio, rimase in ascolto, poi aprì con dolcezza la porta d'ingresso. Non c'era nessuno, e allora uscì, chiudendosi la porta a chiave alle spalle. Rimise la chiave nel punto in cui l'aveva trovata, e si diresse rapidamente verso la strada centrale, mentre il grosso coltello, affilato da poco e con la punta acuminata, gli urtava contro la coscia ad ogni passo. Avvertì un certo senso d'inquietudine, e tentò di analizzarne la causa primaria. Decise finalmente che era colpa di quella scritta, e sorrise. Poi, d'un tratto, il sorriso gli si gelò sulle labbra. Non era solo. Un uomo si era materializzato dalle tenebre, in pochi minuti, silenziosamente, ed ora camminava con lui passo dopo passo. Si fermò di scatto, e la sua mano scese fino alla tasca in cui era nascosto il coltello. «Cosa volete?», chiese bruscamente. L'altro non rispose. Il volto era immerso nell'ombra. Thomas non riusciva a distinguere che abiti portasse, né che tipo d'uomo fosse. Si distingueva solo il fatto che fosse alto, ben proporzionato, agile. Per un attimo regnò il silenzio, poi: «Vieni», disse l'uomo uscito dalla notte, e il ladro l'accompagnò senza far domande. Camminarono in silenzio, e Thomas osservò che lo sconosciuto si muo-
veva proprio nella direzione che lui stesso avrebbe preso. «Dopo mi costituirò... dopo», disse, febbrilmente. «Metterò fine a questa faccenda... la farò finita!... finita!» Non gli parve curioso che si trovasse ora a rivelare i pensieri più nascosti del suo animo. Senza meravigliarsi aveva accettato l'idea che lo straniero sapesse già tutto. «Mi ha portato passo passo, sempre più giù!», singhiozzò Thomas, mentre camminavano fianco a fianco lungo le strette stradine che conducevano al fiume. «Dapprima mi preoccupavo, ma lei è riuscita a tacitare la mia coscienza... ridendo delle mie paure. È una strega, ti dico.» «Altri uomini hanno detto "Una donna mi ha tentato"», disse lo sconosciuto con dolcezza. «Eppure l'uomo ha una mente e una volontà autonoma.» Thomas scosse ostinatamente la testa. «Io non avevo una volontà mia quando si trattava di lei», disse. «Quando l'avrò uccisa, allora sarò di nuovo un uomo.» Si toccò la tasca: il coltello era ancora lì. «Se avessimo dei bambini, allora sarebbe diverso, ma lei non ha mai amato i bambini.» «Se ti liberassi di lei, saresti un uomo», disse lo sconosciuto. La sua voce era dolce, profonda e triste. «Sì, sì!» L'altro si voltò verso di lui animatamente. «È questo quello che voglio dire. Mi è d'impiccio. Se la uccido, posso ricominciare da capo, non è così? Potrei tornare ad affrontare il mondo intero e dire: "Ho ucciso la parte malvagia di me, datemi un'altra possibilità"... Guarda!» Cercò a tastoni nella tasca e tirò fuori il coltello. La pioggia cadde sonora sul giornale, e la sua mano ebbe un tremito di eccitazione nel mostrare la lama robusta dal bordo argentato e la punta acuminata. «Non potrei ucciderla a mani nude», disse, respirando forte, «così mi sono procurato questo coltello. Sento che devo farlo, anche se odio uccidere. Una volta ho ucciso un coniglio quando ero ragazzo, e il rimorso mi ha ossessionato per giorni e giorni.» «Se ti liberassi di lei, saresti un uomo», ripeté lo sconosciuto. «Sì, sì», assentì il ladro, «è quello che dico io... potrei tornare... tornare dai miei vecchi», disse con voce rotta. «Loro non sanno quanto sono scivolato in basso.» Fecero mille svolte, attraversando grandi strade, risalendo vicoli nei quali erano accatastate le carriole dei pescivendoli, incatenate per le ruote, attraversarono strade fetide, e spiazzi di terreno incolto.
A un certo punto, attraverso uno stretto passaggio, giunsero in vista del fiume, e videro tre chiatte legate fianco a fianco, che beccheggiavano e rullavano con la marea. In mezzo al fiume era ancorata una nave a vapore, e si vedevano le tre luci brillare debolmente. «Entrerò nella casa dal retro», disse Thomas. «Non c'è nessuno in casa tranne la vecchia... o almeno non dovrebbe esserci nessun altro. Mia moglie dorme nella stanza sul davanti.» «Se ti liberassi di lei, saresti un uomo», ripeté lo sconosciuto. «Sì, sì, sì», disse il criminale con impazienza. «Lo so questo... quando sarò libero...» Rise felice. «Ti ha trascinato in basso», disse l'uomo uscito dalla notte, piano. «Ogni passo che facevi verso il bene, lei lo ha ostacolato...» «È così... è la verità», disse l'altro. «Eppure non sei mai riuscito a sfuggirle: ti sei sempre dimostrato leale, fedele e gentile.» «Dio sa che è vero!», disse l'uomo, e pianse. «Nel bene e nel male, in ricchezza e in povertà», disse, e gli parve che lo sconosciuto pronunciasse all'unisono le stesse parole. Finalmente giunsero in una strada che era più buia e squallida di tutte le altre. L'uomo si fermò in uno stretto passaggio che portava sul retro delle case. «Adesso vado», disse semplicemente. «Tu aspettami qui e, quando torno, ricominceremo una nuova vita. Ci metterò poco ad ucciderla.» L'uomo uscito dalla notte non rispose, e Thomas si diresse lungo il passaggio, svoltò lungo un sentiero ancora più angusto tra gli steccati di legno, e giunse a un cancelletto secondario molto cadente. Lo spalancò ed entrò. Si trovò in uno spiazzo angusto e sudicio, cosparso dei rottami, dei rifiuti della povera casupola. C'era anche una stia per le galline, molto malridotta e, mentre si dirigeva furtivamente verso la casa, un gallo cantò a gran voce. La stanza sul retro era vuota, proprio come si aspettava. Spinse in alto la finestra, e l'aprì. Scricchiolò leggermente. Attese che il gallo cantasse di nuovo, in modo che coprisse il rumore, poi scavalcò il parapetto ed entrò nella stanza. La punta del coltello trapassò i suoi vestiti leggeri ed avvertì un forte dolore alla gamba. Trasse dalla tasca il coltello e tastò la lama... poi si accorse del fatto che
nella stanza c'era qualcuno. Afferrò con forza il manico del coltello e scrutò le tenebre. «Chi è?», bisbigliò. «Sono io», disse la voce che conosceva, la voce dell'uomo uscito dalle tenebre. «Come... come sei entrato?» Era stupito e disorientato. «Sono venuto con te», disse la voce. «Liberiamoci di questa donna. Ti ha trascinato in basso: lei è la mala pianta che ti soffoca l'anima.» «Sì... sì», bisbigliò Thomas e, allungando la mano, afferrò la mano dello sconosciuto. Tenendosi per mano giunsero nella stanza in cui dormiva la donna. Un lumino da notte da pochi spiccioli era acceso sulla mensola. La donna giaceva con un braccio nudo pendente fuori dal letto, e il suo petto si alzava e scendeva con grande regolarità. (Cos'era che aveva visto poco prima alzarsi e abbassarsi con monotonia? Ah sì, le chiatte sul fiume.) La donna aveva una bellezza un po' rozza e, mentre dormiva, sorrideva. Qualche movimento dell'uomo la disturbò, e infatti si mosse mormorando un nome: non era il nome di colui che era fermo sopra di lei, con il coltello che gli tremava nella mano. «La ami?» La voce dello sconosciuto era molto soave. Il marito scosse la testa. «Una volta... pensavo di sì... ora...» Scosse di nuovo la testa. «La odi?» Il ladro osservò intensamente la donna che dormiva. «Non la odio», disse con semplicità. «Le ho obbedito perché era il mio dovere...» «Vieni», disse lo sconosciuto, e insieme lasciarono la stanza. Thomas aprì la porta che dava sulla strada e furono di nuovo fuori nella notte scura. «Non l'amo e non la odio», disse di nuovo, quasi parlando a se stesso. «Sono andato da lei perché era il mio dovere... lavoravo e rubavo, e lei mi ha tradito... e così ho pensato di ucciderla.» Aveva ancora in mano il coltello. In silenzio ritornarono sui loro passi, finché non giunsero nel vicolo che portava al fiume.
Entrarono nel vicolo. Alla fine del passaggio c'erano dei gradini di pietra, e udirono lo sciacquettio della risacca che li bagnava. Thomas sollevò il braccio e lanciò il coltello roteante nell'acqua. Una voce si levò dal fondo delle scale. «Sei tu, Cole?» Il suo cuore quasi smise di battere. La voce era dura e aveva un suono metallico. Trasalì, come se si fosse appena svegliato. «Sei tu, Cole? Chi è?» Thomas scorse una barca in fondo alla scala. C'erano quattro uomini a bordo, e uno teneva la barca accanto alla banchina per mezzo di un bastone con un gancio ricurvo, che teneva infilato in uno degli anelli di ormeggio conficcati nella banchina di pietra. «Sono io», disse il ladro. «Non è Cole», disse un'altra voce, con tono contrariato. «Cole non verrà... sarà ubriaco.» Dalla barca si udì un bisbiglio, poi una voce autoritaria domandò: «Vuoi un lavoro, ragazzo?». Thomas discese due gradini e si sporse in avanti. «Sì... voglio un lavoro», disse. Una voce petulante disse qualcosa circa il fatto che la marea stava per cambiare. «Sai cucinare?» «Sì... so cucinare.» Aveva fatto quel lavoro durante il carcere. «Salta su: ti ingaggeremo domani. Andiamo a Valparaiso... È una nave a vapore: ti sta bene?» Thomas rimase in silenzio. «Non voglio tornare... qui», disse. «Troveremo uno meglio di te per il viaggio di ritorno: salta su.» Salì sulla barca goffamente, e l'ufficiale a poppa impartì un ordine. La barca si allontanò e poi il ladro si ricordò dell'uomo uscito dalla notte. Riusciva a scorgerlo con grande nitidezza, come non lo aveva mai visto fino ad allora. Si stagliava radioso contro il bordo scuro dell'acqua, le mani tese in segno di saluto. Thomas vide il viso, che era bello e sorrideva: gli pareva che irradiasse
una luce iridescente. «Ecco...», mormorò l'uomo sulla barca. «È proprio strano come quel testo... Addio, addio, signore...» «A chi parli, ragazzo?», chiese il marinaio ai remi. «Parlavo a... all'uomo che era con me», disse Thomas. «Non c'era nessuno con te», disse il marinaio, con aria di scherno. «Eri solo.» HERBERT GEORGE WELLS Pollock Pollock incontrò per la prima volta l'uomo dei Porroh in un villaggio paludoso sulla laguna che il fiume formava dietro la penisola Turner. Le donne di questo paese sono famose per la loro bellezza; sono Gallinas con un poco di sangue europeo che risale all'epoca di Vasco de Gama e dei commercianti di schiavi inglesi, e anche nell'uomo dei Porroh c'era una lieve sfumatura caucasica. (È curioso pensare che qualcuno di noi può avere lontani cugini che divorano uomini nelle isole Sherboro o che fanno scorrerie nelle Sofas.) Ad ogni modo l'uomo dei Porroh pugnalò al cuore la donna come se fosse un qualsiasi italiano di bassa estrazione, e mancò di un capello Pollock. Ma Pollock, servendosi della rivoltella per fronteggiare la balenante lama puntata al suo muscolo deltoide, fece volare via il pugnale, poi, premendo il grilletto, colpì l'uomo alla mano. Fece fuoco ancora, e sbagliò la mira, aprendo uno squarcio nel muro della capanna. L'uomo dei Porroh si piegò sulla soglia, guardando Pollock da sotto il braccio. Pollock intravide nel sole quel viso rigirato, poi rimase solo, sconvolto e tremante per l'eccitazione che quella scena gli aveva dato, nella penombra del minuscolo locale. Tutto si era svolto in un tempo inferiore a quello necessario per leggerne la descrizione. La donna era morta e, dopo averne avuto la certezza, Pollock andò all'ingresso della capanna e guardò fuori. Una mezza dozzina dei portatori della spedizione era raggruppata accanto alle verdi capanne che erano state assegnate loro, e guardava nella sua direzione, chiedendosi evidentemente che cosa potevano aver voluto dire quei colpi. Dietro di loro, la larga striscia di fango nero e fetido del fiume, un verde tappeto di canne di papiro e di cespugli, poi l'acqua color del piombo. Oltre il fiume, le rizoforee baluginavano indistinte attraverso la nebbia bluastra. Non c'era segno alcuno di eccitazione nel piatto villaggio, la cui palizzata era appena visibile oltre la
distesa delle canne. Pollock uscì cautamente dalla capanna e si diresse verso il fiume, guardandosi ogni tanto alle spalle. Ma l'uomo dei Porroh era scomparso. Pollock strinse nervosamente la rivoltella in mano. Uno degli uomini gli venne incontro, e, mentre si avvicinava, gli indicò i cespugli dietro la capanna dove l'uomo dei Porroh era sparito. Pollock provò la irritante sensazione di aver fatto la figura dello sciocco; era amareggiato, scoraggiato per la piega che avevano preso le cose. E poi, avrebbe dovuto riferire tutto a Waterhouse, il morale, esemplare, cauto Waterhouse, il quale certo avrebbe preso maledettamente sul serio tutta quella storia. Pollock imprecò alla propria sfortuna, a Waterhouse e soprattutto alla Costa Occidentale dell'Africa. Era stanco, stanco da morire di quella spedizione. E intanto, nel fondo del suo cervello, continuava a chiedersi in quale punto dell'orizzonte visibile poteva nascondersi in quel momento l'uomo dei Porroh. Forse poteva apparire strano, ma non si sentiva affatto sconvolto per l'assassinio al quale aveva assistito pochi minuti prima. Negli ultimi tre mesi aveva visto tanta brutalità, tante donne morte, tante capanne bruciate, tanti scheletri essiccati, su per il fiume Kittam, nella scia della cavalleria Sofa, che la sua sensibilità si era, in un certo senso, assopita. Ciò che lo turbava era l'idea precisa che quella faccenda fosse soltanto all'inizio. Respinse, imprecando, il negro che si era arrischiato a rivolgergli una domanda, e si inoltrò nella tenda sotto l'albero d'arancio dove Waterhouse aveva stabilito il suo quartier generale, con la precisa ed esasperante impressione di essere un ragazzino della scuola che entrava nello studio del preside. Waterhouse stava ancora smaltendo nel sonno gli effetti dell'ultima dose di cloruro, e Pollock allora si mise a sedere sullo sgabello accanto a lui, accese la pipa ed aspettò che si svegliasse. Sparpagliati tutto attorno, c'erano gli utensili e le armi che Waterhouse aveva prelevato dalla popolazione dei Mendi e che stava ora facendo preparare per il viaggio in canoa fino a Sulyma. Poco dopo Waterhouse si svegliò e, dopo essersi stiracchiato ben bene, giunse alla conclusione di sentirsi di nuovo perfettamente a posto. Pollock gli preparò il tè. E, mentre glielo serviva, dopo aver menato un poco il can per l'aia, gli descrisse gli incidenti del pomeriggio. Waterhouse prese la cosa ancora più seriamente di quanto Pollock avesse immaginato. Non si limitò a esprimere la sua disapprovazione, ma arrivò fino al punto di stra-
pazzare, di insultare. «Siete uno di quei maledetti pazzi i quali sono convinti che un negro non sia un essere umano», disse. «Non posso sentirmi indisposto un giorno senza che andiate a ficcarvi in qualche pasticcio. È la terza volta in un mese che vi scontrate con un indigeno, e questa volta c'è in ballo una vendetta! E con un Porroh, come se non bastasse. Ce l'hanno già abbastanza con voi, per quell'idolo che avete insultato. E sono i demoni più vendicatori che il mondo abbia mai visto. Voi siete uno di coloro che ci fanno vergognare di essere uomini civili. E pensare che venite da una famiglia come si deve! Se mai dovrò assumere ancora un giovane buono a nulla, insensibile e stupido come voi...» «Andiamoci adagio adesso», lo interruppe Pollock, con quel tono che sempre esasperava Waterhouse, «andiamoci adagio.» Al che Waterhouse rimase senza parole. Si alzò di scatto. «Statemi bene a sentire, Pollock», disse, dopo uno sforzo più che evidente per conservarsi calmo. «Dovete andare a casa, voi. Non desidero più la vostra presenza. Sto già abbastanza male così com'è senza che voi...» «Calma», lo interruppe Pollock, guardandolo fissamente. «Sono più che disposto ad andarmene.» Waterhouse, che aveva ritrovato il controllo di se stesso, si mise di nuovo a sedere sulla brandina da campo. «Molto bene», disse. «Non voglio litigi, lo sapete benissimo, Pollock, ma non mi va di vedere i miei piani mandati all'aria da cose di questo genere. Verrò a Sulyma con voi e vi metterò a bordo, sano e salvo...» «Non c'è bisogno», ci tenne a precisare Pollock. «Posso andarmene da solo. Da qui.» «Non arrivereste molto lontano», esclamò Waterhouse. «Evidentemente, non avete capito questa storia dei Porroh.» «E come avrei potuto sapere che quella donna apparteneva a un Porroh?», domandò Pollock, amaro. «Bene, gli apparteneva, comunque», rispose Waterhouse, «e ormai quello che è fatto è fatto. Parlate di andare da solo? Dio solo sa che cosa vi farebbero! Non capite che sono i Porroh a dominare in questo paese, con le loro leggi, la loro costituzione, la loro religione, la loro medicina, le loro pratiche magiche? Sono loro a nominare i capi. L'Inquisizione, al suo meglio, non potrebbe reggere il confronto con gente del genere. Quello, probabilmente, ci scatenerà addosso Awajale, il capo di qui. È una fortuna che i nostri portatori siano Mensis. Dovremo trasferire il nostro piccolo ac-
campamento... Maledizione, Pollock! E, come se non bastasse, dovevate anche mancarlo!» Rimase pensieroso, e parve che i suoi pensieri fossero di natura piuttosto spiacevole. Poi si alzò e prese il fucile. «Io non mi muoverei di qui, al vostro posto», disse, voltando la testa mentre usciva. «Vado a vedere che cosa posso appurare di tutta questa storia.» Pollock rimase seduto sotto la tenda, meditabondo. «Io ero destinato a una vita civile», disse fra sé, con rimpianto, mentre riempiva la pipa. «Più presto torno a Londra o a Parigi, meglio sarà per me.» I suoi occhi caddero sulla cassa dove Waterhouse aveva messo le frecce avvelenate che aveva acquistato nel paese dei Mandi. «Peccato che non abbia colpito quel mascalzone in qualche parte più vitale», brontolò furibondo. Era passato molto tempo quando Waterhouse tornò. Non si mostrò molto ciarliero, anche se Pollock gli rivolse diverse domande. L'uomo dei Porroh, a quanto sembrava, era un membro molto influente di quella società mistica. Il villaggio appariva interessato, ma non minaccioso. Lo stregone, senza dubbio, era andato a nascondersi nei boschi. Era un grande stregone. «Naturalmente, sta macchinando qualcosa», disse Waterhouse, e poi tacque. «Ma che cosa può fare?», chiese Pollock, distrattamente. «Devo levarvi da questo pasticcio. C'è qualcosa che bolle in pentola, perché, in caso contrario, tutto non sarebbe così tranquillo.» Pollock volle sapere che cosa avrebbe potuto fare. «Danzare in un cerchio di teschi», disse Waterhouse, «far bollire un beverone in una pentola di rame.» Pollock chiese particolari. Waterhouse si mostrò vago e Pollock insistette. Alla fine Waterhouse perse la pazienza. «E come diavolo potrei fare a saperlo io?», sbottò, quando Pollock gli chiese per la ventesima volta che cosa avrebbe fatto l'uomo dei Porroh. «Ha cercato di uccidervi subito nella capanna. Ora, credo che tenterà qualcosa di più complicato. Ma ve ne accorgerete abbastanza presto. Non voglio certo contribuire a inquietarvi. Probabilmente, sono tutte sciocchezze.» Quella notte, mentre erano seduti vicino al fuoco, Pollock cercò ancora una volta di far parlare Waterhouse sull'argomento dei metodi dei Porroh. «Meglio andare a dormire», disse Waterhouse, quando lo scopo di Pollock divenne chiaro; «partiamo presto domattina. E può darsi che abbiate bisogno di avere i nervi perfettamente a posto.» «Ma quale tattica seguirà?»
«Impossibile dirlo. Sono gente molto versatile. Conoscono un mucchio di strani trucchi.» Ci fu un lampo e una detonazione nelle tenebre dietro le capanne, e un proiettile sibilò vicinissimo alla testa di Pollock. Questa, almeno, era una cosa abbastanza scoperta. I neri e i mezzo sangue che sedevano sbadigliando intorno al loro fuoco balzarono in piedi, e qualcuno fece fuoco nelle tenebre. «Meglio ritirarsi in una delle capanne», disse Waterhouse, tranquillissimo, sempre seduto, immobile. Pollock si alzò e impugnò la rivoltella. Del combattimento, almeno, non aveva paura. Ma un uomo nelle tenebre è nella migliore delle armature. Comprendendo la saggezza del consiglio di Waterhouse, Pollock entrò nella tenda e si coricò. Il poco sonno che riuscì a trovare fu turbato da sogni, sogni poco piacevoli, ma soprattutto dal viso dell'uomo dei Porroh, capovolto, mentre usciva dalla capanna e lo guardava da sotto il braccio. Strano come questa impressione passeggera gli si fosse fissata profondamente nella memoria. E, inoltre, era tormentato da strani dolori alle membra. Nella bianca bruma del primo mattino, mentre stavano caricando le canoe, una freccia dalla punta ricurva si materializzò improvvisamente per terra, tremando, a pochi centimetri dai piedi di Pollock. Soprattutto per una questione di forma, i ragazzi batterono la zona circostante dei cespugli, ma non trovarono nessuno. Dopo questi due episodi, si ritenne opportuno di lasciare Pollock che provò il desiderio di mescolarsi ai negri. Waterhouse prese posto in una canoa, e Pollock, malgrado un amichevole desiderio di chiacchierare con Waterhouse, dovette sistemarsi nell'altra. Lo lasciarono solo nella parte anteriore dell'imbarcazione, ed egli dovette faticare molto a costringere gli uomini, i quali non gli portavano certo affetto, a tenersi bene al centro del fiume, a un centinaio di metri o più da una riva o dall'altra. Ma chiamò a sé Shakespeare, il mezzosangue di Freetown, e lo invitò a parlare dei Porroh, cosa che Shakespeare, dopo aver tentato invano di lasciarlo solo, finì per fare con molto gusto e spregiudicatezza. La giornata procedeva. Le canoe scivolavano rapide nella striscia di acqua stagnante, fra canne, alberi caduti, papiri e palme; alla sinistra, dietro la linea scura delle rizoforee, si udiva ogni tanto il rombo della risacca dell'Atlantico. Nel suo inglese cantilenato, incerto, Shakespeare spiegò come i Porroh gettavano i loro incantesimi, come gli uomini avvizzivano sotto la loro potenza malvagia, come erano in grado di mandare sogni e
demoni, come avevano tormentato e ucciso i figli di Ijbu, come avevano rapito da Sulyma un commerciante bianco che aveva maltrattato uno di loro e in quali condizioni era stato ritrovato il suo cadavere. E dopo ogni episodio, Pollock malediceva fra sé chi permetteva il perpetuarsi di quello stato di cose, all'inerte governo britannico che aveva il dominio su quel nero regno pagano della Sierra Leone. La sera arrivarono al lago Kasi, e dovettero mettere in fuga decine e decine di coccodrilli dall'isola sulla quale si accamparono per trascorrere la notte. L'indomani raggiunsero Sulyma, e avvertirono il sentore acuto della brezza marina, ma Pollock doveva aspettare cinque giorni prima di poter raggiungere Freetown. Waterhouse, considerandolo relativamente al sicuro e nei confini dell'influenza di Freetown, lo lasciò e tornò con la spedizione a Gbemma, e Pollock strinse amicizia con Perea, l'unico commerciante bianco residente a Sulyma, una amicizia tale che lo accompagnava dappertutto. Perea era un piccolo ebreo portoghese, che era vissuto in Inghilterra e considerava come un grande complimento le attenzioni dell'inglese. Per due giorni non avvenne nulla di eccezionale; Pollock e Perea passavano buona parte del loro tempo a giocare a Nap, l'unico gioco che avessero in comune, e Pollock si indebitò. Poi, la seconda sera, Pollock ebbe la spiacevole conferma che l'uomo dei Porroh era arrivato a Sulyma, e tale conferma gli fu data da una ferita superficiale alla spalla provocata da un pezzo di ferro appuntito. Era stato un colpo a lunga gittata, e il proiettile aveva perduto quasi tutta la sua forza quando lo aveva colpito. Pure, il significato di quel messaggio era abbastanza chiaro. Pollock rimase seduto tutta la notte nella sua amaca, con la rivoltella in pugno, e il mattino seguente si confidò, almeno in parte, con l'anglo-portoghese. Perea prese la cosa sul serio. Conosceva abbastanza bene le abitudini locali. «Doveva sapere che si tratta di una questione personale. È una vendetta. E, naturalmente, lui deve sbrigarsi perché voi state per lasciare il paese. Né gli indigeni né i mezzosangue gli creeranno ostacoli, a meno che voi non facciate in modo di far apparire ai loro occhi la cosa degna di attenzione. Se capitate su di lui all'improvviso, potete sparargli. Ma potrebbe anche essere lui a sparare a voi.» «E poi c'è... quella infernale magia», continuò Perea. «Naturalmente, io non ci credo... è superstizione... ma comunque non è simpatico pensare che, dovunque siate, c'è un negro che passa ogni tanto una notte di luna piena davanti a un fuoco per mandarvi brutti sogni... A proposito, avete fatto brutti sogni?»
«Più o meno», rispose Pollock. «Continuo a vedere la faccia rovesciata di quel mascalzone che mi sogghigna mostrandomi i denti, come ha fatto nella capanna: mi viene vicino, poi si allontana, e poi si avvicina di nuovo. Niente di cui spaventarsi, ma è una cosa che, nel sonno, mi paralizza di terrore, semplicemente. Strane cose i sogni. So sempre che è un sogno, eppure non riesco a scuotermelo via.» «Pura e semplice fantasia, con ogni probabilità», disse Perea. «I miei negri dicono poi che gli uomini dei Porroh possono mandare serpenti. Avete visto serpenti ultimamente?» «Uno soltanto. L'ho ucciso sul pavimento stamattina, accanto alla mia amaca. È mancato poco che lo calpestassi, quando mi sono alzato.» «Ah!», fece Perea. E poi, rassicurante: «Naturalmente si tratta di una coincidenza. Pure, al vostro posto, terrei gli occhi aperti. Avvertite dolori nelle ossa, vero?». «Pensavo che fossero dovuti all'umidità», disse Pollock. «È molto probabile. Quando sono cominciati?» Pollock ricordò allora di averli notati per la prima volta la notte dopo lo scontro nella capanna. «A mio giudizio», disse Perea, «non vuole uccidervi... o almeno non ancora. A quanto mi risulta, essi mirano a spaventare un uomo con i loro incantesimi, con attentati mancati per un capello, con dolori reumatici, brutti sogni e altre cose del genere, fino a rendergli impossibile la vita. Naturalmente, sono tutte chiacchiere, lo sapete benissimo. Non dovete preoccuparvi per questo... Ma chissà quale sarà la sua prossima mossa.» «Sarò io a fare qualcosa prima», disse Pollock, fissando cupo le carte che Perea stava disponendo sulla tavola. «Non si addice alla mia dignità di essere seguito in questo modo, di essere preso di mira, di vedermi attribuire malattie misteriose. Forse quel maledetto uomo dei Porroh influenza anche la vostra fortuna alle carte.» Guardò Perea, sospettosamente. «È probabile», rispose l'anglo-portoghese, evasivo. «È gente straordinaria, quella.» Nel pomeriggio Pollock uccise due serpenti nella sua amaca, e notò anche un aumento straordinario del numero delle formiche rosse che sciamavano per la stanza; questi inconvenienti lo misero nell'umore adatto per parlare con un certo Mendi, con il quale aveva già avuto un colloquio. Il Mendi fece vedere a Pollock una piccola daga di ferro, diede la dimostrazione di come si faceva ad adoperarla, in una maniera tale da far rabbrivi-
dire Pollock, e Pollock allora gli promise, quale compenso per un certo servigio, un fucile a due canne dal calcio arabescato. La sera, mentre Pollock e Perea stavano giocando a carte, il Mendi comparve sulla porta, recando qualcosa avvolto in un panno indigeno tutto macchiato di sangue. «Non qui!», si affrettò a dire Pollock. «Qui no!» Ma non fu abbastanza svelto per impedire all'indigeno, ansioso che Pollock osservasse la sua parte del contratto, di aprire il panno e di buttare sulla tavola la testa dell'uomo dei Porroh. La testa rimbalzò dal tavolo sul pavimento, lasciando una scia rossa sulle carte, e rotolò in un angolo, dove si fermò, capovolta, gli occhi sbarrati e fissi su Pollock. Quando quel macabro resto piombò sul tavolo, fra le carte, Perea si alzò di scatto e, eccitato com'era, cominciò a parlare in portoghese. Il Mendi, con il panno rosso stretto fra le mani, continuava a inchinarsi e a ripetere: «Il fucile!». Pollock guardò la testa nell'angolo: aveva la stessa espressione che già egli aveva notato nei suoi sogni. E, mentre guardava, fu come se qualcosa scattasse nel suo cervello. Poi Perea ritrovò il suo inglese. «Lo avete fatto uccidere?», disse. «Non lo avete ucciso voi?» «E perché avrei dovuto farlo io?», chiese Pollock. «Ma adesso non potrà più levarvelo!» «Levarmi che cosa?» «E queste carte sono tutte rovinate!» «Levarmi che cosa? Che intendete dire?» «Dovete mandarmene un mazzo nuovo da Freetown. Là è possibile comperarle.» «Ma... "levarmi"...» «È soltanto una superstizione. Dimenticavo. I negri dicono che se gli stregoni... e quello era uno stregone... Ma sono sciocchezze... Dovevate costringere l'uomo dei Porroh a togliere l'incantesimo, o ucciderlo voi stesso... Una vera sciocchezza, vi ripeto.» Pollock imprecò fra i denti, gli occhi sempre fissi alla testa nell'angolo. «Non posso sopportare quello sguardo», disse. Poi si precipitò di scatto verso l'orribile cosa e la prese a calci. La testa rotolò per qualche metro e si fermò nella stessa posizione di prima, capovolta, gli occhi fissi su di lui. «È brutta», convenne l'anglo-portoghese. «È molto brutta. Si conciano a quel modo la faccia con dei piccoli coltelli....» Pollock stava per ricominciare ad allungare calci, quando il Mendi gli
sfiorò un braccio. «Il fucile?», chiese, guardando nervosamente la testa. «Te ne darò due... se ti porti via quella cosa bestiale», disse Pollock. Il Mendi scosse la testa, e fece capire di voler solo il fucile che gli era dovuto, niente altro. Pollock dovette constatare che con quell'uomo allettamenti e altezzosità riuscivano egualmente inutili. Perea aveva un fucile da vendere (con un utile del trecento per cento), e con quello poco dopo il Mendi se ne andò. Allora, quasi involontariamente, gli occhi di Pollock tornarono a fissarsi sulla cosa che giaceva sul pavimento. «Strano che quella testa sia rovesciata», osservò Perea, con una risata poco convinta. «Il suo cervello deve essere un macigno, qualcosa di simile al peso di quelle piccole immagini che stanno sempre dritte perché hanno dentro del piombo. Ve la porterete via con voi, adesso. Potete andarvene subito. Le carte sono tutte rovinate. C'è un tale che le vende a Freetown. La stanza è già abbastanza in disordine così com'è. Avreste dovuto ucciderlo voi stesso.» Pollock si scosse e andò a raccogliere la testa. L'avrebbe appesa al gancio della lampada al centro del soffitto della sua stanza e avrebbe scavato subito una fossa. Aveva la precisa impressione di averla attaccata per i capelli, ma doveva sbagliarsi perché, quando tornò a prenderla, penzolava con il collo rivolto verso l'alto. La seppellì prima del tramonto, sul lato nord della baracca che occupava, in modo da non essere costretto a passare vicino alla tomba al buio, quando tornava da casa di Perea. Uccise due serpenti prima di coricarsi. Nel cuore della notte si svegliò con un sussulto, e udì un suono picchiettante e qualcosa che strisciava sul pavimento. Si mise a sedere, senza fare rumore, e cercò, sotto il cuscino, la rivoltella. Echeggiò un ululato in sordina, e Pollock fece fuoco nella direzione del suono. Ci fu una specie di latrato, e qualcosa di scuro passò per un istante davanti all'azzurro cupo della porta. «Un cane», disse Pollock e si coricò di nuovo. Alle prime luci dell'alba tornò a svegliarsi con una strana sensazione di inquietudine. Avvertiva di nuovo un vago dolore alle ossa. Per qualche tempo rimase a fissare le formiche che sciamavano sul soffitto, poi, quando la luce si fece più intensa, guardò oltre il bordo dell'amaca e vide qualcosa di scuro sul pavimento. Ebbe un sussulto così forte che l'amaca si rovesciò e lo fece cadere per terra. Si trovò disteso a forse meno di un metro di distanza dalla testa dell'uomo dei Porroh. Era stata dissotterrata da un cane, la testa, e il naso appariva in condizioni addirittura deplorevoli. Era letteralmente coperta da mo-
sche e da formiche. Per una strana coincidenza, era ancora rovesciata, e in quegli occhi capovolti c'era ancora la stessa, diabolica espressione. Pollock rimase per qualche istante come paralizzato, gli occhi sbarrati dall'orrore. Poi si alzò, girò attorno alla testa, tenendosi a rispettosa distanza, ed uscì dalla baracca. La luce dell'alba, gli alberi che si agitavano al lieve soffio della brezza proveniente da terra, la fossa vuota che recava, chiarissimi, i segni delle zampe del cane, valsero ad alleviare un poco il peso che gli gravava sulle spalle. Parlò a Perea della cosa come se si trattasse di uno scherzo, uno scherzo da raccontarsi a denti stretti. «Non avreste dovuto spaventare il cane», disse Perea, con uno scoppio di risa fin troppo evidentemente forzato. Nei due giorni che ancora mancavano all'arrivo del piroscafo di linea, Pollock si sforzò, inutilmente, di liberarsi di quella terribile cosa di cui era venuto in possesso. Superando l'avversione che gli dava il semplice fatto di tenere in mano la testa mozza, si spinse fino alla foce del fiume e la buttò in mare, ma, per chissà quale miracolo, il miserando resto non finì in bocca ai coccodrilli: fu spinto a riva dalla marea, un poco a monte, dove lo trovò un intelligente mezzosangue arabo che, al cadere della notte, si affrettò ad andarlo a offrire in vendita a Pollock e a Perea, come se si trattasse di una curiosità. L'indigeno indugiò nel breve crepuscolo, diminuendo a mano a mano le sue richieste, e alla fine, spaventato dall'evidente timore che quella cosa sembrava ispirare ai due bianchi, si allontanò e, passando davanti alla baracca di Pollock, lasciò cadere a terra il suo carico perché Pollock lo trovasse il mattino seguente. A quella vista Pollock fu preso da qualcosa di simile alla frenesia. Pensò di bruciare quell'orribile resto. Uscì nella luce dell'alba e preparò un enorme rogo prima che la giornata si facesse troppo calda. Fu interrotto dall'ululato della sirena del vapore costiero che faceva servizio da Monrovia a Bathurst e che si stava avvicinando in quel momento. «Sia ringraziato il Cielo», disse Pollock, con profonda convinzione, quando finalmente riuscì ad afferrare il vero significato di quel suono. Con mani tremanti, accese in fretta l'alto cumulo di legna, vi gettò sopra la testa e si precipitò a preparare la valigia e a fare gli addii a Perea. Nel pomeriggio, con una infinita sensazione di sollievo, Pollock vide la piatta spiaggia di Sulyma farsi sempre più piccola in distanza. L'intervallo nella lunga linea bianca della risacca sembrava diminuire a vista d'occhio. Era come se si chiudesse, come se lo tagliasse fuori definitivamente dai suoi guai. A poco a poco timori e preoccupazioni allentarono la loro stretta
sulla sua anima. A Sulyma la convinzione nella malvagità dei Porroh, nei poteri magici dei Porroh era stata qualcosa che respirava con l'aria, l'idea della presenza dei Porroh era stata qualcosa di onnipresente, di minaccioso, di terribile. Ora il dominio dei Porroh non era che una trascurabile località, una ristretta striscia nera fra il mare e gli altopiani dei Mendi coronati da nuvole azzurre. «Addio, Porroh», disse Pollock. «Addio, e non certo au revoir.» Il Capitano del vapore venne ad appoggiarsi alla balaustra accanto a lui, gli augurò la buonasera e, in segno di amichevole disinvoltura, sputò nella schiuma bianca della scia. «Questa volta, ho trovato sulla spiaggia qualcosa di veramente curioso», disse il Capitano. «È una cosa che non avevo mai visto prima al di qua di Indy.» «E di che si tratta?», chiese Pollock. «Di una testa mummificata.» «Che cosa?», esclamò Pollock. «Sì, affumicata. La testa di uno di quei Porroh, tutta segnata da tagli di coltello. Ehi, che c'è? Niente? Non avrei mai detto che foste un tipo nervoso. Addirittura verde siete. Accidenti, in mare non ci sapete stare, certo. Va bene adesso? Dio, in che maniera strana vi siete comportato... Bene, la testa di cui vi parlavo è piuttosto strana. L'ho portata, con alcuni serpenti, in un barattolo di spirito nella mia cabina e l'ho messa assieme alle altre curiosità, e che sia dannato se non sta sempre capovolta. Ehi, che succede?» Pollock era uscito in un grido incoerente e si era portato le mani alla testa. Si precipitò verso l'incastellatura delle ruote a pale, con una mezza idea di buttarsi in mare, ma poi si rese conto della sua posizione e tornò a rivolgersi al capitano. «Jack Philips», gridò il Capitano, «tenetemelo alla larga! Grazie, voi! Non avvicinatevi, signore. Che vi prende? Siete pazzo?» Pollock si passò una mano sulla fronte. Qualsiasi spiegazione sarebbe riuscita inutile. «Qualche volta credo di essere molto vicino alla pazzia», disse. «È un dolore che mi colpisce qui. Capita all'improvviso. Spero che vorrete scusarmi.» Era pallido e fradicio di sudore. Vide subito e con la massima chiarezza il pericolo che correva a mettere in dubbio il proprio equilibrio mentale. Cercò di riconquistarsi la fiducia del Capitano, rispondendo alle sue ansiose domande, fingendo di tenere nel massimo conto i suoi suggerimenti, sperimentando persino un massaggio di alcool puro sulle guance, e, una
volta sistemata la questione, interrogando a lungo il Capitano stesso sui suoi piccoli traffici privati in soggetti curiosi. Il Capitano descrisse la testa con grande ricchezza di particolari. Intanto Pollock faceva del suo meglio per respingere da sé l'ossessionante idea che il vapore fosse trasparente come vetro, che egli fosse in grado di vedere distintamente il viso rovesciato che lo guardava dalla cabina sotto i suoi piedi. A bordo Pollock si trovò peggio di quanto non si fosse trovato a Sulyma. Doveva controllarsi tutto il giorno, malgrado la intensa ossessione dell'immanente presenza di quella testa che dominava tutti i suoi pensieri. La notte aveva i soliti incubi, fino a quando, con un violento sforzo, non si costringeva a svegliarsi, irrigidito dal terrore, con il fantasma di un grido roco che gli stringeva la gola. Lasciò la testa a Bathurst, dove cambiò nave per arrivare fino a Teneriffe, ma non mutarono né i suoi sogni né il dolore sordo che avvertiva alle ossa. A Teneriffe si trasferì su un transatlantico della linea del Capo, ma la testa lo seguì. Giocò, provò gli scacchi, si ridusse persino a leggere, ma non conosceva i pericoli derivanti dal bere. Pure, ogni volta che capitava nel suo raggio di visuale un'ombra nera e tonda, un oggetto nero e tondo, cercava con gli occhi la testa e... e la vedeva. Si rendeva perfettamente conto che l'immaginazione lo tradiva sempre più spesso, eppure aveva sempre più spesso l'idea precisa che la nave sulla quale viaggiava, gli altri passeggeri, i marinai, il mare stesso facessero parte di una fantasmagoria incerta che si frapponeva come un inutile velo fra di lui e l'orribile mondo reale. E l'uomo dei Porroh, infilando il suo diabolico viso in quel velo, era l'unica cosa reale e innegabile. E allora egli si alzava di scatto, toccava quanto gli stava attorno, assaggiava qualcosa, stringeva sotto i denti qualcosa, si bruciava una mano con un fiammifero e si infilava un ago nella carne. In questo modo, lottando in maniera cupa e silenziosa con la propria immaginazione sovreccitata, Pollock raggiunse l'Inghilterra. Mise piede a terra a Southampton, e da Waterloo si fece portare direttamente in vettura alla sua banca a Cornhill. Là, sistemò diverse pendenze con il direttore, nel suo studio privato, e per tutto quel tempo la testa penzolò come un pezzo ornamentale sotto la mensola di marmo nero e continuò a urtare, con insistenza esasperante, contro gli alari. Egli sentiva i tonfi che si succedevano, monotoni, e vedeva sugli alari stessi le tracce rossastre. «Una bella felce», disse il direttore, seguendo la direzione del suo sguardo. «Ma fa arrugginire gli alari.»
«Bella», convenne Pollock, «una felce davvero molto bella. A proposito, questo mi fa venire in mente una cosa. Sapreste consigliarmi un medico per turbe mentali? In questi ultimi tempi ho avuto qualche... come dire?... allucinazione.» Il direttore rise fragorosamente, cordialmente. Pollock fu sorpreso che non si accorgesse di nulla, ma poi dovette constatare che il suo interlocutore si limitava a guardarlo in faccia. Con l'indirizzo di un medico in tasca, Pollock uscì poco dopo per Cornhill. Non si vedevano vetture da nolo, e raggiunse così a piedi l'estremità occidentale della strada che cercò di attraversare per raggiungere la Mansion House. In quel punto è difficile passare anche per un londinese che conosce bene il fatto suo; le carrozze pubbliche, i furgoni, le vetture private, i traini postali, gli omnibus formano un flusso senza soluzione di continuità; chi viene dalle malariche solitudini della Sierra Leone si trova come immerso in una confusione ribollente, tale da fare impazzire. Ma quando una testa rovesciata viene a rimbalzarvi fra le gambe, come una palla di gomma, lasciando tracce chiarissime di sangue ogni volta che tocca terra, non si può certo sperare di evitare un incidente. Pollock alzò il piede, atterrito, per evitarla, poi, furibondo, cercò di allungare un calcio. In quello stesso momento, qualcosa lo urtò con violenza alla schiena, e un dolore lancinante gli arrivò fino al braccio. Era stato colpito dalla stanga di un omnibus, e aveva avuto tre dita schiacciate dagli zoccoli di uno dei cavalli, le stesse tre dita, per puro caso, che gli erano servite a far fuoco contro l'uomo dei Porroh. Lo trascinarono fuori da sotto le zampe dei cavalli, e gli trovarono nella mano malridotta l'indirizzo di un medico. Per tre giorni Pollock visse in una atmosfera dolciastra, pungente, di cloroformio, di operazioni dolorosissime che non gli provocavano dolore alcuno; era continuamente disteso e veniva sollecitamente soddisfatto in tutti i suoi desideri che riguardavano cibi e bevande. Poi ebbe un poco di febbre, avvertì una sete terribile, ed ecco ancora il vecchio incubo. Solo quando ricominciò ad apparire si accorse di non esserne stato tormentato per un giorno. «Se mi avessero fracassato il cranio invece delle dita, forse tutto sarebbe andato altrimenti», disse Pollock, fissando il cuscino scuro che per un poco gli era sembrato la forma della testa. Non appena ne ebbe occasione, Pollock parlò al medico delle proprie turbe mentali. Sapeva perfettamente che sarebbe impazzito se qualcosa
non fosse intervenuto a salvarlo. Spiegò di aver assistito a una decapitazione nel Dahomey e di essere ossessionato da una delle teste. Naturalmente, non riteneva opportuno riferire i fatti in tutti i loro particolari. Il medico assunse una espressione grave. Dopo qualche istante parlò, con tono incerto. «Da ragazzo, avete avuto una educazione molto ispirata ai principi religiosi?» «Per niente», rispose Pollock. Un'ombra passò sul viso del medico. «Non so se avete sentito parlare delle guarigioni miracolose... che naturalmente possono essere niente affatto miracolose... di Lourdes.» «La fede che guarisce non fa affatto al caso mio, temo», disse Pollock, gli occhi fissi sul cuscino scuro. La testa capovolta si atteggiò a una smorfia spaventosa. Il medico cercò allora di seguire una nuova strada. «È tutta immaginazione», disse, parlando con una improvvisa vivacità. «Uno di quei casi che si prestano perfettamente a una guarigione provocata dalla fede. Avete il sistema nervoso a pezzi, siete in quell'incerto stato di salute che favorisce l'insorgere degli incubi. L'impressione che avete ricevuto è stata troppo forte per voi. Vi prescriverò un preparato che servirà a rinforzare il vostro sistema nervoso... soprattutto il vostro cervello. E dovete fare molto moto.» «Non sono il tipo più indicato per una guarigione provocata dalla fede», disse Pollock. «È necessario allora che ritroviate il vostro equilibrio normale. Andate là dove potete trovare aria stimolante... in Scozia, in Norvegia, sulle Alpi...» «A Gerico, se volete», lo interruppe Pollock, «dove è andato Naaman.» Ma, non appena le dita glielo permisero, Pollock cercò coraggiosamente di seguire i consigli del medico. Era novembre ormai. Provò con il football, ma per lui il gioco consisteva soltanto nel prendere a calci, sul campo, una testa rovesciata. E poi, non sapeva cavarsela, in quel genere di sport. Allungava avanti il piede, con qualcosa di simile all'orrore, e quando lo misero in porta, cominciava a gridare e si scostava bruscamente ogni volta che la palla veniva spinta verso di lui. Le dicerie poco chiare che lo avevano costretto a lasciare l'Inghilterra e a emigrare nei tropici gli impedivano ogni e qualsiasi contatto sociale che non fosse maschile, e ora il suo comportamento sempre più strano faceva sì che persino i suoi amici lo evitassero. E non si trattava nemmeno più di un fatto puramente visivo, perché adesso gli balbettava qualcosa, quella testa, gli parlava! Una terribile paura si impadronì di lui quando, a poco a poco, quella che sarebbe dovuta
essere una apparizione si trasformò non più in un semplice oggetto a sé stante, come prima, ma in una vera e propria testa tagliata. Quando era solo, imprecava contro di essa, la minacciava, la sfidava; un paio di volte, malgrado il perfetto controllo che aveva di se stesso, la apostrofò in presenza di altri. Intuiva un crescente sospetto negli occhi di coloro che lo osservavano: la padrona di casa, la domestica, il portinaio. Un giorno, al principio di dicembre, suo cugino Arnold, il suo parente più prossimo, lo costrinse a uscire, e osservò attentamente il suo viso giallastro e segnato. Parve a Pollock che il cappello che il cugino portava in mano non fosse affatto un cappello, ma una testa di Gorgone che lo fissava, rovesciata, e si sforzò irragionevolmente di lottare con quegli occhi. Ma era ancora deciso ad uscire da quella situazione assurda. Comperò una bicicletta, e, mentre correva sulle strade gelate fra Wandsworth e Kingston, vedeva quella orribile cosa che gli rotolava appresso e che si lasciava dietro una scia scura. Allora stringeva i denti e pedalava più in fretta. Poi, un giorno, mentre volava giù per il pendio verso Richmond Park, l'apparizione gli rotolò davanti e, mentre sterzava energicamente per evitarla, fu proiettato con violenza contro un mucchio di ghiaia e si ruppe il polso sinistro. La fine venne la mattina di Natale. Aveva avuto la febbre tutta la notte, le bende che gli stringevano il polso sembravano fuoco, i suoi sogni erano più chiari e più terribili che mai. Nella luce fredda, incerta, incolore che precede l'alba, si mise a sedere sul letto e vide la testa su una mensola, al posto di un'anfora di bronzo che era rimasta lì tutta la notte. «So che è un'anfora di bronzo», disse, mentre un gelido dubbio gli stringeva il cuore. A poco a poco il dubbio si trasformò in qualcosa di insopportabile. Si alzò dal letto, rabbrividendo, e si diresse verso l'anfora, adagio, una mano tesa in avanti. Certo si sarebbe accorto che era la sua immaginazione a ingannarlo, e avrebbe riconosciuto, al tatto, il bronzo. Dopo una esitazione che gli parve eterna, le sue dita sfiorarono le guance segnate della testa. Le ritrasse di scatto, con un gesto spasmodico. Aveva ormai raggiunto l'ultimo stadio. Il suo senso del tatto lo aveva tradito. Tremando, appoggiandosi al letto, inciampando con i piedi nudi contro le scarpe, in un turbine di nera confusione, raggiunse con passo incerto il mobile da toeletta, prese dal cassetto il rasoio e, stringendolo in mano, tornò a sedere sul letto. Nello specchio vide il proprio viso, pallidissimo, sparuto, segnato dalla più estrema amarezza della disperazione. Passò in rapida rassegna gli incidenti della breve storia della propria e-
sperienza. La sua casa sciagurata, i suoi ancora più sciagurati giorni di scuola, e gli anni di vita libertina che aveva condotto poi, quando gli atti egoisti e disonorevoli si ripetevano quasi automaticamente. Nella gelida luce dell'alba, tutto gli appariva ora chiaro e spietato, tutto gli appariva qualcosa di simile a una squallida pazzia. Riandò con la memoria alla capanna, alla lotta con l'uomo dei Porroh, alla precipitosa ritirata giù per il fiume fino a Sulyma, all'assassino Mendi e al rosso fagotto, ai frenetici tentativi che lui aveva fatto di distruggere quella testa, all'allucinazione che si faceva sempre più marcata, sempre più forte. Era una allucinazione, lo sapeva ora. Una allucinazione pura e semplice. Per un momento, si abbarbicò a quella speranza. Distolse gli occhi dallo specchio e li fissò sulla mensola, ma la testa rovesciata sogghignava e gli faceva smorfie... Si passò le dita irrigidite della mano fasciata sul collo, là dove pulsavano le arterie. La mattina era terribilmente fredda, la lama di acciaio sembrava ghiaccio... EDMUND GILLIAN SWAIN La finestra a oriente Può anche darsi che Vermuyden e gli olandesi che prosciugarono le paludi abbiano fatto del bene che fu poi sepolto con le loro ossa. Quel che è certo, però, è che fecero del male, che sopravvive loro. I fiumi che quegli uomini depredarono delle acque, col passar degli anni si sono insabbiati e la bonifica di parte della zona risulta fatta allagandone un'altra. Paesini come Stoneground, che sorgono sulle sponde di questi fiumi defraudati, sono oggi le inermi vittime dell'ingegneria olandese. Privata del suo sbocco naturale, l'acqua invade i loro terreni. Il frugale contadino che un tempo aveva il fiume in fondo all'orto, oggi molto spesso trova l'orto in fondo al fiume, e non è raro che la piena estiva distrugga completamente i frutti del suo lavoro. Una volta, agli inizi del XX secolo, una di queste piene fu particolarmente disastrosa per Stoneground e il signor Batchel, che, giardiniere lui stesso, poteva calcolare le perdite dei suoi vicini più poveri, stava cercando di porvi riparo. A Stoneground però il denaro non si trattiene mai a lungo, e in quell'occasione si scoprì che i fondi a disposizione erano assolutamente insufficienti per i benemeriti scopi cui erano destinati. Sembrava che coloro i quali avevano perduto circa 1200 metri quadrati di patate potessero essere
risarciti per non più di un metro quadrato. Fu allora che il signor Batchel, depresso per l'insuccesso della sua iniziativa benefica, si trovò coinvolto in quel felice avvenimento in cui la finestra a oriente della chiesa ebbe un ruolo così singolare. Prima di iniziare il mio racconto dovrei descrivervi brevemente la finestra in questione. È una grande finestra istoriata, eseguita in un'epoca non particolarmente felice per quel genere di lavori. Disegno e colori lasciano infatti molto a desiderare; ma lo schema della vetrata si basa su una solida tradizione. Nei cinque riquadri inferiori si vedono altrettante scene della vita di Nostro Signore; la seconda partendo da nord contiene una fiera immagine eretta di san Giovanni Battista, cui la chiesa è dedicata. Ed è questa l'unica figura, fra tutte quelle della vetrata, che si ricollega alla nostra storia. Il signor Batchel s'intendeva un po' di musica. Si interessava al coro, raramente mancava alle prove e, se per caso il maestro del coro era assente, ne faceva degnamente le veci. A Stoneground è consuetudine che il maestro del coro, per risparmiare un viaggio al sagrestano, pensi personalmente a spegnere le lampade e chiudere la chiesa dopo una prova. Di conseguenza, quando era necessario, tali incombenze toccavano al signor Batchel. Al lettore sarà forse utile conoscere la procedura in dettaglio. Il grosso contatore del gas si trovava nella navata della chiesa e il signor Batchel aveva l'abitudine di fare il giro e spegnere tutte le lampade tranne una, prima di chiudere il contatore. La lampada che rimaneva accesa, e che si poteva raggiungere salendo su uno degli scranni del coro, era sempre quella più vicina alla porta del coro stesso e l'esperienza aveva dimostrato che c'era tutto il tempo di arrivare dal contatore alla lampada prima che questa si spegnesse. Era quindi facile, spenta l'ultima lampada, trovare la porta d'uscita, varcarla e chiudere la chiesa per la notte. La sera di cui parleremo, i cantori erano usciti in fretta come al solito, appena congedati. Il signor Batchel era rimasto a raccogliere gli spartiti lasciati in disordine e a spegnere poi le lampade nel modo che abbiamo descritto. Aveva appena spento l'ultima quando, scendendo cautamente dallo scranno, l'occhio gli cadde sulla figura del Battista. All'esterno c'era ancora quella poca luce sufficiente a rendere l'immagine visibile nella finestra a Oriente e il signor Batchel vide san Giovanni alzare il braccio destro indicando verso nord, voltando al tempo stesso la testa così da guardarlo dritto in faccia. I movimenti si ripeterono tre volte, poi la figura tornò immobile
nella consueta e familiare posizione. Il lettore non penserà, più di quanto lo pensasse il signor Batchel, che un'immagine dipinta su vetro fosse stata subitaneamente dotata della facoltà di movimento. Ma che un'apparenza di movimento ci fosse stata è fuor di dubbio, e il signor Batchel non era così privo di curiosità da accettare la cosa senza fare qualche indagine. Bisogna anche tener presente che un precedente episodio accaduto nella biblioteca, al quale abbiamo già accennato, lo spingeva a prestare attenzione a fenomeni per i quali un'altra persona sarebbe stata incline a trovare una spiegazione plausibile. Non aveva quindi nessuna intenzione di lasciar perdere. Era prontissimo ad ammettere che forse si era trattato di un'illusione ottica, ma era ugualmente deciso a scoprire la causa di quella illusione. Una cosa era certa. Se il movimento non era stato compiuto dalla figura del Battista, era stato compiuto da qualcuno che si trovava immediatamente alle spalle dell'immagine. Senza indugio, uscì dunque di chiesa, chiudendone a chiave la porta, con l'intenzione di andare ad esaminare il retro della vetrata. Qualsiasi abitante di Stoneground conosce, e deplora, il crollo della vecchia Manor House. Una calamità dalla quale la parrocchia non si era mai ripresa dopo che, quindici anni prima, l'edificio era stato distrutto da un incendio. Poco dopo la distruzione, la proprietà era stata acquistata da alcuni speculatori che però non erano riusciti a farne nulla. Da un decennio o più, era stata «lasciata in pace», attaccata solo dalle forze della Natura e dal vandalismo degli intrusi. I ruderi carbonizzati dell'edificio emergevano ancora da cumuli di mattoni e altri materiali lasciati dal crollo, ormai ricoperti dagli arbusti e dalle erbacce che prosperano nei terreni abbandonati; e quella che una volta era un'imponente dimora, col suo giardino e un bel parco molto curato, offre oggi uno spettacolo di rovina e desolazione. La chiesa di Stoneground fu edificata circa sei secoli fa sulla proprietà di Manor House o, come si chiamava una volta, Burystead; uno strato di ghiaia, che susciterebbe l'ammirazione di qualsiasi costruttore, aveva portato villa e chiesa a stretto contatto. In epoca più primitiva quella vicinanza non aveva probabilmente creato alcun disturbo ma, quando il progresso e gli inevitabili cambiamenti avevano inculcato nella gente l'idea di una rispettosa distanza, il terreno della chiesa era stato recintato con un massiccio muro di mattoni per garantire la privacy della casa. La modifica fu eseguita cercando di economizzare spazio. La parete ad est della chiesa già si inoltrava nel giardino di Manor House, arrivando a soli cinquanta metri dalla facciata sud. E fu appunto da quel lato che venne innalzato, in posi-
zione più arretrata, il nuovo muro che da nord arrivava all'angolo più vicino della chiesa e si prolungava poi dall'angolo sud, lasciando nel giardino di Manor House la parete orientale con la sua finestra. Era l'edera di Manor House che ricopriva le mura della chiesa, ed erano gli alberi della villa che proteggevano la vetrata dal sole del mattino. Mentre ricostruivamo così i fatti della storia, il signor Batchel era uscito dalla chiesa e, attraverso il sagrato, aveva raggiunto una porticina nel muro di cinta, in prossimità dell'angolo di sud-est del presbiterio. La porta era stata aperta un secolo prima da qualche gentiluomo che voleva assicurare a sé e alla sua famiglia un comodo accesso alla chiesa. Oggi come oggi, non se ne serve più nessuno e il signor Batchel ebbe qualche difficoltà ad aprirla. Poco dopo, però, era all'interno e stava esaminando il retro della finestra. La luna irradiava luce sufficiente a vedere distintamente la superficie scura del vetro e la rete metallica di protezione. Un'alta betulla, uno degli alberi dell'antica giurisdizione ecclesiastica, tendeva diagonalmente alla finestra i suoi rami la cui corteccia argentea riluceva nel chiarore lunare. I rami erano spogli e solo in minima parte ostruivano la visuale del signor Batchel che poteva scorgere senza difficoltà il contorno di piombo della figura del Battista. Ma non c'era niente che potesse giustificare quel movimento di cui il signor Batchel era tanto curioso di scoprire la causa. Stava per tornarsene a casa deluso, quando una nube oscurò nuovamente la luna attenuando la luce, come quando era uscito dalla chiesa. Il signor Batchel rimase ad osservare il progressivo oscurarsi della lunare finestra e delle cose circostanti e, mentre l'immagine del Battista scompariva alla vista, apparve un'altra figura, soave ed evanescente, poggiata sul ramo dell'albero, in atteggiamento quasi analogo a quello del santo. Non si poteva definire la figura di una persona; sembrava più una figura dimezzata e, alla mente del signor Batchel, appassionato giocatore di whist, si affacciò la fantasiosa immagine del fante, bisecato diagonalmente e con una metà triangolare del busto nascosta da un'altra carta. A questo punto, neanche a pensarci di andare a casa. Il signor Batchel non riusciva a staccare gli occhi da quell'apparizione. Scomparve di nuovo per un momento, quando nello spazio fra due nuvole si riaffacciò la luna, per riapparire chiaramente subito dopo, appena la seconda nuvola subentrò alla prima oscurando di nuovo l'astro argenteo. E, in quel momento, tre volte alzò il braccio indicando il Nord, in direzione dei ruderi di Manor House, proprio come era sembrato fare la figura del Battista quando l'aveva vista il signor Batchel, all'interno della chiesa.
Era naturale che, ricevendo quel segnale, il signor Batchel si accostasse all'albero dal quale si era tenuto un po' distante. Mentre si spostava, l'apparizione fluttuò obliquamente verso il basso venendo a collocarsi direttamente fra lui e le rovine della villa, non poggiando per terra ma nella posizione che avrebbe occupato se fosse stata a figura intera; rimase lì ad aspettare, così sembrava, l'avvicinarsi del signor Batchel, il quale cercò di accostarsi con tutta la rapidità consentita da un terreno ingombro di edera e di rovi; e, ad ogni suo passo, la figura rispondeva scostandosi in direzione delle rovine. Via via che il terreno si faceva più agevole, l'avanzata divenne più rapida. Ben presto il signor Batchel e la sua guida si trovarono su un pianoro erboso che in tempi migliori era stato un prato; e la figura continuava a retrocedere in direzione dell'edificio, seguita a rispettosa distanza dal signor Batchel che, alla fine, la vide posarsi sulla sommità di un cumulo di pietre e poi sparire, al suo accostarsi, in una fenditura fra due massi. La tempestiva ricomparsa della luna consentì al signor Batchel di scorgere la fenditura e, approfittando di quell'intervallo di luce, di segnare il punto preciso. Raccolse un ramoscello abbastanza grosso che trovò per terra e lo inserì fra i due massi. Ne divise la cima e ci infilò una delle carte che aveva preso con sé uscendo di chiesa. In questo modo avrebbe senz'altro ritrovato il posto... perché, naturalmente, il signor Batchel era deciso a tornarci, di giorno, per riprendere la sua ricerca. Per il momento, sembrava non restasse altro da fare. La luce lunare si oscurò di nuovo ma non apparve traccia di quella strana figura che aveva seguito; pertanto, dopo avere indugiato ancora qualche minuto, il signor Batchel se ne tornò a casa e alle sue faccende abituali. Non era infatti tipo da farsene distogliere nemmeno da un'avventura a dir poco straordinaria; né era tipo da considerare un'esperienza insolita come semplice sintomo di un disturbo nervoso. Era di vedute troppo ampie per screditare le proprie sensazioni solo perché diverse da quelle altrui. Anche se la sua avventura della sera prima fosse stata condivisa da un compagno che non avesse visto tutto ciò che aveva visto lui, il signor Batchel si sarebbe limitato a dedurne che, in quella faccenda, il ruolo più importante toccava a lui. Il mattino seguente, quindi, non perse tempo nel tornare sul luogo della ricerca. Trovò il segnale dove l'aveva lasciato e poté così esaminare la fenditura dove pareva fosse entrata l'apparizione. Era formata dalla superficie curva di due grosse pietre, una accanto all'altra sulla sommità di un mucchietto di macerie: e il signor Batchel si accinse a rimuoverle. La sua forza
fu appena sufficiente ma, alla fine, poggiò a terra le due pietre, una a ciascun lato del mucchietto. Poi con le mani cominciò a togliere tutti i detriti su cui le due pietre avevano poggiato; e fra i detriti, ossidate e annerite, trovò due monete d'argento. Quella scoperta non sembrava spiegare gli eventi della notte precedente ma il signor Batchel non poté fare a meno di supporre che ci fosse stato un tentativo di attrarre la sua attenzione sulle monete e quindi se le portò via con l'intenzione di esaminarle più a fondo. Arrivato in camera sua, versò un po' d'acqua in un bacile e ben presto, con l'aiuto del sapone e di uno spazzolino da unghie, riuscì più o meno a ripulirle. Dieci minuti dopo, aggiungendo all'acqua un po' di ammoniaca, le aveva fatte diventare belle lucide; le asciugò con cura e si accinse a esaminarle. Erano due corone dell'epoca della Regina Anna coniate, come indicava una minuscola lettera E, a Edimburgo, e portavano impresse le rose e le piume a certificare la presenza di argento inglese e gallese nella lega. Le monete non erano datate, ma il signor Batchel non ebbe alcuna esitazione ad attribuirle all'anno 1708 o giù di lì. Erano molto belle e di notevole interesse intrinseco; ma non c'era niente che suggerisse il motivo per cui era stato guidato al loro nascondiglio. Un vero enigma, di cui non riusciva a venire a capo. Aveva altre cose da fare, perciò appoggiò le due monete sulla toletta e si dedicò alle sue faccende. Non ci pensò più fino al momento di coricarsi; le prese, le ammirò ancora una volta alla luce della candela, ma non scoprì niente di nuovo. Poco dopo era a letto. Il signor Batchel aveva l'abitudine di leggere qualcosa prima di addormentarsi. In quei giorni stava leggendo la serie dei romanzi di Waverley e sul leggio, sempre accanto al suo letto, c'era Woodstock. Mentre scorreva le pagine nelle quali è così magistralmente descritta l'apparizione a Woodstock, si chiese, naturalmente, se non fosse stato anche lui vittima di un'illusione analoga; ma ben presto decise che quella spiegazione non si attagliava al suo caso. Comunque, scacciò quel pensiero e continuò a leggere. Questa volta però si stancò della lettura prima di aver voglia di dormire. Il sonno tardava a venire e, quando finalmente arrivò, non fu tranquillo come al solito. Anzi, ebbe una notte molto agitata. Si svegliò varie volte ogni ora, con la spiacevole sensazione che ci fosse qualcuno nella stanza. Durante uno di quei suoi ultimi risvegli percepì distintamente un suono, o quello che egli stesso definì il «fantasma» di un suono. Lo paragonò all'uggiolìo di un cane afono. Il paragone era un po' oscuro, ma descriveva
la sua impressione. Il suono, se così possiamo chiamarlo, prima lo indusse a mettersi seduto sul letto e a guardarsi intorno; poi, non avendo scoperto nulla, ad accendere la candela. Probabilmente era stato inutile, ma gli sembrò meglio farlo, e il signor Batchel la lasciò accesa e lesse ancora una mezz'oretta prima di spegnerla. Dopodiché non ci furono altre interruzioni ma, al momento di alzarsi, il signor Batchel sapeva senza ombra di dubbio di aver trascorso una nottataccia. Rimase quasi sorpreso quando, andando per prima cosa a controllare le monete, le trovò dove le aveva lasciate. Quasi quasi sarebbe stato contento se fossero sparite o comunque se ci fosse stato qualche cambiamento a suggerirgli un'ipotesi sulla sua avventura. Ma non c'era proprio nulla. Se veramente qualcosa o qualcuno era penetrato in camera sua durante la notte, le monete sembravano non entrarci affatto. Quel giorno lasciò le due corone sul tavolo e si dedicò ai suoi doveri quotidiani; doveri che lo assorbirono totalmente, e non pensò che di sfuggita alle monete fino all'ora di coricarsi. Era fermamente deciso a tornare al mucchio di detriti dove le aveva trovate, ma non ne aveva avuto il tempo. Non toccò affatto le monete. Spogliandosi, cercò di determinarne il valore ma, non avendo raggiunto alcuna conclusione, pensò ad altro e, poco dopo, era di nuovo a letto, sperando in una notte migliore. Ma le sue speranze andarono deluse. Dormiva da un'ora appena quando fu ancora una volta svegliato da quel tacito uggiolare che ricordava così bene. Quel suono, tanto per usare un termine di convenienza, si era fatto continuo e persistente. Il signor Batchel rinunciò al sonno e, dato che si sentiva sempre più inquieto e a disagio, decise di alzarsi e vestirsi. In quel momento il suono cessò del tutto. Gli venne un sospetto. Il fatto che si fosse alzato era, ovviamente, motivo di soddisfazione. Dal che era facile dedurre che si voleva qualcosa da lui quella notte, come la notte precedente. Il signor Batchel non era uomo da rimanere con le mani in mano in una situazione del genere. Se c'era bisogno di aiuto, anche in circostanze così insolite, era pronto a darlo. Decise quindi di tornare a Manor House. Finì di vestirsi, poi scese le scale, s'infilò un cappotto pesante e uscì chiudendosi la porta alle spalle. Il suono non si era più ripetuto, né mentre si vestiva né mentre lasciava la casa. Una volta fuori, il suo sospetto divenne certezza sul perché era stato tirato fuori dal letto: a una trentina di metri davanti a lui vide quell'evanescente figura dimezzata che si dirigeva direttamente alle rovine. La seguì come meglio poté; come l'altra volta, era ostacolato dall'edera e dall'erba incolta, e la figura si fermò ad aspettarlo, e,
come l'altra volta, si diresse senza esitazione verso il mucchio di detriti, scomparendo appena il signor Batchel riuscì a seguirla. Non esistevano sotterranei né segrete sotto Manor House che altro non era mai stata se non una villa ad esclusivo uso familiare. Il signor Batchel era convinto che questa sua avventura non avrebbe avuto nulla di romanzesco, e provò una certa irritazione nel perdere di nuovo quello che aveva cominciato a chiamare il suo amico triangolare. Se quell'amico voleva qualcosa da lui, non si capiva perché fosse scomparso con tanta indifferenza. Non rimaneva che attenderne il ritorno. Il signor Batchel aveva in tasca una pipa; seduto sul basamento di una meridiana, proprio di fronte al punto in cui l'apparizione si era dileguata, la riempì e si mise a fumare, aspettandosi da un momento all'altro qualche segnale. Ma non si vedeva niente. Sentì i porcospini muoversi nel sottobosco e, ogni tanto, il rumore di un uccello che batteva le ali sopra la sua testa. Per il resto, tutto tranquillo. Si fumò una seconda pipa senza scoprire altro e, una volta terminata, la batté contro lo stivale per vuotarla; si accostò poi al mucchio di detriti accanto al quale, per terra, c'era ancora il ramoscello che gli era servito da punto di riferimento la notte prima; lo infilò nella fenditura dove l'apparizione era scomparsa e se ne tornò a casa dove fu ricompensato da cinque ore di sonno tranquillo. Il signor Batchel aveva deciso che il giorno seguente avrebbe scoperto tutto. Nelle prime ore del mattino era già a Manor House, ma questa volta aveva portato con sé il piccone da giardiniere e una vanga. Infilò il piccone nella fenditura, dopo averne tolto il segnale, e smosse accuratamente i detriti. Poi, con le mani e con la vanga, in poco tempo li ridusse a meno della metà e trovò altre monete. C'erano altre tre corone, due mezze corone e una dozzina circa di monetine. Le avvolse accuratamente nel fazzoletto e, dopo essersi riposato un momento, riprese a scavare. Ma l'opera era quasi al termine: mise in luce delle listerelle di quercia, lunghe poco più di una ventina di centimetri e poi, come ormai si aspettava, il coperchio di una cassetta con le cerniere ancora attaccate. La cassetta era poggiata, capovolta, su una pietra piatta. La sollevò notando che era ancora quasi intatta e pulita. Sul coperchio una fessura, lunga e larga, era sormontata da una scritta dorata, «Per i poveri», nei caratteri eleganti e la strana, inconfondibile ortografia di due secoli prima.
Non ci volle molto al signor Batchel per interpretare il significato di tutta la storia: che la cassetta, col suo contenuto, fosse caduta, rompendosi fra le macerie, era evidente. Come era evidente che doveva essere stata nascosta in uno dei muri distrutti dall'incendio, e che il suo misterioso accompagnatore doveva essere un ladro che un tempo aveva rubato la cassetta delle elemosine dalla chiesa. Il suo compito sembrava finito, e un'ulteriore ricerca non diede altri frutti. Il signor Batchel raccolse accuratamente i frammenti della cassetta e se ne andò. Quello che fece dopo, è imperdonabile. Doveva sapere che quelle monete erano un «ritrovamento archeologico» e, come tale, proprietà dello Stato. Ciò nonostante, decise di convertirle in moneta corrente, il che non presentava problemi, e versare il ricavato sul Fondo Inondazione che tanto gli stava a cuore. Trattandole come sua proprietà personale, le ripulì ben bene, come aveva ripulito le prime due corone, le mandò a un suo amico antiquario a Londra perché le vendesse per suo conto, e rimase ad aspettare i risultati. L'amico antiquario non lo fece attendere a lungo. Le monete furono acquistate subito e a un prezzo di gran lunga superiore alle più rosee speranze del signor Batchel. Aveva spedito il pacchetto a Londra il sabato mattina. Il martedì successivo, la posta della sera gli portò un assegno di venti ghinee. Lo scarno elenco di sottoscrittori al Fondo Inondazione era sul suo tavolo e il signor Batchel si affrettò ad aggiungervi quella somma che era così stranamente entrata in suo possesso; ma lì per lì non seppe decidere come qualificarla. Lasciò quindi lo spazio in bianco, limitandosi ad annotare £21 nella colonna crediti, riservandosi di indicarne la fonte quando avesse avuto il tempo di trovare una formulazione adatta. Lasciò così l'elenco sul suo scrittoio quando si ritirò per la notte. Mentre si spogliava pensò che quelle venti ghinee potevano giustamente essere definite «restituzione», e questo decise di scrivere nello spazio lasciato in bianco. Ripensandoci al mattino, non vide motivo di cambiare la sua decisione e, dalla camera da letto, andò direttamente alla scrivania per scrivere quell'indicazione e non pensarci più. Nella sua avventura, però, si era verificato un altro incidente che il signor Batchel non aveva previsto. Prendendo l'elenco notò, con profondo stupore, che lo spazio bianco era stato riempito. In caratteri allungati e quasi illeggibili c'era scritto: «Finalmente. Matt. 5 v. 26». La cosa che può apparire più strana è che quella calligrafia gli sembrava
familiare anche se non riuscì, in quel momento, a dirne il perché. Ma in cose del genere aveva un'ottima memoria e, prima ancora di aver terminato di fare colazione, era sicuro di averla identificata. E aveva ragione. Andò al cassettone della canonica, il cui contenuto aveva esaminato attentamente nei momenti liberi, e tirò fuori il rotolo che conteneva i conti del Connestabile della parrocchia. In pochi minuti trovò la calligrafia che cercava. Era senz'ombra di dubbio quella di Salathiel Thrapston, Connestabile dal 1705 al 1710, anno in cui era deceduto nell'esercizio delle sue funzioni. Non occorre al lettore che io gli rammenti il testo evangelico in questione: Non uscirai di là finché tu non abbia restituito l'ultimo soldo. «B» La bara di pietra 1. Correva l'anno 1754, il mese di ottobre. Durante tutta l'estate, la cappella di Magdalene era stata sottoposta a restauri ad opera del geniale signor Collins, di Clare Hall, anzi, fino dall'inizio del trimestre pasquale, le funzioni del College si erano tenute nell'adiacente St. Giles' Church. 2. Il signor Dobree, l'Economo, un omone dai modi bruschi, passeggiava avanti e indietro per il cortile, sotto il sole autunnale. Alcuni operai stavano trasportando tavoli e pali fuori della porta della scalinata che conduceva alla cappella. L'Economo era in compagnia di un ometto striminzito, con un abito nero che aveva assunto sfumature color ruggine, e che sbirciava all'intorno attraverso un paio di occhialoni cerchiati d'osso: era il signor Janeway, il Rettore del College. Poco dopo i due varcarono la soglia della cappella e si fermarono a guardarsi intorno. «Santo cielo!», esclamò il signor Janeway a occhi sbarrati. «Non so più dove mi trovo! Certo, un gran cambiamento! Ma è uno stile austero!» Il cambiamento c'era, eccome! Da una costruzione gotica a tetto con travi in vista, molto simile a come la vediamo oggi, il geniale signor Collins
aveva creato un ambiente che, più che a una chiesa cristiana, somigliava al triclinio di un console romano. Il tetto era stato troncato da un soffitto piatto di stucco pesantemente ornato. Un arco classico si stendeva da un capo all'altro sopra l'altare, e la finestra a est spariva dietro una scultura a colonne. Il pavimento era elegantemente rivestito di piastrelle bianche e nere di marmo. Il signor Dobree si guardò intorno con aria di compiaciuta sufficienza. «Personalmente, non vedo tutto questo cambiamento», disse. «Infatti, ho seguito i lavori fin dal principio. Mi sembra un luogo rispettabilissimo!» «Ma che ne pensa il Preside1?», chiese il signor Janeway. «Questo non lo so», rispose piuttosto seccamente il signor Dobree. «Ha seguito il corso dei lavori?», insistette il signor Janeway. «Per quanto mi risulta», dichiarò il signor Dobree, «il Preside è entrato due volte nella cappella, dall'inizio dei lavori. Una volta si è precipitato dentro senza la parrucca, indossando una tonaca unta e bisunta, rimproverando in maniera molto incivile gli operai perché facevano rumore: come se un lavoro del genere si potesse eseguire in silenzio! Lo avevano disturbato mentre stava facendo i conti, disse. E un'altra volta si è incontrato nella cappella col signor Collins, quando venne collocata la scultura al disopra del tavolo. E disse al signor Collins che gli avevano fatto credere che le figure rappresentassero santi e angeli ma che, secondo lui, si trattava di qualcosa di molto più sconveniente. Poi si mise a ridere dicendo che forse era colpa degli stucchi, al che il signor Collins rimase molto mortificato. Ma finché può scovare difetti e non deve sborsare un centesimo, per lui il College può anche andare al diavolo. Si dice che la settimana scorsa abbia ottenuto la Prebenda di Durham, dietro una qualche raccomandazione; ed è l'unica cosa che gli interessi.» Il signor Janeway emise dei suoni concilianti. «Allora», esclamò il signor Dobree risalendo a grandi passi la cappella, «venga qui con me e le racconterò una curiosità. Circa sei settimane fa gli operai stavano mettendo in opera il pavimento, e uno di loro è venuto da me a dirmi che avevano trovato qualcosa. Più o meno qui, accanto a questo gradino.» Batté il piede sul pavimento e proseguì: «Quando li raggiunsi, vidi che avevano scoperto e involontariamente frantumato il coperchio di una bara di pietra, proprio in questo punto; ordinai loro di rimuovere i frammenti. Le assicuro che sotto c'era qualcosa di ben strano! Il corpo di un uomo, con la testa appoggiata in un'apposita concavità della pietra, rivestito da capo a piedi di un paludamento ricamato, colorato come una far-
falla - sa, una di quelle farfalle arancione e marrone che si posano d'estate sui fiori - in tessuto a figure e arabeschi. La carne era completamente sparita e il teschio, con le sue occhiaie vuote e scure, sembrava guardarci fisso con aria lugubre, sormontato da qualcosa che sembrava un ciuffo di capelli. Credo che giacesse lì dall'epoca dei monaci, e ne fui molto seccato. Mi chinai a toccare la stoffa che mi scomparve tra le mani, sbriciolandosi in polvere e lasciando solo qualche filo colorato. Anche le ossa erano sgretolate, tutte meno i femori; e anche quelli erano fragilissimi. "Andiamo", dissi, "meno guardiamo questa roba meglio è!" Così, presi una scopa e ammucchiai la carcassa - ossa, polvere, vesti e tutto - a un'estremità della bara dove rimase in un mucchietto. Spinsi fuori il teschio dall'incavo, e anche quello andò in polvere. Mentre spazzavo via quella roba, sentii un tintinnio e, da quel sudiciume, tirai fuori una tazzina e un piattino di non so quale metallo, molto scuro, e un grosso anello con una pietra azzurra - tutto molto papistico e non degno di stima, ai miei occhi. Adesso sono nella mia stanza e intendo mandarli al signor Gray, a Pembroke Hall, che si interessa di queste curiosità. Poi, ordinai di fare a pezzi la bara, di trasportarla nel deposito dei muratori e di gettare tutta la polvere nella cavità che si era venuta a formare; e mi assicurai che sopra ci spargessero del terriccio ben battuto. Un impiccio in meno!». «Povero me», disse con aria assorta il signor Janeway. «Una storia strana... molto strana! Però, signor Dobree, mi scusi, sa, ma non credo che si sia comportato molto bene. Mi sembra che quell'uomo, chiunque egli fosse, era stato sepolto molto piamente e aveva diritto a riposare in pace: così la vedo io, e mi corregga se sbaglio!» «Bubbole», rispose il signor Dobree. «Tanto polverone per un mucchietto di vecchie ossa papiste! Io sono uno di quelli che crede nella gloriosa Riforma e, se potessi fare a modo mio, ripulirei la chiesa da tutti quei dissidenti. Che diamine, solo il pensiero di quel brutto figuro sotto i piedi mi avrebbe dato la nausea mentre pregavo. Mi meraviglio di lei, signor Janeway, mi meraviglio davvero!» «Bene, bene», disse il signor Janeway, «ognuno la pensa a modo suo; ma ripeto che la cosa non mi piace. Forse era un sant'uomo anche se purtroppo è morto nell'errore. Probabilmente non poteva pensarla diversamente.» «Se avesse studiato con cuore puro la Parola del Signore, avrebbe compreso la propria abominazione», ribatté il signor Dobree. «Sono nato e cresciuto protestante e non sopporto queste pagliacciate.»
Il signor Janeway sospirò, non disse altro e poco dopo i due se ne andarono. 3. Sarà stata forse una settimana dopo, quando una notte il signor Dobree si svegliò di soprassalto nella sua stanza situata nell'angolo destro del primo cortile entrando dal cancello, disturbato da un sogno e con l'impressione che qualcuno si aggirasse a passi felpati per la camera; camera che era illuminata solo da una finestrella incassata in alto, che dava sul fiume e su quella che all'epoca era una stradina o un viottolo fiancheggiato da case, che correva parallelo al College. Non c'erano tende alla finestra, e al signor Dobree parve di scorgere una figura molto vaga e indistinta che attraversava i vetri scintillanti sotto il vivido chiarore lunare. Il signor Dobree aveva un coraggio da leone. Si alzò a sedere sul letto e gridò col suo vocione: «EHILÀ, CHE SUCCEDE? EHI, CHI CE? EHI, CHE AVETE DETTO? CHE FATE VOI, LÌ, GALANTUOMO?». La sua voce rimbombò nella stanzetta spoglia e si spense lasciandosi dietro un silenzio di tomba. Non si sentiva né un rumore né una parola. Cercò a tentoni esca e acciarino, fece un po' di luce e poi, saltando giù dal letto in camicia e berretto da notte, frugò dappertutto, prima nella sua camera da letto, poi nei due ripostigli, perfino nelle credenze, ma non trovò traccia di vita. Dopo un po' se ne tornò a letto, ma non riuscì a dormire. Era adirato con se stesso perché aveva paura, e sospettava che si trattasse di qualche scherzo; ma la porta era saldamente sprangata e sembrava che nessuno fosse entrato da quella parte; mentre le finestre che davano sul cortile erano anch'esse chiuse dalle persiane. Al mattino, dopo un sorso di birra che gli serviva da colazione e dopo aver fatto toeletta, si sentì meglio; ma, malgrado tutto, non aveva voglia di star solo e, appena fu un'ora decente, si recò dal signor Janeway, che alloggiava nel secondo cortile. Lo trovò immerso nella lettura di un libro con accanto una tazza di caffè e, sedendosi, gli raccontò con un certo imbarazzo la sua avventura. Il signor Janeway annuiva e disse solo che anche lui, quando aveva lo stomaco in disordine, faceva brutti sogni. «Un piccolo incubo, niente di più!», aggiunse in tono rassicurante. «Può darsi!», rispose il signor Dobree di malumore. «Ma sono convinto che nella stanza ci fosse qualcuno. E quello che più mi assilla la mente è un sogno che ho fatto ma che non riesco a ricordare.»
«Di che si trattava?», chiese il signor Janeway. «Di che si trattava?», ripeté il signor Dobree. «Questo non saprei dirglielo, ma era un brutto sogno. Mi trovavo in un luogo oscuro, forse in mezzo a degli edifici. Sì, credo che fossero edifici; e una cosa scura fece capolino di fronte a me, in atteggiamento minaccioso. Mi sembra di ricordare che indossasse qualcosa di semicolorato, bianco, nero, o bianco e nero: qualcosa come una tunica, o una cotta. E qualcosa che gli copriva il capo; il suo volto era bianchissimo; ora che ci penso, mi sembra che non avesse occhi; mi disse qualcosa, che ancora mi risuona nelle orecchie come fosse latino, a voce bassissima, e sembrava adirato... proprio così, caro signore! quel tipo era adirato!» «Povero me!», esclamò il signor Janeway guardando il signor Dobree da sopra gli occhiali. «Una brutta storia, molto confusa! Fa spesso sogni del genere, signor Dobree? Mi sembra una faccenda molto misteriosa.» «Beh, signor mio!», esplose il signor Dobree, «mi sembra che questa mattina lei non sia davvero una buona compagnia! Vengo dal mio vecchio amico perché mi tiri un po' su e lei non fa che scuotere la testa e fare la faccia triste. Bell'amico! Lei non mi sta dicendo quello che pensa!» «Per nulla affatto, signore!», rispose il signor Janeway. «Non sia così permaloso! C'è qualcosa che mi opprime l'animo da quando mi ha raccontato il suo sogno, e mi sento il cuore molto pesante. Non ci pensi più, caro amico. Non si è trattato che di una piccola allucinazione, come ne vengono a noi uomini soli, via via che ci facciamo più vecchi e solitari.» Il signor Dobree si alzò scuotendo il capo con aria immusonita e se ne andò senza una parola. Si dedicò come al solito alle sue faccende ma, giorno dopo giorno, si scoprì di umore confuso e turbato. Mangiava poco e non parlava affatto, anche se aveva sempre avuto una notevole parlantina. Dormiva di un sonno agitato; e ben presto, mentre era assiso da solo nella sua stanza, cominciò a sentire dei bisbiglii nelle orecchie, o gli sembrava che qualcuno lo chiamasse; e i suoi colleghi cominciarono a preoccuparsi per lui, chiedendosi perché sbirciasse così di frequente negli angoli della stanza e perché si voltasse così di scatto per la strada a guardarsi indietro quando camminava da solo. 4. Era un pomeriggio triste e umido di fine novembre, e il signor Dobree era rimasto tutto il giorno in casa. Verso il crepuscolo si ricordò che dove-
va andare a parlare col muratore che lavorava per il College a proposito di certe tegole sul tetto. Uscì dalla stanza, trovò che il luogo era ancora molto silenzioso e che continuava a piovigginare. Oltrepassò il cancello e voltò subito a destra lungo il viottolo che correva a fianco del College e terminava nel deposito del muratore, accanto al fiume. Arrivato che fu, trovò il muratore che con una lanterna in mano stava guardando intorno, accanto ad alcune pietre ammucchiate nel deposito. Il signor Dobree si avvicinò per parlargli, ma s'interruppe a metà della frase. Si seccò moltissimo di vedere per terra quello che evidentemente era il poggiatesta della vecchia bara di pietra. «Come è finito qui quel coso?», esclamò, fattosi improvvisamente brusco. «Ma signore», rispose il muratore, «lei mi ha ordinato di portarlo via e di farlo a pezzi, e sta qui da allora.» «Cos'è quella roba che c'è dentro?», chiese il signor Dobree a voce alta. Il muratore illuminò il frammento con la lanterna. La fattura era rozza e si vedevano benissimo i segni dello scalpello dove era stata poggiata la testa; c'era anche un foro che il signor Dobree non riuscì a capire a che servisse. «Qui non c'è niente!», esclamò il muratore. «Già», ammise il signor Dobree, «non c'è niente - adesso lo vedo bene. Ero abbagliato - era solo l'ombra. Eppure, ero certo che...», si interruppe, girò sui tacchi e se ne andò, senza parlare della faccenda per cui era venuto. Il muratore, rimase a guardarlo con la lanterna in mano, mentre usciva frettolosamente dal deposito. Poi scosse la testa e rientrò in casa. Un attimo dopo il signor Dobree si affrettava su per il viottolo. Era molto buio e la pioggia teneva tutti chiusi in casa. Alla sua destra, il muro del College torreggiava nella foschia e, molto in alto, poteva scorgere qualche finestra illuminata. Alla sua sinistra, le case apparivano tutte buie e squallide. Continuò ad andare avanti fino a quando si trovò vicino al suo alloggio, a fianco della strada. D'improvviso, fuori dalla finestra della sua camera da letto, sopra di lui, a nemmeno un metro di distanza, emersero, rapide e in silenzio, la testa e le spalle di un uomo avvolto, così parve al signor Dobree, in una tunica semicolorata, bianca e nera, col capo coperto da un cappuccio che però lasciava intravedere il volto, di uno spettrale bianco giallastro, come argilla secca, e due buchi al posto degli occhi. E l'aria portò una voce debole, te-
nue, e parole che alle orecchie torturate del signor Dobree suonarono come «Quare inquietasti me ut suscitarer?»2. Ma il signor Dobree non sentì più nulla. Cadde lungo disteso sulla strada bagnata e poi si girò sul dorso, come in seguito lo trovarono, con lo sguardo fisso in alto. 1 2
Il dottor Chapman (N.d.A.). «Perché mi hai disturbato e mi hai fatto risuscitare?» (N.d.T.) HUGH WALPOLE La neve
La seconda signora Ryder era una giovane che non si spaventava facilmente, ma in quel momento stava nell'oscurità del corridoio, con le spalle appoggiate al muro, una mano sul cuore e guardava dalla finestra grigia dietro cui una fitta neve continuava a cadere alla luce del lampione. Il corridoio collegava lo studio alla sala da pranzo e la finestra dava sul viottolo lastricato che costeggiava il prato della cattedrale. Guardando di nuovo il sentiero, non era più sicura se la donna ci fosse ancora o no. Ma, se non c'era, come mai lei distingueva così chiaramente il mantello grigio di foggia antiquata, i capelli grigi spettinati, l'affilato contorno della pallida guancia e il mento appuntito? E anche il lungo e abbondante abito grigio che scendeva in pieghe fino al suolo, il luccichio di un anello d'oro sulla mano bianca. No. No. No. Quella era pazzia. Non c'era niente e nessuno là. Un'allucinazione... Una voce debolissima sembrò giungere fino a lei: «Ti ho avvertita. Questa è l'ultima volta...». Che sciocchezza! Dove la portava l'immaginazione? Piccoli rumori nella casa, lo scorrere d'acqua dal rubinetto, una tenue voce dalla cucina, questo e altro si era tradotto in una voce immaginaria. «L'ultima volta...» Ma il suo terrore era reale. Normalmente nulla la spaventava. Giovane, sana e coraggiosa, amante degli sport come la caccia di selvaggina e la caccia grossa, affrontava ogni rischio. Ora era letteralmente paralizzata dal terrore; non riusciva a muoversi, non riusciva ad avanzare nel corridoio come avrebbe voluto, per trovare luce, calore, sicurezza in sala da pranzo. Intanto la neve cadeva silenziosa, con il suo scopo segreto, maliziosa, oltre la finestra, al fioco chiarore del lampione. Poi, inaspettatamente, arrivò un rumore dall'anticamera, porte che si a-
privano, un camminare affrettato, una pausa, e ancora belle voci nitide che cantavano «Good King Wenceslas». Era il coro di ragazzi della cattedrale che facevano il loro giro di canti natalizi. Era la Vigilia di Natale. E a quell'ora venivano. Con grandissimo sollievo la signora Ryder tornò in anticamera. In quel momento suo marito uscì dallo studio. Rimasero insieme, sorridenti, a guardare il gruppo di ragazzi imbacuccati che cantavano mettendoci il cuore e l'anima, tanto da far risuonare la casa della loro melodia. Rassicurata dall'allegra compagnia, riuscì a liberarsi dal terrore. Era stata la sua immaginazione. Ultimamente non stava molto bene. Per questo era tanto irritabile. Il vecchio dottor Bernard non era bravo; non capiva affatto il suo caso. Dopo Natale sarebbe andata a Londra e avrebbe consultato il medico migliore... Se fosse stata in buona salute non si sarebbe arrabbiata tanto per nulla, mezz'ora prima. Sapeva che non ce n'era ragione, eppure non era riuscita a trattenersi. Dopo ogni accesso d'ira prometteva a se stessa che ciò non si sarebbe ripetuto mai più... e poi Herbert diceva cose irritanti, qualche stupidità della sua testa confusa, e lei perdeva le staffe un'altra volta! Ora, standogli accanto ai piedi della scala, vedeva bene che lui era ancora imbronciato. Certamente gli aveva lanciato insulti terribili mezz'ora prima, cose che lei non riteneva vere, e Herbert aveva incassato tutto con la solita, calma docilità. Se non fosse stato tanto tranquillo e mite, l'avrebbe ripagata con la stessa moneta, e lei non sarebbe andata in collera. Di questo era sicura. Ma chi non s'irriterebbe di fronte a tanta docilità e all'unico rimprovero che lui le faceva sempre: «Elinor mi capiva meglio, mia cara». Paragonarla continuamente con la prima moglie! Non era forse la peggiore mancanza di tatto che un marito potesse avere? Proprio Elinor, quella donna sfiorita, vecchiotta, tutto l'opposto di lei, gaia, vivace, divertente? Herbert si era innamorato di lei perché era allegra, spumeggiante, giovane. Sì, Elinor era stata una moglie devota, ma tanto presa da Herbert che aveva vissuto solo per lui. La gente le ricordava sempre la sua devozione, cosa abbastanza maleducata e impertinente. Beh, lei non poteva dare a nessuno quel genere di devozione d'altri tempi; non era nel suo carattere, e Herbert ormai l'aveva capito. Comunque, a modo suo, lei lo amava, e lui doveva saperlo tanto bene da passare sopra ai suoi scoppi d'ira. Lei non stava bene. Sarebbe andata da
un medico di Londra... I ragazzini finirono i canti natalizi, furono ben ricompensati, e tornarono precipitosamente nella neve, leggeri come uccelli. Loro due andarono nello studio e si fermarono accanto al caminetto acceso. Lei sollevò la mano e gli carezzò la bella guancia scarna. «Mi rincresce tanto di essermi arrabbiata poco fa, Bertie. Non pensavo la metà delle cose che ho detto, lo sai.» Ma l'uomo, diversamente dal solito, non la baciò e non le disse che non importava. Guardando dritto davanti a sé, rispose: «Beh, Alice, vorrei che non lo facessi. Sono cose che fanno male, terribilmente. Mi sconvolgono più di quanto non pensi. E tu stai peggiorando. Mi rendi infelice. Non so come porvi rimedio. E tutto per niente». Irritata per non avere ricevuto il solito apprezzamento per avere fatto pace, dimostrando dolcezza, lei si ritirò un poco e rispose: «Oh, va bene. Ho detto che mi rincresce. Non posso fare di più». «Ma dimmi», insistette lui, «voglio saperlo. Che cosa ti fa andare in collera così all'improvviso e senza una ragione?» Lei stava per lasciarsi prendere dalla rabbia a causa della sua ottusità e ostinazione, ma la paura la trattenne, una strana paura non analizzata, come se qualcuno le avesse sussurrato: «Attenta! Questa è l'ultima volta!». «Non è proprio tutta colpa mia», rispose, e lasciò la stanza. Si fermò nella fredda anticamera, incapace di decidere dove andare. Pensando alla neve che cadeva fuori, rabbrividì. Odiava la neve, odiava l'inverno, quel freddo bestiale, il cupo inverno inglese che era lungo a finire e poi passava a una primavera umida e intrisa di pioggia. Quando aveva proposto a Herbert di passare l'inverno all'estero, cosa che avrebbe potuto fare benissimo, lui le aveva risposto con insofferenza; era troppo attaccato a quella cittadina noiosa, mezza morta, con la sua cattedrale. Per lui la cattedrale era preziosa; non era contento se non andava a vederla ogni giorno! Lei non si sarebbe meravigliata se Herbert avesse pensato più alla cattedrale che a lei. Elinor era stata come lui; aveva persino scritto un libretto sulla cattedrale, sulla tomba del Vescovo Nero, sui vetri istoriati e il resto... Cos'era in fondo la cattedrale? Soltanto un edificio! Stava in piedi in salotto e guardava attraverso gli spettrali fiocchi di neve la grande mole della cattedrale; per Herbert somigliava a una nave volante, ma secondo lei aveva piuttosto l'aria di una bestia accovacciata, che si lecca il muso divorando continuamente miserabili peccatori.
Mentre guardava e rabbrividiva, sentendo suo malgrado che collera e infelicità crescevano tanto in lei da soffocarla, le parve che l'allegra e ridente stanza con il caminetto acceso fosse improvvisamente esposta alla neve. Fu come se si fossero aperte fessure dappertutto, sul soffitto, sulle pareti, alle finestre, e che da quelle fessure la neve filtrasse, gocciolasse in piccoli rivoli lungo le pareti e formasse pozze d'acqua sul tappeto. Naturalmente era immaginazione, ma la stanza era davvero gelida, nonostante il bel fuoco ardente e il suo aspetto gradevole. Poi, voltandosi, vide la figura ferma sulla porta. Questa volta non c'era possibilità di sbagliare. Era un'ombra grigia, ma un'ombra con forma e contorno: i capelli grigi spettinati, la faccia pallida come una foglia illuminata dalla luna, i lunghi abiti grigi, e l'atteggiamento ostinato, vendicativo, terribilmente minaccioso. Alice si mosse e la figura scomparve; subito dopo la stanza tornò calda, anzi caldissima. Ma la giovane signora Ryder, che non aveva mai temuto nulla in vita sua, dovette sedersi e anche da seduta continuò a tremare. La mano sul bracciolo della poltrona era scossa da un tremito. Aveva creato quella cosa perché immaginava l'odio di Elinor per lei, e il suo per Elinor. È ben vero che non si erano conosciute, ma non potevano avere ragione gli spiritisti? E lo spirito di Elinor, geloso dell'amore di Herbert per lei, non poteva essere venuto per dividerli, costringendo lei a perdere le staffe e lui a odiarla poi perché andava in collera? Tali cose potevano accadere! Ma non ebbe molto tempo per meditare. Era preoccupata per la sua paura. Una paura precisa, positiva, come quella che si prova prima di subire un'operazione. Qualcuno o qualcosa la minacciava. Si aggrappò alla poltrona, come se lasciandola potesse piombare in una qualche calamità. Desiderava ardentemente che Herbert venisse a proteggerla. Si sentì molto tenera verso di lui. No, non si sarebbe arrabbiata più... e in quel momento una voce fredda sembrò mormorarle all'orecchio: «Vedi di non farlo. Sarà per l'ultima volta». Alla fine trovò il coraggio di alzarsi, di attraversare la stanza e di salire di sopra a cambiarsi per la cena. In camera si sentì più coraggiosa. Era freddo, sì, e la neve, come vedeva, stava cadendo ancora più fitta di prima, ma fece un bagno caldo, si sedette davanti al caminetto e tornò a essere ragionevole. Da molti mesi la strana sensazione di essere osservata e accompagnata da qualcuno di ostile a lei era diventata più intensa. Forse si era rafforzata
per via delle cose che Herbert le aveva detto su Elinor: era il tipo di donna che, quando amava uno, non lo lasciava andare; era anche estremamente fedele. Lei aveva inteso dire che la sua tenace fedeltà era stata talvolta un po' opprimente. «Lei diceva sempre», aveva detto Herbert una volta, «che avrebbe vigilato su di me fino a quando non l'avrei raggiunta nell'Aldilà. Povera Elinor!», aveva sospirato. «Possedeva una gran fede religiosa, più forte della mia, temo.» E sempre, dopo una delle sue arrabbiature, la giovane signora Ryder aveva quell'allucinazione, quel terribile disagio nel sentire una presenza che l'odiava; ma era stato durante l'ultima settimana che aveva cominciato a immaginare di vedere una figura, e di giorno in giorno quella sensazione si era rafforzata. Un problema di nervi, naturalmente, ma un genere di disturbo che poteva diventare fastidioso se non veniva rimosso. La signora Ryder, sicura nel calore e nella intimità della sua camera, decise che da quel momento in poi avrebbe usato dolcezza e chiarezza mentale. Niente più accessi d'ira! Quelli la danneggiavano. Anche se Herbert era un tantino insopportabile, non lo erano forse tutti i mariti del mondo? E poi non era Natale? Pace e buona volontà agli uomini! Pace e buona volontà a Herbert! Si sedettero a tavola l'uno di fronte all'altra, nella stanza da pranzo adorna di xilografie cinesi, con tendaggi gialli ravvivati dal fuoco. Ma Herbert non era del solito umore. Forse, suppose lei, rimuginava ancora sulla lite del pomeriggio. Gli uomini non erano forse come dei bambini? Incredibile quanto lo fossero! Perciò, quando la cameriera uscì dalla stanza, lei andò dal marito, si curvò e lo baciò in fronte. «Caro... sei ancora adirato. Sì, lo vedo. Non devi esserlo. Proprio no. Siamo a Natale e, se io ti perdono, tu devi perdonare me.» «Tu mi perdoni?», chiese lui guardandola corrucciato. «Di che devi perdonarmi?» Beh, questo era troppo. Dopo che lei aveva fatto tutto quello che doveva, rintuzzando il proprio orgoglio. Tornò a sedersi, ma per un po' non poté rispondergli perché c'era la cameriera. Quando furono di nuovo soli fece appello a tutta la sua pazienza e disse: «Bertie caro, pensi davvero che vi sia qualcosa da guadagnare a tenere
quel muso? Non è degno di te. No, proprio no». Lui rispose pacatamente. «Il muso? Non è la parola giusta. Ma devo mantenere la calma. Altrimenti direi cose di cui potrei pentirmi.» Poi, dopo una pausa, a bassa voce, come parlando fra sé: «Queste continue liti sono odiose». Lei stava prendendo fuoco, diventava un'altra persona, che non somigliava alla vera Alice: le era estranea e al tempo stesso molto familiare. «Non essere così ipocrita», gli rispose con voce un po' tremula. «Queste liti sono tutte colpa mia, non è vero?» «Elinor e io non litigavamo mai», disse lui con voce appena udibile. «No! Perché Elinor ti riteneva perfetto. Ti adorava. Me lo hai detto spesso. Io non ti considero perfetto. Non sono perfetta neppure io. Entrambi abbiamo dei difetti. Non sono soltanto io da biasimare.» «Sarebbe meglio separarsi», disse lui di punto in bianco, alzando gli occhi. «Non andiamo più d'accordo. Prima sì. Non so cos'abbia cambiato tutto. Ma, in queste condizioni, meglio separarsi.» Lei lo guardò e comprese di amarlo più che mai, ma proprio per questo desiderava ferirlo, e siccome Herbert pensava di poter vivere senza di lei, Alice si arrabbiò tanto da perdere ogni controllo. Amore e collera si mescolarono. Più era arrabbiata e più lo amava. «So perché vuoi separarti», disse. «Ami un'altra. ("Curioso", le diceva una voce interiore, "non pensi una parola di quel che dici.") Mi hai trattato a questo modo e ora mi lasci.» «Io non amo nessun'altra», rispose lui deciso, «e lo sai. Ma siamo tanto infelici insieme che è sciocco continuare... proprio sciocco. Insomma, il matrimonio è fallito.» C'era tanta infelicità, tanta amarezza nella sua voce, che lei si rese conto infine di avere tirato troppo la corda. L'aveva perduto. E non era questo che voleva. Ne fu spaventata e la paura le attizzò tanta rabbia da renderla battagliera. «Benissimo... dirò a tutti... cosa sei stato. Come mi hai trattata.» «Basta con le scenate», rispose lui stancamente. «Non le sopporto più. Aspettiamo. Domani è Natale...» Herbert era così infelice che lei divenne furibonda con se stessa. Non poteva accettare che lui fosse tristemente deluso di lei, della loro vita in comune, di ogni cosa. Accecata dall'ira lo schiaffeggiò, ma fu come se colpisse se stessa. Herbert si alzò e senza dire una parola lasciò la stanza. Vi fu una pausa e poi
sentì la porta d'ingresso chiudersi. Lui era uscito. Alice rimase lì, recuperando pian piano l'autocontrollo. Quando si arrabbiava, era come se affondasse sott'acqua. Dopo la lite tornava a emergere alla vita, chiedendosi dov'era stata e cos'aveva fatto. Era sbigottita, e in seguito prese coscienza di due cose: la stanza era freddissima e qualcuno era lì con lei. Questa volta non ebbe bisogno di guardarsi attorno. Non si voltò, ma fissò dritta le finestre con le tende, scrutandole attentamente come per farvi qualche studio particolare, dalle pieghe del tessuto giallo, all'asta d'ottone, alle cordicelle bianche; e, oltre le tende, guardò la neve che cadeva. Non ebbe bisogno di voltarsi ma, con un brivido di terrore, si accorse che la figura grigia, nelle ultime settimane sempre più vicina, le stava quasi al gomito. Udì molto chiaramente: «Ti avevo avvertita. Questa è stata l'ultima volta». In quel momento entrò Onslow, il maggiordomo. Era un uomo robusto, grasso e rubicondo, un ottimo e fedele maggiordomo con la passione per la musica religiosa. Era imperturbabile, la sua aria compiaciuta e cerimoniosa gli garantiva sicurezza. «Il signor Ryder è uscito», disse lei decisa. Oh, l'uomo doveva pur vedere qualcosa, percepire qualcosa! «Sì, signora!» Poi sorridendo grandiosamente: «Sta nevicando forte. Mai vista una nevicata così da queste parti. Devo ravvivare il fuoco in salotto, signora?». «No, grazie. Ma lo studio di mio marito...» «Sì, signora. Solo pensavo che, siccome questa stanza è molto calda, voi potreste trovare freddo il salotto.» Quella stanza calda? Lei stava tremando dalla testa ai piedi, e si controllava per paura che lui vedesse... Desiderava trattenerlo lì, supplicarlo di restare; ma in un attimo il maggiordomo sparì, richiudendo la porta. Allora fu presa da un folle desiderio di fuga, ma non poteva muoversi. Era inchiodata lì e, sebbene volesse gridare, urlare, strillare come un'ossessa, le uscì solo un piccolo sussurro, e sentì il freddo contatto di una mano sulla sua. Non girò il capo; tutta la sua personalità, la sua vita passata, il poco coraggio e la misera forza d'animo, si unirono per affrontare quella sensazione di morte imminente, chiara come un determinato odore o il suono familiare di un gong. Dormendo aveva avuto incubi di morte imminente e ave-
va provato, come in quel momento, una paurosa contrazione del cuore, una paralisi degli arti, un senso di soffocamento che annientava come un anestetico. «Sei stata avvertita», sentì ancora. Sapeva che, girandosi, avrebbe visto la faccia di Elinor, dura, bianca, crudele. La donna l'aveva sempre odiata, era stata bassamente gelosa di lei, aveva protetto il suo miserabile Herbert. Un certo spirito di vendetta parve spronarla. Notò che poteva muoversi, i suoi arti erano liberi. Arrivò alla porta, e fece di corsa il corridoio fino all'anticamera. Dove sarebbe stata al sicuro? Pensò alla cattedrale, dove quella sera c'era una funzione con canti natalizi. Aprì la porta d'ingresso, vestita così com'era, e affrontò la fitta neve che attutiva i rumori; corse fuori. Entrò nel prato, diretta alla cattedrale. Le leggere scarpette nere affondarono nella neve. E lei stessa si ricoprì di neve: nei capelli, negli occhi, nelle narici, in bocca, sul collo nudo, nell'incavo dei seni. Aiuto! Aiuto! Aiuto! voleva gridare, ma la neve la soffocò. Le luci vorticarono davanti ai suoi occhi. La cattedrale si sollevò come un'enorme aquila nera e volò verso di lei. Alice cadde in avanti e, mentre cadeva, una mano, molto più fredda della neve, le afferrò il collo. Lottò e, mentre combatteva, due mani gelide, senza carne, le serrarono la gola. L'ultima sensazione fu il duro contorno di un anello che le affondava nel collo. Giacque immobile, la faccia nella neve, e avidamente, selvaggiamente, i fiocchi la ricoprirono. MATTHEW PHIPPS SHIEL La storia di Henry e Rowena La signora Rowena Howard di Iste era sposata da appena dieci mesi, quando s'imbatté - ancora una volta - nella persona di Lord Darnley. L'incontro avvenne al teatro dell'Opera Palli, dove il suo binocolo, spostandosi in direzione della fila di fronte alla sua, nel punto dove erano situati i «palchi della Nobiltà», illuminò il volto pallido e la fronte quadrata di Darnley, finendo per scovare il binocolo di lui anch'esso fisso su di lei. Il muto sguardo fisso dei due binocoli durò diversi secondi, sino a quando la donna, all'improvviso, impallidì e inclinò leggermente il capo. Mentre si allontanava dal teatro, un uomo in costume di orso polare (il
segretario di Darnley) escogitò la maniera di far cadere nel parasole della signora un bigliettino in cui si leggevano le parole: «Possiamo incontrarci alla Meta Sudana». Erano quasi le otto di sera, e tra poco avrebbero suonato le campane della Quaresima per avvertire il pubblico che si stava avvicinando l'ora della chiusura dei teatri, che però quel giorno sarebbero rimasti aperti fino alle dieci del mattino seguente perché era Martedì Grasso, l'ultimo e il più pazzo dei giorni di Carnevale, il giorno dei crespini e dei moccoletti, quando le urla dei festanti salivano fino al cielo. La città sembrava avere le vertigini, la sua aria era offuscata dai fuochi artificiali, e dalle varie strade secondarie affluivano sul Corso una marea di veicoli pieni zeppi di domino, pierrots, «marchesi», contadini: un caos infinito di braccia, grida, colori. Rowena, tuttavia, sedeva nella sua vettura senza prendere parte alla festa: lei era una donna dal carattere generoso e languido, aveva delle stupende labbra sottili di colore scarlatto in netto contrasto col pallore del suo volto, una massa di capelli neri come il carbone, e il suo collo, il suo bellissimo collo, ricordava quello di alcune creature sognate e agognate dal Rossetti. Si accorse della presenza di Darnley solo quando l'uomo fu a pochi passi da lei. Mentre la sua vettura attraversava la via dell'Urbe diretta verso il Colosseo, Lord Darnley l'affiancò uscendo dall'ombra del loro luogo d'appuntamento. «Come vedi, ci incontriamo ancora», le disse. Lei mormorò: «È molto strano». I due si diressero verso la bocca di un vomitorium, dove le rovine rotolavano nell'oscurità, davanti a loro. «Sei sempre dappertutto, eh?», gli chiese sorridendo. E lui replicò: «Io sono un tipo che viaggia molto, malgrado appartenga a quella genia di peccatori impenitenti, che fa della Terra la propria prigione: noi possiamo felicemente camminare per le sue strade senza alcun problema». «Ah, che umore tetro e triste... Mi avevi promesso di essere felice, Henry.» «E tu lo sei?» «Di recente mi sono sposata con un uomo anziano... che parla solo di titoli e di nobili stirpi. Eppure, ci sono anche delle consolazioni.» «E quali sarebbero?» «La ricchezza, il sole, il Carnevale.»
«Dopo il Carnevale arriva la Quaresima», le ricordò Lord Darnley. «Ma prima della Quaresima c'è il Carnevale!», sorrise la donna. E lui: «Questa prolissità è una cosa nuova per te. Forse è dovuta... all'influenza di tuo marito?». «Probabilmente sì.» «No, non starmi a sentire: so bene che tu non puoi essere altro che te stessa.» «Spero ardentemente di essere quello che tu vedi in me. Si può anche non essere necessariamente uguali alle proprie sembianze. La bellezza più eterea che abbia mai visto era una sigarettaia di Seville, eppure aveva un'intelligenza molto scarsa.» «Ma io non ti ho mai giudicata dal tuo volto», le rispose Darnley, indugiando su quel viso dalle palpebre abbassate, «ma da me stesso: tu sei il mio doppio... o almeno, di solito lo sei.» Gli occhi di Rowena Howard si abbassarono, imbarazzati da tante lusinghe. «Beh, se tu la pensi così... io... spero... che sia vero. Tu mi ricordi un essere divino, un abitante dell'Olimpo più che un essere umano; così come io comincio ad aver paura di essere diversa... di avere molto poco di simile a una donna.» «Le "Divinità dell'Olimpo" sono sicuramente esenti dalle malattie della pelle», rifletté Darnley sorridendo. (Cinque anni prima, alla vigilia del suo progettato matrimonio con Rowena, Darnley aveva trascorso tre notti in Islanda, la patria della lebbra, e attualmente, tre dei noduli che la malattia gli aveva lasciato come ricordo sul braccio sinistro, lo avevano reso un paria agli occhi della gente comune.) «Non sei ancora guarito?» Lui rispose: «Il mio male è incurabile». «Ahimè! Anche il mio, Henry», disse ancora più malinconica di quanto effettivamente si sentisse. «Non preoccuparti, ci sono qua io per curare sia te che me.» Rowena Howard lo guardò dubbiosa mentre la luna che era già sorta accresceva l'immensità delle rovine, toccando la donna con un po' di favola e di magia. «E la cura è... sempre la stessa? La vecchia cura è sempre valida?», gli chiese sorridendo: «I rendez-vous nel Non-Spazio?». «Dove s'incontrano realmente le anime», chiarì Lord Darnley. La donna rimase qualche minuto soprappensiero, ascoltando attentamen-
te il vortice festaiolo del Carnevale che rumoreggiava lontano, perfettamente udibile. «E tu, Henry, credi ancora nell'anima, nell'Aldilà?» «L'anima esiste, e anche l'Aldilà. Tu non ci credi?» «Se lo dici tu, ci credo.» «Io ti dico che esiste. L'ho conosciuto per sette anni. Ed ho capito che è quella la cura.» «Tentatore, tentatore!» L'uomo, durante tutta la conversazione, non aveva mai smesso di giocherellare con due fialette che portava sempre con sé in tasca. A quel punto disse: «Vuoi?». «Henry, io... ho dei legami...» «Forse non per molto ancora, amore.» «Ah!» «Allora siamo d'accordo. Facciamo a mezzanotte?» «Oh, no... dammi almeno un po' di tempo.» «Quanto?» «Un mese.» «Dove?» «A Napoli.» L'uomo si inchinò. «Tra un mese, allora... a Napoli.» «In un modo o nell'altro, prenderò una decisione. Non mi dimenticherò dell'appuntamento.» Lord Darnley s'inchinò di nuovo. E insieme attraversarono il vomitorium per separarsi una volta arrivati alla Meta Sudana. A quell'ora, la festa dei ceri era arrivata al culmine. Erano centinaia di migliaia i ceri che correvano veloci nella notte, sballottati in lotte terribili, mentre le loro fiammelle illuminavano i volti delle persone sui balconi dei piani alti, intenti a salvaguardare il loro fuoco per spegnere quello di qualche altro cero, con la forza dei loro polmoni, con gli spegnimoccoli, o con degli strani ventagli, molto originali... All'improvviso, la campana della Quaresima fece spegnere ogni candela, anche se la folla di persone rimase dov'era come champagne inutilizzabile; e ci volle parecchio tempo prima che il postiglione di Lady Rowena, rubacchiando a poco a poco la strada occupata dal grosso dei veicoli di ritorno verso casa, la riconducesse davanti al suo palazzo, dove un biglietto piuttosto gelido di suo marito la informava che l'uomo si era recato, da so-
lo, alla funzione di chiusura del Carnevale sociale... il ballo in maschera al Rondola Palace. Il Duca di Rondola (quello stesso «Rondola» naturalista che aveva costruito il suo parco nel famoso «Rondola Zoo»), quell'anno era il più importante anfitrione di Roma; e, in quell'ultima notte di Carnevale, le sue stanze erano colme di gente fino all'inverosimile. A mezzanotte, Lady Rowena si trovava al Rondola Palace e stava danzando quando, d'un tratto, oppressa da tutta quella gente che affollava le stanze del palazzo, cercò di fuggire via dirigendosi verso il parco. La sua ricerca di solitudine, però, non fu immediatamente coronata dal successo perché, tra le stupende aiole e i precisi pergolati del parco, la donna incontrò una moltitudine di coppie di innamorati seduti comodamente o vaganti tra il verde con occhi languidi. Decise dunque di penetrare nel cuore del parco, sino a quando, in un punto offuscato dalle tenebre della notte, Lady Rowena Howard notò un uomo mascherato di media statura, con un colbacco cremisi e una sciarpa di cashmere che stava dirigendosi verso di lei: riconoscendo i suoi baffi neri come il carbone, e quel bagliore accecante dei suoi denti, Lady Rowena Howard cominciò a... Quando le due figure furono di fronte, la donna sussurrò: «Tu!». «Non pensavo di trovarti qui...» Guardandolo con una specie di timore e di soggezione, dal momento che questo secondo incontro aveva prodotto nella sua fantasia l'impressione che fosse stato causato dalla potente personalità di quel diavolo, e che avrebbe anche influenzato gli avvenimenti futuri, gli disse: «Certo, quest'incontro è molto singolare: io esco per inseguire un sogno e...». «Ed io mi ci intrometto...» «Ah, no: così Saul, mentre cercava gli asini del padre, finì per trovare un regno.» «Un regno e una tragedia.» «Oh, uomo dall'umore tetro! È meglio morire da re che vivere da contadino, non credi?», disse la donna muovendo il capo di lato e sorridendo amorevolmente. E lui: «Si potrebbe anche dire: "Non è meglio morire da divinità piuttosto che da donna?"». «Sei un diavolo, Henry, un tentatore.» «Io t'avevo fatta una domanda, se non sbaglio.»
«Ma ti ho già risposto! A Napoli, fra un mese», rispose, malgrado il fatto che, se avesse guardato meglio in se stessa, avrebbe scoperto che la sua risposta, di lì a un mese, non avrebbe differito granché dalla risposta di quella sera. Quel posto, tuttavia, era pieno di fate e di flauti, il chiaro di luna copriva le ombre come in un sogno, e Rowena ritornò, con una segreta irrequietezza, all'antico soggetto, scherzando con le armi affilate, tipicamente femminili ma anche semiinfantili, del misticismo e della malinconia. «Ci incontriamo dappertutto!», osservò Rowena: «Ma cosa sarà che ci fa incontrare sempre?». «In fisica», replicò Lord Darnley, «esistono degli atomi che cercano gli altri: non riescono a vivere separati dai loro simili. Io credo che avvenga la stessa cosa anche nella regione dello spirito.» «Allora, noi siamo due atomi?» «Gli atomi sono spinti l'uno verso l'altro chimicamente; gli spiriti sono invece un prodotto dei suggerimenti del Fato.» «Allora, questo nostro incontro, per esempio, è...» «Calma», disse l'uomo additandole un punto del parco, «lì potrebbe trovarsi la ragione del...» I due si trovavano in un viale alberato alle spalle di uno stupendo cespuglio di salsapariglia un po' inclinato, che terminava un po' più sopra degli amanti in un chiosco preceduto da un muro. E fu proprio in direzione di quell'avvallamento che Darnley, dicendo «lì», indicò col dito un oggetto un po' distante, verso il fondo, dove erano visibili due lanterne moresche: un bell'animale maculato che saltellava vagabondando nel parco... e si stava dirigendo verso di loro. Gli occhi di Lady Rowena fissarono sbigottiti quella strana apparizione, poi la donna sussurrò con un fil di voce: «E quello cos'è?». «Una pantera Tsana.» «È fuggita?» «È evidente. Questo parco - tu lo sai - è pieno di animali...» «Ma... si sta avvicinando a noi!» «Non allarmarti. Una lonza leggera e presta molto, che di pel mac...» «Henry!» «Ecco la nostra cura...» «Oh, non in quel modo, no, di certo!», disse indietreggiando un pochino, mentre la strisciante creatura, agilissima e sinistramente aggraziata, si allungava rapidamente, per farsi sempre più vicina.
«Ma», continuò Darnley, «il chiosco ed il muro chiudono il viale dietro di noi e, a quanto pare, sembra che non ci siano uscite attraverso la siepe: siamo intrappolati. Se non lo fossimo, avremmo potuto rischiare un tentativo di fuga.» «Cerca di aiutarmi ad uscire da questo posto, Henry... ti prego!» «Insisti?» «E perché non dovrei?» «Ma come posso aiutarti?» «Non hai nessun'arma?» «No... ho solo questo...», disse sfilandosi dalla cintura la lama ricurva di un piccolo canghiar, un giocattolo dall'impugnatura d'agata, «ma può a malapena provocare qualche piccola ferita, e un animale ferito potrebbe impazzire e fare qualsiasi...» «Henry! Guarda, si è avvicinata! Ora si è fermata! Ci sta fissando!» «Lasciala guardare. Chi non ti conosce potrebbe pensare che sei agitata...» «No! No! Non sono agitata... Ma cerca di fare qualcosa per...» «Sta' buona...» «Com'è ripugnante! Salvami, te ne prego!» «Insisti?» «Perché non dovrei!», esclamò, senza considerare il modo in cui l'uomo avrebbe potuto salvarla, ma profondamente sicura del suo potere di fare miracoli. Infatti, Lord Darnley, lanciando un'occhiata fuggevole alla donna e alla bestia selvaggia, cominciò a dirle: «Io posso salvarti; ma solo ad una condizione... che ti unisca a me al più presto. Dimmi quanto ancora dovrò attendere?». «"Unirmi a te?" Ma io non... quando lo desidererai! Ora però, ti prego, salvami da...» «Domani?» «Guarda... si sta muovendo di nuovo! Sì! In qualsiasi...» «Al levar del sole?» La bestia era a circa trecento piedi dalla coppia. «Sì!» «Allora, siamo d'accordo?» «Perché non dovrei... guarda!» «Me lo prometti?» «Sì!» Senza frapporre altri indugi, Lord Darnley sollevò il canghiar: con tre
rapidissimi colpi fece saltar via la manica sinistra della sua tunica, all'altezza delle spalle, e in un attimo la manica cadde sul terreno, lasciandogli il braccio nudo. Allora il Conte, che era un bravissimo anatomista oltre che un esperto per quanto riguardava il comportamento degli animali, affondò la lama nella carne della sua spalla nel punto in cui l'omero incontra la scapola in una giuntura a palla-cava, poi sezionò i vari vasi e muscoli insieme al periostio, dopodiché, con una stupenda avvitata tale da far invidia a un contorsionista, infilzò la zona della giuntura dove era visibile la cartilagine. I movimenti di Lord Darnley erano così rapidi e precisi che Rowena, accanto a lui, sbiancò immediatamente in volto dalla meraviglia e, soltanto dopo un po' di tempo, realizzò cosa stesse facendo il suo compagno: solo quando osservò la cascata di sangue scorrere a terra scivolando sul braccio pallido dell'uomo, Rowena vide la sua mascella sogghignante ferma come granito, e lanciò un pauroso grido mentre la pantera, accucciandosi e annusando il vento a circa sessanta piedi dalla coppia, emetteva un lungo gemito di risposta... Poi il Conte lasciò cadere l'arma-giocattolo, si afferrò il polso sinistro con l'altra mano, e tirò il braccio staccandoselo netto dalla spalla. Gli occhi della strana creatura già brillavano per il desiderio di sopraffare l'uomo; ma, proprio mentre la bestia si spostava lentamente in avanti con il ventre a terra silenziosa in cerca della preda su cui balzare, Darnley fece ondeggiare il braccio come un bastone, poi lo lanciò davanti al muso della bestia feroce. Con improvvisa contentezza, la pantera si lanciò immediatamente su quel dono piovuto dal Cielo. Darnley attese un minuto sino a quando l'animale fu impegnato a masticare rumorosamente il pasto con la testa di lato e gli occhi chiusi, poi avanzò minaccioso, calpestando pesantemente il terreno; la pantera, nel frattempo, afferrò la carne del braccio di Darnley, ruggendo e sgattaiolando furtivamente lungo il viale. Darnley allora continuò ad avanzare, e l'animale ancora una volta scivolò via cautamente con la sua manna caduta dal Cielo; finché, alla fine del viale, la pantera s'eclissò nelle tenebre della notte. Rowena, nel frattempo, era rimasta inchiodata al suo posto per la paura: ma, quando s'avvide che il Conte stava tornando, si diresse con passo veloce giù verso la collina dietro di lui. Darnley stringeva la spalla maciullata in una specie di scialle, ed era più livido del latte d'asina; Lady Rowena,
invece, era esangue perché in quel momento realizzò che il suo compagno di sventura l'aveva comprata col sangue. «Capiscimi... devo... lasciarti», ansimò il ferito, tutto sconvolto, respirando a fatica attraverso le orribili labbra livide, ma continuando a sorridere. E, nel ripetere la frase «Devo lasciarti», fissò indifferente sulla sinistra, verso lo squarcio che lui stesso si era prodotto nel costume. È lei: «Oh, Henry, ti prego! ti prego! Un dottore...». Darnley, ansimando, le sussurrò: «Non è necessario», testardo come può esserlo soltanto un essere umano. «Io alloggio all'Hotel di Spagna... non molto lontano da qui. Sono tornato per dirti... au revoir.» «Ah, Henry!», esclamò la donna poggiandogli il palmo della mano sulla spalla destra, mentre lui la fissava appassionatamente dicendole: «E così, alla fine ti sei decisa ad offrire te stessa, il tuo corpo?». Rowena sospirò un «sì» appena udibile, malgrado la vicinanza dell'uomo; ma nessuna dimostrazione d'affetto, nessuna carezza avrebbe potuto sottrarla alla volontà di Darnley: era ormai di un altro... «fino alla morte», anzi sino a dopo la morte di lui. Nel frattempo, il Conte era un uomo d'onore, di un'integrità inflessibile... «All'alba, siamo d'accordo?», sussurrò l'uomo. Sbigottita, Rowena si allontanò un po' da lui. «A che ora sorge il sole?» «Alle sei e mezzo, per essere precisi.» «Domani?» «Sì... alle sei e mezzo di domani mattina.» «Facciamo le sette... o meglio, le otto.» «Alle otto, allora. Prendi questo.» Lasciò cadere il vestito che tamponava il sangue che gli sgorgava dalla ferita, ne tirò fuori due fialette, gliene diede una e disse: «Tre gocce». «Alle otto...?» «Alle otto... Arrivederci.» «Henry... in nome di Dio...», sussurrò in un soffio Rowena. Ma il Conte se n'era già andato. E lei, spaventata, ferma al suo posto, continuò a fissare l'andatura ondeggiante dell'uomo che camminava giù lungo il pendio: a tratti sembrava già morto, mentre in altri assomigliava a un chiassoso ubriaco di ritorno verso casa. Per quanto riguardava lei, il cuore le batteva in petto come un martello, ed era diviso in due: doveva morire... ma desiderava vivere. A costo di qualsiasi sacrificio.
Rowena dormì profondamente dalle tre fino alle sette del mattino. Nell'attimo in cui aprì gli occhi, la donna sentì una terribile oppressione che le gravava sul cuore, e rabbrividì. Dopo un po' suonò per ordinare la colazione alla cameriera: stava distesa avvolta in una leggera veste da camera di broccato color albicocca su un divano del suo boudoir, e mormorò solo la parola: «Cioccolato». Dopo aver sorseggiato una cioccolata spagnola densa come una minestra, Rowena si sedette davanti alla toeletta mentre la cameriera le pettinava delicatamente la stupenda massa dei suoi capelli corvini; poi la congedò. Mancavano soltanto venti minuti alla fatidica ora: le otto. La giornata si prospettava splendida e calda. Rowena allungò il braccio, prese la fiala che le aveva dato il Conte, e la guardò fissamente da un lato e dall'altro, facendola girare e rigirare tra le dita per diversi minuti, sino a quando la sua bocca si strinse in una smorfia d'impazienza. Perché la mattina ti porta a pensare, mentre la notte è tutto un altro mondo e modo d'essere: al chiarore della luna e delle nostre emozioni, noi riandiamo col pensiero alla luminosità del sole con una specie di sorpresa e di riscoperta sanità mentale. Rowena si avvicinò lentamente a una finestra, lasciò cadere la fiala dalle dita facendola precipitare in un cortile e, dopo qualche secondo, udì il debole rumore della sua caduta sul terreno. Ma, dopo essersi liberata della fiala, Rowena Howard diventò più pallida della stessa morte. Dover sopportare il disprezzo di Darnley: lui doveva vivere, così come era viva lei! Anche questa era una specie di morte, perché lei era solo una cosa costruita dall'opinione che l'uomo aveva di lei, e aveva vissuto a lungo ed esisteva soltanto nella fantasia del suo sogno: così la donna aspettava gli eventi con aria colpevole, lasciando volar via dei momenti preziosi, con la mano pressata sul cuore che le sembrava galoppare nel petto. Alle otto il Conte sarebbe morto... e mancavano soltanto sette minuti all'ora fatidica... Doveva assolutamente cercare di fermarlo: ma non avrebbe dovuto farlo prima? Prima che passassero quei momenti preziosi? Darnley era alloggiato all'Hotel di Spagna, ma lei non sapeva dove si trovasse questo albergo. Il tempo purtroppo scivolava via: lei aveva perso del tempo prezioso, lo sapeva, e il suo cuore le batteva pericolosamente, malgrado il pensiero del disprezzo di lui... lei era viva, lui era vivo... ma anche così la situazione era molto delicata. All'improvviso si decise a suonare il campanello. «Dov'è l'Hotel di Spagna?», chiese in tono brusco, quasi arrabbiata.
La cameriera le rispose: «A circa un quarto di miglio da qui, signora...». «Beh allora cerca di far recapitare questo biglietto... al più presto... Che ci vada subito qualcuno a cavallo: ma è necessario che faccia presto.» Poi scribacchiò su un biglietto una frase semplicissima: «Ti prego, non fare niente», e lo porse alla cameriera in tutta fretta. Quando fu sola, si chiuse a chiave nella stanza, spinta dall'impulso di nascondere alla vista degli altri quel tremolio che ora stava diventando sempre più insistente e scuoteva tutto il suo essere come una foglia; poi si lasciò cadere pesantemente sul letto, e chiuse completamente gli occhi. Trascorsero altri tre minuti, e il ticchettio di un piccolo orologio ad ogni rintocco la rendeva sempre più agitata con le sue cattive notizie. Due, tre... ognuno di quei rintocchi le sembravano il rimbombo di un tamburo foriero di distruzione e morte; quattro, cinque... il sospiro che uscì dal suo petto alla fatidica ora, le otto fu, in verità un sospiro di sollievo. Addio! Rowena capì che Lord Darnley era definitivamente morto; e in quel momento lo odiò con tutto il suo essere, rivoltandosi contro di lui, e al contempo liberandosene - ne era sicura - per sempre. Che cieca! Rowena, come tutti gli esseri umani mortali, era inconsapevole del fatto che l'Infinito è composto dai vari oggetti comuni esistenti e, cosa ancora più ovvia, che gli stessi oggetti fioriscono dall'Infinito Senzafondo! Non erano ancora trascorsi dieci minuti dopo le otto, quando il suo messo smontò da cavallo davanti all'Hotel di Spagna, ma se la diede precipitosamente a gambe quando sentì che avevano trovato il Conte Darnley, morto, nella sua stanza. Il suo stupore fu comunque ancora più grande quando, tornato a casa, trovò il palazzo della sua padrona in uno stato di confusione e turbamento perfettamente identico a quello che aveva lasciato all'Hotel di Spagna! I suoi compagni di lavoro, tutti molto spaventati, lo informarono che dall'ala del palazzo dove erano situati gli appartamenti di Lady Rowena, tre minuti dopo le otto, erano giunte delle urla disumane, talmente spaventose da far venire i brividi, delle grida al tempo stesso da soprano e gutturali, selvagge e gravi. I servi erano immediatamente corsi di sopra per vedere cosa era successo alla signora, ma si erano trovati dinanzi soltanto delle porte sprangate con dei catenacci... Nel pomeriggio, tutta Roma seppe della morte dei due: una morte oscu-
ra, resa più tragica da un orribile senso di mistero che si mischiava alla malinconia prodotta dal triste evento. Infatti, mentre nel caso di Lord Darnley la causa della morte fu prontamente identificata per la presenza nel suo sangue di un veleno potente in uso tra i coolies Poona, nel caso di Lady Rowena Howard, tutti rimasero stupiti per la causa della sua morte. La mucosa della sua gola, è vero, fornì qualche vaga indicazione - stando a quanto dissero i dottori - di una morte per strangolamento; ma quest'affermazione era accompagnata da altre asserzioni che volevano che le dita dello strangolatore (sempre ammesso che fosse esistito uno strangolatore) appartenessero a una specie di quelle che non lasciano la minima traccia o impronta sul candore stupendo della gola delle signore come appunto quella di Lady Rowena Howard. ARTHUR CONAN DOYLE Il «Bullo» di Brocas Court Nell'anno 1878, la Guardia Nazionale a Cavallo era accampata nelle vicinanze di Luton. Gli uomini di quel grande accampamento non si preoccupavano di come ci si potesse preparare a fronteggiare la possibilità di una guerra europea ma, cosa assai più importante per loro, sì davano da fare per trovare chi potesse gareggiare con il Sergente Maniscalco Burton e resistere contro di lui per dieci interi rounds. Il manesco Burton era un uomo corpulento ma di buone proporzioni, sia di muscoli che di ossatura, e capacissimo di dare sventole con tutte e due le mani che toglievano i sensi ai malcapitati che le ricevevano. Bisognava a tutti i costi trovare un avversario che lo vincesse, altrimenti c'era il pericolo che la sua testa diventasse così grossa da non poter portar più l'elmo da dragone. Perciò, Sir Fred Milburn, soprannominato il «brontolone», fu mandato a Londra con l'incarico di trovare, fra tutti quegli uomini dalle abitudini insolite, qualcuno che prendesse il treno per Luton e venisse a far calare la boria al vigoroso dragone. Correvano brutti tempi per il pugilato. I vecchi combattimenti a mani nude erano finiti in mezzo a scandali e ad ignominie, rovinati da una folla disonesta di allibratori e di mascalzoni di ogni specie che vivevano ai margini di questo sport. Essi avevano portato vergogna e rovina su quei pochi pugili onesti che erano stati ridotti a un piccolo numero di umili eroi, il cui spirito cavalleresco non fu mai più superato.
Se uno sportivo onesto desiderava vedere una gara di pugilato, veniva generalmente assalito da bande di birbanti contro cui non poteva trovare alcun rimedio poiché, tecnicamente, lui stesso compiva un'azione illegale. Veniva così spogliato pubblicamente per strada, derubato e, se per caso cercava di difendersi, lo si uccideva a colpi sulla testa. A quel tempo, potevano assistere alle gare solo quegli uomini che sapevano difendersi con randelli o frustini da caccia, e perciò quel nobile sport era presenziato solamente da individui che non avevano nulla da perdere. D'altra parte, l'epoca del combattimento con i guantoni, fatto in luoghi speciali, non era ancora cominciata, e lo sport attraversava un periodo intermedio poiché non era possibile regolarlo ed era, al tempo stesso, impossibile abolirlo. Nessuno sport piaceva tanto all'inglese medio come il pugilato. Si tenevano, perciò, incontri combinati alla meglio dentro stalle e granai. Spesso, quando era possibile, si faceva anche una scappata in Francia. Si erano combinati altresì incontri segreti all'alba in parti poco note della campagna e si facevano esperimenti pieni di sotterfugi. Così, a poco a poco, gli uomini si comportavano disonestamente come disonesto era diventato il loro ambiente. Ne seguì logicamente che non si poteva tenere una gara onesta all'aperto, e solo i peggiori millantatori riuscivano a raggiungere le posizioni di preminenza. Proprio a quel tempo, al di là dell'Oceano Atlantico, era apparsa la figura possente di John Lawrence Sullivan; che era destinato ad essere l'ultimo combattente del sistema antico e il primo di quello moderno che ne seguì. Le cose stavano così, e perciò lo sportivo Capitano della Guardia Nazionale non trovò facilmente, né nei saloni della boxe né nei circoli sportivi di Londra, un individuo di cui potesse fidarsi per un buon match contro il Sergente Maniscalco. I pesi massimi dovevano essere comprati. Finalmente scelse un eccellente peso medio, Alf Stevens di Kentish Town, la cui stella stava crescendo e che non era mai stato sconfitto. Aspirava, con qualche possibilità, al titolo: la sua esperienza professionale e il mestiere stesso lo avrebbero sicuramente aiutato a sopperire ai ventun chilogrammi di peso che lo separavano dal fortissimo dragone. Sir Fred Milburn lo ingaggiò sperando in questa sua qualità, e fece i preparativi per portarlo all'accampamento della Guardia Nazionale sul suo calesse trainato da una pariglia di veloci cavalli grigi. Dovevano partire di sera, viaggiare su per la grande Strada del Nord, dormire a St. Albans, e terminare il viaggio il giorno seguente.
Il pugile incontrò lo sportivo Baronetto a Golden Cross mentre Bates, il piccolo palafreniere, stava accudendo i focosi cavalli. Stevens, un giovanotto dalla faccia pallida, salutò con la mano una comitiva di pugili, uomini rozzi, scamiciati, e dalla giacca a doppio petto, che si erano adunati per dirgli addio. «Buona fortuna, Alf!», gli dissero in coro, mentre il palafreniere non tratteneva oltre i cavalli e saliva sul retro: così l'alto calesse girò rapidamente la curva entrando in Trafalgar Square. Sir Frederick dapprima si occupò di guidare il calesse in mezzo al traffico di Oxford Street e di Edgware Road, e perciò non ebbe tempo per pensare ad altro. Quando arrivò alle soglie della campagna vicino a Hendon, si era finalmente lasciato dietro le lunghe e monotone file di case di mattoni; allentò le redini dei cavalli e li fece finalmente andare al passo, così che poté dare uno sguardo al giovane che gli sedeva accanto. L'aveva infatti trovato per corrispondenza e tramite raccomandazioni, per cui non riusciva a nascondere la curiosità che provava per lui mentre lo osservava. Scendeva già la sera e non c'era più tanta luce, ma quello che il Baronetto riusciva a vedere gli piaceva abbastanza. L'uomo aveva l'aspetto del vero lottatore: era asciutto di membra e con un torace largo: le sue guance erano lunghe e gli occhi incavati, segni, questi, di coraggio e ostinazione. Soprattutto dimostrava di non aver ancora incontrato chi lo avesse vinto, e perciò lo sosteneva quella fiducia in se stesso che non si trovava mai completamente dopo una sconfitta. Il Baronetto rideva dentro di sé pensando a quale sorpresa stava riportando a nord per l'incontro con il Sergente. «Credo che voi seguiate un certo addestramento, Stevens», disse, voltandosi verso il compagno seduto al suo fianco. «Naturalmente, Signore, sono preparato a lottare per la vita!» «Così mi sembra, guardandovi bene.» «Conduco una vita regolare, Signore, ma per questo fine settimana sono stato scelto per combattere contro Mike Connor e pesavo quindici libbre di meno. Ma lui pagò la multa, e ora sono qui in piena forma.» «È una bella fortuna! E di fortuna ne dovete avere parecchia per combattere un uomo che ha un vantaggio su voi di 21 chili di peso e dieci centimetri di altezza.» Il giovanotto sorrise. «Ho avuto incontri ben più eccezionali di questo, Signore.» «Non lo metto in dubbio, ma quell'uomo sa combattere bene.»
«Benissimo, Signore: nella vita non si può fare altro che il nostro meglio.» Al Baronetto piacque il tono modesto e allo stesso tempo pieno di fiducia del giovane pugile. All'improvviso gli venne in mente un'idea divertente e non poté fare a meno di mettersi a ridere. «Per Bacco!», disse. «Che bello spasso sarebbe se il "Bullo" fosse in giro stanotte!» Alf Stevens drizzò le orecchie. «E chi sarebbe questo tale, Signore?», chiese. «Per la verità questo è quello che tutti si chiedono. Alcuni dicono di averlo visto, altri dicono che è il frutto di una pura invenzione, ma è comunque evidente che sia un vero uomo con un paio di pugni formidabili che lasciano il segno.» «E dove vive costui?», chiese ancora il giovane. «Proprio in questa strada, fra Finchley ed Elstree, a quanto si dice. Sono in due: escono di notte quando la luna è piena e sfidano i passanti a fare una partita di pugilato nel vecchio stile di un tempo. Uno di loro lotta, l'altro fa il secondo. E ti posso assicurare che quell'uomo sa veramente combattere. C'è gente che è stata trovata la mattina dopo con la faccia tutta rotta: una dimostrazione più che sufficiente di come è capace di lottare il "Bullo".» Alf Stevens mostrò un grande interesse. «Ho sempre desiderato fare un combattimento alla maniera antica, Signore, ma non ne ho avuto mai l'occasione. Io credo che combatterei meglio così che con i guantoni.» «Allora non rifiutereste di combattere contro il "Bullo"?» «Rifiutare? Farei dei chilometri per incontrarlo!» «Sarebbe veramente una cosa meravigliosa!», gridò il Baronetto. «Bene, la luna è piena, e il posto dovrebbe essere questo.» «Se è un pugile bravo come dite, dovrebbe essere conosciuto dagli altri lottatori, a meno che non sia un dilettante che si diverte a modo suo in questa maniera.» «Alcuni pensano che sia un mozzo di stalla, oppure un fantino, perché laggiù ci sono delle scuderie. E dove ci sono i cavalli, si sa, c'è anche il pugilato. Se si può credere ai racconti, sembra che ci sia qualcosa di strano e bizzarro in quell'uomo. Ma guardate, guardate là!» La voce del Baronetto aveva assunto un tono di sorpresa e d'ira. In quel punto la strada iniziava a discendere e raggiungeva una valletta circondata
da alberi frondosi che di notte davano l'impressione di formare l'entrata di una galleria. Ai piedi della discesa vi erano due grandi pilastri di pietra che, visti di giorno, apparivano ambedue consunti dal tempo e ricoperti di licheni, con degli stemmi nobiliari scolpiti sopra. Erano così rotti e mutilati dalle intemperie, da apparire solo dei pezzi di pietra. Un cancello di ferro dal disegno elegante si ergeva a malapena trattenuto da cardini arrugginiti, ricordo di glorie passate e della attuale decadenza di Brocas Old Hall, che si intravedeva alla fine di un viale coperto di erbacce. Proprio da dietro questo cancello si era mossa una figura umana e si era piantata nel mezzo della strada e, al contempo, aveva afferrato rapidamente i cavalli che si drizzarono sulle zampe posteriori e scalpitarono perché li aveva fatti indietreggiare. «Vieni qui, Rowe, trattieni i cavalli!», urlò una voce stridente. «Io devo dire un paio di parole a questo "Corinzio" vestito all'ultima moda, prima che vada avanti.» Un altro uomo era apparso dall'ombra e, senza parlare, aveva afferrato il morso dei cavalli. Era un uomo piccolo e robusto, vestito stranamente di marrone, un soprabito la cui mantellina gli arrivava fino alle ginocchia e da cui spuntavano stivali e uose. Non aveva il cappello, e gli uomini del calesse lo poterono vedere bene mentre passava davanti alle lampade laterali: aveva una faccia rossa e arcigna, senza barba, e il labbro inferiore malformato. Una cravatta nera e alta gli avvolgeva strettamente il collo. Afferrò le redini, e il suo compagno saltò fuori e appoggiò una delle sue mani ossute sul lato del parafango. Allo stesso tempo si mise a guardare attentamente la faccia dei passeggeri con due occhi azzurri dall'espressione feroce, mentre la luce lo illuminava molto chiaramente. Aveva un cappello calato sulla fronte ma, malgrado l'ombra che questo proiettava, sia il Baronetto che il pugile lo vedevano tanto bene da desiderare di allontanarsi da lui, perché quello che avevano di fronte era un viso cattivo, crudele e forte al tempo stesso, arcigno, granitico, dal naso grosso: una faccia feroce con una bocca inflessibile che rivelava un carattere che non avrebbe mai chiesto misericordia né tanto meno l'avrebbe accordata. In quanto alla sua età, si poteva senza dubbio pensare che un uomo che aveva quella faccia fosse giovane abbastanza da far uso di tutta la sua virilità, ma allo stesso tempo era abbastanza vecchio da aver provato tutte le peggiori esperienze della vita. Con i suoi occhi freddi e selvaggi, osservò con attenzione prima il Baronetto, poi il giovane vicino a lui. «Mio Dio, Rowe, è un damerino di Corinto, come ho già detto», disse
voltandosi verso il suo compagno. «Ma quest'altro è molto peggio. Se non sa picchiare, dovrebbe impararlo. Comunque, lo metterò alla prova.» «State attento!», disse il Baronetto. «Non so chi siate; da parte mia so solo che siete un impertinente maleducato e non ci metterei molto a darvi una frustata sul viso!» «Smettete di chiacchierare così, caro signore! Non è saggio parlarmi in questo modo!» «Ho sentito parlare di voi e delle vostre maniere!», gridò l'Ufficiale pieno d'ira. «Vi insegnerò io a fermare i miei cavalli sulla Strada Maestra della Regina! Questa volta avete sbagliato nello scegliere i vostri uomini, caro il mio signore, come imparerete presto!» «Può essere», disse lo sconosciuto. «Può darsi però che tutti noi impareremo qualcosa prima di lasciarci. L'uno o l'altro di voi due dovrà scendere e combattere prima che possiate continuare il viaggio.» Stevens era saltato improvvisamente giù nella strada. «Se volete combattere, siete venuto dalla persona giusta», gli disse. «Combattere: questo è il mio mestiere, quindi non dite che poi vi ho combattuto senza avervi avvisato.» Lo sconosciuto dimostrò la sua soddisfazione urlando. «L'avevo detto io!», gridò. «È uno che picchia, Joe. Non più campagnoli per noi, ma veri lottatori. Bene, giovanotto, avete trovato chi vi vincerà. Vi è mai capitato di sentire ciò che Lord Langmore ha detto di me? Disse che, per battermi, un uomo doveva essere nato in un modo speciale. Questo disse Lord Langmore.» «Questo accadde prima che si facesse avanti il "Toro"», brontolò l'uomo che stava davanti, parlando per la prima volta. «Smettila con gli scherzi, Joe! Se dici ancora una sola parola sul "Toro", finiremo per litigare. Mi ha vinto una volta ma, se mai lo rincontrerò, lo vincerò io, e non si ripeterà di certo la sconfitta. Ebbene, giovanotto, che cosa pensi di me?» «Credo che tu abbia una bella faccia tosta!» «Faccia tosta? Che vuol dire?» «Vuol dire sfacciataggine, e tu sei uno smargiasso pieno di ciance, se preferisci che ti chiami così.» Quest'ultima parola ebbe un effetto sorprendente, perché lo sconosciuto si batté la gamba con una mano e scoppiò in una risata così fragorosa da sembrare un nitrito, mentre il suo arcigno compagno cominciava a ridere smodatamente anche lui.
«Bello mio, hai usato le parole giuste!», strillò quest'ultimo. «Ciance è la parola giusta, non c'è dubbio. Benissimo, adesso c'è una bella luna, ma è circondata da nubi. È meglio far buon uso della luce finché dura.» Mentre l'uomo parlava così, il Baronetto si era messo a guardare il vestiario dello sconosciuto e ne era rimasto sorpreso: i vestiti tradivano il suo mestiere di stalliere ma, nondimeno, tutto il suo aspetto era eccentrico e antiquato. Aveva in testa una tuba dal color bianco-giallastro, fatta di pelle di scoiattolo a pelo lungo (come portano ancora oggi alcuni vetturini di carrozze a doppia pariglia) con il centro a forma di campana e la tesa arricciata in su. Indossava una marsina dalla vita corta, e le lunghe code erano color tabacco con i bottoni d'acciaio. Era aperta sul davanti, e lasciava vedere un panciotto di seta a righe mentre i calzoni di camoscio erano alla zuava. Calze blu e scarpe a tacco basso completavano l'abbigliamento. Il corpo era angoloso e suggeriva un'attività scattante. Questo «Bullo» di Brocas doveva essere indubbiamente una persona molto eccentrica, e il giovane Ufficiale dei Dragoni stava ridendo fra sé e sé pensando alla bella storia che avrebbe potuto raccontare alla mensa parlando della lotta con quella strana figura e della sconfitta che avrebbe rimediato dal famoso pugile londinese. Billy, il piccolo stalliere, aveva preso in custodia i cavalli che tremavano e sudavano. «Andiamo di qua», disse l'uomo robusto, dirigendosi verso il cancello. Il luogo era quanto mai sinistro, buio e misterioso, con quei pilastri che cadevano a pezzi e gli alberi che formavano un arco. Né il Baronetto, né il pugile, si sentivano a loro agio in quel luogo. «Dove andiamo?» «Questo non è un luogo adatto a un combattimento», disse l'uomo robusto. «Dentro il cancello c'è un luogo così bello, come non avete mai visto in vita vostra. Nessun luogo è più bello di Molesey Hurst.» Stevens gli rispose che la strada gli andava benissimo. «La strada va bene per due ragazzi inesperti», gli rispose l'uomo dal cappello di castoro, «ma non è adatta a due lottatori come noi. Non avrete mica paura, per caso?» «No di certo!», disse Stevens coraggiosamente. «Non ho paura né di voi né di dieci persone come voi.» «Benissimo! Allora venite con me e facciamo le cose in regola.» Sir Frederick e Stevens si guardarono rapidamente. «Per me va bene», disse il pugile.
«Allora andiamo.» I quattro oltrepassarono il cancello e, dietro di loro, si potevano udire i cavalli che nell'oscurità scalciavano e si impennavano, mentre la voce dello stalliere si sforzava invano di placarli. Dopo aver camminato una cinquantina di metri sul viale coperto d'erba, l'uomo voltò a destra, addentrandosi in mezzo a degli alberi folti, finché non giunsero a una rotonda radura erbosa, bianca e luminosa sotto la luna. Aveva un bordo rialzato e, più lontano, si poteva scorgere un padiglione di pietra circondato da colonne, quasi un bersò, così amato all'epoca delle prime costruzioni georgiane. «Che cosa vi ho detto?», gridò l'uomo robusto, pieno di soddisfazione. «Potreste trovare un posto migliore nel raggio di venti chilometri dalla città? Fu costruito per la lotta. Adesso, Tom, cominciate a combattere, e mostrategli quello che sapete fare.» Tutto quello pareva un sogno straordinario. Quegli uomini strani, il loro strano vestiario, il loro strano modo di parlare, quel cerchio rotondo di erba e la casetta circondata da colonne, tutto sembrava far parte di una fantastica realtà. Solo la vista di Stevens e del suo abito di tweed mal tagliato riportò il Baronetto al presente. Lo sconosciuto magro si era tolto il cappello di scoiattolo, la marsina e il giubbotto di seta, e alla fine il suo amico gli tolse anche la camicia sfilandogliela dalla testa. Stevens a sua volta si preparava per la lotta con modi freddi e lenti. Poi i due lottatori si voltarono faccia a faccia. Questo loro movimento costrinse Stevens a una esclamazione di sorpresa e di orrore perché, quando il suo antagonista si era tolto il cappello, aveva lasciato scoperta una orribile ferita sulla testa. Tutta la parte alta della fronte era come fosse stata tagliata, e sembrava esserci una larga ferita fra le sopracciglia e i suoi capelli tagliati corti. «Buon Dio», gridò il giovane pugile, «ma che cosa ha quest'uomo?» A questa domanda il suo antagonista sembrò cadere in preda a una fredda furia. «Voi state attento alla vostra di testa, Signor mio!», disse. «Sono certo che troverete abbastanza da fare per difenderla senza dover badare alla mia!» Queste parole fecero sghignazzare il suo compagno. «Ben detto, Tommy!», gridò. L'uomo chiamato Tom stava dritto nel centro del ring naturale, con le
mani alzate. Sembrava un uomo grosso quando era vestito, ma sembrava ancora più grosso con le brache marroni, il petto rotondo, le spalle inclinate e le braccia muscolose che pendevano giù scioltamente, come se fossero create proprio per la lotta. I suoi occhi feroci splendevano fieramente sotto le sopracciglia deformate, e le labbra erano scolpite in un sorriso fisso e torvo, molto più minaccioso di una smorfia severa. Il pugile confessò, mentre gli si avvicinava, che non aveva mai visto un uomo più formidabile di quello. Ma nel suo cuore coraggioso si faceva sempre più strada insistente un pensiero: e cioè che non aveva ancora trovato un avversario che lo avesse potuto vincere, e gli sembrava quasi impossibile che lo avesse trovato in quell'uomo dalle vesti antiquate, incontrato in una strada di campagna. Fu perciò come in risposta a quel pensiero che sorrise e si mise in posizione, alzando le braccia. Ma quello che seguì fu completamente diverso da ogni sua passata esperienza. Lo sconosciuto simulò un attacco con il braccio sinistro e lanciò avanti il destro con tanta rapidità e forza, che Stevens ebbe appena il tempo di evitarlo e di attaccarlo con un breve pugno mentre l'avversario gli si lanciava contro. Un minuto dopo, le mani ossute dell'uomo lo avevano completamente afferrato, e il pugile fu lanciato in aria con una mossa trasversale, per poi ricadere a terra nell'erba con un tonfo pesante. Lo sconosciuto si tirò indietro e incrociò le braccia mentre Stevens si rialzava a fatica e un'ondata di rabbia gli arrossava le guance. «Ascoltami bene!», gridò. «Che razza di gara credi di fare?» «È stata una mossa irregolare!», urlò il Baronetto. «Irregolare un corno! È stata una mossa regolarissima!», disse l'uomo robusto. «Con quali regole giocate?» «Le regole di Queensberry, come tutti.» «Mai sentite nominare. Noi gareggiamo con le regole delle gare di pugilato a premio londinesi.» «Continuiamo allora!», urlò Stevens fuori di sé. «So fare anch'io molto bene la lotta libera. E non mi troverai più mezzo addormentato!» E infatti successe così. Quando lo sconosciuto gli si lanciò contro, Stevens lo afferrò saldamente e, dopo varie oscillazioni e tentennamenti, caddero ambedue per terra come cani. Questo accadde tre volte, e ogni volta lo sconosciuto andò vicino al suo amico, si mise a sedere sul bordo erboso e poi ricominciò. «Che cosa pensi di questo individuo?», chiese il Baronetto durante una
di queste pause. Stevens perdeva sangue da un orecchio ma non mostrava altre ferite. «Sa bene quel che fa, ma non so dove abbia imparato queste regole. Dev'essersi allenato moltissimo. È forte come un leone e duro come il legno, nonostante quella sua strana faccia.» «Cerca di superarlo nella lotta. Credo infatti che tu sia migliore in questa disciplina.» «Non credo di essere sicuro di essere migliore in niente, ma farò del mio meglio.» Fu una lotta disperata e, come le riprese si susseguirono le une alle altre, il Baronetto vide chiaramente che il suo campione di pesi medi aveva trovato chi gli teneva testa. Lo sconosciuto attaccava velocemente e colpiva saltando, il che lo rendeva un nemico assai temibile. Sembrava insensibile ai colpi, sia che questi gli giungessero sulla testa o sul corpo, e quel suo sorriso così orribile e maligno non abbandonò mai, nemmeno per un minuto, le sue labbra. Picchiava tremendamente con pugni duri come pietre, e i suoi colpi arrivavano fischiando da ogni parte. Aveva un colpo particolarmente pericoloso, dal basso in alto, diretto alla mascella, che molto spesso fu sul punto di colpire Stevens, finché alla fine riuscì ad evitare la sua difesa e lo stese per terra. L'uomo grosso lanciò un grido di trionfo. «Lo hai colpito ben bene, non c'è dubbio. Ormai Tommy sta vincendo. Un altro colpo come questo, ragazzo mio, e siete fritto!» «Sentite un po', Stevens: questa sta diventando una cosa seria», disse il Baronetto mentre sosteneva l'uomo già stanco. «Che cosa dirà il Reggimento se gli porto qualcuno come voi fatto a pezzi in una gara casuale? Stringetegli la mano e ditegli che ha vinto; altrimenti non potrete più fare altre lotte.» «Dirgli che ha vinto? Certamente no!», gridò Stevens arrabbiatissimo. «Prima che mi ammazzi, voglio togliergli quell'orribile smorfia dal suo ancor più orribile muso.» «E che farete con il Sergente?» «Preferisco tornare a Londra e non vedere mai più il Sergente piuttosto che umiliarmi davanti a questo tipo.» «Che ne dite? Ne avete avuto abbastanza?», gli chiese il suo avversario in tono di scherno, mentre si alzava in piedi. Come risposta Stevens balzò avanti e si precipitò contro l'uomo con tutta l'energia che gli era rimasta. Con la forza della disperazione dapprima lo
fece indietreggiare e, per un lungo minuto, sembrò vincere con i suoi colpi. Ma quel lottatore di ferro non pareva stancarsi. I suoi passi e i suoi pugni erano egualmente forti quando quella lunga serie di colpi finì. Stevens sembrò rallentare un po', preso da grande stanchezza. Ma il suo antagonista non rallentò, e venne avanti contro di lui con una gragnuola di colpi furiosi che misero fuori combattimento le difese del pugile. Alf Stevens era allo stremo delle sue forze e sarebbe crollato a terra, se un fatto assai strano non fosse intervenuto. Abbiamo detto che, per raggiungere la rotonda, i quattro uomini erano passati attraverso un boschetto. All'improvviso si udì in mezzo ai folti alberi un grido acuto, come se qualcuno fosse sul punto di morire. Il grido sembrava quello di un bambino o di un'altra creatura del bosco che soffrisse. Il suono era indistinto, acuto, pieno di malinconia. Lo sconosciuto, che aveva vinto Stevens costringendolo ad inginocchiarsi, a quel suono cominciò a barcollare all'indietro. Si guardò intorno con la faccia atteggiata a un'espressione di terrore impotente. Il sorriso era sparito dalle sue labbra e queste, rimanendo semiaperte, esprimevano uno spavento indicibile. «Mi sta ancora seguendo, amico mio!», gridò. «Non cedete, Tom: lo avete quasi battuto! Non può farvi del male.» «Mi può far del male. Mi farà del male!», urlò il lottatore. «Mio Dio, non lo posso affrontare! Ecco, lo vedo... sì lo vedo, lo vedo!» Con un urlo di paura si voltò e fuggì nella boscaglia. Il suo compagno, bestemmiando ad alta voce, raccattò il mucchio di vestiti, e lo seguì di corsa. L'uno e l'altro scomparvero nell'oscurità. Stevens, mezzo svenuto, raggiunse barcollando il bordo erboso e appoggiò la testa sul petto del Baronetto che gli diede da bere del brandy dalla sua borraccia. Mentre sedevano entrambi sul prato, sentivano che gli urli si avvicinavano, e al tempo stesso aumentavano di intensità. All'improvviso ecco che dai cespugli corse fuori un piccolo cagnolino bianco che pareva seguisse una pista, e che emetteva guaiti in maniera commovente. Si accovacciò sulle zolle erbose senza neppure guardare i due giovani. Poi, improvvisamente, svanì nelle tenebre. Mentre accadeva tutto questo, il Baronetto e il suo compagno scattarono in piedi e cominciarono a correre con tutte le loro forze per allontanarsi il più possibile dal cancello e dalla trappola che questo nascondeva. Erano in preda al terrore, un timor panico che erano incapaci di controllare con la ragione. Tremando e vacillando, raggiunsero il calesse e vi si gettarono
dentro esausti, non riuscendo a parlare finché più di due miglia non li separarono dal quel luogo funereo. «Avete mai visto un cane così?», chiese il Baronetto. «No», rispose Stevens gridando. «Prego Iddio di non vederlo mai più.» Più tardi i due viaggiatori si fermarono a una locanda chiamata «Il Cigno», vicino al bosco di Harpenden. Il Baronetto conosceva l'oste da lungo tempo e lo invitò dopo cena a bere un bicchiere di Porto con loro. L'oste de «Il Cigno», Joe Horner, era un famoso sportivo e parlava in continuazione degli eventi e delle leggende, vecchie e recenti, del pugilato. Il nome Alf Stevens gli era ben noto e lo guardava con grande interesse. «Voi, Signore, avete combattuto recentemente, eppure non ho letto nei giornali notizia alcuna di gare.» «Vi prego, non parlate più di questo argomento», disse Stevens sgarbatamente. «Non volevo certo offendervi!» Poi, cambiando l'espressione sorridente della sua faccia e diventando all'improvviso serio, gli disse: «Spero che non abbiate incontrato per caso colui che chiamano il "Bullo di Brocas", dal momento che viaggiate verso nord, non è vero?». «E se lo avessimo incontrato?» L'oste mostrò la sua eccitazione. «È stato lui che quasi uccise Bob Meadows. Lo fermò al cancello del vecchio castello chiamato Brocas: e non era solo, perché c'era un suo compagno. Ebbene, Bob era un fortissimo lottatore ma fu trovato il giorno dopo battuto, quasi fatto a pezzi, in un prato dentro il cancello, proprio dove c'è la serra.» Il Baronetto assentì con un cenno della testa. «Allora siete stati là!», gridò l'oste. «E va bene. Diciamo pure la verità», disse il Baronetto guardando Stevens. «Siamo stati là e abbiamo incontrato l'uomo di cui parlate: un orribile figuro! Sotto tutti i punti di vista!» «Raccontatemi», disse l'oste, parlando piano, quasi bisbigliando. «È vero quello che dice Bob Meadows, e cioè che quegli uomini sono vestiti come i nostri nonni e che il pugile ha la testa rotta?» «Certamente sono vestiti all'antica e la testa del pugile era la più strana che abbia mai visto.» «Santo Cielo!», esclamò l'oste. «Sapete, Signore, che Tom Hickman, il famoso pugile, insieme al suo amico Hoe Rowe, un argentiere della City, furono uccisi proprio in quel luogo nell'anno 1822, quando il pugile era
ubriaco e tentò di guidare un carretto all'incontrano? Ambedue morirono e la ruota del carro schiacciò la fronte di Hickman.» «Hickman! Hickman!», disse il Baronetto. «Non certo quell'Hickman, "Controllore del Gas"?» «Sì, signore, proprio lui, che fu soprannominato il "Gas". Vinse tutte le gare con quello che chiamarono il suo "colpo guizzante" e nessuno poté resistergli eccetto quando incontrò Neate, che era stato soprannominato il "Toro di Bristol". Ebbene, il "Toro" lo vinse.» Stevens si era alzato dalla tavola bianco come un lenzuolo. «Andiamocene, Signore. Voglio una boccata di aria fresca. Continuiamo il viaggio.» L'oste gli dette una pacca sulle spalle. «State su, ragazzo mio! Voi non gli avete ceduto e questo è più di quanto gli altri non abbiano mai fatto. Sedetevi e bevete un altro bicchiere di vino, perché stasera, se c'è qualcuno che lo merita fra tutti gli uomini di quest'isola, questo qualcuno siete proprio voi. Ci sono molti debiti che voi avete saldato picchiando il "Controllore del Gas". Morto o vivo. Sapete che cosa fece una volta proprio qui, in questa stanza?» I due viaggiatori si guardarono intorno con occhi sorpresi. La stanza era alta, costruita in pietra e ricoperta di pannelli di quercia; un grande camino era acceso in una delle pareti più lontane. «Sì, proprio in questa stanza. L'ho sentito raccontare dal vecchio scudiero Scotter che era presente quella sera. Era il giorno in cui Skelton aveva battuto Josh Hudson a St. Albans e "Gas" aveva vinto un mucchio di denari con quella gara. Con il suo amico Rowe venne qui, interrompendo il viaggio, ed era completamente ubriaco. Gli avventori si rifugiarono negli angoli o sotto le tavole perché camminava qua e là come se cercasse qualcosa, con una grande mazza di ferro in mano e sulla faccia una brutta espressione, come se volesse uccidere qualcuno. Diventava così, crudele e temerario, e terrorizzava tutti, quando aveva bevuto. Bene. Sapete quel che fece con quella mazza? C'era un cagnolino, mi hanno detto, rannicchiato vicino al fuoco perché era una notte fredda di dicembre. Il "Controllore del Gas" gli ruppe la schiena con la mazza. Con un solo colpo. Poi proruppe in una risata e rivolse anche un paio di parolacce a due o tre uomini che si stavano allontanando da lui. Ritornò al calesse che aspettava fuori e non avemmo più sue notizie fino a quando ci dissero che lo avevano portato a Finchley con la testa fracassata dalla ruota del carro.
Si dice che il cagnolino con la schiena rotta e sanguinante sia stato visto aggirarsi nelle vicinanze di Brocas Corner, trascinandosi ed emettendo guaiti come se cercasse quel porco che lo aveva ammazzato. Così, signor Stevens, voi avete combattuto non solo per voi stesso, stanotte, quando avete incontrato quell'uomo.» «Sarà così, senz'altro», disse il giovane pugile, «ma io non voglio più combattimenti del genere. Il Sergente Maniscalco mi va bene, Signore, e, se non avete nulla in contrario, prenderemo il treno per tornare in città.» ALFRED MC LELLAND La statua di cera Mentre il personale del museo delle statue di cera Marriner faceva passare gli ultimi visitatori attraverso ampie porte dai pannelli di vetro, il direttore era nel suo ufficio a colloquio con Raymond Hewson. Il direttore era un uomo di media statura, biondo, robusto e piuttosto giovane. Portava bene i suoi abiti riuscendo ad apparire molto elegante senza ostentazione. L'aspetto di Raymond Hewson era totalmente diverso. I suoi abiti, che in altri tempi dovevano essere stati buoni e che erano ancora ben spazzolati e ben stirati, cominciavano a mostrar tracce della sconfitta del loro possessore nella battaglia contro la vita. Era un uomo piccolo, pallido e magro con capelli lisci e mal pettinati e, benché parlasse con una certa disinvoltura e perfino con energia, aveva l'aria rassegnata e quasi furtiva di chi è avvezzo ai rifiuti. Si capiva subito che cosa era: un uomo in un certo senso più dotato del normale che non era riuscito a nulla per mancanza di fiducia in sé. Il direttore stava parlando. «Lei non è il primo a chiederci una cosa del genere», disse. «Le dirò anzi che respingiamo proposte come la sua, generalmente rivolteci da giovani bulli ansiosi di vincere una scommessa, almeno tre volte la settimana. Non abbiamo niente da guadagnare e parecchio da perdere permettendo alla gente di passare la notte nell'"Antro degli Assassini". Se ne dessimo l'autorizzazione e se poi qualche giovane idiota perdesse i sensi lì dentro, in che situazione mi troverei io? Ma lei è un giornalista, e questo forse rende la cosa diversa.» Hewson sorrise. «Vuol dire che i giornalisti non hanno sensi da perdere?» «No, no», rise il direttore, «ma suppongo che i giornalisti, abituati come
sono alle vicende più strane, non si impressionino tanto facilmente. E poi, con loro abbiamo qualcosa da guadagnare: pubblicità, se non altro.» «Appunto», disse Hewson, «ed è per questo che pensavo potessimo giungere a un accordo.» Il direttore rise di nuovo «Oh!», esclamò. «Adesso capisco. Lei vuol essere pagato due volte, vero? Anni fa si diceva che Madame Toussaud offriva cento sterline a chi se la sentiva di dormire solo nella "Camera degli Orrori". Ma noi, mi creda, non abbiamo mai fatto un'offerta simile. Ehm... per che giornale lavora, signor Hewson?» «Attualmente», confessò Hewson, «non ho un giornale fisso, ma collaboro saltuariamente qua e là. Comunque non avrei difficoltà a pubblicare un articolo del genere. Il Morning Echo lo prenderebbe al volo. «Una notte con gli assassini di Marriner»: nessun giornale al mondo rifiuterebbe un pezzo su questo argomento!» Il direttore si fregò il mento. «Ah, e come lo farebbe questo articolo?» «Terrificante, è naturale; con un pizzico di humour per renderlo più leggibile.» L'altro annuì e gli offrì una sigaretta. «Benissimo, signor Hewson», disse. «Pubblichi il suo articolo sul Morning Echo e ci sarà un biglietto da cinque sterline a sua disposizione: potrà ritirarlo quando vuole. Ma voglio avvertirla che non è una cosa da poco quella che lei si è proposta. Cerchi di rendersene conto, la prego. Io, per esempio, non dovrei emozionarmi per una faccenda del genere. Ho visto queste statue vestite e spogliate, so esattamente come vengono costruite, e potrei passeggiare davanti a loro con altre persone con la stessa indifferenza con cui lei può passare davanti a dei birilli. Eppure non accetterei mai di dormire solo laggiù.» «Perché?», domandò Hewson. «Non lo so. Non ce ne sarebbe motivo. Non credo ai fantasmi e, se ci credessi, penserei che vorrebbero tornare sulla scena dei loro delitti o nel luogo dove sono stati sepolti, non in un sotterraneo che ospita soltanto le loro statue di cera. È solo che non potrei restare tutta la notte là dentro: avrei l'impressione di essere continuamente guardato in un modo da farmi venire i brividi. Dopotutto, quelle figure rappresentano i campioni più disprezzabili e più spaventosi dell'umanità intera e, anche se non lo ammetterei mai in pubbli-
co, le persone che vengono a vederle non sono sempre ispirate dai motivi più nobili. Insomma, l'atmosfera di quel luogo è decisamente sgradevole e, se lei è sensibile a queste cose, l'avverto che le si prepara una notte assai poco serena.» Questo Hewson lo sapeva fin dal momento in cui aveva avuto quella idea. Si sentiva male solo a pensarci, anche se continuava a sorridere con aria indifferente. Ma aveva una famiglia da mantenere e, negli ultimi mesi, era riuscito a pubblicare solo qualche articoletto, attingendo per il resto a una piccola riserva di economia ormai prossima a esaurirsi. E questa era un'occasione da non gettar via: un servizio sul Morning Echo con relativo compenso, e quel biglietto da cinque sterline, potevano voler dire una certa agiatezza e qualche lusso per una settimana, e un sollievo ai più angosciosi problemi per quindici giorni. Inoltre, se il pezzo fosse stato scritto bene, c'era sempre la possibilità che gli offrissero un impiego sicuro. «Noi giornalisti», disse, «dobbiamo essere pronti a tutto. Mi aspetto già di dormire scomodo, perché immagino che il vostro "Antro degli Assassini" non sia attrezzato come una camera. Ma non credo che quelle statue possano impressionarmi molto.» «Non è superstizioso?» «Nemmeno un po'», rise Hewson. «Ma se fa il giornalista avrà molta fantasia, immagino.» «No, anzi, i direttori per cui ho lavorato si sono sempre lamentati che non ne avessi abbastanza. Nel nostro mestiere non basta saper esporre i fatti come si sono svolti: i giornali preferiscono presentarli al lettore con qualche orpello.» Il direttore sorrise e si alzò. «Bene», disse. «Credo che ormai i visitatori se ne siano andati tutti. Darò ordine di non ricoprire le statue nel sotterraneo e farò sapere al guardiano notturno che lei passa la notte qui. Poi l'accompagnerò da basso e le mostrerò il locale.» Afferrò il ricevitore di un telefono interno e, dopo aver parlato, lo rimise al suo posto. «Temo di doverle imporre una condizione», aggiunse. «Devo pregarla di non fumare. Stasera, giù all'"Antro degli Assassini", abbiamo temuto un incendio. Qualcuno, non so chi, aveva dato l'allarme senza nessuna ragione. Fortunatamente c'era pochissima gente, sennò sarebbe scoppiato il panico. Beh, se ora lei è pronto, possiamo anche andare.» Hewson seguì il direttore attraverso una mezza dozzina di stanze dove
gli inservienti stavano ricoprendo i Re e le Regine d'Inghilterra, i Generali e gli statisti di ieri e di oggi, tutti coloro insomma cui gloria o fama avevano procurato questa forma di immortalità. Il direttore si fermò a parlare con un uomo in divisa, ordinandogli di portare una poltrona nell'«Antro degli Assassini». «Temo di non poterle offrire di meglio», disse poi a Hewson. «E mi auguro che le sia possibile prendere sonno.» Gli fece strada attraverso un cancello aperto e imboccò una scala male illuminata che dava la sgradevole sensazione di introdurre in una segreta. In fondo, in un corridoio, si trovavano alcuni orrori preliminari: qualche reliquia dell'Inquisizione, una ruota presa in un castello medievale, dei ferri roventi per marchiare a fuoco, uno «schiacciapollici» e altri campioni dell'antica crudeltà dell'uomo sull'uomo. In fondo al corridoio c'era l'«Antro degli Assassini». Era una stanza di forma irregolare con un soffitto a volta, appena illuminata da alcune lampadine elettriche racchiuse in bocce di vetro opaco. Voleva essere un luogo sgradevole, creare un'atmosfera nella quale i visitatori fossero costretti a parlare sottovoce. Assomigliava un po' a una cappella, non più dedita a pratiche di pietà, ma adibita all'esercizio di culti ignobili ed empi. Gli assassini di cera stavano sui loro bassi piedistalli, con ai piedi dei cartellini numerati. Visti altrove, e senza sapere chi raffiguravano, sarebbero parsi una turba di esseri insignificanti, soprattutto notevoli per gli abiti logori che indossavano, e un esempio indiscutibile dell'influenza della moda anche su chi la moda non segue. Fame recenti accostavano le loro spalle polverose a quelle di antichi «divi». Thurtell, l'assassino di Weir, era come immobilizzato nell'atto di compiere un gesto da cartellone sul giovane Bywaters. Accanto a lui c'era Lefroy, il povero, piccolo e stupido snob che uccideva per denaro e per poter scimmiottare i gentlemen. Pochi metri più in là si vedeva la signora Thompson, romantica e sensuale, mandata al patibolo per far contente le buone borghesi di Gran Bretagna. Charles Peace, il solo membro di quella accolita che sembrasse assolutamente e interamente malefico, sogghignava attraverso il corridoio a Norman Thorne. Browne e Kennedy, i due «arrivi» più recenti, stavano fra la signora Dyer e Patrick Mahon. Il direttore, percorrendo con Hewson il salone, gli indicava i più interessanti fra quei poco raccomandabili personaggi. «Questo, lo avrà riconosciuto, è Crippen. Un piccolo animaletto insigni-
ficante che sembrerebbe incapace di far del male a una mosca. Questo è Armstrong. Non ha l'aria di un innocuo e rispettabile signorotto di campagna? E questo è il vecchio Vaquier: non ci si può sbagliare, ha la barba. Questo, infine, è naturalmente...» «Già, chi è?», mormorò Hewson additandolo. «Stavo appunto per dirglielo», disse il direttore abbassando un po' la voce. «Venga a dargli un'occhiata. È il nostro divo del momento: l'unico del mazzo che non sia stato impiccato.» La statua che Hewson aveva indicato raffigurava un uomo magro, alto non più di un metro e mezzo. Portava baffetti di cera, enormi occhialoni e un mantello con cappuccio. C'era nel suo aspetto qualcosa di così esageratamente francese che a Hewson vennero in mente certi personaggi visti in teatro. Eppure, anche se non avrebbe mai saputo spiegare perché quel viso dall'aria dolce gli sembrava così repellente, era indietreggiato di un passo e, nonostante la presenza del direttore, gli era difficile volgere ancora gli occhi su di lui. «Chi è insomma?», domandò. «Questi», rispose il direttore, «è il dottor Bourdette.» Hewson, perplesso, scosse il capo. «Mi sembra di aver già sentito questo nome», disse, «ma non ricordo a che proposito.» Il direttore sorrise. «Se lei fosse francese, lo ricorderebbe certamente», disse. «Per qualche tempo quest'uomo fu il terrore di Parigi. Di giorno faceva il medico, e di notte, quando gli venivano le crisi, andava in giro a tagliar gole. Uccideva soltanto per il piacere di uccidere e sempre nello stesso modo, con un rasoio. Dopo l'ultimo delitto, si lasciò dietro un indizio che mise la polizia sulle sue tracce. Poi gli indizi si moltiplicarono e le autorità si accorsero di aver individuato l'equivalente francese del nostro Jack lo Squartatore e di avere prove sufficienti a spedirlo in manicomio o consegnarlo alla ghigliottina come reo di almeno dodici delitti capitali. Ma il nostro amico era troppo furbo per lasciarsi chiudere in trappola. Quando capì che la rete si stava stringendo intorno a lui, scomparve misteriosamente e, da allora, le polizie di tutti i paesi civili non hanno più smesso di cercarlo. Probabilmente, è riuscito ad autoeliminarsi, valendosi di mezzi che hanno poi impedito di ritrovare il cadavere. Dopo la sua scomparsa, c'è stato ancora qualche delitto dello stesso tipo, ma si è quasi certi che sia morto e che queste recrudescenze siano opera di imitatori. È strano,
vero, che ogni assassino famoso abbia degli imitatori?» Hewson rabbrividì e stropicciò i piedi. «Non mi piace per niente», ammise. «Accidenti, che occhi!» «Sì, questa statua è un piccolo capolavoro. Non ha la sensazione di essere attratto dal suo sguardo? Beh, questo è un buon esempio di realismo, perché Bourdette era un ottimo ipnotizzatore e si ritiene che ipnotizzasse le sue vittime prima di sopprimerle. Certo, se non avesse fatto così, piccolo com'era, non avrebbe potuto compiere imprese tanto terribili. Non ci sono mai stati segni di lotta.» «Mi era sembrato che si fosse mosso», disse Hewson con la voce che gli tremava un poco. Il direttore sorrise. «Suppongo che di illusioni ottiche lei ne avrà più d'una prima che la notte finisca. Ma non la chiuderemo qui. Potrà sempre, se non riuscirà più a resistere, salire di sopra. Ci saranno dei guardiani là, che le faranno compagnia. Non si spaventi se li sente muovere. Mi spiace di non poter illuminare di più, perché tutte le luci sono già accese. Per ragioni evidenti preferiamo tenere questa stanza il più al buio possibile. E ora le consiglio di tornare con me in ufficio a bere un po' di whisky prima di iniziare la veglia.» Il guardiano notturno che portò nel sotterraneo la poltrona aveva voglia di scherzare. «Dove la mettiamo, signore?», domandò sogghignando. «Qui, per permetterle di chiacchierare con Crippen quando si stufa di star fermo senza far nulla? O qui, di fronte alla vecchia Mamma Dyer che le fa l'occhietto come se volesse un po' di compagnia? Decida lei, signore.» Hewson sorrise. Il tono scherzoso dell'uomo gli piaceva, se non altro perché, almeno per il momento, serviva a rendere meno macabro l'aspetto di quel luogo. «Grazie, me la metto a posto io», disse. «Voglio prima scoprire da dove vengono gli spifferi.» «Oh, qui non ci sono spifferi... Beh, buona notte, signore. Se ha bisogno di me, sono di sopra. Faccia in modo che non le striscino alle spalle e non le tocchino il collo con quelle mani fredde e viscide. E non trascuri la vecchia Dyer: ho l'impressione che abbia un debole per lei.» Hewson rise e gli augurò la buona notte. L'esperienza si annunciava meno sgradevole del previsto. Spinse la poltrona, un oggetto pesante foderato in felpa, un po' più in giù sul corridoio centrale, in modo da volgere le
spalle all'immagine del dottor Bourdette. Per qualche strana ragione, il piccolo francese gli era infatti assai meno simpatico dei suoi compagni. Lo spostare la poltrona lo aveva distratto per qualche secondo, ma, quando si spense l'eco dei passi del guardiano e un profondo silenzio venne a invadere la stanza, si accorse di dover affrontare una prova piuttosto dura. Le luci fioche battevano su quelle statue, così sorprendentemente simili ad esseri umani, che il loro silenzio e la loro fissità parevano innaturali e veramente terrificanti. Sentiva la mancanza dei fruscii di abiti, dei respiri, dei cento piccoli suoni che si possono udire anche quando il più profondo dei silenzi è calato su una folla. Qui l'aria era immota come l'acqua di uno stagno: non c'era il più piccolo soffio di vento che agitasse una cortina, facesse frusciare una tenda o abbozzasse un'ombra. La sua ombra, che mutava ad ogni gesto del braccio o della gamba, era la sola cosa suscettibile di movimento. Tutto era fermo per i suoi occhi e muto per le sue orecchie. «Dev'essere così in fondo al mare», pensò, e si domandò come avrebbe fatto l'indomani a includere quella frase nel suo articolo. Fissò quelle statue con una certa baldanza. Erano soltanto figure di cera. Se fosse riuscito a far prevalere sugli altri questo pensiero, tutto sarebbe andato bene. Ma questo non bastava a difenderlo dal disagio causatogli dallo sguardo cereo del dottor Bourdette che alle sue spalle, e lui lo sapeva, lo stava fissando. Gli occhi del piccolo francese lo ossessionavano, lo torturavano, e suscitavano in lui un impulso irresistibile a voltarsi, a guardare. «Accidenti!», pensò. «I miei nervi incominciano a cedere. Ma voltarsi a guardare quello spaventapasseri, sarebbe come ammettere di aver paura.» Intanto un'altra voce si era insinuata nel suo cervello. «Ma no, è proprio non voltandoti a guardarlo che dimostri di aver paura!» Le due voci dibatterono l'argomento silenziosamente per qualche istante. Poi Hewson spostò leggermente la poltrona e guardò. Fra le molte statue immobili in pose rigide e innaturali, quella del terribile dottore spiccava con strano risalto, forse perché un intenso raggio di luce cadeva proprio su di lei. Hewson rimase interdetto davanti a quella parodia di squisitezza che un artigiano diabolicamente abile era riuscito a modellare su quel volto. Lo fissò negli occhi per un attimo interminabile e volse il viso in un'altra direzione. «È anche lui una statua di cera come tutti voi», mormorò Hewson in tono di sfida. «Siete tutte statue di cera.»
Erano tutte statue di cera, naturalmente, ma le statue di cera non si muovono. Non che egli avesse sorpreso anche il più piccolo movimento, ma si era accorto che, nei pochi istanti in cui sì era guardato alle spalle, c'erano stati spostamenti appena percettibili nel gruppo di statue poste davanti a lui. Crippen, per esempio, sembrava essersi voltato verso destra di almeno un grado. A meno che, pensava Hewson, questa sensazione fosse dovuta al non aver egli riposto la poltrona nella sua posizione originale. Ma c'erano anche Field e Grey, e indubbiamente uno di loro aveva mosso le mani. Hewson trattenne un attimo il fiato e si fermò a raccogliere il proprio coraggio come un uomo che concentri le sue forze prima di alzare un peso. Ricordò le parole di tanti direttori di giornale e rise amaramente. «E mi accusavano di non aver fantasia!», mormorò. Poi trasse di tasca un taccuino e scrisse: «Silenzio mortale e misteriosa fissità delle statue. È come stare in fondo al mare. Sguardo ipnotico del dottor Bourdette. Le statue sembrano muoversi quando nessuno le guarda». Chiuse il taccuino e si guardò attorno rapidamente, gettando un'occhiata spaurita anche dietro le spalle. Non aveva visto né udito nulla, ma era come se un sesto senso gli avesse fatto percepire qualcosa. Puntò gli occhi sugli scialbi lineamenti di Lefroy che sorrideva vacuo con l'aria di dire: «Non sono stato io!». Certo che non era stato lui, né nessun'altra di quelle statue: erano soltanto i suoi nervi. Oppure no? Forse che Crippen non si era di nuovo mosso in quell'attimo in cui la sua attenzione era stata richiamata altrove? Non ci si poteva proprio fidare di quell'ometto! Bastava levargli un momento gli occhi di dosso e quello subito modificava la sua posizione! «E anche gli altri fanno così, ci potrei scommettere», borbottò fra sé, sollevandosi a mezzo sulla poltrona. No, non andava proprio bene! Se ne sarebbe andato. Non avrebbe passato la notte con un mucchio di statue di cera che si muovevano appena lui non le guardava. ...Hewson tornò a sedersi. Era una decisione vile e assurda. Aveva di fronte soltanto statue di cera, che non potevano muoversi: bastava mettersi in testa quell'idea e tutto sarebbe andato bene. Ma allora perché quella silenziosa inquietudine tutto intorno? Quel lieve non so che nell'aria che non arrivava fino a spezzare il silenzio e che accadeva, ovunque egli guardasse, oltre i limiti della sua visuale? Si voltò rapidamente per incontrare lo sguardo dolce e funesto del dottor Bourdette. Poi, senza por tempo in mezzo, tornò a fissare Crippen. Ah,
questa volta l'aveva quasi colto! «Faresti meglio a stare attento, Crippen... e anche voialtri! Il primo che vedo muoversi, lo faccio a pezzi. Siamo intesi?» Avrebbe dovuto andarsene, pensava. Con quello che aveva già visto, sarebbe stato in grado di scrivere su quella faccenda non un articolo solo, ma dieci. E allora, perché non se ne andava? Al Morning Echo non importava quanto tempo lui fosse rimasto lì e non gliene sarebbe mai importato se il pezzo fosse stato buono. Sì, ma di sopra il guardiano notturno lo avrebbe preso in giro. E il direttore, non si sa mai, il direttore forse avrebbe fatto delle storie per quel biglietto da cinque sterline di cui lui aveva tanto bisogno... Chi sa se Rose a quell'ora stava dormendo o se era ancora sveglia a pensare a lui? Si era messa a ridere, quando le aveva esposto il suo progetto... No, questo era troppo! Era già una seccatura che quelle statue di cera potessero muoversi quando nessuno le guardava, ma che addirittura respirassero era proprio insopportabile! E ora, qualcuno stava respirando. O era il suo stesso respiro che pareva giungergli da qualche distanza? Restò immobile ad ascoltare con le orecchie tese. Poi sorrise... Quel respiro era il suo... a meno che quel qualcuno non si fosse accorto dei suoi sospetti e non avesse immediatamente cessato di respirare. Hewson girò rapidamente il capo, attento a quegli occhi feroci e assillanti. Ma il suo sguardo incontrava ovunque vuoti visi di cera e sentiva ovunque di aver mancato per una minima frazione di secondo un movimento della mano o del piede, un muto aprirsi e un immediato serrarsi delle labbra, un battito di ciglia o uno sguardo subito spento di intelligenza umana. Sembravano quei ragazzini discoli che a scuola bisbigliano, si agitano e ridacchiano alle spalle del maestro, pronti ad assumere un'aria innocente appena quello volge lo sguardo su di loro. Ma non era possibile! Non era assolutamente possibile! Doveva aggrapparsi a qualcosa, agganciare la sua mente a qualcosa che appartenesse interamente al mondo di tutti i giorni, alle vie di Londra illuminate dal sole. Lui era Raymond Hewson, un giornalista senza successo, ma un uomo che viveva e respirava, mentre le statue erano soltanto dei fantocci che non potevano né muoversi né sussurrare. Che importanza aveva se la loro immagine era la copia esatta di quella di famosi assassini? Erano solo figure di cera e di segatura, messe lì per il divertimento di qualche turista morboso e di qualche ragazzotto a caccia di esperienze emozionanti. Oh, ora andava meglio! E come era quella barzelletta che gli avevano raccontato ieri, da
Falstaff?... Ne richiamò alla memoria una parte, ma non tutta, perché lo sguardo del dottor Bourdette lo aggredì, lo sfidò e finalmente lo costrinse a voltarsi. Hewson girò la poltrona in modo da trovarsi faccia a faccia con quei terribili occhi ipnotici. Anche i suoi occhi erano dilatati e la bocca, prima atteggiata in una smorfia di terrore, si sollevava agli angoli in un sogghigno. Poi Hewson parlò e la sua voce suscitò cento echi sinistri. «Ti sei mosso, maledetto!», gridò. «Sì, ti sei mosso, accidenti! Ti ho visto!» Poi si sedette immobile, guardando fisso davanti a sé, come quegli uomini che si trovano congelati fra le nevi artiche. Il dottor Bourdette si muoveva senza fretta. Abbandonò il suo piedistallo con il passo affettato di una signora che scende dall'autobus. La piattaforma era alta almeno sessanta centimetri dal suolo, e sopra il suo bordo c'era una corda fasciata di felpa, disposta in linee curve simili a festoni. Il dottor Bourdette sollevò quella corda fino a formare un arco e, passandovi sotto, scese dalla piattaforma, mettendosi a sedere di fronte a Hewson. Poi sorrise, dicendo: «Buonasera». «Non ho bisogno di dirle», continuò esprimendosi in un inglese perfetto, appena macchiato da un lievissimo accento straniero, «che, prima di udire la sua conversazione con lo stimabile direttore di questa istituzione, non avrei mai sperato di poter avere un compagno per questa notte. Lei non può muoversi né parlare senza mio ordine, ma può benissimo ascoltarmi. Ho l'impressione che in questo momento sia un po'... come dire?... Nervoso? Mio caro signore, non si metta in testa idee strane. Io non sono una di quelle sciagurate statue miracolosamente tornate alla vita, ma il dottor Bourdette in persona.» Fece una pausa, tossì e si sgranchì le gambe. «Mi scusi», riprese, «ma sono un po' anchilosato. E mi permetta di spiegarle. Alcune circostanze, su cui non intendo tediarla, mi hanno consigliato di trasferirmi in Inghilterra. E stasera, mentre mi trovavo davanti a questo edificio, ho notato che un poliziotto mi fissava con eccessiva curiosità. Temendo che volesse seguirmi e magari rivolgermi qualche imbarazzante domanda, mi sono mescolato alla folla e sono entrato qui dentro, dove una moneta in più mi ha permesso di arrivare in questa stanza e dove una felice ispirazione mi ha suggerito un modo sicuro per togliermi d'impiccio. Gridai al fuoco e, quando tutti quegli idioti si precipitarono su per le sca-
le, strappai alla mia effige questo mantello, lo indossai, nascosi la statua sotto la piattaforma e ne presi il posto sul piedistallo. Credo di aver vissuto una serata piuttosto faticosa, anche se, per fortuna, non essendo sempre osservato, avevo agio ogni tanto di emettere un profondo respiro e di ovviare alla rigidità della mia posizione. Un ragazzino si mise a strillare e disse di avermi visto muovere. Ho sentito promettergli che, appena a casa, lo avrebbero frustato e mandato subito a letto, e spero vivamente che questa minaccia sia stata posta in essere. Le considerazioni del direttore sul mio conto, che mio malgrado sono stato costretto a udire, erano poco gentili ma non del tutto inesatte. Naturalmente non sono morto, anche se preferisco che la gente abbia questa opinione. E anche il suo accenno all'hobby cui indulgo da anni, benché forzatamente con minor frequenza in questi ultimi tempi, era tutto sommato esatto, mancando soltanto di una certa precisazione scientifica. Il mondo si divide infatti in collezionisti e non collezionisti. I non collezionisti non ci riguardano. I collezionisti raccolgono le cose più varie, a seconda dei loro gusti personali, dal denaro ai pacchetti di sigarette, dalle farfalle alle scatole di fiammiferi. Io raccolgo gole.» Fece una pausa e fissò la gola di Hewson con un interesse non privo di disprezzo. «Devo approfittare dell'occasione che ci ha riuniti qui stasera», continuò, «e sarei forse un ingrato se mi lamentassi. Per motivi di sicurezza, le mie attività sono in certo qual modo rallentate negli ultimi anni; e sono lieto dell'opportunità che mi si offre per soddisfare il mio non comune capriccio. Ma lei, signore, se posso permettermi un'osservazione un po' personale, ha un collo eccessivamente scarno. Se avessi possibilità di scelta, non mi rivolgerei a lei. Preferisco gli uomini coi colli taurini... colli rossi e taurini.» Frugò in una tasca interna e ne trasse qualcosa che provò sull'indice inumidito e che incominciò poi a far scorrere lentamente avanti e indietro sul palmo della mano sinistra. «Questo», spiegò, «è un piccolo rasoio francese. Non sono comuni in Inghilterra, ma forse lei ne avrà già visto qualcuno. La lama, come può vedere, è molto stretta e provoca tagli non profondi ma sufficienti. Fra qualche istante, del resto, potrà accorgersene anche lei. Prima però devo rivolgerle la cortese domanda che fanno sempre tutti i barbieri per bene: Le aggrada, signore, questo rasoio?» Egli si alzò, piccola e tremenda immagine del male, e si accostò a He-
wson col passo silenzioso e furtivo di una pantera pronta all'aggressione. «Abbia la bontà», disse, «di sollevare un pochino il mento. Grazie, un po' di più. Ancora un pochino di più. Oh, grazie! Merci, monsieur... Ah, merci... merci...» A un'estremità del salone c'era uno spesso lucernario di vetro opaco che, di giorno, lasciava penetrare qualche languido raggio filtrato dal piano superiore. La luce dell'alba incominciò a mescolarsi alla tenue luce delle lampadine elettriche, aggiungendo qualcosa di lugubre a una scena che non aveva bisogno di ritocchi per apparire orrida. Le statue di cera erano immobili sui piedistalli in attesa di essere ammirate o vituperate dalle folle che si sarebbero fra poco timorosamente raccolte intorno a loro. In mezzo, nel corridoio centrale, Hewson sedeva immobile con la schiena appoggiata alla spalliera della poltrona. Teneva il mento sollevato, come se stesse aspettando i servigi di un barbiere e, benché sulla sua gola non ci fosse il minimo graffio, né del resto in nessun altro punto del corpo, era morto, senza possibilità di dubbio. I direttori dei suoi giornali si erano sbagliati accusandolo di non aver fantasia. Dal suo piedistallo, il dottor Bourdette fissava impassibile quel cadavere. Non si muoveva, né sarebbe stato in grado di muoversi. Perché, dopotutto, era soltanto una statua di cera. ARTHUR GRAY L'eredità di Fratello John In una certa mattina dell'estate dell'anno 1510 John Eccleston, Dottore in teologia e Rettore del Jesus College di Cambridge, se ne stava sulla porta del suo alloggio osservando il cortile circondato dal chiostro. Nell'aria si sentiva un vago odore di ceri spenti e una campanella rintoccava all'unisono con i passi di un uomo. Si trattava di un giovane chierico che seguiva, rimanendo un po' indietro, un gruppetto di figure ammantate di bianco che stavano appunto sparendo dietro l'angolo del corridoio che conduceva al cortile d'ingresso. Erano i cinque professori del College recentemente creato. Mentre le figure scomparivano alla vista, il Rettore, deliberatamente, sputò sul pavimento del portico. Sputare dietro le spalle di qualcuno può essere un gesto di disgusto, di disprezzo, di astio - o, quanto meno, di disapprovazione. Ma non erano
questi i sentimenti del dottor Eccleston. È universalmente noto, ai cristiani come ai miscredenti, che i visitatori dal regno dell'invisibile non sopportano che qualcuno sputi verso di loro. Il gesto del Rettore era di natura scaramantica. Per le visite soprannaturali di tipo benevolo e transitorio, i vari riti della Chiesa sono senza dubbio efficaci. Ma, nei casi più ostinati, meglio provare tutti i rimedi possibili. Con campana, libro e candela, il Rettore e i professori avevano appena concluso una purificazione del Rettorato. La campanella aveva fatto sentire i suoi rintocchi nell'Aula del Fondatore e nella cappella privata del Rettore la cui camera da letto era stata debitamente irrorata di Acqua Santa. La candela aveva esplorato gli oscuri recessi degli armadi e del sottoscala. Quindi, era quasi impossibile che si trovasse ancora lì. Ma la prudenza non è mai troppa. Due giorni prima si era svolto, nel College, un funerale; una funzione sciatta e indecorosa. Il defunto, John Baldwin, ex frate dell'ormai abolito Ospedale di St. John, era stato deposto in un cantuccio del cimitero del College - che oggi era il giardino del Rettore - alle spalle di alcuni vecchi arbusti che crescevano in un angolo confinante con la strada e il «camino». A piangerlo c'erano il becchino, il sacrestano e il parroco della chiesa di All Saints. Fratello John era morto in una delle stanze del College, ma la comunità del Jesus College aveva voluto esprimere la propria riprovazione per la vita condotta dal defunto astenendosi dall'intervenire alle esequie. Fratello John era stato una delusione: i meno caritatevoli l'avrebbero definito un imbroglione. Era riuscito a entrare nel College sotto mentite spoglie. In vita, aveva disonorato l'istituto con i suoi eccessi e, da morto, gli aveva giocato un tiro davvero meschino. E non è bello che un religioso faccia scherzi, da morto. Ma come mai Fratello John, già Fattore dell'Ospedale Agostiniano di St. John era deceduto nel Jesus College? L'Ospedale di St. John era stato abolito nell'anno 1510 per fare posto al nuovo College voluto da Lady Margaret. Per oltre tre secoli i Vescovi di Ely ne erano stati protettori e ospiti, e il dissoluto James Stanley, Vescovo nel 1510, si era battuto strenuamente per la sua conservazione. Ma le circostanze erano state più forti di lui. Gli edifici andavano in rovina, nella tesoreria non c'era il becco di un quattrino, mobili e arredi erano finiti in pegno nelle mani dei creditori in città. Il direttore, William Tomlyn, era sparito nessuno sapeva dove, e nell'ospedale erano rimasti solo due Fratelli. Uno era John Baldwin; l'altro, quello che si occupava dell'ambulatorio,
un certo Bartholomew Aspelon. Il giorno prima della chiusura dell'ospedale, il Vescovo Stanley aveva scritto una lettera al Rettore e ai professori dell'altra istituzione di Cambridge che spesso aveva visitato, e cioè il Jesus College. Nella lettera, affidava alle loro caritatevoli cure Fratello John Baldwin, un uomo anziano, di pia e santa conversazione, disposto a rinunciare ai suoi beni terreni in cambio del conforto e dell'assistenza del Rettore e dei professori del College nei suoi ultimi anni di pellegrinaggio su questa terra. A quei tempi era abbastanza usuale che monasteri e College accettassero come ospiti persone religiose o laiche desiderose di ritirarsi dal mondo e disposte, in vita o per testamento, a garantire che i suoi ospiti non ci avrebbero rimesso. Le informazioni dicevano che, anche se l'ospedale non aveva un soldo, Fratello John disponeva di mezzi privati se non addirittura di un piccolo capitale. Il Rettore e i professori non avevano alcun interesse a indagare sul come avesse accumulato la sua ricchezza. Erano poveri in canna e le referenze del Vescovo non lasciavano nulla a desiderare. Ringraziarono Sua Eccellenza per la premura nei loro confronti e, tutti d'accordo, si impegnarono a dare alloggio a quel sant'uomo nel College mettendogli a disposizione, come a tutti gli altri professori, vettovaglie, barbiere, lavanderia, vino, cera, e ogni altra cosa gli servisse per celebrare l'Ufficio divino. Fratello John si trasferì subito nel suo nuovo alloggio, una stanza detta «la soffitta», all'ultimo piano sopra l'Aula del Fondatore, nello stesso fabbricato dove abitava il Rettore. Il quale Rettore, come i professori, rimase profondamente deluso nel vedere che tutto il bagaglio di Fratello John consisteva in due cassette con rinforzi d'ottone, pesanti ma indiscutibilmente piccole anche per un uomo di Chiesa. L'unico aspetto interessante era che le cassette recavano lo stemma dell'Ospedale di St. John. Fratello John e il suo ex compare dell'ospedale, Bartholomew Aspelon, ripetevano sempre che il direttore scomparso, William Tomlyn, aveva tagliato la corda portandosi dietro il denaro della Tesoreria dell'ospedale. Ma la comunità di Jesus sperava che fossero tutte fandonie. Fratello John teneva le due cassette sotto il letto, sempre accuratamente chiuse a chiave, ma ogni tanto lasciava cadere vaghi accenni al fatto che il loro contenuto era destinato come principesca ricompensa ai suoi amabili ospiti. Sotto altri aspetti, l'equipaggiamento di Fratello John non era certo quello di un possidente; ma aveva piuttosto un'aria di monastica austerità. Il
suo unico abito era vecchio e anche un po' bisunto. Non lo cambiava mai, né di giorno né di notte. A quanto sembrava, il buon Fratello John aveva fatto un qualche voto religioso per cui si asteneva dal lavarsi. In quanto alla conversazione, Fratello John presentava un aspetto esteriore davvero poco felice. Forse per un attacco di paralisi, un lato del suo viso era rialzato e, di conseguenza, l'altra parte era più bassa. La bocca era un compromesso diagonale con gli altri lineamenti. Un occhio era chiuso e l'altro acquoso e annebbiato. Il naso era paonazzo ma il resto del volto era color cartapecora. Fratello John era anziano, e purtroppo le cattive condizioni di salute lo tenevano confinato nella sua stanza, sopra quella del Rettore. Aveva espresso il suo profondo rincrescimento per non potersi unire ai professori nel refettorio e condividere il loro pasto a base di minestra d'orzo, pesce salato e birra acquosa. I suoi penosi acciacchi richiedevano una dieta sostanziosa a base di ostriche e cappone che il College gli faceva portare in stanza. Non era nemmeno in condizioni di partecipare alle funzioni in Cappella, ma il vino che la comunità si era impegnata a passargli veniva scrupolosamente usato per le funzioni private che celebrava in camera sua. Gli venne anche concesso un congruo risarcimento per il fatto che la sua organizzazione domestica rendeva superfluo il servizio della lavanderia del College. Bartholomew Aspelon, che abitava in una birreria-locanda in città, era un costante e affezionato visitatore al capezzale di Fratello John; anzi, si può dire che non se ne allontanava mai. Da una taverna poco distante gli portava abbondanti rifornimenti di malvasia indispensabile a sostenere le deboli forze del malato. Fratello Bartholomew era un individuo dal viso rubicondo e incline alla giocondità canora. Nella stanza del malato, i professori spesso lo sentivano intonare una qualche strofetta libatoria alla quale l'invalido si univa con voce tremula. Era un'abitudine così costante e ormai familiare che John Bale, uno dei professori, ancora se la ricordava trent'anni dopo, mettendola in bocca a un monaco ribaldo e burlone che figurava tra i personaggi della sua opera teatrale King Johan. La strofetta diceva così: Divino liquore, bevuto da un mastello, Divino liquore, come unghia pallido e bello, Divino liquore, in gelo, grandine o neve, Divino liquore, con quaglie e pernici si beve. Divino liquore, il pregio maggiore che hai
Divino liquore, è che non finirai mai. Che il silenzio del College fosse spesso turbato da questo insolito concerto, suscitava sempre più la disapprovazione dei professori; né certo servì a confortarli la scoperta che la nuova veste, fornita in base all'accordo al loro pensionante, era stata data all'oste del Sarazin's Head in acconto su un debito. Ma si sforzarono di essere pazienti perché era evidente che la salute del loro venerabile ospite stava rapidamente declinando. Con una certa insistenza fecero notare al Rettore che era auspicabile un rapido e chiaro accordo circa le disposizioni testamentarie di Fratello John. E su questo il dottor Eccleston era pienamente d'accordo con i suoi colleghi. Una sera di giugno, circa tre mesi dopo che Fratello John era andato a vivere nel College, il dottor Eccleston ritenne che fosse giunto il momento di sondarne le intenzioni. Il vecchio era molto debole, e Fratello Bartholomew molto depresso. Munito di penna e calamaio, il Rettore salì nella camera del malato. A quei tempi i testamenti verbali erano considerati legali e vincolanti, e il Rettore era deciso a non uscire da quella camera senza avere prima ottenuto che Fratello John gli dettasse un testamento dichiarando le proprie intenzioni circa la destinazione dei suoi beni. Evidentemente Fratello John era in delirio quando il Rettore entrò nella stanza perché lo accolse canticchiando quella spregevole strofetta, Divino liquore che non finirai mai aggiungendo con voce flebile: «Ci sei, compare Bartholomew? Dammi una mano con quella bottiglia, perché sono a secco». «Fratello John, Fratello John», lo ammonì il Rettore, «scuotiti e pensa al tuo stato. Tempo è per te di portar considerazione al tuo bagaglio terreno e al come lo vuoi elargire, secondo la tua promessa, alla nostra povera comunità per la cura che di te si è presa.» Fratello John si alzò a sedere sul letto e aprì l'occhio buono. Qualcosa che somigliava a un sogghigno gl'increspò la bocca storta. «Di questo avviso sei, dunque, degno Rettore?», gli rispose. «Si faccia allora come tu vuoi. Sarei un furfante se non ti ringraziassi per la tua bontà, e in verità ti dico che non ci rimetterete per le vostre attenzioni. Orsù, prendi il calamaio e scrivi. Quando due volte l'avrai intinto nell'inchiostro, avrò già dettato il mio testamento. Scrivi.» E il Rettore scrisse.
«Al Rettore e ai Docenti del Jesus College consegno e tramando lo scrigno che giace sotto il mio letto, contrassegnato con la lettera A, con tutto ciò che esso contiene. A Fratello Bartholomew Aspelon, già dell'Ospedale di St. John, ugualmente consegno e tramando l'altro scrigno, contrassegnato con la lettera B.» «È tutto?», chiese il Rettore. «Sangue di Giuda, è tutto ciò che possiedo!», rispose John. «Ma trattieniti ancora, buon signore. Niente per niente è una regola sicura. Scriverai che, come condizione, sotto pena di rinunciare al mio lascito, mi seppellirete nella navata centrale della vostra chiesa, subito davanti all'Aitar Maggiore; che osserverete il mio "obituario" o anniversario con un vespro per i defunti, un Ufficio dei Defunti e una Messa da Requiem. E che, una volta alla settimana, un professore che sia anche sacerdote, offra canti e preghiere per l'anima di John Baldwin, benefattore del College. Tutto elencato, signore?» «È scritto», rispose il Rettore. «Ite Missa Est», concluse l'invalido, «e vammi a prendere un boccale di birra, mio buon signore.» Qualche giorno più tardi John Baldwin giunse alla sua non edificante e non rimpianta fine. Fratello Bartholomew si portò via la sua porzione del lascito. L'altra cassetta venne depositata sul tavolo dell'Aula del Fondatore e il Rettore l'aprì al cospetto di tutti i professori riuniti. La cassetta conteneva una mezza dozzina di mattoni, una discreta quantità di paglia e trucioli e nient'altro: nient'altro salvo un pezzetto di carta sudicia e strappata, sul fondo. A una voce sola, Rettore e professori decretarono che l'ingrato e indegno ospite doveva essere sepolto nell'angolo più dimenticato del cimitero. E, come ho già detto, così avvenne. Naturalmente, il pezzo di carta trovato sotto la paglia fu girato e rigirato dal Rettore e dai professori, senza che riuscissero a ricavarne niente d'importante. Sembrava strappato da un lascito o un testamento nel quale il defunto, in cambio dell'assistenza ricevuta durante una malattia, esprimeva l'intenzione di lasciare una certa proprietà, non meglio identificata, al suo degno compare Aspelon e, a quanto sembrava, stabiliva che dovevano seppellirlo nel coro della Cappella dell'Ospedale. Mancavano però le firme dei testimoni; evidentemente, il documento era poi stato strappato e sulla parte rimasta si leggeva: Ego Johannes Baldewyn nuper frat
rigiam do lego et confirmo domino ut pro mea inegritudine relevaci domino Bartolomeo Aspelon confrat ne quod abeat uter prior invener am in tumulo sepultus subter quen parte chori in sacello Hospitalis theshede l'ultima parola, ammesso che fosse scritta giusta, era indecifrabile. Ma il College non si era ancora liberato di Fratello John. La sera dopo la sepoltura, mentre il Rettore e i professori uscivano dalla Cappella, si fermarono di colpo sentendo l'ormai familiare strofetta del divino liquore cantata da una voce fioca e stonata che proveniva dalla finestra aperta della stanza del defunto, e non era sicuramente quella di Aspelon. Costernati, rimasero in ascolto fino a quando la melodia, se così si poteva chiamare, si smorzò debolmente in un tentativo di accordo corale. Dopo un breve conciliabolo decisero di salire tutti insieme nella «soffitta» - Rettore, professori, «discepoli» e domestici - per andare a vedere di che si trattava. Trovarono la stanza vuota e silenziosa, tale e quale come era dopo che il corpo era stato portato via per essere sepolto. Ridiscesero ma, prima ancora di arrivare in fondo alla scala, sentirono di nuovo quel flebile motivetto: a quel punto nessuno ebbe il coraggio di tornare su. Dopodiché, a ogni ora del giorno e della notte, riecheggiò a intervalli la canzoncina; il College era in preda al panico. Di notte, i «discepoli» se ne stavano stretti l'uno all'altro come pecore in una stanza, e i professori dormivano a due a due in un letto. Sfortunatamente per lui, il dottor Eccleston era condannato alla solitudine del suo alloggio, abbandonato perfino dal suo famulus, il giovane che gli faceva da domestico. Il pover'uomo rimaneva alzato tutta la notte a studiare testi teologici nella speranza che, se non poteva mettere in fuga il cantatore, la teologia riuscisse almeno a distrarlo e a non fargli pensare a quell'infernale ritornello che risuonava sopra la sua testa. La seconda notte cominciò a rallegrarsi perché il cantatore si era zittito. Il Rettore era esausto e si sarebbe addormentato se non fosse stato per la porta del suo studio che chiudeva male e aveva il vizio di spalancarsi d'improvviso, al minimo alito di vento, per poi richiudersi con un tonfo. Si era effettivamente appisolato sul suo tomo, quando qualcosa che gli
premeva la spalla destra lo svegliò. Girò di scatto la testa e vide il volto color della carta del defunto Fratello John che lo fissava con tutto l'affetto che si può concentrare in un unico occhio, premendogli il mento sulla spalla, con la bocca atteggiata a un finto sorriso di innocente allegria. Quella notte il dottor Eccleston non lesse più la sua teologia. L'indomani mattina presto, convocò una riunione del College. Il voto della comunità fu unanime: le spoglie di Fratello John dovevano essere esumate e sepolte al centro della navata del coro, secondo la volontà del defunto; e si procedette senza indugi. Il Rettore volle anche che l'intera comunità partecipasse alla purificazione del suo alloggio personale e della «soffitta», secondo il rituale che la Chiesa prevede in casi del genere; e anche a questo si provvide senza perder tempo, come ho già descritto all'inizio di questo racconto. In quanto all'esecuzione degli altri accordi stipulati fra il Rettore e il defunto, si decise di rimandarla e di vedere prima fino a che punto il morto si sarebbe dimostrato soddisfatto dei provvedimenti già adottati. Sia che Fratello John si accontentasse di questa alquanto sommaria esecuzione dei suoi desideri, sia che il suo spirito perturbato avesse trovato riposo dopo l'esorcizzazione, non si sa. Quel che è certo è che non disturbò più il College. Nel pomeriggio dopo la sua traslazione accadde però un incidente, forse collegato alla ritrovata pace del suo spirito. Bartholomew Aspelon non aveva assistito ai funerali di Fratello John nel cimitero. Anzi, covava un profondo rancore per la mancanza di sentimenti e di buon gusto dimostrata dal suo amico scomparso, pari solo a quello che provava la comunità del Jesus; e il motivo era lo stesso. Aprendo lo scrigno del tesoro lasciatogli in eredità, l'aveva trovato pieno di mattoni e paglia, esattamente come l'altro. Se i professori erano indignati, Bartholomew lo era ancor più di loro. Infatti, da fonti d'informazione private, retaggio del periodo trascorso nel vecchio Ospedale, sapeva per certo che Fratello John aveva messo da parte a dir poco 200 sterline, ed era assolutamente convinto che tutta la somma fosse finita nelle tasche del Jesus College. Sotto la paglia, aveva trovato un brandello di carta, troppo frammentario per poterne ricavare un qualche significato ma che indicava abbastanza chiaramente come il defunto avesse inteso lasciare al College un certo tesoro di cui però il documento, così breve e strappato, non indicava l'ubicazione. E la sua interpretazione dello scritto venne confermata dalla dignitosa sepoltura delle spoglie di Fratello John nella Cappella. Colmo di risentimento per l'ingratitudine del malato che lui aveva assi-
stito con tanta dedizione e per la malafede dei professori che lo avevano defraudato della ricompensa per i suoi devoti servigi, Bartholomew si recò a casa del Rettore. Gli espose senza tanti complimenti il motivo delle sue recriminazioni, e il dottor Eccleston, duramente provato dalla mancanza di sonno e dalla spiacevole cerimonia di inumazione alla quale suo malgrado aveva dovuto partecipare, gli rispose con analoga veemenza. «Siete tutti ladri!», urlò Bartholomew. «Avete approfittato delle condizioni di debolezza in cui si trovava per indurlo a diseredare l'amico fedele che era rimasto al suo capezzale nelle sue ultime ore di vita.» «Miserabile furfante!», ribatté il Rettore. «Non venirmi a parlare di mattoni e di paglia. Oro! C'era dell'oro nel tuo forziere e sa il Diavolo con quali raggiri tu sia riuscito a defraudarci della ricompensa che ci era stata promessa. Lui stesso, indirettamente, ti denuncia come autore del fraudolento tentativo di convincerlo a lasciare a te i suoi beni. Guarda cosa è rimasto nel fondo della cassetta destinata a noi.» Il Rettore gettò sul tavolo il pezzo di carta che abbiamo trascritto. «Prenditelo, e non farmi più vedere quella tua faccia da briccone!» Fratello Bartholomew non stava più nella pelle. Afferrò il documento e, senza fare cerimonie, si precipitò giù per le scale. Giunto fuori, nel chiostro, trasse fuori dalla scarsella un brandello di carta identico a quello che il Rettore gli aveva dato, e lesse: Sciant omnes presentes et futuri quod et Hospitalis Divi Johannis apud Canteb doctori Ecclyston et sociis Collegii Jes one equaliter inter se dividendum aut ri meo in antedicto Hospitali ea racio it totum thesaurum meum ita ut extat cl dam lapidem iacentem in septentrionali eiusdem cuius istud signum extat a dea Poi mise insieme i due frammenti e tradusse lo scritto, ora completo: Sappiano tutti gli uomini presenti e futuri che / Io, John Baldwin, già frate nell'Ospedale di St. John a Camb / ridge, lascio, consegno e tramando al Rettore dottor Eccleston e ai professori del College of Jes / us per l'assistenza durante
malat tia, da dividersi equamente tra loro o / a Mastro Bartholomew Aspelon, mio confratello nel suddetto Ospedale, pur / che lo riceva colui che per primo lo tro verà, tutto il mio patrimonio attualmente e se / gretamente sepolto in una tomba sotto una cer ta pietra che si trova nel lato settentrionale / del coro nella Cappella dell'Ospedale suddetto, e il cui contrassegno è una te / sta di morto. Altro non ho da aggiungere alla storia di Fratello John e della sua eredità se non che il suo nome non compare nell'Elenco Commemorativo del Jesus College. E che per vent'anni dopo i fatti narrati, un individuo gioviale e in abito secolare fu visto sedere abitualmente al bancone del Sarazin's Head, a trangugiare birra della migliore qualità, che pagava in contanti, e che non sembrava mai a corto di soldi. Raccontava molte storie e cantava varie canzoni. La sua canzone «Divino Liquore» era sempre molto richiesta dagli avventori del Sarazin's Head. KATHERINE YATES Sotto l'albero Hau La donna stava infilando semi scarlatti di wili-wili per farne una collana. L'uomo rigirava delle stampe fotografiche in un cestino e di tanto in tanto esprimeva un giudizio superficiale e di scarso interesse. I rami spioventi dell'albero hau facevano schermo al riverbero del sole del tardo pomeriggio e le foglie fruscianti si stagliavano scure contro l'orizzonte azzurro sfumato di rosso dal quale avanzavano lunghe linee di spuma bianca che rotolavano dolcemente sulla spiaggia, quasi ai piedi dell'albero hau, e poi si ritiravano silenziose sotto la cresta ricciuta che sopraggiungeva. Quattro o cinque bimbetti hawaiani si erano radunati sotto il piccolo pontile dove, tra risa e spruzzi, si erano liberati delle gonnelle e dei pagliaccetti, e ora stavano sguazzando allegri nell'acqua chiara, attenti a tenersi fuori dal campo visivo dell'ufficio dell'albergo. L'uomo continuava a rivoltare le sue stampe con gesti lenti e svogliati. D'un tratto si fermò e, quasi senza fiato per lo stupore, si chinò per guardare da vicino una fotografia. «Dove l'hai presa questa?», domandò, girandosi in fretta verso la donna.
Lei alzò lo sguardo dalle sue perle rosse. «L'ho presa io», disse lei con noncuranza. «No, no, voglio dire questa qui!» E le gettò in faccia la foto. «Ma sì, ho capito», fece lei, quasi seccata. «Ho detto che l'ho presa io... l'ho scattata io.» «Non è possibile.» Gli occhi increduli dell'uomo fissarono la donna, quindi la foto, poi di nuovo la donna. Lei accennò di sì col capo. «L'ho fatta io», disse. «Quando l'hai presa?», chiese lui, brusco. «Quando? Oh, tre settimane fa, più o meno, la mattina che partirono.» Legò il filo della lunga collana di semi, poi se la girò strettamente tre volte intorno al collo bianco: tre righe rosse come tre sfregi insanguinati. L'uomo le si fece più vicino. «Qui? Erano qui?» «Sì. Guarda: hanno posato sotto quella palma da cocco laggiù, quella col rampicante che penzola.» L'uomo si voltò a guardare la palma e le foglie ondeggianti del gigantesco rampicante, e con le dita sfiorò le stesse fronde che pendevano sulla testa dei due turisti. Il suo viso esprimeva soltanto incredulità. Si rivolse di nuovo alla donna, cercando di dominare il proprio turbamento. «Come si chiamavano?», chiese. La donna fece per parlare, poi s'arrestò. «È strano», disse dopo un momento. «Ero sicurissima di ricordare il loro nome; stavo per dirlo, e poi...», con una risatina, «tra un minuto mi tornerà in mente. Aspetta. Si chiamavano... Vediamo. Un nome che comincia per A. No... Sì... sì, credo che cominciasse per A. È buffo, ma adesso non riesco a ricordarlo. Beh, te lo dirò appena mi verrà in mente. Non c'è mica fretta, no?» «Sì, c'è fretta invece, molta fretta!», disse lui con veemenza. «Devo sapere il nome.» La donna alzò la testa. «Allora dovrai andare a chiederlo in ufficio. Non me lo ricordo. Ma che motivo c'è di scaldarsi tanto per sapere chi sono?» La donna non era abituata a condividere l'interesse di nessuno, meno che
mai quello di un semplice fotografo. L'uomo si alzò, posò il cestino delle foto sulla sedia a sdraio e s'incamminò attraverso il prato in direzione dell'ingresso dell'albergo. La donna lo guardò allontanarsi, poi lanciò un'occhiata al cestino delle fotografie. Dopo un momento si alzò a sua volta, posò la scatola dei semi sulla propria sedia e seguì l'uomo in albergo. Lo trovò al bureau che farfugliava tutto agitato. Il calmo, efficientissimo impiegato cinese, non riusciva a ricordare le persone che l'uomo cercava di descrivere. «C'è un tale andirivieni qui», spiegò, scuotendo il capo e allargando le mani in segno di disapprovazione. L'uomo riprese a farfugliare e la donna, avvicinandosi alla scrivania, mise la foto sotto gli occhi dell'impiegato. «Come si chiamavano, Fat?», chiese. «Eh... Ah, sì!», fece l'impiegato, sorridendo. «Ma certo, erano i signori... perbacco...», e batté con impazienza la matita sulla scrivania, «erano i signori... Un momento, è qui sul registro. Vennero verso... vediamo... verso la metà di marzo. Ve... dia... mo...» Cominciò a voltare le pagine e a scorrere le colonne di nomi. L'uomo era nervosissimo; la donna corrugò la fronte, pensosa, prendendosi la collana di semi rossi sulle labbra. «È strano», disse l'impiegato, «non trovo il loro nome. Se lo vedessi lo riconoscerei», e girò i fogli indietro per ripetere l'operazione. «Mi domando con quale piroscafo siano arrivati.» «Venivano dall'Oriente», disse la donna. «Già allora arrivarono col... col...», e scorse la lista dei piroscafi provenienti dall'Oriente giunti nel mese di marzo. «Devono essere venuti con il Corea.» Poi riprese a sfogliare il registro: «Questi sono i viaggiatori arrivati col Corea: Foster, Martin, Cudahy, Abercombie... Beh, che nome è questo?», disse, avvicinando il viso alla pagina. «Non riesco a decifrare la scrittura.» La donna si curvò per leggere. «Tourtillotte. No, non erano loro; ricordo i Tourtillotte.» Le dita dell'impiegato cominciarono a percorrere le colonne di nomi, ma inutilmente. Allora chiamò il primo fattorino. «Ming, come si chiamavano questi signori?», chiese, porgendogli la fotografia. «Non lo ricordo», rispose il ragazzo, scuotendo la testa. L'uomo si voltò verso il fattorino.
«Pensaci; tenta di ricordare.» Fece tintinnare le monete nella tasca e subito il giovane cinese prese un'espressione concentrata... uno sforzo inutile, era evidente. «Che camera avevano?», chiese l'impiegato. Di nuovo il ragazzo scosse la testa. «Mi pare che stessero al secondo piano... no, al terzo... al numero trecentododici credo. Non lo so.» «Te li ricordi, no?», chiese la donna con impazienza. «Oh, sì, certo! Non ricordo il numero della stanza. Credo che fosse al terzo piano.» L'uomo si girò di nuovo verso l'impiegato, arrabbiato. «Dov'è il direttore?», domandò. Un attimo dopo il direttore giunse sorridendo dal suo ufficio privato. La donna, contagiata dall'ansia dell'uomo, gli porse la fotografia. «Non mi riesce assolutamente di ricordare il nome di queste persone», disse. «Chi erano?» Il direttore prese la foto e annuì in segno di riconoscimento. «Ah, sì, erano i signori... beh, è proprio buffo. Fat, come si chiamavano questi due?» Il tranquillo impiegato sorrise e scosse il capo, con un leggero moto di protesta delle mani gialle. Il direttore schioccò le dita. «Oh, son sicuro di sapere il loro nome; solo che in questo momento mi sfugge»; e anche lui prese a sfogliare il registro. «Venivano dall'Oriente e si fermarono qui tre o quattro settimane... Ma certo, se ne sono andati poco tempo fa. Beh, non è strano che non riesca a ricordare come si chiamavano! Loro li ricordo. La donna aveva una cicatrice bianca sul collo. Una donna un po' singolare, all'antica, ma anche graziosa nel suo genere. Dobbiamo aver passato quel nome almeno una dozzina di volte, e io ero certo di ricordarmelo alla prima occhiata.» L'uomo si voltò e guardò la donna in modo strano; poi si girò di nuovo verso la scrivania, irritato. «Nessuno di voi riesce a ricordare il loro nome, né a trovarlo sui registri dell'albergo, e se ne sono andati appena da tre settimane!», disse con esasperata incredulità. Il direttore cominciò a parlare, ma la donna l'interruppe. «Ma nemmeno io riesco a ricordarlo, e non ho tante cosa da pensare e da fare quante ne hanno loro.»
La faccia dell'uomo non mutò espressione: era pallida, terrea quasi, e i suoi occhi erano stranamente cupi. Si voltò verso la donna e la prese per un braccio. «Lasciamo perdere», disse con voce tesa. «Torniamo sotto l'albero hau.» Appena seduta, la donna riprese a giocherellare coi semi di wili-wili: li raccoglieva con le mani bianche e li lasciava cadere come grosse gocce rosse in una piega dell'abito bianco, con un lieve ticchettio. L'uomo mezzo disteso sulla sedia a sdraio, gli occhi smarriti nel vuoto oltre l'orizzonte azzurro e rosso, li protesse con una mano dal luccichio delle grosse gocce. Dopo un lungo silenzio parlò, e la sua voce aveva ripreso il tono consueto. «Raccontami di quei due», disse alla donna. Lei sollevò un'altra manciata di semi e li lasciò cadere tra le dita in un lento sgocciolio. «Non c'è molto da dire», rispose; «solo che erano persone strane. Venivano dall'Oriente, come ho detto; avevano fatto il giro del mondo e arrivarono qui verso la metà di marzo. Andavano a vedere tutto quello che c'è da vedere e facevano tutto quello che fanno i turisti: andarono alle Haleiwa per due o tre giorni e a Hauula per vedere il vulcano e la gola sacra, poi partirono, come fanno tutti.» «In che senso erano persone strane?», chiese l'uomo. «Beh... erano come dire... erano due Rip Van Winkle», disse lei. «È il solo modo in cui riesco a descriverli. Avevano dormito per vent'anni.» «Vent'anni...», ripeté l'uomo brusco. «Sì, esattamente vent'anni. Lo so perché lei era vestita come mia zia all'epoca del suo matrimonio: siamo nel 1924 e mia zia si sposò giusto vent'anni fa. Per sentimentalismo ha conservato tutto il suo corredo, e una volta ci lasciò prendere alcuni vestiti per una festa in abiti d'altri tempi... erano proprio come i vestiti di quella donna: le stesse maniche a sbuffo con guarnizioni di pizzo pieghettato al gomito, le gonne increspate alla vita e le giacchette a bolero, e portava i capelli pettinati in bande ondulate come la zia nella foto del matrimonio. Aveva un visino minuto e dolce e parlava con una vocetta morbida e sottile e anche delle cose da nulla parevano tanto importanti per lei. Ricordo che aveva delle macchie su una spalla dell'abito da viaggio... qui, si vedono nella foto... la collana di garofani non le copre del tutto, e non volle mandarlo in lavanderia per paura che glielo rovinassero: disse che doveva aspettare a tornare a casa per toglierle con uno smacchiatore speciale di cui le aveva dato la ricetta sua nonna. E quelle macchie la preoccupavano tanto che continuava a passarci sopra il faz-
zoletto come se potesse pulirle con quello.» L'uomo cambiò posizione sulla sedia; la donna riprese a giocherellare coi semi e a farli cadere a uno a uno nella fontanella che aveva formato nella gonna dell'abito. L'uomo li guardò con espressione attonita, poi si coprì gli occhi con una mano. «Continua», disse. «Non era più giovane... sui trentaquattro o trentacinque anni, direi; malgrado questo aveva il viso fresco e grazioso, e tuttavia aveva sempre un'espressione di...» «Di attesa!», disse l'uomo. «Sì», confermò la donna, «esatto, aveva sempre una espressione di attesa... paziente... non ansiosa... come se aspettare fosse diventata un'abitudine. Credo che non ci sia altro da dire. Le rivolgevo la parola di tanto in tanto e lei era sempre pronta a parlare, nel suo modo sommesso e un po' buffo e, quando era in imbarazzo, cominciava a tormentare con le piccole mani una collana di corallo: una collana antiquata e piuttosto brutta, con al centro un curioso pendente di scaglie di corallo sovrapposte. Doveva essere vecchissima. Disse che l'aveva avuta da sua nonna.» «Le hai parlato spesso?», chiese l'uomo. «Di che cosa parlava?» «Oh, non ricordo. Era il tipo di donna che non dice niente che valga la pena di ricordare. Si parlava e basta.» «E lui?» La donna lanciò in aria una manciata di semi che ricaddero sulla gonna. «Un uomo della stessa epoca», disse lei. «Vent'anni fa. Portava i baffi spioventi e i capelli a spazzola lisci come lo zio quando si sposò. E aveva i pantaloni troppo corti e troppo stretti, e le scarpe appuntite e certe cravatte... proprio buffe.» «Ti dissero di dove erano, dove abitavano?» «Oh, non ricordo. Non so se l'abbiano mai detto... ma credo che fosse una cittadina del Middle West... nell'Ohio, o nell'Illinois... non lo so.» L'uomo non disse nulla e non si mosse. La donna cominciò a fare dei disegni coi semi sull'abito bianco dov'era teso sopra le ginocchia. Le onde lambivano dolcemente la spiaggia e si ritiravano silenziose. I bambini se n'erano andati da sotto il pontile e le ombre delle palme da cocco erano lunghe e quasi immobili. Fu la donna che riprese a parlare. «Ebbene?», disse. L'uomo tacque ancora per alcuni minuti, poi, senza sollevare la mano
dagli occhi, cominciò. «Abitavano nella mia città. Lui era mio zio, il fratello di mia madre. Suo padre era proprietario di una modesta libreria... vendeva libri, quadri e articoli di peluche... tu sai il genere.» La donna accennò di sì col capo, come trasportata dai ricordi. «Quando suo padre morì, prese le redini del negozio; aveva sedici anni allora. Due anni dopo morì sua madre e restò solo: l'unico rimasto della famiglia. Aveva sempre avuto intenzione di sposare Jennie: era la sua fidanzatina fin da quando erano bambini. Quando aveva otto anni, suo zio tornò da un lungo viaggio intorno al mondo e il bambino ascoltava pieno di ammirazione e d'interesse i suoi racconti avventurosi. Una volta lo zio notò l'espressione intenta dei suoi occhi grandi, se lo mise fra le ginocchia, e gli domandò che cosa voleva fare da grande. "Sposare Jennie e fare il giro del mondo per il viaggio di nozze", rispose lui. E da quel momento questo diventò lo scopo della sua vita. Lui e Jennie parlarono del viaggio per anni con entusiasmo e con assoluta fiducia; perché sapevano che l'avrebbero fatto, quando Joseph fosse diventato uomo. Nessuno lo chiamò mai Joe; era troppo serio. Era mio zio Joseph. Quando il negozio fu tutto suo, cominciò a mettere da parte ogni centesimo che riusciva a risparmiare in vista del viaggio, perché lui e Jennie avevano deciso che non si sarebbero sposati fino a quando non avessero messo insieme abbastanza denaro per fare il giro del mondo. Ci vuole tempo a mettere da parte molti quattrini con una libreria in una cittadina di provincia, ma loro non si scoraggiarono mai. Jennie faceva degli oggettini di ceramica decorati a mano che vendeva per Natale e dei lavoretti di pirografia, poi dava lezioni di pittura all'acquerello: insegnava ai bambini a dipingere vaporosi alberi verdi, onde bianche e spumeggianti, rocce grige, evanescenti, pecore e mucche che parevano di legno e persone da arca di Noè. Ho qualcuno dei suoi acquerelli a casa.» La donna raccolse tutti i semi in una piega della gonna. «E allora?», disse. «Intanto continuavano a studiare le carte geografiche, a preparare itinerari e a leggere racconti di viaggi per poter iniziare nel modo migliore la loro occasione. Andò avanti così per molti anni: anni buoni in cui il gruzzolo alla banca ingrossava; e anni cattivi in cui per via delle inondazioni, degli incendi, della necessità di riparare o rifare il tetto, il piccolo deposito calava. A trent'anni Jennie cominciò a prepararsi il corredo da sposa. Pensavano che fosse questione d'un paio d'anni ancora; e io andavo da lei e la
guardavo cucire raffinati vestiti di lana leggera e di seta per l'estate. Faceva tutto da sé... arricciava le maniche con diverse filze successive in modo da formare degli sbuffi, increspava le gonne alla vita e metteva delle frappette arricciate o pieghettate tutt'intorno alle spalle per guarnizione.» La donna smise di giocare con le perle di semi e si piegò in avanti. «E poi?» «Beh, non si trattò di due anni, ma di cinque. Lo zio si ammalò e stette a letto per tre mesi: dovette assumere un commesso per il negozio e pagare il medico e... insomma ci vollero altri cinque anni. Io aiutai Jennie a scegliere l'alpaca grigio per l'abito da viaggio. Avevo quattordici anni allora: adesso ne ho trentaquattro; e lei e mio zio Joseph erano i miei migliori amici. Avevo passato tante ore con loro a consultare carte geografiche e guide ferroviarie e marittime, ad aiutare Jennie a scegliere le stoffe dell'abito per quel meraviglioso viaggio... vestito da matrimonio e da viaggio insieme... oh, fu un onore straordinario per me.» «E partirono, poi?» «Si sposarono una mattina di maggio; lo zio Joseph mi diede quella mattina l'orologio del nonno e io li salutai sulla porta della chiesa... ero troppo emozionato per accompagnarli alla stazione, così me ne andai a casa di corsa, mi nascosi nell'orto e rimasi lì ancora a lungo dopo che sentii fischiare il treno al passaggio a livello. Doveva essere passata qualche ora quando sentii arrivare un cavallo al gran galoppo per la strada e mi sedetti sull'erba.» Il sole stava calando dietro i monti Waianae e il tramonto con i suoi meravigliosi colori tingeva l'acqua e il cielo di arancione e di cremisi, mentre sfumature arancione e cremisi coloravano l'abito bianco e il volto della donna. «L'uomo a cavallo disse che il treno era stato coinvolto in un disastro ferroviario; che alcuni vagoni erano andati a fuoco e che era stato disposto l'invio di un treno per i soccorsi. Mi precipitai alla stazione e balzai sul treno che stava partendo. Non c'era tempo per fermare e farmi scendere.» Fece una pausa. «C'era stata una collisione con un treno merci. Tutti i vagoni erano stati distrutti dalle fiamme meno uno, il vagone passeggeri, che era deragliato. I passeggeri che erano stati estratti dalla carrozza quasi schiacciata dall'urto, erano distesi sull'erba ai lati della massicciata. Trovai mio zio Joseph con la schiena appoggiata a una grossa pietra e Jennie mezzo distesa e mezzo appoggiata allo zio. Aveva tre ferite sanguinanti sul collo e gli oc-
chi ormai senza espressione... e tuttavia cercava di pulire delle macchie sulla spalla dell'abito grigio... movimenti meccanici, inutili.» Il sole era scomparso e la prima luce crepuscolare dava risalto al rosso vivo dei fiori di ibisco dietro l'albero hau e alla collana rossa intorno al collo bianco della donna e ai semi rossi raccolti in una piega dell'abito bianco. L'uomo li guardò come ammaliato. «Continuò a strofinare ancora un poco dopo che arrivai: pietosi movimenti senza effetto e senza senso... poi... poi si fermò.» «Vuoi dire che morì?», chiese la donna con voce un po' sforzata. «Sì, morì allora.» «E il marito?» «Lo zio Joseph era appoggiato alla pietra, respirava a malapena e guardava Jennie... non faceva che guardarla. Quando la mano di lei non si mosse più, alzò gli occhi e mi guardò; non mi aveva ancora guardato, però si era accorto di me. Parlò solo una volta prima di spirare.» La donna si chinò più vicino a lui e la collana di semi ciondolò sul davanti. «E che disse?» «Disse, con un sorriso tenero e muovendo una mano sulla guancia di Jennie come se volesse accarezzarla... disse: "Non... non è la fine... dovrò... dovrò ricominciare tutto daccapo da qualche parte... da qualche parte... ma... riuscirò a portare Jennie a fare il giro del mondo".» La donna rabbrividì. L'uomo tirò fuori dalla tasca l'orologio e aprì il coperchio della cassa. «Questa fotografia fu scattata durante il tragitto verso la stazione il giorno del matrimonio», disse. «Il fotografo la diede a me, per ricordo.» Lei prese in mano l'orologio e lo espose all'ultimo bagliore del sole. La collana le si posò sulla mano e lui la scostò con un gesto brusco. Dopo aver guardato la foto la donna appoggiò l'orologio sul bracciolo della sedia, si girò e lanciò un rapido sguardo alle ombre che si addensavano attorno al tronco contorto dell'albero hau e lungo la battigia. «Andiamo dentro», disse, col fiato sospeso, «andiamo dentro dove c'è luce.» ARNOLD SMITH Il volto affrescato Il signor Jones era un maestro elementare, scapolo, di carattere timido e
introverso. Una delusione d'amore subita in gioventù lo aveva condotto a quell'esistenza solitaria che l'abitudine aveva poi reso così naturale. All'epoca della sua straordinaria avventura, era talmente avvezzo ai piaceri della solitudine, da compiere perfino le sue pomeridiane passeggiate domenicali - unico svago che si concedeva - senza compagnia alcuna. Questo spiega come mai fosse solo in occasione della sua visita a Godstanely, dove si riprometteva di vedere gli affreschi del XII secolo recentemente scoperti nella vecchia chiesa, a circa un miglio dal villaggio moderno. Pur distando non più di una quindicina di miglia dalla metropoli e non più di due miglia e mezzo da Hopton, la stazione più vicina della LondonSouth Eastern Railway, Godstanely è in pratica un luogo remoto, a tutti gli effetti. La corrente del traffico fra Londra e la costa meridionale passa lungo la strada principale ai piedi dei Downs1, ignorando lo stretto e ripido sentiero che s'inerpica tortuoso su fino a Godstanely attraverso un piacevole scenario, fino ad oggi incontaminato da autobus e torpedoni. Il ciclista deve seguire il sentiero e fare una lunga deviazione per raggiungere il punto dove sorge l'antica Godstanely con la sua chiesa; ma chi va a piedi può arrivarci seguendo un ripido viottolo che passa direttamente sul terribile Down. Possiamo aggiungere che il servizio di treni per Hopton è del tutto degno della compagnia ferroviaria alla quale appartiene la stazione: il lettore quindi non si meraviglierà sentendosi dire che raramente l'escursionista riesce ad arrivare a Godstanely. Ma al signor Jones piaceva andarsene a zonzo in posti fuori mano e, con la guida della sua cartina militare, scoprì ben presto il viottolo sul Down. Dopo aver attraversato un terreno fangoso di argilla e stoppie, cominciò a risalire il pendio di erba verde e ondeggiante che nasconde il terreno gessoso fino al punto in cui, a tre quarti della salita, incrocia la lunga fila di tassi che caratterizzano la famosa «Strada del Pellegrino». Qui si fermò e si tolse il cappello; la giornata era calda, per essere dicembre. Guardò indietro gli alberi che nascondevano Hopton alla vista e, giù in fondo, scorse un filo di fumo che segnalava il passaggio di un treno attraverso la tranquilla campagna; e, ancora più lontano, pendii nereggianti di pini che si stagliavano contro lo sfondo più sfumato di una catena di montagne. Un profondo senso di pace gli scese nel cuore. La turbolenta classe in cui insegnava e il poco accogliente appartamento cui faceva ritorno alla fine della sua giornata di lavoro, sembravano tanto, tanto lontani. Non si vedeva anima viva. Si sentiva in comunione con la natura e con il passato. Ecco la Strada del
Pellegrino: la vecchia strada lungo la quale, secoli prima dei pellegrini secoli prima dell'avvento di Roma - gli uomini dell'Età della Pietra si erano inoltrati nel loro lungo cammino verso Stonehenge e i suoi riti misteriosi. Quanti segreti potevano trovarsi sotto l'ombra cupa di quegli antichi tassi, quali scoperte erano in attesa della vanga dell'archeologo? La fantasia poteva popolare quell'antico tracciato di strane presenze. Il signor Jones rabbrividì nella penombra crepuscolare di quei rami che pendevano sopra il suo capo; cominciava a sentire freddo. Un fuggevole ricordo sembrò affiorargli nella coscienza proiettando davanti a lui la propria ombra; il ricordo di qualcosa di estraneo e in qualche modo spiacevole. Il frullo d'ali di un grosso uccello fra i rami di un tasso lo riscosse dal suo fantasticare. Riprese a salire. In cima alla collina trovò due sentieri: mentre si fermava a consultare la cartina, notò l'avvicinarsi di un contadino che gli augurò un cortese «buon giorno, signore». «È questa la strada per la chiesa di Godstanely?», chiese il signor Jones. «Sì, segua il sentiero e, quando arriva al bivio, prenda la discesa e poi la salita fino alla canonica. Vado anch'io da quella parte; se vuole l'accompagno.» Il signor Jones accettò l'offerta e la conversazione continuò. «Crede che potrei entrare nella chiesa? Vorrei vedere gli affreschi. O devo andare prima a chiedere la chiave in canonica?» «Il parroco, beh, non è proprio entusiasta dell'idea di ammettere sconosciuti in chiesa da quando ha trovato quelle cose dipinte. È quasi sempre chiusa a chiave. Ma visto che è domenica, ci potrebbe essere da qualche parte la donna, quella che fa le pulizie.» «Forse dovrei andare prima a chiedere il permesso in canonica?» «Beh, dipende. Al parroco, non fa mica tanto piacere la gente che lo disturba di domenica.» «Ma non è contento di trovare chi si interessa alla sua scoperta e viene a visitare la chiesa?» «Beh, la signora Gant - è la perpetua, perché lui è vedovo - mi fa: "Non capisco che gli ha preso. Prima, quando uno di quei tipi che scrivono sui giornali veniva a chiedergli di quelle pitture, era contento come una Pasqua, e adesso è diventato scorbutico come non l'ho visto mai. Colpa di essersi rinchiuso con quegli orrori, dice mia cugina. A rimuginarci sopra e a stare senza un pasto decente... e di notte, per giunta!".» «Ah», esclamò il signor Jones. «Mi risulta che l'affresco rappresenti una
rozza ma poderosa raffigurazione dell'Inferno.» «Beh, non è quello che io chiamo una cosa giusta, quella pittura.» «Non giusta? Ma una volta, ai tempi in cui l'affresco fu dipinto, il clero riteneva che raffigurazioni di quel tipo fossero salutari. Sa, allora la gente non sapeva né leggere né scrivere. Non c'era l'istruzione che c'è oggi! E si cercava di rendere buona la gente spaventandola e facendole vedere cosa sarebbe toccato ai peccatori nell'Aldilà.» «Può darsi, ma non è così che la penso io, signore, e mi scusi se mi permetto di contraddirla; e non era così che la pensavano quelli che hanno coperto la pittura con l'intonaco. Sarebbe stato meglio lasciare coperti quei diavoli.» «Nel Medioevo, artisti e poeti dipingevano l'inferno a tinte fosche e noi lo preferiamo imbiancato a calce: sic tempora mutantur», sentenziò il signor Jones. «Beh, ecco la canonica, signore, e là c'è la chiesa. E mi venga un accidenti se quella non è la signora Harris, la donna delle pulizie, che sta uscendo dal cancello. La farà entrare lei. Buon pomeriggio.» «Arrivederci. E grazie!», rispose il signor Jones affrettandosi a raggiungere la signora Harris per spiegarle che desiderava visitare la chiesa. La donna aveva appena finito di pulire e stava tornandosene a casa. In principio nicchiò un po' alla richiesta del signor Jones di lasciare a lui le chiavi che le avrebbe poi riportato a casa. «Lei ha l'abitudine di prendere il tè?», le chiese. «Forse potrebbe essere così gentile da farne una tazza anche per me. Intanto, prenda questo per il suo disturbo», e le passò un mezzo scellino. La signora Harris si dichiarò convinta che il signor Jones era una persona alla quale si poteva affidare la chiave, e gli indicò la strada per la sua casetta. Lui le promise di essere da lei entro mezz'ora. La casetta della signora Harris era distante, fuori vista. A parte la canonica, che stava lì accanto, non c'era una casa nelle immediate vicinanze della chiesa. Ogni traccia dell'antica Godstanely, a eccezione della chiesa medievale, era scomparsa da tempo. E perfino la stessa chiesa, almeno all'esterno, era stata restaurata tante di quelle volte che il signor Jones preferì entrare direttamente. Lo colpì, però, l'ubicazione dell'edificio. Sorgeva su un terrapieno circolare circondato da tutti i lati meno uno - quello dove c'era il sentiero che portava all'ingresso - da un fossato. Quel terrapieno poteva forse essere un tumulo? Il signor Jones non rammentava di aver letto un particolare del genere nella relazione circa la scoperta degli affreschi. Erano mai state costruite chiese su monumenti sepolcrali preistorici?, si
domandò. Doveva ricordarsi di cercare informazioni a questo proposito una volta tornato a casa; comunque, era risaputo che a volte si erigevano chiese nei luoghi dove nell'antichità sorgevano templi pagani; e accadeva che i templi stessi venissero consacrati e trasformati in luoghi di culto cristiani. Aprì quindi la porta e, lasciando la chiave nella toppa, entrò nella chiesa. L'interno era molto piccolo, con antiche travature sul soffitto e varie panche in stile antico, con un alto schienale, circondavano il pulpito, ma il signor Jones le ignorò completamente. L'intera parete occidentale era ricoperta da un affresco decisamente notevole. Incredibile che non fosse stato distrutto da qualche fanatico vicario protestante del passato e che, invece, fosse stato coperto e dimenticato, conservandosi così per la curiosità dei posteri. Era un'opera primitiva e possente: dodicesimo secolo, senza dubbio, ma artisticamente inferiore agli affreschi di quel periodo in genere. La parte superiore raffigurava la pesatura delle opere buone e cattive dei defunti, e la gioia delle anime salvate; quella inferiore, separata da una striscia decorata con quelle che sembravano urne cinerarie, mostrava i tormenti dei dannati. La striscia era intersecata perpendicolarmente, così da formare con essa una croce, da una scala che si estendeva dal Paradiso all'Inferno; e, dalla parte inferiore della scala, precipitavano delle minuscole figure umane che si sforzavano freneticamente di aggrapparsi o rimanere appese ai pioli dai quali giganteschi dèmoni le strappavano con malvagia esultanza, trascinandole via infilzate su dei forconi verso un calderone ribollente o verso altre forme di castighi. I volti lascivi dei dèmoni, con lingue penzolanti, orecchie da animale, occhi enormi e piedi ad artiglio, rivelavano la raccapricciante fantasia dell'artista. Il signor Jones si chinò per osservare l'affresco più da vicino. Alcune figure erano più indistinte di altre e non sempre si riusciva a capire cosa stessero facendo. Specialmente in un angolo i dettagli erano vaghi e sfocati. Qualcosa - non si capiva cosa - veniva compiuta da una figura, apparentemente un dèmone, col viso girato, che teneva in mano una sorta di arma; mentre altri dèmoni accovacciati stavano a guardare. Sulla schiena del primo, era chiaramente dipinto un minuscolo, perfetto quadrifoglio all'interno di un cerchio triplo. «La croce della consacrazione», mormorò tra sé il signor Jones. E, mentre diceva quelle parole, provò di nuovo la sensazione di essere sul punto di ricordare qualcosa che aveva inspiegabilmente dimenticato. Si curvò ad osservare la croce. Lo stucco su cui era dipinta, e
un frammento di intonaco al di sotto, sembravano leggermente staccati dal muro. Senza riflettere, il signor Jones stese la mano e lo toccò. Subito il frammento cadde a terra scoprendo un piccolo foro, in apparenza molto profondo. Il signor Jones rimase inorridito dal suo involontario atto di vandalismo. Si sentiva come un bambino che avesse rotto un prezioso soprammobile che gli era stato proibito di toccare; al tempo stesso, il ricordo represso che aveva invano bussato contro la barriera della sua consapevolezza si fece più insistente, accendendo la sua emotività. Era il ricordo di qualcosa che gli era successa da bambino, ne era certo - qualcosa collegato all'oscurità; forse un sogno. Sì, doveva essere stato un sogno. Non voleva rammentarlo. Si sentiva impaurito al pensiero che potesse ripetersi. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quel foro. Una strana cavità oblunga da cui sembrava sgorgare un tenebrore che invadeva e colmava la chiesa. Incuriosito e allarmato, accese un fiammifero e si chinò per osservarlo più attentamente. Si accorse così di un mutamento nella figura del dèmone entro le cui viscere sembrava che il foro conducesse. I colori erano senza dubbio più nitidi! Il foro stesso - prima non lo aveva notato - somigliava stranamente a una bocca. Questa percezione gli fornì la chiave di lettura delle altre linee, degli altri segni. Era una bocca. E poi, in fondo alla schiena del dèmone, un volto... un volto orribile, malefico, bestiale, dallo sguardo bramoso e le labbra lascive. Il signor Jones lo contemplava come ipnotizzato. Poi, il velo poggiato sul suo ricordo palpitò e si sollevò. Si sentì mancare. Il foro sembrava ingrandirsi rapidamente, contraendosi come un'orrenda ventosa. Il fiammifero gli bruciò le dita e allora lo lasciò cadere; quel semplice gesto gli restituì facoltà di movimenti. Corse fuori dalla chiesa. Jackie Cosstick, un marmocchio mezzo scemo di dodici anni, che era andato a fare una commissione per sua madre e stava ritornando lungo il sentiero che fiancheggiava la chiesa di Godstanely, quel pomeriggio di dicembre ebbe il peggior spavento della sua vita. Era quasi buio nel sentiero ombreggiato da due file di olmi, e su per il sentiero arrivò, correndo a perdifiato, un gentiluomo con le falde del cappotto svolazzanti. «Forza che l'acchiappi!», gli gridò Jackie con l'impudenza dei ragazzi. «Continua così!», urlò dietro la figura che si allontanava. In quel momento sentì un fruscio nella siepe alle sue spalle; raccattò un sasso e lo scagliò in quella direzione. Poi qualcosa saltò fuori dal fossato, qualcosa che avrebbe potuto essere un grosso cane se non fosse stato per il modo straordinario in
cui avanzava: si arrampicò fulmineamente su per un tronco d'albero, portando la parte posteriore verso la testa e poi distendendo rapidamente il corpo, quasi fosse azionato da una molla. «Come i bruchi», pensò in seguito Jackie, «quelli che si arrampicano sulle campanule; ma, accidenti, com'era grosso!» Alzò gli occhi a guardare fra i rami. È scorse due occhi che lo fissavano, due terribili occhi luminosi. Se la diede a gambe nella direzione opposta a quella dove era sparito il signor Jones e non rallentò la corsa fino a che non giunse alla casa di sua madre, a New Godstanely. Nella sua fuga, il signor Jones si era inconsciamente diretto verso Hopton, continuando a guardarsi intorno terrorizzato. Non vide nulla ma sentiva di essere in grave pericolo per qualcosa che lo inseguiva, correndo insieme a lui dietro le siepi. Eppure, aveva la strana sicurezza che quella cosa non poteva vederlo, che per essa lui era invisibile, che stavano disputando una medianica gara di nascondino, e che poteva evitare di essere visto se non commetteva una mossa falsa. Il suo corpo stava correndo, ma la mente stava nascondendosi lungo i sentieri del suo spirito, ricorrendo istintivamente a occulti mezzi di protezione. Era come sdoppiato in due esistenze separate e simultanee. Il pericolo gli sarebbe piombato addosso se le due esistenze si fossero unificate e il nemico avesse percepito la sua presenza sul piano fisico. D'improvviso si trovò sulla strada principale per Hopton e la vista di qualche altro passante lo portò bruscamente oltre la linea di confine, nel mondo della vita quotidiana. In breve, raggiunse la stazione ferroviaria e, a tempo debito, si trovò sul treno, diretto a casa. C'erano parecchie persone nello scompartimento, una carrozza fumatori di terza classe. «Che aria pesante questa sera», disse una signora al marito. «Non lo avevo notato, ma adesso che me lo dici, effettivamente è afosa», rispose l'uomo. «Queste carrozze della South Eastern sono proprio una vergogna», aggiunse un altro passeggero rivolto ai suoi compagni di viaggio in generale. «Hanno sempre un cattivo odore, anche se non l'ho mai sentito come oggi.» «Zolfo... ci sono tante gallerie... una quantità enorme di fumo!», commentò un altro. Il signor Jones non disse nulla: era conscio di un'atmosfera soffocante. Guardò i volti dei suoi compagni: tutti denunciavano segni di tensione. Una donna arcigna e molto poco attraente, seduta in un angolo, lo fissava con aria di disapprovazione.
Il treno si fermò alla stazione successiva e tutti scesero in fretta, meno la donna brutta e il signor Jones. Un tipo tarchiato di mezz'età stava per entrare nello scompartimento quando la donna saltò su esclamando: «Voglio uscire, per favore fatemi uscire!». L'uomo tarchiato si fece da parte per lasciarla passare, poi si sedette. «Non le piace viaggiare con i giovani come noi», disse maliziosamente al signor Jones. «Forse non le piace viaggiare in uno scompartimento fumatori», protestò debolmente il signor Jones. «È entrata nello scompartimento accanto: per fumatori anche quello», fu la risposta. L'uomo tarchiato sogghignò, poi annusò. Cambiò espressione. E ancora aveva uno strano sguardo perplesso quando il treno arrivò alla stazione di raccordo e il signor Jones scese. Non andò direttamente a casa. La donna a giornata era sempre di libertà il sabato pomeriggio e non ricompariva che la domenica mattina, in tempo per preparare la prima colazione. Jones andò a una tavola calda a prendersi un tè. Nel riverbero luminoso delle strade, quella sua fantastica esperienza cominciò ad assumere un carattere irreale. Poteva essere stato vittima di un'allucinazione? Aveva lavorato troppo e quel suo malessere dipendeva forse da stanchezza nervosa? Aveva solo voglia di distrarsi, di divertirsi. Un film? No, una bella farsa divertente... qualcosa per dimenticare. Sarebbe stato il modo migliore di passare la serata. Prese un autobus per andare all'Hilarity. Lo spettacolo lo divertiva e, per un po', il signor Jones si scrollò di dosso il suo fardello di paura; più tardi, al ristorante, fece onore a una buona cenetta. Come Tam O'Shanter2 se ne uscì baldanzoso, preoccupandosi ben poco dei chilometri che lo separavano da casa: ma il coraggio con cui era salito sull'autobus era quasi svanito quando scese alla fermata più vicina alla sua destinazione e pensò alla casa fredda e tetra che lo aspettava. Brutta cosa essere scapoli! Meglio una moglie arrabbiata che «si covava la rabbia per tenerla in caldo» piuttosto che quell'appartamento vuoto, in cima a cinque rampe di scale, senza alcun barlume di benvenuto e nel quale doveva provvedere da solo a quelle piccole comodità di cui un uomo sente il bisogno dopo un'ora di autobus, in pieno inverno; e andarsene di filato a letto, senza nessun conforto. Nell'edificio dove abitava, pomposamente chiamato Duke's Mansions, la lampadina sulle scale veniva sempre spenta alle 11 di sera; e adesso era mezzanotte passata. Il signor Jones salì i gradini con l'aiuto dei fiammiferi, accendendoli uno
dopo l'altro e reggendoli fin quanto poteva. Il breve intervallo fra lo spegnersi di uno e l'accendersi di un altro era carico d'ansia. E se qualcosa lo stava aspettando in cima alle scale, guardando giù, verso di lui, dalla ringhiera? Si trattenne a stento dall'alzare lo sguardo. Cominciò invece a fare strane cose per esorcizzare quel terrore invisibile, misteriosi gesti bizzarri suggeriti da chissà quali ricordi atavici; le cose che fanno i bambini quando hanno paura del buio. Incrociava le dita in modo strano, ed era difficile farlo reggendo la scatola dei fiammiferi. Poi doveva appoggiare il piede in un determinato punto del disegno del linoleum che ricopriva le scale. E doveva toccare ogni terza sbarra della ringhiera. Soprattutto, doveva raggiungere ogni pianerottolo col piede destro. Superò tutte queste difficoltà, sentendosi più furbo del suo antagonista. Non aveva mai contato prima quanti gradini ci fossero in ogni rampa di scale. Pari o dispari? Il numero pari gli avrebbe portato fortuna. Nove, dieci, undici, dodici. Grazie al cielo non c'era un tredicesimo gradino! Arrivò sano e salvo alla porta di casa; ma che cosa poteva celarsi dietro di essa? Infilò cautamente la chiave nella serratura; il fiammifero acceso nella mano sinistra durò appena il tempo necessario; per qualche secondo rimase al buio, in ascolto; poi, con un profondo respiro - che doveva trattenere fino a quando non fosse arrivato in camera sua - spalancò la porta precipitandosi verso l'interruttore della luce in anticamera. In un secondo si ritrovò, ansimante ma illeso, dietro la porta del suo studio, che chiuse a chiave. Il signor Jones stava studiando il tedesco e per combinazione sul tavolo c'era il Faust di Goethe, su cui cadde il suo sguardo. Ricordò la scena in cui Faust evoca gli spiriti e pensò ai simboli magici del Pentacolo, o Sigillo di Salomone, quel potentissimo talismano che doveva difendere il neofita della Magia Nera dai pericoli della sua vocazione. In un attimo, era in ginocchio sul pavimento a tracciare dei segni con un pezzo di gesso che provvidenzialmente portava nel taschino del gilet. Mentre disegnava, si spostava così da crearsi un baluardo abbastanza ampio entro cui potersi sdraiare, e fece combaciare gli angoli con estrema attenzione, al tempo stesso badando bene che nessuna parte della sua persona rimanesse fuori dalla figura che stava tracciando. Nel tempo che dedicò a quel lavoro, sentì l'atmosfera farsi sempre più greve e opprimente; sembrava che una nube oscura si stesse addensando fra lui e la luce elettrica. Improvvisamente, mentre stava dando gli ultimi tocchi alla quinta punta, la luce si spense. Notò un debole chiarore accanto alla porta; la osservò, rimanendo in ginocchio. Poi quel baluginio sembrò
contrarsi, acquistare contorni più definiti; poco a poco prese forma: era la forma del volto che lo aveva fissato così biecamente dall'affresco. Qualcosa sembrò spezzarglisi nel cervello e cadde in deliquio. Era l'alba quando riprese conoscenza, dopo un sogno particolarmente vivido e di drammatica intensità del quale era stato protagonista. Si trovava in una processione di giovani, uomini e donne, che cantavano e danzavano intorno e accanto a lui. Sapeva, e ne era orgoglioso, di essere la figura principale della processione, oggetto di venerazione per i suoi compagni. La processione si stava avvicinando alla chiesa di Godstanely. Poi, la chiesa scomparve e al suo posto c'era un terrapieno su cui si vedevano dei vecchi ammantati di bianco, con lunghe barbe candide, raggruppati intorno a una grande lastra di pietra sorretta da altri due di loro. Uno dei vecchi, col viso coperto da una maschera, avanzò, s'inginocchiò offrendogli con entrambe le mani un calice dal quale lui doveva bere ma che era riluttante a portarsi alle labbra. Poi, d'un tratto, si sentì afferrare da dietro e a quel punto la maschera cadde scoprendo i lineamenti lascivi del dèmone dell'affresco. Invano cercò di lottare. Il viso gli si accostava sempre di più, con la lingua penzolante che vibrava di bramosia. Il fiato fetido del mostro lo soffocava. Poi, cominciò a rullare un tamburo, forte, sempre più forte, fino a che improvvisamente si trovò sveglio e il rullo del tamburo era diventato semplicemente il ripetuto bussare di qualcuno alla sua porta. «È lì, signor Jones?», era la voce della domestica. «Che succede, signore? La porta di casa è spalancata e la luce è rimasta accesa.» «Sono rientrato tardi e ho dimenticato di spegnerla», disse Jones aprendo la porta della stanza. «Il fatto è», proseguì notando lo sguardo sorpreso della donna, «che ho avuto un collasso, o qualcosa del genere... No, adesso sto bene; appena può mi prepari qualcosa da mangiare.» «Certamente, signore. Sembra che abbia visto un fantasma! Ed è entrata una tremenda umidità; guardi i segni sui muri. Mi sono proprio spaventata, entrando; pensavo che ci fossero i ladri.» Mentre faceva colazione, il signor Jones si mise a riflettere. Sentiva che spiritualmente brancolava nel buio e aveva bisogno di un consiglio. A chi meglio che al parroco di Godstanely poteva raccontare la sua strana esperienza? Gli avrebbe spiegato quello che era successo in chiesa, offrendosi di risarcirlo per l'involontario danno. E gli avrebbe parlato del suo visitatore ultraterreno: sempreché non si fosse trattato di un'allucinazione, nel qual caso avrebbe dovuto consultare uno psichiatra.
Dall'orario ferroviario vide che c'era un treno per Hopton la domenica mattina. Dato che faceva colazione alle 8,30, calcolò che avrebbe fatto giusto in tempo a prenderlo e arrivare a Godstanely per la sua funzione del mattino. Partì dunque, dopo avere lasciato determinate istruzioni alla domestica che lo scongiurava di rimanere a casa a riposarsi. Durante il viaggio non successe nulla. Arrivò proprio mentre stava per iniziare la funzione. Entrando in chiesa gettò un'occhiata ansiosa all'affresco, cercando il punto dove aveva visto la croce della consacrazione. La luce era troppo fioca per poter distinguere i particolari, ma gli parve che ci fosse una qualche differenza nel dipinto, da come l'aveva visto a come era ora. Non ebbe però il tempo di osservarlo più attentamente mentre lo accompagnavano a un banco. Durante quell'interminabile funzione il signor Jones, grazie alle ridotte dimensioni della chiesa, ebbe agio di studiare accuratamente l'aspetto del parroco. Era un uomo piuttosto basso, con un viso profondamente segnato; poteva avere una cinquantina d'anni, forse più. Aveva una bella fronte ma uno strabismo dell'occhio sinistro lo rendeva poco attraente. Stranamente, gli ricordava un suo ex collega, un uomo riservato, che gli era antipatico e che, si scoprì in seguito, celava un colpevole segreto. Quando ebbe inizio la predica, il signor Jones si era convinto che non sarebbe stato possibile avvicinare una persona come quel parroco sull'argomento che era lo scopo della sua visita. Ma fu proprio la predica ad offrirgliene lo spunto. Il testo era preso dal Primo Libro di Samuele (28-9) «Ha sterminato i negromanti e gli indovini del paese», e il predicatore, a proposito della visita di Saul alla Maga di Endor, parlò di come l'uomo cerchi da secoli di conoscere il futuro consultando lo spirito dei defunti. Era evidente che aveva studiato a fondo la necromanzia; anzi, ne parlava come se avesse una esperienza personale dell'argomento. Ma la sua predica era così infarcita di citazioni latine e riferimenti ai testi cabalistici, da risultare quasi certamente incomprensibile per quella congregazione di villici. Sembrava un soliloquio più che una predica; esposta, inoltre, in maniera così farraginosa che, se non fosse stato per il suo vivo interesse per quel particolare argomento, il signor Jones probabilmente ne avrebbe perso il filo. Guardandosi intorno vide, dalla loro espressione stolida e assente, che ben pochi oltre a lui prestavano orecchio al predicatore. Alcune frasi lo colpirono particolarmente. Si riferivano agli spiriti che si manifestano ad alcuni rimanendo invisibili ad altri, pur presenti, e davano una spiegazione della generale invisibilità del mondo dell'Aldilà. Una spiegazione scientifi-
ca, collegata alla quarta dimensione. Noi non riusciamo nemmeno ad immaginare un oggetto che non sia tridimensionale, spiegava il parroco, ma per analogia possiamo acquistare qualche nozione circa il modo in cui il mondo ultraterreno, che è quadridimensionale, possa, in casi eccezionali, diventare visibile. Se, per esempio, esistesse un mondo bidimensionale un mondo in cui esistessero lunghezza e larghezza ma non spessore - gli abitanti di quel mondo non sarebbero ovviamente in grado di percepire l'esistenza di un mondo come il nostro. Un oggetto tridimensionale, anche se vicinissimo, rimarrebbe invisibile a meno che non si scontrasse, per caso, con il loro mondo bidimensionale, nel qual caso apparirebbe bidimensionale esso stesso. Di conseguenza, un oggetto quadridimensionale, scontrandosi con il nostro mondo, ci apparirebbe tridimensionale, pur restando quello che noi definiamo incorporeo, in quanto appartenente ad uno spazio che non è il nostro. Solo chi, grazie a trasformazioni della propria mente, entrasse per così dire in sintonia con questo mondo invisibile potrebbe, in determinate circostanze, riuscire a vederlo. Il predicatore proseguì parlando dell'enorme conoscenza scientifica e dell'enorme potere che una tale persona potrebbe acquisire, facendo oscuri accenni ai metodi con i quali sarebbe possibile produrre tali «trasformazioni» in maniera naturale o artificiale. Il segreto era noto ad alcuni esperti già nel Medioevo, ma la Chiesa si era sempre fermamente opposta ad esperimenti del genere, tanto più che essi comportavano sacrifici propiziatori. In questo senso, i simboli della religione rivestivano un significato cosmico e contenevano implicazioni che nemmeno le persone più colte erano in grado di comprendere. A quel punto il signor Jones ebbe l'impressione che il prete lanciasse un'occhiata all'affresco e poi, quasi a frenare la propria attenzione che tendeva a divagare, proseguì la predica in toni più tradizionali, concludendola con un appello alla congregazione, invitandola ad osservare una cristiana umiltà e ad accettare la Divina Provvidenza senza cedere alla curiosità di indagare in cose troppo profonde per la comprensione umana. Terminata la funzione, il signor Jones aspettò che tutti i fedeli fossero usciti, poi bussò alla porta della sacrestia; gli fu risposto di entrare, e così fece. «Mi consentirebbe di dirle due parole, signore?», chiese con voce incerta. Gli rispose uno sguardo di sorpresa. «Si tratta dell'affresco...» «Non mi sembra certo questo il momento...» «Le chiedo scusa per la mia intrusione ma è in riferimento alla sua pre-
dica; vorrei spiegarle che ieri mi trovavo nella chiesa ed è successo qualcosa... un incidente.» «Un incidente?», ripeté il parroco sbalordito. «Ho toccato l'affresco, non so perché; in realtà, non avevo la minima intenzione di...» «Cosa? Lei ha toccato l'affresco?», lo interruppe il parroco con ira crescente. «Lei ha osato poggiare le sue dita su un'opera unica, di valore inestimabile, un'opera altamente sacra, signore, ripeto, altamente sacra...», la sua indignazione gli soffocò le parole in bocca. «Sono molto spiacente», fu tutto quello che il signor Jones riuscì a dire. «Quali danni ha provocato?», domandò il parroco facendo uno sforzo per controllarsi. «Venga con me.» Uscì rapidamente dalla sacrestia, entrò in chiesa seguito dal signor Jones, e si avvicinò all'affresco che scrutò ansiosamente. «Vede, è successo così», disse il signor Jones gettandosi a capofitto nel suo racconto. «La croce sulla schiena del dèmone si stava staccando - questo dèmone qui», indicò la minuscola fessura praticamente invisibile a uno sguardo distratto. Poi indietreggiò attonito. Dov'era il dèmone? Intorno al foro c'era solo uno spazio bianco. Non si vedeva traccia di altri danneggiamenti ma la figura, così nettamente visibile il giorno prima, con la sua oscena faccia posteriore, era svanita, così, come se non fosse mai esistita. «Non c'è più; è uscito dall'affresco e mi ha seguito», esclamò il signor Jones afferrando il parroco per un braccio. «Oh! Cosa si può fare? Si sono spalancate le porte dell'Inferno!» Il parroco guardava nella direzione che il maestro indicava col dito. «È molto strano», osservò con voce alterata, «davvero molto strano», ripeté, mentre il suo sguardo passava dal signor Jones all'affresco e viceversa. Poi la sua ira repressa esplose. «Lei, cretino di un ficcanaso», gridò, «stupido sacrilego, lei ha rimosso il Sigillo. Dov'è? Che ne ha fatto?» «Il Sigillo? La Croce?», chiese il signor Jones. Si chinò a raccogliere un pezzetto di pietra in un angolo, girandolo fra le dita. «Eccolo, guardi!», esclamò, mostrando il quadrifoglio sul retro. Lo mise nella mano che il parroco tendeva; sembrava stranamente pesante per essere un oggetto così piccolo. Appena il parroco lo toccò, lo lasciò cadere come se fosse stato un pezzo di metallo rovente. I suoi occhi sfavillavano di rabbia. Sembrava sul punto di percuotere il signor Jones. «Maledetto oggetto!», gridò. «Fuori dalla mia presenza, impostore! La sua storia è solo una frottola; non c'era nien-
te... niente le dico! Niente!» Spinse il signor Jones fuori dalla chiesa e si avviò frettolosamente verso la sua casa lasciando nel portico il povero maestro, più perplesso che spaventato. «Pazzo!», mormorò a se stesso. «Pazzo da legare! E ha maledetto la Croce!». Si guardò attorno impaurito. Poi, a passi lenti ripercorse il sentiero, oltrepassò il Down e raggiunse la Strada del Pellegrino. Gli tornava insistentemente alla mente un verso di Lycidas: «L'aureo si apre e con violenza si richiude il ferreo». Con violenza si richiude il ferreo: l'accesso agli Inferi! Chi, una volta aperto, l'avrebbe richiuso? «L'ha chiamato il Sigillo», mormorò. Si sedette all'ombra dello stesso tasso sotto il quale si era riposato il giorno prima. Frugò meccanicamente in tasca cercando la pipa e trovò un pacchetto di sandwich che la domestica aveva voluto per forza dargli mentre usciva di casa; gli aveva anche dato la borraccia. Mangiò e si rinfrescò la gola. Quella borraccia era stata davvero una buona idea. Notò con sorpresa che si sentiva molto meglio di quanto si fosse sentito prima dell'incontro col parroco. Il pericolo sembrava essersi allontanato. Non poteva esserci qualche sistema arcano per impedirgli di tornare? Espiazione... propiziazione... il parroco non aveva parlato di propiziazione nella sua predica? Si guardò intorno: le foglie scure sopra la testa, le grosse radici contorte ai suoi piedi, qua e là, nella terra soffice, qualche frammento di silice. Ne raccolse alcuni esaminandoli con curiosità. Più tardi, quello stesso pomeriggio, il signor Jones tornò al sagrato di Godstanely. Come avesse trascorso il tempo dopo aver mangiato e cosa avesse fatto quella sera nel sagrato, non riuscì mai a ricordarlo chiaramente, in seguito. Si muoveva come in sogno. Anzi, proprio il ricordo del sogno della notte precedente sembrava aver guidato le sue azioni e quando poi cercò di separare la visione onirica dalla realtà, le due cose si mescolarono in un tutto fantastico e irreale. C'erano pietre trascinate e ammucchiate a costruire una sorta di altare in una radura fra gli alberi. Poi, un rituale celebrato sotto la luna che brillava fra i rami. E quindi, spettatori incorporei e irreali, altrettanto incorporei e irreali degli officianti. Alla fine, confuso e stordito, si ritrovò alla stazione. Mentre faceva ritorno a casa, le nebbie che gli offuscavano la mente poco a poco si diradarono; ma per il resto della serata e per tutto il giorno seguente si sentì come convalescente da una malattia, troppo debole per sforzarsi di pensare e riluttante ad affrontare cose sgradevoli. Comunque il lunedì andò a scuola e
la settimana trascorse, anche grazie alla solita, rassicurante routine. Naturalmente non fece parola con nessuno della sua avventura durante il weekend; anzi, cercò di dimenticarla. E se gli riaffiorava alla mente, si diceva che era stato semplicemente vittima della sua immaginazione. Ma il martedì mattina a colazione, leggendo il giornale, ebbe uno shock terribile. Lo colpì un trafiletto intitolato «Misteriosa morte di un religioso». Il trafiletto raccontava quanto segue: Una terribile e finora inspiegabile tragedia ha gettato nello sgomento il villaggio di Godstanely, nei pressi di Hopton, dove da ben ventidue anni il rev. Augustine B. Brandon, M.A. (Oxon.) era lo stimatissimo titolare della parrocchia. Negli ambienti archeologici si ricorderà che il Reverendo si era conquistato la gratitudine di tutti gli esperti portando alla luce, sulla parete della chiesa di Godstanely, uno squisito affresco risalente, pare, al XII secolo, che egli generosamente restaurò a proprie spese. Nelle prime ore di ieri mattina, il corpo dello sfortunato sacerdote è stato scoperto da un parrocchiano, poco distante dal sacro edificio. Immediatamente chiamato, il medico più vicino, il Dr. Boodle, al suo arrivo non poté che constatarne il decesso. Si è appreso che il defunto era uscito la sera prima, verso le ore 21, dalla parrocchia, apparentemente per fare una passeggiata come era suo costume, dicendo alla governante di non aspettarlo alzata se non fosse rientrato per le 10. Al momento del ritrovamento il corpo giaceva accanto ad una lastra di pietra contro cui si ritiene che l'anziano parroco avesse inciampato nel buio, ferendosi al capo su un antico attrezzo noto agli antiquari con il nome di celt3 che era lì accanto, per terra. Il dotto archeologo Brandon possedeva molte rarità di questo genere nella sua collezione e si suppone che lo portasse in mano, anche se è impossibile immaginare a quale scopo. Comunque alcuni hanno respinto l'ipotesi che la sua morte possa essere dovuta a un incidente di questo tipo. Il nostro cronista, giunto sul luogo, ha appreso che un ragazzo del villaggio di nome John Cosstick ha detto di aver visto sabato sera, nei pressi della chiesa, un grosso animale che aveva scambiato per un cane rabbioso e al quale era sfuggito per un pelo. Gli squarci nella veste del Reverendo defunto e le condizioni del terreno all'intorno, che appariva tutto calpestato, farebbero ritenere che il signor Brandon sia rima-
sto vittima di un feroce attacco da parte di un animale rispondente a quella descrizione; ma si tratta di un'ipotesi non condivisa dai tutori della legge. I lineamenti del cadavere apparivano orribilmente contorti e si teme che lo sfortunato gentiluomo abbia sofferto pene indicibili negli ultimi istanti di vita. Lo spazio a nostra disposizione non è sufficiente a descrivere la costernazione in cui questa tragedia ha gettato quello che fino a poche ore prima era il sereno villaggio di Godstanely. Il signor Jones rimase a fissare il giornale, mentre le sue uova al prosciutto, dimenticate, si raffreddavano sempre più nel piatto. 1
Colline gessose nel sud dell'Inghilterra (N.d.T.). Eroe dell'omonimo poema di R. Burns (N.d.T.). 3 Strumento preistorico di pietra o di metallo a forma di scalpello o di testa d'ascia (N.d.T.). 2
ELEANOR SCOTT Celui-là «So benissimo che non seguirà il mio consiglio», disse il dottor Foster fissando lo sguardo acuto sul suo paziente, «ma glielo do ugualmente. Ed è questo: metta poche cose in valigia e se ne vada, domani stesso, in qualche piccolo centro balneare o di montagna, così da non incontrare nemmeno un'anima che lei conosca. Ci rimanga, facendo un pochino di moto, poi mi scriva per dirmi che si sente di nuovo in forma.» «Più presto detto che fatto», brontolò Maddox. «Non mi risulta che esistano ancora posti tranquilli e, seppure ce ne fossero, non potrei certo andarci senza aver prenotato una stanza.» Foster ci pensò su un momento. «Conosco proprio quello che fa per lei», esclamò d'improvviso. «C'è un posticino sulla costa bretone, un villaggio di pescatori, molto piccolo, con poche case e una lunga spiaggia, lande e brughiere all'interno, tranquillissimo. Si dà il caso che io conosca molto bene il curé; un brav'uomo, semplice e assolutamente rispettabile. Vétier, si chiama. Gli scriverò questa sera stessa.» A quel punto Maddox non poteva decentemente tirarsi indietro. Il vecchio Foster era stato davvero molto gentile in tutta quella storia; e poi, di-
scutere con lui sarebbe stata una seccatura quasi quanto quella di partire. In meno di una settimana, Maddox era in viaggio per Kerouac. Foster lo vide allontanarsi con profondo sollievo. Conosceva bene Maddox e sapeva che stava scontando anni di superlavoro e di stress; capiva perfettamente - o almeno così pensava - quanto gli costasse ogni sforzo, di qualsiasi genere. Ma in realtà nessuno può comprendere fino in fondo lo stato di esasperazione e depressione che la malattia può provocare in certe persone. Mentre il ridicolo trenino su cui era salito alla stazione di Lamballe sbuffava serenamente lungo il suo cammino fra piccoli frutteti più o meno selvatici, l'affaticato passeggero cominciò però a sentirsi più rilassato. E poi, quando il percorso si snodò prima a nord e poi ad ovest, e la brezza che soffiava dalle lontane distese di brughiera entrò dal finestrino, Maddox si sentì sollevato, quasi sereno. Quando uscì dal capannone che costituiva la stazione di Kerouac, era calato il crepuscolo. Il curé, un ometto grassoccio in tonaca e cappello a tesa larga, era andato ad accoglierlo con quella cordiale e quasi esuberante cortesia che i contadini bretoni riservano agli ospiti, e guidò i passi incerti del suo ospite verso uno sconnesso viottolo di campagna che scendeva ripido dalla collina fra due pendii alti e scuri che profumavano di ginestra selvatica, di erica e di terra bagnata. Maddox riusciva a malapena a scorgere dinnanzi a sé la linea del mare, racchiusa fra due scoscesi declivi di brughiera. Sopra di lui, qualche pallida stella occhieggiava nel cielo sbiadito. Regnava una grande pace. Maddox si adeguò subito alla semplice vita della parrocchia di Kerouac. Come Foster gli aveva detto, il curé era un ometto assai semplice e cordiale, sempre sereno, e perennemente affaccendato poiché il suo gregge era numeroso e sparso un po' ovunque, e realmente interessato ai fatti di ciascuno dei suoi parrocchiani. Maddox capì anche che di denaro non ce n'era certo in abbondanza, visto che il curé si occupava personalmente della chiesa e tagliava da solo l'erba e i cespugli che circondavano il piccolo edificio battuto dai venti. Anche il paesaggio affascinava Maddox: era desolato e amico a un tempo, scosceso e sereno. Gli piacevano specialmente i lunghi tratti di costa dove il groviglio d'erica e ginestre cedeva il passo a ciuffi d'erba ruvida e biancastra ai quali, più oltre, si sostituiva una cintura di ciottoli e lunghe, piatte distese di sabbia liscia. Amava recarcisi a passeggio all'imbrunire, quando la brughiera alla sua sinistra si ergeva nera contro il cielo grigio e,
alla sua destra, il mare calmo e piatto si stendeva all'infinito, punteggiato qua e là da qualche increspatura luccicante. Stranamente, Monsieur le curé sembrava disapprovare quelle uscite serali; ma, si disse Maddox, era un atteggiamento comune fra i contadini di ogni razza e paese, e si chiedeva oziosamente se dipendesse dal naturale desiderio di raccogliersi intorno al focolare dopo una giornata all'aperto o non piuttosto da qualche atavico timore di spiriti e demoni che la gente di campagna provava un tempo in quell'ora smorta entre le chien et le loup. Comunque, lui non avrebbe certo rinunciato alle sue passeggiate serotine per delle sciocche superstizioni! Si stava avvicinando la fine d'ottobre e il tempo era eccezionalmente mite per la stagione; una sera l'aria era così dolce, così incantevole il tenue chiarore delle stelle, che Maddox decise di prolungare oltre il solito la sua passeggiata. A quell'ora la spiaggia era sempre stata deserta, tutta per lui; e provò una naturale, anche se ingiustificata, irritazione nel notare che c'era qualcun altro. A una cinquantina di metri da lui si scorgeva una figura. In un primo tempo pensò che si trattasse di una contadina perché aveva la testa coperta da una specie di cappuccio e le braccia, che stava agitando e torcendo, erano coperte da lunghe maniche molto ampie. Poi, via via che si avvicinava, Maddox vide che era troppo alta per essere una donna e saltò alla conclusione che doveva trattarsi di un monaco o di un frate di statura eccezionale. La luce era molto fioca perché la luna nuova era tramontata e le stelle diffondevano un vago chiarore fra leggeri banchi di nuvole che si spostavano lentamente nel cielo; ma anche così Maddox non poté fare a meno di notare che la persona davanti a lui - non riusciva a identificarne il sesso - si comportava in maniera molto strana. Si spostava a velocità incredibile su e giù per una breve striscia di spiaggia, agitando le braccia drappeggiate nelle ampie maniche; poi, improvvisamente, ruppe in uno spaventevole grido, come l'ululato di un cane, che lasciò Maddox inorridito. E l'urlo si innalzava nell'aria, e ancora... e ancora... un suono dolente, misterioso e penetrante che andava a spegnersi nella brughiera deserta. Poi quell'essere cadde in ginocchio incominciando a graffiare freneticamente la sabbia con le mani. Un ricordo, fino a quel momento dimenticato, riaffiorò nella mente di Maddox: il ricordo di quella terrificante fiaba di Hans Andersen su Anne Lisberth e il bambino affogato... Il sottile banco di nuvole oscurò per un attimo il debole chiarore stellare.
Quando guardò di nuovo, la figura era ancora accovacciata sulla riva, raspando con le dita nella sabbia morbida; e questa volta diede a Maddox l'impressione di qualcos'altro - la disgustosa impressione di un gigantesco rospo. Esitò, poi, vincendo a fatica la riluttanza, si avviò verso la figura incappucciata e inginocchiata. Mentre si avvicinava, quella balzò in piedi e, con uno strano movimento scivolato, impossibile a descriversi, si diresse con incredibile velocità verso l'entroterra, con la tonaca svolazzante. E di nuovo Maddox sentì quel lungo, lugubre ululato. Rimase immobile a scrutare nell'ombra del crepuscolo che si addensava. «Certo, è impossibile giudicare con questa luce», mormorò fra sé e sé, «ma sembrava davvero di statura eccezionale... e che strano aspetto, come di una figura piatta. Sembrava uno spaventapasseri senza corposità...» Si meravigliò di provare tanto sollievo per la scomparsa di quella figura. Lo attribuì alla propria ripugnanza per qualsiasi anormalità e non poteva esserci alcun dubbio sul fatto che la persona che aveva visto, donna o monaco che fosse, era mentalmente disturbata se non addirittura pazza. Raggiunse il punto dove si era accovacciata. Sì, ecco la zona di sabbia smossa, in contrasto con quella liscia tutt'intorno. Gli venne in mente di cercare le impronte lasciate da quella figura svolazzante per vedere se confermavano la sua impressione di una statura fuori dal comune ma, sia che la luce fosse troppo fioca per scorgerle, sia che quell'essere fosse saltato direttamente sulla striscia di ciottoli, comunque, non c'erano impronte visibili. Maddox s'inginocchiò accanto alla sabbia smossa e, un po' oziosamente, un po' incuriosito, cominciò a farsela scorrere fra le dita. Sentì qualcosa di duro e liscio: un sasso, forse? Lo raccolse. Non era assolutamente un sasso, anche se i granelli di sabbia umida gli si erano appiccicati così che non poteva distinguere chiaramente di che cosa si trattasse. Si alzò, ripulendo l'oggetto col fazzoletto: e scoprì che si trattava di una scatola o un astuccio, lungo più o meno una decina di centimetri, ricoperto da una sorta di rozza incisione. Mentre lo rigirava fra le mani, si aprì e vide che all'interno c'era un involucro di qualcosa che somigliava a cuoio, ma diverso dal cuoio; e, dentro l'involucro, qualcosa che frusciava come carta. Si guardò intorno per vedere se la figura che aveva seppellito, o cercato quell'oggetto - non sapeva esattamente quale delle due cose - stesse ritornando. Ma non vide altro che i cespugli di ginestra selvatica e di erica, neri
e rachitici contro il grigiore del cielo. Non si udiva altro suono se non il respiro del vento notturno e il morbido sciacquìo della marea montante. La curiosità fu più forte di lui; si fece scivolare in tasca l'astuccio e tornò verso casa. La cena - un pasto molto frugale a base di minestra, formaggio e sidro lo aspettava quando entrò, ed ebbe solo il tempo di cambiarsi le scarpe e lavarsi le mani; ma, dopo cena, seduto accanto all'ampio camino, con il curé che fumava placidamente dall'altro lato, Maddox sentì nella tasca la piccola scatola e cominciò a raccontare al suo ospite la strana avventura. Lo scarso entusiasmo del curé lo raffreddò. No, non conosceva nessuna donna in tutta la sua parrocchia che potesse comportarsi nel modo descritto da Maddox. Non c'era nessun monastero nei dintorni e, se ci fosse stato, ai monaci non sarebbe certo stato consentito di agire in quella maniera. In realtà sembrava piuttosto incredulo fino a quando Maddox, punto sul vivo, tirò fuori la scatoletta sbattendola sul tavolo. L'oggetto era più insolito di quanto gli fosse sembrato a prima vista. Tanto per cominciare, era pesantissimo e rigido - pesante come il piombo ma di un metallo molto più duro. Bizzarra era anche la cesellatura: le figure ricordavano a Maddox delle rune e, rammentando i resti preistorici della Bretagna, provò un brivido d'emozione. Non era un antiquario ma pensò che quel suo ritrovamento poteva forse essere estremamente interessante. Aprì la scatoletta. Come aveva pensato, all'interno c'era un pezzo di tessuto coriaceo accuratamente avvolto intorno a una striscetta di pergamena che, naturalmente, non poteva essere preistorica. Ma Maddox si sentì ugualmente interessato. La spianò e cominciò a leggere a stento le parole contorte. Erano scritte in una specie di latino, ed era così intento a cercare di individuare le singole parole che, non tentò nemmeno di ricostruirne il senso fino a quando Père Vétier, con un grido d'orrore, lo interruppe e cercò di strappargli il documento dalle mani. Maddox alzò gli occhi sbigottito. Il piccolo prete era pallidissimo e aveva un'aria terrorizzata, come se gli avessero chiesto di ascoltare la più sconvolgente bestemmia. «Che c'è, mon Père, che succede?», chiese Maddox stupito. «Non dovrebbe leggere cose del genere», ansimò il piccolo curé. «È male avere quella carta. È un grave peccato.» «Perché? Che significa? Non stavo traducendo.» Le guance del prete riacquistarono un po' di colore, ma appariva ancora molto scosso.
«Era un'invocazione», sussurrò guardandosi alle spalle. «È un documento terribile, quello. Evoca... Celui-là.» A Maddox brillarono gli occhi. «Davvero? Ma è proprio così.» Riaprì il foglietto. Il prete balzò in piedi. «No, monsieur, la scongiuro! No! Non ha capito...», era così sconvolto che Maddox si sentì rimordere la coscienza. Dopotutto, quel pover'uomo era stato gentilissimo con lui e se la cosa lo turbava tanto...! Ma non poteva fare a meno di pensare che era un peccato che si nominassero parroci dei contadini ignoranti. Davvero, c'erano già abbastanza superstizioni nella loro Chiesa senza doverci aggiungere vecchi amuleti dimenticati e vecchie magie. Un po' seccato, ripose il biglietto nella scatola e si ficcò tutto in tasca. Sapeva benissimo che se il curé ci avesse messo sopra le mani, non avrebbe avuto il minimo scrupolo a distruggerla. La serata non fu piacevole come al solito. Maddox era irritato per la crassa ignoranza del suo compagno e Père Vétier aveva perduto la sua abituale tranquillità. Appariva nervoso, perfino impaurito; e Maddox notò che, quando la gatta della canonica saltò sullo schienale della sedia del padrone e gli strofinò silenziosamente la testa contro l'orecchio, il curé ebbe un violento soprassalto, facendosi rapidamente il segno della croce. Il tempo si trascinò lentamente fino a quando Maddox suggerì che era ora di andare a dormire; e ancora a lungo, dalla sua stanza (dato che le pareti interne della canonica erano semplici tramezzi di legno ricoperti di stucco), sentì Père Vétier che mormorava orazioni sgranando il suo rosario. Al mattino Maddox era un po' pentito di avere così spaventato il piccolo prete. E il suo rimorso crebbe quando vide Père Vétier di ritorno dalla Messa mattutina: il poveretto appariva pallido e abbattuto. Maddox imprecò mentalmente contro se stesso. Si sentiva come un adulto che avesse turbato e angustiato un bambino, e pensò a come farsi perdonare. A metà del déjeuner ebbe un'idea. «Père», gli disse, «se non sbaglio lei sta apportando delle modifiche alla sua chiesa?» L'ometto si rischiarò visibilmente. Quello - Maddox lo sapeva - era il suo hobby preferito. «Ma sì, monsieur», rispose con entusiasmo, «ci sto lavorando già da un po' di tempo, ora che finalmente di tempo ne ho abbastanza. Monsigneur mi ha concesso la sua benedizione. È che, vede, a fianco della nostra chiesa c'è il rudere di un antico edificio... oh, ma così antico! Si direbbe che un
tempo anche quello fosse una chiesa o un santuario, chissà... ma è una bella costruzione, solida, e mi è venuta l'idea che si potrebbe unirla alla chiesa. Immagini, monsieur: in questo modo avrei una doppia navata! Sarà magnifica. La dipingerò naturalmente, così tutto sarà come si deve. La chiesa è già dipinta di un azzurro assolutamente celestiale, per la Santa Vergine, con gigli bianchi... avevo sperato di avere gigli dorati ma il prezzo della tintura dorata è incredibile! E la nuova cappella la farò in scarlatto, per il Sacro Cuore, con cuori gialli come bordura. Sarà allegra, no?» Maddox si sentì rabbrividire. «Molto allegra», convenne cupamente. C'era qualcosa che lo attirava molto in quella chiesetta male in arnese, imbiancata a calce. Si sentì nauseato solo al pensiero dell'azzurro, scarlatto e giallo di Père Vétier. Ma il piccolo curé non se ne accorse. «Ho già cominciato a dipingere la chiesa attuale», continuò a cicalare, «e monsieur dovrebbe vederla! È veramente paradisiaco, quel colore. Adesso comincerò a preparare l'antico edificio così, appena costruite le mura per congiungerlo alla nostra chiesa, potrò cominciare a decorarle. Non ci vorrà molto tempo: sono mura così piccole... davvero non molto tempo, e poi dipingerò...» Sembrava rapito in estasi. Maddox era divertito e commosso al tempo stesso. Povero ometto, era stata proprio una cattiveria turbarlo tanto con quella sciocca faccenda della stregoneria. Sentì di nuovo l'impulso di far contento quell'omino così cordiale e simpatico. «Posso rendermi utile, padre?», chiese. «Potrei scartavetrare le pareti, o qualcosa del genere? Non mi offrirò di dipingerle; non ho abbastanza esperienza.» Il prete era letteralmente raggiante. Era una persona socievole, amante della compagnia, anche sul lavoro; ma ancor di più amava stendere strati su strati di colori accesi, secondo il suo progetto così a lungo accarezzato. Avere un compagno che lasciasse a lui quel compito era più di quanto avesse mai sperato. Accettò con entusiasmo. Dopo colazione, Maddox venne condotto a vedere la futura aggiunta alla chiesa. Si trovava sul lato nord della chiesetta (che naturalmente era orientata in direzione est-ovest) e, per quel che Maddox ne poté vedere, consisteva essenzialmente di una costruzione che correva parallela al muro della chiesa. Frammenti di mura ormai diroccate, si congiungevano quasi alle pareti est ed ovest del lato nord: un tempo, potevano benissimo averne fatto parte. Certo, come aveva detto Père Vétier, non sarebbero stati necessari
molti cambiamenti per congiungere quell'edificio alla chiesa, come navata nord. Maddox si mise all'opera di buona volontà per staccare l'intonaco dal vecchio muro. Nel pomeriggio, il curé annunciò che doveva andare a far visita a un ammalato, a poche miglia di distanza. Accettò con profonda gratitudine l'offerta del suo pensionante di continuare i preparativi per l'eventuale pittura della nuova navata. Con un aiutante così efficiente, disse, l'aggiunta alla chiesa sarebbe stata completata per la grande festa di san Michele, patrono del villaggio e della chiesa. Maddox fu felice di vedere che il suo piano per restituire il buonumore all'ometto aveva funzionato a meraviglia. Poco dopo le due, Maddox tornò al lavoro. Scalpellò con molto zelo ed era sul punto di smettere, perché ne aveva abbastanza, quando fece una scoperta che lo spronò a riprendere di lena a smantellare l'intonaco che mani appartenenti ad epoca più tarda avevano steso in un pesante strato sul muro originale. Nel pezzo che aveva portato allo scoperto c'erano senza dubbio delle pitture murali. Ben presto aveva liberato dall'intonaco un bel pezzo di muro, e poté vedere che la decorazione formava una striscia alta due o tre metri, a circa sessanta centimetri da terra, che correva lungo quasi tutta la costruzione. La luce stava scomparendo e i colori erano offuscati, ma quel poco che riuscì a vedere gli parve estremamente interessante. I dipinti sembravano raffigurare un tratto di costa e, pur se il paesaggio era trattato in maniera convenzionale, gli sembrò che riproducesse parte della spiaggia vicina a Kerouac. C'erano anche delle figure, e queste lo colpirono perché almeno una di esse aveva qualcosa di familiare. Era una figura alta, incappucciata, con panneggi ricadenti - la figura che aveva scorto la sera prima sulla spiaggia. Forse era a causa dello stile arcaico del dipinto che quella figura gli diede la stessa impressione di piattezza. L'altra figura - se figura era appariva ancora più strana. Stava acquattata a terra davanti alla figura incappucciata e a Maddox sembrò quella di un animale piuttosto disgustoso: un rospo, o un grosso pesce piatto. La cosa sorprendente era che, benché stesse accovacciata ai piedi della figura alta, dava un'impressione di potere, di dominio. Maddox sentiva crescere il suo entusiasmo. Osservò attentamente il dipinto da vicino per individuarne il segreto; ma il breve pomeriggio d'ottobre volgeva rapidamente alla fine e riuscì a desumere ben poco oltre quella che era stata la sua prima impressione. Notò che un particolare inatteso era presente in quel paesaggio altrimenti familiare: un cumulo o una catasta di
grosse pietre, di rocce, su un lato del quale riuscì appena a decifrare delle parole frammentarie: «Qui peuct venir», lesse da una parte e, più in basso, «Celuy qui ecoustera et qui viendra... sacri... mmes pendus...». C'era anche un altro oggetto indistinto, un mucchio di alghe accumulate sotto la catasta, o almeno così gli parve. Pur essendo quasi un profano in fatto di arte e di archeologia, Maddox era interessatissimo a quella scoperta. Era sicuro che quello strano dipinto raffigurasse una qualche leggenda o superstizione locale. Ed era molto strano che lui avesse visto, o creduto di vedere, quella figura sulla spiaggia prima di aver scoperto la pittura murale. Che l'avesse vista, era fuor di dubbio; che non fosse unicamente un parto fantasioso della sua mente stanca lo dimostravano la scatola e la formula magica, o quel che fosse, nella sua tasca. E gli venne un'idea. Sarebbe stato davvero interessante se avesse scoperto che le antiche parole francesi nel dipinto corrispondevano a quelle latine sulla pergamena. Tirò fuori la scatoletta di metallo e l'aprì. «Clamabo et exaudiet me.» «Chiamerò e mi darà ascolto.» Poteva trattarsi di una qualsiasi preghiera. Sembrava un Salmo. «Quoniam iste qui venire potest»: ah! «qui peuct venir»! E questo? «Sacrificium hominum»... Santo cielo! Questo che è? Da lontano, oltre la brughiera, proveniva un flebile grido: l'ululato distante di quella cosa che aveva visto sulla spiaggia. Tese l'orecchio, ma non sentì altro. «Qualche cane che ulula», si disse. «Sto diventando nervoso. Dov'ero arrivato?» Tornò al manoscritto; ma, in quei pochi momenti in cui si era distratto, la luce si era affievolita e dové sforzarsi gli occhi per distinguere le parole. «E paludinis ubi est habitaculum tuum ego te convoco», lesse lentamente ad alta voce decifrando il logoro scritto. «Non mi sembra che nel dipinto ci sia nulla di corrispondente. Che strano! "Dalle paludi dove hai la tua dimora io ti chiamo", perché dalle paludi, vorrei sapere? «E paludinis ubi est habitaculum tuum ego te convoco"...» Si interruppe bruscamente. Di nuovo quello sconvolgente ululato... e certo non era l'ululato di un cane. Era vicinissimo! Maddox non ci pensò due volte. Saltò su, attraversò di corsa il sagrato ed entrò nella canonica chiudendosi la porta alle spalle. Andò alla porta principale e chiuse a chiave anche quella; poi mise il paletto a tutte le finestre del minuscolo alloggio. Allora, e solo allora, si fermò a chiedersi il perché di quella sua fuga precipitosa. Era scosso da un tremito violento e il
fiato gli usciva in un anelito doloroso. Si disse che si era comportato come una zitella isterica - come una scolaretta. Ma non trovava il coraggio di aprire una finestra. Entrò nel salottino e alimentò al massimo il fuoco; poi cercò di interessarsi alla biblioteca di libri di devozione di Père Vétier per far passare il tempo fino al ritorno del piccolo curé. Era nervoso e inquieto; gli sembrava di sentire qualcuno o qualcosa (un grosso cane, si disse, o forse una capra) che annusasse intorno alle pareti esterne e sotto la porta. Provò un sollievo indicibile quando finalmente sentì il passo breve e deciso del curé che risaliva il sentiero verso casa. Quella fu per Maddox una notte molto agitata. Nei brevi periodi di sonno - un sonno pesante - fu tormentato dal sogno di quell'essere piatto e incappucciato che lo inseguiva; una volta si svegliò con un grido strozzato e un raggelante senso di disgusto. Nel sogno era inciampato durante la fuga, cadendo a faccia avanti su qualcosa di freddo e cedevole che si muoveva sotto di lui... una massa di rospi. Dopo quel sogno restò a lungo sveglio; alla fine scivolò in una sorta di torpore, fra il sonno e la veglia, durante il quale ebbe la sgradevole sensazione di non essere solo nella stanza: che qualcosa gli respirasse accanto, aggirandosi intorno in maniera goffa e furtiva. Aveva i nervi così scossi da non trovare nemmeno il coraggio di stendere la mano a cercare i fiammiferi per paura che le sue dita si richiudessero su... qualcos'altro. Cercò di non immaginare che cosa. Verso l'alba cadde in un sopore turbato, dal quale si svegliò di soprassalto. Lo aveva destato un qualche suono: un grido lamentoso e desolato gli echeggiava nelle orecchie; ma che fosse stato effettivamente quello a svegliarlo o non facesse piuttosto parte del suo incubo e di quei sogni malefici, non avrebbe saputo dirlo. A colazione apparve stanco e indisposto e convocò a pretesto la pessima notte trascorsa per non proseguire il suo lavoro sull'antico muro. Passò una giornataccia, depresso e avvilito; girava per casa senza riuscire a concentrarsi su niente. Alla fine si lasciò tentare dal tiepido e dorato sole d'ottobre e uscì per una breve, rapida passeggiata. Sarebbe rientrato prima dell'imbrunire - su questo era ben deciso - e avrebbe evitato le distese solitarie della costa. Era un pomeriggio stupendo. Il profumo intenso dell'erica e della ginestra selvatica sotto il calore del sole, e il soffio fresco del mare che mitigava la leggera brezza, lo placarono ridandogli un delizioso senso di tranquillità. Aveva quasi dimenticato i suoi terrori notturni - o, almeno, riusciva a
ricacciarli in un angolo remoto del cervello. Stava ritornando sui suoi passi, verso casa, soddisfatto - ma pur sempre fermamente deciso a non farsi sorprendere all'aperto dal tramonto - quando l'occhio gli cadde sulla strada bianca dove il sole gli proiettava davanti la sua ombra, sottile e allungata. E, vedendo quell'ombra, il cuore gli diede un balzo: accanto alla sua, camminava un'altra ombra. Si girò di scatto. Non si vedeva anima viva. La strada si stendeva vuota dietro di lui e da entrambi i lati la brughiera si apriva alla carezza del cielo. Corse verso la canonica come inseguito dai fantasmi. Quella sera Père Vétier gli si rivolse con una certa esitazione. «Monsieur», gli disse in tono di scusa, «non desidero intromettermi nei suoi affari. Questo va da sé. Ma ho promesso al mio caro amico, il signor Foster, che mi sarei preso cura di lei. Lei non è cattolico, lo so. Ma... vorrebbe portare questa?» Parlando, si era tolto dal collo una sottile catena d'argento alla quale era appesa una medaglietta annerita dagli anni e la porse al suo ospite. «Grazie, Padre», rispose con semplicità Maddox, mettendosela al collo. «Ah! Così va bene!», esclamò soddisfatto il piccolo curé. «E adesso, Monsieur, mi permetto di chiederle... mi consente di cambiarle stanza? Ne ho una, certo non bella come la sua, ma con una piccola apertura che dà all'interno della chiesa. Forse lì riposerà meglio. Me lo consente?» «Molto volentieri», rispose Maddox con fervore. «Lei è davvero assai cortese con me, Padre.» L'omino gli batté affettuosamente sulla mano. «È che lei mi è molto simpatico, monsieur», rispose con candore, «e io... io non sono del tutto sciocco. Noi bretoni vediamo molte cose che non guardiamo, e sentiamo molte cose che non ascoltiamo.» «Padre», disse Maddox con un certo imbarazzo, «vorrei chiederle una cosa. Quando cominciai a leggere quel foglio... si ricorda? (il curé annuì col capo, un po' turbato) ...lei mi disse che si trattava di un'invocazione... che evocava celui-là. Intendeva... il demonio?» «No, figliolo. Io... io non lo so. Per noi di Kerouac non ha un nome. Diciamo semplicemente celui-là. La prego, non ne parli più. Non è bene parlarne.» «No, suppongo che non lo sia», convenne Maddox; e il discorso finì lì. Indubbiamente quella notte Maddox dormì meglio. Al mattino si disse che ciò poteva dipendere da molti fattori: dal letto, forse più comodo (ma sapeva che non era così); o forse dal fatto che il giorno prima si era stanca-
to troppo; o dall'offerta del curé che poteva, in qualche modo, avergli infuso un senso di sicurezza e di protezione, senza per questo avere in alcun modo il potere di difenderlo. E il suo senso di fiducia aumentò quando il prete gli annunciò: «Domani avremo un altro ospite, monsieur. Il signor Foster mi ha fatto l'onore di accettare il mio invito di venire a trovarci». «Foster? Davvero? Splendido!», esclamò Maddox. Sentiva che il dottore costituiva un baluardo di scienza, civiltà e raziocinio e di tutte le cose rassicuranti della vita, così totalmente assenti in quella landa desolata che era Kerouac. E Foster arrivò puntualmente il giorno dopo; prosaico, brutto e completamente rassicurante come Maddox sperava sarebbe stato e quasi temeva il contrario. In principio, Foster sembrò non preoccuparsi affatto delle condizioni fisiche del suo amico; ma il giorno seguente affrontò l'argomento. «Maddox, non so proprio come lei possa sperare di rimettersi in sesto», gli disse. «È venuto qui soprattutto per l'aria, e le dissi che doveva fare un po' di moto. Ed eccolo qui, in questo buco di casetta (superfluo dire che Père Vétier non era presente alla conversazione). Cos'è che non va con questo posto? Avrei detto che fosse il luogo ideale per delle passeggiate.» Maddox arrossì leggermente. «È un po' noioso passeggiare da soli», rispose evasivamente, sapendo benissimo che «noioso» non era la parola adatta. «Può darsi... sì. Ma potrebbe uscire un po' di più ora che ci sono io a farle compagnia. Potremmo fare una passeggiata oggi pomeriggio; il curé deve andare a non so quale riunione.» Maddox si chiese imbarazzato fino a che punto Foster fosse al corrente della situazione. Era venuto solo per caso, di sua spontanea volontà? Oppure Père Vétier era preoccupato per il primo pensionante e lo aveva mandato a chiamare? E in quel caso, cosa gli aveva raccontato esattamente? Pensò che non ci sarebbe voluto molto a farselo dire da Foster. Passeggiarono lungo la spiaggia, arrivando oltre il punto dove Maddox era già stato. Negli ultimi giorni aveva evitato la spiaggia e non se l'era sentita di spingersi fino a dove era arrivato in quel suo primo giorno trascorso a Kerouac; eppure, anche se sapeva benissimo di non aver mai percorso prima quel particolare tratto di spiaggia, esso gli appariva ora familiare. Certo, accade spesso che si abbia l'impressione di conoscere già un luogo quando lo si vede per la prima volta, ma la sensazione era così netta
che Maddox non poté trattenersi dal parlarne al suo compagno. «Rod, amico mio», rispose sbrigativamente Foster, «lei non è mai stato in Bretagna prima d'ora e dice di non essersi mai spinto fin qui. Non è poi una zona così speciale? Somiglia a un mucchio di altri posti.» «Lo so», rispose Maddox. Ma non era convinto. Rimase immerso nei suoi pensieri per tutto il resto della passeggiata e parlò pochissimo sulla via del ritorno. Né valsero a distrarlo le chiacchiere di Foster che, alla fine, ci rinunciò. Raggiunsero la canonica in silenzio. Il giorno successivo minacciava di piovere, anche se l'acquazzone non si decideva ad arrivare. Nessuno dei due inglesi se la sentiva di andare a spasso sotto quel cielo plumbeo. Père Vétier era stato nuovamente mandato a chiamare d'urgenza da uno dei suoi parrocchiani - ammalato - a Cap Morel e, poco dopo il secondo dejeuner si era messo in cammino, intabarrato in uno strano indumento di incerata. Disse che forse, trovandosi così vicino a Prénoeuf, ne avrebbe approfittato per fare qualche altra visita e probabilmente non sarebbe rientrato prima di notte. «Se monsieur fosse disposto», disse piuttosto timidamente a Maddox prima di uscire, «al signor Foster potrebbe interessare dare un'occhiata alle modifiche che ho progettato per la chiesa. È un uomo di gusto, il signor Foster. Potrebbe fargli piacere...» Era così palesemente ansioso di mettere in mostra la sua opera di decorazione, temendo al tempo stesso di apparire vanitoso se l'avesse mostrata di persona, che Maddox sorrise. «Sono certo che gli piacerebbe vederle», gli rispose con affettuosa cortesia. Eppure, anche se non avrebbe saputo spiegarne il motivo, provava una profonda riluttanza ad accostarsi a quel muro mezzo diroccato con la sua striscia dipinta visibile solo a metà. Sapeva che si stava comportando in modo assurdo. Aveva lavorato a quel muro finché si era sentito troppo stanco, ed era stato spaventato dall'improvviso ululare di un cane. Tutto qui. Senza dubbio, rivedendo quell'affresco, avrebbe scoperto che non era altro che una goffa e maldestra imbrattatura che i suoi nervi già scossi, insieme alla strana e indefinibile luce crepuscolare e a quel maledetto cane, avevano ingigantito in qualcosa di sinistro e di orripilante. Si disse che, se avesse trovato il coraggio di andare a rivederlo, avrebbe senz'altro riso di se stesso e delle sue paure. Ma in un angolino della sua mente sapeva che da solo non ci sarebbe mai tornato. Fu proprio per una specie di sfida e con la speranza che il solido buonsenso di Foster mettesse a tacere i suoi terro-
ri, che si decise finalmente a proporgli di andare a visitare il luogo. Foster dimostrò un tiepido interesse per la descrizione che Maddox gli fece del dipinto sul muro diroccato. Uscì prima, per recarsi da solo nel piccolo spiazzo incolto; Maddox, a malincuore, andò a prendere la scatoletta che aveva raccolto sulla spiaggia così che Foster potesse confrontare con i propri occhi le due iscrizioni; e, quando uscì per raggiungere l'amico, dovette fare un enorme sforzo su se stesso per accostarsi al muro sul quale aveva lavorato. Le gambe rifiutavano di obbedirgli. La decorazione era diversa da come la ricordava. Le figure erano così indistinte e sbiadite che si scorgevano a malapena. Anzi, Maddox era convinto che, a un estraneo, quelle macchie di pittura non sarebbero nemmeno sembrate delle figure. Il suo sollievo a quella scoperta fu assurdamente sproporzionato. Si sentì come se gli avessero tolto un macigno dal cuore e, superato il primo momento di ansia, si chinò per osservare il resto dell'affresco più da vicino. Era esattamente come lo ricordava: un mucchio di pietre con le parole pressoché illeggibili; il groviglio di alghe, o stracci, al di sotto; la lunga distesa di costa... Ma, ah, ecco! «Foster! venga qui a vedere!», chiamò. «Dove?», rispose il dottore, accostandosi con calma. «Guardi... questo affresco, o qualunque cosa sia. Le ho detto ieri che mi sembrava di aver già visto quel tratto di costa. Ecco dove l'avevo visto.» «Mmm. Può darsi... questa parte di spiaggia, però, si somiglia tutta. Non vedo che ci sia da agitarsi tanto.» «Oh, beh, se la prende così!», gridò Maddox esasperato. «Tutti uguali, voi medici: "Stia calmo"... "Non si agiti"... "Non c'è da preoccuparsi..."!» S'interruppe, soffocando per la rabbia. «Mio caro Maddox!», esclamò Foster sbigottito a quell'esplosione del suo amico, in genere così taciturno. «Mi spiace moltissimo. Non volevo davvero offenderla! Semplicemente pensavo che...», anche lui s'interruppe. Poi decise di rischiare un'altra sfuriata. «Cosa la preoccupa?», gli chiese in tono incalzante. «Me lo dica, Maddox, mi dia retta. Che c'è?» Si interruppe sperando in una risposta. Ma Maddox si era nuovamente rinchiuso in se stesso. Non poteva spiegare. Sapeva che il suo amico, quell'uomo tutto d'un pezzo sul quale poteva contare, non avrebbe mai e poi mai potuto capire che il suo non era un terrore immaginario; e non sopportava l'idea di sentirsi tranquillizzare, di leggergli in fronte la parola «isterismo»... eppure, sarebbe stato un tale sollievo raccontare... «Dia un'occhiata a questo», gli disse alla fine. Tirò fuori di tasca l'astuc-
cio trovato sulla spiaggia. «Che ne pensa di quel foglio?» Foster si spostò dall'ombra del muro così che la luce acquosa di un pallido sole che lottava per emergere dalla cortina di nubi batteva sulla pergamena. Maddox si sentì sollevato vedendo la serietà con cui il suo amico esaminava quello scritto, e si volse a scrutare ancora una volta il dipinto. Certo, era molto strano che quelle figure che lui ricordava con tanta chiarezza, così nitide, gli apparissero adesso sbiadite a un punto tale da dubitare della loro realtà. Sembravano ancora più scolorite di quando le aveva guardate pochi minuti prima. E quel mucchio informe sotto la collinetta... cosa rappresentava? Cominciò a chiedersi se anche quella non fosse una figura... un annegato, forse. Si chinò a osservarla più da vicino e, mentre si curvava, sentì accanto a sé qualcuno che guardava da sopra le sue spalle, quasi appoggiandosi a lui. «Strano, Foster, non le pare? Secondo lei, cos'è quella cosa ammucchiata sotto le pietre?» Nessuno rispose. Maddox si voltò. Balzò in piedi con un urlo lacerante che gli si spezzò in gola. Quello che gli stava così addosso non era il suo amico. Era la creatura incappucciata della spiaggia... Foster aveva trovato la pergamena così interessante da volerla esaminare meglio. La scrutò da vicino per qualche minuto, poi decise di andare in canonica a cercare un lume. Faticò un po' a trovare la vecchia lampada a petrolio ma, quando finalmente riuscì ad accenderla, pensò che quel documento valeva bene il disturbo. Era così assorbito nella lettura che passarono alcuni minuti prima che si rendesse conto che si stava facendo molto buio e Maddox non era ancora rientrato. Si sentì preso da un'ansia irragionevole, e corse fuori verso il piccolo spiazzo ricoperto dalla vegetazione incolta. L'ansia si trasformò in panico quando non vi trovò nessuno. Senza un motivo preciso sentiva che c'era qualcosa di terribilmente sbagliato e, obbedendo ciecamente all'istinto, si precipitò fuori dall'angusto recinto correndo più in fretta che poteva verso la spiaggia. Sapeva che, qualunque cosa ci fosse da trovare, l'avrebbe trovata in quel tratto deserto che era raffigurato nel dipinto sul vecchio muro. C'era ancora un barlume di luce, sufficiente a confondere le cose tanto che Foster, sconvolto da un oscuro terrore senza nome, non riusciva più a distinguere fra ombre e materia. A un certo punto credette di vedere davanti a sé due figure: quella di un uomo e un'altra, una forma alta e ondeggian-
te quasi indistinguibile nella oscurità. La sabbia gli ostacolava il passo, si sentiva le gambe di piombo. Ma continuò ad avanzare a stento, col fiato che gli usciva in un rantolo, straziandogli i polmoni. Poi, finalmente, la sabbia cedette il passo all'erba umida e a una distesa di terreno paludoso intriso d'acqua salmastra, dove il fango gli colava lentamente nelle scarpe e l'acqua gli lambiva le caviglie. Qua e là si aprivano delle pozze e, mentre lottava contro la viscida fanghiglia che gli risucchiava i piedi, le vide... vide creature orrende, simili a rospi, o a grossi pesci schiacciati, che si muovevano pesantemente in quella melma acquosa. Non c'era quasi più luce del tutto quanto raggiunse quella striscia di spiaggia che ormai conosceva; e per un terribile momento pensò di essere arrivato troppo tardi. Ecco, il mucchio di pietre; e sotto quella massa nera ammonticchiata qualcosa - forse un'ombra? - oscillava, alta e indistinta fra quell'ammasso informe e, prima che si accovacciasse, vide una sagoma che gli raggelò il sangue nelle vene - una sagoma pesante, goffa, simile a un gigantesco rospo... Urlò, trascinandosi fuori da quella fanghiglia disgustosa che gorgogliava e scoppiettava sotto i suoi piedi... gridò a gran voce, invocando aiuto... E improvvisamente udì una voce... una voce umana. «In nomine Dei omnipotentis», risuonarono alte le parole. Foster fece un ultimo sforzo disperato e cadde in avanti, in ginocchio. Il sangue gli rimbombava nelle orecchie ma, fra i battiti martellanti del polso impazzito, sentì un suono, come l'ululato di un cane, svanire in distanza. «È stata la provvidenza del Signore che mi ha fatto trovare lì in quel momento», disse poi Père Vétier. «Raramente faccio la via della spiaggia a noi di Kerouac, monsieur, non piace la spiaggia dopo il tramonto. Ma era tardi, e quella della spiaggia è la via più breve. Penso proprio che siano stati i santi a guidarmi... Ma, se avessi ceduto alla paura e avessi preso un'altra strada - e di paura ne avevo molta, monsieur, - non so se il suo amico sarebbe ancora vivo.» «Non lo so nemmeno io», rispose gravemente Foster. «Mio Dio, padre, era... era quasi tutto finito. Sacrificium hominum, diceva quel disgustoso foglio... io... io ho visto quella cosa ripugnante che aspettava... era lì, lì di fronte a quel diabolico altare o quel che fosse... Perché, Padre? Perché aveva quel potere su di lui?» «Credo dipendesse dal fatto che aveva letto quella... quell'invocazione... ad alta voce», rispose lentamente il curé. «Lo chiamò, capisce, monsieur...
pronunciò le parole. Ciò che vide prima... lo si vede spesso. Ci siamo abituati, noi di Kerouac. Lo chiamiamo Celui-là. Ma è solamente, penso, solamente un servitore di... dell'altro...» «Bene», disse in tono misurato Foster. «Lei è un uomo coraggioso, Padre. Non passerei un'ora di più in questo luogo se appena potessi farne a meno. Nel momento in cui il povero Maddox sarà in condizioni di viaggiare, lo riporterò a casa. Ma vivere qui, da solo...!» «E fa bene ad andarsene», rispose Père Vétier con voce grave. «Ma in quanto a me... no, monsieur. Vede, questo è il mio posto. E uno prega, monsieur, prega sempre.» WINIFRED GALBRAITH Qui riposa dove desiderava riposare Non crederete a questa storia: direte che sono tutte frottole. E lo direi anch'io se non sapessi che è una storia vera. Ma, ogni volta che penso si sia trattato di un sogno, mi rivedo davanti agli occhi quell'espressione di profonda pace sul volto di Lao Ming e allora mi rallegro che il vecchio riposi a fianco degli antenati sulle lontane colline dello Shenshi e non in quegli affollati formicai che sono i cimiteri di Shanghai. Conobbi Lao Ming nel 1927 quando lasciai l'interno del paese per via dei comunisti. Mi raccontò di essere nato e cresciuto nello Shenshi e di aver ricoperto importanti cariche ufficiali sotto i Manciù. Poi, dopo la Rivoluzione, era finito a vivere a Shanghai - Dio sa come - in una stanzetta di città. Durante quel lungo e tedioso inverno, trascorsi alcune ore fra le più piacevoli della mia vita in quello squallido e sudicio buco. Entrambi amavamo parlare dello Shenshi e scoprii che il suo più intenso desiderio era quello di farvi ritorno per finire lì i suoi giorni, anche se un simile viaggio appariva davvero impossibile per un uomo della sua età. Aveva una cultura classica ed era profondamente versato nelle pratiche magiche del Buddismo (deteriore); un giorno mi presentò un amico che, disse, era uno stregone di grande abilità e grande fama. Ascoltando i loro discorsi provavo sempre la sensazione di essere uscita dal XX secolo per piombare in pieno Medioevo, fra due negromanti. Un certo cibo magico mangiato la sera, garantiva la nascita del tanto desiderato figlio maschio; la polvere di orecchi di topo applicata su una carta magica riduceva il gonfiore di un tumore; e una volta si misero a parlare di incantesimi per i morti ma, a quel punto, dimostrai troppo palesemente il mio scetticismo e tacquero. Strani discorsi,
in vista della Grande Diga di Shanghai! Quando potei ritornare nell'interno e andai a congedarmi da Lao Ming, lo trovai gravemente ammalato. Con lui c'era il suo amico stregone che mi accompagnò fuori. «Temo che non rivedrà mai più le colline dello Shenshi!», gli dissi. Colsi uno strano sguardo sul viso dell'uomo e feci un gesto molto sciocco. «Senta», gli dissi, «se le do cinquanta dollari, mi promette che farà seppellire Lao Ming a Shenshi?» Lo stregone s'inchinò. «Sarà fatto», mi rispose. Contai effettivamente cinquanta dollari e glieli misi in mano. Vi assicuro che dopo ero furiosa con me stessa; in quel periodo, infatti, ero a corto di soldi e sapevo che i miei preziosi cinquanta dollari sarebbero stati spesi per una bella festa al funerale. Era una splendida notte serena. I miei coolies avevano accettato di percorrere un'altra tappa dopo l'imbrunire perché tutti volevano arrivare a casa prima dell'inizio dei festeggiamenti. Continuarono quindi a trotterellare con le ginocchia piegate, canticchiando a bassa voce un motivetto, e io li seguivo a piedi, non tanto stanca da non godermi lo splendore della luna che illuminava le risaie nella valle e il folto gruppo oscuro degli alberi sulle pendici della collina. D'improvviso, il coolie che guidava la fila lanciò un urlo da far gelare il sangue, lasciò cadere i bagagli e corse via gridando attraverso i campi. Gli altri lo seguirono. Non riuscivo a vedere la causa di quella fuga terrorizzata. Una breve fila di persone ci veniva incontro lungo lo stretto sentiero. Era piuttosto insolito vedere gente in giro a quell'ora di notte, ma pensai che probabilmente si trattava di un gruppo di abitanti del villaggio che avevano fatto tardi al mercato. Poi vidi che l'uomo a capofila reggeva con entrambe le mani una coppa davanti a sé mentre gli altri non portavano nulla e camminavano con andatura piuttosto rigida, senza muovere il capo. Lanciai un saluto mentre mi scostavo dal sentiero per lasciarli passare, ma nessuno rispose. Seconda nella fila c'era una donna con un bimbo legato sulla schiena; il terzo era un uomo che indossava una lacera uniforme e che aveva un'enorme ferita aperta lungo tutto un lato della gamba nuda. E poi... mi ritrovai a guardare dritto in faccia il mio amico Lao Ming. Con un grido che non riuscii a trattenere mi voltai e, come i coolies, corsi attraverso i campi bagnati. Il negromante aveva tenuto fede alla sua promessa e Lao Ming a-
vrebbe riposato nel suo amato Shenshi. Più tardi, ormai al sicuro accanto al fuoco, i coolies mi raccontarono altri particolari su quella strana processione. Era una marcia di morti. Esistono uomini che hanno il potere di impedire la decomposizione di un corpo e di far muovere i defunti al loro comando. Quando un uomo muore lontano dalla sua patria, i parenti vanno a cercare uno di questi negromanti e lo pagano perché riporti il morto a casa. Il negromante raccoglie un certo numero di questi incarichi poi inizia la sua lunga marcia. Cammina di notte, recando in mano una ciotola d'acqua, raggiunge una locanda dove affitta una stanza, poggia la ciotola sul pavimento e subito i morti cadono a terra dove rimangono fino al calar della notte, quando riprendono il loro lungo pellegrinaggio. Oltre colline e fiumi, per centinaia di miglia, camminando fino a quando raggiungono la mèta. E allora l'acqua deve essere versata sul terreno e la ciotola frantumata. Così i loro corpi potranno finalmente disfarsi e le loro anime riposare in pace. Incredibile, non è vero? Ma presi un'altra iniziativa. Scrissi al nostro agente nel luogo dove si diceva fosse la tomba di famiglia di Lao Ming chiedendogli se, di recente, ci fosse stata una tumulazione. Si informò e scoprì che effettivamente c'era una tomba scavata di fresco ma sembrava che ci fosse un qualche mistero perché nessun voleva dirgli nulla, né gli risultava che di recente fosse morto qualcuno. Beh, oggi non rimpiango quei cinquanta dollari! NOTA: Il gentiluomo cinese che mi narrò questa storia giurando sulla sua autenticità, ha risieduto per molti anni in Inghilterra come diplomatico. EMMA DUFFIN Festa di famiglia Era un sabato mattina. Bella, la nuova cameriera di Stamford Court, stava andando da una stanza all'altra coi vassoi del tè, alzando le persiane, lasciando brocche di acqua calda, cercando nervosamente di fare meno rumore possibile; ma tazze, piattini, cucchiaini e via dicendo avevano l'incresciosa tendenza a scivolare sul vassoio che Bella reggeva con mani tremanti; la cinghia delle persiane le sfuggiva di mano e risaliva fino in cima alla finestra con un allarmante crepitio, le brocche d'ottone sbattevano contro il catino mentre le appoggiava sul portacatino. In alcuni casi, l'occupante del letto apriva gli occhi sonnacchiosi e leggermente irritati; in altri,
sbadigliava e si girava dall'altra parte. Chiudendo l'ultima porta con un sospiro di sollievo, rimase a guardare con aria incerta un'altra porta all'estremità del corridoio. Anche quella stanza toccava a lei? Quella casa così enorme la confondeva e Alice, la Prima Cameriera, si dava tante di quelle arie che Bella non aveva voglia di chiederglielo. Sì, probabilmente toccava a lei. Che guaio se se la fosse dimenticata... tornò in fretta alla dispensa a preparare un altro vassoio. Dieci minuti dopo bussava alla porta della stanza. Nessuno rispose ma ben pochi degli ospiti di fine settimana si prendevano la briga di rispondere, così aprì silenziosamente la porta. La camera era gelida e immersa nell'oscurità; varcando la soglia ebbe l'impressione di essere penetrata in una cortina di nebbia ghiacciata; c'era anche odore di muffa - come in una cantina. Un terrore irragionevole s'impadronì di lei facendole gelare il sangue. Si fermò a mezza strada fra la porta e la finestra come se le gambe si rifiutassero di fare un altro passo. Il vassoio le tremava nelle mani facendo tintinnare le porcellane. Rimase ai piedi dell'antiquato letto a baldacchino e, suo malgrado, quasi ipnotizzata, girò la testa in quella direzione. Nel fioco chiarore di quella buia mattina d'inverno non riusciva a distinguere se nel letto ci fosse un uomo o una donna. Da sopra le coperte due occhi sembravano sfavillare come quelli di un gatto nell'oscurità, trapassandole il cervello. Fu solo con un sovrumano sforzo di volontà che depositò il vassoio sul comodino; poi tirò su in fretta le persiane senza curarsi del rumore, sentendosene, anzi, rassicurata, e si precipitò fuori dalla stanza senza osare di gettare un'altra occhiata al letto per timore di scorgere - che cosa? - si domandò sconvolta mentre si arrestava nel corridoio, ansimante e col sangue che le pulsava freneticamente nelle vene. Ma la sua tacita domanda rimase senza risposta. Mentre scendeva le scale le giunse alle narici il profumo del caffè e del bacon che friggeva; dal basso proveniva il piacevole acciottolio che annunciava la preparazione delle colazioni. Respirò sollevata a quei suoni familiari. Dopo colazione vuotò i catini, rifece i letti e spolverò le stanze lasciando per ultima quella che fra sé chiamava «la stanza». Quando vi entrò, i suoi timori le parvero assurdi. Il sole entrava a fiotti dalle finestre, il letto era vuoto ma dava l'impressione che l'occupante avesse trascorso una notte agitata: le lenzuola erano attorcigliate come corde, i cuscini gualciti e spiegazzati tanto che dovette cambiarne le federe. E c'era un'altra cosa strana: nel catino, l'acqua era di un colore rosso ruggine
e uno degli asciugamani era macchiato di sangue. Pur dicendosi che l'ospite doveva essersi tagliato facendosi la barba, Bella si sentì pervasa da un senso di orrore indescrivibile, ma rimise in ordine la stanza e andò ad occuparsi delle altre faccende. Malgrado i buoni proponimenti, il mattino seguente tremava come una foglia quando si trovò davanti a quella porta e bussò con mano tremante. Di nuovo, nessuno rispose; e di nuovo, mentre varcava la soglia, sentì un senso di gelo penetrarle nelle ossa. Aveva deciso che a nessun costo avrebbe guardato il letto o la persona che lo occupava. Quindi, poggiando in fretta il vassoio si accostò alla finestra e alzò le persiane; ma sentiva che dal letto due occhi la stavano osservando e che qualcosa di più temibile di un animale feroce stava per saltarle addosso. Presa dal panico, uscì barcollando e richiuse la porta con un tonfo che echeggiò nel corridoio. Raggiunse di corsa la scala di servizio e si appoggiò mezzo svenuta alla ringhiera. A colazione, nella stanza da pranzo della servitù, guardò i domestici con sguardo angosciato cercando fra loro qualcuno con cui confidarsi; ma le erano tutti estranei e le mancò il coraggio. Quando tornò di sopra, la porta della camera era spalancata, la camera vuota ma in disordine come il giorno prima, il catino pieno di quell'acqua dal sinistro colore, l'asciugamano nuovamente macchiato di sangue. Tremando, la riassettò. Lunedì mattina: grazie a Dio la festa di famiglia oggi si sarebbe conclusa. Avrebbe dovuto entrare in quella stanza spettrale per l'ultima volta! Si confortò con quel pensiero mentre bussava alla porta. Tre ore dopo la governante, signora Grieves, stava ispezionando le camere vuote con Alice, la Prima Cameriera, per vedere che tutto fosse in ordine. «Non occorre che ispezioni la camera degli spiriti», disse sarcastica Alice. «Non ci ha dormito nessuno. Sua Signoria aveva ordinato che non fosse mai più assegnata agli ospiti.» La signora Grieves era una donna coscienziosa e aprì comunque la porta. I mobili erano coperti con dei teli, il tappeto arrotolato, le cortine del letto aperte e fermate con i cordoni; ma quello cos'era? Una figura sul letto. La signora Grieves e Alice si avvicinarono e lanciarono simultaneamente un grido di orrore. Di traverso sul letto c'era il corpo di una ragazza. Una mano si aggrappava alla tenda, l'altro braccio era tirato indietro quasi in gesto di difesa e la piegatura del gomito nascondeva in parte il viso. Ma, guardandola, riconobbero in quei lineamenti stravolti, gli occhi sbarrati e la bocca semiaperta di Bella, la nuova cameriera.
Era morta. MONTAGUE RHODES JAMES Cuori perduti Da quanto posso accertare, fu nel settembre del 1811 che una diligenza si fermò davanti alla porta di Aswarby Hall nel cuore del Lincolnshire. Il ragazzino, che era l'unico passeggero e che saltò a terra non appena la diligenza si fu fermata, si guardò attorno con grandissima curiosità nel breve intervallo che passò tra il suono della campanella e l'apertura della porta. Vide una casa alta, quadrata, di mattoni rossi, costruita durante il regno della Regina Anna; il portico con colonne di pietra era stato aggiunto nel più puro stile classico del 1790; le finestre erano molte, lunghe e strette, con piccoli vetri e una robusta intelaiatura di legno bianco. Un frontone, interrotto da una finestra rotonda, completava la facciata. C'erano ali a destra e a sinistra, unite da curiose gallerie a vetri, sostenute da colonnati con un blocco centrale. Quelle ali contenevano chiaramente le stalle e le stanze di servizio. Ognuna era sormontata da una cupola ornamentale con una banderuola dorata. La luce serale brillava sull'edificio facendo risplendere i vetri delle finestre come tanti fuochi. Attorno e dietro la casa si stendeva un parco pianeggiante, costellato di querce e bordato di abeti che svettavano verso il cielo. L'orologio del campanile della chiesa, nascosta fra gli alberi al margine del parco e di cui solo la banderuola dorata rifletteva la luce, stava battendo le sei, e il suono si diffondeva gentilmente nel vento. Fu complessivamente gradevole, sebbene soffusa di quella malinconia che si addice a una sera d'autunno appena iniziato, l'impressione che ne ricavò il ragazzo stando nel portico in attesa che gli aprissero. La diligenza l'aveva condotto dallo Warwickshire dove, circa sei mesi prima, era rimasto orfano. Ora, grazie alla generosa offerta del suo maturo cugino, il signor Abney, era venuto ad abitare ad Aswarby. L'offerta era stata inaspettata, perché tutti coloro che più o meno conoscevano il signor Abney, lo consideravano un austero recluso, nel cui regolare andamento domestico l'arrivo di un ragazzino avrebbe portato un elemento nuovo e, pareva, assurdo. La verità è che pochissimo si sapeva delle occupazioni o del carattere del signor Abney. Il professore di Greco di Cambridge aveva sentito dire che nessuno meglio del proprietario di Aswarby conosceva le fedi religiose
degli antichi pagani. Certamente la sua biblioteca conteneva tutti i libri allora reperibili sui riti religiosi, i poemi orfici, l'adorazione di Mitra e i Neoplatonici. Nella sala dal pavimento di marmo c'era un bel gruppo di Mitra che uccide un toro, importato dal Levante con notevoli spese. Il proprietario stesso ne aveva fatta una descrizione sul Gentleman's Magazine e aveva scritto un'apprezzata serie di articoli apparsi su Critical Museum riguardanti le superstizioni dei Romani del Basso Impero. Era considerato, in definitiva, un uomo tutto preso dai suoi libri, e fu motivo di grande sorpresa tra i vicini che avesse saputo del cugino orfano, Stephen Elliott, e soprattutto che gli avesse offerto di trasferirsi ad Aswarby Hall. Qualunque cosa si fossero aspettati i vicini, è certo che il signor Abney, l'alto, magro, austero uomo, era disposto a fare una gentile accoglienza al giovane cugino. Appena la porta di casa fu aperta, lui si precipitò fuori dello studio, fregandosi le mani per il piacere. «Come stai, ragazzo mio? Come stai? Quanti anni hai?», disse. «Cioè, non sei troppo stanco del viaggio, spero, per consumare la tua cena?» «No, grazie, signore», disse il signorino Elliott. «Sto abbastanza bene.» «Bravo», disse il signor Abney. «E quanti anni hai?» Sembrò un po' strano che avesse fatto la stessa domanda due volte quando si conoscevano da un paio di minuti. «Compirò dodici anni al prossimo compleanno, signore», disse Stephen. «E quando è il tuo compleanno, mio caro ragazzo? L'undici di settembre, eh? Bene... molto bene. Quasi tra un anno, non è vero? Mi piace... ah, ah... mi piace annotare queste cose nel mio libro. Sicuro siano dodici? Proprio sicuro?» «Sì, sicurissimo, signore.» «Bene, bene! Conducilo nella stanza della signora Bunch, Parkes, e fagli prendere il tè... la cena, quel che vuole.» «Sì, signore», rispose il serio Parkes, e condusse Stephen nelle stanze più umili. La signora Bunch era la persona più rassicurante e umana che Stephen avesse conosciuto. Lo mise perfettamente a suo agio e, in un quarto d'ora, divennero grandi amici e tali restarono. La signora Bunch era nata nella zona e aveva circa cinquantacinque anni alla data dell'arrivo di Stephen; ad Aswarby Hall c'era da vent'anni. Di conseguenza, lei conosceva vita, morte e miracoli della casa e del distretto, e non era affatto contraria a comunicare le sue informazioni.
Certamente erano molte le cose della villa e dei suoi giardini che Stephen, di tendenze avventurose e indagatrici, desiderava gli fossero spiegate. Chi aveva costruito la chiesa in fondo al vialetto di lauri? Chi era il vecchio, il cui ritratto era appeso sulle scale, che stava seduto a un tavolo con la mano su un teschio? Questi e molti simili quesiti furono chiariti dalle risorse del potente intelletto della signora Bunch. Altri punti, tuttavia, ebbero spiegazioni meno soddisfacenti. Una sera di novembre Stephen era seduto presso il focolare nella stanza della governante e meditava sull'ambiente. «Il signor Abney è un buon uomo e andrà in cielo?», chiese improvvisamente con la particolare fiducia che i bambini ripongono nell'abilità degli adulti di risolvere i loro problemi, la decisione dei quali si crede sia riservata ad altri tribunali. «Buono? Misericordia, signorino!», disse la signora Bunch. «Il padrone ha un'anima gentile come non ne ho mai viste! Non vi ho mai detto del bambino che prese dalla strada e accolse in casa, più o meno sette anni fa? E della bambina, due anni dopo che io ero qui?» «No. Raccontatemi tutto di loro, signora Bunch... subito, subito!» «Ecco», disse la governante, «della bambina non ricordo molto. So che il padrone la portò con sé un giorno tornando dalla sua passeggiata, e diede ordini alla signora Ellis, la governante di allora, che la bambina ricevesse tutte le attenzioni. La poverina non aveva nessuno, me lo disse lei stessa, e qui con noi rimase circa tre settimane, poi - forse era una zingara per natura o forse no fatto sta che una mattina si alzò prima che chiunque altro aprisse gli occhi, e da allora non se n'è trovata traccia. Il padrone fece circolare la notizia e dragare tutti gli stagni, ma sono convinta che lei fu portata via da quelle zingare, perché quell'ultima notte non fecero che cantare attorno alla casa per almeno un'ora, e Parkes afferma di averle sentite chiamare nei boschi durante il pomeriggio. Mio Dio! Era una bambina strana, così quieta nei modi e tutto quanto, ma io mi ci ero affezionata... era tanto brava in casa... sorprendente.» «E il bambino?», chiese Stephen. «Ah, il povero ragazzo!», sospirò la signora Bunch. «Era uno straniero... Giovanni si faceva chiamare; un giorno d'inverno venne attorno alla villa a suonare il suo organetto e il padrone lo fece venire subito dentro; gli domandò da dove venisse, quanti anni avesse, come se la passasse, e dove fossero i suoi familiari, e tutto con la maggior gentilezza che si possa desi-
derare. Ma fu una gentilezza sprecata, per lui. Queste nazioni straniere sono tutte turbolente, suppongo, e una bella mattina anche lui se ne andò, come la bambina. Perché andò via e cosa fece, furono le domande che ci ponemmo per almeno un anno; infatti lui non aveva portato via il suo organetto, che è ancora lì sullo scaffale.» Il resto della serata fu trascorso da Stephen in varie, pressanti domande alla signora Bunch, e nel tentativo di tirar fuori una melodia dall'organetto. Quella notte fece uno strano sogno. In fondo al corridoio dell'ultimo piano, in cui era situata la sua camera, c'era una vecchia stanza da bagno in disuso. Era chiusa a chiave, ma la metà superiore della porta era di vetro e, poiché le tendine di mussola abitualmente usate mancavano da molto tempo, si poteva guardare all'interno e vedere la vasca di zinco fissata alla parete di destra, con la testa verso la finestra. Nella notte di cui parlo, Stephen Elliott si ritrovò nel sogno a guardare dal vetro della porta. La luna gettava luce dalla finestra e i suoi occhi fissarono una figura giacente nella vasca. La sua descrizione di quel che vide mi fa ricordare quanto io stesso vidi nei famosi sotterranei della chiesa di san Michan a Dublino, che hanno l'orrenda proprietà di conservare per secoli i cadaveri senza che si decompongano. Una figura eccezionalmente magra e patetica, di un color piombo polveroso, avvolta in una specie di sudario, con le labbra arricciate in un debole e spaventoso sorriso, le mani pressate sul petto nel punto del cuore. Mentre guardava, un lontano lamento, quasi impercettibile, parve uscire da quelle labbra, e le braccia cominciarono a muoversi. Il terrore della visione fece indietreggiare Stephen, che in quel momento si svegliò constatando di essere effettivamente in piedi nel corridoio dal freddo pavimento di legno, bene illuminato dalla luna. Con un coraggio non comune - penso - in ragazzi della sua età, andò alla porta del bagno per accertarsi se la figura del sogno ci fosse davvero. Non c'era, e tornò a letto. Il mattino dopo, la signora Bunch fu molto colpita dal racconto, e provvide addirittura a rimettere la tendina di mussola sul vetro della porta. Il signor Abney, al quale il ragazzo confidò le sue esperienze durante la colazione, mostrò vivo interesse e annotò la cosa su quello che chiamava «il suo libro». L'equinozio di primavera si approssimava, e il signor Abney lo ricordò spesso al cugino, aggiungendo che era sempre stato considerato dagli antichi un periodo critico per i giovani; che Stephen avrebbe fatto bene a stare attento, e a chiudere la finestra della sua camera di notte; che Censorino
aveva fatto preziose osservazioni in proposito. Due incidenti avvenuti circa in quel periodo restarono impressi nella mente di Stephen. Il primo si verificò dopo una notte eccezionalmente inquieta e opprimente, sebbene non ricordasse di aver fatto sogni. La sera dopo, la signora Bunch era occupata a rammendare la camicia da notte del ragazzo. «Buon Dio, signorino Stephen!», proruppe alquanto irritata. «Come fate a stracciare la camicia da notte a questo modo? Guardate quanti problemi date alla povera servitù che deve riparare e rammendare la vostra roba!» C'era infatti sull'indumento una serie di tagli o sfregi apparentemente senza scopo, che certo richiedevano un abile lavoro di ago. Erano tutti sul lato sinistro del torace: tagli lunghi, paralleli, di una quindicina di centimetri, e alcuni non avevano rotto completamente il tessuto di lino. Stephen poté soltanto dire di non saperne l'origine: era sicuro che non vi fossero la sera prima. «Ma», disse, «signora Bunch, sono uguali ai graffi sulla parte esterna della porta di camera mia, e sono sicuro di non essere stato io a fare quelli.» La signora Bunch lo guardò a bocca aperta, poi afferrò una candela, lasciò svelta la stanza e la sentirono salire le scale. Pochi minuti dopo tornò giù. «Ebbene», disse, «signorino Stephen, mi sembra una cosa buffa come quei segni e quei graffi siano comparsi là... troppo alti perché li abbia fatti un gatto o un cane, tanto meno un topo; sono tali e quali unghie di cinese, come nostro zio ci diceva quando era nel commercio del tè e noi eravamo ragazzine. Non lo direi al padrone, se fossi in voi, signorino Stephen caro; e chiudete la porta di camera vostra a chiave quando andate a letto.» «Lo faccio sempre, signora Bunch, appena ho detto le mie preghiere.» «Ah, siete un bravo bambino; ditele sempre le preghiere, e nessuno vi farà del male.» Detto ciò, la signora tornò a rammendare la camicia da notte, intervallando al cucito la meditazione, fino all'ora di coricarsi. Questo avveniva un venerdì sera del marzo 1812. La sera successiva, l'usuale duetto di Stephen e della signora Bunch si accrebbe dell'improvviso arrivo del signor Parkes, il maggiordomo, il quale di regola stava piuttosto appartato nel locale di disimpegno. Non si accorse della presenza di Stephen; inoltre era eccitato e parlava con una fretta che non gli era abituale.
«Il padrone si prenda pure il suo vino, se vuole, di sera», fu la sua prima osservazione. «Io o lo faccio di giorno o niente, signora Bunch. Non so cosa possa essere: molto probabilmente si tratta di topi, o del vento entrato nelle cantine, ma non sono più giovane come un tempo e non eseguo le cose come facevo prima.» «Andiamo, signor Parkes, sapete che questo è un posto ideale per i topi.» «Non lo nego, signora Bunch; e sicuramente più di una volta ho sentito gli uomini all'arsenale raccontare la storia del topo parlante. Prima non ci credevo, ma stanotte, se mi fossi abbassato a origliare alla porta del ripostiglio dei vini più lontano, avrei potuto sentire bene quel che dicevano.» «Oh, andiamo, signor Parkes, non ho pazienza di ascoltare le vostre fantasie! Diamine, spaventate il signorino Stephen fino a fargli perdere la ragione.» «Cosa! Il signorino Stephen?», disse Parkes, d'un tratto consapevole della presenza del ragazzo. «Il signorino Stephen capisce quando scherzo con voi, signora Bunch.» Infatti Stephen era tanto bravo da supporre che il signor Parkes aveva inteso fare uno scherzo. Era interessato, non piacevolmente, alla situazione; ma tutte le sue domande non riuscirono a indurre il maggiordomo a fargli un dettagliato resoconto delle sue esperienze nella cantina dei vini. Siamo così arrivati al 24 marzo 1812. Quello fu un giorno di curiose esperienze per Stephen: una giornata ventosa e rumorosa che riempì la casa e i giardini di un'irrequieta impressione. Mentre Stephen si trovava verso la cinta della proprietà e guardava il parco, ebbe la percezione che un'infinita processione di persone invisibili gli passasse accanto, persone portate dal vento, sospinte irresistibilmente e senza mèta, che cercavano di fermarsi, di aggrapparsi a qualcosa che potesse arrestare la loro fuga e riportarle a contatto con il mondo vivente di cui avevano fatto parte. Quel giorno, dopo il pranzo, il signor Abney disse: «Stephen, ragazzo mio, pensi di poter venire stasera alle undici nel mio studio? Io sarò occupato fino a quell'ora, e vorrei mostrarti una cosa collegata alla tua vita futura, che è molto importante tu conosca. Non devi dirlo alla signora Bunch né ad altri della casa, e faresti bene ad andare in camera tua alla solita ora». Ecco che la vita si arricchiva di qualcosa di eccitante: Stephen colse vo-
lentieri l'occasione di stare alzato fino alle undici. Quella sera fece capolino dalla porta della biblioteca mentre andava di sopra e vide il braciere, che aveva notato spesso nell'angolo della stanza, spostato davanti al fuoco; una vecchia coppa d'argento dorato piena di vino rosso era sul tavolo, e dei fogli scritti vi stavano vicino. Il signor Abney stava aspergendo sul braciere dell'incenso, contenuto in una scatola rotonda d'argento, ma non parve accorgersi delle occhiate di Stephen o dei suoi passi. Il vento era caldo, la notte era calma e c'era la luna piena. Verso le dieci, Stephen stava alla finestra aperta della sua camera e guardava la campagna circostante. Per quanto tranquilla fosse la notte, la misteriosa popolazione del lontano bosco illuminato dalla luna non era ancora disposta al sonno. Ogni tanto, strane grida come di viandanti smarriti e disperati, echeggiavano dallo stagno. Potevano essere le note di gufi o di uccelli acquatici, tuttavia non somigliavano né agli uni né agli altri. Non si avvicinavano forse? Ora i suoni provenivano dalla sponda più vicina, e in pochi istanti parvero fluttuare in mezzo alle macchie. Poi cessarono ma, mentre Stephen pensava di chiudere la finestra e di riprendere la lettura di Robinson Crusoe, scorse due figure ferme sulla terrazza ghiaiosa che guardava sul giardino. Le figure parevano quelle di un bambino e di una bambina: stavano fianco a fianco e guardavano in su, verso le finestre. Qualcosa nella fisionomia della bambina gli ricordò irresistibilmente il sogno della figura nella vasca. Il bambino gli ispirò più paura. Mentre lei stava ferma, con un mezzo sorriso e le mani incrociate sul cuore, il bambino, una sagoma scarna, con capelli neri e gli indumenti a brandelli, sollevò le braccia in alto con aria minacciosa e un inappagabile desiderio. La luna illuminava le sue mani quasi trasparenti e Stephen vide che le unghie erano paurosamente lunghe e che la luce le trapassava. Mentre stava con le braccia alzate, il bambino mostrò uno spettacolo terrificante. Sulla parte sinistra del torace c'era uno squarcio nero, slabbrato; e nel cervello, più che nell'orecchio di Stephen, giunse l'impressione di una di quelle grida fameliche e desolate che aveva udito risuonare dal bosco di Aswarby per tutta la sera. Un istante dopo, la spaventosa coppia si era mossa velocemente e silenziosamente sulla ghiaia asciutta e lui non la vide più. Terrorizzato com'era, decise di prendere la candela e di scendere nello studio del signor Abney perché si avvicinava l'ora stabilita per il loro in-
contro. Allo studio, o biblioteca, si accedeva dal vestibolo, e Stephen, incalzato dai suoi terrori, non ci mise molto ad arrivare là. Entrare non fu così facile. La porta non era chiusa a chiave, ne era sicuro, perché la chiave era infilata dall'esterno come al solito. I suoi ripetuti colpetti non produssero risposta. Il signor Abney era occupato: stava parlando. Diamine! Perché tentava di gridare? E perché il grido gli moriva in gola? Anche lui aveva visto i misteriosi bambini? Ma ecco che tutto era tornato tranquillo, e la porta cedette alla spinta terrorizzata e frenetica di Stephen. Sul tavolo dello studio del signor Abney si trovarono certi fogli, che spiegarono la situazione a Stephen Elliott quando ebbe l'età per comprenderli. Le frasi più importanti erano le seguenti: Era credenza fortemente e generalmente sostenuta dagli antichi, della cui saggezza in queste cose ho una tale esperienza da essere indotto a confidare nelle loro asserzioni che, attuando determinati processi aventi per noi moderni un certo aspetto barbarico, si possa raggiungere nell'uomo uno straordinario miglioramento delle facoltà spirituali; si credeva che, per esempio, assorbendo le personalità di un certo numero di creature simili, un individuo potesse ottenere una compieta influenza su quegli ordini di esseri spirituali che controllano le forze elementari del nostro universo. Si racconta che Simon Mago fosse capace di volare, di rendersi invisibile o di assumere una forma a piacere, tramite l'azione dell'anima di un ragazzo che, per usare la calunniosa frase dell'autore di Clementine Recognitions, lui aveva «assassinato». Inoltre trovo esposto con notevole minuziosità negli scritti di Hermes Trismegistus, che risultati ugualmente ottimi si possono ottenere assorbendo i cuori di non meno di tre esseri umani al di sotto dei vent'anni. Per provare la verità di questa formula, ho dedicato la maggior parte degli ultimi vent'anni a selezionare come corpora villa del mio esperimento, persone che potevano essere convenientemente soppresse senza provocare un vuoto percettibile nella società. Il primo passo lo feci togliendo di mezzo una certa Phoebe Stanley, una bambina di famiglia gitana, il 24 marzo 1792. Il secondo togliendo di mezzo un vagabondo, un ragazzo italiano di nome Giovanni Paoli, la notte del 23 marzo 1805. L'ultima «vittima»,
per usare una parola che ripugna al massimo ai miei sentimenti, dovrà essere mio cugino, Stephen Elliott. Il suo giorno sarà oggi, 23 marzo 1812. Il mezzo migliore per ottenere il richiesto assorbimento, sta nel togliere il cuore al soggetto vivente, ridurlo in cenere, mescolare le ceneri con una pinta di vino rosso, preferibilmente Porto. I resti dei primi due soggetti sarà bene nasconderli: una stanza da bagno in disuso o una cantina di vini andranno bene allo scopo. Qualche fastidio potrebbe venire dalla parte psichica dei soggetti, che il linguaggio popolare degna del nome di spettri. Ma l'uomo d'indole filosofica, a cui soltanto l'esperimento si conviene, sarà poco incline ad attribuire importanza ai deboli sforzi di questi esseri che volessero vendicarsi su di lui. Considero con la più viva soddisfazione l'agiata e indipendente esistenza che l'esperimento, se riuscito, mi darà, non soltanto ponendomi al riparo della giustizia umana (cosiddetta), ma eliminando in grande misura la prospettiva stessa della morte. Il signor Abney fu trovato nella sua poltrona, la testa gettata indietro e sul viso un'espressione di rabbia, spavento e dolore mortale. Sul lato sinistro aveva una terribile ferita slabbrata che gli metteva a nudo il cuore. Non c'era sangue sulle mani, e un lungo coltello posato sul tavolo era perfettamente pulito. Un gatto infuriato poteva avergli inflitto quella lacerazione. La finestra dello studio era aperta, e fu opinione del Coroner che il signor Abney avesse trovato la morte a causa di una creatura scatenata. Ma l'esame delle carte che ho citato, portò Stephen Elliott a ben altra conclusione. HUGH WALPOLE Il piccolo fantasma 1. Fantasmi? Gettai un'occhiata a Truscott attraverso il tavolo, e provai l'improvviso desiderio di stupirlo. Truscott ha già altre volte estorto delle confidenze nello stesso modo, con la sua impassibilità, la sua aria che non gli importa nulla se si parla oppure no, la sua determinata indifferenza ai drammi e al pathos altrui.
Quella sera era stato meno impassibile. Aveva portato lui stesso la conversazione sullo spiritismo, le sedute, e tutto quel mondo di inganni - come lui lo riteneva - e io vidi a un tratto, o mi parve di vedere, un invito effettivo nei suoi occhi, qualcosa che mi fece dire a me stesso: «Accidenti, conosco Truscott da quasi vent'anni, e non gli ho mai fatto capire come sono fatto davvero: pensa che io sia una macchina da scrivere per far soldi, senza un pensiero al mondo all'infuori delle mie storie a puntate e dello yacht che mi sono comperato con il loro aiuto». Così gli raccontai questa storia, e devo riconoscere che ascoltò ogni parola con la massima attenzione, sebbene avessi finito che era già sera tardi. Non parve annoiarsi per i particolari che gli fornii. Naturalmente, in una storia di fantasmi, i particolari sono più importanti che tutto il resto. Ma era una storia di fantasmi? Era poi una storia? Era vera anche nel suo ambiente materiale? Ora, mentre mi accingo a raccontarla di nuovo, non ne sono così sicuro. Truscott è la sola persona che l'abbia sentita finora, e alla fine non ha fatto nessun commento. È successo molto tempo fa, molto prima della guerra, quando ero sposato da cinque anni ed ero un giornalista di successo, con una bella casa e due bambini a Wimbledon. Persi improvvisamente il mio migliore amico. Questo può significare poco o molto a seconda di come si intende l'amicizia, ma credo che la maggior parte dei britannici, degli americani e degli scandinavi, conoscano almeno una volta prima di morire un'amicizia che cambia tutta la loro esperienza di vita con la sua profondità e il suo calore. Pochi francesi, spagnoli e italiani - nonché poca gente del Sud - riescono a capire queste cose. La cosa curiosa nel mio caso particolare è che avevo conosciuto quest'amico solo quattro o cinque anni prima che morisse, e che avevo fatto molte amicizie sia prima che dopo che sono durate molto più a lungo, eppure quella particolare amicizia ebbe un genere di intensità e di felicità che non ho mai trovato altrove. Un'altra cosa curiosa fu che conobbi Bond solo pochi mesi prima del mio matrimonio, quando ero profondamente innamorato di mia moglie, e così intensamente occupato nel mio fidanzamento, che non riuscivo a pensare ad altro. Lo avevo incontrato per puro caso in casa di qualcuno. Era un uomo dall'ossatura pesante, con le spalle larghe, che sorrideva poco: i suoi capelli tagliati corti stavano ingrigendo, e il nostro incontro fu casuale. La maturazione della nostra amicizia fu casuale: in realtà, sembra che tutta la fac-
cenda sia stata casuale fino in fondo. In effetti è quello che mi disse mia moglie un giorno, circa un anno dopo il nostro matrimonio: «Penso che ti importi di Charlie Bond più che di chiunque altro al mondo». Lo disse in quel modo improvviso, sconcertante, percettivo, che è comune a molte donne. Naturalmente ne risi. Vedevo Bond spesso. Veniva spesso a casa mia. Mia moglie, più saggia di molte altre mogli, incoraggiava tutte le mie amicizie, e aveva un debole per Charlie. Non credo che non piacesse a qualcuno. Certi uomini erano gelosi di lui; altri - semplici conoscenti - dicevano che si dava delle arie; le donne si irritavano spesso con lui perché era così evidente che poteva benissimo farne a meno, ma non credo che avesse un vero nemico. E come avrebbe potuto? Il suo buon carattere, la sua libertà da ogni gelosia, la sua naturalezza, il suo senso del comico, la completa mancanza di meschinità, il suo buon senso, la sua virilità, e allo stesso tempo la sua aperta intelligenza, tutto ciò gli conferiva una personalità piacevole. Non mi pare che brillasse molto in società: era molto tranquillo, e il suo spirito e la sua arguzia si esprimevano meglio con gli intimi. Io ero quello che dava spettacolo, mentre lui mi dava sempre corda, e penso che mi sentissi superiore e che pensassi in fondo al mio subconscio che era fortunato ad avere un amico brillante come me, ma lui non diede mai segno di risentirsi. Credo che mi conoscesse, con tutti i miei difetti, vanità e assurdità, meglio di chiunque altro, persino di mia moglie, e che questa sia una delle ragioni per cui mi mancherà moltissimo fino al giorno della mia morte. Tuttavia, non fu che a partire dalla sua morte che mi resi conto di quanto fossimo stati vicini. Un giorno di novembre tornò a casa bagnato e gelato, non si cambiò d'abito, prese un raffreddore che degenerò in polmonite, e morì dopo tre giorni. Quella settimana ero a Parigi, e me lo disse mia moglie sulla porta di casa quando tornai. Dapprima rifiutai di crederci. L'avevo visto la settimana prima in perfetta salute; con il suo viso abbronzato, piuttosto irregolare e goffo, gli occhi chiari, senza un grammo di grasso: aveva l'aria di dover vivere cent'anni e poi, quando realizzai che era proprio vero, per una settimana o due non capii cosa avevo perduto. Naturalmente sentivo la sua mancanza. Ero vagamente infelice e scontento, me la prendevo con la vita, e mi domandavo perché devono sempre essere i migliori ad esser presi e gli altri lasciati, ma non mi rendevo com-
pletamente conto che per il resto dei miei giorni le cose sarebbero state diverse, e che il giorno del mio ritorno da Parigi rappresentava una crisi nella mia vita. A un tratto, una mattina, giù per Fleet Street, provai un bisogno repentino, urgente, di Bond, che fu come una rivelazione. Da quel momento non ebbi più pace. Tutto mi sembrava noioso, vuoto e senza scopo. Anche mia moglie la sentivo molto lontana, e i bambini, che amavo teneramente, non contavano affatto per me. Non sapevo cosa mi fosse successo. Persi l'appetito, non riuscivo a dormire, ed ero nervoso e brontolone. Non lo misi affatto in relazione con Bond: pensai di aver lavorato troppo e, quando mia moglie suggerì che mi prendessi un po' di vacanza, fui d'accordo: presi due settimane di permesso dal mio giornale e andai nel Glebeshire. I primi giorni di dicembre non sono un cattivo periodo per il Glebeshire. Anzi, in quel periodo, è il posto migliore delle Isole Britanniche. Conoscevo un paesino al di là di St Mary's Moor, dove ero stato dieci anni prima, e che ricordavo con la più romantica gratitudine, e mi parve che fosse proprio il posto adatto per me in quel momento. Cambiai treno a Polchester e mi trovai alla fine su un piccolo calesse che mi portava verso il mare. L'aria, la brughiera aperta e l'odore del mare mi rallegravano e, quando raggiunsi il mio villaggio, con la sua cala sabbiosa e le barche tirate in secco su due file davanti a una caverna rocciosa, e mentre mangiavo le uova con la pancetta nella saletta dell'albergo che dava sul mare, mi sentii contento come non lo ero stato più per settimane. Ma la mia contentezza non durò a lungo. Una notte dopo l'altra non riuscivo a prender sonno. Cominciai a sentirmi terribilmente solo e, alla fine, capii che in realtà mi mancava il mio amico, e che non era della solitudine che avevo bisogno, ma della sua compagnia. Era facile da dirsi, avere la sua compagnia, ma sapevo fin troppo bene, in quel piccolo paese, mentre sedevo sul margine della scarpata verdeggiante e guardavo il mare sconfinato, che non avrei mai più goduto della sua compagnia. Provai allora un profondo e impaziente rimpianto per non aver passato più tempo con lui. Capii improvvisamente come mi ero comportato realmente nei suoi riguardi, condiscendente, indulgente, un po' sprezzante delle sue idee benevole. Se avessi potuto passare solo una settimana con lui, con che ansia gli avrei mostrato che lo sciocco ero io e non lui, che ero io il fortunato! Noi mettiamo in relazione il nostro dolore con il luogo in cui lo viviamo e, dopo pochi giorni, avevo cominciato a prendere in odio quel paesino, e a
temere indicibilmente il lungo e lamentoso gemito del mare mentre si ritirava dalla spiaggia in pendio, il malinconico stridio dei gabbiani, e le donne che chiacchieravano sotto la mia piccola finestra. Non riuscivo a sopportarlo. Avrei dovuto tornare a Londra, ma anche questo non avevo voglia di farlo. I ricordi di Bond si trovavano lì più che in qualunque altro posto, e non mi pareva giusto verso mia moglie e la mia famiglia imporre loro la compagnia dell'uomo scontento e annoiato che ero. E allora, proprio nel modo in cui succedono queste cose, una bella mattina trovai sul tavolo della colazione una lettera che mi era stata rispedita. Era di una certa signora Baldwin e, con mia sorpresa, vidi che veniva dal Glebeshire, ma dalla parte superiore, e non da quella meridionale della Contea. John Baldwin era un collega di mio fratello in Borsa, un diamante grezzo, ma cortese e generoso, e non molto agiato, almeno credo. Quanto alla signora Baldwin, lei mi era sempre piaciuta, e io a lei. Non ci vedevamo da tempo e non avevo la minima idea di cosa le fosse successo. Nella sua lettera mi diceva che avevano preso una vecchia casa del XVIII secolo sulla costa settentrionale del Glebeshire, non lontano da Drymouth, che se la godevano molto, che Jack stava molto meglio di quel che non fosse stato per anni, e che avrebbe fatto loro molto piacere avermi come ospite, se fossi capitato da quelle parti. Questa mi parve subito la cosa migliore da farsi. I Baldwin non avevano mai conosciuto Charlie Bond, e quindi non avevano nessun rapporto con il suo ricordo. Erano gente allegra, rumorosa, con una famiglia altrettanto allegra e rumorosa, e la personalità di Jack Baldwin era così forte che certamente mi avrebbe strappato al mio umor nero. Spedii immediatamente un telegramma alla signora Baldwin per chiederle se poteva ospitarmi per una settimana e, prima di sera, ricevetti il più caldo degli inviti. Il giorno seguente lasciai il mio villaggio di pescatori e feci l'esperienza di uno di quei viaggi strani e tortuosi, che bisogna sopportare per trovare la strada da un oscuro villaggio del Glebeshire all'altro. Verso mezzogiorno - un piacevole, freddo, azzurro mezzogiorno decembrino - mi trovai a Polchester con una mezz'ora di attesa fra un treno e l'altro. Andai in centro, risalii la High Street fino alla magnifica cattedrale, mi fermai davanti alla famosa Arden Gate, guardai l'ancor più famosa tomba del Vescovo Nero, e fu lì, mentre la luce del sole, scendendo dalla grande finestra a est, danzava e brillava intorno alla bellissima pietra di cui è fatta la tomba, che ebbi la sensazione improvvisa di aver già vissuto tutto quel-
lo, di esser stato lì in un momento precedente, abbattuto da un dolore precedente, e che nulla di quello che provavo era inaspettato. Provavo anche una curiosa sensazione di conforto e di compassione, ossia che l'orribile solitudine grigia che avevo provato nel villaggio di pescatori, mi avesse lasciato di colpo e, per la prima volta dopo la morte di Bond, mi sentii felice. Uscii dalla cattedrale, percorsi la strada affollata, e giunsi nella cara, vecchia piazza del mercato, aspettandomi non so che. Sapevo solo che stavo andando dai Baldwin e che lì sarei stato felice. Il pomeriggio di quel giorno di dicembre giunse presto, e feci l'ultima parte del mio viaggio in un trenino ridicolo, nell'oscurità, e il trenino si muoveva così lentamente e in modo così casuale che si sentiva sempre il mormorio di un ruscello sotto il finestrino, e laghi di acqua grigia si stendevano improvvisamente come lastre di vetro fino a boschi folti, neri come l'inchiostro contro il cielo pallido. Scesi alla mia stazioncina secondaria, a forma di conigliera, e lì c'era un'automobile ad aspettarmi. La corsa non fu lunga, e mi trovai ad un tratto davanti alla vecchia casa ottocentesca, e il massiccio maggiordomo dei Baldwin già mi stava introducendo nell'atrio con attenta e cortese condiscendenza, come se fossi una scatola d'uova che potevano rompersi con facilità. Era un atrio spazioso, con un enorme caminetto davanti al quale tutti stavano prendendo il tè. Dico «tutti» di proposito, perché la stanza sembrava piena di gente: adulti e bambini, ma soprattutto bambini. Ce n'erano tanti che non riuscii, nemmeno alla fine del mio soggiorno, a chiamarli per nome senza sbagliare. La signora Baldwin venne a salutarmi, e mi presentò a una o due persone. Poi si sedette vicino a me e mi servì il tè, mi disse che non avevo un bell'aspetto e che avevo bisogno di mangiare, e mi spiegò che Jack era andato a caccia di qualcosa ma che sarebbe tornato presto. Il mio ingresso aveva causato un breve silenzio, ma immediatamente ognuno si riprese e il rumore fu terribile. C'è molto da dire in favore della libertà dei bambini d'oggi. C'è anche molto da dire contro di essa. Mi accorsi presto che, in quella compagnia, gli adulti erano comunque completamente trascurati e di nessuna importanza. I bambini correvano intorno all'atrio, si gettavano in terra l'un l'altro, gridavano e strepitavano, si buttavano addosso agli adulti come se fossero stati dei mobili, e non facevano alcuna attenzione al debole «Su, bambini» di una signora di una certa età e dall'aspetto comune che doveva essere, pensai, la governante.
Immagino che fossi stanco per il mio viaggio tortuoso, e trovai presto l'opportunità per chiedere alla signora Baldwin il permesso di salire in camera mia. Lei disse: «Penso che trovi i bambini rumorosi. Poverini: devono pur divertirsi. Jack dice sempre che si è giovani una volta sola, e io sono del tutto d'accordo con lui». Non mi sentivo molto giovane quella sera (in realtà era come se avessi novecento anni), perciò mi dichiarai d'accordo con lei e lasciai con piacere la gioventù ai divertimenti suoi propri. La signora Baldwin mi condusse su per la bella e ampia scala. Era una donna massiccia, non alta, vestita di colori vivaci, con quella che si definisce, credo, una risata comunicativa. Quella sera, sebbene mi piacesse e conoscessi il suo cuore buono e generoso, mi irritava, per qualche motivo che non sapevo definire. Forse sentivo istintivamente che quello non era il suo posto, e che la casa non la sopportava ma, mentre racconto queste cose, mi sorge il dubbio, ripensandoci, che quelle sensazioni non le avessi provate allora, ma in seguito, in relazione a quel che successe poi. Ma sono ansioso di dire la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità, e non c'è niente al mondo di più difficile. Percorremmo una serie di corridoi bui, salimmo diverse rampe di scale che sembravano non aver inizio, né fine, né ragione di essere, e lei alla fine mi lasciò nella mia stanza, disse che sperava che mi ci trovassi bene e che Jack sarebbe venuto a prendermi al suo ritorno, poi rimase in silenzio un attimo a guardarmi. «Mi sembra proprio che tu non stia bene», disse. «Ti sei strapazzato troppo. Sei troppo zelante. L'ho sempre detto. Qui ti riposerai sul serio. E i bambini faranno in modo che non ti annoi.» Mi parve che le due ultime frasi fossero in contraddizione. Non riuscii a parlare della mia perdita. Mi resi conto, come non mi ero mai reso conto prima, che non sarei mai riuscito a parlare con lei di cose importanti. Lei sorrise, e mi lasciò. Osservai la mia stanza che mi piacque subito. Ampia, col soffitto basso, aveva pochissimi mobili, un vecchio letto a colonne, alcune sedie dallo schienale alto, e poi una grande poltrona con alti braccioli, un piccolo divano dalla forma originale ricoperto di rosa come il letto, il fuoco acceso e scoppiettante, un grande orologio a pendolo. Sulle pareti color rosa pallido non c'erano quadri: solo, di fronte al mio letto, un allegro imparaticcio in vivaci colori rosso e ocra con la cornice di noce. Mi piacque, mi piacque molto, e trascinai la poltrona davanti al caminetto, mi ci annidai e, prima che me ne rendessi conto, mi ero addormentato.
Non so quanto dormii, ma mi svegliai a un tratto con una sensazione di tranquillità e benessere semplicemente squisita. Appartenevo a quella stanza come se ci avessi passato tutta la vita. Provavo una curiosa sensazione di cameratismo che era esattamente quello che mi era mancato in tutte quelle settimane. La casa era molto silenziosa, le voci dei bambini non arrivavano fino a me, e non c'era alcun suono all'infuori dello scoppiettio del fuoco e dell'amichevole ticchettare dell'orologio. A un tratto mi parve che ci fosse qualcuno nella stanza, un fruscio che avrebbe potuto essere il fuoco, eppure non lo era. Mi alzai e mi guardai attorno, sorridendo, come se mi aspettassi di vedere un volto familiare. Non c'era nessuno, naturalmente, eppure avevo la stessa sensazione di stare in compagnia che si ha quando qualcuno che si ama molto e si conosce intimamente si trova nella stessa stanza. Passai dall'altra parte del letto e mi guardai attorno, poi tirai le cortine rosa e naturalmente non vidi nessuno. Quindi la porta si aprì inaspettatamente, e Jack Baldwin entrò, e ricordo di aver provato un curioso senso di irritazione come se fossi stato interrotto. La sua figura massiccia, allegra, con i calzoni alla zuava, riempiva la stanza. «Ehilà!», disse. «Lieto di vederti. Una bella fortuna che tu fossi da queste parti. Hai tutto quel che ti serve?» 2. Era una vecchia casa meravigliosa! Non cercherò di descriverla, anche se ci sono stato di recente. Sì, ci sono stato molte altre volte dopo quella prima volta di cui sto parlando. Ma non è mai stata la stessa per me dopo quella prima volta. Potete dire, se volete, che i Baldwin hanno combattuto con lei e hanno vinto. È certamente adesso più Baldwin che... beh, qualunque cosa fosse prima che loro l'affittassero. Loro non sono il tipo di gente che è vinta dall'atmosfera: il loro principale compito nel mondo, credo, sia quello di baldwinizzare le cose ma, quando andai là per la prima volta, la casa li stava ancora sfidando. «Dà i brividi», mi confidò la signora Baldwin il secondo giorno della mia visita. «Cosa vuoi dire esattamente?», le chiesi. «Fantasmi?» «Oh, quelli ci sono, naturalmente», rispose lei. «C'è un passaggio sotterraneo, sai, che va da qui al mare, dove uno dei più malvagi contrabbandieri fu ucciso, e il suo fantasma frequenta la cantina. Almeno è quello che ci ha
raccontato il nostro primo maggiordomo, e naturalmente scoprimmo che era il maggiordomo - e non il contrabbandiere - che frequentava la cantina e, dopo che se ne è andato, il fantasma non si è più visto.» Rise. «Ad ogni modo non è un posto piacevole. Voglio svegliare un po' qualcuna di queste vecchie stanze. Apriremo un po' di finestre. E poi ci sono i bambini», aggiunse. Sì, c'erano i bambini. Sicuramente i più rumorosi del mondo! Non avevano rispetto per niente. Erano i selvaggi più selvaggi, specialmente quelli fra i nove e i tredici anni, ossia gli anni più crudeli e meno civilizzati della fanciullezza. C'erano due ragazzini - due gemelli, mi pare - che erano dei veri diavoli, e guardavano i loro genitori con occhi freddi e attenti, non protestavano quando venivano sgridati, ma architettavano dei piani che si adattavano perfettamente a chi li aveva castigati. Per render giustizia ai miei ospiti, i bambini non erano tutti Baldwin, e penso che il contingente Baldwin fosse il più tranquillo. Ciononostante, dal mattino fino alla sera alle dieci, il rumore era terrificante, e non si era mai sicuri quanto presto al mattino sarebbe ricominciato. Non che personalmente il rumore mi desse tanto fastidio. Mi distraeva e, in un certo senso, mi dava altro da pensare ma, in modo oscuro e indefinito, mi pareva che la casa non lo sopportasse. Tutti sappiamo che i poeti hanno scritto di vecchi muri e soffitti che si rallegrano delle allegre e spensierate risate dei bambini. Non mi pare che quella casa se ne rallegrasse per niente, ed è strano il modo in cui io, che non sono considerato una persona dotata di fantasia, mi preoccupavo della casa. Ma fu solo la terza sera che successe veramente qualcosa. Io dico «successe», ma successe davvero qualcosa? A voi giudicarlo. Stavo seduto nella comoda poltrona della mia camera a godermi quella deliziosa mezz'ora disponibile prima di vestirmi per la cena. C'era un frastuono tremendo su e giù per i corridoi, mentre qualcuno cercava di persuadere i bambini, a quel che potevo capire, ad andare a cenare, quando i suoni si spensero e non rimase che il bisbiglio sommesso, come di piume, della neve - era caduta tutto il giorno - contro i vetri. Il mio pensiero a un tratto si rivolse a Bond, si diresse verso di lui con immediatezza e rapidità come se fosse improvvisamente comparso davanti a me. Non volevo pensare a lui. Avevo respinto il suo ricordo in quegli ultimi giorni, perché avevo pensato che fosse la cosa migliore da fare, ma ora lui era più forte di me. Mi cullai nel ricordo di lui, e ripassai mentalmente tutte le occasioni in
cui eravamo stati insieme: vedevo il suo sorriso, osservavo le sue labbra che si alzavano agli angoli quando era divertito, e mi domandavo infine perché mai avrebbe dovuto ossessionarmi come faceva, quando avevo perso tanti amici che mi pareva di aver amato di più, e che, invece, non mi venivano mai in mente. Sospirai, e mi sembrò che il mio sospiro fosse ripetuto pian piano dentro di me. Mi voltai di colpo. Le tendine non erano state tirate. Conoscete lo strano pallore latteo che il riflesso della luna dà alle cose? Sebbene tre candele illuminassero la stanza, ombre di un biancore lunare sembravano sovrastare il letto e coprire il pavimento. Naturalmente non c'era nessuno, eppure continuai a guardare con attenzione come se fossi convinto di non essere solo. Poi guardai in particolare un angolo della stanza, l'angolo più lontano dietro il letto a colonne, e mi parve che laggiù ci fosse qualcuno. Eppure non c'era nessuno. Ma, sia che la mia mente fosse distratta, o che la bellezza della vecchia stanza illuminata dalla luna mi incantasse, non lo so, ma il pensiero del mio amico mi dava gioia e sicurezza. Non lo avevo perduto, dicevo a me stesso. In effetti, in quel momento specialmente, lo sentivo più vicino a me di quanto non lo fosse stato in vita. A partire da quella sera successe una cosa curiosa. Mi sembrava di essere vicino al mio amico solo quando ero nella mia stanza... e sentivo anche altre cose. Quando la mia porta era chiusa e mi sedevo nella mia poltrona, mi pareva che il nuovo cameratismo che provavo non fosse solo per Bond, ma includesse qualcun altro. Mi svegliavo nel cuore della notte e al mattino presto, e avevo la certezza di non essere solo; una certezza tale che non avevo voglia di indagare oltre, ma prendevo quel cameratismo come un dato di fatto, e ne ero felice. Fuori della porta, invece, mi sentivo sempre più a disagio. Detestavo il modo in cui la casa veniva trattata. Una rabbia assolutamente irragionevole sorse in me il giorno in cui udii i Baldwin discutere le migliorie che volevano fare, eppure loro erano così gentili con me, e così evidentemente ignari di fare qualcosa che non sarebbe stata lodata da tutti, che era impossibile dimostrare la mia ira. Malgrado tutto, la signora Baldwin notò qualcosa. «Temo che i bambini ti stanchino», disse una mattina in tono interrogativo. «In un certo senso sarà un sollievo quando torneranno a scuola, ma le vacanze di Natale sono fatte per loro, non ti pare? Mi piace vederli contenti, poveri cari.»
I poveri cari in quel momento giocavano ai Pellerossa nell'atrio. «No: naturalmente, mi piacciono i bambini», le risposi. «Solo che... spero che non ti sembrerò uno sciocco... solo che mi sembra non vadano d'accordo con la casa.» «Oh, penso che sia un bene per queste vecchie case», disse allegramente la signora Baldwin, «essere svegliate un po'. Sono sicura che, se le persone che vivevano qui prima tornassero, sarebbero contente di sentire rumore e risate.» Io non ne ero così sicuro, ma non volevo assolutamente turbare la gioia della signora Baldwin. Quella sera ero così convinto che ci fosse qualcuno nella mia stanza che gli parlai. «Se c'è qualcuno», dissi ad alta voce, «mi piacerebbe che sapesse che lo so e che ne sono contento.» Poi, quando mi accorsi che stavo parlando da solo, mi spaventai. Ero davvero matto? Parlare da soli non era il primo passo verso la follia? Però, un momento dopo, mi rassicurai. C'era davvero qualcuno. Quella notte mi svegliai, guardai il mio orologio con le lancette luminose, e vidi che erano le tre e un quarto. La stanza era così buia che non riuscivo nemmeno a vedere le colonne del letto, ma un debole chiarore veniva dal fuoco, che era quasi spento. Di fronte al mio letto mi parve di scorgere qualcosa di bianco. Non bianco nel senso corrente di una figura alta, spettrale ma, dopo che mi fui seduto ed ebbi aguzzato lo sguardo, mi parve che fosse un'ombra piccolina, che arrivava appena al bordo del letto. «C'è qualcuno?», chiesi. «Se c'è qualcuno, che mi parli. Non ho paura. So che qualcuno è venuto qui per tutta la settimana, e ne sono felice.» Molto debolmente, allora, così debolmente che non sono ancora completamente sicuro che sia successo, la figura di una bambina si rese visibile. Sappiamo tutti che una volta o l'altra abbiamo immaginato di vedere visioni e figure, e poi abbiamo scoperto che si trattava di qualcosa che si trovava nella stanza. Che so? Il modo in cui un cappotto era appeso, il riflesso di uno specchio, o uno scherzo della luna che avesse acceso la miccia della nostra immaginazione. Ero preparato a un'eventualità simile, ma mi parve che, mentre osservavo l'ombra, questa passasse proprio davanti al fuoco morente e, delicata come una foglia di betulla, come l'orlo sfrangiato di una nuvola della sera, la figura di una bambina si fermò di fronte a me. Curiosamente il suo vestito, che sembrava di tessuto argentato, era più chiaro del resto. In effetti non vidi assolutamente il suo volto, eppure al
mattino avrei potuto giurare sia di averlo visto, che di conoscere quegli occhi grandi, neri, spalancati, la boccuccia appena socchiusa in un timido sorriso, e che, soprattutto, avevo notato in quel viso paura e stupore, nonché il desiderio di essere confortata. 3. Dopo quella notte le cose precipitarono. Non sono un uomo dotato di immaginazione, e non ho alcuna simpatia per l'attuale passione per i fantasmi e gli spettri. Non ho mai visto, né creduto di aver visto, qualcosa di soprannaturale dopo quella visita, ma nemmeno ho più conosciuto dopo di allora quel disperato bisogno di compagnia e di conforto, il che non è forse perché non desideriamo abbastanza qualcosa nella vita che non otteniamo? Comunque, ero certo che quella volta avevo una compagnia nata da una necessità maggiore della mia. D'improvviso provai un folle e irragionevole disgusto per i bambini della casa. Era proprio come se avessi scoperto in una parte deserta dell'edificio un bambino abbandonato per distrazione dai vecchi abitanti, terrorizzato dalla rumorosa esuberanza e dallo sconfinato egoismo della nuova famiglia. Per una settimana la mia piccola amica non si manifestò in modo più evidente, ma ero sicuro della sua presenza nella stanza come dei miei vestiti e della poltrona in cui mi sedevo abitualmente. Era ormai ora che tornassi a Londra, ma non sapevo decidermi a partire. Mi informavo da tutti quelli che incontravo delle leggende e delle storie che si riferivano alla vecchia casa, ma non trovai mai nulla che avesse attinenza con un bambino. Aspettavo per tutto il giorno l'ora che sarei rimasto nella mia camera prima di cena, quel momento in cui sentivo la mia compagna più vicina. Mi svegliavo qualche volta di notte, ed ero consapevole della sua presenza ma, come ho detto, non vidi mai nulla. Una sera gli altri bambini avevano ottenuto il permesso di stare alzati fino a tardi. Era il compleanno di qualcuno: la casa sembrava piena di gente, e la presenza dei bambini provocò dopo cena un vero inferno di rumore e di confusione. Dovevamo giocare a nascondino per tutta la casa. Ci dovevamo mascherare tutti. Non c'era, almeno per quella sera, nessuna intimità. Avevamo tutti, come diceva la signora Baldwin, dieci anni. Io non avevo nessuna voglia di avere dieci anni, ma mi trovai coinvolto nel gioco e, per pura autodifesa, fui obbligato a correre su e giù per i corri-
doi e a nascondermi dietro le porte. Il rumore era tremendo. Continuava ad aumentare di volume. La gente diventava isterica. I bambini più piccoli saltarono giù dal letto e si misero a correre per i corridoi. Qualcuno continuava a suonare un clacson, e qualcuno accese il grammofono. Ad un tratto ne ebbi abbastanza dell'intera faccenda: mi ritirai nella mia stanza, accesi una candela e chiusi a chiave la porta. Mi ero appena seduto in poltrona, quando sentii che la mia piccola amica era arrivata. Stava in piedi accanto al letto, e mi fissava con occhi pieni di terrore. Non ho mai visto nessuno così spaventato. I suoi piccoli seni si sollevavano sotto la tunica argentata, i suoi capelli biondissimi le ricadevano sulle spalle, e le sue manine erano strette a pugno. Nel momento stesso in cui la scorsi, si sentirono dei forti colpi alla porta, e molte voci chiesero di entrare: una vera babele di rumore e di risate. La figurina si mosse e - come posso rendere l'idea? - sentii di avere qualcuno da proteggere e confortare. Non vedevo niente, non sentivo fisicamente niente, eppure mormorai: «Su, su, non è niente. Non entreranno. Farò in modo che non ti tocchino. Capisco. Capisco». Non so quanto tempo rimasi lì seduto. Poi i rumori si spensero in lontananza, delle voci mormorarono a intervalli, quindi il silenzio. La casa dormiva. Credo di essere rimasto alzato tutta la notte a consolare e ad essere consolato. Ora immagino - ma non so quanto di questo può essere pura immaginazione - che sapessi che la bambina aveva amato la casa, che c'era rimasta quanto aveva potuto, che alla fine ne era stata cacciata, e che quello era il suo addio, non solo a me, ma a tutto quello che aveva amato di più in questo mondo e nell'altro. Non so... non posso giurare su niente. Quello di cui sono sicuro è che il senso di perdita dovuto alla morte del mio amico scomparve quella notte e non tornò più. Ho discusso con me stesso se la serenità che provavo con quella bimba includeva anche il mio amico? Di nuovo, devo dire che non lo so. Ma di una cosa sono sicuro adesso: che se l'amore è abbastanza forte, la morte fisica non riesce a distruggerlo e, per quanto ad altri questa possa sembrare una banalità, non è più una banalità quando la scopriamo per esperienza personale. Quel momento nella stanza illuminata dal fuoco, in cui sentii quel cuore spirituale battere all'unisono con il mio, è e sarà sempre sufficiente per me. Un'altra cosa. Il giorno dopo partii per Londra, e mia moglie fu felice di trovarmi completamente ristabilito: più contento, mi disse, di quanto non
fossi mai stato prima. Due giorni dopo, ricevetti dalla signora Baldwin un pacco. Nel biglietto che l'accompagnava, lei scriveva: «Credo che tu abbia lasciato queste cose per sbaglio. Le abbiamo trovate nel cassetto della toeletta». Aprii il pacco e trovai un vecchio fazzoletto di seta azzurra, avvolto intorno a una scatola di legno lunga e stretta. Il coperchio della scatola si aprì con facilità, e dentro vidi una vecchia bambola di legno dipinta, vestita come all'epoca della Regina Anna, mi pare. Il vestito era completo, con le scarpette, e le piccole manopole grige. Dentro la gonna di seta era cucita un'etichetta, e sull'etichetta, a lettere sbiadite: «Ann Trelawney, 1710». WALLACE GEORGE WEST Il Duca Ridente In un tempo antico, quando il mondo era pieno di tante cose che da allora in poi sono state dimenticate, un uomo famoso giaceva moribondo nel suo castello in terra di Provenza. Era Florian di Orthow, conosciuto in tutta la Francia come il «Duca Ridente», e agonizzava nel suo alto letto con baldacchino per colpa di quella che, in un primo momento, era stata considerata una lieve ferita da pugnale alla schiena. Monsieur Morand, il medico, sentì per un'ultima volta il polso al nobiluomo, raccolse le sanguisughe nei loro vasetti, il bisturi, l'ampolla che conteneva pochi grammi di un liquido che aveva appena estratto dalle vene del Duca, e scosse la testa, addolorato. «Ho fatto tutto il possibile», annunciò, voltandosi verso Sir Robert, nipote del Duca e adesso legittimo erede. «Mi tormenta enormemente vedere un tale gentiluomo morire per mano di un vile assassino, ma le mie medicine non possono fare di più.» Sir Robert scosse lentamente la testa dai riccioli neri e rispose: «Non è colpa vostra, dottore, ma di quell'infame di mio cugino che giace in prigione aspettando il boia. Venite», aggiunse. «Non c'è più niente che possiate fare, qui. Immagino che desideriate prepararvi per il vostro lungo viaggio di ritorno verso Parigi, e vorrei dirvi qualcosa prima della vostra partenza. Monsignor Bellaire», e si rivolse a un monaco dall'espressione mite, mostruosamente grasso, che sedeva al capezzale, «sorveglierà mio zio fino al mio ritorno.»
Robert fece strada fino all'ampia biblioteca di suo zio, un'alta, oscura stanza tappezzata di strani, incomprensibili libri di sapienti come Paracelsus, Van Helmont e Agrippa von Nettesheim. Una volta giunti, chiuse la porta con attenzione, e tutto il suo atteggiamento mutò. «Jacques», disse al dottore, «hai recitato bene la tua parte. Anche se non hai preso un diploma in nessuna scuola di chirurgia, hai succhiato via la vita a quel vecchio uccellaccio come un esperto e con grande risolutezza. Ecco la tua ricompensa.» E lasciò cadere un sacchetto d'oro nella mano tesa come un artiglio. «Ma ricorda, le nostre vite non sono al sicuro finché il collo di mio cugino non sarà stato tirato ben bene nella prigione di Avignone. E se tu», aggiunse sprezzante, «dovessi osare tradirmi o ostacolarmi», e il viso rugoso del finto medico impallidì al lampo fiero di quegli occhi neri, «se tu dovessi ostacolarmi e attraversarmi il cammino, ti attraverserei in un modo un po' diverso, dovessi morirne.» E Robert «il Nero», com'era conosciuto dai suoi pochi amici e dai suoi molti nemici, toccò significativamente il pugnale al suo fianco. Ma va detto che il medico non ne fu intimidito in modo visibile. «Vostra Grazia sa che l'ho servita bene in altre occasioni», replicò con calma. «Meglio ricevere una piccola paga da qualcuno di cui ti puoi fidare», aggiunse con un lieve ghigno mentre soppesava il sacchetto con i ducati nella mano, «che avere la gola tagliata da altri che fanno promesse migliori.» Nella stanza dell'ammalato, in quel momento, una tremenda battaglia sembrava svolgersi nell'uomo moribondo. Sotto la chioma d'argento il viso del Duca, i cui lineamenti esangui pochi minuti prima erano stati segnati dal marchio pacificatore della morte, si contorsero e tremarono come se l'anima, proprio al momento d'involarsi, avesse deciso di tornare. Con uno sforzo disperato il vecchio si tirò su a sedere. Le mani riemersero da sotto le coperte. La sua voce gracchiò in modo intelligibile. Subito il prete infilò una mano dietro le spalle del moribondo e sussurrò con voce rassicurante: «Sì, sì». Ma questo servì solo ad aumentare la collera del Duca. Finalmente la sua voce si fece udibile. «Una penna. Una penna», gemette. «Scrivere! Scrivere!» Il prete infilò una penna d'oca già intinta tra le dita contratte del Duca, e gli sistemò un grande foglio di pergamena sulle ginocchia. Come se la sua anima stesse guidando un corpo già morto, la mano cominciò a muoversi convulsamente.
«Nel possesso delle mie facoltà e in punto di morte», le parole schizzavano impazzite sulla pagina, «io, Florian, Duca di Orthow, con questo documento diseredo mio nipote, Robert dal Cuore Nero, e lo accusò di avermi ucc...» Qui la penna non ebbe più controllo. Ferocemente, l'uomo nel letto combatté per sottometterla alla sua volontà di ferro, ma invano. La penna d'oca scivolò lentamente dalle sue dita irrigidite. In quel momento la grande porta della camera si aprì, e tornò Sir Robert. Il Duca guardò in su, dimentico del suo scritto. Un braccio emaciato si levò tremulo, ma le dita rimasero flaccide quando tentò di agitare il pugno verso il giovane. «Ti ho sentito! Ho sentito!», gridò con la stessa forte voce con la quale tante volte aveva guidato gli uomini in battaglia. «Robin, tu, vile ingrato... io... ritornerò!» Allora, quando vide lo sguardo stravolto sul volto del nipote, il vecchio esplose in una gran risata. Risuonò nella penombra della camera da letto come un richiamo di tromba: quella stessa risata che aveva reso famoso il Duca in tutta la Francia, beffarda, gioviale e senza paura di Dio o del Diavolo. E, ancora ridendo, il Duca cadde all'indietro sui cuscini. Questa volta era davvero un cadavere. Pallido come se avesse visto un fantasma, Robert «il Nero» si avvicinò al letto, spingendo bruscamente via una governante che era corsa ad assistere lo zio. Prese uno specchio e lo avvicinò alle labbra immobili. Il vetro non si appannò. Il respiro si era fermato. «Strano che abbia cominciato a vaneggiare proprio alla fine», disse il Cavaliere con voce scossa. «Avevo sperato che potesse morire contento. Ma dev'essere stato il delirio», aggiunse, guardando furtivamente Monsignor Bellaire. «Ha detto altro?» «Ha chiesto penna e pergamena, e nient'altro.» Il nuovo Duca di Orthow afferrò il foglio. Quando vide che lo scritto era senza senso, un sorriso maligno si allargò sul suo volto scuro e attraente. «Vaneggiamenti di una mente impazzita», mormorò. «Ma fanno male. Perché l'ho amato come un figlio da quando prese me e il mio ingrato cugino sotto la sua protezione, anni fa.» Chinò il capo, diede qualche ordine per l'organizzazione del funerale e uscì lentamente dalla stanza col sottofondo delle preghiere mormorate da Padre Bellaire, che era in ginocchio ai piedi del letto, e dei singhiozzi sof-
focati della governante, che aveva amato molto il suo padrone. Il funerale si svolse con tutto lo sfarzo degno di una grande famiglia. Non molti giorni più tardi, il Duca Robert montò sul suo destriero nero e, con la sua grande spada ambidestra risonante nel fodero tra le scapole, cavalcò verso Avignone per verificare che ingiustizia fosse fatta di quell'infame Gilbert che era stato riconosciuto colpevole di aver pugnalato suo zio alle spalle. Non molte settimane più tardi, Monsignor Bellaire officiò a un altro letto di morte, quello di Lady Dorothy, figlia della Duchessa di Macklenberg, che era vedova e il cui castello sorgeva non lontano da quello di Orthow. «Ah, Dorothy, Dorothy», mormorava il buon prete, carezzando i morbidi capelli castani della bella ragazza che giaceva consumandosi di dolore tra le lenzuola di seta. «Perché ti struggi per il Duca Robert, che è indegno di te? Le sue ambizioni gli hanno fatto dimenticare l'amore. Questo dovrebbe dimostrarti che non è degno di te. Dimenticalo. Sorridi di nuovo al sole, come facevi quando ti insegnavo il catechismo, anni fa.» Ma la fanciulla si limitò a girare il viso ancor più verso il muro. Il monaco sospirò e guardò il medico. Il dottor Vosberg scosse la testa, addolorato. «Non serve a nulla, Padre», disse. «Fisicamente non c'è niente di malato in lei, tuttavia la vita sta scivolando via da Lady Dorothy come da un setaccio. Si rifiuta di vivere. Povera, sconsiderata ragazza!» Il prete annuì. «Strano», disse, «lei amava Robert, mentre Gilbert amava lei. E ora Robert è Duca di Orthow e si è promesso ad un'altra, mentre Gilbert, che avrebbe dovuto essere Duca, marcisce nella prigione di Avignone. Mi chiedo», aggiunse pensierosamente, «se Gilbert abbia davvero ucciso il vecchio Duca. Non è nella sua natura.» La risposta del dottore fu interrotta da un piccolo movimento nel letto. «Guardate», gridò. «La fine è arrivata.» Prese l'immancabile specchio e lo tenne vicino alle labbra immobili. Non apparve alcuna appannatura. Padre Bellaire si fece il segno della croce e cominciò a mormorare le preghiere per i morti. «Non ancora, Padre!» Era stata la ragazza a parlare. I due uomini guardarono attoniti Dorothy voltare il viso dal muro e aprire gli occhi. «Non ancora, Padre», ella ripeté. «Non sono morta. Ho troppe cose da
fare.» Provò a sedersi ma era troppo debole. «Dorothy, Dorothy», pianse il prete, col volto pieno di lacrime. «La mia bambina è ritornata.» «Sì, forse», replicò la ragazza, con la sua piena voce da contralto che riprendeva vigore. «Ma fammi portare del cibo. Sono vergognosamente affamata.» La guarigione di Dorothy fu rapida in modo quasi miracoloso. In due giorni fu in piedi e in giro, e spaventava la madre, la Duchessa vedova, con i suoi strani capricci. Durante la sua malattia aveva acquisito da chissà dove un sarcasmo mordace in tutto dissimile dal suo precedente carattere gentile. Infatti, il suo linguaggio mostrava tracce del vetriolo di un vecchio contadino, quando lo usava con i dipendenti del Ducato che erano diventati negligenti nei loro doveri dalla morte del Duca. Quando fu più forte, Dorothy cominciò a girare per il castello e i suoi paraggi con un agile passo disinvolto che faceva arrossire e recriminare invano sua madre: strigliò i giardinieri, gli stallieri, i contadini e gli ispettori finché il Ducato, che era caduto in rovina, cominciò ad assumere l'aspetto di un tempo. «Dorothy, Dorothy», gemeva la Duchessa, che era l'anima della proprietà, «che ti è successo? Dove è finita la mia dolce bambina? Hai dimenticato il ricamo e la pittura, e te ne vai in giro per il mondo come se fossi un uomo.» «Non preoccuparti, mamma», rispondeva la figlia, baciandola teneramente. «Ma, dannazione, c'è tanto da fare! Ho quasi riacquistato le mie forze. Quando mi sarò ripresa, ti lascerò per un po'. Cose oscure sono accadute in Provenza, e io sono l'unica che può porvi rimedio.» Girando sui tacchi nel vestito che aveva accorciato oltre ogni decoro, Dorothy lasciò sua madre con lo sguardo fisso e a bocca aperta. Una settimana dopo, un giovane, con una leggera ma ricca armatura metallica addosso, e con al fianco un fodero sottile che conteneva la spada più strana mai vista in Provenza, scivolò fuori dal portone posteriore di Mecklenberg, all'alba, in sella a un nervoso cavallo grigio che una volta era stato il favorito del Duca. Cavalcando, si tuffò a spron battuto lungo la strada di Avignone. La Duchessa, qualche ora più tardi, svenne, quando una serva le riferì che Dorothy era introvabile.
Nella prigione di Avignone, Gilbert di Orthow sedeva e guardava dalla finestra della sua cella la costruzione del suo patibolo. Era una mattina di primavera. I fiori spuntavano dalle fessure del cortile della prigione. Un pettirosso saltò sul bordo della finestra a sbarre e lo guardò con insolenza. Gilbert gli gettò delle briciole avanzate dalla sua colazione e sorrise debolmente. Era un tipo attraente, con rossi capelli riccioluti, profondi occhi blu e un corpo alto e magro. Il suo viso mostrava i segni dei molti giorni di prigionia, e la carnagione era pallida. Ma c'era un'increspatura agli angoli della sua bocca mentre guardava l'uccellino che ingollava avidamente le briciole. «Hai ragione, vecchio mio. Spassatela finché puoi», ridacchiò, e il pettirosso drizzò un occhio rotondo verso di lui. «Mangia di cuore, perché domani anche tu potresti finire in trappola.» Nel cortile della prigione c'era un gran daffare, perché non accadeva spesso che il Governatore avesse l'opportunità di impiccare il cugino di un Duca. La forca veniva costruita solida ed alta. Il Duca di Orthow stesso aveva dato consigli per la sua costruzione. Gilbert, stanco di guardare gli uomini al lavoro e quel cielo azzurro che dopo due giorni non avrebbe mai più visto, si accasciò sul suo giaciglio e allentò la catena che lo legava al muro. Era un aggeggio crudele con dei denti all'interno che gli mordevano la carne se si muoveva si scatto. «Non dar testate contro le corna!», recitò. «Ma sono fortunato a non stare in quel sotterraneo puzzolente. Dev'essere stata un'idea del caro Rob mettermi dove potessi vedere il patibolo venir su.» Sospirò. La sua unica consolazione durante il mese di prigionia erano state le visite occasionali di Padre Bellaire. L'alto, panciuto prelato, con la sua voce gentile e il suo spirito amichevole, incuneava la sua mole nella cella non appena poteva lasciare i suoi doveri pastorali, e scherzava o confortava il prigioniero, secondo il bisogno del momento. Ma Gilbert sapeva che quel giorno stava facendo il suo giro parrocchiale e non sarebbe venuto. Le meditazioni del condannato furono interrotte dal trapestio delle chiavi nel massiccio lucchetto della porta della cella. La guardia notturna entrò sbadigliando, perché era quasi la fine del suo turno. Dietro di lui c'era un frate in nero con un cappuccio serrato sul volto. «Il prete ha chiesto di vedervi», disse la guardia, brusca ma non arrogante. «L'ho fatto entrare, perché ho pensato che, siccome vi stireranno ben
bene, vi avrebbe fatto piacere ora come ora arrivare a un qualche accordo con Dio.» Sogghignò. «Quando avete finito, chiamate Henry», disse il prete. «Vi farà uscire. Io sarò già fuori servizio.» Gilbert fissò il nuovo arrivato, quando la guardia si fu allontanata. Quando furono soli, il frate si tirò via il cappuccio e avanzò nella luce del sole che iniziava a irradiarsi dall'alta finestra. «Dorothy!», gridò il prigioniero. «Tu qui! Sapevo che eri moribonda al Castello Mecklenberg.» Lei rise, un basso mormorio di gola che rese il pettirosso che ancora stazionava sul bordo della finestra così geloso da fargli abbandonare ogni speranza di altre briciole e volar via. «C'era di meglio da fare che morire», replicò lei. «Ascolta. C'è poco tempo per parlare. Dobbiamo andar via di qui durante il cambio della guardia.» Zittì con un gesto le spaventate proteste di lui. «Ti basti sapere che so che sei innocente, e che Robert è un'anima tanto nera quanto il suo soprannome dice.» «Ma tu sei pazza!», gridò Gilbert. «Guarda. Stanno già costruendo il mio patibolo. Prima che il sole sia tramontato altre due volte, sarò morto come mio zio.» «Puoi aver torto su entrambi i punti», sorrise la fanciulla. «Sta' calmo e ti dirò come possiamo ingannare queste stupide guardie e scappare. Guarda», disse, e sfilò da sotto la tonaca un'altra veste. «Questa era di Padre Bellaire. Coprirebbe un grifone. La sistemeremo... così.» Gettò l'abito sulle spalle e gli serrò il cappuccio sul volto. «Ora sta' tranquillo mentre ti mostro un trucco che ho imparato a Firenze... voglio dire, un trucco che una volta hanno usato lì, per quel che ne so. Guarda. Ora salgo sui tuoi piedi... così. Sono abbastanza bassa, grazie a Dio. Ora coprici entrambi con la tua tonaca. Ecco fatto! Non è una pancia della tua taglia? Ora incrocia le mani piamente, come Padre Bellaire, china la testa e va' in giro pensierosamente.» «Splendido!», gridò, facendo capolino da sotto la tonaca. «Questo ingannerebbe il buon Diavolo in persona. Ora, presto, presto! Arrotola il tuo pigiama per rappresentare Sir Gilbert di Orthow che giace sul suo pagliericcio tentando di strappare poche ore di travagliato riposo prima di andare lì dove il riposo non è mai disturbato. Quando la nuova guardia passerà, dovrà vedere Padre Bellaire che contempla tristemente un prigioniero addormentato. Oh, quell'assonnato Armand non penserà mai di dire al suo amico Henry che non è stato Padre Bellaire a visitarti oggi. Almeno lo spe-
ro. Ma, se glielo dirà, allora adieu, amico mio.» «Ma Dorothy, non posso permettere che tu corra un rischio simile per me», gridò Gilbert, che era appena riuscito a riprendere fiato dopo tutti quei preparativi. «Insisto che tu...» «Insisto! Insisto! Chi sei tu per insistere? Tu o un morto siete la stessa cosa. Hai mai protestato con tuo zio quando ti ha detto di far qualcosa per il tuo bene e per quello della Francia? Bene, tuo zio mi ha nominato suo agente... non chiedermi come... così fa' quel che ti si dice, giovincello.» Senza altri discorsi si dedicò al morbido ferro delle sue catene con una lima, attutendo il rumore sotto la sua veste. Un'ora più tardi, quando quel lavoro fu terminato, vi fu un clangore di alabarde nel corridoio, per il cambio della guardia. I due cospiratori presero posizione. «La vostra benedizione, Padre Bellaire», disse Henry pochi minuti dopo, sbirciando dalla porta nel suo giro d'ispezione. «Ti benedico, figliolo», rispose Gilbert da sotto al cappuccio, sforzandosi di imitare la voce tranquilla del prelato. Henry proseguì senza insospettirsi. «Ora è il momento», arrivò la voce attutita di Dorothy, qualche minuto più tardi. «Sono quasi soffocata sotto questa veste.» La guardia ritornò al richiamo di Gilbert e aprì la porta. Facendo del suo meglio per imitare il passo strascicato dell'uomo che doveva apparire, il prigioniero, con il suo fardello vivente, seguì Henry giù nella scala e nel cortile. La lunga veste strisciava per terra e nessuno notò la sua goffaggine. Fuori dal portone della prigione inciamparono e si precipitarono per le stradine tortuose. Gilbert sentiva il cuore battere all'impazzata per la tensione e, in risposta, avvertiva il tremito della ragazza. «Volta alla prima traversa», sussurrò lei. «Lì ci sono dei cavalli per noi. C'è qualcuno in giro?» «Solo pochi manovali. Non trovano niente di strano in un prete sbilenco. Ma è meglio star zitti...» Lentamente si fece strada nel fango del vicolo puzzolente che gli aveva indicato, finché apparvero alla vista due cavalli legati. Dorothy scivolò dalle sue braccia e si liberò della sua veste. Lui vide che era vestita con un giustacuore di maglia di ferro ed eleganti pantaloni scuri. Sul pomo della sella c'erano un mantello di velluto e uno strano tipo di spada. «Sbrigati», gridò lei allegramente. «E tieni la tua tonaca. Sarai ancora un
prete che scorta un Cavaliere in qualche viaggio santo. Non temere, Dobbin non ti disarcionerà», lo canzonò lei. Da sotto al cappuccio, Gilbert fissava con stupore e segreta delizia quella coraggiosa, affascinante Diana che cavalcava il suo destriero eretta come un soldato e fischiettava un'allegra canzonetta contadina mentre lasciavano la città che si risvegliava, passavano accanto al palazzo papale e si inoltravano tra le siepi fiorite e i frutteti dell'aperta campagna. Gilbert aveva amato Dorothy come una fanciulla tranquilla e timida, che sedeva a occhi bassi accanto alla madre, ricamava e suonava la spinetta. Ma come la vedeva adesso, con la sua dolce, morbida e formosa figura rivelata dalla tintinnante maglia di ferro, era infinitamente più amabile, anche se il suo linguaggio, quando una volta il cavallo incespicò, non fu... beh... «Dorothy...», disse, poi s'interruppe, perché c'erano troppe domande da fare. Lei gli sorrise. «Continui, signor Cavaliere, e mi sforzerò di alleviare la sua insaziabile curiosità», lo burlò lei, e prese a ridacchiare al suo torrente di domande, a molte delle quali evitò abilmente di rispondere. Sapevano che l'allarme sarebbe stato dato al cambio di guardia seguente, e allora cavalcarono verso Parigi a tutta velocità, perché la ragazza disse che lì avrebbe potuto ottenere le prove dell'innocenza del suo compagno. Fu un lungo viaggio. Benché il tempo fosse bello, alcune strade erano ancora piene di fango. Dormirono a dorso di cavallo e parlarono poco, dopo il primo giorno. Da un armaiolo di un villaggio, Gilbert trovò una leggera corazza di scaglie metalliche sovrapposte, poco ingombrante, che gli permise di disfarsi degli abiti cenciosi della prigione e riassumere l'aspetto di un gentiluomo. Poterono cambiar cavalli frequentemente, ed erano fiduciosi di aver distanziato qualsiasi inseguitore. Una settimana dopo, al tramonto, varcarono senza problemi le porte di Parigi. Quel giorno aveva piovuto, e i loro cavalli sguazzavano stancamente nelle strade tortuose, lastricate male e drenate peggio. «Ora che siamo qui», bofonchiò Gilbert, «potresti dirmi cosa intendi fare.» «Piano piano, signor Cavaliere», replicò lei. «Prima di tutto cercheremo un certo Jacques Morand, medico eccezionale e amico del nuovo Duca di
Orthow. Dovrebbe essere semplice, a meno che non viva sotto falso nome. Cercheremo prima nelle taverne e poi nelle prigioni. E, se non è in nessuno di questi posti, che Dio ci aiuti.» Con una destrezza che mostrava la sua completa familiarità con i famigerati vicoli di Parigi, Dorothy fece strada verso Montmartre, chiedendo in ogni buco chiassoso che le sembrasse adatto, informazioni sull'oggetto della loro ricerca. Non molto tempo dopo un oste pidocchioso disse che si ricordava di un certo dottor Morand. «Sì! Davvero un gran medico», dichiarò, allargando le grasse braccia. «Sempre con molti soldi in tasca. Non più di tre giorni fa ha dato qui un ricevimento regale per i suoi amici, e mi ha regalato una bella mancia per questo privilegio. Sta cominciando ora a riaversi da quel ricevimento. Probabilmente, signori, lo troverete nella sua farmacia all'angolo di Rue Falaise e Rue Burgos.» Seguendo le sue indicazioni, non ci volle molto ad arrivare davanti al negozio, se così si poteva chiamare. Era situato in un seminterrato puzzolente dal quale una instabile scaletta conduceva alla strada. La discesero senza far rumore e sbirciarono attraverso una finestra sporca. Una candela, infilata in una bottiglia di vino, bruciava su un lungo tavolo all'interno. Accanto ad esso, il falso medico era piegato su un grosso libro, e compitava a fatica le parole latine. Un gatto giallo sedeva vicino alla candela fissando la fiamma senza batter ciglio. Di tanto in tanto Morand allungava la mano in un vasetto lì accanto e la ritirava piena di semi di girasole che sgranocchiava pigramente. «Ora», sussurrò Dorothy. «Tu sei più forte. Tienilo stretto mentre gli infilo un fazzoletto in bocca e lo lego col cordone della tua tonaca.» Insieme presero a spallate la porta, che si sfondò. Morand balzò in piedi, una mano ancora piena di semi, l'altra serrata su un minaccioso pugnale. Alle sue spalle il gatto si gonfiò fino al doppio della sua grandezza normale e soffiò. Fu una colluttazione rapida e movimentata, ma Monsieur Morand era fuori allenamento e presto fu atterrato, legato, imbavagliato, e gettato in un angolo. Il gatto gli si accoccolò vicino. «E ora?», chiese Gilbert. «Prima spingi il tavolo contro la porta e tira le tende», ordinò Dorothy. «Poi», aggiunse alzando la voce, «penso che dovremo torturare questo cane finché non ci confesserà chi gli ha commissionato l'assassinio del Duca Florian.»
La figura nell'angolo tremò ed emise un suono gorgogliante. «Proveremo un trucco che ho imparato... voglio dire, che si usava durante la guerra in Italia», continuò, strizzando l'occhio bruno a Gilbert. «Non può assolutamente mutilare un uomo. Naturalmente può annegare, se è testardo, ma allora è colpa sua. Bloccalo sul pavimento col viso all'insù. Legagli braccia e gambe a qualcosa di solido. Non deve riuscire a dimenarsi. Ora ho bisogno di un buon imbuto. Ah, eccone uno che fa al caso mio. Siamo fortunati ad avere a che fare con un famoso medico che ha questi gingilli a portata di mano. Ora, cosa più importante, devo avere dell'acqua.» Cercò attentamente, ma non c'era acqua disponibile. «Beh, questo andrà altrettanto bene», disse alla fine tirando fuori da dietro alle tende una botte di vino. «Almeno, morirà felice. Splendido lavoro, Gil», continuò, nel suo tono uniforme, quando vide che i suoi ordini precedenti erano stati eseguiti. «Ora siediti e stringi il naso di questo riverito gentiluomo, con forza... così, mentre gli levo il bavaglio e gli infilo l'imbuto tra i denti. Bravo! È fatta.» «Ora, amico Jacques», disse di scatto, smettendola con quel tono canzonatorio, «firmerai una confessione in cui dici chi ti ha commissionato di uccidere il Duca Florian dissanguandolo, e anche chi lo ha accoltellato alla schiena?» «Demonio», boccheggiò il medico dalla faccia di topo, attraverso l'imbuto, «lasciami subito o chiamerò le guardie.» «Così, sei ostinato», disse il suo aguzzino. «Stringigli forte il naso, Gilbert. Tenteremo di spegnere i suoi ardori.» Riempì un gran mestolo di vino dalla botte e lo versò nell'imbuto, gorgogliante. Morand sputò, tossì, poi, per riprendere fiato, bevve l'intruglio a grandi sorsi. «Ora firmerai?», chiese la ragazza. Lui scosse la testa, cocciuto, ma c'era uno sguardo di terrore nei suoi occhi. Lei riempì ancora il mestolo e lo versò. Gilbert si sentiva male ma continuò a premere le narici dell'uomo sdraiato che si dimenava e cercava di liberarsi. La battaglia fu vinta quando Dorothy riempì il mestolo per la sesta volta. Gli occhi dilatati, il viso paonazzo, il miserabile medico annuì freneticamente mentre il vino gli traboccava addosso. «Oh Dio, basta!», annaspò quando riuscì a respirare di nuovo. «Mi sto spezzando in due. Una penna... carta. Dirò tutto; solo, getta via quel male-
detto imbuto.» E disse davvero tutto, rannicchiato ancora vicino alla candela, mentre scriveva furiosamente con i denti che gli battevano come nacchere. Il senso del documento era che Sir Robert, quando aveva capito che Gilbert, leggermente più giovane e favorito, avrebbe assunto il titolo alla morte del Duca Florian, aveva puntato su un progetto che prevedeva l'accoltellamento del vecchio e l'incriminazione del cugino. Il piano era riuscito così bene che quando i servi, udite le grida del Duca, corsero nel cortile dove stava camminando, lo trovarono col pugnale di Gilbert piantato nella schiena e Gilbert stesso inginocchiato accanto al ferito. «Sì. Lo sentii urlare e corsi a vedere cos'era successo», mormorò Gilbert quando raggiunse questo punto dello scritto. «I servi mi trovarono lì e, per ordine di Robert, mi chiusero nel sotterraneo.» Ma Sir Florian, robusto nonostante i suoi sessantacinque anni, si rifiutò di morire, continuava la confessione, e così fu necessario coinvolgere nella faccenda un certo dottor Jacques Morand di Parigi, che Robert definiva il più grande chirurgo di Francia ma che era in realtà un ignobile ubriacone conosciuto ai tempi dell'università. C'era ancora dell'altro. Il Duca spirò nonostante tutte le cure del dottor Morand e quest'ultimo partì per Parigi dopo aver ricevuto una ricompensa davvero impressionante dal nuovo pretendente, mentre Gilbert nel frattempo era stato debitamente accusato di omicidio e incarcerato nella prigione di Avignone. Con la confessione in pugno e il farmacista ancora tremante tra loro, Gilbert e Dorothy fecero la loro comparsa la mattina dopo al palazzo di Plessis-les-Tours per essere ricevuti dal Re. Era stato solo dopo una lunga discussione che avevano deciso di entrare nella «tana del lupo», irta di sentinelle e guardie, dove Luigi XI, il «Re Terribile», combatteva un'ultima disperata battaglia contro una orribile malattia. Gilbert avrebbe preferito tornare a Orthow, arruolare dei volontari e cingere d'assedio il castello. Ma Dorothy fece notare che Luigi, che l'anno prima aveva ottenuto una sovranità nominale sulla provincia, avrebbe potuto rendere insostenibile la posizione di Robert se lo avesse incriminato per l'assassinio. Come al solito, l'opinione della ragazza prevalse. Evidentemente erano ancora in anticipo sulla notizia della fuga di Gil-
bert, perché il monarca, quando seppe che l'erede del Ducato di Mecklenberg (e una bella figliola con lui) aspettava di vederlo per un affare di grande importanza, li ricevette nella sua camera da letto. Il rozzo monarca sembrava sentirsi meglio del solito. Non si era preoccupato di indossare lo splendido abito sotto il quale cercava di nascondere la sua infermità agli occhi dei diplomatici stranieri. Invece li salutò avvolto nel lercio mantello grigio che usava portare durante le sue scorribande giovanili in Francia, e col vecchio cappello di feltro, dal quale pendeva l'immagine in piombo di un santo, ben calato sugli occhi. Gli occhi, penetranti e acuti, e il lungo naso arcuato, conferivano al suo viso grottesco l'aspetto della testa di un uccello rapace, ma le sue gambe rachitiche, stese in avanti mentre sedeva su una sedia pesantemente imbottita, tradivano la sua spossatezza. «Venite avanti, signora mia», disse il Re col suo tono più mellifluo, quando entrarono. «A cosa devo questa visita di uno dei miei nuovi sudditi?» I suoi occhi scivolarono con aria di approvazione lungo la slanciata figura travestita da maschio, perché Luigi XI, fino al giorno della sua morte, non trascurò di apprezzare un paio di fianchi ben torniti. «Mi rammarico della necessità di apparire davanti a Vostra Maestà con questo abito sconveniente», disse la visitatrice con un profondo inchino, «ma è una questione di vita o di morte che non può essere rimandata.» E gli raccontò la storia, esibendo la confessione scritta. Mentre Luigi leggeva, il suo viso allungato e dalla mascella quadrata si oscurava per il furore. «Dannazione!», gridò con voce rotta per l'età e la rabbia. «Ci saranno un bel po' di impiccagioni nel mio Ducato di Orthow, se ho ben capito. E chi sono questi?», chiese, come se solo allora si accorgesse degli accompagnatori di Dorothy. Quando lo seppe e ascoltò Morand confermare balbettando la confessione, Sua Maestà non esitò. «Portate questo topo di fogna nei sotterranei», ordinò, indicando il farmacista alle guardie. «Lo tortureremo con comodo.» Poi, da un astrologo che stava dietro alla sua sedia con un abito scintillante e un cappello a punta, Luigi prese penna, inchiostro, carta e il suo sigillo. Pochi minuti dopo porgeva a Gilbert l'Editto Reale che recitava:
Io, Luigi XI, Re di Francia, con questo documento decreto che per l'assassinio di suo zio, mio leale amico, il Duca Florian di Orthow, le terre e i beni di Robert, pretendente al titolo, siano confiscati, Robert stesso sarà dichiarato fuorilegge, e Sir Gilbert sarà nominato Duca di Orthow al suo posto. Luigi Re di Francia «Avete bisogno di truppe per riconquistare il Ducato?», chiese poi il Re a Gilbert. «Dovete solo chiedere tante forze reali quante ne desiderate.» Ma Gilbert ricordò che il Re, sempre avido di nuove tasse, raramente richiamava le sue truppe una volta che queste si erano acquartierate in province lontane; così ringraziò e declinò l'offerta. «Nessuno ci combatterà quando sapranno del decreto di Vostra Maestà», spiegò, inchinandosi. «Robert "il Nero" non è amato a Orthow. E poi, non devo che chiedere truppe a Mecklenberg e le otterrò senza causarvi una così grande spesa.» Luigi sorrise di sbieco mentre valutava il nuovo Duca di Orthow con i suoi occhi furbi, ma annuì e li congedò. Quando furono di nuovo in aperta campagna, Dorothy non mostrò alcuna fretta di tornare al castello di Orthow. «C'è tempo a sufficienza», temporeggiò lei quando Gilbert la sollecitò. «Lascia che la notizia del Decreto Reale ci preceda. Così non correremo il rischio di essere buttati in prigione ad ogni angolo di strada. E poi, la vita è dolce», sospirò, mentre il suo abituale sorriso allegro spariva, «e me ne resta così poca... ne resta poca a noi tutti. Prendiamocela comoda sotto questo cielo azzurro e dimentichiamoci per un po' del nostro destino.» E così se la presero comoda, e di tanto in tanto si inoltravano nei campi al richiamo delle siepi fiorite, o passavano lunghe ore al sole sdraiati sotto gli alberi chiacchierando pigramente di qualsiasi cosa. Gilbert era continuamente stupito dalla vasta esperienza e conoscenza del mondo che quella ragazzina sembrava avere. Lei gli raccontò di vecchie imprese, delle allegre città di Spagna e d'Italia, dei famosi personaggi di una generazione passata. «Come hai imparato tutte queste cose?», si incuriosiva lui. «Da mio padre, che ha combattuto nelle guerre», rispondeva lei con leggerezza, e continuava con qualche nuovo racconto picaresco che lo faceva sbellicare dalle risate.
Di notte si fermavano nelle allegre locande francesi e gozzovigliavano con vagabondi, avventurieri, frati e contadini che incontravano lì. A volte c'erano sguardi maliziosi lanciati all'agile figura di Dorothy in calzamaglia e giustacuore, ma questo accadeva solo all'inizio. Perché poi lei beveva vino del Reno coi migliori tra loro e gridava le scatenate canzoni del momento con buona voce da tenore finché non c'erano più dubbi nella mente dei presenti che si trattasse del figlio viziato di qualche importante nobiluomo. In ogni caso diventava il centro del gruppo che incontravano. E, a notte fonda, lei estraeva la sottile spada che portava sempre e magnificava i suoi meriti a chiunque fosse ancora in grado di ascoltare. Era una lama spagnola, diceva, fabbricata a Toledo. Non si era mai vista una spada del genere in Francia, ma un secolo più tardi era destinata a sostituire le poco maneggevoli spade ambidestre che erano state l'arma nazionale da quando Guglielmo il Conquistatore si era aperta la strada ad Hastings. «Ah, è una brava compagna, la mia lama di Toledo», mormorava Dorothy, rigirandosi tra le bianche mani sottili il lungo, affilatissimo oggetto. «Nessuno le resiste.» A volte convinceva qualche spadaccino errante a misurarsi con lei, quasi sempre a svantaggio dell'altro, perché lo spadino scivolava tra le stoccate delle lame più pesanti con fantastica velocità. Al principio la ragazza maneggiava la spada un po' goffamente, ma con consapevolezza, come qualcuno che provi a costringere muscoli smemorati a un compito ben conosciuto. Ma, col passare dei giorni, cominciò a mostrare un'abilità quasi irreale. In piedi in un'osteria sperduta, mentre Dorothy e qualche avversario sconcertato saltavano e sbattevano i piedi in un cerchio di contadini urlanti, Gilbert non finiva di meravigliarsi. Ecco una ragazza d'acciaio, che sfidava tutte le convenzioni dell'epoca, quando le donne dovevano essere creature spaurite e svenevoli che passavano il tempo tirando fuori da una spinetta una musica lamentosa o recitando i classici nella quiete di un pubblico sceltissimo. Secondo tutte le regole lui avrebbe dovuto aborrire quella piccola teppista che raccontava gridando storielle oscene, ci dava dentro col vino e lo trattava come un compagno d'armi e non come un amante. Ma non poteva fare a meno di ammirarla. L'adorazione che aveva provato per la Dorothy dei giorni andati, prima che lei gli spezzasse il cuore soccombendo agli inganni del cugino più bello e più raffinato, era quella
che un chierico prova per un santo. La passione nascente che sentiva addosso era qualcosa di più grande e, ne era sicuro, di molto più bello. Ma Dorothy non ne voleva sapere di questi discorsi d'amore. «Per quello ci sarà tempo», rispondeva, «dopo che avremo sistemato la faccenda con Robert dal Cuore Nero, che mi ha abbandonata per quella ragazza italiana, la figlia del Conte Guzzi. Un'alleanza che secondo lui accrescerà il potere del suo Ducato. Vedremo. Per ora tu e io siamo solo amici, Gilbert: due ragazzini che stanno facendo una favolosa gita primaverile.» Lei lo guardava da vicino, in modo strano, come se fosse sul punto di confidargli un segreto, poi scuoteva la testa. «Ah, Gilbert», continuava, «tu non capirai, ma nei giorni a venire ricorda che una volta ti dissi che, anche se l'anima non ha sesso, io davvero ti amo come un fiore ama il sole. Ma per il momento c'è qualcosa che dobbiamo ancora fare e Dio sa cosa accadrà dopo.» Lei manteneva risolutamente la loro relazione su una base platonica. Cavalcavano insieme, bevevano insieme, una volta combatterono insieme quando una banda di briganti li assalì. Di notte molto spesso dormivano nella stessa stanza, perché non c'erano altre sistemazioni. Ma, secondo il vecchio costume dei Crociati, la spada di Gilbert era sempre tra di loro. E lei ignorava sempre la sua crescente passione e tentava di interessarlo piuttosto all'efficacia della sua lunga, vibrante spada. «Perché, vedi», spiegava, «la tua goffa arma è obsoleta. Andava bene per farsi strada tra le armature nei tornei dei tempi andati, senza dubbio. Ma la mia signora scivolerà tra le giunture del miglior corsetto metallico con un decimo dello sforzo.» Gilbert scosse la testa, ostinatamente. «Una buona arma per una ragazza, specialmente se insiste ad andarsene in giro per il paese vestita da uomo», ammise. «Fatta su misura per la forza di una donna. Ma non userò mai uno dei tuoi ferri da calza. Io voglio una spada fischiante che spacchi un uomo in due, se ce n'è bisogno.» «Sì, se ce n'è bisogno», lo canzonò lei, col grazioso nasino per aria. «Ma non dimenticare, caro il mio quasi-Duca, che un uomo morirà altrettanto rapidamente e con molta meno confusione se è trapassato come si deve proprio nel cuore.» Per quanto lei ritardasse il viaggio, alla fine la coppia arrivò alla periferia di Orthow. La notizia del loro arrivo naturalmente era giunta prima, e i
contadini si accalcavano per salutarli. Robert, dicevano, era ancora al castello di Orthow: giurava di essere innocente e che avrebbe a tutti i costi mantenuto i suoi territori. Ma tutti erano d'accordo che le sue truppe, sia pure troppo timorose per ammutinarsi, non avrebbero alzato un dito contro il legittimo erede. «Ma perché non scappa in Italia, dove a Firenze almeno gli darebbero asilo?», si chiese Gilbert. «Robert fuggire?», esclamò Dorothy. «Questo dimostra quanto poco lo conosci. È un farabutto ma non un codardo. Robert sa che siamo venuti da soli. Pensa che, se ti manda all'altro mondo, potrà raccogliere abbastanza scapestrati che lo aiuteranno a sfidare Re Luigi, specialmente se può convincere il Conte Guzzi a dargli una mano. Bene, ma deve ancora fare i conti con me!» «Tu ne starai fuori», disse con severità Gilbert. «Mio cugino è il miglior spadaccino di Francia, dalla morte di mio zio. Non ti permetterò di estrarre quella tua stupida arma contro di lui.» «Oh, molto bene!», sospirò lei umilmente. «Spero solo che non ti uccida, dato che è il miglior spadaccino. Verrò solo per controllare che uno dei suoi ragazzacci non ti pugnali alla schiena. Farai meglio a comprarti una bella armatura pesante al villaggio qui vicino.» E, con una baldanza che rese tutti i suoi sudditi servi fedeli da quel giorno in poi, Gilbert e la sua compagna puntarono dritto verso le porte del castello di Orthow. Appariva in lontananza, grande e minaccioso, stagliato contro uno sfondo di montagne innevate, mentre si avvicinavano. Il sole, benché mancasse un'ora al tramonto, aveva una luminosità opaca che illuminava le campagne con un bagliore rossastro. Non c'era un alito di vento. Nessun uccello cinguettava. Evidentemente erano attesi perché, quando arrivarono, il ponte levatoio fu calato e un cavaliere attraversò lentamente da solo il fossato. Era Robert. «Buonasera cugino», disse, con un sorriso sbilenco che appariva sotto i suoi baffi neri e al di là della visiera alzata del suo elmo. «Immagino che tu sia venuto per uccidermi.» «E buonasera, Lady Dorothy», aggiunse, chinandosi sulla criniera del cavallo. «Speravo di incontrarvi in abiti più convenienti e in miglior compagnia.» A quelle parole la possente spada uscì stridendo dal fodero a tracolla.
Robert lanciò il cavallo in avanti. Gilbert fece lo stesso. Si scontrarono con la forza di un terremoto e, quando le loro armi cozzarono, volarono scintille nella luce del crepuscolo. Entrambi restarono in sella e colpirono ripetutamente con grande determinazione ma con scarso effetto. Poi, quando il suo cavallo, non abituato a simili combattimenti, fece uno scarto violento, Sir Gilbert ricevette un colpo sul lato della testa che lo mandò lungo disteso. Per fortuna era abbastanza vicino da afferrare Robert ai fianchi mentre cadeva, e lo trascinò giù con sé. Illesi, i due uomini balzarono in piedi e ripresero il duello. Dorothy, apparentemente disinteressata, scese da cavallo e si tenne fuori dalla mischia, appoggiata alla spada ancora nel fodero. La luce spettrale brillava sulle armature e negli occhi stravolti dei duellanti mentre cambiavano posizione, e gli stivali con gli speroni polverizzavano le zolle di terreno sollevando nuvole nerastre. Presto fu chiaro a Gilbert che per quel demonio in nero lui non rappresentava un vero rivale. Provava e riprovava a schivare un fendente o un affondo di quella lama di un metro e mezzo. In seguito asserì sempre che era stata la rugiada sull'erba a portarlo alla sconfitta. In ogni caso, Robert fintò un colpo alla testa, si girò e, mentre il suo nemico barcollava vistosamente nello sforzo di opporsi al nuovo tipo di attacco, gli piantò la sua lama nella spalla sinistra. Nella luce calante la ferita sembrò all'altezza del cuore, ma in realtà non era mortale, perché Gilbert era quasi piegato su un ginocchio quando fu colpito. Senza emozione Robert guardò il nemico caduto e ripulì accuratamente la spada con una manciata d'erba. «Sono molto spiacente, Milady, che abbiate dovuto assistere a questo sporco lavoro», disse, estraendo il pugnale, «ma un compito va completato fino in fondo. La gola di quel furfante esige un bel taglio. Se vi voltate...» Non fece in tempo a finire. Con un balzo in avanti, Dorothy lo colpì al volto con la lama spagnola. «Questo è per te, Robin "il Nero"!», gridò lei. «Chi non è capace di completare il suo compito senza ricorrere a un pugnale, farebbe meglio a nascondersi all'Inferno.» Robert rise forte e a lungo. «E ora, Milady? Vorreste sfidare il più grande spadaccino di Francia? Ma come fate ad avere», esclamò cambiando improvvisamente voce, «la spada di mio zio?» Senza rispondere, la ragazza balzò in avanti e gli puntò la spada diritto al
cuore. Benché non fosse in guardia, Robert riuscì a sviare la lama con l'elsa della sua spada, subendo solo un graffio. «Hai imparato bene», gridò la ragazza, con voce stridula per la gioia di combattere. «Ora prova questo!» Passò dalla quarta alla terza posizione e, quando lui parò, tornò di colpo in quarta. Ma Robert era troppo svelto. Lo punzecchiò appena. «Splendido!», scherzò lei. «Il Duca Florian ti ha insegnato bene quando eri un ragazzo e amava te e i tuoi riccioli neri. Ricordi quelle lunghe ore di allenamento nel cortile? Il Duca ti educò a una vita brillante, ma presto sarai cibo per i vermi, proprio come lui. È un peccato che tu abbia sopravvalutato tanto la tua grande spada e non abbia accettato il suo consiglio di cambiarla per una lama come questa», continuò. «Vedi, avresti potuto trafiggermi, con un'arma più leggera.» Fece un passo indietro e rise. Robert «il Nero» era sudato e furioso. Mettendo da parte le sue tattiche spietate, cercò di violare la difesa di Dorothy con decisi affondi della sua lama sgraziata. Glielo consentiva solo la sua grande forza, e maneggiava quella spada da dieci chili come fosse un giocattolo. «Veloce e vivace, vero?», gridò la ragazza, facendosi avanti, con un esile braccio steso all'indietro e l'altro che faceva vibrare la sua arma come l'ala di un colibrì. «Benissimo, mio affascinante mascalzone. Che sia veloce e vivace. Ti ricordi quel colpo d'incontro che il vecchio Duca tentò di insegnarti, ma che tu eri troppo goffo per imparare come si deve? Proviamolo.» Seduto sul terreno arrossato, alla larga da quel turbinio di piedi, Gilbert interruppe i suoi sforzi per tamponare la ferita e si mise a guardare. Pungolato fino alla follia dalle parole di Dorothy, sanguinando da una mezza dozzina di lievi ferite, Robert cadde nella trappola. Quando lei si slanciò e sferrò un affondo, non tentò di parare, ma volle prenderla in contropiede abbassando la guardia, e tenendo la spada saldamente diritta in modo da colpirla mentre il corpo di lei seguiva l'affondo. Allora Gilbert vide un'esibizione di arte schermistica che in futuro si sarebbe deliziato a raccontare ai figli e ai nipoti. La velocità dell'affondo della ragazza fu simile alla velocità della luce. Troppo tardi il suo avversario diede quel colpo di polso che avrebbe dovuto fargli cogliere il bersaglio. Perse in una frazione di secondo. La sua lama sfiorò il petto della ragazza senza toccarlo, mentre quella di lei penetrò nella sua guardia e in lui, all'al-
tezza del cuore, quindici centimetri oltre le scapole. Robert non cadde subito. Si limitò a tossire lievemente e, quando con un colpo secco Dorothy ritirò la lama, uno sguardo di orrore come Gilbert non ne aveva mai visti gli riempì gli occhi. «Chi sei?», sussurrò attraverso una bava sanguinolenta che gli colava dalle labbra. «Un solo uomo in Francia avrebbe potuto farmi questo... ed è morto.» Ondeggiò, ma si strinse il petto mentre la guardava con gli occhi fuori dalle orbite. «Sei lui? Tu sei...» «Sì, Robin, ingrato: avresti dovuto fare attenzione», rispose la ragazza in un soffio, quasi con tenerezza. «Non dissi che sarei ritornato?» Poi, mentre l'uomo agonizzante, con gli occhi ancora fissi su di lei, scivolava lentamente a terra, Dorothy rise. Era un gran scoppio di risa, più acuto, ma per il resto identico a quello che aveva reso lo scomparso Duca di Orthow famoso in tutta la Francia: beffardo, gioviale e senza paura di Dio o del Diavolo. A metà di quella risata, improvvisamente Dorothy si strinse convulsamente il petto, barcollò, poi si appoggiò alla spada per non cadere. Il fragile metallo si piegò ad arco contro il terreno... si spezzò... e lei cadde a faccia in giù sul cadavere del suo nemico. Il sole, che era stato una grande scimitarra rossa sull'orizzonte, sparì alla vista. Gilbert si rialzò vacillante, dimentico della ferita. Raccolse la ragazza e corse verso il ponte levatoio. Gli occupanti il castello, che si erano disputati i posti sulle torrette per assistere a quel duello senza precedenti, gli corsero incontro. Quando svenne per tutto il sangue perso, gli tolsero la ragazza dalle braccia. Dorothy non era morta, anche se la vita le palpitava dentro leggera come l'ala di una farfalla. Anche quando Gilbert, col braccio al collo, poté alzarsi e camminare, lei giaceva a letto, respirando a fatica, e guardava il soffitto della sua camera con grandi occhi scuri che sembravano guardare luoghi lontani e vedere cose d'altri mondi. Gilbert la vegliò giorno e notte mentre lentamente si riprendeva. Ma non fu la temeraria ragazzaccia che aveva cavalcato con lui due volte attraverso la Francia quella che finalmente ritornò in salute.
E non era nemmeno la volubile e mite ragazza che sempre agli ordini della madre faceva arazzi e tirava fuori dalla spinetta musiche lamentose. Questa era una donna, strana, tranquilla, di una bellezza non terrena, che in futuro sarebbe stata la disperazione dei pittori: una donna che dava l'impressione di aver visto cose che una persona viva non dovrebbe conoscere, di aver imparato segreti che rendevano l'esistenza un qualcosa di poco importante, una ridicola inezia. Non parlò mai con Gilbert delle loro avventure, e, se non era necessario, raramente parlava di alcunché, ma aveva una dolcezza e una forza di carattere che la resero cara alle governanti e in breve a tutta Mecklenberg e Orthow. La storia dice che alla fine lei e Gilbert furono sposati dal buon Padre Bellaire e che poi ebbero molti bei figli. Ma seduto accanto al fuoco nelle sere d'inverno, carezzando la testa di uno dei suoi cani, o semplicemente con gli occhi pigri fissi nella fiamma, mentre sua moglie gli riposava accanto con una mano sull'altra, pensando a Dio sa cosa, a volte Gilbert sentiva lacrime amare salirgli agli occhi. Perché, dopotutto, quella non era la sua Dorothy. HAROLD WARD La porta chiusa In fin di vita, Obie Marsh imprecò contro sua moglie come del resto aveva fatto ogni giorno da quando si erano sposati. «Mi hai avvelenato!», diceva con un rantolo contorcendosi nella agonia. «Sì, mi hai avvelenato, demonio che non sei altro!» Lucinda, sua moglie, annuì con indifferenza. «Sì, ti ho avvelenato», rispose fredda. «Saresti morto in ogni caso; lo ha detto il dottore. Era solo questione di tempo: anni, forse mesi. E io non riuscivo più a sopportare questa continua lotta. Sono quindici anni! Quindici anni di inferno!» «Maledetta!», ringhiò lui a denti stretti, mentre il volto barbuto gli si contraeva per una fitta che gli attraversò il corpo. «Non avremmo mai dovuto sposarci», continuò la donna con calma. «Non ci siamo mai amati. La colpa è stata dei nostri vecchi che si sono intromessi tra noi e quelli che amavamo. Tu mi hai sempre odiata a causa di Lizzie Roper, e Dio solo sa quanto avrei voluto sposare Al Sides. Ci hanno fatto sposare solo perché volevano unire le fattorie. Ora non possiamo di-
vorziare a causa della Chiesa, e io sono stufa di tutto, Obie; ne ho piene le tasche.» «Sei un mostro», ansimò lui, mentre il corpo gli si contorceva per gli spasmi. «L'idea di avvelenarti mi è venuta in mente la prima volta che ti sei ammalato», continuò la donna con lo stesso tono impassibile. «Il vecchio dottor Plummer disse che avresti potuto tirare avanti per anni, e io non ne potevo più, Obie, non riuscivo più a sopportare le tue continue prepotenze e sopraffazioni.» «All'Inferno, la pagherai», disse Marsh con voce fioca. «Spero che ti torturino all'Inferno...» «Probabilmente lo faranno», rispose fredda Lucinda Marsh. «Ma vale la pena pur di avere un po' di pace qui sulla terra. La vita con te non ha avuto niente di paradisiaco.» Marsh si contorse convulsamente. Apriva e chiudeva le dita avvizzite, mentre la bava gli fuoriusciva dalle labbra carnose. Con un grande sforzo si riprese. Era un uomo duro e forte: è difficile uccidere gli uomini duri. «Ritornerò... dalla tomba, sgualdrina che non sei altro!», rantolò. «Sarebbe da te», rispose sua moglie. «...Ti aspetterò...», continuò lui, cercando di colpirla in faccia. Si era sforzato troppo. Con il sudore che gli colava dalla fronte e il corpo tremante per le fitte, ricadde sul cuscino. «Dio, fa male!», sussurrò. «Come un coltello.» La donna sollevò la testa all'improvviso. Stava ascoltando qualcosa. «Sta venendo qualcuno», mormorò, e si diresse velocemente verso la finestra. Un'auto stava imboccando il viottolo. «È il vecchio Plummer», disse a bassa voce. «Quel dannato vecchio è in anticipo rispetto alle altre volte. E tu puoi ancora parlare.» L'uomo nel letto tremava. Serrò i pugni e contrasse i muscoli cercando di non scivolare in quella voragine che lo aspettava. «... Diventando... buio...» «Il vecchio potrebbe riconoscere i sintomi», riprese la donna quando sentì la macchina fermarsi nel cortile anteriore. Un lenzuolo era stato scaraventato dall'altro capo del letto. Lo afferrò e, dopo averlo ammassato, lo pigiò con forza sul viso dell'uomo in fin di vita. Questi reagì con un debole sforzo per non farsi mancare il respiro. Lei gli si avventò contro con tutta la forza. All'improvviso il corpo di lui si irrigidì con un sussulto. Lei sape-
va che era morto. Si drizzò tirando un sospiro di sollievo. Sentì sbattere la porta d'ingresso. Balzò in piedi, gettò il lenzuolo dietro una sedia, e andò a ricevere il dottore. «È appena morto in una di quelle crisi», disse non mostrando alcuna emozione. «Vada da lui immediatamente. I bambini sono entrambi a scuola e non avevo nessuno per mandarla a chiamare. È inutile dire che mi dispiace, perché non è vero. Sono contenta che sia morto.» Il medico scosse la testa in segno di comprensione. Come tutti i medici dei piccoli centri, era al corrente dei problemi familiari dei suoi pazienti. Per un momento si soffermò a guardare il corpo immobile di Obie Marsh. Quindi lo coprì con un lenzuolo e si girò verso la donna. «È meglio sedersi e fare le cose con calma, signora Marsh», disse seguendola nell'altra stanza. «Informerò il servizio funebre, e mi fermerò a scuola per chiedere all'insegnante di far tornare a casa Mary e Jimmy. Vuole che chiami nessun altro?» Lei fece segno di no. «Dica a Billy Reynolds che venga con tutto ciò che serve per portarsi via il corpo», disse lentamente. «Questa è casa mia, ora... è mia. Questo è quanto i nostri padri hanno stabilito nei testamenti. E, prima me lo tolgo davanti agli occhi, prima me ne approprierò. Non voglio più vederlo fino al giorno del funerale, anzi, non ci verrei, se non fosse per le chiacchiere della gente. Ha fatto della mia vita un inferno», continuò con amarezza. «L'ho odiato dal giorno in cui l'ho sposato. Ora è casa mia e chiuderò a chiave quella stanza non appena lo avranno portato via. Non voglio più vederne l'interno. Vi aleggiano troppi ricordi. Le darei fuoco fino a distruggerla completamente, se questo non significasse incendiare il resto della casa.» Si lasciò cadere in una sedia a dondolo e fissò lo sguardo sul dottore, mentre il corpo scarno le tremava, ma non sparse una lacrima. Il dottore le dette un colpetto sulla spalla che indicava comprensione. «Voi siete sfinita, Lucinda», disse con gentilezza, «sfinita e nervosa. Vi preparerò un calmante e ve lo porterò stasera.» «Non ho bisogno di nessun calmante», rispose lei. «Sapere che è morto, mi servirà da calmante.» Il dottore scosse la testa con solennità. «Non parliamo male del morto», riprese. «Tutti sanno come vi trattava. Se non c'è nient'altro che possa fare, vado via.»
All'ora stabilita il becchino e il suo assistente arrivarono con la stretta brandina di vimini. Lucinda Marsh se ne stava accanto alla porta e aspettava che portassero fuori il carico. Essi la guardarono con perplessità quando lei girò la chiave nella toppa e, dopo averla sfilata, se la mise in tasca. «Prego Dio di non rivedere mai più l'interno di quella stanza finché muoio», disse. Billy Reynolds, il becchino, scosse la testa in segno di approvazione. Anche lui sapeva che vita aveva trascorso con Obie Marsh. Il passar degli anni produsse un lieve cambiamento nell'aspetto esteriore di Lucinda Marsh. Magra, dai lineamenti duri e dalle labbra sottili, impassibile, mandava avanti la fattoria come nei vecchi tempi, svolgendo i lavori di un uomo nei campi, aggiungendo dollari a quelli che erano già in banca, e amministrando i suoi interessi secondo i princìpi che le avevano insegnato. Non aveva mai avuto amici; Obie Marsh aveva provveduto a che ciò non accadesse. Non ne aveva neppure ora. I suoi bambini erano diventati un uomo e una donna. La piccola Mary si era sposata e si era trasferita in una cittadina vicina. Lucinda non si lamentò e non fece commenti. Jimmy diventò un lavoratore stipendiato, alleviando un po' il carico di lavoro che gravava sulle spalle di sua madre. Ma era ancora lei quella che teneva le redini dell'amministrazione. Poi, anche lui si sposò e portò sua moglie nella vecchia casona tetra alla fine del sentiero. Vennero i figli, sei in rapida successione. Se i loro gridolini gioiosi portarono un qualche cambiamento nel cuore di quella vecchia burbera, non trasparì mai. Emma, la moglie di Jimmy, indaffarata ad allevare i suoi piccoli, era contenta di rimanere in secondo piano; Lucinda Marsh era ancora la padrona assoluta della casa. In tutti quegli anni, quella stanza proprio attigua al soggiorno, la «Stanza» come la chiamavano, era rimasta chiusa, e Lucinda ne custodiva la chiave nel cassetto del suo scrittoio. In famiglia non se ne parlava mai. I bambini sapevano che c'era qualcosa, un orribile tabù, che faceva eludere l'argomento. La loro immaginazione infantile faceva il resto. Passavano accanto alla «Stanza» trattenendo il respiro; quando faceva scuro e le ombre sovrastavano l'alone che la grande lampada a cherosene emanava dal centro del tavolo, essi se ne andavano sempre a giocare nell'altro lato della stanza, lanciando occhiate furtive alla porta scura dietro la quale stava in agguato qualcosa di cui essi non erano a conoscenza. Poi, con il passar degli anni, sopraggiunsero momenti difficili. Prima le cavallette distrussero i raccolti. Poi venne la siccità. I prezzi aumentarono;
diminuirono le paghe. Le fattorie chiudevano. Mary fu la prima a subire il colpo. La banca precluse il riscatto dell'ipoteca dalla fattoria di suo marito. Poi venne la malattia e un altro bambino. Alla fine fu costretta a tornare a casa con il marito malato e i piccoli. Lucinda Marsh, imperturbabile come sempre, trovò loro una sistemazione. Il fratello della moglie di Jimmy perse il posto in città. In condizioni di indigenza, fece appello a sua sorella. Lei parlò dei suoi problemi con Lucinda Marsh. «Quattro persone in più a tavola non fanno differenza», disse la vecchia con tono burbero. «Scrivi, e di' loro che in qualche modo li sistemeremo. Dio solo sa, comunque, dove li faremo dormire.» Stavano cenando quando si intavolò questa conversazione. Fu Mary che, dopo aver lanciato un'occhiata a suo fratello, si arrischiò a parlare di ciò che tutti stavano pensando. «La "Stanza del Padre"», disse timidamente. «Non potremmo aprirla e far cambiare l'aria prima che arrivino, e farli dormire lì?» Per un momento ci fu un silenzio che incuteva timore. Lucinda Marsh girò gli occhi infossati su sua figlia, quindi fissò in viso gli altri. Infine disse: «Ho giurato che non avrei più messo piede in quella stanza fino al giorno della mia morte». «Ma ci andranno loro, mamma, non tu», ribatté Mary. «Siamo già a corto di spazio ora. Dove altro potremmo sistemarli?» Lucinda Marsh ripose con calma forchetta e coltello: le sue labbra sottili erano serrate in una linea retta, severa. Alla fine disse: «Se qualcuno dovrà dormire in quella stanza, ci andrò io. Ci ho vissuto con tuo padre per quindici anni, odiandolo ogni giorno di più. E lui odiava me ancora di più, se è possibile. La stanza è ricolma del nostro odio: è chiuso lì dentro che brucia, ma è pronto a far divampare di nuovo la fiamma». «Ma, mamma...» Lucinda Marsh drizzò le vecchie spalle curve con un gesto che indicava una decisione definitiva. «Ci andrò io», disse con fermezza. «Vorrei non averne parlato», disse Mary con rincrescimento. «Sapevo che c'era qualcosa legato a quella stanza, ma...» La vecchia la interruppe bruscamente.
«Qualcosa! Vuoi dire odio», proferì aspramente. «Ma forse è la cosa migliore. Sono vecchia: da molto ho superato i settanta. In ogni caso, l'ora della mia morte è quasi giunta.» S'interruppe: i suoi vecchi occhi guardavano lontano. «Forse è predestinato», disse un po' anche a se stessa. «Disse che mi avrebbe... aspettato. Forse mi sta aspettando. È possibile?» Si alzò da tavola e fece un passo verso la porta. «L'aprirò domattina e farò cambiare l'aria», disse. Salì le scale per andare al piano superiore: le sue labbra erano rigide e serrate. Lucinda Marsh rimase a lungo seduta sulla sedia dallo schienale rigido accanto al suo letto, con gli occhi stanchi che fissavano il vuoto mentre le si ripresentavano alla mente immagini degli anni passati. Le era venuto un forte impulso, un desiderio che aveva tenuto a freno per quasi cinquant'anni: la smania che assale ogni assassino, l'ansia irresistibile di rivisitare la scena del suo crimine. Già prima, lo stesso desiderio le era balenato migliaia di volte, ma lo aveva sempre scacciato. Ora, comunque, solo a poche ore dall'attuazione del suo desiderio, l'aveva assalita quella smania. La stanza chiusa la stava chiamando. Nel cervello sentiva rimbombare una voce che gridava: «Ora! Ora!». Alla sua mente stanca sembrò la voce dell'uomo odiato, l'uomo che aveva ucciso. Si alzò, raggiunse lo scrittoio, aprì il cassetto, e trovò la chiave là dove l'aveva nascosta tanti anni prima. La tenne tra le dita avvizzite, carezzandola, canticchiando una cantilena. La sua stanza si trovava in cima alle scale. Uno a uno, sentì i membri della famiglia tornare nelle rispettive stanze. Finalmente, la vecchia casa cupa si immerse in una quiete indescrivibile. Avanzò, aprì uno spiraglio e sgattaiolò fuori dalla porta nel corridoio buio. Accertatasi che tutti stessero dormendo, prese la piccola lampada a mano e, in punta di piedi, si avviò furtivamente su per le scale scricchiolanti. C'era aria di tempesta. Sentiva il vento alzarsi e ululare tra i rami degli alberi. C'era qualcosa che ricordava un lamento di dolore. Si fermò un istante, e piegò la testa in avanti. Poi la assalì il ricordo. «Era così la notte prima... prima che lui morisse», mormorò tra sé. Il cuore cominciò a batterle leggermente più forte quando raggiunse la porta scura, tetra. Poi, portando la lampada nella mano sinistra, inserì la
chiave nella toppa. Trovò difficile farla girare, come se quella fosse riluttante a svelare i segreti che nascondeva. Poi la serratura scattò. Aspettò per un momento, con le dita sul pomo. Ora tremava, trepidava per un'emozione che non comprendeva. «Disse che... mi avrebbe... aspettato», mormorò. «Mi chiedo se... è vero.» Girò la maniglia e spinse i battenti della porta. I vecchi cardini cigolarono come in segno di protesta. Poi la porta si spalancò... Un'ondata di malignità e di odio la pervase. Avanzò verso l'interno: le sue labbra erano chiuse in una linea stretta, severa. Appena attraversata la soglia si fermò: manteneva la lampada alta sopra la testa, scrutava ogni dettaglio. C'era il letto, disfatto, dove lui era morto. Le venne in mente che Billy Reynolds, il becchino, l'ultima persona che aveva messo piede nella stanza, era morto anche lui. A capo del letto c'era la piccola mensola; su di essa c'era il bicchiere nel quale aveva versato il veleno. Accanto c'era una boccetta di medicine, semivuota; l'etichetta ricoperta dagli illeggibili geroglifici del vecchio dottor Plummer, era ingiallita e scolorita. Il dottor Plummer... lui pure, marciva nella tomba da anni. C'era il cuscino su cui poggiava la testa di Obie quando era morto; uno degli angoli era rigirato dove lui l'aveva stretto quando l'ultimo spasmo di agonia gli aveva lacerato le membra. Non era cambiato niente. «Disse che mi avrebbe... aspettato», mormorò di nuovo. La stanza era fradicia e coperta di muffa, la polvere di anni ricopriva ogni cosa. Chiuse la porta e mise la lampada sulla mensoletta. Si avvicinò alla finestra e la spalancò. Il vento dilagò con impeto, stridulo e ululante. La lampada crepitò, formando strane ombre che ondeggiavano negli angoli distanti. Dietro la sedia, dove l'aveva gettato anni prima, c'era il lenzuolo ingiallito con il quale aveva soppresso il respiro di suo marito. Sulla superficie ammuffita c'era una macchia più scura; sapeva che era la saliva che era sbavata dalla sua bocca. Si mosse verso il centro della stanza, penetrando ancora furtivamente tra le ombre. «Disse che sarebbe venuto... dalla tomba, e che mi avrebbe... aspettato», disse ripetutamente. Una fredda raffica di vento ululò attraverso la finestra. La lampada crepitò, fumò, emise una fiammata improvvisa, e si spense. Con l'oscurità improvvisa sopraggiunse un senso di terrore. Per la prima
volta nella sua vita Lucinda Marsh ebbe paura. Dalle tenebre apparve una cosa, una cosa bianca informe. Per un momento rimase sospesa a mezz’aria. Si librò su di lei, con delle braccia lunghe e informi che si allungarono per afferrarla. Il vento ululò di piacere. «Disse che avrebbe aspettato...», mormorò. La avvolse, tenendola nelle sue spire, attorcigliandosi attorno a lei, soffocandola. «Dio mio!», gridò cercando di respingere con le mani quegli inviluppanti tentacoli. «Ha mantenuto la parola! Stava... aspettando...» Al mattino la trovarono. Intorno alla testa e al collo aveva attorcigliato un lenzuolo ingiallito, il lenzuolo con il quale aveva soffocato suo marito. CLIFFORD BALL L'ometto 1. La prima impressione «Buona sera, agente», disse l'ometto, toccando il gomito del rappresentante della legge per attirarne l'attenzione. «Una bella serata, non è vero?» James O'Hara, di pattuglia nella zona, trasalì. Era assorto nell'osservazione delle luci di un appartamento che si trovava dall'altra parte della strada. Vi abitava una biondina che evidentemente non aveva mai appreso l'uso delle tende. O'Hara era perduto in quell'estatica visione, prima che il tocco sul braccio lo riportasse sulla terra. Un'occhiata all'ometto e si rilassò. «Sì, davvero bella, signore», convenne. Con quel breve sguardo aveva già classificato l'uomo, e deciso che doveva appartenere a quella categoria di persone senza importanza che provano un certo brivido ogni volta che conversano con qualcuno in uniforme. O'Hara si dondolò avanti e indietro sull'orlo del marciapiede, con le braccia strette dietro la schiena; sembrava che scrutasse i cieli stellati, ma in realtà cercava di cogliere qualche altro particolare intimo della biondina. L'agente O'Hara attese l'inevitabile domanda successiva, cercando di nascondere il suo fastidio meglio che poteva. Ora, immaginava, il tipo gli avrebbe chiesto: «Tutto tranquillo stasera?». Lui avrebbe risposto di sì e poi si sarebbe sorbito lunghe disquisizioni sui lineamenti tipici dei criminali, teorie alla cui elaborazione quel signore doveva essersi dedicato durante le notti tormentate dall'insonnia. Ma, quando l'ometto parlò, non aderì al soli-
to modello che l'agente O'Hara immaginava. «Non vorrei rovinarvi questa bella serata, agente», disse, «ma sarete abituato allo shock di scoprire un cadavere, non è vero?» «Oh», replicò O'Hara, tenendo a freno il proprio senso dell'umorismo, «mi capita più o meno ogni ora!» «Non ci avrei mai creduto, considerato il tipo di residenti in questa parte della città», dichiarò l'ometto senza sorridere. «Del resto, suppongo che queste cose accadano in luoghi imprevedibili. Vi dispiacerebbe rimuovere quello di sopra? Sa: potrebbe trovarlo qualcun altro e spaventarsi.» Ci volle almeno mezzo minuto prima che la mente di O'Hara, così profondamente assorta in studi anatomici, ricevesse il messaggio. «Di che cosa state parlando?», disse bruscamente, volgendo di scatto lo sguardo sul meschino ometto. «Un cadavere? Quale cadavere? Avete visto un cadavere qua intorno?» «Ne ho appena lasciato uno», disse l'ometto senza emozione. «Non prendetemi in giro!», lo minacciò O'Hara. «Uno che ha scoperto un cadavere non è così tranquillo! Devo saperlo; una volta ho calpestato i marciapiedi della Decima Avenue. Avanti, che scherzo è?» «Se non avessi dedicato il mio tempo libero alla lettura di romanzi gialli, il vostro linguaggio potrebbe lasciarmi perplesso», lo rimproverò l'ometto. «Ma adesso ho motivo di esser grato a quello che ritenevo un colpevole passatempo.» O'Hara sospirò. Evidentemente si trattava di uno psicopatico. I vestiti dell'uomo, anche se puliti e stirati, erano evidentemente troppo lisi per appartenere a un milionario colpito da afasia, anche se il tipo stava vagabondando per quella parte della città. O'Hara decise di ignorare del tutto il cadavere, ottenere le informazioni che poteva, e chiamare la stazione di polizia perché mandassero qualcuno a prenderlo. «Qual è il vostro nome, signore?» L'ometto sospirò come per scusarsi. «Questo verrà in seguito», disse. La sua voce rimaneva mite, ma la risposta conteneva una nota definitiva. Il soprabito logoro dello sconosciuto si era richiuso per coprire una gola magra su un collo a non più di un metro e mezzo dal livello della strada. Il soprabito pendeva largo, mettendo in mostra una giacca lustra ed un cordoncino sottile, che forse una volta era stato una cravatta di ottima classe ma adesso somigliava più che altro a un cencio annodato. I piedi erano costretti in un paio di scarpe consumate, e in testa portava un cappello di una
misura e mezzo troppo grande. Teneva le mani nascoste nelle tasche laterali del consunto soprabito, ed O'Hara, lanciando una seconda occhiata ai miti lineamenti sotto il cappello, decise che le dita che non si vedevano non dovevano stringere un'arma mortale. Quel tipo ben difficilmente avrebbe potuto risultare pericoloso. Nella sua faccia non c'era niente di straordinario: era completamente tranquilla. Era il tipo di faccia che vi passa davanti senza farsi notare e scivola via dalla memoria come la sagoma di un passante nella nebbia fitta. Aveva il profilo di un impiegato da trenta sterline a settimana che da quaranta o cinquanta anni sia curvo su pagine e pagine di cifre, un profilo pallido, incolore, insignificante. Gli occhiali cerchiati di corno davanti agli occhi azzurro chiaro, enfatizzavano la mansuetudine del portamento curvo. L'agente O'Hara ricordò la precisione con cui menti disordinate riuscivano a immaginare e a descrivere situazioni fosche, e stabilì il suo giudizio definitivo sull'uomo. Sorridendo con aria tollerante, scrutò la strada vuota. Si compiacque che non ci fossero passanti in vista, perché qualche volta quegli individui strillavano indecorosamente, quando ne veniva richiesta la compagnia con una certa fermezza. «Voi non bevete vero?», lo interrogò affabilmente. «Beh... mi piace bere un bicchiere di birra, di tanto in tanto, agente. Giusto un bicchiere o due per ricordarmi di quando ero studente a Vienna. Ma, se posso permettermi, questo che c'entra con il mio cadavere?» O'Hara si accorse che la gentilezza non serviva a cancellare le allucinazioni da cui l'uomo era tormentato e di conseguenza adottò metodi più spicci. «Il vostro cadavere, babbino? Così adesso è vostro!» «Suppongo di poterlo chiamare così, agente. Vedete, non so proprio cosa farmene; per questo mi sto rivolgendo a voi. Lo troverete su un letto nell'interno 3C del Beekford Arms. Dall'altra parte della strada, al 1215. La porta è aperta, non c'è bisogno di buttarla giù.» «Dunque vediamo!» Non si poteva biasimare l'agente O'Hara perché la sua voce si era alzata oltre il normale. «Mi state regalando un cadavere, non è così? Tutto sistemato su un letto, con ogni cosa a puntino! Posso chiedervi», chiese sarcastico, tentando senza successo di imitare la voce dell'uomo, «se avete sparato, pugnalato o semplicemente avvelenato questo cadavere di cui proprio non sapete che fare?» «Odio qualsiasi tipo di armi», dichiarò l'ometto. «Il veleno lo trovo particolarmente disgustoso. Quando ho deciso di ucciderlo, gli ho semplice-
mente rotto il collo con le mie mani.» «Facciamo una passeggiatina fino all'angolo», rise O'Hara, sollevato. Non riusciva ad immaginare quel fragile ometto neanche nell'atto di usare le sue manine contro uno spaventapasseri. «Per la strada mi mostrerete quelle mani potenti, d'accordo?» L'ometto spinse ancora di più i polsi nelle tasche sformate del soprabito logoro e alzò uno sguardo di sbieco sul corpo massiccio di O'Hara, con un'espressione ansiosa che gli ricordò le vignette di un famoso cartoonist sui Sette Nani. «Immagino che non mi crediate, agente. Non che vi faccia una colpa del vostro scetticismo; anche lui era sbalordito, credo. E ammetto di essermi stupito io stesso quando ho scoperto tutte le possibilità di ciò che ieri era solo una serie di deduzioni logiche. Ma dovevo aver ragione; era...» «Benissimo, avevate ragione! Adesso andiamo, babbino.» «Ma, mio caro signore, io non posso accompagnarvi. Ho un altro appuntamento.» O'Hara sogghignava, pensando alla storia che avrebbe raccontato ai ragazzi della stazione di Polizia. «Adesso non vorrete andarvene tutto solo a rompere qualche altro collo, no?», gli chiese. «Non ho fatto progetti... non, non ancora. Se deciderò, no, non cercate di trattenermi! Vi prego, agente, scusatemi!» Il poliziotto piazzò un braccio robusto e intimidatorio sulle spalle curve. L'ometto si divincolò leggermente, tirò fuori dalle tasche le mani con i palmi aperti e spinse l'erculeo petto che gli stava di fronte. Il respiro dell'agente O'Hara abbandonò i polmoni con un ansito inatteso, mentre tutti i suoi cento chili se ne andavano all'aria e ricadevano sul marciapiede a un paio di metri dalla posizione iniziale. O'Hara scosse la testa per chiarirsi le idee confuse e afferrò la pistola ma, prima di poter sollevare l'arma, ebbe solo il tempo di vedere una figurina svoltare in fretta l'angolo dell'isolato. Tre minuti dopo un Sergente stava annunciando al Capitano: «Signore, sono spiacente di doverlo dire, ma Jimmy O'Hara è ubriaco fradicio! Sta chiamando dalla strada e dice che dovete far ricercare un tipo piccolino, con un cappello e occhiali di corno, del peso di una cinquantina di chili. Il nanerottolo l'ha buttato a terra - lui, capite, quel bisonte che è - e per poco non gli fracassava la testa sul marciapiede! E intanto che fate cercare questo pugile nano, consiglia di andare a dare un'occhiata al Beekford Arms per cercare un cadavere! "Il cadavere di chi?" gli chiedo, e mi risponde
"Che ne so? Un cadavere e basta". Non sa di chi sia, dice, ma è maledettamente sicuro che si trovi lì». L'ometto aveva prodotto la sua prima impressione. 2. La seconda impressione Passarono altri venti minuti prima che un conciliabolo di poliziotti dall'aria severa si trovasse nell'appartamento 3C del Beekford Arms ad osservare la cosa stesa sul letto che una volta era stata Herman Wexel. Il ricco e famoso decano del Botham College era curiosamente morto col collo rotto mentre leggeva a letto. Le vertebre del collo si erano spezzate per effetto di una pressione terrificante esercitata sulla nuca o, almeno, così asseriva il medico legale, indicando con un dito indifferente la grande fascia livida che circondava la gola del cadavere. Una debole lampada da lettura, sospesa alla testa del letto con una grappa di ferro, gettava una luce squallida e fioca sulle dita sottili del cadavere, abbandonate sul volume scientifico che stava sfogliando prima che l'uomo acquistasse quello sguardo vuoto e fisso con cui ora contemplava l'infinito. Fermo nell'ombra, zittito dalla presenza severa dei suoi superiori, l'agente O'Hara si allargava il colletto dell'uniforme, ripensando a quelle dita ossute nascoste nelle tasche di un soprabito logoro. Un po' di tempo dopo, mentre i resti di Herman Wexel lasciavano il portone del Beekford Arms sulla solita barella e l'aria nebbiosa si riempiva di imprecazioni dei poliziotti che non avevano trovato l'ombra di un indizio e neanche le impronte digitali sulla porta o sulle finestre, la situazione ebbe un nuovo sviluppo. Un cronista giunse in volata nell'atrio e rivolse cenni frenetici al suo fotografo, che in quel momento era occupato ad immortalare per i posteri la non bella parata sulla sua pellicola asettica. Immediatamente gli artigli del Quarto Potere calarono sul loro fortunato fratello. «Va bene! Va bene!», si arrese il cronista. «Tanto lo sapreste subito. Dunque... Hazlitt, quello del Daily, è stato trovato morto sulla porta dell'appartamento della sua ragazza. Conoscete Rosy Acre, la ballerina? L'ha trovato lei. Dice che le stava facendo visita, quando un tipo strano, piccolino, ha suonato alla porta e le ha chiesto di vedere Hazlitt. Lei li ha lasciati mentre parlavano nel corridoio; più tardi ha sentito un gemito e un tonfo, ed è andata a dare un'occhiata. Hazlitt era là, ma il piccoletto era scomparso. E Hazlitt, che è stato campione di lotta libera, era disteso sul
pavimento con il collo spezzato! Che ne dite?» «Sento la puzza del gatto morto di mia zia!», gridò il Capitano Travers. «Un altro!» «Se è vero, va in prima pagina», convenne un altro cronista, un po' incredulo. Il defunto Harry Hershfield Hazlitt, nato Louis Rodetsky, giaceva nella posizione scomposta che si assume di solito per una morte violenta o improvvisa, sotto un lenzuolo, nell'atrio affollato di poliziotti. Il collo del giornalista era stato spezzato di netto e la testa che aveva ornato in effigie migliaia di pezzi ciondolava in un modo che sarebbe risultato del tutto non familiare all'esercito di avidi lettori. Hazlitt non portava soprabito, ma né le maniche della camicia né il panciotto erano stati sciupati dal colpo, e la cravatta rimaneva perfettamente sistemata sotto i bottoni del panciotto, come se fosse opera dell'assistente di un impresario di pompe funebri. Da un rigonfiamento sotto l'ascella sinistra, uno degli investigatori tirò fuori una fondina contenente un'automatica carica. La vittima non aveva avuto il tempo di estrarre l'arma, oppure non aveva ritenuto necessario ricorrere a una pistola per difendersi. All'interno del lussuoso appartamento di tre stanze, Rosalie Acre, nata Leah Rosenbloom, la «Ragazza dai Diecimila Movimenti», stella del Midnight Garden di Ricci, singhiozzava istericamente. «Non l'avrei mai riconosciuta», bisbigliò un irrefrenabile scribacchino, sotto voce. «Non avrei mai immaginato che potesse portare degli abiti!» «Silenzio!», ordinò un investigatore, agitando la pistola. «Certo che vi ho raccontato tutto», piagnucolò la signorina Acre. «Sono andata ad aprire la porta e quel tipo mi ha chiesto di Harry. "Potrei vedere il signor Hazlitt", ha detto.» «Io sono tornata dentro e l'ho detto ad Harry, e lui ha commentato che forse doveva esserci in ballo qualcosa di grosso, se qualcuno andava a cercarlo fin lì. Prima di uscire ha guardato attraverso lo spioncino della porta, perché ci sono imbroglioni e anche altri, lo sapete, che dicono che non avrebbe dovuto pubblicare certe cose su di loro.» «Dire solo imbroglioni non è giusto, piccola», borbottò un investigatore. «E mi ha detto», continuò la ballerina, «"Rosy, penso che questo tipo abbia una nuova storiella per me. L'ultima è stata un tale successo che l'ho raccontata per settimane, girandola e rigirandola da tutte le parti, e così si è un po' addolorato, perché si prende molto sul serio. Ma deve avere del de-
naro in quella vecchia giacchetta! Più lo prendo in giro, più diventa strano. Mi fa persino ridere; è proprio quello che definiresti un caso disperato". Queste sono state esattamente le parole di Harry, e potrei ripeterle in tribunale sotto giuramento», dichiarò la signorina Acre, speranzosa. «Poi il signor Hazlitt è uscito?», incalzò il poliziotto. «Ha chiuso la porta dietro di sé?» «L'ha lasciata socchiusa. Le sue... le mie chiavi erano all'interno. Li ho sentiti parlare a voce bassa, prima di accendere la radio; poi non ho udito più nulla, tranne una risata di Harry. Oh, sì, rideva!» «E che cosa hanno detto?» Il poliziotto che la interrogava stava pazientemente aspettando che le passasse lo stato di shock. La sua era una semplice routine di controllo, che precedeva interrogatori più lunghi e particolareggiati condotti alla stazione di Polizia, durante la quale accadeva spesso che un testimone confuso rispondesse evasivamente. «Io... non so. Ho sentito Harry ridere, poi c'è stato qualcosa come un gemito, seguito da un tonfo sul pavimento. Mi sono incuriosita e sono andata alla porta e... e ho visto...» «Sì, sì. Calmatevi, ora. Il piccoletto non c'era più?» «No! Io ero spaventata, terribilmente spaventata! Harry giaceva sul pavimento. Mi sono chinata su di lui e ho visto che aveva la faccia pallidissima. Ho guardato da una parte e dall'altra del corridoio, ma non c'era nessuno. Credo di avere urlato, perché ricordo che dopo c'era un mucchio di gente che mi chiedeva che cosa era accaduto e perché - che pazzia! - perché io l'avevo ucciso!» «Beh, signorina Acre, non siete accusata né sospettata di averlo ucciso. E, anche se i vostri... um... muscoli professionali sono forti, non mi affretterei a dedurne che gli avete spezzato il collo. Ma se volete essere così gentile, preferirei che ci seguiste alla stazione di Polizia e ci raccontaste qualcosa di più, perché forse ci sono sfuggiti dei particolari.» «Ci saranno quei terribili fotografi!», esclamò la signorina Acre, risplendendo di piacere. «Scusami, Al», interruppe il Capitano Travers, «ma sono arrivato troppo tardi per sentire la descrizione. Com'era quello che ha bussato alla porta?» «Un nanerottolo, dice lei. Un tipo piccolo e ossuto, con degli abiti da poco e un cappello. Portava gli occhiali. Si comportava timidamente, come se non fosse abituato a parlare con una donna. Deve aver usato le scale, credo, perché il ragazzo dell'ascensore non ricorda di averlo fatto salire.
Hai idea di chi possa essere?» «No, ma mi piacerebbe averla, Al. A meno che non si tratti di una stranissima coincidenza, dev'essere lo stesso tipo che ha assassinato Herman Wexel solo un'ora fa!» 3. La terza impressione L'improvvisa scomparsa di due personaggi così in vista come Wexel e Hazlitt, per quanto ampiamente differenti l'uno dall'altro nella personale ricerca della felicità, era nondimeno un caso sufficiente a disturbare il sonno del Commissario. Per combinazione, gli avvenimenti cadevano alla vigilia delle elezioni, e in date simili i titoli dei giornali significano lo stipendio. Omicidio! Mentre gli strilloni per strada annunciavano titoli che non mancavano mai di dare i brividi al cittadino onesto e amante della tranquillità, il Capo della Polizia locale si affrettava verso un incontro con i suoi principali collaboratori, che erano stati tutti ugualmente buttati giù dai rispettivi letti. Si riunirono in un santuario privato che neanche il più ardimentoso dei cronisti osava assalire. «Signori, dimentichiamo la nostra naturale curiosità a proposito dei misteriosi sistemi con cui è stato compiuto questo duplice omicidio», disse il Commissario di Polizia. «Evidentemente dobbiamo cercare un doppio movente. Dovrebbe essere facile, almeno credo, identificare il nostro ometto, sempre che quest'ultimo esista davvero.» «Due persone l'hanno visto», intervenne il capo degli investigatori. «Ah, sì, due! Ma la signorina Acre è in uno stato semiisterico, rifiuta persino di guardare le foto segnaletiche; e l'agente... ah...» «O'Hara, signore!», lo aiutò il Capitano Travers, che era segretamente deliziato dell'opportunità di mescolarsi alla crema della burocrazia e intendeva far notare a tutti la sua presenza. «Grazie, Capitano. L'agente O'Hara ci racconta una storia stupefacente, su questo sospetto che l'avrebbe buttato a terra con la forza di... ah...» «Tarzan», supplì Travers, modernizzando innocentemente la metafora del Commissario, che intendeva riferirsi a Ercole. «Ma io conosco O'Hara come un uomo sobrio e affidabile, signore; come tutti gli uomini del mio Distretto.» Il Commissario sorrise. «Devo congratularmi con voi, Capitano. Rispetto i membri fidati della vostra squadra, compreso voi, Capitano, ma... ah... se voi foste al mio po-
sto, adesso...» «Se l'agente O'Hara dice che un nanerottolo l'ha buttato a gambe all'aria sul marciapiedi, allora è accaduto, signore!» La faccia del Capitano era bianca, ma la fermezza della mascella non era indebolita. Il Commissario si fece rosso in volto e i componenti del suo staff agitarono nervosamente i loro corpi. Intervenne lo squillo attutito del telefono. «Pronto», disse il Capo della Polizia. «Sì, benissimo. Ho lasciato istruzioni di informarmi riguardo a qualsiasi identificazione... Cosa?... Blu?... Molto bene, Sergente... Sì, chiamatemi se ci sono novità.» Rimise a posto il ricevitore e si voltò verso il gruppo che taceva. «Quella donna, Rosalie Acre, doveva essere in uno stato mentale evidentemente alterato», annunciò. «Era uno degli uomini che si trovano con lei in ospedale, e diceva che racconta cose sconclusionate a proposito dell'uomo che ha suonato alla porta ed ha chiesto di Hazlitt. Secondo lei, aveva la faccia blu. La pelle blu, ripete. Probabilmente un riflesso della luce del corridoio. O'Hara ha fatto cenno a strane colorazioni, Capitano?» «Ha detto soltanto che l'uomo appariva molto pallido.» «Bene, allora... eravamo al movente. Che cosa potevano avere in comune Herman Wexel, un uomo di indiscussa reputazione, e Hazlitt, un rimestatore di scandali ai danni di tutti? Forse i due omicidi non sono affatto collegati.» «Stavo pensando, signore...», annunciò inaspettatamente un investigatore. «Davvero? Grazie.» Il tono del Commissario era sarcastico. «Stavo per chiedere a qualcun altro di voi di fare lo stesso.» «Non volevo parlarne prima di aver esaminato tutti gli elementi a disposizione», disse sudando l'agente, consapevole del fatto che tutti gli occhi erano puntati su di lui. «Vedete, stavo pensando al terzo uomo. Dapprima non riuscivo a ricordarne il nome. Dovrebbe... dovrebbe essere il prossimo a scomparire!» «Il prossimo!» Nell'angusto spazio della stanza su udì quasi il rumore dei nervi che si tendevano. «Sì, signore. Due mesi fa questo professor Wexel condannò pubblicamente le ricerche di un altro collega, e voi sapete come i giornali della domenica amano impadronirsi di queste controversie scientifiche, quando le
acque ristagnano. Ci stavo pensando, e ora mi ricordo che Hazlitt intervenne nella faccenda e per una settimana o due prima che la cosa morisse ci ricamò su delle storielle. Potrebbe esserci un legame.» «Storielle!», esclamò il Capitano Travers. «Anche Rosy Acre ha parlato di una storiella!» «Non che ci fossero minacce o cose del genere», proseguì l'uomo. «Ma ho letto nel Daily che questo tipo dalle idee bislacche si era arrabbiato con Wexel perché aveva stroncato la sua teoria. In seguito se la prese con Hazlitt che lo aveva ridicolizzato, e minacciò di citarlo in giudizio, dicendo che il giornalista aveva distrutto le sue possibilità di far pubblicare un volume con queste teorie. Un editore, Philip Amherst, rifiutò infatti di stampare il libro scritto da questo professore, adducendo a motivo il fatto che qualcosa che era stata data in pasto al pubblico ed apertamente messa in ridicolo dai giornalisti non valeva neanche il costo della carta usata dalla tipografia. In un primo momento Amherst aveva preso in considerazione l'idea di pubblicare il saggio; rifiutò all'ultimo momento. Così il professore andò di nuovo su tutte le furie.» «Come si chiamava questo pseudo-scienziato?» «L'ho dimenticato, signore. Vedete, tutta questa faccenda è accaduta molte settimane orsono. Non ne avrei mai saputo nulla, se una domenica non avessi sentito scherzare i miei ragazzi, e non ci avrei più pensato, se non fosse stato per questi due omicidi.» «Ricordate almeno a che cosa stava lavorando questo scienziato, oppure quale misteriosa e fantastica teoria aveva elaborato?» «No, signore, tranne il fatto che aveva a che fare con la concentrazione dell'energia in molecole o atomi compressi. Pretendeva di poter concentrare tanta energia nelle mandibole di una formica, che questa sarebbe stata in grado di fare a pezzi un elefante, se solo avesse potuto allargare a sufficienza la bocca. I supplementi della domenica hanno sfruttato ben bene la faccenda, facendo fiorire una marea di chiacchiere. Questo tipo affermava di poter sbalordire il mondo e quando Amherst dichiarò di non essere affatto impressionato, il professore si indignò e giurò che l'avrebbe impressionato, fosse pure stata l'ultima cosa che avrebbe fatto da vivo.» «Datemi l'indirizzo di casa di Philip Amherst, di Amherst e Dion, editori!», stava ordinando il Commissario all'Ufficio Informazioni. «In fretta!» Mantenne il ricevitore all'orecchio e fece cenno col capo al Capitano Travers. «Strano, non è vero?», chiese, e l'agente sapeva che non aspettava nes-
suna risposta. «Gli uomini non credono a una cosa semplicemente perché non sono in grado di capirla. Eppure voi giurereste sul fatto che un piccoletto ha potuto buttare a gambe all'aria uno dei vostri uomini più grossi solo sulla parola di quell'uomo, anche se menti eccelse con quella di Wexel ne hanno escluso la possibilità - Pronto! Pronto! Vorrei parlare col signor Philip Amherst. Immediatamente. Qui è il Commissario di Polizia... ah... chi parla? Sì, signor Amherst. Spiacente di disturbarvi a quest'ora pazzesca.» Quelli vicini alla scrivania trattennero il respiro, riuscendo ad udire persino le vibrazioni della risposta. Il Capitano Travers si sporse in avanti per ascoltare. «Ma quale efficienza, mio caro Commissario!», lo salutò la voce all'altro capo. «Ero sul punto di chiamarvi per chiedere l'aiuto dei vostri straordinari uomini e dal nulla viene fuori che siete già a conoscenza del fatto che ho bisogno di un protettore in uniforme. È incredibile! Meraviglioso!» «Signor Amherst!» Il tono del Commissario ricordava quello di certi presentat'armi in tempo di guerra. «Siete solo?» «Non esattamente. Ma in pratica, sì. C'è un tipo piccoletto che si è appena infilato qui dentro per informarmi che sta per uccidermi. Ecco perché stavo per comporre il numero della più vicina stazione di Polizia, quando avete chiamato. Ma non vi allarmate. Sto telefonando da un lato della scrivania del mio studio e lui è seduto dall'altro. Tra noi c'è un'affidabile trentotto, carica. Non che ce ne sia davvero la necessità. Ne ho conosciuti altri, del suo genere, e sono sempre stato capace di far capire loro che non sono un uomo che dei fanfaroni possano svegliare all'alba e costringere ad ascoltare teorie insensate. Certo che questi ingegni sono prodigiosi nell'eludere la sorveglianza e i sistemi d'allarme che ho fatto installare. Ad ogni modo, adesso deve aver capito, perché se ne sta qui seduto con una smorfia idiota sulla sua faccia da folletto. Sembra che gli piaccia la descrizione che sto dando di lui!» «Signor Amherst! Chi è l'uomo seduto dall'altra parte della vostra scrivania?» «Mi sembrate ansioso, Commissario. Volevo chiedervi perché avete chiamato; spero che non sia accaduto qualcosa ad un mio familiare... Questo tipo? Oh, è un innocuo vecchio professore di filosofia, faceva parte del corpo insegnanti dell'Hartmoor College. Vedete, insegnava metafisica, e questo deve avergli dato alla testa. Si occupava della scienza dell'espres-
sione muscolare astratta, e così via. La cosa gli ha dato alla testa e se ne è uscito con un libro così pazzoide che persino il più giovane dei miei lettori di manoscritti lo avrebbe immediatamente respinto. Ne ho letto un po' perché non mi è mai piaciuto quel mangiafuoco di Wexel, che tuona su qualsiasi piccolezza che gli capita di non condividere. L'avrei addirittura pubblicato, costasse quel che costasse, solo per suscitare scalpore. Le critiche sono una specie di pubblicità gratuita. Ma un giornalista ha imbastito tanti e tali di quei sarcasmi sulle teorie e le conclusioni del libro, che ho abbandonato del tutto l'idea. Così adesso lui è qui a minacciarmi di morte violenta e non ha neanche un'arma! Vorreste essere così gentile da mandare qualcuno a prenderlo? Ho tanto sonno che comincio a vedere blu!» «Blu? Che cosa vedete blu?» «Che diavolo... scusatemi Commissario, ma sembra che tutta la città sia impazzita, stanotte. È una domanda sciocca, ma effettivamente vedo blu. Immagino che sia dovuto alla luce, o a quelle illustrazioni che stavo esaminando prima di andare a letto. È la faccia del professore che sembra blu alla luce della lampada da tavolo; forse è anemico. È un tipo buffo, e mi sto ancora chiedendo come sia riuscito ad entrare. Mi ha informato di aver ucciso Wexel e poi non ha detto più una parola. È davvero strano che un uomo possa ridursi a un perfetto idiota, non...» «Amherst!», urlò il Commissario, interrompendo le volubili chiacchiere dell'editore. «Ha veramente ucciso Wexel! Adesso ditemi chi è!» Ci fu un attimo di silenzio, prima che l'eminente editore parlasse di nuovo con voce alterata. «Non posso crederci! Wexel morto... questa mammola un assassino? No! Il professor Lucian Peters può arrabbiarsi, ma scommetterei che non farebbe male ad una mosca. Non ha mai fatto del male a nessuno. Tutta la sua vita, mi ha raccontato una volta, l'ha trascorsa a lavorare su esperimenti che dimostrassero come le menti più elevate possono controllare i riflessi muscolari; una strana teoria sulla mosca e l'elefante, il forte e il debole, la superiorità del cervello sulla materia; insomma il rimaneggiamento di antichissime favole. E se voi pensate che il piccolo Lucian somigli a un lottatore greco, mi spiace deludervi, Commissario, perché sono sicuro che non avrà mai un posto nella vostra collezione di criminali... Mi dispiace anche per le vostre ambizioni, Lucian. Non sarete mai nient'altro che un ospite dei patri manicomi.» «Amherst», ruggì il Commissario nel ricevitore, «Tenete la pistola puntata su di lui! Tenete la scrivania tra voi due finché non arriviamo lì!»
«Ma, non c'è nessun pericolo... sedetevi, professore! Vi ho detto di sedervi. Maledetto pazzo, devo spararvi?» Dei rumori acuti echeggiarono attraverso i fili, fino alle orecchie del Commissario, prima che si udisse un suono attutito, come uno scatto. Dall'altro capo del telefono una voce disse «Ah-ah-h-h!». I poliziotti nella stanza fissarono il sudore che imperlava copiosamente la fronte del loro superiore. «Amherst! Signor Amherst!» «Era l'ultimo, signore», disse una voce nuova, stranamente serena, nell'altro ricevitore. «Adesso è tutto finito, grazie. Addio.» «Amherst!», strillò il Commissario. Poi, con una luce selvaggia negli occhi, gridò: «Peters! Siete lì?». All'altro capo del filo una mano abbassò silenziosamente il ricevitore. 4. L'inevitabile ultima impressione L'alba si distese sui tetti della città, prima che gli insonnoliti e confusi investigatori avessero raggiunto la casa in cui Philip Amherst giaceva morto col collo rotto e una faccia sconvolta dall'orrore. Il volto del Commissario sembrava scolpito nel marmo. L'omicida non aveva svegliato nessuna delle tante guardie e servitori dell'editore, e non aveva forzato una sola porta né una sola finestra per mettere in atto il suo sinistro proposito, ossia ottenere col famoso editore un colloquio da concludere con la rottura del collo dell'editore suddetto. «Trovate la casa del professor Lucian Peters e circondatela», ordinò il Commissario. «Ma non vi fate irruzione! Se lui dovesse venir fuori - chiunque dovesse venir fuori - seguitelo, ma non tentate di arrestarlo. Troppi colli rotti!...» Un sole ambrato sorgeva sulla città semiaddormentata, mentre il Commissario, seguito da due macchine e da una pattuglia di motociclette, correva sull'asfalto verso la casa a due piani in cui abitava il professor Peters. L'abitazione era a due buone miglia fuori della città. «La nostra giurisdizione non si estende fin lì», protestò il Capitano Travers, senza far caso all'espressione decisa dei propri colleghi. «Amico mio, abbiamo l'autorità di difendere gli interessi umani, fin dove si estende la loro giurisdizione!», affermò il Commissario. La casa del professor Peters era una vecchia bicocca che sembrava sul punto di crollare. Le finestre non avevano tende e le condizioni del vialetto
d'ingresso indicavano miseria o un'estrema trascuratezza. Fiancheggiato da uomini che impugnavano perplessi fucili e pistole, il gruppo del Commissario salì gli scalini rotti di una veranda in rovina ed entrò in una squallida cucina in disordine. Più avanti c'erano il soggiorno e la stanza da letto, ugualmente disordinate e ingombre di ponderosi volumi scientifici. I grossi libri erano sparsi dovunque, su tavoli, mensole e per terra. Il camino era pieno di un mucchio di fogli su cui una mano tremolante aveva tracciato un'infinita serie di equazioni algebriche. Evidentemente lì doveva aver vissuto a lungo qualche studioso che ignorava inezie come l'ordine e la pulizia, e persino il cibo, visto che rimanevano dei biscotti sbriciolati, inzuppati in un liquido torbido che forse una volta era stato caffè. Qualcuno disse: «Al piano di sopra», e con l'assenso del Commissario, precedette i suoi uomini. E lì trovarono il professor Lucian Peters che pendeva da una trave, blu in volto e del tutto ignaro del loro arrivo. «Si potrebbe rintracciare O'Hara?», chiese il Commissario. «Vorrei che lo identificasse con certezza. Riesce quasi impossibile credere che quest'uomo sia il responsabile di una serie di delitti!» «Amherst lo ha nominato!», insisté il Capitano Travers. «E O'Hara è qui fuori. Non sareste riuscito a mandare a casa quel cocciuto di un irlandese neanche se lo aveste minacciato di ridurgli la paga!» «Fatelo entrare!» Se si fosse trattato di un'ispezione, l'agente O'Hara avrebbe tremato fino alla punta dei piedi, ma in quel momento, davanti ai dignitari cittadini, non aveva alcun timore. I suoi occhi erano fissi sul corpo che dondolava appeso al soffitto e le sue narici fremevano come quelle di un cane da caccia a pochi metri dalla preda. «Fine della storia», disse, come se stesse parlando tra sé e sé. «Suicidio. Mi chiedo perché abbia abbandonato la partita.» «O'Hara!», scattò il Commissario. «Puoi identificare questo... quest'uomo?» «Ma, è lui, naturalmente. È il piccoletto che mi ha sollevato come una piuma ieri sera.» Nella stanza ci fu un breve silenzio che la voce rauca del medico legale ruppe come un'ondata che si abbatta improvvisamente su una calma laguna. «Io insisto, Commissario», dichiarò l'esausto seguace di Ippocrate,
«quest'uomo, questo Lucian Peters, si è impiccato più di quarantotto ore fa.» PATRICK CARLETON La stanza del dottor Horder Anche se è uno dei più piccoli, il College dei santi Cosma e Damiano non è certo il più recente fra quelli dell'Università di Cambridge. Originariamente fondato grazie alla sovvenzione di una nobile signora ai primi del XV secolo, deve - come numerosi fabbricati delle due Università - le caratteristiche più salienti della sua architettura e della sua struttura all'impegno e al fervore di un famoso direttore del College. Parliamo del dottor Nicholas Horder il quale, come il suo eminente contemporaneo dottor Caius, sembra quasi aver rifondato e ricostruito interamente il College affidato alla sua direzione. A lui si deve, pare, la muratura in mattoni rosso vivo dei due cortili più antichi del College; è a lui che i membri del College, nella loro annuale Festa dei Fondatori, porgono i ringraziamenti per le cospicue sovvenzioni grazie alle quali possono permettersi di cenare a base di brodo di tartaruga e cigno arrosto, serviti con stoviglie d'argento; e il suo stemma, disposto fianco a fianco sullo stesso scudo con quello della Fondatrice originale, sovrasta le porte del College. È una strana e deplorevole circostanza che quasi nulla si sappia della vita e dei precedenti di questo esimio studioso. Nato intorno al 1508, si laureò nel College di cui, nel 1527, doveva essere nominato Master. Sembra che, successivamente, per qualche anno abbia proseguito i suoi studi all'estero, particolarmente all'Università di Toledo dove apprese non solo l'ebraico e l'aramaico ma anche l'arabo, idioma allora scarsamente diffuso in Europa. In seguito si recò in Turchia - risulta che nel 1533 fosse a Costantinopoli - e, al suo rientro in Inghilterra, venne ammesso come Fellow nel suo vecchio College. Nel 1548 l'allora Master, il dottor Foxhill, venne improvvisamente a mancare e al suo posto fu nominato il dottor Horder che si dedicò immediatamente a ricostruire il College. I vecchi edifici, che risalivano all'epoca della fondazione, furono abbattuti senza pietà, e al loro posto sorsero due splendidi cortili, circondati da edifici di mattoni con cornici d'angolo di pietra bianca e finestre a battenti, un ingresso turrito e una cappella di proporzioni imponenti. Di fronte alla cappella, sul lato nord del primo cortile, si trovava la casa
del dottore, un alloggio abbastanza modesto che consisteva unicamente in tre grandi stanze rivestite di pannelli di legno al primo piano, cui si accedeva mediante una scala ripida e angusta. Qui visse ed esercitò la propria autorità per il sorprendente periodo di ben sessantasette anni, fino a quando, cioè, anche calcolando per difetto, aveva superato di parecchio i cent'anni. Quanto ancora avrebbe potuto godere la propria opera è impossibile a dirsi. Venne trovato ai piedi della scala che conduceva alle sue stanze una mattina dell'anno 1615, con l'osso del collo spezzato e il cranio fracassato, ovviamente come risultato della caduta. La sua tomba, che si trova sul lato sud della cappella, è contraddistinta da una lapide incisa. A dire il vero sembra che in quel periodo aleggiassero in permanenza sul College le oscure ali della morte. Durante gli ultimi quarant'anni di governo dell'eminente dottore vi morirono non meno di cinque alunni e uno dei pochi documenti dell'epoca giunti fino a noi parla della commovente omelia pronunciata dall'anziano Master al funerale dell'ultimo di loro, sul testo Ricordati di Colui che ti ha creato nei giorni della tua gioventù (Ecclesiaste XII-1). Ma è tempo ora di abbandonare questa esplorazione della storia del College per dedicarsi a un tipico pomeriggio di Cambridge - grigio, umido e incerto - quando due membri del Corpo Direttivo del College stavano discutendo sulle linee da seguire nel prossimo trimestre. Il più giovane, il signor Milligan, era Dean e Senior Tutor, mentre il più anziano, il dottor Hollywell, era più che altro famoso per i suoi studi sulle parafrasi aramaiche del Vecchio Testamento. Le rare volte in cui era possibile disseppellirlo dal suo studio, teneva dotte conferenze di cui non si riusciva a sentire una parola, sull'Esegesi del Vecchio Testamento e corsi di lingua ebraica per gli studenti di Teologia. «Allora, Hollywell, che gliene pare del suo nuovo alloggio?» «Scandaloso», rispose il dottor HoIIywell. «Il fatto è, Milligan, che non vogliono apprendere. Semplicemente, non se ne curano.» Il Dean conosceva il suo uomo. «Il suo nuovo alloggio, HoIIywell, non i suoi nuovi studenti.» «Eh? Quale alloggio? Cosa c'è che non va? Non ne ho sentito parlare. Nessuno mi dice mai nulla.» «Il suo alloggio, nel secondo cortile; le piace?» «Ah... quello! Grazie, sì, molto comodo e piacevole, molto confacente. Non ho mai potuto sopportare le stanze di Horder; lietissimo di esserne fuori. Chi le occupa adesso, eh? Uno di quegli orrendi scienziati ai quali
oggi concediamo borse di studio, immagino. Mi stia a sentire, Milligan: il Tempio del Signore è diventato un covo di scienziati. Scandaloso!» «A dir la verità abbiamo deciso di non assegnarle a un altro membro della Tavola Alta1 ma a uno dei borsisti del secondo anno.» Il dottor HoIIywell alzò il testone calvo sgranando gli occhi in faccia al Dean come se lo vedesse per la prima volta e trovasse lo spettacolo malsano. Chiese scandendo le parole: «Ho capito bene, Milligan? Lei mi sta dicendo che il mio vecchio alloggio - la stanza del dottor Horder - sarà assegnato a uno studente?». «Sì. Ci andrà ad abitare Lake: quel giovane borsista di materie classiche. È giusto che tutti i borsisti alloggino nel College, non crede?» La voce già fessa e tremula del dottor HoIIywell gracchiò come quella di un pappagallo. «Ma bene! Sono Fellow di questo College da quarantacinque anni e non ho mai sentito prima d'ora nessuno - dico nessuno - avanzare la proposta che a uno studente sia consentito di occupare l'alloggio di Horder. Parola mia, Milligan, non capisco cosa le sia venuto in mente. Ma come, ricordo che il vecchio Master diceva... Ma questo adesso non importa. Mi faccia una cortesia, Milligan, mi tiri fuori il Registro Consuntivo per... vediamo un po'... per l'anno millesettecentosessantadue.» Quando, dopo ulteriori recriminazioni che, da parte del dottor HoIIywell, consistevano esclusivamente nel ritornello «nessuno mi dice mai niente», il registro venne fuori, il vecchio cercò una nota, scritta in eleganti caratteri latini, con un inchiostro ormai sbiadito, che diceva: «È convenuto: che i locali del dottor Horder non siano più assegnati come alloggio a persone in statu pupillari, ma vengano assegnati ai membri Anziani del College». Il Dean emise un gemito fra sé e sé. La memoria di Hollywell per gli inutili meandri della storia del College era una proverbiale seccatura. Rispose pazientemente: «Bene, bene. Non l'avevo mai notato prima. Ma del resto non può pretendere che ci sentiamo ancora vincolati a una disposizione così antiquata. Autre temps, autres moeurs, come si dice». «Non venga a tirarmi fuori il suo francese», lo rimbeccò il dottore, «e non le venga in mente di mettere uno studente nelle stanze del dottor Horder. Il rispetto del passato ho smesso da un pezzo di cercarlo; ma il buon senso è buon senso. Sono certo che dietro a tutto questo ci sono quei fisici, o scienziati, o biochimici, o comunque si definiscano.» Povero vecchio Hollywell, pensò il Dean con tristezza, era davvero una
cosa tragica come stesse crollando. Frank Shelton stava bevendo birra e si guardava intorno ammirato. «Questo è il Ritz», disse lentamente, «né più né meno che il Ritz, Peter. Immagina un po', darti due salotti solo perché sei un pidocchioso borsista mentre io me ne sto rannicchiato fra le aspidistre a Hills Road, a litigare con la mia padrona di casa per il prezzo del bacon. Sei proprio un fortunato bastardo.» Peter Lake sorrise, stiracchiandosi. Era un bel ragazzo di ventun'anni, snello e robusto, con gli occhi grigio-azzurro e una massa di ricci biondi. «Come alloggio non c'è male», ammise. «Lo sapevi, Frank, che una volta ci viveva quel vecchio tizio che ha costruito il College? Si ruppe il collo cadendo giù da quelle scale. Quello che succederà a te se continui a ingozzarti di birra.» «Allegra, come idea! E il suo spettro gironzola da queste parti?» «Non tanto da farci caso. Un tipo molto pio; probabilmente, se ne sta sano e salvo in Paradiso. Aveva abbastanza buon gusto nella decorazione interna, debbo dire.» E in effetti il salotto, che le autorità del College avevano arredato nello stile d'epoca, era davvero imponente. La pareti erano ricoperte fino in alto da pannelli di quercia, e la pesante mensola sopra il camino era arricchita da mascheroni e ghirlande e sorretta da due pilastri o cariatidi, con delle grottesche teste cornute - satiri, senza dubbio, o fauni. Il vecchio impiantito scricchiolava un po' sotto i passi, e tutto denunciava, con dignità ma inequivocabilmente, il peso degli anni. Era un ambiente forse un po' tetro, un po' incline a trattenere le ombre negli angoli e quasi se mi si passa l'espressione - ad evitare lo sguardo come un cane che si sente in colpa. Ma era un'impressione senza dubbio dovuta ai pesanti e spessi paralumi che schermavano le lampadine. «L'altra notte», disse Shelton, «ho fatto un sogno maledettamente strano.» «Che hai sognato?», chiese il suo anfitrione. «Ho sognato che andavo in bicicletta giù per Petty Curry, in pigiama, e suonando un sassofono. Poi, la scena è cambiata all'improvviso ed ero diventato il vescovo di Birmingham. E non mi ricordo che è successo dopo.» «Probabilmente c'è qualcosa di disgustosamente sbagliato nel tuo subcosciente. A dir la verità, ho fatto un sogno anche io.»
«Allora, dammi l'occasione di ricambiare il complimento.» «D'accordo. A dire il vero anche quello era un sogno maledettamente strano e piuttosto disgustoso. È cominciato con un fetore terribile - ti sei mai sognato un odore? io no - e poi sentivo distintamente qualcuno che mi tirava via le coperte dal letto. Mi sono svegliato e infatti avevo scalciato via tutte le coperte e stavo tremando dal freddo. Ma era terribilmente reale, finché è durato.» La spiegazione avanzata da Shelton era assai scurrile, e la conversazione prese una piega nella quale non è necessario addentrarsi. Henry, il custode-capo del College dei santi Cosma e Damiano si spinse indietro la bombetta sulla nuca e strizzò gli occhi. Poi, nella quiete mattutina del cortile, gridò al suo assistente: «George, qualcuno è stato in cappella stamattina?». George, che stava smistando la posta nella guardiola, fece cenno di no. «Beh, allora è proprio strano, perché qualcuno è andato ad aprire la porta chiusa a chiave, e giuro che non sono stato io, e nemmeno tu.» «Nemmeno io. Ma ti eri ricordato di chiuderla a chiave ieri sera?», disse George sbuffando. «Da quanto tempo lavoro qui? E quante volte mi sono scordato di chiudere a chiave qualcosa? Qualcuno è entrato; poco ma sicuro.» «Sarà stato il Reverendo.» «Lui, che non mette mai i piedi fuori dal letto prima delle nove se non quando c'è la funzione mattutina? No, è uno di quei mascalzoncelli, ecco chi è. Farò rapporto!» Nel suo comodo studio il Dean stava leggendo un vecchio libro; una ristampa, preparata su speciale richiesta delle autorità del College, di una serie di documenti che si riferivano alla storia della Fondazione. Il brano che in quel momento occupava la sua attenzione, tanto da fargli perfino dimenticare la colazione, era un'annotazione nel diario di un certo Master Richard Claye che era stato Fellow del College durante gli ultimi anni del rettorato del dottor Horder. E diceva così: È nuovamente piaciuto all'Onnipotente Signore Iddio di visitare questa povera Casa con un triste evento: oggi il giovane Andrewe Bonner, già alloggiato nel primo cortile, fu trovato dal suo sizar2 che era andato a ridestarlo, morto e freddo nel suo letto, non avendo a questo tempo più di anni XIX, ed essendo un onesto giovine Gentiluomo molto amato da tutti coloro i quali lo conosce-
vano. Ciò che ha profondamente rattristato noi tutti et in ispecie noi Master, perocché quando io e il professor Northe, appreso che avemmo il triste Evento dal detto sizar, gli imprestammo soccorso et comforto egli ci riguardò con sguardo di profonda cognizione, ripetendo isvariate volte (et quasi a se medesimo parlando) alcune parole nell'Idioma Ebraico (cui est molto aduso) et in appresso dicendo nella maniera più solenne: Mio Master, molto profondamente me ne dolgo. Et in verità tutti percepito aveano la notevole affezione che il detto sizar nutriva per il giovine Gentiluomo al quale prodigato avea ogni sorta di cortesie, il che molto richiamommi alla mente l'altro Tragico Evento di circa sette anni prima: intendo la Morte del giovine James Sturmie, anch'egli deceduto nel modo istesso, per il quale il nostro degno Dottore nutriva grande affezione, per quanto ricordo. Il Dean si strofinò la fronte. Strano, pensò, come a una deplorevole circostanza ne fosse seguita un'altra, nel primo cortile. C'era stata, naturalmente, la tragica fine del dottore, e poi quegli eventi nel XVIII secolo: una fatalità, senza dubbio. Sfogliò rapidamente il volume e trovò quello che cercava in un altro diario, ancora più arido e schematico, quello di un certo Randolph Gibbon, Fellow del College e, in seguito, Canonico ad Ely. L'annotazione, scritta dopo un vuoto di vari giorni, era chiara e concisa: «Discusso col signor Rose l'improvviso decesso del signor Harrison, dato che lui per primo aveva trovato lo sfortunato giovane. Mi disse che, a suo parere, era morto per qualche attacco di natura apoplettica, basandosi sul fatto che non lo aveva trovato a letto bensì accanto ad esso, sul pavimento, con i lineamenti orribilmente contorti. Fu il primo giovane ad alloggiare nelle stanze del dottor Horder, come l'alloggio venne chiamato, per quanto io ricordi, e gli era stato concesso perché era un Fellow-Commoner e perché il Master desiderava fare una cortesia al di lui Tutore, Lord Mountgraine. Era un giovane amabile e studioso, e la sua scomparsa è veramente sconvolgente. Dopo profonda riflessione, non credo sia errato supplicare una Onnimisericordiosa Provvidenza per la sua pace». L'annotazione era datata 1762, e il Dean ricordò con spiacevole tempestività che proprio a quell'anno, evidentemente dopo la morte di Bonner, risaliva la disposizione alla quale lo aveva richiamato il vecchio dottor Hollywell. Probabilmente, pensò, il giovane Lake era il primo studente dopo di allora ad occupare l'alloggio del dottor Horder. Hollywell senza
dubbio se ne era reso conto. Povero diavolo, pensò il Dean, sta diventando superstizioso. Credo quasi che si aspetti che una mattina troviamo Lake morto nel suo letto. Che il suddetto Lake fosse, al momento, ancora vivo e vegeto, apparve chiaro al Dean quando, alle dieci circa di quella sera, entrò nel primo cortile a prendere una boccata d'aria. Le finestre dell'alloggio del dottor Horder erano illuminate e si sentivano dei ragazzi ridere. Il Dean alzò rapidamente lo sguardo. Doveva mandare un custode a chiedere che facessero meno baccano? Ma no. Era una serata rigida e nuvolosa e c'era qualcosa di straordinariamente vitale in quella risonanza di felicità giovanile che si spandeva in quel buio sepolcrale. Lo faceva sentire vecchio. Ricordati di Colui che ti ha creato nei giorni della tua gioventù... cosa mai lo aveva fatto pensare a quel versetto? Doveva avere il fegato in disordine, perché il cortile gli sembrò assumere d'improvviso un aspetto molto sinistro e ostile. Quelle ombre, per esempio, intorno all'ingresso della cappella... si sarebbe veramente potuto definirle malefiche. Il Dean rabbrividì e rientrò in casa a passo svelto. Verso mezzanotte gli amici di Peter Lake cominciarono ad andarsene. Il primo a prendere congedo era stato Frank Shelton che viveva un po' distante dal College. Lake ricordava che, uscendo, gli aveva domandato ridendo: «Hai fatto altri sogni, Peter?». Avrebbe preferito che non glielo avesse chiesto. Aveva organizzato la festa proprio perché sentiva il bisogno di coricarsi con dei pensieri allegri. Il sogno si era ripetuto, la notte prima, con alcune varianti ancora più orribili. C'era stato di nuovo quel fetore nauseabondo e la sensazione che gli venissero delicatamente tirate indietro le coperte. E poi la certezza - che gli era rimasta nettamente anche dopo essersi svegliato - che qualcosa o qualcuno si chinava su di lui con una sorta di bramosia o di avidità spiacevolissima a ricordare. Girò lo sguardo per il sontuoso e tetro salotto nel quale era rimasto solo. La quercia scura dei pannelli rifletteva lo scintillio delle luci, e un'improvvisa fiammata nel camino sembrò disegnare un sorriso sui volti dei satiri che sorreggevano la mensola. Peter si sentì d'un tratto molto inerme e molto giovane. Si spogliò lentamente davanti al fuoco, cercando ogni sorta di pretesti per gingillarsi nella stanza, prima in maniche di camicia e poi in pigiama, rimettendo i libri negli scaffali, raccogliendo bottiglie e bicchieri vuoti e, in genere, riordinando tutto con una meticolosità che la donna delle pulizie
non avrebbe mai potuto lodare abbastanza. Alla fine però non gli rimase altra alternativa che andarsene a letto, il che fece; non con entusiasmo ma certo senza ripugnanza. La baldoria della serata lo aveva stancato molto, e ben presto si addormentò. George, il portiere che faceva il turno di notte al portone del College era avvezzo, anche se a denti stretti, a qualsiasi rumore connesso all'attività degli studenti. Era in grado di giudicare a orecchio e a notevole distanza il numero degli studenti che facevano gazzarra in una qualsiasi stanza, e quanto tempo ci sarebbe voluto prima che il Dean gli mandasse a dire di salire a prendere i nomi dei ragazzi. Quando, però, mentre faceva l'ultimo giro degli edifici prima di allungarsi con un sospiro di sollievo sulla branda in guardiola, sentì un grido provenire dalle stanze del dottor Horder, non pensò né a Dean né a disciplina. Al contrario, appena quel suono disperato si spense in un gorgoglio e un lamento quanto mai inquietante, si mise a correre. Raggiunte le scale nell'attimo in cui la porta esterna di quercia dell'alloggio di Horder veniva spalancata violentemente, cominciò a salire... e fu spinto da una parte, mezzo soffocato, da una sagoma pesante che si muoveva rapida ma senza alcun rumore. L'odore che emanava da quella cosa era così nauseante che rimase per qualche secondo boccheggiante e in preda a conati di vomito, nel punto dove gli era passata accanto. E così poté sentire le grandi porte della cappella, che lui stesso aveva chiuso a chiave un quarto d'ora prima, sbattere con un tonfo che riecheggiò per tutto il cortile. Peter Lake non morì. Anche se, quando lo trovarono svenuto a terra, a mezzo fra la camera da letto e il soggiorno adiacente, le sue condizioni erano molto gravi; ma il suo fisico robusto lo salvò e, nel giro di una settimana, fu in grado di raccontare quel poco - molto poco - che riferì a proposito di ciò che l'aveva ridotto in quello stato. Tutto era cominciato, disse, con l'ormai consueto incubo: il fetore, la sensazione che una figura china su di lui gli togliesse le coperte di dosso, e la sensazione di freddo che l'aveva svegliato. Insistette molto su questo punto, ossia che era completamente sveglio e cosciente quando si era reso conto che un corpo pesante e gelido, che emanava un fetore indescrivibile, giaceva disteso su di lui, con la bocca che si schiacciava famelica contro la sua, e gli serrava i polsi con le mani. Quando gli si chiede di descrivere dettagliatamente quell'orripilante compagno di letto, si limita a rispondere che la sua carne era umida e gommosa e che aveva una lunga barba incol-
ta. A questo punto, è impossibile immaginare cosa debba aver sofferto. Un terrore e una repulsione di gran lunga superiori a quello che chiunque altro abbia mai provato, gli avevano dato la forza di svincolarsi da quel flaccido e pur rigido abbraccio. Per motivi che possono già apparire chiari al lettore, sembra certo che, se non si fosse liberato, avrebbe seguito la stessa sorte del giovane Harrison. C'è ancora qualcosa da dire. Il giorno in cui Lake si fu abbastanza rimesso da poter raccontare la sua storia, la Direzione del College, nel corso di una seduta straordinaria, approvò all'unanimità due mozioni presentate dal Dean e appoggiate dal dottor Hollywell. Primo: in futuro, le stanze di Horder sarebbero state usate come dépendance della biblioteca del College, alla quale gli studenti avrebbero potuto accedere solo in ore stabilite. Secondo: si sarebbe dato inizio a lavori di riparazione del pavimento della cappella nel lato sud. I lavori cominciarono subito, suscitando non pochi commenti negativi nell'Università. La voce generale era che la rimozione dell'antico pavimento era stata condotta in modo così trascurato e irriverente da sfondare una tomba, mettendone sottosopra il contenuto. Qualcuno anzi sosteneva che un certo oggetto - generalmente descritto come un cilindro di piombo del tipo usato, a volte, per conservare dei manoscritti - ne era stato rimosso, e ora si trovava nelle mani del Corpo Direttivo. L'ultima scena di questa storia si svolge nella residenza del Master, una gradevole costruzione adiacente al secondo cortile e risalente all'epoca della Regina Anna. Nello studio, una certa sera, erano riuniti il Master, il Dean e il dottor Hollywell. Quest'ultimo teneva in mano un rotolo di pergamena vecchio e ingiallito, scritto in caratteri ebraici e avvolto intorno a un'asticella. Poco dopo, cominciò a parlare in tono più chiaro e incisivo del solito. «Il manoscritto che lei mi ha chiesto di esaminare, Master, è scritto in ebraico, senza segni diacritici, ed è firmato da un certo Cabalista il cui nome - Ahimelechben-Gittai - può non esservi familiare. Sembra che sia stato scritto a Costantinopoli al principio del V secolo, ed è intitolato SepherHennephesh che... che, con riferimento al contesto, mi azzarderei a tradurre Il libro dell'Essenza della Vita.» «E di che parla?», chiese il Master. «Col suo permesso, Master, non le farò la traduzione. L'opera è una sorta di commentario cabalistico o magico sul miracolo di Elisha. Dopo aver
descritto come il profeta si sdraiasse sul corpo del fanciullo morto e gli soffiasse l'alito di vita nella bocca, questo abominevole... hmmm, l'autore del libro, passa a discutere il processo inverso per cui, previe condizioni magiche minuziosamente specificate, egli sostiene che un uomo anziano potrebbe assorbire... hmmm... le essenze vitali di un giovane vigoroso e in tal modo prolungare la propria vita oltre la normale durata. Ci sono alcune formule e istruzioni. Sono efferate. Col suo consenso, Master...» Il dottor Hollywell, il cui volto appariva molto grave, si sporse in avanti e gettò il manoscritto nel fuoco che ardeva nel camino dello studio. Crepitò allegramente e presto fu ridotto in cenere. 1
Una tavola sopraelevata rispetto alle altre nel Refettorio dei College inglesi, riservata alle autorità del College e agli ospiti di riguardo (N.d.T.). 2 Borsista assoggettato un tempo nei College a lavori servili (N.d.T.). RONAL KAISER Il Principe Bianco Nei primi giorni del novembre 1912, l'esercito serbo, agli ordini del Generale Mishitch, si raccolse come una nuvola scura ai piedi del Monte Prilep. Il sole dei Balcani riversava una luce fredda, nevosa, sui fianchi della montagna, e tingeva in sfumature di grigio e marrone le aspre mura del castello di Marko. Dalla fosca, vecchia fortezza, i cannoni e le mitragliatrici turchi miravano minacciosi giù per le erbe del monte. La rossa bandiera dei turchi, con l'insolente mezzaluna e la stella, luceva in alto come una sfida. Dalle retrovie dei Serbi abbaiò un cannone, un sibilo tagliò l'aria, e una fontana di fumo e polvere zampillò davanti al castello. Chedo, il Portabandiera, inginocchiato nella prima fila dell'esercito in attesa, stringeva con le dita intirizzite il liscio e lucido fodero della bandiera di combattimento. Era un ragazzo di vent'anni, con i tratti grossi, la carnagione scura e gli occhi neri lampeggianti propri della sua razza. Il brontolio del cannone gli fece curvare le labbra in un rapido, fiero sorriso. Guardò, a destra e a sinistra, il pallido lampeggiare delle baionette dei suoi compagni e, guardando di nuovo i fianchi scuri e spogli del monte, i suoi occhi lampeggiarono cupi d'odio. Alzandosi in piedi, Chedo sventolò furiosamente la bandiera rossa, blu e bianca, e agitò un pugno contro i turchi. Un grido di esultanza si levò
tutt'intorno. Quegli uomini erano avidi di lotta fino alla morte. Ma l'orlo piatto di una sciabola toccò la spalla di Chedo. Il giovane si girò indietro. «Signorsì», esclamò e salutò. Un ghigno sul volto del Capitano Aganovitch, mostrò una sottile linea di denti bianchi. «Sta' giù, tu giovanotto», ringhiò. E quindi: «Ricordati, non un passo finché non do l'ordine!». Un secondo rombo e poi un terzo vennero da dietro. Chedo si inginocchiò di nuovo. Al di sopra della spalla, guardò l'ufficiale allontanarsi fra le truppe. «Faranno prima crollare a pezzi il castello, penso», disse. Vicino a lui il vecchio Mourok, il gouslar, sputò e brontolò nella barba grigia. «Non è questo il modo», borbottò rabbioso. «I turchi non possono affrontare le baionette... il freddo acciaio manda in acqua il loro sangue!» Era il vecchio Mourok che, accovacciato la notte presso i fuochi del campo, suonava il gousle, e alle sue limpide note cantava i poemi eroici dei serbi. Cantava dell'Eroe, il Principe Marko Kraljevitch, e del suo cavallo pezzato, Sharatz, dono di un veele della terra dei boschi. Marko e Sharatz, una meraviglia a cavallo di una meraviglia! Il vecchio Mourok cantava le gesta e le molte battaglie dei due; e cantava anche che non erano mai morti: il Principe Marko si era nascosto in una caverna vicino al castello di Prilep e qui dormiva, svegliandosi ogni anno per vedere se la sua spada era venuta fuori da quella roccia nella quale l'aveva affondata fino all'elsa. Qui Sharatz masticava la sua porzione di fieno che, a quell'ora, doveva essere già finita; di qui, un giorno, i due sarebbero risorti a scacciare per sempre i turchi dalla terra dei serbi. Chedo pensava a queste cose, ma non c'era posto per le leggende nella mente del Capitano Aganovitch mentre marciava verso le retrovie delle linee. Egli ascoltava invece il rombo a piena gola del cannone serbo. Quelli avevano più armi da fuoco e più potenti: era solo questione di tenere le truppe sotto controllo finché i cannoni avessero completato il loro compito. Aganovitch sapeva che i suoi uomini erano pieni d'odio contro i loro vecchi nemici e inebriati della recente vittoria. Bestemmiò fra i denti contro quel giovane matto, Chedo. Gli uomini potevano essere incitati molto facilmente a un attacco prematuro, disorganizzato! E quindi si sarebbe verificata una strage, la sconfitta,
il disastro. Un urlo selvaggio dal fronte fece voltare il Capitano. Vide le prime linee scure sul colle come un'orda rabbiosa, lucente di baionette. Aganovitch si mise a correre, con gli occhi incollati alla macchia di colore che andava avanti ed era la bandiera di Chedo. Ma ora l'intero Reggimento stava correndo attorno a lui. «Indietro!», urlò. «Indietro! È un ordine!» Sordi alle sue grida, i soldati correvano avanti, come orde impazzite, diritto contro il castello. Il Capitano sfoderò la sciabola e cominciò a colpire di piatto in tutte le direzioni. «Indietro! Giù! Fermatevi! Pazzi, cani bastardi!» Era inutile cercare di dare ordini. Correva dietro ai suoi uomini, urlando e supplicando. «Tornate indietro! Vi prego... è morte certa... sarete fatti a pezzi!» Un tuono dei pezzi da campo della fortezza ricoprì le sue parole. Aganovitch sentì la terra tremare mentre un grande getto di fuoco e di fumo veniva fuori dalla cima del monte. I serbi si lanciavano in quel crepitio di fuoco d'inferno. Il Capitano li vide cadere a dozzine. Il monte era diventato vivo, con figure marroni che correvano saltando sui cadaveri dei compagni caduti, andando avanti, incespicando e cadendo. Il Capitano Aganovitch chiuse gli occhi per non vedere quell'orrore. Il sangue gli si era gelato, le mani tremavano, e onde di disperazione gli ribollivano nel cranio. L'artiglieria serba aveva cessato il fuoco per non massacrare i propri uomini. Ai piedi del monte gruppi di ufficiali sgomenti e meravigliati si andavano raccogliendo... e quindi marciavano su per il colle a morire con i propri uomini. Il Capitano Aganovitch tirò fuori la pistola dalla fondina e si avviò con andatura rapida verso la fortezza. Chedo era alla guida di quel selvaggio attacco suicida. Inginocchiato sotto la bandiera, mentre guardava al di sopra della spalla l'ufficiale che andava verso le retrovie, udì un grido soffocato provenire dalla barba del vecchio Mourok. Girato il capo, Chedo vide, sul fianco del monte, una cosa incredibile, leggermente alla sua sinistra, che risaliva contro la pendenza del terreno nero e scosceso. Era come una nebbia, una nube incorporea e diffusa ma, a differenza della nebbia, luceva di una particolare luminescenza viva. Spalancando gli
occhi, Chedo poté distinguere una figura avvolta in quella nube eterea. Si sentì mancare il fiato; questa non era certo la normale umidità del mattino... Stringendo l'asta della bandiera, lottò contro un'onda di terrore superstizioso. Si voltò verso Mourok, che era caduto anche lui in ginocchio. «Cosa...?» «Lo sa Iddio!» E il vecchio si fece il segno della croce. Chedo si fece forza e guardò di nuovo verso l'apparizione. Ora la nebbia, diradandosi rapidamente, mostrò al suo sguardo attonito la vista di un uomo gigantesco in arcioni su un cavallo pezzato. Il cavallo batteva il suolo con gli zoccoli sollevando scintille, e la terra tremava. Una livida fiamma blu aleggiava davanti alle narici dell'animale. Sul cavallo c'era una sella ingioiellata fissata con sette cinghie. «È la fine del mondo!», balbettò qualcuno tra le file dei soldati. Il gigante si voltò leggermente sulla sella, e il suo enorme viso dalla nera barba guardò direttamente verso l'esercito serbo. Era un volto che esprimeva potenza e superbia, come deve essere il volto di un Re. Era vestito di un'armatura splendente di gemme, e gli cingeva le spalle un manto del bianco più puro. I capelli, scendendo sciolti sotto l'elmo, erano lunghi e folti, come quelli di una donna. Guardò lungo le fila dei soldati accucciati, finché i suoi occhi incontrarono quelli di Chedo e si fissarono; e a Chedo sembrò che gli occhi dell'uomo fossero due fornaci aperte che bruciavano con un fulgore insostenibile. Il giovane tremò come se avesse la malaria. Poi quegli occhi fiammeggianti trasmisero il loro calore febbrile ai suoi occhi, al suo cervello, al suo sangue. Chedo fece un passo avanti e uscì dalla fila, gridando come un ubriaco e con la bocca secca: «Marko! Principe!». Il gigante alzò un braccio possente verso il cielo. Nella sua mano brillava una mazza d'acciaio, d'argento e d'oro. Tre volte la mazza volteggiò nel sole del mattino in un gesto d'ira e di desiderio di sangue. Poi il gigante parlò, e il suo grido risuonò per il campo come una campana di bronzo: «Avanti!». Il destriero ruotò e, con un grande balzo, si avventò sull'erta. I serbi, prima due o tre, poi tutti insieme, gli corsero dietro. E per primo corse Chedo, e tanto da vicino che la sabbia e il pietrisco sollevato dagli zoccoli gli battevano sul viso. Correva agitando la bandiera, e urlando fino a far
scoppiare i polmoni: «Marko! Kraljevitch Marko! Principe!». Il suo cuore era pieno di fiera letizia. Correndo, gridando, deliranti d'eccitazione, le truppe sciamarono su per il monte. Poi le batterie turche risposero; e l'erta divenne una distesa di fiamme, di grandine d'acciaio e di sangue. Barcollante, accecato, Chedo andava avanti e gli altri lo seguivano... seguivano il cavaliere bianco nel fumo. Le pallottole fischiavano e piovevano, raffiche di fucileria assottigliavano le truppe avanzanti riducendole a gruppetti stracciati, uomini crivellati ondeggiavano e cadevano. Ma altri uomini arrivavano correndo a prendere il posto. «Allah il Allah!» Chedo poteva udire le grida dei turchi. Era ormai molto vicino alle mura. Qualcosa come un colpo lo urtò duramente all'inguine; sentì quindi il sangue caldo scorrergli a fiotti sulla coscia. Barcollò, tenendo ben alta la bandiera, diritta al di sopra del capo. «Principe!», gridò esultante. «Kraljevitch!» Incespicò e cadde ai piedi del muro della fortezza. Si rialzò e cadde di nuovo, appoggiando la bandiera contro il muro, con le dita che scivolavano sulle pietre. I serbi si arrampicavano tutt'intorno e avanti a lui. D'un tratto Chedo si accorse che il destriero si era fermato accanto a lui. Guardò in su meravigliato e vide qualcosa di delicato e tenero negli occhi del Principe Bianco e le sue labbra socchiudersi e sorridere. Un grande braccio coperto dalla lucente armatura si abbassò dall'arcione e prese la bandiera. Il cavallo pezzato s'impennò molto in alto, tanto in alto che le sette cinghie sembravano a molte leghe dalla testa di Chedo. Poi il Principe Bianco piantò l'asta dello stendardo in una fessura in alto sulle mura. Lo sguardo di Chedo si aggirava stanco e quasi cieco. Quando guardò ancora, il giovane vide il panno rosso, blu e bianco, sventolare orgogliosamente verso il cielo. Il Capitano Aganovitch sussultò stupito vedendo quei colori piantati sulle mura del castello. Vide anche che i turchi stavano fuggendo in rotta disordinata, folli di terrore. ...Era impossibile! Una carica alla baionetta aver ragione di una fortezza nemica! Ma comunque... I turchi fuggivano per salvare la vita. Il Capitano guardò lungo l'erta della montagna. Dopo i primi colpi, i serbi non avevano più subito gravi perdite.
Si avvicinò alle mura della fortezza. «Ben fatto e con coraggio!», disse. Poi, pensando alla violazione degli ordini da lui dati, esclamò aspro: «In ogni modo, Chedo, ti avevo detto... no, finché avessi dato l'ordine». Le labbra di Chedo si aprirono in un sorriso di dolore. «Ma signore, quando Kraljevitch Marko dà un ordine...», gli occhi gli si appannarono, tossì e non parlò più. Nota dell'autore L'attacco a Prilep può essere considerato la migliore storia di questo tipo di testimonianze autentiche, poiché migliaia di soldati la raccontarono a poche ore dai fatti. Harold Temperly, scrivendo sulla Contemporary Review dell'agosto del 1916, scredita la storia degli Angeli a Mons, ma dice di questa: «Dobbiamo accettare la genuinità della testimonianza dei Serbi». La storia dell'attacco, fornita dal Generale Mishitch entro un paio di settimane dall'evento, è riportata nella International Psychic Gazette del maggio 1918. C'è un accenno agli avvenimenti anche in W.M. Petrovich: New and Old Tales and Legends of the Serbians. Mi sono rifatto a questa fonte per la descrizione del leggendario Principe; scrivendo il racconto l'ho romanzato per presentare, attraverso Chedo, l'esperienza occorsa (o che sembra sia occorsa) a tutti i soldati durante l'attacco. Sappiamo da buone fonti che alcuni ascoltatori udirono i feriti all'ospedale discutere del miracolo la stessa sera dell'attacco, un tempo troppo vicino ai fatti per permettere la costruzione di una leggenda come avvenne per la difesa a Mons. LAURENCE JOHN CAHILL Caronte Lo so, tutti quanti avete sentito dire che c'è qualcosa di eccessivamente crudo e sanguinario nelle pagine di cronaca nera del Daily Express. È un quotidiano che non esita a dare in pasto ai lettori fotografie e particolari impressionanti. Non sarò io a negare l'evidenza, così come non posso negare il fatto che, a soli trentun anni, ho già i capelli grigi come il pelo di un tasso. Potreste pensare che sia stato il mio lavoro di reporter per il Daily Express a stressarmi fino a far sparire il nero dalle mie chiome. Oppure potreste dirmi che all'improvviso le radici dei miei bulbi piliferi si sono inde-
bolite. Un'ipotesi vale l'altra, per quel che ne so. Ma fare il reporter, resta il solo modo che conosco per riempirmi la pancia, un po' come certe dame austriache del Settecento mangiavano piccole dosi di arsenico per acquistare quel pallore che a quel tempo faceva tanto fine. È un lavoro che mi nutre e mi avvelena insieme. Non sono affatto fiero che il mio giornale ingrassi sui titoli che fanno sensazione, ma c'è un certo tipo di pubblico che vuole un certo tipo di notizie, e non è il Daily Express a inventarsele. Come ad esempio l'assassino che un paio d'anni fa usava un'accetta per tagliare la mano sinistra a tutte le sue vittime. O la S.S. Mistral, che entrò in porto a vele spiegate, senza un'anima a bordo e con un gran punto interrogativo dipinto sulla prua. O la banda di piccoli delinquenti di sette o otto anni, che addestrava due grossi alani a saltare alla gola ai poliziotti. O gli evasi che, inseguiti dagli agenti, si rifugiarono in una miniera abbandonata presso Aden City: le loro voci furono udite allontanarsi nel sottosuolo, e nessuno li rivide mai più. «Tutti i fatti di cronaca nera hanno qualcosa di sporco, di sanguigno, di strano, o di orribile», dichiarò McKenna. «Voi mettete in risalto questi elementi, ed io sbatterò la storia in prima pagina!» Come padrone, editore e capocronista del Daily Express, McKenna aveva tutto il diritto di dare ordini simili. D'altronde doveva pagare gli alimenti a due ex mogli, mantenere una villa con sei persone di servizio, e tre figli spendaccioni all'Università. Ma non ho ancora dimenticato la sera in cui il telefono suonò in redazione, verso le diciotto. Buona parte dei cronisti era già andata via, e McKenna stava rivedendo un pezzo seduto a una delle scrivanie. «Qualche novità, capo?», domandai. Lui non mi rispose. C'era silenzio in sala, fuori era buio e, anche da dove stavo, potevo udire una voce che ronzava nel telefono. Poi l'interlocutore riappese e, con un movimento lento del braccio, McKenna abbassò il ricevitore. Una cosa mi colpì nella sua mano: stava tremando. Lasciò il telefono, se la portò al taschino della giacca, e cominciò a rovistarvi dentro, quindi le sue dita ne fecero scivolare fuori un grosso sigaro di tabacco scuro. Se lo piazzò in un angolo della bocca, cercando di esibire fredda indifferenza professionale davanti a chi lo stava guardando. Sguardo duro, nervi di ghiaccio: ecco come gli piaceva apparire. Ma il suo accendino scattò a
vuoto cinque volte prima che riuscisse ad accendere. In un uomo come lui, la cosa era significativa. «Bill!» McKenna si schiarì la gola con un rumore di carta vetrata. «Voglio che tu vada fuori ad occuparti di una faccenda. E che Dio ti aiuti se ti lasci precedere da qualcun altro.» In fondo al locale c'erano altri tre colleghi tutti sul punto di tornare a casa e, nel sentire il telefono, si erano affrettati ad infilarsi la giacca. Ma si rilassarono quando McKenna si rivolse a me. Sulla sua faccia, tuttavia, c'era qualcosa che mi suggerì di non battermi un dito sull'orologio con aria significativa. «Okay, sentiamo», brontolai, avvicinandomi. «Tu sei un cronista in gamba, Bill. Il migliore che ci sia sulla piazza, sul serio», disse. Vedendo la mia faccia allarmata (sapeva che io sapevo che mi stava indorando la pillola) s'affrettò a inacidire il tono: «Devi scoprire cosa c'è dietro questa storia, e senza perderci tempo fino a Natale. È roba del West End. Adesso apri le orecchie: sembra che oggi qualcun altro stesse tirando le cuoia in casa sua, in Larchmont Avenue, sempre per questa epidemia d'influenza che sta facendo crepare la gente come le mosche. In qualche modo pare che un tipo si sia introdotto in casa di questo ammalato. Un tipo alto, vestito tutto di grigio. Questo sconosciuto è andato al capezzale del morente, e lì si è presentato affermando di essere l'Ambasciatore della Morte. Chiaro fin qui?». Accennai di sì, pazientemente. «L'Ambasciatore della Morte. Certo. Continui, capo.» «Bene. Questo tipo ha detto al malato che lui era venuto dall'altro mondo per aiutarlo a morire, e che dunque non c'era niente da aver paura. Morire, ha detto, è facile come bere un bicchier d'acqua: tutto il segreto sta nel sapere come. I familiari del malato non hanno fatto altro che ascoltarlo come rimbecilliti, perché nessuno sapeva cosa fare. Non volevano buttarglisi addosso e far scoppiare una rissa proprio lì, il che è comprensibile. Inoltre, il tizio parlava educatamente e come se avesse il cervello perfettamente a posto. Il malato è parso molto confortato da quello che gli diceva l'uomo, e da lì a poco è spirato felicemente. A questo punto l'individuo se ne è uscito come era entrato, e nessuno di quanti erano lì ha pensato di seguirlo.» Solitamente avrei commentato una cosa di quel genere con una battuta pungente, ma intuivo che lì c'era qualcosa di strano, di abbastanza macabro. Esattamente come McKenna, stavo fiutando il puzzo dell'inspiegabile,
così tacqui. «A quanto risulta, l'individuo non è nuovo a questo genere di imprese», continuò McKenna, sbuffando fumo. «L'altra settimana è comparso in altri posti, dove c'era gente in punto di morire. Ha tentato di entrare, ma gli è stata sbattuta la porta in faccia. Ma le voci circolano, e la gente comincia ad avere paura di questo tipo che se ne va in giro. Il nostro è il primo giornale ad aver avuto la segnalazione. La concorrenza è convinta che la Polizia stia cercando un comune ladro di appartamenti. Mi spiego?» Da come McKenna parlava, si sarebbe potuto credere che aveva l'abitudine di prendere i fogli di rame delle rotative per incidervi i titoli con i denti. «Se ci riesci, puoi vedere di seguire il tipo in qualche casa, tanto per studiare cosa diavolo combina», continuò. «Ma non ficcarti nei guai. Alla gente salta la mosca al naso come niente, in quelle situazioni lì. Cerca magari di farlo parlare. Ha detto di essere morto lui stesso già una volta, pare. Vedi di scoprire che accidenti significa.» Con mia sorpresa, McKenna aprì un cassetto e ne tirò fuori un'automatica. La spinse verso di me. «Non credo che ne avrai bisogno, però quello lì è un tipo strano, secondo me, e non si sa mai. Nel caso, vedi di montare la faccenda come fosse legittima difesa. Quello che voglio è una storia succosa.» La cosa mi piaceva sempre meno, tuttavia mi misi in tasca la pistola. Lui si passò una mano sulla faccia. «Aspetta un minuto, Bill.» Restai in rispettoso silenzio mentre ponderava. Un paio di minuti dopo fece un gesto vago col sigaro. «Il fatto è che, già due o tre volte, ci siamo fatti sorprendere con le brache in mano, stando dietro a storie che poi sono risultate fatte di niente. Se vedi che questa è una baggianata dello stesso genere, lascia perdere. Contentare i lettori va bene, ma non voglio sbattere il sedere in terra.» Questo mi stupì. McKenna era eccitato, dunque perché faceva tanto il cauto? In tono secco disse ancora: «So che tu capisci subito se una storia è buona». E dal suo tono seppi che avrei fatto meglio a trovarla buona davvero. «L'informazione mi è venuta da McCoy, a cui l'ha venduta un domestico di qualcuno, in Larchmont Avenue; e lui l'ha pagata cinque dollari.» Annuii: difficile che McCoy sbolognasse cinque dollari per una cosa che non valeva niente. McKenna puntò il sigaro verso l'uscita per indicarmi la direzione di marcia, poi se lo incastrò di nuovo fra i molari:
«Adesso vai. E portami qualcosa di concreto», concluse. «Va bene, capo.» Tolsi l'impermeabile dall'attaccapanni e uscii. Giunsi in Larchmont Avenue verso le sei e mezzo e, accorgendomi che sull'angolo con Arley Street c'era un drugstore col telefono, stabilii di fare lì la mia base di operazioni. Entrai nel negozio, acquistai una confezione di lamette da barba, e ne approfittai per sondare il commesso. «Ho sentito dire che da queste parti si aggira uno squinternato», esordii. «Pare che entri nelle case dove qualche poveraccio sta morendo, e che spaventi la gente. Roba da matti, eh?» Lui mi fissò con occhi freddi, da pesce lesso. «Ah, l'avete sentito dire. Giornalista, vero?» Sorrisi per mostrargli che apprezzavo il suo intuito. «Proprio così. Che c'è di vero nella faccenda?» Lui gettò un'occhiata alla porta, innervosito, e la sua strana esitazione mi fece rizzare le antenne. Non doveva essere un tipo ciarliero, inoltre era chiaro che per qualche sua ragione l'argomento non gli piaceva. «Perché dovrei saperne qualcosa?», borbottò infine. «E poi... preferisco tenere la bocca chiusa.» «E perché?», domandai. «Mi prendete per fesso?» Si versò un bicchiere di seltz, ne bevve un sorso e distrattamente versò il resto nell'acquaio. «Se ne sta occupando la Polizia. Io non voglio averci a che fare.» «I poliziotti sanno solo dirmi: No comment», brontolai, come se avessi trascorso tutto il giorno a battagliare con loro. «A me interessa quel che pensa la gente. E pare che qualcuno sia spaventato.» «Tutti lo sono. Salvo i morti.» «Che intendete dire?» Lui mise giù il bicchiere vuoto e si passò la lingua sulle labbra. «Quelli che sono morti non erano spaventati», ripeté, sottovoce. Dalla porta entrava uno spiffero d'aria gelida, ma non fu quello a farmi scivolare un brivido giù per il collo. «Potete spiegarmi cosa c'è sotto questa frase? Sarò tardo di comprendonio, ma non afferro.» «Io non vi ho detto niente, e non so niente», rispose lui, impaziente di vedermi levare le scarpe dal negozio. «Ho solo ripetuto una voce che circola in questa strada.» «Questo individuo doveva avere qualche affare sospeso con alcuni dei
morenti, no?», cercai di suggerire. «L'Uomo Grigio ha sempre qualcosa in sospeso con quelli che stanno per abbandonare questa vita», disse lui. «Cosa?», esclamai. «L'uomo chi?» «L'Uomo Grigio, così lo chiamano.» Strinse i denti, e sul suo volto apparve un certo rossore. «E se riesce a dirgli qualcosa... è perché lui sa qualcosa.» «Già, credo anch'io», volli ammettere. «Dov'è che lo hanno visto?» «Nella stanza da letto dei morenti.» «Intendevo prima e dopo. Da dove viene, insomma?» «Non è stato visto da nessun'altra parte.» Fui sul punto di tirar fuori matita e taccuino per annotarmi quel nome, o soprannome che fosse, poi ci ripensai. «Diavolo, se è stato visto in più posti vuol dire che gira da queste parti a piedi. Non arriva mica in elicottero, no?» «Già.» Il commesso rise, nervosamente. «Una cosa posso dirvela: ieri notte non gli hanno permesso di entrare in una casa. Dai Baxter. Il vecchio Baxter era con un piede nella fossa da tre giorni con quella influenza virale addosso, e soffriva terribilmente. Ed è morto gridando che voleva l'Uomo Grigio. Ha dato in smanie, si è agitato, ed è perfino caduto dal letto. Così è morto.» Quello era almeno un frammento d'informazione reale, solida. «Dove abitano i Baxter?» Il commesso mi diede l'indirizzo, con una certa riluttanza. Pagai le lamette da barba, lo ringraziai, e uscii. Nel West End c'era poco traffico quella sera. Piovigginava a tratti e, dalla parte del centro, l'asfalto era il solito mare di riflessi luminosi, ma Larchmont Avenue era scarsamente frequentata. A un isolato di distanza, vidi un poliziotto fermo all'incrocio. Dalla traversa opposta stavano risalendo a passi lenti altri due uomini, che riconobbi a naso come agenti in borghese. C'erano poche speranze che l'Uomo Grigio si facesse vedere. Con un sospiro mi avviai verso l'incrocio. Buona parte degli edifici della strada avevano molte luci accese, altri isolati erano invece completamente al buio. Mi chiesi quante famiglie fossero disposte a far confortare i loro morenti da quell'individuo. Dalle parole del commesso, avrei detto che qualcuno non era contrario. In vita mia non avevo mai sentito niente di simile. Anche sfrondata di ogni fantasia, la faccenda era ottima per tirarne fuori un articolo o due.
Poco dopo arrivai accanto al poliziotto in divisa, e mi accorsi che era una faccia nota. Dal suo sguardo seppi che anche lui mi aveva individuato, così non mi persi in preamboli. «Si è visto, il nostro amico?», chiesi. «No comment», brontolò lui. La colpa, come sapevo, era del Governatore dello Stato. Tutti quanti avevano visto con quale efficacia i suoi «No comment» azzittivano i giornalisti, e - un po' per scimmiottarlo, un po' perché il sistema funzionava - tutti i personaggi pubblici lo imitavano. Ma quel poliziotto non aveva la macchina col motore acceso in cui rimpiattarsi. «Ci sono delle difficoltà?», insistei. Lui sbuffò. «Nessuna difficoltà. Io quel tipo non l'ho visto qui intorno. E, per quel che mi riguarda, meglio se sta alla larga.» Gli sorrisi. «Che ordini avete?» «I soliti, no?» Scosse la spalle. «Arrestarlo. Possibilmente vivo.» Io azzardai una domanda, tanto per vedere che effetto avesse su di lui: «Vi aspettate davvero di prenderlo... vivo?». «Amico, avete voglia di scherzare?», borbottò, accigliato. Scossi il capo. «Né voi né io siamo stati mandati qui per scherzare, Sergente.» Lo vidi annuire più volte, con aria convinta, poi guardò su e giù lungo la strada. «Sono dannatamente d'accordo. In questo quartiere non c'è anima che abbia voglia di scherzare, di questi tempi. È pieno di anziani, e la febbre ha colpito duro qui. Si sente odore di cimitero.» «Ci sono state novità oggi pomeriggio? Altre visite da parte di quell'individuo?» «Nessuna, grazie al cielo!» Nella sua voce c'era una nota di autentico sollievo. Chiesi ancora: «Abbiamo un'idea su dove potrà farsi vedere?». «I posti sono troppi. Dovunque ci sono dei malati gravi, direi.» «Ma come fa quest'uomo a sapere in quale casa c'è un moribondo?» Il poliziotto scosse le spalle. «Qui in periferia non è come in centro. La gente si conosce, e chiacchiera molto. Probabilmente lui raccoglie i discorsi degli altri. I sintomi della malattia sono noti: quando qualcuno è ormai condannato, tutto il quartiere
lo sa con ventiquattr'ore di anticipo.» «Voi come lo definireste un tipo simile?» «Un Banshee», mormorò lui, senza guardarmi. La sua risposta mi sorprese. Aveva un accento irlandese, e io sapevo che in Irlanda i Banshee sono gli spiriti che vengono a lamentarsi lugubremente presso chi sta morendo. Solo allora mi accorsi che quel poliziotto non aveva esagerato nel dire che si sentiva attorno un'atmosfera da cimitero. Quel servizio doveva piacergli poco. «Che voi sappiate, nelle vicinanze c'è qualcuno già... uh, sul punto di andarsene?» «Non negli isolati che devo controllare io», fu la risposta, in tono di sollievo. «Bene, credo che girerò ancora un po' qui intorno, Sergente. Buona sera», lo salutai. Lui si portò due dita alla visiera del berretto. Poi rimase lì, sotto il lampione. Lo invidiai: a me toccava passare davanti agli androni scuri delle case. Al di là dell'incrocio cominciava un tratto di strada alberata. Le chiome dei platani creavano un tunnel di tenebra lungo qualche centinaio di metri, e da molte finestre sentivo uscire un vago odore di medicinali che mi fece avvertire la presenza macabra dell'epidemia virale. Il vaccino non era servito a molto con chi già soffriva di polmoni, e su tutte le porte che vidi, c'era la cartella rossa del Servizio Sanitario che significava «casa contagiata». Non avevo fretta di recarmi in zone più salubri. Se c'era un posto buono per incontrare il tipo a cui davo la caccia, era quello. L'Uomo Grigio... Che razza di strano maniaco poteva essere uno cui piaceva assaporare gli ultimi momenti di vita dei malati? Se frequentava gli ospedali, la polizia avrebbe trovato troppi ostacoli per fare quel che faceva. E cosa faceva? Possibile che rendesse un moribondo lieto del trapasso? Assurdo, pensai. L'ipotesi più probabile era che fosse un adepto di qualche setta pseudo religiosa, tipo orientale, o uno di quei predicatori mattoidi che si aggiravano per le campagne nelle zone depresse. Uno squinternato del genere poteva essere pericoloso, o imprevedibile. Forse McKenna non aveva avuto torto a darmi la pistola. Comunque io non avevo la benché minima intenzione di usarla, anzi, l'idea di sparare mi ripugnava decisamente. Girai a sinistra in Riverbank Drive, una lunga traversa meglio illuminata. Fu allora che vidi il portone di un edificio, quattro isolati più avanti, a-
prirsi bruscamente. Nella luce che fiottava all'esterno, corsero fuori diverse persone che gesticolavano, e lontano risuonò il fischietto di un poliziotto. Mi affrettai a raggiungere il gruppetto, ma erano tutti così agitati che non riuscii a capire un accidente salvo il fatto di base: un altro povero disgraziato aveva esalato l'anima, e lui era stato lì. Arrivarono due poliziotti a piedi, e poi un'auto dalla quale scese un Tenente in borghese che abbaiò ordini vari. La gente fu fatta rientrare in casa e gli agenti cominciarono a interrogare i testimoni, ma ciò che avevo sentito era bastato per far imprecare me come il Tenente di Polizia: l'Uomo Grigio s'era dissolto come nebbia al sole. O era veloce, o qualche poliziotto di ronda aveva delle fette di salame sugli occhi. Ma lo spavento di quella gente mi si era appiccicato addosso. L'Uomo Grigio era arrivato e se n'era andato. Le sue mani umide e fredde - di nuovo aveva dichiarato di venire dall'Aldilà, quindi le immaginavo umide e fredde - avevano toccato ancora una volta quelle di un moribondo, mentre i parenti si tenevano lontani, incapaci di far altro che guardare inorriditi. La domanda restava: chi era l'Uomo Grigio? In quella casa cominciava ad esserci troppa Polizia e troppa confusione, cosicché decisi di andare all'indirizzo datomi dal commesso del drugstore, quello dei Baxter. Dieci minuti di cammino mi condussero all'estremità più lontana di Larchmont Avenue, e cercai il numero 703. Era un edificio a due piani e, dopo che ebbi suonato il campanello, vidi accendersi luci in quasi tutte le stanze della facciata, ma dovetti aspettare cinque minuti buoni prima di sentire il catenaccio scorrere. L'uomo che apparve sulla soglia indossava un paio di pantaloncini corti e impugnava un attizzatoio sporco di cenere. «Buona sera», mi affrettai a dire. «Sono un giornalista, e lavoro in collaborazione con la Polizia che si sta occupando del maniaco.» Tirai fuori il tesserino e glielo mostrai. «Mi riferisco all'uomo che sta disturbando questo quartiere. Potreste dirmi se...» «Io non vi conosco», m'interruppe lui, facendo oscillare l'attizzatoio. «Sono un reporter dello Star», mentii, richiudendo la tessera. «Andatevene!», borbottò. «Voi assomigliate troppo a quel tipo.» Restai a bocca aperta. «All'Uomo Grigio?», chiesi, con voce così sorpresa che suonò stupita alle mie stesse orecchie. L'altro si limitò a guardarmi storto. Cercai di sorridergli. «Beh, non sono certo lui. Se volete dare un'occhiata ai miei documen-
ti...» Non riuscii a dire altro, perché la porta mi venne sbattuta in faccia così all'improvviso che dovetti indietreggiare. Dall'interno la voce dell'individuo ringhiò: «Andatevene. Ho una rivoltella, e la so anche usare!». Decisamente, quello era un congedo chiaro. Mi allontanai, senza una meta precisa. Da lì a poco ero tornato sotto i platani, in un tratto di strada orlato anche da aiole erbose. Malgrado l'ora, non c'era un'anima in vista. E l'unica cosa che riuscivo a pensare era che non stavo cavando un ragno dal buco. Ero lì che riflettevo sull'opportunità di andare a farmi una birra, quando sentii lo scalpiccio. D'istinto mi accostai al tronco di un platano ma, per quanto sbirciassi attorno, non vidi che ombre. Il rumore di passi era lieve, dalla mia stessa parte della strada, e adesso distava una decina di metri appena. Poi, sporgendo la testa da dietro l'albero, lo vidi: era un individuo alto, vestito di grigio, e camminava con aria furtiva, quasi fosse ansioso di passare da una zona d'ombra all'altra. Trattenni il fiato e tesi i muscoli. Qualche secondo più tardi, appena mi ebbe oltrepassato, balzai fuori dal mio nascondiglio e lo agguantai con una mano per il colletto della giacca. Con una spallata lo spinsi contro il muro, e quindi cercai d'immobilizzargli le braccia intorno al corpo. Lui ansimò, difendendosi a calci e a testate, e cademmo in ginocchio lottando furiosamente. Per mia sfortuna una delle sue contorsioni mi fece sbattere la nuca contro il muro, e l'uomo riuscì a rialzarsi in piedi. «Tu... maledetto idiota. Sei ammattito?», sbottò. La luce gli consentiva di vedermi in faccia. In quanto a me, avevo riconosciuto la sua voce fin dalla prima sillaba. «Cristo!», borbottai, sfregandomi la nuca. «Meglio se te ne stavi a letto. Non è lì che passi le giornate? Che vieni fare da queste parti?» «La stessa cosa che ci fai tu.» Con un sogghigno Ted Corbett, reporter dell'Herald-Telegram, mi porse una mano e mi tirò in piedi. «Io stavo soltanto prendendo una boccata d'aria», dissi. «Vengo spesso a passeggiare da queste parti.» «Certo, certo!» Il suo sogghigno si allargò. «E mi sei saltato addosso perché all'improvviso ti è venuto l'impulso di fare un po' di lotta libera.» Si spazzolò i pantaloni. «Allora, che hai combinato di buono finora?»
«Niente di concreto», ammisi. «E tu?» «Per adesso meno di te. Ma mi hanno detto che l'amico è in circolazione. Dev'essere nelle vicinanze.» Corbett si accese una sigaretta. «Hai parlato con qualcuno che l'ha visto?» Ted Corbett scosse il capo. Fece un gesto vago, con aria scontenta. «Un ladro al lavoro, e qualche pizzardone armato di sfollagente che annusa il quartiere. Non mi aspettavo di trovarci te. McKenna crede forse di tirar fuori un titolo a sensazione da questa storia?» «Titoli a caratteri di scatola. Sottotitoli coi particolari impressionanti. Sangue sparso su otto colonne. Misteri. Punti interrogativi. La realtà della cronaca che supera la realtà dei fatti. Spaventali, fagli restare le uova e pancetta in gola a colazione, strinagli i nervi, fa' che ne parlino. E adesso buttati su questa storia, Bill!» Mi domandavo perché continuassi a lavorare per McKenna. Cos'altro faceva se non starsene seduto dietro una scrivania a leccarsi le zanne, attaccato al telefono come se il filo fosse una vena attraverso cui succhiare il sangue della città? Una volta lo avevo ammirato per il suo istinto di giornalista, per il suo fiuto. Ma un giornalista vero deve avere anche qualcos'altro, e il tono dell'ultima frase di Corbett me lo aveva fatto notare. E tuttavia, dovetti riconoscere, McKenna aveva avuto ragione dicendo che nessun altro giornale della città stava tastando il polso reale della situazione. Me l'aveva confermato Corbett usando il termine «ladro». Scambiai con lui qualche altra frase, poi ci separammo. Visto che neppure Corbett sapeva niente dell'Uomo Grigio, decisi di telefonare a McKenna e di fargli preparare un titolo prima che l'edizione del mattino andasse in macchina, tanto per battere almeno di un giorno la concorrenza. Non avevo nessuna storia solida, soltanto voci e ipotesi, ma avrei potuto tirarne fuori un articolo lo stesso. M'incamminai in fretta verso il drugstore e, frugandomi in tasca alla ricerca di qualche moneta, attraversai la strada. Fu cinquanta metri più avanti che passai di fronte alla villetta. Era una sorta di bungalow stile californiano, col solo pianterreno, e tutte le camere affacciate sullo stretto giardino erano brillantemente illuminate. Ciò che vidi dentro una di quelle stanze mi fece fermare di botto. La finestra era piuttosto ampia, con le tendine aperte. Oltre il vetro di quella che sembrava una camera da letto, intuii lo svolgersi di una scena triste e luttuosa. C'erano tre persone in piedi, attorno a un capezzale che da fuori non po-
tevo vedere, e il loro atteggiamento era quello di chi si aspetta che un malato esali l'ultimo respiro. Ma una quarta persona, un uomo alto e dall'aria decisa, stava sulla soglia della stanza bloccandola col suo corpo. Aveva l'aria di aspettarsi qualcosa. Che stesse di guardia per timore dell'arrivo dell'Uomo Grigio? Mentre mi ponevo quell'interessante quesito, vidi una cosa che provocò un balzo del mio incallito cuore di reporter. Il bungalow era circondato su due lati da una veranda, e la porta principale si trovava una decina di metri alla mia sinistra. Con la coda dell'occhio scorsi una forma umana nell'ombra. Era un individuo vestito di grigio, e stava girando la maniglia della porta. Visto l'atteggiamento di quelli che erano in casa, avrei giurato che la serratura dovesse esser chiusa. Invece la porta si aprì docilmente. Ero paralizzato. Tutta la mia aggressività se n'era andata con quella colluttazione idiota fra me e Ted Corbett. Inoltre, perché avrei dovuto rischiare la pelle proprio io? Ero anche spaventato, diciamolo pure. In quell'individuo c'era qualcosa che mi dava i brividi. Gettai un'altra occhiata alla scena illuminata oltre la finestra e, senza volerlo, feci un passo avanti. La figura in grigio volse bruscamente la testa, mi vide, e subito uscì da sotto la veranda. Due secondi dopo, aveva già superato il piccolo steccato con un salto e stava correndo via fra le ombre scure sotto i platani. D'istinto lo inseguii, con tutta la velocità possibile. Ero rigido e mi sentivo accapponare la pelle, come se fossi io ad essere rincorso da qualcosa di orribile, ma più che mai deciso ad agguantare quella forma che appariva e spariva nelle pozze di tenebra davanti a me. Ma, appena dieci secondi più tardi, mentre tutto mi ballava negli occhi per la foga della corsa, mi resi conto che stavo inseguendo soltanto dei riflessi di luce e delle ombre senza forma: davanti a me non c'era più nessuno. Dov'era finito il fuggiasco? A che cosa ero corso dietro? Confuso e ansimante mi fermai. Dopo qualche secondo attraversai la strada e girai in Arley Street. All'incrocio del drugstore c'era un poliziotto che dirigeva un traffico inesistente. Il suo impermeabile era nero e lucido come l'asfalto. Stava ricominciando a piovere. Lo riconobbi come lo stesso con cui avevo già parlato e, quando anche lui poté vedermi in faccia, mi rivolse un impersonale cenno di saluto. Senza fiato, mi limitai ad agitare appena una mano e attraversai verso l'insegna luminosa del drugstore. Il telefono era in fondo al locale, dentro una cabina. Passai davanti al bancone e, con un'occhiata, comunicai al commesso qual era la mia destinazione. Lui non disse verbo, però dalla sua faccia compresi che non era
per nulla felice di rivedermi. Formai il numero di McKenna. «Qui è Bill, capo. Finora ho raccolto diverse notizie, ma nulla ancora di concreto, salvo il fatto che io stesso ho inseguito il nostro uomo per un tratto di strada. Poi però quel figlio di buonadonna si è volatilizzato. Adesso penso che sia qui intorno, e che...» «Scovalo, Bill!», m'interruppe. «Fino a mezzanotte e mezzo posso tenerti liberi due spazi, uno in prima e uno in terza pagina. Vedi di farmeli riempire con qualcosa di utile. Chiaro?» Risposi sissignore e riattaccai. Prima di uscire sotto la pioggia, tolsi di tasca il berretto dell'impermeabile e me lo ficcai in testa. Imprecando, mi tenni rasente al muro, dove gli scarichi delle grondaie mi bagnavano ancora di più, ma non era questo a deprimermi. L'Uomo Grigio s'era dissolto nella notte come nebbia, e quella nebbia me la sentivo fredda intorno al cuore. Ero sicuro d'aver sentito odore di cimitero mentre lo inseguivo. Il berretto serviva soltanto a farmi colare rivoli d'acqua giù per il collo. All'incrocio mi fermai sul bordo del marciapiede e guardai a destra e a sinistra. Più avanti, un'auto della Polizia sbucò su Larchmont Avenue e girò nella mia direzione, procedendo lentamente. Da uno dei finestrini, aperto, proveniva il gracchiare della loro radio. Visto che non avevano fretta, feci cenno ai due poliziotti di fermarsi. «Che c'è di nuovo? Vi hanno ordinato di cambiare zona?», buttai lì. L'auto si arrestò con le ruote in una grossa pozzanghera. Il poliziotto alla guida era Sam White, uno che avevo conosciuto qualche anno addietro in tribunale. «Ci hanno comunicato adesso di andare dall'altra parte della città», rispose cordialmente. «Mark Dolan è moribondo.» Feci un fischio fra i denti. «Boss» Dolan, come ancora lo chiamavano, era stato sindaco della città fino a dieci anni prima e, sebbene si fosse ritirato dalla politica, era ancora un pezzo grosso. L'intuito di reporter - e soprattutto il desiderio di levarmi dalla pioggia - mi fece prendere un'improvvisa decisione. «Che ne dite di darmi un passaggio fin là?» «Salta su, amico», rispose White. Personalmente non avevo mai avuto troppa simpatia per «Boss» Dolan ma non c'era da stupirsi che il suo nome facesse ancora muovere di qua e di là le auto della Polizia, visto che buona parte dei Capitani e degli Ispet-
tori nei vari Distretti erano stati assunti da lui. Ciò che sapevo della sua malattia era che da sei o sette mesi non gli permetteva di levarsi dal letto. La villetta di Dolan era d'aspetto relativamente modesta, in Humboldt Street, con accanto larghi spazi di terreno edificabile. Sulla strada erano ferme alcune auto, e lungo il vialetto d'ingresso stazionavano malgrado la pioggia due agenti e un paio d'altri individui in borghese. All'interno s'intuiva la presenza di parecchie persone. Uno degli uomini era una faccia nota. «Il signor Dolan è davvero molto grave?», gli chiesi. «Sta morendo», fu la risposta. Mi scostai per lasciare passare un dottore che stava uscendo di casa con una bomboletta di ossigeno fra le mani. L'uomo salì su un'ambulanza posteggiata lì accanto, con l'aria di chi ha già fatto il possibile ma senza alcun risultato. Mi chiedevo se l'Uomo Grigio avrebbe osato far la sua comparsa anche lì, fuori dalla zona in cui aveva operato fino a quel momento. «Vorrei entrare anch'io per un momento, se non disturbo», dissi. Il mio interlocutore scosse le spalle. «Perché no?» Poi aggiunse: «È già pieno di facce scure, là dentro. Uno più o uno meno non fa differenza». «Ci sono parenti? I figli?» L'uomo scosse il capo. «Solo la donna di servizio e una nipote. I figli dovrebbero arrivare in nottata da Los Angeles. Ma credo che non... mmh, non faranno in tempo.» Nell'atrio e in camera da letto c'era una dozzina di personaggi, alcuni dei quali non erano mai stati amici né simpatizzanti di Dolan. Ma è buona norma in politica accorrere solleciti al capezzale dei propri avversari, magari per accertarsi che crepino davvero. «Boss» Dolan giaceva in un letto a una sola piazza, con accanto a lui un medico che di tanto in tanto gli tastava il polso. Ma, sia lui che l'infermiera, erano ormai ridotti a pezzi d'arredamento del locale. Il moribondo era cinereo, con lo sguardo spento, e ogni tanto gli tremavano le mani. Compresi che aveva paura, molta paura, anche se dovevano avergli somministrato dei sedativi. Non gli davo torto. L'uomo che mi aveva seguito all'interno si era fermato al mio fianco, e lo sentii respirare impietosito. «Pover'uomo», disse. «Già», mormorai io. Il dottore si alzò e mormorò qualcosa all'orecchio dell'infermiera, che prese dal tavolo una siringa e uscì, presumibilmente per andare a far bollire
un po' d'acqua in cucina. Qualche istante dopo, anche il dottore la seguì, cercando di darsi un'aria indaffarata. Due Ufficiali di Polizia in divisa si scostarono per lasciarlo passare. Fuori stava cominciando a tuonare forte. «Bisogna fare qualcosa per lui», sussurrò l'uomo al mio fianco. E, prima che potessi capire cosa intendeva dire, avanzò verso il letto, sedendosi sulla sedia occupata fino a poco prima dal dottore. «Dolan», lo chiamò sottovoce, e gli prese una mano. Nel vedere quel gesto, una strana sensazione s'impadronì di me, e mi accorsi d'aver trattenuto il respiro. «Non lasciarti sopraffare così, Dolan», continuò l'uomo, con voce comprensiva. «Puoi rendere la cosa più facile... se vuoi. Tu hai commesso molti peccati, vero? Ma non stai soffrendo. Hai solo un po' di paura. E la morte può essere la cosa più dolce che tu abbia mai sperimentato. Io lo so per certo, e sono qui per dirlo a te. Vedi? Se la prendi con calma - e tu la stai prendendo con calma adesso, no? - allora è facile. Guardami negli occhi, Dolan. Tu sai che non sto mentendo. Chi è giunto alla sua ultima ora sa sempre che io non mento. Ah!... Me lo leggi negli occhi, vero? Per te adesso sarà come per tutti gli altri. È stato lo stesso per me, quando sono morto. E questo accadde sei mesi fa. Fu la prima volta che Loro lasciarono tornare qualcuno indietro. E io tornai per aiutare la gente, per aiutare te. Sarò io a guidarti oltre il confine, Dolan. Appoggiati a me, seguimi...» È quasi impossibile descrivere l'effetto che quelle parole crearono nella camera da letto, ma non si udiva volare una mosca. Agghiacciato dallo stupore, mi accorsi che avevo ascoltato senza reagire, come se uno strano incantesimo lento e subdolo avesse paralizzato me e tutti i presenti, o come se la voce dell'uomo avesse forti poteri ipnotici. Adesso capivo perché nessuno avesse mai interrotto l'Uomo Grigio durante i suoi interventi, e perché in seguito i testimoni fossero stati così incoerenti e confusi. Con uno sforzo di concentrazione tentai di scacciare quell'incantesimo dalla mente. Dovevo muovermi. Ma, prima che potessi fare un sol passo, ci furono alcuni rumori e voci all'esterno, sul vialetto d'ingresso. L'Uomo Grigio si alzò di scatto e si rivolse alla finestra, teso e allarmato. La sua faccia era pallidissima, inespressiva. Nell'atrio risuonò uno scalpiccio di passi che si avvicinavano. Con pochi passi lunghi e rapidissimi l'Uomo Grigio lasciò il letto, attraversò la camera, ed uscì dalla porta. I miei occhi erano rimasti scioccamente inchiodati sul capezzale, dove Mark Dolan giaceva immobile e spento: sulla sua bocca aleggiava ancora un sorriso tranquillo.
«Prendetelo! Fermate quell'uomo!», gridò qualcuno nell'atrio. Un poliziotto in borghese e due in divisa stavano cercando di afferrare l'Uomo Grigio, che era piombato quasi loro addosso. Le mani degli agenti si chiusero sulle sue braccia, mentre egli si divincolava furiosamente. Lo sentii ringhiare come una belva. Poi la sua voce tuonò, in un rabbioso e possente tono di comando: «Lasciatemi, maledetti! Io sono qui per compiere la mia opera. Io sono l'Ambasciatore e la Guida delle anime perse. Io, che un tempo fui Kaye Ront, oggi sono sopra le leggi dei mortali. Lasciatemi!». Nella mia mente ci fu un lampo, la classica lampadina che si accese. E, in quel batter di ciglia, ebbi l'intera, incredibile storia, dispiegata davanti. Ma, mentre uscivo nell'atrio, l'Uomo Grigio si era già liberato dalle mani che lo tenevano. Gli uomini intorno a lui erano in tre, e tuttavia non ce la facevano. D'istinto corsi ad aiutarli, e quel che ricordo è soltanto che un momento dopo mi trovavo steso per terra con un grande dolore alla mandibola. Ciò che volevo fare era d'impedir loro di ammazzarlo, per poterlo intervistare e magari fargli anche qualche foto, però i suoi pugni non discriminarono fra me e i poliziotti: si lanciò fuori di casa con impeto, travolgendo un altro sull'ingresso, e saltò la siepe sulla destra. Maledicendomi per non aver portato un fotografo, mi alzai in piedi e lo inseguii, insieme a cinque o sei altre persone. Lo vidi correre fra i cespuglietti dell'area edificabile, con la velocità di un felino. Stava piovendo a dirotto, ma intorno a me c'erano grida e confusione. Un paio di auto della Polizia partirono a sirene spiegate per aggirare la zona, e alcuni agenti saltarono la siepe con le pistole in mano, gettandosi all'inseguimento di quell'individuo. Incurante dell'acqua e del fango, mi unii a loro, e il nostro gruppetto sguazzò nelle pozzanghere per un centinaio di metri. Poi attraversammo una strada, e quindi una seconda area piena di erbacce. Al termine dell'ampio spazio incolto, vidi una figura umana, vestita di grigio, che correva balzelloni verso una siepe oscura, al di là della quale sapevo che c'era un vasto canneto e quindi la riva cespugliosa del fiume. L'acqua che cascava a catinelle mi riempiva gli occhi. Kaye Ront! A due passi da me un poliziotto lo vide e sollevò la rivoltella ma, prima che potesse far fuoco, gli afferrai il braccio. «No, non sparate!», gridai. «L'uomo è disarmato, perdio! E non ha
commesso nessun delitto!» Diavolo! Era impensabile che quei figli di buona donna mi ammazzassero un personaggio da prima pagina, senza che fossi riuscito a strappargli neanche uno straccio d'intervista. Lo volevo vivo. Quel nome era stato pronunciato una sola volta, ma bastava e avanzava. Gli uomini si divisero nel tentativo di accerchiarlo, ma il Capitano di Polizia - quello che aveva cercato di sparare - era rimasto accanto a me, col fiato grosso e un'espressione seccata dipinta sul viso. «Non c'è bisogno di sparare, dannazione», ripetei. «Anche voi dovreste conoscere quell'uomo, se ricordate cos'è successo sei mesi fa. Si chiama Ront, e aveva un appalto per la fornitura di cibo in scatola alla mensa di un grosso impianto minerario, quello fuori Aden City. Possedeva anche un barcone, perché sulla carrozzabile che attraversa il fiume non c'era il ponte, e lo usava per traghettare gli operai fra l'impianto e la riva dalla parte di Aden City. S'era fatto la fama del maniaco religioso, ricordate? Durante il tragitto arringava gli uomini con discorsi sulla morte e la dannazione eterna. E faceva parte di una setta di fanatici che seppellivano i loro morti con strane cerimonie. Sei mesi fa, pare, Ront ebbe un attacco di non so cosa e venne dichiarato morto, e i suoi compagni lo misero in una bara e lo portarono al loro cimitero privato. Ma non era affatto morto. Forse aveva avuto un attacco di epilessia. Comunque, mentre lo seppellivano, si risvegliò e cominciò a pestare pugni sulla cassa finché gli altri non lo tirarono fuori. La cosa finì su tutti i giornali.» «E allora?», bofonchiò il Capitano della Polizia. «Ront è lo stesso individuo che si è aggirato nel West End in questi giorni. Capite adesso perché si comporta così? Quando è uscito da quella bara, era diventato matto. E una cosa di quel genere farebbe impazzire anche uno sano di mente. Lui non lo era. Dev'essersi convinto che un miracolo lo abbia fatto resuscitare dalla morte, mi spiego? Era morto, e poi ecco che è tornato in vita. Di conseguenza ora crede che sia suo dovere recarsi a casa dei moribondi, per spiegar loro che la morte non li deve spaventare, e per testimoniare che è facile morire. Dà loro una mano a passare oltre il confine, insomma, come se si fosse imposto una pietosa missione. E, a quanto ne so io, ci riesce perfettamente.» Dopo quello che era accaduto al capezzale di «Boss» Dolan, la faccenda aveva assunto dimensioni anche più grosse di quello che sperava McKenna. Per il giorno dopo il Daily Express avrebbe dovuto rifare tutta la prima pagina, e con titoli in rosso. Mi guardai attorno: dove potevo trovare un te-
lefono? McKenna avrebbe dovuto mettere subito al lavoro tre o quattro persone, per rispolverare gli antefatti di sei mesi prima e montare un paio di articoli di spalla. Lontano risuonarono secchi colpi di rivoltella. Il Capitano di Polizia, che aveva ascoltato le mie parole con l'aria di chi ha già le sue idee ben precise, le commentò con un grugnito sprezzante e corse via sotto la pioggia. Per lui Ront era soltanto un maniaco, pericoloso e meritevole di una sacrosanta pallottola in testa. Gli andai dietro, rassegnato a sporcarmi di fango sempre più, fradicio di pioggia sotto l'impermeabile. L'illuminazione cittadina era tutta alle mie spalle, mentre fra lì e il fiume si stendevano due o trecento metri di terreno irregolare. C'erano muretti e piccole costruzioni diroccate in attesa delle ruspe che li spianassero. Più avanti, i raggi di un paio di torce elettriche sciabolavano il buio. Vedendo una strada alla mia sinistra, lasciai il poliziotto e mi diressi da quella parte, stanco di affondare nella melma. Era il tratto finale di Humboldt Street, non asfaltato, che usciva di città serpeggiando verso il fiume. M'incamminai da quella parte, evitando la zona perlustrata dalla Polizia e, cinque minuti dopo, un lampo mi rivelò che poche decine di metri più avanti c'era il fiume. La strada andava a terminare su uno scalcinato molo di legno. Attaccato al molo c'era un largo barcone a fondo piatto, e nei due o tre secondi che durò il lampo, feci in tempo a distinguere una ventina di esseri umani a bordo di esso. Un'altra cosa accadde in quei due secondi: mi si rizzarono i capelli. Gli individui stavano in piedi l'uno accanto all'altro, zitti, immobili e completamente nudi. Quando i miei occhi si riabituarono al buio, erano ancora là, come in attesa di qualcosa. Le nuvole erano basse, l'acqua precipitava a scrosci sulla terra, e il fiume, una distesa su cui a tratti balenavano i riflessi dei fulmini lontani, era largo un centinaio di metri. Al di là c'era un buio ancora più fitto, dove giganteggiavano le colline con a fianco le strutture dell'impianto minerario di Aden City. Solo allora mi resi conto che quello era il traghetto una volta gestito da Kaye Ront. E da un viottolo sulla mia destra vidi venire avanti due figure, poco più che due ombre nella tempesta: la prima era senza dubbio Kaye Ront, con il suo abito grigio zuppo di pioggia. La seconda era un uomo corpulento che camminava macchinalmente e col capo chino, del tutto nudo. Mentre li fissavo, raggiunsero il molo di legno, passarono sul barcone
dove li attendevano gli altri, e un lampo mi consentì nuovamente di osservare la scena. Ma avrei preferito non aver visto niente. Avrei preferito essere lontano da lì, da quell'uomo, da quella barca piena di gente silenziosa e da quel fiume nero. Ritto in piedi sulla poppa, Kaye Ront brandì un lungo palo, lo conficcò nella melma e spinse il barcone lontano dal molo. Chi era quella gente? Dove li stava portando Kaye Ront sulla sua barca? Oggi, alla luce del sole e della ragione, sto ancora cercando una risposta razionale a queste domande. Ma lì al buio e sotto l'acquazzone, non avevo bisogno di chiedermelo. Lo sapevo. Era il gelo stesso che mi sentivo nelle ossa a dirmelo. Tutto ciò che potei fare fu di stare lì immobile, mentre il traghetto spariva fra le ombre del fiume. «Caronte!», sussurrai dopo un poco, come stordito. «Cosa volete dire, amico?», risuonò una voce alle mie spalle. Mi voltai di scatto, ma mi rilassai alla vista dell'uniforme. «Niente, niente», mormorai. «Non l'avete trovato, eh?» Il poliziotto scosse il capo, proseguendo verso il molo. Gli tenni dietro finché udii i suoi stivali calpestare le assi di legno, ma lì mi fermai. Prima dell'imbarcadero, piantato al suolo, c'era un cartello stradale puntato verso la riva opposta del fiume. Una volta aveva recato la scritta ADEN CITY ma adesso qualcuno aveva grattato via le ultime lettere, lasciando soltanto la parola ADE. Il poliziotto tornò verso di me, e qualcosa nel mio atteggiamento dovette colpirlo, perché nel suo tono brusco ci fu una nota di preoccupazione. «Che vi succede? Non vi sentite bene?» «Mi sto soltanto domandando dove potrei trovare un telefono», mormorai. «Bisogna che chiami il giornale.» Ma non avrei mai detto a lui, né a McKenna, né a nessun altro, che avevo riconosciuto l'individuo salito per ultimo con Kaye Ront sopra il barcone: era l'ex sindaco «Boss» Dolan. EDITH WHARTON Ognissanti 1. Pur strana e inesplicabile com'era, la faccenda all'apparenza sembrava molto semplice... a quel tempo, almeno. Ma, con il passare degli anni, e per via del fatto che non ci fu un solo testimone di ciò che accadde, a ecce-
zione di Sara Clayburn, le storie che vi sono nate intorno sono diventate talmente esagerate, e sovente così ridicolmente elaborate, che sembra necessario che qualcuno collegato alla vicenda, pur se non fu esattamente presente - ripeto che, quando accadde, mia cugina era (o credeva di essere) completamente sola in casa - riporti gli scarsi fatti veramente noti. A quel tempo io mi recavo spesso a Whitegates (così il posto si è sempre chiamato). A dire il vero, vi ero stata poco tempo prima e quasi immediatamente dopo gli strani avvenimenti di quelle trentasei ore. Jim Clayburn e la sua vedova mi erano entrambi cugini, e per questo motivo, e per la mia intimità con loro, entrambe le famiglie ritengono che sia io, più di chiunque altro, la persona più indicata a spiegare i fatti, se tali si possono definire. Di conseguenza ho trascritto, con la massima chiarezza possibile, il succo delle varie conversazioni avute con mia cugina Sara quando si riusciva a farla parlare, ed era assai raro, di quello che accadde durante quel misterioso fine settimana. L'altro giorno ho letto in un libro di un famoso saggista che i fantasmi spariscono quando si accende la luce. Che sciocchezza! Lo scrittore, sebbene ami pasticciare - nel vero senso della parola - col Soprannaturale, non ha mai oltrepassato la soglia dell'argomento. Tra le torri di un castello abitate da una vittima decapitata che scuote fragorosamente le catene e una comoda casa di periferia con frigorifero e riscaldamento centrale, dove senti, non appena entri, che c'è qualcosa che non va, sceglierei senza dubbio alcuno quest'ultima, per provocare un brivido lungo la schiena! E, comunque, non avete mai notato che solitamente non sono le persone più sensibili, dotate di particolare fantasia, a vedere i fantasmi, ma quelle razionali e tranquille che non ci credono, e che sono sicure che non proverebbero il minimo turbamento se ne incontrassero uno? Beh, fu questo il caso di Sara Clayburn e della sua casa. La casa, a dispetto della sua età - venne costruita, se non sbaglio, intorno al 1780 - era aperta, ariosa, con i soffitti alti, e disponeva di elettricità, di riscaldamento centrale e di tutte le comodità moderne; quanto alla sua proprietaria, era... diciamo, che somigliava molto alla sua casa. E, comunque, questa non è esattamente una storia di fantasmi, e io ho stabilito l'analogia unicamente per mostrarvi che tipo di donna fosse mia cugina, e come sarebbe sembrato improbabile che quello che accadde a Whitegates accadesse proprio lì... e a lei.
Quando Jim Clayburn morì, tutta la famiglia pensò che, dal momento che la coppia non aveva bambini, la vedova avrebbe rinunciato a rimanere a Whitegates per trasferirsi a New York o a Boston; provenendo da un'ottima famiglia d'origine coloniale, e avendo molti amici e parenti, avrebbe trovato, difatti, in entrambe le città, qualcuno pronto ad accoglierla. Sara Clayburn, tuttavia, di rado faceva quello che gli altri si aspettavano da lei, e stavolta fece esattamente il contrario: rimase a Whitegates. «Cosa? Voltare le spalle alla mia vecchia casa... recidere tutte le radici di famiglia e andarmi a rinchiudere in una gabbia per uccelli, come gli appartamentini di quei nuovi grattacieli di Lexington Avenue, con mangime per pulcini e seppie bollite al posto del mio stupendo montone del Connecticut? No, grazie. Io appartengo a questo posto, e qui resterò, finché gli esecutori testamentari non lo metteranno nelle mani del parente più prossimo di Jim... quel ragazzino ciccione, Presley. Ma adesso non parliamo di lui. Lascia che ti dica una cosa, però... lo terrò lontano da qui il più a lungo possibile.» E così fece, perché, avendo soltanto cinquant'anni alla morte del marito, ed essendo una donna forte e risoluta, tenne perfettamente testa al grassoccio Presley, e qualche anno fa partecipò al suo funerale in lutto rigoroso, con solo un lieve sorriso sotto il velo nero. Whitegates era una casa piacevole, dall'aspetto molto accogliente, costruita su un'altura che si affacciava sulle anse maestose del fiume Connecticut; si trovava, però, a più di dieci chilometri dalla città più vicina, Norrington, e la sua posizione sarebbe sembrata certamente isolata e solitaria alla moderna servitù. Per fortuna, tuttavia, Sara Clayburn aveva ereditato dalla suocera due o tre anziani domestici che sembravano far parte della tradizione di famiglia almeno quanto il tetto sotto cui vivevano, e io non l'ho mai sentita lamentarsi di loro. La casa, d'epoca coloniale, aveva pianta quadrata, con quattro stanze spaziose al pianterreno separate da un salone dalla pavimentazione in legno di quercia, con il tipico retrocucina e, sotto il tetto, una bella mansarda. Ma i nonni di Jim, quando era tornato di moda lo stile «coloniale» ai primi anni Ottanta, avevano aggiunto due ali ad angolo retto con la facciata meridionale, sicché l'antica «aia» davanti alla porta principale divenne un cortile erboso, chiuso su tre lati, con un grande olmo al centro. Così la casa venne trasformata in una dimora molto spaziosa, nella quale le ultime tre generazioni di Clayburn avevano offerto generosa ospitalità; ma l'architetto aveva rispettato il carattere della costruzione originaria, e l'ampliamento
l'aveva resa più confortevole senza alterarne al tempo stesso la semplicità. Era circondata da un vasto appezzamento di terreno, e Jim Clayburn, come i suoi padri prima di lui, lo sfruttava per diverse coltivazioni, non senza ricavarne profitto, svolgendo un ruolo considerevole e stimato nella politica governativa. I Clayburn erano sempre stati definiti «una buona influenza» nella Contea, e gli abitanti della città furono contenti quando seppero che Sara non aveva intenzione di lasciare la casa... «anche se dovevano essere degli inverni solitari, quelli che passava vivendo tutta sola su quella collina», commentarono, quando le giornate si accorciarono e la prima neve cominciò a raccogliersi sotto i rami della quadruplice fila di olmi del parco. Bene, se vi ho reso un'idea abbastanza chiara di Whitegates e dei Clayburn, che condividevano con la loro vecchia casa un'immagine di rassicurante ordine e dignità, mi metterò in disparte e racconterò la storia non attraverso le parole di mia cugina, che erano troppo confuse e frammentarie, bensì come l'ho ricostruita a poco a poco dalle sue mezze dichiarazioni e dalle sue reticenze. Se il fatto accadde davvero - e lascio a voi giudicarlo credo che dovette accadere in questo modo... Era stata una mattinata fredda, con un nevischio sferzante, nonostante fosse soltanto l'ultimo giorno di ottobre; ma, dopo pranzo, un umido sole si fece vedere per un po' dietro una cortina di nuvole lanuginose, tentando Sara Clayburn a uscire per una passeggiata. Sara era un'energica camminatrice, capace di percorrere, in quella stagione, cinque o sei chilometri lungo la strada della valle e di tornare indietro per il bosco di Shaker. Aveva fatto il suo solito giro, e stava per riprendere la passeggiata principale, quando vide una donna vestita semplicemente che camminava nella stessa direzione. Se il posto non fosse stato così solitario - la strada per Whitegates non era molto frequentata, alla fine dell'autunno - la signora Clayburn probabilmente non avrebbe fatto caso alla donna, che era tutt'altro che appariscente; ma, quando raggiunse l'intrusa, mia cugina restò sorpresa di scoprire che era una forestiera... perché la proprietaria di Whitegates si vantava di conoscere, almeno di vista, tutti i propri vicini. Stava per calare la sera, e il viso della donna era appena visibile, ma la signora Clayburn mi disse che ricordava un volto di mezza età, liscio e piuttosto pallido. La salutò, quindi aggiunse: «Sta andando alla casa?». «Sì, signora», rispose la donna, con un accento che la vallata del Connecticut ai tempi antichi avrebbe definito «straniero», ma che adesso sarebbe passato inosservato a orecchie avvezze a sentire la moderna molte-
plicità delle lingue. «No, non riuscii a capire da dove venisse», mi precisò Sara. «Quello che mi colpì era il fatto che non la conoscevo.» Domandò alla donna, cortesemente, che cosa volesse, e questa rispose: «Solo vedere una delle ragazze». La risposta era stata piuttosto naturale, così la signora Clayburn annuì e lasciò la strada principale, dirigendosi verso i giardini, e da quella volta non vide più la visitatrice. E a dire il vero, mezz'ora dopo accadde qualcosa che le fece uscire completamente di mente lo strano incontro. L'energica camminatrice, infatti, mentre si avvicinava alla casa, scivolò su una pozzanghera ghiacciata, si slogò la caviglia e rimase lì per terra, sentendosi improvvisamente impotente. Price, il maggiordomo, e Agnes, l'arcigna e anziana governante scozzese che Sara aveva ereditato dalla suocera, naturalmente sapevano perfettamente che cosa fare. In un batter d'occhio fecero sdraiare la padrona sulla poltrona, e avevano già avvertito il dottor Selgrove giù a Norrington. Quando il medico arrivò, ordinò che portassero la signora Clayburn a letto, la visitò e la medicò, quindi scosse la testa perché temeva che la caviglia si fosse fratturata. Riteneva tuttavia che, se la signora giurava di non alzarsi e di non cambiare posizione con la gamba, poteva risparmiarle il fastidio del gesso. La signora Clayburn accettò, obbedendo ancora più prontamente quando il dottore l'avvertì che qualsiasi movimento brusco poteva prolungare la sua immobilità a letto. La natura attiva di lei rendeva quella prospettiva terrificante, ed ella si rimproverò di essere stata così goffa. Ma ormai il danno era fatto, e mia cugina pensò immediatamente che in tal modo avrebbe avuto l'occasione di rivedere tutti i conti e di sistemare la corrispondenza. Così si rassegnò a restare a letto. «E non perderà molto, mi creda, a starsene a letto per qualche giorno. Sta cominciando a nevicare, e sembra proprio che non smetterà più», osservò il dottore, guardando fuori dalla finestra, mentre rimetteva a posto i suoi strumenti. «Beh, non capita spesso di avere la neve così presto; ma l'inverno prima o poi deve pur cominciare», concluse filosoficamente. Una volta arrivato alla porta, si fermò e aggiunse: «Non vuole che le faccia venire un'infermiera da Norrington? Non per assisterla, si intende, ma c'è ben poco da fare prima che io torni a visitarla. Ma sa, questo è un posto solitario, quando comincia a nevicare, e pensavo che forse...». Sara Clayburn rise. «Solitario? Con i miei vecchi domestici? Lei dimentica quanti inverni ho già trascorso qui in loro unica compagnia. Due di loro erano con me ai tempi di mia suocera.» «È vero», riconobbe il dottor Selgrove. «Lei è molto più fortunata di tan-
ta gente, in questo senso. Beh, vediamo un po'... oggi è sabato, dovremo far passare l'infiammazione prima di poterle fare i raggi X. Lunedì mattina, per prima cosa, verrò qui con il radiologo. Se vuole che venga prima, mi chiami.» E se ne andò. 2. Il piede, inizialmente, non le dava molto dolore; ma, verso sera, la signora Clayburn cominciò a lamentarsi. Era una pessima degente, come quasi tutte le persone sane e attive. Non essendo abituata al dolore, non sapeva come sopportarlo, e le ore di veglia e di immobilità le parevano interminabili. Agnes, prima di lasciarla, aveva sistemato le cose in modo da darle il massimo conforto. Le aveva messo vicino una brocca di limonata, e aveva perfino insistito (alla signora Clayburn in seguito parve strano) per portarle un vassoio con dei panini e un termos di tè. «In caso le venga fame di notte, signora.» «Grazie, ma non mi viene mai fame di notte. E di sicuro non succederà stanotte... Avrò soltanto sete. Penso di avere la febbre.» «Bene, lì c'è la limonata, signora.» «È sufficiente. Porta via tutte le altre cose, per favore.» (Sara aveva sempre odiato la vista di cibo non desiderato che le «creava disordine» nella stanza.) «Benissimo, signora. Però potrebbe...» «Portalo via, ho detto», ripeté la signora Clayburn, irritata. «Benissimo, signora.» Ma, quando Agnes uscì, la padrona la sentì deporre piano piano il vassoio sul tavolo dietro la tenda che copriva la porta. «Vecchia oca ostinata!», pensò, colpita dalla caparbietà della donna. Il sonno, una volta passato, non voleva saperne di tornare, e le ore di veglia passavano sempre più lentamente. Come albeggiava tardi, a novembre! «Se solo potessi muovere questa gamba», mugugnò. Rimase immobile tendendo l'orecchio per sentire i primi passi della servitù. A Whitegates ci si alzava molto presto, seguendo l'esempio della padrona; di sicuro non ci sarebbe voluto molto prima dell'arrivo di una delle cameriere. Fu tentata di suonare il campanello per chiamare Agnes, ma rinunciò. L'anziana donna era rimasta alzata fino a tardi, e quel giorno era domenica mattina, giorno in cui la servitù aveva più tempo per dormire. La signora Clayburn rifletté agitata: «Sono stata una stupida a non permetterle di lasciarmi il tè vicino al letto, come voleva fare. Mi chiedo se riuscirei ad
alzarmi per prenderlo...». Ma poi ricordò l'avvertimento del dottore, e non osò muoversi. Tutto, pur di non prolungare quella prigionia... Ah, ecco suonare l'orologio della scuderia. Com'era cupo nel silenzio della neve! Uno-due-tre-quattro-cinque... Che cosa? Soltanto le cinque? Ancora tre ore e un quarto prima di poter sperare di sentire aprire la maniglia della porta... Dopo un po' si appisolò di nuovo, in una posizione assai scomoda. Un altro suono la svegliò. Di nuovo l'orologio della scuderia. Ascoltò. Ma la stanza era immersa nel silenzio, e risuonarono soltanto sei colpi... le venne in mente di mettersi a recitare mentalmente qualcosa per riprender sonno, ma leggeva di rado poesie e, non avendo di solito alcun problema ad addormentarsi, non riusciva a ricordare i tipici metodi contro l'insonnia. Adesso sentiva tutta la gamba sinistra pesante come piombo. Le bende erano diventate insopportabilmente strette... la caviglia doveva essersi gonfiata... Si mise a fissare le finestre buie, in attesa del primo chiarore di luce. Alla fine scorse una pallida striscia luminosa filtrare dalle persiane. Poco a poco tutti gli oggetti tra il letto e la finestra riacquistarono i contorni, poi spessore, e parvero tornare di nuovo al proprio posto dopo la misteriosa disposizione segreta assunta durante la notte. Chi, tra coloro che abitano in una casa antica, può credere che il mobilio rimanga fermo di notte? La signora Clayburn quasi immaginò di vedere un tavolinetto leggero tornare velocemente al suo posto. «Sa che sta per arrivare Agnes, e si è messo paura», pensò divertita. La brutta notte doveva averle acceso la fantasia, perché una sciocchezza simile, come quella del mobilio, non le era mai venuta in mente... Alla fine, dopo altre interminabili ore, l'orologio della scuderia segnò le otto. Soltanto un altro quarto d'ora. Guardò la lancetta muoversi lentamente sul quadrante dell'orologio che aveva accanto al letto... Dieci minuti... cinque... soltanto cinque! Agnes era puntuale come il destino... tra due minuti sarebbe entrata. I due minuti passarono e non venne. Povera Agnes, come le era sembrata pallida e stanca, la sera prima! Di sicuro non si era ancora svegliata... o forse stava male, e avrebbe mandato la cameriera al posto suo. La signora Clayburn attese. Attese mezz'ora, poi suonò il campanello che aveva sopra il letto. Povera, vecchia Agnes... si sentiva colpevole a svegliarla. Ma Agnes non comparve... e dopo un lungo intervallo la signora Clayburn, adesso con una certa impazienza, suonò di nuovo. Suonò una volta, due volte, tre volte... ancora nessuno.
Attese un'altra volta, poi si disse: «Deve essere successo qualcosa alla corrente». Bene, poteva verificarlo accendendo la lampada da comodino (quante comodità aveva la sua stanza!). L'accese... ma la luce non venne. Non c'era corrente, ed era domenica, e non c'era niente da fare fino al giorno dopo. A meno che non si fosse semplicemente fulminata la lampadina, alla qual cosa Price avrebbe potuto rimediare subito. Beh, tra breve qualcuno sarebbe sicuramente apparso sulla porta. Erano le nove quando dovette ammettere che in casa doveva essere successo qualcosa di molto strano. Cominciò a provare una certa apprensione, ma non era una donna da cedere al nervosismo. Se solo il telefono fosse stato in camera, anziché in corridoio! Calcolò mentalmente la distanza da percorrere, ricordò l'avvertimento del dottor Selgrove, e si chiese se la sua caviglia rotta le avrebbe permesso di arrivarci. Era terrorizzata dalla prospettiva del gesso, ma doveva raggiungere il telefono, a qualunque costo. Si mise la vestaglia, trovò un bastone da passeggio e, appoggiandosi di peso, si trascinò fino alla porta. Nella stanza la premurosa Agnes aveva tirato giù tutte le tende, sicché non c'era più luce che all'alba, ma fuori, in corridoio, il gelido biancore del mattino nevoso sembrava quasi rassicurante. Il buio evocava cose misteriose... cose minacciose, ma ecco la sana e prosaica luce del giorno che veniva a scacciarle. La signora Clayburn si guardò intorno e tese l'orecchio. Silenzio. Un profondo silenzio notturno in una casa illuminata dal sole nella quale cinque persone, presumibilmente, andavano e venivano indaffarate nel proprio lavoro. Era proprio strano... Guardò fuori della finestra, sperando di vedere qualcuno che attraversava il cortile o che veniva dalla strada. Ma non si vedeva nessuno, e la neve sembrava la padrona assoluta del posto: una neve incessante e tranquilla. Continuava a cadere ancora, con efficiente regolarità, ricoprendo il mondo esterno di strati su strati di spesso velluto bianco, intensificando il silenzio che vi incombeva. Un mondo senza rumori... la gente era proprio sicura di desiderare questa assenza di rumori? Che provi prima a passare una giornata di novembre in una solitaria casa di campagna durante una tempesta di neve! Si trascinò per il corridoio fino al telefono. Quando staccò il ricevitore, si accorse che le tremava la mano. Chiamò la dispensa. Nessuna risposta. Chiamò di nuovo. Silenzio... altro silenzio! Il silenzio sembrava crescere come la neve che si accumulava sul tetto e sulle grondaie. Silenzio. Quante persone che conosceva avevano idea di che cosa fosse il silenzio... e di come suonasse cupo quando lo si a-
scoltava sul serio? Attese di nuovo, poi chiamò il centralino. Nessuna risposta. Riprovò tre volte, dopodiché richiamò la dispensa... Dunque la linea telefonica era interrotta, come la corrente elettrica. Chi era all'opera, di sotto, per isolarla dal resto del mondo? Il cuore cominciò a martellarle nel petto. Per fortuna c'era una sedia vicino al telefono, dove si sedette a recuperare le forze... o forse il coraggio? Agnes e la cameriera dormivano nell'ala più vicina. Di sicuro sarebbe riuscita ad arrivare fin lì, una volta ritrovato il controllo. Aveva coraggio? Sì, certo che ce l'aveva. L'avevano sempre ritenuta tutti una donna piena d'animo, e tale si considerava anche lei. Ma quel silenzio... Le venne in mente che, guardando dalla finestra del bagno vicino, avrebbe potuto vedere la canna fumaria della cucina. A quell'ora doveva esserci del fumo e, se l'avesse visto, pensava, avrebbe avuto meno paura di andare avanti. Arrivò fino al bagno e, scrutando dalla finestra, si accorse che dal camino non arrivava fumo. Il senso di solitudine divenne più forte. Qualunque cosa fosse successa di sotto, doveva essersi verificata prima del risveglio della servitù. Il cuoco non aveva avuto il tempo di accendere il fuoco, e gli altri domestici non si erano ancora alzati. Si accasciò sulla sedia più vicina, lottando contro le proprie paure. Che cosa avrebbe scoperto, ancora, proseguendo nelle sue investigazioni? Il dolore alla caviglia le rendeva difficile camminare, ma ormai lo vedeva soltanto come un ostacolo alla fretta. A prezzo di qualunque sofferenza fisica, doveva scoprire che cosa stava succedendo di sotto... o che era successo. Prima, però, sarebbe entrata nella stanza della governante. E, se l'avesse trovata vuota... Beh, in qualche modo sarebbe riuscita ad arrivare di sotto. Zoppicò per il corridoio e, strada facendo, si appoggiò un attimo al termosifone. Era gelido. Eppure in quella casa così efficiente, d'inverno i riscaldamenti non venivano mai spenti completamente di notte, anche se venivano abbassati, e alle otto del mattino faceva sempre un bel calduccio nelle stanze. Il freddo glaciale dei tubi la fece trasalire. Era l'autista a occuparsi del riscaldamento... dunque anche lui era coinvolto nel mistero, qualunque fosse, e non solo i domestici: la cosa non faceva altro che peggiorare il problema. 3.
Arrivata alla porta della stanza di Agnes, la signora Clayburn si fermò e bussò. Non si aspettava risposta, e così fu. Aprì la porta ed entrò. La stanza era buia e molto fredda. Si portò alla finestra e aprì le persiane, poi si guardò lentamente intorno con una vaga paura di ciò che avrebbe visto. La camera era vuota, ma a spaventarla non fu tanto questo, quanto la sua aria di perfetto e meticoloso ordine. Non sembrava che vi si fosse appena vestito qualcuno... o che vi si fosse spogliato la sera prima. E il letto era ancora intatto. La signora Clayburn si appoggiò per un attimo alla parete, poi attraversò la stanza e aprì l'armadio. Era lì che Agnes teneva i vestiti, e i vestiti c'erano, tutti ordinatamente allineati. Sul ripiano superiore c'erano gli esigui cappelli fuori moda di Agnes, rimodellati da quelli smessi dalla padrona. La signora Clayburn, che li conosceva tutti, controllò lo scaffale, e si accorse che ne mancava uno. Si trattava del caldo cappello di pelliccia che aveva dato ad Agnes l'inverno prima. La donna era uscita, allora. E senza dubbio era uscita la sera prima, perché il letto era ancora intatto, e lo spogliatoio e il lavabo ancora in ordine. Agnes, che non metteva mai piede fuori di casa dopo il tramonto, che detestava i film quanto la radio, e che non si riusciva mai a convincere che ogni tanto un innocente divertimento era un elemento necessario nella vita, aveva lasciato la casa in una notte invernale, mentre la sua padrona giaceva di sopra, a letto, sofferente e bisognosa d'aiuto! Perché mai se n'era andata, e dove? Mentre spogliava la signora Clayburn, la sera prima, mentre ascoltava i suoi ordini e cercava di farla stare più comoda, stava già progettando quella misteriosa fuga notturna? O era successo qualcosa - il misterioso e orribile qualcosa del quale la signora Clayburn cercava ancora un indizio che aveva spinto la donna a scendere di sotto e a uscire di casa nel gelo della notte? Forse uno degli uomini del garage - dove vivevano l'autista e il giardiniere -era stato colto da un malore improvviso, e avevano chiamato Agnes. Sì, doveva essere questa la spiegazione... Ma quante cose lasciava ancora inspiegate. Vicino alla camera di Agnes c'era il guardaroba: oltre a questo si trovava la porta della cameriera. La signora Clayburn entrò e bussò. «Mary!» Nessuna risposta, così aprì. La stanza era in perfetto ordine come quella di Agnes e anche lì il letto era intatto, e non c'erano segni di un cambiamento d'abiti. Le due donne dovevano essere uscite insieme... ma per andare dove? Il gelido silenzio senza risposta della casa opprimeva sempre di più la
signora Clayburn. Non aveva mai pensato che fosse grande, ma adesso, in quella nivea luce invernale, le appariva immensa, e piena di angoli minacciosi nei quali non osava andare a guardare. Dopo la stanza della cameriera c'era la scala posteriore. Era la via di discesa più vicina, e ogni nuovo scalino arrecava alla signora Clayburn un dolore sempre più forte del precedente: alla fine decise di tornare piano piano indietro, e di prendere la scala principale. Non sapeva perché l'avesse fatto, ma sentiva che in quel momento non era più in grado di ragionare, e che perciò avrebbe fatto meglio a seguire il suo istinto. Nelle ore piccole più di una volta aveva esplorato il pianterreno, in cerca della causa di indesiderati rumori notturni; adesso, invece, non era l'idea dei rumori a spaventarla, bensì quell'inesorabile silenzio ostile; la sensazione che la casa avesse mantenuto in pieno giorno il suo mistero notturno, che la osservasse a sua volta; che nell'entrare in quelle stanze vuote e ordinate potesse arrecare disturbo a qualche invisibile confabulazione nella quale gli esseri di carne e ossa avrebbero fatto meglio a non interferire. La larga scalinata in legno di quercia era tirata a lucido, ed era talmente scivolosa che dovette aggrapparsi al corrimano e scendere a minuscoli passi. E, mentre scendeva, con lei scendeva anche il silenzio... più denso, più pesante, più assoluto. Aveva la sensazione di sentire i suoi passi alle proprie spalle, che la seguivano piano piano al suo stesso ritmo. Aveva una qualità di cui non si era mai resa conto, quel silenzio, come se non si trattasse tanto di una semplice assenza di suono, di una sottile barriera interposta tra l'orecchio e il crescente mormorio della vita appena a pochi passi sotto di lei, quanto di un qualcosa di impenetrabile scaturito dalla cessazione improvvisa di ogni forma di vita e di ogni movimento. Sì, era questo che l'agghiacciava: la sensazione che non ci fossero limiti a quel silenzio, non un margine, nulla! Ormai aveva raggiunto i piedi delle scale, e stava zoppicando per il corridoio diretta al soggiorno. Qualunque cosa vi avesse trovato, ne era sicura, sarebbe stata muta e inanimata... ma che cosa poteva essere? I corpi dei suoi domestici, trucidati da qualche maniaco omicida? E se stava per arrivare il suo turno... se l'assassino l'avesse aspettata dietro i pesanti tendaggi della stanza, pronto a colpire? Ebbene, doveva scoprirlo... doveva affrontare qualunque cosa l'aspettasse. Non per spirito temerario - l'ultima goccia di coraggio che le era rimasto se n'era andata - ma perché qualunque cosa, qualunque, era preferibile al rimanere chiusa dentro, in quella casa circondata dalla neve, senza nemmeno sapere se era sola o no. «Devo scoprirlo, devo scoprirlo», ripeteva a se
stessa, in una specie di cantilena. La fredda luce esterna inondava il soggiorno. Le persiane e le tende erano rimaste aperte. Si guardò intorno. La camera era vuota, e ogni cosa stava al suo posto. La sua poltrona era accostata al caminetto, e nel focolare spento c'era la cenere del fuoco al quale si era riscaldata prima di uscire per quella malaugurata passeggiata. C'era perfino la sua tazza di caffè vuota, sul tavolo vicino alla poltrona. Era evidente che la servitù non era entrata in quella stanza da quando lei l'aveva lasciata il giorno prima, dopo pranzo. E improvvisamente ebbe la convinzione che avrebbe trovato in quello stesso modo il resto della casa: freddo, ordinato... e vuoto. Non avrebbe trovato niente, non avrebbe trovato nessuno. Non aveva più paura di una minaccia umana annidatasi in quelle stanze deserte che si aprivano davanti a lei. Sapeva di essere completamente sola sotto il proprio tetto. Si sedette, per fare riposare la caviglia dolorante, e si guardò lentamente intorno. C'erano le altre stanze da controllare, e lei era decisa a esaminarle tutte... ma sapeva in anticipo che non avrebbero dato una risposta alle sue domande. Lo sapeva, aveva questa sensazione, per via del silenzio che la circondava. Non il più piccolo movimento, non la minima interruzione in quel silenzio: un silenzio che aveva la fredda continuità della neve che di fuori continuava a cadere. Non si rese conto di quanto tempo passò prima che si decidesse a continuare l'ispezione. Non provava più dolore alla caviglia, tuttavia si rendeva conto che era meglio non appoggiarvisi, perciò andò avanti molto lentamente, sorreggendosi ai mobili che trovava lungo la strada. Al pianterreno tutte le tende e tutte le persiane erano rimaste aperte, consentendole di spostarsi senza difficoltà di stanza in stanza: la biblioteca, il soggiorno, la sala da pranzo. In ogni camera il mobilio era in perfetto ordine. In sala da pranzo, la tavola era stata apparecchiata la sera prima per la colazione e i candelabri, con le candele spente, si riflettevano sul legno di mogano scuro. Non era il tipo di donna abituata a mangiucchiare un uovo affogato sul vassoio in camera sua; scendeva sempre per la colazione, a fare quello che definiva un «pasto civile». Le restavano ancora da controllare i locali posteriori. Dalla sala da pranzo entrò in dispensa, e anche lì trovò tutto in un ordine meticoloso. Aprì la porta e guardò in corridoio, con il suo lustro rivestimento in linoleum. Il silenzio la seguiva; lo sentiva ancora muoversi guardingo al suo fianco, sorvegliandola come se fosse sua prigioniera, pronto a saltarle addosso al suo
primo tentativo di fuga. Zoppicando, si diresse in cucina. Anche questa, naturalmente, l'avrebbe trovata vuota e immacolata. Ma doveva controllare lo stesso. Si riposò un attimo appoggiandosi alla strombatura della finestra lungo il corridoio. «È come la Mary Celeste... una Mary Celeste sulla terraferma», pensò, ricordando l'insoluto mistero del mare udito quand'era bambina. «Nessuno seppe mai ciò che avvenne a bordo della Mary Celeste. E forse nessuno saprà mai che cosa è avvenuto qui. Nemmeno io.» A quel pensiero, la sua paura latente parve assumere un nuovo aspetto. Era una specie di liquido ghiacciato che le passava per tutte le vene, riversandosi in una pozza intorno al cuore. Adesso capiva che non aveva mai saputo che cosa fosse la paura, e che neanche la maggior parte delle persone da lei conosciute l'aveva mai saputo, probabilmente. Perché quella sensazione era qualcosa di completamente diverso... Quel pensiero l'assorbì così completamente, che non si rese conto di quanto tempo rimase appoggiata alla finestra. Ma, improvvisamente, un nuovo impulso la spinse ad andare avanti, sicché riprese a camminare verso il retrocucina. Si diresse prima di tutto lì, in quanto nel muro c'era un pannello scorrevole di servizio dal quale sperava di poter spiare nella cucina senza essere vista; e un istinto indefinibile le diceva che la chiave del mistero era in cucina. Aveva la fortissima sensazione che, qualunque cosa fosse successa nella casa, la sua fonte e il suo centro si trovavano nella cucina. Nel retrocucina, come si aspettava, era tutto pulito e ordinato. Qualsiasi cosa fosse accaduta, sembrava che nessuno, in casa, fosse stato colto alla sprovvista, perché non c'era il minimo segno di disordine o confusione da nessuna parte. «È come se già lo sapessero, visto che hanno rimesso tutto a posto», pensò. Lanciò un'occhiata al muro di fronte alla porta, e vide che il pannello scorrevole era aperto. E poi, mentre si avvicinava a questo, si ruppe il silenzio. In cucina sentì la voce di un uomo... una voce maschile, bassa ma energica, che lei non conosceva. Rimase immobile, paralizzata dalla paura. Ma anche stavolta si trattava di una paura differente. I suoi precedenti terrori erano di natura speculativa, ipotetica, nati dal silenzio spettrale che la circondava. Questa nuova paura, invece, era il normale timore dei malfattori. Oh, Dio, perché non si era ricordata del revolver del marito, che dopo la sua morte era rimasto nel cassetto in camera da letto? Si voltò, rifacendo il corridoio scivoloso che aveva appena percorso ma,
arrivata a metà strada, le cadde il bastone, rimbalzando sulle piastrelle. Il rumore parve echeggiare senza fine nella casa vuota, facendola restare lì, come paralizzata. Adesso che aveva tradito la propria presenza, fuggire era inutile. Chiunque ci fosse dietro la porta della cucina, le sarebbe stato addosso in un secondo... Con sua sorpresa, invece, la voce continuò a parlare, come se l'uomo e i suoi ascoltatori non l'avessero sentita. L'invisibile sconosciuto parlava talmente piano, che era impossibile capire le sue parole, ma il tono era appassionatamente concitato, quasi minaccioso. Un attimo dopo si rese conto che stava parlando in una lingua straniera, una lingua che lei non conosceva. Ancora una volta sul terrore prevalse il folle desiderio di sapere cosa stesse succedendo, così vicino a lei eppure in maniera invisibile. Si portò piano piano al pannello scorrevole, scrutò cautamente dentro la cucina, e vide che era deserta e in perfetto ordine come le altre stanze. Al centro del tavolo lustrato a lucido, però, c'era una radio portatile, ed era da lì che veniva la voce... A quel punto doveva essere svenuta, supponeva; in tutti i modi si sentì così debole e così stordita, che i ricordi di quello che accadde dopo rimasero confusi. Dopo un po', comunque, riuscì a tornare zoppicando in dispensa, dove trovò una bottiglia di liquore... brandy, whisky, non ricordava bene che cosa. Prese un bicchiere, si versò da bere e, sotto l'effetto dell'alcool che le scorreva nelle vene, riuscì, non seppe mai con quante esitazioni tremanti, a trascinarsi per il pianerottolo deserto, a risalire le scale, e a ripercorrere il corridoio fino in camera sua. Lì, così le sembrava, cadde di traverso sulla soglia, perdendo nuovamente i sensi... Quando rinvenne, ricordava, per prima cosa si era chiusa dentro, quindi era andata a cercare il revolver del marito. Non era carico, ma c'erano delle cartucce lì vicino, e riuscì a inserirle nel tamburo. Poi le venne in mente che Agnes, la sera prima, non aveva voluto portare via il vassoio con il tè e i panini e, aggredita da una fame improvvisa, divorò letteralmente i tramezzini. Ricordava anche che accanto al termos aveva visto, con un po' di sorpresa, una fiaschetta di brandy. La partenza di Agnes, quindi, era stata attentamente progettata, e la donna sapeva che la sua padrona, che non toccava mai i liquori, avrebbe potuto avere bisogno di un cordiale prima del suo ritorno. La signora Clayburn versò un po' di brandy nel tè, quindi lo bevve avidamente. Dopodiché (così mi disse in seguito), ricordava di essere riuscita ad ac-
cendere il fuoco nel camino, scaldandosi un po', e di essere tornata a letto coprendosi con tutte le coperte che era riuscita a trovare. Il pomeriggio lo passò stordita dal dolore, durante il quale avvertiva ogni tanto una fitta di paura... la paura di restare sdraiata lì, abbandonata da tutti, morendo alla fine di freddo. E poi c'era il terrore della solitudine: perché ormai era sicura che la casa fosse deserta... completamente deserta, dalla cantina alla soffitta. Era certa che fosse così, anche se non sapeva dire perché; ma ecco tornare di nuovo la sensazione che la causa di tutto fosse quello strano silenzio... quel silenzio che la seguiva come un'ombra ovunque andasse, e che adesso l'aveva avvolta in un manto. Era sicura che la vicinanza di qualsiasi essere umano, anche muta e segreta, avrebbe spezzato quella ragnatela di silenzio, incrinandola come si incrina una lastra di vetro tirandole contro un sasso... 4. «Va meglio?», domandò il dottore, sollevando la testa dalla fasciatura che le aveva fatto alla caviglia. Scosse la testa in un gesto di disapprovazione. «Ho la sensazione che abbia trasgredito agli ordini... è così? Si è mossa, non è vero? E scommetto che il dottor Selgrove le aveva detto di rimanere immobile fino alla sua prossima visita, giusto?» Chi le parlava era un estraneo, che la signora Clayburn conosceva soltanto di nome. Il suo medico, quella mattina, era stato chiamato al capezzale di un anziano paziente di Baltimora, e aveva chiesto a questo giovanotto, che cominciava a farsi un certo nome a Norrington, di andarla a visitare al posto suo. Il nuovo venuto era timido, e aveva un'aria di familiarità, come ce l'hanno spesso i timidi; la signora Clayburn decise che le piaceva poco. Ma prima di farglielo capire dal tono della sua risposta - ed era una vera maestra in fatto di sfumature - sentì parlare Agnes... sì, la solita vecchia Agnes, che stava dietro le spalle del dottore, rigorosamente linda e severa come sempre. «La signora Clayburn deve essersi alzata e deve aver camminato di notte, anziché chiamarmi con il campanello come avrebbe dovuto fare», intervenne Agnes in tono di rimprovero. Questo era troppo! Invece di lamentarsi per il dolore, che in quel momento era acuto, la signora Clayburn rise. «Chiamarla con il campanello? E come potevo farlo, senza la corrente?» «Senza la corrente?» Agnes si mostrò sorpresa con bravura eccezionale.
«Ma come? Quando è stata tagliata?» Premette il dito sul campanello accanto al letto e questo trillò nella quiete della stanza. «Ho provato il campanello l'altra notte prima di lasciarla, signora perché, se non avesse funzionato, sarei venuta a dormire qui nello spogliatoio, pur di non lasciarla sola.» La signora Clayburn la fissò senza parole. «L'altra notte? Ma se l'altra notte ero completamente sola in casa.» Il viso severo di Agnes non si scompose minimamente. Con rassegnazione, la donna incrociò le mani sul grembiule immacolato. «Forse il dolore l'ha un po' confusa, signora.» Guardò il dottore, il quale annuì. «Il dolore che sentiva al piede doveva essere molto forte», disse questi. «E lo era», replicò la signora Clayburn. «Ma non era niente, se paragonato all'orrore di essere lasciata sola in questa casa deserta dall'altro ieri, senza elettricità e senza riscaldamento, e con il telefono fuori uso.» Il dottore la fissava palesemente interdetto. La faccia giallastra di Agnes si imporporò leggermente, come per mostrare indignazione per quell'accusa ingiusta. «Ma, signora, ho preparato il fuoco con le mie stesse mani, l'altra notte... guardi, sta ancora crepitando. Stavo appunto per metterci altra legna, quando è arrivato il dottore.» «È vero. Era inginocchiata davanti al camino», confermò il dottore. La signora Clayburn rise di nuovo. Ingenuamente, mentre le tessevano intorno quella rete di bugie, sentiva che poteva ancora romperla. «Ho acceso il fuoco io stessa ieri... non c'era nessun altro che lo facesse per me», disse, rivolgendosi al dottore, ma tenendo un occhio puntato sulla governante. «Mi sono alzata due volte per metterci altro carbone, perché la casa era fredda come un sepolcro. I riscaldamenti devono essere rimasti spenti da sabato pomeriggio.» A questa affermazione incredibile, la faccia di Agnes espresse soltanto educata sofferenza; il nuovo dottore, invece, era evidentemente imbarazzato dall'essere coinvolto in una discussione incomprensibile per la quale non aveva il tempo. Disse che aveva portato con sé l'apparecchio per i raggi X, ma che la caviglia in quel momento era troppo gonfia per poterle fare una lastra. Chiese alla signora Clayburn di scusare la sua fretta, in quanto doveva visitare anche i pazienti del dottor Selgrove, oltre ai suoi, e le promise che sarebbe tornato quella sera stessa per vedere se fosse possibile fare la lastra, e se la caviglia, come temeva, dovesse essere ingessata. Quindi, porgendo le sue prescrizioni ad Agnes, se ne andò. La signora Clayburn passò una giornata con la febbre e con i dolori. Non
si sentiva di proseguire la discussione con Agnes, e non chiese di vedere gli altri domestici. Le stava venendo sonno, e si rendeva conto che la febbre le confondeva la mente. Agnes e la cameriera la servirono scrupolosamente come al solito e, quando in serata il dottore tornò, la febbre le era scesa; tuttavia decise di non parlare di quello che aveva per la testa finché non fosse tornato il dottor Selgrove. Doveva tornare la sera seguente, e il nuovo dottore preferiva aspettarlo, prima di decidere di ingessare la caviglia... anche se temeva che fosse inevitabile. 5. Quel pomeriggio la signora Clayburn mi chiamò per telefono, e io arrivai a Whitegates il giorno dopo. Mia cugina, che mi sembrò pallida e nervosa, si limitò a indicare il suo piede, che era stato ingessato, e mi ringraziò per essere venuta a farle compagnia. Mi spiegò che il dottor Selgrove si era improvvisamente ammalato a Baltimora, e che non sarebbe tornato prima di diversi giorni, ma che il giovanotto che lo sostituiva le sembrava abbastanza competente. Non fece alcuna allusione agli strani avvenimenti che ho riportato, ma io sentii subito che aveva subito uno shock che la caduta, per quanto dolorosa, non poteva spiegare. Finalmente, una sera, mi raccontò la storia del suo strano fine settimana, così come si presentava alla sua mente eccezionalmente lucida e analitica, e così come io l'ho riportata. Me la raccontò soltanto diverse settimane dopo il mio arrivo ma, in quei giorni era ancora di sopra, costretta a passare le sue giornate tra il letto e il salotto. Durante quelle interminabili settimane, mi disse, aveva riflettuto sull'intera vicenda e, sebbene gli avvenimenti di quelle misteriose trentasei ore fossero ancora vivi nella sua mente, essi avevano già perso un po' del loro terrore, e alla fine aveva deciso di non riaprire la discussione con Agnes, e di non farne parola neanche con gli altri domestici. La malattia del dottor Selgrove si era rivelata non solo seria, ma anche lunga. Non era ancora tornato, e già correva voce che, non appena si fosse ristabilito, sarebbe partito per una crociera nell'India Occidentale, per cui non avrebbe ripreso la professione a Norrington fino a primavera. Il dottor Selgrove, come mia cugina si rendeva conto perfettamente, era l'unica persona che potesse dimostrare che erano trascorse trentasei ore dalla sua visita a quella del suo sostituto; e quest'ultimo, un giovane timido, ritrovandosi improvvisamente sommerso di lavoro, mi disse (quando provai a parlargli
in privato) che il dottor Selgrove, nella fretta della partenza, gli aveva lasciato unicamente un breve promemoria riguardo alla signora Clayburn: «Caviglia rotta. Fare i raggi X». Conoscendo il carattere autoritario di mia cugina, rimasi sorpresa dalla sua decisione di non parlare alla servitù di quello che era successo; però, a pensarci bene, conclusi che aveva ragione. Tutti i domestici erano esattamente come prima dell'inesplicabile episodio: efficienti, devoti, rispettosi e rispettabili. Dipendeva da loro, e con loro si sentiva in famiglia, ed evidentemente preferiva dimenticare completamente la cosa, se le era possibile. Era assolutamente certa che in casa sua fosse accaduto qualcosa di strano, e io ero più che mai convinta che lo shock ricevuto non poteva essere imputabile unicamente alla caviglia rotta. Alla fine, tuttavia, convenni con lei che non aveva niente da guadagnare a interrogare la servitù o il nuovo dottore. Rimasi a Whitegates per il resto dell'inverno e per tutta la primavera seguente e, quando tornai a New York, ai primi di ottobre, lasciai mia cugina con la consueta salute e il consueto buon umore. Il dottor Selgrove aveva avuto un incarico in Svizzera, per quell'estate, e l'ulteriore rinvio del suo ritorno pareva che le avesse fatto dimenticare gli avvenimenti di quello strano fine settimana. La sua vita riprese pacificamente e normalmente come al solito, e la lasciai serena, senza pensare più al mistero, dal quale, ormai, era quasi passato un anno. A quel tempo abitavo da sola in un appartamento a New York, e mi ci ero da poco trasferita quando, una sera tardi, l'ultimo giorno di ottobre, udii suonare il campanello. Poiché era la serata libera della cameriera, ed ero sola, andai ad aprire personalmente la porta, e sulla soglia, con mio sbalordimento, vidi Sara Clayburn. Era avvolta in un mantello di pelliccia, portava il cappello calato sulla fronte e aveva la faccia talmente pallida e stravolta che intuii subito che doveva esserle successo qualcosa di terribile. «Sara», mormorai, senza rendermi conto di quello che dicevo, «da dove vieni a quest'ora?» «Da Whitegates. Ho perso l'ultimo treno e sono venuta in macchina.» Entrò e si sedette sulla panca vicino alla porta. Mi accorsi che si reggeva in piedi a stento, così mi misi seduta accanto a lei, passandole un braccio intorno alle spalle. «Per amor del cielo, dimmi, che cosa è successo?» Mi guardò come se non mi vedesse. «Ho telefonato al garage di Nixon e ho noleggiato una macchina. Ho impiegato cinque ore e un quarto per arrivare qui.» Si guardò intorno.
«Posso dormire qui da te, per stanotte? Ho lasciato il bagaglio di sotto.» «Puoi restare da me quanto vuoi, ma mi sembri così malata...» Scosse la testa. «No, non sono malata. Sono solo spaventata... spaventata a morte», ripeté in un sussurro. La sua voce era così strana, e le mani, che stringevo nelle mie, così fredde, che la feci alzare e la portai subito nella mia cameretta per gli ospiti. Il mio appartamento si trovava in un palazzo antico, di pochi piani, e con il personale di servizio ero in rapporti molto più umani di quanto sia possibile in una di queste torri di Babele moderne. Telefonai in portineria chiedendo che portassero su il bagaglio di mia cugina, e nel frattempo riempii una borsa calda, le scaldai il letto e ve la infilai dentro il più in fretta possibile. Non l'avevo mai vista così muta e remissiva, e questo mi allarmava perfino di più del suo pallore. Non era donna da lasciarsi spogliare e mettere a letto come una bambina; invece obbedì senza una protesta, come se si rendesse conto di essere arrivata allo stremo. «È bello essere qui», disse, in tono più calmo, mentre le rimboccavo le coperte e le sistemavo i cuscini. «Non andartene subito, ti prego... resta ancora con me.» «Ti lascio sola soltanto per un minuto... il tempo di portarti una tazza di tè», la rassicurai, e lei rimase immobile. Lasciai la porta aperta, in modo che mi sentisse muovere nella piccola dispensa dall'altra parte del corridoio e, quando le portai il tè, lo bevve grata, tanto che le tornò un po' di colorito sul viso. Restai seduta in silenzio accanto a lei per un po', e alla fine cominciò a parlare. «Capisci, è passato esattamente un anno...» Avrei preferito rimandare le spiegazioni al mattino dopo, ma dai suoi occhi febbricitanti capii che era decisa a liberarsi dal peso che l'opprimeva e che, finché non l'avesse fatto, sarebbe stato inutile offrirle il sonnifero che le avevo preparato. «Un anno da cosa?», le chiesi stupidamente, non comprendendo ancora la relazione tra il suo arrivo precipitoso e i misteriosi avvenimenti verificatisi un anno prima a Whitegates. Mi guardò sorpresa. «Un anno da quando ho incontrato quella donna. Non ricordi... la strana donna che ho visto per strada il giorno in cui mi sono rotta la caviglia? Allora non ci pensai, ma era la vigilia di Ognissanti, la sera in cui la incontrai.» «Sì, anche oggi è la vigilia di Ognissanti.» «Lo pensavo... Ebbene, questo pomeriggio sono uscita a fare la mia con-
sueta passeggiata. Ero rimasta a scrivere lettere e a rivedere i conti fino a tardi, così si è fatta sera. Ma era una bella serata e, mentre mi avvicinavo al cancello, ho visto una donna che entrava... la stessa donna... che si dirigeva verso la casa...» Le presi la mano, che adesso era calda e bruciava di febbre. «Se era buio, come potevi essere sicura che si trattasse della stessa donna?», le chiesi. «Oh, ne ero sicurissima; il cielo era così chiaro. Io l'ho riconosciuta, e lei ha riconosciuto me; e ho visto che era contrariata di avermi incontrato. L'ho fermata e le ho chiesto: "Dove sta andando?", la stessa domanda dell'anno scorso. E lei mi ha detto, con quella voce strana dall'accento straniero: "Sono soltanto venuta a trovare una delle ragazze". Allora, improvvisamente, mi sono incollerita, e le ho detto: "Non metterai più piede in casa mia. Mi senti? Ti ordino di andartene". E lei ha riso; sì, ha riso... molto piano, ma io l'ho sentita. In quel momento si è fatto completamente buio, come se delle nuvole improvvise oscurassero il cielo, e così, anche se mi era molto vicina, non la vedevo più. Eravamo davanti a una pianta di cicuta che cresce dove svolta il viale e, mentre io le andavo vicino, furiosa per la sua impertinenza, lei si è messa dietro a un cespuglio, e quando l'ho seguita non c'era più... No, ti giuro che non c'era... E nel buio sono tornata a casa di corsa, temendo che mi precedesse ed entrasse prima di me. E la cosa strana è stata che, quando sono arrivata alla porta, la nuvola nera era scomparsa, e c'era di nuovo la luce del tramonto. In casa sembrava tutto normale, e i domestici erano occupati nelle consuete faccende; ma io non riuscivo a levarmi dalla testa l'idea che quella donna, protetta dalla copertura della nuvola, fosse entrata in casa prima di me.» Si fermò a riprendere fiato, quindi continuò il suo racconto. «Nell'atrio mi sono fermata a telefonare e ho chiamato il garage di Nixon, dicendo di mandarmi subito una macchina con autista per andare a New York. E Nixon è venuto di persona con la macchina...» Ricadde sul cuscino, e mi guardò come una bambina spaventata. «È stato gentile da parte sua», disse. «Sì, è stato gentile davvero. Ma quando hanno visto che partivi... i domestici, intendo...» «Sì. Allora sono salita di sopra e ho telefonato ad Agnes. Lei è venuta con la solita espressione fredda e composta. E quando le ho detto che entro mezz'ora sarei partita per New York - ho messo la scusa di un affare urgente - beh, per la prima volta l'ho vista perdere il controllo. Si è dimenti-
cata di assumere quella sua aria sorpresa, perfino di fare obiezione... e tu sai quant'è petulante quando comincia a insistere. Mentre la osservavo, ho colto una scintilla di sollievo segreta nei suoi occhi, nonostante stesse sempre in guardia. Si è limitata a dire: "Benissimo, signora", e mi ha chiesto che cosa volevo portare con me. Come se per me fosse normale correre improvvisamente a New York dopo il crepuscolo in una sera d'autunno per un appuntamento d'affari! No, ha sbagliato a non mostrarsi sorpresa... e a non chiedermi nemmeno perché non prendevo la mia macchina. E il fatto che perdesse la testa in quel modo mi ha spaventato più di ogni altra cosa. Perché ho visto che era talmente sollevata che me ne andassi, che quasi non osava parlare per paura di tradirsi, o che cambiassi idea.» Dopodiché la signora Clayburn rimase in silenzio per un bel pezzo, respirando con minor agitazione; alla fine chiuse gli occhi, come se si sentisse meglio, adesso che aveva parlato, e desiderasse dormire. Mentre mi alzavo senza far rumore per non svegliarla, girò leggermente la testa e mormorò: «Non tornerò mai più a Whitegates». Poi chiuse gli occhi, e vidi che si era addormentata. Ho riportato fin qui, sperando di non aver omesso nulla di importante, la storia della strana esperienza narratami da mia cugina. Di ciò che accadde a Whitegates, personalmente non posso dire altro. Il seguito, e naturalmente c'è un seguito, sono pure congetture, e le presento qui unicamente come tali. La cameriera personale di mia cugina, Agnes, veniva dall'Isola di Skye, e le Ebridi, come tutti sanno, traboccano di storie soprannaturali; storie che raccontano di fantasmi, o di percezioni ancora più spaventose di presenze invisibili che popolano le lunghe notti di quelle tempestose solitudini. Mia cugina, a ogni modo, considerò sempre Agnes il canale - forse inconscio, ma di sicuro irresponsabile - tramite il quale arrivavano le comunicazioni dall'altra parte del velo alla remissiva casa di Whitegates. Anche se Agnes stava dalla signora Clayburn da moltissimo tempo, senza che si fosse mai verificato nessun avvenimento strano che rivelasse questa sua affinità con le forze oscure, la capacità di comunicare con loro poteva essere lo stesso latente nella donna, in attesa di essere risvegliata da una qualsiasi manifestazione; e questa poteva avergliela data la sconosciuta visitatrice che mia cugina, per due anni di seguito, aveva incontrato lungo il viale di Whitegates la vigilia di Ognissanti. Di sicuro quella data convalida la mia ipotesi; perché io credo che, anche in questo secolo privo di
immaginazione, ci sia ancora qualcuno che ricordi che la vigilia di Ognissanti è la notte in cui i morti ritornano sulla terra... e in cui, per la stessa ragione, altri spiriti, benigni o maligni, vengono liberati dai vincoli che rendono sicura la terra per i vivi negli altri giorni dell'anno. Se la ricorrenza di questa data è più di una coincidenza - e da parte mia credo che lo sia - allora ritengo che la strana donna apparsa due volte lungo il viale di Whitegates la vigilia di Ognissanti potesse essere o un'«apparizione», oppure, più probabilmente, la qual cosa è ancora più inquietante, una donna posseduta da una strega. La storia della stregoneria, come si sa, abbonda di casi simili, e le potenze che dominano su queste cose potrebbero aver delegato benissimo una loro messaggera perché chiamasse Agnes e le altre cameriere come lei a un «raduno» di mezzanotte in qualche luogo isolato lì vicino. Per sapere ciò che succede ai raduni, e per conoscere il motivo del fascino irresistibile che questi esercitano sui timorosi e sui superstiziosi, basta consultare l'immane corpus letterario esistente su questi riti misteriosi. Chiunque abbia provato, almeno una volta, una vaga curiosità di assistere a un raduno, sembra che molto presto scopra che la propria curiosità si è tramutata in desiderio, e il desiderio in una smania incontrollabile, la quale, quando si presenta l'occasione, supera qualunque inibizione; perché coloro che hanno partecipato una volta a un raduno, muoveranno cielo e terra per potervi partecipare di nuovo. Questa è la mia spiegazione - puramente ipotetica - degli strani fatti di Whitegates. Mia cugina diceva sempre che non poteva credere che avvenimenti più in sintonia con il desolato paesaggio delle Ebridi potessero verificarsi anche in una allegra e popolosa vallata del Connecticut; ma anche se non ci credeva, di sicuro ne aveva paura - simili paradossi morali non sono inconsueti - e, pur insistendo a dire che doveva esistere una spiegazione naturale al mistero, non tornò mai laggiù a investigare. «No, no», diceva con un leggero brivido ogni volta che sfioravo l'argomento di un suo possibile ritorno a Whitegates, «non voglio neanche rischiare di rivedere quella donna...» E non ci tornò mai più. CHANDLER W. WHIPPLE Una telefonata nel cuore della notte Non servirà a niente raccontarvi tutto ciò ora, e so che devo essere stato
un po' fuori di testa quella notte, e forse per tutta la settimana precedente ma, ad ogni modo, devo raccontarlo, proprio così come mi è successo... Era buio nella stanza, e dal lato destro del mio letto arrivò un suono, acuto e stridente, che mi fece venire i brividi in tutto il corpo e mi fece rizzare i capelli in testa. Era il mio telefono che squillava - realizzai dopo un attimo - ma ciò non mi tranquillizzò molto. A volte il telefono squilla in un certo modo - soprattutto quando è notte e quando è buio - che vi fa saltare il cuore in gola e tende ogni nervo del vostro corpo. Un istante dopo raggiunsi la cornetta e risposi. Non riconobbi la voce. Era una voce rauca e cupa, poco naturale. «Farai bene a tagliare la corda, Joe Clemens», disse la voce. «Qualcuno ha appena ammazzato George Beldon... e incolpano te del delitto...» Dopo quelle parole si sentì un click e la comunicazione si interruppe. Io chiamai ad alta voce, urlai nella cornetta, ma il proprietario di quella voce mi aveva sbattuto giù il telefono. Tremavo come una foglia ed ero freddo come il ghiaccio. Buon Dio! Non potevano aver fatto fuori Beldon! Se veramente l'avevano ammazzato - non importava chi - ne sarei stato incolpato io. Quei documenti che lui aveva nella sua cassaforte... non c'era alibi che potesse venirmi in mente capace di aiutarmi... E l'affare a cui io e Beldon stavamo lavorando... quello era il mio asso nella manica. Mi avrebbe sistemato per la vita. E, cosa ancora più piacevole, avrebbe rovinato Sam Howerton. Doveva andare avanti. Ma non era possibile, se Beldon era morto. Poi, tutt'a un tratto, pensai che conoscevo la voce della telefonata: ero sicuro che fosse quella di Sam Howerton. Quell'ultimo shock mi fece svegliare... Appena aprii gli occhi, non mi resi conto di aver sognato. Ero tutto bagnato di sudore e avevo ancora il respiro affannato. Fissai lo sguardo nell'oscurità della mia stanza; i deboli raggi della luna mi sembravano orribili ombre in movimento. Per un po' non osai neanche muovermi; ero steso lì in attesa: in attesa come se sapessi che qualcosa stava venendo a prendermi e mi avrebbe preso se io avessi fatto rumore. Poi mi scossi. Sprofondai la testa nel cuscino e tirai un lungo respiro. La mia risata suonò piuttosto falsa, ma mi fece bene. Era stato solo un sogno, ora l'avevo capito: solo un altro incubo. Ne avevo già avuti alcuni quella settimana e non c'era proprio niente da meravigliarsi: non con una posta in palio così alta come quella che avevo io in quel momento...
Tuttavia, non ero del tutto sicuro... Non avevo forse sentito il tintinnio che fa il telefono quando viene riagganciato, proprio mentre mi svegliavo? Non mi sentivo ancora quella voce nelle orecchie? O probabilmente il telefono aveva squillato, anche se poi io non avevo risposto. Forse era stato proprio il trillo del telefono a farmi svegliare, e una specie di riflesso condizionato aveva causato il sogno. Forse era addirittura Beldon che mi chiamava a causa dell'affare della transazione, per un motivo o per l'altro. Dovevo scoprirlo. Allungai la mano per prendere la cornetta, quasi sperando che ci fosse qualcuno dall'altro capo del telefono e, allo stesso tempo, impaurito dal fatto che potesse essere così. Ma se qualcuno aveva tentato di rintracciarmi, ora aveva smesso. La linea era libera, e immediatamente sentii la centralinista che strillava. Riattaccai. Rimasi per un po' sdraiato sul letto, a pensare sul da farsi. Mi sentivo di nuovo agitato; e le parole pronunziate da quella voce nel sogno continuavano a risuonarmi nelle orecchie: «Farai bene a tagliare la corda, Joe Clemens. Qualcuno ha appena ammazzato George Beldon... e incolpano te del delitto». E se qualcuno avesse davvero ucciso Beldon?... O, supponiamo che qualcuno avesse intenzione di farlo, quella stessa notte, ed io avessi sognato la cosa come una sorta di avvertimento?... Io non sono superstizioso, non molto almeno, ma si sentono certe storie di come a volte una persona venga messa sul chi va là, così anche in un sogno, e poi si scopre che... e quando ti svegli nel cuore della notte, tutto coperto di sudore gelido e con una voce così lugubre che ti rimbomba nelle orecchie, non è difficile credere che cose del genere possano accadere. Mi alzai e accesi la luce. Cominciai a vestirmi. Dovevo andare da Beldon, in ogni caso... C'era molta strada da fare da casa mia fino all'appartamento di Beldon, specialmente alle tre di mattina; ma io non chiamai un taxi. E non andai neanche al garage, che si trovava solo un isolato più avanti, a prendere la mia macchina. Non era il caso di fare niente di simile. Se era successo qualcosa a Beldon, non volevo che qualcuno, il giorno dopo, fosse in grado di riconoscermi come quello che la notte prima era andato a fargli visita, o che persino fosse uscito di casa. Ci andai a piedi. Durante il tragitto avevo tutto il tempo che volevo per pensare a quella faccenda. Non che io provassi della simpatia per Beldon. Lo odiavo. C'era
solo un uomo che mi era ancora più insopportabile, ed era Sam Howerton; lo odiavo fin da quando eravamo bambini giù alla P.S. 14, e fu lui quello che si prese la ragazza che mi piaceva. In quell'affare con Beldon c'entrava anche Howerton. Vedete: Beldon era il mio avvocato. Era il mio intrallazzatore: uno di prima qualità. Ero io che avevo imbastito quella losca transazione, ma lui solo era in grado di portarla a buon fine, proprio facendola passare sotto i nasoni affilati dei Padri della City. Ma sì, senza i traffici di Beldon con quell'affare, non sarei mai diventato ricco e sarei sempre stato uno dei tanti. Che diamine, dopo quell'affare, avrei accumulato una fortuna, avrei abbandonato la città, e avrei avuto ogni ben di Dio per il resto della mia vita! Questo era quello che speravo di realizzare, e anche prendermela comoda e non avere più preoccupazioni di quel genere... Ma cosa ancora migliore di questa, era ciò che quell'affare avrebbe significato per Sam Howerton. L'avrebbe mandato in rovina. Da completo stupido qual era, aveva fatto il calcolo che quel nuovo corso li avrebbe portati diritto dove loro volevano, e aveva investito in quell'affare fino all'ultimo cent che si ritrovava nelle tasche! Così, mentre stavo per diventare veramente ricco, nello stesso tempo avrei distrutto l'uomo che più odiavo al mondo. Valeva il lavoro di tutta una vita... e non ci erano voluti che due mesi!... Naturalmente non sarei diventato davvero tanto ricco come avevo creduto. A questo ci avrebbe pensato Beldon. Lo faceva sempre. Proprio quando pensavo di navigare nell'oro, e di avergli pagato quella che lui aveva detto sarebbe stata la sua parte, veniva sempre da me a battere cassa, calmo e tranquillo, con quell'aria un po' maligna, e diceva: «Bene, Joe, così tra amici, potrei utilizzare, diciamo, circa diecimila...». «Dannazione a te!», avrei ringhiato io; «non ti sei preso la tua parte? Non ti ho dato tutto quello che avevi chiesto?» Lui avrebbe allargato le sue lunghe braccia e la sua faccia untuosa e melliflua si sarebbe fatta tutta grinze, come se fosse davvero molto spiacente. «Ma in questo affare», avrebbe detto, «le spese sono state così forti! Beh, semplicemente non ce l'ho fatta a farmi bastare i soldi, Joe... davvero non ci sono riuscito, sinceramente, detto fra amici...» «Amici!», avrei replicato io. «Via, Beldon, dannazione a te!» Dopo mi sarei sentito la testa in fiamme, e mi sarei avvicinato a lui furtivamente torcendomi e ritorcendomi le mani, pensando a come avrei potuto strin-
gergliele attorno alla gola. Lui mi avrebbe riso in faccia. «Sai, Joe», avrebbe detto, «pur essendo buoni amici come siamo noi, a volte penso che ti piacerebbe uccidermi. Sì, davvero, qualche volta lo penso. Ma sarebbe dura per te, Joe... sì, sarebbe molto difficile per te...» Avrebbe sorriso, un sorriso appena accennato e, se fossimo stati nel suo appartamento, avrebbe indicato la sua cassaforte con la combinazione e con una serratura a tempo, che tranne lui nessuno poteva aprire. «Capisci, Joe», avrebbe detto a quel punto, «tu hai fatto parecchie cose di cui io sono a conoscenza. Io ce le ho tutte annotate lì, nero su bianco. Se dovessi morire all'improvviso, la Polizia potrebbe dare uno sguardo a quelle carte nella cassaforte. Getterebbero una cattiva luce su di te, Joe, una pessima luce...» E poi avrebbe riso di nuovo, in quel modo stridulo e orribile di ridere che aveva solo lui. Avrebbe detto ancora qualche altra cosa, così come aveva fatto un paio di giorni prima; poi avrebbe aggiunto: «Sai, Joe, qualche volta mi chiedo chi dei due per primo farà fuori l'altro». A quel punto se ne sarebbe uscito in una bella risata, come se tutto fosse solo uno scherzo: ma ormai mi aveva terribilmente innervosito. Si stava preparando a giocarmi un brutto tiro, non appena l'affare fosse stato concluso... proprio quando avevo sperato di potermi tirare fuori da quell'incredibile bolgia? Non c'era affatto da stupirsi se ultimamente stavo avendo degli incubi. Quell'affare doveva essere portato al termine; a dispetto di Beldon avrei fatto un sacco di soldi, e ciò avrebbe messo anche Howerton fuori combattimento; avrebbe funzionato. In seguito, forse, avrei potuto trovare un modo per farla finita con Beldon una volta per tutte... Al diavolo, non potevano aver ucciso Beldon proprio allora! E se l'avessero fatto, con quella roba nella cassaforte! E se ci stavano provando, e quel messaggio era proprio arrivato giusto in tempo come una sorta di avvertimento spirituale? Cominciai a camminare più velocemente... Ci fu solo una volta durante la camminata in cui feci una breve sosta. Stavo quasi per tornare indietro, quando fui fulminato da un pensiero. E se la cosa fosse davvero successa? Se Sam Howerton avesse assassinato Beldon, o l'avesse fatto uccidere, e poi mi avesse telefonato, immaginandosi che mi sarei precipitato lì, direttamente nella tana del lupo? Ma con una risata mi liberai di quel pensiero, che era troppo inattendibi-
le. Sam Howerton non avrebbe mai ucciso nessuno. E non avrebbe nemmeno ingaggiato qualcuno. Era troppo bigotto per quel genere di... Eppure l'idea di stare andando proprio lì non mi piaceva affatto. Non mi ero mai fatto una ragione del perché Beldon, con tutti i soldi che aveva accumulato, si ostinava a vivere laggiù, vicino al fiume, in quella vecchia e tetra casa in pietra arenaria. Lì le strade erano scure e strette. Da quelle parti, nella zona tra le banchine e la ferrovia soprelevata, non si preoccupavano molto dei lampioni, e persino i poliziotti se ne tenevano a distanza. Suppongo che considerassero il posto troppo poco sicuro per loro... Il fatto è che, con il sogno che avevo fatto e i pensieri che mi passavano per la testa, potevo fantasticare su un mucchio di cose, e tutte abbastanza sinistre. Ci poteva essere un brutto ceffo nella maggior parte di quegli androni. Ero contento di aver infilato una mazza nella tasca del mio soprabito, e di legno di quercia per di più. Tenevo continuamente una mano sulla mazza. Quando alla fine arrivai al portone dell'edificio di pietra dove abitava Beldon, credo che stessi letteralmente tremando. Forse, proprio per quel motivo, non mi ero ancora del tutto fermato quando fui scosso da quella voce che mi risuonava nelle orecchie. Suonai il campanello e aspettai. Beldon stava al primo piano dello stabile, e mi aspettavo che sarebbe stato lui a venirmi ad aprire la porta. Sbirciai attraverso il vetro, pensando che l'avrei visto trascinarsi fino alla porta per girare il pomello; ma all'interno era buio pesto e non riuscii a vedere nulla. Ad ogni modo, poteva essere sceso per le scale sul retro fino alla porta di servizio che dava in cucina e in quel caso non avrei potuto vederlo; ma ora non avrei potuto vederlo neanche se fosse uscito dalla porta principale, proprio vicino all'entrata. Non sentivo nemmeno alcun rumore. Bussai di nuovo, con forza. Aspettai a lungo. Ancora non si faceva vivo nessuno e non si accendeva alcuna luce. Iniziai ad essere piuttosto spaventato. E se fosse stato tutto vero? E se Beldon fosse... Con la tranquillità di cui potevo essere capace in quel momento, girai il pomello della porta. Si aprì. La spinsi un altro po' più indietro. Poi, all'improvviso, mi raggelai di nuovo. Potevo sentire i capelli che mi si rizzavano dietro il collo. Perché tutt'a un tratto mi resi conto che c'era
qualcuno dietro alla porta!... All'inizio non lo vedevo e non lo sentivo ma sapevo che era lì, proprio come se me l'avesse sussurrato all'orecchio... e sapevo che mi stava aspettando. Dopo riuscii a sentire il suo respiro... o almeno pensai di sentirlo. Era un respiro corto e ansimante, un respiro affannoso. Passai un brutto momento. Tremavo in tutto il corpo. Mi sentivo in trappola, come se il tutto fosse stato montato per farmi andare lì e per mettermi in trappola. Ma alla fine riuscii a calmarmi. Dopotutto ora non potevo più tornare indietro; non potevo girare sui tacchi e scappare via. Perché, qualsiasi altra cosa fosse uscita fuori, sapevo ora che ciò che avevo sognato era realmente accaduto: che qualcuno aveva ucciso George Beldon. E sapevo anche che era il suo assassino, che stava per darsela a gambe proprio allora, e che stava dietro a quella porta. Dovevo prenderlo. Dovevo metterlo fuori combattimento, e per far questo dovevo farlo uscire allo scoperto. Altrimenti, quelle carte nella cassaforte di Beldon mi avrebbero dato filo da torcere... Spostai la mano dalla rivoltella alla mazza di legno di quercia, e la tirai fuori. In una colluttazione corpo a corpo avrebbe funzionato meglio. Spinsi ancora di più la porta all'indietro, questa volta con un movimento molto rapido. Venne verso di me proprio nell'attimo in cui andai verso di lui. Riuscì a scorgermi mentre, all'inizio, io non riuscii a vederlo, e ciò gli diede un po' di vantaggio; ma allo stesso tempo lui non aveva idea che io sapessi che lui era là, e questo fatto avvantaggiò me. Ne approfittai. Lo colpii violentemente, facendolo finire contro il muro. Contemporaneamente la mia mazza volò con un sibilo in direzione del suo cranio. Doveva aver urtato il muro nello stesso momento in cui la mazza lo colpì. Udii il rumore di qualcosa che si rompeva. Scagliata con irruenza la mazza, mi resi conto che si era praticamente incastrata tra la sua testa e la parete - ma comunque la sua testa aveva urtato lo stesso contro il muro, e con violenza. Non avevo pensato di averlo spinto con tanta forza. Feci un passo indietro, piuttosto sbigottito. Scivolò pesantemente lungo disteso sul pavimento. Allora capii che l'avevo ucciso. Per un attimo ne fui terrorizzato. Non avevo mai ammazzato nessuno prima. Ma poi mi guardai intorno e mi sentii un po' meglio. La cosa non aveva preso molto tempo e non avevamo fatto molto rumore; era ancora buio nell'ingresso e nessuno avrebbe potuto comportarsi con più accortez-
za di me. Inoltre, ciò che improvvisamente mi fece sentire meglio, riscaldandomi con un tepore in tutto il corpo, fu che, per qualche motivo, ero certo che l'uomo che avevo ucciso, l'assassino di Beldon, fosse Sam Howerton. Mi aveva già dato abbastanza sui nervi uccidendo Beldon e pensando di poter accollare a me la colpa, ma io invece l'avevo colto proprio con le mani nel sacco!... Per prima cosa pensai di filarmela in fretta. Se Beldon era morto e avessero trovato Howerton anche lui morto proprio vicino alla porta di casa sua, ciò mi avrebbe prosciolto da ogni accusa. Poi cominciai a riflettere... Quei documenti si trovavano ancora nella cassaforte. Avrei fatto meglio ad entrare nell'appartamento di Beldon, se ci riuscivo, e vedere se c'era qualche possibilità di mettere le mani su quella roba. Tra l'altro forse Beldon non era ancora morto; forse Howerton aveva pensato di averlo ammazzato, o non era riuscito a finire l'opera perché ero arrivato io e avevo suonato il campanello. In quel caso, le cose si sarebbero messe molto bene per me. Avrei potuto persino trattare con Beldon per riavere quei fogli, poi finirlo... Comunque fosse, la cosa avrebbe funzionato ottimamente per me... Lasciai il corpo esattamente dov'era. Non c'era il tempo per trovare un posto dove nasconderlo. Inoltre, se Beldon era morto, nel giro di pochi minuti l'avrei saputo. Mi sarei lasciato cadere all'interno della porta, proprio vicino a lui, e ciò mi avrebbe scagionato. Non avrebbero potuto incolparmi di nulla in quel caso... Bussai alla porta di Beldon. Non ci fu nessuna risposta. Bene, è morto, pensai; ma ad ogni modo dovevo entrare. Allora, per la prima volta, notai che c'era una luce molto fioca che si intravedeva nel buco della serratura. Beldon doveva essere stato ancora sveglio quando era arrivato Howerton... Tentai di aprire la porta. Rimasi allibito quando, senza troppi sforzi, quella si aprì. La porta principale non era sempre chiusa a chiave... ma Beldon di solito non era tipo da far entrare chiunque ne avesse voglia direttamente nel suo salotto... non senza almeno sapere che cosa era venuto a fare. Ad ogni modo entrai. Rimasi accecato. L'intera stanza era illuminata a giorno. E feci un balzo indietro tanta fu la sorpresa. Lì davanti, proprio sulla sedia vicino al tavolo, dove aveva sempre l'abitudine di stare seduto, c'era George Beldon... che stava leggendo un libro! Stava seduto lì, vestito di tutto punto, e stava leggendo un libro di storia greca. Leggeva sempre libri di quel tipo. E la cosa divertente era che non
sembrava per niente spaventato, e neanche sorpreso, di vedermi entrare. Solo guardò in su verso di me e sorrise con quel suo sorrisetto maligno. Pareva quasi che mi stesse aspettando. Mi diede una certa spiacevolissima sensazione che mi fece venire i brividi, proprio come li avevo avuti dopo il sogno. «Bene, bene», disse, «guarda un po' chi si vede: il mio caro amico Joe Clemens, che mi viene a fare una visita notturna! Molto notturna, direi. È molto carino da parte tua, Joe, venire qui a farmi compagnia a quest'ora così tarda e solitaria... ed io sono molto contento di vederti! Ma che posso fare per te stanotte, Joe?» Quello fu ciò che disse; ma, per quanto contento pretendesse di essere, non si alzò per venirmi a stringere la mano, o qualcosa di simile; rimaneva seduto lì e sorrideva. Eppure a me pareva che non ci fosse niente da ridere; lui non si era mai alzato per stringermi la mano quando io entravo nella stanza. Pensavo sempre che molto probabilmente aveva una mazza infilata da qualche parte in quella sedia, e se ne stava lì pronto ad usarla; ma forse non ce l'aveva, dopotutto. Sapeva che non aveva nulla da temere da parte mia, e non aveva bisogno di nessuna mazza... Credo che avessi l'aria piuttosto nervosa. «Io... io ero venuto solo a parlare con te», dissi. «Di... di niente di particolare...» «Bene, bene», ripeté, con quel suo spiacevole ghigno. «Così il mio vecchio amico Joe è venuto fin qui solo per parlare con me... e di niente di particolare. È venuto per fare una chiacchierata amichevole... Bene, Joe, avvicinati una sedia, allora, e facciamo due chiacchiere...» Presi la sedia e mi sedetti. C'era qualcosa nei suoi occhi che mi indusse a farlo, sebbene non avessi voglia di sedermi. Volevo sono andarmene di lì più velocemente che potevo. Compresi tutto, subito. All'inizio mi era preso un colpo pensando che forse non era Howerton lì fuori all'ingresso. Forse era solo qualcuno dello stabile che pensava che io stessi andando a derubarli. Ma ora io sapevo, lo capivo dal modo di comportarsi di Beldon, che doveva essere stato Howerton. Era venuto lì con l'intenzione di uccidere Beldon e gettare la colpa su di me, ma non aveva funzionato. Beldon era preparato a un fatto del genere, così Howerton se l'era svignata. E Beldon aveva subito capito tutto, e lo considerava come un grosso scherzo. Lo volle considerare in quella maniera; non avevo mai visto nessuno che si preoccupasse così poco della propria pelle. E, in un certo senso, era una
specie di gioco tra lui e me; anche lui la vedeva così e, per una volta, pensai io, lui non stava ridendo di me; stava ridendo con me... Rendendomi conto di questo fatto, mi sentii un po' meglio. Ero del tutto certo che non si fosse accorto che avevo ucciso Howerton; e fino a quando fossi riuscito a tenerlo all'oscuro di quella questione, potevo starmene seduto tranquillo. Appena ne avessi avuto la possibilità, sarei uscito fuori di lì e avrei cercato un posto sicuro dove sistemare il corpo di Howerton, e sarei stato di nuovo tranquillo. Nel frattempo, però, dovevo controllarmi, perché ero troppo nervoso. Rimanemmo seduti uno di fronte all'altro per un po', e io non riuscivo a pensare a niente di cui parlare. Alla fine Beldon fece un sorrisetto un po' più aperto. «Ora, Joe», disse, «sei proprio sicuro di non essere venuto per una faccenda poco amichevole? O, per caso, non sei venuto per qualcosa che ha a che fare con un nostro comune amico?» Quella volta ragionai molto in fretta. Cominciavo a dominare il nervosismo, nonostante il fatto che il ghigno con cui mi guardava mi facesse accapponare la pelle. «Per quanto ne so io, George», mi fermai - non l'avevo mai chiamato George prima d'ora, così potete capire che mi ero decisamente ripreso «noi non abbiamo mai avuto degli amici in comune. Credo che abbiamo gusti differenti.» Allora lui si mise a ridacchiare. Aprì la bocca e ghignò a voce alta, e io lo sentivo ghignare. «Sì, davvero, Joe, questo è un dato di fatto!», disse. «Abbiamo davvero pochi, se pure qualcuno c'è, amici in comune! Come avrebbero detto i greci...» Io non capii cosa avrebbero detto i greci, perché lo disse in greco, o forse in latino, non so. Non so cosa ci fu in quel che disse che mi fece accapponare la pelle di nuovo e mi fece sentire nervoso, ma all'improvviso fu di nuovo così. Probabilmente era il suo modo di comportarsi, che faceva sembrare tutto uno scherzo; infatti più lui insisteva in quell'atteggiamento, meno io credevo che fosse uno scherzo. Avevo appena ucciso un uomo; e ora cominciavo a pensare che, dopotutto, forse la cosa sarebbe tornata a mio vantaggio. Lui continuava a parlare, e io diventavo sempre più nervoso: alla fine realizzai che, per tutto il tempo, lui aveva proprio mirato a farmi sentire così. Non era affatto uno scherzo la situazione che si era venuta a creare tra noi due; lui stava cercando di mettermi con le spalle al muro, facendomi spiattellare tutta la storia, in modo da avere qualche altra cosa ancora con cui
ricattarmi, qualcosa di definitivo stavolta. Eppure, non riuscì a farmi spifferare un bel niente, anche se continuava a sorridere, parlare, farmi domande. Ma, allo stesso tempo, io non riuscivo a liberarmi di lui. L'avrei terribilmente desiderato, ma era come se mi avesse ipnotizzato. Era orribile. Avevo come la sensazione che tutte le cose avanzassero da ogni lato verso di me. C'era il corpo di Howerton lì fuori, all'ingresso... e ormai doveva già aver fatto giorno. C'erano quei fogli nella cassaforte. Ed io ero lì seduto ad ascoltare le chiacchiere di Beldon: tutto sembrava bizzarro e innaturale, ma non ero in grado di andarmene. «Ascolta, George», me ne uscii alla fine, «quei fogli che hai tu... sono venuto a prenderli. George, puoi avere tutto quello che guadagneremo con quella transazione, se mi darai quei fogli.» Lui mi guardò per un po' e fece una specie di sorriso. «Ma via, Joe», disse, «non ti pare di correre un po' troppo? Sei sicuro... tutto il guadagno di quell'affare?» «Sì, tutto», gli dissi. «Non ne posso più. Voglio tagliare la corda.» Lui mi guardò con la coda dell'occhio. «Joe», disse, «mi piacerebbe crederti... sì, davvero, mi piacerebbe. Ma come farò ad essere certo che tu mi darai tutto? Come faccio a sapere che tu non ti libererai di me quando avrai ottenuto i fogli?» «Ascolta», dissi; «se non ho mai parlato chiaro, lo sto facendo adesso. Tutto ciò che voglio è avere quei fogli e andarmene via di qui. Firmerò tutti i documenti che vorrai, lascerò a te ogni cosa e tu potrai portare a termine da solo la transazione.» Lui scosse la testa. Sembrò che volesse appoggiarsi allo schienale della sedia. «Non va, Joe», disse. «Davvero non va. Ma sei arrivato troppo tardi. Non posso aiutarti ora, Joe.» Qualcosa scattò nella mia testa. Mi avvicinai a lui. «Troppo tardi!», ringhiai. «Dannazione a te, Beldon!» Capì che stavo per ammazzarlo, ma non si mosse! Rimase lì seduto, e sorrideva... sorrideva veramente! Era il sorriso più orribile che avessi mai visto. E i suoi occhi sembravano in fiamme: come se dentro di loro vivesse e ardesse l'inferno. Guardandoli, cominciai a tremare in tutto il corpo. Tornai sui miei passi. Aspettò un attimo che mi calmassi. «Faresti bene ad andartene, Joe», disse allora. «Non ne caverai niente di buono a stare qui. Faresti bene ad allontanarti dal luogo del tuo delitto. Ma se fossi in te, Joe, prima mi libe-
rerei di quella maledetta mazza che tieni in mano!» Suppongo di aver gridato e subito mi misi in tasca quella cosa che non sapevo di tenere ancora in mano; ma se lo feci, nessuno poteva avermi sentito, perché contemporaneamente Beldon rideva. Stavolta non era un riso soffocato: era la sua orribile, rumorosa risata... solo che ora era ancora peggio di prima. Sembrava che stesse inghiottendo fiotti di sangue mentre rideva. Urlai forte. E mi misi le mani davanti agli occhi, perché non sopportavo di guardarlo più a lungo. Era ripugnante... Quando tolsi le mani, mezzo secondo dopo, mi accorsi che la luce del sole stava filtrando attraverso gli avvolgibili della finestra. E, quando guardai la sedia di Beldon, lui non c'era! Era proprio come se fosse svanito nel nulla all'apparire del giorno. Per un attimo rimasi lì impalato e non riuscii a muovermi. Poi, improvvisamente, tutto si fece chiaro nella mia mente. Quel vecchio diavolo sapeva che avevo ucciso Howerton e voleva che ne fossi incolpato. In quel mezzo secondo era scivolato accanto a me... era scivolato dietro di me e si era precipitato fuori della porta a chiamare i poliziotti. Mi girai e gli corsi dietro. Aveva chiuso la porta, ma io la aprii con violenza. Mi catapultai nell'ingresso e la luce che si fece strada dietro di me illuminò il corpo dell'uomo che avevo ucciso circa un'ora prima. Allora mi fermai per un attimo. La mia gola emetteva un rumore simile a strani piagnucolii. Credo che fossi bianco come un fantasma. Il corpo che stava lì disteso, con lo sguardo rivolto verso di me, era quello di George Beldon! Dopo mi inginocchiai. Tentai di convincermi che il primo cadavere doveva essere venuto ad uccidere Beldon quando lui era corso fuori per farmi prendere; ma non reggeva. Il corpo era già quasi completamente freddo. Doveva essere morto poco dopo il mio arrivo nella casa. Penso proprio che a quel punto diventai matto. Non riuscivo assolutamente a muovermi. Stavo solo accovacciato lì ed emettevo di nuovo quegli strani, spaventevoli suoni. I poliziotti mi trovarono così quando un minuto dopo fecero irruzione nella casa. Sembra che fossero rimasti a girare nella zona tutta la serata, perché Beldon glielo aveva chiesto. Avevano perso il momento dell'assassinio ma, dopo che io ero entrato dentro, loro avevano sbirciato dalle veneziane e mi avevano visto nell'appartamento di Beldon. Tentai di dire loro che quel fat-
to mi scagionava, se loro stessi mi avevano visto lì a parlare. Si fecero una bella risata. «Scagionarti? Eh sì, per tutti i diavoli!», disse uno di loro. «Non sarà quello; no di certo. Non servirà essere stato lì dentro a parlare per un'ora con una sedia vuota!» Allora smisi di parlare; ed ora vi sto raccontando tutto questo perché comunque non fa nessuna differenza. Non siete tenuti a credermi; ma sono stato io quello a cui sono capitate queste cose e suppongo che io... dovrei saperlo. Non riuscirete a farmi credere che quella sedia era vuota; io l'avevo visto. Ma, come ho detto, in ogni caso non fa nessuna differenza. Sto per essere giustiziato sulla sedia elettrica per l'uccisione di Beldon, e non c'è modo per evitarlo. Al diavolo, l'ho ucciso, non è vero? PAUL ERNST L'uomo in nero Il senso di anonimato che si avverte in un ballo in maschera genera licenziosità. Il tuo volto è coperto. Nessuno sa chi sei. Hai la sensazione di poter fare quello che vuoi poiché la tua identità è occultata. Si dimentica il fatto che il momento di togliersi la maschera arriva sempre dopo un breve lasso di tempo. Queste sensazioni, più il fatto che gli amici di Rex Carr erano uomini e donne comunque non troppo pudibondi, stavano trasformando la festa in maschera, nella casa da poco acquistata di Carr, in un qualcosa che somigliava a un'orgia. Regnava un'aria di febbrile gaiezza. Gli uomini, in costumi variopinti e maschere che rendevano irriconoscibili i loro volti, erano leggermente ubriachi e qualcosa di più che leggermente indiscreti. Le donne, in costumi modellati per sottolineare la perfezione dei loro corpi, squittivano in risatine stridule alle avances che normalmente avrebbero respinto. Le loro guance erano arrossate e accaldate, il vociare rumoroso e incessante. Ma vicino alle porte a vetri che davano sul terrazzo c'era una coppia - un uomo e una donna - i cui volti erano pallidi e le cui voci erano basse e concitate. La ragazza era alta, di figura esile ma ben proporzionata. Era vestita con un costume da pirata, i cui logori pantaloni, unitamente alla lacera blusa di
seta, facevano intravedere una pelle di avorio. Avrebbe potuto benissimo non mascherarsi. I suoi capelli, del colore rosso brillante del rame lucido, erano quel genere di capelli che nemmeno una donna su centomila possiede. Perciò la si riconosceva subito per Ruth Dana: era figlia di Ralph Dana, agiato proprietario di una miniera di carbone. L'uomo che era con lei vestiva gli stracci di un vagabondo, che però non riuscivano a cancellare un'impressione di innata impeccabilità. Era di una testa più alto di Ruth Dana, benché lei fosse già alta come ragazza; aveva i tratti slanciati e flessuosi di un purosangue... e infatti lo era. Perché lui era Mattson Danforth, la cui famiglia era colta e facoltosa già ai tempi in cui gli indiani scorrazzavano nel Massachusetts. Ruth Dana ebbe un brivido improvviso, sebbene la brezza che entrava dalle porte a vetro non fosse fredda. «Ho le allucinazioni, Matt», disse. Aveva una voce bassa, rauca e musicale. «Lo immaginavo», annuì l'uomo. La maschera nera che gli copriva gli occhi e l'alto dorso del naso accentuavano il pallore del suo volto. Si vedeva che era terribilmente teso. «Se io fossi una ragazza e mi trovassi qui, a casa di Rex Carr, nella situazione in cui ti trovi tu, avrei le allucinazioni anch'io», disse lui. «Non è solo questo», replicò Ruth. «Sto cercando di non pensarci per quanto mi è possibile. C'è qualcos'altro. C'è qualcosa di terribile nell'atmosfera di questa casa, Matt.» «C'è qualcosa di osceno nel darvi un ballo in maschera così presto», disse brusco Mattson Danforth. «Rex Carr è un assassino, che sta ballando sulla tomba di Hugh Cunningham.» Con dita leggermente tremanti, Ruth si portò il rossetto alle labbra, che erano davvero troppo pallide. «Tutti sanno che Carr si è impadronito di questa casa, e di tutte le altre proprietà di Cunningham, con una truffa tanto disonesta quanto legale. Carr raggirò Cunningham, che si fidava ciecamente di lui. Gli lasciò solo la camicia che aveva addosso e intanto ne rideva. Allora Hugh si uccise, facendosi saltare le cervella. Ho sentito dire che Carr si mise a ridere quando lo seppe, e che dichiarò che a un credulone come Cunningham non dovrebbe mai essere permesso di andare liberamente in giro. E ora ha la sfacciataggine di organizzare un baccanale nella casa di Hugh a meno di un mese di distanza dalla sua morte.» «Ti sentirà», disse Ruth, mordendosi le labbra.
«Spero proprio di sì. Ma non sentirebbe nulla di nuovo. Lui sa cosa ne penso io di questa faccenda. E certamente saprà cosa ne penso... di te e di lui.» Per un istante il ferreo autocontrollo che Danforth si era imposto fu sul punto di spezzarsi. «È quasi impossibile crederci», disse. «È quel genere di cose che vedi sul palcoscenico o che leggi nei vecchi romanzi... non certo una cosa che pensi possa accadere. Un uomo dall'anima di pirata, che si è già preso con la sola forza tutto quello che voleva, ora ha deciso di prendersi una moglie. Ti vede, mette tuo padre in una condizione di dipendenza economica, prima ancora di conoscerti, e poi ti ordina di sposarlo se non vuoi vedere tuo padre rovinato come Hugh Cunningham. È incredibile.» «Ma probabilmente è vero», disse Ruth, lanciando un'occhiata fuori dalla terrazza. «Già», disse Danforth, «probabilmente... è... vero.» Il sudore gli imperlava la fronte al di sopra della maschera, ma le sue labbra sorrisero poiché generazioni di buone maniere frenavano l'esibizione del suo travaglio. «Sei ancora del parere che io l'uccida?», disse, accendendosi una sigaretta con le dita forti e sottili, senza un tremito. Ruth scosse la testa, portandosi la mano alla gola. «Per l'amor di Dio...» «Io non credo sia una buona idea», disse Danforth. «Ne abbiamo parlato diffusamente e non si è rivelata una soluzione pratica. Non farebbe altro che trascinare tutti noi sui giornali: io finirei sulla sedia elettrica o dietro le sbarre per tutta la vita, e tu faresti una fine anche peggiore di quella che farai diventando la moglie di Carr... se esiste una fine peggiore...» Si fermò per fissare qualcuno. Lo sguardo di Ruth seguì il suo. Guardava un uomo vestito con un normale abito nero, la cui sola concessione allo spirito della mascherata era una comune maschera che copriva la parte superiore del volto. La parte inferiore del viso era bluastra, come se avesse bisogno di una rasatura. «Chi è quello?», disse Danforth. «L'ho osservato per tutta la serata. Sembra che sia venuto da solo, anche se Carr invita sempre e solo coppie e, per tutto il tempo che l'ho osservato, non ha scambiato una parola con anima viva, benché sia già qui da più di un'ora.» Ruth scosse la testa ramata.
«Non ne ho la più pallida idea. Lo scopriremo quando ci toglieremo tutti la maschera. Balliamo?» «Per ballare assieme a Carr sulla tomba di Hugh Cunningham?», disse Danforth. «Preferisco di no. Usciamo sulla terrazza, tesoro. Ci sono molte cose da dire e non molto tempo per dirle. Infatti non oserò più vederti dopo che avrai... sposato Carr. Se lo facessi, alla fin fine lo dovrebbero organizzare quel festino attorno alla sedia elettrica.» La maschera nascose le lacrime che sgorgarono dagli occhi di Ruth bagnandole le lunghe ciglia, mentre usciva con lui sulla terrazza. Rex Carr, l'ospite della festa, stava in piedi accanto all'entrata tra il salone d'ingresso e la biblioteca. Guardava una silenziosa e alta figura, che indossava un ordinario vestito nero da uomo di affari. Aggrottò leggermente le sopracciglia e chiamò con un cenno arrogante il suo maggiordomo, che si stava frettolosamente dirigendo verso la biblioteca con un grande vassoio di drink. L'uomo gli si avvicinò, obbediente nell'atteggiamento rispettoso del corpo, mentre dai suoi scialbi occhi azzurri traspariva l'odio. «Parke», disse Carr, indicando col mento la figura in nero, «chi diavolo è quello?» «Non lo so, signore», disse il maggiordomo. «Oh, ma davvero, non lo sai?» La voce di Carr era alta abbastanza perché la sentissero parecchie persone là vicino. «E allora, per cosa credi che io ti paghi... per permettere agli estranei di rovinarmi le feste?» «Lei stesso ha controllato gli inviti quando sono stati presentati alla porta, signore», disse il maggiordomo con voce inespressiva. «Ma non posso stare fuori a sorvegliare le mura del giardino e il cancello principale. O mi sbaglio?», grugnì Carr. «Qui non voglio gente che non riesco a riconoscere.» «Ma credo che in questo momento ce ne sia molta che lei non riesce a riconoscere, con quelle maschere sul volto, signore.» L'uomo fece notare l'ovvietà. I torbidi occhi castani di Carr dardeggiarono rossi attraverso i fori per gli occhi della sua maschera. «Quando vorrò sentire le tue opinioni te le chiederò, Parke! Penso che sarebbe un'idea dannatamente buona quella di licenziarti.» Si fermò e un lento sorriso comparve sul suo viso. Non era un sorriso gradevole.
«Ma a te piacerebbe essere licenziato, non è vero, Parke?» «Sì, signore», disse Parke. «Tu mi odi, e odi lavorare per me, vero?» Le nocche dell'uomo si sbiancarono sull'orlo del vassoio che stavano stringendo. «Sì, signore», disse con voce inespressiva. «Ma non vorresti servirmi male o andartene, vero, Parke?», continuò Carr con tono quasi affabile. «Almeno non fino a quando avrò l'ipoteca sull'appartamentino che doveva essere il sostegno tuo e di tua moglie per la vecchiaia... e nemmeno fino a quando avrai quattro pagamenti arretrati!» Carr serrò le mani dietro la schiena. Era una posizione incongrua. Anche lui era abbigliato in tenuta da pirata. Ma quell'atteggiamento non era certo quello di un pirata, come non era da pirata il suo corpo tozzo e grasso. «Si ricava il meglio dalle persone quando è in tuo potere tagliare loro la gola in qualsiasi momento», disse con tono gioviale. «È una lezione che ho imparato presto. Se vuoi qualcosa, assicurati il vantaggio su colui che la possiede o qualcos'altro che lui stima di uguale valore. Poi spremilo. I risultati sono eccellenti...» Lo scoppio di beffarda giovialità si dissolse. «Scopri chi diavolo è quell'uomo in nero», ordinò. «Sembra un impresario di pompe funebri. Poi di' alla signorina Dana che voglio parlarle.» «Qui, signore?», disse il maggiordomo. «No, nello studio.» Carr attraversò il salone in direzione opposta alla biblioteca, verso il retro della casa. Lì c'era una porta, chiusa. Carr tirò fuori la chiave e l'aprì. Entrò nello studio, dieci metri per dieci, rivestito di libri, dove Hugh Cunningham aveva trascorso la maggior parte del suo tempo libero; dove, per di più, si era sparato quando si era reso conto che ogni dollaro che possedeva era proprietà di Carr. Ma Carr non se ne preoccupò. Lui non era apprensivo. Voleva semplicemente una stanza in cui parlare con Ruth Dana da solo. Chiuse la porta dietro di sé e si avvicinò alla mensola sopra il minuscolo camino. Lì era appeso un quadro, un ritratto di Cunningham. Carr lo osservò con gli occhi socchiusi. Il ritratto era quello di un uomo sulla quarantina o giù di lì, con un volto mite, non molto austero. L'artista avrebbe potuto rendere il volto più virile, ma era evidente che gli era stato commissionato di ritrarre Cunningham come era e non come avrebbe dovuto essere. C'era perfino un neo della grandezza di una monetina sulla
mascella, proprio come c'era stato un neo sul volto di Cunningham quando era vivo. «Dovrò toglierti di lì, vecchio», bisbigliò Carr, scrollando le spalle in un gesto di noncuranza. «Ora non abiti più qui...» Si voltò di scatto quando sentì la porta aprirsi. Poi sorrise nel modo più accattivante che conosceva. Ruth Dana era ferma sulla soglia: i suoi capelli color rame lucido sembravano una fiamma nella relativa oscurità dello studio. «Volevi vedermi?», disse lei con voce atona e cadaverica. «Sì», disse animatamente Carr. «Entra. Entra. Chiudi la porta dietro di te. Ermeticamente. Ecco, così. Solo quando la porta è chiusa ermeticamente la chiave gira nella serratura. E noi non vogliamo essere interrotti, vero?» Ruth non disse una parola. Carr sorvolò sul significato di quel silenzio. «Sei affascinante con quel costume da pirata, mia cara. Come vedi, ti ho chiesto di indossarlo per fare coppia col mio. Il signore e la signora Pirata!» Fece una sonora risata. «Ma il motivo per cui ti ho chiamata - voglio dire, ti ho chiesto di venire qui - è per parlare di una cosa importante. Se me lo permetti, vorrei annunciare la data del nostro matrimonio stasera.» «Lo faresti comunque, con o senza il mio permesso, vero?», disse Ruth. «Calma, calma, non sono così impulsivo.» «Annuncialo stasera o quando ti fa piacere», Ruth si strinse nelle spalle. «Forse è meglio espletarla subito questa seccatura.» «Il tuo non è un tono di voce molto gentile», si lamentò Carr. «È l'unico tono di voce che mi sentirai usare», disse calma Ruth. «Tu mi stai costringendo a sposarti per salvare mio padre. Come regalo di nozze mi darai il certificato del pignoramento che hai imposto sulla sua miniera. Affari, signor Carr, semplicemente affari! Sono sicura che gli uomini d'affari non danno peso a certe cose di poca importanza, come il tono di voce.» «Per Dio!», disse Carr con voce roca. «Avrei voglia di spremere tuo padre fino a farti cambiare tono. Ma preferisco di no. Ti avrò, mia cara, alle tue condizioni. Ma... ti avrò! Usa il tono di voce che vuoi... ora. Ne imparerai uno diverso più tardi...» La voce di Carr si azzittì. Guardava al di sopra delle spalle di Ruth, verso la porta. Così intenso era il suo sguardo che si voltò anche lei, involontariamente, per vedere cosa lui stava guardando.
Sotto l'arco della porta aperta c'era un uomo. Era alto e vestito di nero. Un grosso anello nero a sigillo che portava al medio faceva sembrare cerea e bianca la mano posata sull'orlo della porta. «Chi... chi sei?», farfugliò Carr, tanto in collera da non riuscire a parlare senza balbettare. «E che diavolo fai qui?» L'uomo sulla soglia non disse una parola. Fissava Carr. O almeno il suo volto era girato in quella direzione; la luce nello studio era tanto fioca che non gli si riuscivano a vedere gli occhi. I fori per gli occhi della sua maschera parevano buchi neri e vuoti. «Rispondimi!», ringhiò Carr. «Chi sei? E come sei entrato qui? La porta era chiusa a chiave.» L'uomo si avvicinò lentamente a Carr. Ruth rabbrividì, per qualche motivo che lei stessa non sapeva. La figura col vestito nero si fermò accanto a Carr, vicino al camino. La sua mano sinistra, quella con l'anello nero, si sollevò. L'indice toccò un puntino in rilievo nella voluta della mensola del camino. La mano destra di Carr si alzò per afferrare l'uomo alle spalle, ma rimase ferma in aria. Carr trattenne il fiato, e strabuzzò gli occhi nell'osservare la mensola. Al tocco del dito dell'uomo, era comparso un cassetto segreto. Nel cassetto c'era una rivoltella: una 38 automatica. L'uomo prese la rivoltella. «Per l'amor di Dio», balbettò Carr, «chi sei? Hai intenzione di sparare...» L'uomo agì come se non avesse sentito. Dal camino si avvicinò al semplice scrittoio accanto ad esso, e posò l'automatica sulla cartellina di carta assorbente. Poi uscì dalla stanza. Accadde che, quando lui si voltò, la faccia di Carr, già pallida di paura, divenne letteralmente bianca. Infatti, mentre si voltava, la fioca luce del piccolo studio rivelò una deformazione sulla mascella dello sconosciuto: un neo della dimensione di una monetina. «Tu... tu sai chi era?», ansimò Carr. Ruth lo fissò nel profondo degli occhi. Anche i suoi occhi erano spalancati, per la paura che andava oltre l'isteria. «Io... non... lo so», bisbigliò lei. «Quell'anello! Io...» Si bloccò. Carr la scrollò per le spalle nude. «Ebbene? E allora? Quell'anello?» «In tutta la mia vita ho visto solo un anello come quello: un grosso anello nero a sigillo fatto di agate. Apparteneva a... Hugh Cunningham.» Carr scoppiò, lasciando uscire di colpo l'aria dai polmoni.
«E allora vuol dire che uno dei parenti di Cunningham stanotte è entrato qui di soppiatto. Uno che conosce la casa tanto bene da azionare quello scompartimento segreto, e a cui Cunningham ha lasciato i suoi effetti personali...» «Hugh non aveva parenti stretti», disse Ruth, con voce fioca e tesa. «Quanto all'anello... Cunningham è stato sepolto con l'anello al dito.» Le dita di Carr lasciarono i segni sulle bianche spalle di Ruth. «Buon Dio! Ti rendi conto di quello che dici? Tu stai insinuando che quell'uomo in nero fosse...» Deglutì convulsamente e si precipitò alla porta. Era chiusa e dovette tirar fuori la chiave per aprirla. La spalancò di scatto con le mani che gli tremavano. Parke era accanto alla porta, nel salone. A una dozzina di passi c'era l'uomo in nero, che si stava dirigendo verso la parte anteriore della casa. «Parke», chiamò Carr. «Quell'uomo senza travestimento... col vestito nero... acchiappalo!» «Sì, signore», disse Parke. «E poi cosa ne devo fare?» «Buttalo fuori!», tuonò Carr con voce tremante. «No... aspetta! Prima levagli la maschera.» «Molto bene, signore», disse Parke. Guardò l'uomo in nero, ora all'altezza dell'entrata della biblioteca, rivolto di spalle rispetto ai due. «Aspetta!», squittì Carr. Parke si voltò. «Io...», farfugliò Carr. «Non mi importa poi tanto da voler sapere chi è. Non levargli la maschera: non voglio vedere la sua faccia. Mostragli solo l'uscita.» «Sì, signore», disse Parke. Ma quando il maggiordomo tornò ad attraversare il salone, l'uomo in nero era già sparito. Carr ritornò nello studio. Dapprima esaminò la rivoltella che l'uomo aveva lasciato, senza dire una parola, sulla scrivania; poi osservò il ritratto dell'uomo che si era fatto saltare le cervella proprio lì, davanti al camino. Osservò con più attenzione il neo, della dimensione di una monetina, sulla mascella dipinta. Poi, con un mezzo sogghigno di sfida, si versò un abbondante drink. «Mi si è rammollito il cervello», mormorò. «Come si fa a pensare anche solo per un minuto...» Si versò un altro drink e si scolò anche quello.
Attraverso le porte a vetri, Danforth si stava avviando sulla terrazza, quando dovette scansarsi, appena in tempo per evitare di andare a sbattere in un uomo che correva nell'opposta direzione. «Che diamine, Gray!», disse Danforth. «Hai proprio fretta...» Si interruppe vedendo il volto pallido di Gray. Questi, un uomo dalla corporatura robusta e dal colorito solitamente acceso, lo fissò con un'espressione cinerea sul viso. «Dio mio, ho appena avuto un colpo!», ansimò. «Un uomo con un vestito nero... lì fuori, nel giardino...» «E che aveva di strano?», chiese Danforth. «Il modo in cui si comportava! Ero fuori vicino alla siepe di cinta, e girovagavo senza motivo. Ho visto quella figura davanti a me. Un uomo vestito di scuro. All'inizio ho pensato che fosse uno che aveva oltrepassato il confine, perché non era travestito. Poi ho visto la maschera e mi stavo avvicinando a lui. Ma mi sono bloccato quando ho visto lo strano modo in cui si comportava. O, meglio, il modo familiare in cui si comportava! Si accostava agli alberi come per accarezzarli affettuosamente, si guardava intorno con le mani in tasca, e una volta l'ho visto chinarsi a raccogliere un pezzo di carta che sporcava il prato.» «E allora?», disse Danforth. «E allora... si comportava come se fosse il padrone. O come se un tempo lo fosse stato.» «Non ti capisco», disse Danforth. Gray lo guardò con gli occhi che sporgevano leggermente dal suo viso paffuto. «Matt, lui si comportava come ho visto comportarsi qui attorno Hugh Cunningham un centinaio di volte. E come lo hai visto anche tu. Anche tu hai visto Hugh accostarsi a un albero e accarezzarlo affettuosamente come se fosse un essere vivente che lui amava. Lo hai visto guardarsi intorno con le mani in tasca, e tirare profondi respiri, come se non riuscisse a prendere abbastanza aria di quel posto di cui era il padrone. Hai visto quanto era meticoloso nel raccogliere i mozziconi e i pezzetti di carta dal suo prato.» Gray scosse piano la testa. «Stai attento ai bicchieri di whisky, Gray. Te ne sei scolati troppi. I morti non passeggiano.» «Io... ma certo che no.» Gray si deterse la fronte. «Ma la cosa mi ha
sconvolto per un momento. Chi credi che sia quell'uomo?» «Non ne ho la più pallida idea», disse Danforth. «Ma certamente non è... beh, Hugh giace nella sua tomba con l'intera parte superiore del volto mancante.» «Sì, sì, lo so», sospirò Gray. «Ma io vorrei sapere chi... Malgrado le maschere, molti di noi immaginano chi sono molti degli altri. Ma io non ho la minima idea di chi sia quell'uomo in nero...» Danforth vide Ruth dall'altra parte del salone. Lasciò Gray e si diresse verso di lei. Il viso della ragazza era ancora più pallido di prima. La perplessità di Gray sull'uomo in nero stava diventando generale, scoprì Danforth attraversando la sala. Oltrepassò tre gruppi che parlavano di lui. «Ho visto un neo sulla mascella di qualcuno, che somiglia al neo che lui ha sulla sua», sentì dire a una donna. «Ma non riesco proprio a ricordare chi...» «Forse è un investigatore privato», disse un uomo. «Ma non vorrei che se ne andasse in giro in punta di piedi come fa lui. Mi dà i brividi. Per un minuto non lo si vede nei dintorni, e il minuto dopo te lo ritrovi vicino al gomito, che si guarda in giro come se fosse il padrone.» Un altro, pallido quasi quanto Gray, faceva eco alle sensazioni di Gray. «Avrei giurato, se non sapessi che è due metri sottoterra, che fosse Hugh Cunningham...» Danforth raggiunse Ruth. Le prese la mano nella sua, ma poi gliela lasciò perché lei lo guardava apparentemente senza vederlo. I suoi occhi erano terrorizzati. Poi lo misero a fuoco. «Matt», disse con voce bassa, «tu credi ai fantasmi?» «Non cominciare anche tu con quella storia dell'uomo in nero», stava per controbattere Danforth. Poi si interruppe. Il pallore del suo volto era spaventoso. «Così anche altri si stanno interrogando sul suo conto!», disse. «Almeno non sono la sola... È venuto nel piccolo studio dove stavamo Rex ed io. La stanza dove... dove Hugh si è sparato. Ha aperto un cassetto segreto nella mensola del camino e ne ha tirato fuori una rivoltella. Ricordi che tutti si chiedevano dove Hugh avesse preso la rivoltella con cui si era sparato? Beh, ora io lo so. Dal cassetto segreto. Ne doveva avere un paio lì dentro.» «Ruth, tesoro mio, sei esausta...» «Matt», lo interruppe calma Ruth, «chi altro al mondo oltre a Hugh
Cunningham, poteva sapere del cassetto segreto? E chi altro poteva tirar fuori una rivoltella, guardando significativamente Rex Carr per tutto il tempo? Chi poteva posarla sulla scrivania come se lo volesse invitare ad usarla?» «L'uomo in nero ha fatto questo?», esclamò Danforth. «Sì, l'ha fatto. Ora, quello che vorrei sapere è... chi è?» Danforth guardò l'orologio. «Lo sapremo tra pochi minuti. Dobbiamo toglierci le maschere a mezzanotte. E ora ci siamo quasi. Ma scopriremo che l'uomo in nero è semplicemente un conoscente di Carr che nessuno di noi aveva mai visto prima.» «Anche Rex non sa chi è!», disse Ruth. «Lui...» Si interruppe. La figura del loro ospite era apparsa sotto l'arco della porta. Barcollò malfermo: un uomo grasso e tozzo, in costume da pirata, molto, molto ubriaco. «Signore e signori», disse con voce roca, «ho un annuncio da farvi. Riguarda me e una certa affascinante giovane signora qui presente.» Tutti si voltarono a guardarlo. La conversazione morì. «Come ha fatto a ubriacarsi in così poco tempo?», bisbigliò Danforth a Ruth. Lei scosse solo la testa e puntò gli occhi sgranati su Carr, che proseguì con voce da ubriaco: «Ma adesso, prima dell'annuncio, ci sono due cose da fare. La prima è... toglierci le maschere. Tra un minuto, signore e signori, tutti noi ci leveremo le maschere... e potremo vedere con chi stiamo amoreggiando. La seconda è...». Si guardò vacillando all'intorno. «C'è un uomo vestito di nero da qualche parte in questa casa a cui vorrei rivolgere delle domande!» Sporse ferocemente in fuori la mascella. «È la seconda cosa che accadrà prima dell'annuncio. Gli altri si toglieranno qui la maschera. L'uomo in nero verrà con me nello studio e si toglierà lì la maschera... prima che io lo getti fuori di casa. È stato una tal... seccatura!» Carr lanciò un'occhiata ai presenti, come se temesse che qualcuno osasse sollevare delle eccezioni a quanto aveva detto. Nessuno parlò. «Dov'è l'uomo in nero?», disse a voce alta. Tutti si guardarono l'un l'altro. Ora non c'erano guance arrossate e accaldate. Ogni singolo uomo o donna presente aveva visto e commentato l'uomo in nero, che non aveva parlato con nessuno, che pareva non essere venuto con nessuno, e che costituiva un fitto mistero. Pochi avevano conosciuto Hugh Cunningham tanto bene da conoscere l'anello nero a sigillo,
ma quasi tutti conoscevano il neo sulla sua mascella, e avevano notato il neo sul volto di quell'uomo che nessuno conosceva. «Dov'è?», ripeté Carr con tono di sfida. «Se qualcuno lo conosce, che si faccia avanti!» Ruth rabbrividì. «Se quello fosse Hugh, vestito di nero, e se Rex lo portasse nello studio... e lo smascherasse...» Danforth fece un sogghigno glaciale. «La maschera dovrebbe a stento coprire i danni causati dal proiettile», disse. «Immagino che non sarebbe di certo una bella vista. Ma, naturalmente...» Carr si voltò. La porta sotto il cui arco stava in quel momento dava nel salone. Tutti i presenti nella grande sala d'entrata videro il suo sguardo truce attraversare il salone, in direzione del retro della casa. Tutti lo sentirono urlare rabbiosamente: «Ehi, tu! Col vestito nero! Voglio vederti! Questa è una festa mascherata, ma ciò non significa che un qualunque burlone da strapazzo possa presentarsi qui con un anello nero al dito e un neo posticcio sulla mascella e travestirsi da... da qualcun altro». Carr si voltò e attraversò a passi veloci il salone. Gli altri si avvicinarono alla porta. Tutti videro la schiena dell'uomo in nero, e videro Carr aprire la porta del piccolo studio. «Che intanto», Carr riprese, rivolto verso gli altri, «ognuno si levi la propria maschera. Vi raggiungerò non appena avrò visto chi è questo...» La porta si richiuse dietro di lui. Era entrato nello studio preceduto dall'uomo in nero. Per un momento la folla rimase in silenzio. Poi qualcuno si lasciò sfuggire un sospiro rumoroso. «Io non biasimo Carr per essersi ubriacato prima di sbrigare una faccenda simile», disse l'uomo. «Chiunque sia quell'uomo in nero, è venuto qui solo per far imbestialire Carr. Ma certo! Se no, per quale altro motivo? E se io fossi Carr e stessi al suo posto, quell'uomo sarebbe riuscito a farmi uscire fuori dai gangheri. Bene, signori, che ne facciamo delle maschere?» Tutti si tolsero le maschere. Alcuni avevano amoreggiato con le persone sbagliate e, a seconda del proprio carattere, erano confusi, irritati o divertiti. Ma le loro reazioni erano artefatte. Erano tutti troppo preoccupati per
quei due nello studio per potersi concentrare su qualcos'altro. Carr... e l'uomo in nero! L'uomo che all'inizio, a causa dell'abito ordinario che indossava, tutti avevano creduto che non si fosse travestito; ma che ora, alla luce degli sviluppi della serata, si era rivelato come colui che aveva indossato il travestimento più riuscito! Danforth strinse con forza la mano di Ruth. «Sta per accadere qualcosa di terribile», gli bisbigliò lei. La sua mano era fredda come il ghiaccio. «Lo sento...» «Accadrà, è vero, se non vado via subito», disse Danforth con uno sguardo triste. «Sento avvicinarsi sempre di più il festino attorno alla mia sedia elettrica. Se solo potessi racimolare dai forzieri dei Danforth altri centomila dollari, in modo da mandare al diavolo Carr...» Un urlo lacerò l'aria. Rimbombò per tutta la casa, come se fosse stato il rumore spaventoso di un uomo che, dalle labbra paralizzate, esalasse perfino la propria anima. E tutti si voltarono di nuovo verso la porta della piccola stanza dall'altra parte del salone. Perché era stato Carr ad urlare, e lo strillo era provenuto dallo studio. L'urlo echeggiò di nuovo, agghiacciando i nervi. Poi si udì un pianto isterico: «No, no, per l'amor di Dio! Basta! Rimettiti la maschera...». Danforth fu tra i primi a raggiungere la porta. La trovò chiusa a chiave e allora vi batté numerosi colpi. «Carr! Carr... che succede?» Era stato Gray a gridare. Ma non ci fu alcuna risposta. Era come se colui che stava nello studio non potesse sentire... benché dovesse aver sentito attraverso la porta relativamente sottile. «No!», tuonò di nuovo il grido di Carr. «Non lo sopporto! Tornatene all'Inferno da dove sei venuto...» Poi fu il silenzio. Un silenzio lugubre e pesante, durante il quale gli uomini fuori dalla porta si guardarono l'un l'altro con gli occhi sgranati e inebetiti. «Carr!», chiamò di nuovo Gray, con una voce rauca di orrore. E poi si udì il suono di un solo sparo, orrendamente attutito. «L'uomo in nero... ha sparato a Carr!», balbettò Gray. «Prendiamolo... consegnamolo alla Polizia...» Buttarono giù la porta. Carr giaceva davanti al caminetto con il volto cadaverico rivolto verso l'alto, verso il ritratto di Hugh Cunningham. Giaceva supino, ma la sua po-
sizione era dovuta al caso, dato che si era messa la canna dell'automatica in bocca prima di premere il grilletto. Il suo volto era intatto, ma fu un bene che la parte posteriore della testa fosse nascosta. Era solo nello studio. «L'uomo in nero...», farfugliò Gray, guardandosi intorno. La porta che dava nel salone era l'unica entrata della stanza. Tutti avevano visto l'uomo in nero entrare. Nessuno l'aveva visto uscire. Ma lui adesso nella stanza non c'era. Danforth esaminò a lungo prima il ritratto di Cunningham, con il neo sulla mascella, e poi il volto cadaverico di Carr. Quindi lasciò la camera dove regnava la morte. Ruth gli andò vicino, tremando, e negli occhi le si leggeva la domanda spaventosa. Danforth annuì. «Si è sparato. E io ne sono felice, tesoro. Capisci? Felice!» «Ma... l'uomo in nero?», bisbigliò Ruth. Danforth lanciò un'occhiata nello studio, e osservò il capannello di uomini sbiancati in volto che si erano stretti intorno al cadavere. «Penso», disse, «che faremmo meglio a dimenticarci di lui quando saremo interrogati dalla Polizia, o da qualcun altro. Carr si è ucciso in un accesso di rimorso, mentre era ubriaco. È una dichiarazione che sarà più facile... spiegare.» DERMOT CHESSON SPENCE Il buon acquisto del Decano Fu dopo le nozze Puffini-Mandragora che il decano di Avon si confidò con me. «Sono sempre stato», mi disse, «un collezionista dilettante di libri antichi, e lei sa quanto me come la periferia delle città con sede episcopale sia ricca di finestre festonate di ragnatele, grazie alle quali le pergamene dei testi sacri rilucono di opaco splendore, e di bancarelle dove i tesori della mente umana sono a portata di tutti per mezzo scellino. Una scelta difficile fra i Sermoni di Temple... incompleti; Gray, nella collana di Johnson... mancante della copertina e malamente scolorito; e Tarzan l'Antropoide, nuovo di zecca, in edizione popolare. Ammetterà che è una cosa affascinante. L'ultimo mio acquisto di un libro usato risale ormai a quattro anni fa, e forse se ne chiederà il perché. Il collezionismo è un virus e, quando
entra in circolo, ci vuol altro che un atto di volontà e una scarsità di mezzi per sradicarlo... ma uno shock può eliminarlo una volta per tutte! Quindici anni fa, quando oltre ad essere un teologo e un bibliofilo ero anche canonico minore ad Avon, avevo degli incaricati che, dietro una modesta percentuale, si recavano a tutte le vendite locali. Ma fu ad Olyfathers che trovai personalmente il libro, un volumetto in dodicesimo che avrebbe totalmente cambiato la mia vita. Stavo frugando fra gli scaffali più polverosi di Olyfathers quando trovai questa piccola, antica Bibbia e libro di preghiere. Naturalmente, le pagine erano state rovinate senza pietà, anche nella parte stampata... e qualche fanatico aveva cancellato i titoli dei capitoli della Bibbia con l'inchiostro rosso: un coscienzioso e attento lavoro di rubricazione di epoca più o meno contemporanea. Due cose attrassero la mia attenzione: alla fine del libro, la traduzione metrica dei Salmi, di Sternold e Hopkins, nella prima versione; e le musiche, con le loro stanze di quattro righe e le deliziose semiminime con la testina romboidale... ma la sto annoiando con queste minuzie. Per farla breve, acquistai il volumetto per una cifra piuttosto modesta e me lo portai a casa. Avrà capito che ho - o, meglio, avevo - una mente curiosa e indagatrice; e quando scoprii che i risguardi all'inizio della mia seicentesca Bibbia erano saldamente incollati, mi venne naturalmente voglia di staccarli e capire il perché di quella stranezza. Tanto per cominciare, né le condizioni del libro né danni alla rilegatura la giustificavano! Suppongo che, da buon religioso, avrei dovuto rimanere profondamente scandalizzato da ciò che scoprii. Infatti, sotto i risguardi, era scritta una Minaccia di Maledizione Divina, un Anatema, nitidamente vergato e ancora perfettamente leggibile. Non starò certo qui a ripetergliene il testo, per vari motivi: uno, tanto per dire, perché era scritto in latino monastico e io stesso ancora ignoro il significato di alcune parole. Ma, sopra, il testo, una mano diversa aveva tracciato, in caratteri più italicizzati, Maledicius Maledicat (il maledetto maledica) e, alla fine "Questa io ho trovato efficacissima, Jos. Damm, 1667: Maledictus Maledicatur" (Il maledetto possa essere maledetto). Posso aggiungere che Joseph Damm era stato, a quell'epoca, canonico minore e, in seguito, fu nominato Vescovo. Morì piuttosto improvvisamente verso la fine del regno di Carlo II. La maledizione, che nulla mi indurrà a ripetere, era breve e pertinente: evocava un'entità, a me sconosciuta, perché distruggesse una certa cosa o
persona, in nome di un terzo Essere che noi tutti conosciamo sotto vari nomi. Per il resto, il dottor Joseph Damm sembra fosse uomo profondamente religioso e i suoi sermoni, che pubblicò in seguito, rivelano soprattutto una tendenza ad esagerare il probabile destino riservato a tutti coloro che condividevano, o quanto meno tolleravano, la continua dissolutezza della metropoli. Per lui era quasi un'ossessione! Ma, nell'ambito delle sue possibilità, sembra fosse un uomo di valore. Qualcosa nella formula della Maledizione faceva pensare a un patto reciproco di fedeltà come clausola del contratto. Per affascinante che fosse, non era certo cosa che riguardasse un onesto religioso del XX secolo, e decisi di non pensarci più, come senza dubbio non ci pensò più Joseph Damm dopo aver scritto la sua annotazione e averla accuratamente ricoperta incollandoci sopra i risguardi. "Efficacissima", quella era davvero un'asserzione strana, e pericolosa. Puzzava di bruciato! Riuscii a dimenticare tutto e la mia vita continuò abbastanza tranquilla fino a quando, circa tre anni fa, mi fu chiesto di tenere una serie di sermoni delle Quattro Tempora in una delle nostre parrocchie più periferiche. Mi è sempre piaciuta St. Barnaby, così si chiamava la chiesa: una sinfonia in freddo Gotico che, per fortuna, nessuno aveva ceduto alla tentazione di "ottenebrare" con vetrate colorate moderne. Petrie, il parroco, aveva ringraziato il Signore per quell'incarico, dopo la sua parrocchia di borgata. E devo dire che la sua opera era meritevole anche qui, nel cuore del paese. Era la prima volta che predicavo nella sua chiesetta, anche se in passato vi ero stato come officiante in occasione delle nozze di due nipoti "altamente matrimoniabili". Scapolo inveterato quale io sono, prendo molto sul serio la mia vocazione e mi piace che i miei sermoni siano quanto più possibile utili al loro scopo. È importante esprimersi bene e, in una chiesa piccola, nulla di più facile che tuonare a voce troppo alta. Si cade nel ridicolo, la congregazione diventa irrequieta e la Verità viene sommersa da una valanga di suoni. Mi scusi se mi lascio trasportare dall'argomento. Comunque... mi recai a Deepdale una settimana prima, tanto per provare l'acustica. Ero salito sul pulpito per recitare a memoria la Prima lettera ai Corinzi, tredicesima, a Petrie che stava in basso, accanto al fonte battesimale, quando i miei occhi si posarono sull'Orrore. Le ho accennato prima all'immota bellezza di questa antica chiesa grigia e all'atmosfera di raccoglimento e di pace accentuata dalle strette finestre di vetro opaco. In un momento, tutta quell'armonia andò in frantumi. A metà del lato riservato ai
decani c'era un pot-pourri, una macedonia, un caleidoscopio di vetri colorati; e che colori! Rosso fiammante, giallo vivido e ocra e, a coronare il tutto, porpora imperiale. Sceso dal pulpito, afferrai Petrie per un braccio trascinandolo fuori, alla luce del sole. Gli dissi che non mi sentivo di predicare con quella mostruosità di pessimo gusto sotto gli occhi. Come aveva mai potuto permettere un simile abominio? Non sentiva la responsabilità di quella bella casa del Signore affidata alle sue cure? "Il consiglio laicale la ritiene di ottimo gusto", disse malinconicamente; "e non è tutto: lo stesso artista sta eseguendone un'altra, con i santi nazionali britannici. Fu un lascito, sul letto di morte, di uno dei paesani che era andato a Leeds e aveva fatto fortuna. Per carità, non pensi che io l'abbia in qualsiasi modo incoraggiata! Ma al villaggio piace. Li sprona a partire e fare come lui." Me ne andai con un peso sul cuore. Ma, una volta seduto nel Coro di Deepdale, guardai quella numerosa congregazione e mi rassegnai; inoltre, potevo vedere quella mostruosità solo sporgendo il capo in avanti, atteggiamento quanto mai disdicevole per un predicatore di passaggio. La funzione si svolse senza incidenti - e perché non avrebbe dovuto? - fino al momento in cui, durante l'ultimo verso dell'inno, raccolsi i miei appunti e salii sul pulpito. Mentre mi voltavo verso i fedeli che ancora cantavano a gola spiegata, il sole penetrava direttamente attraverso la parte più gialla del drago di fronte a san Giorgio. Fui tentato. Cedetti. Quattordici brevi parole latine mi vennero alla bocca e le pronunciai senza che nessuno potesse sentirmi, durante l'acuto dell'"A-ME-E-E-N". Arrossendo come un novizio, ma profondamente sollevato e grato che nulla di spiacevole fosse accaduto, esposi il mio testo e pronunciai il mio sermone. Stavo giusto arrivando alla perorazione, quando qualcosa accadde. Vi fu un'improvvisa raffica di bufera, il sole si oscurò e la vetrata di san Giorgio "esplose" - non c'era altro termine - all'interno della chiesa. Ci fu gran costernazione ma niente panico. Ci vuole altro per scuotere quella gente di campagna! Nessuno si era fatto male e potei finire la mia omelia. Dico che non ci fu panico ma sapevo con sgomento che, dentro di me, parlavano due voci: "sei un vecchio sciocco", diceva una, "un vecchio irriverente, e farai ammenda per il tuo sacrilegio". Ma l'altra voce era quella di Joseph Damm che si fregava le mani dicendo: "Quella non era una bufera come le altre, dottor Bigod, non una semplice folata di vento. La troverà molto efficace, signor canonico, molto, molto efficace!".
E anche quello che Petrie mi disse dopo non mi fu certo di conforto. "È assolutamente straordinario, Bigod. Il vetro non è rotto, è totalmente polverizzato", e mi mostrò dei minuscoli frammenti gialli e rossi che il sacrestano era riuscito a spazzar via dalla navata. "Dev'essere questo vetro sintetico moderno da quattro soldi", risposi. Ma, come può capire, non mi sentivo affatto tranquillo. Passò del tempo e ancora una volta il lento e letargico oblio cancellò quell'orribile, breve maledizione dalla mia mente. Riuscii ad allontanarmi da Avon per un lungo periodo di vacanza. Un mio ex compagno di stanza ad Oxford era adesso un signorotto scozzese di una certa importanza, e io avevo un invito permanente, ancora mai accettato, di essere suo ospite a Ross. Un'estate, decisi di approfittarne: la casa era piena di gente giovane e allegra: figli, nipoti, fidanzati e amici, un gruppo di persone mondane ma innocue. Mi fecero conoscere un gioco odioso, il Gioco della Verità; e anche se per me le rivelazioni di alcune delle fanciulle furono estremamente sorprendenti e impossibili da condonare anche con una dispensa anticipata di "privilegio", il mio sincero racconto del caso della vetrata colorata sembrò "far venire giù la casa", impresa che fino ad allora pensavo fosse appannaggio di Sansone. La figlia dei padroni di casa, Bettina, era di diverso parere. Trovò che la storia era "favolosa, un vero schianto!". Ma, se mi permette l'espressione, il vero "schianto" era lei e più tardi mi lasciai convincere dalle sue moine a fare qualcosa per lei: una sorpresa per paparino. E si scoprì che la sorpresa avrebbe dovuto essere "la maledizione sulla distilleria Dougalls", che guastava il panorama a suo padre e, aggiunse sorniona, rovinava la gente del posto. "So come lei sia un fervente sostenitore della temperanza, dottor Bigod." Invano cercai di esimermi, offrendomi di fare qualcos'altro. Fu adamantina; e un demonietto nel fondo del mio cervello continuava a ripetermi che una straordinaria raffica di vento che demoliva una finestra di vetro scadente non faceva di me un mago. Andiamo, non essere stupido - mi dicevo - non può succedere niente. Quindi, la feci uscire dalla stanza e puntai il dito contro la sottile ciminiera gialla e le tettoie di lamiera ondulata che i proprietari della distilleria avevano avuto il gentile pensiero di dipingere in rosso. E non accadde nulla. Ma tre notti dopo il cielo si fece di un rosso più intenso e la distilleria fu rasa al suolo da un incendio. Feci giurare alla ragazza davanti a Dio che avrebbe mantenuto il nostro segreto. Come potevo sapere che in casa tutti
ne erano già al corrente, fin nei minimi particolari? Ritenni più opportuno partire per il Sud il giorno dopo. Sa il Cielo quanto lottai con me stesso. Ero dannato mentre ero ancora in vita? O si trattava solo di una stravagante coincidenza, un elaborato scherzo del destino? Ancora oggi non lo so. Fu allora che smisi di collezionare libri antichi! Puro e semplice panico! Qualche mese dopo, il signorotto mio amico mi scrisse che i Dougalls avevano incassato abbastanza dall'assicurazione per ricostruire, sempre in quel punto, un'altra distilleria ancora più grande e più inquinante.» «Cosa pensa che dovrei fare?», mi chiese il decano. «Adesso il mio amico Struan mi invita - per scherzo, naturalmente - a lanciare un'altra volta la maledizione. Aggiunge che è pronto a pagare per i risultati: darà cinquecento sterline alla Avon Infant's School se, come delicatamente si esprime, "accadrà qualcosa".» «È una bella cifra, dottor Bigod», risposi. «E al mio cervello di casistico sembra che qui ad Avon sia assai più utile il denaro di Struan che il whisky di Dougalls!» «Si potrebbe anche metterla così - ma credo che lei mi stia sottoponendo all'antica tentazione di fare il male a fin di bene...» «Le distillerie sono soggette agli incendi», risposi, «specialmente quando gli affari vanno male ed esiste un'assicurazione in regola! Ci ha pensato, dottor Bigod?» «Vorrei non aver mai visto quel disgraziato libro!», esclamò il decano, e guardò l'orologio. «Santo cielo! Ho una riunione del Consiglio. Non posso aspettare la sposa. Dica a sua madre che era bellissima.» Non saprò mai se il complimento era sincero. Per tutta quella settimana ripensai ai guai del povero Bigod e finalmente, credo che fosse un martedì, gli telefonai a casa, nel suo alloggio vicino alla cattedrale. Il pensiero di quel brav'uomo che da quindici anni si preoccupava per quella stupidissima storia mi spinse a intervenire di persona. Al telefono rispose la governante, una donna sulla cinquantina, acida ma efficiente. No, non sapeva se il decano voleva vedermi, ma senza dubbio lei si augurava che io potessi vedere lui. A quanto sembrava, era in condizioni pietose; prima, era arrivato un telegramma e poi, come se non bastasse, aveva trovato qualcosa in un libro. Qualcosa che, se volevo il suo parere, lo aveva mandato fuor di senno. Riattaccai il telefono e ordinai immediatamente la macchina. Arrivai alla cattedrale e trovai il prato inargentato dalla luna pieno di
gente: pompieri e curiosi. La residenza del decano stava bruciando allegramente. Fermai la Austin e scesi. Con qualche difficoltà mi feci strada tra la folla finché riuscii ad attirare l'attenzione di Wigglesworth, comandante della squadra dei vigili del fuoco e mio buon amico, oltre che mio paziente. «'Sera, dottor Wilfred», mi disse. «È una tragedia, anche se lo spettacolo è grandioso.» «Qualcuno è ri...ri...rimasto dentro?», gli domandai ansiosamente. «Temo di sì. Abbiamo tirato fuori quella gatta urlante della governante, ma non siamo riusciti a raggiungere il dottor Bigod. L'incendio era già troppo avanzato, ed era cominciato proprio nella sua biblioteca. Quei vecchi libri bruciano come paglia!» Lo lasciai ai suoi doveri professionali e mi voltai a guardare il guscio incandescente di quella che era stata la casa del povero decano. Non era passata nemmeno un'ora da quando avevo parlato con la governante. Le vecchie case sono buona esca anche per una scintilla occasionale, ma quella non era stata rimodernata e certo una distruzione così subitanea e totale non si poteva attribuire alla lenta combustione di una trave! Non era un incendio come gli altri - l'intera casa era sventrata, non rimanevano che le quattro mura e lo scheletro fumante del tetto. L'edificio era esploso! Rimasi lì intorno fino a quando Wigglesworth e i suoi uomini riuscirono a domare le fiamme e poterono entrare senza pericolo. Fra i detriti trovarono prove sufficienti a suffragare la sua ipotesi. Il dottor Bigod era morto in biblioteca. Una cosa notai, che non mi sentii di far notare ad altri. Era morto indossando i suoi paramenti. Il giorno seguente ricevetti una voluminosa lettera del mio amico scomparso e, come curatore fiduciario delle sue proprietà, del suo buon nome e del suo segreto, mi sento in dovere di renderne pubblicamente, anche se succintamente, noto il contenuto. Il telegramma, che lessi per primo, era breve ed enigmatico: Apocalisse diciannove tre1. Grazie. Non c'era firma, ma il timbro postale era quello di un ufficio nelle Highlands. Esisteva sempre la possibilità - finora non controllata - che si trattasse di un misterioso scherzo; ma la lettera di Bigod mi aveva dissuaso dall'aver più nulla a che fare con ipotesi o prove in quell'orribile faccenda. Bigod si era deciso a compiere quello che, secondo lui, poteva essere un
passo molto pericoloso. Naturalmente, era stato in grado di decifrare il telegramma senza bisogno di consultare il suo Nuovo Testamento, e dava per scontato che io potessi fare altrettanto. «Ciò dimostra», mi scriveva, «che evidentemente sono posseduto da una potenza demoniaca che deve essere distrutta prima che distrugga me, e più che me "come ha fatto in passato".» Questa non è la lettera di un pazzo. Come medico, mi si consenta di saperlo. Nella lettera mi diceva anche che avrebbe compiuto determinati passi per garantire la sicurezza della sua piccola famiglia (ho scoperto che effettivamente quel giorno distribuì a tutti dei biglietti per il cinema, un gesto inaudito, che turbò tanto la governante da provocarle un collasso, per cui era rimasta a casa!). Bigod intendeva lanciare un Anatema contro quel diabolico, breve manoscritto, con libro e campana, secondo il rituale antico. Se il fuoco purificatore avesse divorato anche lui, almeno sarebbe stata volontà di Dio e fuoco di Dio. In quel modo, forse, avrebbe potuto presentarsi al suo cospetto mondo e senza vergogna. Il secondo allegato era una pagina strappata da un vecchio libro sugli Uomini Illustri di Avon dei quali, a quanto pareva, aveva fatto parte Joseph Damm, dottore in teologia, e che ne descriveva la morte... Monsignor Vescovo morì nell'ottobre del 1677 nel suo Palazzo. De mortuis nil nisi bonum; ma si dice che abbia fatto una Fine non edificante, chiamando ad alta voce Tutto e Tutti, affinché sapessero che lui era la Mano di Dio nei recenti, divoranti flagelli di Peste e Fuoco abbattutisi sulla nostra Capitale. Una strana e inconsistente Vanteria per un uomo di Dio nella sua ultima, terribile Ora; e gli fu detto in faccia da coloro che lo sentirono, fra questi mio Zio, suo Cappellano, che aveva annotato ogni cosa successa, con la ferma intenzione - così comunicò a mio Padre - di presentare Queste Faccende a Monito di una Generazione depravata. Monsignore morì nell'Ira, così sembrò, per la loro Incredulità, facendosi nero in Volto. Fu debitamente seppellito... [e così via]. Sul margine inferiore della pagina, Bigod aveva scarabocchiato: «Dando un ultimo sguardo a questa formula demoniaca, vedo che l'ultima parola è Maledicetur... sarà maledetto, mio caro Wilfred, non possa essere».
Ho soffocato qualsiasi desiderio io possa mai avere avuto di collezionare libri antichi. 1
«E di nuovo dissero: "Alleluia! E il fumo di essa sale per i secoli dei secoli"» (N.d.T.). HENRY JAMES Owen Wingrave 1. «Parola mia, avete perso la testa!», urlò Spencer Coyle mentre il giovanotto, livido e ansimante, ripeteva: «Ormai ho deciso! Non cambierò idea!». Erano pallidi entrambi, ma Owen Wingrave sorrideva in una maniera assolutamente esasperante per il suo istruttore il quale, tuttavia, conservava abbastanza discernimento da capire che quella smorfia sforzata tradiva un nervosismo estremo, del tutto comprensibile. «Il mio errore è stato quello di continuare fino ad ora, ecco perché sono convinto di non dover andare oltre», disse il povero Owen, assumendo meccanicamente, quasi umilmente, un atteggiamento d'attesa, e rifuggendo arie arroganti, peraltro immotivate. Attraverso la finestra, il duro scintillio del suo sguardo si posò sugli squallidi edifici dirimpetto. «Provo un disgusto indescrivibile. Mi fate star male.» Frattanto Coyle appariva distrutto. «Mi dispiace moltissimo! Solo il timore di contrariarvi mi ha impedito di parlare prima!» «Avreste dovuto parlare tre mesi fa. Cambiate parere da un giorno all'altro?», domandò il più anziano dei due. Il giovanotto si trattenne un attimo poi, con voce tremante, cominciò a perorare la sua causa. «Siete irritato nei miei confronti e me lo aspettavo. Vi sono infinitamente riconoscente per quello che avete fatto per me e, in cambio, sarei pronto a fare qualsiasi cosa per voi, ma questo no, è impossibile! Certamente, mi crollerà addosso il mondo. Ma sono pronto. Sono pronto a tutto! Ecco perché mi ci è voluto del tempo... per avere la sicurezza di essere pronto! Credo che la cosa che mi disturba maggiormente sia la vostra scontentezza, ma a poco a poco vi passerà», concluse Owen bruscamente.
«E a voi passerà ancora più in fretta, immagino», commentò con ironia Coyle, agitato al pari del giovane amico. Palesemente, nessuno dei due si trovava in condizioni di prolungare un assalto che li faceva sanguinare entrambi. Il signor Coyle era un istruttore professionista. Formava giovani volontari dell'esercito, non accettava più di tre o quattro allievi per volta, e infondeva loro quel certo quid che costituiva il segreto e la fonte della sua fortuna. Non lavorava su vasta scala: parlando di se stesso, avrebbe detto di non essere un «grossista». Né la sua metodologia, né le condizioni di salute, né il temperamento, avrebbero potuto essere compatibili con allievi numerosi. Così li soppesava, li valutava, rifiutava più postulanti di quanti non ne accettasse. Artista a modo suo, si interessava soltanto ai soggetti di prima qualità. In certi casi capace di sacrifici quasi appassionati, amava la giovinezza ardente; alcuni atteggiamenti di faciloneria, di esibizionismo, lo lasciavano indifferente. Nutriva una simpatia speciale nei confronti di Owen Wingrave. Le attitudini eccezionali di questo giovanotto, per non parlare della sua personalità, l'avevano fortemente colpito ed esercitavano su di lui un fascino irresistibile. In linea di massima, tutti i «galletti» di Coyle compivano prodigi, ragion per cui era stato in grado di presentarne un gran numero all'ammissione. Aveva la statura di Napoleone (il Grande) con una scintilla di genio negli occhi azzurri. Di lui si diceva che assomigliava a un pianista. Il tono del suo allievo preferito esprimeva, in quel momento, seppure inconsciamente, una saggezza superiore che finiva con l'esasperarlo ulteriormente. L'alta opinione che Wingrave aveva di se stesso non l'aveva mai irritato, dal momento che sembrava giustificata dalle sue qualità fuori dal comune, ma oggi, di colpo, gli sembrò intollerabile. Mettendo fine alla conversazione, rifiutò categoricamente di considerare chiusi i loro rapporti e consigliò al giovanotto di andare a prendere una boccata d'aria da qualche altra parte, magari a Eastbourne - forse l'aria di mare lo avrebbe ricondotto alla ragione - e alcuni giorni di licenza per ritrovare equilibrio ed entusiasmo. Owen non aveva certo problemi a concedersi degli svaghi, considerata la notevole fortuna su cui poteva contare. Quanto notevole... al solo pensiero, Spencer Coyle ebbe voglia di schiaffeggiarlo. Questo ragazzone dalla struttura atletica non era, fisicamente, un soggetto che si prestava a ragionamenti semplicistici. Un'inquieta dolcezza diffusa sul bel viso, un connu-
bio di scrupolo e di decisione stavano a indicare che, qualora ne fosse scaturito un vantaggio per gli altri, lui non avrebbe esitato a porgere entrambe le guance, e lo avrebbe fatto volentieri. Non pretendeva evidentemente di detenere la quintessenza della saggezza. Semplicemente, la presentava come propria. Dopotutto, si trattava della sua carriera. Poteva sottrarsi alla formalità di provare Eastbourne, o quantomeno di starsene zitto, benché tutto il suo atteggiamento indicasse che faceva tale concessione al solo fine di dare a Coyle la possibilità di «rimettersi». Lui non si sentiva assolutamente stressato ma se il signor Coyle era alla frutta, a causa della tensione dei loro rapporti, che cosa c'era di più naturale? Le vacanze dell'allievo avrebbero consentito all'intelletto di Coyle di riposarsi. Coyle capì il senso delle sue parole, ma si dominò. Pretese solamente, come diritto legittimo, una tregua di tre giorni. Owen acconsentì, con l'aria di qualcuno cui rimorda la coscienza nell'alimentare le illusioni del maestro. Ma, prima di separarsi, il celebre istruttore riprese: «Ciò nonostante, credo che sia mio dovere parlare con qualcuno della vostra famiglia. Non mi avete detto che vostra zia si trova di passaggio a Londra?». «Ma certo, a Baker Street. Andate a trovarla», disse il giovanotto per consolarlo. Il maestro gli lanciò uno sguardo significativo. «Le avete parlato di questa follia?» «Non ancora. Né a lei, né a nessun altro. Mi è parso opportuno avvertire voi per primo.» «Oh, davvero gentile da parte vostra!», osservò Spencer Coyle, offeso dalla professione di fede del giovane amico. Poi aggiunse che si sarebbe recato dalla signorina Wingrave e, dopo tale annuncio, il ribelle se ne andò. Owen non partì subito per Eastbourne, preferendo dirigersi verso Kensington Gardens, abbastanza vicino all'invidiabile residenza di Coyle, il quale era un grande spendaccione e possedeva una casa di notevoli dimensioni. Il famoso istruttore ospitava i suoi allievi, e Owen aveva avvertito che sarebbe rientrato per la cena. La giornata primaverile gli scaldava il sangue, e un libro gli gonfiava la giacca. Dopo una breve passeggiata nei giardini, si lasciò cadere su una panca, tirò fuori il volume con il respiro dolce e lento che prelude a un piacere rimandato e, allungando le lunghe gambe, si immerse nella lettura.
Erano delle poesie di Goethe. Da diversi giorni, Owen viveva in uno stato d'estrema tensione e, ora che il dado era stato tratto, si sentiva piacevolmente sollevato. Soltanto che - com'era sua peculiare caratteristica - tale liberazione assumeva la forma di un piacere intellettuale. Se rinunciava a una brillante carriera, non era per bighellonare in Bond Street o far flanella alla finestra di un club. Dopo qualche istante dimenticò tutto... la terribile insistenza, la delusione di Coyle, e persino la temibile zia di Baker Street. Se l'avessero sorpreso degli osservatori, la loro esasperazione sarebbe stata motivata. In effetti, nessun dubbio che latente ci fosse in lui della perfidia, poiché sarebbe bastata la sola scelta del suddetto passatempo a dimostrare quante ore aveva sciupato a sgobbare sul tedesco! «Cosa cavolo ha, lo sapete?», domandò Spencer Coyle, quello stesso pomeriggio, al giovane Lechmere, il quale non l'aveva mai sentito usare un linguaggio così confidenziale con uno dei suoi allievi. Non solo il giovane Lechmere era condiscepolo di Wingrave, ma passava anche per essere uno dei suoi intimi: anzi, il suo migliore amico. Addirittura, a sua insaputa, agli occhi di Coyle, gli faceva da contrappunto, facendo risaltare, per contrasto, le brillanti attitudini del giovane Owen. Lechmere era piccolo, tozzo, completamente privo di ispirazioni di qualsiasi genere; e Coyle, il quale non trovava divertente credere in lui, non l'aveva mai giudicato così poco interessante come in quel momento: in effetti, dall'espressione del viso non si poteva decifrare se avesse afferrato il pensiero dell'istruttore più di quanto non si possa indovinare la qualità di una cena desumendola dai vassoi coperti delle varie portate. Il giovane Lechmere simulava le sue facoltà di comprensione come se fossero state indiscrezioni di gioventù. No, proprio non era in grado di dire se il compagno di studi avesse per la testa qualcosa di diverso dal solito. Il signor Coyle fu dunque costretto a precisare: «Si rifiuta di presentarsi all'ammissione e manda tutti a farsi friggere!». La prima cosa che colpì il giovane Lechmere fu la strana metamorfosi che questa situazione apportava al linguaggio del suo Mentore, come se Coyle si ricordasse all'improvviso di un vocabolario dimenticato. «Che cosa? Non vuole andare alla Scuola Militare di Sandhurst?» «Non vuole andare da nessuna parte», proseguì Coyle, con un tono che quasi mozzò il fiato al giovane Lechmere. «Rinuncia all'esercito. Avanza stupide obiezioni contro la carriera militare!» «Ma guarda un po'! Eppure è stato il mestiere di tutta la sua famiglia!»
«Quale mestiere? Dite piuttosto la loro religione! Conoscete la signorina Wingrave?» «Oh, sì. È una vecchia terrificante, non è vero?», dichiarò con candore il giovane Lechmere. Il suo istruttore ebbe un attimo d'esitazione. «Formidabile... se è questo che intendete dire... ed è bene che sia così poiché, per quanto avanti con gli anni, incarna la forza, rappresenta la tradizione, le imprese dell'esercito britannico, la potenza d'espansione del popolo inglese. Credo che si possa contare sulla famiglia di Owen Wingrave per farlo ritornare alla ragione, ma sarà opportuno mettere in preventivo tutte le influenze possibili. Mi piacerebbe conoscere la portata della vostra. Siete convinto di riuscire a far qualcosa?» «Cercherò di fare del mio meglio», rispose il giovane Lechmere con aria pensosa. «Ma quel ragazzo sa troppe cose e ha delle idee assolutamente straordinarie!» «Allora ve ne ha riferito qualcuna? Vi ha fatto delle confidenze?» «Oh, l'ho sentito raccontare un sacco di panzane!» Il bravo ragazzo sorrise. «Mi ha detto che lo disprezzava!» «Che disprezzava che cosa? Non capisco.» Il più zelante degli allievi di Coyle meditò un istante, come consapevole di una grossa responsabilità. «Beh, il mestiere del soldato, questo è quanto. Dice che lo consideriamo sotto un'angolazione falsa.» «Non dovrebbe tenere un simile linguaggio con i suoi compagni. Significa corrompere la giovinezza d'Atene. Seminare la sedizione!» «Oh, io sono al di sopra di ogni pettegolezzo!», affermò il giovane Lechmere. «E comunque non mi ha mai detto che voleva mollare tutto. Ho sempre creduto che avesse intenzione di andare fino in fondo, poiché c'era costretto. Quel tipo è capace di sostenere tutte le opinioni possibili e di parlare fino a confondervi il cervello... questo devo dirlo a suo favore. Ma è proprio un peccato... sono sicuro che avrebbe fatto una carriera magnifica!» «Diteglielo! Perorate questa causa! Battetevi... in nome del Cielo!» «Farò del mio meglio! Gli dirò che è una vergogna.» «Sì, fate vibrare questa corda. Ditegli che è un disonore.» Il giovanotto lanciò a Coyle una rapida occhiata. «Oh, sono certo che non farebbe mai nulla di disonorevole!» «Uhm... il suo comportamento sembrerebbe avere proprio tutta l'aria di
una diserzione! Bisogna farglielo capire. Cercate di lavorare in questo senso. Esponetegli il punto di vista di un compagno... di un fratello d'armi.» «Speravo proprio di diventarlo, un giorno.» Il giovane Lechmere, estremamente esaltato dalla missione che gli era stata affidata, si perse in una romantica fantasticheria. «È davvero un tipo fuori dal comune.» «Non lo penserà più nessuno, se si toglie la divisa», affermò Spencer Coyle. «Beh, che nessuno si arrischi a dirmi qualcosa di simile», replicò l'allievo, arrossendo. A Coyle, colpito dall'accento del ragazzo, non sfuggì l'ironia della sorte, per cui, nonostante quel giovanotto fosse un soldato nato, le scelte che gli si sarebbero presentate nel corso della vita non avrebbero mai suscitato alcuna emozione, salvo forse nel cuore della gentile fanciulla con cui, in un prossimo futuro, avrebbe contratto una placida unione. «Gli siete affezionato? Avete fiducia in lui?» In quei giorni, il giovane Lechmere aveva l'impressione di passar tutto il tempo a rispondere a terribili interrogatori, ma non ne aveva mai subito di così ardui. «Se ho fede in lui? Eccome!» «Allora salvatelo.» Il povero ragazzo restò di sasso, come se l'accento appassionato del superiore lo obbligasse a vedere nella sua supplica più di quanto non sembrasse a prima vista. E senza dubbio ebbe la sensazione di affrontare una situazione spinosa quando, dopo un attimo, con le mani in tasca, rispose con fiducia, ma senza enfasi: «Credo che riuscirò a fargli cambiare idea». 2. Prima di conferire con il giovane Lechmere, Coyle si era deciso a telegrafare alla signorina Wingrave, con risposta pagata, risposta che gli venne prontamente rimessa e provocò il colloquio che abbiamo riferito. Successivamente si recò in macchina in Baker Street, dove la distinta signorina aveva detto che l'avrebbe aspettato e, cinque minuti dopo il suo arrivo, seduto a tu per tu con l'austera zia di Owen Wingrave, non cessava di ripetere, straziato, dall'alto della sua infallibile esperienza: «Quel ragazzo è così intelligente... così intelligente...». Aveva appena finito di dichiarare che istruire un elemento simile era come concedersi un
lusso da tempo sognato. «Certo che è intelligente. Come potrebbe essere altrimenti? C'è stato un solo idiota nella nostra famiglia», disse Jane Wingrave. L'allusione era alla portata di Coyle e lo sensibilizzò a un altro motivo della delusione, dell'umiliazione che provava quella buona gente di Paramore; nel frattempo, l'attempata zitella gli fornì un esempio della coscienziosa rudezza che, in un'altra circostanza, aveva già avuto modo di osservare in lei. Il povero Philip Wingrave, figlio maggiore del defunto fratello della signorina Wingrave, era totalmente idiota; bandito dalla vista dei suoi simili, deforme, asociale, irrecuperabile, relegato in una casa di cura privata, per gli amici della famiglia rappresentava soltanto un piccolo, fastidioso incidente di percorso, su cui ci si sforzava di mantenere il silenzio. Le speranze della casa, del pittoresco Paramore, luogo di soggiorno melanconico e permanente del vecchio Sir Philip, dove le sue infermità lo avrebbero relegato fino alla morte, si concentravano ormai sul minore dei ragazzi al quale la natura, come per compensare il pasticcio precedente, aveva dispensato, oltre a una bellezza fuori dal comune, una prontezza di spirito eccezionale e totale. Quei due costituivano tutta la prole dell'unico figlio del vecchio gentiluomo, figlio che, al pari di tanti suoi antenati, aveva sacrificato la giovane vita gagliarda al servizio del Paese. Owen Wingrave, il primo a portare tale nome, aveva perso la vita sotto la sciabolata di un truce afgano che gli aveva spaccato il cranio in due. Sua moglie, che all'epoca risiedeva in India, stava per dare alla luce il terzo erede e, quando il parto ebbe luogo nelle tenebre e nella sofferenza, generò un figlio morto e non sopravvisse alle molte complicazioni. Il secondo dei due ragazzi, restati in Inghilterra a Paramore con il nonno, fu affidato alla custodia dell'unica zia rimasta nubile e - durante l'interessante domenica che Spencer Coyle, convocato da un pressante invito dopo aver accettato di occuparsi della formazione di Owen, aveva trascorso sotto il loro tetto, nonostante tutti gli impegni - il celebre istruttore era rimasto molto impressionato dall'influenza esercitata dalla signorina Wingrave, quantomeno nelle intenzioni. In effetti, per quell'uomo che si piccava d'essere un buon psicologo, questa breve visita rimase nel ricordo come un'inconsueta visione, ossia quella di un maniero dell'epoca di Re Giacomo, impoverito, degradato e notevolmente sinistro, ma pieno di carattere, scenario consono per la figura di
un anziano e nobile soldato. Sir Philip Wingrave, una reliquia del passato, più che una gloria, era un piccolo ottuagenario ancora vispo, estremamente e affettatamente cortese, dotato di uno sguardo molto penetrante. Amava fare gli onori di casa, benché la situazione attuale fosse ben lontana da quella di un tempo ma, anche quando con una mano un po' tremante accendeva personalmente la candela destinata alla camera dell'ospite, che si profondeva in un mare di scuse, non si poteva non scorgere, sotto la superficie, un vecchio uomo di guerra dalla volontà implacabile. L'immaginazione del visitatore lo inquadrava istintivamente nel suo passato orientale, ricco d'avventure, di episodi in cui il formalismo scrupoloso dei modi dovevano renderlo ancora più terribile. Aveva la sua leggenda e diverse storie correvano sul suo conto. Coyle si ricordava anche di altri due personaggi; una certa signora Julian, avvizzita e scialba, ridotta laggiù a uno stato subalterno durante i soggiorni che vi faceva nella sua qualità di vedova di ufficiale e intima della signorina Wingrave; e una ragazza di diciotto anni, di notevole intelligenza, parente della signora suddetta, la quale, agli occhi dell'ospite perspicace, sembrava fatta per ben altre situazioni. In effetti, trattava Owen con molta impertinenza. Durante una lunga passeggiata in compagnia del giovanotto, e dopo alcuni colloqui che confermarono l'elevata opinione che si era fatta di lui, Coyle venne a conoscenza (poiché Owen, quando entrava in confidenza, era portato a lasciarsi andare) che la signora Julian era la sorella di un valentissimo Capitano d'Artiglieria, un certo Hume Walker, caduto nel corso della rivolta dei Cipays, e che fra lui e la signorina Wingrave c'erano stati (unica concessione conosciuta nella vita della suddetta signorina) dei rapporti alquanto teneri, destinati a finire tragicamente. In effetti, dopo il fidanzamento ufficiale, dando libero corso alla propria indole gelosa, la signorina Wingrave aveva rotto con lui per mandarlo incontro al suo destino. Dopodiché la cocente sensazione d'essere stata la causa della sua morte, un tormento eterno e feroce, cominciò a perseguitarla e, il giorno in cui la disgraziata sorella del Capitano, anche lei sposata a un militare, rimase vedova e, per un destino ancora più atroce, quasi senza risorse, la zia di Owen si era accanitamente votata a una lunga espiazione. Per consolarsi, obbligava la signora Julian a trascorrere una parte del tempo a Paramore, dove la vedova indigente era diventata una specie di governante non rimunerata ma al riparo dalle cattiverie del mondo. Tutta-
via Coyle aveva il sospetto che la signorina Wingrave traesse il massimo del conforto nelle umiliazioni che poteva infliggerle. L'impressione che gli lasciò Jane Wingrave non fu inferiore a quella che riportò da quella stimolante domenica, singolarmente tinta per lui di un sentimento di frustrazione, di lutti e di ricordi, di nomi mai menzionati, di pianti lontani di vedove inconsolabili, di echi di battaglie e di notizie funeste. Tutto ciò creava, beninteso, un'atmosfera molto marziale e Coyle avvertiva un leggero brivido nel pensare alla carriera delle armi verso cui avviava giovani innocenti. Inoltre, la vista della signorina Wingrave finiva col farvi sentire del tutto a disagio con voi stessi, tanto la sua buona coscienza, fredda e adamantina, sembrava scrutarvi dal fondo di quegli occhi belli e glaciali, e vibrare nella voce sonora. Era una persona molto distinta, spigolosa ma senza goffaggine, fronte spaziosa, folta capigliatura nera acconciata come quella di una donna che si crede (forse a ragione) una testa «nobile», attualmente solcata da irregolari striature bianche. Se, tuttavia, per il nostro amico agitato, quella donna incarnava il genio di una razza militare, ciò non significava che avesse una camminata da granatiere né un vocabolario da soldataccio; ma tutte le sue simpatie erano rivelate in maniera inequivocabile dal fatto che il suo aspetto, ognuno dei suoi atti, dei suoi sguardi, ognuna delle sue intonazioni erano un'allusione, continua e diretta, all'insigne valore della famiglia d'origine. Se era così marziale, ciò era motivato dal fatto di provenire da una schiatta di militari e, per nulla al mondo, l'austera zitella avrebbe consentito a essere qualcosa di diverso da tutti i Wingrave. Cadeva quasi nella volgarità quando si trattava dei suoi antenati e, chiunque avesse voluto cercarle dei difetti, avrebbe trovato un buon pretesto nel senso erroneo delle proporzioni che le era peculiare. Ma tale tentazione non venne a Spencer Coyle, per il quale quel tipo di personalità, così colorata e vibrante, costituiva quasi qualcosa di «regale», al punto che si compiaceva nel vedere in lei una forza esercitata a profitto della sua stessa causa. Avrebbe augurato al nipote la stessa ristrettezza di idee, invece della riprovevole tendenza a considerare le cose sotto le loro reciproche correlazioni. Si chiese perché, ogniqualvolta veniva a Londra, la donna alloggiasse in Baker Street. Non aveva mai sentito parlare di Baker Street come di una zona residenziale e, nella sua mente, quel quartiere si associava soltanto a rumorosi empori e a eccentrici fotografi.
Nella signorina Wingrave, indovinò una rigida indifferenza per tutto ciò che non costituiva la passione dominante della sua vita. Nient'altro contava veramente per lei, e si sarebbe installata altrettanto confortevolmente in un appartamento di Whitechapel se ciò avesse potuto tornare utile alla sua tattica. La zitella ricevette l'ospite in un locale vasto e sbiadito, con delle sedie traballanti, qualche vaso d'alabastro e dei fiori di seta; l'unica piccola concessione personale era un voluminoso catalogo delle Riviste dell'Esercito e della Marina, che faceva bella mostra sulla tovaglia del tavolo di un blu intenso. La fronte chiara della signorina Wingrave, che si sarebbe detta una placca di porcellana, un ricettacolo per scrivere o far conti, si imporporò quando l'istruttore le comunicò la straordinaria notizia; tuttavia l'uomo constatò che, per fortuna, la collera stava avendo la meglio sullo sgomento. Quella donna possedeva per sua natura, e avrebbe sempre posseduto, un'immaginazione troppo scarsa per conoscere la paura, e la sana abitudine di far fronte contro tutto e tutti le dava sempre la sicurezza di essere all'altezza delle circostanze. Coyle capì che il suo solo timore, in quel preciso istante, forse era quello di non poter impedire al nipote di fare pubblicamente l'asino o peggio ancora. Che Owen si rendesse ridicolo per un certo tempo, la irritava ma non la sconcertava più che se fosse venuta a sapere che aveva fatto dei debiti o che si fosse innamorato di una ragazza di basso ceto. Il fatto, la certezza che mai nessuno avrebbe portato lei, Jane Wingrave, a fare la figura della sciocca, compensava la contrarietà. «Non so perché quel giovanotto mi sta tanto a cuore; da quando ho cominciato a formare dei cadetti, credo di non aver mai provato niente di simile», disse Coyle. «Mi è simpatico e credo in lui. Per me è stata una gioia constatarne l'eccezionale predisposizione.» «Oh, conosco bene la predisposizione della mia famiglia!» La signorina Wingrave assunse l'aria di chi la sa lunga, come se l'ininterrotto succedersi di antiche generazioni fosse passato come un lampo davanti a lei in un ticchettio di spade e di speroni. Spencer Coyle capì: intendeva fargli capire che lei non aveva nulla da imparare in merito a qualsiasi cosa avesse a che fare con la carriera naturale di un Wingrave, e anche quanto disse in seguito lo convinse che, dopo la turbata esposizione che le aveva fatto del proprio fiasco e del proprio rammarico per la decisione
dell'allievo prediletto, per quella donna lui non era che un poveraccio. Coyle si sforzò di spiegarle che il caso era più complicato di quanto non credesse, ma si rese conto che le sue parole cadevano nel vuoto. Più insisteva sull'indipendenza di spirito del ragazzo, più lei ci vedeva la prova irrefutabile che suo nipote era un Wingrave e un soldato. Fu soltanto quando riferì che Owen descriveva la carriera militare come una condizione «troppo bassa» per lui, e quando quella luce più viva, progettata sulla complessità del problema, captò finalmente la sua attenzione, che, dopo un istante di stupita riflessione, la signorina Wingrave esclamò: «Mandatemelo qui subito!». «Volevo proprio domandarvene il permesso, ma ho voluto anche prepararvi al peggio, farvi capire che il ragazzo mi sembra ostinatamente risoluto e suggerirvi che le argomentazioni più valide delle quali disporrete, soprattutto se riusciste a trovarne di ordine pratico, non saranno certo di troppo.» «Credo di disporre di un'argomentazione decisamente valida», annunciò la signorina Wingrave, posando sul visitatore uno sguardo tagliente. Coyle, senza sapere quale poteva essere quel formidabile meccanismo, la pregò di mettersi immediatamente in azione. Le promise che il giovanotto si sarebbe presentato in Baker Street in serata, aggiungendo tuttavia che gli aveva consigliato di passare due giorni a Eastbourne. Ciò indusse Jane Wingrave a domandare con sorpresa quale effetto salutare si aspettava da un rimedio così oneroso, e quando lui ebbe risposto: «Il vantaggio di un po' di riposo, del cambiamento d'aria, un breve sollievo alla tensione nervosa», lei replicò angosciata: «Non viziatelo! Ci costa già troppo! Gli parlerò: lo porterò a Paramore, laggiù sapremo come trattarlo e ve lo restituirò completamente rimesso in carreggiata!». Spencer Coyle accettò l'augurio con apparente soddisfazione ma, prima di congedarsi da quell'irascibile signorina, capì che si era appena accollato un nuovo motivo d'ansia, una nuova inquietudine, il che lo indusse a pensare, sconsolatamente: «Oh, quella donna in fondo è un granatiere! Manca di tatto! Non immagino quale possa essere la sua irresistibile argomentazione, ma temo che sia solo una presuntuosa e che con Owen non venga a capo di nulla. Meglio contare sul vecchio... lui sì che ha del tatto, benché sia un vulcano ancora in piena attività. Probabilmente Owen lo farà saltare su tutte le furie. Per farla breve, quel ragazzo è il migliore dei tre». Quella sera, a cena, Coyle ebbe di nuovo la sensazione che quel ragazzo fosse il migliore. Il giovane Wingrave il quale - fu contento di constatarlo -
non era ancora partito per il mare, si presentò a tavola come di consueto, con l'aria effettivamente un po' turbata ma neppure troppo. Chiacchierò con estrema naturalezza con Coyle che, già dall'inizio, aveva visto in lui il ragazzo più bello che avesse mai ospitato; ragion per cui tutto l'imbarazzo fu per il povero Lechmere, il quale si premurò, come motivato da profonda delicatezza, d'evitare lo sguardo del compagno uscito di testa. Tuttavia Spencer Coyle pagò lo scotto della sua stupidità, sentendo aumentare il proprio turbamento, scoprendo nel giovane amico un sacco di cose che certamente la sua famiglia di Paramore non avrebbe capito. Persino la sua esasperazione si stava calmando... dopotutto, quel ragazzo aveva ben diritto ad avere delle idee personali... e si ricordò che Owen era di una sostanza troppo fine per essere maneggiato da mani grossolane. È così che l'ardente, piccolo istruttore, animato di strane intenzioni e di complessi sentimenti di comprensione, era quasi sempre condannato a non potersi adagiare confortevolmente nei suoi dispiaceri, e neppure nei suoi entusiasmi, poiché il suo amore per la verità non gli consentiva mai di goderne a fondo. Dopo cena, parlò a Wingrave dell'opportunità di una visita immediata a Baker Street e il giovanotto, che aveva «un'aria strana» (ovverosia sorrideva di nuovo, con il buonumore perverso applicato a una pessima causa, e già manifestato nel corso del loro recente colloquio) non apparve particolarmente turbato. Tuttavia Spencer Coyle era convinto che tale prospettiva lo terrorizzasse. Owen aveva paura della zia, ma l'istruttore non vide in ciò un segno di pusillanimità. Anche lui, al posto di quel povero ragazzo, sarebbe rimasto terrificato, e la vista dell'allievo prediletto che avanzava verso la batteria nemica nonostante la paura, suggeriva positivamente che in lui c'era il temperamento del vero soldato. Più di un giovanotto coraggioso avrebbe vacillato davanti a una simile prova. «Ha veramente di quelle idee!», dichiarò il giovane Lechmere all'istruttore, dopo che il compagno se ne fu andato. Lechmere era preoccupato e di umore alquanto cupo, dovendo riassorbire un'intensa emozione. Prima di cena, era andato dritto e filato a trovare l'amico, in conformità alla richiesta di Coyle e si era fatto spiegare che gli scrupoli di Owen si basavano sull'irresistibile convinzione della stupidità... l'assurda barbarie, aveva detto Owen... della guerra. Owen deplorava che gli uomini non avessero inventato nulla di più intelligente, e si accingeva a dimostrare, nell'unica manie-
ra alla sua portata che, per quanto lo riguardava, lui non era un bruto ottuso. «E pensa che tutti i grandi generali meritavano di essere fucilati e che Napoleone Bonaparte, in particolare, era uno scellerato, un criminale, un mostro inqualificabile!», aggiunse Coyle, completando il quadro del giovanotto. «Vedo che vi ha gratificato delle stesse parole di saggezza che ha usato con me. Però mi piacerebbe sapere quali sono state le vostre obiezioni.» «Gli ho detto che erano stupidaggini colossali», replicò il giovane Lechmere con enfasi, dopodiché s'interruppe rimanendo alquanto sorpreso nel vedere il signor Coyle esplodere in una risata tuonante; poi continuò: «Davvero molto strano. Oso dire che c'è un po' di vero in quelle parole. Ma è proprio un peccato!». «Oscar mi ha rivelato in quale periodo ha cominciato a considerare la questione sotto quell'ottica. Quattro o cinque anni fa ha letto un sacco di monografie relative a tutti i grandi condottieri e alle loro campagne... Annibale, Giulio Cesare, Marlborough, Federico e Bonaparte... e gli si sono aperti gli occhi. Ha detto d'essere stato sollevato da un'ondata di disgusto. Ha parlato dell'"incommensurabile miseria" delle guerre, e mi ha chiesto perché mai i popoli non sabotano i governi e i dirigenti che le fomentano! E, soprattutto, detesta quel povero vecchietto di Bonaparte!» «Parola d'onore, Bonaparte era un mostro, un mostro disgustoso e crudele!» Dopo questa interruzione imprevista, Coyle riprese: «Ma suppongo che voi vi siate rifiutato di ammetterlo». «Oh, evidentemente non dico che era senza macchia, e sono contento che noi inglesi l'abbiamo tolto di mezzo. Ma l'argomentazione che ho sostenuto contro Wingrave, è stata che il suo comportamento provocherebbe commenti senza fine.» Il giovane Lechmere ebbe un attimo d'esitazione, prima di proseguire. «Gli ho detto di prepararsi al peggio!» «Naturalmente, vi avrà chiesto che cosa intendevate per "peggio".» «Sì, e sapete che cosa ho risposto? Ho detto che gli altri vedranno nei suoi scrupoli di coscienza e nel suo disgusto un semplice pretesto! E lui mi ha chiesto: "Un pretesto a cosa?".» «Ah, così vi ha messo a tacere», replicò Coyle con una risatina che finì di sconcertare il già timido allievo. «Nient'affatto... perché gli ho risposto per le rime!»
«Che cosa gli avete detto?» Ancora una volta, per qualche istante, con gli occhi preoccupati e fissi in quelli dell'istruttore, il giovanotto esitò: «Beh, quello di cui parlavamo qualche ora fa... che darebbe l'impressione di non avere...». Il bravo ragazzo si impappinò di nuovo, ma poi riuscì ad articolare: «...Il temperamento guerriero, mi capite. E sapete che cosa mi ha ribadito lui?». «Al diavolo il temperamento guerriero!», rispose prontamente l'istruttore. Il giovane Lechmere sgranò gli occhi. Il tono del superiore gli fece dubitare se Coyle attribuiva questa frase a Wingrave oppure esprimeva un'opinione personale, tuttavia l'allievo dichiarò: «Ha detto proprio questo, parola per parola!». «Se ne frega!», commentò il signor Coyle. «Forse no. E comunque non è giusto da parte sua denigrare quelli come noi. Gli ho detto sul muso che non c'è niente di più bello del fegato e dell'eroismo.» «Ah, con questa dichiarazione l'avrete certamente messo con le spalle al muro!» «Poi ho aggiunto che era indegno da parte sua sminuire una carriera così splendida e gloriosa! E gli ho anche ripetuto che nessun esemplare umano vale quanto il soldato che compie il proprio dovere!» «Ah, l'essenza di quanto rappresentate voi, ragazzo mio.» Il giovane Lechmere arrossì. Non riusciva a capire... era un problema nuovo per lui... se in quel momento esisteva solo in funzione del divertimento che procurava al suo amico, ma si rassicurò un poco grazie alla cordialità con la quale l'amico suddetto gli posò una mano sulla spalla, dicendogli: «Continuate nei vostri sforzi. Forse arriveremo a un risultato. In ogni caso, vi sono estremamente grato». Ciononostante, il giovane Lechmere concepì un altro dubbio che restò insoddisfatto, il che lo indusse a esplodere di nuovo prima d'abbandonare quel fastidioso argomento. «Se ne frega! Ma non mi sembra assolutamente giusto!» «In effetti è così, ma ricordatevi quanto mi avete detto oggi pomeriggio... e cioè che consigliavate a tutti di evitare spiacevoli allusioni in vostra presenza!»
«Credo che sarei capace di rompere il muso con un solo pugno al primo sfacciato che si arrischiasse a farlo!», disse il giovane Lechmere. Coyle si alzò. La conversazione aveva avuto luogo a quattr'occhi, terminata la cena, dopo che la signora Coyle aveva lasciato la tavola e il direttore dell'istituto aveva somministrato al suo candido allievo, in virtù dei princìpi che facevano parte del suo metodo, un bicchiere di eccellente Bordeaux. Il discepolo, anche lui in piedi, si attardò un attimo, non per un nuovo «assalto» contro la bottiglia, come l'avrebbe definito, ma per asciugarsi i minuscoli baffetti con una cura prolungata e inusitata. L'interlocutore capì che aveva il cuore gravato da qualche preoccupazione, e per esprimerla sarebbe stato necessario uno sforzo supremo e attese, con la mano sulla maniglia della porta. Allora, mentre il giovanotto si avvicinava, Spencer Coyle notò l'intensità inconsueta del suo volto, paffuto e ingenuo. Il ragazzo, benché palesemente nervoso, cercava di comportarsi da uomo vissuto. «Che questo resti fra noi, naturalmente», balbettò, «e non oserei mai farne parola a qualcuno che non si interessasse al povero Wingrave quanto voi. Ma... ma non credete che abbia strizza?» Coyle lo fissò con un'aria così dura che il giovane Lechmere ebbe paura delle sue stesse parole. «Strizza di che cosa?» «Ma di ciò di cui stiamo parlando... del servizio militare!» Il giovane Lechmere deglutì e aggiunse, con un'ottusità quasi patetica agli occhi di Spencer Coyle: «Del pericolo!». «Volete dire, che sta cercando di mettere al sicuro la pelle?» Gli occhi del giovane Lechmere si arrotondarono in un'implorazione, e l'istruttore gli vide sul volto rosaceo qualcosa di simile a una lacrima, il terrore di una sconvolgente delusione, proporzionata al livello della leale ammirazione che, fino a quel momento, aveva provato nei confronti di Owen. «È... ha forse paura?», ripeté il bravo ragazzo con voce tremante, piena d'aspettativa. «Gran Dio, no!», disse Spencer Coyle, voltandogli le spalle. Al che il giovane Lechmere si sentì duramente strigliato e provò addirittura un po' di vergogna. Ma, soprattutto, di sollievo.
3. Meno di una settimana dopo, il signor Coyle ricevette un biglietto della signorina Wingrave, la quale aveva lasciato immediatamente Londra con il nipote e ora gli proponeva di recarsi a Paramore la domenica successiva. Owen si era rivelato davvero testardo. Sul posto, in quella dimora così trasudante di esempi e di ricordi, abbinando i propri sforzi a quelli del povero, caro padre «terribilmente dispiaciuto», forse sarebbe stato necessario sferrare un'ultima offensiva. Coyle lesse fra le righe che molta acqua era passata sotto i ponti da quando, nell'appartamento di Baker Street, la signorina Wingrave aveva trattato la sua disperazione alla leggera. Benché l'anziana signorina non fosse una postulante per natura, ci tenne a presentare tale richiesta come un favore particolare da accordarsi a una famiglia afflitta, ed espresse anche il piacere che le avrebbe fatto la signora Coyle, per la quale accluse un invito particolare, se avesse avuto la compiacenza di accompagnarlo. Aggiunse anche che, qualora Coyle avesse acconsentito, avrebbe scritto anche al giovane Lechmere. La presenza di quel giovanotto, così gentile e virile al tempo stesso, avrebbe potuto giovare a quella testa bislacca del nipote. Il celebre istruttore decise di cogliere al volo l'occasione ma, all'improvviso, il piacere dell'invito cedette il passo all'inquietudine. Rispondendo alla signorina Wingrave, si ritrovò a sorridere al pensiero che, in ultima analisi, si sarebbe recato a Paramore più per difendere il suo ex allievo che per tradirlo. Disse alla moglie - una bella bionda, fresca e frivola, di aspetto decisamente più gradevole del suo - che avrebbe fatto bene a non rifiutare l'invito, se avesse voluto conoscere uno straordinario e affascinante esemplare di vecchia dimora inglese. Tale allusione conteneva un leggero sarcasmo: più di una volta aveva accusato la bella signora di essersi infatuata di Owen Wingrave, punto sul quale lei, d'altronde, conveniva perfettamente e da cui traeva un palese e orgoglioso compiacimento, a riprova che il dialogo fra i due coniugi era improntato ad uno spirito decisamente liberale. La signora Coyle entrò dunque nel gioco, accettando con sollecitudine l'invito. E anche il giovane Lechmere fu entusiasta di fare altrettanto. In effetti il suo istruttore aveva ritenuto opportuna quella breve diversificazione, in previsione delle grosse sgobbate che lo attendevano nei prossimi mesi.
Dopo un paio d'ore trascorse nel vecchio castello, il nostro amico rimase colpito nel constatare che coloro che lo abitavano avevano preso molto sul tragico il loro problema. Quella rapida seconda visita, che ebbe inizio il sabato sera, doveva costituire l'episodio più strano della sua vita. Non appena si ritrovò in intimità con la moglie - i due si erano appartati nelle loro stanze per prepararsi per la cena - ciascuno dei coniugi attirò, con enfasi e persino inquietudine, l'attenzione dell'altro sull'atmosfera cupa che gravava sulla casa. Per ammirabile che fosse l'edificio, con la vetusta facciata grigia che si sviluppava in armoniose ali in modo da formare i tre lati di un quadrilatero, la signora Coyle non si fece scrupolo nel dichiarare che, se fosse stata in grado d'immaginare il genere d'impressione che ne avrebbe riportato, non ci avrebbe mai messo piede. La bella signora, convinta che quel castello avesse un che di sinistro, di misterioso, di malefico, accusò il marito di non averla avvertita. In realtà lui le aveva vagamente detto che cosa avrebbe dovuto aspettarsi ma, mentre si vestiva quasi febbrilmente, la bella bionda continuò a tempestarlo di domande. Innanzitutto non le aveva mai fatto parola di quella strana ragazza, la signorina Julian. Ovverosia, non le aveva detto che la giovane, la quale, per dirla senza mezzi termini, occupava un ruolo subalterno, era in effetti, quantomeno a giudicare dal comportamento, la persona più importante della casa. La signora Coyle era già pronta a sostenere che odiava i modi affettati della signorina in questione ma, soprattutto, ce l'aveva con il marito perché non le aveva detto che avrebbero ritrovato il loro giovane convittore invecchiato di almeno cinque anni. «Non potevo immaginarlo», si schermì Spencer, «e neppure supponevo che, in questo contesto, la crisi si sarebbe sensibilizzata fino a questo punto. Comunque, proprio l'altro giorno, avevo suggerito alla signorina Wingrave la necessità di far notevoli pressioni sul nipote, e lei mi ha preso alla lettera. Gli hanno tagliato i viveri e stanno cercando di prenderlo per fame. Non è certo quanto intendevo. E, a onore del vero, da come si sono messe le cose, anch'io non ho più le idee molto chiare. È comunque evidente che Owen risente della pressione, ma si rifiuta di cedere.» Fenomeno singolare, da quando aveva messo piede al castello, il piccolo professore sognatore capiva ancora meglio, socchiudendo gli occhi per dar corpo all'illusione, che l'evolversi degli avvenimenti aveva prodotto in lui una strana reazione. In fondo, se si trovava là, era perché aveva preso le
parti del povero Owen. Tutte le sue impressioni, le sue apprensioni, si erano fatte molto più profonde da quando era arrivato a Paramore. Persino la resistenza del giovane fanatico aveva qualcosa d'indefinito che cominciava ad affascinarlo. La bionda consorte, nell'intimità del colloquio che vi abbiamo appena riferito, aveva gettato la maschera e lodato con stravaganza il comportamento del cadetto, sostenendo che Owen era troppo buono per diventare un rozzo militare. E poi, com'era nobile soffrire per le proprie convinzioni! Quel ragazzo non era forse inebriante come un giovane eroe, con il pallore di un martire cristiano? Dicendo ciò, la buona donna non faceva che esprimere una simpatia che lui stesso aveva già provato in fondo all'anima, pur fingendo di considerare il vecchio convittore come un caso raro. Una mezz'ora prima, dopo aver preso il tè nel vecchio salottino dalle pareti rivestite di mogano, Owen, quell'obiettore di coscienza, aveva proposto al maestro un piccolo giro prima di prepararsi per la cena. Mentre si dirigevano verso una delle estremità della balconata, il giovanotto passò una mano sotto il braccio dell'uomo più anziano con gesto implorante, concedendosi in tal modo una familiarità inconsueta fra allievo e maestro, destinata a far sorgere in quest'ultimo il sospetto che andasse alla ricerca di un alleato. Dal canto suo, Spencer Coyle aveva fiutato alcune cose, e non restò certo sorpreso dal fatto che il ragazzo dovesse fargli una confidenza. Comunque aveva subito capito che quelli del castello non si sarebbero persi una sua mossa e non l'avrebbe certo stupito il fatto che, in quel preciso istante, la signorina Wingrave stesse spiando da dietro di uno dei quadrelli di vetro smerigliato, che risalivano almeno a tre secoli prima, per appurare se il nipote cercava di portarlo dalla sua parte. Pertanto Coyle non perse tempo per ricordare al giovanotto, pur premurandosi di assumere un tono frivolo e scherzoso, che non era venuto a Paramore per lasciarsi corrompere, bensì per rivolgergli un ultimo appello che sperava non sarebbe caduto nel vuoto. Owen sorrise con una punta di tristezza e, continuando nella passeggiata, gli chiese se dava l'impressione di essere sul punto di mollare. «In realtà trovo che abbiate un'aria singolare e un aspetto distrutto.» I due si erano fermati in fondo alla terrazza. «Sono stato costretto a esercitare una gran forza di resistenza, e questo mi debilita un po'.»
«Ah, ragazzo mio, desidererei tanto che la vostra forza... che nessuno, peraltro, può disconoscervi... venisse prodigata per una causa migliore!» Owen Wingrave sorrise dall'alto della sua imponenza a quel soldo di cacio dell'istruttore. «Non ne sono convinto.» Dopodiché, si lanciò in vibranti spiegazioni: «Supponendo che abbiate la bontà di apprezzare la mia indole, non desiderereste che la impiegassi al meglio in una direzione qualsiasi? Ebbene, proprio questo è ciò che voglio». Il giovanotto confessò d'aver trascorso delle ore terribili a quattr'occhi con il nonno, il quale lo aveva coperto di insulti, in termini tali che il solo ricordo gli faceva ancora rizzare i capelli in testa. Pur supponendo che i suoi non avrebbero apprezzato la sua decisione, non aveva tuttavia previsto un simile scandalo. Persino la zia, pur con un diverso atteggiamento, non aveva mancato di ferirlo, accusandolo di disonorare pubblicamente il nome della casata, e d'essere stato il solo a rinunciare alla divisa, l'unico in tre secoli. Tutti sapevano che era destinato alla carriera militare e ora cani e porci avrebbero saputo che lui altro non era che un giovane ipocrita, il quale, all'improvviso, simulava certi scrupoli che non stavano né in cielo né in terra. Parlavano dei suoi scrupoli come di una divinità dei cannibali. Il nonno gli aveva rivolto epiteti infamanti. «Mi ha trattato da... trattato da...» A quel punto Owen si turbò ulteriormente e gli venne meno la voce; nonostante l'eccezionale salute, aveva l'aspetto di una persona estremamente sofferente. «Me lo immagino!», commentò Spencer Coyle, con una risatina forzata. Lo sguardo velato del compagno si posò un attimo su un oggetto lontano, come se seguisse il misterioso e irrevocabile prosieguo della situazione. Poi incrociò di nuovo il suo e lo valutò per un attimo: «Non è vero, non è vero! Non è questa la causa, ve lo giuro!». «Non ne ho mai dubitato, davvero! Ma quale altra pensate di addurre?» «Al posto di che cosa?» «Della stupida soluzione che costituisce la guerra. Se la sopprimete, dovreste quantomeno suggerire con che cosa sostituirla.» «Questo problema riguarda la classe dirigente, i governi e i ministri», rispose Owen. «Troverebbero subito una soluzione se si facesse loro intendere che, in caso contrario, finirebbero impiccati senza tante lungaggini. Fatene un crimine capitale! Ecco che cosa stimolerà lo spirito dei signori
ministri!» Ora il giovane aveva assunto un'aria sicura, quasi esaltata, e gli brillavano gli occhi. Il signor Coyle si lasciò sfuggire un triste sospiro di sconfitta: certamente il proponimento di Owen tornava sempre a quell'idea fissa. Vide il momento in cui il giovanotto avrebbe chiesto anche a lui se lo giudicava un vigliacco, ma rimase sollevato nel constatare che, vuoi perché il suo allievo lo credeva incapace di un simile sospetto, vuoi perché esitava nel porre la domanda, ciò non avvenne. Spencer Coyle avrebbe voluto manifestargli la propria fiducia, ma in che modo? L'assicurazione diretta che lui non metteva in dubbio il suo coraggio, sarebbe stato un complimento troppo grossolano, quasi come dirgli che non dubitava della sua probità. Tale difficoltà fu peraltro evitata poiché Owen proseguì: «Il nonno non può disporre del maniero, che è un maggiorasco, ma non avrò nulla al di fuori di questa tenuta che è molto piccola e, al passo in cui vanno le affittanze, il reddito è assolutamente insignificante. Il nonno ha da parte un po' di denaro, non molto, ma comunque ha deciso di radiarmi dal suo testamento. Mia zia farà altrettanto: me lo ha già comunicato. Avrebbe dovuto lasciarmi seicento franchi di rendita. Tutto era già stato predisposto, ma ora è chiaro che non toccherò un soldo, se rinuncio alla carriera militare. A onor del vero, da parte di madre mi arriva una rendita di trecento franchi all'anno. Per dirvela in tutta franchezza, non me ne importa un bel niente di questa perdita materiale!». Il giovanotto fu costretto a un lungo respiro, come tutti quelli che soffrono, dopodiché aggiunse: «Non è quello che mi preoccupa!». «Ma che cosa intendete fare, se non abbraccerete la carriera militare?», domandò l'altro, astenendosi da qualsiasi commento. «Ancora non lo so. Forse nulla. In ogni caso, niente di grande. Solo qualcosa di pacifico!» Owen si concesse un sorriso stanco come se, nonostante tutte le preoccupazioni, apprezzasse l'umorismo di tale dichiarazione nella bocca di un Wingrave, ma l'uomo più anziano alzò gli occhi verso di lui quasi volesse fargli capire che, dopotutto, non era affatto un Wingrave, che possedeva la calma di un soldato sotto il fuoco... e misurò l'esasperazione in cui tale professione di fede, il colmo dell'infamia per i suoi, aveva dovuto gettare il nonno e la zia. «Forse nulla!»... quando avrebbe potuto continuare la gloriosa tradizione familiare! E tuttavia non era debole e denotava un carattere
interessante ma, palesemente, molto irritante sotto certi aspetti. «Che cosa vi preoccupa dunque?», domandò il signor Coyle. «Oh, questa casa... il suo aspetto, la sua atmosfera! Ci sono delle voci strane che sembrano mormorarmi dei rimproveri... sussurrare cose terribili al mio passaggio. Incombe una specie di coscienza collettiva che riprova la mia scelta. Certo che non mi è stato facile, non ho preso tale decisione a cuor leggero!» Con una luce negli occhi che sembrava un appello alla giustizia, Owen si chinò di nuovo verso quel piccoletto dell'istruttore. Poi riprese: «Ho risvegliato tutti i vecchi fantasmi! Persino i ritratti degli antenati mi guardano con collera dall'alto delle pareti! Ce n'è uno, in particolare, quello del mio trisavolo di cui conoscete la straordinaria storia, il vecchio gentiluomo appeso in cima al secondo ballatoio dello scalone. Quasi si agita nella tela e si inalbera in modo strano quando mi avvicino. E, dal momento che sono costretto a scendere e a salire quelle scale diverse volte al giorno, la cosa è alquanto irritante! Mia zia li definisce la cerchia di famiglia e loro sono seduti là, con un'aria accigliata, a giudicarmi. Tale cerchia si è formata qui: è una sorta di presenza terribile, esigente, che si stende nel passato e, quando sono rientrato l'altro giorno, mia zia mi ha detto che non avrò certo l'impudenza di tenere un simile linguaggio in loro presenza! Tuttavia sono stato costretto a dirle, quelle cose, al nonno! Ma, adesso che le ho dette, la faccenda mi sembra chiusa. Voglio andarmene: poco mi importa se non tornerò mai più». «Ma siete un soldato! Dovete andare avanti nella lotta fino in fondo!» Coyle scoppiò a ridere. Tale leggerezza sembrò sconcertare il giovanotto il quale tuttavia, mentre tornavano sui loro passi, ebbe a sua volta un pallido sorriso e replicò: «Ah, siamo tutti contaminati!». Camminarono in silenzio finché non furono a metà del portico. Là il maggiore dei due si fermò e, dopo essersi sincerato di essere al riparo da orecchie indiscrete, chiese all'improvviso: «Che cosa ne pensa la signorina Julian?». «La signorina Julian?» Owen arrossì impercettibilmente. «Sono sicuro che non vi ha nascosto la sua opinione!» «Certo: ma è l'opinione della cerchia di famiglia di cui fa naturalmente parte. Peraltro ne ha anche una sua.»
«Di opinione?» «Di famiglia.» «Intendete forse riferirvi a sua madre... quella signora così paziente?» «Penso piuttosto a suo padre, caduto in combattimento. E al nonno, e al bisnonno, e agli zii, e agli zii degli zii. Tutti sono caduti davanti al nemico.» Coyle, con il volto stranamente corrucciato, fece la seguente riflessione: «Il sacrificio di tante vite non le basta? Perché vorrebbe sacrificare la vostra?». «Oh, quella ragazza mi odia», dichiarò Owen. E, su queste parole, i due ripresero a camminare. «Ah, l'odio delle ragazze carine per i bei giovanotti!», commentò Spencer Coyle. Non ci credeva, ma per sua moglie non sussisteva alcun dubbio, come scoprì quando la fece partecipe della conversazione avuta con Owen quando, secondo il rito che abbiamo avuto già modo di descrivere, si stavano preparando per la cena. Durante la mezz'ora in cui era stato servito il tè, la signora Coyle aveva già scoperto che non poteva esserci nulla di più indisponente dell'atteggiamento della signorina Julian nei confronti di quel povero giovanotto. Secondo lei, bisognava avere gli occhi in tasca per non accorgersi che quell'impunita cercava di civettare spudoratamente con Lechmere. Davvero uno sbaglio essersi tirati dietro quel fantoccio, che già sembrava aver perso la testa! A Spencer Coyle la situazione appariva sotto un'angolazione diversa: credeva di ravvisarvi elementi più nobili. La ragazza occupava al castello una posizione inspiegabile, se non fosse stata promessa al nipote della signorina Wingrave. Senza dubbio, in quanto nipote dello sfortunato fidanzato della signorina Wingrave, ciò la destinava a cancellare, mediante il matrimonio con la giovane speranza della loro razza, la tragedia che aveva separato i loro più anziani consanguinei. E se si poteva obiettare che a una ragazza, dotata di un po' di carattere, doveva risultare ripugnante essere manovrata nel campo degli affetti, il perspicace amico di Owen aveva già in serbo una risposta; una ragazza nelle condizioni della signorina Julian avrebbe mai potuto essere così folle da trascurare un'opportunità così ghiotta? Già abituata a Paramore, ci si sentiva al sicuro; e forse si divertiva anche a dare l'impressione di poter scegliere: piccole civetterie femminili e innocenti astuzie.
Certamente, dalla giovane emanava un fascino singolare, ma sarebbe stato inutile fingere che l'erede di quel Casato non rappresentasse un brillante partito per una diciottenne, per quanto intelligente fosse. La signora Coyle ricordò al marito che ormai il loro vecchio allievo non faceva più parte del Casato. Tale questione non era già stata dibattuta in precedenza fra i due uomini, mentre passeggiavano sul terrazzo? Spencer rivelò a quel punto il terrore che il ritratto del trisavolo ispirava a Owen. Scendendo, non mancò di indicarglielo, poiché lei non l'aveva notato. «Perché proprio quello del trisavolo, piuttosto che un altro?» «Oh, perché è il più temibile. Il solo che, qualche volta, si faccia vedere.» «Si fa vedere... e dove?» La signora Coyle si voltò con un sussulto. «Nella stanza dove è stato trovato morto, nella camera bianca, come continuano a chiamarla.» «Che cosa? In questo palazzo si aggira un fantasma?», urlò quasi la signora Coyle. «E mi hai portato qui senza avvertirmi?» «Non ti ho detto niente dopo la mia prima visita?» «Neppure una parola. Hai parlato solo della signorina Wingrave.» «Oh, forse te lo sarai dimenticato.» «Allora avresti dovuto ricordarmelo!» «Anche se ci avessi pensato, avrei tenuto la lingua a freno... altrimenti non saresti venuta!» «In effetti rimpiango d'averlo fatto!», sbottò la signora Coyle, per poi aggiungere subito: «Allora, che cosa sarebbe questa storia?». «Oh, si tratta di un atto di violenza perpetrato qui, secoli fa. Credo che fosse al tempo di Giorgio II, quando il Colonnello Wingrave, uno dei loro antenati, in un accesso di collera, picchiò uno dei figli, un ragazzino in piena crescita. Gli assestò sulla testa un colpo così terribile che quel poveretto morì. Si mantenne il silenzio sull'accaduto e venne fornita un'altra versione dell'incidente. Il corpo del disgraziato adolescente fu steso in una delle stanze dell'altra ala e le esequie furono celebrate in tutta fretta, fra strane voci che ci si sforzò di soffocare. L'indomani mattina, quando quelli della casa si radunarono, il Colonnello Wingrave mancava all'appello. Lo cercarono invano. Poi qualcuno ebbe l'idea che forse si trovava nella camera da dove erano partite le esequie del figlio. Questo qualcuno bussò senza ricevere risposta e, a un certo punto, decise di aprire la porta.
L'infelice giaceva, morto, sul pavimento, vestito di tutto punto, come se fosse caduto all'indietro, senza una scalfittura, senza un segno, senza nulla che indicasse apparentemente che avesse lottato o sofferto. Era un uomo vigoroso, pieno di salute. Nulla giustificava un simile avvenimento. Pare che si fosse recato nella stanza durante la notte, prima di mettersi a letto, in preda a una specie di crisi, vittima di un misterioso impulso non scevro dalla paura. Solo dopo ciò si fece luce sulla verità in merito allo sfortunato ragazzo. E nessuno ha più dormito in quella camera.» La signora Coyle era impallidita. «Lo spero bene! Grazie al Cielo, non ci hanno messi là!» «Ci troviamo a distanza di sicurezza: conosco bene il teatro dell'incidente.» «Vuoi dire che ci sei entrato?» «Oh, ma solo per qualche minuto. Quella gente va alquanto orgogliosa di quella stanza, e il nostro giovane amico me l'ha mostrata durante la mia visita precedente.» La signora Coyle spalancò gli occhi: «E che aspetto ha?». «Semplicemente di una camera da letto cupa e vuota, fuori moda, abbastanza grande, con il mobilio in stile. Tutte le pareti sono rivestite di legno ed è chiaro che, un tempo, i pannelli erano verniciati di bianco; ma i secoli li hanno fatalmente scuriti. Inoltre, appesi al muro, ci sono tre o quattro ricami antichi, a piccolo punto, messi sotto vetro.» La signora Coyle si guardò attorno con aria spaventata. «Sono felice che qui non ci siano ricami a piccolo punto sotto vetro! Sono cose che ti mettono sottosopra il sistema nervoso! Scendiamo per la cena.» Sullo scalone, il marito le mostrò il ritratto del Colonnello Wingrave, effigie non priva né di forza né di stile, tenuto conto del luogo e dell'epoca, di un signore dal volto virile, in abito rosso e parrucca bianca. La signora Coyle riscontrò una notevole somiglianza con il suo discendente, Sir Philip, e il signor Coyle si disse, pur mantenendo per sé tale riflessione, che se qualcuno avesse avuto il coraggio di percorrere di notte i vecchi corridoi di Paramore, avrebbe potuto imbattersi in una sagoma che gli rassomigliava, vagante con l'agitazione di uno spettro, la mano nella mano di un pallido adolescente. Mentre si dirigeva verso il salone con la moglie, l'istruttore cominciò all'improvviso a rimpiangere di non aver insistito maggiormente affinché il
suo allievo andasse a Eastbourne. Tuttavia la serata parve dimostrargli l'infondatezza di quelle vaghe premonizioni, poiché l'atteggiamento ostile della cerchia familiare, che lui si aspettava, si ritrovò mitigato dalla presenza di «vicini». Gli ospiti della cena erano due coppie gioviali, di cui una costituita dal Pastore e da sua moglie e l'altra da un giovanotto taciturno venuto per la pesca, in compagnia della consorte. Ciò costituì un sollievo per il signor Coyle, il quale cominciava a chiedersi che cosa ci si aspettava da lui, perché aveva commesso la follia di venire, e ora invece prevedeva che, quantomeno nel corso delle prossime ore, non avrebbe dovuto intervenire direttamente. Inoltre trovò, come in occasione della prima visita, un sufficiente esercizio delle sue sottili doti di osservatore nel decifrare i sintomi diversi che presentava quella scena mondana. L'indomani si annunciava come una giornata estenuante, una lunga domenica di pioggia nel corso della quale le teorie di Jane Wingrave gli sarebbero state esposte in tutta la loro crudezza nel corso di un penoso colloquio. L'anziana signorina e il fratello gli avrebbero fatto capire che contavano sul suo intervento per realizzare il miracolo e, qualora avessero tentato di associarlo a una politica troppo priva di tatto, forse lui avrebbe finito per spiattellargli sul muso il fatto loro, eventualità che peraltro non avrebbe avuto bisogno di verificarsi dal momento che quella visita già costituiva, di per sé, un deplorevole errore. Ma quella sera, era palese, il caro, vecchio gentiluomo si era proposto di fornire agli amici la prova tangibile del loro perfetto accordo. La presenza del grande istruttore di Londra sembrava garantire la sua fiducia nel successo dell'imminente interrogatorio. Con grande sorpresa dell'ospite, era stato convenuto che Owen non intervenisse in nulla che potesse guastare l'apparente concordia. Il giovanotto accettò dunque le allusioni al suo «duro mestiere» e, guardandosi bene dall'accennare alle proprie faccende, conversò con le signore con estrema amabilità, come se non fosse stato da poco «diseredato». Un paio di volte, lanciandogli un'occhiata attraverso la tavola, Coyle ne incrociò lo sguardo gravato di un'indefinibile passione che lasciava trapelare sul volto, in apparenza sorridente, un'espressione strana e patetica. Come non sentirsi stringere il cuore davanti a quel giovane agnello così palesemente marchiato per il sacrificio? «Al diavolo! Davvero un peccato! Sembrerebbe proprio fatto per il combattimento!», sospirò Coyle fra sé, con una mancanza di logica che,
peraltro, non era che apparente. Tale pensiero l'avrebbe assorbito ancora di più se Kate Julian non avesse polarizzato la maggior parte della sua attenzione. Seduta dinanzi a lui, gli fece l'effetto di una giovane donna notevole e forse interessante. Tale interesse non era d'altronde suscitato da una bellezza straordinaria. Carina, certamente, lo era, con quegli occhi allungati all'orientale, i magnifici capelli e un'indomabile originalità; ma lui aveva avuto modo di vedere incarnati più rari e lineamenti maggiormente di suo gradimento. La signorina Julian lo interessava piuttosto perché gli dava l'impressione d'essere esattamente il genere di persona che la sua posizione, delle considerazioni di ordine generale, la prudenza e forse la buona educazione, avrebbero dovuto indurla a non essere. Era, per dirla senza mezzi termini, quella che volgarmente si definisce una «protetta», una poveraccia senza un soldo, tollerata per condiscendenza. E invece tutto l'atteggiamento stava a esprimere che, pur occupando una situazione subalterna, il suo spirito, per rivincita, si elevava sopra qualsiasi precauzione o sottomissione. Non che si mostrasse aggressiva: era troppo indifferente per farlo. Si sarebbe detto piuttosto che, non avendo nulla da perdere o da guadagnare, si offriva il lusso di comportarsi seguendo il ghiribizzo del momento. Spencer Coyle pensò che per quella ragazza la posta era forse più alta di quanto non sembrasse immaginare; e comunque, qualsiasi fosse la portata della sua immaginazione, lui non aveva mai visto una giovane donna così poco preoccupata della prudenza. Il piccolo militare si ritrovò a pensare di quale natura fossero i rapporti fra Jane Wingrave e quella specie di orfanella; ma simili interrogativi si aprivano su profondità insondabili. Forse quella streghetta riusciva a dominare anche la sua protettrice. In occasione del precedente soggiorno a Paramore, Coyle aveva avuto l'impressione che, con Sir Philip al fianco, quella ragazza poteva lottare, come si suol dire, addossata a un muro. Divertiva Sir Philip. Lo affascinava, e lui amava le persone che non avevano paura. Da lui e dalla figlia, si vedeva chiaramente quale dei due era il capofila. La signorina Wingrave considerava molte cose come acquisite e, sopra ad ogni cosa, il rigore della disciplina e la sorte dei vincitori e dei prigionieri. Fra il loro brillante Owen e l'originale compagna della sua infanzia, quali bizzarri legami avevano potuto formarsi? Non poteva trattarsi di indifferenza, e ancor meno di avversione, fra due giovani creature così felici e belle. Senza essere Paolo e Virginia, dovevano tuttavia avere in comune la
loro primavera e il loro idillio. Come poteva un giovanotto così seducente non piacere a una ragazza così seducente, a meno che non le avesse fatto il dispetto di mostrarsi insensibile alle sue grazie? Ma quale seducente giovanotto sarebbe stato in grado di resistere a tale vicinanza? Coyle si ricordò di essere venuto a sapere dalla signora Julian che la frequenza fra i due non era costante, a causa dei periodi in cui la figlia alloggiava in collegio, per non parlare delle assenze di Owen; e anche a causa delle visite di Kate a delle famiglie amiche che avevano la bontà di «prendersi cura» di lei di tanto in tanto, nonché dei soggiorni a Londra «così difficili da combinare» ma tuttavia, ringraziando il Signore, frequentemente realizzati, allo scopo di consentire alla giovane donna di approfondire quei talenti... per il canto, il disegno o, meglio, la pittura a olio... che le erano valsi tanti elogi. Ma la buona vedova aveva anche accennato al fatto che i due giovani erano come fratello e sorella, il che ricordava comunque un po' Paolo e Virginia. E adesso, come già aveva fatto rilevare la signora Coyle, Virginia era manifestamente in fregola per il giovane Lechmere. Poiché la conversazione languiva alquanto, il nostro critico non fu costretto a fare grossi sforzi per riflettere sui punti suddetti. Il tono della riunione, forse grazie agli altri partecipanti, non sembrava deviare dal corso iniziale, con noiosa ripetizione degli stessi aneddoti, e con la disquisizione sui canoni di affitto da applicare ai fittavoli, argomenti che si accalcavano fra di loro come bestie inquiete. Era palese che gli ospiti desideravano di tutto cuore che la serata si svolgesse come se non fosse successo niente, e ciò fornì a Coyle la misura della loro segreta irritazione. Prima che la cena terminasse, l'istruttore provò una punta di inquietudine relativamente al suo secondo allievo. Il giovane Lechmere, da quando si era avviato alla carriera militare, gli aveva dato piena soddisfazione, tuttavia Coyle non si ingannava sul fatto che, nei momenti di distensione, quel ragazzone era ingenuo come un bambino. In effetti aveva pensato che le diversificazioni di Paramore avrebbero costituito per lui una specie di frustata, e ora il comportamento del cadetto confermava l'esattezza del pronostico. La frustata l'aveva sicuramente ricevuta sotto la forma di un colpo di fulmine. La luce che irradiava dalla fronte del giovane Lechmere rivelava con un candore che faceva quasi tenerezza o, quantomeno, lo esentava dal ridicolo, che non aveva mai visto nulla di paragonabile alla signorina Julian.
4. In salotto, dopo cena, la ragazza trovò il modo di avvicinare l'ex precettore di Owen. Restò dinanzi a lui per un attimo, sorridente, aprendo e chiudendo il ventaglio, poi, sollevando gli occhi dal taglio orientale, disse di botto: «So perché siete venuto, ma state perdendo il vostro tempo». «Sono venuto a contemplarvi un attimo. È forse tempo perso?» «Molto galante da parte vostra. Ma non è questo il problema contingente. Non farete niente di Owen.» Spencer Coyle ebbe un attimo d'esitazione. «E voi, che cosa volete fare del suo giovane amico?» La ragazza assunse un'aria stupita e si guardò attorno. «Il signor Lechmere? Oh, poverino! Abbiamo parlato di Owen: l'ammirava tanto!» «Anch'io, devo confessarvelo.» «L'ammiriamo tutti. Ecco perché siamo così disperati.» «Allora, dal canto vostro, vorreste che proseguisse la carriera militare?», domandò il visitatore. «La cosa mi sta molto a cuore. Adoro l'esercito e nutro un sincero affetto verso il mio vecchio compagno di giochi», rispose la signorina Julian. Spencer si ricordò la versione diversa che gli aveva fornito il giovanotto relativamente all'atteggiamento della signorina Julian, ma per lealtà verso Owen, si astenne dal provocarla. «Sarebbe impensabile che il vostro vecchio amico non nutra dell'affetto per voi. Di conseguenza sarà certamente desideroso di piacervi e non vedo perché, dal momento che siete entrambi così intelligenti, non regoliate la questione fra di voi!» «Desideroso di piacermi!», esclamò la signorina Julian. «Mi dispiace dire che Owen non manifesta alcun desiderio di questo genere. Mi giudica un'insolente mocciosa. Gli ho detto che cosa penso di lui, e adesso mi detesta.» «Ma se invece ne pensate così bene! Mi avete appena confessato di ammirarlo tanto!» «Ne ammiro i talenti, le potenzialità... sì, anche l'aspetto fisico, se mi è consentito di farvi allusione. Ma non il suo comportamento attuale.» «Avete sviscerato la questione con lui?», domandò Spencer. «Sì, ho osato essere franca, nella convinzione che una simile circostanza
me lo consentisse. Ma lui non ha trovato le mie parole di suo gradimento.» «Che cosa gli avete detto?» La giovane si concesse un istante di riflessione, mentre apriva e richiudeva il ventaglio. «Beh, dal momento che siamo buoni amici da così tanto tempo, gli ho detto che il suo comportamento comincia a essere indegno di un gentiluomo.» Dopo queste parole, gli occhi della ragazza incrociarono lo sguardo di Coyle, il quale ne sondò le ambigue profondità. «E che cosa gli avreste detto se non fosse esistito fra voi un simile legame di amicizia?» «È davvero strano che mi poniate tale domanda... e in questo modo!», replicò la signorina Julian con una risatina. «Non capisco il punto di vista. La vostra professione non era quella di formare dei soldati?» «Non prendetevela per un'innocente battuta di spirito. Ma per quanto riguarda Owen Wingrave, non ha bisogno di essere formato», dichiarò Coyle. «A mio parere» - e a questo punto l'omettino ebbe una leggera esitazione, consapevole di star dicendo un paradosso - «a mio avviso, quel ragazzo è un combattente nato, nell'accezione più elevata del termine!» «Allora che lo dimostri!», esclamò la giovane con impazienza, voltandosi bruscamente. Spencer Coyle lasciò che si allontanasse. Qualcosa, nell'accento della ragazza, lo turbava e lo irritava profondamente. Era evidente che, fra i due giovani, c'era stato un violento alterco, e il pensiero che quella storia non lo riguardava per nulla ne aumentò lo sconcerto. Quella casa era un focolaio militare e la signorina Julian, in ogni caso, una ragazza che identificava il suo ideale di virilità - le giovani donne hanno sempre il loro ideale di virilità - in un ufficiale con sciabola e decorazioni. Questione di gusti. Ma un quarto d'ora dopo, ritrovandosi accanto al giovane Lechmere, in cui si incarnava questo tipo di guerriero, Spencer Coyle era ancora così turbato che si rivolse all'innocente cadetto con una certa rudezza di modi. «Non siete obbligato a coricarvi tardi, sapete? Non vi ho portato qui per questo.» Gli invitati stavano prendendo congedo e le candele destinate alle stanze da letto scintillavano in monotona schiera. Il giovane Lechmere era in preda a un'agitazione troppo piacevole per essere sensibile al rimprovero. Una preoccupazione non certo sgradita gli increspava le labbra. «Non ho nessuna fretta di mettermi a letto. Sapete che in questo castello
c'è una camera terribilmente divertente?» Coyle si domandò per un attimo se avrebbe colto l'allusione. Alla fine si domandò: «Ma certo, non vi hanno sistemato là?». «Nient'affatto! Sono secoli che nessuno trascorre una notte là dentro. Ma è proprio quello che vorrei fare. Sarebbe veramente un'esperienza!» «Avete cercato di ottenere il permesso della signorina Julian?» «Oh, mi ha risposto che non ha l'autorità per concedermelo, ma sostiene che quella stanza è maledetta e che nessuno ha mai osato dormirci.» «Nessuno ci dormirà mai!», dichiarò Spencer con decisione. «Un ragazzo nella vostra situazione critica, in particolare, deve passare una notte tranquilla.» Il giovane Lechmere si lasciò sfuggire un sospiro deluso ma ragionevole. «D'accordo. Ma mi consentite di restare ancora un po' alzato per sferrare un nuovo, piccolo assalto contro Wingrave? Oggi non l'ho ancora punzecchiato.» Coyle consultò l'orologio. «Potrete fumare una sigaretta. Una sola.» Sentì una mano posarsi sulla spalla e si voltò appena in tempo per vedere la candela della moglie sporcare di cera il suo abito. Le signore si accingevano a coricarsi e quella era anche l'ora tradizionale di Sir Philip. La signora Coyle confidò al marito che, dopo le storie terrificanti che le aveva raccontato, si rifiutava categoricamente di rimanere sola, in qualsiasi parte del castello. Il consorte le promise di seguirla dopo tre minuti e, dopo i convenevoli di rito, le signore si allontanarono in un fruscio di sottane. Quella sera, a Paramore, la forma venne rispettata come se nessun dramma stesse straziando la vetusta dimora. L'unica persona che si tradì leggermente fu Kate Julian, la quale salutò Coyle con un cenno del capo, senza degnarlo né di una parola, né di uno sguardo, e quest'ultimo la vide gettare un'occhiata gelida verso il giovane Owen. A parte la signora Julian, timida e affettuosa come sempre, nessuno degnò il giovanotto di un saluto. La signorina Wingrave, che guidava con passo militare le tre signore in una piccola processione di candele ammiccanti, le avviò verso lo scalone di quercia e le fece defilare sotto il vigile ritratto del fatale antenato. Comparve il cameriere personale di Sir Philip e andò a offrire il braccio al vecchio gentiluomo, che aveva voltato la schiena al povero Owen quan-
do il nipote aveva abbozzato il gesto di adempiere a tale incombenza. Coyle apprese in seguito che, prima della disgraziata decisione di Owen, quando il nipote si trovava al castello, spettava a lui il privilegio di scortare cerimoniosamente il nonno nel suo luogo di riposo. Adesso le abitudini di Sir Philip erano cambiate e ne denotavano il disprezzo. Con passo strascicato, sorretto dal cameriere, il vecchio si avviò verso i suoi appartamenti situati a pianterreno, non prima d'aver fulminato, con espressione significativa, il più colpevole dei suoi ospiti, con uno sguardo ardente come la brace, che contrastava in maniera bizzarra con l'affabilità dei modi. Sembrava voler dire al povero Spencer: «Domani sistemeremo i conti con quel giovane sciagurato!». Si sarebbe detto, a giudicare dall'espressione di quegli occhi pieni di astio e di rabbia, che il giovane sciagurato, il quale, senza fretta, si era portato dall'altra parte del locale, avesse quantomeno emesso un assegno falso. L'ex precettore lo fissò per un attimo e vide che si lasciava cadere nervosamente su una poltrona, da cui si alzò subito dopo, in preda a una palese agitazione, agitazione che lo portò nel punto in cui Coyle stava dando le ultime istruzioni al giovane Lechmere. «Sto per coricarmi e desidererei che vi adeguaste a quanto vi ho raccomandato. Fumerete una sola sigaretta con il nostro ospite qui presente, dopo di che raggiungerete la vostra stanza. Aspettatevi una dura reazione da parte mia se verrò a sapere che stanotte avete voluto dedicarvi a dei giochi assurdi.» Il giovane Lechmere, con le palpebre abbassate e le mani in tasca, non disse una parola, limitandosi a cincischiare l'angolo del tappeto con la punta della scarpa cosicché Coyle, inappagato da un accordo così tacito, proseguì, rivolgendosi a Owen: «Vi raccomando, Wingrave, di non tenere alzato a lungo un soggetto così impressionabile e vi pregherei addirittura di metterlo a letto e di chiudere la camera a doppia mandata». Poiché Owen spalancò gli occhi, non cogliendo evidentemente il motivo di tanta preoccupazione, l'istruttore aggiunse: «Lechmere prova una curiosità morbosa a proposito di una delle vostre leggende familiari... una delle vostre camere storiche. Levategliela dalla testa!». «Oh, la leggenda non è male, ma temo che in quella stanza non sia successo un bel niente!» Owen scoppiò a ridere.
«Sapete bene che non lo credete davvero, ragazzo mio!», sbottò il giovane Lechmere. «Neanch'io!» Coyle notò il rossore improvviso che aveva imporporato il pallido volto di Owen. «Neppure lui si arrischierebbe a trascorrere una notte là dentro», proseguì il loro compagno. «So chi vi ha raccontato questa storia!», sbottò Owen, accendendosi una sigaretta allo stoppino della candela, con aria preoccupata, senza offrirne agli amici. «E se anche l'avesse raccontato... che c'è di male?», domandò il più giovane dei due uomini, arrossendo alquanto. «Le volete tutte per voi?», proseguì in tono scherzoso, allungando la mano nella scatola delle sigarette. Owen Wingrave fumava in silenzio. Alla fine disse: «Sì, anche se l'avesse raccontato... che c'è di male? Ma quella ragazza non sa niente», aggiunse. «Non sa che cosa?» «Non sa niente! Comunque caccerò a letto questo monello e gli rimboccherò le coperte!», disse con fare scherzoso Owen a Coyle, il quale si accorse che la sua presenza, dal momento in cui era risuonata una certa nota, disturbava quei giovani virgulti. Nonostante l'innata curiosità, si era sempre piccato, nei riguardi dei suoi allievi, di mantenere certi atteggiamenti discreti e delicati, il che non gli impedì, mentre saliva i gradini, di raccomandare loro di non fare gli idioti. In cima allo scalone, rimase sorpreso nell'incontrare la signorina Julian la quale, evidentemente, si accingeva a scendere di nuovo. La ragazza, ancora vestita di tutto punto, non manifestò alcun imbarazzo nel vederlo. Tuttavia, in un tono familiare che contrastava con il rigore che l'aveva portata a ignorarlo solo dieci minuti prima, pronunciò queste parole: «Scendo a cercare qualcosa. Ho perso un gioiello». «Un gioiello?» «Un turchese, alquanto prezioso, si è staccato dal mio medaglione. Poiché si tratta dell'unico gioiello vero che ho l'onore di possedere...» La ragazza si accinse a scendere gli scalini. «Volete che venga ad aiutarvi?», domandò Spencer Coyle. La ragazza si fermò, qualche gradino di sotto a lui e, con quegli occhi da orientale, si guardò alle spalle. «Non è la voce dei vostri amici che sento in soggiorno?»
«In effetti li ho appena lasciati lì.» «Mi aiuteranno loro.» E Kate Julian proseguì. Spencer Coyle fu tentato di seguirla ma, ricordando i suoi princìpi di tatto, raggiunse la moglie nel loro appartamento. Tuttavia temporeggiò prima di mettersi a letto e, nonostante fosse già passato nel vestibolo, non si decideva a spogliarsi. Per una mezz'ora buona, finse di leggere un romanzo. Dopodiché, piano piano, o piuttosto dovrei dire con agitazione, uscì nel corridoio, lo seguì fino alla stanza che sapeva essere stata assegnata al giovane Lechmere e tirò un sospiro di sollievo nel trovare la porta chiusa. Mezz'ora prima aveva notato che era aperta; ebbe quindi la certezza che il giovanotto si era coricato. Stava accingendosi a rientrare in camera, quando sentì un rumore all'interno del locale. Chi la occupava si stava dando da fare davanti alla finestra, il che lo assicurò che poteva bussare senza rischio di svegliare nessuno. Il giovane Lechmere venne ad aprire in camicia e mutandoni, alquanto stupito. Fece accomodare il visitatore che, una volta chiusa la porta, gli disse: «Non voglio avvelenarvi l'esistenza, ma la coscienza mi obbligava ad assicurarmi che non vi foste esposto a indebite emozioni». «Queste non mancano. La signorina Julian è scesa di nuovo.» «Alla ricerca di un turchese?» «Così ha detto.» «L'ha trovato?» «Non so. Io sono salito e l'ho lasciata con il povero Owen.» «Avete fatto bene!», commentò Spencer Coyle. «Non so», riprese il giovane Lechmere, palesemente a disagio. «Quando li ho lasciati, stavano litigando.» «A quale proposito?» «Non l'ho capito. Comunque, sono davvero una strana coppia.» Spencer meditò su queste parole. Nonostante i princìpi e i pudori così fortemente radicati, provava nel caso particolare una curiosità, o piuttosto, per definirla nella maniera più opportuna, una comprensione che spazzava via qualsiasi scrupolo. «Avete avuto l'impressione che anche lei gli muovesse dei rimproveri?», si permise di chiedere. «Altro che! Gli ha dato dell'impostore.»
«Che cosa volete dire?» «Quello che ho detto, e lo ha insultato davanti a me, per giunta. Ecco perché me ne sono andato. Non ce la facevo più! Stupidamente avevo accennato di nuovo alla storia della camera infestata e avevo riferito che voi mi avevate diffidato dal metterci piede.» «Certamente, non è decoroso curiosare in maniera così indiscreta in casa d'altri... non ci si prendono simili libertà, sapete!» «Ma, come vedete, io sono un ragazzo assennato e non desidero neppure avvicinarmi a quel posto. Sapete», proseguì il cadetto in tono confidenziale, «che cosa mi ha detto la signorina Julian? Mi ha detto: "Sono sicura che voi sareste disposto a rischiare... ma...". E poi, riprendendo a burlarsi del povero Owen: "Non possiamo dire altrettanto di un signore che ha adottato una linea di condotta tanto stravagante...". A quel punto mi è parso di capire che quei due erano già andati sull'argomento e che non era la prima volta che lei lo provocava a quel modo. Forse era solo una frase buttata lì per scherzo, ma il fatto che Owen abbia abbandonato la carriera militare ne ha rimesso in discussione il fegato... voglio dire, il coraggio...» «E Owen che cosa ha risposto?» «Dapprima nulla. Ma poi ha detto con molta calma: "Ho passato tutta la notte in quel posto maledetto". Allora abbiamo spalancato gli occhi e, eccitatissimi, gli abbiamo domandato che cosa aveva visto. Lui ha risposto di non aver visto niente e, quando la signorina Julian ha replicato che avrebbe dovuto essere capace di trarre un maggior effetto dalla sua impresa, lui ha detto: "Non è un'impresa, ma un semplice dato di fatto". E quando la ragazza ha cominciato a provocarlo di nuovo, chiedendogli perché, se davvero aveva fatto una cosa simile, non glielo aveva raccontato al mattino, sapendo che cosa pensava di lui, il povero diavolo ha risposto: "Lo so, mia cara, ma mi è del tutto indifferente". A quel punto la signorina Julian è andata su tutte le furie e gli ha domandato a bruciapelo se gli sarebbe stato parimenti indifferente sapere che era convinta che ci stesse prendendo in giro.» «Ah, che indelicatezza!», sbottò Spencer Coyle. «Quella ragazza è davvero incredibile! Chissà che cosa le passa per la testa!» Il giovane Lechmere aveva il fiato corto. «Proprio incredibile. Tormentare a quel modo un povero ragazzo già in difficoltà!» Ma il giovane Lechmere ci tenne a precisare il suo pensiero: «Voglio dire, credo che lui l'ami».
Coyle fu così colpito da quel sintomo di acume imprevisto che replicò con slancio: «E credete che sia corrisposto?». Il cadetto perse qualsiasi sicurezza e si lasciò sfuggire un lamentoso sospiro. «Non lo so... ho rinunciato a capire. Ma sono sicuro che Owen ha visto o sentito qualcosa.» «In quella camera assurda? Beh, ditemi, che cosa ve lo fa credere?» «Beh, ho idea che, in un caso simile, si possa tirare a indovinare anche basandosi soltanto sulle apparenze. Il nostro amico si comporta come se avesse visto veramente qualcosa.» «Ma perché non lo direbbe?» Il giovane Lechmere cercò una risposta e la trovò. «Forse perché la realtà è troppo terribile per parlarne.» Spencer Coyle scoppiò a ridere. «Non siete contento di non esserci entrato?» «Incredibilmente.» «Andatevi a coricare, vecchia comare», disse Spencer, ritrovando, seppure a fatica, la consueta ironia. «Ma prima ditemi... come ha accolto l'accusa che stava cercando di infinocchiarvi?» «Ha detto: "Accompagnatemi lassù voi stessi e chiudetemi dentro".» «E la signorina Julian lo ha preso alla lettera?» «Non so. Io sono salito in camera mia.» Spencer Coyle scambiò una lunga occhiata con il cadetto. «Non credo che in questo momento siano ancora in soggiorno. Dove si trova la stanza di Owen?» «Non ne ho la minima idea.» Coyle rimase perplesso. Anche lui ne era assolutamente ignaro e non se la sentiva certo di andare a bussare a tutte le porte. Ingiunse al giovane Lechmere di mettersi a dormire e uscì in corridoio. Si chiese se sarebbe stato in grado di ritrovare la camera che Owen gli aveva mostrato nel corso della precedente visita e si ricordò che questa aveva, come molte altre, il vecchio nome scritto sulla porta. Ma i corridoi di Paramore formavano un dedalo; inoltre era probabile che qualcuno della servitù fosse ancora in piedi, e lui non voleva fare la figura della spia. Raggiunse di nuovo l'appartamento che gli era stato destinato, dove la signora Coyle constatò ben presto la sua impossibilità a prender sonno. E anche lei confessò che, in quel lugubre contesto, provava una sensazione
di malessere e di terrore crescente. I due coniugi trascorsero conversando la maggior parte della notte e la bionda sposina venne anche a conoscenza del colloquio che il marito aveva avuto con il giovane Lechmere, nonché del reciproco scambio di opinioni. Verso le due, la signora Coyle diventò così inquieta relativamente alla sorte del loro giovane amico perseguitato e così ossessionata dall'idea che quell'odiosa ragazza avrebbe approfittato dell'invito per infliggergli una prova abominevole, che supplicò il marito di andare a verificare la situazione, costasse quello che costasse, anche se avrebbe significato rinunciare al riposo notturno; ma Spencer, come risultanza di una perversa contraddizione, aveva finito, mano a mano che la perfetta calma della notte li avvolgeva, con l'ipnotizzare se stesso fino ad ammettere vagamente che Owen fosse addirittura desideroso di affrontare Dio sa quale empia prova... supplizio tanto più penoso per la sua sensibilità sovraeccitata dal momento che l'esperienza della notte precedente gli aveva già provato quale terribile sforzo di volontà avrebbe dovuto produrre. «Spero al contrario che si trovi proprio laggiù», disse Coyle alla moglie. «Sarà l'occasione per far passare gli altri platealmente dalla parte del torto!» E, ad ogni buon conto, non se la sentì di mettersi a esplorare una casa così poco conosciuta. Tuttavia, per singolare incongruenza, neppure si decise a mettersi a letto. Restò vestito di tutto punto davanti alla specchiera, con la candela accesa e il suo romanzo, finché non cominciò a ciondolargli la testa. Alla fine la signora Coyle si voltò dall'altra parte, smise di parlare e, a sua volta, si addormentò in poltrona. Quanto tempo dormì Spencer? Solo più tardi se ne rese conto, valutando il tempo trascorso. Come prima cosa capì di essersi svegliato di soprassalto, confuso, scosso da un rumore terrificante. Ritornò ben presto in sé, indubbiamente a causa di un urlo d'orrore partito dalla camera della moglie; ma non si preoccupò di lei. Si era già catapultato in corridoio. L'invocazione si ripeté. «Aiuto, aiuto!», gridava una voce di donna in preda a un'agonia di terrore. La voce arrivava da un punto lontano del castello, ma la direzione era sufficientemente eloquente. Spencer si precipitò dritto dinanzi a lui, con nelle orecchie lo sbattere delle porte che si aprivano, i rumori di voci allarmate e nelle pupille il pallore dell'alba. Svoltando in un corridoio, scorse una forma bianca, quella di una giovane donna svenuta su una panca, e questa brusca visione gli rivelò, mentre
continuava a correre, che Kate Julian, colpita troppo tardi nel suo orgoglio, presa da rimorsi dinanzi all'atto motivato dai suoi sarcasmi e venuta a liberare la sua vittima, era caduta all'indietro, schiantata dalla catastrofe da lei stessa provocata, catastrofe che, un attimo dopo, Spencer constatò con disperazione. Sulla soglia di una porta socchiusa, Owen Wingrave, vestito come l'aveva visto la sera prima, giaceva morto nel medesimo punto in cui era stato scoperto il suo antenato. Aveva tutto l'aspetto del giovane soldato morto sul terreno conquistato. HAZEL HEALD L'orrore nel camposanto Quando la statale per Rutland è chiusa, i viaggiatori devono prendere la vecchia strada per Stillwater dopo Swamp Hallow. La vista di quei luoghi è superba, ma la strada da anni viene evitata. Ha qualcosa di deprimente, specialmente nei pressi di Stillwater. Gli automobilisti provano un sottile senso di disagio quando vedono la fattoria con le imposte sbarrate sulla collinetta proprio a nord del paese, e il matto con la barba bianca che si aggira nel vecchio cimitero a sud e che sembra parlare agli occupanti di qualche tomba. Non è rimasto molto di Stillwater, ormai. Il terreno è abbandonato, e la maggior parte della gente se ne è andata lontano, nei paesi al di là del fiume o nelle città oltre le colline. Il campanile della vecchia chiesa bianca è crollato, e metà delle venti case disseminate qua e là sono vuote e in diverso stato di rovina. C'è un po' di vita soltanto attorno al negozio e alla stazione di rifornimento di Peck: è qui che i curiosi talvolta si fermano per chiedere della casa sbarrata e dell'idiota che parla coi morti. La maggior parte di quelli che fanno domande ripartono un po' disgustati e inquieti. Trovano stranamente spiacevoli quegli straccioni oziosi che riempiono di sottintesi il racconto degli eventi passati. Usano intonazioni minacciose e pompose per descrivere cose molto normali, con una tendenza ingiustificata ad assumere un'aria furtiva, insinuante, confidenziale; fino ad abbassare la voce, e sussurrare odiosamente, in certi punti particolari. Tutto ciò dà fastidio a chi ascolta. I vecchi Yankee parlano spesso così ma, nel nostro caso, l'aspetto malinconico del paese mezzo cadente e la natura cupa della storia, danno a questo manierismo tetro e poco comunicativo un significato in più. Qui si avverte profondamente l'orrore allo stato
puro, in agguato dietro ogni puritano isolato, e le strane repressioni di costoro: lo si avverte, e viene voglia di fuggire di corsa verso un'aria più pulita. I paesani sussurrano, con un'aria che vuole impressionare, come la casa sbarrata appartenga alla vecchia signorina Sprague, Sophie, il cui fratello Tom fu seppellito il diciassette giugno del lontano 1895. Dopo quel funerale (quello e tutto ciò che capitò poi quel giorno) Sophie non fu più la stessa, e alla fine decise di restare dentro la casa per sempre. Non vuole neanche che la vadano a trovare, e lascia delle note per il ragazzo del negozio di Ned Peck. È rimasta atterrita da qualcosa, soprattutto dal vecchio cimitero di Swamp Hallow. Da quando suo fratello e l'altro se ne andarono, non sono mai più riusciti ad accompagnarla lì vicino. Non c'è però da meravigliarsi, vedendo come si comporta Johnny Dow, il matto. Lui gira là intorno tutto il giorno e qualche volta anche di notte, e dice che parla con Tom e con l'altro. Poi va vicino alla casa di Sophie, e le grida qualcosa (e questa è la ragione per cui lei ha cominciato a tenere chiuse le imposte). Lui dice che ciò che grida viene da qualche luogo lontano per essere comunicato solo a lei ogni tanto. Si dovrebbe farlo star zitto, ma non si può essere troppo duri col povero Johnny. Inoltre, Steve Barbour ha avuto sempre le sue idee. Johnny parla con due tombe. Una è quella di Tom Sprague, l'altra, all'estremità opposta del cimitero, è quella di Henry Thorndike, che fu seppellito lo stesso giorno. Henry era l'impresario di pompe funebri del paese, l'unico per molte miglia, e non molto ben visto a Stillwater. Era un tipo di città, veniva da Rutland, era stato all'Università, e aveva imparato dai libri un sacco di cose. Leggeva strani libri di cui nessuno aveva mai sentito parlare, e tirava fuori argomenti di chimica, senza nessun motivo. Era sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo da inventare, qualche fluido per imbalsamare o qualche strana medicina. Qualcuno diceva che aveva cercato di diventare medico, ma che era fallito negli studi, e allora aveva scelto la professione più simile. Certo non c'erano molti funerali da organizzare in un posto come Stillwater, ma Henry aveva anche una fattoria. Era meschino, di abitudini malsane, e un ubriacone di nascosto, a giudicare dalle bottiglie vuote nel suo bidone della spazzatura. Nessuna meraviglia, dunque, se Tom Sprague lo odiava e aveva votato contro di lui, estromettendolo dalla Loggia Massonica, diffidandolo poi quando aveva fatto la corte a Sophie.
I suoi esperimenti sugli animali erano contro la natura e le Scritture. Chi poteva dimenticare lo stato in cui era stato trovato quel collie, o quello che era capitato al vecchio gatto della signora Akeley? E poi il caso del vitello del Diacono Leavitt, quando Tom aveva guidato una banda di ragazzi del paese per chiedere spiegazioni. Il fatto curioso era che il vitello alla fine saltò fuori vivo, anche se Tom lo trovò rigido come un attizzatoio. Qualcuno disse che Tom era stato giocato, ma Thorndike probabilmente la pensava diversamente, perché lui era andato a terra per un pugno dell'avversario prima che si scoprisse che il vitello era ancora vivo. Tom, naturalmente, in quell'occasione era mezzo ubriaco. Era un bruto vizioso, e intimidiva la sorella con le sue minacce. Questa è probabilmente la ragione per cui lei ancora oggi è così spaventata. Lì abitavano loro due soli, e Tom non l'avrebbe mai lasciata andare perché ciò significava dividere la proprietà. La maggior parte degli uomini aveva troppa paura di lui per farsi avanti con Sophie (lui era alto un metro e novanta senza scarpe), ma Henry Thorndike era un uomo maledettamente furbo, che riusciva a fare le cose alle spalle del prossimo. Non aveva nulla di bello, ma Sophie non l'aveva mai scoraggiato. Per quanto mediocre e brutto fosse, lei sarebbe stata felice se qualcuno l'avesse liberata dal fratello. E lei non può non essersi chiesta come avrebbe fatto a liberarsi di lui dopo che l'avesse liberata da Tom. Bene, questo era lo stato delle cose nel giugno del 1885. Fin qui, i sussurri dei perdigiorno nel negozio di Peck non sono tanto insopportabili e strani ma, quando vanno avanti, l'atmosfera di segreto e di maligna tensione aumenta. Tom Sprague, a quanto pare, aveva l'abitudine di andare periodicamente a Rutland a far baldoria, e queste assenze erano grandi occasioni per Henry Thorndike. Quando ritornava, Tom era sempre in brutte condizioni, e il vecchio dottor Pratt, benché sordo e mezzo cieco, era solito ammonirlo riguardo al cuore e al pericolo del delirium tremens. La gente si accorgeva sempre del suo ritorno a casa, per le grida e le bestemmie. Fu il nove giugno (un mercoledì, il giorno dopo che il giovane Joshua Goodenough aveva finito di tirar su quella bellezza del suo silos) che Tom partì per la sua ultima e più lunga baldoria. Ritornò la mattina del martedì successivo e la gente del negozio lo vide frustare il suo stallone baio, come faceva quando era pieno di whisky. Poi arrivarono le grida, gli strilli e le bestemmie della casa di Sprague e, per prima cosa, si vide Sophie correre a tutta velocità verso la casa del vecchio dottor Pratt.
Quando arrivò a casa di Sprague, il dottore trovò Thorndike: Tom era sul letto, nella sua stanza, con gli occhi sbarrati e la schiuma alla bocca. Il vecchio Pratt girellò intorno e fece i soliti controlli, poi scosse la testa e disse a Sophie che aveva subito una grave perdita, che il suo parente più stretto e più caro era passato dalle porte di madreperla a una terra migliore, proprio come tutti sapevano gli sarebbe capitato, se non avesse smesso di bere. Sophie tirò un po' su col naso - così sussurrano i bighelloni - ma non sembrò prendersela molto. Thorndike non fece altro che sorridere, forse per l'ironia che lui, suo nemico da sempre, ora era l'unica persona che poteva fare qualcosa per Thomas Sprague. Urlò qualcosa nell'orecchio mezzo buono del vecchio dottor Pratt, a proposito di un sollecito funerale, viste le condizioni di Tom. Ubriachi come quello erano sempre soggetti dubbi, e qualsiasi altro ritardo (avendo a disposizione solo rustiche attrezzature) poteva avere conseguenze per gli affezionati amici del morto. Il dottore brontolò che la carriera alcoolica di Tom avrebbe dovuto ucciderlo molto tempo prima, ma Thorndike lo assicurò del contrario, vantandosi al tempo stesso della sua abilità e dei metodi superiori che aveva messo a punto con i suoi esperimenti. È qui che i sussurri dei presenti diventavano fastidiosissimi. Fino a questo punto la storia è raccontata di solito da Ezra Davenport, o Luther Fry, se Ezra è costretto a rimanere a casa con i geloni, come gli capita spesso d'inverno; ma da ora in poi è il vecchio Calvin Wheeler che raccoglie il bandolo della matassa, e la sua voce ha una maniera dannatamente insidiosa di suggerire orrori nascosti. Se capita che Johnny Dow stia passando di lì, c'è sempre una pausa, perché Stillwater non gradisce che Johnny parli troppo con estranei. Calvin si appiccica al viaggiatore, e talvolta si attacca al risvolto della giacca con la mano nodosa e chiazzata, con gli azzurri occhi acquosi semichiusi. «Sa, signore», sussurra, «Henry se ne andò a casa a prendere le sue misture da funerale (le aveva raccolte quasi tutte il matto Johnny Dow, che faceva sempre dei lavoretti per Henry), e disse al dottor Pratt e a Johnny di sistemare il corpo. Il dottore aveva sempre detto che Henry parlava troppo, che si vantava di quanto era bravo, e che Stillwater aveva avuto la fortuna di avere un vero imprenditore, invece di becchini da strapazzo come loro e come a Whitby.
"Immagini", dice lui, "che qualcuno, come si legge in giro, sia preso da un crampo che lo paralizza. Cosa capita a questo corpo quando lo calano giù e cominciano a spalargli sopra la sporca terra? Sa che piacere, quando lo si sente soffocare laggiù sotto la nuova lapide, grattare e piangere, se è riuscito a recuperare le forze, sapendo bene che non serve a niente? Nossignore, vi dico che è una benedizione per Stillwater avere un bravo dottore che sa quando un uomo è morto e quando non lo è, e un esperto imprenditore funebre che può sistemare un cadavere in modo che non dia problemi." Così andava dicendo Henry, e qualcosa del genere andava dicendo ai resti del povero Tom. Al vecchio dottor Pratt non piaceva quel poco che riusciva a sentire, anche se Henry lo aveva chiamato bravo dottore. Johnny il matto rimase a guardia del cadavere, ed era poco divertente quando lo sì sentiva biascicare cose come: "Dottore, non è freddo", o "Gli si muovono le palpebre", o "Ha un buco nel braccio, come quelli che mi fa Henry con le sue siringhe che mi fanno stare tanto bene". Thorndike lo fece star zitto, anche se tutti sapevano che dava droghe al povero Johnny. È strano che quel poveraccio si sia liberato dall'abitudine. Ma la cosa peggiore, secondo il dottore, fu il modo in cui il corpo si contrasse quando Henry cominciò ad iniettargli i liquidi per imbalsamarlo. Era andato fino ad allora declamando la nuova formula che aveva trovato sperimentando su cani e gatti, quando, tutto ad un tratto, il cadavere di Tom cominciò a tirarsi su, come se fosse vivo e volesse lottare. Per tutti i diavoli! Il dottore dice che era morto di paura, per quanto sapesse come si comportano i cadaveri quando i muscoli cominciano ad irrigidirsi. Per farla breve, signore, quel cadavere si mise a sedere e diede un colpo alla siringa di Thorndike, che si conficcò proprio nel braccio di Henry, iniettandogli una bella dose del suo liquido imbalsamatorio. Doveva vedere! Ciò spaventò parecchio Henry che, però, strappò fuori l'ago e riuscì a rimettere giù il cadavere e a rimpinzarlo di liquido. Cominciò a misurare quanta roba metteva, come per essere sicuro che ce ne fosse abbastanza, mentre si assicurava che non ne fosse entrata troppa dentro di lui. E Johnny il matto cominciò a canticchiare: "È quanta ne hai data al cane di Lige Hopkins, quando morì stecchito come Tom Sprague. Ricordati che non comincia a fare effetto se non dopo parecchio tempo, se non ne prendi abbastanza". Sophie se ne stava giù con alcuni vicini (c'era anche mia moglie Matilde, che è morta da trent'anni). Stavano tutti cercando di scoprire se Thorndike
era di sopra quando Tom era tornato, ed era stato il fatto di trovarlo lì che aveva lasciato secco il povero Tom. Posso dire, io come tanta altra gente, che era molto strano che Sophie non si fosse disperata di più, e che non si fosse preoccupata del modo in cui Thorndike aveva sorriso. Non che Henry (come qualcuno accennava) avesse aiutato Tom ad andarsene (per mezzo di quegli intrugli e siringhe) o che Sophie se ne stesse tranquilla pur pensandolo, ma sapete quante ne dice la gente alle spalle! Sapevamo tutti quanto Thorndike odiasse Tom (non senza ragione, se è per questo). Emily Barbour disse alla mia Matilde che Henry era fortunato ad avere il vecchio dottor Pratt sottomano, che con un certificato di morte toglieva a tutti ogni dubbio.» Quando il vecchio Calvin arriva a questo punto, comincia di solito a borbottare indistintamente dentro la sua sporca barba bianca. Molti ascoltatori cercano di allontanarsi, e lui raramente sembra accorgersene. In genere è Fred Peck, che al tempo degli avvenimenti era un bimbetto, a continuare il racconto. Il funerale di Tom Sprague fu celebrato il giovedì, diciassette giugno, due soli giorni dopo la morte. Tale fretta fu ritenuta quasi indecente nella remota e inaccessibile Stillwater, perché bisognava fare molti chilometri per arrivare lì per l'occasione, ma Thorndike aveva insistito dicendo che lo richiedevano le particolari condizioni del morto. L'imprenditore funebre era apparso piuttosto nervoso da quando aveva preparato il corpo, e lo si vide spesso tastarsi il polso. Il vecchio dottor Pratt pensava che si preoccupasse della dose accidentale di liquido imbalsamatorio. Naturalmente si era sparsa in giro la storia della «preparazione», cosicché i conoscenti del morto venivano a saziare la loro curiosità e il loro morboso interesse, animati da un doppio zelo. Thorndike, per quanto fosse ovviamente seccato, sembrava tutto intento a fare il suo dovere professionale in grande stile. Sophie e gli altri due videro il corpo: si meravigliarono notando che sembrava quasi vivo, e il virtuoso dei funerali si premuniva ripetendo iniezioni a intervalli regolari. Strappava quasi una certa riluttante ammirazione alla gente del paese e di fuori, per quanto tendesse a rovinare tale impressione con i suoi discorsi pieni di millanteria e privi di tatto. Ogni volta che assolveva al suo silenzioso incarico, ripeteva quell'eterno ritornello sulla grande fortuna di avere un imprenditore di prima classe. Che sarebbe successo, diceva rivolto al cadavere, se gli fosse capitato uno di quei tipi superficiali che seppelliscono vivi i loro soggetti? Il modo in
cui insisteva sugli orrori di sepolture premature era veramente barbaro e disgustoso. Il servizio fu celebrato nel salotto buono, odoroso di muffa (aperto per la prima volta da quando era morta la signora Sprague). Il piccolo organo stonato si lamentava sconsolatamente e la bara, sostenuta da cavalletti vicino alla porta, era coperta di fiori dall'odore malsano. Era ovvio che si fosse raccolta una folla eccezionale, venuta da vicino e da lontano, e Sophie, per far loro piacere, si sforzava di apparire adeguatamente affranta dal dolore. Quando nessuno la vedeva, si faceva al tempo stesso perplessa ed inquieta, dividendo le sue occhiate tra l'imprenditore, che sembrava febbricitante, e il cadavere del fratello, che sembrava vivo. Un sottile disgusto per Thorndike sembrava crescere dentro di lei, e i vicini mormoravano che lei lo avrebbe mandato presto per la sua strada, ora che Tom si era tolto dai piedi (cioè, se avesse potuto, perché con un cliente così sfuggente era difficile avere a che fare). Ma con i suoi soldi e quanto le restava della sua avvenenza, poteva trovare qualcun altro, e questi avrebbe probabilmente messo a posto Henry. Quando il vecchio organo attaccò «Beautiful Isle of Somewhere», il coro della Chiesa Metodista accompagnò con lugubri voci la orripilante cacofonia, e tutti si rivolsero con uno sguardo pio verso il Diacono Leavitt (tutti, tranne Johnny Dow il matto, che teneva gli occhi incollati al rigido corpo sotto il vetro della bara e borbottava piano fra sé). Stephen Barbour, della fattoria vicina, fu l'unico ad accorgersi di Johnny. Rabbrividì quando vide che lo scemo parlava al cadavere e faceva anche stupidi segni con le dita, come a prendersela con quello che riposava sotto il vetro. Tom, pensò, aveva maltrattato più di una volta il povero Johnny, sebbene, forse, non senza essere stato prima provocato. Questa faccenda cominciava a dare sui nervi a Stephen. Nell'aria c'era tensione, e uno stato non normale che lui non riusciva a spiegarsi. Non avrebbero dovuto far entrare Johnny, ed erano ben curiosi gli sforzi che sembrava fare Thorndike per tener d'occhio il morto. Ogni tanto l'imprenditore si tastava con aria strana il polso. Il Reverendo Silas Atwood attaccò un lamentoso discorso sul morto, su come la Spada della Morte avesse colpito quella piccola famiglia, troncando il legame terrestre tra l'amato fratello e la sorella. Parecchi dei vicini si lanciarono occhiate furtive, mentre Sophie cominciava a singhiozzare davvero nervosamente.
Thorndike le si accostò e cercò di rincuorarla, ma lei sembrò curiosamente indietreggiare e allontanarsi da lui. I movimenti di Henry erano chiaramente imbarazzati: sembrava che avvertisse acutamente la tensione anormale che c'era nell'aria. Alla fine, consapevole del suo dovere di maestro di cerimonie, si fece avanti ed annunciò con voce sepolcrale che potevano guardare il corpo per l'ultima volta. Lentamente, amici e parenti sfilarono accanto alla bara, dalla quale Thorndike aveva strappato via Johnny il Matto. Tom sembrava riposare in pace. Quel demonio, un tempo, era stato bello. Un po' di singhiozzi sinceri, molti forzati, ma la maggior parte dei presenti era contenta di guardare e poter dopo fare dei commenti. Steve si soffermò a lungo e con attenzione a guardare il viso immobile del morto, poi si mosse scuotendo il capo. Sua moglie Emily, che veniva subito dopo, mormorò che Henry Thorndike avrebbe fatto meglio a non vantarsi tanto del suo lavoro, perché gli occhi di Tom erano aperti. Erano chiusi quando era incominciato il servizio: lei era stata ben attenta. Gli occhi sembravano vivi, non come ci si sarebbe aspettato dopo due giorni. Quando Fred Peck arriva a questo punto, generalmente si ferma, come se non gli facesse piacere continuare. Anche quelli che ascoltano hanno l'impressione che li aspetti qualcosa di spiacevole. Ma Peck rassicura il suo pubblico dicendo che non accadde niente di così brutto, come alla gente piace far credere. Anche Steve non ha mai detto ciò che pensò, e Johnny il Matto non può essere certo preso in considerazione. Sembra che fu Luella Morse, quella nervosa zitella che cantava nel coro, a scatenare il parapiglia. Stava sfilando accanto alla bara come gli altri, quando si fermò per dare un'occhiata più da vicino, come avevano fatto i Barbour. E allora, senza che nessuno se lo aspettasse, lanciò uno strillo acuto e cadde a terra svenuta. Naturalmente, quella camera divenne di colpo un gran caos. Il vecchio dottor Pratt si fece largo verso Luella e chiese un po' d'acqua da gettarle sul viso, mentre gli altri si agitavano per guardare lei e la bara. Johnny Dow cominciò a canticchiare tra sé: «Lui lo sa, lui lo sa, lui sente tutto quello che diciamo e vede tutto quello che facciamo, e loro lo portano a seppellire», ma nessuno, all'infuori di Steve Barbour, si curò del suo borbottio. Dopo pochi istanti, Luella cominciò a riprendersi, ma non riuscì a dire che cosa esattamente l'aveva spaventata. Tutto ciò che riusciva a mormorare era: «Il modo in cui guardava, il modo in cui guardava». Ma, agli occhi
degli altri, il cadavere sembrava sempre lo stesso. In ogni caso era uno spettacolo orribile, con quegli occhi aperti e quel bel colorito. Poi la gente notò qualcosa che le fece dimenticare per un attimo sia Luella, sia il cadavere. L'improvvisa eccitazione e la ressa sembravano aver fatto un brutto effetto su Thorndike. Nel trambusto generale, evidentemente era stato buttato giù, e ora giaceva a terra, cercando di tirarsi su a sedere. L'aspetto del suo viso era terrificante, e gli occhi stavano assumendo un'espressione vitrea, da pesce morto. Riusciva a malapena a farsi sentire, ma il rauco rantolo che gli usciva dalla gola conteneva un'enorme disperazione che fu evidente a tutti. «Portatemi a casa, presto, e lasciatemi stare. Quel liquido che per errore mi è entrato nel braccio... azione cardiaca... questa dannata eccitazione... troppo... aspettate... aspettate... non pensate che sia morto, anche se lo sembro... è solo il liquido... portatemi a casa e aspettate... mi riprenderò più tardi, non so quanto dura... sarò cosciente tutto il tempo e vedrò tutto ciò che succede... non fatevi ingannare...» Appena le sue parole si spensero, il vecchio dottor Pratt gli si accostò e gli tastò il polso, guardandolo a lungo; infine scosse il capo. «Niente da fare, se n'è andato. Il cuore ha ceduto, quel liquido che gli è entrato nel braccio doveva essere una vera porcheria. Non so cosa fosse.» Una specie di torpore sembrò cadere su tutta la compagnia. Un altro morto nella camera mortuaria! Solo Steve Barbour si ricordò le ultime parole strozzate di Thorndike: era davvero morto, se lui stesso aveva detto che poteva erroneamente sembrarlo? Non era meglio aspettare un po' e stare a vedere cosa succedeva? E, a proposito, che male c'era se il dottor Pratt dava un'altra occhiata a Tom Sprague prima di seppellirlo? Johnny il Matto si lamentava e si era gettato sul corpo di Thorndike come un cane fedele. «Non lo seppellite, non lo seppellite! Non è morto, non più del cane di Lige Hopkins o del vitello del Diacono Leavitt, quando li riempì di roba. Si è beccato un po' di quella roba che vi mette dentro per farvi sembrare morti quando non lo siete! Sembri morto, ma capisci tutto ciò che succede, e il giorno dopo stai bene come prima. Non lo seppellite! Si sveglierà sotto terra e non potrà liberarsi! È un brav'uomo: non è come Tom Sprague. Voglia Dio che Tom gratti e soffochi per ore e ore...» Ma nessuno, tranne Barbour, prestava attenzione al povero Johnny. In effetti, anche quello che aveva detto lo stesso Steve era rimasto inascoltato. Nessuno sapeva bene cosa fare. Il dottor Pratt stava facendo gli ultimi accertamenti e borbottava qualcosa a proposito dei fogli per i certificati,
mentre il viscido Elder Atwood suggeriva che si doveva fare qualcosa per provvedere a un doppio seppellimento. Con Thorndike morto non c'era nessun altro impresario funebre da lì a Rutland e, se si doveva chiamare uno di là, avrebbero speso un sacco di soldi: se Thorndike non fosse stato seppellito... con quel caldo di giugno, bene, meglio non parlarne. E non c'erano né amici né parenti, a meno che non scegliesse di farlo Sophie, ma Sophie era dall'altra parte della stanza, che guardava in silenzio, fieramente e quasi morbosamente, nella bara del fratello. Il Diacono Leavitt tentò di riportare un'apparenza di decoro e fece trasportare il povero Thorndike fuori dalla sala nel soggiorno, mentre spediva Jonas Well e Walter Perkins a casa dell'impresario a prendere una bara della grandezza giusta. La chiave era nei calzoni di Henry. Johnny continuava a mugolare e a toccare il corpo, e Elder Atwood si dava da fare per sapere di che setta era Thorndike, perché Henry non frequentava le locali cerimonie religiose. Quando fu deciso che la sua famiglia a Rutland - ormai estinta - era stata di fede Battista, il Reverendo Silas decise che il Diacono Leavitt sarebbe stato il più indicato per recitare la preghiera. Per gli amanti dei funerali di Stillwater e dintorni, quello fu un giorno di gala. Anche Luella si era rimessa abbastanza per parteciparvi. Pettegolezzi, mormorati e bisbigliati, ronzavano tutt'intorno, mentre si davano pochi ritocchi al corpo di Thorndike che andava raffreddandosi e irrigidendosi. Johnny era stato buttato fuori, e molti erano d'accordo che lo avrebbero dovuto fare sin dal primo momento. Ma i suoi orribili ululati arrivavano ogni tanto da lontano. Quando il corpo di Henry fu deposto nella bara accanto a quella di Tom Sprague, la silenziosa Sophie, con un'espressione che faceva quasi paura, rimase a guardarlo intensamente, come aveva guardato il corpo del fratello. Non aveva detto una parola per moltissimo tempo, e l'espressione del suo viso era più brutta di quanto non si possa descrivere o interpretare. Quando gli altri si ritirarono per lasciarla sola col morto, le riuscì di fare una specie di discorso, ma nessuno poté afferrarne le parole, e sembrò che parlasse prima a un corpo, poi all'altro. Ed ora (a un estraneo sembrerebbe l'acme di un'orribile, inconsapevole commedia) fu ripetuta svogliatamente l'intera farsa funebre del pomeriggio. Di nuovo l'organo ansimò, di nuovo il coro strillò e stonò, di nuovo l'aria si fece strana, e di nuovo gli spettatori sfilarono con curiosità morbo-
sa davanti al macabro spettacolo: stavolta un doppio schieramento mortuario. Durante la cerimonia, le persone più sensibili rabbrividirono, e Stephen Barbour avvertì di nuovo una sotterranea sensazione di orrore misterioso e di demoniaca anormalità. Dio, quanto sembravano vivi tutti e due i cadaveri! E quanto aveva insistito il povero Thorndike a non voler essere creduto morto! E quanto aveva odiato Tom Sprague! Ma che si poteva fare contro il senso comune? Un morto era un morto, e c'era il vecchio dottor Pratt con la sua lunga esperienza... Se nessun altro se ne preoccupava, perché doveva preoccuparsi lui? Qualunque cosa si fosse beccato Tom, probabilmente se l'era meritata. E se Henry gli aveva fatto qualcosa, adesso erano pari. Bene, Sophie alla fine era libera... Quando finalmente la processione si mosse verso la sala e la porta d'ingresso, Sophie rimase sola con i morti ancora una volta. Elder Atwood era fuori, in strada, e parlava con il conducente del carro funebre preso a nolo da Lee, mentre il Diacono Leavitt stava organizzando una doppia squadra di trasportatori a spalla. Fortunatamente nel carro entravano due bare. Senza fretta (Ed Plummer e Ethan Stone si erano avviati avanti con le pale a scavare la seconda fossa: ci sarebbero state tre carrozze da nolo ed alcune carrozze private nel corteo a cavallo), si avviarono: era inutile cercare di tenere la gente lontana dalle fosse. Poi ci fu quell'assurdo grido che veniva dal soggiorno dove erano rimasti Sophie e i cadaveri. Fu così improvviso, che la folla rimase quasi paralizzata, e si creò la stessa situazione di quando Luella aveva urlato ed era svenuta. Steve Barbour e il Diacono Leavitt si lanciarono verso l'interno ma, prima che potessero entrare, Sophie uscì di corsa, singhiozzando e dicendo con voce affannosa: «Quella faccia alla finestra!... Quella faccia alla finestra!...». In quello stesso istante una figura dallo sguardo selvaggio spuntò da dietro l'angolo della casa, togliendo ogni mistero al drammatico grido di Sophie. Era, ovviamente, il povero Johnny, che cominciò a saltare su e giù, indicando Sophie e gridando: «Lei lo sa! Lei lo sa! L'ho letto sul suo volto mentre li guardava e parlava con loro! Lei lo sa e li lascia andare sottoterra a grattare e graffiare per avere un po' d'aria... Ma loro le parleranno e lei li sentirà... Loro le parleranno e le appariranno... E un giorno torneranno e la prenderanno!». Jonas Well trascinò il matto che urlava in un boschetto dietro la casa e lo legò come meglio poté. Le sue urla e i suoi colpi si sentivano da lontano,
ma nessuno gli prestò più attenzione. Si formò il corteo che, con Sophie nella prima carrozza, lentamente coprì la breve distanza dal paese al cimitero di Swamp Hallow. Mentre Tom Sprague veniva deposto nell'ultima dimora, Elder Atwood fece le sue appropriate osservazioni, e nel frattempo Ed ed Ethan finirono la fossa per Thorndike dall'altra parte del cimitero, dove poi si spostò la folla. Il Diacono Leavitt fece allora un bel discorso e la cerimonia di deposizione si ripeté. La folla aveva cominciato a raggrupparsi in capannelli, quando le pale ricominciarono a lavorare. Quando la terra ricoprì i coperchi delle bare (prima quella di Thorndike), Steve Barbour notò le strane espressioni sul viso di Sophie. Non riuscì a capirle tutte, ma sembrava che esprimessero una specie di perverso, distorto, mezzo represso senso di vago trionfo. Steve scosse la testa. Jonas era tornato indietro in fretta per tirar fuori dal boschetto Johnny il Matto, prima che Sophie tornasse a casa. Il poveraccio corse come un pazzo verso il cimitero e vi arrivò prima che gli spalatori avessero finito, mentre molti curiosi si trattenevano ancora là vicino. Coloro che erano presenti e che sono ancora vivi, rabbrividiscono tutt'ora al ricordo di quello che gridò nella fossa mezzo riempita di Tom Sprague, e di come si mise a grattare la terra fresca sul cumulo di Thorndike dall'altra parte del cimitero. Jotham Blake, il poliziotto, dovette riportarlo al paese con la forza, mentre il matto gridava in modo spaventoso. Generalmente è qui che Fred Peck smette di raccontare. Che altro c'è da raccontare? si domanda. È stata una fosca tragedia, e c'è poco da meravigliarsi se Sophie dopo quanto è successo sia diventata un po' stramba. Questo è tutto ciò che si può sentire se è tanto tardi che il vecchio Calvin Wheeler è già tornato a casa. Ma se quello è ancora in giro, allora riattacca con quel sussurro insidioso e maledettamente suggestionante. Talvolta, quelli che lo ascoltano hanno paura di passare davanti alla casa sbarrata e al cimitero, specialmente dopo il tramonto. «Eh, eh... Fred allora era solo uno sbarbatello e non ricorda più della metà di quello che è successo! Volete sapere perché Sophie tiene sbarrata la casa e perché Johnny il Matto continua a parlare coi morti e grida contro le finestre di Sophie? Non so se è tutto ciò che è necessario sapere, ma quel che ho udito ho udito.» A questo punto il vecchio sputa la sua presa di tabacco e si china in avanti per prendere per la giacca l'ascoltatore.
«Quella stessa notte, era quasi mattina, proprio otto ore dopo il seppellimento, udimmo il primo grido dalla casa di Sophie. Ci svegliò tutti, Steve ed Emily Barbour, Matilde e me; scappammo di corsa, così come ci trovavamo vestiti per la notte, e trovammo Sophie tutta vestita, pallida come un cadavere, sul pavimento della toilette. Fortunatamente non aveva chiuso a chiave la porta. Quando entrammo, tremava come una foglia e non diceva una parola di quello che la spaventava. Matilde ed Emily fecero il possibile per tranquillizzarla, e Steve mi sussurrò alcune cose che mi agitarono alquanto. Passò quasi un'ora e pensavamo di tornarcene a casa, quando Sophie si girò da un lato, come per ascoltare qualcosa. Poi, di colpo, urlò di nuovo e cadde un'altra volta svenuta. Sissignori, dico quel che dico e non faccio supposizioni come avrebbe fatto Steve Barbour se ne avesse avuto il coraggio. Lui era sempre il più bravo a parlare per allusioni... È morto dieci anni fa di polmonite... Naturalmente, ciò che avevamo sentito così da lontano era solo la voce di Johnny il Matto. Veniva dal cimitero: Johnny doveva essere scappato dalla finestra della stanza dove l'avevano rinchiuso, anche se Constable Blake dice che quella notte non è fuggito. Da quel giorno Johnny si aggira attorno alle loro tombe e parla a tutt'e due, maledicendo e tirando calci al tumulo di Tom, deponendo fiori ed oggetti su quello di Henry. E quando non è là, si aggira sotto le finestre sbarrate di Sophie, urlando ciò che un giorno le capiterà. Lei non si è mai voluta avvicinare al cimitero, ed ora non esce neanche più di casa e non vuole vedere nessuno. Ha cominciato a dire che su Stillwater pende una maledizione, ed io mi chiedo se non abbia un po' di ragione, visto che di questi tempi tutto va male. C'è certamente qualcosa di strano in Sophie. Una volta, quando Sally Hopkins la chiamò, penso che fossimo nel 1897 o nel 1898, ci fu alle sue finestre un trambusto terribile (e Johnny quella volta era di sicuro chiuso dentro, almeno così andò giurando a destra e a manca Constable Dodge). Ma io non voglio ripetere le loro storie su certi rumori che si ripetono ogni diciassette giugno, o su certe figure evanescenti che cercano di aprire la porta e le finestre di Sophie ogni notte senza luna, verso le due. Vedete, erano circa le due di notte, quando Sophie udì quei rumori e svenne due volte durante quella prima notte dopo i funerali. Steve ed io, Matilde ed Emily, la seconda volta udimmo davvero il rumore, per quanto fosse debole. E vi ripeto che deve essere stato Johnny il Matto, lì dal cam-
posanto, checché ne dica Jotham Blake. Così da lontano non era possibile capire che si trattava di una voce umana: con la testa piena di fantasie, non c'è da stupirsi se pensammo che fossero due voci, e voci che non avrebbero dovuto parlare affatto. Steve diceva di aver sentito meglio di me. Penso davvero che lui un po' ci credesse, alla storia dei fantasmi. Matilde ed Emily erano così spaventate che non ricordavano quello che avevano sentito. E, caso strano, nessun altro nel paese (se qualcuno era sveglio a quell'ora dannata) ha detto di aver sentito qualcosa. Qualunque cosa fosse, si sentiva così debolmente, che avrebbe potuto essere stato il vento, se non avessimo udito delle parole. Io ne afferrai qualcuna, ma non voglio ripetere tutte quelle che Steve diceva di aver sentito. "Lei è un demonio"... "tutto il tempo"... "Henry"... e "vivo", ciò era chiaro... e così anche "tu lo sai"... "e dicevi che aspettavi di"... "liberarti di lui" e "seppellire me"..., con la voce un po' cambiata... Poi ci fu quel terribile "torneremo di nuovo, un giorno", in un rauco grido come di morte... Ma non potete dirmi che Johnny non avrebbe potuto fare quei suoni... Ehi, voi! Che diavolo avete che ve ne andate via così in fretta? Potrebbe esserci dell'altro che potrei raccontarvi, se volessi...» REX ERNEST La locanda Barlow imprecò quando un piede gli finì in una buca di fango limaccioso e l'acqua ghiacciata gli scivolò nella scarpa. Sforzava il suo sguardo nel buio, ma non riusciva a distinguere nulla più della forte oscurità degli alberi che si chiudevano su di lui. La pioggia cadeva a dirotto, producendo una nenia monotona sulle foglie. Il tempo era abbastanza brutto anche se non ci si fosse persi. Afferrando con forza la valigia, si affrettò attraverso l'oscurità e il sudiciume del solitario viale di campagna. Non si era aspettato nulla di simile quando si era diretto verso la zona di competenza del povero Gough: aveva pensato troppo alle lucrose commissioni che sarebbero state sue. E poi, coloro che viaggiano in strani posti, devono prevedere quel tipo di cose. Era curioso di sapere cosa fosse successo a Gough. La gente non era stata mai soddisfatta di quel che si diceva riguardo la sua morte: c'era qualcosa di strano in tutto l'affare! Comunque, non era sposato, e non lasciava moglie e figli. Grazie a Dio! Ma ecco una
luce! Mettendo da parte quelle elucubrazioni, Barlow guardò attentamente in avanti verso la pallida luce gialla che si mostrava attraverso le tenebre. Era la finestra di un qualche edificio, e così fece rotta verso quello. Quando fu abbastanza vicino da scorgere la sua massa che incombeva, suppose di trovarsi davanti a una locanda, e il pensiero lo rallegrò enormemente. In ogni caso ci sarebbero stati tepore e un rifugio. Lo stridere rugginoso dell'insegna, nascosta nell'oscurità, confermò la sua supposizione, e presto sentì il sentiero di ciottoli sotto i suoi piedi. Tentò di scorgere cosa fosse scritto sull'insegna, ma trovò l'oscurità impenetrabile; perciò inchinò la tavola che oscillava verso la fioca luminescenza del cielo stellato. Si poteva appena scorgere la figura abbozzata di un uccello. Un nome si trascinò avanti dai recessi della sua memoria: La cornacchia cieca. Il ricordo portava con sé un avvenimento sinistro; quella era la locanda nella quale era morto Gough! Allarmato, Barlow rimase un momento perso in una strana sensazione; poi, quando il freddo disagio della pioggia si fece avanti di nuovo, alzò le spalle e si affrettò nella hall. Dopo aver posato la borsa si levò dalla testa il cappello bagnato fradicio, e lo sbatté per liberarlo dall'acqua. Aprì il cappotto e si scosse di dosso la pioggia, poi si guardò intorno per cercare un campanello o un battente che avrebbe portato qualcuno ad aprire quella pesante porta. Stava per afferrare un pesante battente di ferro, quando la porta si spalancò silenziosamente. Il silenzio risuonò sui suoi nervi già tesi: era il tipo di porta dalla quale ci si aspettano scricchiolii e proteste. Sbatté le palpebre nella luminosità pallida che usciva lentamente, cercando di distinguere l'uomo che era lì davanti. Alto, magro e calvo, l'uomo lo guardava senza interesse. Non c'era nessun albergatore rubicondo e cordiale; più che un locandiere, sembrava a Barlow un guardiano di cimiteri. Il viaggiatore era consapevole che la sua voce era stranamente sottomessa quando disse: «Buona sera! Vorrei una stanza per la notte!». L'altro non rispose; rimase da un lato e aprì ulteriormente la porta. Barlow passò nell'ampio varco, aspettando che il taciturno locandiere chiudesse la porta, poi lo seguì nell'ampia stanza lastricata di pietra. Fu accolto da una calda atmosfera. Il fuoco di un ceppo sibilava e crepitava nel camino, riempiendo la stanza di una luce rossa gioiosa e di ombre danzanti, e una grossa tabella portava le indicazioni di pietanze appetitose. Il suo umore si
sollevò e, dopo aver lanciato i suoi panni bagnati su una sedia, si stropicciò le mani con vigore. «Le sarei grato se mi portasse qualcosa da mangiare. Della carne fredda con sottaceti, se ne avete, e, naturalmente, della birra.» L'albergatore accennò di sì ed emise un brontolio, poi si accinse a preparare il cibo. Quando tutto fu sul tavolo, lanciò su di esso una chiave pesante, attaccata a una targhetta di legno. Quando parlò, la sua voce fu secca e frusciante: «Ecco la chiave della vostra camera. È la seconda porta sul pianerottolo. Buona notte!». E senza ulteriori conversazioni, lo strano albergatore si trascinò verso remoti luoghi dietro la cucina. Barlow lo seguì con lo sguardo. Aveva intenzione di indurlo a parlare di Gough, ma per qualche motivo aveva paura di intromettersi nel cupo riserbo di quell'uomo. Toccò la grossa chiave, e poi tornò alle gustose vivande che aveva davanti. Mangiò con tutta calma. La carne fredda era buona e la birra era la migliore che avesse incontrato fino a quel momento. Mentalmente, encomiò la previdenza dell'albergatore nel servire un'abbondante riserva di birra. Sotto l'influsso piacevole di uno stomaco soddisfatto e di un tepore confortevole, un dolce appagamento si impossessò di lui. Con tranquillità caricò la pipa, e gettò uno sguardo alla grande stanza. Il ceppo crepitava, ancora rosso e, dopo aver riempito nuovamente il bicchiere, Barlow abbassò la lampada e camminò oltre la grossa panca, tendendo le gambe verso la fiamma. Accese la pipa, e con quel buon tirare, si rilassò con godimento. Ah! Era bello! Con gli occhi semichiusi che fissavano il centro del fuoco, si lasciò cadere in meditazioni sognanti. Quando si sarebbe ritirato avrebbe voluto un posto come quello. Niente da fare. Poi la sua mente tornò a Gough. Povero vecchio Gough! Proprio una brava persona a modo suo. Strano che fosse capitato nello stesso posto in cui lui era morto; eppure in qualche modo non era così strano... ma viaggiava nella stessa zona? Eppure... chissà cosa era realmente successo! Non aveva letto il resoconto; sapeva soltanto che qualche mistero circondava il caso. A mezza voce, mormorò: «Povero vecchio Gough!», e si preparò a scacciare l'argomento dalla mente. «Sì, era sfortunato!», rispose una voce profonda. Barlow saltò su a sedere come un fuso, e guardò in giro per la stanza.
Poi, proprio quando cominciava a pensare che la voce fosse un'invenzione della propria immaginazione, scorse una figura curva tra le ombre al lato opposto del fuoco. A poco a poco la sua paura diminuì. Scrutò l'altro, cercando di vedere più del profilo indistinto che si fondeva con le ombre circostanti, cambiando forma con ogni ghiribizzo delle fiamme tremolanti. Il suo senso di cameratismo si fece avanti. «Buona sera!», disse. «Pensavo di essere solo. Non l'avevo vista lì.» Fece una pausa, poi, quando l'altro non rispose, continuò: «Che tempo da cani! Anche lei è in giro?». «No!» «Ah, vive qui, allora?» «No, non vivo qui.» La voce profonda sembrava venire proprio dalle profondità della più profonda ombra. «Ma capito qui di frequente.» Barlow tirò una boccata dalla pipa, e andò alla ricerca di qualche suggerimento per nuovi argomenti di conversazione. Poi ricordò l'entrata dello straniero nella sua coscienza. «Non ha fatto dei commenti su Gough, l'uomo che è morto qui?» «Ho detto solo che era sfortunato.» «Sì, è stata una triste storia. Lavorava per la mia stessa ditta. Lo conoscevo bene. Non era un cattivo ragazzo. La cosa strana è che nessuno sembra sapere esattamente cosa sia successo. Mi sembra che sia stato trovato morto in un letto qui, con un'espressione di grande paura sul volto! I medici dissero un colpo al cuore, ma se avesse conosciuto Gough... Per quale ragione... Un uomo sano come un cavallo!» «I sintomi definitivi indicavano una morte per paura... per terrore eccessivo.» «Paura? Ma, signore, Gough non aveva paura di niente al mondo. Ce ne sarebbe voluto anche solo per impaurirlo, figuriamoci per atterrirlo a morte.» «Impaurito da niente al mondo? Forse, ma è morto di terrore.» Il viaggiatore meditò su ciò. Fuori, il vento gemeva e spingeva la pioggia rumorosa sui vetri delle finestre. Si fece coraggio, e si lasciò uscire di bocca la domanda che gli era nata sulle labbra fin da quando la conversazione era iniziata. «Sembra che lei sappia molto di questa storia. Forse me ne potrebbe parlare?» «Io so tutto.»
In seguito a quella confessione repentina, l'altro cadde in un silenzio che durò tanto che Barlow ebbe paura di averlo in qualche modo offeso. Proprio quando stava per fare uno sforzo per chiedere ammenda per una offesa che poteva aver causato, l'altro iniziò a parlare. «Gough arrivò qui proprio nelle sue stesse circostanze: aveva perso l'ultimo treno, e stava piovendo a dirotto. Gli fu data la seconda camera sul pianerottolo e, dopo una buona cena, si ritirò. Si mise a leggere per un'ora o poco più, ma il vecchio letto con baldacchino era così confortevole che spense la luce, si rannicchiò sotto le calde coperte, e cadde in un sonno profondo. Si svegliò proprio dopo la mezzanotte. Non sapeva che cosa lo avesse fatto svegliare, e lanciò uno sguardo assonnato in giro e poi tentò di riaddormentarsi. Dopo pochi minuti era sveglio di nuovo. Questa volta, tentò di capirne la causa. Non passò molto tempo prima che si rendesse conto che c'era qualcosa nella stanza: un'altra Presenza. Si mise a sedere nel letto e scrutò nell'ombra. Non riusciva a vedere nulla, e non sentiva nulla al di fuori del lugubre gocciolare della pioggia dalla grondaia. Improvvisamente, si irrigidì, e fissò intensamente l'angolo più scuro. Qualcosa si era mosso, immerso nell'ombra; simile a un vortice di spesso fumo più che a un reale movimento. Debole, ma distinto, un caratteristico odore di muffa arrivava alle sue narici. C'era una tensione funesta nell'aria che gli faceva formicolare i corti capelli sulla nuca, e un certo sudore gli imperlò la fronte. Paralizzato, osservava i vaghi movimenti prender corpo; li vide diventare un contorcersi orribile e sinistro. Presto, qualcosa crebbe in grandezza e minacciosità nelle profondità dell'ombra, qualcosa che iniziava a muoversi verso i piedi del letto. Ormai Gough teneva strette le lenzuola, incapace di fare altro che guardare con occhi atterriti. Le sue corde vocali erano agghiacciate, e i muscoli rifiutavano di obbedire alla sua mente ammaliata. Doveva sedere lì e aspettare, aspettare. La cosa uscì dalle ombre: era solo una scura massa nebulosa. Raggiunse i piedi del letto, dove sembrò crescere ulteriormente, impennandosi, incombendo famelica sull'uomo atterrito. Allora, la fredda, bianca luce della luna, penetrò da uno squarcio nelle nubi temporalesche, si diffuse attraverso la finestra, proprio sulla cosa. Gli occhi di Gough si spalancarono, si gonfiarono. Tentò di urlare, ma nessun suono uscì dalla sua gola secca. Stese le mani tremanti per tener lontana quella cosa che veniva dalle ombre: ma fu un gesto vano. Poi, con
un singhiozzo tormentato, cadde indietro sui cuscini, morto! Così lo trovarono il mattino seguente!» Per alcuni minuti dopo che l'altro ebbe terminato di parlare, Barlow rimase seduto come in trance. La pipa era diventata fredda, e il fuoco era morto in rossi tizzoni, tra i quali una fiamma occasionale guizzava per la sua breve vita. Fuori, la pioggia scorreva a dirotto, colpendo i lati della casa. Con un sospiro, Barlow tornò alla realtà, e si appoggiò indietro, asciugandosi la fronte. Il suo cuore stava ancora correndo per l'orrore di ciò che aveva ascoltato. Poi un pensiero cancellò il suo stordimento, un pensiero che fece scappare i suoi timori indietro nei loro nascondigli. Più ci pensava, più voleva ridere. Fece attenzione a parlare con disinvoltura: «Che cosa terribile! Che orribile morte!». La figura nell'ombra non rispose. Barlow continuò, lasciando che un po' di trionfo si insinuasse nel suo tono: «La sua storia è stata molto vivida, amico mio, troppo vivida! Gough era solo... e solo lui avrebbe potuto sapere che cosa accadde!». Si piegò in avanti, aspettando una risposta alla sua sfida. Da qualche parte un orologio batté le dodici. Dall'ombra la risposta arrivò. «Sì! Solo Gough e la cosa che veniva dall'ombra!» E la figura si mosse in avanti minacciosa nella luce morente del fuoco. JOHN FEARN RUSSELL La campana del Giudizio Avevo notato l'avvicinarsi del temporale da qualche tempo. Durante il pomeriggio, mentre Enid Cleggy ed io mangiavamo all'aperto su un tappeto di erba verde e di ranuncoli, il caldo era diventato un peso opprimente. Era diventato faticoso anche soltanto muoversi, quindi ci eravamo sdraiati a fissare il sonnacchioso cielo di giugno, osservando il lento e impercettibile addensarsi di nubi color fumo all'orizzonte meridionale. Verso la fine del pomeriggio la calma era calata sul paesaggio ondulato di questa campagna meridionale inglese. Lontano le mucche stavano ritte con la schiena rivolta alle siepi e questo di per sé era significativo. «Enid, sarà meglio che ci muoviamo», dissi alla fine ansiosamente. «Non abbiamo l'automobile e se vogliamo finire la giornata con i vestiti asciutti, sarà meglio che ci affrettiamo verso l'autobus. E sono cinque chilometri. Andiamo!»
Enid annuì e mi aiutò a raccogliere il necessario per il picnic in un paniere di vimini poi, portandolo tra di noi, ci affrettammo attraverso il prato verso la fermata dell'autobus. Comunque, malgrado questo finale improvviso, era stata una splendida giornata, una delle pochissime che ero in grado di permettermi a causa della vita impegnata della città. Anche Enid aveva fatto in modo di potermi accompagnare poiché, come direttrice di vendite di un negozio di abbigliamento di Londra, aveva poco tempo a disposizione. Era una ragazza pratica, di bella presenza, in un certo modo grave, con capelli biondi e penetranti occhi grigi. Non avevamo mai ammesso a chiare parole che eravamo innamorati. Era una cosa considerata scontata, come spesso accade tra persone impegnatissime, ma ero deciso a non lasciar passare molto tempo prima di chiederle di diventare mia moglie. «Piove!», gridò improvvisamente tendendo in fuori la mano. Era vero, e con grosse gocce. Le nubi del temporale erano passate dal grigio al violetto. Da lontano si sentiva un brontolio che annunciava l'inizio del temporale: in quel mentre si verificò una cosa strana. Durante tutta quella giornata d'estate ero stato enormemente felice, ma con il primo rumoreggiare del tuono lontano mi accadde qualcosa. Mi aggredì un'indescrivibile sensazione di presentimento angosciante. Dapprima non riuscii a comprenderlo. Dopotutto non avevo mai avuto paura dei temporali; in effetti non avevo paura di niente. Eppure... «Che ti succede, Bob?», mi chiese sorpresa Enid. Sobbalzai e mi sforzai di sorridere. «Eh? Oh, niente. Mi sono sentito un po' strano, come se... Lascia perdere», borbottai. «Probabilmente è la tensione elettrica prima dello scoppio del temporale.» «O quelle sardine», rifletté lei. «Avevo dei dubbi su di loro fin dal primo momento. Dico che dobbiamo affrettarci», aggiunse ansiosa. «La pioggia aumenta e indossiamo soltanto abiti leggeri.» Ci mettemmo a correre, mentre la pioggia cadeva forte. Improvvisamente stava sibilando tutt'intorno a noi, ribollendo sulla secca erba bruciata, sollevando un miasma di vapore fluttuante sopra la vallata oltre la quale correva quella campagna ondulata. Più proseguivamo, più ero sicuro che non avremmo mai raggiunto la fermata dell'autobus, e tanto meno la nostra casa, senza essere bagnati fino al midollo. Anche se ci fossimo riparati sotto qualcuno degli alberi che punteggiavano il prato, l'acqua non ci avrebbe risparmiato.
«Che ne dici dell'Abbazia di Kelby?», suggerii. «È solo a un chilometro, in quell'avvallamento laggiù. È sempre aperta. Potremmo ripararci.» Lei esitò e sapevo perché. C'era una leggenda sull'Abbazia di Kelby... ma dopotutto corrono leggende su tutte le abbazie, più o meno, e specialmente su una come Kelby, vecchia di oltre cinquecento anni. «Sarebbe un rifugio», continuai ansiosamente. «Questo sembra un temporale del diavolo e qui fuori potremmo lasciarci la pelle.» «Va bene», assentì riluttante. «Francamente non mi sono mai sentita a mio agio nelle chiese, da quando mio zio morì improvvisamente in una di esse dodici anni fa.» Non era il momento di discutere su questo, così ci affrettammo il più possibile tra il fango e l'erba bagnata. Mentre andavamo, il tuono risuonò proprio sopra di noi accompagnato da un lampo. Fu un lampo terribile, che immerse la campagna sotto la tempesta di una luce azzurra brillante. Ancora provai con il lampo quella sensazione di indicibile orrore. Era una sensazione terribile, come se la mia anima fosse stata momentaneamente immersa nel più profondo «Pozzo dei Dannati». Non dissi niente a Enid in proposito: era già abbastanza allarmata dalla furia del temporale. Facemmo di corsa come campioni di velocità gli ultimi cinquecento metri con il paniere del picnic tra di noi. Ormai si era alzato il vento, e con la sua furia piegava gli olmi nelle prime tenebre del crepuscolo. Per due volte, mentre completavamo il percorso, il lampo serpeggiò nel cielo nero e il tuono fece tremare il terreno. Poi, attraverso la foschia della pioggia, apparve la poderosa mole semidistrutta dell'Abbazia di Kelby, con la sua porta sempre aperta. Corremmo lungo la scalinata ed entrammo nell'interno tranquillo e cupo. La pace cadde su di noi immediatamente come un mantello. Ci fermammo un attimo: mettemmo giù il paniere e ci voltammo a guardare la pioggia che ruscellava sui gradini consumati. In quel momento ringraziammo Dio per l'Abbazia di Kelby, con le sue porte sempre aperte ai devoti che potevano cercare soccorso nei suoi recinti venerati, per un breve conforto alla vita materiale. Enid fece un sorriso di sollievo. «Beh, almeno siamo fuori da quel temporale: può essere una buona occasione per dare un'occhiata a questo posto. L'ho visto molte volte all'esterno, ma temo di non essere stata abbastanza interessata, o abbastanza religiosa per visitarne l'interno. Vediamo: questa è la parte moderna, non è vero? Questo porticato? E questa è l'antica abbazia restaurata, con le auten-
tiche rovine laggiù in fondo. Ehm, posso benissimo cominciare a redimermi. Vieni?» Per qualche ragione le sue parole suonarono fredde e mondane in quel luogo possente. Questa era una delle cose che non avevo mai potuto approfondire in Enid. Da qualche parte nel profondo del suo carattere, serpeggiava una vena di freddo, gelido cinismo. Balzava in superficie ogni volta che lei si trovava di fronte a qualcosa di sacro. Eppure, sapendo che lei aveva dovuto farsi da sola strada nel mondo, che possedeva tutte le sofisticazioni che una moderna città poteva instillare in lei, avevo sempre ignorato questa sfaccettatura del suo carattere. Dopotutto non sono un santo nemmeno io. Voltandoci, guardammo la chiesa. Al momento era immersa nel crepuscolo della tempesta ma, improvvisamente, ci fu un altro lampo che ci diede un'istantanea azzurrina di enormi finestre dai vetri colorati, di mastodontici pilastri di pietra, di santi scolpiti, di banchi vuoti, di stalli del coro e dell'altare. Enid improvvisamente rabbrividì. «Fa freddo», disse. «Tutte le chiese sono fredde, specialmente quelle antiche come questa. E poi sono tutta bagnata.» Strizzò i polsini delle maniche e l'orlo della gonna con impazienza, e rabbrividì ancora quando una folata di vento entrò dalla porta aperta. Alla fine, spinta dalla curiosità, si diresse lungo la navata, nel vuoto assoluto della chiesa. Mi incamminai dietro di lei, quindi la seguii oltre l'imponente altare, attraverso un corridoio e nel chiostro. Qui tuttavia un lato era esposto alla tempesta, e ci affrettammo a ritirarci. Ma non nella chiesa. Aprimmo una porta di quercia ed entrammo rapidamente in quella che ritenevamo fosse un'anticamera. Invece era una specie di cripta, oppure un archivio, perché le cripte di solito sono sotto terra. Certamente era vecchia, con pareti spesse, e polverosa. I lampi di luce saettavano e si abbattevano violentemente sull'unica finestra a bifora illuminando una tavola di abete, una sedia di legno di quercia e scaffali su scaffali pieni di libri ammuffiti. «Sembrerebbe una specie di sala di lettura dei monaci», decisi alla fine. Poi, facendomi avanti, diedi un'occhiata ai libri sugli scaffali. Alla luce dei lampi osservai alcuni dei titoli e scoprii che erano latini. Per il resto sembravano solo incartamenti dell'abbazia, senza dubbio pieni di gemme storiche. «Qual è la leggenda a proposito di questa abbazia?», chiese Enid a un
certo punto venendomi accanto e continuando a sfregarsi le mani per riscaldarsi. «È qualcosa che riguarda una campana? Ne ho sentito parlare ma non ricordo bene... Probabilmente sono soltanto chiacchiere.» «La leggenda», dissi, «parla di una gigantesca campana che si mette a suonare quando si deve verificare una morte in questa chiesa. La morte si verifica sempre in questa abbazia. L'ultima volta che ha suonato fu dodici anni fa, mi pare.» Enid aggrottò la fronte. «Ma sicuramente ogni domenica suoneranno le campane!» «Quelle ordinarie sì, ma questa della leggenda è una campana solitaria in un proprio campanile eretto per qualche ragione speciale quando questa abbazia venne costruita. C'erano in origine quattro campane sul campanile. Poi tre furono rimosse e ne rimase una sola. Era chiamata, e lo è ancora, la "Campana del Giudizio".» «Beh, mi sembri una guida turistica», scherzò Enid. «Comunque mi sembrano un cumulo di sciocchezze.» Si voltò con fare sprezzante e fece scorrere gli occhi sugli incartamenti. Fu mentre lei li guardava e un lampo si accendeva con intensa luminosità che l'enorme sensazione di malignità mi sommerse ancora. Era come se una Presenza senza nome, una Entità incredibilmente malvagia e senza Dio, tentasse di sopraffarmi e di schiacciarmi. Qui, nel venerato isolamento dell'abbazia, dove anche il tuono era attutito dalle spesse pareti, l'effetto era infinitamente più amplificato di quanto lo fosse stato all'esterno. Un impulso irresistibile mi fece afferrare il braccio di Enid mentre lo allungava verso lo scaffale. La mia stretta fu così forte che si voltò con un grido. «Scusa», mormorai, mentre la sensazione mi abbandonava ancora una volta. «Non capisco che cosa mi sia accaduto... una specie di sensazione maligna. Forse è questa chiesa e la tempesta...» ~ più probabile che sia la chiesa», rispose laconicamente. «È abbastanza tetra da mettere malinconia a chiunque. Per qualche ragione questi posti non mi fanno mai sentire santa: soltanto irritata e risentita. Mi chiedo perché debbano essere deprimenti e minacciosi!» Meditò brevemente su questo poi, ritornando allo scaffale, prese un incartamento. Era come se lo avesse fatto con una mano che non era la sua. Fu un movimento deciso, tanto che lei stessa sembrò sorpresa poiché rimase a guardare nella luce tenue l'oggetto incredibilmente antico che aveva in mano.
«Ma perché diavolo ho scelto questa roba?», domandò. «Volevo prendere quei libri sullo scaffale anteriore per passare il tempo e invece ho...», alzò le spalle. «Diamo un'occhiata comunque.» Gettò l'incartamento sul tavolo e si alzò una nuvola di polvere. Nello stesso istante, sopra l'abbazia scoppiò un tuono spaventoso accompagnato da un lampo che ci avvolse per un momento in un livore azzurro. Per la sua intensità mi sentii venir meno, e i capelli mi si rizzarono in testa per un secondo o due. «Pare che sia proprio qui sopra», mormorai, «e per quanto ne so, questa abbazia è la sola costruzione per chilometri. Non sarà meglio uscire?» Enid guardò la finestra lungo la quale la pioggia ruscellava come una cascata. «No di certo. Ho già l'impressione che mi prenderò una polmonite nello stato in cui sono. Non voglio rischiare altro.» Tornò di nuovo all'incartamento e lo aprì. Con le dita agili sfogliò le pagine di pergamena impolverata. L'inchiostro, anche se sbiadito, era ancora leggibile, e il testo era per la maggior parte in inglese antico. Guardai al di sopra della sua spalla, trattenendo un vago desiderio di strappare l'incartamento dalle sue mani e gettarlo fuori nella tempesta. Una idea sciocca, dite? Forse sì, se la si considerava obiettivamente, ma non potete avere idea delle forze che agivano sopra di me (e per quel che ne sapevo anche sopra Enid) in quella chiesa circondata dalla tempesta. Perché per esempio aveva deciso di aprire l'incartamento proprio alla pagina intestata L'antica leggenda dell'Abbazia Kelby? «Beh, non è fortuna questa?», disse Enid cinicamente. «Ci stavamo chiedendo di quella antica storia di vecchie comari... ed eccola tutta qui! Ma, Signore, che scrittura impossibile!» Cominciò a leggere lentamente a voce alta... «e così narra la leggenda che il santo monaco Dranwold fu ucciso dalla mano dell'assassino che strisciò...». Enid s'interruppe e sospirò. «Beh, chiunque abbia scritto questa roba non venderebbe a una rivista moderna.» «Per amor del cielo Enid, piantala con le tue dannate chiacchiere blasfeme!», esplosi. «Piantala!» Lei mi fissò con aria attonita. Quelle parole mi erano sfuggite da sole e, mentre le pronunciavo, il senso di orrore che mi attanagliava si era attenuato come se quelle aspre paro-
le lo avessero esorcizzato, qualunque cosa fosse. «Ma a chi», disse Enid amaramente, «credi di parlare?» «A te naturalmente! Che diritto hai di prendere in giro i venerabili documenti di questo luogo? Non ti rendi conto di che cosa tratta quell'incartamento? Racconta la morte di un monaco, di un religioso, di un sant'uomo che fu ucciso da un assassino. Questo non è un argomento da prendere alla leggera.» Vidi le sue labbra tremare come se volesse darmi una secca risposta. Poi si rilassò e alzò leggermente le spalle. «La tempesta ti ha preso la mano, Bob. Nondimeno, senza voler essere blasfema, questa roba è assurda per il nostro raziocinio moderno. Sembra che...» Si fermò, con gli occhi fissi su quell'antica pagina. Non credo di aver mai visto una simile espressione su un volto umano. Era orrore oltre ogni descrizione. Ed era così assorta, che nemmeno un altro terribile lampo riuscì a farle batter ciglio. «Enid, Enid, cos'hai?», gridai afferrandola. «In nome di Dio che stai fissando così?» Si portò lentamente la mano alla bocca inorridita. Poi, con grande sforzo, sembrò riprendere il controllo di sé. Indicò la pagina evidenziando una sola riga alla fine della leggenda: «... e così la Campana del Giudizio suonerà per ogni discendente di Dranwold. L'assassino il cui nome è Cleggy...». «Cleggy!», esclamai. «Scritto all'antica, ma questo è il tuo cognome, Enid!» «Sì», mormorò. «Sì, lo è.» Mi guardò con uno sguardo assente per qualche minuto. Il suo volto si era imperlato di sudore in quei pochi momenti paralizzanti. Ora, con la mano che tremava visibilmente, chiuse l'incartamento e si appoggiò tremante al tavolo. «Non capisco», ansimò con il petto che si alzava e si abbassava violentemente. «Non capisco... mi sento confusa qui dentro... oppressa. Ti rendi conto di quello che dice questo incartamento?», gridò. «Mi rendo conto che per una coincidenza l'assassino del monaco aveva il tuo stesso cognome...», osservai. «Ma, dopotutto Enid, questo è verosimile. Cleggy è un nome comune.» «No, non lo è», ribatté con voce atona. «Clegg lo è, e anche Clegger... entrambi sono cognomi di origine antica. Ma non Cleggy. Questo è deci-
samente insolito... significa», finì lottando per controllarsi, «che quel Cleggy era probabilmente un mio antenato.» «È ridicolo», cominciai a dire; poi mi fermai. Era proprio così ridicolo dopotutto? Ricordai le mie strane emozioni, quel senso di paura strisciante che aveva continuato ad assalirmi. Soprattutto ricordai che lei aveva preso quell'incartamento quasi automaticamente e lo aveva aperto immediatamente alla pagina desiderata... Ci fissammo in volto mentre un lampo si accendeva di nuovo. «Supponiamo», disse alla fine lentamente Enid, «che sia vero? Che questo assassino sia un mio antenato. Questo cosa fa di me?» «Soltanto quella che sei», ribattei quasi rudemente. «Una ragazza moderna in un mondo moderno. Non è possibile che qualcosa che è accaduto secoli fa possa coinvolgerti ora...» Lei esitò, poi si voltò ancora una volta all'incartamento. Lesse lentamente, nervosamente, traducendo in lingua moderna mentre leggeva. «...il monaco Dranwold era in preghiera davanti all'altare: L'assassino Cleggy giunse furtivamente dalla zona del transetto e lo pugnalò alla schiena... e la sua morte sarà vendicata in eterno: questa fu la maledizione di Dranwold in punto di morte...» «E la sua morte sarà vendicata in eterno...», ripeté Enid lentamente. «Tutti i miei antenati e parenti, per quel che posso ricordare, sono morti misteriosamente... Bob!» La sua voce era alterata per un improvviso isterismo. «Bob, dobbiamo andarcene da qui in fretta. Sono convinta che non sia stato un caso a condurci qui.» Stavo cominciando a pensare la stessa cosa. Era possibile, mi chiedevo, che la forza degli eventi, una forza totalmente al di sopra della nostra comprensione, ci avesse guidati al picnic, ci avesse intrappolati nella tempesta e poi ci avesse diretto - o almeno avesse diretto Enid - verso quella abbazia? Era possibile che ci fosse uno spirito di tremenda perfidia in libertà in quella tempesta, che tentasse di raggiungere la ragazza, discendente di un assassino senza Dio? Quella sensazione d'insopportabile malvagità che avevo sentito era stata provocata in qualche modo da lei, la moderna equivalente di Cleggy? Rabbrividii leggermente. «Sì, andiamo», decisi di colpo. «In questo posto stanno accadendo cose che sono al di là della nostra comprensione. Vieni.» Ci affrettammo a tornare, attraverso i chiostri sferzati dalla pioggia, nei recessi spettrali della chiesa, e proseguimmo oltre i banchi silenziosi fino al portale dove giaceva ancora il nostro canestro. Qui, fuori dalla porta
principale, ci fermammo. La tempesta sembrava essersi scatenata con furia demoniaca proprio sopra quell'antico edificio. La pioggia si insinuava attraverso la porta aperta in torrenti sibilanti; i fulmini si accendevano e crepitavano nel diluvio; lo scoppio e il rombo dei tuoni scuoteva l'abbazia fino alle fondamenta. «Non è possibile uscire là in mezzo», mormorai. «Proprio non possiamo. Soccomberemmo prima di aver compiuto una dozzina di passi.» «Bob», sussurrò Enid, «è come se gli elementi fossero impazziti sopra questo punto. Non sembra una tempesta come tutte le altre... Bob, sono spaventata!» Mi afferrò strettamente il braccio e sentii la sua mano tremare. «Calmati!», le dissi, benché anch'io non mi sentissi troppo eroico. «È solo una violenta tempesta estiva, ecco tutto... Passerà in poco tempo. Poi ci muoveremo di nuovo. Ci rimane ancora un sacco di tempo», aggiunsi guardando il mio orologio. «Sono soltanto le sei.» «Le sei», ripeté cupamente, «ed è buio come a mezzanotte.» Ritornò ancora nella chiesa, con passo agitato, e guardò verso la navata. Poi, mentre un lampo la illuminava, emise un terribile urlo, tanto che mi girai su me stesso con il cuore impazzito. «Che cosa diavolo...», domandai raggiungendola. «Io... io l'ho visto!», balbettò. «L'ho visto là, davanti all'altare! Oh, mio Dio, l'ho visto!» «Visto chi?», domandai guardando la zona illuminata dai lampi senza vedere niente di strano. «Dranwold, il monaco, inginocchiato davanti all'altare...» Era così prostrata dalla paura, che riusciva a stento a reggersi in piedi. L'afferrai e la strinsi a me. Evitava di girare lo sguardo verso la chiesa, mentre continuavo a sostenerla, con il suo volto premuto contro la mia spalla. Eppure, mentre guardavo oltre la navata alla luce dei lampi che illuminavano il posto, non riuscii a vedere niente d'insolito, certamente nulla che sembrasse una figura inginocchiata. «Non c'è niente laggiù», le dissi gentilmente, «assolutamente niente. È stata la tua immaginazione, ombre provocate dal lampo, immagino. I tuoi nervi sono andati a pezzi per la tempesta e la leggenda. Tutto qui.» Lentamente si sforzò di guardare ancora, poi voltò la testa di scatto. «È là. Inginocchiato», insistette. «Con tonaca e cappuccio! Non chiedermi di guardare ancora. Non oso...» Questa volta non contraddissi la sua asserzione. C'era qualcosa di molto
reale, molto terribile, che lei vedeva e io no. Involontariamente pensai alla leggenda dell'incartamento. Influenza ereditaria? L'assassino Cleggy che agiva attraverso lei? Poi mi ritornò quell'opprimente sensazione di malvagità e mi ritrassi da lei. Fu tanto se riuscii a mantenere la mia stretta su Enid. Avrei voluto gettarla lontano da me con ripugnanza, come se fosse lei la causa delle mie sensazioni. «Ora è andato via», fece poco dopo, raddrizzandosi. «Sì, è sparito.» Guardò con gli occhi spalancati lungo la navata, fino al lontano altare illuminato dai lampi. «Forse... forse era soltanto un'ombra.» Il modo in cui lo disse mi convinse che non ci credeva. Sapeva di aver visto qualcosa che l'aveva lasciata piuttosto scossa. «Forse è meglio tornare alla nostra cripta», osservai. Lei fece cenno di sì e tornammo verso la penombra tra lampi e tuoni, oltre il tratto di chiostro sferzato dalla pioggia, dentro al nostro rifugio. E qui ci aspettava la cosa più incredibile. L'incartamento che era stato lasciato sul tavolo aperto alla pagina della leggenda, non c'era più. Automaticamente i nostri occhi si volsero allo scaffale. Era tornato al suo posto tra gli altri incartamenti. «Deve averlo fatto l'ombra che ho visto, il monaco», disse Enid con voce rauca. «Solo lui può averlo fatto.» «Buon Dio, Enid, ti rendi conto di quello che stai dicendo?», gridai. «Stai suggerendo che una potenza sovrannaturale ha rimesso l'incartamento sullo scaffale.» «Sì», rispose furiosamente. «Oh, lo so che i fantasmi sono fantasie, che gli spettri non esistono... Questo va bene in città, ma qui c'è qualcosa di differente, un'enorme e maligna potenza scatenata nella tempesta. Che tenta di raggiungermi. Io sento che tenta! Io lo so! Bob tu mi devi aiutare!» «Ma contro che cosa?», gridai. «Come può un uomo tentare di combattere l'impalpabile?» «Tu devi aiutarmi a essere forte», implorò disperatamente; e fu orribile per me vedere come tutte le sovrastrutture artificiali del mondo le fossero state strappate. «Questa tempesta non è naturale: ora posso sentirlo. In essa c'è la lotta eterna tra il Bene e il Male; la battaglia degli spiriti da lungo tempo morti agli occhi mortali, ancora concentrata su questa abbazia, la battaglia del monaco Dranwold contro il mio antenato Cleggy. Io so che è la verità. Non chiedermi come lo so... Forse l'istinto, la coscienza ereditaria ravviva-
ta da forze occulte. Ma è là.» Lentamente, alla luce della sua dichiarazione, cominciai a capire anche le mie emozioni. Se davvero un antagonismo morto da lungo tempo si stava scatenando nella furia selvaggia della tempesta, era ugualmente possibile, come avevo già vagamente compreso, che lo spirito di Cleggy rivivesse grazie a Enid. E il suo potere maligno stava facendo il possibile per proteggere se stesso, per proteggere lei. Quindi era questa la forza che aveva tentato di sopraffarmi. Mi aveva spinto a impedirle di leggere quell'incartamento perché la verità su Cleggy non fosse mai conosciuta. Ecco tutto. Un'empia reincarnazione in cui gli stessi elementi avevano una parte. «È l'eterno grido di vendetta», disse Enid con voce atona, «che echeggia attraverso i secoli. E io sono la pedina.» Si rilassò di nuovo contro il duro tavolo, in un certo qual modo più calma ora che aveva evidenziato l'implicazione psicologica della situazione in cui si trovava. Rimanemmo a lungo in silenzio, con i volti scolpiti dall'incessante scoccare dei lampi, mentre ci guardavamo negli occhi. «Forse», osservai con uno sforzo, «se ci arrischiamo a uscire, potremmo allontanarci da questa tempesta. Sembra essere concentrata soltanto qui sopra.» «Non possiamo andar via», ribatté scuotendo la testa ostinatamente. «Non te ne sei ancora reso conto? Ci ha portato niente di più o di meno di una coercizione psicologica. La stessa coercizione che ci ha spinti a fare un picnic vicino all'abbazia, le stesse forze maligne che hanno provocato la tempesta. Siamo venuti qui... e ora...» Mi sforzai di tirarmi fuori da quelle sabbie mobili di cose inesplicabili. Afferrai Enid e la scossi violentemente. «Enid, ti rendi conto di quello che stai dicendo?», gridai al di sopra del rombo dei tuoni. «Ti rendi conto in quali ridicole dimensioni abbiamo permesso che vagasse la nostra immaginazione? A una tempesta d'estate abbiamo dato spiegazioni occulte; in un'ombra noi troviamo... o almeno, tu trovi, un monaco morto da secoli... Siamo un uomo e una donna di oggi che si sono rifugiati in un'abbazia. La sola coincidenza di un nome non può, non deve avere come conseguenza la totale sconfitta del nostro equilibrio mentale! È soltanto un attacco di nervi!» «No, Bob.» Il suo volto era grigio cenere. «È la verità. Ci sono troppi elementi perché sia soltanto una coincidenza.» Improvvisamente si fermò, e le parole le morirono sulle labbra. Per un
brevissimo momento il rombo del tuono cessò e ci fu una calma sepolcrale, opprimente. Sferzò i nostri nervi tesi come una frusta... Poi, da quell'enorme, innaturale silenzio, giunse un suono, il profondo solenne rintocco di una campana proveniente da qualche parte sopra le nostre teste. Una volta, due volte, tre volte, suscitando echi con i suoi vibranti, purissimi rintocchi. «La "Campana del Giudizio"!» Quasi non mi accorsi di aver pronunciato le parole. «No! No! No!», urlò Enid. «Non posso sopportarla, non posso...» Si precipitò verso l'ingresso della cripta mentre un altro rintocco risuonava nel lugubre silenzio. Poi il tuono rombò ancora mentre la campana continuava a rintoccare senza sosta, implacabile, e nonostante, per quanto ne sapevamo noi, non ci fosse alcuna mano umana ad azionarla. «Enid!», gridai raucamente, poi corsi dietro alla sua figura in fuga. Sembrava essere impazzita per la paura. Una volta rientrata nella chiesa, corse ciecamente lungo la navata laterale tra le panche, ovviamente diretta al portico e alla porta esterna. «Enid!», urlai ancora, ma lei non mi ascoltava. Poi mi avvicinai; lei si fermò a metà della chiesa e alzò le mani come per scacciare qualche mostruosa, oscena visione. Si girò, chiaramente visibile alla luce dei lampi, e ritornò di corsa verso l'altare come se dietro di lei ci fosse Lucifero in persona. «Il monaco Dranwold», urlò. «Dietro di me! Mi sta afferrando... No... no!» Risuonarono gli echi delle sue grida, le urla dei dannati. Io ero paralizzato dall'orrore del dramma che si svolgeva: l'inseguimento di una ragazza inerme da parte di qualcosa che non potevo nemmeno vedere. Inciampando e ansando, la vidi alla fine in ginocchio davanti all'altare. «Pietà!», implorò inerme. «In nome di Dio, pietà!» Improvvisamente ritornai in me e balzai avanti, deciso ad afferrarla con la forza e a portarla fuori da quel dannato buco: ma proprio in quel momento balenò una saetta come non ne avevo mai vedute. Uno zig zag accecante di luce passò nettamente attraverso la grande finestra a vetri colorati a fianco dell'altare, frantumandola istantaneamente. Per un brevissimo attimo vidi Enid accucciata e paralizzata dal terrore proprio dove secoli prima era stato pugnalato Dranwold mentre pregava. Poi quel terribile fulmine si abbatté su Enid. Il terribile shock mi fece barcollare, inerme, con le orecchie assordate
dal più empio dei rintocchi. Il tuono, il clangore della «Campana del Giudizio», il rumore della pietra che si spaccava e l'urlo di morte di Enid tutti fusi insieme. Nauseato, mezzo accecato dal lampo, corsi avanti barcollando, e presi il suo corpo tra le braccia. Era una visione terribile quella che mi apparve. Metà del suo corpo era carbonizzato fino alle ossa! «Enid!», urlai. «Enid!» L'assurdità di gridare a quel povero corpo morto e annerito, mi colpì. La distesi di nuovo e balzai in piedi con i pugni stretti. Quale disumana diavoleria stava accadendo qui? «Demonio!», urlai. «Demonio! Dovunque tu sia vieni fuori e affrontami! Vieni fuori! Io dico...» Silenzio. Assoluto silenzio. I rintocchi della campana gigantesca ora erano cessati: anche il tuono sembrava miracolosamente spento in lontananza. Gli accecanti lampi avevano cominciato a perdere la loro forza: attraverso la finestra sfondata vidi una striscia di sereno nel violetto delle nubi della tempesta. «È un trucco!» Sputai la parola. «Uno sporco trucco! Qualche pazzo fuggito dal manicomio è qui e ha ucciso Enid.» Ritengo, dalle cose che dissi, che fossi mezzo impazzito di dolore e di paura. Ricordo che andai avanti e indietro cercando il modo di arrivare al campanile e alla fine lo trovai. Antichi scalini di pietra. Li salii a tre alla volta, aprii la porta, che non era chiusa a chiave, ed entrai. Era vuoto, e le corde oscillavano al fresco vento che entrava dalle finestre aperte. A che cosa stavo pensando? La «Campana del Giudizio» aveva un suo campanile. Naturalmente. Mi girai e andai verso la porta che si trovava a quell'altezza nell'abbazia. Era chiusa a chiave. Picchiai su di essa con le mani escoriate e sanguinanti. «Diavolo dei diavoli, vieni fuori!», tuonai. «Vieni fuori, non mi puoi sfuggire!» Bussai, scalciai e urlai finché il mio cuore parve prossimo a scoppiare per la fatica e l'isterismo. Deglutii e ricaddi indietro contro la parete, con la testa che mi girava. Poi mi irrigidii sentendo un suono di passi sulla scalinata di pietra. Attesi, con le dita curvate come artigli. I passi si avvicinarono, lenti e decisi. Si fermarono improvvisamente... Eppure non era un visitatore dell'altro mondo quello su cui posai lo sguardo, non era un essere demoniaco né un monaco in cappuccio e sudario, ma un uomo con il cappello floscio e un impermeabile gocciolante. Avanzò
lentamente verso di me e vidi che il suo volto era molto pallido e tirato. «Buon uomo, che cosa state facendo qui?», mi chiese stupito. Poi il suo volto si rattristò un poco. «Ma credo di poterlo indovinare. Quella povera ragazza laggiù, accanto all'altare, è stata colpita dal fulmine?» «O è stato il fulmine o c'è qualche specie di trucco diabolico in questo posto», gli dissi. «Chi diavolo siete, comunque?» «Sono David Bolton», rispose calmo, «il Vicario di questa abbazia. Ho sentito i rintocchi della "Campana del Giudizio". Ma del resto», alzò leggermente le spalle, «me lo aspettavo quando ho visto che la tempesta era scoppiata di nuovo.» «Di nuovo?», gli feci eco stupito. «Ce n'è stata un'altra prima?» «Sì, dodici anni fa.» La sua voce era molto calma. «Quella volta un uomo morì in circostanze molto simili a quelle della ragazza là sotto. L'abbazia venne colpita dal fulmine mentre lui e un gruppo di amici vi si erano riparati. Rimase vittima della scarica elettrica. Il suo nome era... Roland Cleggy.» Fissai il Vicario con la bocca aperta. Ricordavo che Enid aveva detto che suo zio era morto in una chiesa dodici anni prima. A quel tempo lei era troppo giovane per apprendere le esatte circostanze e... «Quella ragazza», chiese il Vicario, «si chiamava anche lei Cleggy?» Annuii stupidamente. «Già...», mormorò. «Sarà sempre così fino a che tutti i discendenti del maledetto Cleggy saranno annientati. Cinque di loro sono morti proprio in questa abbazia nel corso dei secoli. Altri moriranno qui, attirati da una potenza occulta, a meno che questa ragazza non sia l'ultima della stirpe. Non possiamo trattare cose del genere, amico mio. Sono le Forze dell'Oscurità. Il monaco Dranwold quando morì scagliò una maledizione di vendetta eterna sul suo assassino e i suoi successori. La maledizione ha sempre colpito. Scoppia sempre la tempesta, una terribile tempesta in cui l'anima di Cleggy e la maledizione di Dranwold sono ancora in lotta. Ma è sempre un Cleggy che perde.» Posò una mano gentile sul mio braccio. «Dalle memorie delle antiche morti posso immaginare che cosa deve essere accaduto. Voi siete stati indirizzati da potenze invisibili alla cripta dove ci sono gli incartamenti dell'abbazia. Là la ragazza ha letto la leggenda. Poi, forse, lei ha immaginato di aver visto il fantasma dello stesso Dranwold che pregava all'altare. Infine, quando è stata abbattuta dove lo stesso Dranwold è morto, la tempesta si è calmata e la campana ha cessato di
suonare.» «Non è vero! Non è vero niente!», gridai improvvisamente. «È vero», dichiarò con calma. «Implacabilmente vero, ma in una dimensione che né voi né io potremmo mai comprendere da qui all'Eternità.» «Qualcosa di umano ha azionato quella dannata campana», gridai. «Non era una delle campane ordinarie, aveva un suono differente... Io dico che Enid Cleggy è stata assassinata: forse il fulmine era un lampo di magnesio o qualcosa d'altro. Io voglio vedere l'interno del campanile della "Campana del Giudizio". È l'ultimo nascondiglio e la porta è chiusa a chiave.» Lui sorrise gravemente. «La potenza che ha rimesso l'incartamento sullo scaffale ha suonato la campana», rispose. «Cosa sapete dell'incartamento?», gli chiesi. «Lo so perché è sempre accaduto nello stesso modo. Tuttavia il vostro desiderio sarà esaudito. Solo un momento.» Scese e prese una grossa chiave, ritornò e la girò nella serratura della porta, La porta si aprì. Ma anche questo, l'ultimo possibile nascondiglio, era vuoto, «Per il mondo», affermò il Vicario, «la signorina Cleggy è morta a causa di un fulmine. Ma noi sappiamo che è stata la vendetta a colpirla. Sottolineo questo punto perché vi sappiate regolare all'inchiesta. Vedete, nessuno crederebbe alla verità.» In quel secondo mi resi conto di quanto avesse ragione; capii cosa aveva voluto dire quando aveva affermato che la stessa potenza aveva rimesso a posto l'incartamento. Perché non c'era alcuna campana. Mi voltai attonito e riuscii a dire: «Non c'è campana?». «Non c'è mai stata nessuna campana», ribatté il Vicario. «Nessuno sa dove suoni veramente e chi l'azioni.» ROY TEMPLE HOUSE La testa alla finestra Nella galleria d'arte di una città della Germania settentrionale, è esposto un fosco dipinto ad olio che rappresenta due italiani che tendono un agguato a un terzo. Vi racconterò la storia del quadro. Negli anni Novanta del secolo scorso, in una casetta isolata circondata
da un vigneto, nei dintorni di Roma, viveva un giovane pittore tedesco. Una notte, una bella notte illuminata dalla luna, dopo qualche ora trascorsa in città a bere con due o tre amici in un'osteria, il giovane faceva ritorno a casa. Era mezzanotte all'incirca, e il giovane doveva camminare ancora per una certa distanza oltre la fine della strada principale, attraverso una stradina che correva costeggiata da alti muri. Non percorreva mai questo viottolo di notte senza provare una certa apprensione. Era povero, non portava mai gioielli, e la sua modesta mantellina e il cappello floscio a tesa larga erano molto simili agli abiti dei suoi modesti vicini e non potevano far pensare a un uomo facoltoso; inoltre, non aveva tresche sentimentali a Roma e dunque non c'era motivo di temere un agguato. Il giovane pensava spesso alla sua fidanzata in Germania e, quasi sempre, portava una sua lettera nella tasca interna della giacca, a sinistra, proprio sopra al cuore. Mentre tornava a casa, aveva l'abitudine di fischiettare per darsi coraggio, di parlare da solo a voce alta, di uscirsene di tanto in tanto in esclamazioni come «È certamente così!» oppure «Credo proprio che farò in questo modo!». E, ad intervalli, richiamava il suo cagnolino, un pointer che non si allontanava mai molto dalle calcagna del padrone. Portava sempre con sé un revolver anche se, da quando l'aveva acquistato, ed erano passati molti anni, non aveva mai avuto occasione di utilizzarlo. Eppure, quando giungeva al cancello del proprio giardino, non mancava mai di scoprirsi un fremito di apprensione finché le dita leggermente tremanti non avevano girato la chiave nella serratura del cancello. Credeva quasi di vedere una sagoma imponente stagliarsi dietro l'angolo e muovergli incontro minacciosamente. Prima di arrivare al cancello, invariabilmente aveva già la chiave in mano, e spingeva sempre la chiave nella serratura con una fretta nervosa. Nelle notti buie, poi, con l'altra mano accostava alla serratura l'accendisigari. Quindi chiudeva rapidamente il cancello dietro di sé, apriva con uguale precipitazione la porta di casa, accendeva la candela che lo attendeva a sinistra della porta sul pavimento piastrellato irregolarmente, cercava la porta che conduceva alle camere del pianoterra - che erano tutte disabitate tranne la cucina e utilizzate come depositi per i suoi attrezzi di lavoro - e saliva i gradini scricchiolanti fino al piano superiore, dove si trovavano il suo ampio studio e la piccola camera da letto. Questa era poco più di un'al-
cova, e la sua porta rimaneva sempre spalancata sullo studio cosicché, stando a letto, poteva vedere la spaziosa finestra e il cielo stellato. Quella sera particolare, il suo ritorno a casa non si era svolto senza qualche inquietante incidente. Non che fosse accaduto qualcosa di preciso, e, in ogni caso, non avrebbe attribuito molta importanza a quegli insignificanti avvenimenti, se la strana piega presa dalla conversazione nel gruppo di artisti non lo avesse messo un po' in apprensione. In un sentiero costeggiato da alberi a poche centinaia di metri dal cancello del suo giardino, il cane si era fermato e aveva abbaiato furiosamente. Era vero però che il cane era nervoso quanto lui e spesso si eccitava per nulla. Un po' prima, mentre l'artista lasciava la strada principale, un uomo dall'aspetto e dai modi ambigui, in abiti da lavoro sbrindellati, gli aveva chiesto come raggiungere la Valle San Giorgio, una piccola vallata solitaria con una cappella al centro, una specie di gola che si apriva alle spalle e ai piedi del promontorio su cui sorgeva la sua casa e che nessun essere umano ragionevole avrebbe pensato di visitare a quell'ora. Poi, mentre percorreva il viottolo chiuso da alti muri, avrebbe giurato di aver udito dei passi dietro di sé. L'impressione era così forte che si era voltato, guardandosi indietro, più di una volta. Ma non si vedeva nessuno, e gli sembrava di udire i passi solo quando camminava. Doveva essersi trattato dell'eco del suo stesso cammino nel misterioso silenzio della notte. Infine, a una svolta della stradina tortuosa, era arrivato improvvisamente a pochi metri da un uomo che andava nella sua stessa direzione, ma più lentamente. L'uomo si era voltato e lo aveva guardato, poi si era allontanato senza fretta per un sentiero che si diramava dalla stradina. Il pittore aveva solo intravisto la faccia barbuta dell'uomo. Ma il suo occhio d'artista aveva colto nella cornice squadrata delineata dal chiaro di luna la particolare andatura dondolante di quell'individuo nonché l'ombra ondeggiante che aveva distintamente proiettato sul muro prima di svoltare nel sentiero. Quando lui stesso era giunto all'altezza del sentiero e aveva scrutato timoroso il buio, l'uomo era già scomparso. Non c'erano edifici lungo il sentiero, e per un buon tratto si vedeva chiaramente. Sembrava che lo sconosciuto fosse stato ingoiato dalla terra. Oppure si era rannicchiato dietro un cespuglio. Ma perché avrebbe dovuto farlo? Era strano. Per qualche minuto il giovane pittore aveva provato un forte disagio. Poi, di colpo, in lui aveva preso il sopravvento l'artista. Realizzò che la figura e il comportamento del viandante con la barba erano proprio quelli
che aveva in mente per un uomo in una violenta scena notturna che progettava di dipingere, e rimpianse di non aver visto più distintamente la faccia dell'uomo. Cominciò ad immaginare degli schizzi di ciò che ricordava del volto e della figura dello sconosciuto e, tutto preso da questi piani, dimenticò completamente la sua apprensione... finché il suo cane non prese ad abbaiare freneticamente all'imbocco del viale. Arrivato a casa, il pittore aveva preso da un angolo lo schizzo preliminare, l'aveva sistemato su un cavalletto e, col carboncino, aveva rapidamente delineato i contorni dell'uomo con la barba. In origine aveva progettato di fare di quella persona l'aggressore in un agguato. L'aveva immaginato nell'atto di irrompere dal suo nascondiglio dietro un muro e correre con la spada sguainata contro il rivale in amore che aveva appena salutato una donna presso il cancello di un imponente palazzo. Ma una misteriosa influenza sembrava guidarlo a un cambiamento nel suo disegno. L'uomo con la barba doveva assolutamente diventare la vittima, assalita da due uomini. Il pittore prese un altro foglio e disegnò la nuova scena. Stranamente, era come se la vedesse con estrema decisione. Sapeva esattamente dove collocare ciascun personaggio, come delineare ogni movimento. Ma il volto della vittima, l'uomo con la barba la cui vita era la posta di quei malvagi assassini, non gli appariva chiaro. Alla fine si stancò di provare, si svestì, e andò a letto. «Domani», disse a se stesso, «quando sarò fresco e riposato, riuscirò a pensarci meglio.» Si addormentò subito e dormì profondamente. Ma, durante la notte - non aveva idea del tempo trascorso - si levò nel letto con la precisa sensazione di aver udito qualcosa: un grido, un richiamo, o delle voci che parlavano insieme. Si mise in ascolto. Silenzio assoluto. Se proprio aveva udito qualcosa, doveva essere accaduto in sogno. Gli sembrava di aver sognato, e che il sogno fosse stato inquietante, allarmante. Ma non riusciva proprio a ricordare di che cosa si trattasse. Stava per sdraiarsi di nuovo, quando il suo sguardo cadde nello studio, immerso nella luce della luna che proveniva dall'ampia finestra. Vide il suo cane fermo al centro della stanza, con il muso rivolto alla finestra, che guardava e ascoltava assorto, senza abbaiare. Non aveva mai visto l'animale comportarsi così in precedenza. Il pittore lo chiamò piano. Il cane non diede segno di averlo udito. Non si mosse minimamente dalla posizione di assorto immobilismo. Allora il pittore sollevò lo sguardo verso la finestra. Sulle prime gli sembrò di stare ancora sognando. Scostò le lenzuola, fis-
sò i vetri, si stropicciò gli occhi con le mani e guardò ancora. Non potevano esserci più dubbi su quello che i suoi occhi vedevano. Dietro i vetri appariva il volto dell'uomo con la barba che l'aveva così a lungo tormentato prima che andasse a dormire. Sembrava che si fosse arrampicato fin lassù oppure si trovasse su qualcosa che l'aveva sollevato all'altezza della finestra del secondo piano. La faccia scabra, con i capelli e la barba arruffati, era indubitabilmente quella che aveva intravista poche ore prima tornando a casa. Era orribilmente contratta. Gli occhi apparivano spalancati e fissi, le labbra aperte e tirate: sembrava quasi che l'uomo stesse emettendo un terribile grido d'aiuto, ma non si udiva alcun suono. Sulla tempia destra c'era una brutta ferita, su cui era attaccato un ciuffo di capelli intrisi di sangue che ancora scorreva sul volto. Le mani non si vedevano, le braccia ricadevano supine dalle spalle. Mentre studiava la figura con un po' più di calma, al pittore sembrò quasi che qualcuno avesse spinto un morto dal basso fino alla finestra. Poi, di colpo, silenziosamente, l'orribile apparizione svanì, e il giovane vide gli alberi e il cielo quieto dietro e sopra di loro. In quel momento i muscoli del cane si distesero dalla posizione tesa all'osservazione. Corse dal suo padrone, si accucciò contro di lui come per cercare protezione, e girò la testa verso la finestra. Poi sedette accanto al pittore con un'aria di attesa, esattamente come era solito fare quando vedeva l'artista prendere cappello e soprabito per uscire. Per un attimo l'artista sconvolto non poté fare altro che fissare il rettangolo illuminato dalla luna dove era apparsa la spettrale figura. Poi si accorse del comportamento del cane e gli parlò. Quando il piccolo animale notò che aveva attirato l'attenzione del padrone, si alzò, agitò la coda e guardò con aria di attesa verso le scale. L'artista prese il revolver e andò alla finestra. Il paesaggio era calmo e silenzioso nel chiaro di luna. Non si vedeva né si udiva nulla. Se una banda di assassini avesse tenuto un uomo morto davanti alla sua finestra un minuto o due prima, non avrebbero certo avuto il tempo di scomparire in quel modo. Le imposte della finestra di sotto erano sprangate. Non c'era nulla su cui arrampicarsi. E, fatta eccezione per la sensazione di aver udito qualcosa in sogno, il pittore era sicuro che dall'esterno della casa non fosse giunto alcun suono. Il cane correva avanti e indietro tra l'artista e le scale. Gli animali hanno un istinto straordinario, e il pittore considerò seriamente l'idea di fare un
giro del giardino. Ma poi rifletté che la cosa si sarebbe dimostrata inutile, nel migliore dei casi, e nel peggiore avrebbe potuto risolversi in un danno. Se i banditi erano nei paraggi, che cosa poteva fare contro di loro un giovane intimidito, armato solo di un vecchio revolver che non aveva mai fatto fuoco? Tutto quello che poteva fare era vegliare la casa fino all'alba. Chiuse la finestra, e ordinò al cane di ritornare alla sua cuccia. Un attimo prima di chiudere la finestra, aveva avuto l'impressione di udire dei passi che correvano rapidi sul lastricato proprio sotto la finestra. La riaprì e guardò giù. Non si vedeva nessuno, e non si udiva nulla. Rimase fermo accanto alla finestra, sforzandosi di riprendere il controllo su se stesso. Si chiese se per caso non fosse malato. Sapeva che malesseri fisici possono produrre allucinazioni. Aveva cercato così disperatamente di visualizzare la testa che gli serviva per il quadro, che quello sforzo, unito all'effetto del pesante vino di Falerno che aveva bevuto, doveva aver provocato uno scombussolamento psichico che gli faceva avere delle visioni e udire dei suoni di cui era responsabile unicamente la sua immaginazione. Si era quasi convinto di aver trovato la chiave dell'enigma, quando il suo sguardo cadde sul cane, che si era ubbidientemente disteso sul cuscino, ma aveva ancora gli occhi spalancati e fissi. Gli sembrò che qualcuno gli mormorasse nel buio: «E che cosa ne dici del cane? La tua teoria sulle psicopatie spiega anche il suo strano comportamento?». All'improvviso, l'ansia e la perplessità del pittore cedettero all'impazienza. Era stanco e nervoso. Tutta quella fastidiosa faccenda lo angustiava. Si lasciò nuovamente cadere sul letto e, in uno stato d'animo quasi di sfida, si liberò di tutti gli interrogativi, immergendosi in un sonno pesante. Fino al mattino non accadde nulla. Quando i raggi di un sole splendente avvolsero la stanza al posto del pallido chiaro di luna, era pronto a ridere dell'intera faccenda come di un sogno da ubriaco, e ad interpretare il comportamento del cane come un'altra dimostrazione dell'inspiegabile nervosismo di cui l'animale aveva dato prova in svariate occasioni. Sedette davanti al cavalletto e continuò a lavorare seriamente al suo nuovo schizzo. Scoprì che ora conosceva ogni lineamento dell'uomo con la barba, e il lavoro procedette senza intoppi. Era straordinaria la vividezza con cui il volto e la figura dell'uomo nascevano sotto le dita ansiose dell'artista. Quello sarebbe stato il suo quadro più bello, ne era sicuro. Mentre lavorava, udì qualcuno picchiare alla porta di ingresso, al piano-
terra. Tracciò ancora qualche rapida pennellata, si tolse in fretta le pantofole, infilò le scarpe e scese le scale. Era senz'altro la contadina, pensò, che ogni mattina gli portava il latte, e mai alla stessa ora. Se proprio non voleva rassegnarsi a un orario fisso, non c'era motivo che si preoccupasse di farla attendere un minuto o due. Quando aprì la porta, non c'era nessuna donna e nessun bidone del latte. Fece un giro fino alla fontana dove la lattaia si fermava spesso a far bere il suo asino. Mentre si avvicinava alla fontana, udì delle voci. Oltrepassati i cespugli che gli avevano impedito la vista del luogo, scoprì un gruppo di persone che discutevano animatamente e gesticolavano a proposito di qualcosa che si trovava per terra. C'erano anche due poliziotti. «È accaduto qualcosa?», chiese, unendosi al circolo. «Hanno ucciso un uomo stanotte», disse uno dei presenti. Un poliziotto chiese al pittore se avesse visto o udito qualcosa che potesse far luce sul mistero. Stava per raccontare la sua storia di spettri, quando rifletté che il racconto era insensato, e si limitò a rispondere che, mentre faceva ritorno a casa a tarda notte, aveva visto un uomo davanti a lui prendere per il sentiero, e che prima di lasciare la strada principale, un altro gli aveva chiesto la via per la Valle San Giorgio. «Riconoscereste l'uomo che ha preso il sentiero, se lo vedeste di nuovo?» Il pittore non ne era sicuro. Ma pensava di ricordare certi particolari. Per esempio, ricordava con molta precisione che aveva la barba. Il poliziotto alzò rapidamente lo sguardo. «È questo l'uomo?», chiese, e sollevò il sacco che copriva la testa della forma prostrata. Il pittore indietreggiò terrorizzato, e per un attimo gli venne completamente meno la voce. Era la testa che aveva visto alla finestra, con gli occhi ancora spalancati e fissi, i capelli sporchi di sangue sulla tempia sinistra, la barba incolta e arruffata. L'espressione di angoscia e di richiesta di soccorso era ancora dipinta negli occhi che fissavano quelli del pittore, come se il misfatto non fosse stato ancora commesso e l'uomo lo implorasse di venire in suo aiuto. E, mentre il vivo contemplava affascinato e inorridito gli occhi del morto, la loro espressione sembrò mutarsi in uno sguardo di rimprovero. Il cagnolino era stato pronto a lanciarsi in aiuto della vittima di una banda di assassini, ma il suo padrone aveva dimostrato di essere troppo stupido, troppo egoista, troppo codardo, per soccorrere un essere umano in perico-
lo. Il pittore si riprese e disse cupo al poliziotto: «Sì, credo che fosse lui». «Lo conoscevate?», chiese uno dei vicini con cui il pittore aveva una conoscenza superficiale. E quando il pittore scosse la testa, il loquace italiano continuò a cinguettare: «È molto meglio che i banditi abbiano ucciso quest'uomo piuttosto che un gentiluomo come voi. Lui era...». E con espressione compassionevole si toccò la fronte col dito. Dalla discussione generale che seguì, l'artista apprese che il morto, un uomo che per una buona parte della vita era stato pastore sui Colli Albani, era uno strano sognatore, un tipo che pretendeva di avere il dono di una seconda vista, di predire il futuro, e di guarire le malattie con la preghiera. Le persone presenti raccontarono varie storie a proposito di misteriose dimostrazioni dei suoi poteri psichici, soprattutto di una volta in cui aveva descritto con grande dovizia di particolari un incendio che stava divampando in quel momento in una città lontana molte miglia, e di cui non poteva in alcun modo essere a conoscenza. «È strano», disse pensieroso uno dei vicini, «che non avesse previsto che cosa gli sarebbe accaduto, quando è uscito ieri sera!» «Forse l'ha previsto», intervenne uno dei poliziotti, che stava esaminando un foglio di carta trovato in una tasca del morto. Su questo foglio liscio e pulito, che si trovava in un mucchio di carte vecchie e consumate, c'era scritto con molta cura: Sto per percorrere una strada difficile. Forse non tornerò indietro. Ma salverò la vita di un altro uomo. Gli assassini furono catturati pochi giorni dopo. Erano due vagabondi dalle note abitudini criminali, che avevano già riportato parecchie condanne. Quando furono interrogati, confessarono di aver avuto l'intenzione di uccidere il pittore, per depredare indisturbati la sua casa isolata. Ma, nella fretta, avevano scambiato l'uomo con un altro vestito in modo molto simile. Avevano pensato, dissero, di fare irruzione nello studio quella stessa notte, ma erano rimasti così terrorizzati quando il pastore morente aveva richiamato la loro attenzione sul grossolano errore commesso e li aveva solennemente messi in guardia dal mettere in atto il loro piano omicida contro il pittore, che erano fuggiti a gambe levate in preda al panico. Ed ecco perché il quadro che rappresenta la scena dell'italiano ritenuto folle che salva la vita del giovane pittore tedesco, è esposto oggi in una
galleria d'arte in Germania. GENE LYLE Il presagio John McCassey rifiutava di ammettere, perfino con se stesso, che stava scappando da qualcosa di così intangibile come un presagio. Doveva prendersi un periodo di riposo dalla tensione del lavoro. Questa era certamente una valida scusa. Ma era anche una razionalizzazione, perché McCassey non si sarebbe allontanato solamente per un riposo. Ad ovest, dove il sole tramonta, dove mai nulla accade, era dove John McCassey voleva andare. Come al solito era impaziente, e aveva cominciato con un aereo di linea, che però non lo portò oltre Santa Fe. Dopo essere atterrati al crepuscolo in quella sonnolenta città, il volo fu annullato a causa di una tempesta. Così l'impiegato gli diede un posto sul primo treno in partenza, al quale fu agganciato un vagone speciale che portava venti o più congressisti per un giro di ispezione agli equipaggiamenti navali. McCassey era un uomo magro, teso come una corda di violino, con un naso appuntito e occhi inquieti che balzavano continuamente da un oggetto a un altro. Nello scompartimento illuminato vivacemente gettò il soprabito gocciolante sulla reticella e si buttò a sedere accanto a una persona robusta. Il tepore, e la confusione che gli altri passeggeri facevano nel sistemarsi, gli diedero un lieve senso di pace. Ma profonda in lui indugiava l'idea che quella sensazione lo stava ingannando. Un odore di ospedale attirò la sua attenzione sull'uomo che gli sedeva accanto. L'uomo, che vestiva in grigio chiaro, aveva grosse labbra, spalle ampie, ed era di mezza età. Aveva corte mani muscolose ed avrebbe potuto essere un ricco coltivatore salvo che McCassey, pensando sempre in termini di titoli di giornale, scoprì una piega familiare intorno agli occhi. McCassey lo riconobbe come il più pubblicizzato chirurgo del paese. Guardava cupamente fuori dal finestrino striato di pioggia. Seguendo un impulso, McCassey si presentò. «Sono il direttore editoriale del Chicago Call», disse. «Come fa a eludere i cronisti mentre quel caso Brandt è ancora in prima pagina?» Il chirurgo corrugò la fronte. Le sue spesse labbra tremarono. «Il piccolo Brandt se la caverà», disse. «Era davvero semplice: abbiamo solo allentato la pressione nel suo cervello. Non credo soffrirà più di epi-
lessia.» «Ma è una cosa rivoluzionaria, è vero?», insisté il direttore. «Forse. Era già stata pensata. Il tutto richiedeva lo sviluppo di una tecnica. Senta un po'», disse improvvisamente, «le dirò perché ho lasciato la città. Io sto bene...», la voce divenne un fioco sussurro, «sto portando mia figlia a casa da sua madre a San Diego.» Suonò come un problema privato, e McCassey non ne parlò più. Inoltre, sentiva distintamente qualcosa che gli serrava la gola. Stava quasi aspettando questo sintomo, temendolo. «Lei non crede alle premonizioni, vero?», domandò. Qualcosa nella sua voce fece sì che il chirurgo lo guardasse con curiosità. «C'è un'abbondanza di testimonianze storiche», disse il chirurgo. «Streghe, indovini, quella specie.» «Intendevo gente contemporanea», disse McCassey. «Si raccontano casi del genere. Ma non scommetterei su nessuno di essi.» «No, naturalmente no», disse McCassey. «Neanche io. Ma ecco qualcosa di strano. Ogni volta che c'è una grande notizia in arrivo, diverse ore prima che accada, comincio a sentirmi teso.» Il chirurgo meditò per un istante. «Eventi che preludono una notizia importante, movimenti di truppe ai confini, per esempio, potrebbero metterla in guardia prima che accadano, non pensa?» «Non è così», disse McCassey. «Non ho mai alcuna idea di che cosa stia accadendo e dove. Questo è il guaio. Entro in contatto con questi presagi malgrado me stesso. Non mi hanno mai abbandonato. Ma ogni volta la tensione mi lascia fiacco come uno straccio bagnato.» McCassey divenne più inquieto mentre il viaggio continuava. Gli altri passeggeri gli lanciarono uno sguardo. Il chirurgo si chiese se ci fosse un altro posto dove sedersi ma, guardando, si rese conto che nessuno glielo avrebbe ceduto. «Avevo uno di questi presagi quando ho lasciato Chicago questa mattina», continuava McCassey. «Mi spaventa il fatto che sia la reale ragione della mia partenza. Pensavo di poterlo sfuggire. Ma non posso... Sta diventando più forte.» L'aspro suono del fischio del motore, che risuonava incongruamente come il corno di una vecchia automobile, segnalò un passaggio a livello.
Le luci sporadiche di una città di montagna passarono in un lampo fuori: alberi ed edifici con la struttura in legno brillavano nella pioggia. McCassey tirò indietro la manica e gettò uno sguardo all'orologio. «Stiamo arrivando a Albuquerque», disse affannosamente. «Manderò un telegramma.» Suonò per far venire un facchino e chiese dei moduli per telegramma: dopo averli ricevuti, scribacchiò un messaggio. Il chirurgo osservava le parole apparire: HYLLIS GARDNER - REDATTORE CAPO DEL CALL - CHICAGO TENERE LINEE APERTE - TUTTI PRONTI PER EDIZIONE STRAORDINARIA Questo fu tutto. La penna di McCassey lacerò il foglio di carta gialla quando graffiò la sua firma diagonalmente sul fondo. «Me lo farete credere per davvero», disse il chirurgo. Perle di sudore apparvero sulla fronte di McCassey. «Alcune volte, come questa», disse, «qualcosa continua a guidarmi. Voglio cominciare a organizzare la storia, passando al setaccio i fatti, scrivendo gli indizi. Ma... ma la storia non è ancora accaduta!» Il treno rallentò nella stazione. McCassey sollecitò il facchino con il suo telegramma. Giocherellò con la penna durante i pochi minuti di sosta, poi il treno riprese le sue vibrazioni moderate. Ormai McCassey era incapace di respingere quella sensazione di catastrofe incombente. Non aveva niente a che vedere con la logica. Era esasperante come un ricordo che uno tenta di richiamare alla memoria e non ci riesce. E come il ricordo di una cosa che era accaduta, era comunque irrevocabile. Era la forza dirompente del fato. Doveva accettarlo come un fatto compiuto, che al tempo stesso non lo era. Tali pensieri portano gli uomini alla follia. Guardò di nuovo l'orologio. «Ho spedito il telegramma mezz'ora fa», disse ad alta voce. La sua voce fece smettere di colpo al chirurgo di fantasticare. «Perché sta tremando come una foglia?», disse l'uomo robusto. «Devo fermare questo treno!», rispose McCassey tutto agitato. Cominciò ad alzarsi, ma il chirurgo afferrò le sue spalle sottili e lo fece sedere. «Ha bisogno di un sedativo», disse il chirurgo. «Lei è sulla soglia dell'isteria.» McCassey non fece resistenza. Come un uomo col terrore del tavolo o-
peratorio, diede il benvenuto al calmante che avrebbe annullato la sua mente. Il chirurgo allentò la presa e tirò fuori un astuccio di medicine. Prese un bicchiere di carta con dell'acqua e porse a McCassey una pillola. «Ecco», disse. «Si sentirà meglio.» McCassey inghiottì la pillola avidamente. Il ritmo del treno si diffuse in McCassey quando la droga arrivò a calmare i suoi nervi lacerati. Il chirurgo sospirò, e crollò nella poltrona come se fosse esausto. Vedere come quell'uomo tanto pubblicizzato sembrasse flemmatico colpì McCassey, e questo gli parve strano. Per un po' McCassey rimase consapevole dell'imminenza del disastro senza più preoccuparsene. Poi, persino la consapevolezza lo lasciò. Una confortevole sonnolenza si insinuò in lui. Sbatté le palpebre, perché pensava di vedere una giovane donna che si piegava sulla spalliera della sua poltrona, parlando al chirurgo. Forse era un'illusione dei suoi occhi. Non ne poteva essere certo. Eppure, divenne consapevole di alcuni lineamenti. Mancava di trucco, e la sua pelle era come spettrale marmo blu: aveva una bellezza sensuale, tutta da baciare. La sua voce arrivava chiara e simile a una campana. McCassey si costrinse a concentrarsi. Distingueva le parole. «Papà, Papà! Ascoltami!», sembrava supplicare. Stranamente, il chirurgo non l'ascoltava. Sonnecchiava, la testa piegata sul petto largo. La ragazza sembrava ancora ansiosa. «Perché non lo scuoti?», domandò McCassey. Agitata, insicura, la ragazza si guardò intorno. Vide McCassey, e c'era terrore nei suoi occhi. «Ho provato», disse con disperazione. «Non serve a nulla. Ma devo dirgli qualcosa... Devo! Forse lei...» E allora una strana percezione arrivò a McCassey. Era come un uomo in un sogno che non può fare alcune semplici cose ordinarie. Il chirurgo era al di fuori del regno di questo sogno. «Credo di non poterlo fare», disse McCassey. «Ma aspetta... Tenterò.» Prese un taccuino e una penna e glieli porse. «Scrivi quello che vuoi.» Lei afferrò la penna e scrisse con agitazione. «Oh, presto... Gli faccia leggere questo!» Quando McCassey strappò la pagina dal taccuino, vide cosa aveva scritto. Ferma il treno, lesse. Un ponte è fuori uso. Alice. Alzò lo sguardo, ma la ragazza non c'era più. Con un improvviso brivido
l'imminente catastrofe gli ritornò alla memoria. Questa era la cosa che il futuro aveva nascosto! Si rialzò vacillando e corse inciampando verso il passaggio fra le due carrozze. Trovò la fune del freno di emergenza e la tirò con forza. I freni stridettero, i giunti cozzarono. McCassey cadde a terra. Sentì il treno fremere fino a fermarsi. E poi si chiese se fosse stato matto a far ciò. Non aveva più quella sensazione di pericolo imminente. I passeggeri eccitati gli passarono accanto. McCassey si tirò su, si fece strada attraverso il passaggio e giù per gli scalini. La gente correva verso la locomotiva e i loro piedi risuonavano sulla ghiaia bagnata della massicciata. McCassey corse accanto alle due locomotive, sentendo il calore delle loro grandi ruote motrici. La folla si era radunata sui binari: nella luce dei fari non più di una decina di metri avanti. Si fece strada spingendo. Vide l'accesso di un ponte a traliccio. Le travi ondeggianti pendevano cascanti in un buio baratro lì dove era stato il ponte. Da non lontano giungeva il rombo di acque torrentizie. «Ecco l'uomo che ha fermato il treno!», urlò qualcuno. La voce suonò impaurita. La gente si affollò intorno a McCassey. Un uomo mostrò un distintivo nel palmo. Era del Servizio Segreto, e McCassey ricordò i congressisti nel loro vagone speciale. A margine della folla McCassey notò il chirurgo. «Dev'essere stato spazzato via solo pochi minuti fa», disse l'uomo del Servizio Segreto. «Come lo sapeva?» McCassey si strofinò via la pioggia dalle sopracciglia. Chiamò il chirurgo. «Sua figlia mi ha dato un biglietto», McCassey disse al chirurgo. «Il biglietto diceva che il ponte non c'era più.» Il grosso medico lo fissò, e le sue labbra spesse si spalancarono debolmente. Sembrava pressoché atterrito. «Di cosa sta parlando?», chiese. «Il suo nome era Alice», disse McCassey. «Ecco...», allungò la mano nella tasca, ma ne uscì vuota. «Devo aver perso quel biglietto», disse. Il sangue era defluito dal viso del chirurgo. Era grigio. «Alice era il suo nome», disse. «Ascolti», disse, afferrando la manica di McCassey, «lei è... lei è su, nel vagone bagagli... ma è morta!»
GANS T. FIELD La casa infestata Mi introdussi in una casa, ma quella casa non era una casa. A.A. Milne Erano più di sei mesi che il Giudice Pursuivant si riprometteva di visitare un certo casolare, un vecchio mulino abbandonato su cui correvano dicerie tanto bizzarre, ma, ahimè, per l'Illustrissimo Signor Giudice non era mica tanto facile trovare uno spicchio di tempo da dedicare alle cose che più gli andavano a genio. Passò l'autunno, e venne un gelido inverno. Le feste di Natale, Pursuivant le trascorse a Salem, non molto festosamente per la verità, prestando la sua assistenza alla vedova di un amico, che stava passando i suoi guai per rientrare in possesso di una proprietà. A Capodanno si trovava a Harrisonville, su invito degli amici de Grandin e Trowbridge, che desideravano il suo consiglio nel tradurre certi vecchi documenti olandesi che sarebbe stato meglio non tradurre affatto. Al ritorno, puntando verso sud-ovest, diretto verso i patri lari, passò per Scott's Meadows; trovandosi sul posto, sebbene stesse già annottando e nell'aria vi fosse più di un presagio di neve, non seppe resistere alla tentazione di visitare seduta stante il Mulino Criley. Il padrone della farmacia, situata sul cosiddetto «corso» della cittadina, gli fornì le indicazioni sull'itinerario da seguire. Guidando con cautela, il Giudice infilò una ripida carrareccia dal fondo stradale in condizioni disastrose, serpeggiante tra colline dai cocuzzoli incoronati di alberi scheletrici, poi prese per una specie di mulattiera selciata con lastroni di pietra. Come Dio volle, arrivò a un ponticello traballante, gettato sulle acque torbide e tumultuanti di un torrente: era giunto a destinazione, finalmente. Gli bastò un'occhiata allo stabile illuminato dagli ultimi raggi del sole per dirsi che i casi erano due: o aveva sbagliato strada, oppure aveva procrastinato troppo la sua visita. Gli avevano parlato di una costruzione stretta di base, alta e cadente: si trattava delle rovine di un antico mulino, vecchie di duecento anni, ma che avevano l'aria di averne duemila. Quella villetta, invece, era pressappoco il contrario: nuova di zecca, rivestita di assicelle di legno marrone, bassa e
asimmetrica, con una veranda a vetri e larghi finestroni. Avrebbe dovuto essere un posticino molto ridente, ma in realtà non lo era. Pursuivant superò il ponticello e fermò la macchina davanti alla porta d'ingresso; scese e bussò. Fiocchi di neve cominciarono a sfarfallare intorno a lui. La luce si accese nella stanza sul davanti e, di lì a poco, un uomo aprì la porta: era piccolo, magrolino, con un ciuffo di capelli grigi che gli ricadeva sulla fronte e un volto scavato e rugoso che lo faceva somigliare al fu Will Rogers. Indossava giacca da camera e pantofole. «Sì?» Il tono era quasi minaccioso. «Voglia scusarmi», disse Pursuivant, accennando un inchino con le sue spalle massicce. «Ma questo non è il Mulino Criley? La casa frequentata dai fantasmi?» «Fantasmi?!», fece l'ometto sulla soglia. «Ecco... Io... Ma che storia è questa?» Dopodiché, non rimaneva che una cosa da dire. Pursuivant scrollò i baffoni fulvi per far cadere i fiocchi di neve, e disse: «Scusi il disturbo. A quanto pare ho sbagliato». D'improvviso, l'altro cambiò atteggiamento. «Oh, no, signore, lei non ha sbagliato. Questo era il posto che lei cerca. Le dirò, io ho costruito la casa sul terreno dove sorgeva il vecchio mulino. È da poco che è stata completata: mi ci sono installato alla fine di novembre... Senta: perché non entra? Mi scusi se prima sono stato scortese... Nervi, sa... Non avevo idea di chi potesse venire a bussare alla mia porta, così lontano dal resto del mondo...» La sua mano scheletrica si aggrappò a quella grande e robusta di Pursuivant. «Si accomodi, la prego! No, aspetti... Sta cominciando a nevicare; il garage è sul retro, e c'è posto per un'altra macchina, oltre la mia. È aperto; infili la sua auto là dentro, così poi possiamo prendere un aperitivo insieme, in santa pace. E magari, se vuole, può fermarsi a mangiare un boccone con me.» Desiderava proprio che Pursuivant si fermasse. Il Giudice lo guardò fisso con i suoi occhioni azzurri ingannevolmente candidi, poi annuì. «Grazie. Accetto con piacere.» Messa al riparo l'auto, il Giudice tornò indietro, mentre la neve infittiva. L'omino lo aspettava sulla soglia per fargli strada.
«Come ha detto che si chiama, scusi?» Il Giudice non l'aveva detto, ma fece finta di niente: «Pursuivant. Sono il Giudice Keith Pursuivant. Ho l'hobby dei posti infestati dai fantasmi». «Piacere. Io sono Alvin Scrope, giornalista a riposo, ex proprietario di un quotidiano di provincia, scapolo.» Nel frattempo erano entrati nel soggiorno, una stanza che aveva tutti i requisiti per soddisfare, in fatto di comfort, ogni e qualsiasi istanza anche del più esigente degli scapoli. Sofà e poltrone imbottiti, tappeti spessi, quadri vivaci, lampade disseminate qua e là, uno scaffale zeppo di libri. Malgrado tutto, però, non era una stanza allegra: così come nell'aspetto della casa all'esterno, mancava qualcosa. «Vorrà scusare il disordine», disse Alvin Scrope. «Il mio domestico mi ha piantato in asso il giorno di Capodanno, così ho dovuto arrangiarmi e sbrigare io i servizi di casa, in questi ultimi giorni.» Prese da un tavolinetto una bottiglia di whisky e il sifone della soda, preparò due highballs e porse un bicchiere a Pursuivant. «Avremo una nevicata coi fiocchi. Le consiglierei, se permette, di passare la notte qui.» Pursuivant poggiò su una sedia cappotto e cappello. «Lei è davvero molto gentile», disse, chiedendosi nel frattempo perché mai il suo ospite dapprima lo avesse quasi respinto in malo modo e poi si fosse fatto in quattro per farlo rimanere. Alvin Scrope diede una tiratina al ciuffo che gli ricadeva sulla fronte; poi, con una giovialità che suonava un po' forzata, proseguì: «Proprio come le dicevo, signor Giudice, la casa sorge esattamente dove prima c'era il vecchio mulino. Le piace?». Il Giudice incuneò la sua mole ragguardevole in una poltrona, poi bevve un sorsetto di whisky. «Come faccio a saperlo... Non l'ho ancora vista bene: sono appena entrato. E a lei piace, signor Scrope?» Altra tiratina al ciuffo. «Per dire la verità, nemmeno io lo so.» Bevve anche lui, prima di continuare. «Forse perché non ho termini di paragone: non ho mai avuto una casa tutta mia, prima. Ho passato la vita lavorando, e il giornalismo è un mestiere che tiene continuamente sotto pressione... Adesso, con tanto "tempo libero" a mia disposizione, mi sento come sperduto. Sa com'è... Ma è successo che, quando sono venuto da queste parti la prima volta e ho vi-
sto il mulino in rovina e i dintorni, ho pensato che questo fosse il posto ideale per costruirvi il mio ritiro.» «Ho sentito parlare del mulino e delle leggende connesse», azzardò Pursuivant, frugandosi in tasca in cerca della pipa. Come aveva sperato, il suo ospite diede subito la stura del racconto. «Mi risulta che la masseria fu costruita prima della Guerra di Indipendenza. Il proprietario era un mugnaio, un certo Criley; sposato, con due figli, un maschio e una femmina.» «Le rincresce se prendo qualche appunto?», domandò Pursuivant, estraendo di tasca penna e taccuino. «Continui, signor Scrope.» «Dunque, un brutto giorno scoppiò la guerra. Il mugnaio e suo figlio si arruolarono nell'esercito di Washington. Gli Inglesi sfondarono a New York, dopodiché ci fu un periodo molto duro di alterne vicende, per cui nessuno poteva prevedere se l'avanzata degli Inglesi sarebbe stata contenuta o se essi si sarebbero impadroniti anche del resto del paese.» Pursuivant annuì. Conosceva quella fase tragica, disperata, della storia della sua patria. Dopo la prima sconfitta dell'esercito americano, la guerra aveva assunto il perfido carattere della guerriglia, con incursioni di sorpresa, imboscate, tradimenti. Gli episodi di crudeltà erano stati numerosi da entrambe le parti. Nathan Hale e John Andre, due autentici gentiluomini, erano stati impiccati come banditi. Altre tragedie, a migliaia. Tutta la zona intorno a New York e una parte del New Jersey erano state teatro di gesta raccapriccianti, che avevano dato origine a racconti da far venire i brividi. Scrope proseguì: «Nello Stato di New York erano di stanza parecchi mercenari germanici originari dell'Assia: gli Assiani, li chiamavano, assoldati per combattere contro gli Americani, appunto». Pursuivant annuì di nuovo. Un suo antenato virginiano aveva combattuto a fianco di Washington, a Trenton. «Gli Assiani non erano dei combattenti molto valorosi», commentò. «Ogni regola ha la sua eccezione», ribatté recisamente Scrope. «Mi segue, sta prendendo appunti, signor Giudice? Ignoro il nome dell'assiano in questione, ma il suo aspetto ci è stato tramandato dai racconti sulle sue imprese. Un pezzo d'uomo, pressappoco come lei, penso. Grande e grosso. Nella sua patria, in Germania, era famoso come cacciatore. Probabilmente era anche un criminale, e forse per questo si era arruolato, per sfuggire alla Giustizia. Sia come sia, era in grado di battere qualsiasi americano e proprio sul terreno in cui gli Americani eccellevano: caccia all'uomo e tiro.»
«Questa mi pare un po' grossa», replicò Pursuivant. «Nelle truppe di Washington c'erano dei duri, con un lungo passato di lotte con gli indiani.» «L'assiano li eclissava, gli indiani. Si spogliava nudo come un verme, anche in pieno inverno, si dipingeva corpo e faccia coi colori dei Mohawk, e via che andava, combinando veri massacri. Tiratore infallibile, era un demonio anche nel maneggiare spada, ascia e coltello.» Scrope fece una pausa per spuntare coi denti un sigaro. «Seguire una pista, inseguire la selvaggina era un gioco, per lui che era capace di tenere a bada nello stesso tempo due soldati: anche di più, qualche volta. Piombava d'improvviso nelle fattorie e accoppava i civili, senza risparmiare né donne né bambini. Uno stato di servizio raccapricciante.» Nello scribacchiare sul suo taccuino, il Giudice se lo figurava, quel barbaro. Attraverso gli occhi della fantasia, gli sembrava di vederne il colorito ritratto: un colosso nudo, il corpo dipinto di strisce rosse e nere, una grinta dall'ossatura massiccia, sopracciglia spesse e biondissime a tettoia sugli occhi obliqui. Nella cintura, un assortimento di armi varie. Chissà se l'assiano aveva poi proprio quell'aspetto... Pursuivant caricò la pipa e ne infilò il bocchino sotto i baffoni. «Continui», incitò. «Le due donne, che erano rimaste sole nel mulino, odiavano e temevano quel bruto. Congiurarono ai suoi danni. Si finsero simpatizzanti con gli Inglesi e trovarono il modo di fare la sua conoscenza.» «Un bel fegato», commentò il Giudice. La sua fantasia gli presentò una nuova sequenza di scene. Probabilmente era stata la ragazza a fare i primi approcci: formosa, con le guance arrossate dal venticello pungente, un bel pomeriggio aveva finto di incontrare per caso, su un sentiero di campagna, il bestione sanguinario. In fatto di galanteria, il mercenario doveva aver avuto la mano pesante: certo non aveva mancato di esprimere la sua ammirazione con un ghigno inequivocabile del suo ceffo brutale. La ragazza, sforzandosi di non tremare, doveva aver ricambiato il sorriso, con una leggera riverenza. «Una sera fu invitato a pranzo al mulino», continuò Scrope. «L'assiano indossò la sua migliore uniforme...» Chissà che aspetto bizzarro doveva aver avuto quel beccaio teutonico, in uniforme di gala: brache bianche e uose che gli modellavano le gambe muscolose, giacca rossa, con bavero bianco e bottoni lustri, che gli fasciava il torace muscoloso... E quanto incongruenti, i capelli incipriati e l'alto colbacco da granatiere!...
Scrope, nel continuare il suo racconto, stava avvicinandosi al punto culminante: «Non appena si fu seduto a tavola, una delle donne (non si sa se la madre o la figlia, i pareri sono discordi), gli piantò un trinciante da cucina nella schiena. In qualche modo le donne si liberarono del cadavere: forse lo murarono, o lo seppellirono in cantina, anche questo non si sa. Ma il suo fantasma tornò». «Quante persone lo hanno visto?» «Parecchie. La madre morì di spavento e la figlia si buttò da una finestra dell'ultimo piano, prima ancora che finisse la guerra. Il figlio si uccise poco tempo dopo essere tornato a casa, alla fine delle ostilità. Del padre non si ha notizia: probabilmente rimase ucciso in qualche combattimento. E così la famiglia fu liquidata. Il mulino restò abbandonato. Ma non è tutto: c'è un mucchio di altri aneddoti più recenti... Dieci anni fa, per scommessa, una ragazza di Scott's Meadows trascorse una notte tra le rovine. L'indomani vagava nei dintorni, completamente svanita: le aveva completamente dato di volta il cervello, non ragionava più.» «E malgrado ciò lei ha comprato il mulino?» «Già. Feci demolire completamente i vecchi muri e sulle fondamenta feci costruire questa casa. Beh, dico, dovrebbe bastare per mettere fuori combattimento qualsiasi fantasma, non le pare, dottor Pursuivant?» «In genere, chi costruisce in luoghi che hanno la reputazione di essere infestati dagli spettri, preferisce bruciare il vecchio edificio, incluse le fondamenta», rispose il giudice. «Dipende da quanto uno presta fede alle storie di fantasmi. Ho l'impressione che lei non la prenda in ridere...» Scrope addentò il suo sigaro con tanta forza che quasi lo spezzò in due. «Perché, lei ci farebbe sopra due risate, se nel corso di sei settimane due servitori tagliassero la corda senza preavviso? Se qualcosa la seguisse ogni volta che va in cantina, qualcosa di gelido e di furtivo che non appena lei si volta non c'è più? Se giorno e notte si sentisse eternamente irrequieto, come quando si assiste a un dramma di Ibsen o si legge Poe?... C'è poco da ridere, caro Giudice!» Pursuivant si sporse in avanti. «Lei pensa di vedere cose e udire suoni che la turbano?» «Esatto. Non che io abbia visto o sentito nel vero senso della parola: soltanto un sussurro, un'ombra nei cantucci poco illuminati, quando mi trovo solo. Vorrei proprio», e Scrope si fece più tetro, «professare una delle vecchie religioni tradizionali. Un prete, con campanella, messale e incenso, mi
tirerebbe su il morale.» «Sicuro», concordò Pursuivant. «Si dà il caso che io conosca una vecchia formula esorcistica. Gliela offro per quello che vale, anche se non sono un sacerdote: può darsi che funzioni come antidoto, o, perlomeno, che abbia un benefico influsso psicologico.» Dapprima Scrope lo guardò in cagnesco, poi sorrise. Ignorava tutto, sull'argomento. Pursuivant si affrettò a fornire una spiegazione razionale. «Non sto tentando di fare di lei un proselito delle scienze occulte, signor Scrope. Però mi sembra che un esperimento di rito simbolico possa servire a ridimensionare la faccenda e fornirle il gancio a cui appendere le sue preoccupazioni e scordarsele per il futuro.» «Magari, porco diavolo!», esplose quasi gridando Scrope. «Forza, signor Giudice. Si dia da fare!» Pursuivant posò sul tavolo pipa e bicchiere e si alzò in piedi. Anche Scrope si alzò dalla sua poltrona; nel far questo, indietreggiò e venne a trovarsi quasi davanti a una porta in ombra, che si apriva sul corridoio interno. Con tono solenne, il Giudice cominciò a declamare l'esorcismo: «O voi, Spiriti del Male, in nome di Colui che sta nei cieli, io vi proibisco di avvicinarvi al giaciglio e a qualsiasi altra cosa di proprietà di quest'uomo... Nel nome del Signore vi scaccio dalla sua dimora, vi proibisco ogni contatto con la sua carne, il suo sangue, il suo corpo e il suo spirito. Che ogni maligna influenza abbandoni la sua persona e le cose che gli appartengono, e torni a voi e in voi rimanga. Questo vi ordino, in nome della Santissima Trinità. Amen!». Tacque, e il volto di Scrope s'illuminò improvvisamente di sollievo; ma di botto l'espressione sparì, così come si spegne una lampada elettrica. L'esile corpo di Scrope vacillò, prese a indietreggiare. Dalle sue labbra partì un grido lacerante: «Lasciatemi! Lasciatemi!». Barcollando, camminò a ritroso verso la porta, poi si avvinghiò agli stipiti divincolandosi: pareva lottare con qualcuno che, afferratolo da dietro, tentasse di trascinarlo via. Pursuivant balzò verso di lui ma, proprio in quell'istante, con passo malfermo, Scrope tornò verso il centro della stanza. Aveva gli occhi vitrei, le labbra smorte, il volto cereo. «Per poco non mi ha fregato», ansimò. «Cosa?», domandò Pursuivant, affrettandosi à versare in un bicchiere una buona dose di whisky.
«Ma come, non ha visto? Quella larva enorme, con un braccio nudo e senz'occhi...» «Tenga, butti giù questo. Io non ho visto niente.» Ubbidiente, Scrope bevve; riprese un po' di colore. Prese a parlare in fretta, come uno che vuol convincere se stesso, più che gli altri, di qualcosa in cui spera. «Mi sono lasciato prendere la mano dalla mia immaginazione, vero?» «Crede?» Pursuivant riempì di nuovo il bicchiere del suo ospite. Ovviamente Scrope, affastellando parole su parole, tentava di non perdere la tramontana. «Oh, ma è evidente, signor Giudice. Ho dato via libera alla fantasia e ho preso per realtà ciò che era soltanto un'allucinazione. Si figuri, ero sicuro che si trattasse di una sorta di spettro... Ma dal momento che lei non l'ha visto...» «Il fatto che io non l'abbia visto», disse Pursuivant, raccogliendo la frase di Scrope, «non prova che non esista.» L'ometto aveva l'aria disorientata. Pursuivant continuò: «Per principio, non prendo mai niente per vero in senso assoluto. Questa faccenda ha l'aria di prospettarsi come una delle mie avventure predilette». «Ma stia a sentire!» Scrope si mise a parlare concitatamente, come se avesse di colpo perduto il controllo. «Lei stava recitando la formula magica proprio per scongiurare cose del genere. Come avrebbe potuto, quel... sì, il fantasma, osare...» «Il coraggio della disperazione. Per sfuggire all'annientamento. Aspetti qui.» Si avvicinò alla porta e sbirciò nel corridoio: sulla sinistra, c'era un vestibolo in penombra antistante la cucina, e un passaggio che conduceva alla stanza da bagno; a destra, due porte chiuse. Chiese cosa ci fosse dietro quelle porte. «Camere da letto», rispose Scrope, con voce più ferma. «Vuole che accenda la luce?» «No, grazie.» Pursuivant si inoltrò nel corridoio. Era come se si fosse addentrato in un banco di nebbia... O meglio come se si fosse trovato tra densi vapori emanati da indumenti sudici e umidi stipati in un armadio a chiusura stagna. Pursuivant boccheggiò, affrettandosi ad entrare in cucina, dove accese subito la luce. Riprese a respirare normalmente; la traspirazione cessò di imperlargli i baffoni fulvi e le so-
pracciglia. «Tutto a posto?», stava chiedendogli Scrope. «Per il momento sì.» Il Giudice si guardò intorno nella linda cucina maiolicata di bianco, con tanto di frigorifero e fornelli elettrici. La stanza più accogliente tra quelle che aveva viste fin lì. Tornò in corridoio ed entrò nella camera da letto che guardava sul retro della casa. «Quella è la mia stanza da letto», lo informò Scrope, dalla porta del soggiorno. Pursuivant si fermò qualche istante soltanto nella stanza, che era situata a fianco della cucina. Tornò ancora una volta in corridoio per lanciare un'occhiata nella sala da bagno. Una faticaccia, vincere quel senso di oppressione psichica e fisica che incombeva nell'atmosfera greve, nebulosa. Finalmente si avvicinò alla porta della camera da letto che guardava sul davanti della casa. Mano sulla maniglia, domandò: «Chi ci dorme, qua dentro?». «Lei, se accetta di passare la notte qui», rispose Scrope, mentre il Giudice entrava nella stanza. In un primo momento Pursuivant ebbe l'impressione di aver ricevuto una botta in testa: le sue ginocchia si piegarono, la sua mente vacillò, annebbiata. Le pareti... Non erano diroccate, piene di crepe, mezzo smantellate? Le pareti sembravano roteargli intorno, nell'oscurità... Non perse la testa, si costrinse a rimanere ritto in piedi, allungò la mano per trovare l'interruttore e accese la luce. Aveva sbagliato. La stanza era moderna, tappezzata di carta satinata color crema e in teoria avrebbe dovuto risultare accogliente... Però la luce era fosca come se brillasse filtrando attraverso una fitta cortina di fumo. Un bel lettino a una piazza, un cassettone, una poltrona... Come poteva un arredamento del genere creare un'ombra tanto profonda nell'angolo più lontano? Ma era poi un'ombra? L'oppressione che aveva percepito nel corridoio era raddoppiata nella stanza, gravando su di lui come l'acqua del mare grava su un sommozzatore in apnea. L'interruttore scattò, senza che Pursuivant l'avesse toccato. La luce si spense bruscamente. Nel buio, qualcosa lo palpeggiò. Una mano... La scorse vagamente, ma non vide il braccio relativo. Ma c'era, il braccio? Pursuivant schizzò di lato, ma si impose di non scappar via. Nella spessa foschia, ora intravedeva una faccia, o perlomeno una testa, visto che soltanto i contorni erano delineati, non i lineamenti. Una bocca comunque doveva averla, perché perce-
pì un alito caldo, e udì un mormorio che si articolò in una sola parola: «Raus!». Fuori!, detto in tedesco. Pursuivant fissò quell'ovale che sembrava levitare sospeso nell'aria, cercando degli occhi in cui inchiodare i suoi. Intanto si sentì di nuovo toccare la spalla. Un tocco leggero, questa volta. Morbido. Un'altra voce, esitante, un soffio appena percettibile: «No... Resta... Sei venuto a portare la salvezza...». Il volto informe si era fatto più consistente e sotto si intravedeva una parvenza di corpo, un corpo massiccio quanto quello dello stesso Pursuivant. Un colosso piazzato a gambe larghe, due colonne che sembravano modellate nella nebbia. E ancora una volta: «Raus!». Il Giudice abbandonò la stanza, lasciando la porta aperta. Tornato in soggiorno, si sentì meglio; si asciugò il volto inondato di sudore. Riempiendo i bicchieri, Scrope domandò: «L'ha avvertito anche lei, eh?». «Sì, qualcosa. Per un momento, ho visto anche una forma.» Tacque, per mettere ordine nella ridda di impressioni. Poi: «Chi ha dormito in quella camera da letto?». «Nessuno. Il domestico, prima di tagliare la corda, metteva giù una branda in cucina. Questa notte, lei inaugurerà la mia stanza per gli ospiti, caro Giudice. Tenga, facciamo un brindisi.» Fecero cin-cin e vuotarono i bicchieri. Poi affrontarono l'atmosfera soffocante del corridoio per trasferirsi in cucina. Rapido ed efficiente, Scrope preparò un pasto semplice ma sostanzioso: prosciutto, uova, patate fritte e caffè. Mangiarono sul tavolo di formica bianca. Pursuivant si comportò normalmente, come se la paura non lo avesse nemmeno sfiorato, quella sera. «Io ho affermato che gli Assiani non erano dei buoni combattenti», osservò, tendendo la tazza per un supplemento di caffè. «Però c'è da aggiungere che erano teutonici, e la Germania è sempre stata la patria delle streghe e dei demoni. Basta leggere il Faust, il Phantasmagoria, i fratelli Grimm. E nella collezione dell'Old New York, che ora non si pubblica più, ho trovato la storia di come due mercenari dell'Assia affatturarono un agricoltore di Manhattan.» «Storia autentica?» «È riportata nelle memorie di George Rapaelje. Uno al quale bisogna fa-
re tanto di cappello, quando si tratta degli annali della vecchia New York. Rapaelje sostiene di essere stato testimone oculare. Già, parecchi Assiani, radicatisi in Pennsylvania e nel New Jersey, praticavano correntemente la magia.» «Sicuro. Pensi un po' al racconto di Irving: quello del Cavaliere senza testa», rincarò Scrope. «Signor Giudice, forse lei si è messo nei pasticci. Se lo scongiuro che lei ha recitato... Vorrei che non lo avesse fatto, visto che non ha funzionato!» Pursuivant guardò il suo ospite con aria molto grave. «Non ho finito. Va ripetuto tre volte, a distanza di un'ora dall'altra.» Tirò fuori dal taschino del panciotto un cipollone d'oro. «La prima ora è trascorsa, pressappoco.» Con passo fermo, anche se non proprio flemmatico, tornò in corridoio. Scrope si mise alle sue spalle. Ancora una volta, Pursuivant si sentì gravare addosso quel peso impalpabile, e respirò a fatica, come per mancanza di aria pulita. Imperterrito, cominciò a recitare per la seconda volta la formula dell'esorcismo: «O voi, Spiriti del Male, in nome di Colui che sta nei cieli, io vi proibisco di avvicinarvi al giaciglio e a qualsiasi altra proprietà di quest'uomo. Nel Nome del Signore vi scaccio...». Eccolo, era uscito dalla porta della camera da letto, poderoso ma senza fare il minimo rumore. Una massa gigantesca curva in avanti pronta a scattare che, quando si raddrizzò, si rivelò una sagoma alta e poderosa quanto quella dello stesso Pursuivant. Il Giudice fu colto da profonda meraviglia, totale ma non sconvolgente. Nella penombra riuscì a distinguere soltanto una silhouette rozzamente umana, dai contorni sfumati... Se vestita o nuda, non gli era dato vedere. Come la volta precedente, una testa senza volto sormontava spalle da titano. Soltanto le dita della mano erano chiaramente visibili: scostate le une dalle altre, si protendevano minacciose. Più di tanto il Giudice non riuscì a ravvisare, mentre continuava a recitare le parole dell'esorcismo fino alla fine: «...ogni influenza maligna abbandoni la sua persona e le cose che gli appartengono e torni a voi, e in voi rimanga. Questo vi ordino, in nome della Santissima Trinità. Amen». La larva si buttò in avanti, pronta ad artigliare. L'arco di una porta non era il posto più indicato per impegnare battaglia, specie trattandosi di un avversario micidiale. Pursuivant balzò indietro,
con una rapidità e una leggerezza incredibili per una mole come la sua, paragonabile a quella di un orso. Scrope, che era alle sue spalle, era già corso alla porta che immetteva all'esterno sul retro e tentava disperatamente di aprirla, gemendo, senza accorgersi che non aveva fatto girare la chiave nella serratura. «Venga!», gridava. «Scappiamo...» «Aspetti!», gli urlò in risposta Pursuivant. «Guardi...» Scrope si calmò e si voltò indietro. «Quell'orrore non c'è più», disse Pursuivant. «Mi è svanito davanti agli occhi mentre indietreggiavo.» Incrociò le manone sul dorso, aggrottando la fronte. Qualcosa di strampalato c'era, in tutta quella faccenda: era stato troppo anticonformista, il comportamento del fantasma. Demoni, spettri e via dicendo, di solito si attengono ai loro schemi convenzionali... Quasi tutti i libri sull'argomento non dicevano forse che il modo migliore per domare uno spettro era quello di affrontarlo intrepidamente? Eppure, in quel caso le cose si erano svolte in maniera diametralmente opposta. Il nemico era scomparso nel preciso momento in cui lui e Scrope avevano tagliato la corda. Con le sopracciglia aggrottate, piantato sulla porta che immetteva nel corridoio, restò a fissare il vuoto, come se in quel vuoto cercasse di leggere la soluzione dell'enigma. Però il corridoio vuoto non era. Nebulosamente, si intravedeva una sagoma sfumata, più piccola, più snella di quella dell'assiano. E la voce, la voce che aveva vagamente percepito nella camera da letto: «Ancora... ancora...». Poi, più nulla. Scrope si trascinò vicino a Pursuivant, scrutandolo attentamente. «Signor Giudice, sarà che abbiamo avuto un'allucinazione? Tutti e due insieme?» Pursuivant si mise a ridere, scuotendo la testa leonina. «No, neanche a pensarci, Scrope. Le persone soggette ad allucinazioni non vedono le stesse cose, e contemporaneamente, per di più.» «Suggestione di gruppo», suggerì Scrope, come cercando a forza un lenitivo. Ma, con un gesto di diniego, subito Pursuivant obiettò: «Senta, Scrope, io credo in una notevole quantità di cose stravaganti, ma non in questa. Non torni in corridoio: si sieda qui in cucina. Comincio a capire... o per lo meno a indovinare».
Si sedettero attorno al tavolo, il giudice di faccia alla porta. «Il sempiterno intreccio, arcinoto e logoro per l'abuso che ne hanno fatto gli scrittori di racconti dell'orrore», disse. «Il fantasma dell'assassinato che si aggira nel luogo che gli è stato fatale...» Aguzzò gli occhi per spiare nel corridoio, chiedendosi se avesse davvero visto un'ombra trasparente in movimento. «Comunque, non si discute; è qui! Vendicativo e malevolo, pronto ad assalire.» «Proprio così», annuì Scrope con un sospirone. «È apparso a me, poi a lei, poi a tutti e due insieme!» «Il che conferma la supposizione numero due: la formula esorcistica sta per dare un risultato.» Scrope alzò gli occhi colmi di ansiosa implorazione. «È sicuro?» «Su questa terra non si può mai essere del tutto sicuri di niente, però sta di fatto che la "cosa" è alle corde. Sta cercando di batterci. Da quanto lei mi ha raccontato, deduco che precedentemente non si è mai manifestata in maniera tanto energica.» Scrope annuì ripetutamente. «Infatti. Vagava qua intorno, creando una sorta di atmosfera di perenne inquietudine che mise in fuga i due domestici, ma niente di paragonabile a quanto sta accadendo ora. Come giustamente ha detto lei, adesso ci si è messa per davvero...» «Si sente in pericolo», spiegò Pursuivant, con gli occhi azzurri fissi nel vano del corridoio. «E anche noi siamo in pericolo. Ma il fantasma deve affrontare la lotta da solo: mentre noi abbiamo degli alleati.» «Alleati?», fece eco Scrope. «Ho visto un'altra figura, o meglio, un accenno di figura. Due volte. Non minaccia; al contrario, implora. Vuole che proseguiamo e che vinciamo.» «Anch'io l'ho vista, credo», disse Scrope. «Ma se è uno spettro...» «Non le sembra logico che uno spettro possa desiderare di venire liberato dalle sue catene? Qua dentro altre persone, oltre l'assiano, hanno trovato una morte tragica. Due donne, mi pare che lei abbia detto. Ho udito una voce chiedermi di ripetere per la terza e definitiva volta la formula dell'esorcismo. "Ancora", ha detto.» «Ma... allora...», balbettò Scrope. «Anche gli spiriti delle due donne sono rimasti ancorati qui», proseguì Pursuivant, sicuro di sé. «Il demone che dimora qua dentro è troppo potente per permettere che fuggano, anche dopo la morte.»
«Giudice!», ansimò Scrope facendosi cereo in volto. Due volte ingoiò la saliva, prima di continuare: «Ma si rende conto? Se succedesse qualcosa a noi due...». «Esatto», confermò Pursuivant, senza esitazioni. «Rimarremmo intrappolati anche noi. Per l'eternità. Me ne rendo conto perfettamente, ed appunto per questo dobbiamo andare fino in fondo... e uscire vittoriosi dalla battaglia.» Di nuovo si alzò e andò alla porta con i piedi esattamente sulla soglia, si chinò sporgendosi in avanti. Si tirò indietro con un balzo, come uno spettatore che si è avvicinato troppo alla gabbia di una bestia feroce. «È ancora lì», riferì. «In agguato. Lo sa anche lui, che l'ora della resa dei conti si sta approssimando.» Scrope scrutava la porta, con gli occhi duri, e le labbra tirate. «Senta: avrei una mia teoria. Lo spettro non si sposta dalla parte centrale della casa: che dimori nella cantina?» «Perché?», domandò il giudice. «Perché la cantina, le vecchie fondamenta insomma, si trovano al di sotto del bagno, del corridoio e della stanza degli ospiti; soltanto un cantuccio arriva fin sotto una parte della cucina, e...» «Accidenti, l'ha imbroccata, Scrope!», esclamò Pursuivant tutto elettrizzato. Scrope lo fissò sbalordito, mentre quello, pescata la stilo dal taschino del panciotto, si metteva a disegnare una specie di mappa sul ripiano del tavolo. «Guardi qui», esortò il Giudice, continuando a disegnare. «La sua villetta si estende su una vasta superficie: le stanze sono grandi, perciò il pavimento è largo, così, mettiamo.» Sottolineò un rozzo quadrato. «La cantina si trova pressappoco al centro, qui...» Segnò un rettangolino, nel mezzo del quadrato. «Sì, più o meno corrisponde», assentì Scrope. «Ma dove vuol arrivare?» «Benedett'uomo, non lo vede?», gridò Pursuivant, quasi sgarbatamente. «Quel rettangolo rappresenta la base dell'antica costruzione, che era stretta e alta, al contrario di questa che è bassa e vasta. Il fantasma infestava il vecchio mulino. La casa che lei ha fatto costruire, pur coprendo un terreno più ampio, include le fondamenta originali.» Buttò la penna sul tavolo. «Scrope, la sua casa è un condominio: in parte è sua, ma nell'altra parte spadroneggia il fantasma!»
Sul volto dell'omino affiorò un'espressione che rivelava come avesse finalmente afferrato la situazione. Felice, si mise a farfugliare: «Ma questo cambia tutto! Siamo salvi! Se noi non entriamo in quella zona...». «E invece noi vi entreremo!» Scrope sgranò gli occhi, spaventato. Il Giudice spiegò il suo piano: «La formula dell'esorcismo verrà detta per l'ultima volta proprio nella tana della bestia immonda, nel suo stabbio, per così dire. La distruggeremo per sempre, nel posto dove non ci può sfuggire». Un'altra ora passò. I due, che erano sempre in cucina, si alzarono. «Ci siamo», disse Scrope, dopo aver sbirciato il suo orologio da polso. «Senta, signor Giudice, lei pensa che io debba proprio venire con lei?» «Deve, sì», asserì Pursuivant. «Nella camera da letto che dà sul davanti della casa, la creatura demoniaca deve affrontare senza possibilità di scampo l'esorcismo che segnerà la sua fine.» Uscì in corridoio dirigendosi verso la camera da letto. Scrope lo seguì tenendoglisi accostato, con passi incredibilmente pesanti, per una persona tanto mingherlina. Entrambi si fermarono nella penombra del corridoio. Che non era più un corridoio, lungo e stretto, odorante di nuovo, con l'intonaco dipinto di chiaro. Era un angolo di qualche cosa d'altro. A dispetto dell'oscurità, Pursuivant vedeva chiaramente che le pareti non sembravano più al loro posto. Si trovava in un locale ampio e in sfacelo, con alte finestre che arrivavano fin quasi al soffitto, dalle imposte che cadevano a pezzi. L'assito del pavimento, mezzo marcio, era disseminato di rifiuti e di calcinacci staccatisi dai canicci. Il vento, sì, tirava il vento, lì nel cuore della tranquilla casetta di Scrope: il vento penetrava ululando dalle crepe che si aprivano nei muri di quelle rovine in cui erano stati per così dire sospinti a forza... «Giudice», alitò Scrope, «lo riconosco: questo è il vecchio mulino... Era esattamente così, prima che lo abbattessero.» «Zitto», disse Pursuivant. Si diresse verso il punto in cui, secondo quanto ricordava, avrebbe dovuto esserci la porta della camera da letto. Ecco, vi si trovava di fronte: non vedeva assolutamente niente, ma la sua mano trovò la maniglia al tocco. I cardini cigolarono. La via era aperta per inoltrarsi nella stanza che sorgeva sull'area del vecchio mulino. E anche qui tutto aveva un aspetto differente. Una sorta di luminosità verde-azzurra, come quella che filtra sul fondo
di acque profonde, permetteva di vedere un ambiente ampio, dal soffitto alto, e con finestre molto grandi; non vi era traccia di sfacelo, però. La stanza pareva la stessa di prima, ma diventava improvvisamente quasi nuova: era perfettamente in ordine, ben sistemata. Una stanza abitata, insomma. Intonaco verniciato, stipiti e davanzali bianchi candidi, alcune pelli di pecora stese sul pavimento a guisa di tappeti e mobilio solido. Anche in quella penombra da fondo marino, Pursuivant si accorse subito che si trattava di mobili antichi: se ne intendeva, lui. Ad esempio quel tavolo là in fondo, di legno scuro, massiccio, lustro. Anche le seggiole. Una tovaglia di un candore abbagliante era stesa sulla tavola preparata per il pranzo con posateria d'argento e porcellane. Qualcuno, no, qualcosa, sedeva a tavola, come in attesa di mettersi a mangiare. Il mercenario assiano, chiaro. O meglio, ciò che a suo tempo era stato il mercenario assiano. Li guardava, dal suo posto a capotavola. E allora Pursuivant capì da dove proveniva quel chiarore acquatico. Emanava da quella larva informe, come da un'esca per accendere il fuoco impregnata di fosforo. Il Giudice riusciva a malapena a distinguere i contorni sfumati, alcuni particolari appena accennati: la divisa dei soldati britannici del tempo antico, i capelli incipriati, un'eleganza che stonava, sul corpo di quel bruto. Il chiarore più intenso proveniva dal contorno della testa, sempre priva di volto. Per la terza volta, Pursuivant cominciò a recitare l'esorcismo: «O voi, Spiriti del Male, in nome di Colui che sta nei cieli, io vi proibisco di avvicinarvi al giaciglio...». La luce azzurrognola si affievolì. La larva si alzò e avanzò verso di loro. «Luce, Scrope», bisbigliò il giudice, tra una frase e l'altra della sua formula esorcistica. «Accenda.» Si collocò in posizione da sbarrare il cammino alla forma fluttuante che si stava avvicinando. «In nome del Signore...», continuò. Mani ferree lo afferrarono, mani diacce come acque putrescenti. Ebbe la sensazione che gli fosse stato scagliato contro qualcosa di immondo, di essere assalito da un animale dalla ferocia implacabile. Tentò di liberarsi. Il Giudice Pursuivant era grande e grosso, ed era anche un atleta in gamba, ma aveva trovato un avversario alla sua altezza. Questi lo serrò alla gola con le mani di ghiaccio, nel tentativo di togliergli il respiro e, soprattutto, di impedirgli di pronunciare il resto della formula dell'esorcismo. Il
Giudice lo sentiva ansare e ringhiare, come uno di quegli animali mostruosi che la fantasia inventa durante gli incubi. Percosse coi pugni quel volto senza lineamenti, cercando di spingerlo indietro, respinse da sé le spalle nebulosamente delineate, ma invano: la creatura lo stringeva sempre più da vicino, tentando di strozzarlo. «La luce... non funziona!», urlò Scrope. Accese un fiammifero e diede fuoco a un pezzo di carta che trovò frugandosi in tasca. Alzò la piccola torcia. La luce rossastra sovrastò quella fosforescente e così Scrope poté vedere con che cosa Pursuivant stava lottando, in un corpo a corpo disperato. Urlò ancora più forte e si lasciò sfuggire dalle mani il pezzetto di carta in fiamme che fluttuò nell'aria e andò a finire tra le pieghe di una cortina. Un guizzo e una vampata di fuoco si levò alta. Pursuivant afferrò il polso algido e vigoroso del suo avversario e si liberò dalla stretta mortale. «... e in voi rimanga. Questo vi ordino, in nome della Santissima Trinità. Amen!» L'esorcismo era compiuto. Con una brusca conversione il Giudice fece uno scarto, afferrò per un braccio Scrope e, quasi sollevandolo da terra, lo trascinò via con sé. Si rifugiarono in soggiorno; la stanza era tale e quale come quando vi si erano trattenuti a conversare. Ma dietro a loro già spuntavano le lingue di fuoco, fiamme ruggenti e dilaganti, impressionanti come un altoforno. Scrope a malapena si reggeva in piedi, e sembrava prossimo a svenire. Pursuivant lo scrollò, per costringerlo a dominarsi, a fare appello a tutte le sue forze: «Andiamo», gli ordinò. «Si spicci! Fuori, fuori! La casa sta andando a fuoco come un cestino di vimini.» Uscirono all'aperto e il Giudice aiutò Scrope ad appoggiarsi a un tronco d'albero. In quanto a lui, si precipitò nel garage e, prima una e poi l'altra, portò fuori le due macchine, parcheggiandole lontano, al riparo dalle faville sprigionate dai tizzoni ardenti. Tornò accanto al suo ospite. Le vampe dell'incendio uscivano dalle finestre del soggiorno, appiccando fuoco al rivestimento di assicelle di legno che ricopriva i muri esterni. Nevicava, ma i bioccoli erano così soffici che si scioglievano subito, in quella fornace, con sfrigolii appena percettibili. Scrope si diede una scrollata, come un cane che esce dall'acqua. Stava riprendendo il dominio dei suoi nervi, messi a dura prova da uno di quegli spaventi che lasciano il segno.
«Non sarebbe il caso di andare in cerca di un telefono?», suggerì. «In città, c'è una squadra di pompieri volontari...» «No», rispose Pursuivant. «Niente pompieri. Lasci che la casa bruci da cima a fondo.» «Da cima a fondo?» Al riflesso rossiccio delle fiamme, il volto di Scrope sembrava più energico. «Già, ha ragione. Tutte le ragioni. Il fuoco distrugge i fantasmi. Poi posso ricostruirla di nuovo.» «Ricostruirla e godersela in pace. Le ripeto, la lasci bruciare. Andremo in macchina fino a Scott's Meadows e passeremo la notte nella locanda. Domani, se vuole, può venire con me ed essere mio ospite a casa mia finché non si sarà orientato su cosa vuol fare in futuro.» «Grazie. Accetto con piacere», rispose Scrope. Tacquero. La notte sembrava aver perso in parte la sua carica di orrore. Avvertirono un lieve fruscio, rapido, fuggevole. Un'ombra indistinta... No, le apparizioni erano due, e scivolarono velocemente davanti a loro, sfiorandoli come folate di fumo provenienti dal rogo che stava incenerendo la villetta. «Grazie...», bisbigliarono due voci soavi colme di esultanza. Più che udirle veramente, Pursuivant ne percepì l'eco nel profondo del cuore. «Grazie...» Anche Scrope si era accorto del passaggio delle due forme nebulose, trasparenti. «Scommetto», commentò, «che gli spiriti di quelle povere donne sono stati finalmente affrancati dal giogo che li teneva.» Dall'epicentro della ruggente furia di fiamme che avvolgeva tra le sue spire l'intera costruzione, d'improvviso partì un suono raccapricciante: un grido, un bramito, un urlo... Inequivocabilmente umano, inequivocabilmente mascolino. Scrope si lasciò sfuggire un'imprecazione. «Quella voce... L'assiano?» «L'assiano sì», confermò Pursuivant, lo sguardo fisso sul rogo. Un'altra sequela di ululati: traboccanti di terrore, al parossismo dell'angoscia. «Ma perché rimane là dentro?», domandò Scrope con voce rotta. «Gli altri due spettri ci hanno espresso la loro gratitudine per averli liberati; perché lui, invece, si ostina a restare abbarbicato a quei muri fino alla distruzione totale?...» S'interruppe bruscamente. «Ho capito», soggiunse poi, riacquistando in parte il suo sangue freddo.
«Cioè?», domandò Pursuivant, voltandosi verso di lui. «Le due donne erano colpevoli di omicidio, sì, ma commesso per una buona causa: i loro spiriti, liberati dai ceppi che li tenevano incatenati là dentro, avranno la possibilità di raggiungere in qualche modo la pace eterna. Ma l'altro», e Scrope si voltò a sua volta a fissare l'incendio, «il mostro, non può sperare niente di simile. A nessun costo vorrebbe abbandonare la sua tana, anche se in fiamme: sa bene che quando ne sarà espulso dovrà affrontare qualcosa... qualcosa...» «Di infinitamente peggiore!» Fu Pursuivant a concludere la frase di Scrope. Una volta ancora il grido lacerante si alzò dal rogo, vibrando alto nella notte. Poi divenne un gemito, un rantolo che si spense nel nulla. Lo spettro era ammutolito per sempre. Le fiamme schioccavano al vento come vessilli di un esercito vittorioso. Più luminose, più festose. Spinti da un impulso subitaneo e concomitante, Pursuivant e Scrope si scambiarono una vigorosa stretta di mano. EDWARD EVERETT EVANS La spilla Padre Philip Mercy rallentò involontariamente il passo, e lanciò un'occhiata preoccupata alle sue spalle come se fosse stato colpito da un'inesplicabile sensazione di freddo. Avvertiva delle presenze, o una presenza, vicino a lui. Una presenza sgradevole e maligna. Si fermò e si girò lentamente nello stretto sentiero, scrutando attentamente i dintorni alla luce incerta dell'incipiente tramonto. Non era un uomo particolarmente fantasioso, come si poteva facilmente dedurre dal fatto che era solito passare le sue serate nel piccolo cimitero, simile a un parco, annesso alla chiesa di St. Xavier, la sua parrocchia. Ma ora, sia il battito del cuore che il suo respiro si erano affievoliti, poi si erano fatti più frequenti, e i capelli gli si erano letteralmente rizzati in testa. Si fece involontariamente il segno della croce, poi si rimproverò per averlo fatto. Non era assolutamente necessario, rassicurò se stesso, cercare di assicurarsi la protezione divina. Eppure aveva il sangue ancora gelato nelle vene per quel brivido misterioso. Era una calda, immobile serata estiva, senza neanche l'ombra di una nuvola a turbare il cielo notturno e nessuna seppur lieve brezza a scompiglia-
re i festoni dei rampicanti spagnoli sugli alberi. Comunque, lì, nel bel cimitero piccolo e ombreggiato, faceva appena un po' più fresco, ed era quello il motivo per cui lui preferiva quel luogo per le sue passeggiate notturne. Ora il padre scrutava attentamente la scena circostante, cercando di scoprire cosa potesse averlo raggelato così all'improvviso. Gli sembrava di riuscire a sentire, anche se indistintamente, come se provenisse da una spaventosa distanza, il ritmo pulsante di tamburi cerimoniali. E, quasi inconsciamente all'inizio, poi con sbigottita consapevolezza, la sua attenzione si fissò su uno dei sepolcri vicini. Si avvicinò e si chinò per poter guardare meglio. Il terreno del sepolcro si stava spostando. Era come se qualcosa - o qualcuno - stesse tentando di venir fuori da lì sotto. Indietreggiò, poi si girò di scatto e si allontanò di corsa. Quindi si fermò, scosse la testa e scoppiò a ridere. Che stupido era stato. Si voltò, tornò indietro e si chinò di nuovo sullo stesso sepolcro. Cosa poteva esserci di pericoloso lì dentro? Dopo aver controllato attentamente per qualche minuto si sollevò e rise: una risatina di sollievo quasi isterica. «Solo una talpa.» Lo disse a voce alta, come se sentisse il bisogno di udire il suono di una voce umana. «Non pensavo che ce ne fossero da queste parti. Domattina ne parlerò al sagrestano.» Ma la mattina dopo, mentre stava lavorando nel suo studio, Padre Mercy vide il vecchio sagrestano che barcollava sul prato. All'altezza dell'entrata principale della chiesa, il prete lo incrociò. In uno stato di profondo shock e letteralmente in preda al panico, il sagrestano fu portato dentro. «Ecco qui. Su siediti. Stai attento. Che c'è? È successo qualcosa?» Le mascelle del vecchio Josiah Oak si aprivano e si richiudevano con la meccanica legnosità di un ventriloquo muto, ma nessun suono ne uscì. Le sue mani ghermirono l'aria, agitandosi senza costrutto. Il respiro gli moriva in gola in spasmodici sussulti. Gli occhi erano quasi usciti dalle orbite. Il prete gli portò un bicchiere d'acqua e obbligò il vecchio a berne qualche sorso. Dopo qualche minuto, i tremori del sagrestano si erano un po' calmati. «Le fosse... sono state manomesse», boccheggiò. «Sì, lo so», disse Padre Mercy con calma. «Ci sono parecchie talpe lì fuori. Ieri sera ne ho proprio visto una all'opera.» «Non sono talpe... le tombe delle due precedenti mogli... di Horace Bur-
gier... sono state manomesse. Ci sono zolle di terreno sollevate... sembra che la terra sia stata tirata su con una vanga... si tratta di predatori di tombe, signore.» «Sciocchezze», replicò il prete. «Se non fossero state le talpe, allora gli unici predatori possibili sarebbero umani. Andiamo a dare uno sguardo.» «Non riuscirà a portarmi di nuovo lì vicino.» Il vecchio si contrasse, scosso da forti brividi, e si rifiutò di muoversi dalla casa. Padre Mercy andò da solo e si fermò all'appezzamento dei Burgier. Effettivamente le due tombe erano state gravemente danneggiate. Il prete le esaminò, ma non riuscì a vedere nessun posto dove ci fossero delle orme più vicine alle tombe che non le sue, che si trovavano ad almeno trenta metri di distanza. Il terriccio, che aveva tutta l'aria di essere stato rimosso da poco, non mostrava alcun segno di vanghe... o di qualsiasi altro attrezzo materiale. A Padre Mercy cominciarono a tremare le mani. Tutt'a un tratto sentì un terribile freddo. «Dovrò comunicarlo al signor Burgier, e alla Polizia», disse tra sé e sé. «Immediatamente.» Tornò indietro sotto i neri alberi quasi di corsa, scosso da brividi. I due uomini del Dipartimento di Polizia arrivarono quasi contemporaneamente a Horace Burgier. Padre Mercy li accompagnò alle tombe. I quattro stettero un po' a studiare attentamente il fazzoletto di terra scuotendo lentamente la testa. Non sembrava esserci alcuna traccia, nessun senso del perché, il chi e il come di quella profanazione. «Io davvero non riesco a immaginare...», Horace Burgier fu infine il primo a parlare, con tono molto titubante. I suoi anelli di brillanti mandavano bagliori. Poi, «... eppure... mi chiedo...». Solo Padre Mercy sembrò notare quell'ultima mezza frase, e per il momento decise di non chiedere nulla. In seguito, ad ogni modo, nel suo studio, dopo che i poliziotti se ne erano andati per ottenere il permesso legale di esumare le due salme, il prete si ricordò di quelle mezze parole e ne chiese il motivo al suo parrocchiano. «Cos'è che si chiedeva, figlio mio?» Per un po' non ci fu alcuna risposta, né lui fece niente per sollevarla. La stanza era tranquilla, illuminata dal sole di mezzogiorno. Un ambiente come tanti altri, con dei mobili e tanti libri e tappeti che non si prestava affat-
to a supposizioni fantastiche. Eppure il prete ebbe la sensazione che Horace Burgier attribuisse a quella storia delle connotazioni soprannaturali. Dopo un po' Burgier si mosse e parlò con molta lentezza. «Credo che lei sappia, Padre, che la mia prima moglie era una donna gelosissima, in particolare della mia ultima moglie.» «Sì», fu la risposta data in un tono molto pacato. «Venne da me più di una volta, e io feci ciò che potevo per aiutarla ad estirpare l'insana gelosia che la stava consumando, anche per il suo bene.» «Le do la mia parola, Padre, che, per quanto ne so, non le ho dato mai alcun motivo di provare quel tipo di sentimento.» «La gelosia è una di quelle tristi malattie che si nutrono di se stesse», replicò ambiguo il prete. Ci fu un altro intervallo silenzioso interrotto dallo squillo del telefono. Dopo aver ascoltato e aver dato delle risposte, Padre Mercy riattaccò. «Sono pronti ad aprire le bare», disse. C'erano solo una mezza dozzina di uomini nella stanza delle autopsie nello scantinato del Palazzo di Giustizia quando il Coroner diede ordine di aprire le bare incrostate di fango. L'acuto fetore di morte era quasi insopportabile e faceva tremare le narici. Quel puzzo riempì a tal punto la stanza, che gli uomini preferivano stare zitti, e solo di tanto in tanto si scambiavano qualche parola bisbigliando. Il corpo della seconda moglie di Burgier fu esaminato per primo. La donna era morta meno di due mesi prima. Sotto la luce verde-blu dei neon alimentati coi vapori di mercurio, Padre Mercy pensò che il suo volto sembrava esprimere un terrore selvaggio... o una meraviglia sgomenta. Tra le due non sapeva dire quale fosse l'ipotesi più probabile. Il corpo non si era ancora decomposto, notò. Ma i vestiti erano tutti scompigliati. La parte davanti del vestito di seta bianca era scucita e strappata. Sapeva che la sua tomba era stata profanata, si chiese il prete? I morti possono conoscere la paura ed essere consapevoli di ciò che accade? Perché quell'aria spaventata, turbata? Diede un'occhiata al volto teso e sbiancato di Horace Burgier e lo sentì sussultare. Gli tese immediatamente un braccio al quale potersi appoggiare. «Qualcosa... qualcosa di terribile... è accaduto a Barbara.» Horace Burgier si scosse e poi rimase immobile.
«Aveva un aspetto così calmo e pacifico quando la mettemmo lì a riposare per sempre. Come se stesse dando un... un ultimo sguardo a ciò che si lasciava alle spalle... e ciò che vedeva sembrava piacerle... Mio Dio», esclamò all'improvviso, si sporse in avanti e il suo volto divenne completamente esangue. «Era forse ancora viva? Forse si trattava solo di morte apparente e noi, credendola morta, l'abbiamo seppellita?» «Ai nostri giorni, con il moderno sistema di imbalsamazione, questo è impossibile, signore», lo rassicurò il Coroner. «Penso che si tratti solo di qualche gioco di luce che si crea in questa stanza che le dà quella strana espressione.» «Suppongo», Burgier non poté trattenersi dall'essere sarcastico, «che sia stato solo un gioco di luce che fa sembrare il suo vestito strappato.» A questo non ci fu risposta. Gli uomini nicchiarono, poi tutti tranne uno si girarono verso l'altra bara, che l'impresario delle pompe funebri aveva appena finito di aprire. L'unico a rimanere al suo posto fu il fotografo che scattò alcune foto del corpo nella prima bara. Padre Mercy notò che questo corpo, quello della prima signora Burgier, si era decomposto ma, cosa alquanto curiosa, non tanto quanto ci si sarebbe potuti aspettare dopo tre anni. Gli sguardi di tutti gli uomini furono attirati dal volto. In un modo o nell'altro tutti manifestarono il loro stupore. Persino Padre Mercy indietreggiò. Udì dei passi veloci, poi il rumore di chi si appoggiava al muro per sostenersi. Infatti il volto di Amanda Burgier mostrava molto, molto chiaramente e stavolta non si poteva pensare a nessun gioco di luce - una felina soddisfazione, un'esultante sazietà che era in qualche modo diabolica. Per alcuni minuti non si udì alcun rumore, tranne quello dei respiri brevi e affannosi. Padre Mercy sentiva che tutti gli altri percepivano, così come lo percepiva lui, che qualcosa di orribile stava avanzando nella stanza e stava portando via il loro coraggio. La goccia martellante... la goccia di un rubinetto che perdeva in un angolo remoto, si arricchì di qualità illusorie fino a sembrare un sinistro dum... dum... dum... dum... Alla fine, con voce fievolissima, il Coroner ruppe il silenzio. «Quando le foto saranno pronte, in seguito... potremo esaminarle. Vediamoci nel mio ufficio domani mattina alle dieci.» Pochi secondi dopo, nella stanza rimasero solo i due cadaveri.
«Questa non è», esordì il Coroner la mattina seguente, «un'inchiesta regolare, da nessun punto di vista. Siamo qui semplicemente per cercare di far luce su quest'enigma.» L'ufficiale di Polizia fece un breve rapporto. «Ho mandato di nuovo al cimitero due dei nostri uomini migliori, e poi in giro nei dintorni. Non hanno trovato niente... nessuna traccia, nessuno ha visto o sentito niente.» «Ho parlato a lungo con il nostro sagrestano», intervenne Padre Mercy. «È sicuro che durante il giorno nel cimitero non c'era nessuno: stiamo parlando di ieri. Lui è stato lì tutto il giorno ad annaffiare il prato e a potare le siepi. Il posto è abbastanza piccolo da permettere, quando ci si è dentro, di poter vedere ogni angolo.» «Probabilmente è accaduto durante la notte», suggerì il Coroner. Padre Mercy tossì con fare esitante, arrossì lievemente, poi proseguì. «Penso che molti di voi sappiano che ho l'abitudine di fare la mia passeggiata serale proprio lì, tempo permettendo. La notte scorsa, mentre stavo facendo i miei soliti quattro passi, ho provato un'improvvisa sensazione di freddo, uno strano senso di gelo che in verità per un po' mi ha... mi ha spaventato.» «Cos'era stato a causarlo?» Il Coroner alzò lo sguardo su di lui interessato. «Non riesco a dare nessuna spiegazione. Ma mi fece guardare in giro con molta attenzione e, all'improvviso, vidi un movimento di terreno sopra uno dei sepolcri. Mi sforzai di mantenere la calma per studiare la situazione, e poi mi sentii sollevato perché arrivai alla conclusione che si trattava solo di una talpa che si stava dando da fare sotto il terreno. Ma ora...» Non poté trattenersi dal rabbrividire. Tutti gli altri rimasero allibiti a quella rivelazione. Ci fu una pausa piuttosto lunga e poi fu il Coroner a rompere il silenzio per riferire che aveva controllato i documenti; dai quali risultava che la signora Amanda Burgier era morta per una trombosi coronarica e che Barbara, la seconda moglie, era morta per una polmonite che l'aveva colpita subito dopo un'influenza. Tutte e due erano spirate mentre erano in cura all'ospedale. «È giusto», fu d'accordo Horace Burgier. «Barbara rimase malata solo per tre giorni. Ma non si sentiva bene già da alcuni mesi prima dell'influenza: per essere precisi, fin dal nostro primo anniversario di matrimonio. Era stata sempre così vivace e così piena di gioia di vivere che, quando
prese a sentirsi fiacca e indolente, ne fui molto preoccupato. Ma il dottor Dougherty, che chiamai per controllare il suo stato di salute, disse che non aveva trovato niente che non andava, tranne un po' di stanchezza, per la qual cosa prescrisse un ricostituente. Tuttavia, meno di due mesi dopo, durante i quali non sembrava affatto migliorata, Barbara ebbe quell'attacco improvviso e morì così in fretta.» Aveva il volto tirato e addolorato, e tutti gli altri tacquero per un momento. Poi Burgier sollevò di nuovo la testa. «Non so se ciò che sto per dire possa avere importanza o no. Non l'ho capito neanche allora... pensai che molto probabilmente mi stavo sbagliando. Ma, proprio mentre Barbara stava morendo, le sue mani ebbero... una specie di spasimo e afferrarono il vestito all'altezza del collo, o forse voleva portarle alla gola: in quel momento non ero abbastanza vicino per poter essere sicuro di ciò che avevo visto.» «Forse un movimento istintivo per portare le mani verso quella parte del corpo dove stava provando un dolore lancinante?» «All'inizio avevo pensato anch'io la stessa cosa ma, quando arrivai al suo fianco, mi diede l'impressione che stesse tentando di parlare. La sua voce era troppo debole per udirla con chiarezza, ma io la sentii sussurrare: "No, è mia".» «A che cosa poteva riferirsi?» «Non ne ho idea, signore. Non sono mai riuscito ad interpretare il senso di quelle parole, né allora, né in seguito, e finora ho sempre pensato di aver semplicemente capito male quanto aveva mormorato. Poco dopo quest'episodio, il suo volto si distese e, come ho detto prima, quando spirò aveva un'aria assolutamente serena, direi quasi felice. Ma ora... sì, ho pensato che lei dovesse saperlo.» «Lei non ha proprio idea di cosa potesse voler dire?» «Assolutamente nessuna.» Burgier chinò la testa e rimase seduto in quella posizione per alcuni lunghi momenti. Gli altri uomini erano tutti silenziosi e immobili; tutti riflettevano su quanto avevano ascoltato. «Avete dei parenti che avrebbero avuto motivo di fare una cosa del genere?», chiese alla fine l'ufficiale di Polizia. Burgier lo guardò sorpreso. «No, nessuno. Barbara ed io eravamo entrambi figli unici, e tutti i nostri parenti sono morti. Amanda aveva una sola sorella che ha vissuto per molti anni ad Haiti dove insegnava. L'unica volta che ho visto questa sorella, che
comunque ora è morta, fu una volta che era tornata in patria e passò un mese con noi.» Padre Mercy guardò Horace Burgier; notò come si ostinava a tenere gli occhi bassi e a fissare il pavimento, e continuava a torcersi nervosamente le mani mentre parlava con tono sommesso facendo un grande sforzo per controllarsi e mantenersi calmo. Era chiaro che il commerciante soffriva intensamente, ma nessuno poteva ravvisare in quell'atteggiamento una colpa. «Amanda ed io eravamo sposati da circa dodici anni. Padre Mercy sa che durante gli ultimi anni non eravamo tanto felici insieme, perché mia moglie aveva sviluppato un assurdo senso di gelosia. Non sto tentando né di difendermi né di diffamarla quando affermo che, per quanto ne so, non le ho dato mai nessun motivo per nutrire quei sentimenti.» Il Coroner attirò lo sguardo di Padre Mercy con fare interrogativo e il prete fece un cenno d'assenso per confermare le parole dell'uomo. «Conoscevamo tutti e due Barbara da alcuni anni, ma non eravamo amici intimi perché Amanda non mostrava per lei molta simpatia. Ma, dopo la morte della mia prima moglie, Barbara fu così riservata nell'aiuto che mi diede durante quelle settimane in cui ero così turbato, che presto divenni sempre più dipendente da lei.» Padre Mercy a quel punto lo interruppe. «Conoscevo Barbara molto bene, e penso di poter essere la persona più competente per affermare che era stata la sua innata bontà a farla prodigare così, e non un tentativo di rendersi indispensabile per qualche fine recondito.» «Grazie», disse il Coroner. «Prego, continui, signor Burgier.» «Il sentimento che provavo per Barbara divenne ben presto amore, perché ebbi modo di scoprire le sue meravigliose qualità. Quando le chiesi di sposarmi, mi disse francamente che non ci aveva pensato, ma che ora l'avrebbe fatto... e avrebbe pensato anche a me... sotto quella luce. Un mese dopo, quando le feci di nuovo la mia proposta, lei accettò, e ci sposammo circa cinque mesi dopo la morte di Amanda. Fu una cosa improvvisa, me ne rendo conto, ma niente più di questo.» Il prete manifestò con gli occhi e con un cenno del capo che condivideva quelle parole. Nessuno sembrava avere altre domande da fare, né si riusciva a trovare qualche traccia per quella storia in apparenza così semplice. La tensione si allentò un po' quando il poliziotto che aveva scattato le fotografie portò un
pacco con degli ingrandimenti che aveva appena finito di stampare. Il Coroner li studiò per qualche minuto, poi li passò uno ad uno agli altri perché avessero modo di esaminarli. Padre Mercy si accorse, quando arrivarono a lui, che mostravano la testa, il volto e la parte superiore del torace che è possibile vedere quando la parte anteriore del coperchio di una bara viene spostata. Si udiva solo il fruscio delle foto che venivano passate di mano in mano. Nessuno commentò in alcun modo o fece delle ipotesi. Nessuno aveva domande da fare. Eppure una cosa era chiara a tutti: non era un gioco di luce a dare quell'espressione ai volti dei cadaveri delle due donne. Anzi, se possibile, le foto accentuavano ancora di più l'evidenza della cosa. Inoltre anche la condizione di disordine del vestito di Barbara era innegabile. Alla fine il Coroner emise un sospiro. «Penso che si tratti proprio di una di quelle cose... sì, di un mistero irrisolvibile. Non riesco a trovarci né capo né coda, questo è certo.» Gli altri si rilassarono un po'. Padre Mercy stava per restituire le foto che teneva in mano, poi si girò verso Horace Burgier, tendendogliele per fargliele vedere. «Sono sempre stato incuriosito da quella strana spilla che porta la vostra prima moglie. L'ho vista sui suoi vestiti molte volte. Era una spilla che le piaceva in modo particolare, non è vero?» Burgier guardò distrattamente la foto, poi alzò gli occhi per incontrare quelli del prete. «Beh, sì, ci era molto affezionata. A sentire lei era proprio la cosa a cui teneva di più. Era stata sua sorella a mandargliela da Haiti: credo che ci fosse collegata una storia...» Fece una breve pausa, poi spalancò gli occhi come colto da un improvviso terrore. Teneva stretta la foto e la fissava da vicino. Le mani cominciarono a tremargli e il volto livido gli si imperlò di sudore. Barcollò e sembrò che stesse quasi per cadere dalla sedia. «Che c'è?», urlò il Coroner, mentre Padre Mercy spostava la sedia vicino a quella di Burgier e metteva un braccio intorno alle spalle dell'uomo per farlo calmare. Horace Burgier puntò un dito tremante sulla fotografia. «Ma... ma è... è tutto sbagliato», disse con voce tremula. «Amanda non
portava quella spilla. Ricordo perfettamente che fu sepolta senza alcun gioiello tranne la fede nuziale.» «È vero», intervenne l'impresario delle pompe funebri. «Mi ricordo distintamente che il signor Burgier mi diede quelle indicazioni che io osservai scrupolosamente... dal momento che mi prendo sempre cura di seguire le volontà dei parenti.» «Inoltre», continuò Burgier con la voce che ancora gli tremava per l'emozione, «io so per certo che diedi proprio quella spilla a Barbara come regalo per il nostro primo anniversario di matrimonio... e sono andato personalmente in banca a ritirarla dalla cassetta di sicurezza... Ora che ci penso», si girò a guardare l'impresario delle pompe funebri, «non l'ha messa lei sul vestito di Barbara quando l'ha preparata? Sono sicuro di ricordarla lì.» «Sì», e la voce dell'uomo era fioca e sottile. «La misi lì. C'era un punto sul collo che aveva perso colore e il trucco non era riuscito completamente a nasconderlo. Il vestito che avevamo scelto per lei era piuttosto scollato, così usai la prima spilla che mi trovai sottomano sulla sua toelette, per poter stringere i lembi del vestito più vicino al collo. Ora che guardo questa foto, posso giurare che si tratta proprio di quella spilla: ha una forma così particolare che non si può dimenticare facilmente.» Padre Mercy si fece in fretta il segno della croce... in quel momento sentì di aver bisogno della protezione divina. Poi, molto lentamente, disse: «Penso che il nostro piccolo enigma si sia chiarito, eppure ne lascia insoluto uno più grande e più complesso». «Cosa intende dire, Padre?» Il prete guardò gli altri con aria supplichevole. «Può qualcuno di voi dirmi cos'è la vita? Cos'è la morte, o tutto il mistero della vita dopo la morte? Io sono un prete, e si suppone che io lo sappia. Ma comprendo ora che non è vero.» Si interruppe di nuovo, mentre gli altri stavano ad ascoltarlo attenti. «Penso che possiamo tranquillamente affermare, che in questo caso, in qualche modo, con qualche mezzo, attraverso qualche abilità particolare, o grazie a strani poteri dei quali nulla sappiamo, una donna gelosa sia venuta a reclamare da un'odiata rivale un oggetto che lei considerava suo e solo suo.» STANTON ARTHUR COBLENTZ La taverna disabitata
Se a qualcuno di voi capitasse di percorrere in auto la zona desertica a est di Great Falls, nel Montana, e se quel giorno doveste trovare la Statale 217 interrotta da una frana proprio all'altezza dello Yellowstone River, allora potreste anche affermare d'esser passati da Spruce Gap, un paesetto che si trova più all'interno fra le colline. Ma non lo vedreste e, se lo vedeste, non ricordereste d'averlo visto, perché Spruce Gap appartiene a quel genere di località che uno non nota mai, a meno che non gli si fermi il motore proprio mentre ci sta passando attraverso. Come infatti accadde a me. Per peggiorare le cose, era domenica, una di quelle afose domeniche di agosto quando le sole cose in attività sono il vento e le mosche. E la giornata era già cominciata storta per me. Ero partito in macchina da Portland, per andare a far visita a mia sorella e a suo marito a Bismarck, nel Nord Dakota e, secondo il programma, ero atteso là per l'ora di cena. Ma ogni cosa congiurava contro di me: due guasti all'impianto elettrico, l'uno dietro l'altro, mi avevano già fatto perdere un paio d'ore, e poi un autotreno in manovra mi aveva fatto finire fuori strada, per fortuna senza altre conseguenze che alcuni grossi cactus rasi al suolo. Si può dunque immaginare di che umore fossi, quando, sulla riva terrosa dello Yellowstone, trovai la Statale interrotta da uno smottamento. Un cartello piazzato sulla strada consigliava gli automobilisti a prendere una deviazione a sinistra e, imprecando stancamente, buttai giù quest'altro rospo. Ma il guaio peggiore della giornata mi cascò fra capo e collo soltanto quando ebbi oltrepassato le colline, nella conca polverosa al centro della quale sorge l'altrettanto polverosa cittadina di Spruce Gap. La valle, piuttosto piccola, è circondata da alture spoglie di roccia molto morbida, bizzarramente scavate dal vento. Sul lato est c'è un impianto minerario, mentre a ovest, lungo la strada in discesa e tutta curve che percorsi per arrivarci, sorge una roccia alta una ventina di metri alla quale qualche bello spirito armato di martello pneumatico ha dato la forma di un volto diabolico, completo di corna e barbetta. Se l'intenzione dell'ignoto scultore era di regalare alla cittadina un'attrattiva turistica, posso affermare con conoscenza di causa che il suo solo effetto è quello di dare un'atmosfera macabra alla località. Comunque, fu un paio di chilometri prima di passare davanti a quella roccia, che mi accorsi d'essere tallonato da un'auto, una vecchia Ford modello T in apparenza rimessa a nuovo e fornita di un motore supercompres-
so dal gruppo di giovinastri che aveva a bordo. Ora dovete sapere che io ho un difetto: quando su una strada stretta e tutta curve mi sento tallonato da un'auto del genere, e quando il conducente è un maledetto pazzo ubriaco che cerca di ammaccarmi il paraurti suonando il clacson e andando a zig zag, allora capita che m'innervosisca e rifiuti cocciutamente di dargli strada. Antipatico lui, antipatico io, mi spiego? Così mi tenni nel mezzo della carreggiata e ostentai grande prudenza, pigiando più sul pedale del freno che su quello del gas. Fu davanti alla roccia a forma di diavolo che l'asino mi tagliò la strada. In seguito mi domandai invano se avessi avuto un'allucinazione, un miraggio, se non avessi sognato tutto quanto o se fossi diventato pazzo. Ma porsi domande è vano in questi casi. Ciò che ricordo è che, quando mi vidi davanti quell'asino, inchiodai i freni. Poi alle mie spalle ci fu uno stridore di pneumatici e, con la coda dell'occhio, vidi la Ford modello T oltrepassarmi sulla sinistra sfiorandomi per un capello. Il conducente non riuscì a tenere la macchina in strada: sbandò violentemente, si impennò su una cunetta terrosa e volò dritto verso la grande faccia scolpita nella roccia. Sentii nitido e crocchiante il rumore di lamiera fracassata, mentre la Ford impattava su quella bocca aperta spezzandone i denti di pietra. O almeno, questo fu quanto avrei giurato su tutti i Santi di aver visto e udito, anche quando, rialzando la faccia dal volante e col cuore che mi batteva da impazzire, tornai a guardare da quella parte... e non vidi più niente. O meglio, vidi che tanto la Ford quanto i suoi occupanti sembravano scomparsi, come se non fossero mai esistiti. Ero mezzo rimbecillito dall'emozione e mi tremavano le mani. Scesi dall'auto e mi guardai attorno. L'asino che mi aveva costretto alla fermata non si scorgeva da nessuna parte, e così anche la Ford. L'unica cosa che vedevo in quel luogo era l'enorme spunzone di roccia sagomato a testa di diavolo, con le erbacce che crescevano intorno alla mandibola ornata di barbetta. La sola conclusione che potevo trarne era d'aver battuto la fronte sul volante, e in quell'attimo di stordimento essermi sognato tutto l'accaduto. Evidentemente, riflettei, la Ford doveva avermi sorpassato con tutta tranquillità andandosene per i fatti suoi mentre ero semisvenuto, e così anche quel maledetto asino. Tirai un sospiro di sollievo e risalii in macchina. Pochi minuti dopo, stavo giusto leggendo il cartello indicatore secondo il quale mi trovavo a sol-
levare la polvere di Spruce Gap, Montana, allorché dal motore venne fuori un rumore di quelli che fanno gelare il sangue ad ogni automobilista, e l'auto si fermò. Un paio di tentativi con la chiave di avviamento mi informarono che, stavolta, frugare col cacciavite nell'impianto elettrico, imprecare e dare scossoni alla carrozzeria - sistema con cui chiunque può far ripartire un'auto la metà delle volte - non sarebbe bastato. Così scesi e mi avviai a piedi fra le case. Come ho detto era domenica, e sapevo che scovare qualcuno disposto a mettere le mani sul motore non sarebbe stato né facile né poco costoso. Tuttavia, alla fine, rintracciai l'unico meccanico del paese, un tipo segaligno e di mezz'età di nome Cahey e, dopo avergli mostrato che nel portafoglio non tenevo soltanto le foto di famiglia, riuscii a trascinarlo fuori di casa e a fargli rimboccare le maniche. Per fortuna la sua officina non era distante, e spingere l'auto fin lì fu questione di poco. Erano circa le quattro del pomeriggio di una giornata fatta di noia e di afa, tuttavia l'officina di Cahey era ben attrezzata, ed io già m'illudevo che avrei potuto cavarmela con un'oretta di attesa o poco più. Ma quel cristo di un posapiano non aveva intenzione di mettersi a correre per i miei begli occhi: si accese una sigaretta, girellò intorno alla macchina come se dovesse valutarne prima di tutto le condizioni di carrozzeria e della vernice, quindi ci guardò dentro, sotto e sopra. Poi, passata mezz'ora, si fece uscire di bocca una prima diagnosi del guasto, col tono di chi annuncia ai parenti del malato che l'operazione chirurgica sarà impegnativa e dall'esito incerto. Io bestemmiai e tornai a tirare fuori il portafoglio. Come Dio volle, riuscii a fargli borbottare qualcosa di molto vago sul fatto che non mi aspettassi niente prima delle dieci di sera. S'erano fatte quasi le cinque, e da lì a Bismarck c'erano oltre quattrocento chilometri di strada. All'ufficio postale del paese trovai un telefono, e chiamai mia sorella per dirle che quella sera non mi aspettasse alzata. Poi, affamato come un coyote, mi misi alla ricerca di un posto dove potessi buttar giù un boccone. Ma quel giorno la mia stella della fortuna aveva ormai chiarito d'essere in sciopero. C'era una trattoria, «La Rana Rossa», però un cartello appeso alla maniglia della porta diceva «Domenica chiuso». E sull'uscio dell'unico bar di Spruce Gap un altro cartello, abbastanza irritante, informava gli avventori: «Sono a pescare. Torno lunedì». Un rapido giro turistico del paese mi rese
edotto che i locali pubblici erano tutti lì. Tornai all'officina di Cahey per chiedergli dove avrei potuto comperare almeno un panino e una birra, e lo trovai disteso sotto la mia macchina e intento a meditare, con una torcia elettrica in mano e una gomma da masticare fra i denti. Parve lieto di vedermi: si era accorto che un manicotto aveva ceduto, ed era ansioso di comunicarmi quell'eccitante novità. «Va bene», ringhiai. «Ma ora voglio soltanto sapere se in questa metropoli c'è un buco dove apparecchino tavola per i forestieri.» «Amico, mi venga un canchero se non vi capisco», borbottò lui. Si grattò la testa con una mano sporca di grasso. «Beh... perché non provate a rivolgervi ai Mulligan? In fondo alla strada qui dietro, terzultima casa sulla destra. Dite pure che vi mando io.» Mi avviai, ma avevo la seccante impressione che ci avrei fatto la figura del mendicante. Anzi, odiavo la sola idea di chiedere un pasto a questi Mulligan, chiunque fossero. Quando però fui in fondo alla strada vidi più avanti un'insegna: «La Bocca del Diavolo» - Pensione e camere, e fui sorpreso che Cahey non me ne avesse parlato. Evidentemente l'insegna faceva riferimento alla «Testa del Diavolo», alla quale il meccanico mi aveva accennato per chiedermi cosa ne pensavo. Gli avevo risposto che, a parer mio, avrebbero dovuto metterci sotto una carica di dinamite; ma poi, vedendo la sua faccia, avevo concesso che forse dopotutto dava un certo tono alla zona. Il fatto che lì esistesse una pensione chiamata «La Bocca del Diavolo», confermava che la scultura dava davvero al paese un certo tono, decisamente lugubre. Mi parve subito che ci fosse qualcosa di singolare nell'aspetto di quell'edificio, se non altro perché non assomigliava a niente che potesse attirare qualcuno in cerca di una camera. Non solo era una bicocca cadente, ma anche sporca. La veranda priva di una colonna appariva sbilenca, il tetto pendeva da un lato come dopo il passaggio di una tromba d'aria, e l'intera struttura a due piani piangeva dal desiderio di una mano di vernice. Sotto il tettuccio della veranda c'erano tante di quelle ragnatele, che un giocatore di basket avrebbe rischiato di perderci la parrucca, e a terra c'era uno strato di foglie secche e polvere dove più che una scopa sarebbe occorsa una ruspa. La padrona di casa, pensai, doveva avere un'artrite da far piangere. Ma lì intorno c'era qualcosa che intuivo più che vedere, un'atmosfera spiacevole, un sapore di fatti anormali che, pur indefinibile, mi diede un brivido nella schiena. Io non sono mai stato superstizioso, passo sotto le
scale con indifferenza e cedo lietamente il passo a tutti i gatti neri che vogliono attraversarmi la strada, però quel posto - chissà perché - m'innervosiva. E tuttavia, ricordai a me stesso, se volevo mangiare, dovevo andare a cercar la materia prima là dov'erano attrezzati per distribuirla. Così scesi dal marciapiede verso la «Bocca del Diavolo». Quando bussai, mi parve che all'interno l'eco dei colpi risuonasse entro locali del tutto vuoti, forse perché non si udivano rumori di alcun genere, né uno scalpiccio, né una radio accesa. Non ci fu risposta. Di campanelli o batacchi neppure l'ombra. Seccato, bussai molto più forte e, sventuratamente, esagerai in energia, perché uno dei pannelli di legno si spaccò a metà come se fosse marcio. Nella porta si aprì un buco e, imprecando per l'imbarazzo, mi accorsi che proprio in quel momento da dentro una donna mi stava aprendo. «Gesù Cristo santo, mi spiace. Non so come ho... uh! Pagherò il danno, signora», borbottai, tentando un sorrisetto. Lei parve non far caso alla mia malefatta. Era una donna singolarmente alta, magrissima, di età fra i 55 e i 60 anni, e con capelli bianchi come la neve. Aveva un bel volto espressivo, ma molto triste, anzi il più triste che avessi mai visto in vita mia. La sua faccia era quella fra speranzosa e dolente che hanno i Santi al martirio in certi dipinti rinascimentali. Ma quel che più mi colpì furono gli occhi. Erano due ovali neri, quasi privi del bianco della cornea, simili a finestre oscure aperte su un'anima in ebollizione. E in essi c'era una sorta di potere ipnotico, o magnetico, così intenso, che per qualche secondo ne fui paralizzato. Suppongo di aver avuto un'aria idiota mentre lei stava lì a fissarmi sulla soglia. Trascorsero venti secondi buoni prima che mi rendessi conto del suo silenzio. Infine, un lievissimo sorriso riuscì a farsi strada nella tragica maschera di mestizia del suo volto. «Entra», mormorò appena. I miei piedi le ubbidirono. Nel chiudere la porta, sentii che lì dentro c'era odore di umide cose polverose, di legno lasciato a marcire per anni, e di chiuso. Il corridoio in cui venni introdotto era praticamente al buio. Dall'esterno non ci avevo fatto molto caso, ma ora fui costretto a notare che tutte le imposte erano serrate. La luce entrava dalle fessure, creando una penombra il cui effetto era fantomatico e quasi sepolcrale. Qua e là l'ombra era così fitta che provavo l'impulso di starne lontano il più possibile. O meglio, avevo una gran voglia di voltarmi e uscire da lì e, se fossi riuscito a pensare una buona scusa, l'avrei fatto. D'altra parte, la
mia ospite si mostrava cortese, e m'invitò a tenerle dietro con un gesto e un'altra di quelle occhiate così cariche di cupo magnetismo. Quasi automaticamente, la seguii in quella che risultò essere una stanza da pranzo. Il lungo tavolo era coperto da una tovaglia ricamata, per quanto vecchiotta, ed era già apparecchiato per sette. Ne fui sorpreso, perché avrei detto che in quella casa non ci fosse un'anima a parte me e la donna. Su una parete c'era un grosso orologio d'aspetto ottocentesco, un po' storto e fermo sulle dodici. Accanto, una cornice conteneva il ritratto di una vecchia dama, e le tende appese davanti alle finestre apparivano tutt'altro che fresche di bucato. Anche lì la penombra, le imposte chiuse, e l'odore di muffa, lasciavano perplessi. A questo punto dovetti accorgermi che la donna era sorprendentemente poco incline a parlare, ma neppure io mi stavo dimostrando ciarliero. Per porvi rimedio mormorai qualcosa sul fatto che avrei volentieri cenato, se era possibile. Ricordo che la donna ebbe un fuggevole quanto doloroso sorriso, e quindi parlò con una voce il cui tono mi lasciò stupefatto: vuoto e quasi irreale, sembrava risuonare lontano e con una singolare eco di sottofondo che lo sdoppiava. Malgrado ciò, le sue parole furono cortesemente banali: «Ma certo. Saremo lieti di averti con noi», disse. E mi indicò una delle sedie. Vincendo l'impulso di chiederle di aprire una finestra, mi sedetti. Lei restò al mio fianco e, alzando lo sguardo, vidi che mi fissava con inspiegabile e imbarazzante concentrazione, quasi divorandomi con gli occhi. Stavolta feci fatica a risponderle con un sorrisetto gentile. «Ti stavo aspettando, Henry», disse, con quella sua voce dal timbro diafano e vibrante. «Come, prego?», chiesi. E in quel preciso istante compresi che nella testa della donna qualcosa non doveva funzionare troppo bene. Era chiaro che mi stava confondendo con un altro, ma quell'equivoco non mi piacque per nulla. «Ti ho aspettato per tutti questi anni», continuò lei. «Ed ora finalmente sei venuto. Gli altri saranno qui a momenti, vedrai.» Non avevo la più dannata idea di chi fossero questi «altri», anzi, avrei pagato cinquanta dollari per il sublime piacere di non conoscerli mai. Avevo fame, e questo era un fatto, ma l'atteggiamento di lei mi aveva fatto venire un nodo allo stomaco, e mi dissi che sarei stato molto più felice fuori da quella casa. Feci per scostare indietro la sedia... e mi accorsi che non
riuscivo a muovermi. Cosa mi succedeva? In qualche modo incomprensibile gli occhi della donna mi stavano letteralmente inchiodando dov'ero. Nella scarsa luce erano due pozze di tenebra, due fosse scavate nelle orbite da cui usciva un fluido che mi paralizzava. «Saranno qui fra poco. So che verranno tutti», disse ancora, con inflessione ancor più surreale. «Devono venire. Avrai un po' di pazienza, Henry, non è vero?» Sarebbe servito a qualcosa informarla che non mi chiamavo Henry? Ne dubitavo. Forse sarebbe stato uno sbaglio. Alcuni lievi rumori al piano di sopra mi fecero trasalire: topi, pensai, riconoscendo il loro caratteristico zampettare. Ero tutto teso, e avrei pagato volentieri tutto quel che avevo in tasca pur di andarmene da lì. Ad ogni modo cercai di dirmi che, se davvero avevo paura di una fragile vecchia dai capelli bianchi, ero il più grosso codardo che ci fosse a ovest della Costa Atlantica. Ed ero uno sciocco a lasciarmi suggestionare da lei. I miei occhi si andavano abituando alla penombra, e vidi su una credenza un'antiquata lampada a kerosene. Oltre una porta notai la presenza di una macchina da cucire che sembrava un cimelio, e lì presso un vetusto scaldaletto a brace. Appesa in un angolo stava una grossa gabbia, senza alcun uccellino all'interno, e sul pavimento giaceva abbandonato un collare per cani. «Sono stati via a lungo, molto a lungo. Ma torneranno presto. Devono tornare», disse ancora la donna, così lentamente che pareva gemere. «È tanto che se ne sono andati... ed io ho aspettato, ho aspettato, ho aspettato. Sono felice che tu sia qui, Henry. Stasera ceneremo di nuovo insieme.» Da come la disse, la frase sembrava più un ordine che una constatazione, e la sua faccia aveva la determinazione di chi non ammette rifiuti. Più volte feci uno sforzo per alzarmi dalla sedia, ma il fondo dei miei pantaloni sembrava incollato ad essa, o forse erano i muscoli a non ubbidirmi. Nonostante questo fatto allarmante, la situazione mi si delineava chiara: quella povera donna sola, vivendo in una vecchia stamberga piena di polvere, doveva essersi rimbecillita a causa dei suoi dispiaceri. Confondeva il passato col presente, e mi scambiava per uno dei suoi conoscenti. Un vero peccato che la poverina non fosse stata ricoverata in una casa di riposo, dove si sarebbero presi cura di lei nei suoi ultimi anni di vita. Ma quella era solo un'ipotesi, una riflessione che tentavo di razionalizzare, mentre qualcosa dentro di me non accettava una spiegazione così logica e semplice. Senza ragione, o al di là della ragione, mi sentivo gelare e rab-
brividire in fondo all'anima. Di nuovo tentai di vincere la suggestione che m'immobilizzava, però uno sguardo di quei penetranti occhi vuoti e senza luce mi tolse la volontà e le forze. Intanto, all'esterno, stava scendendo lentamente il crepuscolo. Dalle fessure delle imposte filtravano lame di luce sempre più grigia. La donna non distoglieva lo sguardo da me un solo istante. Dopo un bel po', forse mezz'ora o forse un'ora - mi sentivo confuso e avevo perso la cognizione del tempo - il volto di lei si trasfigurò all'improvviso. Non ho mai visto una tale gioia illuminare e modificare a quel punto i lineamenti di una persona. «Eccoli, sono qui! Sono tutti qui!», esclamò, e corse alla porta. Un gran refolo di vento fu tutto ciò che entrò dalla strada, portandosi dietro una nuvola di polvere. In quell'intervallo sarei forse riuscito ad alzarmi per andar via, se non fossi stato trattenuto dallo sbigottimento alla vista della scena che seguì. Dopo che la porta fu richiusa, dal corridoio venne un gridolino di felicità allo stato puro, quindi la mia ospite esclamò, estasiata: «Ah, finalmente siete qui! Sapevo che sareste venuti. Mary, George, Arthur! Come state? Ellen, cara, e tu Katie... oh Joe! Che piacere vedervi! Henry è già qui, sapete? Vi stava aspettando». Coi gesti eccitati di una padrona di casa che scorti una folla di ospiti, la donna rientrò nella sala da pranzo, ma con lei non c'era assolutamente nessuno. In quella scarsa luce il volto della mia ospite era una chiazza bianca, deformato da una gioia indicibile. «Qui, Mary, tu siediti qui: e George accanto a te. Ecco qua! Arthur di fronte a voi, con Katie ed Ellen. Oh, è proprio come ai vecchi tempi, vero, miei cari? Joe a capotavola, perché è il più anziano. Non siete cambiati affatto, sapete? Neanche tu, Ellen, e Katie è proprio deliziosa. Ma è passato tanto, tanto tempo, dall'ultima volta che siete venuti!» Cicalando a questo modo, la donna si aggirava intorno alla tavola, parlando all'aria con quella sua stranissima voce che sprizzava letizia. Nel guardarla ero pietrificato e incredulo, come lo spettatore di un film dell'orrore. Dopo un minuto o due che si agitava dal piacere, apparve soddisfatta di come aveva sistemato a tavola i suoi invisibili visitatori, quindi tornò verso di me con un gran sorriso. «Vedete, miei cari? C'è anche Henry. È sempre stato un solitario, questo birbante scontroso, ma oggi cena con noi.» Si volse a fare un gesto verso qualcosa dietro di me. «Giù, Rover! Stai giù, cuccia! Fai il bravo cagnolino e non mettere le zampe sulla tavola.»
In qualche modo quel riferimento all'animale - inesistente o invisibile fu la goccia che fece traboccare il vaso, e dalla bocca mi uscì un verso rauco, un grido tremolante. Atterrito, cercai di alzarmi, e di nuovo scoprii che le gambe non mi ubbidivano. «Allora, Henry, perché non saluti gli altri?», domandò la donna, tornando seria e triste come se la mia mancanza di entusiasmo la offendesse. «Suvvia, Henry, alzati e saluta i tuoi fratelli. Di' loro almeno una parola», mi incitò, sbarrandomi gli occhi in faccia. «Lascia che il passato seppellisca il passato e almeno stasera sii cortese. Vieni, siete della stessa carne e dello stesso sangue, infine.» Quelle parole mi fecero rabbrividire come un ghiacciolo che mi scivolasse giù per la schiena. E, forse a causa della suggestione che emanava da lei, mi parve di sentire delle presenze intorno alla tavola, ed ebbi netta la sensazione di avere i loro occhi addosso in attesa di un mio gesto o di una mia parola. A quel comando «Alzati e salutali», mi accorsi però d'essere libero dalla paralisi che mi aveva incollato alla sedia, e mi alzai in piedi. La donna stava davanti a me, sorridente del suo orrido sorriso speranzoso, bloccandomi la strada verso la porta. E, mentre sollevavo un braccio per scansarla, feci la scoperta al cui ricordo perfino oggi mi sento agghiacciare: il suo corpo non offrì alcuna resistenza solida alla mia mano, che le passò attraverso senza captare altro che aria. Dieci secondi più tardi ero già in strada e, prima di trovare il coraggio di voltarmi indietro, percorsi alcune centinaia di metri fuggendo a rotta di collo. Era buio, e l'illuminazione di Spruce Gap consisteva in cinque o sei lampioni molto distanziati. Solo allora, quando il batticuore mi si placò, compresi d'essere stato in quella casa per più di tre ore. Verso le nove ritrovai abbastanza calma da poter tornare all'officina di Cahey senza che la mia faccia gli apparisse quella di un esaltato. Non ci tenevo affatto a raccontargli quanto mi era successo, se non altro per non dargli motivo di far chiacchiere sul forestiero idiota a cui aveva riparato la macchina. Mi accesi una sigaretta e restai a guardarlo mentre, con ostentata lentezza, rimontava guarnizioni e bulloni. Ma dopo un po' non resistetti. «Sentite, Cahey», dissi. «Dall'altra parte del paese ho visto una pensione, "La Bocca del Diavolo", mi pare che si chiami. Chi è la donna che la gestisce?» Lui frugò sul bancone in cerca di una chiave inglese. «Non la gestisce proprio nessuno, amico. Quella casa è disabitata. La
vecchia Anne Steward, la proprietaria, è morta una ventina d'anni fa.» Mi fissò. «Ma se avete deciso di dormire qui in paese, nel retrobottega ho un letto comodo. E c'è anche il cesso. Se non siete di gusti troppo sofisticati...» «È morta vent'anni fa? Ah...», borbottai. «Ma perché ha dato un nome tanto lugubre alla sua pensione?» Cahey tornò a trascinarsi faticosamente sotto la macchina. «Oh, è una vecchia storia. Una volta con lei abitavano sette fratelli, tre dei quali lavoravano alla miniera. Grimwald, si chiamavano, e la vecchia Anne li curava come una chioccia cura i suoi pulcini. Viveva per loro. Poi, un giorno, accadde la disgrazia.» «Quale disgrazia?», mormorai. «Un incidente d'auto. Sei dei sette fratelli morirono sul colpo. L'unico che si salvò fu Henry, ma questo solo perché viaggiava su un'altra macchina. Bravo ragazzo quell'Henry, a parer mio, anche se non andava d'accordo coi fratelli. Accadde proprio alla Testa del Diavolo, sapete? La Ford su cui viaggiavano andò a infilarsi a tutta velocità proprio in quella bocca di pietra, e morirono sul colpo. È per questo che la vecchia Anne volle chiamare così la sua pensione... Era diventata mezza matta, secondo me. Per un anno o poco più continuò ad affittare camere, ma poi morì anche lei. Non resse al dolore, credo.» Fui lieto che Cahey avesse la testa infilata sotto l'auto, perché ero diventato pallido e mi sentivo la pelle d'oca. «Viaggiavano in sei su una Ford?», chiesi, sottovoce. «Tutti salvo Henry. Lui li precedeva con un furgoncino. Allungatemi la torcia elettrica, per favore... grazie. Accadde un pomeriggio di domenica, se non rammento male. Henry stesso mi raccontò che proprio davanti alla Testa del Diavolo si vide all'improvviso sbucare un asino sulla strada, e inchiodò i freni. La vecchia Ford modello T su cui viaggiavano gli altri sbandò per evitarlo, schizzò fuori di strada e andò a fracassarsi contro quella grande scultura.» Cahey fece un sospirone. «Per un po' qui in paese non si parlò d'altro. E chi ne soffrì di più fu la vecchia Anne. Eh, cose che capitano, purtroppo... Dannato bullone! Credo che ora fumerò una sigaretta anch'io, amico.» Uscì da sotto l'auto e sedette, con la schiena appoggiata alla carrozzeria. Gli tesi il mio pacchetto di Marlboro e lo feci accendere. «Anche il povero Henry...» Tirò una boccata. «Non visse a lungo.» «Morì anche lui? Cosa gli successe?»
Cahey storse la bocca. «Fui l'ultimo a vederlo vivo. Aveva deciso di lasciare il paese, capite? Passò qui da me a farsi riparare il furgone prima di andar via... combinazione, era giusto una domenica sera, verso quest'ora. Ma gli feci il lavoro ugualmente. Lui partì, diretto a est verso la Statale ma, giunto ad una decina di chilometri da qui, prese male una curva finendo in un burroncello. Una scalogna nera, bisogna proprio dirlo. Ma quando è destino, è destino.» Tossicchiai. «Già. Uh... sentite, Cahey, ripensandoci... credo che farei bene ad accettare la vostra offerta di dormire qui, se non vi spiace. Ripartirò domattina presto. Non è prudente viaggiare di notte su una strada che non si conosce. Non vi pare?» «Saggia decisione, amico», fu d'accordo lui. HAROLD LAWLOR Chi sta chiamando il fantasma? Vieni, disse lo spettro nell'ombra lunare, seguimi alla lontana isola di Chissadove. Pope, In memoria di una donna sfortunata Non molto tempo fa, mi accadde di leggere le righe qui sopra, e mi parve che l'autore le avesse scritte con in mente qualcuno come Sharon Powell. Perfino il titolo. Finora non ho mai fatto parola di ciò che accadde in quei giorni, anzi a volte mi chiedo cosa sia avvenuto in realtà. Se oggi ne scrivo, è solo perché ho bisogno di svuotarmi, solo perché sono stanco di fare speculazioni infruttuose, così che la mia mente sia libera di dedicarsi ad altri pensieri. Ricordo che era una notte insolitamente calda per un inizio di maggio, quella in cui i veli del terrore e dell'incubo cominciarono ad avvolgere il mio datore di lavoro, Ballard Powell. Spesso ho pensato che a quegli avvenimenti si sarebbe meglio adattata una notte di nera tempesta, rotta da lampi e da tuoni, invece il cielo era pieno di stelle e nell'aria spirava un'odorosa brezza primaverile. L'avevo appena riportato a Lake Forest dopo un concerto in città e, dopo averlo fatto scendere davanti all'ingresso della villa, feci indietreggiare la Cadillac fino in garage. Tutto era buio, e la signora Giddings, la governan-
te, doveva essere a letto da un pezzo. Raggiunto il piccolo edificio della dispensa, salii la scala fino all'appartamentino di tre stanze che mi era stato assegnato quando avevo preso servizio come giardiniere-autista. Entrando, mi tolsi il berretto e lo gettai sul tavolo, passandomi una mano sulla fronte sudata, poi mi sfilai la giacca di gabardine dell'uniforme e la camicia. Faceva troppo caldo perché avessi voglia di lavorare al mio romanzo, sebbene proprio la speranza di portarlo a termine fosse il solo motivo per cui avevo scelto un lavoro di quel genere dopo aver lasciato il college, l'anno addietro. Paga, vitto e alloggio erano soddisfacenti e, poiché Ballard Powell viveva con molta tranquillità, il lavoro mi lasciava tempo per scrivere. Ma non con l'afa di quella notte. Accesi la radio tenendo il volume basso e mi distesi sul divano in mutande e canottiera, allungando una mano in cerca di una rivista. Ma, mentre giacevo lì, con l'idea di rinfrescarmi appena qualche minuto con l'aria che entrava dalla finestra aperta, mi appisolai senza accorgermene. Doveva esser trascorso pochissimo tempo allorché un assordante trapestio mi strappò dal sonno: qualcuno stava bussando sulla porta di legno in fondo alle scale, e bussava con tutti e due i pugni a giudicare dal fracasso martellante. Il senso d'urgenza pressante che trapelava da quei colpi violenti mi fece passare d'un tratto la sonnolenza, e in fretta m'infilai camicia e pantaloni. Col batticuore scesi le scale, aprii la porta, e Ballard Powell quasi mi precipitò addosso. Ansimava con gli occhi sbarrati, la testa voltata indietro come se guardasse qualcuno nello spazio fra le siepi e la villa, qualcuno che lo avesse inseguito. «Chiudete la porta!», rantolò. Poi, senza neppure controllare che avessi eseguito, divorò le scale a quattro gradini per volta. Io non avevo visto assolutamente nulla sul prato illuminato dalla luna, e continuai a non scorgervi nulla anche mentre chiudevo; tuttavia misi il catenaccio, e mi premurai di salire dietro al mio sconvolto datore di lavoro. Si era lasciato cadere sul divano del soggiorno. Il respiro gli scaturiva come un ansito dai polmoni sfiatati, aveva il volto madido di sudore e deglutiva a vuoto in continuazione. Stentavo a credere che quella figura spaventata e tremante fosse Ballard Powell. Era un uomo sui quarantotto anni, grigio alle tempie, alto e snello, solitamente abile nell'esibire il freddo e
scostante contegno dell'uomo d'affari di successo. L'avrei creduto incapace di manifestazioni emotive, e mi parve strano vederlo spoglio del suo rigido autocontrollo. «Cos'è successo?», gli domandai. Scosse la testa, ancora troppo senza fiato per rispondere. Dopo un attimo di esitazione andai nel cucinino e gli preparai un Martini con molto gin, sebbene sapessi che non approvava vedermi in possesso di alcoolici. Ma non fece commenti: si limitò ad afferrare il bicchiere e lo vuotò d'un fiato. Vidi il suo pomo d'Adamo andare su e giù convulsamente. «Qualcosa vi ha spaventato. Che è successo?», ripetei. Lui evitò i miei occhi, accigliato e scontroso. «Niente», si decise a borbottare infine. Ero incredulo. «Niente?» «Ho creduto... uh, mi era parso di aver sentito un rumore.» Tolse di tasca un fazzoletto ricamato e se lo passò sulla fronte. Poi mi elargì una smorfia che poteva essere un sorrisetto imbarazzato. «Ma naturalmente è assurdo. Devo essermi sbagliato.» A me parve significativo che continuasse a sfuggire il mio sguardo, e inoltre aveva parlato col tono di uno che desidera convincere innanzitutto se stesso. Ma qualcosa aveva udito, anche se aveva l'aria di non volerci credere. «Cos'è che vi è sembrato assurdo?», insistei. «Vi ho detto che non è niente!», esclamò irritato. Adesso era tornato padrone di sé, e l'occhiata fredda che mi rivolse significava, come sapevo, che io ero solo l'autista e non dovevo permettermi di seccarlo con domande imbarazzanti. Mi strinsi nelle spalle. Se Powell si lasciava ridurre tutto un tremito per paura di un «niente», non erano affari miei. Così dissi soltanto: «Volete che vi riaccompagni alla villa?». Credo che dapprima intendesse rifiutare, se non altro per lasciarmi fuori da una faccenda in cui pareva già pentito di avermi immischiato. Ma evidentemente non era del tutto tranquillo, perché decise: «Forse sarebbe meglio che veniste con me, Haines». Indossai la giacca, quindi lo precedetti dabbasso e ci avviammo insieme sul vialetto cementato che conduceva alla villa. La proprietà era vasta, con un giardino molto esteso e siepi all'intorno, e la villa distava dalla dépendance una cinquantina di metri. Per precauzione, sebbene la notte fosse
chiara, presi una lampada a pile nel garage. A metà del vialetto, Powell si esibì in una secca risatina. «Mi spiace di esservi capitato in casa a quel modo. Immagino di avervi sorpreso, eh? A dire la verità ero convinto di aver sentito un ladro in giardino.» Vidi che mi stava fissando per studiare che effetto mi avesse fatto quella dichiarazione. «In tal caso sarà meglio che dia un'occhiata intorno alla casa.» Ma non credevo una parola di quel che aveva detto: il tempo di pensarci su non gli era mancato, e la storiella se l'era inventata per mettere a tacere la mia curiosità. Ero sicuro che Powell non fosse un codardo, e riflettei che non poteva essere stato un ladro a farlo correre fino alla dépendance fuori di sé dallo spavento. Comunque fosse, ripetei fra me, se la metteva su quel piano, erano affari suoi. Il vialetto curvava intorno all'ala dei servizi, e più oltre c'era la terrazza frontale a cui si accedeva con quattro scalini. Su di essa si aprivano le cinque porte a vetri del grande salone a pianterreno, una delle quali era anche l'ingresso principale dell'edificio. Fu proprio mentre salivo il primo dei gradini che sentii la musica. Anche Powell l'aveva udita. Doveva averla udita per forza. Ma penso che sperasse ancora, contro ogni speranza, di non aver avuto che un'allucinazione, cosicché continuò a camminare testardamente e deciso a far finta di nulla se io non avessi reagito in alcun modo. Ma quelle note di pianoforte non esistevano solo nella sua immaginazione. Solo adesso mi rendo conto di quanto disperatamente egli debba aver cercato di convincersi che sognava. Invece io lo afferrai per un braccio. «Ascoltate!», sussurrai. Il vaso del suo autocontrollo non aspettava che quella goccia per traboccare. Un brivido lo scosse. «Oh, Dio!», mormorò, angosciato. «Allora lo sentite anche voi!» Accennai di sì, ma ero più interessato a quel che udivo che alle emozioni di Powell. Usciva proprio dal salone, ed era una canzone, una vecchia malinconica canzone che talvolta avevo udito nelle cappelle in accompagnamento ai servizi funebri: «Dolce isola di Chissadove», e a intonarla era la voce da contralto di una donna. Ma, echeggiando fuori dal buio della casa, suonava, lugubre e tetra, addirittura spettrale. Un rivolo di gelo mi scivolò lungo la spina dorsale. «Aspettate qui», dissi.
Camminando in punta di piedi, attraversai la vasta terrazza, entrai dalla più vicina porta a vetri che vidi socchiusa, e mi fermai subito oltre le tende. Nel locale c'era buio pesto, ma conoscevo bene la casa e sapevo dove si trovava il pianoforte: presso la parete opposta, a sinistra. Puntai la torcia in quella direzione e la accesi. Il raggio illuminò in pieno la tastiera e fece luce per un raggio di vari metri all'intorno. Le corde dello strumento vibravano e qualcuno lo stava suonando, anche se avrei potuto ben dubitarne, mentre la voce continuava a cantare. Ma sul seggiolino davanti al pianoforte non c'era seduto nessuno. Illuminai ogni angolo della sala. «Chi c'è qui?», chiesi, cercando di avere un tono duro. Era una domanda stupida: i miei occhi mi stavano dicendo che il locale era del tutto vuoto, e naturalmente non ebbi risposta. La voce femminile attaccò il lento e malinconico ritornello. Solo in quel momento me ne accorsi. E, nel capirlo, un terrore superstizioso mi fece quasi rizzare i capelli, mentre m'immobilizzavo tremante, col sudore che mi si gelava addosso. Non c'era da stupirsi se Powell era fuggito, visto che ora finalmente anch'io riconoscevo quella voce. Indietreggiai di nuovo sulla terrazza e corsi fin sul vialetto dove l'uomo mi aspettava ancora. Proprio allora la musica tacque. «Quella voce!», esclamai. «A cantare era vostra moglie, non è così? Era la signora Powell!» Attesi che lui negasse, pregai che lo facesse. Ma lui disse soltanto in tono piatto: «Oh, Dio!». Era bianco come un cencio. «Ma lei è morta. Voi lo sapete come lo so io. Sharon è morta sei mesi fa.» Cosa potevo rispondergli? Era vero. Sharon Powell giaceva nella tomba da sei mesi, eppure quella che avevo udito era la sua voce. Il timbro soffice, un po' basso, era inconfondibile. Mi sentivo scosso e confuso. Nella mia mentalità e nella mia filosofia della vita non c'è niente di mistico. Per me, quando uno è morto, non esiste più e, al di là di quella soglia, c'è solo il niente. Non ho mai creduto alle scemenze degli spiritisti secondo i quali l'anima - o l'essenza, o il fluido, chiamatelo come vi pare torni a far giochetti insulsi tipo battere sui tavolini o sussurrare numeri del lotto alle orecchie dei dormienti. La faccenda di Powell offese dunque, dall'inizio alla fine, tutte le mie salde convinzioni. E, ciò malgrado, io dovevo credere a quello che i miei occhi e le mie orecchie avevano percepito. Powell mi riportò alla realtà strattonandomi convulsamente un braccio.
«Io non posso entrare là.» Accostò il volto fino a sfiorarmi il naso. «Chiamatemi vigliacco se volete, ma in casa non ci vado. Dormirò con voi.» Dio sa se potevo biasimarlo. Volgemmo le spalle alla villa e tornammo alla dépendance, in silenzio. Si sarebbe potuto supporre che dovessimo far congetture per il resto della notte, speculando su quel che era successo, ma non andò affatto così. Lasciai a Powell la camera da letto e mi sistemai alla meglio sul divano del salotto, e né io né lui dicemmo una parola su quanto avevamo visto e udito. Se ero curioso, la reticenza sfumata di ostilità del mio datore di lavoro mi scoraggiò dal fargli domande. Il suo atteggiamento chiuso mi diede la sensazione che, mentre l'accaduto aveva lasciato me stupefatto, egli sapesse qualcosa grazie alla quale il mistero gli risultava forse spiegabile. Ma non era certo il tipo che si confidava, e se ne andò a letto senza neanche borbottarmi un freddo «buonanotte». Il mattino successivo portò con sé un'atmosfera di irrealtà, perché mi svegliai e subito dubitai d'aver sognato gli avvenimenti di quella notte. Tanto per cominciare, vidi che Powell non era più nel mio appartamentino. Avrei potuto dubitare d'averlo ospitato, se non fosse stato per il letto, disfatto come se vi si fosse rigirato dentro senza chiudere occhio. Dunque la luce del giorno aveva avuto il solito effetto sui fantasmi, facendoli svanire anche dalla sua mente. Non avevo tempo da sprecare in ipotesi. Il mistero è una cosa che affascina solo nelle tenebre della notte, mentre col mattino la vita riprende il suo corso ben solido e concreto. Alle otto e trenta avevo preparato l'auto davanti alla casa, in attesa di condurre Powell in città. L'uomo era membro del Consiglio di Amministrazione di una Società con gli uffici in La Salle Street e, anche se la morte della moglie lo aveva lasciato unico erede di una bella fortuna, continuava a lavorare come ogni giorno. Quando uscì di casa, non aveva l'aria diversa dal solito, salvo un lievissimo accenno di nervosismo che notai solo perché me l'aspettavo. Non fece parola dell'accaduto e, in quanto a me, non ritenni saggio tornare sull'argomento: se a lui era piaciuto cancellarsi la faccenda dalla mente, io ero lieto di poter fare altrettanto. E suppongo che, se la cosa fosse terminata lì, prima o poi i bizzarri eventi di quella notte sarebbero finiti nel dimenticatoio, visto che il cervello umano è insuperabile nello scordare le esperienze antipatiche. Ballard Powell lasciò l'ufficio prima del consueto, ed erano appena le
quattro e mezzo allorché facemmo ritorno a Lake Forest. Aveva portato con sé un pesante pacco di pratiche e documenti, che mi chiese di portargli nello studio, e sulla terrazza mi precedette per tenermi aperta la porta. Eravamo sulla soglia del salone a pianterreno, quando sentii l'odore, o meglio il greve e deprimente sentore, di garofani e crisantemi che appesta le cappelle dei cimiteri. Non ci volle molto a capire da dove provenisse: qualcuno aveva sistemato proprio nel salone una grossa corona di fiori, attraversata da una fascia dal bordo dorato. Avanzammo per esaminarla mossi dalla stessa allibita curiosità. Non credo che fino a quel momento Powell si fosse allarmato o spaventato, o quantomeno non ne dava segno. Sembrava solo blandamente sorpreso nel vedere quel funebre ornamento, così fuori posto nel salone di casa sua. Ma potei sentirgli uscire di bocca un ansito, appena fummo abbastanza vicini da leggere la scritta sulla fascia: Al mio caro marito BALLARD POWELL Requiescat in pace Se una cosa simile fosse capitata a me, avrei spulciato l'elenco dei miei nemici - posto che ne avessi - in cerca di uno abbastanza ricco da potersi permettere la spesa di cinquanta dollari pur di sogghignare alle mie spalle. E avrei giurato che Powell qualche nemicuccio lo aveva. Non mi pareva il caso di fare ipotesi esoteriche. Lui invece barcollò indietro inorridito. «Buttate questa roba nell'inceneritore, Haines. Bruciatela!» Era pallidissimo. Si asciugò un labbro con il fazzoletto e mi accorsi che se l'era morso a sangue. Fu solo per un impulso umanitario che gli feci osservare: «Questo dev'essere il concetto che qualche idiota ha di uno scherzo spiritoso». Deposi il pacco di documenti, presi la corona e mi diressi alla porta. Powell mi fissò stranamente. Di nuovo ebbi l'impressione che non volesse mettermi a parte di certi suoi sospetti. «Sì, sì, naturalmente. Dev'essere così», disse. Ma non era così, anche se non riuscivo a immaginare quale altra teoria avesse per spiegare l'origine di quella corona. L'odore dei fiori era spiacevole quanto la minacciosa allusione alla sua morte, e mi sentii sollevato quando ebbi ficcato l'oggetto nell'inceneritore, in cantina. Quando risalii per domandargli se avesse bisogno di altro, lo
trovai che stava interrogando la signora Giddings, la governante, in biblioteca. «È stata portata solo mezz'ora prima che voi rientraste, signore», stava dicendo la donna. «Ho firmato io la ricevuta. Ma ho paura di non aver notato quale fiorista l'abbia mandata.» «Ma di sicuro dovete esservi incuriosita, nel vedere cos'era e che razza di scritta ci fosse sopra», replicò lui stizzito. «Non l'ho letta, signore», si difese la governante. «Non sapevo neppure cosa fosse, salvo che si trattava di fiori. Era completamente avvolta in un foglio di carta, e io l'ho messa nel salone così com'era. Pensavo di togliere la carta prima che rientraste, ma voi siete...» «E allora chi è stato a scartare la corona?» «Non può averlo fatto nessuno, signore. Oggi è il giorno di libertà della cameriera, e io ero sola in casa prima che voi e Haines tornaste.» Powell fece qualche passo avanti e indietro con aria cupa, poi le borbottò che poteva andare. Quando la signora Giddings fu uscita, sedette in poltrona e si mordicchiò il labbro inferiore con aria pensosa. Attesi pazientemente un minuto prima di farmi avanti. «Avete qualche incarico per me, signore?» Mi fece un distratto cenno di congedo. «No, niente Haines.» Uscendo dalla biblioteca mi accorsi che la signora Giddings era rimasta ad aspettarmi in fondo al corridoio e, nel vedere che mi indicava in silenzio di seguirla, le tenni dietro fino in cucina. Qui giunti, mi sussurrò nervosamente di chiudere la porta. «Haines, in questa casa sta succedendo qualcosa di molto strano», mormorò, concitata. «Guardate qua. Avevo paura di farlo vedere al signor Powell, ma l'ho trovato oggi sul suo comodino, in camera da letto.» L'oggetto che le vidi togliere di tasca era un braccialetto d'oro con incastonati cinque smeraldi. Lo rigirai da tutte le parti ma non trovai nulla di particolarmente interessante, a parte il valore. «Apparteneva alla signora Powell», spiegò la donna. «Il signore lo acquistò per lei a Firenze, quando andarono in luna di miele in Italia. Fu proprio lei a mostrarmelo, al loro ritorno.» «Non ci vedo nulla di strano, se lo avete trovato sul comodino», dissi. «Lo avrà poggiato lì, in attesa di metterlo al sicuro più tardi.» «No, no, questo non può essere. Vedete... il braccialetto era al polso della signora, quando la bara di zinco è stata saldata e chiusa nella sua cassa.
Io c'ero, e lo ricordo benissimo.» Anch'io ero stato presente alla tumulazione, ma quel particolare m'era sfuggito. Prima che potessi riflettervi, la porta alle mie spalle si spalancò. «Fatemi vedere quel braccialetto!», esclamò Powell. La signora Giddings e io sussultammo. L'uomo venne avanti, mi strappò il monile di mano e lo esaminò con attenzione. «È il suo», stabilì con sicurezza. «Lo allacciai io stesso al suo polso sinistro, prima del funerale.» L'espressione del suo volto sfidava ogni possibilità di descrizione. Non c'era terrore in lui, solo un miscuglio indecifrabile di dubbi, angoscia e stanchezza improvvisa, ma era impossibile capire cosa vi fosse all'origine di quelle emozioni. Con un gesto zittì la governante che stava per parlare, e si rivolse a me. «So che è la vostra serata libera, Haines, ma vi sarei grato se non usciste. Mi piacerebbe sapere che non siete lontano nel caso che io... abbia bisogno di voi.» Risposi che non mi sarei mosso dalla dépendance. Del resto volevo lavorare al mio libro, e la richiesta di Powell non interferiva coi miei programmi. Mi chiesi cosa pensava che potesse accadere di tanto particolare, ma la domanda non aveva risposta. Appena fui solo nel mio appartamentino, scoprii tuttavia di non riuscire a concentrarmi sul romanzo. Trascorsi la serata seduto sul divano, ripensando a ciò che sapevo dei Powell - specialmente della defunta signora Powell - in cerca di un indizio che mi permettesse di decifrare gli eventi di quelle ultime ventiquattr'ore. Quando era in vita, certo Sharon Powell non aveva mai ispirato timore a nessuno. Fin dal momento della mia assunzione, un anno addietro, l'avevo giudicata una donna piacevole e garbata, dai grandi occhi pensosi che ispiravano simpatia. Fisicamente minuta, vivace, sempre in movimento, era stata molto innamorata del marito. Aveva cinque anni più di lui, e le chiacchiere della servitù m'avevano informato che in famiglia era lei sola ad avere i soldi. Il marito si limitava ad amministrare i suoi beni. Ciò malgrado, l'affetto per lui la rendeva docile, sempre condiscendente, quasi ansiosa di delegare all'uomo ogni responsabilità e autorità di capofamiglia. Fu tre mesi dopo il mio arrivo che notai i primi sintomi di disordine psichico in lei. La donna cominciò col lamentarsi che di notte, quando era sola nella sua camera da letto, sentiva delle «voci». Più volte chiamò il marito in quella stanza, cercando di farle ascoltare anche a lui perché le credesse, ma né lui né la governante udirono mai niente.
In seguito prese a dimenticare e smarrire ogni genere di oggetti: ordinava per posta le cose più disparate e, quando poi le venivano recapitate, non riusciva a ricordare d'averle richieste, si confondeva, la sua mente sembrava tradirla, e tutto ciò la gettava nella disperazione. In breve dimagrì e si fece smunta in viso, sciupata, quindi la sua vivacità scomparve e cadde preda di lunghi silenzi. Perfino io, un nuovo venuto, potei rendermi conto del suo mutamento e della depressione in cui era caduta. Il medico che la visitò più volte non poté che prendere atto di quei sintomi, e disse che, se si fossero aggravati, non restava altro che il ricovero in una casa di cura. Per essere un carattere freddo e scontroso, devo dire che Ballard Powell affrontò la situazione con molta buona volontà. La sua natura avrebbe potuto portarlo a scatti d'impazienza in reazione ai comportamenti della moglie, ma invece egli faceva sempre del suo meglio per rassicurarla e confortarla. Quando erano seduti sul sedile posteriore della Cadillac, dal posto di guida non potevo fare a meno di ascoltarli. Non di rado la signora Powell piangeva, sconfortata dalle proprie condizioni, e in tali casi il marito esibiva molta comprensione nel cercare di tirarla su di morale. Tuttavia, nel tono della sua voce io avvertivo l'ombra del dubbio, del disagio, il sospetto che comunque la poverina stesse scivolando nella follia. Il punto di rottura fu raggiunto la sera in cui la signora Powell rubò una preziosa spilla di brillanti alla sua migliore amica. La faccenda fu subito messa a tacere, ma presto o tardi la servitù viene a conoscenza di tutto e la Giddings mi raccontò l'episodio. Accadde durante un ricevimento fra gente danarosa e, dopo che i Powell erano tornati a Forest Lake, la padrona di casa telefonò per informarli che quel monile era scomparso, assicurandoli che comunque la Polizia non avrebbe mai osato far loro domande imbarazzanti. Poco più tardi pare che la borsetta della signora Powell cadesse sul pavimento, e che fra il contenuto sparso al suolo il marito avesse la sorpresa di trovare la spilla. La raccolse egli stesso e, quando la mostrò alla moglie con occhi colmi di accusa, lei ebbe una crisi isterica. La donna si difese, giurò che non l'aveva presa lei o che non ricordava d'averlo fatto ma, dinanzi a quella prova evidente, finì per ammettere d'aver avuto un attimo di smarrimento. Povera, piccola signora Powell! Per lei quello fu il colpo di grazia, perché la vergogna e la paura dello scandalo fecero crollare la sua mente già provata e, quella stessa sera, si suicidò. Nel biglietto di addio che lasciò al
marito gli chiese perdono, disse che sapeva di essere sul baratro della pazzia, e che non poteva più sopportare l'orrore di quella situazione. La sua morte gettò Ballard Powell nella disperazione. Tutti furono sorpresi nel vedere un uomo ritenuto gelido e compassato abbattersi in quel modo. Ricordavo ancora con chiarezza un fatto avvenuto al funerale, nella cappella mortuaria: la signora Powell aveva sempre adorato le camelie e, prima che la bara fosse sigillata, vidi il marito accostarsi ad essa quasi furtivamente, per deporre una camelia fra le mani di lei. Quel gesto mi apparve così commovente, pieno di un amore muto e sincero, che dovetti volgere il capo per non far vedere che all'improvviso stavo piangendo. E ora qualcuno, per un odioso quanto inesplicabile motivo, stava tormentando Powell con una sottigliezza decisamente crudele. Riesaminai tutti gli elementi di cui ero a conoscenza, cercando di mettere insieme qualche ipotesi plausibile. Se si trattava di uno scherzo, com'ero portato a sospettare, chi poteva aver mandato la corona di fiori? Chi aveva messo il braccialetto (una copia ben eseguita, avrei scommesso) in camera di Powell? Oppure non si trattava di un semplice scherzo, e dietro la cosa c'erano motivi molto meno puliti? In quanto alla voce di Sharon Powell, che avevo udito cantare «Dolce Isola di Chissadove», sarebbe stato facile presumere l'esistenza di un registratore, e mi pentii di non aver frugato meglio nel salone, ma tutto mi appariva sconcertante. L'ipotesi dello scherzo non stava in piedi, e quella del ricatto ancora meno. Andai avanti e indietro nelle mie stanze senza requie, confuso e aspettandomi da un momento all'altro che qualcuno bussasse alla porta o che Powell mi facesse chiamare. Ma quella sera non accadde nient'altro. Non sono in grado di speculare su ciò che passò per la mente del mio datore di lavoro durante la notte, tuttavia il mattino successivo compresi che doveva aver preso qualche decisione. Verso le sette, mentre mi stavo facendo la barba, il telefono squillò. All'altro capo del filo c'era la signora Giddings. «Il signor Powell mi ha chiesto d'informarvi che oggi non andrà in ufficio», disse la donna. «Desidera però che abbiate la macchina pronta per la una in punto.» Perplesso, riappesi il ricevitore. Da un anno a quella parte l'uomo non aveva mai mancato di andare in ufficio puntualmente, salvo nei tre giorni successivi alla morte della moglie. All'una però, quando gli aprii lo spor-
tello della Cadillac tirata a lucido, mi aspettava una sorpresa. «Al cimitero, Haines», ordinò, mettendosi a sedere. Sapevo che non era sua abitudine andare a mettere le stelle di Natale: ci eravamo fermati là quasi di passaggio e Powell mi aveva incaricato di acquistare dei crisantemi, ma la sua visita al piccolo mausoleo di marmo era stata brevissima. Stavolta non ci fermammo ad acquistare fiori e, solo varcando il cancello del cimitero, compresi che l'uomo doveva avere ben altre idee per la testa. Il luogo era deserto, eccetto due inservienti che stavano facendo pulizia nei vialetti. Portai la Cadillac a passo d'uomo lungo la strada centrale e mi fermai presso un'isola d'erba ben falciata nell'angolo più lontano, dove sorgevano le tombe più sontuose. Powell scese, si tolse di tasca la chiave e si avviò verso una di esse, sul frontale della quale campeggiava una bella porta di bronzo dorato e cristalli. Ma, giunto lì, esitò e fece dietrofront, tornando all'auto. «Per favore, Haines, vorrei che veniste con me», disse. Non capivo perché mai fosse così nervoso e riluttante a entrare da solo. Cosa si aspettava di trovare? Mascherando la sorpresa, gli tenni dietro, attesi che avesse aperto, ed entrai alle sue spalle. A dispetto delle feritoie di aerazione, c'era odore di chiuso, e i fiori che aveva deposto lì mesi addietro si erano seccati. Ma, con la porta aperta e la luce viva che ora lo riempiva, il piccolo locale non aveva l'aspetto deprimente che mi ero aspettato. Piuttosto incuriosito, osservai quello che l'uomo intendeva fare. Si era accostato al sarcofago marmoreo sulla sinistra e vi aveva appoggiato una mano, non in un gesto carezzevole, ma per controllare se fosse ancora intatto. Sul frontale era scolpita un'iscrizione: SHARON POWELL nata il 13 settembre 1894 morta il 23 novembre 1946 L'uomo studiò con attenzione la fessura superiore. La lastra di marmo era stata cementata, e anch'io potei vedere che il cemento appariva perfettamente intatto, sempreché fosse quello l'oggetto della sua indagine. Mi voltai verso destra. C'era un secondo sarcofago, identico, che lui aveva fatto preparare per se stesso e già completo del nome:
BALLARD POWELL nato il 12 giugno 1899 A me avrebbe fatto un'impressione molto antipatica vedere la tomba pronta per accogliermi, in attesa che la mano dello scalpello aggiungesse al marmo gli ultimi e fatali dati. Tuttavia Powell non aveva discendenti che potessero provvedere a quelle tristi necessità, e mi parve logico che avesse colto l'occasione per preparare il luogo del suo riposo finale. Ma, un attimo dopo, mi lasciai sfuggire un'esclamazione sbalordita, che fece voltare Powell con una smorfia. «Cosa c'è?», chiese, brusco. Tutto ciò che potei fare fu alzare un braccio e indicare la sua futura lapide. L'iscrizione su di essa era stata così ultimata: morto il 16 maggio 1947 E il 16 maggio sarebbe stato l'indomani! Ero rigido, quasi che quella frustata d'emozione mi avesse paralizzato. Ma la reazione di Powell fu assai più drammatica: con un grido inarticolato balzò indietro, urtando con la schiena contro la porta aperta e, fissando la scritta a occhi sbarrati, piegò letteralmente le ginocchia. Quando lo sorressi, mi afferrò un braccio con dita adunche come artigli. «Portatemi... fuori di qui!», rantolò. Poiché si afflosciò, fui costretto a sostenerlo fino alla macchina, e poi corsi a cercare un po' d'acqua. Lo feci bere, tornai a chiudere il piccolo mausoleo, e quindi misi in moto la Cadillac. Ero ansioso quanto lui di abbandonare il cimitero. Durante il percorso fino alla villa, Powell riuscì a riprendersi del tutto anche se, mentre scendeva dall'auto, notai una luce strana nei suoi occhi. Avrei giurato che il suo motivo nel recarsi al cimitero fosse stato di controllare se sua moglie fosse sempre là, morta e ben chiusa nella bara, visto che le ragioni per crederla misteriosamente tornata in vita forse non gli mancavano. Non sapevo se ridere o piangere per quell'ipotesi assurda ma, visto lo stato in cui era, non osai mostrargli un'espressione scettica. Non nego che fossi un po' agitato io stesso. E tuttavia, mi dissi, anche ammettendo che i morti potessero uscire dalla tomba, quale motivo poteva avere il fantasma di Sharon Powell per tornare dall'Aldilà e tormentare suo marito, un uomo che l'aveva amata fino al suo ultimo giorno di vita? Non
potevo dimenticare la tenerezza con cui le aveva posto quella camelia rosa fra le sue dita. Per il resto del pomeriggio non ebbi occasione di vedere Ballard Powell. Mi occupai del giardino, ripulii il carburatore della Cadillac, poi cenai e andai a letto presto. Doveva essere da poco trascorsa la mezzanotte, allorché lo squillare del telefono mi svegliò bruscamente e, ringhiando un'imprecazione, mi alzai per rispondere. Era la signora Giddings che chiamava dalla villa. «Certo che stavo dormendo», risposi, di malumore. «Mi spiace, Haines. Ma oggi pomeriggio il signor Powell si è chiuso a chiave in biblioteca, e non risponde», disse la donna. «Credo che si sia messo a bere. Quando siete tornati era... così strano, vi confesso che sono preoccupata. Sarebbe meglio se veniste e cercaste di persuaderlo ad andare a letto.» «Vengo subito.» Appena fui alla villa, andai a bussare alla porta della biblioteca, mentre accanto a me la governante si torceva le mani nervosamente. Ma dall'interno non ci fu risposta. «Faccio il giro da fuori», decisi. «Guarderò se la finestra è aperta.» Avevo timore di quel che avrei potuto scoprire, e non volevo una donna isterica fra i piedi, così aggiunsi: «Credo che voi fareste meglio a tornare in camera vostra. Sono certo che il signor Powell non gradirebbe essere visto da voi, nello stato in cui è». La donna parve lieta del suggerimento e si allontanò su per le scale. Anche lei non ci teneva a vedere cose spiacevoli. Una delle finestre era aperta e mi bastò spingerla, quindi misi dentro una gamba. Il locale era immerso nel buio e, trattenendo il fiato, andai ad accendere la luce, ma fu solo quando potei vedere Powell, che mi permisi un lungo sospiro di sollievo. Per qualche minuto avevo avuto paura che si fosse suicidato anche lui. Invece appariva ben vivo e sano. Giaceva semidisteso su una poltrona, immerso in un sonno stuporoso che sapeva di alcoolici lontano un miglio. La luce gli fece però strizzare le palpebre con un mugolio di protesta. Mi fissò con occhi vitrei, ebbe un sussulto allarmato, quindi mi riconobbe e si rilassò. «La signora Giddings non riusciva a svegliarvi», gli comunicai. «Mi ha chiamato perché vi aiutassi a salire in camera vostra.» «Non ho nessuna voglia di andare a letto», bofonchiò lui, ma con voce più limpida di quella che mi sarei atteso. «Ho paura.»
«Paura, signore?» Si passò una mano sulla faccia e trasse alcuni profondi respiri per schiarirsi la mente. «Haines... voi credete che i morti possano tornare?» «Suppongo di no, signore.» Poi compresi che come risposta era poco chiara. «Voglio dire che no, naturalmente, non lo credo.» Lui ebbe un sogghigno storto. «Vi sbagliate. Possono tornare invece. Io lo so. E ho paura!» «È solo dei vivi che bisogna aver paura. I morti non fanno male a nessuno», replicai, domandandomi se si era rimbecillito. Powell scosse la testa, amaramente. «Ma cosa succede se siete stato voi a fare del male a un morto prima?» Un brivido improvviso gli strappò una smorfia sofferente, e abbassò la testa. «Io non volevo, Haines, però l'ho fatto... l'ho fatto! Non avrei mai creduto che avrebbe finito per suicidarsi. Dio mi è testimone. Calcolavo soltanto che mi sarebbe stato facile farla diventare pazza, sensibile com'era, e poi avrei avuto il controllo di tutte le sue proprietà. Capite? Fui io a confonderle la testa facendole perdere le cose... rubai io quella spilla! Ma giuro... lo giuro, non immaginavo che si sarebbe uccisa!» Per un attimo stentai a rendermi conto che mi stava facendo una confessione in piena regola. Dunque era stato lui a spingerla sulla strada dell'insania e del suicidio. Ma ancora mi sembrava impossibile che avesse saputo fingere tanto bene un affetto che non provava. Feci un passo indietro, disgustato da quell'individuo. Perfino l'atto di deporre la camelia fra le mani del cadavere era stato calcolato: una fredda recita studiata per allontanare da sé ogni minimo sospetto, mentre nel suo intimo esultava. La sete di denaro - denaro che quella poverina sarebbe stata lieta di affidargli comunque - gli aveva fatto marcire l'anima fino a quel punto? E ora eccolo lì, ubriaco e tremante, pieno di paure e di rimorsi, che mai avrebbe provato se qualcuno non l'avesse colpito così sottilmente. Mi chiedevo chi fosse ad aver sospettato di lui fin dall'inizio. Chi era stato a giocare coi suoi nervi, conducendolo sull'orlo dello stesso baratro in cui egli aveva precipitato sua moglie? Erano bastate quelle ultime quarantott'ore per ridurre Ballard Powell un relitto. Non me la sentivo neanche di sprecare il mio odio su di lui. Carnefice e vittima al tempo stesso, in un certo senso mi faceva pietà. Così dissi soltanto, in tono neutro: «Mi sembra che questa casa ormai vi deprima troppo. Perché non vi tra-
sferite altrove per qualche giorno? Adesso, questa notte. Venite, vi porterò nel vostro appartamento di città». E sarebbe stato l'ultimo servizio che avrei fatto per lui, perché avevo già deciso di cercarmi un altro posto di lavoro. L'uomo parve pensare alle mie parole, poi annuì lentamente. «Sì, sarà meglio così. Forse... lei non mi cercherà là.» Strano come insisteva nella convinzione che Sharon Powell, un cadavere, fosse lì attorno a perseguitarlo. Per la prima volta compresi quanto sia vero che nessuno può fuggire abbastanza da dimenticare le sue colpe. L'aria fresca della notte, intanto che la Cadillac filava verso la città, schiarì alquanto la mente di Powell. Era l'una passata allorché sterzai nel parcheggio sotterraneo del grande condominio in Lake Shore Drive e, con un'occhiata nel retrovisore, mi accorsi che l'uomo aveva recuperato il suo solito autocontrollo. Scendendo dall'auto notai che evitava il mio sguardo, e compresi che si era pentito d'avermi fatto quella confessione. Ne ebbi subito la conferma più nitida. «Se volete salire con me, Haines, vi farò un assegno per quanto vi è dovuto. I vostri servizi non mi sono più necessari», disse secco. Gli elargii un sorrisetto altrettanto duro. Non avevo difficoltà a immaginare che cosa lo preoccupasse. Probabilmente aveva occupato il tempo del percorso a studiare il modo di rendermi innocuo, nel caso che avessi voluto spifferare quella storia poco edificante. E, in tal caso, chi avrebbe creduto alle malignità di un autista licenziato in tronco? Senza una parola lo seguii nell'ascensore e premetti il pulsante dell'ultimo piano. L'appartamento, che Powell utilizzava di rado, era composto da otto ampie stanze riccamente ammobiliate. Il soggiorno era largo una ventina di metri, con un tappeto giallo che lo pavimentava per intero e una parete completamente di vetro, oltre la quale si godeva il panorama del parco e del lago. Sulla soglia dell'ampio locale l'uomo accese la luce, ma subito mandò un grido e si arrestò, così d'improvviso che andai a sbattergli addosso. Poi una sensazione di gelo s'impadronì anche di me, appena vidi l'oggetto che campeggiava nello spazio dinanzi al caminetto. Era una bara di mogano lucido e rivestita in seta, aperta e vuota. Nel silenzio, il macabro oggetto sembrava giacere lì come una cosa viva, in paziente attesa del suo contenuto. Non potrei descrivere la reazione di Powell, perché quella vista mi lasciò stordito per qualche secondo, ma fu la voce a farmi trasalire: «Sei qui, Sharon?», gemette, con voce stridula per la
paura. «Sei qui, vero? Lo so... rispondi. Rispondi!» Mi accostai a lui, sicuro che fosse definitivamente impazzito. E fu allora che sentii di nuovo la voce, la stessa che aveva aleggiato insieme alla musica del pianoforte nel salone della villa: «Riposa in pace, mio caro... Vieni!». Powell avanzò verso la bara stravolto da un'espressione di selvaggia emotività, gli occhi fissi su qualcosa - o qualcuno - che se a lui appariva reale per me era del tutto invisibile. «Nooo!», strillò poi, balzando indietro come se dalla cassa due mani si fossero levate per ghermirlo. Quindi si voltò e prese la rincorsa verso la finestra, scaraventandosi contro i vetri a corpo morto. Rivedo ancora lo scintillio dei frammenti cristallini che esplodevano attorno, mentre l'uomo vi passava attraverso. Per un attimo ancora la sua figura parve stagliarsi contro il buio del cielo notturno, sospesa nel vuoto, poi scomparve verso il basso. Corsi allo squarcio e mi sporsi per guardare fuori, giusto nel momento in cui il suo corpo impattava sul suolo dell'asfalto illuminato dinanzi all'ingresso del condominio, cinquanta metri più sotto. Subito mi ritrassi, ammutolito per l'orrore. Rimasi lì in quel soggiorno per un poco, col cervello che si rifiutava di funzionare. Sapevo che avrei dovuto chiamare qualcuno, la Polizia o l'amministratore del palazzo, ma ancora non ne avevo la forza. Mi mossi infine verso il telefono e, intanto che sollevavo il ricevitore, lo sguardo mi cadde sulla bara. All'interno di essa, sull'imbottitura di seta, c'era una chiazza di colore che i miei occhi stentarono a mettere a fuoco. Solo quando andai a chinarmi lì accanto compresi cosa fosse. Non era nulla di terribile né di sconvolgente, niente che la mia mano non potesse raccogliere senza timore, anzi parlava di dolcezza e di tenero affetto. Eppure il mio sguardo si offuscò di lacrime allorché la sfiorai con le dita. Nella bara era deposta soltanto una pallida camelia rosa. HENRY RUSSELL WAKEFIELD Il cacciatore di spettri «Cari ascoltatori, è Tony Weldon che vi parla. Siete all'ascolto della terza puntata di "Caccia ai Fantasmi". Speriamo che abbia più successo delle altre due. Abbiamo fatto tutti i preparativi, e ora tocca ai fantasmi. Stasera,
il mio collega è il Professor Mignon di Parigi. È il più celebre investigatore di fenomeni psichici di tutto il mondo, e io sono molto orgoglioso di collaborare con lui. Siamo in una casa georgiana a tre piani, poco distante da Londra. L'abbiamo scelta per la ragione seguente. Fin da quando è stata costruita, ha fatto registrare trenta suicidi, avvenuti all'interno della casa e all'esterno, e ce ne sarebbero potuti essere anche di più. Solo nel 1893 ce ne sono stati otto. Il suo costruttore e primo inquilino fu un ricco mercante e, a quanto pare, un brutto tipo: goloso, bevitore e altre cose del genere, compreso un cattivo marito. Sua moglie sopportò le sue crudeltà e le sue infedeltà fin quando poté, poi si impiccò nel guardaroba, annesso alla grande camera da letto del secondo piano, dando così inizio a una terribile serie di suicidi. Ho usato l'espressione "suicidi avvenuti all'interno della casa e all'esterno", perché qualcuno si è impiccato e qualcuno si è sparato, ma non meno di nove persone hanno fatto uria cosa molto strana. Durante la notte si sono alzati dal letto e si sono andati a gettare nel fiume che scorre oltre il giardino, a qualche centinaio di metri di distanza. L'ultimo è stato visto suicidarsi in questo modo all'alba di una giornata autunnale. È stato visto correre a precipizio ed è stato udito gridare, come se qualcuno corresse al suo fianco. Il proprietario mi ha detto che la gente non vuole vivere in questa casa e che nessuna agenzia immobiliare se ne occupa più. Lui stesso non vuole abitarvi, e per dei buoni motivi, come ha dichiarato. Non vuole dirci quali siano questi motivi; vuole che non ci formiamo alcun pregiudizio sull'argomento, per così dire. E dichiara, inoltre, che se il verdetto del Professore sarà sfavorevole, abbatterà la casa e la ricostruirà. È comprensibile, perché questa casa sembra meritarsi il nome di "Trappola mortale". Beh, quest'introduzione mi pare sufficiente. Penso di avervi convinto che la faccenda merita certamente di essere investigata. Ma non possiamo garantirvi la partecipazione dei fantasmi, che hanno l'imbarazzante abitudine di prendersi una serata libera in occasioni del genere. Ed ora entriamo nel vivo della questione. Sono seduto a un tavolo di legno lucido, che si trova quasi al centro del salotto, a pianterreno. Il resto dei mobili è ricoperto da fodere bianche. Le pareti sono rivestite di pannelli di quercia. La luce elettrica è stata spenta in tutta la casa; perciò l'illuminazione di questa stanza consiste in una fioca lampadina. Resterò qui con il microfono, mentre il Professore girerà per la casa in cerca dei fantasmi.
Non avrà con sé un microfono, in quanto ne sarebbe disturbato; infatti ha l'abitudine, così dice, di parlare tra sé nello svolgimento di questo tipo di indagini. Ritornerà da me, non appena avrà qualcosa da riferire. È tutto chiaro? Bene, allora, cedo la parola al Professore, che vuole dirvi alcune cose prima di intraprendere le ricerche. Posso affermare che parla inglese molto meglio di me. A voi, Professor Mignon.» «Signore e signori, sono il Professor Mignon. Questa casa, senza alcun dubbio, è impregnata di male. È qualcosa che colpisce profondamente. Questa casa è cattiva, cattiva, cattiva! È inzuppata nel male ed esala il fetore del suo passato malvagio. Deve essere abbattuta, ve l'assicuro. Non penso che quest'atmosfera colpisca il mio amico, signor Weldon, nello stesso modo: ma lui non è sensitivo, non è medianico come me. Stiamo per vedere dei fantasmi, degli spiriti? Ah, questo non si può dire! Ma sono qui e sono cattivi; questo è certo. Sento la loro presenza. Forse sono pericolosi. Lo saprò subito. Tra poco comincerò le mie ricerche solo con una torcia elettrica che mi mostrerà la strada. Ben presto sarò di ritorno e vi dirò che cosa ho visto, oppure che cosa ho avvertito e forse sofferto. Ma ricordate: noi non possiamo evocare gli spiriti dagli Inferi, ma verranno quando li chiameremo? Vedremo.» «Bene, ascoltatori, sono certo che, se qualcuno può riuscirvi, questi è proprio il Professore. Dovete aver trovato le poche parole che vi ha detto molto più efficaci di tutto quello che vi ho detto io. Era un esperto che parlava del proprio campo. Per quanto mi riguarda, su di me, solo qui in questa stanza silenziosa, non hanno avuto un effetto rassicurante. In effetti, non è del tutto esatto che questo posto non abbia alcun effetto su di me. Ad ogni modo, non lo considero un posto allegro. Potete esserne certi. Forse non sono sensitivo, ma ho certamente la sensazione che non ci vogliono in questa casa, che ce l'hanno con noi e vorrebbero vederci andare via. Altrimenti! Ho avuto questa sensazione, non appena ho messo piede in questa casa. Mi è sembrato di dover varcare un muro di ostilità. Non vi sto prendendo in giro né cerco di alimentare le vostre speranze. È molto tranquilla questa casa, miei cari ascoltatori. Ho dato un'occhiata alla stanza. La lampadina forma delle strane ombre. Ce n'è una molto strana sulla parete che è accanto alla porta, ma ora capisco che deve essere l'ombra di una grande libreria Adams. Lo so, perché ho guardato sotto le
fodere, quando sono entrato per la prima volta in questa stanza. È un pezzo molto bello. È strano pensare che voi tutti mi ascoltiate. Non avrei nulla di cui preoccuparmi, se qualcuno di voi mi facesse compagnia. Il proprietario della casa ci ha detto che avremmo sentito probabilmente ratti e topi correre dietro i rivestimenti di legno. In questo momento li sento. Devono essere dei topi molto grossi, a giudicare dal rumore. Penso che perfino voi riusciate a sentirli. Bene, che cos'altro c'è da dirvi? Non molto, tranne che nella stanza c'è un pipistrello. Penso che debba essere un pipistrello e non un uccello. Non l'ho visto effettivamente: ho visto solo la sua ombra riflettersi sul muro, e poi mi è volato davanti alla faccia. Non so molto dei pipistrelli, ma pensavo che cadessero in letargo d'inverno. Questo qui deve soffrire d'insonnia. Ah, è di nuovo qui. Mi ha sfiorato. Ora sento il Professore muoversi nella stanza di sopra. Non penso che voi possiate sentirlo; fate un tentativo. Ora ascoltate attentamente. Avete sentito? Deve aver sbattuto contro una sedia o qualcosa del genere... una sedia pesante, a giudicare dal rumore. Mi chiedo se stia avendo fortuna. Ah, c'è di nuovo quel pipistrello. Ogni volta che passa, mi sfiora il viso con le ali. Sono puzzolenti, i pipistrelli. Non penso che si lavino abbastanza spesso. Questo qui puzza di marcio. Mi chiedo che cosa abbia urtato il Professore, perché vedo che sul soffitto si sta formando una macchiolina. Forse un vaso da fiori o qualcosa del genere. Ehi! Avete sentito questo schianto? Penso che l'abbiate sentito. Deve essere stato uno scricchiolio dei pannelli di quercia, ma era forte quasi da sfondare i timpani. Qualcosa mi è passato tra i piedi, un topo forse. I topi mi hanno sempre disgustato. A molta gente fanno lo stesso effetto, naturalmente. Quella macchia sul soffitto si è allargata. Penso che mi avvicinerò alla porta e chiederò al Professore se va tutto bene. Penso che voi mi sentirete gridare e sentirete la sua risposta. Professore! Professore! Beh, non ha risposto. Credo che sia un po' sordo. Ma sono sicuro che va tutto bene. Non tenterò di nuovo, perché so che non vuole essere disturbato durante le sue ricerche. Mi risiederò per qualche minuto. Temo che sia piuttosto noioso per voi, per me no, ma ora... il Professore ha tossito. Avete sentito questa tosse, ascoltatori, una tosse spessa e gutturale? Sembrava provenire da... mi chiedo se il Professore sia sceso al pianterreno senza far rumore e ora si stia prendendo gioco di me. Vi dico la verità, miei cari a-
scoltatori, questo posto comincia a innervosirmi. Non ci abiterei per tutto l'oro del mondo. Va' via, bestiaccia! Quel pipistrello! Puh! Quanto puzza! Ora ascoltate attentamente. Sentite i topi? Stanno giocando a rugby, a giudicare dal rumore. Mi chiedo se li sentite. Sarei veramente molto contento di uscire da questo posto. Riesco a capire perché la gente si uccide in questa casa. Si dicono: dopotutto che senso ha la vita? Si lavora, ci si preoccupa, si diventa vecchi e si vedono morire gli amici. Facciamola finita nel fiume! Riuscite ad immaginarlo? Non sono molto allegro, non è vero? È questa casa maledetta. Gli altri due posti che abbiamo visitato non mi hanno preoccupato nemmeno un po', ma questo... Mi chiedo che cosa faccia il Professore, oltre che tossire. Non riesco a spiegarmi questa tosse, perché... Va' via, bestiaccia! Quel pipistrello sarà la mia morte! La mia morte! La mia morte! Sono felice di avere voi con cui parlare, cari ascoltatori, ma vorrei che mi poteste rispondere. Comincia a darmi fastidio il suono della mia voce. Dopo un po' che si parla da soli in una stanza, si cominciano ad immaginare un mucchio di cose. L'avete mai notato? Si inizia ad immaginare che qualcuno risponda. Ecco! No, certamente non l'avete sentito, perché non era qui, naturalmente. Era solo nella mia testa. Soggettivo, questa è la parola giusta. Questa è la parola giusta. È molto strano. Ero io che ridevo, naturalmente. Dico troppo spesso "Naturalmente". Naturalmente sono stato io a ridere. Bene, miei cari ascoltatori, temo che tutto ciò sia terribilmente noioso per voi. Non per me, però, non per me! Nessun fantasma fino ad ora, a meno che il Professore non sia più fortunato. Ecco! Avete sentito! Che scricchiolio hanno fatto i pannelli di quercia! Beh, miei cari ascoltatori, dovete averlo sentito. Ah! Ah! Professore! Professore! Uff, è un'eco! Ora, ascoltatori, smetterò di parlare per un attimo. Spero che non vi dispiaccia. Vediamo se riusciamo a sentire qualcosa... Avete sentito? Non sono proprio sicuro di che cosa fosse. Non sono sicuro. Mi chiedo se avete sentito. La casa ha tremato lievemente e le finestre hanno sbatacchiato. Non faremo nessun'altra prova. Continuerò a parlare. Mi chiedo quanto a lungo si possa sopportare l'atmosfera di questo
posto. Di certo, ha la tendenza a deprimere. Accidenti, quella macchia si è allargata. Quella sul soffitto. Comincia a gocciolare, a formare bollicine. Tra poco cominceranno a gocciolare. Bolle colorate, a quanto pare. Mi chiedo se il Professore stia bene. Forse si è sparato in un guardaroba o qualcosa del genere e i guardaroba di questa casa non sono particolarmente... beh, avete capito? Ora giurerei che un'ombra si è mossa. No, penso che sposterò la lampada. Le ombre formano strani disegni, dovreste averlo notato. Questa potrebbe essere l'ombra di un corpo disteso con la faccia a terra e le braccia spalancate. Sono allegro, vero? Un mio zio si è avvelenato con il gas. Beh, non so perché ve l'abbia detto. Non è nel copione. Professore! Professore! Dov'è quel vecchio maledetto! Sicuramente consiglierò al proprietario di far abbattere questa casa. Glielo consiglierò molto seriamente. Devo salire al piano di sopra a vedere che cosa è accaduto al Professore. Beh, vi stavo raccontando dello zio... Sapete, miei cari ascoltatori, credo veramente che impazzirei, se rimanessi qui a lungo. È meglio andarsene, ad ogni modo, e presto, presto, presto. È terribile, è pesante! Logora! È proprio così: quest'atmosfera logora. Lo capisco proprio bene; beh, non lo ripeterò. Temo che sia terribilmente noioso per voi, cari ascoltatori. Io spegnerei la radio, se fossi in voi. La spegnerei! Che cosa danno sull'altro programma? Spegnete la radio! Beh, che cosa vi avevo detto! Che la macchia avrebbe cominciato a sgocciolare gocce, sgocciolare gocce, sgocciolare gocce, sgocciolare gocce! Voglio acchiapparne una con la mano... Professore! Professore! Professore! Ora sto salendo le scale! Quale stanza sarà? A sinistra o a destra? Sinistra, destra, sinistra, destra: sinistra. Entro. Beh, signori, buona sera! Che cosa avete fatto al Professore? So che è morto. Vedete il sangue sulla mia mano? Che cosa gli avete fatto? Parlate! Che cosa gli avete fatto? Volete che canti? Tra-la-la. Spegnete la radio, stupidi! Beh, è veramente buffo. Ah! Ah! Ah! Ah! Sentite come rido, cari ascoltatori. Spegnete la radio, stupidi! Non può essere il Professore. Non aveva la barba rossa! Non vi affollate intorno a me, vi ho detto! Che cosa volete che faccia? Volete che vada al fiume, non è vero? Ah! Ah! Ora? Verrete con me? Andiamo, allora! Al
fiume! Al fiume!» DOROTHY QUICK La donna sul balcone Sherry pensò di non aver mai visto niente di più bello della Villa De Quisce. Bianca e splendente si annidava a mezza costa su uno dei colli italiani come un bucaneve nascosto dal verde. I vetri brillavano al sole. Le colonne di marmo erano perfette e, ai suoi piedi, vi era il blu violento di un lago, più piccolo di quello di Como, ma della stessa intensa bellezza. Tra la villa e la riva sabbiosa discendevano prati verdi, limoni, oleandri e aiole fiorite. Alti cipressi segnavano la strada che curvava verso l'alto. Ai piedi degli alberi si raggruppavano piccoli fiori primaverili e tra l'erba crescevano tante violette. «Sembra una scena celestiale disegnata da Bel Geddes», pensò Sherry, «troppo bella per essere vera.» Poi, guardando improvvisamente Giò che sedeva alto e dritto a fianco a lei, «ma è reale ed è nostra: la casa della nostra luna di miele», mormorò. Proprio allora Giò rallentò e si voltò verso di lei: «Ti piace, cara?». I morbidi toni musicali della sua voce che esprimevano la profondità del suo amore per lei la riempirono di esultanza, come sempre dal loro primo incontro. «Oh sì, Giò. Non potrebbe piacermi di più. È... è...», cercava la parola giusta, «è paradisiaca.» Lui accostò la guancia alla sua e lei fu scossa dal brivido che sempre le dava ogni contatto con lui. «Sono felice che ti piaccia, amore mio, e dietro quelle mura ci sono stanze da bagno all'americana, che ti assicuro sono un tesoro. Il depliant diceva che l'ultimo proprietario l'ha rinnovata per avere un moderno comfort che non disturbasse l'antico fascino. Appare proprio come diceva il depliant. Da principio ero nervoso, non avendola vista, perché il prezzo mi sembrava basso.» Accelerò e l'auto scattò a buona velocità, salendo per la strada senza sforzo. «È molto antica?», chiese Sherry. «Apparteneva ai De Quisce nel XIII secolo. L'ha costruita uno di loro, il Cardinale Alessandro De Quisce. La famiglia l'ha goduta per parecchie centinaia di anni, poi la razza si è estinta. Ventiquattro anni fa non c'erano più De Quisce, tranne una cugina che discendeva da una De Quisce che
aveva sposato un inglese nel 1760. I suoi eredi non erano mai stati in Italia e la villa non significava niente per loro. Così l'hanno venduta attraverso l'agente da cui l'ho avuta. Da allora è passata per molte mani. Principalmente in affitto. L'uomo che l'ha comprata e rimodernata non è rimasto qui a lungo a godersela. È stato richiamato in America e poi è venuta la guerra. Per un certo tempo è stata la sede di un comando tedesco; poi è stata di nuovo data in affitto. Fortunatamente era libera, così l'ho presa: per te, mia cara. Non ti annoierai qui?» «Oh no, Giò, mai stando con te, e la villa è così... paradisiaca!» Mentre ripeteva l'aggettivo, il suo viso era estatico. La villa, visitata con cura, si dimostrava ancora più incantevole. I De Quisce avevano venduto i mobili di famiglia insieme alla casa, così i mobili erano autentici e affascinanti. «Sono pezzi da museo, e anche comodi», esclamò Sherry. In effetti, tutto l'insieme era incantevole. Giò annuì. «Ogni stanza è un quadro. Non riesco a capire come mai l'affitto sia così modesto.» «Anche la servitù è buona.» Sherry si era affezionata a Quilletta, la snella «Madonna di Raffaello» che era la sua cameriera personale. Antonia, la cuoca, era grassa e allegra. Beurio, il maggiordomo e factotum, non tralasciava nulla, e il vecchio Angelo, giardiniere e uomo di fatica, aveva subito conquistato il loro affetto. L'agente aveva reclutato il personale, e la servitù si era allineata sulle porte d'ingresso di spesso legno decorato con intarsi di ferro, e aveva dato il benvenuto alla sposa e al marito. L'impressione reciproca era stata subito buona. Beurio li aveva accompagnati a visitare la casa e lo aveva fatto con tutta la vivacità della sua razza, indicando i vantaggi particolari, orgoglioso specialmente dei bagni. Ve ne erano tre al secondo piano, con porcellane e finiture in nichel, ricavate probabilmente da originarie camere guardaroba. Erano grandi e spaziosi. Anche Giò rimase colpito dalla loro eleganza e modernità. Sulla facciata della casa, verso il lago, vi erano due enormi stanze collegate da uno dei bagni e da un balcone che attraversava la facciata. Sherry uscì dalla grande finestra sul balcone e fissò gli occhi sullo splendido panorama.
«Giò», chiamò, «devi vedere anche tu.» Un attimo dopo lui le fu vicino, il braccio intorno alle sue spalle, caldo e intimo. «Possiamo fare colazione qui.» «Non voglio andare più via. Si può?», chiese lei. «Finché tu lo vorrai. L'ho presa per tre mesi, ma posso prolungare l'affitto. Se lo desideri, posso comprartela, Scamperino.» Questo era il suo nomignolo. «Vorrei che fosse nostra per sempre», disse lei semplicemente. «Allora lo sarà.» La baciò. Per pochi minuti il tempo si fermò, e nel mondo ci fu solo gioia, condivisa anche da Beurio, che guardava dalla camera dorata, così detta dal ricco damasco giallo che dominava nel rivestimento. Quando Giò la lasciò, il sole scomparve con la rapidità che riserva solo all'Italia. Un freddo umido colpì Sherry, che tremò. «Vieni dentro.» Giò la tirò verso lo splendore del damasco giallo, chiudendo il finestrone dietro di sé. «I tramonti sono freddi», osservò poi. «Hai scelto la nostra stanza?» «Questa, naturalmente.» «Il bagaglio della Contessa può essere portato qui, Beurio», ordinò Giò. «Metti il mio nell'altra camera da letto su questo balcone. Così nessun altro potrà intromettersi. Userò la stanza come guardaroba. Ci sono tanti bei locali sull'altro lato della casa e sulle ali, ma non così magnifici.» Sogghignò, poi, mentre Beurio si allontanava, con tono d'importanza aggiunse: «Dovrò tenerti molto stretta, cara, così non ti perderai. Entrambe queste camere sono grandi abbastanza per essere una casa o un appartamento. I De Quisce si trattavano molto bene. Penso che questa appartenesse al Cardinale che, credo, secondo la storia era molto in gamba». Sherry ne fu sicura quando la mattina dopo scostò alcuni drappi del damasco giallo sul fondo della stanza e scoprì dei murali che avrebbero potuto illustrare l'opera dell'Aretino. «Penso che non se la sono sentita di dipingervi sopra, e così vi hanno sistemato il damasco», spiegò Giò. «Il Cardinale non poteva farli vedere ai suoi ospiti più devoti, e quindi ecco il sipario... a vederlo direi che è l'originale.» «Nessuna meraviglia che il letto susciti voglie erotiche», rise Sherry. «Ora che guardo bene i disegni, vedo che sono pieni di ninfe e satiri che
fanno cose indicibili.» «Scamperino, mi meraviglio che te ne sia accorta.» Giò rise e la prese tra le braccia. Dopotutto erano sposati solo da poche settimane. Eccetto che per fare colazione, il balcone era usato principalmente da Giò, che andava avanti e indietro tra la camera dorata e l'altra stanza dove aveva le sue cose. Quest'ultima era chiamata la Stanza della Madonna. Sherry pensava che il nome avesse un'origine religiosa ma, quando lo disse a Giò, questi rise: «È più probabile che il Cardinale tenesse qui la sua amante. A portata di mano. Madonne venivano chiamate tutte le donne a quei tempi. Chiamavano Madonna, Lucrezia Borgia, amore mio, che non aveva certo una grande reputazione». Fu il giorno seguente a questa conversazione che Sherry vide per la prima volta la donna sul balcone. Mentre era seduta nella sua stanza davanti allo sfarzoso tavolo da toilette, usando il grande specchio argentato per il trucco mattutino, vide un'ombra passare sulla liscia superficie. Si chinò e vide riflessa nello specchio una figura, una figura indistinta, perché il vetro nella cornice d'argento era vecchio. «Giò», chiamò, ma non vi fu risposta. Si alzò e si voltò. Era stata seduta con le spalle al balcone. Non c'era nessuno. Corse alla finestra e poi fuori, sul balcone. Appena in tempo per vedere qualcosa di seta bianca che scompariva nella camera della Madonna. Giò aveva una vestaglia bianca che a volte si metteva, e così l'incidente fu chiuso, nella convinzione che Giò fosse passato sul balcone e non avesse sentito il suo grido. Ma il mattino dopo vide veramente la donna. Si era svegliata presto e l'aurora la circondava di luce rosata. Si era sollevata poggiandosi su un gomito per dire a Giò di guardare il cielo che sembrava un dipinto di Turner. Ma Giò non c'era. Era sola nell'enorme letto. In quel momento un'ombra attraversò la rosea luce. Sherry guardò dalla finestra e lì, di profilo, c'era la donna più bella che avesse mai visto. Era alta, con i capelli rosso brunito che le ricadevano sulle spalle in onde splendenti. Era vestita di seta bianca che le ondeggiava intorno ai piedi come spuma del mare e le cingeva il busto rivelandone la perfezione. Il viso era
bello. Per un attimo si voltò verso Sherry, abbastanza a lungo perché lei potesse osservare i profondi occhi neri, con le palpebre pesanti, che sembravano tragicamente tristi mentre la guardavano. Fu solo un breve istante, poi la donna andò via. Di nuovo Sherry corse al balcone in tempo per vedere la seta bianca ondeggiare e scomparire nella camera della Madonna, la camera di Giò, la camera che Giò aveva scelto come guardaroba. Il cuore di Sherry era come un peso morto dentro di lei, come un pesante pendolo d'orrore che andava avanti e indietro meccanicamente. Giò aveva voluto tenere le sue cose in una stanza separata. Allora lei aveva pensato a un gesto riguardoso, ma ora la gelosia la assaliva con mille frecce. Doveva, pensò, essere per via della donna. Tutte le storie che aveva udito sugli stranieri e le loro amanti, tornarono ad affliggerla. Era come se la vista della donna, il sapere che era lì nella villa, avessero suscitato centinaia di idee mostruose di cui mai lei aveva supposto l'esistenza. Non conosceva Giò da molto tempo, solo da un mese prima del matrimonio. Lo aveva incontrato a un trattenimento alle Nazioni Unite. Un'occhiata a lui, alto, bello e pieno di fascino, e se n'era innamorata. Dopo, lui le aveva detto che gli era successa la stessa cosa. «Ho guardato i tuoi begli occhi azzurri e il mio cuore è caduto ai tuoi piedi», così si era espresso. Dopo un brevissimo corteggiamento, le aveva proposto di sposarlo. Si erano sposati quasi immediatamente. Che sapeva di lui? Molto poco, tranne che veniva da una delle migliori famiglie italiane, che era stato in America per una missione di una certa importanza, che era molto stimato nel suo paese, che era molto ricco, e che possedeva un vecchio castello vicino a Pavia, dove vivevano sua madre, la Contessa, e sua sorella. «Non vi andremo fin dopo la luna di miele», le aveva detto. «Loro vogliono conoscerti e ti vorranno bene come me. Ti piaceranno, ma per ora non voglio dividerti con nessuno.» Aveva ricevuto una lettera dalla Contessa che le dava il benvenuto in famiglia, una lettera chiaramente scritta da un'aristocratica... e quello era tutto quanto sapeva di Giò. Che la amasse ne era sicura. Ma ne era proprio sicura? Se aveva sistemato un'amante nella villa della loro luna di miele, non poteva amarla moltissimo. Cominciò a ricordare quello che le aveva detto l'avvocato di famiglia: «Perché non aspetti fino a quando non lo conoscerai meglio? Visita la sua gente. Fidanzati, ma lascia passare un po' di
tempo prima di sposarti». Lei aveva messo da parte questi consigli. Aspettare, quando ogni nervo del suo corpo chiedeva Giò, quando essere sua moglie era lo scopo di tutti i suoi sogni? Certo non voleva aspettare, e fino a quel momento era stata follemente felice. Il suo pensiero volò alle settimane trascorse, ai momenti più felici, e ne gioì. «Sono matta», si disse seriamente. «È certo che Giò mi ama. Sto immaginando tutto ciò. Probabilmente la donna viene dal paese, forse è la ragazza di Beurio.» Si consolò al pensiero di Beurio, solenne e gran servitore, con l'amante. Poi Giò chiamò, picchiando sui vetri dal balcone. «Sei sveglia?», domandò. «E tu te ne sei andato.» C'era del rimprovero nel suo tono. «Non riuscivo a dormire. Ho avuto la stranissima sensazione che qualcuno mi stesse guardando. Così sono andato nella mia stanza per lavorare al mio rapporto. Le Grandi Potenze vogliono più dettagli. Dicono che in passato non hanno mai avuto da me un rapporto così breve; non sanno che non riuscivo pensare che a te mentre scrivevo. Madonna, sei così bella!» La prese tra le braccia e Sherry dimenticò la donna. Ma da quel momento il balcone non le piacque più. Anche quando il sole splendeva, aveva freddo, lassù. Lo stesso giorno aveva suggerito di far colazione nella loggia da basso. «È così bello guardare fuori in giardino», aveva spiegato a Giò. Lui sembrava desiderare solo quello che voleva lei, e fu d'accordo che la loggia sarebbe stata splendida. Beurio era più che contento di non dover portare vassoi su per le scale. Così fu fissata la routine. Per parecchi giorni Sherry dimenticò la donna. Ma poi, una notte, la rivide. Giò aveva detto di aver mal di gola e che avrebbe dormito nella camera della Madonna perché l'infezione non colpisse anche lei. Quando lui glielo disse, Sherry mostrò un'aria sospettosa. «Io non vengo colpita da nulla», disse. «Sei troppo preziosa perché io rischi il mio tesoro», le disse Giò, e superò le sue proteste. Lei non riusciva a dormire. Si rivoltava di continuo nel grande letto. Improvvisamente, si sentì guardata. Si voltò verso la finestra e lì c'era la don-
na, sul balcone, incorniciata dalle graziose curve della finestra ad arco e illuminata in pieno dalla luna. Appariva remota, bella, e l'intensità del suo sguardo incuteva un certo spavento. Sherry raccolse tutte le sue forze. «Chi sei? Che cosa vuoi?», gridò. La donna si voltò, si allontanò dalla finestra, poi non si vide più. Sherry sapeva che stava andando verso la camera della Madonna, che i suoi veli le avrebbero danzato intorno come onde del mare. Stava andando da Giò. Saltò fuori dal letto. Questo era insopportabile. Avrebbe seguito la donna nella stanza di Giò e avrebbe avuto un confronto. Infilando i piedi nelle pianelle di satin comprate da Deiman per la luna di miele, era piena d'ira, di rabbia per la donna che era stata lì a guardarla, di disgusto per Giò che lasciava che ciò avvenisse, di irritazione con se stessa per trovarsi in tale sordida situazione. Mentre correva per la stanza, il suo umore cambiò. Si ricordò di Jane Eyre e della moglie pazza di Rochester che doveva venire a guardare Jane di notte, proprio come la Donna aveva guardato lei. Poteva darsi che Giò si fosse trovato in una situazione simile e, preso dal suo amore per lei, avesse voluto sposarla? O la Donna era lo scheletro nell'armadio di famiglia... ad esempio, una sorella pazza? Ma non c'era pazzia in quei profondi occhi vellutati. Inesprimibile tristezza, senso di tragedia, ma non lo sguardo della follia. Sherry volò lungo il balcone, stringendosi addosso la vestaglia rosa, allacciando la cintura mentre correva. Non c'era traccia della Donna ma, naturalmente, aveva avuto tutto il tempo per rifugiarsi nella camera della Madonna... e di Giò... Quasi paurosa di guardare, Sherry si fermò incorniciata dalla finestra ad arco della stanza della Madonna proprio come la Donna era rimasta contro la sua. Poteva vedere bene il letto. La massiccia cornice dorata con i quattro pilastri, il baldacchino di damasco e la testa bruna di Giò sul cuscino bianco. Dormiva profondamente e, d'altra parte, non era sonno simulato, perché respirava pesantemente con la bocca aperta. Il viso era arrossato. Era un uomo ammalato con la febbre, non uno implicato in un intrigo amoroso. Non vi era alcuna traccia della Donna. Ma Sherry decise di assicurarsene. Entrò nella stanza in punta di piedi. Giò non si mosse mentre lei cercava. E lei non dimenticò nulla. Guardò
dietro le tende, nel guardaroba veneziano, e alzò anche il coperchio della cassa ai piedi del letto di Giò. Lì non c'era nessuno; recatasi alla porta che dava nella sala, la trovò chiusa dall'interno. La Donna non era lì... a meno che... alzò le cortine del letto e guardò dentro. Solo oscurità, nessun barlume di veli bianchi e la superficie del letto era piana, tranne dove il corpo di Giò sollevava le coperte. La Donna non era lì. E allora dove poteva essere? Non era sul balcone che, com'era facile vedere al chiaro di luna, era vuoto. Bene, forse era saltata a terra scavalcando il davanzale. Non sembrava possibile specie con quei veli bianchi volteggianti. Era comunque l'unica spiegazione, per quanto Sherry poteva vedere... a meno che avesse sognato. Ma sapeva di non averlo fatto. La Donna era stata una realtà. E lei l'aveva vista veramente. Si chinò e posò un bacio sulla fronte di Giò. Dormiva ancora e si accorse che la sua fronte era calda. Non volendo disturbarlo, rientrò in silenzio nell'altra stanza da letto. La mattina avrebbe esaminato meglio la balconata e visto se era possibile saltarne giù. Ma, quando venne il mattino, Giò delirava per la febbre e, nei giorni successivi, lei si preoccupò solo di Giò e dell'infezione che l'aveva colpito. Fu la mattina del quinto giorno, quando la penicillina aveva ancora una volta fatto il miracolo e Giò si stava riprendendo, che lui chiese: «Perché ieri notte eri dietro la finestra e mi guardavi e, quando ti ho chiamata, sei scappata via?». Lei era seduta al suo fianco, mano nella mano. Strinse più forte. «Ma caro, io non c'ero. Ho dormito come un coccodrillo al sole. Ero sfinita dalla preoccupazione per te. Sapendo che stavi bene ed eri fuori pericolo, ero rilassata e pronta a recuperare tutto il sonno perso. Non ho aperto occhio tutta la notte.» «Ma ti ho visto alla finestra. E anche la signorina Onatelli.» La signorina Onatelli era l'infermiera di notte. In quel momento Sherry si ricordò della Donna sul balcone. «Hai visto il mio viso?» «No, la luna era coperta dalle nuvole, ma la tua figura era chiara e non ho sognato, perché anche la signorina Onatelli ti ha visto.» «Che avevo addosso?» «Un vestito bianco.» «Mi hai mai vista vestita di bianco?»
«Ripensandoci, no... eccetto una o due volte sul balcone quando sei sempre corsa via da me.» Le labbra di Giò si piegarono. «Ciò mi addolora... non ne ho parlato prima perché ero addolorato. Pensavo che mi sfuggissi.» «Giò... come se potessi...» Gli baciò la mano e se la portò al viso. «Ma io ho pensato cose peggiori di te. Ho visto una Donna vestita di bianco entrare qui. Ho pensato che tu forse avessi un'amante, o una moglie pazza...» Si fermò all'espressione del viso di lui. «Perciò eri fredda con me. Ma Sherry, come hai potuto...» «Non potevo farci niente. Ascolta...» Gli raccontò tutta la storia. Non tralasciò nulla, neanche le sue preoccupazioni che, alla luce delle attuali circostanze e per l'amore che luceva negli occhi di lui, sembravano davvero sciocche. Quando ebbe finito, Giò la guardava serio. «O è un fantasma, o c'entra in qualche modo Beurio.» «Un fantasma... non ci avevo pensato.» Sherry ricordò la sensazione di freddo e di perdita di forze. «Oh Giò, non vorrei che fosse un fantasma.» «Potrebbe essere la ragazza di Beurio... o forse un membro matto della famiglia De Quisce che lui nasconde. È possibile. Queste vecchie case nascondono strane cose. Non serve chiederglielo. Direbbe una bugia. Ascolta, Scamperino, rimani qui, stanotte. Tu, io e la signorina Onatelli. È la sua ultima notte. Potremo approfittarne. Staremo a vedere.» «Oh sì», fu d'accordo Sherry. «E ora, mentre riposi, controllerò le possibilità di salire sul balcone.» Quando ritornò, più tardi, riferì che senza avere le ali non si poteva entrare o uscire dal balcone, se non dalle due camere da letto. Le ali della villa non avevano agganci con la balconata che correva solo lungo la facciata. «Non ci riuscirebbe una capra, figurati una donna», disse Sherry. La signorina Onatelli, fatta venire da Roma, ovviamente non approvò che Sherry passasse la notte in camera del paziente. «È di riposo, che ha bisogno», sentenziò. Quando le fu spiegata la ragione della presenza di Sherry in camera, la signorina Onatelli disapprovò maggiormente, ma non aggiunse altre proteste. Si concesse anche di arbitrare una partita a domino, ma fu molto decisa al momento che Giò doveva addormentarsi. «Noi staremo attente, ma lei non può rimanere sveglio», disse e spense la luce. Sherry si abbandonò su una grande poltrona che in una casa normale poteva fare da letto. Dopo
aver sistemato il paziente per la notte, la signorina Onatelli sedette su una sedia vicino a Sherry. Non vi era altro rumore nella stanza che il loro respiro. Sherry sapeva che Giò non dormiva. Poteva sentire i suoi pensieri aleggiare intorno a lei, e sentì di ricambiare il suo amore. Tutti i suoi dubbi erano svaniti e lei era nuovamente del tutto felice. Era curiosa di scoprire il mistero della Donna sul balcone, naturalmente, ma ora in maniera impersonale. Passarono le ore. La luna lasciava una grande striscia d'argento lungo la balconata. L'aria profumata entrava come una carezza. Era una di quelle notti di luna in Italia che sono indescrivibilmente belle e sembrano fatte per l'amore. Sherry stava pensando a Giò e a come sarebbe stato bello quando sarebbe stato di nuovo perfettamente bene, quando sentì la signorina Onatelli trattenere il fiato e un rumore dal letto di Giò, come se questi si fosse sollevato. I suoi occhi si volsero subito alla finestra. C'era la Donna. I bianchi veli le ondeggiavano intorno come fatti di nebbia. Era più vicina, o la luce della luna era più forte, perché Sherry poteva vederla in viso più distintamente delle altre volte. La pelle era come di camelia e pallida come cera, gli occhi profondi e tristi, spaventati e pieni di un terribile desiderio. Le labbra piene tremavano mentre i capelli rosso oro le incorniciavano il volto come il mogano antico di un capolavoro di Tiziano. La Donna era di grande bellezza, ma anche orribilmente disperata e piena di desiderio. Una graziosa mano stringeva il collo sottile. Di colpo Sherry sentì la propria voce, stranamente calma al di sopra del battito disordinato del suo cuore. «Che cosa posso fare per te? Sono tua amica.» In quelle semplici parole aveva messo un mondo di significati. La Donna si girò come per andare via, ma esitò. Sherry parlò di nuovo. «Voglio aiutarti. Voglio aiutarti perché so cosa significa l'amore... poiché io amo, c'è un legame fra noi. Dimmi cosa devo fare.» Per un attimo, a Sherry sembrò che la Donna stesse valutandola, e più tardi Giò e la signorina Onatelli le dissero di aver pensato la stessa cosa. Poi Sherry disse, e le parole sembrarono uscirle al di fuori della sua volontà: «Tutti quelli che amano sono uguali. Così il tuo dolore è il mio. Tu sei innocente ma, se così non fosse, il tuo peccato sarebbe il mio e così il tuo pentimento. Tu sei libera attraverso me. Non so perché, ma il mio amore
per Giò lo rende possibile, mi permette di darti la pace». Ci fu un lungo silenzio, durante il quale avvenne una cosa meravigliosa. L'ansia profonda, il desiderio ardente, lasciarono il viso della Donna, come cancellati da una spugna. I tre nella stanza videro la tragedia spegnersi negli occhi della Donna, videro lo strazio lasciarla e la pace prenderne il posto, una serenità che superava ogni descrizione. Quindi un sorriso incurvò le labbra della Donna; prima un sorriso radioso di profonda gioia, poi un sorriso di gratitudine per Sherry. Nello stesso momento, la bianca mano sottile strappò qualcosa dal collo. Si udì un tintinnio, come se qualcosa di metallico avesse colpito le pietre del balcone, quindi la Donna andò via... svanita nella notte dalla quale era venuta... Un minuto prima era lì... un minuto dopo non c'era più nulla. Sherry ansimò leggermente, cercò di muoversi, ma si accorse di non avere forza... la possedeva un'inerzia mai conosciuta prima. Era fredda, il sangue le sembrava essersi gelato nelle vene. Da lontano poteva udire la voce di Giò: «Era un fantasma, non c'è altra spiegazione». È la risposta della signorina Onatelli: «Non dimenticherò mai la pena sul suo volto e la benedetta pace, la benedetta pace che ne ha preso il posto». Sherry cercò di descrivere i suoi sentimenti, ma non riusciva ad emettere alcun suono. La debolezza le aleggiava intorno come i bianchi veli del vestito della Donna avevano aleggiato... ondeggiato intorno a lei come nebbia. Cercò di scrutare nella nebbia che la separava da Giò. Fece un passo incerto e cadde pesantemente a terra. Poi fu l'oscurità. Il sole brillava quando Sherry riprese i sensi e Giò sedeva accanto al suo letto tenendole la mano come lei aveva fatto con lui; i ruoli si erano invertiti. Gli sorrise e il viso di lui s'accese, come se fosse stato illuminato all'improvviso. «Cara», disse, «mia cara!» «Cosa è successo?», chiese lei, poi ricordò. Si drizzò nel letto. «La Donna sul balcone! Era un fantasma?» «Sì, amore, e tu l'hai salvata dalla maledizione cui era condannata. Tu... o qualcuno che parlava attraverso di te. Lo sai che hai perso conoscenza per tre giorni? L'infermiera Onatelli e io abbiamo avuto cura di te.» «Tre giorni?» «Tre giorni! Sta' giù, amore», Giò si piegò su di lei, «e ti dirò tutto. Il dottore ha detto che, quando tu fossi rinvenuta, saresti stata bene di nuovo
e avresti dovuto sapere quello che era accaduto. Non era sicuro che avresti ricordato.» Giaceva supina, tenendo ancora la mano del marito. «La Donna è svanita. Ho cercato di parlarle. Ma non potevo, ero gelata. Penso di essere svenuta.» «Sei caduta in coma. È stato lo sforzo, il fatto che forze occulte hanno usato te per liberarla dal suo tormento, o la tua innata bontà. Non sapremo mai cosa, ma so chi è lei. Era Bianca Torello, l'amante del Cardinale. Il Cardinale De Quisce che costruì questa villa... per lei. Lei era giovane e bella. Lui vecchio e corrotto. Il padre di lei era suo amico. Il Cardinale disse al Conte Torello che avrebbe messo sua figlia in convento, perché aveva la vocazione. Invece la portò qui per il suo piacere. Era prodigo con lei di ogni cosa, ma lei lo odiava. Aveva veramente desiderato di farsi monaca, ma lui ne fece una cortigiana.» «Che cosa orribile... Chi ti ha detto tutto questo, Giò?» «L'agente della proprietà. La Donna ha ossessionato la villa per secoli. Certo non me lo ha detto finché non l'ho costretto.» «Cosa è successo poi?» Sherry era sicura che c'era dell'altro. «C'era un giovane giardiniere qui nella villa, che adorava Madonna Bianca da lontano. Un po' per volta lei lo conobbe e la sua calda natura e la sua infelicità corrisposero all'adorazione del giovane. Non fecero nulla di male. Bianca era davvero pura di cuore, ma era sola e infelice, una triste prigioniera. Il Cardinale era via la maggior parte del tempo, così lei e il ragazzo divennero amici; spesso sedevano nel roseto e parlavano. Un giorno il Cardinale li trovò così e, essendo un malvagio, vide il male dove non ve ne era. Mandò lei sotto scorta nella Camera della Madonna. Fece torturare il ragazzo nella propria stanza, per maggior divertimento, mentre se ne stava a letto. Bianca fuggì dalla sua stanza, corse lungo il balcone ed entrò nella camera del Cardinale proprio quando il ragazzo emetteva l'ultimo respiro. Il fragile corpo non aveva resistito. Bianca parve impazzire: maledisse il Cardinale e i De Quisce per tutto il tempo a venire. Poi il Cardinale, a sua volta, lanciò anche lui una maledizione. Disse che lei avrebbe dovuto passeggiare sul balcone finché l'amore avesse espiato il suo crimine. Lei urlò che non c'era stato crimine se non quello del Cardinale, mentre lui l'afferrava e la scagliava giù dal balcone uccidendola.
Era ubriaco, sadicamente eccitato dalla tortura, ma più tardi, quando vide il corpo della giovane straziato e senza vita, ancora bello nella morte, pianse lacrime amare e avrebbe voluto cancellare la sua maledizione. Ma era troppo tardi. Le parole dette con forza hanno potere, e il Cardinale lo sapeva. A quei tempi erano più vicini alle cose della natura. Ma, per fare ammenda, le legò al collo la sua grande croce ingioiellata, le fece un bel funerale e costruì una tomba.» Sherry pendeva dalle sue labbra. «Che è accaduto poi?», chiese avidamente. «Il fantasma infestò il balcone e, dice qualcuno, portò il Cardinale alla pazzia. In ogni caso questi morì delirando che la villa non avrebbe riacquistato la pace finché il crocefisso non fosse stato restituito. Per anni l'ossessione è continuata. La Donna in bianco, la povera Bianca Torello, vagava sul balcone, infelicissima, spaventando chiunque. I De Quisce avevano avuto a che fare con lei e la tragica agonia, ma nessuno dei successivi proprietari poteva fare nulla. Perciò la villa cambiava di mano così di frequente ed era così economica. Ma ora la maledizione è stata vinta da te, mia cara. Bianca Torello non vaga più.» «L'hai rivista da allora?» «No, e sono sicuro che nessuno rivedrà più la Donna sul balcone.» «Ma perché? Io non ho fatto niente. Ero solo spaventata da lei e ho pronunciato delle parole che sembravano essermi state messe in bocca.» «Dal Cardinale, dal giovane giardiniere che amava la ragazza, o dal tuo stesso animo gentile?», Giò la guardò seriamente. «Non lo sapremo mai, ma da allora non è stata più vista, e Beurio dice che prima non era mai avvenuto. Ma ho un altro modo per sapere se il suo povero, infelice fantasma ha trovato pace, anche se non l'ho vista sul suo viso.» Giò sorrise e smise di parlare, poi continuò in tono differente: «Dimmi, Scamperino, tutto ciò ti fa odiare la villa?». Sherry guardò il balcone. «No, io l'amo... e non provo paura... solo un senso di pace.» «E allora, non ti dispiace se la compero? La voglio, e anch'io sento che, come sempre accade, il male si purga col tempo e resta solo il bene. Qui è stato così.» Sherry chinò il capo. Era completamente felice. «Ho sempre desiderato che la villa fosse nostra, dal primo minuto che
l'ho vista. Ma ora, Giò, che lei è andata via per sempre, come sapremo se c'è solamente pace?» «Perché ti ha lasciato un dono.» Giò cercò in tasca e tirò fuori la mano. Sulla sua mano aperta c'era una croce d'oro tempestata di gemme. Dalla croce pendeva una catena d'oro spezzata. «La croce del Cardinale. L'ha data a te, amore. Se l'è strappata dal collo e io l'ho trovata sul balcone. La croce che ha riportato la pace nella villa.» Sherry prese la croce tra le mani. Era una cosa magnifica, di un altro mondo. Mentre la teneva, provò un senso di distensione e liberazione da ogni paura... e la previsione di una futura felicità. Giò parlò di nuovo. «C'era un disegno della croce in una storia dei De Quisce. È identica. Sono sicuro che, se esumassero il corpo di Bianca Torello, non troverebbero la croce sepolta con lei.» Sherry si portò la croce al collo dove avrebbe voluto portarla per sempre. «Io sono sicura», disse lentamente, «che troveremmo anche sul suo volto quella benedetta espressione di pace.» MARIANO RAMPINI Fantasma di Demone Si ritrovò a pensare a Julienne senza sapere perché. La ragazza era lontana, irraggiungibile, persa nella caligine densa della città. Forse stava inseguendo qualche amore, qualche sogno... del resto lei sembrava non avere altro scopo nella vita... Victor scosse il capo e sorrise. L'immagine di Julienne che correva con i capelli che le sventolavano sulle spalle come un mantello, era piacevole, certamente assai più delle due torri gemelle di pietra grigia che lo sovrastavano. Eppure anche in loro c'era della magia: era l'odore di quella terra, così particolare, unico, l'incantesimo della Francia del Sud. Una tela di ragno di calore e luce che costringeva chiunque a tenere gli occhi socchiusi, stretti, imprigionando l'orizzonte del passante nelle quinte fruscianti delle ciglia. Faceva caldo, un caldo asfissiante che si alzava in pigre onde tremolanti dalla terra stessa. E forse era questo il motivo per cui quella terra era così ricca di meraviglie e di leggende: si passò il fazzoletto sulla fronte tergendosi il sudore, poi sollevò lo sguardo facendosi scudo con la mano dal ri-
verbero feroce che scaturiva dalle due altissime torri. Anche quella era magia. E qualche genio senza tempo aveva immesso la sua stessa anima, la sua capacità di sognare, incatenandole in quei miracoli di pietra. Contrafforti sottili come vene si slanciavano verso il cielo terminando nel grido congelato di punte aguzze come quelle di una spada, racchiuse nella chiave eterna di croci che parevano soltanto riflessi tremolanti, lassù dove correvano le rade nuvole padrone assolute di quel cielo d'agosto, crudele e impietoso. Victor cercò ancora consolazione nel contatto del cotone del fazzoletto e si voltò a guardare la strada in discesa che conduceva verso il paese. C'era qualcosa in quell'immagine dai colori forti che disturbava. Forse l'ocra acceso della terra e il verde troppo cupo delle macchie di alberi che costeggiavano il fiume. O forse era proprio quell'anello lucente d'acqua a turbarlo... o piuttosto il grigio velo di polvere sollevato dal Transit che aveva portato, ansimando, lui e la sua attrezzatura fin sulla spianata prospiciente la cattedrale. Poi, d'improvviso, si rese conto della stranezza della pianta del paese vista dall'alto: sembrava un'enorme croce, anzi più d'una, ciascuna concentrica alla precedente, fino a quella chiara disegnata dal lastricato di granito della piazza... Prima venivano le costruzioni medievali, le più antiche, poi via via le più recenti... e tutte rispettavano fedelmente il rigore di quella simmetria edilizia come a conservare qualcosa: un oggetto sacro trasformato in disegno e nuovamente santificato dal rosso mattone dei tetti della cerchia interna, un colore che la luce torbida del mezzogiorno fondeva perfettamente con quello delle colline gialle di stoppie. Forse, se al termine del servizio fosse avanzato qualcosa del fondo spese, avrebbe potuto anche cercare un elicottero da affittare e volare sui villaggi e paesi di quella zona per fare qualche scatto dall'alto... Victor si riscosse, e tornò a voltarsi verso l'enorme portale istoriato della cattedrale. Lo aspettava un duro lavoro, e tra sé maledisse la pigrizia e l'ottusità dei paesani, poco ospitali e ignoranti. Eppure aveva anche offerto una buona paga a chi fosse venuto ad aiutarlo a sistemare il piccolo generatore per le luci. Nella cattedrale c'erano soltanto candelabri; a nessuno era mai venuto in mente di portare lassù la luce elettrica... ridacchiò tra sé. Probabilmente non sarebbe servito a niente, tanto nessuno veniva mai da quelle parti. Nessuno tranne Etienne, il caporedattore della rivista che l'aveva incaricato del servizio fotografico.
Ripensò alle scuse puerili accampate dai paesani per non accompagnarlo. «Mia madre, sa. È anziana...», «Ho già un impegno...» O, più seccamente, «Lasciami in pace. Vattene!». Qualche santo, mosso a compassione, lo aveva aiutato a trovare un passaggio sullo sconquassato furgoncino che in quel momento finiva di rotolare giù verso il fondovalle, come un'anatra ubriaca. Il ragazzo dai capelli corti, vero rapper di provincia con il cappello da baseball girato e la camicia a quadri, era stranamente pallido e anche la sua fretta non aveva giustificazioni, così come non le aveva la risata rauca con la quale lo aveva salutato. Anche il parroco però gli era sembrato strano, chiuso nella sua chiesetta di mattoni, con le mani tremanti. E così anche il sindaco, con la pappagorgia ballonzolante e il volto sudato, tondo come una luna. Sembravano tutti ansiosi di sbarazzarsi di lui, di togliersi di torno quell'incomodo visitatore che veniva a chiedere l'impossibile. Il parroco gli aveva consegnato le chiavi della cattedrale senza mai svolgere il pesante drappo di raso nel quale erano avvolte... Victor ridacchiò ancora. «Forse su questa costruzione pesa una di quelle vecchie, care maledizioni», pensò tra sé, «ma adesso la maledizione maggiore ce l'ho io che devo portare dentro queste casse!» Da una delle molte tasche del suo giubbotto estrasse l'involto di tessuto nero consegnatogli dal parroco e lo aprì avvicinandosi al portale. La chiave brillò al sole. Era stupenda. Enorme, lunga poco meno del suo avambraccio, riprendeva il motivo delle croci concentriche e il metallo era lucido, aveva una consistenza quasi oleosa. «Una splendida foto di apertura», pensò, «con la luce giusta, su questo velluto scuro...» La impugnò meravigliandosi della sua leggerezza e la infilò delicatamente nella toppa. Il portale era ancora robusto, il legno sembrava non aver subito l'assalto del tempo ed era compatto, denso, senza tracce di sgretolamento; nessun segno di tarli, né di ruggine. Neanche sulle centinaia di minuscole croci che lo bordavano, ognuna delle quali ripeteva il motivo della pianta del paese, lo stesso motivo della chiave. La porta si aprì senza nemmeno uno scricchiolio... Victor si trascinò dietro due lunghi cavi che da sempre avevano la sgradevole abitudine di aggrovigliarsi tra loro come serpenti in amore. Alla fine, con un ultimo sforzo, sistemò anche le due grandi lampade che provvi-
de immediatamente ad accendere spazzando via le ombre dal vestibolo della cattedrale. La costruzione all'interno manteneva le sue promesse. Era stupenda. Uno spesso velo di polvere copriva l'impianto e forse, sia le grandi colonne sia il legno della copertura a nave del soffitto, avrebbero avuto bisogno della mano di un buon restauratore. Ma, nonostante tutto, la sensazione di sacralità, di immutabilità eterna che emanava dalle costruzioni gotiche, sembrava amplificata da quell'ambiente. La luce brillante dei quarzi si diffuse tra le ombre e la polvere, e un leggero, ma prolungato scricchiolio, fece arretrare Victor mentre una nuvola di calcinacci cadde dall'alto delle travature. Il fotografo spense gli interruttori con un gesto annoiato, e tornò fuori nel calore asfissiante della spianata, preparando le macchine per gli scatti esterni. Sistemò con cura il treppiede e aprì la borsa degli obiettivi. Assorto nel suo lavoro, si ritrovò di colpo a pensare all'inconsueto comportamento dei paesani. Come potevano lasciare così abbandonata una costruzione come quella? Anche Etienne era rimasto perplesso, e per quello aveva deciso di dedicare alcuni servizi alle opere d'arte dimenticate, quelle che non rientravano nei tour turistici più importanti e che rischiavano così di essere immeritatamente dimenticate. La naturale ritrosia della gente di campagna a permettere l'intrusione dei turisti avrebbe potuto spiegare soltanto in parte quegli atteggiamenti dei maggiorenti del paese. Victor ghignò: «Sarà una delle solite macchinazioni che nascondono chissà quale speculazione... forse mazzette finite nelle mani sbagliate...», mormorò. Con uno scatto agganciò il teleobiettivo e lasciò che la familiare tensione del lavoro lo catturasse portandosi via ogni altro pensiero. Diresse la macchina fotografica verso l'alto e nel mirino comparve l'immagine fuori fuoco di una delle gronde più alte. Era una sottile meraviglia di marmo sulla quale comparivano qua e là, quasi chiamati dal gesto di un mago, volti e maschere grotteschi, gettati alla rinfusa e corrosi dalla pioggia e dal vento. Inquadrò un gruppo di bocche di lupo con file di denti pronti a mordere sporte nel vuoto, e scattò spostandosi poi verso il punto dove la facciata si
congiungeva ai pinnacoli, là dove apparivano figure indistinte e minacciose, nascoste nell'ombra. Strinse il campo e un ghigno spaventoso riempì il mirino. Victor fece un salto indietro e il treppiede ondeggiò pericolosamente. Allungò una mano a fermarlo con un gesto istintivo, mentre sentiva il cuore battergli forte in petto. Lentamente si riavvicinò alla macchina fotografica e accostò l'occhio al mirino. Un mascherone infernale lo fissò tra il cielo e la pietra: un volto terribile, squarciato da una risata demoniaca congelata nel marmo ancora bianchissimo, accecante di riflessi. Artigli aguzzi come aghi stringevano il corpo di un agnello trapassandolo e traendone gocce di sangue che le sottili venature rossastre del marmo rendevano ancor più verosimili. Victor tornò a staccarsi dalla macchina fotografica con la bocca amara. Si asciugò il sudore che gli gocciolava sugli occhi e tentò di rimettersi al lavoro. Un po' di sensazionalismo non guastava: nessuno si sarebbe sognato di contestare il gusto per il macabro degli scalpellini medievali... Il meccanismo di avanzamento scattò a vuoto. Victor sollevò il capo e si accorse che il sole era alto nel cielo. Smontò pazientemente la macchina e trasportò l'attrezzatura all'interno della cattedrale. Stanco, accaldato, si avvicinò al contenitore frigorifero, ne estrasse una Coca e si sedette sulla cassa del generatore lasciando che la frescura si portasse via il senso di spossatezza regalatogli da quel sole implacabile. Si passò la lattina gelata sulle tempie mentre l'aria infuocata dell'esterno si stemperava nel fresco del vestibolo. All'interno di lunghi fasci di luce che penetravano dal rosone, vorticavano nuvole impalpabili di pulviscolo. Victor si sentì solo, lontano dal mondo... anche il ricordo degli occhi assonnati di Julienne che lo salutava la mattina della partenza gli appariva sfumato, nascosto da una specie di nebbia scintillante nella quale poteva abbandonarsi... Gli comparve davanti di colpo il volto stralunato del parroco, e il gesto isterico e ipnotico delle sue dita che correvano di continuo a formare il segno della croce... I muscoli delle gambe e delle braccia di Victor si contrassero in uno spasmo improvviso e violento. Si alzò in piedi di scatto e riaprì gli occhi. La cattedrale gli apparve diversa, non più un luogo magico, fantastico, ma un ricettacolo di angoli di buio dai quali provenivano sottili fruscii, scricchiolii, rumori misteriosi e indecifrabili.
Con un gesto deciso si riscosse, poggiò la lattina vuota accanto alla cassa sulla quale era seduto, afferrò i cavi del generatore e i quarzi e fece scattare gli interruttori: era ora di tornare al lavoro! I suoi passi echeggiarono sull'impiantito di pietra e, quando i raggi violenti delle lampade frugarono intorno, un gruppo di pipistrelli, disturbati dalla luce, attraversò la navata in cerca di un rifugio più sicuro. Victor fece un balzo indietro, poi sorrise e proseguì verso la parete della navata alla sua destra. Rimpianse di non avere con sé Nicole, la sua socia che adesso se la stava certamente spassando in qualche isola dei Caraibi. Ma tant'era. Si guardò intorno cercando un punto dal quale cominciare, e cercò di calarsi nello stesso stato d'animo degli sconosciuti artisti che avevano eretto quelle mura. L'aura di mistero e di paura che regnava all'interno della cattedrale era certamente una buona chiave per interpretare l'atmosfera di abbandono e di desolazione che sembrava avvolgere l'intero edificio. Le profonde chiazze d'ombra che neanche la luce delle lampade riusciva a penetrare sarebbero state una quinta ideale per le immagini, e quindi decise, con un inconsueto tremore nelle mani, di piazzare i cavalletti al centro esatto della navata dove si avvertiva maggiormente il senso oscuro di minaccia che neanche la luce solare proiettata dal rosone riusciva a vincere del tutto. Spostò a fatica alcuni antichi, pesantissimi banchi da preghiera, tentando di sistemarli sotto la prima fila di arcate, e si ritrovò a fissare un ammasso confuso di pelo grigiastro spiaccicato al suolo. Ai suoi piedi, in un cerchio di sangue raggrumato e brunito dal tempo, giaceva lo scheletro mummificato di qualche piccolo animale. Victor respirò con forza e sferrò un calcio verso quei miseri resti per sfogare la tensione. Il colpo mandò in polvere le vecchie ossa, e il fotografo si affrettò ad allontanarsene. «Certo che la tengono proprio bene la loro cattedrale...», sibilò tra i denti. Si ritrovò a pensare a quegli strani paesani con le loro leggende, i loro segni di croce e i fiaschi di vino rosso vuoti, radunati nel piccolo bar della piazza a ridere di lui... Con gran precauzione pulì con uno straccio una porzione di pavimento, attento a non sollevare la polvere che vi giaceva sopra come un grigio, impalpabile tappeto. Si accucciò studiando la disposizione migliore per sfruttare il magnifico gioco di luce che penetrava dalle vecchie vetrate, poi si accorse che dal portale entrava un fastidioso riverbero e tornò indietro a chiuderlo.
Il tonfo dello spesso battente di legno sembrò quello di una pietra tombale e Victor provò un brivido involontario di paura. «Devo star calmo. Queste idee non servono a nulla. Ho un lavoro da fare...», pensò. Poi sorrise di nuovo tra sé pensando alla diabolica abilità degli abitanti del borgo nel generare strane paure nei visitatori. Un gioco divertente che almeno serviva a rompere la monotonia delle loro giornate sempre uguali. L'otturatore scattò, e il rumore rimbombò nel silenzio della cattedrale. Nello stesso istante Victor, chino sulla macchina fotografica, ebbe l'impressione che un velo nerastro fosse sceso a coprire la luce, quasi che un'ala immensa si fosse stesa dal soffitto al rosone a nascondere chissà quale segreto. Alzò il capo, ma intorno non era cambiato nulla. Si passò una mano fra i lunghi capelli cercando di recuperare la concentrazione, ma i suoi gesti erano diventati tesi: più di una volta dovette sistemare di nuovo il cavalletto che sembrava animato da vita propria e tendeva a scivolargli via nei momenti più inaspettati. Anche gli obiettivi sembravano ribellarsi a quell'atmosfera sempre più pesante. Nonostante il caldo non riuscisse a penetrare al di là delle spesse muraglie di pietra, Victor cominciò a sudare copiosamente. Le prospettive che il mirino gli restituiva apparivano distorte, contorte, come falsate da un curioso velo scuro che scompariva non appena staccava gli occhi dall'apparecchio fotografico. Sistemò nervosamente i due quarzi e si preparò ad accenderli, sperando che la luce calda delle lampade allontanasse quell'ombra fastidiosa. Cambiò macchina e obiettivo e poi, dopo aver cercato un'inquadratura efficace nella grande abside, si diresse dove l'ombra sembrava più consistente, e azionò gli interruttori. Si spostò dal treppiede boccheggiando: sull'altare maggiore - un rozzo blocco di pietra grezza - poggiato al centro esatto del coro, campeggiava un grande crocefisso, appeso capovolto a una catena rugginosa. Victor sentì il suo cuore accelerare i battiti e il sudore si trasformò in una patina gelida che gli legava braccia e gambe. «Ancora loro», mormorò a denti stretti tremando. Poi imprecò violentemente e avanzò verso l'altare. «Chissà che risate si faranno quegli imbecilli!» Poi, più forte, come se volesse farsi sentire da qualche ascoltatore nascosto, «Imbecilli!! Sì! Im-
becilli!», gridò. Con le mani che ancora tremavano, si rimise al lavoro e lentamente, tornando a concentrarsi, si sentì più tranquillo. Esaminando i colori degli affreschi che adornavano la fascia più alta delle pareti, rimase stupefatto dalla loro lucentezza. Gli ori e i rossi sfolgoravano sotto la luce delle lampade: la polvere e le offese del tempo e dell'umidità non avevano potuto nulla contro la maestria alchemica del pittore che li aveva eseguiti. Quel pensiero lo rimise di buon umore e riprese a lavorare di buona Iena, preparando le apparecchiature per riprendere gli affreschi dipinti sulla parte bassa delle pareti, seminascosti dall'ombra gettata dalle navate superiori. Il dipinto correva lungo l'intera lunghezza della parete e sembrava rappresentare la vita di qualche Santo mischiata a brani della Genesi o a storie della vita di Cristo: erano però meno splendenti di quelli della fascia alta con toni di colore più scuri e più tetri. Victor si accorse che faticava a girarsi verso il crocefisso capovolto, quasi che dalla parte dell'altare maggiore provenisse un oscuro senso di minaccia. Con un certo sforzo si costrinse a esaminarlo meglio, e provò un senso di pena pensando al duro lavoro degli scultori che tanti secoli addietro si erano adoperati per creare quell'opera d'arte. Ora, invece, l'ignoranza di qualche mattacchione di provincia rischiava di mettere a repentaglio un'opera d'arte forse unica nel suo genere... La rabbia e la paura erano scomparse, e il fotografo si spostò verso le due cappellette nascoste ai lati dei transetti. Si trascinò dietro uno dei due riflettori e, soltanto dopo aver attraversato la navata centrale, si accorse di essere spinto da una sorta di inspiegabile ansia. L'ambiente, in particolare nei punti nei quali la luce non arrivava a spazzare via l'oscurità, appariva quanto mai misterioso: le grandi arcate a sesto acuto si perdevano nelle tenebre del soffitto dove la luce stessa del sole sembrava arrestarsi. Poggiò la lampada in terra e, nel farlo, alla luce morbida del sole che illuminava un poco l'impiantito, si accorse che sul pavimento, in un punto nel quale non era mai passato, si scorgevano delle lunghe striature: erano simili a tracce lasciate da chissà quali passi, incisioni profonde nella pietra, strie che attraversavano l'intero lato destro della cattedrale e si perdevano nelle zone più buie. Cercò tra sé di trovare una giustificazione a quei segni. Forse un errore degli scalpellini... oppure pietre che avevano rivelato i loro difetti troppo tardi per essere sostituite... o ancora una zona percorsa da misteriosi penitenti che si trascinavano avanti e indietro tanto da scavare quei solchi sotti-
li... Nessuna di quelle ipotesi servì a tranquillizzarlo, ma si inoltrò ugualmente nella cappella. E sentì il cuore balzargli in petto e il respiro si bloccò! Dalla pala sopra un altare piccolo e disadorno, lo fissava un essere mostruoso: lunghi canini scoperti e gocciolanti bava sanguigna, braccia scheletriche che stringevano la testa di un uomo, o almeno quello che ne rimaneva. Victor sentì la bile salirgli in gola: proprio dipinti del genere doveva fotografare! Stringendo i denti, aguzzò lo sguardo: tra le ombre del dipinto si scorgeva il luccichio di una lama levata a trafiggere il mostro, forse impugnata da un santo guerriero, e intorno sagome confuse di gente urlante facevano da cornice alla scena. Il dipinto era senza dubbio molto antico e Victor si meravigliò della singolare angolosità delle figure, simili quasi a quella delle opere di El Greco. Sullo sfondo, nascosta da nubi temporalesche, appariva la facciata della cattedrale... Era certamente un bel sistema quello per assicurarsi la fedeltà e inculcare il timor sacro nelle teste dure del popolino: spaventarli per bene e mostrare loro cosa sarebbe accaduto se la Chiesa non avesse ricevuto le sue decime... Victor ridacchiò istericamente tra sé, ma quel suono si propagò per tutta la chiesa risvegliando eco che tornarono indietro come ululati rabbiosi. Spostò un poco la lampada deciso a immortalare quel dipinto così inconsueto ma, non appena posò l'occhio sul mirino, la luce sembrò appannarsi e spegnersi. Un velo di nebbia scese a oscurare tutto nello stesso istante nel quale l'otturatore scattava, e questa volta Victor non riuscì a reprimere la paura. Afferrato il supporto della lampada e proiettando davanti a sé l'ampio fascio di luce, tornò indietro e risistemò la lampada accanto all'altra deciso a terminare al più presto il suo lavoro sull'affresco. Sentiva il bisogno di aria fresca: la polvere della cattedrale sembrava avergli intasato i polmoni, e i suoi stessi movimenti erano diventati lenti e impacciati. Victor continuò ugualmente i suoi preparativi finché l'affresco non gli parve convenientemente illuminato. Iniziò dal fondo, e le sue lampade lasciarono scivolare via riflessi rossastri dalle immagini dipinte sul muro. L'oro degli intarsi gettava bagliori sottili che gli ferivano gli occhi, e ogni figura sembrava improvvisamente
animarsi di vita propria diventando sfuggente ed elusiva... un attimo prima a fuoco e un istante dopo completamente sfuocata... La sensazione di una presenza, di un'ombra che cercava di nascondere qualcosa all'occhio meccanico delle macchine fotografiche, continuò. Non appena puntò l'obiettivo sul primo riquadro degli affreschi, le lettere che avrebbero dovuto illustrare, come in un fumetto antichissimo, la storia dipinta, cominciarono a scomporsi sotto i suoi occhi sfuggendo la luce delle lampade. L'affresco stesso era inconsueto e le sue immagini narravano una storia confusa. La gente dell'epoca appariva sempre nascosta dietro finestre enormi aperte in case dai colori soffusi... sembrava che la vicenda non possedesse un vero e proprio filo logico. Un'ombra, forse un demonio, raffigurata con ali e artigli, squarciava il cielo azzurro della campagna: i raccolti prendevano fuoco e i contadini, torturati dal mostro, correvano invano a nascondersi nei loro casolari di mattoni rossi. C'era sempre molto sangue, fiumi scorrevano da corpi divisi a metà, squarciati, abbandonati sulle pendici dei monti, sulle rive dei torrenti... ed era continuamente presente l'immagine di un tempio dalle colonne scure che sorgeva su una collina. In ogni scena tornava quell'immagine ripetuta ossessivamente con uno o più mostri che uscivano dal tempio e vi rientravano stringendo tra gli artigli qualche paesano urlante con le membra rattrappite e un'espressione d'orrore dipinta sul volto. Victor fu catturato dal realismo del dipinto. Si ritrovò in preda a un'improvvisa febbre che lo spingeva a scattare di continuo, senza pensare a ciò che stava facendo. I rulli di pellicola gli scivolavano tra le mani come acqua e, mentre continuava in quell'attività frenetica, si accorse con un angolo freddo della mente che le lampade accese con tanta cura cominciavano a sbiadire quasi che i quarzi fossero sul punto di saltare. «...Sembrano grandi candele su cui soffia un vento diabolico», pensò tra sé... Ma la storia lo teneva incatenato e anche quel pensiero raziocinante scomparve mentre i suoi occhi non riuscivano a staccarsi dalla narrazione. C'erano legionari d'epoca romana che tentavano di sfuggire al terrore con sacrifici d'animali e riti magici... poi apparve la Croce, e il tempo trascorse veloce: il tempio divenne distrutto e sui campi di grano si alzarono grandi volute di fumo nero. Un'immagine cominciò a prendere forma sotto gli occhi del fotografo: le
impalcature dalle quali stavano nascendo le mura della cattedrale... il cavallo bianco del santo guerriero si impennava contro l'orizzonte mentre gli operai attendevano al loro lavoro alzando le guglie della chiesa a toccare il cielo... Il male però non era sconfitto. Nella scena seguente il demone d'ombra comparve di nuovo e questa volta era anche più forte e terribile di prima. Fu un attimo: l'immagine del demone si stagliò nel reticolo dell'obiettivo e il motore della macchina ringhiò segnalando la fine del rullo. Victor si staccò dal mirino e si sentì in preda a una stanchezza profonda. Sentiva di essere stato sottoposto a qualche prova, ma la sensazione non bastava a spiegare il torpore e la spossatezza che si stavano impadronendo del suo corpo. La prima lampada si spense con uno schiocco violento: Victor sobbalzò e si avvicinò al quarzo. Non fece in tempo ad allungare la mano, che, anche la seconda lampada si spense lasciandolo immerso nel chiarore fioco della luce del giorno che traspariva dalle vetrate e dal grande rosone dell'ingresso. «... Non basta la stanchezza, adesso ci si mettono anche le lampade...» Victor si guardò attorno sconsolato. Quel lavoro non gli era piaciuto fin dal primo momento e, se non fosse stato per la storia con Julienne, non lo avrebbe mai accettato... La casa di campagna però aveva bisogno di cure e i soldi sembravano non bastare mai... Si avvicinò alle lampade e aspettò che le parabole si raffreddassero. C'era sempre la possibilità di rimediare ai guasti... Si sedette su uno dei vecchi banchi appoggiati alla parete e il legno si lamentò del suo peso. Quel posto era così vecchio, così «diverso», così difficile da capire... Victor era preoccupato: ci sarebbe voluto del tempo per terminare il lavoro e lui si sentiva già provato dalle strane sensazioni che quella vecchia cattedrale gli destava dentro... Chiuse gli occhi per un istante in cerca di pace e tranquillità, ma qualcosa gli sfiorò il viso... una carezza fredda e ripugnante, un alito schifoso che lo lasciò con gli occhi e la bocca spalancati. Buio! Intorno a lui si stava allargando una profonda chiazza di buio, come se una grande nuvola nera stesse scendendo a coprirlo, a sommergerlo... un'onda putrescente che nascondeva ogni cosa, abbandonandolo sulla zattera costituita dalla panca, aggrappato a quel legno per non perdere la ragione.
Le vetrate sembrarono spegnersi una ad una: ben presto l'ombra si impadronì anche del rosone nascondendolo completamente. Victor non si sentì più padrone del proprio corpo che giaceva abbandonato sulla panca come un manichino. Gli tornò alla mente l'immagine del quadro e non riuscì a trattenere un singhiozzo di terrore. Ora voleva fuggire, abbandonare quel luogo, quelle visioni di un altro mondo... fuggire, alzarsi, uscire fuori verso il calore e la luce abbagliante del sole... Si voltò con un gesto disperato verso l'uscita, ma la pietra stessa sembrò subire un orribile cambiamento; l'interno della cattedrale si stava allungando, deformandosi come un gigantesco elastico che una forza malvagia torceva con rabbia isterica. Victor avvertì ancora quel contatto schifoso e questa volta non represse un grido. Girò violentemente su se stesso cercando di allontanarsi, di fuggire, ma fu tutto inutile. Il panico lo stava soffocando: non riusciva più a far funzionare la sua brillante mente di uomo moderno. Adesso quello che contava era allontanarsi, sopravvivere a quel nemico ancor più temibile di qualsiasi belva... l'ombra non cercava la sua carne quanto piuttosto la sua anima, la sua mente grassa di ricordi e immagini, la sua vita... Si sentì come staccato dal suo corpo: si vedeva correre qua e là, come un animale in gabbia che cercava disperatamente di salvarsi... al tempo stesso osservava con distacco quella frenesia dettata dal panico, quell'agitarsi insensato e inutile. Sopra di lui l'ombra si andava addensando in una forma mostruosa... inconcepibile... una forma senza forma che pure possedeva una sua orribile simmetria... un demone pauroso e gigantesco che protendeva le sue ali verso di lui fino a toccarlo, giocando con il suo corpo come avrebbe fatto un gatto con un topolino. L'idea gli fece salire in gola un getto di bile acida e d'improvviso la paura parve scomparire lasciando il posto alla sferzata feroce della rabbia... non voleva soccombere in quel modo, nascondendosi e urlando di paura come una bestia al macello... doveva difendere la sua anima, il suo passato... Tentò di alzarsi, ma il mostro doveva aver avvertito quel rigurgito di rabbia e, dove la tenebra era più fitta, Victor scorse il baluginio rossastro di occhi che si spalancavano sorpresi. Il colpo lo colse appena sotto le costole scaraventandolo a terra. Per un attimo Victor non capì nulla, poi il dolore lo aggredì con ferocia
e, quando passò il palmo della mano sulla camicia, la ritrasse sporca di sangue. Capì improvvisamente che, se voleva salvarsi, doveva a tutti i costi raggiungere l'esterno e la luce... la luce era la sua unica arma di difesa contro l'abitante della cattedrale... Il secondo colpo arrivò, inaspettato come il primo, ma con minor rabbia... era piuttosto un gioco feroce e cosciente che lo fece rotolare ancora di qualche metro sull'impiantito polveroso. Altro sangue... ma poco, quasi che il demone lo volesse privo delle forze a poco a poco come il toro di una corrida mostruosa... Victor tentò ancora di alzarsi e, questa volta, i legami di tela di ragno che lo impastoiavano, lo abbandonarono un poco consentendogli di sollevarsi da terra. Non appena mosse un passo, però, un nuovo colpo lo sbatté ancora a terra. Rimase fermo, immobile tentando di respirare, cercando un poco d'aria, ma riuscì soltanto a tossire, soffocato dal pulviscolo sollevato dalle sue cadute... tutto intorno non si scorgeva più nulla. Poi ci fu un istante di calma e Victor riuscì rumorosamente a respirare. Ma anche quella pausa faceva parte del gioco: nel silenzio assoluto che regnava intorno, Victor sentì il suo cuore martellargli contro le costole... lontano si udiva un chiocciare metallico, e Victor si accorse con raccapriccio che il demone stava ridendo di lui e dei suoi patetici sforzi per liberarsi. Quel suono aggiunse terrore a terrore; era quello di ossa che si spezzano su una ruota di tortura, il gemito stracciato di chi aveva visto per ultima cosa il fuoco nucleare, l'ansimare assetato di un malato terminale che scorge il riflesso della falce della morte nelle ali del moscone che ronza fuori della sua finestra... Il baluginio rossastro divenne un minuscolo punto di fuoco che si fissò sul volto sporco di polvere e sangue del fotografo: il momento della verità stava per giungere e la lama si sarebbe abbattuta su di lui... Victor tremò e le sue mani brancolarono intorno cercando qualcosa, un oggetto qualsiasi da usare come arma per respingere quell'attacco. Le sue dita frugarono sull'impiantito di marmo scheggiato ferendosi, poi si strinsero attorno al legno fradicio di una panca e lo sentirono sbriciolarsi sotto la sua stretta spasmodica... Scorse i minuscoli punti luminosi diventare accecanti e comprese che il momento era giunto. Poi si toccò il polso e sentì sotto le dita la superficie granulosa del vecchio bracciale d'argento...
L'artigiano cieco dal quale lo aveva comperato aveva insistito per darglielo... c'era stato anche un momento di imbarazzo quando aveva rifiutato di farsi pagare, e soprattutto quando gli aveva raccomandato di non toglierselo mai... «Ricorda», gli aveva gridato dietro, «dentro c'è incisa una delle Sure dimenticate... l'unica che ti proteggerà dall'attacco di Satana...» Ne aveva riso insieme a Julienne, ma non era mai riuscito a togliersi del tutto quell'ombra dal cuore e in qualche modo aveva ubbidito all'arabo portando sempre con sé il sottile cerchio di argento ribattuto... Agitandosi come un nuotatore in lotta con un mare vischioso e gelido, Victor strinse tra le dita il bracciale. Urlò senza volerlo: il metallo sembrava quasi bruciargli la mano. Con un gesto frenetico se lo strappò dal polso e lo gettò contro l'ombra che stava calando su di lui. Un rivolo di sangue gli coprì gli occhi e il fotografo li chiuse istintivamente; nello stesso istante un lampo di luce accecante esplose riempiendo di riflessi l'intera navata. Un artiglio d'ombra graffiò l'impiantito accanto a Victor passando a pochi centimetri dal suo volto. L'uomo lo avvertì più che vederlo: una lama nera velocissima che gli passava accanto... ma l'impatto con il bracciale l'aveva deviata e l'artiglio non tornò indietro a finirlo. Un grido acutissimo fece vibrare i vetri sporchi dei grandi finestroni e scosse Victor. Una teca dentro la quale era conservata da tempo immemorabile chissà quale reliquia esplose coprendolo di minuscoli frammenti di cristallo. Il giovane fotografo strisciò fino alla parete e si appoggiò alla pietra scabra di una colonna, ansimando. Poi tentò di riaprire gli occhi. Intorno non si scorgeva nulla: l'oscurità di prima regnava ancora all'interno della cattedrale, ma la massa diabolica che lo aveva aggredito sembrava essere scomparsa, forse rintanata tra le travature marce del soffitto. Stordito, dolorante per le ferite che lo ricoprivano, Victor tentò di sollevarsi a fatica continuando a respirare con affanno mentre i suoi polmoni cercavano disperatamente aria fresca... Mosse un passo barcollando, e un ringhio profondo come una nota d'organo, gli precipitò addosso dall'alto. Era un suono cupo, torbido, nel quale si mischiavano rabbia e curiosità per il dolore causato dal lancio del bracciale. Il mostro sembrava interdetto: aveva a che fare con una strana preda che, pur trasudando il consueto terrore delle creature di carne e sangue, si era rivoltata dimostrandosi tanto pericolosa da riuscire anche a ferirlo. Victor si ritrovò per un istante libero dalla costrizione impostagli da quel fantasma del passato. Si riempì i polmoni e tentò di correre verso il balugi-
nio appena appena visibile che indicava la posizione del grande portale, sua unica speranza di fuggire a quella caccia diabolica. Corse, ma soltanto per pochi passi. Incespicò in una pietra sconnessa e cadde rovinosamente a terra. La voce del demone divenne più roca, acuta, quasi stesse ridendo dei patetici sforzi della sua preda che credeva di potergli sfuggire. Victor provò di nuovo ad alzarsi, ma questa volta i muscoli irrigiditi dalla paura lo tradirono e ricadde a terra. Si trascinò in avanti lasciandosi dietro una scia di minuscole gocce di sangue ma, mentre lo faceva, scorse un movimento al di sopra delle travature. Il demone lo stava seguendo passo passo, e aveva ripreso il suo gioco crudele scivolando di trave in trave con i movimenti fluidi e disgustosi di una gigantesca sanguisuga. Il terrore tornò a impadronirsi di Victor, e il suo corpo si rifiutò di ubbidire a qualsiasi comando del cervello: l'unica cosa che contava per lui ora era il portale, l'aria fresca, la visione confortante delle colline brulle, ma pur sempre reali e concrete. Poi lo spettro colpì. Victor gridò e chiuse gli occhi, ma questa volta il gioco era cambiato. Intorno a lui scomparve ogni cosa: suoni, immagini, tutto. Quasi fosse stato improvvisamente rinchiuso in un'enorme sfera buia. Comprese, digrignando i denti, che il demone lo aveva avvolto nelle sue ali e lentamente, millimetro dopo millimetro, le stringeva su di lui. Victor si gettò urlando contro quella muraglia oscura, ma fu rigettato indietro. Continuò a farlo finché non si ritrovò a terra sfinito, aspettando il momento in cui le ali si sarebbero chiuse del tutto stritolandolo e riducendolo a un ammasso sanguinolento da cui il demone avrebbe strappato i bocconi migliori. Strinse i pugni. No, non poteva finire così! E la rabbia gli montò dentro come una lama di fuoco. Quello spettro non era imbattibile, poteva essere colpito, e la sua sostanza immateriale pativa le ferite... Si frugò nelle tasche rovesciando a terra tutto ciò che contenevano: il mostro si accorse del suo agitarsi frenetico e rallentò ancor di più il movimento delle ali come a prolungare il piacere derivante dall'osservare quel dibattersi inutile. Le dita martoriate di Victor si strinsero sul piccolo accendino che portava sempre con sé... un attimo dopo si strappò di dosso i brandelli di cami-
cia e se li avvolse intorno al braccio destro. Il demone ridacchiò, e per Victor fu come essere colpito da una pioggia di minuscoli frammenti di ghiaccio. La risata però si trasformò in un grido assordante quando la fiammella dell'accendino si alzò proiettando intorno un pallido alone di luce. L'urlo divenne poi un lamento acuto e stridente nel momento in cui il braccio di Victor, trasformato in una torcia, venne agitato intorno in un grande arco. Le ali del mostro si aprirono di scatto liberandolo e, questa volta, fu Victor a gridare superando anche lo stridio disumano del demone. La materia del suo corpo si dissolse in una poltiglia fumosa al contatto con la fiamma, una fiamma che sembrava quasi scaturire dal corpo della sua vittima. Victor corse, accompagnato dalla luce, verso il grande portale, lasciandosi dietro il demone distrutto, avvolto da un cerchio inestinguibile di fiamme... corse spinto in avanti da un grido che aveva la stessa forza del vento e, incurante del dolore al braccio provocato dal fuoco, si scagliò contro il battente del portale quasi strappandolo dai vecchi cardini arrugginiti e proiettandosi all'esterno con la bocca spalancata in un urlo che nessuno avrebbe mai potuto udire. Si gettò a terra rotolandosi nella polvere del piazzale, stringendosi al petto il braccio e soffocando così le fiamme. Poi rimase lì, fermo, con gli occhi spalancati, sdraiato scompostamente mentre tornava a sentire gli odori lontani della campagna: l'erba, gli alberi, i campi di grano appena mietuto... Sopra di lui tremolavano le stelle, un intero oceano di stelle, e Victor comprese che era ormai scesa la notte. Come poté, si trascinò fino al ciglio della collina e scorse, confuse nella leggera nebbia d'estate, le luci tremolanti della cittadina. Provò un piacere incredibile a quella vista: tra poco sarebbe tornato tra i suoi simili, avrebbe udito voci umane, toccato mani e braccia, e di tutto quanto era successo non sarebbe rimasto che un terribile ricordo... Il colpo lo colse proprio in mezzo alla schiena tagliandogli il respiro e gettandolo di nuovo a terra. Rimase sdraiato senza capire cosa stesse accadendo finché non udì uno stridio simile a quello di una sega di ferro... si girò e sentì il sangue diventare acqua ghiacciata. Acquattata davanti a lui c'era un'altra creatura d'incubo, un altro demone partorito dal cuore stesso dell'Inferno, quasi che la cattedrale fosse il rifugio della progenie maledetta di quel fantasma. La creatura raffigurata nella
pala d'altare che tanto lo aveva terrorizzato, si era materializzata davanti a lui e lo stava fissando mostrandogli, sbavando, le zanne rossastre. Victor non ebbe nemmeno la forza di gridare: due volte era sopravvissuto agli attacchi del fantasma nella cattedrale, ma quegli sforzi si erano rivelati inutili contro la legione diabolica che gli si stava scatenando contro. Un lungo braccio scheletrico coperto di pochi, radi peli grigiastri che nascondevano l'intrico di incredibili muscoli giallastri, si protese e lo sollevò da terra come una bambola di stracci. Poi il muso lupesco della creatura si avvicinò al volto di Victor che ebbe un violento conato di vomito quando l'alito putrido del mostro gli arrivò alle narici. Occhi dalla pupilla quasi verticale lo fissarono senza nessuna espressione, poi il braccio si mosse e il fotografo fu scagliato in aria verso le mura della cattedrale. Victor colpì la pietra con un tonfo secco e cadde al suolo stringendosi il costato da cui partivano fitte accecanti di dolore. L'aria gli uscì dai polmoni con uno sbuffo e strabuzzò gli occhi per la violenza dell'impatto. Riuscì a scorgere il nuovo cacciatore che si avvicinava: una falce sottile di luna comparve sul capo della creatura e Victor rimase inebetito a fissarla finché un colpo violento non lo fece rotolare più in là. Il demone si avvicinò di nuovo con un passo singolarmente leggero e ancora Victor si ritrovò a fissare quello sguardo morto e vacuo. Questa volta però furono le zanne a colpirlo scavandogli un solco sanguinoso appena al di sotto del collo, poi fu di nuovo afferrato e gettato via. Il volo sembrò durare un'eternità, ma ad accoglierlo c'era una superficie morbida, elastica, umida di rugiada. Victor premette le labbra contro quell'inaspettato tappeto d'erba. Si girò, gli occhi gonfi per i colpi, la vista appannata da un velo rossastro, e vide che la creatura si stava protendendo verso di lui: dalle articolazioni delle sue dita era spuntata una selva di artigli seghettati che ora si agitavano davanti al suo viso. Victor scosse il capo cercando di riscuotersi, ma l'unica cosa che riuscì ad avvertire fu una cortina fiammeggiante di dolore... le cose avevano perso ogni contorno e tutto ciò che riusciva a scorgere era soltanto la punta di quegli artigli che si avvicinavano lenti... Agitò le mani, e la destra, martoriata dal fuoco, incontrò qualcosa di freddo e pesante. Strinse le dita sentendo la pelle che si staccava e afferrò quell'oggetto puntandolo verso il demone che si stava gettando su di lui. Lo vide avvicinarsi sempre più, poi tutto si spense in un urlo bestiale mentre il muso del demone si fermava a pochi centimetri dal suo viso.
Il colpo mortale sarebbe arrivato ora, ma il mostro invece spalancò le labbra e sputò un fiotto di sangue e di bava giallastra che colpì Victor bruciandogli gli occhi. Il fotografo tentò di allontanarsi e, solo in quel momento, si accorse che stringeva in pugno una vecchia croce di ferro. Il mostro era andato a infilzarsi proprio sulla sua punta fangosa. Probabilmente qualcuno l'aveva abbandonata lì senza curarsi di piantarla, forse temendo di diventare anche lui ospite del cimitero della cattedrale... Victor si gettò di lato spingendo via la carcassa della creatura. Poi, stravolto, ferito, spezzato, cadde in terra perdendo conoscenza di tutto. Si riprese quando la sottile falce di luna era ormai alta nel cielo pulito e terso di quell'estate così calda. Un soffio di vento gli scivolò sul volto, ma Victor si contorse terrorizzato da quel tocco leggero. A terra, poco distante, rimaneva il troncone annerito della croce... Victor rimase a lungo sdraiato fissando il muoversi lento delle stelle... Soltanto quando iniziarono a impallidire e una striscia rosata comparve all'orizzonte a segnalare la nuova alba, riuscì a sollevarsi e a prendere la strada del ritorno. Cadde più volte, ma si accorse che, stranamente, quasi non sentiva più il dolore delle ossa rotte e ferite. Sembrava che il suo corpo non gli appartenesse più e, quando giunse alla strada asfaltata, si appoggiò a un paracarro dimentico di tutto, fissando il vuoto con aria distratta. Sentì fischiare i freni di un'automobile e si accorse anche che qualcuno gli si avvicinava. Sentì anche che qualcuno gli rivolgeva delle domande con voce preoccupata, ma non ebbe la forza di rispondere. Soltanto dopo, mentre giaceva tremante avvolto in una coperta, sdraiato sul sedile posteriore della vecchia Citroen, si lasciò andare a un lungo straziante urlo di disperazione mentre la macchina ripartiva... ...e in alto, sulla sommità della collina, un accecante lampo di buio gli rispose, là dove l'ombra era più fitta... ANTONIO BELLOMI L'incredibile storia di Natale Al dodicesimo rintocco della venerabile pendola nell'antico palazzo dei Marchesi Silvacroce di Firenze, la grande sala dalle pareti pannellate in noce scuro parve animarsi. Il buio di un istante prima fu rotto da una debole luminescenza bianco verdastra e le immagini dei ritratti degli antenati
tremolarono nelle cornici, poi lentamente assunsero un aspetto tridimensionale finché dalle tele si staccarono nebulosi fantasmi che andarono man mano assumendo forma corporea. Nel giro di cinque minuti attorno al grande tavolo di massiccio rovere si erano raccolti i venticinque antenati degli odierni Marchesi. A prendere la parola fu il vecchio patriarca in costume da lanzichenecco. «Eccoci qui di nuofo!», ruggì con voce leonina e inconfondibile accento teutonico il capostipite dell'antica famiglia. «Un altro Natale... un'altra riunione.» «Come vuole l'antico incantesimo della Maga Marlina da noi sfamata e rivestita», disse in tono pio un venerabile personaggio abbigliato alla moda tradizionale dei nobili del Seicento. «Orsù non perdiamo tempo in chiacchiere inutili», commentò accigliato Dagoberto Silvacroce, penultimo dell'accolita in ordine di tempo. «Ricordate che abbiamo solo un'ora per discutere degli affari di famiglia. E poi ritorneremo a essere immagini di quadri inanimati. Qual è l'argomento di quest'anno?» I venticinque Silvacroce si erano ormai accomodati attorno al tavolo e a parlare fu l'elegante e impomatato zerbinotto Giberto, ucciso in una casa di dubbia reputazione nel lontano 1715. «L'argomento è l'indegno comportamento di uno della nostra illustre schiatta», disse lo zerbinotto con voce stridula. «Pensate: Giberto, il figlio minore dell'attuale Marchese di Silvacroce, ha rifiutato di lavorare nella banca di famiglia e ha iniziato un'attività manuale!» Un «Oh!» di sdegnata sorpresa si levò dal consesso. Ci furono fronti corrugate e sguardi corrucciati. «È inconcepibile!», commentò il Cardinale Pompilio Silvacroce facendo tremolare il triplo mento. «Uno della nostra famiglia che esercita un'attività manuale!» «E la esercita a domicilio di villani i cui antenati strisciavano ai nostri piedi per un tozzo di pane!», aggiunse il sussiegoso Giberto. «È un'indegnità!» «Un oltraggio al buon nome della famiglia!», tuonò il severo giudice Alberto che sotto il regno di Francesco di Lorena si era distinto nelle repressioni antipopolari. «E quale sarebbe questa indegna attività manuale?», chiese il Cardinale Silvacroce. I presenti si guardarono in viso imbarazzati poi, a rompere il silenzio, fu
il Colonnello Odelio Silvacroce, morto in guerra nel 1944 durante la campagna di Russia. «Ecco: il giovane Giberto Silvacroce fa l'idraulico!» «E porta anche il mio nome, lo screanzato!», esclamò inorridito lo zerbinotto. «Ma cos'è un idraulico?» «È un'attività nuova», spiegò il Colonnello Silvacroce. «Tanto per semplificare, consiste nel creare o riparare impianti di acqua corrente nelle abitazioni. Per voi può essere un po' difficile da capire: dopotutto l'acqua corrente ai vostri tempi non esisteva. Come non esistevano le sale da bagno.» Il vecchio patriarca dalla testa leonina inorridì e il suo accento teutonico si fece più marcato. «Acqua corrente nelle abitazioni? Che diafoleria è mai questa? E in quanto al bagno, chi ne ha mai afuto bisogno?» La sua risataccia di soldataccio scandalizzò i suoi raffinati discendenti che però tacquero, intimoriti come sempre, da quel temperamento così diverso dal loro. «Per toglierci la polvere di dosso a noi bastava un bell'acquazzone e per asciugarci un pagliaio in cui rotolarci con la servotta di qualche locanda!» Di nuovo si udì la sua risataccia, e il Cardinale si fece il segno della croce. «Il punto non è questo», disse con impazienza Dagoberto Silvacroce. «L'indegnità della cosa sta nel fatto che un Silvacroce lavori per qualcuno!» «Decisamente indegno!», commentò Giberto, sempre più effeminato che mai. «Dobbiamo prendere qualche provvedimento.» «Silfacroce... Silfacroce!», sbottò incollerito il lanzichenecco. «Quante folte defo dirfi che il nostro nome è Silberkreutz? Ma questo Giberto si fa pagare bene, almeno?» «Oh, per questo non ci sono dubbi...», cominciò il Colonnello Odelio, ma fu interrotto dal Cardinale Pompilio che guardò tutti inorridito. «Denaro! Come si può pensare al vile denaro in un frangente come questo? Io...» «Tu stai zitto!», gli ordinò brutalmente Leotard Silberkreutz.«Cosa folete saperne foi di soldi che fe li siete trofati in saccoccia grazie al sottoscritto? Ma lo sapete le gole che ho dofuto tagliare per procurarfeli? E le ferite che mi sono procurato? E le notti passate acquattato nelle paludi in attesa che passasse qualche ricco mercante?» Gli occhi del vecchio leone risplendevano dell'antico fuoco. «No, massa imbelle, non sputateci sui soldi, foi che siete stati buoni solo a spenderli!»
«Però...», fece per cominciare Giberto, ma un'occhiataccia del vecchio lanzichenecco lo fece rabbrividire e gli fece passare la voglia di proseguire. Nessun altro osò intervenire. Allora Leotard Silberkreutz girò uno sguardo sprezzante sui suoi discendenti e pronunciò il suo verdetto. «Questo Giberto Silberkreutz mi piace. Mi pare che abbia più fegato di tutti voi, branco di parassiti. Ha quindi il mio permesso di proseguire nella sua attività.» «Ma forse dovresti sentire l'opinione di tutti...», lo interruppe timidamente Jacopo Silvacroce, notaio del 1816. Una sghignazzata leonina. «Io, Leotard Silberkreutz, sono l'opinione di tutti foi», disse il patriarca con fare sprezzante. «E farete come ho detto.» Il Cardinale Pompilio stava per replicare, ma in quel momento la pendola batté l'una e le forme dei venticinque Silberkreutz-Silvacroce divennero evanescenti mentre le loro nuvolette si sollevavano per riprendere il loro posto negli antichi quadri da dove sarebbero tornate a vivere di lì a un altr'anno. Per qualche secondo ancora echeggiò nella sala la risata sarcastica di Leotard Silberkreutz poi, nel profondo silenzio, si udirono solo i rintocchi della pendola. RICCARDO REIM Oscure circostanze La luce pomeridiana entrava quasi di prepotenza dai quattro finestroni alti e stretti dell'abside appena schermati da cortine leggere, riempiendo l'aria di un pulviscolo impalpabile, accecante come vetro. Andrea tirò fuori il suo taccuino d'appunti e lesse: Cappella Ovetari. Padova, chiesa degli Eremitani (dimensioni massime: profondità, m 11,10; lunghezza, m 8,85). La cappella, preceduta da una specie di atrio che funge da braccio della chiesa a destra, si presenta alquanto soprelevata per via di alcuni gradini; di andamento ancora gotico, si risolve in un vano rettangolare coperto da una volta a crociera e da un'abside poligonale, separata da esso per mezzo di un arco trionfale e limitata da cinque facce,
chiuse da un soffitto che si annoda verso l'arco per mezzo di altrettante vele o spicchi. Nel testamento redatto in data 5 gennaio 1443 (e in un codicillo aggiuntivo del '46), Antonio Ovetari, «notaro in Padoa», destinava un lascito di settecento ducati per corredare la cappella di un altare e dell'ornamentazione pittorica, quest'ultima dedicata (probabilmente per un voto) alle storie dei Santi Giacomo Maggiore e Cristoforo. Il 16 maggio 1448 la sua vedova, madonna Imperatrice Ovetari, sottoscriveva una convenzione con i pittori Nicolò Pizolo e Andrea Mantegna, per il quale, ancora minorenne, firmò il fratello Tommaso: ai due artisti veniva assegnata l'esecuzione della pala plastica per l'altare, quella degli affreschi della parete sinistra (storie di San Giacomo) e dell'abside (Assunzione della Vergine, Padri della Chiesa, l'Eterno e i Santi Pietro, Paolo, Giacomo e Cristoforo). La restante metà dell'impresa veniva assegnata ai muranesi Giovanni d'Alemagna e Antonio Vivarini. I lavori avrebbero dovuto essere ultimati entro il 1450, ma varie circostanze, in parte abbastanza oscure, contribuirono a ritardarli... Il sole era scomparso di colpo, e la cappella si trovava ora immersa in quella penombra gelata delle chiese, dove l'aria conserva un vago profumo d'incenso insieme all'odore penetrante delle muffe. Andrea si guardò intorno. L'ambiente era poco felice: non sarebbe stato facile scattare delle buone fotografie. ...Già nel 1449, tra il Pizolo e il Mantegna - entrambi, a quanto sembra, di carattere assai suscettibile - sorsero le prime difficoltà. Vi si dovette porre rimedio con un arbitrato (21 settembre 1449), svolto amichevolmente dal veneto Pietro Morosini, in seguito al quale la «compagnia» dei due veniva sciolta, suddividendo i compiti nel seguente modo: al Pizolo toccarono il compimento della pala e delle pitture absidali (esclusi però i Santi Pietro, Paolo e Cristoforo, già iniziati dal Mantegna); in più, avrebbe dovuto ornare la metà destra dell'arcone e portare a termine l'ultimo riquadro delle storie di San Giacomo. Al Mantegna vennero assegnati, oltre alle tre figure dell'abside, il completamento della decorazione dell'arco e le prime cinque storie di San Giacomo. Alla fine del 1449, dunque, ben poco era stato fatto: anzi, il Morosini
rilevava che i due padovani avevano già intascato più del dovuto: che portassero quindi a buon esito l'opera e che, in caso di morte di uno dei due, sarebbe passata al superstite la parte di compenso corrispondente al lavoro da perfezionare... Andrea sollevò gli occhi dalle pagine: non ricordava di avere appuntato una tale messe di notizie. Nomi e luoghi e date... A quale scopo, poi? Stentava perfino a riconoscere la propria scrittura in quella grafia minuta e tondeggiante che s'impennava qua e là in piccoli svolazzi. Era davvero la sua scrittura? E quando aveva annotato tutte quelle cose?... ...Nella primavera del 1450 si verificò un altro imprevisto: la morte di Giovanni d'Alemagna, in seguito alla quale il suo socio Antonio Vivarini abbandonava l'impresa dopo aver condotto a termine soltanto il soffitto (quattro tondi con gli Evangelisti incorniciati da festoni), rientrando a Venezia verso la fine del 1451. Si pensò allora di ricorrere ad altri aiuti in sostituzione dei due muranesi: appaiono così i pittori Bono da Ferrara e Ansuino da Forlì, poco più che artigiani, cui si registrano vari pagamenti già nel 1451. Ulteriori pagamenti seguirono nel 1452 al Pizolo, che modellò la pala per l'altare e compì le sue figure negli spicchi dell'abside e nella zona assegnatagli dell'arcone; però nel 1453 perdeva la vita in seguito alle ferite riportate in un'aggressione notturna. Tutto passò così al Mantegna, che da quel momento assunse, in pratica, la direzione dei lavori. In quella luce incerta, gli affreschi sembravano come fluttuare nell'aria opaca. Due figure, più delle altre, attrassero l'attenzione di Andrea. Si trovavano, rispettivamente, nel terzo e quarto episodio delle storie di San Giacomo, riguardanti il battesimo di Ermogene e il giudizio di Erode Agrippa, sulla parete sinistra della cappella. Si trattava di due ragazzi, anzi, quasi di due bambini: il primo, abbigliato con una corta tunica verdastra, teneva a bada un bamboccio di neppure un paio d'anni mentre osservava con aria stupita il santo intento a somministrare il sacramento in mezzo a un crocchio di curiosi; il secondo, più grandicello, poteva sembrare il suo fratello maggiore, anche se parte del viso gli scompariva sotto un grosso elmo - involato, di certo, a qualcuno dei soldati lì intorno - che doveva essersi infilato per gioco. Voltato verso
lo spettatore, ignorava il dramma che si svolgeva alle sue spalle: guardava lontano, oltre lo spazio affrescato, appoggiandosi a uno scudo quasi più grande di lui, immobile e pensoso. Quelle due figure tanto simili si staccavano di netto da tutte le altre perché, palesemente, pur trovandosi in primo piano, non prendevano parte alcuna all'azione rappresentata ma, sia pure in modo diversissimo, la commentavano, divenendo un misterioso tramite fra la parete dipinta e lo spazio circostante, rendendo tutto più vicino e più vero... Due splendidi particolari. Mantegna era appena diciassettenne quando aveva iniziato i lavori nella cappella: era, si può dire, cresciuto lì dentro, dal 1448 al 1455... Andrea girò lo sguardo, come a cercare la verifica di un pensiero: gli stessi lineamenti infantili si ritrovavano, ormai adulti, nell'autoritratto del pittore, la «testa gigantesca» apposta a mo' di firma sulla parte sinistra dell'arco trionfale. Fu in quel momento che si accorse di non essere solo. Qualcuno, nel frattempo, era entrato senza far rumore e ora se ne restava nell'ombra, accanto alla balaustra marmorea che divideva il vano della cappella dall'atrio. In quella luce soffocata Andrea riusciva a distinguerne appena la sagoma: poteva avere la sua età, trent'anni o poco più. Aveva detto qualcosa? Sì, stava dicendo qualcosa, ma le parole arrivavano a fatica, in un ronzio, come se l'aria si fosse fatta d'un tratto spessa e pesante, impedendo ai suoni di giungere distintamente all'orecchio. Udì soltanto «Andrea». Aveva pronunciato il suo nome?... Mosse un passo verso lo sconosciuto, ma all'improvviso si sentì invadere da una grande stanchezza, e con uno sforzo quasi penoso cercò di articolare qualche parola, riuscendo solo a schioccare le labbra, come chi al risveglio si trova la bocca arida e impastata. Avrebbe voluto spiegare che non capiva, ma la sua lingua sembrava incollata al palato. Andrea... Forse bastava ascoltare con più attenzione? Forse bisognava ascoltare. Ma chi? «Vi ripeto», continuò lo sconosciuto, «che le coincidenze e le stravaganze sono troppe, in questa storia, perché vi si possa prestare fede. Cercate di stare attento e capirete. Andrea Mantegna, come Nicolò Pizolo, si era formato nell'ambito di Francesco Squarcione, che non era certo il miglior pittore di Padova, anzi, prima dei pennelli aveva maneggiato anche l'ago da sarto per confezionare giubbe e borse ricamate. Ma era un furbo, e la sua
bottega prosperò: centotrentasette pittori, sembra, si formarono nella sua cerchia, imparando da lui a macinare, mescolare e stendere i colori. Alcuni erano tenuti come discepoli, altri, troppo poveri per pagarsi la retta, venivano adottati come "fiuili", cioè figliocci. E così fu adottato, nel 1441, un ragazzetto di dieci o undici anni che portava la fame scritta in faccia. Si chiamava Andrea Mantegna, ed era tra i più poveri. Dopo l'insegnamento doveva ripulire i pennelli, mettere in ordine la bottega, sbrigare le faccende di casa. Era un carattere taciturno, dicono, che erompeva talvolta in improvvise, furiose ribellioni. Nicolò aveva dieci anni più di lui, e a quel tempo lavorava con maestri come Filippo Lippi e Donatello, godendo di discreta fama. A voi non deve interessare come si conobbero, si parlarono e divennero amici, né come decisero di stringere società insieme: basterà dire che il contratto con la famiglia Ovetari venne stipulato il 16 maggio 1448. Era una giornata serena e ventosa, e i due amici camminavano a testa alta nella luce primaverile, godendo di quell'aria viva. Gli Ovetari erano gente in vista, una committenza prestigiosa e ricca: il vento pieno di sole spazzava via il disagio provato davanti a madonna Imperatrice, che non amava le persone giovani e allevava usignoli ciechi con i delicati vermi della farina. Ecco: Andrea è un ragazzo biondo dal viso patito e gli occhi chiari; Nicolò, già uomo, sembra poco più grande, appena un fratello maggiore perché, pur essendo abbastanza robusto, ha un fisico assai minuto... Riflettete. Vi ho già spiegato che le stravaganze sono molte. Provate a immaginare come un deforme gioco di specchi: c'è un filo sottilissimo che unisce tutto, ma può sfuggire. Ascoltate. Si dice che Nicolò fosse un attaccabrighe, ma non è del tutto vero. Anche Andrea aveva un carattere violento e litigioso. Il lavoro lo rendeva irascibile, pieno di malumori e di gelosie insensate. Ma torniamo ai fatti. Dunque: nel 1450 muore improvvisamente, poco più che trentenne, Giovanni d'Alemagna. Il suo socio Antonio Vivarini termina alla meglio il soffitto della cappella e fa ritorno a Venezia in fretta e furia. Perché? Si direbbe quasi che abbia avuto paura di qualcosa. O di qualcuno... Nel 1453 anche Nicolò Pizolo esce di scena, in circostanze quanto mai imprevedibili e sospette. Fu una sera d'autunno, mentre tornava dal lavoro. Era solo. Accadde tutto molto rapidamente: qualche gesto concitato nell'ombra, un arruffio, dei passi che si allontanavano di corsa. L'aria sapeva già di neve. Era uno stellato di paradiso. Solo questo: "affrontato e morto a tradimento in una ris-
sa"... Nella primavera di quello stesso anno Andrea Mantegna aveva sposato Nicolosa Bellini, figlia del maestro pittore Jacopo. Una forte spesa, certo, ma per fortuna l'arbitrato del 1449 parlava chiaro...» Lo sconosciuto si interruppe. Frugava con lo sguardo la penombra della cappella, in fondo, verso l'altare nell'abside. Indossava una specie di giubbone lungo, di panno scuro, e rimaneva immobile con le braccia conserte. Una mano bianchissima e minuta, quasi femminea, spiccava tra le pieghe della stoffa. «Nicolò era espertissimo nello studio della prospettiva», mormorò, «più esperto, allora, del giovane Mantegna, che gli invidiava tanta maestria... Ma un muro dipinto è così poca cosa di fronte al tempo, è così fragile... Come fare?... Qualcuno in seguito avrebbe scritto che Nicolò "fece poche cose, ma tutte buone" e che nelle pitture di Andrea si vedeva sempre "quella sua maniera un pochetto tagliente"... Forse è vero, ma che importanza può avere adesso?... Con ogni probabilità si tratta solo di una storia bizzarra, e quelle morti precoci e improvvise non significano assolutamente nulla. O forse no... Tra l'altro, San Cristoforo - o Cristofano, come lo si chiama nella Legenda aurea - era venerato come protettore contro la "mala morte". Madonna Imperatrice gli era particolarmente devota. Le sue storie sarebbero toccate a Nicolò. Non è buffo?... In fin dei conti, il tempo mette a posto ogni cosa, e ora, prima che tutto vada in rovina, se ne può parlare con calma. Non credi, Andrea?» Cristofano, di gente cananea, fue d'una lunghissima statura e d'un volto terribile: 12 cubiti era lungo. Leggesi di luì in alcune sue storie che, stando lui con uno Re de' Cananei, gli venne in cuore di andare caendo il maggior signore che fisse nel mondo e d'andare a dimorare con lui. Sì che venne ad un grandissimo Re, del quale era generale fama che 'l mondo non avesse uno maggiore di lui. E 'l Re, veggendolo, ricevendo molto volentieri e fecelo stare ne la sua corte. Or venne che alcuna volta un trastullatore contava una canzone dinanzi al Re, ne la quale si contava spesse volte il diavolo. E 'l Re, perché aveva la fede di Cristo, quantunque udia nominare il diavolo, immantanente si facea ne la fronte il segno de la Croce. Veggendo ciò, Cristofano si maravigliava perché 'l Re facesse ciò e che volesse dire quello cotale fatto. E domandandone il Re di questo fatto, ed egli non volendogliene manifesta-
re, disse a lui Cristofano: «Se tu noi mi dirai, io non mi starabbo più con teco». Per la qualcosa il Re fu costretto a dirgliele, e disse così: «Quantunque io odo nominare il diavolo, sì mi armo di questo segno, temendo ch'elli non prendesse podestate in me e nocessemi». Allora disse Cristofano: «Se tu temi il diavolo che non ti noccia, adunque si conviene ched elli sia maggiore e più potente di te, lo quale tu mostri di così temere. Ingannato sono dunque de la speranza mia, che mi credeva avere trovato il maggiore e il più potente signore del mondo. Ma sta sano, ch'io voglio andare caendo quello diavolo per prenderlo per mio signore e per diventare suo servo»... E via e via... Qualcuno gli andava sussurrando all'orecchio quella storia, mentre davanti ai suoi occhi ancora socchiusi la leggenda del santo gigante si snodava un riquadro dopo l'altro, con l'inquietante candore e la bellezza di una favola sacra. Mancavano le ultime due scene, prudentemente messe al riparo insieme all'«Assunta» dell'abside. Su quelle tre, almeno, avrebbe potuto lavorare con calma... Voglio andare caendo quello diavolo per prenderlo per mio signore... San Cristoforo, protettore contro la «mala morte»... Quanto tempo era passato? Cinque minuti? Dieci?... Forse anche meno. Aveva sognato? La cappella, adesso, era nuovamente piena di sole, ma Andrea si sentiva addosso il malessere del freddo e della stanchezza, resto di quel sopore invincibile che lo aveva colto. Intorno era un turbine di luce. In alto, sul lato destro dell'arcone, l'autoritratto del Pizolo sembrava cercare con la coda dell'occhio lo sguardo del suo conterraneo effigiato dalla parte opposta... Pensò che avrebbe cominciato il lavoro l'indomani stesso: occorreva tempo, e quelli non erano certo i giorni più adatti. Magari avrebbe preteso qualche altro aiutante. Per la prima volta, in quella fine d'inverno del 1944, il capolavoro giovanile del Mantegna sarebbe stato fotografato a colori. Opus Andrea Mantinia... Una frase gli tornava alla mente: c'è un filo sottilissimo che unisce tutto, ma può sfuggire... Il ragazzetto con la corta tunica verdastra e il suo «fratello maggiore» che indossa l'elmo per gioco; Nicolò Pizolo, «che stando sempre in sull'armi et avendo molti inimici, fu un giorno che tornava da lavorare affrontato e morto a tradimento» e il suo giovane socio Andrea Mantegna, nato «d'umilissima stirpe»... Andrea. C'e-
ra un nesso?... Un soffio di vento, venuto da chissà dove, fece volare via i pezzi dei suoi fogli d'appunti che qualcuno aveva gettato vicino alla balaustra, in un angolo, dopo averli stracciati in quattro. Solo la documentazione fotografica testimonia la prima grande impresa decorativa mantegnesca, dopo che nel bombardamento dell'11 marzo 1944 gli affreschi della cappella Ovetari andarono irrimediabilmente distrutti, ad eccezione dell'Assunta, il Martirio e il Trasporto di san Cristoforo, staccati nel 1865 per essere sottoposti a restauro e trasferiti in luogo sicuro durante l'ultimo conflitto; a questi sono da aggiungere minuti frammenti del Giudizio e del Martirio di san Giacomo. La successione cronologica dei singoli dipinti fu ed è oggetto di appassionate controversie da parte della critica, che non si trova certo agevolata dalla relativa scarsità dei documenti e soprattutto dall'impossibilità di un'osservazione diretta. Fortunatamente, per un caso straordinario gli affreschi erano stati fotografati a colori poco prima della rovina... LUIGI COZZI Fantasma di cane In questa mia strana città... oh, sì, in questa mia città tanto strana dove per me persino una goccia è animata e la porta di un'altra dimensione si è spalancata... qui ho anche pianto... già, ho proprio pianto il pomeriggio in cui mi morì il cane. Ho pianto come una fontana, e piangevo ancora sotto la pioggia mentre gli scavavo una fossa nel mio giardino, perché era lì che intendevo metterlo a riposare per sempre, poiché non me ne volevo mai più separare... Ero ancora sposato con Lisa, allora, e già avevamo la nostra piccola bambina: ricordo benissimo quanto piansi - sì, piansi davvero tanto mentre rientravo in casa - dopo aver scavato e richiuso la fossa, perché lui, il mio cucciolone, che si chiamava Godzilla come un mostro del cinema, era rimasto là fuori al freddo sotto la terra bagnata, mentre io stavo al caldo, appoggiato alla finestra chiusa, e guardavo quel piccolo tumulo e soffrivo. Sì, mi era morto il cane, e voi direte che sono uno stupido sentimentale, ma anche oggi, al pensiero, gli occhi mi si appannano di nuovo e i tasti del computer su cui scrivo si fanno vaghi e confusi, sfuocati, perché lui è sempre là, dietro la finestra, sepolto sotto quel piccolo cumulo dove l'erba è
ormai ricresciuta. È passato molto tempo, ormai, e il mio piccolo amico a quattro zampe non potrà mai più ritornare in questa casa. Ma io l'ho ancora presente nel cuore, e l'ho sempre davanti agli occhi, vispo e allegro perché, subito dopo la sua morte, presi una sua fotografia e andai da un pittore mio amico perché me la trasformasse in un quadro... un dipinto che poi ho incorniciato e appeso alla parete, nel mio salone, dove lo posso vedere in ogni momento. È un quadro che lo ritrae quando era vivo e allegro, un quadro che provocò le ire di mia moglie Lisa, quando lo portai per la prima volta in casa, spingendola a dire a tutti che ero proprio un insensibile perché avevo fatto fare un dipinto al cane, mentre a far ritrarre lei non avevo mai pensato... E forse aveva ragione: ero davvero un mostro di insensibilità e di poco cuore, ma anche oggi che è passato tanto tempo da quella discussione, non mi pento del modo in cui mi sono comportato... non mi pento davvero di aver fatto fare un ritratto al mio amico peloso e quasi sempre tutto inzaccherato, invece che alla donna che avevo sposato. Il quadro di quel mio cane è sempre rimasto con me, e lo è tutt'ora, anche dopo che mi sono separato da Lisa... perché è tutto ciò che mi rimane di lui: un'immagine imprigionata per sempre nella tela sulla quale ho fatto dipingere, come sfondo, miriadi di stelle e di pianeti, perché a me piacciono tanto, e quindi ho pensato che anche al mio Godzilla sarebbero piaciuti. Era morto da tempo, quel cane, e da alcuni mesi io vivevo solo perché Lisa se ne era andata con la mia bambina, ma il quadro di Godzilla pendeva sempre appeso alla solita parete quando, svegliandomi appena dopo l'alba, una mattina... Passando vicino alla parete dove c'era il quadro, scorsi delle piccole impronte a terra... sì, impronte che singolarmente partivano dal muro e che chiaramente non erano state lasciate da una persona, ma da un animale. Sembravano, appunto, orme di cane. Le guardai a lungo, e ricordo che pensai che dovevano essere le impronte di qualche animale randagio entrato in casa durante la notte, dal giardino. In effetti, quella fila di orme conduceva dritta proprio alla porta che dava fuori ma, quando uscii e curiosai tra l'erba che cresceva senza cura, non scorsi altro che un gatto ozioso, adagiato placidamente al primo sole, e non poteva certo essere stato lui a lasciare le impronte che avevo visto. Di conseguenza, forse, nel buio, un cane doveva aver scavalcato la cancellata ed essere entrato per poi uscire: mi sembrava strano, perché le sbarre erano
alte più di un metro, ma non c'era altra spiegazione. Rientrai in casa ma, quando tornai nel salone con uno straccio per cancellare le impronte ancora umide ed evidentemente lasciate da poco, non le trovai più. Erano sparite. Passarono altri giorni, e ogni mattina trovavo nuove impronte: tutte partivano dalla parete e portavano al giardino, ma dell'animale che le lasciava, non trovavo mai la minima traccia... e questo mi sembrava incredibile. Rimasi poi ancora più sbalordito quando, dopo aver chiuso per bene una sera la portafinestra che dava sul giardino, al mattino successivo trovai egualmente le impronte che si fermavano esattamente davanti all'uscita bloccata. Siccome questo mi sembrava impossibile, perché l'animale non poteva essere entrato da nessuna parte, indagai ancora e, incredibilmente, aprendo la porta del giardino, scoprii che là fuori, subito dopo l'uscio, le impronte riprendevano, perdendosi poi fra l'erba del piccolo prato: riprendevano, come se l'animale fosse passato attraverso la porta chiusa! A questo punto, la curiosità in me crebbe a dismisura, anche se non provai mai paura: ma quello era ormai un mistero di cui volevo assolutamente trovare la soluzione. Andato a dormire, misi la sveglia, insistente quasi quanto discreta, sulle tre e mezza del mattino e, quando giunse l'ora, mi alzai e, con estrema cautela, attraversai l'atrio a piedi nudi e mi affacciai nel salone. Guardai subito verso il muro, e vidi che, come al solito, le impronte si erano riformate: erano lì sul pavimento, umide e, come le altre volte, puntavano dritte verso la porta del giardino che avevo lasciato spalancata. Al buio, strisciai fino alla finestra e guardai fuori: quello che vidi mi lasciò senza fiato per la sorpresa, mentre il cuore mi prendeva a battere rumorosamente per l'emozione. Infatti là c'era il mio cane... il mio piccolo cane che avevo seppellito, stava nel giardino e, come aveva fatto tante altre volte quando era ancora vivo, giocava da solo tra l'erba e gli alberi, alla luce della luna, così vago e sfumato da essere quasi impalpabile... ma era lui, non c'era il minimo dubbio in proposito: era il mio cane! O, meglio, era il fantasma del mio cane. Già, perché Godzilla era morto e giaceva sotto l'erba, dove si vedeva il piccolo tumulo. Ma, al tempo stesso, era di nuovo lì, vivo, e camminava allegro da un capo all'altro del piccolo prato, in caccia di chissà quale gatto
che solo lui, con i suoi dolci occhi spalancati su un mondo per me ignoto, riusciva a vedere. Restai a lungo lì, acquattato dietro la finestra, a guardarlo mentre giocava, e gli occhi mi si riempirono di lacrime, ma non per il dolore, bensì per la gioia, perché il mio caro amico era tornato. Non mi mossi da lì finché il cielo non cominciò a farsi chiaro, e solo allora, vedendo che il fantasma del mio cane si girava e tornava verso casa, mi spostai e mi misi dritto in mezzo a quello che - sapevo - sarebbe stato il suo cammino. Lui infatti entrò e mi vide subito. Si bloccò, ma non era intimorito e, per un lungo momento, restammo a guardarci: io, e quel cane attraverso il cui corpo riuscivo a scorgere il pavimento e i mobili. Poi mi venne vicino, si strofinò contro la mia gamba come tante volte aveva fatto da vivo, e leccò dolcemente la mia mano che non lo osava accarezzare per paura di incontrare solo l'aria vuota. Quindi si voltò e puntò di nuovo verso la parete, da dove le sue impronte umide già provenivano e, quando giunse davanti al muro, di colpo spiccò un salto e rientrò nel quadro dal quale era uscito... quel quadro in cui io l'avevo fatto raffigurare. Solo allora mi resi conto del fatto che, fin dal primo momento in cui mi ero destato, quel quadro era stato vuoto. Il fantasma del mio cane entrava e usciva da quel quadro tutte le sere, per tornare a giocare nel mio giardino, come aveva sempre fatto finché era stato in vita. Adesso che l'avevo capito, me ne andavo a letto presto ogni sera per potermi alzare nel cuore della notte senza problemi, e così gli stavo vicino mentre lui giocava nel giardino, oppure lo portavo addirittura fuori di casa e correvamo insieme lungo le strade vuote, come avevamo fatto tante volte insieme quando era in vita. Poi, prima che sorgesse il sole, rientravamo insieme di corsa in casa e lui balzava di nuovo dentro il quadro, dove sarebbe rimasto, immobile, finché le tenebre non fossero tornate a stendere il loro manto su Makabria. Forse era stato proprio il buio disceso anche sul mio cuore a operare, senza che neppure me ne accorgessi in principio, l'incantesimo portentoso che gli aveva restituito la vita! Un incantesimo d'amore... E tutto proseguì così, per molto più tempo di quanto oggi non riesca a ricordare, finché, una sera, accadde una cosa nuova: il mio cane prese vita e si mosse dentro al quadro come era solito fare, ma questa volta non spic-
cò il balzo usuale, no! Si allontanò, invece, dentro al dipinto, verso l'orizzonte trapunto di stelle colorate, e lì si arrestò guardandomi come in attesa. Mi chiamava. Mi invitava. Fu così che mi decisi e lo seguii dentro al quadro e, da quel momento in poi, non fu più lui a venire da me, bensì io ad andare da lui, perché nelle zone dipinte di nero di quel ritratto appeso alla parete... lì, io avevo trovato l'infinito. Ora che vi ho detto del cane, posso parlarvi di Ornella, perché così chiunque potrà capire perché oggi ho fatto una cosa... quale, lo dirò dopo. Prima lasciate che vi parli di lei, che si chiamava Ornella e che era innamorata di me, tanti e tanti fa... Ornella era dolce e gentile, ed era sempre piena di affetto e di premure nei miei confronti, ma le sue attenzioni mi annoiavano, e cercavo invece storie assurde e contorte al di fuori del legame che ci univa. Ornella lo sapeva e soffriva, ma taceva... taceva, perché mi amava e, purtroppo, si rendeva conto che io non avrei mai ricambiato totalmente l'amore disinteressato che lei mi offriva: però, si accontentava lo stesso. Già, lei si accontentava anche di questo pur di restarmi vicino, mentre io, al contrario, non mi curavo di far soffrire quella tenera creatura, quella ragazza che mi voleva bene e che era disposta a tutto pur di non lasciarmi uscire definitivamente dalla sua vita. Eppure, in un certo senso, a mio modo anch'io le volevo bene, anche se a lei non l'avrei mai rivelato, perché Ornella mi si era subito arresa, mi si era completamente affidata, senza concedermi l'ansia della caccia, l'angoscia dell'incertezza, l'emozione dell'attesa. Per questo, ciecamente, stoltamente, io la trascuravo: e infatti, anche se le ero affezionato, sentimentalmente la ignoravo, e non riuscivo a capire che mai più avrei trovato in altre quello che lei tanto disinteressatamente in ogni momento mi dava. O, magari, era proprio per questo che me ne allontanavo: forse, in realtà, non volevo essere capito, e con lei quel rischio lo correvo... Non mi disse neppure nulla di male... e avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto... il giorno in cui le spiegai che tra noi era tutto finito: sì, dal momento che la lasciavo, temevo che urlasse o supplicasse, e invéce, come sempre, Ornella si comportò assai meglio di quanto pensassi. Disse che accettava la mia decisione, e che si sarebbe rassegnata se io non la volevo. Mi salutò e perfino sorrise, poi salì di corsa su un tram che ripartiva, lascian-
domi lì solo in mezzo alla strada, a guardare allontanarsi la vettura sulla quale lei ora probabilmente stava piangendo. Fu proprio su quel tram che si allontanava che la ricordo ancora, perché quella fu l'ultima volta in cui la vidi, e da allora è passato tanto tempo, e io mi sono sempre consolato delle traversie della vita sapendo che, in qualche parte nel mondo, Ornella esisteva ancora e aveva mantenuto sempre libero per me un posto nel suo cuore. Ma ieri un vecchio amico è venuto e, parlando della gente che ho lasciato nella città in cui prima di trasferirmi a Makabria sono vissuto, mi ha detto che Ornella è morta... è morta da poco... e così anche quella mia ultima illusione è finita. Ora che sapete di Ornella e del cane, posso rivelarvi finalmente quello che ho fatto ieri, e così capirete perché adesso i loro destini si sono uniti incrociandosi di nuovo con la mia vita per diventarne finalmente una parte fondamentale in maniera definitiva. Ieri ho fatto una cosa stupida e ridicola, ma l'ho fatta lo stesso e ne sono stato lieto, poiché, in fondo, così facendo, per qualche istante sono stato davvero felice, e un'altra illusione ha screziato di speranza l'orizzonte della mia vita in questi ultimi tempi così senza scopo. Ho frugato infatti tra le vecchie foto dei tempi di scuola, tra le immagini ingiallite dei tempi che ormai se ne sono irrimediabilmente andati, e ho trovato alla fine quello che cercavo: una vecchia foto da me stesso scattata, che ritrae quella ragazza tanto dolce e devota... Ornella, come avrete già capito, Ornella che ora è morta come il mio cane, senza che io abbia mai saputo nemmeno dove sia stata seppellita. Ho preso quella foto, vi dicevo, e ora che vivo solo e che nessuno può più discutere le mie decisioni, l'ho portata subito da quel mio amico pittore di cui vi ho già parlato e l'ho pregato di fare un ritratto anche di Ornella, così come prima glielo avevo fatto fare di Godzilla. Lui l'ha eseguito, e ne è venuto fuori un dipinto magnifico, anche se io mi sento un poco triste ogni volta che lo ammiro, perché sullo sfondo, per chissà quale oscura ragione, gli ho fatto ritrarre anche un tram che si allontana... quel tram sul quale vidi Ornella uscire per sempre dalla mia vita. Poi ho appeso anche questo nuovo quadro sul muro, accanto a quello del mio piccolo cane, e il portento si è ripetuto: perciò Ornella e Godzilla adesso vivono insieme a casa mia, ma non sono loro che raggiungono me ogni sera, uscendo fuori dalla tela... no, sono io, invece, che li vado a tro-
vare, forse perché preferisco il mondo dei quadri a quello che trovo fuori della casa dove abito. Allora, non appena scocca la mezzanotte, ogni sera balzo dentro al quadro che raffigura Ornella col fantasma del mio cane che mi segue, e insieme, fino all'alba, tutti e tre passeggiamo per le vie di una città extradimensionale che è fatta solo di ricordi cari, di tempera e di colore. Ma io non mi spingo mai oltre le ultime case, perché so che là incontrerei soltanto il grezzo retro della tela.. ma sono felice lo stesso perché, pur se questo mondo è unidimensionale e tanto limitato, io sto di nuovo con Ornella e con il mio piccolo cane, e sento che entrambi mi amano, e sono felice perché so che in quell'universo di pace li posso raggiungere ogni volta che lo desidero... Così trovo la forza per lottare meglio contro la realtà quotidiana e, soprattutto, non mi si velano più gli occhi di lacrime quando odo abbaiare un cane o scorgo un tram che si allontana sferragliando. Ma non posso comunque fare a meno di chiedermi: quando sarò morto, ci sarà poi qualcuno che nutrirà per me... abbastanza amore da mettermi dentro un quadro e ridarmi così la vita? APPENDICI APPENDICE I Il filosofo e il fantasma1 Vorrei sapere che cosa ne pensi tu dei fantasmi: se esistono davvero, con forma e potenza proprie, o se non sono che ombre, vuote immagini suscitate dal nostro terrore? Per me, da quel che se ne dice sarei portato a credere che esistono. Senti questa storia, che ti racconto come l'hanno raccontata a me. C'era in Atene una casa spaziosa e confortevole, ma quanto mai sinistra. Nel silenzio della notte, s'udiva dapprima un lontano rumore di metallo; poi, ascoltando meglio, uno strepito di catene che s'avvicinava; e infine, ecco apparire uno spettro: un vecchio emaciato e squallido, dalla barba incolta e dai capelli irti, che veniva squassando le catene di cui era carico. Gli inquilini passavano dunque delle notti spaventose, senza chiudere occhio; e l'insonnia portando la malattia, e la malattia aggravandosi con il terrore (un terrore che durava anche di giorno, quando lo spettro non c'era più, tanto la memoria di lui continuava a ossessionarli), finivano per lasciarci la pelle.
Sicché la casa si vuotò, e restò vuota: abbandonata interamente a quel mostro. Tuttavia il proprietario ci lasciò il cartello «Da vendere o da affittare», nel caso che qualcuno - ignaro della faccenda - ancora la volesse. Viene ad Atene il filosofo Atenodoro. Legge il cartello, sente il prezzo e capisce, dalla sua straordinaria convenienza, che c'è sotto qualcosa. Perciò s'informa, e viene a sapere tutto. E nonostante, anzi proprio per questo, prende la casa in affitto. Al cader della notte, si fa sistemare un letto in anticamera, con un tavolino, una lampada e l'occorrente per scrivere. Poi manda tutta la famiglia nelle stanze di fondo, e lui resta lì a lavorare: concentrandosi tutto nella scrittura - mente, occhi, mano - per garantirsi contro ogni scherzo dell'immaginazione. Al principio, nient'altro che il silenzio notturno. Poi dei colpi, un rumore di catene smosse. Il filosofo non alza gli occhi, non smette di scrivere, anzi si concentra di più nel suo lavoro, senza dar retta alle sue orecchie. Ma sente che lo strepito cresce, s'avvicina alla porta, è ormai di qua dalla porta, nella stanza stessa. Si volta, e riconosce il fantasma che gli hanno descritto: è lì in piedi, accanto a lui, gli fa segno col dito come per chiamarlo. Atenodoro, da parte sua, gli fa segno di aspettare un po'; e si rimette a scrivere. Ma l'altro insiste a fargli strepito con le catene sulla testa, mentre lui scrive. Per cui si volta di nuovo e, vedendolo ripetere lo stesso segno di prima, finisce per prendere la lampada e seguirlo. Il fantasma camminava lentamente, come impedito dalle catene. Varcata la soglia, volta dalla parte del cortile: dove improvvisamente svanisce, abbandonando il suo accompagnatore. Questi, rimasto solo, fa un mucchietto d'erba e foglie per ricordarsi esattamente del posto; e il giorno dopo va dalle autorità a dire che facciano scavare. Scavando, trovano uno scheletro incatenato: ossa nude, rose dal tempo e dall'umidità, mescolate ai ferri. Dopodiché, a cura dell'amministrazione, ai miseri resti venne data degna sepoltura. E, da allora, in quella casa non si sentì più nulla. 1
Da Plinio il Giovane, Epistolario, Libro VII, Lettera 27. Quella narrata da Plinio è la prima compiuta storia di fantasmi che si conosca, e prefigura interamente il genere (N.d.T.). APPENDICE II Il cacciatore infernale1
La visione del cavaliere2 La concubina di un certo sacerdote, essendo in punto di morte (così raccontano alcuni religiosi), con molta insistenza chiese che le si recassero scarpe nuove e robuste, dicendo: «Seppellitemi con esse, perché assai mi saranno necessarie». Quando morì, fu fatto come aveva chiesto. La notte seguente, molto prima dell'alba, col cielo rischiarato dalla luna, un cavaliere che passava per via accompagnato dal suo servo udì altissime grida di donna. Si guardò intorno per vedere chi fosse, ed ecco venire verso di lui una donna in corsa che gridava: «Aiutatemi!». Subito il cavaliere scese di sella e, tracciato sul suolo intorno a sé un cerchio con la spada, vi accolse dentro la donna. In quell'istante, da lontano si udì una tregenda come di cacciatore che suoni terribilmente il corno, e il latrato di una muta di cani. Udito ciò, la donna cominciò a tremare fortemente, e il cavaliere, compresa la causa del suo terrore, affidò il cavallo al servo e avvolse la treccia dei capelli di lei al braccio sinistro, mentre tendeva il destro armato di spada. Il cacciatore infernale intanto si avvicinava, e la donna prese a gridare: «Lasciami correre, lasciami correre: vedi che già è vicino?». Poiché il cavaliere la stringeva più forte, la misera prese a divincolarsi e a tirare, finché, spezzati i capelli, si diede alla fuga: ma il diavolo, inseguitala, la raggiunse e la pose di traverso sul suo cavallo, così che testa e braccia pendevano da un fianco, e le gambe dall'altro. E in tal modo il cavaliere vide che portò via la preda catturata. La mattina dopo, giunto al villaggio, raccontò ciò che aveva visto, e mostrò la treccia di capelli che gli era rimasta avvolta al braccio. Poiché molti erano increduli, si aprì la tomba della donna, e si vide che il corpo era privo della sua chioma. Questo accadde nell'Episcopato di Magonza. La visione del carbonaio3 Tale, cioè un diavolo, era il cavallo che un carbonaio mostrò al Conte di Nevers. Era questo carbonaio un uomo povero sulla terra, ma ricco di fede, religioso e timorato di Dio. A cagione di che era anche confidente del sopraddetto Conte. Una notte che, vegliando, guardava la sua fossa di carbone che ardeva tutta, ecco apparire una femmina nuda che correva e appresso a lei, sopra
un cavallo nero, un cavaliere che, con il pugnale sguainato cavalcava veloce per afferrare la donna che fuggiva: la quale, mentre girava, fuggendo, intorno alla fossa, fu afferrata da lui, e trapassata con il pugnale, e divenne come morta. La gettò nel fuoco, e, trattala fuori arsa, se la pose dinanzi sul cavallo, e via. Questa visione gli fu offerta per più notti. Ora, un giorno, pensando a siffatta e tanto frequente visione con molta pena, mentre era pensoso e triste, incontrò il conte. Meravigliato il Conte lo trasse in disparte, e segretamente che cosa avesse gli chiese, dicendo: «Se qualcuno ti ha fatta ingiuria, ti ha arrecata alcuna molestia, non me la celare, poiché io te ne vendicherò a dovere. Se sei in bisogno, io ti soccorrerò». Quegli rispose: «Di nulla ho bisogno: di nessuno ho da dolermi; ma io ho visto questo e questo per tante volte, e così vorrei che voi lo vedeste». «Senza dubbio», disse il Conte, «verrò teco, e vedrò questa grande visione.» Confessatosi il Conte di tutti i peccati suoi, muta l'abito e prende seco il carbonaio, e solo con questi va nella selva. E mentre vegliano, circa verso la mezzanotte odono uno che suona altamente la tromba; e il Conte si segnò per tutta la persona. Ed ecco quella infelice donna correre verso di loro, nuda come le altre volte, che prese a girare fuggendo intorno alla fossa: il cavaliere inseguendola l'afferrò, la trafisse, la gettò nel fuoco, e di nuovo ve la tolse. Essendo il cavaliere, dopo che l'ebbe messa dinanzi a sé sul cavallo, disposto a fuggire, il Conte lo scongiurò in nome di Dio perché ristesse e gli dicesse chi era e perché faceva ciò. Quegli allora trattenendosi dice: «Io sono il vostro cavaliere, e questa è la nobile donna moglie del cavaliere pur vostro che ella per amor mio uccise, affinché più liberamente e frequentemente si godesse del giacer meco. E così peccando venimmo a morte: senonché, ahi tardi!, in questo stesso punto della morte ci pentimmo. Epperò ora ella soffre questo tormento: che ogni notte viene da me trafitta e bruciata. E il dolore che ella soffre per il colpo di pugnale onde la ferisco, è così grande che nessuno in morte sua lo ha sofferto mai, e molto più grande è il dolore della combustione». A queste parole il Conte chiese: «Chi è il cavallo su cui siedi?». «È un diavolo», disse, «che ci tormenta indicibilmente.» Dice il Conte: «Ah, possa alcuno venire in vostro soccorso!». «Potrebbe», disse, «dopo che voi aveste fatto in tutte le congregazioni a voi soggette pregare per noi, e fatte celebrar messe dai sacerdoti e recitare salmi dai chierici.»
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Nel Medioevo, il fantasma venne usato dai predicatori come ammonimento per esemplificare ai fedeli i castighi riserbati ai peccatori nell'altra vita. Dagli infiniti exempla vibrati dai pulpiti, togliamo due versioni di una delle leggende più popolari (N.d.T). 2 Di Cesario di Heisterbach: educato, se non nato, a Colonia e convertitosi all'Ordine Cistercense nel monastero in valle di San Pietro di Heisterbach, scrisse il Dialogus Miraculorum (da cui è tolto il presente brano) nel 1222 (N.d.T.). 3 Di Elinando, monaco di Froidmont, morto dopo il 1229, che fu autore di una Cronaca dal principio del mondo al 1204, e di diverse altre opere. Dai frammenti superstiti della sua Cronaca, Vincenzo di Beauvais trasse episodi da lui chiamati «Flores», uno dei quali è quello che presentiamo. «La visione del carbonaio» venne ripresa anche da Giovanni da Bromyard e Jacopo Passavanti. Boccaccio vi si ispirò (trasferendo la vicenda nella pineta di Ravenna) per la novella di Nastagio degli Onesti, una delle più belle del Decamerone (N.d.T.). APPENDICE III Le maschere di cera1 Bouligneux, Luogotenente generale, e Wartigny, Maresciallo di campo, furono uccisi davanti a Verue; erano due uomini di grande valore, ma particolarissimi. Si erano modellate, l'inverno precedente, molte maschere di cera di personaggi della Corte, al naturale. Costoro le portavano sotto altre maschere, di modo che, togliendosele, ci si ingannava e si prendeva la seconda maschera per il viso, mentre sotto ce n'era uno vero, tutto diverso; ci si divertiva molto a questo scherzo. Quell'inverno, ci si volle ancora divertire così. La sorpresa fu grande quando si trovarono tutte queste maschere naturali nelle stesse condizioni di freschezza nelle quali erano state riposte dopo il carnevale, eccetto quelle di Bouligneux e di Wartigny che, conservando la loro perfetta rassomiglianza, avevano i lineamenti del volto pallidi e tirati degli individui appena morti. Queste maschere apparvero così a un ballo e fecero tanto orrore che si tentò di ravvivarle con del carminio, ma il colore si cancellava istantaneamente e i lineamenti non si scioglievano.
Ciò mi è sembrato così straordinario che l'ho giudicato degno di nota, ma non l'avrei certo raccontato se tutta la Corte non fosse stata più volte, come me, sorpresa testimone di questa stravaganza. Alla fine, si gettarono via queste due maschere. 1
Di Louis de Rouvroy duca di Saint-Simon (1675-1755), politico e scrittore francese, che fu esponente della reazione aristocratica all'assolutismo monarchico. Nelle sue monumentali Memoires, da cui è tolto questo brano, rappresentò efficacemente la vita di corte. Secondo Roger Caillois, questo breve passaggio «è un punto fermo nella storia del fantastico moderno, un po' come Zadig lo è in quella del romanzo poliziesco» (Il deserto del sogno, 1964) (N.d.T.). APPENDICE IV Dal Dictionnaire Infernal1 Fantasmi, spiriti, visioni I nostri padri reputavano che l'apparizione di ombre o larve fosse un cattivo augurio, e la loro vista incuteva terrore, quantunque essi fossero persuasi che non se ne debba avere paura quando si tenga in mano un'ortica o un ramo di millefoglie. 1. Fantasmi. Gli Ebrei pretendono che i fantasmi non riescano a riconoscere la persona che vorrebbero spaventare, se questa ha un velo sulla faccia: quando però la persona è colpevole, credono, in base alla testimonianza di Buxtorf, che la maschera cada onde l'ombra possa vederla e perseguitarla. Si videro sovente fantasmi farsi scorgere per annunziare la morte: uno spettro apparve a questo scopo alle nozze di Alessandro III Re di Scozia, il quale morì poco dopo. Camerario riferisce che, ai suoi tempi, si vedevano talvolta nelle chiese fantasmi senza testa, vestiti da monaci e da religiose, seduti sulle panche su cui solevano sedersi davvero i monaci e le suore: ciò era segno di morte. Un Cavaliere spagnuolo aveva osato concepire una passione colpevole per una religiosa. Una notte in cui attraversava la chiesa del convento, di cui si era procurata la chiave, vide ceri accesi e sacerdoti che non conosceva, e che celebravano l'ufficio dei morti intorno a una tomba. Si avvicinò a
uno di loro e domandò per chi fosse celebrata la cerimonia. «Per te», gli rispose il sacerdote. Tutti gli altri gli risposero col medesimo tono. Il Cavaliere uscì spaventato, salì a cavallo e, mentre ritornava a casa, due cani lo sbranarono sulla porta. Una signora che viaggiava sola in una carrozza da posta, fu sorpresa dalla notte presso un villaggio, con l'assale della carrozza rotto. Era autunno, e il tempo era freddo e piovoso. Nel villaggio non c'era albergo, e le venne additato il castello. Siccome ne conosceva il proprietario, non esitò a recarvisi. Il portinaio l'accolse, e le disse che in quel momento c'erano al castello molte persone venute a celebrare uno sposalizio, e che sarebbe andato ad avvertire il padrone del suo arrivo. La fatica, il disordine del suo abbigliamento e il desiderio di proseguire il viaggio, persuasero la viaggiatrice a pregare il portinaio di non incomodare il padrone, e lei domandò solamente una camera. Tutte erano occupate, ad eccezione di una sola in un angolo remoto del castello, che l'uomo non osava proporle a cagione del cattivo stato in cui si trovava. Ma, avendogli lei detto di esserne contenta, purché vi fosse un buon letto e un buon fuoco, cenò modestamente e, dopo essersi ben riscaldata, andò a letto. Cominciava appena a prendere sonno, quando un fracasso di catene e di suoni lugubri la fecero trasalire. Il rumore si avvicinò, la porta si aprì, e lei vide alla luce del fuoco entrare un fantasma avvolto in un bianco lenzuolo. La sua figura pallida e magra, la sua barba lunga e incolta, e le catene di cui la sua figura era cinta, tutto annunziava un abitatore dell'altro mondo. Il fantasma si avvicinò al fuoco, si coricò nella sua lunghezza, si avvoltolò in ogni senso emettendo gemiti, e quindi, a un leggero movimento che sentì vicino al letto, si rialzò e le si avvicinò. Quale amazzone non avrebbe temuto un tale avversario? Benché la nostra viaggiatrice non mancasse di coraggio, non osò aspettarlo, ma si precipitò dall'altra parte del letto e, con un'agilità che la paura rende maggiore, si salvò di gran carriera in camicia, correndo per lunghi corridoi, sempre inseguita dal terribile spettro di cui sentiva il fracasso delle catene contro il muro. La povera viaggiatrice, arrivata a una debole luce, riconobbe l'uscio del portinaio, vi batté e cadde svenuta sulla soglia. L'uomo venne ad aprirle, la fece trasportare nel suo letto e le prodigò tutto l'aiuto che era in suo potere. La signora, rinvenuta, narrò il fatto. «Ahimè!», gridò il portinaio. «Il nostro pazzo avrà rotto la sua catena e sarà fuggito.» Questo pazzo era un parente del padrone del castello che viveva rinchiuso da parecchi anni. Aveva di fatto approfittato dell'assenza dei suoi custodi che si erano recati al
ballo, aveva divelto le catene, e il caso lo aveva condotto nella camera della viaggiatrice. 2. Spiriti. Gli antichi credevano che gli spiriti, chiamati anche Demoni o Geni, fossero dei Semidei. Ogni nazione, dice Apuleio, ogni famiglia, persino ogni persona ha il suo spirito che lo guida e che veglia sulla sua condotta. Tutti i popoli li rispettavano, e i Romani li riverivano; non ponevano assedio alle città, né intraprendevano le loro guerre se non dopo che i loro sacerdoti avevano invocato il genio del paese. Caligola stesso fece punire pubblicamente alcuni fra coloro che li avevano maledetti. Vi furono filosofi poi i quali immaginarono che questi spiriti altro non erano se non le anime dei morti le quali, separate dai loro corpi, erravano incessantemente sulla terra. Questa opinione pareva loro tanto verosimile, che immaginavano di vedere degli spiriti presso le tombe nei cimiteri e nei luoghi in cui era stato ucciso qualcuno. Nell'interno dell'America settentrionale vi sono popolazioni selvagge le quali immaginano che, quando un uomo è seppellito senza che si collochi accanto a lui tutto ciò che gli appartenne, il suo spirito ritorna sotto spoglie umane e si mostra sugli alberi più vicini alla sua casa armato di fucile. Aggiungono che non può riposare in pace se non dopo che gli oggetti da lui reclamati vengano deposti nella sua tomba. Guglielmo di Parigi scrive che, nel 1447, vi era uno spirito a Poitiers nella Parrocchia di San Paolo, il quale rompeva vetri e finestre, e prendeva a sassate la gente senza ferire nessuno. Cesario racconta che la figlia di un Preposto di Colonia era così tormentata da uno spirito maligno, che divenne frenetica. Al padre fu consigliato di mandare la figlia al di là del Reno, e così fece. Lo spirito fu costretto ad abbandonare la sua vittima, ma percosse con tal violenza il padre, che questi ne morì tre giorni dopo. Ed ecco qualche altra storia di spiriti. All'inizio del regno di Carlo IV, detto «il Bello», lo spirito di un borghese morto da alcuni anni apparve sulla pubblica piazza di Arles in Provenza: riferiva mirabili cose dell'altro mondo. Il Priore dei Giacobini di Arles, un uomo dabbene, pensò che quello spirito fosse un Demonio mascherato. Si recò allora sulla piazza. Lo spirito scoprì subito chi era, e lo pregò di liberarlo dal Purgatorio. Così parlando, scomparve e, siccome si pregò per la sua anima, non si fece poi più vedere. Nel 1750, un ufficiale del Principe Conti, essendosi coricato nel castello dell'Isola di Adamo, sentì tutto ad un tratto che gli veniva levata di dosso la coltre, e la trasse a sé. Il gioco si ripeté diverse volte, finché l'ufficiale, annoiato, giurò
di uccidere colui che si faceva beffe della sua pazienza e, afferrata la spada, cercò in tutti gli angoli, ma non trovò nulla. Stupito ma con coraggio, prima di raccontare la sua avventura, volle ancora provare il giorno dopo se l'importuno sarebbe ritornato. Si chiuse diligentemente, si coricò, origliò lungamente, poi finì per addormentarsi: allora gli venne fatto lo stesso tiro del giorno prima. Sceso dal letto, rinnovò le sue minacce e perse il suo tempo in inutili ricerche. Il timore s'impadronì di lui e, chiamato un valletto, lo pregò di dormire nella sua camera senza dirgliene il motivo: ma lo spirito non si fece più vedere. La notte seguente si fece accompagnare dal valletto a cui raccontò l'accaduto, ed entrambi si coricarono insieme. Il fantasma ritornò, spense la candela che avevano lasciata accesa, li scoprì e fuggì. Siccome avevano intravisto un mostro deforme, schifoso e saltellante, il valletto gridò che quello era il Diavolo, e corse in cerca di Acqua Benedetta: ma, nell'istante in cui sollevava l'aspersorio per aspergere la camera, lo spirito glielo toglieva di mano e spariva. I due gridarono, accorse gente, la notte trascorse in tumulto, e il mattino si vide sul tetto una grossa scimmia la quale, armata di aspersorio, lo immergeva nella vaschetta piena d'acqua e aspergeva i passeggeri. Nel 1210 un borghese d'Epinal, di nome Ugo, fu visitato da uno spirito che faceva cose meravigliose, e che parlava senza farsi vedere. Gli fu domandato il suo nome e da qual luogo venisse. Rispose di essere lo spirito di un giovane di Clarentine, un villaggio a sette leghe da Epinal: sua moglie era ancora viva. Un giorno, avendo Ugo ordinato al suo valletto di sellare il suo cavallo e dargli da mangiare, il valletto tardò ad ubbidire, e lo spirito fece la sua parte con grande meraviglia di tutti. Un altro giorno Ugo, volendo farsi estrarre del sangue, disse a sua figlia di preparare le bende. Lo spirito andò a prendere una camicia nuova in un'altra camera, la lacerò in tante fasce, e venne a presentarle al padrone, dicendogli di scegliere le migliori. Un altro giorno la fantesca della casa aveva disteso la biancheria nel giardino per farla asciugare: lo spirito la portò sulla soffitta e la piegò in un modo che non sarebbe riuscito alla più esperta delle lavandaie. Ciò che c'è di strano, in questa storia, è che, nei sei mesi nei quali frequentò quella casa, lo spirito non fece male a chicchessia e non rese altro che buoni servigi. Verso la fine del 1746 si sentirono alcuni sospiri che uscivano dalla stamperia di Lahard, uno dei Consiglieri della città di Costanza. Gli operai della stamperia dapprincipio non fecero che riderne, ma, nei primi giorni di gennaio, si udì maggior fracasso di prima. Il muro veniva
percosso, verso la parte dove erano venuti i sospiri, e gli stampatori ricevettero degli schiaffi, mentre i loro cappelli venivano gettati a terra. Lo spirito continuò questo gioco per parecchi giorni, dando schiaffi agli uni, e gettando pietre agli altri, cosicché i compositori furono obbligati ad abbandonare quell'angolo della stamperia. Accaddero molti altri fatti simili prima che la cosa avesse fine. Ecco ora la storia di uno spirito che venne citato in Tribunale. Nel 1761 un affittacamere di Southams, nella Contea di Warwick in Inghilterra, fu assassinato mentre rientrava a casa. Il giorno dopo un vicino venne a trovare la moglie dell'affittacamere, e gli domandò se suo marito era venuto a casa. Lei rispose di no, e si mostrò molto inquieta. «Le vostre inquietudini», riprese a dire il vicino, «non possono eguagliare le mie: infatti, trovandomi questa notte a letto senza che fossi addormentato, vostro marito mi apparve ricoperto di piaghe, e mi disse di essere stato assassinato dal suo amico John Dick, e che il suo cadavere era stato gettato in una cava.» La donna, messa in allarme, cercò nella cava, e vi rinvenne il corpo del marito ucciso nel luogo designato dal vicino. Colui che era stato accusato dallo spettro, fu arrestato e messo nelle mani dei giudici, come sospetto di omicidio. Il suo processo si tenne a Warwick. I giurati lo avrebbero condannato, se Lord Raymond, il giudice principale, non avesse sospeso la sentenza. «Signori», disse ai giurati, «io credo che voi diate eccessivo credito alla testimonianza di uno spirito. Qualunque sia il conto in cui si tengono queste storielle, noi non abbiamo alcun diritto di esserne influenzati. Noi formiamo un tribunale di giustizia, e dobbiamo prendere esempio dalla legge. Ora, io non conosco alcuna legge esistente la quale ammetta la testimonianza di uno spirito: e quand'anche una ve ne fosse, nel nostro caso, lo spettro non appare per fare la sua deposizione. Uscieri», soggiunse, «chiamate lo spettro.» La qual cosa essi fecero tre volte, senza che nessuno apparisse. «Signori», proseguì allora Lord Raymond, «il prigioniero che si trova alla sbarra è, secondo la testimonianza di persone irreprensibili, d'una reputazione senza macchia, e non risulta dagli interrogatori che vi sia stata mai qualche contesa fra lui e il morto. Io lo credo assolutamente innocente e, siccome non vi sono prove contro di lui - né dirette, né indirette - io sospetto fortemente che la persona che ha visto lo spettro sia l'uccisore. Nel qual caso non è difficile capire come abbia potuto additare il luogo, le feri-
te, la cava e le altre cose senza alcun aiuto soprannaturale. In conseguenza di questi sospetti, io mi credo in diritto di farlo arrestare, fino a che si assumano più ampie informazioni.» L'uomo venne di fatto arrestato, si fecero perquisizioni nella sua casa, e si trovarono le prove del suo delitto. Finì per confessare, e fu condannato a morte. 3. Visioni. Vi sono parecchi tipi di visioni, le quali, per la maggior parte, hanno loro sede nell'immaginazione esaltata. Torquemada racconta che un gran Signore spagnolo uscì un giorno per andare a caccia in una delle sue terre, e fu molto meravigliato quando, credendosi solo, si sentì chiamare per nome. La voce non gli era nuova ma, siccome non pareva sollecito nel rispondere, fu chiamato una seconda volta, e riconobbe distintamente la voce di suo padre morto da poco tempo. Malgrado la sua paura, non smise di avanzare. Quale non fu la sua meraviglia nel vedere una grande caverna o specie d'abisso, in cui c'era una lunga scala. Lo spettro di suo padre si mostrò sui primi gradini, e gli disse che Dio aveva permesso che si facesse vedere da lui, per avvertirlo di ciò che doveva fare per la sua salvezza eterna, come pure del suo avo che stava alcuni gradini più sotto. Aggiunse che la giustizia divina li puniva, e li avrebbe tenuti in castigo finché non fosse stata restituita un'eredità usurpata dai suoi avi, la qual cosa lui doveva fare immantinente, perché il suo posto, in caso contrario, era già preparato in quel luogo di dolore. Appena queste parole furono pronunziate, lo spettro e la scala scomparvero, e l'apertura della caverna si chiuse. Allora lo spavento s'impadronì dell'immaginazione del cacciatore, che ritornò in casa, restituì il maltolto, lasciò a suo figlio gli altri suoi beni e si ritirò in un monastero, dove passò il resto della sua vita. Le tradizioni popolari della Germania sono ricche di visioni: ne citeremo alcune. Un vecchio castello della Sassonia era visitato da un fantasma, il quale compiva azioni spaventose, tanto che il castello era disabitato da parecchi anni. Un giovane intrepido decise di passarvi la notte, munito di lampade e armi. A mezzanotte, mentre si disponeva a dormire, intese da lontano un rumore di catene. Dopo essersi trascinato lungamente per i corridoi, l'essere autore di questo fracasso fece suonare alcune chiavi, aprì la porta, e il giovane coraggioso vide entrare uno spettro pallido, scarno, con una barba lunghissima e una borsa da barbiere in mano. Il curioso si controllò e lasciò fare. Lo spettro intanto chiuse diligente-
mente la porta; poi, accostatosi al letto, fece segno al suo ospite di alzarsi, gli pose un accappatoio sulle spalle, e gli accennò col dito una sedia sulla quale lo invitò a sedere. Il tedesco incominciò a tremare, e il suo spavento s'accrebbe quando vide il fantasma trarre dalla sua borsa un vecchio catino appartenente a un altro secolo e un gran rasoio alquanto rugginoso. Si fece tuttavia coraggio e lo lasciò fare. Lo spettro, il quale operava con gravità, gli insaponò il mento, gli rase la barba, gli tagliò i capelli con perizia, poi gli tolse di dosso l'accappatoio. Fin qui nulla di straordinario: si sapeva già che lo spettro era solito radere a quel modo tutti coloro che passavano la notte nel castello. Ma si diceva pure che, dopo averli rasati, li ammazzava col suo grosso pugno da scheletro. Il giovine si levò da seduto, e siccome aveva conservato la sua presenza di spirito, si rassicurò vedendo il fantasma sedersi al suo posto e indicargli la borsa che aveva deposto sulla tavola. Tutti coloro che erano venuti prima di lui nel castello, avevano avuto tanta paura, che erano senza dubbio svenuti mentre lo spettro li radeva: il che aveva fruttato loro i pugni micidiali. Il giovane osservò la lunga barba dello spettro, e comprese che doveva restituirgli lo stesso servigio. Lo insaponò arditamente e gli rase la barba e i capelli meglio che poté. Appena questo fu fatto, lo spettro, fino allora muto, si mise a parlare come una persona viva. Chiamò il giovane suo liberatore, e gli raccontò che un tempo era stato sovrano del paese, e aveva praticato l'uso inospitale di radere spietatamente tutti coloro che venivano a chiedere asilo nel suo castello. Per punirlo, un vecchio monaco ritornato dalla Terrasanta, lo aveva condannato a radere dopo morto tutti i suoi ospiti, fino a che se ne presentasse uno tanto coraggioso da radere lui stesso. «Sono trecento anni che dura la mia penitenza», aggiunse lo spettro e, dopo nuovi ringraziamenti, se ne andò. Il giovine, rassicurato, comprò per poco prezzo il castello e visse giorni felici. Ecco un altro racconto. Blendau, partendo per l'Italia, si fermò in una città al nord della Germania presso un certo Rebman, suo amico, castellano d'un feudo reale che aveva sovente visitato. «Mio caro Blendau», gli disse Brigida, la sorella di Rebman, «abbiamo libera soltanto la Camera Grigia: ma tu certo non vi vorrai dormire.» «E perché?» «Hai dimenticato la storia della castellana?» «Bah! non ci penso più. Ho vissuto cinque anni nella Capitale, e ora gli spiriti non mi fanno più paura. Lasciami dormire in questa famosa came-
ra.» Brigida condusse Blendau nella Camera Grigia. Un istante dopo, la moglie e i figli di Rebman giunsero dalla Fiera: lei non disse nulla di Blendau, volendo il giorno dopo a colazione far loro una sorpresa. La Camera Grigia si trovava al secondo piano, all'estremità di una delle due ali del castello. Brigida posò le sue due lampade su una tavola, sotto un antico specchio, e si affrettò a ritirarsi. Il giovane viaggiatore si mise a considerare quell'antico ambiente. L'enorme stufa di ferro portava la data del 1616: una porta a vetri a piccole lastre rotonde incassate nel piombo metteva su un lungo corridoio scuro, che conduceva alla torre delle carceri: il letto era adorno di un gran baldacchino e di cortine di seta ricamate d'oro, e i mobili non avevano mutato posto da cent'anni. Conosceva la storia della castellana. Geltrude, era questo il suo nome, aveva fatto voto di verginità mentre era in vita e, non avendolo potuto mantenere, si era nutrita di disperazione, a diciannove anni, in quella stessa Camera Grigia: dicevano che era stata condannata a soffrire per trecento anni le pene del Purgatorio. Questa severa condanna non sarebbe finita che nel 1850: fino ad allora il suo spettro avrebbe dovuto apparire ogni notte nella Camera Grigia. Blendau aveva sentito cento volte il racconto di quelle apparizioni: la castellana, dicevano, si faceva vedere con un pugnale. Non era tanto coraggioso come diceva, tuttavia chiuse le porte, smorzò i lumi e si mise a dormire. Due ore dopo, il rintocco della mezzanotte lo sveglia, e vede la camera illuminata. Si alza con terrore, volge gli occhi sull'antico specchio, e vede lo spettro di Geltrude, avvolto in un lenzuolo, con un pugnale nella destra. Sul suo capo è poggiata una corona di rosmarino e canutiglia. Nello specchio, al lume delle due candele, scorge il lampo degli occhi di Geltrude, e il pallore delle sue labbra: lei parla a bassa voce. Il giovinotto, atterrito, vorrebbe scendere dal letto, ma lo spavento lo rende immobile. Intanto la castellana avanza verso di lui col pugnale alzato e uno sguardo terribile. Gli poggia sul petto la punta del pugnale, mentre dalle sue mani stillano gocce di veleno. Blendau salta a terra, e corre alla finestra per chiedere soccorso. Ma lo spettro lo previene: appoggia una mano sulla finestra e con l'altra afferra Blendau, il quale si sente correre lungo le ossa il gelo della morte. I lumi poi si estinguono, Blendau ritorna nel suo letto, si seppellisce nelle coltri, e tutto rientra nel silenzio.
L'estrema fatica finisce per fargli prendere un po' di sonno. Si sveglia allo spuntare del giorno tutto sudato: le lenzuola ne sono zuppe. Non sa che pensare della sua orribile avventura. Le candele consumate, così come lo spostamento di alcuni mobili, tutto gli prova che la sua visione non è stata un sogno: ma, non osando parlarne a Rebman, monta a cavallo e parte all'istante. Quando quest'avventura fu pubblicata, nel 1810, sul giornale Il sincero, con una postilla in cui Blendau ne attestava, sul suo onore, tutta la verità, essa produsse una grande impressione e fu oggetto di tutte le assemblee di Berlino. Un medico pubblicò allora un fatto dello stesso genere che gli era accaduto, non in una camera grigia, ma in una camera nera. Andavo un giorno - raccontò - al castello del Luogotenente Colonnello Siberstein, la cui figliuola era gravemente inferma: fui costretto a fermarmi per averne cura, e mi si allestì una camera, nella quale mi ritiravo di buon'ora. La stanza aveva un aspetto assai lugubre: infatti le antiche porte, il soffitto e le pareti, erano coperte di nero. Un servitore venne a chiedermi se non mi trovassi troppo solo in quella camera, e se volevo che restasse con me. Mi feci beffe di lui e di tutte le storie di spettri che mi narrò intorno a quella camera nera, che aveva una cattiva rinomanza. Mi addormentai dopo avere visitato ogni angolo e chiuse le porte. Ero nel primo sonno, quando odo pronunciare a bassa voce il mio nome. Apro gli occhi a metà, e vedo la mia camera illuminata in modo straordinario. Poi una mano fredda mi tocca, e mi vedo accanto una figura pallida come la morte, avvolta in un lenzuolo funerario, che tende verso di me le sue gelide braccia. Nel primo moto di terrore, mando un grido e faccio un balzo indietro. All'istante sento battere un colpo violento. L'immagine scompare, e mi trovo all'oscuro. L'orologio suona: è mezzanotte. Mi alzo, accendo due candele, controllo di nuovo, e tutto è chiuso. Mi sto convincendo di aver avuto un incubo, quando, avvicinatomi al mio letto con una candela, scorgo una ciocca di capelli neri sul cuscino. Non poteva esservi venuta né per sogno, né per illusione. La prendo e la ripongo. Ma, nell'istante in cui sto meditando su questo fatto, sento camminare a passi concitati e battere alla mia porta. «Alzatevi», grida una voce. «Madamigella muore.» Volo nella camera della malata, e la trovo senza vita. Mi viene detto che un poco prima di mezzanotte si era risvegliata e, dopo avere mandato un forte sospiro, era morta. Sua madre, inconsolabile per quella perdita, volle almeno, prima di
abbandonare il corpo della figlia, levarle una ciocca di capelli. Si giudichi del mio spavento quando mi accorsi che una treccia mancava ai lunghi capelli neri: quella appunto che io avevo visto nella mia camera. Il giorno dopo fui colpito da una seria malattia, quella stessa di cui la fanciulla era morta. All'istante in cui il medico rese pubblica quest'avventura, un avvocato che aveva dormito nella medesima camera nera, affermò di avervi visto quasi le medesime cose. La giustizia allora visitò il luogo. Si scoprì una molla segreta che apriva una porta nascosta sotto la tappezzeria della camera fatale. Essa comunicava con una stanza, abitata dalla cameriera: era lei che faceva la parte del fantasma per possedere sola quella camera. Il dottore e l'avvocato l'avevano presa l'uno dopo l'altro per uno spettro. Dopo che questa storia fu ricondotta al vero, il giornale Il sincero pubblicò alcuni chiarimenti anche intorno alle avventure della Camera Grigia. Tutto era opera dei figli del castellano, a cui Brigida aveva narrato l'arrivo di Blendau. La giovane Carlotta faceva la parte di Geltrude. I suoi fratelli avevano aperto il chiavistello passando la mano per un buco nascosto. Quando tutti questi misteri furono portati alla luce, si dice che il medico della camera nera gridasse: «Viviamo in un secolo perverso e detestabile. Quanto c'è di antico si annienta, e un povero spettro non si può più mantenere onestamente». Ma non abbandoniamo i tedeschi, né le tedesche soprattutto, le quali amano le allucinazioni. Tre fanciulle di Berlino, essendosi un giorno riunite, domandarono a una di loro, Fiorentina, le ragioni della malinconia da cui sembrava pervasa. Lei ne confessò il motivo in questi termini: «Avevo una sorella chiamata Serafina, che anche voi avete conosciuto: lei si mise in capo certe fantasie astrologiche e divinatorie con gran dolore di nostro padre. Mia madre morì, e nostro padre pensò che, con l'età, quella bizzarra inclinazione si sarebbe persa. Ma Serafina proseguì i suoi studi. Lei diceva di essere stata rapita in estasi, di aver parlato con gli spiriti: ed io non sono molto lontana dal crederlo, perché la vedemmo nel giardino persa dietro strane visioni. Una sera che si era recata a cercare i suoi abiti in guardaroba, rientrò senza lume. Al vederla, mandai un grido di spavento: il suo volto era contratto, e il suo pallore abituale aveva assunto una tinta lugubre, quella della morte. Le sue labbra color rosa erano divenute livide. "Sono stata colta da un malore improvviso", mi spiegò con voce bassa. Dopo molte insistenze da parte mia, finì per dirmi che lo spirito di nostra
madre, morta da qualche tempo, le era apparso: che aveva sentito qualcuno camminare dietro le sue spalle; che si era sentita afferrare per la veste e, spaventata, era caduta priva di sensi; che, dopo aver ripreso le sue forze e nel momento di aprire l'armadio, la sua candela si era spenta; che aveva visto la sua immagine uscire da uno specchio, spandere una gran luce nell'appartamento, e aveva udito una voce dire: "Perché tremi vedendo il tuo io avanzarsi verso di te per darti notizia della tua morte vicina e per rivelarti il destino della tua casa?". Il fantasma l'aveva poi istruita su ciò che doveva succedere: ma, nel momento in cui lo interrogò sul mio conto, la camera si era oscurata, e la visione era scomparsa. Aggiunse che non poteva confidarmi l'avvenire da lei conosciuto, e che solo nostro padre avrebbe dovuto saperlo. Ne accennai qualche cosa a mio padre la sera stessa: ma lui non credette a nulla. Pensava che quanto era avvenuto a Serafina poteva essere effetto di immaginazione sfrenata. Intanto, tre giorni dopo, mia sorella cadde inferma, e mi resi conto dalla passione con cui abbracciava mio padre e me, che l'istante della separazione non era lontano. "L'orologio suonerà presto le nove?", disse una sera. "Pensate a me: ci rivedremo!" Poi ci strinse la mano e, quando l'ora suonò, cadde sul suo letto per non più rialzarsi. Mio padre desiderò che la sua pretesa visione fosse tenuta segreta. Io ero dello stesso avviso, ma lo sollecitai a svelarmi il mistero che mi circondava. Lui non volle acconsentire, e io notai che il suo sguardo irrequieto era fisso sulla porta, la quale tutto ad un tratto si aprì da sé. Rabbrividii dallo spavento, e domandai a mio padre se non vedeva una luce che penetrava nella camera. Disse un'altra volta che erano fantasie, ma mi parve turbato. Il tempo non cancellò il ricordo di Serafina, ma ci fece dimenticare quest'ultima apparizione. Una sera tornavo a casa dopo una lunga passeggiata, quando i camerieri mi avvertirono che mio padre aveva deciso di recarsi a vivere in una delle sue terre. A mezzanotte partimmo. Giunse alla sua terra tranquillo e sereno: ma fu presto colpito da una malattia che i medici considerarono molto seria. Una sera mi disse: "Serafina fu due volte veritiera: lo sarà anche la terza". Compresi allora che mio padre stava per morire. Di fatto, si andava visibilmente consumando, e fu obbligato al letto. Un'altra sera mi disse con voce debole: "Quando suoneranno le nove, il mio ultimo istante, secondo la predizione di Serafina, sarà giunto. Non prendere marito, se è possibile: e se mai pensassi davvero di prenderlo, non dimenticarti di leggere la lette-
ra che ti lascio". Il suono dell'ora fatale, in cui mio padre si appoggiò sulla mia spalla, mi fece perdere i sensi. Il giorno della sua sepoltura fu anch'esso segnato dalla luce fulgidissima di cui vi ho già fatto parola. Voi sapete», proseguì Fiorentina, «che il Conte Ernesto ha chiesto la mia mano: quando decidemmo di sposarci, non esitai, secondo l'ordine di mio padre, a leggere il biglietto sigillato che mi aveva lasciato. Eccolo: "Serafina ti ha già detto che, quando volle interrogare il fantasma sul tuo destino, la visione scomparve improvvisamente. L'essere incomprensibile visto da tua sorella le ha dichiarato che, tre giorni prima di quello del tuo matrimonio, tu morrai alla medesima ora a noi tanto fatale".» Fiorentina si arrestò un istante, quindi aggiunse: «Voi vedete, care amiche, il motivo del cambiamento che mi avete talvolta rimproverato. Domani il Conte ritorna dal suo viaggio. Aveva stabilito il suo matrimonio per il terzo giorno dopo il suo arrivo: così il giorno fatale sarebbe questo! E io rinuncio ad un matrimonio che mi avrebbe fatta felice, piuttosto che rinunciare alla vita». Fantasmi celebri DAME BIANCHE Taluni danno il nome di «Dame Bianche» alle silfidi, alle ninfe e a certe fate che si facevano vedere in Germania. Altri con questo nome intendono certe fantasime le quali fanno più paura che male. Vi è una storia di spettri poco pericolosi, osserva Delrio, i quali appaiono sotto la sembianza di donne interamente bianche nei boschi e nelle praterie. Talvolta si incontrano nelle stalle, con in mano candele di cera accese, di cui lasciano cadere le gocce sulla criniera dei cavalli, che poi pettinano e intrecciano in bellissimi modi. Nella Bretagna vi sono certe Dame Bianche dette lavandaie o cantatrici notturne, che lavano la loro biancheria cantando al chiaro di luna e in fontane solitarie. Invitano i passeggeri a torcere con loro la biancheria lavata, e rompono le braccia a chi le aiuta con cattivo garbo. Erasmo parla di una Dama Bianca celebre in Germania. «Ciò che vi è di più incredibile nella nostra Germania», dice, «è la Dama Bianca che si fa vedere allorché la morte è in procinto di battere alla porta di qualche Principe, e ciò non solamente in Germania, ma anche in Boemia. Di fatto, questo spettro si fece vedere alla morte della maggior parte dei
grandi di Neuhaus e di Rosemberg, e si mostra anche ai giorni nostri. Guglielmo Slavata, Cancelliere di questo regno, dichiara che la Dama non può essere tratta dal Purgatorio fintantoché il castello di Neuhaus rimane in piedi. Vi si fa scorgere non solamente quando qualcuno della famiglia deve morire, ma anche quando si deve celebrare un matrimonio o sta per nascere un bambino. Con questa differenza, però: che, quando appare con vesti nere, è segno di morte, e quando al contrario è tutta vestita di bianco, è segno di gioia e di feste. Gerlanio assicura di aver sentito dire dal Barone di Ungenaden, Ambasciatore dell'Imperatore presso la Sublime Porta, che la Dama Bianca appare sempre in abito nero allorquando predice in Boemia la morte di qualche membro della famiglia Rosemberg. Quando Guglielmo di Rosemberg si alleò con le quattro Case principesche di Brunswick, di Brandeburg, di Baden e di Pernstein l'una dopo l'altra, prodigando a tale scopo una immensa quantità di danaro, soprattutto nelle nozze della Principessa di Brandeburg, la Dama Bianca si rese familiare alle quattro famiglie, e ad alcune altre loro alleate. Quanto al suo modo di farsi vedere, si sa che passa talvolta rapidissimamente da una camera all'altra, portando sospeso alla cintola un gran mazzo di chiavi, con le quali apre e chiude le porte tanto bene di giorno, quanto di notte. Se accade che qualcuno la saluti, senza cercare di fermarla, gli risponde con un tono di voce come di vedova, e un portamento grave e dignitoso; poi, dopo aver fatto un breve inchino con la testa, se ne va per la sua strada. Non rivolge mai parole men che rispettose a chicchessia: anzi, guarda chiunque con modestia e con verecondia. Peraltro, si dice che talvolta la Dama Bianca sia salita su tutte le furie ed abbia scagliato sassi contro persone che aveva sentito tenere fra loro discorsi sconvenienti, sia contro Dio, che contro la religione e contro la virtù; in cambio, si mostra affettuosa verso i poveri, e si duole quando non li vede soccorsi come vorrebbe. Ne diede prova quando, dopo che gli Svedesi si furono impadroniti del castello di Swedenborg, dimenticarono di distribuire ai poveri la minestra che si soleva dar loro. Per questo motivo la Dama Bianca cominciò a fare un rumore così grande, che i soldati a guardia del castello non sapevano in qual luogo salvarsi. I generali stessi furono perseguitati in vario modo, finché uno di loro non si ricordò della minestra che si era soliti distribuire, ne parlò agli altri, e la dimenticanza venne emendata. Dopo di ciò tutto fu tranquillo.» Queste sono le storie che si narrano, e che vengono credute
dagli sprovveduti. UMBERTO BIRCK Cittadino ragguardevole di Oppenheim, morì nel novembre dell'anno 1620, pochi giorni prima della festa di san Martino. Il sabato dopo i suoi funerali, si udirono alcuni rumori nella casa in cui aveva abitato in compagnia della sua prima moglie (infatti era rimasto vedovo, e si era nuovamente ammogliato). Suo cognato, sospettando che fosse il suo spettro quello che menava fracasso, gli disse: «Se sei Umberto, batti tre volte contro il muro». E subito si sentirono tre colpi. Il fantasma si faceva sentire anche presso la fontana dove si andava ad attingere acqua, e metteva lo scompiglio in tutto il vicinato, manifestandosi con colpi, gemiti e grida lamentevoli. Queste scene durarono sei mesi all'incirca. In capo a un anno e poco dopo l'anniversario della morte, lo spettro si fece sentire di nuovo, e con maggior fracasso di prima. Gli si domandò che cosa desiderasse: e quello rispose con voce roca e bassa: «Fate venire il prossimo sabato il Curato e i miei figli». Il Curato si trovava a letto malato, e non poté venire che il lunedì seguente, accompagnato da buon numero di persone. Si domandò allo spettro se voleva che gli si celebrassero messe, e lui ne chiese tre. Richiesto se desiderava che si facessero elemosine in sua memoria, rispose: «Voglio che si distribuiscano ai poveri otto misure di grano, che la mia vedova faccia donazioni a tutti i miei figli, e che si corregga ciò che venne mal disposto circa la mia eredità». Eredità che ammontava a venti fiorini. Gli si chiese anche perché turbasse proprio quella casa piuttosto che un'altra: rispose che vi era costretto da scongiuri e da maledizioni. Si domandò se avesse ricevuto i Sacramenti della Chiesa, e disse di averli ricevuti dal Curato precedente. Con molta fatica gli si fecero recitare il Pater e l'Ave, perché - diceva era impedito dal suo cattivo genio, il quale non gli permetteva di rispondere a chi lo interrogava su molte altre cose. Il Curato che apparteneva all'Abbazia d'Ognissanti, si recò al suo convento per consigliarsi col suo superiore su ciò che si doveva fare, e gli vennero dati tre religiosi perché lo soccorressero. Tutti e quattro si recarono alla casa infestata dallo spettro, e dissero ad Umberto di percuotere il muro, ciò che fece molto piano. «Vai a cercare
una pietra», gli si disse allora, «e batti più forte.» Lo spettro eseguì. Uno dei preti disse all'orecchio del suo vicino, il più a bassa voce che gli fu possibile: «Io desidero che batta sette volte». Lo spettro obbedì subito al suo desiderio. All'indomani si celebrarono le tre Messe che Umberto aveva domandate, e fu pure disposto tutto per fare una processione che aveva indicato nell'ultimo colloquio. Gli fu promesso di fare le elemosine il giorno dopo e, quando le sue ultime volontà furono eseguite, Umberto Brick non si fece più sentire. Questa storiella l'abbiamo narrata come si trova scritta, senza poterne dare una spiegazione. GEOFFROI D'IDEN Nel secolo decimoterzo, Umberto, figlio di Guiscardo di Belioc, della Diocesi di Màcon, dichiarò guerra ad altri Signori con lui confinanti. Geoffroi d'Iden ricevette nella mischia una ferita, della quale morì sul campo. Due mesi dopo apparve a Milon d'Anta, e lo pregò di dire a Umberto di Belioc, al servizio del quale aveva perduto la vita, ch'egli era fra i tormenti per averlo aiutato in una guerra ingiusta, e per non avere espiato prima della sua morte le proprie colpe colla penitenza. Lo supplicasse dunque d'avere compassione di lui, ed anche del proprio padre Guiscardo, il quale gli aveva lasciati molti beni di cui faceva abuso, e di cui una gran parte era di mal acquisto. Guiscardo aveva abbracciato la vita religiosa a Cluny, ma non aveva avuto il tempo di soddisfare per intiero la giustizia di Dio, né di riparare i propri torti verso il prossimo. Per cui lo spettro scongiurava Umberto di far celebrare alcune Messe per suo padre e per lui, e fare elemosine e preghiere, onde procurare all'uno e all'altro una pronta liberazione dalle pene che li tormentavano. Soggiunse poi: «Ditegli che, se non vi darà ascolto, sarò costretto ad andare io medesimo ad annunciargli ciò che ora vi prescrivo». Milon d'Anta fece subito la sua commissione. Umberto ne rimase atterrito, ma non diventò migliore. Tuttavia, temendo che Guiscardo, suo padre, o l'altro non venissero a tormentarlo, non osava rimanere solo, soprattutto la notte, e voleva sempre qualcuno dei suoi al suo fianco. Un mattino dunque, mentre si trovava desto nel suo letto, vide comparirgli dinanzi Geoffroi, armato come il giorno della battaglia, il quale gli mostrava la sua ferita mortale che pareva ancora sanguinante. Lo spettro gli mosse duri rimproveri, per non essersi curato né di suo padre né di lui
che soffrivano. «Guardati», soggiunse, «che Dio non ti tratti con tutto il suo rigore e non ritiri da te quella misericordia che rifiuti agli altri: soprattutto bada di non portare a termine la decisione da te presa di far guerra al Conte Amedeo, perché in essa perderai i beni e la vita.» Umberto si disponeva a rispondere al fantasma, quando lo Scudiero Riccardo di Marsay, consigliere di Umberto, sopraggiunse: il morto improvvisamente scomparve. Da quell'istante Umberto fece tutto quanto gli avevano comunicato suo padre e Geoffroi, e intraprese il pellegrinaggio a Gerusalemme per espiare le sue colpe. Questo fatto è riferito da Pietro il Venerabile. GUIDO Un Signore nominato Guido, ferito a morte in un combattimento, comparve una volta tutto armato a un sacerdote di nome Stefano, qualche tempo dopo il suo decesso, e lo pregò di dire a suo fratello Anselmo di restituire un bue che lui in vita aveva tolto a un contadino, e di riparare al danno che aveva fatto a un villaggio. Aggiunse che si era dimenticato di dichiarare queste due colpe nella sua ultima confessione, ed era quindi tormentato. «Per assicurarvi della verità di quanto vi dico», soggiunse, «quando sarete di ritorno nel vostro alloggio, troverete che vi è stato rubato il denaro che destinavate a un viaggio a Saint-Jacques.» Stefano trovò di fatto il suo scrigno infranto e il suo oro rubato; ma non poté eseguire la sua commissione, perché Anselmo era assente. Pochi giorni dopo, lo stesso Guido gli apparve di nuovo e gli rimproverò la sua trascurataggine. Stefano si scusò come meglio poté, e andò a trovare Anselmo, il quale gli rispose duramente che non era obbligato a far penitenza per le colpe di suo fratello. Il defunto apparve allora al prete una terza volta, e gli mostrò il suo dispiacere per la poca compassione che il fratello aveva di lui, e lo pregò di soccorrerlo lui stesso nella sua difficoltà. Stefano restituì il prezzo del bue, recitò preghiere, fece elemosine, raccomandò l'anima del morto alle persone devote di sua conoscenza, e Guido non comparve più. RAMBOUILLET Il Marchese di Rambouillet e quello di Percy, entrambi tra i venticinque e i trent'anni, erano intimi amici. Un giorno in cui si intrattenevano discor-
rendo delle cose dell'altro mondo, dopo molti discorsi improntati a scetticismo, si promisero l'un l'altro che il primo dei due a morire si sarebbe manifestato all'amico. In capo a tre mesi, il Marchese di Rambouillet partì per le Fiandre, dove Luigi XIV faceva allora la guerra: il Marchese di Percy, trattenuto da una grave febbre, rimase a Parigi. Sei settimane dopo Percy intese, verso le sei del mattino, una persona che apriva le cortine del suo letto e, volgendosi per vedere chi fosse, vide il Marchese di Rambouillet. Balzò giù dal letto per abbracciarlo e testimoniargli la sua gioia nel rivederlo: ma Rambouillet, indietreggiato di alcuni passi, gli disse che le sue effusioni erano fuor di luogo, perché lui era venuto per adempiere alla parola data: infatti, era stato ucciso il giorno prima. Aggiunse che quanto si diceva dell'Altro Mondo era certissimo, e lui ormai doveva pensare a cambiare modo di vita, e non aveva tempo da perdere, perché sarebbe stato ucciso anche lui nella prima battaglia in cui si fosse trovato. Non si può esprimere la sorpresa di Percy a quelle parole. Non potendo credere a ciò che sentiva, cercò di abbracciare l'amico: ma non abbracciò che l'aria, e Rambouillet, vedendolo così incredulo, gli mostrò la parte in cui era stato ferito, le reni cioè, da cui il sangue colava ancora. Dopo ciò, il fantasma disparve, lasciando Percy nello spavento più profondo che mai si possa immaginare. Il Marchese chiamò il suo cameriere e svegliò tutta la famiglia con le sue grida. Parecchie persone accorsero, e lui raccontò ciò che aveva visto. Tutti attribuirono la visione alla febbre che aveva alterato la sua immaginazione. Fu pregato di ricoricarsi, e persuaso che aveva sognato. Il Marchese, disperato nel vedersi preso per un visionario, ripeté tutte le circostanze del fatto: ma ebbe un bel protestare d'aver visto il suo amico, poiché nessuno volle prestargli fede, fintantoché giunse un corriere dalle Fiandre annunciando la morte di Rambouillet. Risultata vera questa circostanza, e proprio nel modo in cui l'aveva narrata Percy, tutti si meravigliarono: Rambouillet era stato ucciso precisamente il giorno prima, ed era impossibile che il Marchese l'avesse saputo in modo naturale. Tempo dopo, avendo voluto Percy recarsi, durante le guerre civili, alla battaglia di Sant'Antonio, vi rimase ucciso. 1
Di Jacques Albin Simon Collin, detto de Plancy dal suo luogo di nascita (1794-1881). Fu uno dei grandi eruditi della Francia del primo Ottocento, nutriti di spirito volterriano e animati dall'ansia di spazzar via la super-
stizione dal mondo. Poligrafo straordinariamente fecondo, pubblicò repertori sulla civiltà feudale, sulle tradizioni popolari, nonché di agiografia, demonologia, occultismo. La sua opera più celebre è il Dictionnaire Infernal: amplissima silloge, in un migliaio di fitte pagine, di documenti, biografie, informazioni riguardanti il mondo della Magia, della Stregoneria, dell'Occulto, delle superstizioni e così via. Pubblicato per la prima volta nel 1818, il Dictionnaire ebbe varie edizioni con diversi ampliamenti e profonde modifiche, derivanti dall'evoluzione spirituale del de Plancy, che dopo esser partito da posizioni radicalmente anticlericali, che attribuivano alla Chiesa Cattolica la responsabilità principale della sopravvivenza delle credenze superstiziose, nel 1834 si convertì, rinnegò le opere precedenti, divenne collaboratore del Migne (l'editore delle celebri Patrologia Latina e Patrologia Greca, 217 volumi la prima, 162 la seconda), e si diede a scrivere opere di pietà e devozione. In questo senso, rielaborò i materiali inseriti nel Dictionnaire Infernal, rivedendo l'immagine della Chiesa, e attribuendole il ruolo di propagatrice della verità: tanto che la sesta e definitiva edizione dell'opera, del 1863, reca l'Approvazione del Vescovo di Arras. Non ne tradì, tuttavia, l'impostazione fondamentale, ovvero la dimostrazione delle radici superstiziose del «pensiero occulto» antico e moderno. Il Dictionnaire Infernal è un'opera di capitale importanza per l'ampiezza incredibile delle fonti esaminate, lo scrupolo delle citazioni e dei riferimenti bibliografici, la vastità della trattazione. Gli argomenti principali vengono esaminati con voci apposite che sono di fatto sintetiche ma esaurienti monografie. In queste pagine, riproduciamo quella attinente ai fantasmi, con l'aggiunta di una serie di voci singole relative a questo specifico. Di Collin de Plancy è uscita presso la Newton Compton una scelta dal suo Dictionnaire critique des reliquies, 1821-22 (Dizionario critico delle reliquie e delle immagini religiose, 1982, a cura di A.M. di Nola, collana «Magia e Religioni») (N.d.T.). Filmografia Dice il dizionario: «Fantasma - ombra, spettro, essere soprannaturale di solito malefico, immaginato dalla fantasia popolare». E poi ancora: «Spettro - immagine di persona morta, risalente dall'Oltretomba a comunicare coi vivi». E infine: «Spirito - un essere immateriale in quanto appartenente a un ordine soprannaturale». Così, proprio partendo da queste definizioni, ci siamo avventurati a trac-
ciare una sorta di «mappa» o «guida» cronologica a quel particolare filone cinematografico che è senza dubbio il cinema dei fantasmi, nel quale però abbiamo incluso solo le pellicole che offrono al pubblico gli spettri veri e propri, gli autentici spiriti incorporei venuti dall'Aldilà o dal Paradiso, le anime che ritornano inquiete sulla Terra e le essenze dei morti che si reincarnano nei corpi dei vivi. Ciononostante, malgrado questi precisi limiti imposti, siamo riusciti a catalogare ben oltre 250 titoli! Abbiamo invece rigidamente escluso dalla nostra ricerca le pellicole in cui fantasmi, spettri e spiriti non rientrano nelle definizioni sopra riportate. Mancano pertanto da quest'elenco tutti i film con i medium, gli zombi, i vampiri, i mostri resuscitati, le streghe reincarnate o rivitalizzate, nonché i pluriomicidi seriali che ritornano sempre e che forse saranno pure dei nonmorti ma che di certo non rientrano nella tipologia classica del «fantasma» (si pensi cioè ai vari Freddy Krueger di Nightmare, Jason di Venerdì 13 e Michael Myers di Halloween). Abbiamo inoltre eliminato dalla nostra elencazione diversi tipi di film che apparentemente rientrano nel filone dei fantasmi, delle anime che ritornano o degli spiriti, ma che in realtà esulano dall'argomento: 1. I film in cui ci sono case infestate da «presenze» o da Fantasmi che però alla fine si rivelano falsi, in genere prodotti dal «cattivo» di turno con trucchi o artifizi meccanici (si pensi al più volte rifatto Il castello degli spettri, a La casa dei fantasmi di William Castle, a Il Fantasma dell'Opera, Lo spettro di Freda, Lo spettro di Edgar Allan Poe, Gli spettri del Capitano Clegg della Hammer, eccetera); 2. Le pellicole in cui ci sono fenomeni, entità o esseri incorporei di origine non specificatamente spettrale bensì stregonesca, demoniaca o ancestrale (per esempio, la serie della Casa di Sam Raimi con i suoi Demoni assiri o The Sentinel di Michael Winner e La Chiesa di Michele Soavi con le «porte» aperte sull'Inferno da cui scaturiscono mostruosità varie); 3. I film dove compaiono spiriti celesti ispirati alla religione cristiana, come i santi o gli angeli custodi; 4. I film in cui qualche personaggio viene «posseduto» non già dallo spirito di un morto, bensì da qualche forza stregonesca, aliena, magica o diabolica (si pensi qui all'Esorcista e alle sue miriadi di imitazioni e di derivazioni...); 5. I film in cui gli spettri, i mostri o le visioni non provengono dal mon-
do dei morti ma dallo spazio, dal tempo o da altre dimensioni (un esempio per tutti: Phantasm di Coscarelli); 6. Le pellicole in cui non viene data per certa l'avvenuta reincarnazione dell'anima di un trapassato, come per esempio il bellissimo Malombra di Mario Soldati dove la protagonista potrebbe essere semplicemente non tanto un'invasata quanto una povera pazza ossessionata. Abbiamo infine escluso, sia pure a malincuore, quello che secondo noi è uno dei più originali film sui fantasmi di ogni tempo, l'inglese Quatermass and the Pit (L'astronave degli esseri perduti, 1968, di Roy Ward Baker), in cui tutte le teorie sul Male, sul Diavolo e sugli spettri vengono ricondotte a un'origine extraterrestre - precisamente marziana - con uno straordinario lavoro di immaginazione da parte dello sceneggiatore Nigel Kneale. Ma questa esemplare pellicola che spiega in maniera logico-scientifica tutti i vari fenomeni soprannaturali (poltergeist, levitazione, spiriti, eccetera), appartiene più al filone del cinema fantascientifico che a quello dei Fantasmi vero e proprio. Abbiamo poi notato che, essendo di origine tipicamente europea, il tema dei Fantasmi è molto presente in cinematografie altrimenti ben poco portate al Fantastico, come - per esempio -proprio quella italiana, anche se, a dire il vero, l'argomento è stato in genere trattato dai nostri registi soprattutto in chiave ironica o di commedia. Sempre assai numerose ma decisamente più cupe sono invece le narrazioni cinematografiche sui Fantasmi tedesche e, soprattutto, quelle inglesi, nate in un paese dove la grande tradizione del romanzo gotico ha indubbiamente esercitato una notevole influenza sugli autori di pellicole. Va notato poi che è anche molto forte la presenza «fantastica» nel cinema orientale, e in particolare in quello giapponese (dove il filone ha addirittura un nome proprio, il «Kaidan», cioè la storia sugli spiriti), una nazione le cui antiche tradizioni popolari abbondano di forti storie imperniate sulle anime dannate, sugli spettri assetati di vendetta e sulle larve che ritornano dal mondo dei morti. Il cinema americano - a parte alcune deliziose commedie degli anni Trenta e Quaranta essenzialmente di derivazione letteraria, come la serie di Topper - si è occupato invece dei Fantasmi in un numero di occasioni abbastanza ridotto, preferendo piuttosto dedicarsi alla celebrazione di mostri assai più palpabili e concreti - e di conseguenza più facilmente smerciabili - come Frankenstein, Dracula, l'Uomo-Lupo, l'Uomo-Mosca, l'Uomo Invi-
sibile, eccetera. Solo negli ultimissimi anni - grazie in particolare al successo mondiale di pellicole tipo Poltergeist, Ghostbusters e Ghost - la cinematografia statunitense ha conquistato la supremazia pure in questo settore particolare del cinema fantastico, adattando però il suo nuovo cinema degli spettri alla dimensione tipicamente metropolitana dell'America moderna in un modo che certamente rivela il forte influsso esercitato sui cineasti dalle opere di scrittori di Fantasmi neo-moderni (o addirittura post-moderni...) quali Fritz Leiber, Ray Bradbury, Richard Matheson e, più di recente, Stephen King, Peter Straub e Dean R. Koontz. Se poi volete conoscere la nostra opinione personale su quali siano i più esemplari film di fantasmi della storia del cinema, vi indichiamo senza esitazioni titoli come Il fantasma di Canterville, Il fantasma galante, La casa sulla scogliera, Il ritratto di Jennie, La signora in ermellino, Pandora, Gli invasati, Poltergeist, Ghost, Il Corvo e - forse il migliore di tutti - Shining di Stanley Kubrick. Infine, concluso questo breve preambolo, vogliamo esprimere qui un vivo ringraziamento per l'aiuto fornito nella compilazione dell'elenco che segue a Nicola Lombardi e a «Profondo Rosso», la piccola Bottega degli Orrori di Dario Argento, che ci hanno posto gentilmente a disposizione per la consultazione la loro sterminata biblioteca specializzata. LE MANOIR DU DIABLE (1896), di Georges Méliès. Francia, prod. Méliès. (Film muto.) UNCLE JOSH IN A SPOOKY HOTEL (1900), di Edwin S. Porter. USA. (Film muto.) THE GHOST HOLIDAY (1907). USA, prod. Williams & Brown, Earle. (Film muto.) THE GHOST STORY (1907), di J. Stuart Blackton. USA, prod. Vitaphone. (Film muto.) THE HAUNTED HOTEL (1907), di J. Stuart Blackton. USA, prod. Vitaphone. (Film muto.)
HAUNTED CASTLE (1908). Francia, prod. Pathé. (Film muto.) LE SPECTRE (1908). Francia, prod. Pathé. (Film muto.) IL FANTASMA (1909). Italia, prod. Cines. (Film muto.) HAUNTED BY CONSCIENCE (1910). USA, prod. Kalem. (Film muto.) THE HAUNTED INN (1910). USA; prod. Cosmopolitan. (Film muto.) LE SPECTRE (1910). Francia, prod. Pathé. (Film muto.) THE GHOST'S WARNING (1911). USA, prod. Edison. (Film muto.) IL FANTASMA DELLA MEZZANOTTE (1911). Italia, prod. Ambrosia. (Film muto.) THE HAUNTED SENTINEL TOWER (1911). USA, prod. Edison. Interpreti: Herbert Prior e James Gordon. (Film muto.) SPOOKS (1912). USA, prod. Pathé. (Film muto.) PHANTOMS (1913), di W.E. Wing. USA, prod. Selig. (Film muto.) THE GHOST OF GRANLEIGH (1913), di Richard Ridgely. USA, prod. Edison. Interpreti: Bigelow Cooper e Laura Sawyer. (Film muto.) THE GHOST OF SELF (1913).
USA, prod. Essanay. (Film muto.) THE HAUNTED BEDROOM (1913), di Richard Ridgely. USA, prod. Edison. Interpreti: Mabel Trunnelle e Jack Strong. (Film muto.) THE PHANTOM SIGNAL (1913), di George Lessey. USA, prod. Edison. Interpreti: Charles Ogle e May Abbey. (Film muto.) FANTASMA (1914), di Charles M. Seay. USA, prod. Edison. Interpreti: George Hanlon jr. e Marie La Manna. (Film muto.) THE PHANTOM LIGHT (1914). USA, prod. Bison. (Film muto.) THE GHOST OF THE MINE (1914). USA, prod. Eclair. (Film muto.) SPIRITISTEN (1914). (Film muto.) HAUNTED (1915). USA, prod. Superba. (Film muto.) THE PHANTOM WITNESS (1915). USA, prod. Thanhouser. Interpreti: Kathryn Adams e William Burt. (Film muto.) THE GHOST FAKIRS (1915). USA, prod. Starlight. Interpreti: James Aubrey e Walter Kendig. (Film muto.) THE GHOST OF THE TWISTED OAKS (1915), di Sidney Olcott. USA, prod. Lubin. Interpreti: Valentine Grant e James Vincent. (Film muto.) THE GHOST WAGON (1915), di Joseph Franz.
USA, prod. Bison. Interpreti: Edyth Sterling e Sherman Bainbridge. (Film muto.) THE GHOST OF THE JUNGLE (1916). USA, prod. Bison. Interpreti: Rex De Rosselli ed Edyth Sterling. (Film muto.) THE GHOST OF THE RANCHO (1918), di William Worthington. USA, prod. Anderson-Brunton Co. Interpreti: Bryant Washburn e Rhea Mitchell. (Film muto.) THE GHOST OF SLUMBER MOUNTAIN (1919), di Herbert M. Dawley. USA, prod. World Pictures. Interpreti: H.M. Dawley e Willis O'Brien. (Film muto.) THE HAUNTED BEDROOM (1919), di Fred Niblo. USA, prod. Paramount. Interpreti: Enid Bennett e Dorcas Mathews. (Film muto.) PHANTOM HONEYMOON (1919), di J. Searle Dawley. USA, prod. Hallmark. Interpreti: Marguerite Marsh e Vernon Steele. (Film muto.) KORKARLEN (1919), di Victor Sjostrom. Tit. it.: Il carretto fantasma. Danimarca, prod. Svensk Bio. Interpreti: V. Sjostrom, Hilda Borgstrom e Astrid Holm. (Film muto.) HAUNTED SPOOKS (1920), di Harold Lloyd. USA, prod. Pathé. Interpreti: Harold Lloyd e Mildred Davis. (Film muto.) DER MUDE TOD (1921), di Fritz Lang Tit. it.: Le tre luci. Germania, prod. Decla Bioscop. Interpreti: Bernhard Goetzke e Lil Dagover. (Film muto.)
SPOOKS (1922), di J. White e R. Kerr. USA, prod. Mermaid. Interpreti: Lige Conley. (Film muto.) SCHATTEN (1922), di Arthur Robinson. Tit. it.: Ombre ammonitrici. Germania, prod. Pan Film. Interpreti: Fritz Kroner e Ruth Weyher. (Film muto.) THE GHOST BREAKER (1922), di Alfred Green. USA, prod. Famous Players-Lasky. Interpreti: Wallace Reid e Lila Lee. (Film muto.) AU SECOURS! (1923), di Abel Gance. Francia, prod. Gance. Interpreti: Max Linder e Gina Palerme. (Film muto.) PRIZAK BRODIT PO YEVROPE (1923). (Film muto.) LE FANTOME DU MOULIN-ROUGE (1924), di René Clair. Francia, prod. Films René Fernand. Interpreti: Albert Prejean e Sandra Milovanoff. (Film muto.) KYOREN NO ONNA SHISHO (1926), di Kendi Mizoguchi. Giappone, prod. Nikkatsu Shingekibu. Interpreti: Yoneko Sakai e Eiji Nakano. (Film muto.) HAUNTED CASTLES (1926), di Bert Cann. Inghilterra. Interpreti: Isobel Elsom e James Knight. (Film muto.) VORMITTAGSSPUK (1928), di Hans Richter. Germania, prod. Tobis. Interpreti: Darius Milhand e Jean Oser. (Film muto.) LILIOM (1930), di Franz Borzage. USA, prod. Fox. Interpreti: Rose Hobart e Charly Farrel.
GHOST PARADE (1931), di Mack Sennett. USA, prod. Sennett. Interpreti: Andy Clyde e Earle Rodney. THE PHANTOM OF CRESTWOOD (1932), di J. Walter Ruben. USA, prod. RKO. Interpreti: Ricardo Cortez e Karen Morley. DAS TESTAMENT DES CORNELIUS GUIDEN (1932), di E.W. Emo. Tit. it.: Spiriti burloni. Germania-Italia, prod. Itala Film Berlino. Interpreti: Magda Schneider, Herbert Thiming e George Alexander. HAUNTED GOLD (1933), di Mack V. Wright. USA, prod. Warner Bros. Interpreti: John Wayne e Sheila Terry. LA LLORONA (1933), di Ramòn Peon. Messico, prod. Eco Films. Interpreti: Ramòn Pereda e Virginia Zuri. SUPERNATURAL (1933), di Victor Halperin. USA, prod. Paramount. Interpreti: Carole Lombard e Randolph Scott. EL FANTASMA DEL CONVENTO (1934), di Fernando Fuentes. Messico, prod. Fesa. Interpreti: Tin Tan e Ana Luisa. LILIOM (1934), di Fritz Lang. Tit. it.: La leggenda di Liliom. Francia, prod. Fox Europa. Interpreti: Charles Boyer e Madeline Ozeray. THE GHOST WALKS (1934), di Frank Strayer. USA, prod. Invincible. Interpreti: John Mildan e June Collyer. THE SCOUNDREL (1935), di Ben Hecht e Charles Mac Arthur. USA, prod. Paramount. Interpreti: Noel Coward e Julie Haydon. THE GHOST GOES WEST (1936), di René Clair. Tit. it.: Il fantasma galante. Inghilterra, prod. Korda. Interpreti: Jean Parker e Robert Donat. FAEHRMANN MARIA (1936), di Frank Wisbar. Germania, prod. Pallas Film.
Interpreti: Sybille Schmitz e Peter Voss. TOPPER (1937), di Norman McLeod. Tit. it.: La via dell'impossibile. USA, prod. MGM. Interpreti: Constance Bennett e Cary Grant. GHOST TALES RETOLD (1938), di Widgey R. Newman. Inghilterra, British A.I.P. Interpreti: Hal Walters e Ian Fleming. LA CHARRETTE FANTOME (1939), di Julien Duvivier. Tit. it.: Il carro fantasma. Francia, prod. Transcontinental. Interpreti: Marie Bell e Pierre Fresnay. TOPPER TAKES A TRIP (1939), di Norman McLeod Tit. it.: Viaggio nell'impossibile. USA, prod. United Artists. Interpreti: Constance Bennett e Roland Young. INCANTO DI MEZZANOTTE (1940), di Mario Baffico. Italia, prod. Diana. Interpreti: Germana Paolieri e Enzo Biliotti. BEYOND TOMORROW (1940), di Edward Sutherland. Tit. it.: Al di là del domani. USA, prod. RKO. Interpreti: Jean Parker, Charles Winninger e Richard Carlson. THE GHOST BREAKERS (1940), di George Marshall. Tit. it.: La donna e lo spettro. USA, prod. Paramount. Interpreti: Bob Hope e Paulette Goddard. GHOST TRAIN (1941), di Walter Forde. Inghilterra. ALL THAT MONEY CAN BUY (1941), di William Dieterle. Tit. it.: L'oro del demonio. USA, prod. RKO. Interpreti: Walter Houston, Edward Arnold e Simone Simon. TOPPER RETURNS (1941), di Roy Del Ruth. Tit. it.: Una bionda in paradiso. USA, prod. United Artists. Interpreti: Joan Blondell e Dennis O'Keefe. HOLD THAT GHOST (1941), di Arthur Lubin.
Tit. it.: L'inafferrabile spettro. USA, prod. Universal. Interpreti: Bud Abbott e Lou Costello. L'ALLEGRO FANTASMA (1941), di Amleto Palermi. Italia, prod. Capitani-Fono Roma. Interpreti: Totò e Amelia Chellini. SPOOKS RUN WILD (1941), di Phil Rosen. Tit. it.: Spettri all'arrembaggio. USA, prod. Monogram. Interpreti: Bela Lugosi e Dorothy Short. HERE COMES MR. JORDAN (1941), di Alexander Hall. Tit. it.: L'inafferrabile signor Jordan / Mille cadaveri per Mr. Jordan. USA, prod. Columbia. Interpreti: Loretta Young e Melvyn Douglas. C'È UN FANTASMA NEL CASTELLO (1941), di Giorgio Simonelli. Italia, prod. Stella-Invicta. Interpreti: Virgilio Riento e Silvana Jachino. DAS GESPENSTERHAUS (1942), di Franz Schneyder. Tit. it.: La casa dei fantasmi. Svizzera. Interpreti: B. Aubrey e Alfred Rasser. FANTASMAS EN BUENOS AIRES (1942), di Enrique S. Discépolo. Argentina, prod. Sono. Interpreti: Pepe Arias e Zully Moreno. GHOSTS ON THE LOOSE (1943), di William Beaudine. USA, prod. Monogram. Interpreti: Bela Lugosi e gli East Side Kids. A GUY NAMED JOE (1943), di Victor Fleming. Tit. it.: Joe il pilota. USA, prod. MGM. Interpreti: Spencer Tracy e Irene Dunne. GHOST AND GUEST (1943), di William Nigh. Tit. it.: Lo spettro in viaggio di nozze. USA, prod. PRC. Interpreti: Florence Rice e James Dunn. BLITHE SPIRIT (1944), di David Lean. Tit. it.: Spirito allegro. Inghilterra, prod. Two Cities.
Interpreti: Rex Harrison, Kay Hammond e C. Cummings. IT HAPPENED TOMORROW (1944), di René Clair. Tit. it.: Accadde... domani / Avvenne domani / Ora X: colpo sensazionale. USA, prod. United Artists. Interpreti: Dick Powell e Linda Darnell. THE UNINVITED (1944), di Lewis Alien. Tit. it.: La casa sulla scogliera. USA, prod. Paramount. Interpreti: Ray Milland e Gail Russell. CURSE OF THE CAT PEOPLE (1944), di Robert Wise e Gunther Von Fritch. Tit. it.: Il giardino delle streghe. USA, prod. RKO. Interpreti: Simone Simon e Kent Smith. THE CANTERVILLE GHOST (1944), di Jules Dassin. Tit. it.: Lo spettro di Canterville. USA, prod. Field. Interpreti: Charles Laughton e Robert Young. GHOST CATCHERS (1944), di Eddie Cline. Tit. it.: Caccia al fantasma. USA, prod. Hartmann. Interpreti: Olsen Johnson e Lon Chaney jr. GHOST CRAZY (1944), di William Beaudine. USA. Interpreti: Billy Gilbert, Shemp Howard e Jayne Hazard. SYLVIE ET LE FANTOME (1945), di Claude Autant-Lara. Tit. it.: Solo una notte. Francia, prod. André Paulve. Interpreti: Odette Joyeux e Jacques Tati. WONDER MAN (1945), di Bruce Humberstone. Tit. it.: L'uomo meraviglia. USA, prod. Goldwyn. Interpreti: Danny Kaye e Virginia Mayo. THAT'S THE SPIRIT (1945), di Charles Lamont. Tit. it.: La meraviglioso illusione. USA, prod. Universal. Interpreti: Jack Oackie e Peggy Ryan.
THE UNSEEN (1945), di Lewis Allen. Tit. it.: Il fantasma. USA, prod. Paramount. Interpreti: Joel McCrea e Gail Russell. DEAD OF NIGHT (1945), di A. Cavalcanti, C. Chrichton, B. Dearden e R. Hamer (episodio: Storia di Natale di Cavalcanti). Inghilterra, prod. Ealing Studios. Interpreti: Frederick Valk e Mervyn Johns. ANGEL ON MY SHOULDER (1946), di Archie Mayo. Tit. it.: L'infernale avventura. USA, prod. United Artists. Interpreti: Paul Muni, Claude Rains e Ann Baxter. LA REBELION DE LOS FANTASMAS (1946), di Adolfo Fernandez Bustamante. Messico, prod. Producion de Peliculas. Interpreti: Amanda Ledesma e Gilbert Roland. THE TIME OF THEIR LIVES (1946), di Charles Barton. Tit. it.: Se ci sei batti due colpi. USA, prod. Universal. Interpreti: Bud Abbott e Lou Costello. STAIRWAY TO HEAVEN / A MATTER OF LIFE AND DEATH (1946), di Michael Powell. Tit. it.: Scala al paradiso. Inghilterra, prod. Eagle Lion. Interpreti: David Niven e Kim Hunter. DOWN TO EARTH (1947), di Alexander Hall. Tit. it.: Bellezze in cielo. USA, prod. Don Hartman. Interpreti: Rita Hayworth e Larry Parks. THE GHOSTS OF BERKELEY SQUARE (1947), di Vernon Sewell. Inghilterra. Interpreti: Robert Morley e Felix Aylmer. HEAVEN ONLY KNOWS (1947), di Albert S. Rogell. Tit. it.: Solo il cielo lo sa. USA. Interpreti: Robert Cummings e Brian Donlevy. THE GHOST GOES WILD (1947), di George Blair. USA, prod. Republic.
Interpreti: James Ellison e Ann Gwynne. THE GHOST AND MRS. MUIR (1947), di Joseph Mankiewicz. Tit. it.: Il fantasma e la signora Muir. USA, prod. Fox. Interpreti: Rex Harrison e Gene Tierney. THAT LADY IN ERMINE (1948), di Ernst Lubitsch. Tit. it.: La signora in ermellino. USA, prod. Fox. Interpreti: Betty Grable, Douglas Fairbanks jr. e Caesar Romero. THE PORTRAIT OF JENNIE (1949), di William Dieterle. Tit. it.: Il ritratto di Jennie. USA, prod. Selznick. Interpreti: Jennifer Jones e Joseph Cotten. LES JEUX SONT FAITS (1949), di Jean Delannoy. Tit. it.: Risorgere per amore. Francia. Interpreti: Micheline Presle e Charles Dullin. SHINSHAKU YOTSUYA KAIDAN (1949), di Keisuke Kinoshita. Giappone, prod. Shochiku. Interpreti: Kinnyo Tanaka e Ken Uehara. THE FATAL NIGHT (1949), di Mario Zampi. Inghilterra, prod. Anglo Film. Interpreti: Lester Ferguson e Jean Short. THE GHOST TALKS (1949), di Jules White. USA, prod. Columbia. Interpreti: The Three Stooges e Kenneth McDonald. QUEL FANTASMA DI MIO MARITO (1950), di Camillo Mastrocinque. Italia, prod. Briguglio. Interpreti: Walter Chiari ed E. Almirante. LA PAURA FA 90! (1951), di Giorgio Simonelli. Italia, prod. Edic. Interpreti: Ugo Tognazzi e Silvana Pampanini. IL MEDIUM (1951), di Giancarlo Menotti. Italia, prod. Trans. Film. Interpreti: Marie Powers e Anna Maria Alberghetti. GHOST CHASERS (1951), di William Beaudine. USA, prod. Monogram.
Interpreti: Leo Gorey e Huntz Hall. PANDORA AND THE FLYING DUTCHMAN (1951), di Albert Lewin. Tit. it.: Pandora. USA-Inghilterra, prod. British Lion, Romulus. Interpreti: Ava Gardner e James Mason. GHOST SHIP (1952), di Vernon Sewell. Inghilterra, prod. Abtcon Pictures. Interpreti: Dermonth Walsh e Hazel Court. IL RICHIAMO NELLA FORESTA / GLI AMANTI DELL'INFINITO / ...E LE STELLE NON ATTESERO INVANO (1952), di Oreste Palella. Italia, prod. Eros. Interpreti: Silvana Pampanini e Renato Baldini. NON È MAI TROPPO TARDI (1953), di Filippo Ratti (dal Racconto di Natale di Charles Dickens). Italia. Interpreti: Paolo Stoppa e Marcello Mastroianni. UGETSU MONOGATARI (1953), di Kenji Mizoguchi. Tit. it.: I racconti della luna pallida d'agosto. Giappone, prod. Daiei. Interpreti: Machiko Kyo e Kinuyo Tanaka. SCARED STIFF (1953), di George Marshall (remake di The Ghost Breakers). Tit. it.: Morti di paura. USA, prod. Paramount. Interpreti: Dean Martin e Jerry Lewis. EL FANTASMA DE LA CASA ROJA (1954), di Miguel Delgado. Messico, prod. Chapultepec. Interpreti: Alma Aguirre e Victor Alcocer. BRIGADOON (1954), di Vincent Minnelli. Tit. it.: Brigadoon. USA, prod. MGM. Interpreti: Gene Kelly, Van Johnson e Cyd Charisse. QUESTI FANTASMI (1954), di Eduardo De Filippo. Italia, prod. San Ferdinando. Interpreti: Renato Rascel e Maria Frau. O'LEARY NIGHT (1954), di Mario Zampi. Inghilterra, prod. Associated British.
Interpreti: David Niven e Yvonne De Carlo. LOS MISTERIOS DE ULTRETUMBA (1955), di Fernando Mendez. Tit. it.: I misteri dell'Oltretomba. Messico. Interpreti: Caroline Barret e Antony Raxel. CAROUSEL (1956), di Henry King. Tit. it.: Carousel. USA, prod. Fox. Interpreti: G. McRae e S. Jones. KAIDAN KASANEGAFUCHI (1957), di Nobuo Nakagawa. Giappone, prod. Shintoho. Interpreti: Katsuko Wakasugi e Takashi Wada. I'VE LIVED BEFORE (1957), di Richard Bartlett. Tit. it.: L'uomo che visse due volte. USA. Interpreti: Jack Mahoney e Leigh Snowden. NIGHT OF THE GHOULS (1958), di Edward D. Wood jr. USA. Interpreti: Kenne Duncan e Criswell. FANTASMI E LADRI (1958), di Giorgio Simonelli. Italia, prod. Jonia. Interpreti: Tina Pica, Mario Riva e Ugo Tognazzi. AMA NO BAKEMONO YASHIKI (1959), di Morihei Magatani. Giappone, prod. Shintoho. Interpreti: Yoko Mihara e Bunta Sugawara. CHTEN-NU YU-HIN (1959), di Li Hanxiang. Hong Kong, prod. Shaw Brothers. Interpreti: Le Di e Zhano Lei. THE HEADLESS GHOST (1959), di Peter Graham Scott. Inghilterra, prod. Merton Park. Interpreti: Richard Lyon e Liliane Sottane. TOKAIDO YOTSUYA KAIDAN (1959), di Nobuo Nakagawa. Giappone, prod. Shintoho. Interpreti: Shigern Amachi e Norilo Kitazawa. THE GHOST OF DRAGSTRIP HOLLOW (1959), di William Hole Jr. USA, prod. American International Pictures. Interpreti: Jody Fair, Paul Blaisdell e Martin Braddock. DAS SPUKSCHLOSS IM SPESSART (1960), di Kurt Hoffman.
Tit. it.: La ballata dei fantasmi. Germania, prod. Witt. Interpreti: Liselotte Pulver e Heinz Baumann. THE HOUSE IN MARSH ROAD / THE INVISIBLE CREATURE (1960), di Montgomery Tully. Inghilterra, prod. Eternal. Interpreti: Tony Wright e Patricia Dainton. KAIBYO OTAMAGE IKE (1960), di Yoshihiro Ishikawa. Giappone, prod. Shintoho. Interpreti: Shozaburo Date e Noriko Kitazawa. TORMENTED (1960), di Bert. I. Gordon. Tit. it.: Il delitto del faro. USA, prod. Allied Artists. Interpreti: Richard Carlson e Juli Reding. 13 GHOSTS (1960), di William Castle. USA, prod. Castle. Interpreti: David Woods e Charles Herbert. THE INNOCENTS (1961), di Jack Clayton. Tit. it.: Suspense. Inghilterra, prod. Clayton-Fox. Interpreti: Deborah Kerr e Peter Wyngarde. FANTASMI A ROMA (1961), di Antonio Pietrangeli. Italia, prod. Lux-Vides-Galatea. Interpreti: Marcello Mastroianni ed Eduardo De Filippo. LA RAGAZZA SOTTO IL LENZUOLO (1961), di Marino Girolami. Italia, prod. M.G. Interpreti: Walter Chiari e Chelo Alonso. THE CURSE OF THE CRYING WOMAN (1961), di Rafael Baledon. Messico. Interpreti: Rosita Arenas e Abel Salazar. CARNIVAL OF SOULS (1962), di Hark Harvey. USA, prod. Harcourt. Interpreti: Candance Hilligoss e Frances Feist. THE HAUNTING (1963), di Robert Wise. Tit. it.: Gli invasati. USA, prod. Wise, MGM. Interpreti: Julie Harris e Richard Johnson. LA FRUSTA E IL CORPO (1963), di Mario Bava.
Italia, prod. Fox, Leone, Francinor. Interpreti: Christopher Lee e Dahlia Levi. I TRE VOLTI DELLA PAURA (1963), di Mario Bava (episodio «La Goccia»). Italia, prod. Galatea, Emmepi. Interpreti: Jacqueline Pierreux e Milly Monti. GOODBYE CHARLIE (1964), di Vincente Minnelli. Tit. it.: Ciao Charlie. USA, prod. Weisbart-Fox. Interpreti: Tony Curtis e Debbie Reynolds. DANZA MACABRA - TERRORE (1964), di Antonio Margheriti. Italia, prod. Addessi. Interpreti: Barbara Steele e George Riviere. KAIDAN (1964), di Masaki Kobayashi. Tit. it.: Kwaidan. Giappone, prod. Ninjin/Bungei. Interpreti: Rentaro Mikuni e Michiyo Aratama. LOS FANTASMAS BURLONES (1964), di Rafael Baledon. Messico, prod. Sotomayor. Interpreti: M. Lopez e Tin Tan. HAUNTED: THE FERRYMAN (1963), di John Irvin. USA. Interpreti: Jeremy Brett, Natasha Parry e Leslie Dunlop. AMANTI D'OLTRETOMBA (1965), di Mario Caiano. Italia, prod. Emmeci. Interpreti: Barbara Steele e Paul Muller. YOTSUYA KAIDAN (1965), di Shiro Toyoda. Giappone, prod. Tokyo Eiga. Interpreti: Tatsuya Nakadai e Mariko Okada. DER FLIEGENDE HOLLANDER (1965), di Joachim Herz. Germania, prod. Kabitzke. Interpreti: Anna Pruenal e Fred Duren. OPERAZIONE PAURA (1966), di Mario Bava. Italia, prod. FLP. Interpreti: Giacomo Rossi Stuart ed Erika Blanc. THE GHOST GOES GEAR (1966), di Hugh Gladwish. Inghilterra, prod. British Pathé. Interpreti: Spencer Davis Group, Steve Winwood e Lorne Gibson.
LA VENDETTA DI LADY MORGAN (1966), di Massimo Pupillo. Italia, prod. Morgan. Interpreti: Gordon Mitchell ed Erika Blanc. 5 TOMBE PER UN MEDIUM (1966), di Massimo Pupillo. Italia, prod. MBS. Interpreti: Barbara Steele e Walter Brandi. LA LUNGA NOTTE DI VERONIQUE (1966), di Gianni Vernuccio. Italia, prod. Mercurfilm. Interpreti: Aba Rigazzi e Alex Morrison. PICTURE MOMMY DEAD (1966), di Bert I. Gordon. Tit. it.: La bambola di pezza. USA. Interpreti: Don Ameche, Martha Hyer e Zsa Zsa Gabor. THE GHOST AND MR. CHICKEN (1966), di Alan Rafkin. Tit. it.: 7 giorni di fifa. USA, prod. Edward Montagne. Interpreti: Don Knotts e Hope Summers. THE GHOST IN THE INVISIBLE BIKINI (1966), di Don Weiss. Tit. it.: Il castello delle donne maledette. USA, prod. American International Pictures. Interpreti: Boris Karloff e Deborah Walley. BLACKBEARD'S GHOST (1967), di Robert Stevenson. Tit. it.: Il fantasma del pirata Barbanera. USA, prod. Walt Disney. Interpreti: Peter Ustinov e Dean Jones. QUESTI FANTASMI (1967), di Renato Castellani. Italia, prod. Carlo Ponti. Interpreti: Sophia Loren e Vittorio Gassman. LA RAGAZZA DEL BERSAGLIERE (1967), di Alessandro Blasetti. Italia, prod. Rizzoli. Interpreti: Graziella Granata e Renato Salvatori. THE SPIRIT IS WILLING (1967), di William Castle. Tit. it.: Il fantasma ci sta. USA, prod. W. Castle. Interpreti: Sid Caesar e Vera Miles. KAIDAN BOTANDORO (1967), di Satsuo Yamamoto. Giappone, prod. Daiei. Interpreti: Kojira Honga e Miyoko Akaza.
KAIDAN YUKIGORO (1967), di Tokuzo Tanaka. Giappone, prod. Daiei. Interpreti: Shino Fujimura e Akira Ishihama. KAIDAN ZANKOKU MONOGATARI (1967), di Kazuo Hase. Giappone, prod. Shochiku. Interpreti: Matsuhiro Tomura e Nobuo Kaneko. YOKAI DAISENSO (1967), di Yoshiyuki Kuroda. Giappone, prod. Daiei. Interpreti: Yoshihiko Aoyama e Akane Kawasaki. YOKAI HYAKU MONOGATARI (1967), di Kimiyoshi Yasuda. Giappone, prod. Daiei. Interpreti: Jun Fujimaki e Miwa Takada. UN TRANQUILLO POSTO DI CAMPAGNA (1968), di Elio Petri. Italia. Interpreti: Franco Nero e Vanessa Redgrave. THE UNNATURALS - CONTRONATURA (1969), di Antonio Margheriti. Italia, prod. SIP, EDO, ecc. Interpreti: Luciano Pigozzi e Dominique Boschero. HIROKU KAIBYODEN (1969), di Tokuzo Tanaka. Giappone, prod. Daiei. Interpreti: Kojiro Hongo e Naomi Kobayashi. YOTSUYA KAIDAN (1969), di Issei Mori. Giappone, prod. Daiei. Interpreti: Kei Sato e Kazuko Inano. SCROOGE (1970), di Ronald Neame. Tit. it.: La più bella storia di Dickens. Inghilterra-USA, prod. Waterbury-Titanus. Interpreti: Alec Guinness e Kenneth Moore. VENUS IN FURS / PAROXISMUS (1970), di Jesus Franco. Tit. it.: Paroxismus (Può una morta rivivere per amore?). Italia-Germania-Inghilterra, prod. Terra-Towers-Cineproduzioni Ass. Interpreti: James Darren e Barbara MacNair. SHE WAITS (1971), di Delbert Mann. USA. Interpreti: Patty Duke e David McCallum. THE NIGHT COMERS (1971), di Michael Winner. Tit. it.: Improvvisamente un uomo nella notte.
USA, prod. Kastener, Ladd, Kanter, Scimitar. Interpreti: Marion Brando e Stephane Beacham. NELLA STRETTA MORSA DEL RAGNO (1971), di Antonio Margheriti, remake di Danza macabra-Terrore. Italia, prod. DC7, Paris-Cannes, Terra. Interpreti: Anthony Franciosa e Michèle Mercier. MYONURIUI HAN (1971), di Park Yoon Kyo. Corea, prod. Dae Yang Film. Interpreti: Yoon Mira e Paek Il Sub. NIGHT OF DARK SHADOWS (1971), di Dan Curtis. Tit. it.: La casa delle ombre maledette. USA, prod. MGM-D. Curtis Prods. Interpreti: David Selby e Lara Parker. QUALCOSA STRISCIA NEL BUIO (1971), di Mario Colucci. Italia, prod. Akla Product. Interpreti: Farley Granger e Lucia Bosé. THE OTHER (1972), di Robert Mulligan. Tit. it.: Chi è l'altro? USA, prod. Benchmark. Interpreti: Uta Hagen e Diana Muldaur. THE POSSESSION OF JOEL DELANEY (1972), di Waris Hussein. Tit. it.: Possession. USA. Interpreti: Shirley Mac Laine e Perry King. THE AMAZING MR. BLINDEN (1972), di Lionel Jeffries. Tit. it.: L'incredibile signor Blinden. Inghilterra. Interpreti: Laurence Naismith e Lynne Frederick. SPIRIT OF THE DEAD / THE ASPHYX (1972), di Peter Newbrook. Tit. it.: Asphyx. Inghilterra. Interpreti: Robert Stephens e Carol Ohmart. NEITHER THE SEA, NOR THE SAND (1972), di Fred Burnley. Tit. it.: Né mare né sabbia. Inghilterra. Interpreti: Susan Hampshire e Frank Finlay. DEATHDREAM / DEAD OF NIGHT (1972), di Bob Clarke. Canada.
Interpreti: John Marley e Lynn Carlin. LA MORTE INCERTA (1973), di José Ramon Larraz. Italia-Spagna. Interpreti: Raffaele Curi e Rosalba Neri. TALES FROM THE CRYPT (1973), di Freddie Francis. Tit. it.: Racconti dalla tomba. Inghilterra, prod. Amicus. Interpreti: Joan Collins e Peter Cushing. GHOST IN THE NOONDAY SUN (1973), di Peter Medak. Inghilterra. Interpreti: Peter Sellers, Spike Milligan, Anthony Franciosa e Peter Boyle. THE HAUNTING OF ROSALIND (1973). USA Interpreti: Susan Sarandon e Pamela Payton-Wright. THE LEGEND OF HELL HOUSE (1973), di John Hough. Tit. it.: Dopo la vita. USA, prod. Nicholson-Fox. Interpreti: Pamela Franklin e Roddy McDowall. VOICES (1973), di Kevin Billington. Tit. it.: E se oggi... fosse già domani? / Presenze. Inghilterra, prod. Morden. Interpreti: David Hemmings e Gayle Hunnicutt. LA TERRIFICANTE NOTTE DEL DEMONIO (1973), di Jean Brismée. Italia-Belgio, prod. Delfino-Cetelci. Interpreti: Erika Blanc e Jean Servais. PATAYIN MO SA SINDAK SI BARBARA (1973), di Celso da Castillo. Filippine, prod. Rosas. Interpreti: Susan Roces e Dante Rivero. HAUNTS OF THE VERY RICH (1973), di Paul Wendoks. USA. Interpreti: Lloyd Bridges e Anne Francis. THE HAUNTING OF PENTHOUSE D (1974), di Henry Kaplan. USA. Interpreti: David Birney e Farley Granger. WHISKY E FANTASMI (1974), di Antonio Margheriti. Italia, prod. Champion e Cipi.
Interpreti: Tom Scott e Maribel Martin. YIN-YANG CHIEH (1974), di Ting Shan-Hsi. Hong Kong, prod. Fong Ming Company. Interpreti: Shih Tien e Shirley Huang. THE GHOSTS OF HANLEY HOUSE (1974). Inghilterra. Interpreti: Elsie Baker e Barbara Chase. GHOST HUNTER (1975), di Flavio Migliaccio, (ispirato al Fantasma di Canterville di Oscar Wilde). Brasile. Interpreti: Flavio Migliaccio. THE GHOSTBUSTERS (1975), di Norman Abbott. USA. Interpreti: Forrest Tucker e Larry Storch. POOR GIRL, A GHOST STORY (1975), di Michael Apted. USA. Interpreti: Lynne Miller e Stuart Wilson. THE REINCARNATION OF PETER PROUD (1975), di J. Lee Thompson. Tit. it.: Lo strano caso di Peter Proud. USA. Interpreti: Michael Sarrazin, Jennifer O'Neill e Margot Kidder. SHADOW OF THE HAWK (1976), di George McGowan. USA. Interpreti: Jan-Michael Vincent e Marilyn Hassett. HAUNTED (1976), di Michael De Gaetano. Inghilterra. Interpreti: Aldo Ray. UN SUSSURRO NEL BUIO (1976), di Marcello Aliprandi. Italia. Interpreti: Lucretia Love e Joseph Cotten. CATHY'S CURSE (1976), di Eddy Matalon. USA. Tit. it.: Maledetto sortilegio. Interpreti: Alan Scarte e Randy Allen. J.D.'S REVENGE (1976), di Arthur Marks. USA. Interpreti: Glynn Turman e Lou Gossett Jr.
FULL CIRCLE / THE HAUNTING OF JULIA (1976), di Richard Loncraine. Tit. it.: Il demonio dalla faccia d'angelo. Canada-Inghilterra, prod. Fetter e Classic Films. Interpreti: Mia Farrow. BURNT OFFERINGS (1976), di Dan Curtis. Tit. it.: Ballata macabra. Inghilterra-USA, prod. Pea Film e Curtis Productions. Interpreti: Oliver Reed, Karen Black e Bette Davis. AUDREY ROSE (1977), di Robert Wise. Tit. it.: Audrey Rose. USA. Interpreti: Marsha Mason e Anthony Hopkins. GHOSTS THAT STILL WALK (1977), di James T. Flocker. USA. DONA FLOR Y SEUS DOIS MARIDOS (1977), di Bruno Barreto. Tit. it.: Donna Flor e i suoi due mariti. Brasile. Interpreti: Sonia Braga e José Wilker. SHOCK (1977), di Mario Bava. Italia, prod. Laser Film. Interpreti: Daria Nicolodi e John Steiner. RUBY (1977), di Curtis Harrington. Tit. it.: Ruby. USA, prod. Krantz. Interpreti: Piper Laurie e Stuart Whitman. IE (1977), di Nobuhiko Obayashi. Giappone, prod. Toho. Interpreti: Kimiko Ikegami e Kumiko Oda. AI NO BOREI (1978), di Nagisa Oshima. Tit. it.: L'impero della passione. Giappone, prod. Ongk. Interpreti: Tai Wonjg e Cij Tsuara. LES INCONNUS AUX PETITS PIEDS (1978), di Sergio Gobbi. Tit. it.: Enfantasme. Francia, prod. Gobbi. Interpreti: Agostina Belli e S.S. Flores. HEAVEN CAN WAIT (1978), di Warren Beatty, remake di Here
Comes Mr. Jordan. Tit. it.: Il paradiso può attendere. USA, prod. Paramount. Interpreti: Warren Beatty e Julie Christie. THE EVIL (1978), di Gus Trikonis. USA, prod. Rangoon. Interpreti: Richard Crenna e Joanna Pettet. THE GHOST OF FLIGHT 401 (1978), di Steven Hilliard. USA. Interpreti: Ernest Borgnine, Kim Basinger e Gary Lockwood. GEPPO IL FOLLE (1978), di Adriano Celentano. Italia. Interpreti: Adriano Celentano, Claudia Mori, Jennifer. LE STELLE NEL FOSSO (1979), di Pupi Avati. Italia. Interpreti: Lino Capolicchio e Roberta Paladini. SHANGZHONG CHUANGI (1979), di King Hu. Hong Kong, prod. Huang Zhuohan. Interpreti: Shi Jun e Hsu Feng. THE EVICTORS (1979), di Charles B. Pierce. USA. Interpreti: Jessica Harper e Vic Morrow. THE HAUNTING OF M (1979), di Anna Thomas. Inghilterra. Interpreti: Sheelagh Gilbey e Nini Pitt. THE AMITYVILLE HORROR (1979), di Stuart Rosenberg. Tit. it.: Amityville Horror. USA, prod. American International Pictures. Interpreti: James Brolin e Margot Kidder. THE FOG (1979), di John Carpenter. Tit. it.: Fog. USA, prod. Debra Hill Prods. Interpreti: Adrienne Barbeau e Tom Atkins. THE CHANGELING (1979), di Peter Medak. Tit. it.: Changeling. Canada, prod. Chessman Palk Prod. Interpreti: George C. Scott e Trish Van Devere. YUHUO FENQUIN (1979), di Lan Shing-Hon.
Hong Kong, prod. Hung Way. Interpreti: Yun Tat-Wah e Kwan Koi-Sham. MACABRO (1980), di Lamberto Bava. Italia, prod. Pupi Avati. Interpreti: Bernice Steegers e Roberto Posse. THE NESTING / PHOBIA (1980), di Armand Weston. USA, prod. Nesting Co. Interpreti: Robin Groves e Christopher Loomis. SOBRENATURAL (1980), di Eugenio Martin. Spagna, prod. Kalendar, Aquarius, Paraguas. Interpreti: Maximo Valverde e Cristina Galbo. YO (1980), di Kim Young Hyo. Corea, prod. Wha Pung Co. Interpreti: Choo Rynn Kim e Soo Young Ran. THE WATCHER IN THE WOODS (1980), di John Hough. Tit. it.: Gli occhi del parco. USA, prod. Walt Disney. Interpreti: Bette Davis e Carroll Baker. GHOSTKEEPER (1980). Canada. Interpreti: Riva Spier e Murray Ord. HOUSE OF THE DEAD (1980), di Knute Allmendinger. USA. Interpreti: John Erik Erickson e Bernard Fox. BEYOND EVIL (1980), di Herb Freed. USA. Interpreti: John Saxon e Lynda Day George. MANGRYONGUI KOK (1980), di Park Yoon Kyo. Corea, prod. Dee Yang Co. Interpreti: Chung Se Y Hyuk e Chi Mi Ok. XIE (1980), di Gui Zhihong. Hong Kong, prod. Shaw Brothers. Interpreti: Wang Jung e Han Kuo-Tsai. THE SHINING (1980), di Stanley Kubrick. Tit. it.: Shining. USA-Inghilterra, prod. Kubrick-Warner Bros. Interpreti: Shelley Duvall e Jack Nicholson. DEATHSHIP (1980), di Alvin Rakoff.
Tit. it.: La nave fantasma. USA. Interpreti: George Kennedy e Sally Ann Howes. XIONG BONG (1981), di Dennis Yu. Hong Kong, prod. Wond Shan-Sin. Interpreti: Chin Hsiang-lin. THE SURVIVOR (1981), di David Hemmings. Tit. it.: L'aereo maledetto. Australia. Interpreti: Robert Powell e Jenny Agutter. ASSO (1981), di Castellano & Pipolo. Italia. Interpreti: Adriano Celentano ed Edwige Fenech. L'ALDILÀ - E TU VIVRAI NEL TERRORE (1981), di Lucio Fulci. Italia. Interpreti: Catherine McColl e David Warbeck. BOLLENTI SPIRITI (1981), di Giorgio Capitani. Italia. Interpreti: Johnny Dorelli e Gloria Guida. GUI DA GUI (1981), di Samo Hung. Hong Kong, prod. Bo Ho Film e Golden Harvest. Interpreti: Samo Hung e Chenng Fat. HANNYO (1981), di Lee Yoo Sub. Corea, prod. Dong Hyuop Corp. Interpreti: Choi Suk e Lim Chung Ha. SAMWONNYO (1981), di Kim Si Hyun. Corea, prod. Yun Bang Films. Interpreti: Lee Ye Min e Choi Hyo Sun. C'È UN FANTASMA NEL MIO LETTO (1981), di Claudio De Molinis. Italia, prod. Telecinema 80, Victory Film. Interpreti: Lilli Carati, Renzo Montagnani e Luciana Turina. FANTASMA D'AMORE (1981), di Dino Risi. Italia. Interpreti: Romy Schneider e Marcello Mastroianni. GHOST STORY (1982), di John Irvin. Tit. it.: Storie di fantasmi. USA.
Interpreti: Fred Astaire e Alice Krige. AMITYVILLE II: THE POSSESSION (1982), di Damiano Damiani. Tit. it.: Amityville Possession. USA, prod. Orion, De Laurentiis, Media Tech. Interpreti: James Olson e Burt Young. POLTERGEIST (1982), di Tobe Hooper. Tit. it.: Poltergeist-Demoniache presenze. USA, prod. MGM. Interpreti: Craig Nelson, Jobeth Williams e Heather O'Rourke. LA CASA STREGATA (1982), di Bruno Corbucci. Italia. Interpreti: Renato Pozzetto e Gloria Guida. ENTITY (1982), di Sidney J. Furie. Tit. it.: Entity. USA, prod. Pelleport Investors. Interpreti: Barbara Hershey e Ron Silver. THE HOUSE WHERE EVIL DWELLS (1982), di Kevin Connor. Tit. it.: La casa del male. USA, prod. Cohen Features. Interpreti: Edward Albert e Susan George. HUSID (1982), di Egill Edwardsson. Islanda, prod. Saga Film. Interpreti: Lilda Thorisdottir e Johann Sigurdarson. GHOST DANCE (1982), di Peter Buffa. USA. Interpreti: Henry Ball e Julie Amato. KISS ME GOODBYE (1982), di Robert Mulligan. Tit. it.: C'è un fantasma tra noi due. USA. Interpreti: Sally Field e James Caan. LA VILLA DELLE ANIME MALEDETTE (1982), di Carlo Ausino. Italia. Interpreti: Beba Loncar e Jean-Pierre Aumont. AMITYVILLE 3-D: THE DEMON (1983), di Richard Fleischer. Tit. it.: Amityville 3-D. USA, prod. Orion-De Laurentiis. Interpreti: Eddie Chan e Anna Ho. CHRISTINE (1983), di John Carpenter.
Tit. it.: Christine, la macchina infernale. USA. Interpreti: Keith Gordon e Harry Dean Stanton. GUI AN YAN (1983), di Henry Chan. Hong Kong, prod. Clic Ltd. Prods. Interpreti: Eddie Chan e Anna Ho. THE HAUNTING PASSION (1983), di John Korty. USA, Interpreti: Jane Seymour e Ruth Nelson. GHOSTBUSTERS (1984), di Ivan Reitman. Tit. it.: Ghostbusters - Gli acchiappafantasmi. USA, prod. Columbia-Delphi. Interpreti: Dan Aykroyd e Bill Murray. ALISON'S BIRTHDAY (1984), di Ian Coughlan. Australia. Interpreti: Joanne Samuel e Lou Brown. ALL OF ME (1984), di Carl Reiner. Tit. it.: Ho sposato un fantasma. USA. Interpreti: Steve Martin e Lily Tomlin. ROCKTOBER BLOOD (1984), di F. e B. Sebastian. Tit. it.: Sette note di terrore. USA. Interpreti: Tray Loren e Donna Scoggins. SCREAMTIME (1984), di Al Beresford (film a episodi, fantasmi nel terzo episodio). Tit. it.: Brividi di paura. Inghilterra. Interpreti: Robin Bailey e Ann Lynn. THE DEMON OF LUDLOW (1984), di Bill Rebane. USA Interpreti: Paul Von Hausen. SOLE SURVIVOR (1985), di Thom Eberhardt (remake di The Survivor / L'aereo maledetto). USA. Interpreti: Anita Skinner e Kurt Johnson. WITCHING TIME (1985), di Don Leaver. Inghilterra.
Interpreti: Jon Finch, Ian McCulloch e Patricia Quinn. MEDIUM (1985), di Jacek Koprawiez. Tit. it.: Mysteria: replica di un omicidio. Polonia. Interpreti: W. Kowalsky e M. Bajor. PICCOLI FUOCHI (1985), di Peter Del Monte. Italia, prod. Claudio Argento. Interpreti: Dino Jaksic e Valeria Golino. RETRIBUTION (1986), di Guy Magar. USA. Interpreti: Dennis Lipscomb e Leslie Wing. SHADOW PLAY (1986), di Susan Shadburne. USA. Interpreti: Dee Wallace e Cloris Leachman. NOMADS (1986), di John McTiernan. Tit. it.: Nomads. USA. Interpreti: Lesley-Anne Down, Pierce Brosnan e Adam Ant. ETOILE (1986), di Peter Del Monte. Italia, prod. Manzotti. Interpreti: Jennifer Connelly. THE WRAITH (1986), di Mike Marvin. USA. Interpreti: Charlie Sheen e Randy Quaid. TRICK OR TREAT (1986), di Charles Martin Smith. Tit. it.: Morte a 33 giri. USA. Interpreti: Marc Price e Tony Fields. LA CASA DEL BUON RITORNO (1986), di Beppe Cino. Italia. Interpreti: Stefano Gabrini e Amanda Sandrelli. HIGH SPIRITS (1986), di Michael Schaertl. Tit. it.: High Spirits. USA. Interpreti: Neil La Bute e Val Christiansen. POLTERGEIST II: THE OTHER SIDE (1986), di Brian Gibson. Tit. it.: Poltergeist II: l'altra dimensione. USA, prod. MGM.
Interpreti: C. Nelson, J. Williams e Julian Beck. WITCHBOARD (1987), di Kevin Tenney. Tit. it.: Spiritika. USA. Interpreti: Todd Allen e Tawny Kitaen. SISTER, SISTER (1987), di Bill Condon. Tit. it.: I delitti della palude. USA. Interpreti: Eric Stolz e Jennifer Jason Leigh. FROM NIGHT 2: HELLO MARY LOU (1987), di Bruce Pittman. Tit. it.: Non entrare in quella scuola. Canada. Interpreti: Michael Ironside e Wendy Lyon. MADE IN HEAVEN (1987), di Alan Rudolph. Tit. it.: Accadde in Paradiso. USA. Interpreti: Timothy Hutton e Kelly McGillis. BLOODY NEW YEAR (1987), di Norman J. Warren. USA. Interpreti: Suzy Alt Chison e Colin Heywood. GHOSTRIDERS (1987), di Alan L. Stewart. USA. Interpreti: Bill Shaw. QIAN NII YOUHUN - CHINESE GHOST STORY (1987), di Ching Sin-Tung. Tit. it.: Storia di fantasmi cinesi. Hong Kong. Interpreti: Leslie Cheung e W. Tsu Hsien. HOLLYWOOD MONSTER (1987), di Roland Emmerich. Tit. it.: Fantasmi ad Hollywood. USA. Interpreti: Jason Lively e Tim McDaniel. GHOST TOWN (1988), di Richard Governor. USA. Interpreti: Franc Luz e Catherine Hickland. PLEDGE NIGHT (1988), di Paul Ziller. USA. Interpreti: Todd Eastland e Shannon McMahon.
RETRIBUTION (1988), di Guy Magar. USA. Interpreti: Dennis Lipscomb e Hoyt Axton. SCARECROWS (1988), di William Wesley. USA. Interpreti: Ted Vernon e Michael Simms. SLAUGHTERHOUSE ROCK (1988), di Dimitri Logothetis. Tit. it.: Chi è entrato nella mia casa? Interpreti: Nicholas Celozzi. STONES OF DEATH (1988), di James Bagle. Australia. Interpreti: Zoe Carides e Tom Jennings. BAD DREAMS (1988), di Andrew Fleming. Tit. it.: Vivere nel terrore. Interpreti: Jennifer Rubin e Bruce Abbott. BEETLEJUICE (1988), di Tim Burton. Tit. it.: Beetlejuice - Spiritello porcello. USA. Interpreti: Michael Keaton, Alec Baldwin e Geena Davis. HIGH SPIRITS (1988), di Neil Jordan. Tit. it.: Fantasmi da legare. USA. Interpreti: Peter O'Toole e Daryl Hannah. LADY IN WHITE (1988), di Frank La Loggia. Tit. it.: Scarlatti - Il thriller. USA. Interpreti: Lukas Haas e Len Carion. SCROOGED (1988), di Richard Donner. Tit. it.: S.O.S. Fantasmi. USA. Interpreti: Bill Murray e Karen Allen. POLTERGEIST III (1988), di Gary Sherman. Tit. it.: Poltergeist III. USA, prod. MGM. Interpreti: Tom Skerritt, Nancy Allen e M. O'Rourke. PRISON (1988), di Renny Harlin. USA, prod. Empire. Interpreti: Lane Smithe e Viggo Martensen.
TWICE DEAD (1988), di Bert Dragin. USA, prod. Corman. Interpreti: Tom Brezanhan e Jill Whitlow. THE CHAIR / HOT SEAT (1988), di Waldemar Korzeniowsky. USA. Interpreti: James Coco e Paul Benedict. DELIRIO DI SANGUE - BLOOD DELIRIUM (1988), di P. Hudson (S. Bergonzelli). Italia. Interpreti: John Philip Law e Gordon Mitchell. LUCI LONTANE (1988), di Aurelio Chiesa. Italia, prod. Claudio Argento. Interpreti: T. Milian e Laura Morante. LA CASA 3 - GHOSTHOUSE (1988), di Humphrey Humbert (Umberto Lenzi). Italia. Interpreti: Lara Wendel e Grey Scott. MORTACCI (1988), di Sergio Citti. Italia. Interpreti: Carol Alt, Sergio Rubini e Vittorio Gassman. I FANTASMI DI SODOMA (1988), di Lucio Fulci. Italia. Interpreti: Claudio Alotti e Maria Concetta Salieri. GHOSTS CAN'T DO IT (1988), di John Derek. Tit. it.: I fantasmi non possono farlo. USA. Interpreti: Bo Derek e Anthony Quinn. PAGANINI HORROR (1988), di Lewis Coates (Luigi Cozzi). Italia, prod. Fulvia Film. Interpreti: Daria Nicolodi, Donald Pleasence e Luana Ravagnini. ALWAYS (1989), di Steven Spielberg (remake di Joe il Pilota). Tit. it.: Always - Per sempre. USA. Interpreti: Richard Dreyfuss e Audrey Hepburn. GHOSTBUSTERS II (1989), di Ivan Reitman. Tit. it.: Ghostbusters II. USA, prod. Columbia. Interpreti: Bill Murray e Dan Aykroyd.
FIELD OF DREAMS (1989), di Phil Alden Robinson. Tit. it.: L'uomo dei sogni. USA. Interpreti: Kevin Costner e Burt Lancaster. THE VISITORS (1989), di Joakim Ersgard. Svezia. Interpreti: Keith Berkeley e Lena Enore. WITCHTRAP (1989), di Kevin S. Tenney. USA. Interpreti: James W. Quinn e Linnea Quigley. DEMONSTONE (1989), di Andrew Prowse. USA. Interpreti: Lee Ermey e Jean-Michael Vincent. PET SEMATARY (1989), di Mary Lambert. Tit. it.: Cimitero vivente. USA. Interpreti: Dale Midkiff e Fred Gwynne. THE TURN OF THE SCREW (1989), di Graeme Clifford. USA. Interpreti: Amy Irving e Dave Hemmings. THE AMITYVILLE CURSE (1989), di Tom Berry. USA. Interpreti: Kim Coates. AFTER MIDNIGHT (1989), di Ken e Jim Wheat (primo episodio, The Old Dark House). USA. Interpreti: Marc McClure e Pamela Segall. NEW YORK STORIES (1989), di Alien, Coppola e Scorsese (episodio Oedipus Wrecks di Woody Allen). Tit. it.: New York Stories. USA. Interpreti: Woody Allen e Mia Farrow. BLOOD SCREAMS (1989), di Glenn Gebbard. USA, prod. Concorde. Interpreti: Russ Tamblyn e Stacey Shaffer. AMITYVILLE IV: THE EVIL ESCAPES (1989), di Sandor Stern. Tit. it.: Amityville Horror - La fuga del diavolo. USA.
Interpreti: Patty Duke e Jane Wyatt. THE SLEEPING CAR (1990), di Douglas Curtis. USA. Interpreti: David Naughton e Kevin McCarthy. FLATLINERS (1990), di Joel Schumacher. Tit. it.: Linea mortale. USA. Interpreti: Julia Roberts e Kevin Bacon. FROM NIGHT 4: THE LAST KISS (1990), di R. Oliver e P. Simpson. Tit. it.: L'ultimo bacio. Canada. Interpreti: Tim Conlon e Cyny Preston. GRAVE SECRETS (1990), di Donald Borchers. USA. Interpreti: Paul Le Mat e Lee Ving. WINGS OF FAME (1990), di O. Votocek. Tit. it.: Le ali del successo. Inghilterra. Interpreti: Peter O'Toole e Colin Firth. SOULTAKER (1990), di Michael Rissi. USA. Interpreti: Joe Estevez e Vivian Schilling. TWO EVIL EYES (1990), di Dario Argento e George A. Romero (episodio di Romero, I fatti nel caso di Valdemar). Tit. it.: Due occhi diabolici. USA-Italia, prod. Manzotti-ADC. Interpreti: Adrienne Barbeau, E.G. Marshall. THE THIRTEENTH FLOOR (1990), di Chris Roach. USA. Interpreti: Lisa Hensley e Tim McKenzie. NIGHTMARE ON THE 13TH FLOOR (1990), di Walter Grauman. USA. Interpreti: Michael Greene, Louise Fletcher e James Brolin. DREAMS (1990), di Akira Kurosawa (episodio Il tunnel). Tit. it.: Sogni. Giappone, Stati Uniti. Interpreti: Akira Terao e Martin Scorsese. CHINESE GHOST STORY II (1990), di Ching Sin-Tung.
Tit. it.: Storia di fantasmi cinesi II. Hong Kong. Interpreti: L. Cheng e Joey Wang. GHOST DAD (1990), di Sidney Poitier. Tit. it.: Papà è un fantasma. USA. Interpreti: Bill Cosby e Kimberly Russell. THE FIRST POWER (1990), di Robert Resnikoff. Tit. it.: Pentagram. USA. Interpreti: Lou Diamond Phillips e T. Griffith. HEART CONDITION (1990), di James Parriot. Tit. it.: Un fantasma per amico. USA. Interpreti: Bob Hoskins e Denzel Washington. GHOST FEVER (1990), di Alan Smithee (Lee Madden). Tit. it.: Due piedipiatti acchiappafantasmi. USA. Interpreti: Jennifer Rhodes e Deborah Benson. CHINESE GHOST STORY III (1991), di C. Sin-Tung. Tit. it.: Storia di fantasmi cinesi III. Hong Kong. Interpreti: W. Hsu-Hsien e Tony Leung. SOMETIMES THEY COME BACK (1991), di Tom McLaughlin. Tit. it.: A volte ritornano. USA. Interpreti: Tim Matheson e Brooke Adams. DOVE COMINCIA LA NOTTE (1991), di Massimo Zaccaro. Italia, prod. Pupi Avati. THE HAUNTED (1991), di Robert Mandel. Tit. it.: La casa delle anime perdute. USA. Interpreti: Sally Kirkland e Jeffrey De Munn. GHOST (1991), di Jerry Zucker. Tit. it.: Ghost - Fantasma. USA. Interpreti: Patrick Swayze, Demi Moore e Whoopi Goldberg. VOCI DAL PROFONDO (1991), di Lucio Fulci.
Italia. Interpreti: Duilio Del Prete e Karina Huff. SWITCH (1991), di Blake Edwards. Tit. it.: Nei panni di una bionda. USA. Interpreti: Ellen Barkin e Perry King. THE TURN OF THE SCREW (1992), di Rusty Lemorande. Tit. it.: Presenze. Inghilterra. Interpreti: Patsy Kensit e Julian Sand. FIRE WALK WITH ME (1992), di David Lynch. Tit. it.: Twin Peaks: fuoco, cammina con me!. USA. Interpreti: K. McLachlan e Sheryl Lee. THE MUPPETS' CHRISTMAS CAROL (1992), di Brian Henson. Tit. it.: Festa in casa Muppet. Inghilterra. Interpreti: i Muppetts e Michael Caine. AMITYVILLE 1992 (1992), di Tony Randall. USA, prod. Republic Pictures. Interpreti: Stephen Macht e Megan Ward. QUATTRO FANTASMI PER UN SOGNO (1994), di Ron Underwood. USA. Interpreti: Robert Downey jr. e Charles Grodin. THE CROW (1994), di Alex Proyas. Tit. it.: Il corvo. USA, prod. Pressman. Interpreti: Brandon Lee e Michael Wyncotto. Bibliografia Quella che presentiamo, più che una bibliografia nel senso stretto del termine, è una selezione dei testi narrativi sui Fantasmi operata in base ai gusti dei curatori del presente volume. Pretendere completezza in una materia tanto vasta sarebbe stato vano e presuntuoso. Né ci è parsa di particolare utilità la segnalazione di pubblicazioni tanto remote da renderle irreperibili. Quanto alla validità delle opere segnalate, temiamo che non esista criterio di selezione più valido delle
preferenze personali: e a queste ci siamo attenuti. ANTOLOGIE DI AUTORI DIVERSI C. FRUTTERO e F. LUCENTINI (a cura di), Storie di fantasmi, Torino, Einaudi 1960. G. MUSCA (a cura di), 20 racconti del mistero, Bari, Leonardo da Vinci 1965. J.L. BORGES, s. OCAMPO, A. BIOY CASARES (a cura di), Antologia della letteratura fantastica, Roma, Editori Riuniti 1981. I. CALVINO (a cura di), Racconti fantastici dell'Ottocento, Milano, Mondadori 1983. M. SUMMERS (a cura di), Occulta, Milano, Mondadori 1983. M. SKEY (a cura di), Fantasmi e no, Roma-Napoli, Theoria 1987. D. CAMMAROTA (a cura di), Storie di spettri, Roma, Fanucci 1988. R. DALBY e R. PARDOE (a cura di), Storie e altre storie sulle orme di M.R. James, Roma, Newton Compton 1989. R. REIM (a cura di), Da uno spiraglio, Roma, Newton Compton 1992. G. PILO e s. FUSCO (a cura di), Gli indagatori dell'incubo, Roma, Newton Compton 1993; Le case maledette, Roma, Newton Compton 1994; Fantasmi inglesi, Roma, Newton Compton, 1994; Fantasmi americani, Roma, Newton Compton 1994; Fantasmi irlandesi, Roma, Newton Compton 1994; Fantasmi francesi, Roma, Newton Compton 1994, Fantasmi tedeschi, Roma, Newton Compton 1994. ANTOLOGIE DI UN SOLO AUTORE ERNST THEODOR AMADEUS HOFFMANN (1776-1822), Romanzi e racconti, Torino, Einaudi 1969. ALGERNON BLACKWOOD (1869-1951), John Silence, detective dell'occulto, Roma, Fanucci 1977; Colui che ascoltava nel buio, Roma, Fanucci, 1978; Il «Wendigo» e altri racconti, Roma-Napoli, Theoria 1993. WILLIAM HOPE HODGSON (1877-1918), Carnacki, cacciatore di spettri, Milano, Armenia 1978. GUY DE MAUPASSANT (1850-1893), Tutti i racconti neri, fantastici e crudeli, Roma, Newton Compton 1994. EDWARD-GEORGE BULWER-LYTTON (1803-1873), La casa e il cer-
vello, Roma-Napoli, Theoria 1985. WILLIAM WILKIE COLLINS (1824-1889), L'albergo stregato, Roma, Editori Riuniti 1985. JOSEPH SHERIDAN LE FANU, I misteri di Padre Purcell, Milano, Mondadori 1987; Racconti del soprannaturale, Roma-Napoli, Theoria 1990; I tre casi del dottor Hesselius, a cura di G. Pilo e S. Fusco, Roma, Newton Compton 1994. HENRY JAMES (1843-1916), Racconti di fantasmi, Torino, Einaudi 1988. WALTER DE LA MARE (1873-1956), Il rinchiuso e altri racconti, Roma-Napoli, Theoria 1989. CHARLES DICKENS (1812-1870), I racconti di fantasmi, Roma-Napoli, Theoria 1989. MONTAGUE RHODES JAMES (1862-1936), Tutti i racconti, RomaNapoli, Theoria 1989. WALTER SCOTT (1771-1832), Racconti del soprannaturale, Torino, Bollati Boringhieri 1989. MARY WILKINS FREEMAN (1852-1930), Storie di fantasmi, Roma, Fanucci 1991. RUDYARD KIPLING (1865-1936), Confini e conflitti, Roma-Napoli, Theoria 1992; Il risciò fantasma, Roma, Newton Compton 1994. HERBERT GEORGE WELLS (1866-1946), La porta nel muro e altri racconti, Torino, Bollati Boringhieri 1992. THÉOPHILE GAUTIER (1811-1872), Racconti fantastici, Milano, Garzanti 1993. AMBROSE BIERCE (1842-1914?), Tutti i racconti dell'orrore, Roma, Newton Compton 1994. ARTHUR CONAN DOYLE (1859-1930), Tutti i racconti fantastici e dell'orrore, Roma, Newton Compton 1994. EDITH WHARTON (1862-1937), Storie di fantasmi, Roma, Newton Compton 1994. Schede degli autori ANONIMO. Del 1770 circa. La danza del morto, racconto di chiaro impianto gotico, appare sulle cronache e i riferimenti letterari alla fine del Settecento. Di autore assolutamente sconosciuto, è probabile che tragga origine da qualcuna delle novelle narrate dai cantastorie nel loro vagabonda-
re di paese in paese. ANONIMO. Del 1800 circa. Il calzolaio di Selkirk, come il precedente racconto, è di chiara derivazione gotica. Comunque, le valenze di questo particolare tipo di narrativa sono in questo caso meno marcate e, sia nella concisione del racconto che nell'impianto narrativo, si nota la mano di una persona avvezza a scrivere e per la quale questo scritto non costituisce sicuramente un fatto episodico. «B». Questo racconto fu pubblicato nel mese di dicembre del 1913 sul Magdalene College Magazine. Con la stessa sigla «B» come firma, esistono altre cinque storie di Narrativa Fantastica uscite nel 1896 in Gran Bretagna nel volume When the Door is Shut and Other Ghost Stories. Alcuni critici sono del parere che questi racconti siano stati scritti da E.F. Benson, date alcune particolari aggettivazioni e modi di esprimersi. CLIFFORD BALL. Fu uno dei primi scrittori a seguire le orme di Howard nel campo della Heroic Fantasy. Il fatto che fosse un personaggio misterioso che, dopo aver venduto sette racconti a Weird Tales, scomparve senza lasciare alcuna traccia, e che ogni ricerca tesa ad individuarlo abbia sortito sempre esito negativo, ha alimentato l'ipotesi che potesse trattarsi di uno pseudonimo dello stesso Howard. Peraltro, alcuni suoi racconti - e in particolare quelli che hanno per protagonista Duar il Maledetto - sono veramente molto simili alla produzione howardiana relativa a Conan. A parte Weird Tales, Ball non scrisse per nessun altro pulp dell'epoca, e può anche darsi che si sia trattato di uno scrittore di un altro genere di narrativa che abbia compiuto una breve incursione nel campo del Fantastico. Peccato! Avrebbe sicuramente avuto molto successo. ANN LETITIA BARBAULD. Scrittrice inglese non molto popolare né prolifica. Vanta al suo attivo alcuni racconti di narrativa «mainstream», e dei saggi storici. Il brano presente in questa antologia è tratto da un lungo racconto di chiara impostazione gotica, e in questa forma è stato pubblicato diverse volte nel Regno Unito. La Barbauld morì in Scozia nel 1823. SABINE BARING GOULD. Nato nel 1837, il Reverendo Sabine Baring Gould, quando morì, lasciò una quantità veramente sterminata di suoi scritti che variavano dalla storia, alla saggistica, ai resoconti di viaggi e,
ovviamente, alla narrativa sui Fantasmi. I racconti appartenenti a questo ultimo genere, scritti nell'arco di quasi cinquant'anni, furono raccolti in volume e pubblicati nel 1904 con il titolo A Book of Ghosts. Molto apprezzato da M.R. James, morì nel 1924. ANTONIO BELLOMI. Nato nel 1945 e laureato in Matematica, è giornalista dal 1974. Ha al suo attivo oltre un centinaio di racconti pubblicati su diverse riviste, sia in Italia che all'Estero, che spaziano dai racconti western alle storie fantastiche, per finire alla letteratura giovanile. Autore di sceneggiature per Mondadori, in collaborazione con Alfredo Castelli ha scritto tre romanzi imperniati sul personaggio di Martin Mystère (Il detective dell'Impossibile, 1991, e La spada di Re Artù, 1992), mentre il terzo è di prossima uscita. EDWARD FREDERICK BENSON. Nacque nel 1867 nel Sussex, in Gran Bretagna. Fratello di A.C. Benson e R.H. Benson, anche loro scrittori come lui, fu di gran lunga il più prolifico e conosciuto dei tre, contando al suo attivo dozzine di romanzi e racconti in genere sempre belli e avvincenti. I suoi scritti fantastici sono conosciuti in tutto il mondo, e i migliori sono riuniti nelle antologie The Room in the Tower and Other Stories del 1912, Visible and Invisible del 1923, e Spook Stories del 1928. Nell'atmosfera tesa che precedette la Seconda Guerra Mondiale, fu un accanito fautore della pace, e comunque non ebbe modo di assistere al conflitto, in quanto morì nel 1940. Tutta la sua produzione fantastica è stata pubblicata dalla Newton Compton in un unico volume della collana dei GTE, a cura di Gianni Pilo. AMBROSE GWINNETT BIERCE. Nato in una fattoria dell'Ohio nel 1842, dopo aver frequentato il Kentucky Military Institute e aver combattuto onorevolmente nella Guerra di Secessione, decise di rimanere nell'Esercito. Nel 1866 cominciò a scrivere dei racconti su un giornale finanziario, il San Francisco News and Commercial Advertiser. Da quel momento ebbe inizio la sua brillante carriera letteraria: nell'arco di quarant'anni, Bierce riuscì ad affermarsi come uno degli scrittori e giornalisti più famosi degli Stati Uniti. Considerato la penna più satirica del Nuovo Continente, diede alle stampe oltre 250 racconti di guerra, fantastici e satirici. Nel 1913 scomparve misteriosamente nel Messico dove si era recato per un viaggio di piacere: di lui non si seppe mai più nulla. A cura di Gianni Pilo e Seba-
stiano Fusco, abbiamo pubblicato di questo autore: Tutti i racconti dell'Orrore, I racconti dell'Oltretomba, e Il Dizionario del Diavolo. HERMINA BLACK. Scrittrice inglese, oltre a diversi racconti brevi, ha al suo attivo parecchi componimenti poetici che costituiscono peraltro l'interesse preminente di questa autrice. Tra la sua produzione breve abbiamo scelto questo The Mailed Foot, perché affronta in maniera originale - e terrificante - il tema del Fantasma. ALGERNON BLACKWOOD. Nacque in Inghilterra, e precisamente nel Kent, nel 1896. Dopo aver compiuto gli studi nella sua terra natale, emigrò in Canada, dove però rimase poco tempo dato che partì nuovamente per stabilirsi negli Stati Uniti. La sua apparizione nel campo della letteratura fantastica risale solo al 1926, quando ormai aveva raggiunto la trentina. Ottimo scrittore di racconti di atmosfera, di lui vanno citati obbligatoriamente il romanzo breve The Willows e il Ciclo di John Silence, investigatore dell'Occulto. MARY ELIZABETH BRADDON. Nata nel 1837 in Inghilterra, questa scrittrice vanta al suo attivo una serie veramente cospicua di pubblicazioni. Basti pensare che le vengono accreditati oltre settanta romanzi, a parte tutti i racconti che uscirono sulle riviste inglesi dell'epoca. Anche se visse a lungo (morì infatti nel 1915, prima dello scoppio della Grande Guerra), il materiale da lei editato è di tutto rispetto, e pochi altri autori, anche in epoca successiva, hanno raggiunto il suo livello quantitativo. LAURENCE JOHN CAHILL. Magistrato e scrittore a tempo perso, nacque nello Stato del Montana il 4 dicembre del 1877. Stranamente, la caratteristica preminente dei suoi non molti scritti è una notevole vena umoristica o comunque satirica che, secondo Lin Carter, lo avvicina ad Ambrose Bierce. Satira che traspare chiaramente anche in questo Charon, uscito nel 1935 su Weird Tales. È stato il suo ultimo racconto ad essere pubblicato, dato che morì nel gennaio del 1936 per un infarto. EDOARDO CALANDRA. Nato a Torino nel 1852, ebbe sempre come interessi preminenti la letteratura e la pittura. In campo letterario la sua produzione è di tutto rispetto e, tra i molti romanzi pubblicati (soprattutto nel periodo che va dal 1884 al 1909) due emergono sicuramente sopra tutti
gli altri: si tratta de La bufera, del 1898, e A guerra aperta, del 1906. Due spaventi, comparso per la prima volta nel 1910, è di un anno antecedente alla morte dell'autore, ed è rappresentativo dei molti racconti fantastici da lui scritti. PATRICK CARLETON. Scrittore inglese di vasta e profonda cultura, ci ha lasciato alcuni racconti pregevoli sulla tematica del Soprannaturale. The Dr. Horder's Room, del 1934, uscì su una delle antologie facenti parte della serie Creeps, pubblicate da Philip Allan tra il 1932 e il 1936 e curate da Charles Lloyd Birkin. Tra i vari romanzi di narrativa «mainstream» pubblicati da Carleton sempre negli anni Trenta, vanno obbligatoriamente citati The Hawk and the Tree e One Breath, quest'ultimo forse il suo migliore lavoro in assoluto. STANTON ARTHUR COBLENTZ. Scrittore e poeta americano, iniziò la sua carriera letteraria nei primi anni Venti, dopo aver conseguito la Docenza in Letteratura Inglese. Bisogna subito dire che Coblentz non è mai stato un fine stilista o uno scrittore dotato di un'immaginazione travolgente, ma era dotato di una grande capacità nel descrivere razze aliene o contesti non terrestri, dimodoché viene spesso giudicato uno dei migliori scrittori a cavallo delle due guerre mondiali, capaci di rendere appieno quel sense of wonder che è stato alla base del successo della Narrativa di Fantascienza americana dell'Età dell'Oro. Nato nel 1896, vanta una produzione fantastica veramente copiosa - sia a livello di romanzi che di racconti - e la prima opera da lui pubblicata in questo specifico è The Sunken World, uscita su AMZ Quarterly nel 1928. WILKIE COLLINS. Nato nel 1824, fu amico e collaboratore di Charles Dickens. La sua produzione letteraria, e in particolare quella fantastica, è di assoluto rilievo, ma non vi è dubbio che a tutt'oggi sia maggiormente conosciuto dal grande pubblico per i romanzi La donna in bianco, La Pietra di Luna e La Follia dei Monkton. Questo senza nulla voler togliere ai molti altri romanzi e ai numerosissimi racconti da lui scritti. G.K. Chesterton ebbe modo una volta di scrivere relativamente a Dickens e a Collins: «Erano due uomini che nessuno può superare nello scrivere delle storie di Fantasmi». Morì nel 1889. ARTHUR CONAN DOYLE. Nacque a Edimburgo nel 1859 e morì a
Crowborough nel 1930. Effettuò i suoi studi allo Stonyhurst College, in Austria, e all'Università di Edimburgo, dove conseguì la Laurea in Medicina nel 1885. Medico di Bordo su una baleniera, in seguito fece ritorno in Inghilterra dove aprì uno studio a Southsea, peraltro senza molto successo. Durante i frequenti periodi di inattività, cominciò a scrivere le avventure di Sherlock Holmes, e la singolare figura di questo poliziotto dilettante colpì a tal punto la fantasia degli Inglesi, che arrivarono a costruire nella londinese Baker Street uno studio in tutto e per tutto uguale a quello descritto nei racconti di Conan Doyle. Durante la Guerra Anglo-Boera, fu corrispondente di guerra in Sudafrica, e un libro che scrisse a seguito di quel conflitto, gli valse la nomina a Baronetto. Negli ultimi anni di vita si dedicò allo spiritismo su cui scrisse saggi e articoli, e tenne molte conferenze. Il suo ultimo lavoro, del 1930, è The Edge of Unknown, nel quale spiega le sue esperienze psichiche. LUIGI COZZI. Nato a Busto Arsizio nel 1947, vive e lavora a Roma. Regista e sceneggiatore di film per il grande e il piccolo schermo, ha scritto tra l'altro le sceneggiature di Quattro mosche di velluto grigio e Le cinque giornate di Dario Argento, Il re della mala con Henry Silva, La mano nera con Michele Placido, e Shark rosso nell'oceano di Lamberto Bava. Come regista ha firmato Hercules, Scontri stellari oltre la Terza Dimensione, Contamination, Dedicato a una stella e Paganini Horror. Suoi sono anche gli effetti speciali di Nosferatu a Venezia con Klaus Kinski e Phenomena di Dario Argento. Sempre insieme a Dario Argento, di cui è grande amico, ha curato alcune serie di episodi giallo/orrorifici per la televisione che hanno ottenuto un notevole successo. FRANCIS MARION CRAWFORD. Figlio del celebre scultore Thomas Henry Crawford - famoso per le statue di Washington e Jefferson, nonché per le porte di bronzo del Senato a Washington - è il fratello di Anne Crawford, anche lei scrittrice di racconti sul Soprannaturale. Di lui non si hanno molte notizie, salvo il fatto che il suo racconto For the Blood is the Life, pubblicato nell'antologia I Vampiri, curata da Gianni Pilo e Sebastiano Fusco, in questa stessa collana, è certamente uno dei più celebri scritti su questo tema che sia mai stato pubblicato. Nacque nel 1854 e morì nel 1909. ELIZABETH CROWE. Scrittrice inglese appassionata di storia, nac-
que nel 1879 nel Galles, seconda di sei tra fratelli e sorelle. È nota principalmente per i suoi lavori al di fuori del campo del Fantastico, tra i quali emergono alcuni romanzi di ambientazione storica. Alcuni dei suoi primi scritti fanno uso di valenze e accorgimenti Fantasy e Horror, con intenti apologetici. Scrisse anche diversi romanzi per ragazzi sempre nell'alveo storico. Morì nel 1938. DANIEL DEFOE. Nato nel 1660, è l'autore dei famosissimi romanzi Robinson Crusoe e Moll Flanders. Per più di quarant'anni si dedicò allo studio dei Fantasmi e a tutto ciò che era attinente a questo specifico, ed espose le sue conclusioni nel Saggio sulla realtà delle apparizioni del 1727. Tra i suoi racconti in questo ambito, quello che è stato ristampato il maggior numero di volte è sicuramente La vera relazione sull'apparizione di una certa Signora Veal, uscito originariamente nel 1706, mentre tra gli altri spiccano Lo spettro e il bandito, Il Demonio cordiale, e Il Fantasma che stava in tutte le stanze, compreso appunto in questa raccolta. Morì nel 1731. È opinione di molti critici che questi racconti si basino su fatti realmente accaduti. CHARLES DICKENS. Senza alcuna ombra di dubbio fu sicuramente lui che contribuì più di qualsiasi altro scrittore a rendere popolari le storie di Fantasmi verso la metà del XIX secolo, dopo le precedenti Storie Gotiche dell'Orrore e I Terrori da un penny. Nato nel 1812, influenzò profondamente la Narrativa del Soprannaturale a lui successiva, e molti autori ammettono senza problemi di essersi richiamati a lui. Il suo racconto presente in questo volume fu pubblicato in occasione del Natale del 1859 sul numero di quel mese della pubblicazione Per tutto l'anno. Morì nel 1870. EMMA DUFFIN. Durante il Natale del 1930, Montague Rhodes James fu - per la prima ed ultima volta in vita sua - scrutatore e giudice per conto dello Spectator di un concorso sulla Narrativa dei Fantasmi. Tra i tanti racconti pervenuti, M.R. James ne scelse dodici, su ognuno dei quali espresse un giudizio: in questa antologia abbiamo riportato i primi due classificati. The House Party della Duffin è quello giunto secondo. È da notare che il regolamento del concorso - molto severo - prescriveva che i racconti presentati non dovessero superare le mille parole. EDWARD JOHN MORETON DRAX PLUNKETT DUNSANY,
Lord. Drammaturgo e narratore inglese, nacque a Londra da nobile famiglia nel 1878. Dopo aver studiato alla Cheam School di Eton e all'Accademia Militare di Sandhurst, partecipò alla Guerra Anglo-Boera e al primo conflitto mondiale. Notevole la sua produzione teatrale della quale vanno menzionati The Glittering Gate, The Gods of the Mountain, A Night at an Inn e The Queen's Enemies. A livello narrativo, oltre una vasta produzione poetica, scrisse diversi racconti e romanzi tra i quali The Gods of Pegana, The Sword of Welleran and Other Stories e Time and Gods. Completamente isolato dalla scuola dei drammaturghi irlandesi quali Synge e Yeats, è autore fantasioso e avvincente, il cui stile immediato e vigoroso è spesso pervaso da una certa propensione all'elemento orrorifico. AMELIA BLANDFORD EDWARDS. Nata nel 1831 in Inghilterra, è caratterizzata rispetto alle altre scrittrici vittoriane del suo periodo dal fatto di essere stata una studiosa di egittologia. In quest'ottica compì diversi viaggi fuori dalla madrepatria, recandosi spesso in Egitto onde poter assumere dati concernenti lo specifico che la interessava. Scrisse diversi racconti fantastici dei quali questo The Phantom Coach è un ottimo esempio, e molti saggi e articoli sugli scavi, le scoperte, e sui materiali egiziani contenuti in vari musei europei. Morì nel 1892. REX ERNEST. Uno della serie praticamente infinita di autori che apparvero come meteore nella storia di Weird Tales, per poi ricadere nell'oblio. Questo suo racconto, The Inn, comparve infatti sulle pagine di WT nel 1937 e, né prima, né dopo, è più dato di riscontrare il suo nome su questa famosa rivista americana. Lin Carter, che eseguì una ricerca abbastanza accurata degli autori pubblicati sui 279 numeri di questa pubblicazione «mitica», avanza l'ipotesi che possa trattarsi di uno pseudonimo dello scrittore Paul Ernst ma, francamente, non ci sono molti elementi che possano avvalorare questa tesi. PAUL ERNST. Ed eccoci all'autore poc'anzi nominato, presente anche lui in questa antologia con un racconto: The Man in Black del 1936. Nato nel 1902, il nostro autore americano fu molto prolifico sui pulps con racconti non molto lunghi sia sotto il proprio nome che sotto lo pseudonimo di Paul F. Stern. La prima storia fantastica da lui pubblicata fu The Temple of Serpents, uscita nel 1928 su Weird Tales. Fu assai attivo nei campi della Fantasy, della Fantascienza e dell'Orrore, fino agli anni Trenta, quando in
pratica sparì dalla circolazione. Famosa è la sua serie de! Dr. Satana, apparsa ovviamente - manco a dirlo - su Weird Tales. EDWARD EVERETT EVANS. Nato nel 1893 nel Montana, cominciò a scrivere solo negli ultimi anni della sua vita, riscuotendo subito una miriade di consensi sia da parte degli appassionati di Narrativa Fantastica che degli «addetti ai lavori». La scoperta di questo autore si verificò solo a seguito del fatto che alcuni suoi racconti vennero letti da E.E. Smith e da Alfred Van Vogt i quali, resisi conto del loro valore, lo convinsero ad inviare questi elaborati alle redazioni delle riviste specializzate dell'epoca. Il suggerimento di Smith e di Van Vogt fu quanto mai appropriato ove si pensi che, sin dall'apparizione del primo racconto di Evans su Weird Tales, The Undead Die, fu un vero e proprio peana di lodi nei confronti del Nostro, il quale peraltro non trattò molto la dimensione del racconto che era sicuramente la forma di narrativa a lui maggiormente congeniale. Si mise infatti a scrivere romanzi di Fantascienza e, tra questi, il più famoso è Masters of Space, che portò a termine in collaborazione con E.E. Smith. GANS T. FIELD. Pseudonimo di Manly Wade Wellmann. Nacque nel 1903 in Angola da genitori americani. Dopo aver compiuto gli studi parte in Angola e parte negli Stati Uniti, si dedicò all'attività di scrittore a tempo pieno e, a soli ventiquattro anni, pubblicò su Weird Tales il suo primo racconto, Back to the Beast. Da quel momento, la sua produzione nel campo della Narrativa Fantastica è stata a dir poco copiosa, e si è estrinsecata sia nel campo della Fantascienza, che della Fantasy, che del Fantastico vero e proprio. Tra i suoi scritti vi sono delle serie assai importanti, tra le quali una menzione particolare merita il Ciclo di John Thunstone che, pubblicato interamente su Weird Tales, ha come protagonista un uomo dotato di poteri psichici che usa per investigare l'Occulto. MARY WILKINS FREEMAN. Nacque nel 1852 a Randolph, nel Massachusetts, poi si trasferì nel Vermont - a Brattleboro - dove visse sino al 1902, anno in cui si sposò, recandosi quindi a Metuchen, nel New Jersey, con suo marito: qui visse - e scrisse - felicemente, sino al 1930, anno della sua morte. La Freeman è senza dubbio una delle migliori scrittrici americane di Narrativa Soprannaturale e, nel 1926, la American Academy le consegnò la Howell Medal per la Narrativa, a sancire un consenso di pubblico e critica assolutamente unanime. Le sue storie soprannaturali so-
no quanto di più delicato e scritto «in punta di penna» sia dato di riscontrare, non solo nel panorama della Narrativa Fantastica americana, ma anche di quella mondiale. WINIFRED GALBRAITH. Come già detto in precedenza in occasione della scheda di Emma Duffin, questa è la seconda autrice facente parte di quel concorso per la Narrativa di Fantasmi indetto dallo Spectator nel 1930, il cui giudice era Montague Rhodes James. Mentre la Duffin si era classificata seconda, la Galbraith, con Here He Lies Where He Longed to Be, vinse il concorso. ELIZABETH CLEGHORN GASKELL. Scrittrice inglese nata nel 1810, sposata a un membro del Governo, ebbe ben sette figli nella sua non lunghissima vita, dato che morì nel 1865 a cinquantacinque anni. Amica della Brontë, presenta la caratteristica di aver descritto nell'enorme quantità di racconti che pubblicò sulle riviste vittoriane dell'epoca i quartieri poveri e le condizioni dei lavoratori nelle città industriali, manifestando una sorta di paternalismo filantropico tipico della borghesia di quel periodo. THÉOPHILE GAUTIER (1811-1872) fu uno dei principali esponenti del Romanticismo francese. La sua concezione letteraria prevedeva «l'arte per l'arte», come teorizzò nella prefazione a uno dei suoi romanzi più celebri, Mademoiselle de Maupin (1835). L'opera per cui è più famoso, Capitan Fracassa, mescola peraltro, nella cornice di un romanzo storico, toni umoristici e veristici. Affascinato dalla magia e dall'esoterismo, scrisse diverse novelle con tematiche soprannaturali, nonché i romanzi brevi Iettatura e Avatar. ARTHUR GRAY. Scrittore inglese nato nel 1852 che, dal 1912 al giorno della sua morte avvenuta il 7 Settembre del 1940, fu Rettore del Jesus College di Cambridge. Dieci racconti, scritti negli anni che vanno dal 1907 al 1918, costituiscono la sua produzione in materia di Narrativa di Fantasmi o comunque di storie soprannaturali. Per la precisione, eccetto tre, tutti gli altri sono delle Ghost Stories, per la maggior parte ambientate proprio nel Jesus College nei secoli XVI, XVII e XVIII. Una notevole vena umoristica pervade l'intera produzione del nostro Rettore Gray, che usò per queste storie lo pseudonimo di Ingulphus.
NATHANIEL HAWTHORNE. Nato nel 1804, è celebre a buon diritto per i suoi classici sul New England puritano, tra i quali spiccano senza alcun dubbio La lettera scarlatta e La Casa dai Sette Comignoli. Tutta la sua produzione di carattere fantastico o soprannaturale, e della quale fa parte il racconto The Grey Champion, fu raccolta in un volume edito nel 1837. Poe e Longfellow ebbero entrambi ad elogiare caldamente la narrativa fantastica di Hawthorne. Morì nel 1864. HAZEL HEALD. Questa autrice è rimasta famosa soprattutto perché ben quattro racconti apparsi a sua firma su Weird Tales furono in maggiore e minore misura revisionati da H.P. Lovecraft. The Horror in the Burying Ground è appunto uno di questi, e non è difficile per gli appassionati del «Solitario di Providence» riscontrarvi parecchi dei tratti caratteristici del grande scrittore americano. WILLIAM HOPE HODGSON. Nato il 15 novembre del 1877 a Wethersfield nell'Essex, a quattordici anni lasciò la famiglia e, spinto dal desiderio di avventure, s'imbarcò per mare navigando per otto anni prima come marinaio e poi come ufficiale. Questo periodo influenzò profondamente la sua attività di scrittore, che intraprese nel 1901 a Blackburn dove, stanco di viaggiare (aveva compiuto tre volte il giro del mondo), aveva aperto una palestra di atletica. La sua produzione letteraria è cospicua e di alto livello, e lo stesso Lovecraft, oltre ad ammirare moltissimo i suoi scritti, s'ispirò palesemente al suo romanzo La Casa sull'Abisso, per dar vita al famoso Ciclo dei Miti di Cthulhu. L'orrore marino è la costante più caratteristica della produzione hodgsoniana: a parte gli stupendi racconti aventi tutti per oggetto il mare, vanno ricordati i romanzi La Terra della Eterna Notte e Naufragio nell'Ignoto. La Newton Compton ha pubblicato La Casa sull'Abisso e L'orrore del mare a cura di Gianni Pilo. ROY TEMPLE HOUSE. Scrittore e critico americano nato nel Minnesota il 3 aprile del 1909. Compiuti gli studi e conseguita la Laurea, divenne Ordinario della Cattedra di Letteratura Inglese al Loyola College della Concordia University di Montreal. Premesso che la sua produzione maggiore verte nel campo dei saggi storici, ha comunque scritto alcuni racconti di carattere fantastico negli anni Trenta, tra i quali questo The Head at the Window apparso su Weird Tales nel 1938.
WILLIAM WYMARK JACOBS. Scrittore inglese nato nel 1863, è famoso soprattutto per il suo bellissimo racconto The Monkey's Paw, che apparve nel settembre del 1902 su Harper's Monthly Magazine e che per parecchi anni è stato un punto di riferimento fondamentale per tutti i curatori di antologie sui Fantasmi. Con Jacobs, Wakefield, De la Mare e Benson, finisce il tipico racconto di Fantasmi jamesiano che sfocerà dopo la Seconda Guerra Mondiale in storie più incentrate sull'orrore sanguinolento. HENRY JAMES. Nato nel 1843 e morto nel 1916 è, non solo uno dei migliori scrittori americani di Narrativa Fantastica dell'Ottocento, ma forse il migliore in assoluto fino ai giorni nostri che quel Paese vanti in questo campo. La sua caratteristica principale è quella di aver spostato il contesto della Narrativa Gotica dai macabri interni di castelli e abbazie fatiscenti e semidiroccate, agli aspetti quotidiani della vita borghese di tutti i giorni, dove l'orrore balza improvviso da un tessuto di vita assolutamente normale, e che è pertanto molto più terrorizzante in quanto espressione di una esistenza del tutto tranquilla. MONTAGUE RHODES JAMES. Nacque a Goodstone nel Kent il 7 marzo del 1862. È sicuramente, se non il migliore, uno dei più famosi e conosciuti scrittori inglesi di storie di Fantasmi. Basti pensare che, per trent'anni, scrisse ogni anno un racconto di Fantasmi, in questo sollecitato affettuosamente da un gruppo di amici che si riunivano al King's College di Cambridge perché lui potesse leggere loro quanto aveva scritto. Il contesto tipico nel quale James fa svolgere le sue storie è quello della tranquilla Inghilterra, e ricorda molto le ambientazioni di Conan Doyle. Morì a Londra nel 1936. RONAL KAISER. Scrittore e traduttore di origine ungherese, nacque il 6 maggio del 1887. È più conosciuto per il suo lavoro al di fuori del campo specifico del Fantastico, e in particolare per le sue satire. Tra le traduzioni da lui effettuate in lingua ungherese, notevoli sono quelle delle opere di Mark Twain e Jonathan Swift. Per quanto ha tratto con i racconti fantastici, ha usato anche lo pseudonimo di Dale Clark, ma questo The White Prince, apparso nel 1934 su Weird Tales, apparve sotto il suo vero nome. Morì il 3 febbraio del 1936.
JOSEPH RUDYARD KIPLING. Nacque a Bombay nel 1865. Dopo aver compiuto gli studi in Inghilterra, nel 1882 tornò in India, dove divenne redattore della Civil and Military Gazette di Lahore e cominciò a pubblicare liriche e racconti. Tornato nel 1889 in Inghilterra, ottenne nel 1907 il Premio Nobel per la letteratura. Morì nel 1936. Tra le sue opere più celebri: Capitani coraggiosi, Kim e i due Libri della giungla. Nelle creazioni fantastiche di Kipling, tra i meno esplorati ma più vigorosi esempi della sua produzione narrativa, convivono scienza e magia, passato e futuro, sogno e realtà, determinismo occidentale e fatalismo orientale. Precursore della moderna fantascienza, Kipling ha immaginato mondi sconosciuti che proiettano ombre inquietanti sulla nostra tranquilla esistenza quotidiana. Da Il risciò fantasma a I bambini, da La più bella storia del mondo a Il serpente di mare, le sue storie compongono un multiforme universo, abitato da fantasmi e mostri, e sconvolto da voci arcane e suggestioni misteriose. HEINRICH VON KLEIST. Nato a Francoforte sull'Oder nel 1777 da un ufficiale prussiano e discendente da una famiglia di militari, a soli 16 anni rimase orfano di entrambi i genitori. Dopo una vita breve e tumultuosa, morì suicida a Wannsee nel 1811 unitamente all'amante Henriette Vogel. Tra i massimi poeti della letteratura tedesca, fu molto portato - in narrativa - all'orrido, all'ossessivo, al demoniaco. Scrisse poesie, commedie, liriche e tragedie, oltre a dei bellissimi racconti di impianto romantico. AMILCARE LAURIA. Nato nel 1854 a Napoli, è un elemento di punta del gruppo dei Veristi napoletani attivi alla fine dell'Ottocento nel capoluogo campano. Tenuto in gran conto dai suoi colleghi (Capuana ebbe a lodarlo diverse volte) pubblicò sia romanzi che racconti. Dall'antologia Novelle Nere è tratto Notizie dall'altro mondo presente in questo volume. Morì a Napoli nel 1932. HAROLD LAWLOR. Apparve sulle pagine di Weird Tales relativamente tardi, nel 1943, con due racconti, The Spectre in the Steel e Tamara the Georgian Queen. Da quel momento però, sino alla chiusura di questa pubblicazione, ne fu uno dei collaboratori più assidui, ove si consideri che apparvero, sino al 1953, ben trenta suoi racconti. Nato a S. Antonio, nel Texas, nel 1913, terminati gli studi, si laureò in Medicina e, per tutto l'arco della sua vita, esercitò la professione nel suo Stato natale, non tralasciando
però quello che era il suo hobby preferito, ossia la Narrativa Fantastica. I suoi racconti spaziano in tutti i campi del Soprannaturale - dai Vampiri ai Lupi Mannari, dai Ghoul ai Fantasmi - ed è un vero peccato che non siano stati mai più ristampati da quando apparvero sulle pagine di Weird Tales. JOSEPH THOMAS SHERIDAN LE FANU. Nacque a Dublino, in Irlanda, nel 1814. Dopo aver frequentato le Scuole Superiori, si laureò in Giurisprudenza al Trinity College di Dublino nel 1839, ma esercitò saltuariamente la professione di avvocato dato che si dedicò subito alla scrittura a tempo pieno. Morta la moglie che amava moltissimo - e che era figlia di un valente avvocato irlandese - perse ogni interesse per la vita sociale e, isolatosi totalmente, dedicò tutto il suo tempo a scrivere racconti e romanzi, tant'è che questo è certamente il suo periodo più prolifico da un punto di vista letterario. Tra tutti gli scritti decisamente di ottimo livello che uscirono dalla sua penna, non si può fare a meno di citare il celeberrimo Uncle Silas, che vide la luce nel 1864. Morì d'infarto nel 1873 nella sua casa di Dublino. GENE LYLE. Pseudonimo dello scrittore americano Thomas James Sheridan, da non confondersi con lo pseudonimo Thomas Sheridan usato dallo scrittore e giornalista inglese Walter Gillings. Nato a Euclid, nell'Ohio, il 13 aprile 1889, dopo aver conseguito la Laurea in Lettere, si diede all'insegnamento, che costituì la sua unica professione sino alla morte, avvenuta per collasso cardiaco il 6 settembre del 1942. Il racconto The Hunch, presente in questa antologia, apparve sulle pagine di Weird Tales nel 1939. ALFRED MC LELLAND. Scrittore inglese nato nel 1889 che, oltre a diverse storie di genere fantastico, scrisse parecchi gialli sotto diversi pseudonimi. C'è da notare che in uno dei suoi ultimi lavori nel campo del Mistery, accredita al detective protagonista del romanzo dei poteri telepatici che gli consentono di scoprire i criminali, effettuando in tal modo una giunzione tra la Narrativa Fantastica e quella Mistery. Il racconto presente in questa raccolta uscì in origine in appendice a un romanzo giallo. PROSPER MÉRIMÉE (1803-1870). Fu amico di Stendhal e personaggio influente alla corte di Napoleone III. La sua narrativa segna il passaggio fra il Romanticismo e il Realismo, specie con il romanzo breve Co-
lomba (1840). Si applicò a varie tematiche fantastiche. Oltre a La visione di Carlo XI, è suo uno dei più famosi racconti accentrati sul tema della licantropia, Lokis. Nella raccolta di liriche La Guzla (di sua composizione, anche se finse di averle tradotte dall'illirico), inserì diversi componimenti accentrati sul tema del vampiro. EDITH NESBIT. Nata in Inghilterra nel 1858, dopo aver effettuato gli studi in Germania e a Brighton, tornò nel natale Kent dove trascorse la maggior parte della sua vita. Famosa e apprezzata scrittrice di libri per l'infanzia, in questo settore conseguì una fama eguagliata solo da pochi altri autori. A parte un romanzo scritto in collaborazione col marito, diede alle stampe molti racconti fantastici che uscirono su riviste e antologie, tra i quali vanno annoverati diversi tra i più bei racconti di Fantasmi in assoluto scritti in Inghilterra nell'Ottocento. Morì nel 1924. FITZ-JAMES OBRIEN. Nato in Irlanda nel 1828 e trasferitosi a New York nel 1852, fino a quando morì nel 1862 a causa di un'infezione conseguente a una ferita riportata durante la Guerra Civile americana, pubblicò sui giornali e le riviste dell'epoca numerosi poemi e racconti di vario genere. Fu comunque negli anni 1858 e 1859 che uscirono i suoi migliori scritti per i quali è famoso in tutto il mondo. Si tratta del romanzo The Diamond Lens (1858), e dei racconti What Was It? (1859) e The Lost Room (1858), l'ultimo presente in questa raccolta. Il pregio maggiore di O'Brien è senza alcun dubbio la sua capacità inventiva, che comunque poteva costituire anche il suo punto debole quando seguiva i parametri abbastanza ingenui che allora dominavano nel campo della Fantascienza. Nonostante questa limitazione, il romanzo The Diamond Lens rimane un caposaldo della narrativa fantascientifica per l'approfondimento psicologico che l'autore effettua su uno dei personaggi principali. OLIVER ONIONS. Considerato da Lovecraft uno dei Maestri della letteratura macabra e soprannaturale, l'inglese Oliver Onions (che in seguitò mutò il suo nome in quello di George Oliver), nato nel 1873 nel Kent, ha scritto alcune delle storie di fantasmi più affascinanti e inquietanti di tutta la letteratura mondiale: basterà a questo proposito ricordare: La ballata, che è servita da spunto per il film di Elio Petri Un tranquillo posto di campagna, con Vanessa Redgrave e Franco Nero. Il racconto La nave fantasma illustra il tema dell'Olandese Volante, ed è stato classificato come uno
dei classici di tutti i tempi nel campo della Narrativa Fantastica. VIOLET PAGE. Nata a Château St. Leonard, vicino a Boulogne in Francia, nel 1856, e morta a Firenze nel 1935, è nota alla maggior parte dei lettori col nome di Vernon Lee, che è appunto lo pseudonimo con il quale firmò tutti i suoi scritti. Dopo numerosi viaggi in tutta Europa che effettuò al seguito della sua famiglia, si stabilì definitivamente a Firenze donde non si mosse più. Anche se scrisse di sociologia e di politica, i risultati migliori li conseguì nel campo della Narrativa Fantastica. Notevole anche il saggio Il Settecento in Italia, pubblicato nel 1880. EDGAR ALLAN POE. Nato nel 1809, è sicuramente il più grande scrittore che vantino gli Stati Uniti, nonché un pioniere della Narrativa Fantastica e di quella di Fantascienza in quel Paese, come ebbe a scrivere Hugo Gernsback. Come poeta, scrittore di racconti e critico, la sua influenza su tutta la letteratura mondiale fu enorme, anche se passò la maggior parte della sua breve vita a pubblicare solo nell'ambito delle riviste da edicola e sui giornali. Normalmente viene accreditato come il creatore della «Detective Story» nonché della «Horror Story», e il suo apporto innovativo nei campi del realismo psicologico e del componimento poetico ne fanno il fondatore del Nuovo Criticismo, oltre ad aver pesantemente influenzato il Simbolismo francese. Citare in questa sede qualcuno dei suoi scritti sarebbe fare un torto agli altri, in quanto tutta la produzione di Poe è di livello eccellente: basti dire che moltissimi dei suoi racconti sono stati ripetutamente portati sullo schermo dove, ancora oggi, raccolgono enormi successi di pubblico e critica. Morì a soli quarant'anni, nel 1849, minato nel fisico e nella mente dall'alcool. ALEKSANDR SERGEEVIČ PUŠKIN. Poeta e prosatore russo, nacque a Mosca nel 1799 e morì a Pietroburgo nel 1837. Nipote di un principe abissino, formò la propria cultura leggendo avidamente i molti volumi contenuti nella biblioteca paterna. Lasciata Pietroburgo, si recò nel Caucaso e in Crimea, e da questo viaggio nacquero i poemi «byroniani». Scrittore di liriche e di tragedie, tra queste ultime va ricordato il Boris Godunov. A livello narrativo, non si può certo tralasciare La figlia del Capitano, scritta tra il 1833 e il 1836, più volte portata sullo schermo e in televisione. Stanco della vita, cercò un pretesto per sfidare a duello un ufficiale francese e, rimasto ferito gravemente, due giorni dopo il duello morì.
DOROTHY QUICK. Iniziò la sua carriera di scrittrice di storie fantastiche nel 1932 sulle riviste Oriental Stories e Strange Stories. Approdata nel 1937 a Weird Tales con il racconto Strange Orchids, fino ai primi anni Quaranta apparve su questa pubblicazione con una dozzina di scritti. Le notizie che la concernono sono assai scarse e denotano una precisa volontà da parte di questa autrice di non far conoscere quello che era il suo privato. Con la chiusura di Weird Tales, cessò di scrivere, e di lei non si seppe più niente. ANN RADCLIFFE. Nata a Londra nel 1764, è senza ombra di dubbio la maggiore rappresentante del cosiddetto romanzo nero o gotico. La sua opera prima è The Castle of Athlin and Dumbayne del 1789, ma i romanzi che le diedero la fama furono The Mysteries of Udolpho (1794), The Italian (1797) e The Romance of the Forest (1791). Gli ingredienti dei quali la Radcliffe fece uso a piene mani sono castelli diroccati, trabocchetti e indizi di atroci delitti, incentrati sulla figura principale dell'eroina perseguitata che alla fine trionfa. Morì nel 1823. MARIANO RAMPINI. Nato nel 1954, laureato in Giurisprudenza, giornalista, vive e lavora a Roma. Il suo approccio al Fantastico è di antica data, considerato che risale ai primi anni Settanta. Dotato di una facilità narrativa e di una costruzione del narrato affatto particolare, ha conseguito diversi premi a livello nazionale tra i quali il Premio Italia per il miglior racconto di Fantasy e il Premio Amatrix sempre per la stessa categoria. Un suo romanzo, Cronache di un mondo perduto (Fanucci, 1990) ha riscosso un notevole successo, stante il contesto di un Giappone medievale trasposto in un Impero galattico del futuro in via di disfacimento. RICCARDO REIM. Nato a Roma nel 1953, regista e scrittore, è oggi considerato uno dei più prestigiosi rappresentanti della nuova scena italiana. La sua attività letteraria, assai intensa, annovera - oltre alle numerose pieces teatrali - volumi di saggistica (Nero per signora, 1986; Il corpo della poesia, 1989; L'Italia dei misteri, 1989; Controcanto, 1991; Da uno spiraglio, 1992); narrativa (Lettere libertine, 1983; La gondola di Tiziano, 1986; Oscure circostanze, 1990), e varie traduzioni da Diderot, Voltaire, Gautier, Poe, Stoker, Stevenson, Thackeray, George Eliot, Crane. Oscure circostanze (in una differente versione) è stato pubblicato per la prima vol-
ta nell'omonima plaquette edita da Solfanelli nel 1990. JOHN FEARN RUSSELL. Scrittore inglese nato nel 1908, fu estremamente prolifico e usò diversi pseudonimi: tanto per citarne alcuni, basti elencare quelli di Polton Cross, Thorton Ayre, Geoffrey Armstrong, Dennis Clive, John Cotton e Ephriam Winiki. Ma i due più famosi sono sicuramente quelli di Vargo Statten e Astron del Martia. Elencare qui di seguito la sua produzione nel campo della Fantascienza, della Fantasy e dell'Horror, sarebbe veramente un'impresa, ove si consideri che - fra romanzi, racconti e antologie - gli vengono accreditati oltre quattrocento titoli. Fearn aveva la curiosa idea di non volersi fare fotografare, tant'è che sembra esistano due sole fotografie che coprono tutto l'arco della sua vita. A causa dei molti pseudonimi usati, a tutt'oggi, nonostante i molti decenni trascorsi dalla sua morte, non si è ancora riusciti ad avere un'idea chiara di tutto il materiale che va ascritto a lui. SAKI. Pseudonimo usato dallo scrittore inglese Henry Hector Munro. Nato nel 1870, dopo aver frequentato le scuole secondarie, si laureò in Lettere e si dedicò alla carriera giornalistica nella quale riscosse parecchi consensi (e nella quale si fece parecchi nemici) con i suoi articoli estremamente pungenti. Sotto il suo vero nome scrisse un romanzo ambientato in un futuro nel quale la Germania ha invaso la Gran Bretagna e ha occupato Londra: Arthur C. Clarke, il grande autore di 2001 Odissea nello spazio, ha più volte affermato che si tratta senza alcun dubbio della sua opera migliore. La sua produzione fantastica e orrorifica è molto copiosa, e scritti che trattano del tema del Soprannaturale si trovano in diverse sue antologie tra le quali è obbligatorio citare Beasts and Superbeasts e The Complete Short Stories of Saki della quale ultima The Soul of Laploshka fa parte. Morì nel 1916. ELEANOR SCOTT. Il momento di maggiore notorietà questa scrittrice inglese lo conobbe nel periodo tra le due guerre mondiali, quando pubblicò quattro romanzi che incontrarono il favore del pubblico. Si trattava di War Among Ladies, Adventurous Women, Beggars Could Ride e Heroic Women. Oggi invece la sua fama è legata a una serie di racconti sul Soprannaturale che in origine videro la luce nel 1929 raccolti in un'antologia dal titolo Randall's Round. La Scott morì nel 1936.
WALTER SCOTT. Nato nel 1771 a Edimburgo, vi morì nel 1832. Figlio di un avvocato, si dedicò alla carriera forense, ma contemporaneamente svolse una intensa attività letteraria. Durante la sua infanzia, un vecchio giacobita gli aveva narrato le proprie imprese (perfino un duello con il famoso Rob Roy McGregor), e queste rievocazioni, insieme con le esperienze maturate nella contrada di Liddlesdale, e le letture di poemi cavallereschi, antiche cronache e documenti storici, formarono la piattaforma sulla quale Scott creò il suo approccio al «romanzo storico». Nel 1802 pubblicò una raccolta di ballate scozzesi, importantissime (Ministrelsy of the Scottish Border), e negli anni successivi poesie e poemi che preludono al contenuto e alla sensibilità dei romanzi. Con Waverley, uscito anonimo nel 1814, inizia la serie dei romanzi ambientati nella Scozia del Seicento e del Settecento. Ivanhoe (1820), ambientato all'epoca di Riccardo Cuor di Leone, rompe il ciclo: dopo, assistiamo a un susseguirsi tumultuoso di opere a un ritmo che, accelerato da un disastro finanziario, portò l'autore a una fine prematura. MATTHEW PHIPPS SHIEL. Nacque il 21 luglio del 1865 a Montserrat nelle Isole Sottovento della Gran Bretagna. Nono figlio di un predicatore wesleyano, già all'età di undici anni compilava un proprio giornale manoscritto per sette abbonati paganti. Nominato dal Vescovo di Antigua Re di Redonda nel 1880, l'anno seguente si recò in Inghilterra per compiervi gli studi che si conclusero con la Laurea in Medicina in seguito abbandonata per la letteratura. Tra la sua produzione, di tutto rispetto, vanno indubbiamente citati i romanzi di Fantascienza The Lord of the Sea e The Purple Cloud, quest'ultimo un classico di questo genere di narrativa destinato a diventare un modello. Scrittore molto popolare (vanta una media di un romanzo all'anno) oltre alla Fantascienza e all'Orrore (di quest'ultimo genere sono famosi Xelucha e The House of Sounds) presenta una produzione sostenuta nel campo del Giallo, dove ci limiteremo a citare la serie del Prince Zaleski, quella del detective «soprannaturale» Cummings King Monk, e i volumi scritti sotto lo pseudonimo di Gordon Holmes. La sua morte, rimasta per diverso tempo sconosciuta, è databile alla fine della Seconda Guerra Mondiale. ARNOLD SMITH. Contemporaneamente a molti nomi famosi del calibro di Margaret Irwin, Henry Russell Wakefield, Walter de la Mare, John Metcalfe e Montague Rhodes James, sul London Mercury Magazine, a ca-
vallo tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, comparvero nomi di autori molto meno illustri ma, a volte, assolutamente non inferiori, per quanto attiene alla bontà del narrato, ai loro più celebri contemporanei. È questo il caso di The Face on the Fresco uscito sul numero 104 della rivista nel luglio del 1928, a firma di Arnold Smith che, considerato l'impianto tipicamente jamesiano del narrato, alcuni critici sostengono trattarsi di uno pseudonimo di M.R. James. DERMOT CHESSON SPENCE. Nato il 4 luglio del 1879 e morto il 6 agosto del 1940, Spence è uno degli scrittori di storie fantastiche meno conosciuti tra quelli attivi a cavallo delle due grandi guerre mondiali. Quasi tutta la sua produzione è raccolta in un volume dal titolo Little Red Shoes and Other Tales of the Odd and Unseen pubblicato nel 1937 e dal quale è tratto il racconto presente in questo libro, The Dean's Bargain. Fra i suoi scritti migliori vanno citati i racconti The House on the Rynek e Little Red Shoes. ROBERT LOUIS STEVENSON. Nato a Edimburgo nel 1850 ed educato secondo le rigide norme morali dell'epoca vittoriana, si laureò in Ingegneria ma, già dal tempo dell'Università, mise in mostra la sua propensione per la scrittura. Dopo aver viaggiato a lungo in Europa e in America (la sua stessa vita costituirebbe un ottimo spunto per un romanzo d'avventura) si stabilì ad Apia, nelle Isole Samoa, dove morì giovanissimo nel 1894 a soli quarantaquattro anni. Tra la sua enorme produzione, non si può fare a meno di citare alcuni romanzi che gli hanno assicurato una fama a livello mondiale e che più volte sono stati portati sullo schermo. Si tratta de L'isola del tesoro, Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde, e La Freccia Nera. Con Stevenson ci troviamo di fronte ad uno dei pilastri della letteratura inglese e mondiale. BRAM STOKER. Come Le Fanu, nacque a Dublino nel 1847, e ivi morì nel 1912. Come Le Fanu anche lui frequentò il Trinity College, solo che si laureò in Matematica invece che in Giurisprudenza, e le similitudini con il suo grande compatriota non finiscono qui, ove si pensi che anche lui non mise a profitto gli studi effettuati, ma si diede a lavorare come critico teatrale per il Mail. Incontrato a ventinove anni il famoso attore Henry Irving, lo seguì a Londra diventando in breve tempo l'amministratore del suo teatro, il Lyceum, nonché suo grande amico e confidente. Morto Irving nel
1905, si dedicò totalmente all'attività letteraria, anche perché i proventi derivantigli dal suo romanzo Dracula erano più che sufficienti a fargli condurre una vita agiata. Come spesso capita nel caso di autori che abbiano scritto un testo di fama mondiale, tutto il resto della produzione di Stoker non ha il risalto che merita, e la riscoperta dei suoi racconti, come questo The Secret of the Growing Gold, costituisce una piacevole sorpresa. EDMUND GILLIAN SWAIN. Nato nel 1861, dopo aver abbracciato la carriera ecclesiastica, fu nominato cappellano del King's College di Cambridge nel 1892, divenendo molto amico di Montague Rhodes James che allora era il Rettore del College. Nominato Vicario di Stoneground, un villaggio vicino a Peterborough, cominciò a scrivere storie di Fantasmi che vennero poi raccolte e pubblicate in un volume dedicato a James e intitolato Stoneground Ghost Tales. Come il racconto presente in questa antologia, The Easter Window, anche gli altri otto che compongono il volume originale uscito nel 1912, sono chiaramente d'impronta jamesiana. Morì nel 1938. IGINIO TARCHETTI. Nacque a San Salvatore Monferrato nel 1839. È senz'altro il più originale narratore della Scapigliatura e, insieme a Capuana, il maggior narratore fantastico del nostro Ottocento. Terminati gli studi superiori, entrò, nel 1859, nel Commissariato Militare: la sua carriera breve e burrascosa, segnata da indisciplina e frequenti incidenti con i superiori, si interruppe nel 1865, anche per motivi di salute. Tornato a Milano, iniziò fortunosamente la carriera di scrittore, collaborando per vivere, a riviste e giornali, dalla Rivista minima al Gazzettino rosa, al Pungolo. Pubblicò Paolina. Mistero del Coperto Figini (1865) e Una nobile follia (1866), strinse amicizia con Praga, Boito, Camerana e Farina, in casa del quale morì di tifo il 25 marzo 1869, lasciando incompiuto quello che oggi è il suo romanzo più noto, Fosca, che uscirà (completato da Salvatore Farina) lo stesso anno della sua morte, prima a puntate nel Pungolo e poi in volume. In quello stesso anno vedono la luce anche Storia di una gamba, Amore nell'arte, L'innamorato della montagna, Racconti fantastici, Racconti umoristici. Le sue poesie, Disjecta, usciranno dieci anni dopo, nel 1879. MARK TWAIN. È lo pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens, uno dei più grandi scrittori americani di tutti i tempi. Nato nel 1835 e morto nel
1910, divenne molto popolare per le sue storie fantastiche ricche di humour, tra le quali il famosissimo romanzo trasposto anche in film Un americano alla Corte di Re Artù, La celebre storia della rana saltatrice della Contea di Calvaleras, e Lo sconosciuto misterioso uscito postumo. Né si può tralasciare di citare delle vere e proprie pietre miliari della letteratura americana quali Le avventure di Tom Sawyer, Il Principe e il povero e Le avventure di Huckleberry Finn. Nel racconto presente in questo volume, A Ghost Story, con la sua solita ironia, Twain fa la parodia della tipica storia di Fantasmi vittoriana. GIOVANNI VERGA. Siciliano, nacque a Catania nel 1840 e qui morì nel 1922, Senatore del Regno per meriti letterari. A soli diciassette anni, nel 1857, scrisse il suo primo romanzo, Amore e Patria, e da quel momento la sua carriera letteraria fu tutto un susseguirsi di trionfi tra i quali, solo per citarne alcuni, riporteremo Mastro don Gesualdo, Novelle Rusticane e I Malavoglia. Dalla raccolta Primavera e altri racconti uscito nel 1876, è tratto Le storie del Castello di Trezza, la cui prima pubblicazione è dell'anno precedente, il 1875. HENRY RUSSELL WAKEFIELD. Nato nel Sussex il 5 ottobre del 1888, questo scrittore inglese si rifà molto a Montague Rhodes James nello scrivere le sue storie di fantasmi. Anche se gli orrori della Prima Guerra Mondiale avevano allontanato completamente dalla mente della gente l'idea della morte, non era però diminuita la richiesta di storie di Fantasmi, e a questa richiesta Wakefield rispose fornendo un congruo numero di questo tipo di racconti. The Ghost Hunter è uno degli ultimi che scrisse. EDGAR WALLACE. Autore e antologista inglese, è universalmente conosciuto per la sua narrativa mistery. Nato nel 1875, fu il più prolifico scrittore di letteratura popolare del suo tempo, ed ha pubblicato centinaia di racconti mistery, oltre a tutta un'altra serie di scritti, commedie e articoli di argomento «mainstream». Ciò non gli ha impedito di frequentare anche il campo del Fantastico e, a parte alcune storie di Fantascienza, ha conseguito dei discreti risultati nella Narrativa Horror, dove, oltre The Stranger of the Night compresa in questa antologia, altre due ottime prove sono While the Passengers Slept del 1916 e The Captain of Souls del 1922. Morì nel 1932.
HUGH WALPOLE. Walpole, il cui nome completo è Hugh Seymour, nacque ad Auckland, in Nuova Zelanda, nel 1884. Figlio del Vescovo di Edimburgo e profondo conoscitore del mondo ecclesiastico, si dedicò alla letteratura e, nel 1922, scrisse il romanzo che senza ombra di dubbio costituisce il suo capolavoro, The Cathedral, da lui stesso portato in scena nel 1932. Erede della grande tradizione vittoriana di Thackeray, esordì nel 1909 con The Wooden Horse, e da quel momento la sua produzione letteraria è stata quanto mai copiosa, spaziando dal romanzo psicologico a quello «nero», dallo storico a quello di tipo picaresco. Morì il 2 febbraio del 1941 a Keswick nel Cumberland. HAROLD WARD. Ingegnere americano nato nel 1873 ad Atlanta, in Georgia, scrisse diversi racconti tutti pubblicati sui pulp magazines. Oltre a The Closed Door, uscito nel 1933 su Weird Tales, apparve su Argosy, AMZ e Astounding Science Fiction, ma solo fino alla fine degli Anni Trenta, ossia fino alla morte, che lo colse il 7 ottobre 1936. Il suo stile è scarno e non indulge in orpelli, ma è estremamente efficace. GEORGE HERBERT WELLS. Nacque a Bromley nel Kent l'11 settembre del 1886 da modesta famiglia. Considerato insieme a Verne il padre del «romanzo scientifico», pose in essere nei suoi scritti un felice connubio tra l'elemento fantastico e quello scientifico. Tra i romanzi da lui scritti ve ne sono diversi che costituiscono dei veri e propri capisaldi nella storia della Narrativa di Fantascienza, tra i quali vanno obbligatoriamente citati L'isola del Dr. Moreau e L'uomo invisibile, da noi pubblicati, e The Time Machine, The War of the Worlds e The First Men on the Moon. Morì a Londra il 13 agosto del 1946. WALLACE GEORGE WEST. Scrittore americano, nacque nel 1900 a San Francisco. Conseguita la Laurea in Giurisprudenza, oltre ad esercitare la professione forense, fece l'addetto alle pubbliche relazioni per due importanti aziende, e ovviamente si dedicò per quanto gli era possibile alla Narrativa Fantastica per la quale si sentiva molto portato. Il suo primo racconto ad essere pubblicato era di Fantascienza, The Last Man, uscito sulle pagine di AMZ nel 1929. Da quell'anno apparve abbastanza regolarmente anche su altri pulps come Startling Stories e Weird Tales dalla quale ultima è tratto The Laughing Duke che vi presentiamo. Poi smise di colpo, e di lui non si hanno più notizie.
EDITH WHARTON. Nata nel 1862, questa scrittrice americana è conosciuta in tutto il mondo più per opere come L'età dell'innocenza di recente portata sugli schermi per l'interpretazione di Michelle Pfeiffer, e per Ethan Frome, che non per la sua produzione fantastica. La quale ultima è compresa in due raccolte, Tales of Men and Ghosts del 1910 e Ghosts del 1937. Anche in questo specifico la Wharton ha dato ottima prova di sé, e il racconto Ognissanti presente in questa antologia, è tratto dal volume Storie di Fantasmi, curato da Gianni Pilo e Sebastiano Fusco per i tipi della Newton Compton, nel quale sono comprese undici storie soprannaturali di questa grande scrittrice. CHANDLER W. WHIPPLE. Nato a Sparta nel 1883, dopo aver conseguito la Laurea in Lettere, si dedicò al giornalismo e, negli anni Trenta, scrisse diverse sceneggiature per film. I suoi scritti sono pervasi da una forte nota di cinismo e di ironia, caratteristiche queste che ha trasposto anche a livello cinematografico. La maggior parte dei racconti che scrisse e che apparvero sui pulps, attengono alla Fantasy e all'Horror, come questo The Call in the Night pubblicato su Weird Tales nel 1936. OSCAR WILDE. Un altro dei molti, eccellenti scrittori che l'Irlanda ha dato alla letteratura mondiale. Nato a Dublino nel 1854, poeta, romanziere e commediografo, è senz'altro il più importante autore dell'epoca vittoriana. Nel 1895, al culmine della sua fama, venne condannato per omosessualità a due anni di carcere duro: esperienza terribile che lo segnò per tutto il resto della vita. Morto nel 1900, tra le sue opere vanno ricordate Il Ritratto di Dorian Gray e De Profundis. KATHERINE YATES. Lin Carter afferma trattarsi dello pseudonimo dello scrittore americano Edward Pendray, nato nel 1901 nel Wyoming e che pubblicò alcuni racconti nei primi anni Trenta sulle riviste specializzate dell'epoca, facendo anche uso di altri pseudonimi quali Gawain Ewards, John Edwards e Kate Gawain. D'altro canto, a parte questo Under the Hau Tree, uscito nel 1925 su Weird Tales, non si hanno altri racconti a firma di Katherine Yates, per cui non è possibile avvalorare o contestare l'ipotesi avanzata dal critico e saggista americano. ÉMILE ZOLA. Nato nel 1840 e morto nel 1902, è il caposcuola della
narrativa naturalistica, di cui fissò i principi nel saggio Il romanzo sperimentale del 1880. I suoi grandi romanzi, specie quelli appartenenti al ciclo dei Rougon Macquart (fra di essi ricordiamo L'ammazzatoio, 1877, Germinal, 1885, e La bestia umana, 1890), sono spietate rappresentazioni della vita sociale, culturale e politica della fine dell'Ottocento. Il racconto qui riportato è una delle sue rarissime escursioni nel campo del Fantastico. TITOLI ORIGINALI DEI RACCONTI CONTENUTI IN QUESTO VOLUME (L'ordine dei titoli corrisponde all'ordine di apparizione dei racconti nella nostra antologia.) Autori stranieri DANIEL DEFOE, The Ghost in All the Rooms (1712), trad. di Gianni Pilo. DANIEL DEFOE, The Ghost of Dorothy Dingley (1714), trad. di Mida, su licenza della Garden Editoriale s.r.l. ANONIMO, The Dance of Dead (1770), trad. di Mida, su licenza della Garden Editoriale s.r.l. ANN L. BARBAULD, Sir Bertrand (1773), trad. di Alda Carrer, su licenza della Garden Editoriale s.r.l. ANONIMO, The Sutor of Selkirk (1800), trad. di Alda Carrer, su licenza della Garden Editoriale s.r.l. HEINRICH VON KLEIST, Das Bettelweib von Locarno (1810), trad. di Gianni Pilo. WALTER SCOTT, Wandering Willie's Tale (1824), trad. di Gianni Pilo. WALTER SCOTT, The Tapestried Chamber (1829), trad. di Gianni Pilo. EDGAR ALLAN POE, Metzengerstein (1832), trad. di Daniela Palladino EDGAR ALLAN POE, Ligeia (1833), trad. di Daniela Palladino ALEKSANDR S. PUŠKIN, Pikovaja Dama (1834), trad. della versione inglese di Gianni Pilo. NATHANIEL HAWTHORNE, The Grey Champion (1835), trad. di Gianni Pilo. JOSEPH S. LE FANU, Schalken (1843), trad. di Gianni Pilo.
PROSPER MÉRIMÉE, La Vision de Charles XI (1844), trad. di Gianni Pilo. JOSEPH S. LE FANU, The Testament of Lord Toby (1848), trad. di Gianni Pilo. ELIZABETH CLEGHORN GASKELL, The Old Nurse's Story (1852), trad. di Pietro Meneghelli. FITZ-JAMES O'BRIEN, The Lost Room (1858), trad. di Gianni Pilo. THÉOPHILE GAUTIER, La cafetière (1858), trad. di Gianni Pilo. CHARLES DICKENS, The Ghost in Master's «B» Room (1859), trad. di Gianni Pilo. AMELIA BLANDFORD EDWARDS, The Phantom Coach (1864), trad. di Gianni Pilo. HERMINA BLACK, The Mailed Foot (1878), trad. di Mariarosa Humel, su licenza della Garden Editoriale s.r.l. MARY E. BRADDON, The Shadow in the Corner (1879), trad. di Gianni Pilo. FRANCIS M. CRAWFORD, The Doll's Ghost (1883), trad. di Mida, su licenza della Garden Editoriale s.r.l. ROBERT L. STEVENSON, Thrawn Janet (1884), trad. di Riccardo Reim. MARY WILKINS FREEMAN, Shadows on the Wall (1884), trad. di Gianni Pilo. ANN RADCLIFFE, The Haunted Chamber (1885), trad. di Alda Carrer, su licenza della Garden Editoriale s.r.l. BRAM STOKER, The Secret of the Growing Gold (1885), trad. di Gianni Pilo. AMBROSE G. BIERCE, An Arrest (1886), trad. di Gianni Pilo. EDITH NESBIT, The Ebony Frame (1886), trad. di Gianni Pilo. ROBERT L. STEVENSON, Markheim (1886), trad. di Gianni Pilo. WILKIE COLLINS, Mrs. Zant and the Ghost (1887), trad. di Gianni Pilo. MARY WILKINS FREEMAN, The Kindly Ghost (1887), trad. di Gianni Pilo. OSCAR WILDE, The Canterville Ghost (1887), trad. di Lucio Chiavarelli. SABINE BARING GOULD, On the Leads (1888), trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto. ELIZABETH CROWE, Round the Fire (1890), trad. di Mida, su li-
cenza della Garden Editoriale s.r.l. VIOLET PAGE, The Legend of Madame Krasinska (1891), trad. di Gianni Pilo. AMBROSE G. BIERCE, The Middle Toe of the Right Foot (1891), trad. di Gianni Pilo. AMBROSE G. BIERCE, The Ghost House (1893), trad. di Gianni Pilo. MARK TWAIN, A Ghost Story (1896), trad. di Gianni Pilo. ÉMILE ZOLA, Angeline (1898), trad. di Gianni Pilo. ARTHUR CONAN DOYLE, The Brown Hand (1899), trad. di Gianni Pilo. MARY WILKINS FREEMAN, The Lost Ghost (1903), trad. di Gianni Pilo. EDWARD F. BENSON, Mr. Tilly Seance (1904), trad. di Gianni Pilo. MATTHEW P. SHIEL, The Braid (1905), trad. di Gianni Pilo. MARY WILKINS FREEMAN, The Room at South-West (1905), trad. di Gianni Pilo. RUDYARD KIPLING, They (1906), trad. di Gianni Pilo. ALGERNON BLACKWOOD, A Ghost Story (1906), trad. di Gianni Pilo. EDWARD F. BENSON, Pirates (1907), trad. di Gianni Pilo. OLIVER ONIONS, The Phantom Ship (1907), trad. di Gianni Pilo. WILLIAM WYMARK JACOBS, The Three Sisters (1907), trad. di Mida, su licenza della Garden Editoriale s.r.l. WILLIAM H. HODGSON, Middle Islet (1908), trad. di Gianni Pilo. LORD (EDWARD PLUNKETT) DUNSANY, Poor Old Bill (1909), trad. di Gianni Pilo. WILLIAM H. HODGSON, The Ghost Pirates (1909), trad. di Gianni Pilo. SARI (HUGH HECTOR MUNRO), The Soul of Laploshka (1910), trad. di Gianni Pilo. EDGAR WALLACE, A Stranger of the Night (1910), trad. di Gianni Pilo. HERBERT G. WELLS, Pollock (1911), trad. di Gianni Pilo. EDMUND G. SWAIN, The Easter Window (1912), trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto. «B», The Stane Coffin (1913), trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto. HUGH WALPOLE, The Snow (1914), trad. di Alda Carrer, su licenza
della Garden Editoriale s.r.l. MATTHEW P. SHIEL, The Story of Henry and Rowena (1915), trad. di Gianni Pilo. ARTHUR CONAN DOYLE, The Bully of Brocas Court (1921), trad. di Gianni Pilo. ALFRED MC LELLAND, The Waxwork (1922), trad. di Gianni Pilo. ARTHUR GRAY, Brother's John Bequest (1924), trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto. KATHERINE YATES, Under the Hau Tree (1925), trad. di Gianni Pilo. ARNOLD SMITH, The Face on the Fresco (1928), trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto. ELEANOR SCOTT, Celui-là (1929), trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto. WINIFRED GALBRAITH, Here He Lies Where He Longed to Be (1930), trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto. EMMA DUFFIN, The Feast in the Family (1930), trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto. MONTAGUE R. JAMES, Lost Hearts (1931), trad. di Alda Carrer, su licenza della Garden Editoriale s.r.l. HUGH WALPOLE, The Little Ghost (1931), trad. di Gianni Pilo. WALLACE G. WEST, The Laughing Duke (1932), trad. di Gianni Pilo. HAROLD WARD, The Closed Door (1933), trad. di Gianni Pilo. CLIFFORD BALL, The Little Man (1934), trad. di Gianni Pilo. PATRICK CARLETON, Dr. Horder's Room (1934), trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto. RONAL KAYSER, The White Prince (1934), trad. di Gianni Pilo. LAURENCE J. CAHILL, Charon (1935), trad. di Gianni Pilo. EDITH WHARTON, All Souls (1935), trad. di Gianni Pilo. CHANDLER W. WHIPPLE, The Call in the Night © 1936, by Popular Fiction Publishing Co., trad. di Gianni Pilo. PAUL ERNST, The Man in Black (1936), © 1935 by Popular Fiction Publishing Co., trad. di Gianni Pilo. DERMOT C. SPENCE, The Dean's Bargain (1937), trad. di Nicoletta Rosati Bizzotto. HENRY JAMES, Owen Wingrave (1937), trad. di Marika Boni, su licenza della Garden Editoriale s.r.l.
HAZEL HEALD, The Horror in the Burying Ground (1937), trad. di Gianni Pilo. REX ERNEST, The Inn (1937), trad. di Gianni Pilo. JOHN FEARN RUSSELL, Judgement's Bell (1937), trad. di Abramo Luraschi, su licenza della Garden Editoriale s.r.l. ROY TEMPLE HOUSE, The Head at the Window, © 1938 by Popular Fiction Publishing Co., trad. di Gianni Pilo. GENE LYLE, The Hunch, © 1939 by Popular Fiction Publishing Co., trad. di Gianni Pilo. GANS T. FIELD, Half-haunted, © 1941 by Popular Fiction Publishing Co., trad. di Gianni Pilo. EDWARD E. EVANS, The Brooch, © 1943 by Popular Fiction Publishing Co., trad. di Gianni Pilo. STANTON A. COBLENTZ, The Grotto of Cheer, © 1948 by Popular Fiction Publishing Co., trad. di Gianni Pilo. HAROLD LAWLOR, What Beckoning Ghost?, © 1948 by Popular Fiction Publishing Co., trad. di Gianni Pilo. HENRY R. WAKEFIELD, The Ghost Hunter, © 1948 by Popular Fiction Publishing Co., trad. di Gianni Pilo. DOROTHY QUICK, The Woman in the Balcony, © 1949 by Popular Fiction Publishing Co., trad. di Gianni Pilo. Autori italiani IGINIO TARCHETTI, La leggenda del Castello Nero, 1861. GIOVANNI VERGA, Le storie del Castello di Trezza, 1875. AMILCARE LAURIA, Notizie dell'altro mondo, 1893. EDOARDO CALANDRA, Due spaventi, 1910. MARIANO RAMPINI, Fantasma di Demone, © 1982 by Mariano Rampini. ANTONIO BELLOMI, Un'incredibile storia di Natale, © 1988 by Antonio Bellomi. RICCARDO REIM, Oscure circostanze, © 1990 by Riccardo Reim. LUIGI cozzi, Fantasma di cane, © 1994 by Luigi Cozzi. Tutti i brani riprodotti nelle Appendici sono stati tradotti da Gianni Pilo, ad eccezione di Il filosofo e il fantasma, tratto dall'Epistolario di Plinio il Giovane, tradotto da Sebastiano Fusco.
Indice alfabetico per autore Anonimo (La danza del morto) Anonimo (Il calzolaio di Selkirk) «B» (La bara di pietra) Ball Clifford (L'ometto) Barbauld Ann Letitia (Sir Bertrand) Baring Gould Sabine (Sui tetti) Bellomi Antonio (L'incredibile storia di Natale) Benson Edward Frederick (La seduta spiritica del signor Tilly) Benson Edward Frederick (Pirati) Bierce Ambrose Gwinnett (Un arresto) Bierce Ambrose Gwinnett (Casa Manton) Bierce Ambrose Gwinnett (La casa del fantasma) Black Hermina (Il passo pesante) Blackwood Algernon (Una storia di fantasmi) Braddon Mary Elizabeth (L'ombra nell'angolo) Cahill Laurence John (Caronte) Calandra Edoardo (Due spaventi) Carleton Patrick (La stanza del dottor Horder) Coblentz Stanton Arthur (La taverna disabitata) Collins Wilkie (La signora Zant e il fantasma) Conan Doyle Arthur (La mano) Conan Doyle Arthur (Il «Bullo» di Brocas Court) Cozzi Luigi (Fantasma di cane) Crawford Francis Marion (Il fantasma della bambola) Crowe Elizabeth (Intorno al fuoco) Defoe Daniel (Il fantasma che stava in tutte le stanze) Defoe Daniel (Il fantasma di Dorothy Dingley) Dickens Charles (Il fantasma nella camera del signorino B.) Duffin Emma (Festa di famiglia) Dunsany Edward Plunkett, Lord (Povero, vecchio Bill) Edwards Amelia Blandford (La carrozza fantasma) Ernest Rex (La locanda) Ernst Paul (L'uomo in nero) Evans Edward Everett (La spilla) Field Gans T. (La casa infestata)
Freeman Mary Wilkins (Ombre sul muro) Freeman Mary Wilkins (Un fantasma gentile) Freeman Mary Wilkins (Il fantasma perduto) Freeman Mary Wilkins (La camera a sud-ovest) Galbraith Winifred (Qui riposa dove desiderava riposare) Gaskell Elizabeth Cleghorn (La storia della vecchia nutrice) Gautier Théophile (La caffettiera) Gray Arthur (L'eredità di Fratello John) Hawthorne Nathaniel (Il Campione Grigio) Heald Hazel (L'orrore nel camposanto) Hodgson William Hope (Middle Islet) Hodgson William Hope (I pirati fantasma) House Roy Temple (La testa alla finestra) Jacobs William Wymark (Le tre sorelle) James Henry (Owen Wingrave) James Montague Rhodes (Cuori perduti) Kaiser Ronal (Il Principe Bianco) Kipling Rudyard (I bambini) Kleist Heinrich von (La mendicante di Locarno) Lauria Amilcare (Notizie dell'altro mondo) Lawlor Harold (Chi sta chiamando il fantasma?) Le Fanu Joseph Sheridan (Schalken il pittore) Le Fanu Joseph Sheridan (Il testamento del gentiluomo Toby. Un racconto di fantasmi) Lyle Gene (Il presagio) Mc Lelland Alfred (La statua di cera) Mérimée Prosper (La visione di Carlo XI) Nesbit Edith (La cornice d'ebano) O'Brien Fitz-James (La stanza perduta) Onions Oliver (La nave fantasma) Page Violet (La leggenda di Madame Krasinska) Poe Edgar Allan (Metzengerstein) Poe Edgar Allan (Ligeia) Puškin Aleksandr Sergeevič (La Regina di Picche) Quick Dorothy (La donna sul balcone) Radcliffe Ann (La camera dei fantasmi) Rampini Mariano (Fantasma di Demone) Reim Riccardo (Oscure circostanze)
Russell John Fearn (La campana del Giudizio) Saki (L'anima di Laploshka) Scott Eleanor (Celui-là) Scott Walter (La storia di Willie il Vagabondo) Scott Walter (La Stanza delle Tappezzerie) Shiel Matthew Phipps (La promessa sposa) Shiel Matthew Phipps (La storia di Henry e Rowena) Smith Arnold (Il volto affrescato) Spence Dermot Chesson (Il buon acquisto del Decano) Stevenson Robert Louis (Janet la Storta) Stevenson Robert Louis (Markheim) Stoker Bram (Il segreto dei capelli d'oro) Swain Edmund Gillian (La finestra a oriente) Tarchetti Iginio (La leggenda del Castello Nero) Twain Mark (Una storia di fantasmi) Verga Giovanni (Le storie del Castello di Trezza) Wakefield Henry Russell (Il cacciatore di spettri) Wallace Edgar (Uno straniero dalla notte) Walpole Hugh (La neve) Walpole Hugh (Il piccolo fantasma) Ward Harold (La porta chiusa) Wells Herbert George (Pollock) West Wallace George (Il Duca Ridente) Wharton Edith (Ognissanti) Whipple Chandler W. (Una telefonata nel cuore della notte) Wilde Oscar (Il Fantasma di Canterville) Yates Katherine (Sotto l'albero Hau) Zola Emile (Il fantasma di Angeline) FINE