MARCO BUTICCHI IL VENTO DEI DEMONI (2007) Per Maria Luisa PROLOGO La storia che aspettiamo da voi non è un racconto cron...
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MARCO BUTICCHI IL VENTO DEI DEMONI (2007) Per Maria Luisa PROLOGO La storia che aspettiamo da voi non è un racconto cronologico di soli fatti politici e militari e, per eccezione, di qualche avvenimento straordinario d'altro genere; ma una rappresentazione più generale dello stato dell'umanità in un tempo, in un luogo, naturalmente più circoscritto di quello in cui si distendono ordinariamente i lavori di storia, nel senso più usuale del vocabolo. Alessandro Manzoni
Età dei Metalli, II millennio a.C. L'uomo varcò l'ingresso della caverna senza voltarsi. Temeva di non avere abbastanza tempo: prima che i suoi occhi si chiudessero per sempre doveva fare in modo che gli assassini non potessero rivelare a nessuno il percorso che conduceva alla Pietra. Come re e sommo sacerdote della tribù dei migos, aveva il compito di lasciare un indizio per il suo successore: solo lui avrebbe potuto conoscere l'esatta ubicazione del Tempio Segreto e i passi per arrivarci. Gli inseguitori erano ormai vicini. Athor, così si chiamava il fuggitivo, sapeva che tutto era perduto. Ma non aveva paura della morte. Si inoltrò risoluto all'interno della galleria che si snodava nel ventre della montagna. Il dio Hosh, signore degli spiriti, e il trascorrere di mille e mille lune, avevano fatto crescere in quel luogo una gelida vegetazione fatta di stalattiti candide come la neve che, fuori, scendeva vorticando da giorni. L'uomo attraversò una grande sala di roccia e imboccò un'altra galleria. Stremato dalla fatica e dalle molte ferite, si fermò per riprendere fiato, quindi ricominciò a correre, inciampando più volte sul fondo sconnesso della grotta. Per non cedere, si sorreggeva alle pareti con le mani coperte di sangue. All'improvviso, l'immagine del volto sorridente della sua compagna si fece largo, nitida, nella sua mente: la visione durò lo spazio di un istante, ma fu sufficiente a infondergli la forza per portare a termine il suo piano. Era toccato proprio a lui celebrare il rito che lo aveva unito per sempre a Dehal. Molte lune erano trascorse da quel giorno lontano e sei figli erano giunti ad arricchire la loro famiglia: tutti sani, forti e intelligenti. Seguendo il padre avevano assaporato, giorno dopo giorno, il piacere della caccia e avevano conosciuto il mistero dei riti dedicati al dio Hosh. Athor aveva scelto tra loro il suo successore e lo aveva educato al culto del dio, così come voleva la tradizione. Adesso, a un passo dalla fine, doveva con ogni mezzo indicare la strada del tempio al prescelto tra i suoi figli. Solo allora avrebbe potuto morire, conducendo con sé il perfido Karesh e i suoi guerrieri nel regno degli spiriti. Le urla degli inseguitori gli giunsero amplificate dall'eco con cui la caverna alterava voci e suoni. Athor conosceva alla perfezione quegli angusti passaggi. Si premette la
mano sulla ferita al ventre e imboccò una galleria secondaria in discesa, più stretta di quella percorsa sino a quel momento. Le sue spalle possenti strusciavano sui lati, consentendogli di mantenersi in equilibrio e di avanzare velocemente, gli occhi scorgevano ogni asperità del terreno anche nella più fitta oscurità. Era come se non sentisse dolore. Questa volta non avrebbe dovuto cancellare le tracce del suo passaggio: lo scopo non era quello di sfuggire agli assassini, ma di farli cadere in trappola, senza scampo. Giunse in un grande antro. La luce improvvisa quasi lo ferì. Le torce ardevano illuminando la caverna con un chiarore che gli parve accecante. Individuò l'apertura, nel terreno, alla sua destra. Si sdraiò e, strisciando, imboccò lo scuro pertugio che un occhio meno attento non sarebbe riuscito a riconoscere. Dopo aver percorso carponi il cunicolo, si ritrovò nel tempio del dio Hosh. Il luogo era rischiarato dai bracieri che ardevano in perpetuo e che era compito suo, e solo suo, alimentare. Il sarcofago contenente la Pietra Sacra era posto sul lato destro, ai piedi di un rozzo altare ricavato da un macigno. Lì la Pietra era stata adagiata secoli prima in un incavo della roccia nella quale erano stati colati diversi strati di metalli fusi, così da ottenere una specie di coppa profonda poco più di un braccio e larga altrettanto. A chiusura del contenitore era stato posto un pesante coperchio anch'esso in metallo e decorato con rilievi in oro che rappresentavano i cicli del Sole e della Luna. La perfetta aderenza del coperchio ai bordi superiori del contenitore sigillava ermeticamente la custodia della Pietra Sacra a Hosh. Si trattava di un oggetto unico e prezioso sia per la tribù dei migos del re Athor che per quella dei davaar, i nemici che entro breve lo avrebbero raggiunto. Sino ad allora Athor aveva tenuto fede alla legge e mai aveva osato posare i suoi occhi sulla Pietra: quell'atto avrebbe suscitato l'ira di Hosh. E l'ira del dio era in grado di provocare la più atroce delle morti. La leggenda, che si tramandava dalla notte dei tempi, diceva che la Pietra fosse decorata da sinuose fessure modellate dalla velocità con cui il dio Hosh l'aveva scagliata, furioso, attraverso le infinità del Cielo, per poi farla precipitare sulla Terra, affinché gli uomini avessero la cognizione del suo sconfinato potere: chiunque avesse provato a guardare la Pietra sarebbe morto tra le più terribili sofferenze. Per fortuna l'oggetto sacro era da tempo immemore nelle mani dei paci-
fici migos, altrimenti avrebbe potuto costituire un'arma micidiale in grado di uccidere centinaia di uomini in pochi istanti. Così si tramandava che fosse accaduto nell'antichità. Per questo gli avi di Athor avevano forgiato quel forziere di metallo che aveva reso inoffensivo il terribile potere della Pietra e l'avevano nascosta nel Tempio Segreto all'interno delle grotte. Athor sentiva le voci provenire dal cunicolo: tra poco gli inseguitori avrebbero raggiunto la stanza. Afferrò saldamente la corda intrecciata con fibre vegetali dalle donne del villaggio. Questa, attraverso una serie di rinvii, consentiva di aprire e chiudere il sarcofago da un piccolo antro protetto, situato vicino all'uscita della grotta. Era il sistema che veniva usato durante i sacrifici, a ogni cambio di luna: in quel modo solo gli animali destinati al supplizio sarebbero stati travolti dal potere di Hosh e della sua Pietra, e avrebbero placato la sua insaziabile fame. Athor aprì il coperchio e diede quindi volta alla corda attorno al palo della torcia, poco sotto al tizzone ardente. Qualunque cosa fosse successa, la fiamma avrebbe reciso la fune e il coperchio si sarebbe richiuso sulla Pietra, quando tutto fosse finito. Gli intarsi d'oro del sarcofago riflettevano i bagliori dei bracieri. L'uomo si nascose in una zona buia del tempio trattenendo il respiro e attese che i tre inseguitori guadagnassero la stanza. Stava per compiere un sacrilegio, scatenando l'ira del dio che lo avrebbe punito con la morte. Sperava che la furia della divinità si abbattesse anche su quegli assassini, impedendo loro di rivelare l'ubicazione della caverna segreta che celava il Tempio e la Pietra. Si appiattì dietro all'altare con il pugnale tra le mani. Gli inseguitori entrarono con fare guardingo e le armi spianate. Strinsero gli occhi per alcuni istanti, abbagliati dalla luce, e vacillarono sulle gambe. Poi si guardarono intorno alla ricerca del nemico ferito. La stanza aveva una sola uscita e, a meno che Athor non fosse davvero un figlio degli dei, non avrebbe avuto scampo. «Athor, trova il coraggio di morire da uomo. La punta della mia lancia ti ha già scavato un fianco: ormai ti resta poco da vivere. Vieni fuori e combatti da guerriero», disse uno dei tre con voce tonante, avvicinandosi all'altare e al sarcofago. Karesh, questo il nome del capo degli inseguitori, si inginocchiò e non
fece caso al coperchio sospeso in alto grazie a un sistema di corde. La sua mano sacrilega penetrò nell'apertura e accarezzò la superficie levigata dell'oggetto. La Pietra era calda al tatto, poco più grande del pugno di un uomo. Il contatto provocò in lui una sensazione di piacere quasi sensuale. «Questo sasso è liscio come la pelle della tua donna, Athor», disse ancora l'uomo accarezzando la Pietra, il volto segnato dalle cicatrici e solcato da un sinistro sorriso. Athor rimase nascosto e in silenzio. I davaar si gettarono come invasati sull'apertura del sarcofago, le loro mani affondarono nella buca bramando quel contatto, convinti di poterne ricevere l'immortalità. Ma Athor conosceva la verità: Hosh avrebbe regalato soltanto la morte a coloro che avessero osato profanare il suo tempio. Athor sapeva che i suoi inseguitori erano condannati: era solo questione di tempo. Quello era il momento che il migos stava aspettando. Raccolse le poche energie rimastegli. Benché il destino di tutti loro fosse segnato, sarebbe morto da valoroso, con le armi in pugno. I tre, sebbene si aspettassero l'attacco, furono colti alla sprovvista dalla figura che si materializzò di fronte a loro. Athor affondò il pugnale nel collo di quello che aveva più vicino, quindi si gettò a peso morto sui bracieri, buttandoli a terra. La corda si incendiò e Athor udì lo schianto con cui il coperchio del sarcofago si richiuse. Non avrebbe rischiato che uno dei suoi figli arrivasse un giorno nella stanza trovandovi la Pietra esposta. Quindi imboccò di nuovo il cunicolo. Strisciava il più velocemente possibile, ma una lancia scagliata alla cieca da Karesh lo ferì una seconda volta alla schiena. Quando raggiunse la grande caverna era allo stremo delle forze. Si alzò. A fatica, riuscì a inerpicarsi sull'impalcatura che aveva eretto con tronchi e legacci vegetali per portare a termine il disegno sulla volta della caverna. Intinse le dita nel sangue della ferita e tracciò alcuni simboli che avrebbero aiutato chi fosse venuto dopo di lui; Sar, il migliore dei suoi discendenti, quello a cui aveva dato il nome di suo padre. A lui avrebbero indicato la via per raggiungere il tempio e diventare capo tribù e sommo sacerdote. Un'espressione soddisfatta gli illuminò il volto contratto dal dolore: la
sua gente era salva e gli inseguitori condannati a morte certa. Athor aveva concluso la sua opera. Ora poteva concludere anche la sua vita. «Inseguiamolo!» ordinò Karesh. Nel buio i due riuscirono a tentoni a individuare il passaggio. Ci si infilarono l'uno dopo l'altro, prima che le forze, improvvisamente, li abbandonassero. Morirono nel volgere di pochi istanti, colpiti dalla maledizione del dio Hosh. Athor udì le urla e i rantoli dei suoi nemici, mentre si divincolavano come serpi nell'angusta galleria. Tra poco sarebbe toccato a lui, anche se Hosh ci avrebbe messo un tempo maggiore a catturare il suo spirito: lui non aveva toccato la Pietra, ma l'aveva guardata e il suo vento lo aveva lambito. Sentiva i polmoni in fiamme, come se un braciere stesse ardendo dentro di lui. Gli parve che una folata fredda stesse portando lontano il suo spirito. Era consapevole di quello che gli stava accadendo. Con la mente affollata dalle immagini della sua esistenza terrena, Athor, re della tribù dei migos, si preparò a morire. America del Sud, 2007 La morte era a un passo da lui. Ancora una volta Oswald Breil si sentì vincere dalla sensazione di freddo che pervadeva il suo corpo. Quello che era stato uno degli uomini più potenti al mondo giaceva a terra, in una pozza di sangue. I suoi arti minuti erano coperti di ecchimosi. Il volto tumefatto dalle percosse poggiava sul duro cemento. Un rivolo di sangue misto a bava gli colava dalla bocca. Oswald era nudo all'interno della cella. Il corpo rattrappito assomigliava a quello indifeso di un bambino vittima delle peggiori sevizie. La lingua passò sui coaguli di sangue che si trovavano al posto dei molari che gli erano stati strappati nel corso dell'interrogatorio. Anni di addestramenti nel Mossad lo avevano preparato a resistere alle più terribili delle torture: Oswald non aveva detto quasi nulla di ciò che sapeva. Aveva concesso ai suoi carnefici solo quello che volevano sentirsi dire e che lui voleva sapessero.
Si chiese che fine avesse fatto Sara. Probabilmente l'avevano già uccisa o stavano per farlo: sperava con tutta l'anima che fosse stata più fortunata di lui e che non avesse dovuto subire le torture di quel maledetto aguzzino. «Infame...» Oswald si rese conto che non aveva più la forza per alimentare l'odio. Stava morendo e si preparò ad accogliere la fine con onore. La mente prese a vagare a ritroso nel tempo e a soffermarsi sugli episodi di una vita intensa e avventurosa, a indugiare sui particolari che avevano dato origine a quello che si era rivelato essere l'ultimo capitolo della sua esistenza. Monaco di Baviera, 1918 Lo scalpiccio degli zoccoli dei due cavalli che trainavano la carrozza si attutì e la vettura si arrestò davanti al palazzo. L'uomo che ne scese camminava con passo frettoloso. Raggiunse l'ingresso della sua abitazione in Zweigstrasse, mise una mano nella tasca destra ed estrasse le chiavi del portone. Le riunioni, sinora, si erano tenute lì, nelle sale della sua casa: un bell'edificio situato poco distante dal centro della città. Ma quel giorno gli ambienti dell'appartamento, e dell'intero palazzo in Zweigstrasse, non avrebbero potuto contenere neanche la metà dei quasi quattrocento adepti che la Società ormai contava. Per questo aveva deciso lo spostamento della sede presso il Vier Jahreszeiten Hotel: il numero degli affiliati alla Società pareva crescere costantemente e in maniera esponenziale. La cerimonia di inaugurazione era stata fissata per il 18 agosto. Non c'era tempo da perdere: tre mesi sarebbero passati in fretta, molto in fretta. Mentre saliva lo scalone che conduceva al piano nobile, la sua espressione tradì un moto di soddisfazione: lui, figlio di Ernst Glauer, un modesto conducente di locomotive, era prossimo a scrivere una pagina importante della storia della Germania e, forse, anche di quella del mondo intero. Quell'uomo, più noto come il barone von Sebottendorff, non avrebbe potuto immaginare fino a che punto le sue previsioni si sarebbero avverate. Rudolf von Sebottendorff era nato nel novembre 1875 in Sassonia. Il ridotto albero genealogico della sua famiglia, composta da onesti lavoratori senza alcuna traccia di sangue blu nelle vene, vantava lontane origini francesi. E il cognome, Glauer, ne era la prova. Il padre ferroviere era morto quando Rudolf aveva poco più di diciott'a-
nni. Ma da genitore previdente aveva pensato al futuro del figliolo, lasciandogli fondi sufficienti per completare gli studi e venire avviato all'università. Il giovane Glauer, però, aveva abbandonato la facoltà di ingegneria e optato per una vita ben più avventurosa e, forse, incerta: era stato precettore, marinaio, persino cercatore d'oro nell'Australia Occidentale. L'avvento del XX secolo colse Glauer in Turchia, in preda al fascino dei costumi e degli usi dell'Islam. Fu là, mentre sovrintendeva alla costruzione di alcuni villaggi nei pressi di Bursa e del monte Olimpo, che iniziò ad appassionarsi allo studio dell'occultismo. Il titolo di von Sebottendorff von der Rose risaliva al 1911, quando Glauer, dopo essere stato naturalizzato cittadino turco, sostenne di essere stato adottato dall'espatriato barone Heinrich von Sebottendorff. Barone o semplice borghese, Rudolf von Sebottendorff presenziò, assieme agli altri soci fondatori, alla solenne cerimonia di inaugurazione tenuta nei cinque ampi saloni del Vier Jahreszeiten Hotel, affollati all'inverosimile. A essa seguirono alcuni seminari sull'occultismo, conferenze sull'archeoastronomia nei castelli tedeschi e investiture di massa di nuovi adepti. Gli iscritti appartenevano a ogni ceto sociale. Il collante che pareva tenere tutti indissolubilmente legati era il desiderio di dare alla Germania, che stava per uscire sconfitta da una guerra disastrosa, una nuova stagione di gloria. E il fatto che la Società avesse preso corpo nelle sale di un lussuoso hotel del centro di Monaco di Baviera, il cui nome, Vier Jahreszeiten, significava «le quattro stagioni», fu visto come un segno favorevole del destino. Von Sebottendorff era consapevole del ruolo che la Società Thule avrebbe avuto nel panorama di una Germania sconvolta da aspre lotte intestine. Di certo non poteva sapere che, dando vita alla Thule, avrebbe contribuito a risvegliare il Male. PARTE PRIMA Dovunque passavano le loro cavalcature seguite dalle orde impetuose dei Cavalieri le praterie della Linguadoca si rinsecchivano e come queste, si prosciugavano per sempre tutte le sorgenti di gioia.
Nicholaus Lenau
1 Denver, 2005 La notizia della scomparsa del «Cacciatore» Simon Wiesenthal aveva sconvolto la tranquilla quotidianità di casa Habar. Oswald Breil stava osservando i propri genitori adottivi come non aveva mai fatto prima. Il volto del padre, Ezer, era molto segnato: solo una decina d'anni lo separavano dal Cacciatore, quel Simon Wiesenthal che era morto da poche ore alla ragguardevole età di novantasei anni. Lilith Mame-loshen - Oswald la chiamava da sempre con il soprannome che in yiddish significa «madrelingua» - sembrava reggere meglio all'incedere del tempo, ma Oswald sapeva che la vitalità della donna dipendeva da quella di Ezer. Oswald si trovò per la prima volta a pensare a quanto gli sarebbero man-
cati, un giorno. «Più gli anni passano e più ci convinciamo dell'immortalità dei nostri vecchi, per poi soffrire quando ci accorgiamo che non è vero.» Le immagini televisive mostravano un vento teso che spazzava il cimitero di Herzliya in quel venerdì di fine settembre. Il Cacciatore aveva voluto essere sepolto lì. Oswald evitò di commentare il fatto che la delegazione del governo israeliano fosse rappresentata da un solo ministro, malgrado Simon Wiesenthal avesse speso la vita per rendere giustizia alla sua gente. «Anche il Cacciatore se n'è andato», osservò Ezer scuotendo il capo. «Nella baracca del lager dormiva poco distante da me e mi aveva preso in simpatia. Una volta due tedeschi volevano punirmi perché avevo disubbidito a un ordine e lui, non so come, li aveva convinti a desistere. In molti lo consideravamo un faro nella nebbia di quell'inferno. E dall'inferno riuscì a emergere ben tredici volte, tanti sono stati i campi di concentramento nei quali era stato internato prima di arrivare a Mauthausen, nella baracca che ospitava me e altri poveracci. Per tutti quelli del campo, Wiesenthal diventò subito un consigliere, un amico, un comandante. L'ho sentito più volte pregare Dio di dargli la forza di uscire da quella tortura. Giurava che, se fosse rimasto vivo, non avrebbe mai perdonato. E ha tenuto fede al suo giuramento.» Parlando, Ezer si massaggiava l'avambraccio sinistro, come se il marchio indelebile che gli avevano impresso sulla pelle avesse preso a bruciargli. Oswald annuì. Simon Wiesenthal era un duro, uno che non aveva permesso al tempo di lenire la sua ferita: sino a che aveva avuto vita, aveva dato la caccia ai carnefici nazisti. La fondazione Wiesenthal era capillare e potente, dotata di fondi cospicui e di uomini addestrati che operavano nella più totale segretezza, e la sua azione inarrestabile si infiltrava ovunque: spesso gli stessi agenti del Mossad erano stati determinanti nella cattura di latitanti nazisti, dietro le indicazioni che i membri della Simon Wiesenthal Foundation avevano loro fornito. Agli esordi, Wiesenthal aveva preteso di essere sempre presente nel corso delle operazioni più significative, quasi volesse sincerarsi del buon esito delle sue indagini. Altre volte aveva addirittura fatto tutto da solo, al massimo con l'aiuto di un pugno di uomini animati dalla sua stessa sete di giustizia.
«Simon Wiesenthal è riuscito a consegnare al tribunale speciale israeliano più di mille criminali di guerra nazisti. Oggi il centro che porta il suo nome conta oltre quattrocentomila soci e gode di disponibilità finanziarie illimitate. Ma non è stato sempre così e solo noi, la sua più ristretta cerchia di amici, sappiamo quante battaglie solitarie abbia combattuto il Cacciatore», concluse Ezer riconoscente. Sembrava parlare tra sé. «Addio, Chalùtz! Addio, Pioniere!» Oswald chinò per un istante il capo. Chalùtz era l'appellativo con cui Simon Wiesenthal si rivolgeva a lui sin da quando era bambino. Una delle ultime volte che Wiesenthal lo aveva chiamato così era accaduto nel suo ufficio, dopo che Oswald era stato nominato capo di uno tra i servizi segreti più efficienti al mondo. Il ricordo si fece vivo nella mente del piccolo uomo: sembrava ieri, ma erano gli ultimi anni del secolo passato. Era una calda giornata estiva di Tel Aviv. «Voglio raccontarti una storia, Chalùtz. Una storia diversa da quelle che ti raccontavo dopo le cene preparate da Lilith. Allora eri poco più che un bambino curioso e desideroso di apprendere. Oggi sei uno degli uomini più importanti di Israele e del mondo, ma io, vecchio, stanco e scomodo, voglio ancora una volta che tu mi stia ad ascoltare.» Queste le parole con cui Wiesenthal aveva esordito. Oswald era sprofondato nel divano della stanza all'ultimo piano della sede dell'ha-Mossad le-Modiin ule-Tafkidim Meyuhadim, o più comunemente l'Istituto, come erano soliti chiamarlo gli addetti ai lavori. Oppure Mossad, come era universalmente noto. Il Cacciatore aveva preso posto in una delle due poltrone proprio di fronte a lui. Wiesenthal, nonostante i riconoscimenti che gli erano tributati, era considerato un uomo non sempre ben visto nelle alte sfere governative israeliane: la sua estenuante battaglia aveva, in più di una occasione, minato equilibri e sconvolto giochi politici internazionali. Il Cacciatore era un cane sciolto, dotato di mezzi illimitati e fornito di una tenacia fuori dal comune, e la sua fondazione era fieramente indipendente da qualsiasi legame con gli organi governativi. Tutte queste doti non potevano certo andare d'accordo con i compromessi della politica. «Sono qui per questo, zio Simon», aveva risposto Oswald, con i piedi che dondolavano poco sopra il pavimento, come quelli di un bambino. Ma la storia che Wiesenthal stava per raccontargli non sarebbe stata adatta alle orecchie di un bimbo.
«Non so quanti siano riusciti a passare attraverso le maglie della mia rete. Di certo ci sono passati molti pesci grossi, nonostante io ne abbia percepito lo sgradevole odore. Per questo ho maturato alcune convinzioni.» «E sarebbero?» «Che il Male avesse previsto tutto e che, con un acume davvero degno del migliore tra i demoni, abbia fatto sì che alcuni suoi titolati emissari si premunissero e venissero fatti scomparire dalla circolazione molto prima di un'eventuale sconfitta.» «Non ne vedo lo scopo, Simon», commentò Oswald. «Perché un nazista avrebbe dovuto andare in pensione mentre gli inni vittoriosi del Reich scuotevano i timpani di ogni europeo? Sembra un controsenso...» «Già, un controsenso. Ma tu vedi sempre un senso in quello che succede nel mondo?» Oswald rimase in silenzio, invitando con lo sguardo il Cacciatore a proseguire. «Il processo di Norimberga», disse Wiesenthal, «stava prendendo la piega di ogni altro processo per crimini di guerra: in pochi sarebbero stati puniti per i loro misfatti e tutti si sarebbero giustificati dicendo che avevano solamente eseguito gli ordini ricevuti dall'alto. Come ogni buon soldato. Nella stesura dei capi di accusa - e io stesso partecipai per conto dell'OSS alla ricerca delle prove contro le alte gerarchie naziste - ci si rese conto che nessuna tra le potenze vincitrici sembrava essere al corrente di che cosa fosse successo davvero nei lager nazisti. Milioni di ebrei erano scomparsi nel nulla senza lasciare traccia. Fu quando sedette sul banco dei testimoni una specie di gangster ungherese, che aveva aiutato molti ebrei facoltosi a fuggire dalle persecuzioni, che le cose presero una nuova piega. Il sedicente 'barone' Wisliceny non era certo un filantropo e in cambio del suo aiuto aveva guadagnato cifre iperboliche. La deposizione fu comunque puntuale, ricca di riscontri precisi e di particolari inquietanti. A quel punto il mondo intero non poteva più fingere di non sapere che cosa fosse avvenuto nei campi di concentramento e in quelli di lavoro dove milioni di individui erano stati sterminati dai nazisti.» Oswald ascoltava attento: anche se conosceva bene quella storia, il modo di narrare del Cacciatore lo aveva sempre affascinato. «La tessera 889.895 del Partito nazionalsocialista tedesco era stata consegnata ad Adolf Eichmann. La stessa persona alla quale le SS avrebbero attribuito il numero di matricola 45.326...» «Numero che Eichmann aveva tatuato sotto l'ascella», gli fece eco Os-
wald. «Vedo che il mio Chalùtz non dimentica. Non bisogna dimenticare. E allora riprendiamo alcuni fili della storia. Adolf Eichmann era nato in Renania, a Solingen, nel 1906. Era rimasto orfano di madre molto presto e il padre dovette occuparsi da solo dei sei figli. Rilevò una piccola attività mineraria dove cercò di impiegare, con scarsi risultati, Adolf, il primogenito. Ma questi preferì andarsene in cerca della sua strada e, come impiegato della Vacuum Oil, incontrò un uomo che avrebbe condizionato il suo destino. L'avvocato Kalterbrunner, seguace del Reich, consigliò al giovane Adolf di iscriversi al Partito, cosa che questi fece più per interesse che per convinzione: sperava, accontentando il potente avvocato, di acquisire danarosi clienti. Il 1° aprile 1932 Eichmann entrò a far parte del Partito nazista. Ma il giovane aveva fatto male i suoi conti e la viennese Vacuum Oil lo licenziò in tronco: le connivenze coi nazisti non piacevano alla dirigenza. «Disoccupato, Eichmann decise allora di sfruttare una delle opportunità che il neonato governo offriva ai suoi seguaci: entrò a far parte della polizia segreta, il potente RSHA, ovvero l'ufficio centrale per la Sicurezza del Reich. Lì gli fu assegnato il poco avventuroso compito di riordinare un archivio dove venivano schedati tutti gli aderenti alla massoneria.» Wiesenthal si fermò alcuni istanti. Parlare a lungo ormai lo affaticava molto. «Vuoi del buon vino kasher, zio Simon?» chiese Oswald indicando una bottiglia immersa per metà in un secchiello colmo di ghiaccio. Wiesenthal assentì con un sorriso. «È sempre più difficile trovare vino e alimenti kasher. Ormai tutto è stato occidentalizzato, caro Oswald. Sai bene che, con il mestiere che ho fatto per tutta la vita, non posso certo considerarmi un perfetto osservante, ma il rispetto delle tradizioni ci aiuta a vivere meglio. Anche per questo mi fa piacere che tu non abbia mai smesso di chiamarmi 'zio Simon', come facevi quando eri un ragazzino.» Tra i due uomini non correva infatti alcun vincolo di parentela, li univa solo l'indissolubile amicizia che risaliva ai tempi della loro prigionia tra Ezer Habar, padre adottivo di Breil, e Simon Wiesenthal. «Grazie, Oswald. Molto buono», disse il Cacciatore assaporando soddisfatto il vino chiaro e ghiacciato. A differenza di molti altri popoli mediorientali, gli ebrei ammettevano il consumo del vino, purché prodotto secondo le rigide regole della tradizio-
ne kasher. Ciò comportava che la lavorazione fosse affidata a un ebreo osservante e che l'attrezzatura e gli additivi usati fossero solo quelli concessi. In ultimo era necessaria l'approvazione di un rabbino. Wiesenthal riprese a parlare. «Quanto Eichmann aveva imparato lavorando all'archivio dei massoni gli sarebbe tornato utile in seguito, quando venne 'promosso' a schedare e catalogare tutti gli ebrei presenti sul territorio tedesco. La precisione maniacale di 'Electro', così venne soprannominato dai suoi colleghi, fece sì che, in ogni operazione antisemita, i militari nazisti andassero quasi sempre a colpo sicuro. Ma il vero capolavoro di Eichmann fu messo in atto subito dopo l'Anschluss, l'occupazione dell'Austria da parte delle truppe tedesche di Hitler. In quell'occasione centosessantamila ebrei vennero espulsi, non senza aver pagato la loro salvezza con la remissione di ogni loro bene, attraverso la capillare opera del Zentralstelle für Jüdische Auswanderung, l'ufficio centrale per l'Emigrazione ebraica diretto dallo stesso Eichmann. «In seguito a quella brillante operazione di pulizia etnica, la carriera di Eichmann subì un'accelerazione. Nel giro di pochi mesi fu promosso tenente colonnello delle SS. Era il 1941. Quando in Germania si decise di imboccare la strada della Soluzione finale, nell'ufficio di Eichmann - che si trovava nel centro di Berlino e occupava una decina di stanze e altrettanti collaboratori - vennero messi a frutto tutti quegli anni di oscuro e meticoloso lavoro di archiviazione. Il colonnello delle SS fu il regista occulto di ogni singola deportazione. Il suo aspetto anonimo e poco carismatico gli consentì di restare sempre nell'ombra: nessuno, conoscendolo superficialmente, avrebbe mai immaginato che in lui si nascondesse l'incarnazione stessa del Male. «Al momento del crollo del Reich, Eichmann fuggì presso il suo vecchio amico avvocato filonazista, ma ben presto questi lo scaricò senza troppi complimenti: era diventato una figura scomoda e gli Alleati erano determinati a catturare ogni gerarca nazista che avessero trovato in vita. Ed Eichmann era il braccio operativo della Shoah. A maggio il colonnello delle SS fu arrestato. Ma, nel corso degli interrogatori, fornì delle generalità false e affermò di essere un semplice caporale della Wehrmacht. Nessuno tra i suoi carcerieri pensò di dargli un'occhiata sotto l'ascella, dove le SS usavano tatuare il loro numero di matricola. «E così, dopo una breve prigionia, Eichmann venne rilasciato: agli Alleati non interessavano caporali dell'esercito dall'aspetto insignificante e di-
messo. La loro caccia mirava a pesci ben più grossi. Da quel momento Eichmann fece perdere le sue tracce. E il suo ruolo sarebbe rimasto nascosto nell'oblio, se il barone Wisliceny non avesse deciso di dare corpo a una sconvolgente serie di rivelazioni.» «A questo punto lascia che sia io a continuare e se sbaglio qualche particolare correggimi, zio Simon», disse Oswald interrompendolo. «Non si sa come spuntò un atto di morte, risalente al 1945, dove si dichiarava che Eichmann era stato ucciso in combattimento a Praga nell'aprile di quell'anno. Ma non ci volle molto ai servizi alleati per accertare la falsità di tale certificato. Comunque di Eichmann scomparve ogni traccia: neanche i rari spostamenti dei suoi familiari, tutti tenuti sotto sorveglianza, servirono a portare al nascondiglio del carnefice. Nel 1952 vennero alla luce alcuni documenti che testimoniavano la permanenza e il successivo espatrio dall'Italia di Eichmann. Ma dove mai poteva essere andato a nascondersi? Sempre in quell'anno, la moglie e i figli di Eichmann non fecero ritorno dal luogo delle loro vacanze estive. Dove potevano essere finiti? Come accade spesso in queste circostanze, il caso ci mise lo zampino: un vecchio notabile ebreo ricevette una cartolina da un amico emigrato in Argentina. In essa costui faceva riferimento al 'porco che comandava gli ebrei: è proprio qui, vicino a Buenos Aires'. Il cerchio si stava finalmente stringendo. Tu accertasti che Veronika Leibl, moglie dell'aguzzino, si era imbarcata da Genova per l'Argentina nel giugno 1952... Nel 1959 identificasti nel sedicente Ricardo Kleber il responsabile della Soluzione finale, Adolf Eichmann.» «E lo prendemmo», disse l'anziano Cacciatore, con gli occhi lucidi per l'emozione che ancora suscitava in lui il ricordo di quei giorni. «Lo prendemmo alle 18.30 dell'11 maggio 1960. Eichmann rientrava a casa da un'officina che aveva aperto a Buenos Aires per conto della Mercedes. Quando scese dall'autobus lo catturammo senza che lui opponesse alcuna resistenza. Poche ore più tardi si trovava già a Tel Aviv. Il suo arresto chiuse la bocca a tutti coloro che insinuavano che la Shoah fosse un parto della fantasia degli ebrei.» «Già, ed Eichmann, condannato a morte da un tribunale israeliano, fu giustiziato nel 1962. Zio Simon, che cosa intendevi dire con la tua premessa? Chi potrebbe essere ancora in vita tra i responsabili del genocidio?» Wiesenthal rimase assorto alcuni istanti, poi rispose. «Sto pensando a un'altra pedina di fondamentale importanza per le strategie del Reich in materia di sicurezza e di discriminazione tra le razze... Colui che per primo teorizzò la 'Soluzione finale', ma che non ebbe il tem-
po di metterla in pratica in tutta la sua atrocità...» «Un'altra pedina... un'altra pedina... Stai parlando di Reinhard Heydrich, il capo dell'RSHA?» chiese Oswald perplesso. Il Cacciatore non rispose, ma rimase a osservare colui che considerava il suo migliore allievo. Negli occhi dell'uomo si leggeva la sua determinazione a ottenere giustizia, ma anche un tenero e sincero affetto nei confronti di quel bambino conosciuto tanti anni prima, e ora divenuto capo del Mossad. «Non è possibile, Simon. Heydrich è morto nel 1942 a seguito di un attentato...» «Un attentato alquanto rocambolesco. Non trovi, Oswald?» «Rocambolesco o no, così dice la Storia.» «Già... la Storia. Chissà dove sta la verità, nella Storia...» disse Wiesenthal, porgendo a Breil un'agenda dalla copertina in pelle lisa, una di quelle che le banche o le società regalano ai clienti e ai fornitori in occasione del nuovo anno. «Ne sono venuto in possesso da pochi giorni, Oswald. Si tratta degli appunti di viaggio di un giornalista italiano che, negli anni '70, si recò in Brasile per un reportage. Là precipitò, nel mezzo della foresta amazzonica, con un aereo da turismo. Circa un anno fa la foresta ha restituito i pochi resti di quell'incidente, del cronista e dell'aereo. «E, per una serie di fortunate circostanze, chi ha rinvenuto questi appunti li ha fatti pervenire alla fondazione che porta il mio nome: deve avere intuito l'importanza del loro contenuto. Sono scritti, almeno sino a un certo punto, in italiano. Tu capisci l'italiano, vero, Oswald? Poi, da un certo punto in avanti, l'italiano è stato sostituito da una sorta di alfabeto stenografico criptato.» «Non so se la mia padronanza dell'italiano sia sufficiente per riuscire a tradurre la parte iniziale. E, certo, non sono in grado di leggere la stenografia, figuriamoci quella criptata. Comunque non ti preoccupare, zio Simon: ho dei validi collaboratori...» La mente del piccolo uomo era subito corsa a Sara Terracini, amica e compagna in molte delle sue più rischiose avventure. «Lo so, Oswald. Per questo ti consiglio di metterti all'opera... senza fretta... senza fretta...» disse il Cacciatore con l'aria stanca e saggia di chi è vicino al secolo di vita. «Del resto, sono pochi quelli che riescono ad arrivare alla mia età. E Heydrich è nato nel 1904: oggi avrebbe quattro anni più di me. È molto improbabile che sia ancora fra i vivi. Quindi non c'è ragio-
ne di agire con urgenza. Questi appunti potranno servirti, però, per cercare la verità. È questa la mia ultima volontà o, se preferisci, il compito gravoso che ti lascia il tuo zio Cacciatore. Prova a dare un senso alle notizie contenute negli appunti. Sarà un modo per continuare la mia opera e forse potrai fare luce su una terribile verità...» Da quel giorno si erano rivisti raramente e Oswald, sebbene avesse letto le prime pagine degli appunti che Wiesenthal gli aveva consegnato, non s'era mai spinto a cercare di decifrarne il linguaggio criptato. «Una sorta di ultima volontà...» mormorò tra sé il piccolo uomo, ripensando a quell'incontro di quasi otto anni prima. Adesso il Cacciatore se ne era andato per sempre. E su Breil gravò all'improvviso il peso di una nuova e importante responsabilità. Denver, 2006 A Oswald Breil, che aveva ricoperto la carica più alta dello Stato di Israele, l'abito di disoccupato di lusso stava stretto. L'esigenza di rispettare l'ultimo desiderio del suo mentore si fece strada in lui alcuni mesi dopo la morte di Simon Wiesenthal. «E dove andrà il mio Oswald? Sempre che la tua destinazione non sia coperta da qualche segreto di Stato», gli chiese Lilith quando lui le disse che sarebbe partito. «Niente di riservato, Mame-loshen: vado a Roma a trovare una vecchia amica e a chiederle un consiglio.» «Stai parlando di Sara, non è vero, Oswald?» «Non credo ci vogliano particolari doti d'intuito, Mame, per arrivare a questa conclusione.» Una bonaria ironia trapelava dalle parole dell'uomo. «Ti fa ancora male, Oswald?» «È come una vecchia ferita, che di tanto in tanto brucia.» «Non ti capisco, Oswald. Tu stesso mi hai raccontato che lei, credendoti morto, aveva sussurrato in lacrime il suo amore per te.» «Appunto, Mame, qui sta il problema: lo ha confessato all'amico esanime che stringeva disperata al suo petto, convinta che per lui non ci fosse più nulla da fare.» «Sara ha detto quello che sentiva, ne sono convinta. Sei tu che hai avuto paura delle sue parole.» «Paura? Il tuo affetto materno ti fa dimenticare il mio aspetto fisico? E
come ci avrebbero descritto in coppia? 'Biancaneve e l'ottavo nano'? Oppure 'la bella e il fauno'?» «Ti prego, Oswald, una persona della tua intelligenza...» «Mame, non far finta di non capire. È proprio perché mi reputo una persona intelligente che sono convinto che un'unione tra me e Sara non sia possibile. È stato un bene prenderci questa sorta di lunga vacanza e stare lontani l'uno dall'altra. Sono convinto che la nostra amicizia, sino a che si manterrà tale, sarà un'unione indissolubile...» «Ma tu credi davvero di essere solamente suo amico, Oswald?» lo interruppe Lilith. «Le mie convinzioni contano poco in questa vicenda...» «Allora, se contano quelle di Sara, vale la stessa domanda: credi che lei veda in te solo un amico?» «Mame-loshen, non prendermi per un behàyma, un animale ottuso. Non parliamone più. Anche se sono una miniatura, sono riuscito a convivere con il peso della mia diversità. Ma, tra queste conquiste e il fare da cavaliere a una bella principessa, c'è un abisso che non intendo esplorare: la dichiarazione d'amore di Sara è stata messa nel dimenticatoio e nessuno dei due ci è più tornato sopra. E non sarò io a farlo.» «Bene, se è così che la pensi... Che cosa vuoi che ti metta in valigia?» chiese Lilith Habar. Aveva capito che non avrebbe ottenuto altro dal suo «piccolo uomo». Roma, 2006 L'Airbus A319 della British Airways atterrò sulla pista dell'aeroporto di Fiumicino poco prima delle diciotto. Il viaggio da Denver era durato più di tredici ore, ma Oswald aveva ceduto al sonno per non più di una manciata di minuti. L'autista del Centro di ricerca diretto da Sara Terracini lo attendeva all'aeroporto. L'uomo era stato assunto anni prima su suggerimento dello stesso Oswald. Sara aveva rischiato più volte la vita al suo fianco: metterle accanto un agente del Mossad lo aveva fatto sentire più tranquillo. «Buon giorno, dottor Breil. Benvenuto a Roma. Lasci, mi occupo io del suo bagaglio.» «Buon giorno a lei, Gabriele. Tutto bene? Qui sembra sempre estate.» Salirono sulla Lancia color antracite parcheggiata di fronte all'uscita principale. Furono molti, tra i presenti, a seguire Oswald Breil con lo
sguardo: alcuni lo avevano riconosciuto immediatamente, dato che il volto di Breil era stato spesso immortalato nelle prime pagine di giornali e telegiornali in tutto il mondo. Altri osservavano con curiosità il piglio deciso di quell'uomo in scala ridotta. Poco dopo l'auto si fermò davanti a un moderno edificio, seminascosto tra il verde, nel quartiere romano dell'EUR. Per la prima volta da quando si erano conosciuti, l'incontro tra Sara e Oswald non fu disinvolto: uno strano imbarazzo impedì loro di salutarsi con il consueto allegro cameratismo. «Come va, Oswald?» chiese Sara chinandosi a baciarlo sulla guancia. «Non c'è male», rispose lui contraccambiando il bacio di benvenuto. «... Mamma Lilith ed Ezer mi hanno pregato di salutarti da parte loro.» «Grazie, Oswald, ricambia di cuore.» Parlando, Sara condusse l'amico all'interno del palazzo. «Qui siamo alle prese con un trasloco secondo solo all'esodo biblico. Il Centro sta crescendo: abbiamo assunto otto nuovi ricercatori e ampliato la sede acquistando anche l'appartamento sotto di noi. Il lavoro cresce a dismisura e non riusciamo quasi a stargli dietro. Già, ma dico queste cose a te, autorevole membro del Consiglio di amministrazione della nostra istituzione.» «La vicepresidenza del vostro organo collegiale è l'unica carica ufficiale che mi è rimasta: ogni politico, quando smette di essere tale, perde rapidamente ogni altro incarico. E così è stato anche per me.» «Ti manca tutto questo?» «Non lo so ancora... per ora non ho avuto modo di annoiarmi.» «Lo immagino, so bene come sei fatto, Oswald...» Quelle poche parole ebbero il potere di annullare il distacco tra i due. «Già, mi conosci bene, tu...» borbottò Breil. «Certo, sino al punto di sapere che la tua visita di cortese ha solamente questa piccola parentesi di convenevoli. Ho imparato a mie spese che, quando ti incontro, la mole del mio lavoro sta come minimo per aumentare a dismisura. Sputa il rospo, Oswald, o se preferisci: qual buon vento ti porta?» Breil non si scompose, ma estrasse da una borsa di pelle nera l'agenda di Wiesenthal. «Premetto: non c'è fretta e non sarà un lavoro complesso, ma credo sia davvero importante. Questa agenda mi è stata consegnata anni fa dal Cacciatore...» «Vuoi dire quel Cacciatore?»
«Esattamente lui, Simon Wiesenthal. Si tratta del diario di un giornalista italiano che, anni fa, si recò in Brasile per un reportage e rimase vittima di un incidente aereo.» «Be', si direbbe che i protagonisti della storia siano di tutto rilievo. Che cosa mi devo aspettare, Oswald?» «Wiesenthal, il cui intuito si è sempre rivelato infallibile, sosteneva che tra le pagine di questo diario potessero esserci notizie molto importanti. Se avrai modo di decifrare il documento, potresti trovarci informazioni capaci di stravolgere un capitolo della nostra Storia. Peccato esserne entrati in possesso solo ora che i protagonisti della vicenda sono morti. Il Cacciatore me lo ha dato perché venisse fatta luce in nome della verità. Ma per fare ciò ho bisogno del tuo aiuto. Per te non credo si tratti di un lavoro eccessivamente faticoso... e, ripeto, non c'è fretta, non più.» «Oswald Breil, le faccende che ti riguardano sono sempre questioni di vita o di morte...» avrebbe voluto rispondere Sara, ma si limitò a prendere l'agenda dalle mani di Oswald e a esaminarla sommariamente. Si trattava di una comune agenda con stampigliato il nome del settimanale Documento, che l'aveva data in omaggio ai suoi redattori in quel lontano 1976. Nella prima pagina erano segnati i dati anagrafici e le generalità del proprietario. Sara lesse con attenzione persino i numeri dei documenti di identità e delle carte di credito. Quindi sfogliò l'agenda sino al punto in cui si interrompeva la puntuale redazione del diario. «Accidenti a te, Oswald Breil...» pensò Sara, «riesci sempre a ottenere quello che desideri... Ogni documento, papiro, diario che mi hai messo tra le mani aveva... un'anima.» Gli occhi scuri della giovane donna si sollevarono dalle pagine del diario e fissarono quelli di Oswald. «Quanto tempo?» «Con calma, Sara. Tutto il tempo che vuoi. Il destino ha già compiuto il suo corso e nessun nostro intervento, a questo punto, sarà più capace di mutarlo.» 2 Età dei Metalli, II millennio a.C.
«Noi siamo gente pacifica, Karesh», stava dicendo Sar, il re della tribù dei migos, al giovane capo della tribù dei davaar. «Siamo ottimi cacciatori e allevatori, ma non altrettanto validi combattenti.» «È proprio per questo che ti offro l'alleanza tra le nostre genti: noi, invece, siamo grandi guerrieri, in grado di proteggere i membri della tua tribù dagli attacchi dei nemici.» «Di quali attacchi stai parlando? Sai bene che rivolgere le armi contro i migos è un sacrilegio: noi siamo i custodi della Pietra di Hosh. Nessuno oserà mai farci la guerra.» «Proprio per la mia devozione al dio sono qui adesso...» Karesh era più basso e molto più giovane del re Sar. Aveva la faccia segnata come una schiena sulla quale si fosse abbattuto più volte un nerbo di bue. Era diventato capo tribù dopo aver ucciso in combattimento il suo predecessore. Da quel momento si era messo alla guida dei suoi sanguinari guerrieri, dedicandosi a razzie di ogni tipo. E adesso quell'assassino stava chiedendo ai migos di unirsi a loro. «Perché parli di devozione, Karesh?» «Chi mi dice che sia stato Hosh a volere voi e voi soltanto come custodi della Pietra e sommi sacerdoti?» «Che cosa vuoi dire, Karesh?» D'istinto, la mano di Sar cercò il pugnale che portava sempre al fianco. «Così è dalla notte dei tempi, da quando i padri dei padri dei miei padri trovarono il simbolo della potenza del dio e ne diventarono custodi.» «Sono leggi degli uomini e non di Hosh», disse Karesh alzando il tono della voce. Tra le pareti della capanna, la più grande tra le oltre cento del villaggio dei migos, le sue parole risuonarono minacciose. La giovane Dehal e Athor erano nati nel corso della stessa luna. Erano cresciuti insieme, inseparabili, sino a quando Athor non era stato iniziato alla caccia. Una notte gli uomini del villaggio erano andati a prenderlo, il volto coperto da maschere che rappresentavano gli spiriti degli animali uccisi. Gli avevano bendato gli occhi e lo avevano fatto camminare a lungo. Alle prime luci dell'alba lo avevano liberato dalla benda ed erano scomparsi nell'inestricabile buio della foresta. Fu allora che Athor smise di essere il compagno di giochi di Dehal per divenire un uomo. Fu un uomo colui che si ritrovò davanti a un lupo che, in cerca di prede, si aggirava per la fitta vegetazione. Athor lo ferì con una freccia e l'animale, reso cieco dal dolore, gli
si avventò contro. Ma il giovane riuscì a schivare le sue zampate e le zanne assassine. Quindi afferrò la belva cingendola tra le braccia muscolose. Il pugnale penetrò nel costato del lupo all'altezza del cuore facendolo morire in un unico spasmodico sussulto. Athor si caricò il trofeo sulle spalle e ritornò al villaggio. Alcune donne, vedendolo arrivare con la preda, abbandonarono le loro occupazioni e corsero a chiamare gli uomini. Un ragazzo che lasciava l'adolescenza rappresentava sempre un evento da festeggiare per i migos. Ancor più se ad avere catturato un grosso lupo nel corso della sua iniziazione era il figlio del capo e gran sacerdote della tribù. Il giorno seguente gli anziani avrebbero condotto Athor nella caverna sacra al dio Hosh per compiere il rito di consacrazione con cui sarebbe divenuto cacciatore: gli avrebbero scagliato contro, nell'oscurità, delle palle d'argilla bagnata. Sarebbe stato il numero dei colpi andati a segno a stabilire se egli avrebbe avuto o meno un avvenire come grande cacciatore. Così avevano deciso gli antichi nella notte dei tempi, secondo il volere di Hosh. Quella sera l'intero villaggio festeggiò, danzando attorno al fuoco al ritmo forsennato dei tamburi, sino a che Aker, l'indovino, non cadde tra la polvere tremando convulsamente con la bava alla bocca. «Vedo sangue e terrore all'orizzonte», annunciò in stato di trance. «Vedo morti e razzie, fuoco. Gli assassini caleranno sul villaggio e avranno armi affilate... Tuo figlio Athor uscirà dal fuoco, mio re. Vedo il fuoco... il fuoco...» Mentre l'indovino pronunciava la sua profezia, gli occhi di Athor incrociarono quelli della giovane Dehal. La guardò come se fosse la prima volta: i seni della sua compagna di giochi erano grandi e sodi, i fianchi torniti e sinuosi. Il minuscolo triangolo di pelle che da qualche tempo portava sul pube non era sufficiente a coprire la soffice peluria che le era cresciuta intorno all'inguine. Athor si rese conto in quel momento che Dehal era diventata donna, una bellissima donna, e le profezie dell'indovino non ebbero il potere di scalfire l'eccitazione di quella scoperta. Alcune settimane dopo, di ritorno da una battuta di caccia, Athor stava pensando a sé e a Dehal: da qualche tempo tra loro era sorta una specie di timidezza, un imbarazzo che forse nascondeva l'attrazione che i due ragazzi provavano l'uno per l'altra. Il carniere che il giovane portava a tracolla, ricavato dalla pelle di un or-
so, era semivuoto: al suo interno si trovavano soltanto una lepre e due pernici. Non sempre la caccia andava a buon fine. Mancavano poche centinaia di passi alla recinzione che era stata eretta attorno al villaggio per proteggerlo dagli animali feroci, più che dall'attacco di improbabili nemici: i migos erano i discendenti del dio e i custodi della Pietra e della legge. Nessuno avrebbe mai compiuto il sacrilegio di attaccarli. Tutto intorno le montagne si stagliavano alte e maestose, con i loro costoni di roccia calcarea chiara. Sembrava volessero sfidare il cielo. Athor si fermò a osservare la cascata d'acqua cristallina che alimentava il laghetto al limitare del bosco, meta di tanti suoi giochi d'infanzia. Il giovane cacciatore si chinò e raccolse con le mani un po' d'acqua. Se la gettò sul volto, per detergersi dal sudore e dalla sporcizia. Fu quando riaprì gli occhi che la vide. Dehal si trovava in un'insenatura del laghetto, protetta alla vista da alcune rocce. Athor rimase a osservarla affascinato: non riusciva a distogliere lo sguardo dal corpo nudo e dalla pelle morbida di Dehal. La giovane aveva la carnagione scura e gli occhi sottili, altrettanto scuri. I suoi seni si ersero rigogliosi quando la ragazza si alzò in piedi, uscì dall'acqua e andò a sedersi su uno scoglio piatto lì vicino. Athor cercò riparo dietro alla vegetazione che costeggiava la sponda. Le mani di Dehal scesero lungo il ventre, verso il suo sesso. Athor provò un brivido lungo la schiena mentre, sotto la pelle del perizoma, il suo membro si inturgidiva. Quando di lì a poco il volto di Dehal si distese in una smorfia di piacere, Athor, eccitato e turbato al tempo stesso, perse la presa dal cespuglio al quale era aggrappato, scivolò lungo la riva e, in un attimo, si ritrovò immerso nell'acqua del lago con tanto di arco, faretra e bisaccia. Dehal sobbalzò a quel tonfo improvviso e corse verso la sponda opposta, dove aveva lasciato la pelle di animale che la vestiva. La voce amica di Athor alle sue spalle la fece desistere dalla fuga. «Sono io, Dehal. Non ti spaventare», disse non appena riemerse dall'acqua. Un sorriso comparve sul volto della giovane donna mentre cercava la sua veste. «Perché ti copri, Dehal? Ti ho sempre visto nuda. Non ti nascondere, lasciami vedere come sei fatta...»
«Non dovrei essere io a nascondermi, Athor», rispose Dehal sorridendo e indicando con lo sguardo il basso ventre del giovane: nella caduta, il perizoma si era spostato, mettendo in mostra il sesso turgido di Athor che, confuso e imbarazzato, si immerse di nuovo nell'acqua. «Se tu lasci guardare me io lascio guardare te, Dehal», disse il ragazzo. Poco dopo erano seduti l'uno di fronte all'altra in uno spiazzo erboso poco distante dalla cascata e con le loro giovani mani si esploravano a vicenda. «Piano! Così mi fai male! Possibile che tu sia più rozzo dei cinghiali che ti piace cacciare?» Poi quello che sembrava un gioco li travolse. In breve Athor le fu sopra e lei si offrì a lui. Lo sentì premere dolcemente ed entrare in lei. Provò un leggero dolore, come se qualche cosa si fosse spezzato. Gli umori delle sue intimità accompagnarono il sesso di Athor, che cominciò a muoversi sempre più freneticamente. La giovane lo assecondò, pronta a ricevere il suo piacere. Di lì a poco si ritrovarono esausti, scossi dall'affanno. Le mani della ragazza accarezzavano la schiena lucida di sudore del suo amante. Rimasero così a lungo, appagati e felici. Athor era giovane e forte. I capelli castani gli ricadevano lunghi sulle spalle. Si muoveva con l'agilità di un felino e quel suo modo sinuoso aveva acceso spesso le fantasie di Dehal: il fisico possente di Athor era divenuto da tempo l'oggetto dei suoi desideri. Ma non era solo bello, era anche saggio e lei sapeva che un giorno sarebbe succeduto a suo padre come gran sacerdote e capo della tribù. Dehal, invece, era figlia di Aker l'indovino. Un tempo, prima che le zanne di un cinghiale gli maciullassero la gamba destra, Aker era stato il migliore cacciatore della tribù. «Hai una carica di bufali dentro», disse Athor con il capo appoggiato sul petto della ragazza. «Non riesco a fermare il mio cuore... Credi che Hosh si adirerà con noi per quello che abbiamo fatto, Athor?» «Spero di no: l'ira di Hosh non perdona. Comunque chiederò consiglio a mio padre... Anzi, gli chiederò... gli chiederò di celebrare la nostra unione.» Così dicendo il giovane Athor si alzò in piedi e si guardò intorno. Il sangue gli si gelò nelle vene. Avanzavano rapidi, cercando di restare nascosti tra la folta vegetazione.
Avevano i corpi dipinti di bianco, simili agli scheletri che Athor aveva visto nella valle che fungeva da cimitero. Erano armati fino ai denti. I guerrieri davaar si stavano dirigendo verso il villaggio per attaccarlo. Doveva assolutamente correre più veloce di loro. «Presto, nasconditi là, Dehal», disse in un sussurro, spingendo la giovane dietro a un tronco, prima di scomparire in un lampo nella foresta. «... e poiché sono leggi degli uomini e non del dio, re Sar dei migos», stava dicendo Karesh con piglio sempre più minaccioso, «non vedo perché la mia gente non possa condividere con la tua questo privilegio.» «La tua gente? Tu osi chiamare un gruppo di assassini rinnegati la tua gente?» chiese Sar sprezzante e per nulla intimorito dai modi minacciosi dell'altro. «Le poche donne al vostro fianco sono state rapite dai villaggi che avete raso al suolo dopo avere ucciso uomini, vecchi e ragazzi. Tu non sei né sarai mai il capo di una tribù, ma solo un assassino e il perfido carceriere di chi hai reso vedova e infelice. Non meriti la stima di Hosh. Vattene, Karesh. Fingerò di non aver sentito le tue bestemmie.» Nel villaggio dei migos gli stranieri non potevano entrare armati e anche Karesh aveva dovuto sottostare a quella regola. Per questo Sar sottovalutò il pericolo: quando si voltò per vedere cosa provocasse le urla che all'improvviso si erano levate fuori dalla capanna, fu un attimo per Karesh prendere il sopravvento. Athor aveva fatto appena in tempo a nascondere Dehal tra le radici del gigantesco albero, che un guerriero lo aveva superato senza vederlo. Lui gli andò dietro come un'ombra: non per niente era abituato a seguire gli animali senza che questi se ne accorgessero. Lo raggiunse in prossimità della palizzata del suo villaggio. Il davaar gli dava le spalle: stava acquattato dietro a un cespuglio, a una ventina di passi da lui, vicino alla staccionata. Athor incoccò la freccia e tese l'arco. Le mani erano ferme, i gesti decisi: la freccia partì con uno schiocco sonoro. Il davaar non ebbe neppure il tempo di voltarsi. Il suo corpo trafitto rimase inerme tra i cespugli dove aveva tentato di nascondersi alla vista degli abitanti del villaggio. Tra le mani di Karesh balenò un pugnale che qualche traditore doveva aver nascosto per lui all'interno della capanna. Le grida all'esterno, intanto, si facevano sempre più vicine. La mano di Sar troppo tardi corse alla lama che teneva al fianco: Karesh
lo aveva preso alle spalle e quindi lo spinse fuori dalla capanna. «Così i tuoi sudditi conosceranno il nome del loro nuovo re direttamente dalla tua voce», disse Karesh mandando avanti brutalmente il rivale, sotto la minaccia del pugnale. La voce di Athor giunse all'orecchio delle due sentinelle della città sacra simile al grido di un animale della foresta. Le guardie all'inizio non capirono, poi, mano a mano che il giovane si avvicinava, le sue urla assunsero tutto il loro terribile senso. «Siamo attaccati, presto, chiudete la porta! I davaar stanno arrivando dalla foresta. Sono molti e sono armati. Vogliono coglierci di sorpresa. Chiudete il cancello, in nome di Hosh.» Mentre i pesanti battenti dell'unica via di accesso al villaggio venivano chiusi, i davaar sbucarono urlando nella radura come fossero spuntati dal nulla. Brandivano le armi e gli scudi e avevano un aspetto terribile. I migos, pacifici cacciatori, poco avvezzi alla battaglia, rimasero pietrificati. Athor riuscì a infilarsi all'interno della cinta: per il momento era in salvo, ma adesso doveva organizzare la difesa del suo villaggio. Gridò alle sentinelle di prendere archi e frecce e di salire sugli spalti: lui per prima cosa doveva avvisare suo padre. Ma quando giunse davanti alla capanna di Sar si fermò, agghiacciato. Sar stava in piedi al centro dello slargo. La lama del coltello di Karesh gli aveva inciso la pelle del collo e un sottile rivolo di sangue stava colando lungo il petto del capo tribù. Karesh aveva dipinta sul volto una furia omicida e sorrideva trionfante: era sicuro che le urla sentite fossero il segnale che i suoi avevano fatto irruzione nel villaggio. Quando si rese conto che a gridare non erano i suoi uomini ma i migos che, con le armi alla mano, correvano verso la palizzata, capì che una parte del suo piano era fallita. Ma non si perse d'animo. Premette ancor più la lama sul collo del re e gli sibilò all'orecchio: «Adesso ordinerai ai tuoi di lasciarmi andare, altrimenti ti sgozzo come un cinghiale». «Fermo, Karesh!» gridò Athor non appena si fece più vicino. «Posa il pugnale e libera mio padre.» «Non sei nella posizione di darmi ordini, Athor. Lasciami andare e tuo padre vivrà.» Un moto di impotente ribellione scosse il corpo del ragazzo, ma sapeva che non poteva contraddire il perfido davaar.
«Nessuno si muova e aprite la porta», ordinò Athor ai migos che erano accorsi in difesa del loro re. Questi si fecero da parte per far passare l'ostaggio e il suo aguzzino. Karesh arrivò sulla soglia. Sembrò valutare la situazione: i suoi guerrieri gli avrebbero coperto le spalle. Fissò Athor negli occhi, quindi affondò la lama con un gesto rapido e letale. Sar, il re giusto e amato dei migos, cadde a terra senza un lamento con la gola recisa. Quindi, con l'arma sanguinante stretta in pugno, Karesh incitò i suoi all'assalto. I davaar si mossero in avanti, i volti deformati dall'odio, lanciando le loro terribili urla di battaglia. Fu allora che i migos si trasformarono. Vedere il loro capo riverso in una pozza di sangue li rese assetati di vendetta. I pacifici membri della tribù ingaggiarono un furioso corpo a corpo, respinsero l'assalto e colpirono a morte molti dei loro nemici. Ma alcuni tra i migos caddero prigionieri e furono trascinati via nel fitto della foresta che circondava il villaggio. Nel frattempo la porta venne richiusa e la successiva carica dei davaar fu respinta. Athor era stato tra i primi a gettarsi sui nemici e i suoi uomini gli avevano ubbidito d'impulso. Non c'era stato il tempo per le cerimonie di investitura: il giovane aveva preso il posto che suo padre aveva occupato sino a pochi istanti prima. I migos si erano appostati lungo una passerella soprelevata che costituiva il camminamento a ridosso della palizzata. Da lì incominciarono a bersagliare i nemici con frecce, lance e pietre che le donne, da sotto, porgevano loro. In breve i davaar batterono in ritirata e scomparvero tra il folto della foresta. Athor scese dal camminamento e, raggiunta la porta del villaggio presso la quale giaceva ancora il corpo di Sar, si inginocchiò di fianco al genitore. Fu allora che scorse Goreth, il suo fratellastro, il figlio che Sar aveva avuto dalla prima moglie, morta dandolo alla luce. Secondo le leggi dei migos, solo a chi restava vedovo era concesso di risposarsi. Goreth era stravolto dal dolore e dall'ira: «La pagheranno, maledetti davaar. Giuro che lo vendicherò. Karesh non avrà pace!» Goreth e Athor erano sempre stati molto uniti: la madre di Athor aveva allevato il figlio di primo letto del marito come i quattro, un maschio e tre femmine, nati dal suo matrimonio.
«Dobbiamo inseguirli!» urlò Goreth, e fece per lanciarsi verso la foresta. Ma Athor lo bloccò afferrandolo per un braccio. «Fermo! I davaar non aspettano altro. Non illudiamoci: loro sono dei guerrieri e noi semplici cacciatori. In campo aperto e senza il riparo di una palizzata avremmo la peggio», disse Athor. «Hai forse paura, fratello mio?» «Non ho paura: la foresta è piena di insidie e i davaar sanno meglio di noi dove tenderci un'imboscata.» La foresta... Athor di colpo ricordò: le concitate fasi della battaglia e l'assassinio di suo padre lo avevano distolto da ogni altro pensiero. Dehal, la dolce Dehal, si trovava ancora là. Senza aggiungere altro, si alzò, si assicurò il pugnale alla cintura e, leggero come un felino in caccia, si inoltrò fra la boscaglia. Dehal era rimasta nascosta tanto a lungo da perdere la cognizione del tempo. Decine di uomini erano passati correndo nei pressi del suo nascondiglio, poi nel bosco era tornata nuovamente la pace. Ma lei non si era mossa ed era rimasta lì in compagnia del conturbante ricordo del corpo di Athor allacciato al suo. Infine la giovane uscì guardinga dal rifugio. Era ancora seminascosta dalla vegetazione quando una mano d'acciaio le afferrò il polso. Dehal cercò inutilmente di divincolarsi dalla stretta. Karesh la stava guardando con un sorriso sinistro. «E così i nostri eroici sacerdoti hanno chiuso le porte e dimenticato fuori la perla del loro gregge...» La mano del guerriero, ancora sporca del sangue di Sar, si strinse sul seno della ragazza, che cercò di colpirlo con un calcio. Ma quel tentativo di ribellione sortì l'effetto di eccitare ancor di più l'uomo, che la gettò a terra e si buttò su di lei, ansimando. Le mani della ragazza graffiarono la schiena nuda del guerriero, le gambe scalciavano furiose, ma Karesh sembrava fatto di roccia. Le ginocchia di lui divaricarono le cosce della sua preda. «No, ti prego... noo!» L'urlo di Dehal si perse nel fitto della foresta. Athor correva come il vento, le braccia protese a schivare le frustate dei rami che gli si paravano davanti. Il grido di Dehal lo raggiunse come una pugnalata ed egli si diresse verso il punto da cui pareva provenire. Dehal era sdraiata su di un grosso masso piatto, Karesh era sopra di lei.
Dentro di lei. Athor sentì l'odio montargli dentro come la piena di un fiume. Il suo balzo fu accompagnato da un grido simile a quello di una fiera. Si abbatté con tutto il suo peso sul nemico sbalzandolo lontano dalla vittima che stava violando. Karesh rimase un istante senza fiato, poi la mano corse all'ascia che teneva alla cintura ma, prima che potesse brandirla, la lama del pugnale di Athor gli penetrò nel fianco. Athor gli fu di nuovo sopra e trattenendo il davaar per i folti capelli fece cozzare violentemente la sua testa su una pietra, quindi alzò il braccio armato del pugnale. Karesh non avrebbe avuto nemmeno il tempo di pensare che stava morendo. Il colpo alla nuca fu improvviso come un fulmine. Athor, le mani strette al pugnale, inarcò la schiena e si accasciò, privo di sensi, sul corpo di Karesh. 3 Linguadoca, 1213 I due uomini avanzavano l'uno di fianco all'altro. Il vecchio cavalcava un baio robusto; il ragazzo era a piedi e portava sulle spalle una custodia in pelle nella quale era conservata la sua ghironda. Non dimostrava più di quindici anni ma aveva un passo fiero e sicuro, da uomo. A giudicare dai loro vestiti non sembravano navigare in buone acque, benché il solo fatto di possedere un cavallo e un prezioso strumento musicale provasse la loro appartenenza a un ceto sociale elevato. «Ma era proprio necessario che tu venissi qui, nonno Beaufort?» chiese il giovane arrancando per tenere il passo del cavallo. «Certo, Aymon. Voglio parlare col maestro e mi piacerebbe essere presente quando lui ti ascolterà suonare. È molto vecchio e non gli resta granché da vivere, ma sono convinto che il tuo talento lo stupirà. E tu potrai far tesoro dei suoi insegnamenti.» «Non voglio restare da lui, in questa città nemica...» «Ne abbiamo già discusso, Aymon. Il maestro Puyol è un amico fidato che ha abbracciato la nostra religione e vive qui a Carcassonne anche per poter meglio osservare i movimenti dei nostri nemici. Io sono ricercato da tutte le milizie crociate della Linguadoca: non è prudente che tu rimanga con me perché metterei a repentaglio anche la tua vita. Non appena questa
assurda guerra sarà finita tornerò a prenderti. E nel frattempo tu avrai appreso tutti i segreti della ghironda: sono certo che il maestro Puyol te li saprà insegnare.» «Certo, imparerò l'arte della musica, ma chi mi insegnerà quella del combattimento se non staremo più insieme, nonno?» «Ho provveduto anche a questo, Aymon: nella sua lettera il maestro Puyol ha scritto che parte del tuo tempo la impegnerai con un maestro d'armi. Dice che il prescelto è il migliore sulla piazza. E, ricorda, nessuno, oltre a Puyol, dovrà conoscere la tua vera identità: solo così sarai al sicuro dalle rappresaglie degli uomini di Simone di Montfort.» Il nipote alzò uno sguardo preoccupato sulla figura del vecchio. «E se, mentre sei qui, qualcuno dovesse riconoscerti? Potresti venire condannato al rogo, ucciso...» «Non accadrà, piccolo mio... non accadrà...» Ormai erano giunti alle porte della città. Due uomini, vestiti con la tunica crociata, stavano schiamazzando sotto la torre nord della possente cinta muraria di Carcassonne, e non fecero caso ai due viandanti che oltrepassavano le mura. Beaufort, visconte della Val di Daigne, ora taceva immerso nei suoi pensieri, gli stessi che lo accompagnavano da quando era incominciata la crociata contro i catari: non solo era inaudito che dei crociati uccidessero devoti cristiani, ma ancor più grave era che ciò non avvenisse nella lontana Palestina, quanto nel bel mezzo dell'Europa. Quella che i suoi abitanti, con fierezza, chiamavano Occitania era una regione nel cuore del territorio francese, confinante con la massiccia catena pirenaica e dominata da signori e vassalli che dovevano al re d'Aragona - e quindi alla Chiesa di Roma - la loro ubbidienza. Ma la pacifica esistenza di quella gente era andata distrutta da quando il papa aveva ordinato che in quei luoghi si marciasse contro l'eresia, rappresentata da alcuni seguaci del demonio che, nei loro aberranti riti, si diceva baciassero le terga a gatti e ad altri animali, prima di lasciarsi andare a ogni più turpe atto da lupanare. Catari, si facevano chiamare, e sotto le mentite spoglie di cristiani ortodossi sino all'integralismo erano nemici della Chiesa e quindi di Dio. Almeno questo era ciò che il papa sosteneva per poter giustificare la sua crociata. Nel luglio 1209 l'incidente che aveva dato avvio a quella nuova guerra di religione era stato l'assassinio di Pietro di Castelnau, monaco cistercense e legato di papa Innocenzo III. La città di Béziers era caduta in poche ore. Molti degli abitanti si erano
rifugiati all'interno della cattedrale: qui i crociati li avevano passati a fil di lama, prima di incendiare la grande chiesa e seppellire sotto le macerie coloro che erano scampati alle armi. Secondo i rapporti recapitati a papa Innocenzo III i caduti, nella sola Béziers, erano stati almeno ventimila. Per lo più vittime innocenti, dal momento che i catari non contavano in città più di duecento adepti. Tuttavia, l'eresia che la Chiesa di Roma aveva deciso di combattere e di distruggere non era così malvista dagli occitani e, a parte alcune frange di fanatici, i catari avevano convissuto a lungo e pacificamente con i loro concittadini cristiani. Per questo, di fronte all'ordine di consegnare gli eretici all'esercito del papa accampato sulle rive dell'Orb, l'intera città aveva scelto di combattere sino alla fine. La furia delle milizie papali, e i racconti delle atrocità commesse dai crociati, avevano in breve diffuso il panico nell'intera regione: ovunque si viveva nel terrore di veder comparire i vessilli cristiani all'orizzonte. Quella che avrebbe dovuto essere una crociata contro pochi eretici si era trasformata in una repressione feroce e indistinta, il cui obiettivo era quello di insegnare a tutti gli occitani da che parte stesse la sovranità, e indicare al resto della cristianità i rischi di una convivenza con l'eresia. Dopo Béziers, l'esercito aveva mosso verso Carcassonne, che era capitolata, sia pure in maniera meno violenta, nella calda estate del 1209. Gli abitanti erano stati cacciati dalle loro case e solo in un secondo momento era stato consentito che alcuni ritornassero in città. Al comando delle milizie papali si trovava Simone di Montfort. Di lui, tutti conoscevano sia il valore sia la crudeltà con la quale aveva sempre infierito sui nemici della Chiesa. Il nonno e il ragazzo camminavano nelle strette vie della città fortificata. Se qualcuno avesse riconosciuto Beaufort, la loro sorte sarebbe stata segnata: nell'avanzata in terra occitana dell'esercito crociato, l'unico ostacolo che gli uomini di Simone di Montfort avevano incontrato era stato quello del manipolo di cavalieri comandato dal visconte della Val di Daigne, che aveva abbracciato la dottrina catara. I suoi adepti uscivano dalla boscaglia come predatori e assalivano i distaccamenti che, per una qualche ragione, avevano perso il contatto con il resto dell'esercito. Poi, dopo avere avuto la meglio sui crociati, gli uomini di Beaufort scomparivano nuovamente nella foresta dalla quale erano venuti. Queste continue rappresaglie avevano scatenato la furia di Simone: non
era ammissibile che migliaia di soldati in armi non riuscissero a fermare un manipolo di eretici rinnegati. Il comandante della milizia crociata aveva istituito una lauta taglia per chi avesse contribuito alla cattura del signore della Val di Daigne. Ma il visconte era riuscito a farla franca per quattro lunghi anni. A tutto questo stava pensando Beaufort quando il nipote, come gli avesse letto nel pensiero, chiese: «È vero che Béziers è caduta per un motivo futile, nonno?» Beaufort e Aymon erano molto legati: quando, anni prima, entrambi i genitori del piccolo erano stati uccisi da una febbre malarica, il nonno era diventato come un padre per il giovane orfano. Il ragazzo era la luce che illuminava la vita di uno tra gli uomini più valorosi e stimati dell'Occitania, ed era l'unico discendente della sua stirpe, a eccezione di un ramo laterale della famiglia che governava la contea di Foix. Forse là si sarebbero recati una volta terminata la guerra ma, per il momento, Beaufort aveva deciso che fosse più sicuro lasciare il ragazzo, sotto mentite spoglie, dietro le linee nemiche: anche Foix e Tolosa si sarebbero prima o poi piegate all'avanzata delle truppe del papa. «È vero, Aymon: un manipolo di uomini, uscito dalle mura di Béziers, ha incominciato a sbeffeggiare alcuni crociati intenti a bivaccare durante l'assedio della città. Questi li hanno inseguiti armi in pugno e sono riusciti a forzare il blocco delle sentinelle. In breve l'esercito del papa si è riversato all'interno delle mura uccidendo chiunque incontrasse. Pare addirittura che l'abate di Citeaux, Arnaud Amaury, che era al seguito delle truppe pontificie, nel bel mezzo della carneficina abbia risposto a un ufficiale che gli chiedeva come distinguere i duecento nostri fratelli catari dai cittadini cristiani: 'Accoppateli tutti, Dio saprà riconoscere i suoi!'» I due avanzavano attenti a non dare nell'occhio. E, sino a quel momento, ci erano riusciti. Era difficile che qualcuno potesse individuare Beaufort di Daigne: raramente lui e i suoi uomini avevano lasciato superstiti nelle loro scorribande. In realtà l'uccisione di ogni essere umano contrastava con il precetto cataro di non macchiarsi mai di omicidio, ma Beaufort era certo che Dio gli avrebbe perdonato quella grave disubbidienza: in fondo lui uccideva solo per difendersi. Ricordava bene, il visconte, quando si era avvicinato al catarismo in seguito alla morte della moglie. Aveva preso il Consolamentum dopo alcuni anni di osservanza. E l'unico sacramento riconosciuto dalla religione catara lo aveva elevato al ruolo di Perfetto, Amico di Dio, come
usavano definirsi i ministri del culto. La dottrina si basava sui precetti di semplicità, ormai dimenticati, dai quali però aveva preso vita il cristianesimo. Il visconte non faceva passare ora della giornata senza ripetere a se stesso i precetti fondamentali della sua dottrina. I catari credevano nell'esistenza di due princìpi contrapposti: il Bene e il Male. Il primo trovava il suo fondamento nel Dio giusto e misericordioso, il secondo in Satana, il dio nemico. Queste due forze, eternamente in lotta tra loro, avevano creato due mondi distinti: quello dello spirito, perfetto e governato dal Dio giusto, e quello della materia, nelle mani di Satana. Il corpo umano non era altro che un luogo di passaggio, prima che lo spirito venisse liberato e ricondotto a Dio. Cristo era solo un angelo sceso in terra. La croce non era un simbolo religioso e i riti eucaristici non venivano riconosciuti: unico sacramento ammesso era il Consolamentum. Il Perfetto era tenuto alla scrupolosa osservanza dei precetti. E Beaufort li seguiva, compreso il digiuno, strumento di penitenza ed espiazione. Come la dieta, per lo più vegetariana, dove però erano ammessi crostacei e pesci. Forse era stato il quieto ma inarrestabile corso di quel rigore ritrovato della religione a destare preoccupazione nelle alte sfere ecclesiastiche. Il credo era dilagato nelle terre d'Occitania e aveva intaccato anche le estreme propaggini settentrionali del territorio italico. Forse la furia del papa si era scatenata proprio per la facilità con cui il loro verbo si propagava. Tanto più che i catari convivevano pacificamente con la popolazione cristiana. Tutto questo avrebbe potuto sovvertire l'ordine costituito. Prova ne era stato l'eccidio di Béziers. «Vattene, miserabile!» disse improvvisamente nonno Beaufort piegandosi sulla sella e affibbiando una sonora pacca sulla collottola del nipote. «Ti ho detto che dovrei essere io il primo a chiedere la carità.» Stupito e offeso da quel comportamento, Aymon alzò gli occhi verso l'uomo in sella. Lo sguardo del visconte di Daigne era inequivocabile e il ragazzo comprese. Due crociati, la mano sull'elsa della spada, sbarravano il passo al cavallo. «Fermo, straniero!» ordinò il soldato alzando la mano aperta davanti a Beaufort. Le briglie si tesero e il baio si fermò con un sonoro nitrito. «Dite a me, soldato?»
«Dico proprio a te...» Il crociato si portò più vicino al cavallo, scrutando il volto del forestiero. «Ci siamo per caso già visti, noi due?» «Non mi pare. Comunque io sono solito andare di città in città per guadagnare quel poco che mi consente di mantenermi.» «E di che cosa vivi, straniero?» chiese il secondo militare che si era portato dinanzi a lui. «Di che cosa volete possa vivere un vecchio stanco... Faccio quello che capita. E spesso non sono io a fornire i miei servigi, ma il mio fedele cavallo: sapete, lui è davvero infaticabile e capita che la gente abbia bisogno della sua forza per tirare un aratro o per spostare massi e pesi.» «Sarà come dici, vecchio, io però sono convinto di averti già visto...» insistette il primo militare. Ma intanto si era fatto da parte e aveva ceduto il passo a cavallo e cavaliere. «L'abbazia di Lagrasse!» gridò a un tratto, quando ormai Beaufort stava sfilando di lato. «Fermalo!» ordinò al suo compagno. «È il capo della banda di tagliagole che ha sterminato i miei compagni!» Nei pressi dell'abbazia di Lagrasse, Beaufort lo ricordava bene, avevano teso un agguato a un drappello nemico. Evidentemente quel crociato era sopravvissuto all'eccidio. L'altro militare si parò davanti al cavallo, ma non fece neppure in tempo a sguainare la spada: il fendente preciso di Beaufort lo raggiunse al collo, e il suo sangue sprizzò in ogni direzione. Dopo essersi assicurato che suo nipote Aymon si fosse allontanato, il visconte spronò il vecchio baio. «All'armi! All'armi!» gridava il soldato sopravvissuto con tutto il fiato che aveva in corpo. «Chiudete le porte della città. Quel maledetto non ci deve sfuggire!» Le strette viuzze di Carcassonne erano affollate: Beaufort aveva scelto il giorno del mercato per meglio passare inosservato tra la calca, ma ora quella stessa folla stava ostacolando la sua fuga. La gente, impaurita, si scansava di lato per consentire al cavallo al galoppo di passare. La porta meridionale della città era ormai in vista. Beaufort strinse le gambe attorno al corpo del baio e l'animale reagì con la prontezza di un purosangue: ancora pochi passi e sarebbero stati fuori da quella trappola. Beaufort vide alcune delle sentinelle alle prese con gli argani, mentre altre, impugnato l'arco, prendevano la mira. La pesante saracinesca in ferro cadde dall'alto con un forte clangore. Il visconte di Daigne tirò a sé le redini, tentando di arrestare la folle cor-
sa del quadrupede. Tuttavia non fu quel gesto a fermare l'animale: almeno due frecce gli trafissero il collo, facendolo cadere pesantemente a terra. Beaufort venne disarcionato. Non ebbe il tempo di rialzarsi: le spade delle sentinelle lo immobilizzarono, ma egli non abbassò lo sguardo fiero. Era pronto a morire con onore. «Fermi!» disse una voce imperiosa alle loro spalle. «Lasciate che si alzi.» Gli armigeri allentarono la pressione della punta delle loro spade. «Chi siete, messere, per seminare il disordine nelle vie della mia città?» chiese il nuovo venuto. Vestiva abiti da battaglia, benché molto raffinati. Non era alto anche se, sotto la cotta di maglia, si intuiva un fisico possente e avvezzo al combattimento. Sebbene non lo avesse mai incontrato di persona, Beaufort seppe di essere al cospetto di Simone di Montfort. Stava per rispondere, quando una voce concitata alle sue spalle lo interruppe. «Chiedo scusa, mio signore», andava dicendo il crociato scampato al massacro dell'abbazia di Lagrasse, il petto scosso dall'affanno. «L'ho riconosciuto quasi subito: si tratta di Beaufort. Quest'uomo comandava gli assassini che hanno massacrato i miei commilitoni. E poco fa ne ha accoppato un altro con un solo colpo di spada.» «Risponde a verità ciò che dice il mio soldato?» chiese Simone di Montfort. «Sì, sono il visconte Beaufort di Daigne», tagliò corto il cataro, alzando le braccia in segno di resa. Sapeva di dover attirare su di sé l'attenzione dei crociati, affinché almeno Aymon riuscisse a farla franca. Questi aveva visto suo nonno ferire a morte uno dei militari e spronare il cavallo verso la porta della città. Aveva capito che il gesto brusco con cui lo aveva allontanato gli aveva salvato la vita e, impaurito, si era diretto verso il centro abitato, dove si trovava la residenza del maestro Puyol. 4 Baviera, anni '20 L'aria calda e appiccicosa di quella serata di metà settembre era impregnata dal fumo che aveva velato anche la luce delle lampade appese al soffitto nella birreria Sterneckerbrau. Il caporalmaggiore, veterano di guerra, non sopportava quell'odore di-
sgustoso di sigarette, sigari, pipe e qualsivoglia diavoleria che rendeva l'uomo schiavo del vizio. Era a causa di una rivolta sanguinosa, sedata nel sangue pochi mesi prima, che il sottufficiale tedesco si trovava lì. La sua presenza a quella riunione avrebbe cambiato il corso della sua vita. E anche quello della Storia. Tutto era cominciato alcuni giorni prima, quando aveva accettato un invito singolare. «Vi ringraziamo per aver accolto il nostro appello, caporale...» aveva detto il barone von Sebottendorff, capo della Società. «Grazie all'impegno e al coraggio vostro e di valorosi ariani come voi, il nostro Paese è riuscito a scacciare l'orda bolscevica.» Nel corso del novembre 1918, un certo Eisner, socialista di origine ebraica, aveva capeggiato una rivoluzione di stampo bolscevico in Baviera ed era riuscito a trascinare con sé una folta e agguerrita schiera di ribelli formata prevalentemente da anarchici e socialisti. Il moto aveva come obiettivo la proclamazione della Repubblica bavarese. Nel disegno dei rivoltosi la rivoluzione avrebbe dovuto propagarsi a macchia d'olio, sino a raggiungere Berlino e costringere il Kaiser alla fuga. Ma, ai primi di maggio, le truppe controrivoluzionarie capeggiate dalla Lega di Combattimento erano entrate a Monaco e avevano soffocato la sedizione nel sangue. Tra i fautori della restaurazione vi erano gli uomini della Thule. Per contrastare la «minaccia bolscevica», esisteva una sezione apposita dell'esercito tedesco, una squadra chiamata, appunto, Lega di Combattimento. Qui, un giovane disposto a tutto pur di raggiungere il potere, Rudolf Hess, stava scalando i gradini che lo avrebbero condotto ai vertici dell'organizzazione. Ma anche altri illustri sconosciuti muovevano, in quei mesi di tensioni e incertezze, i loro primi passi verso una folgorante carriera. Nel corso di una ristretta riunione del direttivo della Thule fu il giornalista Alfred Rosenberg il primo a lanciare l'invito: «Propongo che il caporale venga ammesso di diritto tra i membri della nostra Società». «Abbiamo bisogno di uomini così», approvò Gottfried Feder, noto nel gruppo per la sua arte oratoria. «Un momento», gli fece eco Dietrich Eckart, editore, poeta e drammaturgo con una vita da bohémien alle spalle, che godeva di un notevole cre-
dito all'interno del direttivo. «Credo sia opportuno giocare questa carta a nostro favore.» Si diceva che Eckart fosse legato non solo alla Thule, ma anche ad altre sette di stampo esoterico, che fosse un esperto di magia nera e seguace del Maligno. «Non me ne voglia chi sostiene l'investitura ufficiale del caporale, ma la recente sommossa di stampo bolscevico dovrebbe averci insegnato una cosa: non si è mai abbastanza all'erta dinanzi alle minacce di ebrei e comunisti. Lo stesso sottufficiale, se non erro, ne sa qualcosa: pochi giorni prima della liberazione, i rivoluzionari hanno perquisito più volte la caserma del 2° Reggimento di Fanteria, il suo. Mi è stato riferito che cercavano proprio lui e il nunzio apostolico, sua eccellenza Pacelli. Mi sbaglio, forse?» «Esatto», disse uno dei partecipanti. «Il 27 aprile il nostro uomo è riuscito a scampare alla cattura in maniera rocambolesca.» «Se lo cercavano, era probabilmente per via dei suoi meriti di militare e di investigatore. Quegli stessi meriti potrebbero aiutare la nostra causa in maniera molto più incisiva se il caporale non fosse etichettato come appartenente a una società famosa per il suo carattere antibolscevico e nazionalista. In pratica sto dicendo che sarebbe meglio che la sua adesione alla Thule rimanesse... segreta. Se tutti voi siete d'accordo, naturalmente.» Ora, pochi giorni dopo quella riunione, il caporale si trovava nella birreria Sterneckerbrau ad ascoltare le parole di Gottfried Feder sul tema «Come e con quali mezzi eliminare il capitalismo». L'interesse per l'argomento era altissimo. Dopo alcuni interventi, prese la parola il caporale: la sua dissertazione fu spesso interrotta da moti di approvazione dei presenti. Alla fine l'oratore venne avvicinato dal segretario del movimento nazionalista che aveva organizzato l'incontro. Un certo Anton Drexler. «Le vostre parole hanno suscitato entusiasmo nei camerati presenti alla riunione», gli disse l'uomo, tendendogli la mano. «Se non vi dispiace, vi inviterei a dare un'occhiata a questo opuscolo... e se poi foste così gentile da indicarmi i vostri recapiti, il Deutsche Arbeiterpartei sarà lieto di sottoporvi altra documentazione... Herr...?» «Hitler, caporal maggiore Adolf Hitler.» «Mi sono informato su questo Adolf Hitler», stava dicendo Dietrich Eckart agli altri componenti del direttivo della Thule. «È un valoroso.» Così dicendo l'editore mise mano a una borsa di pelle scura dalla quale estrasse un dossier sul caporale.
«È nato a Braunau, in Austria, nell'aprile del 1889, da una famiglia modesta: il padre era impiegato alle dogane e aveva immaginato per il figlio un avvenire simile al suo. Ma il nostro si sentiva attratto dall'arte e dall'architettura. Alla morte del padre, a soli diciotto anni, ha tentato senza successo di frequentare la prestigiosa Accademia delle belle arti di Vienna. Nel 1914, ai primi fuochi del conflitto, si è arruolato volontario in un reggimento bavarese, dove si è distinto per spirito di sacrificio e alcuni atti di eroismo. È stato ferito due volte, la prima nella battaglia della Somme e la seconda a Ypres dove, a causa dei gas urticanti, ha rischiato di perdere la vista. Per questo è stato promosso sul campo al grado di caporale e decorato per due volte al valore. Al momento dell'armistizio si trovava nell'ospedale di Pasewalk e, una volta dimesso, ha deciso di rimanere nell'esercito ed è stato assegnato qui, a Monaco. Ha fornito preziose informazioni sui responsabili dei moti bolscevichi. Recentemente è stato promosso all'ufficio stampa e informazioni del reparto politico del comando militare. Anton Drexler mi ha detto che sa anche parlare in pubblico. Credo sia davvero da tenere d'occhio.» «In realtà... nel corso del nostro incontro mi è sembrato... diciamo così... un po' grezzo e impacciato», disse von Sebottendorff, osservando Eckart da dietro gli occhialini a pinza. «Non mi preoccuperei di questo», disse Eckart. «Sarà mio compito quello di istruirlo alle buone maniere...» Nel suo sguardo brillava la luce del fanatismo. Sdraiato sulla branda, il caporale Adolf Hitler stava leggendo l'opuscolo che gli aveva dato Drexler nel corso della riunione nella birreria. Era intitolato Il mio risveglio politico e professava quelle idee reazionarie e antisemite che egli sentiva come proprie. Si disse compiaciuto che molti in Germania fossero convinti che dietro ogni movimento popolare e di lavoratori si celasse un covo di comunisti e bolscevichi. «C'è posta per voi, signor caporale.» La giovane recluta interruppe quella piacevole lettura. Hitler si alzò dalla branda e aprì il plico. Vi trovò la tessera numero 555 di iscrizione al DAP, Deutsche Arbeiterpartei, e un invito a partecipare a una riunione del Partito. Ma l'intima soddisfazione per quel riconoscimento fu mitigata dal disappunto di essere stato iscritto senza che qualcuno si fosse preso la briga di chiedere almeno il suo parere. Fu quindi più per portare le proprie rimostranze che per autentico inte-
resse che Hitler si recò nell'osteria alla periferia di Monaco, dove avevano sede le assemblee. Ma, una volta raggiunti i partecipanti, che non erano più di un centinaio, il dibattito lo coinvolse a tal punto che il suo entusiasmo non scemò neppure quando venne a conoscenza della modesta entità del fondo cassa dell'associazione: sette marchi e cinquanta centesimi. Lo sguardo di un uomo, dinanzi a lui, catturò la sua attenzione. Non riconobbe subito quel signore elegante seduto in disparte, al quale tutti si rivolgevano con grande rispetto. Alla fine dell'assemblea uno sconosciuto si fece vicino a Hitler. Aveva il volto sfigurato, privo della parte superiore del naso. Sicuramente a causa di una ferita di guerra. «Permettete che mi presenti, caporale Hitler. Sono il capitano Röhm, Ernst Röhm. Credo che voi abbiate già incontrato il nostro iscritto Dietrich Eckart.» Hitler ricordò la sera nella birreria e i suoi occhi incrociarono quelli magnetici dell'uomo. Eckart, dopo averlo scrutato a lungo, tradì un'espressione soddisfatta. Da parte sua, il caporale Hitler si sentì attratto da quello sguardo penetrante e un irrefrenabile brivido di esaltazione gli percorse la schiena. Dietrich Eckart ostentava un paio di folti baffi neri che contrastavano con la calvizie del capo. Nulla era degno di nota nel suo aspetto fisico, ma in lui c'era qualcosa che sapeva catalizzare l'attenzione di ogni platea anche quando calcava il palcoscenico come poeta e attore, attività nelle quali, però, alternava momenti di successo ad altri meno fortunati. Aveva fama di essere un cultore di esoterismo e il creatore di quelle sette che egli stesso presiedeva in gran segreto. I capi della Thule lo trattavano con rispetto e con una sorta di timore reverenziale. Eckart era stato contagiato, come molti suoi contemporanei, dalla passione per le scienze occulte che erano arrivate in Europa da oltreoceano. Erano state le sorelle Kate, Margaret e Leah Fox, vissute nella seconda metà del XIX secolo a Hydesville, le prime ad aver annunciato al mondo di poter comunicare con l'aldilà. Sull'onda di questo entusiasmo per l'ultraterreno, anche in Germania erano nate molte sette che si rifacevano ad antichi rituali e che idolatravano oggetti sacri dai misteriosi poteri. Di una di queste società segrete era a capo un certo Hermann Pohl.
L'Ordine dei cavalieri teutonici e del Santo Graal si rifaceva agli schemi della più ortodossa massoneria e ai Rosacroce, il leggendario ordine segreto nato nel XV secolo per volere di un monaco tedesco, Kristian Rosenkreutz, esperto di arti magiche. L'Ordine dei cavalieri teutonici e del Santo Graal aveva avuto, comunque, vita breve: tre anni dopo la sua nascita, data l'amicizia tra i fondatori delle due distinte società, era confluito nella neonata Thule. Pohl e un misterioso personaggio che rispondeva al nome di Wiligut erano diventati presto tra i più assidui compagni di Dietrich Eckart e insieme a lui si erano ritrovati più volte a discutere su quel caporale che sembrava avere un aspetto insignificante e modi tutt'altro che signorili. «Vi assicuro che in breve dovrete ricredervi, miei buoni amici. Lui suonerà e ballerà, ma sappiate che sarò stato io a comporre la musica», sosteneva Eckart. I suoi occhi erano due sottili fessure, eppure emettevano lampi di luce. Nel salotto della casa di Eckart aleggiava quell'odore di cera mista a polvere che solo i mobili vecchi sono capaci di diffondere nell'aria. Lì il maestro impartiva all'allievo le sue lezioni. «Voi, signor Hitler», disse Eckart rivolto al suo attento scolaro, «dovete imparare a suscitare nei vostri ascoltatori quelle sensazioni che loro si aspettano. Dovete infondere in chi vi ascolta i vostri sentimenti o rendere vostri i loro e perorarli con toni fermi e irremovibili. Solo così potrete essere il padrone delle emozioni che susciterete. Che voi le condividiate o meno... è irrilevante.» «Così facendo», obiettò l'allievo, «dovrei mentire spesso.» «Chiunque sia in procinto di candidarsi a capo di qualunque cosa deve essere capace di mentire, sempre ammesso che ciò sia utile al suo scopo.» Dietrich Eckart stava preparando Adolf Hitler ad affrontare la Storia. Sua eccellenza Eugenio Pacelli ebbe la percezione che un soffio di vento gelido lo stesse investendo, e un incontrollabile fremito di paura lo costrinse a inginocchiarsi dinanzi all'altare. Aveva provato spesso quella sensazione dopo il giorno in cui, alcuni mesi prima, i rivoluzionari bolscevichi avevano fatto irruzione nella caserma del 2° Reggimento di Fanteria. Per fortuna un soldato gli aveva indicato un passaggio segreto attraverso il quale era riuscito ad abbandonare la caserma. Lungo il percorso si era imbattuto in un sottufficiale che, come
lui, stava fuggendo dall'edificio. Hiller o Hitler, si chiamava: la lingua tedesca, a due anni dalla sua investitura a nunzio apostolico in Baviera, gli era ancora ostica e comprenderne le sfumature gli era ancora impossibile. Una cosa aveva colpito Pacelli nello sguardo di quel caporale: le sue pupille sembravano cerchiate da un sinistro alone rosso vivo. Il fatto gli era rimasto talmente impresso che, tempo dopo, aveva chiesto lumi a un conoscente medico. «Credo si tratti degli effetti dei gas tossici usati nel corso dell'ultima guerra. Chi ha avuto la fortuna di sopravvivere all'iprite è condannato a portarne i segni per sempre: la presenza di un'ombra arrossata nell'occhio o addirittura nell'iride è una di quelle indelebili tracce», gli aveva risposto il medico. Chissà perché ora il nunzio apostolico si ritrovava a pensare a quell'episodio. La sorte lo aveva accomunato a un militare, alla persona che, assieme a lui, i rivoluzionari cercavano all'interno della caserma. I filobolscevichi avevano fatto irruzione con le armi in pugno. La sorte aveva voluto che non fossero riusciti a trovarli: altrimenti quasi di sicuro li avrebbero passati per le armi. Da allora, sua eccellenza Pacelli aveva sentito spesso quel brivido di morte lungo la schiena e ogni volta era stata la preghiera l'unica medicina in grado di placare l'ansia. Ma l'arcivescovo aveva la sensazione che il suo Dio lo avesse lasciato solo. E forse non aveva torto. Se Dio, un Dio buono e misericordioso, avesse condiviso e accolto i suoi timori, tutto ciò che da quel giorno accadde non sarebbe mai successo. 5 Teheran, 2006 Parviz Fattah, ministro iraniano per l'Energia, aveva appena confermato alla nazione l'annuncio che aveva fatto tremare il mondo intero. L'immensa platea si era alzata gridando parole d'entusiasmo mentre, con toni enfatici, Parviz Fattah aveva assicurato che, entro sei mesi, avrebbe dato inizio ai lavori per la costruzione di una nuova centrale nucleare alimentata a uranio arricchito. Anche l'ayatollah Gholam Pashelvi, presidente dell'Organizzazione per lo Sviluppo delle fonti energetiche alternative e autorevole membro della direzione del Partito della rivoluzione islamica, applaudì.
Gholam Pashelvi era un uomo non comune che all'intelligenza univa un autocontrollo e una freddezza senza eguali. Molti in Iran lo avrebbero voluto marja'iya, vale a dire leader religioso sciita. Ma i sogni di Pashelvi andavano oltre, molto più in alto, e le sue mire erano conosciute soltanto da una ristretta cerchia di fedelissimi. Pashelvi continuò ad applaudire, mentre i suoi occhi scrutavano il palco presidenziale. Il presidente Mahmoud Tahrjani si avvicinò al leggio: l'importanza di ciò che stava per dire era sottolineata dalla presenza di una trentina di microfoni delle maggiori emittenti televisive del mondo, posti poco distanti dalla sua bocca. Alle spalle del presidente si stagliava il complesso della moschea dell'imam Reza con le sue cupole turchesi e con i giganteschi porticati profilati di pietra bianca. «Il mio Paese, il nostro Paese, non si piegherà al volere degli imperialisti che mirano a farlo apparire solo come uno Stato in via di sviluppo, soggiogato dalle costrizioni e dagli obblighi imposti proprio da coloro che ritengono di essere la bilancia del mondo. Noi, di fronte a tanta prevaricazione, sapremo come reagire e useremo ogni arma in nostro possesso...» Gholam Pashelvi sorrise compiaciuto: sembrava che fosse l'unico a non farsi trasportare dall'entusiasmo che lo circondava. Era trascorso poco più di un mese dall'inizio dell'anno iraniano, incominciato il 21 marzo. Gli occhi neri di Pashelvi si fissarono in quelli del presidente della Repubblica islamica dell'Iran. «Non sopravvivrai per vedere l'avvento di un nuovo anno...» pensò Pashelvi continuando ad applaudire. Chiunque lo avesse accusato di doppiogiochismo avrebbe peccato di superficialità. Washington, 2006 La riunione era tenuta da quelli che in gergo vengono chiamati «filtri»: in caso di fallimento di un'operazione segreta, il loro coinvolgimento avrebbe garantito una copertura ai veri mandanti e avrebbe reso impossibile risalire a chi aveva ordito la congiura. Le due persone sedute ai lati opposti del tavolo erano ai vertici delle gerarchie governative e, se quelli erano i «filtri», si poteva facilmente intuire chi si trovasse dietro a ogni decisione che sarebbe stata presa nel corso di quell'incontro.
«Dobbiamo fermarlo a tutti i costi», disse Phil Damiano, direttore della CIA. «Anche a costo di usare i sistemi delle amministrazioni degli anni '60, sempre pronte a sovvertire i regimi scomodi?» chiese l'uomo che gli era accanto. Era vestito in borghese, ma sembrava che avesse la divisa cucita addosso e da ogni gesto si intuiva la sua attitudine al comando. «Il presidente non ha posto limiti: la minaccia deve essere evitata a qualsiasi costo», ribadì il primo. «Senza contare che la macchina è già in moto e che sono state gettate le basi per sovvertire il potere iraniano e collocare persone a noi fedeli al posto dell'attuale establishment, generale...» «I comandanti di alcuni corpi scelti sono già dalla nostra parte. Possiamo contare sul venticinque, trenta per cento del totale delle forze armate iraniane, ma dubito che riusciremo a incrementare questa percentuale. Anzi, dobbiamo considerare il rischio che gli uomini vicini al presidente subodorino qualche cosa e procedano a destituire i sospettati... È necessario che meno persone possibili sappiano che ci saremo noi dietro alla faccenda, altrimenti...» disse il generale Edward Corrige, capo dell'ufficio Affari esteri del dipartimento della Difesa statunitense. Il militare era ormai prossimo alla pensione per raggiunti limiti di età, ma aveva ancora il piglio di un uomo vigoroso e scaltro. «...altrimenti l'intero nostro progetto sfumerebbe...» Il direttore della CIA concluse la frase. Una fresca aria di primavera spazzava le ampie vie di Washington con folate improvvise e vorticose. E vorticosi erano anche i pensieri di Phil Damiano, da poco più di due anni direttore della Central Intelligence Agency. «Questi continui tira e molla rischiano di scontentare l'opinione pubblica. E voi tutti sapete quanto sia importante per lui il favore della gente.» L'accordo era di non nominare mai espressamente il presidente nel corso di quelle riunioni «parallele». «È vero, signor Damiano», disse il generale Corrige. «Inoltre, con il suo discorso all'Assemblea delle Nazioni unite, il presidente iraniano Tahrjani ha cercato di convincere il mondo intero che la loro produzione di uranio arricchito sarà indirizzata solo a scopi civili.» «Inoltre va detto che gli americani, o meglio, tutti gli occidentali non hanno alcuna intenzione di andarsi a cacciare in una nuova guerra 'preventiva'», proseguì Damiano. «L'Iraq purtroppo è servito d'esempio...» «A ogni modo, quel che è stato è stato», tagliò corto l'alto ufficiale a cui
non piaceva che venisse tirata in ballo l'opportunità di quella guerra senza fine e senza senso, «dobbiamo agire in fretta. Da poche ore Tahrjani ha furbescamente ribadito la sua disponibilità al dialogo. Peccato abbia anche sottolineato che non ha nessuna intenzione di arrestare la produzione di uranio. Mentre tende una mano all'Occidente, con l'altra lui e i suoi fratelli stanno creando dal nulla una potenza nucleare nel cuore di una delle aree più instabili del Medio Oriente. Non possiamo fidarci di lui. Il governo non può imbarcarsi in una nuova crociata, comunque la si voglia pensare sull'opportunità del fronte iracheno. Questa volta dovremo fare in modo di ripararci dietro ad apparenti magagne interne al regime iraniano. Gli Stati Uniti rivestiranno il ruolo di silenti osservatori. Senza colpo ferire e senza apparire direttamente coinvolti, riusciremo a liberarci di un Paese canaglia e di un presidente altrettanto canaglia.» Corrige, Damiano ne era convinto, voleva ritirarsi a vita privata non prima di essersi preso il merito di un'azione eclatante. «È vero», convenne Phil Damiano. «È giunto il momento di fermarlo.» Teheran, 2006 Gholam Pashelvi salutò con la mano tesa la folla: mancavano poche ore all'annuncio delle sanzioni ONU al suo Paese. Il presidente iraniano precedette Pashelvi verso il cunicolo che li avrebbe condotti dalla residenza presidenziale sino alla Mercedes blindata che li stava aspettando nel cortile. Tahrjani salì per primo. L'ayatollah Pashelvi lo seguì. Una guardia del corpo era seduta sul sedile anteriore, accanto all'autista. Quindi la vettura si mosse, seguita dal piccolo corteo della scorta: i nemici del presidente della Repubblica islamica erano tanti e le precauzioni non erano mai troppe quando si trattava di preservare la sua incolumità. Ma quel giorno si rivelarono del tutto insufficienti a sventare la minaccia che veniva da uno tra i più stretti collaboratori del premier. Appena la guardia del corpo si voltò verso i sedili posteriori, Tahrjani si rese conto che questi impugnava una pistola. «Che cosa stai facendo, Dekel?» gli chiese il presidente incredulo. Intanto nell'altra mano di Dekel era comparsa una piccola siringa da insulina. L'uomo conficcò l'ago nella coscia del presidente, quindi spinse a fondo lo stantuffo. In un attimo gli occhi di Tahrjani si velarono e, pur rimanendo aperti, persero ogni vitalità. «Sei sicuro della dose, Dekel?» chiese Pashelvi con la consueta glaciale
impassibilità. «Non dobbiamo correre il rischio di ucciderlo: un martire può scardinare anche la più affidabile delle alleanze. Un pavido, invece, perde ogni credibilità anche per il più fedele tra i suoi seguaci.» La Mercedes con a bordo l'ayatollah e il presidente si diresse verso la periferia meridionale di Teheran dove, in un piccolo aeroporto, un jet executive era ad attendere il corteo. Ma quell'aereo non si sarebbe mai staccato dal suolo: faceva anch'esso parte di un diabolico set mediatico partorito dalla fervida mente di Gholam Pashelvi. Washington, 2006 Phil Damiano teneva nella mano destra il telecomando del televisore al plasma che troneggiava in un angolo del suo studio. Improvvisamente tutti i canali del network iraniano Irib si oscurarono per qualche istante. Quindi apparve l'immagine di Gholam Pashelvi che, con il volto contratto dall'ansia, diede notizia al popolo iraniano di ciò che era accaduto poche ore prima. Le immagini che presero a scorrere confermarono quanto l'ayatollah andava dicendo. «Il vostro, il nostro presidente, ha tradito la fede che il fiero popolo iraniano aveva riposto in lui. Lusingato dalle promesse degli occidentali, Tahrjani ha lasciato il Paese poche ore or sono, a bordo di un aereo privato che è decollato verso una destinazione sconosciuta.» Le immagini, sia pure riprese da lontano, non impedivano di riconoscere il presidente iraniano che, protetto dalle sue guardie del corpo, saliva la scaletta di un piccolo jet. «In un momento delicato come questo», proseguiva quindi l'ayatollah Pashelvi, «il nostro Stato ha bisogno di una guida. Per volere di Dio, grande e misericordioso, e del Consiglio dei guardiani della Rivoluzione islamica assumo la guida del mio Paese e giuro solennemente che servirò l'Iran secondo la via che Dio, pace e misericordia su di lui, avrà tracciato.» Pashelvi pronunciò quelle ultime parole con le braccia aperte e i palmi delle mani rivolti verso il cielo. Sul palmo della mano aperta batté invece il pugno il generale Corrige: «Bingo!» esclamò il militare trionfante. «Questa volta abbiamo centrato l'obiettivo con poche e sapienti mosse.» Quelle «poche e sapienti mosse», avrebbe voluto rispondere Damiano,
erano già costate diversi milioni di dollari agli ignari contribuenti americani. Gholam Pashelvi aveva goduto di quel genere di appoggi che solamente le organizzazioni segrete del governo americano sono capaci di offrire. E proprio grazie a quegli appoggi adesso era a capo del più pericoloso Stato canaglia dell'intero scacchiere mediorientale. Ora dipendeva dalla magnanimità di Pashelvi trovare il modo di sdebitarsi con i solerti servitori dello Zio Sam. Roma, 2006 «Il destino ha già compiuto il suo corso e nessun nostro intervento, a questo punto, sarà più capace di mutarlo.» Sara Terracini ripeté ad alta voce le parole con cui Oswald si era congedato alcuni giorni addietro, lasciando nelle sue mani l'agenda appartenuta a Luca Raso, giornalista del settimanale Documento, scomparso nella tarda primavera del 1976 mentre sorvolava la foresta amazzonica a bordo di un aereo da turismo. Sara ne aveva trascritto le prime pagine e adesso si accingeva a inviarle a Breil. Il lavoro era proseguito grazie ai sofisticati programmi con cui erano equipaggiati i computer del laboratorio e non le era costato eccessiva fatica. La forma crittografica utilizzata dal giornalista era piuttosto semplice ma efficace: sulla base di una già ostica scrittura stenografica, venivano applicate alcune variabili che rendevano pressoché impossibile la lettura a chi non avesse individuato la chiave per scardinare il sistema. I computer di Sara ci avevano messo pochi minuti per farlo. Doveva comunque riconoscere che, ancora una volta, Oswald aveva ragione. Quelle vicende, a differenza di altre delle quali si era occupata per conto di Breil, sembrava avessero ormai concluso il loro ciclo di vita: appartenevano solamente al passato. E, inoltre, sembrava assai difficile provare la veridicità dei fatti trascritti da Raso sulla sua agenda: i protagonisti di quella storia erano probabilmente tutti morti da anni. «Al lavoro, dottoressa Terracini! Diamo al racconto l'aspetto di una cronaca. Oswald dice che questo è il primo passo per 'capire'. Sicuramente il 'capire senza fantasticare' del dottor Breil ne trarrà beneficio... Accidenti a te, Oswald Breil! Dovrò aggiungere alla lunga lista di grane che mi hai rifilato anche questo nuovo lavoro non retribuito.» Parlando tra sé come spesso faceva quando lavorava da sola, Sara si passò la mano tra i capelli scuri, attese che il computer si avviasse, quindi si
morse il labbro superiore e le dita cominciarono a correre veloci sulla tastiera. Dall'Agenda di Luca Raso, Rio de Janeiro, 4 maggio 1976 I quattro reattori Pratt & Whitney del Mac Donnell Douglas DC8 della Varig Airlines stavano ancora emettendo un potente sibilo, quando la berlina nera si è affiancata al nostro aereo appena atterrato dal volo transcontinentale. La Cadillac 75 si è disposta parallela all'aeromobile. I primi passeggeri stavano già camminando sull'asfalto rovente dell'area aeroportuale di sosta. Ho capito subito che l'autista doveva conoscere bene la mia fisionomia. Alla Neumann Corporation nulla veniva lasciato al caso e il giorno precedente gli erano state probabilmente consegnate alcune mie fotografie. Per questo deve avermi individuato senza difficoltà tra i viaggiatori che si dirigevano verso il bus. «Il dottor Luca Raso?» mi ha chiesto, invitandomi a seguirlo verso la limousine. Quindi ha aperto lo sportello posteriore con un gesto enfatico e cerimonioso. Impossibile non riconoscere il marchio di un impero economico noto ovunque nel mondo: l'amazzone stilizzata, simbolo della Neumann Corporation, si stagliava al centro dello sportello, impressa in oro sulla vernice nera della Cadillac. L'auto si è diretta verso una pista secondaria e lì siamo stati raggiunti da un addetto che trasportava a mano il mio borsone da viaggio: gli ospiti della Neumann non devono perdere tempo con le consuete pratiche di sbarco. Sulla pista ci attendeva un aereo privato. Non appena il bagaglio è stato caricato, il bimotore Piper PA31 Navajo ha iniziato le operazioni di rullaggio. «Si allacci la cintura, signore: stiamo per decollare», ha detto in un inglese impeccabile il pilota, indicando il divanetto posto a ridosso dei due sedili anteriori. «Ci aspettano quasi otto ore di volo, inclusa una breve sosta per il rifornimento. Si metta comodo, signore.» Così dicendo ha spinto le manette sino a che i due motori Lycoming non hanno raggiunto il massimo dei giri. Quindi ha tolto i fieni e manovrato i flap per aumentare la portanza del velivolo. In breve volavamo nell'aria densa di umidità di una calda giornata tropicale.
Ho chiesto che media di velocità avremmo tenuto. «Centonovanta nodi, circa trecentocinquanta chilometri all'ora», mi ha risposto il pilota. «Significa che dovremo percorrere duemila e ottocento chilometri?» «Sì, più o meno, signore. E per l'ultima ora e mezzo, entrati nel distretto di Santarém, sorvoleremo i possedimenti del signor Neumann. Se vuole sedersi qui in cabina di pilotaggio, signore... Si gode un panorama migliore che dagli oblò della carlinga.» Il pilota era un giovane di poco più di vent'anni e mi e sembrato cordiale e simpatico. Si chiama Jacinto, ma tutti lo chiamano Jaco. Aveva un sorriso aperto e piacevole. Gli occhi azzurri risaltavano sulla carnagione resa scura dall'esposizione al sole brasiliano. Mi sono seduto alla sua destra e, allacciata nuovamente la cintura, mi sono apprestato a osservare dall'alto quel Paese tanto bello quanto sconfinato e sconosciuto. Jaco è stato un buon compagno di viaggio e un perfetto cicerone, oltre che un pilota esperto e sicuro. Abbiamo sorvolato meravigliosi scorci di foresta amazzonica e siamo scesi a bassa quota su villaggi indios, immersi in un'impenetrabile vegetazione. Abbiamo seguito il corso di fiumi limacciosi, quasi abbagliati dallo splendore del verde della foresta tutto intorno. «Ecco, laggiù, dottor Raso!» mi ha detto Jaco indicando una radura molto vasta all'orizzonte. «Quella è la capitale della Neumann Corporation.» Non appena la distanza me lo ha consentito, ho messo mano all'inseparabile Leica e ho incominciato a scattare fotografie. «La prego, Jaco. Potrebbe fare ancora un altro giro prima di atterrare?» Sotto di noi è comparso un piccolo, ma moderno aeroporto. Parcheggiati in bell'ordine si vedevano un aereo uguale a quello sul quale stavamo viaggiando, un elicottero da turismo, un monoelica e un bireattore Caravelle. Tutta la flotta ha in comune il colore nero della fusoliera e i fregi dorati che, nella coda e sulle ali, assumono la forma del marchio con l'amazzone stilizzata.
A poca distanza dall'aeroporto si estendeva una vera e propria cittadina, composta di palazzi e villette e percorsa da una rete ordinata di strade. «Adesso scendiamo», ha detto Jaco. «Non vorrei che il mio superiore avesse da dire qualcosa perché ho sorvolato la Neumann senza preventiva autorizzazione.» Jaco aveva assunto un'aria scanzonata, mentre la prora del Piper puntava risoluta verso la pista di atterraggio. «Vedo, signor Raso, che non ha prestato molta attenzione a quanto le si raccomandava nel telegramma di accettazione dell'intervista.» Una donna bionda, infagottata in una divisa color kaki di foggia militare, indicava la Leica che portavo al collo. «Chiedo scusa, signorina Agnes. Mi sono lasciato prendere la mano dall'entusiasmo per la maestosità della sede della Neumann», le ho risposto dopo aver sbirciato la targhetta di riconoscimento che portava appuntata sul taschino. «Ag-nes», mi ha corretto lei, pronunciando il suo nome alla maniera teutonica. «Mi chiamo Ag-nes Weiczen e sono l'assistente personale del signor Neumann. Sarà mio compito rendere il suo soggiorno presso di noi quanto più confortevole possibile. Nel frattempo, se vuole consegnarmi la macchina fotografica, provvederemo a sviluppare le fotografie nei nostri laboratori e gliele riconsegneremo. La prego comunque, da questo momento in poi, di attenersi scrupolosamente alle istruzioni che le sono state e che le saranno impartite.» 6 Età dei Metalli, II millennio a.C. Il dolore al capo era insopportabile. Athor provò a portare le mani alla testa, ma si accorse che erano legate a un robusto palo conficcato nel terreno. Si trovava all'interno di una capanna la cui oscurità era rotta dai fasci di luce che penetravano attraverso la paglia secca del tetto. Lentamente riuscì a fare ordine nei suoi pensieri. Ricordò il furore cieco con cui stava per uccidere il perfido Karesh. Ricordò il corpo caldo e morbido di Dehal. Ricordò l'espressione malvagia di Karesh, mentre affondava la lama nel collo di suo padre.
Probabilmente uno dei davaar lo aveva colto alle spalle quando aveva ormai ridotto all'impotenza il loro capo. Athor sapeva che la sua prigionia non sarebbe durata a lungo: nessun uomo catturato dai davaar era mai tornato al suo villaggio. E aveva sentito dire che i davaar si cibavano del cuore e del cervello dei loro nemici. Se quella era la fine a cui era destinato, sarebbe morto con onore. Come con onore era morto suo padre Sar. Poi pensò con amarezza che non avrebbe mai avuto modo di diventare un buon capo e un sommo sacerdote. Ricordava bene ciò che aveva visto e che aveva scatenato la sua ira cieca: Karesh che si dimenava sopra a Dehal e la giovane che gridava disperata. Chissà dov'era adesso, Dehal? Sperò con tutto il cuore che fosse riuscita a sfuggire alla brutalità dei davaar. La porta della capanna si aprì e il sole inondò l'interno. Athor strinse gli occhi e vide una figura stagliarsi contro il bagliore che proveniva da fuori. «Sarà un piacere, per me», disse Karesh, «mangiare il tuo cuore mentre ancora palpita. Ma sarai l'ultimo a morire, Athor: voglio che prima tu veda con i tuoi occhi ciò che ti capiterà. Portatelo fuori!» ordinò agli uomini che lo avevano seguito. Dehal era seduta nei pressi della capanna più grande, quella destinata al capo. Per fortuna, Karesh non aveva più cercato di abusare di lei e si era limitato a comunicarle i suoi sadici intenti: appena terminati i sacrifici, l'avrebbe presa in moglie. Dehal si sentiva perduta. Piuttosto che giacere con Karesh avrebbe preferito morire. I davaar si erano disposti in cerchio. Le donne, trattate come schiave ma preziose quanto le armi di ferro, si trovavano al centro. Poco distante ardeva una pira di legna secca. Il rito si svolgeva in una radura dalla forma concava i cui confini erano segnati da una fila di capanne costruite al limite dello spiazzo. Il villaggio vero e proprio, protetto da una solida palizzata, sorgeva poco lontano. Sul lato opposto al villaggio, la radura era delimitata da un profondo baratro ai piedi del quale scorreva il fiume. Athor, legato, passò tra due ali di nemici urlanti. Quando il migos giunse vicino alla pira ardente venne fatto sedere insieme agli altri prigionieri. Probabilmente erano stati catturati durante l'assalto. Fu Karesh, che per primo soffiò con forza nel suo fischietto d'osso, a da-
re il segnale. Lo strumento emise un sibilo lacerante. Quindi ciascun guerriero portò alla bocca il proprio fischietto. Il suono, dirompente, salì al cielo, simile al grido degli avvoltoi in caccia. Molti dei prigionieri, assordati, scuotevano la testa come impazziti: le corde impedivano loro di portarsi le mani alle orecchie. In un primo momento non si resero conto di quello che stava per succedere. Karesh aveva il volto coperto da una lugubre maschera di corteccia di quercia dipinta con un colore scuro che contrastava con il bianco con cui erano sottolineate le aperture degli occhi e della bocca. Si avvicinò ai prigionieri. Il coltello sacrificale comparve nella sua mano, nell'istante in cui un nuovo sibilo si levò al cielo. E dal cielo l'arma scese come un baleno, recidendo di netto la giugulare del primo malcapitato. Athor, in preda all'ira, non poteva far altro che assistere impotente al supplizio della sua gente. «Aspetta, figlio del re dei migos... anzi, re dei migos, dato che ho appena ammazzato tuo padre. Non è il momento di distogliere lo sguardo: il bello deve ancora venire.» Brandendo il coltello, il davaar si fece di nuovo vicino al primo prigioniero che, ormai prossimo alla morte per dissanguamento, lo guardava atterrito. Con un sol colpo Karesh gli procurò un taglio dall'ombelico allo sterno. La mano del capo dei davaar si insinuò tra le labbra sanguinolente della ferita, salendo sino al cuore. Lo strinse tra le dita che palpitava, quindi lo strappò dal corpo della vittima che fu scossa dalle convulsioni, e infine ne recise vene e arterie. Karesh si tolse la maschera, sollevò il macabro trofeo e, prima di addentarlo con voracità, lo mostrò ai suoi uomini. Quello fu il segnale: due davaar si posero ciascuno di fronte a un prigioniero e ripeterono il terribile rito a cui avevano appena assistito. Il resto degli uomini della tribù emetteva grida stridule, danzando in preda a una frenesia convulsa. I cuori dei condannati vennero ridotti in piccoli pezzi e tutti i davaar ne ricevettero uno. Dehal nel frattempo era stata condotta all'interno del cerchio e fatta sedere tra l'uomo che amava, sul punto di essere giustiziato in quella maniera crudele, e il vile che aveva abusato di lei. I suoi occhi disperati incrociarono per un istante quelli di Athor, quindi Karesh le si avvicinò, grondante del sangue del prigioniero.
«Mangia, donna», disse il davaar mettendole ciò che restava del cuore dell'uomo davanti alla bocca. «Mangia e ti verrà concesso il privilegio di diventare una di noi. O preferisci il cuore del tuo re?» Così dicendo Karesh portò la mano al fianco, dove aveva riposto il coltello. Ma il guerriero aveva sottovalutato le doti della giovane donna che aveva davanti: Dehal era cresciuta insieme ad Athor e lui le aveva insegnato a difendersi e a lottare. Come un uomo. Con un guizzo fulmineo Dehal riuscì a lanciarsi sull'arma e volgerla contro la gola del suo aguzzino. «Adesso mi farai strada verso la salvezza, Karesh, altrimenti morirai con me.» I davaar smisero di ballare e rimasero a guardare con espressione incredula il loro capo in balia di una donna armata e furiosa. «Ordina a tutti i tuoi di risalire sino alle capanne e digli che se non ubbidiranno tu morirai.» Karesh assentì. Sapeva che la giovane non avrebbe esitato a fargli fare la stessa fine del prigioniero che aveva appena sgozzato. «Adesso liberalo!» ordinò Dehal indicando Athor e premendo il coltello sulla gola dell'uomo. Ma Karesh aveva combattuto nemici ben più temibili di una giovane donna, per quanto determinata e forte potesse essere. Dopo il primo attimo di sbandamento, con una torsione del busto si liberò dalla minaccia della lama, quindi tentò di afferrare Dehal mentre questa si ritraeva fendendo l'aria con il coltello. Non appena i davaar videro che il loro capo era riuscito a liberarsi, presero a correre nuovamente verso il centro dello spiazzo dei sacrifici. Dehal capì di essere spacciata. Non le restava che la fuga. Prese a correre nella direzione opposta a quella dalla quale provenivano i guerrieri. Lo strapiombo le si parò davanti, ma ormai niente l'avrebbe fermata: si dette lo slancio e si gettò nel vuoto. I suoi inseguitori si fermarono sull'orlo del precipizio: nessuno era mai riuscito a sopravvivere a quella caduta. «È inutile seguire il suo esempio. Restate fermi, miei uomini.» Karesh parlò a voce alta, assicurandosi che Athor riuscisse a sentirlo. «Scenderemo a valle e ci fermeremo poco dopo le rapide: vedrete che in breve il fiume ci restituirà il corpo.» Alcuni guerrieri si misero in marcia: il cammino era lungo e impervio. Ma i davaar non sapevano nuotare e qualsiasi altro percorso sarebbe stato meglio di un bagno nelle gelide acque del fiume.
«La tua amata ha preferito il suicidio alla vita che le avrei offerto tra la mia gente...» disse Karesh rivolto ad Athor che, impotente, aveva osservato la scena. «Poco male. Troverò altre compagne meno riottose tra le vostre donne. Alle prime luci dell'alba attaccheremo di nuovo il tuo villaggio. Per questo non ti ucciderò subito, ma lo farò quando sarò tornato vittorioso. La tua morte mi farà l'unico sovrano dei migos.» Dehal aveva trattenuto il fiato sino a che le era sembrato che i polmoni stessero per esploderle nel petto. La caduta era stata interminabile. Nel salto aveva mulinato con le braccia per mantenersi in posizione verticale e aveva visto il letto del fiume farsi sempre più vicino. L'impatto era stato violentissimo, come se l'acqua fosse stata una superficie solida. Per fortuna era riuscita a tenere le gambe rigide e serrate. Quindi l'acqua si richiuse schiumando sul suo capo mentre lei raggiungeva il fondo melmoso del fiume. Con i piedi si diede uno slancio verso l'alto. Nell'acqua torbida e scura, Dehal scelse un percorso obliquo: doveva riemergere il più lontano possibile dalla vista di Karesh e di quei cannibali assassini. Nuotò con foga, ma la massa d'acqua che la sovrastava sembrava non avere fine e lei ormai aveva un disperato bisogno di aria. Le tornarono alla mente le mille volte che lei e Athor si erano sfidati a raggiungere il fondo del fiume: erano entrambi ottimi nuotatori. Le mani protese urtarono la superficie levigata di uno scoglio. Con l'ultima riserva d'aria aggirò la roccia, emergendo al riparo dalla vista di chiunque fosse sull'altra sponda. Scorse i davaar assiepati lungo il precipizio in attesa di vederla riaffiorare, ma lo scoglio la nascondeva ai loro occhi. Abbracciata allo sperone, Dehal avrebbe voluto fermarsi a riprendere fiato, ma la forte corrente presente in quel punto la trascinò via. «Meglio», pensò, «così mi allontano dalla minaccia.» Appena un tronco galleggiante le passò di fianco vi si aggrappò: le avrebbe consentito di navigare verso la salvezza senza sprecare troppe forze. Il rombo minaccioso giunse improvviso alle sue orecchie. Tra spruzzi d'acqua e mulinelli vorticosi si ritrovò ancora nel vuoto; precipitò lungo la cascata aggrappata ai rami del tronco. Perse la presa e fu risucchiata dalla corrente, in totale balia delle rapide. Sapeva che presto le energie l'avrebbero abbandonata e che non sarebbe più potuta uscire dal vortice formato dalla cascata. Athor le aveva sempre
detto che quello sarebbe stato l'incidente più pericoloso che sarebbe potuto capitare a un nuotatore: in quei violenti mulinelli nessuno poteva farcela da solo. Le potenti correnti che governano l'acqua avrebbero spinto chiunque, anche il più forte degli uomini, verso il fondo, giocando col suo corpo per restituirlo dopo lungo tempo senza vita. Lo sapeva bene, Dehal. Adesso poteva solo sperare che la morte la raggiungesse in fretta. «Athor, amore mio... Chissà se sei ancora vivo... Chissà come sarebbe stato se il dio Hosh ci avesse regalato il tempo per amarci, avere una nostra vita, dei figli...» Poi perse i sensi. Fu allora che i rami del tronco le si impigliarono nella cintura di pelle di daino, come se una gigantesca mano la stesse sollevando dalle tenebre. Si ritrovò incastrata tra i rami. Il respiro fu un grido di liberazione. Si tastò braccia e gambe alla ricerca di fratture. Sentì il bruciore di alcune ferite ma capì che non dovevano essere gravi. E soprattutto era viva. I due davaar osservarono il tronco che navigava verso valle spinto dalla forza del fiume. Quindi rivolsero la loro attenzione alle rapide che, poco più a monte, ribollivano di schiuma. «Ha ragione Karesh», disse uno. «Nessuno può sopravvivere alle cascate.» Dehal si era accorta dei due nemici solo all'ultimo momento. Si era nascosta tra i rami ancora frondosi, e aveva cercato di rimanere il più possibile immersa nell'acqua. Quando vide che la stavano cercando tra i mulinelli sotto le rapide, si sentì al sicuro. La stanchezza ebbe la meglio su di lei e la giovane si abbandonò tra i rami senza più lottare. Dopo qualche ora si risvegliò da quello stato di torpore e si ritrovò nella verde insenatura dove lei e Athor si erano amati poco prima che Karesh arrivasse a stravolgere la loro esistenza. Adesso, però, doveva fare in fretta se voleva salvare la vita dell'uomo che amava. Corse attraverso la foresta in direzione del villaggio. La palizzata di legno le apparve come un miraggio. La sua gente, ancora terrorizzata dall'assalto dei davaar, stava lavorando per rinforzare la recinzione. «Sono sicura che tuo fratello è ancora vivo, Goreth. Dobbiamo fare presto», disse Dehal, quando fu al cospetto del fratellastro del suo uomo. «Cosa potremmo fare, Dehal», rispose questi, intento a sovrintendere ai
lavori della palizzata. «Noi non siamo guerrieri esperti come i davaar: attaccarli sarebbe un suicidio... Ci conviene stringere alleanze con loro, piuttosto che combatterli.» «Ma come puoi scendere a patti con chi divora il cuore dei suoi prigionieri? I davaar non si accontenteranno di nessun accordo. E noi abbiamo il dovere di tentare... Athor è tuo fratello...» «Con Athor, minore di me per età, condividevo il padre, non la madre.» «Allora dammi una decina di uomini: ho visto bene il loro villaggio e la capanna dove lo tengono prigioniero. Potrei tentare una sortita.» «No, ogni uomo mi è prezioso in questo momento. Mi dispiace, ma Athor dovrà fare senza aiuti. Non posso rischiare la vita dei nostri per quella di un solo uomo.» «Un solo uomo?» ripeté Dehal incredula. «Ti ricordo, Goreth, che quell'uomo, dal momento della morte di vostro padre, è il nostro re.» «E chi lo ha mai stabilito, donna? Io ho gli stessi diritti di Athor di diventare capo della mia gente. Anzi, sono io il primogenito, quindi sono l'erede legittimo di mio padre. Inoltre Sar non ha fatto in tempo a rivelargli il luogo in cui si trova il Tempio Segreto di Hosh e della Pietra Sacra, perciò nemmeno Athor si potrà fregiare del titolo di sommo sacerdote. Dehal, abbandona i tuoi sogni e mettiti a lavorare per rafforzare le difese come stiamo facendo tutti noi. La vita, per chi rimane, continua. E, dato che Athor non c'è più, ora devi ubbidire a me, il nuovo re dei migos.» Dehal avrebbe voluto lanciarsi contro di lui, graffiargli il volto sino a cavargli gli occhi, ma si rendeva conto che non era quella la strada se voleva salvare Athor. Si allontanò col capo chino e il cuore pieno di angoscia. «Ho sentito tutto, Dehal», disse Aker, suo padre, andandole vicino, «e non mi meraviglio per il comportamento di Goreth. Sei certa di quello che hai detto? Athor è ancora vivo?» «Non lo so, padre. La mia fuga deve avere creato non poco scompiglio nel villaggio dei davaar. Spero che abbiano sospeso i sacrifici umani. Inoltre li ho sentiti parlare di un nuovo attacco al nostro villaggio.» «Dobbiamo cercare di liberarlo: Athor è il solo degno erede di suo padre. Che cosa intendevi quando parlavi con Goreth di una sortita?» «Risalire sino al villaggio davaar lungo il costone di roccia che sovrasta il fiume è difficile, ma non impossibile...» Il suo sguardo carico di affetto si soffermò sulla gamba invalida del padre. «... Per un giovane guerriero», aggiunse.
«Non sto pensando a me, figlia mia. Io ormai sono colui che interpreta il volere di Hosh attraverso i suoi segni. È passato il tempo in cui cacciavo meglio di chiunque altro nella foresta.» Così dicendo Aker indicò la sua gamba destra. «Athor aveva molti amici tra i giovani cacciatori... Con due di loro era davvero inseparabile. Ora tu vai a riposare, ma prima dimmi che cosa avevi pensato per liberare il nostro re... Vedremo cosa fare...» «Silenzio!» ordinò Karesh. «D'ora in poi dobbiamo essere invisibili.» I davaar si nascosero nel folto della foresta. Il villaggio era poco lontano. «Dobbiamo aspettare il nostro uomo. E quando attaccheremo, questa volta i migos non riusciranno a farla franca.» I davaar fremevano con le armi in pugno: sapevano che se avessero conquistato il villaggio dei migos sarebbero diventati padroni delle loro donne. Le più belle dell'intera regione. Dehal condusse i due valorosi migos fino alla base dello sperone da cui si era gettata nel vuoto. Poi la giovane indicò ai due compagni il percorso per raggiungere il villaggio nemico: la parete era perpendicolare al suolo, ma nella roccia calcarea il vento e l'acqua avevano formato una serie di rientranze simili ai gradini di una ripidissima scala. Sarebbero saliti di lì per giungere alla sommità del promontorio. Sbucarono esausti oltre il ciglio del precipizio e si fermarono a riprendere fiato. Dehal non aveva dovuto insistere molto per partecipare alla spedizione: lei era l'unica a conoscere il villaggio dei davaar e sarebbe stata utile ai due amici di Athor. Mizda e Fet si erano resi conto ben presto che la giovane non era da meno di loro. La grande spianata dove si tenevano i sacrifici umani era deserta. I tre attesero che una nube coprisse la falce di luna e solo allora si mossero: avrebbero dovuto attraversare tutta la radura prima di raggiungere il lato su cui si trovavano le capanne, inclusa quella da cui Dehal aveva visto uscire Athor trascinato dai suoi aguzzini. «Attacchiamo, mio signore», sussurrò uno dei davaar al suo capo. «L'uomo che aspettiamo non verrà e tra poco farà giorno.» La mano di Karesh si serrò attorno alla gola del malcapitato che aveva osato dargli consigli sul da farsi. «Quando avrò bisogno del tuo parere, sarò io a chiedertelo.» Il guerriero si ritrasse spaventato.
Nel silenzio della boscaglia si udì un frusciare di passi. L'uomo avanzava veloce e guardingo. Karesh si alzò simile a una creatura delle tenebre. La sua mano sigillò la bocca del nuovo venuto, tirandogli la testa all'indietro. Il coltello del re dei davaar premette sulla carotide del forestiero. Il silenzio che regnava nel villaggio dei davaar era davvero inquietante. I tre erano a pochi passi dalle capanne e ancora non avevano scorto anima viva. Era come se un'improvvisa epidemia avesse falcidiato tutti gli abitanti e, a giudicare dai tizzoni ancora accesi nella pira al centro della piazza, la morte doveva essersi propagata con inaudita celerità. Un rumore. I tre si acquattarono sotto lo spiovente del tetto di una capanna. Improvvisamente la porta di legno si aprì e un corpulento davaar passò di fianco ai tre migos senza vederli, quindi, fatti pochi passi, scostò di lato il perizoma e si mise a orinare sopra un cespuglio. Non ebbe il tempo di accorgersi di nulla: la lama d'osso di Fet gli perforò la gola entrando da destra e uscendone a sinistra. Non un suono uscì dalla bocca dell'uomo, tranne il gorgoglio del sangue. Mizda varcò la porta lasciata socchiusa. «Hai fatto?» domandò una voce roca proveniente dall'interno. «Eppure il cuore di un maledetto migos dovrebbe incitarti a combattere, non a pisciare: è tutta la notte che non fai altro...» Quando Mizda se lo trovò davanti, si rese conto che il davaar tutto si sarebbe aspettato fuorché dover fronteggiare proprio uno di quei «maledetti migos» con il cuore ancora al suo posto. Mizda lo assalì brandendo il pugnale. Athor riconobbe il compagno, anche alla tenue luce della capanna. Avrebbe voluto andare in suo aiuto, ma i legacci lo obbligavano al ruolo di impotente spettatore. Sul suo corpo erano ben visibili i segni delle percosse subite. Mizda intanto si era avventato sul nemico prima che questi fosse riuscito a impugnare la sua arma. Il braccio possente del giovane si sollevò e ricadde col suo carico di morte al centro del petto dell'avversario. Il davaar strabuzzò gli occhi e portò le mani alla ferita. Un getto di sangue gli fuoriuscì dalla bocca insieme al suo ultimo respiro. «Stanno attaccando il nostro villaggio...» disse Athor, sostenuto dai suoi
amici d'infanzia. «Ecco perché non c'è nessuno», disse Dehal, dando da bere dell'acqua al suo re, «quasi tutti i guerrieri sono impegnati a prendere le nostre case e a catturare il nostro popolo. Dobbiamo fare in fretta e sperare che non sia troppo tardi!» Le mani di Karesh allentarono la presa e si distesero nel più antico gesto di fratellanza. Abbracciò il nuovo venuto come se si trattasse di un fratello. «Che Hosh sia con te, re dei migos!» esclamò il guerriero davaar. «Che Hosh sia con te, Karesh», rispose Goreth, il perfido fratellastro di Athor. «Ho temuto ti fosse capitato qualche imprevisto.» «No, ho solo dovuto faticare un po' per convincere gli anziani del villaggio che è molto meglio scendere a patti con il grande popolo dei davaar che combatterli armi in pugno.» «E a quale conclusione siete giunti, fratello mio?» chiese Karesh. «Che le porte del mio villaggio sono aperte per te e per la tua gente, Karesh dei davaar.» Un grido di vittoria si levò dai guerrieri che, nel frattempo, si erano radunati attorno al loro capo. A differenza dei due uomini posti a sorvegliare il prigioniero, i tre che montavano la guardia all'unica porta di accesso al villaggio sembravano molto più vigili. Athor riusciva a malapena a stare in piedi: uno scontro diretto sarebbe stato fatale per i quattro fuggitivi. L'unica via di fuga sembrava essere quella già percorsa da Dehal, ma sfidare la sorte una seconda volta poteva diventare molto pericoloso. Fu ancora la donna a escogitare il piano. Due delle sentinelle strabuzzarono gli occhi nell'oscurità. Le curve sinuose del corpo della giovane dovettero parere loro i contorni di un miraggio. Dehal avanzava senza esitazione, coperta dal solo perizoma. Sembrava l'incarnazione di una divinità. «Tu?» esclamò incredulo uno dei davaar. «Non può essere, tu sei morta nell'acqua del fiume.» «Sì, è vero», gli fece eco l'altro, «ti ho vista con i miei occhi mentre ti gettavi dalla rupe.» «Invece sono qui, viva, e ora soddisferò ogni vostro desiderio, miei prodi davaar.» Così dicendo Dehal fece scivolare a terra il perizoma.
«Che succede, compagni?» chiese la terza sentinella, preoccupata. «Vieni anche tu, il villaggio è deserto e nessuno ci punirà se abbandoniamo il posto di guardia per assaporare questo dolce frutto... Vieni qui, fatti prendere...» disse uno dei davaar in preda all'eccitazione. Le mani sudicie dell'uomo stavano per posarsi sul seno prorompente della ragazza, quando, dall'oscurità, comparvero, veloci e precisi come fiere, Mizda e Fet. I due sbucarono dal nulla e si gettarono addosso alle sentinelle. Nello stesso istante tra le mani di Dehal comparve un pugnale. La giovane agì con freddezza, ferendo alla spalla il nemico e, quando questi tentò di reagire, gli si gettò addosso ghermendolo da dietro. «Volevi abbracciarmi, vero? Eccoti accontentato!» Così dicendo Dehal piantò la lama nel collo dell'avversario. Intanto Fet sembrava sul punto di soccombere: il davaar gli era sopra e stava per aver ragione di lui. Athor raccolse le poche forze rimastegli e si scagliò in difesa dell'amico, ma troppo tardi: la lama del davaar aveva aperto una profonda ferita nel petto di Fet. «Presto, fuggiamo, tra poco avremo addosso tutto il villaggio!» urlò Mizda dopo aver avuto la meglio nel corpo a corpo contro l'altra sentinella. I tre amici non si resero subito conto che Fet non rispondeva ai loro appelli. Il giovane migos giaceva a terra, senza vita. Athor rimase immobile dinanzi al corpo dell'amico che si era sacrificato per lui. «Presto, vieni via!» gli disse Dehal passandogli un braccio attorno alle spalle. «Per lui non c'è più nulla da fare. Dobbiamo fuggire prima che sia troppo tardi.» La luce dell'alba stava cacciando le ombre della notte, quando i davaar giunsero alla palizzata. La porta era spalancata e gli spalti erano deserti. «Uomini, miei migos!» urlò Goreth. «Porto con me quelli che da oggi saranno nostri fratelli, trattateli con tutto il rispetto che è loro dovuto.» Parlando si muoveva con piccoli passi guardinghi in direzione del villaggio. «Avete sentito, mia gente? Sia pace tra noi e i davaar.» Quello era il segnale: Goreth prese a correre verso la porta, mentre gli spalti si popolarono all'improvviso di migos armati. «Presto, fuggiamo: è una trappola», gridò Karesh, cercando di salvare i suoi. Un nugolo di frecce falcidiò le avanguardie dei davaar e, prima che questi riuscissero a portarsi fuori tiro, vennero colpiti da altre due salve. In po-
chi attimi molti degli uomini di Karesh caddero feriti. Goreth era riuscito a mettersi in salvo all'interno della palizzata e da qui dirigeva il piano che solo una mente vile come la sua poteva aver architettato. «Che tu sia maledetto, Goreth!» gridò Karesh con tutta la rabbia che aveva in corpo. «Giuro che accopperò te e tutti i migos mi capiteranno tra le mani. Presto, uomini!» disse quindi rivolto ai suoi. «Soccorrete i feriti e torniamo al villaggio. Quel maledetto traditore e i suoi seguaci avranno ciò che si meritano.» 7 Linguadoca, 1213 «Adesso siedi e riprendi fiato, ragazzo», stava dicendo il maestro Puyol al giovane Aymon. «Mi hai detto che l'amico che stavo aspettando e che avrebbe dovuto accompagnarti qui è stato catturato dagli uomini di Simone di Montfort. È la verità?» Il giovane Aymon rispose con un cenno del capo. Era seduto dinanzi al maestro, le mani contratte sulla custodia della ghironda. «Gli anni», proseguì Puyol, «e l'esperienza mi hanno insegnato che non posso fidarmi di nessuno. Se tu sei quello che affermi di essere, dovresti essere abile con questo strumento. Fammi sentire la tua musica, ragazzo.» «C'è chi dice di avervi visto con un giovanetto al fianco, Beaufort», chiese Simone di Montfort nel corso dell'interrogatorio. «Era solo un mendicante che chiedeva la carità», rispose il nobiluomo, sperando di riuscire a essere convincente. «Io credo tutt'altro, ma avremo tempo per parlarne, Beaufort di Daigne. Avremo molti giorni e molte notti da trascorrere assieme. E spero che direte la verità di vostra spontanea volontà, senza farmi ricorrere alle maniere forti. Mi dovrete raccontare di alcune leggende che circondano la vostra persona. In particolare mi interessa quella che vi vorrebbe unico custode di un segreto antichissimo e letale: un'arma prodigiosa capace di distruggere un intero esercito in pochi istanti. E voglio sapere tutto sul vostro blasfemo credo, sugli orribili riti a cui voi catari vi sottoponete. Il mio compito è distruggere il demonio che si annida in tutti i maledetti eretici come voi.» «Non ho nulla da dire, se non che prego Iddio, grande e misericordioso,
affinché perdoni le vostre colpe, Simone.» La luce, all'interno della sala degli interrogatori, baluginava rossastra e fioca, alimentata da alcune torce assicurate al muro con dei bracci di ferro corrosi dal tempo e dall'umidità. Nella penombra Beaufort vide lo sguardo di Simone di Montfort che ordinava al boia di procedere con la tortura. Era lo sguardo di un folle e invasato assassino. La ghironda che stringeva il giovane Aymon era uno strumento a corde molto difficile da suonare per chiunque non fosse un musico esperto. La sua melodia veniva originata da una ruota cosparsa di pece che sfregava contro corde di diversa misura. Una di queste produceva una sorta di ronzio che, a seconda dei movimenti della ruota o dell'abilità del suonatore, assumeva cadenze ritmiche regolari. E proprio una cadenza terzinata stava eseguendo Aymon. Puyol lo ascoltava in silenzio. Aymon suonò a lungo con palese maestria e, quando concluse la sua esibizione, il maestro, ormai certo dell'identità del ragazzo, parlò. «Quanto mi ha scritto tuo nonno corrisponde al vero: sei un musicista molto capace, anche se avremo ancora da lavorare parecchio.» «Grazie, maestro Puyol, ma... vi prego... Una volta liberato mio nonno sarò un allievo esemplare. Adesso però aiutatemi: il mio dovere è quello...» Il giovane fremeva, ma l'anziano maestro non volle sentire ragioni. «...Il tuo dovere è quello di pensare al tuo futuro. Non prendere le mie parole come il cinico consiglio di un uomo senza cuore: tuo nonno è sempre stato per me come un fratello, e non solo per il credo che ci accomuna. Però nessuno è mai riuscito a fuggire dalle segrete della prigione di Carcassonne. Non sarai certo tu, giovane e inesperto, a interrompere questa funesta tradizione. E sono convinto che Beaufort la penserebbe come me.» «Ma io conosco bene l'uso delle armi, signore, e non ho paura dei crociati», ribatté con orgoglio il giovane Aymon. «Lo so bene», lo interruppe Puyol con un sorriso. «Tuo nonno me lo ha scritto e ha usato parole di elogio. Devo ammettere che se impugni la spada come tocchi la ghironda, ti dimostrerai anche un ottimo guerriero.» «Già... Un guerriero impotente e colpevole di aver messo nei guai la persona che più di ogni altra lo amava.»
«Dinanzi a me, Simone di Montfort, comandante delle milizie papali e signore di Carcassonne, è comparso Beaufort di Daigne, accusato di eresia. Per questo sarà sottoposto a interrogatorio alla presenza di un notaio che avrà il compito di redigere il verbale di tutto quanto sarà detto. Nel nome di Dio, sia dato inizio all'interrogatorio.» Detto ciò, l'uomo fece una breve pausa e si volse verso il notaio. Beaufort era ben più di un simbolo per i catari. Per questo Simone voleva che quel processo fosse solenne e pubblico. Il pentimento del visconte sarebbe stato d'esempio per ogni miscredente. E che al pentimento si sarebbe giunti Monfort era più che certo: erano pochi coloro che avevano resistito alla tortura, e quei pochi erano usciti dalla stanza degli interrogatori ormai cadaveri. «Parlate, nel nome di Dio unico e misericordioso, e avrete salva l'anima!» Così dicendo, uno degli ecclesiastici presenti brandì un crocefisso davanti al volto del prigioniero. Tutti i presenti si segnarono e l'interrogatorio continuò. Simone aveva deciso, data l'importanza dell'uomo catturato, di condurre personalmente l'inchiesta, senza affidarla ai frati domenicani, di solito destinati a svolgere questi compiti. «Il vostro nome, prigioniero?» «Mi chiamo Beaufort, visconte della Val di Daigne, signore di...» «Credo sia inutile che ci elenchiate i vostri titoli: nessuna delle vostre terre vi appartiene più, ormai.» Beaufort aveva le mani e il collo stretti nei cavallotti che erano assicurati al muro da una catena di ferro. I fieri occhi erano fissi su quelli di Simone. Pregò Dio affinché gli facesse dono della forza per resistere ai supplizi a cui l'avrebbero sottoposto. «Siete un eretico, non è vero, Beaufort? Voi professate quella che i blasfemi definiscono la religione catara?» «Mi chiamo Beaufort, visconte della Val di Daigne, signore di Villefloure, Seviès, Taurine e Rieux...» Quella era l'unica risposta che avrebbe dato. «Vi ricordo, Beaufort, che l'ammissione di eresia e il solenne giuramento di riavvicinarvi al Signore farà sì che abbiate salva la vita.» «Mi chiamo Beaufort, visconte della Val di Daigne, signore di Villefloure...» La casa di Puyol era frequentata da un buon numero di giovani allievi desiderosi di apprendere i segreti della musica.
Per questo l'arrivo di Aymon era passato quasi inosservato. Erano trascorsi alcuni giorni dalla cattura di Beaufort e nessuno aveva fatto domande sul ragazzo. Aymon aveva cercato di placare la sua ansia e si era lasciato affascinare dai modi pacati del maestro, ma non aveva perso la speranza di poter liberare il nonno: avrebbe solo dovuto aspettare il momento propizio. Puyol, dal canto suo, non aveva mai smesso di fare affluire preziose informazioni dal quartier generale dei crociati alla comunità catara. Per far pervenire i suoi messaggi all'esterno e per riceverli, Puyol si serviva di alcuni dei suoi musicisti. Il metodo che aveva escogitato era tanto semplice quanto difficilmente individuabile: era pressoché impossibile che un crociato conoscesse la musica e di questa si serviva Puyol per inviare le comunicazioni segrete fuori dalle mura di Carcassonne. L'interrogatorio procedeva da giorni nella sala dall'opprimente soffitto a volta posta nelle segrete del mastio. Beaufort era emaciato e smagrito, apparentemente ridotto allo stremo, ciononostante continuava a tener duro e a non rivelare nemmeno una parola di ciò che gli inquisitori avrebbero voluto sapere. «Ancora una volta, in nome di Dio», disse il domenicano con aria severa. «Parlate e avrete salva l'anima.» «Mi chiamo Beaufort...» Le parole gli uscirono in un sussurro. «Tirate!» comandò il frate al boia. Beaufort era stato bloccato sopra una grossa ruota per mezzo di spesse cinghie di cuoio. La ruota era poggiata su un cavalletto che le consentiva di girare, mossa da una manovella di ferro. Il prigioniero era legato in posizione supina con le braccia e le gambe tese fino allo spasimo, in modo che il corpo componesse un arco aderente alla circonferenza di legno. Le cinghie venivano tirate sempre di più, nel corso dell'interrogatorio, mentre la ruota girava. Il dolore era insopportabile e a ciò si aggiungeva l'ipossia causata dalla posizione innaturale della cassa toracica. Beaufort non avrebbe più saputo dire da quanti giorni era costretto a quel supplizio. «Tirate, vi ho detto!» ordinò ancora il frate. «Ma», rispose il boia, «così si rischia che il prigioniero muoia nel corso dell'interrogatorio.» «Vi ho detto di tirare! Non voglio che si discutano i miei ordini!» «Sia fatta la vostra volontà, padre Pelhisson», ubbidì il carnefice facendo
forza sulle cinghie. Per un boia la morte del prigioniero era indice di scarsa perizia nel proprio lavoro: il torturato doveva essere mantenuto in vita, e possibilmente lucido di mente, altrimenti non avrebbero avuto alcuno scopo le sevizie alle quali lo si sottoponeva per ottenere una piena confessione. Quella sera Beaufort perse conoscenza e quella stessa sera, appena rientrato a Carcassonne dopo alcuni giorni di assenza, Montfort volle essere informato sulle condizioni del prigioniero. Quando seppe che il nobile cataro era a un passo dalla morte, Simone montò su tutte le furie e si precipitò alla prigione. A Carcassonne si sussurrava che la madre della giovane Marie-Louise, allieva del maestro Puyol, fosse imparentata con Raimondo VI di Tolosa. Ma i genitori della ragazza avevano fatto di tutto per smentire la notizia: sia sul sovrano che sui suoi stretti familiari gravavano pesanti sospetti di frequentazioni eretiche. Le guerre di religione ormai erano riuscite a dividere popoli e città: il papa aveva segnato un profondo solco nella terra d'Occitania. Marie-Louise frequentava la scuola di musica per tre pomeriggi la settimana. Arrivava accompagnata da una serva ed eseguiva gli esercizi che le venivano assegnati con evidente malavoglia: tanto amava ascoltare la musica quanto non le piaceva suonarla. Era di pochi mesi più giovane di Aymon anche se, come spesso accade, lei sembrava già una donna, mentre il ragazzo mostrava tratti ancora infantili. Marie-Louise aveva incontrato Aymon il giorno seguente al suo arrivo, ma gli aveva rivolto la parola solo dopo averlo sentito eseguire un pezzo. «Voi siete un maestro, mio giovane amico», gli aveva detto non appena la ghironda aveva smesso di diffondere le sue note argentine. «Il vostro entusiasmo mi riempie di gioia, damigella», aveva risposto Aymon chinando leggermente il capo. Da quel giorno Aymon non aspettava altro che di poter scorgere i boccoli biondi di Marie-Louise sotto ai cappelli di panno che portava o di perdersi nel profondo dei suoi occhi azzurri. Passava ore a osservarla mentre provava anche a comporre. E gli importava assai poco che la qualità della musica della fanciulla fosse, invero, piuttosto scarsa. Simone si chinò sul corpo straziato di Beaufort. Il nobile cataro era stato sdraiato sulla paglia che ricopriva il pavimento in pietra della cella. Non
aveva più ripreso conoscenza da quando era svenuto durante le torture. Montfort si rese conto che il moribondo, in preda al delirio, stava bisbigliando qualcosa. Accostò l'orecchio alla bocca di Beaufort. «La Pietra è al sicuro, Aymon. Abbi cura di lei. Con essa potrai sconfiggere interi eserciti nemici. Ma stai attento, è molto pericolosa.» «E come farò ad arrivare alla Pietra?» chiese Simone fingendosi l'interlocutore con cui il moribondo credeva di parlare. «...la mappa... Guarda la mappa, Aymon.» Quindi Beaufort di Daigne ebbe un sussulto e spirò. «Non così, Aymon. Tieni più rilassata quella mano. L'esecuzione risente della tua rigidità. Comunque per oggi abbiamo finito. Riponi pure la ghironda... e complimenti per i progressi che stai facendo.» Ancora una volta il severo Puyol lo lodava. Aymon era raggiante e per qualche istante riuscì a dimenticare l'angoscia che lo opprimeva. Nel riporre lo strumento nella custodia, ne uscì un foglio di pergamena che scivolò sul pavimento. «Cosa conservi nella custodia?» chiese Puyol che, a dispetto dell'incedere dell'età, non aveva perso l'abitudine di notare ogni cosa, anche la più insignificante all'apparenza. «Non so», mormorò il ragazzo guardando il foglio. «Sembrano delle indicazioni per giungere a una... pietra... Una specie di mappa descritta a parole, con alcune prescrizioni da seguire, per evitare pericoli... mortali. Non capisco...» «Fammi vedere, Aymon...» Puyol prese la pergamena e l'avvicinò a una sorgente luminosa. Alla luce della candela era ben visibile il sigillo posto in calce. Sia Puyol che Aymon lo riconobbero subito: era quello del visconte della Val di Daigne. «Chiedete a padre Pelhisson di raggiungermi», disse Simone di Montfort a una delle guardie. Poco più tardi il domenicano che aveva condotto l'interrogatorio fu introdotto negli appartamenti del comandante in capo. «So che cosa volete dirmi, signore», provò a giustificarsi Guillaume Pelhisson, «ma il prigioniero ha ceduto all'improvviso.» «Il boia mi ha riferito che le cose non sono andate proprio così... Comunque non vi ho convocato per questo. Nel delirio che precede la morte, Beaufort ha parlato di una mappa che avrebbe consegnato a un certo A-
ymon...» «Aymon... Aymon... Questo nome... Ma certo!» esclamò il domenicano battendosi la mano sulla fronte. «Aymon è il nipote di Beaufort. Dopo la morte della figlia e del genero, pare che il cataro abbia adottato l'unico nipote.» «Quanti anni potrebbe avere questo Aymon, padre Guillaume?» «Credo una quindicina, signore.» Allora Simone ricordò. «Alcuni testimoni hanno riferito che al fianco di Beaufort camminava un ragazzetto, anche se in molti lo hanno preso per uno dei tanti mendicanti che chiedono la carità agli angoli delle strade. Portatemi qui il crociato che ha identificato Beaufort!» Rintracciare il militare richiese maggior tempo del previsto: questi si trovava di pattuglia fuori città e non fu disponibile che alle prime ore del mattino seguente. «Ricordi un ragazzo che era vicino a Beaufort al momento della sua cattura?» «Certo, mio comandante. Ma quello era solo un sudicio mendicante e non aveva niente a che vedere col rinnegato Beaufort. Ho visto con i miei occhi il cataro allontanare il giovanetto in malo modo. Lo ha anche percosso sulla schiena per liberarsi della sua insistenza...» «Non sei tu a dover giungere a conclusioni, soldato! Ripetimi quanto hai visto.» «Certo, signore. Beaufort cavalcava il ronzino. Il ragazzo gli stava vicino e il cataro ha affibbiato una sonora pacca sulla bisaccia di pelle che il giovane portava a tracolla. E gli ha detto di rivolgere le proprie questue altrove.» «Una bisaccia di pelle, hai detto?» «Sì, comandante. Ma non era proprio una bisaccia... Forse una custodia per qualche strumento musicale...» «E non ti è sembrato strano che un ragazzo in possesso di uno strumento musicale vada in giro a chiedere l'elemosina?» Il crociato venne liquidato in modo sbrigativo. Rimasto solo con Pelhisson, Simone riprese a parlare. «Dobbiamo trovare quel giovane.» «Puyol! Il maestro di musica!» esclamò il domenicano. «Ho sempre dubitato della fedeltà al cristianesimo di quell'uomo. Credo, mio signore, che sia giunto il momento di verificare i miei sospetti.»
«Ho lavorato quasi tutta la notte per comporre questa canzone, Aymon», disse Puyol al ragazzo mostrandogli le pagine sulle quali, all'interno del pentagramma, erano scritte le note e, poco sotto, le parole di un inno intitolato a Maria Maddalena. In esso si accennava anche a una pietra sacra e miracolosa. «Se tu te ne andassi in giro con una mappa recante i sigilli del visconte di Daigne, il tuo segreto non rimarrebbe tale a lungo. In questa maniera solamente tu e le persone che sceglierai potrete conoscere il luogo ove Beaufort voleva che tu potessi arrivare. Se mai dovessi riuscire a raggiungere la pietra di cui parla, mi raccomando, ubbidisci a tutte le indicazioni di Beaufort. Ho trascritto ogni cosa in un codice segreto, prima di distruggere il messaggio originale di tuo nonno. Adesso vieni qui e apri bene le orecchie. Ricordi la main guidonienne..?.» Aymon guardò il suo maestro con aria interrogativa. Come poteva dimenticarla? Tutti gli esercizi musicali si basavano su quel semplice sistema mnemonico che si serviva dell'aiuto delle cinque dita della mano per apprendere note e melodie. Quella strana lezione durò a lungo e alla fine Puyol disse: «E così, ora sei a conoscenza del segreto della nostra gente. Fanne tesoro, giovane Aymon, e comportati sempre come Dio vorrebbe ti comportassi. Sei il migliore allievo che io abbia mai avuto, giovane visconte di Daigne, ma adesso andiamo. La lezione del mattino ci aspetta. E mi sembra che tu non voglia fare attendere mademoiselle Marie-Louise, non è vero?» Un sorriso carico di affetto distese i tratti del volto del maestro Puyol. Ma quel moto di allegria non durò più di un istante: uno dei servitori del maestro irruppe nella stanza senza nemmeno farsi annunciare. «Presto, mio signore!» disse il nuovo venuto con aria concitata. «Dobbiamo fare presto! Ho saputo da un servo di Simone che, nel delirio che ne ha preceduto la morte, Beaufort ha parlato di una mappa e di un ragazzo che la custodisce. I crociati stanno venendo qui e cercano un giovane musico che risponde al nome di Aymon. Bisogna farlo fuggire, se non vogliamo che venga catturato dagli sgherri di Simone di Montfort.» Furono interrotti da alcuni colpi alla porta. «Puyol, aprite, in nome della legge!» Pochi istanti più tardi, Marcel, lo stesso servo che aveva avvertito il maestro dell'imminente pericolo, toglieva i catenacci al pesante portone d'accesso.
«Voi, signore?!» disse Puyol con aria stupita abbozzando un inchino dinanzi a Simone di Montfort. «La mia umile casa non è all'altezza di accogliere il signore di Carcassonne...» «Sospettiamo, maestro Puyol», tagliò corto Simone, «che fra queste mura abbia trovato asilo il nipote di un traditore. Ne sapete nulla?» «Non so a chi vi riferiate, mio signore. Del resto, qui c'è un tale viavai di allievi e di giovani musicisti.» «Aymon di Daigne. Questo nome vi dice niente?» Fu un domenicano a parlare. Puyol lo conosceva bene: era lui l'anima nera di Simone di Montfort. Il suo nome era Guillaume Pelhisson e, a dispetto del saio che portava, era un uomo scaltro e crudele. «Aymon... Lasciatemi pensare... Forse ho avuto qualche Aymon come allievo, diversi anni or sono... Non mi pare di aver incontrato qualcuno che portasse quel nome negli ultimi mesi. Certo non è attualmente tra gli ospiti della mia scuola.» «È quello che vedremo», lo interruppe Simone. Quindi disse rivolto ai soldati: «Guardie, perquisite la casa!» I militari si sparpagliarono tra le sale e i corridoi del palazzo, ritornando poco dopo nell'ampio studio di Puyol. Uno di loro conduceva con sé una fanciulla. Pelhisson girò attorno alla ragazza dai boccoli biondi, gli occhi azzurri come il mare spalancati in una muta interrogazione. «E così lei è la sola allieva presente nella vostra scuola in questo momento, Puyol?» chiese il domenicano indicando Marie-Louise. «Così è, eminenza», rispose il maestro. «E voi, damigella, avete mai conosciuto un giovane allievo di nome Aymon? Dovrebbe essere giunto qui un paio di settimane or sono.» Il silenzio nella sala si fece quasi palpabile: i servi di Puyol, gente fidata e votata alla causa del loro padrone, e lo stesso maestro trattenevano il fiato. Se la giovane avesse detto la verità, per tutti loro sarebbe stata la fine. «No, eminenza», rispose Marie-Louise con fermezza. «Sono sempre da sola col maestro, quando egli mi impartisce le sue preziose lezioni.» Simone e il domenicano trattennero a stento un moto di disappunto. Si guardarono ancora attorno, quindi abbandonarono la casa non senza aver rivolto a Puyol alcune minacciose raccomandazioni. «Spero vi ricordiate che chiunque protegga un eretico, o anche un semplice ricercato, rischia la condanna a morte», disse Pelhisson, accomiatandosi dal maestro.
Quando gli uomini di Simone furono lontani, Puyol si alzò dalla grande sedia in legno intarsiato su cui era rimasto seduto. Il servo spostò il tappeto che il suo padrone aveva sotto ai piedi e aprì una botola. Aymon uscì dal suo nascondiglio. Non c'era ombra di paura sul suo giovane volto, ma vi si leggeva il repentino dolore per la morte dell'adorato nonno. Tuttavia, quando gli occhi di Aymon incrociarono quelli della ragazza, la tristezza si trasformò in sorridente gratitudine. «Ho sentito tutto. Non dimenticherò mai il vostro gesto, Marie-Louise.» 8 Germania, anni '20 Heinrich Himmler andava ultimando gli studi universitari di agraria. La sua educazione era stata pianificata nel dettaglio dal padre, precettore di un Wittelsbach, il casato dei principi di Baviera. Le sue propensioni politiche nazionalistiche e antimarxiste trovarono presto corrispondenza in un nuovo partito, che vedeva un austriaco, tale Adolf Hitler, tra i suoi leader. Nel 1923 Himmler stava lavorando alla Stickstoff-Land, una fabbrica di fertilizzanti. In quello stesso anno si era iscritto, con la tessera numero 156, al Partito nazionalsocialista tedesco. C'era parecchia gente in Germania pronta a scommettere che, cavalcando malcontento e miseria, un movimento politico in grado di dimostrare rigidità e determinazione l'avrebbe fatta da padrone. E i nazionalsocialisti di Adolf Hitler di determinazione ne avevano da vendere. Rudolf Hess era un giovane ufficiale approdato all'aeronautica dopo essere stato ferito durante un'azione di guerra nel reggimento List. In quel frangente aveva avuto modo di osservare un giovane caporale che riusciva, grazie ai suoi discorsi, a entusiasmare gli uomini prima che uscissero dalle trincee e si lanciassero all'assalto. Il caporale si chiamava Adolf Hitler e l'amicizia che con il tempo si sarebbe instaurata tra i due sarebbe stata tale da far soprannominare Rudolf «Fraulein Hess», per l'indissolubile devozione che lo avrebbe legato a Hitler. Hess fu l'unico del suo entourage al quale Hitler si rivolse sempre in modo confidenziale, mentre a tutti gli altri veniva rigorosamente dato del «voi». Hess era nato ad Alessandria d'Egitto e vi aveva vissuto per dodici anni.
Lì aveva imparato a conoscere e ad appassionarsi ai culti misterici che permeavano la cultura egizia. Una volta adulto fu per lui inevitabile divenire un fanatico di esoterismo. Entrato come ufficiale pilota nella Luftwaffe, Hess ebbe modo di coltivare importanti conoscenze, compresa quella con Hermann Göring, il comandante della squadriglia in cui militava anche il leggendario Barone Rosso. Nel 1920 - con la tessera numero 17, Hitler possedeva la numero 7 - entrò a far parte del Partito nazionalsocialista. Reinhard Heydrich era nato in Sassonia e si era subito rivelato un allievo modello e uno sportivo d'eccezionale versatilità. Nel '21, a diciassette anni, era stato tra i fondatori dell'Associazione giovanile nazionalsocialista. Ultimato il liceo era entrato all'Accademia della marina militare e si era imbarcato sull'incrociatore Berlin. Il comandante della nave era allora l'ammiraglio Wilhelm Canaris, futuro capo dell'Abwehr, il temuto servizio segreto militare. Anche Heydrich sarebbe diventato una pedina fondamentale nei disegni di Hitler, che stava salendo i gradini della gerarchia del Partito dei lavoratori, sospinto da una determinazione inarrestabile. Da addetto alla propaganda divenne presto il vero e proprio leader di quello che lui stesso volle rinominare Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, al quale affiancò una milizia armata. Il nuovo simbolo del Partito fu una croce uncinata. Ancora quel brivido gelido lungo la schiena. Il nunzio apostolico in Baviera posò sugli altri giornali la copia del Völkischer-Beobachter. Eugenio Pacelli, alzandosi in piedi, si rivolse al suo segretario particolare: «La verità sta dalla parte da cui si guarda la notizia: il Völkischer, organo della Thule e voce ufficiale di von Sebottendorff, esalta il comportamento di Adolf Hitler e dei suoi nazisti durante il tentativo di colpo di Stato che hanno compiuto irrompendo in una birreria di Monaco per proclamare l'inizio di una rivoluzione nazionale». «Vero è, eccellenza», rispose il segretario, «che con la Germania in queste condizioni, chiunque si proponga di rimettere a posto le cose troverà un terreno fertile nell'opinione pubblica. L'economia del Paese è allo sfascio e il valore della moneta tedesca precipita verso il basso di ora in ora.» «Non so se la violenza e la prevaricazione siano il metodo migliore per
risanare questo Paese. Certo, dinanzi al collasso economico, il rigore è la prima regola da osservare. Eppure nutro molte perplessità e provo un profondo senso di angoscia quando sento i programmi di questa nuova forza politica.» «Ci penserà il carcere a raffreddare gli animi troppo bollenti dei capi del Partito nazionalsocialista, eccellenza: i responsabili del fallito colpo di Stato sono stati assicurati alla giustizia e avranno diversi mesi di tempo per placare i loro ardori.» «Non mi sembrano spiriti disposti a piegarsi. Sentiremo ancora parlare di loro...» Una volta rimasto solo, l'arcivescovo Pacelli si diresse verso la piccola cappella interna dell'edificio. Si inginocchiò e giunse le mani, cercando di alleviare, con la preghiera, l'ansia che lo divorava. 9 Washington, 2006 Nella piccola sala riunioni la tensione era palpabile. Il capo della CIA, Phil Damiano, ascoltava con aria incredula: eppure, proprio per non farsi ingannare da qualche errore di interpretazione durante la trasposizione dall'iraniano all'americano, Damiano aveva disposto che il discorso televisivo di Gholam Pashelvi fosse tradotto in simultanea dal migliore degli interpreti dell'Agenzia. «Il presidente della Repubblica islamica iraniana, Mahmoud Tahrjani, non pago del suo vile comportamento, ha arbitrariamente ritenuto giunto a termine il proprio compito, e ha rassegnato le sue irrevocabili dimissioni dal mandato a lui conferito dal popolo rivoluzionario islamico iraniano.» Così dicendo Pashelvi alzò verso le telecamere un foglio apparentemente di pugno dell'ex presidente. Quindi proseguì, gli occhi fissi nell'obiettivo. «Data la delicatezza del momento e le forti pressioni che il nostro Stato sta subendo per mano di alcuni Paesi governati da Satana e dai suoi adepti, e spronato in questa mia decisione dall'intero Consiglio dei guardiani della Rivoluzione, ho assunto la presidenza della Repubblica islamica iraniana. Tale carica avrà corso solo fino a quando l'emergenza sarà risolta.» Pashelvi fece una pausa degna di un grande attore, quindi riprese: «È mia intenzione proseguire lungo la linea politica che Tahrjani ha tracciato prima di abbandonare il Paese. Il nostro Stato ha il diritto e il dovere di ac-
cedere a ogni fonte alternativa e quindi anche a quel genere di armi di dissuasione sempre più necessarie per il mantenimento della pace. A quegli Stati, da sempre nemici, che pensano di poterci sottomettere con la paura, dico che presto saremo in grado di reagire con altrettanta capacità di dissuasione. Dio è grande. Sia fatta la volontà di Dio». Il telefono della linea riservata si mise a squillare prima ancora che Pashelvi terminasse il suo solenne discorso di insediamento. Phil Damiano si alzò e rispose. Era assolutamente certo dell'identità del suo interlocutore. «Signor Damiano, sono preoccupato. Non vorrei che gli Stati Uniti d'America avessero sperperato denari ed energie nello scalzare un pericoloso dittatore finendo per ritrovarsene uno molto peggiore tra i piedi...» «Stia tranquillo, signor presidente: sono convinto si tratti solo di una messa in scena.» «Sarà, ma Pashelvi sembrava alquanto convinto delle sue affermazioni. La prego di tenermi al corrente sugli sviluppi di questa situazione, signor Damiano. È inutile ricordarle quanto sia importante lo scacchiere iraniano in un momento come questo.» Phil Damiano ripose la cornetta, quindi si rivolse alla persona che aveva condiviso con lui i dettagli di quella operazione. «Secondo me, siamo nella merda sino al collo», disse il direttore della CIA scuotendo il capo. Teheran, 2006 Da quando Gholam Pashelvi aveva assunto l'incarico di presidente, i cambi al vertice delle istituzioni si erano susseguiti senza soluzione di continuità: un nuovo dittatore non avrebbe mai potuto mantenere la struttura e lo staff di chi lo aveva preceduto. Uno tra i primi a venire messo da parte con tutto il suo entourage fu Parviz Fattah, ministro per l'Energia. Al suo posto, come in altri seggi istituzionali, fu collocato un personaggio molto vicino all'ayatollah. A direttore generale del ministero per l'Energia, Pashelvi volle uno dei suoi più stretti e fedeli collaboratori: Nard Sourush, colui che lo aveva aiutato a organizzare il colpo di Stato. Benché avesse ben poca dimestichezza con i problemi legati all'energia nucleare, Sourush avrebbe rappresentato Pashelvi in quell'importante settore. Si trattava di un incarico della massima fiducia: la creazione di centrali nucleari iraniane, e
di quant'altro avesse a che vedere con esse, poteva tenere in ansia i governi di molti Paesi non solo occidentali. «Mi raccomando, Nard», ordinò Pashelvi, «voglio un resoconto il più dettagliato possibile sulle potenzialità nucleari della nazione. Fonti, capacità produttive, livello tecnologico. E, soprattutto, voglio sapere quale potrebbe essere il modo migliore per fare sì che i nostri impianti di produzione diventino strumenti per la realizzazione di un ordigno nucleare. E di quale potenza. Noi dovremo essere il motore della rivoluzione islamica nel mondo intero.» Nard sorrise, ma il suo ghigno aveva poco di rassicurante. Si congedò da Pashelvi con l'assicurazione che, entro una settimana al massimo, avrebbe reso una esauriente relazione su quanto gli era stato richiesto. Il neopresidente iraniano era molto soddisfatto: nessuno più di quel fido scudiero sarebbe stato capace di esaudire ogni suo desiderio. Certo, non era in grado di distinguere un atomo di materiale radioattivo da un granello di polvere del deserto, ma Nard Sourush era una macchina inarrestabile che si sarebbe fermata solo una volta concluso il compito assegnatole. Pashelvi si guardò intorno compiaciuto: il lusso dell'ufficio presidenziale rispondeva in tutto e per tutto alle sue ambizioni. Sedette nella poltrona dietro la scrivania, digitò la password personale e aprì la casella di posta elettronica che aveva utilizzato per tenere i suoi contatti segreti prima del colpo di Stato. Non si meravigliò di vedere, nell'elenco dei messaggi in arrivo, il nome in codice del suo più prolifico finanziatore. Washington, 2006 <SONO DAVVERO SPIACENTE, MIO CARO AMICO>, digitò Pashelvi, dopo aver pensato qualche istante a come formulare in un inglese impeccabile la risposta che aveva in mente da molti giorni, «Questo gran figlio di puttana ha anche il coraggio di prendersi gioco di noi...» stava dicendo Phil Damiano, dopo aver letto ad alta voce il testo del messaggio. «Quello che lui chiama 'aiuto alla mia causa' equivale a novantatré milioni di dollari che l'Agenzia ha speso per organizzare il colpo di Stato, senza contare che i nostri uomini dislocati in Iran sono ormai da considerarsi bruciati, dopo questo cambiamento di fronte.» «Già... Ora tutti gli agenti che in Iran hanno contribuito alla riuscita dell'operazione sono a rischio...» concluse affranto il generale Corrige. «È ben peggio di quanto lei creda, generale. Da alcune ore è iniziata una vastissima operazione di polizia. Dodici nostri referenti a Teheran sono già stati arrestati da agenti dei servizi iraniani. Tutta la nostra rete in Medio Oriente è in serio pericolo.» «Io e lei, Damiano, siamo i responsabili di questo fallimento. E anche se non c'era motivo di prevedere il voltafaccia di Gholam Pashelvi, ora dovremo fare i conti con il suo tradimento. Siamo caduti nella sua rete come degli sprovveduti.» I due uomini avevano l'aspetto di cani feroci ridotti all'impotenza da guinzagli e museruole. «Ha ragione, generale. Credo che non ci rimanga altra soluzione che rassegnare le dimissioni nelle mani del presidente e mettere lui e il suo staff al corrente del nostro fallimento.» «No, non sono d'accordo con lei. Prima di arrenderci definitivamente, dovremmo darci da fare per trovare una soluzione, soprattutto in vista della possibilità che gli eventi precipitino. Siamo i soli, non dimentichi, al corrente di questa situazione.» «E cosa pensa di fare, generale? Anche se propendessimo per la soluzione più estrema e pericolosa, quella di uccidere Pashelvi, non riuscirei, oggi, a trovare un mio uomo in Iran in grado di farlo. Buona parte dei miei agenti si trova già nelle celle di sicurezza dell'ayatollah e gli altri li segui-
ranno molto presto: l'intera rete della CIA in Iran sta per essere resa inoffensiva.» «In ogni modo, non è leale abbandonare la nave che affonda. Ne parleremo con il presidente e con il segretario di Stato, e chiederemo il rinnovo della loro fiducia per il tempo necessario a porre rimedio alla situazione che abbiamo creato. E solo una volta sistemata la faccenda, rimetteremo il mandato.» «E come pensa che dovremmo agire? Lanciando qualche missile intelligente sulla residenza del presidente iraniano? Armando la mano di un fanatico controrivoluzionario, ammesso di trovarlo, con un fucile ad alta precisione? Ci muoviamo sulla lama di un rasoio e basterebbe un solo passo falso per scatenare una guerra di religioni dalle dimensioni planetarie.» «Saranno la logica, la freddezza e l'esperienza le sole armi che ci consentiranno di affrontare quel voltagabbana di Gholam Pashelvi.» «Secondo lei, noi quindi non abbiamo agito in maniera logica e facendo tesoro della nostra esperienza?» chiese il direttore della CIA. Si sentiva come un bambino colto in fallo dall'insegnante. «No, se devo essere sincero: ci siamo comportati come i soliti yankee. Un centinaio di milioni di dollari, una rete di spie esperte e quella che sembrava una pedina, o meglio un fantoccio, da mettere sul piedistallo occupato sino a quel momento dal cattivo di turno. Ma abbiamo fatto alcuni errori di valutazione. Noi sappiamo ben poco degli usi di quella gente, del reale potere che un tipo come Pashelvi è in grado di esercitare nella sua terra. Dobbiamo porre rimedio alla nostra ignoranza.» «E in che modo pensa di riuscire a entrare in possesso di queste informazioni?» «Niente spie, forse basterà ricorrere a una persona di 'singolare' statura. Ma avremo tempo di parlarne, dopo aver conferito con il presidente.» «Signori, accomodatevi», disse il presidente con aria grave, facendo cenno a Phil Damiano e al generale Corrige di sedersi sulle due poltrone libere davanti alla sua scrivania. La terza era occupata dal segretario di Stato. Nello Studio Ovale della Casa Bianca non c'era nessun altro oltre a loro quattro. Il presidente ascoltò il resoconto di quanto accaduto dopo che i servizi segreti americani avevano contribuito a porre Gholam Pashelvi al vertice dell'Iran, quindi disse: «Ciò che mi dite è esattamente quanto avevo temuto
potesse accadere, sin dalla prima apparizione televisiva del nostro 'Cavallo Vincente'», spiegò, chiamando Pashelvi con il nome in codice che era stato dato a tutta l'operazione, Winning Horse. «Devo confessare anche che il suo tentativo di ridurre la figura del nuovo premier a un mero fantoccio non mi aveva molto convinto, signor Damiano. Ma mi rendo conto, al punto in cui siamo, che lei e il generale Corrige potrete essere di aiuto nel cercare di rimettere le cose a posto. Accetto le vostre dimissioni, signori. Ma sono certo che vorrete datarle... diciamo... tra trecentosessantacinque giorni: avete un anno di tempo da oggi per sanare questa situazione.» «Un anno...» stava dicendo Damiano, mentre l'aereo di servizio della CIA si fermava sulla pista di atterraggio del Denver International Airport. «Non mi ha ancora detto, generale Corrige, in che cosa consisterà l'aiuto che siamo venuti a cercare qui a Denver.» «Credo lei conosca il dottor Breil. Il dottor Oswald Breil.» Denver, 2006 Oswald Breil aveva imparato a non preoccuparsi per i tempi di lavoro di Sara Terracini. Sapeva bene che, come sempre, Sara avrebbe svolto i suoi compiti in maniera impeccabile e senza troppo farsi attendere. E anche quella volta avrebbe avuto conferma dell'affidabilità della sua amica. Oswald aveva quasi finito di leggere la traduzione di alcune delle pagine dell'agenda appartenuta al giornalista italiano Luca Raso. Guardò l'orologio: «Sempre in ritardo questi pezzi grossi americani...» commentò tra sé. Pochi istanti più tardi Lilith Habar introduceva nello studio di Oswald gli ospiti che il piccolo uomo stava aspettando. Quando il capo della Central Intelligence Agency, Phil Damiano, e il generale Corrige si congedarono, Oswald spiò nuovamente le lancette dell'orologio da polso: la loro conversazione era durata due ore e venti minuti e, in quel lasso di tempo, lui aveva appreso che il mondo intero era, ancora una volta, in serio pericolo e che, ancora una volta, era stato richiesto il suo intervento. Breil si era riservato di decidere entro qualche giorno se accettare l'incarico: non capiva in che modo lui avrebbe potuto risultare utile alla risoluzione di quella faccenda cominciata in maniera tanto catastrofica. Quando i due furono usciti, Oswald si accinse a terminare la lettura poco prima interrotta. Sara gli inviava tre o quattro pagine alla volta e mancava
ancora molto alla fine del lavoro di trascrizione. Ma ora Breil voleva pensare ad altro e distrarsi dalle gravi notizie che gli emissari del governo statunitense gli avevano comunicato. Non sapeva ancora che informazioni altrettanto gravi erano racchiuse tra le pagine scritte trent'anni prima da Luca Raso. E non poteva immaginare che, a causa di uno dei tanti misteriosi parallelismi della Storia, i fatti narrati nelle pagine trascritte da Sara si sarebbero mescolati agli eventi attuali. Dall'Agenda di Luca Raso, Amazzonia, maggio 1976 «Vedo che qui, nel bel mezzo della foresta amazzonica, esiste un vero e proprio culto per la puntualità...» ho detto, mentre scorrevo il programma dei miei cinque giorni presso il quartier generale della Neumann. Ogni dettaglio è stato meticolosamente pianificato. Chi ha redatto quel programma ha fatto in modo di impegnare tutto il tempo a mia disposizione: gli orari di pasti, partenze e arrivi, delle visite guidate alla fondazione ospedaliera piuttosto che ai laboratori d'avanguardia delle coltivazioni intensive, sono già stati rigidamente fissati. In questo lasso di tempo dovrei incontrare più volte Erick Neumann e credo di dovermi ritenere fortunato se la mia gentile accompagnatrice non abbia già predisposto il testo dell'intervista. «La puntualità è una dimostrazione di rispetto per chi ci circonda e un elemento indispensabile per chiunque voglia ottenere successo e gratificazioni. Non trova, signor Raso? Se ora vuole salire in macchina, sarò lieta di accompagnarla alla Residencia.» Gli occhi azzurri di Agnes non lasciavano trapelare alcun sentimento. «Non si preoccupi per il suo bagaglio: lo recapiteranno i nostri addetti direttamente alla villa e le femmes de chambre provvederanno a riporre i suoi oggetti personali... Mi auguro che non pensi che ciò possa ledere la sua privacy, signor Raso.» Prima le foto e adesso la biancheria intima, mi sono detto. Non ci vuole molto a capire che nella «Neumanntown» - così è soprannominata ovunque la cittadella nel mezzo dell'Amazzonia ogni libertà personale subisce un drastico ridimensionamento. In ogni modo, so che sarò il primo giornalista al mondo a cui Erick Neumann ha concesso un'intervista.
«Questo è il villaggio residenziale», ha detto Agnes con il tono asettico ed esperto di una guida turistica. «Qui alloggiano i nostri dirigenti e i loro familiari. Anche quelli dei manager che vengono temporaneamente destinati in una delle oltre centottanta fazendas che fanno capo, in tutto il Brasile, alle aziende del ramo agroalimentare.» Dopo una breve pausa, Agnes ha continuato lasciando che un moto di orgoglio smussasse la sua aria professionale. «Sebbene il comparto agricolo costituisca oggi solamente uno dei settori merceologici in cui è impegnato il gruppo, bisogna dire che questo è stato il punto di partenza, quello che ha innescato la crescita della Neumann Corporation.» La jeep sulla quale viaggiavamo ha superato una collinetta e, giunti sulla sommità, la Residencia mi è apparsa in tutta la sua magnifica ed elegante struttura. Si tratta di una villa coloniale del secolo scorso, di dimensioni inusuali, specialmente se si considera che, prima che venisse realizzata Neumanntown, quella costruzione doveva esser simile a una cattedrale nel deserto della foresta amazzonica. La Residencia è dipinta di un azzurro tenue, in contrasto con il bianco che incornicia le innumerevoli finestre della facciata principale. Bianche sono pure le possenti colonne in marmo che sorreggono il patio, sotto al quale potrebbero trovare riparo contemporaneamente almeno una decina di auto. Anche qui tutto mi è parso curato fino nei più piccoli dettagli. Persino le piante e i fiori, che il clima tropicale rende rigogliosi e lussureggianti, sono disposti secondo precisi schemi cromatici. La cancellata in ferro che immette nel viale di accesso alla villa è presidiata da alcuni uomini armati. Altri si aggirano costantemente all'interno del parco. «Negli ultimi tempi alcune case isolate sono state oggetto di scorribande di tribù di indios e, qui nella giungla amazzonica, è obbligatorio essere molto prudenti», mi ha spiegato Agnes, rivolgendo un cenno di saluto alle sentinelle. Ho avuto una strana sensazione: le guardie armate mi hanno ricordato i secondini a presidio del muro di un carcere. E mi sono chiesto se tutto quello spiegamento di forze sia davvero necessario per difendere la Residencia da un pugno di indios armati di lance e cerbottane.
L'auto si è arrestata sotto al patio proprio mentre incominciavano a scendere le prime gocce di una calda pioggia tropicale. Allora mi sono accorto che la distanza dalla villa mi aveva ingannato: quelle che mi erano sembrate semplici cornici bianche attorno alle finestre sono dei mirabili stucchi in stile barocco. Capitelli e fregi decorano la facciata senza appesantire l'architettura della Residencia. Tutto qui è enorme e fastoso. «Mi segua nella sala da te, dottor Raso», ha detto Agnes facendomi strada all'interno della villa. «Credo che il personale le abbia preparato un cocktail di benvenuto.» Camminando lungo i corridoi e i saloni della Residencia ho avuto l'impressione di trovarmi in una pinacoteca, tanti sono i quadri dei più famosi maestri d'ogni tempo appesi ai muri. Giunto nella sala da tè mi sono seduto su un'antica sedia a dondolo e ho sorseggiato, gustandone il refrigerio, una bevanda ghiacciata a base di frutti tropicali. Poi, mentre aspettavo, ho aperto nuovamente la cartellina che conteneva il programma del mio soggiorno: con sollievo ho letto che la cena sarebbe stata «informale». Il primo incontro «formale» è fissato per domani mattina, alle otto. Durante la prima colazione conoscerò finalmente Erick Neumann. PARTE SECONDA Non è possibile raccontare diversamente ciò che è accaduto. Giorgio Bocca
10 Età dei Metalli, II millennio a.C. Amor riacquistava vigore a ogni passo. Mizda e Dehal lo avevano rifocillato con il cibo sottratto alle bisacce delle due sentinelle davaar e ora mostrava di nuovo il piglio dell'inflessibile comandante determinato a raggiungere in fretta il suo villaggio in pericolo. Stavano attraversando la foresta quando il giovane capo si arrestò all'improvviso e fece cenno agli altri di nascondersi tra i cespugli: quattro davaar venivano verso di loro. Athor uscì allo scoperto e si mise a correre, incurante degli sterpi che gli ferivano le gambe, distraendo gli inseguitori dalla loro caccia. Uno dei davaar caricò il giavellotto e lo scagliò contro al fuggitivo, ma il colpo andò a vuoto, e l'uomo scomparve nel folto della macchia. Il giovane aveva ottenuto il suo scopo: Dehal e Mizda sarebbero riusciti
a mettersi in salvo, mentre lui avrebbe trovato rifugio in una tra le tante grotte che si aprivano nella parete rocciosa. La scelta non fu dettata dal caso: suo padre lo aveva condotto molte volte all'interno di quella caverna, quasi volesse fargli prendere confidenza con ogni asperità del terreno e con ogni antro segreto di quel luogo. A mano a mano che si addentrava nelle viscere della montagna senti affievolirsi, sino a scomparire del tutto, le voci dei davaar impegnati nella loro vana ricerca. Giunse in una sala molto ampia che conosceva bene: lì le rocce avevano assunto forme bizzarre. Il buio era quasi assoluto, ma Athor sapeva che nella grande parete dinanzi a lui la mano di un qualche antenato aveva dipinto delle scene di caccia: quando suo padre lo lasciava solo all'interno della caverna, trascorreva molto tempo a osservare i disegni alla luce di una torcia e si divertiva a immaginare le più fantastiche avventure. Una sottile lama di luce sembrava accarezzare il pavimento della grotta e dava l'impressione di arrivare dal centro della terra. Athor si chinò e vide che proveniva da uno dei tanti cunicoli che si aprivano nell'antro. Qualcuno si era preoccupato di nascondere lo stretto passaggio con dei sassi. Il ragazzo li rimosse, quindi imboccò strisciando il cunicolo. La luce, mentre procedeva nel budello sotterraneo, diventava sempre più forte. Lo slargo ove sorgeva il tempio sacro al dio Hosh si aprì dinanzi a lui all'improvviso. Si guardò attorno incredulo: i bracieri e le torce diffondevano luce e calore. Si disse che doveva esserci un camino nella roccia che alimentava il ricambio d'aria. Al centro, il sepolcro in metallo che conteneva la Pietra Sacra. Sull'altare che si innalzava dalla roccia calcarea, Athor vide l'oggetto che avrebbe sancito il suo diritto a diventare il sommo sacerdote del popolo dei migos. Si trattava di un disco forgiato nello stesso metallo lucente che decorava il coperchio del sarcofago. Ora lo avrebbe indossato, legandolo al collo con le cinghie in cuoio. Poi, dopo l'investitura, avrebbe riposto di nuovo il disco d'oro all'interno del tempio perché l'emblema di Hosh potesse, in futuro, essere raccolto dal suo successore. Ecco il motivo per cui il disco si trovava li, dove anni prima l'aveva deposto il saggio Sar. Il padre di Athor non aveva avuto tempo di svelare al prescelto tra i suoi figli il modo per raggiungere l'amuleto, ma gli aveva fatto conoscere la caverna e così il giovane era riuscito a trovare il tempio da solo. Certo, era stato il dio Hosh a volere che così fosse. Prima di abbandonare il tempio, Athor alimentò i fuochi perpetui che ardevano nei bracieri, quindi percorse a ritroso il cunicolo che portava allo
slargo della grotta: sapeva che guardare la Pietra Sacra o anche solo trattenersi a lungo in quel luogo lo avrebbe destinato a morire. Dehal e Mizda avevano corso a perdifiato. Quando varcarono la palizzata e li videro a guardia degli spalti, seppero che i loro compagni erano riusciti a salvare il villaggio dall'assalto dei nemici. Era la fine di un incubo. Ciò che non potevano immaginare era che, nel breve tempo della loro assenza, Goreth si era proclamato re e stava già mettendo in atto il suo piano: quello di trasformare i pacifici migos in feroci guerrieri. Ovunque vi erano uomini armati, un gruppo dei quali era comandato a vigilare costantemente sull'incolumità del nuovo sovrano, che aveva respinto la minaccia dei davaar. Questi, a causa delle perdite subite, avrebbero impiegato del tempo per preparare una controffensiva. Così il popolo dei migos, pur consapevole del dispotismo del nuovo capo, in qualche modo gli aveva dimostrato rispetto e riconoscenza. Goreth era pur sempre figlio di un re e a lui spettava la discendenza regale in assenza di altri eredi. Presto, aveva proclamato l'usurpatore, avrebbe anche recuperato il sacro disco del sommo sacerdote. Sosteneva che Sar, qualche tempo prima di morire, aveva indicato a lui e non ad Athor il luogo in cui si trovava il Tempio Segreto. Goreth era sicuro che nessuno avrebbe più potuto smentirlo o scoprire la sua menzogna. «Ecco i nostri eroi appena rientrati dalla loro missione. Come avete osato disubbidire ai miei ordini?» disse Goreth non appena Mizda e Dehal furono al suo cospetto. «E vedo che il mio fratellastro non è con voi. Avete forse perso per strada un membro della spedizione?» «No, Goreth: Athor è vivo. Siamo riusciti a liberarlo. Mentre eravamo sulla strada del ritorno, lui ha attirato l'attenzione di una pattuglia di davaar nella quale ci siamo imbattuti e così ci ha permesso...» «Basta così, donna!» la interruppe Goreth. «Non mi interessano le tue spiegazioni!» Attorno a loro si era formato un crocchio di persone. Il capo si rivolse a due guardie armate: «Imprigionateli!» ordinò. «Aspetta, Goreth!» Aker, l'indovino padre di Dehal, era davanti a loro. «Come osi contraddire il tuo sovrano, Aker? Tua figlia mi ha disubbidito e avrà la punizione che merita, così come il giovane Mizda. Quanto a mio fratello Athor, se è vero che è ancora in vita, quando farà ritorno al villag-
gio sarà giudicato dal Consiglio dei Cinque anziani.» Dehal trasalì. «E di che crimini vorresti accusarlo? Athor non ha infranto la legge, anzi ha cercato di salvare la sua gente...» Goreth la interruppe di nuovo: «Saranno gli anziani a decidere. Ogni cosa a suo tempo», disse, quindi si diresse verso la sua capanna. «Credo che quel tempo sia giunto, fratello.» Athor avanzava verso il centro della spianata. Benché fosse coperto di polvere, lacero e ferito, il suo incedere era fiero. «Bene! Vedo che hai deciso di consegnarti alla nostra legge. Ma questo non rende meno grave il reato di cui ti sei macchiato», disse Goreth ad alta voce. Quasi l'intero villaggio era raccolto nella piazza. «Fratello, vorrei sapere di quali reati mi accusi», disse Athor rompendo il silenzio che era calato sull'assemblea. «Sei un traditore: hai cospirato per uccidere nostro padre.» Il dito di Goreth era puntato su di lui. «Non dire fandonie, Goreth!» «E allora perché il capo dei davaar aveva un'arma tra le mani? Le guardie sostengono che Karesh era disarmato quando ha chiesto di parlare col re Sar.» «Che cosa vuoi dire?» «Che tu, d'accordo con Karesh, hai nascosto il pugnale all'interno della capanna di nostro padre, in modo che lui lo trovasse...» «Menti, Goreth! Anzi, visto che sei a conoscenza di fatti che nessuno può conoscere, mi viene da pensare che forse sei stato proprio tu ad armare la mano dell'assassino.» «E allora perché sono stato io tra i primi a balzare sugli spalti per difendere il nostro villaggio, mentre tu eri impegnato in una caccia dalla quale sei tornato a mani vuote? Tu sei un traditore, Athor. Le tue mani sono sporche del sangue di nostro padre e di quello degli uomini uccisi dai davaar. Meriti la morte.» Molti dei presenti, convinti dalle parole di Goreth, si rivolsero ad Athor con espressioni minacciose. Il giovane allora aprì la veste di pelle e mostrò il disco d'oro che aveva al collo: «Dimmi perché, se sono un traditore, sono in possesso di questo?» Il bagliore emanato dall'oggetto placò l'ira dei presenti. Anche Goreth per un attimo vacillò, ma si riprese subito. «Che cosa vuoi, Athor?» ringhiò. «Vuoi che ti veneriamo come il som-
mo sacerdote? Immagino che ti sarai impossessato di quell'oggetto con l'inganno. Uomini, prendetelo e imprigionatelo!» Soggiogati, i migos si mossero verso Athor. «Fermi!» disse questi, alzando il disco d'oro. «Chiunque provi a toccarmi si macchierà del peggiore sacrilegio verso il dio Hosh.» Intimoriti, gli uomini si arrestarono. Quello che diceva il giovane era vero: colpire il sommo sacerdote era come colpire Hosh. Athor approfittò di quel momento di incertezza. Tenendo il disco come uno scudo si fece largo verso la porta del villaggio e, prima che Goreth potesse riprendere in mano la situazione, scomparve nel fitto della foresta. Il giorno seguente i cacciatori che si erano gettati all'inseguimento del fuggiasco tornarono sconsolati al villaggio: sembrava fosse sparito nel nulla. Dehal, che aveva vissuto ore di angoscia, non riuscì a reprimere un gesto di soddisfazione: sapeva che Athor era il migliore tra i cacciatori e aveva sperato con tutto il cuore che il suo uomo fosse riuscito a seminare i segugi che il perfido fratellastro gli aveva messo alle calcagna. Ma l'espressione trionfante della ragazza non sfuggì a Goreth. «Miei migos, il traditore sarà catturato. Intanto, però, dobbiamo punire i suoi complici...» disse il re, puntando il suo sguardo malvagio su Dehal e Mizda. «Mizda, tu sarai giudicato dagli anziani e, se colpevole, condannato a morte. Quanto a te, donna, ordino che tu sia immediatamente allontanata dal nostro villaggio. Alla tua esecuzione penseranno gli animali affamati o qualche davaar.» Invano il padre della giovane tentò di difenderla. Dehal fu scortata fuori dalla porta e abbandonata nella foresta. Athor aveva corso per ore, cercando di non lasciare tracce del suo passaggio. Le grida degli inseguitori si erano fatte via via più lontane e quando giunse nuovamente all'imboccatura della grotta si sentì al sicuro. Arrivato al primo slargo della caverna sedette esausto e la sua mente corse a Dehal: chissà che punizione avrebbe inflitto il suo perfido fratellastro alla donna che amava e al suo amico Mizda? Il giovane rimase a lungo seduto con la testa tra le mani, sino a che la stanchezza non ebbe il sopravvento e il sonno lo accolse.
Dehal si era appena allontanata, quando Goreth chiamò a sé due uomini armati: «Seguitela senza farvi scoprire», ordinò. «Forse ci porterà da Athor.» La donna aveva girovagato a lungo, senza meta: sperava di allontanarsi quanto più possibile da Goreth. Di tanto in tanto si arrestava e rimaneva in ascolto in preda al terrore di essere seguita. In fondo al suo cuore sperava che Athor si aggirasse ancora nelle vicinanze del villaggio. Le lunghe ombre della notte avevano trasformato la foresta in un luogo spettrale. I passi di Dehal, stremata dalla stanchezza, erano sempre più incerti. Da ore aveva perduto il sentiero e vagava nel buio senza una meta. Athor aveva acceso una torcia e di nuovo era rimasto incantato davanti alle scene di caccia dipinte sulla volta della grande caverna. Rivide Sar intento a illustrargli quei disegni e fu pervaso dalla malinconia e dallo struggimento. Suo padre era morto e il futuro del giovane era più buio della notte. Ma subito si riscosse: doveva escogitare un modo per screditare Goreth e discolparsi dalle accuse di tradimento. Muovendo la torcia gli parve che i bisonti, i cervi e i lupi prendessero vita davanti ai suoi occhi. Quel gioco antico ebbe il potere di sollevarlo dai pensieri cupi che affollavano la sua mente. Avrebbe costruito una scala per poter osservare più da vicino i disegni. Si avviò verso l'uscita in cerca di pali per fabbricare i montanti e i pioli: occupare il tempo gli sarebbe stato d'aiuto. Dehal era sopraffatta dalla paura e dalla stanchezza. Continuando a girare in tondo come un animale accecato, fece un passo falso e la terra parve aprirsi sotto di lei. Cadde a peso morto nel vuoto. Poi il suo corpo rimbalzò contro una roccia, cominciò a rotolare lungo un ghiaione sino a che si arrestò contro il tronco di un albero. Un dolore lancinante, come se una spada infuocata le avesse trafitto la carne, le tolse il respiro. Lo spezzone del ramo fuoriusciva poco sotto alle costole. Prima di perdere i sensi, ebbe il tempo di rivolgere una preghiera al dio Hosh, affinché proteggesse suo padre e l'uomo che amava. La luce rosata dell'alba illuminava la foresta quando Athor uscì dalla ca-
verna. Stava guardandosi intorno alla ricerca di un tronco adatto a essere usato come montante per la scala che si accingeva a costruire, quando gli parve di udire un suono simile a un lamento. Mosse pochi passi e la vide: Dehal era lì, appoggiata a un albero secolare. Il volto era terreo, gli occhi erano chiusi, vicino a lei una grossa pozza di sangue. Athor si rese conto con raccapriccio del ramo che trafiggeva il fianco della sua donna. Si chinò su di lei e la chiamò piano. Fu allora che Dehal aprì gli occhi. «Athor», disse con un filo di voce, «Athor, mio amato sposo.» Quindi, con sollievo del giovane, svenne di nuovo: quello che Athor si apprestava a fare avrebbe messo alla prova il più valoroso tra i guerrieri. Aiutandosi con il coltello recise il ramo dal tronco, quindi adagiò Dehal sul fianco sinistro. Sapeva come estrarre una freccia o una lancia dal corpo di un compagno ferito. E, pur temendo che avrebbe corso il rischio di scatenare un'emorragia, sapeva di non avere scelta: quello era l'unico modo per salvarla. Athor puntò il piede poco sotto la scapola destra della donna, afferrando la base del ramo con ambo le mani, prese a tirare con forza costante ruotandolo verso di sé e pian piano il legno uscì dalle carni. Per fortuna Dehal non riprese conoscenza. I due inseguitori avevano perso le tracce della loro preda e si aggiravano per la foresta, consapevoli che avrebbero dovuto subire l'ira di Goreth. «Torniamo», disse uno. «Il sole è ormai alto e non c'è traccia della donna.» «Aspetta», rispose l'altro, «Goreth ci punirà se torniamo a mani vuote. Cerchiamo un riparo per questa notte e domani, se non l'avremo trovata, prenderemo la via del ritorno.» Athor aveva abbandonato Dehal solo il tempo per cercare alcune erbe medicinali. Quindi aveva preparato un infuso ricavato dai polipori di betulla: con questo avrebbe medicato la ferita e pregato. Ma sapeva che solo Hosh avrebbe potuto fare il miracolo di guarirla. Aveva trasportato Dehal nella caverna e lì si era seduto accanto a lei. Per tutta la notte aveva pregato che si svegliasse.
Fu all'alba del secondo giorno che la donna prese a rantolare: sembrava a un passo dalla morte. «...Mio amato sposo», queste erano state le ultime parole che Dehal aveva pronunciato e lui, sommo sacerdote di Hosh, era l'unico che poteva celebrare il rito del matrimonio tra un uomo e una donna. Doveva fare in fretta, se voleva che l'ultima volontà di Dehal fosse rispettata. Con un gesto pieno d'amore la sollevò tra le braccia e s'incamminò verso l'uscita della grotta. I due migos scorsero Athor che camminava nella foresta con il corpo di Dehal tra le braccia e si nascosero dietro a un cespugli. «È morta, sta andando a seppellirla!» bisbigliò uno. «Magari la sta portando dinanzi alla Pietra nel Tempio di Hosh con la speranza che il dio faccia il miracolo di resuscitarla», gli fece eco l'altro. «Seguiamolo senza farci scoprire. Goreth ci ricompenserà se, oltre a riportargli il corpo del traditore Athor e quello della sua femmina, sapremo anche dirgli dov'è il tempio.» 11 Linguadoca, 1213 Marcel, uno dei servi di Puyol, aveva condotto Aymon attraverso un passaggio segreto che correva nei sotterranei del palazzo: lo stesso che usavano le staffette catare quando dovevano abbandonare di nascosto l'abitazione. Il passaggio conduceva sino alla conduttura di un acquedotto dismesso, grande abbastanza da farci passare un uomo carponi, che sfociava nei pressi di un'antica sorgente fuori dalle mura della città. Qui Aymon e Marcel uscirono allo scoperto. «Seguimi», disse il servo al ragazzo. «Puyol mi ha detto di consegnarti a dei girovaghi che sono accampati fuori dalla città. Loro ti condurranno presso i tuoi cugini a Foix. Stai sempre in guardia, però, e non rivelare mai la tua vera identità.» Il carro era fermo poco lontano dalla porta meridionale. Le sponde in legno lungo i lati erano state alzate. Alla sommità delle pareti era poggiato un tetto ricoperto da tegole di terracotta che gli dava l'aspetto di una casa
montata su delle ruote. Da uno stretto camino di ferro usciva un filo di fumo. Un ronzino vecchio e con la schiena curva brucava dell'erba lì attorno. Vicino al carro ardeva un fuoco sopra al quale, sorretta da tre legni incastrati tra di loro, in una pentola di rame annerita dall'uso, bolliva un liquido denso e scuro. Ogni cosa appariva sudicia e malandata. Fu lì che Aymon vide Bahram Gur per la prima volta. L'uomo aveva capelli grigi e lunghi ed era vestito di stracci. Sembrava un vecchio e Aymon faticò a credere al suo accompagnatore quando questi gli disse che non doveva avere più di cinquant'anni. Quando, riconosciuto il servitore di Puyol, costui sorrise, scoprì una fila irregolare di denti sporchi. Poco distante da lui sedeva quella che Aymon immaginò essere la moglie: una donna trasandata e sciatta che tradiva, però, una passata bellezza. Tra le mani teneva una bottiglia semivuota. Bahram Gur si alzò in piedi. «In che cosa posso esservi d'aiuto, mio caro amico?» disse Bahram. Altre volte lo zingaro aveva svolto delle missioni delicate per conto di Puyol, come consegnare documenti segreti o messaggi importanti che per nulla al mondo avrebbero dovuto finire tra le mani degli uomini di Montfort. Ed era sempre stato lautamente retribuito per ogni incarico portato a buon fine. La contrattazione fra il servitore di Puyol e Bahram fu lunga e concitata, poi il nomade ordinò ad Aymon di indossare degli stracci del tutto simili a quelli che lui portava. Quindi spense il fuoco e si preparò a partire. «Sali sul carro, ragazzo», disse con modi sbrigativi. «Dobbiamo andarcene in fretta. La storia che mi avete raccontato mi convince poco: tu non hai l'aria di essere il figlio di un vecchio amico del maestro di musica che ha avuto qualche rogna con la giustizia. Non vivo certo in un altro mondo, io. E ho capito che la tua fuga è collegata al trambusto degli ultimi giorni in città. Ma non spetta certo a me fare domande: ho ricevuto il mio compenso per condurti a Foix e così farò.» Bahram schioccò la frusta sulla schiena del cavallo e il carro, cigolando, si mise in marcia. «Tira fuori quel tuo strumento», disse Bahram indicando la custodia della ghironda, «e vediamo cosa ti ha insegnato il maestro.» Aymon ubbidì senza fiatare: suonare era sempre un piacere per lui. Quando la melodia si spense, Bahram abbandonò le briglie e prese ad
applaudire tanto sonoramente da coprire il russare della moglie, che dormiva ubriaca sulla branda all'interno del carro. «Bravo! E ora ti dico di me. Il mio, Maxim», Bahram chiamò Aymon con il nome che il ragazzo gli aveva dato, «è un nome ricco di storia e di onore, quello di un antico re persiano, Bahram Gur, che cercava musici e saltimbanchi per rallegrare le sue giornate. Per trovarli chiese aiuto al suocero, il re indiano Sankàl. Fu grazie a lui che alcune migliaia di miei antenati giunsero in Persia. Noi apparteniamo al popolo dei luri e si dice che ben pochi musici riescano a competere con il nostro talento. Dalla Persia alcuni di noi si misero in viaggio e divennero i nomadi che qui in Europa sono chiamati atsigani.» Bahram tacque all'improvviso, impallidendo: due soldati a cavallo erano passati al galoppo di fianco al carro e altri si scorgevano poco lontano, lungo la strada. «Presto, nasconditi qui dentro, ragazzo», disse sollevando una tavola che celava un nascondiglio segreto posto sotto la cassetta, abbastanza grande da contenere un uomo rannicchiato. «Resta in silenzio sino a che non ti dirò di uscire. Sono certo che fermeranno il carro per perquisirlo.» «Ma guarda chi si rivede», disse uno dei crociati riconoscendo Bahram, «il nostro musico vagabondo. Cosa fai qui? Non avevi detto di voler restare in città ancora per diversi giorni? Come mai sei partito così di furia?» «Magri affari, soldato», rispose Bahram. «La gente di Carcassonne sembra che abbia la borsa cucita, e mia moglie e io viviamo solamente della benevolenza altrui.» «Dove stai andando, di grazia?» «Non lo so di preciso, mi lascerò guidare dal mio vecchio ronzino», mentì lo zingaro. Foix era ancora nelle mani dei ribelli: era meglio non far sapere che era diretto in terra nemica. «Bene. Comunque, i miei uomini dovranno ispezionare il carro.» «Fate pure: vedrete che porto solo merce avariata. E la mia sposa ne è l'esempio luminoso», rispose Bahram suscitando l'ilarità dei soldati. Un'altra risata si levò dalla soldataglia, quando la moglie di Bahram reagì con un sonoro rutto al brusco risveglio. «Avete per caso visto un ragazzino che porta uno strumento da musica a tracolla? Il suo nome è Aymon», chiese il comandante del drappello. «Non ho incontrato anima viva da quando ho lasciato Carcassonne. Ma, se non sono irrispettoso, posso chiedere perché degli eroici crociati sono
alla caccia di un giovanetto?» «Simone di Montfort in persona ha dato ordine di trovare quel ragazzo, costi quel che costi: si dice che sia il nipote di Beaufort di Daigne e che il nonno, prima di venir catturato, lo abbia messo a conoscenza di un importante segreto. Se mai ti dovesse capitare di incontrarlo, trova il modo per condurlo in città, anche in catene: c'è una ricca taglia su di lui.» Ciò detto, i soldati lasciarono il passo al carro. «Lo farò di sicuro, signore, se ne avrò l'occasione.» Quindi Bahram spronò nuovamente il ronzino e il carro si allontanò dal posto di blocco. «Maxim, vero?» disse lo zingaro puntando un dito verso il ragazzo. «Tu non ti chiami affatto Maxim, ma Aymon, e sei il nipote di Beaufort, il terrore dei crociati. E se ora tutti gli uomini di Simone di Montfort ti stanno cercando, non so davvero come riusciremo a sfuggire loro e a raggiungere sani e salvi Foix.» Aymon non rispose e rimase a osservare il nomade, che sembrava assorto nei suoi pensieri. «Bene», riprese Bahram, «dato che ho scoperto chi sei, credo che il mio compenso debba essere rivisto. Sarai tu stesso a sdebitarti con me. Noi siamo dei musici e tu sembri molto bravo con la ghironda. Ci esibiremo insieme sulle piazze e nelle strade. Per tutti sarai nostro nipote e rimarrai con noi fino a quando io deciderò che mi avrai ripagato. E non tentare di fuggire, sarebbe peggio per te perché finiresti tra le mani dei soldati di Montfort, mio bel visconte di Daigne.» Quella notte, nell'angusto e maleodorante spazio del carro, Aymon si rese conto di essere ormai solo al mondo. Nascose il volto nell'incavo del gomito e si abbandonò a un pianto silenzioso e disperato. «Venite, signori, a deliziarvi con la musica del mio giovane nipote Maxim!» Bahrain si era ripulito e indossava un abito di velluto rosso. Anche la moglie, per una volta sobria e vestita con cura, dispensava grandi sorrisi ai passanti. «Dio ha voluto regalarci il talento di nostro nipote e noi vogliamo condividerlo con voi. Venite a sentire le sue canzoni. Venite a dilettare il vostro udito con le note più belle che mai abbiate avuto modo di ascoltare. Non costa nulla: se volete e se sarete soddisfatti, lascerete solo il vostro obolo.»
Il lato del carro esposto al pubblico era stato coperto con un panno color porpora disposto a guisa di fondale di scena. Lì era seduto Aymon con la ghironda sulle ginocchia. Alla sua destra Bahram lo avrebbe accompagnato con un barbat, comunemente chiamato oud', un antico strumento persiano simile a un mandolino, le cui corde venivano toccate con un plettro di penna d'aquila. Lo zingaro aveva anche un flauto di Pan che stava appoggiato su uno sgabello al suo fianco. Dalla parte opposta del piccolo palcoscenico prese posto Sarya, la moglie del nomade. La donna possedeva una voce calda e melodiosa, adatta ad accompagnare le canzoni di Aymon con un soave controcanto. La piazza principale di Limoux era gremita: la gente, stremata dalla guerra, era accorsa ad assistere allo spettacolo, desiderosa di dimenticare per un po' gli stenti e la paura. L'Aude scorreva placido a poca distanza. Aymon, fatta eccezione per brevi esibizioni nel castello del nonno, non aveva mai suonato in pubblico. Dovette fare uno sforzo per vincere l'emozione, ma infine sfiorò le corde e intonò la prima canzone. Non appena le note si diffusero nell'aria, avvenne qualcosa dal sapore magico: sulla piazza il brusio del pubblico cessò di colpo e, nel silenzio, le sole voci che si levarono furono quelle di Aymon e di Sarya. Aymon alternava canzoni sacre a ballate che narravano di amori tra prodi cavalieri e nobili principesse. Il pubblico era catturato e quando, tempo dopo, i musici tacquero, gli astanti, in preda all'entusiasmo, chiesero che il terzetto continuasse a suonare. «Sessanta tornesi!» esclamò estasiato Bahram. «Tu e io da soli, moglie mia, non riusciamo a racimolarne più di cinque o sei quando va bene. Quel ragazzo è una vera benedizione per noi.» Così dicendo l'uomo chiuse gli scuri in legno dell'unica finestra della loro casa viaggiante e si coricò soddisfatto di fianco alla moglie. Aymon, dal canto suo, dopo essersi arrovellato per giorni su quale decisione dovesse prendere, era giunto a una conclusione. Bahram aveva ragione: i soldati cercavano un ragazzo, e se lui avesse abbandonato i due zingari sarebbe stato individuato in un baleno. E poi, dove andare? Possedeva solo i pochi spiccioli che gli aveva lasciato Puyol, non conosceva la regione e, una volta arrivato a Foix, non era certo che i suoi parenti lo avrebbero accolto a braccia aperte. E poi, per quanto tempo ancora Foix sarebbe riuscita a resistere alle truppe di Simone di Montfort?
Il fatto di viaggiare con una coppia di giramondo e di apparire come un povero menestrello lo avrebbe salvato dalle lance dei soldati cristiani. Aymon impugnava un palo di legno come fosse stata una spada e, nello spiazzo antistante il carro, si stava esercitando nelle mosse di attacco e difesa che gli aveva insegnato nonno Beaufort. Bahram era rimasto a osservarlo in silenzio. Poi, alla fine dell'esercizio, si era lasciato andare a una esclamazione ammirata. «Vedo che con la spada sei abile come con la ghironda, Aymon», commentò. «Mio nonno trascorreva intere giornate a insegnarmi i segreti della scherma. Peccato non avere una vera spada: con un pezzo di legno non è la stessa cosa, ma non ho trovato di meglio per allenarmi.» «Vuoi dire che ti eserciti spesso, Aymon?» «Certo, tutti i giorni. Ogni volta che posso. Ma devo conciliare gli esercizi musicali con quelli del corpo.» «Sei un bravo ragazzo, mio giovane amico. E un giorno raccoglierai i frutti del tuo impegno. Ora però vieni dentro, voglio mostrarti una cosa.» Bahram armeggiò attorno a un nuovo stipo nascosto ed estrasse dal fondo del pavimento un involto di stracci. Davanti agli occhi del giovane, sbarrati per lo stupore, apparve una spada bellissima: non molto lunga, con un grosso smeraldo incastonato sulla sommità dell'elsa, finemente lavorata a sbalzo in lamina d'oro. L'arma, leggera e maneggevole, aveva la forma di una mezza luna. Bahram la tenne alcuni istanti tra le mani, quindi la porse ad Aymon, che era rimasto senza parole. «È un'akinakes, un'arma usata dagli sciti in Persia. Puoi usare questa per i tuoi esercizi, ragazzo, se vuoi.» «È bellissima. Starebbe bene al fianco di un cavaliere o di un principe. Chi te l'ha data?» «È mia da sempre e per nulla al mondo mi separerei da lei. Un giorno ti racconterò la mia storia, ma ora dobbiamo mangiare e poi andarcene: non voglio che la nostra presenza incuriosisca troppo i soldati della guarnigione.» «Basta parlare, voi due!» gridò Sarya mentre girava il mestolo nel tegame sul fuoco. «Venite a mangiare. Per una volta che ho deciso di comprare un pollo invece di una buona bottiglia di vino, non me ne vorrei pentire. Forza, saziate il vostro appetito. Con lo stomaco pieno viaggeremo me-
glio.» Pareva che l'arrivo di Aymon avesse portato una ventata di buon umore nella vita dei due nomadi: Bahram ora si era rasato e ripulito, e la moglie si teneva lontana dal vino ormai da diversi giorni. Inoltre i tre avevano ridipinto di bianco il carro che aveva assunto un aspetto più lindo e ordinato. Passavano di paese in paese, senza mai fermarsi per più di una rappresentazione: non sempre il loro pubblico era generoso come lo era stato quello di Limoux, ma gli incassi erano spesso buoni e i tre ora si potevano anche concedere qualche piccolo lusso. Per il giovane Aymon i giorni volavano, mentre gli sembrava di avere finalmente trovato la famiglia che aveva sempre desiderato. Nonno Beaufort era stato un parente affettuoso, ma con la guerra, era diventato sempre più difficile che i due riuscissero a trascorrere insieme momenti spensierati. Spesso il ragazzo restava solo con le donne di casa, tormentandosi per non essere abbastanza grande da poter combattere anche lui. Poi, quel giorno a Carcassonne, tutto era finito. «Che ti succede, Aymon? Il tuo viso si è rabbuiato», gli chiese Bahram non appena ebbero finito di mangiare. «Stavo pensando a mio nonno. La sua morte pesa sulla mia coscienza come un macigno.» «Dovrai abituarti a vivere con questi pensieri. Ora sei triste, ma non devi addossarti colpe che non hai. Beaufort di Daigne era un soldato e sapeva bene che avrebbe corso molti rischi a recarsi a Carcassonne. Era convinto che ne valesse la pena.» Bahram tacque, ma vedendo che il giovane era turbato, riprese. «Tuo nonno sapeva che la sua era una guerra persa: un manipolo di catari, anche se bene addestrati e conoscitori di ogni anfratto nella zona, non poteva tenere testa per molto tempo a un esercito. E ha voluto fare in modo che tu potessi vivere la tua vita.» «Che cosa vuoi dire? Se non avesse deciso di accompagnarmi da Puyol, nessuno sarebbe mai riuscito a catturare nonno Beaufort.» «Lo credi davvero, mio giovane amico? Ora ti racconterò ancora un po' della mia storia e vedrai che nessuno è infallibile, nemmeno gli eroi. La scorsa notte Sarya e io ti abbiamo sentito singhiozzare. Ma non devi essere triste. Voglio che tu sappia che, da quando sei con noi, la nostra vita ha finalmente un senso. Purtroppo non siamo mai riusciti ad avere un figlio al quale tramandare esperienze e insegnamenti, e questo dolore ci stava por-
tando alla rovina. Hai visto come è cambiata mia moglie? E anch'io ho ritrovato la voglia di vivere, di suonare, di girare il mondo. Insomma, tu ci hai restituito dignità e pace. E non credere che la dignità si possa trovare più facilmente alla corte di un re che su un carro di nomadi. Ma adesso basta con i sermoni. Sei pronto ad ascoltare le gesta di un vecchio zingaro?» Aymon annuì e si sedette più comodo, accoccolandosi a cassetta, mentre Bahram iniziava a raccontare. Il vecchio cavallo trainava il carro nella notte con un moto lento e costante. 12 Germania, anni '30 Karl Maria Wiligut non era solo un cultore di esoterismo. Era un austriaco che fin dalla più giovane età si era votato all'Irminismo, un gruppo convinto che la Bibbia fosse stata scritta in Germania per mano di una divinità chiamata Krist. I cristiani e gli ebrei erano visti come usurpatori che si erano proditoriamente appropriati della paternità del libro sacro. Wiligut sosteneva di discendere - per linea paterna - dall'unione tra una divinità dell'aria e una dell'acqua chiamate Asen e Wanen. Sua moglie, impotente di fronte al delirante fanatismo del marito, era riuscita a farlo chiudere in una casa di cura per malattie mentali, e lì era rimasto dal '24 al '27. Una volta dichiarato guarito da una grave forma di megalomania, aveva però ripreso i contatti con gli innumerevoli discepoli e ammiratori. Dopo aver assunto lo pseudonimo di Weisthor, aveva giurato a se stesso che il mondo intero avrebbe presto dovuto riconoscere la validità delle sue teorie. Heinrich Himmler era uscito indenne dalle retate che erano seguite al fallito Putsch di Monaco. Non solo gli era stata risparmiata la prigione, ma, sul finire degli anni '20, era diventato capo delle SS. La passione per il culto delle origini e per i riti misterici ed esoterici che coltivava da sempre sarebbe diventata un'autentica ragione di vita dopo l'incontro con Karl Maria Wiligut-Weisthor. Il brillante e attraente ufficiale Reinhard Tristan Eugen Heydrich era stato costretto ad abbandonare la marina militare nel 1930. Nel dicembre di quell'anno si era sposato con la figlia diciannovenne di un aristocratico decaduto e i due giovani coniugi avevano vissuto i primi
tempi della loro unione in uno stato d'indigenza quasi assoluta. Poi, nel 1931, su suggerimento di un comune amico, Heydrich fu chiamato a lavorare per Heinrich Himmler. Al capo delle SS servivano giovani disposti a tutto per mettere in piedi una efficiente rete di controspionaggio. «Perché, Herr Heydrich, avete abbandonato la marina?» gli aveva chiesto Himmler, osservandolo con i suoi occhi sottili da dietro gli occhiali cerchiati. «È una vicenda personale, comandante, se non vi dispiace preferirei non parlarne.» «È bene che sappiate fin d'ora che tra me e i miei uomini, Herr Heydrich, non devono esistere segreti di sorta. Né faccende personali.» «Quando ho incontrato Lina von Osten, mia moglie, ho abbandonato la mia precedente fidanzata, che era la figlia di un importante industriale, amico intimo dell'ammiraglio Raeder, il comandante in capo della marina. Il congedo è stata la punizione per il mio comportamento.» Ma Himmler aveva già preso le sue informazioni: «A me risulta, signore, che la giovane da voi delusa e abbandonata fosse incinta di un vostro erede». «Vedo che non vi si può nascondere nulla, comandante», borbottò Heydrich senza riuscire a celare l'imbarazzo. «Vicende amorose a parte, Herr Heydrich, io vi considero una persona dotata di grandi qualità e, se vi unirete a noi, farò in modo di assegnarvi un incarico di rilievo.» Erano in molti a sostenere che Himmler, a causa dei suoi tratti somatici, tradisse una contaminazione da sindrome di Down. Heydrich lo osservò: quell'uomo, del quale, nonostante il suo aspetto, era difficile pensare che non fosse dotato di una mente pronta e di una pericolosa scaltrezza, gli stava offrendo il futuro. Nel luglio del 1931, Reinhard Heydrich si arruolò nelle SS. Quanto a Rudolf Hess, era giunto per lui il momento di ricevere il premio alla sua incondizionata fedeltà ad Adolf Hitler. Sebbene Hess fosse riuscito a sfuggire all'arresto dopo il colpo di Stato del 1923, egli si era costituito spontaneamente per poter restare vicino a Hitler durante i nove mesi della sua prigionia nel carcere di Landsberg. Nel corso di quel periodo lo aveva assistito nella stesura del Mein Kampf, la futura bibbia dell'ideologia nazista. Anche Hess subiva il fascino delle scienze esoteriche ma, a differenza di
Himmler, aveva sempre mantenuto un atteggiamento pragmatico e concreto. Hess, nel '28, si era adoperato affinché il figlio di un suo amico fosse nominato segretario della Società nazionale geografica. Colui che avesse ricoperto quella carica avrebbe potuto svolgere viaggi e ricerche in ogni angolo del mondo. Nel corso dei suoi spostamenti, Albrecht Haushofer questo il nome dello studioso - si mise a raccogliere informazioni riservate di ogni genere che poi inviava direttamente al delfino di Hitler. Dal canto suo, Rudolf Hess utilizzava tali informazioni per ordire il piano che da tempo aveva in mente. Per contro, in cambio dei suoi servizi, la spia ottenne una «dimenticanza» riguardo alle origini ebraiche degli Haushofer e, in seguito, una prestigiosa cattedra universitaria. Roma, anni '30 Il nunzio apostolico Eugenio Pacelli, nel 1925, era stato trasferito da Monaco alla più prestigiosa sede di Berlino e vi era rimasto per quattro anni. Rientrato a Roma nel 1929, papa Pio XI lo aveva nominato cardinale e segretario di Stato. Fu proprio a causa della sua esperienza personale che il nuovo prelato si mostrò da subito molto attento alla situazione tedesca. «Ciò che accade in Germania», ripeteva spesso, «estenderà i suoi effetti sul mondo intero.» Il cardinale stava leggendo uno dei dispacci che gli pervenivano settimanalmente da Berlino. «Che cosa ne pensate del Partito nazista, padre Roeller?» chiese Pacelli, guardando da sotto gli occhiali leggeri il suo interlocutore. «Non so, eminenza... Non vorrei addentrarmi in questioni troppo politiche. Ma certo ci vuole qualcuno dal pugno di ferro per rimettere in sesto l'economia del mio Paese, che per troppo tempo è stato in mano a ebrei e comunisti.» «Voi siete il segretario particolare del mio successore, il nunzio apostolico a Berlino», incalzò Pacelli, «ed è giusto che abbiate un'opinione personale. Ad esempio, che ne dite di quanto mi scrive sua eminenza il nunzio apostolico, circa questa passione per l'esoterismo nutrita da persone molto vicine ad Adolf Hitler? Voi conoscete qualcuno tra quei maghi e falsi pro-
feti che pare seguano passo passo personaggi come Himmler e Hess? Sapete chi sia questo Karl Maria Weisthor, padre Roeller?» «Non lo conosco, eminenza. Inoltre il nostro abito impone anche a me di non schierarmi in favore di nessuno, se non di nostro Signore, grande e misericordioso», disse il prete, inginocchiandosi in attesa della benedizione del cardinale. Eugenio Pacelli fece il segno della croce e congedò padre Roeller. Quell'uomo non gli piaceva, aveva qualcosa di sfuggente, pensò mentre osservava Roeller che si allontanava. Wewelsburg, anni '30 «Grazie per essere venuto, Reichsführer Himmler», disse Karl Maria Weisthor, alzando la mano nel saluto nazista. «Quello che abbiamo scoperto nel corso degli scavi è del tutto singolare, signore. Sarebbe forse meglio ne discutessimo in privato.» «Non ho segreti per il camerata Heydrich», rispose Himmler indicando l'uomo che lo aveva accompagnato in quel viaggio nella Vestfalia Nordoccidentale. L'imponente edificio alle loro spalle era poco più di un rudere, ma Himmler si era infatuato del castello di Wewelsburg dalla prima volta che l'aveva visto e, sicuro di riuscire a entrarne in possesso, aveva dato avvio ai lavori di ripristino. Il maniero risaliva al X secolo, all'epoca in cui i germani, sotto la minaccia degli unni, avevano costruito sulla collina del Wewelsburg una roccaforte che li avrebbe difesi dagli attacchi dei barbari. Si diceva che tra le sue mura, sin dai tempi più antichi, avessero luogo oscuri riti esoterici e che il castello facesse parte di una grande rete di manieri e di monasteri sedi di culti profani. Verso la metà del XIX secolo il maniero, ormai abbandonato e fatiscente, era stato acquistato dallo Stato prussiano. «Signore, ho qualcosa da mostrarvi che credo vi interesserà», disse Weisthor, porgendo a Himmler alcuni fogli ingialliti sui quali erano tracciati segni e lettere. «Sembra uno spartito musicale», disse Himmler, esaminandoli. «Per l'esattezza, è una parte di una canzone medievale. Meglio, una cansò, come erano soliti chiamarla i trovatori di Occitania.» «Trovatori di Occitania? In Vestfalia?» chiese l'altro, scettico.
«Non è l'unica singolarità dello spartito, eccellenza. Voi mi avete fornito la manodopera per eseguire dei lavori di manutenzione e io mi sono permesso di fare svolgere delle ricerche in punti che reputavo di particolare interesse geomantico: l'intera struttura del Wewelsburg è un vero e proprio esempio di come l'architettura possa essere messa al servizio della magia. Prova ne è la planimetria stessa del castello, che ha la forma di una freccia rivolta verso nord. Il caso ha voluto che lo scopritore di questo frammento fosse un esperto di musica antica. Quando abbiamo trovato lo spartito nascosto in una nicchia murata, egli ha provato a interpretare la composizione con una chitarra, ma si è accorto subito che qualche cosa non andava: alcune note non sono al posto giusto, e gli errori appaiono fin troppo grossolani. «Alla fine, abbinando le lettere alfabetiche a un sistema che i musici medievali chiamavano delle cinque dita o della main guidonienne, sono emersi alcuni frammenti di un messaggio. Una specie di codice segreto. Il giovane studioso assicura di non essere distante dalla sua decifrazione, ma preferirei consegnare a voi il manoscritto perché lo sottoponiate ai vostri esperti a Berlino.» Il ritrovamento di antichi reperti era, per Himmler, un'esperienza esaltante: ora i suoi occhi brillavano per l'eccitazione. «Si tratta, però, di un frammento, avete detto, Herr Weisthor?» chiese Heydrich. «Sì, signore. Crediamo che sia solo la prima parte della canzone. Siamo alla ricerca della seconda metà del documento. Speriamo si possa trovare tra queste mura ma, sino a ora, le nostre ricerche sono state infruttuose.» «Cercatelo, Weisthor, e tenetemi informato. Se lo credete necessario, posso fornirvi altri uomini. Nel frattempo farò esaminare il frammento. Voi occupatevi della ricerca del tassello mancante di questo rompicapo.» Himmler si volse verso le rovine che si stagliavano contro il rosso di un tramonto infuocato: l'attrazione incontrollabile che aveva provato per il castello di Wewelsburg a un tratto aveva assunto un senso. Il maniero doveva essere suo, ora più che mai. Berlino, anni '30 Il telefono sulla scrivania di Himmler, nell'ufficio al numero 9 di Prinz Albrechtstrasse a Berlino, prese a squillare. «Heil Hitler, comandante Himmler. Sono il colonnello Dieter, del Tech-
nische Ausrüstung und Maschinen.» «Heil Hitler, colonnello», rispose Himmler con il consueto tono freddo e distaccato. «Volevo aggiornarvi in merito a quella composizione musicale in provenzale antico.» «Ditemi, colonnello. Siete riusciti a decifrare il codice?» «In parte sì, Reichsführer, anche se ci sono ancora dei passaggi poco chiari. Da quello che siamo riusciti a intuire, il messaggio celerebbe l'ubicazione del nascondiglio di una misteriosa pietra, venerata sin dai secoli più antichi. Un frammento di roccia che avrebbe il potere di uccidere chiunque abbia la sfortuna di toccarla o anche solo di guardarla.» «E dove si trova una tale arma?» «Non c'è dato modo di saperlo, eccellenza. È probabile che questa informazione sia celata nell'altro frammento di canzone, quello di cui non siamo in possesso.» «Che cosa ne pensate, colonnello? Datemi il vostro parere, a me sembra una storia incredibile.» «Non saprei, signore... Alcune volte compaiono le parole 'puro' e 'perfetto'. Entrambe sono correlate alla religione catara, un'eresia che percorse la Francia nei primi secoli del millennio. Si dice che i catari fossero i custodi di antichi segreti e che il vero motivo per cui il papa organizzò la crociata fosse quello di scoprire il nascondiglio del Santo Graal.» Poche ore più tardi due persone erano sedute dinanzi a Himmler. Uno era Reinhard Heydrich, l'altro era una vecchia conoscenza di Himmler che aveva da poco abbracciato la causa della Società di Thule. Hermann Pohl aveva sciolto la setta da lui creata, l'Ordine dei cavalieri teutonici e del Santo Graal, per confluire con i suoi numerosi adepti nella Thule. «Mi sono rivolto a voi perché venite considerato una assoluta autorità in materia. Che cosa può esserci di vero nel testo che forse è occultato tra le note della canzone medievale?» chiese Himmler a Hermann Pohl. «Io sono uno studioso di una certa esperienza, signore», rispose Pohl. «Le mie conoscenze poggiano sull'analisi dei documenti reali e tangibili. Ma esistono reliquie che nessuno ha mai visto, delle quali non vi è traccia, e che sono ammantate da un alone di leggenda. Voi non avete bisogno di me, quanto di una persona che sappia destreggiarsi tra reperti e ricerche archeologiche. Ho un caro amico che vive in Francia da qualche anno e che credo potrebbe esservi utile. In questi giorni si trova qui a Berlino per cer-
care fondi con i quali proseguire il suo lavoro in Linguadoca e per trovare un editore che voglia pubblicare un suo saggio sul Graal. Si chiama Otto Rahn.» «Sarebbe interessante incontrare questo signor Rahn. Mi auguro che non mi voglia rifiutare un invito a cena nei prossimi giorni», concluse Heydrich. Il tono era quello di chi sa di poter ottenere qualunque cosa. Otto Rahn era un uomo dall'aspetto solo in apparenza mite: non molto alto, snello, scuro di capelli, la fronte alta, dava la sensazione che i suoi muscoli - meglio sarebbe stato chiamarli fasci di nervi - fossero in continua attività. Aveva accettato l'invito in uno tra i locali più eleganti di Berlino convinto di trovarsi davanti un potenziale editore per la sua Crociata contro il Graal: questo almeno Pohl gli aveva fatto credere quando lo aveva contattato. Riconobbe Himmler e Heydrich non appena il maître lo condusse nella saletta privata del ristorante Horcher. «Accomodatevi, Herr Rahn», disse Himmler, indicando una sedia libera tra lui e Pohl. Lo studioso sedette, perplesso per quella strana convocazione. Due delle persone sedute al suo tavolo erano tra le più in vista dell'intera Germania. Otto Rahn non si era mai interessato di politica, né aveva sostenuto in alcun modo il nazismo, anche se ammetteva che il suo Paese, negli ultimi anni, stava cambiando in meglio. Di questo c'era da render merito al partito di Adolf Hitler. «Vi abbiamo chiesto di accettare il nostro invito, signor Rahn», esordì Reinhard Heydrich dopo le presentazioni e i consueti convenevoli, «perché ci risulta che voi abbiate scritto un saggio molto interessante sul Santo Graal.» Heydrich, parlando, aveva estratto da una borsa una pila di fogli scritti a macchina. Rahn li riconobbe subito: era una copia del dattiloscritto che aveva inviato agli editori. «Vedo che vi siete documentato, Herr Heydrich», disse Otto Rahn, sempre più stupito. «Certo, per noi è molto importante sapere come lavorano gli uomini con cui vogliamo collaborare. Sia io che il comandante Himmler abbiamo letto il vostro studio e lo abbiamo trovato assai pregevole. Siamo sicuri che presto riceverete un'offerta lusinghiera per la sua pubblicazione.» Era evidente che i due nazisti avevano già trovato chi avrebbe pubblicato il saggio. A
Rahn fu chiaro che erano sul punto di proporgli uno scambio. Himmler giunse al dunque con il consueto modo autoritario: «Vorrei la vostra personale opinione sul Santo Graal, Herr Rahn. E per personale intendo scevra dagli orpelli romanzeschi o retorici con i quali gli scrittori amano farcire i loro racconti». «Voi avete centrato il punto, signore. Da sempre il Santo Graal è al centro di opere letterarie dagli alterni successi. Dal Parzival di Wolfram von Eschenbach all'intera epopea arturiana, per arrivare fino alle opere degli scrittori contemporanei, la storia del Graal è stata sfruttata per suscitare l'interesse e la curiosità del pubblico. Nulla di tutto questo è però attendibile sotto l'aspetto scientifico, signori. A seguito di anni di ricerche, sono giunto alla conclusione che ciò che viene chiamato il Graal potrebbe essere un oggetto precristiano la cui origine si perde nella notte dei tempi e che è diventato un simbolo proprio perché misconosciuto. Naturalmente, signori, queste mie convinzioni sono solo accennate nel mio testo, e sono certo che non sarà necessario far leva sulla vostra riservatezza per sottolineare la confidenzialità della nostra conversazione.» «Andate avanti, Rahn», disse Heydrich. «Il Graal non è un vaso o un calice dal quale Cristo bevve prima di morire o nel quale Giovanni d'Arimatea raccolse alcune gocce del sangue di Gesù mentre questi agonizzava sulla croce. Non è neppure un prezioso smeraldo persiano dai poteri magici, trasportato dalle sabbie africane sino alle roccaforti catare. Il Graal è una pietra, ma non possiede qualità magiche. O meglio: i poteri di questo oggetto potevano essere considerati magici nell'antichità. Oggi, in epoca moderna, noi preferiamo dare a certi fenomeni spiegazioni razionali.» «Ovvero?» «Dalle informazioni che ho raccolto, e si è trattato per lo più di voci, leggende, racconti tramandati di padre in figlio, si direbbe che tutto vada verso la stessa direzione: il potere della pietra è quello di uccidere chiunque abbia la sventura di vederla. Ciò significa che è in grado di emettere radiazioni letali.» «Voi avete idea di che materiale possa trattarsi?» chiese Himmler incalzandolo. «Gli esperimenti di Rutherford o quelli più recenti di Chadwick e Feather, gli studi di Fermi o quelli di Curie sono di pubblico dominio, signori. Sappiamo che il mondo minerale deve ancora essere esplorato come il più profondo degli oceani, ma le particelle radioattive alfa sono ormai un
dato di fatto. Non sappiamo ancora con esattezza quali danni possa provocare sul fisico umano una irradiazione massiccia di particelle radioattive. Né siamo in grado di spiegare come si trovi, in natura, la concentrazione massima di quei minerali. Nascosto da qualche parte nella Linguadoca, tra gli impervi picchi o i resti dei manieri che furono i rifugi dei catari, sono convinto si trovi un'alta concentrazione di materiale radioattivo. Per due anni ho setacciato la zona con uno strumento di precisione che Geiger ha messo a punto una quindicina di anni fa. Ma, per ora, i miei risultati sono stati deludenti. Malgrado ciò, rimango delle mie convinzioni.» «Siamo d'accordo con voi, Herr Rahn. Per questo vi chiediamo di lavorare per noi.» La domanda di Himmler assomigliava in tutto e per tutto a un ordine. 13 Teheran, 2006 «Un bluff!» Gholam Pashelvi era terreo. L'ira, per alcuni istanti, gli impedì di parlare. Poi l'ayatollah si accarezzò la barba scura e ispida, si sistemò con un gesto meccanico gli occhiali e quindi esplose come una pentola a pressione. «Com'è possibile che sia stato tutto un trucco per fare colpo sul mondo occidentale e far lievitare il prezzo del greggio?» Nard Sourush gli stava davanti con l'espressione di una tigre addomesticata redarguita dal proprio domatore. «Tenga conto che la messinscena ha fruttato miliardi di dollari che ora sono al sicuro nelle casse del nostro Paese. Ogni volta che si parlava di minaccia nucleare, il prezzo del greggio aumentava di qualche dollaro a barile. Per l'Iran è stata come una manna. Eccellenza, non me la sento di condannare il suo predecessore per una bugia che ha portato alcuni miliardi di dollari nelle casse del Paese. E non dimentichiamoci che quei denari, sporchi del sangue degli infedeli, sono serviti a finanziare i nostri fratelli...» «Uno stupido bluff», ripeté ancora Pashelvi, incapace di scuotersi da quello stato quasi catatonico. «La potenza nucleare iraniana è soltanto uno stupido bluff.» «Esatto, eccellenza. Con l'energia prodotta dalle nostre favolose centrali nucleari, potremmo forse accendere un fiammifero, solo dopo averlo stru-
sciato sulla cartavetrata, si intende.» «Gli impianti di Bushehr, Ahwaz e quello di Isfahan... il vanto della tecnologia nazionale... un monito per ogni infedele...» «Non vorrei che le mie parole suonassero come irriverenti, eccellenza. Ma, da persona a lei devota sino alla morte, preferisco dirle esattamente come stanno le cose: i nostri stabilimenti più moderni non hanno un grammo di materiale fissile o altri componenti radioattivi. Sono solo degli immensi set cinematografici, dove le comparse si aggirano fingendo di essere indaffarate, per gettare fumo negli occhi a ogni eventuale osservatore. Anche gli ispettori internazionali che hanno visitato gli impianti sono stati ingannati con abili trucchi.» Lo sguardo di Pashelvi si fece improvvisamente attento e l'uomo si raddrizzò sulla sedia, riscosso dal suo stato di torpore. «Aspetta un momento...» disse il presidente iraniano, «... aspetta un momento... Forse potremmo rivolgere questa situazione a nostro favore.» Roma, 2006 Sara Terracini, in piedi di fronte al leggio, stava concludendo il suo discorso. Il grande salone della villa settecentesca nei pressi di Roma era gremito. «Siamo quindi pronti a restituire al mondo intero questi sensazionali reperti», disse la studiosa, mentre alle sue spalle alcune foto di statue, affreschi e vasi antichissimi venivano proiettate su uno schermo gigante. «E per questo devo ringraziare la Fondazione van der Duick di Asunción, senza il cui aiuto sarebbe stato impossibile portare a termine gli scavi. Credo che oggi si sia aperta una nuova finestra sulla vita quotidiana dell'antica Roma. Accanto alle città devastate dall'eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo, è venuta alla luce una nuova Pompei. E anche se la sua estensione è di gran lunga inferiore a quella del sito campano, non per questo la scoperta risulta meno importante.» Il Centro diretto da Sara Terracini aveva appena concluso con grande successo la prima fase di un impegnativo lavoro di scavo in Campania durante il quale era stato riportato in superficie un centro termale romano. «So che sembra un paradosso ma, in archeologia, i più tremendi eventi naturali sono quelli che ci danno l'opportunità di ritrovare situazioni inalterate. Così è accaduto per la nostra ultima scoperta, grazie alla quale conosceremo ancor meglio la vita quotidiana dei nostri antenati. Lo smottamen-
to che ha sepolto sotto decine di metri di terra un intero paese lo ha anche preservato delle ingiurie del tempo. Invito ora a parlare il presidente della fondazione che ha permesso tutto ciò. La parola al dottor van der Duick.» Deman van der Duick era un uomo dall'età poco definibile: poteva avere tra i sessanta e gli ottant'anni. Aveva un aspetto mite e cordiale, il naso leggermente aquilino. I capelli erano candidi. Gli occhi chiari erano messi in evidenza da un paio di occhiali leggeri. Si muoveva con un passo atletico e con gesti scattanti, inusuali in un uomo non più giovane. Proveniva da una famiglia di origine olandese che si era trasferita in Paraguay ai primi sentori dell'instabilità che sarebbe sfociata nella seconda guerra mondiale. Qui il giovane Deman aveva incominciato a interessarsi all'estrazione e alla commercializzazione dell'oro e delle pietre preziose. In pochi anni era così diventato il più importante commerciante d'oro e di pietre dell'America del Sud e uno dei più noti nel mondo intero. Era dotato di fiuto infallibile: per ben tre volte, agli albori della sua carriera, van der Duick aveva rilevato concessioni di miniere che si credevano esaurite e che invece celavano nelle loro profondità vene aurifere pressoché inestinguibili. Parlò in un inglese impeccabile, sia pure addolcito da qualche inflessione spagnola. Van der Duick rivolse un cortese saluto ai presenti e si dilungò sulle doti dell'artefice di quella impagabile scoperta: la dottoressa Sara Terracini. Sara fece ritorno nella sua casa del centro storico di Roma che era notte fonda. Le scarpe da sera dai tacchi altissimi le sembravano due morse. Se le sfilò prima ancora di varcare la soglia. Accese il computer mentre si spogliava lasciando scivolare in terra il vestito di seta. Si guardò allo specchio e quello che vide la lasciò soddisfatta: gli anni non avevano per nulla intaccato la morbida tonicità del suo fisico atletico. Quando sedette davanti al computer indossava solo gli slip e il reggiseno: avrebbe impiegato pochi istanti a controllare la posta. Lo scampanellio della macchina le segnalò che anche il suo lontano amico era in linea. Il messaggio che apparve sul monitor la fece sorridere. aveva scritto Oswald Breil. <SÌ, È VERO, NON C'È FRETTA, MA CERTO CHE LASCIARMI COSÌ, DOPO POCHE PAGINE, COL FIATO SOSPESO...> Pochi istanti più tardi Sara premeva il pulsante di invio, e si appoggiava sorridendo allo schienale della sedia. Si tolse gli slip e il reggiseno, attraversò nuda la camera da letto e si infilò sotto la doccia. L'acqua che scendeva a rivoli sulla sua pelle vellutata riuscì a placare l'inspiegabile eccitazione che l'aveva colta. Oswald immaginava Sara dinanzi al computer con gli occhiali appoggiati sul naso e il solito pigiamone di flanella che indossava quando i rigori dell'inverno attanagliavano anche la Città Eterna. «Buona notte, Sara!» sussurrò a bassa voce, mentre si accingeva a leggere quello che la sua amica oltreoceano gli aveva appena inviato. Dall'Agenda di Luca Raso, Amazzonia, maggio 1976 Non riuscivo a spiegarmene il motivo, ma quando questa matti-
na, alle otto, sono entrato nella veranda e ho visto per la prima volta Erick Neumann, non ho potuto fare a meno di pensare al giovane avvocato Jonathan Harker quando giunge al cospetto di Dracula nel romanzo di Bram Stoker. Neumann mi ha accolto con la freddezza di una statua di ghiaccio, e i miei tentativi di mitigare il suo algido comportamento con una calorosa stretta di mano e un sorriso smagliante non hanno prodotto alcun risultato. Il mio ospite porta bene i suoi settant'anni. La pelle del viso è liscia e quasi priva di rughe. Gli occhi grigioazzurri sono vivi e attenti. È alto almeno un metro e ottanta, ha spalle dritte e robuste: sembra un ex atleta che non abbia mai abbandonato l'esercizio fisico. In un ottimo inglese mi ha invitato a sedere al suo tavolo. «Spero che le siano stati comunicati i piccoli accorgimenti che le garantiranno un piacevole soggiorno qui alla Residencia. Sono certo che la mia fedele Agnes le avrà detto dell'assoluto divieto di fare e pubblicare foto non autorizzate. E le devo dire anche che sono poco propenso a trattare argomenti che non siano stati preventivamente concordati. I miei legali concederanno il loro assenso alla pubblicazione della sua intervista solo dopo averla letta.» Ancora non riesco a spiegarmi il motivo di questa idiosincrasia nei confronti di un obiettivo fotografico. In ogni caso, Documento sarà il primo giornale a riuscire là dove molti altri hanno inutilmente tentato. Erick Neumann doveva sbrigare alcune incombenze e, appena conclusa una lauta prima colazione a base di frutta, bevande e patisserie degna del migliore albergo, si è congedato affidandomi alle attenzioni della bella Agnes, che mi ha condotto in visita alla Residencia. Devo dire che il tour si è rivelato molto interessante e la guida gentile e preparata. La Residencia ha una pianta con forma di U rovesciata. Nel corpo centrale, alto tre piani, trovano posto le parti comuni, come l'immensa sala o la veranda dove mi è stata servita la prima colazione. Al primo piano ci sono sei dei nove appartamenti in cui è suddivisa la zona notte. Altri due sono collocati al terzo e ultimo pia-
no, che è occupato in gran parte dalle stanze di Erick Neumann. Nelle due ali speculari che si estendono ai lati del corpo principale per una sessantina di metri, si trovano, a destra, gli uffici di Neumann, la sala riunioni, la segreteria personale del presidente e una grande sala di attesa; a sinistra, gli uffici dell'intero staff dirigenziale di un impero che, mi rendo sempre più conto, può tranquillamente competere con le maggiori multinazionali del mondo. 14 Età dei Metalli, II millennio a.C. Nella lingua dei migos quel monte a forma di cono a doppia punta era chiamato pog. Vi si accedeva attraverso un erto sentiero sconnesso. Tra le due vette, si ergeva una struttura in pietra composta da due grandi massi disposti parallelamente in verticale, ai quali se ne sovrapponeva un terzo, orizzontale. Nel vano che si veniva a creare tra i tre massi, nel periodo del solstizio d'estate, filtrava il sole. Al tramonto, i raggi, passando attraverso l'apertura, disegnavano su una quarta roccia di colore più scuro, posta a ridosso delle altre tre, l'immagine di una farfalla. Questo fenomeno diventava sempre più evidente mano a mano che ci si avvicinava al solstizio per poi esaurirsi di tramonto in tramonto. Intorno a quella imponente struttura, sembrava che la natura avesse costruito una sorta di anfiteatro. Lì si celebravano i riti del matrimonio. Nel momento in cui prendeva forma l'immagine luminosa, le spose transitavano una a una nel passaggio tra il dolmen e la quarta pietra, in modo che l'immagine della farfalla si stagliasse sulla veste candida che indossavano, all'altezza del ventre. Quindi il sommo sacerdote, seduto su uno scranno posto più in alto rispetto al resto dei presenti, pronunciava la formula nuziale. Solo a quel punto i mariti, seduti di fronte alle donne, potevano alzarsi e andare a stringere le loro mani. I migos ritenevano indissolubile l'unione tra uomo e donna: il matrimonio era sacro e l'adulterio veniva punito con l'esilio. Solo a chi fosse rimasto vedovo veniva concesso di convolare a nuove nozze.
Athor stava salendo lungo il sentiero che conduceva al pog con passo rapido. Era come se non sentisse il peso del fardello che portava sulle spalle. Di tanto in tanto si fermava per sincerarsi che Dehal respirasse. Non sapeva per quanto tempo sarebbe rimasta in vita: doveva assolutamente fare presto. Raggiunse l'altare proprio mentre il sole assumeva la colorazione rosso intenso che precede il tramonto e, con un gesto delicato e pieno d'amore, sorresse Dehal nel punto in cui tante volte aveva visto passare le giovani spose della sua tribù. Il raggio attraversò il dolmen e i contorni dorati della farfalla presero forma, sempre più nitidi, sul ventre di Dehal. Quello era il momento in cui il sacerdote doveva pronunciare la formula. Gli occhi di Athor erano gonfi di lacrime, ma la sua voce era ferma. «Io ti sposo, Dehal figlia di Aker, con Athor figlio di Sar. Siate legati dall'indissolubile vincolo da oggi e sino a che avrete vita. E che questa sia ravvivata dal sorriso di molti figli e dalla benevolenza del dio Hosh.» Poi, mentre la voce gli si spezzava in un singhiozzo, continuò: «Se tu dovessi morire, amore mio, giuro che nessuna mai prenderà il tuo posto». Quelle parole, sussurrate all'orecchio di Dehal, compirono il miracolo. Dehal mosse impercettibilmente la testa e cercò di parlare. Athor le accarezzò la fronte madida di sudore. Quindi le mormorò di non agitarsi, che andava tutto bene. Ma il giovane non era affatto tranquillo. Sapeva che ora avrebbe dovuto prendere la via del ritorno, e se anche avesse corso senza sosta, avrebbero raggiunto la grotta a notte fonda. Si caricò di nuovo Dehal sulle spalle, ma non aveva ancora mosso il primo passo, quando udì una voce minacciosa. «Fermo!» I due migos, con le lance puntate, gli avevano sbarrato il passo. La mano di Athor corse istintivamente alla cintura: il pugnale era al suo posto. «Abbassate le armi, migos. Sono un vostro fratello.» «Tu sei un traditore, Athor, e se non ti consegni a noi, ti uccideremo.» Dehal ebbe un sussulto e Athor si chinò per adagiarla a terra. «Ti ho detto di non muoverti!» ripeté minaccioso il migos, avanzando verso di lui. L'altro guerriero era rimasto in posizione di guardia pochi passi più indietro. Entrambi conoscevano bene il coraggio del figlio di Sar. Athor si mosse con la rapidità di una fiera, gettandosi sulla lancia. Le sue mani ne catturarono saldamente la punta di selce, senza curarsi della
ferita provocatagli dalla pietra tagliente. Anzi, la strinse con tutta la sua forza, facendo leva sull'asta. Il migos tentò senza successo di trattenere l'arma. Athor l'afferrò per l'impugnatura e colpì senza esitazione. Il migos strabuzzò gli occhi, mentre la punta gli si conficcava nel petto. Fu questione di attimi. L'altro, quello che avrebbe avuto il compito di coprire le spalle al compare, era rimasto immobile, terrorizzato dalla reazione del figlio di Sar. Fu forse la paura a fargli scagliare il suo giavellotto senza neppure prendere la mira. Per Athor non fu difficile schivare il colpo. Il migos fece due passi indietro. Alzò le braccia in gesto di resa. «Fermo, fratello. In nome di Hosh, non uccidermi!» urlò il migos. Athor esitò il tempo sufficiente perché la mano dell'altro corresse alla cintura e afferrasse il pugnale. Questa volta il migos prese la mira e la lama andò a conficcarsi nella spalla destra del guerriero. Ma sembrava che niente potesse fermare Athor. Il giovane afferrò il coltello per il manico, se lo estrasse dalle carni e con un balzo gli fu addosso: con un colpo preciso, gli recise la gola. Con il cuore in affanno, il guerriero migos quasi non si curò della ferita, ma sollevò la sua sposa e iniziò la lunga discesa verso valle. Era notte fonda quando raggiunse la grotta. Prima di coricarsi deterse con acqua pulita la sua ferita e quelle di Dehal. Quindi medicò entrambe con un impacco di erbe. Sorrise, passando le dita tra i capelli della donna che amava. Athor sedette al suo fianco e le adagiò sulla fronte un impacco fatto di muschio umido e foglie curative intrise d'acqua di fonte. Quindi, sfinito, si assopì. «Dove mi trovo?» mormorò Dehal. Il sole era tramontato e sorto per due volte da quando erano stati sul pog e la giovane non aveva mai ripreso conoscenza. La mano di Athor coprì la sua. «Sei al sicuro, adesso. Ci sono io con te», disse il giovane al quale parve di svegliarsi da un incubo. «Athor...? Sono forse al cospetto del dio Hosh? È dolce morire, se significa vedere esauditi i propri desideri.» La grotta rischiarata dalle torce aveva un aspetto incantato. Le bianche stalattiti scendevano dal soffitto come gigantesche candide cascate. Il baluginare delle fiamme le faceva sembrare in movimento. Anche i disegni sulla volta danzavano tra i riflessi dei fuochi.
«No, Dehal. Sei viva e sei al sicuro con me all'interno di una grotta.» «Vorrei un goccio d'acqua, Athor. Te ne prego.» Il giovane le bagnò le labbra. La donna che amava sarebbe vissuta, ora ne era certo. Il perfido Goreth aveva contato i giorni da quando Athor si era dato alla fuga: ne erano trascorsi più di quaranta e del fratellastro e della sua donna non vi era più stata traccia. Avevano rinvenuto i corpi dei due migos trucidati, ma questo non significava niente: nella foresta avrebbero potuto imbattersi in qualsiasi nemico. A cominciare dai guerrieri davaar. Ora gli mancava solo un oggetto affinché la sua investitura fosse legittimata: il disco di Hosh. Fino a che Goreth non ne fosse entrato in possesso non si sarebbe sentito tranquillo. Il Consiglio dei Cinque anziani gli aveva già chiesto conto di questa inspiegabile carenza: non era mai accaduto che qualcuno si proclamasse re senza possedere il disco di Hosh e senza essere riconosciuto come sommo sacerdote dei migos. Gli anziani avevano convocato Goreth, ricevendo da lui assicurazione che entro breve avrebbe mostrato la legittimità del suo titolo. Ma egli sapeva bene che solo Athor conosceva l'esatta ubicazione del Tempio Segreto dove il disco era custodito. Di fronte alle assicurazioni di Goreth era stato Aker, padre di Dehal e membro del Consiglio dei Cinque anziani, a prendere la parola. «Ormai si sono susseguiti oltre quaranta tramonti da che tuo padre Sar è stato ucciso e tu ti sei proclamato re dei migos, Goreth. E noi siamo ancora in attesa che tu ci presenti la prova...» «Vorresti mettere in dubbio la mia parola, Aker?» «No, voglio solo che la legge venga rispettata.» «E chi è tenuto a far rispettare la legge, se non il re dei migos? Non certo tu, un indovino!» «Non io, Goreth, ma da prima che i padri dei padri dei nostri padri venissero al mondo, chi vuole governare la nostra gente deve dimostrare di conoscere la posizione del Tempio Segreto...» «E difatti io so dove si trova il Tempio di Hosh: mi sono recato lì più volte da quando mio padre è morto. Ho dovuto alimentare i fuochi perenni, altrimenti l'ira di Hosh si sarebbe abbattuta sul nostro villaggio», mentì
Goreth e quindi continuò: «Athor, il traditore, è riuscito a impossessarsi del disco sacro. Chiedo che mi venga concesso il tempo per recuperare il talismano». «Ti è stato lasciato ben più del tempo necessario, Goreth.» «Che cosa dovrei fare? Coniare io stesso un disco di metallo lucente per soddisfare la tua brama di verità? Dimmi tu, saggio Aker, quale potrebbe essere l'alternativa?» «L'unica alternativa è che il posto che spetta al re e sommo sacerdote dei migos venga occupato da chi ne ha titolo.» «Intendi dire che io non posso essere chiamato vostro re?» chiese Goreth, con il volto deformato dall'ira. «Voglio dire quello che ho detto: che sia acclamato re colui che potrà dimostrare di esserlo.» «Ti correggo, Aker: sarà re solo chi riuscirà a detronizzarmi. Sino a quel momento, io sarò il capo della nostra gente e perciò anche il tuo, indovino. Darò ordine che tu venga estromesso dal Consiglio degli anziani e ti avverto che chiunque oserà ancora dubitare di me sarà punito con la morte.» «Portate qui Mizda», ordinò il re alle guardie. Il giovane che aveva contribuito alla liberazione dell'amico Athor fu fatto uscire da una capanna. I lunghi giorni di prigionia avevano lasciato il segno anche sul fisico possente di Mizda. Nella piazza centrale era radunato l'intero villaggio. Sulla destra, disposti poco più in alto rispetto alla platea, stavano i Cinque anziani. Aker avrebbe fatto parte per l'ultima volta della giuria che aveva il compito di emettere la sentenza. Il vecchio indovino sapeva che la sua sarebbe stata l'unica voce dissonante all'interno del Consiglio: anche se a malincuore, gli altri anziani si erano schierati a favore del nuovo re. Goreth era in piedi al centro della piazza. «Quest'uomo si è macchiato della peggiore tra le colpe. Egli ha tradito la sua gente, disubbidendo al re», disse Goreth, rivolto al Consiglio degli anziani. «Chiedo che venga condannato a morte.» «Che cos'hai da dire a tua discolpa, Mizda?» disse uno dei giudici. «Non sono colpevole. Ho voluto salvare la vita ad Athor, figlio di Sar e nostro legittimo re.» «Eri al corrente degli ordini?» chiese ancora l'anziano.
«Sì!» ammise Mizda, mentre un brusio si levava dalla piazza. «Il Consiglio degli anziani ha deciso: sei condannato a morte, Mizda», sentenziò uno dei giudici. «Abbiamo anche accolto la richiesta di Alter, l'unico tra i saggi che è contrario all'esecuzione. Durante il plenilunio il condannato a morte verrà portato dal gran sacerdote all'interno del tempio e qui lasciato al cospetto della Pietra Sacra, affinché il dio Hosh si sazi del suo spirito. Così vuole la nostra legge.» Lo sguardo di Goreth si era fatto cupo: i suoi occhi mandavano lampi di odio nella direzione di Aker l'indovino. «Così sarà», disse Goreth, rivolto all'intera adunata. «Presto la luna sarà piena e io condurrò Mizda al tempio. Dovrà espiare la sua colpa dinanzi a Hosh.» «Cosa mi state dicendo? Che Aker è fuggito?» Goreth era combattuto tra l'ira e la soddisfazione. «Sì, signore. Questa notte Aker l'indovino ha approfittato di un attimo di distrazione delle sentinelle, ha abbandonato il villaggio, e ha fatto perdere le sue tracce.» «Bene, imprigionate le sentinelle per la loro negligenza. Il Consiglio degli anziani verrà spesso chiamato in causa fino a che io resterò il vostro re.» Aker avanzava zoppicando nella foresta. L'indovino sapeva che sarebbe stato pressoché impossibile riuscire a imbattersi in Athor oppure nella sua amata Dehal, ma quella era l'unica cosa che gli era rimasta da fare: non c'era più posto per lui fra la sua gente. Diversi giorni prima aveva avuto un sogno premonitore: aveva visto Dehal sulla cima di un monte. Sua figlia aveva il colore cereo della morte in volto e sembrava fluttuare nell'aria. Non pareva infelice, però, anzi nel sogno aveva pronunciato parole rassicuranti e gioiose. Aker l'aveva vista allontanarsi e, al risveglio, non aveva provato quel senso di angoscia che solitamente accompagnava i presagi nefasti. L'uomo conosceva bene il paesaggio che aveva fatto da sfondo al suo sogno. «Piano, Dehal. Sei ancora debole e non devi fare movimenti bruschi, la ferita potrebbe riaprirsi», aveva detto Athor, mentre la giovane si tuffava
nell'acqua del fiume. «Sono meno debole di quanto immagini, Athor», aveva risposto lei guardandolo con malizia. Erano sulle rive di un luogo del tutto simile a quello in cui avevano fatto l'amore per la prima e unica volta. Sembrava che da allora fosse passato un tempo infinito. La giovane uscì dall'acqua. I seni turgidi si imperlarono di gocce luccicanti. Athor la guardava sorridendo, estasiato. «Che cos'hai da ridere, uomo?» chiese lei indispettita. «Sembri un cacciatore ferito da un cinghiale», disse lui indicando la cicatrice sul fianco di Dehal. «La mia ferita ti impressiona, guerriero?» gli rispose con tono canzonatorio. Athor le si fece vicino, si chinò e la sua bocca esitò sui bordi ormai rimarginati della lesione. Quindi le labbra salirono verso il seno, mentre il respiro di lei si faceva ansimante. Le mani forti di Athor accarezzarono il ventre della donna ancora immerso per metà nell'acqua. Athor la sollevò tra le braccia e le gambe di Dehal lo strinsero ai fianchi. Con un gemito di piacere l'uomo entrò in lei che lo avvolse con il suo desiderio. Athor la condusse con sé nell'estasi. Restarono avvinghiati alla loro passione sino a che il loro respiro non si fece di nuovo regolare. Giocarono come bambini nell'acqua, stuzzicandosi a vicenda. Infine si sdraiarono sulla riva, appagati ed esausti. Poi, d'un tratto, lo sguardo di Athor si adombrò. «So a che cosa stai pensando, uomo», disse lei, leggendo nei suoi pensieri. «E so anche che il tempo è la miglior cura.» «Il tempo e la vendetta», la corresse lui. «Forse il tempo, da solo, sarà sufficiente a cancellare le onte subite.» «Parli con facilità, donna. Ma io non posso dimenticare che un assassino ha attaccato la mia gente e ucciso mio padre, e che un usurpatore sta occupando il posto che spetta a me per diritto e per il sacro volere di Hosh.» «Non roviniamo questo momento, Athor. Sono felice di non essere nel regno degli spiriti e di stare qui, vicino a te. Vorrei... vorrei darti dei figli. Mi piacerebbe crescerli come i nostri genitori hanno cresciuto noi. Ti amo, Athor. Voglio diventare tua moglie.»
«Devo confessarti un segreto, Dehal. Quando sembrava che tu stessi per morire, ti ho caricata sulle spalle e ti ho portata sino al pog.» «Non mi avrai per caso...?» Dehal lo guardava incredula, cercando di non lasciarsi vincere dalla commozione. «Sì, io, sommo sacerdote del dio Hosh», così dicendo Athor prese nelle mani il disco d'oro, «ti ho sposata.» «Tu hai osato approfittare delle mie condizioni...» Dehal si era alzata in piedi. Athor fece per prenderla e lei si tuffò nuovamente in acqua. «Adesso mi porterai di nuovo sino al pog. voglio essere in me quando dovrò consegnare la mia vita a un uomo.» Aker si era appostato nei pressi dell'unico sentiero che conduceva alla vetta del monte sacro, lo stesso che gli era apparso nel sogno. Era convinto che proprio lì, alle pendici del pog, avrebbe riabbracciato sua figlia. Il sole era appena calato quando udì le voci. «Smettila di parlare, adesso: c'è il rischio di imbatterci in qualche pattuglia mandata da Goreth», cercò di ammonirla Athor, ma si dovette arrendere all'entusiasmo della compagna. «Tua moglie, Athor. Sono tua moglie. La moglie dell'uomo che ho sempre sognato.» La sua bocca premette contro quella di lui. Nemmeno il calore di un bacio fu sufficiente a distrarre il guerriero. Athor allontanò Dehal e afferrò il pugnale. «Chi sei? Vieni fuori da lì!» gridò Athor nel buio, in direzione di una minaccia che lui solo riusciva a percepire. «Riponi le tue armi, re dei migos. Sono solo e voi siete ciò che di più caro ho al mondo», rispose una voce amica. Aker, con un sorriso raggiante stampato sul volto rugoso, uscì dalla vegetazione. 15 Linguadoca, 1213 «Il nome del mio popolo», stava dicendo Bahram al ragazzo che lo ascoltava attento, «deriva da quello dei componenti di una setta religiosa che si diffuse secoli or sono in Frigia, una regione dell'Anatolia. Athingani,
che significa 'intoccabili'. Così venivano chiamati i sacerdoti della setta. Ma torniamo alle centinaia di musici che il principe del quale porto il nome richiese al sovrano dell'India affinché allietassero le sue giornate. Una volta morto Bahram Gur, gli atsigani si dispersero un po' ovunque. La maggior parte di noi arrivò in Grecia, un Paese ridente e baciato dal sole, dove, al contrario del resto d'Europa sconvolto da lotte, guerre e miseria, si viveva serenamente e in pace. Ci stabilimmo nell'isola di Skyros e là crebbi, imparando da mio padre sia l'arte della musica sia quella del forgiare il ferro. Quando conobbi Sarya, mia moglie, persi la testa per la sua bellezza. Ed ebbi la fortuna che lei ricambiasse i miei sentimenti. Senonché la nostra isola era governata da una potente casata veneziana, quella dei Ghisi. Un rampollo di quella nobile famiglia si invaghì della mia promessa sposa e una sera, uscendo ubriaco da una taverna, mi sfidò. Per costruire buone armi, bisogna soprattutto saperle usare. Anche questo mi aveva insegnato mio padre. Ebbi ragione del veneziano senza alcuna fatica. Lo ferii solo leggermente, ma il destino volle che, indietreggiando per il mio affondo, il giovane precipitasse da un dirupo, rimanendo ucciso sul colpo. Per questo fui costretto ad abbandonare la Grecia e a fuggire, assieme alla mia donna, verso il continente europeo.» «Continua, Bahram, la storia della tua vita è più avvincente di una favola», disse Aymon, catturato da quel racconto di duelli, fughe e avventure. «Va bene, mio giovane amico. Anche se ormai la memoria comincia a giocarmi brutti scherzi...» «Arrivammo in Ungheria dopo mille peripezie. Sarya e io eravamo stremati e temevamo che i parenti dell'uomo rimasto ucciso ci avessero messo qualcuno alle calcagna. Sulla mia testa c'era anche una cospicua taglia. «Trovammo alloggio presso un nobile di Kaposvár, nella provincia di Somogy. Il signore era imparentato con il re Andrea II che era succeduto a Ladislao. In quel periodo veneziani e magiari erano alle strette, perciò potevo contare sull'appoggio dei locali: nessuno mi avrebbe denunciato ai Ghisi. «Là ripresi in mano le sole cose che sapevo fare bene: suonare e forgiare spade. E non credere che la differenza tra comporre canzoni e forgiare il metallo sia poi così corposa. «Un giorno venne da me il comandante delle guardie e mi commissionò una spada per il suo signore.
«Ero al settimo cielo e fiero di essere stato scelto per quel compito: lavorai a quella spada come se dalla sua fattura dipendesse tutta la mia vita. E in parte fu così. «Venni pagato profumatamente, ma la cosa non mi bastò: avrei voluto ricevere un segno di riconoscimento non solo economico per il mio lavoro. Con il passare dei giorni la speranza di venire convocato a palazzo dal mio committente era ormai scemata, quando, un mattino, un uomo riccamente vestito si affacciò alla porta dell'officina. «'Sei tu il Czigny fabbro?' mi chiese. «Czigny è il nome con cui i magiari chiamano la mia gente. «'Sì, signore, per servirvi!' Un cliente di tale eleganza mi avrebbe sicuramente affidato una ricca commessa. «'Questa', disse l'uomo, estraendo la spada da sotto il mantello, 'non è ben bilanciata.' «Solo allora, riconoscendo la spada, seppi chi era l'uomo che avevo davanti. «'Lasciatemi vedere, mio signore. Forse le tecniche di scherma dei persiani, che nella mia famiglia da generazioni sono stati i nostri soli maestri, differiscono da quelle della vostra gente. Posso impugnare l'arma?' «Gèza, così si chiamava il nobiluomo che apparteneva a un ramo cadetto della famiglia regnante degli Arpadi, fece un cenno di assenso e io assunsi la posizione di guardia. «Volevo dimostrargli che quella spada era vicina alla perfezione e che il suo equilibrio, da me stesso provato e riprovato, era esemplare. «Gli mostrai una serie di affondi e parate. La lama sibilava nell'aria. Poi porsi l'elsa a Gèza, che era rimasto a osservarmi ammutolito. «'Chi ti ha insegnato a tirare di scherma così?' mi chiese. «'Mio padre, signore. Ed egli mi ha anche insegnato che bisogna saper provare ogni arma costruita con le proprie mani', gli risposi. «'Il mese prossimo si svolgerà un importante torneo nella piazza d'armi del castello. Vorresti parteciparvi anche tu?' «Meno di un mese dopo quell'incontro, mi ritrovai in sella a un destriero bardato con una robusta corazza. Anch'io indossavo un'armatura lucente e leggera che avevo costruito con le mie mani e che mi avrebbe concesso molta libertà di movimento. Era un torneo à plaisance: i duellanti utilizzavano armi senza filo e lance rese inoffensive da un'apposita corona in metallo posta sulla punta, cosa che non accadeva nei tornei à outrance, che prevedevano l'uso di armi da guerra affilate e appuntite.
«Non so come, ma riuscii a sbaragliare ognuno dei campioni presenti, e arrivai allo scontro finale. «La piazza era gremita. Gli stendardi dai colori variopinti si tendevano al vento. Ricordo come fosse ora che prima di iniziare il combattimento sorrisi a Sarya. Poi calai la visiera dell'elmo e guardai il mio avversario. «Montava un cavallo bianco e nervoso e indossava una corazza abbagliante. E ognuna delle sue armi aveva l'elsa o l'impugnatura in oro. Sapevo d'avere di fronte un eroe da leggenda. Di lui si diceva che venisse da una località vicina alla Foresta Nera e che non fosse mai uscito sconfitto da una competizione. «Fu il primo a spronare il cavallo, la lancia saldamente impugnata e stretta tra il busto e l'avambraccio destro. «Ebbi un attimo di incertezza che mi costò carissimo: in un baleno mi ritrovai disarcionato, tra la polvere. Non riuscivo a respirare a causa del dolore straziante al petto, dove la lancia dell'avversario mi aveva colpito. A fatica mi rialzai e sguainai lo spadone. L'altro, ancora a cavallo, mi fu addosso. Riuscii a evitare l'assalto e mi aggrappai con tutta la forza alla sua coscia, disarcionandolo. Fu allora che mi accorsi che la lama della sua spada era stata arrotata di recente: un colpo bene assestato avrebbe potuto staccarmi un arto di netto, nonostante la corazza. «Schivai un primo fendente, un secondo, quindi mi preparai a colpire facendo roteare la spada sopra la testa. La mia lama si abbatté sulla sommità del suo elmo. «Sembrava un gigante di ferro accecato. Mosse due passi verso di me barcollando con le braccia aperte, e lasciò andare la spada. Quindi cadde sulle ginocchia, rovinando a faccia avanti. «Quando gli tolsero l'elmo si accorsero che la ferita era grave, ma non mortale. «I miei occhi cercarono lo sguardo di Sarya, che ora sorrideva felice, poi andai verso la tribuna dove sedeva Gèza. Sulla piazza scese il silenzio, mentre il nobile, in piedi di fronte a me, parlava. «'Ti nomino vincitore del torneo, Czigny. Avrai il premio che ti spetta, ma io voglio che tu abbia anche questa. È tua di diritto.' «Così dicendo mi consegnò l'arma che avevo fabbricato per lui. «Da allora incominciai a girare l'Europa per partecipare a tutti i più importanti tornei. E ben presto divenni un motivo di richiamo per qualsiasi tenzone.» Bahram sorrise.
«Questa è la storia della spada con cui ti alleno ogni giorno. Voglio che tu sappia che sono fiero di vederla tra le tue mani. Ma ora basta con le chiacchiere! Dobbiamo entrare in città e... metterci al lavoro.» I tre erano giunti in cima alla collina sulla quale sorgeva la città di Aurillac. «Il priore del convento benedettino è un appassionato cultore della musica», disse Bahram. «Vedrai che in cambio di qualche esibizione riceveremo vitto e alloggio sino a che lo desidereremo. Penso che sia meglio lasciare passare un po' di tempo, prima di riprendere i nostri spettacoli sulle piazze. Simone di Montfort ha orecchie ovunque. Aymon... è un po' che voglio farti questa domanda: che cosa ne sai di una pietra dagli enormi poteri magici custodita dai catari?» «Perché me lo chiedi?» «Il soldato di Simone ha parlato di un segreto che tuo nonno ti avrebbe confidato. E ieri, mentre ti esercitavi con la spada, ho preso la tua ghironda per suonare un po'. Dalla custodia sono scivolati fuori alcuni fogli di carta con una canzone dedicata a Maria Maddalena. Ho riconosciuto la calligrafia di Puyol e ho provato a suonarla, ma mi sono accorto subito che ci sono errori che un maestro come lui mai avrebbe compiuto. Sai, Puyol è ricorso spesso ai miei servigi per portare analoghi spartiti fuori dal territorio controllato dai crociati, perché li consegnassi a qualche seguace del catarismo. In quelle occasioni, provando a eseguire le canzoni, sono arrivato a decifrare il linguaggio cifrato utilizzato da Puyol.» Bahram vide la preoccupazione negli occhi di Aymon, e continuò: «Non devi preoccuparti, non sono una spia dei crociati e, tra gli uomini di Simone di Montfort e i tuoi fratelli catari, sono dalla parte di questi ultimi. Per questo, pur avendo scoperto il sistema utilizzato da Puyol, non l'ho mai tradito». Aymon tacque a lungo, ma quando parlò la sua voce era ferma e il tono deciso. «Ti dirò quello che so sulla pietra magica, Bahram. Sono sicuro di potermi fidare di te.» Quando giunsero nei pressi dell'abbazia benedettina, Bahram era venuto a conoscenza dell'esistenza di un'arma più potente di cento eserciti che, tuttavia, sarebbe stato pressoché impossibile rimuovere dal sito in cui giaceva dalla notte dei tempi. «Bisogna assolutamente impedire che qualcuno si impossessi del segreto
celato tra le note e le parole della canzone di Puyol. Meno che mai Simone di Montfort e i suoi crociati.» «Potremmo nascondere il manoscritto, ma... dove?» «Non c'è bisogno di nasconderlo, Aymon. Dividiamoci le pagine: tu terrai la parte della canzone in cui è celata la mappa, in modo che neppure io potrei mai arrivare alla pietra senza di te. Così, se qualcuno dovesse catturare uno di noi e fosse anche tanto abile da decifrare il messaggio, non riuscirebbe mai a raggiungere la pietra, essendo in possesso di informazioni solo parziali.» Poco più tardi il portone del convento si aprì per lasciare passare il carro di Bahram. «Che cosa vuol dire che un ragazzo dalle capacità musicali straordinarie si è esibito suonando una ghironda nelle piazze di alcune città?» chiese Simone di Montfort, furibondo. «E nessuno dei miei soldati ha pensato di fermarlo? Siete degli inetti! Sergente, prendete con voi una mezza dozzina di uomini e mettetevi sulle tracce di quei nomadi. Voglio sapere chi è quel ragazzo. E voglio che sia condotto al mio cospetto.» 16 Linguadoca, anni '30 Nel 1933, lo stesso anno in cui Adolf Hitler e il suo Partito nazionalsocialista andavano al potere in Germania, il libro di Rahn, La Crociata contro il Graal, veniva pubblicato. E sempre in quegli anni, Rahn provava a lanciarsi anche nel mondo degli affari. Grazie ad alcune amicizie influenti, aveva trovato i denari per affittare e ristrutturare l'Hotel des Marroniers a Ussat-les-Bains, nella Francia del Sud. Ma quel «tedesco che faceva domande sui catari», con le sue ricerche in suolo francese aveva suscitato già da tempo più di una perplessità: nel marzo del '32 il quotidiano di Tolosa, La Dépêche du Midi, si era interrogato sulle motivazioni per cui uno straniero si aggirasse con tanto accanimento tra le poche vestigia rimaste a testimoniare l'eresia catara e la sua feroce repressione culminata nella crociata di Simone di Montfort. Maurice Sarraut, proprietario del giornale, aveva deciso di tenere d'oc-
chio le mosse di quel giovane tedesco con l'aria da bohémien. Com'era possibile, si chiedeva, che quel Rahn potesse disporre di mezzi e di appoggi che gli consentivano di portare avanti la sua spasmodica ricerca? L'Hôtel des Marroniers era una palazzina di pietra grigia situata di fronte alla stazione del centro termale nell'Ariège. Alle spalle dell'albergo un sentiero si inerpicava lungo le falde dei Pirenei che incombevano, con le loro pareti di roccia chiara, sul centro abitato. La zona era ricca di gole e di grotte, alcune delle quali tanto grandi da poter contenere l'intera cattedrale di Notre-Dame. Quelle caverne, che avevano ospitato l'uomo sin dall'era Neolitica, erano state poi rifugio per briganti, eremiti e fuggiaschi, ma soprattutto per i perseguitati catari. Una leggenda narrava che gli eretici sopravvissuti alla caduta dell'ultimo baluardo cataro, il pog di Montségur, avevano trovato rifugio nelle grotte della regione. E di quella leggenda, antica di secoli, Rahn era venuto a conoscenza. «Quelle piante devono essere sistemate più vicine alla reception», stava dicendo Otto Rahn al personale che si dava da fare per portare a termine gli ultimi ritocchi prima dell'inaugurazione dell'Hôtel des Marroniers. Rahn osservava soddisfatto il frutto del suo lavoro: gli intonaci erano stati dipinti, gli infissi riverniciati, gli arredi completamente rinnovati. Ora l'albergo, non lussuoso ma accogliente, era pronto a ospitare frotte di turisti che cercavano nella nota località termale francese un po' di tranquillità e benessere. E molti di più ne sarebbero arrivati in seguito, una volta che lui avesse svelato al mondo il segreto dei catari. Il neoalbergatore controllò ancora una volta che tutto fosse in ordine, si compiacque dell'abbondante buffet e delle divise del personale. Quindi si mise sulla porta d'ingresso con un sorriso soddisfatto stampato in volto. Otto Rahn era davvero raggiante: dopo anni e anni di stenti si sentiva un uomo realizzato. Possedeva un'attività economica che non avrebbe mancato di dare i suoi frutti, il suo primo libro era prossimo alla pubblicazione e nulla avrebbe più impedito le sue ricerche. Presto, ne era certo, avrebbe scoperto quello che cercava da anni e avrebbe avuto l'eterna gratitudine del Partito nazista. Un futuro radioso si apriva davanti a Rahn e le buone fate di quella fiaba si chiamavano Reinhard Heydrich e Heinrich Himmler.
Il lavoro di Himmler e dei suoi gruppi paramilitari era stato indefesso per tutto il 1932: le SA e le SS avevano seminato il terrore ovunque, mentre la propaganda aveva alimentato l'idea che, senza il pugno di ferro hitleriano, la Germania sarebbe presto precipitata nel caos. Le elezioni avevano visto il Partito nazionalsocialista attestarsi attorno al trentasette per cento delle preferenze. Ma in alcune città l'ideologia nazista era ancora fortemente osteggiata e lì, incuranti delle feroci repressioni, erano in molti i coraggiosi che scendevano in piazza per manifestare contro Hitler. «Hindenburg presto si deciderà. Altrimenti sarà la guerra civile», aveva detto Wiligut al suo comandante in capo. Karl Maria Wiligut-Weisthor aveva un volto tondo dalla fronte alta e stempiata, solcata da rughe profonde. Sfoggiava un paio di baffetti simili a quelli di Hitler, gli occhi erano neri, freddi e penetranti, ma a prima vista non sembrava un tipo inquietante, quanto piuttosto un buon nonno che, una volta smessa la divisa di SS, si sarebbe potuto occupare dei nipotini in tenera età. Ma, osservandolo bene, era in grado di suscitare un forte senso di disagio. Molti erano convinti che quell'ufficiale delle SS, grande amico del comandante Himmler, fosse l'incarnazione stessa del demonio. Himmler lo aveva guardato con aria soddisfatta. Il suo esperto d'esoterismo stava dicendo il vero: il presidente tedesco Paul von Hindenburg avrebbe dovuto presto sciogliere le sue riserve a proposito della legittima aspirazione di Hitler al ruolo di cancelliere, sebbene questi fosse uscito sconfitto dalle elezioni presidenziali di maggio: a Hindenburg era andato oltre il cinquantatré per cento, a Hitler il trentasette, appunto. Ma, se il peso politico all'interno del Reichstag era minoritario, il «peso reale», fatto di squadre armate, di intimidazioni e di terrore, stava cominciando a produrre i suoi frutti. E di tali risultati Himmler si reputava l'artefice. «Come procedono le 'appendici pirenaiche'?» chiese Himmler cambiando improvvisamente discorso. «Il nostro neoalbergatore si sta dando da fare. E dice che sente vicina la soluzione dell'enigma. Noi ce lo auguriamo. Quanto alla struttura alberghiera, una volta scoperto il segreto della Pietra, ci potrà tornare utile anche per altre cose. Ussat-les-Bains è un centro termale frequentato quanto basta perché un qualsiasi agente possa passare inosservato. In ogni modo, per ora dobbiamo dare la precedenza alle ricerche di Otto Rahn, anche se pare che lui stia suscitando qualche curiosità di troppo.» «Che cosa intendete con 'qualche curiosità di troppo', Weisthor?»
«Rahn è considerato una persona singolare ed eccentrica. Non possiede certo un carattere riservato. Le sue attività non sono passate inosservate e adesso Ussat-les-Bains sembra essere diventato il crocevia ideale per il passaggio di agenti segreti di tutte le nazionalità.» In effetti, nell'estate del 1932, l'andirivieni di turisti presso l'Hôtel des Marroniers fu incessante. La sera, con la fresca brezza che scendeva dai Pirenei, Rahn intratteneva i suoi ospiti, raccolti sulla terrazza dell'albergo, raccontando dei catari, strenui difensori del loro credo anche di fronte alle armi dei crociati al soldo del papa di Roma. «Nella Linguadoca il catarismo era molto diffuso: circa la metà della popolazione si era convertita al suo credo. Questo era il motivo ufficiale per cui venne indetta la crociata contro gli eretici. Ma, a parer mio, erano ben altre le ragioni che spinsero papa Innocenzo III a indire una vera guerra nel cuore dell'Europa.» «E quali sarebbero state, signor Rahn?» chiese un giorno di inizio agosto una turista spagnola che amava più di altri interloquire con lui. «I catari furono l'espressione di un malcontento che covava in molti ambienti cristiani sin dal Concilio di Nicea del 325, quello che riconobbe i quattro vangeli ortodossi relegando tutti gli altri al ruolo di scritti 'apocrifi'. I catari sostenevano che gli insegnamenti di povertà, uguaglianza e fratellanza erano andati via via scomparendo all'interno della Chiesa cristiana, ormai sempre più ingorda di ricchezze.» «Ma che minaccia poteva mai rappresentare per la Chiesa di Roma un gruppo di persone votate alla povertà?» chiese un altro ospite. «Si dice che i catari fossero i custodi di importanti segreti... Secondo voi c'è del vero in questo, signor Rahn?» intervenne la turista spagnola. «E come potevano esserne entrati in possesso?» La questione dell'eresia catara aveva provocato, tra i clienti dell'albergo, un acceso dibattito. Rahn proseguì: «A parer mio esiste una grande confusione su questo punto. C'è chi dice che tali segreti, assieme a un ingente tesoro, fossero stati consegnati dai cavalieri templari ai catari. Ma i templari, prima di cadere in disgrazia nel 1307, rappresentavano il braccio armato della ortodossia ecclesiastica. Perché avrebbero dovuto consegnare i segreti di Cristo a degli eretici? E se, viceversa, di questi segreti fossero stati depositari i catari sin dagli albori del cristianesimo, perché non li avevano resi di pubblico
dominio? Se io stesso avessi delle prove sulla natura umana di Gesù Cristo, di fronte a un esercito crociato che marcia contro la mia gente, divulgherei le preziose informazioni di cui sono in possesso». «A quale conclusione siete giunto, quindi, caro Rahn?» «Che troppe leggende hanno contribuito a confondere la realtà. Credo che il segreto custodito dai 'Perfetti' catari altro non sia che un semplice oggetto - lo si chiami Graal, reliquia o altro - al quale sono stati attribuiti poteri soprannaturali. Lo stesso è accaduto per i totem dei pellerossa o per gli amuleti che ogni popolo, più o meno superstizioso, trasforma in oggetti di culto.» Rahn si era accorto che stava rischiando di dire troppo e ora cercava di riportare il discorso in un ambito più generico. «Paragonare un segreto per cui migliaia di persone sono state sterminate a una zampina di coniglio o a una cornucopia dorata mi sembra un po' azzardato, signor Rahn», ribadì la cliente spagnola. Fu allora che l'albergatore, con la scusa di dovere affrontare alcune urgenti incombenze, si scusò con i suoi ospiti e si allontanò. Carla Jeogeres Núñez era nata a Barcellona nel 1912: quindi la sera della piacevole chiacchierata con Otto Rahn sulla terrazza dell'Hôtel des Marroniers aveva appena compiuto vent'anni. Ma già da due faceva parte dei servizi segreti francesi. «Nulla, ancora?» le chiese il suo diretto superiore. «Mezze frasi, improvvisi silenzi, ripensamenti», rispose Carla. «In ogni caso, ogni mattina di buonora, Otto Rahn indossa abiti comodi e scarponcini da montagna e compie lunghe escursioni nella valle di Ussat. È evidente che la sua passione dominante ha ben poco a che vedere con la gestione di un albergo di una località termale.» L'impressione di Carla Jeogeres Núñez doveva essere esatta. Difatti era stata sufficiente quell'unica estate per mettere in crisi le finanze dell'albergatore Rahn. Benché l'hotel avesse accolto centinaia di turisti, l'incapacità e l'inesperienza del tedesco avevano fatto sì che il 6 ottobre 1932 il tribunale di Foix prendesse in considerazione l'eventualità di dichiarare il fallimento dell'Hôtel des Marroniers. Invano Otto si era rivolto ai suoi benefattori: ormai gli uomini vicino a Hitler avevano ben altro cui pensare. Il telefono sulla scrivania di Heinrich Himmler squillò.
Il comandante delle SS sollevò la cornetta, rimase un attimo in ascolto, quindi il suo volto si distese in un sorriso trionfante: Adolf Hitler era diventato cancelliere del Reich. Era il 30 gennaio 1933. Roma, anni '30 «Ascoltate, santità, che cosa scrive il giornale: 'Ieri, 27 febbraio 1933'...» Il segretario di Stato Eugenio Pacelli si mise a leggere l'articolo a papa Achille Ratti. «'...Alle 21.14 l'allarme veniva diffuso al comando dei pompieri di Berlino: il Reichstag, sede del parlamento tedesco, stava bruciando. Quando il cancelliere Adolf Hitler e il generale Göring sono tempestivamente giunti sulla piazza, hanno potuto soltanto rimanere impotenti a osservare il rogo appiccato da un terrorista filobolscevico che risponde al nome di Marinus van der Lubbe...'» «Voi che conoscete bene i tedeschi e la loro mentalità, che cosa pensate di tutto questo, cardinale?» chiese Pio XI al più stimato tra i suoi collaboratori. «È presto per fare supposizioni, santità. Credo comunque che entro breve i nazisti chiederanno leggi speciali finalizzate alla tutela dell'ordine pubblico.» Il cardinale Pacelli non si sbagliava: dal marzo di quell'anno, e per tutta l'estate, il parlamento tedesco emanò una serie di leggi molto restrittive che, tra l'altro, conferivano ad Adolf Hitler pieni poteri. A luglio toccò proprio a Pacelli di sedere al tavolo con i rappresentanti del governo nazista per la stesura dei patti concordatari tra Germania e Santa Sede. L'incontro tra Adolf Hitler e il segretario di Stato vaticano Eugenio Pacelli fu improntato a un rigido formalismo. Ma il porporato aveva osservato a lungo negli occhi il suo interlocutore. L'intenso rossore attorno alle pupille di Hitler era stato sufficiente per riaccendere quell'oscuro e inspiegabile senso di disagio che il cardinale ben conosceva. 17 Iran, 2007
Avanzavano in silenzio nella notte come ombre, le armi leggere appoggiate contro il petto, le cinture contenenti esplosivo ad alto potenziale legate in vita, i volti dipinti di nero. Il commando era composto da quindici uomini perfettamente addestrati. Ognuno conosceva i propri compiti e sapeva che cosa avrebbe dovuto fare una volta neutralizzata la sorveglianza. Le due sentinelle camminavano lungo il muro perimetrale che costeggiava l'impianto nucleare di Bushehr. «Ne vuoi una? Sono americane, roba di prima scelta. Me le ha regalate un amico che traffica col mercato nero», disse un militare iraniano all'altro, estraendo da una tasca un pacchetto di Lucky Strike senza filtro. Fu la loro ultima sigaretta. Il collo dei due soldati venne trafitto dalle frecce di una balestra in carbonio le cui punte erano intrise di un potentissimo veleno paralizzante. I dardi letali erano stati scoccati in perfetta sincronia. Sorte analoga era toccata alle altre otto sentinelle poste lungo il muro di cinta: nessuna aveva avuto il tempo di lanciare l'allarme prima di cadere a terra colpita da una freccia o con la gola recisa. I componenti del commando si sparpagliarono quindi all'interno della base nucleare. Ciascuno, una volta raggiunta la propria destinazione, applicò le cariche e regolò i timer. Con precisione cronometrica i sabotatori si radunarono nuovamente nel punto prefissato, diciannove minuti dopo che era stata neutralizzata la sorveglianza. Non c'era stato alcun ferito nell'azione. Mancavano tre ore e mezzo al cambio della guardia: un tempo più che sufficiente per raggiungere gli elicotteri che li stavano aspettando a distanza di sicurezza. Gli uomini del commando salirono a due a due sui piccoli mezzi a propulsione elettrica con cui erano arrivati, e si lasciarono guidare dagli invisibili fari a infrarossi. Quando i tre elicotteri, anch'essi neri e anonimi, si alzarono in volo, il gruppo aveva abbandonato l'impianto da un'ora e mezzo. Lo stabilimento di Bushehr distava una decina di chilometri dal luogo del decollo. Un gigantesco bagliore illuminò il cielo della notte alle loro spalle. Uno dei punti di forza della rivoluzione nucleare iraniana era stato ridotto a un cumulo di macerie. Nard Sourush, il braccio operativo di Pashelvi, aveva militato con onore nelle Quds, le unità speciali delle forze armate della Repubblica islamica
dell'Iran, e aveva partecipato a moltissime missioni. Non poteva non riconoscere che le azioni con cui erano stati rasi al suolo gli impianti di Bushehr, di Ahwaz e di Isfahan erano state da manuale. Il presidente Pashelvi aveva preparato con cura il suo discorso televisivo. Erano le prime ore del mattino quando la televisione iraniana prese a trasmettere a reti unificate. «Fratelli iraniani, fratelli nell'Islam.» Il tono del presidente era solenne e grave. «Questa notte una mano assassina ha ordito un attentato contro gli impianti per la produzione di uranio arricchito di Bushehr, Ahwaz e Isfahan. La vita di ottantacinque persone che lavoravano per il progresso del nostro Paese e dell'intero mondo islamico è stata tragicamente spezzata. Altre ventisei persone stanno combattendo con la morte. Là, dove la nostra gente stava lavorando per un futuro di pace e indipendenza, i terroristi hanno causato morte e distruzione. La grande tecnologia dei nostri impianti nucleari è andata in fumo. Non resteremo inermi di fronte a questo vile atto di guerra. Ritengo prematuro puntare il dito contro colpevoli che pure noi tutti conosciamo ma che, per il momento, la prudenza impone di non nominare. Giuro solennemente, e sono certo che la totalità del popolo iraniano si unirà a questa mia promessa, che qualunque nazione sionista e infedele abbia armato le mani assassine, che chiunque abbia addestrato degli uomini per colpire la nostra democrazia, qualunque sia la mente perversa che si è celata dietro a un atto così vile, la pagherà cara. Sia gloria ai nostri fratelli morti nella fede di Dio. Pace e misericordia su di lui.» Vennero proclamati tre giorni di lutto nazionale e i notiziari di tutto il mondo furono inondati dalle immagini raccapriccianti dell'attentato. I filmati venivano mandati a ciclo continuo dall'ILNA, la solitamente riservata agenzia di stampa iraniana. Denver, 2007 Oswald Breil scosse il capo di fronte alle immagini degli impianti di Bushehr, Ahwaz e Isfahan ridotti ad ammassi di macerie fumanti. «Che cosa succede, Oswald?» chiese Lilith Habar dalla cucina. «Hanno fatto saltare in aria le due centrali nucleari iraniane e un impianto per l'arricchimento dell'uranio, Mame-loshen.» Non c'era ombra di soddisfazione nella voce dell'uomo che aveva guidato dapprima il Mossad e quindi l'intero Stato di Israele. Breil sapeva bene che ogni azione di guerra provoca sempre una reazione peggiore e contraria.
I servizi segreti israeliani e americani sarebbero stati i maggiori indiziati e gli iraniani avevano già fatto intuire le loro intenzioni di vendetta. La posizione assunta da Pashelvi verso Israele e l'Occidente era di totale chiusura. Ora lo stato di tensione si sarebbe fatto insopportabile. Lilith Habar si asciugò le lacrime con un fazzoletto che teneva nella manica del pullover all'altezza del polso. Reagiva quasi sempre così alle scene atroci che mostravano corpi dilaniati, immagini sulle quali il cameraman iraniano pareva indugiare con un sadico piacere. «Scusami, Oswald. Alla mia età non è facile dimenticare quanto è successo a Lauriel e queste scene mi fanno tornare alla mente l'attentato.» Lauriel era l'unica figlia di sua sorella. Aveva vent'anni, quando era salita sull'autobus che la doveva condurre sino all'università Bar-Ilan di Tel Aviv. A metà percorso il vicino di posto della ragazza si era fatto saltare in aria, attivando una cintura ad alto potenziale foderata di chiodi a tre punte e bulloni d'acciaio. Qualche giorno più tardi alla sorella di Lilith era stato mestamente consegnato un sacchetto sigillato, poco più grande di uno di quelli del pane: al suo interno c'era tutto ciò che restava di una bella ragazza di vent'anni e della sua voglia di vivere. Lilith non aveva mai perdonato a se stessa di non aver insistito a sufficienza quando si era trattato di decidere dove Lauriel avrebbe dovuto frequentare l'università. Si rammaricava di non essere stata più convincente quando aveva proposto di ospitare la ragazza per farle frequentare la DU University di Denver. Se così fosse stato, Lauriel non sarebbe morta. Oswald le accarezzò con dolcezza i capelli bianchi raccolti in una crocchia. Quindi il piccolo uomo ripensò all'incontro di poco tempo prima con gli emissari americani. Aveva fatto bene a declinare la loro offerta. Ora, più che mai, ne era convinto: se avesse accettato, adesso si sarebbe ritrovato complice di una strage. Anche lui, come l'odioso ayatollah Pashelvi, non aveva dubbi: qualunque mano avesse tecnicamente compiuto l'attentato, la firma del mandante non poteva che essere americana o israeliana. Il suono del telefono interruppe i suoi pensieri. «È per te, Oswald», disse Lilith. «Sono Phil Damiano, dottor Breil. Le dispiacerebbe collegarsi in rete e mettersi in contatto con me attraverso il programma di crittografia elettronica che le ho consegnato?» Pochi minuti più tardi Oswald era in linea con il capo della CIA.
<SHALOM, SARA.> Dall'Agenda di Luca Raso, Amazzonia, maggio 1976
Oggi Neumann doveva essere in vena di cordialità. «Vuole che le confessi una mia debolezza?» mi ha detto mentre in automobile ci dirigevamo verso l'hangar in cemento che sorge vicino all'aeroporto. La grande porta scorrevole si è aperta elettricamente e sono rimasto senza parole: le dimensioni della rimessa sono davvero... ciclopiche. Nella parte anteriore del capannone, i meccanici stavano provvedendo alla manutenzione di un Piper Navajo identico a quello con cui ho viaggiato anch'io e, poco lontano, c'era l'elicottero Agusta con alcuni pannelli laterali smontati. Ho dato una rapida occhiata e ho visto un nastro di mitragliatrice di grosso calibro identico a quelli usati sui velivoli da guerra. Sul muso dell'elicottero erano visibili un paio di tappi circolari realizzati nello stesso materiale e colore della carlinga: sono certo che le canne delle mitragliatrici sono nascoste lì dietro. Uno dei meccanici deve aver notato la mia curiosità e ha chiuso bruscamente il pannello laterale del velivolo. «Venga, dottor Raso, i miei giocattoli preferiti si trovano in fondo all'hangar.» Anche Neumann mi è sembrato ansioso di distogliermi da quei particolari. Là, ordinatamente allineate con il muso rivolto verso il centro della rimessa, erano posteggiate almeno una decina delle più famose macchine volanti della storia mondiale dell'aviazione militare. «Questa», ha detto Neumann posando la mano destra sul muso affusolato di un bireattore dipinto con i colori mimetici della Luftwaffe, «è una delle armi segrete con cui Hitler pensava di capovolgere le sorti della guerra. Si tratta del Messerschmitt Me 262, il primo aereo a reazione del secondo conflitto mondiale.» Ho voluto stupire il mio ospite e ho dato prova di tutto il mio sapere in materia: gli aerei da guerra non sono una passione soltanto per Neumann. «L'Me 262 vide il suo battesimo dell'aria nel 1942 ma, a causa dell'esplosione di un compressore di uno dei due reattori BMW, fu costretto a un atterraggio di fortuna. Allora fu equipaggiato con motori a reazione Junkers ed entrò nuovamente in servizio alcuni mesi dopo. Il collaudatore, Adolf Galland, dopo aver effet-
tuato il volo di prova, disse che l'aereo sembrava spinto da un angelo. Ma, in realtà, sebbene raggiungesse velocità prossime ai novecento chilometri l'ora - impensabile per qualsiasi caccia a propulsione tradizionale - l'Me 262 aveva subito destato non poche perplessità nei piloti, che impararono a loro spese a conoscere la sua inaffidabilità, la breve vita dei motori, la scarsa maneggevolezza del velivolo alle basse velocità. Hitler, malamente consigliato in tal senso dai suoi consulenti, ne dispose l'uso come bombardiere leggero. Così, oltre a snaturare le caratteristiche della macchina, fece sì che l'aereo perdesse quelle doti che lo avrebbero reso imbattibile.» Neumann ha ascoltato stupito e compiaciuto la mia lezione. «Mio nonno prima e mio padre poi sono stati piloti nel corso dei due conflitti mondiali. E anch'io ho preso il brevetto di volo a sedici anni», gli ho detto. «Credevo che provasse avversione per tutto ciò che si stacca da terra. E la nostra Agnes mi ha raccontato di averle impartito alcuni rudimenti di volo nel corso del vostro rientro da Manaus...» «È vero, signor Neumann: sono a disagio quando non sono io a pilotare, ma di fronte all'abilità della signorina Agnes mi sono tranquillizzato. E non me la sono sentita di deludere una così bella signora intenzionata a farmi da maestra...» «... Pieno di sorprese nascoste, il nostro ospite italiano!» ha esclamato Neumann. Il suo sguardo attento e indagatore mi ha messo a disagio. La scorsa notte è stata più calda e umida del solito. Cercando un po' di refrigerio, sono andato sulla veranda: fuori, l'aria amazzonica era ancor più soffocante e brulicava di insetti. Avevo appena deciso di tornarmene a letto, quando un rumore proveniente dal corridoio ha suscitato la mia curiosità. Mi sono affacciato alla porta, attento a non far rumore, e ho visto una figura che si muoveva circospetta. Benché il buio fosse quasi assoluto, l'ho riconosciuta subito: era Alexandra Oliveiro. Non mi dispiaceva affatto che anche la bella brasiliana non riuscisse a prendere sonno: forse avremmo potuto scambiare qualche parola in attesa che la stanchezza avesse la meglio sull'insonnia, ma non è andata così. Devo dire che le donne di
questo luogo hanno il potere di sedurmi. Alexandra, invece di scendere lo scalone e accedere alle parti comuni, è salita al piano superiore. Ma al piano superiore si trovano solamente l'appartamento di Neumann e gli alloggi dei suoi più stretti collaboratori. Cosa ci sarà andata a fare, nel cuore della notte? 26 Età dei Metalli, II millennio a.C. Athor entrò nel villaggio tra due ali di folla festante. Teneva il disco d'oro in alto sopra alla testa perché tutti potessero vederlo. Il tiranno era morto e il vero re, giusto e valoroso, avrebbe finalmente guidato il popolo dei sacerdoti di Hosh. Athor guardò verso la collina dei defunti, appena fuori dalla cinta del villaggio: lì avrebbe seppellito con gli onori riservati agli eroi il padre di Dehal e Mizda. Ora aveva compreso il significato del sogno dell'indovino: dalla collina dei morti si dominava l'intero villaggio. Aker non si era sbagliato: aveva visto la scena dall'alto e da lontano. «Non è finita, migos.» Athor aveva aperto le braccia, invitando i suoi ad ascoltarlo. «Karesh ha rapito mia moglie e mio figlio. Ma se al posto loro ci fosse un'altra delle donne del villaggio con il suo bambino sarebbe lo stesso. La nostra legge ci dice che ciascuno di noi deve fare qualsiasi cosa pur di trarre in salvo anche uno solo dei nostri fratelli qualora fosse in pericolo. Inoltre sono sicuro che presto i davaar ci attaccheranno. Dobbiamo essere pronti a respingerli. Forse prevenire le mosse dei nostri nemici potrà avvantaggiarci. Infine voglio che sappiate che, se qualcuno di voi deciderà di non unirsi a noi, sarà libero di farlo.» «Siamo con te!» gridarono i migos all'unisono. Dehal aveva tenuto fra le braccia Sar tutta la notte, accarezzandolo e sussurrandogli dolci parole ogni volta che il piccolo si destava all'improvviso in preda alla paura. Madre e figlio erano sdraiati su un sottile strato di paglia sudicia nella capanna che i davaar riservavano ai prigionieri. Dehal non aveva avuto il tempo di versare nemmeno una lacrima per la morte di suo padre e per quella dell'amico Mizda: il suo unico pensiero era stato salvare la vita al
figlio e alla creatura che aveva in grembo. Ora, sdraiata nel buio della capanna, si chiedeva come avrebbe potuto fuggire di lì. Il sonno la colse mentre cercava di formulare un piano di fuga. In sogno le apparve Aker, che la guardava sorridendo e le diceva di avvicinarsi. Le pose quindi entrambe le mani sul capo e pronunciò alcune parole che la giovane non avrebbe mai più dimenticato. «Ti faccio dono della mia sola ricchezza, la preveggenza, figlia mia. E ricordati che aspetti un bambino. Ricordatelo!» Poi il padre scomparve in una nuvola di luce. Al risveglio, Dehal si rese conto che le parole proferite da Aker avrebbero potuto salvarla dal supplizio: i davaar, sempre in cerca di donne per perpetuare la loro ignobile stirpe, nutrivano nei confronti della gravidanza una sorta di venerazione. Le donne gravide erano intoccabili e, anzi, oggetto di cure e di attenzioni. Suo padre, ancora una volta, dal regno di Hosh aveva voluto proteggerla. Quando la porta si aprì, il fascio di luce impedì a Dehal di riconoscere subito il perfido Karesh. «Bentornata tra noi, Dehal. E benvenuto anche al tuo nobile figlio. Ma guarda come passa il tempo: la prima volta che ti ho accolta qui eri quasi vergine... e adesso sei madre di un bambino. Ma sei sempre la donna più bella che abbia conosciuto.» L'uomo si era accovacciato accanto a lei e aveva iniziato ad accarezzarla con il dorso della mano. «E ne porto un altro in grembo, Karesh. Conosco la vostra legge: le donne incinte sono sacre per voi. Allontanati da me o griderò a chiunque possa sentirmi il tuo sacrilegio.» «Nessuno ti ascolterà, donna. La parola del loro re vale ben più della tua per i davaar. Comunque non è mia intenzione disubbidire alla legge.» Un lampo sinistro attraversò lo sguardo dell'uomo mentre afferrava il piccolo, strappandolo dalle braccia della madre. «La legge dice anche che mangiare il cuore dei rivali rafforza l'animo dei guerrieri: non conta l'età del nemico.» «Fermo, Karesh. Non toccare mio figlio: farò quello che vuoi.» «Non così, uomini. Non state cacciando un cervo», disse Athor, mimando una parata con la lancia. «Immaginate che di fronte a voi ci sia un davaar armato di un'ascia o di un pugnale affilato, pronto a spaccarvi in due la testa...» La lezione fu interrotta dall'arrivo di un uomo di ritorno da un'incursione
segreta al villaggio dei davaar. L'osservatore sembrava imbarazzato, poi ruppe ogni indugio e disse: «La tua sposa... Dehal... è diventata regina dei davaar. L'ho vista con i miei occhi: due giorni fa ha sposato Karesh». «Non è possibile! So che Dehal preferirebbe morire piuttosto che giacere con quell'assassino.» «Mi dispiace, mio re. Sono certo di non essermi sbagliato.» «E il bambino? Hai visto anche mio figlio Sar?» «Karesh ha tenuto in braccio un bambino per buona parte della cerimonia. Ma il piccolo non ha mai smesso di piangere a squarciagola e di scalciare.» «Dobbiamo muoverci in fretta, abbiamo poco tempo», disse Athor. Aveva intuito quale motivo spingesse la sua donna a comportarsi così. «Che avvenire ti aspetta, mio piccolo Sar?» stava dicendo Dehal a suo figlio, il volto rigato dalle lacrime. I primi giorni erano stati terribili: Karesh continuava ad abusare di lei con brutale bramosia. E lei sapeva bene a che cosa sarebbe andata incontro se non avesse soddisfatto ogni desiderio del suo carceriere. Se non fosse stato per il bambino, avrebbe tentato una seconda volta di saltare nel vuoto... Saltare nel vuoto... L'idea prese forma nella sua mente e con essa il piano. La vegetazione del villaggio davaar era costituita per lo più da un'intricata macchia di canne: giorno dopo giorno Dehal ne aveva reciso dei fasci che, una volta giunta nella sua capanna, aveva intrecciato a più strati, lasciando tra l'uno e l'altro una zona vuota. Al momento opportuno avrebbe riempito le cavità con paglia secca. «Ecco come ci muoveremo...» disse Athor rivolto ai suoi uomini più valorosi. Una nebbia candida come il latte salutò il drappello che abbandonava in armi il villaggio dei migos. Il re Athor era alla testa dei suoi: il primo raggio di sole illuminò l'ascia che indicava ai guerrieri la via da seguire. Se fossero usciti vittoriosi da quella spedizione, il popolo dei migos si sarebbe liberato per sempre dei suoi nemici. L'involucro di canne aveva assunto la forma di una piccola imbarcazio-
ne. Dehal se lo strinse al petto, dopo avervi collocato il bambino e averlo legato saldamente alla cesta. Poi fu questione di attimi. La donna si guardò attorno, prese una breve rincorsa e si lanciò nel vuoto, incurante delle grida di una sentinella. «Ma che stai dicendo? È fuggita gettandosi nel fiume? Che ne è stato del figlio?» Karesh sembrava un folle mentre interrogava il soldato. «Non ho avuto il tempo di intervenire, mio re», disse la sentinella. «Ha messo il figlio in un guscio di canne e con lui si è buttata dalla rupe.» «Questa volta non deve sfuggirci!» tuonò Karesh. Dehal ancora una volta provò l'angoscia del salto nel nulla. Strinse a sé il fagotto e attese l'urto con l'acqua che fu dirompente, proprio come lo ricordava. Pregò Hosh affinché suo figlio avesse salva la vita. L'impatto col fondale fu violento, e la donna sentì l'osso della gamba destra spezzarsi. Il dolore le tolse il respiro, ma riuscì a non perdere i sensi mentre spingeva la culla verso la riva, confortata dalle grida disperate del piccolo Sar. Solo quando fu certa che suo figlio era vivo, la vista le si annebbiò: percepì il flusso caldo del sangue tra le cosce. Dehal seppe che aveva perso il bambino che portava in grembo. Quando riprese i sensi, il viso arcigno di Karesh la sovrastava. «Ma bene... Questa volta ti è andata male, mia dolce e amata sposa», ghignò il re dei Davaar. Quindi indicò la macchia di sangue sulle vesti. «Sembra anche che tu non sia più incinta. E non vedo perché dovrei continuare ad aver cura di tuo figlio. È giunto il tempo che il giovane Sar alimenti il nostro valore.» «No, te ne prego, Karesh. Lascialo vivere. È soltanto un bambino.» «Domani il suo cuore nutrirà i miei guerrieri.» La mossa di Dehal fu repentina e imprevedibile: riuscì ad alzarsi, appoggiandosi alla gamba sana e, preso il guscio di canne, lo lanciò di nuovo nella corrente. Nessuno dei davaar, come sempre terrorizzati dall'acqua, ebbe il coraggio di tuffarsi. Impotenti, rimasero a guardare quell'involucro galleggiante e il suo carico trascinati dolcemente a valle dalla corrente. «Facciamo provvista d'acqua. Da qui in avanti non potremo più fermarci: c'è il pericolo che le sentinelle dei davaar ci vedano», aveva detto Athor avvicinandosi al fiume per riempire la borraccia ricavata da una vescica di
capra. «Che cos'è quello?» disse il re dei migos, indicando uno strano guscio di paglia e canne che galleggiava vicino alla riva. «Fate silenzio, uomini! Zitti!» disse ancora Athor. Il pianto disperato di un bambino sovrastò i rumori della foresta e lo scrosciare del fiume. Il re dei migos si tuffò e con alcune potenti bracciate raggiunse l'oggetto galleggiante. Tornato a riva, aprì l'involucro. La gioia che provò nel vedere suo figlio sano e salvo durò un solo istante: se sua madre l'aveva abbandonato, doveva esserle accaduta una terribile disgrazia. Dehal aveva steccato la gamba destra, utilizzando un ramo e dei brandelli dei suoi vestiti, come aveva visto fare ai cacciatori migos. Ma il dolore era insopportabile e inoltre aveva perso molto sangue: si sentiva debole, sola e disperata. Karesh entrò nella capanna. La giovane donna giaceva seminuda sulla paglia e non avrebbe potuto opporgli resistenza. La mano del davaar indugiò tra le sue cosce, poi le dita dell'uomo violarono il suo sesso. In un attimo le fu sopra e insinuò prepotentemente il membro eretto tra le labbra di lei. Vincendo il disgusto, la donna spinse il viso in avanti, assecondando il movimento dell'uomo. Poi la mascella si serrò con forza. I denti affondarono nella carne. L'urlo di dolore del davaar fu agghiacciante, ma venne sopraffatto da altre grida che, in quel momento, si erano levate tra le capanne: i migos erano sbucati come fiere affamate dalla macchia e stavano attaccando il villaggio. 27 Inghilterra, 1216 Il banchetto nuziale era stato sfarzoso. Il conte non si era risparmiato: sapeva bene che quel matrimonio avrebbe potuto rivelarsi un utile strumento di pressione politica, un giorno. Poco importava se, nella Francia martoriata da una crociata sanguinaria, la famiglia della giovane sposa fosse considerata nemica dal re cattolico. Le guerre religiose sarebbero finite, prima o poi. E quando anche gli scontri tra inglesi e francesi fossero cessati, l'allean-
za tra la famiglia di Dolbert e quella di Marie-Louise avrebbe potuto mettere il conte nella posizione di far da mediatore tra i due Stati. Che Dolbert, suo figlio, sembrasse del tutto indifferente al fascino della sua sposa francese non era parsa cosa degna di nota al conte. Con il tempo, era certo che si sarebbe reso conto dell'avvenenza della giovane sposa. Ma Dolbert, per ora, osservava con aria annoiata gli stendardi variopinti che adornavano il castello e sorrideva di tanto in tanto alla bellissima Marie-Louise con il medesimo trasporto che avrebbe potuto riservare a uno dei suoi amati cavalli. La sposa fingeva di non accorgersi di quella freddezza. Entrambi sapevano che quel matrimonio era solo il risultato di un accordo tra i loro genitori, ma la giovane sperava di riuscire, un giorno, ad amare e a farsi amare dal legittimo sposo. Se mai avesse potuto vincere la passione per quel giovane che aveva incontrato nella casa di Puyol. Quando aveva rivisto Aymon alla corte del conte era stata vinta da un'emozione fortissima. L'aveva riconosciuto immediatamente, ancor prima che le sue dita toccassero i tasti dello strumento che suonava con inconfondibile maestria. «Perdonate il mio ardire, messeri e dame», aveva detto a un certo punto della sua esibizione Aymon, alzandosi in piedi e richiamando l'attenzione del pubblico. «Mi sono permesso di comporre una canzone nella lingua d'Occitania, in onore della sposa, e vorrei dedicarla a lei.» Le parole fluttuarono nell'aria, morbide come le foglie portate dal vento tiepido d'autunno. Benvenuta mia signora, signora dagli occhi come stelle signora dei sogni e del pensiero, signora del vero. Benvenuta raggio di ricordi, d'amore e di vita benvenuta regina di ogni felicità, felicità infinita. Era un mottetto a tre voci, un componimento in cui le voci acute di Aymon e di Sarya e quella bassa di Bahram si andavano a sovrapporre l'una all'altra accompagnate dal suono degli strumenti. Aymon cantò e suonò senza mai distogliere lo sguardo dalla giovane Marie-Louise che, benché fosse in preda a un'emozione profonda, riuscì a non tradire il suo stato d'animo. La giovane rimase ad ascoltare sorridendo, con l'elegante riserbo che le imponeva il suo ruolo.
Il brano si concluse tra gli applausi del pubblico, che per lo più non aveva capito neppure una parola della canzone, quindi il terzetto riprese a suonare brani di musica sacra e allegre ballate. L'atmosfera era festosa e sembrava che il repertorio dei musici fosse inesauribile. Fu allora che accadde la disgrazia. Bahram emise all'improvviso alcuni colpi di tosse, si portò una mano al petto, quindi si accasciò rantolante sul liuto. Aymon e Sarya smisero di suonare, sollevarono Bahram e lo condussero dietro a una tenda poco distante dal palco. L'uomo era pallidissimo e prossimo a perdere conoscenza, ma con un cenno del capo chiese ai due di farsi più vicini e, con un filo di voce, disse loro: «Sto morendo, lo so. Ti amo, dolce mia compagna, amore della mia vita. Abbi cura di lui». Poi le sue labbra ceree si posarono sul dorso della mano della donna in un ultimo tenero bacio. «E tu, Aymon, ragazzo mio, accudisci questa donna alla quale hai illuminato la vita, regalandole il dono della maternità. Se il cielo esiste, spero che mi accolga.» Bahram, lo tzigano che aveva battuto in duello i più grandi campioni dei tornei, il musico che poteva suonare per ore senza mai stancarsi, l'uomo che aveva amato Aymon come un figlio, si spense guardando dolcemente entrambi. «Chissà che notte di passione vi attende, mia signora», aveva detto l'ancella, passando il pettine tra i capelli d'oro di Marie-Louise. La giovane sposa aveva sorriso, mentre l'altra le cospargeva la pelle con un olio profumato. Quindi si era coricata, ed era rimasta in attesa che il marito venisse a farle visita nella sua stanza. Sapeva bene qual era il suo dovere di moglie. Dolbert non si palesò quella prima notte, e neppure la seconda, né le successive. Dopo un anno il matrimonio non era ancora stato consumato. Segretamente grata di ciò, la giovane sposa si comportava in pubblico in maniera esemplare e non pareva soffrire in alcun modo del manifesto disinteresse del marito. «Avete chiesto di parlarmi, signore», disse Aymon posando a terra il ginocchio destro e chinando il capo dinanzi al conte di Old Sarum. «Si, Maxim», rispose il nobiluomo, facendogli cenno di alzarsi. «È molto tempo che vivi in casa mia e devo ammettere che le tue doti musicali
hanno rallegrato spesso la vita di corte. Ricordi Ackerley Colter, il Pirata, non è vero?» «E come non potrei? Quando ha catturato la galea sulla quale eravamo imbarcati, mi ha fatto passare dei brutti momenti.» «Al momento del vostro arrivo in Inghilterra», continuò il conte, «le vostre cose vennero requisite e gli strumenti musicali furono venduti a un mercante di Londra. Ma il Pirata trattenne per sé questa.» Così dicendo il nobile sollevò un drappo e l'akinakes forgiata dalle mani di Bahram balenò alla luce dei bracieri che ardevano nella sala del trono. «È tua. Colter me l'ha mostrata tempo fa e mi ha raccontato la sua storia. Così ho deciso di comprarla per restituirla al suo legittimo proprietario», concluse il conte, porgendogli l'arma. Aymon la prese con mani trepidanti. Quella spada non era solo un oggetto prezioso e un'arma perfetta: era anche ciò che Bahram aveva avuto di più caro. L'eredità che il valoroso tzigano gli aveva lasciato era tornata nelle sue mani. Quando uscì dal salone Aymon era in un tale stato di estatica euforia che quasi andò a sbattere contro Dolbert. «Che fai, musico, come osi sbarrare il mio passo?» chiese il figlio del conte con fare arrogante. «No, mio signore, non mi permetterei mai. È che sono felice. Guardate questa spada che già mi fu donata un tempo e che in seguito mi è stata confiscata: vostro padre è riuscito a ritrovarla e ora me l'ha ridata.» Dolbert dette un'occhiata sprezzante all'oggetto, quindi si rivolse al suo luogotenente: «Mio padre sta davvero invecchiando: un tempo mai avrebbe fatto un simile dono a un servo e, per di più, ex galeotto». Nel piccolo cortile sul retro della casetta che abitava con Sarya, Aymon stava esercitandosi con la spada. Era a torso nudo e, sotto la pelle lucida di sudore, i muscoli guizzavano assecondando i movimenti agili del suo aitante corpo. Dal giorno del matrimonio, oltre un anno prima, il giovane non aveva mai avuto l'occasione di scambiare con Marie-Louise più di qualche parola. I loro sguardi si erano incrociati alcune volte, ma sempre alla presenza di ancelle o altre persone, e Aymon non aveva mai potuto dirle ciò che avrebbe voluto. Ma ormai aveva deciso: non appena ne avesse avuto l'occasione, avrebbe chiesto a Marie-Louise se davvero non l'avesse riconosciuto. E le avrebbe detto che l'amava fin da quando suonavano insieme nella
casa del maestro Puyol. A questo stava pensando, mentre concludeva un affondo nel costato di uno spaventapasseri di paglia che, oltre a vegliare sul piccolo orto, rappresentava il suo solo avversario. «Toccato!» disse una voce soave alle sue spalle. Aymon si fermò di scatto, con il cuore in subbuglio e non solo per lo sforzo. Marie-Louise era in piedi dinanzi alla palizzata che delimitava la proprietà che il conte aveva assegnato a lui e alla vedova di Bahram. L'ancella stava poco più indietro. «Vedo che non siete solo un musico raffinato, messere», continuò Marie-Louise sorridendogli. «Perdonate il mio abbigliamento, madame. Sono onorato della vostra presenza», disse Aymon, indossando in un lampo la spessa maglia di lana. «Mi sto recando a far visita a una famiglia di fattori che è appena stata allietata dalla nascita di un bambino. Vi ho visto e devo dire che la vostra abilità nel tirare di scherma ha catturato la mia attenzione.» «Troppo buona, mia signora. Stavo solo allenandomi, tanto per non perdere l'abitudine.» La giovane sorrise. E nel suo sguardo ad Aymon parve di scorgere il lampo della passione. «Buona giornata, messere», disse lei. «Buona giornata a voi, signora», disse Aymon inginocchiandosi, ma tenendo gli occhi fissi in quelli della giovane donna. Sarya lo raggiunse. Era una donna riservata che poteva apparire dura e insensibile, ma Aymon negli anni aveva imparato a conoscerla e ad apprezzarne le doti di umanità. «Sei innamorato di lei, non è vero?» gli chiese, seria in volto. Egli la guardò sorpreso. Non avrebbe mai pensato che i suoi sentimenti fossero tanto palesi. «Sì, Sarya. La amo dal giorno in cui l'ho vista per la prima volta. Ero poco più di un bambino.» «È bello, vero?» disse l'ancella mentre aiutava la sua signora a prepararsi per la notte. «Di chi parli, Reanna?» «Del musico Maxim. È lui che eccita le fantasie delle giovani del borgo.
Pare che tutte siano innamorate di lui, ma che nessuna sia ricambiata. Con voi sembra diverso, mia signora. Ogni volta che vi incontra gli si illuminano gli occhi e arrossisce.» «Lascia perdere questi discorsi e vai a dormire. È tardi.» Quella notte Marie-Louise tentò invano di prendere sonno: il fisico muscoloso di Aymon, i suoi occhi luminosi, le labbra sensuali l'avevano turbata. Immaginò di avere accanto il giovane per il quale segretamente batteva il suo cuore... Sapeva che il suo era un amore puro e casto ma, ugualmente, sentì il bisogno di pregare per la sua anima e perché Dio si prendesse cura dell'uomo che amava, perché lo tenesse lontano dai pericoli e dalla cattiva sorte. Si alzò e si avventurò nei corridoi del maniero in direzione della piccola cappella. La fredda aria autunnale si insinuava tra i vasti ambienti nei quali i camini venivano accesi solo di giorno. Fu per questo che Marie-Louise decise di attraversare la sala del trono: avrebbe allungato il percorso, ma lì i bracieri e i camini rimanevano sempre accesi. Aprì la porta: le ci vollero alcuni istanti prima di rendersi conto di ciò che stava accadendo davanti ai suoi occhi. Suo marito Dolbert era inginocchiato sul trono, le gambe divaricate, il busto piegato in avanti. Dietro di lui Pell, il suo inseparabile luogotenente, si agitava ritmicamente. Marie-Louise non riuscì a trattenere un grido di raccapriccio, quindi girò le spalle e corse verso i suoi appartamenti. Pell portava i capelli neri lunghi sulle spalle, aveva un viso spigoloso e duro, degno della sua fama di feroce soldato. Era meno alto del suo padrone, ma il fisico tozzo e robusto pareva fatto per combattere. Da qualche anno era stato ingaggiato dal conte come maestro d'armi e guardia personale del figlio maggiore. «Ci ha visto, accidenti a lei!» aveva detto, rivestendosi in tutta fretta. «E ora, che dobbiamo fare? Se si verrà a sapere sarà uno scandalo. Dobbiamo impedirlo a ogni costo», disse Dolbert con aria spaventata. «Ammazziamola, Pell.» «Sì, bella idea! Così rischieresti di essere incolpato di uxoricidio!» «Io sono il futuro conte di Old Sarum, voglio vedere chi avrà l'ardire...» «Stai zitto e lasciami pensare!» Dopo un breve silenzio, Pell continuò.
«Da tempo Reanna, l'ancella di tua moglie, mi tiene informato delle giornate della sua signora, di qualsiasi cosa lei faccia. Sembra che tra lei e quel Maxim, il musico, ci sia qualche cosa... Stai a sentire come ti troverai non solo conte di Old Sarum, ma anche scapolo e libero!» 28 Berlino, anni '30 La nascita dell'Ahnenerbe era stata sancita il primo giorno del 1935 ma molti suoi adepti, tra i quali Himmler, si erano prodigati per la realizzazione di quel progetto da almeno un quinquennio. L'Ahnenerbe, che ufficialmente si chiamava Società per lo studio sulla storia antica dello spirito germanico, ma che presto venne definita da chiunque «Eredità ancestrale», arrivò in breve a contare quarantatre dipartimenti, centottantasette scienziati e una novantina di tecnici. Ogni dipartimento si occupava di esaminare argomenti dai risvolti più o meno misteriosi, comunque sempre legati a fenomeni esoterici. Le materie di studio comprendevano l'antropologia, la musica tradizionale, l'archeologia, l'occultismo, la magia e le erbe medicinali. Al sergente delle SS Otto Rahn erano stati dati un ufficio e un assistente personale. Lo avevano assegnato al dipartimento per lo studio dell'eredità ancestrale, ma lui aveva chiesto, e ottenuto, di potersi occupare anche delle sue ricerche sul segreto dei catari. Nonostante i ripetuti insuccessi, continuava a pensare di essere a un passo dalla scoperta che lo avrebbe reso famoso. Rahn era uno studioso attento e scrupoloso. Lavorava alle dipendenze di Friederich Hielscher, il capo del dipartimento occultistico dell'Ahnenerbe, il quale aveva in mente progetti molto ambiziosi, tesi a dimostrare la veridicità della leggenda di Thule: secondo questa, una volta distrutta a causa di una catastrofe naturale la mitica terra iperborea, gli ariani che l'abitavano erano migrati negli angoli più disparati del mondo, dal Tibet al deserto del Gobi. Compito dell'Ahnenerbe sarebbe stato quello di ricercare i discendenti in linea diretta di quei progenitori ariani. Per questo Hielscher si era dedicato all'organizzazione di alcune missioni in Tibet, sotto la guida di un esploratore esperto come il naturalista Ernst Schäfer.
L'opinione di Otto Rahn era tenuta in grande considerazione e ogni documento che riguardasse antichi segreti passava prima o poi sulla sua scrivania: tra essi vi erano quelli relativi alle grandi persecuzioni delle eresie. Nei suoi interminabili studi e nell'elaborare ipotesi sull'origine del Graal, Rahn non era però solo: Himmler era molto interessato all'evolversi delle ricerche e spesso lo convocava per essere aggiornato. Quella mattina, dopo l'ennesima telefonata del Reichsführer, Otto aveva pensato che ancora una volta sarebbe stato costretto ad arrampicarsi sugli specchi per soddisfare le aspettative del suo superiore. Himmler era molto nervoso, temeva di essere in trappola. Le leggi razziali sull'arianesimo e quelle, ancor più restrittive, per l'ammissione alle SS, prescrivevano che il candidato dovesse risalire col suo albero genealogico sino al 1750 senza che nessun suo antenato si fosse macchiato con un'unione «impura». Qualcuno aveva instillato in Hitler il sospetto che proprio il capo delle SS non avrebbe potuto dimostrare la completa appartenenza alla razza ariana: la sua genealogia si perdeva tra le vallate di un cantone di lingua francese in Svizzera. «Avete capito, Weisthor?» stava dicendo Himmler al suo interlocutore. «Proprio io, ariano tra gli ariani, mi vedo costretto a fornire ulteriori dimostrazioni sulla mia ascendenza. Ho chiesto di poter parlare con le massime autorità elvetiche e vedrete che, entro breve, riuscirò a venirne a capo. Anche a costo di dover ottenere certificati falsi da parte del consiglio cantonese.» «Aspettate, Reichsführer. Non credo sia necessario smuovere mari e monti per falsificare dei certificati. Non vi conviene esporvi con operazioni non propriamente... legali. Bisogna essere cauti.» «E che cosa mi consigliate di fare, Weisthor?» «Mi sembra che Otto Rahn abbia un amico di nazionalità svizzera, la cui famiglia gode di una grande influenza nella confederazione. Chiamatelo. Sono certo che si farà in quattro per accontentarvi.» L'amico di Rahn si chiamava Raymond Perrier e suo padre, avvocato a Ginevra, riuscì a sistemare le cose in un baleno. Ma, se Himmler poteva ora contare su un'impeccabile ascendenza ariana, aveva però maturato un debito nei confronti del suo sottoposto. Adolf Hitler osservava compiaciuto i modi raffinati ed eleganti di He-
ydrich. Quell'uomo gli piaceva molto, perché incarnava l'essenza dello spirito ariano ed era dotato di un cinismo inscalfibile. Sosteneva che le razze inferiori dovessero essere allontanate dallo Stato tedesco. Beninteso, dopo averle private di ogni loro avere. «Sapete perché molti, tra i grandi condottieri del passato, sono stati costretti a soccombere?» aveva esordito il Führer guardando Heydrich negli occhi nel corso del loro ultimo incontro. «No, signore», rispose il comandante della GESTAPO. «Perché nessuno di loro si è mai preoccupato di pianificare la propria salvezza. Nessuno può sperare di restare in eterno sulla cresta dell'onda. I grandi generali insegnano che importante quanto il piano d'attacco è la strategia di fuga o, se preferite, di ritirata. Se Napoleone avesse preparato un piano per sottrarsi alla prigionia, la Storia avrebbe avuto un corso diverso. Se Giulio Cesare, per arginare la sua crescente impopolarità, avesse attuato strategie alternative, non avrebbe dovuto soccombere alla pugnalata di Bruto. Ma avremo modo di approfondire l'argomento, Herr Heydrich.» Quindi il Führer si rivolse a Hess, l'unico tra i suoi collaboratori che chiamava per nome: «Dimmi, Rudolf, a che punto sono le trattative?» «I miei contatti segreti con alcuni esponenti della famiglia reale inglese stanno producendo ottimi risultati. Credo che riusciremo ad accordarci per fronteggiare assieme l'orda comunista e bolscevica.» «Molto bene», concluse Hitler. Tutto sembrava andare nel migliore dei modi. Londra, anni '30 Il capitano di fregata Rowell Kater non era affatto soddisfatto della mansione che i servizi segreti britannici gli avevano assegnato: pedinare giorno e notte un membro della famiglia reale lo faceva sentire un traditore. Malgrado ciò, Kater si era mosso affinché il suo lavoro fosse svolto con scrupolo e puntiglio. Il duca di Kent era uscito da solo, a bordo dell'auto che di solito usava il suo maggiordomo. L'ufficiale dei servizi segreti faticò a riconoscerlo, nascosto com'era dalla sciarpa e dal cappello calato sugli occhi. «Una delle sue solite stravaganze», pensò Kater mettendosi sulle tracce del terzogenito di re Giorgio V «Ecco perché un ufficiale di marina è costretto a eseguire pedinamenti
come un novellino: le dissolutezze dei potenti devono essere scoperte da persone molto affidabili. Adesso mi toccherà il solito incontro clandestino e passerò l'intera giornata di domani a cercare parole adatte per buttare giù il rapporto di servizio.» Dopo avere girovagato per le strade intasate di traffico di Londra, l'auto del duca si infilò nel portone del palazzo dove si trovava la sede londinese della Società nazionale geografica. Kater sapeva bene che la società altro non era che una copertura dietro alla quale si celava l'intera rete dello spionaggio della Germania nazista. La Società geografica era diretta da un certo Albrecht Haushofer, persona che si diceva molto vicina ai gerarchi di Hitler. L'agente britannico annotò alcuni appunti sul suo taccuino, quindi scese dall'auto e iniziò a passeggiare, facendo finta di osservare le vetrine dei negozi. Un'auto scura rallentò, quindi si infilò anch'essa nel cortile della casa. Quando scorse il volto del passeggero, Kater trasalì. L'uomo che scese dall'auto era Rudolf Hess, il braccio destro di Adolf Hitler. Dopo avere redatto il suo rapporto di servizio, quella sera Kater poté finalmente dedicarsi alla cosa che, più di ogni altra, da giorni lo entusiasmava: la decifrazione dell'antico spartito. Aveva provato a eseguire la musica, ma c'era qualche cosa che non andava nella sequenza delle note. Era certo di essersi imbattuto in un mistero antico e affascinante. Quindi si accinse a continuare il lavoro di restauro dello strumento. Presto sarebbe tornato come nuovo, pensò soddisfatto. Se avesse sospettato che un filo di sangue legava la storia della ghironda ai protagonisti del rapporto che ancora aveva sul tavolo, la sua espressione sarebbe stata ben più preoccupata. Roma, anni '30 L'incontro tra il segretario di Stato vaticano e il presidente degli Stati Uniti d'America non aveva portato ai risultati sperati: Roosevelt aveva preferito non prendere posizione sul fenomeno nazista. Come molti potenti della terra, sperava di poter continuare a essere solo uno spettatore e si diceva certo che il caso Hitler sarebbe rimasto circoscritto al suolo tedesco o, alla peggio, all'area nordeuropea. L'America era lontana migliaia di chilometri dai problemi del Vecchio Continente e ne aveva di assai più importanti da risolvere: la Grande recessione mieteva vittime e scontento, mise-
ria e ribellioni. Il cardinale Pacelli era quindi tornato dal suo viaggio in America senza aver trovato il sostegno e la partecipazione su cui aveva contato. Si sentiva solo e senza appoggi, ma sapeva che era suo dovere combattere il Male e nutriva la certezza che un conflitto lungo e difficile sarebbe stato presto inevitabile. L'anno stava per finire. Pacelli si augurò che il 1937 portasse un po' di saggezza nelle menti dei potenti. Berlino, anni '30 Gli studi di Otto Rahn erano giunti a un punto morto. Da quando aveva individuato il graffito preistorico non aveva fatto altro che dibattersi tra una ridda infinita di ipotesi. Prese tra le mani una delle foto che aveva scattato prima di alterare la pittura rupestre. Aveva identificato in uno strano simbolo a spirale l'oggetto che stava cercando. E quello che a una prima impressione sarebbe potuto sembrare un manipolo di guerrieri o cacciatori altro non era che uno stuolo di cadaveri. Ma ancora non era riuscito a spiegarsi il significato di quello strano rettile, una specie di grande lucertola. Otto Rahn guardò fuori dalla finestra del suo ufficio al quarto piano della sede dell'Ahnenerbe, al numero 16 di Pucklerstrasse, dove i cartelli stradali sembravano sul punto di cedere alla furia del vento. E, come per incanto, tutto gli fu chiaro. «Ma come ho fatto a non pensarci prima? Si tratta di un'indicazione per giungere alla meta. Non è altro che un cartello segnaletico!» disse ad alta voce. «Che cosa avete detto, sergente Rahn?» domandò attonito un suo collega. «Nulla, nulla. Parlavo da solo», rispose Rahn, tirando fuori dallo schedario a muro due voluminosi album fotografici. «Ma voi non uscite mai, sergente? Vivete sempre chiuso qui dentro? Ogni mattina vi trovo qui e alla sera, quando esco, vi lascio intento a consultare tutte quelle vostre foto di caverne e castelli diroccati. Capisco che siete solo, qui a Berlino... Ma se volete... Mia moglie, una vera ariana, è un'ottima cuoca. Potreste cenare da noi, una di queste sere.» «La cena. Accidenti! Quasi me ne dimenticavo!» esclamò Otto Rahn battendosi la mano sulla fronte. Mezz'ora più tardi scendeva da un taxi davanti al ristorante Horcher.
La cena, a cui li aveva invitati Himmler, era una festa in onore delle confermate origini ariane del Reichsführer. Attorno a una tavola rotonda elegantemente imbandita, si trovavano Himmler, Heydrich, il ginevrino Perrier e lo stesso Rahn. Era singolare che un semplice sottufficiale delle SS potesse sedere al medesimo tavolo del suo comandante e del capo supremo della GESTAPO. Ma Rahn, per le alte gerarchie naziste, rappresentava ben altro che un graduato di truppa. «Come procedono le vostre ricerche?» chiese a un tratto Himmler. Rahn si aspettava quella domanda, e la sua risposta fu vaga, ma dai toni entusiasti. «Ho appena scalato la parete più difficile della montagna. La meta mi appare adesso più vicina, Reichsführer. Chiederò una breve licenza ai miei superiori: credo che un'altra visita alle grotte di Ussat sia a questo punto indispensabile.» Il treno era rimasto fermo a Wissembourg per oltre un'ora. Prima erano salite a bordo le guardie di frontiera tedesche, quindi, dopo pochi metri, era stata la volta di quelle francesi. I doganieri avevano controllato con scrupolo i documenti di tutti i passeggeri. Finalmente il treno era ripartito e Rahn, che viaggiava con il nome falso di Otto Raush, si era ancora una volta trovato in Francia, l'unica terra in cui gli sarebbe piaciuto vivere. Il tedesco guardava oltre il vetro appannato e non si accorse subito della donna che era entrata nello scompartimento. «Sono liberi questi posti?» chiese con un marcato accento del Nord. Aveva un aspetto rassicurante e quieto: poteva essere un'impiegata, forse un'insegnante. I capelli castani erano striati di grigio, e gli occhiali spessi ne oscuravano lo sguardo. Otto Rahn le fece cenno di accomodarsi. L'agente della Sûreté Carla Jeogeres Núñez era fiduciosa del suo travestimento e sapeva che Rahn non era un fisionomista. Sedette tranquilla di fronte a lui, un libro aperto tra le mani e gli occhi che spesso si soffermavano sui lineamenti del tedesco. Il treno correva veloce sbuffando nuvole di vapore denso. 29 Linguadoca, 2007
«Ho saputo che Otto Rahn venne sorpreso mentre alterava dei graffiti, e che si prese alcuni cazzotti sul muso», aveva detto Sara Terracini rivolgendosi alla guida. «Domani vorrei visitare la grotta con quei graffiti, se possibile.» Quando Sara si sdraiò nel letto della sua stanza all'hotel di Ussat era sfinita: la fatica di quei cinque giorni di arrampicate e camminate incominciava a farsi sentire, e l'idea di rientrare a Roma le appariva come un miraggio. Ma sapeva che avrebbe dovuto informare il suo anziano mentore, il miliardario paraguaiano, dell'insuccesso della sua spedizione. Ci fosse stato Breil, tutto sarebbe stato diverso. Avrebbe annusato l'aria e percepito i segreti di Otto Rahn. Ma chissà dove si trovava Oswald? Probabilmente a farsi coccolare dall'anziana Mame-loshen Habar e dalle sue delizie culinarie. Il mattino seguente, Sara si presentò al quotidiano appuntamento con la guida, portando con sé una valigetta nera. «Di che cosa si tratta?» le chiese l'uomo, che non riusciva a nascondere la curiosità. «È un'apparecchiatura in grado di leggere la fluorescenza ai raggi X. Viene utilizzata per lo più nei laboratori di restauro per verificare se, sotto al dipinto principale, si nascondono i cosiddetti ripensamenti dell'artista o altre opere. Funziona misurando la lunghezza d'onda emessa dai materiali colpiti da radiazioni elettromagnetiche. Se Otto Rahn, nel corso della falsificazione, avesse utilizzato colori e materiali differenti da quelli utilizzati dall'antico autore, potrei riuscire a decifrare il graffito originale.» Denver, 2007 <ECCOMI A LEI, MAGGIORE!> In poche ore il capitano Bernstein aveva trovato il piccone che avrebbe rimosso il primo mattone. Forse sarebbero riusciti a demolire il muro che nascondeva la realtà su una vicenda che stava a cuore a Oswald Breil e al mondo intero. , digitò Breil.
Oswald aprì l'allegato e le immagini cominciarono a scorrere sullo schermo. In esse si vedeva un anziano parlamentare che scandiva le parole con aria saggia, ben sapendo che ciò che usciva dalla sua bocca era più tagliente di una lama d'acciaio: «Signor presidente Pashelvi, signori colleghi. Riconosco lo sforzo con cui si cerca di far passare una rivoluzione per un fatto normale. Ma non lo approvo. Il nostro parlamento è il solo strumento che può garantire il rispetto delle leggi. Ora tutti noi sappiamo bene che il parlamento sta correndo il rischio di finire sotto il controllo di pochi». Mentre parlava, il relatore puntava lo sguardo in direzione del presidente Pashelvi, che pareva indifferente alle accuse a lui rivolte. «Se non vado errato», continuò l'anziano deputato senza nascondere il sarcasmo, «avevamo un presidente, eletto a suffragio universale, la cui carica sarebbe dovuta durare quattro anni. Dov'è finito? L'unico ad avere avuto contatti con lui, dal momento della sua 'fuga traditrice', è stato lei, presidente Pashelvi. Nessuno 'Stato tentatore' ha segnalato l'arrivo del nostro ex capo dello Stato, né tantomeno ha annunciato di esserne divenuto protettore. Quindi mi rivolgo a lei per avere notizie del suo predecessore: nessuno ne sa più nulla da diversi mesi.» Ci fu un brusio sommesso: i metodi repressivi di Pashelvi erano ben noti. Ma il presidente, ignorando la provocazione, si limitò a chiedere se altri
avevano intenzione di prendere la parola e quindi dichiarò conclusa la seduta. scrisse. <MI METTO SUBITO AL LAVORO, MAGGIORE, E SPERO DI POTER ARRIVARE A QUALCOSA GIÀ NELLE PROSSIME ORE.> Teheran, 2007 Bijan Tabor uscì dalla sua casa di Teheran e percorse pochi passi lungo Fatemi Avenue. Era quasi arrivato all'angolo di Laleh Park quando il rombo alle sue spalle lo costrinse a voltarsi. L'auto era salita sul marciapiede e lo stava puntando. Il parlamentare tese le mani davanti a sé nell'istintivo ma inutile gesto di respingere il pericolo. L'auto lo travolse, facendolo carambolare in aria come un fantoccio. Quindi, sgommando, abbandonò la scena. Bijan Tabor giaceva a terra con il cranio fracassato. Linguadoca, 2007 L'entusiasmo di Sara Terracini era durato poche ore. La giovane ricercatrice aveva esultato quando era riuscita a scorporare i tratti dell'antico graffito da quelli che Otto Rahn vi aveva sovrapposto. Poi era rimasta a lungo a osservare i disegni: una spirale, delle apparenti figure antropomorfe, tracciate con le semplici linee che contraddistinguono le raffigurazioni preistoriche, senza riuscire a darsi spiegazione alcuna. Lo squillo del telefono la riscosse.
«Come procedono le ricerche, dottoressa Terracini?» chiese la voce di van der Duick. «Oggi credevo di aver fatto una scoperta interessante, ma ora mi pare di essere arrivata a un punto morto. Mi dispiace, signor van der Duick: non so proprio come venirne fuori. Forse è il caso che lei affidi a qualcun altro questa ricerca.» «Non si lasci vincere dallo sconforto, Sara. Non esiste nessuno più competente di lei. Se Otto Rahn ha fatto di tutto per alterare quel graffito, deve aver avuto i suoi buoni motivi. Non è da lei arrendersi quando la soluzione è a un passo.» «Magari la soluzione non esiste e Rahn era solo un piccolo impostore che ha manipolato un antico dipinto per dare credibilità a una leggenda che avrebbe fatto accorrere nella zona - e quindi anche nel suo albergo - frotte di curiosi.» Conclusa la telefonata, Sara accese la televisione. Ma se aveva sperato di riuscire a distrarsi, rimase ancora una volta delusa. Restò a osservare le tragiche notizie che provenivano da Israele: al confine con il Libano erano ripresi scontri sempre più cruenti. Nessuno la chiamava «guerra» solo perché gli Hezbollah, controparte armata degli israeliani, rappresentavano una realtà subdola ed evanescente. Ma quella era una vera guerra, finanziata dall'Iran di Pashelvi. Quando il servizio sul Medio Oriente si chiuse, Sara si domandò come fosse possibile che i telegiornali potessero alternare la più cruenta delle notizie alla trattazione di argomenti futili e quasi banali. In pochi istanti il notiziario era passato dal focolaio di un potenziale terzo conflitto mondiale all'habitat del drago di Komodo, un varano di quasi tre metri, simile a una gigantesca lucertola di colore scuro. La telecamera indugiò in una ripresa dall'alto. Sara rimase a osservare la figura dell'animale... Un uomo che disegna un suo simile con poche linee rette, come potrebbe disegnare un drago? Con una linea orizzontale e due verticali parallele: l'enigmatico simbolo che compariva nella pittura rupestre che Otto Rahn aveva cercato di cancellare per sempre. Un drago... Come aveva fatto a non pensarci prima? Sollevò il ricevitore e compose nuovamente il numero di van der Duick. Alla Grotte des Chevaliers veniva attribuita un'importanza inferiore rispetto alle più conosciute grotte di Lombrives, di Bouan o di Betléem, che erano composte da caverne collegate tra loro da cunicoli percorribili per
centinaia e centinaia di metri, quotidianamente visitate da molti turisti. La Grotte des Chevaliers aveva invece un breve percorso a senso unico: non attraversava la montagna da parte a parte ma, giunti in prossimità di un laghetto di acqua cristallina e fresca, i visitatori dovevano fare dietro front e tornare sui loro passi. La sua maggiore attrazione era rappresentata da una figura che gli agenti atmosferici avevano scolpito al suo esterno, a pochi passi dell'imboccatura. I locali chiamavano Tarasque quella gigantesca scultura di pietra che rappresentava un grosso rettile in posizione d'attacco. La Tarasque sembrava vigilare l'ingresso della grotta come un dragone che l'incantesimo di un malvagio mago avesse trasformato in un'immobile sfinge di pietra. «La Tarasque», stava dicendo la guida a Sara Terracini, «è un animale fantastico che secondo la leggenda abitava il fiume Rodano nell'antichità. Spesso il dragone famelico abbandonava il suo rifugio e compiva razzie nei villaggi della Linguadoca, pretendendo il suo tributo in vite umane. Si credeva fosse figlio del Male e la gente di qui si faceva il segno della croce ogni volta che lo nominava. Fu grazie all'intervento di santa Marta che la valle del Rodano venne finalmente liberata dal mostro, diventato improvvisamente docile e mansueto.» Washington, 2007 Phil Damiano stava scorrendo l'ultimo dispaccio sulla situazione in Medio Oriente. Aveva trascorso tutta la sua esistenza a prevedere e a disegnare scenari di guerra, anzi a volte aveva contribuito a creare i presupposti per far divampare un conflitto: anche questi erano i compiti degli agenti della CIA. Ora era evidente che la situazione in Medio Oriente era prossima al collasso. «Guardi qui, generale», disse indicando lo schermo del computer, mentre impartiva i comandi per ingrandire le immagini riprese dai satelliti spia. «Nelle ultime settimane abbiamo riscontrato considerevoli movimenti di truppe iraniane al confine con l'Iraq. E, nel frattempo, la Siria ha rinforzato i suoi presidi alle frontiere con il Libano e con Israele. Due divisioni corazzate della Stella di David, invece, sono penetrate per quasi quaranta chilometri in territorio libanese. Manca solamente la scintilla e sarà la guerra.» Il generale Edward Corrige ascoltava il direttore della CIA in silenzio,
ma la sua espressione era preoccupata. Quando parlò, la tensione trasparì nitida dalla sua voce. «In questi anni di relativa calma e con i prezzi del greggio alle stelle, l'Iran ha avuto il tempo e i mezzi per ricostituire le sue forze armate, uscite provate dal conflitto con l'Iraq. Oggi le truppe sotto la bandiera del leone di Persia possono contare su settecentosessantottomila soldati. Ma consideri che gli iraniani tra i diciotto e i cinquant'anni sono oltre diciotto milioni. A questi si vanno ad aggiungere ogni anno i quasi novecentomila neodiciottenni. L'Iran spende, ufficialmente, dagli otto ai dieci miliardi di dollari l'anno per spese militari. I loro armamenti sono moderni ed efficaci. In compenso, dopo l'inizio della smobilitazione delle nostre truppe in Iraq, nella zona sono rimasti solamente pochi contingenti americani con dotazioni atte a garantire il controllo sulla regione e non certo in grado di fronteggiare un attacco da parte delle vicine milizie iraniane.» «Che cosa intende dire, generale?» «Basandomi sulla mia esperienza e su quanto vedo, temo che se gli iraniani dovessero varcare il confine, riuscirebbero a travolgere le nostre truppe di stanza in Iraq nel giro di poche ore. Ciò significherebbe che, dopo aver sbaragliato sul territorio iracheno la nazione più potente del mondo, i militari agli ordini di Gholam Pashelvi avrebbero la via spianata per marciare su Israele. A quel punto gli ebrei non staranno certo a guardare, e metteranno in campo ogni arma a loro disposizione. Comprese quelle atomiche. Uno scenario devastante.» «Sarebbe ancora più preoccupante se anche l'Iran avesse a disposizione ordigni nucleari.» «Sì. Dobbiamo augurarci che almeno questo pericolo sia scongiurato.» Denver, 2007 <SÌ. SETTE GIORNI DOPO L'ARRIVO NELLA BANCA BRASILIANA DI MANAUS DEL «PACCO» DA VENTI TONNELLATE, DA QUELLA STESSA BANCA È PARTITO UN ALTRO PACCO, UN PO' PIÙ PICCOLO, SOLO CINQUE TONNELLATE. E SA CON QUALE DESTINAZIONE?> <ESATTO, MAGGIORE.> Il resoconto di Bernstein aveva piuttosto disorientato il piccolo uomo. Si accomiatò dal fedele amico dopo avergli raccomandato una più approfondita ricerca sulle attività dell'istituto di credito di Manaus. «Le cose non succedono mai per caso», mormorò Breil, chiudendo la comunicazione con Tel Aviv. «Che cosa hai detto?» disse Sara. Doveva essersi svegliata da qualche minuto, ma aveva atteso che Oswald terminasse di scrivere. Il riposo forzato stava sortendo il suo effetto e la donna acquistava forza e vitalità di
giorno in giorno. «Nulla, un commento tra me e me.» «Sei qui da molto?» «Forse mezz'ora. Il tempo di scambiare due chiacchiere con l'amico Bernstein in Israele.» «Raccontami. Cos'è successo?» «Siamo riusciti a localizzare l'antichissimo nascondiglio segreto. Il problema è che qualcuno è arrivato prima di noi e ha probabilmente sottratto un'ingente quantità di materiale radioattivo. Per farlo non ha esitato ad accoppare tre poliziotti francesi. Sono molto preoccupato e, come se non bastasse, Bernstein, cercando informazioni sul tuo mecenate, ha scoperto cose inquietanti.» Oswald raccontò ogni cosa a Sara con meticolosa precisione. La donna lo ascoltava attenta, mentre le lacrime le rigavano il volto. «Che succede? Stai piangendo?» «Accidenti, devo essere ancora debole per commuovermi così. Non è da me... Ma penso alla vita di quei tre ragazzi e al pericolo che un'arma nucleare può rappresentare per l'umanità. E poi... Ho letto le ultime pagine dell'agenda di Raso, e non è stata una lettura piacevole. In calce, ho anche raccolto alcune notizie ricavate dalla stampa dell'epoca, che riguardano i fatti narrati.» Dall'Agenda di Luca Raso, Amazzonia, 1976 Avevo sentito e visto abbastanza, quindi sono strisciato fuori dalla stanza segreta, ho raggiunto la scala di servizio che portava fino al corridoio sotterraneo e ho cominciato a correre. Mezz'ora dopo sono arrivato all'aeroporto. Non ho incontrato anima viva per tutto il percorso. Sono entrato nell'hangar dal grande portale che era semiaperto. Lì si trovavano, tra gli altri, l'elicottero e l'aereo sui quali avevo viaggiato. Alexandra è emersa dall'ombra e ci siamo abbracciati con la disperazione di due naufraghi. «Come faremo a fuggire dalle grinfie di Heydrich?» mi ha chiesto spaventata. «Troveremo un modo. Non sai che cosa ho scoperto. Heydrich non è il solo sopravvissuto: anche gli altri gerarchi le cui morti
avevano suscitato dei dubbi, Himmler e Bormann, sono ancora in vita. Li ho visti! Dicevano che anche Adolf Hitler ha vissuto a lungo sotto falso nome e che è morto di recente di malattia. I tre figli del Male discutevano tra loro su come liberare Hess: questa è l'operazione Amazzone! Finalmente sono riuscito a saperlo. Ma adesso dobbiamo fuggire. Li ho convinti a rimandare la mia esecuzione raccontando a quegli aguzzini che avevo lasciato un rullino fotografico e delle precise istruzioni a un avvocato di Rio...» «È una storia che ti sei inventato, Luca?» mi ha chiesto Alexandra, portandosi la mano destra dietro la schiena. Se avevo bisogno di una conferma dei miei sospetti, quel gesto lo è stato. «Di sana pianta, cara mia. E vedessi come ci sono cascati tutti quanti. Dovreste stare più attenti, voi nazisti, a chi vi circonda. Se stai cercando questa, l'ho appena sfilata dai tuoi pantaloni mentre ti abbracciavo», le ho detto, puntandole contro la sua pistola. «Che cosa dici, Luca?» «Esattamente quello che ho detto. Dovreste essere più accorti, mia cara Alexandra. Il fatto è che io faccio parte di un servizio segreto, quello del mio Paese, considerato 'amico' del Mossad. Sono un ufficiale dei carabinieri a copertura profonda, e sono arrivato fino alla Neumann seguendo le tracce che l'Oro d'Italia, l'intera riserva aurea italiana trafugata dai nazisti, ha lasciato dietro di sé. Mentre mi trovavo a Rio ho chiesto al Mossad di controllare se tu risultassi in organico, ma non ti hanno trovata nemmeno tra gli addetti alle pulizie. Allora ho aspettato le tue mosse: potevi far parte di un altro servizio segreto e avere preferito non rivelarmi quale fosse. La pistola, la tua domanda di poco fa e la tua mano che correva a cercare l'arma mi hanno fatto capire da che parte stai: con Heydrich e la sua cricca di criminali.» Avevo appena pronunciato queste parole quando un colpo d'arma è rimbombato nell'hangar. D'istinto ho incassato la testa tra le spalle, mentre quella di Alexandra sembrava colpita da una mano invisibile. Un foro rosso si è aperto al centro della sua fronte. «Lo sapevo che era una stupida. Non poteva essere altrimenti!» La bionda Agnes impugnava un'automatica ancora fumante puntata contro di me.
«Non spaventarti, mio meraviglioso amante italiano, e posa quella pistola a terra», mi ha ordinato tenendomi sotto mira. Poi si è messa a parlare in una piccola ricetrasmittente. «Potete venire a prenderlo, siamo qui nell'hangar. Ha ucciso Alexandra, ma ha rivelato che la storia dell'avvocato è soltanto un bluff.» Quindi Agnes mi ha fatto cenno di indietreggiare sino a che non mi sono trovato con le spalle al muro, a ridosso dell'elicottero. «Non poteva riuscire, nostra madre lo sapeva sin dall'inizio.» «Vostra madre?» Devo averla guardata con aria ottusa. Non capivo che cosa stesse dicendo. «Sì, Alexandra e io siamo sorellastre. Nostra madre è una 'ragazza di Lidice'. Conosci la storia?» «Lidice, il villaggio cecoslovacco raso al suolo dai nazisti dopo l'attentato a Heydrich...» «Esatto, Luca. Mia madre era uno dei novanta bambini che in quell'occasione scomparvero nel nulla. I più ariani tra questi vennero portati in Brasile a popolare Neumanntown. Si sposò con uno di quei bambini e da quel matrimonio sono nata io. Mio padre però morì in un banale incidente, quindi mia madre si è risposata con Oliveiro. La mia sorellina ha sempre cercato di primeggiare e con te ha voluto fare di testa sua a ogni costo. Se non l'avessi seguita passo dopo passo, avrebbe combinato un bel disastro.» I due fuoristrada stavano arrivando. Sapevo che a bordo ci sarebbero stati Heydrich e i suoi compari; e che per me non ci sarebbe stato più scampo. «Adesso incomincia a correre: con un colpo alla schiena, ti eviterò di morire nel dolore. Heydrich e i suoi godono nel torturare le persone.» «Un piacere reciproco: tu incolpi me per Alexandra e mi eviti la tortura.» «Smettila di parlare e girati!» Il rombo delle due auto si faceva sempre più vicino. «Presto, Raso mi ha assalita e sta scappando!» ha gridato Agnes nella ricetrasmittente. Quell'attimo di distrazione è stata la mia salvezza. Con un bal-
zo mi sono gettato a terra e ho afferrato la pistola. Il proiettile è entrato appena sotto il mento. Le è rimasto solo qualche istante di vita, il tempo per vedermi entrare nella cabina di pilotaggio dell'elicottero. A fatica ho trovato l'interruttore d'accensione del rotore: per quanto sia capace di pilotare ogni tipo di aereo, sono del tutto ignaro delle manovre da eseguire per fare decollare un elicottero. Ho tirato una manopola a sinistra del sedile, poi una seconda, andando per tentativi. Il mezzo ha avuto un sussulto, scartando violentemente di lato. Le due jeep si sono fermate di fianco all'hangar. Dalla prima è sceso Heydrich con tre guardie armate. Altre quattro erano nella seconda. Nessuno di loro si aspettava di trovarsi davanti quella scena: Agnes e Alexandra morte e un elicottero che, come una mosca impazzita, cercava una via di fuga. Dal canto mio, non riuscivo ad assumere il controllo del mezzo. Ho visto un pulsante rosso dotato di sicura, ne ho sollevato la linguetta protettiva e ho premuto sul comando che azionava le due mitragliatrici calibro 12 nascoste nella fusoliera. La raffica ha preso la stessa traiettoria traballante del muso della macchina e tutti i colpi sono andati a vuoto. Gli uomini di Heydrich correvano sparando verso di me. Poi l'elicottero si è alzato velocemente, l'elica di coda ha strusciato contro le pareti dell'hangar e le pale del rotore hanno urtato contro un ostacolo, quindi il velivolo si è piegato di lato. Le pale si sono accartocciate prima di volare lontano come micidiali boomerang d'acciaio. Il rotore girava ancora vorticosamente, quando l'elicottero è esploso. Non so nemmeno io come ho potuto uscire da quell'inferno di fuoco. Ma ci sono riuscito e, coperto dalla coltre di fumo, sono salito a bordo del Piper Navajo. Finalmente sarei stato padrone del mezzo che stavo pilotando! Gli uomini armati hanno cercato di fermarmi, ma le loro raff che non hanno neppure sfiorato l'aereo lanciato verso la pista di decollo e, in pochi istanti, il bimotore si è levato nell'aria tersa del cielo amazzonico. Ero salvo! Ora dovevo solo comunicare via radio con le autorità brasiliane e avvisarle del mio imminente arrivo. Ho immagina-
to lo sguardo di Heydrich mentre mi vedeva sparire all'orizzonte. La radio è stata danneggiata probabilmente durante la sparatoria ed è fuori uso, ma ho inserito il pilota automatico. Il viaggio sino a Rio è ancora lungo e io ne approfitto per scrivere il resoconto dei miei ultimi giorni, da quando ho incontrato Agnes a Copacabana. Se dovesse succedermi qualche cosa, spero che la mia agenda possa essere, un giorno, il mezzo per far conoscere al mondo questa storia terribile. Ma... Nooo... Mi stanno sparando addosso! Heydrich, ancora lui! Lo vedo nella cabina del Messerschmitt 262. Devo cercare di seminarlo, anche se mi pare impossibile. Non gli permetterò di abbattermi. Non credo sopravvivrò al prossimo assalto. Chiunque trovi questo diario, lo consegni a qualsiasi istituzione italiana, oppure al Cacciatore Simon Wiesenthal. Ho innescato una spoletta a tempo che custodivo nella tasca interna di questo stesso quaderno. L'ho collegata al condotto principale del gas che corre nei sotterranei della Residencia, dopo averlo manomesso. Se questo non sarà stato sufficiente per uccidere i signori del Male, prego Dio che uomini come il Cacciatore riescano a vendicare le tante anime innocenti delle loro vittime. Ecco... l'Afe 262 mi sta puntando contro. Tra poco aprirà il fuoco e sarà la fine... Dalla prima pagina di O Globo, 29 maggio 1976 Dal nostro inviato in Amazzonia Un grave incidente è occorso nel pomeriggio di ieri alla Residencia, la città creata nel mezzo della foresta amazzonica dal miliardario di origine ebraica Erick Neumann, imprenditore, magnate e filantropo schivo e riservato, ma famoso in tutto il mondo. Neumann era appena atterrato con un aereo d'epoca, parte della sua favolosa collezione, ed era atteso dal suo braccio destro Moshe Swazinski e da alcuni ospiti - in seguito identificati come Isaac Hilsenrath e Adam Drexel, facoltosi allevatori argentini - che con Neumann condividevano le origini ebraiche e la sopravvivenza all'Olocausto. Una banale fuga di gas nei sotterranei del cuore della Neumann Corporation ha innescato una serie di sconvolgen-
ti esplosioni che hanno completamente distrutto la Residencia. Le vittime accertate, oltre al magnate, ai suoi ospiti e ai suoi più diretti collaboratori, sarebbero cinquantatré, quasi tutte persone alle sue dipendenze. Le prime indagini sul luogo dell'esplosione farebbero pensare a una terribile fatalità. Dalla prima pagina di Valor Económico, Brasilia, 28 gennaio 1978 Sono trascorsi ormai quasi due anni dalla scomparsa improvvisa del magnate Erick Neumann, proprietario dell'omonimo colosso multinazionale brasiliano. Ieri il governo del nostro Paese ha deliberato la cessione parcellizzata del gruppo all'incanto. Questa procedura si è resa necessaria dato che è venuto a mancare simultaneamente l'intero management e la proprietà della società. D'altra parte il governo brasiliano ha accertato la necessità di giungere a una soluzione del problema al fine di non pregiudicare il posto di lavoro per migliaia di dipendenti impiegati presso la Neumann Corporation. L'interesse destato dalle aste è altissimo nell'intero mondo finanziario internazionale. Prime tra i possibili acquirenti sembrano essere alcune multinazionali nordamericane, anche se, in rappresentanza dell'America del Sud, la paraguaiana van der Duick sembra la più determinata a spuntarla. Il ricavato delle vendite, in assenza di eredi di Erick Neumann, verrà impiegato per il finanziamento di attività socialmente utili. 50 Età dei Metalli, II millennio a.C. Sar e sua madre arrivarono alla grotta custodita dal gigantesco rettile di roccia, lo stesso che la mano di Athor aveva in precedenza dipinto in molte delle grotte della zona, quasi volesse indicare il percorso da seguire a chi gli sarebbe succeduto. Da sempre si narrava che fosse stato il dio Hosh a trasformare il drago in una statua di roccia perché facesse la guardia ai segreti celati all'interno. Madre e figlio corsero a perdifiato lungo la galleria di accesso fino alla grande caverna. Le torce illuminavano la scena. «Athor!» chiamarono i due all'unisono.
Per tutta risposta giunse un flebile lamento dall'impalcatura che l'uomo aveva costruito per decorare con i suoi disegni la volta della caverna. Dehal e Sar lo raggiunsero. Athor era sdraiato supino, le braccia inerti penzolavano fuori dal camminamento dell'impalcatura. «Siete... siete davvero voi? Sono felice che il dio Hosh mi abbia concesso di abbracciarvi ancora una volta prima di condurmi con sé nel mondo degli spiriti.» «Non dire così, uomo. Ne abbiamo passate tante insieme. Vedrai che presto potrai raccontare anche questa avventura ai nostri figli. Adesso però non devi affaticarti, amore mio.» «Dehal, lascia che io usi le poche forze che mi rimangono per il futuro della nostra gente e di Sar. Vieni qui, figlio mio. La legge del nostro dio mi impone di non rivelarti l'ubicazione del Tempio Segreto. Ricorda però come ti ho insegnato quanto sono importanti le tracce che tutti noi abbiamo lasciato sui muri delle nostre caverne. Sono il segno della nostra storia. Studiane i disegni, ti condurranno alla meta. Vi voglio bene e che il potente dio Hosh vegli su di voi. Ti amo, donna.» «Athor! Athor!» gridò Dehal stringendo a sé quel corpo che tante volte aveva abbracciato. Ma non ottenne più risposta: Athor, re dei migos, era morto. Erano trascorsi pochi giorni dalla morte del re. Il villaggio stava tributando gli onori al nuovo sovrano. Sar estrasse il disco d'oro, simbolo del potere di Hosh. Un raggio di sole si rifletté sulla superficie levigata del disco lanciando bagliori tutto intorno. Nulla avrebbe potuto colmare il vuoto che Dehal aveva nel cuore. La donna aveva preferito non presenziare alla cerimonia di investitura di suo figlio a re e sommo sacerdote e, nel corso della notte, si era incamminata verso il pog. Aveva raggiunto la vetta e il tempio della farfalla quando il sole era alto. I ricordi le facevano male. Aveva rivisto la scena del loro matrimonio, benedetto dalla benevolenza di Hosh. Aveva rivisto l'effigie della farfalla che suggellava per sempre il loro amore. Un amore che sarebbe sopravvissuto alla morte. I ricordi le facevano male. Pensò che la sua esistenza, senza di Athor, non avrebbe più avuto senso. Guardò in basso, verso il baratro, si avvicinò al ciglio: e quell'antica voglia
di sfidare il vuoto si impadronì di lei. Ma questa volta non sarebbe stato per avere salva la vita. L'intenso bagliore la riscosse. Il lampo proveniva dal villaggio e allora capì: suo figlio Sar stava levando al cielo il disco d'oro. Come se stesse sognando, la mente di Dehal si riempì delle visioni di un futuro molto lontano, eppure nitido. Vide genti sterminate dai propri fratelli, vide soldati in marcia per espugnare città dalle mura altissime. Vide donne abbracciare i propri figli per nascondere loro la visione della morte. Vide il disco sacro a Hosh posto come uno scudo per fermare il vento gelido che spazza la strada ai demoni della notte. Fu allora che il desiderio di gettarsi nel vuoto svanì e lei si allontanò dal baratro. All'improvviso aveva compreso il significato di tante esistenze spese a preservare la Pietra Sacra di Hosh dalle brame dei malvagi. Quella era la missione a cui il dio aveva chiamato tutti loro. Altri sarebbero venuti dopo Athor, lei e Sar in quell'inesauribile lotta contro il Male. I ricordi cessarono di scuoterle il cuore e un'espressione carica d'amore le illuminò il viso segnato dagli anni e dagli eventi. Seppe con certezza che non avrebbe posto fine alla sua vita. Aveva ancora dei figli a cui insegnare a vivere e a difendersi dalle insidie e dalla malvagità. Arrendersi avrebbe significato gettare al vento ogni attimo della sua esistenza, ogni battaglia combattuta al fianco di Athor, ogni sorriso regalatole dalle creature che aveva messo al mondo, ogni momento di amore e di passione condiviso con il suo uomo. Lentamente Dehal si incamminò lungo il sentiero che conduceva ai piedi del pog. 51 Pog di Montségur, 1243 Aymon strinse a sé Marie-Louise, mentre cercava, con il suo peso, di opporsi all'ondeggiare della cesta. Ma una delle quattro corde che la assicuravano alla cima portante strusciò violentemente contro le rocce aguzze e si spezzò con un colpo secco. La cesta, privata all'improvviso di uno dei suoi sostegni, si inclinò violentemente da un lato, la donna fu sbalzata fuori e si ritrovò sospesa nel vuoto. Marie-Louise riuscì a trovare un appiglio e le sue dita si strinsero attorno
a una fune, ma il peso del corpo la trascinava inesorabilmente verso il basso. Stava per abbandonare la presa quando Aymon le afferrò il braccio, poco sopra il polso. Dalla cima del monte, nel frattempo, gli uomini avevano ricominciato a recuperare la corda di buona lena. «Resisti, Marie-Louise. Ti tengo io. Tra poco saremo in salvo», diceva Aymon, sperando in cuor suo che le forze non gli venissero meno. Quando furono tratti oltre il bordo del precipizio e si misero in piedi sulla terraferma, la donna ruppe in un pianto disperato e liberatorio. Ancora una volta, erano salvi. La vita nella rocca procedeva tra momenti di speranzoso ottimismo e altri di sconfortante disperazione. Gli uomini del re di Francia, giù nella valle, si limitavano a presidiare gli accessi alla base del pog. Ma, giorno dopo giorno, arrivavano nuove truppe a rinforzo di quelle impegnate nell'assedio. Rari erano stati finora gli scontri, anche se in alcune occasioni i Perfetti catari si erano visti costretti a somministrare il Consolamentum a qualche loro compagno ferito a morte. Il vescovo cataro Bertrando Marty attendeva alla cura delle anime. Pietro Ruggero di Mirepoix, invece, addestrava e incitava i suoi eroici faidits. Tutti speravano che il conte di Tolosa, benché in quei giorni fosse in visita a Roma per compiere atto di sottomissione nei confronti del papa, sarebbe prima o poi riuscito a trarre i suoi fedeli sudditi fuori da quella situazione. Tutto nella rocca era razionato: cibo, acqua, vino, armi. Nessuno però aveva ancora patito la fame o la sete, o il freddo. La vita a Montségur, nonostante le restrizioni dovute allo stato di guerra, poteva continuare. Ma purtroppo giunse quel giorno di dicembre del 1243. «Le donne mi hanno raccontato che proprio qui, dove ora sorge il torrione centrale del castello, esisteva un antichissimo luogo di culto», stava dicendo Marie-Louise ad Aymon, «e che il sole, nel giorno del solstizio dell'estate, disegnava, in un certo punto, delle ombre singolari sulle rocce. Si dice che questo fosse il luogo ove gli antichi venivano a sposarsi e a praticare i loro riti della fertilità. Peccato che tutto questo non esista più. Mi sarebbe piaciuto che il sole benedicesse la nostra unione qui, sul pog. Tu e io non ci siamo mai sposati...» «Non per colpa mia, donna: tra i due chi aveva precedentemente contrat-
to un matrimonio eri tu, non io. E la vita poi non ci ha dato modo di rimediare. In fondo, gli unici anni di tranquilla serenità li abbiamo vissuti sotto falso nome. E quale identità avremmo potuto rivelare a un prete sconosciuto e magari ficcanaso affinché ci sposasse?» «Hai ragione, Aymon. Non abbiamo bisogno di un prete per sposarci. È sufficiente una promessa. E noi ci siamo promessi da sempre amore eterno. Ma ora, qui, io voglio farlo ancora una volta. L'ultima, per sempre.» E i due innamorati, commossi e felici a dispetto del futuro incerto che li attendeva, si scambiarono il loro solenne giuramento. Aymon guardò verso una feritoia: il sole non investiva mai l'interno del torrione tranne che nel giorno del solstizio. Forse i costruttori del castello avevano voluto mantenere viva quell'antica magia. In quel giorno infatti i raggi del sole entravano da una delle feritoie e uscivano da un'altra. Avrebbe dovuto tornare in quel punto, la prossima estate, e, con MarieLouise, lasciare che quel raggio li avvolgesse di luce. Già, la prossima estate... Lo sguardo dell'uomo si perse verso la fortificazione, chiamata Col de la Tour, che presidiava la parte orientale del complesso di Montségur. Si trattava di una postazione avanzata, distante oltre cinquecento passi, ma importantissima dal punto di vista strategico. A differenza di ogni altra via d'accesso, quel baluardo era situato in una posizione favorevole per sferrare un attacco a Montségur, dato che si trovava sulla cima di un crinale che digradava verso le mura principali con un'agevole discesa. Aymon rimase impietrito, aguzzò lo sguardo, quindi gridò con tutto il fiato che aveva in corpo: «All'armi! All'armi! Siamo attaccati!» Ma era troppo tardi. Durante la notte i nemici avevano risalito il pendio e al mattino avevano attaccato la guarnigione posta a difesa del Col de la Tour, riuscendo in poco tempo ad aver ragione degli assediati. I soldati del re erano riusciti ad aprire una breccia all'interno delle difese di Montségur e Pietro Ruggero non aveva idea di come i suoi uomini potessero ora avere ragione degli assalitori. Nei sessanta giorni che seguirono la conquista del Col de la Tour, gli assalti ai catari assediati si fecero incessanti e ogni volta pareva che l'impeto dei nemici fosse maggiore. La difesa vacillava, ed erano sempre più numerosi gli uomini che rimanevano feriti o uccisi dai lanci delle balestre. Le catapulte schierate fuori dalle mura lanciavano giorno e notte i loro pesanti proiettili di pietra, tanto che le case all'interno della prima cerchia di mura avevano i tetti e le mura sfondati.
«Credo che per noi non ci siano più speranze e che sia giunto il tempo di trattare la resa. Ma prima dobbiamo cercare un modo per mettere in salvo almeno le donne e i bambini. Non ho molta fiducia nella clemenza degli uomini agli ordini del siniscalco del re Ugo d'Arcis e temo che abbiano intenzione di riservare a ogni cataro i peggiori supplizi», disse Pietro nel corso di un consiglio di guerra. «E come faremo a metterci in salvo?» domandò uno dei suoi valorosi cugini. «È praticamente impossibile allontanarsi dal pog senza finire tra le braccia del nemico.» «Aspettate... Un modo ci sarebbe...» disse Aymon. Una seconda corda era stata fissata alla sommità e il primo a calarsi l'avrebbe dovuta fissare alla base del tragitto. In tal modo la cesta sarebbe salita e scesa lungo una guida. Lo stesso contenitore era stato modificato: ora era più capiente e più sicuro. Aymon aveva garantito che, nel corso di una notte, sarebbe riuscito a portare ai piedi del pog un centinaio di persone. I fuggitivi avrebbero trovato rifugio all'interno di una grotta che lui stesso conosceva bene. Da lì, una volta riuniti i nuclei familiari, sarebbero partiti alla spicciolata nelle più diverse direzioni. Se il piano avesse funzionato, nell'arco di una settimana l'intera comunità sarebbe riuscita ad abbandonare Montségur e il nemico avrebbe dato l'assalto decisivo a una città fantasma. «Presto. Devono fare presto. È quasi giorno. Se dovessero scoprirci non riusciremmo a portare a termine il nostro piano», stava dicendo Aymon alla sua compagna. Entrambi avevano lo sguardo rivolto verso il cielo che si stava colorando di una tenue luce rosata. Riuscivano addirittura a scorgere la cesta mentre in alto si svolgevano le operazioni dell'ultimo viaggio della nottata. Ugo d'Arcis aveva trascorso una notte insonne. Sapeva che le difese di Montségur erano prossime a cedere. Malgrado ciò si sentiva inquieto. Volse lo sguardo verso la rocca illuminata dalla pallida luce dell'alba. Gli occhi dell'emissario del papa e del re di Francia notarono qualcosa che pareva in movimento sulla parete rocciosa del pog. Improvvisamente capì il motivo della sua inquietudine: quei maledetti adoratori del demonio stavano per fargliela sotto al naso.
Erano venticinque gli uomini armati che avrebbero dovuto scortare una settantina di persone. Il piano che Aymon aveva predisposto prevedeva di radunare l'intera popolazione in una grotta della valle dell'Ariège, riconoscibile perché una singolare figura, un grosso drago che gli elementi naturali avevano modellato nella roccia, era posto davanti al suo ingresso. Aymon conosceva bene quel luogo: si poteva dire che suo nonno l'avesse praticamente cresciuto lì dentro, prima di essere costretto a nascondersi. Per questo lui e Marie-Louise si erano messi alla guida del gruppo. E un giorno suo nonno gli aveva spiegato che lì, in quella caverna, era celato il segreto di un'arma invincibile. Un'arma talmente potente che avrebbe ucciso chiunque ne fosse venuto a contatto. Nessuno avrebbe mai dovuto prelevarla dalla sua custodia di metallo. Anche per questo Aymon aveva scelto la caverna come rifugio per i suoi compagni: se il nemico li avesse scoperti, lui non avrebbe esitato a usare l'arma contro gli uomini del re di Francia. Aymon aveva ordinato due posti di guardia: uno nei pressi dell'ingresso e l'altro all'imboccatura della galleria che conduceva a una gigantesca caverna nella quale tutti avevano trovato riparo. Fuori, una nuova notte era calata sulla foresta. Le torce ardevano riflettendo il loro bagliore sulle volte dipinte. Il rumore dei ferri che cozzavano fu come un grido d'allarme. Gli uomini si rizzarono in piedi e corsero nella galleria all'imboccatura della quale si stava combattendo. Fu allora che Aymon capì che la sua battaglia era persa: il nemico premeva compatto e numeroso, mentre i fuggiaschi di Montségur erano pochi e male armati. L'unica via di salvezza era rifugiarsi nella caverna e lì aspettare al varco gli oppressori che sarebbero sbucati uno a uno dalla stretta galleria. Così diede ordine di battere in ritirata. Ogni tanto Aymon mandava una vedetta a controllare quanto accadeva nel cunicolo, ma inspiegabilmente il nemico non attaccava. Aymon allora decise: il giorno seguente avrebbe raggiunto l'antico tempio e avrebbe prelevato la pietra. Nessuno dormì quella notte. E i bambini, quasi avessero intuito la gravità della situazione, non smisero mai di piangere. Aymon stimò che fosse mattina, quando decise di effettuare egli stesso una sortita sino all'imboccatura del cunicolo.
Soltanto allora capì qual era il piano dei francesi. E seppe che il potenziale della Pietra sarebbe stato del tutto inutile: nell'arco di poche ore i soldati avevano eretto un solido muro che avrebbe precluso ai catari asserragliati nella caverna ogni via di fuga. Li avevano murati vivi. 52 Tolosa, anni '40 Carla Jeogeres Núñez aveva trovato un nuovo impiego all'inizio del 1943: il ruolo di insegnante di lingua spagnola in una scuola francese sarebbe stata un'ottima copertura. La ex agente dei servizi segreti francesi aveva l'esperienza necessaria per muoversi con destrezza tra le trappole disseminate ovunque dai nazisti e dai loro temuti organi di spionaggio. La delazione era l'esca più utilizzata per catturare ogni giorno decine di patrioti francesi. Bisognava riconoscere una grande abilità agli uomini delle SS e della GESTAPO: sapevano come volgere a proprio fine ogni sussurro, confidenza, malumore, antica inimicizia. In questo modo dominavano con il terrore e con l'intimidazione le popolazioni dei territori che occupavano. Spesso a Carla tornava alla mente la brutta fine dell'editore Sarraut, suo diretto superiore nella Sûreté. Per fortuna che, poco prima di essere catturato dalla GESTAPO, era riuscito a distruggere gli elenchi degli appartenenti al servizio. Se così non fosse stato, probabilmente, sarebbe caduta anche lei nella rete dei nazisti e non avrebbe mai potuto entrare a far parte delle file della resistenza. Proprio a Sarraut stava pensando quando due uomini vestiti con un impermeabile scuro e un cappello di uguale colore le si pararono davanti. Per un attimo pensò che fossero angeli del Male. «Carla Jeogeres Núñez?» chiese il primo con marcato accento tedesco. «Sono io...» rispose lei, decisa. Per nulla al mondo avrebbe voluto far trapelare la sua angoscia. «GESTAPO. Seguiteci, signora. Dovrete rispondere ad alcune domande.» Così dicendo quello che tra i due doveva essere il più alto in grado le infilò una mano sotto il braccio, stringendolo in una morsa inesorabile. Nessuno tra i tanti passanti che nelle affollate vie di Tolosa aveva osservato la scena si sarebbe potuto aspettare una simile reazione da quella
donna in apparenza fragile e minuta. Carla ruotò il braccio in avanti, facendo leva sul polso dell'agente tedesco. Mentre si liberava dalla stretta, colpì l'altro con una violenta gomitata alla mascella. Quindi fece per estrarre dalla borsetta la piccola Walter 6.35 che portava sempre con sé. Ma non fece in tempo a impugnarla: uno dei due agenti aveva estratto un manganello e l'aveva colpita al capo. Carla Jeogeres Núñez cadde a terra priva di sensi. Wewelsburg, anni '40 Abelard Bock percorreva a piedi, come ogni mattina, la strada che conduceva al campo di lavoro dal sinistro castello di Wewelsburg. In quanto caposquadra doveva camminare a fianco del drappello di internati. Dietro di loro quattro SS Totenkopf, con le armi spianate, scoraggiavano qualsiasi idea di fuga nei prigionieri. Ma anche senza di loro sarebbe stato impensabile cercare di evadere, con addosso una divisa a strisce, nel cuore della Vestfalia. Il comunista Abelard Bock portava con orgoglio il triangolo rosso cucito poco sopra al numero di matricola, sul lato sinistro del petto: quello era il segno distintivo degli internati politici. Bock sapeva che presto sarebbe esploso così come era esplosa la rabbia proletaria nell'amata Russia. Nel frattempo continuava a lavorare con cieco fervore, non certo per collaborazionismo, ma per puro istinto di sopravvivenza. L'unico legame che i prigionieri avevano con la vita fuori dal campo di lavoro era il rombo dei motori degli aerei che atterravano o decollavano dalla vicina pista di Paderborn. Ne riconosceva a memoria i modelli, senza dover nemmeno alzare più gli occhi al cielo. Quello svago aveva contagiato tutti gli occupanti della sua baracca: ogni volta che udivano il rombo di un velivolo in avvicinamento, si affrettavano a scommettere ed era Abelard Bock colui che, sempre, vinceva la scommessa. In breve nessuno osò più mettersi in gara con il capo baracca e con la sua passione per l'aeronautica. Bock stava lavorando nella torre nord, quella che, nelle folli convinzioni di Himmler e delle sue teorie esoteriche, avrebbe dovuto coincidere con il «Centro del mondo». Gli ordini che le SS avevano impartito erano stati perentori: le squadre avrebbero dovuto terminare entro un tempo brevissimo la ristrutturazione della torre nord e della sala di culto tanto cara al Reichsführer.
La sala era di forma circolare. Lungo la sua circonferenza più interna si trovavano dodici monumentali colonne bianche. Il pavimento era anch'esso in marmo bianco, a eccezione del centro. Qui si trovava un mosaico di circa quattro metri di diametro composto di marmi policromi - nero, rosa e blu - intarsiati, a dare origine a forme geometriche. Dodici saette di pietra nera si dipartivano dal centro, in tutto simili ai simboli runici che ornavano le mostrine delle SS. Un cerchio racchiudeva le saette al suo interno, rendendo il disegno simile a un sole nero. Quello era, difatti, lo Schwarze Sonne, il Sole nero delle SS. «Come vi chiamate, prigioniero?» Una voce autoritaria alle sue spalle lo fece girare di scatto. «Bock, signore», rispose il deportato, rimanendo carponi e senza distogliersi dalla sua occupazione consistente nel lucidare il marmo con la lana di piombo. Il calcio colpì Abelard alle reni. Il dolore fu tale da togliergli il respiro e da farlo rovinare a terra. «Lurido comunista!» disse l'ufficiale che l'aveva colpito. «Il Reichsführer in persona vi ha fatto una domanda e voi non siete nemmeno scattato in piedi. Adesso io...» «Aspettate, capitano!» disse Himmler. «Ho già avuto modo di apprezzare le capacità di lavoro di questo prigioniero. Vorrei sentire le sue ragioni, prima che voi lo puniate. Dite, Bock, come giustificate il vostro comportamento?» «Ho ricevuto l'ordine di portare a termine il mio lavoro, signore. E questo sto facendo. Se mi fossi alzato e avessi perso tempo, qualcuno avrebbe potuto chiedermene il motivo. E questa volta con maggior ragione.» Solo allora Bock si alzò. Nella stanza c'erano soltanto lui, il Reichsführer e l'ufficiale. Ecco! Quella sarebbe stata l'occasione migliore per esplodere: doveva solo afferrare la gola di quel figlio di puttana di Himmler e fare in modo di prevenire la reazione dell'ufficiale delle SS. Sapeva che sarebbe stato ucciso, ma ne sarebbe valsa la pena se prima fosse riuscito a portare con sé all'inferno il principe degli aguzzini. Himmler per un attimo parve rendersi conto dell'aria ostile di quel massiccio lavoratore dalle mani grandi e forti. «Adesso!» si disse Bock. Ma proprio in quell'istante un particolare lo costrinse a fermarsi.
Quella che Himmler aveva sotto braccio insieme a un plico di documenti era una fotografia nella quale era ritratto Otto Raush. Il comunista Bock non era uomo da dimenticare e ricordava ogni particolare di quello strano prigioniero, quasi certamente una spia dei nazisti, che aveva trascorso alcuni mesi nella sua baracca a Dachau. Raush aveva organizzato un'evasione che aveva suscitato molte perplessità. Tant'è vero che nessuno era stato punito dopo la fuga. Raush aveva portato con sé un tale Filcher, ottimo ingegnere idraulico e perfetto socialista. E adesso la faccia di Otto Raush era sotto al braccio di Himmler. Due SS entrarono nella sala. Bock comprese che aveva perso un'occasione d'oro ma, in compenso, aveva avuto conferma dei suoi sospetti. «Conducete qui la prigioniera... e anche un 'cavallo'», disse Himmler, mentre negli occhi gli balenava una luce diabolica. «E voi, Bock, che ci fate ancora qui! Forza, andate a completare la vostra giornata di lavoro da un'altra parte.» Carla Jeogeres Núñez era arrivata al Wewelsburg la notte precedente, a bordo di una berlina scura, scortata da due agenti della GESTAPO. Il luogo, tristemente famoso, le era sembrato ancor più tetro di quanto se l'era immaginato. La donna era consapevole che quello sarebbe stato l'ultimo viaggio della sua vita. Le celle dei prigionieri erano rimaste quelle dove i signori del maniero rinchiudevano, nel Medioevo, i loro nemici. Himmler si compiaceva di dire che coloro che arrivavano sino al suo castello costituivano l'«élite» dei prigionieri. Quando Carla entrò nella stanza circolare del Sole nero, per la prima volta si sentì venire meno. Himmler era in piedi davanti a lei. In disparte, un secondo ufficiale delle SS. Al centro della stanza, sopra a un mosaico circolare, stava un cavalletto da tortura. Bock conosceva la torre come le sue tasche: poteva ben dire di averla ricostruita lui, mattone dopo mattone, anno dopo anno. Disse al suo sorvegliante che doveva sistemare alcune travi al piano superiore: all'interno del castello, i capisquadra godevano di una relativa libertà. Al piano superiore, la stanza corrispondente a quella in cui si trovava Himmler era ancora in cantiere. Si poteva però già intuirne la struttura simile a un tempio circolare; le pareti, interrotte da una serie di finestre a bocca di lupo che la illuminavano, conferivano una luce radente e priva di
cromaticità. Bock si diresse verso il camino. Si infilò nella canna fumaria al cui interno correva una scaletta formata da ferri ricurvi murati. Quando giunse al piano sottostante, gli fu sufficiente scostare leggermente la grata di metallo usata a chiusura del camino per avere una visione quasi completa del locale. La donna era stata legata al «cavallo». Si trattava di uno strumento di tortura molto semplice, simile a un tavolo, ma dotato di un sistema per fissare i piedi della vittima a terra. Il tronco del prigioniero veniva legato al tavolato, in modo che fosse a squadra con le gambe. Quindi gli aguzzini alzavano il piano sempre di più, mentre i piedi rimanevano ancorati a terra. Il dolore era insopportabile e spesso erano i legamenti delle anche o addirittura le teste dei femori a spezzarsi a causa della trazione. «Ripeto la domanda, signora Núñez. Avete conosciuto quest'uomo?» Il tono di Himmler era terribile. «Vi ho detto di no, signore. E non capisco che cosa ci faccio io qui. Sono una semplice insegnante di spagn...» La mano dell'ufficiale la colpì sulla bocca, dal basso verso l'alto. «Zitta, puttana! Sappiamo bene chi sei e ora ti spiego per l'ultima volta che cosa vogliamo da te, prima di passare alle maniere forti. Tu, per gli inglesi l'agente Eiffel, sei stata l'ultima persona a vedere vivo l'Obersturmführer-SS Otto Rahn. Entro breve pagherai anche per il suo omicidio. Ma adesso devi dirci quali sono state le sue ultime parole.» Carla pregò di riuscire a essere coraggiosa di fronte alle sofferenze e alla morte. «Se sapete già tutto, che bisogno avete che io ve lo ripeta?» chiese spavalda. L'ufficiale non parlò. Sotto lo sguardo attento e compiaciuto di Himmler prese una pinza, si avvicinò alle mani di Carla, legate per i polsi. Afferrò con la pinza l'unghia dell'indice e la strappò via con estenuante lentezza. Carla avrebbe voluto gridare, ma si trattenne ed emise solo un sordo mugolio mentre lacrime di dolore le riempivano gli occhi. «Così composta?» chiese con fare di scherno l'ufficiale delle SS. «Dall'agente Eiffel avrei dovuto aspettarmelo. Proviamo a vedere se con le altre unghie riceverò maggiore soddisfazione.» Bock aveva visto abbastanza ed era inutile che rimanesse ancora lì con il rischio di venire scoperto o di destare sospetti nei suoi carcerieri. Si augurò che la donna arrivasse viva alla notte: poi l'avrebbe portata via, a ogni costo.
Berlino, anni '40 Le ricerche sull'energia atomica nella Germania nazista avevano avuto, sino ad allora, un solo nome: Werner Heisenberg. Il fisico tedesco si era messo al lavoro sin dal 1939 sviluppando e approfondendo la scoperta della fissione nucleare di cui il chimico nucleare Otto Hahn, insieme ai suoi collaboratori, era stato il padre. Heisenberg aveva fatto passi da gigante nella progettazione del Wunderwaffe, l'arma totale, ma era incappato in un banale errore di calcolo nel determinare la massa critica dell'isotopo di uranio necessario per innescare la reazione atomica. Era giunto infatti alla conclusione che fosse necessaria una sfera di uranio dal diametro di cinquantaquattro centimetri per ottenere la massa critica. A tale dimensione corrispondono, in realtà, tredici tonnellate di materiale fissile! Una quantità enorme che neppure la Germania nazista avrebbe mai potuto procurarsi. Per questo motivo il progetto dell'arma totale si era in parte arenato. Ma anche per questo Hitler non aveva mai abbandonato il sogno che l'archeologo Otto Rahn gli aveva fatto accarezzare: quello di una massa cospicua di materiale radioattivo nascosta sin dalla notte dei tempi in Linguadoca. «Dobbiamo venirne a capo, adesso più che mai», stava dicendo il Führer con aria grave. «Gli americani stanno lavorando alacremente a quello che in codice chiamano 'progetto Manhattan'. E secondo i nostri informatori pare che siano a buon punto.» «Soprattutto, mein Führer», aggiunse Bormann, che aveva sempre nutrito forti perplessità circa il lavoro di Heisenberg e del suo staff, «pare che gli scienziati americani abbiano notevolmente ridimensionato il quantitativo di materiale necessario per costruire una bomba. Al contrario di quanto affermano i nostri.» «Per questo, anche, dobbiamo costruire per primi la Wunderwaffe. Costi quel che costi. Nel frattempo non abbandoneremo i progetti relativi a nuove e più moderne armi, come i razzi a lunga gittata o gli aerei a reazione. Vinceremo, camerati: nessuno potrà fermare l'ascesa del Reich. Vinceremo e la guerra sarà totale.» Fu sull'onda di queste parole che il ministro della Propaganda Goebbels, il 18 febbraio 1943, pronunciò un discorso in cui ammoniva i nemici della Germania e il mondo intero. Da quel momento, il Reich avrebbe combattu-
to la «guerra totale». Wewelsburg, anni '40 Le dieci falangi erano coperte da uno scuro strato di sangue rappreso. Le dolevano, così come ogni parte del corpo sulla quale l'ufficiale delle SS aveva infierito. Alla fine Carla aveva ceduto e rivelato alcuni particolari riguardo al suo interrogatorio a Otto Rahn. Ma quelle che aveva svelato erano notizie di scarso rilievo, cosa di cui sembrava ben conscio anche l'ufficiale nazista. L'avevano riportata in prigione e uno dei carcerieri le aveva detto ridendo con crudele cinismo che era stata fortunata a poter rientrare in cella camminando con le proprie gambe. Carla si sentiva svuotata di ogni energia e sapeva di avere una sola possibilità per porre fine al supplizio: rivelare quanto era riuscita a carpire a Otto Rahn. Ma non avrebbe mai dato ai nazisti quella soddisfazione. Con mosse lente e sicure utilizzò quanto le era rimasto dei suoi abiti per costruire un cappio, ne legò un'estremità a una delle sbarre. Si passò il nodo attorno al collo e pregò di non dovere più soffrire. Bock aveva idealmente percorso quel tragitto decine di volte. Ma adesso non era più finzione: ora, oltrepassato il recinto dopo aver reciso il filo spinato che circondava il campo, avrebbe dovuto fare i conti con le difficoltà. Himmler aveva voluto che un inestricabile dedalo di percorsi segreti si dipanasse all'interno della collina su cui sorgeva il Wewelsburg, e Bock aveva partecipato alla loro realizzazione. Per questo li conosceva come le sue tasche. Il prigioniero respirò a lungo l'aria frizzante della notte, prima di infilarsi nel cunicolo che lo avrebbe condotto nei pressi delle celle. Da quel momento in poi, avrebbe dovuto improvvisare. Le due sentinelle erano silenziose, forse vinte dal sonno e dalla stanchezza. Il Wewelsburg era considerato un luogo inespugnabile, dal quale era impossibile fuggire e le guardie sapevano bene che il loro era un ruolo quasi inutile. La forza con cui Abelard Bock li travolse alle spalle fu simile a quella di un treno in corsa. I due carcerieri rimasero disorientati, doloranti e impauriti. Le braccia del capo baracca cinsero il collo del più grosso tra i due e lo
spezzarono con un solo sapiente movimento. Quindi Bock rivolse le proprie attenzioni al più esile, che stava cercando di estrarre la pistola. Ma Abelard fu più veloce: scaricò tutta la sua rabbia in un solo pugno, di inaudita potenza, sul volto dell'uomo. Le ossa del naso, frantumandosi, penetrarono nella zona frontale del cervello provocando la morte istantanea dell'ss. Ansimante, Bock sfilò l'anello delle chiavi dalla cintura di uno dei carcerieri, quindi ne infilò una nella porta della cella. Il trambusto che aveva sentito là fuori poteva significare una sola cosa: stavano venendo a prenderla per sottoporla a un altro interrogatorio e Carla sapeva che la sua resistenza al dolore si era ormai esaurita. Doveva fare in fretta: non potevano prenderla viva. «Ferma!» Due mani forti la cinsero per i fianchi, proprio mentre stava per lasciarsi andare, e si trovò stretta al corpo muscoloso di un uomo. Nella semioscurità della cella si accorse che il suo salvatore indossava la divisa a strisce da prigioniero. «Ferma!» ripeté lui in un francese zoppicante. «Sono qui per aiutarvi.» «Grazie, grazie... grazie», rispose Carla in tedesco. Non aveva idea di chi fosse il suo salvatore, ma il pensiero di non essere più sola le infuse coraggio e nuova speranza. Alla luce delle torce poté vederlo in viso: aveva il naso schiacciato, come quello di un pugile professionista, il volto rotondo e gli zigomi alti. Le spalle, molto larghe e leggermente arcuate, sembravano sostenere la testa senza l'ausilio del collo. Eppure, malgrado l'aspetto, lo sconosciuto aveva modi timidi e gentili. «Dio mio, come vi hanno ridotta quei maledetti. Ma andrà tutto a posto, signorina, vedrete. Se riusciremo ad andarcene da qui, vi saranno sufficienti poche settimane. Mi chiamo Abelard Bock. Sono evaso dal campo di concentramento con l'intento di portarvi in salvo. Ho assistito di nascosto a una parte del vostro interrogatorio.» «Io sono Carla Jeogeres Núñez. Non so come ringraziarvi, signor Bock.» «Mi ringrazierete quando saremo al sicuro. Adesso aiutatemi a portare i corpi dei carcerieri dentro la cella. Indosseremo le loro divise», disse l'uomo indicando i due militari a terra.
Berlino, anni '40 L'impalcatura del grande Reich, che fino ad allora era sembrata indistruttibile, da qualche mese aveva incominciato a incrinarsi. Tra i gerarchi e i capi del nazismo serpeggiava la perplessità e la paura che nessuno avrebbe potuto prevedere solo poco tempo prima. Questo stato di precarietà fu una delle cause della ferocia con cui i tedeschi perseguitavano chiunque potesse essere visto come un potenziale nemico. Ma, oltre che con le persecuzioni, i nazisti avevano capito che per vincere una guerra che si faceva sempre più estenuante era necessario continuare a sviluppare l'apparato bellico e, soprattutto, cercare di sfruttare la dirompente forza dell'energia nucleare. «Che cosa intendete dire, Herr Göring?» stava dicendo il Führer sopraffatto dall'ira. «Perché mai dovremmo avere alleati così poco affidabili? Pensate che in caso di sbarco nemico gli italiani ci tradirebbero? E perché non abbiamo continuato le trattative separate con le singole forze alleate?» «Non c'è stata volontà, mein Führer. Quelle con gli inglesi, si sono arenate dopo la morte del duca di Kent.» «E dei russi? Che cosa mi dite dei russi? Sembravano prossimi alla resa all'inizio dell'anno, e molto favorevoli a trattative segrete. Che fine ha fatto quel progetto?» «Ci stiamo ancora lavorando, ma i continui capovolgimenti nei pressi del fronte a Kharkov fanno mutare lo scenario e le prospettive di ora in ora.» «E per quanto riguarda i 'disubbidienti silenziosi', Herr Bormann, che cosa sta succedendo?» «Se vi riferite agli appartenenti alla Rosa Bianca, mein Führer, vi assicuro che nelle prossime ore saranno tutti incarcerati. Anche se sono convinto che si tratti prevalentemente di studentelli poco pericolosi, sarei propenso a una pena esemplare nei loro confronti.» Nei sei mesi in cui era stato attivo, il gruppo clandestino di resistenza non violenta della Rosa Bianca aveva distribuito alcuni opuscoli dove si auspicava il declino del nazismo e della sua folle politica sanguinaria. «Condivido la vostra opinione: fateli decapitare tutti, quando li avrete assicurati alla giustizia. Servirà d'esempio a chiunque cercherà di emularli. Ma tornando al problema dei nostri inaffidabili alleati, credo che non ci resti che un'unica soluzione. Americani o no, la chiave di volta sarà la costruzione dell'arma totale. Dobbiamo concentrare i nostri sforzi in tal sen-
so, e meno gli altri se ne accorgeranno, meglio sarà. Che mi dite a proposito del segreto che Otto Rahn è stato sul punto di scoprire?» «Mi risulta che proprio in queste ore il Reichsführer Himmler stia procedendo a interrogare l'agente Eiffel al Wewelsburg.» Vestfalia, anni '40 Carla e Bock si erano tolti i pantaloni e avevano camminato per più di un chilometro con le gambe immerse sino alle cosce nel letto del fiume Alme. «Tra poco», le aveva detto Bock, «scopriranno la nostra fuga e a quel punto ci scateneranno dietro i cani: questo è l'unico sistema per far perdere le nostre tracce. Quegli animali sono feroci e scaltri come i loro maledetti padroni.» Si erano appena rivestiti con le divise sottratte ai carcerieri, che le sirene d'allarme del campo ruppero, con il loro urlo, la quiete della notte. «Per ora stanno cercando me: non credo abbiano ancora scoperto la vostra fuga, Carla. Dobbiamo sbrigarci se vogliamo raggiungere il campo d'aviazione prima che blocchino tutte le strade. Non appena entreranno nella cella e scopriranno i corpi dei due carcerieri, il nostro travestimento diventerà pressoché inutile. A quel punto dovremo essere riusciti a portare a termine il mio piano.» Il posto di guardia dell'aeroporto era sorvegliato da una sentinella che probabilmente aveva maledetto più volte chi aveva interrotto il suo sonno. Succedeva spesso che qualcuno dei prigionieri rimanesse impigliato come un pesce nella rete di filo spinato, ormai ci aveva fatto l'abitudine. La figura del sottufficiale delle SS apparve dal buio della notte. Poco più indietro la sentinella scorse un secondo militare. «Nulla da segnalare, soldato?» chiese il sottufficiale con fare autoritario. «Nulla, sergente. Ma non superate quel limite, altrimenti sarò costretto a intimarvi l'altolà», rispose la sentinella ligia alle consegne. «Che cosa è successo al campo?» «Solita storia: un tentativo di fuga andato male. Sono davvero tutti uguali, questi bastardi di prigionieri.» «State fermo lì, sergente. Sta suonando il telefono nella garitta. Vado a rispondere e torno.» Dalla posizione nella quale si trovava, Bock riusciva a vedere il volto del
giovane militare illuminato dalla luce della guardiola e anche a intendere in parte le sue parole. «Aviere Gotern, guardia carraia aeroporto. Comandi, signore.» Fu in quello stesso istante che un'arma d'ordinanza delle SS si piantò in mezzo agli occhi increduli del giovane militare. Bock gli fece cenno di andare avanti nella conversazione telefonica. «Non mancherò, signore. Un uomo e una donna, avete detto? Probabilmente indossano nostre divise? Se mi dovessero capitare a tiro non me li lascerò scappare, signor colonnello. Heil Hitler.» L'aviere Gotern aveva recitato meglio di quanto Bock avesse osato sperare. «... E con questo ho firmato la mia condanna a morte», mormorò il giovane soldato, riponendo la cornetta. «Non ancora», sussurrò Bock, affibbiandogli un colpo con il calcio della pistola proprio dietro la nuca. Quindi si girò verso Carla che lo guardava accigliata. «Non temete. Sto cercando di salvarlo. Solo dimostrando di essere stato aggredito dagli evasi potrà giustificare la mancata consegna. In caso contrario, i suoi camerati lo impiccherebbero.» Legarono l'aviere Gotern alla sedia, con una tavoletta dietro alla schiena che lo teneva diritto, benché fosse privo di sensi. Sembrava seduto, vigile e attento. Quindi i due fuggiaschi si diressero verso la pista. Carla lo stava osservando: mano a mano che si avvicinavano all'aereo, Bock assumeva un'aria baldanzosa e spavalda, quasi non si rendesse conto della pericolosità della loro situazione. L'Heinkel He.70 G usato da Himmler per i suoi spostamenti era fermo nei pressi di una rimessa di fianco a un piccolo ricognitore. Il velivolo era lungo una dozzina di metri e aveva un'apertura alare di quasi quindici. Era in grado di trasportare, oltre al pilota, quattro passeggeri che trovavano posto in un alloggiamento situato più in basso rispetto alla cabina di pilotaggio. L'aereo, fatta eccezione per una banda rossa sul timone verticale di coda all'interno della quale spiccava una svastica, non aveva particolari segni di riconoscimento. La carlinga era dipinta d'argento con delle saette nere incorniciate di bianco. Dal 1933, anno in cui era entrato in servizio, l'He.70 G aveva collezionato un record dietro l'altro. E si trattava sempre di primati di velocità. Il potente motore BMW da 630 cavalli poteva spingere quella macchina a oltre trecento chilometri all'ora, e i suoi serbatoi gli assicuravano un'au-
tonomia di quasi mille chilometri. Bock, in preda a una sorta di euforia, stava illustrando alla sua compagna di fuga i meravigliosi meriti di quel mezzo, quando la donna lo interruppe, piccata. «Siete stato davvero esauriente, Herr Bock, ma credo che dovremmo pensare a come scrollarci di dosso l'intero stato maggiore delle SS, piuttosto che dilungarci nella disamina dei pregi di questo eccezionale aereo.» «Siete sempre tanto sarcastica, signora Núñez? O lo siete solo a mio beneficio? Ma vi sbagliate: io stavo solo... ripassando. Farlo partire rappresenta la nostra unica possibilità per fuggire dal Wewelsburg.» «Certo, signor Bock. Ma come pensate di fare? Lo farete pilotare al giovane aviere di terra che abbiamo appena tramortito e legato come un insaccato?» «No, signora. Sarò io a pilotarlo.» «Voi?» Per una volta Carla era rimasta senza parole. Quell'uomo rude e dall'aspetto rozzo aveva il potere di sorprenderla. «Ma voi avete mai...?» chiese Carla, mentre Bock la stava spingendo a bordo. «Non ho mai pilotato un simile aereo, signora, ma ci dovrò provare... Guardate là...» Carla guardò verso la direzione indicatale: i fari di un convoglio d'automezzi illuminavano i tornanti della strada che proveniva dal castello. «Sicuramente stanno venendo a controllare per quale motivo l'aviere Gotern non ha più dato segni di vita.» Il sibilo di due proiettili la convinsero di non avere scelta. La donna impugnò la Luger e si accucciò dietro al portellone, mentre Bock tentava di avviare i motori. Il secondo aviere di guardia sbucò all'improvviso dal buio. Teneva il fucile in mano come fosse una scopa. Negli aeroporti meno importanti non erano necessari degli esperti combattenti: un paio di meccanici di buona qualità erano più che sufficienti per controllare il raro traffico aereo. Malgrado l'oscurità, Carla riuscì a individuare il riparo dietro al quale stava nascosto il cecchino. Prese la mira ed esplose due colpi. L'aviere tedesco parve inciampare, mosse due passi verso l'aereo che si era messo in moto, quindi cadde a terra, immobile. Nel frattempo Bock stava disponendosi in posizione di decollo. Due camion carichi di militari divelsero la sbarra che precludeva l'accesso ai mezzi non autorizzati.
«Presto, Carla, dovete chiudere il portello!» gridava Bock. Se i mezzi delle SS fossero riusciti a tagliare la strada al velivolo, per loro sarebbe finita. Carla stava armeggiando con le maniglie quando la spinta la fece vacillare: Bock aveva accelerato al massimo. I due camion proseguirono paralleli ai loro finestrini per circa un centinaio di metri. Qualcuno dei soldati sparò, ma i colpi andarono a vuoto. «Adesso!» gridò Bock, mentre tirava a sé la cloche. Il muso dell'He.70 si alzò rispondendo docile come un cucciolo ai comandi. I camion frenarono e si misero di traverso, mentre i soldati continuavano a sparare. Ma l'aereo in pochi istanti divenne irraggiungibile. Bock e Carla Jeogeres Núñez erano salvi. 53 Denver, 2007 Phil Damiano si era espresso in una delle sue famose sfuriate, nel corso della quale quasi tutti coloro che sedevano ai vertici della CIA avevano ricevuto una sonora lavata di testa. «Anche se la nostra rete in Iran risulta compromessa», aveva ringhiato, «abbiamo altri mezzi per tenere sotto controllo quel figlio di puttana di Pashelvi e le sue sporche manovre: satelliti, intercettazioni, comunicazioni con i nostri alleati. Qualsiasi comportamento sospetto registrato in territorio iraniano deve, ripeto, deve, essere sottoposto alla mia personale attenzione.» Così aveva ordinato e in quel senso il suo staff si era mosso. Adesso Damiano e il generale Edward Corrige stavano guardando gli ingrandimenti delle foto satellitari. In esse si vedeva il porto petrolifero di Kharg Island nel golfo Arabico dove erano in atto le manovre delle navi intente a caricare il greggio. «Allora, generale, cerchiamo di procedere con ordine. Le quattro navi che da alcuni giorni stazionano dinanzi al terminal petrolifero di Kharg Island sono VLCC, vale a dire Very Large Crude Carrier, le più grandi petroliere che incrociano nel golfo. Ciascuna di loro è capace di stivare almeno trecentomila tonnellate di greggio. Le navi, costruite in Cina, appartengono alla NITC (National Iranian Tankers Company), una società di
Stato considerata la sorella minore della National Iranian Oil Company, la vera potenza economica del Paese. E a ragione, dal momento che gli introiti dell'Iran provengono quasi esclusivamente dall'esportazione di greggio. All'improvviso, dopo giorni di inconsueta attesa, le navi sono state ormeggiate ed è iniziato lo stivaggio. I nostri uffici si sono allertati per verificare chi fosse il destinatario di un così consistente quantitativo di greggio. Ebbene, si è scoperto che l'intestatario di quel contratto miliardario non era un operatore tradizionale del campo petrolifero, bensì un'anonima società, recentemente costituita, avente sede alle isole Cayman: una delle tante scatole vuote in cui vengono riversati i denari derivanti da ogni genere di operazione che non sia proprio... limpida.» «Quanto può valere il greggio contenuto in ciascuna di quelle VLCC?» «Tenuto conto che su ogni nave vengono caricate più o meno trecentomila tonnellate di greggio, e fatte le debite conversioni da tonnellate in barili, ognuna di quelle VLCC dovrebbe avere a bordo merce per oltre centoventi milioni di dollari. Con l'anonima e neonata Magic Stone Oil di Grand Cayman gli iraniani stanno concludendo un affare di poco inferiore al mezzo miliardo di dollari americani. Il tutto senza che, come abbiamo appurato, venga richiesta alcuna garanzia bancaria alla società ombra.» Linguadoca, 2007 Sara aveva accettato di trascorrere il periodo della convalescenza presso gli Habar a Denver a un patto: prima di partire Oswald avrebbe dovuto condurla a ispezionare quanto era stato scoperto all'interno della Grotte des Chevaliers. Una volta che la polizia scientifica aveva abbandonato il campo, dopo aver svolto le sue indagini in seguito al triplice omicidio, erano entrati in gioco gli archeologi che avrebbero cercato di far luce su un mistero antico più di ottocento anni. E su un altro che certamente risaliva alla preistoria. Ora il laghetto insieme all'intera galleria erano stati prosciugati e, con l'ausilio di un buon paio di stivali, si poteva accedere alla parte di caverna appena scoperta. «Carla Jeogeres Núñez, l'anziana signora che mi ha avvicinato in ospedale, ai tempi era l'agente francese incaricato di interrogare Otto Rahn», stava dicendo Oswald a Sara. «Durante la nostra conversazione mi ha giurato di non aver mai rivelato a nessuno prima che a me il significato delle pitture rupestri e il mistero dei passaggi sotterranei utili a raggiungere il
segreto. Queste informazioni le furono date da Rahn poco prima di morire. Sotto l'effetto della droga, lui le confessò che, per verificare le sue supposizioni sui corsi d'acqua sotterranei, aveva fatto evadere dal lager di Dachau un ingegnere molto esperto in materia. Il laghetto non è di origine preistorica e certo non è naturale. E quindi l'allagamento della galleria che conduceva alla caverna dei graffiti è stato frutto dell'opera dell'uomo. Chi ha costruito la barriera di pietra per murare vive quelle povere anime ha anche provveduto ad allagare ogni cosa per impedire eventuali fughe e cancellare le tracce del suo passaggio.» Percorsa la prima galleria, quella che il muro di pietra aveva tenuto celata per secoli, arrivarono nella grande caverna. Lì Oswald indicò a Sara gli scheletri disposti un po' ovunque a terra. Sara si fermò in silenzio dinanzi a uno in particolare: quello al cui fianco Oswald le aveva detto di aver rinvenuto l'antica spada di fattura persiana. Quindi i due si infilarono nel cunicolo e raggiunsero il Tempio Segreto. «Non ci è dato modo di conoscere», disse Breil con aria preoccupata, «la quantità di plutonio che ha trovato posto per millenni all'interno del contenitore schermato. Ma il fatto è che quel micidiale elemento si trova ora nelle mani di qualcuno che non ha avuto scrupoli nell'attentare alla tua vita e che ha ucciso gli agenti di guardia per entrarne in possesso. E questo è niente in confronto a quello che potrebbe fare con quell'arma.» Yves Tamberly li raggiunse. «Ho saputo che state per lasciarci», disse loro il funzionario del governo francese. «Signora, ho appena parlato con il nostro primo ministro, il quale mi ha pregato di farle dono di questo.» Così dicendo il prefetto dell'Ariège le porse un involto di carta antiurto. Sara non poteva aspettare; lo scartò trepidante e, alla luce delle fotoelettriche, l'antico disco dei sacerdoti di Hosh lanciò in ogni direzione i suoi lampi dorati. «Io la ringrazio, Sara. Sono convinto che quello che ha scoperto ci consentirà di far luce su una delle pagine più oscure della nostra Storia. Quanto a te, Oswald, voglio dirti che è stato entusiasmante lavorare al tuo fianco. So che non c'è tempo da perdere e che il mantenimento della pace nel mondo è nelle tue mani, ma sono certo che, ancora una volta, non ci deluderai. Grazie, Oswald Breil.» «Se continui così, va a finire che mi commuovo, Yves. Non so se con il tuo attestato di stima ti sei voluto tirare fuori dall'intera vicenda o se hai solo cercato di ricordare a tutti noi che non è ancora finita. Ma è così: non è ancora finita.» Gli occhi neri di Breil rifletterono l'oro dell'antico disco di
Hosh che Sara teneva in mano. «Sono contenta che quelli del governo americano ti abbiano messo a disposizione un jet privato», disse Sara una volta seduta sui lussuosi divani dell'Executive. «Ho ancora qualche amico tra le alte sfere e ho pensato che la mia amica convalescente preferisse viaggiare tranquillamente...» rispose Oswald, evasivo. In realtà Phil Damiano era nei guai e, pur di avere Breil al suo fianco, avrebbe accondisceso a qualsiasi richiesta del piccolo uomo. Oswald rimase per qualche tempo a osservare i lineamenti perfetti di Sara, abbandonata nel sonno. Quindi accese il computer, sperando che il buon Bernstein gli avesse inviato nuove notizie circa le sue indagini. Bernstein, per una volta, non era in linea, ma gli aveva già mandato un messaggio. Ciò che Oswald vi lesse lo lasciò di sasso. <SHALOM, MAGGIORE. LE ALLEGO ALCUNE CURIOSITÀ IN MERITO ALLA SOCIETÀ SULLA QUALE MI HA CHIESTO DI INDAGARE. LA MAGIC STONE (NELLO SCEGLIERE IL NOME NON MI PARE SI SIANO SBIZZARRITI CON LA FANTASIA) È STATA COSTITUITA LO SCORSO 28 MAGGIO 2007 A GRAND CAYMAN, PRESSO LO STUDIO DELL'AVVOCATO BORADOR, DOVE LA STESSA MAGIC STONE HA SEDE ASSIEME A UN ALTRO MIGLIAIO DI SOCIETÀ DI COMODO. PER COSTITUIRE COMPAGNIE SIMILI A QUESTA, LA LEGISLAZIONE DELLE ISOLE CAYMAN RICHIEDE LA PRESENZA DI UN FIDUCIARIO, DI SOLITO UN AVVOCATO, OLTRE AL VERSAMENTO DI UN CAPITALE IRRISORIO. L'AVVOCATO BORADOR, GUARDA CASO, RISULTA ANCHE IL FIDUCIARIO DI ALMENO OTTO SOCIETÀ OFFSHORE RICONDUCIBILI A VAN DER DUICK. UNA SEMPLICE CASUALITÀ, SI POTREBBE PENSARE. E NON LE NEGO CHE ANCH'IO HO AVUTO QUESTA SENSAZIONE. MA «QUALCUNO» MI HA INSEGNATO CHE BISOGNA SEMPRE DIFFIDARE DELLE COINCIDENZE E ALLORA SONO ANDATO A SPULCIARE ON LINE I CONTI CORRENTI DELL'AVVOCATO. IL BONIFICO A SALDO DELLA PARCELLA PER LA COSTITUZIONE DELLA MAGIC STONE È STATO PRELEVATO DAI FONDI DI UNA DELLE SOCIETÀ DI COMODO DI VAN DER DUICK.> «Sempre più interessante il nostro magnate paraguaiano. Credo proprio
sia il caso che lo incontri entro breve tempo», commentò tra sé Oswald, richiudendo il computer. Quindi si sistemò sul sedile, pronto a imitare la sua compagna di viaggio che dormiva profondamente. Golfo Persico, 2007 La VLCC Zohereh, la più nuova tra le quattro navi gemelle che costituivano il fiore all'occhiello della flotta iraniana, era lunga trecentotrentatré metri e larga cinquantotto. Il suo potente motore Silzer a sette cilindri era in grado di erogare una potenza di ventisettemila cavalli già a un basso numero di giri. I membri dell'equipaggio erano stati sostituiti con uomini appartenenti ai corpi speciali di Pashelvi: la missione nella quale era coinvolta la gigantesca petroliera era della massima segretezza e la presenza a bordo del braccio destro del presidente iraniano, il bieco Nard Sourush, ne era la prova. In una delle stive per le merci era stato collocato un parallelepipedo delle dimensioni di alcuni container. Al suo interno avrebbe operato uno staff di scienziati esperti nella fabbricazione di ordigni nucleari: quando la nave fosse tornata dal suo viaggio, Pashelvi sarebbe stato il padrone dei destini dell'intero scacchiere mediorientale. La Zohereh si era infine staccata dalla banchina di carico nell'isola di Kharg. Trasportava trecentomila tonnellate di greggio per conto della Magic Stone di Grand Cayman. Da alcune ore stava navigando in direzione di Hormuz, quando il comandante pose la prora al vento e ridusse la velocità di crociera. L'elicottero atterrò sul ponte pochi istanti più tardi. Dal velivolo scesero due individui scortati da altrettanti uomini. Uno di loro era Fadah, il mercante d'armi giordano che aveva fatto da tramite e da garante dello scambio. L'altro era condotto quasi a forza da una delle guardie. Aveva l'aspetto di un bancario o di un funzionario statale. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quell'anonimo personaggio fosse il depositario di importanti segreti e rappresentante di uno Stato in grado di determinare gli equilibri di forza del mondo islamico e occidentale. Verso Denver, 2007 Oswald aveva lasciato attiva la connessione in attesa che Bernstein si mettesse in contatto con lui. Non era mai successo che il capitano stesse tanto a lungo lontano da un computer collegato in rete. Breil gli mandò un
messaggio scherzoso, ma incominciava a essere preoccupato: il suo prezioso collaboratore mancava all'appello ormai da oltre ventiquattro ore. Uri Tzvi era diventato capo del Mossad da qualche anno, ma non era ancora riuscito a vincere il senso di frustrazione. Il suo peggiore incubo non era costituito dai molti che volevano cancellare Israele dalla faccia della terra, bensì dalla serie di successi raccolti dal suo predecessore. In ogni angolo, incartamento, atteggiamento di un subalterno aleggiava il fantasma di Oswald Breil. Per questo Tzvi era animato da un senso di rivalità nei confronti di Breil, non scevra da uno spiccato sentimento di antipatia. Fare quella telefonata gli costò non poca fatica. Il telefono collocato nel bracciolo della poltrona del jet squillò. Quando Oswald rispose, rimase per un attimo perplesso. Chi poteva cercarlo dalla sede del Mossad a Tel Aviv? Poi si disse che quasi certamente doveva trattarsi di Bernstein che aveva avuto problemi con il computer. Ma quando il centralino lo mise in contatto con il suo interlocutore, il piccolo uomo capì che i problemi che aveva incontrato Bernstein erano di tutt'altra natura. «Sono Uri Tzvi. È lei, dottor Breil?» disse il capo del Mossad. «Sono io, Uri. Che succede?» rispose Breil, sapendo bene che il suo successore difficilmente lo avrebbe chiamato per scambiare convenevoli. «Hanno rapito Bernstein.» Quelle poche parole ebbero l'effetto di una doccia fredda per Oswald. «Com'è successo?» «Ieri sera è uscito dall'ufficio. È salito in auto ed è scomparso nel nulla. La macchina è stata ritrovata stamattina a cinquanta chilometri da casa sua. Nessuna traccia rinvenuta a bordo. Niente che ci possa condurre a una pista.» «Avete sospetti?» «Nessuno, Oswald. Per questo mi sono rivolto a lei: so che lei e Bernstein siete sempre rimasti in... stretto contatto.» Sara si svegliò proprio mentre Breil chiudeva la conversazione con il capo del Mossad. «Brutte notizie, Oswald?» chiese Sara di fronte all'espressione cupa del suo amico. «Hanno rapito Bernstein», disse Oswald, mentre digitava un numero sul cellulare. Doveva parlare al più presto con chi sospettava avesse sin troppo a che vedere con il rapimento.
La voce di van der Duick era fredda come la lama di un pugnale. «Devo essere sincero: stavo aspettando la sua chiamata, dottor Breil», esordì van der Duick. «Quindi conoscerà anche il motivo della mia telefonata, signor van der Duick», rispose Breil senza preamboli. «Non arrivo a tanto. Mi dica, Breil. Sono tutto orecchie.» «Sembra che ultimamente alcune tra le persone a me più vicine siano state colpite da una sorta di maledizione. Non le pare?» «Ne è convinto? Del resto bisogna sempre stare in guardia quando si imboccano strade pericolose. Non trova, signor Breil?» Quel balletto di frasi a metà e di doppi sensi non avrebbe condotto a nulla, pensò Oswald. «Credo che lei e io dovremmo incontrarci per giungere a un accordo che metta la parola fine a tutta la vicenda.» «Certo, dottor Breil. A sua disposizione. Ma badi bene che ogni sua affermazione sia sempre sostenuta da prove concrete. Le parole sono leggere e si disperdono nell'aria.» La capacità di van der Duick di lasciare cadere come per caso le più subdole minacce era simile a quella dei personaggi di spicco di Cosa Nostra. Il viaggio stava ormai volgendo al termine, quando il telefono suonò ancora una volta. La voce di Lilith Habar era quasi irriconoscibile, rotta dal pianto e dai singhiozzi. «Oswald, sono io», disse Mame-loshen. «Hanno sparato. Dalla strada verso la nostra veranda. Habar stava leggendo il suo giornale. Il mio Ezer non faceva male a nessuno e me lo hanno ammazzato. Lo hanno colpito alla testa con un fucile di precisione. Torna a casa, Oswald. Torna a casa subito. Ti prego.» EPILOGO Non è la fine. Non è neanche il principio della fine. Ma è, forse, la fine del principio. Winston Churchill
54 Linguadoca, 1170 I migos e i loro saggi capi vennero cancellati dall'incedere degli eventi e altri popoli si insediarono in quelle regioni. L'ultimo dei re e dei sacerdoti del dio Hosh cadde mentre cercava di fuggire dal nemico tra i ghiacci perenni. Al collo portava ancora la perla di marmo che Dehal aveva scolpito per Athor. Il suo corpo mummificato venne rinvenuto dai coniugi Simon, mentre effettuavano un'escursione tra le nevi del Similaun nel 1991... ma questa è un'altra storia. I nomi e le leggende, come sempre accade, sopravvissero invece ai loro protagonisti e giunsero fino all'epoca medievale quando, in terra d'Occitania, andava affermandosi l'eresia catara. Tutti in Linguadoca conoscevano quindi la storia del pog e della pietra che uccide, ma nessuno avrebbe saputo indicarne il nascondiglio. Un ragazzino amava nascondersi e giocare nelle grotte della valle dell'Ariège. Si chiamava Beaufort, ed era figlio del signore del luogo. Un giorno stava percorrendo, assieme a un compagno di giochi, un angusto cunicolo e si ritrovò all'interno dell'antico Tempio Segreto dedicato al dio Hosh. Beaufort tentò invano di far desistere il compagno dall'aprire il pesante coperchio, ma questi non volle sentire ragioni. Mentre Beaufort abbandonava la caverna, l'altro alzava il coperchio in metallo. «Come vedi non mi è successo nulla», aveva detto all'amico dopo averlo
raggiunto all'esterno e ostentando aria di superiorità. «La tua leggenda è solo una bugia per gente paurosa.» Ma subito dopo il ragazzo aveva incominciato a stare male ed era morto in una manciata di minuti. Da allora, Beaufort di Daigne era rientrato nella grotta un'unica volta, da solo, per riporre al suo posto il pesante amuleto d'oro a forma di disco che aveva trovato durante la prima spedizione. Quindi si era allontanato, giurando a se stesso di conservare quel terribile segreto e di tramandarlo solo ai suoi eredi in linea diretta. Il Male, annidato in quella caverna, era troppo potente, e se fosse caduto in mani sbagliate il potere della Pietra sarebbe sfuggito al controllo dell'uomo. 55 Linguadoca, marzo 1244 Dall'alto della rocca avevano calato la fune ed erano rimasti ad aspettare che Aymon la fissasse alla base per poi metterla in tensione. Ma la corda era rimasta a penzolare nel vuoto: doveva essere capitato qualcosa di grave. Venne mandato in perlustrazione un faidits che fece ritorno dichiarando che a valle non v'era traccia né di Aymon né di nessuno del folto gruppo che era stato calato dalla rocca la notte precedente. Gli assediati erano quindi stati costretti a sospendere le operazioni di evacuazione e al mattino la rocca era stata oggetto di un pesante attacco. Pietro Ruggero di Mirepoix si consultò con il vescovo cataro Bertrando Marty, quindi domandò di poter parlamentare con il siniscalco del re Ugo d'Arcis. Era il 2 marzo del 1244. Pietro e il drappello che lo accompagnava vennero fatti sfilare tra due ali di soldati. Il comandante di Montségur avanzava con la testa alta e lo sguardo fiero, ricevendo dagli avversari l'onore delle armi. Il manipolo di guerrieri ai suoi ordini aveva tenuto testa a un esercito numeroso, addestrato e agguerrito. A dispetto dell'inevitabile sconfitta, il nome di Montségur sarebbe rimasto nella Storia a simboleggiare il valore delle idee e del credo di fronte al po-
tere della forza e della tirannide. «Vi chiedo un tregua di quindici giorni, prima di consegnare Montségur e i suoi abitanti alla Chiesa e al re», disse Pietro Ruggero che non aveva abbandonato la speranza di mettere in salvo i suoi attraverso la via di fuga aperta da Aymon. «E sia. Vi sarà dato quanto chiedete. Allo scadere del quindicesimo giorno, ai militari saranno rese le armi: ho una dispensa del papa e del re che vi concederà ampia amnistia per tutti i vostri reati, inclusi i fatti di Avignonet. Sarete liberi dietro il pagamento di un riscatto. I Perfetti e le Perfette catare e tutti i seguaci del catarismo dovranno consegnarsi ai rappresentanti della Chiesa, i quali intimeranno loro di abiurare. Coloro che si rifiuteranno saranno arsi sul rogo.» Naturalmente l'emissario del re di Francia non fece parola dei fuggiaschi che lui stesso aveva ordinato di murare vivi all'interno della Grotte des Chevaliers. «Eccellenza!...» provò a controbattere Pietro Ruggero. «Non siete nello stato di poter dettare condizioni, messere», lo interruppe con tono fermo il siniscalco. «Così è. E dovreste essermi grato del fatto che risparmierò la vita a voi e ai vostri uomini.» Pietro tornò alla fortezza e riferì l'esito dell'incontro ai suoi fedeli. Decisero che quella notte avrebbero tentato il tutto per tutto. Ancora una volta la fune venne calata nel baratro, benché non ci fosse nessuno ad assicurarla a valle. I primi a toccare terra avrebbero provveduto a fissarla. I faidits sporsero la cesta, mentre i primi tre militari vi prendevano posto. Ma circa a metà della discesa un bagliore illuminò la notte. Gli uomini del siniscalco avevano impregnato la fune con dell'olio lampante e le avevano dato fuoco: ora le fiamme stavano risalendo verso l'alto. Quando raggiunsero la navicella, la trasformarono in un rogo. Per i tre fuggiaschi non vi fu nulla da fare. Le loro urla disperate si spensero nel buio della notte. «Meglio morire con onore che per inedia e murati vivi in questa caverna», aveva detto Aymon prendendo una barra con la quale sperava di riuscire a rimuovere le pietre del muro. Una volta apertosi un varco, avrebbe prelevato la Pietra dal nascondiglio e si sarebbe gettato tra le truppe nemiche: se davvero fosse stata in grado di annientare interi eserciti, avrebbe provocato anche la morte sua e di tutti
gli occupanti della grotta, ma ne sarebbe valsa la pena. Solo così si sarebbero potute capovolgere le sorti di una guerra dall'esito ormai segnato. Il siniscalco del re guardava soddisfatto la chiusa che i suoi uomini avevano appena realizzato in corrispondenza dello sbocco di un rivo carsico. «Serrate!» ordinò il siniscalco. Qualche istante più tardi le pesanti paratie di legno e ferro venivano calate lungo delle guide, in modo da fermare il flusso delle acque. Aymon, solo in fondo al cunicolo, aveva appena iniziato a battere con il ferro contro i pesanti blocchi, quando ciò che vide lo paralizzò. Dalle fenditure e dagli interstizi tra le pietre del muro l'acqua aveva preso a zampillare. Tornato nella caverna, chiamò tutti a raccolta e li mise al corrente di ciò che stava accadendo. Le sue parole caddero in un silenzio disperato e insieme rassegnato. «Ho conservato questo sperando di non averne mai necessità», gli disse Marie-Louise una volta che furono soli, porgendogli un sacchetto di pelle ripieno di una polvere scura e priva di odore. «Avevo giurato che ne avrei fatto uso qualora tu non fossi stato liberato quella notte ad Avignonet. Credo ce ne sia a sufficienza per tutti.» Alla rocca, perduta ormai anche l'ultima speranza di fuggire, molti valorosi soldati decisero di abbracciare la fede catara e chiesero di poter ricevere il Consolamentum. Volevano condividere la sorte dei compagni d'assedio sino all'ultimo, anche a costo della loro libertà. Come fosse un rito estremo e purificatore, le ampolle contenenti il veleno passarono di bocca in bocca. Nessuno, sebbene Aymon avesse lasciato a ciascuno la libertà di scegliere, si rifiutò di bere. Si addormentarono uno di fianco all'altro, uniti, anche nella morte, dalla loro fede e da un'eroica dignità. Il 16 marzo del 1244, il siniscalco del re Ugo d'Arcis prese possesso della fortezza. I Perfetti e le Perfette catare vennero separati dagli altri e riuniti dinanzi all'arcivescovo Pietro Amiel. «In nome di Dio grande e misericordioso», disse il vescovo con voce tonante, «intimo a tutti voi di abiurare la vostra miscredente religione per abbracciare il credo del nostro papa. Altrimenti tutti gli eretici subiranno la
pena del rogo purificatore.» Il silenzio fu l'unica risposta che si udì tra le mura di Montségur. Nessuno accolse la proposta di Amiel. Una lunga fila di prigionieri catari si incamminò lungo lo stretto sentiero che scendeva da Montségur. In un ampio spiazzo, ai piedi della rocca, gli uomini del siniscalco avevano eretto una gigantesca pira. A uno a uno, duecentoventiquattro «buoni cristiani» arsero tra le fiamme purificatrici dell'Inquisizione. In nome di un Dio unico, grande, misericordioso e buono. 56 Europa, primavera 1945 I nazisti avevano sperimentato una sola volta la potenza di un ordigno nucleare. Era avvenuto nel settembre 1944 nell'isola di Rugen, a poca distanza dal centro missilistico di Peenemünde. Da Peenemünde venivano lanciate le terribili bombe a razzo denominate con la sigla V-1 e V-2. Presto, secondo la rete spionistica alleata, i tedeschi sarebbero riusciti a colpire con queste anche il territorio americano. Un anno prima dell'esperimento, nell'agosto 1943, la base sul Baltico era stata oggetto di uno dei più massicci bombardamenti dell'intero periodo bellico: seicento bombardieri alleati avevano distrutto quasi completamente la base nazista. Ma, nonostante ciò, gli scienziati della base, guidati dal giovanissimo Wernher von Braun, avevano continuato a operare nei bunker sotterranei, da dove le bombe volanti erano pronte a essere utilizzate attraverso una complessa rete di rampe. A Peenemünde ci si illudeva ancora di poter vincere la guerra. Del resto anche i gerarchi nazisti stavano facendo di tutto per non dare l'impressione che il Reich fosse prossimo alla disfatta. E ostentavano una sicurezza assai lungi dall'essere ben riposta. «Raderemo al suolo New York, Boston o Philadelphia», andava proclamando da qualche tempo Himmler. «Così anche gli americani conosceranno l'orrore della guerra. E capiranno che cosa significa assistere alla distruzione della propria casa.» In preda a una delirante euforia e intenti a suffragare tale propaganda, i tedeschi vicini al Führer parevano sordi alle cannonate nemiche sempre più vicine a Berlino e inneggiavano alla prossima e definitiva vittoria del
Reich. Secondo le cronache, Heinrich Luitpold Himmler si congedò dal Führer il 20 aprile. Da quel momento in poi il Reichsführer SS si rese protagonista di una serie di iniziative personali che indussero Hitler a macchiare la memoria del suo pupillo con l'infamante accusa di tradimento. Quella fredda mattina del 30 aprile 1945 Adolf Hitler uscì dal suo rifugio sotterraneo situato nei pressi di Potsdamer Platz a Berlino. Le artiglierie russe continuavano a colpire senza tregua i quartieri della capitale del Reich. Hitler osservò per un istante le rovine fumanti intorno a lui. Ormai era inutile farsi illusioni: tutto era perduto. Il Führer allora si chiuse nello studio assieme a Eva Braun, diventata sua moglie da poche ore. Dopo aver ingerito entrambi il cianuro contenuto nelle capsule Zyankali, si fecero saltare le cervella. Schaub, l'attendente di Hitler, Bormann e pochi altri fedeli avvolsero i corpi in coperte militari, li portarono in un cortile interno, li cosparsero di benzina e appiccarono loro il fuoco. I resti carbonizzati dei due vennero quindi seppelliti. I soli testimoni dell'inumazione furono Martin Bormann, il capo della GESTAPO Müller, il segretario di Stato Naumann, l'autista Kempka, il fotografo Hoffmann e il medico personale di Hitler Stumpfegger. Quindi il piccolo gruppo cercò di mettersi in salvo, mentre i russi erano ormai a pochi metri dal bunker. Secondo i rapporti, durante la fuga i sei trovarono riparo dietro una colonna di carri armati impegnati in un'inutile e strenua difesa. Uno di questi venne colpito e saltò in aria. Quando Kempka rinvenne, si accorse di essere il solo sopravvissuto. Il 22 maggio 1945 il Reich non esisteva più. Una lunga fila di ex appartenenti alla Wehrmacht, ormai sbandati, disarmati e malnutriti stava marciando verso la Baviera. Il militare inglese teneva il fucile Garand appoggiato sul fianco e si domandava come avesse potuto quella massa di derelitti arrivare a un passo dal conquistare il mondo. Dalla sua postazione nei pressi di Bremervörde, nel Nord della Germania, lungo il percorso di quella mesta ritirata, osservava quei soldati sconfitti e annientati. Alcune divise pulite e ben stirate attirarono l'attenzione del militare di guardia.
«Voi, venite qui. Fatemi vedere i vostri documenti», ordinò. Uno dei prigionieri, un sergente maggiore, portava una vistosa benda sull'occhio. Disse di chiamarsi Heinrich Hitzinger e lo stesso nome era scritto sui documenti. La sentinella stava quasi per lasciarlo andare, quando, colto da un eccesso di zelo, sollevò la benda: fu così che si rese conto che l'occhio del sergente Hitzinger era perfettamente sano. Il sottufficiale nazista e i suoi compagni vennero tradotti nel campo di prigionia 031, nei pressi di Bramstedt. Qui Hitzinger chiese di poter parlare con il comandante del campo, il capitano Sylvester, al quale confessò di essere in realtà Heinrich Himmler. Il giorno seguente, il 23 maggio, il sedicente Himmler venne perquisito e trovato in possesso di alcune capsule di cianuro. Ma, mentre il medico del campo concludeva una seconda e più approfondita perquisizione, Himmler riuscì a mettersi in bocca una capsula sfuggita chissà come ai controlli. A nulla valsero i tentativi di rianimarlo: l'uomo morì nel volgere di pochi istanti. Il corpo del Reichsführer venne tumulato in una località segreta all'interno del bosco del Lüneburg. Le esecuzioni dei gerarchi nazisti, condannati a morte durante il processo di Norimberga, iniziarono alle ore 1.11 del 16 ottobre 1946. Il primo a salire sul patibolo fu Ribbentrop, seguito da Keitel, Kaltenbrunner, Rosenberg, Frank, Frick, Streicher, Seyss-Inquart, Sauckel e Jodl. Hermann Göring sfuggì al boia ingerendo anch'egli una capsula di cianuro che qualcuno gli aveva fatto pervenire nella sua cella di massima sorveglianza. Ma l'impressione generale fu che la gabbia fosse rimasta aperta per troppo tempo e che nella trappola fossero caduti soltanto le mezze figure. In effetti molti tra i protagonisti di una tra le più grandi follie della Storia non figurarono neppure tra gli imputati al processo. Quanto a Rudolf Hess, dopo aver recitato la parte del demente per la durata dell'intero processo, si era alzato in piedi e aveva chiesto di parlare. Lo fece a lungo, quindi concluse dicendo: «Ho avuto la fortuna di vivere per molti anni a fianco di uno degli uomini più grandi che il mio popolo abbia mai avuto nel corso della sua storia millenaria. Sono felice e orgoglioso di aver fatto il mio dovere come tedesco, come nazista, come fedele al Führer. Non rimpiango niente. Se doves-
si tornare indietro, agirei nello stesso modo: anche sapendo che alla fine della mia vita mi aspetta il rogo. Poco mi importa di ciò che possono farmi gli uomini. Comparirò davanti all'Onnipotente. È a lui che debbo rendere conto, e so che mi assolverà». Rudolf Hess fu condannato all'ergastolo, da scontarsi nel carcere di Spandau. Lì, durante i primi ventotto anni di prigionia, si rifiutò di ricevere le visite sia della moglie che del figlio. Sembrava - dissero alcuni testimoni - che aspettasse davvero il Messia o qualche miracolo che intervenisse a liberarlo dal suo destino. Nelle rare occasioni in cui qualcuno andò a trovarlo nel parlatorio del carcere, gli venne imposto di non fare alcun riferimento a eventi o situazioni che fossero avvenuti nell'arco temporale tra il 1933 e il 1945, o relative al suo viaggio in Inghilterra. Con il passare del tempo Rudolf Hess divenne il solo detenuto in un carcere capace di contenerne un migliaio. La notte tra il 17 e il 18 agosto 1987 fu rinvenuto cadavere da uno degli addetti alla sorveglianza. Nei drammatici giorni dell'aprile 1945 il sottomarino classe U-boot contraddistinto dalla sigla U-234 era partito da un porto finlandese ufficialmente diretto in Giappone. Era il 16 aprile 1945. Il marinaio tedesco era rimasto a osservare i camion dai quali venivano scaricati i fusti contraddistinti da una scritta ben visibile. «Chissà se un giorno quelli della logistica impareranno a scrivere almeno il nostro nome», si disse. Sui fusti era stampigliata la dicitura U-235. Il marinaio non sapeva nemmeno che cosa fosse l'isotopo U-235 dell'uranio. Per lui si trattava di un semplice errore nel riportare la sigla del sottomarino nazista. Il comandante Johann Heinrich Fehler aveva ricevuto in consegna l'unità nel marzo 1944. Il suo sommergibile, da allora, era stato impegnato nelle più disparate missioni, ma mai in quella di posamine per cui il sommergibile U-234 era stato costruito. Il contrordine che Fehler ricevette, mentre si accingeva a salpare dalle coste della Finlandia, non lo stupì più di tanto. Avrebbe dovuto rimanere alla fonda in una zona di mare al largo del porto di Amburgo in attesa di ordini. Il viaggio era stato lungo e faticoso. Il piccolo velivolo aveva dovuto al-
lungare di molto il percorso per non venire intercettato dai caccia alleati, ormai padroni dei cieli tedeschi. Le turbolenze a bassa quota avevano contribuito a rendere ancor più disagevole il volo da Berlino alla destinazione. Il 1° maggio l'aereo era atterrato in un campo privato nei pressi di Amburgo. Ne erano scesi tre uomini e una donna. Quindi il pilota aveva ridato potenza ai motori e l'aereo era nuovamente decollato. I passeggeri erano saliti sul cassone di un camion militare ed erano stati condotti nei pressi di una spiaggia. Da lì si erano imbarcati su un gommone e avevano raggiunto il sommergibile. Quando il comandante Fehler se li era visti davanti era trasalito: sarebbe stato impossibile sbagliarsi in merito all'identità dei suoi passeggeri. Gli uomini portavano la barba lunga e tenevano alzato il bavero dei loro cappotti da ufficiali della Wermacht. La donna, che non indossava uno dei suoi prediletti abiti di foggia tirolese ma un austero tailleur marrone, aveva un aspetto sfinito. «È un onore avervi a bordo dell'U-234, mein Führer», disse Fehler, alzando la mano destra. «Riposo, comandante, riposo», disse Hitler con aria assente. «Voi e il vostro equipaggio siete stati scelti per portare a termine una missione di enorme segretezza, comandante», disse uno dei quattro. «Ciò che ora vi accingerete a fare non dovrà mai essere rivelato a nessuno, nemmeno al più stretto dei vostri familiari, nemmeno dinanzi allo spettro della tortura o al miraggio dell'impunità.» Anche il volto di colui che aveva parlato era ben noto. «Sono pronto, Herr Bormann», rispose il comandante dell'U-234, «a prestare a voi, al Reichsführer Himmler, alla signora Eva Braun e, soprattutto, a sua eccellenza il Führer ogni assistenza che riterrete necessaria. E a mantenere il segreto per sempre. Il mio equipaggio e io siamo ai vostri ordini.» «Vi correggo, alla signora Eva Hitler, comandante», precisò Bormann. Poche ore più tardi il sommergibile stava navigando in immersione alla volta della costa statunitense. Negli spazi angusti dell'U-234 i tre nazisti, che il mondo intero sapeva morti, abituati ai fasti architettonici del Terzo Reich, si muovevano con goffa difficoltà. Insieme alla donna, si riunirono nella saletta da carteggio. Fu Bormann a parlare per primo:
«Ho concordato con gli americani uno scambio: l'intero carico dell'Uboot 234 in cambio della libertà dei vostri passeggeri. Nessuno è a conoscenza della vostra identità, mein Führer, né di quella del Reichsführer Himmler. I nemici sanno soltanto di me e hanno accettato di lasciarmi sbarcare indisturbato quando gli consegneremo l'uranio e le nostre più avanzate invenzioni tecnologiche». «Gli americani», disse il Führer, «vogliono concludere la guerra con un atto definitivo. A loro serve l'uranio, non altri prigionieri. Con quello che noi gli procureremo potranno costruire ben più di una bomba e le faranno cadere sulle teste dei giapponesi. Sarà la loro prova di forza, il loro modo di dimostrare ai russi che non avrebbero vita facile se cercassero di farla da padroni quando, tra vincitori, firmeranno i loro accordi alla fine del conflitto. Accordi nei quali noi non entreremo, signori. È terribile pensare che il Terzo Reich verrà spartito come i quarti di un bue al mercato.» Il Führer era ridotto all'ombra dell'uomo che era stato. «Noi risorgeremo, mein Führer», disse Himmler che sino ad allora era rimasto in silenzio. «Abbiamo molto denaro, appoggi e potere. Abbiamo pedine fedeli, poste a controllare l'economia e i governi di interi Stati. E presto saremo in grado di entrare in possesso di una quantità di materiale nucleare tale da far sorridere il carico di uranio che trasportiamo in questo momento. L'Amazzone ha aperto la strada alla nostra ritirata. Ma sottolineo che si è trattato solamente di una ritirata strategica: entro breve saremo pronti a far rinascere il Quarto Reich.» Casco Bay, 1945 L'U-234 si consegnò alle forze statunitensi il 14 maggio 1945 e venne condotto sotto scorta fino al porto di Casco Bay nel Maine. Erano trascorse due settimane dalla sua partenza da Amburgo. Ma nel momento in cui il comandante Fehler si consegnava alle forze alleate, la sua unità si trovava in acque americane da alcuni giorni. Il carico del sommergibile venne sbarcato. Oltre a due aviogetti a reazione Me 262 smontati e imballati e altri armamenti sperimentali, vennero portati a terra 560 chilogrammi di ossido d'uranio U-235 trasportato in fusti. Buona parte di quel materiale fissile era destinato alla realizzazione delle bombe atomiche, esplose a Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945, che sancirono la fine della seconda guerra mondiale.
Nelle convinzioni dei vincitori, il Male avrebbe dovuto essere sconfitto. Per sempre. 57 Denver, 2007 Lilith Habar era seduta dinanzi alla poltrona vuota che il marito aveva occupato per tutta la vita. Una grossa macchia marrone segnava il punto in cui il proiettile era uscito dalla testa dell'uomo. Dopo aver versato fiumi di lacrime silenziose, gli occhi asciutti della donna fissavano il vuoto. Quando Oswald entrò in casa, Mame-loshen si alzò come fosse stata un automa. «Ezer non c'è più», disse con un filo di voce. «Lo hanno portato via poche ore fa. Devono fargli l'autopsia, mi hanno detto. Ezer non c'è più...» Sara le si fece vicino e in silenzio le cinse le spalle, quindi si sedette accanto a lei sul divano. Il detective della polizia di Denver lo stava aspettando da ore, ma sapeva che ne sarebbe valsa la pena. Non era cosa di tutti i giorni poter parlare con il grande Oswald Breil e partecipare a un'indagine che coinvolgeva l'ex primo ministro israeliano nei suoi più cari affetti. «Il colpo è entrato da qui», spiegò a Oswald il detective Sedale, indicando un punto della veranda dove, al posto del vetro, si trovava adesso un foglio di cartone. «Hanno sparato dalla strada da una distanza piuttosto ridotta: una cinquantina di metri al massimo. Con ogni probabilità il killer era appostato in un'auto in sosta ed era munito di una carabina ad alta precisione. Ha dei sospetti, dottor Breil? Chi poteva aver interesse a uccidere il signor Habar?» «Ezer Habar ha sempre condotto un'esistenza tranquilla. E sono certo che non avesse nemici. Da quando è andato in pensione si è dedicato allo studio e alla lettura e trascorreva gran parte del suo tempo su quella poltrona. Se invece, come purtroppo penso, si dovesse trattare di una vendetta trasversale nei miei confronti, non ho che l'imbarazzo della scelta: temo siano molti coloro che vogliono il mio male. Ma ora mi scusi, Sedale. Vorrei stare con mia madre.» In quel momento suonarono alla porta. La vicina di casa degli Habar, che si era presa cura di Lilith fino dagli istanti successivi al dramma, sbucò dalla cucina e andò ad aprire. Quando rientrò nella veranda era in compa-
gnia di un uomo corpulento che indossava una tuta da lavoro di colore chiaro. «Il vetraio», disse la vicina passando davanti a Oswald. Nel volgere di dieci minuti l'operaio aveva sostituito il vetro infranto dal proiettile. «Le lascio la fattura sul tavolo dell'ingresso, dottor Breil. Potrà passare con calma a saldare il suo conto», disse l'uomo andandosene. Oswald lo ringraziò distrattamente. Finalmente avrebbe potuto dedicare qualche minuto a Lilith. «Hai fatto bene, Oswald, a far riparare subito il vetro rotto: Ezer non avrebbe sopportato lo spiffero», gli disse la donna non appena lui le fu vicino. «Non sono stato io a chiamare il vetraio, Mame-loshen.» «Che strano... quel gentile signore mi ha detto che ha cercato di fare prima possibile dopo la tua chiamata, non capisco...» Lilith non aveva ancora finito di parlare che Oswald si era già precipitato nell'ingresso, e aveva aperto la busta che avrebbe dovuto contenere la fattura. Eccomi, dottor Breil. Come vede ho la possibilità di giungere ovunque. Sono molto spiacente per quanto successo al signor Habar, ma anche lei ha la sua parte di responsabilità in questa faccenda: gli affetti sono soggetti, come tutte le cose, a una scala di valori. E io la sua scala la conosco bene. Se lei non darà il giusto peso al mio avvertimento, sarò costretto ad alzare il tiro. Sono certo che lei abbia ormai capito che per me non è stato difficile neppure raggiungere il suo inseparabile amico Bernstein: non c'è foto che la riguarda, mentre riceve decine di riconoscimenti per aver giocato a fare il salvatore del mondo, in cui non sia in compagnia del funzionario del Mossad. E devo dire che il suo mago dei computer ha lasciato dietro di sé una ben visibile scia di bava elettronica, quando indagava sui miei interessi. Mi è stato sufficiente seguire la scia per giungere sino a lui. Sappia che ho consegnato il suo capitano ad alcuni amici che si stanno occupando della sua salute e che non si faranno molti scrupoli a infliggergli una morte atroce alla sua prossima mossa avventata. Naturalmente lei avrà perfettamente capito chi sono, quindi evito di firmarmi. Ma tenga presente che ci vuole ben altro che dei semplici
sospetti per incastrarmi. Le propongo una tregua di trenta giorni. Lei vada a farsi una bella vacanza con la convalescente Sara e non pensi agli equilibri del mondo. In sua assenza sarò io stesso a preoccuparmene. Addio, Breil. Aveva appena terminato di leggere il messaggio, quando Phil Damiano suonò alla porta di casa. Oswald ripiegò la lettera prima di andargli incontro e la mise in tasca: avrebbe avuto modo di parlargliene in seguito, forse. La vita di Bernstein era nelle mani di uno spietato assassino. Doveva muoversi con prudenza. «Mi sono precipitato qui non appena ho saputo, Oswald. Non sa quanto sia dispiaciuto...» «Grazie, Phil. Grazie per essere venuto. Ma, mi dica, come procede il piano?» Il direttore della CIA non scorse neppure l'ombra di una rassegnata disperazione negli occhi di Breil, ma solo un feroce desiderio di vendetta. E ne ebbe quasi paura. «È tutto pronto», rispose Damiano. Teheran, 2007 Da sempre l'università di Teheran fungeva da cartina di tornasole del malcontento della popolazione. I primi tumulti di protesta per i sistemi dittatoriali di Gholam Pashelvi scoppiarono in una tranquilla mattina di primavera e andarono avanti sino a notte. La polizia, peraltro poco convinta di essere dalla parte del giusto, riuscì a sedare la rivolta solamente a notte fonda e al prezzo di due morti e innumerevoli feriti. «Le elezioni!» gridava Pashelvi nel corso della riunione di gabinetto che aveva convocato urgentemente. «Le elezioni! Stiamo per diventare la potenza egemone nello scacchiere mediorientale e quattro studentelli chiedono di esercitare quello che chiamano 'un loro diritto'. Se li possono scordare, i diritti, anzi, dopo i tumulti odierni, da oggi stesso entrerà in vigore la legge marziale. L'esercito presidierà i luoghi pubblici, con particolare riguardo per gli atenei universitari. Nei centri urbani considerati a rischio verrà proclamato il coprifuoco. Non posso permettere che poche decine di facinorosi pregiudichino la realizzazione di un disegno che cambierà il
corso della Storia.» Il camioncino Toyota sembrava uno dei tanti che si aggiravano per le vie di Teheran, con il cassone indifferentemente carico di materiali edili o di operai che venivano trasportati nei cantieri. Breil era seduto accanto al guidatore. Dietro, camuffati da muratori in procinto di raggiungere il posto di lavoro, stavano sei tra le migliori teste di cuoio americane, reclutate dai corpi scelti della CIA. «La crema della crema», gli aveva assicurato Damiano mentre li presentava a Breil. «Nei pochi giorni che abbiamo a disposizione dobbiamo riuscire a raggiungere l'affiatamento perfetto, quasi fossimo tutti parte di un sol corpo. Solo così riusciremo a portare a termine la nostra difficile missione. Io sarò con voi sempre, sin da ora.» Erano trascorsi tre giorni di addestramenti intensi: ognuno sapeva alla perfezione ciò che avrebbe dovuto fare. Quegli uomini erano abituati a non lasciare niente al caso. Sapevano essere freddi e lucidi in ogni circostanza. La struttura che la CIA aveva loro messo a disposizione per esercitarsi ricalcava puntualmente, come un set cinematografico, la scena in cui si sarebbe svolta l'azione. Avevano provato e riprovato ogni mossa decine di volte. La missione non sarebbe stata facile, ma ce l'avrebbero fatta: l'obiettivo era presidiato solo da una squadra di militari di leva. Se tutto si fosse svolto secondo i piani, avrebbero raggiunto lo scopo prima che qualcuno potesse rendersi conto di quanto stava accadendo. Oswald e la sua piccola squadra erano stati trasferiti, a bordo di un Executive della CIA, ad Asgabat, in Turkmenistan. Poi un elicottero, solitamente utilizzato per le prospezioni petrolifere, aveva trasportato gli otto uomini a Gasan-Kuli, un villaggio sulla costa del mar Caspio. Lì si erano imbarcati su un motoscafo di quelli usati dai contrabbandieri locali. Nottetempo avevano raggiunto la costa iraniana nei pressi di Chatus. Teheran distava ormai pochi chilometri. Oceano Indiano, 2007 Quando Bernstein si svegliò si rese conto di trovarsi nell'angusta cabina di una nave. Era sicuro che avessero aggiunto dei sedativi al suo pasto, e se voleva restare lucido l'unica soluzione sarebbe stata il digiuno. Doveva as-
solutamente evitare di cadere nuovamente in quello stato di torpore. I ricordi degli ultimi giorni erano molto confusi, ma ora sapeva di essere a bordo di una petroliera. La porta della cabina non aveva maniglie. Probabilmente i suoi carcerieri l'aprivano dall'esterno servendosi di un sistema elettronico, forse un codice da digitare su una tastiera. Bernstein fece correre lo sguardo lungo la parete e sorrise quando vide il coperchio di una scatola elettrica di derivazione. Le navi VLCC, a causa delle loro dimensioni, non possono quasi mai accedere alle banchine dei porti. Per questo sono costrette a effettuare le operazioni di carico e scarico in stazioni di pompaggio galleggianti chiamate isole, di solito poste a diverse miglia dalla costa. Le manovre di ormeggio si erano concluse e la VLCC iraniana Zohereh era ferma lungo il pontile galleggiante. Da lì, un oleodotto lungo alcuni chilometri avrebbe trasportato le circa trecentomila tonnellate di greggio sino ai capienti serbatoi della Vizag Refinery di Bombay, appartenente alla Hindustan Petroleum Corporation (HPCL). Bernstein si era accorto che la nave aveva rallentato la sua corsa, aveva seguito le fasi della manovra di attracco attraverso le diverse vibrazioni trasmesse dal motore di quell'enorme pachiderma d'acciaio. Infine il capitano del Mossad aveva capito che la nave si era fermata e che, presto, sarebbero iniziate le operazioni di pompaggio. Bernstein, benché rinchiuso nella cabina, aveva seguito tutte le fasi della manovra. Aprì la scatola elettrica utilizzando il cucchiaio che i suoi carcerieri gli avevano lasciato insieme al piatto di zuppa. Non gli fu difficile individuare i due cavi elettrici che, dalla serratura, portavano alla tastiera posta all'esterno della cabina. Li recise entrambi e provocò il contatto. La porta si aprì con un sonoro scatto metallico. Uscì nel corridoio. Adesso poteva solo sperare che la sorveglianza non fosse eccessiva. Il viaggio da Kharg Island era durato dieci giorni. Gli occhi di Nard Sourush scrutavano la zona di mare circostante: non era l'esito delle operazioni di scarico del greggio a provocargli tanta tensione, ma quel piccolo punto all'orizzonte che si faceva sempre più vicino. Quando l'imbarcazione si accostò alla murata della nave, Nard abbandonò la sua postazione e scese, attraverso una scaletta interna, sino al portellone situato poco sopra la linea di galleggiamento. Nard si sporse leggermente e la valigia metallica passò di mano in mano
e da uno scafo all'altro. Dopo che ebbe recuperato il prezzo pattuito per lo scambio, Nard rivolse un cenno di saluto agli occupanti del grosso motoscafo che si allontanò velocemente. Teheran, 2007 «Leggi la firma là sotto, in calce all'ordine di servizio», stava dicendo in farsi Oswald Breil alla sentinella di guardia presso il magazzino di artiglieria. «È un ordine del ministro della Difesa in persona. Noi siamo muratori turcmeni. Ci hanno chiamato qui per un lavoro urgente agli scarichi delle acque nere.» Il militare parve convincersi e premette un bottone che fece alzare la sbarra di metallo. Il camioncino Toyota entrò nel cortile del fabbricato. Si trattava di una vera e propria piazza d'armi lunga quasi trecento metri e larga la metà. Tutto intorno si sviluppava un edificio a due piani che aveva visto tempi migliori. In un angolo si trovavano diversi mezzi corazzati e pezzi di artiglieria che parevano in perfetta efficienza. Nello slargo per l'atterraggio, in fondo al cortile, era posteggiato un elicottero. La luce del sole si rifletté con un bagliore su un oggetto metallico nascosto dietro a una finestra aperta. «Ci stanno aspettando», mormorò tra i denti Breil, quindi si sporse dal finestrino. «Ci stanno aspettando!» gridò con tutto il fiato che aveva in gola, mentre l'autista premeva sull'acceleratore e i primi colpi d'arma da fuoco fischiavano sopra le loro teste. Il parabrezza fu trapassato da una pallottola che concluse la sua corsa nella fronte dell'autista. L'uomo si accasciò sul volante, schiacciando il piede sull'acceleratore. Oswald ebbe solo il tempo di afferrare il volante e di correggere la corsa del furgone impazzito verso un passaggio carraio invece che contro il muro della costruzione. L'automezzo percorse ancora diversi metri, prima di fermarsi all'interno del fabbricato in una nuvola di polvere. «Noi siamo tutti vivi, come va laggiù, comandante Breil?» «Abbiamo perso l'autista. Non credo che i nostri nemici siano intenzionati a prenderci vivi. Ma noi venderemo cara la pelle. Siete pronti a farlo?» Sentirsi chiamare «comandante» dai suoi uomini aveva risvegliato in Oswald Breil il ricordo di tempi passati. E con essi la determinazione a
non arrendersi. Il loro piano era stato scoperto, ma il piccolo uomo aveva ancora qualche asso nella manica. «Perché hanno smesso di sparare?» chiese Oswald preoccupato dall'improvviso silenzio. Gli fu sufficiente guardarsi attorno per avere la risposta alla sua domanda: il magazzino dove si trovavano era il deposito delle munizioni. Un solo colpo d'arma da fuoco sarebbe stato sufficiente a far saltare in aria l'intera base. «Guardi, signore», disse uno degli uomini che nel frattempo erano scesi dal furgone. «Li vede quelli? Sono razzi Arash da 122 millimetri, chiamati comunemente Katyusha. E qui fuori, parcheggiati assieme agli altri, ho visto almeno tre camion lanciarazzi Benz Al 911. Se due di voi ci coprono le spalle e gli altri vengono con me, vedrà che tra qualche minuto assisteremo a un indimenticabile spettacolo pirotecnico.» Il militare non aveva ancora finito di parlare che già i suoi compagni avevano iniziato a estrarre i razzi dalle loro custodie e a rimuoverne le sicure. Ora si trattava di portarli sino alla porta e da qui, strisciando sotto al ventre degli altri automezzi, avrebbero provato a caricare i lanciarazzi. Il camion militare Benz era dotato di una torretta girevole armata con trenta tubi lanciarazzi di tipo Katyusha ed era in grado di lanciarli tutti e trenta in meno di quindici secondi. «Mentre voi organizzate la festa, io vado a cercare il festeggiato», disse Breil. «Se entro mezz'ora esatta non sarò di ritorno, vi autorizzo a dare inizio allo spettacolo anche senza di me.» Oswald non lasciò ai suoi nemmeno il tempo per rispondere e sgusciò con la velocità di un felino da una porta laterale. Il deposito di artiglieria era immenso e Oswald dovette affidarsi solo al suo istinto per trovare la prigione che stava cercando: sapeva che doveva trattarsi di un ambiente in grado di contenere il set televisivo da cui venivano trasmesse le interviste a Tahrjani. Le antenne a parabola furono il primo indizio; le due sentinelle di guardia la conferma dei suoi sospetti. Oswald si avvicinò guardingo, respirò a fondo prima di prendere la mira. L'arma di precisione silenziata emise in rapida successione due sbuffi soffocati. Le sentinelle si accasciarono senza un lamento. Breil entrò in una stanza buia. I suoi occhi si abituarono in fretta all'oscurità. Il presidente Tahrjani era sdraiato sul letto. Uno dei polsi era assicurato a un gancio nel muro con una manetta d'acciaio. Aveva un'aria inebetita: quasi certamente lo tenevano sotto l'effetto di
droghe e sedativi. Tahrjani di fronte all'incredibile apparizione dell'ex primo ministro israeliano pensò di essere in preda alle allucinazioni provocategli dalla droga. «Lei? Oswald Breil? Che cosa ci fa qui?» «Sono qui per portarla in salvo. Le spiegherò tutto più tardi, quando sarò riuscito a tirarla fuori da qui, presidente. Nel frattempo si copra gli occhi: dovrò sparare su quel gancio per liberare il suo polso.» Non appena fu libero, Breil prese per un braccio il prigioniero e si diresse verso il magazzino in cui erano asserragliati i suoi. Tahrjani continuava a guardarsi attorno con aria attonita. Il crepitio delle armi automatiche era assordante. Gli uomini riparati nel magazzino avevano aperto un intenso fuoco di copertura. Finché fossero rimasti là dentro, nessuno avrebbe osato sparare su di loro. I passi provenienti dal corridoio costrinsero Oswald a cercare un riparo in un ripostiglio e a cacciarvi dentro anche il suo compagno. Il presidente iraniano si faceva più vigile a mano a mano che il tempo passava: l'adrenalina messa in circolo dall'organismo stava vincendo la sua battaglia contro gli effetti soporiferi degli stupefacenti. «Ma che succede?» stava dicendo uno dei due uomini all'altro. «Sembra sia scoppiato il finimondo. Prima quelli dei corpi speciali, i fedelissimi di Pashelvi, che arrivano in elicottero, poi gli spari. Ci sono una decina di nostri uomini appostati nell'edificio che tengono sotto tiro un commando asserragliato all'interno del magazzino.» «Pare che siamo stati attaccati da un misterioso gruppo di terroristi che vogliono liberare il presidente. Dobbiamo fare in fretta a smontare il set e le apparecchiature: Pashelvi non può correre il rischio che si scopra che le false interviste partivano da qui», rispose il secondo tecnico. Il cervello di Oswald elaborava dati e informazioni alla velocità della luce. Uscì nel corridoio tenendo la pistola in mano e puntandola sui due addetti alle riprese televisive. «Quanto tempo vi occorre per poter trasmettere un comunicato?» chiese loro il piccolo uomo. «Pochi minuti», rispose uno, terrorizzato. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di avere salva la vita. E quel piccolo uomo sembrava poco in vena di scherzi. «E per quanti secondi il presidente Tahrjani potrebbe riuscire a parlare prima di venire oscurato?» chiese ancora Oswald Breil. «Siamo in grado di sovrapporci al segnale di qualsiasi canale televisivo
stia trasmettendo sull'intero territorio nazionale. Non sarà facile che riescano a interferire con le nostre trasmissioni e a oscurarle in un baleno. Avrete a disposizione almeno tre minuti prima che qualcuno possa intervenire.» «Andiamo nello studio televisivo», disse Oswald, spiccio. Pochi minuti più tardi i programmi diffusi dalle reti iraniane vennero interessati da un disturbo, e subito dopo, l'immagine di Tahrjani apparve nitida e inequivocabile su ogni apparecchio televisivo acceso in quel momento. «Popolo della Repubblica islamica dell'Iran, mio popolo. La congiura ordita da un traditore ha fatto sì che io venissi rinchiuso in una cella e imbottito di droghe. Non avrei mai abbandonato la carica che voi tutti mi avete assegnato. Ora vi chiedo di essermi ancora una volta fedeli e di mobilitarvi in massa per cacciare il dittatore assassino e ripristinare la Repubblica. Mi rivolgo ai comandanti delle forze armate e rivendico la mia sovranità di fronte all'Iran, alla mia gente e a Dio, sia gloria e misericordia su di lui.» L'Iran intero fu scosso da un fremito di indignazione. «Presto, presidente. Prima che il suo messaggio si trasformi in una vera controrivoluzione, potranno passare giorni», disse Oswald uscendo dallo studio televisivo. «Adesso dobbiamo innanzitutto cercare di tagliare la corda.» I due raggiunsero il magazzino. I soldati americani rivolsero un freddo saluto al presidente Tahrjani. Ma ben diversa fu l'accoglienza che tributarono a Breil. «Stavamo quasi per accendere le candeline senza di lei. Abbiamo tenuto impegnato il nemico mentre alcuni di noi caricavano il lanciarazzi. È stato sufficiente spostare di pochi gradi l'inclinazione dei tubi per avere l'obiettivo nel mirino. A lei l'onore di aprire il fuoco, comandante.» I trenta Katyusha partirono uno dopo l'altro come una raffica di mitragliatrice. Il muro dell'edificio, dalle cui finestre gli iraniani li tenevano sotto tiro, venne raso al suolo da una serie di esplosioni. Nel giro di una ventina di secondi era tutto finito. Al posto delle due finestre adesso c'era un grande foro fumante. E, con ogni probabilità, tra le macerie si sarebbero dovuti trovare i resti dei militari iraniani. «Presto, all'elicottero!» disse Breil, indicando il mezzo fermo a una cin-
quantina di metri di distanza da loro. Ma l'allarme doveva ormai essere stato lanciato: tra non molto avrebbero avuto addosso l'intero esercito iraniano. Gli uomini dei corpi scelti di Pashelvi di stanza alla base dov'era tenuto prigioniero l'ex presidente avevano dato ordine ai militari di leva a guardia del deposito di tenersi pronti a rispondere al fuoco nemico. Poi, una volta avuto la meglio sugli incursori, sarebbe stato semplice volgere a loro favore l'azione del commando guidato da Breil. Pashelvi avrebbe divulgato la notizia che un presidente traditore, in combutta con gli americani e con gli israeliani, aveva tentato di organizzare un colpo di Stato allo scopo di consegnare la Repubblica islamica d'Iran nelle mani degli infedeli. Ma i pochi militari di truppa, annichiliti dalla mole di fuoco che si era invece scatenata, non avevano reagito in alcun modo e ora assistevano inermi alla scena di un piccolo gruppo di persone che saliva a bordo dell'elicottero Shabaviz. Alla testa di cuoio americana che si era messo ai comandi del velivolo furono sufficienti pochi secondi per raccapezzarsi con le scritte in farsi. Conosceva alla perfezione quella macchina e nel volgere di pochi istanti l'elicottero si alzò dal piazzale tra le grida di giubilo dei componenti del commando. Quando furono in aria, il presidente Tahrjani tese la mano a Breil: «Grazie, Oswald. Grazie a tutti voi, signori», disse con sincera riconoscenza. «Avrà modo di ringraziarci quando tutto sarà finito, signor presidente: è ancora presto per festeggiare», rispose Breil, e si rivolse al pilota. «Diriga verso il mar Caspio. Quindi costeggeremo sino al Turkmenistan volando a bassa quota. E speriamo che la difesa aerea iraniana non sia troppo zelante.» Denver, 2007 L'affetto che Sara Terracini provava per Lilith Habar era sincero e profondo. E ora era molto preoccupata per l'anziana donna. Lilith si era chiusa in un silenzio duro e ostinato e aveva avvolto il proprio dolore in una pesante corazza di abulia: niente aveva il potere di smuoverla. Sara cercava di rendersi utile come poteva, dopo che Breil l'aveva prega-
ta di rimanere nella villetta degli Habar a fianco di Lilith, almeno sino al suo ritorno. «Il tuo ritorno...» mormorò Sara tra sé e sé. «Chissà dove sei finito, Oswald...» Mar Caspio, 2007 L'elicottero sfiorava la superficie dell'acqua con i pattini. I due antiquati F5 Tiger dell'aviazione iraniana si annunciarono alla vista come due puntini all'orizzonte seguiti dalla nera scia del combustibile. Un attimo dopo sfrecciavano uno a destra e l'altro a sinistra dell'elicottero. «Adesso compiranno un largo giro e poi, se non atterreremo arrendendoci, ci attaccheranno. Quei due rottami sono in grado di abbatterci con una sola raffica delle loro mitragliatrici», disse il pilota. «Quanto dista il confine?» «Una trentina di miglia. Troppe per sperare di farcela.» «Proviamoci! Se ci arrendiamo, avremo comunque perso la battaglia», disse Breil. «Ma come la mettiamo con quei due, signore?» Gli elicotteri da combattimento Cobra erano immobili a mezz'aria davanti a loro. Ogni via di fuga, a quel punto, era evidentemente preclusa. «Di fronte a un comitato di accoglienza tanto numeroso non credo ci resti altra scelta se non quella di atterrare», concluse Oswald con amaro sarcasmo. Lo Shabaviz 2061 posò i pattini a terra. Gli americani, Breil e il presidente iraniano Tahrjani alzarono le mani in segno di resa dinanzi al cannoncino di uno dei Cobra che li stava tenendo sotto tiro. Il secondo elicottero iraniano, invece, atterrò tra mulinelli di polvere. Ne uscì un alto ufficiale in uniforme. Quando questi giunse di fronte al drappello dei fuggitivi, scattò sull'attenti e portò la mano al berretto in segno di saluto. Tahrjani lo guardò perplesso, ma l'ufficiale iraniano disse: «Dopo il suo discorso alla televisione, signor presidente, la gente è scesa nelle piazze invocando il suo nome. Tutti i comandanti delle forze armate hanno riformulato il loro giuramento di fedeltà alla Repubblica, alla bandiera e a lei. È lei, infatti, il nostro legittimo presidente. Pashelvi ha fatto perdere le sue tracce: nessuno sa dove sia finito. C'è chi dice sia fuggito ai primi moti nelle strade, chi dice che sia nascosto da qualche parte nella ca-
pitale. Sono qui per condurla a Teheran, signore. Una città nuovamente libera dall'oppressione. Una città che la sta aspettando». Prima di congedarsi da lui, Oswald ottenne dal presidente iraniano la promessa che avrebbe mantenuto l'assoluto riserbo sull'operazione che aveva portato alla sua liberazione. Almeno sino a che quella storia non si fosse davvero conclusa. E Breil sapeva bene che molte pedine aspettavano ancora di essere mosse. La partita non era finita. Denver, 2007 Sara Terracini era rimasta incollata davanti alle immagini diffuse in mondovisione: in Iran un vero e proprio colpo di Stato si era risolto senza quasi spargimento di sangue. Il presidente Tahrjani era riuscito a riconquistare il potere e, in una brevissima conferenza stampa, aveva detto che mai si sarebbe immaginato di dovere gratitudine a gente che in passato aveva giudicato come nemica. Sara era certa che dietro a quella vicenda ci fosse lo zampino di Oswald Breil. Oceano Indiano, 2007 Bernstein aveva osservato dall'alto la manovra del motoscafo e quel curioso passaggio della valigetta. Quindi rimase a guardare il mare sotto di lui. La costa era lontana alcune miglia: l'avrebbe potuta raggiungere a nuoto. Gli sarebbe stato sufficiente scendere sino al portellone posto a metà della murata e tuffarsi in acqua. Stava per abbandonare il ponte intenzionato a dirigersi verso la scala interna, quando il rombo di un elicottero lo fermò. Dal suo nascondiglio improvvisato il capitano del Mossad riuscì a distinguere le due persone che erano scese dal velivolo atterrato sul ponte. Bernstein riconobbe subito Gholam Pashelvi, sebbene si fosse tagliato la barba e non portasse il solito turbante in capo. Il secondo dapprima gli sembrò uno sconosciuto. Ma, dopo alcuni secondi, la verità gli apparve in tutta la sua drammatica realtà. Fu per questo che Bernstein abbandonò il progetto di fuggire: doveva restare a bordo e scoprire che cosa ci faceva quell'uomo che conosceva bene su una petroliera iraniana impegnata in un oscuro traffico. Bernstein calcolò che avrebbe avuto ancora un'ora di libertà prima che gli venisse somministrato un nuovo pasto. A quel punto avrebbe dovuto
farsi trovare all'interno della sua cella. Ma poi avrebbe provato ad abbandonarla nuovamente per tentare di mettersi in contatto con Breil. Per fortuna, sulla nave la sorveglianza non era troppo serrata. Bernstein sgattaiolò nei corridoi, sino a che alcune voci, provenienti dalla sala riunioni attigua agli alloggi degli ufficiali, lo indussero a fermarsi e ad aguzzare l'udito. Nella sala si trovavano Pashelvi e l'inseparabile Nard, il mercante d'armi Fadah e il nuovo arrivato. Quest'ultimo parlava con tono autorevole. «È stato un errore imperdonabile sottovalutare un personaggio della levatura di Oswald Breil: una decina dei vostri migliori uomini non sarebbero sufficienti a fermare quel satrapo. Questo drammatico cambio di programma ci ha messo nei guai. Ma tant'è. Ora è inutile recriminare!» «Il fatto che io non sia più presidente dell'Iran non cambia i termini della nostra trattativa. Lei riceverà da questa operazione il compenso e le soddisfazioni pattuite. Stia tranquillo, non rimarrò in disgrazia molto a lungo: le ricordo che nelle nostre mani si trova il plutonio e che, proprio adesso, su questa nave, i migliori scienziati del mio Paese stanno confezionando un ordigno nucleare di enorme potenza. E il fine ultimo della nostra missione, la scomparsa dello Stato di Israele dalle carte geografiche, sarà perseguito. Vedrà che, una volta che il mondo islamico mi riconoscerà come suo salvatore, il premio che mi verrà concesso sarà ben più consistente della presidenza di un solo Stato.» Pashelvi parlava con l'aria invasata di chi sente che il suo potere sta vacillando. «Tra qualche giorno», continuò, «raggiungeremo lo stretto di Hormuz. E, a quel punto, l'ordigno dovrebbe essere pronto.» Quindi si rivolse al nuovo venuto. «Lei e il nostro prezioso carico sbarcherete a Dubai. Il suo compito sarà quello di far giungere la bomba sana e salva in Israele.» «Chiedo scusa, eccellenza», lo interruppe Fadah. «Ma questi particolari esulano dalle mie mansioni di mediatore. In compenso, vorrei che fosse riconosciuto che un pericoloso agente del Mossad si trova ora sotto la sua custodia grazie all'intervento del mio cliente. Le indagini che stava svolgendo Bernstein sarebbero state in grado di mandare all'aria l'intero affare. Non le chiederò un sovrapprezzo, ma sbarcherò anch'io a Dubai, dato che il mio compito è concluso.» «Ha davvero ragione, Fadah. La sua mediazione è da considerarsi conclusa.» A un cenno del capo di Pashelvi nella mano destra di Nard apparve una
pistola. Il colpo, unico e preciso, uccise all'istante il mercante d'armi. «E che ne facciamo di Bernstein, signore?» chiese Nard Sourush con ancora in pugno la pistola. «Aspettiamo qualche giorno prima di eliminarlo: gli ebrei sono gente sempre piena di risorse e magari potrebbe tornarci utile. E fino a che sarà a bordo con noi, non potrà arrecarci alcun danno.» Bernstein si incamminò guardingo lungo il corridoio: aveva sentito abbastanza. La porta della sala da carteggio era socchiusa. Al comandante della Sezione 8200 del Mossad la vista del computer provocò la stessa euforia che gli avrebbe provocato un'oasi dopo chilometri di deserto. Entrò, riuscì a digitare poche parole e a inviarle all'indirizzo di posta elettronica di Sara. Poi dei passi nel corridoio lo costrinsero ad abbandonare la postazione. Denver, 2007 Sara Terracini si alzò da tavola e aiutò Lilith a sparecchiare in silenzio. La composta disperazione della donna la stava contagiando e la mancanza di notizie da parte di Oswald non faceva che accrescere la sua angoscia. Sedette al computer e digitò la password per accedere alla sua casella di posta privata. Il messaggio era composto da due sole parole: «Still alive», ancora vivo, e proveniva dal capitano Bernstein. Oceano Indiano, 2007 L'uomo varcò la porta della sala carteggio, sedette davanti al computer e digitò poche parole, prima di impartire alla macchina i comandi per spedire il messaggio di posta elettronica. «Winning Horse è in fase estatica. Non mi fido più di lui», aveva scritto l'ultimo arrivato a bordo della petroliera. Una volta chiusa la comunicazione riguadagnò il ponte di comando, dove Pashelvi lo stava aspettando. I due parlarono brevemente, poi l'uomo si congedò dopo aver chiesto nuovamente conferma della data e dell'ora del suo appuntamento di alcuni giorni più tardi a Dubai. Bernstein era rientrato nella cabina e aveva richiuso la porta alle sue spalle. Poco dopo il rumore dei motori a pieni giri gli fece capire che la nave aveva ripreso la navigazione. Poi udì il rombo dell'elicottero che de-
collava. Washington, 2007 Phil Damiano sorrideva soddisfatto. Accanto a lui il generale Edward Corrige partecipava con entusiasmo ai festeggiamenti: il blitz condotto da Oswald Breil aveva salvato le loro traballanti poltrone. «Bene signori», venne al dunque Oswald. «Siamo riusciti a restituire la legittimità di governo in un Paese islamico. Sono convinto che d'ora in poi la politica di Tahrjani, e dell'Iran in generale, sarà caratterizzata da un cambio radicale nell'atteggiamento tenuto verso i nostri Paesi. Ma non dobbiamo dimenticare che un ingente quantitativo di materiale nucleare è ancora nelle mani di alcuni criminali tra i più pericolosi del mondo. E inoltre sono convinto che gli artefici del rapimento del capitano Bernstein siano gli stessi individui. Mi auguro solo che sia ancora vivo.» Denver, 2007 Quando Oswald varcò la soglia della villetta degli Habar, Sara gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo. Quell'accoglienza gli fece dimenticare per un attimo le sue preoccupazioni. «Sono stata in pena per te», disse Sara accarezzandogli il volto teso e stanco. «E hai fatto bene a esserlo, per una volta», rispose Oswald tra il serio e il faceto. «Non scherzare, Oswald. Sono giorni che non ho tue notizie.» «Non ci crederai, ma dove sono stato non sono riuscito a trovare una cabina telefonica», continuò a scherzare Oswald, passandole le dita tra i capelli. «Come sta Mame-loshen?» «Sono in ansia anche per lei: è come se si fosse trasformata in una statua di ghiaccio. Ma c'è una cosa che ti devo dire, prima di tutto. Mi è arrivato un messaggio da Bernstein. Dice solo: 'Still alive'.» «Inossidabile Bernstein! Still alive... Era una frase che usavamo nel Mossad per comunicare che eravamo ancora in salute, anche se in pericolo, e che avremmo cercato di portare a casa la pelle.» Lilith Habar entrò nella stanza, e per un po' Breil e Sara si dedicarono a lei e cercarono di distrarla e di alleviarne il dolore.
Paraguay, 2007 Deman van der Duick lesse il messaggio con apprensione crescente: da quando quel musulmano invasato di Pashelvi si era fatto soffiare la presidenza dell'Iran, era sempre più convinto che quello non fosse più un cavallo vincente su cui puntare. La comunicazione appena ricevuta da uno tra i suoi migliori uomini non faceva altro che confermare le sue convinzioni. Denver, 2007 Oswald si era coricato presto. Aveva bisogno di riposare per raccogliere le energie necessarie a superare di slancio gli ultimi metri della sua corsa contro il Male. Un tocco leggero lo distolse dai suoi pensieri. Sara era entrata nella stanza. Nella penombra della notte gli apparve bella come un'antica dea. Per fortuna l'incidente non aveva lasciato segni. «Che cosa succede, Oswald? Vuoi parlarmene?» chiese Sara sedendosi sul bordo del letto. «Siamo andati a cacciarci in un brutto pasticcio e in gioco ci sono delle forze pericolose e distruttrici», disse Oswald e si mise a raccontarle quanto sapeva su potenziali terroristi nucleari e petroliere in giro per il mondo con il loro carico di morte. Quindi concluse: «Non appena Mame-loshen starà un po' meglio, potremmo prenderci qualche giorno di vacanza, tu e io. Sei mai stata in Paraguay? Anzi, se Lilith ce lo consentirà, potremmo partire... subito!» «Paraguay?! La tana di van der Duick. Riesci sempre a sorprendermi, Oswald Breil. Non ti sono bastati i pericoli che abbiamo affrontato sino a ora?» «No, Sara. La partita non è ancora chiusa. Dobbiamo fermare quella gente. E poi ho ancora un amico nelle loro mani, un padre da vendicare e l'attentato alla vita della... ehm... della mia più cara amica.» Il mattino successivo Lilith si alzò presto e Oswald, che era sveglio da ore, chiese di poterle parlare. «Sei sempre stata la mia confidente preferita, sin da quando ero bambino e anche ora che sono un uomo maturo. Sara e io stiamo per partire per il Paraguay...» Quindi Oswald spiegò per sommi capi a Mame-loshen i suoi sospetti.
Washington, 2007 «Com'è possibile?» stava commentando Phil Damiano ad alta voce. «La VLCC Zohereh è stata avvistata quasi simultaneamente in quattro luoghi diversi del globo terrestre. O quella nave e il suo equipaggio sono dotati del dono dell'ubiquità... oppure... accidenti! Le quattro VLCC iraniane sono gemelle e pressoché identiche: sarebbe sufficiente avere cambiato nome a tre di esse per avere quattro Zohereh in giro per il mondo. E in effetti le navi erano ormeggiate tutte insieme alle banchine di Kharg Island.» Oceano Indiano, 2007 Bernstein compì la solita manovra e aprì la serratura della cabina. Ormai aveva molta dimestichezza con quel sistema. La nave stava navigando a piena velocità verso il golfo Persico. Il capitano del Mossad benedisse i sistemi elettronici che consentivano a una nave colossale come quella di essere manovrata da un numero esiguo di uomini: nelle ore notturne era davvero difficile incontrare anima viva nei corridoi della Zohereh. Bernstein entrò ancora una volta in sala carteggio: doveva rendere il suo messaggio indecifrabile nel caso che occhi indiscreti lo avessero potuto leggere. Non disponeva del suo personale codice di decrittazione; doveva quindi affidarsi alla fantasia. E farlo in fretta: la sua sortita poteva venire scoperta in qualsiasi momento. Denver, 2007 Per un ultimo scrupolo, prima di riporre il computer nella borsa da viaggio, Sara scaricò la posta in arrivo. Con trepidazione si rese conto che Bernstein le aveva inviato un nuovo messaggio: «PUBORDETAGULFZOHERRATAUS», queste erano le sillabe che Bernstein le aveva fatto pervenire da chissà quale angolo della terra. Sara, benché fosse una tra le maggiori esperte di decrittazione al mondo, non riuscì a capire il senso del messaggio del capitano del Mossad. Sembrava che un bambino avesse schiacciato a caso i tasti del computer. Senza alcuna logica. Attese che Oswald terminasse la telefonata con Phil Damiano, quindi si
recò nello studio con il messaggio appena ricevuto copiato su un foglio di carta. «Che cosa succede, Oswald?» gli chiese vedendolo accigliato. «Ho saputo da Damiano che in questo momento ci sono quattro navi identiche, sulla cui fiancata c'è lo stesso nome, che navigano in luoghi differenti nel mondo. Una di queste potrebbe essere coinvolta in un traffico di materiale nucleare finalizzato alla distruzione di Israele.» «E come si chiamerebbe questa nave una et quatrina?» «Zohereh, è una VLCC costruita recentemente in Cina con le sue tre gemelle.» «Un piccolo passo avanti», disse Sara, cerchiando con una matita rossa la parola «Zoher» nel messaggio «PUBORDETAGULFZOHERRATAUS» ricevuto da Bernstein. «Non sei tu quello che dice sempre che le coincidenze non esistono?» «Quando ti è arrivato?» chiese Oswald, improvvisamente interessato, posando gli occhi sulle sillabe. «Pochi minuti fa. E non riesco proprio a venirne a capo. Pensavo di mandare il messaggio a Toni per vedere se le macchine del laboratorio riescono a capirci qualche cosa più di me.» «Non penso ce ne sia bisogno, Sara. Lo chiamavamo alfabeto Poppins, perché lo abbiamo inventato seguendo l'esempio dello scioglilingua della famosa baby sitter: era uno dei sistemi che noi agenti del Mossad usavamo per scambiarci comunicazioni. È sufficiente scomporre le sillabe e aggiungere un po' di fantasia. Certo non si tratta di un metodo molto scientifico... Ecco, guarda: Pu è il simbolo nella tavola degli elementi del plutonio. 'Pu bord' potrebbe stare per il plutonio si trova a bordo', 'ETA' è un acronimo del linguaggio commerciale marittimo, e sta per Estimateci Time of Arrival. Orario stimato di arrivo.» «Quindi: stimo di arrivare nel 'Gulf' - e a quelle latitudini il golfo non può che essere il golfo Persico - a bordo della Zoher...» «Esatto, Sara. Ricapitoliamo: il plutonio è a bordo. Siamo in rotta verso il golfo Persico con la Zohereh. Non capisco però che cosa significhi la parte terminale del messaggio: 'rataus'. Intanto richiamerò Damiano per dirgli di questo nuovo passo avanti che dobbiamo a Bernstein.» Oceano Indiano, 2007 Il capitano Bernstein si allontanò dalla sala carteggio. Stava percorrendo
un corridoio che si affacciava all'esterno, quando li vide sbucare dalla notte: i tre gommoni scuri scivolavano veloci sul mare calmo. Accostarono e si misero alla stessa velocità della nave. Alcuni degli uomini lanciarono dei rampini magnetici, che si agganciarono al portellone della fiancata. Uno dei commandos, armato di una lunga leva, riuscì a forzare il portello e ad aprirlo. Bernstein rimase nascosto a osservare le manovre di arrembaggio: quegli uomini erano armati sino ai denti e palesemente bene addestrati. Il capitano del Mossad sapeva che un'occasione del genere non gli si sarebbe più presentata e, inoltre, aveva la sensazione che da lì a poco sulla nave avrebbe fatto molto caldo. Gli uomini del commando salirono a bordo e scomparvero nel ventre della VLCC. Bernstein scese da una scaletta secondaria. Non c'erano sentinelle a garantire la via di fuga aperta per gli incursori e nemmeno sui gommoni che venivano trascinati dalla nave per mezzo dei rampini. Bernstein si lanciò. Accese i due potenti motori fuoribordo da duecento cavalli l'uno e controllò la disponibilità di carburante. I commandos dovevano provenire da qualche nave appoggio poco distante: probabilmente non c'era benzina a sufficienza per raggiungere la terraferma che ormai distava almeno duecento miglia. Ma ci avrebbe pensato in seguito, ora doveva solo allontanarsi dalla nave. Mollò le cime d'ormeggio a cui erano fissati i rampini e lasciò che la Zohereh sfilasse di lato. In breve scomparve nel buio della notte. Asunción, 2007 «Paraguay», l'uomo, al volante della vecchia Dodge, gesticolava animatamente, «nella lingua guarani significa 'acqua che va verso l'acqua'. E in effetti è strano che questo sia il nome di uno dei soli due Stati dell'America del Sud che non possiede sbocco al mare. Il mio nome è Norberto Rodas e sono a sua completa disposizione, dottor Breil. Il direttore Damiano mi ha chiamato, chiedendomi di soddisfare ogni sua richiesta.» Oswald sorrise divertito: i corrispondenti esteri dei servizi segreti, soprattutto quelli che vivevano in Paesi tropicali, trattavano sempre gli agenti in missione come turisti. Sara era seduta sul sedile posteriore. Osservava il caotico traffico di Asunción senza parlare. La città, una delle più antiche del Sudamerica, le ricordava Parigi. Del resto molti suoi palazzi, come per esempio il Panteón
de los Héroes quasi identico all'Hôtel des Invalides, si ispiravano a quelli della capitale francese. «Per non dare troppo nell'occhio», riprese Norberto Rodas, «ho preferito non prenotare un albergo. Ho affittato una casa a pochi passi di distanza dalla proprietà di van der Duick.» «Che tipo è? Mi parli un po' di lui.» «Che dire? Deman van der Duick è una tra le persone più in vista del Paese. Senza dubbio è il più ricco. Negli ambienti a lui ostili, pochi per la verità, si mormora che dietro di lui ci siano affari non proprio limpidi o che sia l'artefice di candidature di politici legati ai cartelli del narcotraffico sudamericano. Ma sino a oggi ogni voce è sempre stata smentita. Van der Duick per lo più è considerato un mecenate senza macchia. Non saprei dire quante fondazioni filantropiche portino il suo nome o quello dei suoi familiari. E inoltre il fatto che egli sia così legato alla figura dei propri genitori adottivi è giudicato degno di ammirazione.» «Un momento. Che cosa intende per 'adottivi', Norberto?» «Proprio ciò che ho detto, dottor Breil. Credo che l'adozione sia avvenuta poco prima dell'inizio della guerra, quando egli doveva avere non più di cinque o sei anni. Arrivò in Sudamerica dalla Germania.» «Non dall'Olanda?» chiese Breil, stupito. «Nossignore. Dalla Germania. A quanto ne so era rimasto orfano e i van der Duick, onesti lavoratori di origini olandesi, hanno deciso di adottarlo. Deman li ha ripagati con una vita segnata da folgoranti successi.» «Ecco, sono i suoi iniziali successi a costituire il nostro punto di partenza: lei ha qualche amico al Banco Central, Norberto?» «La CIA ha amici ovunque, dottor Breil. Il problema sarà scoprire se sono davvero amici nostri o di van der Duick. Il nostro è un Paese nel quale ci si deve muovere con molta circospezione...» «Non ne ho ancora conosciuto uno in cui non si debba essere prudenti...» «Siamo arrivati, signori. Alla vostra destra c'è la villa di van der Duick.» Anche la casa del magnate sembrava risentire di quell'aria parigina che si respirava un po' ovunque. La villa era protetta da un alto muro di cinta. Un imponente cancello in ferro battuto dalle punte a freccia del colore dell'oro precludeva l'accesso al viale alberato che conduceva alla casa. Si trattava di un'elegante costruzione tardo ottocentesca su tre piani. Sulla facciata si aprivano otto tra finestre e balconi per piano. La pianta era apparentemente quella di un parallelepipedo regolare. Gli occhi di tele-
camere a circuito chiuso tenevano sotto controllo ogni angolo della proprietà. Il complesso non aveva niente in comune con le gigantesche dimore dei latifondisti sudamericani o, peggio, con quelle dei narcotrafficanti, che trasudano lusso e ostentazione. La dimora di van der Duick era caratterizzata dal buon gusto e da una elegante sobrietà. Mentre l'auto guidata da Rodas si infilava in un cancello a una cinquantina di metri da quello di van der Duick, il telefono di Oswald suonò. «Grazie per l'accoglienza, Phil», disse Breil. «Un dovere, Oswald, dal momento che lei sta lavorando per il bene del mondo intero», gli rispose il direttore della CIA. Poi continuò: «Abbiamo trovato la Zobereh. Si è incagliata stamattina lungo la costa dell'Oman. Era una nave fantasma: a bordo erano tutti morti». «Anche... anche Bernstein?» chiese Oswald con un tuffo al cuore. «No, Oswald. Non c'era traccia di Bernstein e nemmeno del guardaspalle di Pashelvi, Nard Sourush. Gli altri sono stati ammazzati probabilmente da un commando perfettamente addestrato. In una specie di grande scatola, all'interno di una stiva, abbiamo trovato un vero e proprio laboratorio ad altissima tecnologia. I nostri esperti sostengono che le attrezzature rinvenute avrebbero dovuto servire a fabbricare un ordigno nucleare ad alto potenziale ricavato dal plutonio. Nel laboratorio c'erano i quattro più importanti scienziati nucleari iraniani e alcuni tecnici. Anche loro cadaveri. La nave è stata lasciata con il pilota automatico inserito, programmato perché si arenasse. Al timone, in segno di scherno, era stato legato il cadavere di Pashelvi crivellato di colpi.» Oceano Indiano, 2007 Quando Bernstein si era sentito in salvo, aveva ridotto la velocità e seguito la Zohereh da lontano con una rotta parallela. Nella notte aveva distinto i bagliori provocati dalle armi automatiche: i misteriosi assalitori dovevano aver colto tutti gli occupanti della petroliera alla sprovvista. Alcuni minuti più tardi sulla piazzola della VLCC era atterrato un elicottero. Solo allora Bernstein aveva invertito la rotta. Aveva calcolato di aver percorso circa un centinaio di miglia quando, uno dopo l'altro, i due fuoribordo si erano fermati. Il capitano del Mossad si era preparato a trascorrere lunghe ore alla deriva. Secondo i suoi calcoli la terraferma non doveva distare più di sessanta miglia.
L'elicottero si era posato sul ponte della Zohereh dolcemente. Il suo occupante era sceso mentre il capo del commando gli si avvicinava. «Pulizia effettuata, signore.» «Anche Bernstein?» «Né io né i miei uomini abbiamo trovato traccia dell'agente del Mossad, e neppure di Nard Sourush.» «Meglio», aveva commentato l'uomo appena atterrato con l'elicottero. «Probabilmente quel pazzo di Pashelvi ha provveduto a far accoppare l'ebreo dal suo guardaspalle. Quanto a Sourush, anche se fosse riuscito a fuggire, potrebbe fare poco da solo, isolato e ricercato come sarà dalle polizie di mezzo mondo. Ci hanno evitato una fatica facendo fuori Bernstein. Presto, caricate l'ordigno sull'elicottero. Non mi posso trattenere altro tempo qui.» Asunción, 2007 Oswald Breil stava scartabellando ormai da tre giorni tra le carte della sede del Banco Central: non vi aveva trovato nulla di più di quello che Bernstein gli aveva già segnalato. Benedetto Bernstein! Con il passare dei giorni le speranze che il suo fedele amico fosse ancora in vita si facevano sempre più flebili. Sara gli stava vicino e collaborava senza sosta alle ricerche. Bastava la sua presenza a mitigare l'angoscia del piccolo uomo. I due trascorrevano buona parte della giornata all'interno delle stanze occupate dagli archivi della banca. A sera rimanevano a casa e Oswald scriveva a Mame-loshen Habar: le aveva promesso di farlo. Mame-loshen aveva accettato di saperlo nella tana del lupo che aveva ucciso il suo Ezer, a patto che lui la tenesse giornalmente al corrente di quanto accadeva. Oswald stava scorrendo alcune rettifiche a uno dei documenti della banca. Trasalì quando lesse l'elenco sovrastato dalla dicitura errata corrige. «Sara, ci sono!» disse alla donna, battendosi una mano sulla fronte. «Abbiamo sbagliato a scandire le ultime sillabe del messaggio di Bernstein! La corretta sillabazione non era 'Zoher-rataus', bensì 'Zoh-errata-US'. Devo urgentemente comunicare con Phil Damiano. Andiamo a casa!» Norberto stava, come al solito, gesticolando, parlando e guidando nello stesso momento, quando un colpo in piena fronte gli scaraventò la testa all'indietro.
Oswald non ebbe neppure il tempo di mettere mano al suo revolver. Due mani forti lo afferrarono, tirandolo fuori dall'auto. Con la coda dell'occhio vide che Sara stava subendo il medesimo trattamento. «Buona sera, signor Breil. Sono davvero onorato di averla mio ospite. Abbiamo molte cose di cui parlare e mi auguro che lei e la dottoressa Terracini possiate essere esaurienti.» Van der Duick era in piedi al centro della stanza. Un bicchiere da cognac nella mano destra, uno spaccaossa nella sinistra. «Perché il generale Corrige?» chiese Oswald muovendo le mani strette tra i legacci, tentando di far circolare il sangue nelle estremità. Van der Duick lo colpì con la molla d'acciaio sulla coscia. «Qui sono solo io il titolato a fare le domande, Breil», disse ancora il paraguaiano, con aria feroce. «Perché Corrige?» insistette Breil. Van der Duick alzò di nuovo il manganello, quindi ritrasse il braccio. «Le risponderò solo se riuscirà a spiegarmi come ha fatto a capirlo.» «Perché il generale Edward Corrige, capo dell'ufficio Affari esteri del dipartimento della Difesa statunitense?» ripeté Breil. La sua non era una prova di forza o di coraggio. Sapeva che van der Duick non li avrebbe lasciati in vita: tanto valeva morire con onore e togliendosi alcune curiosità. «Oswald, digli come mai sei riuscito a saperlo», lo pregò Sara, anch'essa legata a una sedia di metallo. «Digli che risillabando il messaggio ricevuto da Bernstein sono apparse le parole 'errata' e 'US'. Ieri sera, mentre leggeva un errata corrige su degli scritti del Banco, ha avuto una folgorazione.» «Vedo, signor Breil, che la dottoressa Terracini è molto più ragionevole di lei.» La mano di van der Duick si mosse rapida come un serpente all'attacco e la molla d'acciaio dello spaccaossa sibilò nell'aria. La sfera posta alla sommità si abbatté con violenza sull'avambraccio di Oswald. «Comunque, nessuno potrà mai dire che io sia venuto meno a un impegno. Lei conosce Lidice, Breil?» «La città rasa al suolo dopo la morte di Heydrich?» «Vedo che ricorda bene la storia. La popolazione venne punita per aver sostenuto l'attentato contro il sosia di mio padre, dando rifugio ai suoi assassini. Una novantina di bambini vennero portati in Germania e affidati alle cure dei medici della GESTAPO. Una ventina di questi furono avviati
a una nuova e ariana esistenza. Corrige deve a noi la sua salvezza. Per questo ci è debitore di un... favore.» «Suo padre? Noi?? E chi sarebbero gli altri?» «Vede, Breil, che avevo ragione? Le ho concesso una domanda e una risposta, e invece lei mi sta annoiando con la sua curiosità. Bene, le confesso che mi fa quasi piacere soddisfarla: sì, mio padre. Vediamo se è davvero così preparato. Quale carriera intraprese Reinhard Heydrich? E che cosa lo costrinse a interromperla?» «Heydrich era un ufficiale di marina, ma fu espulso dall'Accademia per aver messo incinta una ragazza. Recentemente ho scoperto che è sopravvissuto all'attentato in cui venne ufficialmente dichiarato morto.» «Vedo che lei sa ben più di quanto non sia universalmente noto, Oswald. È un piacere conversare con lei. Crede che un gentiluomo come Heydrich possa aver disatteso ai propri obblighi familiari? Non solo ho goduto delle stesse attenzioni dei suoi figli 'ufficiali' ma, come figlio segreto, ho beneficiato del suo affetto anche dopo che mio padre venne dichiarato morto: fu lui stesso a volere il mio trasferimento presso i van der Duick qui in America del Sud. La segretezza accomunava le nostre vite quasi quanto i vincoli di affetto. Grazie a lui ho potuto creare questo impero.» «Grazie all'oro che suo padre e altri criminali di guerra sono riusciti a trafugare dalle casse di intere nazioni e dai patrimoni di chi veniva internato nei campi di concentramento. Lei è pazzo!» Lo spaccaossa sibilò nell'aria e colpì Oswald in pieno volto. Il sangue incominciò a scorrere da una grossa spaccatura sul labbro. «Non le conviene essere irriverente, Breil. Altrimenti mi costringerà a farle sempre più male. Per quanto poco mi esalti infierire su un nano. Ma, tornando a noi, credo che lei sia consapevole che non sono certo il solo a manifestare questo genere di follia. Ci sono migliaia, forse milioni di persone convinte che presto nascerà il Quarto Reich. Io non sono altro che un esecutore delle volontà altrui. Davvero voi, strenui nemici del nazismo, credevate che con un processo farsa come quello di Norimberga si potessero cancellare per sempre le idee e i progetti del Terzo Reich? Davvero credevate che con la finta morte di Hitler e di altri suoi fedelissimi ci saremmo assopiti per sempre? Voi pensate che sia stato sufficiente il vostro ipocrita colpo di spugna per cancellarci dalla Storia e dal mondo?» Van der Duick aveva il collo gonfio e gli occhi fuori dalle orbite. Parlava con il trasporto di un folle in preda all'esaltazione. «Lei è pazzo, van der Duick. Dovrebbe essere internato in un istituto e
curato adeguatamente.» Un altro colpo terribile si abbatté sul braccio destro di Breil. «Adesso basta! È ora che lei mi dica quello che sa. Quanto conosce dei nostri piani, Breil?» Oswald restò in silenzio. «Certo, dovevo immaginarmelo, Breil. Ma io riuscirò ad avere ragione di lei. Sarò inflessibile, giorno dopo giorno, ora dopo ora, e costringerò la sua amica Sara a far da spettatrice al suo dolore. E, se non si arrenderà, quando non sarà più in grado di parlare, invertirò le parti: lei diventerà spettatore e Sara la protagonista.» Così dicendo, van der Duick tirò fuori da un astuccio un set completo di ferri dentistici, afferrò una pinza e si avvicinò alla bocca di Oswald. Denver, 2007 Lilith Habar era rimasta sveglia per tutta la notte con il computer acceso, sperando di vedere arrivare il messaggio del suo Oswald a tranquillizzarla. Al mattino seguente era ancora lì. Le ore trascorrevano lente, senza portarle nessuna notizia. Lilith sapeva che non avrebbe potuto sopportare un'altra disgrazia. Oswald era tutto quanto le rimaneva al mondo. Così il piano che aveva maturato nella notte si trasformò in una decisione. Asunción, 2007 La cuoca della residenza di van der Duick uscì dalla villa, come sempre, a sera tarda: il suo padrone riceveva spesso ospiti molto importanti e a lei spettava il compito di deliziarli con indimenticabili e raffinate ricette. Quella sera era uscita un po' prima del solito. Aveva bisogno di riposare: l'indomani era in programma la visita di due ministri e del capo di Stato. Entrò in casa, fece per accendere la luce, ma il colpo secco di una mazza di legno le spezzò una tibia prima che riuscisse a toccare l'interruttore. Il maggiordomo di casa van der Duick era in piedi al centro della stanza e aveva l'aria mortificata di chi non sa come rimediare a un danno. Il suo principale si aggirava per la stanza come un indemoniato. «Che cosa significa che Assunta è stata ferita nel corso di una rapina nella sua abitazione?» chiese ancora una volta van der Duick.
«È così, signore: ieri sera, tornando a casa, ha sorpreso un ladro nell'appartamento e questo l'ha aggredita spezzandole una gamba con un bastone.» «E come pensa che potremo, adesso, ospitare a cena il primo ministro e due membri del governo con le rispettive signore?» «Sinceramente non vedo altre soluzioni che rivolgerci a un catering, signore. A meno che lei non decida di rimandare la cena.» «Rinviare l'incontro è impossibile: si tratta di una serata programmata da mesi, nel corso della quale devo discutere di alcune importantissime e urgenti questioni. Un catering potrebbe essere la soluzione, ma so che deluderò i miei ospiti.» «Chiedo scusa, signore.» Una delle guardie responsabili della sicurezza era entrata nel salone dopo aver bussato. «Al cancello c'è una signora. Dice di essere una cuoca e che ha saputo da una vicina di casa di Assunta dell'incidente occorsole.» «Che cosa aspetti? Falla passare!» «Signor van der Duick», disse il primo ministro, «la sua cuoca questa sera ha davvero superato se stessa. Raramente ho assaggiato tali delizie in vita mia. E stia tranquillo per quella concessione. Le assicuro che non ci saranno problemi...» Quando tutti si furono allontanati, il padrone di casa si rivolse al maggiordomo: «Mandami qui la nuova cuoca e poi va' pure a letto. È stata una giornata faticosa per tutti». La donna entrò nello studio del magnate, in segno di rispetto si tolse la cuffia dal capo e la tenne in mano. Era più anziana di Assunta e, forse per questo, ancora più esperta e capace. «I miei complimenti, signora. Un'ottima cena», disse van der Duick contando alcune banconote. «Anzi, volevo dirle che sarebbe mia intenzione assumerla in pianta stabile, signora... Come si chiama?» «Habar», disse Mame-loshen. La canna di una vecchia 45 era ficcata nella bocca di van der Duick sino a spezzargli gli incisivi. «Mi chiamo Habar come mio marito Ezer che hai fatto ammazzare senza pietà e senza ragione. Dov'è Oswald?» Oswald sentì i passi nel corridoio. Tra poco la porta si sarebbe aperta e sarebbe finalmente finita. La faccia dell'uomo era una maschera di sangue. A stento riusciva a tenere gli occhi aperti. Ma non era il dolore fisico ad
annientarlo, quanto piuttosto l'angoscia per la sorte di Sara. Van der Duick aprì la porta della cella. Lilith vide il figlio adottivo e per un attimo temette che fosse morto. Era ferito, nudo, sdraiato sul pavimento. Lo sguardo di Mame-loshen era carico d'odio e illuminato da una feroce determinazione. Nessuno avrebbe potuto riconoscere in lei la mite donna di casa che era sempre stata. «Maledetto», disse Lilith. «Per il povero Ezer, per tutti quelli che hai sulla coscienza, per Oswald e per Sara, io ti condanno a morte.» La mano di Lilith era ferma. Due colpi esplosero in rapida successione. La testa di van der Duick scoppiò come un'anguria matura. Oswald alzò un poco le palpebre tumefatte. Sembrava non riuscisse a distinguere le figure al centro della stanza. Non c'era incredulità nel suo sguardo, ma solo l'espressione vacua di chi ha subito ogni genere di torture. Scivolando in uno stato di semincoscienza, mormorò: «Ho freddo, Mame-loshen. Ho tanto freddo». Quando Breil si risvegliò, Sara era accanto a lui. Si trovavano nello studio di un medico ebreo, figlio di un amico di vecchia data degli Habar. Lo stesso che, non appena Lilith era giunta in Paraguay, si era messo a sua disposizione, assicurandole ogni genere di assistenza. «Quanto ho dormito?» chiese Oswald, cercando di reagire al dolore che sentiva dappertutto. «Sette ore. Se Lilith fosse arrivata poco più tardi non ci sarebbe stato nulla da fare. Ma il dottor Weismann dice che ti rimetterai in fretta.» Sara gli sorrise. E quel sorriso fu per Oswald la migliore delle medicine. «Lilith... Allora non era un sogno. Chi è a conoscenza di quello che è successo?» «Ancora nessuno. Siamo riusciti a fuggire nel bagagliaio dell'auto della falsa cuoca. Lilith ci ha portati subito qui. Ma è questione di ore e tra poco qualcuno scoprirà il corpo di van der Duick rinchiuso nella cella.» «Il dottore possiede un computer nel suo studio? Portami davanti al computer, Sara.» «Oswald, sei troppo debole. Aspetta.» Il medico gli portò il suo portatile. digitò Breil a fatica. Dopo circa cinque minuti giunse la risposta.