STORIE DI FANTASMI Le cento più belle storie di spettri da Montague Rhodes James a Joseph Sheridan Le Fanu, da Edgar All...
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STORIE DI FANTASMI Le cento più belle storie di spettri da Montague Rhodes James a Joseph Sheridan Le Fanu, da Edgar Allan Poe a Bram Stoker (1995) A cura di GIANNI PILO e SEBASTIANO FUSCO Indice Il Fantasma. Introduzione di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco STORIE DI FANTASMI Daniel Defoe, Il fantasma che stava in tutte le stanze, 1712 Daniel Defoe, Il fantasma di Dorothy Dingley, 1714 Anonimo, La danza del morto, 1770 Ann Letitia Barbauld, Sir Bertrand, 1773 Anonimo, Il calzolaio di Selkirk, 1800 Heinrich von Kleist, La mendicante di Locarno, 1810 Walter Scott, La storia di Willie il Vagabondo, 1824 Walter Scott, La Stanza delle Tappezzerie, 1829 Edgar Allan Poe, Metzengerstein, 1832 Edgar Allan Poe, Ligeia, 1833 Aleksandr Sergeevič Puškin, La Regina di Picche, 1834 Nathaniel Hawthorne, Il Campione Grigio, 1835 Joseph Sheridan Le Fanu, Schalken il pittore, 1843 Prosper Mérimée, La visione di Carlo XI, 1844 Joseph Sheridan Le Fanu, Il testamento del gentiluomo Toby. Un racconto di fantasmi, 1848 Elizabeth Cleghorn Gaskell, La storia della vecchia nutrice, 1852 Fitz-James O'Brien, La stanza perduta, 1858 Théophile Gautier, La caffettiera, 1858 Charles Dickens, Il fantasma nella camera del signorino B., 1859 Iginio Tarchetti, La leggenda del Castello Nero, 1861 Amelia Blandford Edwards, La carrozza fantasma, 1864 Giovanni Verga, Le storie del Castello di Trezza, 1875 Hermina Black, Il passo pesante, 1878
Mary Elizabeth Braddon, L'ombra nell'angolo, 1879 Francis Marion Crawford, Il fantasma della bambola, 1883 Robert Louis Stevenson, Janet la Storta, 1884 Mary Wilkins Freeman, Ombre sul muro, 1884 Ann Radcliffe, La camera dei fantasmi, 1885 Bram Stoker, Il segreto dei capelli d'oro, 1885 Ambrose Gwinnett Bierce, Un arresto, 1886 Edith Nesbit, La cornice d'ebano, 1886 Robert Louis Stevenson, Markheim, 1886 Wilkie Collins, La signora Zant e il fantasma, 1887 Mary Wilkins Freeman, Un fantasma gentile, 1887 Oscar Wilde, Il Fantasma di Canterville, 1887 Sabine Baring Gould, Sui tetti, 1888 Elizabeth Crowe, Intorno al fuoco, 1890 Violet Page, La leggenda di Madame Krasinska, 1891 Ambrose Gwinnett Bierce, Casa Manton, 1891 Ambrose Gwinnett Bierce, La casa del fantasma, 1893 Amilcare Lauria, Notizie dell'altro mondo, 1893 Mark Twain, Una storia di fantasmi, 1896 Emile Zola, Il fantasma di Angeline, 1898 Arthur Conan Doyle, La mano, 1899 Mary Wilkins Freeman, Il fantasma perduto, 1903 Edward Frederick Benson, La seduta spiritica del signor Tilly, 1904 Matthew Phipps Shiel, La promessa sposa, 1905 Mary Wilkins Freeman, La camera a sud-ovest, 1905 Rudyard Kipling, I bambini, 1906 Algernon Blackwood, Una storia di fantasmi, 1906 Edward Frederick Benson, Pirati, 1907 Oliver Onions, La nave fantasma, 1907 William Wymark Jacobs, Le tre sorelle, 1907 William Hope Hodgson, Middle Islet, 1908 Lord Dunsany, Povero, vecchio Bill, 1909 William Hope Hodgson, I pirati fantasma, 1909 Edoardo Calandra, Due spaventi, 1910 Saki, L'anima di Laploshka, 1910 Edgar Wallace, Uno straniero dalla notte, 1910 Herbert George Wells, Pollock, 1911 Edmund Gillian Swain, La finestra a oriente, 1912
«B», La bara di pietra, 1913 Hugh Walpole, La neve, 1914 Matthew Phipps Shiel, La storia di Henry e Rowena, 1915 Arthur Conan Doyle, Il «Bullo» di Brocas Court, 1921 Alfred Mc Lelland, La statua di cera, 1922 Arthur Gray, L'eredità di Fratello John, 1924 Katherine Yates, Sotto l'albero Hau, 1925 Arnold Smith, Il volto affrescato, 1928 Eleanor Scott, Celui-là, 1929 Winifred Galbraith, Qui riposa dove desiderava riposare, 1930 Emma Duffin, Festa di famiglia, 1930 Montague Rhodes James, Cuori perduti, 1931 Hugh Walpole, Il piccolo fantasma, 1931 Wallace George West, Il Duca Ridente, 1932 Harold Ward, La porta chiusa, 1933 Clifford Ball, L'ometto, 1934 Patrick Carleton, La stanza del dottor Morder, 1934 Ronal Kaiser, Il Principe Bianco, 1934 Laurence John Cahill, Caronte, 1935 Edith Wharton, Ognissanti, 1935 Chandler W. Whipple, Una telefonata nel cuore della notte, 1936 Paul Ernst, L'uomo in nero, 1936 Dermot Chesson Spence, Il buon acquisto del Decano, 1937 Henry James, Owen Wingrave, 1937 Hazel Heald, L'orrore nel camposanto, 1937 Rex Ernest, La locanda, 1937 John Fearn Russell, La campana del Giudizio, 1937 Roy Temple House, La testa alla finestra, 1938 Gene Lyle, Il presagio, 1939 Gans T. Field, La casa infestata, 1941 Edward Everett Evans, La spilla, 1943 Stanton Arthur Coblentz, La taverna disabitata, 1948 Harold Lawlor, Chi sta chiamando il fantasma?, 1948 Henry Russell Wakefield, Il cacciatore di spettri, 1948 Dorothy Quick, La donna sul balcone, 1949 Mariano Rampini, Fantasma di Demone, 1982 Antonio Bellomi, L'incredibile storia di Natale, 1988 Riccardo Reim, Oscure circostanze, 1990
Luigi Cozzi, Fantasma di cane, 1994 APPENDICI Appendice I. Il filosofo e il fantasma Appendice II. Il cacciatore infernale Appendice III. Le maschere di cera Appendice IV. Dal Dictionnaire Infernal di Jacques Collin de Plancy Filmografia Bibliografia Schede degli autori Titoli originali dei racconti e copyrights Indice alfabetico per autore Il Fantasma Di questi tempi, uno scrittore che non produca una certa quantità di storie raccapriccianti, difficilmente può essere accolto tra coloro che praticano la Narrativa Fantastica in genere e in particolare quella dell'Orrore. Deve obbligatoriamente narrare di sangue, teschi e scheletrì: insomma, se non spaventa i lettori, se non toglie loro il sonno, non è nessuno, e quindi è condannato al silenzio. Vogliamo subito precisarvi che noi, in generale, abbiamo un'opinione abbastanza scadente di questo genere di storie. Una storia che sia solo orribile, sanguinolenta e terrificante, e non contenga delle valenze che si appellino ai sentimenti umani e alle speranze, è soltanto un far leva sulla meno nobile, salutare e virile delle nostre passioni: ossia la paura. Coloro la cui attenzione viene fatalmente attratta da questo sentimento, si trovano nella condizione ideale per accettare qualsiasi assurdità con favore e rispetto, ed è proprio questa la ragione per cui questo genere di storie richiede molto minor talento di qualsiasi altro tipo di componimento letterario. Ciò premesso, possiamo assicurarvi di essere in grado di scrivere una decina di queste storie al giorno, ognuna delle quali sarebbe una vera e propria orgia di orrore. Potremmo raccontarvi di Scheletri Cannibali, di Risurgenti Assetati di Sangue, di Statue Assassine, e di tutta un'altra congerie di amenità del genere, ma pensate veramente che per fare questo ci
voglia del talento? Ricercare semplicemente il gusto del Macabro è facile come sorridere: ma ci vuole qualcosa di più per conferire a una storia uno spessore di un certo rilievo. Il valore di un racconto diminuisce in misura direttamente proporzionale alla quantità di sangue, lacerazioni e ferite di ogni genere che viene utilizzata dall'autore. Un bambino ha un sacro rispetto per un teschio o per delle ossa grondanti sangue, in quanto può immaginare qualsiasi dolore o terrore che per fortuna - data la sua età - gli sono sconosciuti, ma le sofferenze esclusivamente fisiche (a meno che non siano sublimate come quelle di Filottete) sono del tutto familiari per l'uomo adulto. Le immagini di un narrato, per creare del vero orrore nella mente di un adulto, devono essere ben distanti dalla grossolanità che è legata al sangue e alle carneficine. Un teschio è un oggetto degno di rispetto nelle mani di un monaco che prega, o di una suora obbligata a scartare qualsiasi idea di vita sociale, oppure di un eremita sepolto in un deserto. La Danza della Morte di Holbein, in cui ogni scheletro ghignante conduce seco un uomo di rango - dal Papa al Gentiluomo - è un ottimo memento mori, ma in quella rappresentazione gli scheletrì hanno un'aria ironica e comica. Se noi fossimo minacciati della stessa pena, non pensate che chiederemmo come fanno a camminare quegli scheletri se sono privi di muscoli...? Vediamo così che molti dei racconti scritti dagli autori dell'Orrore, sono in sostanza abbastanza puerili. Quando leggiamo di suore spettrali che vagano sanguinando, ci balza subito alla mente il pensiero che dovrebbero rivolgersi a un... chirurgo spettrale! Altrettanto dicasi per quei ghoul o zombie le cui diete vertono su cuori, interiora, e altre golosità del genere rigorosamente umane! - ma, a ben vedere, non ricordano forse coloro che mangiano dei cani o dei gatti per scommessa? Peraltro, le storie che procurano una sofferenza mentale come fine a se stessa, o con dei fini infinitesimali se paragonati alle spiacevoli sollecitazioni che agiscono sulla natura umana, sono altrettanto negative di quelle di cui abbiamo parlato in precedenza e, soprattutto, sono molto più pericolose perché diventano ridicole per le persone adulte. Esse hanno origine negli stessi estremi, nell'insensibilità e nella morbosa ricerca del sensazionalismo delle altre. Ma questo può formare oggetto di un saggio per la nostra collana de I Maestri del Terrore: quello che invece c'interessa ora, è tutto ciò che è
spettrale. Una storia di fantasmi, per essere valida, deve abbinare quanto più è possibile le cose reali della vita con una presenza soprannaturale. E per essere perfetta, ossia per aggiungere almeno all'utilità dell'eccitazione dovuta alla paura una finalità morale, deve implicare qualche nobile sentimento, qualcosa che provenga dall'Altro Mondo, per ricordarci dei nostri doveri in questo, oppure deve avere qualcosa che ci faccia trasporre la nostra idea di umanità nella vita eterna, anche quando non siamo propensi a credere di poterlo fare. Quando il Re di Danimarca torna sulla terra per parlare con suo figlio Amleto, viene completamente armato come era solito esserlo in vita. Il suo volto è celato nell'ombra dell'elmo la cui visiera è sollevata: solo, a dispetto del suo incarico punitivo e delle sue stesse sofferenze, ha un contegno più addolorato che infuriato. Il poeta Donne, nella sua ansia intimistica di conciliare vita e morte, s'immaginò avvolto in un sudario e deposto in una bara nel suo letto: così facendo, ottenne molto più che non i monaci e gli eremiti con i loro teschi. Infatti, stava portando con sé nell'Altro Mondo la sua umanità, senza diminuire la sensazione di effetto considerandola pezzo a pezzo o nella sua struttura. Burns, nel suo Tam O'Shanter, mostra i morti all'interno delle loro bare nello stesso modo: non ci propone scheletri nudi, per i quali non possiamo provare alcuna meraviglia e simpatia. Il ritorno di un'anima - di un fantasma o di uno spettro - è forse la più paurosa e terrificante tra le cose che generano spavento. Unisce infatti una naturale interferenza da parte di un essere dell'Altro Mondo con un'esperienza soprannaturale. La nostra coscienza è costretta a sconfinare dai limiti impostile dal suo autocontrollo. Gli estremi dell'abitudine e della novità, del luogo comune e dello stupore, si incontrano improvvisamente, senza la cortese intercessione della morte e del cambiamento: e la stranezza e l'inusualità ci sgomentano in proporzione. Forse, il personaggio più spaventoso di Spenser è Maleger nel Faerie Queenie: Cavalcava una tigre fiera e selvaggia che come il vento correva sotto il suo sprone, mentre le sue lunghe gambe sfioravano il terreno. Era di membra e di spalle possenti, ma di così lieve ed eterea sostanza,
che sembrava un fantasma le cui vesti funeree fossero cadute... Coleridge, in uno di quei suoi viaggi al limite di tutto ciò che si colloca ai confini e oltre la realtà - La Ballata del Vecchio Marinaio - non mette dei semplici fantasmi a condurre la nave una volta morto l'equipaggio, ma rianima - per un momento - l'equipaggio stesso. C'è una situazione dello stesso tipo nelle Note sul Corano di Sale. Salomone muore durante la costruzione del Tempio, ma il suo corpo rimane appoggiato contro un sostegno a osservare i lavoranti come se fosse vivo finché, avendo un verme divorato il sostegno, egli cade. Il contrasto delle sembianze di umanità con qualcosa di mortale o soprannaturale, è tanto più terribile quanto più è completo. Nei dipinti delle tentazioni di santi ed eremiti, dove il personaggio è circondato, tormentato e stuzzicato da demoni e figure fantastiche, il fantasma più sconvolgente è quello della bella fanciulla. Per ritornare alla Ballata del Vecchio Marinaio, il personaggio più terrificante di Coleridge è la donna-spettro, che è chiamata Vita in Morte. Lo scrittore rende la più orribile delle astrazioni, ancora più terribile di quanto non avrebbe potuto essere altrimenti, incarnandola nel suo stesso contrario. Non solo in essa vive la Morte, ma l'inesprimibile diventa palese e manifesto. Per vedere un simile passaggio ultraterreno da un punto di vista «mondano», egli sembra trasformare il luogo comune in una sorta di dubbio mefistofelico. Il marinaio, dopo aver descritto l'orribile calma e il mare marcescente in cui la nave era bloccata, parla di uno strano veliero che vede in lontananza. Sia ben chiaro però che dobbiamo avvicinarci a Coleridge con la nostra immaginazione più sottile, perché diversamente non saremmo in grado di percepire le infinite sfumature del suo narrato. Indispensabile è precisamente quella «volontaria sospensione dell'incredulità» invocata dallo stesso poeta. È peraltro un'attitudine pericolosa, che può condurre a stati d'animo inquietanti. Pensiamoci bene: qualsiasi cosa facciamo, i morti sono sempre con noi. Anche se li rinchiudiamo in avelli o ne spargiamo le ceneri ai quattro venti, essi ritornano come spettri alla nostra memoria, ed altro non ci resta che imparare a vivere con loro. Il sistema più efficace di disporne è, forse, quello di cristallizzarli in storie: le storie di morti vendicativi o benevoli
del folklore, i tetri fantasmi della parapsicologia, o gli imprevedibili Risurgenti della Narrativa Fantastica. ...ed era come il soffio d'un esile sussurro. Nell'ora in cui la notte nutre visioni che recano inquietudine, quando gli uomini sono incatenati dal sonno, la paura s'impossessò di me, tutte le mie ossa furono scosse da un tremito, e si arricciarono i peli della mia carne. Uno spirito venne dinanzi a me, e si fermò. Mi apparve uno, il cui volto non era a me noto, un simulacro di fronte agli occhi miei; e ne udii la voce, come il suono di un'aura leggera... Non è la citazione di un racconto di Poe, né una frase tolta da una storia di Lovecraft o di Machen: è un brano della Bibbia, dal «Libro di Giobbe» (IV, 12), composto fra il VI e il IV secolo a.C. Costituisce un esempio abbastanza interessante di come, nelle letterature arcaiche, veniva trattato il tema dell'incontro col fantasma. Non sarebbe azzardato pensare che le storie di fantasmi siano antecedenti alla letteratura registrata, ed appartengano al mondo primordiale, celato negli abissi del tempo. È comunque un fatto che, nelle religioni primitive, nella mitologia e nell'epica arcaica, la commistione di vivi e morti, di naturale e soprannaturale, sia un dato comune. Tutte le società nutrite di credenze animistiche hanno creduto (e credono) negli spettri; anzi, come hanno mostrato James Frazer, E.B. Tylor (il primo ad usare il termine «animismo») ed altri, è praticamente impossibile trovare società nelle quali non si riscontrino tali credenze. Anche quando, all'interno di una certa società, certe idee sulla sopravvivenza dei morti sono state razionalizzate o ripudiate, tuttavia esse continuano a mostrare una certa resistenza a scomparire, e trovano nuove forme per manifestarsi. Idee del genere erano diffuse in tutta la letteratura pre-cristiana, tanto in Europa che nel vicino e medio Oriente. Dal IV secolo in poi, nella Patrologia latina e greca, nei trattati morali e filosofici, nelle Cronache, nelle collazioni di leggende, negli exempla, omelie e sermoni, nei testi di teologia, nella poesia e nella letteratura d'intrattenimento, sono numerosi i riferimenti e gli aneddoti sui fantasmi. Di tempo in tempo sono state condotte inchieste rigorose su casi di presunte visitazioni di spettri. Sono stati registrati anche esempi di fenomeni che nel XX secolo è invalso l'uso di classificare col termine poltergeist,
«spiriti disturbatori». Gli annali dell'Abbazia di Fulda, per esempio, riportano che nell'anno 858 una fattoria presso Bingen risultò infestata da un poltergeist che scagliava pietre e appiccava incendi. Sottoposta ad esorcismo, l'entità investì gli astanti con una pioggia di sassi, poi chiamò per nome il prete e lo accusò d'essere un fornicatore. Aggiunse che, per ripararsi dagli spruzzi d'Acqua Santa, si era rifugiata sotto la sedia del sacerdote. Fatti analoghi sono frequentissimi, e un tempo erano considerati frutto dell'azione maligna di demoni. Nelle varie letterature citate, sono centinaia i casi riportati, relativi non soltanto a entità fastidiose, ma talvolta anche a spiriti benevoli. Per mille anni e più, il mutevole mondo del Soprannaturale si è stimato essere contiguo a quello della realtà, da esso separato soltanto da una fragile divisione. Così era, d'altronde, anche nelle epoche pre-cristiane. La dottrina cristiana, peraltro, fondata sull'Antico Testamento, i Vangeli e gli Atti, confermava l'esistenza di un ordine soprannaturale. Teologi e filosofi metafisici ribadirono poi questo concetto. Tanto che c'è da stupirsi che la storia di spettri come la intendiamo oggi (e come la si conosce da circa duecento anni), ovvero una narrazione imperniata sul manifestarsi dello spirito di una persona morta, non sia nata prima. Fino all'inizio dell'Ottocento, nella grande maggioranza, le storie di spettri avevano struttura aneddotica (spesso sulla base di fatti reali), e non possono essere considerate come esempi di una consapevole «narrativa spettrale», quali i racconti di - tanto per citare - Henry James o Edith Wharton. Tuttavia, qua e là si trovano esempi di storie molto vicine alla narrativa vera e propria, o quanto meno molto simili ad essa. Un caso del genere è il racconto del «sandalo infestato» fatto da Luciano di Samosata. Nel Satyricon di Petronio e nell'Asino d'oro di Apuleio, sono inserite storie di spettri molto vicine alla sensibilità moderna. Anche un trattatista come Plinio il Giovane si interessò agli spettri. In una lettera a Licinio Sura, scrive: ...Vorrei sapere se tu sia propenso a credere che i fantasmi esistano, abbiano forma loro propria e siano dotati di qualche potere soprannaturale, o invece non ritenga piuttosto che difettino di sostanza e realtà, e prendano forma soltanto in seguito alle nostre paure.
Procede quindi a narrare l'esperienza di Curzio Rufo (riferita anche da Tacito negli Annali, XI, 21) che, trovandosi in Africa, passeggiava verso mezzogiorno sotto il portico della sua casa. Mentre camminava a passo lento, gli sì manifestò un'apparizione: una figura di donna d'altezza e apparenza sovrumane. Dallo spettro apprese il proprio futuro, e le predizioni puntualmente si verificarono. Ancor più interessante è il racconto, sempre di Plinio, relativo a una casa infestata in Atene (vedi Appendice I). In tale narrazione troviamo già, in nuce, tutti gli elementi della moderna ghost story. Mille anni dopo, e in tutt'altro ambiente culturale, troviamo ancora un esempio di infestazione e maledizione nella Grettir Saga, anonima e scritta intorno al 1200 d. C. La fattoria di Thorhall - vi si legge - è infestata da un'entità maligna che procura disturbi e fa gran danni. Per proteggere le sue greggi e i suoi servi, Thorhall assolda il pastore Glam, «uomo grosso e rude, con folti capelli e grandi occhi fissi e grigi, la cui vista dava inquietudine». L'entità, tuttavia, uccide Glam, il cui spettro comincia anch'esso a infestare la fattoria. Un altro guardiano, Thorgaut, fa la medesima terribile fine. La disperazione di Thorhall è al colmo, quando il guerriero Grettir il Forte sente il suo caso e va a fargli visita. Gli offre la sua protezione e, quella stessa notte, ingaggia una lotta furibonda con le entità malefiche. Riesce a sconfiggerle, ma non prima che lo spettro di Glam abbia scagliato su di lui la sua maledizione. «Da allora», dice la Saga, «continuamente vide di fronte a sé lo sguardo fisso degli occhi spiritati del morto Glam.» Diversa è l'ispirazione di due storie spettrali incluse da Geoffrey Chaucer nei suoi Canterbury Tales, e ispirate probabilmente da Cicerone e Valerio. Nella prima, due compagni di viaggio arrivano in una città dove non trovano un posto per dormire. Infine, uno si accontenta di trovar riparo in una stalla per buoi annessa a una locanda, mentre l'altro trova una diversa sistemazione. Nottetempo, quest'ultimo sogna per due volte il suo amico che invoca soccorso perché sta per essere ucciso da malfattori che vogliono derubarlo. La terza volta il sogno cambia: appare la forma insanguinata dell'uomo, che annuncia di essere stato assassinato. Lo spettro esorta l'amico addormentato a recarsi il mattino dopo, presto, presso la porta occidentale della città: «Vedrai lì un carro pieno di letame, sotto il quale il mio corpo è occultato; con coraggio, ferma quel carro...». Così avviene, e i malfattori vengono impiccati.
Nella seconda storia, due uomini progettano un viaggio per mare. La notte prima dell'imbarco, uno di essi ha una visione: una figura gli appare accanto al letto e l'avverte di non partire il giorno dopo, se non vuole morire annegato. Decide di dare retta al monito soprannaturale e rimane a terra mentre l'amico, che non crede agli spettri, parte deridendolo. E, ovviamente, perisce in un naufragio. Il cronista francese Jean Froissart, uomo di molti viaggi e vasta cultura, fu quasi contemporaneo di Chaucer. Le sue Chroniques, che coprono il periodo dal 1325 al 1400, comprendono due lunghe e singolari storie di spettri. Sono narrazioni così complesse e ben congegnate da prefigurare quasi la ghost story classica, quale si sarebbe affermata soltanto quattrocento anni più tardi. L'episodio dell'infestazione di Pierre di Béarn è raccontato nel terzo libro, dedicato agli anni 1386-88 (proprio il periodo in cui Chaucer era impegnato a scrivere i Canterbury Tales). Il nobiluomo in questione aveva cominciato a soffrire di sonnambulismo, tanto da aver paura di dormire da solo. Nel corso delle sue crisi, si alzava dal letto, si armava di tutto punto, e ingaggiava feroci duelli con un avversario invisibile, tra lo sbigottimento dei suoi servitori, incaricati di sorvegliarlo. Il suo comportamento era conseguente all'uccisione da parte sua di un orso grande e feroce che aveva straziato e ucciso molti dei suoi cani da caccia. Dopo aver finito l'orso con la spada, il sieur Pierre era tornato nel suo castello in Biscaglia. Vedendo la carcassa dell'orso ucciso, la moglie del nobiluomo aveva perso i sensi e, poco dopo, cogliendo a pretesto un pellegrinaggio insieme con i figli, era andata a rifugiarsi presso la Corte del Re di Castiglia. La sua paura era motivata dal fatto che il proprio padre, anni prima, mentre dava la caccia al medesimo orso, aveva udito una voce disincarnata che diceva: «Tu vuoi uccidermi benché io non ti abbia fatto alcun male. La tua fine sarà atroce». E così avvenne, perché il Re lo fece decapitare. E adesso il nobile Pierre era perseguitato da un fantasma invisibile che lo assaliva ogni notte... L'altra storia di Froissart (appartenente allo stesso periodo) è più complessa. È chiamata La narrazione dello spirito familiare, ed ha alcune tinteggiature grottesche. Papa Urbano V aveva pronunziato in Avignone un giudizio in favore dei diritti di un ecclesiastico nei confronti di un possedimento sito nei domini di Raymond, Signore di Coresse. Il nobile tuttavia si era rifiutato di sottostare al giudizio del Papa, e aveva obbligato l'eccle-
siastico a sloggiare dalle proprie terre. Partendo, quest'ultimo gli aveva lanciato un severo monito: «...e presto ti manderò in mia vece un campione che ti spaventerà più di quanto non possa fare io». Il Barone non ne fu impressionato ma, circa tre mesi dopo, strani eventi cominciarono a manifestarsi nel suo castello. Ovunque si udivano colpi, tonfi, rumori improvvisi. La moglie ne era terrorizzata, e così i servitori. Tuttavia il Barone, che non aveva paura di nulla, cominciò a conversare con uno degli insoliti occupanti della sua magione, un'entità chiamata Orton. Alla fine, riuscì a convincerla a passare al suo servizio, lasciando l'ecclesiastico. Orton divenne così una specie di «spia fantasma», che gli recava notizie e informazioni da ogni parte d'Europa. La cosa andò avanti per cinque o sei anni. Alla fine, il Barone divenne curioso di conoscere l'aspetto del suo invisibile spirito familiare. Poi Orton gli annunciò che si sarebbe materializzato davanti a lui, ma non gli anticipò quale forma avrebbe assunto. Una mattina, il Barone vide nella sua aia una mucca enorme ma così magra da essere pelle e ossa, con «una lunga mammella pendente e un muso magro e famelico». Liberò i cani per scacciarla, ma troppo tardi si rese conto di ciò che aveva fatto. Orton non tornò più nel castello, ed entro l'anno il Barone morì. Questi pochi esempi - ai quali potrebbero aggiungersene molti altri, non ultima la visione di Nastagio degli Onesti narrata da Boccaccio nel Decamerone - mostrano come le potenzialità delle storie di spettri fossero state ben individuate già dai primordi della narrativa in Occidente, tanto da prefigurare le tematiche che sarebbero state affrontate organicamente soltanto negli ultimi due secoli. Durante il Rinascimento in Europa, e fin quasi alla fine del XVII secolo, si diffuse un vasto e approfondito interesse per le cosiddette «scienze occulte», in particolare la magia, l'alchimia, l'astrologia; interesse esteso spesso al versante «nero» di queste discipline, comprendente la stregoneria, l'evocazione diabolica, la necromanzia. La letteratura prodotta a metà del Seicento su queste tematiche, era ormai immensa. Era il prodotto di indagini continue, appassionate e approfondite; da questo corpus di osservazioni si svilupparono, in seguito, le ricerche su quello che Arthur Koestler battezzò «il paranormale». Intorno al 1650, il razionalismo cartesiano aveva ormai minato alle fondamenta le basi dottrinali sulle quali si sorreggeva la cosiddetta sapienza occulta. Ma, se riandiamo indietro fino all'XI secolo, vediamo una
successione di intelletti formidabili che si erano applicati a ricerche su ciò che oggi si chiama «Soprannaturale». Uomini come, per esempio, Michele Psello, filosofo bizantino, che nel 1050 pubblicò un dotto trattato sui demoni. E come Pietro Lombardo (c. 1100-c. 1160), autore del famoso Liber Sententiarum; Roger Bacon (12141294); John Bromyard, Cancelliere dell'Università di Cambridge, che scrisse la Summa Praedicantium (1495); Cornelio Agrippa (1466-1535), sommo autore del De Occulta Philosophia; Paracelso (1493-1541), fondatore della chimica moderna, che scrisse profondamente di magia, alchimia, astrologia; Girolamo Cardano (1500-1576), matematico e mago; Robert Fludd (1574-1637), medico e Cavaliere Rosacroce. Ma anche i due famosi Domenicani cacciatori di streghe, Sprenger e Kramer, il cui sinistro Malleus Maleficarum (1484) licitò orribili efferatezze. Ad essi si potrebbero aggiungere i nomi di Wyer, Bodin, Remigio e Delrio, che pubblicarono profondi trattati di demonologia e magia, e di Bloyer, autore della famosa Histoire des spectres (1605). Tutti questi personaggi (e molti altri) si interessavano a quelli che oggi verrebbero definiti «fenomeni psichici», e di conseguenza di spettri. Furono però gli autori di teatro inglesi del Periodo Tudor i primi a intuire appieno le possibilità drammatiche insite nell'impiego del fantasma come «personaggio». Furono probabilmente influenzati dalle tragedie di Seneca: per esempio dall'Agamennone, nel quale lo spettro di Tieste recita il prologo, e dal Tieste, nel quale il prologo è declamato dal fantasma di Tantalo. D'altra parte, già Euripide, nei Persiani, fece apparire in scena lo spettro di Dario. Spesso, nei drammi di Seneca e di altri, azioni di vendetta vengono ispirate ai personaggi di visioni in cui compaiono gli spiriti di trapassati. Nelle centinaia di opere teatrali rappresentate in Inghilterra fra il 1580 e il 1620, figurano innumerevoli fantasmi, soprattutto nei drammi storici e in quelli incentrati su macchinose vendette. Alcune di queste larve sono maligne, come lo spettro di Andrea nella Spanish Tragedy di Kyd; altri hanno un ruolo fondamentale nella trama, come l'ombra del padre di Amleto (ruolo - si dice - interpretato da Shakespeare stesso, con spaventosa efficacia); altri ancora hanno funzione premonitoria, come - sempre in Shakespeare - lo spettro di Cesare che appare a Bruto prima della battaglia di Filippi; alcuni infine si limitano a comparire sulla scena, per dare al pubblico un brivido addizionale: è così per le apparizioni di Isabella e Brachiano nel White Devil di Webster, per non parlare dello spettro di
Banquo in Macbeth. Il «fantasma di scena» dopo di allora ha avuto una storia ricca e varia. Ha fatto capolino anche nelle commedie, ed è apparso anche nel melodramma e nell'opera lirica, soprattutto nell'Ottocento. Ancor oggi, regge benissimo il palcoscenico. Al di là del palcoscenico, peraltro, i fantasmi scomparvero virtualmente dalla letteratura europea nella prima metà del Seicento, per non più riapparire fino all'avvento del Gotico nell'ultimo scorcio del Settecento. Comunque, sono menzionati con frequenza in opere riguardanti il Soprannaturale, compaiono costantemente nella tradizione orale, nelle ballate e nel folklore e sono anche protagonisti di liriche e poemi spesso pubblicati in opuscoli di larga diffusione. Nel 1706 Daniel Defoe pubblicò il celebre racconto A True Relation of the Apparition of One Mrs. Veal. Lo spunto gli era stato fornito da un caso di infestazione spettrale a Canterbury, sul quale Defoe condusse un'indagine personale interrogando la principale testimone, una certa signora Bargrave. Com'era lecito attendersi da Defoe, si tratta di un brano narrativo di straordinaria efficacia. È forse più giornalismo che vera letteratura, ma già prefigurava quella che sarebbe diventata la ghost story popolare nel XIX secolo. Defoe scrisse il suo racconto nel pieno del periodo della Regina Anna (1702-1714), un'epoca di razionalità e di gusto neoclassico, nella quale le virtù dominanti dal punto di vista letterario ed estetico erano il buon senso, l'ordine, l'armonia, l'eleganza, il decoro, il contegno. Le persone di cultura non erano propense a credere nei fantasmi. Quando l'argomento veniva sollevato, era accolto in genere da un atteggiamento di malcelato scetticismo e civile condiscendenza. Intorno al 1740, questo atteggiamento avrebbe tuttavia subito una sensibile modificazione, segnata dalla comparsa della cosiddetta «poesia sepolcrale». I poeti romantici, affascinati dal lato oscuro dell'esistenza, erano attratti dalla morte e dalla sofferenza, e subivano il fascino tenebroso dei cimiteri. Ribelli alle convenzioni della cultura dominante, contestavano il razionalismo e cercavano tonalità diverse - nei loro modi espressivi dal classicismo di Pope o Dryden. Le opere più significative, in ambito anglosassone, sono i Night Thoughts (1742-1745) di Edward Young, The Grave (1743) di Blair, le Meditations Among the Tombs (1745-1747) di James Hervey, e natural-
mente la Elegy Written in a Country Churchyard di Thomas Gray, oltre che On the Pleasures of Melancholy (1747) di Thomas Warton. Questi scritti esercitarono un influsso notevole sul romanzo gotico, che stava per apparire, e sulla figura dello spettro nella narrativa. Influenzarono anche profondamente la «Narrativa del Terrore», che sarebbe apparsa in Germania alla fine del XVIII secolo. Il romanzo gotico ha al suo centro il mistero e il terrore, e impiega uno stile narrativo studiato per far agghiacciare il sangue e far correre un brivido lungo la spina dorsale. L'elemento soprannaturale vi svolge un ruolo importante, e quasi sempre è presente il tòpos della magione infestata, oggetto nei secoli a seguire di infinite esplorazioni, estese non soltanto alla narrativa, ma a tutti i mass-media, cinema in testa. Oggetto dell'infestazione è sovente un castello medievale, denso di passaggi segreti, cupi sotterranei, scale malferme, camere di tortura, e afflitto da periodiche apparizioni di spettri e larve. Uno dei primi esempi di questo genere di narrativa in Inghilterra fu Ferdinand Count Fathom (1753) di Tobias Smollett, forse il primo romanzo a proporre terrore e crudeltà come tematiche principali. Molto più conosciuto (e certo titolare di ben più vasta influenza) fu The Castle of Otranto (1764) di Horace Walpole. Ancor oggi straordinariamente leggibile, malgrado le tediose diversioni, è una storia di malvagità, sangue e passioni, in cui fa la sua comparsa un fantasma spaventoso. È un libro sempre immensamente popolare. Nei successivi cinquant'anni apparve una folta serie di romanzi analoghi, seppur di qualità diversa, molti dei quali vennero ridotti per le scene. Alcuni degli esempi principali del genere furono Longsword (1762) di Thomas Leland, The Old English Baron (1778) di Clara Reeve, Mysteries of Udolpho (1794) di Ann Radcliffe, The Monk (1796) di Matthew Lewis, The Fatal Revenge (1807) e Melmoth the Wanderer (1820) di Charles Maturin e, naturalmente, il più celebre di tutti, Frankenstein (1818) di Mary Shelley. Negli stessi anni, gli scrittori tedeschi stavano elaborando un loro proprio stile nell'ambito della narrativa sensazionalistica e gotica, che segnò un contributo notevole alla letteratura spettrale. Nel corso del XVIII secolo i circoli letterari tedeschi mostrarono un grande interesse per la letteratura inglese; Klopstock, Gellert e Wieland, per esempio, vennero sostanzialmente influenzati da Shakespeare, Milton e Richardson; Goethe definì Edward Young come un pari dello stesso Mil-
ton. Fra le due letterature si stabilirono molte corrispondenze. M.G. Lewis, per esempio, tradusse opere dal tedesco, e a sua volta influenzò Hoffmann. Le prime traduzioni di «romanzi del terrore» tedeschi apparvero in Inghilterra nel 1794 con una versione di Hermann von Unna di Benedikte Naubert. Fra le opere tradotte figurano romanzi di Karl Grosse, Leonhard Wächter, C.H. Spiess e Heinrich Zschokke. Il Rinaldo Rinaldini di C.A. Vulpius divenne estremamente popolare. C'è peraltro una significativa differenza fra il gotico inglese e quello tedesco. Quest'ultimo infatti ha una precisa connotazione «politica»: gli intenti sociali sono insistiti, e vi appaiono palesi venature di anticlericalismo. L'intento rivoluzionario è evidente. Anche nel resto dell'Europa questo genere di narrativa era molto richiesto e riscuoteva grande successo. Eccetto che in Francia, tuttavia, pochi scrittori trassero ispirazione diretta dal romanzo gotico inglese. Sui francesi, invece, l'influsso della Narrativa Nera d'Inghilterra si sommò a quella degli scrittori gotici di lingua tedesca, con in prima linea Hoffmann, e si fece sentire soprattutto nella seconda metà dell'Ottocento. Charles Nodier, Balzac, Gérard de Nerval, Prosper Mérimée, Théophile Gautier, Petrus Borel, si cimentarono tutti con successo nel Gotico e nell'Orrore. Più tardi, Barbey d'Aurevilly, Maupassant e Villiers de l'Isle-Adam, firmarono veri e propri capolavori. Il Gotico trasmigrò anche in America, dove Isaac Mitchell (1758-1811) raggiunse una certa fama col suo romanzo The Asylum (1811) e Charles Brockden Brown (1771-1810), il primo letterato autenticamente americano, si conquistò un posto nella narrativa di lingua inglese con romanzi quali Wieland (1798), Arthur Mervyn (1799), Ormond (1799) e Edgar Huntly (1799), tutti influenzati principalmente da Richardson, Godwin e Ann Radcliffe. A sua volta, Brown influenzò Hawthorne e Poe, oltre che numerosi scrittori d'Inghilterra, in particolare Keats, Walter Scott, Hazlitt, Mary Shelley e lo stesso Percy Bysshe Shelley che, secondo il suo amico e biografo Peacock, era profondamente affascinato dai romanzi dell'americano. Questa «fertilizzazione incrociata» continuò per gran parte del XIX secolo, al cui termine la Narrativa Gotica di lingua inglese non soltanto era straordinariamente vivace, ma stava per attingere ulteriore linfa da un nuovo mezzo d'espressione, il cinema, che ne sarebbe stato profondamente influenzato. Nell'Ottocento, gli autori americani più rappresentativi furono Hawthorne, Poe e Ambrose Bierce; nel secolo successivo, H.P. Love-
craft, John Hawkes, James Purdy e Thomas Pynchon. All'inizio del XIX secolo il racconto breve, come forma letteraria, tornò a godere di una notevole popolarità, come più non accadeva dal Quattrocento e Cinquecento. Fra i suoi generi, la ghost story si affermò immediatamente, come se il terreno per il suo avvento fosse già stato preparato in anticipo. Le ragioni di questo successo sono molteplici. In primo luogo, il fatto che mezzo secolo di Narrativa Gotica e del Terrore aveva ormai abituato il pubblico all'idea dell'esistenza e della manifestazione di forze soprannaturali. In questo modo, la paura era stata accettata come materia letteraria. Ma anche altre influenze avevano giocato un ruolo nel determinare il successo delle storie di spettri. Nella cultura dell'epoca, per esempio, si registrava un rinnovato interesse verso il concetto di male, e nella sua stessa personificazione, il Diavolo. Il tema faustiano era tornato in vita (e vitale sarebbe rimasto da allora), e con esso l'inquietante figura dell'Ebreo Errante. C'era una ripresa degli studi riguardanti il folklore e le antiche ballate, fonti inesauribili di vicende di fantasmi. Inoltre, si registrava un grande fascino sul pubblico di argomenti quali gli aspetti più oscuri del Medioevo, le antiche superstizioni, il misticismo, gli aspetti controversi della personalità umana. Forte era la popolarità presso le masse di figure tenebrose emerse alla fine del secolo appena tramontato, come lo pseudo-mago Cagliostro e l'avventuriero Conte di Saint Germain. Mistici come Johann Hamann ed Emanuel Swedemborg avevano diffuso straordinarie visioni del mondo ultraterreno. Molti grandi poeti si erano lasciati attirare dal fascino del Magico e del Soprannaturale: citiamo Burger con Lenore, Coleridge con The Ballad of the Ancient Mariner, Keats con La belle Dame sans Merci. Il Fantastico era ormai accettato, in tutta Europa, come materia letteraria pienamente compatibile con la cultura. Quanto alla storia di spettri vera e propria, in un certo senso essa nacque da una certa stanchezza mostrata dal romanzo gotico tradizionale, oggetto ormai di parodie e versioni grottesche, come Northanger Abbey di Jane Austen e Nightmare Abbey di Thomas Love Peacock, apparsi entrambi nel 1818. Il pubblico, preparato ormai a credere nell'esistenza vera di fantasmi e visioni, rifiutava il terrore un po' artefatto del Gotico alla Walpole, frutto
più di scenografia che di sostanza. In un certo senso, desiderava qualcosa di più «realistico»: voleva essere spaventato da terrori autentici (o presunti tali), e non di maniera. Nel 1819 Leigh Hunt, nella sua introduzione a A Tale for a Chimney Corner, scrisse così: Lo scrittore che oggi non sforna la sua quota di storie raccapriccianti, sembra destinato all'esilio dalla repubblica delle lettere. Tanto vale che come proprio stemma adotti la testa di morto. Se non riesce a spaventare nessuno, non è nessuno. Se non riesce a impressionare le signore, che potete aspettarvi da lui? Ancora nel 1818 la pubblicazione di The Vampyre di Polidori rese immensamente popolare la figura dei non-morti, che da allora sono rimasti una presenza stabile nell'immaginario popolare, attirando decine di scrittori, anche di non mediocre conio. Fatto sta che, in quest'atmosfera, all'inizio dell'Ottocento troviamo i primi esempi di vere e proprie storie di spettri nel senso ormai accettato del termine. Apparve nel 1810, sul Berliner Abendblätter, il breve racconto Das Bettelweiss von Locarno di Heinrich von Kleist. In pochissime pagine, sintetizza le diverse componenti (già anticipate da Plinio e Froissart) del tradizionale racconto di fantasmi: la magione (in questo caso un castello) che si rivela infestata (e di conseguenza non trova acquirenti), il proprietario colpevole di aver dato inizio a una catena di eventi sinistri, la moglie terrorizzata, l'ospite travolto da visioni spaventose, il cane che avverte la presenza di forze preternaturali, il tema della colpa e l'espiazione... Il tutto steso in uno stile stringato ed estremamente efficace. Pochi anni più tardi, appare una storia molto più lunga, Das Majorat di E.T.A. Hoffmann, nella quale compaiono alcuni elementi stilistici che diventeranno anch'essi abituali nella ghost story moderna. In essa viene ricreato un vero e proprio microcosmo del terrore, con precise barriere che lo isolano dalla realtà esterna. L'atmosfera sinistra viene costruita gradualmente, quasi passo-passo; così l'elaborazione degli elementi di tensione e di incertezza. Qua e là fa capolino un tono ironico, e non è assente il Grottesco. Kleist e Hoffmann, peraltro, furono semplicemente pionieri della storia di spettri moderna, che successivamente si sviluppò soprattutto in lingua inglese. In tale lingua - segnala chi si è preso la briga di compilare elen-
chi bibliografici del genere - è stato scritto il 98 per cento delle storie di fantasmi che abbiano un qualche merito letterario; di queste, il 70 per cento è dovuta ad autori nati nelle Isole Britanniche. Perché sia così, è un'interessante questione, non semplice a risolversi. Il primo importante racconto di fantasmi di un autore americano fu The Legend of the Sleeping Hollow di Washington Irving, un testo non privo di toni umoristici, apparso nella raccolta The Sketch Book (1820); nello stesso volume è compreso The Spectre Bridegroom, in cui lo spettro nel finale si rivela falso. In Inghilterra, Sir Walter Scott, nel suo romanzo Regauntlet (1824) incluse come episodio separato una straordinaria storia di spettri, Wandering Willie's Tale, che include elementi tratti da antiche leggende. Altre narrazioni spettrali di Scott sono The Tapestried Chamber e My Aunt Margaret's Mirror, entrambe del 1828. Allo scrittore si deve anche un importante saggio dal titolo On the Supernatural in Fictitious Composition (1827) che individua i punti fondamentali della narrativa non realistica. Una delle sue osservazioni più interessanti è la seguente: «Il Soprannaturale... è un soggetto peculiare che risente in modo negativo di un trattamento rozzo e di una pressione troppo insistita. Di sua natura è estremamente difficile, e ben pochi ne sono gli esempi che emergono sugli altri». In effetti, molte storie di spettri e dell'orrore falliscono proprio a causa di un «trattamento rozzo e una pressione troppo insistita». Probabilmente per questo, ovvero per la difficoltà di mantenere a lungo la tensione e il terrore, è soprattutto nell'ambito del racconto breve - piuttosto che nel romanzo - che si trovano i veri capolavori della Narrativa Soprannaturale. Romanzi di autori di segnalato talento quali F. Marion Crawford, W. W. Jacobs, H.P. Lovecraft, confermano l'assunto. Fu a partire dal 1830 che Edgar Allan Poe cominciò a esercitare il suo influsso, con racconti apparsi su diversi periodici in America e Inghilterra: la sua prima antologia, Tales of the Grotesque and Arabesque è del 1840. I suoi scritti influenzarono notevolmente l'evoluzione del Racconto del Terrore, si diffusero nella cultura europea con la mediazione di Baudelaire, ed ebbero effetti notevoli su autori di lingua inglese come Rossetti, Swinburne, Dowson e Stevenson, oltre che, più tardi, su narratori americani come Ambrose Bierce, Hart Crane e H.P. Lovecraft. Poe, a sua volta, era stato influenzato da Hoffmann. Lui stesso scriveva per il grande pubblico, e sapeva bene come comportarsi. Nel suo sag-
gio/racconto How to Write a Blackwood Article, si rivolge così a un aspirante autore: «Le sensazioni sono dopotutto la cosa fondamentale. Se mai tu dovessi finire annegato o impiccato, tieni ben nota delle tue sensazioni: potranno valerti un sudario da dieci dollari». Poe, peraltro, non scrisse mai autentiche storie di spettri (sotto questo punto di vista, la più interessante è forse Ligeia). I suoi racconti sono piuttosto analisi della personalità, studi degli effetti che il terrore - quale che ne sia l'origine - produce sulla psiche umana. Un suo contemporaneo di minor talento ma di qualche merito fu l'ecclesiastico inglese R.H. Barham, che intorno al 1830 diede il suo contributo all'evoluzione del racconto spettrale. Fine versificatore, gran parte delle sue narrazioni di fantasmi hanno forma poetica. Tuttavia, gli si devono anche due lunghe narrazioni in prosa: The Spectre of Tappington e The Leech of Folkestone. Nel 1834, il poeta russo Alexandr Puskin pubblicò La Regina di Picche: storia di un giovane giocatore e di un'anziana Contessa che gli rende visita dopo la morte. Nella narrativa russa rappresenta un fenomeno pressoché isolato: non sono molti gli autori di quella lingua che abbiano prodotto autentiche storie di spettri, anche se Gogol e Dostoevskij, fra gli altri, hanno fatto ampio uso di elementi soprannaturali. Nel 1840 Charles Dickens, pur non avendo ancora trent'anni, era già divenuto famoso, e cominciò ad esercitare un importante influsso sull'evoluzione della ghost story. I suoi primi contributi al genere furono brevi narrazioni inserite nei Pickwick Papers (1837). Seguirono le storie di apparizioni e fantasmi apparse come «Libri di Natale» dal 1843 al 1848, la più celebre delle quali è di certo A Christmas Carol in Prose. Dei suoi racconti di fantasmi successivi, i più noti sono forse quelli scritti per due numeri speciali natalizi del periodico All the Year Round, intitolate The Trial for Murder e No. 1 Branch Line: The Signalman. Il contributo di Dickens allo sviluppo del racconto spettrale non si limita però ai suoi stessi scritti. Nel 1851 lanciò un supplemento speciale alla sua rivista Household Words, per il quale invitò i lettori ad inviargli racconti. Sul supplemento del 1852 apparve lo splendido racconto di Elizabeth Gaskell The Old Nurse's Story, e per molti anni in seguito ospitò un gran numero di eccellenti storie del genere. Molti degli autori erano donne: vale la pena di citare Amelia Edwards, cui si devono The Engineer e The Phantom Coach e Annie Oliphant, che
con The Open Door firmò una delle migliori storie di fantasmi mai pubblicate. Molti celebri scrittori inglesi della seconda metà dell'Ottocento si accostarono al genere. William Mackepiece Thackeray, per esempio, scrisse The Story of Mary Ancel. Wilkie Collins (amico e collaboratore di Dickens) fu, molto prolifico; diverse sue storie sono riunite nell'antologia After Dark. Anche Bulwer Lytton, il famoso scrittore-iniziato, pubblicò racconti spettrali; i più famosi sono The Haunters and the Haunted (1859) e A Strange Story (1861). Assai noto all'epoca fu l'irlandese Sheridan Le Fanu, che cominciò a pubblicare ghost stories nel 1838, proseguendo fino alla sua morte avvenuta nel 1873. I suoi titoli sono fra i più «realistici» e convincenti, e spesso si ispirano ad antiche leggende della sua terra. A lui si deve anche uno dei classici del vampirismo, il romanzo breve Carmilla. Lanciò anche la figura dell'Investigatore dell'Occulto, con il suo personaggio di Martin Hesselius, medico del Soprannaturale. Il cliché in seguito venne ripreso da molti scrittori, fra cui Algernon Blackwood con John Silence e William Hope Hodgson con Carnacki, detective del Paranormale. Alla morte di Le Fanu, la ghost story era un genere letterario ormai codificato. Il suo successo era amplificato dall'ondata di interesse verso lo spiritismo e le ricerche psichiche, diffusosi in Occidente in quello scorcio di secolo. Inoltre, la curiosità della gente era sollecitata anche da tematiche come la Magia Nera, la stregoneria, il diavolo e i riti diabolici, i disturbi della personalità (che all'epoca cominciavano ad essere studiati scientificamente), l'ipnosi e così via. In un'atmosfera del genere, non deve meravigliare il successo delle storie di fantasmi: dal 1870 in poi ne apparvero innumerevoli. Secondo alcuni, la loro diffusione rispondeva in qualche modo a un bisogno spirituale: in un'era di crescente materialismo, lo spettro testimoniava, con la sua presenza, della possibilità di una nuova vita dopo la morte. I fantasmi, inoltre, rappresentavano un legame col passato, con il nucleo di tradizioni ancestrali cui si rifacevano le leggende fondate sul Soprannaturale. Molti autori del secondo Ottocento non consideravano i loro racconti di fantasmi (e comunque tutta la letteratura non realistica) come una forma di escapismo, di narrativa popolare: al contrario, erano animati da ispirazioni serie, e cercavano di analizzare nuovi stati di coscienza, di investigare aspetti ignoti della realtà, di discutere il significato dell'esistenza. E non si rivolgevano più al passato - come gran parte della Letteratura Gotica -
ma anzi cercavano di portar luce negli «angoli oscuri» del sapere contemporaneo. Fra gli scrittori cui si devono straordinari contributi in questo senso, vi sono Kipling e Stevenson. Il primo, fra il 1887 e il 1888, pubblicò un buon numero di storie di spettri sulla Civil and Military Gazette. Successivamente, vennero racconti straordinari come The Return of Imray (1891), The Phantom Rickshaw (1895), They (1904). Quanto a Stevenson, due dei suoi titoli del genere più noti sono Thrawn Janet (1887) e il racconto Tod Lapraik incluso in Catriona (1893). In Francia, spicca la figura di Maupassant, che scrisse alcuni memorabili racconti del Terrore, fra cui Le Horla (1887), Apparition (1883), Qui sait? (1890). Anche l'iniziatore del Verismo, Emile Zola, pubblicò con Angeline (1898) uno splendido racconto dal tema spettrale. In America, negli ultimi vent'anni del XIX secolo, due autori ebbero una consistente produzione nell'ambito del Soprannaturale: Ambrose Bierce e O. Henry (pseudonimo di William Sidney Porter). Fra i racconti più noti di Bierce vi sono The Middle Toe of the Right Foot e An Occurence at Owl Creek Bridge (entrambi del 1891) e The Moonlit Road (1894); O. Henry è ricordato soprattutto per The Furnished Room (1906). Allo stesso periodo appartiene Vernon Lee (pseudonimo di Violet Page), la cui collezione Hauntings (1890) contiene tre delle sue storie più note: Amour Dure, Oke of Okehurst e A Wicked Voice. Fra tutti gli autori di lingua inglese che si sono occupati di spettri tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, spicca certamente il nome di Henry James. Cominciò a pubblicare racconti di fantasmi intorno al 1860, quando Dickens e Le Fanu erano ancora vivi, e quarant'anni dopo trattava ancora questa tematica. A quell'anno risalgono le sue prime due storie fantastiche pubblicate, The Romance of Certain Old Clothes e De Grey: A Romance, nelle quali è evidente l'influsso di Hawthorne. Successivamente vennero, fra gli altri, i racconti Owen Wingrave, Sir Edmund Orme, The Passionate Pilgrim, The Jolly Corner, e quello che secondo molti è il suo capolavoro assoluto, il romanzo The Turn of the Screw (1898). Verso la fine del secolo, in Inghilterra, un altro James fece del racconto di fantasmi il fulcro della propria produzione narrativa. Montague Rhodes James cominciò a scrivere le sue celebri Ghost Stories of an Antiquary verso il 1890. Una prima raccolta ne venne pubblicata nel 1904, una seconda nel 1911, e un'edizione finale apparve nel 1931.
Erano storie composte per essere lette ad alta voce (dunque sempre piuttosto brevi) ad una cerchia di amici, in genere il giorno della Vigilia di Natale. In esse, oltre a una straordinaria abilità di costruttore di trame appassionanti, M.R. James mette in gioco tutta la sua erudizione di bibliografo, paleografo e iconografo. Fra i suoi racconti più noti, figurano Oh, Whistle, and I'll Come to You, My Lad, Lost Hearts, The Mezzotint. Suo conterraneo e quasi contemporaneo (anche se visse più a lungo) fu Algernon Blackwood. Come molti altri scrittori fantastici dell'epoca, era assai interessato alle ricerche psichiche, e i suoi racconti risentono dell'influsso delle dottrine spiritiste. La sua prima raccolta, apparsa nel 1906, era intitolata The Empty House, e fu seguita nel 1908 da John Silence, Physician Extraordinary, serie di lunghi racconti il cui protagonista è un «Investigatore dell'Occulto». Anche William Hope Hodgson, altro scrittore inglese a cavallo dei due secoli, creò un celebre investigatore del Soprannaturale, il parapsicologo Carnacki, che impiegava gli strumenti della scienza per indagare nella realtà ultraterrena. Arthur Machen, scrittore di scarso successo in vita ma di notevole fama postuma - e soprattutto di notevole influsso su autori successivi (segnatamente H.P. Lovecraft) - rinnovò la tradizione dei Racconti dell'Orrore spostandone l'interesse dalla figura tradizionale del morto redivivo a più complessi simbolismi, legati al sopravvivere di forze ancestrali. Scrisse poche vere storie di fantasmi, ma un suo racconto del genere, The House of Souls (1906), è comunque memorabile. Interamente dediti a questo tipo di narrativa furono invece i tre fratelli Benson, A.C, R.H, e E.F., figli dell'Arcivescovo di Canterbury. Se i racconti dei primi due sono oggi poco letti, quelli di E.F. Benson sono ancora ristampati, ed accolti in ogni antologia di argomento spettrale. La sua prima raccolta, The Room in the Tower, apparve nel 1912 e fu seguita da Visible and Invisible (1923) e Spook Stories (1929). Più episodico, ma spesso assai felice, fu l'interesse per lo Spettrale di diversi altri autori del periodo, quali Oscar Wilde, Robert Hichens, Saki, W. W. Jacobs, E. M. Forster. Notevoli sono poi i racconti di Oliver Onions (in particolare The Beckoning Fair One, del 1911) e dell'americana Edith Wharton, che ha all'attivo due antologie: Tales of Men and Ghosts (1910) e Ghosts (1937). Negli anni fra le due guerre mondiali il racconto di fantasmi continuò ad essere largamente praticato, anche se non con lo stile, il vigore e l'ori-
ginalità del periodo fra il 1850 e il 1910. Negli anni Venti, A.J. Alan (pseudonimo di Leslie Harrison Lambert) scrisse diverse storie notevoli, di cui curò anche la riduzione radiofonica. Nel 1924 apparve l'antologia Night Fears di L.P. Hartley e nel 1922 il romanzo The Haunted Woman di David Lindsay, oggi ingiustamente dimenticato. Altri autori interessanti del periodo furono Hugh Walpole, Lord Dunsany, Cynthia Asquith, Margaret Irwin, A.M. Burrage. Anche Wells pose mano alla ghost story, per esempio con The Moth, The Red Room e The Inexperienced Ghost. Un gruppo di scrittori, principalmente inglesi, si è poi dedicato a continuare l'opera di M.R. James, con racconti «da caminetto» brevi e ricchi di notazioni erudite. I maggiori esponenti di questa tendenza sono H. Russell Wakefield (per esempio con They Walk at Night, 1928), W.F. Harvey (Moods and Tenses, 1933), A.N.L. Munby (The Alabaster Hand, 1949), e più recentemente William Croft Dickinson (Dark Encounters, 1963). Nel 1969 Kingsley Amis ha pubblicato The Green Man, un romanzo su un pub infestato dallo spettro di un Mago del XVII secolo, dichiaratamente scritto in uno stile mutuato da M.R. James. Del periodo fra le due guerre, non può non citarsi H.P. Lovecraft, l'americano semisconosciuto ai suoi tempi ma oggi definito il «Copernico dell'Orrore» per la profonda rivoluzione stilistica e sostanziale da lui apportata nella Narrativa dello Spavento. Materialista convinto, non credeva nell'Aldilà e nei fantasmi, ma scrisse ugualmente sul tema dei «morti-nonmorti», alcuni fra i più perfetti racconti del genere: The Outsider (1921), In the Vault (1925), The Dreams in the Witch House (1932). Più prolifici di lui nel campo furono Elizabeth Bowen (le cui storie migliori sono raccolte nell'antologia The Demon Lover, 1945) e l'inglese Walter de la Mare, probabilmente il più dotato scrittore di fantasmi del periodo, da molti considerato l'erede di Henry James. Parecchie le raccolte dei suoi racconti: citiamo The Riddle (1923), The Connoisseur, On the Edge (1930), The Wind Blows Over (1936), A Beginning (1955). Pur scrivendo largamente a partire degli anni Venti, gran parte delle storie di de la Mare sono ambientate in periodi precedenti la Prima Guerra Mondiale. In effetti, nella maggioranza dei racconti di fantasmi del periodo, è evidente la tendenza a ignorare i mutamenti avvenuti nella società. Forse molti degli autori ritenevano che le innovazioni tecnologiche (l'automobile, la radio, l'aereo, la luce elettrica) fossero incompatibili con l'atmosfera legata alle manifestazioni spiritiche. Anche se non mancano eccezioni: negli anni Trenta, per esempio, Ann Bridge scrisse un racconto
riguardante un autosalone infestato. Gli orrori indicibili della Seconda Guerra Mondiale (come già quelli della Prima), pur cambiando profondamente l'atteggiamento sociale verso la paura e la morte, non hanno fatto diminuire il successo popolare della ghost story. Dagli anni Cinquanta, molti autori - soprattutto sulle riviste popolari americane - hanno portato avanti il genere. Pur se nessuna personalità di levatura paragonabile a un Dickens o un Henry James si è più accostata al racconto di fantasmi, tuttavia molte eccellenti narrazioni sono apparse a firma di nomi quali James Turner, Elizabeth Walter, Robert Aickman, August Derleth e altri. GIANNI PILO/SEBASTIANO FUSCO STORIE DI FANTASMI Il lettore troverà nei dialoghi dell'intero volume talvolta l'uso del «lei», talvolta quello del «voi» La Casa Editrice ha voluto così rispettare le diverse scelte dei traduttori. DANIEL DEFOE Il fantasma che stava in tutte le stanze Una persona di un certo livello, che come al solito trascorreva l'estate con la famiglia nella sua casa di campagna, fu obbligata, per particolari motivi di salute, a lasciare la detta casa e ad andare ad Aix-la-Chapelle a fare la cura delle acque. Successe, si dice, nel mese di agosto, due mesi prima dell'epoca in cui solitamente tornava a casa per l'inverno. Andandosene così prima del solito, non smontò tutto, come usava fare la famiglia, né portò via l'argenteria e altri oggetti di valore, ma lasciò il maggiordomo e tre servi a custodire la casa. E il Padre, ossia il Parroco, fu pregato di sorvegliarli e di aiutarli dal villaggio vicino, se ce ne fosse stato bisogno. Il maggiordomo non ebbe dall'esterno alcun avviso di un prossimo incidente, ma per tre o quattro giorni di seguito colse strani e segreti segnali di paura e terrore, che la casa era assediata, e che sarebbe stata assalita da un gruppo di banditi o, come li chiamiamo qui, svaligiatori, che li avrebbero uccisi tutti e, dopo aver depredato la casa, le avrebbero dato fuoco. E questo accadeva così di frequente e gli faceva una tale impressione, che non
riusciva a pensare ad altro. Stando così le cose, il terzo giorno andò a lamentarsi con il Padre, o Parroco che dir si voglia. Il prete e il maggiordomo ebbero il seguente colloquio, che fu iniziato dal maggiordomo in questo modo: «Padre», disse, «voi sapete ciò che ho in custodia, e come il mio padrone mi abbia affidato tutta la casa, nella quale ci sono tutti i suoi beni. Sono molto preoccupato per questo e vengo a chiedervi un consiglio». Prete: «Bene, cosa c'è? Avete per caso sentito dire che si progetta di fare qualcosa di male?». Maggiordomo: «No, non ho sentito niente del genere. Ma provo certi timori, e questo mi ha fatto una tale impressione in questi tre giorni che...». A questo punto gli raccontò in dettaglio l'inquietudine che aveva provato, e aggiunse, oltre a quello che aveva già detto, che anche uno dei servi l'aveva provata e gliene aveva parlato, benché lui non gli avesse detto assolutamente nulla. Prete: «Non potreste aver sognato queste cose?». Maggiordomo: «Certo che no, Padre! Sono sicuro di non essermele sognate, perché non sono riuscito a dormire». Prete: «Cosa posso fare per voi? Cosa vorreste che facessi?». Maggiordomo: «Vorrei che prima di tutto mi diceste cosa pensate di tutto questo, e se credete che debba tenerne conto». A questo punto il Padre gli fece un interrogatorio scrupoloso nei particolari, poi mandò a chiamare il servo e lo interrogò da solo, e siccome era una persona molto onesta e seria, gli rispose così: Prete: «Sentite, signor maggiordomo: io non do molta importanza a queste cose ma, d'altra parte, non credo che non si debba prenderle in considerazione. Perciò vi consiglio di stare in guardia e, se qualcosa vi mette in allarme, fatemelo sapere». Maggiordomo: «Ci sarebbe poca soddisfazione per me nello stare in guardia, se fossi messo fuori combattimento. Suppongo che se dei furfanti hanno in mente di attaccarmi, essi siano a conoscenza delle forze a mia disposizione». Prete: «Volete che rinforzi la vostra guarnigione?». Maggiordomo: «Lo vorrei proprio». Prete: «Bene, vi manderò alcuni uomini con delle armi da fuoco a passare la notte laggiù». Di conseguenza il prete gli mandò cinque tipi ben messi con dei fucili, e in più una dozzina di granate a mano e, finché quelli stettero in casa, non
successe niente. Ma il Padre, vedendo che non succedeva niente, restio a imporre quel gravame continuo al suo padrone, mandò a chiamare il maggiordomo e, in tono gelido e adirato, gli disse quel che pensava. Prete: «Non so come ne risponderete al mio Signore, ma gli avete fatto fare delle spese ben grosse, mantenendo una guarnigione in casa per tutto questo tempo». Maggiordomo: «Me ne dispiace, Padre, ma cosa posso fare?». Prete: «Fare! Mettetevi l'animo in pace, fatevi coraggio, e non fate spendere al mio Signore due o trecento sterline per curare le vostre fisime». Maggiordomo: «Come avete detto anche voi, Padre, non bisognava passarci sopra». Prete: «È vero; ma ho anche detto che non ci avrei dato troppa importanza». Maggiordomo: «Cosa devo fare, allora?». Prete: «Mandate via gli uomini e prendete tutte le precauzioni possibili. E, se vi giunge qualche cattiva notizia che sia attendibile, fatemelo sapere: allora vi aiuterò». Maggiordomo: «Beh, allora che l'Angelo Custode protegga la casa del mio padrone, perché vedo che nessun altro lo farà». «Amen», disse il Padre. «Sono certo che gli spiriti buoni vi proteggeranno.» Così benedisse il maggiordomo (a modo suo), e il maggiordomo se ne andò brontolando perché gli toglieva la guarnigione e lo affidava agli spiriti buoni. Sembra, malgrado ciò, che gli avvisi ricevuti dal maggiordomo, per quanto misteriosi e di fonte a lui ignota, non fossero così trascurabili come pensava il Padre. Infatti, quando gli venne in mente quell'idea che si stava preparando qualche malefatta, era proprio così, come vedrete presto. Un gruppo di ladri, saputo che il nobile e la sua famiglia erano andati a Aix-la-Chapelle, ma che la casa era stata lasciata montata e che vi erano tutta l'argenteria e le cose di valore, aveva fatto il piano di saccheggiarla e poi di bruciarla, proprio come aveva detto il maggiordomo. Erano in tutto ventidue, e ben armati. Ma, finché i rinforzi che il Padre aveva mandato rimasero in casa - di cui tre, insieme agli altri quattro, vegliavano tutta la notte - non osarono metterlo in pratica. Non appena però sentirono che le guardie erano state tolte, ripresero il progetto primitivo e, per farla breve, attaccarono la casa verso mezzanotte. Avendo - penso - gli strumenti adatti, riuscirono subito ad aprire una finestra, e dodici di loro entrarono in casa, mentre gli altri stavano di sentinella
nei posti che parevano loro più idonei, per intercettare eventuali aiuti dalla città. Il povero maggiordomo e i tre servi erano disperati. Stavano al piano di sopra, e avevano barricato le scale come potevano, quando avevano sentito i briganti forzare la finestra. Ma, quando scoprirono che erano entrati, non si aspettarono altro che di essere trattenuti al piano superiore durante il saccheggio della casa, e poi di essere bruciati vivi. Ma pare che gli spiriti buoni di cui il Padre aveva parlato, oppure qualcun altro, avessero in serbo per loro qualcosa di meglio, come vedrete. Dopo che il primo brigante fu entrato in casa ed ebbe aperto la porta per far entrare tutti quegli appartenenti alla banda che lo giudicarono opportuno - come ho detto prima, furono dodici - essi accostarono la porta e si chiusero dentro, lasciando fuori due uomini con l'incarico di andare a chiamare gli altri in aiuto se ce ne fosse stato bisogno. I dodici perquisirono il grande atrio ma vi trovarono poca roba che soddisfacesse le loro avide speranze. Ma, quando irruppero in un salotto ben ammobiliato che la famiglia usava di solito, ecco! in una grande poltrona videro seduto un vecchio severo con una lunghissima parrucca nera, una ricca veste di broccato, e una baverina di pizzo da magistrato, che li guardò molto sorpreso, e parve chiedere pietà a gesti; però non disse loro una parola, né essi a lui, salvo uno di loro che, spaventato, esclamò: «Chi c'è?». Subito i furfanti si diedero a tirar giù le belle tende di damasco dalle finestre, e altre cose, ma uno disse a un altro con una bestemmia: «Facciamoci dire da quella vecchia canaglia dov'è nascosta l'argenteria». E un altro disse: «Se non te lo dice, tagliagli subito la gola». Il vecchio gentiluomo, facendo gesti di supplica come se chiedesse di non ucciderlo e avesse una gran paura, indicò una porta che, una volta aperta, li condusse in un altro salotto, che era la sala da gioco, che serviva da anticamera per il primo salotto, e che aveva un'altra porta che si apriva sul salone principale che dava nel giardino. Ci misero un po' a forzare l'ingresso ma, quando ci riuscirono, furono molto sorpresi nel vedere lo stesso vecchio, con lo stesso vestito e sulla stessa seggiola, seduto in fondo alla stanza, che faceva gli stessi gesti imploranti e silenziosi di prima. Dapprima, non se ne preoccuparono molto, perché pensarono che fosse entrato da un'altra porta, e cominciarono a insultarlo per aver fatto fare loro tutta quella fatica per aprire la porta quando c'era un altro modo per entrare. Ma un altro, più cattivo del primo, disse con una grossa bestemmia:
«Questa canaglia d'un vecchio è passato da un'altra porta apposta per portar via l'argenteria e il danaro; spacchiamogli la testa». Allora il primo lo minacciò dicendo che, se non avesse indicato subito dov'era il malloppo, sarebbe stato immediatamente ucciso. Così maltrattato, quello indicò le porte che davano nel salotto e che, essendo solo delle sottili porte pieghevoli, cedettero subito. Allora i briganti si precipitarono nel grande salone e, guardando verso il fondo della sala, ecco di nuovo il vecchio seduto lì, con lo stesso vestito e nello stesso atteggiamento. Appena lo videro, quelli che stavano in prima fila dissero ad alta voce: «Questo vecchio deve avere dei rapporti col Diavolo, di sicuro! Eccolo lì di nuovo prima di noi». Però il caso era un po' diverso perché, quando erano usciti dal primo salotto, avidi di argenteria e di danaro e tutti tesi a trovarli, si erano precipitati tutti insieme nel secondo salotto. Invece, quando il vecchio aveva indicato la terza stanza, non erano corsi tutti nel salone, ma quattro di loro erano rimasti indietro nel salotto o sala da gioco di cui abbiamo appena parlato, non in obbedienza a un ordine o secondo un piano, ma per caso. Così avvenne che caddero in una gran confusione: infatti, quando qualcuno gridò dal salone che il vecchio furfante si trovava di nuovo davanti a loro, altri risposero dal salotto: «Come diavolo può essere lì? È sempre qui sulla sua sedia, con tutte le sue cianfrusaglie». Allora due tornarono di corsa nel primo salotto, e ve lo trovarono seduto come prima. Ciononostante, invece di indovinare di cosa si trattava, pensarono di essere stati ingannati o presi in giro, e che ci fossero tre vecchi tutti vestiti allo stesso modo per l'occasione, che si volevano burlare di loro, come se volessero far loro capire che gli uomini al piano di sopra non li temevano. «Beh», disse uno della banda, «farò fuori uno di quei vecchi furfanti. Gli insegnerò io a ingannarci.» E, alzando il fucile quanto il braccio glielo permetteva, colpì il vecchio perché tale pensava che fosse - con tutta la sua forza. Ma ecco che non c'era niente sulla sedia, e il fucile andò in mille pezzi ferendogli gravemente la mano. E un pezzo della canna, colpendolo alla testa, gli spaccò la faccia e lo fece cadere all'indietro. Nello stesso momento, uno di quelli che stavano nel salone si lanciò contro il vecchio che stava seduto là dentro, giurando che gli avrebbe
strappato la sua bella barba bianca e gli avrebbe tagliato la gola. Ma, quando fece per afferrarlo, non c'era niente sulla sedia. Questo succedeva in quelle due stanze, perciò i briganti erano terribilmente confusi, e urlavano tutti insieme in modo terrificante. Erano rimasti molto colpiti da quei fatti e, dopo i primi clamori, si guardarono a lungo l'un l'altro, senza dir parola. Infine uno disse: «Torniamo nel primo salotto e vediamo se anche quello se n'è andato». A quelle parole, due o tre che stavano da quella parte corsero nella stanza, e videro subito la figura del vecchio. Allora chiamarono i compagni e dissero che pensavano che fossero tutti stregati, e che certamente si erano immaginati di aver visto il vecchio nelle altre stanze, perché quello vero stava dove lo avevano visto prima. Allora tutti corsero là, dicendo che volevano vedere se si trattava del Diavolo. E uno di loro esclamò: «Aspettate. Gli parlerò io. Non è la prima volta che parlo col Diavolo». «No», disse un altro, «lo farò io.» E aggiunse con una bestemmia che dei gentiluomini che facevano quello che stavano facendo loro, non dovevano aver paura di parlare col Diavolo. Un terzo (giacché il coraggio stava loro tornando) disse ad alta voce: «Che sia il diavolo o sua nonna, io gli parlerò. Sono deciso a sapere di cosa si tratta». E subito corse avanti prima di tutti, si fece il segno della croce e disse al vecchio sulla sedia: «In nome di san Francesco, e san ... (e qui sgranò i nomi dei due o tre santi nei quali confidava per sconfiggere il Diavolo), chi sei?». La figura non si mosse né parlò ma, guardandolo in faccia, videro che invece dell'aria miseranda - come di chi implora che gli si risparmi la vita che aveva prima, ora era cambiato nel più spaventoso mostro che si fosse mai visto, tale che non so descriverlo. E che, invece delle due mani alzate a chiedere pietà, c'erano due larghi pugnali lucenti, che non emanavano fiamme, ma rosseggiavano per il calore e terminavano in punta con una livida luce azzurrina; in una parola, il Diavolo, o qualcos'altro nella più spaventosa forma che si possa immaginare. E la mia opinione, quando sentii per la prima volta questa storia, è che i briganti fossero così spaventati che la loro fantasia foggiò in seguito qualcosa nei loro pensieri ancora più terribile di ciò che avrebbe potuto sembrare il Diavolo stesso. Sia come sia, il suo aspetto era tale che, quando gli si fecero addosso,
nessuno di loro ebbe il coraggio di guardarlo in faccia, tanto meno di parlargli. E quello che era stato così ardito, e si era riempito la bocca di un reggimento di santi, cadde bocconi per terra, svenuto, come si dice, per la paura. Il maggiordomo e i suoi tre uomini erano sempre al piano di sopra, molto preoccupati per la loro situazione pericolosa, e si aspettavano da un momento all'altro che i briganti cercassero di fare un'azione di forza per salire e tagliar loro la gola. Sentivano i rumori confusi che quelli stavano facendo di sotto, ma non potevano immaginare di cosa si trattasse, e ancora meno di cosa significasse. Nel frattempo, venne in mente a uno dei servitori che, giacché quelli di sicuro stavano in salotto ed erano molto occupati, lui avrebbe potuto salire sul tetto e gettare una delle granate a mano giù dal camino, e così forse ucciderne qualcuno. Il maggiordomo approvò il piano, con un'aggiunta. «Se la buttiamo in un solo salotto, scapperanno tutti nella sala da gioco, e non ci sarà nessun morto. Invece», disse, «portane su tre, e mettine una in ogni camino, così non sapranno dove scappare.» A quell'ordine, due degli uomini che conoscevano bene il posto salirono, accesero la miccia delle granate, e ne misero una in ciascuno dei comignoli: esse scesero giù ruggendo per la cappa con un rumore terribile e (cosa che fece più effetto di tutto il resto) arrivarono in fondo nel salotto dove stavano quasi tutti quei mascalzoni proprio nel momento in cui l'uomo che aveva parlato allo spettro era svenuto ed era caduto per terra. Tutta la banda si spaventò oltre ogni dire. Qualcuno si precipitò nella sala da gioco dalla quale erano venuti, altri corsero verso l'altra porta dalla quale erano entrati provenendo dall'atrio, ma tutti sentirono nello stesso momento il Diavolo - così credettero - che scendeva dal camino. Se fosse stato possibile che le micce delle granate continuassero a bruciare nel camino, dove il suono era mille volte amplificato dall'eco, e la fuliggine in fiamme cadeva in fiocchi di fuoco, i furfanti si sarebbero spaventati fino a non capire più niente; infatti avrebbero immaginato che, come c'era un diavolo spaventoso in mezzo a loro seduto sulla seggiola, così ce n'erano altri diecimila che scendevano dal camino per distruggerli tutti, e forse per portarli via. Ma non era possibile. Solo dopo che furono ben ben spaventati dal rumore, le tre bombe arrivarono in fondo contemporaneamente. Fu un fortunato accidente, anche se pareva fatto apposta, che la bomba che cadde nel salotto dove stavano tutti scoppiasse non appena toccò terra, sicché non
ebbero nemmeno il tempo di domandarsi cosa mai poteva essere, meno che mai rendersi conto che si trattava di una granata a mano vera e reale. Ma, siccome molti di loro rimasero uccisi, credettero fermamente che si trattasse del Diavolo, così come credevano che fosse un diavolo lo spettro seduto sulla sedia. Il rumore prodotto dallo scoppio della granata fu così improvviso e inaspettato, che persero la testa, e anche questo contribuì ad accrescere il danno. L'uomo che era svenuto e che stava sul pavimento era rimasto ucciso, e così pure altri due che stavano vicino al caminetto. Cinque erano feriti gravemente, tanto che uno di loro, che aveva le gambe spezzate, era così disperato che, quando i contadini entrarono, si sparò alla testa con la sua pistola per evitare di essere fatto prigioniero. Se gli altri fossero scappati dal salotto nelle altre due stanze, sarebbero stati probabilmente feriti dalle altre bombe. Ma siccome avevano sentito il rumore anche nelle altre stanze, ed erano rimasti sbalorditi dall'idea che si trattasse di ben altro che di granate a mano, non avevano la forza di muoversi. E se anche l'avessero avuta, non avrebbero saputo dove andare a mettersi al sicuro. Perciò rimasero immobili finché non ebbero sentito lo scoppio delle altre due bombe nelle altre stanze. Allora, confusi sia dal rumore che dal fumo, e aspettandosi che altri diavoli scendessero dal camino nella stanza dove si trovavano, scapparono belli lesti, e si precipitarono verso la porta, aiutando i loro compagni feriti come meglio potevano. Uno di quelli morì nei campi, dopo che furono usciti. Bisogna sottolineare che, mentre erano così preoccupati per quel che veniva giù dal camino, e non riuscivano a capire cosa fosse, gridavano a gran voce che il Diavolo sulla sedia aveva mandato a chiamare altri diavoli per annientarli. E si può pensare che, se le bombe non fossero cadute, sarebbero scappati tutti. Ma si può essere sicuri che il fatto che quel diavolo artificiale arrivasse in modo così drammatico al momento opportuno, quasi in accordo con i diavoli visionari - o quel che fossero - li sconvolse completamente e li spinse a fuggire. Quando raggiunsero i due uomini di guardia alla porta, segnalarono ai loro compagni appostati nei viali che portavano alla casa di venir loro in soccorso; cosa che quelli fecero aiutandoli a portare via i feriti. E, dopo aver sentito il racconto di quelli che erano stati in casa, e dopo aver tenuto un breve conciliabolo a una certa distanza dalla porta (sebbene facesse già molto buio il maggiordomo e i suoi uomini riuscirono a scorgerli dalla finestra), decisero di comune accordo di andarsene.
Contemporaneamente capitò un altro incidente, che devo qui riferire per completare il racconto, sebbene non abbia relazione con l'argomento: due di quelle granate appiccarono il fuoco ai camini con le fiamme delle loro micce. Non così la terza, che attraversò una cappa dove non c'era fuliggine, perché la stanza non era molto usata. Le fiamme che uscivano, cosa ben naturale, dall'alto, furono viste da qualcuno del paese che corse immediatamente ad avvertire il prete, o Padre, e questi a sua volta chiamò a raccolta l'intera cittadina, pensando che fosse successo qualche guaio e che qualcuno avesse dato fuoco alla casa. Se il resto della banda non avesse deciso di scappare, come abbiamo già detto, sarebbe certo caduta nelle mani degli abitanti del villaggio, che erano accorsi immediatamente armati di tutto quello che era capitato loro sottomano. Ma i furfanti erano fuggiti e avevano lasciato, come ho già detto, tre dei loro compagni morti nella casa, e uno all'aperto. DANIEL DEFOE Il fantasma di Dorothy Dingley All'inizio di quest'anno si verificò un'epidemia nella città di Launceston, di cui furono vittime alcuni miei allievi. Fra i giovani che perirono per il male che dilagava, ci fu anche John Elliot, il figlio minore del signor Edward Elliot di Treherse, un adolescente di circa sedici anni, di particolari virtù e ingegnosità. Il padre mi chiese personalmente di recitare l'orazione funebre durante la cerimonia, che si svolse il 20 giugno del 1665. Durante il mio discorso (ut mos reique locique postulabat) pronunciai alcune espressioni d'elogio per il giovane, con lo scopo di mantenerne viva la memoria in quelli che lo conoscevano, e contemporaneamente per proporlo come esempio ai giovani che frequentavano la scuola con lui e che avrebbero continuato a studiare dopo di lui. Un anziano gentiluomo che si trovava in chiesa fu molto colpito dal mio discorso, e quella sera stessa in molti lo sentirono ripetere spesso un'espressione che avevo usato, tratta da Virgilio: Et puer ipse fuit cantari digitus. Quel dignitoso gentiluomo fu molto colpito dalla descrizione delle qualità del giovane morto, perché lui stesso aveva un figlio, circa della stessa età, che però, pochi mesi prima, anche se dotato delle stesse virtù che ave-
vo elogiato nel giovane Elliot, per qualche strano fenomeno, aveva deluso le speranze dei suoi genitori e distrutto tutte le loro aspettative di ottenere consolazione da lui in futuro. Al termine del funerale, non appena uscii dalla chiesa, fui avvicinato molto cortesemente da quell'anziano gentiluomo che, con insistenza insolita, anche forzando il mio stato d'animo di quel momento, cercò di convincermi a recarmi in casa sua quella sera stessa; e non avrei potuto rifiutare il suo gentile invito se non fosse stato per l'intervento del signor Elliot che voleva che restassi con lui tutto il giorno e che non avrebbe rinunciato alla mia compagnia. Per quella volta riuscii a declinare l'invito, ma dovetti promettere che mi sarei recato a casa sua in visita il lunedì seguente. La mia assicurazione sembrò tranquillizzare l'anziano gentiluomo ma, prima che arrivasse il lunedì successivo, ricevetti la richiesta di anticipare la mia visita alla domenica, se era possibile. Rifiutai ancora una volta, adducendo come scusa che non mi era possibile acconsentire per motivi personali, e per i doveri che mi legavano ai miei parrocchiani. Tuttavia il gentiluomo non desistette, e infatti la domenica mi inviò un'altra lettera, chiedendomi di non venir meno al mio impegno di lunedì e di sistemare i miei affari in modo da poter trascorrere con lui almeno due o tre giorni. Ero veramente stupefatto per quell'impazienza e per la sollecitudine con cui veniva richiesta la mia visita, che non aveva come scopo alcun affare; cominciai a sospettare che dovesse esserci assolutamente qualche motivo recondito in quell'eccesso di cortesia. Fra l'altro non avevo alcuna confidenza e nemmeno amicizie comuni con il gentiluomo e la sua famiglia; inoltre, non riuscivo assolutamente a immaginare da cosa potesse dipendere un simile improvviso afflato d'amicizia. Il lunedì successivo mi recai in visita, come avevo promesso, e trovai un'accoglienza tanto generosa e cordiale, quanto l'invito era stato insistente. Trovai anche il ministro di una parrocchia confinante, che pretendeva di trovarsi lì per caso, anche se i fatti successivi mi convinsero del contrario. Dopo pranzo, questo mio fratello nel sacerdozio decise di farmi visitare il giardino dove, mentre stavamo passeggiando, feci la prima scoperta di quello che stava dietro gli onori e i complimenti di cui venivo onorato. Dapprima cominciò a parlarmi delle disgrazie di quella famiglia in generale, per poi soffermarsi sul caso del figlio più giovane. Mi riferì che fino a poco tempo prima era stato un ragazzo promettente e vivace, mentre adesso era diventato triste e istupidito. Poi si rammaricò con profondo sconfor-
to che questo malessere riuscisse a soggiogare completamente la ragione del giovane, dato che il povero ragazzo - almeno così diceva - era perseguitato dai fantasmi e gli aveva confidato di incontrarsi con uno spirito maligno in un campo a circa mezzo miglio di distanza, tutte le volte che si recava a scuola. Durante la nostra chiacchierata l'anziano gentiluomo e sua moglie (come se aspettassero solo l'imbeccata) spuntarono in lontananza. Mentre i due si avvicinavano, il parroco, accompagnandomi verso il pergolato, mi riassunse brevemente il suo racconto; e gli altri (i genitori del ragazzo) confermarono la sua storia e aggiunsero molti particolari, in una nuova narrazione di tutta la vicenda. Alla fine, tutti e tre espressero il desiderio di conoscere la mia opinione sulla vicenda. Non mi sentivo assolutamente in grado di formulare così all'improvviso un giudizio su quanto mi avevano riferito, e quindi risposi solo che il racconto del giovane era strano, se non incredibile, e che non sapevo cosa pensare o dire di tutta la storia; ma se il ragazzo aveva voglia di parlare con me e di raccontarmi la sua esperienza, avevo buone speranze di riuscire a esprimere un parere più preciso il giorno dopo. Difficilmente in precedenza mi sarei lasciato coinvolgere nel promettere una cosa simile, ma mi trovavo intrappolato nelle spire che avevano intessuto intorno a me con la loro gentilezza; l'anziana signora non riusciva a nascondere la sua impazienza e voleva chiamare subito il figlio. Fui costretto ad acconsentire, e così la donna si allontanò da noi quando giungemmo nelle vicinanze di un frutteto, e si recò di persona a cercare il ragazzo per accompagnarlo da me. Lo scopo principale di quelle tre persone fu di persuadermi che, o il giovane era un lazzarone, felice di trovare una scusa per marinare la scuola, o che era innamorato di qualche ragazza e aveva vergogna di confessarlo; oppure che inventava uno stratagemma per farsi dare dal padre del denaro e dei nuovi vestiti, da sfoggiare a Londra dove risiedeva un suo fratello maggiore. Per questi motivi mi pregavano di cercare di scoprire le ragioni del suo comportamento e in seguito di dissuaderlo, consigliarlo e anche rimproverarlo, ma soprattutto e con ogni mezzo di togliergli qualsiasi illusione sulle sue fantasie di spiriti e fantasmi. Mi misi subito a conversare con il giovane, e all'inizio fui molto attento a non contrariarlo, cercando con parole affabili di conquistare la sua confidenza, perché avevo paura che si sarebbe potuto mostrare troppo sospettoso o riservato. Ma, subito dopo i primi approcci, quando cominciammo a
parlare della vicenda, mi accorsi che non avevo bisogno di alcuna diplomazia per penetrare nel suo animo. Il ragazzo, con la massima franchezza e con un candore assoluto, mi confidò di amare la scuola e di non desiderare altro che di essere uno studente ben educato, che non aveva per il momento nessun interesse per una ragazza, come sospettava sua madre, e che la sola richiesta che avrebbe voluto fare ai suoi genitori era che credessero alle sue affermazioni riguardo alla donna che lo importunava nel campo denominato Higher-Broom Quartils. Mi confidò anche con assoluta libertà e con un torrente di lacrime, che i suoi amici erano crudeli e ingiusti con lui, che non gli credevano e non avevano comprensione per i suoi problemi; e che se qualcuno (e mi fece un inchino) fosse andato con lui in quel posto, si sarebbe convinto che tutta la vicenda era vera, eccetera. Intanto si era accorto della mia capacità di comprensione e della mia attenzione al suo caso, per cui continuò il racconto: «Questa donna che mi appare», proseguì, «viveva vicino alla proprietà di mio padre ed è morta da otto anni; si chiama Dorothy Dingley ed è molto alta, anziana e di bell'aspetto. Non mi rivolge mai la parola, ma mi passa accanto rapidamente, lasciandomi sempre la precedenza sul sentiero, e di solito l'incontro due o tre volte lungo tutta la distesa del campo. Da circa due mesi mi capitava raramente di fare questi incontri, e anche se i lineamenti del volto di quella donna erano impressi nella mia mente, non riuscivo a ricordarmi il suo nome. Non davo troppo peso alla cosa e immaginavo che dovesse vivere qui vicino e che avesse frequenti occasioni di percorrere quella strada. Non ho mai pensato nient'altro fino a quando non ho cominciato a incontrarla costantemente, al mattino e alla sera, e sempre nello stesso campo, anche due o tre volte lungo il percorso. L'ho incontrata per la prima volta circa un anno fa e, quando ho cominciato a sospettare e a credere che fosse un fantasma, ho avuto coraggio a sufficienza per non mostrarmi impaurito, conservando un aspetto tranquillo, solo un po' meravigliato. Le ho parlato spesso, ma non ho mai ottenuto una parola in risposta. Poi ho cambiato strada e, per andare a scuola, ho scelto la Under Horse Road, ma lei mi aspettava sempre nello stretto viottolo fra il Quarry Park e l'Asilo, e questo era ancora peggio. Alla lunga cominciai a essere terrorizzato e a pregare Dio in continuazione di liberarmi da quell'apparizione o di spiegarmene le ragioni. Giorno e notte, durante il sonno e la veglia, quella figura continuava ad apparire
nella mia mente e spesso ripetevo questi versetti della Scrittura (e nel dire queste parole estrasse da una tasca una piccola Bibbia) Giobbe, VII, 14: Tu mi spaventi coi sogni e mi atterrisci con le visioni. E anche Deuteronomio, XXVIII, 67: Al mattino dirai venga la sera e alla sera dirai venga il mattino per la paura che avrai nel tuo cuore e per le cose che vedrai con i tuoi occhi». Fui molto compiaciuto per l'abilità del ragazzo nell'applicare questi versetti delle Sacre Scritture alla sua esperienza, e desiderai che continuasse nel racconto. «Poi», proseguì, «poco alla volta divenni sempre più pensieroso, tanto che anche i miei familiari se ne accorsero; dopodiché ho sentito il bisogno di raccontare ogni cosa a mio fratello William; lui ha informato mio padre e mia madre, che per un po' di tempo non ne hanno parlato. Alla fine il risultato delle mie confidenze fu solo questo: a volte ridevano di me, a volte mi rimproveravano, ma mi ordinarono di continuare ad andare a scuola e di togliermi queste sciocchezze dalla testa. Continuai ad andare a scuola, ma incontravo sempre quella donna sul mio percorso.» Questo e anche altri particolari della vicenda, costituirono il contenuto del nostro dialogo nel frutteto, che durò quasi due ore e che terminò con la mia proposta al ragazzo di non rivelare a nessuno le nostre intenzioni e di recarci insieme al campo, il mattino dopo, verso le sei. Fu felicissimo del mio suggerimento e mi chiese: «Lo farete davvero, signore? Verrete con me? Grazie al Cielo! Adesso spero proprio di trovare un po' d'aiuto». Dopo queste conclusioni, ritornammo verso casa. Il gentiluomo, sua moglie e il signor Sam erano impazienti di sapere cosa fosse accaduto, tanto che ci vennero incontro nell'ingresso, uscendo dal salotto; e, vedendo che il figlio aveva un aspetto allegro, l'anziano genitore mi fece subito i suoi complimenti. «Bene, signor Ruddle, avete parlato con lui e spero che adesso il ragazzo avrà più buonsenso. È un ragazzo pigro! Veramente pigro!» A queste parole il giovane corse su per le scale diretto alla sua stanza, senza rispondere, e io bloccai immediatamente la curiosità delle tre persone in attesa, dicendo loro che avevo promesso il mio silenzio e che avevo tutta l'intenzione di mantenere la parola data; solo quando la vicenda fosse stata risolta, li avrei messi al corrente di tutto. Per il momento desideravo solo che si fidassero della mia promessa che avrei fatto tutto il possibile per aiutarli e per assicurare il bene del loro figliolo. Queste mie parole li
costrinsero al silenzio, ma non ero completamente soddisfatto. Il mattino successivo, prima delle cinque, il ragazzo era già nella mia stanza, pieno d'energia. Mi alzai e uscii con lui. Il campo in cui mi condusse doveva essere di venti acri, in aperta campagna e a circa seicento metri dalle vicine abitazioni. Entrammo nel campo e ne avevamo percorso più o meno la terza parte, quando lo spettro, per la precisione una donna, nelle esatte circostanze che il ragazzo mi aveva descritto nel frutteto il giorno prima (e mi sarei reso conto di persona della rapidità delle sue apparizioni e delle sue scomparse), ci venne incontro e ci passò vicino. Io restai un attimo sorpreso e, anche se avevo deciso fermamente di rivolgergli la parola, non riuscii a farlo e non osai nemmeno girarmi; feci attenzione a non mostrarmi spaventato davanti al mio protetto e alla mia guida e, mentre gli dicevo solo di essere soddisfatto della veridicità del suo racconto, camminammo fino alla fine del campo e tornammo indietro, ma il fantasma non si fece più vedere. Percepii nel ragazzo un sentimento di audacia misto a stupore; il primo provocato dalla mia presenza e dall'autenticità che aveva acquistato il suo racconto, e il secondo provocato dalla vista dello spirito che lo perseguitava. In breve tempo fummo a casa: io, almeno in parte, turbato, e lui molto agitato. Al nostro ritorno, la moglie del gentiluomo, la cui curiosità nei nostri riguardi era molto forte, chiese di parlare con me. Le diedi ascolto e l'informai che la mia opinione era che il disturbo del figlio non fosse né da deridere né da sottovalutare; e che comunque non avevo formulato ancora un giudizio completo. Le raccomandai di non far circolare la notizia in giro, altrimenti tutto il paese avrebbe spettegolato su una cosa di cui non avevamo nessuna certezza. Nel frattempo avevo degli affari urgenti da sbrigare, e per questo dovevo rientrare a Launceston la sera stessa, ma promisi di ritornare la settimana seguente. Tuttavia, potei evitare il successivo incontro, con una scusa credibilissima, dato che mia moglie quella settimana tornò a casa da una visita a dei nostri vicini molto ammalata. A ogni modo, la mia mente era sempre rivolta a questo caso. Esaminai attentamente tutta la vicenda e, circa tre settimane dopo, mi ripresentai, deciso, con l'aiuto di Dio, a risolvere il problema. Il mattino successivo, precisamente il 27 luglio 1665, mi recai da solo nel campo stregato e lo percorsi interamente, senza fare alcun incontro. Ritornai indietro e avevo ricominciato a camminare, quando il fantasma mi
apparve, circa nello stesso posto in cui l'avevo visto la prima volta, quando il ragazzo era con me. Secondo le mie impressioni si muoveva più rapidamente dell'altra volta, a circa tre metri di distanza, sulla mia destra, e non ebbi modo di parlargli, come avevo deciso di fare in precedenza. La sera di quello stesso giorno, mentre con i genitori e il ragazzo mi trovavo nella camera in cui alloggiavo, proposi a tutti di recarci insieme sul posto il mattino successivo e li tranquillizzai spiegando che non ci sarebbe stato nessun pericolo per noi; alla fine si dichiararono d'accordo. Il mattino dopo, per non preoccupare la servitù, uscirono con la scusa di controllare un campo di grano e io montai a cavallo, feci un altro giro, e li raggiunsi al muretto dove avevamo convenuto di incontrarci. Poi tutti e quattro camminammo nel Quartils, e avevamo appena superato la metà del campo, quando il fantasma apparve. Arrivava dall'altro lato, ma si muoveva con tale rapidità che, mentre noi facevamo sei o sette passi, ci aveva già superato. Immediatamente girai la testa e lo rincorsi, con il ragazzo al mio fianco; vedemmo che stava superando il muretto dal quale eravamo entrati, ma non riuscimmo a vedere oltre. Mi fermai vicino alla barriera, io da una parte, lui dall'altra, ma non si scorgeva più nulla: tuttavia oso dichiarare che nemmeno il più veloce cavallo d'Inghilterra sarebbe riuscito a scomparire dalla nostra vista in un così breve lasso di tempo. Notai due particolari nell'apparizione di quel mattino. In primo luogo che un cane spaniel che seguiva il nostro gruppo inosservato, si mise ad abbaiare e corse via quando lo spettro gli passò accanto; e da questo si può facilmente dedurre che non era il nostro terrore o la fantasia a creare quell'apparizione. In secondo luogo, che lo spettro non si muoveva in maniera graduale o in piccole progressioni, come se camminasse sui piedi, ma scivolava, come un bambino sul ghiaccio o una barca su un fiume rapido, cosa che corrisponde alla descrizione che gli antichi danno dei loro Lemuri e di cui ci parla anche Eliodoro. Ma intanto continuiamo il racconto. Quest'esperienza visiva ci convinse della veridicità del racconto del giovane, ma contemporaneamente terrorizzò il vecchio gentiluomo e sua moglie, che avevano conosciuto Dorothy Dingley in vita, avevano partecipato ai suoi funerali, e ora avevano visto la sua immagine riapparire in queste misteriose circostanze. Cercai di far loro coraggio come meglio potevo ma, dopo quest'esperienza, decisero di non tornare mai più nel campo. Tuttavia io ero fermamente intenzionato a proseguire e a usare tutti i mezzi consentiti che Dio aveva creato e che successivamente gli uomini istruiti avevano utilizzato
per fronteggiare casi anormali come quello. Il mattino successivo era giovedì e uscii molto presto da solo: camminai per circa un'ora meditando e pregando, nei campi vicini a Quartils. Poco dopo le cinque superai il muretto ed entrai nel campo infestato dallo spirito. Avevo appena percorso una trentina di passi, quando il fantasma apparve vicino al muretto di fronte. Gli parlai a voce alta, usando alcune formule che ritenevo adatte a un caso del genere mentre avanzava più lentamente e, quando mi avvicinai, non si mosse. Parlai di nuovo e il fantasma mi rispose, con una voce che in realtà non era né udibile, né comprensibile. Non ero molto spaventato nel mio intimo e per questo continuai finché non parlò di nuovo e non mi diede soddisfazione. Ma l'opera non era ancora conclusa per il momento; per questo, quella sera stessa, un'ora dopo il tramonto, mi incontrai di nuovo con il fantasma nello stesso posto e, dopo poche parole da entrambe le parti, lo spettro svanì semplicemente e non sarebbe riapparso mai più, né avrebbe disturbato nessun altro mortale. Il dialogo del mattino era durato circa un quarto d'ora. Questi fatti sono realmente accaduti, e io so che sono veri con la stessa certezza che gli occhi e le orecchie mi hanno trasmesso; e, fintantoché non sarò persuaso che i miei sensi possono ingannarmi nelle loro funzioni, anche se con questa certezza mi privo di un fondamento basilare per credere nella religione cristiana, devo e voglio affermare che i fatti contenuti in questi fogli sono veri. Per quanto riguarda il mio modo di procedere, non trovo motivo di vergognarmi, perché potrei giustificarmi facilmente davanti a uomini di buoni princìpi, dotati di discernimento e vera cultura: in questo caso ho scelto di limitarmi a verificare io stesso quest'esperienza, piuttosto che preoccuparmi di convincere gli altri a crederci, perché so abbastanza bene con quanta difficoltà vengano accolti e ottengano fiducia racconti di questo genere. Chi racconta una storia simile può attendersi di essere trattato come un viaggiatore in Polonia che incontri i briganti, e cioè prima ucciso e poi interrogato: prima sarei stato condannato come bugiardo e superstizioso e poi, quando sarebbe stato troppo tardi, avrebbero ascoltato le mie ragioni ed esaminato le mie prove. Si può attribuire questa generale incredulità: Primo: agli innumerevoli abusi subiti dal popolo e alle imposizioni di fede imposte da monaci e frati furbi, in periodi di oscurantismo e papismo; costoro creavano apparizioni a loro piacimento e ottenevano denaro e auto-
rità, calmando i terriculamenta vulgi che loro stessi con i loro inganni avevano sollevato. Secondo: al diffondersi del Somatismo e dei princìpi di Hobbs in questo periodo, che rappresentano un ritorno della dottrina dei Sadducei; e, poiché questa nega la natura, non può nemmeno ammettere l'apparizione degli spiriti; per questo basta riferirsi al Leviathan, p. 1, c. 12. Terzo: all'ignoranza degli uomini del nostro tempo, in questa particolare e misteriosa sfera della filosofia e della religione che riguarda i rapporti fra gli spiriti e gli uomini. Nessuno studioso in mille anni (nemmeno nei campi fondamentali dello scibile umano) ha approfondito questo argomento o i possibili modi di affrontarlo. L'ignoranza genera paura e orrore verso ciò che altrimenti potrebbe essere di enorme beneficio per l'umanità. Ma, essendo un sacerdote, e per di più giovane e straniero da queste parti, per salvaguardare la mia sicurezza, è meglio che eserciti il silenzio e la segretezza. In rebus abstrusissimis abundans cautela non nocet. ANONIMO La danza del morto Molti secoli fa, se dobbiamo dar credito alle antiche Cronache germaniche, un anziano ed errabondo suonatore di cornamusa si fermò a Neisse, una cittadina della Slesia. Visse tranquillamente e onestamente, e in principio suonò le sue melodie in segreto per proprio divertimento; ma, dato che i vicini di casa, incantati nell'ascoltarlo, si raccoglievano spesso nella pace di una calda sera di piena estate attorno alla sua porta mentre lui produceva le gioiose note, non passò molto tempo prima che Mastro Willibald facesse la conoscenza di vecchi e giovani, che fosse adulato e vezzeggiato, e che quindi vivesse in contentezza e prosperità. I galanti damerini del luogo, che avevano visto vicino alla sua porta quelle belle creature, per amore delle quali avevano scritto tanta cattiva poesia e perduto ancor più tempo prezioso, furono suoi fedeli clienti di canzoni struggenti, i cui passaggi più teneri soffocavano con la profondità dei loro sospiri. I vecchi cittadini l'invitavano a solenni banchetti; e non c'era sposa che avrebbe considerato la sua festa nuziale ben celebrata se Mastro Willibald non avesse suonato la danza dello sposalizio di sua composizione.
Per questo scopo aveva inventato una melodia molto dolce, che univa gaiezza e gravità, idee scherzose e sentimenti malinconici, formando un vero emblema della vita matrimoniale. Un'esigua traccia di quest'aria si trova tuttora in quella che viene chiamata la «Danza del nonno» che al tempo dei nostri genitori era importante elemento di una festa nuziale, e di tanto in tanto la si sente ancor oggi. Tutte le volte che Mastro Willibald suonava questa melodia, la più pudica zitella non si rifiutava di ballare, la madre curva rimetteva in azione le sue giunture arrugginite dal tempo, e il nonno dai capelli grigi ballava allegramente con le giovani figlie dei suoi figli. Questa danza sembrava ridare veramente gioventù ai vecchi, e per questo fu chiamata, dapprima per burla e poi per abitudine «Danza del nonno». Un giovane pittore di nome Wido abitava con Mastro Willibald; pensavano che fosse suo figlio o figlio adottivo. L'effetto dell'arte del musicista su quel giovane andò perduto. Rimaneva silenzioso e triste quando Willibald gli suonava arie che ispiravano allegria; e ai balli ai quali era spesso invitato, Wido si mescolava raramente con la gaia comitiva. Si ritirava in un angolo e fissava gli occhi sulla più bella bionda presente nella stanza, senza osare rivolgerle la parola né offrirle la sua mano. Il padre di lei, Sindaco della cittadina, era un uomo fiero e altezzoso, che avrebbe considerato sminuita la propria dignità se uno sconosciuto pittore avesse posato gli occhi su sua figlia. Ma la bella Emma non condivideva l'opinione del padre: infatti la ragazza amava con tutto l'ardore della prima passione segreta quel giovane timido di bell'aspetto. Spesso, quando coglieva gli occhi espressivi di Wido che cercavano di osservarla di nascosto, perdeva la sua vivacità e concedeva al giovane del suo cuore una visione indisturbata del suo bel volto mutevole. Poi leggeva facilmente sulla faccia di lui, che si illuminava, l'eloquente gratitudine del suo cuore; e, sebbene lei distogliesse lo sguardo arrossendo, il colore delle sue guance e il luccichio dei suoi occhi alimentavano nuove fiamme d'amore e di speranza nel petto dell'innamorato. Mastro Willibald aveva promesso da tempo di aiutare il giovane malato d'amore a ottenere l'oggetto più caro alla sua anima. Talvolta pensò, come i maghi di un tempo, di tormentare il Sindaco con una danza incantata e di costringerlo, in stato di spossatezza, a concedere qualsiasi cosa; talvolta, come un novello Orfeo, propose di portar via con il potere della sua musica, la. dolce sposa dalla dimora tartarea di suo padre. Ma Wido ebbe sempre delle obiezioni: mai avrebbe permesso che il genitore della sua bella
fosse minimamente danneggiato, e sperava di conquistarlo con perseveranza e compiacenza. Willibald gli disse: «Sei un idiota, se speri di ottenere con un sentimento sincero e onorevole come il tuo amore, l'approvazione di quel ricco e orgoglioso vecchio sciocco. Non si arrenderà a meno che qualcuna delle Piaghe d'Egitto non lo colpisca. Allorché Emma sarà tua, e lui non potrà più cambiare ciò che è accaduto, lo troverai più amichevole e gentile. Mi rimprovero di averti promesso di non fare nulla contro la tua volontà, ma la morte salda ogni debito, e quindi ti aiuterò a modo mio». Il povero Wido non era il solo sul cui cammino della vita il Sindaco spargesse spine e rovi. L'intera comunità nutriva scarsissimo affetto per il capo della cittadina e coglieva ogni occasione per contrastarlo; infatti lui era duro e crudele e puniva severamente gli abitanti per trascurabili e innocenti manifestazioni d'allegria, a meno che non comprassero il perdono con forti multe e doni. Dopo l'annuale fiera del vino nel mese di gennaio, il Sindaco aveva l'abitudine di obbligarli tutti a versare i loro guadagni nelle sue casse per fare ammenda di passati divertimenti gioiosi. Un giorno, il Tiranno di Neisse aveva messo troppo a dura prova la loro pazienza e spezzò l'ultimo vincolo d'obbedienza degli oppressi cittadini. Il malcontento aveva scatenato una sommossa e riempito di terribile paura il persecutore; infatti i popolani avevano minacciato addirittura di dar fuoco alla sua casa e di bruciare lui insieme a tutte le ricchezze che aveva accumulato opprimendoli. In quel momento critico Wido andò da Mastro Willibald e gli disse: «Adesso, mio vecchio amico, è ora che tu mi aiuti con la tua arte, come spesso ti sei offerto di fare. Se la tua musica è davvero così potente come dici, vai e libera il Sindaco, calmando le masse infuriate. Come premio lui ti concederà qualsiasi cosa tu gli chieda. Spendi allora una parola per me e per il mio amore, e chiedi la mia amata Emma come prezzo del tuo aiuto». Il suonatore di cornamusa rise a quelle parole e rispose: «Dobbiamo soddisfare le follie dei bambini, al fine di impedire loro di piangere». Così prese la cornamusa e s'incamminò a lenti passi verso la piazza del municipio, dove i rivoltosi, armati di forconi, lance e torce accese, stavano per saccheggiare la residenza del molto poco onorevole Sindaco. Mastro Willibald si mise vicino a una colonna e cominciò a suonare la sua «Danza del nonno». Appena le note della canzone preferita furono udi-
te, le facce alterate dall'ira si rasserenarono e sorrisero, forconi e torce caddero dai pugni minacciosi, e gli infuriati assalitori si mossero con passi che seguivano il ritmo della musica. Alla fine la folla cominciò a ballare e la piazza, già teatro di rivolta e confusione, ebbe l'aspetto di un'allegra riunione festaiola. Il suonatore, con la sua magica cornamusa, avanzò per le strade e il popolo danzava dietro di lui; ognuno tornò ballando alla propria casa che poco prima aveva lasciato con sentimenti molto diversi. Il Sindaco, salvato dall'incombente pericolo, non sapeva come esprimere la propria gratitudine; promise a Mastro Willibald qualsiasi cosa lui avesse chiesto, anche se fosse stata la metà dei suoi beni. Ma il suonatore rispose, sorridendo, che le sue aspettative non erano così grandiose e che per se stesso non desiderava beni terreni di alcun genere; poiché, tuttavia, Sua Signoria il Sindaco aveva dato la sua parola di concedergli qualsiasi cosa gli avesse chiesto, lo implorò, con il dovuto rispetto, di concedere la mano della bella Emma al suo Wido. Ma, a quella proposta, l'altezzoso Sindaco fu fortemente contrariato. Trovò ogni possibile scusa e, poiché Mastro Willibald continuava a ricordargli la promessa, lui fece quello che i despoti del suo tempo erano abituati fare, e che quelli della nostra epoca illuminata fanno ancora: dichiarò che era stata offesa la sua dignità, accusò Mastro Willibald di essere un sovvertitore dell'ordine, un nemico della sicurezza pubblica, e gli concesse di dimenticare in prigione la promessa del suo Signore, il Sindaco. Non ancora soddisfatto, l'accusò di stregoneria, lo fece processare come colui che sosteneva essere il Pifferaio e l'Acchiappatopi di Hamlin, il quale godeva allora, e gode adesso, di cattiva fama nelle province germaniche per aver portato via mediante la sua arte infernale tutti i bambini di quella cittadina sfortunata. La sola differenza fra i due casi, disse l'erudito Sindaco, era che a Hamlin solo i bambini erano stati fatti ballare con la sua musica, ma lì giovani e vecchi parevano aver subito la stessa influenza magica. Con tali abili inganni, il Sindaco allontanò dal prigioniero ogni cuore pietoso. La paura della Negromanzia e l'esempio dei bambini di Hamlin agirono così fortemente che Balivi e Cancellieri scrivevano giorno e notte. Il segretario calcolò già la spesa del rogo funebre; il sagrestano chiese una nuova corda per suonare la campana a morto per il povero peccatore; i falegnami prepararono tribune per gli spettatori della prevista esecuzione capitale; e i giudici fecero le prove della grande scena che avrebbero recitato alla condanna del famoso Pifferaio Acchiappatopi. Ma se la giustizia era
abile, Mastro Willibald lo fu di più: infatti, dopo aver riso di cuore degli importanti preparativi per la sua fine, si distese sul pagliericcio e morì! Poco prima della sua morte aveva mandato a chiamare Wido e gli aveva parlato per l'ultima volta: «Giovanotto», gli aveva detto, «come vedi, con il tuo modo di considerare l'umanità e il mondo io non posso darti aiuto. Sono stanco dei capricci che la tua follia mi ha obbligato a fare. Ora hai acquistato abbastanza esperienza per comprendere che nessuno dovrebbe calcolare, o almeno fondare, i suoi piani sulla bontà della natura umana, anche se la persona stessa fosse troppo buona per perdere completamente la fede nella bontà degli altri. Per quanto mi riguarda, non conterei sull'adempimento della mia ultima richiesta a te, se il tuo stesso interesse non ti inducesse a eseguirla. Quando sarò morto, fai in modo che la mia cornamusa venga sepolta con me. Conservarla non ti servirebbe ma, se giace sottoterra con me, può essere motivo della tua felicità». Wido promise di osservare puntualmente gli ultimi ordini del vecchio amico, che poco dopo chiuse gli occhi. Non appena si diffuse la notizia dell'improvvisa morte di Mastro Willibald, vecchi e giovani vennero ad accertarne la verità. Il Sindaco fu più di ogni altro soddisfatto della svolta che la faccenda aveva preso; infatti l'indifferenza con cui il prigioniero aveva ricevuto la notizia della preparazione del rogo funebre aveva indotto Sua Signoria a supporre che il vecchio suonatore si sarebbe reso un bel giorno invisibile nella prigione, o meglio che non lo si sarebbe trovato più lì; oppure lo scaltro mago, posto sul rogo, avrebbe potuto far bruciare una pagliuzza invece della propria persona, con eterna vergogna del tribunale di Neisse. Perciò ordinò che il morto fosse sepolto il più rapidamente possibile, dato che non era stata ancora pronunciata la sentenza di bruciare il corpo. Un angolo non consacrato del cimitero, vicino al muro, fu il luogo assegnato all'eterno riposo del povero Willibald. Il secondino, come erede legale del defunto prigioniero, avendo esaminato gli oggetti di sua proprietà, chiese cosa si dovesse fare della cornamusa, il corpo del reato. Wido, che era presente, stava per fare la sua richiesta, quando il Sindaco, pieno di zelo, emise il suo giudizio: «Per evitare ogni possibile male, questo malvagio strumento senza valore sarà seppellito con il suo padrone». Così lo misero nella bara a fianco del morto, e al mattino presto suonatore e cornamusa furono portati via e seppelliti. Ma strane cose accaddero la
notte successiva. Le sentinelle sulla torre stavano vegliando, secondo l'uso dell'epoca, per dare l'allarme in caso d'incendio nella campagna attorno, e verso la mezzanotte videro, nel chiarore lunare, Mastro Willibald alzarsi dalla tomba vicino al muro del cimitero. Teneva la cornamusa sotto il braccio e, appoggiandosi a un'alta pietra tombale sulla quale la luna gettava i suoi raggi più luminosi, cominciò a suonare lo strumento usando il fiato e le dita, proprio come faceva da vivo. Mentre le sentinelle, stupite a quella vista, si guardavano l'una con l'altra circospette, molte altre tombe si aprirono e gli scheletri che le occupavano sbucarono fuori con i loro crani nudi, si guardarono attorno, dondolarono il capo al ritmo della musica, uscirono completamente dalle bare e mossero le loro scricchiolanti membra in un'agile danza. Dalle finestre della chiesa e dai cancelli dei sepolcri sotterranei altre orbite vuote guardarono il luogo della danza; le braccia rinsecchite cominciarono a scuotere i cancelli di ferro, finché serrature e catenacci si ruppero e gli scheletri uscirono, ansiosi di unirsi alla danza dei morti. Così i leggeri danzatori girarono tra tumuli e pietre tombali, turbinarono in un allegro valzer facendo svolazzare i loro sudari attorno alle membra senza carne, fino a quando l'orologio della chiesa non suonò le dodici e allora tutti i danzatori, grandi e piccoli, tornarono nelle loro strette celle. Allora il suonatore rimise la cornamusa sotto il braccio e parimenti tornò nella bara vuota. Molto prima dell'alba una sentinella svegliò il Sindaco e, con labbra tremanti e ginocchia deboli, gli fece un pauroso rapporto sull'orribile scena notturna. Il Sindaco ordinò alle sentinelle di mantenere il segreto e promise di montare la guardia con loro la notte seguente. Ciò nonostante, la notizia si diffuse presto nella cittadina, e quella sera tutte le finestre e i tetti lì intorno brulicavano di amatori e conoscitori delle vecchie Arti Magiche, i quali, anticipatamente, furono impegnati in discussioni sulla possibilità o impossibilità degli eventi che speravano di vedere prima di mezzanotte. Il suonatore di cornamusa non era in ritardo. Al primo rintocco della campana che annunciava le undici si alzò lentamente, si appoggiò alla pietra tombale e cominciò a suonare. Gli ospiti del ballo apparentemente aspettavano la musica, perché alle prime note si affrettarono a uscire dalle tombe e dai sepolcri sotterranei, dai tumuli erbosi e dalle pesanti pietre. Cadaveri e scheletri, in sudari o nudi, alti e bassi, uomini e donne, corsero avanti e indietro, muovendo passi di danza e giravolte, vorticando attorno
al suonatore, più svelti o più lenti secondo il ritmo della canzone, finché l'orologio non batté la mezzanotte. Allora danzatori e suonatore tornarono a riposare. Gli spettatori vivi, alle finestre e sui tetti, confessarono allora che «ci sono più cose in cielo e sulla terra di quante non ne contempli la nostra filosofia». Il Sindaco, che si era appena ritirato dalla torre, ordinò che il pittore fosse imprigionato quella notte stessa, sperando di venire a sapere, interrogandolo o magari sottoponendolo alla tortura, come quel fastidio magico del suo padre adottivo potesse essere eliminato. Wido non mancò di rammentare al Sindaco quanto fosse stato ingrato nei confronti di Mastro Willibald, e sostenne che il defunto turbava la cittadina, privava i morti del loro riposo e i vivi del loro sonno solo perché aveva ricevuto il suo sprezzante rifiuto, invece della promessa ricompensa per averlo liberato, e che inoltre era stato gettato in prigione molto ingiustamente e sepolto in modo umiliante. Questo discorso impressionò molto i magistrati; ordinarono subito che il corpo di Mastro Willibald fosse tolto dalla tomba e messo in un luogo più rispettabile. Il sagrestano, per dimostrare l'intuizione del caso, tolse la cornamusa dalla bara e l'appese sopra il letto. Ragionò così: se il suonatore incantatore o incantato non poteva fare a meno di esercitare la sua professione anche nella tomba, almeno non avrebbe potuto suonare per i danzatori senza il suo strumento. Ma quella notte, dopo che l'orologio aveva battuto le undici, lui udì distintamente un colpetto alla porta e, quando l'aprì, aspettandosi un incidente mortale e lucroso che richiedesse la sua esperienza, vide il sepolto Mastro Willibald in persona. «La mia cornamusa», disse quello molto tranquillamente e, passando davanti al tremante sagrestano, la staccò dalla parete dove era appesa; poi tornò alla pietra tombale e cominciò a suonare. Gli ospiti, invitati dalla melodia, giunsero come la notte precedente, e si stavano preparando per la loro danza di mezzanotte nel cimitero. Ma questa volta il suonatore si mise in marcia e varcò il cancello con il suo numeroso e spettrale seguito per andare in città; guidò la parata notturna per tutte le strade fino a quando l'orologio non batté le dodici e tutti tornarono nel loro luogo di riposo. Gli abitanti di Neisse cominciarono a temere che gli spaventosi vagabondi notturni potessero presto entrare nelle loro case. Alcuni dei magistrati principali supplicarono caldamente il Sindaco di spezzare l'incantesimo rispettando la parola data al suonatore. Il Sindaco non ne volle sape-
re; anzi sostenne che Wido partecipava alle arti infernali del vecchio Acchiappatopi e aggiunse: «L'imbrattatele si merita il rogo funebre più che il letto nuziale». Ma la notte seguente gli spettri danzanti tornarono in città e, sebbene non si udisse la musica, essa era visibile grazie alle loro emozioni, perché i danzatori eseguivano le evoluzioni della «Danza del nonno». Quella notte si comportarono molto peggio di prima. Si fermarono alla casa dove abitava una fanciulla fidanzata, e qui volteggiarono in una danza scatenata, attorno a un'ombra che somigliava perfettamente alla nubile in onore della quale fecero la notturna danza nuziale. L'indomani tutta la cittadina era in lutto, perché tutte le fanciulle le cui ombre erano state viste danzare con gli spettri erano morte improvvisamente. La stessa cosa successe la notte dopo. Gli scheletri danzanti volteggiarono davanti alle case e, dovunque furono visti, l'indomani mattina c'era una sposa morta sul cataletto. I cittadini erano decisi a non esporre figlie e amanti a tale incombente pericolo. Minacciarono il Sindaco di trascinare via Emma con la forza e di portarla da Wido, a meno che lui non acconsentisse alla loro unione da celebrarsi prima del calare della sera. La scelta fu difficile ma, trovandosi nell'insolita situazione in cui un uomo può scegliere in piena libertà, lui, come essere libero, dichiarò liberamente che la sua Emma andasse sposa a Wido. Molto prima dell'ora degli spettri, gli ospiti si sedettero al tavolo nuziale. Il primo rintocco della campana suonò e immediatamente si udì la canzone preferita della nota danza nuziale. Gli ospiti, spaventati a morte e temendo che l'incantesimo durasse ancora, si affrettarono ad andare alle finestre e videro il suonatore di cornamusa, seguito da una lunga fila di figure in sudari bianchi, avanzare verso la casa degli sposi. Lui rimase sulla porta e suonò; ma la processione andò avanti lentamente e raggiunse perfino il salone della festa. Qui gli strani ospiti pallidi si strofinarono gli occhi e si guardarono attorno pieni di stupore, come dei sonnambuli appena svegliatisi. I partecipanti al banchetto fuggirono a nascondersi dietro sedie e tavoli, ma presto le guance dei fantasmi si colorirono, le labbra bianche divennero boccioli di rosa; essi si guardarono l'un l'altro pieni di meraviglia e di gioia, e voci conosciute chiamarono nomi di amici. Presto resuscitarono, tutti fiorenti di giovinezza e di salute; e chi potevano essere se non le promesse spose la cui morte improvvisa aveva gettato nel lutto la cittadina intera e
che, ripresesi da un sonno incantato, erano state condotte da Mastro Willibald, con la sua cornamusa magica, fuori dalle loro tombe e alla festa nuziale. Il meraviglioso vecchio suonò un'ultima allegra canzone d'addio e scomparve. Non fu più visto. Wido ritenne che il suonatore di cornamusa altri non fosse che il famoso Spirito dei Monti della Slesia. Il pittore lo aveva incontrato una volta quando viaggiava sulle colline e aveva ottenuto (non seppe mai come) il suo favore. Lui aveva promesso al giovane di assisterlo nella sua causa d'amore e aveva mantenuto la parola, benché alla sua maniera burlesca. Wido rimase per tutta la vita il beniamino dello Spirito dei Monti. Si arricchì, divenne celebre. La sua cara Emma gli diede ogni anno un bel figlio, i suoi quadri furono richiesti persino in Italia e in Inghilterra; e gli esemplari della Danza dei morti che Basilea, Anversa, Dresda, Lubecca e molte altre città si vantano di avere, sono soltanto copie o imitazioni del dipinto originale di Wido, che lui aveva eseguito in ricordo della vera Danza dei morti a Neisse! Ma, ahimè! quella pittura è perduta, e nessun collezionista di quadri è stato ancora capace di trovarla per la gratificazione dei conoscitori e a vantaggio della storia dell'arte. ANN LETITIA BARBAULD Sir Bertrand Sir Bertrand fece girare il suo destriero verso le lande desolate, sperando di attraversare le tetre brughiere prima del coprifuoco. Ma non aveva percorso metà del suo cammino quando fu disorientato dai troppi sentieri e, non riuscendo a scoprire, fin dove l'occhio vedeva, niente all'infuori della scura erica tutta intorno, fu molto incerto su che direzione prendere. L'oscurità lo colse in quella situazione. Era una di quelle notti in cui la luna manda un debole chiarore da dietro una cappa di nuvole nere in un cielo minaccioso. Di tanto in tanto emergeva in tutto il suo splendore, e poi d'un tratto si nascondeva dietro il velo delle nubi, dopo aver dato al povero Sir Bertrand un'ampia visione della distesa desolata. Speranza e coraggio innato lo spronarono ad andare avanti, ma poi l'infittirsi dell'oscurità e la stanchezza del corpo e della mente ebbero ragione di lui; non volle muoversi da dove era, per paura di trovare burroni e paludi che non conosceva; disperato, scese da cavallo e si distese sul terreno. Non era da molto in quella posizione quando il cupo rintocco di una
campana lontana colpì le sue orecchie; si alzò di scatto e, volgendosi nella direzione del suono, scorse il debole balenio di una luce. Afferrò subito le briglie del cavallo e avanzò a cauti passi verso quel chiarore. Dopo una marcia penosa si fermò davanti a un cinto di fossato che circondava il luogo da cui la luce proveniva; in un momentaneo sprazzo di chiarore lunare vide un grande maniero antico, con torri agli angoli e un ampio cortile al centro. I danni provocati dal tempo erano visibili ovunque. In vari punti il tetto era crollato, i bastioni erano mezzi demoliti, le finestre rotte e spoglie. Un ponte levatoio con un rovinatissimo portone a ciascuna estremità, conduceva al cortile antistante l'edificio. L'uomo entrò, e subito la luce che veniva dalla finestra di una delle torri, si mosse e svanì; nello stesso momento, la luna si nascose dietro una nube nera e la notte fu più buia che mai. Silenzio totale. Sir Bertrand legò il destriero sotto una tettoia e, avvicinatosi al maniero, ne percorse la facciata con passi leggeri e lenti. C'era una quiete di morte. Guardò le finestre più basse, ma non distinse nulla nelle tenebre impenetrabili. Dopo un breve colloquio con se stesso, entrò nel cortile e, scorto un massiccio battente di ferro al portone lo sollevò, esitò un momento e poi lo picchiò con forza. Il rumore risuonò per tutto il maniero con echi cavernosi. Ancora silenzio; ripeté i colpi più arditamente; seguì un intervallo; bussò la terza volta e il silenzio continuò. Allora retrocesse un po' per vedere se c'era qualche luce sulla facciata. Essa riapparve al solito posto, ma si dileguò velocemente come prima, e nello stesso istante un cupo rintocco giunse dalla torre. Il cuore di Sir Bertrand quasi si fermò per la paura e lui restò immobile; poi il terrore lo costrinse a muoversi in fretta verso il cavallo... ma la vergogna gli impedì di fuggire e, sia per una questione d'onore, sia per l'irrefrenabile desiderio di vivere fino in fondo l'avventura, ritornò nel cortile; infondendo nell'anima fermezza e risolutezza, con una mano estrasse la spada e con l'altra sollevò la nottola del portone. Il pesante battente, cigolando sui cardini, cedette riottoso alla sua mano tanto che lui dovette aiutarsi con la spalla per aprirlo; entrò e andò avanti, mentre il portone si richiudeva all'istante con un rumore fragoroso. A Sir Bertrand si gelò il sangue; si voltò per ritrovarlo a tentoni e gli ci volle un po' prima di afferrarlo; ma, per quanta forza impiegasse, non riuscì a riaprirlo. Dopo vari, inutili tentativi, guardò alle sue spalle e vide, su
un largo scalone oltre un vestibolo, una fiamma celestina che gettava un lugubre chiarore tutto intorno. Raccolse tutto il suo coraggio e andò verso la luce. Essa si ritirò. Giunse ai piedi dello scalone e, dopo averci pensato un momento, proseguì. Mentre saliva lentamente, la fiamma si ritirò, e infine arrivarono a un'ampia galleria. La fiamma la percorse e lui la seguì in silenzioso orrore, con andatura leggera perché l'eco dei propri passi lo spaventava. La luce lo guidò ai piedi di un'altra scala e svanì. In quell'istante, dalla torre, risuonò un altro rintocco. Sir Bertrand lo sentì rimbombare nel cuore. Era nella totale oscurità, e con le braccia tese in avanti cominciò a salire la seconda scala. Una mano freddissima trovò la sua sinistra e gliel'afferrò, tirandolo decisamente; lui tentò di liberarsi, ma non poté; assestò un furibondo colpo di spada e un forte strillo gli squarciò le orecchie; la mano tagliata restò senza forza nella sua. Lui la lasciò andare e si precipitò in avanti con il coraggio della disperazione. La scala era stretta e ricurva, interrotta da frequenti rotture e da frammenti sparsi di pietra. Divenne sempre più stretta e finì di fronte a un basso cancello di ferro. Sir Bertrand l'aprì con una spinta; oltre trovò un intricato passaggio tortuoso, grande appena perché una persona vi camminasse carponi. Un debole chiarore di luce servì a mostrargli la natura del luogo. Sir Bertrand vi entrò. Risuonò un cupo lamento proveniente da lontano. Lui andò avanti e, superata la prima curva, scorse la stessa fiamma celestina che l'aveva guidato in precedenza. La seguì. Infine il cunicolo sboccò in una galleria alta, al centro della quale apparve una figura in completa armatura, che protendeva il moncone sanguinante di un braccio con un cipiglio terribile e un gesto minaccioso, brandendo la spada. Impavido, Sir Bertrand balzò in avanti, pronto a sferrare un violento colpo alla figura; essa scomparve all'istante, lasciando cadere una grossa chiave di ferro. La fiamma si era posata su un'ampia porta scorrevole a due battenti in fondo alla galleria. Sir Bertrand andò lì e infilò la chiave in una serratura d'ottone, ebbe difficoltà a girarla, ma poi la porta si aprì, mostrando una grande stanza in fondo alla quale stava una bara su un cataletto, con una candela accesa a ogni lato. Lungo le pareti laterali c'erano statue gigantesche di marmo nero, in abbigliamento moresco e con enormi sciabole nella mano destra. Ognuna di
esse portò un braccio indietro e una gamba avanti quando il cavaliere entrò; nello stesso momento, il coperchio della bara si sollevò e la campana suonò. La fiamma continuò a scivolare avanti e Sir Bertrand la seguì con determinazione finché non arrivò a sei passi dalla bara. D'un tratto una signora avvolta in un sudario e con un velo nero si alzò da essa e tese le braccia verso l'uomo; contemporaneamente, le statue fecero risuonare le loro sciabole e vennero avanti. Sir Bertrand si precipitò verso la signora e la prese tra le braccia; lei sollevò il velo e lo baciò sulle labbra; immediatamente il maniero tremò come per un terremoto e crollò a pezzi con un fracasso terribile. Sir Bertrand cadde in un'improvvisa trance e, quando riprese i sensi, si ritrovò seduto su un divano di velluto nella stanza più bella che avesse mai visto, illuminata da numerose candele su lampadari a goccia di puro cristallo. In mezzo era preparato un sontuoso banchetto. La porta che si aprì fece entrare una dolce musica e una dama d'incomparabile bellezza, splendidamente vestita e circondata da uno stuolo di allegre ninfe più bionde delle Grazie. La dama si avvicinò al Cavaliere e, inginocchiatasi, lo ringraziò per essere stato il suo salvatore. Le ninfe posero una ghirlanda di lauro sulla testa di lui e la donna lo condusse per mano alla tavola imbandita, dove i due sedettero. Le ninfe presero i loro posti, mentre una musica deliziosa continuava a suonare. Sir Bertrand non riuscì a parlare per lo stupore; agli onori che gli tributavano rispose con sguardi e gesti cortesi. ANONIMO Il calzolaio di Selkirk C'era una volta a Selkirk un calzolaio di nome Rabbie Heckspeckle, assai noto per la sua abilità di artigiano e per altri requisiti di natura meno lucrosa. Rabbie era un uomo magro, dall'aria miserabile, con capelli neri lisci, dall'aspetto cadaverico, e con un lungo naso flessibile che fiutava i segreti. In breve era lo spione della cittadina. Se una comare del luogo comprava una nuova mantella scarlatta, Rabbie lo sapeva al primo lamento sul costo; se il dottore cenava con il prete, Rabbie poteva dire se la testicciola o il guazzetto di frattaglie era stato il loro piatto principale; si diceva anche che lui fosse edotto sul grugnito di ogni scrofa e sullo schiamazzo di ogni gallina del vicinato, ma questo richiede conferma.
Sua moglie, Bridget, tentava di limitare la sua digressiva inclinazione e di costringerlo a stare in bottega con la lesina; ma la sua interferenza otteneva quel grado di attenzione che i mariti usualmente concedono ai consigli delle loro metà; in altre parole, Rabbie le diceva che lei non sapeva nulla della cosa, che avrebbe dovuto ampliare la sua conoscenza, e infine che se si permetteva di impicciarsi dei suoi affari lui sarebbe stato costretto a darle una bella lezione. Per avere il tempo libero necessario per le sue indagini, Rabbie aveva l'abitudine di mettersi al lavoro molto prima dell'alba. Una mattina era occupato a dare gli ultimi punti a un paio di scarpe per il daziere, quando la porta del suo alloggio, che lui credeva ben sprangata, si aprì all'improvviso e un'alta figura avvolta in un largo mantello nero, con cappello a larghe falde calato sugli occhi, entrò con passo maestoso nella bottega. Rabbie strabuzzò gli occhi a quella vista, chiedendosi cosa avesse portato lì quel visitatore a un'ora così insolita, e si stupì soprattutto che uno sconosciuto fosse arrivato nella cittadina senza che lui fosse venuto a saperlo. «Siete in piedi molto presto, signore», disse Rabbie. «Il gallo di Lucky Wakerife non canterà che fra mezz'ora.» Lo sconosciuto non diede alcuna risposta; ma, prendendo una delle scarpe che Rabbie aveva appena finito, se l'infilò al piede e fece il giro della bottega per provare se gli andava stretta. Durante queste operazioni, Rabbie non perse d'occhio il suo cliente. «Emana un odore schifoso», borbottò Rabbie tra sé, «e sarei pronto a giurare che è uscito dal vomere dell'aratro.» Lo sconosciuto, apparentemente soddisfatto della prova, fece cenno a Rabbie di dargli l'altra scarpa, e tirò fuori un sacchetto per pagare l'acquisto; ma si può immaginare la sorpresa di Rabbie quando, guardando il sacchetto, notò che era macchiato da una specie di muffa del terreno. «Bontà divina», pensò Rabbie, «questo strano uomo deve avere preso quel sacchetto da sotto terra. Vorrei sapere dove. Dicono che ci siano dei sacchi d'argento seppelliti qui vicino.» Intanto lo sconosciuto aveva aperto il sacchetto e, così facendo, un rospo e uno scarabeo caddero sul pavimento, e un grosso baco, strisciando fuori, gli si attorcigliò al dito. Rabbie sgranò gli occhi, ma lo sconosciuto, con aria indifferente, gli tese una moneta d'oro e indicò l'altra scarpa. «È una cosa moralmente impossibile», rispose Rabbie a quella muta proposta. «Devo dirvi che ho promesso al daziere di fargliele trovare pronte alla prima luce del giorno, che non tarderà molto ad arrivare», in quel
mentre lo sconosciuto guardò con ansia verso la finestra, «e, credetemi, è meglio offendere il re in persona che il daziere.» Lo sconosciuto batté energicamente sul pavimento il piede con la scarpa, ma Rabbie fu irremovibile; tuttavia si offrì di fargliene un paio in ventiquattr'ore; e siccome lo sconosciuto, a ragione in fondo, pensò che mezzo paio di scarpe era utile quanto mezza forbice, si vide costretto a venire a patti. Si sedette sullo sgabello a tre gambe e tese la gamba al calzolaio, il quale, accosciatosi, prese sulle ginocchia il piede del taciturno cliente e procedette alle misurazioni. «L'avete un po' largo e piatto, signore», disse Rabbie con aria saputa. Nessuna risposta. «Dove devo portare le scarpe quando sono fatte?», chiese Rabbie, curioso di scoprire il domicilio del visitatore. «Passerò io a prenderle prima che il gallo canti», rispose l'altro con voce assai strana e indescrivibile. «Oh no, signore», disse Rabbie. «Non posso darvi il disturbo di venire voi stesso; sarà un piacere per me portarvele a casa.» «Su questo ho i miei dubbi», rispose lo sconosciuto con la medesima voce strana, «e in ogni caso la mia casa non ci conterrebbe entrambi.» «Dev'essere davvero piccola», rispose Rabbie, «ma ora che ho preso le misure di Vostro Onore...» «Prendete le vostre!», replicò lo sconosciuto e, data una pedata a Rabbie, che finì a terra, uscì dalla bottega con disinvoltura. L'inaspettato smacco suo e dei suoi progetti contrariò momentaneamente il calzolaio; ma poi, rimessosi svelto in piedi, si precipitò alla porta, che raggiunse proprio quando il gallo di Lucky Wakerife annunciava l'alba. Rabbie corse lungo un lato della via, ma tutto era tranquillo; corse dal lato opposto, dove la via terminava al cimitero presso la chiesa; vide soltanto le immobili tombe dall'aspetto freddo sotto la grigia luce del mattino invernale. Rabbie spinse indietro il berretto da notte rosso e si grattò la testa, perplesso. «Ebbene», brontolò tornando sui suoi passi, «questa volta me l'ha fatta, ma che mi pigli un colpo se non lo seguirò domani mattina.» Con indicibile sorpresa di sua moglie, Rabbie rimase tutto il giorno inchiodato al suo sgabello, come se fosse stato sfidato da un fratello del mestiere, e per ventiquattr'ore il suo lungo naso non fu visto gettare un'ombra sulla soglia della bottega; la cosa apparve così straordinaria che i vicini, tutti quanti, la considerarono indizio di un prodigio; ma se avesse assunto
la forma di una cometa che li avrebbe inondati con la sua ardente coda, o di un terremoto che li avrebbe inghiottiti, non poté essere appurato con soddisfazione degli interessati. Intanto Rabbie continuò diligentemente il suo lavoro, senza curarsi delle faccende dei vicini. Cosa importava a lui se la mucca di Jenny Thrifty aveva figliato, se la serva del prete, con qualcosa nel grembiale, era stata vista entrare due volte da Lucky Wakerife, se la ragazza che lavorava nella cascina del proprietario terriero era stata vista rubare il denaro contante al calar della notte, se il tamburo era passato per la cittadina annunciando che una pecora doveva essere uccisa venerdì? Davanti ai suoi occhi c'era soltanto la figura dello sconosciuto, e mucca, ragazza della cascina, o tamburo, potevano andare a farsi friggere. Era notte fonda quando Rabbie finì di lavorare e, messe le scarpe nuove a lato del letto, si distese vestito e si addormentò, ma la paura di non essere ben vigile quando fosse arrivato il nuovo cliente, lo spinse ad alzarsi assai prima dello spuntar del giorno. Aprì la porta e guardò in strada, ma era ancora tanto buio che non vedeva a un metro dal naso; rientrò in casa borbottando: «Che guaio lo trattiene?». E proprio allora una voce al suo fianco disse: «Dove sono le mie scarpe?». «Qui, signore», rispose Rabbie in un impeto di gioia. «Eccole, giuste e ben fatte, e le porterete con grande piacere perché è meglio avere addosso scarpe che lenzuola, come dice il vecchio proverbio.» «Forse io ho addosso le une e le altre», disse lo sconosciuto. «Dio ci salvi!», esclamò Rabbie. «Dormite con le scarpe?» Lo sconosciuto non rispose ma, lasciata una moneta d'oro sul tavolo, prese le scarpe e uscì. «Adesso tocca a me», disse Rabbie fra sé, mettendosi furtivamente a seguirlo. Lo sconosciuto camminava lentamente e Rabbie lo pedinò con attenzione; seguiva la via dalla parte della chiesa, e il calzolaio dietro. «Santo cielo, dove va?», disse fra sé Rabbie vedendo che lo sconosciuto entrava nel cimitero. «Si dirige verso quella tomba in angolo; ora si ferma... ora si siede. Per l'amor di Dio! Che fine ha fatto?» Rabbie si strofinò gli occhi, guardò in tutte le direzioni, ma, mira e rimira, lo sconosciuto era svanito. «C'è qualcosa di misterioso in questo», pensò, «comunque metterò un
segno sul posto.» E dopo avere conficcato la lesina nella tomba si affrettò a tornare a casa. La notizia si diffuse di bocca in bocca e, quando il sole rosso fu alto sulla cittadina, tutti gli abitanti erano in subbuglio; dopo aver tenuto vari conciliaboli, fu deciso all'unanimità di andare in corteo al cimitero e di aprire la tomba ritenuta sospetta. L'intera popolazione del Kirk Wynd affluì per adempiere a tale servizio. Uomini, donne, bambini, tutti si affrettarono a seguire Rabbie alla rinfusa. Egli condusse i suoi Mirmidoni direttamente alla tomba in cui il suo misterioso cliente era scomparso e dove ritrovò la sua lesina ancora infilata, così come l'aveva lasciata. Tutte le braccia si misero subito al lavoro: la tomba fu aperta, il coperchio della bara forzato, e fu esposto alla vista un cadavere in abiti funebri, ma con un paio di scarpe nuove calzate da lunghi piedi ossuti. A quella vista spaventosa la folla fuggì disordinatamente, in testa a tutti Lucky Wakerife, lasciando Rabbie e pochi altri ardimentosi artigiani a sistemare le cose come preferivano con lo scheletro peripatetico. Si tenne un conciliabolo e si decise di richiudere la bara e di rimetterla nella fossa. Prima di far ciò, tuttavia, Rabbie propose di togliere le scarpe al suo cliente, rilevando che a lui non servivano, così come a un carro non servono tre ruote. Non essendovi obiezioni, Rabbie si avvicinò ai piedi del morto e sfilò le scarpe in un baleno. Poi inchiodarono il coperchio con una cinquantina di grossi chiodi e, dopo avere ricoperto la fossa con uno spesso strato di zolle erbose, tornarono ognuno alla propria abitazione. Successivamente Rabbie fu preso da qualche rimorso di coscienza riguardo all'opportunità di avere privato il cadavere di quanto era stato onestamente comprato e pagato. Non poté fare a meno di pensare che, se il fantasma era disturbato dai piedi freddi, circostanza nient'affatto improbabile, il suo desiderio di rimediarvi era stato naturale. Tuttavia, considerando che l'aver fatto un paio di scarpe per un defunto sarebbe stata una macchia perenne sulla reputazione degli Heckspeckle e riflettendo che il suo cliente, legalmente morto, non poteva appellarsi a nessun tribunale per avere soddisfazione, il nostro calzolaio decise audacemente di accettare le conseguenze del suo atto. L'indomani mattina, secondo le abitudini, si alzò molto prima che facesse giorno e si mise a lavorare cantando a squarciagola le vecchie canzoni dei «Calzolai di Selkirk». Ma, poco prima dell'alba, sua moglie, che era a letto nella stanza posteriore, notò che nel bel mezzo del suo canto preferito
la voce di Rabbie si era tramutata in un suono tremulo per poi esplodere in un urlo di terrore; poi udì un rumore come di persone che lottavano, e infine un silenzio di tomba. La buona donna s'infilò svelta i vestiti e corse nella bottega, dove trovò lo sgabello a tre gambe ridotto a pezzi, il pavimento cosparso di peli ruvidi, la porta spalancata, e Rabbie sparito! Bridget corse alla porta e là scoprì subito delle orme di passi ben impresse nel terreno. Seguendole con ansia, quale non fu il suo terrore nel vedere che terminavano nel cimitero, alla tomba del cliente di Rabbie! La terra attorno alla tomba mostrava segni di una violenta lotta, e parecchi ciuffi di capelli neri e lisci erano sparsi sull'erba. Mezza impazzita, la donna percorse la cittadina comunicando la spaventosa notizia. Una folla si radunò e si levò il grido di riaprire la tomba. Vanghe, picconi e zappe furono presto requisiti; la terra fu rimossa, il coperchio della bara nuovamente tolto, e dentro giaceva lo spettrale occupante con le scarpe nuove ai piedi e la berretta rossa di Rabbie stretta nella mano destra! La popolazione, costernata, fuggì dal cimitero e nulla è mai più trapelato che gettasse qualche luce sul triste fato del calzolaio di Selkirk. HEINRICH VON KLEIST La mendicante di Locarno Nell'Italia settentrionale, nelle Prealpi vicine a Locarno, sorgeva una volta un castello di proprietà di un vecchio Marchese italiano: venendo dal Passo San Gottardo se ne scorgono ancora le rovine. Il castello aveva ampie stanze dagli alti soffitti e, in una di queste, un giorno la castellana, impietositasi per una vecchia inferma che si era presentata alla sua porta per chiedere l'elemosina, le aveva permesso di riposare su un pagliericcio che aveva fatto preparare per lei. Per caso il Marchese, tornando dalla caccia, era entrato nella sala per appendere come al solito il suo fucile. Adirato, aveva ordinato alla donna di alzarsi dal suo angoletto e di accucciarsi dietro la stufa. Mentre la vecchia si alzava, una delle sue stampelle le sfuggì sul pavimento lucido, ed essa cadde. La caduta le causò una brutta frattura alla parte bassa della schiena, ma riuscì non senza grandi difficoltà ad alzarsi in piedi, attraversò la stanza, e crollò gemendo e rantolando dietro la stufa, dove spirò. Diversi anni più tardi, quando il Marchese si trovava in difficoltà finanziarie a causa della guerra e a causa di un periodo di cattivi raccolti, rice-
vette la visita di un Cavaliere fiorentino, che desiderava acquistare il castello a causa della sua posizione molto favorevole. Il Marchese, desideroso di effettuare la vantaggiosa transazione, ordinò alla moglie di far preparare per il loro ospite la stanza che abbiamo menzionato, che era rimasta vuota ed era arredata con mobili sontuosi e belli. Ma, nel mezzo della notte, con grande costernazione, i due coniugi videro il gentiluomo scendere le scale, pallido e sconvolto. Egli diede loro la sua parola d'onore che la stanza era stregata. Qualcosa, rimasta invisibile all'occhio umano, si era alzata da un angolo e si era udito un rumore come di un corpo che si alzasse da un giaciglio di paglia. Poi, a passi lenti e incerti, aveva attraversato la stanza da un lato all'altro, per poi crollare, gemendo e rantolando, dietro la stufa. Il Marchese, in preda a un sentimento di sconcerto che lui stesso non riusciva a spiegarsi, tentò di dissipare i timori del suo ospite con un'ilarità forzata, dichiarando che, per calmarli, si sarebbe alzato e avrebbe passato le ore della notte che ancora rimanevano a fare compagnia al Cavaliere nella sua stanza. Ma il Cavaliere lo pregò di permettergli di rimanere nella stanza da letto del Marchese, e di poter dormire in una poltrona. Al mattino ordinò la sua carrozza, si congedò, e partì. L'incidente fece una grande impressione e il Marchese fu molto contrariato dal fatto che quella vicenda finì per scoraggiare diversi possibili acquirenti. Quindi, quando i suoi stessi servi cominciarono a ripetere le strane e inspiegabili voci circa un fantasma che camminava a mezzanotte per la stanza, egli si decise a mettere fine a quella diceria verificando di persona la faccenda durante la notte seguente. Fu così che, quando scese la sera, fece preparare il suo giaciglio in quella stanza particolare dove, senza addormentarsi, avrebbe atteso la mezzanotte. Agghiacciato, infatti, al rintocco dell'ora delle streghe, udì dei suoni inspiegabili. Pareva che qualcuno si alzasse da un giaciglio di paglia frusciante, attraversasse la stanza da una parte all'altra per poi crollare gemendo, con rantoli di agonia mortale, dietro la stufa. Quando scese - il giorno seguente - la Marchesa gli chiese il risultato delle sue ricerche. Egli allora, gettando attorno sguardi apprensivi e incerti, sbarrò la porta e l'assicurò del fatto che quelle voci dicevano il vero. Nel sentire quelle parole, la donna fu colta dal terrore come non le era mai accaduto prima in vita sua, e lo supplicò di non rendere nota la cosa finché non avesse di nuovo fatto la prova, a sangue freddo, in sua presenza.
Ma ecco che, durante la notte seguente, i due coniugi e il loro fedele servitore, che aveva acconsentito ad accompagnarli, udirono tutti gli stessi inspiegabili suoni misteriosi. Solo grazie al loro forte desiderio di disfarsi a tutti i costi del castello i due riuscirono a mascherare il loro terrore in presenza del servitore, e ad attribuire l'accaduto a una causa fortuita e accidentale che prima o poi avrebbe fornito la spiegazione. La terza sera i due erano ormai decisi a chiarire una volta per tutte quella faccenda, e si erano recati con il cuore in subbuglio nella stanza degli ospiti, quando casualmente, il cane di casa, che era stato slegato, andò loro incontro sulla porta. Senza consultarsi circa la motivazione del loro gesto, forse spinti dall'istintivo desiderio di poter godere della compagnia di un altro essere vivente, i Marchesi presero con loro il cane ed entrarono nella stanza. Verso le undici i due si sedettero sul letto. Sul tavolo ardevano due candele. La Marchesa era vestita di tutto punto, mentre il Marchese aveva una spada e delle pistole che aveva preso dall'armadio, e che teneva pronte al fianco. E, mentre stavano seduti tentando come meglio potevano di distrarsi conversando, il cane si accucciò a terra nel mezzo della stanza, poggiò la testa sulle zampe e si addormentò. Ben presto, allo scoccare della mezzanotte, si udirono nuovamente quegli orribili suoni: un essere invisibile agli occhi degli esseri umani, qualcuno con delle grucce, si era alzato, ed era fermo nell'angolo della stanza; poi si udì il fruscio della paglia, il toc toc dei passi che avanzavano: dapprima il cane si era svegliato e, tutto teso, con le orecchie rizzate, aveva cominciato a ringhiare e ad abbaiare proprio come se una persona gli stesse venendo incontro, ma poi si ritrasse verso la stufa. A quella vista la Marchesa, con i capelli ritti sul capo per il terrore, fuggì fuori dalla sala. Suo marito, afferrando la spada, urlò: «Chi va là?» e, quando non ricevette alcuna risposta, si lanciò in tutte le direzioni come un indemoniato, fendendo l'aria. Allora la nobildonna ordinò la sua carrozza, decisa a partire in direzione della città. Ma aveva appena finito di radunare pochi oggetti, e la carrozza aveva cominciato a sferragliare attraverso il portale d'ingresso, quando vide l'intero castello illuminarsi in preda alle fiamme che si sprigionavano attorno a lei. Il Marchese, in preda all'orrore, aveva afferrato una candela e, ormai stanco della vita, aveva appiccato fuoco ai quattro angoli della costruzione, le cui stanze erano interamente rivestite di legno. Invano essa mandò i suoi servitori per tentare di soccorrere lo sfortunato.
Egli era già perito miseramente, e ancora oggi le sue ossa biancheggianti, ricomposte dalla gente del luogo, giacciono in quell'angolo della stanza in cui aveva ordinato alla mendicante di Locarno di alzarsi dal suo giaciglio. WALTER SCOTT La storia di Willie il Vagabondo Forse avrete sentito parlare di Sir Robert Redgauntlet di Ilk, che viveva da queste parti prima degli anni d'oro. Il paese se lo ricorderà a lungo; e i nostri padri trattenevano il respiro ogni volta che lo sentivano nominare. Stava con gli Highlanders ai tempi di Montrose, e poi sulle colline con Glencairn nel Seicentocinquantadue cosicché, quando diventò re Carlo II, chi godeva più favori del Signore di Redgauntlet? Fu fatto Cavaliere alla Corte di Londra, con la stessa spada del re e, siccome era un ardente fautore del governo, venne qui ruggendo come un leone, con il grado di Luogotenente (e di pazzo, a quanto mi risulta), per sottomettere i Whigs e i Covenanters del paese. Ne sortì un macello, perché i Whigs erano tenaci quanto i Cavalieri erano feroci, ed era solo questione di chi avrebbe stancato l'altro per primo. Redgauntlet propendeva per la fermezza: e il suo nome è conosciuto in tutto il paese come quello di Claverhouse o di Tom Dalyell. Né la brughiera, né le grotte, né la montagna, né le cantine, potevano nascondere la povera gente che Redgauntlet cacciava con corno e muta, come i cervi selvatici. E davvero, quando li trovava, non faceva più cerimonie con un Highlander che con un daino, ma chiedeva solo: «Sei disposto a giurare?». Se quello negava, ordinava: «Puntate... mirate... fuoco!» e il disgraziato cadeva a terra. Sir Robert era odiato e temuto dappertutto. Si pensava che avesse un filo diretto con Satana, che fosse a prova d'acciaio, che le pallottole rimbalzassero sul suo giubbotto di pelle come chicchi di grandine sul terreno, che avesse un cane che stanava le lepri dalle parti dei Piani di Carrifra, e altre cose del genere, ma ne parleremo poi. La miglior benedizione che gli mandavano era: «Il Diavolo si porti Redgauntlet!». Non era un cattivo padrone per la sua gente, i suoi fittavoli gli volevano bene e, quanto ai lacchè e ai soldati che lo seguivano nelle sue persecuzioni, come i Whigs chiamavano quei tempi di eccidio, si sarebbero ubriacati bevendo alla sua salute in qualsiasi momento. Ora dovete sapere che mio padre viveva sulle terre di Redgauntlet, in un
posto che si chiama Primrose-Knowe. Avevamo vissuto su quelle terre, e sotto i Redgauntlet, fin dai tempi in cui si andava a cavallo, e anche prima. Era un bel posticino, e penso che l'aria lì sia più calda e più fresca che in ogni altra parte del paese. Ora è abbandonato: io mi sono seduto sulla porta tre giorni fa, e sono stato contento di non poter vedere lo stato in cui si trovava, ma questo non c'entra. Lì abitava mio padre, Steenie Steenson, che era stato un vagabondo chiacchierone durante la sua giovinezza, e che sapeva suonare la cornamusa: era famoso per «Hoopers and Girders» - Cumberland non poteva superarlo a «Jackie Lattin» - e aveva il tocco migliore per l'accompagnamento da Berwick a Carlisle. La stoffa di Steenie non era quella con cui si facevano i Whigs. E così diventò un Tory, ossia quelli che ora chiamiamo Giacobiti, solo per necessità, perché doveva pur appartenere a un partito o all'altro. Non ce l'aveva con i Whigs, e non gli piaceva veder scorrere il loro sangue però, siccome era obbligato a seguire Sir Robert nelle sue cacce e battaglie, sia guardando che montando la guardia, vide molte cose malfatte, e forse ne fece anche, senza poterlo evitare. Ora Steenie era una specie di favorito del suo padrone, e conosceva un mucchio di gente al castello: spesso lo mandavano a chiamare per suonare la cornamusa quando volevano divertirsi. Il vecchio Dougal MacCallum, il maggiordomo, che aveva seguito Sir Robert nel bene e nel male, all'aperto e nei boschi, negli stagni e nei fiumi, aveva una vera passione per la cornamusa, e metteva una buona parola per mio padre con il suo Signore; perché Dougal poteva rigirarsi il padrone intorno a un dito. Beh, venne la Rivoluzione, e quasi spezzò il cuore a Dougal e al suo padrone, ma il cambiamento non fu poi così grande come loro avevano temuto, e come altri avevano sperato. I Whigs dissero in lungo e in largo quel che avrebbero fatto ai loro vecchi nemici, e specialmente a Sir Robert Redgauntlet. Ma c'era troppa altra gente che gli aveva tenuto mano, per poter rifare il mondo da capo. Così il Parlamento ci passò sopra; e Sir Robert, promettendo che si sarebbe limitato a cacciare le volpi invece dei Covenanters, rimase dov'era. Le sue feste erano gaie e la sua sala illuminata come sempre, anche se gli mancavano le offerte dei non conformisti, che prima gli rifornivano la cantina e la dispensa; è certo infatti che diventò più esigente per gli affitti di quanto i suoi fittavoli non lo avessero conosciuto prima, e questi impararono ad essere puntuali il giorno del pagamento, o il Signore se ne sarebbe dispiaciuto. E lui metteva tanta paura che nessuno se la sentiva di farlo
montare in collera, perché le bestemmie che diceva, la rabbia che lo possedeva, e l'aspetto che assumeva, lo facevano a volte somigliare a un demonio incarnato. Beh, mio padre non era granché come uomo d'affari - non che fosse proprio un pasticcione - ma non aveva il dono del risparmio, e si trovò in arretrato di due semestri. Riuscì a spostare la prima scadenza, quella di Pentecoste, con delle belle parole e la cornamusa; ma a san Martino fu invitato dal fattore a pagare in un giorno determinato, o avrebbe dovuto andarsene. Gli ci volle parecchio per trovare il denaro; ma tutti gli volevano bene e, alla fine, riuscì a raccoglierlo - mille marchi - quasi tutto da un vicino chiamato Laurie Lapraik, un brutto tipo. Laurie era molto abile - sapeva cacciare con il cane e correre con la lepre - essere un Whig o un Tory, un santo o un peccatore, a seconda del vento. Era stato un professore nel mondo della Rivoluzione, ma gli piaceva anche questo mondo e una canzone sulla cornamusa ogni tanto, e pensava di aver sufficienti garanzie per il denaro che aveva prestato a mio padre, dato il bestiame di PrimroseKnowe. Mio padre andò al castello di Redgauntlet, con la borsa pesante e il cuore leggero, felice di essersi salvato dal pericolo del padrone. Beh, la prima cosa che venne a sapere al castello fu che Sir Robert aveva avuto un attacco di gotta, e che non sarebbe comparso prima delle dodici. Non era solo per amore del denaro, credeva Dougal, ma perché non voleva che mio padre lasciasse la terra. Dougal era contento di vedere Steenie, e lo fece entrare nella grande sala di quercia: là sedeva il padrone solo soletto se non fosse per il fatto che c'era lì vicino una grossa e brutta scimmia, che era la sua favorita. Era una bestiaccia, e faceva dei brutti scherzi - non le andava bene niente e si arrabbiava facilmente - correva per tutto il castello, parlottando, ululando, e pizzicando e mordendo la gente, soprattutto prima dei temporali. Sir Robert la chiamava il Maggiore Weir, come lo stregone che era stato bruciato, e a pochi piacevano sia il nome che il carattere di quell'essere - pensavano che ci fosse qualcosa di strano - e mio padre non era tanto tranquillo quando la porta si chiuse dietro di lui, e si trovò nella sala solo con il padrone, Dougal MacCallum, e il Maggiore, cosa questa che non gli era mai capitata prima. Sir Robert sedeva, o meglio dovrei dire giaceva, in un gran seggiolone, avvolto nella sua vestaglia di velluto, con i piedi su uno sgabello: infatti soffriva sia di gotta che di calcoli, e la sua faccia metteva spavento tanto
sembrava quella del Diavolo. Il Maggiore Weir gli sedeva di fronte, in un abito rosso coi pizzi e la parrucca del padrone in testa e, ogni volta che Sir Robert si lamentava per il dolore, la scimmia si lamentava anche lei, come una testa di pecora fra le tenaglie: costituivano una brutta coppia, che metteva timore. La giacca di cuoio del padrone era appesa vicino a lui, e la sua spada e le pistole erano a portata di mano, perché manteneva l'antica abitudine di tenere le armi pronte e un cavallo sellato giorno e notte, proprio come quando riusciva ancora a cavalcare e a correre per le colline dietro la gente. Qualcuno diceva che lo faceva perché aveva paura che qualche Whig volesse vendicarsi, ma penso che fosse solo una vecchia abitudine: non era tipo da aver paura di nessuno. Il registro degli affitti, con la copertina nera e le borchie, stava vicino a lui, e un libro di canzonacce stava fra le pagine, per tenerlo aperto nel punto in cui stava scritto quel che riguardava il fittavolo di Primrose-Knowe, in arretrato con i suoi obblighi. Sir Robert diede a mio padre un'occhiata che avrebbe inaridito a chiunque il cuore nel petto. Dovete sapere che aveva un modo di aggrottare le sopracciglia, per cui si vedeva sulla sua fronte un segno a ferro di cavallo, profondo, come se ci fosse stato inciso. «Sei venuto a mani vuote, figlio di uno zufolo vuoto?», chiese Sir Robert. «Perdiana! Se è così...» Mio padre, facendo buon viso a cattivo gioco, si chinò e posò la borsa con il denaro sulla tavola con un ampio gesto, come chi fa qualcosa di molto ardito. Il padrone se la tirò lesto vicino. «C'è tutto, Steenie?», chiese. «Vostro Onore lo troverà tutto», rispose mio padre. «Tieni, Dougal», disse il padrone. «Dà a Steenie un bicchiere di brandy giù di sotto mentre io conto il denaro e scrivo la ricevuta.» Ma non erano ancora usciti dalla stanza, che Sir Robert lanciò un urlo che fece tremare le fondamenta del castello. Dougal tornò subito dentro, e accorsero i valletti: il padrone lanciava urla su urla, ognuna più tremenda dell'altra. Mio padre non sapeva se stare o scappare, poi rientrò nel salone, dove tutto era sottosopra: nessuno gli disse «entra» o «vattene». Il padrone ruggiva spaventosamente che voleva acqua calda per i piedi e vino per rinfrescarsi la gola, e che l'Inferno e le sue fiamme erano tutto quello che aveva in bocca.
Gli portarono dell'acqua ma, quando gli misero i piedi gonfi nella tinozza, gridò che scottava; e la gente disse poi che ribolliva e fumava come una caldaia in ebollizione. Lui tirò la coppa in testa a Dougal, e disse che gli aveva dato sangue invece del Borgogna, e veramente la sguattera il giorno dopo dovette lavare del sangue rappreso dal tappeto. La scimmia che chiamavano Maggiore Weir si lamentava e piangeva come se facesse il verso al padrone: a mio padre la testa cominciava a girare, e dimenticò sia il denaro che la ricevuta. Si precipitò giù per le scale ma, mentre correva, le urla diventavano sempre più deboli: poi si udì un lamento roco e corse voce per il castello che il padrone era morto. Bene, mio padre se ne venne via a mani vuote, e non poteva far altro che sperare che Dougal avesse visto la borsa del denaro e sentito il padrone dire che voleva scrivere la ricevuta. Il padrone giovane, che ora era Sir John, venne da Edimburgo a mettere ordine. Sir John e suo padre non erano mai andati d'accordo. Sir John aveva studiato da avvocato, e più tardi aveva avuto un seggio in Parlamento e aveva votato per l'Unione, perché, si credeva, era stato compensato bene: se suo padre fosse potuto uscire dalla tomba, gli avrebbe rotto la testa sul suo stesso focolare. Qualcuno pensava che era più facile trattare con il vecchio Cavaliere scontroso che con quel giovane che parlava così bene, ma di questo parleremo dopo. Dougal MacCallum, poveretto, non pianse e non gridò, ma andava in giro per la casa come un cadavere, disponendo, come di dovere, ogni cosa per il funerale. Ora Dougal sembrava che stesse sempre peggio man mano che annottava, e fu l'ultimo ad andare a letto, in uno stanzino che stava proprio di fronte alla camera che il suo padrone occupava da vivo e dove ora giaceva in pompa magna, come dicevano, allora! La notte prima del funerale Dougal non riuscì a trattenersi; lasciò da parte l'orgoglio, e chiese al vecchio Hutcheon di tenergli compagnia in camera per un'ora. Mentre stavano lì, Dougal prese un bicchiere di brandy, ne diede uno a Hutcheon, e gli augurò salute e lunga vita e disse che, quanto a lui, non ne aveva più per molto: infatti, ogni notte, da quando Sir Robert era morto, il suo fischietto d'argento aveva suonato nella camera davanti a lui proprio come faceva di notte quando era vivo, per chiamare Dougal in modo che venisse a rigirarlo nel letto. Dougal disse che, finché stava solo con il morto in quel piano della torre (giacché nessuno aveva voglia di vegliare Sir Robert Redgauntlet), non aveva mai avuto il coraggio di rispondere alla chiamata, ma che ora la sua coscienza lo rimproverava di non aver fatto il suo dovere; perché, «sebbe-
ne la morte interrompa il servizio», disse MacCallum, «non interromperà mai il mio servizio a Sir Robert. Quindi risponderò al suo prossimo fischio: perciò, sta' qui con me, Hutcheon». Hutcheon non ne aveva nessuna voglia, ma era stato vicino a Dougal in battaglia e nelle risse, e non poteva abbandonarlo in quel frangente, così i due compagni si sedettero con la bottiglia del brandy, e Hutcheon, che era un po' prete, avrebbe voluto leggere un capitolo della Bibbia; ma Dougal non volle sentire altro che un poema di David Lindsay, che era di preparazione alla guerra. Quando venne mezzanotte, e la casa era silenziosa come una tomba, ecco il fischietto d'argento risuonare così forte e acuto come se Sir Robert ci stesse soffiando: allora i due vecchi servitori si alzarono e andarono nella stanza dove giaceva il morto. Hutcheon vide tutto al primo sguardo; infatti c'erano parecchie torce nella stanza, che gli mostrarono l'orribile bestiaccia - proprio lei - seduta sulla bara del padrone! Cadde giù come se fosse morto. Non seppe dire quanto tempo era rimasto sbigottito sulla soglia ma, quando si riprese, chiamò il suo amico e, non ricevendo risposta, svegliò tutta la casa: trovarono Dougal morto a due passi dal letto sul quale si trovava la bara del padrone. Quanto al fischietto era sparito, ma lo sentivano spesso in cima alla casa sui merli, e fra i vecchi comignoli e le torrette, dove fanno il nido i gufi. Sir John mise la cosa a tacere, e il funerale ebbe luogo senza altri scandali. Ma quando fu finito, e il padrone cominciò a mettere ordine nei suoi affari, ogni fittavolo fu chiamato per i suoi arretrati, e mio padre per tutta la somma che stava scritta nel registro degli affitti. Bene, andò lesto lesto al castello a raccontare la sua storia, e lì fu presentato a Sir John, che sedeva sul seggiolone di suo padre, vestito a lutto, con nastri di crespo, una cravatta larga, e uno spadino da passeggio al fianco, invece del vecchio spadone che pesava un quintale, fra lama, elsa e impugnatura. Mi hanno raccontato tante volte ciò che si dissero, che mi pare quasi di esserci stato anch'io, sebbene allora non fossi ancora nato. «Vi auguro ogni felicità, Signore, dalla sedia a capotavola e dal pane bianco, a felici proprietà. Vostro padre era cortese verso gli amici e i seguaci: felicità a Voi, Sir John, che state nelle sue scarpe, o dovrei dire i suoi stivali, perché portava poco le scarpe, e solo le pantofole quando aveva la gotta.» «Ah, Steenie», disse il padrone, sospirando profondamente e accostando il fazzoletto agli occhi, «mio padre è stato chiamato all'improvviso, e se ne
sentirà la mancanza in paese. Non ha avuto il tempo di mettere in ordine i suoi affari - era ben preparato verso Dio, che è senza dubbio la cosa più importante - ma ci ha lasciato una matassa arruffata da sbrogliare. Ehm! Ehm! Mettiamoci al lavoro, Steenie: c'è molto da fare, e il tempo è poco.» A questo punto aprì il volume fatale. Ho sentito di una cosa che si chiama il Libro del Giudizio: sono certo che era un registro dei fittavoli in arretrato. «Stephen», disse Sir John con la stessa voce sommessa, cortese, «Stephen Stevenson, o Steenson: sei segnato qui per un anno di arretrati, dovuti all'ultima scadenza.» Stephen: «Con buona pace di Vostro Onore, Sir John, li ho pagati a vostro padre». Sir John: «Allora avrai certo una ricevuta: me la fai vedere?». Stephen: «Ecco, non ne ha avuto il tempo, Vostra Signoria: infatti, non appena gli ho dato il denaro, e non appena Sua Signoria Sir Robert, che è defunto, lo prese per contarlo, lo hanno colto i dolori che poi lo hanno ucciso». «Che peccato!», disse Sir John, dopo una pausa: «Ma può essere che tu l'abbia pagato in presenza di altre persone. Voglio una prova talis qualis, Stephen. Non voglio esser severo con nessun poveraccio». Stephen: «A dir la verità, Sir John, non c'era nessuno nella stanza all'infuori di Dougal MacCallum, il maggiordomo. Ma, come Vostra Signoria sa, ha seguito il suo padrone». «Che peccato, che peccato, Steenie!», disse Sir John senza cambiare tono di voce. «L'uomo al quale hai pagato il denaro è morto, l'uomo che ha visto il pagamento è morto anche lui, e il denaro, che avrebbe dovuto essere lì, non è stato neanche scritto nei registri. Come posso crederti?» Stephen: «Vostro Onore, non lo so, ma c'è una traccia di quelle monete: infatti che Dio mi aiuti, ho dovuto prenderlo a prestito da venti borse, e sono sicuro che ogni persona da cui l'ho preso, sarà pronta a giurare il motivo per cui l'ho preso a prestito». Sir John: «Non dubito affatto che tu abbia preso a prestito il denaro, Steenie. È il pagamento a mio padre quello di cui voglio una prova». Stephen: «Il denaro può essere in giro per casa, Sir John. E siccome Vostra Signoria non l'ha mai ricevuto, e l'altra Signoria non può averlo portato con sé, forse l'ha visto qualcuno della famiglia». Sir John: «Interrogheremo i servitori, Stephen: mi pare ragionevole». Ma i lacchè e le sguattere, i paggi e gli stallieri, tutti negarono ferma-
mente di aver mai visto una borsa di denaro simile a quella descritta da mio padre. Ancor peggio, lui non aveva mai detto ad anima viva di aver pagato l'affitto. Uno aveva notato che aveva qualcosa sotto il braccio, ma l'aveva preso per la cornamusa. Sir John Redgauntlet allontanò i servitori dalla stanza, poi disse a mio padre: «Ora, Steenie, vedi che ti ho trattato con giustizia e, siccome non dubito affatto che tu sappia dove trovare il denaro, ti invito chiaramente, e per il tuo bene, a che tu metta fine a questa farsa perché, Stephen, o paghi, o te ne vai». «Dio Vi perdoni per quel che pensate», disse Stephen, mezzo fuori di sé. «Sono un uomo onesto.» «Anch'io, Stephen», disse Sua Signoria, «e così pure tutte le persone della casa, immagino. Ma se c'è un furfante tra noi, dev'essere colui che racconta una storia che non può provare.» Tacque, poi aggiunse, con maggior severità: «Capisco la tua furbizia: tu vuoi trarre profitto da alcuni pettegolezzi maliziosi che corrono in questa famiglia, soprattutto riguardo alla morte improvvisa di mio padre, per cercare di truffarmi del denaro e forse danneggiare la mia reputazione, insinuando che ho già ricevuto l'affitto che ti sto chiedendo. Dove supponi che sia il denaro? Insisto per saperlo». Mio padre si accorse che tutto pareva essergli contro, e quasi si disperò, tuttavia si dondolò da un piede all'altro, guardò tutti gli angoli della casa, e non rispose. «Parla, furfante!», disse il padrone, con la stessa espressione di suo padre quando si arrabbiava: sembrava che le rughe della fronte prendessero la stessa spaventosa forma a ferro di cavallo. «Parla, furfante! Voglio sapere cosa pensi: pensi che abbia io il denaro?» «Lungi da me dire questo», disse Stephen. «Accusi qualcuno della mia gente di averlo preso?» «Non voglio accusare nessun innocente», disse mio padre, «e, se uno di loro è colpevole, io non ho le prove.» «Il denaro dev'essere da qualche parte, se c'è una parola di vero nella tua storia», disse Sir John. «Ti chiedo dove pensi che sia... e voglio una risposta esatta!» «All'Inferno, se volete sapere quello che penso», disse mio padre, spinto agli estremi, «all'Inferno con suo padre, la scimmia e il fischietto d'argento.» Si precipitò quindi giù per le scale (perché il salotto non era più un posto per lui dopo tali parole), e sentì il padrone che gli bestemmiava dietro,
proprio come faceva Sir Robert, chiamando a gran voce l'assessore e l'ufficiale della Baronia. Mio padre corse dal suo principale creditore (quello che chiamavano Laurie Lapraik) per vedere se poteva cavarne qualcosa ma, quando gli raccontò la sua storia, ricevette solo i nomi peggiori: ladro, mendicante e spendaccione erano i termini più gentili e, dopo tutte quelle parole scortesi, Laurie ripeté la vecchia storia che lui si era macchiato le mani con il sangue dei santi di Dio, proprio come se un fittavolo avesse potuto rifiutarsi di andare con il suo padrone, soprattutto quando il suo padrone era Sir Robert Redgauntlet. Mio padre, in quel momento, aveva superato i limiti della pazienza e, mentre lui e Laurie litigavano, si mise a denigrare la dottrina di Laurie e a dire certe cose che fecero venire la pelle d'oca a chi li ascoltava: era proprio fuori di sé, e aveva vissuto in una brutta compagnia ai suoi tempi. Alla fine si separarono, e mio padre si diresse verso casa attraverso il bosco di Pitmurkie, che è fatto di abeti neri, come li chiamano: conosco il bosco, ma non posso dire se gli abeti sono bianchi o neri. All'entrata del bosco c'è un prato incolto, e sul margine del prato una piccola, solitaria stazione di posta, tenuta da un'ostessa che si chiamava Tibbie Faw, e lì il povero Steenie implorò un boccale di brandy, perché non aveva preso niente tutto il giorno. Tibbie lo incitò a prendere un boccone, ma lui non riusciva neanche a pensarci, e non volle togliere il piede dalla staffa; poi bevve il brandy in due sorsate, per ognuna delle quali fece un brindisi: il primo, alla memoria di Sir Robert Redgauntlet, e che non potesse aver pace nella tomba finché non avesse reso giustizia al suo povero fittavolo, e il secondo, alla salute del Nemico del genere umano, perché gli restituisse il denaro, e gli facesse sapere cosa ne era successo, dato che si rendeva conto che tutti pensavano che fosse un ladro e un furfante, e lui pensava che questo fosse peggio della rovina della sua casa. Continuò ad andare avanti, senza preoccuparsi dove. Si era fatto notte, gli alberi erano ancora più scuri, e lui lasciò che la sua bestia si cercasse la strada nel bosco; a un tratto, da stanco che era, il ronzino cominciò a saltare, a correre e a galoppare, tanto che mio padre riusciva a stento a tenersi in sella. Allora un cavaliere, che comparve improvvisamente vicino a lui, gli disse: «La tua è una bella bestia, amico: vorresti venderla?». E, così dicendo, toccò il collo del cavallo col suo frustino, e quello tornò al passo di prima.
«Però gli passa presto l'ardire, mi pare», continuò lo sconosciuto, «e in questo somiglia al coraggio di un uomo, che pensa di fare grandi cose finché non viene messo alla prova.» Mio padre lo stava appena a sentire, e spronò il cavallo con un «Buona sera, amico». Ma pareva che lo sconosciuto fosse un tipo che non mollava perché, per quanto Steenie aumentasse l'andatura, gli stava sempre vicino allo stesso passo. Alla fine mio padre, Steenie Steenson, si arrabbiò e, a dire la verità, cominciò ad aver paura. «Cosa vuoi da me, amico?», disse. «Se sei un ladro, non ho denaro; se invece sei una persona per bene, e cerchi compagnia, non ho voglia di ridere né di parlare e, se vuoi sapere la strada, non la so neanch'io.» «Se mi racconti i tuoi guai», disse lo sconosciuto, «io sono uno che, sebbene non sia ben conosciuto nel mondo, sono l'unico che può aiutare i suoi amici.» Così mio padre, per scaricarsi l'animo, più che per speranza di aiuto, gli raccontò la storia dal principio alla fine. «È un brutto guaio», disse lo sconosciuto, «ma penso di poterti aiutare.» «Se m'impresti il denaro, signore, e mi dai tempo... Non so quale altro aiuto puoi darmi sulla terra», disse mio padre. «Ma posso dartene sottoterra», disse lo sconosciuto. «Ecco, sarò franco con te: ti impresterò il denaro, ma le mie condizioni non ti piaceranno. Ora, ti posso dire che il tuo vecchio padrone è disturbato nella tomba dalla tua maledizione e dai lamenti della tua famiglia e, se tu hai il coraggio di andargliela a chiedere, ti darà la tua ricevuta.» A mio padre si rizzarono i capelli in testa a quella proposta, ma pensò che il suo compagno doveva essere un tipo scherzoso che cercava di spaventarlo e che avrebbe finito col prestargli il denaro. Inoltre, il brandy lo rendeva coraggioso e la disgrazia disperato, così disse che aveva abbastanza coraggio da andare fino alle porte dell'Inferno, e anche oltre, per quella ricevuta. Lo sconosciuto si mise a ridere. Bene, avevano continuato ad avanzare nel folto del bosco quando, tutto a un tratto, il cavallo si fermò alla porta di una grande casa e, se non avesse saputo che il posto stava a dieci miglia di distanza, mio padre avrebbe detto che si trattava del castello di Redgauntlet. Entrarono a cavallo nella corte esterna, sul vecchio ponte levatoio, e videro che la facciata intera della casa era illuminata, e che c'erano cornamuse e pifferi, e danze e risa come a casa di Sir Robert a Pasqua e a Natale e
nelle altre grandi occasioni. Balzarono a terra, e mio padre ebbe l'impressione di legare il cavallo allo stesso anello al quale lo aveva legato la mattina, quando era andato a parlare a Sir John. «Beh», disse mio padre, «forse la morte di Sir Robert è stata solo un sogno.» Bussò alla solita porta, e il suo vecchio amico, Dougal MacCallum - che sembrava sempre il solito, anche lui - venne ad aprire la porta, e disse: «Steenie, sei tu, ragazzo? Sir Robert ti aspettava con ansia». Mio padre era come un uomo in un sogno: cercò lo sconosciuto, ma se ne era andato. Alla fine provò a dire: «Ah, Dougal Driveover, sei vivo? Credevo che fossi morto». «Non scherzare con me», disse Dougal, «ma pensa a te stesso, e vedi di non prendere niente qui: né vivande, né bevande, né denaro, all'infuori della ricevuta che è tua.» Dicendo così, lo portò attraverso sale e corridoi che erano ben noti a mio padre, fino al grande salone di quercia, e lì c'era un gran cantare canzoni oscene, si beveva vino rosso, e si pronunciavano bestemmie e parolacce, come era sempre stato al castello di Redgauntlet. Ma che Dio ci protegga! Che compagnia di spettrali gaudenti sedeva intorno a quel tavolo! Mio padre ne conosceva molti che erano morti da tempo, perché aveva spesso suonato per gran parte di quella compagnia nella sala di Redgauntlet. C'era il feroce Middleton, il dissoluto Rhodes, e l'astuto Lauderdale; e Dalyell, con la testa calva e la barba che gli arrivava alla vita; ed Earlshall, con le mani macchiate dal sangue di Cameron; e il selvaggio Bonshaw, che aveva stretto le membra del beato signor Cargill fino a farne uscire il sangue; e Dunbarton Douglas, due volte traditore della patria e del re. C'era il sanguinario avvocato MacKenyie che, per la sua saggezza e ingegno mondano, era stato seppellito come un re. E c'era Claverhouse, bello come da vivo, con i suoi riccioli lunghi e neri, che ricadevano sul giubbotto di cuoio, e la mano sinistra sempre sulla scapola destra per nascondere il buco fatto dalla pallottola d'argento. Sedeva un po' in disparte, e li guardava con melanconia e alterigia, mentre gli altri urlavano, cantavano e ridevano tanto, che tutta la stanza rimandava l'eco. Ma i loro sorrisi erano spaventosamente contorti di tanto in tanto, e la loro risata assumeva toni sinistri, che facevano diventare blu le unghie di mio padre e gli gelavano il midollo delle ossa. Quelli che servivano a tavola erano gli stessi malvagi servitori e soldati
che avevano fatto il loro lavoro ed eseguito i crudeli ordini quando erano sulla terra. C'era il Long Lad di Nethertown, che aveva aiutato a prendere Argyle, e il Prevosto del Vescovo, quello che chiamavano il «Sonaglio del Diavolo»; e le malvage guardie con i loro abiti ornati di pizzi: e i feroci Amoriti delle Highlands, che versavano il sangue come se fosse acqua; e molti orgogliosi servitori, con il cuore altero e le mani insanguinate, che si attaccavano ai ricchi, e li rendevano ancor più malvagi di quel che erano, riducendo i poveri in polvere, dopo che i ricchi li avevano ridotti in frammenti. E tanti, tanti, tanti altri andavano e venivano, occupati nel loro lavoro come lo erano stati in vita. Sir Robert Redgauntlet, nel mezzo di quel chiasso terribile, chiamò con voce di tuono Steenie Piper e gli ordinò di andare all'estremità del tavolo dove stava lui: aveva le gambe allungate davanti a sé, ed era avvolto nella flanella, con le sue pistole da sella vicino, mentre il grande spadone era appoggiato al seggiolone, proprio come mio padre lo aveva visto l'ultima volta sulla terra. C'era anche il cuscino per la scimmia, ma quella bestia non c'era: evidentemente, non era venuta ancora la sua ora, perché li sentì dire mentre avanzava: «Non è ancora arrivato il Maggiore?». E un altro rispose: «La scimmia sarà qui prima di domattina». Quando mio padre lo ebbe raggiunto, Sir Robert, o il suo spettro, o il Diavolo nelle sue sembianze, disse: «Beh, suonatore, ti sei accordato con mio figlio per il tuo affitto annuale?». Con gran fatica mio padre raccolse abbastanza fiato per dire che Sir John non sarebbe stato soddisfatto senza la ricevuta di Sua Signoria. «Prima facci sentire la cornamusa, Steenie», rispose la figura di Sir Robert. «Suonaci "Weel hoddled, Luckie".» Ora quella era una canzone che mio padre aveva imparato da uno stregone che l'aveva udita mentre adorava Satana durante i loro incontri, e qualche volta mio padre l'aveva suonata alle folli cene nel castello di Redgauntlet, ma mai troppo volentieri. A quel punto rabbrividì nell'udirla nominare, e disse, per scusarsi, che non aveva portato la cornamusa. «MacCallum, figlio di Belzebù», disse il tremendo Sir Robert, «porta a Steenie la cornamusa che ho messo da parte per lui!» MacCallum portò un paio di cornamuse che avrebbero soddisfatto anche Donald delle Isole, ma diede di gomito a mio padre mentre gliele offriva e, guardando di nascosto più attentamente, Steenie vide che l'imboccatura era di acciaio, e rovente; così si rese conto che non doveva toccarla. Perciò si scusò di nuovo, e disse che si sentiva male, che aveva paura, e che non a-
veva abbastanza fiato per riempire l'otre. «Allora puoi mangiare e bere, Steenie», disse la figura. «Infatti non facciamo altro qui, e poi si parla male fra un uomo sazio e uno a digiuno.» Ora queste erano proprio le parole che il sanguinario Conte di Douglas aveva detto al messaggero del re per trattenerlo, mentre tagliava la testa a MacLellan di Bombie, nel castello di Threave: e questo mise Steenie sempre più in guardia. Così parlò da uomo, e disse che non era andato lì per mangiare, bere, o fare il menestrello, ma solo per avere quello che gli spettava: sapere cos'era successo del denaro che aveva pagato, e avere la ricevuta del pagamento. Ed era diventato così ardito, che chiese a Sir Robert in nome della sua coscienza (non aveva avuto il coraggio di pronunciare il nome divino), e come sperava per la sua pace e il suo riposo, di non tendergli trappole, ma solo di dargli ciò che era suo. L'apparizione digrignò i denti e rise, ma prese da un grosso libro la ricevuta e la porse a Steenie: «Ecco la tua ricevuta, povero demente e, in quanto al denaro, quel cucciolo di mio figlio può cercarlo nella Culla del Gatto». Mio padre espresse il suo vivo ringraziamento, e stava per ritirarsi, quando Sir Robert ululò: «Fermati, figlio di puttana! Non ho finito con te. Qui non facciamo niente per niente; e tu devi tornare fra un anno da oggi, per rendere al tuo padrone l'omaggio che mi devi per la mia protezione». La lingua di mio padre si sciolse ad un tratto, ed egli disse forte: «A Dio piacendo, e non a voi». Non aveva ancora finito di pronunciare quelle parole, che fu avvolto dalle tenebre e cadde a terra con un colpo così forte, che perse il fiato e i sensi. Quanto rimase a terra, Steenie non avrebbe saputo dirlo ma, quando tornò in sé, stava disteso nel vecchio camposanto di Redgauntlet proprio davanti alla cappella della famiglia, e lo stemma del vecchio Cavaliere, Sir Robert, gli pendeva sulla testa. C'era una fitta nebbia mattutina sull'erba e sulle tombe tutt'intorno a lui, e il suo cavallo pascolava tranquillo vicino alle due vacche del pastore. Steenie avrebbe creduto che tutto fosse stato un sogno, ma aveva la ricevuta in mano, scritta chiaramente e firmata dal vecchio padrone: solo le ultime lettere del suo nome erano un po' storte, come se chi le aveva vergate fosse stato preso da un dolore improvviso. Molto turbato, lasciò quel triste luogo, cavalcò attraverso la nebbia fino al castello di Redgauntlet, e con molta fatica ottenne un'udienza dal padro-
ne. «Bene, spendaccione», furono le prime parole, «mi hai portato il mio affitto?» «No», rispose mio padre, «non l'ho portato; ma ho portato la ricevuta che mi ha dato Sua Signoria Sir Robert.» «Come, furfante? La ricevuta di Sir Robert! Mi avevi detto che non te l'aveva data.» «Che Vostra Signoria abbia la cortesia di vedere se quel che c'è scritto va bene.» Sir John esaminò ogni riga ed ogni lettera con molta attenzione; e infine la data, che mio padre non aveva osservato: «Dalla mia destinazione», lesse, «oggi venticinque novembre». «Come! Era ieri! Furfante, devi essere andato all'Inferno per questo!» «L'ho avuta dal padre di Vostra Signoria: se fosse all'Inferno o in Paradiso, non lo so», rispose Steenie. «Ti denuncerò come Stregone al Gran Consiglio», disse Sir John. «Ti manderò dal Diavolo tuo padrone, con l'aiuto di un barile di catrame e di una torcia!» «Ho intenzione di denunciarmi da solo ai Presbiteri», disse Steenie, «e di raccontare tutto quello che ho visto stanotte, che sono cose che loro possono giudicare meglio di un testone come me.» Sir John tacque, si ricompose e chiese di sentire tutta la storia, che mio padre gli raccontò dall'A alla Z, come io ve l'ho raccontata: parola per parola, né più né meno. Sir John rimase a lungo in silenzio, e infine disse: «Steenie, questa tua storia riguarda l'onore di molte famiglie nobili oltre la mia e, se si arriva al dunque, per salvarti dalla mia ira corri il rischio che ti passino un ferro rovente attraverso la lingua, e questo non sarà meglio che scottarsi le dita con un'incudine rovente. Ma potrebbe esser vera, Steenie e, se il denaro salta fuori, non saprei cosa pensare. Ma dove possiamo trovare la Culla del Gatto? Ci sono tanti gatti in questa vecchia casa, ma credo che partoriscano i gattini senza cerimonie di letti o di culle». «Sarà meglio che chiediamo a Hutcheon», disse mio padre. «Lui conosce un mucchio di vecchi cantucci come... come un altro servitore che se n'è andato, e che non voglio nominare.» Beh, Hutcheon, quando glielo chiesero, rispose che una torretta in rovina, fuori uso da tempo, vicino all'orologio, che si poteva raggiungere solo con una scala a pioli, perché l'apertura dava all'esterno e molto in alto al di
sopra dei merli, era chiamata la Culla del Gatto. «Ci andremo subito», disse Sir John, e prese (con quali propositi, lo sa il cielo) una delle pistole di suo padre che stava sul tavolo dove erano state fin da quando era morto, e andò di corsa verso i bastioni. Era un posto pericoloso da scalare, perché la scala a pioli era vecchia e fragile, e le mancavano due o tre scalini. Tuttavia Sir John vi salì e raggiunse la porta della torretta, dove il suo corpo intercettò la poca luce che vi arrivava. Qualcosa si lanciò verso di lui e tentò di buttarlo fuori: bang fece la pistola del padrone, e Hutcheon, che reggeva la scala, e mio padre che gli stava accanto, sentirono un forte stridio. Un minuto dopo, Sir John gettò giù il corpo della scimmia, gridò che aveva trovato il denaro, e che loro salissero ad aiutarlo. Ed ecco c'era proprio la borsa del denaro, e tante altre cose per di più, che mancavano da molto tempo. Sir John, quando ebbe vuotato la torretta, condusse mio padre nella sala da pranzo, lo prese per mano, gli parlò gentilmente, e gli disse che gli dispiaceva di aver dubitato della sua parola, e che per l'innanzi sarebbe stato un buon padrone per lui, per farsi perdonare. «E ora, Steenie», disse Sir John, «sebbene la visione che hai avuto sia, dopotutto, favorevole a mio padre, come un uomo onesto che, anche dopo la sua morte, ha desiderato che ti fosse resa giustizia, devi capire che vi sono uomini mal disposti che potrebbero giungere a delle conclusioni errate circa la sua salvezza eterna. Così, credo che potremmo dare tutta la colpa a quella cattiva bestia, il Maggiore Weir, e non parlare del tuo sogno nel bosco di Pitmurkie. Hai bevuto tanto brandy da non poter essere sicuro di niente e, Steenie, questa ricevuta» (la sua mano tremava mentre gliela porgeva) «è uno strano documento, e faremmo meglio, credo, a metterla nel fuoco.» «Per strano che sia, è la ricevuta del mio affitto», disse mio padre, temendo forse di perdere il vantaggio della ricevuta di Sir Robert. «Riporterò quel che dice nel registro degli affitti, e ti darò una ricevuta di mia mano», disse Sir John, «e lo farò subito. E, Steenie, se sei capace di tacere su tutto questo, potrai avere per questo semestre un affitto più basso.» «Ringrazio Vostra Signoria», disse Steenie, che capì subito il vento che tirava. «Mi conformerei certo a tutti gli ordini di Vostra Signoria; ma vorrei almeno parlare con qualche sacerdote al riguardo, perché non mi piace il tipo di appuntamento che il padre di Vostra Signoria...» «Non chiamare quello spettro mio padre!», disse Sir John interrompen-
dolo. «Bene, allora, quello che gli somigliava tanto», disse mio padre, «ha parlato del mio ritorno fra dodici mesi da oggi, e questo è un peso sulla mia coscienza.» «Beh, allora», disse Sir John, «se hai questa preoccupazione ne parlerò al ministro della nostra parrocchia: è un uomo di buon carattere, ed ha riguardo per l'onore della nostra famiglia, tanto più che si aspetta un appoggio da me.» Con questo, mio padre accettò prontamente che la ricevuta fosse bruciata, e il padrone la gettò nel caminetto con la sua stessa mano. Non voleva saperne di bruciare, ma volò via attraverso la cappa, con un lungo seguito di scintille e sibilando come una biscia. Mio padre andò al Vicariato, e il Parroco, dopo aver ascoltato la storia, disse che credeva in buona fede che, sebbene mio padre avesse pasticciato in cose molto pericolose, siccome aveva rifiutato le offerte del Diavolo (cioè di mangiare e di bere), e aveva rifiutato di rendergli omaggio suonando ai suoi ordini, sperava che, se si comportava bene d'allora in poi, Satana avrebbe tratto scarso profitto da ciò che era successo. E, infatti, mio padre, di sua propria volontà, abbandonò la cornamusa e il brandy per lungo tempo e, solo dopo che fu trascorso l'anno e il giorno fatale fu passato, prese in mano il piffero e bevve un po' di birra. Sir John arrangiò una storia circa la scimmia secondo i propri gusti, e qualcuno ancora oggi crede che la causa di tutto non sia stato altro che la pessima natura di quella bestia. In realtà, non riuscireste a convincere nessuno che la creatura che Dougal e mio padre avevano visto saltare sulla bara del padrone non era il Vecchio Nemico, ma la scimmia; e che a soffiare nel fischietto del padrone come si era sentito dopo la sua morte, quel sudicio animale ci riuscisse come il padrone in persona, se non meglio. Ma il Cielo conosce la verità, che fu messa in giro la prima volta dalla moglie del Parroco, dopo che Sir John e suo marito furono scesi nella tomba. E allora mio padre, che si era indebolito nelle membra, ma non nel cervello o nella memoria - almeno non in modo grave - dovette raccontare la vera storia ai suoi amici, per il suo buon nome. Altrimenti sarebbe stato accusato di stregoneria. WALTER SCOTT La Stanza delle Tappezzerie
Verso la fine della Guerra di Secessione Americana, gli ufficiali di Lord Cornwallis si arresero a Yorktown, ed altri che erano stati fatti prigionieri durante quel conflitto tanto sfortunato ed improvvido, stavano tornando verso il loro paese a raccontare le loro avventure e a ristorarsi dalle loro fatiche. Tra loro vi era un Generale di nome Browne: era un valoroso ufficiale, nonché un gentiluomo che godeva di grande considerazione sia per i suoi natali che per il suo passato. Certi affari avevano portato il Generale Browne a compiere un viaggio nelle Contee occidentali. Alla fine di una giornata di viaggio si ritrovò per caso vicino a un paesello di campagna, la cui bellezza non comune e il cui carattere erano tipici dell'Inghilterra. La cittadina, con la sua dignitosa vecchia chiesa e un campanile che testimoniava la devozione dei tempi passati, sorgeva tra pascoli e campi di grano, limitati e divisi da filari di alberi maestosi e vetusti. Pochi erano i segni impressi dalla modernità. Nei dintorni non si avvertiva la solitudine del declino, né il brusio delle novità. Le case erano vecchie, ma ben tenute. Un incantevole fiumicello mormorava libero lungo il suo tragitto nella parte sinistra della città, libero dalle briglie delle dighe, né vi era un sentiero per i cavalli da traino addetti alle chiatte da rimorchio, che ne costeggiasse la riva. Su un'altura poco pronunciata, a una distanza di circa un miglio a sud della città, in mezzo a certe antiche querce e all'intrico dei rovi, si scorgevano le torrette di un castello del tempo delle guerre tra gli York e i Lancaster, che tuttavia sembrava essere stato fortemente modificato al tempo di Elisabetta e dei suoi successori. Non aveva mai avuto dimensioni spettacolari, tuttavia offriva ancora le comodità che aveva offerto nel passato. Questo lo si poteva supporre - e così pensò anche il Generale Browne - osservando un filo di fumo librarsi festoso da diversi dei camini istoriati e coperti di vegetazione. Il muro di cinta costeggiava la strada maestra per circa due o trecento iarde. Da quanto si poteva dedurre dalla vista che se ne godeva in certi punti, il terreno boscoso pareva ricco di selvaggina. In altri punti, la vista che si offriva era quanto mai varia: ora una vista d'insieme della facciata del castello, oppure uno scorcio di certe torri. La prima vista mostrava tutta la bizzarria della scuola elisabettiana, mentre la semplice solida vigoria di altre parti della costruzione, pareva mostrare che esse erano state edificate per la difesa più che per bellezza. Favorevolmente impressionato dalle vedute parziali che aveva ottenuto
attraverso la boscaglia e le radure che circondavano l'antica fortezza feudale, il nostro viaggiatore si decise a scoprire se fosse il caso di tentare di dare uno sguardo più da vicino, e se l'edificio contenesse ritratti di famiglia o altri oggetti meritevoli della curiosità di un forestiero. Quindi, allontanandosi dal parco, si diresse lungo una strada pulita e ben tenuta, e si fermò alla porta di una locanda ben frequentata. Prima di ordinare altri cavalli per continuare il viaggio, il Generale Browne si informò circa il nome del proprietario di quel castello che aveva tanto attirato la sua attenzione, e la sua sorpresa fu pari alla sua felicità, quando seppe che questi era un nobiluomo che chiameremo Lord Woodville. Che fortuna! Molti dei primi ricordi di Browne, sia a scuola che in collegio, erano infatti collegati al nome del giovane Woodville; infatti ebbe modo di accertare facilmente, che era proprio lui il proprietario di quella bella tenuta. Era divenuto un Pari del Regno alla morte del padre pochi mesi prima, e il Generale seppe dall'oste che il periodo di lutto era finito, e che ora il giovane aveva preso possesso delle terre paterne proprio nell'allegra stagione autunnale, ed era venuto in compagnia di una comitiva di amici per praticare la caccia in un paese che andava famoso per la selvaggina. Queste erano davvero ottime notizie per il nostro viaggiatore. Frank Woodville era stato il beniamino di Richard Browne a Eton, e il suo più intimo amico a Christ Church. I loro piaceri e i loro compiti erano stati gli stessi. Il cuore del soldato si riempì di gioia nello scoprire che il suo amico d'infanzia era entrato in possesso di una residenza tanto piacevole, e di una tenuta che, l'oste affermò strizzando l'occhio, era del tutto adeguata a mantenerne e ad aumentarne la dignità. Niente di più naturale quindi, che decidere di sospendere il viaggio - che non aveva necessità impellenti - in modo da poter visitare il vecchio amico in circostanze tanto felici. I cavalli freschi servirono solo a portare la carrozza da viaggio del Generale al Castello dei Woodville. Il portiere lasciò entrare la vettura che si diresse verso una loggia di stile neo-gotico, costruita in modo corrispondente al castello vero e proprio. Il portiere, intanto, con un campanello, annunciò l'arrivo del visitatore. Evidentemente il suono del campanello aveva momentaneamente ritardato la partenza della comitiva, che era pronta ad accingersi ai vari divertimenti che erano in programma per quella mattina. Infatti, quando la car-
rozza entrò nel cortile del castello, vi erano già diversi giovanotti in tenuta da caccia, intenti a osservare e a discutere circa l'aspetto dei cani, che i servitori tenevano pronti per loro. Quando il Generale Browne scese dalla carrozza, il giovane Lord venne al cancello, e per un istante guardò il suo amico come se fosse un estraneo; infatti la guerra, le fatiche e le ferite riportate, avevano molto alterato le sue sembianze. Ma l'incertezza durò solo finché il visitatore non cominciò a parlare. Il saluto affettuoso che seguì fu di quelli che si fanno solo tra coloro che hanno passato assieme i giorni spensierati dell'infanzia e della prima giovinezza. «Se avessi potuto formulare un desiderio, mio caro Browne», disse Lord Woodville, «avrei voluto averti qui, tu primo tra tutti, in quest'occasione, che i miei amici hanno gentilmente consentito a festeggiare. Non credere che ci siamo dimenticati di te in tutti questi anni di assenza. Ti ho seguito tra pericoli, trionfi e sfortune, e sono stato contento di sapere che nella vittoria come nella sconfitta, il nome del mio vecchio amico si è sempre distinto e si è fatto onore.» Il Generale rispose con parole adatte, congratulandosi con il suo amico per la dignità alla quale era pervenuto, e per il possesso di un luogo e di una tenuta tanto belli. «Non hai ancora visto che una piccola parte», disse Lord Woodville, «e credo che non vorrai lasciarci finché non l'avrai vista bene. È vero, confesso, che la comitiva oggi è abbastanza grande e la vecchia casa, come altri posti di questo genere, non è capace quanto le mura esterne sembrano promettere. Ma posso farti sistemare in una stanza comoda e di vecchio stile. Credo di poter supporre che le campagne militari ti abbiano insegnato ad accontentarti di alloggi ben miseri.» Il Generale scrollò le spalle e rise. «Presumo», rispose, «che il peggior appartamento del tuo castello sia molto superiore al vecchio barile per il tabacco nel quale dovetti acquartierarmi quando mi trovavo nella zona del Bush, come lo chiamano i virginiani, con la fanteria leggera. Lì ho dormito come Diogene, tanto contento del mio rifugio, al riparo dagli elementi atmosferici, che ordinai ai soldati di farlo rotolare fino al nostro prossimo bivacco. Ma il mio comandante non volle concedermi un lusso così stravagante, e con le lacrime agli occhi dovetti dire addio al mio amato barile.» «Beh, dal momento che non temi di star scomodo», disse Lord Woodville, «rimarrai con me almeno una settimana. Abbiamo grandi quantità di
fucili, cani, canne da pesca ed esche, e divertimenti acquatici e terrestri di ogni tipo. Non potrai rifiutare di divertirti, ma potrai scegliere quali mezzi usare. Ma se preferisci i fucili e i cani da caccia, io stesso verrò con te per verificare se hai migliorato le tue qualità di tiratore da quando sei stato tra gli indiani del confine.» Il Generale accettò prontamente la proposta del suo amichevole ospite. Dopo una giornata di esercizi virili, la compagnia s'incontrò per pranzo, e Lord Woodville mostrò al suo amico ritrovato le nuove proprietà, e allo stesso tempo lo lodò davanti ai suoi amici, per la maggior parte gente molto distinta. Convinse quindi il Generale Browne a parlare delle avventure che aveva vissuto. I suoi racconti mostrarono al meglio le sue qualità di ufficiale coraggioso e sensibile, che era riuscito a mantenere il sangue freddo anche in caso di pericolo imminente, suscitando quindi nei commensali il rispetto generalizzato che si attribuisce a colui che ha provato un coraggio non comune: una qualità, questa, che gli uomini desiderano riconosciuta più di qualsiasi altra. La giornata al Castello dei Woodville si chiuse come avviene di solito in tali circostanze; la comitiva fu trattata con liberale cortesia, senza trascendere i limiti del decoro. La musica, un campo in cui il giovane Lord primeggiava, contribuì a far circolare le bottiglie. Le carte e il biliardo per coloro che preferivano tali distrazioni erano stati preparati per tempo. Ma l'esercizio fisico del mattino seguente richiedeva che gli invitati si alzassero di buon'ora e, poco dopo le undici, gli ospiti cominciarono a ritirarsi, per andare nei loro appartamenti. Il giovane Lord condusse il suo amico, il Generale Browne, fino alla camera che gli era stata destinata, che corrispondeva alla descrizione fatta; era cioè confortevole, ma di vecchio stile. Il letto era molto ampio, del tipo che si usava nel XVII secolo, e le tende erano di seta scolorita, piene di orpelli dorati e lisi. Ma le lenzuola, i guanciali e le coperte, parvero molto confortevoli al veterano di tante campagne, quando ripensava al suo alloggiamento nel barile. L'aria lugubre della stanza era dovuta ai tendaggi antichi e logori che pendevano dalle pareti, ondeggiavano leggermente nella brezza autunnale che entrava dall'antica finestra a vetrate, che vibrava e fischiava al passaggio di quel vento. Anche il lavabo, con lo specchio decorato da un turbante, come si usava all'inizio del secolo, fatto di seta color rosso, e le sue miriadi di scatole di strane forme, era di un tipo caduto in disuso da oltre cin-
quant'anni, e aveva un aspetto antico e melanconico. Ma niente poteva brillare più forte, in maniera più accogliente, delle due grandi candele di cera. Solo i due ciocchi che scoppiettavano nel camino potevano rivaleggiare con le candele, e irradiavano i loro bagliori e il loro calore in tutto l'appartamento; nonostante l'aria vetusta, esso non difettava di nessuna di quelle cose che la vita moderna rende necessarie o desiderabili. «Questo è un appartamento vecchio stile, Generale», disse il giovane Lord, «ma spero che non rimpiangerete in nulla il vostro vecchio barile per il tabacco.» «Non sono di gusti difficili rispetto all'alloggio», rispose il Generale, «eppure, se dovessi scegliere, preferirei di molto questa camera rispetto alle stanze più gaie e moderne della vostra casa di famiglia. Credetemi, quando penso ai pregi moderni di cui dispone, alla sua aria vetusta, e per di più rammento che si tratta di una vostra proprietà, penso che mi sentirei più a mio agio qui che nel miglior albergo di Londra.» «Spero - e non ho dubbi in proposito - che vi troverete comodo quanto io stesso desidero, mio caro Generale», disse il giovane nobiluomo. E, augurando nuovamente la buonanotte al suo ospite, strinse la sua mano fra le sue e si ritirò. Il Generale si guardò attorno, congratulandosi fra sé per essere tornato alla vita pacifica, in cui gli agi gli erano ancora più cari al ricordo delle difficoltà e dei pericoli che aveva recentemente sostenuto. Si spogliò e si preparò a un riposo notturno molto piacevole. A quésto punto, contrariamente a quanto accade di solito in questi racconti, lasciamo il Generale nel suo appartamento fino al giorno dopo. La comitiva si radunò per la colazione di buon mattino, ma il Generale Browne non era presente, nonostante fosse l'invitato che Lord Woodville desiderava onorare più di tutti. Il padrone di casa espresse più volte sorpresa per la sua assenza, e finalmente mandò un servo a chiedere sue notizie. L'uomo tornò, dicendo che il Generale Browne era stato fuori a camminare fin dall'alba, nonostante il tempo fosse inclemente e vi fosse una fitta nebbia. «Abitudini da soldato», disse il giovane nobiluomo ai suoi invitati. «Molti acquistano un'istintiva vigilanza, e non riescono a dormire dopo le prime ore dell'alba, poiché il dovere impone loro di rimanere sempre all'erta.» Eppure la spiegazione che Lord Woodville offriva alla compagnia non
parve soddisfacente, ed egli attese silenzioso e distratto il ritorno del Generale. Questi rientrò circa un'ora dopo l'ora di colazione. Aveva l'aspetto affaticato e febbrile. La capigliatura, che a quel tempo si portava impomatata e curata, e costituiva quindi una delle più importanti occupazioni della giornata di un gentiluomo, e ne dichiarava l'eleganza quanto la cravatta o l'assenza della stessa, aveva invece l'aspetto trascurato, scapigliato, e non era stata affatto impomatata, mentre era madida di rugiada. Gli abiti erano stropicciati, indossati negligentemente, una cosa alquanto insolita per un soldato, i cui doveri, reali o supposti tali, comprendevano una certa attenzione all'aspetto esteriore. Aveva insomma un aspetto stanco e veramente terribile a vedersi. «Vi siete messo in marcia prima di noi questa mattina, Generale», osservò Lord Woodville. «Oppure non avete trovato il letto comodo quanto desideravo, o quanto voi stesso vi aspettavate. Come avete dormito la scorsa notte?» «Oh, benissimo! Molto bene! Mai dormito meglio in vita mia», si affrettò a confermare il Generale Browne, ma aveva un'aria imbarazzata che il suo amico notò subito. Trangugiò rapidamente una tazza di tè, trascurando e rifiutando qualunque altra cosa gli venisse offerta, per rimanere poi assorto e distante per un certo tempo. «Oggi prenderete il vostro fucile, Generale», disse il suo amico ed ospite, ma dovette ripetere la frase due volte, prima di ricevere una brusca risposta. «No, Mylord; purtroppo non posso avere l'onore di passare un altro giorno con voi. I miei cavalli sono stati ordinati e ben presto saranno qui.» Tutti i presenti si mostrarono sorpresi, e Lord Woodville rispose immediatamente: «Cavalli da posta, che diamine, amico mio! Perché mai credete di averne bisogno, quando avete promesso di rimanervene quieto a casa mia per almeno una settimana?». «Credo effettivamente», disse il Generale con evidente imbarazzo, «che, in preda alla gioia di rivedere Vostra Signoria, ho forse detto che sarei rimasto per qualche giorno. Ma da allora mi sono accorto che in realtà era una cosa assolutamente impossibile.» «È una cosa molto strana», rispose il giovane nobiluomo. «Sembravate del tutto libero da impegni ieri, ed è impossibile che siate stato richiamato proprio oggi. La posta non è ancora arrivata dalla città, e quindi non potete aver ricevuto alcuna lettera.» Il Generale Browne, senza offrire ulteriori spiegazioni, mormorò qualco-
sa circa un impegno improrogabile, e insistette dicendo che era assolutamente necessario che partisse. Questo zittì ogni ulteriore opposizione da parte del padrone di casa, che vide bene che ormai la decisione era stata presa e non volle importunare oltre il suo amico. «Tuttavia», disse, «mi dovete permettere, mio caro Browne, di mostrarvi la vista che si gode dal terrazzo, ora che la nebbia si sta finalmente dissipando.» Così dicendo, aprì la grande vetrata, ed uscì sul terrazzo. Il Generale lo seguì meccanicamente, ma non parve per nulla interessato a ciò che il suo amico gli diceva, indicandogli differenti punti degni della sua attenzione. Camminarono per un poco in questo modo, finché Lord Woodville riuscì finalmente a trarre il suo ospite lontano dal resto della comitiva, poi, volgendosi verso di lui con un'aria di grande solennità, gli rivolse queste parole: «Richard Browne, mio vecchio e carissimo amico, ora siamo soli. Permettetemi di rivolgermi a voi e di ottenere una risposta sincera, fidandomi della parola di un amico e dell'onore di un soldato. Come avete dormito in verità questa notte?». «Molto male, Mylord», rispose questi con lo stesso tono solenne. «In maniera tanto miserevole, che non voglio rischiare di trascorrere così un'altra notte, né per tutte le terre di questo castello, né per tutte le terre che si vedono da questo punto.» «Questa è una cosa straordinaria», disse il giovane Lord, parlando tra sé. «Allora ci deve essere del vero nei racconti che riguardano quell'appartamento.» Poi, rivolto al generale: «Per carità, mio caro amico, siate sincero con me, e fatemi sapere gli spiacevoli dettagli circa ciò che vi è accaduto sotto il mio tetto, poiché io non desideravo altro che il vostro piacere». Il Generale parve scosso da queste parole, e fece una breve pausa prima di rispondere. «Mylord», disse finalmente, «ciò che mi è accaduto durante la notte scorsa è tanto strano e spiacevole, che non ho alcun desiderio di descrivervi i dettagli. Tuttavia desidero esaudire ogni vostro desiderio, e per giunta spero che la mia sincerità possa portare a spiegare almeno in parte queste circostanze dolorose e misteriose. Altri, sentendo la narrazione, potrebbero concludere che sono un debole di mente, uno sciocco superstizioso, che ha permesso alla sua stessa immaginazione di illuderlo e confonderlo. Ma voi mi conoscete fin dalla prima infanzia, e non avrete il sospetto che abbia adottato in età virile i sentimenti e le debolezze che non avevo in gioventù.»
A questo punto fece una pausa, e il suo amico rispose: «Non abbiate dubbi: crederò alle vostre parole, per quanto strana possa risultare la narrazione. Conosco bene la vostra natura, e non crederei mai che ciò che mi state per raccontare non corrisponda alla verità: so bene che, allo stesso modo, il vostro onore e la vostra amicizia vi impediranno di esagerare ciò che avete visto». «Ebbene», disse il Generale, «comincerò a raccontarvi la storia come meglio posso, affidandomi alla vostra schiettezza d'animo. Eppure, preferirei affrontare una batteria di cannoni, piuttosto che riportare alla mente i terribili ricordi della scorsa notte.» Fece una seconda pausa, poi si accorse che Lord Woodville era rimasto in silenzio, in un atteggiamento attento, e così cominciò, sia pure con evidente riluttanza, la storia delle avventure notturne che gli erano accadute nella Stanza delle Tappezzerie. «Mi spogliai e mi coricai non appena mi lasciaste solo ieri sera. Ma il fuoco nel camino, che era quasi di fronte al mio letto, scoppiettava allegramente, ed anche a causa delle centinaia di ricordi felici della mia infanzia e della mia giovinezza suscitate dal piacere inaspettato del mio incontro con voi, non mi addormentai subito. Dovrei puntualizzare tuttavia che queste riflessioni furono tutte felici e piacevoli, poiché sentivo che per un poco di tempo avrei scambiato i doveri, le fatiche, e i pericoli della mia professione, con i godimenti di una vita tranquilla, riaffermando quei legami di amicizia e d'affetto che avevo lacerato al brusco richiamo della guerra. Mentre la mia mente era piena di tali piacevoli riflessioni, e stavo lentamente prendendo sonno, improvvisamente mi svegliai udendo un suono che pareva il fruscio di una veste di seta, accompagnato dal ticchettio di tacchi alti, come se una donna camminasse per l'appartamento. Prima che potessi scostare la tenda per capire cosa stesse succedendo, la sagoma di una piccola donna passò davanti al fuoco. Essa mi volgeva le spalle, ed osservai dalle spalle e dal collo che si trattava di una vecchia, vestita con uno di quegli abiti vecchio stile che credo le signore chiamino sacque. Cioè una sorta di veste larga in vita, raccolta in grandi pieghe sul collo e sulle spalle, e che ricadono a terra formando una specie di strascico. Pensai che una simile intrusione fosse abbastanza singolare, ma non pensai nemmeno per un attimo che non si trattasse di una donna mortale, qualche vecchia domestica che aveva l'abitudine magari di vestirsi come al tempo di una sua ava, e che (visto che avevate detto quanto poco spazio avevate a disposizione), era stata costretta a lasciare la sua stanza per po-
termi ospitare, e forse se ne era dimenticata, ed era tornata a mezzanotte nei suoi appartamenti. Convinto di ciò, mi mossi nel letto e tossicchiai un poco, in modo che l'intrusa si accorgesse della mia presenza. Lei si voltò lentamente ma, per Diana, Mylord!, che aspetto mi mostrò in quel momento! Non vi potevano essere altri dubbi: non era certo un essere vivente! Sul suo viso si leggeva l'espressione fissa di un cadavere, e vi erano impresse le tracce delle più vili e orrende passioni che l'avevano animata durante la sua vita mortale. Il corpo di qualche terribile criminale pareva esser stato riesumato dalla tomba, e l'anima stessa era tornata dalle fiamme infernali, per formare - per poco tempo - una nuova unione con l'antico complice delle sue colpe. Trasalii lì nel letto, e mi alzai a sedere, irrigidito, reggendomi sulle palme delle mani, mentre contemplavo quell'orribile spettro. L'arpia parve compiere un solo agile balzo verso il letto sul quale giacevo, e vi si accucciò assumendo il mio stesso atteggiamento orripilato, spingendo il suo viso diabolico finché non fu a meno di un palmo dal mio, con un ghigno diabolico pieno di malizia e di scherno, come una furia incarnata.» A quel punto il Generale Browne si fermò, e si asciugò il sudore freddo che gli aveva coperto la fronte a quel ricordo. «Mylord», disse, «io non sono un codardo. Ho affrontato tutti i pericoli mortali della mia professione, e posso vantarmi del fatto che nessuno ha mai avuto occasione di vedermi mancare alla parola data. Ma con quelle orribili circostanze sotto gli occhi, a quanto pareva, in potere di uno spirito demoniaco incarnato, il coraggio mi abbandonò, il mio valore si squagliò come la cera in una fornace, e i capelli mi si rizzarono uno per uno sulla testa. Il sangue mi si gelò nelle vene, e svenni, vittima del terrore panico come una ragazza o un bambino di dieci anni. Non so quanto tempo rimasi in quelle condizioni. Quando mi riebbi, udii l'orologio del castello battere l'una tanto forte, che mi parve che fosse proprio in quella stanza. Mi ci volle molto tempo prima di avere il coraggio di riaprire gli occhi, per timore di rivedere quell'orribile spettacolo. Quando, tuttavia, ripresi coraggio e guardai in su, essa era ormai scomparsa. Il mio primo impulso fu quello di suonare il campanello, svegliare i servi, e di trovare una stanzetta o un pagliaio per evitare di dover sostenere una seconda visita. Devo confessarvi che ero molto scosso, ma cambiai idea non tanto per la vergogna, ma proprio per la paura che, nel raggiungere il campanello accanto al camino, avrei potuto incontrare di nuovo quella
vecchia orribile, che forse era ancora nascosta in qualche angolo dell'appartamento. Non riuscirei mai a descrivervi che febbri calde e gelide mi tormentarono per tutto il resto della notte, il sonno agitato, le veglie spossanti, e quello stato di limbo che si interpone tra il sonno e la veglia. Cento terribili oggetti mi apparvero e mi ossessionarono. Ma vi era una grande differenza tra la visione che mi era apparsa e quelle che seguirono, e che sapevo erano solo parti della mia fantasia e dei miei nervi sovreccitati. Finalmente si fece giorno, e mi alzai dal letto, indolenzito e umiliato nel corpo e nello spirito. Provavo un senso di profonda vergogna, come uomo e come soldato, e ancor più a causa del desiderio che nutrivo di fuggire da quell'appartamento stregato, e questo vinse su ogni altra considerazione. Così mi vestii in tutta fretta, e fuggii dal vostro castello, per tentare di trovare qualche sollievo per i miei nervi scossi dalla tremenda visione a cui avevo assistito, da quella donna che ormai consideravo una visitatrice di un altro mondo. Ora sapete qual è la causa del mio stato, e il motivo che mi spinge a lasciare la vostra dimora ospitale. Spero che potremo incontrarci spesso in altri luoghi, ma Dio non voglia che io debba mai passare un'altra notte sotto questo tetto!» Per quanto strana, la storia del Generale era stata raccontata con grande convinzione, tanto da zittire tutti quei commenti che solitamente interrompono simili racconti. Lord Woodville non chiese nemmeno una volta se fosse sicuro di non aver sognato, né diede una di quelle spiegazioni che sono oggi in voga per spiegare simili apparizioni come febbrili creazioni della fantasia o illusioni provocate dai nervi preposti alla visione. Al contrario, pareva profondamente impressionato dalla veridicità e dalla realtà di ciò che aveva udito. Dopo una lunga pausa, si rammaricò con evidente senso di compassione, del fatto che il suo amico d'infanzia avesse tanto sofferto in casa sua. «Mi dolgo ancor più del vostro dolore, mio caro Browne», riprese, «per il fatto che esso è il risultato inaspettato di un mio esperimento! Dovete sapere che, al tempo di mio padre e di mio nonno, l'appartamento che vi avevo assegnato è sempre stato chiuso, a causa delle voci circa il fatto che fosse spesso teatro di visioni soprannaturali e che vi si udivano strane voci. Quando sono venuto qui, alcune settimane orsono, a prendere possesso della tenuta, ho pensato che lo spazio dove accogliere i miei amici non fosse sufficiente da permettere agli abitanti del mondo visibile di avere diritto
a un intero appartamento. Quindi ho fatto aprire la Stanza delle Tappezzerie. E, senza distruggere il suo aspetto antico, vi ho fatto porre alcuni mobili nuovi tipici dei tempi moderni. Tuttavia, siccome la servitù era convinta che quella stanza fosse stregata, ho pensato che il primo di loro ad occupare la Stanza delle Tappezzerie avrebbe certo contribuito a rinverdire la fama maligna che attorniava quel luogo, e che non sarei mai riuscito a rendere quella stanza abitabile. Devo confessare, caro Browne, che il vostro arrivo ieri è stata comunque un'occasione felice per mille motivi, ma mi parve anche un'occasione per dissipare per sempre le leggende oscure che erano legate alla stanza. Infatti il vostro coraggio è indiscutibile e la vostra mente è libera da pregiudizi. Non avrei potuto quindi scegliere meglio il soggetto per tale esperimento.» «Sulla mia vita vi giuro», disse in fretta il Generale Browne, «che vi sono molto obbligato, Mylord... veramente molto obbligato. Mi ricorderò a lungo le conseguenze di quello che voi chiamate il vostro "esperimento".» «No, siete ingiusto, amico mio», disse Lord Woodville. «Dovete solo riflettere per un momento e vi convincerete che non avrei mai potuto augurarvi il dolore al quale siete stato malauguratamente esposto. Ieri mattina io ero completamente scettico circa le apparizioni soprannaturali. No, sono sicuro che, se vi avessi raccontato la storia di quella stanza, quegli stessi racconti vi avrebbero indotto a scegliere quell'appartamento. Per mia sfortuna, o per mio errore, ma non per mia colpa, voi siete stato afflitto da una disavventura assai strana.» «Strana davvero!», disse il Generale, ritornando di buon umore. «E riconosco che non ho il diritto di offendervi per avermi considerato alla maniera in cui io stesso mi consideravo in passato: un uomo valente e di coraggio. Ma vedo che i miei cavalli sono arrivati, e non devo trattenervi oltre dalle vostre distrazioni.» «No, mio caro amico», disse Lord Woodville, «dal momento che non potete rimanere con noi un altro giorno, ed io non posso più esortarvi a farlo, concedetemi solo un'altra mezz'ora. Una volta vi piacevano i quadri, ed io ho una galleria di ritratti, alcuni dei quali sono stati dipinti da Van Dyck, che rappresentano gli antenati a cui questo castello è appartenuto. Credo che diversi di essi vi colpiranno per la loro qualità.» Il Generale Browne accettò l'invito, sia pure malvolentieri. Evidentemente non si sentiva a suo agio, e desiderava lasciare il Castello dei Woodville alle spalle. Non poteva tuttavia rifiutare l'invito del suo amico. E, ancor meno, pensò, dopo la dimostrazione di malagrazia che aveva offerto
poco prima al suo ospite che aveva agito in buona fede. Il Generale seguì quindi Lord Woodville, e assieme attraversarono diverse stanze, giungendo in una lunga galleria piena di quadri, che il padrone di casa illustrò al suo ospite, informandolo circa i loro nomi, e circa le vicende dei personaggi al quale essi erano appartenuti. Erano quadri caratteristici del tipo che si trova nelle antiche gallerie di quadri di famiglia. Vi era un Cavaliere che aveva dilapidato il patrimonio per la causa del Re. Vi era una bella dama che era riuscita a salvare il nome sposando un ricco uomo della gente della parte avversa. Vi era un giovane galante che si era esposto al pericolo per avere intrattenuto una corrispondenza con la Corte in esilio a Saint Germain. Un altro invece si era unito prima al partito dei Whig e poi a quello dei Tory. Mentre Lord Woodville affastellava tutte queste informazioni a beneficio del suo ospite, «contro il volere delle sue stesse capacità» essi giunsero a metà della quadreria, e lì vide il Generale Browne trasalire, stupito, e non poco intimorito. I suoi occhi si erano posati e poi improvvisamente si erano fissati sul ritratto di una vecchia signora vestita in un sacque, un abito in voga alla fine del XVII secolo. «Eccola qui!», esclamò. «Eccola, con le stesse forme e le stesse fattezze, benché non abbia la stessa espressione demoniaca con la quale questa maledetta arpia mi ha visitato solo ieri sera!» «Se ciò è vero», disse il giovane nobiluomo, «non vi possono essere altri dubbi circa la veridicità della vostra visione. Quel quadro rappresenta una mia sciagurata antenata, che commise crimini nefandi che sono ricordati negli annali della mia famiglia e che custodisco in una cassetta antichissima. La lista delle sue colpe sarebbe troppo orribile. Vi basti sapere che in quell'appartamento furono commessi crimini terribili quali l'incesto e un assassinio bestiale. Ora lo riporterò allo stato di solitudine nel quale lo avevano lasciato coloro che mi avevano preceduto. Nessuno, per quanto mi è possibile, sarà mai esposto alla ripetizione di tali orrori sovrannaturali, che sono riusciti a scuotere un coraggio pari al vostro.» Così i due amici, che si erano riincontrati con tanta gioia, si lasciarono con sentimenti tanto differenti. Lord Woodville ordinò che la Stanza delle Tappezzerie fosse spogliata di ogni orpello, e che la porta fosse murata. Il Generale Browne partì alla ricerca di un luogo meno bello, della compagnia di un amico meno altolocato, e dell'oblio di quella notte tremenda che aveva trascorso al Castello dei Woodville.
EDGAR ALLAN POE Metzengerstein Pestis eram vivus - moriens tua mors ero.1 Martin Lutero Orrore e fatalità hanno traversato il mondo in ogni tempo. Allora perché dare una data alla storia che devo narrare? Sarà sufficiente dire che, nel periodo di cui parlo, esisteva, all'interno dell'Ungheria, una fede convinta, anche se tenuta segreta, nelle dottrine della metempsicosi. Delle dottrine in sé - cioè, di quanto possano essere false o attendibili - non dico nulla. Affermo, comunque, che molta della nostra incredulità (come dice La Bruyère, di tutta la nostra infelicità) «vient de ne pouvoir être seuls»2. Ma c'erano alcuni punti nella superstizione ungherese che rasentavano l'assurdità. Essi - gli ungheresi - si differenziavano in modo sostanziale dai loro maestri orientali. Per esempio: «L'anima», dicevano i primi - secondo le parole di un parigino acuto e intelligente - «ne demeure qu'une seule fois dans un corps sensible: au reste - un cheval, un chien, un homme même, n'est que la ressemblance peu tangible de ces animaux3». Le famiglie Berlifitzing e Metzengerstein erano state in lotta per secoli. Mai prima di allora due casate, così illustri, furono tanto esacerbate da reciproca ostilità. L'origine di quest'odio sembra si trovasse nelle parole di un'antica profezia: «Un nome superbo cadrà spaventosamente quando, come il cavaliere sul suo cavallo, la mortalità dei Metzengerstein trionferà sull'immortalità dei Berlifitzing». Certo tali parole di per sé avevano poco o nessun significato. Ma cause ancora più insensate hanno dato origine - e questo non molto tempo fa - a conseguenze ugualmente importanti. Inoltre, i feudi, che erano contigui, avevano a lungo esercitato un'influenza contrastante sugli affari di un governo irrequieto. Per di più, i vicini sono di rado amici, e gli abitanti del Castello di Berlifitzing potevano guardare dai loro contrafforti elevati proprio dentro le finestre del Palazzo Metzengerstein. La magnificenza più che feudale, così ostentata, non era certo capace di placare i sentimenti irritabili dei meno antichi e meno ricchi Berlifitzing. Perché meravigliarsi allora, che le parole - per quanto sciocche - di quella profezia, dovessero riuscire a creare e mantenere il contrasto tra due famiglie già predisposte alla lite dall'istigazione di una gelosia ereditaria? La profezia sembrava significare - se significava qualcosa - un trionfo finale
della casata già più potente; e veniva naturalmente ricordata con l'animosità più profonda dalla più debole e meno influente. Guglielmo, Conte di Berlifitzing, sebbene disceso da nobile stirpe, era, all'epoca di questa narrazione, un vecchio infermo e rimbambito, senza nulla di notevole se non un'antipatia personale, smodata e inveterata per la famiglia del suo rivale, e un amore per i cavalli e la caccia così appassionato che né l'infermità del corpo, né l'età avanzata, né il decadimento mentale, gli impedivano di esporsi quotidianamente ai pericoli della caccia. Federico, il Barone di Metzengerstein, non era, d'altro canto, ancora maggiorenne. Il padre, il ministro G., era morto giovane. La madre, Lady Mary, lo aveva seguito presto. Federico era, a quel tempo, nel suo diciottesimo anno. In una città, diciotto anni non sono un periodo lungo ma, in un deserto, in un deserto così sontuoso come quel vecchio Principato, il pendolo oscilla con un significato più profondo. Per alcune circostanze particolari riguardanti l'amministrazione del padre, il giovane Barone, alla morte del predecessore, entrò subito in possesso delle sue vaste proprietà. Raramente simili tenute erano state possedute prima da un nobile ungherese. I suoi castelli erano innumerevoli. Il primo in splendore e dimensioni era il «Palazzo Metzengerstein». La linea di confine dei suoi domini non fu mai tracciata chiaramente, ma il parco principale aveva un perimetro di cinquanta miglia. Visto che a succedere nella proprietà fu uno così giovane, con un carattere ben noto e una fortuna così incomparabile, circolarono poche congetture riguardo alla sua probabile linea di condotta. E, infatti, per tre giorni, il comportamento dell'erede vinse Erode in efferatezza e corruzione e oltrepassò del tutto le attese dei suoi più entusiastici ammiratori. Orge vergognose, flagranti tradimenti e atrocità senza nome, fecero capire, entro breve tempo ai suoi tremanti vassalli che nessuna sottomissione servile da parte loro e nessuno scrupolo di coscienza da parte sua, da allora in poi potevano offrire una qualche protezione contro le zanne senza rimorsi di quel piccolo Caligola. Nella notte del quarto giorno, le scuderie del Castello di Berlifitzing furono trovate in fiamme e l'unanime opinione del vicinato aggiunse la taccia di incendiario alla lista già orribile delle colpe e mostruosità del Barone. Ma, durante il tumulto causato da questo evento, il giovane nobile sedeva, apparentemente immerso in meditazione, in una delle stanze superiori, enorme e desolata, del palazzo di famiglia dei Metzengerstein. I drappeggi della tappezzeria ricca, anche se sbiadita, che pendevano malinconicamen-
te dai muri, rappresentavano le tenebrose e maestose forme di mille illustri antenati. Qui, preti riccamente rivestiti di ermellino, e dignitari pontifici, seduti familiarmente con l'autocrate e il sovrano, ponevano un veto ai voleri di un re temporale, o bloccavano con il fiat della supremazia papale lo scettro ribelle dell'Arcinemico. Là, le oscure, alte statue dei Principi Metzengerstein - i loro muscolosi corsieri gettantisi sulle carcasse degli avversari caduti - facevano sussultare i nervi più saldi con la loro espressione vigorosa; e qui ancora le figure voluttuose e simili a cigni delle dame dei giorni andati, fluttuavano nei labirinti di un'irreale danza sulle note di una melodia immaginaria. Ma, mentre il Barone ascoltava, o ostentava di ascoltare, il clamore che cresceva gradualmente nelle scuderie di Berlifitzing - o forse meditava su qualche nuovo atto di audacia più brutale - i suoi occhi si volsero inconsapevolmente sull'immagine di un enorme cavallo innaturalmente colorato raffigurato nella tappezzeria come appartenente a un antenato saraceno della famiglia del suo rivale. Il cavallo, in primo piano nel disegno, stava immobile e simile a una statua mentre, più indietro, il suo cavaliere sconfitto periva sotto la spada di un Metzengerstein. Sulle labbra di Federico comparve un'espressione diabolica, quando si rese conto della direzione che, senza volere, aveva assunto il suo sguardo. Ma non lo distolse. Al contrario, non poteva in nessun modo spiegarsi l'ansia opprimente che, come un drappo funebre, sembrava scendere sui suoi sensi. Fu con difficoltà che riconciliò i suoi sentimenti di sogno incoerenti, con la certezza di essere sveglio. Quanto più a lungo fissava lo sguardo, tanto più avvincente diventava la malia... tanto più impossibile gli sembrava di poter mai distogliere lo sguardo dall'incanto di quella tappezzeria. Ma, divenendo improvvisamente più violento il tumulto all'esterno, con uno sforzo si costrinse a dirigere l'attenzione verso il bagliore rosseggiante delle scuderie in fiamme che investiva in pieno le finestre della stanza. Il gesto, tuttavia, fu solo momentaneo; il suo sguardo ritornò meccanicamente al muro. Con suo estremo orrore e stupore, la testa del gigantesco destriero aveva, nel frattempo, mutato posizione. Il collo dell'animale, prima arcuato - come per compassione - sul corpo prostrato del padrone, era ora teso in tutta la sua lunghezza nella direzione del Barone. Gli occhi, prima invisibili, ora avevano un'energica espressione umana mentre luccicavano di un insolito rosso ardente, e le labbra dilatate del cavallo chiaramente irritato lasciavano in piena vista, sepolcrali e rivoltanti, i denti.
Sbalordito e terrificato, il giovane nobile barcollò verso la porta. Quando la aprì, un lampo di luce rossa, riversandosi nella stanza, proiettò nettamente la sua ombra contro la tappezzeria tremolante; rabbrividì nell'accorgersi che quell'ombra, mentre egli vacillava indugiando sulla soglia, assumeva l'esatta posizione, e precisamente riempiva il contorno, dello spietato e trionfante uccisore del saraceno Berlifitzing. Per dare sollievo al suo animo, il Barone si affrettò a uscire all'aria aperta. Al portone principale del palazzo incontrò tre scudieri. Con molta difficoltà, e con grande pericolo per le loro vite, stavano trattenendo gli scatti convulsi di un gigantesco cavallo color fuoco. «Di chi è il cavallo? Dove lo avete preso?», chiese il giovane, con voce querula e rauca, accorgendosi istantaneamente che il misterioso destriero nella camera tappezzata era l'esatto duplicato del furioso animale che stava dinanzi ai suoi occhi. «È vostra proprietà, signore», rispose uno degli scudieri, «o almeno non lo reclama nessun altro proprietario. Lo abbiamo catturato mentre fuggiva, tutto fumante e schiumante rabbia, dalle scuderie in fiamme del Castello Berlifitzing. Supponendo che appartenesse all'allevamento di cavalli stranieri del vecchio Conte, glielo abbiamo riportato come fuggitivo. Ma gli stallieri là negano ogni diritto sulla creatura; il che è strano, poiché porta tracce evidenti di essere sfuggito a fatica dalle fiamme.» «Ha anche le lettere G.V.B. marchiate molto chiaramente sulla fronte», interruppe un secondo scudiero. «Ho supposto, naturalmente, che fossero le iniziali di Guglielmo Von Berlifitzing... ma tutti nel castello sono sicuri di non aver mai visto il cavallo.» «È estremamente singolare!», disse il giovane Barone, con aria riflessiva, ed evidentemente inconsapevole del significato delle proprie parole. «È, come dite, un cavallo notevole... un cavallo prodigioso! Benché, come potete vedere molto esattamente, sia di carattere diffidente e intrattabile. Voglio che sia mio, in ogni caso», aggiunse dopo una pausa, «forse un cavaliere come Federico di Metzengerstein, potrà domare perfino il Diavolo uscito dalle scuderie di Berlifitzing.» «Siete in errore, mio Signore; il cavallo, come credo di aver detto, non viene dalle scuderie del Conte. Se fosse stato così, avremmo saputo qual era il nostro dovere, anziché condurlo in presenza di un nobile della vostra famiglia.» «Vero!», osservò il Barone, seccamente; e in quel momento un paggio addetto alla stanza da letto uscì dal palazzo rosso in viso a passi precipito-
si. Sussurrò all'orecchio del suo Signore informandolo dell'improvvisa scomparsa di una piccola parte della tappezzeria, in una sala che indicò, addentrandosi nello stesso tempo in particolari minuziosi e circostanziati; ma li riferì con un tono di voce tanto basso che nulla sfuggì, che potesse appagare la curiosità eccitata degli scudieri. Il giovane Federico, durante il colloquio, sembrò agitato da una varietà di emozioni. Presto, in ogni caso, ritrovò la sua compostezza, e un'espressione di maligna determinazione si formò sul suo volto, quando diede ordini perentori che la stanza in questione fosse immediatamente chiusa, e che gli fosse consegnata la chiave. «Avete sentito dell'infelice morte del vecchio cacciatore Berlifitzing?», disse uno dei suoi vassalli al Barone dopo la partenza del paggio, mentre l'enorme destriero che quel nobile aveva adottato come proprio, si impennava e corvettava con raddoppiato furore giù per il lungo viale che si stendeva dal palazzo alle scuderie di Metzengerstein. «No!», disse il Barone, voltandosi bruscamente verso il vassallo. «Morto, hai detto?» «Proprio così, mio Signore, e, per un nobile del vostro nome, sarà, immagino, una notizia non sgradita.» Un rapido sorriso spuntò sul volto del Barone. «Come è morto?» «Nel tentativo temerario di salvare la parte prediletta della scuderia dei cavalli da caccia, è perito miseramente fra le fiamme.» «D-a-v-v-e-r-o-!», esclamò il Barone, come se lentamente e deliberatamente fosse colpito dalla verità di un'idea eccitante. «Davvero», ripeté il vassallo. «Terribile!», disse calmo il giovane, e tornò tranquillamente nel palazzo. Da quel giorno la condotta esteriore del giovane e dissoluto Barone Federico Von Metzengerstein cambiò radicalmente. In realtà il suo contegno deluse non poco le aspettative generali e si accordò assai meno alle speranze delle mamme intraprendenti della zona; il suo abbigliamento e le sue maniere, ancor meno che in passato, somigliavano in qualche modo a quelli della locale aristocrazia. Non lo si vedeva mai fuori dei confini dei suoi domini e, nella vasta società che lo circondava, non aveva un compagno a meno che non si voglia riconoscere il diritto al titolo di amico a quell'innaturale, impetuoso cavallo colore del fuoco, sul quale da quel giorno lo si vedeva sempre cavalcare. Numerosi inviti gli pervennero a lungo periodicamente da parte dei vici-
ni. «Vorrà il Barone onorare della sua presenza la nostra festa?» «Vorrà il Barone unirsi a noi in una caccia al cinghiale?» «Metzengerstein non va a caccia» e «Metzengerstein non sarà presente», erano le sprezzanti, laconiche risposte. Questi ripetuti insulti non furono tollerati a lungo dalla altezzosa nobiltà e gli inviti divennero meno cordiali... meno frequenti... e ad un certo punto cessarono del tutto. La vedova dello sfortunato Conte Berlifitzing fu sentita esprimere la speranza «che il Barone potesse trovarsi in casa quando non lo desiderava, visto che disdegnava la compagnia dei suoi pari; e potesse trovarsi a cavalcare anche quando non lo desiderava, visto che preferiva la compagnia di un cavallo». Questa frase era certamente lo sciocco scoppio di un risentimento ereditario e prova soltanto quanto particolarmente prive di significato possano diventare le nostre frasi, quando desideriamo essere insolitamente energici. I più comprensivi, tuttavia, attribuivano il cambiamento di condotta del giovane nobiluomo al dolore di un figlio per la recente perdita dei suoi genitori... dimenticando, però, il suo contegno crudele e sconsiderato nel breve periodo seguito immediatamente a quelle dolorose perdite. Altri ancora attribuivano il comportamento ad eccessiva superbia e presunzione. Altri ancora (tra i quali si può citare il medico di famiglia) non esitavano a parlare di malinconia morbosa e di malattia ereditaria, mentre oscure chiacchiere di natura più equivoca circolavano tra la moltitudine. Comunque, il perverso attaccamento del Barone al destriero recentemente acquisito - un attaccamento che sembrava rafforzarsi a ogni nuovo esempio di tendenze feroci e demoniache dell'animale - alla lunga divenne agli occhi di tutti i benpensanti una manifestazione di orribile e innaturale mania. Nel pieno splendore del mezzogiorno, nelle morte ore della notte, in salute o in malattia, nella calma come nella tempesta, il giovane Metzengerstein sembrava inchiodato alla sella del suo colossale cavallo, le cui ingovernabili audacie si accordavano così bene col suo spirito. Si verificarono, inoltre, circostanze che, unite agli ultimi eventi, conferivano un carattere ultraterreno e portentoso all'ossessione del cavaliere e alla capacità del destriero. Misurata accuratamente la lunghezza di un salto, si era trovato che superava di gran lunga le valutazioni più audaci dei più fantasiosi. Il Barone, dal suo canto, non aveva dato un nome all'animale, sebbene tutti gli altri cavalli della sua scuderia fossero distinti da uno specifico appellativo. Inoltre, la sua stalla era situata in un luogo distante dalle
altre, e di tutto quello che si riferiva al governo della bestia, nessuno al di fuori del padrone aveva il permesso di occuparsi, e addirittura nessuno poteva entrare nel recinto particolare del cavallo. Fu anche osservato che, sebbene i tre stallieri, che avevano catturato il cavallo quando filava via da Berlifitzing in fiamme, fossero riusciti ad arrestare la sua corsa mediante una briglia con un cappio, nessuno dei tre poteva affermare con sicurezza di aver messo, durante la faticosa lotta, le mani sul corpo della bestia. Esempi di intelligenza particolare nel comportamento di un cavallo nobile e focoso non si ritiene che siano sufficienti a suscitare un irragionevole interesse; ma in questo caso vi furono circostanze che si imposero per forza anche ai più scettici e flemmatici; si diceva che talvolta l'animale costringeva ad arretrare con terrore la folla che gli stava intorno a bocca aperta con il suo cupo e impressionante incedere; e si diceva che, a volte, anche il giovane Metzengerstein impallidisse e si ritraesse di fronte all'espressione improvvisa e penetrante dei suoi occhi quasi umani. Nella Corte del Barone nessuno osava dubitare dell'ardore dello straordinario affetto del giovane gentiluomo per le focose qualità del suo cavallo; nessuno, tranne un insignificante piccolo paggio deforme, la cui deformità dava fastidio a tutti e le cui opinioni avevano ben poca importanza. Questi (non so nemmeno se valga la pena di riferire le sue idee) aveva la sfrontatezza di asserire che il suo padrone non era mai balzato sulla sella senza un inavvertito, impercettibile tremore; e che quando ritornava dalle sue lunghe, continue, abituali cavalcate, aveva una espressione di malvagità che alterava tutti i muscoli del suo volto. Una notte tempestosa Metzengerstein, svegliatosi da un sonno pesante, scese come un folle dalla sua stanza e, montando in fretta e furia sul cavallo, scomparve nei meandri della foresta. Una circostanza abbastanza abituale che non attrasse più di tanto l'attenzione; ma il suo ritorno fu atteso con grande ansia dai suoi domestici quando, dopo alcune ore di assenza, si scoprì che gli stupendi, grandiosi spalti merlati del Palazzo Metzengerstein, stavano vacillando e crepitando dalle fondamenta, in preda alla massa densa e livida di un incendio ingovernabile. Poiché le fiamme, quando erano state scorte, avevano già compiuto un così terribile progresso che tutti gli sforzi per salvare una qualsiasi ala dell'edificio sarebbero stati inutili, gli attoniti confinanti rimasero immobili a guardare in un silenzioso anche se non indifferente stupore. Ma, un nuovo pauroso oggetto ben presto attirò l'attenzione della moltitudine, dimostrando come il turbamento di una folla nella contemplazione d'una agonia
umana sia tanto più forte dell'eccitazione suscitata da uno spettacolo sia pure pauroso che riguardi materia inanimata. In cima al lungo viale di antiche querce che portava dalla foresta all'ingresso principale del Palazzo Metzengerstein, un destriero con in groppa un cavaliere a capo scoperto e con gli abiti in disordine, galoppava con un impeto che superava anche quello del Demone della Tempesta. Il cavaliere non era evidentemente in grado di controllare quella corsa furiosa. L'espressione angosciata, la lotta convulsa del corpo erano la prova di uno sforzo sovrumano, ma dalle sue labbra lacerate, morse a sangue per il terrore, non usciva alcun suono, ad eccezione di un solo grido. Un solo istante, poi lo scalpitio degli zoccoli risuonò chiaro e penetrante, sopra il ruggito delle fiamme e il gemito del vento... ancora un altro istante e, superato d'un solo balzo porta e fossato, il destriero si lanciò su per la vacillante scalinata del palazzo e, con il suo cavaliere, sparì tra i vortici del caotico incendio. La furia della tempesta immediatamente si placò e seguì una calma mortale. Una bianca fiamma avviluppava ancora l'edificio come un sudario e, fluttuando fuori nella quieta atmosfera, emanava una luce soprannaturale, mentre una nuvola di fumo sovrastava pesantemente i bastioni formando nitidamente la figura colossale di un cavallo. 1
«Da vivo ero peste - morendo sarò la tua morte.» (N.d.T.) Mercier sostiene con serietà le dottrine della metempsicosi in Van deux mille quatre cents quarante, e J. D'Israeli afferma che «non esiste un sistema più semplice e poco ripugnante all'intelletto». Il colonnello Ethan Allen, «il ragazzo della Montagna Verde», sembra fosse un serio sostenitore della metempsicosi (N.d.A.). 3 «...dimora una sola volta in un corpo sensibile: del resto, un cavallo, un cane, perfino un uomo, non sono che la somiglianza poco tangibile di questi animali.» (N.d.T.) 2
EDGAR ALLAN POE Ligeia Ed ivi giace la volontà che non muore. Chi conosce i misteri della volontà con tutta la sua forza? Perché anche Iddio è una grande volontà che riempie tutte le cose dell'essenza dei propri intendimenti. L'uomo non concede se stesso agli angeli e nemmeno inte-
ramente alla morte, se non quando s'indebolisce la sua volontà. Joseph Glanvill Non posso, per l'anima mia, ricordare come, quando e perfino dove, precisamente, feci la conoscenza di Lady Ligeia. Ora gli anni sono passati e la mia memoria è indebolita dalle molte sofferenze o, al contrario, non sono forse in grado di riportare ora alla memoria questi punti perché, in verità, la personalità della mia adorata, la sua rara cultura, il suo singolare ma sereno tipo di bellezza, la vivace e affascinante eloquenza del suo lento e musicale modo di parlare, si fecero strada nel mio cuore così furtivamente e insieme decisamente, che quasi non me ne sono reso conto. In ogni caso credo di averla incontrata la prima volta, e poi molte altre ancora, in qualche grande e antica città decadente in vicinanza del Reno. Della sua famiglia ho certamente sentito parlare. Che fosse di antichissima origine, non c'è dubbio. Ligeia! Ligeia! Seppellito in studi di un genere più idoneo di ogni altro ad affievolire le sensazioni provenienti dal mondo esterno, è soltanto con questa dolce parola - Ligeia - che riesco a evocare davanti agli occhi della mia immaginazione la visione di colei che ora non è più. Ed ora, mentre scrivo, mi viene in mente come in un lampo, che non ho mai saputo il cognome di colei che fu la mia amica, la mia fidanzata, che divenne la fedele compagna dei miei studi, e infine la mia sposa adorata. È stato per una dolce pretesa della mia Ligeia? Oppure è stata una dimostrazione della forza del mio affetto il fatto che io non abbia mai indagato su questo punto? O è stato piuttosto un mio capriccio... una romantica, insensata offerta, sull'altare della più appassionata devozione? Se ricordo confusamente il fatto in se stesso - come meravigliarsi se ho completamente dimenticato le circostanze che lo hanno originato e nelle quali si è verificato? Se mai lo spirito che si può chiamare Fantasia, se mai lei, l'evanescente Astofet, dell'Egitto idolatra, alata di nero, presiede, come si dice, ai matrimoni sfortunati, certamente ha governato il mio. C'è un argomento a me caro sul quale la memoria non mi tradisce, ed è la figura di Ligeia. Era alta di statura, piuttosto sottile, negli ultimi giorni perfino emaciata. Non riuscirò mai a descrivere la maestà, la tranquilla sicurezza del suo portamento o la incredibile leggerezza ed elasticità del suo incedere. Arrivava e si dileguava come un'ombra. Non mi accorgevo mai del suo ingresso nel mio piccolo studio se non per la cara musica della sua dolce, bassa voce, o
per la sua diafana mano poggiata sulla mia spalla. Nessuna fanciulla aveva un volto bello come il suo. Era lo splendore di un sogno oppiaceo, una visione ariosa, capace di esaltare lo spirito, più selvaggiamente divina delle fantasie che aleggiavano intorno alle dormienti figlie di Delo. Eppure, le sue fattezze non rispondevano ai canoni dei modelli che erroneamente ci hanno insegnato ad ammirare nelle opere della classicità pagana. «Non esiste bellezza squisita», dice Bacone, il Lord di Verulam, parlando in realtà di forme e genera di bellezza, «senza qualche stranezza nelle proporzioni.» Sebbene mi rendessi conto che le fattezze di Ligeia non avevano la regolarità classica, sebbene sentissi che la sua bellezza era «squisita» e che c'erano molte «stranezze» in lei, avevo tuttavia tentato invano di scoprire le irregolarità e di approfondire la mia intuizione dello «strano». Esaminavo il profilo della sua fronte alta e pallida, perfetta - come risulta fredda questa parola quando si riferisce alla sua maestosità quasi divina - la sua pelle, che rivaleggiava con l'avorio più puro, l'aggraziata forma del capo e la regolarità delle sue movenze e ancora le chiome corvine, lucenti, naturalmente ondulate, del tutto degne dell'epiteto omerico «giacintine». Rimiravo il delicato profilo del suo naso e non trovavo in nessun esemplare, se non nei graziosi medaglioni degli ebrei, una simile perfezione. C'era la stessa levigatezza sensuale della superficie, la stessa impercettibile tendenza al profilo aquilino, la stessa armoniosa curva delle narici che esprimevano libertà di spirito. Guardavo poi la sua dolce bocca. Era proprio un trionfo di bellezza celestiale - la magnifica curva del breve labbro superiore e la dolce, voluttuosa quiete di quello inferiore -, le fossette divertenti e l'incarnato espressivo, e i denti che riflettevano, con sorprendente brillantezza, ogni raggio di luce festoso che li colpiva quando lei, serena, calma, sorrideva raggiante di gioia. Esaminavo la conformazione del mento e anche qui ritrovavo la grazia della linea, la dolcezza, la maestà, la pienezza, la spiritualità dell'esemplare greco, quel profilo che il Dio Apollo aveva rivelato, ma solo in sogno, a Cleomene, il figlio dell'Ateniese. E infine mi perdevo dentro i grandi occhi di Ligeia. Sugli occhi non abbiamo modelli dall'antichità. Può darsi che proprio negli occhi della mia adorata, risiedesse il segreto cui alludeva Lord Verulam. Essi erano, debbo ritenere, molto più grandi di quanto lo siano normalmente gli occhi della nostra razza. Erano più grandi dei grandissimi occhi delle gazzelle della razza che vive nella valle di Nourjahad. Peraltro solo a intervalli - nei momenti di intensa emozione - questa ca-
ratteristica diventava più chiaramente evidente, in Ligeia. In tali momenti la sua bellezza era - oppure appariva alla mia ardente fantasia - la bellezza di un essere che non apparteneva a questa terra: la bellezza delle favolose Urì dei Turchi. Il colore delle pupille era il nero più brillante, le ciglia lunghissime, e le sopracciglia dalla linea lievemente irregolare, erano della stessa tinta. La «stranezza» che trovavo negli occhi, era tuttavia di natura estranea al colore o allo splendore della forma, e riguardava in sostanza l'espressione. Parola senza senso! Dietro questa, che è in larga misura un mero suono, noi nascondiamo la nostra ignoranza di tutto ciò che è spirituale. L'espressione degli occhi di Ligeia! Quante lunghe ore ho passato a riflettere su di essi! Quanto ho pensato, per tutta una notte di mezza estate per coglierne la profondità! Che cos'era? Qualcosa di più profondo del pozzo di Democrito, che giaceva nel fondo delle pupille della mia amata? Che cosa era? Ero preda della smania di scoprirlo. Quegli occhi! Quelle grandi, brillanti, divine pupille! Esse divenivano per me le due stelle gemelle di Leda e io, di conseguenza, il più devoto degli astrologi. Tra le molte, incomprensibili anomalie delle scienze dell'intelletto, non ce n'è una più emotivamente eccitante del fatto - mai trattato, credo, in alcun caso scolastico - che nei nostri sforzi, per richiamare alla memoria qualcosa dimenticata da lungo tempo, spesso veniamo a trovarci molto vicini al limite del ricordo, senza tuttavia riuscire a ricordare effettivamente. Quante volte, nelle lunghe analisi degli occhi di Ligeia, mi sono sentito vicino alla piena conoscenza della loro espressione... l'ho sentita avvicinare... non ancora del tutto in mio possesso... e alla fine svanire interamente! E trovavo (strano, tra tutti i misteri più strani) una cerchia di analogie, con questa espressione, nei più comuni oggetti dell'universo. Voglio dire che, essendo già la bellezza di Ligeia divenuta parte del mio spirito, e in esso avendo preso dimora come su un altare, ricavai da molti oggetti e fatti del mondo materiale sensazioni del tutto simili a quelle che sempre avevano suscitato in me i suoi grandi occhi luminosi. Non saprei definire, analizzare, e neanche capire più chiaramente, queste sensazioni. Ho riconosciuto - ripeto - qualcosa di quelle espressioni, nella rapida crescita di una vite, nello scroscio di un torrente o nella visione di una falena, di una farfalla, di una crisalide. L'ho ritrovata nell'oceano, nella caduta di una meteora, negli sguardi di qualche persona molto vecchia. Ci sono una o due stelle in cielo (una, di magnitudo sei, è la stella doppia della costellazione della Lira) che, scrutate al telescopio, mi hanno dato
quella sensazione, così come taluni suoni tratti da strumenti a corda e, non raramente, alcuni brani di libri. Tra innumerevoli altri esempi, ricordo bene il brano di un libro di Joseph Glanvill, che (forse soltanto per la sua singolarità: - chi può dirlo?) non mancava mai di ispirarmi quella sensazione: «Ed ivi giace la volontà che non muore. Chi conosce i misteri della volontà con tutta la sua forza? Perché anche Iddio è una grande volontà che riempie tutte le cose dell'essenza dei propri intendimenti. L'uomo non concede se stesso agli angeli e nemmeno interamente alla morte, se non quando si indebolisce la sua volontà». Il trascorrere di lunghi anni e le riflessioni seguite, mi hanno consentito di ritrovare un sottile nesso tra questo passo del moralista inglese e il carattere di Ligeia. Un fervore di pensiero, di azione, di linguaggio, era in lei il risultato, o comunque l'indizio, di questa sua straordinaria volontà che, durante il nostro lungo rapporto, non dette nessun altro, più immediato, segno di esistenza. Fra tutte le donne che ho conosciuto, lei, Ligeia, apparentemente calma e perfino placida, era quella che più violentemente cadeva preda di tumultuosi cambiamenti di umore. Di tale passionalità non potevo avere un'esatta stima, se non per il dilatarsi miracoloso di quei suoi occhi, che ad un tempo mi deliziavano e spaventavano, per la magica melodia, l'armonia, la chiarezza e la dolcezza della sua voce, e per la fiera energia (resa doppiamente efficace per il contrasto con il suo modo di esprimersi) delle concitate parole che abitualmente pronunciava. Ho accennato alla cultura di Ligeia: era immensa, e non ne avevo mai ritrovata una simile nelle donne che conoscevo. Nelle lingue classiche era così preparata che, fin dove si spingeva la mia conoscenza dei moderni dialetti europei, non sono mai riuscito a trovarla in errore. E, sui temi più in voga - solo perché tra i più astrusi della vantata erudizione accademica ho forse mai colto Ligeia in errore? Quanto singolarmente e acutamente, almeno negli ultimi tempi, ha attratto la mia attenzione questo particolare aspetto del carattere della mia sposa! Ho detto che la sua cultura era quale non ho mai conosciuto in una donna, ma dove esiste un uomo che abbia percorso, e con pieno successo, tutto il vasto cammino delle scienze morali, fisiche e matematiche? Non ho mai compreso allora qualcosa che ora percepisco con evidenza, ossia che, in Ligeia, la preparazione era enorme, stupefacente; eppure ero talmente conscio della sua supremazia incontestabile che mi affidavo, con la fiducia di un bambino, alla sua guida attraverso il caotico mondo degli
studi sulla metafisica, ai quali mi consacrai pienamente durante i primi anni del nostro matrimonio. E, allorché lei volgeva il suo delizioso sguardo su di me, assorto in studi peraltro elementari e ancora confusi, e mi apriva così, passo passo, il lungo, splendido, inesplorato cammino, con quale sensazione di trionfo, con quanta vivida gioia, e con quanto di tutto ciò che di etereo vi è nella speranza, io sentivo di poter raggiungere la meta di una saggezza troppo preziosa, divina per non considerarla vietata! Con quale disperato dolore, dopo alcuni anni, vidi le mie concrete speranze prendere il volo e dileguarsi! Senza Ligeia, io ero come un bambino che brancola nel buio della notte! Solo la sua presenza, i suoi suggerimenti, rendevano chiari i molti misteri degli studi sulla trascendenza in cui eravamo immersi. Mancando la raggiante luce dei suoi occhi, le lettere che apparivano illuminate e auree, divennero più oscure del piombo saturnino. Ora quegli occhi brillavano di meno e più raramente sulle pagine che io ero intento a studiare. Ligeia era malata. I suoi occhi ardevano di bagliori troppo accesi; le sue pallide dita erano divenute trasparenti come la cera delle candele funerarie, le vene azzurre della sua fronte diafana si gonfiavano e si contraevano per ogni pur lieve emozione. Vedevo che stava per morire e che lottava disperatamente con tutta l'anima contro il tristo Azrael. La lotta della mia adorata sposa era, con mia grande sorpresa, perfino maggiore della mia. C'era nel suo carattere fermo qualcosa che mi aveva indotto a pensare che la morte sarebbe arrivata per lei senza timori, ma non fu così. Le parole non bastano per dare una precisa idea della grande resistenza con la quale si batté contro l'Ombra. Io gemevo angosciato di fronte a quel pietoso spettacolo. Avrei voluto consolare, ragionare, ma di fronte al suo disperato desiderio di vita - di vita, solo di vita - il conforto e il ragionamento finivano per sembrare solo la più insensata delle follie. Eppure, fino all'ultimo istante, tra le convulse agitazioni del suo spirito fiero, niente aveva scosso la calma esteriore del suo comportamento. La sua voce era divenuta più lieve, più bassa, ma io non volevo comprendere il vero significato di quelle parole pronunciate con tanta calma. Il mio cervello vacillava mentre ascoltavo, come in trance, una melodia non più terrena, e concetti e speranze sconosciuti ai comuni mortali. Che mi amasse non avevo dubbi; potevo altresì comprendere facilmente che in un animo come il suo l'amore non avrebbe potuto esprimere una passione normale. Tuttavia, solo nella morte compresi fino in fondo la pro-
fondità del suo affetto. Per lunghe ore mi tenne la mano e lasciò sgorgare dal profondo del cuore il tormento di una passione che, al di là della devozione, sfiorava l'idolatria. Come avevo potuto meritare la gioia di essere oggetto di tali confessioni? Come potevo, del pari, meritare il dolore di perdere la mia adorata nel momento stesso in cui lei me le esternava? Non voglio dilungarmi su questo argomento. Voglio solo aggiungere che scoprii in Ligeia più che un femminile abbandono a un amore, del tutto immeritato da parte mia, un disperato desiderio, un selvaggio attaccamento a quella vita che le stava rapidamente sfuggendo. Proprio questo disperato attaccamento, questo aspro e veemente desiderio di vita - solo di vita - io non sono in grado di rappresentare, non sono capace di esprimere. A tarda ora, nella notte in cui spirò, chiamandomi con ostinazione accanto a sé, mi pregò di ripeterle alcuni versi da lei stessa composti qualche giorno prima. Obbedii. I versi erano questi: Ascolta! È una notte di gala dopo la malinconia degli ultimi anni! Una folla di angeli alati, vestiti di veli, piangenti, siedono nel teatro, per assistere a una recita di speranza e di paure mentre l'orchestra soffia negli ottoni a tutto fiato la musica delle sfere. Mimi, nelle vesti del Dio dei Cieli, mormorano, bisbigliano basso, volando vicino e poi lontano... Semplici marionette, che vanno e vengono a un'asta di grandi oggetti senza forma, che scivolano sulla scena avanti e indietro, sventolando le loro ali di condor, invisibile sventura! Questo dramma multiforme! Sta' certo: non lo dimenticherai! Con i suoi Fantasmi sempre inseguiti da una folla che non sa misurarli,
lungo un cerchio che sempre ritorna all'unico, medesimo punto, e mossa dalla Follia, ma ancor più dal Peccato e dall'Orrore, è l'anima della trama. Ma guarda: nella folla dei mimi, s'insinua una forma strisciante, qualcosa rosso-sangue si contorce dall'esterno della scena deserta! Si torce, guizza! Con spasimi di morte i mimi diventano suo pasto, e i serafini singhiozzano, per le zanne di bestia macchiate di sangue umano. Spente, spente sono le luci! Tutte spente! E sopra ciascuna forma tremante, la cortina di un funebre drappo, cala giù con furia di tempesta, e gli angeli tutti, pallidi e diafani, sollevandosi gettano i veli, e sentenziano che la rappresentazione è la tragedia «Uomo» e che il suo eroe è il Verme Trionfante. «Oh, Dio!», urlò quasi Ligeia, sollevandosi bruscamente e stendendo le braccia con un movimento spasmodico, non appena fui giunto alla fine dei versi, «Oh, Dio! O Padre Divino! Le cose non dovranno mai cambiare? Questo vincitore non sarà mai vinto? Non siamo noi una particella di te? Chi conosce i misteri della volontà in tutta la sua potenza? L'uomo non concede se stesso agli angeli e nemmeno interamente alla morte, se non quando s'indebolisce la sua volontà.» Poi, come se fosse esausta per l'emozione, lasciò cadere le sue bianche braccia e tornò solennemente al suo letto di morte. E, mentre si affannava negli ultimi sospiri, confusi con essi arrivavano lievi mormorii dalle sue labbra. Accostai l'orecchio e riconobbi ancora le parole conclusive di quel brano di Glanvill «L'uomo non si concede agli angeli e nemmeno interamente alla morte, se non quando si indebolisce la sua volontà». Poi morì ed io, distrutto dal dolore, non resistetti più a lungo nella solita-
ria desolazione di quella oscura, decadente città renana. Non mi mancavano quelle che il mondo chiama ricchezze. Ligeia mi aveva portato molto, molto più di quanto tocchi a gran parte degli uomini. Dopo pochi mesi di stanco vagabondare senza meta, acquistai e feci sommariamente restaurare una abbazia - che non nomino - situata in una delle più antiche e meno frequentate lande della bella Inghilterra. La tenebrosa e triste imponenza dell'edificio, l'aspetto quasi selvaggio della tenuta, le numerose, malinconiche e venerate memorie che ad entrambi si accompagnavano, erano in assoluto all'unisono con i sentimenti di totale annullamento che mi avevano guidato in quella remota e solitaria regione del paese. Tuttavia, mentre apportavo all'esterno dell'abbazia, con la verdeggiante decadenza pendente all'intorno, solo piccole trasformazioni, con infantile perversità e, forse, con la vaga speranza di alleviare il mio dolore, detti sfogo all'interno a una magnificenza più che regale. Anche nell'infanzia avevo nutrito una predilezione per queste follie, ed ora esse riaffioravano in me come se nel dolore tornassi bambino. Sento - ahimè! - quanta incipiente follia potesse essere scoperta nelle lussuose, fantastiche tappezzerie, nelle solenni sculture egizie, nelle astruse cornici e nel mobilio incoerente, nei disegni pazzeschi dei tappeti intessuti d'oro! Ero diventato uno schiavo prigioniero delle pastoie dell'oppio, e i miei lavori - come i miei ordini prendevano i colori dei miei vaneggiamenti. Ma non voglio indugiare oltre sui dettagli delle mie follie. Voglio parlare solo di una stanza, per sempre maledetta, nella quale, in un momento di alienazione mentale, condussi all'altare come mia sposa - perché succedesse alla mia indimenticata Ligeia - la bionda, occhicerulea Lady Rowena Trevanion, di Tremaine. Non c'è una sola parte dell'architettura e della decorazione di quella camera nuziale che non sia ora davanti ai miei occhi. Dove erano gli spiriti altezzosi della famiglia della sposa quando, per questioni di vile denaro, permisero a una fanciulla, a una figliola tanto amata, di varcare la soglia di un appartamento così arredato? Ho già detto che ricordo minutamente i dettagli della camera, ma dimentico alcuni momenti cruciali; in fondo, in questo quadro fantastico, non c'era alcuna logica da tenere a mente. La stanza, situata in una alta torretta del castello-abbazia, era di forma pentagonale e di ampie dimensioni. L'intera parete sud del pentagono era costituita da un'unica finestra, un'immensa lastra di vetro veneziano tutta d'un pezzo, tinteggiata di un grigio piombo così che i raggi del sole o della
luna, penetrando attraverso di essa, dessero agli oggetti un'aria spettrale. Sulla parte superiore dell'enorme finestra si stendeva l'intrico dei rami di un annoso rampicante che si aggrappava alle massicce mura della torretta. Il soffitto di quercia scura a volta, eccessivamente alto, era minuziosamente ornato dei più strani e grotteschi disegni tra gotici e druidici. Dall'alto, al centro di quella lugubre volta, pendeva, tenuto da un'unica catena di grandi anelli d'oro, un enorme incensiere dello stesso metallo, di foggia saracena, con molti fori, così disposti che la successione continua di mutevoli luci colorate sembrava avere la stessa capricciosa mobilità di un serpente. Alcune ottomane, e candelabri d'oro, di foggia orientale, erano disposti qua e là; e anche il letto, il letto nuziale, di modello indiano, era basso, scolpito nel duro ebano, sovrastato da un baldacchino simile a una cortina funebre. In ciascun angolo della stanza si ergeva un gigantesco sarcofago di granito nero proveniente dalle Tombe dei Re presso Luxor, con i coperchi pieni di antichissime, memorabili sculture. Le tappezzerie della stanza erano il capolavoro di tutta la fantasia ispiratrice. Le pareti, di altezza gigantesca - addirittura sproporzionate - erano ricoperte dalla sommità alla base di un pesante tessuto che formava ampie pieghe, di aspetto massiccio, e che era uguale a quello del tappeto sul pavimento. Lo stesso tessuto era usato come copertura per le ottomane e il letto di ebano, come baldacchino, e formava le fastose volute delle tende che schermavano parzialmente la finestra. La stoffa era un ricchissimo tessuto d'oro. A intervalli irregolari vi erano ricamati, un po' dovunque, arabeschi, del diametro di circa trenta centimetri, del nero più lucente. Queste figure avevano le caratteristiche di un vero arabesco solamente se osservate da un singolo punto di vista. Grazie a un procedimento ormai consueto, che risale però a un periodo molto remoto dell'antichità, erano realizzati in modo che il loro effetto risultasse mutevole. A chi entrava nella stanza apparivano come semplici mostruosità; man mano che si avanzava, questa apparenza svaniva, e gradualmente, come cambiava posizione nella stanza, il visitatore si trovava circondato da una successione senza fine di forme orrende, care alle superstizioni dei Normanni, o che si ritrovano nei sogni peccaminosi dei monaci. L'effetto fantasmagorico era largamente aumentato dall'introduzione artificiale di una corrente d'aria violenta e ininterrotta dietro la tappezzeria, che provocava una complessa e sinistra animazione dell'insieme. In ambienti come questi, in una camera nuziale come questa, io passai con la Lady di Tremaine le ore, certo non benedette, del primo mese del
nostro matrimonio; le passai senza eccessivo fastidio. Che mia moglie temesse la cupa malinconia del mio temperamento, che mi evitasse e non mi amasse granché, non potevo ignorarlo, anzi, questo fatto mi procurava più piacere che altro. Io la detestavo con un odio più demoniaco che umano. La mia memoria volava via, con un rimpianto senza limiti, alla mia adorata, bella, divina Ligeia, ormai purtroppo sepolta. Mi deliziavo nel ricordo della sua purezza, saggezza, nobiltà, della sua natura eterea, della passione e dell'amore idolatra. Ora, il mio spirito ardeva pienamente, liberamente, più caldo ancora degli ardori di Ligeia stessa. Nell'eccitazione dei sogni dell'oppio (ricorrevo abitualmente all'uso della droga) gridavo ad alta voce il suo nome nel silenzio della notte, o nei più nascosti recessi della campagna durante il giorno, quasi che il folle desiderio, la sfrenata passione, l'ardore struggente per colei che mi aveva lasciato, potessero farla tornare di nuovo ai suoi itinerari terreni, quelli che aveva abbandonato - poteva mai essere? - per sempre. Quasi all'inizio del secondo mese di matrimonio, Lady Rowena cadde preda di un'improvvisa malattia da cui si riprese molto lentamente. La febbre che l'aveva consumata rendeva difficili le sue notti. Nel suo stato agitato di semiincoscienza, parlava di suoni, di movimenti entro e intorno alla camera del torrione, ed io pensavo che avessero origine soltanto dal turbamento della sua immaginazione o, forse, proprio dall'influenza di quel fantasmagorico ambiente. Ebbe una lunga convalescenza, e alla fine guarì. Non passò molto tempo, che un secondo, violento disturbo, la riportò nuovamente sul letto di dolore. Da questo attacco la sua fibra, da sempre fragile, non si riprese più. Le sue infermità furono, dopo tale periodo, di un genere più preoccupante e di più allarmante ricorrenza, e misero a dura prova la preparazione scientifica e l'impegno senza limiti dei suoi medici. Con il progredire della sua malattia ormai cronica, che sembrava sempre più certo non si potesse sradicare dal suo corpo con mezzi umani, osservai anche una parallela crescita degli squilibri nervosi del suo temperamento e della sua morbosa eccitabilità per ogni più banale motivo di paura. Parlava di nuovo, e ora con maggiore frequenza e fantasia, dei suoni, dei leggeri suoni e degli inconsueti movimenti tra le tappezzerie, ai quali aveva già accennato in precedenza. Una notte, si era alla fine di settembre, ripropose alla mia attenzione, con maggiore enfasi del solito, questo stressante argomento. Si era appena svegliata da un sonno angoscioso e io ero stato a guardare, con ansietà mista a un vago terrore, le contrazioni dei suoi lineamenti disfatti.
Ero seduto dal suo lato del letto d'ebano su una delle ottomane indiane. Si sollevò appena e parlò, in un sussurro basso ma risoluto, dei suoni che lei sentiva, ma io non potevo udire, dei movimenti che lei vedeva, ma io non potevo scorgere. Il vento soffiava energicamente dietro le tappezzerie e desideravo mostrarle (ma non ci credevo del tutto, lo confesso) che quei sospiri quasi inarticolati e quei vaghi spostamenti delle figure sulle pareti erano l'effetto naturale del consueto passaggio di una corrente d'aria. Un pallore mortale, che si diffuse su tutto il suo volto, dimostrò che i miei tentativi di rassicurarla sarebbero risultati inutili. Sembrava sul punto di svenire e non c'era alcun servitore a portata di voce. Ma ricordai dove era conservata una caraffa di vino leggero che le era stato ordinato dai medici, e attraversai la stanza per andare a prenderla. Non appena arrivai vicino all'incensiere illuminato, due circostanze sorprendenti attrassero la mia attenzione. Sentii che qualcosa di palpabile, anche se invisibile, aveva sfiorato la mia persona, e vidi nel bel mezzo della zona illuminata dall'incensiere, sul tappeto dorato, un'ombra evanescente, una indefinita ombra dall'aspetto angelico. Tale quale poteva essere immaginata l'ombra di uno spirito. Io ero sotto l'effetto eccitante di una smodata dose d'oppio ed evitai di farne parola a Rowena. Trovato il vino, riattraversai la stanza, riempii un calice e lo portai alle labbra della donna semisvenuta. Ora si era intanto riavuta, e prese lei stessa il bicchiere mentre mi lasciavo cadere su un divano lì vicino con gli occhi fissi sulla sua persona. Fu allora che sentii distintamente un leggero rumore di passi sul tappeto vicino al letto. Nel momento stesso in cui Rowena stava per portare il vino alle labbra, vidi, o può darsi che sognai di vedere, cadere dentro il calice, come se fossero schizzate da un punto qualsiasi dell'atmosfera della casa, tre o quattro gocce di un liquido colorato di un brillante rosso rubino. Se io le vidi, altrettanto non fu per Rowena. Lei bevve il vino senza esitazioni, e io evitai di parlarle di quell'evento che ritenni fosse, dopotutto, dovuto alle suggestioni di una fervida immaginazione, stimolata morbosamente dal terrore della donna, dall'oppio e dall'ora notturna. Non posso nascondere di aver avvertito, subito dopo la caduta delle gocce color rubino, un repentino peggioramento nelle condizioni già malandate di mia moglie. Tanto che, la terza notte successiva, la servitù cominciò a prepararla per la tomba mentre nella quarta io sedevo solo con il suo corpo avvolto nel sudario nella fantastica camera che l'aveva accolta come sposa. Visioni folli, generate dall'oppio, svolazzavano come ombre davanti a
me. Fissavo con occhi inquieti i sarcofagi agli angoli della stanza, le figure cangianti della tappezzeria, il brillio dei fuochi multicolori dell'incensiere sovrastante. I miei occhi caddero, nel momento in cui riandavo con la mente ai fatti delle notti precedenti, sul cerchio illuminato dall'incensiere dove avevo visto le tracce leggere dell'ombra. Lì non vedevo più nulla e, respirando più liberamente, volsi lo sguardo alla pallida, rigida figura che giaceva sul letto. Mi assalirono migliaia di ricordi di Ligeia: ritornava nel mio cuore, con la violenza di un torrente in piena, tutto l'infinito timore con il quale avevo guardato «lei» avvolta nel sudario. La notte declinava e io, con il petto ancora pieno di amari pensieri dell'unica donna veramente adorata, rimanevo con gli occhi fissi sul corpo di Rowena. Doveva essere passata la mezzanotte, o forse era più tardi... o più presto: in realtà non avevo più nozione del tempo, quando un singhiozzo flebile, basso, ma molto distinto, mi strappò dai miei sogni... Ebbi la sensazione che venisse dal letto d'ebano, dal letto di morte. Rimasi in ascolto trattenendo il respiro per terrore superstizioso, ma il suono non si ripeté. Concentrai lo sguardo per scoprire qualsiasi movimento del corpo... ma non se ne notava nessuno, foss'anche appena percettibile. Eppure non mi ero ingannato. Avevo sentito il suono, sia pure flebile, e il mio spirito si era ridestato. Risolutamente, tenacemente, concentrai la mia attenzione sul corpo. Passarono molti minuti prima che avvenisse un qualsiasi fatto capace di far luce sul mistero. Infine si vide chiaramente che un lieve, debolissimo, appena rilevabile colorito affluiva alle guance e lungo le disseccate piccole vene delle palpebre. Con una sorta di indefinibile orrore e di timore, per il quale il linguaggio dei mortali non ha espressioni abbastanza efficaci, sentii che il mio cuore cessava di battere e le membra mi si irrigidivano. Poi il senso del dovere mi ridette la padronanza di me stesso. Non ebbi dubbi: eravamo stati troppo frettolosi nella preparazione... perché Rowena viveva ancora. Bisognava fare subito qualcosa, ma la torre era troppo lontana dall'ala dell'abbazia assegnata ai servitori, e non c'era nessuno a portata di voce, né avevo modo di invitarli ad aiutarmi senza lasciare per molti minuti la stanza... e questo non potevo arrischiarmi a farlo. Perciò concentrai i miei sforzi per richiamare indietro lo spirito che ancora aleggiava. In breve tempo fui certo tuttavia che una ricaduta c'era stata; il colorito le scomparve di nuovo dalle palpebre e dalle guance, lasciandovi un pallore marmoreo. Le labbra si erano raggrinzite e serrate in una
spaventosa espressione di morte, un repellente, viscido gelo si diffuse sulla superficie del corpo, e la consueta rigidità della morte sopravvenne immediatamente. Caddi di nuovo con un brivido sul divano da cui ero stato così bruscamente strappato, e di nuovo mi abbandonai alle appassionate visioni di Ligeia. Passò così un'ora, quando (sarà mai possibile?) per una seconda volta sentii un suono vago provenire dalla zona del letto. Ascoltai, ai limiti dell'orrore. Il suono tornò... era un sospiro. Mi precipitai verso la salma e vidi... vidi distintamente un tremore sulle sue labbra. Un minuto dopo le labbra si aprirono scoprendo una linea di denti brillanti come perle. Ora lo stupore lottava nel mio petto con il timore che prima vi aveva regnato da solo. Sentivo che la mia vista si appannava, che la mia ragione vaneggiava. Fu soltanto con un violento sforzo su me stesso che riuscii a convincermi di portare a termine il compito al quale ancora una volta il dovere mi chiamava. Era di nuovo tornato un po' di colore sulla fronte, sulle guance, sulla gola; un colore appena percettibile pervadeva l'intero corpo, e si avvertiva persino un leggero battito del cuore: la signora viveva. Con raddoppiato ardore mi accinsi ad adoperarmi per far tornare la vita. Inumidii e strofinai le tempie e le mani, e misi in atto ogni accorgimento che l'esperienza e una non trascurabile conoscenza medica potevano suggerire. Fu tutto vano. Improvvisamente il colore svanì, le pulsazioni cessarono, le labbra riassunsero l'espressione della morte e qualche minuto dopo l'intero corpo divenne rigido, gelido, livido, rinsecchito e repellente come quello di chi è ormai da molti giorni nella tomba. Di nuovo mi abbandonai alle visioni di Ligeia... e di nuovo (c'è da stupirsi se rabbrividisco mentre lo scrivo?) arrivò alle mie orecchie un leggero singhiozzo proveniente dal letto d'ebano. Perché dovrei spiegare minutamente gli indicibili orrori di quella notte? A che scopo soffermarsi a descrivere come, una volta dopo l'altra fino alla luce grigia dell'alba, si ripeté quel terribile dramma della reviviscenza; come ciascuna delle terrificanti ricadute portasse solo a una più dura e apparentemente irrimediabile morte; come ogni agonia avesse il carattere di una lotta contro qualche nemico invisibile e ogni lotta fosse seguita da un non so che di mutato nella fisionomia del cadavere? Lasciate che mi affretti alla conclusione. Era trascorsa gran parte della paurosa notte, quando colei che era stata una morta, ancora una volta si agitò, questa volta molto più vigorosamente di prima, sebbene risorgesse da una dissoluzione più paurosa nella sua to-
tale disperazione, di qualsiasi altra precedente. Io avevo da parecchio tempo smesso di lottare e perfino di muovermi, e rimanevo seduto rigidamente sull'ottomana, preda disperata di un turbine di violente emozioni, di cui l'estrema paura mi parve la meno terribile, la meno devastante. Il cadavere, ripeto, si muoveva e ora più energicamente di prima. I colori della vita rifluivano con insolita energia in quell'involucro, le membra si rilasciavano e, se non fosse stato per le palpebre ancora rigidamente serrate e per le bende e i drappi funebri che ancora fasciavano in forma sepolcrale il contorno della sua figura, avrei potuto pensare che Rowena avesse scrollato via da sé definitivamente la stretta della Morte. Sebbene non fossi ancora giunto a tale completa convinzione, non potei avere più dubbi quando, sollevandosi dal letto, e muovendo piccoli, malfermi passi, gli occhi ancora chiusi, alla maniera delle deliranti immagini di un incubo, la cosa che si era liberata dal sudario - avanzò nettamente, palpabilmente fino al centro della stanza. Non tremai... non mi agitai... per l'affollarsi di infinite fantasticherie legate all'aspetto, alla statura, al contegno della figura, che, attraversando tumultuosamente il mio cervello, mi avevano paralizzato... impietrito. Non mi mossi... guardai con attenzione l'apparizione. C'era un folle disordine nei miei pensieri... un tumulto che non aveva pace. Poteva dunque essere Rowena viva che mi si parava davanti? Poteva essere proprio Rowena, la bionda, Lady Rowena Trevanion di Tremaine dagli occhi azzurri? Perché, perché dovevo dubitarne? La benda le serrava pesantemente la bocca... poteva non essere quella la bocca sospirante della Lady di Tremaine? E quelle guance... colorite del rosa della giovinezza... sì quelle erano certo le belle guance della Lady di Tremaine vivente. E il mento con le fossette di quando era in salute, poteva non essere il suo?... ma poteva essere cresciuta di statura dopo la malattia? Quale inesprimibile follia si impadronì di me dopo questo pensiero? Un balzo e fui ai suoi piedi. Sfuggendo al mio tocco, lei lasciò cadere dalla testa, liberandola, l'orrendo sudario che l'aveva imprigionata, e così, nell'atmosfera agitata della stanza, una grande massa di lunghi, arruffati capelli, precipitò come una cascata: erano più neri delle ali corvine della notte! E allora, lentamente, si aprirono gli occhi della figura che era di fronte a me. «Ecco, finalmente», gridai, «non posso... non posso più sbagliarmi... questi sono i grandi, neri, fulgenti occhi... del mio perduto amore, della mia Signora... di LADY LIGEIA.»
ALEKSANDR SERGEEVIČ PUŠKIN La Regina di Picche 1. Quando il tempo era clemente essi si incontravano per giocare a carte... Dio li perdoni! Alcuni vincevano, altri perdevano,. e calcolavano il costo delle loro giocate nella brumosa stagione autunnale quando si incontravano assieme. Quella sera si giocava a carte nelle stanze di Narumov, un ufficiale della Guardia a Cavallo. La lunga notte invernale era trascorsa inosservata e, solo dopo le quattro del mattino, la compagnia si sedette finalmente per la cena. Coloro che avevano vinto gustarono con piacere il cibo. Gli altri si sedettero soprappensiero davanti ai piatti vuoti. Ma, quando arrivò lo champagne, la conversazione si ravvivò e divenne generale. «Come è andata, Surin?», chiese Narumov. «Oh, come al solito: ho perso. Devo confessare di non avere proprio fortuna: mi attengo alla mirandole, non mi agito, non perdo la testa, eppure non vinco mai.» «Vuole dirmi che non ha mai avuto la tentazione di puntare sul rosso per tutta la serata? Lei controlla le proprie pulsioni in maniera ammirevole.» «Ma guardate Hermann», esclamò un tale indicando un giovane ufficiale del Genio. «Non ha mai tenuto una carta in mano, non ha mai fatto una scommessa in vita sua, eppure rimane alzato fino alle cinque di mattina per guardarci giocare.» «Le carte mi interessano molto», disse Hermann, «ma non sono in una posizione che mi permetta di rischiare il necessario nella speranza di acquisire il superfluo.» «Hermann è tedesco: è cauto, ecco cos'è!», ribatté Tomsky. «Ma se c'è una persona che non capisco è proprio mia nonna, la Contessa Anna Fedorovna.» «E perché?», chiesero i convitati. «Non capisco come mai non giochi a carte.» «Ma sicuramente non vi è nulla di sorprendente nel fatto che una vec-
chia signora che ha passato gli ottant'anni non voglia scommettere al gioco», obiettò Narumov. «Allora voi non la conoscete?» «Affatto!» «Beh, ascoltate allora. Dovete sapere che, sessant'anni fa, mia nonna andò a Parigi e vi riscosse grande successo. La gente accorreva per poter vedere anche per un minuto la Vénus moscovite (la Venere moscovita). Richelieu era pronto a obbedire ad ogni suo ordine, e la nonna sostiene che l'alto prelato fu quasi sul punto di spararsi a causa della crudeltà che lei gli aveva dimostrato. A quel tempo, le signore giocavano a «faro». Durante una serata a Corte, lei perse una somma considerevole nei confronti del Duca di Orleans. Quando tornò a casa, mentre si toglieva i nei artificiali del viso e si liberava della martingala, raccontò l'accaduto a mio nonno, ordinandogli di pagare il suo debito. Mio nonno, a quanto mi ricordo, si comportava verso mia nonna come una sorta di maggiordomo. La temeva come il fuoco. Tuttavia, quando seppe l'ammontare della perdita, quasi perse la testa. Prese tutti i conti da pagare e le fece osservare che in sei mesi avevano speso mezzo milione di rubli, aggiungendo inoltre che a Parigi essi non avevano la possibilità di attingere ai loro beni delle tenute di Mosca e di Saratov, e quindi si rifiutò di pagare. Nonna gli tirò le orecchie, poi andò a coricarsi senza di lui per mostrargli quanto era contrariata. La mattina seguente fece chiamare suo marito, ma lo trovò irremovibile. Per la prima volta in vita sua, si mise addirittura a ragionare con lui, e a spiegare, pensando di potersi appellare alla sua coscienza, circa il fatto che vi erano debiti di diversa natura, e che essere un Principe comportava doveri diversi rispetto a un falegname per carrozze. Ma fu tutto invano: mio nonno non ne voleva sapere. "Una volta per tutte, no!", fu la sua risposta definitiva. Nonna non sapeva più cosa fare. Tra le sue amicizie più fidate vi era un uomo notevole. Avete mai sentito parlare del Conte di Saint-Germain, sul quale si raccontano tante belle storie? Come sapete, si atteggiava a Ebreo Errante e dichiarava di aver scoperto l'Elisir di Lunga Vita, la Pietra Filosofale e così via. La gente rideva di lui, giudicandolo un ciarlatano, e Casanova nelle sue Memorie dice addirittura che fosse una spia. Sia come sia, Saint-Germain, nonostante la miseria che lo circondava, aveva un aspetto molto dignitoso ed era molto affabile quando si trovava
in società. Ancora oggi la nonna conserva un ottimo ricordo di lui e si arrabbia se qualcuno ne parla in maniera poco rispettosa. Nonna sapeva che Saint-Germain aveva molto denaro a disposizione, e decise di rivolgersi a lui, così gli scrisse un biglietto chiedendogli di venire da lei immediatamente. L'eccentrico vecchietto venne subito, e la trovò in uno stato di grande agitazione. Lei gli descrisse a fosche tinte l'inumano comportamento di suo marito, e concluse dichiarando di confidare pienamente nella sua amicizia e nella sua gentilezza. Saint-Germain rifletté. "Potrei facilmente darvi la somma che volete", disse, "ma so bene che non sareste tranquilla finché non mi avreste ripagato, e io non voglio causarvi altri guai. Vi è un'altra via di uscita." "Ma caro Conte", rispose la nonna, "io non ho un soldo." "Non importa", rispose Saint-Germain. "Ascoltate ora quello che vi dirò." E fu così che lui le rivelò il segreto per il quale molti di noi pagherebbero una fortuna...» I giovani giocatori ascoltarono con attenzione ancor maggiore. Tomsky accese la pipa, tirò qualche boccata, e continuò: «Quello stesso pomeriggio nonna si recò a Versailles, per giocare al jeu de la reine. Il Duca di Orleans teneva il banco. La nonna si scusò con tono sereno per non aver portato il denaro per pagare il suo debito, inventando una storiella che servisse da spiegazione, e cominciò a giocare contro di lui. Scelse tre carte e le giocò una dopo l'altra: tutte e tre si rivelarono vincenti, e la nonna si rifece completamente della perdita subita». «È stata solo fortuna!», disse un tale. «Una favola!», commentò Hermann. «Forse le carte erano segnate», disse un terzo giocatore. «Non credo», rispose Tomsky, con aria decisa. «Cosa volete dire?», s'interpose Narumov. «Mi vorreste far credere che avete una nonna che sa come trovare tre carte successive vincenti e che non avete ancora appreso il suo segreto?» «È questa la cosa più sorprendente!», rispose Tomsky. «Lei ha avuto quattro figli, uno dei quali era mio padre. Tutti e quattro erano giocatori impenitenti, eppure lei non rivelò a nessuno di loro il suo segreto, benché non sarebbe stata una cattiva cosa, anche per me. Ma state a sentire quel che diceva mio zio, il Conte Ivan Ilych, che mi diede la sua parola d'onore. Tchaplitsky - lo conoscete: è morto in povertà dopo aver dissipato milioni di rubli - era un giovane che una volta perse trecentomila rubli al gio-
co contro Zorich, se ricordo bene. Era disperato. La nonna era sempre molto severa nei confronti degli stravizi dei giovanotti, ma per qualche motivo prese a cuore il caso di Tchaplitsky. Gli diede tre carte, ordinandogli di giocarle una dopo l'altra, ma allo stesso tempo gli fece promettere che non avrebbe mai più toccato una carta per tutta la vita. Tchaplitsky andò da Zorich, e si sedette a giocare. Tchaplitsky puntò cinquantamila rubli sulla prima carta e vinse. Raddoppiò la posta e vinse. Ripeté la puntata e si rifece della perdita ritrovandosi addirittura ricco... Ma, dico io, è proprio ora di andare a dormire: sono già le sei meno un quarto!» Infatti sorgeva l'alba. I giovani vuotarono i loro bicchieri e andarono a casa. 2. La vecchia Contessa X era seduta di fronte allo specchio nella sua camera. Era attorniata da tre cameriere. Una teneva un barattolo di fard, un'altra aveva una scatola di fermagli per i capelli, e la terza aveva un alto cappello pieno di nastri color fiamma. La Contessa non aveva alcuna pretesa di aspirare alla bellezza - ormai svanita da tempo - ma aveva conservato le abitudini della giovinezza, e seguiva con rigore la moda degli anni Settanta del secolo, e alla sua toilette dedicava la stessa cura e lo stesso tempo che era solita dedicarle sessant'anni prima. La giovane che aveva allevato era seduta a ricamare vicino alla finestra. «Buon giorno, nonna!», disse il giovane ufficiale, entrando nella stanza. «Buon giorno, signorina Lisa. Nonna, ho un favore da chiederti.» «Di cosa si tratta, Paolo?» «Voglio che mi permetti di presentarti un mio amico, e di portarlo al tuo ballo di venerdì.» «Portalo al ballo direttamente, e me lo presenterai lì. Hai trascorso tutta la sera dalla Principessa ieri?» «Naturalmente! È stata una serata molto piacevole: abbiamo ballato fino alle cinque di mattina. Mademoiselle Yeletsky è affascinante questa mattina!» «Suvvia caro! Cos'ha di affascinante? Non ha nulla che le permetta di confrontarsi con sua nonna, la Principessa Daria Petrovna. A proposito, immagino che la Principessa Daria Petrovna dev'essere molto invecchiata, vero?»
«Cosa intendi per "invecchiata"?», rispose con aria assente Tomsky. «È morta da almeno sette anni.» La ragazza alla finestra sollevò lo sguardo e fece un segno al giovane. Lui si ricordò del fatto che ormai tutti avevano preso a nascondere alla vecchia Contessa la dipartita dei suoi coetanei, e si morse il labbro. Ma la Contessa apprese la notizia con grande indifferenza. «È morta! Non lo sapevo», disse. «Siamo state Damigelle d'Onore assieme, e mentre ci presentavano all'Imperatrice...» E per la centesima volta la Contessa raccontò la storia al nipote. «Ebbene, Paolo», disse infine, «aiutami ad alzarmi. Lisa: dov'è la mia scatola di tabacco da fiuto?» E la Contessa andò dietro un paravento per finire di vestirsi. Tomsky rimase solo con la giovane donna. «Chi vuoi presentare?», chiese piano Lizaveta Ivanovna. «Narumov. Lo conosci?» «No. È un ufficiale?» «Sì.» «È nel Genio?» «No, nella Guardia a Cavallo. Perché mai hai pensato che fosse nel Genio?» La ragazza rise, ma non rispose. «Paolo!», lo chiamò la Contessa da dietro il paravento. «Mandami un nuovo romanzo da leggere, ma per favore non uno di quelli moderni.» «Cosa vuoi dire, nonna?» «Voglio un libro nel quale l'eroe non strangola il padre né la madre, e nel quale non appaiano cadaveri affogati. Mi fanno orrore gli affogati.» «Non ci sono più romanzi così, oggigiorno. Non ti piacerebbe un romanzo russo?» «Esistono romanzi russi?... Mandami qualcosa, caro, mandami qualsiasi cosa!» «Scusami, nonna: devo scappare... Addio, Lizaveta Ivanovna! Mi chiedo: come mai hai creduto che Narumov potesse essere nel Genio?» Tomsky lasciò la stanza, e Lizaveta Ivanovna rimase sola. Lasciò cadere il lavoro di ricamo e prese a guardare fuori dalla finestra. Ben presto dall'angolo della casa, sul lato opposto della strada, apparve un giovane ufficiale. Le guance della giovane arrossirono; riprese il suo lavoro, chinando la testa sul drappo ricamato. In quel momento entrò la Contessa, che aveva appena terminato la sua vestizione.
«Ordina la carrozza, Lisa», disse, «e andiamo a passeggio.» Lizaveta Ivanovna lasciò il ricamo e cominciò a mettere via il suo lavoro. «Cos'hai, figliola, sei diventata sorda?», le disse la Contessa. «Presto: ordina la carrozza.» «Vado subito», rispose lestamente la ragazza, e corse verso l'anticamera. Un domestico entrò e diede alla Contessa un pacchetto di libri da parte del Principe Paolo Alexandrovich. «Bene! Ringrazialo tanto da parte mia», disse la Contessa. «Lise, Lise, dove vai ora?» «Vado a vestirmi.» «Abbiamo molto tempo, mia cara. Siediti ora. Apri il primo volume e leggi ad alta voce.» La ragazza prese il libro e lesse le prime righe. «Più forte!», disse la Contessa. «Cosa ti succede, mia cara? Hai perso la voce, forse? Aspetta un momento... Dammi quello sgabello. Vieni un po' più vicino. Così va bene!» Lizaveta Ivanovna lesse altre due pagine. La Contessa sbadigliò. «Butta via quel libro», disse. «Che sciocchezze! Rimandalo al Principe Paolo con i miei ringraziamenti... È pronta la carrozza?» «La carrozza è pronta», disse Lizaveta Ivanovna, gettando uno sguardo in strada. «Come mai non sei vestita?», chiese la Contessa. «Ti fai sempre aspettare. È una cosa veramente intollerabile!» Liza corse verso la sua stanza. Erano trascorsi appena due minuti, quando la Contessa cominciò a suonare il campanello con tutte le sue forze. Tre cameriere entrarono frettolosamente da una porta mentre il maggiordomo entrava dall'altra. «Perché non rispondete quando vi chiamo?», disse loro la Contessa. «Dite a Lizaveta Ivanovna che la sto aspettando.» Lizaveta Ivanovna ritornò. Indossava il cappello e la pelliccia. «Finalmente, mia cara!», disse la Contessa. «Cos'è tutto questo lusso? Come mai?... A beneficio di chi?... E che tempo fa? C'è molto vento, vero?» «No, Eccellenza», rispose il maggiordomo. «Non c'è vento oggi.» «Dici sempre la prima cosa che ti viene in mente! Apri la finestra. Proprio come pensavo: c'è vento, e fa anche freddo. Disdici la carrozza. Lise, ragazza mia, non usciremo: non c'era bisogno che ti vestissi, dopotutto.»
«Questa è la storia della mia vita!», pensò tra sé Lizaveta Ivanovna. Infatti, Lizaveta Ivanovna era molto sfortunata. «...Come è duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale», dice Dante; nessuno poteva conoscere meglio l'amaro sapore della dipendenza di una povera orfana come lei, allevata da una vecchia signora della buona società. La Contessa non era cattiva, ma era capricciosa quanto le donne viziate dalla società in cui vivevano. Era avara e fredda, egoista, come le persone anziane che non hanno più amore e vivono senza contatti con la vita che le circonda. Prendeva parte a tutte le manifestazioni di vanità del mondo alla moda, e si trascinava ai balli, per poi sedere in un angolo, truccata e vestita secondo una moda passata da molto tempo, come un bizzarro e tuttavia indispensabile ornamento della sala. Al loro arrivo gli ospiti andavano da lei, la salutavano con profondi inchini, come per osservare un antico rito, ma poi nessuno le prestava più attenzione. Lei riceveva tutta la città in casa sua, osservando rigidamente il protocollo, e senza riconoscere i volti degli invitati. I suoi numerosi domestici erano diventati grassi ed erano ingrigiti nel suo vestibolo e negli appartamenti della servitù. Facevano quel che volevano e rivaleggiavano fra loro nel sottrarre quel che potevano alla vecchia, decrepita nobildonna. Lizaveta Ivanovna era la martire della casa. Serviva il tè e veniva rimproverata per aver usato troppo zucchero. Leggeva ad alta voce per la Contessa e veniva incolpata degli errori dell'autore. La accompagnava durante le sue passeggiate in carrozza, e veniva considerata responsabile per la situazione del tempo e per la percorribilità delle strade. In teoria avrebbe dovuto ricevere un salario, che però non le veniva mai del tutto corrisposto, ma allo stesso tempo la Contessa si aspettava che fosse ben vestita quanto tutti gli altri... ossia molto pochi. In società aveva un ruolo veramente triste. Tutti la conoscevano e nessuno si curava di lei. Ai balli veniva invitata a danzare solo se qualcuno era rimasto senza dama, e le signore la prendevano a braccetto ogni volta che desideravano andare al guardaroba per rassettare qualche dettaglio della loro toilette. Era una giovane donna molto sensibile e sentiva fortemente la propria difficile posizione. Si guardava attorno con impazienza, attendendo il suo liberatore. Ma i giovanotti, nella loro frivola superficialità, le prestavano pochissima attenzione, nonostante il fatto che Lizaveta Ivanovna fosse cento volte più affascinante delle fredde ereditiere dal volto inespressivo che essi rincorrevano. Molte volte si allontanava di soppiatto dalle noiose sale sovraccariche
per andare a piangere nel suo piccolo attico con il paravento di carta, il mobile a cassetti, il piccolo specchio e la testiera dipinta, illuminata dalla candela di sego che brillava fioca sul candeliere di ottone. Una mattina, due giorni dopo la serata delle carte descritta all'inizio di questa storia e una settimana prima della scena alla quale abbiamo appena assistito, Lizaveta Ivanovna, seduta al suo ricamo accanto alla finestra, guardò per caso giù in strada e vide un giovane ufficiale del Genio fermo impalato a guardare la sua finestra. Lei abbassò lo sguardo e riprese il suo lavoro. Cinque minuti dopo lanciò di nuovo uno sguardo fuori... e vide l'ufficiale ancora fermo nello stesso punto. Non avendo l'abitudine di civettare con gli ufficiali di passaggio, non guardò più fuori, e riprese il suo lavoro d'ago e filo, continuando così per circa un paio d'ore senza sollevare mai lo sguardo. Fu annunciato che il pranzo era pronto. Si alzò per riporre il suo lavoro e, lanciando per caso uno sguardo in strada, rivide l'ufficiale. Questa era una cosa piuttosto strana. Dopo pranzo tornò alla finestra con un certo senso d'inquietudine, ma l'ufficiale non c'era più, e lei si dimenticò di lui... Un paio di giorni più tardi, proprio mentre si apprestava a salire in carrozza con la Contessa, lo rivide. Era fermo davanti alla porta, e aveva il volto nascosto dal bavero rialzato. I suoi occhi scuri brillavano sotto il cappello di pelliccia. Lizaveta Ivanovna si spaventò un poco, senza sapere esattamente perché, e si sedette nella carrozza sentendosi stranamente agitata. Quando rincasarono, corse alla finestra: l'ufficiale era fermo al solito posto, e la fissava. La giovane si ritrasse, piena di curiosità, ed eccitata da un sentimento che le era del tutto nuovo. Da allora non era passato un solo giorno senza che il giovane apparisse a una certa ora sotto le finestre della loro casa, e tra lui e lei si stabilì una sorta di silenziosa familiarità. Seduta al suo lavoro, lei percepiva il suo arrivo e, sollevando il capo, lo guardava sempre più a lungo ogni giorno che passava. Il giovane sembrava esserle grato di questo. Con la vista acuta della giovinezza, lei percepì il rossore sulle guance pallide di lui ogniqualvolta i loro occhi si incrociavano. Dopo una settimana, lei gli aveva già concesso un sorriso... Quando Tomsky chiese alla Contessa il permesso di presentarle un suo amico, il cuore della giovane aveva cominciato a battere all'impazzata. Ma, sentendo che Narumov apparteneva alla Guardia a Cavallo, e non al Genio, rimpianse di aver rivolto delle domande indiscrete, che avevano tradito il
suo segreto all'irresponsabile Paolo Tomsky. Hermann era il figlio di un tedesco che si era stabilito in Russia e che gli aveva lasciato un piccolo capitale. Essendo fermamente convinto che fosse essenziale guadagnarsi un certo livello di indipendenza, Hermann non aveva toccato nemmeno gli interessi relativi a quell'eredità, e viveva grazie alla sua paga, negandosi anche la più piccola stravaganza. Aveva un carattere riservato ed ambizioso, e solo raramente i suoi compagni riuscivano a canzonarlo per la sua estrema parsimonia. Era animato da forti passioni e da un'ardente immaginazione, ma il suo carattere forte lo metteva al riparo dagli errori tipici della giovinezza. Ad esempio, benché nel cuore fosse un giocatore nato, non aveva mai giocato a carte, poiché aveva deciso che queste non lo avrebbero potuto aiutare (come diceva lui) «a rischiare il necessario con la speranza di acquisire il superfluo». Eppure passava le notti al tavolo da gioco, osservando con ansia febbrile le vicissitudini della fortuna. La storia delle tre carte aveva esercitato su di lui una forte impressione, finendo per ossessionarlo specialmente di notte. «Supponiamo», pensò tra sé e sé la sera seguente mentre vagava per Pietroburgo, «supponiamo che la vecchia Contessa mi riveli il suo segreto? O mi riveli quali sono queste tre carte vincenti! Perché non dovrei tentare la fortuna?... Potrei farmi presentare a lei, entrare nelle sue grazie... diventare forse il suo amante. Ma questo richiederebbe del tempo, e lei ha già ottantasette anni. Potrebbe morire la prossima settimana, o dopodomani, addirittura!... E la storia in sé? È possibile che sia vera? No, l'economia, la moderazione e il duro lavoro, sono le mie tre carte vincenti. Con quelle posso triplicare il mio capitale: aumentarlo di sette volte e ottenere la mia ricchezza e l'indipendenza!» Rimuginando questi pensieri, si trovò d'un tratto in una delle strade principali di Pietroburgo, di fronte a una casa dall'aspetto antico. Lungo la strada erano allineate le carrozze che si susseguivano fino a un portico illuminato. Da una delle carrozze sporgeva il piedino aggraziato di una giovane bellezza, oppure uno stivale militare con gli speroni tintinnanti oppure le calze a strisce e le calzature con le fibbie di qualche alto diplomatico. Le pellicce e i mantelli passavano in rapida processione davanti al maggiordomo dall'aria regale. Hermann si arrestò. «A chi appartiene questa casa?», chiese al guardiano che sostava nella garitta all'angolo. «Alla Contessa X», rispose l'uomo. Si trattava proprio della nonna di
Tomsky. Hermann trasalì. Gli tornò in mente la strana storia delle tre carte. Prese a camminare in su e in giù davanti alla casa pensando alla proprietaria e al suo meraviglioso segreto. Era tardi quando finalmente tornò al suo umile alloggio. Non riuscì a prendere sonno per molto tempo e, quando finalmente il sonno arrivò, sognò le carte, il tavolo ricoperto di panno verde, i mucchi di biglietti di banca e i cumuli d'oro. Giocava carta dopo carta, piegando in giù gli angoli delle carte, vincendo sempre. Accumulava l'oro e si riempiva le tasche di biglietti di banca. Quando si svegliò a mattino inoltrato, sospirò al pensiero di aver perso quel tesoro, poi, uscendo di nuovo per vagare per la città, si ritrovò di nuovo di fronte alla casa della Contessa. Una forza soprannaturale lo attirava. Si fermò per guardare in alto verso le finestre. A una delle finestre vide una testa scura china su di un libro, o intenta al cucito. La testa si levò. Hermann vide per un attimo un volto roseo e due occhi neri. Quel momento decise il suo destino. 3. Lizaveta Ivanovna si era appena tolto il cappello e il mantello, quando la Contessa la mandò di nuovo a chiamare, e ordinò nuovamente la carrozza. Uscirono per prendere posto nel veicolo. Proprio mentre i due maggiordomi erano occupati a sollevare la vecchia signora per aiutarla ad entrare nella carrozza, Lizaveta Ivanovna vide il suo ufficiale del Genio che sostava proprio accanto alla ruota. Lui le afferrò una mano. La giovane non ebbe il tempo di riprendersi, che il giovane era già sparito, lasciandole una lettera fra le mani. Lei la nascose nel guanto, e per il resto della passeggiata non vide né sentì più nulla. La Contessa aveva di solito l'abitudine di rivolgerle ininterrottamente delle domande: «Chi era la persona che abbiamo incontrato?». «Come si chiama questo fiume?» «Cosa dice quel segnale stradale?» Questa volta Lizaveta Ivanovna le diede risposte tanto casuali e irrilevanti che la Contessa si irritò con lei. «Cosa ti prende, mia cara? Hai per caso perso la ragione? Non hai sentito o non capisci quel che ti dico?... Parlo abbastanza chiaramente, grazie al cielo, e non sono ancora affetta dalla senilità!»
Lizaveta Ivanovna non le prestò attenzione. Quando tornarono a casa, corse in camera sua e sfilò la lettera dal guanto: si accorse che non portava alcun sigillo. La lesse. La lettera conteneva una dichiarazione d'amore: le parole erano tenere e rispettose, ed erano state copiate parola per parola da un romanzo tedesco. Ma Lizaveta Ivanovna non sapeva il tedesco e ne fu deliziata. Nonostante ciò, la lettera la preoccupò molto. Per la prima volta in vita sua stava per intraprendere una relazione segreta e intima con un uomo. La sua audacia l'atterriva. Si rimproverò per il suo comportamento imprudente, e non sapeva cosa fare: non doveva più sedersi accanto alla finestra, e mettere fine al corteggiamento del giovane mostrandosi indifferente? Poteva restituirgli la lettera? O doveva rispondere con freddezza e fermezza? Non vi era nessuno a cui potesse rivolgersi per chiedere consiglio: non aveva un'amica né una tutrice. Lizaveta Ivanovna decise di rispondere alla lettera. Si sedette al suo piccolo scrittoio, prese la penna e il calamaio... e cominciò a pensare. Iniziò diverse volte e poi strappò in due il foglio di carta: quel che aveva scritto le pareva di volta in volta troppo indulgente o troppo duro. Finalmente riuscì a comporre alcune righe e si sentì soddisfatta. «Sono sicura», scrisse, «che le vostre intenzioni sono oneste e che non avevate alcuna intenzione di nuocermi con un comportamento sconsiderato. Ma la nostra conoscenza non avrebbe dovuto iniziare in questo modo. Vi restituisco la vostra lettera, e spero che in futuro non avrò alcun motivo di lamentarmi di una mancanza di rispetto che è del tutto immeritata.» Il giorno seguente, non appena vide Hermann avvicinarsi, Lizaveta Ivanovna si alzò e lasciò il suo ricamo, poi si recò nel salone e aprì la piccola finestra di ventilazione, gettando la lettera in strada, fidando nella prontezza del giovane ufficiale. Hermann corse avanti, prese la lettera da terra, ed entrò in un negozio di confetture. Era successo proprio come si aspettava, e così tornò verso casa assorto nel suo piano. Tre giorni dopo questo episodio, una giovane dall'aria sveglia portò a Lizaveta Ivanovna un biglietto dal negozio di cappelli. Lizaveta Ivanovna l'aprì con una certa trepidazione, temendo che si trattasse di una richiesta di soldi, ma all'improvviso riconobbe la calligrafia di Hermann. «Avete sbagliato, mia cara», disse. «Questo biglietto non è per me.» «Sì, invece, è proprio per voi!», ribatté audacemente la giovane, senza prendersi la briga di nascondere il suo sorriso sornione. «Leggetelo, per
favore.» Lizaveta Ivanovna diede uno sguardo alla lettera. Vi era scritto che Hermann desiderava un incontro con lei. «È impossibile!», gridò, allarmata dalla sua richiesta, dal fatto che era giunta tanto presto e dal mezzo che lui aveva usato per trasmetterla. «Sono sicura che questa lettera non era affatto indirizzata a me.» E, così dicendo, stracciò la lettera. «Se la lettera non era per voi, perché l'avete stracciata?», domandò la ragazza. «L'avrei riportata al mittente.» «Siate buona, mia cara», disse Lizaveta Ivanovna, che era arrossita violentemente sentendo le sue parole. «Non mi portate altre lettere. E dite alla persona che vi ha mandato che dovrebbe vergognarsi...» Ma Hermann non si diede per vinto. Ogni giorno, con stratagemmi sempre diversi, Lizaveta Ivanovna riceveva una sua lettera. Non erano più traduzioni dal tedesco. Hermann ormai le componeva ispirato dalla sua passione, facendo uso del suo stile personale: le sue parole riflettevano il suo inesorabile desiderio e il subbuglio che regnava nella sua sfrenata immaginazione. Lizaveta Ivanovna non si preoccupava più di restituirle: ormai le leggeva avidamente e prese a rispondere: e i biglietti che mandava divennero di ora in ora più lunghi e affettuosi. Finalmente, un giorno lanciò in strada questa lettera: Questa sera all'ambasciata si terrà un piccolo ballo. La Contessa sarà presente. Staremo lì fino alle due. Avrete quindi la possibilità di incontrarmi da sola. Non appena la Contessa uscirà, i domestici andranno nei loro appartamenti, lasciando solo il portiere nel salone, ma lui tornerà alla foresteria. Venite alle undici e mezza, e salite subito le scale. Se incontrate qualcuno nel vestibolo, domandate se la Contessa è in casa. Se vi diranno di no, non ci sarà più niente da fare: dovrete andarvene. Ma probabilmente non incontrerete nessuno. Le domestiche passano la serata tutte assieme in una sala. Svoltate a sinistra uscendo dal vestibolo e andate diritto finché non giungerete alla stanza da letto della Contessa. Lì troverete due porticine: quella a destra è quella dello studio, dove la Contessa non mette mai piede; quella a sinistra porta a un corridoio con una scala a chiocciola che conduce alla mia stanza.
Hermann attese l'ora convenuta come una tigre bramosa della preda. Alle dieci era già di fronte alla casa della Contessa. Era una notte terribile. Il vento fischiava, e la neve gelata cadeva a grossi fiocchi. I lampioni stradali bruciavano fiocamente: le strade erano deserte. Di tanto in tanto passava una slitta trainata da un misero ronzino, guidata da un conducente in cerca di qualche passeggero ritardatario. Hermann era fermo in strada senza cappotto, ma non avvertiva né il vento né la pioggia. Finalmente la carrozza della Contessa venne portata dinanzi al portone. Hermann vide i due maggiordomi sollevare la vecchia signora infagottata nelle sue pellicce, ed essa entrò nella carrozza. Poi, per un breve istante, vide Liza, che indossava un mantello leggero e portava dei fiori nei capelli. Le porte della carrozza si chiusero quindi di scatto, e il veicolo si mosse pesantemente sulla neve bagnata. Il portiere chiuse il portone, e le luci alle finestre si spensero una ad una. Hermann cominciò a camminare avanti ed indietro davanti alla casa deserta. Si avvicinò a un lampione, e diede un'occhiata all'orologio. Rimase immobile accanto al lampione, gli occhi fissi sulle lancette dell'orologio. Alle undici e mezza precise, Hermann salì le scale ed entrò nell'ingresso, ancora illuminato a giorno. Il portiere non c'era. Hermann salì di corsa lo scalone, spalancò la porta del vestibolo e vide un maggiordomo addormentato su una poltrona logora e fuori moda, accanto a una lampada. Gli passò velocemente accanto con passo leggero e fermo. La sala da ballo e il salone erano immersi nell'oscurità, ma la lampada accesa nel vestibolo riusciva a gettarvi qualche debole barlume di luce. Hermann entrò nella stanza da letto. L'altare era pieno di antiche icone ed era illuminato da una lampada dorata. Le poltrone erano ricoperte di damasco scolorito e i sofà erano pieni di cuscini di piume d'oca, ornati di orpelli che avevano perso la loro doratura. Tutti i mobili erano stati ordinati con deprimente simmetria attorno alle pareti, ricoperte di carta da parati di stile cinese. Su una delle pareti c'erano due ritratti dipinti a Parigi da Madame Lebrun: il primo rappresentava un uomo dall'aspetto rubizzo di circa quarant'anni, che indossava una uniforme verde acqua con una stella sul petto. L'altro era una bellissima giovane dal naso aquilino che indossava una rosa tra i capelli impomatati e pettinati all'indietro a scoprire le tempie. In ogni angolo della stanza si vedevano pastorelle di porcellana, orologi del celebre Leroy, scatoline, roulettes, ventagli e centinaia di quelle distrazioni inventate per le signore alla moda alla fine del secolo scorso, assieme al pallone di Montgolfier e al magnetismo di Mesmer.
Hermann passò oltre il paravento e trovò una piccola testiera di ferro. Sulla destra vi era la porta dello studio e, a sinistra, la porta che dava sul corridoio. La spalancò e vide la piccola scala a chiocciola che portava alla stanzetta della povera Liza. Ma a quel punto si voltò ed entrò nello studio buio. Il tempo passò lentamente. Era tutto molto tranquillo. L'orologio del salone batté le dodici: uno dopo l'altro, tutti gli altri orologi annunciarono la mezzanotte, poi tutto tacque. Hermann stava fermo accanto alla stufa spenta. Era calmo. Il suo cuore batteva regolarmente, come quello di un uomo deciso a correre un rischio pericoloso, ma inevitabile. Gli orologi batterono l'una e poi le due, ed egli udì il lontano fragore di una carrozza. Suo malgrado venne preso dall'agitazione. La carrozza si avvicinò alla casa e si fermò. Udì il rumore della scaletta che veniva abbassata e la casa si riempì di confusione. I servi correvano avanti e indietro, poi si udì un brusio di voci e apparvero luci ovunque. Tre vecchie domestiche entrarono frettolosamente nella stanza da letto, seguite dalla Contessa che, mezza morta dalla fatica, si lasciò cadere su una poltrona stile Voltaire. Hermann osservò la scena attraverso una fessura nella porta. Lizaveta Ivanovna gli passò vicino ed egli udì i suoi passi risuonare mentre la ragazza correva su per le scale verso la sua stanza. Per un attimo qualcosa di simile al rimorso lo assalì, ma lui rapidamente indurì il suo cuore contro quel sentimento. La Contessa cominciò a spogliarsi di fronte allo specchio. Le sue domestiche le tolsero il cappellino ornato di rose e sollevarono la parrucca impomatata dalla testa grigia e rasata. Una pioggia di forcine le cadde attorno. L'abito giallo dalle guarnizioni argentate le cadde rigonfio ai piedi. Hermann assistette ai ripugnanti misteri della sua toilette. Finalmente la Contessa indossò una vestaglia da notte e la cuffietta e così, in un abbigliamento più consono alla sua età, gli parve meno orribile e ripugnante. La Contessa, come la maggior parte delle persone anziane, soffriva d'insonnia. Una volta spogliata, si sedette su una grande poltrona accanto alla finestra e mandò via le domestiche. Esse portarono via le candele, lasciando solo la lampada di fronte alle icone. La Contessa rimase lì, con la pelle giallognola per l'età, le grosse labbra che si muovevano febbrilmente, mentre il suo corpo ondeggiava avanti e indietro. I suoi occhi erano del tutto vuoti d'espressione e, guardandola, si sarebbe potuto immaginare che il movimento della vegliarda fosse dovuto non a un moto volontario, quanto a un segreto meccanismo di galvanizzazione.
Improvvisamente sul suo volto avvenne una trasfigurazione inspiegabile. Le labbra cessarono il loro movimento e gli occhi le brillarono: di fronte alla Contessa era apparso un giovane sconosciuto. «Non vi allarmate, per carità, non vi allarmate!», disse questi con voce chiara e bassa. «Non ho intenzione di farvi alcun male: sono solo venuto per un favore.» La vecchia rimase ad osservarlo in silenzio, come se non avesse udito. Hermann pensò che doveva essere sorda e si chinò per ripeterle nell'orecchio quello che le aveva appena detto. La vecchia rimase in silenzio. «Voi potete assicurarmi la felicità per tutta la vita», continuò Hermann, «senza che questo vi costi nulla. So che sapete scegliere tre carte successive...» Hermann si fermò. La Contessa sembrava aver compreso quel che lui desiderava da lei e cercava le parole per esprimere una risposta. «Era uno scherzo», disse finalmente. «Le giuro che era uno scherzo.» «No, madame», ribatté Hermann irato. «Ricordate Tschaplitsky, e come gli avete permesso di riacquistare quanto aveva perso.» La Contessa appariva evidentemente turbata. Sul viso le si leggeva una profonda agitazione. Ma ben presto ricadde nello stato abulico precedente. «Non potete dirmi nulla circa quelle tre carte vincenti?», aggiunse Hermann. La Contessa non disse nulla. Hermann riprese: «Per chi avete tenuto il segreto? Per i vostri nipoti? Sono già abbastanza ricchi: non apprezzano il valore del denaro. Le vostre tre carte non aiuterebbero uno spendaccione. Un uomo che non sa prendersi cura dell'eredità che ha ricevuto morirà in miseria anche se tenesse in suo potere tutti i demoni della Terra. Io non sono uno spendaccione. Conosco il valore dei soldi. Le vostre tre carte non sarebbero sprecate nel mio caso. Allora?». Rimase in silenzio, aspettando con febbrile impazienza la risposta di lei. La donna non aprì bocca. Hermann cadde in ginocchio dinanzi alla vecchia. «Se il vostro cuore ha mai conosciuto il sentimento dell'amore, se ricordate l'estasi della passione, se mai avete sorriso con tenerezza sentendo i vagiti del vostro figlio appena nato, se un sentimento umano vi ha mai turbato l'animo, mi appello a voi come moglie, come donna amata, come madre... vi imploro in nome di tutto ciò che è sacro in questa vita, di non rifiutare questa mia preghiera. Ditemi il vostro segreto. A cosa vi serve ormai? È forse associato a qualche terribile peccato, alla perdita sella salvez-
za eterna, a qualche patto col Demonio... Riflettete: siete ormai vecchia. Non avete molto tempo da vivere, ed io sono pronto a prendere su di me il vostro peccato. Solo, vi prego di dirmi il vostro segreto. Ricordate solo che la felicità di un uomo è nelle vostre mani, e che non solo io, ma i miei figli e i figli dei miei figli benediranno la vostra memoria e la custodiranno con venerazione...» La vecchia signora non disse una parola. Hermann si alzò in piedi. «Vecchia megera!», disse digrignando i denti. «Allora ti farò parlare io...» Con queste parole si tolse dalla tasca una pistola. Alla vista dell'arma, il viso della Contessa tradì nuovamente la stessa agitazione di poco prima. Scosse la testa e sollevò una mano come per proteggersi dallo sparo... Poi ricadde improvvisamente... e rimase immobile. «Allora, basta con queste sciocchezze infantili!», disse Hermann, afferrandola per un braccio. «Ve lo chiedo per l'ultima volta: mi rivelerete quelle tre carte? Sì o no?» La Contessa non rispose. Hermann si accorse che era morta. 4. Lizaveta Ivanovna era seduta in camera sua, e indossava ancora l'abito da ballo: era immersa nei suoi pensieri. Tornata a casa, si era liberata frettolosamente della domestica assonnata che di malavoglia si era offerta di aiutarla, dicendo che si sarebbe spogliata da sola, e con il cuore in tumulto era salita fino alla sua stanza, aspettandosi si trovare Hermann e sperando che non sarebbe stato così. Uno sguardo solo la convinse che non c'era, e ringraziò la sua buona stella per aver impedito quell'incontro. Si sedette senza svestirsi e cominciò a ricordare le circostanze che l'avevano portata tanto lontana in così poco tempo. Non erano trascorse nemmeno tre settimane da quando aveva visto per la prima volta quel giovane dalla sua finestra, eppure aveva cominciato ad intrattenere una relazione epistolare con lui, e lui era già riuscito a persuaderla a un incontro notturno! Lei conosceva il suo nome solo perché lui aveva firmato alcune sue lettere. Non gli aveva mai parlato, ma non conosceva il suono della sua voce, né lo aveva mai sentito nominare... fino a quella sera. Strano a dirsi, quella stessa sera al ballo, Tomsky, piccato per il fatto che le civetterie della Prin-
cipessa Paolina fossero indirizzate a un altro invece che a lui, aveva deciso di vendicarsi, dimostrando una grande indifferenza. Aveva chiesto a Lizaveta Ivanovna di ballare con lui, e avevano danzato insieme un'interminabile mazurka. Durante tutto quel tempo, l'aveva stuzzicata circa la sua preferenza per gli ufficiali del Genio, dicendole che lui sapeva molto di più di quel che lei potesse supporre, tanto che alcuni dei suoi strali colpirono il bersaglio, e diverse volte Lizaveta Ivanovna fu indotta a sospettare che conoscesse il suo segreto. «Chi vi ha raccontato tutto questo?», chiese lei ridendo. «Un amico di una persona che conosci», rispose Tomsky, «un uomo notevole.» «E chi è quest'uomo tanto notevole?» «Si chiama Hermann.» Lizaveta Ivanovna non disse nulla; ma sentì che le si gelavano le mani e i piedi. «Questo Hermann», riprese Tomsky, «è una figura veramente romantica; ha il profilo di un Napoleone e l'animo di un Mefistofele. Io credo che debba avere almeno tre crimini sulla coscienza. Che aspetto pallido che avete!» «Ho una terribile emicrania... Allora, cosa aveva questo tale - questo Hermann - da raccontarvi?» «Hermann è molto adirato con il suo amico: dice che al suo posto si comporterebbe in maniera molto diversa... In realtà sospetto che lui stesso abbia fatto dei progetti sul vostro conto; ad ogni modo, ascolta le esclamazioni estatiche del suo amico con sentimenti ben lontani dall'indifferenza.» «Ma dove mi avrebbe vista?» «Forse in chiesa, o mentre eravate fuori a passeggio... chi lo sa! Forse nella vostra stessa camera da letto, mentre dormivate, poiché non c'è nulla che egli non...» Tre signore si avvicinarono per invitare Tomsky a scegliere tra «oubli ou regret?», e interruppero la conversazione che era ormai divenuta di doloroso interesse per Lizaveta Ivanovna. La signora scelta da Tomsky era la Principessa Paolina in persona. Lei riuscì a riconciliarsi con lui approfittando di un altro giro di danza che i due eseguirono prima che lui la riaccompagnasse al suo posto. Quando lui ritornò a sedere, Hermann e Lizaveta Ivanovna erano ormai ben lontani dai suoi pensieri. Lizaveta Ivanovna desiderava molto riprendere la conversa-
zione interrotta, ma la mazurka terminò e, poco dopo, la Contessa si congedò. Le parole di Tomsky non erano state altro che un'inane conversazione da sala da ballo, ma impressionarono fortemente il cuore romantico della ragazza. Il ritratto abbozzato da Tomsky somigliava alla figura che lei stessa si era creata e, grazie ai romanzi del tempo, una simile figura era abbastanza comune: la impauriva e l'affascinava allo stesso tempo. Lizaveta rimase dunque con le braccia nude conserte, con la testa ancora adorna di fiori abbassata sul petto scoperto... Improvvisamente la porta si aprì ed entrò Hermann: la giovane rabbrividì. «Dove eravate?», bisbigliò spaventata. «Ero nella camera da letto della Contessa», rispose Hermann. «L'ho appena lasciata. La Contessa è morta.» «Santo cielo!... Cosa dite?» «E credo», aggiunse Hermann, «di essere io stesso la causa della sua morte.» Lizaveta osò lanciargli uno sguardo e le parole di Tomsky le echeggiarono nel profondo dell'animo: «...deve avere almeno tre crimini sulla coscienza». Hermann si sedette accanto a lei vicino alla finestra e le narrò l'accaduto. Lizaveta Ivanovna lo ascoltò sgomenta. Tutte quelle lettere appassionate, quelle suppliche ardenti, l'audace e impetuosa determinazione non erano state ispirate dall'amore! Denaro! Ecco cosa egli agognava più di ogni altra cosa! Non era certo lei che poteva soddisfare i suoi desideri e farlo felice! Povera ragazza, non era stata altro che il cieco strumento di un ladro, dell'assassino della sua anziana benefattrice! Pianse amaramente e invano, in preda all'agonia del pentimento. Hermann la guardava in silenzio: anche lui soffriva di un interno tormento. Ma, né le lacrime della povera ragazza né la sua indescrivibile bellezza, pur così triste, riuscirono a toccare il suo animo gelido. Non avvertì il pungolo della coscienza pensando alla donna anziana che giaceva morta. Una sola cosa lo riempiva di orrore: la perdita irreparabile del segreto che avrebbe potuto procuragli la ricchezza. «Siete un mostro!», disse finalmente Lizaveta Ivanovna. «Non volevo che morisse», rispose Hermann. «La pistola non era carica.» Tacquero entrambi. Venne l'alba. Lizaveta Ivanovna spense la candela che era ormai ridotta
al lumicino. Una pallida luce illuminava l'interno della stanza. Lei si asciugò gli occhi gonfi di pianto e sollevò lo sguardo verso Hermann. L'uomo era seduto sul davanzale con le braccia conserte, e le ciglia aggrottate minacciosamente. Il suo atteggiamento lo rendeva stranamente somigliante a un ritratto di Napoleone. Quella somiglianza colpì anche Lizaveta Ivanovna. «Come farò a farvi uscire di casa?», disse finalmente. «Avevo pensato di accompagnarvi lungo la scala segreta, ma così dovremo passare per la camera da letto, ed io ho troppa paura.» «Ditemi dov'è questa scala segreta: ci andrò da solo.» Lizaveta si alzò, prese una chiave da un cassetto e la diede a Hermann, dandogli precise istruzioni. Hermann strinse la mano fredda e immobile di lei, la baciò sulla fronte china e la lasciò. Si diresse lungo la scala a chiocciola ed entrò nuovamente nella stanza della Contessa. La defunta era seduta come se fosse diventata di pietra. Sul suo viso vi era un'espressione di profonda serenità. Hermann rimase di fronte a lei e la guardò a lungo, come per convincersi della terribile realtà che aveva di fronte, poi si diresse verso lo studio, cercò dietro la tappezzeria la porta segreta e cominciò a discendere la scala buia, in preda a strane emozioni. «Forse sessant'anni fa, a questa stessa ora», pensò, «qualche giovanotto felice - ormai divenuto polvere da lungo tempo - saliva furtivo lungo queste scale diretto a quella stessa camera, indossando una tunica ricamata, con i capelli acconciati à l'oiseau royal, e premendosi al petto il suo cappello a tre punte. Ed oggi il cuore della vecchia amante ha cessato di battere...» Alla fine delle scale Hermann vide una porta che aprì con la stessa chiave, poi si trovò nel passaggio che portava in strada. 5. Tre giorni dopo quella notte fatale, alle nove di mattina, Hermann si recò al Convento di..., per presentare l'estremo saluto ai resti mortali della Contessa defunta. Benché non avvertisse alcun rimorso, non poteva del tutto azzittire la voce della coscienza che continuava a ripetergli: «Tu sei l'assassino di quella vecchia!». Avendo pochissimo senso religioso, era molto superstizioso. Credendo che la Contessa defunta potesse esercitare un'influenza maligna sulla sua vita, decise di recarsi al suo funerale per implo-
rare e ottenere il suo perdono. La chiesa era gremita. Hermann si fece strada con difficoltà attraverso la folla. La bara era stata posta su un ricco catafalco sovrastato da un baldacchino di velluto. La defunta giaceva con le mani incrociate sul petto, indossava una cuffia di pizzo, e un abito di satin bianco. Attorno alla carrozza stavano i membri della servitù: i domestici indossavano abiti neri, decorati sulle spalle da fiocchi dorati che denotavano il nobile casato a cui appartenevano, mentre nelle mani tenevano delle candele accese. Vi erano i parenti in lutto stretto: i figli, i nipoti ed i pronipoti. Nessuno piangeva: le lacrime sarebbero parse un segno d'affettazione. La Contessa era così vecchia che la sua morte non aveva sorpreso nessuno, e la sua famiglia aveva cessato da lungo tempo di considerarla come un membro del mondo dei vivi. Un famoso predicatore era stato incaricato dell'orazione funebre: con frasi semplici e toccanti descrisse il sereno trapasso di quella santa donna la cui lunga vita era stata una quieta e toccante preparazione in vista di una morte cristiana. «L'angelo della morte», dichiarò, «l'ha trovata intenta a una vigile e devota meditazione, in attesa dell'arrivo dello sposo a mezzanotte.» Il servizio funebre terminò su una nota di dignitosa melanconia. Prima di tutto i parenti si appressarono per rendere l'estremo saluto al cadavere. Seguì poi una lunga processione di coloro che erano venuti a presentare il loro ultimo omaggio a colei che per tanti anni aveva partecipato ai loro frivoli divertimenti. Poi fu la volta dei domestici della casa della Contessa. L'ultima fu la governante, coetanea della defunta: due giovani ragazze la sorreggevano per le braccia. Non ebbe la forza di prostrarsi, e fu l'unica a versare qualche lacrima mentre baciava la gelida mano della sua padrona. Hermann decise di avvicinarsi dopo di lei alla bara. Si inginocchiò sulla pietra gelata cosparsa di rami di abete, e rimase così per alcuni minuti. Finalmente si rialzò in piedi, e, pallido quanto la defunta, salì le scale fino al catafalco e si chinò sul corpo... In quel momento gli parve che la morta gli lanciasse uno sguardo di scherno, strizzando l'occhio. Hermann si ritrasse, mise un piede in fallo e cadde pesantemente a terra. Lo aiutarono a rialzarsi. In quello stesso istante, Lizaveta Ivanovna fu portata fuori dalla chiesa in preda a uno svenimento. Questo incidente, per un momento disturbò la solennità del rito funebre. Nella folla dei fedeli serpeggiò un indistinto mormorio, e un uomo alto e magro vestito con l'uniforme di Ciambellano di Corte, un parente stretto della defunta, bisbigliò nell'orecchio di un in-
glese in piedi al suo fianco, che quel giovane ufficiale era il figlio naturale della Contessa. L'inglese accolse freddamente la notizia con un «Ah sì?». Per tutto il giorno Hermann rimase stranamente turbato. Avendo trovato una piccola taverna poco frequentata in cui desinare, bevve molto vino, contrariamente al solito, nella speranza di acquietare la sua agitazione interiore, ma il vino servì solo ad infervorare la sua immaginazione. Rincasando, si gettò sul letto senza spogliarsi, e piombò in un sonno profondo. Quando si svegliò era già notte fonda, e la luna brillava nella sua stanza. Diede uno sguardo all'orologio: erano le tre meno un quarto. Il sonno lo aveva ormai abbandonato del tutto. L'uomo si sedette sul letto, pensando al funerale dell'anziana Contessa. Proprio in quel momento qualcuno, fuori in strada, fece capolino dalla finestra per guardarlo, per poi riprendere immediatamente il cammino. Hermann non gli prestò attenzione. Dopo alcuni istanti però udì la porta del vestibolo che si apriva. Hermann pensò che fosse il suo attendente che ritornava - ubriaco come al solito - da qualche escursione notturna, ma ben presto udì il suono di un passo che non gli era familiare. Qualcuno avanzava piano con passi fruscianti, come di pianelle. La porta poi si aprì, e una donna in bianco entrò. Hermann la scambiò per la sua vecchia governante e si chiese cosa l'avesse spinta fin lì a quell'ora. Ma la donna in bianco scivolò attraverso la stanza e gli si parò di fronte: Hermann riconobbe la Contessa! «Sono venuta da voi contro la mia volontà», disse lei con voce ferma, «ma mi è stato ordinato di acconsentire alla vostra richiesta. Il tre, il sette e l'asso vinceranno se li giocherete l'uno di seguito all'altro, a condizione che non scommettiate su più di una carta ogni ventiquattr'ore e che promettiate di non giocare mai più per tutta la vita. Vi perdono per avermi uccisa, a condizione che sposiate la mia protetta, Lizaveta Ivanovna.» Con queste parole si voltò e, frusciando fino alla porta con le sue pianelle, svanì. Hermann udì lo scatto del portone d'ingresso e vide di nuovo qualcuno che lo osservava dalla finestra. Gli ci volle molto tempo prima che potesse riprendersi, e andare nella stanza accanto. Il suo attendente dormiva per terra: Hermann lo svegliò, non senza qualche difficoltà. Come al solito l'uomo era ubriaco: riusciva a pronunciare solo frasi sconnesse. Il portone che dava sulla strada era chiuso a chiave. Hermann tornò in camera sua e accese una candela, pronto a mettere per iscritto i dettagli dell'apparizione.
6. «Aspettate!» «Come osate dire: "Aspettate!" a me?» «Vostra Eccellenza, io ho detto: "Aspettate, Signore".» Due idee fisse non possono coesistere nella sfera morale più di quanto due corpi possano occupare uno stesso spazio nel mondo fisico. «Il tre, il sette, l'asso» ben presto scacciarono ogni pensiero riguardante la morta dalla mente infervorata di Hermann. «Tre, sette, asso» erano sempre presenti nella sua mente e sulle sue labbra. Se vedeva una giovane donna, diceva: «Quanto è graziosa! Sembra un vero e proprio tre di cuori!». Se gli si chiedeva l'ora rispondeva: «Cinque minuti alle sette». Gli uomini corpulenti gli ricordavano tutti l'asso. «Tre, sette, asso» ossessionavano i suoi sogni, assumendo mille strane forme. Il tre gli sbocciava davanti come un fiore lussureggiante, il sette gli si presentava come un portale gotico, gli assi si trasformavano in ragni giganteschi. La sua attenzione era tutta concentrata su un solo pensiero: come far uso di un segreto che gli era costato tanto caro. Cominciò a pensare di congedarsi per poter viaggiare all'estero. Sui tavoli da gioco di Parigi avrebbe costretto la fortuna a offrirgli il suo magico tesoro. Il caso tuttavia gli risparmiò questa incombenza. A Mosca esisteva un circolo di giocatori facoltosi, che era presieduto dal celebre Tchekalinsky, che passava la vita al tavolo da gioco e aveva ammassato milioni, accettando dei «pagherò» quando vinceva, e pagando in contanti i suoi debiti di gioco. La sua lunga esperienza ispirava fiducia nei suoi compagni di gioco, e la sua casa sempre aperta, il suo famoso cuoco e le sue maniere amichevoli e allegre, gli avevano guadagnato il rispetto di tutti. Era originario di Pietroburgo. I giovanotti della capitale sciamavano verso le sue stanze, trascurando i balli in favore delle carte, preferendo l'emozione delle scommesse alle seduzioni del corteggiamento. Fu Narumov a portare Hermann da lui. Attraversarono una serie di magnifiche stanze piene di domestici zelanti. Vi era una gran folla. Diversi Generali e Consiglieri di Stato giocavano a whist. Giovanotti intenti a fumare lunghe pipe erano mollemente adagiati sui sofà damascati. Nel salone, una ventina di giocatori si accalcavano attorno a un lungo tavolo, dove il padrone di casa teneva banco. Tchekalinsky era un uomo di circa sessant'anni, e aveva un aspetto molto dignitoso. I capelli inargentati e il viso pieno e florido, gli conferivano un aspetto
bonario, e i suoi occhi brillanti sorridevano sempre. Narumov gli presentò Hermann. Con una cordiale stretta di mano, Tchekalinsky gli disse di fare come a casa sua, e riprese a distribuire le carte. Il gioco continuò a lungo. Sul tavolo giacevano più di trenta carte. Tchekalinsky faceva una pausa ogni giro di carte per dare ai giocatori il tempo di ordinare le carte e di annotare le perdite, ascoltava cortesemente le loro osservazioni, e con cortesia ancor maggiore ripianava l'angolo di una carta che qualcuno aveva piegato inavvertitamente. Finalmente il gioco volse al termine. Tchekalinsky mischiò le carte e si preparò nuovamente a distribuirle. «Mi permettete di prendere una carta?», domandò Hermann, e stese la mano da dietro le spalle di un gentiluomo corpulento che stava giocando. Tchekalinsky sorrise e s'inchinò con grazia verso di lui, in silenzioso segno di consenso. Narumov si congratulò ridendo con lui per aver finalmente rotto la sua lunga astensione dalle carte e gli augurò un inizio fortunato. «Ecco!», disse Hermann, scrivendo alcune cifre sul retro della sua carta. «Quanto?», chiese il banchiere, aguzzando gli occhi. «Scusate, non riesco a vedere.» «Quarantasettemila», rispose Hermann. A quelle parole tutte le teste dei giocatori si girarono di scatto, e tutti fissarono Hermann. «È diventato pazzo!», pensò Narumov. «Mi permetta di farle notare», disse Tchekalinsky, sorridendo come sempre, «che lei sta giocando una posta piuttosto alta: nessuno qui ha mai scommesso più di duecentosettantacinque rubli alla volta.» «Ebbene?», ribatté Hermann. «Accettate la mia posta oppure no?» Tchekalinsky s'inchinò leggermente con lo stesso atteggiamento di umile acquiescenza. «Desideravo solamente farvi osservare che», disse, «essendo onorato dalla fiducia che i miei amici ripongono in me, posso solo giocare contro coloro che hanno contanti alla mano. Da parte mia, naturalmente sono completamente sicuro che la vostra parola costituisca garanzia sufficiente, ma per rispettare le regole del gioco e quelle dei conti vi devo chiedere di porre il danaro sulla vostra carta.» Hermann tirò fuori dalla tasca un biglietto di banca e lo porse a Tchekalinsky il quale, dopo aver dato un'occhiata veloce al biglietto, lo pose sulla carta di Hermann. Cominciò a distribuire le carte. A destra apparve un nove, ed a sinistra un tre.
«Ho vinto!», disse Hermann, indicando la sua carta. Si diffuse un mormorio sbalordito tra la folla. Tchekalinsky aggrottò le ciglia, ma subito sul suo volto riapparve un sorriso. «Volete riscuotere subito?», chiese a Hermann. «Se non vi dispiace.» Tchekalinsky prese dalla tasca un certo numero di biglietti di banca e pagò lì per lì. Hermann prese il denaro e lasciò il tavolo. Narumov non riusciva a credere ai suoi occhi. Hermann bevve un bicchiere di limonata e tornò a casa. La sera seguente tornò di nuovo da Tchekalinsky. Il padrone di casa teneva di nuovo banco. Hermann si diresse verso il tavolo. I giocatori gli fecero subito spazio. Tchekalinsky s'inchinò con grazia. Hermann attese la mano seguente, prese una carta e vi pose sopra i suoi primi quarantasettemila rubli assieme alla sua vincita del giorno prima. Tchekalinsky cominciò a distribuire le carte. A destra apparve un fante, e a sinistra un sette. Hermann mostrò il suo sette. Si levò un'ovazione. Tchekalinsky era evidentemente sconcertato. Contò novantaquattromila rubli e li diede ad Hermann, che li intascò con grande distacco, e si congedò immediatamente. La sera seguente Hermann riapparve nuovamente al tavolo da gioco. Tutti lo stavano aspettando. I Generali e i Consiglieri di Stato avevano lasciato il tavolo del whist per assistere a quella straordinaria partita. I giovani ufficiali si alzarono di scatto dai loro sofà e tutti i camerieri si diressero verso il salone. Tutti facevano ressa attorno a Hermann. Gli altri giocatori smisero di puntare, impazienti di vedere cosa sarebbe accaduto. Hermann era fermo accanto al tavolo, pronto a giocare solo contro Tchekalinsky, che era pallido, ma sorridente. Ognuno dei due aprì un mazzo fresco. Tchekalinsky mischiò le carte. Hermann pescò una carta e la coprì con una pila di banconote. Era come un duello. Nella stanza regnava un profondo silenzio. Tchekalinsky cominciò a dare le carte. Le mani gli tremavano. Una regina cadde sul mucchio di sinistra, e un asso a destra. «Asso vince!», disse Hermann, mostrando la carta. «La regina perde», disse piano Tchekalinsky. Hermann trasalì: infatti, di fronte a lui, invece di un asso vi era una regina di picche. Non riusciva a credere ai suoi occhi o a pensare come potesse aver commesso un simile errore. In quel momento gli parve che la regina di picche aprisse e chiudesse un
occhio, e lo schernisse con un sorriso. Lo colpì la straordinaria somiglianza... «La vecchia signora...», gridò in preda al terrore. Tchekalinsky raccolse la sua vincita. Hermann rimase dov'era, impietrito. Quando lasciò il tavolo, tutti cominciarono a parlare allo stesso momento. «Una bella partita, quella», dicevano i giocatori. Tchekalinsky mischiò nuovamente le carte e il gioco riprese come al solito. Conclusione Hermann perse la ragione. Ora è nella stanza numero 17, all'Ospedale Obukhov. Non risponde alle domande che gli vengono rivolte, e mormora in continuazione con incredibile rapidità: «Tre, sette, asso! Tre, sette, regina!». Lizaveta Ivanovna ha sposato un uomo molto amabile. È un impiegato statale e gode di un buon stipendio. È il figlio dell'ex intendente della vecchia Contessa. Anche a Lizaveta Ivanovna è toccato di allevare una parente povera. E Tomsky, che è stato promosso al rango di Capitano, ha sposato la Principessa Paolina. NATHANIEL HAWTHORNE Il Campione Grigio Ci fu un tempo in cui il New England gemeva sotto l'oppressione di torti ancor peggiori di quelli tanto temuti che provocarono la Rivoluzione. Giacomo II, il bigotto successore di Carlo il Lussurioso, aveva annullato le costituzioni di tutte le colonie, e aveva inviato un soldato duro e senza scrupoli a eliminare le nostre libertà e mettere in pericolo la religione. All'amministrazione di Sir Edmund Andros non mancava praticamente nessuna delle caratteristiche della tirannia: un Governatore e un Consiglio, nominati dal Re, e completamente staccati dal paese; leggi emanate e tasse imposte senza il concorso del popolo, sia direttamente che per mezzo dei suoi rappresentanti; violati i diritti dei privati cittadini, dichiarati nulli tutti i titoli di proprietà terriera; la voce della protesta soffocata mediante restrizioni alla stampa; e, infine, il disagio causato dalla prima banda di merce-
nari che avesse marciato sul nostro patrio suolo. Per due anni i nostri antenati furono mantenuti in una sottomissione torva da quell'amore filiale che aveva invariabilmente assicurato la loro fedeltà alla madrepatria, che il suo capo fosse un Parlamento, un Protettore o un Re papista. Fino a quei brutti momenti, tuttavia, tale fedeltà era stata solo nominale, e i coloniali si erano governati da soli, godendo di maggior libertà di quella che era propria dei sudditi nativi della Gran Bretagna. Infine, una voce raggiunse le nostre spiagge: il Principe di Galles si era imbarcato in un'impresa il cui successo avrebbe significato il trionfo dei diritti civili e religiosi e la salvezza del New England. Era solo un vago sussurro; poteva essere falso, oppure il tentativo avrebbe potuto fallire e, in ambedue i casi, colui che si fosse opposto a Re Giacomo avrebbe perso la testa. Eppure, venirne a conoscenza produsse un notevole effetto. La gente sorrideva per le strade con aria di mistero, e lanciava sguardi audaci ai propri oppressori mentre, da ogni parte, si svolgeva un'attività sommessa e silenziosa, come se il minimo indizio dovesse destare il paese dal suo inerte abbattimento. Consci del pericolo che correvano, i capi decisero di affrontarlo con un imponente dispiego di forze, e forse anche per confermare il proprio dispotismo con misure ancor più severe. In un pomeriggio di aprile del 1689, Sir Edmund Andros e i suoi consiglieri favoriti, riscaldati dal vino, riunirono le Giubbe Rosse della Guardia del Governatore e fecero la loro apparizione per le vie di Boston. Il sole era prossimo al tramonto quando la marcia cominciò. Il rullo del tamburo, in quel momento critico, parve correre per le strade come un appello all'adunata per gli abitanti piuttosto che come la marziale musica dei soldati. Una folla proveniente da varie vie si radunò in King Street, che era destinata ad essere la scena, circa un secolo dopo, di un altro incontro fra le truppe britanniche e un popolo che lottava per liberarsi della loro tirannia. Sebbene fossero passati quasi sessant'anni dall'arrivo dei Padri Pellegrini, quella folla dei loro discendenti mostrava ancora le forti e cupe particolarità del loro carattere, forse ancor più in questa severa emergenza che in occasioni più festose. C'era il sobrio modo di fare, la generale severità nell'aspetto, l'espressione seria ma sicura, il modo di parlare ispirato alle Scritture, e la fiducia nella benedizione del Cielo su una causa giusta, che avrebbe contrassegnato una banda di Puritani originali, minacciati da un pericolo nella foresta.
In effetti, non era ancora passato abbastanza tempo perché il loro spirito dignitoso si estinguesse; c'erano ancora uomini nella strada, quel giorno, che avevano adorato laggiù sotto gli alberi, prima che gli fosse costruita una casa, quel Dio per il quale si erano esiliati. C'erano vecchi soldati del Parlamento, che sorridevano cupamente al pensiero che le loro braccia invecchiate avrebbero potuto colpire ancora la Casa degli Stuart. C'erano anche i veterani della guerra di Re Filippo, che avevano bruciato villaggi e ucciso giovani e vecchi con pia ferocia, mentre le anime sante di tutto il paese li aiutavano con le preghiere. Alcuni ministri stavano sparsi tra la folla che, diversamente da altre, li trattava con tale riverenza che pareva che persino nei loro abiti risiedesse la santità. Questi santi uomini esercitavano la loro influenza per quietare il popolo, ma non per disperderlo. Nel frattempo, lo scopo del Governatore, cioè turbare la pace della città in un momento in cui la minima emozione avrebbe potuto gettar il paese in un fermento, era il soggetto favorito di conversazione, e veniva commentato in vari modi. «Satana farà il suo colpo maestro fra poco», gridava uno, «perché sa che il suo tempo è breve. Tutti i nostri buoni Pastori trascinati in prigione! Li vedremo su un rogo nella King Street!» A questo punto la popolazione di ogni parrocchia si radunò intorno al proprio ministro, che alzò calmo lo sguardo al cielo e assunse una dignità apostolica, come conveniva a un candidato al più alto onore della sua professione: la corona del martirio. Si pensò addirittura, in quel momento, che il New England avrebbe potuto avere il proprio John Rogers, che prendesse il posto di quel degno Primate. «Il Papa di Roma ha ordinato una nuova Notte di San Bartolomeo!», gridavano altri. «Saremo massacrati, noi uomini e i bambini maschi!» Nessuna delle due voci era del tutto priva di fondamento, sebbene i più saggi ritenessero che lo scopo del Governatore fosse un po' meno atroce. Bradstreet, che era stato suo predecessore quando la vecchia Carta era in vigore, era in città e lo si sapeva. C'era motivo di credere che Sir Edmund Andros avesse la duplice intenzione di incutere terrore con la parata della sua forza militare e di confondere la fazione opposta impossessandosi del suo capo. «Sosteniamo il Governatore della vecchia Carta!», gridava la folla, infiammandosi all'idea. «Il buon vecchio Governatore Bradstreet!» Proprio mentre le urla erano al massimo, la gente vide con sorpresa la ben nota figura dello stesso Governatore Bradstreet, un patriarca di circa
novant'anni, apparire sulla scala esterna di una casa, e con la sua caratteristica dolcezza pregarli di sottomettersi alle autorità costituite. «Figli miei», concluse quella veneranda persona, «non fate niente di azzardato. Non gridate, ma pregate per il benessere del New England, e aspettate con pazienza ciò che il Signore vorrà fare!» Presto si seppe in cosa consisteva. Per tutto il tempo, il rullo del tamburo si era avvicinato attraverso Cornhill, sempre più forte e profondo finché, echeggiando fra una casa e l'altra, e al suono cadenzalo di passi marziali, sboccò nella strada. Fece la sua comparsa una doppia fila di soldati, che occupò l'intera larghezza del passaggio, con i moschetti a spall'arm e le micce accese, sicché nella penombra sembrava una fila di fuochi. La loro marcia regolare era come l'avanzata di una macchina, che avrebbe potuto schiacciare irresistibilmente tutto quello che trovava sul suo cammino. Quindi, camminando lentamente, con un confuso rumore di zoccoli sul selciato, veniva un gruppo di gentiluomini a cavallo, al cui centro si teneva Sir Edmund Andros, anziano, ma dritto e dall'aspetto marziale. Intorno a lui c'erano i suoi consiglieri favoriti, e le peggiori canaglie del New England. Alla sua destra stava Edward Randolph, il nostro arcinemico, quel «dannato mascalzone», come lo chiama Cotton Mather, che aveva fatto cadere il nostro vecchio governo ed era seguito da una maledizione per tutta la vita fino alla morte. Dall'altra parte c'era Bullivant, che lanciava facezie e scherzava lungo il cammino. Dudley li seguiva con gli occhi bassi, perché temeva - e ben a ragione - di incontrare lo sguardo indignato della gente che lo riteneva il solo che, loro compatriota per nascita, fosse uno degli oppressori della patria. C'erano anche il Capitano di una fregata ancorata in porto e due o tre ufficiali civili della Corona. Ma la figura che attirava maggiormente gli sguardi della folla ed eccitava più profondamente gli animi era il Sacerdote Episcopale della Cappella del Re, che cavalcava altero fra i magistrati con i suoi abiti sacerdotali, e rappresentava benissimo la gerarchia e la persecuzione, l'unione fra Chiesa e Stato, e tutti quegli abomini che avevano spinto i Puritani a ritirarsi nel deserto. Un'altra schiera di militari, in doppia fila, chiudeva il corteo. L'intera scena rappresentava la condizione del New England e il suo stato morale, la deformità di ogni governo che non nasce dalla natura delle cose e dal carattere della gente. Da una parte la pia folla, con visi tristi e abiti scuri, e dall'altra il gruppo di capi dispotici, con l'alto prelato al centro, e qua e là un crocifisso sui petti, tutti splendidamente vestiti, i volti ar-
rossati dal vino, orgogliosi di un'autorità ingiusta, e sprezzanti il favore popolare. E i mercenari, che aspettavano solo un ordine per inondare la strada di sangue, erano l'esempio dell'unico mezzo per mantenere l'ubbidienza. «O Signore degli Eserciti!», gridò una voce fra la folla. «Manda un campione al tuo popolo!» Questa frase era stata appena pronunciata, che parve essere il grido con cui un araldo introduceva un personaggio notevole. La folla si era ritirata, e ora si ammassava in fondo alla strada, mentre i soldati avevano percorso non più di un terzo della sua lunghezza. Lo spazio in mezzo era vuoto: una solitudine pavimentata, fra alti edifici, che vi gettavano un'ombra simile a quella del crepuscolo. A un tratto si vide la figura di un vecchio, che sembrava uscita dalla folla, camminare al centro della strada verso la banda armata. Era vestito alla maniera dei vecchi Puritani, con un vestito scuro e un cappello a pan di zucchero, che erano di moda circa cinquant'anni prima, una pesante spada al fianco, e un bastone in mano per aiutare l'incerto passo della vecchiaia. Giunto a una certa distanza dalla folla, il vecchio si girò lentamente, mostrando un viso dall'antica maestà, reso doppiamente venerabile dalla barba canuta che gli scendeva sul petto. Fece un gesto insieme di incoraggiamento e di avvertimento, poi si voltò di nuovo e riprese a camminare. «Chi è quel grigio patriarca?», chiedevano i giovani ai loro padri. «Chi è quel venerabile fratello?», si chiedevano a vicenda gli anziani. Ma nessuno sapeva rispondere. I padri del popolo, quelli che avevano più di ottant'anni, erano turbati, perché pareva loro strano l'essersi dimenticati di una persona così autorevole, che doveva aver conosciuto i compagni di Winthrop, e tutti i vecchi consiglieri che emanavano le leggi, componevano le preghiere, e li conducevano verso i luoghi selvaggi. Gli uomini più anziani avrebbero dovuto ricordarlo anch'essi, con i riccioli già così grigi in gioventù come i loro erano adesso. E i giovani! Come potevano averlo dimenticato così completamente? Quel vecchio dalla barba canuta, quella reliquia di tempi antichissimi, la cui tremenda benedizione era stata certamente impartita sul loro capo quando erano bambini? «Di dove è venuto?» «Cosa vuol fare?» «Chi può essere quel vecchio?», mormorava la folla attonita. Intanto il venerabile sconosciuto, con il bastone in mano, proseguiva la sua marcia solitaria nel centro della strada. Man mano che si avvicinava ai
soldati in attesa, e il rullo del tamburo giungeva più distinto alle sue orecchie, il vecchio si ergeva e la decrepitezza dell'età sembrava cadergli dalle spalle, lasciandolo vestito di una grigia ma intatta dignità. Ora stava marciando con passo marziale, seguendo il ritmo della musica militare. Così la figura dell'anziano avanzò da una parte, e l'intera parata di soldati e magistrati dall'altra finché, quando fra loro non vi furono che circa venti iarde, il vecchio afferrò il suo bastone a metà, e lo sollevò davanti a sé come lo scettro di un capo. «Fermi!», esclamò. Gli occhi, il viso, l'atteggiamento di comando, il suono solenne, anzi marziale di quella voce, fatta sia per dar ordini a un esercito sul campo di battaglia che per alzarsi a Dio in preghiera, erano irresistibili. Alle parole e al gesto del vecchio, il rullo del tamburo tacque immediatamente, e la linea che avanzava si fermò. Un tremulo entusiasmo si impossessò della folla. Quella figura piena di dignità, che univa in sé il capo e il santo, così grigia, così indistinta, così vestita all'antica, poteva appartenere solo al campione di una causa giusta, che il tamburo dell'oppressore aveva richiamato dalla tomba. La folla lanciò un grido di timore e di esultanza, e attese la liberazione del New England. Il Governatore e i gentiluomini che erano con lui, vistisi fermare nel modo più inaspettato, si spinsero avanti come se avessero voluto dirigere i loro cavalli spaventati e nitrenti contro quella canuta apparizione. Questa, tuttavia, non fece un solo passo indietro, ma rivolse uno sguardo severo sul gruppo che formava un semicerchio intorno a lei, e lo fermò infine su Sir Edmund Andros. Si sarebbe potuto pensare che quel nero vecchio fosse il capo, e che il Governatore e il Consiglio, con i soldati alle spalle - che rappresentavano il potere e l'autorità della Corona - non avessero altra alternativa che l'ubbidienza. «Cosa fa qui questo vecchio?», gridò alteramente Edward Randolph. «Su, Sir Edmund! Ordini ai soldati di avanzare e di offrire a quell'idiota la stessa alternativa che ha dato ai suoi compatrioti: farsi da parte o essere schiacciato!» «Ma no! Rispettiamo questo nonnino!», disse Bullivant, ridendo. «Non vedi che si tratta di qualche dignitario delle Teste Rotonde che ha dormito per questi ultimi trent'anni e non sa niente dei cambiamenti avvenuti? Senza dubbio pensa di sottometterci con un proclama in nome del Vecchio Noll!» «Sei pazzo, vecchio?», chiese Sir Edmund Andros, con voce forte ed a-
spra. «Come osi arrestare la marcia del Governatore di Re Giacomo?» «Ho fermato addirittura la marcia del Re, una volta», rispose la grigia figura con severa compostezza. «Sono qui, signor Governatore, perché il grido di un popolo oppresso mi ha svegliato nel mio rifugio segreto: e, quando lo chiesi come un favore al Signore, mi fu concesso di apparire ancora una volta sulla Terra, per la buona causa di tutti i suoi santi. Ma perché parli di Giacomo? Non c'è più un Re papista sul trono d'Inghilterra, e domani a mezzogiorno il suo nome sarà oggetto di scherno in questa stessa via, dove ora tu ne fai oggetto di terrore. Indietro, tu che fosti Governatore, indietro! Con questa notte termina il tuo potere: domani ci sarà per te la prigione! Indietro, prima che ti predica il patibolo!» La gente era andata man mano avvicinandosi, e beveva le parole del proprio campione, che parlava con accenti desueti, come uno che abbia perso l'abitudine di conversare fuorché con i morti delle ere passate. Ma la sua voce faceva vibrare gli animi. Essi affrontarono i soldati, con quelle poche armi che avevano, pronti a trasformare le pietre della strada in strumenti di morte. Sir Edmund Andros guardò fisso il vecchio, poi girò il suo occhio crudele sulla folla, e la vide bruciare di quell'ardente collera così difficile da ravvivare o da spegnere; quindi riportò il suo sguardo sul vecchio, che stava cupo nello spazio libero, dove né amico né nemico si era avventurato. Quali che fossero i suoi pensieri, non pronunciò parola che potesse svelarli ma, sia che l'oppressore fosse colpito dall'aspetto del Campione Grigio, sia che intravedesse un pericolo nella minacciosa attitudine della gente, è certo che arretrò, e che ordinò ai suoi soldati di cominciare una ritirata lenta e cauta. Prima del tramonto seguente, il Governatore e tutti coloro che avevano così orgogliosamente cavalcato con lui erano prigionieri, e già prima si era saputo che Giacomo aveva abdicato. Guglielmo fu proclamato Re in tutto il New England. Ma dov'era il Campione Grigio? Alcuni riferirono che, mentre la truppa si ritirava da King Street e la folla la seguiva minacciosa, Bradstreet, il vecchio Governatore, aveva abbracciato una persona ancora più vecchia di lui. Altri affermarono più assennatamente che, mentre si stupivano del suo venerabile aspetto, il vecchio era scomparso alla loro vista confondendosi pian piano con le ombre del crepuscolo finché, nel posto dove era stato, vi fu il vuoto. Ma tutti furono d'accordo sul fatto che la figura canuta era sparita. Gli uomini di quella generazione attesero il suo ritorno, nella luce del sole e in quella del crepuscolo, ma non lo videro più, né seppero quando
passò il suo funerale, né dove stava la sua pietra tombale. Chi era il Campione Grigio? Forse il suo nome può esser trovato fra quelli di quella povera Corte di Giustizia che pronunciò una sentenza troppo grande per il suo tempo, ma gloriosa nei secoli a venire, per la lezione di umiltà che diede al monarca e l'alto esempio che diede ai sudditi. Ho sentito dire che, ogni volta che i Puritani devono dimostrare di possedere lo spirito dei loro padri, il vecchio appare di nuovo. Ottant'anni più tardi, passò ancora una volta per King Street. Cinque anni dopo, nel crepuscolo di un mattino di aprile, stava sul prato vicino alla sala di ritrovo, a Lexington, dove ora l'obelisco di granito commemora i primi caduti della Rivoluzione con la sua lapide. E, quando i nostri padri soffrivano sulle barricate di Bunker's Hill, per tutta la notte il vecchio guerriero montò la guardia. Può passare ancora molto tempo, molto tempo, prima che lo si riveda! La sua ora è quella del pericolo, della tenebra e dell'avversità. Ma, se la tirannia domestica ci opprimesse, o il piede dell'invasore macchiasse il nostro suolo, di nuovo il Campione Grigio tornerà. Infatti lui è il prototipo dello spirito del New England: e la sua lenta marcia, nella vigilia del pericolo, sarà sempre il pegno che il New England farà onore ai suoi antenati. JOSEPH SHERIDAN LE FANU Schalken il pittore Perché non è fatto di carne come me, né può unire alcuno i nostri destini. Lasciate, perciò, che prenda la sua strada, e non permettete che mi terrorizzi. Esiste tuttora un'opera eccezionale di Schalken in ottimo stato di conservazione. La particolare tecnica della luce costituisce, come del resto in tutto il suo lavoro, il primo pregio apparente del quadro. Dico apparente perché è nel soggetto, e non nel procedimento artistico, sicuramente eccellente, che risiede il suo vero valore. Il quadro raffigura l'interno di una sorta di stanza di un antico edificio religioso, dove, in primo piano, spicca una figura di donna che indossa una specie di tunica bianca, parte della quale drappeggiata a mo' di velo. L'abito, tuttavia, non appartiene a nessun Ordine religioso. In mano lei sorregge una lanterna, la cui luce è sufficiente ad illuminare il volto e la figura, e sul suo viso appare un sorriso così malizio-
so da farci pensare che la bella sia in procinto di ricorrere a qualche astuzia. Sullo sfondo, in completa ombra, eccettuato nel punto in cui la fioca luce rossa di un fuoco che si sta spegnendo serve allo scopo di definirne la sagoma, c'è un uomo in piedi vestito secondo l'antica foggia fiamminga, in atteggiamento d'allarme, con la mano posata sull'elsa della spada che sembra pronto a sguainare. Ci sono certi quadri che ti danno la netta sensazione, non so bene come, che non rappresentino mere forme e combinazioni ideali uscite dalla fantasia dell'artista, bensì scene, fatti e situazioni verificatisi veramente. E quello strano dipinto ha il potere di evocare un fatto davvero accaduto. E in effetti così è, perché la tela ritrae fedelmente un avvenimento particolarmente misterioso ed immortale nei tratti del viso della figura femminile, la quale occupa il primo piano della pittura, un fedele ritratto di Rose Velderkaust, nipote di Gerard Douw I e, come credo, unico amore di Godfrey Schalken. Il mio bisnonno conosceva bene questo pittore, e da Schalken medesimo apprese la terribile storia ritratta nel quadro; è da lui che ho ricevuto di recente in eredità il dipinto. La storia e il quadro sono diventati degli autentici cimeli di famiglia, e adesso, avendo descritto il secondo, cercherò, se me lo permettete, di raccontarvi la leggenda tramandatami insieme alla tela. Su poche cose il manto del romanticismo cade più sgraziatamente che sul rude Schalken, il più scortese e il più abile dei pittori ad olio, l'artista le cui opere mandano in visibilio i critici del nostro tempo almeno quanto i suoi modi offendevano gli uomini manierati del suo. Eppure quest'uomo così sgarbato, così caparbio, così trascurato, all'apice della celebrità in giorni oscuri ma più felici, aveva fatto la parte dell'eroe in un tempestoso romanzo di mistero e di passione. Quando Schalken studiava sotto la guida dell'immortale Gerard Douw, era ancora molto giovane e, malgrado il temperamento flemmatico, si innamorò perdutamente anima e corpo della bella nipote del facoltoso maestro. Rose Velderkaust era persino più giovane di lui, non avendo ancora compiuto i diciassette anni e, se la leggenda dice la verità, possedeva tutte le grazie delicate delle bionde fanciulle fiamminghe dalla pelle chiara. Il giovane pittore l'amava con fervore ed onestà, e la sua adorazione sincera alla fine fu ricompensata. Quando le dichiarò il proprio amore, ottenne infatti a sua volta una timida confessione zoppicante. Da quel momento si sentì il pittore più felice e orgoglioso di tutta la cristianità. Ma c'era qualcosa che gli impediva di esaltarsi: era povero e sconosciuto. Non osava
chiedere al vecchio Gerard la mano della nipote; prima doveva farsi una reputazione. Lo aspettavano, perciò, molti giorni incerti e freddi, e molti colpi della fortuna contro cui combattere. Ma aveva conquistato il cuore dell'amata Rose Velderkaust, perciò aveva già vinto metà della battaglia. Inutile dire che raddoppiò l'impegno nel lavoro, e la celebrità di cui gode ancora oggi dimostra che la sua alacrità venne ricompensata dal successo. Le ardenti fatiche e, peggio ancora, le speranze che le incitavano per poi tradirle, avrebbero subito tuttavia un'interruzione improvvisa... un'interruzione talmente strana e misteriosa, da sfuggire ad ogni spiegazione e gettare sugli avvenimenti medesimi un'ombra d'orrore ultraterreno. Una sera Schalken, mentre gli altri allievi erano andati tutti via, era rimasto ancora a lavorare nella stanza deserta. Quando la luce del giorno si spense rapidamente, posò i colori e si mise a contemplare uno schizzo nel quale stava tentando di esprimere una sofferenza straordinaria. Si trattava di un soggetto religioso, e rappresentava le tentazioni di un panciuto sant'Antonio. Il giovane artista, sebbene ancora sconosciuto, aveva tuttavia abbastanza capacità critica per ritenersi insoddisfatto del lavoro, e così aveva fatto molti ritocchi ed apportato modifiche al diavolo e al santo, ma invano. Il grande stanzone antico era silenzioso e, ad eccezione della sua presenza, si era completamente svuotato degli abituali frequentatori. E così erano passate quasi due ore senza apprezzabili risultati. La luce del giorno si era già spenta, e il crepuscolo si faceva strada con le tenebre della notte. La pazienza del giovane pittore si era esaurita, e l'artista stava davanti all'opera incompiuta con un misto di rabbia e di mortificazione, con una mano infilata tra i lunghi capelli e l'altra che stringeva ancora il carboncino che aveva adempiuto così male al proprio compito, e che adesso sfregò, senza preoccuparsi delle strisce scure che lasciava, sui calzoni larghi alla fiamminga. «Maledizione al soggetto!», disse ad alta voce il giovanotto. «Maledizione al quadro, ai diavoli, al santo...» In quell'attimo qualcuno che tirava su col naso fece girare repentinamente l'artista, il quale si accorse soltanto in quel momento che le sue fatiche erano state seguite da uno sconosciuto. A circa un metro e mezzo di distanza, alle sue spalle, c'era infatti un uomo anziano, con un mantello e un cappello conico a larghe tese; nella mano, che calzava un guanto lungo e pesante, costui stringeva un lungo bastone da passeggio sormontato da quella che sembrava, a giudicare dallo scintillio che emetteva nella pe-
nombra, una testa d'oro massiccio, mentre sul petto, tra le pieghe del mantello, luccicava una catena del medesimo metallo. La stanza era talmente avvolta dal buio che non era possibile scorgere altro della misteriosa figura; il cappello, inoltre, teneva in ombra la faccia. Non sarebbe stato facile indovinare l'età dell'intruso, ma un ciuffo di capelli scuri che uscivano dal cappello, e il contegno fermo ed eretto stavano a indicare che non doveva superare i sessant'anni. Dall'intera persona emanava un'aria di solennità e importanza, e qualcosa di ineffabilmente strano - potrei dire spaventoso che si sprigionava dalla perfetta rigidità marmorea della figura, smorzò sul nascere il commento pungente dell'irritato artista. Il giovanotto, perciò, non appena si riebbe sufficientemente dalla sorpresa, invitò cortesemente lo sconosciuto a sedersi e a comunicargli se voleva lasciare qualche messaggio per il Maestro. «Dite a Gerard Douw», disse l'intruso senza scomporsi di un millimetro, «che Minheer1 Wilken Vanderhausen di Rotterdam desidera parlargli domani sera a quest'ora e, se gli aggrada, in questa stessa stanza, a proposito di certe questioni importanti. È tutto.» Lo sconosciuto, dopo aver terminato il messaggio, si voltò bruscamente e, a passo rapido e silenzioso, lasciò la stanza prima che Schalken avesse il tempo di dire una sola parola. Il giovane ebbe la curiosità di vedere in quale direzione sarebbe andato il borghese di Rotterdam dopo aver lasciato lo studio, e così si portò alla finestra vicino alla porta. Tra la porta interna della stanza del pittore e l'ingresso sulla strada correva un atrio piuttosto lungo, sicché Schalken raggiunse il suo posto d'osservazione prima che il vecchio potesse uscire in strada. Tuttavia rimase a guardare invano, malgrado non esistessero altre uscite. Quello strano vecchio era scomparso, o si era nascosto tra le ombre dell'atrio per qualche scopo sinistro? Quest'ultima ipotesi mise a Schalken una misteriosa inquietudine, la quale divenne inspiegabilmente talmente forte da incutergli la paura di restare solo in quella stanza nonostante temesse, al tempo stesso, di attraversare l'ingresso di casa. Tuttavia, con un enorme sforzo, trovò il coraggio di lasciare la stanza e, dopo aver chiuso la porta ed aver infilato la chiave in tasca, senza guardare né a destra né a sinistra, attraversò l'atrio dove era appena passato il misterioso visitatore, osando a malapena respirare finché non ebbe raggiunto la strada aperta. «Minheer Vanderhausen!», ripeté tra sé e sé Gerard Douw mentre l'ora designata si avvicinava. «Minheer Vanderhausen di Rotterdam! Mai sentito parlare di quest'uomo prima di ieri. Che cosa può volere da me? Un ri-
tratto forse; o che prenda sotto di me un suo conoscente; o che stimi qualche collezione; o... bah! Non c'è nessuno a Rotterdam che possa avermi fatto un lascito. Beh, qualunque cosa voglia, tra poco lo sapremo.» Il giorno stava morendo, ed ogni cavalletto, tranne quello di Schalken, era di nuovo deserto. Gerard Douw camminava su e giù per l'appartamento con l'agitazione dell'impazienza, fermandosi a tratti a guardare il lavoro di uno degli allievi, o portandosi più frequentemente alla finestra, dalla quale poteva osservare i passanti che andavano e venivano per il vicolo buio sul quale sorgeva lo studio. «Non mi avevi detto, Godfrey», esclamò Douw dopo un'ultima occhiata infruttuosa dal suo posto d'osservazione, voltandosi verso Schalken, «che l'ora stabilita erano le sette dell'orologio del Municipio?» «Ha detto proprio le sette, quando l'ho visto, signore», rispose l'allievo. «L'ora è vicina, dunque», disse il maestro, guardando un orologio largo e rotondo come un'arancia. «Minheer Vanderhausen di Rotterdam... giusto?» «Così ha detto di chiamarsi.» «È anziano e sfarzosamente vestito?», insistette Douw, meditabondo. «Così mi è sembrato», replicò lo studente. «Non mi è parso giovane, ma nemmeno molto vecchio; e portava abiti lussuosi e austeri, quali si addicono a un cittadino benestante ed illustre.» In quel momento il fragoroso orologio del Municipio batté le sette. Gli occhi di allievo e maestro andarono immediatamente alla porta, e soltanto quando l'ultimo colpo ebbe cessato di echeggiare, Douw esclamò: «Bene, bene. Tra poco vedremo Sua Signoria... sempreché arrivi puntuale. In caso dovesse tardare, Godfrey, puoi aspettarlo tu, se tieni a far la sua conoscenza. E se invece, dopotutto, fosse soltanto uno scherzo di Vankarp o di qualche burlone come lui? Avrei preferito che ti fossi assunto ogni rischio e avessi preso a sonore randellate il vecchio Borgomastro. Scommetto dodici bottiglie di vino del Reno che Sua Signoria sarebbe stata smascherata e avrebbe confessato che era uno scherzo nel giro di pochi minuti». «Eccolo che arriva, signore», disse Schalken a bassa voce in tono d'avvertimento, e in quel momento, voltandosi verso la porta, Gerard Douw vide il medesimo personaggio che il giorno prima era apparso all'improvviso dietro le spalle del suo allievo Schalken. Dalla sua persona emanava qualcosa che fece capire subito al pittore che non si trattava di una mascherata, e che si trovava veramente alla presenza di un uomo illustre; sicché, senza esitazione alcuna, sollevò il cappello, sa-
lutò cortesemente lo sconosciuto e lo invitò a sedersi. Il visitatore mosse leggermente la mano, quasi a significare che apprezzava la gentilezza, ma rimase in piedi. «Ho l'onore di conoscere Minheer Vanderhausen di Rotterdam?», disse Gerard Douw. «Proprio lui», rispose laconicamente il visitatore. «Mi sembra di aver capito che Vostra Signoria desidera parlare con me», continuò Douw, «e io sono qui per servirvi.» «È una persona di vostra fiducia?», chiese Vanderhausen voltandosi verso Schalken, che si trovava a qualche metro dal Maestro. «Certamente», replicò Gerard. «Allora ditegli di prendere questa scatola e di portarla al più vicino gioielliere perché ne stimi il contenuto e di tornare subito con un certificato che ne attesti la valutazione.» Mentre parlava, depose uno scrigno di circa venti centimetri quadrati nelle mani di Gerard Douw, il quale rimase sorpreso dal suo peso almeno quanto lo fu dalla brusca repentinità con cui gli veniva consegnato. Assecondando il desiderio dello sconosciuto, lo affidò a Schalken e, ripetendogli le istruzioni, mandò questo in missione. Schalken nascose prudentemente il prezioso carico sotto il mantello e, dopo aver attraversato velocemente due o tre stradine, si fermò davanti una casa d'angolo al cui piano inferiore si trovava il negozio di un orafo ebreo. Entrò nel negozio e, chiamando forte il piccolo giudeo perché uscisse dall'ombra del retro, posò sul banco lo scrigno di Vanderhausen. Esaminato alla luce della lampada, l'oggetto pareva interamente di piombo, e la superficie esterna era stata scalfita e quasi sbiancata dal tempo. Dopo aver tolto l'involucro esterno, apparve al suo interno una scatola di legno. Forzarono anche questa e, dopo aver rimosso due o tre strati di stoffa, scoprirono che il contenuto era un mucchio di lingotti d'oro legati uno vicino all'altro e, come dichiarò l'ebreo, di ottima qualità. Il piccolo giudeo esaminò i lingotti uno per uno, con un piacere quasi epicureo nel toccare e mordere il glorioso metallo, ed ogni volta che ne riponeva uno esclamava: «Mein Gott, quale perfezione! Neppure un granello di piombo... Bellissimo, bellissimo!». Alla fine ultimò il proprio compito e certificò il valore dei lingotti da lui esaminati, stimandolo diverse migliaia di talleri d'argento. Con il desiderato documento in tasca e la scatola d'oro ben stretta sotto il braccio e nasco-
sta dal mantello, il pittore tornò allo studio, dove trovò il Maestro e lo sconosciuto intenti nella conversazione. Schalken aveva da poco lasciato la stanza per eseguire la commissione, quando Vanderhausen aveva apostrofato Gerard Douw nei seguenti termini: «Non intendo trattenermi più di due minuti, perciò vi dirò direttamente per quale motivo sono venuto da voi. Qualche mese fa avete visitato la città di Rotterdam, ed è stato allora che ho visto nella chiesa di S. Lorenzo vostra nipote, Rose Velderkaust. Desidero sposarla e, se riuscirò a convincervi che non potreste sognare per lei un marito più benestante di me, presumo che le inoltrerete la mia richiesta con tutta la vostra autorità. Se approvate la mia proposta, dovete dirmelo immediatamente, perché non posso attendere né calcoli né indugi». Gerard Douw era rimasto completamente esterrefatto dalla richiesta di Minheer Vanderhausen, ma non osò esprimere la propria sorpresa poiché, a parte le ragioni consigliate dalla cortesia e dalla prudenza, il pittore, alla presenza di quell'uomo eccentrico, provava una sensazione di gelo e di oppressione come quella che si dice intervenga quando ci si trova in inconsapevole prossimità con l'oggetto di una naturale antipatia; una sensazione indefinita ma potente, che gli impediva di dire qualunque cosa potesse offenderlo. «Non dubito minimamente», disse Gerard, dopo due o tre esitazioni iniziali, «che il sodalizio che mi proponete sarebbe al tempo stesso vantaggioso ed onorevole per mia nipote. Ma dovete sapere che la ragazza ha una sua volontà, e potrebbe non essere d'accordo su quello che noi riteniamo per lei conveniente.» «Non cercate di ingannarmi, Maestro», disse Vanderhausen, «voi siete il suo protettore... ella è stata affidata alla vostra tutela. Diventerò io il suo tutore, se solo voi deciderete in tal senso.» Mentre parlava, l'uomo di Rotterdam si avvicinò leggermente, e Gerard Douw, senza sapere perché, pregò dentro di sé che Schalken tornasse presto. «Desidero», disse il misterioso gentiluomo, «mettere subito nelle vostre mani una prova della mia ricchezza, che sia al tempo stesso l'assicurazione del trattamento liberale che intendo prodigare a vostra nipote. Il ragazzo tornerà tra pochi minuti con una somma cinque volte maggiore della fortuna che lei può ragionevolmente aspettarsi da un marito. Essa sarà riposta nelle vostre mani, insieme alla sua dote, e voi potrete disporre dell'intera somma come più risponde ai suoi interessi. Sarà tutto esclusivamente di
vostra nipote: lo trovate vantaggioso o no?» Douw assentì, e dentro di sé riconobbe che la fortuna era stata straordinariamente buona con sua nipote; lo sconosciuto, rifletté, doveva essere molto ricco e molto generoso, e un'offerta simile non si poteva rifiutare, anche se veniva da un pretendente non molto simpatico e attraente. Rose non aveva aspirazioni eccessive, disponendo di una dote modesta che doveva interamente alla generosità dello zio; né poteva avanzare particolari pretese sul casato del marito, venendo da una famiglia d'origini tutt'altro che illustri. Quanto alle altre obiezioni, decise Gerard - aiutato dalle usanze del tempo - per il momento non volle pensarci. «Signore», disse allo sconosciuto, «la vostra offerta è vantaggiosa, e se ho delle esitazioni a concludere immediatamente, queste nascono solamente dal fatto che non ho l'onore di conoscere la vostra famiglia e la vostra posizione. Su questi punti, naturalmente, potrete soddisfarmi senza difficoltà?» «Quanto alla mia rispettabilità», disse lo sconosciuto, asciutto, «al momento dovete darla per scontata. Non cercate di sapere altro, perché sul mio conto non potete scoprire più di quello che io voglio farvi sapere. Se siete un uomo onorato, vi basterà la mia parola: se invece siete un uomo avido, considerate il mio oro una prova della mia rispettabilità.» «Un altezzoso gentiluomo vecchio stampo», pensò Douw. «Avrà le sue usanze. Tutto sommato, comunque, non ho nessun motivo per respingere la sua offerta. E in ogni caso non mi impegnerò più del necessario.» «Non volete impegnarvi più del necessario», disse Vanderhausen, dando sorprendentemente voce alle parole che erano passate per la mente dell'altro, «ma lo farete se sarà necessario, presumo. Ed io vi dimostrerò che lo ritengo indispensabile. Se l'oro che intendo lasciarvi vi soddisferà, e se non desiderate che ritiri immediatamente la mia proposta, prima che lasci questa stanza dovete sottoscrivere il contratto con la vostra firma.» Dopo aver detto questo, mise un foglio nelle mani del Maestro, nel quale si dichiarava che Gerard Douw si impegnava a dare in matrimonio a Wilken Vanderhausen di Rotterdam Rose Velderkaust entro una settimana dalla data apposta sul documento. Mentre il pittore era impegnato a leggere il contratto alla luce della lampada a petrolio in fondo alla stanza, Schalken, come abbiamo detto, entrò nello studio e, dopo aver consegnato allo sconosciuto lo scrigno e la stima fatta dall'ebreo, stava per ritirarsi, quando Vanderhausen gli disse di aspettare. Porgendo lo scrigno e il certificato a Gerard Douw, l'uomo rimase in silenzio finché il Maestro non eb-
be esaminato entrambi con sommo rispetto. Alla fine disse: «Siete soddisfatto?». Il pittore disse che avrebbe voluto pensarci su un altro giorno. «Neanche un'ora di più», disse il pretendente. «Bene, allora», disse Douw con un grosso sforzo. «Sono soddisfatto, e l'affare è concluso.» «Allora firmate immediatamente», disse Vanderhausen, «perché sono stanco.» Nello stesso momento prese dal mantello un astuccio con tutto il materiale necessario per scrivere, e Gerard firmò l'importante documento. «Che questo giovane sia testimone al contratto», disse il vecchio, e Godfrey Schalken avvalorò senza saperlo lo strumento che lo privava per sempre della sua amata Rose Velderkaust. Conclusa così la transazione, il misterioso visitatore piegò il documento e lo infilò al sicuro in una tasca interna. «Verrò a farvi visita domattina alle nove in casa vostra, Gerard Douw, per conoscere l'oggetto del nostro contratto.» E, così dicendo, Wilken Vanderhausen uscì velocemente, tutto impettito, dalla stanza. Schalken, deciso a risolvere i propri dubbi, si era messo alla finestra per sorvegliare il portone sulla strada; ma la prova servì soltanto ad avvalorare i suoi sospetti, in quanto il vecchio non spuntò più dalla porta. Era molto strano, quasi spaventoso. Insieme al Maestro, si avviò verso casa. Lungo la strada parlarono poco, perché ognuno dei due aveva i propri pensieri e le proprie speranze. Schalken, però, non sapeva nulla della minaccia che incombeva sui suoi progetti più cari. Gerard Douw era del tutto all'oscuro dell'attaccamento nato tra l'allievo e la nipote, ed anche se ne fosse stato al corrente, difficilmente l'avrebbe considerato un serio ostacolo alla realizzazione dei desideri di Minheer Vanderhausen. A quel tempo i matrimoni erano calcolati, e sarebbe parso assurdo agli occhi del tutore ritenere l'affetto reciproco una condizione indispensabile in un contratto di quel tipo. Il Maestro, tuttavia, non comunicò alla nipote il passo importante che aveva intrapreso per lei: una dimenticanza che non nasceva tanto dal timore della sua opposizione, quanto dalla certezza che lei gli avrebbe chiesto di descriverle l'aspetto del futuro sposo, e in questo caso sarebbe stato costretto a confessarle che non lo aveva visto in faccia e che, se glielo avessero chiesto, non sarebbe riuscito assolutamente ad identificarlo. Il giorno seguente, dopo cena, Gerard Douw chiamò la nipote e, dopo averla osser-
vata bene con un'aria soddisfatta, le prese la mano e, guardando il suo innocente visino con un sorriso gentile, le disse: «Rose, ragazza mia, quella faccetta che hai farà la tua fortuna». Rose arrossì e sorrise. «Un viso e un carattere come il tuo di rado si accoppiano e, quando questo succede, il risultato è un fascino al quale pochi cuori e pochi spiriti possono resistere. Credimi, tra poco ti mariterai, ragazza mia. Ma adesso basta dire sciocchezze; ho molto da fare, perciò rassetta la stanza grande per le otto di stasera, e di' alla cuoca di preparare la cena per le nove. Aspetto un amico. Cerca di vestirti bene, bambina mia. Non voglio che pensi di noi che siamo poveri o trasandati.» Con queste parole la lasciò e tornò nella stanza dove lavoravano gli allievi. Quando si avvicinò la sera, Gerard chiamò Schalken, che stava per avviarsi verso la sua buia e spartana dimora, e gli chiese di venire a casa sua per cenare con Rose e Vanderhausen. L'invito, naturalmente, venne accettato, e Gerard Douw e l'allievo si trovarono ben presto nella bella stanza antica che era stata preparata per ricevere lo straniero. Nel focolare scoppiettava un allegro fuoco, vicino al quale un tavolo antico che brillava come oro attendeva la cena, per la quale fervevano i preparativi. Le sedie dall'alto schienale, la cui comodità compensava l'aspetto estetico sgraziato, erano allineate in perfetto ordine. Rose, lo zio e l'artista attendevano l'arrivo dell'ospite con notevole impazienza. Alla fine si fecero le nove, ed insieme al rintocco dell'orologio si udì bussare alla porta di casa, questa venne aperta in fretta, e poi si udirono dei passi lenti e pesanti sulle scale. I passi attraversarono il corridoio sul quale dava la porta aperta della stanza in cui era riunito il gruppetto che abbiamo descritto, dalla quale entrò una figura che fece sussultare il flemmatico olandese e quasi urlare Rose di terrore. Era sempre Minheer Vanderhausen - stessa aria, stessa andatura, stessa altezza - ma nessuno di loro aveva mai visto il suo viso. Lo sconosciuto si fermò sull'uscio, mostrando in piena luce il corpo e la faccia. Portava un mantello scuro corto e sontuoso che gli arrivava appena alle ginocchia, calze di seta rosso porpora e scarpe ornate con rosette del medesimo colore. L'apertura sul davanti del mantello lasciava intravedere il corpetto fatto della medesima stoffa scura, probabilmente zibellino, mentre le mani erano coperte da un pesante paio di guanti di pelle che gli arrivavano sopra il polso, a mo' di guanto di ferro. In una mano teneva la canna da passeggio e il cappello che si era tolto; l'altra, libera, ricadeva pesantemente sul fianco.
Diverse trecce di capelli spruzzati di grigio, che scendevano sul collare rigido, nascondevano perfettamente il collo. Fin qui niente da dire... ma la faccia! La faccia aveva un color piombo bluastro, il medesimo che appare sull'incarnato quando vengono assunte medicine a base di metalli in quantità eccessiva; le sclerotiche degli occhi erano troppo bianche, e facevano pensare a qualche malattia; il colore delle labbra, uguale a quello della pelle, era quasi nero; e dall'intero volto emanava un'aria sensuale, maligna, addirittura satanica. Era evidente che il facoltoso forestiero non amava molto esporre la propria pelle, e per tutta la visita non si tolse mai i guanti. Vedendo che era rimasto diverso tempo sulla porta, alla fine Gerard Douw trovò il sangue freddo necessario per dargli il benvenuto, e lo straniero, con un tacito cenno del capo, venne avanti nella stanza. C'era qualcosa di ineffabilmente strano, quasi di orribile, nei suoi movimenti, qualcosa di indefinibile e di innaturale, di inumano: pareva che gambe e braccia venissero guidate e dirette da uno spirito poco avvezzo a far muovere la macchina del corpo. Il forestiero parlò molto poco nel corso della visita, la quale non durò più di mezz'ora, e perfino l'ospite non riuscì a trovare il coraggio necessario per esprimergli le consuete parole di commiato e di cortesia; a dire il vero, il terrore e il nervosismo che la presenza di Vanderhausen ispirava erano tali che sarebbe bastato poco a far fuggire dalla stanza tutti i presenti in preda al panico. Tuttavia, questi non avevano perso completamente la lucidità mentale da non accorgersi di due strane peculiarità del visitatore. Durante la sua permanenza, innanzitutto, lui non aveva mosso minimamente gli occhi; secondariamente, dall'intera persona emanava una rigidità mortale, come se il petto, perfettamente immobile, non respirasse. Queste due particolarità, sebbene possano apparire insignificanti ora che vengono descritte, producevano un effetto sconcertante e sgradevole se osservate dal vero. Alla fine Vanderhausen sollevò il pittore di Leida dalla sua infausta presenza, e fu con autentico senso di sollievo che il gruppetto udì il portone sulla strada richiudersi al suo uscire. «Zio caro», disse Rose, «che uomo spaventoso! Non vorrei vederlo di nuovo per tutto l'oro degli Stati!» «Taci, sciocchina», disse Douw, sentendosi in realtà tutt'altro che a suo agio. «Un uomo può essere brutto come il Diavolo, ma se il suo cuore e le sue azioni sono giusti, vale molto di più di quei pupazzi profumati dal fac-
cino incipriato che si vedono a passeggiare sul Mall. Rose, ragazza mia, riconosco che non ha una bella faccia, ma so che è molto ricco e molto generoso; ed anche se fosse dieci volte più brutto, queste due virtù basterebbero da sole a controbilanciare tutta la sua bruttezza, e potrebbero, se non cambiargli il colorito e i lineamenti del viso, aiutare almeno a non vedere troppo i suoi difetti.» «Sai, zio caro», disse Rose, «quando l'ho visto lì davanti alla porta, non ho potuto fare a meno di pensare a quella vecchia statua di legno dipinto che mi spaventava tanto quanto entravo nella chiesa di S. Lorenzo a Rotterdam.» Gerard rise, anche se dentro di sé doveva riconoscere che il paragone era proprio giusto. Tuttavia era deciso ad impedire alla nipote, se poteva, di continuare a deridere la bruttezza del promesso sposo, sebbene non gli facesse affatto piacere - anzi, sebbene lo trovasse sconcertante - vedere che la ragazza non provava quel misterioso timore che lo straniero ispirava innegabilmente sia in lui che nel suo allievo Godfrey Schalken. La mattina presto del giorno dopo, arrivarono dai diversi quartieri della città ricchi doni in seta, velluto, gioielli e così via, destinati a Rose, e anche un pacchetto diretto a Gerard Douw il quale, una volta aperto, rivelò contenere un contratto di matrimonio, formalmente redatto tra Wilken Vanderhausen del Boom di Rotterdam e Rose Verlderkaust di Leida, nipote di Gerard Douw, Maestro Pittore della medesima città. Si leggeva, inoltre, che Vanderhausen si impegnava a fare elargizioni alla sposa molto più munifiche di quanto avesse lasciato intendere al tutore, le quali dovevano essere messe a completa disposizione della sposa nel modo più semplice possibile: mettendo, cioè, il denaro nelle mani di Gerard Douw medesimo. A questo punto non ci sono scene sentimentali da descrivere, crudeltà di tutore, bontà di pupilla, sofferenze o trasporti di innamorati. I fatti che mi accingo a riportare sono meschini, cinici e spietati. In meno di una settimana dal primo colloquio che ho appena descritto, il contratto di matrimonio venne ottemperato, e Schalken vide la colombella per la quale avrebbe rischiato la propria vita portata via in sontuosa pompa dal repellente rivale. Per i due o tre giorni seguenti si assentò dalla scuola; poi tornò e si accinse al lavoro con meno gioia ma molta più determinazione di prima, perché il pungolo dell'amore aveva ceduto il posto a quello dell'ambizione. Passarono i mesi e, contrariamente alle aspettative, anzi, all'accordo stabilito tra le due parti, Gerard Douw non seppe più nulla né della nipote, né del suo facoltoso sposo. Gli interessi del denaro che avevano maturato una forte
somma, rimanevano irreclamati in mano sua. Il pittore cominciò a preoccuparsi seriamente. Conosceva bene l'indirizzo di Rotterdam di Minheer Vanderhausen, sicché, dopo un periodo di indecisione, si risolse alla fine a mettersi in viaggio per la città - impresa semplice e facilmente portata a compimento - per accertarsi che la sua pupilla, per la quale nutriva un affetto profondo e sincero, stesse bene. Tuttavia le sue ricerche furono vane: nessuno, a Rotterdam, aveva mai sentito parlare di Minheer Vanderhausen. Gerard Douw bussò in tutte le case del molo di Boom, ma senza successo. Nessuno sapeva dargli la minima informazione sull'oggetto delle sue ricerche, e così, alla fine, fu costretto a tornarsene a Leida più dubbioso e più preoccupato di prima. Al proprio arrivo si recò di corsa alla rimessa presso la quale Vanderhausen aveva preso a noleggio la pesante - ma lussuosissima, per quei tempi - carrozza con la quale la novella coppia era tornata a Rotterdam. Dal vetturino seppe che, dopo aver fatto lunghe tappe, erano arrivati a Rotterdam soltanto la sera tardi; prima di entrare in città, tuttavia, ad appena un miglio per l'esattezza, un gruppo d'uomini dall'abbigliamento austero e fuori moda, con le barbe a punta e i baffi, si era messo al centro della strada impedendone la percorribilità. Il conducente aveva tirato i cavalli per le redini, temendo, data l'ora e l'aspetto deserto della strada, che fossero male intenzionati. Le sue paure, però, erano leggermente diminuite quando si era accorto che quegli strani uomini trasportavano una larga lettiga antica che deposero immediatamente in terra non appena lo sposo aprì la portiera della carrozza ed aiutò la sposa, che si torceva le mani e piangeva amaramente, ad accomodarsi insieme a lui sulla lettiga. Poi gli uomini sollevarono quest'ultima e si diressero velocemente in città e, non appena si furono allontanati, il buio li nascose alla vista del vetturino olandese. All'interno della carrozza egli aveva trovato una borsa che conteneva una somma di denaro sufficiente a pagare tre volte il nolo della vettura e del cocchiere. Non sapeva dire altro su Minheer Vanderhausen e sulla sua bella signora. Questo mistero fu un'autentica fonte di preoccupazione e addirittura di dolore per Gerard Douw. Vanderhausen non era stato onesto con lui, anche se non riusciva ad immaginare a quale scopo. Dubitava fortemente che un uomo così importante potesse essere un furfante, e ogni giorno che passava senza che gli giungessero notizie dalla nipote, anziché fugare i suoi timori, li raddoppiava. La perdita della sua allegra compagnia, inoltre, gli deprimeva lo spirito, e, per scacciare l'umore tetro che l'assaliva quando la giornata di lavoro era finita, chiedeva spesso a Schalken di accompagnarlo a
casa, invitandolo a dividere con lui quella che altrimenti sarebbe stata una cena solitaria. Una sera, il pittore e l'allievo erano seduti accanto al fuoco; dopo aver terminato un buon pasto, si erano abbandonati in silenziosa e dolce malinconia alla digestione, quando le loro riflessioni vennero interrotte da un forte rumore al portone di casa, come se qualcuno vi si fosse buttato con violenza contro. Un domestico scese immediatamente di sotto ad accertare la causa del fracasso, e i due lo sentirono interrogare più volte la persona che aveva bussato, ma senza ottenere da questa alcuna risposta. Poi lo udirono aprire la porta sul corridoio, e videro immediatamente una luce e sentirono dei passi rigidi su per le scale. Schalken si avvicinò alla porta, l'aprì prima di arrivarvi e Rose si precipitò nella stanza. Aveva uno sguardo fiero e selvaggio, con il volto terrorizzato ed esausto; ma il modo in cui era vestita li lasciò ancora più sbalorditi della sua comparsa improvvisa. Era avvolta, difatti, in un drappo di lana bianca che le girava intorno al collo e scendeva fino a terra, strappato e sporco. La poverina non fece in tempo ad entrare che cadde esanime sul pavimento. Con un po' di difficoltà riuscirono a farle riprendere i sensi e, quando si riebbe, con un tono più terrorizzato che impaziente, la ragazza esclamò: «Il vino! Il vino! Presto, o sono perduta!». Sbalorditi e quasi impauriti dall'agitazione che trapelava dalla sua richiesta, i due le obbedirono immediatamente, e Rose bevve il vino con una velocità e un'ingordigia che li lasciò sconcertati. Non l'aveva neanche inghiottito, che tornò a pregarli con la medesima fretta di prima: «Del cibo, per amor di Dio, del cibo, o morirò». Sulla tavola era rimasto un cosciotto d'arrosto, e Schalken cominciò immediatamente a tagliare delle fettine, ma venne anticipato dalla ragazza, la quale, non appena lo vide, lo afferrò avidamente con le mani e cominciò a strappare voracemente la carne con i denti come se stesse morendo di fame. Quando i morsi della fame si furono placati, lei provò improvvisamente una grande vergogna, o forse venne impaurita da nuovi pensieri, perché cominciò a piangere amaramente e a torcersi le mani. «Oh, andate a chiamare un ministro di Dio», disse. «Non sono salva finché non arriva. Mandatelo a chiamare subito, svelti!» Gerard Douw mandò immediatamente un messaggero, e riuscì a persuadere la nipote ad accettare la sua camera da letto. La convinse anche a mettersi subito a dormire, cosa alla quale acconsentì a patto che non la lascias-
sero sola neanche un attimo. «Ah, se arrivasse il sant'uomo», esclamò. «Lui può liberarmi: il morto e il vivo non possono essere una cosa sola. Dio l'ha proibito.» Con queste misteriose parole si arrese ai due uomini, i quali la portarono nella stanza da letto che le aveva assegnato Gerard Douw. «Non lasciatemi sola neanche per un attimo», disse. «Se lo farete, sono perduta.» Alla camera da letto di Gerard Douw si arrivava passando per uno spazioso appartamento, nel quale stavano appunto per entrare. Lo zio e Schalken avevano una candela ciascuno, sicché facevano abbastanza luce sugli oggetti circostanti. Adesso stavano entrando nello stanzone che, come ho detto, comunicava con l'appartamento di Douw, quando Rose improvvisamente si fermò e, in un sussurro che riempì entrambi di orrore, disse: «Oh, Dio! Lui è qui! Lui è qui! Eccolo: sta andando laggiù!». Indicò col dito la porta della camera interna, e a Schalken parve di vedere una sagoma in ombra, poco definita, che sgusciava dentro l'appartamento. Sfoderò la spada, quindi, sollevando la candela in modo da illuminare meglio gli oggetti dentro la stanza, entrò dove aveva visto passare l'ombra. Non c'era niente, oltre al mobilio, eppure non poteva ingannarsi sul fatto che nella camera c'era stato qualcuno prima di loro. Lo invase un terrore mortale, e la fronte gli si imperlò di sudore freddo, e ancora non si era calmato, quando udì Rose implorarli con un tono disperato di non lasciarla sola neanche per un momento. «L'ho visto», disse, «è qui. Non mi posso ingannare: lo conosco, è vicino a me... è con me... è dentro la stanza. Perciò, se volete salvarmi, per l'amor di Dio, non vi allontanate da me.» Alla fine riuscirono a convincerla a sdraiarsi sul letto, dove lei continuò a pregarli di rimanerle accanto. Spesso diceva cose strane, e ripeteva in continuazione: «Il morto e il vivo non possono essere uniti. Dio l'ha proibito». E poi ancora: «Riposo a chi è sveglio... sonno a chi cammina nel sonno». Seguitò a mormorare queste frasi smozzicate e misteriose fino all'arrivo del sacerdote. Gerard Douw cominciava a temere, cosa alquanto naturale, che il terrore dei maltrattamenti subiti avesse scosso la ragione della ragazza; inoltre, data la sua comparsa improvvisa, l'ora tarda e, soprattutto, la sua espressione terrorizzata, cominciava a sospettare che fosse fuggita da qualche asilo per malati di mente ed avesse paura di essere inseguita. Decise di chiedere consiglio al medico non appena gli uffici del sacerdote, la cui presenza la donna tanto ardentemente desiderava, l'avessero cal-
mata, e finché non fosse stato raggiunto questo scopo, non osò porle alcuna domanda, per timore di farla agitare di più. Il sacerdote arrivò presto; era un uomo dall'aspetto ascetico e di veneranda età - Gerard Douw lo rispettava profondamente, ammirandolo forse più per lo spirito combattivo che per le virtù di cristiano - di assoluta moralità, di profonda intelligenza e con un cuore gelido. Entrò nella stanza che comunicava con quella in cui era distesa Rose e, non appena arrivò da lei, Rose gli chiese di pregare per lei come se si trovasse nelle mani di Satana e la sua unica speranza di salvezza dipendesse dal cielo. Affinché possiate comprendere bene le circostanze dell'avvenimento che mi accingo a narrare, è necessario specificare la posizione delle parti che vi furono coinvolte. L'anziano sacerdote e Schalken si trovavano nell'anticamera di cui ho già parlato; Rose riposava nella stanza interna, la cui porta era aperta, e accanto al letto, per suo espresso desiderio, c'era il tutore. Nella camera da letto bruciava una candela, e nell'appartamento esterno ne erano accese altre tre. Il vecchio si schiarì la voce in procinto di cominciare, ma prima che ne avesse il tempo un improvviso soffio d'aria spense la candela che illuminava la stanza della ragazza, e lei, mettendosi immediatamente in allarme, gridò: «Godfrey, portami un'altra candela. Il buio non è sicuro». Dimenticando per un attimo le ripetute preghiere della nipote, Gerard Douw passò nell'altra stanza per prenderle quello che desiderava. «In nome di Dio, non andare, zio caro!», strillò l'infelice, e in quel momento stesso si alzò come un fulmine dal letto e gli corse dietro per trattenerlo. Ma l'avvertimento arrivò troppo tardi, perché lo zio aveva appena varcato la soglia, e la nipote aveva appena avuto il tempo di richiamarlo, quando la porta di separazione tra le due stanze si chiuse violentemente alle spalle del pittore, come se ci fosse stata una forte raffica di vento. Schalken e Douw si precipitarono ai battenti, ma i loro sforzi congiunti e disperati non valsero ad aprirli. Dalla camera interna giungevano strilli sempre più forti, nei quali vibrava il terrore più disperato, Schalken e Douw spinsero le ante con tutta la forza, ma invano. Dall'interno non si udivano rumori di lotta, ma le grida parevano crescere d'intensità e, in quello stesso momento i due uomini udirono il cedimento dei cardini del lattice della finestra, mentre i vetri stridevano sopra il davanzale come se venissero aperti. Vi fu quindi un ultimo strillo, protratto e agonizzante, seguito da un silenzio di tomba. Dei passi leggeri attraversarono il pavimento, andando dal
letto alla finestra e, quasi nel medesimo istante, la porta cedette, facendo quasi cadere nella stanza i due che vi avevano esercitato pressione. La stanza era vuota. La finestra era aperta, e Schalken, salito su una sedia, scrutò attentamente in strada e nel canale sottostante. Non vide nessuno, tuttavia notò, o così gli parve, che le acque del canale disegnavano degli ampi cerchi sulla superficie, come se vi fosse caduto qualcosa di pesante. Da quel momento di Rose non si ebbe più traccia, né si seppe nulla del suo misterioso corteggiatore: neppure un indizio per dipanare quel problema e pervenire a una soluzione dell'enigma. Tuttavia si verificò un fatto che, pur se il nostro razionale lettore non lo reputerà una prova attendibile, fece ciononostante una forte e durevole impressione su Schalken. Molti anni dopo gli eventi che abbiamo riportato, Schalken, che all'epoca risiedeva lontano, ebbe notizia della morte del padre e della sepoltura fissata per un certo giorno nella chiesa di Rotterdam. Il pittore riuscì ad arrivare soltanto con difficoltà e nella tarda giornata il giorno stesso del funerale. Il corteo funebre non era ancora giunto. Scese la sera, e ancora niente. Schalken arrivò alle porte della chiesa e le trovò aperte; era stato dato avviso dell'arrivo del corteo, e la cripta nella quale doveva essere sepolto il defunto era stata aperta. Il sagrestano, vedendo un gentiluomo ben vestito venuto a partecipare alle esequie, gli venne incontro dalla navata e lo invitò gentilmente a dividere con lui il calduccio di un bel fuoco che, com'era sua abitudine fare d'inverno in queste occasioni, aveva acceso nel camino in una stanza in cui soleva attendere l'arrivo dei mesti ospiti e questa stanza comunicava, mediante una rampa di scale, con la cripta sottostante. Schalken e il religioso vi si accomodarono, e il sagrestano, dopo diversi tentativi infruttuosi di intavolare una conversazione con l'ospite, si vide costretto a rifugiarsi nella sua pipa per alleviare la solitudine. Malgrado il dolore e le preoccupazioni, la fatica di un viaggio di quaranta ore fatto così di corsa, alla fine ebbe la meglio sul corpo e sulla mente di Godfrey Schalken, ed egli cadde in un sonno profondo dal quale lo svegliò qualcuno scuotendolo gentilmente per le spalle. La prima cosa che pensò fu che era stato il sagrestano a chiamarlo, ma poi si accorse di non trovarsi più nella stanza di prima. Si alzò e, prima ancora di vedere con chiarezza l'ambiente circostante, scorse una figura di donna che indossava una sorta di tunica bianca molto leggera sistemata a mo' di velo e che portava una lanterna. Stava andando nella direzione opposta, verso le scale che conducevano alle cripte.
Alla sua vista, Schalken provò nel medesimo tempo un vago senso di allarme e un impulso irresistibile di seguirla. Allora la seguì verso le cripte ma, quando fu arrivato alle scale, lì si fermò; anche la figura si fermò e, girandosi dolcemente, alla luce della lanterna gli rivelò il volto del suo primo amore, Rose Velderkaust. Non aveva nulla di orribile, e neppure di triste, nell'aspetto: al contrario, le illuminava il viso il medesimo sorriso che tanto tempo prima, in giorni più felici, incantava sempre l'artista. Allora lo prese un desiderio fortissimo di seguire lo spettro, malgrado avesse paura. Lo spettro scese le scale e, girando a sinistra, lo condusse per uno stretto passaggio che portava, con sua enorme sorpresa, in un antico appartamento olandese, simile a quelli che Gerard Douw aveva immortalato nei propri quadri. Intorno alla stanza era disposto un sontuoso mobilio antico e pregiato, e in un angolo c'era un letto a quattro colonne protetto da pesanti tendaggi di stoffa nera. La figura si girava continuamente verso di lui, guardandolo col medesimo sorriso aperto, e quando fu arrivata alle sponde del letto, aprì le tende e, alla luce della lampada che sollevò per illuminarlo al centro, mostrò all'orripilato pittore, seduta a schiena eretta sul letto, la sagoma demoniaca di Vanderhausen. Non appena lo vide Schalken cadde svenuto sul pavimento, dove la mattina dopo venne trovato dai guardiani che avevano il compito di chiudere i corridoi di accesso alle cripte. Giaceva in un'ampia cella, rimasta indisturbata da molto tempo, ed era caduto vicino ad una grande bara sorretta da piccoli pilastri che la proteggevano dall'assalto dei vermi. Schalken morì con la certezza che quella visione era stata reale, e lasciò una prova insolita dell'esperienza vissuta: un dipinto eseguito poco dopo l'evento che ho narrato, di valore non tanto perché presenta le medesime caratteristiche pittoriche che resero Schalken famoso, quanto perché ci offre un ritratto del suo primo amore, Rose Velderkaust, la cui sorte misteriosa rimarrà per sempre un enigma. 1
Il termine olandese Minheer corrisponde all'inglese Mister (N.d.T.). PROSPER MÉRIMÉE La visione di Carlo XI There are more things in heav'n and hearth, Horatio, Than are dreamt of your philosophy1. Shakespeare
1. Siamo soliti deridere le visioni e le apparizioni soprannaturali, eppure se ne hanno talvolta così autorevoli conferme che, a non volerci credere, si dovrebbe, per coerenza, respingere in complesso tutte le testimonianze storiche. Un verbale in perfetta regola, con le firme di quattro testimoni degni di fede, ecco quel che garantisce l'autenticità del fatto che ora vi narrerò. Aggiungerò che la predizione contenuta nel verbale stesso era nota e citata assai prima che taluni avvenimenti, prodottisi ai giorni nostri, potessero in un certo qual modo figurarne il reale adempimento. Carlo XI, padre dal famoso Carlo XII, fu uno dei sovrani più dispotici, ma anche più saggi, che avesse mai avuto la Svezia: ridusse i mostruosi privilegi dei nobili, esautorò del tutto il Senato, legiferò in proprio nome; in una parola, mutò la costituzione del paese, precedentemente oligarchica, costringendo gli Stati del regno a conferirgli un potere assoluto. Era, peraltro, un uomo illuminato, valoroso, attaccatissimo alla religione luterana, di carattere inflessibile, freddo, positivo, assolutamente sprovvisto di fantasia. Aveva perso da poco la moglie, Ulrica Eleonora e, benché si affermi che la sua durezza per quella Principessa ne avesse affrettato la fine, egli la stimava e si mostrò addolorato della morte di lei più di quanto l'aridità del suo cuore avesse lasciato supporre. Dopo tale evento, divenne ancor più cupo e taciturno di prima, e si dedicò tutto al lavoro, con un'applicazione che palesava il bisogno imperioso di allontanare le idee penose che lo assediavano. Una sera d'autunno, sul tardi, stava seduto in veste da camera e in pantofole davanti a un gran fuoco, nel suo studio della reggia di Stoccolma. Erano con lui il Conte Brahé, suo Ciambellano, che onorava dei suoi favori, e il medico Baumgarten il quale, sia detto tra parentesi, ostentava in tutto la massima spregiudicatezza, e di tutto voleva che si dubitasse, fuorché della medicina. Quella sera, lo aveva chiamato per consultarlo su non so quale disturbo. La veglia si prolungava, e il Re, contro il suo solito, tardava a dare la buonasera ai due, che aspettavano quel segnale per ritirarsi. La testa china e gli occhi fissi sui tizzoni, manteneva un profondo silenzio, annoiato dalla compagnia, ma inquieto, senza una ragione plausibile, al pensiero di restar
solo. Il Conte Brahé si accorgeva benissimo che la sua presenza non era molto gradita, e a più riprese aveva manifestato il timore che Sua Maestà avesse bisogno di riposo; ma sempre un gesto del Re lo aveva trattenuto al suo posto. A sua volta, il medico parlò del danno che le veglie recano alla salute; ma Carlo gli rispose tra i denti: «Restate, non ho ancora voglia di dormire». Anche i vari argomenti su cui tentarono allora di portare il discorso si esaurirono alla seconda o alla terza battuta. Era chiaro che Sua Maestà si trovava, in uno dei suoi accessi d'ipocondria, e in simili circostanze la posizione di un cortigiano è assai delicata. Il Conte Brahé, supponendo che la tristezza del Re provenisse dal cordoglio per la perdita della consorte, guardò per alcuni minuti il ritratto della Regina appeso nello studio, poi esclamò con un lungo sospiro: «Com'è somigliante quel ritratto! Vi si ritrova proprio l'espressione dell'augusto modello, maestosa e dolce a un tempo». «Mah!», rispose bruscamente il Re, il quale credeva di udire un rimprovero ogni volta che sentiva pronunciare il nome della Regina, «è un ritratto un po' troppo abbellito. La Regina era brutta.» Poi, scontento nel suo intimo della propria ruvidezza, si alzò e fece una volta il giro della stanza per nascondere una commozione della quale arrossiva. Giunto davanti alla finestra che dava sul cortile, si fermò. La notte era cupa e la luna al primo quarto. In quel tempo, il palazzo ove risiedono oggi i sovrani di Svezia non era ancora terminato, e Carlo XI, che ne aveva iniziato la costruzione, abitava il vecchio palazzo sulla punta del Ritterholm, che si specchiava sul lago Moeler. Era un grande edificio a forma di ferro da cavallo. Lo studio del Re occupava una delle estremità, quasi dirimpetto all'Aula Magna, ove si riunivano gli Stati le rare volte che avevano da ricevere qualche partecipazione dalla corona. Le finestre della sala parevano in quel momento illuminate da una forte luce, cosa che sembrò strana al Re, il cui primo pensiero fu tuttavia che l'illuminazione fosse dovuta a un candelabro portato da qualche domestico. Ma che andavano a fare, a quell'ora, in una sala chiusa da un pezzo? Inoltre, la luce era troppo abbagliante per potersi attribuire a un unico candelabro. Si sarebbe potuto credere a un incendio, ma non si vedeva fumo, i vetri erano intatti, e non si udiva alcun rumore. Tutto faceva pensare piuttosto a un'illuminazione solenne. Carlo osservò le finestre per un certo tempo senza parlare. Intanto, il
Conte Brahé, che aveva già steso la mano verso il cordone di un campanello, stava per chiamare un paggio che andasse a investigare la causa di quella luce singolare, ma il Re lo trattenne, dicendo: «Voglio andare io stesso in quell'aula». Nel pronunziare l'ultima parola, videro che impallidiva, mentre la sua fisionomia esprimeva una specie di terrore religioso. Uscì, tuttavia, con passo fermo, seguito dal Ciambellano e dal medico, ciascuno dei quali portava una candela accesa. Il portinaio, che aveva in consegna le chiavi, era già a letto. Baumgarten andò a svegliarlo e gli ordinò, da parte del Re, di aprire immediatamente le porte della Sala degli Stati. La sorpresa dell'uomo per quell'ordine inaspettato fu grande. Si vestì in fretta e raggiunse il Re con il suo mazzo di chiavi. Per primo, aprì l'uscio di una galleria che faceva da anticamera e da sala di sgombero alla Sala degli Stati. Il Re entrò. Ma quale non fu la sua meraviglia nel vedere le pareti addobbate da cima a fondo di nero! «Chi ha dato l'ordine di addobbare così questa sala?», domandò con voce aspra. «Nessuno, che io sappia, Sire», rispose vivamente turbato il portinaio, «e anche l'ultima volta che feci spazzare la galleria, era rivestita di quercia, com'è sempre stata... Sono certo che questi arredi non provengono dal guardaroba di Vostra Maestà.» Intanto il sovrano, che camminava con passo rapido, aveva già percorso i due terzi dalla galleria. Il Conte e il portinaio lo seguivano da vicino, mentre il medico era rimasto un po' indietro, combattuto fra il timore di restare solo e quello di esporsi alle possibili conseguenze di un'avventura che si presentava in modo così singolare. «Non andate oltre, Sire!», esclamò il portinaio. «Sull'anima mia, deve svolgersi qualche stregoneria, là dentro. A quest'ora... da quando è morta la Regina, la vostra graziosa consorte... dicono che si aggiri in questa galleria... Che Dio ci protegga!» «Fermatevi, Sire!», gridò dal canto suo il Conte. «Non sentite il rumore che proviene dalla Sala degli Stati? Chissà a quali pericoli va incontro Vostra Maestà!» «Sire», propose Baumgarten, che si era visto spegnere la candela da un soffio di vento, «consentitemi almeno di far venire una ventina dei vostri alabardieri.» «Entriamo», disse il Re con voce decisa, fermandosi davanti alla porta
dell'Aula Magna; «e tu, portiere, apri subito quell'uscio.» Spinse il battente con il piede, e il rumore, ripetuto dall'eco delle volte, rintronò nella galleria come una cannonata. Il portiere tremava tanto che la chiave batteva contro la serratura senza che riuscisse a infilarla. «Un vecchio soldato che trema!», osservò Carlo alzando le spalle. «Andiamo, Conte, apriteci voi questa porta.» «Sire», rispose il Conte, ritraendosi di un passo, «che Vostra Maestà mi ordini di avanzare sotto la bocca di un cannone danese o tedesco, e ubbidirò senza esitare; ma voi pretendete che sfidi l'Inferno.» Il Re strappò le chiavi di mano al portiere. «Vedo bene», rispose con voce sprezzante, «che questo riguarda me solo.» E, prima che le persone del seguito potessero trattenerlo, aprì la pesante porta di quercia ed entrò nell'aula proferendo queste parole: «Con l'aiuto di Dio!». I suoi tre accoliti, spinti dalla curiosità, più forte in loro della paura, e forse anche vergognosi al pensiero di abbandonare il proprio sovrano, entrarono con lui. L'ampia sala era illuminata da un numero infinito di torce. L'antica tappezzeria istoriata era stata sostituita con parati neri. A ogni muro si vedevano disposti nell'ordine consueto gli stendardi tedeschi, danesi, o moscoviti, trofei dei soldati di Gustavo Adolfo, inframmezzati con bandiere svedesi coperte di crespi funebri. Un'immensa assemblea gremiva i banchi. I quattro Ordini dello Stato nobili, ecclesiastici, borghesi e contadini - sedevano ai rispettivi posti. Erano tutti quanti vestiti di nero, e quella moltitudine di volti umani, che sembravano sbalzati in luce su fondo scuro, abbagliava gli occhi a tal punto che nessuno dei quattro testimoni di quella scena straordinaria riuscì a distinguere tra la folla una figura nota. Similmente un attore, in presenza di un pubblico numeroso, non vede che una massa confusa di gente, in mezzo alla quale i suoi sguardi non riescono a individuare nessuno in particolare. Sull'alto trono da cui il sovrano era solito arringare l'assemblea, scorsero un cadavere insanguinato, rivestito delle insegne della regalità. Alla sua destra, un fanciullo, in piedi e con la corona in fronte, reggeva in pugno uno scettro; alla sua sinistra, un uomo anziano, o piuttosto un altro fantasma, si appoggiava al trono, avvolto nel mantello da cerimonia che usavano portare gli antichi reggitori della Svezia, prima che Vasa ne facesse un
regno. Dirimpetto al trono, vari personaggi dal contegno grave e austero, con lunghe toghe nere, e che, dall'aspetto, sembravano giudici, stavano seduti davanti a un tavolo coperto di grandi in-folio e di alcune pergamene. Nello spazio fra il trono e i banchi dell'assemblea, si vedeva un ceppo coperto anche quello da un crespo nero, e, giacente lì accanto, una scure. Nessuno, in quell'assemblea ultraterrena, mostrò di accorgersi della presenza di Carlo e dei tre personaggi che l'accompagnavano. Appena entrati, questi non intesero che un mormorio indistinto, in mezzo al quale l'orecchio non riusciva a cogliere nessuna parola articolata. Poi, il più venerando dei giudici in toga nera, quello, cioè, che sembrava adempiere alle funzioni di presidente, si alzò e picchiò tre volte con la mano sopra un in-folio che gli stava aperto davanti. Di colpo, si fece un profondo silenzio. Alcuni giovani di bell'aspetto, riccamente vestiti, ma con le mani legate dietro la schiena, entrarono nell'aula, da un uscio opposto a quello aperto poc'anzi da Carlo XI. Avanzavano con la fronte alta e lo sguardo fermo, seguiti da un uomo atticciato, con un giustacuore di pelle scura, il quale reggeva i capi delle corde che legavano loro le mani. Colui che camminava in testa e che pareva il prigioniero di maggior riguardo, si fermò in mezzo alla sala, davanti al ceppo, che guardò con occhio sprezzante e superbo. Nello stesso momento, il cadavere parve scosso da un tremore convulso e un sangue vermiglio sgorgò dalla sua ferita. Il giovane s'inginocchiò, poi tese il collo; la scure lampeggiò nell'aria, e subito ricadde con uno schianto. Un rivolo di sangue sprizzò sui gradini del trono e si mischiò con quello del cadavere; la testa invece rimbalzò più volte sul pavimento arrossato, rotolando sino ai piedi di Carlo, che si tinsero di sangue. Il Re, fino a quel momento era rimasto muto per lo stupore. Ma, a quello spettacolo orrendo, la sua lingua si sciolse; fece qualche passo in direzione del trono e, rivolto all'uomo dal manto di Amministratore, scandì senza batter ciglio la formula sacramentale: «Se sei di Dio, parla: se sei dell'Altro, lasciaci in pace». Il fantasma gli rispose in tono lento e solenne: «Re Carlo! Questo sangue non scorrerà sotto il tuo regno... (e qui la voce si fece meno distinta), ma al quinto regno dopo il tuo. Guai, guai, guai al Sangue di Vasa!». Allora le forme dei personaggi di quella sconcertante assemblea cominciarono ad affievolirsi. Già non sembravano più che ombre colorate, e pre-
sto scomparvero del tutto; la fantastica fiaccolata si spense, e le candele di Carlo e del suo seguito non illuminarono più che i vecchi arazzi, lievemente mossi dal vento. Per qualche momento ancora, si udì un rumore abbastanza melodioso, che uno dei testimoni paragonò al sussurro del vento tra le foglie, e un altro al suono prodotto dalle corde dell'arpa che vengono a spezzarsi mentre si accorda lo strumento. Tutti furono concordi sulla durata dell'apparizione, che giudicarono di una decina di minuti all'incirca. I paramenti neri, la testa recisa, le pozze di sangue che tingevano il pavimento, tutto era scomparso insieme con i fantasmi; soltanto la pantofola di Carlo serbò una macchia rossa, che sarebbe certo bastata a fargli ricordare le scene di quella notte, se queste non si fossero fin troppo profondamente incise nella sua memoria. Appena rientrato nel suo studio, il Re fece stendere la relazione di quello che aveva visto, la fece firmare dai compagni e la firmò lui stesso. Molte precauzioni furono prese per nascondere al pubblico il contenuto del documento; il che tuttavia non impedì che il segreto venisse presto a conoscenza di tutti, sotto lo stesso regno di Carlo XI. Quella relazione esiste tuttora, e a nessuno è mai venuto in mente, fino a oggi, d'impugnarne l'autenticità. La chiusa è degna di nota: «E se quanto ho riferito non fosse la pura verità», dice il Re, «rinunzio a ogni speranza di quella miglior vita che io mi fossi potuto meritare per qualche buona azione, e soprattutto per lo zelo che ho sempre posto nel lavorare per la felicità del mio popolo e nel difendere la religione dei miei antenati». E ora, chi voglia por mente alla morte di Gustavo III e alla condanna di Ankarstroem, il suo uccisore, troverà più di una concordanza tra questo evento e le circostanze di quella singolare profezia. Nel giovane decapitato al cospetto dell'Assemblea degli Stati sarebbe da vedersi la prefigurazione di Ankarstroem. Nel cadavere coronato, Gustavo III. Nel fanciullo, Gustavo Adolfo IV, suo figlio e successore. Il vecchio, infine, sarebbe stato il Duca di Sudermania, zio di Gustavo IV, che fu Reggente del regno, e poi Re, dopo la deposizione del nipote. 1
«Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante possa fantasticare la vostra filosofia.» Amleto, atto I, sc. V (vv. 166-167) (N.d.T.). JOSEPH SHERIDAN LE FANU
Il testamento del gentiluomo Toby. Un racconto di fantasmi Molte persone abituate a viaggiare sulla vecchia strada di York e di Londra all'epoca delle carrozze, ricorderanno d'essere passate, diciamo un pomeriggio d'autunno, durante il viaggio per la capitale, a circa tre miglia a sud della città di Applebury, e ad un miglio e mezzo dalla Old Angel Inn, una di quelle vecchie costruzioni ingabbiate, una grande casa bianca e nera diroccata e macchiata dal tempo, con ampie finestre a grata che scintillano al sole del tardo pomeriggio con i loro piccoli vetri adamantini tra il fitto fogliame di antichi olmi. Un ampio viale, oramai ricoperto d'erba e gramigna come i cimiteri, e fiancheggiato da due file doppie dei medesimi alberi scuri, vecchi e giganteschi, interrotti qui e là da un'apertura o da un albero caduto di traverso sulla strada, conduce alla porta principale. Osservando questo viale triste e spento dalla carrozza diretta a Londra come io ho fatto di sovente, si rimane colpiti da tanti segni di decadenza ed abbandono: ciuffi d'erba che spuntano tra gli scalini e negli interstizi delle finestre, comignoli spenti sorvolati dalle taccole, totale assenza di vita umana... E da quei segni capisci immediatamente che il posto è disabitato e abbandonato alla devastazione del tempo. Il nome di questa casa vetusta è Gylingden Hall. Le alte siepi e il vecchio timpano nascondono immediatamente l'edificio alla vista, e circa un quarto di miglio dopo averlo superato, si incontra, circondata da malinconici alberi, una piccola cappella sassone tutta dissestata che, molto tempo fa, era il luogo di sepoltura della famiglia Marston, e che partecipa all'abbandono e alla desolazione che aleggiano sulla sua antica dimora. La profonda malinconia della reclusa valle di Gylingden, solitaria come una foresta incantata, dove le cornacchie tornano ai loro trespoli tra gli alberi, e i cervi erranti che fanno capolino tra i rami paiono avere indisturbato e completo dominio, accentua ulteriormente l'aspetto abbandonato di Gylingden Hall. Negli ultimi anni le riparazioni sono cessate, e qui e là il tetto rotto avrebbe bisogno di ben più di un'accomodatura. Sul fianco della casa, che è esposto ai venti che spazzano la valle come un torrente viene trascinato nel canale, non è rimasta intatta neanche una finestra, e dalle imposte filtra la pioggia. I soffitti e le pareti sono incrostati di muffa. In certi punti, dove l'umidità trasuda dall'intonaco, il pavimento è marcito. Nelle notti tempestose, così dice il guardiano, si possono sentire i cani che cercano riparo nel vecchio edificio, e i loro latrati arrivano fino al ponte di Gryston, men-
tre il vento ulula e geme per i corridoi deserti. Circa settant'anni fa in quella casa morì il vecchio Lord, Toby Marston, famoso in quella parte del mondo per i suoi cani da caccia, la sua ospitalità e i suoi vizi. Aveva fatto cose buone, ed aveva sostenuto diversi duelli: aveva sperperato il denaro e aveva frustato la gente. Si era portato nella tomba alcune benedizioni e numerose maledizioni, lasciandosi dietro cumuli di debiti e tasse sulle proprietà che terrorizzavano i due figli, i quali non avevano il bernoccolo degli affari e nessuna predisposizione per i conti, e non avevano mai immaginato, fino alla morte del vecchio gentiluomo dissoluto e blasfemo, che il padre avesse condotto la famiglia al tracollo finanziario. I due si incontrarono a Gylingden Hall. Davanti a loro c'era il testamento e c'erano i legali per spiegar loro con chiarezza i gravami cui il deceduto li aveva sottoposti. Il testamento era congegnato in modo da mettere istantaneamente in lotta mortale i due fratelli. I due differivano per molti versi, ma nell'attaccamento al denaro erano identici, e in questo somigliavano al defunto padre. In una disputa si buttavano sempre a capofitto e, una volta cominciata, non si risparmiavano nessun colpo basso. Il maggiore, Scroope Marston, il più pericoloso dei due, non era mai stato il prediletto del vecchio Lord. Non amava gli sport da prato e i piaceri della vita campestre, non era atletico e non era bello. E il padre si risentiva molto di tutto questo. Il giovane, che non aveva alcun rispetto per lui, e che aveva superato la paura che il genitore gli incuteva una volta cresciuto, lo ripagava con gli stessi sentimenti. L'avversione del burbero gentiluomo per il figlio, perciò, era diventata aperto odio. Si augurava sempre che quella mela marcia, quell'inetto di Scroope, non intralciasse la strada a uomini migliori - riferendosi al figlio minore Charles - e, quando beveva, perfino i vecchi e i giovani che andavano a caccia con lui e dividevano il suo Porto, e che non erano scevri da una certa volgarità, lo trovavano disgustoso. Scroope Marston era lievemente gobbo, con una faccia magra e incavata, due occhi neri penetranti e lunghi capelli neri, caratteristiche queste spesso tipiche delle persone deformi. «Non sono io il padre di quella schiena d'asino. Non l'ho generato io, m... a lui! Dovrei chiamare mie quelle molle?», sbraitava il vecchio, riferendosi alle gambe lunghe e magre del figlio. «Charlie sì che è un uomo, mentre quell'altro è uno scimmione. Non ha una buona indole; e non ha né il senso pratico né la virilità dei Marston.»
E quando era completamente ubriaco, il vecchio Lord soleva giurare che non si sarebbe mai «seduto a capotavola con lui, né avrebbe spaventato la gente, facendola fuggire da Gylingden Hall, con quella sua d... faccia da corvo... lo zotico!». «Il Bel Charlie sì che era il suo degno erede. Lui sapeva come trattare un cavallo, sapeva dominare la bottiglia, e le ragazze facevano le fusa con lui. Lui sì che era un Marston dalla testa ai piedi.» Ma anche con il Bel Charlie, però, aveva avuto qualche litigio. Il vecchio Lord aveva la mano lesta con il frustino quanto era lesta la sua lingua, e una volta in cui non c'erano armi a portata di mano, aveva dato al ragazzo una bella «bussata» di pacche. Il Bel Charlie era dell'avviso che il periodo della mortificazione della carne dovesse finire, e una notte, con il Porto che scorreva a fiumi, qualcuno fece una certa allusione a Marion Hayward, la figlia del mugnaio, che al vecchio Lord per qualche motivo non piacque. Avendo alzato il gomito, e avendo le idee più chiare sul pugilato che sull'autocontrollo, l'uomo allungò un pugno, fra la sorpresa di tutti i presenti, verso il Bel Charlie. Il giovane allontanò la testa con destrezza e non successe niente, a parte il boccale che cadde sul pavimento. Ma il vecchio Lord si era scaldato, e balzò giù dalla sedia. Il Bel Charlie saltò giù a sua volta, deciso a non sopportare simili sciocchezze. Il gentiluomo Lilbourne, sbronzo anche lui, nel tentativo di mediare la situazione, cadde lungo sul pavimento, e si tagliò un orecchio con i vetri del bicchiere. Il Bel Charlie bloccò a mano aperta il pugno che il vecchio genitore avrebbe voluto assestargli, poi, afferrandolo per il colletto, lo lanciò di schiena contro il muro. Dissero che il vecchio non era mai stato più paonazzo di così, con quello sguardo stralunato. E allora il Bel Charlie lo bloccò con le braccia contro la parete. «Avanti... andiamo... Non dire più quelle strampalaggini che hai detto prima, che non mi piacciono», gracchiò il vecchio Lord. «L'hai smessa di fare lo stupido, è vero? L'ha smessa, no? Avanti, Charlie, dammi la mano, e torna a sederti con noi, ragazzo.» E così finì l'alterco, e credo che quella fu l'ultima volta che il Lord provò ad alzare le mani sul Bel Charlie. Ma quei giorni erano passati. Adesso Toby Marston riposava in pace sotto la terra umida del grande albero cinerino della diroccata cappella sassone dove tanti Marston erano tornati alla polvere per giacere lì dimenticati. Gli stivali macchiati dalla pioggia e le brache di pelle, il tricorno che solevano portare gli anziani gentiluomini di quei tempi, il famoso gilet rosso che gli arrivava sotto i fianchi e la fiera faccia da pugile del vecchio Lord
ormai erano solo un ricordo. E i fratelli tra i quali aveva fatto scoppiare una lotta intestina, indossavano adesso i vestiti nuovi a lutto, ancora lucidi, mentre discutevano furiosamente al tavolo del grande salone di quercia dove tanto spesso avevano risuonato le canzoni goliardiche, le oscenità e le risate dei vicini che il vecchio Signore di Gylingden Hall amava radunare in casa sua proprio lì. I due gentiluomini, cresciuti a Gylingden Hall, non erano abituati a tenere a freno la lingua, né, se ce n'era bisogno, a tenere le mani a posto. Nessuno dei due aveva partecipato al funerale del vecchio. La sua morte era stata improvvisa. Portato a letto in quello stato ilare e litigioso nel quale lo inducevano sempre il Porto e il punch, la mattina dopo era stato trovato morto con la testa penzoloni sul letto e la faccia tutta livida e gonfia. Il testamento del nobile espropriava il figlio maggiore di Gylingden, che veniva tramandata all'erede legittimo da tempi immemorabili. Scroope Marston era furioso. Si udiva la sua voce profonda inveire contro il defunto padre e il fratello, e i pugni che assestava al tavolo per dare maggiore enfasi alle proprie recriminazioni risuonavano per tutta la sala. Poi si intromise la voce più rude di Charlie, cui seguì un breve scambio di battute, e alla fine le due voci parlarono contemporaneamente in tono sempre più forte ed irato. A quel punto intervennero i pacifici e spaventati legali, i quali cercarono di placare il tumulto, e l'alterco ebbe fine. Scroope uscì dalla stanza col volto pallido e furioso - che sembrava ancora più bianco sotto i lunghi capelli neri - gli occhi scuri fiammeggianti, i pugni serrati e l'aspetto reso ancora più deforme dalla collera che lo scuoteva tutto. Dovevano essersi detti delle parole molto brutte, perché Charlie, sebbene fosse il vincitore, era quasi adirato quanto Scroope. Il maggiore avrebbe voluto prendere possesso della casa e costringere il rivale a ricorrere all'azione legale per cacciarlo via, ma gli avvocati si dissero categoricamente contrari. E così, con il cuore gonfio d'odio, Scroope se ne andò a Londra, e trovò la compagnia che si era occupata degli affari del padre. Gli impiegati controllarono la situazione economica, e dissero che Gylingden non rientrava negli accordi. Era molto strano, ma era proprio così: Gylingden era specificamente esclusa, sicché il diritto del vecchio Lord di poterne disporre liberamente nel proprio testamento era insindacabile. Nonostante questo, Scroope, giurando vendetta anche a costo di rovinarsi, pur di schiacciare il fratello, partì all'offensiva e impugnò il testamento del vecchio Toby davanti alla Corte dei Privilegi e alla Corte di Giustizia, e la faida tra fratelli andò avanti per mesi e mesi, esasperando entrambi.
Scroope perse la causa, e la sconfitta non lo intenerì. Charlie avrebbe potuto dimenticare le brutte parole che si erano detti, ma le lunghe schermaglie e le mosse tattiche tipiche della contesa legale, nella quale i due Marston figuravano come opposti combattenti, lo avevano indurito; anche i rovinosi costi legali lo avevano colpito, con il consueto effetto che sortiscono su un uomo che non naviga in acque economicamente tranquille. Gli anni volarono, ma senza medicare le ferite riportate dalle loro ali. Al contrario, la corrosione operata dall'odio col tempo divenne più profonda. Nessuno dei due prese moglie. Ma al minore, Charles Marston, capitò una cosa diversa che accorciò le sue gioie in senso reale. Si trattò di una brutta caduta da cavallo. Charles riportò gravi fratture e una contusione alla testa. Per un po' credettero che non si sarebbe più ripreso, ma egli smentì quegli uccelli di malaugurio. Si riebbe, infatti, anche se avvennero in lui due cambiamenti. La botta presa all'anca non gli consentì mai più di rimontare in sella, e la spensieratezza di un tempo lo abbandonò per sempre. Era rimasto cinque giorni in stato di coma - insensibilità assoluta - e, quando aveva ripreso conoscenza, era stato animato da un'incredibile agitazione. Tom Cooper, che all'epoca del vecchio Toby era stato il maggiordomo di Gylingden Hall, conservava ancora il posto con una fedeltà quasi patetica, in quei tempi di sbiadito splendore e frugale gestione domestica. Erano passati vent'anni dalla morte del vecchio padrone. Era diventato ossuto e ingobbito, la faccia si era ricoperta delle tipiche chiazze marroni della vecchiaia, assumendo un'espressione cupa ed arcigna, e col prossimo, eccettuato il padrone, si era anche inacidito. Il padrone si era recato a Bath e a Buxton, ed era tornato claudicando, aiutandosi con il bastone. Quando il cavallo venne venduto, scomparve con lui l'ultima tradizione di Gylingden. Il giovane Lord - veniva chiamato ancora così - non potendo più andare a caccia dopo la disgrazia, si chiuse in una vita solitaria, facendo lente passeggiate intorno alla vecchia proprietà, sollevando di rado gli occhi, ed assumendo un'aria infinitamente triste. Il vecchio Cooper aveva l'abitudine di parlare con franchezza al padrone, e così un giorno, mentre gli porgeva il cappello e il bastone, gli disse: «Dovreste cercare di tirarvi su, Padron Charles!». «Sono passati i bei tempi, vecchio Cooper.» «Secondo me il problema è solo questo: avete qualcosa in mente e non volete dirlo a nessuno. Non fa bene tenersi tutto sullo stomaco. Vi sentire-
ste più leggero dicendolo a qualcuno. Suvvia, di che si tratta, Padron Charlie?» Il Lord lo guardò dritto in faccia con quei suoi occhi grigi e tondi. Gli sembrava che si fosse rotto un incantesimo. Era come la proverbiale proibizione del fantasma che non può parlare finché non viene interrogato. Guardò ansiosamente il vecchio Cooper per qualche secondo, poi sospirò gravemente. «Non è la prima volta che indovini, Cooper, e sono lieto che tu abbia parlato. È un tarlo che ho qui nel cervello da quando sono caduto. Seguimi e chiudi la porta.» Il Lord aprì la porta del salotto di quercia e guardò pensierosamente i dipinti. Era diverso tempo che non entrava lì dentro e, dopo essersi seduto al tavolo, prima di parlare scrutò nuovamente Cooper. «Non è molto, Cooper, ma mi preoccupa, e non lo direi neanche al dottore e al parroco, perché Dio solo sa che cosa penserebbero, anche se è una cosa sciocca. Ma tu sei stato sempre fedele alla mia famiglia, perciò non mi preoccupa dirtelo.» «Dirlo a Cooper, Padron Charles, è come chiuderlo in una cassa e gettarlo in fondo a un pozzo.» «È tutto qui», disse Charles Marston, abbassando gli occhi sulla punta del bastone col quale stava tracciando delle linee e dei cerchi. «Per tutto il tempo in cui sono rimasto come morto, come credevate tutti, sono stato con il vecchio padrone.» Mentre parlava, sollevò nuovamente lo sguardo verso Cooper, poi, con una terribile imprecazione, ripeté: «Sono stato con lui, Cooper!». «Era un brav'uomo, Signore... a modo suo», disse il vecchio Cooper, ricambiando lo sguardo impaurito. «Con me era un buon padrone, e con voi un buon padre, e spero che sia felice. Che il Signore gli dia riposo!» «Ebbene», disse Charles, «il fatto è questo: per tutto il tempo sono stato con lui, o forse lui è stato con me... non so quale delle due cose. Ad ogni modo eravamo insieme, ed io pensavo che non sarei più riuscito ad allontanarmi da lui, e per tutto il tempo continuava ad assillarmi su una cosa. E se è stato questo a salvarmi la vita, Tom Cooper, per... non appena mi sono svegliato non ho più saputo qual era, e credo che avrei dato una mano per saperlo. E se tu hai idea di cosa possa essere... per amor di Dio, non aver paura di parlare, Tom Cooper, perché mi ha minacciato, e sono sicuro che era proprio lui.» Seguì il silenzio.
«E secondo voi cosa potrebbe essere, Padron Charles?», domandò Cooper. «Non ne ho la più pallida idea. Non sono riuscito ancora a scoprirlo. Ho pensato che poteva trattarsi di qualcosa che sapeva sul conto di quel m... farabutto di Scroope, che giurò davanti all'avvocato Gingham che io avevo distrutto certi documenti... io e mio padre. Giuro sulla mia anima, Tom Cooper, che non si è mai sentita una bugia più grossa! Solo che l'avvocato Gingham non vuole fare niente per me, visto che il denaro a Gylingden scarseggia, ed io non posso cambiare legale, dal momento che gli devo un mucchio di quattrini. Ma quel farabutto lo fece; giurò che mi avrebbe fatto impiccare. Disse proprio queste parole: che non avrebbe mai avuto pace finché non mi avesse fatto impiccare. E credo che fosse questo, è molto probabile, ad angustiare il vecchio padrone, ma a me sembra di impazzire. Non riesco a ricordarlo... non ricordo una parola di quello che mi ha detto, a parte il tono incredibilmente minaccioso, e aveva una faccia - il Signore abbia pietà di noi! - orribilmente spaventosa.» «Non ne vedo la ragione. Che il Signore abbia pietà di lui!», disse il vecchio maggiordomo. «Certo che non c'è. Ma tu non devi dirlo a nessuno, Cooper... non dire ad anima viva, bada, che aveva un'espressione cattiva... non una sola parola.» «Che Dio me lo proibisca!», esclamò il vecchio Cooper. «Ma stavo pensando, Signore, stavo pensando che potrebbe essere per la mancanza di rispetto che gli è stata dimostrata lasciandolo senza lapide, senza neanche un nome che dica chi è.» «Ah! Beh, non credo che sia questo. Comunque mettiti il cappello, vecchio Cooper, e vieni con me, perché intendo scoprirlo io stesso.» C'è una stradina laterale che conduce al parco, e da qui al pittoresco cimitero, che sorge in un angolo lungo la strada, nascosto da antichi alberi. Era un bel tramonto autunnale, e luci malinconiche e lunghe ombre si erano diffuse sul paesaggio mentre il Bel Charlie e l'anziano maggiordomo si avvicinavano lentamente al posto in cui avrebbe riposato anche il Bel Charlie, prima o poi. «Quale dei nostri cani ha abbaiato per tutta la notte?», domandò il Lord quando ebbero fatto un po' di strada. «Era uno strano cane, Padron Charles, che si è messo di fronte alla casa. I nostri erano tutti in cortile. Un cane bianco con la testa nera, così mi è parso, e annusava gli scalini che fece costruire il vecchio padrone - Dio lo
assista! - quando gli faceva male il ginocchio. Quando quella bestia è salita su in cima, e si è messa ad abbaiare sotto le finestre, avrei voluto tirarle addosso qualcosa.» «Un momento! Era come quello lì?», disse il Lord, fermandosi di colpo per indicare col bastone un cane bianco-sporco, con una grossa testa nera, che correva intorno a loro due in un ampio cerchio, con quell'aria di incertezza e di biasimo che i cani sanno assumere così bene. Gli fischiò. Era un grosso bulldog mezzo morto di fame. «Deve aver fatto un lungo viaggio: è magro come un chiodo e tutto sporco. E guarda le zampe... sembrano due moncherini», osservò il Lord. «Non è un cane cattivo, Cooper. A mio padre piacevano i bulldog, e aveva un bastardo.» Il cane stava guardando in faccia il Lord con quel tipico muso ingrugnito della sua razza, e il nobile pensò con irriverenza a quanto somigliasse alla faccia da pugile del padre quando questi impugnava il frustino e urlava contro il guardiano. «Fosse per me gli sparerei. Disturberà il bestiame e ucciderà i nostri cani», disse il Lord. «Senti che facciamo, Cooper: dirò al guardiano di occuparsene lui. Quella bestia riuscirebbe ad assalire una pecora, e non intendo sfamarla con i miei cosciotti d'agnello.» Ma il cane non voleva saperne di muoversi. Guardò il Lord con uno sguardo triste e, quando i due uomini ebbero fatto qualche passo, li seguì timidamente. Inutile cercare di levarselo di torno. Correva in circolo intorno a loro, come il cane infernale nel Faust, a parte il fatto che non lasciava una scia di fuoco alle sue spalle. E faceva queste mosse con un'aria così implorante, da commuovere alla fine l'oggetto della sua strana simpatia. Così, alla fine, il nobile lo chiamò di nuovo, lo accarezzò e, per farla breve, lo adottò. Adesso il cane li seguiva impettito, come se fosse sempre appartenuto al Bel Charlie. Cooper aprì il cancelletto di ferro, e il cane gli si mise dietro e li seguì dentro la cappella scoperta. I Marston riposavano in file ordinate sotto il pavimento della piccola costruzione. La cappella era priva di volta; ogni defunto aveva il proprio sepolcro ben delineato dalle mattonelle e sormontato da un coperchio di pietra che recava sulla lastra superiore l'epitaffio. Il vecchio Toby non l'aveva. Sul suo sepolcro c'erano solo l'erba e la fila di piastrelle che indicava dove andava messo il coperchio, qualora la famiglia avesse voluto provvedere a farne costruire uno.
«In effetti sembra un po' trascurato. È compito di mio fratello maggiore, ma se lui non vuole provvedere, ci penserò io, e metterò bene in chiaro che è stato il figlio minore a far deporre la lapide.» Camminarono nel piccolo terreno di sepoltura. Il sole, ormai, era dietro l'orizzonte, e il chiarore metallico emanante dalle nuvole, ancora illuminate dal sole che scompariva, fiammeggiava nel tramonto. Quando Charlie rientrò di nuovo nella cappella, vide il cane seduto sulla tomba del nobile Toby che pareva il doppio di quello che era e che faceva delle mosse talmente curiose da lasciare interdetto il giovane Lord. Se avete mai visto un cane allungato sul pavimento, con un mazzo di valeriana, che si distende, si contorce e si sfrega le mascelle in un'autentica estasi sensuale, allora avete assistito a un fenomeno simile a quello che vide il Bel Charlie. La testa della bestia pareva così grossa, il corpo talmente lungo e sottile, e le giunture così sgraziate e slogate, che il Lord, col vecchio Cooper accanto, rimase a guardarlo con una sensazione di ribrezzo e uno sbalordimento tali da cedere all'impulso di colpirlo ben due volte col bastone. La bestia si riebbe dall'estasi, si rialzò sulle zampe e poi, all'improvviso, si parò davanti al nobile con un ghigno terribile e due occhi luccicanti di furia canina. Un attimo dopo si accucciò tutto obbediente ai piedi del Bel Charlie. «Questa bestia è davvero bizzarra!», disse il vecchio Cooper, lanciandogli un'occhiataccia. «A me piace», disse il Lord. «A me no», disse Cooper. «Ma non deve più entrare qui dentro», aggiunse il nobile. «Non mi stupirebbe se fosse una strega», mormorò il vecchio Cooper, che ricordava molte storie di stregoneria oramai dimenticate in quella parte del mondo. «È un bravo cane», disse il Lord con voce sognante. «Se penso che un tempo mi sarei fatto in quattro per lui... Ma adesso non faccio più niente per niente. Vieni qui.» Si abbassò ad accarezzarlo, e il cane sollevò le zampe e lo guardò negli occhi come se cercasse un segno, anche il più piccolo, al quale obbedire. A Cooper non piaceva neanche un po', e non riusciva a capire che cosa ci trovasse di bello il padrone. Lo teneva per tutta la notte nella sala delle armi, e il cane lo accompagnava nelle sue passeggiate zoppicanti intorno alla casa. Più il padrone si affezionava alla bestia, e meno questa riusciva simpatica a Cooper e agli altri servitori.
«Quel cane non ha nulla di buono», mugugnava il vecchio Cooper. «Secondo me, Padron Charlie è cieco. E il vecchio Capitano», (un anziano pappagallo rosso incatenato con una zampetta al trespolo del salotto di quercia che parlava da solo e beccava il trespolo per tutto il giorno), «...il vecchio Capitano, l'unico ancora in vita oltre a me e al Signore che ricordi il vecchio padrone, la prima volta che ha visto il cane ha cominciato a schiamazzare come se l'avessero ferito, scuotendo le penne quasi impazzito, e si è messo a saltare su e giù sul trespolo.» Ma quello che passa per la mente della gente non si può mai sapere, e il Lord era una di quelle persone testarde che si ostinano nei propri capricci quanto più trovano opposizione alla realizzazione dei loro desideri. Le condizioni delle sue gambe, tuttavia, continuavano a peggiorare. Il passaggio da una vita attiva e sportiva ad una statica aggravava infatti la sua salute, ed egli cominciò a soffrire di tutta una serie di disturbi dispeptici che non avrebbe mai immaginato. Tra questi il frequente problema del sonno tormentato da sogni ed incubi, nei quali compariva invariabilmente il suo cane prediletto, che vi aveva spesso una parte centrale o si presentava a volte come una figura solitaria. In queste visioni la bestia allungava le zampe sul letto del gentiluomo e poi, assumendo proporzioni gigantesche, si accucciava ai suoi piedi mostrando una somiglianza spaventosa con la faccia da pugile del vecchio Toby, agitando la testa e sollevando il muso. Quindi gli parlava di Scroope, dicendogli che «le cose non andavano troppo bene» e che «doveva riappacificarsi con Scroope», e che lui, il vecchio, «gli aveva giocato un brutto tiro», che «l'ora era vicina», che «quello che era giusto era giusto», e che il vecchio, nel posto in cui si trovava, «era preoccupato per Scroope». Poi, nel sogno, la bestia semiumana gli si avvicinava alla faccia, passandogli sul corpo pesante come piombo, e cominciava a torcere le zampe e fargli quelle ripugnanti carezze che Charles gli aveva visto fare sulla tomba del vecchio Lord. Allora si svegliava gridando, col fiato corto, e si metteva seduto sul letto, completamente madido di sudore, con la sensazione di vedere qualcosa di bianco che si allontanava dai piedi del letto. Certe volte pensava che fosse la tendina bianca caduta sul letto o il copriletto scivolato giù per via del suo sonno agitato, ma in certi momenti aveva la netta impressione di vedere qualcosa di bianco che si allontanava velocemente dal letto. E, ogni volta che faceva uno di questi sogni, il cane, la mattina dopo, era più espansivo e servile del solito, come se volesse fargli dimenticare la sensazione di disgusto e di orrore che gli aveva lasciato la
notte. Il dottore tranquillizzò in parte il Bel Charlie dicendogli che quei sogni non avevano nulla di strano, essendo con tutta probabilità collegati ai problemi di digestione di cui soffriva. Per un po', quasi a conferma di tale teoria, il cane non comparve più, ma alla fine Charles ebbe una visione più sgradevole che mai, nella quale la bestia assumeva di nuovo il ruolo centrale. Nell'incubo la stanza pareva completamente buia: sentiva il cane che si avvicinava lentamente al suo letto dalla porta, accostandosi al lato su cui si metteva sempre. Una parte della camera non aveva tappeto, e da lì giungevano i passi felpati caratteristici di un cane. Malgrado fossero estremamente leggeri, ad ogni passo tutta la stanza tremava violentemente. Poi sentiva qualcosa che si posava ai piedi del letto, e vedeva due occhi verdi che lo fissavano nel buio, magnetizzando il suo sguardo. E poi gli pareva di udire il vecchio Toby che lo avvertiva: «L'undicesima ora è passata, Charlie, e tu non hai fatto niente... Tu ed io abbiamo fatto a Scroope un torto!». Altre parole, quindi: «L'ora è giunta... sta per colpire». E con un lungo ringhio cupo, la creatura cominciava a strisciare avanti; il ringhio proseguiva, e il nobile vedeva il riflesso degli occhi verdi sulle lenzuola, mentre la bestia si avvicinava lentamente con tutto il corpo verso la sua faccia. Il Bel Charles si svegliò con un urlo. La lampada, che negli ultimi tempi aveva preso l'abitudine di portarsi in camera, si era incidentalmente rotta. Aveva paura di alzarsi, perfino di guardarsi intorno, tanto era certo di sentirsi addosso quegli occhi verdi che lo scrutavano da qualche angolo. Si era appena ripreso dal turbamento in cui ti lascia un incubo al risveglio, e stava cominciando a riordinare i pensieri, quando udì l'orologio battere la mezzanotte. Allora ripensò alle parole: «L'undicesima ora è passata... l'ora è giunta... sta per colpire», ed ebbe quasi il terrore di sentire nuovamente la voce che ripeteva quelle frasi. Il mattino dopo scese giù con il viso stravolto. «Vecchio Cooper, conosci una stanza», disse, «che un tempo chiamavano la Camera di Re Erode?» «Certo, Signore. La storia di Re Erode era affissa al muro, quand'ero ragazzo.» «Dovrebbe esserci uno stanzino lì dentro, giusto?» «Non ne sono sicuro, ma credo che non valga la pena entrarci. Le tende sono marcite e sono state tolte dalle pareti prima della vostra nascita, e l'unica cosa che ci è rimasta sono vecchi oggetti rotti e mobili sgangherati.
Ho visto io stesso il povero Twinks metterceli dentro; era rimasto orbo da un occhio, così l'avevano fatto lacchè. Vi ricordate di lui? Morì in questa casa all'epoca della grande nevicata. Fu una bella faticaccia seppellirlo, povero Twinks!» «Prendi la chiave, Cooper. Voglio dare un'occhiata a quella camera», disse il gentiluomo. «E che diavolo cercate, lì dentro?», domandò Cooper con il tono permesso un tempo ai maggiordomi di campagna. «E a te che diavolo importa? Comunque te lo dico lo stesso. Non voglio più tenere il cane nella sala delle armi. Vorrei metterlo da qualche altra parte, e lì dentro potrebbe andare bene.» «Un bulldog in una camera da letto! Signore, la gente dirà che vi ha dato di volta il cervello!» «Lascia che parlino. Va' a prendere la chiave e andiamo a dare un'occhiata alla stanza.» «Fareste bene a sparargli, Padron Charlie. Non immaginate che baccano ha fatto tutta la notte nella sala delle armi, camminando su e giù come una tigre in gabbia. E poi, dite quello che vi pare, ma quella bestia non merita d'essere nutrita: non è un cane, è un cagnaccio.» «Conosco i cani meglio di te... e ti dico che è un buon cane!», disse il Lord, ostinato. «Se aveste un po' di giudizio, lo fareste impiccare», borbottò Cooper. «Non ho nessuna intenzione di farlo, e la discussione finisce qui. Va' a prendere la chiave, e tieni la bocca chiusa mentre scendi. Potrei cambiare idea.» In realtà, questo strano capriccio di andare a vedere la camera di Re Erode rispondeva a uno scopo completamente diverso da quello dichiarato dal gentiluomo. La voce udita nell'incubo gli aveva impartito un ordine preciso, e non gli avrebbe dato pace finché non le avesse obbedito. Tutt'altro che preoccupato per il cane, adesso cominciava a guardarlo con un orrendo sospetto; e se il vecchio Cooper non lo avesse contrariato, oserei dire che si sarebbe sbarazzato dell'inquilino quella sera stessa. Salì insieme al vecchio Cooper le scale che conducevano al terzo piano, da lungo tempo in disuso. Alla fine di una polverosa galleria c'era la porta della camera. L'antica tappezzeria dalla quale la stanza aveva preso il nome, era stata sostituita molto tempo prima dalla carta, la quale trasudava umidità e si era scollata in diversi punti dalle pareti. Il pavimento era ricoperto da uno strato di polvere. In fondo alla stanza erano state ammucchia-
te sedie e tavole rotte sulle quali si era posata una coltre di polvere. Entrarono nello stanzino, che era quasi vuoto. Il gentiluomo si guardò intorno, difficile dire se con sollievo o delusione. «Niente mobilio», osservò il gentiluomo, e si mise a scrutare dalla finestra polverosa. «Non mi hai detto qualcosa, ultimamente - non intendo stamattina - a proposito di questa camera o dello stanzino, che adesso non ricordo più?» «Dio vi benedica! No. Erano quarant'anni che non pensavo più a questa camera.» «Non c'è un vecchio mobile, un buffet, che tu ricordi?», domandò il gentiluomo. «Un buffet? Ah, sì... c'era un buffet in questo stanzino, una volta, adesso che me lo fate venire in mente», disse Cooper. «Ma è stato rivestito di carta.» «E che cos'è?» «Un ripostiglio a muro», rispose il vecchio. «Capisco... Ed è rimasto qui dentro, sotto la carta? Mostrami in che punto era.» «Dunque... mi sembra che stesse qui», rispose il maggiordomo picchiando con le nocche sul muro di fronte alla finestra. «Sì, eccolo», disse, sentendo che rispondeva il suono cupo di una porta di legno. Il gentiluomo tolse via tutta la carta dalla parete, e scoprì le ante di un ripostiglio incassato nel muro. «Il posto adatto per le mie pistole e tutto il mio ciarpame», disse il gentiluomo. «Andiamocene. Lasceremo il cane dov'è. Hai la chiave di quel ripostiglio?» Cooper non l'aveva. Il vecchio padrone l'aveva svuotato e chiuso a chiave, ordinando che venisse ricoperto con la carta, e la storia era finita lì. Il gentiluomo scese giù e prese un robusto cacciavite dalla cassettina degli attrezzi, dopodiché risalì tranquillamente alla camera di Re Erode dove, senza troppa difficoltà, riuscì a forzare la serratura del ripostiglio. Al suo interno trovò delle lettere e dei contratti d'affitto annullati, e anche un incartamento legale che portò alla finestra e lesse con molta trepidazione. Si trattava di un atto supplementare redatto circa due settimane dopo gli altri e precedente il matrimonio di suo padre, con il quale Gylingden veniva assegnata al figlio maggiore, il cosiddetto «erede maschio». Il Bel Charlie, nel corso della causa con il fratello, aveva acquisito una certa perizia tecnica, sicché conosceva benissimo l'effetto che quel documento avrebbe pro-
dotto, non solo facendo passare la casa e i terreni nelle mani di Scroope, ma lasciando anche lui alla mercé del dissanguato fratello, che avrebbe potuto esigere la restituzione di ogni ghinea ricavata dagli affitti dal giorno della morte del padre. Era una giornata triste e nuvolosa, vagamente minacciosa, e il buio della stanza veniva reso ancora più opprimente dalla cima di un enorme albero che copriva la finestra. In uno stato di confusione terribile cercò di riflettere bene sulla propria situazione. Si mise in tasca il documento, propenso a distruggerlo. Poco tempo prima non avrebbe esitato un attimo a farlo, date le circostanze: ma adesso i suoi nervi erano scossi, e aveva un terrificante sospetto che la strana scoperta confermava energicamente. Mentre era in questo stato di profonda agitazione, udì sniffare dietro la porta dello stanzino, poi grattare con impazienza e ringhiare cupamente. Raccogliendo tutto il coraggio senza sapere che cosa aspettarsi, aprì la porta e vide il cane... e stavolta non era un sogno. La bestia tremava di gioia, si accucciava e gli faceva le feste con sottomissione. Poi, girando intorno alla credenza, si mise a ringhiare spaventosamente, in preda a un'incontrollabile agitazione. Infine tornò da lui, gli fece le feste e si accucciò di nuovo ai suoi piedi. Superato il primo momento, l'orrore e la paura cominciarono a passare, e il gentiluomo quasi si rimproverò per aver ricambiato l'affetto di quel povero bestione solitario con un'antipatia che non si meritava affatto. Il cane lo seguì giù per le scale. Cosa strana, la vista dell'animale, dopo il primo attimo di repulsa, lo rassicurava: aveva uno sguardo così affettuoso, così devoto, da povero cane. Prima di sera il gentiluomo aveva preso una decisione di compromesso: non avrebbe messo il fratello al corrente della scoperta, ma non avrebbe neanche distrutto il documento. Non si sarebbe mai sposato: ormai l'età era passata. Avrebbe lasciato una lettera in cui rivelava l'esistenza dell'atto di donazione indirizzata all'unico beneficiario superstite - il quale, probabilmente, aveva dimenticato tutto - facendo sì che tutto tornasse in ordine dopo la sua morte. Non era onesto? Ad ogni modo, quel diabolico compromesso metteva a tacere la sua coscienza e, quando scese il tramonto, il Lord uscì fuori a fare la consueta passeggiata. Quando rincasò, al crepuscolo, il cane, che come al solito lo stava aspettando, cominciò a dimostrarsi nervoso. Inizialmente gli saltava intorno compiendo ampie giravolte, quasi al massimo della velocità, tenendo la te-
sta tra le zampe. Poi, poco a poco, divenne sempre più eccitato, descrivendo giravolte più serrate e ringhiando con maggiore ferocia, tanto che il gentiluomo, vedendo quello sguardo lucido, temendo che lo attaccasse, si fermò e si appoggiò con forza al bastone. Girandosi continuamente intorno per sorvegliare la bestia e colpendo a vuoto con il bastone, alla fine si era stancato a tal punto da disperare quasi di riuscire a tenerla a bada quando, all'improvviso, il cane si fermò e si accucciò ubbidiente ai suoi piedi. Non poteva trovare un modo più efficace e sottomesso per scusarsi e, quando il Lord gli assestò due pesanti colpi di bastone, il cane si limitò ad uggiolare e gli leccò i piedi. Il gentiluomo si mise a sedere sul tronco di un albero caduto, e il suo muto compagno, ritrovando immediatamente lo spirito, cominciò ad annusare e ruzzare tra le radici. Il gentiluomo controllò il documento che aveva in tasca: era ancora al suo posto. E di nuovo, in quel posto solitario, valutò se era meglio conservarlo dopo la morte sua e del fratello, oppure distruggerlo immediatamente. In verità cominciava a propendere per quest'ultima soluzione, quando il ringhiare cupo del cane, che si aggirava nei pressi, lo fece sobbalzare. Si trovava in un malinconico boschetto di vecchi alberi che declinava dolcemente ad ovest. Il medesimo effetto bizzarro di luce che ho descritto in precedenza, un debole chiarore rosso rimasto in cielo dopo il tramonto del sole, conferiva all'incipiente oscurità una persistente luminescenza. Il boschetto, accoccolato in un dolce incavo del terreno, con quella forma circolare che delimitava l'orizzonte su tre lati, ispirava una peculiare sensazione di solitudine. Si alzò in piedi e scrutò da una sorta di barriera naturale formata da alberi caduti l'uno sull'altro, e dall'altra parte vide il cane che si allungava orrendamente, col suo brutto testone che, visto da quel punto, sembrava il doppio. Stava rivivendo il sogno. E tra i tronchi apparve il muso della bestia, seguito dal lungo collo che si intrufolava tra le fronde e poi dal corpo attorcigliato come quello di un enorme lucertolone bianco. E, mentre si infilava contorcendosi tra i tronchi, il cane ringhiava e lo guardava inferocito come se volesse sbranarlo. Al massimo della velocità consentitagli dalla gamba zoppa, il gentiluomo abbandonò di corsa quel luogo solitario dirigendosi verso casa. I pensieri che gli passarono per la testa in quel momento sono sicuro che non li avrebbe rivelati a nessuno. Ma, quando il cane lo raggiunse, gli parve che si fosse calmato, che fosse perfino allegro, e non più la bestia che lo tormentava nei sogni. Quella notte, intorno alle dieci, il nobile, molto agitato, mandò a chiama-
re il guardiano, e gli disse che doveva uccidere il cane poiché riteneva che fosse impazzito. Poteva sparargli direttamente nella sala delle armi: un paio di proiettili nella carta del muro non avrebbero avuto importanza, e il cane, in tal modo, non avrebbe potuto scappare. Il signore consegnò al guardacaccia la propria doppietta caricata a pallottole, ma non volle seguirlo oltre l'ingresso. Posò una mano sul braccio dell'uomo, e il guardiano si accorse che tremava, e che sembrava «pallido come un morto». «Ascolta», disse il Lord a bassa voce. Sentirono il cane che si muoveva nella stanza in uno stato di grande eccitazione: ringhiava minacciosamente, saltava sul davanzale della finestra e poi si metteva a correre per tutta la sala. «Devi essere deciso, bada bene! Non dargli l'opportunità di attaccare. Portati di fianco, capito? E scaricagli addosso la doppietta!» «Non è il primo cane impazzito che sistemo, Signore», disse l'uomo, assumendo un'espressione molto seria mentre inclinava il fucile. Non appena il guardacaccia aprì la porta, il cane si infilò dentro il camino vuoto. L'uomo esclamò che non aveva mai visto «un demonio simile». La bestia si girò su se stessa, come se volesse saltare dentro la cappa, e lanciò un urlo... un urlo non da cane, ma da uomo finito sotto la macina del mulino e, prima che potesse saltare, il guardacaccia gli sparò. Il cane balzò verso di lui, ricevendo una seconda scarica di fucile alla testa, quindi si acquattò ansimando ai piedi dell'uomo. «Mai vista una bestia come questa. Mai sentito un cane urlare a quel modo!», disse il guardiano, riavendosi dallo stupore. «Mi ha messo i brividi!» «È morto veramente?», domandò Lord Charles. «Non si muove neppure un pelo», rispose l'uomo, trascinandolo sul pavimento per il collo. «Adesso portalo fuori», disse il padrone, «poi, stanotte, buttalo fuori dal cancello. Il vecchio Cooper dice che è una strega reincarnata», aggiunse sorridendo, «perciò non può essere seppellito dentro la proprietà.» Adesso che era stato eliminato il cane, non esisteva uomo più felice del nobile, e per tutta la settimana successiva egli dormì come non faceva più da giorni e giorni. Quando si prende una saggia decisione è bene agire subito, perché c'è una certa tendenza al male che, se lasciata libera, finisce per soffocare la buona intenzione iniziale. Anche se in un momento di paura superstiziosa
il Lord si era deciso al grande sacrificio di agire onestamente verso il fratello, dopo un po', infatti, aveva optato per il compromesso, rimandando la restituzione dell'eredità a un periodo successivo in cui il fratello non avrebbe più potuto goderne. Poi arrivarono nuovi messaggi minatori e violenti da parte di Scroope, i quali ripetevano sempre la medesima minaccia, che non avrebbe lasciato nulla di intentato, cioè, per dimostrare che esisteva un documento che Charles aveva nascosto o distrutto, e che non avrebbe mai avuto pace finché non l'avesse visto impiccato. Ovviamente erano solo parole. All'inizio, Charles si era semplicemente irritato, ma adesso che sapeva e che era colpevole, era sopraggiunta la paura. L'esistenza del documento lo metteva in pericolo e, poco a poco, giunse alla decisione di distruggerlo. Ebbe molti tentennamenti e ripensamenti prima di risolversi a commettere il crimine, ma alla fine lo fece, e si sbarazzò di quello che col tempo avrebbe potuto trasformarsi nello strumento della sua disgrazia e della sua rovina. Quando l'ebbe fatto si sentì sollevato, ma provò anche un nuovo e terribile senso di colpa. Ormai non aveva più timori superstiziosi: era un problema di natura differente ad agitarlo. Ma quella notte immaginò di essere svegliato da un violento scossone del letto. Nella luce fioca che regnava nella stanza, vide due figure ai piedi del letto, appoggiate alle colonne. Una somigliava a suo fratello Scroope, mentre l'altra era sicuramente il vecchio Lord, ed erano stati loro a destarlo dal sonno. Quando Charlie si svegliò, il genitore stava parlando, e diceva: «Buttati fuori da casa nostra da te! Ma non durerà per molto. Torneremo insieme, da buoni amici, e ci resteremo. Eri stato avvertito di tenere gli occhi ben aperti... e adesso Scroope ti impiccherà! Ti impiccheremo insieme! Guardami, figlio del demonio!». E il vecchio, tremando, avvicinò la faccia, che era crivellata di pallottole e ricoperta di sangue, e somigliava sempre di più a quella di un cane. Poi cominciò ad arrampicarsi sul letto, e Charles vide che anche l'altro personaggio, poco più di un'ombra, faceva altrettanto, e nella camera, all'improvviso, scoppiò una terribile confusione, con botti, strepiti e risa. Non riusciva a distinguere le parole, e poi si svegliò con un urlo, ritrovandosi in piedi sul pavimento. I fantasmi e il fracasso erano spariti, ma gli restava ancora nelle orecchie l'eco del frastuono. La grande caraffa di porcellana, con la quale erano state battezzate generazioni di Marston, era caduta dalla mensola del camino, fracassandosi sulla pietra del focolare. «Ho sognato per tutta la notte il signor Scroope, e non mi meraviglierei,
vecchio Cooper, se fosse morto», disse il nobile quando, la mattina dopo, scese giù. «Misericordia divina! L'ho sognato anch'io, Signore. Ho sognato che si dibatteva e sprofondava in una fossa, e il vecchio padrone, Dio lo benedica - giurerei che era proprio lui - l'ho sentito chiaramente che mi diceva: "Cooper, alzati, m... ladro vagabondo, e dammi una mano a impiccarlo... che è una stupida carogna, non è il mio cane". Parlava del cane ammazzato l'altra notte, penso, e quello che mi diceva mi ronzava dentro questa vecchia zucca. Il padrone mi diede un pugno, e io mi svegliai e dissi: "Al vostro servizio, Signore", e per un po' non riuscii a togliermi dalla testa l'idea che il padrone fosse ancora nella camera.» Certe lettere giunte dalla città, tuttavia, convinsero ben presto il Lord che il fratello Scroope, ben lungi dall'essere morto, era vivo e vegeto e si stava dando particolarmente da fare. E l'avvocato, seriamente allarmato, scrisse a Charlie che per caso aveva sentito che suo fratello intendeva portare in tribunale un atto di donazione supplementare, del quale possedeva una copia, che gli avrebbe fatto riavere Gylingden. Nel sentire tale minaccia, il Bel Charlie schioccò le dita e scrisse coraggiosamente al proprio avvocato di aspettare quello che succedeva, ma aveva uno strano presentimento. Adesso Scroope lo minacciava forte, lo ingiuriava com'era suo solito, e ripeteva la vecchia promessa che alla fine lo avrebbe fatto impiccare. Nel bel mezzo delle minacce e dei preparativi legali, però, si ebbe improvvisamente la pace: Scroope morì, senza avere nemmeno il tempo di preparare un'offensiva contro il fratello. Fu uno di quegli attacchi di cuore in cui la morte arriva sparata come un proiettile. L'esultazione di Charlie fu manifesta, ma non maligna, perché significava la fine della sua segreta paura. Ed ebbe anche la paradossale fortuna che, proprio il giorno prima, Scroope aveva distrutto il vecchio testamento - in cui lasciava tutti i suoi averi ad uno sconosciuto - con l'intenzione di dettarne un altro nel giro di due giorni a favore della medesima persona, con la condizione aggiuntiva che questa proseguisse la causa contro Charlie. Il risultato fu che tutti i suoi beni passarono incondizionatamente al fratello Charles e ai suoi eredi: un motivo di autentico giubilo. Ma restava anche l'odio profondo di metà di una vita passata in mutue offese e insulti: e il Bel Charlie era capace di nutrire rancore e godere della vendetta con tutto il cuore. Avrebbe volentieri impedito che il fratello venisse sepolto nell'antica
cappella di Gylingden, dove lui desiderava essere seppellito, ma i suoi legali gli dissero che dubitavano molto che potesse prendersi un tale diritto. Inoltre non era immune allo scandalo che sarebbe scoppiato se non avesse partecipato al funerale al quale, come sapeva, sarebbe intervenuta quasi tutta la nobiltà di campagna, più altra gente che stimava i Marston. Tuttavia impose ai propri servitori di non partecipare alle esequie del fratello, minacciando, con strilli e improperi, che avrebbe chiuso la porta in faccia a chiunque avesse disubbidito ai suoi ordini. Personalmente non credo, ad eccezione del vecchio Cooper, che ai servitori importasse molto della proibizione fatta loro, a parte il fatto che accendeva una forte curiosità in quell'angolo solitario di campagna. Cooper era molto contrariato dal fatto che il figlio maggiore del vecchio gentiluomo venisse sepolto nell'antica cappella di famiglia senza che Gylingden Hall gli mostrasse il dovuto rispetto. Domandò al padrone se aveva almeno l'intenzione di far servire del vino e dei rinfreschi nel salotto di quercia, nel caso qualche gentiluomo di campagna fosse venuto in casa a presentare i propri rispetti alla famiglia. Ma il Lord lo prese a male parole, gli disse di pensare agli affari suoi e gli ordinò di dire, in questa eventualità, che lui era fuori e che non era stato fatto alcun preparativo, e di mandare via chiunque immediatamente. Cooper dissentì apertamente, il nobile si adirò ancora di più e, dopo una scena tumultuosa, prese bastone e cappello ed uscì, proprio mentre si vedeva il corteo funebre che scendeva a valle dalla collina dell'Old Angel Inn. Il vecchio Cooper se ne andava in giro sconsolato, contando le carrozze che passavano davanti al cancello. Quando il funerale finì e la gente cominciò ad andarsene, tornò verso casa, la quale, come al solito, era deserta. Prima di raggiungerla, però, arrivò una carrozza funebre, dalla quale scesero due gentiluomini con i mantelli neri e i cappelli con la fascia nera che salirono le scale di casa senza guardare in faccia nessuno. Cooper li seguì piano piano. La carrozza, dedusse, doveva essersi spostata dall'altra parte del cortile perché, quando arrivò all'ingresso, non c'era più. Così seguì dentro i due uomini in lutto. Nell'atrio trovò un servitore che gli disse di aver visto due signori con i mantelli neri che attraversavano l'ingresso e salivano su per le scale senza levarsi il cappello e senza chiedere il permesso a nessuno. Era un comportamento molto strano, pensò il vecchio Cooper, e anche ineducato, così decise di salire su anche lui ad indagare. Tuttavia non li trovò da nessuna parte, neppure in seguito. Ma, da quel
momento in poi, la casa non ebbe più pace. Non c'era domestico che non avesse qualcosa da raccontare. Passi e voci che li seguivano per i corridoi, mezzi sussurri, sempre minatori, che li atterrivano agli angoli delle gallerie o nei punti più bui. In preda al panico, correvano a riferirlo alla signora Beckett, ma questa non dava nessun credito a storie simili. Dopo un po', tuttavia, la stessa signora Beckett cominciò a cambiare parere. Anche lei, infatti, cominciava a sentire queste voci, e per di più con l'aggravante che arrivavano sempre quando recitava le preghiere - dovere che la donna non scordava mai di adempiere da tutta una vita - interrompendola all'improvviso. La spaventavano con mezze parole e frasi che si trasformavano, se lei continuava a pregare, in minacce e imprecazioni blasfeme. Le voci non venivano sempre dalla stanza. La chiamavano, così le pareva, attraverso i muri spessi della casa, degli appartamenti vicini, a volte da uno e a volte dall'altro; certe volte sembravano echeggiare da androni lontani, e giungevano soffocate, ma minacciose, dai lunghi corridoi pannellati. Mano a mano che si avvicinavano diventavano furiose, come se parlassero tutte insieme. Ogni volta, come ho detto, che questa pia donna si applicava alla preghiera, sentiva quelle frasi orribili, e allora, presa dal panico, si rialzava di colpo dalla genuflessione, e tutti i rumori istantaneamente tacevano, tranne i tonfi sordi del suo cuore e i tremiti dei suoi nervi. Che cosa dicessero le voci, la signora Beckett non lo ricordava più non appena queste cessavano di parlare. Ogni frase copriva l'altra; allusioni, minacce e denunce si perdevano nell'aria non appena pronunciate. E il fatto che lei, malgrado ogni sforzo, non riuscisse a ricordare il contenuto esatto di quelle invettive terrificanti, sebbene le restasse ben impresso nella mente il loro carattere orribile, peggiorava decisamente le cose. Per un po' il signore parve l'unica persona in tutta la casa a restare completamente immune da simili disturbi. La signora Beckett aveva deciso ben due volte, quella settimana, di andarsene; essendo una donna prudente, tuttavia, e trovandosi perfettamente a suo agio in quella casa da più di vent'anni, ci stava pensando bene, prima di farlo. La signora e il vecchio Cooper erano gli unici domestici che ricordavano la buona gestione della casa ai tempi del signor Toby; gli altri, non potevano neanche essere considerati attendenti regolari. Meg Dobbs, la cameriera, non dormiva alla residenza, e tornava tutte le sere alla casa del padre sotto la scorta del fratellino. L'anziana signora Beckett, che aveva sempre trattato con distacco i domestici di fortuna della decaduta Gylingden, d'un tratto si lasciò andare
e disse alla signora Kymes e alla cuoca di spostare i loro letti nel suo stanzone dalla carta sbiadita, dove, a dirla sinceramente, condivise i propri terrori notturni con loro. Il vecchio Cooper era capzioso e critico nei confronti di queste storie. Già era abbastanza perplesso per via dell'entrata dei due personaggi vestiti di nero, in merito ai quali non poteva sbagliarsi, dal momento che li aveva visti con i propri occhi. Si rifiutava, però, di credere ai racconti delle donne, cercando di convincersi che i due uomini, non trovando nessuno a riceverli, potevano essersene andati benissimo. Una sera il vecchio Cooper venne convocato nel salotto di quercia dove il padrone stava fumando. «Dico io, Cooper», disse il nobile, che aveva l'aspetto pallido e l'espressione adirata, «perché mai hai deciso di terrorizzare quelle povere donne con le tue storie assurde? M... a me, se cominci a vedere i fantasmi è tempo che tu faccia i bagagli, perché non ho nessuna intenzione di restare senza servitù. Sono venute da me la vecchia Beckett, la cuoca e la cameriera, bianche come la cera, in fila una dietro all'altra, a dirmi che devo far venire un prete a dormire da loro per scacciare il Demonio con le preghiere! Giuro che sei stato proprio bravo a metter loro questi grilli per la testa! E Meg se ne torna a casa sua tutte le sere, terrorizzata all'idea di dormire qui... sempre opera tua, tua e delle tue assurde storie da comare. Hai fatto spaventare anche il vecchio Tom O'Bedlam!» «Non è colpa mia, Padron Charles. Non sono storie che ho messo in giro io, perché io non ho fatto altro che dire a tutti che sono soltanto fantasie e invenzioni. La signora Beckett ve lo può dire, e ci sono state brutte parole tra di noi proprio per questo motivo. A prescindere da quello che penso io», disse il vecchio Cooper con un tono allusivo, guardandolo fisso e leggendo la paura sulla faccia del nobile. Il Lord allontanò gli occhi e borbottò qualcosa tra sé e sé, gli girò le spalle per svuotare la pipa sulla mensola del camino, e poi, bruscamente, si voltò di nuovo verso Cooper, con la faccia pallida ma meno adirata di prima. «Lo so che non sei uno sciocco, Cooper, quando vuoi. Ipotizzando che ci fosse davvero un fantasma, non andrebbe di certo a parlare con quelle beccacce. Di che ti preoccupi, vecchio, se non mi preoccupo io? Una volta facevi funzionare la testa, come diceva mio padre. M..., vecchio mio, non devi permettere che mettano in giro delle chiacchiere che non dovrebbero su Gylingden e sulla famiglia. Sono sicuro che non lo vuoi neanche tu,
vecchio Cooper. Le donne hanno finito in cucina: accendi un po' di fuoco e prendi la pipa... Verrò a farti compagnia quando avrò finito: ci faremo una fumatina insieme e ci berremo un bicchiere di brandy.» L'anziano maggiordomo, avvezzo a simili familiarità in quella casa disordinata e solitaria, scese giù come gli era stato detto: quelli che possono scegliersi le compagnie non siano troppo severi con il nobile che non poteva. Quando ebbe sistemato le cose, si mise a sedere nella vecchia cucina posando i piedi sulla grata del camino; la candela bruciava nel grande candeliere d'ottone sul tavolino accanto al suo gomito, vicino alla bottiglia di brandy, ai bicchieri e alla pipa già carica. Avendo terminato tali preparativi, il vecchio maggiordomo, che ricordava tempi e generazioni migliori, si abbandonò ai ricordi e, poco a poco, si addormentò profondamente. Il vecchio Cooper venne disturbato da una risata leggera che gli giungeva vicino alla testa. Stava sognando dei vecchi tempi nella Sala, e immaginava uno dei «giovani Signori» che stava per fargli uno scherzo. Mormorò qualcosa nel sogno, e poi venne svegliato da una voce severa e profonda che gli diceva: «Non eri al funerale. Potrei toglierti la vita, ma mi accontenterò del tuo orecchio». Nello stesso istante ricevette una spinta violenta alla testa che lo fece saltare in piedi. Il fuoco si era spento, e lui stava gelando. La candela si stava estinguendo, gettando sul muro bianco lunghe ombre che danzavano dal soffitto al pavimento, i cui contorni scuri somigliavano ai due uomini col mantello, che gli tornarono in mente con profondo orrore. Prese immediatamente la candela ed uscì nel corridoio, sulle cui pareti continuavano a danzare quelle ombre scure, con la frenesia di raggiungere la propria camera prima che la fiammella si spegnesse. Il trillo improvviso del campanello del padrone, che suonava furiosamente, gli mise una paura terribile. «Ah, ah! Sentitelo!», disse Cooper, facendosi coraggio nell'udire la propria voce mentre si affrettava a rispondere al furioso suonare del campanello. «Si è addormentato, proprio come è successo a me, e la candela si è spenta...» Quando abbassò la maniglia della porta del salotto di quercia, il Lord esclamò di soprassalto: «Chi è la?», col tono di chi pensa che sia entrato un ladro. «Sono io, il vecchio Cooper, Padron Charlie. Vi aspettavo in cucina, Signore.»
«Sto molto male, Cooper. Hai incontrato qualcuno, venendo qui?», volle sapere il nobile. «No», rispose Cooper. Si guardarono. «Entra... rimani qui! Non mi lasciare. Da' un'occhiata in giro, e dimmi se è tutto a posto. E dammi la mano, vecchio Cooper.» Il Lord era madido di sudore e tremava di freddo. Ormai mancava poco all'alba. Dopo un po' riprese a parlare: «Ho fatto molte cose che non avrei dovuto fare. Non sono pronto ad andarmene, e con l'aiuto di Dio intendo rimediare. Perché non dovrei? Sono zoppo come il vecchio Billy... non sarò mai più capace di fare qualcosa di buono, e smetterò di bere e penserò al matrimonio, come avrei dovuto fare molto tempo fa. Non voglio una signora raffinata, ma una brava donna di casa. C'è la figlia minore del fattore Crump, una brava ragazza molto discreta. Perché non dovrei sposarla? Si prenderebbe cura di me senza esigere smancerie e senza pretendere fronzoli e vestiti. Parlerò con il parroco, e farò quello che è giusto per tutti e, bada, ho detto che mi dispiace di molte cose che ho fatto». Sopraggiunse una gelida alba. Il padrone, disse Cooper, aveva un aspetto terribile e, invece di andarsene a letto, volle prendere cappello e bastone per uscire a fare una passeggiata, con l'ovvia intenzione di evadere da quella casa. Era mezzogiorno quando comparve in cucina, con la certezza di trovare qualche domestico: pareva invecchiato di dieci anni in un giorno solo. Si tirò uno sgabello davanti al fuoco, senza dire una parola, e si mise seduto lì. Cooper aveva mandato a chiamare il dottore ad Applebury, che era appena arrivato, ma Lord Charles non voleva saperne di raggiungerlo. «Se vuole vedermi, che venga qui», borbottò, mentre Cooper lo pregava. E così il dottore andò da lui, e lo trovò in condizioni peggiori di quelle che si aspettava. Il nobile si oppose all'ordine di rimanere a letto, ma il dottore lo spaventò dicendogli che sarebbe morto, sicché alla fine il paziente si arrese. «E va bene, farò come dite. Però dovete permettere al vecchio Cooper e a Dick Keeper di restare con me. Non devo essere lasciato solo, e loro due devono farmi la guardia tutte le notti. Quando mi ristabilirò, andrò a vivere in città. Mi intristisce vivere qui, adesso che non posso più fare quello che facevo prima. In città farò una vita migliore, è sicuro. Voi mi avete sentito, e non mi interessa se rideranno. Parlerò con il parroco. Che ridano pure, e che si impicchino. Significa che è la decisione giusta, alla fin fine.» Il dottore non fu d'accordo sulla compagnia che il Lord si era scelto, e
fece venire due infermiere dall'ospedale della Contea, scendendo a Gylingden di persona a riceverle. Il vecchio Cooper ebbe l'ordine di sistemarsi nello spogliatoio, dove avrebbe fatto la guardia notturna, e tale soluzione soddisfò Lord Charles, il quale versava in uno stato di estrema agitazione, debolezza e minaccia di febbre. Arrivò anche il sacerdote, un vecchietto dolce e istruito sui libri, che rimase a pregare e a parlare con lui fino a tardi. Quando se ne fu andato, il gentiluomo chiamò le infermiere e disse loro: «Ogni tanto viene un tizio: voi non ci badate. Si affaccia alla porta e fa dei cenni. È un tipo magro e gobbo, col cappello a lutto e guanti neri. Lo riconoscerete dalla faccia smunta e scura come la carta del muro. Non fate caso al suo sorriso. Non avvicinatevi e non chiedetegli nulla: lui non parlerà. E se si arrabbia e mi guarda con ira, non abbiate paura, perché non può farvi alcun male, e si stancherà di aspettare e se ne andrà. Per amor di Dio, non invitatelo ad entrare e non lo seguite!». Al termine del colloquio, le infermiere discussero della cosa, e poi decisero di parlarne con il vecchio Cooper. «In nome di Dio! No, non ci sono pazzi in questa casa», protestò questi, «non c'è nessun altro oltre a quelli che vedete... È solo uno scherzo della febbre... nient'altro.» Con il passare della notte le condizioni del nobile peggiorarono. Cadde in delirio, farfugliando di cani, del vino, di avvocati, e poi cominciò a credere di parlare con il fratello Scroope. Nel frattempo la signora Oliver, l'infermiera che sedeva accanto al letto, ebbe l'impressione di udire una mano che si posava piano sulla maniglia esterna della porta e cercava di girarla. «Che Dio ci benedica!», esclamò, con il cuore in tumulto al pensiero di vedere l'uomo gobbo vestito di nero affacciarsi alla porta sorridendo con dei cenni. «Signor Cooper! Signore! Siete voi?», gridò. «Venite qui, signor Cooper, vi prego... presto!» Il vecchio Cooper, svegliato dal pisolino davanti al fuoco, arrivò traballando dallo spogliatoio e, non appena lo vide, la signora Oliver gli afferrò un braccio. «L'uomo gobbo ha cercato di aprire la porta, signor Cooper... è vero come è vero che io sono qui.» Il nobile vaneggiava in preda alla febbre, e non capiva quel che diceva la donna. «No, no! Signora Oliver, madame, è impossibile, perché non c'è nessun gobbo in questa casa. Cosa sta dicendo Padron Charles?» «Continua a ripetere che è Scroope, ma non so cosa significa, e... e...
Shhh! Ascolti... di nuovo la maniglia...» e con uno strillo aggiunse: «Guardi, ha messo la testa e il collo dentro la porta!». Folle di terrore, abbracciò con tutte le forze il vecchio Cooper. La candela stava per spegnersi, e sulla porta c'era un'ombra che pareva la testa di un uomo dal collo lungo e il naso affilato che scrutava dentro la stanza e poi si ritraeva. «Non fate la s... la sciocca, madame!», esclamò Cooper, pallidissimo, scuotendola energicamente. «È solo la candela, ve lo assicuro... non c'è nessuno. Non vedete?» E alzò la luce. «Sono sicuro che non c'era nessuno alla porta, e ve lo dimostrerò, se mi lasciate andare.» L'altra infermiera dormiva sul divano, e la signora Oliver, in preda al panico, la svegliò per avere compagnia mentre il vecchio Cooper apriva la porta. Non c'era nessuno davanti all'uscio, ma all'angolo del corridoio Cooper scorse un'ombra simile a quella che aveva visto nella camera. Sollevò leggermente la candela, e gli parve che l'ombra lo chiamasse con una lunga mano mentre ritirava la testa. «È solo l'ombra della candela!», esclamò il vecchio maggiordomo, deciso a non farsi prendere dal panico com'era successo alla signora Oliver e, con la candela in mano, arrivò fino all'angolo. Non c'era nessuno, ma non poté fare a meno di scrutare nella lunga galleria e, quando mosse la candela, vide la stessa ombra, stavolta un po' più giù, che lo chiamava a gesti. «Sciocchezze!», si disse. «È solo la candela.» Così continuò ad avanzare nel corridoio, in parte irritato e in parte spaventato dalla persistenza di quella strana ombra, perché altro non era. Quando fu vicino al punto in cui la vedeva, l'ombra parve raccogliersi e quasi scomparire nel pannello centrale di un vecchio mobiletto. Il pannello centrale recava scolpita una testa di lupo. La luce della candela la illuminava bizzarramente, e l'ombra fuggitiva parve rompersi e ricomporsi su di essa. Le pupille del lupo brillavano di luce riflessa, la quale illuminava anche le fauci digrignate, e il maggiordomo vide il lungo naso affilato di Scroope Marston e i suoi occhi fieri che lo guardavano minacciosamente. Il vecchio Cooper rimase immobile a guardare, incapace di reagire, prima la faccia, e poi l'intera figura, che uscivano lentamente dal legno. Nello stesso tempo udì avvicinarsi rapidamente delle voci lungo il corridoio, e allora, invocando la misericordia divina, trovò la forza di voltarsi e di correre via, inseguito da un suono che pareva scuotere la vecchia casa come una potente raffica di vento. Il vecchio Cooper entrò precipitosamente nella camera del padrone,
sconvolto dalla paura, quindi afferrò la porta e la chiuse in un baleno, con la faccia di chi è inseguito da un assassino. «Lo sentite?», sussurrò, mettendosi vicino alla porta dello spogliatoio. Le donne si misero in ascolto, ma nemmeno il più piccolo rumore disturbava la quiete della notte. «Dio ci benedica! Credo che la mia vecchia testa sia diventata matta!», esclamò Cooper. Non volle dire niente alle infermiere, continuando a ripetere che era «un vecchio matto», e che ormai gli bastava «un colpo di vento o la caduta di uno spillo» per mettergli paura. Passò tutta la notte a bere brandy e a chiacchierare davanti al fuoco del padrone. Il nobile lentamente si riprese dalla febbre cerebrale, ma non perfettamente. Bastava un'inezia, disse il dottore, a sconvolgerlo. Non era ancora sufficientemente in forze per fargli cambiare aria, cosa necessaria per farlo ristabilire completamente. Cooper dormiva nello spogliatoio, ed era il suo unico attendente notturno. L'invalido aveva strani capricci: gli piaceva stare con la schiena sollevata sul letto a fumare la pipa di terracotta tutte le sere, e diceva al vecchio Cooper di fargli compagnia mettendosi a fumare davanti al fuoco. E così il Lord e il suo umile amico restavano per ore a fumare in silenzio, e soltanto quando aveva finito la terza pipa il padrone di Gylingden apriva la conversazione, e tutte le volte che la cominciava, non era mai l'argomento che Cooper avrebbe gradito. «Ehi, vecchio Cooper, guardami in faccia, e non aver paura di parlare», diceva Lord Charles, guardandolo con un sorriso furbesco. «Hai sempre saputo come me chi c'è in casa. Non c'è alcun bisogno di negarlo, no? Scroope e mio padre, no?» «Non parlate in questo modo, Lord Charles», ribatteva il vecchio Cooper, piuttosto spaventato e sulle sue, dopo un lungo silenzio, continuando a guardarlo in faccia. «A che scopo fingere, Cooper? Scroope si è preso il tuo orecchio destro... lo sai, che è così. Sembra arrabbiato. Non è riuscito a togliermi la vita con questa febbre. Ma con me non ha ancora finito, e sembra che abbia in mente qualcosa di orrendo. Tu l'hai visto... lo sai che è vero.» Cooper era già terrorizzato, e lo strano sorriso del nobile lo spaventava ancora di più. Si toglieva la pipa di bocca e guardava in silenzio il padrone, con la sensazione di vivere in un sogno. «Se è questo che pensate, non dovreste sorridere a quel modo», diceva Cooper.
«Sono stanco, Cooper, e ridere non fa alcuna differenza. Così sorrido finché posso. Lo sai che cosa hanno intenzione di farmi. Volevo dirti soltanto questo. E adesso, amico mio, rimettiti a fumare... voglio dormire.» Così il Lord si girava sul letto e si sdraiava serenamente, con la testa sul cuscino. Il vecchio Cooper lo sorvegliava e lanciava continue occhiate alla porta, si riempiva il bicchiere di brandy, lo ingollava, si sentiva meglio e andava a dormire nello spogliatoio. Una sera venne svegliato nel cuore della notte dal padrone, che era in piedi sul suo letto in vestaglia e pantofole. «Ti ho portato un regalo. Ieri ho riscosso gli affitti di Hazelden, e tu ti terrai la metà... e domani darò l'altra metà a Nelly Carwell, così dormirò meglio. E poi ho visto Scroope. Non è così brutto, in fin dei conti, vecchio mio! Porta un cappello a lutto calato sulla faccia... perché gli ho detto che non potevo sopportarla. Ma adesso farei molte cose per lui. Non ho mai sopportato i tentennamenti. Buona notte, vecchio Cooper!» E il nobile posò delicatamente la mano tremante sulla spalla del vecchio, quindi tornò in camera sua. «Non mi piace per niente lo stato in cui sta. Il dottore viene troppo poco. Non mi piace quel suo sorrisetto strano, e la sua mano era fredda come la morte. Preghiamo Dio che non si sia mangiato il cervello!» Fatte queste riflessioni, Cooper si mise a pensare all'aspetto più piacevole del proprio presente, e alla fine si addormentò. La mattina dopo, quando entrò nella camera del padrone, scoprì che questi si era alzato. «Non importa; tornerà indietro come uno scellino falso», pensò il vecchio Cooper, preparando la stanza come al solito. Ma il Lord non tornò. Allora cominciò l'agitazione, seguita dal panico quando fu chiaro che il nobile non era in casa. Che fine aveva fatto? I vestiti erano ancora là, ma mancavano le pantofole e la vestaglia. Aveva forse lasciato la casa abbigliato in quel modo? E se era così, era ancora sano di mente? Sarebbe riuscito a sopravvivere all'aria aperta, con quel gelo della notte? Poi si presentò Tom Edwards e disse loro che quella mattina, verso le quattro circa - non c'era più la luna - mentre era in compagnia del fattore Nokes, che stava portando il carretto al mercato, aveva visto tre uomini camminare nel buio a meno di venti metri da loro che si dirigevano al cimitero di Gylingden. Qualcuno aveva aperto loro il cancello da dentro, i tre erano entrati e il cancello si era richiuso. Tom Edwards aveva pensato che stessero facendo dei preparativi per il funerale di uno dei membri della famiglia Marston. A Cooper, invece, che sapeva che non era così, il fatto
parve di pessimo augurio. Così cominciò un'attenta ricerca in tutta la casa, e alla fine gli venne in mente il piano disabitato con la camera di Re Erode. Non vi trovò nulla di cambiato, ma la porta dello stanzino era chiusa e nell'oscurità del primo mattino, vide una specie di batuffolo bianco e grosso sulla porta. Inizialmente la porta non volle saperne di aprirsi, perché un grosso peso la teneva incollata al pavimento; ma alla fine cedette, e con un cigolio tremendo che fece rimbombare tutti i corridoi deserti, si aprì con un rumore somigliante ad una risata che si allontanava e talmente forte da stordire. Quando Cooper aprì la porta, trovò il padrone morto sul pavimento. Il fazzoletto da collo gli stringeva la gola come un capestro, e aveva fatto bene il proprio lavoro. Il corpo era freddo: il decesso era avvenuto da diverse ore. A tempo debito venne fatta un'inchiesta, e il giudice disse che «Il deceduto, Charles Marston, si era ucciso con le sue stesse mani in un attimo di insanità mentale». Ma il vecchio Cooper aveva una sua opinione al riguardo, anche se tenne le labbra chiuse e non ne parlò mai a nessuno. Si trasferì a York, dove passò il resto della sua vita, e dove chi lo ricorda ne parla come di un vecchio acido e taciturno che andava in chiesa regolarmente e ogni tanto alzava il gomito. Si diceva che avesse messo da parte parecchio denaro. ELIZABETH CLEGHORN GASKELL La storia della vecchia nutrice Come sapete, bambini miei, vostra madre era orfana e figlia unica. Avrete anche sentito dire che vostro nonno era un uomo di chiesa su nel Westmoreland, dove io sono nata. Io ero soltanto una ragazzina, e frequentavo la scuola del villaggio, quando un giorno vostra nonna venne a chiedere alla direttrice se c'era qualche alunna disposta a fare la bambinaia. Mi sentii molto orgogliosa, ve lo posso garantire, quando la direttrice fece il mio nome e mi descrisse come una ragazza forte, onesta e brava a cucire; disse che i miei genitori erano persone molto rispettabili, anche se erano poveri. Pensai che nulla mi sarebbe piaciuto di più che servire presso quella giovane, graziosa signora, che arrossiva violentemente, come capitava a me, quando parlava del bambino che stava per nascere, e di quello che avrei dovuto fare per prendermi cura di lui. Ma vedo che questa parte della mia storia non vi interessa molto, e che aspettate invece con ansia che io arrivi
a parlare di quel che accadde dopo: ci arriverò subito, non temete. Fui dunque assunta e mi trasferii nella parrocchia, prima che la signorina Rosamond (la bambina che venne al mondo allora, e che adesso è vostra madre) nascesse. Per essere sincera, io avevo ben poco da fare quando lei arrivò, perché sua madre non la lasciava mai, e dormiva con lei persino la notte. Io mi sentivo molto orgogliosa quando, ogni tanto, la signora si fidava a lasciarmela. Non ci fu mai, e non credo vi sarà neppure in futuro, una creatura come lei, sebbene voi tutti, a vostra volta, siate stati piuttosto belli. Ma quanto a dolcezza e grazia nessuno di voi ha potuto esser pari a vostra madre, che assomigliava in tutto a vostra nonna, che aveva nel sangue il carattere di una vera signora; era la nipote di Lord Furnivall del Northumberland. Credo non avesse né fratelli né sorelle, ed era cresciuta nella famiglia del mio padrone, fino a quando non sposò vostro nonno, che era solo un curato, figlio di un negoziante del Carlisle - comunque era un uomo bello e intelligente - il quale si dedicava instancabilmente alla sua parrocchia, che era molto vasta e si estendeva fino ad oltre Westmoreland Fells. Quando vostra madre, la piccola signorina Rosamond, aveva quattro o cinque anni, i suoi genitori morirono a distanza di due settimane l'uno dall'altro. Ah, che tristi tempi furono! La mia graziosa e giovane signora ed io ci stavamo preparando all'arrivo di un altro bambino, quando il mio padrone tornò a casa un giorno da una delle sue lunghe cavalcate, esausto e fradicio, e s'ammalò della febbre di cui poi morì; lei non si riprese più da quel colpo; ma visse quanto bastò per vedere, prima di esalare l'ultimo respiro, il suo bambino che le veniva poggiato sul petto, morto. La mia padrona, dal suo letto di morte, mi aveva pregato di non abbandonare mai la signorina Rosamond; ma anche se non m'avesse detto nulla, avrei seguito la piccola fino in capo al mondo. Subito dopo, ancora prima che i nostri singhiozzi si fossero spenti, giunsero gli esecutori testamentari e i tutori, a sistemare gli affari. Erano il cugino della mia povera signora, Lord Furnivall, e il signor Esthwaithe, un negoziante di Manchester, fratello del padrone. Non era ancora ricco come divenne poi, e aveva una famiglia molto numerosa. Bene! Non so se fu una loro decisione, o se dipese da una lettera che la mia padrona aveva scritto dal suo letto di morte a suo cugino, il mio padrone; comunque sia, venne stabilito che la signorina Rosamond ed io dovessimo andare a stare nella residenza dei Furnivall, nel Northumberland. Il mio padrone ci fece capire che era stato desiderio della madre che la bimba vivesse con la famiglia,
cosa cui non aveva nulla da obiettare, perché una persona o due in più non avrebbero fatto differenza in una casa tanto grande. Così, sebbene non fosse questo il modo in cui avrei voluto fosse considerato l'arrivo della mia beniamina - che, graziosa e bella com'era, avrebbe dovuto essere salutata come un raggio di sole da qualunque famiglia, per quanto numerosa fosse provai un certo compiacimento, perché tutta la gente di Dale avrebbe sgranato tanto d'occhi alla notizia che io sarei diventata la cameriera della giovane signora nella residenza di Lord Furnivall, Furnivall Manor. Ma sbagliavo quando credevo che saremmo andate a vivere con il padrone. Scoprii che la famiglia aveva lasciato Furnivall Manor da cinquant'anni o più. Non riuscii a sapere se la mia povera signora vi era mai stata, anche se era cresciuta presso la famiglia; e io me ne rattristai, perché mi sarebbe piaciuto che la signorina Rosamond trascorresse la sua giovinezza negli stessi luoghi in cui era cresciuta sua madre. Gli uomini del mio padrone, a cui, quando ne ebbi l'ardire, feci molte domande, mi dissero che la Manor House si trovava ai piedi di Cumberland Fells, e che era un posto molto grande. Vi abitava una Furnivall, prozia del mio padrone, con intorno a sé solo pochi servitori; era un posto davvero molto salubre e il Lord pensava che per alcuni anni sarebbe stato molto indicato per la signorina Rosamond, che con la sua presenza avrebbe rallegrato la vecchia zia. Mi fu ordinato dal Lord di avere pronto per un certo giorno il bagaglio della signorina Rosamond. Il Lord era un uomo austero e orgoglioso, così com'era fama di tutti i Furnivall; non pronunciava mai una parola più del necessario. Si diceva che avesse molto amato la mia povera padrona; ma lei, poiché sapeva che il padre di lui si sarebbe opposto, non lo aveva mai assecondato, e aveva sposato invece il signor Esthwaithe. Io so ben poco di queste cose; comunque il Lord non si sposò mai. Ma non si curò mai granché della signorina Rosamond, come io mi aspettavo avrebbe dovuto fare, se avesse davvero amato la madre ora morta. Mandò insieme a noi a Manor House un uomo di sua fiducia, dicendogli di tornare da lui a Newcastle quella sera stessa; così questi non ebbe molto tempo, prima di liberarsi anche lui di noi, di presentarci a tutti gli estranei. Dimodoché noi due, povere creature (io non avevo ancora diciotto anni), fummo lasciate sole nella vecchia, grande Manor House. Mi sembra solo ieri quando arrivammo in carrozza. Avevamo lasciato molto presto la nostra vecchia cara dimora, ed entrambe avevamo pianto, fin quasi a spezzarci il cuore, sebbene stessimo viaggiando nella carrozza
del Lord, di cui una volta pensavo tanto bene. Era il tardo pomeriggio di un giorno di settembre, quando ci fermammo a cambiare i cavalli per l'ultima volta in una piccola città piena di carbonai e di minatori. La signorina Rosamond si era addormentata, ma il signor Henry mi disse di svegliarla, in modo che potesse vedere il parco e Manor House quando vi fossimo arrivati. Pensai ch'era un peccato, ma feci come aveva detto, per timore che poi si lamentasse di me con Lord Furnivall. Non si vedeva più traccia né di città né di villaggi, e ci accorgemmo di stare passando un cancello che si apriva su di un parco vasto e selvaggio - non come i parchi del nord; si sentiva il rumore dell'acqua che scorreva, c'erano rocce, acacie nodose e vecchie querce, tutte scortecciate per l'età. La strada continuò in salita per circa due miglia, poi vedemmo una grande, maestosa casa, con molti alberi intorno, tanto vicini che in alcuni punti i loro rami frustavano le mura quando il vento soffiava. Alcuni, enormi, giacevano a terra spezzati; non sembrava che ci fosse chi si prendesse cura del posto, ammassando la legna o tenendo puliti i viali ricoperti di muschio. Solo di fronte alla casa tutto era in ordine. Sul grande viale non c'era un'erbaccia; e nessun albero, o pianta rampicante, ingombrava il muro della facciata, su cui si aprivano molte finestre. Su entrambi i lati della casa c'era un'ala sporgente, ognuna delle quali era la parte terminale di altre estensioni laterali; la casa, sebbene apparisse così desolata, era addirittura più grande di quanto mi sarei aspettata. Dietro di essa si alzava la collina rocciosa, che sembrava spoglia e non recintata. Sul lato sinistro della casa, guardandola di fronte, c'era un piccolo giardino di foggia antica, come scoprii più tardi. Una porta si apriva su di esso dalla facciata ovest: era stato ricavato da un folto, buio boschetto, per iniziativa di qualche vecchia Lady; ma i rami degli alberi della foresta erano cresciuti e gettavano di nuovo la loro ombra su di esso, e vi erano rimasti ormai ben pochi fiori. Arrivammo con la carrozza fino al grande ingresso principale ed entrammo nel salone; pensai che avremmo potuto sperderci, tanto era largo e grandioso. Un candeliere di bronzo pendeva dal centro del soffitto; ed io, che non ne avevo mai visto uno, lo guardai affascinata. A una estremità della sala c'era un grande camino, largo quanto un lato delle case del mio paese, con alari ed enormi molle per la legna; accanto a esso c'erano dei pesanti sofà di stile antico. Dalla parte opposta della sala, a sinistra entrando - sul lato ovest - vi era un organo, costruito dentro la parete, e tanto largo da occuparne una gran parte. Dietro, sullo stesso lato, c'era una porta;
dall'altra parte, da ogni lato del camino, vi erano altre porte che conducevano all'ala est. Per tutto il tempo che fui in quella casa non vi andai mai, quindi non posso dirvi cosa ci fosse. Il pomeriggio stava finendo, e la sala, dato che il fuoco non era stato acceso, appariva buia e tetra; ma noi non vi restammo per molto. Il vecchio servitore che ci aveva aperto il portone si inchinò al signor Henry e ci condusse, attraverso la porta che si apriva dalla parte opposta dell'enorme organo, attraverso molte stanze più piccole ed un corridoio, nel salotto ovest dove, egli disse, si trovava la signorina Furnivall. La povera, piccola signorina Rosamond si teneva stretta a me, impaurita, come se si sentisse sperduta in quel posto tanto grande; ma anch'io, per parte mia, non mi sentivo molto meglio di lei. Il salotto ad ovest aveva un aspetto molto allegro; c'era un bel fuoco, ed era arredato con una quantità di bei mobili di legno. La signorina Furnivall era una donna non lontana dall'ottantina, probabilmente, ma non ne sono sicura. Era alta e magra e aveva un volto tutto pieno di rughe che sembravano tracciate con la punta di un ago. I suoi occhi erano molto vigili: per compensare, suppongo, la totale sordità, che la costringeva a usare una cornetta. Seduta accanto a lei, intenta a lavorare sullo stesso grande arazzo, c'era la signora Stark, sua cameriera e amica, che aveva quasi la stessa età. Aveva vissuto con la signorina Furnivall fin da quando erano entrambe giovani, e ora sembrava più un'amica che una domestica; era estremamente fredda, grigia e dura - come se non avesse mai amato, o non si fosse mai presa cura di nessuno. Non credo, in realtà, che avesse mai amato altri che la sua padrona che, per via della sua grave sordità, lei trattava spesso come se fosse stata una bambina. Il signor Henry fece alcune comunicazioni da parte di Lord Furnivall, poi fece un cenno di saluto a tutti noi - senza neppure accorgersi della mano che la mia piccola, dolce signorina Rosamond gli tendeva - e ci lasciò là, in piedi, sotto gli sguardi indagatori che le due signore ci lanciavano attraverso gli occhiali. Fui molto sollevata quando chiamarono il vecchio cameriere che ci aveva introdotto e gli dissero di condurci alle nostre stanze. Così uscimmo dal grande salotto, per entrare in un'altra camera di soggiorno e, passata questa, andammo su per una lunga rampa di scale e attraversammo una lunga galleria - che doveva essere qualcosa di simile ad una libreria, dal momento che c'erano libri lungo tutta una parete, e finestre con scrittoi lungo tutta l'altra -finché arrivammo alle nostre stanze che, appresi con soddisfazione,
erano proprio sopra la cucina: avevo infatti cominciato a pensare che mi sarei perduta in quella casa terribilmente vuota. C'era una vecchia camera dei bambini, usata, molti anni prima, da tutti i bambini della famiglia, con un bel fuoco che ardeva dietro la grata ed il bricco che bolliva sulla fiamma, e tutto l'occorrente per il tè già pronto sul tavolo; oltre a questa stanza c'era la camera per la notte, con un lettino a sbarre vicino al letto destinato a me. Il vecchio James chiamò Dorothy, sua moglie, ad augurarci il benvenuto, ed entrambi furono tanto ospitali e gentili che, poco alla volta, la signorina Rosamond e io ci sentimmo quasi come a casa nostra; dopo il tè, lei sedette sulle ginocchia di Dorothy, chiacchierando con tutta la scioltezza che la sua piccola lingua le consentiva. Presto scoprii che Dorothy era del Westmoreland, e questo ci legò molto; non avrei mai pensato di incontrare delle persone gentili come il vecchio James e sua moglie. James aveva vissuto quasi tutta la vita presso la famiglia dei padroni, ed era convinto che nessuno fosse nobile quanto loro. Sentiva addirittura una certa superiorità nei confronti di sua moglie perché, fino a che l'aveva sposata, ella era vissuta nella casa di un agricoltore. Ma era molto innamorato di lei; tanto quanto poteva esserlo. Avevano alle loro dipendenze una ragazza, per i lavori pesanti. Si chiamava Agnes; così lei ed io, James e Dorothy, con la signorina Furnivall e la signora Stark, formavamo la famiglia; senza scordare, naturalmente, la mia dolce signorina Rosamond. Mi capitò spesso di domandarmi cosa mai avessero fatto prima che arrivasse la piccola, tanto erano presi da lei. Sia in cucina che in salotto avveniva la stessa cosa. La dura, triste signorina Furnivall e la impassibile signora Stark sembravano rianimarsi quando lei arrivava, saltellando come un uccellino, e giocava pavoneggiandosi qua e là, con un continuo, delizioso cinguettio di felicità. Sono sicura che le due anziane signore ci dovettero rimanere male molte volte, vedendola scomparire in cucina, anche se erano troppo orgogliose per chiederle di fermarsi con loro. Si stupivano dei suoi gusti; per quanto, come diceva la signora Stark, non c'era di che meravigliarsi, se si pensava da quale famiglia proveniva suo padre! La vecchia residenza era un posto straordinario per la piccola signorina Rosamond. Compì esplorazioni tutt'intorno, con me sempre dietro di lei; andò dappertutto, tranne che nell'ala est, che era sempre chiusa, e in cui non ci venne neppure in mente di andare. Ma nella parte nord e ovest c'erano parecchie stanze interessanti, piene di oggetti che erano delle vere curiosità, anche se probabilmente non sarebbero state tali per gente che avesse più esperienza del mondo. Le finestre erano ombreggiate dai rami on-
deggianti degli alberi e dall'edera che le aveva circondate; ma nella penombra riuscivamo a distinguere vecchie brocche di porcellana, scatole d'avorio intarsiate e grossi, pesanti libri; vecchi quadri erano disseminati un po' dappertutto. Ricordo che una volta la mia cara bambina volle che Dorothy venisse con noi per dirci chi erano tutte quelle persone: erano infatti ritratti di familiari, anche se Dorothy non poté dirci i nomi di tutti loro. Eravamo state quasi in tutte le stanze, quando arrivammo al salone di rappresentanza, sopra la sala d'ingresso; riscoprimmo un ritratto della signorina Furnivall o, piuttosto, della signorina Grace, come veniva chiamata una volta, dato che aveva una sorella maggiore. Come doveva essere stata bella! Aveva uno sguardo risoluto e fiero, in cui brillava una punta di alterigia, e teneva le sopracciglia un poco sollevate e le labbra leggermente storte, come se si stesse chiedendo come potessimo avere l'ardire di starla a guardare. Indossava un abito di foggia per me molto strana, ma che doveva essere molto alla moda quando lei era giovane: un cappello di stoffa morbida, bianca, leggermente inclinato sulla fronte, con una meravigliosa serie di piume d'uccello che ne adornava un lato, e un vestito di satin blu, che si apriva sul davanti su di un corsetto bianco trapuntato. «È proprio vero quel che dicono», notai, quando fui stanca di guardarla. «La bellezza è davvero una cosa fugace! Chi avrebbe potuto immaginare, a vederla adesso, che la signorina Furnivall era stata così eccezionalmente bella?» «Sì», disse Dorothy, «la gente cambia, purtroppo. Ma se è vero quello che il padre del mio padrone diceva sempre, la signorina Furnivall, la sorella più vecchia di Grace, era ancora più bella. Il suo ritratto è qui, da qualche parte; ma se vuoi che te lo mostri, non devi mai lasciarti scappare che l'hai visto, nemmeno con James. Pensi che la piccina riuscirà a tenere a freno la lingua?», mi chiese. Io non ne ero troppo sicura, perché era una bimba molto aperta e chiacchierona, cosicché preferii dirle di andare a nascondersi. Quando se ne fu andata, aiutai Dorothy a voltare un grande quadro appeso con la faccia rivolta alla parete. La donna che vi era rappresentata batteva senza dubbio, in bellezza, la signorina Grace; e credo anche nell'espressione di sprezzante orgoglio. Avrei potuto guardarla per un'ora intera, ma Dorothy era in apprensione, e si affrettò a girarlo di nuovo, ingiungendomi di correre a cercare la signorina Rosamond, perché vicino alla casa c'erano molti posti pericolosi in cui non avrebbe voluto che la bambina andasse. Ero una ra-
gazza fiera e coraggiosa, e detti poco peso a quello che aveva detto la vecchia governante, perché a me piaceva giocare a nascondino, come a tutti i bambini della parrocchia; ma corsi ugualmente a cercare la mia piccola. Man mano che l'inverno avanzava e le giornate divenivano più brevi, qualche volta mi sembrava di udire un suono, come se qualcuno stesse suonando il grande organo della sala d'ingresso. Non lo sentivo tutte le sere, ma sicuramente molto spesso; di solito ciò avveniva quando stavo seduta accanto alla signorina Rosamond, dopo averla messa a letto, a tenerla buona fino a che non s'addormentava. Allora lo sentivo risuonare, sempre più forte, in lontananza. La prima volta, quando scesi, chiesi a Dorothy chi fosse stato a suonare quella musica, e James disse subito, bruscamente, che ero una sciocca, se scambiavo il rumore del vento che sibilava tra gli alberi per una musica; ma io vidi che Dorothy lo guardava molto spaventata e Bessy, la sguattera, disse qualcosa tra i denti e se ne andò in fretta. Capii che non avevano gradito la domanda, così mi controllai fino a che non mi trovai sola con Dorothy; sapevo infatti che da lei mi sarebbe stato molto più facile sapere qualcosa. Perciò, il giorno dopo, scelsi il momento opportuno, e le chiesi chi fosse che suonava l'organo; dato che lo sapevo bene che si trattava di un organo e non del vento, nonostante avessi taciuto di fronte a James. Ma Dorothy era stata preparata, ne sono certa, e non riuscii a tirarle fuori una parola. Allora tentai con Bessy, per quanto l'avessi sempre tenuta un po' a distanza, perché io ero al livello di James e Dorothy, e lei era poco più che una sguattera. Così lei mi disse che non avrei dovuto mai, mai parlarne; e che se lo avessi fatto non avrei mai dovuto rivelare che era stata lei a farmi quelle confidenze. Era un suono molto strano, e lei lo aveva udito molte volte, soprattutto nelle notti d'inverno, e prima dei temporali. La gente diceva che era il vecchio Lord che suonava sul grande organo del salone, proprio come faceva quando era vivo; ma chi fosse il vecchio Lord, o perché suonasse, e perché suonasse nelle tempestose serate d'inverno in particolare, lei non avrebbe potuto né saputo dirmelo. Bene! Vi ho detto che sono coraggiosa, perciò pensai che era piuttosto piacevole avere quella musica grandiosa che rimbombava nella casa, chiunque fosse il suonatore; infatti a volte si innalzava sopra le forti raffiche di vento, e gemeva ed esultava come una creatura vivente, e poi cadeva in toni del tutto sommessi; solo che era sempre un motivo musicale, perciò era assurdo chiamarla vento.
Pensai dapprima che potesse essere la signorina Furnivall che suonava, all'insaputa di Bessy; ma un giorno in cui ero nel salone da sola, aprii l'organo e sbirciai sopra e intorno ad esso, come avevo fatto una volta tempo addietro con l'organo di Crosthwaite Church; vidi che all'interno era completamente distrutto, sebbene sembrasse così robusto e bello. Allora, sebbene fosse giorno pieno, cominciai a rabbrividire; lo chiusi, corsi via velocemente verso la mia camera, e per un certo periodo dopo questo episodio non mi piacque udire la musica, più di quanto non piacesse a James o a Dorothy. Nel frattempo la signorina Rosamond si faceva amare sempre di più. Le anziane signore gradivano la sua presenza durante il pranzo; James stava in piedi dietro la sedia della signorina Furnivall, e io dietro quella della signorina Rosamond, con gran pompa; e, dopo pranzo, giocava in un angolo del grande salotto, ferma come un topolino, mentre la signorina Furnivall dormiva, e io pranzavo in cucina. Ma le piaceva poi venire con me nella camera dei bambini, dato che, come diceva, la signorina Furnivall era così triste e la signora Stark così noiosa; invece lei e io eravamo sempre allegre; e, pian piano, arrivai a non far caso a quella misteriosa, insinuante musica, che non faceva alcun danno, purché non sapessimo da dove veniva. L'inverno fu molto freddo. A metà ottobre cominciò il gelo e durò per molte, molte settimane. Ricordo che un giorno, a pranzo, la signorina Furnivall sollevò i suoi occhi tristi e pesanti e disse alla signora Stark: «Temo che avremo un terribile inverno», con una strana, significativa espressione. Ma la signora Stark finse di non udire, e parlò a voce alta di qualcos'altro. La mia piccola dama e io non ci curavamo del gelo; non noi! Fintanto che non pioveva ci arrampicavamo lungo le scarpate dietro la casa, e andavamo su per le creste rocciose che erano esposte al vento e piuttosto brulle, e lì facevamo gare di corsa nell'aria fresca e tagliente; una volta scendemmo per un nuovo sentiero che ci portò oltre i due vecchi, nodosi alberi di agrifoglio che crescevano a metà strada lungo il lato orientale della casa. Ma i giorni si facevano sempre più corti; e il vecchio Lord - se era lui suonava con sempre più tormento sul grande organo. Una domenica pomeriggio, deve essere stato verso la fine di novembre, chiesi a Dorothy di prendersi cura della piccola quando usciva dal salotto, dopo che la signorina Furnivall aveva fatto il suo sonnellino; perché era troppo freddo per portarla con me in chiesa, e tuttavia io volevo andarci. Dorothy promise di farlo; era così affezionata alla piccola che tutto sembrava filare a meravi-
glia. Bessy e io uscimmo in fretta, sebbene il cielo gravasse pesante e scuro sopra la terra bianca, quasi che la notte non si fosse diradata del tutto; e l'aria, anche se immobile, era aspra e pungente. «Avremo una nevicata», mi disse Bessy. E infatti, già mentre eravamo in chiesa, la neve cominciò a venire giù fitta, a grandi fiocchi, così fitta che quasi oscurava le finestre. Smise di nevicare prima che uscissimo, ma c'era uno strato soffice e spesso sotto i nostri piedi mentre arrancavamo verso casa. Prima che raggiungessimo il salone spuntò la luna e credo che ci fosse più luce, grazie alla luna o alla neve bianca e abbagliante, di quando eravamo andate in chiesa, tra le due o le tre. Non vi ho detto che la signorina Furnivall e la signora Stark non andavano mai in chiesa; esse erano solite leggere le preghiere insieme, in un loro quieto, malinconico modo; sembrava che per loro la domenica fosse molto lunga, con il lavoro di ricamo che le teneva occupate. Perciò, quando andai da Dorothy in cucina per prendere la signorina Rosamond e portarla di sopra con me, non mi meravigliai quando la vecchia mi disse che le signore avevano tenuto la piccola con loro, e che non era mai andata in cucina, come io le avevo ordinato di fare quando fosse stata stanca di stare in salotto. Perciò presi le mie cose e andai a cercarla, per portarla a cena nella sua cameretta. Ma, quando entrai nel salotto, vi trovai sedute le due anziane signore che, molto quiete e tranquille, si scambiavano di tanto in tanto qualche parola come se non ci fosse mai stata vicino a loro la luce dell'allegria della signorina Rosamond. Pensai che forse si era nascosta - era uno dei suoi giochi favoriti - e le aveva convinte a fingere di non saper nulla; perciò andai in silenzio a sbirciare dietro il divano e dietro la sedia, facendo credere di essere seriamente spaventata nel non trovarla. «Cosa c'è, Hester?», chiese la signora Stark vivacemente. Non so se la signorina Furnivall si fosse accorta di me, poiché, come vi ho detto, era molto sorda, e continuò a sedere, ferma, fissando gravemente il fuoco, con la sua faccia inespressiva. «Sto solo cercando la mia piccola Rosy-Posy», risposi, ancora pensando che la bimba fosse lì, vicino a me, sebbene non potessi vederla. «La signorina Rosamond non è qui», disse la signora Stark. «Se ne è andata più di un'ora fa a cercare Dorothy.» Si voltò anche lei e continuò a guardare il fuoco. A questo punto ebbi un tuffo al cuore, e desiderai di non aver mai lasciato la mia piccola.
Ritornai da Dorothy e glielo dissi. James era uscito per tutta la giornata; così lei, io e Bessy prendemmo dei lumi e salimmo prima nella camera della bambina, poi girammo per la grande casa, chiamando e supplicando la signorina Rosamond di venir fuori dal suo nascondiglio e di non spaventarci a morte in quel modo. Ma non ci fu risposta; nulla. «Oh!», dissi alla fine. «Può essere andata a nascondersi nell'ala est!» Ma Dorothy disse che non era possibile; che lei stessa non ci era mai stata, perché le porte erano sempre chiuse e, a quanto le risultava, solo l'amministratore del padrone ne aveva le chiavi. Comunque, né lei né James le avevano mai viste. Allora dissi che sarei tornata a vedere se, dopotutto, non fosse nascosta in salotto, all'insaputa delle due signore; e dissi che se l'avessi trovata lì l'avrei frustata ben bene, per la paura che mi aveva fatto prendere; ma certo non intendevo farlo davvero. Dunque, ritornai nel salotto a ovest, dissi alla signora Stark che non riuscivamo a trovarla da nessuna parte, e chiesi il permesso di cercare dietro ai mobili, poiché pensavo che si poteva essere addormentata al caldo in qualche angolo nascosto; ma no! Cercammo dappertutto. La signorina Furnivall si alzò e guardò, tremando, in tutti gli angoli, ma la piccola non c'era; poi uscimmo di nuovo, tutti quelli della casa, e cercammo in tutti i posti dove avevamo cercato prima, ma non la trovammo. La signorina Furnivall rabbrividiva e tremava tanto che la signora Stark la ricondusse al caldo in salotto; ma non prima di avermi fatto promettere che l'avrei portata da loro, quando fosse stata ritrovata. Ohimè! Cominciavo a pensare che non sarebbe mai stata ritrovata, quando mi venne in mente di guardare fuori nel grande cortile antistante, tutto coperto di neve. Ero di sopra quando guardai giù; ma c'era una luna così luminosa che riuscii a vedere chiaramente due piccole serie d'impronte, che sembravano partire dalla porta d'ingresso e girare l'angolo dell'ala orientale. Non so come mi precipitai giù, ma aprii con furia il grande, pesante, portone; mi tirai la veste sulla testa a mo' di mantello e corsi fuori. Girai l'angolo; ma mi trovai in una zona completamente buia; quando però ritornai nella luce della luna, ritrovai le piccole impronte che salivano - salivano verso le rocce. Faceva molto freddo; così freddo che l'aria quasi mi strappava la pelle dal viso mentre correvo; ma continuai a correre, piangendo al pensiero di come la mia povera piccina doveva essere stanca e spaventata. Ero in vista degli alberi di agrifoglio, quando scorsi un pastore che scendeva per la collina, portando qualcosa tra le braccia, avvolto in una coper-
ta. Egli mi gridò qualcosa, e mi chiese se avevo smarrito una bambina; e, poiché non potevo rispondere per il pianto, protese verso di me il suo fardello e io vidi la mia dolce piccolina che giaceva immobile, bianca e rigida, tra le sue braccia, come se fosse morta. Il pastore mi raccontò di essere andato sulle rocce per radunare il suo gregge, prima che scendesse il freddo intenso della notte, e che sotto gli alberi di agrifoglio (macchie nere sul profilo della collina, dove per miglia attorno non c'erano cespugli) aveva trovato la mia bimba, il mio agnello, la mia regina, la mia dolcezza; rigida e fredda, nel terribile intorpidimento causato dal congelamento. Oh, la gioia, e le lacrime, nel riaverla tra le braccia! Non gliela lasciai portare; ma la presi in braccio, coperta e tutto e, mentre me la tenevo stretta al cuore, al caldo, sentii la vita che lentamente ritornava in quel piccolo, tenero corpo. Ma non si era ancora riavuta quando arrivammo all'ingresso; e io non avevo più fiato per parlare. Entrammo attraverso la porta della cucina. «Portate il braciere», dissi; la trasportai di sopra, e cominciai a spogliarla vicino al fuoco, che Bessy aveva alimentato. Chiamai la mia creatura con tutti i dolci, teneri nomi che mi venivano in mente - mentre i miei occhi erano accecati dalle lacrime; e finalmente, oh! alla fine aprì i suoi occhioni blu. Allora la misi nel suo caldo lettino e spedii Dorothy al piano di sotto a dire alla signorina Furnivall che andava tutto bene; decisi di sedere al suo capezzale per quella lunghissima notte. Lei si addormentò dolcemente appena la sua testolina ebbe toccato il cuscino, e io la vegliai fino all'alba, quando si risvegliò tutta radiosa - così io subito pensai - e, miei cari, così penso anche ora. Mi disse che aveva pensato di andare da Dorothy, perché tutte e due le vecchie signore si erano addormentate, e si annoiava in salotto; e poi che, mentre attraversava l'anticamera, aveva visto la neve cadere soffice e fitta, attraverso l'alta finestra. La voleva vedere poggiarsi, candida e bella, sul terreno; perciò si era avviata verso il grande ingresso; e allora, andando alla finestra, l'aveva vista posarsi, luminosa e soffice, sul viale; ma, mentre stava lì, aveva visto una bambina, più piccola di lei, «ma così graziosa», come disse la mia piccina; «e questa bambina mi invitò a uscire; era così graziosa e così dolce, che non potei far altro che andare». E allora quest'altra bimba l'aveva presa per mano, e l'una accanto all'altra, erano andate oltre l'angolo est. «Sei una bambina impertinente e racconti bugie», dissi, «che cosa direb-
be la tua dolce mamma, che è in cielo, e che non ha mai detto una bugia in vita sua, alla sua piccola Rosamond, se la sentisse - e io credo che la senta - dire le bugie?» «Veramente, Hester!», singhiozzò la mia piccina, «Ti sto dicendo la verità. Davvero!» «Non dire così!», risposi con severità. «Ti ho rintracciata grazie alle impronte sulla neve; si vedevano solo le tue; se ci fosse stata un'altra bambina che saliva, dandoti la mano, su per la collina, non credi che avrebbe lasciato le sue impronte accanto alle tue?» «Non posso farci niente, cara, cara Hester», disse lei in lacrime, «se non le ha lasciate. Non le ho mai guardato i piedi, ma con la sua piccola mano teneva stretta la mia, ed era una mano freddissima. Mi ha portato sul sentiero delle rocce, verso gli alberi di agrifoglio; e lì ho visto una signora che piangeva e singhiozzava; ma, quando mi ha vista, ha smesso di piangere e mi ha rivolto un sorriso pieno di orgoglio e di dignità; mi ha preso sulle ginocchia e ha cominciato a cullarmi per farmi addormentare; è tutto qui, Hester, ma è la verità, e la mia cara mamma lo sa», disse piangendo. Allora pensai che la bambina stesse delirando, così finsi di crederle quando raccontò la sua storia di nuovo, e poi di nuovo ancora, sempre nello stesso modo. Alla fine Dorothy bussò alla porta con la colazione della signorina Rosamond; mi disse che le due signore erano già nella sala da pranzo, e che mi volevano parlare. Tutte e due erano state nella camera della bambina la sera precedente, ma la signorina Rosamond si era già addormentata; perciò l'avevano solo guardata senza rivolgermi alcuna domanda. «Adesso sentirò!», pensai tra me e me, mentre camminavo lungo la galleria nord. «Eppure», ripresi coraggio, «era proprio a loro che l'avevo affidata; ed è colpa loro se ha potuto uscire inosservata.» Perciò entrai con sicurezza e raccontai ciò che avevo da raccontare. Parlai con la signorina Furnivall, gridandole dritto nell'orecchio, ma quando nominai la piccola bimba nella neve che con le sue moine l'aveva invitata a uscire e l'aveva condotta verso una nobile e bella signora sotto l'albero di agrifoglio, lei gettò le braccia al cielo - due vecchie braccia avvizzite - e gridò forte: «Oh, Cielo, perdono! Abbi pietà!». La signora Stark la afferrò: piuttosto bruscamente, mi parve; ma lei era fuori di sé e la signora Stark mi indirizzò una specie di pauroso ammonimento: «Hester, tenetela lontana da quella bambina! La porterà alla rovina! Quella perfida creatura! Ditele che quella è una bambina malvagia!». Poi la signora Stark mi spinse in fretta fuori della stanza dove, in verità, io fui
molto felice di andare; ma la signorina Furnivall continuò a gridare: «Oh! abbi pietà! Non potrai mai perdonare? Sono passati tanti anni...». Rimasi piuttosto sconvolta. Non osai più lasciare la signorina Rosamond, né di giorno né di notte, per il timore che mi sfuggisse di nuovo, spinta da qualche fantasticheria; o ancor più perché temevo di aver scoperto che la signorina Furnivall era pazza, per lo strano modo in cui la trattavano; temevo che qualcosa di simile (che poteva essere ereditario, voi capite) potesse minacciare la mia cara bambina. Il tremendo gelo non passava mai e ogni volta che c'era una notte più tempestosa del solito, tra le raffiche e il rumore del vento, udivamo il vecchio Lord suonare sul grande organo. Ma, fosse o non fosse il vecchio Lord, dovunque la signorina Rosamond andasse, io la seguivo; poiché il mio amore per lei, dolce orfana indifesa, era più forte della paura per quel solenne, terribile suono. Tra l'altro, spettava a me tenerla serena e allegra, come si conveniva alla sua età. Perciò giocavamo insieme, e giravamo un po' dappertutto; io non osavo perderla di vista una seconda volta in quella casa così vasta e piena di angoli sconosciuti. Così accadde che un pomeriggio, poco prima di Natale, stavamo giocando insieme sul tavolo da biliardo nel grande salone (non che ne fossimo capaci, ma le piaceva far rotolare le lisce palle di avorio con le sue manine, e a me piaceva assecondarla); gradatamente, senza che ce ne accorgessimo, nel salone si fece buio, sebbene fuori ci fosse ancora luce, e io stavo pensando di portarla in camera, quando all'improvviso, lei gridò: «Guarda, Hester! C'è la mia povera bambina fuori nella neve!». Mi girai verso le finestre, lunghe e strette, e lì vidi davvero una bambina più piccola della signorina Rosamond - vestiva in modo inadeguato all'aria gelida di una simile notte - che piangeva, e picchiava contro i vetri della finestra, come per chiedere di entrare. Sembrava che singhiozzasse e gemesse, tanto che la signorina Rosamond non riuscì a sopportarne la vista, e già correva verso la porta per aprirla, quando, tutt'a un tratto, vicinissimo a noi, il grande organo tuonò così forte e rimbombante, che mi fece tremare; e per di più, mi venne allora in mente che, anche nel silenzio di quel terribile gelo, non avevo udito il suono delle piccole mani che battevano sul vetro della finestra, sebbene la Bimba Fantasma avesse apparentemente usato tutta la sua energia; e, sebbene l'avessi vista gemere e piangere, non mi era giunto all'orecchio il benché minimo rumore. Non so se ricordai tutto questo proprio in quel momento; il suono dell'organo mi aveva assordata, terrorizzandomi. Solo
questo so: afferrai la signorina Rosamond prima che aprisse la porta d'ingresso e, tenendola stretta, la trasportai via, mentre urlava cercando di divincolarsi, fino alla grande cucina, dove Dorothy e Agnes erano impegnate a cucinare. «Che cosa ha la mia piccina?», esclamò Dorothy, quando portai dentro la signorina Rosamond, che singhiozzava come se le si spezzasse il cuore. «Non mi lascia aprire la porta per fare entrare la bambina; e lei morirà se resterà fuori nella neve tutta la notte. Crudele, cattiva Hester!», diceva, colpendomi; ma avrebbe potuto colpirmi anche più duramente e non ci avrei badato, perché avevo visto sul volto di Dorothy uno sguardo atterrito che mi aveva gelato il sangue. «Chiudi la porta posteriore della cucina, e assicurala bene con il chiavistello», disse ad Agnes. Non disse altro; mi diede dell'uvetta e delle mandorle per acquietare la signorina Rosamond; ma questa singhiozzava, e parlava della piccina nella neve, e non volle nemmeno toccare quelle leccornie. Fui felice quando alla fine si addormentò. Allora scivolai giù in cucina e dissi a Dorothy che avevo preso una decisione. Avrei portato la mia cara piccina a casa di mio padre, ad Applethwhaite; laggiù la vita era modesta, ma serena. Dissi che mi ero spaventata a sufficienza con la faccenda dell'organo che suonava; adesso che avevo visto con i miei occhi questa bambina che si lamentava, tutta vestita come nessuna bambina dei dintorni poteva essere vestita, che picchiava per entrare - e senza che si potesse sentire alcun suono - con la ferita sulla spalla destra; ora che la signorina Rosamond l'aveva riconosciuta per il fantasma che l'aveva quasi portata alla morte (e Dorothy sapeva che era vero), non intendevo più sopportare quella situazione. Vidi Dorothy cambiare colore una o due volte. Quando ebbi finito disse che non credeva potessi portare con me la signorina Rosamond, perché era la pupilla del mio padrone, e io non avevo alcun diritto su di lei; e mi domandò se avrei avuto il coraggio di lasciare una bimba alla quale volevo tanto bene solo per dei rumori e delle visioni che non potevano farmi alcun male, e a cui tutti loro si erano adattati! Io ero tutta sconvolta e tremante; dissi che era facile parlare, per lei che sapeva cosa volevano dire quelle visioni e quei suoni e che, forse, aveva avuto a che fare con la bambinafantasma mentre era ancora in vita. La convinsi a raccontarmi tutto quello che sapeva, e, alla fine, quasi desiderai che non m'avesse detto nulla, tanto ne rimasi spaventata. Disse che aveva sentito raccontare quella storia dai vecchi dei dintorni
che erano ancora vivi al tempo del suo matrimonio; allora la gente veniva ancora in visita nel salone, prima che si facesse quella brutta fama in tutta la regione. Il vecchio Lord era il padre della signorina Furnivall - signorina Grace, come la chiamava Dorothy, dato che la signorina Maude era più grande e perciò il titolo di signorina Furnivall spettava a lei. Il vecchio Lord era divorato dall'orgoglio. Nessuno aveva mai conosciuto un uomo orgoglioso come lui, e le sue figlie erano come lui. Nessuno era considerato degno, quando si parlava del loro matrimonio, sebbene avessero da scegliere; infatti erano allora due bellissime ragazze, come avevo potuto notare dai loro ritratti appesi nel salotto di rappresentanza. Ma, come dice un vecchio detto, «l'orgoglio non dà frutti». Quelle due splendide, altere fanciulle si innamorarono dello stesso uomo: si trattava di un semplice musicista che il loro padre aveva fatto venire da Londra perché suonasse con lui a Manor House. Il vecchio Lord, infatti, nonostante la sua alterigia, amava la musica più di ogni altra cosa. Sapeva suonare quasi tutti gli strumenti conosciuti; però, stranamente, la musica non lo inteneriva. Era un vecchio duro e ostinato che, si diceva, con la sua condotta aveva spezzato il cuore della povera moglie. Aveva una grande passione per la musica ed era pronto a spendere per assecondarla. Per tale motivo aveva fatto venire questo straniero, il quale pare suonasse così bene che perfino gli uccelli sugli alberi interrompevano il loro cinguettio per ascoltarlo. Piano piano, questo musicista acquistò un tale ascendente sul vecchio Lord che questi, ogni anno, lo attendeva ansiosamente; era stato lui che aveva fatto portare il grande organo dall'Olanda e lo aveva fatto montare nel salone, dove era ancora adesso. Egli insegnò al vecchio Lord a suonarlo, ma molto spesso, mentre Lord Furnivall era tutto preso dal suo organo e dalla sua musica, il bruno straniero andava a passeggio per i boschi con una delle due figlie, ora la signorina Maude, ora la signorina Grace. La signorina Maude ebbe la meglio, e fu la prescelta; si sposarono, all'insaputa di tutti. Prima ch'egli tornasse l'anno successivo, lei aveva partorito una bimba in una fattoria della brughiera, mentre suo padre e la signorina Grace la credevano a Doncaster Races. Il matrimonio e la maternità non l'avevano affatto addolcita; anzi, era più altera e irascibile che mai, forse perché gelosa della signorina Grace, alla quale suo marito rivolgeva qualche attenzione galante - per mantenere il loro segreto - come diceva lui alla moglie. Ma la signorina Grace sembrava sul punto di divenire la favorita e la signorina Maude diventava sempre più scontrosa, sia nei confronti
della sorella che del marito. Questi si sottraeva a una situazione per lui ormai spiacevole, trattenendosi a lungo in paesi lontani. Quell'estate se ne partì un mese prima del solito, lasciandosi dietro l'impressione che non sarebbe più ritornato. Nel frattempo la bimba cresceva nella casa di campagna e la madre almeno una volta a settimana faceva sellare il cavallo e si lanciava in una selvaggia cavalcata attraverso le colline per andarla a trovare; lei, quando amava, amava davvero, e quando odiava, odiava fino in fondo. Il vecchio Lord continuava a suonare - a suonare l'organo - e la servitù pensava che quella dolce musica avrebbe addolcito il suo terribile carattere del quale (a detta di Dorothy) si raccontavano cose tremende. Si ammalò, e per camminare dovette servirsi di una stampella; suo figlio - padre dell'attuale Lord Furnivall - era in America con l'esercito, e poiché l'altro figlio si trovava in Marina, la signorina Maude poteva fare quel che voleva. I rapporti fra lei e la sorella Grace divenivano di giorno in giorno più freddi ed ostili: alla fine non si parlarono quasi più, se non alla presenza del vecchio Lord. Il musicista straniero tornò l'estate successiva, ma fu quella l'ultima volta. Tanto gli amareggiarono la vita con le loro gelosie e le loro sfuriate che, dopo che fu ripartito, non se ne sentì più parlare. La signorina Maude, che da tempo aveva programmato di rendere pubblico il suo matrimonio alla morte del padre, si trovò sola, con un matrimonio segreto e una figlia adorata - ma che non osava riconoscere - a vivere con un padre che temeva e una sorella che odiava. Trascorsa l'estate successiva senza che lo straniero comparisse, le sorelle divennero entrambe tristi e cupe; avevano nello sguardo un'espressione di sofferenza che peraltro non toglieva nulla alla loro bellezza. La signorina Maude alle volte si consolava, perché il padre, che era sempre più preso dalla musica, diveniva ogni giorno più grave. Lei e la signorina Grace vivevano ormai del tutto separate, in camere diverse; l'una nel lato ovest e la signorina Maude in quello est, cioè nelle camere che ora erano chiuse. Lei pensò quindi di poter tenere con sé la figlioletta senza che nessuno venisse a saperlo, se non coloro che non avrebbero osato parlarne, e che avrebbero dovuto accettare la versione fornita da lei stessa, che cioè si trattava della figlioletta di un contadino che lei voleva tenere presso di sé. Tutto questo era risaputo, disse Dorothy; ma quel che accadde in seguito nessuno lo sapeva esattamente, tranne la signorina Grace e la signora Stark, che già da allora era la sua cameriera, e le era molto più vicina di quanto non lo fosse la sorella. La servitù, da qualche allusione, da qualche
parola sfuggita involontariamente, intuì che la signorina Maude, con il bruno straniero, aveva avuto ben più successo della signorina Grace. A questa fu reso noto l'inganno del corteggiatore, e il matrimonio segreto della sorella. A quella notizia i colori abbandonarono, per sempre, le guance e le labbra della signorina Grace; e più di una volta la si udì minacciare che prima o poi si sarebbe vendicata. La signora Stark cominciò ad essere usata come spia nelle camere ad est. In una terribile nottata, proprio all'inizio del nuovo anno, mentre una spessa coltre di neve copriva ogni cosa, e i fiocchi cadevano tanto fitti da annebbiare la vista di chiunque si trovasse all'aperto, si udì un forte, violento rumore; al di sopra di tutto la voce del vecchio Lord, che pronunciava terribili bestemmie e agghiaccianti maledizioni, e poi le grida di una bambina e gli orgogliosi toni di sfida di una donna altera. Un colpo, e un silenzio di morte, gemiti e pianti che si spegnevano in lontananza verso la collina. Il vecchio Lord radunò la servitù e comunicò a tutti, con terribili imprecazioni, che sua figlia era disonorata e che l'aveva cacciata di casa lei e la sua bambina - e se qualcuno avesse osato andare in suo aiuto, o fornirle cibo o alloggio, sarebbe stato maledetto per sempre. La signorina Grace gli era accanto, pallida e immobile, come pietrificata: quand'egli ebbe terminato, emise un lungo sospiro, come se si fosse liberata da un peso e avesse finalmente soddisfatto un antico desiderio. Da quel giorno il Lord non toccò più l'organo, e morì prima che l'anno fosse finito; né c'era da meravigliarsene! Infatti, la mattina successiva a quella notte di paura e di crudeltà, i pastori trovarono la signorina Maude seduta sotto gli alberi di agrifoglio, che, con un sorriso da demente, cullava una bimba morta, che aveva una brutta ferita sulla spalla destra. «Ma non fu quella ferita ad ucciderla», disse Dorothy, «bensì il freddo e il gelo. Ogni animale aveva la sua tana, ogni gregge il suo ovile - solo la bimba e la sua mamma erano state condannate a vagare tra le rupi! Ora sai tutto e mi chiedo se tu sia meno spaventata di prima!» Io avevo più paura che mai e non lo negai; avrei voluto che la signorina Rosamond e io fossimo lontane da quella casa spaventosa; ma non volevo lasciarla e non osavo portarla con me. Ma quale guardia le facevo, e come la tenevo sotto il mio controllo! Serravamo a chiave le porte e chiudevamo le imposte un'ora prima del buio, piuttosto che correre il rischio di farlo con cinque minuti di ritardo. Ciononostante, la mia piccola sentiva sempre i pianti e i lamenti della sventurata bambina, né riuscivamo a distoglierla dal desiderio di soccorrerla e salvarla dal vento e dalla neve. In questo pe-
riodo mi tenni il più possibile lontana dalla signorina Furnivall e dalla signora Stark: avevo paura di loro - capivo che nulla di buono poteva venire da quegli occhi vitrei, sempre assorti nei cupi ricordi di anni ormai trascorsi. Eppure, nel mio timore, nutrivo per loro, soprattutto per la signorina Furnivall, una strana pietà. Coloro che scendevano nella fossa non potevano avere uno sguardo più disperato del suo! Alla fine provai una tale pena per lei - che non parlava se non quando ve la costringevano - che cominciai a pregare per lei; insegnai anche alla signorina Rosamond a pregare per chi aveva commesso grave peccato; ma spesso, mentre lo faceva, lei si fermava ad ascoltare, si alzava ed esclamava: «Sento la bimba lamentarsi e piangere disperatamente, lasciala entrare, o morirà!». Una notte, subito dopo Capodanno, udii il campanello del salotto ovest che suonava tre volte, per chiamarmi. Non volevo lasciare sola la signorina Rosamond, benché fosse addormentata, poiché il vecchio Lord aveva suonato con più disperazione che mai, e temevo che la mia piccina potesse essere svegliata dalla voce della bambina fantasma; sapevo però che non avrebbe potuto vederla, perché le imposte erano ben chiuse. Così la sollevai dal letto, l'avvolsi in alcune coperte e la portai giù nel salotto, dove le vecchie signore erano intente al solito ricamo. Alzarono lo sguardo quando entrai, e la signora Stark mi chiese stupita: «Perché mai avete strappato la signorina al caldo del suo letto?». «Perché temevo», sussurrai, «che potesse essere attirata dalla misteriosa bambina sulla neve.» Mi interruppe bruscamente (con un'occhiata alla signorina Furnivall) e disse che la signorina Furnivall desiderava che disfacessi un lavoro sbagliato, che nessuna delle due riusciva a riprendere. Adagiai la mia piccina sul divano e sedetti su di uno sgabello vicino a loro, cercando di indurire il mio cuore, perché sentivo il vento alzarsi e ululare. La signorina Rosamond dormiva, malgrado il frastuono del vento che fischiava, la signorina Furnivall non diceva una parola, né alzava lo sguardo, quando le raffiche facevano tremare le finestre. Ma tutt'a un tratto si alzò e sollevò una mano, come per imporci silenzio. «Sento delle voci», disse, «sento delle urla terribili - sento la voce di mio padre!» Proprio in quel momento la mia piccola si destò con un sobbalzo: «La mia piccola amica sta piangendo, oh come sta piangendo!». Cercò di alzarsi per andare da lei, ma si trovò i piedi impigliati nella coperta, ed io l'afferrai perché non cadesse. Tutto il mio corpo era scosso da brividi, a sentire parlare di questi rumori e di queste parole che noi non potevamo udire.
Ma in pochi minuti crebbero fino a giungere anche alle nostre orecchie, e così udimmo voci, urla, lamenti, invece dell'infuriare del vento invernale. La signora Stark e io ci guardammo, ma non osammo parlare. Improvvisamente la signorina Furnivall si avviò verso la porta, attraversò l'anticamera, passando per il corridoio ovest, e aprì la porta del grande salone. La signora Stark la seguì e io non osai rimanere sola, anche se il mio cuore sembrava sul punto di fermarsi per la paura. Tenendo stretta fra le braccia la piccola, andai con loro. Nel salone le grida erano ancora più forti; sembravano provenire dall'ala est, e avvicinarsi sempre più alle porte chiuse a chiave. Notai allora che il grande candelabro d'argento appariva tutto illuminato, anche se la sala era al buio e un fuoco ardeva nel vasto camino, ma senza dare calore; rabbrividii di terrore e strinsi ancora di più la mia bambina. Ed ecco che improvvisamente la porta est tremò e lei, divincolandosi per liberarsi, si mise a gridare: «Hester, devo andare! La mia bambina è lì; la sento, sta venendo! Hester, devo andare!». La tenni stretta con tutte le mie forze; la stringevo a me con grande decisione. Anche se fossi morta, le mie mani sarebbero rimaste aggrappate a lei, tanto radicata nella mia mente era questa volontà. La signorina Furnivall rimaneva in ascolto, senza far caso alla mia piccina che ora era a terra, e a cui io, in ginocchio, cingevo il collo con le braccia, mentre lei continuava a gridare e ad agitarsi per liberarsi. All'improvviso la porta est cedette con un grande frastuono, come spalancata da una forza irresistibile, e in una vivida e misteriosa luce, entrò un uomo alto, con i capelli grigi e gli occhi scintillanti. Spingeva, con un'espressione di odio implacabile, una donna bellissima, che procedeva rigida, con una bimba aggrappata alle vesti. «Oh Hester! Hester», urlò la signorina Rosamond. «È la signora. La signora che era sotto l'albero di agrifoglio; e la mia bambina è con lei. Hester! Hester! Lasciami andare da lei; mi chiamano, lo sento. Devo andare!» Faceva sforzi convulsi per staccarsi e io la tenevo tanto stretta da temere di farle del male; ma sarebbe comunque stato meglio che consentirle di avvicinare quei fantasmi terrificanti! Essi avanzarono verso la grande porta del salone, dove i venti ululavano e infuriavano in cerca di preda; prima di raggiungerla, la donna si voltò, sfidando il vecchio con altero disprezzo, ma subito ebbe paura e con un gesto disperato sollevò le braccia per proteggere la figlia, la sua piccina, da un colpo della stampella, che era già alzata.
La signorina Rosamond era più sconvolta di me, e rabbrividì fra le mie braccia singhiozzando (la povera piccina a questo punto si sentiva mancare). «Vogliono ch'io vada sulle rupi con loro, mi chiamano. Oh, piccola mia! Vorrei venire, ma questa malvagia e crudele Hester mi trattiene a forza!» Ma quando vide la gruccia alzata, svenne e io ne resi grazie a Dio. In quel momento, mentre il vecchio, con la chioma scarmigliata e ondeggiante, stava per colpire la bambina atterrita, la signorina Furnivall, accanto a me, esclamò: «Padre, padre! Risparmia la bambina innocente!». Allora io vidi, noi tutti vedemmo, un'altra figura materializzarsi e farsi distinta nella incerta luce azzurrognola della sala; nessuno l'aveva vista finora: era un'altra figura di donna, accanto a quella del vecchio, con uno sguardo carico di odio implacabile e di trionfante disprezzo. Era molto bella, con un ampio e morbido cappello bianco, un po' ripiegato in avanti sulla fronte orgogliosa e le labbra vermiglie atteggiate in un'espressione di disprezzo. Indossava un abito di satin blu aperto sul davanti; io avevo già visto quell'immagine. Era quella della signorina Furnivall da giovane. I paurosi fantasmi avanzavano, incuranti della supplica della signorina Furnivall. La gruccia colpì la spalla destra della bambina, mentre la sorella più giovane guardava con atroce impassibilità. In quel momento le deboli luci e il fuoco senza calore si spensero e la signorina Furnivall cadde ai nostri piedi, colpita da paralisi, vicina alla morte. Quella notte fu portata nel suo letto; non se ne alzò mai più. Giaceva con il volto verso il muro, mormorando piano, ma continuamente: «Ahimè! Alle colpe di gioventù non si può porre rimedio in vecchiaia! Alle colpe di gioventù non si può porre rimedio in vecchiaia!». FITZ-JAMES O'BRIEN La stanza perduta Il caldo è oppressivo. Il sole, da lungo scomparso, sembra aver lasciato dietro di sé lo spirito vitale del suo calore. L'aria è immobile; le foglie delle acacie che ombreggiano le mie finestre, pendono come piombo dai rami delicati. Il fumo del mio sigaro si solleva appena al di sopra della mia testa, ma mi avvolge in una nuvola azzurrina, che devo dissipare con languidi movimenti della mano. La mia camicia è sbottonata sul collo, e il petto mi si solleva faticosamente nello sforzo di respirare qualche boccata di aria più fresca. I rumori della città sembrano avvolti nel sonno, e il ronzio delle
zanzare è l'unico rumore che spezza la quiete. Mentre sono disteso, con i piedi appoggiati alla spalliera di una sedia, preso da quella particolare disposizione della mente nella quale il pensiero assume un movimento senza vita, vengo colto dalla strana fantasia di fare un languido inventario dei principali pezzi che arredano la mia stanza. È un compito adatto all'umore del momento. Le loro forme sono definite vagamente nella penombra che riempie d'ombre la camera. Non è una fatica prendere nota e osservare i particolari di ciascun pezzo. Dal posto in cui mi trovo, posso vedere tutti i miei possedimenti senza nemmeno voltare il capo. C'è, in primis, quella litografia spettrale di Calame. È solo una macchia nera sulla parete bianca, ma la mia vista interiore esamina ogni particolare del quadro: una brughiera selvaggia, desolata, con una quercia spettrale in primo piano. Il vento soffia violento, e i rami frastagliati, a malapena coperti di foglie malaticce, sono continuamente spinti verso sinistra dalla sua forza gigantesca. Un manto informe di nubi sciama nel cielo spaventoso, e la pioggia cade sferzante, quasi parallela all'orizzonte. Al di là, la brughiera si stende nelle tenebre infinite, all'estremità delle quali la fantasia oppure l'arte hanno evocato delle forme indefinibili che sembrano innalzarsi verso lo spazio. Alla base dell'enorme quercia si erge una figura ammantata. Il suo mantello è avvolto dalla furia del vento in strette pieghe intorno al suo corpo, e la lunga piuma di gallo sul cappello si innalza, come se fosse ritta per la paura. I suoi tratti non sono visibili, perché tiene fermo il mantello con entrambe le mani, e con quel lembo si copre il volto. Quel quadro sembra senza scopo. Non racconta niente, ma in esso c'è un potere magico che fa paura. Dopo il quadro viene la macchia rotonda che è appesa al di sotto della litografia. So che si tratta del mio cappello. Ha il mio stemma ricamato sul davanti, e per questa ragione non l'indosso mai; anche se quando è messo nel modo appropriato sulla mia testa, con la lunga nappa di seta azzurra che mi pende lungo la guancia, credo che mi doni. Ricordo il periodo in cui stavano facendo quel cappello. Ricordo le sottili manine che spingevano con abilità la seta colorata attraverso la stoffa che era tesa sul telaio da ricamo. Rammento il grande problema che creai desiderando di avere una copia a colori delle mie insegne per il lavoro araldico che doveva decorare la parte anteriore del cappello. Ricordo l'in-
cresparsi della piccola bocca, e il corrugarsi della giovane fronte, mentre la loro proprietaria si immergeva in un profondo mare di meditazioni sul modo in cui rappresentare la nuvola da cui la mano armata, che è la mia insegna, emerge. Ricordo il momento celestiale in cui le piccole mani lo posarono sul mio capo, in una posizione tale che non si manteneva per più di qualche secondo. E io, simile a un re, assunsi immediatamente le mie prerogative regali dopo l'incoronazione, e all'istante riscossi il tributo dal mio unico suddito, che fu, però, ben lieto di pagarlo. Ah, il cappello era ancora lì, ma la ricamatrice era fuggita. Atropos stava recidendo la tela della vita al di sopra del suo capo mentre lei intesseva quello scudo di seta per me! Quanto grottesco si profila nell'incerta penombra l'enorme piano che occupa l'angolo alla sinistra della porta! Io non suono né canto, eppure ho un piano. È una consolazione per me guardarlo, e sentire che la musica è lì, anche se non sono capace di rompere l'incantesimo che la tiene avvinta. È piacevole sapere che Bellini e Mozart, Cimarosa, Porpora, Gluck, e tutti i loro pari - o almeno, le loro anime - dormono in quella goffa cassa. Lì giacciono imbalsamate, per così dire, tutte le opere, le sonate, gli oratori, i notturni, le marce, le canzoni e le danze, che sono venute alla luce attraverso le quattro sbarrette che imprigionano una melodia. Una volta fui interamente ripagato dell'investimento dei miei fondi in quello strumento che non ho mai usato. Blokeeta, il compositore, venne a trovarmi. Naturalmente, il suo istinto lo spinse irresistibilmente verso il mio piano, come se al suo interno vi fosse un potere magnetico che lo costringeva ad avvicinarsi. Lo accordò, e lo suonò. Per tutta la notte, finché non sorse un'alba grigia e spettrale, egli suonò, e io fumai accanto alla finestra, e ascoltai. Selvagge, ultraterrene, e a volte intollerabilmente dolorose, erano le improvvisazioni di Blokeeta. Le corde dello strumento sembravano spezzarsi per l'angoscia. Anime perdute urlavano nei suoi preludi disperati. Le grida indistinte degli spiriti in pena, che cercavano da distanze inconcepibili qualcosa di bello o di armonioso, sembravano emergere cupe dalle onde di suono che si raccoglievano sotto le sue mani. L'amore umano per la malinconia errava su brughiere lontane, o al di sotto di cipressi foschi e stillanti, mormorando il suo dolore senza riposo. Odiosi gnomi scherzavano e cantavano nelle paludi stagnanti, e cantavano in toni ultraterreni il loro trionfo sul cavaliere che avevano attirato verso la morte. Tale fu l'intrattenimento notturno di Blokeeta; e, quando alla fine chiuse il piano e si affrettò ad uscire nella gelida mattina, lasciò un ricordo in
quello strumento da cui non mi sono mai più liberato. Quelle racchette da neve che sono appese nello spazio tra lo specchio e la porta mi ricordano i vagabondaggi canadesi. Una lunga corsa attraverso le fitte foreste, sulla neve ghiacciata, nella cui crosta scintillante gli snelli zoccoli del caribù che inseguivamo affondavano ad ogni passo, finché la povera creatura fu braccata dai cani in un piccolo bosco di ginepri, e noi senza cuore - lo abbattemmo. E ricordo come Gabriel, il canadese d'origine francese, e François, il mezzosangue, gli tagliarono la gola, e come il sangue caldo scorresse in un torrente sulla terra innevata. E ricordo la cabane di neve che Gabriel costruì, dove noi tre dormimmo nel tepore. E rammento il grande fuoco che bruciava ai nostri piedi, dipingendo ogni sorta di forme demoniache sullo schermo nero della foresta. Ricordo le bistecche di cervo che arrostimmo per la colazione, e l'ubriachezza selvaggia di Gabriel la mattina, visto che per tutta la notte aveva bevuto da solo la sua fiaschetta di brandy. Quel lungo pugnale senza elsa, appeso al di sopra della mensola del camino, gonfia d'orgoglio il mio cuore. L'ho trovato, da bambino, in un castello antico e venerabile nel quale un tempo visse uno dei miei antenati materni. Quello stesso antenato - che, tra parentesi, vive ancora negli annali storici - era uno strano capo di pirati, che dimorava nella punta più estrema della costa sud-occidentale dell'Irlanda. Possedeva tutta quella fertile isola chiamata Inniskeiran, che fronteggia Cape Clear. Tra l'isola e il promontorio, l'Atlantico infuria formando quello che i pescatori locali chiamano Sound. È un posto orribile d'inverno quel Sound. Certi giorni non può traversarlo nessuna imbarcazione, e Cape Clear è spesso tagliato fuori per giorni e giorni da ogni comunicazione con la terraferma. Questo vecchio capo di pirati - di nome Sir Florence O'Driscoll - trascorse una vita tempestosa. Dall'alto del suo castello guardava l'oceano e, quando un vascello dal ricco carico, diretto da sud agli industriosi mercati del Galloway, appariva all'orizzonte, Sir Florence innalzava le vele del suo galeone, ed erano guai se non riusciva a trainare nel porto la nave e la ciurma. Questo era il modo in cui viveva; non un modo molto onesto di guadagnarsi da vivere, certamente, secondo le nostre idee moderne, ma assolutamente conciliabile con la morale del tempo. Come è prevedibile, a un certo punto Sir Florence si trovò nei guai. I mercanti depredati si lagnarono di lui presso la Corte inglese, e il vichingo irlandese partì per Londra, a perorare la propria causa davanti alla Buona Regina Bess, com'era chiama-
ta. Lui aveva una sola raccomandazione potente: era un uomo meravigliosamente bello. Non celtico d'origine, ma metà spagnolo e metà danese, aveva l'alta statura settentrionale con i tratti regolari, gli occhi di fuoco e i capelli scuri della razza iberica. Questo può spiegare il fatto che il suo soggiorno presso la Corte inglese fu più lungo del necessario, così come la leggenda tramandata da uno storico locale, secondo la quale la Regina inglese maturò una predilezione per il pirata irlandese, di natura diversa da quella di solito mostrata da un monarca verso i propri sudditi. Prima della partenza, Sir Florence aveva affidato la cura delle sue proprietà a un inglese di nome Hull. Durante la lunga assenza del Cavaliere, questa persona riuscì a ingraziarsi le autorità locali, e a guadagnarsi i loro favori, al punto che erano disposti ad appoggiarlo in ogni trama, anche la più perversa. Dopo un soggiorno protrattosi a lungo, Sir Florence, perdonato di tutti i suoi misfatti, tornò alla sua casa. Ma non era più la sua casa. Hull se n'era impossessato, e rifiutava di cedere anche un solo acro delle terre che aveva acquistato illegalmente. Fu inutile appellarsi alla legge, perché i suoi rappresentanti difendevano gli interessi del suo nemico. E fu inutile appellarsi alla Regina, perché lei ora aveva un amante, e aveva ormai dimenticato il suo povero cavaliere irlandese. Di conseguenza, il vichingo trascorse la parte migliore della sua vita in vani tentativi di reclamare la sua vasta proprietà, e infine, in tarda età, fu costretto ad accontentarsi del suo castello a picco sul mare e dell'isola di Inniskeiran, le uniche proprietà di cui l'usurpatore non era riuscito a privarlo. La vecchia storia del mio antenato si staglia nelle tenebre che avvolgono il pugnale senza elsa. Fu nel modo succitato che feci un inventario della mia proprietà personale. Quando spostavo lo sguardo su ciascun oggetto, uno dopo l'altro oppure sui posti dove si trovavano gli oggetti, visto che la stanza era ormai così buia che era quasi impossibile vedere distintamente - una folla di ricordi connessi a ciascuno mi attorniava e, per forza, dovevo indulgere ad essi. Di conseguenza procedetti con grande lentezza e, alla fine, il mio sigaro divenne un mozzicone amaro e bruciante che riuscivo a malapena a tenere tra le labbra, mentre mi sembrava che la notte divenisse ad ogni momento più intollerabilmente oppressiva. Mentre consideravo alcuni sistemi impossibili per raffreddare il mio
sventurato corpo, il mozzicone di sigaro cominciò a bruciarmi le labbra. Lo gettai con rabbia dalla finestra aperta, e mi chinai fuori a guardarlo cadere. Dapprima illuminò le foglie dell'acacia, sprigionando un turbine di scintille rosse, poi, continuando a rotolare, cadde a piombo sul buio vialetto del giardino, illuminando per un attimo gli alberi cupi e i fiori immobili. Forse a causa del contrasto tra il lampo rossastro del mozzicone e la silenziosa oscurità del giardino, o forse perché alla luce improvvisa scorsi un lieve ondeggiare delle foglie, pensai che il giardino fosse più fresco. Farò una passeggiata, pensai, così come sto. Non può fare più caldo che in una stanza e, per quanto l'aria sia immobile, c'è sempre una sensazione di libertà e di spazio all'aria aperta, che in parte soddisfa i desideri. Con quest'idea in mente, mi alzai, accesi un altro sigaro, e passai nei lunghi corridoi intricati che portavano alla scala principale. Con quale diverso sentimento avrei attraversato la soglia della mia stanza, se avessi saputo che non vi avrei più rimesso piede! Vivevo in una casa molto grande, nella quale occupavo due stanze al primo piano. La casa era antica, e tutti i piani comunicavano grazie a un'enorme scalinata circolare che saliva a spirale al centro della costruzione, mentre ad ogni pianerottolo lunghi tortuosi corridoi si perdevano in lontananza in misteriosi angoli e recessi. La mia casa era molto alta, e le sue risorse, sotto forma di crepe e sinuosità, sembravano infinite. Niente sembrava mai fermarsi in qualche punto. I cul-de-sac erano ignoti in quell'edificio. I corridoi e i passaggi, come linee matematiche, sembravano capaci di estensioni indefinite. Lo scopo dell'architetto doveva essere stato quello di erigere un edificio nel quale la gente potesse camminare all'infinito. Tutta la costruzione era tetra, non tanto perché era grande, ma perché una nudità ultraterrena sembrava pervaderne la struttura. Le scale, i corridoi, le sale e i vestiboli, condividevano tutti una desolazione angosciosa. Non c'era niente sulle pareti a interrompere la triste monotonia di quelle lunghe visioni d'ombra. Nessun intaglio sul legno che rivestiva le pareti, nessuna maschera di gesso guardava in basso dalle cornici semplici e severe, nessun vaso di marmo sui pianerottoli. C'erano una tetraggine e una mancanza di vita - tanto rare in una casa americana - che incombevano su tutta la dimora. Era una casa abitata dai fantasmi, rimessa a posto e ridipinta. Anche la servitù era tenebrosa, e parca di visite. I campanelli suonavano tre volte prima che la tetra cameriera venisse indotta a presentarsi. E il cameriere
negro, una creatura dall'aria di un ghoul, proveniente dal Congo, obbediva ai richiami solo quando la pazienza del padrone si esauriva, oppure quando i suoi bisogni venivano soddisfatti in qualche altro modo. Quando poi arrivava, ci si rammaricava di averlo chiamato, tanto fosco e selvaggio era il suo aspetto. Si muoveva lungo i corridoi privi di eco, con uno zoppichio lento, silenzioso, finché la sua figura cupa, emersa dalle tenebre, non appariva, simile a un genio cattivo, costretto dal potere del suo padrone a rivelarsi. Quando le porte di tutte le camere erano chiuse, e nessuna luce illuminava il lungo corridoio tranne il bagliore rossastro ed empio di una piccola lampada a olio posta su un tavolo, dove i defunti inquilini accendevano le loro candele, non si poteva non evocare prospettive ancora più tristi e desolate. Eppure quella casa mi si adattava. Dalle abitudini meditative e sedentarie, apprezzavo l'estrema quiete. C'erano solo pochi inquilini, dal che dedussi che al padrone di casa non andavano bene gli affari. Quei pochi inquilini, probabilmente oppressi dallo spirito cupo del luogo, erano silenziosi e spettrali nei loro movimenti. Il proprietario lo avevo visto raramente. I miei conti erano depositati da mani invisibili sul mio tavolo una volta al mese, mentre io ero fuori a camminare o a cavalcare, e il mio corrispettivo pecuniario veniva affidato al servo spettrale. In complesso, se si prende in considerazione lo spirito dinamico e vigile di New York, il carattere tetro, semianimato della casa in cui vivevo, era un'anomalia che nessuno poteva apprezzare meglio di me che vi abitavo. Scesi a tentoni lungo l'ampia e buia scalinata, alla ricerca degli zefiri. Il giardino, quando uscii, sembrava alquanto più fresco della mia stanza, e allora fumai un sigaro lungo il viale buio e oscurato dai cipressi, con una sensazione di relativo sollievo. Era molto buio. Gli alti fiori che bordavano il sentiero, erano così avvolti nel buio, da presentare l'aspetto di solide masse piramidali, visto che i particolari delle foglie e dei petali erano sepolti in un'oscurità che avvolgeva tutto. Gli alberi avevano perso ogni forma, e sembravano masse di nubi incombenti. Erano un luogo e un momento che eccitavano l'immaginazione; perché, nelle impenetrabili cavità delle tenebre infinite, c'era spazio per le fantasie più ribelli. Camminai, e gli echi dei miei passi sul sentiero muschioso e privo di ghiaia suggerivano una duplice sensazione. Mi sentivo solo, eppure in compagnia, nello stesso tempo. La solitudine del luogo era evidente nel si-
lenzio, rotto solo dall'eco sordo dei miei passi, mentre quella stessa eco sembrava pervadermi della sensazione indefinita di non essere solo. Non fui perciò molto sorpreso, quando venni d'improvviso interpellato da una voce proveniente dalla solitaria oscurità di un immenso cipresso. La voce disse: «Mi fareste accendere, signore?». «Certamente», replicai, cercando invano di scorgere la persona che aveva parlato con quel tono impenetrabile. Qualcuno si fece avanti, e io porsi il mio sigaro. L'unico particolare che riuscii a scorgere dell'individuo che mi si avvicinò, fu la sua statura estremamente bassa. Io, che non sono assolutamente alto, dovetti chinarmi considerevolmente per passargli il mio sigaro. La vigorosa boccata che diede al sigaro fece brillare con violenza il mio avana, e mi parve di vedere in quel breve attimo un viso pallido, strano, incorniciato da capelli lunghi e incolti. La luce fu, però, così veloce, che non potrei dire con certezza se fu un'impressione reale o solo uno sforzo dell'immaginazione a dare corpo a quello che i miei sensi non avevano distinto. «Signore, siete in ritardo», mi disse lo sconosciuto, mentre, con un grazie sussurrato, mi restituiva il sigaro, che dovetti afferrare a tentoni nel buio. «Non è più tardi del solito», replicai seccamente. «Uhm! Siete amante delle passeggiate notturne, allora?» «Solo quando me ne prende la fantasia.» «Vivete qui?» «Sì.» «Strana casa, non è vero?» «Io la trovo tranquilla.» «Uhm! Ma la troverete di certo più strana: avete la mia parola!» Quest'ultima frase fu pronunciata in fretta; e, nello stesso tempo, avvertii un dito ossuto posarsi sul mio braccio, tagliente come la lama di un coltello. «Non posso prendere per buona la vostra parola circa un'asserzione come questa», replicai con maleducazione, allontanando il dito ossuto con un irrefrenabile moto di disgusto. «Non offendete, non offendete...», mormorò rapidamente il mio invisibile compagno, con una voce strana e sommessa che, se fosse stata più alta, sarebbe stata stridula. «La vostra ira non cambia la faccenda. La troverete una strana casa... Tutti la trovano una strana casa. Sapete chi vi abita?»
«Non mi occupo mai dei fatti altrui, signore», risposi in tono tagliente, perché le maniere di quell'individuo, unite alla mia assoluta ripugnanza riguardo al suo aspetto, mi opprimevano con un desiderio tedioso di liberarmi di lui. «Oh, voi non ve ne occupate? Beh, io sì. Io so chi sono... bene, bene, bene!» E, mentre pronunciava le ultime tre parole, la sua voce si alzò progressivamente, finché l'ultima non fu altro che uno strillo acuto che echeggiò orribilmente tra i viali solitari. «Sapete che cosa mangiano?», continuò. «No, signore, non mi importa.» «Oh, vi importerà... Ve ne dovrà importare! Ve ne importerà. Vi dico io chi sono. Sono stregoni... Sono ghoul... Sono cannibali. Non avete mai notato i loro occhi, e in che modo vi divorano con lo sguardo quando passate? Non avete mai notato il cibo che vi servono? Non avete mai sentito, nel cuore della notte, passi felpati e soprannaturali scivolare lungo i corridoi, e mani furtive girare la maniglia della vostra porta? Non vi sentite avvolto da una forza magnetica quando passano e fanno fremere la vostra anima e il vostro corpo e li fanno tremare di un brivido freddo che nessun sole riesce a scacciare? Oh, l'avete sentito! Avete sentito tutte queste cose! Lo so!» L'ansiosa rapidità, i toni sommessi, e l'urgenza con cui tutto ciò fu detto, mi fecero una pessima impressione. Mi parve di ricordare veramente tutti quegli avvenimenti insoliti e quegli influssi maligni di cui aveva parlato. Mio malgrado tremai, in quel buio impenetrabile che mi circondava. «Uhm!», dissi assumendo, senza rendermene conto, un tono confidenziale. «Posso chiedervi come fate voi a sapere queste cose?» «Come faccio a saperle? Perché io sono loro nemico, perché essi tremano al mio sussurro, perché seguo le loro tracce con la perseveranza del segugio e la furtività di una tigre, perché... perché un tempo ero uno di loro!» «Sventurato!», gridai eccitato, dato che involontariamente i suoi timbri di voce ansiosi mi avevano portato all'apice del nervosismo. «Allora volete dire che voi...» Mentre pronunciavo questa parola, obbedendo a un impulso incontrollabile, tesi in avanti la mano in direzione dello sconosciuto, e tentai di toccarlo. Le punte delle mie dita toccarono una superficie levigata come il vetro, che scivolò istantaneamente sotto di loro. Un sibilo rabbioso, acuto, risuonò nel buio, seguito da un ronzio, e il momento successivo sentii istintivamente di essere rimasto solo. Una sensazione sgradevole mi assalì improvvisamente: il presentimento
che una terribile disgrazia mi minacciava, unito a un'ansia incontrollabile e violenta di tornare nella mia stanza senza perdere tempo. Mi girai e corsi ciecamente lungo il cupo viale di cipressi, e ogni macchia più scura di fiori che si alzava ai bordi, faceva cessare di battere il mio cuore. Gli echi dei miei passi parvero raddoppiare e assumere il rumore di sconosciuti inseguitori che fossero sulle mie tracce. I rami dei cespugli di serenelle e di lillà che in alcuni punti sporgevano sul viale, sembravano improvvisamente muniti di mani a uncino che cercavano di afferrarmi. Da un momento all'altro poi, mi aspettavo di veder cadere una barriera orribile e invalicabile sul mio cammino, che mi bloccasse per sempre. Alla fine raggiunsi l'ampia entrata. Con un balzo oltrepassai i quattro o cinque scalini che conducevano alla porta, e mi precipitai lungo l'atrio, dove salii la scalinata ampia ed echeggiante. Corsi lungo i corridoi bui e funerei finché non mi fermai, senza fiato e ansimante, alla porta della mia stanza. Arrivato alla mia meta, mi fermai per un istante e mi appoggiai con tutto il peso a uno dei pannelli, stremato da quella mia ultima corsa. Ma avevo appena appoggiato tutto il mio peso alla porta, quando questa improvvisamente cedette, e mi ritrovai nella stanza. Con mio grande stupore, la camera che avevo lasciato nel buio più profondo era ora abbagliante di luci. L'illuminazione era così intensa che, per qualche secondo, mentre le mie pupille si contraevano per l'improvviso cambiamento, non vidi assolutamente niente tranne il bagliore accecante. Il fatto in sé, che mi aveva colto di sorpresa, fu sufficiente a prolungare la mia confusione, e solo dopo parecchi minuti mi accorsi che la stanza non solo era illuminata, ma anche occupata. E da quali persone! Lo stupore nel vedere quella scena fu tale che fui incapace sia di muovermi sia di dire una sola parola. Riuscii solo ad appoggiarmi alla parete, e a fissare con lo sguardo vacuo quello strano quadro. Avrebbe potuto essere una scena tratta da Faublas, o dalle Memorie di Grammont, o accaduta in uno dei palazzi del ministro Fouquet. Intorno a un grande tavolo nel centro della stanza, dove avevo lasciato il disordine di carte e libri tipico di uno studioso, era seduta una mezza dozzina di persone. Erano tre uomini e tre donne. La tavola era apparecchiata con sfarzo. Succulenti frutti esotici erano sistemati a piramide in vasi di filigrana d'argento, attraverso i cui trafori le bucce brillanti scintillavano in mille sfumature di colore. Piattini d'argento che avrebbe potuto disegnare Benvenuto Cellini, colmi di cibi saporiti e aromatici, erano sparsi su una
tovaglia di candido damasco. Bottiglie d'ogni forma, quelle snelle del Reno, quelle robuste dell'Olanda, quelle grasse della Spagna, e le bottiglie impagliate e graziose dell'Italia, erano sparpagliate su tutto il tavolo. Bicchieri d'ogni misura e colore riempivano gli spazi vuoti, e gli assetati boccali tedeschi stavano fianco a fianco agli aerei calici di vetro veneziano che si poggiavano lievi sugli steli filiformi. Un odore di lussuria e sensualità riempiva la stanza. Le lampade che bruciavano in ogni direzione sembravano diffondere in aria un incenso delicato e, in un grande vaso posato a terra, vidi una massa di magnolie, tuberose e gelsomini che, strette le une alle altre, si soffocavano a vicenda con la loro fragranza mieloide e pesante. Gli occupanti della stanza sembravano adatti a una simile atmosfera sensuale. Le donne erano di una strana bellezza, ed erano abbigliate con vesti dagli ornamenti e dai colori fantastici e brillanti. Avevano figure rotonde, morbide, ed elastiche. I loro occhi erano scuri e languidi, e le labbra piene, mature, e di un rosso acceso. I tre uomini indossavano delle maschere, cosicché riuscii a vederne solo le mascelle pesanti, le barbe a punta, e le gole muscolose che emergevano come massicce colonne dai farsetti. Tutti e sei erano semisdraiati su dei triclini romani che attorniavano il tavolo, e bevevano i vini purpurei a grandi sorsi, gettando indietro la testa e ridendo selvaggiamente. Restai - credo tre minuti - con la schiena appoggiata alla parete a fissare quella visione bacchica, prima che qualcuno dei gozzoviglianti si accorgesse della mia presenza. Alla fine, senza farmi capire se ero stato notato fin dal primo momento, due delle donne si alzarono dai triclini e, avvicinatesi, mi presero ognuna per una mano e mi condussero al tavolo. Obbedii meccanicamente ai loro cenni. Sedetti su un triclinio che era tra di loro, come mi avevano indicato. Senza oppormi, permisi loro di avvolgermi le braccia intorno al collo. «Devi bere», disse una, e mi riempì un grande bicchiere di vino rosso, «questo è un Clos Vougeot di un'annata rara, e questo è», aggiunse, spingendo verso di me un vino ambrato, «il Lachryma Christi.» «Devi mangiare», disse l'altra, e tirò verso di sé alcuni piatti d'argento. «Qui ci sono cotolette stufate con le olive, e qui ci sono fette di filet imbottite di castagne dolci.» Mentre parlava, senza aspettare una risposta, procedette ad aiutarmi. La vista del cibo mi ricordò gli avvertimenti che avevo ricevuto in giardino. Questo improvviso sforzo della memoria mi restituì nello stesso i-
stante tutte le altre facoltà. Balzai in piedi, e allontanai le due donne, ognuna con una mano. «Demoni!», gridai. «Non mangerò nessuno dei vostri cibi maledetti. Vi conosco. Siete cannibali, siete ghoul, siete stregoni! Andatevene, ve lo ordino! Lasciate stare la mia stanza!» Uno scoppio di risate da parte di tutti e sei fu l'unico effetto prodotto dal mio appassionato discorso. Gli uomini si rotolavano sui triclini, e le loro maschere tremavano per le convulsioni della loro allegria. Le donne strillavano, e lanciavano in aria gli alti bicchieri di vino. Si girarono verso di me e si gettarono sul mio petto a singhiozzare per le risate. «Sì», continuai, non appena la rumorosa allegria si fu calmata. «Sì, vi dico, lasciate immediatamente la mia stanza! Non voglio che teniate qui le vostre orge contro natura!» «La sua stanza!», strillò la donna alla mia destra. «La sua stanza!», fece eco quella alla sua sinistra. «La sua stanza! La chiama la sua stanza!», gridò tutto il gruppo, mentre ognuno si rotolava in preda a risate convulse. «Come fai a sapere che questa è la tua stanza?», disse alla fine uno degli uomini seduto di fronte a me, dopo che le risate si furono placate. «Come faccio a saperlo?», replicai, indignato. «Come faccio a sapere che questa è la mia stanza? Come potrei sbagliarmi? Ci sono i miei mobili, il mio piano...» «Lo chiama piano!», gridarono tutti. L'enfasi particolare che avevano dato alla parola «piano» mi fece esaminare con più attenzione l'oggetto che indicavo. Fino a quel momento, sebbene stupefatto dall'intrusione di quelle persone nella mia stanza, e pur collegandola ai racconti tremendi che avevo sentito in giardino, avevo ancora la vaga idea che tutta quella faccenda fosse una sorta di grossa presa in giro allestita frettolosamente durante la mia assenza, e anche che l'orgia baccanalesca cui avevo assistito non fosse altro che una parte di quell'elaboratissima beffa di cui a me era stato assegnato il ruolo della vittima. Ma, quando i miei occhi si fissarono sull'angolo dove avevo piazzato il mio grande e austero piano, e lo vidi invece occupato da un massiccio organo le cui canne si elevavano fino al soffitto, l'aria tranquilla che fino a quel momento, malgrado tutto, mi aveva ancora pervaso, svanì di colpo e mi fece sprofondare nello sbalordimento più completo. In un modo o nell'altro, in quel luogo ogni cosa era infatti cambiata. Al posto di quel vecchio pugnale senza manico, collegato a tante associazioni
storiche mie personali, stavo invece fissando una spada turca che pendeva da una splendida cintura di bellissima seta cremisi, mentre le gemme dell'elsa scintillavano sotto la luce della lampada. Dove invece avevo appeso il mio classico cappelletto un po' consumato, ora c'era un luccicante elmo da cavaliere, sulla cui cresta spiccava il simbolo di un drago sul punto di prendere il volo. La strana litografia di Calame non era più una litografia, ma sembrava che la porzione di muro che essa aveva ricoperto, fosse stata letteralmente ritagliata via, e in luogo del disegno, era adesso visibile una scena autentica con la medesima prospettiva, e con personaggi reali. Anche la vecchia quercia era lì, e c'era pure il cielo tempestoso; ma adesso i rami dell'albero si piegavano sotto la sferza del vento infuriato, mentre le nubi minacciose si muovevano ribollenti in alto. Il vagabondo con il mantello se n'era andato via, ma al suo posto ora stavo fissando un gruppo di uomini e di donne che, tenendosi per mano, formavano un cerchio attorno all'enorme albero antico, elevando strane cantilene cupe mentre il lugubre gemito del vento sembrava quasi un contrappunto naturale. Erano infine svaniti anche gli stivali da neve con i quali avevo vagato su tante distese immacolate del Canada, sostituiti da un paio di curiose scarpe turche leggerissime e con la punta ricurva. Tutto era mutato. Dovunque si posava il mio sguardo, non trovavo più gli oggetti familiari, ma solo cose del tutto sconosciute. Eppure, in un certo senso, ognuna di quelle nuove cose ricordava vagamente gli oggetti di cui esse avevano preso il posto, tanto che poteva quasi sembrare che quel mutamento prodigioso dovesse essere solo momentaneo e che comunque, anche se in senso lato, l'atmosfera e il tono non erano cambiati. Di conseguenza potevo ancora affermare che quella era la mia stanza, anche se lì dentro non c'era più una sola cosa che mi appartenesse. «Allora, hai deciso o no se questa è la tua stanza?», chiese la ragazza alla mia sinistra, tendendomi un largo calice colmo di champagne ed emettendo un sinistro risolino mentre mi parlava. «È la mia!», risposi confuso, e afferrai il bicchiere con un gesto troppo brusco, provocando così la caduta di un po' di quel vino aromatico sulla bianca coperta. «Guarda, guarda!», commentò lei, per nulla preoccupata dalla mia evidente tensione. «Sei troppo agitato. Alf ti suonerà qualcosa per calmarti un po'...» La ragazza fece un cenno, e uno degli uomini si sedette all'organo. Dopo
un breve, furioso e quasi spasmodico preludio, l'uomo prese a suonare con l'organo una melodia che pareva evocare in poche note un'intera sequenza di immagini. Cupa ma sobria, vibrante e come pregna di un'intensa agonia, quella musica pareva infatti ricreare l'atmosfera di una notte illune su una scogliera battuta dal vento, con l'oceano che sbatteva in continuazione contro le rocce con la furia senza tempo delle sue onde inquiete. Mi sembrò di vedere una coppia su quegli scogli sperduti: un uomo vivo e una donna morta. Lo sconosciuto stringeva teneramente tra le braccia l'amata, cercando disperatamente di riportarla alla vita, mentre il calore del suo corpo veniva ridotto sempre più dall'alito gelido del vento tempestoso. Di tanto in tanto, una nota acuta echeggiava nella melodia cupa, quasi a imitare il canto secco dei gabbiani che sfioravano le onde minacciose... o forse, più giustamente, quella nota riproduceva il grido di una persona morente. La musica dell'organo era proprio come una malia e di colpo mi resi conto che solo Blokeeta poteva suonare così. Il ricordo della meravigliosa notte di tormento e di piacere sublime che avevo passato ascoltandolo suonare, mi inondò all'improvviso e mi fece capire che forse quella esperienza meravigliosa era ricominciata, riprendendo esattamente dal punto e dal momento in cui era terminata la prima volta. Per questo fissai con gli occhi sgranati l'uomo che doveva chiamarsi Alf e che se ne stava seduto all'organo con indosso un ampio mantello e il volto coperto da una maschera di velluto nero: mi pareva ormai di riconoscere qualcosa di inequivocabilmente familiare nella sua barba appuntita e nella massa di capelli scarmigliati che gli cadevano sulle spalle... «Blokeeta! Blokeeta!», gridai a piena voce, rialzandomi di scatto dal giaciglio sul quale ero, e protesi le braccia in avanti come se solo in quell'istante le avessi finalmente avute sciolte da delle catene che me le avevano tenute bloccate. «Blokeeta! Amico mio... parla, ti imploro! Parla, e di' a questi orridi incantatori di andarsene via e di lasciarmi in pace! Di' loro che non li voglio più vedere. Di' che esigo che se ne vadano istantaneamente da questa stanza insieme a tutte le loro malie!» L'uomo seduto all'organo non rispose al mio appello. Smise di suonare, e il suono morente dell'ultima nota che aveva toccato si spense in un gemito malinconico. «Perché insisti a chiamarla la tua stanza?», disse la donna che mi era più vicina, con un sorriso che voleva essere gentile, ma che mi ispirò una ripugnanza inesprimibile. «Non ti abbiamo forse dimostrato col mobilio e con
l'aspetto generale che ti sei sbagliato, e che questo non può essere il tuo appartamento? Allora, resta con noi.» «Restare con voi?», risposi infuriato. «Vivere con dei fantasmi! Mangiare cibi orribili, e vedere scene spaventose! Mai, mai!» «Piano, piano!», disse un'altra sirena. «Sistemiamo la faccenda amichevolmente. Questo pover'uomo sembra ostinato e incline a fare una scenata.» «Allora», continuò, «ho una proposta da fare. Sarebbe ridicolo che noi cedessimo questa stanza solo perché questo signore afferma che è sua: eppure sono ansiosa di soddisfare, fin dove è possibile, la sua pretesa di proprietà. Una stanza, dopotutto, non è molto per noi. Possiamo trovarne facilmente un'altra, ma pure dovremmo essere riluttanti a cedere questa camera a una richiesta così imperiosa. Siamo disposti, però, a rischiare di perderla. Vale a dire», si rivolse a me, «che propongo di giocarci la stanza. Se tu vinci, noi te la cederemo immediatamente; se, al contrario, perdi, dovrai andartene.» Angosciato dai misteri sempre più oscuri che si infittivano intorno alla mia persona, e disperando di riuscire a svelarli con il solo esercizio della mia volontà, colsi quasi con gioia l'occasione che mi si presentava. «Sono d'accordo!», gridai, con ansia. «Sono d'accordo! Tutto pur di liberarmi di una simile compagnia ultraterrena!» La donna toccò una campanella d'oro che si trovava accanto a lei sul tavolo. Non appena finì di tintinnare, un nano negro entrò con un vassoio d'argento, sul quale c'erano dei bussolotti e dei dadi. Un brivido mi trapassò quando in quel rachitico negro mi parve di scorgere una rassomiglianza con il servo negro, simile a un ghoul, cui mi ero abituato durante il soggiorno in quella casa. «Dunque», disse la mia vicina, mentre afferrava uno dei bussolotti e porgeva a me l'altro, «il punto più alto vince. Tiro io per prima?» Annuii distrattamente. Lei fece risuonare il bussolotto, e a me parve che si togliesse un peso dal cuore quando tirò quindici. «Tocca a te!», disse, con un sorriso di derisione. «Ma, prima che tu tiri, ti ripeto l'offerta che ti ho fatto. Vivi con noi. Sii uno di noi.» La mia risposta fu una violenta bestemmia. Poi agitai il bussolotto con nervosismo spasmodico e lanciai i dadi sul tavolo. Quelli rotolarono e, durante quel breve istante, provai un'ansia di intensità inusitata. Alla fine si fermarono. Un urlo di risate orribili e ossessionanti mi risuonò nelle orecchie. Guardai inutilmente i dadi, ma avevo la vista così annebbiata che non
riuscii a vedere la somma del tiro. Durò per qualche istante, poi la vista mi si schiarì, e ricaddi all'indietro, distrutto dalla disperazione quando vidi che avevo fatto solo dodici. «Ha perduto! Peccato!», urlò la mia vicina, con una risata violenta. «Perduto! Perduto!», gridarono le voci più profonde degli uomini mascherati. «Vattene, vigliacco», gridarono tutti. «Non sei degno di essere uno di noi. Ricorda la tua promessa; vattene!» Poi mi parve che un potere invisibile mi afferrasse per le spalle e mi spingesse verso la porta. Invano feci resistenza. Invano gridai e chiamai aiuto. Invano gridai e mi contorsi disperatamente. Invano implorai pietà. L'unica risposta furono quegli irrisori scoppi di risate mentre, spinto dalla forza invisibile, barcollavo come un ubriaco verso la porta. Quando raggiunsi la soglia, l'organo suonò una melodia trionfante e violenta. Il potere che mi spingeva si concentrò in un unico impulso vigoroso che mi buttò nel corridoio rimbombante. Quando la porta si chiuse, scorsi per un istante la stanza che avevo lasciato per sempre. Si trasformò come se un'ombra vi si fosse posata. Le luci si spensero, le sirene e gli uomini mascherati svanirono, i fiori, i frutti, l'argento scintillante e i bizzarri arredamenti scomparvero rapidamente, e io rividi, per un decimo di secondo, la mia vecchia stanza. L'istante successivo la porta si chiuse con violenza, e io rimasi solo nel corridoio, stordito e disperato. Non appena ebbi recuperato in parte la ragione, mi avventai follemente contro la porta, con la vaga intenzione di abbatterla. Le mie dita toccarono un muro freddo e solido. Non c'era nessuna porta! Tastai entrambe le pareti del corridoio per parecchi metri. Non c'era nemmeno una fessura a darmi una speranza. Nessuno rispose. Nel vestibolo incontrai il negro. Lo afferrai per la collottola, e gli chiesi della mia stanza. Quel demonio mostrò i denti bianchi e spaventosi, allineati come i denti di una sega e, liberatosi dalla mia stretta con un movimento improvviso, scappò lungo il passaggio con una risata delirante. Niente oltre l'eco rispose alle mie urla disperate. Dopo quell'orribile momento, non ho mai più trovato la mia stanza. La cerco dovunque, ma non la vedo. La troverò mai? THÉOPHILE GAUTIER La caffettiera
Vidi sotto veli di tenebra undici stelle e poi la Luna e il Sole che mi riverivano in silenzio finché il sonno è durato. La visione di Giuseppe 1. Lo scorso anno, insieme con due compagni, studenti come me, Arrigo Cohic e Pedrino Borgnioli, venni invitato a trascorrere qualche giorno in una proprietà in Normandia. Il tempo, che quando partimmo pareva splendido, d'improvviso pensò bene di mutare idea; si mise a piovere in tal maniera che i bassi sentieri lungo i quali camminavamo si trasformarono in altrettanti letti di torrente. Avevamo la melma fino alle ginocchia, sotto le suole dei nostri stivali era ingrommato uno spesso strato di terra grassa, e il suo peso rallentava talmente i nostri passi che non riuscimmo ad arrivare a destinazione che una buona ora dopo il tramonto. Eravamo sfiniti, tanto che il nostro ospite, vedendo la fatica con la quale riuscivamo a soffocare gli sbadigli e a tenere gli occhi aperti, subito dopo cena ci fece accompagnare nelle nostre camere. Quando entrai nella mia, che era assai vasta, mi sentii percorso da un brivido come di febbre, perché avevo avuto la sensazione di penetrare in un nuovo mondo. In effetti, osservando l'ambiente, sembrava quasi di essere tornati al tempo della Reggenza, testimoniato dagli arazzi di Boucher raffiguranti le Quattro Stagioni, dai mobili sovraccarichi di decorazioni rococò di gusto discutibile, e dalle specchiere con le cornici pesantemente scolpite. Tutto era intatto. Il boudoir, sul cui ripiano erano poggiati portapettini e piumini da cipria, pareva fosse servito il giorno prima. Due o tre abiti dal colore indefinibile e un ventaglio ornato di lustrini d'argento erano sparsi sul parquet, e con grande stupore vidi sul ripiano del caminetto una tabacchiera di tartaruga, aperta e colma di tabacco ancora odoroso. Tutte queste cose le notai soltanto dopo che il cameriere ebbe posato il candelabro acceso sul mio comodino, augurandomi la buona notte. Con-
fesso che, non so per quale ragione, mi misi a tremare come una foglia. Mi svestii più in fretta possibile, mi infilai nel letto e, per farla finita con quelle assurde paure, chiusi subito gli occhi, voltandomi verso il muro. Ma non fu possibile rimanere a lungo in quella posizione: il letto sembrava agitarsi sotto di me come un'onda, e le palpebre, irresistibilmente, mi si schiudevano. Fui costretto, infine, a girarmi e a guardare. Le fiamme nel caminetto proiettavano nella camera riflessi rossastri, alla cui luce si potevano distinguere senza difficoltà le figure degli arazzi e i volti dei ritratti anneriti dal fumo che ornavano le pareti. Dovevano essere gli antenati del nostro ospite: cavalieri cinti di ferro, dignitari imparruccati e splendide dame dal viso coperto di belletto e i capelli incipriati, che fra le dita stringevano una rosa. All'improvviso, il fuoco si mise a lingueggiare con inspiegabile violenza; un bagliore livido illuminò la stanza, e mi accorsi senza possibilità di dubbio che quelli che mi erano sembrati semplici dipinti erano invece persone reali: e le loro pupille si muovevano brillando in modo inquietante, le loro labbra si aprivano e chiudevano come se stessero parlando, anche se non udivo altro che il ticchettare della pendola e il sibilo del vento d'autunno. Un terrore invincibile calò su di me. I capelli mi si rizzarono sul cranio, i denti cominciarono a battermi con violenza, e un sudore gelido mi inondò da capo a piedi. La pendola suonò le undici. La vibrazione dell'ultimo rintocco rimase a lungo nell'aria e, quando si fu spenta del tutto... Oh, no! Non oso dire quello che accadde. Non mi credereste, e in più verrei preso per un pazzo. Le candele si accesero da sole; il mantice del camino, senza essere azionato da alcun essere visibile, si mise a soffiare sul fuoco sibilando come un vecchio asmatico, mentre i mollettoni attizzavano le braci e la paletta raccoglieva la cenere. Dopodiché, una caffettiera si buttò giù dal tavolo su cui poggiava e si diresse ondeggiando verso il fuoco, dove andò a sistemarsi tra i tizzoni accesi. Dopo qualche attimo cominciarono a muoversi anche le poltrone che, agitando in maniera stupefacente le gambe istoriate, andarono a sistemarsi attorno al camino. 2.
Non sapevo che pensare di quanto stavo vedendo, ma quello che accadde poi fu ancora più incredibile. Uno dei ritratti, il più antico, che raffigurava un imponente personaggio, pingue e con la barba grigia, che assomigliava come una goccia d'acqua all'immagine che mi sono sempre fatta del vecchio John Falstaff, con grandi smorfie tirò fuori la testa dalla cornice e dopo diversi sforzi per far passare anche le spalle e il ventre ben tondo, cadde pesantemente sul pavimento. Appena ripreso fiato, trasse dalla tasca del farsetto una chiave incredibilmente piccina, vi soffiò dentro per assicurarsi che il foro fosse ben pulito e l'applicò successivamente a tutte le cornici. E tutte le cornici si dilatarono in modo da far passare agevolmente le figure che racchiudevano. Abatini paffuti, vecchie dame pallide e segaligne, severi magistrati avvolti in grandi toghe nere, damerini con le calze lucide, brache di lana e seta, la punta della spada rivolta verso l'alto: lo spettacolo di tutti quei personaggi era così bizzarro che, malgrado lo spavento, non potei trattenere una risata. Tutti quei rispettabili signori si accomodarono in poltrona, e la caffettiera saltò con leggerezza sul tavolo. Sorbirono il caffè in tazzine giapponesi bianche e blu che accorsero da sole da un secrétaire, già munite di una zolletta di zucchero e di un cucchiaino d'argento. Finito il caffè, le tazzine, la caffettiera e i cucchiaini scomparvero all'unisono, e cominciò la conversazione: di certo la più strana che abbia mai udito, giacché, nel parlare, nessuno di quegli strani conversatori guardava l'altro: gli occhi di tutti erano fissi sulla pendola. Neppure io riuscivo a distoglierne lo sguardo, e a non seguire la lancetta che avanzava lentissima verso la mezzanotte. Infine scoccò l'ora, e si sentì una voce dal timbro identico a quello della pendola, che disse: «È tempo: bisogna ballare». Tutti si alzarono. Le poltrone si fecero indietro da sole, e a quel punto ogni cavaliere prese la mano di una dama, mentre la medesima voce diceva: «Orsù, signori dell'orchestra, incominciate!». Dimenticavo di dire che l'arazzo rappresentava da un lato un concerto italiano, e dall'altro una caccia al cervo con numerosi scudieri che suonavano il corno. Battitori e musicisti, che fino a quel momento non avevano
fatto un solo gesto, chinarono il capo in segno di assenso. Il maestro alzò la bacchetta e, ai due lati della sala, si levò una melodia vivace e ballabile. Dapprima tutti danzarono il minuetto, ma le rapide note della partitura eseguita dai musicisti, mal si accordavano con le profonde riverenze. Dopo pochi minuti, ogni coppia di ballerini si mise a piroettare come una trottola tedesca. Gli abiti di seta delle dame, fruscianti nel vortice della danza, facevano un rumore che evocava uno stormo di piccioni in volo. L'aria li gonfiava in maniera tale da farli sembrare campane che oscillavano. L'archetto dei suonatori passava così rapidamente sulle corde dei violini da farne scaturire scintille elettriche. Le dita dei flautisti si alzavano e si abbassavano quasi fossero d'argento vivo; le guance dei suonatori di corno erano gonfie come palloni, e ne seguiva un diluvio di note e di trilli così accelerati e di armonie ascendenti e discendenti così ingarbugliate, così inconcepibili, che neanche un'orchestra di diavoli avrebbe potuto seguire per due minuti un ritmo del genere. Era davvero penoso assistere a tutti gli sforzi dei ballerini per tener dietro alla cadenza: saltavano, facevano capriole, ronds, jetés e entrechats alti un metro, sicché il sudore, scendendo dalla fronte sugli occhi, portava via nei finti e belletto. Ma, per quanto facessero, l'orchestra era sempre in anticipo di tre o quattro note. Quando la pendola batté l'una, tutti si fermarono, e a quel punto notai un particolare che mi era sfuggito: c'era una donna che non ballava. Era seduta in una poltrona vicino al caminetto, e sembrava estranea a ciò che le accadeva intorno. Mai, neppure in sogno, il mio sguardo aveva visto nulla di così perfetto: una pelle dal candore abbagliante, capelli biondo-cenere, lunghe ciglia e occhi azzurri così chiari e trasparenti che attraverso di essi scorgevo distintamente la sua anima come un sasso sul fondo di un torrente. E sentii che, se mai mi fosse capitato di amare, non avrei potuto amare altri che lei. Mi gettai giù dal letto, dal quale fino a quel momento non ero riuscito a muovermi, e mi diressi verso di lei, spinto da qualcosa che agiva in me senza che potessi resistere. Mi ritrovai alle sue ginocchia, con una sua mano tra le mie, a conversare con lei come se l'avessi conosciuta da vent'anni. Ma, per un portento davvero singolare, mentre le parlavo, la mia testa oscillava accompagnando la musica che continuava a suonare e, benché fossi felicissimo di potermi intrattenere con una persona così bella, i miei
piedi ardevano dal desiderio di ballare con lei, senza però trovare il coraggio di proporglielo. Probabilmente lei capì da sola quel che volevo poiché, alzando verso l'orologio la mano che non tenevo tra le mie, mi disse: «Quando la lancetta sarà su quel punto, vedremo, mio caro Théodore». Non so perché, ma non restai sorpreso nel sentirmi chiamare per nome, e continuammo a discorrere. Finalmente suonò l'ora indicata, e nella camera vibrò ancora la voce dal timbro argentino: «Angela, puoi danzare con il signore se ti fa piacere, ma sai quello che accadrà». «Non importa», rispose Angela in tono contrariato, circondandomi le spalle con un braccio d'avorio. «Prestissimo!», gridò la voce. Cominciammo allora a ballare un valzer. Il seno della fanciulla poggiava sul mio petto, la sua guancia vellutata sfiorava la mia, e la mia bocca respirava il suo alito dolcissimo. In vita mia non avevo mai provato una simile emozione: i nervi mi vibravano come molle d'acciaio, il sangue mi scorreva nelle arterie come un fiume di lava, e mi sentivo battere il cuore come un orologio quando lo si accosta all'orecchio. Il mio, però, non era affatto uno stato di sofferenza. M'inondava una gioia indicibile, e avrei voluto rimanere sempre così. La cosa più incredibile era che non dovevamo fare alcuno sforzo per seguire l'orchestra, sebbene avesse triplicato il ritmo. I presenti, meravigliati dalla nostra agilità, gridavano «bravi» e applaudivano con tutte le forze: ma le loro mani non emettevano alcun suono. A un certo punto Angela, che fino a quel momento aveva ballato con un'energia e una precisione sorprendenti, di colpo parve stanca. Pesava sulla mia spalla come se le gambe le avessero ceduto; i suoi piedini, che un minuto prima sfioravano il pavimento, ora se ne staccavano a fatica, quasi fossero trattenuti da pesi di piombo. «Angela, lei è stanca», le dissi, «riposiamoci.» «Volentieri», fece lei asciugandosi la fronte con un fazzoletto. «Ma, mentre noi ballavamo, tutti gli altri si sono seduti: c'è soltanto una poltrona, e noi siamo in due.» «Che importa, mio bell'angelo? La prenderò sulle ginocchia.» 3.
Senza fare obiezioni, Angela si sedette circondandomi con le braccia come fossero una candida sciarpa, e appoggiò la testa sul mio petto come per riscaldarsi un poco, giacché era diventata fredda come il marmo. Non so per quanto tempo rimanemmo in quella posa, poiché la contemplazione di quella misteriosa e fantastica creatura assorbiva tutti i miei sensi. Avevo perso la nozione dell'ora e del luogo: la realtà per me non esisteva più, e ogni mio legame con essa si era troncato. La mia anima, liberata dalla sua prigione di fango, si librava nell'infinito; capivo ciò che nessun uomo può capire, giacché i pensieri di Angela mi si manifestavano senza che lei avesse bisogno di parlare. L'anima le risplendeva infatti nel corpo come in una lampada di alabastro, e i raggi che si diffondevano dal suo petto trapassavano il mio da parte a parte. L'allodola cantò, e un pallido chiarore folleggiò tra le tende. Appena Angela lo scorse, si alzò precipitosamente, mi fece un gesto d'addio e, dopo qualche passo, cadde lunga distesa, lanciando un grido. In preda al terrore mi precipitai per rialzarla... Solo a pensarci mi si ghiaccia il sangue: tutto quel che trovai fu la caffettiera ridotta in mille pezzi. A quella vista, convinto di essere stato vittima di una illusione infernale, fui colto da un tale spavento che persi i sensi. 4. Quando ripresi conoscenza ero nel mio letto e, accanto a me, c'erano Arrigo Cohic e Pedrino Borgnioli. Appena ebbi aperto gli occhi, Arrigo esclamò: «Era tempo! È quasi un'ora che ti sto sfregando le tempie con l'acqua di Colonia. Che diavolo hai fatto stanotte? Stamattina, vedendo che non scendevi, sono entrato in camera tua e ti ho trovato disteso per terra in abito di gala, che stringevi fra le braccia un pezzo di porcellana rotta come se fosse stata una bella fanciulla». «Perdio! È l'abito di nozze di mio nonno», fece l'altro, stringendo una delle falde di seta rosa arabescata di verde. «Ecco i bottoni di Strass e di filigrana di cui ci parlava tanto. Théodore l'avrà scovato da qualche parte e se lo sarà infilato per divertirsi. Ma perché poi ti sei sentito male?», soggiunse Borgnioli. «Una cosa del genere ce la si aspetterebbe da un'amichetta dalle spalle bianche: le si slaccia il cor-
setto, le si tolgono le collane, la sciarpa, ed ecco una bella occasione per fare un po' di scena.» «È stato solo un mancamento: a volte mi succede», risposi seccamente. Mi alzai e mi tolsi il ridicolo abbigliamento. Poi andammo a pranzo. I miei compagni mangiarono molto e bevvero anche di più. Io invece non toccai quasi cibo, distratto dal ricordo delle cose incredibili che erano accadute. Finito il pranzo, visto che pioveva a dirotto, restammo in casa e ciascuno si trovò qualcosa da fare. Borgnioli tamburellava marce guerriere sui vetri; Arrigo e l'ospite facevano una partita a dama, mentre io tiravo fuori dal mio album un foglio di carta e mi mettevo a disegnare. Le linee quasi impercettibili, tracciate senza pensarci dalla mia matita, finirono col rappresentare in modo straordinariamente preciso la caffettiera che aveva avuto un parte così importante negli eventi della notte. «È incredibile come questa testa assomigli a mia sorella Angela», disse l'ospite, che dopo aver terminato la partita si era messo alle mie spalle per guardarmi disegnare. In effetti, quella che poco prima mi era sembrata una caffettiera, era in realtà il profilo dolce e malinconico di Angela. «Per tutti i santi del Paradiso! È morta o viva?», esclamai con voce tremante, come se la mia vita dipendesse dalla risposta. «È morta due anni fa per una congestione polmonare, dopo una festa da ballo.» «Ahimè!», risposi con un gemito. E, trattenendo una lacrima, rimisi il foglio nell'album. Avevo compreso che per me non ci sarebbe più stata felicità sulla terra. CHARLES DICKENS Il fantasma nella camera del signorino B. Era venuto il mio turno, perciò «presi la parola», come dicono i francesi, e continuai: Quando mi stabilii nella soffitta triangolare che aveva acquisito una così particolare reputazione, i miei pensieri andarono naturalmente al signorino B. Le mie speculazioni su di lui erano incerte e multiformi. Se il suo nome di battesimo fosse Beniamino, Bisestile (per essere nato in quell'anno), Bartolomeo o Bill. Se la lettera fosse l'iniziale del suo cognome, e se questo fosse Baxter, Black, Brown, Barker, Buggins, Baker o Bird. Se fosse
stato un trovatello, e l'avessero battezzato B. Se avesse avuto un cuor di leone, e B fosse l'abbreviazione di Britannico, o di Bufalo. Se fosse stato parente prossimo di un'illustre dama che aveva illuminato la mia fanciullezza, e fosse venuto dal sangue della brillante Mamma Branco? Con queste inutili meditazioni mi stavo tormentando molto. Applicai la misteriosa lettera all'aspetto e alle abitudini del morto; mi domandai se si vestiva di Blu, se portava Stivali (non poteva esser stato Calvo), se era un ragazzo di Cervello, se gli piacevano i Libri1, se era bravo al Bowling, se era abile nella Boxe, se nella sua bollente Gioventù aveva mai fatto il Bagno in una cabina da Bagno a Bagnor, Bangor, Bournemouth, Brighton o Broadstairs, come una Boccia da Biliardo Balzellante? Perciò fui, fin dal principio, tormentato dalla lettera B. Mi resi ben presto conto che mai, assolutamente mai, sognavo il signorino B. né qualcosa che gli apparteneva. Ma, appena mi svegliavo dal sonno, a qualsiasi ora della notte, i miei pensieri si rivolgevano a lui, e spaziavano lontano, cercando di mettere la sua iniziale in rapporto con qualcosa che la giustificasse e mi tranquillizzasse. Per sei notti mi ero così tormentato nella stanza del signorino B., quando cominciai ad accorgermi che le cose non andavano per il loro verso. La prima apparizione si presentò al mattino presto, quando cominciava appena a vedersi la luce del giorno. Mi stavo radendo davanti al mio specchio quando scoprii a un tratto, con mia costernazione e stupore, che stavo radendo - non me: io ho cinquant'anni - ma un ragazzo. Forse il signorino B.? Fremetti e guardai al di sopra della mia spalla; non c'era niente. Guardai di nuovo lo specchio, e vidi chiaramente i lineamenti e l'espressione di un ragazzo che si stava radendo, non per liberarsi della barba, ma per averne una. La mia mente fu scossa al massimo grado, così feci qualche giro per la stanza, poi tornai allo specchio, deciso a calmare il fremito della mia mano e a completare l'operazione durante la quale ero stato disturbato. Aprii gli occhi, che avevo chiuso mentre cercavo di recuperare il mio equilibrio, e incontrai nello specchio gli occhi di un giovanotto di ventiquattro o venticinque anni che mi guardava fissamente. Atterrito da questo nuovo fantasma, chiusi gli occhi, e feci forza a me stesso per riprendermi. Aprendoli di nuovo, vidi mio padre, morto da tempo, che si stava radendo la sua guancia nello specchio. Anzi, vidi anche mio nonno, che non avevo mai visto in vita mia. Sebbene fossi naturalmente molto colpito da queste notevoli visite, deci-
si di mantenere il segreto, fino al momento in cui avevo deciso di fare questo racconto. Agitato da una folla di pensieri strani, mi ritirai quella sera nella mia stanza preparato ad incontrare qualche nuova esperienza di carattere spettrale. E mi ci voleva proprio quella preparazione perché, al risvegliarmi da un sonno inquieto esattamente alle due del mattino, quale non fu la mia emozione nello scoprire che dividevo il mio letto con lo scheletro del signorino B.! Balzai su, e lo scheletro balzò su anch'esso. Allora udii una voce piagnucolosa che chiedeva: «Dove sono? Cosa mi è successo?», e, guardando in quella direzione, vidi lo spettro del signorino B. Il giovane spettro aveva un abbigliamento fuori moda: anzi, non sembrava vestito ma infilato in un sacco di un tessuto sale e pepe di cattiva qualità, imbruttito da bottoni lucenti. Osservai che quei bottoni partivano, in doppia fila, dalle spalle del giovane spettro e che a quel che pareva scendevano giù per la schiena. Aveva intorno al collo una gala increspata. La sua mano destra (che, come potevo vedere distintamente, era macchiata d'inchiostro) era posata sullo stomaco; mettendo quest'atteggiamento in relazione con alcuni foruncoletti sul suo viso, e la sua aria nauseata, dedussi che quello spettro doveva essere lo spettro di un ragazzo che si era purgato troppo spesso. «Dove sono?», disse il piccolo spettro in tono patetico. «E perché sono nato nei giorni del Calomelano, e perché mi hanno dato tutto quel Calomelano?» Risposi, con profonda sincerità, che sull'anima mia non avrei saputo dirglielo. «Dov'è la mia sorellina?», disse lo spettro, «e dov'è quell'angelo della mia mogliettina, e dov'è quel ragazzo con il quale andavo a scuola?» Supplicai lo spettro di farsi coraggio, e soprattutto di non turbarsi per la mancanza del ragazzo con il quale andava a scuola. Gli feci presente, sulla base dell'esperienza umana, che probabilmente quel ragazzo non sarebbe stato una buona conoscenza, se mai l'avesse incontrato. Gli dissi seriamente che io stesso, da adulto, avevo ritrovato molti ragazzi con i quali ero andato a scuola, e che nessuno di essi aveva mai corrisposto. Espressi il mio umile parere che quel ragazzo non corrispondeva mai. Feci presente che era un personaggio mitico, un'illusione e una trappola. Gli raccontai che, l'ultima volta che lo avevo trovato, era stato a una cena, dietro un muro di cravatte bianche, con un'opinione superficiale su tutti gli
argomenti, e una forza di noia silenziosa assolutamente titanica. Raccontai che, basandosi sul fatto che eravamo stati insieme ad «Old Doylance's», si era invitato a colazione da me (una infrazione sociale gravissima); che, soffiando sulle deboli braci della mia fiducia nei ragazzi di Doylance's, lo avevo fatto entrare; e che lui aveva dimostrato di essere un tremendo vagabondo sulla terra, che perseguitava la razza di Adamo con inesplicabili teorie sulla moneta, e con la proposta che la Banca d'Inghilterra avrebbe dovuto, pena l'immediata chiusura, stampare e mettere in circolazione Dio sa quante migliaia di milioni di biglietti da dieci scellini e sei pennies. Lo spettro mi ascoltò in silenzio, e fissandomi negli occhi. «Barbiere!», mi apostrofò quando ebbi finito. «Barbiere?», ripetei, perché quella non è la mia professione. «Condannato», disse lo spettro, «a far la barba a clienti che cambiano continuamente - ora a me - ora a un giovanotto - ora a te stesso così come sei - ora a tuo padre - ora a tuo nonno; condannato, anche, a giacere ogni notte con uno scheletro, e ad alzarti con lui ogni mattina.» (Rabbrividii nell'udire il lugubre annuncio.) «Barbiere! Seguimi!» Avevo sentito, ancor prima che egli pronunciasse queste parole, che una malia mi obbligava a seguire il fantasma. Ubbidii senza indugio, e all'istante non fui più nella stanza del signorino B. La maggior parte delle persone sa quali lunghi e faticosi viaggi notturni furono imputati alle streghe che usavano confessare e che, senza dubbio, dicevano l'esatta verità - soprattutto perché erano aiutate con domande mirate, e la Tortura era sempre pronta. Io asserisco che, mentre occupavo la stanza del signorino B., fui trascinato dallo spettro che la frequentava in spedizioni altrettanto lunghe e selvagge di quelli. Certo non fui presentato a nessun vecchio signore malvestito con corna e coda di capra (qualcosa fra Pan e un rivenditore di abiti vecchi), che dava ricevimenti convenzionali, stupidi quanto quelli della vita reale e molto meno decenti; ma mi capitarono altre cose che mi sembrarono più significative. Sicuro di raccontare la verità e fiducioso di essere creduto, dichiaro senza esitare che seguii il fantasma, dapprima su un manico di scopa e poi su un cavallo a dondolo. L'odore della tinta dell'animale - soprattutto quando ne provocai l'emanazione, per averlo scaldato - era estremamente forte: sono pronto a giurarci su. Seguii in seguito lo spettro in una carrozza da nolo; un'istituzione con il cui particolare odore la presente generazione non ha familiarità, ma che possono nuovamente giurare essere una combina-
zione di scuderia, cane rognoso, e vecchissimi mantici. (E per questo faccio appello alle generazioni passate perché lo confermino o lo neghino.) Seguii il fantasma su un asino senza testa: o almeno su un asino così interessato allo stato del proprio stomaco che la sua testa ci stava sempre ficcata dentro ad esplorarlo; su dei ponies addestrati espressamente a sgroppare; su giostre ed altalene, prese dalle fiere; nella prima vettura di piazza un'altra istituzione dimenticata in cui il cliente si metteva regolarmente a dormire ed era messo a letto insieme al conducente. Per non seccarvi con il racconto dettagliato di tutti i miei viaggi dietro lo spettro del signorino B., che sono stati più lunghi e più meravigliosi di quelli di Sinbad il Marinaio, mi limiterò ad una sola esperienza dalla quale potrete giudicare tutte le altre. Ero cambiato in modo straordinario. Ero io, eppure non ero io. Ero cosciente di qualcosa dentro di me, che non era mai cambiato durante tutta la mia vita, e che avevo sempre riconosciuto in tutte le fasi e i cambiamenti come immutabile, eppure non ero quell'Io che era andato a letto nella stanza del signorino B. Avevo un viso liscio liscio e delle gambe corte corte, e avevo portato un'altra creatura simile a me, con lo stesso viso liscio liscio e le gambe corte corte, dietro una porta, e gli stavo confidando una proposta di natura stupefacente. La proposta era che mettessimo su un Serraglio. L'altra creatura acconsentiva con calore. Non aveva alcuna nozione di rispettabilità come non l'avevo io. Era l'usanza dell'Oriente, era l'abitudine del buon Califfo Harun al Rashid (lasciatemi ripetere ancora una volta questo nome corrotto, così olezzante di soavi memorie!), l'usanza era altamente lodevole, e degna di essere imitata. «Oh, sì», disse l'altra creatura facendo un salto, «facciamoci un Serraglio.» Non fu perché nutrissimo il minimo dubbio sul carattere lodevole dell'istituzione orientale che ci proponevamo di importare che ci persuademmo che avremmo dovuto tenerlo nascosto alla signorina Griffith. Era perché sapevamo che la signorina Griffith era priva di simpatia umana, ed incapace di apprezzare la grandezza del grande Harun. Mistero impenetrabilmente celato alla signorina Griffith dunque, ma che decidemmo di confidare alla signorina Bule. Eravamo dodici nell'istituzione della signorina Griffith presso Hampstead Pond; dieci signore e due signori. La signorina Bule, che penso avesse raggiunto la matura età di otto o nove anni, aveva un ruolo eminente nella società. La misi a parte della faccenda durante la giornata, e le proposi di
diventare la Favorita. La signorina Bule, dopo aver lottato con la diffidenza così naturale, e così affascinante, nel suo sesso, dichiarò di essere lusingata dall'idea, ma volle sapere cosa si era pensato di offrire alla signorina Pipson? La signorina Bule - che, si sapeva, aveva giurato a quella signorina amicizia, condivisione, e nessun segreto fino alla morte, sul Servizio e Lezioni Cristiane edizione completa in due volumi con contenitore e lucchetto - la signorina Bule disse che, come amica di Pipson, non poteva nascondere a se stessa e a me che Pipson era una creatura fuori del comune. Ora, siccome la signorina Pipson aveva i capelli biondi e ricci e gli occhi azzurri (il che era la mia idea di tutto quel nonsoché di mortale e femminile chiamato Bellezza), io risposi prontamente che avevo preso in considerazione la signorina Pipson per il ruolo di Bella Circassa. «Cioè?», chiese pensosamente la signorina Bule. Replicai che avrebbe dovuto essere adescata da un mercante, portata a me tutta velata, e comprata come schiava. (L'altra creatura aveva già avuto in sorte la seconda posizione maschile nello Stato, quella di Gran Visir. In seguito si ribellò a questa disposizione, ma i suoi capelli gli furono tirati fino a che non cedette.) «Dovrò essere gelosa?», chiese la signorina Bule, abbassando gli occhi. «Zobeide, no», risposi; «tu sarai sempre la mia Sultana favorita; il primo posto nel mio cuore, e sul mio trono, sarà sempre tuo.» La signorina Bule, così rassicurata, consentì a presentare la mia idea alle sue sette belle compagne. Siccome mi venne in mente, nel corso dello stesso giorno, che sapevamo di poter contare su una persona sorridente e di buon carattere, detta Tabby, che era la serva sgobbona della casa, e non aveva maggior figura di un letto, e sul cui viso c'era sempre un po' di grafite, feci scivolare nella mano della signorina Bule, dopo cena, un bigliettino sull'argomento: sottolineando che la grafite era in qualche modo un indizio lasciato dalla Provvidenza perché dessimo a Tabby la parte di Mesrur, il celebre Capo dei Negri dell'Harem. Ci furono difficoltà nella formazione della desiderata istituzione, come ce ne sono in tutte le combinazioni. L'altra creatura svelò tutta la sua meschinità, e quando le sue aspirazioni al trono non ebbero successo, pretese di avere degli scrupoli di coscienza riguardo al prostrarsi davanti al Califfo; rifiutò di chiamarlo Comandante dei Fedeli; parlava di lui in modo irriverente e superficiale come di «quel tale», diceva che lui, l'altra creatura, «non ci sarebbe stato» - stato! - ed era volgare ed offensivo in mille modi.
Il suo meschino comportamento fu però stigmatizzato da tutto il Serraglio, ed io fui benedetto dai sorrisi di otto fra le più belle figlie degli uomini. I sorrisi potevano essere distribuiti solo quando la signorina Griffith guardava da un'altra parte, e solo con molta cautela, perché circolava fra i seguaci del Profeta la leggenda che lei vedeva mediante un piccolo ornamento rotondo che stava nel centro della parte posteriore del suo scialle. Ma ogni giorno, dopo pranzo, stavamo tutti insieme per un'ora, ed allora la Favorita e il resto dell'Harem Reale facevano a gara su chi avrebbe addolcito maggiormente il riposo del Sereno Harun dalle preoccupazioni dello Stato - che generalmente, come la maggior parte degli affari di Stato, avevano un carattere aritmetico, giacché il Comandante dei Fedeli era un gran pasticcione nelle addizioni. In queste occasioni il devoto Mesrur, Capo dei Negri dell'Harem, era sempre presente (la signorina Griffith nel frattempo suonava con veemenza il campanello per chiamare quel funzionario), ma non si comportò mai in modo degno della sua reputazione storica. Anzitutto, il fatto che introducesse una scopa nel Divano del Califfo, sebbene Harun portasse l'abito rosso dell'ira (la pelliccia della signorina Pipson) non fu mai giustificato in modo soddisfacente. In secondo luogo, il suo modo di esclamare inaspettatamente: «Dio che carine!» non era né orientale né rispettoso, in terzo luogo, mentre le era stato raccomandato di dire «Bismillah!» diceva sempre «Alleluia!». Quel funzionario, a differenza degli altri della sua classe, era sempre troppo allegro, spalancava troppo la bocca, esprimeva approvazione in modo incongruo e persino una volta - in occasione dell'acquisto della Bella Circassa per cinquecentomila borse d'oro, e a buon mercato, per di più - aveva abbracciato la Schiava, la Favorita e il Califfo, tutti insieme. (Fra parentesi lasciatemi dire che Dio benedica Mesrur, e possano esserci stati tanti figli e figlie su quel seno tenero, a compensare molti giorni tristi!) La signorina Griffith era un modello di decoro, e non riesco ad immaginare quali sarebbero stati i sentimenti di quella donna virtuosa se avesse saputo, mentre ci portava in giro per Hampstead in fila per due, che stava camminando con passo solenne alla testa della Poligamia e del Maomettanesimo. Penso che la misteriosa e terribile gioia che ci ispirava la contemplazione della signorina Griffith nel suo stato di incoscienza, e l'oscura sensazione diffusa fra noi che ci fosse un terribile potere nel fatto che noi sapevamo qualcosa che la signorina Griffith (che sapeva tutto quel che si può imparare nei libri) non sapeva, fossero il motivo principale per cui
mantenevamo il segreto. Era molto ben custodito, ma una volta fu sul punto di essere svelato. Successe di domenica. Stavamo tutti e dieci in fila in una parte ben visibile del matroneo della chiesa, con la signorina Griffith in testa - come tutte le domeniche - facendo pubblicità all'istituzione in un modo non secolare - quando venne letta la descrizione di Salomone in tutta la sua gloria domestica. Nel momento in cui si fece il nome del monarca; la coscienza mi sussurrò: «Anche tu, Harun!». Il ministro celebrante aveva un occhio storto, il che diede un aiuto alla coscienza perché gli dava l'aria di predicare personalmente per me. Un rossore cremisi accompagnato da un'abbondante traspirazione si diffuse sul mio volto. Il Gran Visir sembrava più morto che vivo, e il Serraglio al completo arrossì come se il tramonto di Bagdad splendesse proprio sui loro deliziosi visi. In quel momento solenne la terribile Griffith si alzò, e osservò con occhio funesto i figli dell'Islam. Ebbi l'impressione che la Chiesa e lo Stato congiurassero con la signorina Griffith per smascherarci, e che saremmo stati tutti avvolti in lenzuola bianche e messi in mostra nella navata centrale. Ma il senso di rettitudine della signorina Griffith era così occidentale - se posso usare questa espressione in contrasto con l'ambiente orientale - che lei sospettò soltanto le Mele, e noi fummo salvi. Ho detto che il Serraglio era molto unito. Soltanto sulla questione se il Comandante dei Fedeli potesse esercitare o no il diritto di bacio in quel santuario del palazzo, erano divise le sue incomparabili ospiti. Zobeide rivendicò il controdiritto della Favorita a graffiare, e la Bella Circassa nascose il viso, per proteggersi, in una borsa di feltro verde, originariamente destinata a contenere libri. All'opposto, una giovane antilope di beltà trascendente proveniente dalle fertili pianure della città di Camden (da cui alcuni commercianti l'avevano portata con la carovana semestrale che attraversava il deserto che ce ne separava dopo le vacanze) aveva idee più liberali, ma pattuì di limitarne il beneficio a quel cane figlio di cane, il Gran Visir - che non aveva diritti, ed era fuor di questione. Alla fine la difficoltà fu risolta con un gran compromesso, perché installammo una giovanissima schiava nel ruolo di Sostituta. Questa, issata su uno sgabello, riceveva ufficialmente sulle guance i saluti che Sua Grazia Harun destinava alle altre Sultane, ed era compensata segretamente dai cofanetti delle Signore dell'Harem. Ed ecco che, all'apice del godimento della mia felicità, cominciai a provare forti turbamenti. Cominciai a pensare a mia madre, e a quel che avrebbe detto se avessi portato a casa nelle vacanze di san Giovanni otto
delle più belle fra le figlie degli uomini, però assolutamente inaspettate. Pensai a quanti letti avevamo in casa, al reddito di mio padre, al fornaio, e la mia preoccupazione raddoppiò. Il Serraglio e il malizioso Visir, che avevano indovinato il motivo dell'infelicità del loro Signore, facevano il possibile per accrescerla. Professavano una fedeltà illimitata, e dichiaravano che avrebbero vissuto con lui e con lui sarebbero morti. Ridotto al massimo della disperazione dalle loro proteste di attaccamento, giacevo sveglio per ore e ore, ruminando la mia triste sorte. Penso che nel mio stato compassionevole avrei potuto afferrare la prima opportunità di cadere in ginocchio davanti alla signorina Griffith per confessare la mia somiglianza con Salomone e pregarla di esser trattato secondo le indegne leggi del mio paese, se non mi si fosse aperta davanti un'imprevista via d'uscita. Un giorno eravamo a passeggio, a due a due - occasione in cui il Visir doveva solitamente osservare se il ragazzo alla barriera guardava in modo irriverente (come sempre faceva) le bellezze dell'harem, per farlo strozzare durante la notte - e successe che i nostri cuori fossero avvolti dalla tristezza. Un'azione inspiegabile da parte dell'Antilope aveva sommerso lo Stato nella disgrazia. Quell'incantatrice, con la scusa che il giorno precedente era il suo compleanno, e che grandi tesori erano stati inviati in un cesto per celebrarlo (asserzioni completamente infondate), aveva segretamente ma insistentemente invitato trentacinque principi e principesse dei dintorni ad un ballo e una cena: con la raccomandazione speciale che «non venissero a prenderli prima delle dodici». Questo delirio dell'immaginazione dell'Antilope causò il sorprendente arrivo alla porta della signorina Griffith, in diversi mezzi di trasporto e con diverse scorte, di un gran numero di persone con il vestito più bello, che furono depositate sul gradino più alto tutte traboccanti di aspettativa, e che furono mandate via in lacrime. Quando si cominciò a sentir bussare alla porta nel modo caratteristico di queste cerimonie l'Antilope si ritirò in una soffitta sul retro e ci si chiuse dentro; ad ogni nuovo arrivo la signorina Griffith perdeva un po' di più la testa, tanto che alla fine fu vista strapparsi i capelli. La capitolazione definitiva da parte della delinquente era stata seguita dall'isolamento nel guardaroba, a pane ed acqua, e da una ramanzina a tutti, di una lunghezza punitiva, nella quale la signorina Griffith aveva usato le espressioni: primo, «Credo che tutti foste al corrente»; secondo, «Siete tutti ugualmente cattivi»; terzo: «Un mucchio di ragazzacci». Date le circostanze ci trascinavamo tristemente; soprattutto io, con il peso delle mie responsabilità musulmane, avevo il morale molto basso;
quando uno sconosciuto si avvicinò alla signorina Griffith e, dopo aver camminato al suo fianco per un po' parlando con lei, guardò nella mia direzione. Pensando che fosse un ministro della legge, e che la mia ora fosse suonata, mi misi a correre immediatamente, con l'idea di fuggire in Egitto. Tutto il Serraglio diede un urlo, quando mi videro correre con le gambe in spalla (avevo l'impressione che la prima svolta a sinistra, dietro il municipio, fosse la via più breve per le Piramidi), la signorina Griffith mi chiamò, il Visir mi corse dietro, e il ragazzo della barriera mi spinse in un angolo, come una pecora, e mi bloccò. Nessuno mi sgridò quando mi raggiunsero e mi riportarono indietro; solo la signorina Griffith disse, con una gentilezza sorprendente: Che strano! Perché ero scappato quando quel signore mi aveva guardato? Se avessi avuto abbastanza fiato per rispondere, oso dire che non avrei risposto; siccome non avevo fiato, certo non risposi. La signorina Griffith e lo sconosciuto mi misero in mezzo a loro, e tornammo a palazzo in una specie di corteo; ma assolutamente (non potei fare a meno di sentirlo, con mio grande stupore), non nello stato di accusato. Quando arrivammo, entrammo da soli in una stanza, e la signorina Griffith chiamò ad aiutarla Mesrur, il Capo delle Guardie More dell'Harem. Dopo che le ebbe bisbigliato qualcosa, Mesrur cominciò a lacrimare. «Dio t'aiuti, poverino!», disse quell'ufficiale, rivolgendosi a me; «il tuo Papà ha avuto un accidente!» Io chiesi, con il cuore palpitante: «Sta molto male?». «Il Signore acquieti il vento per te, agnellino!», disse il buon Mesrur, inginocchiandosi perché io potessi avere una spalla confortevole su cui appoggiare la testa, «il tuo Papà è morto!» Harun al Rashid prese il volo a queste parole; il Serraglio svanì; da quel momento non vidi più nemmeno una delle otto fra le più belle figlie degli uomini. Mi portarono a casa, e c'era il Debito a casa oltre alla Morte, e dovemmo vendere la nostra roba. Il mio lettino fu guardato in modo così spregiativo da una Potenza che mi era sconosciuta, nebulosamente detta «Il Battitore», che un secchio di ottone per il carbone, uno spiedo e una gabbia da uccelli dovettero essere aggiunti per formare un Lotto, e poi fu venduto per una sciocchezza. Così sentii dire, e mi domandai a lungo quale sciocchezza, e pensai che doveva essere una ben triste sciocchezza da raccontare! Poi fui mandato a una grande, fredda, nuda scuola di soli ragazzi; dove tutto quel che mangiavamo era spesso e appiccicoso, senza essere suffi-
ciente; dove tutti, grandi e piccoli, erano crudeli; dove i ragazzi sapevano già tutto dell'asta ancor prima che arrivassi, e mi chiedevano quanto mi avevano pagato, e chi mi aveva comprato, e mi gridavano: «E uno, e due, e tre, aggiudicato!». Non mi lasciai mai sfuggire in quell'orribile posto che ero stato Harun e che avevo avuto un Serraglio: perché sapevo che se avessi accennato alle mie disgrazie mi avrebbero tormentato tanto che non mi sarebbe rimasto che affogarmi nello stagno fangoso vicino al terreno da gioco, che sembrava birra. Ahimè, ahimè! Nessun altro fantasma ha abitato la camera del ragazzo, amici miei, da quando io l'ho occupata, se non il fantasma della mia fanciullezza, il fantasma della mia innocenza, il fantasma della mia noncurante fiducia. Molte volte ho inseguito lo spettro: mai con questo mio passo d'uomo sono riuscito a raggiungerlo, mai con queste mie mani d'uomo sono riuscito a toccarlo, mai e poi mai con questo mio cuore d'uomo sono riuscito a trattenerlo nella sua purezza. E qui mi vedete mentre, gaio e grato quanto posso, cerco di portare a termine il mio destino di radere nello specchio clienti sempre diversi, e di giacere ed alzarmi insieme allo scheletro che mi è stato assegnato come compagno mortale. 1
In inglese sono tutte parole che cominciano con la B: Stivali, Boots; Calvo, Bold; Cervello, Brain; Libri, Books (N.d.T.). IGINIO TARCHETTI La leggenda del Castello Nero «Non so se le memorie che io sto per scrivere possano avere interesse per altri che per me - le scrivo ad ogni modo per me. Esse si riferiscono pressoché tutte ad un avvenimento pieno di mistero e di terrore, nel quale non sarà possibile a molti rintracciare il filo di un fatto, o desumere una conseguenza, o trovare una ragione qualunque. Io solo il potrò, io attore e vittima a un tempo. - Incominciato in quell'età in cui la mente è suscettibile delle allucinazioni più strane e più paurose; continuato, interrotto e ripreso dopo un intervallo di quasi venti anni, circondato di tutte le parvenze dei sogni, compiuto - se così si può dire d'una cosa che non ebbe principio evidente - in una terra che non era la mia, e alla quale mi avevano attratto delle tradizioni piene di superstizioni e di tenebre; io non posso considerare questo avvenimento imperscrutabile della mia vita che come un enimma
insolvibile, come l'ombra di un fatto, come una rivelazione incompleta, ma eloquente d'un'esistenza trascorsa. Erano fatti, od erano visioni? L'uno e l'altro - né l'uno né l'altro, forse. Nell'abisso che ha inghiottito il passato non vi sono più fatti od idee, vi è il passato: i grandi caratteri delle cose si sono distrutti come le cose, e le idee si sono modificate con esse - la verità è nell'istante -; il passato e l'avvenire sono due tenebre che ci avviluppano da tutte le parti, e in mezzo alle quali noi trasciniamo, appoggiandoci al presente che ci accompagna e che viene con noi, come distaccato dal tempo, il viaggio doloroso della vita. Ma abbiamo noi avuta una vita antecedente? Abbiamo previssuto in altro tempo, con altro cuore e sotto un altro destino, alla esistenza dell'oggi? Vi fu un'epoca nel tempo, nella quale abbiamo abitato quei luoghi che ora ignoriamo, amato quegli esseri che la morte ha rapito da anni, vissuto fra quelle persone di cui vediamo oggi le opere, o cerchiamo la memoria nelle storie o nella oscurità delle tradizioni? Mistero! - E nondimeno... sì, io ho sentito spesso qualche cosa che mi parlava di una esistenza trascorsa, qualche cosa di oscuro, di confuso, è vero, ma di lontano, di infinitamente lontano. Vi sono delle rimembranze nella mia mente che non possono essere contenute in questo limite angusto della vita, per giungere alla cui origine io devo risalire la curva degli anni, risalire molto lontano... due o tre secoli... Anche prima di oggi mi era avvenuto più volte nei miei viaggi di arrestarmi in una campagna e di esclamare: ma io ho veduto già questo sito, io sono già stato qui altre volte!... questi campi, questa valle, questo orizzonte io li conosco! E chi non ha esclamato talora, parendogli di ravvisare in qualche persona delle sembianze già note: quell'uomo l'ho già veduto: dove? quando? chi è egli? non lo so, ma per fermo noi ci siamo veduti altre volte, noi ci conosciamo! - Nella mia infanzia vedeva spesso un vecchio che certo aveva conosciuto fanciullo, da cui certo era stato conosciuto già da vecchio: non ci parlavamo, ma ci guardavamo come persone che sanno di conoscersi da tempo. - Lungo una via di Poole, rasente la spiaggia della Manica, ho trovato un sasso sul quale mi rammento benissimo di essermi seduto, saranno circa settant'anni, e ricordo che era un giorno triste e piovoso, e vi aspettava una persona di cui ho dimenticato il nome e le sembianze, ma che mi era cara. - In una galleria di quadri a Gratz ho veduto un ritratto di donna che ho amato e la conobbi subito benché ella fosse allora più giovine, e il ritratto fosse stato fatto forse vent'anni dopo la nostra separazione. La tela portava la data del 1647: press'a poco a quell'epoca risale la maggior parte di queste mie memorie.
Vi fu un tempo della mia fanciullezza durante il quale non poteva ascoltare la cadenza di certe canzoni che cantano da noi le donne di campagna nelle fattorie, senza sentirmi trasportare ad un tratto in un'epoca così remota della mia vita, che non avrei potuto risalirvi anche moltiplicando un gran numero di volte gli anni già vissuti nella esistenza presente. Bastava che io ascoltassi quella nota per cadere sull'istante in uno stato di paralisi, come di letargia morale che mi rendeva estraneo a tutto ciò che mi circondava, qualunque fosse lo stato d'animo in cui essa mi avesse sorpreso. Dopo i venti anni non ho più riprovato quel fenomeno. Non aveva io più ascoltata quella nota? o la mia anima, già abbastanza immedesimata colla vita presente, si era resa insensibile a quel richiamo? O che la mia natura è inferma, o che io concepisco in modo diverso dagli altri uomini, o che gli altri uomini subiscono, senza avvertirle, le medesime sensazioni. Io sento, e non saprei esprimere in qual guisa, che la mia vita - o ciò che noi chiamiamo propriamente con questo nome - non è incominciata col giorno della mia nascita, non può finire col giorno della mia morte: lo sento colla stessa energia, colla stessa pienezza di sensazione con cui sento la vita dell'istante, benché ciò avvenga in modo più oscuro, più strano, più inesplicabile. E d'altra parte come sentiamo noi di vivere nell'istante? Si dice, io vivo. Non basta: nel sonno non si ha coscienza dell'esistere - e nondimeno si vive. Questa coscienza dell'esistere può non essere circoscritta esclusivamente negli stretti limiti di ciò che chiamiamo la vita. Vi possono essere in noi due vite - è sotto forme diverse la credenza di tutti i popoli e di tutte le epoche - l'una essenziale, continuata, imperitura forse; l'altra a periodi, a sbalzi più o meno brevi, più o meno ripetuti: l'una è l'essenza, l'altra è la rivelazione, è la forma. Che cosa muore nel mondo? La vita muore, ma lo spirito, il segreto, la forza della vita non muore: tutto vive nel mondo. Ho detto il sonno. E che cosa è il sonno? Siamo noi ben certi che la vita del sonno non sia una vita a parte, un'esistenza distaccata dall'esistenza della veglia? Che cosa avviene di noi in quello stato? chi lo sa dire? gli avvenimenti a cui assistiamo o prendiamo parte nel sogno non sarebbero essi reali? Ciò che noi chiamiamo con questo nome non potrebbe essere che una memoria confusa di quegli avvenimenti?... Pensiero spaventoso e terribile! Noi forse, in un ordine diverso di cose, partecipiamo a fatti, ad affetti, ad idee di cui non possiamo conservare la coscienza nella veglia; viviamo in altro mondo e tra altri esseri che ogni giorno abbandoniamo, che rivediamo ogni giorno. Ogni sera si muore di una vita, ogni notte si rinasce
d'un'altra. Ma ciò che avviene di queste esistenze parziali, avviene forse anche di quell'esistenza intera e più definita che le comprende. Gli uomini hanno sempre rivolto lo sguardo all'avvenire, mai al passato; al fine, mai al principio; all'effetto, mai alla causa; e non di meno quella porzione della vita a cui il tempo può nulla togliere o aggiungere, quella su cui la nostra mente avrebbe maggiori diritti a posarsi, e dalla cui investigazione potrebbe attingere le più grandi compiacenze e gli ammaestramenti più utili, è quella che è trascorsa in un passato più o meno remoto. Perocché noi abbiamo vissuto, noi viviamo, vivremo. Vi sono delle lacune tra queste esistenze, ma saranno riempite. Verrà un'epoca in cui tutto il mistero ci sarà rivelato; in cui si spiegherà tutto intero ai nostri occhi lo spettacolo di una vita, le cui fila incominciano nell'eternità e si perdono nella eternità; nella quale noi leggiamo, come sopra un libro divino, le opere, i pensieri, le idee concepite o compiute in un'esistenza trascorsa, o in una serie di esistenze parziali che abbiamo dimenticate. Se gli altri uomini serbino o no questa fede, non so; ma ciò non potrebbe né fortificare, né abbattere il mio convincimento. Ad ogni modo, ecco il mio racconto. Nel 1830 io aveva quindici anni, e conviveva colla famiglia in una grossa borgata del Tirolo, di cui alcuni riguardi personali mi costringono a sopprimere il nome. Non erano passate più di tre generazioni dacché i miei antenati erano venuti ad allogarsi in quel villaggio: essi vi erano bensì venuti dalla Svizzera, ma la linea retta della famiglia era oriunda della Germania: le memorie che si conservavano della sua origine erano sì inesatte e sì oscure, che non mi fu mai dato di poterne dedurre delle cognizioni ben definite: ad ogni modo, mi preme soltanto di accertare questo fatto, ed è che il ceppo della mia casa era originario della Germania. Eravamo in cinque: mio padre e mia madre, nati in quel villaggio, vi avevano ricevuto quella educazione limitata e modesta che è propria della bassa borghesia. Vi erano bensì delle tradizioni aristocratiche nella mia famiglia, delle tradizioni che ne facevano risalire l'origine al vecchio feudalismo sassone; ma la fortuna della nostra casa si era talmente ristretta che aveva fatto tacere in noi ogni istinto di ambizione e di orgoglio. Non vi era differenza di sorta tra le abitudini della mia famiglia, e quelle delle famiglie più modeste del popolo; i miei genitori erano nati e cresciuti tra di esse, la loro vita era tutta una pagina bianca; né io aveva potuto attingere dalla loro convivenza, né trarre dal loro metodo di educazione alcuna di quelle idee, di quelle memorie di fanciullezza che predispongono alla su-
perstizione e al terrore. L'unico personaggio la cui vita racchiudeva qualche cosa di misterioso e d'imperscrutabile, e che era venuto ad aggiungersi, per così dire, alla mia famiglia, era un vecchio zio legato a noi, dicevasi, da una comunanza di interessi, di cui però non ho potuto decifrarmi in alcun modo le ragioni, dopo che, e per la morte di lui e per quella di mio padre, io venni in possesso della fortuna della mia casa. Egli toccava allora - e parlo di quella età a cui risalgono queste mie memorie - i novant'anni. Era una figura alta e imponente, benché leggermente curvata; aveva tratti di volto maestosi, marcati, direi quasi plastici: l'andamento fiero quantunque vacillante per vecchiaia, l'occhio irrequieto e scrutatore, doppiamente vivo su quel viso, di cui gli anni avevano paralizzato la mobilità e la espressione. Giovine ancora, aveva abbracciato la carriera del sacerdozio, spintovi dalle pressioni insistenti della famiglia; poi aveva buttata la tonaca e s'era dato al militare; la Rivoluzione francese lo aveva trovato nelle sue file; egli aveva passato quarantadue anni lontano dalla sua patria e quando vi ritornò - poiché non aveva rotti i voti contratti colla Chiesa -riprese l'abito di prete che portò senza macchie e senza affettazione di pietà fino alla morte. Lo si sapeva dotato di indole pronta benché abitualmente pacata, di volontà indomabile, di mente vasta ed erudita, quantunque s'adoperasse a non parerlo. Capace di grandi passioni e di grandi ardimenti, lo si teneva in concetto di uomo non comune, di carattere grande e straordinario. Ciò che contribuiva per altro a circondarlo di questo prestigio, era il mistero che nascondeva il suo passato, erano alcune dicerie che si riferivano a mille strani avvenimenti cui volevasi che egli avesse preso parte - certo egli aveva reso dei grandi servigi alla Rivoluzione; quali e con quale influenza non lo si seppe mai; egli morì a novantasei anni portando seco nella sua tomba il segreto della sua vita. Tutti conoscono le abitudini della vita del villaggio; non mi tratterrò a discorrere di quelle speciali della mia famiglia. Noi ci radunavamo tutte le sere d'inverno in una vasta sala a pian terreno e ci sedevamo in circolo intorno ad uno di quegli ampii camini a cappa sì antichi e sì comodi, che il gusto moderno ha abolito, sostituendovi le piccole stufe a carbone. Mio zio, che abitava un appartamento separato nella stessa casa, veniva qualche volta a prendere parte alle nostre riunioni e ci raccontava alcune avventure dei suoi viaggi e alcune scene della Rivoluzione che ci riempivano di terrore e di meraviglia. Taceva però sempre di sé; e richiesto della parte che vi aveva preso, distoglieva la narrazione da quel soggetto.
Una sera - lo ricordo come fosse ieri - eravamo riuniti, secondo il solito, in quella sala: era d'inverno, ma non vi era neve; il suolo gelato e imbiancato di brina rifletteva i raggi della luna in guisa da produrre una luce bianca e viva come quella di una aurora. Tutto era silenzio, e non si udiva che il martellare alternato di qualche goccia che stillava dai ghiacciuoli delle gronde. Ad un tratto un rumore sordo e improvviso di un oggetto gettato nel cortile dal muracciuolo di cinta, viene ad interrompere la nostra conversazione; mio padre si alza, esce e si precipita fuori della porta che mette sulla via, ma non ode rumore alcuno di passi, né vede per tutto quel tratto di strada che si distende dinanzi a lui, alcuna persona che si allontani. Allora raccoglie dal suolo un piccolo involto che vi era stato gettato, e rientra con esso nella sala. Ci raccogliamo tutti d'intorno a lui per esaminarlo. Era, meglio che un involto, un grosso plico quadrato in vecchia carta grigiastra macchiata di ruggine, e cucita lungo gli orli con filo bianco e a punti esatti e regolari che accusavano l'ufficio di una mano di donna. La carta tagliata qua e là dal filo, e arrossata e consumata sugli orli, indicava che quel piego era stato fatto da lungo tempo. Mio zio lo ricevette dalle mani di mio padre, e lo vidi tremare ed impallidire nell'osservarlo. Tagliatane la carta, ne trasse due vecchi volumi impolverati; e non v'ebbe gettato su gli occhi, che il suo volto si coperse di un pallore cadaverico, e disse, dissimulando un senso di dolore e di meraviglia più vivo: "È strano!". E dopo un breve istante in cui nessuno di noi aveva osato parlare riprese: "È un manoscritto, sono due volumi di memorie che risalgono alle prime origini della nostra famiglia, e contengono alcune gloriose tradizioni della nostra casa. Io ho dato questi due volumi ad un giovine che, quantunque non appartenesse direttamente alla nostra famiglia, vi era congiunto per certi legami che non posso ora qui rivelare. Furono il pegno d'una promessa, cui non io, ma il tempo mi ha impedito di mantenere: sì, il tempo...", aggiunse tra di sé a bassa voce. "Io lo aveva conosciuto all'Università di ***, allorché vi studiava teologia: egli fu ghigliottinato sulla piazza della Grève, e la sua famiglia fu distrutta dalla Rivoluzione saranno ora quarant'anni... non uno gli sopravvisse... È strano!" E dopo un breve intervallo, osservando che verso la cucitura dei fogli si era accumulata una polvere rossastra leggerissima, ci disse, come si fosse risovvenuto di un pericolo: "Lavatevi le mani". "Perché?" "Nulla..."
Ubbidimmo. Si passò tutta quella sera in silenzio: mio zio era in preda a tristi pensieri, e si vedeva che egli si sforzava di evocare o di scacciare delle memorie assai dolorose. Si ritirò assai presto, si rinchiuse nel suo appartamento, e vi stette due giorni senza lasciarsi vedere. In quella sera io mi coricai in preda a pensieri strani e paurosi di cui non sapeva darmi ragione. Era preoccupato dall'idea di quell'avvenimento più che non avrei dovuto, più che un fanciullo della mia età non avrebbe potuto esserlo. Indarno io tenterei ora di rendere qui colla parola i sentimenti inesplicabili e singolari che si agitavano dentro di me in quell'istante. Parevami che tra quei volumi e mio zio, e me stesso, corressero dei rapporti che non aveva avvertito fino allora, delle relazioni misteriose e lontane, e di cui non giungeva a decifrarmi in alcun modo la natura né a comprendere il fine. Erano, o mi parevano rimembranze. Ma di che cosa? Non lo sapeva. Di che tempo? Remote. Nella mia giovine intelligenza tutto si era alterato e confuso. Mi addormentai sotto l'impressione di quelle idee, e feci questo sogno. Aveva venticinque anni: nella mia mente si erano come agglomerate tutte quelle idee, tutte quelle esperienze, tutti quegli ammaestramenti che segnavano quella differenza tra l'età sognata e l'età reale; ma io rimaneva nondimeno estraneo a questo maggiore perfezionamento, benché il comprendessi. Sentiva in me tutto lo sviluppo intellettuale di quella età, ma ne giudicava col senno e cogli apprezzamenti propri dei miei quindici anni. Vi erano due individui in me, all'uno apparteneva l'azione, all'altro la coscienza e l'apprezzamento dell'azione. Era una di quelle contraddizioni, di quelle bizzarrie, di quelle simultaneità di effetti che non sono proprie che dei sogni. Mi trovava in una gran valle fiancheggiata da due alte montagne: la vegetazione, la coltivazione, la forma e la disposizione delle capanne, e un non so che di diverso, di antico nella luce, nell'atmosfera, in tutto ciò che mi circondava, mi dicevano ch'io mi trovava colà in un'epoca assai remota dalla mia esistenza attuale - due o tre secoli almeno. Ma come era ciò avvenuto? come mi trovava in quelle campagne? Non lo sapeva. Ciò era bensì naturale nel sogno: vi erano degli avvenimenti che giustificavano il mio ristarmi in quel luogo, ma non sapeva quali fossero; non aveva coscienza del loro valore, della loro entità, non l'aveva che della loro esistenza. Era solo e triste. Camminava per uno scopo determinato, prefisso, per un fine che mi attraeva in quel luogo, ma che ignorava. All'estremità della valle si
innalzava una rupe tagliata a picco, alta, perpendicolare, profonda, solcata da screpolature dove non germogliava una liana; e sulla sua sommità vi era un castello che dominava tutta la valle, e quel castello era nero. Le sue torri munite di balestriere erano gremite di soldati, le porte dei ponti calate, le altane stipate d'uomini e di arnesi da difesa; negli appartamenti del castello era rinchiusa una donna di prodigiosa bellezza, che nella consapevolezza del sogno io sapeva essere la dama del Castello Nero e quella donna era legata a me da un affetto antico, e io doveva difenderla, sottrarla da quel castello. Ma giù nella valle a' piedi della rupe ove io mi era arrestato, un oggetto colpiva dolorosamente la mia attenzione: sui gradini d'un monumento mortuario sedeva un uomo che n'era uscito allora; egli era morto e tuttavia viveva; presentava un assieme di cose impossibile a dirsi, l'accoppiamento della morte e della vita, la rigidità, il nulla dell'una temperata dalla sensitività, dall'essenza dell'altra: le sue pupille che io sapeva essere state abbacinate con un chiodo rovente, erano ancora attraversate da due piccoli fori quadrati che davano al suo sguardo qualche cosa di terribile e di compassionevole a un tempo. A quel fatto si legavano delle memorie di sangue, delle memorie di un delitto a cui io avevo preso parte. Fra me e lui e la dama del castello correvano dei rapporti inesplicabili. Egli mi guardava colle sue pupille forate; e col gesto, e con una specie di volontà che egli non manifestava, ma che io, non so come, leggeva in lui, m'incitava a liberare la dama. Una via scavata lateralmente nella rupe conduceva al castello. Una immensa quantità di proiettili lanciatimi dai mangani delle torri mi impedivano di giungervi. Ma, strana cosa, tutti quei proiettili enormi mi colpivano, ma non mi uccidevano - nondimeno mi arrestavano. Attraverso le mura del castello, io vedeva la dama correre sola per gli appartamenti coi capelli neri disciolti, col volto e coll'abito bianchi come la neve, protendendomi le braccia con espressione di desiderio e di pietà infinita; e io la seguiva collo sguardo attraverso tutte quelle sale che io conosceva, nelle quali aveva vissuto un tempo con lei. Quella vista mi animava a correre in suo soccorso, ma non lo poteva; i proiettili lanciatimi dalle torri me lo impedivano: a ogni svolto del sentiero la grandine diventava più fitta e più atroce; e quegli svolti erano molti - dopo questo un altro, dopo quello ancora un altro... io saliva e saliva... la dama mi chiamava dal castello, si affacciava dalle ampie finestre coi capelli che le piovevano giù sul seno, mi accennava colla mano di affrettarmi, mi diceva parole piene di dolcezza e di amore, né io poteva giungere fino a lei - era una impotenza straziante. Quanto durasse
quella terribile lotta non so; tutta la durata del sogno, tutto lo spazio della notte. Finalmente, e non sapeva in che modo, era arrivato alle porte del castello; esse erano rimaste indifese, i soldati erano spariti: le imposte serrate si spalancarono da sé cigolando sui cardini arrugginiti, e nello sfondo nero dell'atrio vidi la dama col suo lungo strascico bianco, e colle braccia aperte, correre verso di me, attraversando con una rapidità sorprendente, e rasentando appena lo spiazzo, la distanza che ci separava. Essa si gettò tra le mie braccia coll'abbandono di una cosa morta, colla leggerezza, coll'adesione di un oggetto aereo, flessibile, soprannaturale. La sua voce era dolce, ma debole come l'eco di una nota; la sua pupilla, nera e velata come per pianto recente, attraversava le più ascose profondità della mia anima senza ferirla, investendola anzi della sua luce come per effetto di un raggio. Noi passammo alcuni istanti così abbracciati: una voluttà mai sentita da me né prima, né dopo quell'ora, mi ricercava tutte le fibre. Per un momento io subii tutta l'ebbrezza di quell'amplesso senza avvertirla: ma non m'era posato su questo pensiero, non era appena discesa in me la coscienza di quella voluttà, che sentii compiersi in lei una orribile trasformazione. Le sue forme piene e delicate, che sentiva fremere sotto la mia mano, si appianarono, rientrarono in sé, sparirono; e sotto le mie dita incespicate tra le pieghe che si erano formate a un tratto nel suo abito, sentii sporgere qua e là l'ossatura di uno scheletro... Alzai gli occhi rabbrividendo e vidi il suo volto impallidire, affilarsi, scarnirsi, curvarsi sopra la mia bocca; e colla bocca priva di labbra imprimervi un bacio disperato, secco, lungo, terribile... Allora un fremito, un brivido di morte scorse per tutte le mie fibre; tentai di svincolarmi dalle sue braccia, respingerla... e nella violenza dell'atto il mio sonno si ruppe - mi svegliai urlando e piangendo. Tornai ai miei quindici anni, alle mie idee, ai miei apprezzamenti, alle mie puerilità di fanciullo. Tutto quel sogno mi pareva assai più strano, assai più incomprensibile che spaventoso. Quali erano i sentimenti che si erano impossessati di me in quello stato? Io non aveva ancora conosciuta la voluttà di un bacio, non aveva pensato ancora all'amore, non poteva darmi ragione delle sensazioni provate in quella notte. Ciò non ostante era triste, era posseduto da un pensiero irremovibile; mi pareva che quel sogno non fosse altrimenti un sogno, ma una memoria, una idea confusa di cose, la rimembranza di un fatto molto remoto dalla mia vita attuale. Nella notte seguente ebbi un altro sogno.
Mi trovava ancora in quel luogo, ma tutto era cambiato; il cielo, gli alberi, le vie non erano più quelli; i fianchi della rupe erano intersecati da sentieri coperti di madreselve; del castello non rimanevano che poche rovine, e nei cortili deserti e negli interstizii delle stanze terrene crescevano le cicute e le ortiche. Passando vicino al monumento che sorgeva prima nella valle e di cui pure non restavano che alcune pietre, l'uomo abbacinato che stava ancora seduto sopra un gradino rimasto intatto, mi disse porgendomi un fazzoletto bruttato di sangue: "Recatelo alla signora del castello". Mi trovai assiso sulle rovine: la signora del castello era seduta al mio fianco eravamo soli - non si udiva una voce, una eco, uno stormire di fronde nella campagna - essa, afferrandomi le mani, mi diceva: "Sono venuta tanto da lontano per rivederti, senti il mio cuore come batte... senti come batte forte il mio cuore!... tocca la mia fronte e il mio seno: oh! sono assai stanca, ho corso tanto; sono spossata dalla lunga aspettazione... erano quasi trecento anni che non ti vedeva". "Trecento anni!" "Non ti ricordi? Noi eravamo assieme in questo castello: ma sono memorie terribili! non le evochiamo." "Sarebbe impossibile; io le ho dimenticate." "Le ricorderai dopo la tua morte." "Quando?" "Assai presto." "Quando?" "Fra venti anni, al venti di gennaio: i nostri destini, come le nostre vite, non potranno ricongiungersi prima di quel giorno." "Ma allora?" "Allora saremo felici, realizzeremo i nostri voti." "Quali?" "Li ricorderai a suo tempo... ricorderai tutto. La tua espiazione sta per finire, tu hai attraversate undici vite prima di giungere a questa, che è l'ultima. Io ne ho attraversate sette soltanto, e sono già quarant'anni che ho compiuto il mio pellegrinaggio nel mondo: tu lo compirai con questa fra vent'anni. Ma non posso rimanere più a lungo con te, è necessario che ci separiamo." "Spiegami prima questo enimma." "È impossibile... Può avvenire però che tu lo abbia a comprendere. Ho rinfacciato ieri a lui la sua promessa: te ne ho restituito il mezzo, quei due volumi, quelle memorie scritte da te, quelle pagine sì colme di affetto... le
avrai, se quell'uomo che ci fu allora sì fatale non t'impedirà di averle." "Chi?" "Tuo zio... egli... l'uomo della valle." "Egli? Mio zio!" "Sì, e lo hai tu veduto?" "Lo vidi, e ti manda per me questo fazzoletto insanguinato." "È il tuo sangue, Arturo", diss'ella con trasporto, "sia lodato il cielo! egli ha mantenuto la sua promessa." Dicendo queste parole la signora del castello sparve - io mi svegliai atterrito. Mio zio stette rinchiuso per due giorni nel suo appartamento: appena ne fu uscito mi precipitai nelle sue stanze per impadronirmi di quei volumi, ma non vi trovai che un mucchio di cenere; egli li aveva dati alle fiamme. Quale non fu però il mio terrore quando nel rimescolare quelle ceneri vi rinvenni alcuni frammenti che parevano scritti di mio pugno; e da alcune parole sconnesse che erano rimaste intelligibili, potei ricostruire con uno sforzo potente di memoria degli interi periodi che si riferivano agli avvenimenti accennati oscuramente in quei sogni! Io non poteva più dubitare della verità di quelle rivelazioni; e benché non giungessi mai ad evocare tutte le mie rimembranze per modo da dissipare le tenebre che si distendevano su quei fatti, non era più possibile che io potessi metterne in dubbio la esistenza. Il Castello Nero era spesso nominato in quei frammenti, e quella passione d'amore che pareva legarmi alla signora del castello, e quel sospetto di delitto che pesava sull'uomo della valle vi erano in parte accennati. Oltre a ciò, per una combinazione singolare altrettanto che spaventevole, la notte in cui aveva fatto quel sogno era appunto la notte del venti gennaio: mancavano dunque venti anni esatti alla mia morte. Dopo quel giorno io non aveva dimenticato mai quel presagio, ma quantunque non ponessi in dubbio che vi fosse un fondo di verità in tutto quell'insieme di fatti, era riuscito a persuadermi che la mia gioventù, la mia sensibilità, la mia immaginazione, avevano contribuito in gran parte a circondarli del loro prestigio. Mio zio, morto sei anni dopo, mentre io era assente dalla famiglia, non aveva fatto alcuna rivelazione che si riferisse a quegli avvenimenti; io non aveva più avuto alcun sogno che potesse considerarsi come uno schiarimento od una continuazione di quelli; e degli af-
fetti nuovi, e delle cure nuove, e delle nuove passioni erano venute a distogliermi da quel pensiero, a crearmi un nuovo stato di cose, un nuovo ordine di idee, ad allontanarmi da quella preoccupazione triste e affannosa. Non fu che diciannove anni dopo che io dovetti persuadermi per una testimonianza irrefragabile, che tutto ciò che io aveva sognato e veduto era vero, e che il presagio della mia morte doveva conseguentemente avverarsi. Nell'anno 1849 viaggiando al Nord della Francia, aveva disceso il Reno fin presso al confluente della piccola Mosa e m'era trattenuto a cacciare in quelle campagne. Errando solo un giorno lungo le falde di una piccola catena di monti, mi era trovato ad un tratto in una valle nella quale mi pareva essere stato altre volte, e non aveva fatto questo pensiero che una memoria terribile venne a gettare una luce fosca e spaventosa nella mia mente, e conobbi che quella era la valle del castello, il teatro dei miei sogni e della mia esistenza trascorsa. Benché tutto fosse mutato, benché i campi prima deserti, biondeggiassero adesso di messi, e non rimanessero del castello che alcuni ruderi sepolti a metà dalle ellere, ravvisai tosto quel luogo e mille e mille rimembranze, mai più evocate, si affollarono in quell'istante nella mia anima conturbata. Chiesi ad un pastore che cosa fossero quelle rovine, e mi rispose: "Sono le rovine del Castello Nero; non conoscete la leggenda del Castello Nero? Veramente ve ne sono di molte e non si narrano da tutti allo stesso modo; ma se desiderate di saperla come la so io... se...". "Dite, dite", io interruppi, sedendomi sull'erba al suo fianco. E intesi da lui un racconto terribile, un racconto che io non rivelerò mai benché altri il possa allo stesso modo sapere, e sul quale ho potuto ricostruire tutto l'edificio di quella mia esistenza trascorsa. Quando egli ebbe finito, io mi trascinai a stento fino ad un piccolo villaggio vicino donde fui trasportato, già infermo, a Wiesbaden, e vi tenni il letto tre mesi. Oggi, prima di partire, mi sono recato a rivedere le rovine del castello - è il primo giorno di settembre, mancano sei mesi all'epoca della mia morte sei mesi, meno dieci giorni - giacché non dubito che morrò in quel giorno prefisso. Ho concepito lo strano desiderio che rimanga alcuna memoria di me. Assiso sopra una pietra del castello ho tentato di richiamarmi tutte le circostanze lontane di questo avvenimento, e vi scrissi queste pagine sotto la impressione di un immenso terrore.»
L'autore di queste memorie, che fu mio amico e letterato di qualche fama, proseguendo il suo viaggio verso l'interno della Germania, morì il 20 gennaio 1850, come gli era stato presagito, assassinato da una banda di zingari nelle gole così dette di Giessen presso Freiburgo. Io ho trovate queste pagine tra i suoi molti manoscritti e le ho pubblicate. AMELIA BLANDFORD EDWARDS La carrozza fantasma Le circostanze che mi appresto a narrarvi sono del tutto vere. Sono cose che sono successe a me, e i miei ricordi sono molto vivi, tanto che gli eventi che sto per descrivervi potrebbero essere accaduti ieri. Invece sono trascorsi vent'anni da quella notte. Durante quei vent'anni ho raccontato questa vicenda a una sola persona. La ripeterò ora con una riluttanza che riesco a vincere a stento. Tutto quello che chiedo nel frattempo, è che vi asteniate dall'obbligarmi ad accettare le vostre conclusioni. Io ne sono convinto, e i miei sensi mi confortano in questa mia convinzione: dunque preferisco attenermi ad essi. Allora! Sono trascorsi esattamente vent'anni, e mancavano un paio di giorni alla fine della stagione della caccia. Ero stato tutto il giorno fuori con il fucile, e non avevo preso nulla. Il vento soffiava da est, il mese era dicembre, e il luogo, un'ampia e desolata palude nell'estremo nord dell'Inghilterra. Mi ero perso. Non era un posto piacevole in cui perdersi, poiché i primi soffici fiocchi che annunciavano l'arrivo di una bufera di neve avevano cominciato a cadere tra le felci, e tutt'attorno scendeva la sera, mentre il cielo diventava color piombo. Con la mano feci scudo agli occhi, e scrutai con ansia l'oscurità che avanzava, verso un punto in cui la palude violacea si addolciva e si vedevano sorgere delle basse colline, a circa dieci o dodici miglia di distanza. Da qualsiasi parte guardassi, non vedevo né un fil di fumo, né un campicello coltivato, né uno steccato, né un sentiero per il gregge. Non c'era altro da fare: dovevo continuare il mio cammino, sperando di trovare un rifugio lungo la strada. Così mi rimisi in spalla il fucile, e mi spinsi stancamente in avanti. Ero in piedi fin dall'alba, e non avevo toccato cibo dall'ora della colazione. Intanto, la neve cominciava a scendere con minacciosa regolarità, e il
vento era cessato. A quel punto il freddo divenne più intenso, e la notte calò velocemente. Per quanto mi riguardava, il mio futuro diventava più incerto man mano che incalzavano le tenebre, e con il cuore pesante pensai alla mia giovane sposa che certo già aspettava alla finestra della nostra piccola locanda, e riflettei sulla sofferenza che le avrebbe portato quella lunga notte che si avvicinava. Eravamo sposati da quattro mesi, avevamo trascorso tra le Highlands tutto l'autunno, ed ora alloggiavamo in un villaggetto remoto situato al confine delle grandi paludi inglesi. Eravamo molto innamorati, e naturalmente anche molto felici. Quella mattina, al momento della partenza, lei mi aveva supplicato di tornare prima del tramonto, ed io glielo avevo promesso. Cosa non avrei dato per aver potuto mantenere la parola! Anche in quel momento, per quanto fossi stanchissimo, sentivo che avevo solo bisogno di una cena, di un'ora di riposo, e di una guida per tornare da lei prima della mezzanotte, se solo fossi riuscito a trovare quella guida e quel rifugio. La neve aveva continuato a cadere per tutto il tempo, e l'oscurità diventava sempre più fitta. Ogni tanto mi fermavo e gridavo, ma le mie grida sembravano rendere solo più profondo il silenzio che mi circondava. Mi assalì uno strano senso d'inquietudine, e cominciai a ricordare tante storie di viaggiatori che avevano camminato e camminato nella neve finché non erano caduti a terra stremati, per dormire di un sonno che ben presto diventava eterno. Era possibile, mi chiesi, continuare così per tutta quella notte tanto fredda e buia? Non sarebbe arrivato il momento in cui le mie membra non mi avrebbero più risposto, e il mio coraggio mi avrebbe lasciato? Il momento in cui anch'io mi sarei addormentato nel sonno mortale. La morte! Ebbi un tremito. Com'era difficile morire proprio allora, quando la vita mi si presentava tanto piacevole! Quanto sarebbe stato difficile per la mia amata, che con il cuore pieno d'amore... un simile pensiero era intollerabile. Per cacciarlo urlai ancora, più forte e più a lungo, e rimasi in trepidante attesa. Avevo forse udito un grido di risposta, o me lo ero solo immaginato? Urlai ancora, e di nuovo seguì un'eco. Poi una fioca luce spuntò all'improvviso dall'oscurità, brillò, ondeggiò e quindi sparì, per poi diventare sempre più forte e più vicina. Corsi in quella direzione a tutta velocità, e con grande gioia mi trovai faccia a faccia con un vecchio che reggeva una lanterna. «Grazie a Dio!», fu l'esclamazione che mi sfuggì involontariamente dal-
le labbra. Aggrottando le ciglia e sbattendo le palpebre, sollevò la lanterna e mi scrutò in volto. «Per cosa?», brontolò, corrucciato. «Beh... per voi. Avevo cominciato a temere di essermi perso nella neve.» «Eh, è vero: la gente di tanto in tanto si perde da queste parti, e cosa impedirebbe che anche a voi succedesse una cosa del genere, se il Signore avesse così deciso?» «Se il Signore avesse deciso che voi ed io ci perdessimo assieme, amico mio, ci dovremmo rassegnare», risposi, «ma non intendo perdermi con voi. Quanto siamo distanti da Dwolding?» «Più di venti miglia, direi.» «E dal villaggio più vicino?» «Il villaggio più vicino è Wyke, a dodici miglia nella direzione opposta.» «E voi dove abitate?» «Laggiù», rispose, con un vago gesto della lanterna. «Andate a casa, immagino?» «Forse sì.» «Allora vengo con voi.» Il vecchio scosse la testa, grattandosi il naso con la maniglia della lanterna, riflettendo. «Non serve a niente», brontolò. «Lui non vi farà entrare... nossignore.» «Vedremo», risposi bruscamente. «Chi è Lui?» «Il padrone.» «Chi è il padrone?» «Non vi riguarda!», rispose senza tante cerimonie. «Bene, bene; andate avanti voi, e io cercherò di farmi dare un rifugio e una cena dal vostro padrone per stanotte.» «Eh... potete provare!», mormorò la mia guida riluttante. E, scuotendo ancora la testa, si avviò zoppicando come uno gnomo, attraverso la neve che fioccava. Ben presto riuscii a scorgere una grossa costruzione che si stagliava contro le tenebre, e un cane enorme si lanciò verso di noi, abbaiando furiosamente. «È questa la casa?», chiesi. «Sì, la casa è questa. A cuccia, Bey!»
E si mise a cercare a tastoni in una tasca, per trovare la chiave. Io mi accostai a lui, pronto a non perdere l'occasione di entrare, e vidi all'interno del piccolo cerchio di luce che gettava la lanterna, che la porta era ricoperta fittamente di grandi chiodi borchiati di ferro, come quella di una prigione. Un minuto dopo, lui aveva girato la chiave nella toppa e, spintola da parte, ero entrato nella casa. Una volta all'interno, mi guardai attorno pieno di curiosità, e mi trovai in una grande sala con il soffitto di travi di legno, che era stata adibita a diversi usi. Da una parte c'era un mucchio di grano che arrivava fino al tetto, come in un silos. Dall'altra erano ammucchiati dei sacchi per la farina, strumenti agricoli, delle botti, e pezzi di legno di vario tipo. Dalle travi pendevano file di prosciutti, zappe, e mazzi di erbe essiccate per l'inverno. Al centro del pavimento vi era un enorme oggetto coperto di un telo sporco, che arrivava fin quasi al soffitto. Quando alzai un lembo del telo, vidi con sorpresa che si trattava di un telescopio molto grande, montato su una rozza piattaforma mobile, munita di quattro piccole ruote. Il tubo era fatto di legno dipinto, ed era tenuto insieme da certe bande metalliche piuttosto rozze. La lente, per quanto riuscivo a vedere nella penombra che regnava nella stanza, sembrava misurare almeno quindici pollici di diametro. Mentre ero ancora occupato ad esaminare lo strumento, chiedendomi se non fosse forse l'opera di un ottico autodidatta, all'improvviso suonò un campanello. «È per te», disse la mia guida, con un sorriso malevolo. «La stanza è quella.» Indicò una porta bassa e nera sul lato opposto della sala. Attraversai la stanza, bussai un po' forte, ed entrai, senza attendere la risposta. Un enorme vecchio dai capelli bianchi si alzò dal tavolo coperto di libri e di carte, e mi affrontò accigliato. «Chi siete?», disse. «Come siete arrivato qui? Cosa volete?» «Mi chiamo James Murray, e sono un avvocato. Sono arrivato a piedi attraverso la palude. Desidero della carne, da bere, e da dormire.» Aggrottò le ciglia, assumendo un'espressione terribile. «La mia non è una casa di divertimenti», disse con alterigia. «Jacob, come hai osato far entrare questo forestiero?» «Non l'ho fatto entrare», brontolò il vecchietto. «Mi ha seguito nella palude, ed è entrato sgomitando. Non potevo far nulla contro un uomo alto sei piedi e due pollici.» «E di grazia, signore, con quale diritto vi siete introdotto a forza in casa
mia?» «Con lo stesso diritto con il quale mi sarei aggrappato alla vostra barca, se stessi affogando. Il diritto alla sopravvivenza.» «Alla sopravvivenza?» «La neve caduta è già spessa un pollice», risposi brevemente, «e prima dell'alba diventerà abbastanza alta da coprire il mio corpo.» Quello si avvicinò alla finestra, tirò da parte la pesante tenda nera che la ricopriva, e guardò fuori. «È vero», disse. «Potete rimanere, se lo desiderate, ma solo fino al mattino. Jacob, servi la cena.» Con quelle parole fece un gesto per invitarmi a sedere, riprese il suo posto, e tornò ad occuparsi dei suoi studi, che io avevo momentaneamente interrotto. Posai il fucile in un angolo, portai una sedia vicino al camino, ed esaminai senza fretta la stanza. Si trattava di un ambiente più piccolo e meno incongruo rispetto al salone, ma conteneva molte cose che stimolavano la mia curiosità. Non vi erano tappeti. Le pareti dipinte di bianco erano in parte ricoperte di strani diagrammi, e in parte erano occupate da scaffali pieni di strumenti e libri filosofici, molti dei quali mi erano del tutto ignoti. A fianco del camino c'era una libreria ingombra di fogli scoloriti; dall'altra parte, si vedeva un piccolo organo, ricoperto di decorazioni scolpite e dipinte, che rappresentavano santi medievali e diavoli. Attraverso lo sportello semiaperto di un armadio sul lato opposto della stanza, scorsi una grande varietà di reperti geologici, preparazioni chirurgiche, alambicchi, almanacchi e barattoli di prodotti chimici. Invece, sulla mensola accanto a me, assieme a un certo numero di altri piccoli oggetti, vedevo un modello del sistema solare, una piccola pila galvanica e un microscopio. Ogni sedia era occupata. Ogni angolo era pieno di mucchi di libri. Il pavimento era ricoperto di mappe, modelli in gesso, calchi, e materiale scientifico di ogni tipo. Mi guardavo attorno sempre più stupito dagli oggetti che mi circondavano. Non avevo mai visto una stanza del genere. Eppure, era ancora più insolito il fatto di trovare una stanza simile in un casale sperduto tra quelle selvagge lande solitarie! Con lo sguardo passavo dal mio ospite all'ambiente che lo circondava, e viceversa, chiedendomi chi e che cosa fosse mai quell'uomo. Aveva una testa molto ben modellata. Ma sembrava più quella di un poeta che di un filosofo. Le ampie tempie e la fronte prominente al di sopra delle orbite e-
rano ricoperte di una fluente chioma di capelli perfettamente bianchi, che suggerivano l'altezza di ideali e la ruvidezza che caratterizzano le fattezze di Beethoven. Aveva delle rughe profonde attorno alla bocca, profondi solchi gli attraversavano la fronte, e aveva la stessa espressione di estrema concentrazione. Mentre ero ancora intento ad osservarlo, si spalancò una porta, e Jacob ci portò la cena. Il suo padrone chiuse il libro, si alzò, e con maggior cortesia di quanto avesse dimostrato fino a quel momento, mi invitò ad avvicinarmi alla tavola. Mi vennero offerti un piatto di prosciutto e uova, una pagnotta di pane nero, e una bottiglia di ottimo sherry. «Posso offrirvi solo i semplici cibi di campagna, signore», disse il padrone di casa. «Mi auguro che il vostro appetito compensi le manchevolezze della mia dispensa.» Mi ero già avventato sul cibo, e protestai con tutto l'entusiasmo di uno sportivo affamato che non avevo mai assaggiato nulla di tanto saporito. Il mio ospite si inchinò rigidamente e si sedette a consumare la sua cena piuttosto primitiva, che consisteva in una brocca di latte e una ciotola di porridge. Mangiammo in silenzio e, quando terminammo il pasto, Jacob portò via il vassoio. Riportai la mia sedia accanto al camino. Rimasi alquanto sorpreso nel vedere che il mio ospite mi imitò di lì a poco, rivolgendomi bruscamente la parola: «Signore, ho vissuto qui in assoluta solitudine per ventitré anni. Durante quel tempo non ho visto molti volti di estranei, e non ho letto nemmeno un giornale. Voi siete il primo forestiero che ha varcato la mia soglia in quattro anni. Mi potreste riferire qualche informazione circa il mondo esterno dal quale mi sono ormai separato da lungo tempo?». «Prego, interrogatemi pure», risposi. «Mi pongo volentieri al vostro servizio.» Inchinò la testa in segno di ringraziamento. Si sporse quindi verso di me, con i gomiti appoggiati alle caviglie, e il mento sulle palme delle mani. Fissò le fiamme e cominciò a interrogarmi. Le sue domande erano per lo più incentrate su materie di carattere scientifico, poiché ignorava quasi totalmente i recenti progressi e le loro applicazioni pratiche nella vita di tutti i giorni. Io stesso non ero certo uno studente di materie scientifiche, e quindi risposi come meglio potevo. Ma il compito era tutt'altro che facile e, con mio grande sollievo, passammo poi dalle domande alla conversazione, durante la quale parlò a lungo delle sue
conclusioni circa i fatti che avevo tentato di spiegare. Ascoltavo affascinato le sue parole: parlò fin quasi a dimenticare la mia stessa presenza, e cominciò a pensare ad alta voce. Non avevo mai sentito nessuno parlare così, né da allora ho mai più sentito discorsi simili. Pareva conoscere tutti i sistemi filosofici, era capace di compiere sottili analisi e ardite generalizzazioni, seguendo il filo dei suoi pensieri che fluivano come un fiume ininterrotto di concetti, e, curvo in quell'atteggiamento malinconico, con gli occhi fissi sulle fiamme, vagava da un soggetto all'altro, da un'ipotesi all'altra, come un sognatore ispirato. Passò dalle scienze pratiche alla filosofia dei processi mentali, dall'elettricità condotta dal filo a quella che passa attraverso i nervi. Da Watts a Mesmer, da Mesmer a Reichenbach, da Reichenbach a Swedenborg, Spinoza, Condillac, Descartes, Berkeley, Aristotele, Platone, ai Magi e ai mistici orientali, quelle transizioni, per quanto fonti di meraviglia e disorientamento a causa della loro varietà ed ampiezza, uscendo dalle sue labbra apparivano invece facili e armoniose come sequenze musicali. Piano piano - non ricordo attraverso quale serie di congetture, o quali esemplificazioni - passò ad esaminare quel campo che rimane al di là della linea di confine perfino della filosofia delle ipotesi, e che arriva Dio sa dove. Parlò dell'anima e delle aspirazioni che le sono proprie, dello spirito, e dei poteri che lo caratterizzano. Del sesto senso. Del dono della profezia. Di tutti quei fenomeni i quali, sotto il nome di fantasmi, spettri, apparizioni sovrannaturali, sono stati negati dagli scettici e attestati dai creduloni di ogni tempo. «Il mondo», disse, «di ora in ora diventa più scettico circa tutto ciò che si trova al di fuori del suo raggio limitato; i nostri scienziati alimentano questa tendenza nefasta. Considerano favole tutte le cose che non possono essere soggette a sperimentazioni scientifiche, e rifiutano come falso tutto ciò che non può essere sottoposto a prove di laboratorio, o introdotto in una sala di dissezione. Quale è stata la superstizione contro la quale hanno dichiarato una guerra annosa e ostinata tanto quanto quella contro la credenza nelle apparizioni inspiegabili? Eppure, quale altra superstizione ha mantenuto la sua presa sulle menti degli uomini tanto tenacemente e tanto a lungo? Mostratemi un esempio, un fatto qualsiasi attinente la fisica, la storia, o l'archeologia, che goda di un corredo tanto ricco e vario di testimonianze. Le attestazioni riguardano tutte le razze umane, tutti i periodi storici, tutti i climi, e si tratta spesso di testimonianze offerte dai più assennati saggi
dell'antichità, dai più rudi selvaggi di oggi, da cristiani, pagani, panteisti e materialisti. Tuttavia, i filosofi del nostro tempo considerano questo fenomeno una favola per bambini. Le prove circostanziate per loro contano quanto una piuma sulla bilancia. La comparazione delle cause con gli effetti, per quanto valida nel campo della fisica, è considerata inutile e inaffidabile. I resoconti di testimoni competenti in materia, considerati tanto importanti in un'aula di tribunale, non contano nulla in questi casi. Colui che si permette una pausa di riflessione prima di pronunciarsi, viene considerato un perditempo. Colui che crede, invece, è un sognatore o uno sciocco.» Parlava con una certa amarezza e, dopo aver pronunciato quelle parole, tacque per alcuni minuti. Ben presto sollevò la testa dalle mani, e aggiunse con voce e aspetto alterati. «Io, signore, ho esitato, ho ricercato, ed ho creduto, ma non mi vergogno di dichiarare ciò di cui sono convinto di fronte al mondo intero. Anch'io sono stato bollato come visionario, esposto al ridicolo davanti alle persone del mio tempo, e infine cacciato dal campo scientifico nel quale mi ero condotto con onore durante gli anni migliori della mia vita. Queste cose accaddero ventitré anni or sono. Da allora, ho vissuto come vedete, il mondo mi ha dimenticato, ed io a mia volta l'ho dimenticato. Ecco, adesso sapete la mia storia.» «È una storia molto triste», mormorai, senza sapere bene cosa rispondere. «È una storia piuttosto comune», rispose. «Ho solo sofferto in nome della verità, come molti uomini più valenti e più saggi hanno sofferto prima di me.» Si alzò, come se fosse desideroso di troncare quella conversazione, e si avvicinò alla finestra. «Ha smesso di nevicare», osservò, poi lasciò cadere la tenda che aveva scostato, e tornò accanto al focolare. «Ha smesso!», esclamai, saltando in piedi. «Oh, se solo fosse possibile... ma no! È inutile. Anche se riuscissi a trovare la strada attraverso la palude, non potrei percorrere venti miglia a piedi stanotte.» «Percorrere venti miglia a piedi questa notte!», ripeté il mio anfitrione. «Cosa state dicendo?» «Penso a mia moglie», risposi in tono impaziente. «Penso alla mia giovane moglie, che non sa che mi sono perso. In questo esatto momento avrà il cuore spezzato, in preda all'angoscia e al terrore.»
«Dov'è ora?» «A Dwolding, a venti miglia da qui.» «A Dwolding», mi fece eco l'uomo, con aria pensosa. «Sì, è vero, la distanza è all'incirca venti miglia. Ma... siete veramente tanto ansioso di risparmiare sei o sette ore?» «Tanto ansioso, che darei dieci ghinee in cambio di una guida e di un cavallo.» «Il vostro desiderio sarà esaudito a un prezzo assai più modesto», disse l'uomo, sorridendo. «La diligenza della posta che proviene da nord, e che cambia i cavalli a Dwolding, passa a meno di cinque miglia da qui, e transiterà per un certo incrocio tra un'ora e un quarto. Se Jacob vi guidasse attraverso la palude, e vi indicasse la vecchia strada della corriera, credete di riuscire a trovare la strada fino al punto in cui si congiunge con la strada nuova?» «Facilmente... volentieri.» Sorrise di nuovo, suonò il campanello, diede le istruzioni al vecchio servo, poi, prendendo una bottiglia di whisky e un bicchiere per il vino dall'armadio in cui teneva i suoi prodotti chimici, aggiunse: «La neve è molto alta, e sarà difficile camminare nella palude. Vorreste un bicchiere di usquebaugh prima di partire?». Avrei preferito rifiutare, ma lui insistette, e così bevvi il liquore. Mi scese in gola come una fiamma liquida, e rimasi quasi senza fiato. «È forte», disse, «ma aiuta a combattere il freddo. Ed ora dovete affrettarvi: non c'è tempo da perdere. Buona notte!» Lo ringraziai per la sua ospitalità, e volevo stringergli la mano, ma lui mi voltò le spalle prima che potessi finire la frase. In appena un minuto attraversai la stanza, Jacob serrò la porta esterna alle mie spalle, e ci trovammo fuori, sulla sconfinata palude ricoperta di neve. Benché il vento fosse cessato, il freddo era ancora molto intenso. Non si vedeva nemmeno una stella brillare sulla nera volta che ci sovrastava. Non si sentiva il minimo rumore, eccettuato il rapido scalpiccio dei nostri passi sulla neve, l'unico suono che disturbasse il silenzio di quella notte. Jacob, niente affatto contento di dover portare a termine un tale compito, strascicava i piedi davanti a me, accigliato e silenzioso, tenendo alta la lanterna, e vedevo la sua ombra, raccolta attorno ai suoi piedi. Lo seguivo con il fucile in spalla, e anch'io mi sentivo poco incline alla conversazione. I miei pensieri erano tutti dedicati al mio anfitrione di poco prima. La sua voce ancora mi risuonava nelle orecchie: la sua eloquenza aveva affascina-
to la mia immaginazione. Ricordo ancora con sorpresa che la mia mente sovreccitata aveva registrato intere frasi e spezzoni di frasi, migliaia di vivide immagini, frammenti di splendidi ragionamenti, e le parole stesse che lui aveva usato per esprimerli. Rimuginando così su quanto avevo udito e tentando di richiamare alla memoria qualche nesso che avevo dimenticato, seguivo passo passo la mia guida, assorto, senza osservare i dintorni. Di lì a poco - erano trascorsi, o almeno così mi pareva, solo pochi minuti - egli si arrestò bruscamente, e disse: «Ecco la strada che dovete fare. Tenetevi a destra del muretto di pietra: non potete sbagliare». «Questa allora è la vecchia strada della diligenza?» «Sì, è questa.» «Quanta strada devo fare, prima di arrivare all'incrocio?» «Più o meno tre miglia.» Tirai fuori il portafoglio, e lui divenne più loquace. «La strada è abbastanza buona», disse, «da fare a piedi; ma per il traffico proveniente da nord era troppo ripida e stretta. Fate attenzione al punto in cui il parapetto è sfondato, vicino al segnale stradale. Non è stato mai riparato da quando è accaduto l'incidente.» «Quale incidente?» «Eh, la diligenza della posta notturna l'ha sfondata, ed è caduta nella valle sottostante - un salto di più di cinquanta piedi - proprio nel pezzo di strada più brutto di tutta la Contea.» «Che cosa orribile! Ci sono stati dei morti?» «Tutti. Quattro vennero trovati già morti, e gli altri due morirono la mattina seguente.» «Quando accadde questo incidente?» «Nove anni fa.» «Vicino al segnale stradale, dite? Lo terrò a mente. Buona notte.» «Buona notte, signore, e grazie.» Jacob intascò la sua mezza corona, fece un gesto che avrebbe dovuto essere di saluto, e sparì nella direzione dalla quale era venuto. Guardai la luce della sua lanterna sparire nel buio, e poi mi voltai, pronto a proseguire da solo. Non sarebbe stata cosa difficile, poiché, nonostante l'oscurità impenetrabile del cielo, il muretto di pietra si vedeva abbastanza chiaramente contro il candore pallido della neve. Che profondo silenzio regnava, ora che l'unico rumore era quello dei miei passi! Com'era silen-
zioso e solitario! Uno strano e inquietante senso di solitudine si impadronì di me. Allungai il passo, e mormorai qualche battuta di una canzone. Sommai enormi somme a mente, e le accumulai calcolando gli interessi. In breve, feci il possibile per dimenticare i ragionamenti straordinari che avevo appena udito, e più o meno raggiunsi il mio scopo. Intanto l'aria notturna sembrava sempre più fredda e, benché camminassi rapidamente, sentivo sempre più freddo. I miei piedi sembravano fatti di ghiaccio. Con le mani intirizzite stringevo meccanicamente il fucile, senza sentirlo. Anche respirare era diventato difficile, come se stessi attraversando le più alte vette di una montagna altissima, e non quella silenziosa strada del nord. Alla fine, questo sintomo divenne tanto forte, che dovetti fermarmi per alcuni minuti per appoggiarmi al muretto di pietra. Mentre ero fermo, lanciai per caso un'occhiata lungo la strada e, con infinito sollievo, vidi un lumicino distante, come il bagliore di una lanterna che si avvicinava. Dapprima pensai che Jacob fosse tornato sui suoi passi e mi avesse seguito ma, proprio nel momento in cui quel pensiero mi si era formato in mente, apparve una seconda luce - una luce evidentemente parallela alla prima che si avvicinava alla stessa velocità. Non avevo bisogno di interrogarmi oltre, perché quelle dovevano certamente essere le luci di una carrozza, forse un veicolo privato, benché paresse strano che un veicolo privato percorresse una strada tanto poco usata e pericolosa. Tuttavia, era indubbiamente così. Infatti le lampade diventavano sempre più grandi e luminose, e immaginai perfino di riuscire a distinguere la sagoma scura della carrozza. Si avvicinava a grande velocità, senza alcun rumore: la neve sulla strada era spessa quasi un piede. Finalmente riuscii a distinguere bene il corpo della carrozza dietro le luci di posizione. Mi sembrava stranamente alta. Improvvisamente un sospetto mi assalì. Avevo forse passato l'incrocio al buio senza vedere il segnale? Era forse quella la carrozza che ero venuto ad aspettare? Non vi fu bisogno di pensare oltre alla risposta. Infatti, in quel momento uscì dalla svolta che la strada compiva in quel punto, e vidi la guardia e il conducente, un passeggero seduto all'esterno, e quattro rapidi cavalli grigi, tutti avvolti in una pallida luce luminescente attraversata dai bagliori delle lampade, come delle meteore infuocate. Mi lanciai in avanti, agitando il cappello e urlando. La corriera della po-
sta mi passò accanto a tutta velocità. Per un attimo temetti che non mi avesse visto né udito, ma solo per un momento. Il cocchiere fermò i cavalli. La guardia, intabarrata fino agli occhi, coperta di mantelli e sciarpe, pareva profondamente addormentata nonostante il rumore. Non rispose al mio saluto e non diede il minimo segno di voler scendere. Il passeggero seduto all'esterno non si voltò neppure. Spalancai la porta da solo, e guardai all'interno. Vidi solo tre uomini silenziosi. Non sembravano addormentati, ma ognuno era appoggiato al suo angoletto, come se fosse assorto nei propri pensieri. Tentai di cominciare una conversazione. «Che freddo intenso stasera!», dissi, rivolto al mio dirimpettaio. L'uomo sollevò la testa, mi guardò, ma non rispose. «L'inverno», aggiunsi, «sembra sia proprio cominciato, ormai.» Benché l'angolo in cui sedeva fosse immerso nell'oscurità, e non riuscissi a distinguerne chiaramente le fattezze, vidi che mi fissava. Eppure non pronunciò nemmeno una parola. In un'altra situazione avrei forse avvertito, e magari espresso la mia contrarietà, ma in quel momento mi sentivo troppo male. La gelida aria notturna mi aveva intirizzito fino all'osso, e lo strano odore che regnava all'interno della carrozza suscitava in me una nausea quasi intollerabile. Dei brividi mi percorrevano dalla testa ai piedi e, rivolto al mio vicino di sinistra, gli chiesi se gli desse fastidio che aprissi il finestrino. Quello non parlò e non si mosse. Rifeci la domanda a voce più alta, ma ottenni lo stesso risultato. Allora persi la pazienza e tirai la cinghia. Mentre lo facevo, la cinghia di cuoio mi si spezzò in mano, e mi accorsi che il vetro era ricoperto da uno spesso strato di muffa, apparentemente accumulatasi per molti anni. Esaminandola con più attenzione alla luce incerta delle lampade che proveniva dall'esterno, notai che la carrozza era all'ultimo stadio del disfacimento. Non solo ogni parte era logora e rotta: ovunque era visibile il marciume. Le cinghie si sgretolavano al tocco. Le parti in cuoio erano ricoperte di muffa e marcivano, staccandosi dal legno. Il pavimento sottostante pareva sul punto di cadere da un momento all'altro sotto i nostri piedi. L'intero veicolo insomma era marcio e umido, e a quanto pareva era stato tirato fuori da qualche rimessa dove era rimasto a fare la muffa per anni, per compiere un'altra volta il proprio dovere sulle strade. Mi rivolsi al terzo passeggero, che non avevo ancora interpellato, e azzardai un ultimo commento.
«Questa carrozza», dissi, «è in condizioni deplorevoli. Suppongo che la carrozza utilizzata solitamente per la consegna della posta sia in riparazione.» Quello voltò lentamente la testa verso di me, e mi guardò in faccia, senza pronunciare parola. Non dimenticherò mai quello sguardo, per tutta la vita. Il cuore mi si gelò a quella vista. Mi si gela ancora quando ci ripenso. I suoi occhi brillavano di una luce infuocata e innaturale. Il volto livido era quello di un cadavere. Le labbra esangui erano contratte in un'espressione di agonia mortale, e mostravano i denti biancheggianti. Le parole che stavo per pronunciare mi morirono in gola, e uno strano orrore - un terribile orrore - s'impadronì di me. Ormai i miei occhi si erano abituati all'oscurità che regnava all'interno della carrozza, e riuscivo a vedere abbastanza distintamente. Mi voltai a guardare l'uomo che avevo di fronte. Anche lui mi guardava, e vidi lo stesso terribile pallore sul suo volto, e la stessa luce innaturale nel suo sguardo. Mi passai la mano sulla fronte, poi mi voltai verso il passeggero sul sedile accanto al mio e vidi... oh, cielo! come descrivere quel che vidi? Mi resi conto che non era un uomo vivo... nessuno di loro era vivo, come lo ero io! Una pallida luce fosforescente - un'emanazione della putrefazione - si rifletteva sui loro volti, sulle capigliature ammuffite nelle tombe umide, sui loro abiti macchiati di terra, che cadevano a pezzi; sulle loro mani, che erano quelle di cadaveri seppelliti da tempo. Solo i loro occhi, i loro occhi terribili, vivevano ancora: e quegli occhi mi fissavano minacciosi! Con un urlo di terrore, un selvaggio e inarticolato grido di aiuto che chiedeva pietà, mi scaraventai verso la porta, tentando invano di aprirla. In quello stesso istante, breve e vivido come un paesaggio intravisto nel tempo di un temporale estivo, vidi la luna splendente attraverso una nube lacerata e gravida di pioggia... un sinistro segnale si stagliò come un dito levato in segno di avvertimento sul ciglio della strada... un parapetto sfondato... i cavalli che cadevano a capofitto... e il burrone tenebroso sotto di noi. Poi, la carrozza beccheggiò come una nave nella tempesta. Quindi si udì un rumore fortissimo... avvertii un dolore tremendo... e poi, il buio. Mi parve che fossero trascorsi degli anni quando finalmente mi svegliai una mattina da un sonno profondo, e trovai mia moglie accanto al mio capezzale che mi guardava. Vi risparmio la descrizione della scena che seguì, e vi dico in poche parole quello che lei mi raccontò, con le lacrime agli oc-
chi per il sollievo. Ero caduto in un precipizio, vicino all'incrocio tra la vecchia strada della posta e quella nuova, ed ero stato salvato dalla morte da un alto cumulo di neve, formatosi alla base dello strapiombo. In quel mucchio di neve mi avevano rinvenuto all'alba un paio di pastori, che mi avevano trasportato al rifugio più vicino, e avevano condotto un dottore per visitarmi. Il dottore mi aveva trovato in uno strato di profondo delirio: aveva riscontrato inoltre che avevo un braccio rotto e che avevo riportato una frattura multipla al cranio. Le lettere nel mio portafoglio avevano rivelato loro il mio nome e il mio indirizzo. Avevano quindi chiamato mia moglie che era venuta ad assistermi: la mia età ancora giovane e la mia costituzione robusta, avevano scongiurato il terribile pericolo. Il punto dal quale ero caduto, non c'è neanche bisogno di dirlo, era proprio quello in cui era accaduto il terribile incidente della corriera della posta, nove anni prima. Non ho mai raccontato a mia moglie le terribili vicende che vi ho appena descritto. Le rivelai al medico che mi curava. Ma lui liquidò l'intera storia come un semplice sogno dovuto alla febbre. Discutemmo a lungo la faccenda, finché scoprimmo che non riuscivamo più a parlarne serenamente, e lasciammo perdere l'argomento. Altri uomini potranno formulare la conclusione che preferiscono: io so che, venti anni fa, fui il quarto passeggero all'interno della Carrozza degli Spettri. GIOVANNI VERGA Le storie del Castello di Trezza I. La signora Matilde era seduta sul parapetto smantellato, colle spalle appoggiate all'edera della torre, spingendo lo sguardo pensoso nell'abisso nero e impenetrabile; suo marito, col sigaro in bocca, le mani nelle tasche, lo sguardo vagabondo dietro le azzurrine spirali del fumo, ascoltava con aria annoiata; Luciano, in piedi accanto alla signora, sembrava cercasse leggere quali pensieri si riflettessero in quegli occhi impenetrabili come l'abisso che contemplavano. Gli altri della brigata erano sparsi qua e là per la spianata ingombra di sassi e di rovi, ciarlando, ridendo, motteggiando; il mare andavasi facendo di un azzurro livido, increspato lievemente, e seminato di fiocchi di spuma. Il sole tramontava dietro un mucchio di nuvole fantasti-
che, e l'ombra del castello si allungava melanconica e gigantesca sugli scogli. «Era qui?», domandò ad un tratto la signora Matilde, levando bruscamente il capo. «Proprio qui.» Ella volse attorno uno sguardo lungo e pensieroso. Poscia domandò con uno scoppio di risa vive, motteggiatrici: «Come lo sa?». «Ricostruisca coll'immaginazione le volte di queste arcate, alte, oscure, in cui luccicano gli avanzi delle dorature, quel camino immenso, affumicato, sormontato da quello stemma geloso che non si macchiava senza pagare col sangue; quell'alcova profonda come un antro, tappezzata a foschi colori, colla spada appesa al capezzale di quel signore che non l'ha tirata mai invano dal fodero, il quale dorme sul chi vive, coll'orecchio teso, come un brigante -che ha il suo onore al di sopra del suo Dio, e la sua donna al di sotto del suo cavallo di battaglia: - cotesta donna, debole, timida, sola, tremante al fiero cipiglio del suo signore e padrone, ripudiata dalla sua famiglia il giorno che le fu affidato l'onore ombroso e implacabile di un altro nome; - dietro quell'alcova, separato soltanto da una sottile parete, sotto un'asse traditrice, quel trabocchetto che oggi mostra senza ipocrisia la sua gola spalancata - il carnaio di quel mastino bruno, membruto, baffuto, che russa fra la sua donna e la sua spada; - il lume della lampada notturna che guizza sulle immense pareti, e vi disegna fantasmi e paure; il vento che urla come uno spirito maligno nella gola del camino, e scuote rabbiosamente le imposte tarlate; e di tanto in tanto, dietro quella parete, dalla profondità di quel trabocchetto attorno a cui il mare muggisce, un gemito soffocato dall'abisso, delirante di spasimo, un gemito che fa drizzare la donna sul guanciale, coi capelli irti di terrore, molli del sudore di un'angoscia più terribile di quella dell'uomo che agonizza nel fondo del trabocchetto, e, fuori di sé, le fa volgere uno sguardo smarrito, quasi pazzo, su quel marito che non ode e russa.» La signora Matilde ascoltava in silenzio, cogli occhi fissi, intenti, luccicanti. Non disse «È vero!» ma chinò il capo. Il marito si strinse nelle spalle e si alzò per andarsene. Le ombre sorgevano da tutte le profondità delle rovine e del precipizio. «Se tutto ciò è vero», ella disse con voce breve; «s'è accaduto così come ella dice, essi debbono essersi appoggiati qui, a questi avanzi di davanzale, a guardare il mare, come noi adesso...», ed ella vi posò la mano febbrile,
«qui.» Ei chinò lo sguardo sulla mano, poi guardò il mare, poi la mano di nuovo. Ella non si muoveva, non diceva motto, guardava lontano. «Andiamo», disse a un tratto, «la leggenda è interessante, ma mio marito a quest'ora deve preferire la campana del desinare. Andiamo.» Il giovane le offrì il braccio, ed ella vi si appoggiò, rialzando i lembi del vestito, saltando leggermente fra i sassi e le rovine. Passando presso uno stipite sbocconcellato, osservò che c'erano ancora attaccati gli avanzi degli stucchi. «Se potessero raccontare anche questi!», disse ridendo. «Direbbero che allo stesso posto dove s'è posata la sua mano, ci si è aggrappata la mano convulsa della baronessa, la quale tendeva l'orecchio, ansiosa, verso quell'andito dove non si udiva più il rumore dei passi di lui, né una voce, né un gemito, ma risuonavano invece gli sproni sanguinosi del barone.» La signora si tirò indietro vivamente, come se avesse toccato del fuoco; poi vi posò di nuovo la mano, risoluta, nervosa, increspata; sembrava avida d'emozione; avea sulle labbra uno strano sorriso, le guance accese e gli occhi brillanti. «Vede!», disse. «Non si ode più nulla!» «Alla buon'ora!», esclamò il signor Giordano; «dunque possiamo andare.» La moglie gli rivolse uno sguardo distratto, e soggiunse: «Scusami, sai!». Il raggio di sole prima di tramontare si insinuò per un crepaccio a fior d'acqua, e illuminò improvvisamente il fondo di quella specie di pozzo ch'era stato il trabocchetto, le punte aguzze delle nere pareti, i ciottoli bianchi che spiccavano sul muschio e l'umidità del fondo, e i licheni rachitici che l'autunno imporporava. Il sorriso era sparito dal viso della signora spensierata, e volgendosi al marito, timida, carezzevole, imbarazzata: «Vieni?», gli disse. «Bada», rispose il signor Giordano col suo ironico sorriso; «ci vedrai le ossa di quel bel cavaliere, e farai brutti sogni stanotte.» Ella non rispose, non si mosse, stava chinata sulla buca; appoggiandosi ai sassi che la circondavano; infine, con voce sorda: «Infatti... c'è qualcosa di bianco, laggiù in fondo...». E senza attender risposta: «Se quest'uomo è caduto qui, ha dovuto afferrarsi per istinto a quella
punta di scoglio... vedete? si direbbe che c'è ancora del sangue». Suo marito vi buttò il sigaro spento, e volse le spalle; ella rabbrividì, come se avesse visto profanare una tomba, si fece rossa, e si rizzò per andarsene. Era una graziosa bruna, palliduccia, delicata, nervosa, con grandi e begli occhi neri e profondi; il piede le sdrucciolò un istante sul sasso mal fermo, vacillò, e dovette afferrarsi alla mano di Luciano. «Grazie!», gli disse con un sorriso intraducibile. «Si direbbe che l'abisso mi chiama.» II. Il pranzo era stato eccellente; non per nulla il signor Giordano preferiva la campana del desinare alle leggende del Castello. Verso le undici alla villa si pestava sul piano, si saltava nel salotto e si giuocava a carte nelle altre stanze. La signora Matilde era andata a prendere una boccata d'aria in giardino, e s'era dimenticata di una polca che aveva promessa al signor Luciano, il quale la cercava da mezz'ora. «Alfine!», le disse scorgendola. «E la nostra polca?» «Ci tiene proprio?» «Molto.» «Se la lasciassimo lì?» «Povera polca!» «Francamente, sa... Ella racconta così bene certe storie, che non l'avrei creduto un ballerino cotanto arrabbiato...» «Ci crede dunque alle storie?» «Ma... secondo il quarto d'ora.» Il silenzio era profondo; il vento cacciava le nuvole rapidamente, e di tanto in tanto faceva stormire gli alberi del giardino; il cielo era inargentato a strappi; le ombre sembravano inseguirsi sulla terra illuminata dalla luna, e il mormorio del mare e quel susurrio delle foglie, sommesso, ad intervalli, a quell'ora aveano un non so che di misterioso. La signora Matilde volse gli occhi qua e là, in aria distratta, e li posò sulla mole nera e gigantesca del castello che disegnavasi con profili fantastici su quel fondo cangiante ad ogni momento. La luce e le ombre si alternavano rapidamente sulle rovine, e un arbusto che avea messo radici sul più alto rivellino, agitavasi di tanto in tanto, come un grottesco fantasma che s'inchinasse verso l'abisso. «Vede?», diss'ella con quel sorriso incerto e colla voce mal ferma. «C'è qualche cosa che vive e si agita lassù!»
«Gli spettri della leggenda.» «Chissà!» «Cotesto è il quarto d'ora delle storie...» «Oppure cosa?» «Chissà... Cosa fa mio marito?» «Giuoca a tresette.» «E la signora Olani?» «Sta a guardare.» «Ah!...» «Mi racconti la sua storia...», riprese da lì a poco, con singolare vivacità, «se non le rincresce per la sua polca.» La storia che Luciano raccontò era strana davvero! La seconda moglie del barone d'Arvelo era una Monforte, nobile come il re e povera come Giobbe, forte come un uomo d'arme e tagliata in modo da rispondere per le rime alla galanteria un po' manesca di don Garzia, e da promettergli una nidiata di d'Arvelo, numerosi come le uova che avrebbe potuto covare la chioccia più massaia di Trezza. Prima delle nozze, le avevano detto degli spiriti che si sentivano nel Castello, e che la notte era un gran tramestio pei corridoi e per le sale, e si trovavano usci aperti e finestre spalancate, senza sapere come né da chi - usci e finestre ch'erano stati ben chiusi il giorno innanzi - che si udivano gemiti dell'altro mondo, e scrosci di risa da far venire la pelle d'oca al più ardito scampaforche che avesse tenuto alabarda e vestito arnese. Donna Isabella avea risposto che, fra lei e un marito come, al vedere, prometteva esserlo don Garzia, ella non avrebbe avuto paura di tutte le streghe di Spagna e di Sicilia, né di tutti i diavoli dell'inferno. Ed era donna da tener parola. La prima volta che si svegliò nel letto dove avea dormito l'ultima notte la povera donna Violante, mentre Grazia, la cameriera della prima moglie del barone, le recava il cioccolatte e apriva le finestre, ancora mezzo addormentata, domandò svogliatamente: «E così, come va che gli spiriti non hanno ballato il trescone di benvenuto alla nuova castellana?». «Non s'è sentito stanotte?...», rispose la povera Grazia, che anche a parlare ne avea una gran paura. «Sì, ho udito il russare di don Garzia; e ti so dire che russa come dieci guardie vallone.» «Vuol dire che il cappellano ha benedetto la camera meglio che altre volte.»
«Ah! sarà così, oppure che faccio paura al diavolo e agli spiriti.» «O che sarà per domani.» «Eh! hanno dunque il loro cerimoniale, messeri gli spiriti, come nostro signore il re? Racconta dunque!» «Io non so nulla, madonna.» «Chi sa dunque questa storia?» «Mamma Lucia, Brigida, Maso il cuoco, Anselmo ed il Rosso, i due valletti di messere il barone, e messer Bruno, il capocaccia.» «E cosa hanno visto costoro?» «Nulla.» «Nulla! Cosa hanno udito dunque?» «Hanno udito ogni sorta di cose, che Dio ce ne liberi!» «E da quando si sono udite di queste cose che Dio ce ne liberi?» «Dacché è morta la povera donna Violante, la prima moglie di messere.» «Qui?» «Proprio qui, in questo lato del castello; ma dalla cima dei merli sino in fondo alle cucine, di cui le finestre danno sulla corte.» La baronessa si mise a ridere, e la sera narrò al marito quel che le era stato detto. Don Garzia, invece di riderne anch'esso, montò in una tal collera che mai la maggiore, e incominciò a bestemmiar Dio e i santi come donna Isabella non avea visto né udito fare dagli staffieri più staffieri che fossero a casa de' suoi fratelli, e a minacciare che se avesse saputo chi si permetteva di spargere cotali fandonie, l'avrebbe fatto saltare dal più alto rivellino del castello. La baronessa fu estremamente sorpresa che quel pezzo di uomo, il quale non doveva aver paura nemmen del diavolo, avesse dato tanto peso a delle sciocche storielle, e in cuor suo ne fu contenta, ché si sentiva più degna del marito di portare i calzoni, e di far la castellana come andava fatto. «Dormite in santa pace, madonna», le disse don Garzia, «ché qui, nel castello e fuori, pel giro di dieci leghe, sin dove arriva il mio buon diritto e la mia buona spada, non c'è da temere altro che la mia collera.» Però la baronessa, sia che le parole del marito l'avessero colpita, sia che delle sciocchezze udite le fosse rimasta qualcosa in mente, si svegliò di soprassalto verso la mezzanotte, credendo d'avere udito, o d'aver sognato, un rumore indistinto, non molto lontano, proprio dietro la parete dell'alcova. Stette in ascolto con un po' di batticuore; ma non s'udiva più nulla, la lampada notturna ardeva ancora, e il barone russava della meglio. Ella non ardì svegliarlo, ma non poté ripigliar sonno. Il giorno dopo la sua donna la
trovò pallida e accigliata, e mentre la pettinava dinanzi allo specchio, la baronessa, coi piedi sugli alari e bene avvolta nella sua veste da camera di broccato, le domandò, dopo aver esitato alquanto: «Orsù, dimmi tutto quel che sai degli spiriti del castello». «Io non so altro che quel che ne ho udito raccontare dal Rosso e da Brigida. Volete che vi chiami Brigida?» «No!», rispose con vivacità donna Isabella. «Anzi non dire ad anima viva che io te n'abbia parlato... Raccontami quel che t'hanno detto Brigida e il Rosso.» «Brigida, quando dormiva nella stanzuccia accanto al corridoio qui vicino, udiva tutte le notti, poco prima o poco dopo dei dodici colpi della campana grossa, aprire la finestra che dà sul ballatoio, e la porta del corridoio. La prima volta che Brigida udì quel rumore fu la seconda domenica dopo Pasqua, la ragazza avea avuto la febbre e non poteva dormire; l'indomani tutti coloro ai quali raccontò il fatto credettero che fosse stato inganno della febbre; ma la poverina a misura che il giorno tramontava aveva una gran paura, e cominciò a parlare in tal modo del gran via vai della notte, che tutti credettero fosse delirante, e mamma Lucia rimase a dormire con lei. L'indomani anche mamma Lucia disse che in quella camera non avrebbe voluto passarci un'altra notte per tutto l'oro del mondo. Allora anche coloro i quali s'erano mostrati più increduli cominciarono ad informarsi e del come e del quando, e Maso raccontò quello che non avea voluto dire per timore di farsi dar la baia dai più coraggiosi. Da più di un mese avea udito rumore anche nel tinello, e s'era accorto che gli spiriti facevano man bassa sulla credenza. A poco a poco raccontò pure quel che aveva visto.» «Visto?» «Sì, madonna; sospettando che alcuno dei guatteri gli giocasse quel tiro, si appostò nell'andito, dietro il tinello, col suo gran coltellaccio alla cintola, e attese la mezzanotte, ora in cui solevasi udire il rumore. Quando tutt'ad un tratto - non si udiva ronzare nemmeno una mosca - si vede comparir dinanzi un gran fantasma bianco, il quale gli arrivava adosso senza dire né ahi né ohi, e gli passa rasente senza fare altro rumore di quel che possa fare un topo che va a caccia del formaggio vecchio. Il povero cuoco non volle saperne altro, e fu a un pelo di buscarne una bella e buona malattia.» «Ah!», disse la baronessa ridendo. «E cosa fece in seguito?» «Non fece nulla, fece acqua in bocca, andò a confessarsi, a comunicarsi, ed ogni sera, prima di mettersi in letto, non mancava di recitare le sue orazioni, e di raccomandarsi ben bene a tutte le anime del purgatorio che so-
gliono gironzare la notte, in busca di requiem e di suffragi.» «Giacché sono degli spiriti i quali rubano in tinello come dei gatti affamati o dei guatteri ladri, se fossi stata messer Maso, invece d'infilar paternostri, mi sarei raccomandata alla mia miglior lama, onde cercare di scoprire chi fosse il gaglioffo che si permetteva di scambiar le parti coi fantasmi.» «Oh madonna, la stessa cosa disse il Rosso il quale è un pezzo di giovanotto che il diavolo istesso, che è il diavolo, non gli farebbe paura; e si mise a rider forte, e gli disse bastargli l'animo di prendere lo spirito, il fantasma, il diavolo stesso per le corna, e fargli vomitare tutto il ben di Dio di cui dicevasi si desse una buona satolla in cucina; mai non l'avesse fatto! La notte seguente s'apposta anche lui nel corridoio, come avea fatto il cuoco, colla sua brava partigiana in mano, ed aspetta un'ora, due, tre. Infine comincia a credere che Maso si sia burlato di lui, o che il vino gli abbia fatto dire una burletta, e comincia ad addormentarsi, così seduto sulla panca e colle spalle al muro. Quand'ecco tutt'a un tratto, tra veglia e sonno, si vede dinanzi una figura bianca, la quale toccava il tetto col capo, e stava ritta dinanzi a lui, senza muoversi, senza che avesse fatto il minimo rumore nel venire, senza che si sapesse da dove fosse venuta; un po' di barlume veniva dalla lampada posta nella sala delle guardie, dal vano dell'arco al disopra della parete, e il Rosso giura d'aver visto i due occhi che il fantasma fissava su di lui, lucenti come quelli di un gatto soriano. Il Rosso, o non fosse ancora ben sveglio, o provasse un po' di paura a quella sùbita apparizione, senza dire né una né due, mise mano alla sua partigiana e menò tal colpo da spaccare in due un toro, fosse stato di bronzo; ma la spada gli si ruppe in mano, così come se fosse stata di vetro, o avesse urtato contro il muro; si vide un fuoco d'artifizio di faville, a guisa dei razzi che si sparano per la festa della Madonna dell'Ognina, e il fantasma scomparve, né più né meno di come fa un soffio di vento, lasciando il Rosso atterrito, col suo troncone di spada in mano, e talmente pallido da far paura a chi lo vide per il primo, e d'allora in poi, invece di chiamarlo il Rosso, gli dicono il Bianco.» La baronessa rideva ancora in aria d'incredulità; ma le sue ciglia si corrugavano di tanto in tanto, e pur tenendo gli occhi fissi nello specchio, non avea badato né al come Grazia la stesse pettinando, né al come le avesse increspato i cannoncini della sua gorgierina ricamata. O che la convinzione della cameriera fosse talmente sincera da esser comunicativa, o che il sogno della notte avesse fatto una potente impressione su di lei, pensava più che non volesse alla notte che doveva passare un'altra volta in quella me-
desima alcova. «E cosa si dice nel castello di coteste apparizioni?», domandò dopo un silenzio di qualche durata. «Madonna...» «Parla!» «Madonna... si dicono delle sciocchezze...» «Raccontamele.» «Messere il barone andrebbe su tutte le furie se lo sapesse.» «Tanto meglio! raccontamele.» «Madonna... io sono una povera fanciulla... Sono un'ignorante... Avrò parlato senza sapere quel che mi dicessi... Messere il barone mi butterebbe dalla finestra più facilmente ch'io non butti via questo pettine che non serve più. Per carità, madonna, non vogliate espormi alla collera di messere!» «Preferiresti esporti alla mia?», esclamò la baronessa aggrottando le ciglia. «Ahimè!... Madonna!» «Orsù, spicciati; voglio saper tutto quel che si dice, ti ripeto, e bada che se la collera del barone è pericolosa, la mia non ischerza.» «Si dice che sia l'anima della povera donna Violante, la prima moglie del barone», rispose Grazia messa alle strette, e tutta tremante. «Come è morta donna Violante?» «S'è buttata in mare.» «Lei?» «Proprio lei, dal ballatoio mezzo rovinato che gira dinanzi alle finestre del corridoio grande, sugli scogli che stanno laggiù; in fondo al precipizio fu trovato il suo velo bianco... Era la notte del secondo giovedì di Pasqua.» «E perché s'è uccisa?» «Chi lo sa? Messere dormiva tranquillamente accanto a lei, fu svegliato da un gran grido, non se la trovò più al fianco, e prima che fosse ben sveglio vide una figura bianca la quale fuggiva. Si udì un gran baccano pel castello, tutti furono in piedi in men che non si dica un'avemaria, si trovarono gli usci e le finestre del gran corridoio spalancati, e il barone che correva sul ballatoio come un gatto inferocito; se non era il capocaccia, il quale l'afferrò a tempo, il barone sarebbe caduto dal parapetto rovinato, nel punto dove cominciava la scala per la torretta di guardia, di cui non rimangono altro che le testate degli scalini. Il fantasma era scomparso giusto in quel luogo.» La baronessa s'era fatta pensierosa.
«È strano!», mormorò. «Della povera signora non rimase né si vide altro che quel velo; nella cappella del castello e nella chiesa del villaggio furono dette delle messe per tre giorni, in suffragio della morta, e una gran folla assisté ginocchioni ai funerali, ché tutti le volevano un ben dell'anima per le gran limosine che faceva quand'era in vita; però, sebbene messere avesse dato ordine che le esequie fossero quali si convenivano a così ricca e potente signora, e la bara, colle armi della famiglia ricamate sulle quattro punte della coltre, stesse tre dì e tre notti nella cappella, con più di quaranta ceri accesi continuamente, e lo stendardo grande ai piedi dell'altare, e drappelloni e scudi intorno che mai non si vide pompa più grande, il barone partì immediatamente, né si vide mai più al castello prima d'ora.» «Meno male!», mormorò donna Isabella. «Don Garzia non mi ha detto nulla di tutto ciò, ma è bene ch'io lo sappia.» «Alcuni pescatori poi ch'erano andati sul mare assai prima degli altri, raccontano d'aver visto l'anima della baronessa, tutta vestita di bianco, come una santa che ella era, sulla porta della guardiola lassù, e passeggiare tranquillamente su e giù per la scala rovinata, ove un gabbiano avrebbe paura ad appollaiarsi, quasi stesse camminando su di un bel tappeto turco, e nella miglior sala del castello.» «Ah!», esclamò la baronessa; e non disse altro, si alzò e andò a mettersi alla finestra. Il giorno era tiepido e bello, e il sole festante che entrava dall'alta finestra sembrava rallegrasse la tetra camera; ma donna Isabella non se ne avvedeva, sembrava meditabonda, e voltandosi a un tratto verso la Grazia: «Mostrami dov'è caduta donna Violante», le disse. «Colà in quel punto dove il muro è rotto e cominciava la scala per la guardiola della sentinella, quando vi si metteva una sentinella.» «E perché non ci si mette più adesso?», domandò la baronessa con un singolare interesse. «Bisognerebbe aver le ali per arrampicarsi lassù; adesso che la scala è rovinata il più ardito manovale non metterebbe i piedi su quel che rimane degli scalini.» «Ah, è vero!...» E rimase contemplando lungamente la torricciuola, la quale isolata com'era sembrava attaccarsi, paurosa dell'abisso che spalancavasi al di sotto, alla cortina massiccia, e gli avanzi della scalinata, cadenti, smantellati, senza parapetto, sospesi in aria a quattrocento piedi dal precipizio sembra-
vano un addentellato per qualche costruzione fantastica. «Infatti», mormorò come parlando fra di sé, «sarebbe impossibile; c'è da averne il capogiro soltanto a guardare.» Si tirò indietro bruscamente, e chiuse la finestra. Grazia, vedendo la sua beffarda padrona così accigliata, e accorgendosi che la sua storia avea fatto tale inattesa impressione su di lei, sentiva una tale paura come se avesse dovuto passare la notte nella camera di Brigida. «Ahimè! madonna, io ho detto tutto per obbedirvi e senza pensare che ci va della mia vita se lo risapesse il barone. Abbiate pietà di me, madonna!» «Non temere», rispose donna Isabella con un singolare sorriso; «coteste cose, vere o false, non si raccontano al mio signore e marito. Ma dimmi anche quel che si dice del motivo che abbia spinto donna Violante ad uccidersi; poiché un motivo qualunque ci sarà stato; qualcosa si dirà, a torto o a ragione, di'.» «Giuro per le cinque piaghe di Nostro Signore e per la santa giornata di venerdì che è oggi, che non si dice nulla, o almeno che non so nulla. Da principio, quando si è incominciato a sentire dei gemiti nelle notti di temporale, ed anche tutte le notti dal sabato alla domenica, e tutte le volte che fa la luna, o che qualche disgrazia deve avvenire nel castello o nei dintorni, si credeva che la baronessa fosse morta in peccato mortale, e perciò la sua anima chiedesse aiuto dall'altro mondo, mentre i demoni l'attanagliavano; ma poi Beppe, il pescatore, raccontò la visione che gli apparve sull'alto della guardiola, e alcuni giorni dopo quel bravo vecchio di suo zio Gaspare la ebbe confermata, e si ebbe la certezza che l'anima benedetta della baronessa era in luogo di salvazione, e si pensò invece a quella di Corrado il paggio, poveretto!» «Come era morto il paggio? s'era ucciso anche lui?» «Non era morto, era scomparso.» «Quando?» «Due giorni prima della morte di donna Violante.» «E chi lo aveva fatto sparire?» «Chi?...», balbettò la ragazza facendosi pallida. «Ma chi può far sparire un'anima del Signore e portarsela a casa sua, come un lupo ruba una pecora? Messer demonio.» «Ah! era dunque un gran peccatore cotesto messer Corrado!» «No, madonna, era il giovane più bello e gentile che sia stato al castello.» La baronessa si mise a ridere.
«Eh! mia povera Grazia, quelli sono i peccatori che messer demonio suol rapire a cotesta maniera!...» E poi, rifacendosi pensosa, volse un lungo e profondo sguardo su quel letto dove il gemito pauroso l'avea fatta sussultare la notte. «Quando si odono questi gemiti dell'altro mondo?», domandò. «In quelle notti in cui il fantasma non si fa vedere.» «È strano! E dove?» «Qui, madonna, in quest'alcova e nell'andito che c'è accanto, nel corridoio che passa vicino a questa camera, e nello spogliatoio che è dietro l'alcova.» «Insomma qui vicino?» Per tutta risposta Grazia si fece il segno della croce. «Va bene», le disse bruscamente. «Ora vattene. Non temere. Non dirò nulla di quel che mi hai detto.» III. Donna Isabella passò la giornata ad esaminare minutamente tutte le stanze, anditi, e corridoi vicini alla sua camera, e don Garzia le chiese inutilmente il motivo della sua preoccupazione. La notte dormì poco e agitata, ma non udì nulla; soltanto il vento che s'era levato verso l'alba faceva sbattere una delle finestre che davano sul ballatoio. L'indomani la baronessa era ancora in letto, quando da dietro il cortinaggio udì il seguente dialogo fra suo marito e il Rosso che l'aiutava a calzare i grossi stivaloni: «Dimmi un po', mariuolo, cos'è stato tutto questo baccano che hanno fatto le mie finestre stanotte?». Il Rosso si grattò il capo e rispose: «È stato che un'ora prima dell'alba si è messo a soffiare lo scirocco». «Sarà benissimo, ma se le finestre fossero state ben chiuse, lo scirocco non avrebbe potuto farle ballare come una ragazza che abbia il male di San Vito. Ora bada bene al tuo dovere, marrano! ché nel castello intendo tutto vada come l'orologio che è sul campanile della chiesa, adesso che son qua io.» «Messere, voi siete il padrone», rispose il Rosso esitando, «ma quella finestra lì bisogna lasciarla aperta.» «Dimmi il perché.» «Perché quando si chiude la finestra si sente...»
«Eh?» «Si sente, messere!» «Malannaggia l'anima tua!», urlò il barone dando di piglio ad uno stivale per buttarglielo in faccia. «Messere, voi potete ammazzarmi, se volete, ma ho detto la verità.» «Chi te l'ha soffiata cotesta verità, briccone maledetto?» «Ho visto e udito come vedo ed odo voi, che siete in collera per mia disgrazia e senza mia colpa.» «Tu?» «Io stesso.» «Tu mi rubi il vino della mia cantina, scampaforche!» «Io non avevo bevuto né acqua né vino, messere.» «Tu mi diventi poltrone, dunque! un gatto che fa all'amore ti fa paura. Diventi vecchio, Rosso mio, arnese da ferravecchi, e ti butterò fuori del castello con un calcio più sotto delle reni.» «Messere, io sono buono ancora a qualche cosa, quando mi metterete in faccia a una dozzina di diavoli in carne e ossa, che possano raggiungersi con un buon colpo di partigiana, o che possano ammazzare me come un cane; ma contro un nemico il quale non ha né carne né ossa, e vi rompe il ferro nelle mani come voi fareste di un fil di paglia, per l'anima che darei al primo cane che la volesse! non so cosa potreste fare voi stesso, sebbene siate tenuto il più indiavolato barone di Sicilia.» Il barone questa volta si grattò il capo, e si accigliò, ma senza collera, o almeno senza averla col Rosso. «Orbé», gli disse, «chiudimi bene tutte le finestre stanotte, e vattene a dormire senza pensare ad altro.» Donna Isabella si levò pallida e silenziosa più del solito. «Avreste paura?», domandò don Garzia. «Io non ho paura di nulla!», rispose secco secco la baronessa. Ma la notte non poté chiudere occhio, e mentre suo marito russava come un contrabasso ella si voltava e rivoltava pel letto, e ad un tratto scuotendolo bruscamente pel braccio, e rizzandosi a sedere cogli occhi sbarrati e pallida in viso: «Ascoltate!», gli disse. Don Garzia spalancò gli occhi anche lui, e vedendola così, si rizzò a sedere sul letto e mise mano alla spada. «No!» diss'ella, «la vostra spada non vi servirà a nulla.» «Cosa avete udito?» «Ascoltate!» Entrambi rimasero immobili, zitti, intenti; alfine don Garzia buttò la
spada con dispetto in mezzo alla camera e si ricoricò sacramentando. «Mi diventate matta anche voi!», borbottò. «Quella canaglia del Rosso vi ha fatto girare il capo! gli taglierò le orecchie a quel mariuolo.» «Zitto!», esclamò la donna nuovamente, e questa volta con tal voce, con tali occhi, che il barone non osò replicare motto. «Udiste?» «Nulla! per l'anima mia!» Ad un tratto si rizzò a sedere una seconda volta, se non pallido e turbato come la sua donna, almeno curioso ed attento, e cominciò a vestirsi; mentre infilava gli stivali trasalì vivamente. «Udite!», ripeté donna Isabella facendosi la croce. Egli attaccò una grossa bestemmia invece della croce; saltò sulla spada che avea gettato in mezzo alla camera, e così com'era, mezzo svestito, colla spada nuda in pugno, al buio, si slanciò nell'andito che era dietro all'alcova. Ritornò poco dopo. «Nulla!», disse, «le finestre son chiuse, ho percorso il corridoio, l'andito, lo spogliatoio; siamo matti voi ed io; lasciatemi dormire in pace adesso, giacché se domani il Rosso venisse a sapere quel che ho fatto stanotte, e sino a qual segno sia stato imbecille, dovrei vergognarmi anche con lui.» Né si udì più nulla; la baronessa rimase sveglia, e don Garzia, sebbene avesse attaccato di nuovo due o tre russate sonore, non poté dormire di seguito come al solito; all'alba si alzò con tal cera che il Rosso, spicciatosi alla svelta dei soliti servigi, stava per battersela. «Chiamami Bruno», gli disse il barone, e ricominciò a passeggiar per la camera, mentre la baronessa stava pettinandosi. Donna Isabella, preoccupata, lo seguiva colla coda dell'occhio, e lo vide andare per l'andito, l'udì camminare nello spogliatoio; poi lo vide ritornare scuotendo il capo, e mormorando fra di sé: «No! è impossibile...». Bruno e il Rosso comparvero. «Vecchio mio», gli disse il barone, «ti senti di buscarti un bel ducato d'oro, e passare una notte nel corridoio qui accanto, senza tremare come la rocca di una donnicciuola cui si parli di spiriti?» «Messere, io mi sento di far tutto quel che comandate», rispose Bruno, ma non senza alquanto esitare. Il barone che conosceva da un pezzo il suo Bruno per un bravaccio indurito a tutte le prove, fu sorpreso da quell'esitazione, e dallo scorgere che il Bruno, contro ogni aspettativa, s'era fatto serio. «Per l'inferno!», gridò battendo un gran pugno sulla tavola, «mi diventa-
te tutti un branco di poltroni qui!» «Messere, per provarvi come poltroni non lo siamo tutti, farò quel che mi ordinerete.» «E anch'io», rispose il Rosso, vergognoso di non esser messo alla prova invece del capocaccia. «Così, non avrete più a dubitare delle parole nostre.» «Orbene! giacché tutti avete visto, giacché tutti avete udito, giacché tutti avete toccato con mano, fatemi buona guardia stanotte, appostatevi sul cammino che suol tenere cotesto gaglioffo che ha messo la tremarella addosso a tutta la mia gente. Da qual parte si suol vedere questo fantasma?» «Nel corridoio qui accanto, di solito... Ma nessuno ha più visto nulla dacché quest'ala del castello non è stata più abitata...» «Tu, Bruno, ti porrai a guardia dietro l'uscio che mette nella sala grande, e il Rosso dietro la finestra, in capo al corridoio. Allorché cotesto spirito malnato sarà dentro, e voi avrete accanto le vostre brave daghe, e non vi tremerà né la mano né il cuore, il ribaldo non potrà scappare altro che dalla mia camera... e allora, pel mio Dio o pel suo Diavolo! l'avrà da fare con me. Andate, e buona guardia!» «Io credo che fareste meglio ad ordinare delle messe per l'anima della vostra donna Violante», gli disse la baronessa seria seria, allorquando furono soli. Il barone fu sul punto di mettersi in collera, ma seppe padroneggiarsi, e rispose in aria di scherno: «Da quando in qua mi siete divenuta credula come una femminuccia, moglie mia?». «Dacché vedo ed odo cose che non ho mai udite né viste.» «Cos'avete udito, di grazia?» «Quel che avete udito voi!», ribatté essa senza scomporsi. Don Garzia s'accigliò. «Io non ho udito né visto nulla», esclamò dispettosamente. «Ed io ho visto voi come vi vedo in questo momento e come sareste sorpreso voi stesso di vedervi se lo poteste!» «Ah!», esclamò il barone con un riso che mostrava i suoi denti bianchi ed aguzzi al pari di quelli di un lupo, «è che mi avete fatto girare il capo anche a me, ed ho paura anch'io!» «Credete che io abbia paura, messere?» Il messere non rispose e andò a mettersi alla finestra di un umore più nero delle grosse nuvole che s'accavallavano sull'orizzonte.
IV. Il barone fu insolitamente sobrio a cena quella sera. Donna Isabella andò a coricarsi senza dire una parola, senza fare un'osservazione, ma pallida e seria. Don Garzia, quando si fu accertato che il Rosso e il Bruno erano già al loro posto, andò a letto e disse alla moglie motteggiando: «Stanotte vedremo se il diavolo ci lascerà la coda». Donna Isabella non rispose, ma don Garzia non russò e dormì di un occhio solo. Mezzanotte era suonata da un pezzo, il barone avea levato il capo ascoltando i dodici tocchi, poi s'era voltato e rivoltato pel letto due o tre volte, avea sbadigliato, infine s'era addormentato per davvero. Tutto era tranquillo, e taceva anche il vento; donna Isabella, che era stata desta sino all'alba, cominciava ad assopirsi. Ad un tratto un grido terribile rimbombò per l'immenso corridoio; era un grido supremo di terrore, di delirio, che non poteva riconoscersi a qual voce appartenesse, che non aveva nulla d'umano; nello stesso tempo si udì un gran tramestìo, l'uscio e la finestra della camera furono spalancati con impeto, quasi da un violento colpo di vento, e al lume dubbio della lampada parve che una figura bianca in un baleno attraversasse la camera e fuggisse dalla finestra. La baronessa, agghiacciata dal terrore fra le coltri, vide il marito slanciarsi dietro il fantasma colla spada in pugno, e saltare dalla finestra sul ballatoio. Egli correva come un forsennato, seguito da Bruno, inseguendo il fantasma che fuggiva come un uccello, sull'orlo del parapetto rovinato; entrambi, coi capelli irti sul capo, videro al certo, non fu illusione, la bianca figura arrampicarsi leggermente pei sassi che sporgevano ancora dalla cortina, al posto dov'era stata la scala, e sparire nel buio. «Per la Madonna dell'Ognina!», esclamò il barone dopo alcuni istanti di stupore, «lo toccherò colla mia spada, o che si prenda l'anima mia, s'è il Diavolo in carne ed ossa!» Don Garzia non credeva né a Dio né al Diavolo, sebbene li rispettasse entrambi; ma senza saper perché, si ricordò delle parole dettegli da donna Isabella la mattina, e fremette. Donna Isabella non gli avea fatto la più semplice domanda, o si spaventasse a farla, o la credesse inutile. Il barone del resto era di tale umore da non permetterne talune. L'indomani però dissegli risolutamente che non in-
tendeva dormire più oltre in quella camera. «Aspettate ancora stanotte», rispose il marito, «farò buona guardia io stesso, e se domani non riderete delle vostre paure, vi lascerò padrona di far quel che meglio vorrete.» Ella non osò aggiunger verbo, soltanto qualche momento dopo gli domandò: «Di che malattia è morta la vostra prima moglie, messere?». Ei la guardò bieco, e rispose: «Di mal caduco, madonna». «Io non avrò cotesto male, vi prometto!», disse ella con strano accento. Don Garzia, insieme a tutti i vizi del soldato di ventura e del gentiluomo-brigante, ne avea la sola virtù: una bravura a tutta prova. Egli fece quel che non osava più fare Bruno, il terribile Bruno, e per cui era mezzo morto anche il Rosso, giovanotto ardito se mai ce ne fossero; e passò tre notti di seguito nel corridoio, senza batter ciglio, senza muoversi più che non si muovesse il pilastro al quale stava appoggiato, colla mano sull'elsa della spada e l'orecchio teso: il vento sbatteva le imposte della finestra ch'era stata lasciata aperta per ordine suo, i gufi svolazzavano sul ballatoio, i pipistrelli s'inseguivano stridendo per l'andito; il lume della lampada riverberavasi pel vano dell'arco della sala delle guardie e sembrava vacillante; ma del resto tutto era queto, e don Garzia sarebbesi stancato di passar le notti in sentinella, come un uomo d'armi, se il ricordo di quel che avea visto coi propri occhi non fosse stato ancora profondamente impresso nella sua mente, e se una parola della moglie non gli avesse messo in corpo una di quelle preoccupazioni che non lasciano più dormire né lo spirito né il corpo, uno di quei dubbi che imperiosamente domandano uno schiarimento; la sua coscienza dormiva ancora, ma le sue reminiscenze, talune circostanze lasciate passare inosservate, si svegliavano ad un tratto, gli si rizzavano dinanzi in forma di tal sospetto, che don Garzia, zotico, brutale, dispotico signore, scettico e superstizioso ad un tempo, ma in fondo sinceramente barone, vale a dire ossequioso al re, e alla Chiesa, che lo facevano quello che egli era, se ne sentiva padroneggiato, e provava il bisogno di scioglierlo colla persuasione, o colla spada. Era la quarta notte che don Garzia attendeva; il mare era in tempesta, il tuono scuoteva il castello dalle fondamenta, la grandine scrosciava impetuosamente sui vetri, e le banderuole dei torrioni gemevano ad intervalli; di tanto in tanto un lampo solcava il buio del corridoio per tutta la sua lunghezza, e sembrava gettarvi un'onda di spettri; tutt'a un tratto il lume ch'era
nella sala delle guardie si spense. Don Garzia rimase al buio. Le tenebre che lo avvolgevano sembravano stringerlo ed opprimerlo da tutte le parti, soffocargli il respiro nel petto, la voce nella gola, e inchiodargli il ferro nella guaina; improvvisamente quel soldataccio risoluto sentì un brivido che gli penetrava tutte le ossa: fra le tenebre, in mezzo a tutti quei rumori vari, confusi, ma che aveano un non so che di pauroso, parvegli udire un altro rumore più vicino, più spaventoso, tale da far battere di febbre il polso di quell'uomo; le tenebre furono squarciate da un lampo, e videsi di faccia, ritta, immobile, quella figura bianca che aveva visto fuggire un'altra volta dinanzi a lui, e d'allora in poi aveva inseguito lui nella coscienza o nel pensiero, - ora lo guardava con occhi lucenti e terribili. Tutto ciò non fu che un istante, una visione; - coi capelli irti, vibrò una stoccata formidabile, sentì l'elsa urtare contro qualche cosa, udì un grido di morte che gli agghiacciò tutto il sangue nelle vene, e in un delirio di terrore gli fece ritirare la spada e fare un salto indietro, atterrito, chiamando la sua gente con quanta voce aveva in corpo. Scorsero due o tre minuti terribili, in cui non si udì più nulla; egli rimase in mezzo a quel buio, vicino a quella cosa che la sua spada aveva toccato. Pel castello si udì un gran tramestìo, si vide correre della gente, e sulle pareti cominciarono a riflettersi le fiaccole dei valletti. Don Garzia si slanciò sull'uscio gridando: «Non entri nessuno all'infuori del Bruno, se v'è cara la vita!». Tutti s'erano fermati attoniti vedendo il barone così pallido, coll'occhio stralunato e la spada in pugno, ancora macchiata di sangue. Bruno entrò, e vide uno spettacolo orribile. Vicino alla parete giaceva il cadavere di donna Violante, vestita del suo accappatoio bianco, com'era fuggita dal letto del marito la notte in cui s'era creduto che si fosse buttata in mare. Il viso avea pallido come cera e dimagrato enormemente, i capelli arruffati ed incolti, gli occhi spalancati, lucidi, fissi, spaventosi. La ferita era stata mortale e non sanguinava quasi, solo alcune gocce di sangue le erano uscite dalla bocca e le rigavano il mento. «Avevi ragione, Bruno!», disse il barone con voce sorda. «Non volevo crederci ai fantasmi; le credevo sciocchezze di femminucce; ma adesso ci credo anch'io. Bisogna buttare in mare questa forma della mia povera moglie che ha preso lo spirito maligno... e senza che nessuno al castello e fuori ne sappia nulla, ché sarebbero capaci d'inventarci su non so quale storia assurda...»
Bruno capiva e non ebbe bisogno di altre spiegazioni; però il suo signore non dimenticò di aggiungere sottovoce: «Senti, vecchio mio, sai bene che se la cosa si risapesse così come sembra essere avvenuta, io sarei stato bigamo e peggio, e la tua testa sarebbe assai malferma sulle tue spalle, in fede mia!». In chiesa, ricorrendo l'anniversario della morte di donna Violante, le furono resi dei pomposi e costosi suffragi; però, non si sa come, cominciavasi a buccinare al castello e fori che la cosa fosse proprio avvenuta come sembrava, e come don Garzia non voleva che sembrasse; e Bruno, il quale perciò cominciava a dubitare che la sua testa non fosse ben ferma sulle sue spalle, un bel giorno a caccia mise per distrazione una palla d'archibugio fra la prima e la seconda vertebra del suo signore. Donna Isabella, che aveva una gran paura del mal caduco, era andata a villeggiare presso la sua famiglia, e siccome l'aria le faceva bene, non era più ritornata. V. Questa era la leggenda del Castello di Trezza, che tutti sapevano nei dintorni, che tutti raccontavano in modo diverso, mescolandovi gli spiriti, le anime del Purgatorio, e la Madonna dell'Ognina. I terremoti, il tempo, gli uomini, avevano ridotto un mucchio di rovine la splendida e forte dimora di signori i quali, al tempo di Artale d'Alagona, aveano sfidato impunemente la collera del re, e sembravano avervi impresso una stimmate maledetta, che dava una misteriosa attrattiva alla leggenda, e affascinava lo sguardo della signora Matilde, mentre ascoltava silenziosamente. «E di quell'uomo?», domandò improvvisamente, «di quel giovanetto che per sua disgrazia non era morto cadendo nel trabocchetto, e che vi agonizzava lentamente, cosa ne è avvenuto?» «Chissà? Forse il barone avrà udito ancora dei gemiti soffocati, o delle grida disperate che imploravano la morte, forse dopo alcuni giorni, si sarà sentito il lezzo del cadavere da quella specie di pozzo, forse avrà voluto prevenire che ciò avvenisse, vi fece gettar della calce viva, e non si sentì più nulla.» «È una storia spaventosa!», mormorò la signora Matilde. «Togliamone pure i fantasmi, il suono della mezzanotte, il vento che spalanca usci e finestre, e le banderuole che gemono, è una spaventosa storia!»
«Una storia la quale non sarebbe più possibile oggi che i mariti ricorrono ai Tribunali, o alla peggio si battono», rispose Luciano ridendo. Ella gli agghiacciò il riso in bocca con uno sguardo singolare. «Lo credete?», domandò. Luciano ammutolì per quello sguardo, per quell'accento, pel sentirsi dar del voi distrattamente e a quella guisa. Sopraggiungeva il signor Giordano. «Parlatemi d'altro», diss'ella sottovoce, con singolare vivacità, «non discorriamo più di cotesto...» VI. Il signor Luciano e la signora Matilde si vedevano quasi tutti i giorni, in quella piccola società d'amici che le veglie o le escursioni pei dintorni riunivano quotidianamente. La signora fu indisposta due o tre giorni, e non si fece vedere. Allorché s'incontrarono la prima volta parve così mutata a Luciano che ei le domandò premurosamente della salute; il contegno di lei, le sue risposte, furono così imbarazzate, che il giovane ne fu imbarazzato egli pure, senza saper perché. Evidentemente ella lo evitava. Era sempre allegra, spiritosa ed amabile con tutti, ma con lui era cambiata. Anche il marito avea cambiato maniere senza che nulla fosse avvenuto, senza che una parola fosse stata detta, senza che Luciano stesso sapesse ancora perché ei fosse così turbato, perché l'imbarazzo di lei rendesse imbarazzato anche lui, e perché si fosse accorto del cambiamento del signor Giordano. Una bella sera di luna piena tutta la comitiva era uscita a passeggiare, e Luciano offrì risolutamente il braccio alla signora Matilde; ella esitò alquanto, ma non osò rifiutare: camminavano lentamente, in silenzio, mentre gli altri ciarlavano e ridevano; ad un tratto ella gli strinse il braccio, e gli disse con un soffio di voce: «Vedete!». Il signor Giordano era lì presso, dando il braccio alla signora Olani. La mano che stringeva il braccio di Luciano era convulsa e tremante, la voce avea una vibrazione insolita. Quando il signor Giordano ebbe lasciata al cancello della villa la signora Olani, sembrò lasciare anche una maschera che si fosse imposta sino a quel momento, e mostrossi soprappensieri, taciturno e accigliato. «Ho paura!... ho paura di lui!...», mormorò Matilde sottovoce. Luciano premette quel braccio delicato che s'appoggiava leggermente al suo, e che gli rispose tremante e gli si abbandonò confidente e innamorato, a lui che non avrebbe potuto proteggerla neppure dando tutto il sangue del-
le sue vene. Si volsero uno sguardo, uno sguardo solo, lucente nella penombra - quello della donna smarrito - e chinarono gli occhi. Sull'uscio della casa si lasciarono. Ei non osò stringerle la mano. Ella partì, né seppe giammai quali notti ardenti di visioni egli avesse passato, quali febbri l'avessero roso accanto a lei, mentre sembrava così calmo e indifferente, quante volte fosse stato a divorarla, non visto, cogli occhi, e quel che si fosse passato dentro di lui allorché sorridendo dovette dirle addio dinanzi a tutti, e quando la vide passare, rincantucciata nell'angolo della carrozza, colle guance pallide e gli occhi fissi nel vuoto, e qual nodo d'amarezza gli avesse affogato il cuore allorché rivide chiusa quella finestra dove l'avea vista tante volte. L'indovinò? indovinò egli stesso che avesse sofferto ella pure? Quando s'incontrarono di nuovo, dopo lungo tempo, parvero non conoscersi, non vedersi, impallidirono e non si salutarono. Finalmente s'incontrarono un'altra volta - al ballo, in chiesa, al teatro, auspice Dio o la fatalità; ei le disse: «Come potrei vedervi?». Ella impallidì, si fece di bracia, chinò gli occhi, glieli fissò ardenti nei suoi, e rispose: «Domani». E il domani si videro - un'ora dopo ella avea l'anima ebbra di estasi, i polsi tremanti di febbre, e gli occhi pieni di lagrime. «Perché m'avete raccontato quella storia?», ripeteva balbettando come in sogno. Era pentimento, rimprovero, o presentimento? Alcuni mesi dopo, in autunno, la medesima compagnia d'amici s'era riunita ad Aci Castello. I due che s'amavano avevano saputo nascondere la loro febbre, o il marito avea saputo dissimulare la sua collera, o la signora Olani era stata più assorbente. Si vedevano come prima, si riunivano come prima, erano allegri, o sembravano, come prima. Qualche fuggitivo rossore di più sulle gote, e qualche lampo negli occhi - null'altro! Si facevano le solite scampagnate, i soliti ballonzoli, si andava in barca o a cavallo sugli asini, e si progettò anche il solito pranzo sulla vecchia torre del castello. La signora Matilde mise in mezzo tutti gli ostacoli; il marito la guardò in un certo modo, e le domandò la ragione dell'insolita ripugnanza... Andò anche lei. Il pranzo fu allegro come quello dell'anno precedente. Si mangiò sull'erba, si ballò sull'erba, e si buttarono sull'erba le bottiglie dopo che ne furono fatti saltare i turaccioli. Si ciarlò del castello, di memorie storiche, dei Normanni e dei Saraceni, della pesca delle acciughe e dei secoli cavallere-
schi, e tornarono in campo le vecchie leggende, e si raccontò di nuovo a pezzi e a bocconi la storia che Luciano avea raccontato la prima volta in quel luogo medesimo, e che alcuni nuovi venuti ascoltavano con avidità, digerendo tranquillamente, ed assaggiando il buon moscato di Siracusa. Luciano e la signora Matilde stavano zitti da lungo tempo, ed evitavano di guardarsi. VII. Don Garzia d'Arvelo era diventato inaspettatamente, a cinquant'anni, signore dei numerosi feudi che dipendevano dalla baronia di Trezza; il barone suo nipote era stato trovato in un burrone, lungo stecchito, un bel dì, o una brutta notte, che era andato a caccia di non so qual selvaggina. Il cavaliere d'Arvelo, ora che era barone, fece impiccare preliminarmente due o tre vassalli i quali avevano la disgrazia di possedere bella selvaggina in casa, e la triste riputazione di tenere all'onore come altrettanti gentiluomini; poi era montato a cavallo, e siccome sospettavasi anche che il signore di Grevia avesse saldato in quel tal modo spicciativo alcuni vecchi conti di famiglia, era andato ad aspettarlo ad un certo crocicchio, e senza stare a sofisticare sulla probabilità del si dice, aveva messo il saldo della partita. Soddisfatti i suoi obblighi di d'Arvelo e di signore non uso a farsi posare mosca sul naso, era andato ad assidersi tranquillamente sul seggio baronale, avea appeso la spada al chiodo del suo antecessore, e, tanto per farsi la mano da padrone, avea fatto sentire come la sua fosse di ferro a tutti quei poveri diavoli che stavano nei limiti della sua giurisdizione, ed anche delle sue scorrerie, ché un po' del predone gli era rimasto colle vecchie abitudini di cavalier di ventura. Tutti coloro che nel requiem ordinato in suffragio del giovane barone avevano innescato sottovoce certi mottetti che non erano nella liturgia, ebbero a pentirsene, e dovettero ripetere, senza che sapessero di storia, il detto della vecchia di Nerone. - Lupo per lupo, il vecchio che succedeva al giovane mostrava tali ganasce e tale appetito, che al paragone il lupacchiotto morto diventava un agnellino. Il cavaliere, cadetto di grande famiglia, era stato tanto tempo ad aguzzarsi le zanne e ad ustolare attorno a tutto quel ben di Dio in cui sguazzava il nipote, capo della casa e suo signore e padrone, che malgrado le scorrerie di tutti i generi, sulle quali il fratello e poscia il nipote avevano chiuso un occhio, si poteva dire di lui che fosse affamato da cinquant'anni; sicché era naturalissimo che allorquando poté darsi una buona satolla di tutti gli intingoli del potere più
sfrenato, lo fece da ghiottone, il quale abbia stomaco di struzzo. Del resto il Re, suo signore dopo Dio, era lontano, e i d'Arvelo erano d'illustre famiglia, grandi di Spagna, di quelli che non si sberrettano né dinanzi al Re, né dinanzi a Dio, titolari di diverse cariche a Corte, baroni ricchi e potenti, un po' alleati della mano sinistra coi Barbareschi, di quei mastini insomma che andavano lisciati pel verso del pelo. Don Garzia andò a Corte; si batté con un gentiluomo che osò ridere dei suoi baffi irsuti e dei suoi galloni consunti, e gli mise tre pollici di ferro fra le costole, prestò il suo omaggio di sudditanza al Re, il quale lo invitò alla sua tavola, e fra il caciocavallo e i fichi secchi gli disse, che poiché la famiglia d'Arvelo non avea altri successori, il suo buon piacere era che don Garzia sposasse una damigella Castilla, la quale attendeva marito nel Monastero di Monte Vergine. Don Garzia, buon suddito e buon capo di buona famiglia, sposò la damigella senza farselo dir due volte, e senza vederla una volta sola prima di condurla all'altare, ma dopo aver ben guardato nelle pergamene della famiglia della sposa e nei quattro quarti del suo blasone; la mise in una lettiga nuova, con buona mano d'uomini d'arme e di cagnotti davanti, ai lati, e dietro; montò il suo cavallo pugliese, e se la menò a Trezza. La sera dell'arrivo degli sposi si fecero gran luminarie al castello, nel villaggio, e nei dintorni, la campana della chiesuola suonò sino a creparne, si ballò tutta la notte sulla spiaggia, e del vino del Bosco e di terreforti delle cantine del barone ne bevve persino il mare. Nondimeno, allorché la sposa fu entrata in quella cameraccia scura e triste, in fondo all'alcova immensa della quale ergevasi come un catafalco il talamo nuziale, non poté vincere un senso di ripugnanza e quasi di paura, e domandò al marito: «Come va, mio signore, che essendo voi tanto ricco, avete una sì brutta cameraccia?». Don Garzia, il quale ricordavasi di dover essere galante pel quarto d'ora, rispose: «La camera sarà bella ora che ci starete voi, madonna». Però la prima volta che donna Violante si svegliò in quella brutta cameraccia, e al fianco di quel brutto sire, dovette essere un gran brutto svegliarsi. Ma ell'era damigella di buona famiglia, bene educata all'obbedienza passiva, fiera soltanto del nome della sua casa e di quello che le era stato dato in tutela; era stata strappata bruscamente alla calma del suo convento, ai tranquilli diletti, ai sogni vagamente turbati della sua giovinezza, ad un romanzetto appena abbozzato, ed era stata gettata - ella che aveva sangue di re nelle vene, - nell'alcova di quel marrano, cui per caso era ca-
duto in capo un berretto di barone: ella avea accettato quel marrano, perché il Re, il capo della sua famiglia, le leggi della sua casa glielo imponevano, e avea soffocato la sua ripugnanza, allorché la mano nera e callosa di quel vecchio s'era posata sulle sue spalle bianche e superbe, perché era suo marito: dolce e gentile com'era, cercava a furia di dolci e gentili maniere raddolcire quel vecchio lupo che le ringhiava accanto, e le mostrava i denti aguzzi allorché voleva sembrare amabile. Però quello non era tal lupo cui l'acqua santa del matrimonio potesse far cambiare di pelo; e quanto ai vizi avea tutti quelli che s'incontrano sulla strada di un soldato di ventura, dietro le insegne delle bettole. Per giunta, e per disgrazia, donna Violante dopo due anni di matrimonio non solo non avea messo al mondo il dito mignolo d'un baroncino, ma non avea nemmen l'aria di darsene per intesa, e d'aver capito il motivo per cui don Garzia s'era tolto in casa la noia e la spesa di una moglie. Quella moglie delicata, linfatica, colle mani bianche, che gli parlava a voce bassa, che arrossiva alle sue canzonette allegre ed alle sue esclamazioni gioviali, che scappava spaventata allorché il sire era in buon umore, che non gli sapeva condire i suoi intingoli prediletti, e che non era stata buona nemmeno a dargli un successore, gli faceva l'effetto d'un ninnolo di lusso, da tenersi sotto chiave come i diamanti di famiglia, perciò, lungi di smettere le sue abitudini di lanzichenecco, ci s'era lasciato andare allegramente, senza prendersi nemmeno la pena di nasconderlo alla moglie, la quale era così timida, e tremava talmente, allorché ei si metteva in collera alla menoma osservazione, da sembrargli stupida. Cacciava, beveva, correva pei tetti e scavalcava le siepi, e quando ritornava ubbriaco, o di cattivo umore, guai alle mosche che si permettevano di ronzare! Un'ultima scappata di don Garzia però avea fatto tale scandalo, che andò a colpire nel vivo quella vittima rassegnata. La fierezza di patrizia, l'amor proprio di donna, la gelosia di moglie, si ribellarono alfine in donna Violante, e le diedero per la prima volta un'energia fittizia. «Mio signore», dissegli con voce tremante, ma senza chinare gli occhi dinanzi al brusco cipiglio del marito, «rimandatemi al convento dal quale m'avete tolta, poiché sono tanto scaduta dalla vostra stima!» «Che vuol dire ciò?», borbottò don Garzia, «e chi vi ha detto di esser scaduta?» «Come va dunque, che vi rispettiate così poco voi stesso, da scendere sino alla Mena?» Il barone stava per attaccare una dozzina di quei sacrati che facevan tre-
mare il castello sino dalle fondamenta, ma si contentò di sghignazzar forte: «Da quando in qua, madonna, al castello di Trezza le galline si permettono di alzar la cresta? badate a covarmi dei baroni, piuttosto, com'è vostro dovere, e lasciatemi cantar mattutino e compieta secondo il mio buon piacere». La baronessa l'indomani s'era levata pallida e sofferente, ma cogli occhi luccicanti di un insolito splendore; sembrava rassegnata, ma di una rassegnazione cupa, meditabonda, lampeggiante di tratto in tratto la ribellione e la vendetta; quel marito istesso così rozzo, così brutale, fu una volta sorpreso e impensierito dell'aria indefinibile ed insolita di quella donna che posava il capo sul suo medesimo guanciale, quantunque un sol muscolo della fisonomia di lei non si movesse, e volle mostrarle che le avea perdonato la sua velleità di resistenza con un bacio avvinazzato. Ella non lo respinse, non si mosse, rimase cogli occhi chiusi, le labbra scolorite e serrate, le guance pallide e ombreggiate dalla lunga frangia delle sue ciglia: soltanto una lagrima ardente luccicò un momento fra quelle ciglia, e scese lenta lenta. VIII. Una sera il barone tardava a venire; la luna specchiavasi sui vetri istoriati dell'alta finestra, e il mare fiottava sommessamente. La baronessa stava da lunga pezza assorta, sulla sua alta seggiola a braccioli, col mento nella mano, distratta o meditabonda. Corrado, il bel paggio del barone d'Arvelo, le aveva domandato inutilmente due volte se gli comandasse di montare a cavallo, e d'andare in traccia del suo signore. Alfine donna Violante gli fissò in viso lo sguardo pensoso. Era un bel giovanetto, Corrado, dall'occhio nero e vellutato, e dalle guance brune e fresche come quelle di una vaga fanciulla di Trezza, così timido che quelle guance dorate si imporporarono alquanto sotto lo sguardo distratto della sua signora. Ella lo fissò a lungo senza vederlo. «No!», disse poscia. «Perché?...» Si alzò, andò ad aprire la finestra, e appoggiò i gomiti al davanzale. Il mare era levigato e lucente; i pescatori sparsi per la riva, o aggruppati dinanzi agli usci delle loro casipole, chiacchieravano della pesca del tonno e della salatura delle acciughe; lontan lontano, perduto fra la bruna distesa, si udiva ad intervalli un canto monotono e orientale, le onde morivano come un sospiro ai piedi dell'alta muraglia; la spuma biancheggiava un istante, e
l'acre odore marino saliva a buffi, come ad ondate anch'esso. La baronessa stette a contemplare sbadatamente tutto ciò, e sorprese se stessa, lei così in alto nella camera dorata di quella dimora signorile, ad ascoltare con singolare interesse i discorsi di quella gente posta così basso al piede delle sue torri. Poi guardò il vano nero di quei poveri usci, il fiammeggiare del focolare, il fumo che svolgevasi lento lento dal tetto; infine si volse bruscamente, quasi sorpresa dal paggio che, ritto sull'uscio, attendeva i suoi ordini, guardò di nuovo la spiaggia, il mare, l'orizzonte segnato da una sfumatura di luce, l'ombra degli scogli che andava e veniva coll'onda, e tornò a fissar Corrado, questa volta più lungamente. Ad un tratto arrossì, come sorpresa della sua distrazione, e per dir qualche cosa domandò sbadatamente: «Che ora è, Corrado?». «Son le due di notte, madonna.» «Ah!» Le sue ciglia si corrugarono di nuovo, chinò gli occhi un istante, e con un suono d'amarezza indicibile: «Tarda molto stasera il barone!...». «Non temete, madonna; la campagna è sicura, la sera è bella, e la luna non ha una nube.» «È vero!» diss'ella con uno strano sorriso. «È proprio una sera da amanti!...» E seguitò a fissare il giovinetto col suo sguardo da padrona, senza pensare a lui che ne era colpito. Lasciò la finestra e andò a sedere sulla seggiola stemmata, ai piedi della quale si teneva il paggio; non più melanconica, né meditabonda, ma inquieta, agitata, e nervosa. «Conosci la Mena?», domandò ad un tratto bruscamente. «La mugnaia del Capo dei Molini?» «Sì la mugnaia del Capo dei Molini!», ripeté con un singolare sorriso. «La conosco, madonna.» «E anch'io!», esclamò con voce sorda. «Me l'ha fatta conoscere mio marito!» Per l'altera castellana Corrado non era altro che un domestico, un giovanetto che portava il suo stemma ricamato sul giustacuore di velluto, e che era leggiadro, e avea la chioma bionda e inanellata per far onore alla casa. Ella dunque parlava come fra sé, colla sua eco, perché il suo cuore era troppo pieno, perché l'amarezza non s'era sfogata in lagrime, e gli fece una singolare domanda, con singolare accento e cogli occhi fissi al suolo:
«Perché non sei l'amante della Mena anche tu?». «Io, madonna?» «Sì, tutti vanno pazzi per cotesta mugnaia!» «Io sono un povero paggio, madonna!...» Ella gli fissò in viso quello sguardo accigliato, e a poco a poco le sopracciglia si spianarono. «Povero o no, tu sei un bel paggio. Non lo sai?» I loro occhi si incontrarono un istante e si evitarono nello stesso tempo. Se la vanità del giovinetto si fosse risvegliata a quelle parole, tutto sarebbe finito fra di loro, e l'orgoglio della patrizia si sarebbe inalberato così all'audacia del paggio, che il cuore della donna si sarebbe chiuso per sempre. Ma il giovinetto sospirò, e rispose chinando gli occhi: «Ahimè! madonna!». Quel sospiro aveva un'immensa attrattiva. Mille nuovi sentimenti confusi e violenti andavano gonfiandosi nell'animo della baronessa, come le nubi su di un mare tempestoso. Ella pura, bianca, superba, ella che discendeva da principi reali e da re castigliani, non poté fare a meno di paragonare quel giovinetto ingenuo, leggiadro, che avea cuore di cavaliere sotto una livrea di domestico, a quell'uomo rozzo, brutto, villano, coronato di barone, cui s'era data, e il quale la posponeva ad una bellezza da trivio, che portava zoccoli ai piedi e sacchi di farina sul dorso. Lagrime ardenti le luccicarono nell'orbita, asciugate subito da qualcosa di più ardente ancora, divorate in segreto; tutto quel movimento interno, sembrava aver voce e parola, sembrava gridare da tutte le sue membra e da tutti i suoi pori, e il paggio osava fissare per la prima volta su quella sovrana bellezza, delirante in segreto e che faceva delirare, i suoi begli occhi azzurri, scintillanti di luce insolita. «Corrado!», esclamò ella all'improvviso, con voce sorda e interrotta, come perdesse la testa; «tu la conosci... tu che sei uomo... dimmi se cotesta mugnaia... è bella... s'è più bella di me... Oh dimmelo! non aver paura...» Il giovanetto guardava affascinato quella donna corrucciata, fremente, gelosa, rossa di onta e di dispetto, bella da far dannare un angelo; impallidì e non rispose: poi colla voce tremante, colle mani giunte, con un accento che fece scuotere e trasalire la sua signora, esclamò: «Oh... abbiate pietà di me!... madonna!...». Ella gli lanciò un'occhiata fosca, senza sguardo, e si allontanò rapidamente, fuggendo; andò ad appoggiarsi al davanzale, a bere avidamente la fresca brezza della notte. Quattro ore suonavano in quel momento; non si
vedeva un sol lume, né si udiva una voce. Che cosa avveniva in quell'anima combattuta? Nessuno avrebbe saputo dirlo, lei meno di ogni altro, ché tali pensieri sono vertiginosi, tempestosi anche, come è complesso il sentimento da cui emanano. E ad un tratto volgendosi bruscamente verso di lui: «Senti», gli disse. «Hai torto! Paggio o no, povero o no, sei bello e giovane da far perdere la testa, e hai torto a non essere l'amante della Mena; il tuo padrone, che è vecchio e brutto, l'ama... l'amore è la giovinezza, la beltà, il piacere; non ci credevo... ma mio marito me l'ha insegnato, e questo marito non è né giovane, né bello, né gentile. Io mi son data a lui - ero bella, ti giuro, ero bella allora, delicata, tutta sorriso, col cuore ansioso e trepidante arcanamente sotto la ruvida mano che m'accarezzava. Nel convento avevo sognato tante volte che quella prima carezza mi sarebbe venuta da un'altra mano bianca e delicata che mi avea salutato, e che le mie vergini labbra avrebbero rabbrividito la prima volta sotto quelle altre che m'aveano sorriso, ombreggiate da baffetti d'oro, attraverso la grata. Invece furono le labbra irsute del barone d'Arvelo... Colui era bello, come te, biondo come te, giovane come te; io gli rapii la mia beltà, la mia giovinezza, il mio primo bacio che gli avevo promesso col primo sguardo, il mio cuore, che era suo, per darli a quest'uomo cui m'avevano ordinato di dargli, e glieli diedi lealmente. Ora senti, io sono povera come te, non possedevo che il mio bel nome e gli ho dato anche quello, e ho combattuto i miei sogni, le mie ripugnanze, i palpiti stessi del mio cuore. Adesso quest'uomo, cui ho sacrificato tutto ciò, che mi ha rapito tutto ciò, questo ladro, questo sleal cavaliere, questo marito infame, ha mescolato il mio primo bacio di vergine al bacio impuro di una cortigiana...» Ella chiuse gli occhi con un'espressione indicibile di raccapriccio. «Tu non sai, non puoi sapere qual effetto possano far tali infamie sull'animo di una patrizia... Ma giuro, per santa Rosalia! che mi vendicherò in tal modo, che farò tale ingiuria a quest'uomo, che lo coprirò di tale vergogna, quale non basterà a lavare tutto il sangue delle sue vene e delle mie... Io son giovane ancora, sarò ancora bella quando amerò... Ti giuro!... Vuoi? di'! vuoi?» Egli tremava tutto. Ella gli afferrò il capo con gesto risoluto, con occhi ardenti e foschi, e gli stampò sulla bocca un bacio di fuoco. IX.
Donna Violante non chiuse occhio in tutta la notte. Stava col gomito sul guanciale, fissando uno sguardo intraducibile, immobile, instancabile, su quel marito che dormiva tranquillo accanto a lei, di cui l'alito avvinazzato le sfiorava il viso, e il quale l'avrebbe stritolata sotto il suo pugno di ferro, se avesse potuto immaginare quali fantasmi passassero per gli occhi sbarrati di lei. E all'indomani, colle guance accese di febbre, e il sorriso convulso, gli disse: «Non vi pare che sarebbe tempo di cercare un altro paggio, don Garzia?». «Perché?» «Corrado non è più un ragazzo; e voi lasciate troppo spesso sola vostra moglie, perché egli possa starle sempre vicino senza dar da ciarlare ai vostri nemici.» Il barone aggrottò le ciglia, e rispose: «Amici e nemici mi conoscono abbastanza perché né la cosa né le ciarle siano possibili». Sugli occhi della donna lampeggiò un sorriso da demone. «E poi», aggiunse don Garzia, «vi stimo abbastanza per temere che voi, nobile e fiera, possiate scendere sino ad un paggio.» E buttandole galantemente le braccia al collo accostò le sue labbra a quelle di lei. Ella, bianca come una statua, gli rese il bacio con insolita energia. Nondimeno, malgrado l'alterigia baronale, e la fiducia nella sua pazienza, don Garzia era tal vecchio peccatore da non dormir più tranquillo i suoi sonni una volta che gli era stata messa nell'orecchio una pulce di quella fatta, e, andato a trovar Corrado: «Orsù, bel giovane», gli disse, «eccoti questo borsellino pel viaggio, e queste due righe di benservito, e vatti a cercar fortuna altrove». Il giovane rimase sbalordito, e non potendo aspettarsi da che parte gli venisse il congedo, temette che qualcosa del terribile segreto fosse trapelata; e tremante, non per sé, ma per colei di cui avea sognato tutta la notte gli occhi lucenti, e l'ebbrezze convulse: «Almeno, mio signore», balbettò, «piacciavi dirmi, in grazia, perché mi scacciate!». «Perché sei già in età da guadagnarti il pane dove c'è da menar le mani, invece di stare a grattare la chitarra, ed è tempo di pensare a vestir l'arnese, piuttosto che il farsettino di velluto.» «Orbé, messere lasciatemi al vostro servizio, in mercé, se in nulla vi dispiacqui, e in quell'ufficio che meglio vi tornerà.»
Il barone si grattò il naso, come soleva fare tutte le volte che gli veniva voglia di assestare un ceffone. «Via!», gli disse con tal cipiglio da non dover tornar due volte sulle cose dette: «levamiti dai piedi, mascalzone; ché dei tuoi servigi non so che farmene, e bada che se la sera di domani ti trova ancora nel castello non ne uscirai dalla porta». Il povero paggio aveva perduto la testa; malgrado la gran paura che mettevagli addosso il suo signore tentò tutti i mezzi di cercar di vedere quella donna che gli avea irradiato di luce la vita in un attimo, e che amava più della vita. Ma la baronessa lo evitava, come avesse voluto fuggire se stessa, o le sue memorie. Tutti i progetti e i timori più assurdi si affollarono nella testa delirante del giovane innamorato, e credendo la vita di donna Violante minacciata dal barone, decise di far di tutto per salvarla. Finalmente, mentre sollevava una tenda sotto la quale ella passava, fiera, calma e impenetrabile, le sussurrò sottovoce: «Se il mio sangue può giovarvi a qualcosa, prendetevelo, madonna!». Ella non si volse, non rispose, e passò oltre. Ei rimase come fulminato. X. La sera che non dovea più trovar Corrado nel castello si avvicinava rapidamente, ed egli non si rammentava nemmeno della terribile minaccia di quel signore che giammai non minacciava invano. Era pazzo di amore; avrebbe pagato colla testa un quarto d'ora di colloquio colla sua signora. Il barone prima di andare a dormire soleva fare tutte le sere la visita del castello. Corrado contava su quel momento per avere un'ultima spiegazione, o un ultimo addio dalla baronessa. Allorché tutto fu buio, s'insinuò non visto nel ballatoio, e venne a riuscire dietro la finestra di donna Violante. Don Garzia era seduto colle spalle alla finestra, e stava cenando. La moglie eragli di faccia, col mento sulla mano e gli occhi fissi, impietrati. Ad un tratto, fosse presentimento, fosse fluido misterioso, fosse qualche lieve rumore fatto dal giovane coll'appoggiare il viso ai vetri, ella trasalì, alzò il capo vivamente, e i suoi sguardi s'incontrarono con quelli del paggio a guisa di due correnti elettriche. «Cos'avete?», domandò il barone. «Nulla», diss'ella, bianca e impassibile come una statua. Il barone si voltò verso la finestra: «Che rumore è cotesto?». Donna Violante chiamò la cameriera; e le ordinò di chiudere bene; era
fredda e rigida come una statua di marmo. «Sarà il vento», soggiunse, «o la finestra non è ben chiusa.» Corrado ebbe appena il tempo di rannicchiarsi rasente il muro. Il barone di tanto in tanto volgeva alla sfuggita sulla moglie uno sguardo singolare, e, cosa più singolare, era sobrio! «Non bevete un sorso?», domandò versandole del vino. Ella non osò rifiutare, alzò lentamente il bicchiere, e si udirono i suoi denti urtare due o tre volte contro il vetro. Poi rimase pensierosa, ma con certa ansietà febbrile, gettando sguardi irrequieti qua e là. «Bisogna che vi cerchi un altro paggio, ora che Corrado è partito», disse il barone figgendole gli occhi in viso. Donna Violante non rispose, ma levò gli occhi anche lei, e si guardarono. Il barone bevve un altro bicchier di moscato, e si alzò per andare a far la ronda della sera. Come fu sola la donna, si levò anch'essa, quasi spinta da una molla, e si diede a passeggiar per la camera, agitata e convulsa. Ogni volta che passava dinanzi alla finestra vi gettava un'occhiata scintillante. Ad un tratto vi andò risolutamente, e l'aperse. Essi si trovarono faccia a faccia, e si guardarono in silenzio. «Ma che fai qui?», domandò donna Violante con accento febbrile. «Son venuto a morire», rispose il paggio con calma terribile. «Ah», esclamò ella con un sorriso amaro. «Lo sai che t'ho fatto scacciar io?» «Voi!» «Io!» «Perché m'avete fatto scacciare?» «Perché non ho potuto far scacciar me stessa, e perché non ho avuto il coraggio di uccidermi dopo di essermi vendicata.» «Cosa vi ho fatto?», esclamò egli colle lagrime nella voce. «Che m'hai fatto?...», rispose la donna fissandolo con occhi stralunati. «Che m'hai fatto?... Ebbene, cosa vuoi ancora? cosa sei venuto a fare?» «Son venuto a dirvi che vi amo!», diss'egli senza entusiasmo e senza amarezza. «Tu!», esclamò la baronessa celandosi il viso fra le mani. «Perdonatemelo, madonna!», aggiunse il paggio sorridendo tristemente, «cotesto amore che vi offende lo sconterò in un modo terribile.» «No!», diss'ella con voce delirante. «Non voglio che tu muoia, non vo-
glio più amarti, e non voglio rivederti mai più!... no! no! vattene!» Egli scosse il capo rassegnato. «Andarmene? È tardi, il ponte levatoio è tirato, e il barone mi ha detto che questa sera non avrebbe voluto trovarmi più qui. Bisognava che io arrischiassi qualche cosa per vedervi un'ultima volta, così bella come vi ho sempre dinanzi agli occhi, e che io paghi con qualcosa di prezioso il potervi dire la terribile parola che vi ho detto.» «Ebbene!», rispose donna Violante, pallida come lui, tremante come lui, «anche io sconterò il mio fallo... È giusto!» In questo momento si udirono i passi del barone che ritornava accompagnato da qualcuno. «Sia!», esclamò convulsamente la baronessa. «Ti amo, son tua, sia! moriamo!» E gli cinse le braccia al collo, e gli attaccò alle labbra le labbra febbrili. Si udì la voce di don Garzia che diceva al Bruno: «Tu va sul ballatoio e sta a guardia da quella parte». Corrado si strappò da quell'amplesso di morte, con uno sforzo più grande di quel che ci sarebbe voluto per precipitarsi dalla finestra di cui gli veniva chiuso lo scampo, e stringendole la mano risolutamente: «No! voi no! Ricordatevi di me, Violante, e non temete per voi. Il povero paggio saprà morire come un gentiluomo». E mentre si udivano già i passi del barone dietro l'uscio, e Bruno che percorreva il ballatoio, si slanciò nell'andito ch'era dietro l'alcova, e in fondo al quale spalancavasi il trabocchetto. Don Garzia entrò con passo rapido, non guardò nemmen la moglie, la quale sembrava un cadavere, gittò un'occhiata alla finestra chiusa, ed entrò nell'andito senza dire una parola. Non si udì più nulla. Poco dopo riapparve d'Arvelo, calmo e impenetrabile come al solito. «Tutto è tranquillo», disse. «Andiamo a dormire, Madonna.» XI. La notte s'era fatta tempestosa, il vento sembrava assumere voci e gemiti umani, e le onde flagellavano la rocca con un rumore come di un tonfo che soffocasse un gemito d'agonia. Il barone dormiva. Ella lo vedeva dormire, immobile, sfinita, moribonda d'angoscia, sentiva la tempesta dentro di sé, e non osava muoversi per timor di destarlo. Avea gli occhi foschi, le labbra semiaperte, il cuore le si rompeva nel petto, e
sembravale che il sangue le si travolgesse nelle vene. Provava bagliori, sfinimenti, impeti inesplicabili, vertigini che la soffocavano, tentazioni furibonde, grida che le salivano alla gola, fascini che l'agghiacciavano, terrori che la spingevano alla follia. Sembravale di momento in momento che la vòlta dell'alcova si abbassasse a soffocarla, o che l'onda salisse e traboccasse dalla finestra, o che le imposte fossero scosse con impeto disperato da una mano che si afferrasse a qualcosa, o che il muggito del mare soverchiasse un urlo delirante d'agonia: il gemito del vento le penetrava sin nelle ossa, con parole arcane ch'ella intendeva, che le dicevano arcane cose, e le facevano dirizzare i capelli sul capo, e teneva sempre gli occhi intenti e affascinanti nelle orbite incavate ed oscure di quel marito dormente, il quale sembrava la guardasse attraverso le palpebre chiuse, e leggesse chiaramente tutti i terrori che sconvolgevano la sua ragione. Di tanto in tanto si asciugava il freddo sudore che le bagnava la fronte, e ravviava macchinalmente i capelli che sentiva formicolarsi sul capo, come fossero venuti cose animate anch'essi. Quando l'uragano taceva, provava un terrore più arcano, e con un movimento macchinale nascondeva il capo sotto le coltri, per non udire qualcosa di terribile. Ad un tratto quel suono che parevale avere udito in mezzo agli urli della tempesta, quel gemito d'agonia, visione o realtà, s'udì più chiaro e distinto. Allora mise uno strido che non aveva più nulla d'umano, e si slanciò fuori del letto. Il barone, svegliato di soprassalto, la scorse come un bianco fantasma fuggire dalla finestra, si precipitò ad inseguirla, saltò sul ballatoio e non vide più nulla. La tempesta ruggiva come prima. Sul precipizio fu trovato il fazzoletto che avea asciugato quel sudore d'angoscia sovrumana. XII. La storia avea divertito tutti, anche quelli che la conoscevano diggià, e che la commentavano ai nuovi venuti colla leggenda degli spiriti che avevano abitato il castello. La sera era venuta, l'ora e il racconto aiutavano le vagabonde fantasticherie dell'eccellente digestione. Luciano e la signora Matilde avevano impallidito qualche volta durante quel racconto che conoscevano. «Badate», le sussurrò egli sottovoce. «Vostro marito vi osserva!» Ella si fece rossa, poi impallidì, guardò il mare che imbruniva, e s'avviò la prima. Scesero le scale crollanti, e giunti al basso era quasi buio. La
grossa tavola che faceva da ponte levatoio sull'abisso spaventoso il quale spalancasi sotto la rocca, a quell'ora era un passaggio pericoloso. I più prudenti si fermarono prima di metterci piede, e proposero di mandare al villaggio per cercar dei lumi. «Avete paura?», esclamò il signor Giordano con un sorrisetto sardonico. E si mise arditamente sullo strettissimo ponte. Sua moglie lo seguì tranquilla e un po' pallida, Luciano le tenne dietro e le strinse la mano. In quell'attimo, a 150 metri sul precipizio, accanto a quel marito di cui s'erano svegliati i sospetti, quella stretta di mano, di furto, fra le tenebre avea qualcosa di sovrumano. L'altro li vide forse nell'ombra, lo indovinò, avea calcolato su di ciò... Si volse bruscamente e la chiamò per nome. Si udì un grido, un grido supremo, ella vacillò, afferrandosi a quella mano che l'avea perduta per aiutarla, e cadde con lui nell'abisso. A Trezza si dice che nelle notti di temporale si odano di nuovo dei gemiti, e si vedano dei fantasmi fra le rovine del castello. HERMINA BLACK Il passo pesante 1. Nonostante il mio scarso successo in campo giornalistico, non sono una persona ricca d'immaginazione. Intendo raccontare questa storia solamente perché gli eventi sono così impressi nella mia mente che non potrò mai dimenticarli. Nel dicembre del '98 mi trovavo solo a Londra, piuttosto depresso e debilitato, in attesa di un Natale che sarebbe stato triste, quando incontrai, inaspettatamente, Owen Flaxham. Eravamo stati assieme al Magdalen ed era il mio compagno preferito ma, non so bene per quale motivo, quando ero venuto in città per intraprendere la mia carriera e lui era diventato Baronetto, ci eravamo persi di vista, più a causa delle vicissitudini della vita che per colpa nostra. Tuttavia fu felice di rivedermi e, sentendo che avrei passato il Natale tutto solo, insistette perché andassi con lui, a casa sua, il giorno dopo. Non potevo accontentarlo, ma promisi che l'avrei raggiunto durante la settimana. Quindi partii da Euston il venerdì seguente, e arrivai a Manorsfield nel Cheshire poco dopo il tramonto.
Owen venne a prendermi con il calesse e percorremmo circa sei miglia prima di raggiungere la casa. Durante il tragitto venni a sapere, con rammarico, che la casa era tutta occupata; con molte scuse il mio ospite mi chiese di dividere la sua camera, solo per quella notte, poiché la persona che occupava la mia sarebbe partita la mattina seguente. Naturalmente non avevo obiezioni, e glielo dissi. Flaxham Hall era un grande e tortuoso edificio elisabettiano a eccezione dell'ala est, cioè quanto rimaneva della costruzione originale che risaliva al X secolo. La casa possedeva i migliori rivestimenti di quercia che avessi mai visto, ed era il luogo ideale per ambientarvi un centinaio di storie di fantasmi. Questa idea mi attraversò la mente mentre disfacevo la valigia; Owen era seduto su uno dei letti della sua immensa e allegra camera, e mi voltai verso di lui ridendo chiedendogli se avevano il fantasma di famiglia. Accennò di sì col capo. «Sì, ma per amor del cielo, non parlarne di fronte alle donne! Mia madre è piuttosto irascibile di questi tempi. Te ne parlerò più avanti se me lo ricorderai.» Quindi, cambiando argomento, mi parlò delle difficoltà che avevano avuto nell'installare l'energia elettrica in un edificio così immenso. «Ora c'è solo una parte della casa che ne è priva», concluse. «Non è molto grave, poiché nell'ala est c'è una sola camera da letto che è raramente usata. Tuttavia sarà proprio quella camera che tu occuperai, dopo questa notte, e non sarà molto confortevole vecchio mio!» «Non importa», risposi allegramente. «Non ho mai avuto il vizio di leggere a letto e, una volta addormentato, nemmeno il terremoto potrebbe svegliarmi.» Trovai la madre di Owen una deliziosa signora appartenente alla classe aristocratica. Anche la signora Dawson, sorella del mio amico, faceva parte del gruppo: subito notai la sua bellezza e vidi anche quanto fosse infelice e a disagio ogni volta che le si avvicinava suo marito, un ricco e affascinante americano. Vi era anche un'altra persona che non sembrava trovarsi a suo agio, un giovane alto e dinoccolato che vantava il nome di Mundy e che, come venni a sapere in seguito, avrebbe occupato la camera che sarebbe stata mia il giorno seguente. Non ebbi tuttavia mai occasione di parlargli prima che partisse; più tardi pensai che avrebbe potuto avere qualcosa d'interessante da dire.
2. Il giorno seguente restammo fuori a caccia fin dal primo mattino. Il cameriere di Owen portò i miei bagagli dalla camera del suo padrone al mio nuovo alloggio e, quando rientrai, lo trovai che mi aspettava per accompagnarmi. Ci voleva davvero una guida! La stanza era sistemata molto lontana dalle altre camere da letto. Per raggiungerla bisognava, percorrere tutta la galleria dei ritratti di famiglia, luogo piuttosto buio e misterioso, illuminato a intervalli da cupe lampade a olio dove i Flaxham deceduti lanciavano dall'alto uno sguardo solenne, ed enormi armature apparivano luccicanti nell'oscurità. All'estremità della galleria, pochi gradini di pietra scendevano verso un piccolo passaggio quadrato e, di fronte, una porta di quercia tutta guarnita di borchie dava accesso alla mia camera. Vedendola, capii immediatamente il disagio di Mundy: era terribilmente isolata. La camera di per sé era abbastanza confortevole: un fuoco scoppiettante ardeva nel camino e numerose candele, poste in enormi candelabri d'argento, erano accese sopra di esso e su un'antica toeletta. Le alte finestre erano guarnite con pesanti tende rosse che insieme a un tappeto cremisi e a due comode poltrone, rendevano meno triste il cupo arredamento di quercia e il grande letto a quattro colonne posto in un angolo sopra tre gradini. Congedai il cameriere, che mi sembrò molto felice di potersene andare. Quando fu sulla porta si arrestò. «Spero non avrete problemi, signore; se vi serviranno altre candele, le troverete là.» E indicò una scatola su un tavolo attaccato alla parete. Lo ringraziai e lui se ne andò; lo sentii correre lungo la galleria e non potei fare a meno di ridere per quella sua fretta nell'allontanarsi. Lasciato solo, ricordo di aver guardato il letto e di aver pensato che avrei preferito dormire su di una sedia; non ebbi tuttavia tempo per questi pensieri perché il primo gong era già suonato: velocemente mi cambiai d'abito. Quando, dopo un'altra piacevole serata, raggiunsi il mio solitario appartamento, la mezzanotte era già passata. Il fuoco ardeva ancora allegramente, le candele erano accese e Davis mi stava preparando la camera per la notte. Con mia grande sorpresa notai, su un tavolo vicino al camino, un vassoio con whisky e soda, tre o quattro riviste e il giornale della sera. «Sembra tutto preparato per una notte piacevole, Davis», osservai.
L'uomo mi spiegò, malcelando un certo senso di colpa: «Vedete, signore, è una notte molto fredda, e il signor Mundy si era lamentato del gelo della stanza; aveva detto di aver avuto difficoltà a dormire, così ho pensato che avreste gradito qualcosa da bere e uno o due libri. Desiderate altro, signore?». Risposi di no; Davis se ne andò con la stessa velocità che aveva mostrato precedentemente. Giunto alla porta si voltò, aprì la bocca come per parlare, ma immediatamente cambiò idea, mi augurò rispettosamente «buona notte», e svanì. Mentre mi spogliavo, non potei fare a meno di chiedermi quali fossero le ragioni che spingevano quell'uomo a comportarsi così stranamente, tuttavia devo dire che fino a quel momento non ero per nulla turbato. Dopo essermi messo il pigiama, mi preparai un po' di whisky e soda e ne bevvi un sorso. Presi una candela e andai a controllare il letto da vicino. Tutto sembrava perfetto: un po' alto, ma comodo, e decisi quindi di dormirci. Mentre scendevo i tre gradini, i miei occhi si posarono sul mio orologio che avevo appoggiato sulla toeletta e vidi che segnava l'una. In quell'istante un rintocco risuonò dalla torre della scuderia. Contemporaneamente accadde una cosa alquanto curiosa: sebbene non avessi più letto l'Amleto da anni, il suono di quell'orologio mi richiamò alla mente le cupe parole del vecchio poeta: L'ora delle streghe è giunta, l'ora in cui le tombe si spalancano... Mentre mi ripetevo questo verso, udii qualcuno che si avvicinava lungo la galleria. Pensai subito a Davis, quindi a Owen che stesse ritornando per continuare la nostra chiacchierata, ma il passo era troppo pesante per appartenere a quelle persone. Appoggiai la candela che tenevo in mano e rimasi immobile ad ascoltare. I passi si avvicinavano, ritmati, pesanti, finché si udì distintamente un suono metallico, proprio come se una delle armature che decoravano la galleria stesse facendo una passeggiata notturna. Fino a quel momento ero ancora abbastanza calmo e sicuro che qualche ospite, completamente folle, avesse indossato una delle armature fatta di maglia di ferro e mi volesse fare un terribile scherzo. Andai alla porta senza fare il minimo rumore, girai la chiave, e misi il catenaccio: quindi aspettai. I passi si avvicinavano con ritmo regolare; allora, quando raggiunsero i gradini e li scesero, mi accorsi che, senza rendermene conto, mi trovavo
nel mezzo della stanza. A tutt'oggi non ho alcun ricordo di essermi mosso dalla porta. Sentii come se una mano, ricoperta di maglia di ferro, battesse alla porta; le candele sopra il camino si spensero e mi trovai sdraiato per terra, il viso rivolto verso il soffitto, incapace di muovere qualsiasi parte del mio corpo, nemmeno un dito. In quello stesso istante capii che non ero più solo nella stanza. Sebbene fossi sicuro di aver chiuso la porta così che nessuno potesse entrare, lui si trovava lì, e io pure ero lì, incapace di muovermi, per nulla spaventato, ma maledettamente contrariato! Non potevo girare il capo, ma capivo che, qualunque cosa fosse entrata, si trovava ora ritta presso la porta e mi stava guardando intensamente. Quindi cominciò a muoversi lentamente nella stanza. Intuii, vagamente, che stesse muovendosi attorno lungo le pareti e che in questo suo movimento non fosse per nulla impedito dai mobili. Giacevo per terra e fantasticavo, e per quanto sforzassi i miei occhi, non riuscivo a scorgere nulla. Alla fine capii cosa stesse facendo il mio ospite. Lui si muoveva lentamente, in cerchi concentrici sempre più piccoli, e ogni volta che si avvicinava alla porta, sentivo la sua presenza farsi più vicina. Sebbene ora mi sentissi veramente turbato, avevo anche la sensazione che il mio ospite non mi fosse per nulla ostile. Poi, mentre si faceva sempre più vicino, cominciai a sudare, poiché ebbi la sensazione che mi stesse guardando fisso in volto. Trattenni il respiro, aspettandomi da un momento all'altro di essere schiacciato da un piede di metallo. Ci fu un momento in cui sembrò proprio alzarlo per quello scopo. Poi, con mio stupore, si voltò e se ne andò verso la porta. Se ne andò come era venuto: il suo rumore si allontanava sempre più lungo la galleria. Seguì quindi un silenzio profondo, come di morte; poi, con mio grande sollievo, mi accorsi che potevo muovermi. Balzai in piedi e corsi alla porta, che era ancora chiusa a chiave con il catenaccio tirato. Per la prima volta i miei nervi ebbero il sopravvento: non osai aprire la porta per seguire quell'orribile cosa sconosciuta. Non osai neppure spegnere le altre candele: mi precipitai a letto ma rimasi sveglio per un po' ad ascoltare se il mio spettrale visitatore fosse ritornato. Poi mi addormentai e fui svegliato dalla voce di Davis che mi aveva portato l'acqua per radermi.
3. Mi alzai e aprii la porta. L'uomo entrò, tirò le tende, e con uno sguardo di disapprovazione mi chiese: «Dormito bene, signore?». Nella fredda luce di quella mattina di dicembre, l'esperienza della notte precedente mi sembrò assurda e impossibile. Capii che, se ne avessi parlato, avrebbe dubitato della mia integrità mentale; quindi risposi sorridendo che avevo dormito molto bene, il che sembrò sollevarlo. Dopo aver sistemato perfettamente tutto quello che era di suo compito, mi lasciò. Dopo essermi lavato, sbarbato e vestito, gli eventi della notte precedente li avevo del tutto dimenticati. L'esperienza vissuta mi sembrava davvero incredibile e mi convincevo sempre più che la causa dell'incubo che mi aveva tormentato in quel modo era stata sicuramente un'indigestione per qualcosa che avevo mangiato. Alla fine mi sembrò così sciocca che decisi di non parlarne ad anima viva. Il mio aspetto doveva essere, tuttavia, abbastanza sgradevole, poiché la mia ospite, che pure non era nel migliore stato d'animo, lo notò immediatamente chiedendomi se avessi dormito bene e se la camera fosse stata confortevole. Intuii, in un lampo, che fosse a conoscenza della cosa: fui sul punto di chiederglielo, quando ricordai la richiesta di Owen, e mi trattenni dal parlarne. Mentre stava dando una rapida scorsa alla posta del mattino, le dissi che avevo dormito abbastanza bene, e notai in lei lo stesso sollievo che avevo visto in Davis. Owen, sua madre e io eravamo le sole persone che stavano facendo colazione; gli altri erano usciti a pattinare. Immediatamente la mia ospite passò a suo figlio una lettera, con un'occhiata alquanto preoccupata. «È di Godfrey, caro. Arriverà oggi!» Il viso di Owen si oscurò. «Vada al diavolo! Dove lo sistemerete?» La donna esitò. «Non c'è una camera libera. Mi spiace, ma dovrà dormire con te.» Owen aggrottò le sopracciglia, manifestando dissenso. «Ritengo alquanto maleducato da parte sua farsi vivo in questo modo! Poteva pensare che non ci sarebbe stato posto... mi piacerebbe mandargli un telegramma per dirgli di non venire!»
«Non vedo proprio come potremmo farlo», replicò sua madre cortesemente, sebbene non sembrasse più felice di lui dell'arrivo di quell'ospite inaspettato. Flaxham guardò la lettera che teneva fra le mani con un riso alquanto irritato. «Neppure io: quel buono a nulla non ci ha mandato il suo indirizzo!» La signora si alzò, raccogliendo tutte le lettere. «Non c'è altra scelta, quindi. Dovrà accontentarsi della sistemazione che troverà.» Detto ciò, lasciò la stanza. Flaxham resto lì, visibilmente contrariato, battendo il suo cucchiaino contro la tazzina del caffè vuota. Dopo un attimo di esitazione dissi: «Non mi sembri molto contento dell'arrivo di questo ospite, vecchio mio». «No, di certo!», mi rispose prontamente. «A dire il vero, George, è un nostro cugino che non riesco assolutamente a sopportare. Arriverà con il suo servo e un'enorme quantità di bagagli, e si comporterà come se fosse a casa sua.» Fu proprio allora che d'impulso gli chiesi: «Perché non gli diamo la mia camera? Io non ho alcun problema ad accettare un'altra sistemazione». Le parole furono pronunciate prima che le pensassi e Owen mi guardò con sollievo. «Sei veramente molto buono, George, ma mi sembra scortese spostarti ancora. Naturalmente potresti dormire ancora insieme a me; preferisco di gran lunga dividere la mia camera con te piuttosto che con Godfrey, se a te non spiace, naturalmente!» «Per nulla», lo interruppi. «Sono felicissimo: vado subito a prendere le mie cose.» Mi assicurò che Davis avrebbe pensato a tutto e andò a riferire a sua madre la nostra decisione, lasciandomi così felice della possibilità di abbandonare quella stanza così misteriosa. Cercai di calmare la mia coscienza pensando che, se anche il mio notturno visitatore fosse stato una realtà, era del tutto innocuo: irritava soltanto il sistema nervoso. Inoltre, esisteva anche la possibilità, anche se remota, che non fosse stato altro che un sogno. Per un attimo pensai di parlarne a Owen, ma subito decisi che avrebbe
solo riso delle mie preoccupazioni: quindi sentii le mie labbra sigillate da una forza più potente della semplice paura di sembrare ridicolo. 4. All'ora del tè arrivò il signor Godfrey Leyton. Era uno degli uomini più belli che avessi mai visto - spalle ampie, capelli scuri e ricci - solo le labbra erano crudeli, quasi bestiali. Non appena arrivò, andò a sedersi accanto alla signora Dawson - eravamo tutti raccolti nella grande sala dalle pareti ricoperte di quercia e Lady Flaxham ci stava servendo il tè - e si trattenne con lei per qualche tempo in intima conversazione. Apparentemente la signora Dawson sembrava a disagio, tuttavia lì vidi più di una volta scambiarsi degli sguardi su cui, se fossi stato il marito, avrei trovato da obiettare. Non potei fare a meno di domandarmi se il raffreddaménto dei rapporti fra marito e moglie avesse a che vedere con quell'attraente cugino. Quella sera, dopo cena, lasciai gli altri al loro bridge e ai loro giochi e mi ritirai nello studio, una piccola stanza accanto alla biblioteca, per scrivere una lettera che desideravo partisse con la posta del mattino seguente. Mi sentivo nervoso, giù di corda e avevo un forte mal di testa, senza dubbio a causa della terribile notte che avevo trascorso. Non desideravo nemmeno tornare con gli altri nella sala, quindi, quando ebbi finito la lettera, spensi la luce, cercai una comoda poltrona e mi sedetti per fare una tranquilla fumata. Dovevo essermi anche appisolato perché, quando mi svegliai, sebbene la stanza fosse ancora immersa nell'oscurità, percepii la presenza di altre due persone. Ero sul punto di chiedere chi ci fosse, quando una voce femminile esclamò: «Cosa volete Godfrey? Mi state rovinando! Pensate se mio marito dovesse arrivare!». «State tranquilla, non verrà nessuno se non accendiamo la luce», rispose il suo compagno; capii quindi che erano la signora Dawson e il giovane Leyton. Mi trovavo davvero in una curiosa situazione! Tutto quello che dovevano dirsi non aveva alcun interesse per me, ma la mia presenza avrebbe fatto sicuramente immaginare loro che stessi origliando. Decisi di rimanere dove mi trovavo, tappandomi le orecchie, fino al momento in cui avrebbe-
ro deciso di andarsene ma, prima che avessi il tempo di fare ciò, Leyton parlò di nuovo e il tono della sua voce mi indusse ad ascoltare. Ho sempre avuto un debole per una fanciulla in pena. «In quanto a infelicità, Cecily, voi me ne avete causata abbastanza. Sono venuto qui proprio per parlare con voi di questo.» «È stato molto scorretto da parte vostra!», lo interruppe la donna. «Sapete bene che, dal momento in cui Jack ha trovato quella vostra lettera, ha sospettato di me. Vi prego Godfrey, andate via domani! Se rimarrete, farete solo peggiorare le cose.» «È proprio per le vostre lettere che vi ho voluto incontrare, Cecily. Voi mi avete scritto chiedendomi...» «Sì, sì!», esclamò lei con impazienza. «Avete fatto quello che vi ho chiesto? Le avete stracciate?» Godfrey rispose immediatamente: «No!». A queste parole lei reagì con un breve grido di terrore. Il mascalzone sembrò prendere le sue mani per consolarla! Avrei potuto, e di buon grado, dargli un calcio. Dopo un attimo lui riprese: «Non potete pensare che mi separi facilmente da quanto mi rimane di voi; ma guardate, cara, vi prometto in buona fede di restituirvele tutte, se voi stessa verrete a prenderle». «Ma come posso?», chiese Cecily affannosamente. «Venite questa notte nella galleria dei ritratti, un'ora dopo che tutti saranno andati a dormire», rispose. «Allora ve le darò e voi potrete distruggerle. Dopodiché, giuro che me ne andrò domani, se voi ancora lo desidererete.» Subito rifiutò, istintivamente, ma intuivo dal suo tono di voce quanto fosse preoccupata di riavere quelle lettere compromettenti; poco dopo infatti promise di fare quello che lui chiedeva. Mentre stavano per lasciare la stanza, la signora Dawson si fermò per dire qualcosa che mi fece drizzare le orecchie. La sua voce era colma di terrore. «Ma io non oso venire nella galleria dei ritratti a quell'ora della notte. Oh, Godfrey, state attento! Sapete che occupate l'ultima camera, quella in fondo alla galleria?» E, mentre lui rideva apertamente, aggiunse: «Aspettate, il fantasma in armatura si aggira per il castello! Mia madre l'ha udito, e la scorsa notte l'ho udito pure io. Persino i servitori si sono lamentati di a-
ver udito strani rumori provenienti dall'ala orientale. Voi potete pure ridere, ma io ho paura». «Sciocchezze!», esclamò. «Chi crede più in queste storie di vecchie comari? Se volete le vostre lettere, dovete venire a prendervele.» Rinnovò la sua proposta con un tono molto sottomesso, e infine, con mio grande sollievo, se ne andarono: rimasi solo e mi sentii molto colpevole. Per tutta la sera fui molto preoccupato per quello che avevo udito. Intuivo, in qualche modo, che avrei dovuto avvertire Flaxham, perché capivo che non sarebbe servito a nulla parlare alla signora Dawson. Ciò che non riuscivo a capire era se lei fosse realmente innamorata di Leyton o semplicemente terrorizzata da lui, ma ero sicuro che, fino a quel momento, non era altro che un amore superficiale, anche se appassionato. Sapevo che tipo di uomo fosse Leyton, e temevo quell'appuntamento. Ma quale diritto avevo io di interferire? 5. Fu proprio a mezzanotte che tutti ci ritirammo per andare a dormire. Ricordando che la signora Dawson avrebbe dovuto avere quell'incontro un'ora dopo nella galleria dei ritratti, mi sollevò l'idea che il mio amico sconosciuto avrebbe potuto visitare Godfrey Leyton prima. Pensavo inoltre, conoscendo il suo carattere, che non avrebbe lasciato la camera prima dell'alba, e ritenevo che un improvviso e grande spavento non gli avrebbe fatto male. Né io né Flaxham avevamo sonno. Con indosso la vestaglia, ci sedemmo ai lati del camino e, dopo aver acceso le nostre pipe, iniziammo una piacevole conversazione. Chiacchieravamo dei vecchi tempi e fumavamo con soddisfazione, quando improvvisamente pensai di farmi raccontare la leggenda alla quale aveva accennato la sera del mio arrivo. Rimase in silenzio per qualche momento, poi svuotò la sua pipa della cenere, la riempì di tabacco e cominciò a parlare lentamente: «Non c'è motivo per cui non possa parlartene. Come ben sai, tutte le antiche famiglie hanno il loro fantasma, e noi Flaxham non siamo un'eccezione. Soltanto non vogliamo parlarne, perché esso riesuma storie che preferiamo dimenticare. Ben poche persone, al di fuori della famiglia, sono a conoscenza del "fantasma in armatura"». A queste parole mi raddrizzai nella poltrona. «Continua!», insistetti con curiosità..
Flaxham sorrise. «Personalmente non posso dire di prestare molta attenzione a queste cose. Prima di credere in qualcosa, devo averla vista realmente o almeno aver avuto delle prove tangibili della sua esistenza. Io non ho mai incontrato questo fantasma, eppure, anche ora, ci sono delle persone nella casa che giurano di averlo sentito. La leggenda risale ai tempi di Riccardo I, quando il castello era una fortezza normanna, e qui regnava il discendente diretto del capostipite, Sir Edward Flaxham. Tutto ciò che rimane di quell'edificio è l'ala est, dove hai dormito tu la scorsa notte. Sir Edward, così racconta la leggenda, aveva una bella figlia che lui amava con tutto il cuore, in altre parole era la pupilla dei suoi occhi. Tuttavia due cose venivano prima di lei: il suo Re e il suo onore. Era veramente un accanito sostenitore dell'onore. A un certo punto fu preso dalla mania delle Crociate e partì per la Guerra Santa, lasciando la sua adorata figlia alle cure dei servitori più fedeli, poiché la mamma era morta. Rimase lontano da casa per un lungo periodo di tempo e puoi immaginare quello che provò quando, ritornando, venne a sapere che sua figlia Edith si era uccisa con le proprie mani per non dover sopportare il disonore che un certo Cavaliere le aveva causato. Sir Edward giurò di trovare l'uomo e di vendicarsi: primo perché aveva amato sua figlia, e poi perché l'onore della famiglia lo richiedeva. Le donne dei Flaxham erano sempre state famose per la loro virtù. Dopo qualche tempo scoprì chi era il suo nemico. Catturò l'uomo e lo fece portare al castello: quindi lo rinchiuse, prigioniero, nella stanza all'estremità della galleria dei ritratti. Il pavimento, come ben sai, è di pietra spero che tu non l'abbia trovato troppo freddo, vecchio mio - e là fu incatenato saldamente. La storia racconta inoltre che, quando l'innamorato di Edith fu portato al castello, Sir Edward stava per partire di nuovo per le Crociate. La notte precedente la sua partenza visitò il prigioniero vestito di un'armatura di maglia di ferro e, girando in cerchi concentrici nella stanza, gli disse, con tutta calma, che l'avrebbe calpestato fino a ucciderlo. Non ricordo esattamente quali si dice siano state le sue parole, ma dovevano all'incirca dire che il suo bel volto aveva già causato troppo danno e che lui stesso glielo avrebbe deturpato. E così continuò a girare attorno in quella stanza immensa e quasi vuota, mentre il poveretto era incatenato al pavimento, il viso rivolto verso il soffitto, senza poter muovere un dito. I cerchi si stringevano sempre più attorno a lui e, quando il mio nobile ante-
nato raggiunse la sua vittima, alzò deliberatamente il suo piede ricoperto di ferro e lo schiacciò fino a ucciderlo.» «Santo cielo!» Questo fu tutto quello che riuscii a dire. «L'idea fu geniale, non è vero?», chiese Flaxham. «Ora è rimasta la superstizione che ogni volta che una donna della nostra famiglia si trova in pericolo, si sente camminare Sir Edward e, se riesce a raggiungere il colpevole, lo uccide così come ha fatto con il traditore di sua figlia.» «Ma», gridai con il fiato mozzo, «e questo è mai capitato? Voglio dire...» «A dire il vero», disse Owen, diventando improvvisamente serio, «la cosa buffa è che due o tre volte degli uomini sono stati trovati morti in quella stanza senza cause apparenti, e i loro volti erano irriconoscibili come se fossero stati calpestati da un piede ricoperto di ferro. L'ultima volta accadde nel XVIII secolo, quando Denis Hallam, uomo di rinomata bellezza, fu trovato là ridotto in queste condizioni. Si venne a sapere in seguito che, quella stessa notte, egli avrebbe dovuto fuggire con Lady Betty Flaxham, moglie del Baronetto che allora regnava. Si dice che i passi di Sir Edward siano stati uditi anche le notti precedenti quella in cui la vittima dormì in quella stanza. Tuttavia il fantasma colpisce solamente i traditori, o i possibili traditori, delle donne della nostra famiglia.» Non so perché non mi fosse venuto in mente prima, ma alle sue parole mi ricordai immediatamente della conversazione che avevo udito nello studio e la mia esperienza nella camera in fondo alla galleria dei ritratti acquistò un nuovo significato. Mi resi immediatamente conto che dovevo raggiungere Godfrey Leyton ad ogni costo prima che l'orologio suonasse la una per informarlo che era in pericolo di morte. Mentre ero assorto in questi pensieri, udii l'orologio fuori della porta battere la una: mi alzai di scatto e gridai afferrando il mio amico per il braccio: «Owen, per amor del cielo, vieni con me nella galleria dei ritratti, su, in fretta». Corsi verso la porta, la spalancai ma, prima che potessi uscire, Flaxham mi trattenne. Mi confessò in seguito che in quel momento aveva avuto seri dubbi sul mio equilibrio mentale. «Aspetta, vecchio mio, cosa diavolo c'è che non va?», mi disse afferrandomi un braccio come in una morsa. «Non ho tempo per darti spiegazioni, ora. Mi sento perfettamente bene.
Per amor del cielo non farmi domande: vieni con me. Leyton si trova in quella stanza ed è in pericolo, lo so.» Il tono della mia voce era così preoccupato che lo convinse. Abbandonò il mio braccio così io potei prendere un candelabro e, correndo verso il corridoio, accesi la candela. Flaxham mi seguiva da vicino insistendo perché gli fornissi qualche spiegazione. Noncurante di lui, camminavo in silenzio finché, lasciata la parte moderna della casa, raggiungemmo la scala che portava alla galleria dei ritratti. Le luci erano state spente da lungo tempo e, mentre passavo fra le austere armature, un certo disagio prese il posto della mia iniziale eccitazione. In cima alla scala mi fermai, apparentemente per riprendere fiato: Owen mi raggiunse. Nell'attimo d'attesa udii distintamente il rumore metallico dell'armatura che si perdeva nella lunga e oscura galleria di fronte a noi. 6. Per la prima volta il suono di quel passo metallico mi riempì di terrore. Era stato nella mia stanza e così vicino da potermi fare del male, ma mai aveva suscitato in me la paura che in quel momento provavo nell'udire quei passi che si allontanavano rimbombando lungo la galleria deserta. Controllando con un grande sforzo la sensazione di terrore, afferrai il mio amico e lo trascinai. «Non lo senti?», gli chiesi. Non ci fu bisogno di risposta: intravidi l'espressione del suo volto alla luce tremolante della candela che tenevo in mano. Aveva capito tutto e anche lui era ansioso di raggiungere la camera dove Leyton dormiva e dalla quale, poco prima, avevamo udito provenire il rumore dei passi del fantasma. A questo punto accadde una cosa veramente inaspettata. Come raggiungemmo i pochi scalini che portavano alla porta ricoperta di borchie, ci trovammo entrambi immobili, incapaci del più piccolo movimento. Eravamo là, senza alcun aiuto, a guardarci in volto, con la candela gocciolante in mano mentre continuavamo a sentire quel rumore nella stanza a pochi passi da noi. Sapevo che dietro quella porta sarebbe avvenuta, da un momento all'altro, una tragedia raccapricciante. Ma ero impotente; incapace di emettere un grido o di muovere un dito per impedirlo. Intanto i passi continuavano: pesantemente ritmati. Non mi aveva mai sfiorato l'idea che un fantasma potesse avere lo stesso
spaventoso effetto anche all'esterno della stanza. Restammo là immobili, credo per circa cinque minuti; il nostro cervello era l'unica parte di noi che ancora reagiva. Poi, improvvisamente, il silenzio fu rotto dall'urlo di una donna e da passi affrettati che correvano lungo la galleria. La mia impazienza mi aveva fatto dimenticare Cecily Dawson, ma capii subito che era lei che si stava avvicinando. Come ci vide là, immobili, gridò a suo fratello: «Owen, Owen, per amor del cielo, entra! Non senti? Godfrey è là dentro! Uno di voi faccia qualcosa. Oh, vi prego!». Si avvicinò a noi disperata: la sua esile figura era avvolta in un abito leggero. Come afferrò il braccio di suo fratello, la stanza piombò nel silenzio. Quasi immediatamente i passi si avvicinarono alla porta. Ebbi appena il tempo di prendere fra le braccia la ragazza svenuta e spostarmi di lato contro la parete, quando qualcosa passò accanto a me sfiorandomi: posso giurare di aver sentito contro le mie mani il freddo dell'acciaio! Quando ritornò la calma, fummo liberati dalla nostra immobilità, ma tutto accadde così rapidamente che quasi non ce ne rendemmo conto. Nel prendere fra le braccia la signora Dawson, avevo lasciato cadere la candela che si era spenta. Ora eravamo nella più completa oscurità: io tenevo fra le braccia un corpo privo di sensi, e sentivamo l'eco dei passi ritmati che si allontanavano. La stanza era lontana da tutte le altre. A un tratto sentii la mano tremante di Flaxham sul mio braccio. «Dobbiamo entrare», disse. «Lasciala qui e vieni con me.» Adagiai dolcemente il corpo sul pavimento e lo seguii. Cercò il chiavistello, lo aprì ed entrò nella stanza prima di me. Una candela ardeva sopra il camino. Si mosse per prenderla, ma inciampò in qualche cosa e, chinandosi, mi chiamò perché gli facessi luce. Ovviamente gli ubbidii. Ciò in cui aveva inciampato era il corpo di Godfrey Leyton; mi abbassai per avvicinargli la candela e vidi che giaceva supino. Il suo volto, tutto calpestato, era irriconoscibile. Spaventoso! veramente spaventoso! Nessuno, tranne Flaxham, io e il dottore di famiglia, poté mai vedere il corpo di Leyton. Si disse che era morto per collasso cardiaco.
MARY ELIZABETH BRADDON L'ombra nell'angolo Wildheath Grange era un po' arretrata rispetto alla strada, con una deserta striscia di brughiera dietro e alcuni alti abeti con le chiome scapigliate dal vento, come solo riparo. Era una casa solitaria lungo una strada solitaria, poco più di un sentiero, che conduceva attraverso una successione desolata di campi sabbiosi fino alla spiaggia, ed era una casa che godeva di cattiva fama fra i nativi del villaggio di Holcroft, che era il primo posto in cui si poteva trovare qualche esemplare della razza umana. Però era una buona, vecchia casa, costruita solidamente nei giorni in cui non vi era penuria di pietre né di legname, una buona vecchia casa di pietra grigia con tanti abbaini, profonde incassature delle finestre, e un'ampia scala, lunghi corridoi oscuri, porte nascoste negli angoli più impensati, sgabuzzini grandi come certe stanze dei nostri giorni, e cantine in cui una compagnia di soldati si sarebbe persa. Quella spaziosa, vecchia dimora, era lasciata in balia di topi e ragni, solitudine, echi, ed era occupata da tre persone anziane: Michael Bascom, i cui antenati erano stati proprietari terrieri di un certo livello nella regione, e i suoi due servitori, Daniel Skegg e sua moglie, che avevano servito il padrone di quella lugubre, vecchia casa, fin da quando aveva lasciato l'Università, dove aveva passato quindici anni della sua vita: cinque come studente e dieci come professore di scienze naturali. A trentatré anni Michael Bascom sembrava un uomo di mezza età, e a cinquantasei sembrava un vecchio anche nel modo di muoversi e di parlare. Durante quei ventitré anni aveva vissuto da solo in Wildheath Grange, e i locali si dicevano che era la casa ad averlo reso così com'era. Era senza dubbio un'idea peregrina e superstiziosa, eppure non sarebbe stato impossibile trovare una certa affinità fra il cupo edificio grigio e l'uomo che l'abitava. Sembravano ambedue egualmente distanti dalle preoccupazioni e dagli interessi normali dell'umanità; avevano ambedue un'aria di malinconia profonda, generata dalla perpetua solitudine, e avevano ambedue lo stesso colorito smorto, lo stesso aspetto di lento decadimento. Eppure, per quanto solitaria fosse la sua vita a Wildheath Grange, Michael Bascom non avrebbe mai voluto alterarne il ritmo. Era stato lieto di scambiare la relativa reclusione delle stanze del collegio per l'ininterrotta solitudine di Wildheath Grange. Era fanatico nel suo amore per la ricerca scientifica, e le sue giornate tranquille erano piene fino all'orlo di lavori
che raramente risultavano poco interessanti o soddisfacenti. C'erano periodi di depressione, rari momenti di dubbio, quando la meta per cui lottava sembrava irraggiungibile e il suo spirito si abbatteva. Fortunatamente gli succedeva di rado. Aveva una rara forza di perseveranza che avrebbe dovuto farlo arrivare ai vertici del successo, e che forse avrebbe finito per fargli guadagnare un grande nome e una fama mondiale, se non fosse stato per la catastrofe che pesò sugli ultimi anni della sua vita innocua con un rimorso invincibile. Una mattina di autunno - proprio quando si compiva il ventitreesimo anno dal suo arrivo a Wildheath, e aveva appena cominciato ad accorgersi che il suo fedele maggiordomo e cameriere personale, che era stato un uomo di mezza età quando era entrato al suo servizio, stava diventando vecchio - le meditazioni mattutine del signor Bascom sull'ultimo trattato sulla teoria atomica furono interrotte da un'improvvisa richiesta dello stesso Daniel Skegg. L'uomo di solito serviva il suo padrone nel più assoluto silenzio, e il suo improvviso scoppio di parole fu quasi altrettanto dirompente come se il busto di Socrate che stava sopra la libreria si fosse improvvisamente messo a parlare. «Non si può andare avanti così», disse Daniel. «La mia signora deve avere una ragazza.» «Una cosa?», chiese il signor Bascom, senza staccare gli occhi dalla riga che stava leggendo. «Una ragazza... una ragazza che vada in giro e lavi e aiuti la vecchia. Sta diventando debole di gambe, poveretta. Non siamo certo ringiovaniti in questi vent'anni.» «Vent'anni!», fece eco Michael Bascom con disprezzo. «Cosa sono vent'anni nella formazione di uno strato... nella crescita di una quercia... o nel raffreddamento di un vulcano?» «Non tanto, forse, ma si fanno sentire nelle ossa di un essere umano.» «Le macchie di manganese trovate su certi crani indicano con una certa sicurezza...», cominciò pensierosamente lo scienziato. «Vorrei che le mie ossa non sentissero i reumatismi come facevano vent'anni fa», continuò Daniel con pertinacia, «e forse in quel caso non farei caso a vent'anni. Comunque, per farla breve, la mia signora deve avere una ragazza. Non può continuare a trottare su e giù per questi corridoi, e stare in piedi in quella lavanderia di pietra un anno dopo l'altro, come se fosse una ragazzina. Deve avere una ragazza che l'aiuti.» «Per me può avere anche venti ragazze», disse il signor Bascom, tornan-
do al suo libro. «Che bisogno c'è di dir così, signore? Venti ragazze, eh? Ce ne vorrà per riuscire a trovarne una.» «Perché? La regione è scarsamente popolata?», chiese il signor Bascom continuando a leggere. «No, signore. Perché si sa che nella casa ci sono i fantasmi.» Michael Bascom posò il libro e rivolse uno sguardo di severo rimprovero al suo servitore. «Skegg», disse con voce severa, «pensavo che avesse vissuto con me abbastanza a lungo per essere superiore a una stupidaggine del genere.» «Non dico che io credo ai fantasmi», rispose Daniel con un'aria di scusa, «ma ci credono i locali. Non c'è anima viva che si azzarderebbe a passare la nostra porta dopo il tramonto.» «Solo perché Anthony Bascom, che aveva vissuto a Londra una vita dissoluta, e aveva perso soldi e terre, è tornato a casa con il cuore spezzato, e si pensa che si sia ucciso in questa casa... l'unico avanzo della sua bella proprietà che gli fosse rimasto.» «Si pensa che si sia ucciso!», esclamò Skegg. «Si è così sicuri che sia successo, come della morte della Regina Elisabetta o dell'incendio di Londra. Come mai non è stato seppellito al crocevia fra qui e Holcroft?» «Una semplice storia, per la quale non potreste portarmi una prova sicura», replicò il signor Bascom. «Non so niente di prove, ma i locali ci credono fermamente come al Vangelo.» «Se la loro fede nel Vangelo fosse solo un pochino più salda, non si preoccuperebbero di Anthony Bascom.» «Bene!», brontolò Daniel cominciando a sparecchiare. «Bisogna trovare comunque una ragazza, ma dovrà essere una forestiera, o una che ha proprio tanto bisogno di un posto.» Quando Daniel Skegg diceva «una forestiera», non intendeva un'indigena di qualche posto lontano, ma una ragazza che fosse nata e cresciuta a Holcroft. Daniel era stato allevato in quell'insignificante villaggio e, per quanto fosse piccolo e noioso, pensava che il mondo al di là fosse del tutto irrilevante. Michael Bascom era troppo assorto nella teoria atomica per riflettere sulle necessità di una vecchia domestica. La signora Skegg era una persona con cui lui entrava raramente in contatto. Lei viveva per la maggior parte del tempo in una regione nebulosa all'estremità settentrionale della casa,
dove regnava sulla solitudine di una cucina che sembrava una cattedrale, e numerose stanzette dove c'erano la lavanderia, la dispensa, e il retrocucina, dove portava avanti una lotta incessante con scarafaggi e ragni, e consumava la sua vecchia vita spazzando e lucidando. Era una donna dall'aspetto severo, dalla pietà dogmatica e dalla lingua sferzante. Era una cuoca di livello medio, e accudiva diligentemente alle necessità del suo padrone. Questi non era un epicureo, ma gli piaceva che la sua vita scorresse placida e tranquilla, e l'equilibrio delle sue facoltà mentali sarebbe stato sconvolto da un cattivo pranzo. Non sentì più parlare dell'aggiunta proposta alla sua casa per dieci giorni, quando Daniel Skegg lo disturbò durante il suo riposo nello studio con l'annuncio repentino: «Ho trovato una ragazza!». «Oh», disse Michael Bascom, «davvero?» E continuò a leggere. Questa volta leggeva un saggio sul fosforo e le sue funzioni in relazione al cervello umano. «Sì», continuò Daniel col solito tono brontolone, «è una ragazza abbandonata, o non sarei riuscito a convincerla. Se fosse stata del posto, non sarebbe mai venuta qui.» «Spero che sia perbene», disse Michael. «Perbene! È l'unico difetto che ha, poverina. È troppo buona per questo posto. Non è mai stata a servizio, ma dice che ha voglia di lavorare, e penso che la mia vecchia sarà capace di insegnarle. Suo padre era un piccolo negoziante di Yarmouth. È morto un mese fa, e l'ha lasciata senza casa. La signora Midge - di Holcroft - è sua zia, e ha detto alla ragazza: "Vieni a stare con me finché trovi un posto", e la ragazza è stata con la signora Midge per tre settimane, cercandosi un posto. Quando la signora Midge ha sentito che la mia signora cercava una ragazza per aiutarla, ha pensato che fosse proprio il posto adatto per sua nipote Maria. Per fortuna Maria non ha sentito niente su questa casa, così la povera innocente mi ha fatto un inchino, e ha detto che era molto contenta di venire, e che avrebbe fatto del suo meglio per imparare quello che doveva fare. Non ha avuto la vita facile con suo padre, che l'ha educata al di sopra del suo stato, da quel pazzo che era», brontolò Daniel. «Da quel che mi dite, temo che abbiate fatto un cattivo affare», disse Michael. «Non ci serve una signorina per lustrare padelle e pentole.» «Fosse anche una Duchessa, la mia vecchia la farebbe lavorare», replicò
Skegg fermamente. «E, scusate, dove metterete la ragazza?», chiese il signor Bascom, in tono alquanto irritato. «Non voglio un'estranea che corra su e giù per i corridoi davanti alla mia camera. Lei, Skegg, sa come dormo male. Un topo dietro il lavandino mi è sufficiente per non riuscire a riposare. «Ci ho pensato», rispose il maggiordomo, con un'aria di ineffabile saggezza. «Non la metterò sul suo piano. Dormirà nella mansarda.» «In che stanza?» «Quella grande a nord. È l'unico soffitto che non faccia passare l'acqua. Tanto varrebbe che dormisse in una doccia.» «La camera a nord», ripeté il signor Bascom sovrappensiero, «non è quella...?» «Certo che lo è», replicò Skegg, «ma lei non ne sa niente.» Il signor Bascom tornò ai suoi libri, e dimenticò l'orfana di Yarmouth, finché una mattina, entrando nello studio, vide con stupore una ragazza sconosciuta, con un vestitino di cotone bianco e nero, occupata a spolverare i volumi che stavano in pila sulla sua spaziosa scrivania: lo faceva con mani così abili e attente, che non si sentì incline ad arrabbiarsi per quella inaudita licenza. La signora Skegg si era religiosamente astenuta da tutto quello spolverare, con la scusa che non voleva interferire con le abitudini del padrone. Una delle abitudini del quale era stata quindi quella di inalare un buon quantitativo di polvere nel corso dei suoi studi. La ragazza era esile, con un viso pallido e un po' fuori moda, capelli color paglia, intrecciati sotto una impeccabile cuffietta di mussolina, carnagione molto chiara, e occhi azzurri chiari. Erano gli occhi azzurri più chiari che Michael Bascom aveva mai visto, ma c'era nella loro espressione tanta dolcezza e tanta gentilezza che cancellavano quell'insipido colore. «Spero che non si opporrà a che spolveri i suoi libri, signore», disse lei facendo un inchino. Parlava con una correttezza che colpì favorevolmente il signor Bascom. «No; non sono contrario alla pulizia, fintantoché i miei libri e le mie carte non sono messi in disordine. Se togli un volume dalla scrivania, rimettilo nel posto esatto da cui l'hai preso. È tutto quello che chiedo.» «Farò attenzione, signore.» «Quando sei arrivata?» «Proprio stamattina, signore.» Lo studioso sedette alla scrivania, e la ragazza si ritirò, fluttuando fuori della stanza silenziosa come un fiore spinto dal vento oltre la soglia. Mi-
chael Bascom la seguì incuriosito con lo sguardo. Aveva visto molto poca gioventù femminile nella sua carriera arida come la polvere, e considerò quella ragazza come una creatura di una specie fino ad allora sconosciuta. In che modo delicato e fatato era fatta; che pelle trasparente; che accenti dolci e piacevoli erano usciti da quelle labbra color di rosa! Proprio bellina, davvero, quella sguattera! Peccato che in quel mondo così occupato non ci fosse per lei di meglio da fare che lustrare pentole e padelle. Assorto in riflessioni, il signor Bascom non pensò più alla cameriera pallida. Non la vide più nelle sue stanze. Tutto il suo lavoro lei lo svolgeva al mattino, prima che lo studioso facesse colazione. Lei stava in casa da una settimana, quando lui la incontrò nell'atrio. Fu colpito dal suo cambiamento. Le labbra fanciullesche avevano perso il loro colore di bocciolo di rosa, i pallidi occhi azzurri avevano uno sguardo spaventato, e intorno c'erano occhiaie scure, come se passasse le notti sveglia, o fosse disturbata da brutti sogni. Michael Bascom fu così impressionato da un'espressione indefinibile sul volto della ragazza che, per riservato che fosse per carattere e per abitudine, si aprì al punto di chiederle cosa aveva. «C'è di sicuro qualcosa che non va», disse. «Di cosa si tratta?» «Nulla, signore», balbettò lei, assumendo un'aria ancor più spaventata. «Proprio niente, o niente per cui valga la pena di disturbarvi.» «Sciocchezze! Pensi forse che, siccome vivo in mezzo ai libri, non provi simpatia per i miei simili? Dimmi cosa c'è che non va, bambina. Sei addolorata per aver appena perso tuo padre, suppongo.» «No, signore, non è quello. Non smetterò mai di rimpiangerlo. È un dolore che porterò con me per tutta la vita.» «Bene: allora c'è qualcos'altro?», chiese Michael con impazienza. «Vedo che non ti trovi bene qui. Lavorare molto non ti piace. Lo sapevo.» «Oh, signore, per favore, non pensi questo», esclamò la ragazza molto seriamente. «Invece sono molto contenta di lavorare, contenta di stare a servizio; solo che...» Balbettò e si interruppe, mentre le lacrime scendevano lentamente dai suoi occhi tristi, malgrado gli sforzi che faceva per trattenerle. «Solo cosa?», gridò Michael, arrabbiato. «Questa ragazza mi sembra piena di misteri e di segreti. Cosa vuoi dire, disgraziata?» «Io... lo so che è una cosa molto sciocca, signore, ma mi fa paura la stanza dove dormo.»
«Paura! Perché?» «Devo dire la verità, signore? Mi promette che non si arrabbierà?» «Non mi arrabbierò solo se parli chiaro, ma mi provochi con questo tuo dire e non dire.» «E per favore, signore, non dica alla signora Skegg che gliel'ho detto. Mi sgriderebbe; o forse mi manderebbe via.» «La signora Skegg non ti sgriderà. Avanti, bambina.» «Forse lei non conosce la mia camera da letto, signore: è una grande stanza dall'altra parte della casa, che si affaccia sul mare. Posso vedere la linea scura dell'acqua dalla mia finestra, e certe volte penso che sia lo stesso oceano che vedevo da bambina a Yarmouth. Si è molto soli, signore, lassù in cima alla casa. I signori Skegg dormono in una stanzetta vicino alla cucina, signore, e io sto tutta sola all'ultimo piano.» «Skegg mi ha detto, Maria, che sei stata educata al di sopra della tua posizione sociale. Avrei pensato che il primo effetto di una buona educazione fosse quello di renderti superiore a tutte le sciocchezze circa le stanze vuote.» «Oh, scusi, signore, non è un difetto della mia educazione. Papà si è dato tanto da fare per me! Non ha risparmiato spese per darmi la miglior educazione che la figlia di un commerciante potesse desiderare. Ed era un uomo religioso. Lui non credeva», a questo punto fece una pausa, e soppresse un fremito, «che gli spiriti dei morti apparissero ai vivi, dai giorni dei miracoli, quando lo spirito di Samuele apparve a Saul. Non mi ha mai messo in testa delle idee così stupide, signore. Non avevo la minima paura la prima volta che mi sono coricata in quella grande stanza lassù.» «Beh, e allora?» «Ma proprio la prima notte», continuò la ragazza quasi senza fiato, «sentivo nel sonno qualcosa che mi pesava addosso come se un grosso fagotto mi stesse sul petto. Non era un brutto sogno, ma un senso di malessere che mi perseguitava nel sonno; e proprio all'alba - comincia a far chiaro un po' dopo le sei - mi sono svegliata di colpo, con la faccia coperta di sudore freddo, e sapendo che nella stanza c'era qualcosa di terribile.» «Cosa vuoi dire con qualcosa di terribile? Hai visto qualcosa?» «Non molto, signore, ma quello che ho visto mi ha gelato il sangue nelle vene, e ho capito che era quello che mi aveva perseguitato e che aveva pesato su di me durante il sonno. Nell'angolo, fra il caminetto e l'armadio, ho visto un'ombra... un'ombra vaga, senza forma...» «Prodotta, oserei dire, dall'angolo del guardaroba.»
«No, signore; potevo vedere l'ombra del guardaroba, chiara e distinta, come se fosse stata dipinta sul muro. Quest'ombra invece stava nell'angolo... un'ombra strana, senza forma. Se avesse avuto una forma, sarebbe stata...» «Cosa?», chiese Michael avidamente. «La forma di un cadavere che pendeva dal muro!» Michael Bascom impallidì, ma dimostrò ancora una certa incredulità. «Povera bambina», disse gentilmente, «sei addolorata per tuo padre, e ora i tuoi nervi sono a pezzi e hai delle fantasie strane. Un'ombra nell'angolo, davvero! All'alba ogni angolo è pieno d'ombre. La mia vecchia giacca, buttata su una sedia, sarebbe per te il miglior fantasma che potresti desiderare.» «Oh, signore, ho cercato di pensare che fosse una fantasia. Ma ho sentito lo stesso peso su di me notte dopo notte. Ho visto la stessa ombra ogni mattina.» «Ma quando c'è più luce, non puoi vedere di che cosa è fatta quell'ombra?» «No, signore; l'ombra scompare prima che sia giorno pieno.» «Naturalmente, come tutte le altre ombre. Su, su, togliti queste stupidaggini dalla testa, o non ce la farai più a lavorare di giorno. Potrei parlare con la signora Skegg, e dirle di darti un'altra camera, se volessi incoraggiarti nella tua follia. Ma sarebbe la peggior cosa che potrei fare per te. Per di più, lei mi ha detto che le altre stanze sullo stesso piano sono umide, e certo, se lei ti spostasse in una di quelle, tu scopriresti un'altra ombra in un angolo, e per soprammercato ti prenderesti i reumatismi. No, cara la mia ragazza, devi provare a te stessa quanto sei superiore per l'educazione che hai ricevuto.» «Farò del mio meglio, signore», rispose Maria docilmente, facendo un inchino. Maria tornò in cucina estremamente depressa. Conduceva una vita molto noiosa a Wildheath Grange: noiosa di giorno, e spaventosa di notte; perché il vago peso e l'ombra senza forma - che sembravano così trascurabili al vecchio studioso - erano per lei indicibilmente terrificanti. Nessuno le aveva detto che la casa era stregata, eppure, quando passava per quei corridoi echeggianti, era avvolta da una nuvola di paura. Non riceveva alcuna comprensione da Daniel Skegg e da sua moglie. Quelle due anime pie avevano deciso che la caratteristica della casa doveva esser mantenuta segreta, riguardo a Maria. Per lei, forestiera, Wildheath Grange do-
veva rimanere un edificio immacolato, non macchiato dal vapore sulfureo del mondo sotterraneo. Una ragazza volenterosa e ubbidiente era un elemento indispensabile nell'esistenza della signora Skegg: ora quella ragazza era stata trovata, e doveva esser trattenuta. Tutte le fantasie di carattere soprannaturale dovevano essere scacciate con mano ferma. «Fantasmi, proprio!», esclamò il cortese Skegg. «Leggiti la Bibbia, Maria, e non parlare più di fantasmi.» «Ci sono fantasmi anche nella Bibbia», disse Maria, rabbrividendo al ricordo di certi brani tremendi della Scrittura che conosceva molto bene. «Ah, stavano al posto loro, o non ci sarebbero stati», replicò la signora Skegg. «Spero, Maria, che non andrai cercando dei difetti nella Bibbia, alla tua età.» Maria sedette in silenzio all'angolo del focolare, e si mise a girare le pagine dell'amata Bibbia di suo padre finché giunse ai capitoli che avevano amato di più e che avevano spesso letto insieme. Lui, un ebanista di Yarmouth, era stato un uomo semplice e onesto, un uomo che aspirava a tutto ciò che è buono, ed era raffinato per natura, religioso per istinto. Lui e la figlia avevano vissuto soli insieme senza la madre, nella graziosa casetta che Maria aveva presto imparato ad amare e ad abbellire; e si erano amati a vicenda di un amore quasi romantico. Avevano avuto gli stessi gusti, le stesse idee. Poco bastava loro per essere felici. Ma la morte inesorabile aveva separato padre e figlia: una di quelle separazioni improvvise che sono come l'urto di un terremoto, ossia rovina, desolazione e disperazione istantanee. La fragile figura di Maria si era piegata sotto la tempesta. Aveva vissuto un periodo pesante che avrebbe schiacciato una natura più forte. Le sue profonde convinzioni religiose, e la certezza che quella crudele separazione non sarebbe stata eterna, l'avevano sostenuta. Fece fronte alla vita, alle sue preoccupazioni e ai suoi doveri, con una pazienza gentile che era la più nobile forma di coraggio. Michael Bascom disse a se stesso che la sciocca fantasticheria della servetta sulla camera che le era stata data non era da prendersi sul serio. Ma l'idea gli rimase in testa in modo spiacevole, e lo distraeva durante il lavoro. Le scienze esatte impegnano tutte le facoltà cerebrali, ed esigono la massima attenzione: proprio quella sera, Michael si accorse che prestava al suo lavoro solo una parte della sua attenzione. Il pallido viso e i toni tremuli della voce della ragazza si spingevano fino alla superficie dei suoi pensieri.
Chiuse il libro con un sospiro di sconforto, girò la poltrona verso il caminetto, e si abbandonò alla riflessione. Tentare di studiare mentre la mente era così disturbata era inutile. Era una sera grigia e buia, tipica dei primi di novembre; la lampada da lettura dello studio era accesa, ma le imposte non erano ancora chiuse, e le tende non erano tirate. Poteva vedere, al di là dei vetri, il cielo plumbeo e gli abeti agitati dal forte vento. Udiva il soffio invernale soffiare fra i comignoli, prima di precipitarsi verso il mare con un urlo selvaggio che sembrava un grido di guerra. Michael Bascom rabbrividì e si accostò al fuoco. «È una cosa sciocca, infantile», si disse, «ma è strano che abbia quelle idee circa l'ombra: infatti si dice che Anthony Bascom si sia ucciso in quella stanza. Mi ricordo di averlo sentito dire quando ero bambino, da un vecchio servo la cui madre era governante nella casa padronale ai tempi di Anthony. Non ho mai saputo come sia morto, poveraccio: se si è avvelenato, o se si è sparato o tagliato la gola, ma mi hanno detto che la stanza era quella. Anche il vecchio Skegg l'ha sentito dire. L'ho capito dal modo in cui mi ha detto che ci avrebbe fatto dormire la ragazza.» Rimase seduto a lungo, finché il grigio della sera fuori dalle finestre si tramutò nel nero della notte, e il grido di guerra del vento si ridusse a un sussurro lamentoso. Sedeva guardando il fuoco, e lasciava che i suoi pensieri tornassero al passato e alle storie che aveva sentito raccontare nella fanciullezza. Era una storia triste e stupida, quella del suo prozio Anthony Bascom: la storia miserabile di una fortuna e di una vita sprecate. Una carriera di collegiale ribelle a Cambridge, una scuderia da corsa a Newmarket, un matrimonio imprudente, una vita dissipata a Londra, una moglie scappata; una proprietà impegnata a degli usurai ebrei e, in ultimo, la fine fatale. Michael aveva sentito spesso quella triste storia: quando la bella e infedele moglie di Anthony Bascom lo aveva lasciato, quando il suo conto in banca si era inaridito e i suoi amici si erano stancati di lui, e non gli era rimasto niente salvo Wildheath Grange, Anthony, l'uomo di mondo fallito, era arrivato inaspettatamente una notte in quella casa solitaria, e aveva ordinato che gli si facesse il letto nella stanza in cui dormiva quando veniva per la caccia alle anitre, quando era giovane. Il suo vecchio schioppo era ancora appeso sul caminetto, dove l'aveva lasciato quando aveva ereditato la proprietà, e poteva permettersi di comprare gli ultimi modelli di fucili per la caccia alle anitre. Non era andato a Wildheath Grange per quindici anni; anzi, per la maggior parte di quegli anni aveva addirittura dimentica-
to che quella vecchia casa cadente gli apparteneva. La donna che era stata governante a Bascom Park, fino al momento in cui casa e terreni erano passati nelle mani degli ebrei, era a quel tempo l'unica abitante di Wildheath. Preparò la cena per il padrone, e fece il possibile perché si trovasse bene nella sala da pranzo che non si usava più da tanto tempo, ma rimase desolata nel constatare, quando si mise a sparecchiare dopo che lui fu salito per coricarsi, che non aveva mangiato quasi niente. L'indomani mattina preparò la colazione nella stessa camera, e si diede da fare per renderla più allegra e attraente che non la sera prima. Scope, spazzoloni e buon fuoco, fecero molto per migliorare l'aspetto delle cose. Ma la mattina giunse al mezzogiorno, e la vecchia governante attese invano il passo del suo padrone sulle scale. Mezzogiorno scivolò nel pomeriggio. Lei non aveva fatto nulla per disturbarlo, pensando che fosse molto stanco per il lungo viaggio a cavallo, e che dormisse esausto. Ma, quando il breve giorno di novembre si oscurò con le prime ombre del crepuscolo, la vecchia cominciò seriamente a preoccuparsi e salì fino alla porta del suo padrone, dove aspettò invano una risposta alle sue ripetute chiamate. La porta era chiusa dall'interno, e la governante non era abbastanza forte per sfondarla. Si precipitò al pianterreno piena di paura, e corse fuori a testa nuda nella strada deserta. Non c'era altra casa sulla vecchia carrozzabile, dalla quale partiva quella traversa verso il mare. C'era ben poca speranza che passasse qualcuno. La vecchia fece la strada di corsa, quasi inconsapevole di dove andava e di quel che faceva, ma con la vaga idea di dover trovare qualcuno che l'aiutasse. La fortuna l'assisté. Un carretto carico di alghe veniva lentamente avanti dalla linea piatta della sabbia dove la terra si confondeva con l'acqua. Un grosso contadino gli camminava pesantemente a fianco. «Per amore di Dio, venite a sfondare la porta della camera del mio padrone!», lo supplicò, afferrandolo per un braccio. «Dev'essere morto, o aver avuto un attacco, e io non riesco ad aiutarlo.» «Certo, signora», rispose l'uomo, come se un invito simile fosse cosa di tutti i giorni. «Uh, Dobbin! Fermati, cavallo, e sta' fermo.» Dobbin fu molto lieto di avere l'opportunità di gettare l'ancora sulla sparuta erba davanti al giardino della Grange. Il suo padrone seguì la governante al piano superiore, e mandò in pezzi la serratura antiquata con un colpo solo del suo pugno poderoso. I peggiori timori della vecchia si erano realizzati. Anthony Bascom era
morto. Ma il modo e la maniera della sua morte, Michael non era mai riuscito a saperli. La figlia della governante, che gli aveva raccontato la storia, era vecchia quando lui era un ragazzo. Aveva soltanto scosso la testa, e accennato a cose indicibili, quando lui aveva fatto domande troppo stringenti. Lei non aveva mai ammesso che il vecchio proprietario si fosse suicidato. Eppure la storia del suicidio era radicata nei cervelli degli abitanti di Holcroft, e c'era la credenza profonda che in certi tempi e in certe stagioni il suo spirito tornasse a Wildheath Grange. Ora Michael Bascom era un materialista convinto. Per lui l'universo, con tutti i suoi abitanti, era una grande macchina governata da leggi inesorabili. Per un uomo simile il concetto stesso di fantasma era un'assurdità, un'assurdità come il fatto che due e due facessero cinque, o che un cerchio fosse formato da una linea retta. Tuttavia provava un certo interesse dilettantesco per l'idea che esistesse un cervello che credeva nei fantasmi. Il soggetto offriva un divertente studio psicologico. Quella povera ragazza pallida, per esempio, provava evidentemente un terrore soprannaturale, che poteva esser vinto solo con un trattamento razionale. «So quel che devo fare», si disse a un tratto Michael Bascom. «Starò io in quella camera stanotte, e dimostrerò a quella sciocca che le sue idee sull'ombra non sono altro che una stupida fantasia, che viene dalla sua timidezza e dal suo morale basso. Un'oncia di prova val più di una libbra di discussione. Se riesco a provarle che ho passato la notte in quella stanza e che non ho visto nessun'ombra, capirà che stupidaggine è la superstizione.» Daniel entrò in quel momento per chiudere le imposte. «Dite a vostra moglie di prepararmi il letto nella camera dove dorme Maria, e di mettere lei in una delle camere del primo piano, Skegg», disse il signor Bascom. «Signore?» Il signor Bascom ripeté l'ordine. «Quella stupida ragazza si è lamentata con lei della stanza», esclamò Skegg indignato. «Non merita di essere ben nutrita e ben seguita in una casa comoda. Dovrebbe andare in fabbrica.» «Non ve la prendete con quella poverina, Skegg. Ha in testa delle idee storte, e io voglio dimostrarle quanto è sciocca», disse il signor Bascom. «E lei vuol dormire nella sua... in quella stanza», disse il maggiordomo. «Esattamente.» «Bene», brontolò Skegg, «se lui cammina - cosa che non credo - dopo-
tutto si tratta della sua carne e del suo sangue, e non penso che le farà del male.» Quando Daniel Skegg tornò in cucina, rimproverò aspramente la povera Maria, che sedeva pallida e silenziosa nel suo angolo vicino al focolare, rammendando le vecchie calze grigie della signora Skegg, che erano l'armatura più ruvida e dura che mai piede umano avesse rivestito. «Si è mai vista una signorina così distinta, capricciosa, delicata», chiedeva Daniel, «andare in casa di un signore e cacciarlo dalla sua stanza a dormire in soffitta, con tutte le sue sciocchezze e le sue fantasie?» Se quello era ciò che risultava dall'essere educata al di sopra del proprio stato, dichiarò Daniel, lui ara contento di non aver mai proseguito gli studi fino al punto da leggere parole di due sillabe tutte di fila. L'istruzione poteva andare a farsi friggere per quel che lo riguardava, se era questo a cui portava. «Mi dispiace», bisbigliò Maria, piangendo senza rumore sul suo lavoro. «Ma io, signor Skegg, non mi sono affatto lamentata. Il padrone mi ha fatto delle domande, e io gli ho detto la verità. Ecco tutto.» «Tutto!», esclamò adirato il signor Skegg. «Tutto! credo proprio che sia stato abbastanza.» La povera Maria rimase zitta. La sua mente, sconvolta dalla scortesia di Daniel, si era allontanata da quella cucina buia fino alla casa perduta del suo passato, il salottino confortevole dove lei e suo padre erano stati seduti accanto al fuoco in notti come quella; lei con il suo bel cestino da lavoro e il suo cucito semplice, lui con il giornale che gli piaceva leggere, il gatto favorito sul tappeto, la teiera che cantava sul fornelletto di ottone lucente, e il vassoio per il tè che ricordava il pasto più piacevole della giornata. Oh, quelle notti felici, quella cara compagnia! Erano veramente finite per sempre, non lasciando dietro di sé che cattiveria e solitudine? Michael Bascom andò a dormire più tardi del solito. Aveva l'abitudine di sedere fra i suoi libri fino a molto dopo che ogni lampada fuorché la sua non fosse stata spenta. Gli Skegg erano scomparsi nel buio e nel silenzio della loro triste camera nel seminterrato. Quella sera i suoi studi erano particolarmente interessanti, e appartenevano al tipo di lettura ricreativa piuttosto che a quello del lavoro serio. Era sprofondato nella storia del popolo misterioso che abitava i laghi della Svizzera, ed era molto attratto da certe speculazioni e teorie che lo riguardavano. Il vecchio orologio delle scale, che si caricava ogni otto giorni, suonava
le due quando Michael salì lentamente, con la candela in mano, fino alla regione ancora sconosciuta delle soffitte. In cima alla scala si trovò di fronte uno stretto corridoio buio che si dirigeva verso nord, un corridoio che bastava da solo a terrorizzare una mente superstiziosa, tanto era nero e pauroso. «Povera bambina!», rifletté il signor Bascom. «Queste soffitte sono proprio tristi, e per un cervello giovane disposto a fantasticare...» Intanto aveva aperto la porta della camera a nord, e si stava guardando intorno. Era una camera grande, con il soffitto in pendenza, basso da una parte ma molto alto dall'altra, una stanza all'antica, piena di mobili antichi grossi, pesanti, sgraziati - associati a tempi che erano passati e a persone che erano morte. Un armadio di noce gli stava proprio di fronte: un armadio con le maniglie di ottone, che luccicavano nell'ombra come occhi diabolici. C'era un alto letto a quattro colonne, tagliate da una parte per adattarlo alla pendenza del soffitto, e che di conseguenza aveva un aspetto deforme. C'era una grande scrivania di mogano, che mandava odore di segreti, delle pesanti, vecchie seggiole con i sedili impagliati, ammuffite dal tempo e molto sciupate, e un lavabo nell'angolo, con un grande catino e una piccola brocca: pezzi e relitti dei tempi passati. Tappeti non ce n'erano, salvo una stretta striscia vicino al letto. «Che camera lugubre», pensò Michael, con lo stesso tocco di pietà per la debolezza di Maria che aveva provato poco prima sul pianerottolo. A lui non importava il posto dove dormiva ma, essendo diminuito il suo interesse verso gli abitanti dei laghi svizzeri, si era in certo modo umanizzato per la leggerezza delle sue letture serotine, ed era persino incline a compatire la debolezza di una sciocchina. Si coricò, deciso a dormire come un ghiro. Il letto era comodo, ben provvisto di coperte, lussuoso più che altro, e lo studioso provava quel gradevole senso di stanchezza che promette un sonno profondo e ristoratore. Si addormentò quasi subito, ma si svegliò di colpo dieci minuti dopo. Cos'era quel senso di peso dovuto alle preoccupazioni che l'aveva svegliato - quel senso di inquietudine diffusa che pesava sul suo spirito e opprimeva il suo cuore - quell'orrore glaciale di qualche crisi terribile della sua vita attraverso cui doveva inevitabilmente passare? Per lui quelle sensazioni erano tanto nuove quanto dolorose. La sua vita era fluita come una corrente pigra e calma, non turbata nemmeno da una
piccola onda di dispiacere. Eppure, quella notte, provava tutte le fitte di un rimorso insostenibile, il ricordo angoscioso di una vita sprecata, gli stimoli dell'umiliazione e della disgrazia, la vergogna, la rovina; e infine una morte orrenda, che lui si era votato a darsi per propria mano. Quelli erano gli orrori che lo circondavano e lo opprimevano mentre era coricato nella stanza di Anthony Bascom. Sì, anche lui, l'uomo che non riconosceva nulla nella natura, o nel dio della natura, che fosse migliore o superiore a una macchina irresponsabile e invariabile soggetta a leggi meccaniche, si sentiva portato ad ammettere di trovarsi faccia a faccia con un mistero trascendentale. Quell'inquietudine che si frapponeva fra lui e il sonno, era la stessa inquietudine che aveva perseguitato Anthony Bascom l'ultima notte della sua vita. Quello aveva provato il suicida mentre giaceva in quella stanza solitaria, mentre cercava forse di riposare il cervello stanco con un ultimo sonno terreno prima di passare nello sconosciuto territorio intermedio dove tutto è tenebra e sonno. E quella mente turbata doveva aver sempre abitato la stanza da allora. Non era il fantasma del corpo dell'uomo che tornava nel luogo dove aveva sofferto ed era morto, ma il fantasma della sua mente... il suo stesso io, non un simulacro insignificante degli abiti che aveva portato, e del corpo che li aveva riempiti. Michael Bascom non era uomo da abbandonare le alte zone della filosofia scettica senza lottare. Fece del suo meglio per vincere l'oppressione che gravava sulla sua mente e sui suoi sensi. Riusciva di tanto in tanto a calmarsi e dormire, ma si svegliava sempre con gli stessi pensieri torturanti, con lo stesso rimorso perché, sebbene dicesse a se stesso che l'inquietudine non era la sua inquietudine, che nella realtà non esisteva quel peso, e che non c'era ragione per quel rimorso, quelle vivide fantasie erano dolorose come se fossero vere, e avevano una forte presa su di lui. La prima striscia di luce scivolò dalla finestra... indistinta, fredda e grigia: poi venne il crepuscolo, e lui guardò verso l'angolo fra l'armadio e la porta. Sì, ecco l'ombra. Non solo l'ombra dell'armadio - quella era ben chiara ma un qualcosa di informe e vago che oscurava il muro color marrone. Era così debole, così indistinto, che lui non riusciva a formulare alcuna ipotesi sulla sua natura o su ciò che essa raffigurava. Decise di osservare quell'ombra finché non fosse giorno fatto, ma la stanchezza della notte l'aveva esaurito e, prima che la prima debole luce dell'alba fosse svanita, era caduto addormentato, e stava gustando il benefico balsamo di un sonno in-
disturbato. Quando si svegliò, il sole invernale stava brillando sui vetri, e la stanza aveva perso il suo aspetto tetro. Sembrava fuori moda, grigia, scura e logora, ma la profondità della sua tetraggine era fuggita con le ombre e le tenebre notturne. Il signor Bascom si alzò ristorato da un sonno profondo che era durato circa tre ore. Gli tornarono in mente le sensazioni dolorose che erano scomparse dopo il sonno ristoratore, ma ricordò quelle inusuali sensazioni solo per disprezzarle, e disprezzò se stesso per aver dato loro tanta importanza. «Probabilmente si tratta di un'indigestione», si disse, «o forse solo di fantasie, provocate dalla storia di quella sciocca. I più saggi di noi sono più soggetti all'immaginazione di quanto non vogliano confessare. Beh, Maria non dormirà più in quella stanza. Non c'è nessun motivo per cui dovrebbe farlo, e non sarà infelice solo per far piacere al vecchio Skegg e a sua moglie.» Quando si fu vestito con calma, come al solito, il signor Bascom andò verso l'angolo dove aveva visto o immaginato l'ombra, e lo esaminò con cura. A prima vista non riuscì a scoprire niente di misterioso. Non c'era nessuna porta nella parete tappezzata di carta, e nessuna traccia che ci fosse stata una porta in passato. Non c'erano botole nelle assi tarlate. Non c'erano nere macchie incancellabili a indicare un delitto. Non c'era la minima allusione a un segreto o a un mistero. Alzò lo sguardo al soffitto. Era abbastanza in ordine, salvo per una macchia scura qua e là, dove la pioggia era filtrata. Sì: c'era qualcosa... una cosa insignificante, ma con una sfumatura truce che lo colpì. A circa trenta centimetri dal soffitto vide un grosso gancio di ferro che usciva dal muro, proprio sopra il punto dove aveva visto l'ombra di una forma vagamente definita. Salì su una sedia per esaminarlo meglio e per capire, se possibile, a quale scopo vi fosse stato messo. Era vecchio e rugginoso. Doveva essere lì da anni. Chi poteva avercelo messo, e perché? Non era il tipo di gancio a cui si appende un quadro o i propri vestiti. Stava in un angolo oscuro. Forse Anthony Bascom ce l'aveva messo la notte in cui era morto, o ce l'aveva trovato già pronto per l'uso fatale? «Se fossi superstizioso», pensò Michael, «sarei portato a pensare che
Anthony Bascom si è impiccato a quel gancio rugginoso.» «Ha dormito bene, signore?», chiese Daniel, mentre serviva la colazione al padrone. «Benissimo», rispose Michael, deciso a non dare soddisfazione alla curiosità del vecchio. Gli aveva sempre dato fastidio l'idea che Wildheath Grange fosse infestata dai fantasmi. «Davvero, signore. Si è alzato così tardi che pensavo...» «Tardi, sì! Ho dormito così bene che ho passato la solita ora del mio risveglio. Però, già che ci siamo, Skegg, visto che quella povera ragazza non si trova bene in quella camera, mettetela a dormire da un'altra parte. Non fa differenza per noi, ma può farne molta per lei.» «Uhm!», brontolò Daniel nel suo solito modo. «Lei non ha visto niente di strano lassù, vero?» «Visto niente? No, certo che no.» «Beh, allora, perché dovrebbe vedere qualcosa lei? Sono tutte stupidaggini.» «Non importa, mettetela a dormire in un'altra stanza.» «Non c'è nessuna stanza in quel piano che sia asciutta.» «Allora mettetela a dormire al piano di sotto. Va in giro così silenziosa, poverina. Non mi disturberà.» Daniel brontolò qualcosa e il suo padrone lo interpretò come un consenso obbediente, ma il signor Bascom si sbagliava. L'ostinazione proverbiale dei suini è nulla in confronto con l'ostinazione di un vecchio di cattivo carattere, la cui mente ristretta non è mai stata illuminata dall'istruzione. Daniel cominciava ad essere geloso dell'interesse compassionevole del suo padrone verso l'orfana. Lei era un tipo dolce e insinuante che poteva facilmente farsi strada nel cuore di uno scapolo anziano senza che lui se ne accorgesse, e farcisi un nido confortevole. «Ne vedremo delle belle, e io e la mia vecchia finiremo male, se non mi oppongo fermamente a queste sciocchezze», brontolò Daniel fra sé, mentre portava in cucina il vassoio della colazione. Maria lo incontrò nel corridoio. «Ebbene, signor Skegg, cos'ha detto il padrone?», chiese a bassa voce. «Ha visto qualcosa di strano nella camera?» «No, ragazza. Cosa avrebbe dovuto vedere? Ha detto che sei una stupida.»
«Niente lo ha disturbato? Ha dormito tranquillo?», mormorò Maria. «Mai dormito meglio in tutta la sua vita. Ora non cominci a vergognarti di te stessa?» «Sì», rispose lei mitemente, «mi vergogno di avere fatto tante storie. Tornerò in camera mia stanotte, signor Skegg, se lei vuole, e non mi lamenterò mai più.» «Lo spero bene!», disse Skegg acidamente. «Ci hai dato già abbastanza seccature.» Maria sospirò e si mise a lavorare triste e silenziosa. Il giorno passò lentamente, come tutti gli altri giorni in quella casa senza vita. Lo studioso stava nel suo studio, e Maria si spostava senza rumore da una stanza all'altra, spazzando e spolverando nella triste solitudine. Il sole si stinse nel grigiore del pomeriggio, e la sera venne come una maledizione sulla vecchia casa uggiosa. Per tutto il giorno Maria e il padrone non si incontrarono. Chiunque si fosse interessato alla ragazza al punto di osservarne l'aspetto, avrebbe visto che era insolitamente pallida, e che i suoi occhi avevano uno sguardo risoluto, come quello di chi è deciso ad affrontare una prova dolorosa. Non mangiò quasi niente tutto il giorno. Era stranamente silenziosa. Skegg e sua moglie interpretarono quei sintomi come malumore. «Non vuol mangiare né parlare», disse Daniel alla compagna delle sue gioie. «Questo significa tenere il broncio, e non ho mai lasciato che il broncio avesse la meglio su di me quando ero giovane, per cui non mi lascerò vincere dal broncio ora che sono vecchio.» Venne l'ora di coricarsi, e Maria diede gentilmente la buona notte agli Skegg, e si ritirò nella sua soffitta solitaria senza dir parola. La mattina dopo giunse, e la signora Skegg cercò invano la sua paziente sguattera, quando le servì l'aiuto di Maria per preparare la colazione. «Quella dorme sodo stamattina», disse la vecchia. «Va' a chiamarla, Daniel. Le mie povere gambe non possono fare le scale.» «Le tue povere gambe stanno diventando un po' troppo inutili», brontolò Daniel di cattivo umore, mentre ubbidiva alla richiesta di sua moglie. Picchiò alla porta e chiamò Maria: una, due, tre, molte volte, ma non ebbe risposta. Provò ad aprire la porta, e si accorse che era chiusa a chiave. La scosse con violenza, gelato dalla paura. Poi si disse che la ragazza si stava burlando di lui. Se ne doveva essere andata prima dell'alba, e aveva lasciato la porta chiusa per spaventarlo. Ma no: non poteva esser così perché, quando si inginocchiò e guardò dal buco
della serratura, vide che la chiave c'era e gli impediva di vedere all'interno della stanza. «È là dentro, che ride di me sotto i baffi», si disse, «ma presto saremo pari.» C'era una grossa sbarra sulla scala, che serviva a chiudere le imposte della finestra che dava luce alle scale. Era staccata, e stava sempre in un angolo vicino alla finestra, perché ci se ne serviva di rado. Daniel corse sul pianerottolo e afferrò la massiccia sbarra di ferro, poi tornò di corsa alla porta della soffitta. Un solo colpo della pesante sbarra fece a pezzi il vecchio lucchetto, quello stesso che il carrettiere aveva rotto con un pugno settant'anni prima. La porta si spalancò e Daniel entrò nella soffitta che aveva scelto come camera da letto per la forestiera. Maria pendeva dal gancio del muro. Era riuscita a coprirsi decentemente la faccia con un fazzoletto. Si era deliberatamente impiccata un'ora prima che Daniel la trovasse, nella grigia luce dell'alba. Il dottore, chiamato da Holcroft, poté stabilire l'ora in cui si era uccisa, ma nessuno poté dire quale improvviso accesso di terrore l'avesse spinta a quel gesto disperato, o a quale lenta tortura nervosa avesse ceduto la sua mente. La giuria del Coroner emise il solito pietoso verdetto di «insanità temporanea». Il destino malinconico della ragazza oscurò il resto della vita di Michael Bascom. Fuggì da Wildheath Grange come da un luogo maledetto, e dagli Skegg come dagli assassini di una ragazza innocente. Terminò i suoi giorni a Oxford, dove aveva trovato la compagnia di menti congeniali e i libri che amava. Ma il ricordo del triste viso di Maria, e della sua morte ancor più triste, fu per lui un dolore inestinguibile. Da quella profonda ombra la sua mente non uscì mai più. FRANCIS MARION CRAWFORD Il fantasma della bambola Fu un terribile incidente, e per un attimo l'ottima organizzazione di Cranston House s'interruppe e calò un profondo silenzio. Il maggiordomo apparve dalla stanza isolata nella quale stava trascorrendo il suo periodo di riposo, e due camerieri spuntarono contemporaneamente da opposte direzioni. C'erano tutti i domestici sullo scalone, e quelli che ricordavano gli avvenimenti con maggior esattezza asserirono che la signora Pringler si trovava proprio sul pianerottolo. La signora Pringler era la governante. Per
quanto riguarda la bambinaia, l'aiuto-bambinaia e una terza cameriera addetta alla nursery, i loro sentimenti non possono essere descritti. Lady Gwendolen Lancaster-Douglas-Scroop, la figlia più giovane del nono Duca di Cranston, che aveva sei anni e tre mesi, si alzò da sola e rimase seduta sul terzo scalino della grande scala di Cranston House. «Oh!», esclamò il maggiordomo, e scomparve di nuovo. «Ah!», risposero i camerieri, e pure loro si allontanarono. «Si tratta solo di quella bambola», dichiarò la signora Pringler in tono di disprezzo, e le sue parole furono intese da tutti. L'aiuto-bambinaia la sentì chiaramente. Poi le tre bambinaie circondarono Lady Gwendolen, l'accarezzarono, le diedero qualche caramella estratta dalle tasche e corsero con lei fuori da Cranston House, il più in fretta possibile, per impedire che là dentro scoprissero che avevano permesso a Lady Gwendolen Lancaster-Douglas-Scroop di cadere dallo scalone con la bambola fra le braccia. E poiché la bambola era rotta in modo grave, l'aiuto-bambinaia l'avvolse nel piccolo mantello di Lady Gwendolen. La casa non era lontana da Hyde Park e, quando raggiunsero un posto tranquillo, si preoccuparono immediatamente di controllare che Lady Gwendolen non avesse ammaccature. La passatoia era molto alta e soffice e aveva anche una spessa imbottitura che la rendeva ancora più morbida. Qualche volta Lady Gwendolen Lancaster-Douglas-Scroop strillava, ma non piangeva mai. Era stato proprio perché aveva strillato, che la bambinaia le aveva permesso di scendere da sola le scale con Nina, la bambola, sotto un braccio, reggendosi con l'altra mano alla balaustra, camminando con passo leggero sui lucidi gradini di marmo oltre il margine della passatoia. Così era caduta e Nina si era rotta in modo grave... Il signor Bernard Plucker e la sua figlioletta vivevano in una piccola casa, in un vialetto di fianco a una strada tranquilla, non molto distante da Belgrave Square. Lui era un abile riparatore di bambole e svolgeva la sua professione nei quartieri più aristocratici. Aggiustava bambole di tutte le grandezze ed epoche, bambole maschili e femminili, bambole piccole con abiti lunghi e bambole grandi con vestiti alla moda, bambole che parlavano e bambole mute, bambole che chiudevano gli occhi quando venivano appoggiate e bambole a cui si potevano chiudere grazie a un meccanismo nascosto. Sua figlia Elsa aveva poco più di dodici anni, ma era già molto esperta e sapeva aggiustare i vestiti delle bambole e sistemare i loro capelli, un'attività che è molto più faticosa di quanto non si possa credere, anche se le
bambole se ne restano tranquille mentre il lavoro viene svolto. Il signor Puckler era di origine tedesca, ma aveva rinunciato alla sua nazionalità nell'oceano di Londra, molti anni prima, come del resto molti altri immigrati. Aveva ancora uno o due amici tedeschi, comunque, che venivano a trovarlo il sabato sera, per fare una fumata insieme e giocare a carte pochi centesimi. Lo chiamavano «Signor Dottore», e questo sembrava piacere molto al signor Puckler. Sembrava più anziano, poiché aveva una barba lunga e incolta, i capelli brizzolati e sottili, e inoltre portava occhiali con una montatura d'osso. Per quanto riguarda Elsa, era una ragazzina magra e pallida, molto tranquilla e a modo, con occhi scuri e capelli castani che le scendevano sulle spalle trattenuti da un pezzetto di nastro nero. Aggiustava gli abiti delle bambole e le riportava ai loro proprietari quando erano rimesse completamente a nuovo. La casa era piccola, ma sufficientemente spaziosa per le due persone che vi abitavano. C'era un piccolo salotto che dava sulla strada, il laboratorio era sul retro e al primo piano si trovavano altre tre stanze. Ma il padre e la figlia trascorrevano la maggior parte del tempo nel laboratorio, perché di solito lavoravano anche di sera. Il signor Puckler appoggiò Nina sul tavolo e l'esaminò a lungo, fino a quando le lacrime non cominciarono a inondare i suoi occhi nascosti dagli occhiali con la montatura d'osso. Era un uomo molto sensibile, e spesso si innamorava delle bambole che riparava e trovava molto difficile separarsi da loro quando gli avevano sorriso anche solo per pochi giorni. Per lui erano piccoli esseri viventi, con un carattere preciso, pensieri e sentimenti, ed era sempre molto delicato nel trattarle. Qualcosa lo attraeva in particolar modo fin dall'inizio e, quando le bambole venivano portate da lui mutilate e ferite, la loro condizione gli sembrava così dolorosa che facilmente si commuoveva. Bisogna ricordare che aveva trascorso gran parte della vita in mezzo alle bambole e che le capiva profondamente. «Come possiamo sapere con certezza che non sentano niente?», continuava a ripetere a Elsa. «Devi essere delicata con loro. A noi non costa nulla essere gentili con questi piccoli esseri, ma forse per loro il nostro atteggiamento può creare qualche differenza.» Ed Elsa lo capiva: anche se era una bambina, sapeva di rappresentare per lui qualcosa di più importante di tutte le bambole. Il signor Puckler si innamorò di Nina al primo sguardo, forse perché i suoi begli occhi marroni di vetro assomigliavano un po' a quelli di Elsa, e
lui amava Elsa profondamente, con tutto il suo cuore. E inoltre si trattava di un caso particolarmente pietoso. Nina chiaramente non era da molto tempo al mondo, perché il suo stato di conservazione generale era perfetto, i suoi capelli erano completamente lisci dove dovevano esserlo, e arricciati dove dovevano essere arricciati, e i vestitini di seta erano del tutto nuovi. Ma sul viso c'era quello sfregio spaventoso, come un taglio di sciabola, profondo e indistinto al centro, ma chiaro e netto agli angoli. Quando esercitò una leggera pressione sulla testa della bambola per chiudere la ferita aperta, i due lembi emisero un sottile suono stridente, doloroso da sentire, e le ciglia degli occhi scuri palpitarono e tremarono come se Nina soffrisse terribilmente. «Povera Nina!», esclamò addolorato. «Ma non ti farò molto male, anche se ci vorrà un po' di tempo per farti guarire completamente.» Chiedeva sempre il nome delle bambole rotte che gli venivano portate e qualche volta i suoi clienti sapevano come i bambini le chiamavano e glielo dicevano. Il nome «Nina» gli piaceva molto. Nell'insieme e nei particolari Nina gli piaceva più di tutte le altre bambole che aveva curato nel corso degli anni: si sentì attratto da lei e decise di farla tornare perfettamente sana, senza preoccuparsi della fatica che gli sarebbe costato quel compito. Il signor Puckler lavorò pazientemente poco alla volta, mentre Elsa l'osservava. Non poteva fare nulla per la povera Nina, perché i suoi vestiti non avevano bisogno di riparazioni. Più a lungo il dottore lavorava, e più profondamente si sentiva attratto dai capelli biondi e dagli scuri occhi di vetro di Nina. A volte si dimenticava di tutte le altre bambole che doveva riparare, che giacevano una di fianco all'altra su uno scaffale, e stava seduto per ore ad ammirare il volto di Nina, mentre si sforzava di inventare qualche tecnica nuova capace di nascondere anche la minima traccia del terribile incidente. Ormai era perfettamente riparata. Lui stesso fu costretto ad ammetterlo; ma la cicatrice era ancora visibile ai suoi occhi acuti, una sottile linea che attraversava la faccia, scendendo verso il mento da destra a sinistra. Del resto le condizioni erano state le più favorevoli per una cura, dato che il cemento si era solidificato al primo tentativo e il tempo era stato bello e asciutto, fattori questi che consentono di lavorare in modo ottimale in un ospedale di bambole. Alla fine dovette ammettere che non avrebbe potuto fare più nulla, e l'aiuto-bambinaia era venuta già due volte per controllare se il lavoro era finito, come si esprimeva grossolanamente la ragazza.
«Nina non è ancora sufficientemente in forze», aveva risposto il signor Puckler ogni volta, dato che non riusciva a rassegnarsi all'inevitabile separazione. E ora stava seduto davanti al tavolo quadrato di legno d'abete al quale lavorava e Nina giaceva davanti a lui per l'ultima volta, con una grande scatola di cartone marrone accanto. Sembrava una bara pronta ad accoglierla, pensò. Doveva metterla nella scatola, appoggiare della carta di protezione sul suo caro viso e poi mettere il coperchio, e al pensiero di dover legare lo spago gli occhi gli si riempirono nuovamente di lacrime. Non avrebbe più potuto affondare il suo sguardo nella vitrea profondità dei bellissimi occhi marroni e non avrebbe più sentito la voce leggermente inespressiva chiamare «Pa-pà» e «Mam-ma». Era un momento molto doloroso. Sperando inutilmente di guadagnare un po' di tempo prima della separazione, sollevò le piccole bottiglie appiccicose di cemento, colla, gomma e vernici, guardandole una a una, prima di fissare nuovamente il volto di Nina. La bambola era abbastanza forte adesso, e in un paese dove non c'era nessun bambino tanto crudele da poterle fare ancora del male, avrebbe potuto vivere ancora per cento anni, con solo quella piccola linea quasi completamente impercettibile che le attraversava il viso, e avrebbe potuto raccontare dell'incidente spaventoso che le era accaduto sui gradini di marmo di Cranston House. Improvvisamente il cuore del signor Pucker fu ricolmo di dolore, ed egli si alzò dalla sedia di scatto, girandosi. «Elsa», mormorò con indecisione, «devi farlo per me. Non posso sopportare di rinchiuderla nella scatola.» Quindi si allontanò e restò in piedi vicino alla finestra senza girarsi, mentre Elsa svolgeva il lavoro che il padre non aveva l'animo di portare a termine. «Hai finito?», chiese senza voltarsi. «Allora portala via, mia cara. Mettiti il cappello e consegnala a Cranston House in fretta, e quando sarai uscita io mi girerò.» Elsa era abituata ai modi eccentrici con cui il padre trattava le bambole, e anche se non l'aveva visto mai tanto commosso per una separazione, non era particolarmente sorpresa dal suo comportamento. «Torna indietro in fretta», le chiese, quando sentì che la figlia appoggiava la mano sul chiavistello. «Si sta facendo tardi e forse non dovrei mandarti a quest'ora. Ma non posso sopportare di guardarla di nuovo.»
Quando Elsa fu uscita, si allontanò dalla finestra e si sedette di nuovo al suo posto davanti al tavolo, ad aspettare che la figlia tornasse. Toccò con delicatezza il posto dove Nina era stata sdraiata e si ricordò del viso rosato dalle sfumature delicate, degli scuri occhi di vetro, dei capelli biondi coi bei riccioli, tanto che gli sembrò di poterli vedere di nuovo. Le serate erano diventate lunghe, poiché era ormai primavera inoltrata. Ma ormai si era fatto buio e il signor Puckler si chiese come mai Elsa non fosse ancora rientrata. Era uscita ormai da un'ora e mezza ed era passato più tempo di quanto ci sarebbe voluto, perché c'era poco più di mezzo miglio da Belgrave Square a Cranston House. Pensò che forse sua figlia era stata trattenuta ma, mentre l'oscurità si faceva più profonda, cominciò a diventare ansioso e a camminare avanti e indietro nello stretto laboratorio, non pensando più a Nina, ma a Elsa, la sua bambina, che amava profondamente. Una sensazione indefinibile e densa d'angoscia lo sommerse lentamente, un brivido freddo e incerto percorse i suoi sottili capelli, unito al desiderio di essere in compagnia di qualcuno invece di restare da solo ancora a lungo. Era l'inizio della paura. Disse a se stesso in modo deciso, usando termini inglesi e tedeschi, che era un vecchio pazzo, e cominciò a cercare i fiammiferi al buio. Sapeva esattamente dove dovevano trovarsi, dato che li teneva sempre allo stesso posto, vicino alla piccola scatola di latta che conteneva pezzetti di ceralacca di vari colori, utili per qualche tipo di riparazione. Ma stranamente non gli riuscì di trovare i fiammiferi nel buio. Doveva essere successo qualcosa a Elsa, ne era sicuro, e mentre la sua paura cresceva, pensò che forse avrebbe potuto calmarsi se fosse riuscito ad accendere una luce per vedere che ora fosse. Poi si diede nuovamente del vecchio pazzo a voce alta, e il suono della sua stessa voce lo fece trasalire nel buio. Non riuscì ancora a trovare i fiammiferi. Dalla finestra proveniva un leggero chiarore; avrebbe potuto vedere prima che ore fossero, se si fosse avvicinato, e poi avrebbe cercato di prendere i fiammiferi dalla credenza. Si allontanò dal tavolo, per evitare di inciampare nella sedia e cominciò a camminare sul pavimento di assi. Qualcosa lo stava seguendo nelle tenebre. C'era un leggero scalpiccio, come di minuscoli passi sul legno. Si fermò per ascoltare meglio, sentendo le radici dei capelli che fremevano. Non era nulla ed egli era solo un vecchio pazzo. Fece ancora due passi e fu sicuro di aver sentito nuovamente il leggero scalpiccio. Girò la schiena verso la finestra, appoggiandosi al tela-
io tanto che i vetri cominciarono a scricchiolare, e si trovò di fronte l'oscurità. Tutto era immobile e nell'aria come sempre si sentivano gli odori di colla, cemento e limatura di legno. «Sei tu Elsa?», chiese e si stupì per la paura che sentì tremare nella sua voce. Non ci fu nessuna risposta nella stanza e allora sollevò l'orologio e cercò di vedere che ore fossero alla grigia foschia esterna, dato che non era ancora buio completo. Per quanto poté vedere, mancavano due o tre minuti alle dieci. Era rimasto solo molto a lungo. Era preoccupato e spaventato per Elsa, in giro per Londra a un'ora così tarda, e perciò attraversò la stanza di corsa diretto alla porta. Mentre muoveva le mani nervosamente sul chiavistello, udì distintamente dei piccoli passi dietro di lui avanzare di corsa. «Il gatto», esclamò con voce flebile nel medesimo istante in cui aprì la porta. La richiuse in fretta alle sue spalle ed ebbe l'impressione che qualcosa di freddo gli fosse salito sulla schiena e stesse dimenandosi sopra di lui. Il corridoio era completamente buio, ma trovò il cappello e in un attimo fu fuori lungo il vialetto, respirando più liberamente, sorpreso per il chiarore che c'era ancora all'esterno. Poteva vedere chiaramente il selciato sotto i suoi piedi, e lontano, nella strada a cui conduceva il vialetto, poteva sentire le risate e le voci dei bambini che stavano giocando fuori dalle case. Si stupì di essere stato tanto nervoso e per un attimo pensò di rientrare in casa e di attendere tranquillamente Elsa. Ma all'improvviso sentì quel brivido nervoso di terrore che lo assaliva nuovamente. In ogni caso era meglio andare fino a Cranston House a chiedere notizie della bambina alla servitù. Forse qualche cameriera aveva provato della simpatia per Elsa e le aveva offerto del tè con dei dolci. Si incamminò velocemente verso Belgrave Square e poi lungo gli ampi viali, cercando di percepire mentre proseguiva il rumore di piccoli passi alle sue spalle. Ma non sentì nulla, e stava ridendo di se stesso quando suonò alla porta di servizio della grande casa. Certamente la bambina si trovava ancora lì. La persona che venne alla porta era certamente un membro della servitù... dato che aveva aperto la porta del retro... ma assunse un atteggiamento di superiorità, fissando il signor Puckler con arroganza. Non aveva visto nessuna bambina e non sapeva «nulla di nessuna bambola».
«Si tratta della mia bambina», spiegò il signor Puckler timidamente, sentendosi nuovamente sommerso dall'angoscia, «e ho paura che possa esserle successo qualcosa.» Il cameriere chiarì in modo brusco che «nulla sarebbe potuto succedere alla bambina in quella casa, dato che non era mai stata lì, e questa sembrava una ragione più che logica»; il signor Puckler fu costretto ad ammettere che quell'uomo doveva avere ragione poiché era suo compito aprire la porta e far entrare i visitatori. Chiese di poter parlare con l'aiuto-bambinaia, che lo conosceva; ma l'uomo fu ancora più brusco di prima e alla fine gli chiuse la porta in faccia. Quando il dottore delle bambole si ritrovò di nuovo da solo nella strada, si appoggiò alla ringhiera, poiché si sentiva come spezzato in due, proprio come si rompe qualche bambola, esattamente nel mezzo del torace. Fu subito consapevole di dover fare qualcosa per ritrovare Elsa e questo gli diede nuova forza. Cominciò a camminare il più rapidamente possibile nelle strade, seguendo tutte le vie principali e quelle secondarie che la figlia avrebbe potuto percorrere nel suo vagabondare. Chiese anche inutilmente a diversi poliziotti se l'avessero vista, e quasi tutti gli risposero gentilmente, perché si accorgevano che era una persona equilibrata, completamente consapevole, e perché qualcuno di loro aveva a sua volta dei figli. Era ormai l'una del mattino successivo quando arrivò davanti alla porta della sua abitazione, sfinito, privo di speranza, col cuore a pezzi. Mentre girava la chiave nella serratura il cuore gli si fermò perché, anche se era completamente sveglio e non sognava, sentì nuovamente quei piccoli passi che gli venivano incontro dall'interno della casa lungo il corridoio. Ma era troppo infelice per provare di nuovo terrore, e il suo cuore riprese a battere con un profondo, cupo dolore, che a ogni attimo lo sommergeva. Entrò, appese il cappello nel buio e trovò i fiammiferi sulla credenza e la candela al suo posto nell'angolo. Il signor Puckler era così sopraffatto dal dolore e completamente esausto che si sedette sulla sedia davanti al tavolo da lavoro, quasi privo di conoscenza, e si lasciò cadere in avanti sulle mani incrociate. Davanti a lui la candela bruciava in modo regolare, con una piccola fiamma che si levava alta nell'aria immobile. «Elsa! Elsa!», gemeva contro le nocche ingiallite. Era tutto quello che riusciva a dire, e non gli procurava alcun sollievo. Al contrario, il suono di quel nome costituiva un nuovo e acuto dolore, che colpiva le sue orecchie, la sua mente e la profondità della sua anima. Ogni volta che ripeteva il
nome della figlia pensava che forse era morta, scomparsa da qualche parte nelle strade di Londra, al buio. Era così profondamente addolorato che non sentì nemmeno qualcosa che toccava con delicatezza l'orlo della sua vecchia giacca, così gentilmente che avrebbe potuto essere benissimo un topolino che mordicchiava la stoffa. E infatti, qualora se ne fosse accorto, avrebbe certamente pensato che si trattasse proprio di un topo. «Elsa! Elsa!», gemeva, chino sulle mani. Poi un brivido freddo colpì i suoi capelli sottili e la piccola fiamma della candela si trasformò in un minuscolo lumicino, che non ondeggiava come se qualcuno cercasse di spegnerlo, ma che diminuiva lentamente come se fosse stanco morto. Il signor Puckler sentì le mani rabbrividire per il terrore sotto il suo viso; e c'era un debole rumore frusciante, come quello prodotto dalla seta agitata dal vento. Si mise a sedere perfettamente diritto, rigido e spaventato, e una sottile voce inespressiva parlò nel silenzio. «Pa-pà», disse la voce, con una breve pausa fra le due sillabe. Il signor Puckler si alzò in piedi con un balzo e la sedia cadde all'indietro, sul pavimento di legno, con un rumore molto intenso. La candela era quasi completamente spenta. Era la voce da bambola di Nina che aveva parlato, e lui avrebbe potuto riconoscerla fra le voci di cento altre bambole. Inoltre c'era qualcosa di nuovo in quella voce, un leggero timbro umano che esprimeva una richiesta di compassione e di aiuto, e il gemito di un bambino ferito. Il signor Puckler stava in piedi, irrigidito e teso, cercando di guardarsi intorno, ma per il momento non ci riusciva, perché sembrava completamente gelato dalla testa ai piedi. Poi fece uno sforzo immane e sollevò una mano alla tempia, imprimendo una leggera pressione alla testa, come avrebbe fatto con quella di una bambola. Dalla candela emanava una luce così tenue, che avrebbe anche potuto essere spenta, perché non diffondeva nessuna luce e la stanza era completamente al buio. Poi vide qualcosa. Non avrebbe mai creduto di poter provare il profondo terrore che sentiva in quel momento. Ma era terrorizzato e le ginocchia gli tremavano, mentre osservava la bambola in piedi in mezzo al pavimento della stanza, splendente di una luminosità spettrale appena percettibile, con i bellissimi, vitrei occhi scuri fissi nei suoi. E sul suo viso la sottile linea di rottura brillava come se fosse illuminata da un piccolo punto di una fiamma bianca. Inoltre c'era anche qualcosa di più profondo nei suoi occhi; c'era un'e-
spressione umana, come se fossero quelli di Elsa, ma come se solo la bambola potesse vederlo e non invece Elsa. E vi scorse un'espressione così simile a quella della figlia, che provò nuovamente un immenso dolore e dimenticò la paura. «Elsa! Mia cara Elsa!», gridò. Il piccolo fantasma si mosse e le braccia della bambola si sollevarono e ricaddero con un movimento meccanico e rigido. «Pa-pà», disse di nuovo. Questa volta il signor Puckler ebbe l'impressione che la voce di Nina assomigliasse ancora di più al timbro vocale di Elsa, che risuonava come un'eco fra le tonalità inespressive, arrivando alle sue orecchie in modo molto distinto, anche se lontano. Elsa lo stava chiamando, ne era certo. Nella penombra il volto del signor Puckler era completamente pallido, ma le ginocchia non gli tremavano più e sentì di essere meno spaventato. «Sì, bambina mia! Ma dove? Dove?», chiese. «Dove sei Elsa?» «Pa-pà!» Le sillabe si spensero nella quiete della stanza. Si sentiva ancora un leggero fruscio di seta. Gli occhi scuri di vetro si volsero lentamente altrove, e il signor Puckler udì lo scalpiccio dei piccoli piedi nelle scarpette di capretto marrone, mentre la figuretta correva diritta verso la porta. Allora la fiamma della candela divenne più forte, la stanza fu nuovamente illuminata e il signor Puckler si ritrovò ancora solo. Si passò le mani sugli occhi e si guardò intorno. Adesso poteva capire ogni cosa con maggior chiarezza e pensò che doveva aver sognato, anche se era in piedi e non seduto, come si sarebbe dovuto trovare se si fosse appena risvegliato. La candela mandava una luce ancora brillante. C'erano le bambole che dovevano essere riparate, disposte in fila sullo scaffale con i piedi rivolti verso l'alto. La terza aveva perso la scarpina destra ed Elsa ne stava confezionando una. Lo sapeva che ora non stava sicuramente sognando. Ma non stava sognando nemmeno quando era tornato dalla sua ricerca infruttuosa e aveva udito i passi della bambola correre verso la porta. Non si era addormentato sulla sedia. Come avrebbe potuto addormentarsi, con il cuore spezzato? Era rimasto perfettamente sveglio tutto il tempo. Cercò di ritrovare un po' di calma, rimise a posto la sedia che aveva fatto cadere, e disse a se stesso di nuovo con enfasi che era un vecchio pazzo. Avrebbe dovuto essere in giro per le strade a cercare la sua bambina, facendo domande e ricerche alle centrali di polizia, dove arrivano le notizie di tutti gli incidenti non appena si verificano, o presso gli ospedali.
«Pa-pà!» Il grido inespressivo, carico però di impazienza e di lamento, si levò nel corridoio, fuori dalla porta, e il signor Puckler si fermò per un attimo, con il volto pallido, trafitto e inchiodato al suolo. Un attimo dopo la sua mano era sulla maniglia. Poi si trovò nel corridoio, con la luce che proveniva dalla porta aperta alle sue spalle. All'altra estremità vide il piccolo fantasma che brillava nitidamente nell'ombra, con la mano destra che gli faceva un cenno, mentre le braccia si alzavano e si abbassavano nuovamente. Seppe immediatamente con estrema chiarezza che non doveva avere paura di lui, ma doveva seguirlo e, quando scomparve, si incamminò con coraggio verso la porta. Dimenticò di sentirsi stanco e di essere completamente digiuno dalla sera precedente, e avrebbe camminato per molte miglia, perché si sentiva pervaso da un'improvvisa speranza, che attraversava il suo corpo come una linfa dorata di vita. Fu abbastanza certo di vedere il piccolo fantasma che volteggiava davanti a lui, sia all'angolo del vialetto che a quello della strada principale e anche in Belgrave Square. In alcuni momenti era solo un'ombra, quando la strada era illuminata da altre luci, anche se il chiarore delle lampade creava un pallido riflesso verde sul suo piccolo abito di seta di Mamma Hubbard; in altri momenti invece, quando le strade erano buie e silenziose, tutta la figuretta risplendeva luminosa con i riccioli biondi e il collo rosato. Trotterellava come un bimbo piccolo, e il signor Puckler poteva sentire lo scalpiccio delle sue scarpette di capretto marrone sul selciato, mentre correva. Avanzava molto rapidamente e lui poteva solo stargli dietro, procedendo di gran carriera con il cappello gettato all'indietro, i sottili capelli scompigliati dalla brezza notturna e gli occhiali dalla montatura di corno sistemati sul naso piuttosto largo. Continuò a camminare e non aveva la minima idea di dove si trovasse. Questo particolare non gli importava molto, perché sapeva con assoluta certezza che stava andando nel posto giusto. Poi, alla fine, in una strada ampia e tranquilla, si trovò davanti a una grande porta molto imponente che aveva due lampade su ogni lato e un pomolo d'ottone lucido per suonare: il signor Puckler si affrettò a tirarlo. Quando si trovò all'interno, non appena la porta fu aperta, nella luce vivida intravide una piccola ombra e il pallido riflesso verde dell'abito di seta, e di nuovo giunse alle sue orecchie il debole grido, che questa volta gli sembrò meno compassionevole e più impaziente.
«Pa-pà!» La figuretta tornò nuovamente a brillare e in quella luminosità i bellissimi occhi marroni di vetro erano rivolti verso di lui pieni di felicità, mentre la bocca rosata sorrideva in maniera tanto mirabile da trasformare il fantasma della bambola in un piccolo angelo. «Ieri sera, poco dopo le dieci, hanno portato qui una ragazzina», stava dicendo la voce tranquilla del portiere dell'ospedale. «Penso che fosse solo priva di sensi. Aveva con sé una grossa scatola di cartone marrone e nessuno è riuscito a togliergliela dalle mani. Mentre la trasportavano ho visto che aveva una lunga treccia di capelli marroni.» «È mia figlia!», esclamò il signor Puckler senza nemmeno udire quel che stava dicendo. Si chinò sul viso di Elsa nella tenue luce del reparto dei bambini, e dopo appena un minuto che se ne stava lì in piedi la bambina aprì i bellissimi occhi marroni e guardò verso di lui. «Pa-pà!», chiamò con voce dolce. «Sapevo che saresti venuto.» Per un momento il signor Puckler non seppe cosa fare o dire, e quel che sentiva era molto più profondo della paura, del terrore e della disperazione che stavano per distruggerlo la notte precedente. Ma intanto Elsa gli raccontava la sua storia: l'infermiera le aveva permesso di parlare, perché nella camera c'erano solo due bambini, che stavano abbastanza bene e che dormivano profondamente. «Erano dei ragazzi grandi, con delle facce cattive», raccontò Elsa, «e volevano portarmi via Nina, ma io la tenevo con forza e ho cercato di resistere come meglio potevo, finché uno di loro non mi ha colpito con qualcosa e poi non ricordo più nulla, perché sono caduta a terra e suppongo che quelli siano scappati di corsa. Poi qualcuno mi ha soccorso. Ma ho paura che Nina si sia rotta.» «Ecco la scatola», intervenne l'infermiera. «Non siamo riusciti a togliergliela dalle mani fino a quando non è rinvenuta. Volete vedere se la bambola è rotta?» Slegò la corda con cura: Nina era tutta in frantumi. La tenue luce del reparto bambini dell'ospedale creava un pallido riflesso verde sul piccolo abito di Mamma Hubbard. ROBERT LOUIS STEVENSON Janet la Storta
Il Reverendo Murdoch Soulis fu per lungo tempo curato della parrocchia di Balweary, nella valle del Dule, nella brughiera. Era un vecchio dall'aspetto severo, pallido in volto, che incuteva timore in chi lo ascoltava: trascorse gli ultimi anni della sua vita completamente solo, senza parenti né domestici, nel piccolo e isolato presbiterio sotto l'Hanging Shaw. Nonostante la ferma compostezza dei suoi lineamenti, aveva lo sguardo agitato, spaventato, incerto; e quando si soffermava, durante le confessioni, sul futuro dell'uomo impenitente, sembrava che il suo occhio penetrasse attraverso le tempeste del tempo fino ai terrori dell'eternità. Molti giovani che venivano a prepararsi alla Prima Comunione rimanevano terribilmente impressionati dai suoi discorsi. Ogni anno, la prima domenica dopo il diciassette di agosto, teneva un sermone sull'ottavo versetto della prima epistola di san Pietro, «il diavolo come un leone ruggente», in cui superava se stesso nel commento al testo, sia per la terribile natura del soggetto, sia per il terrore che ispirava il suo atteggiamento dal pulpito. I bambini ne erano spaventati fino alle convulsioni, e i vecchi per il resto della giornata apparivano più sentenziosi del solito, pieni di tutte quelle allusioni tanto deprecate da Amleto. Lo stesso presbiterio, situato tra i folti alberi presso le acque del Dule, con il boschetto che lo sovrastava da un lato e dall'altro le fredde e brulle cime dei monti che si innalzavano numerose verso il cielo, aveva cominciato, fin dai primi tempi del ministero del Reverendo Soulis, a essere evitato verso il crepuscolo da tutti quelli che si consideravano prudenti; e i capifamiglia, seduti nella birreria del villaggio, scuotevano la testa al pensiero di passare a tarda ora nei paraggi di quella località così sinistra. Anzi, per essere precisi, c'era un punto soprattutto che ispirava particolare timore. Il presbiterio sorgeva fra la strada maestra e il Dule, con una facciata su ciascuno dei due; il retro guardava verso il villaggio di Balweary, lontano circa mezzo miglio, e sul davanti un giardino spoglio circondato da siepi di rovo occupava il terreno tra il fiume e la strada. La casa era a due piani, ciascuno di due ampie stanze. Non si apriva direttamente sul giardino, bensì su una specie di viottolo o passaggio selciato, che da una parte dava sulla strada maestra e dall'altra era chiuso dagli alti salici e dai sambuchi che crescevano lungo la riva del torrente. Ed era proprio questo viottolo ad avere una così brutta fama tra i giovani parrocchiani di Balweary. Il curato vi passeggiava spesso dopo il tramonto, talvolta gemendo ad alta voce nel fervore della sua orazione mentale; e quando egli si assentava e la porta del presbiterio era chiusa a chiave, solo gli scolaretti più coraggiosi si avventuravano, giocando a «seguire il capo», in quel luo-
go quasi leggendario, col cuore che batteva forte. Quest'atmosfera di terrore che circondava, di fatto, un ministro di Dio dal carattere e dall'ortodossia immacolati, era comunemente ragione di stupore e argomento di domande da parte dei pochi forestieri che il caso o gli affari conducevano in quel paese sconosciuto e fuori mano. Ma anche molta gente della parrocchia era all'oscuro degli strani eventi che avevano marcato il primo anno del ministero del Reverendo Soulis; e, tra i meglio informati, alcuni erano reticenti per natura, altri, invece, si mostravano particolarmente restii a parlare di quella faccenda. Solo di tanto in tanto qualcuno dei più vecchi, verso il terzo bicchiere, acquistava coraggio e cominciava a raccontare la causa dello strano aspetto e della vita solitaria del curato. Cinquant'anni fa1, quando il Reverendo Soulis venne per la prima volta a Balweary, era ancora un giovanotto - un ragazzo, diceva la gente - assai colto e bravissimo nel predicare, ma, com'era naturale in un uomo tanto giovane, senza alcuna esperienza vissuta in fatto di religione. I più giovani rimanevano incantati dalle sue doti e dalla sua eloquenza, ma le persone anziane, più serie e riflessive, si sentivano perfino spinte a pregare per quel giovanotto che consideravano un povero illuso e anche per la loro parrocchia che sembrava così mal fornita di una guida. Tutto questo avveniva prima del tempo dei «Moderati» - maledizione a loro! ma le cose cattive sono come quelle buone - vanno e vengono piano piano, un po' alla volta; già allora, comunque, c'era chi diceva che il Signore aveva abbandonato tutti i professori e che i ragazzi che andavano a studiare presso di loro avrebbero fatto di più e meglio restandosene seduti in una torbiera, come i loro antenati al tempo della persecuzione, con una Bibbia sotto il braccio e lo spirito della preghiera nel cuore. Ma insomma, senza dubbio il Reverendo Soulis era rimasto troppo a lungo in collegio: si curava e si preoccupava di molte cose oltre alla sola necessaria. Aveva un mucchio di libri con sé, più di quanti se ne fossero mai visti in tutto il presbiterio; e il facchino ebbe il suo bel da fare a trasportarli fin là, perché rischiarono di impantanarsi nella Palude del Diavolo, tra Balweary e Kilmackerlie. Erano libri di teologia, si capisce, o almeno così si diceva, ma le persone serie erano dell'opinione che fosse proprio inutile possederne così tanti quando tutti i Vangeli si possono portare nella cocca di uno scialle. E poi, se ne stava seduto a scrivere per metà della giornata e metà della notte, il che non stava neanche bene; sulle prime si pensò che stesse rileggendo i suoi
sermoni, ma in seguito si seppe che stava scrivendo un libro lui stesso, il che non era davvero appropriato per uno della sua età e di così poca esperienza. Ad ogni modo, occorreva prendere una donna anziana e perbene che si occupasse del presbiterio e provvedesse ai suoi pasti frugali, e gli fu raccomandata una vecchiaccia - una certa Janet Mc Clour - e lui si lasciò persuadere troppo facilmente, facendo di testa sua. Furono in parecchi a metterlo in guardia, poiché quella Janet risultava più che sospetta alla gente migliore di Balweary. Diverso tempo prima aveva avuto un bambino da un soldato dei Dragoni, da circa trent'anni non riceveva la comunione, e i ragazzi l'avevano sentita borbottare qualcosa tra sé e sé, al buio, dalle parti del sentiero di Key, luogo poco adatto, a quell'ora, per una donna timorata da Dio. Comunque, era stato lo stesso sindaco del paese a parlare per primo di Janet al curato, e costui a quel tempo sarebbe andato molto più in là per far piacere al sindaco del paese. Quando la gente gli diceva che Janet era parente del Diavolo, secondo lui si trattava soltanto di superstizione; e quando gli tiravano fuori la Bibbia e la strega di Endor, controbatteva con foga e ricacciava a tutti le parole in gola affermando che quei giorni erano ormai passati e che il Demonio era, grazie alla misericordia divina, molto meno potente. Bene, quando per il villaggio si sparse la voce che Janet Mc Clour andava a fare la governante al presbiterio, la gente divenne furiosa sia con lei che con il curato, e alcune comari non trovarono di meglio da fare che piazzarsi di fronte alla porta della sua casa e accusarla di tutto ciò che si sapeva sul suo conto, dal figlio avuto col soldato alle due vacche di John Tomson. Janet di solito parlava poco: la gente, in genere, la lasciava andare per la sua strada e altrettanto faceva lei senza tanti buongiorno e buonasera, ma quando ci si metteva aveva una lingua da assordare un mugnaio. Saltò su, e spiattellò ai quattro venti tutti i vecchi pettegolezzi di Balweary, facendo inferocire le donne: se le dicevano una cosa, lei ne rispondeva due, finché a un certo momento le comari l'afferrarono, le strapparono i vestiti di dosso e la trascinarono per il villaggio, giù, fino alle acque del Dule, per vedere se era una strega o no, se restava a galla o se affogava2. La vecchia urlava tanto che la si poteva sentire fino dal boschetto, lottando come dieci persone, e ci furono parecchie di quelle comari che portarono addosso i suoi segni, il giorno dopo e molti altri ancora; ed ecco, proprio nel mezzo della mischia, arrivare (per sua sventura) il nuovo curato. «Donne», disse (e la sua voce era solenne), «nel nome del Signore io vi
ordino di lasciarla andare.» Janet corse verso di lui, sconvolta dal terrore, e gli si aggrappò, e lo scongiurò, per amore di Cristo, di salvarla dalle comari; e quelle, da parte loro, gli dissero tutto ciò che sapevano sul conto di lei e forse ancora di più. «Donna», domanda allora lui a Janet, «è vero tutto questo?» «Come il Signore mi vede», risponde quella, «come è vero che mi ha creata, non una sola parola! A parte il bambino, sono sempre stata una donna a posto.» «Sei disposta», dice allora il Reverendo Soulis, «nel nome di Dio e davanti a me, Suo indegno ministro, a rinunciare al Diavolo e alle sue tentazioni?» Bene, sembra che quando egli le pose questa domanda la vecchia fece una smorfia che mise abbastanza paura a quanti la videro, e la si udì battere forte i denti; ma non c'era altra scelta in quel frangente, e Janet alzò la mano e rinunciò al Diavolo davanti a tutti. «E ora», dice il Reverendo Soulis rivolto alle comari, «tornatevene a casa, tutte quante, e pregate Dio affinché vi perdoni.» E diede il braccio a Janet, nonostante avesse indosso sì e no la camicia, e l'accompagnò su per il villaggio fino alla porta di casa come se si trattasse di una gran dama, mentre lei gridava e rideva che era uno scandalo starla a sentire. Ci furono molte persone assennate che si trattennero a lungo a pregare quella notte: ma quando venne il mattino una tale paura si abbatté su Balweary che i bambini correvano a nascondersi e perfino gli uomini se ne stavano zitti a spiare dietro le porte. Perché c'era Janet che scendeva giù per il villaggio - lei o il suo fantasma, nessuno avrebbe potuto dirlo - col collo torto e la testa girata da una parte come quella di un impiccato, e sul viso una smorfia che la faceva somigliare a un cadavere non ancora ricomposto. Col passare del tempo ci si fece l'abitudine, e ci fu perfino chi la interrogò per sapere cosa le fosse successo; ma da quel giorno in avanti non fu più capace di parlare come una cristiana: sbavava, i denti le battevano come un paio di cesoie e le sue labbra non riuscirono più, da allora in poi, a pronunciare il nome di Dio. Tentava a volte di pronunciarlo, ma non le era possibile. Chi più sapeva più taceva, ma nessuno chiamò mai quella cosa Janet Mc Clour, poiché la vecchia Janet, secondo loro, era sprofondata quel giorno nell'Inferno.
Il curato, tuttavia, non era tipo da lasciarsi influenzare dagli altri: andava dicendo che la crudeltà di quella gente le aveva fatto venire un attacco di paralisi, distribuiva scapaccioni ai bambini che la importunavano e la notte stessa di quel famoso giorno la fece traslocare su al presbiterio, e abitò là, a Hanging Shaw, tutto solo con lei. Il tempo passò e la gente più superficiale cominciò a pensare sempre meno a quella brutta faccenda. Il curato godeva di buona stima: faceva sempre tardi a scrivere, è vero, e dal fiume si poteva vedere la luce della sua candela fino a mezzanotte passata, ma appariva soddisfatto e pieno di fiducia in se stesso come nei primi tempi, sebbene tutti si accorgessero che deperiva. Per quanto riguarda Janet, andava avanti e indietro: se prima non parlava molto, adesso aveva motivo di parlare ancora meno: non si impicciava di niente, ma era orribile a vedersi, e nessuno si sarebbe sognato di imbrogliarla nei conti dei terreni della parrocchia. Verso la fine di luglio venne un tempo come non se n'era mai visto da queste parti. L'aria era immobile, calda e opprimente: le greggi non ce la facevano a salire fin sopra la Collina Nera, i bambini erano troppo stanchi per giocare; pure, a tratti si levava anche il vento, con raffiche roventi che brontolavano sordamente per le vallate e brevi acquazzoni che non riuscivano a mitigare la calura. Si pensava sempre che il giorno dopo dovesse scoppiare il temporale; ma veniva il mattino, ne veniva un altro ed era sempre quello stesso tempo spossante che affliggeva gli uomini e il bestiame. Fra tutti quelli che stavano peggio, nessuno soffriva come il Reverendo Soulis; non riusciva né a dormire né a mangiare, come diceva ai suoi consiglieri parrocchiali, e quando non se ne stava a scrivere quel suo noioso libro, vagava per la campagna come un ossesso, mentre chiunque altro era ben felice di starsene al fresco dentro casa. Al di sopra dell'Hanging Shaw, al riparo della Collina Nera, c'è un piccolo terreno recintato con un cancello di ferro: sembra che nei tempi andati fosse il cimitero di Balweary, consacrato dai Papisti prima che la luce benedetta splendesse sul regno. Ad ogni modo, era uno dei posti frequentati abitualmente dal Reverendo Soulis: è lì che si sedeva di solito per pensare ai suoi sermoni, e in verità è un luogo ben riparato. Dunque, un giorno, mentre superava la parte ovest della collina, egli vide prima due, poi quattro, poi sette corvi volare in tondo sopra il vecchio cimitero. Volavano bassi e pesanti, roteando e gracchiando tra loro. Era chiaro che qualcosa doveva aver disturbato le loro abitudini, ma il Reverendo Soulis non era tipo
da lasciarsi impressionare facilmente, e andò dritto fino al muretto di cinta, e cosa trovò? Un uomo, o qualcosa che ne aveva l'apparenza, seduto nel recinto sopra una tomba. Era alto di statura, nero come l'Inferno e con degli occhi stranissimi3. Il Reverendo Soulis aveva sentito molte volte parlare di uomini neri, ma in quello lì c'era qualcosa di indecifrabile che lo intimoriva. Con tutto il caldo che aveva, provò come un gelido brivido d'orrore nel midollo delle ossa, ma riuscì lo stesso a dire con voce ben chiara: «Amico mio, non siete di qui, vero?». L'uomo nero non aprì bocca; si alzò in piedi e cominciò a camminare come strisciando, dirigendosi verso il lato opposto del muretto di cinta; e intanto non staccava gli occhi dal curato, e il curato rimaneva lì e lo fissava a sua volta. Poi, in un attimo, l'uomo nero fu con un balzo al di là del muretto e corse a rifugiarsi tra gli alberi. Il Reverendo Soulis, quasi senza sapere perché, prese a rincorrerlo, ma era stanco morto per la camminata fatta poco prima con quel caldo terribile e, per quanto corresse, riuscì appena a scorgere l'uomo nero tra le betulle, finché non arrivò ai piedi del pendio, dove lo vide ancora una volta mentre a passi e salti attraversava le acque del Dule dirigendosi verso il presbiterio. Il Reverendo Soulis non fu molto contento che quello spaventoso vagabondo si pigliasse la libertà di entrare nel presbiterio, e corse ancora più forte, e traversò il torrente bagnandosi le scarpe, e si ritrovò finalmente sul viottolo; ma non c'era nessun uomo nero lì. Andò sulla strada maestra: nessuno; fece il giro del giardino: niente, nessun uomo nero. Alla fine, un po' spaventato, com'era naturale, tirò il saliscendi ed entrò in casa. E lì, davanti ai suoi occhi, ecco Janet Mc Clour, col suo collo torto e non troppo contenta di vederlo. E il Reverendo lo disse sempre in seguito che, appena pose gli occhi su di lei provò quello stesso brivido freddo e mortale di prima. «Janet», le dice, «hai visto un uomo nero?» «Un uomo nero?», ripeté lei. «Dio ci salvi tutti! Vi sbagliate, Reverendo. Non c'è nessun uomo nero a Balweary.» Ma non parlava chiaro, lo capite bene: farfugliava come un cavalluccio col morso in bocca. «Bene», dice Soulis. «Janet, se non c'è nessun uomo nero, io ho parlato col Diavolo in persona4.» E così dicendo cadde a sedere, battendo i denti come chi ha la febbre. «Sciocchezze», dice Janet, «dovreste vergognarvi, Reverendo», e gli servì un sorso di acquavite che teneva sempre a portata di mano. Il curato se ne andò nello studio, tra i suoi libri. Quello studio è una
stanza lunga, bassa e male illuminata, mortalmente fredda d'inverno e umida anche nel colmo dell'estate, poiché il presbiterio sorge vicino al torrente. Dunque, il Reverendo si mise a sedere e pensò a tutto quello che era successo da quando era arrivato a Balweary, e pensò alla sua casa e ai giorni in cui era un bambino e correva per i prati; ma quell'uomo nero gli tornava sempre in testa come il ritornello di una canzone. Più pensava, più quell'uomo nero gli veniva in mente. Provò a pregare, ma non si ricordava le parole; cercò di mettersi a scrivere il suo libro, ma non riusciva ad andare avanti. Vi erano momenti in cui gli sembrava che l'uomo nero gli stesse accanto, e allora il sudore gli si gelava addosso come acqua di pozzo, mentre vi erano altri momenti in cui si riprendeva e non aveva più paura di nulla, come un bimbo appena battezzato. Infine andò alla finestra e se ne restò lì in piedi a osservare le acque del Dule con uno sguardo intenso e corrucciato. Vicino al presbiterio gli alberi sono particolarmente fitti e l'acqua è profonda e scura; e c'era Janet che lavava i panni, con gli abiti rimboccati: voltava le spalle al curato e questi, d'altro canto, si era appena accorto di starla a guardate. A un certo momento si voltò, mostrando la faccia, e il Reverendo Soulis risentì ancora lo stesso brivido freddo che aveva già provato due volte quel giorno, e gli venne in mente ciò che la gente diceva: che Janet era morta da molto tempo e quella era soltanto una larva rivestita delle sue carni fredde come la terra. Si fece un po' indietro, osservandola attentamente: stava sbattendo i panni e canticchiava tra sé, ma oh! Dio ci guidi, aveva una faccia spaventosa. A tratti cantava più forte, ma nessuno al mondo avrebbe saputo ripetere le parole della sua canzone; e poi, ogni tanto guardava in giù, di lato, sebbene non ci fosse nulla da guardare da quella parte. Il Reverendo provò un moto di paura e di ribrezzo in tutto il suo essere, e di certo era un avvertimento del Cielo; ma invece si rimproverò di pensare così male di una povera vecchia malata senza altri amici che lui. Così, recitò una breve preghiera per lei e per sé, bevve un sorso d'acqua fresca - poiché gli si rivoltava lo stomaco solo al pensiero di mangiare - e salì a coricarsi nel suo semplice letto, mentre cadevano le ombre della sera. Quella notte, la notte del diciassette agosto millesettecentododici, non è mai più stata dimenticata a Balweary. Era stato caldo fino allora, come ho detto, ma quella notte era più calda che mai. Il sole tramontò fra nuvole mai viste e venne un buio fitto come la pece, senza una stella, senza un alito di vento; non avresti visto la tua mano davanti al viso: perfino i vecchi avevano gettato via le coperte dal letto e respiravano a fatica. Con tutto
quello che aveva in mente era piuttosto improbabile che il Reverendo Soulis potesse dormire molto. Si voltava e rivoltava di continuo: il buon letto fresco in cui era entrato sembrava che gli bruciasse le ossa; si assopiva per svegliarsi subito dopo; sentiva battere le ore, poi un cane ululare nella brughiera come se fosse morto qualcuno; a tratti credeva di udire dei folletti5 bisbigliargli qualcosa all'orecchio, poi gli pareva di vedere dei fuochi fatui6 danzare per la stanza. Pensò di essere ammalato: e lo era, infatti, anche se non sospettava neppure di quale malattia. Infine ebbe un momento di lucidità: si rizzò a sedere in camicia da notte sulla sponda del letto e cominciò di nuovo a pensare all'uomo nero e a Janet. Non avrebbe saputo spiegare bene come - forse fu il freddo del pavimento ai piedi - ma di colpo ebbe la sensazione che vi fosse un qualche nesso tra i due, e che l'uno o l'altra, o forse entrambi, fossero dei fantasmi. E proprio in quel momento, dalla stanza di Janet, che si trovava accanto alla sua, venne un tramestio come di persone che stessero lottando, poi un forte tonfo; quindi una folata di vento passò frusciando nelle quattro stanze della casa, e di nuovo tutto tornò silenzioso come una tomba. Il Reverendo Soulis non aveva paura né degli uomini né dei diavoli. Prese l'esca e l'acciarino, accese una candela e fece qualche passo verso la porta di Janet. Il saliscendi era alzato: spinse l'uscio e guardò dentro risolutamente. La stanza era ampia, grande quanto la sua, piena di mobili imponenti, vecchi e solidi, dato che non ne aveva altri. C'era un letto con quattro colonne, il baldacchino di vecchia tappezzeria, e un bell'armadietto di quercia pieno di libri di teologia del curato, messi lì perché non fossero d'ingombro: le povere, poche cose di Janet erano sparse qua e là sul pavimento. Ma il Reverendo Soulis non riusciva a scorgere né Janet né alcun segno di lotta. Entrò dentro (e pochi, credo, lo avrebbero seguito), si guardò intorno, ascoltò. Ma non c'era nulla da ascoltare, nulla dentro il presbiterio né in tutta la parrocchia di Balweary, e nulla da vedere, tranne le lunghe ombre che danzavano intorno alla candela. E poi, ad un tratto, il cuore del curato ebbe un violento palpito e si arrestò, mentre un vento freddo gli passava fra i capelli. Che triste visione fu quella per il poveretto! C'era Janet lì, appesa a un chiodo accanto al vecchio armadietto di quercia: la testa sempre piegata sulla spalla, gli occhi stralunati, la lingua tutta fuori dalla bocca e i piedi a due palmi dal pavimento. «Dio ci perdoni tutti!», pensò il Reverendo Soulis. «La povera Janet è morta.» Fece un passo verso il cadavere e il cuore gli sussultò nel petto perché,
per qualche stregoneria incomprensibile a mente umana, la vecchia era appesa a un unico chiodo, per un unico filo di lana ritorta, di quello da rammendare le calze. È una cosa orribile trovarsi soli, di notte, con tali sinistri prodigi, ma il Reverendo Soulis era forte nel Signore. Si voltò e uscì da quella stanza chiudendo la porta a chiave dietro di sé, poi, un gradino dopo l'altro, scese le scale sentendosi pesante come il piombo e posò la candela sul tavolino. Non riusciva a pregare, non riusciva a pensare: gocciava sudore freddo e non avvertiva altro che i battiti accelerati del suo cuore. Era lì forse da un'ora, forse da due, non ci aveva fatto attenzione, quando, all'improvviso, sentì un leggero, misterioso rumore al piano di sopra: un passo andava avanti e indietro nella stanza dove pendeva impiccato il corpo di Janet; poi la porta venne aperta, benché egli l'avesse chiusa a chiave, come ricordava bene, e si udì un passo sul pianerottolo. Gli sembrò che il cadavere si fosse affacciato alla ringhiera delle scale e guardasse in basso, verso di lui. Prese di nuovo la candela (non ce la faceva a stare senza luce) e facendo meno rumore possibile uscì fuori dal presbiterio e si diresse fino in fondo al viottolo. Era sempre buio come la pece: la fiamma della candela, quando la posò in terra, brillò ferma e chiara come in una stanza chiusa. Nulla si muoveva, tranne le acque del Dule che scorrevano pigre singhiozzando giù per la valle, mentre quel passo infernale scendeva lentamente le scale all'interno del presbiterio. Era un passo che il curato conosceva fin troppo bene, poiché era quello di Janet e, man mano che si faceva più vicino, il gelo gli penetrava sempre più nelle viscere. Raccomandò la sua anima al Creatore che lo teneva in vita: «O Signore», diceva, «dammi questa notte la forza per combattere contro le Potenze del Male». In quel momento il passo stava percorrendo l'andito verso la porta di casa: si poteva sentire una mano che strusciava lungo il muro, come se quella cosa spaventosa stesse cercando la strada a tentoni. I salici si agitarono gemendo, un lungo sospiro venne dalle colline, la fiamma della candela vacillò; ed ecco, lì, in piedi sulla soglia del presbiterio c'era il cadavere di Janet, la Storta, col suo vestito di percalle e la cuffia nera, la testa sempre piegata verso la spalla e quella smorfia ancora scolpita sul viso - viva, avresti detto - morta, come il Reverendo Soulis ben sapeva. È strano come l'anima dell'uomo sia così legata alla sua spoglia mortale: pure, il curato vide tutto questo e il suo cuore non venne meno. Essa non rimase a lungo lì in piedi: cominciò di nuovo a muoversi, dirigendosi lentamente verso il Reverendo Soulis che era rimasto fermo sotto i
salici. Tutta la vitalità del suo corpo, tutta la forza della sua anima le risplendevano negli occhi. Sembrò che essa stesse per parlare, ma fece solo un cenno con la sinistra, come se le mancassero le parole. Venne una raffica di vento, come il soffio di un gatto; la candela si spense, i salici mandarono un lamento simile a una voce umana, e il Reverendo Soulis a un tratto comprese che, ne uscisse vivo o morto, era lì che si doveva concludere la storia. «Strega, maga, demonio!», urlò. «Io ti ordino, in nome di Dio, di andartene: se sei morta alla tomba, se sei dannata all'Inferno.» E allora la mano stesa del Signore colpì dall'alto dei Cieli l'Orrore lì dove si trovava: il vecchio, morto, sconsacrato corpo della strega, così a lungo sottratto alla tomba e portato in giro dai diavoli, prese fuoco come uno zolfanello e cadde a terra ridotto in cenere; seguì, vibrante, il tuono, un rombo dietro l'altro, poi la pioggia scrosciante. Il Reverendo Soulis attraversò con un balzo la siepe del giardino e corse urlando verso il villaggio. Quella stessa mattina, John Christie vide l'uomo nero passare vicino il Muckle Cairn mentre rintoccavano le sei; prima delle otto, passò accanto alla locanda di Knockdow; poco dopo, Sandy Mc Lellan lo vide correre giù per la discesa di Kilmackerlie. Non ci sono dubbi che fosse stato lui ad abitare per tanto tempo nel corpo di Janet, ma era andato via, finalmente, e da quel giorno il Diavolo non è più tornato a Balweary. Ma fu una prova assai dura per il curato: rimase molto, molto a lungo delirante nel suo letto, e dal quel momento è divenuto l'uomo che oggi conoscete. 1
Da questo punto in poi il racconto è scritto in dialetto scozzese (N.d.T.). 2 Era una credenza diffusa anche in Italia (N.d.T.). 3 Secondo una credenza popolare piuttosto diffusa in Scozia, il Diavolo era solito manifestarsi sotto le spoglie di un «uomo nero». Ciò è confermato da parecchie testimonianze che si riscontrano, ad esempio, nei vari processi alle streghe (N.d.T.). 4 Nel testo inglese «the Accuser of Brethren», l'Accusatore dei Confratelli (N.d.T.). 5 Il termine usato da Stevenson è bogles, che sta ad indicare una classe di folletti cattivi, comunque degli spiriti dispettosi, temibili e spesso pericolosi. William Henderson, in Folk-Lore of the Northern Counties, specifica (proprio a proposito dei bogles scozzesi) che, pur essendo dispettosi, non
sono malvagi, e che «non danno fastidio a nessuno tranne che agli assassini e a coloro che cercano di imbrogliare le vedove e gli orfani». Cfr. Katharine Briggs, Fate, gnomi, folletti e altri esseri fatati, a cura di Cecilia Casorati e Giovanni Iovane, Roma, Lucarini Editore, 1985, p. 24 (N.d.T.). 6 Il termine usato da Stevenson è spunkies. Riporta Katharine Briggs nel già citato Fate, gnomi, folletti: «Nei Lowlands della Scozia, Spunkies è il nome dato ai fuochi fatui (Will o' the Wisp). In Country Folk-Lore, Simpson cita un racconto reso da History of Buckhaven di Graham, nel quale uno Spunkie è accusato di aver provocato dei naufragi e di aver depistato dei viaggiatori» (p. 254) (N.d.T.). MARY WILKINS FREEMAN Ombre sul muro «Henry ha litigato a lungo con Edward nello studio, la sera prima che morisse», disse Caroline Glynn. Era una donna attempata, alta, legnosa e magra, con un volto duro e scialbo. Non parlò con acrimonia, ma con grave severità. Rebecca Ann Glynn, più giovane, più robusta e con il volto roseo tra i ciuffi di capelli grigi e ricci, sospirò a mo' di assenso. Sedeva, avvolta in un'ampia balza di seta nera, su un angolo del sofà, e spostava gli occhi terrorizzati dalla sorella Caroline all'altra sorella, signora Emma Brigham - Emma Glynn da signorina - l'unica bellezza della famiglia. Infatti la donna era ancora bella, di una bellezza imponente: splendida e matura, riempiva una grande sedia a dondolo con la mole superba della sua femminilità, e oscillava leggermente avanti e indietro, mentre le sue sete nere frusciavano e le gale ondeggiavano. Nemmeno la morte (infatti il cadavere di suo fratello Edward era ancora in casa) riusciva a disturbare la serenità esteriore del suo aspetto. Era addolorata per la perdita del fratello: era il più giovane, e lei gli era affezionata, ma Emma Brigham non perdeva mai di vista il proprio aspetto anche tra i morsi della tribolazione. Era sempre cosciente della propria solidità di fronte alle vicissitudini, e della ineccepibilità della propria condotta. Ma perfino la sua espressione di quiete mutò davanti all'annuncio di sua sorella Caroline, e al terrore e all'angoscia di sua sorella Rebecca Ann. «Penso che Henry avrebbe dovuto controllare la propria collera, visto che il povero Edward era tanto prossimo alla fine», disse con un'asprezza
che turbò lievemente le curve rosee della sua bella bocca. «Naturalmente non lo sapeva», mormorò Rebecca Ann con una voce debole, stranamente in disaccordo con il suo aspetto. Le si rivolgeva involontariamente un secondo sguardo, per accertarsi che un così flebile bisbiglio provenisse da quel torace talmente sviluppato. «È ovvio che non lo sapeva», disse in fretta Caroline. Poi si girò verso la sorella con uno sguardo penetrante e sospettoso. «Come avrebbe potuto saperlo?», chiese. Quindi si ritrasse, come per sfuggire all'altra possibile risposta. «Naturalmente noi due sappiamo che Henry non lo sapeva», disse in tono conclusivo, ma il suo volto era più pallido di prima. Rebecca sospirò ancora. La sorella sposata, Emma, sedeva adesso ritta sulla sua sedia e aveva smesso di dondolarsi: le osservava entrambe attentamente, e sul suo viso si erano accentuati d'improvviso i tratti caratteristici della famiglia. Quando l'intensità delle emozioni era comune e si evidenziavano tratti simili, nelle tre sorelle diventava chiaramente visibile l'appartenenza alla stessa famiglia. «Che cosa vuoi dire?», chiese rivolta a entrambe. Poi, anche lei parve ritrarsi davanti a una possibile risposta. Rise perfino, di una risata evasiva. «Immagino che non volessi dire nulla», mormorò, ma sul suo volto c'era ancora quell'espressione di orrore. «Nessuno vuol dire nulla», disse Caroline con fermezza. Quindi si alzò e andò verso la porta con estrema decisione. «Dove vai?», le chiese Emma Brigham. «Ho qualcosa da fare», replicò Caroline, e le altre compresero subito dal suo tono che aveva un dovere solenne e triste da compiere nella camera dove aleggiava la morte. «Oh!», esclamò Emma Brigham. Dopo che la porta si fu chiusa alle spalle di Caroline, Emma Brigham si rivolse a Rebecca. «Henry ha litigato aspramente con lui?», le domandò. «Parlavano a voce molto alta», rispose Rebecca in tono evasivo, ma i suoi miti occhi blu si accesero per un attimo, e quel barlume rispose prontamente alla curiosità dell'altra. Emma Brigham la guardò. Non aveva ripreso a dondolarsi. Sedeva ancora ritta con la bella fronte lievemente corrucciata sotto le graziose onde dei capelli biondo rame. «Hai sentito qualcosa?», chiese a bassa voce, lanciando uno sguardo verso la porta.
«Ero dall'altra parte del corridoio, nel salotto a sud: questa porta era aperta e quella del salotto socchiusa», replicò Rebecca, e arrossì leggermente. «Allora devi aver...» «Non ho potuto farne a meno.» «Hai sentito tutto.» «Quasi tutto.» «Di che cosa discutevano?» «Di quella vecchia storia.» «Credo che Henry fosse infuriato, come sempre, perché Edward viveva qui gratis, dopo aver dissipato tutti i soldi che gli aveva lasciato nostro padre.» Rebecca annuì, lanciando uno sguardo intimorito verso la porta. Quando Emma parlò, la sua voce era ancora più bassa. «So che cosa provava», disse. «Da parte sua, era sempre stato assai avveduto, e si era dedicato con impegno alla sua professione, mentre Edward non aveva mai fatto nient'altro che spendere. Gli doveva sembrare che Edward vivesse alle sue spalle, ma questo non era vero.» «No. Non era vero.» «Era questa la volontà di nostro padre: che tutti i figli avessero una casa qui. Così lasciò il denaro sufficiente a comprare il cibo e tutto il necessario, se fossimo tornati tutti a casa.» «Sì.» «E Edward aveva il diritto di vivere qui, in base al testamento di nostro padre: Henry avrebbe dovuto tenerlo a mente.» «Sì, avrebbe dovuto.» «È stato molto duro con lui?» «Abbastanza duro, a giudicare da quello che ho sentito.» «Che cosa hai sentito?» «Gli ho sentito dire a Edward che qui non aveva nulla da fare, e che avrebbe fatto meglio ad andarsene.» «Che cosa ha risposto Edward?» «Che sarebbe rimasto qui fino alla morte e anche dopo, se lo avesse desiderato, e che gli sarebbe piaciuto vedere Henry provare a mandarlo via, e poi...» «Che cosa?» «Poi è scoppiato a ridere.» «Che cosa ha detto Henry?»
«Non gli ho sentito dire nulla, ma...» «Ma che cosa?» «L'ho visto quando è uscito da questa stanza.» «Era infuriato?» «Lo hai mai visto quando è così?» Emma annuì, e l'espressione di orrore sul suo viso si accentuò. «Ti ricordi quella volta che uccise il gatto perché l'aveva graffiato?» «Sì. No!» Poi Caroline rientrò nella stanza. Si avvicinò alla stufa nella quale ardeva la legna - era una giornata fredda e cupa d'autunno - e si scaldò le mani, che erano arrossate per un recente lavaggio in acqua fredda. Emma Brigham la guardò ed esitò. Lanciò un'occhiata alla porta, di nuovo socchiusa, dato che non si chiudeva agevolmente poiché era ancora gonfia per l'umidità estiva. Si alzò e la chiuse con un colpo secco che fece risuonare tutta la casa. Rebecca trasalì violentemente con un'esclamazione soffocata. Caroline la guardò con disapprovazione. «È ora che controlli i tuoi nervi, Rebecca», disse. «Non riesco a evitarlo», replicò Rebecca con una sorta di gemito. «Sono nervosa. Dio sa se non ne ho motivo!» «Che cosa vorresti dire con questo?», chiese Caroline con la sua solita espressione di sfida, e per la paura che venisse confermato il suo sospetto. Rebecca si ritrasse. «Nulla», disse. «Allora, se fossi in te, non parlerei in quel modo.» Emma, tornata dopo aver chiuso la porta, disse in tono autoritario che avrebbe dovuto essere accomodata, visto che era così difficile chiuderla. «Si restringerà a sufficienza dopo che avremo tenuto acceso il fuoco per qualche giorno», replicò Caroline. «Se la ripariamo adesso, dopo sarà troppo piccola, e si spaccherà.» «Penso che Henry dovrebbe vergognarsi per aver parlato in quel modo a Edward», disse Emma Brigham all'improvviso, ma con un tono di voce quasi impercettibile. «Zitta!», mormorò Caroline, con un'occhiata colma di paura alla porta chiusa. «Nessuno può sentire con la porta chiusa.» «Henry deve aver sentito che veniva chiusa, e...» «Ebbene; posso dire quello che voglio prima che nostro fratello scenda, e non ho paura di lui.»
«Non so chi debba aver paura di lui! C'è qualche ragione per aver paura di Henry?», domandò Caroline. Emma Brigham tremò davanti all'espressione della sorella. Rebecca singhiozzò di nuovo. «Non c'è nessuna ragione, naturalmente. Perché dovrebbe esserci?» «In tal caso, sarebbe stato opportuno non parlare in questa maniera. Qualcuno avrebbe potuto sentirti e ritenere strane le tue parole. Miranda Joy sta cucendo nel salotto a sud, lo sai.» «Pensavo che fosse salita al primo piano a cucire a macchina.» «Lo ha fatto, ma è tornata a pianterreno.» «Ma non può sentirci.» «Ripeto che, secondo me, Henry dovrebbe vergognarsi. Non avrei mai pensato che sarebbe arrivato a questo punto: litigare con il povero Edward proprio la sera in cui è morto. Edward aveva un carattere migliore di Henry, malgrado i suoi difetti. Io ho sempre pensato un gran bene del povero Edward.» Emma Brigham si passò un lembo di fazzoletto sugli occhi, e Rebecca singhiozzò apertamente. «Rebecca!», disse Caroline, in tono di rimprovero, serrando le labbra e deglutendo con fermezza. «Non gli ho mai sentito pronunciare una parola di rabbia, a meno che quell'ultima sera non abbia parlato con rancore a Henry. Non lo so, ma deve averlo fatto, a giudicare da quanto ha sentito Rebecca», disse Emma. «Non tanto parole di rabbia, quanto paroline miti, dolci e irritanti», replicò Rebecca tirando su col naso. «Non alzava mai la voce», disse Caroline, «ma aveva il suo sistema.» «Ne aveva il diritto in quel caso.» «Sì, lo aveva.» «Aveva lo stesso diritto di Henry di vivere qui», sospirò Rebecca, «e, adesso che è morto, non abiterà mai più in questa casa che nostro padre lasciò a lui come a tutti noi.» «Di che cosa soffriva Edward, secondo te?», chiese Emma, in un sussurro. Non guardava la sorella. Caroline si sedette su una poltrona vicina, e strinse convulsamente i braccioli finché le magre nocche non le si sbiancarono. «Te l'ho detto», rispose. Rebecca, con il fazzoletto sulla bocca, le guardava con occhi terrorizzati e lacrimosi.
«Hai detto che aveva dolori terribili allo stomaco e degli spasmi, ma quale ne era la causa, secondo te?» «Henry diceva che si trattava di un problema gastrico. Sai che Edward aveva sempre sofferto di dispepsia.» Emma Brigham ebbe un attimo di esitazione. «Si è parlato di fare una... autopsia?», chiese. Allora Caroline le si rivolse con ira. «No», disse con voce terribile. «No!» L'anima delle tre sorelle si unì in una comune comprensione, attraverso gli sguardi. L'antiquato saliscendi della porta cigolò, e una spinta dall'esterno scosse la porta senza aprirla. «È Henry», disse Rebecca, in un singhiozzo più che in un sussurro. Emma Brigham, dopo una silenziosa corsa attraverso la stanza, si risedette nella sedia a dondolo e, stava oscillando avanti e indietro con la testa comodamente poggiata allo schienale, quando infine la porta si spalancò ed Henry Glynn entrò. Lanciò un'occhiata penetrante e comprensiva a Emma che dimostrava una calma forzata, a Rebecca accoccolata silenziosamente in un angolo del sofà con il fazzoletto sul viso e un orecchio rosso e vigile come quello di un cane che rivelava la sua attenzione, e a Caroline seduta con compostezza innaturale nella poltrona accanto alla stufa. Quest'ultima incontrò i suoi occhi con fermezza, ma con un'espressione di paura insondabile e di sfida nei suoi confronti. Henry Glynn somigliava più a Caroline che alle altre sorelle. Avevano entrambi la stessa finezza di tratti e di figura, entrambi erano alti e quasi emaciati, avevano radi capelli biondi con l'attaccatura alta sulla fronte intellettuale, ed entrambi avevano lineamenti fini e nobili. Si fronteggiarono l'un l'altro con la spietata immobilità di due statue sui cui volti tratti ed emozioni erano fissi per l'eternità. Poi Henry Glynn sorrise, e il sorriso gli trasformò il volto. A un tratto sembrò più giovane di anni, e una noncuranza e un'irrequietezza da ragazzino comparvero sulla sua faccia. Si lasciò cadere su una sedia con un gesto che era sorprendente per la sua incongruenza con l'aspetto complessivo dell'uomo. Appoggiò la testa allo schienale, accavallò le gambe e guardò con un sorriso Emma Brigham. «Emma: ringiovanisci a ogni anno che passa!», constatò. Lei arrossì leggermente, e la sua placida bocca si allargò agli angoli. Era sensibile ai complimenti. «I nostri pensieri di oggi devono essere dedicati all'unico di noi che non
invecchierà mai», disse Caroline, con voce dura. Henry la guardò, sorridendo ancora. «Naturalmente, nessuno di noi lo dimentica», disse l'uomo, con una voce gentile e profonda, «ma dobbiamo parlare con i vivi, Caroline, e non vedo Emma da molto tempo. I vivi sono cari quanto i morti.» «Non per me», disse Caroline. Si alzò e uscì improvvisamente dalla stanza. Anche Rebecca si alzò e si affrettò a seguirla, singhiozzando senza ritegno. Henry le seguì lentamente con lo sguardo. «Caroline è fuori di sé», disse. Emma Brigham era indecisa. Era stata presa alla sprovvista da un sentimento di fiducia in lui, originato dalle sue maniere. Grazie a quel sentimento, parlò con calma e naturalezza. «La sua morte è stata troppo improvvisa», disse. Le palpebre di Henry tremarono leggermente, ma il suo sguardo restò fermo. «Sì», disse, «è stata troppo improvvisa. È stato male solo per qualche ora.» «Qual è stata la tua diagnosi?» «Gastrite.» «Non hai pensato a fare un'autopsia?» «Non ce n'è stato bisogno. Sono assolutamente sicuro circa la causa della sua morte.» All'improvviso, Emma Brigham rabbrividì, come se un orrore abissale le avesse riempito l'anima. Il corpo le si coprì di pelle d'oca, per il tono che aveva avuto la voce del fratello. Si alzò, e vacillò sulle ginocchia che non la reggevano. «Dove vai?», le chiese Henry, con una strana voce ansante. Emma Brigham pronunciò una frase incoerente a proposito di cucire qualcosa di nero per il funerale, e uscì dalla stanza. Quindi entrò nella sua, che si trovava sul davanti della casa. C'era Caroline. Le si avvicinò e le afferrò le mani: le due sorelle si guardarono. «Non parlare: no, non voglio!», disse infine Caroline, in un bisbiglio terrorizzato. «Va bene!», replicò Emma. Quel pomeriggio le tre sorelle erano nello studio, una grande stanza a pianterreno sul davanti della casa di fronte al salotto a sud, quando cominciò a farsi scuro.
Emma stava facendo l'orlo a una stoffa nera. Era seduta vicino alla finestra esposta a occidente, per avere più luce. Infine posò il lavoro in grembo. «È inutile. Non posso più mettere nemmeno un punto finché non accendiamo la lampada», disse. Caroline, che stava scrivendo una lettera sul tavolo, sì rivolse a Rebecca, seduta nel suo solito angolino del sofà. «Rebecca, sarebbe opportuno che andassi a prendere la lampada!», disse. Rebecca trasalì: anche nella penombra il suo viso rivelava l'agitazione. «Non mi sembra che abbiamo già bisogno della lampada», disse con una voce implorante e supplichevole, simile a quella di un bambino. «Sì, ne abbiamo bisogno», ribatté Emma in tono perentorio. «Dobbiamo accendere una lampada. Devo finire questo vestito stasera, altrimenti non potrò andare al funerale, e ormai non riesco a mettere più nemmeno un punto, perché non vedo nulla.» «Caroline riesce a scrivere delle lettere, ed è molto più lontana di te dalla finestra!», replicò Rebecca. «Cerchi di risparmiare il cherosene o sei pigra, Rebecca Glynn?», gridò Emma. «Posso andare anch'io a prendere la lampada, ma ho tutto il lavoro in grembo.» La penna di Caroline smise di scricchiolare. «Rebecca, abbiamo bisogno di una lampada», disse. «Preferite averla qui dentro?», chiese Rebecca, in tono poco convinto. «Naturalmente! Perché no?», gridò Caroline con severità. «Sono sicura di non voler portare il mio lavoro di cucito nell'altra stanza, che è già stata messa in ordine per domani», disse Emma. «Non ho mai sentito tante storie per una lampada.» Rebecca si alzò e uscì dalla stanza. Dopo poco entrò con una lampada grande e un paralume di porcellana bianca. Lo posò su un tavolo, un vecchio tavolino da gioco che era appoggiato sulla parete opposta alla finestra. La parete era spoglia, senza le librerie e i libri che occupavano i tre lati della stanza. Su quella parete si aprivano tre porte, e lo spazio restante era occupato dal tavolo. Al di sopra di esso, sul vecchio parato bianco e satinato attraversato da una vaga voluta verde, era appesa una piccola miniatura d'avorio, con una cornice in oro e nero: era il ritratto della madre da ragazza. Quando la lampada fu posata sul tavolino, il minuscolo volto grazioso di-
pinto sull'avorio sembrò illuminarsi di una espressione intelligente. «A che scopo hai messo la lampada lassù?», chiese Emma, con impazienza maggiore di quella solitamente espressa dalla sua voce. «Già che c'eri, potevi metterla nel corridoio e farla finita. Né io né Caroline possiamo vedere, se sta su quel tavolino.» «Pensavo che forse vi sareste spostate», replicò Rebecca, con voce rauca. «Anche se mi spostassi, non potremmo sederci entrambe intorno a quel tavolino. Caroline ha i fogli sparsi tutt'intorno. Perché non metti la lampada sulla scrivania che è al centro della stanza, in modo che possiamo vedere entrambe?» Rebecca esitò. Era molto pallida. Guardò la sorella Caroline con una supplica tormentosa nello sguardo. «Perché non metti la lampada su questo tavolo, come dice Emma?», chiese Caroline, quasi con ira. «Perché ti comporti così, Rebecca?» «Stavo aspettando di vedere se glielo avresti chiesto», disse Emma. «Lei non si comporta affatto come al solito.» Rebecca prese la lampada e la posò sul tavolo che era al centro della stanza, senza aggiungere una parola. Poi le voltò rapidamente le spalle, si sedette sul sofà, e si mise una mano sugli occhi come per ripararli dalla luce, quindi restò così. «La luce ti dà fastidio agli occhi: per questo motivo non volevi la lampada?», chiese con gentilezza Emma. «A me è sempre piaciuto stare al buio», replicò Rebecca, con voce soffocata. Poi prese in fretta il fazzoletto dalla tasca e cominciò a piangere. Caroline continuò a scrivere, e Emma a cucire. A un tratto Emma, mentre cuciva, lanciò un'occhiata alla parete opposta. L'occhiata diventò uno sguardo fisso. Guardò intensamente, sempre con il lavoro tra le mani. Poi distolse lo sguardo, mise qualche altro punto e guardò di nuovo, quindi ritornò al suo lavoro. Alla fine posò la stoffa in grembo e fissò con concentrazione. Dalla parete spostò lo sguardo su tutta la stanza, osservando i vari oggetti. Guardò la parete a lungo e intensamente. Poi si rivolse alle sorelle. «Che cos'è?», disse. «Che cosa?», chiese Caroline con asprezza. La penna grattò rumorosamente sulla carta. Rebecca singhiozzò convulsamente. «Quella strana ombra sulla parete», ribatté Emma.
Rebecca si nascose la faccia. Caroline affondò la penna nel calamaio. «Perché non alzi gli occhi e guardi?», chiese Emma in tono interrogativo e alquanto risentito. «Ho fretta di finire la lettera, in modo che la signora Wilsonebbit riceva la notizia in tempo per venire al funerale», fu la breve replica di Caroline. Emma Brigham si alzò, lasciando cadere a terra il lavoro, e cominciò a camminare per la stanza e a muovere i vari soprammobili, con gli occhi sempre fissi sull'ombra. Poi strillò improvvisamente. «Guardate quell'ombra orribile! Che cos'è? Caroline, guarda, guarda! Rebecca, guarda! Che cos'è?» Tutta la trionfante placidità di Emma era scomparsa. Il suo bel volto era livido per l'orrore. Si irrigidì, indicando l'ombra. «Guardate!», disse ancora con l'indice puntato. «Guardate! Che cos'è?» Allora Rebecca emise un gemito selvaggio, dopo aver dato un'occhiata tremante alla parete. «Oh, Caroline, è di nuovo lì! È di nuovo lì!» «Caroline Glynn, guarda!», disse Emma. «Guarda! Che cos'è quell'ombra spaventosa?» Caroline si alzò, si girò, e restò a guardare la parete. «Perché dovrei saperlo?», chiese. «È su quella parete ogni sera, da quando è morto Edward», gridò Rebecca. «Ogni sera?» «Sì. Nostro fratello è morto giovedì, e oggi è sabato: sono tre sere», disse Caroline, rigida. Sembrava riuscisse a rimanere calma, stringendosi in una morsa di volontà concentrata. «So... so... somiglia... a...», balbettò Emma, con voce colma di orrore. «So molto bene a che cosa somiglia», disse Caroline. «Ho gli occhi per vedere.» «Somiglia a Edward», esplose Rebecca, in un delirio di paura. «Solo che...» «Sì, gli somiglia», assentì Emma, il cui tono inorridito era pari a quello della sorella, «solo che... Oh, è orribile! Che cos'è, Caroline?» «Te lo domando di nuovo: perché dovrei saperlo?», ribatté Caroline. «Lo vedo come te. Perché dovrei saperne di più di te?» «Deve essere qualcosa nella stanza», disse Emma, guardandosi intorno, con espressione disperata.
«La prima sera in cui è comparsa, abbiamo spostato tutto quello che c'è nella stanza», disse Rebecca. «Non è prodotta da nulla che si trovi nella stanza.» Caroline l'aggredì con ira. «È ovvio che deve essere prodotta da qualcosa della stanza», disse. «Ma perché ti comporti così? Che cosa vuoi dire? È ovvio che deve essere prodotta da qualcosa nella stanza.» «Certo», convenne Emma, guardando Caroline con sospetto. «Deve essere così. È solo una coincidenza: un caso. Forse è quella piega nella tenda della finestra che la crea. Dev'essere qualcosa nella stanza.» «Non è qualcosa che è nella stanza!», ripeté Rebecca con ostinato orrore. La porta si aprì all'improvviso ed entrò Henry Glynn. Cominciò a parlare, poi i suoi occhi seguirono la direzione degli sguardi delle sorelle. Restò immobile come un sasso a fissare l'ombra sulla parete. Era a grandezza naturale e si allungava sul bianco rettangolo di una porta, e per metà sulla parete dove era appeso il ritratto. «Che cos'è?», domandò con voce strana. «Deve dipendere da qualcosa che è nella stanza», disse debolmente Emma. «Non dipende da nulla che è nella stanza!», insisté Rebecca, di nuovo con la stridula insistenza del terrore. «Ma come ti comporti, Rebecca Glynn!», esclamò Caroline. Henry Glynn guardò ancora l'ombra. Sul suo volto si manifestò una gamma di emozioni: orrore, colpa, poi rabbiosa incredulità. All'improvviso, cominciò a camminare a passi rapidi per la stanza. Spostò i mobili con gesti violenti, ogni volta girandosi per vedere l'effetto sull'ombra. Non mutava nemmeno un tratto di quella terribile sagoma. «Dev'essere qualcosa nella stanza!», dichiarò con una voce che risuonò sferzante come un colpo di frusta. Poi il suo volto cambiò. Diventarono manifesti i segreti intimi della sua natura, fino al punto che i suoi lineamenti ne furono sopraffatti. Rebecca rimase in piedi, accanto al sofà, guardandolo con occhi tristi e affascinati. Emma strinse una mano di Caroline. Entrambe erano in un angolo, lontano dal raggio d'azione del fratello. Per qualche istante questi si aggirò nella stanza come un animale selvaggio in gabbia. Spostò tutti i mobili: quando lo spostamento di un mobile non influiva sull'ombra, lo gettava a terra, sotto gli sguardi attoniti delle sorelle. Poi, improvvisamente, rinunciò. Rise e cominciò a raddrizzare i mobili
che aveva buttato a terra. «Che assurdità», disse con leggerezza. «Tante storie per un'ombra!» «È vero», assentì Emma, con una voce spaventata che la donna si sforzava di rendere naturale. Nel parlare, sollevò una sedia che era caduta lì vicino. «Penso che tu abbia rotto la sedia a cui Edward era tanto affezionato», osservò Caroline. Terrore e ira lottarono per trovare posto sul volto della donna. La sua bocca era ferma, gli occhi socchiusi. Henry sollevò la sedia con finta ansia. «È buona come prima», disse, in tono scherzoso. Quindi rise di nuovo, guardando le sorelle. «Vi ho spaventate?», chiese. «Ormai dovreste essere abituate ai miei modi di fare. Conoscete la mia maniera di andare al fondo di un mistero, e quell'ombra ha un aspetto... bizzarro, forse. Ho pensato che, se ci fosse stato un modo di spiegarla, mi sarebbe piaciuto farlo senza indugi.» «A quanto pare, non hai avuto successo», osservò Caroline, in tono asciutto, con un fuggevole sguardo alla parete. Gli occhi di Henry seguirono i suoi, e l'uomo rabbrividì visibilmente. «Oh, non c'è spiegazione per le ombre», disse, e rise di nuovo. «È stupido cercare di spiegare le ombre.» Poi suonò la campanella per la cena, e tutti lasciarono la stanza: Henry rivolse la schiena alla parete come, del resto, fecero anche le sorelle. Mentre attraversavano il corridoio, Emma si avvicinò a Caroline. «Sembrava un demone!», le sussurrò all'orecchio. Henry faceva strada con un'andatura agile, da ragazzo. Rebecca chiudeva la fila: camminava a malapena, tanto le tremavano le ginocchia. «Stasera non ce la faccio a stare ancora in quella stanza», sussurrò a Caroline dopo la cena. «Benissimo!», replicò Caroline. «Penso che andremo nel salotto a sud», disse poi a voce alta, «è meno umido dello studio, e io sono raffreddata.» Si accomodarono tutte nella stanza a sud con i loro lavori di cucito. Henry leggeva il giornale, con la sedia accostata alla lampada che stava sul tavolo. Verso le nove si alzò all'improvviso e attraversò il corridoio per andare nello studio. Le tre sorelle si guardarono. Emma si alzò, raccolse le gonne fruscianti intorno alle gambe e si avvicinò alla porta in punta di piedi. «Che cosa hai intenzione di fare?», domandò Rebecca, agitata. «Voglio vedere che cosa fa!», replicò Emma con cautela.
Indicò la porta dello studio, che si trovava dall'altra parte del corridoio: era socchiusa. Henry aveva tentato di chiuderla dietro di sé, ma quella si era gonfiata oltre ogni limite con una strana rapidità. Era ancora socchiusa e ne trapelava una striscia di luce. La lampada del corridoio non era accesa. «Sarebbe meglio che restassi dove sei», disse Caroline, con asprezza. «Voglio vedere!», ripeté Emma con decisione. Poi raccolse il vestito intorno a sé con tanta aderenza che le mature curve del suo corpo si palesarono nella guaina di seta. Attraversò il corridoio con andatura lenta e incerta, quindi si fermò davanti alla porta dello studio, con lo sguardo sulla fessura. Nella stanza a sud, Rebecca smise di cucire e restò con lo sguardo fisso nel vuoto. Caroline continuò a cucire. Ma ecco quello che vide Emma, ferma davanti alla porta dello studio, attraverso la fessura. Henry Glynn, che evidentemente aveva concluso che la fonte della strana ombra doveva trovarsi tra il tavolo su cui era la lampada e la parete, menava stoccate e affondi su tutto lo spazio che gli stava davanti con una vecchia spada appartenuta al padre. Non trascurò nemmeno un centimetro. Doveva aver diviso lo spazio in sezioni matematiche. Brandiva la spada con gelida rabbia e lucidità, e la lama emetteva lampi di luce, ma l'ombra restava intatta. Emma si sentì gelare per l'orrore. Infine Henry si fermò e restò con la spada in mano, pronto a colpire, guardando minacciosamente l'ombra sulla parete. Emma riattraversò il corridoio e chiuse la porta della stanza a sud, prima di riferire che cosa aveva visto. «Sembrava un demone!», ripeté. «C'è ancora in casa un po' di quel vecchio vino, Caroline? Sento di non riuscire a sopportare oltre.» Sembrava effettivamente distrutta. Il suo bel volto tranquillo era esausto, teso e pallido. «Sì, ce n'è in abbondanza», disse Caroline. «Te ne darò un goccio prima di andare a letto.» «Penso che faremmo bene tutte a prenderne un po'», disse Emma. «Oh, mio Dio, Caroline, che cosa...» «Non fare domande e non parlare», disse Caroline. «No, non ne ho l'intenzione!», replicò Emma. «Ma...» Rebecca si lamentò a voce alta. «Perché ti lamenti?», chiese con asprezza Caroline.
«Povero Edward!», rispose Rebecca. «Questo è l'unico motivo per cui devi piangere», disse Caroline. «Non ce ne sono altri.» «Vado a letto», disse Emma. «Non riuscirò a venire al funerale, se non vado subito a dormire.» Poco dopo, le tre sorelle si recarono ciascuna nella propria stanza, e il salotto a sud restò vuoto. Caroline disse a Henry, che si trovava ancora nello studio, di mettere la lampada fuori, prima di salire al primo piano. Le sorelle se ne erano andate da circa un'ora, quando l'uomo entrò nel salotto con in mano la lampada. La posò sul tavolo e aspettò qualche minuto, camminando avanti e indietro. Il suo viso aveva un aspetto terribile, il suo bel colorito era livido, e aveva gli occhi azzurri che sembravano delle orbite nere colme di orrore. Poi prese la lampada e ritornò nella biblioteca, la posò sul tavolo centrale, e l'ombra spuntò sulla parete. Studiò ancora una volta il mobilio e lo spostò, ma con attenzione, senza la precedente frenesia. Nulla fece mutare l'ombra. Allora Henry ritornò nella stanza a sud con la lampada e attese. Poi rientrò nello studio e sistemò la lampada sul tavolo: l'ombra spuntò nuovamente sulla parete. Era mezzanotte quando infine salì al piano superiore. Emma e le altre sorelle, che non riuscivano a dormire, lo sentirono. Il giorno seguente ebbe luogo il funerale. La sera la famiglia era seduta nella stanza a sud. Alcuni parenti erano con loro. Nessuno entrò nello studio finché Henry non vi portò la lampada, dopo che le sorelle si furono ritirate per la notte. Rivide l'ombra sulla parete animarsi alla luce. La mattina dopo, a colazione, Henry Glynn annunciò che si sarebbe recato in città per tre giorni. Le sorelle lo guardarono sorprese. Lasciava raramente la casa e, proprio in quel periodo, aveva trascurato i pazienti a causa della morte di Edward. Era medico. «Come fai a lasciare i tuoi pazienti adesso?», chiese con stupore Emma. «Non so come fare, ma non ho altre possibilità», replicò Henry con disinvoltura. «Ho ricevuto un telegramma dal Dottor Mitford.» «Un consulto?», domandò Emma. «Ho delle faccende da sbrigare», replicò Henry. Il Dottor Mitford era un suo vecchio compagno di studi che viveva in una città vicina e che ogni tanto lo chiamava in caso di un consulto. Dopo che il fratello se ne fu andato, Emma disse a Caroline che, dopotutto, Henry non aveva detto che sarebbe andato dal Dottor Mitford per un consulto, e che lei lo riteneva molto strano.
«Tutto è molto strano!», disse Rebecca, rabbrividendo. «Che cosa vuoi dire?», domandò Caroline con durezza. «Niente!», ribatté Rebecca. Nessuno entrò nella biblioteca quel giorno, né il successivo, né l'altro ancora. Il terzo giorno aspettavano il ritorno di Henry, ma lui non rientrò nemmeno dopo l'arrivo dell'ultimo treno dalla città. «È una faccenda veramente strana», disse Emma. «Un dottore che abbandona i suoi pazienti per tre giorni, in un momento simile! E so che ne ha alcuni gravemente malati: me lo ha detto lui. E un consulto che dura tre giorni! Non c'è alcun senso, e Henry ancora non è tornato. Io, da parte mia, non lo capisco.» «Io nemmeno», disse Rebecca. Erano tutt'e tre nel salotto a sud. Non c'era luce nello studio, che si trovava di fronte, e la porta era socchiusa. Poco dopo, Emma si alzò: non avrebbe saputo dire perché, ma qualcosa la spinse a farlo, qualcosa al di fuori di lei. Uscì dalla stanza, si avvolse di nuovo le gonne fruscianti intorno alle gambe in modo da camminare senza far rumore, e cominciò a spingere la porta dello studio. «Non ha la lampada», osservò Rebecca con voce tremante. Caroline, che stava scrivendo delle lettere, si alzò, prese la lampada (ce n'erano due nella stanza) e seguì la sorella. Rebecca si alzò, ma poi si fermò, scossa da un tremito, senza il coraggio di seguirle. Il campanello della porta suonò, ma le altre non lo sentirono: si trovava dal lato opposto della casa, rispetto allo studio. Rebecca esitò finché il campanello suonò per la seconda volta, poi andò alla porta. Si era ricordata che la cameriera non c'era. Caroline e la sorella Emma entrarono nello studio. Caroline posò la lampada sul tavolo. Guardarono la parete. «Oh, mio Dio!», ansimò Emma. «Ci sono... ci sono due... ombre.» Le sorelle si strinsero l'una all'altra, con lo sguardo fisso sulle due orribili ombre. Poi entrò Rebecca, barcollando, con un telegramma in mano. «È arrivato... un telegramma», disse con voce tremula. «Henry è... morto!» ANN RADCLIFFE La camera dei fantasmi Il Conte diede ordine che si aprissero le stanze a nord, e che venissero
preparate per ricevere Ludovico; ma Dorothee, memore di quanto recentemente aveva visto in quell'ala, ebbe paura a obbedire e, poiché nessuno degli altri servi osò avventurarvisi, le stanze rimasero chiuse fino all'ora in cui Ludovico vi sarebbe andato per la notte, un momento atteso da tutti nel castello con grandissima impazienza. Dopo cena, per ordine del Conte, Ludovico lo seguì nello studio dove i due rimasero per quasi mezz'ora; uscendo, il Signore gli consegnò una spada. «Questa ha ben servito in contese mortali», disse il Conte con allegria. «Tu la userai onorevolmente, non ne dubito, in una contesa spirituale. Domani fammi sapere che non è rimasto neppure un fantasma nel castello.» Ludovico prese l'arma con un rispettoso inchino. «Vi ubbidirò, mio Signore», disse. «M'impegnerò perché nessuno spettro disturbi la pace del castello dopo questa notte.» Tornarono in sala da pranzo, dove gli ospiti del Conte aspettavano per accompagnare lui e Ludovico nelle stanze a nord; Dorothee, a cui fu chiesto di portare le chiavi, le consegnò a Ludovico che subito dopo si mosse per primo, seguito dalla maggioranza dei presenti. Raggiunta la scala posteriore, diversi servi arretrarono e si rifiutarono di andare oltre, ma gli altri lo seguirono fino in cima alle scale, dove un largo pianerottolo consentì loro di radunarsi intorno a Ludovico, che intanto infilava la chiave nella serratura; lo osservarono con impaziente curiosità, come se stesse compiendo un rito magico. Non pratico della serratura, Ludovico non riuscì a girare la chiave e Dorothee, che indugiava in basso, fu chiamata su e sotto la sua mano esperta la porta si aprì lentamente; sbirciò nella stanza oscura, emise uno strillo e si ritirò. A quel segnale d'allarme, la maggior parte dei presenti fuggì di sotto, e il Conte, Henri e Ludovico, rimasero soli a proseguire la visita; si precipitarono dentro, Ludovico con la spada che aveva avuto appena il tempo di sguainare, il Conte con un lume in mano, e Henri con un cesto di provviste per il coraggioso avventuriero. Dopo avere guardato frettolosamente la prima stanza, dove nulla pareva giustificare lo spavento, passarono nella seconda; anche qui era tutto tranquillo, ed entrarono quindi nella terza con passo più moderato. Il Conte ebbe il tempo di sorridere dell'agitazione che aveva mostrato e di chiedere a Ludovico in quale stanza contasse di passare la notte.
«Ci sono diverse stanze oltre a queste, Vostra Eccellenza», disse Ludovico indicando una porta, «e in una di esse c'è un letto, dicono. Passerò là la notte; e, quando sarò stanco di vegliare, potrò distendermi.» «Bene», concluse il Conte. «Andiamo avanti. Vedi: queste stanze non mostrano che pareti umide e mobili marci. Sono stato così occupato da quando sono arrivato al castello, che finora non mi sono curato di questo settore. Ricordati, Ludovico: domani devi dire alla governante di spalancare le finestre. I tendaggi di damasco cadono a pezzi; li farò tirare giù, e farò togliere questa vecchia mobilia.» «Caro signore», intervenne Henri, «qui c'è una poltrona così ricca di dorature da somigliare moltissimo a una di quelle regali del Louvre.» «Sì», annuì il Conte soffermandosi a esaminarla, «questa poltrona ha una sua storia, ma ora non ho tempo di raccontarla: procediamo. Questa serie di stanze è più estesa di quanto immaginassi; sono passati tanti anni da quando vi abitavo! Ma dov'è la camera da letto di cui parli, Ludovico? Queste sono anticamere del salotto grande. Io le ricordo nel loro splendore.» «Il letto, mio Signore», rispose Ludovico, «da quanto mi hanno detto, è in una stanza oltre il salone, l'ultima di questo settore.» «Oh, ecco il salone», disse il Conte quando entrarono nella spaziosa stanza in cui Emily e Dorothee erano state. Lì si fermò un momento, esaminando i resti della passata grandezza: i sontuosi arazzi, i lunghi e bassi divani di velluto con intelaiatura di legno massiccio intagliato e dorato, il pavimento a mosaico di marmo coperto al centro da un prezioso tappeto, le finestre dai vetri istoriati, e i grandi specchi veneziani di dimensioni e qualità che la Francia di quell'epoca non faceva più, specchi che riflettevano la grande stanza da ogni lato. Avevano rispecchiato anche scene gaie e brillanti, perché quella era la sala di ricevimento del castello, e lì la Marchesa aveva radunato gli ospiti per le feste delle sue nozze. Se la bacchetta di un mago avesse potuto far rivivere lì quelle persone - molte delle quali ormai erano scomparse dalla terra - che un tempo erano passate davanti a quei lucidi specchi, quale immagine variegata e lontana avrebbero mostrato rispetto al presente! In quel momento, anziché lo sfavillio delle luci e una folla splendida e in movimento, gli specchi riflettevano solo il chiarore del lume che il Conte teneva in mano, e che appena serviva a mostrare le tre persone che stavano esaminando la stanza e le grandi pareti scure attorno a loro. «Ah!», disse il Conte a Henri, scuotendosi dalle sue profonde fantasti-
cherie. «Com'è cambiata la scena da quando la vidi l'ultima volta! Ero giovane allora, e la Marchesa era viva e nel suo fulgore; c'erano tante altre persone qui che ora non ci sono più. Là stava l'orchestra, qui ci urtavamo l'uno con l'altro in una briosa confusione; le pareti echeggiavano della musica dei balli. Ora risuonano soltanto di una debole voce, e anche quella, fra non molto, non si udirà più. Figlio mio, ricordati che un tempo ero giovane come te, e che tu dovrai morire come coloro che ti hanno preceduto, come coloro che quando cantavano e ballavano in questa allegra stanza, dimenticarono che gli anni sono fatti di una somma di minuti e che ogni passo compiuto li portava più vicini alla tomba. Ma queste riflessioni sono inutili, stavo per dire criminali, a meno che non c'insegnino a prepararci per l'eternità, perché altrimenti offuscano la nostra attuale felicità senza guidarci a quella futura. Ma basta con questo... andiamo avanti.» Ludovico aprì allora la porta della camera da letto, e il Conte, entrando, fu colpito dall'aspetto funereo conferito alla stanza dal drappo scuro. Si avvicinò al letto con commossa solennità, e accorgendosi che era coperto da un drappo di velluto nero, si fermò. «Cosa significa tutto ciò?», disse, guardandolo. «Ho sentito dire, mio Signore», rispose Ludovico che stava ai piedi del letto e guardava all'interno dei veli del baldacchino, «che la Marchesa de Villeroi morì in questa camera e che vi rimase fino a quando non fu sepolta, e questo forse può spiegare il drappo.» Il Conte non rispose, ma rimase assorto nei suoi pensieri, evidentemente molto colpito. Poi, rivolto a Ludovico, gli chiese con aria seria se riteneva di avere tanto coraggio da passare lì la notte. «Se hai timore», aggiunse, «non vergognarti di dirlo; ti libererò dal tuo impegno senza esporti agli scherni dei tuoi compagni.» Ludovico tacque; l'orgoglio e qualcosa che somigliava molto alla paura lottarono dentro di lui; ma l'orgoglio prevalse, il servo arrossì e ruppe ogni indugio. «No, mio Signore», disse, «porterò a compimento ciò che ho iniziato; e vi sono grato per la vostra premura. In quel caminetto accenderò il fuoco, e con le buone cose contenute in questo cesto non dubito che agirò bene.» «Così sia», disse il Conte. «Ma come combatterai la noia della notte, se non dormi?» «Quando sarò stanco, mio Signore», rispose Ludovico, «non avrò paura di dormire; per la veglia ho un libro che mi farà compagnia.»
«Bene!», disse il Conte. «Spero che nulla ti disturbi ma, se dovessi spaventarti seriamente durante la notte, vieni da me. Ho troppa fiducia nel tuo buonsenso e nel tuo coraggio per credere che tu ti possa spaventare per poco, o che soffra del buio della stanza, o della sua posizione lontana, lasciandoti prendere da terrori immaginari. Domani dovrò ringraziarti dell'importante servizio; queste stanze saranno aperte, e la mia gente si convincerà del proprio errore. Buonanotte, Ludovico; fatti vedere presto domani mattina, e ricordati quel che ti ho detto prima.» «Sì, mio Signore. Buona notte a Vostra Eccellenza... vi accompagno con il lume.» Fece luce al Conte e a Henri ripercorrendo le stanze fino alla porta sulle scale. Sul pianerottolo c'era un lume, lasciato lì da un servo spaventato; Henri lo prese e rinnovò la buonanotte a Ludovico, il quale, ricambiando rispettosamente, chiuse la porta e la sprangò. Poi, tornando verso la camera da letto, esaminò via via le stanze con più meticolosità di prima; infatti temeva che qualcuno potesse esservisi nascosto per spaventarlo. Ma non c'era nessuno e, lasciando aperte le porte mentre andava avanti, arrivò nel salone, la cui spaziosità e oscurità silenziosa lo fecero trasalire un poco. Guardò indietro la lunga teoria di stanze comunicanti che aveva attraversato poi, girandosi, vide una luce e la sua immagine riflesse in uno dei grandi specchi e sobbalzò. Anche altri oggetti erano vagamente visibili nello specchio, ma lui non indugiò oltre e si affrettò a raggiungere la camera: l'esaminò e aprì la finestra del balcone chiuso a vetrata. Tutto lì era silenzio. Guardando attorno, il suo occhio fu attirato dal ritratto della defunta Marchesa, che lui fissò a lungo, con grande attenzione e con una certa sorpresa; poi, controllato lo spogliatoio, tornò in camera dove accese un fuoco di legna, la cui fiamma vivace gli rallegrò lo spirito, che aveva cominciato a risentire della tetraggine e del silenzio del luogo, interrotto soltanto da sporadiche raffiche di vento. Avvicinò un tavolino e una poltrona al caminetto, prese una bottiglia di vino e del cibo freddo dal cesto, e si concesse un buon pasto. Quando ebbe finito, depose la spada sul tavolo e, non sentendo il bisogno di dormire, tirò fuori dalla tasca il libro di cui aveva parlato. Conteneva vari antichi racconti provenzali. Attizzato il fuoco per avere una fiamma più viva, sistemò il lume e avvicinò la poltrona al caminetto; cominciò a leggere, e la sua attenzione fu presto assorbita interamente dalle scene descritte. Intanto il Conte era tornato nella sala da pranzo, dove quelli che l'aveva-
no seguito verso il settore nord erano rientrati dopo il grido di Dorothee, e ora facevano domande su domande riguardo a quelle stanze. Il Conte rimproverò i suoi ospiti per la loro fuga precipitosa e per le tendenze superstiziose che l'avevano dettata, e questo portò al quesito: lo spirito, dopo aver abbandonato il corpo, ha la possibilità di rivisitare la terra? E, in caso affermativo, possono mai gli spiriti diventare visibili ai sensi? Il Barone espresse l'opinione che la prima cosa fosse possibile, la seconda no; e si sforzò di giustificare le proprie idee citando autorevoli fonti antiche e moderne. Il Conte, invece, fu di parere opposto; ne seguì una lunga conversazione nella quale furono intavolati i soliti argomenti pro e contro, discussi con perizia e con franchezza, ma alla fine ognuno rimase della propria opinione. L'effetto della conversazione sui partecipanti fu vario. Sebbene il Conte avesse, rispetto al Barone, più argomenti a suo favore, ottenne meno consensi; perché quell'amore, così naturale per la mente umana, di tutto ciò che può allargare le proprie facoltà con meraviglia e stupore, portò la maggioranza della comitiva dalla parte del Barone; e, sebbene molte delle asserzioni del Conte non trovassero risposta, i suoi oppositori furono inclini a credere che questo dipendesse dalla loro mancanza di conoscenza di una materia tanto astratta, e non piuttosto da mancanza di argomenti abbastanza validi per convincerlo. Blanche, pallida nella sua attenzione, arrossì quando vide l'ironia nello sguardo di suo padre, e allora cercò di dimenticare i racconti superstiziosi ascoltati in convento. Emily ascoltava con grandissima attenzione la discussione, che per lei racchiudeva un problema interessante; ricordando l'apparizione della Marchesa da lei vista nella stanza, spesso il timore la raggelò. Più volte fu sul punto di dire quello che aveva visto, ma la paura di dare un dolore al Conte e di metterlo in ridicolo, la frenò; quindi, aspettando con ansiosa trepidazione il risultato dell'azione intrepida di Ludovico, decise che il suo futuro silenzio sarebbe dipeso da quello. Quando la comitiva si separò per la notte e il Conte andò nel suo spogliatoio, il ricordo delle desolate scene che aveva visto nel castello lo colpì profondamente, ma alla fine fu riscosso dai suoi pensieri e dal suo silenzio. «Che musica è questa che sento?», chiese al suo valletto. «Chi suona a quest'ora di notte?» L'uomo non rispose. Il Conte continuò ad ascoltare e poi aggiunse: «Questo non è un suonatore qualunque; tocca lo strumento con mano delicata. Chi è, Pierre?».
«Mio Signore!», esclamò l'uomo titubante. «Chi suona questo strumento?», ripeté il Conte. «Non lo sa, dunque, Vostra Signoria?», chiese il valletto. «Cosa intendi dire?», chiese il nobiluomo severamente. «Niente, mio Signore, non intendo dire niente», replicò l'uomo con aria sottomessa, «solo che... questa musica la si sente spesso attorno alla casa a mezzanotte, e pensavo che Vostra Signoria l'avesse già sentita.» «Una musica attorno alla casa a mezzanotte! Poveretto! C'è qualcuno che balla anche al suono di questa musica?» «Non è nel castello, credo, mio Signore. Il suono viene dal bosco, dicono, anche se sembra vicinissimo; ma del resto uno spirito può fare qualsiasi cosa.» «Ah, poveretto!», disse il Conte. «Mi sembri sciocco come tutti gli altri; domani ti convincerai del tuo ridicolo errore. Ma ascolta, che rumore è questo?» «Oh, mio Signore! Questa è la voce che spesso udiamo con la musica.» «Spesso!», disse il Conte. «Quanto spesso, dimmi? È molto bella.» «Diamine, mio Signore: io stesso non l'ho udita più di due o tre volte, ma altri che sono qui da più tempo l'hanno udita abbastanza spesso.» «Che cosa magnifica!», esclamò il Conte ascoltando. «E adesso che modulazione agonizzante! Questa è sicuramente una voce più che mortale.» «È ciò che dicono, mio Signore», disse il valletto. «Dicono che non è mortale la cosa che la emette; e se mi consentite di esprimere i miei pensieri...» «Zitto!», l'interruppe il Conte, e ascoltò fino a quando il canto non svanì. «Tutto ciò è strano», disse ritirandosi dalla finestra. «Chiudi le finestre, Pierre.» Pierre obbedì e, poco dopo, il Conte lo congedò, ma non cancellò il ricordo della musica, che vibrò a lungo nella sua fantasia con tonalità di struggente dolcezza, mentre sorpresa e perplessità occupavano i suoi pensieri. Frattanto Ludovico, nella sua stanza lontana, udiva di tanto in tanto la debole eco di una porta che si chiudeva quando la famiglia andò a dormire; poi la pendola del vestibolo, molto distante, batté dodici rintocchi. «È mezzanotte», disse, e guardò sospettosamente la grande stanza. Il fuoco nel caminetto stava quasi per spegnersi, perché aveva concentrato nel libro la sua attenzione, dimenticando ogni altra cosa; allora aggiunse nuova legna, non perché avesse freddo, nonostante la notte burrascosa, ma
perché era triste; e, dopo aver di nuovo regolato il lume, si versò un bicchiere di vino, accostò di più la poltrona al fuoco crepitante, cercò di non ascoltare il vento che ululava lugubremente contro le finestre, si sforzò di allontanare la mente dalla malinconia che si stava insinuando in lui, e riprese in mano il libro. Glielo aveva prestato Dorothee, la quale a sua volta l'aveva pescato in un oscuro angolo della biblioteca del Marchese; avendolo aperto e avendovi scorto le meraviglie che narrava, se l'era tenuto per il proprio piacere, giustificata in questo dalle condizioni del volume. L'angolo umido in cui il libro era caduto ne aveva rovinato la copertina, che era ammuffita, mentre le pagine si erano scolorite e macchiate, tanto è vero che i caratteri di stampa erano difficili da leggere. La novellistica degli autori provenzali, derivata da leggende arabe portate dai Saraceni in Spagna, o basata sulle gesta cavalleresche compiute dai Crociati che i trovatori avevano accompagnato in Oriente, era generalmente splendida, e sempre prodigiosa negli scenari e negli episodi; e non fa meraviglia che Dorothee e Ludovico fossero affascinati da scene che avevano catturato la sbadata immaginazione di ogni classe sociale in epoche precedenti. Tuttavia alcuni racconti del libro che Ludovico aveva davanti erano di semplice struttura, e nulla mostravano degli stupendi intrecci e delle gesta eroiche che usualmente caratterizzavano le favole del XII secolo. Tale era il racconto che lui si accinse a leggere; nella sua forma originaria era assai lungo, ma può essere riferito brevemente. Il lettore si accorgerà che è fortemente impregnato delle superstizioni dell'epoca. Il racconto provenzale In Bretagna viveva un illustre Barone, famoso per la sua magnificenza e la sua ospitalità raffinata. Il suo castello era abbellito da dame di squisita beltà e affollato da nobili Cavalieri, perché l'onore che lui rendeva alle imprese cavalleresche sollecitava i coraggiosi di lontani paesi a entrare nelle sue liste, così la sua Corte era più splendida di quelle di molti Principi. Al suo servizio c'erano otto menestrelli, che suonavano l'arpa raccontando romantiche storie tratte dagli Arabi, avventure cavalleresche capitate ai Cavalieri durante le Crociate, o azioni marziali del Barone loro Signore, mentre lui, circondato da Dame e Cavalieri, banchettava nella grande sala del castello, dove i costosi arazzi che adornavano le pareti illustrando le
imprese dei suoi antenati, le finestre con vetri istoriati arricchite di stemmi, gli sgargianti stendardi che sventolavano lungo il tetto, i sontuosi baldacchini, la profusione d'oro e d'argento che scintillava sulle credenze, i numerosi piatti che coprivano la tavola, la quantità dei servi in vivaci livree, nonché l'abbigliamento cavalleresco e splendido degli ospiti, contribuivano a formare uno scenario di una magnificenza che non possiamo sperare di vedere nell'attuale degenerazione. Del Barone si narra la seguente avventura. Una notte, ritiratosi tardi in camera dopo un banchetto e fatti allontanare i valletti, fu sorpreso dall'apparizione di uno sconosciuto dall'aria nobile, ma in atteggiamento addolorato e sconsolato. Credendo che la persona fosse stata nascosta nella stanza, poiché sembrava impossibile che avesse attraversato l'anticamera poco prima senza essere notata dai paggi che vi stazionavano, e che gli avrebbero precluso quell'intrusione, il Barone chiamò a gran voce la sua gente, estrasse la spada che non si era ancora tolto dal fianco e assunse una posizione di difesa. Lo sconosciuto, avanzando lentamente, gli disse che non c'era nulla da temere; che lui non veniva con intenzioni ostili, ma per comunicargli un terribile segreto che doveva necessariamente conoscere. Tranquillizzato dai modi cortesi dello sconosciuto, il Barone, dopo averlo esaminato un po' in silenzio, rinfoderò la spada e volle che l'uomo gli spiegasse con quali mezzi fosse arrivato in quella stanza e quale fosse lo scopo dell'inattesa visita. Senza rispondere alle due domande, lo sconosciuto disse che non poteva dare spiegazioni, ma che se il Barone avesse accettato di seguirlo fino al margine della foresta, a breve distanza oltre le mura del castello, l'avrebbe convinto là di avere qualcosa d'importante da rivelargli. Tale proposta allarmò di nuovo il Barone, che poco credeva che lo sconosciuto volesse attirarlo in un luogo così solitario a quell'ora di notte senza covare il proposito di attentare alla sua vita; rifiutò di andare, osservando altresì che se l'intenzione dello sconosciuto fosse stata onorevole, non avrebbe continuato a rifiutarsi di rivelare il motivo della sua presenza in quella stanza. Mentre diceva questo, scrutò lo sconosciuto più attentamente, senza scorgervi cambiamenti d'espressione, né sintomi che denunciassero la consapevolezza di cattive intenzioni. Era vestito come un Cavaliere, di statura alta e maestosa, dai modi dignitosi e cortesi. Tuttavia non volle comunicare il motivo della sua visita, a meno che non andassero nel luogo indicato;
e, al tempo stesso, accennò al segreto che avrebbe rivelato, il che risvegliò nel Barone un certo grado di curiosità, che alla fine lo indusse ad aderire alla richiesta, ma a determinate condizioni. «Signor Cavaliere», disse, «vi accompagnerò nella foresta, e condurrò con me solo quattro persone che saranno testimoni della nostra conversazione.» A questo, però, il Cavaliere si oppose. «Quanto vi svelerò», disse con solennità, «è per voi soltanto. Vi sono unicamente tre persone viventi alle quali la circostanza è nota; è di grande rilievo per voi e per la vostra famiglia che non lo chiarisca adesso. Negli anni futuri ripenserete a questa notte con soddisfazione o pentimento, secondo quanto deciderete di fare. Se vorrete prosperare d'ora in avanti, seguitemi; sul mio onore di Cavaliere vi garantisco che non vi capiterà del male. Se vi accontentate di sfidare il futuro, restate nella vostra camera, e io me ne andrò così come sono venuto.» «Signor Cavaliere», rispose il Barone, «com'è possibile che la mia futura pace dipenda dalla decisione presente?» «Questo non va detto adesso», replicò lo sconosciuto. «Mi sono spiegato il più possibile. È tardi; se avete deciso di seguirmi, affrettiamoci; farete bene a considerare l'alternativa.» Il Barone rifletté e, guardando il Cavaliere, notò che la sua espressione si era fatta particolarmente solenne. (A questo punto Ludovico ebbe l'impressione di sentire un rumore, diede una rapida occhiata attorno alla stanza e poi sollevò il lume per controllare meglio; quindi riprese il libro e continuò a leggere.) Il Barone camminò avanti e indietro in silenzio, colpito dalle parole dello sconosciuto, la cui eccezionale richiesta temeva tanto di accettare quanto di rifiutare. Infine disse: «Signor Cavaliere, non vi conosco affatto; ditemi, è ragionevole che mi avventuri solo con uno sconosciuto a quest'ora nella foresta solitaria? Ditemi almeno chi siete e chi vi ha aiutato a nascondervi in questa camera». Il Cavaliere a quelle parole corrugò la fronte e rimase momentaneamente in silenzio; poi, con espressione un po' severa, disse: «Sono un Cavaliere inglese, mi chiamo Sir Bevys di Lancaster e le mie imprese non sono sconosciute nella Città Santa; da là stavo tornando alla mia terra natia quando la notte mi ha sorpreso nella foresta». «Il vostro nome è divenuto famoso», disse il Barone. «L'ho sentito.» Il Cavaliere aveva un atteggiamento altezzoso. «Ma dato che il mio castello è
noto per accogliere tutti i veri Cavalieri, perché il vostro araldo non vi ha annunciato? Perché non vi siete mostrato al banchetto dove la vostra presenza sarebbe stata gradita, invece di nascondervi nel mio castello e sgattaiolare in camera mia a mezzanotte?» Lo sconosciuto si accigliò e girò la testa in silenzio; ma il Barone ripeté le domande. «Non vengo», disse il Cavaliere, «per rispondere a domande, ma per rivelare fatti. Se volete saperne di più, seguitemi; e vi garantisco sul mio onore di Cavaliere che tornerete incolume. Fate presto a decidere... devo andarmene.» Dopo qualche ulteriore incertezza, il Barone decise di seguirlo e di accertare l'esito di quell'insolita richiesta; sfoderò di nuovo la spada e, preso un lume, ordinò al Cavaliere di andare avanti. Questi obbedì e, aperta la porta, passarono nell'anticamera dove il Barone, stupito di trovarvi tutti i suoi paggi addormentati, si fermò; con subitanea violenza stava per rimproverarli della loro trascuratezza, ma il Cavaliere fece un cenno con la mano e guardò il Barone in modo così espressivo che quest'ultimo frenò il risentimento e passò oltre. Scese le scale, il Cavaliere aprì una porta segreta di cui il Barone credeva di essere l'unico a conoscere l'esistenza; e, avanzando per diversi cunicoli stretti e tortuosi, giunsero infine a un cancelletto al di là delle mura del castello. Resosi conto che quei passaggi segreti erano noti a uno sconosciuto, il Barone ebbe voglia di ritirarsi da un'avventura che aveva sapore d'inganno e di pericolo. Poi, considerando che era armato e che la sua guida aveva un'aria cortese e nobile, gli tornò il coraggio, si vergognò di averlo perso momentaneamente, e decise di risalire all'origine del mistero. Si ritrovò sulla solida piattaforma davanti alla maestosa porta del castello e, guardando in su, vide le finestre illuminate delle stanze in cui gli ospiti si erano ritirati per la notte; mentre rabbrividiva a causa del vento impetuoso e osservava il paesaggio scuro e desolato tutto intorno, pensò alle comodità della sua camera calda, rallegrata da un bel fuoco di legna e sentì per un attimo tutto il contrasto dell'attuale situazione. (Ludovico interruppe la lettura e, guardando il suo fuoco, lo attizzò un po'.) Il vento era forte e il Barone guardava il suo lume con ansia, aspettandosi di vederlo spegnersi da un momento all'altro; ma la fiamma, pur tremolante, non sì estinse, e lui continuò a seguire lo sconosciuto, che spesso so-
spirava, ma non diceva nulla. Quando giunsero al margine della foresta il Cavaliere si girò e sollevò la testa come per rivolgersi al Barone, ma richiuse le labbra e proseguì in silenzio. Quando si addentrarono nell'oscurità dei fitti rami, il Barone, colpito dalla solennità della scena, esitò incerto se avanzare, e chiese quanto ancora dovessero camminare. Il Cavaliere rispose con un gesto e il Barone, con passi esitanti e occhio guardingo, lo seguì per un sentiero oscuro e intricato, finché, dopo avere fatto un bel pezzo di strada, chiese di nuovo dove stessero andando, e si rifiutò di proseguire se non gli fosse stato risposto. Dicendo questo guardò ora la sua spada, ora il Cavaliere, che scosse il capo e mostrò un'espressione così abbattuta che tolse al Barone ogni sospetto, almeno per il momento. «Un po' più avanti c'è il luogo a cui vi sto conducendo», disse lo sconosciuto. «Non vi capiterà alcun male... l'ho giurato sul mio onore di Cavaliere.» Il Barone, rassicurato, lo seguì in silenzio, e presto arrivarono in un profondo recesso della foresta, dove scuri e alti castagni nascondevano completamente il cielo, e dove il sottobosco era tanto rigoglioso da farli procedere con difficoltà. Il Cavaliere faceva lunghi sospiri e talvolta si fermava. Quando infine raggiunsero un punto in cui gli alberi fitti erano impenetrabili, si voltò e con un'espressione terribile indicò il terreno. Lì il Barone vide il corpo di un uomo lungo disteso, in una pozza di sangue; aveva un'orribile ferita sulla fronte e pareva che la morte gli avesse già irrigidito i lineamenti. Il Barone, a quella vista, sobbalzò inorridito, guardò il Cavaliere per avere spiegazioni, e stava poi per sollevare il corpo per accertarsi se vi fosse ancora un filo di vita, ma lo sconosciuto fece un gesto con la mano e fissò su di lui uno sguardo così serio e triste che non solo lo sorprese, ma lo fece desistere. Ma quali furono le emozioni del Barone quando, sollevando il lume sopra il volto del morto, scoprì l'esatta rassomiglianza di questi con lo sconosciuto, la sua guida, al quale rivolse uno sguardo di stupore e di muta domanda! Guardandolo, vide l'espressione del Cavaliere mutare e dissolversi, e tutta la sua figura svanire! (Ludovico sobbalzò e posò il libro, perché gli parve di aver sentito una voce nella stanza; guardò verso il letto dove, tuttavia, vide soltanto i tendaggi scuri e il drappo. Ascoltò, quasi non osando respirare, ma udì soltan-
to il lontano rumoreggiare del mare in tempesta, e le raffiche di vento che investivano le finestre; allora, concludendo di essere stato ingannato da quei sibili, riprese il libro per finire il racconto.) Mentre, immobile, il Barone fissava il punto, si udì una voce pronunciare queste parole: «Il corpo di Sir Bevys di Lancaster, nobile Cavaliere d'Inghilterra, giace davanti a voi. Questa notte, mentre viaggiava dalla Città Santa verso la sua terra natia, è stato vittima di un agguato e assassinato. Rispettate l'onore e la dignità dei Cavalieri e la legge di umanità; seppellite il corpo in terra cristiana e fate che i suoi assassini siano puniti. A seconda se osserverete o trascurerete quest'obbligo, possano pace e felicità, o guerra e infelicità, accompagnare voi e la vostra famiglia per sempre!». Quando si riprese dal timore reverenziale e dallo stupore che quell'avventura gli aveva procurato, il Barone tornò al castello e ordinò che il corpo di Sir Bevys fosse rimosso; il giorno seguente fu sepolto con gli onori dovuti a un Cavaliere, nella cappella del castello, alla presenza di tutti i nobili Cavalieri e delle Dame che abbellivano la corte del Barone de Brunne. Finito il racconto, Ludovico mise da parte il libro, perché sentiva una certa sonnolenza; messa altra legna nel caminetto, bevve un ultimo bicchiere di vino e si addormentò nella poltrona vicino al fuoco. In sogno gli parve di essere nella sala e, una volta o due, si riscosse da un assopimento superficiale, immaginando di vedere la faccia di un uomo che guardava da sopra l'alto schienale della sua poltrona. Quest'idea gli si impresse tanto che, quando alzò gli occhi, si aspettò quasi di incontrare altri occhi che lo fissavano; abbandonò il suo posto e guardò dietro la poltrona prima di convincersi che non c'era nessuno. Così passò il tempo. Il Conte, che aveva dormito poco la notte, si alzò presto e, ansioso di parlare con Ludovico, andò nelle stanze a nord; ma, poiché la porta sul pianerottolo era stata sprangata la sera precedente, dovette bussare con energia perché gli venisse aperta. Né il bussare né la sua voce furono uditi: chiamò a gran voce, poi regnò un silenzio totale. Il Conte, vista l'inutilità dei suoi sforzi, cominciò a temere che fosse capitato a Ludovico qualche incidente: il terrore di un essere immaginario poteva averlo privato dei sensi. Perciò si allontanò dalla porta con l'intenzione di chiamare i suoi servi per farla aprire con la forza: sentì che alcuni di loro si stavano già
muovendo nelle stanze inferiori. Alla domanda del Conte, se avessero visto o avuto notizie di Ludovico, i servi risposero, spaventati, che nessuno di loro si era avventurato nel settore nord del castello dopo la sera precedente. «Dorme profondamente, allora», disse il Conte, «e si trova tanto lontano dalla porta sprangata sul pianerottolo, che per entrare dovremo forzarla. Portate una leva e seguitemi.» I servi rimasero muti e sconsolati, e solo quando quasi tutta la gente della casa fu radunata, gli ordini del Conte furono eseguiti. Intanto Dorothee disse di una porta che si apriva da una galleria che andava dallo scalone all'ultima anticamera della grande sala e, poiché quella era molto più vicina alla camera da letto, era probabile che Ludovico si sarebbe svegliato facilmente tentando di aprirla. Il Conte, dunque, andò là; ma la sua voce fu inefficace a quella porta come lo era stata all'altra più lontana; seriamente preoccupato per Ludovico, stava per colpire personalmente la porta con la leva, quando notò la sua eccezionale bellezza e vi rinunciò. A prima vista pareva d'ebano, scura e levigata, lucidissima; in realtà era di larice, di quelli che crescevano in Provenza, allora famosa per tali foreste. La bellezza del colore lucido e la finezza degli intarsi indussero il Conte a risparmiarla, e così tornò all'altra in cima alla scala posteriore, che fu aperta con la forza. Il Conte entrò nella prima anticamera, seguito da Henri e da pochi servi, i più coraggiosi, mentre gli altri aspettavano il risultato dell'indagine stando sulle scale e sul pianerottolo. Regnava il più assoluto silenzio nelle stanze che il Conte attraversò e, quando fu nella sala, chiamò a gran voce Ludovico; poi, non ricevendo risposta, spalancò la porta della camera da letto ed entrò. La profonda quiete gli confermò le sue apprensioni per Ludovico: non si udiva neppure il respiro di una persona addormentata; e la sua inquietudine non era ancora finita perché, essendo le imposte tutte chiuse, la stanza era in un buio totale in cui nessun oggetto si distingueva. Il Conte ordinò a un servo di aprire le imposte e costui, nell'attraversare la stanza, inciampò su qualcosa e cadde, provocando con il suo grido il panico tra i pochi compagni che si erano avventurati fin là, i quali si diedero immediatamente alla fuga, lasciando il Conte e Henri a completare l'avventura. Fu Henri ad attraversare la stanza e ad aprire l'imposta di una finestra, e allora videro che l'uomo era caduto su una poltrona vicino al caminetto,
quella in cui si era seduto Ludovico; ma lì non c'era più, né lo si vedeva altrove nella luce imperfetta che filtrava. Il Conte, seriamente allarmato, aprì le altre imposte per poter esaminare meglio la stanza ma, non essendovi traccia di Ludovico, rimase un momento sbigottito, poco fidandosi dei propri sensi, finché i suoi occhi non guardarono sul letto, a cui si avvicinò per vedere se fosse lì addormentato. No, non c'era nessuno; allora andò al balcone chiuso a vetrata dove tutto era come la sera precedente; ma Ludovico era introvabile. Il Conte frenò il suo sbigottimento, pensando che Ludovico potesse avere lasciato le stanze durante la notte, sopraffatto dallo spavento che la solitaria desolazione e il ricordo delle cose che si raccontavano in proposito avevano alimentato. Tuttavia, se così era stato, l'uomo avrebbe cercato compagnia, ma gli altri servi avevano dichiarato di non averlo visto; la porta sul pianerottolo era stata trovata sprangata, con la chiave all'interno; quindi era impossibile che fosse passato di lì, e tutte le altre porte sul corridoio di quel settore erano state trovate ugualmente chiuse e sprangate, con le chiavi all'interno. Il Conte, costretto a credere che il ragazzo fosse fuggito dalle finestre, passò a esaminarle; ma quelle abbastanza larghe per far passare il corpo di un uomo erano state trovate perfettamente chiuse o da inferriate o da imposte, e non c'era traccia che una persona avesse tentato di scavalcarle; né era probabile che Ludovico avesse corso il rischio di rompersi l'osso del collo gettandosi dall'alto, quando avrebbe potuto passare incolume dalla porta. Lo sbigottimento lasciò il Conte senza parole; comunque tornò a esaminare la camera da letto, dove non c'erano segni di disordine, a parte quello prodotto dal ribaltamento della poltrona vicino alla quale c'era un piccolo tavolo; e su quello erano rimasti la spada di Ludovico, il lume, il libro che aveva letto, e la bottiglia con l'avanzo del vino. Ai piedi del tavolo c'era il cesto con il resto delle provviste e la legna. Henri e il servo espressero il loro stupore senza riserve e, sebbene il Conte dicesse poco, c'era una gravità nei suoi modi che esprimeva molto. Pareva che Ludovico avesse lasciato la stanza attraverso qualche passaggio segreto, perché il Conte non credeva che mezzi soprannaturali avessero provocato l'evento; eppure, se un tale passaggio esisteva, era inspiegabile perché lui l'avesse usato; come era sorprendente che non si vedesse traccia della via di fuga. Nelle stanze tutto era in ordine, come se Ludovico se ne fosse andato per la via normale.
Il Conte stesso aiutò a sollevare gli arazzi che adornavano le pareti della camera da letto, della sala e di una delle anticamere, onde scoprire se dietro uno di essi si celasse una porta; ma, dopo faticose ricerche, non se ne trovò nessuna; alla fine abbandonò le stanze dopo aver sprangato la porta sul pianerottolo e aver preso con sé la chiave. Poi diede ordine che si facessero intense ricerche su Ludovico, non solo nel castello, ma anche nel vicinato e, ritiratosi con Henri nel suo studio, conversò con lui per molto tempo. Qualunque fosse l'argomento, fece perdere a Henri molta della sua vivacità; di lì in avanti i suoi modi furono particolarmente austeri e riservati, ogniqualvolta veniva introdotto l'evento che ora agitava di stupore e spavento la famiglia del Conte. Il castello era stato abitato prima che il Conte ne divenisse proprietario. Lui non sapeva che le mura apparentemente esterne contenevano una serie di passaggi e di scale che portavano a sotterranei sconosciuti, e quindi non pensò mai di cercare una porta nelle parti della stanza presumibilmente più vicine all'esterno. Lì c'era una via d'uscita. Il castello (perché qui non siamo a Udolfo) si trovava sul litorale marino della Linguadoca; i suoi sotterranei erano diventati magazzini di pirati, i quali fecero del loro meglio per mantenere vive le illusioni soprannaturali che impedivano alla gente di perlustrare i locali; e forse erano stati quei pirati che avevano portato via Ludovico. BRAM STOKER Il segreto dei capelli d'oro Quando Margaret Delandre andò a vivere a Brent's Rock, tutto il vicinato si destò al piacere di un nuovo scandalo. Gli scandali connessi con la famiglia Delandre o con i Brent di Brent's Rock non erano pochi. Se fosse stata scritta la storia segreta della Contea, entrambi i nomi sarebbero stati ben rappresentati. È vero che la condizione sociale delle due famiglie era così diversa che sarebbero potute appartenere a continenti diversi - oppure, in quanto a questo, a due pianeti diversi - perché, fino ad allora, le loro orbite non si erano mai incrociate. I Brent avevano il predominio sociale su tutta la regione, e si erano sempre tenuti al di sopra della classe dei piccoli proprietari terrieri a cui apparteneva Margaret Delandre, così come un hidalgo spagnolo di sangue blu mantiene le distanze dai propri contadini. I Delandre erano una famiglia antica e, a modo loro, ne erano orgogliosi,
come i Brent erano orgogliosi della loro. Ma la famiglia Delandre non si era mai elevata al di sopra della classe dei piccoli proprietari. E, sebbene fossero stati benestanti nei vecchi tempi delle guerre straniere e del protezionismo, le loro fortune si erano avvizzite al sole cocente del libero mercato e dei «giorni sereni del tempo di pace». Come gli anziani del paese erano soliti affermare, i Delandre «si erano abbarbicati alla terra», con il risultato di mettervi le radici, anima e corpo. In effetti, poiché avevano scelto la vita dei vegetali, erano cresciuti come cresce la vegetazione: avevano messo i germogli ed erano fioriti nella buona stagione, e avevano sofferto nella cattiva. Il loro podere, Dander's Croft, aveva un aspetto corrispondente alla famiglia che vi abitava. Quest'ultima era decaduta una generazione dopo l'altra. Aveva generato di tanto in tanto dei tentativi abortiti di energia insoddisfatta sotto forma di soldati o marinai. Si erano conquistati i gradi minori del corpo in cui prestavano servizio, e lì si erano fermati, bloccati da quel fattore che è distruttivo per uomini senza una buona educazione: il riconoscere che al di sopra di loro esiste una funzione che si sentono incapaci di ricoprire. Così, poco a poco, la famiglia era caduta sempre più in basso. Gli uomini, tristi e insoddisfatti, bevevano fino a morirne, le donne sgobbavano a casa, oppure si sposavano con qualcuno di condizione inferiore, o peggio. Nel corso del tempo, erano scomparsi tutti, lasciando solo due persone nella piccola fattoria, Wykham Delandre e sua sorella Margaret. L'uomo e la donna sembravano aver ereditato, rispettivamente al maschile e al femminile, le brutte tendenze della loro famiglia. Avevano in comune la caratteristica, sebbene la manifestassero in maniere differenti, di abbandonarsi alle passioni cupe, alla sensualità e all'avventatezza. La storia dei Brent era stata alquanto simile, ma aveva manifestato la decadenza in maniera aristocratica e non plebea. Anche loro avevano avuto i propri soldati, ma questi avevano fatto una carriera diversa. Spesso si erano guadagnati delle onorificenze, perché erano coraggiosi e avevano compiuto atti eroici, prima che l'egoismo e la dissipazione minassero il loro vigore. Il capo attuale della famiglia - se così la si poteva definire, dal momento che ne restava un solo membro in linea diretta - era Geoffrey Brent. Era il tipico rappresentante di una stirpe decaduta della quale manifestava a volte le qualità migliori, e altre la degradazione più totale. Era bello, di una bellezza cupa, rapace, severa, a cui le donne riconoscono general-
mente autorità. Con gli uomini era distante e freddo; ma un comportamento simile non scoraggia mai le donne. Le misteriose leggi del sesso sono ordinate in maniera tale che perfino una donna timida non teme un uomo orgoglioso e arrogante. Di conseguenza, non c'era una donna nei dintorni di Brent's Rock, che non nutrisse qualche forma di ammirazione segreta per quel bel fannullone. Finché Geoffrey Brent limitò la propria condotta dissipata a Londra, Parigi e Vienna - comunque lontano da casa sua - l'opinione pubblica mantenne il silenzio. È facile ascoltare echi lontani, restando impassibili. Possiamo trattarli con incredulità, disprezzo o disdegno, o con qualsiasi altro atteggiamento si addica meglio alla nostra indifferenza. Ma, quando lo scandalo arriva vicino, è un'altra questione. Quel sentimento di indipendenza e di integrità che anima la popolazione di ogni comunità, si impone ed esprime la condanna del caso. Ma c'era una certa reticenza in tutti, e non si prestava più attenzione del necessario alla nuova situazione. Margaret Delandre si comportava con tanta sicurezza e franchezza, accettava la sua condizione di compagna di Geoffrey Brent con tanta naturalezza, che la gente cominciò a credere che si fossero sposati in segreto. Perciò si ritenne più saggio tenere la lingua a freno, per tema che il tempo le desse ragione e la rendesse ostile a tutto il villaggio. L'unica persona che, per la sua posizione, avrebbe potuto chiarire ogni dubbio, era ostacolata da circostanze sfavorevoli. Wykham Delandre aveva litigato con sua sorella - o forse era lei che aveva litigato con lui - e i rapporti tra loro erano improntati più all'odio aperto che alla neutralità armata. Il litigio era stato antecedente al trasferimento di Margaret a Brent's Rock. Lei e Wykham erano quasi venuti alle mani. C'erano certamente state minacce da una parte e dall'altra; e, alla fine, Wykham, sopraffatto dalla passione, aveva ordinato a sua sorella di andarsene da casa. Lei si era alzata immediatamente e, senza nemmeno indugiare a prendere i propri effetti personali, si era avviata verso l'uscio. Sulla soglia si era fermata un attimo a lanciare una terribile minaccia alla volta di Wykham: avrebbe vissuto nella vergogna e nella disperazione fino alla morte per l'azione spregevole che aveva commesso quel giorno. Era trascorsa qualche settimana. Il vicinato aveva supposto che Margaret si fosse trasferita a Londra, quando la donna ricomparve d'improvviso al
fianco di Geoffrey Brent. Tutti capirono prima di sera che aveva preso dimora a Brent's Rock. Non era una sorpresa che Brent fosse tornato all'improvviso: era una sua abitudine. Perfino i suoi domestici non sapevano mai quando aspettarselo: c'era una porta privata, di cui lui solo aveva la chiave e da cui talvolta entrava senza che nessuno in casa se ne accorgesse. Questo era il suo metodo abituale di ricomparire dopo una lunga assenza. Wykham Delandre si infuriò nel sentire le novità. Invocava vendetta... e, per tenere la mente alla pari con la sua ira, beveva più del solito. Cercò parecchie volte di incontrare sua sorella, ma lei rifiutò con disprezzo di vederlo. Cercò di parlare con Brent e fu respinto anche da lui. Allora cercò di fermarlo per strada, ma inutilmente, perché Geoffrey non era uomo da farsi fermare contro la propria volontà. Avvennero molti incontri tra i due uomini, ma ancor più furono quelli minacciati ed evitati. Alla fine Wykham Delandre si rassegnò a un'accettazione riottosa e vendicativa della situazione. Né Margaret né Geoffrey avevano un carattere pacifico, e ben presto cominciarono a litigare. Di tanto in tanto i litigi assumevano un aspetto più violento, e la coppia si scambiava minacce terribili che terrorizzavano i domestici in ascolto. Ma questi litigi in genere terminavano come terminano tutti i litigi domestici, con la riconciliazione e con il rispetto reciproco per le capacità combattive dell'altro. Geoffrey e Margaret si assentavano ogni tanto da Brent's Rock, e in ognuna di queste occasioni si assentava anche Wykham Delandre. Ma poiché, in genere, era informato dell'assenza della coppia troppo in ritardo perché potesse essere di qualche utilità, ritornava sempre a casa amareggiato e scontento. Infine, cominciò un periodo in cui le assenze da Brent's Rock divennero più lunghe. Solo qualche giorno prima, c'era stato un litigio più violento di tutti i precedenti, ma anche questo era stato ricomposto, e davanti ai domestici la coppia aveva parlato di un viaggio sul Continente. Qualche giorno più tardi anche Wykham Delandre era partito, ed era ritornato alcune settimane dopo. Era stato notato che aveva una strana aria: orgogliosa, soddisfatta, esaltata, non si sapeva come definirla. Andò subito a Brent's Rock, e chiese di vedere Geoffrey Brent. Quando gli fu detto che non era ancora tornato, disse, con un'aria decisa che colpì i domestici: «Tornerò. La mia informazione è importante: può aspettare!», e se ne andò.
Passarono settimane, poi passarono mesi; quindi arrivò la voce, confermata in seguito, che era accaduto un incidente nella valle di Zermatt. Nell'attraversare un passo pericoloso, una carrozza, che portava una signora inglese e il cocchiere, era caduta in un precipizio. Il signore che faceva parte del gruppo, Geoffrey Brent, si era salvato per puro caso, in quanto stava risalendo la montagna a piedi per far riposare i cavalli. Aveva lanciato l'allarme, ed erano state fatte le ricerche. Il parapetto rotto, le tracce che avevano lasciato i cavalli lungo il dirupo prima di cadere nel torrente: tutti si raccontavano la triste storia. Era una stagione umida, e nell'inverno c'era stata molta neve, perciò il fiume era in piena e i gorghi erano pieni di ghiaccio. Furono fatte lunghe ricerche e, alla fine, il relitto della carrozza e il corpo di un cavallo furono trovati in un'ansa del fiume. In seguito, fu trovato il corpo del cocchiere sulle rive del torrente, nei pressi di Täsch. Ma il corpo della donna, come quello dell'altro cavallo, era scomparso completamente e - si disse all'epoca - probabilmente vorticava tra i gorghi del Rodano nel suo corso verso il Lago di Ginevra. Wykham Delandre fece tutte le indagini possibili, ma non trovò alcuna traccia della donna scomparsa. Trovò, comunque, nei registri dei vari alberghi i nomi dei «Signori Brent», e fece erigere una lapide a Zermatt in memoria della sorella, con il suo cognome da sposata, poi pose una targa nella chiesa di Bretten, la parrocchia alla quale apparteneva sia Brent's Rock che Dander's Croft. Passò un anno, l'agitazione provocata dall'incidente si era acquietata, e il villaggio aveva ripreso a vivere nel solito modo. Brent era ancora assente, e Delandre era più ubriaco, più cupo e più vendicativo di prima. Poi ci fu un nuovo motivo d'agitazione. Brent's Rock si preparava ad accogliere una nuova padrona. Lo stesso Geoffrey aveva annunciato ufficialmente al Vicario, con una lettera, di essersi sposato qualche mese prima con una signora italiana e di essere in procinto di tornare a casa con la nuova moglie. Allora un gruppo di operai invase la casa; risuonarono la pialla e il martello, e l'odore di colla e di pittura pervase l'aria. Un'ala della vecchia dimora, quella a sud, fu interamente rifatta. Poi gli operai se ne andarono, lasciando solo il materiale per ristrutturare il grande salone, al ritorno di Geoffrey Brent. Infatti, questi aveva ordinato che la decorazione di quella stanza doveva avvenire sotto i suoi occhi. Aveva portato con sé i disegni accurati di una sala che era nella casa del padre di sua moglie, perché desiderava riprodurre il posto cui lei era abituata.
Visto che l'intonaco era tutto da rifare, tavole e ponteggi erano stati portati nel salone, ed erano accostati a una parete. C'era anche una grande vasca di legno per mescolare la calce che era ammucchiata in sacchi. Quando la nuova padrona di Brent's Rock arrivò, le campane della chiesa suonarono a festa, e ci fu giubilo generale. Era bella, era piena della poesia, del fuoco e della passione del Sud. Le poche parole inglesi che aveva imparato, venivano pronunciate in una maniera così goffa e così dolce che si conquistò il cuore di tutti. Altrettanto affascinanti erano la musica della sua voce e la tenera bellezza dei suoi occhi scuri. Geoffrey Brent sembrava più felice di quanto non lo fosse mai stato; ma sul volto aveva un'espressione cupa, misteriosa, che era nuova per quelli che lo conoscevano da anni. A volte sussultava, come per un rumore udito solo da lui. Passarono i mesi e si cominciò a sussurrare che Brent's Rock stava finalmente per avere un erede. Geoffrey era molto affettuoso con sua moglie, e il nuovo legame tra loro parve addolcirlo. Si interessò di più ai suoi fittavoli e ai loro bisogni. E, sia da parte sua che della sua dolce moglie, non mancavano le opere di carità. Sembrò aver riposto tutte le speranze nel bambino che stava per nascere e, man mano che il momento si avvicinava, l'ombra che gli aveva incupito il volto si attenuava. Nel frattempo, Wykham Delandre nutriva i suoi propositi di vendetta. Nel suo cuore era nato un sentimento che attendeva solo l'opportunità di cristallizzarsi, di prendere una forma definitiva. Il suo vago proposito era incentrato sulla moglie di Brent, perché sapeva che gli avrebbe fatto più male, colpendolo nell'essere che amava di più. E il futuro sembrava portare in seno l'opportunità che lui desiderava. Una sera sedeva da solo nel soggiorno della sua casa. Un tempo era stata una bella stanza nel suo genere, ma gli anni e l'abbandono avevano compiuto la propria opera, e ormai era poco più di un rudere, senza né dignità né bellezza di sorta. Era da ore che beveva, ed era più che intontito. Gli parve di udire un rumore, come se qualcuno fosse alla porta, e alzò gli occhi a guardare. Poi urlò con rabbia di entrare. Ma non ci fu risposta. Mormorando una bestemmia, ricominciò a bere. Dopo poco, dimenticò tutto quello che aveva intorno e si addormentò. Ma improvvisamente si destò e si vide davanti un'edizione malconcia e spettrale della sorella. Per qualche istante fu preso dalla paura. La donna che gli stava davanti, aveva i tratti distorti e gli occhi di fuoco, e non aveva
un aspetto umano. L'unica caratteristica che aveva in comune con sua sorella erano i lunghi capelli d'oro, che ora erano striati di grigio. Fissò il fratello con uno sguardo intenso, freddo. Anche Wykham, nel guardarla e nel comprendere la realtà della sua presenza, ritrovò l'odio che aveva nutrito per lei. Tutta la fosca passione del passato sembrò ritrovare la voce di colpo, quando lui le chiese: «Perché sei qui? Sei morta e sepolta». «Sono qui, Wykham Delandre, non per amor tuo, ma perché odio un'altra persona più di quanto odio te!» Un'ira intensa fiammeggiò nei suoi occhi. «Lui?», chiese il fratello con una tale ferocia nella voce che perfino la donna ne fu spaventata per un istante. «Sì, lui!», rispose. «Ma non equivocare, la vendetta è mia: tu mi darai solo il tuo aiuto.» Wykham chiese a un tratto: «Ti sposò?». Il volto distorto della donna si allargò in un sorriso spettrale. Era un'orribile scimmiottatura, perché le cicatrici assumevano strane forme e strani colori, e bizzarre striature bianche apparivano, quando i muscoli tendevano le vecchie cicatrici. «E così ti piacerebbe saperlo! Appagherebbe il tuo orgoglio sapere che tua sorella era sposata davvero! Bene, non lo saprai. Questa è la mia vendetta su di te, e non ho alcuna intenzione di cambiare idea. Sono venuta qui questa sera solo per farti sapere che sono viva, cosicché, se mi viene fatta violenza nel luogo in cui sto per andare, ci sarà un testimone.» «Dove vuoi andare?», le domandò il fratello. «Sono fatti miei! E non ho la minima intenzione di dirtelo!» Wykham si alzò, ma era ubriaco e cadde. Steso a terra, annunciò la sua intenzione di seguire la sorella; e, in uno scoppio di umore bilioso, le disse che l'avrebbe seguita, perché la luce dei suoi capelli e della sua bellezza splendeva nel buio. Allora lei si voltò verso il fratello, e disse che c'erano altri, oltre lui, che avrebbero rimpianto i suoi capelli e la sua bellezza. «Come li rimpiangerà lui», sibilò, «perché i capelli restano, anche se la bellezza è scomparsa. Quando manomise le ruote della carrozza e ci fece cadere nel precipizio, non tenne in gran conto la mia debolezza. Forse anche la sua bellezza si sarebbe guastata, se fosse rotolato, come me, tra le rocce del Visp, e si fosse congelato sui ghiacci alla deriva sul fiume. Che stia in guardia! È arrivata la sua ora!»
E con un gesto irato, spalancò la porta e uscì nel buio. Più tardi, quella stessa notte, la signora Brent, che era in dormiveglia, si destò di colpo e disse al marito: «Geoffrey, non hai sentito lo scatto di una serratura, al di sotto della nostra finestra?». Ma Geoffrey - benché lei avesse pensato che anche lui fosse sobbalzato al rumore - sembrava profondamente addormentato e aveva il respiro pesante. La signora Brent si assopì di nuovo; ma questa volta si destò perché suo marito si era levato e si era rivestito. Era mortalmente pallido e, quando la luce della lampada che aveva in mano gli illuminò il volto, lei si spaventò per l'espressione dei suoi occhi. «Che c'è, Geoffrey? Che fai?», chiese. «Zitta, piccola mia!», rispose lui, con voce rauca, strana. «Dormi. Io non riesco ad addormentarmi, e voglio terminare un lavoro che ho lasciato a metà.» «Portalo qui, marito mio», disse lei. «Sono sola e ho paura quando non ci sei.» Per tutta risposta, lui la baciò e uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Lei restò sveglia per qualche minuto, poi la natura ebbe la meglio, e si addormentò. Si destò di colpo, con ancora nelle orecchie l'eco di un grido soffocato che proveniva da qualche punto della casa. Balzò in piedi e corse alla porta ad ascoltare, ma non si sentiva più nulla. In ansia per il marito, gridò: «Geoffrey! Geoffrey!». Dopo qualche secondo, la porta della grande sala si aprì, e Geoffrey comparve, ma senza la lampada. «Zitta!», disse in un bisbiglio, e la sua voce era dura e aspra. «Zitta! Va' a letto! Sto lavorando, e non voglio essere disturbato. Va' a dormire, e non svegliare tutta la casa!» Con il gelo nel cuore - perché quella durezza nella voce del marito le era nuova - ritornò a letto e vi giacque tremante, troppo spaventata per gridare. Era tesa ad ascoltare ogni rumore. Ci fu un lungo silenzio, poi si udirono i colpi smorzati di un attrezzo di ferro! Risuonò il fragore di una pietra pesante che cadeva, seguito da un'imprecazione soffocata. Poi si sentì il rumore di qualcosa che veniva trascinata, e di nuovo il fragore di pietre che cadevano su altre pietre. Lei era terrorizzata, e il cuore le batteva con violenza. Sentì uno strano stridore, e poi ricadde il silenzio.
Dopo poco la porta si aprì piano, e apparve Geoffrey. Sua moglie finse di dormire; ma tra le ciglia lo vide pulirsi le mani di qualcosa di bianco, che sembrava calce. La mattina dopo lui non fece nessuna allusione alla notte precedente, e lei non aveva il coraggio di fare domande. Da quel giorno, su Geoffrey Brent sembrò incombere un'ombra. Non mangiava e non dormiva, e rinacque la sua vecchia abitudine di voltarsi di scatto, come se qualcuno si muovesse alle sue spalle. La grande sala sembrava esercitare uno strano fascino su di lui. Aveva l'abitudine di andarvi più volte al giorno, ma si spazientiva se qualcun altro - anche la moglie - vi entrava. Quando arrivò il capomastro a chiedere se doveva riprendere i lavori, Geoffrey non era in casa. L'uomo entrò nella sala e, quando Geoffrey ritornò, un domestico gli disse che il capomastro era nella sala. Bestemmiando, spinse di lato il domestico e si precipitò nell'antico salone. Incontrò l'operaio sulla soglia. L'uomo si scusò: «Chiedo scusa, signore, ma stavo per andare a fare qualche domanda ai domestici. Avevo ordinato che venissero portati dodici sacchi di calce, ma ne vedo solo dieci». «Alla malora i sacchi di calce!», fu la replica scortese e incomprensibile dell'uomo. L'operaio lo guardò sorpreso, e cercò di cambiare discorso. «Mi sono accorto, signore, che i nostri operai devono aver combinato un piccolo guaio. Ma il padrone lo farà riparare a sue spese.» «A che cosa ti riferisci?» «A quella pietra del focolare, signore: qualche idiota deve averci appoggiato un ponteggio e l'ha spaccata nel centro, anche se è abbastanza spessa da sopportare qualsiasi peso.» Geoffrey restò in silenzio per qualche minuto, poi disse con una voce innaturale, e in modo molto più gentile: «Dite ai vostri operai che per ora non voglio proseguire i lavori del salone. Voglio lasciarlo così com'è per qualche tempo». «Va bene, signore. Manderò qualcuno dei ragazzi a prendere i ponteggi e i sacchi di calce, e a rimettere in ordine la stanza.» «No! No!», disse Geoffrey. «Lasciateli dove sono. Manderò io a dirvi quando dovrete riprendere i lavori.» Allora il capomastro se ne andò, e il suo commento al padrone dell'im-
presa fu: «Se fossi in voi, signore, gli manderei il conto dei lavori che sono già stati fatti. Mi pare che in quella casa i soldi comincino a scarseggiare». Un paio di volte, Delandre cercò di fermare Brent per strada e, alla fine, non riuscendo nell'intento, seguì a cavallo la carrozza e urlò: «Che fine ha fatto mia sorella, tua moglie?». Geoffrey spronò i cavalli al galoppo, e l'altro, comprendendo dal volto pallido dell'uomo e dallo svenimento di sua moglie di aver ottenuto il suo scopo, si allontanò con una risata maligna. Quella sera, quando Geoffrey entrò nel salone, passò davanti al grande camino, e di colpo balzò all'indietro con un grido soffocato. Poi, con uno sforzo, si calmò e andò a prendere una lampada. Si chinò sulla pietra del focolare incrinata per vedere se la luce della luna, che entrava attraverso le finestre istoriate, lo aveva ingannato. Poi, con un gemito d'angoscia, cadde in ginocchio. Tra le fessure della pietra incrinata sporgeva una moltitudine di capelli d'oro, appena tinti di grigio! Disturbato da un rumore alla porta, si guardò intorno e vide sua moglie sulla soglia. Nella disperazione del momento, decise di agire per evitare la scoperta: accese un fiammifero alla lampada, e si chinò a bruciare i capelli che crescevano attraverso la pietra incrinata. Poi si alzò con quanta più disinvoltura poté, e finse di essere sorpreso nel vedere la moglie accanto a sé. Visse tutta la settimana seguente nell'angoscia se, per caso o per un impegno, non poteva restare da solo nella sala per qualche tempo. Ogni giorno i capelli ricrescevano attraverso la fessura, e lui doveva stare in guardia se non voleva che il suo terribile segreto fosse scoperto. Cercò di trovare all'esterno della casa un nuovo nascondiglio per il cadavere della donna assassinata, ma c'era sempre qualcuno a interromperlo. Una volta, mentre usciva dalla porta privata, incontrò sua moglie che cominciò a fargli domande su quell'uscita segreta. Egli finse di essere sorpreso del fatto che lei non avesse mai notato la chiave che ora le mostrava con riluttanza. Geoffrey amava appassionatamente sua moglie, cosicché la possibilità che lei scoprisse il suo spaventoso segreto o che dubitasse di lui, lo riempiva d'angoscia. Ma, dopo qualche giorno, arrivò alla conclusione che lei sospettava qualcosa.
Quella stessa sera lei entrò nella sala, dopo la cavalcata quotidiana, e lo trovò seduto malinconicamente accanto al camino. Gli parlò con franchezza. «Geoffrey, Delandre mi ha parlato e mi ha detto delle cose orribili. Mi ha detto che una settimana fa sua sorella è tornata a casa, ridotta al fantasma di se stessa - solo la sua chioma d'oro era la stessa di un tempo - e gli ha annunciato di avere cattive intenzioni. Lui mi ha chiesto dov'è sua sorella... e oh, Geoffrey, ma lei è morta, è morta! Allora come ha fatto a tornare? Oh! Ho paura, e non so a chi rivolgermi!» Per tutta risposta, Geoffrey esplose in un torrente di bestemmie che la fecero tremare. Maledisse Delandre, sua sorella e tutta la loro stirpe, e soprattutto coprì di maledizioni i capelli d'oro di Margaret. «Oh, basta, basta!», disse sua moglie, e poi non parlò più, perché temeva il marito quando lo vedeva di quell'umore così violento. Geoffrey, in un impeto d'ira, si alzò e si allontanò dal camino. Ma si fermò all'improvviso, appena vide l'espressione terrorizzata negli occhi di sua moglie. Seguì la direzione del loro sguardo, e allora anche lui fu preso da un tremito. Perché, sulla pietra rotta del focolare, c'era uno strato d'oro: erano le punte dei capelli che crescevano attraverso la fessura. «Guarda, guarda!», strillò la donna. «È il fantasma della morta! Andiamo via... andiamo via!» Afferrò quindi il marito per un polso e, con la frenesia della pazzia, lo trascinò fuori dalla stanza. Quella notte fu presa da un accesso di febbre violenta. Il medico arrivò subito, e telegrafò a Londra per richiedere l'aiuto di uno specialista. Geoffrey era disperato e, angosciato dal pericolo che correva la sua giovane moglie, dimenticò il suo crimine e le conseguenze di esso. La sera il medico dovette allontanarsi per badare agli altri malati. Affidò a Geoffrey l'inferma. Le sue ultime parole furono: «Ricordate: dovete starle vicino finché non ritorno domani mattina, o finché non arriva un altro medico. Quello che dovete temere è un'altra emozione. Badate che stia al caldo. Non si può fare nient'altro». Nella tarda serata quando tutti i domestici si erano ritirati, la moglie di Geoffrey si alzò dal letto e chiamò suo marito. «Andiamo!», disse. «Andiamo nella sala! So da dove viene quell'oro. Voglio vederlo crescere!» Geoffrey avrebbe voluto fermarla, ma da una parte temeva per la vita e per la ragione della donna, e dall'altra aveva paura che nel delirio urlasse il suo terribile sospetto. Comprendendo che era inutile cercare di fermarla,
l'avvolse in una coperta e l'accompagnò nella sala. Quando furono entrati, lei chiuse a chiave la porta. «Noi tre non vogliamo estranei, questa notte!», sussurrò la donna con un sorriso esangue. «Noi tre! Ma siamo solo due», disse Geoffrey con un brivido: ebbe paura di dire altro. «Siediti», gli disse la moglie nello spegnere la lampada. «Siediti accanto al camino a guardare crescere l'oro. La luce d'argento della luna è gelosa! Guarda, si avvicina piano piano all'oro... al nostro oro!» Geoffrey, guardando con orrore crescente, si accorse che, nelle ore trascorse, i capelli d'oro erano cresciuti. Cercò di nasconderli, mettendo un piede sulla pietra rotta del focolare. Sua moglie avvicinò la sedia, si chinò verso di lui, e gli pose una mano sulla spalla. «Non ti muovere, caro», disse. «Stiamo fermi a guardare. Scopriremo il segreto della crescita dell'oro!» Lui la cinse con un braccio e restò in silenzio. La luce della luna camminava piano lungo il pavimento, e lei si addormentò. Aveva paura di svegliarla, e perciò restò immobile. Le ore fuggivano. Davanti ai suoi occhi inorriditi, i capelli d'oro crescevano. Loro crescevano, e il suo cuore diventava sempre più freddo, finché non poté più muoversi, e restò a guardare la sua condanna con gli occhi colmi di terrore. Quando la mattina arrivò il medico da Londra, non si riusciva a trovare né Geoffrey né sua moglie. Si cercò in tutte le stanze, ma inutilmente. Come ultima risorsa, si forzò la grande porta della antica sala, e chi entrò vide una scena triste e tremenda. Accanto al camino spento, Geoffrey Brent e la sua giovane moglie sedevano freddi, bianchi e morti. La faccia di lei era serena e sembrava immersa nel sonno. Ma il volto di lui fece rabbrividire chiunque lo vide, perché esprimeva un orrore infinito. Con occhi aperti e vitrei fissava i propri piedi, avviluppati da lunghe ciocche di capelli d'oro che spuntavano dalla pietra del focolare. AMBROSE GWINNETT BIERCE Un arresto Poiché aveva ucciso suo cognato, Orrin Brower, originario del Kentucky, era un fuggiasco. Era scappato dalla prigione della Contea nella
quale era stato confinato in attesa del processò, atterrando il carceriere con una sbarra di ferro: dopo avergli rubato le chiavi, ed aver aperto la porta esterna, era uscito nella notte. Poiché il carceriere era disarmato, Brower non aveva un'arma con la quale difendere la libertà da poco recuperata. Non appena fu fuori dalla città, ebbe la cattiva idea di entrare nella foresta. Questo accadde molti anni fa, quando quella regione era più selvaggia di quanto non sia ora. La notte era abbastanza buia, non erano visibili né la luna né le stelle e, siccome Brower non aveva mai abitato da quelle parti e non sapeva nulla della configurazione del terreno, non ci volle molto perché si perdesse. Non riusciva a dire se si era allontanato dalla città o se stava avvicinandosi: il problema era molto importante per lui. Sapeva che, in ogni caso, una squadra di cittadini armati con una muta di segugi sarebbero presto stati sulle sue tracce, e la sua possibilità di fuga era molto esigua; ma non aveva intenzione di assistere al proprio inseguimento. Anche un'ora in più di libertà valeva la pena di essere vissuta. Improvvisamente, spuntò dalla foresta su una vecchia strada, e lì davanti a lui vide, confusamente, la figura di un uomo, immobile nell'oscurità. Era troppo tardi per scappare: il fuggitivo sentì che al primo movimento verso il bosco sarebbe stato, come spiegò in seguito, «riempito di pallettoni». Così i due rimasero lì immobili simili ad alberi, Brower quasi soffocato dall'attività del suo cuore, l'altro... le emozioni dell'altro non sono indicate. Un attimo dopo - poteva esser stata un'ora - la luna scivolò in uno squarcio di cielo senza nubi e l'uomo braccato vide l'incarnazione visibile della Legge sollevare un braccio e indicare significativamente verso di lui ed oltre. Comprese. Voltò la schiena al suo inseguitore, camminò obbedientemente nella direzione indicata, non guardando né a destra né a sinistra, osando a malapena respirare, e la testa e la schiena gli dolevano per l'impressione di aver ricevuto una scarica di pallettoni. Brower era un criminale tanto coraggioso quanto uno che vive solo per essere impiccato. Questo risultava dalle circostanze di enorme rischio personale che aveva corso quando aveva ucciso freddamente suo cognato. È inutile raccontarle qui; vennero fuori al processo, e l'ostentazione della sua calma nel confutarle arrivò quasi a salvargli il collo. Ma cosa volete?... Quando un uomo coraggioso è sconfitto, si sottomette. Così i due proseguirono il loro viaggio verso la prigione lungo la vec-
chia strada attraverso il bosco. Solo una volta Brower si arrischiò a voltare la testa: guardò indietro appena una volta, mentre lui era in ombra e sapeva che l'altro era illuminato dalla luna. L'uomo che l'aveva catturato era Burton Duff, il carceriere, bianco come la morte, e portava sulla fronte il segno della sbarra di ferro. Orrin Brower non ebbe altre curiosità. Finalmente entrarono in città, che era tutta illuminata, ma deserta; rimanevano solo le donne e i bambini, e non erano per strada. Il criminale si diresse direttamente verso la prigione. Andò direttamente all'entrata principale, portò la mano alla maniglia della pesante porta di ferro, l'aprì senza alcun ordine, entrò, e si trovò alla presenza di una mezza dozzina di uomini armati. Allora si voltò. Non entrò nessun altro dopo di lui. Sul tavolo nel corridoio giaceva il cadavere di Burton Duff. EDITH NESBIT La cornice d'ebano Essere ricchi è una sensazione molto piacevole, tanto più piacevole quando si è toccato il fondo della miseria più nera, lavorando come conducente di una carrozza a nolo in Fleet Street, come tuttofare, come reporter e come giornalista poco apprezzato. Tutte professioni assolutamente in conflitto con la sensibilità familiare, e con il fatto che si discende dai Duchi di Piccardia. Quando la zia Dorcas morì, lasciandomi settecento sterline l'anno e una casa ammobiliata a Chelsea, pensai che la vita non potesse più offrirmi nulla al di fuori dell'immediato possesso di quell'eredità. Anche Mildred Mayhew, che fino ad allora avevo considerato come la luce che illuminava la mia vita, mi sembrò che brillasse di luce meno intensa. Non ero fidanzato con Mildred, ma avevo una stanza in affitto a casa di sua madre, cantavo duetti con Mildred e, quando potevo permettermelo, e cioè raramente, le regalavo dei guanti. Era una cara ragazza, di buon cuore, ed io intendevo sposarla un giorno. È bello sapere che una brava donnina ci sta pensando - ci aiuta nel lavoro - ed è bello sapere che lei dirà «Sì», quando le si domanderà: «Vorresti?». Ma quell'eredità quasi scacciò Mildred dai miei pensieri anche perché lei era in campagna, ospite di certi suoi amici. Il mio nuovo lutto non aveva ancora perso la patina, quando mi ritrovai a sedere sulla poltrona di mia zia davanti al fuoco nel salotto di casa mia.
Casa mia! Era molto grande, ma piuttosto solitaria. Allora, effettivamente, pensai a Mildred. La stanza era arredata in maniera molto confortevole, in legno di rosa e damasco. Sulle pareti vi erano alcuni dipinti ad olio di buona fattura, ma lo spazio al di sopra della mensola del camino era deturpato da una stampa veramente brutta. Il Processo di Lord William Russell, incorniciato da una cornice scura. Mi alzai in piedi per dare un'occhiata. Con doverosa regolarità ero venuto in visita da mia zia, ma non mi ricordavo di aver mai visto quella cornice. Era stata adattata alla stampa, ma in realtà era stata concepita per incorniciare un dipinto a olio. Era di ebano fine, ed era ricoperta di intagli curiosi e belli. La osservai a lungo, con interesse crescente e, quando la domestica di mia zia entrò portando la lampada - infatti non avevo licenziato i pochi domestici - le chiesi da quanto tempo quella stampa era lì. «La padrona l'ha comprata solo due giorni prima di ammalarsi», disse, «ma non la cornice - non ha voluto comprarne una nuova - e così ha preso questa dalla soffitta. Lì sopra ci sono un sacco di vecchie cose molto curiose, signore.» «Mia zia aveva questa cornice da molto tempo?» «Oh, sì, signore! È in casa da molto tempo prima che arrivassi io, e a Natale saranno sette anni che sono qui. Incorniciava un quadro. Anche quello è in soffitta... ma è tanto brutto e nero che lo si potrebbe scambiare per una fodera di camino.» Volli vedere quel quadro. E se fosse stato invece un dipinto senza prezzo di qualche antico maestro, che agli occhi di mia zia era parso solo robaccia? Il giorno seguente, dopo colazione, andai ad esplorare la soffitta. Era tanto zeppa di vecchi mobili da poter tranquillamente rifornire un negozio di antichità. Tutta la casa era stata ammobiliata nel solido stile vittoriano, e in quella stanza erano conservati tutti i pezzi che non si adattavano all'ideale del salotto buono. Tavoli di cartapesta e di madreperla, sedie dallo schienale rigido e le gambe ritorte, cuscini dai ricami scoloriti, paraventi per il fuoco con intagli dorati, bandiere imperlate, scrittoi in quercia dalle maniglie d'ottone, e un piccolo tavolino da lavoro attorno al quale pendevano le decorazioni in seta, ormai scolorite e mangiate dalle tarme, ridotte a brandelli. Quando spalancai le tende, la luce scese a fiotti su quegli oggetti e sulla
polvere che li ricopriva. Mi ripromisi di divertirmi a riportare quegli antichi lari domestici agli onori del mio salone, e di portare i mobili vittoriani in soffitta. Ma per il momento dovevo trovare quel dipinto «nero come l'interno di un camino»; e ben presto lo trovai, dietro un mucchio di alari e scatole. Jane, la domestica, lo identificò subito. Con grande cautela lo portai giù e lo esaminai attentamente. Non si distinguevano né il soggetto né il colore. Vi era una singola macchia di colore più scuro al centro, ma nessuno avrebbe potuto distinguere se si trattasse di una figura, di un albero o di una casa. Sembrava dipinto su un pannello molto spesso rivestito di cuoio. Decisi di mandarlo a una di quelle persone che riversano sui ritratti di famiglia ormai marciti e vecchi le acque dell'eterna giovinezza. Ma, proprio mentre prendevo quella decisione, pensai: perché non provare io stesso a restaurarne almeno un angoletto? Con il mio sapone da bagno e con lo spazzolino per le unghie, strofinai energicamente per alcuni secondi, prima di accorgermi che non esisteva alcun dipinto da pulire. Il mio pennello zelante scoprì il pannello di quercia. Provai ad applicare i miei sforzi al lato opposto. Jane mi osservava con indulgenza. Ottenni lo stesso risultato. Poi ebbi un'illuminazione. Perché il pannello era tanto spesso? Strappai la copertura di cuoio, e il pannello si divise in due metà che caddero a terra in una nube di polvere. Erano due quadri, ed erano stati inchiodati l'uno all'altro. Li appoggiai al muro ma, pochi secondi dopo, dovetti appoggiarmi io stesso alla parete della stanza. Infatti in uno dei due quadri ero rappresentato proprio io - era un ritratto perfetto - senza alcun difetto di rappresentazione né nell'espressione, né nelle fattezze del volto. Ero proprio io... e indossavo gli abiti che portavano gli uomini quando Giacomo I era Re d'Inghilterra. Quando era stato eseguito? E come, senza che io ne sapessi nulla? Era stato un qualche capriccio di mia zia? «Cielo, signore!», disse Jane con voce acuta e sorpresa, accanto a me. «Che bella foto! Eravate a un ballo in maschera, signore?» «Sì», balbettai. «Non... non credo che avrò bisogno d'altro. Potete andare.» Si allontanò. Mi voltai, con il cuore che mi martellava nel petto, verso l'altro quadro. Era il ritratto di una donna bellissima: era veramente splendida. Osservai tutti i dettagli: il naso diritto, le ciglia basse, le labbra piene, le mani affusolate, e i grandi occhi luminosi. Indossava una veste di velluto nero. Era un ritratto a mezzo busto. Le braccia erano poggiate su un ta-
volo al suo fianco, e i suoi occhi fissavano quelli dell'osservatore, suscitando un senso di sgomento. Sul tavolo accanto a lei giacevano dei compassi e degli strumenti luccicanti di cui ignoravo l'uso, dei libri, una coppa, e un mucchio di carte e di penne. Ma vidi tutto questo solo dopo. Mi ci volle un quarto d'ora, credo, prima di riuscire a smettere di fissarla negli occhi. Non ho mai visto occhi come i suoi: attiravano, come quelli di un bambino o di un cane, ma avevano un'aria di comando, come quelli di un'imperatrice. «Vuole che spazzi via la polvere, signore?» Jane era tornata, spinta dalla curiosità. Dissi di sì. Mi tenni sempre fra lei e il ritratto della donna in velluto nero. Quando rimasi finalmente solo, tirai giù Il Processo di Lord William Russell e al suo posto posi il ritratto della donna nella sua massiccia cornice d'ebano. Poi scrissi al corniciaio per ordinare una nuova cornice per il mio ritratto. Era rimasto tanto a lungo faccia a faccia con quella bellissima strega, che non avevo il coraggio di bandirlo dalla sua presenza. Suppongo di essere un sentimentale in realtà... ammesso che sia sentimentale pensare una cosa del genere. Quando arrivò la nuova cornice, la sistemai di fronte al camino. Una ricerca accurata tra le carte di mia zia non ebbe alcun esito riguardo al mio ritratto, e nessuna notizia emerse circa il ritratto della donna dagli occhi meravigliosi. Appresi solo che tutti quei vecchi mobili erano divenuti proprietà di mia zia alla morte del mio prozio, il capofamiglia. Avrei dovuto concludere che la somiglianza era dovuta a ragioni familiari, ma tutti coloro che entravano nella stanza esclamavano che si trattava di un «ritratto identico». Adottai la spiegazione di Jane, quella del «ballo in maschera». A quel punto, si poteva supporre che la faccenda dei ritratti si fosse conclusa. E infatti così si penserebbe, se non fosse evidente che invece qui è stato scritto ancora molto sull'argomento. Tuttavia, a me pareva che la faccenda fosse conclusa. Andai a trovare Mildred. La invitai insieme alla madre a venire a stare a casa mia. Evitavo di guardare il quadro nella cornice d'ebano. Non potevo dimenticare, né ricordare senza una certa emozione, lo sguardo di quella donna la prima volta che l'avevo vista. Non volevo incrociare nuovamente quello sguardo. Riorganizzai un po' la casa, per predisporre tutto in vista dell'arrivo di Mildred. Portai giù molti dei mobili antichi, e passai una lunga giornata a
disporli e a ridisporli. Poi mi sedetti di fronte al camino in preda a un piacevole languore, mi allungai sulla poltrona, e sollevai gli occhi per caso verso il ritratto della donna. Trovai i suoi scuri occhi profondi color grigio-verdi che mi fissavano, e nuovamente mi trovai a fissarla come sotto l'influsso di un profondo incantesimo... come accade quando per interi minuti si rimane affascinati a fissare i propri occhi in uno specchio. La fissai negli occhi, e avvertii che le mie pupille si dilatavano sempre più, poi li sentii stimolati da un impulso simile a quello del pianto. «Vorrei», dissi, «oh, quanto vorrei, che tu fossi una donna, e non un dipinto! Vieni giù! Oh, ti prego, vieni giù da lì!» Risi di me stesso a quelle parole ma, nello stesso momento in cui ridevo, allungai le braccia verso di lei. Non sognavo. Non ero ubriaco. Ero ben sveglio, e sobrio quanto chiunque. Eppure, spalancando le braccia, vidi i suoi occhi dilatarsi, e le labbra le tremarono: che possa essere impiccato se non dico la verità! Le sue mani si mossero leggermente. L'ombra di un sorriso le illuminò il viso. Mi alzai in piedi. «Così non va!», dissi ad alta voce. «Il bagliore delle fiamme gioca strani scherzi. Mi serve una lampada.» Mi avvicinai al campanello. Lo toccavo quasi con la mano, ma in quell'istante udii un suono alle mie spalle, e mi voltai... senza aver suonato. Il fuoco era ormai debole, e gli angoli della stanza erano immersi nell'ombra, ma ero sicuro che lì, dietro una sedia dall'alto schienale, vi fosse qualcosa di più scuro dell'ombra. «Devo affrontare questa situazione con decisione», dissi tra me e me, «altrimenti perderò ogni stima in me stesso.» Lasciai il campanello, afferrai l'attizzatoio, e presi a colpire i tizzoni finché non ripresero a bruciare. Poi arretrai risolutamente, e guardai il dipinto. La cornice d'ebano era vuota! Dall'ombra dietro la poltrona dallo schienale alto provenne un leggero fruscio, e vidi uscire la donna del ritratto: veniva verso di me. Spero di non dover mai sperimentare un momento di terrore tanto cieco e assoluto. Non mi sarei potuto muovere né parlare, neanche per salvarmi, oppure ero impazzito. Rimasi lì a tremare, ma ricordo che almeno riuscii a rimanere fermo, mentre l'abito di velluto nero frusciava sul tappeto verso di me.
Pochi secondi dopo sentii il tocco di una mano - una mano soffice e calda, umana - e una voce bassa disse: «Mi hai chiamato. Sono qui». Sentendo quel tocco e quella voce, mi sembrò che il mondo compisse una specie di mezza giravolta. Non saprei come esprimerlo, ma in quel momento non mi parve tanto terribile, né tanto insolito, che i ritratti potessero diventare carne ed ossa: solo una cosa molto naturale, molto giusta, e anche un'incredibile fortuna. Posai la mia mano sulla sua. Guardai lei e poi il mio ritratto. Non riuscivo a scorgerlo alla luce delle fiamme. «Non siamo degli sconosciuti», dissi. «Oh, no, non siamo degli sconosciuti.» Quegli occhi luminosi guardavano in alto cercando i miei, e quelle labbra rosse erano vicine alle mie. Con un grido appassionato, con la sensazione di aver ritrovato l'unico bene della vita intera, perduto per sempre, la presi fra le braccia. Non era un fantasma: era una donna, l'unica donna al mondo. «Quanto tempo è passato», dissi, «da quando ti ho perduta?» Lei si sporse indietro, lasciando che tutto il suo peso gravasse sulle mani che aveva intrecciato dietro la mia nuca. «Come faccio a saperlo? Non c'è modo di contare le ore nell'Inferno», rispose. Non era un sogno. Ah, no! Non si sognano certe cose. Vorrei tanto che fosse possibile. Quando nei sogni vedo i suoi occhi, sento la sua voce e le sue labbra sulla guancia, quando porto le sue mani alle labbra, come ho fatto quella notte, la notte suprema di tutta la mia esistenza! Dapprima non parlammo quasi. Ci pareva abbastanza ...dopo tanto lungo penare e soffrire, sentire le braccia del mio vero amore, attorno a me di nuovo... È molto difficile raccontare la mia storia. Le parole non possono esprimere il senso di felicità nell'averla ritrovata: la completa realizzazione di ogni speranza e di ogni sogno della mia vita pareva giunta, mentre sedevo con le mie mani tra le sue, e la fissavo negli occhi. Come poteva essere stato un sogno? La lasciai seduta sulla sedia dallo schienale diritto, e scesi in cucina a dire alle domestiche che non avevo bi-
sogno d'altro, che ero occupato, e non volevo essere disturbato. Poi, con le mie stesse mani presi della legna per il fuoco e, quando lo portai nella stanza, la ritrovai seduta lì: la sua piccola testa dai capelli color nocciola si voltò mentre entravo, e lessi l'amore nei suoi occhi. Mi gettai ai suoi piedi, benedicendo il giorno in cui ero nato, perché la vita mi aveva dato quello. Non pensai affatto a Mildred. Tutte le altre cose della mia vita erano un sogno: quella solo era l'unica, splendida realtà. «Mi chiedo», disse lei dopo un po' di tempo, dopo esserci rallegrati l'uno con l'altro come fanno gli amanti dopo essere stati a lungo distanti, «mi chiedo quanto ricordi del nostro passato...» «Ricordo solo che ti amo... che ti ho amato tutta la vita.» «Non ricordi nulla... assolutamente nulla?» «Ricordo solo di essere completamente tuo. Che abbiamo sofferto entrambi. Che... Dimmi, mia signora carissima, tutto quello che ricordi tu. Spiegamelo. Fai in modo che io capisca. Eppure... no, non voglio capire. Siamo insieme e questo basta.» Se era veramente un sogno, perché non ho mai più fatto quel sogno? Lei si sporse verso di me, il suo braccio posato sul mio collo, e portò la mia testa a poggiare sulla sua spalla. «Io sono un fantasma, suppongo», disse ridendo piano; la sua risata suscitò in me delle memorie che avevo tentato di afferrare, invano. «Ma tu ed io sappiamo la verità, vero? Ci amiamo - ah! tu non l'hai dimenticato - e quando saresti tornato dalla guerra, ci saremmo dovuti sposare. I nostri ritratti furono dipinti prima che tu partissi. Tu sai che io ero più istruita delle donne di quel tempo. Mio caro, mentre eri via, dissero che ero una strega. Mi portarono in tribunale. Dissero che dovevo morire sul rogo. Solo perché guardavo le stelle e avevo imparato più delle altre donne, essi pensavano di dovermi legare a un palo e lasciare che fossi divorata dalle fiamme. E tu eri lontano!» Il suo corpo prese a tremare e a fremere. Oh amore, quale sogno mi avrebbe potuto dire che i miei baci avevano il potere di cancellare anche simili ricordi? «La notte della vigilia», continuò lei, «venne da me il Diavolo. Prima di allora ero innocente: lo sai, vero? Ed anche allora peccai per te - per te per il grande amore che avevo per te. Il Diavolo venne, ed io vendetti la mia anima consacrandola alle fiamme eterne. Ma il prezzo fu buono. In cambio ebbi il diritto di tornare attraverso il mio ritratto (se qualcuno, guardandolo, mi avesse desiderata), fin quando il mio ritratto sarebbe ri-
masto nella sua cornice d'ebano. Quella cornice non è stata fatta da un uomo. Mi sono guadagnata il diritto di tornare da te, mio unico amore. E un'altra cosa ho avuto, della quale presto saprai tutto. Mi hanno messo al rogo come strega, mi hanno fatto soffrire l'inferno qui sulla terra. Quei volti che si accalcavano attorno, la legna che scoppiettava e l'odore soffocante del fumo...» «Oh, amore, non dire altro, non dire altro!» «Quando mia madre quella sera vegliò davanti al dipinto, lei pianse e gridò: "Torna, mia povera figlia perduta!". E io andai da lei con il cuore in tumulto. Ebbene, mio caro, lei mi rifiutò, fuggì, urlò e gemette parlando di fantasmi. Fece ricoprire i nostri ritratti, e li rimise nella cornice d'ebano. Mi aveva promesso che il mio ritratto sarebbe rimasto qui per sempre. Ah, tutti questi anni il tuo viso è stato contro il mio.» Essa fece una pausa. «Ma cosa accadde all'uomo che amavi?» «Tu sei tornato. Ma il mio dipinto era sparito. Ti hanno mentito, e tu hai sposato un'altra donna. Ma sapevo che un giorno saresti tornato su questa terra, e che io ti avrei trovato.» «E l'altra cosa che hai guadagnato?», domandai. «L'altra cosa», disse piano, «è ciò per cui ho dato l'anima. Si tratta di questo. Se anche tu rinuncerai alla speranza della vita eterna, io posso rimanere una donna, posso rimanere nel tuo mondo... essere tua moglie. Oh, mio caro, dopo tutti questi anni, finalmente... finalmente!» «Se io rinuncio alla mia anima», dissi lentamente, e le parole non mi parvero frutto dell'imbecillità, «se sacrifico la mia stessa anima, ti avrò? Ma, amore, questa è una contraddizione in termini. Tu sei la mia anima.» I suoi occhi mi fissarono. Qualsiasi cosa fosse accaduta, qualsiasi cosa sarebbe accaduta, qualsiasi cosa fosse mai potuta accadere, in quell'istante le nostre anime s'incontrarono e divennero una. «Allora scegli liberamente di rinunciare alla speranza di guadagnarti il Paradiso, come vi ho rinunciato io per te?» «Non rinuncerò alla speranza di guadagnarmi il Paradiso a nessun costo. Dimmi quello che io e te dovremo fare per avere un Paradiso qui sulla terra, ora.» «Te lo dirò domani», disse. «Fatti trovare solo, qui, domani sera: è la mezzanotte l'ora dei fantasmi, vero? Allora uscirò dal quadro, e non vi farò più ritorno. Vivrò con te, morirò e verrò seppellita, e quella sarà la mia fine. Ma prima vivremo insieme, cuore del mio stesso cuore.»
Posai la testa sulle sue ginocchia, poi caddi preda di uno strano torpore. Tenendo la sua mano contro la mia guancia, persi conoscenza. Quando mi svegliai, una grigia alba di novembre cominciava a spuntare, diafana come un fantasma, attraverso la finestra, dove le tende non erano state tirate. Avevo la testa posata su un braccio, che tenevo - alzai di scatto la testa - ah! non sulle ginocchia della mia donna, ma sul cuscino ricamato della sedia dall'alto schienale. Balzai in piedi. Ero intirizzito e scombussolato dal sogno, ma mi voltai verso il ritratto. Lei era lì seduta: la mia signora, il mio amore! Spalancai le braccia, ma il grido appassionato mi morì sulle labbra. Lei aveva detto mezzanotte. Ogni sua parola era per me un ordine. Così rimasi fermo davanti al quadro, e fissai quegli occhi grigio-verdi finché non mi spuntarono lacrime di felicità appassionata. «Oh! mia cara, mia cara, come trascorrerò le ore prima di poterti stringere di nuovo fra le mie braccia?» Non mi passò allora per la mente che il completamento e la consumazione di tutta la mia vita potesse essere solo un sogno. Con passo malfermo salii in camera mia, caddi di traverso sul letto, e dormii profondamente senza fare sogni. Quando mi svegliai era mezzogiorno: Mildred e sua madre sarebbero arrivate all'ora di pranzo. All'una finalmente mi ricordai di Mildred, del suo arrivo e della sua esistenza. Ora iniziava veramente il sogno. Avvertendo tutta la futilità di una mia azione separata dalla sua, diedi gli ordini necessari per ricevere le mie ospiti. Quando Mildred e sua madre arrivarono, le ricevetti cordialmente. Ma le mie frasi gentili parevano essere pronunciate da un altro. La mia voce mi giungeva come un'eco. Il mio cuore era altrove. Eppure, la situazione non divenne intollerabile, fino all'ora in cui il tè del pomeriggio non venne servito nel salotto. Mildred e sua madre tennero viva la conversazione con una grande profusione di luoghi comuni, ed io sopportai la cosa come una persona giunta in vista del Paradiso sopporterebbe un leggero Purgatorio. Sollevai lo sguardo verso la mia amata nella sua cornice d'ebano, ed ebbi la sensazione che, qualsiasi cosa fosse successa, qualsiasi irresponsabile imbecillità, qualsiasi attacco di noia, erano nulla al pensiero che, dopo tutto quello, lei sarebbe tornata da me. Eppure, quando anche Mildred alzò lo sguardo verso il ritratto, e disse: «Si crede proprio una gran dama, vero? Un'attrice di teatro, vero? Una del-
le vostre fiamme, signor Devigne?», caddi in preda a un nauseante senso di irritazione e d'impotenza, che si tramutò in una vera e propria tortura nel momento in cui Mildred - come avevo mai potuto ammirare le sue attrattive da camerierina, il suo stile «scatola di cioccolatini»? - a un certo punto si lasciò cadere nella sedia dall'alto schienale, coprendo i ricami con i suoi ridicoli falpalà, e disse: «Chi tace acconsente! Di chi si tratta, signor Devigne? Raccontateci tutto: sono sicura che è una storia avvincente». Povera piccola Mildred, seduta a sorridere, serena, sicura che ogni sua parola mi avrebbe incantato, seduta con il suo vitino di vespa, i suoi stivaletti un po' stretti, la sua vocina un po' volgare, seduta nella sedia nella quale la mia amata signora si era seduta a raccontarmi la sua storia! Non lo potevo tollerare. «Non state seduta lì», dissi, «è una sedia scomoda!» Ma la ragazza non colse quell'avvertimento. Con una risata che mi fece vibrare tutti i nervi in corpo per la stizza, disse: «Oh, povera me! Non mi posso nemmeno sedere nella stessa sedia in cui si è seduta la vostra signora in velluto nero?». Lanciai uno sguardo alla sedia nel dipinto. Era proprio la stessa, e Mildred ora vi era seduta. Poi avvertii tutta la tremenda realtà dell'esistenza di Mildred. Era quella allora la realtà? Se non fosse stato per una felice coincidenza, Mildred avrebbe forse occupato, invece che la sua sedia, il suo posto nella mia vita? Mi alzai. «Spero che non mi giudicherete maleducato», dissi, «ma ora devo uscire.» Ormai ho dimenticato quale scusa inventai. La bugia mi venne spontanea. Affrontai il muso lungo di Mildred sperando che lei e sua madre non si aspettassero un invito a cena. Fuggii. In un minuto mi trovai al sicuro, solo, sotto il freddo cielo autunnale pieno di nubi... libero di pensare, pensare, pensare, solo alla mia cara signora. Camminai per ore per le strade e nelle piazze; avevo rivissuto ogni sguardo, ogni parola, ogni tocco della mano... ogni bacio. Ero completamente, indicibilmente felice. Mildred era stata completamente dimenticata. La mia signora della cornice d'ebano mi riempiva il cuore, l'anima, lo spirito! Quando udii il rintocco delle undici attraverso la nebbia, mi voltai e tornai verso casa. Quando svoltai ed entrai nella strada in cui sorgeva casa mia, mi accorsi
che la via era piena di gente e che una forte luce rossastra riempiva l'aria. Una casa bruciava. La mia! A gomitate mi aprii un varco attraverso la folla. Il ritratto della mia amata signora... quello, almeno, potevo salvarlo. Salii le scale a grandi balzi, e come in un sogno vidi - sì questo mi parve veramente un sogno - vidi Mildred sporgersi da una finestra del primo piano, torcendosi le mani. «Tornate indietro, signore», gridò un vigile del fuoco, «la salveremo noi la donna, non abbia paura.» Ma cosa ne sarebbe stato della mia donna? Le scale scricchiolavano, ed usciva del fumo, e c'era un caldo infernale. Salii nella stanza in cui era appeso il suo ritratto. Strano a dirsi, sentivo che quel quadro sarebbe stata l'unica cosa che avremmo desiderato tenere con noi durante i lunghi anni felici di matrimonio che ci attendevano. Non mi era affatto venuto in mente che il quadro e la mia amata fossero una cosa sola. Giunto al primo piano sentii delle braccia circondarmi il collo. Il fumo era troppo denso, e non riuscii a distinguere le fattezze. «Salvami», bisbigliò una voce. Presi tra le braccia quel corpo e con una certa inquietudine lo portai lungo le scale pericolanti, verso la salvezza. Era Mildred. Me ne accorsi non appena l'abbracciai. «Indietro», gridò la folla. «Sono tutti in salvo», gridò il vigile del fuoco. Le fiamme si sprigionavano da ogni finestra. Il cielo divenne sempre più infuocato. Mi liberai delle mani che mi avrebbero voluto trattenere e con un balzo salii i gradini. A carponi cominciai a salire le scale. Improvvisamente venni assalito da un impeto d'orrore. «Finché il mio quadro rimarrà nella sua cornice d'ebano.» Cosa sarebbe accaduto se il quadro e la cornice fossero andati distrutti insieme tra le fiamme? Lottai contro le fiamme e contro la mia impotenza davanti all'incendio che avanzava. Mi spinsi ancora più avanti. Dovevo salvare quel quadro. Finalmente raggiunsi il salotto. Mi lanciai all'interno, e vidi la mia signora, lo giuro, attraverso una cortina di fiamme e di fumo, ed essa spalancò le braccia verso di me... ma ero giunto troppo tardi per poterla salvare, per salvare la gioia della mia vita. Non la rividi mai più. Prima che potessi salvarla, o chiamarla, avvertii il pavimento sprofondarmi sotto i piedi, e caddi nelle fiamme sottostanti. Come riuscirono a salvarmi? Cosa importa? In qualche modo vi riusci-
rono... maledetti! Tutto il mobilio di mia zia andò distrutto. I miei amici osservarono che, dal momento che i mobili erano assicurati per una somma notevole, la negligenza di qualche domestica che studiava di notte non mi aveva procurato poi un grande danno. Non mi aveva procurato un grande danno! Ecco come ho trovato e perso il mio unico amore. Nego con tutta l'anima che si fosse trattato di un sogno. Non esistono sogni del genere. Esistono i sogni pieni di dolore e di desiderio. Ma sogni di tale completa, indicibile felicità... ah, no, è il resto della vita che è sogno. Ma, allora, perché ho sposato Mildred, diventando grasso, noioso, e prospero? Vi dico che questo è sogno; la mia cara signora è l'unica cosa vera. E cosa importa cosa si fa durante i sogni? ROBERT LOUIS STEVENSON Markheim «Sì», disse il mercante, «i nostri inattesi guadagni sono di vario genere. Ci sono dei clienti ignoranti, e allora riscuoto un dividendo per la mia scienza maggiore della loro. Alcuni sono disonesti», e a questo punto sollevò la candela in modo da far cadere la luce sul suo visitatore, «e in tal caso», continuò, «metto a profitto la mia virtù.» Markheim era appena entrato lasciando le strade inondate dalla luce del sole, e i suoi occhi non si erano ancora abituati a quel miscuglio di splendore e di tenebre che regnava nel negozio. A quelle parole ambigue, e davanti alla fiamma della candela, sbatté le palpebre, quasi fosse in preda a una acuta sofferenza, e voltò gli occhi da un'altra parte. Il mercante sogghignò. «Venite da me il giorno di Natale», riprese, «quando sapete che sono solo in casa, ho chiuso le imposte e mi faccio un dovere di rifiutare qualsiasi affare. Ebbene, dovrete pagarmi anche per questo; dovrete pagarmi anche per la perdita di tempo, perché ora dovrei essere occupato a chiudere il bilancio, e per di più dovrete pagarmi per un certo atteggiamento che oggi noto molto marcato in voi. Sono la discrezione fatta persona: io non faccio domande imbarazzanti, ma un cliente, quando non può guardarmi negli occhi, deve pagare anche questo.» Il mercante sogghignò ancora, poi riprese il suo solito tono affaristico, dal quale però traspariva un certo accento
di ironia. «Potete provare, come è di norma, in che modo siete venuto in possesso di quell'oggetto?», continuò. «Viene, come sempre, dalla raccolta di vostro zio? Un collezionista davvero meraviglioso, signore.» E il piccolo mercante pallido, dalle spalle ricurve, si alzò quasi sulla punta dei piedi, guardando al di sopra delle lenti cerchiate d'oro e scuotendo il capo come se non fosse affatto convinto. Markheim rispose al suo sguardo con una occhiata di infinita pietà e con una sfumatura di orrore. «Questa volta vi sbagliate», disse. «Non sono venuto a vendere, ma a comperare. Non ho oggetti bizzarri di cui disfarmi; là raccolta di mio zio è ormai ridotta agli scaffali e, anche se fosse intatta, ho guadagnato bene in Borsa, e sarebbe più probabile che l'arricchissi piuttosto che la spogliassi, e la mia visita di oggi è quanto di più semplice si possa immaginare. Cerco un regalo di Natale per una signora», continuò, parlando con maggior spigliatezza, perché si trattava del discorso che aveva già preparato, «e vi sono debitore di tutte le mie scuse se vi disturbo a questo modo per una faccenda così poco importante. Ma me ne sono dimenticato ieri: è necessario che porti il mio piccolo dono per cena, e, come sapete benissimo, un ricco matrimonio non è certo cosa da trascurare.» Qui ci fu una pausa, durante la quale il mercante parve considerare con incredulità la dichiarazione del suo interlocutore. Il ticchettio dei molti orologi, nel curioso disordine del negozio, e il rumore delle carrozze che arrivava attutito da una strada vicina riempirono l'intervallo di silenzio. «Va bene allora, signore», disse alla fine il mercante. «Siete un vecchio cliente, dopotutto, e se, come affermate, avete la possibilità di concludere un buon matrimonio, non intendo certo crearvi ostacoli. Ecco qui qualcosa di bello per una signora», proseguì: «questo specchio a mano del XV secolo, garantito. Viene da una splendida collezione, ma non posso farvi nomi, nell'interesse del mio cliente, il quale era, proprio come voi, mio caro signore, il nipote e l'unico erede di un importante collezionista di cose antiche». Mentre pronunciava queste parole con la sua voce secca e tagliente, il mercante si era chinato a prendere l'oggetto dal suo posto e intanto un tremito aveva scosso tutto il corpo di Markheim, un tremito delle mani e dei piedi, mentre dal suo volto traspariva la lotta di molti e tumultuosi sentimenti. Tutto però passò, rapido come era venuto, lasciando, quale unica traccia, un ondeggiare appena percettibile della mano che in quel momento riceveva lo specchio. «Uno specchio», fece, roco e, dopo una pausa, ripeté con voce più chia-
ra: «Uno specchio? Per Natale? No certo». «E perché no?», domandò il mercante. «Perché non uno specchio?» Markheim lo guardò con una espressione indefinibile. «Perché no, mi chiedete?», disse. «Bene, guardatevi qui dentro: guardatevi! Vi piace vedervi? No, e nemmeno a me, e a nessun altro.» L'ometto aveva fatto un balzo indietro quando Markheim aveva teso verso di lui lo specchio ma, quando vide che in fondo non si trattava di nulla di grave, sogghignò. «La vostra futura sposa non deve essere molto bella, signore», disse. «Vi chiedo un regalo per Natale», replicò Markheim, «e voi mi date questo... questo maledetto memento di anni, di peccati, di follie, questa coscienza da portare in mano! Ci avete pensato? Avanti, parlate! Sarà meglio per voi se parlerete. Avanti, ditemi tutto di voi. Ora mi arrischio ad azzardare una ipotesi: sono convinto che, nel vostro intimo, voi siete un uomo molto caritatevole.» Il mercante scrutò con attenzione il suo compagno. Strano davvero, non sembrava che Markheim ridesse: nel suo viso c'era qualcosa di simile a una ansiosa scintilla di speranza, ma nemmeno la più lontana traccia di allegria. «A che cosa state mirando?», chiese il mercante. «Non siete caritatevole», ripeté l'altro, corrugando la fronte. «Non siete caritatevole, non siete pio, non siete scrupoloso. Non siete amato e non amate; una mano per prendere il denaro, una cassaforte per conservarlo. È tutto qui? Mio Dio, è tutto qui?» «Vi spiegherò io com'è», cominciò il mercante, con una certa quale asprezza, ma subito dopo riprese a sogghignare. «Vedo che il vostro è un matrimonio di amore e che avete bevuto alla salute della vostra bella.» «Ah!», esclamò Markheim, con una strana curiosità. «Ah, siete mai stato innamorato? Parlatemi di questo.» «Io?», rispose il mercante. «Innamorato io? Non ne ho mai avuto il tempo, e non ho tempo adesso per sciocchezze del genere. Volete lo specchio?» «Perché tanta fretta?», replicò Markheim. «È divertente starsene qui a chiacchierare, e la vita è così breve e così poco sicura che non intendo negarmi alcun piacere, no, nemmeno uno piccolo come questo. Dovremmo piuttosto attaccarci, abbarbicarci a quello che possiamo avere, come un uomo all'appiglio di una rupe. Ogni secondo è una rupe, se solo ci pensate, una rupe alta un miglio, alta quanto basta, se cadiamo, per sfracellarci in
modo tale da privarci di ogni parvenza umana. Perciò è meglio chiacchierare allegramente. Parliamo di noi: perché dovremmo portare questa maschera? Dobbiamo confidarci a vicenda. Chi lo sa, potremmo anche diventare amici.» «Non ho che una parola da dirvi», rispose il mercante. «O fate il vostro acquisto o uscite dal mio negozio.» «Giusto, giusto», convenne Markheim, «basta con le sciocchezze. Passiamo agli affari. Mostratemi qualcosa d'altro.» Il mercante si chinò di nuovo, questa volta per rimettere lo specchio nello scaffale. Mentre si chinava, i capelli biondi e sottili gli piovevano sugli occhi. Markheim si avvicinò un poco una mano nella tasca del cappotto, poi s'irrigidì e trasse un profondo respiro mentre emozioni diverse passavano in rapida successione sul suo viso: terrore, orrore, decisione, fascino, e una ripugnanza fisica. Il suo labbro superiore si era sollevato in modo da scoprire i denti. «Questo forse andrà bene», disse il mercante e, mentre accennava a risollevarsi, Markheim balzò alle spalle della sua vittima. Il lungo pugnale, simile a uno spiedo, balenò e si abbassò. Il mercante si dibatté come una gallina, urtò lo scaffale con una tempia e si afflosciò per terra. Il tempo aveva tante piccole voci in quel negozio: alcune maestose e lente, come si conveniva alla loro età, altre garrule e rapide. Tutte scandivano i secondi in un intricato tic-tac. Poi lo scalpiccio di un ragazzo che correva sul marciapiede soffocò le piccole voci e riportò Markheim alla coscienza del luogo dove si trovava. Si guardò attorno, terrorizzato. La candela era sul banco e la fiamma ondeggiava, solenne, nel filo di una corrente; per quel movimento minimo tutta la stanza sembrava riempita da un moto silenzioso e continuava a fluttuare come un mare. Le alte ombre accennavano, le grandi chiazze di tenebra si gonfiavano e diminuivano come se respirassero, i volti dei ritratti e degli Dèi di porcellana mutavano e dondolavano come immagini nell'acqua. La porta interna era socchiusa e scrutava quell'assedio di ombre con una lunga fessura di luce simile a un dito teso. Da quei vagabondaggi pieni di paure, gii occhi di Markheim tornarono al punto dove giaceva il corpo della vittima, disteso e contorto a un tempo, incredibilmente piccolo e stranamente più meschino che non in vita. In quei poveri abiti da avaro, in quell'atteggiamento goffo, il mercante ricordava un mucchio di segatura. Markheim aveva avuto paura di guardare, ed ecco invece che non era
niente! Eppure, mentre lo fissava, quel mucchio di vecchie vesti e quella pozza di sangue cominciavano a trovare voci eloquenti. Doveva rimanere là, non c'era nessuno che riuscisse a far muovere le ingegnose giunture o a dirigere il miracolo del moto; doveva rimanere là fino a quando non lo avessero trovato. Trovato, sì; e allora? Allora da quella carne morta si sarebbe levato un grido che avrebbe echeggiato per tutta l'Inghilterra, che avrebbe riempito il mondo con gli scalpiccii della caccia. Morto o meno, quello era ancora il suo nemico. «Tempo vi fu nel quale i cervelli si spensero», pensò, e la prima parola lo colpì con una violenza inaudita. Il tempo, ora che il delitto era compiuto, il tempo, che era finito per la vittima, era diventato urgente e importante per l'uccisore. Questo pensiero era ancora nella sua mente quando, prima l'uno poi l'altro, su tutta la gamma di passo e di voce, uno profondo come la campana della torre di una cattedrale, un altro con le note sottili del preludio di un valzer, gli orologi cominciarono a suonare le tre del pomeriggio. Lo scoppio improvviso di tante voci nella stanza muta lo fece barcollare. Cominciò a darsi da fare, andando avanti e indietro con la candela, assediato dalle mobili ombre e trasalendo in fondo all'anima per ogni casuale riflesso. In molti, bellissimi specchi - alcuni di stile inglese, altri di Venezia o di Amsterdam - vide il proprio volto ripetuto e ripetuto, come se si trattasse di un esercito di spie; i suoi stessi occhi lo incontravano e lo scoprivano, e il suono dei suoi passi così leggeri turbava la quiete circostante. E ancora, mentre continuava a riempirsi le tasche, la sua mente lo accusava, con una insistenza tale da spingerlo alla disperazione, di mille e mille errori nel suo piano. Avrebbe dovuto scegliere un'ora più tranquilla, avrebbe dovuto prepararsi un alibi, non avrebbe dovuto servirsi del coltello, avrebbe dovuto essere più cauto e avrebbe dovuto soltanto legare e imbavagliare il mercante, non ucciderlo, avrebbe dovuto essere più audace e uccidere anche la domestica, avrebbe dovuto far tutto in un altro modo: un pungente rammarico, un incessante lavorio della mente per mutare quello che era immutabile, per progettare quello che era ormai inutile, per essere l'architetto dell'irrevocabile passato. Intanto, dietro a tutta quella attività, terrori bruti, simili a fughe di topi in una soffitta deserta, riempivano le più remote parti del suo cervello in tumulto: aveva l'impressione che la mano di un poliziotto lo afferrasse per una spalla, e i suoi nervi sussultavano come quelli di un pesce preso all'amo, o vedeva, in rapidissima successione, il tribunale, il carcere, la forca e
la bara nera. Il terrore della gente che passava per la strada gli stava davanti alla mente come un esercito che lo assediasse. Era impossibile, pensava, che il rumore di quella lotta non fosse giunto fino al loro orecchio, che non avesse suscitato la loro curiosità, ed ora li indovinava in tutte le case vicine, seduti, immobili, con le orecchie tese: gente condannata a passare il Natale da sola, indugiando sulle memorie del passato, ed ora strappata, con un sobbalzo, alla dolcezza dei ricordi. Felici gruppi familiari improvvisamente silenziosi intorno alla tavola, la madre ancora con il dito alzato: ogni grado di età e di umore, ma tutti che, presso il focolare, scrutavano stando in ascolto, e filavano la corda che lo avrebbe impiccato. A volte aveva l'impressione di non muoversi abbastanza adagio: il tintinnio degli alti calici di Boemia risuonava forte come quello delle campane e, allarmato dalla forza del ticchettio, egli sentiva la tentazione di fermare gli orologi. E poi, ancora, con un rapido voltafaccia dei terrori, lo stesso silenzio del locale gli pareva una sorgente di pericolo, o tale da colpire e far rabbrividire il passante, e allora camminava con maggiore arditezza, e si affaccendava rumorosamente fra gli oggetti del negozio, e imitava, con forzata spavalderia, i gesti di un uomo in faccende e perfettamente a suo agio a casa sua. Ma ora si sentiva così diviso fra i diversi allarmi che, mentre una parte della sua mente era ancora alacre ed acuta, un'altra già tremava sull'orlo della pazzia. Una allucinazione in particolar modo, si impresse profondamente nel suo spirito. Il vicino in ascolto, con il viso pallido accanto alla finestra, il passante fermo sul marciapiede per un orribile sospetto; costoro, al massimo, potevano immaginare ma non sapere; attraverso i muri di mattoni e le finestre dalle imposte chiuse, soltanto i suoni potevano filtrare. Ma lì in casa, era solo? Sapeva di esserlo; dal suo nascondiglio aveva visto la domestica uscire per andare a fare all'amore nei suoi poveri abiti della festa, con un «libera tutto il giorno» scritto su ogni nastro e ogni sorriso. Sì, era solo, naturalmente, eppure, nella massa della casa vuota, sopra la sua testa, poteva udire uno scalpiccio di passi leggeri: era conscio, inesplicabilmente conscio, di una presenza. Sì, certo, in ogni stanza e in ogni angolo della casa, la sua fantasia lo seguiva, ed ora era una cosa senza un volto, eppure aveva occhi per vedere; e poi era un'ombra di lui, e poi ancora, ecco, l'ombra del mercante morto, richiamata in vita dall'astuzia e dall'odio. Ogni tanto, con uno sforzo sovrumano, lanciava uno sguardo alla porta
aperta che sembrava respingere i suoi occhi. La casa era alta, il lucernario piccolo e sudicio, il giorno era soffocato dalla nebbia, e la luce che filtrava al piano terreno era straordinariamente debole e si rifletteva incerta sulla soglia del negozio. Eppure, in quella striscia di dubbio chiarore, non pendeva, ondeggiante, un'ombra? A un tratto, nella strada, un signore molto gioviale prese a bussare con il bastone sulla porta del negozio, accompagnando i colpi con grida e insulti nei quali continuava a tornare il nome del mercante. Markheim, come impietrito, guardò il morto. Ma no, era là, assolutamente immobile: era volato lontano, dove quei colpi e quelle gr