GUILLERMO MARTÍNEZ LA SERIE DI OXFORD (Crímenes Imperceptibles, 2003) Alla memoria di mio padre 1 Adesso che sono passat...
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GUILLERMO MARTÍNEZ LA SERIE DI OXFORD (Crímenes Imperceptibles, 2003) Alla memoria di mio padre 1 Adesso che sono passati anni e tutto è ormai dimenticato, adesso che mi è arrivata dalla Scozia, con una laconica e-mail, la triste notizia della morte di Seldom, credo di poter sciogliere la promessa, che comunque lui non mi aveva mai chiesto di fargli, e raccontare la verità su quei fatti che nell'estate del '93 finirono sui giornali inglesi con titoli che andavano dal macabro al sensazionale ma ai quali Seldom e io facevamo riferimento, forse per la connotazione matematica, semplicemente come la serie, o le serie, di Oxford. Le morti avvennero tutte, infatti, entro i confini dell'Oxfordshire, agli inizi del mio soggiorno in Inghilterra, e mi toccò il dubbio privilegio di vedere la prima da molto vicino. Avevo ventidue anni, un'età in cui quasi tutto è ancora giustificabile; mi ero appena laureato all'Università di Buenos Aires con una tesi in Topologia algebrica e mi recavo a Oxford con una borsa di studio per un soggiorno di un anno con l'idea, un po' vaga, di orientarmi verso Logica o, almeno, di assistere al famoso seminario diretto da Angus MacIntire. Quella che sarebbe stata la mia direttrice laggiù, Emily Bronson, aveva organizzato i preparativi per il mio arrivo con minuziosa solerzia, attenta a ogni dettaglio. Era professoressa e fellow del St Anne, ma nelle e-mail che ci eravamo scambiati prima della mia partenza mi suggerì che, anziché alloggiare nelle stanze alquanto inospitali del college, sarebbe stato forse preferibile, borsa di studio permettendo, affittare una camera con bagno, piccola cucina e ingresso indipendente a casa di Mrs Eagleton, una donna, a quanto mi scrisse, molto gentile e discreta, la vedova di un suo vecchio professore. Feci i miei conti, come sempre, con un certo eccesso di ottimismo e inviai un assegno con l'anticipo del primo mese, l'unica richiesta della padrona di casa. Quindici giorni più tardi mi trovavo in volo sopra l'Atlantico in quello stato di incredulità che da sempre mi prende prima di ogni viaggio. Come in un salto senza rete, mi sembra molto più probabile, e persino più economica come ipotesi - il rasoio di Occam, avrebbe detto Seldom -, che
all'ultimo minuto un evento mi riporti alla situazione precedente prima che un intero paese, con l'immenso meccanismo che implica cominciare una nuova vita, appaia finalmente là in basso come una mano tesa. E comunque, con grande puntualità, alle nove della mattina seguente, l'aereo attraversò tranquillamente la linea di foschia e le verdi colline d'Inghilterra apparvero con assoluta verosimiglianza, sotto una luce che si sarebbe presto attenuata, o dovrei dire, forse, declassata perché questa fu l'impressione che ne ebbi: che la luce stesse acquisendo adesso, a mano a mano che proseguiva la discesa, una qualità sempre più incerta, come se diventasse più debole e languida nel fendere un filtro rarefatto. La mia direttrice mi aveva fornito tutte le indicazioni perché all'aeroporto di Heathrow prendessi l'autobus che portava direttamente a Oxford, e si era scusata varie volte per il fatto di non potermi accogliere all'arrivo: sarebbe stata a Londra per tutta la settimana per un congresso di Algebra. Questo, ben lungi dal preoccuparmi, mi sembrò ideale: avrei avuto qualche giorno libero per farmi da solo un'idea del posto e girare per la città. Non avevo portato troppo bagaglio e quando, alla fine, l'autobus si fermò alla stazione non ebbi problemi ad attraversare la piazza con le borse per prendere un taxi. Eravamo ai primi di aprile ma fui contento di non essermi levato il cappotto: tirava un vento gelido, tagliente, e il sole, molto pallido, non era di grande aiuto. Notai che quasi tutti nel mercatino della piazza, e anche l'autista pakistano che mi apriva la portiera, erano in maniche corte. Gli diedi l'indirizzo di Mrs Eagleton e mentre partiva gli chiesi se non avesse freddo. «Oh, no: siamo in primavera» mi rispose e indicò con gioia, come prova inoppugnabile, quel sole rachitico. Il taxi nero avanzò cerimoniosamente verso la strada principale. Quando girò a sinistra scorsi su entrambi i lati, attraverso portoni di legno socchiusi e inferriate, i giardini e i prati immacolati e brillanti dei college. Oltrepassammo un piccolo cimitero accanto a una chiesa, con le lapidi coperte di muschio. La macchina salì per Banbury Road e, dopo un tratto, svoltò in Cunliffe Close, l'indirizzo che avevo segnato. La strada adesso si snodava in mezzo a un imponente parco; dietro alle siepi di vischio apparivano grandi case antiche dall'eleganza tranquilla che facevano subito pensare ai romanzi vittoriani con pomeriggi fatti di tè, partite di cricket e passeggiate nei giardini. Controllavamo i numeri civici anche se mi sembrava poco probabile, considerata la consistenza dell'assegno inviato, che la casa che stavo cercando fosse una di quelle. Finalmente vedemmo, là dove termina-
va la strada, delle casette uniformi, molto più modeste ma comunque simpatiche, con balconi rettangolari in legno e un aspetto estivo. La prima era quella di Mrs Eagleton. Scaricai le borse, salii i gradini d'ingresso e suonai il campanello. Sapevo, per la data della sua tesi di dottorato e delle sue prime pubblicazioni, che Emily Bronson doveva avere non meno di cinquantacinque anni e mi chiedevo che età potesse avere la vedova di un suo vecchio professore. Quando la porta si aprì mi trovai di fronte il viso spigoloso e gli occhi azzurro scuro di una ragazza alta e magra non molto più vecchia di me, che mi porse la mano con un sorriso. Ci guardammo con reciproca e piacevole sorpresa, sebbene ebbi l'impressione che liberasse con circospezione la mano che forse avevo trattenuto un istante più del dovuto. Mi disse il suo nome, Beth, e cercò di ripetere il mio, senza riuscirci del tutto, mentre mi faceva accomodare in un soggiorno molto gradevole con un tappeto a rombi grigi e rossi. Da una poltrona a fantasia floreale Mrs Eagleton mi tendeva le braccia con un grande sorriso di benvenuto. Era un'anziana dagli occhi scintillanti e dai movimenti vivaci, con i capelli completamente bianchi e soffici, pettinati con cura in un'orgogliosa onda. Notai, mentre attraversavo la stanza, la sedia a rotelle chiusa e la coperta a quadri scozzesi che le copriva le gambe. Le strinsi la mano e sentii la fragilità un po' tremolante delle sue dita. Trattenne calorosamente la mia per un momento dandomi qualche colpetto con l'altra mentre mi domandava del viaggio e se quella fosse la mia prima volta in Inghilterra. Disse con stupore: «Non ci aspettavamo qualcuno così giovane, vero Beth?». Beth, che era rimasta vicino all'ingresso, sorrise in silenzio; aveva preso una chiave dalla parete e, dopo aver atteso che rispondessi ad altre tre o quattro domande, propose in tono soave: «Nonna, non credi che adesso gli dovrei mostrare la camera? Deve essere terribilmente stanco». «Assolutamente» rispose Mrs Eagleton. «Beth le spiegherà tutto. E se non ha altri programmi per la serata, saremmo felici di averla a cena con noi.» Seguii Beth fuori dalla casa. Gli stessi gradini dell'ingresso scendevano a chiocciola e portavano a una piccola porta. Nell'aprirla abbassò un poco la testa e mi fece entrare in una stanza grande e ordinata, sotto il livello della strada, che però riceveva abbastanza luce da due finestre molto alte, vicine al soffitto. Cominciò a spiegarmi tutti i piccoli dettagli, mentre girava, apriva dei cassetti e mi indicava armadi a muro, posate e asciugamani in una sorta di recita che sembrava aver ripetuto molte volte. Mi limitai a verificare il letto e la doccia e mi dedicai a guardare soprattutto lei. Aveva la
pelle secca, ruvida, tirata come se fosse rimasta troppo all'aria aperta e questo, pur dandole un aspetto sano, faceva al tempo stesso temere che si sarebbe avvizzita in fretta. Se prima avevo calcolato che avesse ventitré o ventiquattro anni, adesso che la vedevo con un'altra luce ero portato a pensare che fossero in realtà ventisette o ventotto. Gli occhi, soprattutto, erano intriganti: avevano un colore azzurro molto bello e profondo, ma sembravano un po' più fissi rispetto al resto delle fattezze, come se espressione e luccichio tardassero a raggiungerli. Il vestito che indossava, lungo e largo con scollo rotondo come quello di una contadina, non lasciava dire troppo sul suo corpo tranne che fosse magra anche se, guardando attentamente, restava qualche margine per supporre che non si trattasse, per fortuna, di una magrezza totalmente uniforme. Di spalle, soprattutto, invitava all'abbraccio, aveva quel qualcosa di indifeso tipico delle ragazze alte. Incrociando di nuovo il mio sguardo mi chiese, credo però senza ironia, se ci fosse altro che volessi controllare; io abbassai gli occhi, confuso, e mi affrettai a dirle che era tutto perfetto. Prima che se ne andasse le domandai, con un giro di parole esagerato, se dovessi davvero considerarmi invitato a cena: ridendo mi rispose che naturalmente sì e che mi aspettavano per le sei e mezzo. Sistemai le poche cose che avevo portato, impilai alcuni libri e una copia della mia tesi sulla scrivania e utilizzai un paio di cassetti per riporre la biancheria. Poi uscii a fare un giro in città. Localizzai subito, dove iniziava St Giles, l'Istituto di Matematica: era l'unico edificio quadrato e orribile. Vidi gli scalini dell'ingresso, con la porta girevole in vetro, e decisi che per quel primo giorno potevo tenermi al largo. Comprai un sandwich e feci un picnic solitario e un po' in ritardo sulla sponda del fiume, osservando l'allenamento della squadra di canottaggio. Entrai e uscii da alcune librerie, mi fermai a contemplare i fregi sui cornicioni di un teatro, mi accodai a un gruppo di turisti sotto i portici di uno dei college e poi camminai a lungo attraversando l'immenso parco universitario. In una zona riparata dagli alberi, degli operai stavano rasando il prato a grandi rettangoli, mentre un altro uomo tracciava con la calce le linee di un campo da tennis. Mi fermai a guardare con nostalgia quel piccolo spettacolo e durante una pausa chiesi quando avrebbero montato la rete. Avevo abbandonato il tennis al secondo anno di università e, dato che non avevo portato la racchetta, mi ripromisi di comprarne una e trovare un compagno per riprendere a giocare. Al ritorno entrai in un supermercato per fare una piccola provvista e gi-
rai un po' fino a trovare un'enoteca dove scelsi quasi a caso una bottiglia di vino per la cena. Quando arrivai a Cunliffe Close erano da poco passate le sei ma era già quasi buio e in tutte le case le finestre erano illuminate. Mi sorprese che nessuno usasse le tende; mi domandai se questo fosse dovuto a una fiducia forse eccessiva nella discrezione degli inglesi, che non si abbasserebbero a spiare la vita altrui, o piuttosto alla certezza, altrettanto inglese, che in privato non si facesse nulla che potesse essere interessante spiare. Non c'erano nemmeno recinzioni e si aveva l'impressione che molte porte non fossero chiuse a chiave. Mi feci una doccia e mi rasai, scelsi la camicia che si era stropicciata di meno nella borsa e alle sei e mezzo salii puntuale i gradini e suonai il campanello con la bottiglia in mano. La cena trascorse con quella cordialità sorridente, educata, un po' insignificante, a cui col tempo mi sarei dovuto abituare. Beth si era cambiata, pur senza cedere al trucco. Adesso aveva una camicetta nera di seta e i capelli, pettinati tutti da una parte, le ricadevano in maniera seducente da un solo lato del collo. A ogni modo, niente di tutto questo era per me: presto seppi che suonava il violoncello nell'orchestra da camera del Sheldonian Theatre, il teatro semicircolare con i fregi che avevo visto durante la mia passeggiata. Quella sera c'era la prova generale e un certo fortunato Michael sarebbe passato a prenderla entro mezz'ora. Ci fu un brevissimo istante di imbarazzo quando chiesi, dandolo quasi per scontato, se fosse il suo fidanzato; le due donne si guardarono e per tutta risposta Mrs Eagleton mi domandò se volessi dell'altra insalata di patate. Durante il resto della cena, Beth restò come assente e alla fine mi ritrovai a parlare da solo con Mrs Eagleton. Dopo che suonò il campanello, e che Beth se ne fu andata, la mia anfitriona si animò sensibilmente come se un invisibile filo di tensione si fosse spezzato. Si servì da sola un altro bicchiere di vino e per un bel pezzo ascoltai le peripezie di una vita veramente incredibile. Era una delle tante donne che durante la guerra parteciparono con ingenuità a un concorso nazionale di cruciverba per scoprire poi che il premio consisteva per tutte nel reclutamento e confino in un paesino completamente isolato con la missione di aiutare Alan Turing e il suo gruppo di matematici a decifrare i codici nazisti della macchina Enigma. Era lì che aveva conosciuto Mr Eagleton. Mi raccontò molti aneddoti della guerra e anche tutti i particolari del famoso avvelenamento di Turing. Da quando si era stabilita a Oxford, mi disse, aveva abbandonato i cruciverba per lo scarabeo che giocava ogni volta che poteva con un gruppo di amiche. Fece avanzare con entusiasmo la sedia a rotelle fino a un tavolino bas-
so del soggiorno e mi chiese di seguirla senza preoccuparmi di sparecchiare: se ne sarebbe occupata Beth al rientro. Vidi con apprensione che prendeva da un cassetto un tabellone da gioco e che lo apriva sul tavolino. Non potei dire di no. E trascorsi così il resto della mia prima sera: cercando di formare parole in inglese di fronte a quella donna anziana che ogni due o tre partite rideva come una bambina, sollevava tutte assieme le sue tessere e mi rifilava le otto lettere per un altro scarabeo. 2 Nei giorni che seguirono mi presentai all'Istituto di Matematica dove mi assegnarono, come visitor, una scrivania, una casella di posta elettronica e una scheda magnetica per accedere fuori orario alla biblioteca. Avevo un unico compagno di stanza, un russo che di cognome faceva Podorov, con il quale ci scambiavamo solo i saluti. Camminava ciondolando, si piegava di tanto in tanto sulla scrivania per scarabocchiare una formula in un grande quaderno dalla copertina rigida, che faceva pensare a un libro di salmi o di contabilità, e usciva ogni mezz'ora a fumare nel piccolo cortile di mattonelle sotto la finestra. Agli inizi della settimana successiva ebbi il primo incontro con Emily Bronson: era una donna minuta, con i capelli lisci e bianchi, fermati sopra le orecchie da due mollette a forma di ranocchio, come una ragazzina. Arrivava all'istituto con una bicicletta troppo grande per lei, con i libri in una cesta e il pranzo sul manubrio. Aveva un aspetto monacale e un po' timido ma, col tempo, scoprii che a volte era capace di sfoggiare un senso dell'umorismo acuto e pungente. Nonostante la sua modestia penso avesse apprezzato che la mia tesi si intitolasse Gli spazi di Bronson. Al primo incontro mi lasciò gli estratti dei suoi due ultimi lavori perché iniziassi a studiarli e una serie di dépliant e piantine dei luoghi da visitare a Oxford, prima - mi disse - che iniziasse il nuovo semestre e mi rimanesse meno tempo libero. Mi chiese se c'era qualcosa che rimpiangessi della mia vita a Buenos Aires e quando accennai al tennis mi assicurò, con un sorriso abituato a richieste ben più eccentriche, che sarebbe stata una questione facilmente risolvibile. Due giorni dopo trovai nel mio casellario un biglietto d'invito per un doppio al club di Marston Ferry Road. I campi erano in terra battuta e si trovavano a metà strada tra l'istituto e Cunliffe Close. Il gruppo era formato da John, un fotografo nordamericano con lunghe braccia e un buon gioco a rete; Sammy, un biologo canadese quasi albino, coraggioso e infatica-
bile, e Lorna, un'infermiera del Radcliffe Hospital, di origini irlandesi, capelli rossi e occhi verdi luminosi e affascinanti. Alla felicità di essere tornato a calpestare la terra rossa si aggiunse la seconda, insperata felicità di trovare dall'altra parte, nei palleggi iniziali, una ragazza che non solo era bella sotto ogni aspetto, ma che tirava anche colpi sicuri ed eleganti da fondo campo e mi rimandava a fil di rete tutte le palle. Giocammo tre set cambiando le coppie; con Lorna formavamo un duo sorridente e temibile, e la settimana seguente contai i giorni per tornare in campo e poi i games per la rotazione che l'avrebbe riportata al mio fianco. Quasi tutte le mattine incrociavo Mrs Eagleton; a volte la trovavo che curava il giardino quando uscivo per andare all'istituto, molto presto, e scambiavamo qualche parola. Altre volte la vedevo in Banbury Road, in direzione del mercato, all'ora in cui facevo l'intervallo per il pranzo. Usava una sedia a motore con la quale scivolava tranquilla per la strada come se fosse su una barca e salutava con un grazioso cenno del capo gli studenti che le facevano spazio. In compenso vedevo molto raramente Beth e le avevo parlato solo un'altra volta, un pomeriggio che rientravo dal tennis. Lorna si era offerta di lasciarmi con la macchina all'ingresso di Cunliffe Close e, mentre la salutavo, scorsi Beth che scendeva da un autobus portandosi appresso il violoncello. Le andai incontro per aiutarla nel tratto verso casa. Era uno dei primi giorni di vero caldo e dovevo avere il colorito di chi è stato tutto il pomeriggio al sole. Vedendomi, sorrise con un'espressione di accusa. «Bene, vedo che ti sei già ambientato. Ma non dovresti essere a studiare matematica anziché giocare a tennis e girare in macchina con le ragazze?» «Ho il permesso della mia direttrice» risposi ridendo e feci un gesto di autoassoluzione. «Oh, sto scherzando. In realtà ti invidio.» «Invidiarmi, e perché?» «Non so, dai l'impressione di essere così libero. Lasci il tuo paese, la tua vita, tutto alle spalle; e due settimane dopo ti trovo così: contento, abbronzato, che giochi a tennis.» «Dovresti provare: basta solo chiedere una borsa di studio.» Scosse il capo, con una certa tristezza. «Ci ho provato, ci ho già provato ma sembra che per me sia troppo tardi. Naturalmente non lo diranno mai, però preferiscono darle a ragazze più giovani. Sto per compiere ventinove anni» disse, come se questa età fosse una lapide definitiva e aggiunse, con un tono fattosi amaro, «a volte darei
qualunque cosa per scappare da qui.» Io guardai in lontananza il verde del vischio nelle case, le guglie delle cupole medievali, le scanalature rettangolari delle torri merlate. «Scappare da Oxford? Faccio fatica a immaginare un posto più bello.» Per un istante un'antica impotenza sembrò offuscarle lo sguardo. «Forse... sì, se non dovessi occuparti tutto il tempo di un'invalida e fare ogni giorno qualcosa che da tempo non significa più nulla.» «Non ti piace suonare il violoncello?» Questo mi sembrò curioso e interessante al tempo stesso. La guardai come se per un istante potessi infrangere la superficie immobile dei suoi occhi e accedere a un secondo livello. «Lo odio» disse, e le si strinsero le pupille, «lo odio sempre di più e mi costa sempre di più doverlo nascondere. A volte ho paura che si veda quando suoniamo, che il direttore o qualche compagno si renda conto di quanto detesti ogni nota. Però poi finiamo il concerto, la gente applaude e nessuno sembra accorgersene. Carino, no?» «Be', direi che sei salva. In questo senso la musica è astratta come la matematica: non distingue categorie morali. Non credo esista una vibrazione speciale dell'odio. Finché uno segue la partitura non vedo un modo per scoprirlo.» «Seguire la partitura... è quel che ho fatto per tutta la vita» sospirò. Eravamo arrivati davanti al portone. «Non farci caso» aggiunse e appoggiò la mano sul battente, «oggi ho avuto una brutta giornata.» «La giornata però non è finita» dissi. «Non c'è nulla che io possa fare per migliorarla?» Mi guardò con un sorriso triste e sollevò il violoncello. «Oh, you are such a Latin man!» mormorò come se fosse qualcosa da cui proteggersi, ma, ciononostante, prima di chiudere la porta mi lasciò guardare un'ultima volta i suoi occhi azzurri. Passarono altre due settimane. L'estate cominciò ad annunciarsi lentamente con serate miti e giornate molto lunghe. Il primo mercoledì di maggio, sulla strada di ritorno dall'istituto, ritirai da un bancomat i soldi per pagare l'affitto della camera. Suonai il campanello della porta di Mrs Eagleton e, mentre aspettavo che mi aprissero, vidi che dalla strada che si snodava verso casa si stava avvicinando un uomo alto, che camminava a lunghi passi, con un'espressione seria e concentrata. Lo guardai di sottecchi quando si fermò accanto a me; aveva una fronte ampia e liscia e occhi piccoli e infossati con una cicatrice evidente sul mento; avrà avuto circa
cinquantacinque anni, anche se una certa energia nei movimenti gli dava un aspetto più giovanile. Ci fu un momento di imbarazzo mentre aspettavamo tutti e due davanti alla porta chiusa, finché l'uomo si decise a chiedermi, con un accento scozzese grave e armonioso, se avessi già suonato. Gli risposi di sì e suonai una seconda volta. Dissi che forse il primo tocco era stato troppo breve. Sentendomi parlare l'uomo distese i lineamenti in un cordiale sorriso e mi domandò se fossi argentino. «Allora» continuò, in perfetto spagnolo con un simpatico accento di Buenos Aires, «lei deve essere l'allievo di Emily.» Sorpreso, gli risposi di sì e gli chiesi dove avesse imparato lo spagnolo. Sorrise, come se guardasse a un passato molto lontano, e mi disse che era successo tanti anni addietro. «La mia prima moglie era di Buenos Aires» e mi tese la mano, «sono Arthur Seldom.» A quell'epoca pochi nomi avrebbero potuto suscitare in me un'ammirazione maggiore. L'uomo dagli occhi piccoli e trasparenti che mi stringeva la mano, tra i matematici era già una leggenda. Per mesi avevo studiato, per un seminario, il più famoso dei suoi teoremi: l'estensione filosofica della tesi di Gödel degli anni Trenta. Seldom era considerato uno dei quattro pilastri della Logica e bastava la varietà di temi nei titoli dei suoi lavori per capire che si trattava di uno di quei rari casi di summa matematica: sotto quella fronte liscia e serena si erano agitate e riordinate le idee più profonde del secolo. Nella mia seconda incursione nelle librerie della città avevo tentato di recuperare il suo ultimo libro, un'opera divulgativa sulle serie logiche, e avevo scoperto, con una certa sorpresa, che era esaurito da mesi. Qualcuno mi aveva detto che dopo l'uscita di quel libro Seldom era sparito dal giro dei congressi e sembrava che nessuno osasse immaginare cosa stesse studiando. A ogni modo io non sapevo neppure che vivesse a Oxford e ancor meno mi sarei aspettato di trovarmelo sulla porta di Mrs Eagleton. Gli dissi che il suo teorema era stato l'argomento di un mio intervento a un seminario, e sembrò grato del mio entusiasmo. Capivo, però, che qualcosa sembrava preoccuparlo perché, senza volere, continuava a rivolgere l'attenzione alla porta. «Mrs Eagleton dovrebbe essere in casa» mi disse, «non crede?» «Penso proprio di sì» risposi. «C'è lì la sua sedia a motore. A meno che non siano venuti a prenderla in macchina...» Seldom suonò ancora una volta il campanello, con fare preoccupato, poi cercò di sbirciare all'interno dalla finestra sul portico.
«Sa se c'è un altro ingresso sul retro?» E aggiunse, in inglese: «Temo le sia successo qualcosa». Vidi, dall'espressione del viso, che era realmente allarmato, come se sapesse una cosa che lo portava a pensare in un'unica direzione. «Possiamo provare ad aprire la porta: credo che di giorno non la chiudano» gli dissi. Seldom appoggiò la mano sul battente e la porta si spalancò senza la minima resistenza. Entrammo in silenzio; i nostri passi fecero scricchiolare le tavole in legno del pavimento. Si sentiva da dentro come un battito attutito, l'oscillazione silenziosa di un orologio a pendolo. Avanzammo verso la sala e ci fermammo vicino al tavolo al centro. Feci un gesto a Seldom per segnalargli la chaise-longue accanto alla finestra che dava sul giardino. Mrs Eagleton era distesa lì e sembrava dormire profondamente con il viso appoggiato allo schienale. Uno dei cuscini era caduto sul tappeto, come se le fosse scivolato durante il sonno. L'onda bianca dei capelli era accuratamente protetta da una retina e gli occhiali erano rimasti sopra un tavolino. Sembrava che avesse giocato da sola a scarabeo, perché i due leggii con le lettere erano dalla sua parte. Seldom si avvicinò e quando le toccò leggermente il braccio, la testa cadde pesantemente da un lato. Vedemmo nello stesso istante gli occhi aperti e spaventati e due tracce di sangue parallele che le scorrevano dal naso verso il mento per unirsi poi sul collo. Feci involontariamente un passo indietro reprimendo un grido. Seldom, che aveva sorretto la testa con un braccio, risistemò il corpo come poté e mormorò costernato qualcosa che non riuscii ad afferrare. Raccolse il cuscino e, alzandolo dal tappeto, lasciò scoperta, al centro, una grande macchia rossa ormai quasi secca. Rimase per un istante col braccio lungo un fianco, reggendo il cuscino, immerso in una riflessione profonda, come se stesse esplorando le diramazioni di un complesso calcolo. Sembrava fortemente turbato. Fui io a suggerire di chiamare la polizia, cosa cui Seldom acconsentì meccanicamente. 3 «Mi hanno chiesto di aspettarli fuori dalla casa» disse Seldom in tono laconico dopo aver riagganciato. Uscimmo, senza toccare nulla, sul piccolo porticato d'ingresso. Seldom appoggiò la schiena contro la ringhiera della scala e si arrotolò una sigaretta in silenzio. Le mani si fermavano ogni tanto in una piega della carta o
ripetevano all'infinito un movimento, come se fossero collegate agli indugi e alle perplessità di una catena di pensieri che doveva verificare con attenzione. L'angoscia di pochi minuti prima pareva ora sostituita da un tentativo forzato di dare un senso a qualcosa di incomprensibile. Vedemmo apparire due auto che si fermarono in silenzio accanto alla casa. Un uomo alto e con i capelli bianchi, in blu scuro e con lo sguardo penetrante, si avvicinò, ci strinse rapidamente la mano e ci chiese i nomi. Aveva zigomi sporgenti che l'età sembrava solo avere svuotato e reso più appuntiti, e un'aria tranquilla ma autorevole, come se fosse abituato a impadronirsi della situazione in cui si veniva a trovare. «Sono l'ispettore Petersen» disse, «e lui è il nostro medico legale» aggiunse indicando un uomo dallo spolverino verde che, passando, chinò lievemente il capo. «Entrate con noi per cortesia: dovremo farvi due o tre domande.» Il medico indossò dei guanti in lattice e si piegò sulla chaise-longue; da una certa distanza lo vedemmo osservare attentamente il corpo di Mrs Eagleton per qualche minuto e prelevare campioni di sangue e pelle per passarli poi a uno dei suoi assistenti. Un fotografo fece scattare il flash un paio di volte sopra quel volto senza vita. «In che posizione l'avete trovata esattamente?» ci interrogò il dottore facendoci un cenno perché ci avvicinassimo. «Il viso era rivolto verso lo schienale» disse Seldom, «il corpo era di profilo... un po' di più... Le gambe allungate, il braccio destro piegato. Sì, credo stesse così» e mi guardò perché confermassi la posizione. «E quel cuscino era per terra» aggiunsi io. Petersen raccolse il cuscino e fece notare al medico legale la macchia di sangue al centro. «Vi ricordate dove?» «Sul tappeto, all'altezza dello schienale, sembrava le fosse caduto mentre dormiva.» Il fotografo scattò altre due o tre foto. «Direi» fece il medico rivolgendosi a Petersen «che l'intenzione era di soffocarla nel sonno senza lasciare tracce. La persona che lo ha fatto ha sfilato con attenzione il cuscino da sotto la testa, senza scomporre la retina dei capelli oppure ha trovato il cuscino già per terra. Ma mentre lo premeva sul viso, la donna si è svegliata e forse ha cercato di opporre resistenza. Qui il nostro uomo si è spaventato più del dovuto, ha affondato il palmo della mano o forse ha addirittura puntato un ginocchio per fare più forza e, senza rendersene conto, le ha schiacciato il naso sotto il cuscino. Il sangue
non è che questo: i capillari a questa età sono molto fragili. Quando ha tolto il cuscino si è trovato di fronte il viso insanguinato. Probabilmente si è spaventato ancora di più e lo ha lasciato cadere sul tappeto senza cercare di rimettere a posto nulla. Magari ha deciso che ormai non faceva differenza ed è scappato il più in fretta possibile. Direi che si tratta di una persona che uccideva per la prima volta, probabilmente un destro.» Allungò le braccia sul viso di Mrs Eagleton per fare una dimostrazione. «La posizione finale del cuscino sul tappeto corrisponde a questo movimento, il più naturale per una persona che l'avesse tenuto con la mano destra.» «Uomo o donna?» chiese Petersen. «Questo è un punto interessante» rispose il medico. «Potrebbe essere un uomo forte che l'ha colpita aumentando semplicemente la pressione dei metacarpi o magari una donna che si è sentita debole e per mantenere la pressione ha scaricato tutto il peso del corpo.» «Ora della morte?» «Tra le due e le tre del pomeriggio.» Il medico legale si rivolse a noi: «Voi a che ora siete arrivati?». Seldom mi consultò rapidamente con un'occhiata. «Erano le quattro e mezzo» e, rivolgendosi a Petersen, aggiunse: «Io direi che è stata ammazzata più probabilmente alle tre». L'ispettore lo guardò con un lampo d'interesse. «Sì? E come lo sa?» «Noi due non siamo arrivati insieme» spiegò Seldom. «Il motivo per cui sono venuto fin qua è un biglietto, un messaggio alquanto strano che ho trovato nel mio casellario al Merton College. Purtroppo in un primo momento non gli ho prestato attenzione, anche se ritengo che comunque sarebbe stato tardi.» «Cosa diceva il messaggio?» «"Il primo della serie"» rispose Seldom. «Solo questo. A lettere grandi e scritte a mano in stampatello. Sotto c'era l'indirizzo di Mrs Eagleton e l'ora, come se si trattasse di un appuntamento: le tre del pomeriggio.» «Posso vederlo? L'ha portato con sé?» Seldom fece cenno di no con la testa. «Quando lo ritirai dal casellario erano circa le tre e cinque ed ero in ritardo per il mio seminario. Lo lessi andando verso l'ufficio e pensai, francamente, che fosse un altro messaggio di un disturbato mentale. Tempo fa pubblicai un libro sulle serie logiche ed ebbi la malaugurata idea di inserire un capitolo sui delitti seriali. Da allora ricevo ogni genere di lettere ed e-mail con confessioni di omicidi... in-
somma, l'ho buttato nel cestino appena entrato in ufficio.» «Allora potrebbe trovarsi ancora lì?» chiese Petersen. «Temo di no» rispose Seldom. «Uscendo dal seminario mi ricordai del messaggio. L'indirizzo di Cunliffe Close mi aveva preoccupato: durante la lezione ricordai che ci viveva Mrs Eagleton anche se non ero sicuro del numero. Volli rileggerlo, per avere conferma dell'indirizzo, ma l'inserviente era passato a pulire il mio ufficio e il cestino della carta era vuoto. Per questo ho deciso di venire.» «Possiamo fare comunque un tentativo» disse Petersen e chiamò uno dei suoi uomini. «Wilkie, vada al Merton College e parli per favore con l'inserviente... come si chiama?» «Brent» disse Seldom, «ma credo che a quest'ora il camion della nettezza urbana sia già passato.» «Se non lo recuperiamo la chiameremo perché fornisca al nostro disegnatore una descrizione della grafia; per ora vorrei che questo restasse un segreto, chiedo a entrambi la massima discrezione. C'era qualche altro dettaglio nel messaggio che riesca a ricordare? Tipo della carta, colore dell'inchiostro o qualcosa che abbia colpito la sua attenzione?» «L'inchiostro era nero, direi di una stilografica. La carta era bianca, comune, formato lettera. La grafia era grande e chiara. Il messaggio era scrupolosamente piegato in quattro nel mio casellario. E c'era, sì, un dettaglio curioso: sotto al testo avevano tracciato minuziosamente un cerchio. Un cerchio piccolo e perfetto, anche lui in nero.» «Un cerchio...» ripeté Petersen assorto «come se fosse una firma? Un marchio? O a lei dice qualcos'altro?» «Forse potrebbe avere a che fare con il capitolo del mio libro sui delitti seriali» rispose Seldom. «Quello che vi sostengo è che, se uno lascia da parte film e romanzi, la logica che si cela dietro ai delitti seriali, almeno dietro a quelli storicamente documentati, è generalmente molto primitiva e ha a che vedere soprattutto con patologie mentali. «Gli autori sono molto rozzi, l'elemento caratteristico è la monotonia e la ripetizione e, nella noiosa maggioranza, la causa è una qualche esperienza traumatica o una fissazione dell'infanzia. In pratica, si tratta di casi più adatti all'analisi psichiatrica che non di vere sfide intellettuali. La conclusione del capitolo era che il delitto per motivi intellettuali, per pura vanità intellettuale, diciamo, alla Raskolnikov, o nella variante artistica di Thomas De Quincey, non sembra appartenere al mondo reale. O forse, aggiungevo scherzando, gli assassini sono stati così intelligenti da non farsi mai
scoprire.» «Capisco» disse Petersen. «Lei pensa che qualcuno che ha letto il suo libro abbia raccolto la sfida. E in quel caso il cerchio sarebbe...» «Forse il primo simbolo di una serie logica» rispose Seldom. «Sarebbe una buona scelta: di fatto è il simbolo che storicamente ha ammesso la maggiore varietà di interpretazioni, tanto nella matematica quanto in altri campi. Può significare quasi qualunque cosa. In ogni caso è un modo astuto per cominciare una serie: con un disegno di massima indeterminazione al principio per lasciarci brancolare nel buio circa il possibile seguito.» «Secondo lei questa persona potrebbe essere un matematico?» «Assolutamente no. La sorpresa per i miei editori fu proprio che il libro fosse arrivato al pubblico più vario. E comunque non possiamo neppure dire che il simbolo vada interpretato davvero come un cerchio; voglio dire, io ho visto subito un cerchio forse per la mia formazione matematica, ma potrebbe trattarsi del simbolo di qualche dottrina esoterica o di una religione antica o di qualcosa di completamente diverso. Probabilmente un'astrologa avrebbe visto una luna piena o il vostro disegnatore l'ovale di un viso...» «Allora» disse Petersen, «torniamo per un attimo a Mrs Eagleton. La conosceva bene?» «Harry Eagleton è stato il mio tutor e, dopo la laurea, sono stato invitato qualche volta a riunioni o a cene qui. Ero amico anche di Johnny, loro figlio, e di sua moglie Sarah. Morirono entrambi in un incidente quando Beth era bambina. Da allora Beth è rimasta sotto la responsabilità di Mrs Eagleton. Ultimamente le vedevo abbastanza poco. Sapevo che da tempo Mrs Eagleton lottava contro un cancro e che era stata ricoverata in diverse circostanze... la incontrai qualche volta al Radcliffe Hospital.» «E questa Beth vive ancora qui? Quanti anni ha?» «Deve averne ventotto o forse trenta... Sì, vivevano insieme.» «Bene, le dovremmo parlare al più presto, vorrei fare qualche domanda anche a lei» disse Petersen. «Qualcuno di voi sa dove possiamo rintracciarla?» «Deve essere al Sheldonian Theatre» risposi, «alla prova d'orchestra.» «È sulla mia strada di ritorno» intervenne Seldom. «Se non le dispiace vorrei chiederle, come amico di famiglia, di essere io a darle la notizia. Potrebbe avere bisogno di aiuto anche per l'organizzazione del funerale.» «Certo, non c'è problema» disse Petersen, «anche se il funerale dovrà aspettare un po'. Prima dobbiamo eseguire l'autopsia. Dica per favore alla
signorina Beth che l'attendiamo qui. La Scientifica ha ancora dei rilevamenti da fare, resteremo forse per un altro paio d'ore. È lei che ha dato l'allarme per telefono, vero? Ricordate di aver toccato qualcos'altro?» Entrambi facemmo cenno di no con la testa. Petersen chiamò uno dei suoi che si avvicinò con un piccolo registratore. «Bene, vi chiedo solo di rilasciare una breve dichiarazione al tenente Sacks sui vostri movimenti a partire da mezzogiorno. È la prassi, poi potrete andare. Anche se temo che forse dovrò disturbarvi ancora nei prossimi giorni.» Seldom rispose per due o tre minuti alle domande di Sacks e notai che quando arrivò il mio turno rimase ad aspettare con discrezione da una parte finché non ebbi terminato. Pensai che volesse congedarsi in maniera adeguata, ma quando tornai verso di lui mi fece un cenno perché uscissimo insieme. 4 «Ho pensato che potremmo magari andare insieme a piedi fino al teatro» mi disse Seldom cominciando ad arrotolarsi una sigaretta. «Mi piacerebbe sapere...» e sembrò indeciso, come se facesse fatica a trovare la formula corretta. Si era fatto ormai completamente buio e, tra le ombre, non riuscivo a distinguere l'espressione del suo viso. «Mi piacerebbe essere sicuro» disse alla fine «che entrambi abbiamo visto la medesima cosa nella casa. Insomma, prima che arrivasse la polizia, prima di tutte le ipotesi e spiegazioni: solo la scena che abbiamo trovato. Mi interessa la sua impressione, era l'unica persona completamente impreparata.» Rimasi un attimo pensieroso, sforzandomi di ricordare e ricostruire ogni dettaglio; mi rendevo anche conto di voler dimostrare una certa perspicacia per non deluderlo. «Credo» cominciai con prudenza «che coincida quasi completamente con la spiegazione del medico legale, salvo forse per un particolare nel finale. Lui ha detto che alla vista del sangue l'assassino ha mollato il cuscino ed è scappato il più in fretta possibile, senza cercare di ricomporre niente...» «E lei non pensa che sia andata così?» «Può essere che davvero non abbia ricomposto nulla, però almeno una cosa prima di andarsene l'ha fatta: ha voltato il viso di Mrs Eagleton verso lo schienale. È così che l'abbiamo trovata.»
«Ha ragione» convenne Seldom con un lento movimento del capo, «e questo secondo lei cosa starebbe a indicare?» «Non lo so: forse non ha retto di fronte agli occhi aperti di Mrs Eagleton. Se si tratta, come sostiene il medico legale, di una persona che uccideva per la prima volta, probabilmente alla vista di quegli occhi si è resa conto di quello che aveva fatto e ha voluto, in qualche modo, allontanarli.» «Secondo lei conosceva Mrs Eagleton o l'ha scelta quasi a caso?» «Non credo si sia trattato completamente di un caso. Mi ha colpito quello che lei ha detto dopo... che Mrs Eagleton era malata di cancro. Magari di lei sapeva questo, che comunque sarebbe morta a breve. Questo sembra corrispondere all'idea della sfida soprattutto intellettuale, come se avesse cercato di arrecare il minor danno possibile. Persino il modo che ha scelto per ucciderla si potrebbe considerare, se lei non si fosse svegliata, abbastanza misericordioso. Forse quello che effettivamente sapeva, mi dico, è che lei conosceva Mrs Eagleton e questo l'avrebbe costretta a farsi coinvolgere.» «È possibile» convenne Seldom «e concordo anche sul fatto che sia qualcuno che ha voluto uccidere nel modo più leggero possibile. Era proprio questo che mi chiedevo mentre ascoltavamo il medico legale: come sarebbero andate le cose se tutto si fosse svolto per il verso giusto e il naso di Mrs Eagleton non avesse sanguinato?» «Solo lei avrebbe saputo, per via del messaggio, che non si trattava di morte naturale.» «Esattamente» concordò Seldom. «La polizia in un primo momento ne sarebbe rimasta fuori. Credo che la sua intenzione fosse proprio questa: una sfida quasi privata.» «Sì, ma in questo caso...» ero incerto «non mi è chiaro quando ha scritto il messaggio per lei, se prima o dopo averla uccisa.» «È possibile che il messaggio l'avesse scritto prima di ucciderla e quando una parte del piano è andata storta, ha deciso di proseguire e lasciarlo comunque nel mio casellario.» «Cosa pensa che farà adesso?» «Adesso che la polizia sa? Non saprei. Immagino che cercherà di stare più attento la prossima volta.» «Cioè un altro delitto che nessuno veda come un delitto?» «Sì, proprio così» disse Seldom quasi tra sé e sé. «Esattamente. Delitti che nessuno veda come delitti. Penso di cominciare a capire: delitti impercettibili.»
Restammo in silenzio per un attimo. Seldom sembrava essersi chiuso nei suoi pensieri. Eravamo arrivati quasi all'altezza del parco universitario. Nella strada di fronte, davanti a un ristorante, si fermò una grande limousine. Vidi scendere la sposa che trascinava pesantemente lo strascico dell'abito portandosi una mano alla testa per tenere ferma una graziosa coroncina di fiori. Intorno ci fu un piccolo schiamazzo di gente e scatti di flash. Notai che Seldom sembrava non essersi accorto della scena: camminava con gli occhi fissi e pareva assorto, completamente concentrato in se stesso. Ciononostante decisi di interromperlo per chiedergli del punto che più mi aveva incuriosito. «Su quello che ha detto all'ispettore, la storia del cerchio e la serie logica: non pensa che ci debba essere un nesso tra questo simbolo e la vittima, magari anche con il metodo scelto per ucciderla?» «Sicuramente» rispose Seldom un po' distratto, come se ci avesse già pensato da tempo. «Ma il problema è, come ho detto a Petersen, che non siamo nemmeno sicuri che si tratti effettivamente di un cerchio e non, diciamo, del serpente degli gnostici che si morde la coda o della lettera O maiuscola della parola "omertà". Questo è il difficile quando si conosce solo il primo elemento di una serie: stabilire il contesto in cui va letto il simbolo. Voglio dire, se lo si deve considerare dal punto di vista puramente grafico, diciamo, sul piano sintattico, solo come una figura o piuttosto a livello semantico per una delle possibili attribuzioni di significato. C'è una serie abbastanza conosciuta che cito come primo esempio all'inizio del libro per spiegare questa ambiguità... aspetti...» disse e cercò nelle tasche fino a trovare una stilografica e un notes. Strappò un foglio che appoggiò sul blocchetto; continuando a camminare disegnò con cura tre simboli e mi allungò il foglio perché lo osservassi. Eravamo arrivati a Magdalen Street e potei esaminare le figure senza difficoltà sotto la luce gialla e diffusa dei lampioni. La prima era senza dubbio una emme maiuscola, la seconda sembrava un cuore sopra una linea, la terza era il numero otto.
«Secondo lei qual è la quarta figura?» mi chiese Seldom. «Emme, cuore, otto...» ripetei cercando di dare un senso. Seldom attese, un po' divertito, che ci pensassi ancora un paio di minuti. «Sono sicuro che riuscirà a risolverlo se stasera a casa ci penserà un po'» mi disse. «Quello che volevo farle vedere è semplicemente che in questo
momento è come se ci avessero dato solo il primo simbolo» coprì con la mano il cuore e l'otto. «Se lei avesse visto solo questa figura, questa lettera emme, cosa sarebbe portato a pensare?» «Che si tratta di una serie di lettere o l'inizio di una parola che comincia per emme.» «Esatto. Avrebbe dato a questo simbolo il significato non solo di una lettera in generale ma di una lettera ben precisa e determinata, la emme maiuscola. «Bene» continuò, «appena però lei vede il secondo simbolo della serie le cose cambiano, vero? Sa, per esempio, che non può aspettarsi una parola. D'altra parte questo simbolo è abbastanza eterogeneo rispetto al primo, è di un altro ordine, fa pensare alle carte francesi. Ha comunque l'effetto di mettere in discussione il significato iniziale che avevamo attribuito al primo simbolo. Adesso possiamo ancora pensare che si tratti di una lettera però non ci sembra più così sicuro che sia proprio una emme. E quando facciamo entrare in gioco il terzo segno, il primo impulso torna a essere quello di riorganizzare tutto in base a ciò che sappiamo: se lo interpretiamo come il numero otto, siamo portati a pensare a una serie che inizia con una lettera, continua con un cuore, prosegue con un numero. Però, attenzione, stiamo ragionando sempre su significati che attribuiamo, quasi automaticamente, a quelli che in principio sono solo disegni, linee su un foglio di carta. Questa è l'astuzia della serie: è difficile staccarsi dall'interpretazione più ovvia e immediata di queste tre figure. Ora, se lei riesce a vedere per un attimo i simboli nudi, solo come figure, troverà la costante che annulla tutti i significati precedenti e avrà la chiave per continuare.» Passammo davanti alle vetrate illuminate del The Eagle and Child. All'interno la gente si accalcava contro il banco e, come nei film muti, rideva in silenzio alzando boccali di birra. Attraversammo e svoltammo a sinistra fiancheggiando un monumento. Vidi apparire di fronte a noi il muro circolare del teatro. «Quello che mi vuol dire è che nel nostro caso per individuare il contesto avremmo bisogno almeno di un elemento in più...» «Sì, con il primo elemento siamo ancora completamente al buio, non possiamo neppure risolvere questo primo dilemma: se considerare il simbolo come un segno sul foglio o cercare di attribuirgli qualche significato. Purtroppo non ci resta che aspettare.» Parlando era salito per la scalinata del teatro e io lo seguii nella hall senza decidermi a salutarlo. L'ingresso era deserto, ma era facile orientarsi
grazie alle note della musica che aveva l'allegria leggera di una danza. Salimmo una delle scale cercando di non fare rumore e percorremmo un corridoio rivestito di moquette. Seldom socchiuse una delle porte laterali, che aveva una morbida imbottitura a rombi, e ci affacciammo a un palco da dove si vedeva la piccola orchestra al centro del palcoscenico. Stavano provando quella che sembrava una czarda ungherese. Adesso la musica giungeva forte e chiara. Beth era piegata in avanti sulla sedia, il corpo in tensione e l'archetto che saliva e scendeva con furia sul violoncello. Ascoltai il vertiginoso scatenarsi delle note, come fruste sui cavalli e nel contrasto tra la leggerezza e l'allegria della musica e lo sforzo degli esecutori ricordai quello che mi aveva detto Beth qualche giorno prima. Il suo volto era trasfigurato dalla concentrazione per seguire la partitura. Le dita si muovevano velocissime sul diapason e nonostante ciò c'era qualcosa di distante nei suoi occhi, come se solo una parte di lei fosse lì. Con Seldom tornammo in corridoio. La sua espressione si era fatta di nuovo seria e impenetrabile. Mi resi conto che era nervoso: aveva iniziato ad arrotolarsi meccanicamente un'altra sigaretta che non avrebbe comunque potuto accendere lì. Mormorai qualche parola di saluto e Seldom mi strinse la mano con forza ringraziandomi ancora per averlo accompagnato. «Se venerdì a mezzogiorno è libero» disse «mi farebbe piacere invitarla a colazione al Merton; chissà che nel frattempo non ci venga in mente qualcos'altro.» «Benissimo: venerdì per me è perfetto» risposi. Scesi la scalinata e uscii di nuovo in strada. Faceva freddo e aveva cominciato a piovigginare. Quando mi ritrovai sotto ai lampioni del viale tolsi dalla tasca il foglietto su cui Seldom aveva disegnato le tre figure, cercando di proteggere l'inchiostro dalle goccioline di pioggia. Mi misi quasi a ridere quando, a metà strada, scoprii la semplicità della soluzione. 5 Quando mi lasciai alle spalle l'ultima curva della strada nel parco e mi avvicinai alla casa, vidi che i poliziotti erano ancora lì; adesso c'era anche un'ambulanza e un furgone blu con il logo dell'"Oxford Times". Uno spilungone con dei riccioli grigi sulla fronte mi bloccò mentre stavo per scendere i gradini che portavano alla mia stanza; aveva in mano un piccolo registratore e un blocchetto per appunti. Prima che potesse presentarsi, l'ispettore Petersen si affacciò alla finestra che dava sul porticato e mi fece
un cenno perché mi avvicinassi. «Preferirei che non nominasse Seldom» mi disse a voce bassa. «Alla stampa abbiamo dato solamente il suo nome come se fosse stato solo al ritrovamento del cadavere.» Annuii e tornai verso i gradini. Mentre rispondevo alle domande vidi un taxi che si fermava. Beth scese con il suo violoncello e ci passò accanto senza vederci. Dovette dire il suo nome al poliziotto all'ingresso perché la lasciassero entrare. La sua voce aveva un suono debole e quasi strozzato. «Così questa è la ragazza. Devo parlare anche con lei... stasera niente cena» disse il giornalista guardando l'orologio. «Un'ultima domanda: cosa le ha sussurrato Petersen prima, quando le ha chiesto di avvicinarsi?» Esitai un attimo prima di rispondergli. «Che molto probabilmente domani mi disturberanno con altre domande.» «Non si preoccupi» mi disse, «non sospettano di lei.» Risi. «E di chi sospettano?» «Non lo so, immagino della ragazza. Sarebbe la cosa più logica, no? È lei che resta con soldi e casa.» «Non sapevo che Mrs Eagleton avesse dei soldi.» «La pensione per gli eroi di guerra. Non è una fortuna ma per una donna sola...» «Comunque, all'ora del delitto Beth non era già alle prove?» L'uomo sfogliò le pagine del taccuino. «Vediamo: la morte è avvenuta fra le due e le tre, secondo la dichiarazione del medico legale. Una vicina l'ha incontrata mentre usciva per andare al Sheldonian poco dopo le due. Ho appena chiamato il teatro: la ragazza è arrivata puntuale alle prove alle due e mezzo. Però rimangono ancora quei minuti, prima di uscire. Trovandosi in casa, avrebbe potuto farlo, ed è l'unica beneficiaria.» «Lo scriverà nell'articolo?» dissi, e credo che la mia voce suonasse indignata. «Perché no? È più interessante che attribuire il delitto a un ladro e raccomandare alle donne di tenere le porte chiuse. Vado a cercare di parlare con lei» e mi rivolse un rapido sorriso malizioso, «legga il mio pezzo domani.» Scesi nella mia stanza e, senza accendere la luce, mi tolsi le scarpe e mi buttai sul letto con un braccio sopra agli occhi. Cercai, ancora una volta, di
ricostruire nella memoria il momento in cui con Seldom eravamo entrati in casa e tutta la sequenza dei nostri movimenti, però non sembrava esserci nulla di più: nulla, almeno, di quello che Seldom pareva cercare. Riappariva solo, in tutta la sua nitidezza, il movimento del collo e la testa di Mrs Eagleton che crollava, con gli occhi aperti e spaventati. Sentii il motore di una macchina che si metteva in moto e mi alzai sulle braccia per guardare dalla finestra. Vidi che portavano fuori il cadavere di Mrs Eagleton su una barella e lo caricavano sull'ambulanza. Le due pattuglie accesero i fari e nelle manovre i coni gialli proiettarono una successione di spettacolari e fugaci ombre sui muri delle case. Il furgone dell'"Oxford Times" non c'era più e quando il piccolo corteo di macchine si perse dietro la prima curva, il silenzio e l'oscurità del parco mi parvero per la prima volta angoscianti. Mi domandai cosa stesse facendo Beth, di sopra, da sola. Accesi la lampada e vidi sulla scrivania le carte di Emily Bronson con qualche mia annotazione ai margini. Mi preparai un caffè e mi sedetti, con il proposito di ripartire da dove le avevo lasciate. Studiai per oltre un'ora, ma non conquistai nemmeno la calma misericordiosa, quello strano balsamo intellettuale, il simulacro dell'ordine nel caos che sopraggiunge quando si seguono i passi di un teorema. All'improvviso sentii qualcosa, come dei colpi attutiti alla porta. Scostai la sedia e aspettai un istante. I colpi si ripeterono, con maggior chiarezza. Aprii e, nell'oscurità, potei distinguere il viso confuso e un po' imbarazzato di Beth. Indossava una vestaglia viola e delle ciabatte, i capelli tenuti solo da una fascia, come se qualcosa l'avesse buttata giù dal letto. La feci entrare e si fermò vicino alla porta con le braccia incrociate e le labbra tremanti. «Posso chiederti un favore? Solo per questa notte...» aveva la voce rotta «non riesco a dormire di sopra... potrei fermarmi qui fino al mattino?» «Ma certo, naturalmente» dissi, «vado a preparare la poltrona, potrai dormire nel mio letto.» Mi ringraziò, sollevata, e si lasciò cadere su una delle sedie. Si guardò intorno un po' stordita e vide le mie carte sparpagliate sulla scrivania. «Stavi studiando? Non ti vorrei interrompere.» «No, no» la tranquillizzai, «stavo per fare una pausa, nemmeno io riuscivo a concentrarmi. Vuoi un caffè?» «Un tè sarebbe perfetto» rispose. Restammo in silenzio, mentre mettevo l'acqua a scaldare e cercavo di trovare una formula di condoglianze adeguata. Ma parlò prima lei.
«Mi hanno detto che l'avete trovata voi... deve essere stato orribile. Anch'io ho dovuto vederla: mi hanno fatto riconoscere il cadavere. Mio Dio» disse e i suoi occhi tornarono trasparenti, di un azzurro liquido e impaurito, «nessuno si era preoccupato di chiuderle gli occhi.» Girò il capo e lo sollevò appena da una parte come per ricacciare indietro le lacrime. «Mi dispiace davvero molto» mormorai, «so come devi sentirti.» «No, non credo che tu lo sappia. Credo che nessuno lo sappia. Era quello che aspettavo da tempo. Da anni. Anche se è terribile dirlo: da quando seppi che aveva un cancro. Mi immaginavo che sarebbe successo come poi è stato, che qualcuno sarebbe venuto a dirmelo nel mezzo di una prova. Pregavo che succedesse così, che non dovessi nemmeno vederla mentre la portavano via. Invece l'ispettore ha voluto che la riconoscessi. Non le avevano chiuso gli occhi!» ripeté in un sussurro costernato, come se si fosse commessa un'ingiustizia inspiegabile. «Sono rimasta vicino a lei ma non l'ho potuta guardare; avevo paura che, in qualche modo, potesse ancora farmi del male, che potesse trascinarmi via senza mollarmi. E credo che ci sia riuscita. Sospettano di me» disse, avvilita. «Petersen mi ha fatto un sacco di domande, con quell'aria falsamente rispettosa e poi, quell'orribile tipo del giornale, non si è nemmeno sforzato di nasconderlo. Ho detto a entrambi l'unica cosa che so: che quando me ne sono andata, alle due, era addormentata vicino al tabellone dello scarabeo. Però mi dispiace non avere la forza di difendermi. Sono la persona che più desiderava vederla morta, molto di più, ne sono certa, di chiunque l'abbia ammazzata.» Sembrava consumata dai nervi; le mani le tremavano senza controllo e, nel percepire il mio sguardo, le nascose incrociando le braccia. «Comunque» dissi porgendole la tazza con la bustina del tè «non credo che Petersen stia pensando davvero a te: sanno dell'altro che non hanno voluto rivelare. Non ti ha detto niente il professor Seldom?» Fece segno di no con la testa e mi pentii di aver parlato. Però vidi i suoi occhi azzurri, in apprensione, come se avessero ancora paura di cedere il passo a una speranza, e decisi che l'indiscrezione dei latini potesse essere più misericordiosa della riservatezza britannica. «Posso solo dirti questo, ci hanno chiesto di mantenerlo segreto. Chi l'ha uccisa ha lasciato a Seldom un messaggio nel suo casellario. Nel biglietto c'era scritto l'indirizzo di casa e anche l'ora: le tre del pomeriggio.» «Le tre del pomeriggio» ripeté lentamente, come se si togliesse un enorme peso. «A quell'ora io ero già alle prove.» Sorrise in modo impaurito,
quasi sentisse di cominciare a vincere una battaglia lunga e difficile, e bevve un sorso di tè. Mi guardò con gratitudine da sopra la tazza. «Beth...» dissi. La sua mano era rimasta vicino alla mia e dovetti reprimere l'impulso di toccarla. «Su quello che hai detto prima... se posso aiutarti... per le pratiche del funerale, o per qualunque altra cosa, non esitare a chiedermelo. Sicuramente il professor Seldom o Michael si saranno già offerti, comunque...» «Michael?» disse e rise seccamente. «Non credo di poter contare molto su di lui, è terrorizzato» e aggiunse con un filo di disprezzo, come se parlasse di una categoria particolarmente vigliacca, «è sposato.» Si alzò e prima che potessi impedirglielo si avvicinò al lavandino vicino alla scrivania per sciacquare la tazza. «Però, sì, posso ricorrere allo zio Arthur. Mia madre me lo ripeteva sempre. Credo fosse la sola a conoscere la strega sotto la maschera. Mi diceva che se mi fossi trovata sola e avessi avuto bisogno di aiuto dovevo rivolgermi allo zio Arthur. "Se riesci a staccarlo dalle sue formule!" diceva. È una specie di genio matematico, vero?» mi chiese con un distratto tono di orgoglio. «Uno dei più grandi» risposi. «Sì, lo sosteneva anche mia madre. Guardando indietro, credo che fosse segretamente un po' innamorata di lui. Aspettava sempre le visite dello zio Arthur. Forse però sarà meglio che stia zitta prima che ti racconti tutti i miei segreti.» «Sarebbe divertente» dissi. «Cos'è una donna senza segreti?» Si tolse la fascia, che lasciò sul comodino e si tirò indietro i capelli con le mani, sollevandoli un po' prima di farli ricadere sulle spalle. «Oh, non ci badare, è l'inizio di una vecchia canzone gallese.» Si avvicinò al letto e scostò il piumone. Sollevò le mani verso il collo della vestaglia. «Se ti giri un attimo vorrei togliermela.» Andai con la tazza verso il lavandino. Quando chiusi il rubinetto e l'acqua cessò di scorrere, rimasi voltato ancora per un attimo. Sentii che pronunciava il mio nome, con uno sforzo commovente, inciampando nella doppia elle. Si era messa a letto e i capelli si spargevano in maniera seducente sul cuscino. Il piumone la copriva fino al collo ma aveva lasciato fuori un braccio. «Posso chiederti un ultimo favore? È una cosa che faceva mia madre
quando ero piccola. Mi terresti la mano finché non mi addormento?» «Ma certo» le risposi. Spensi la lampada e mi andai a sedere sul bordo del letto. Una debole luce lunare entrava dal tetto attraverso la finestra e le illuminava il braccio nudo. Appoggiai il mio palmo sul suo e allacciammo le dita. La sua mano era calda e asciutta. Guardai da più vicino la pelle morbida del dorso e le lunghe dita, dalle unghie corte e curate, che si erano abbandonate con fiducia tra le mie. Qualcosa aveva attirato la mia attenzione. Girai con cautela il polso per vedere l'altro lato del suo pollice. Eccolo, ma era curiosamente sottile e molto piccolo come se appartenesse a un'altra mano, una mano infantile, la mano di una bimba. Notai che apriva gli occhi e mi guardava. Cercò di ritirare la mano ma io la strinsi più forte e accarezzai col mio quel suo pollice minuto. «Adesso conosci il peggiore dei miei segreti» disse. «Di notte mi succhio ancora il dito.» 6 Quando mi svegliai, il mattino seguente, Beth se n'era già andata. Guardai un po' turbato la dolce concavità che il suo corpo aveva lasciato nel letto e allungai la mano per cercare l'orologio: erano le dieci. Mi alzai con un balzo; ero d'accordo di incontrarmi con Emily Bronson in istituto prima di mezzogiorno e non avevo ancora letto i suoi lavori. Misi in borsa, con una certa sorpresa, la racchetta e la roba da tennis. Era giovedì e, nel ritmo abituale del mio mondo, al pomeriggio avevo la partita. Prima di uscire gettai un'altra occhiata sconsolata alla scrivania e al letto. Mi sarei aspettato di trovare almeno un biglietto, due righe di Beth e mi chiesi se questa sparizione senza messaggi non fosse di fatto un messaggio. Era una mattinata tiepida e serena, che faceva sembrare lontana e vagamente irreale la giornata precedente. Ma quando uscii Mrs Eagleton non stava sistemando il giardino. Poco prima di arrivare all'istituto incrociai uno dei chioschi di Woodstock Road e comprai una ciambella e il giornale. In ufficio accesi la caffettiera elettrica e posai il quotidiano sulla scrivania. La notizia apriva la pagina della cronaca locale con un grande titolo: "Assassinata eroina di guerra". Avevano messo la foto di una Mrs Eagleton giovane e irriconoscibile e un'altra della facciata della casa con le transenne e le macchine della polizia parcheggiate. Nell'articolo principale si diceva che il cadavere era stato trovato da un inquilino, uno studente di matematica argentino, e che l'ultima persona ad aver visto viva la vedova era
stata la sua unica nipote, Elizabeth. Nel racconto non c'era nulla che non sapessi; l'autopsia, effettuata a tarda sera, apparentemente non aveva aggiunto elementi nuovi. In un riquadro senza firma si parlava delle indagini di polizia. Riconobbi immediatamente, sotto l'apparente impersonalità dello stile, il tono insidioso del giornalista che mi aveva intervistato. Sosteneva che la polizia era propensa a scartare l'ipotesi che il delitto fosse stato commesso da un intruso, anche se la porta d'ingresso non era chiusa a chiave. In casa, nulla era stato toccato o portato via. Sembrava esserci una pista che l'ispettore Petersen manteneva segreta. Il cronista era in grado di azzardare che tale pista potesse incriminare "membri della cerchia familiare più vicina a Mrs Eagleton". Immediatamente dopo rivelava che l'unico familiare diretto di Mrs Eagleton era Beth, che avrebbe ereditato "una modesta fortuna". A ogni modo, concludeva l'articolo, fino a che non ci fossero state altre novità, si rafforzava la raccomandazione dell'ispettore Petersen perché le donne dimenticassero i vecchi, bei tempi e tenessero sempre le porte chiuse a chiave. Sfogliai le pagine alla ricerca dei necrologi; un lungo elenco di nomi partecipava al lutto. Ce n'era uno dell'Associazione britannica di scarabeo e un altro dell'Istituto di Matematica in cui figuravano Emily Bronson e Arthur Seldom. Strappai la pagina e la conservai in un cassetto della scrivania. Mi versai un'altra tazza di caffè e mi immersi per un paio d'ore nelle carte della mia direttrice. All'una scesi nel suo ufficio e la trovai che mangiava un sandwich, con un tovagliolo di carta disteso sui libri. Lanciò un piccolo grido di gioia quando aprii la porta, come se mi vedesse tornare sano e salvo da una spedizione piena di pericoli. Parlammo del delitto per qualche minuto e le raccontai quello che potevo, togliendo Seldom dalla scena; sembrava davvero angosciata e un po' preoccupata per me. Mi domandò se la polizia non mi avesse disturbato troppo. Potevano diventare molto sgradevoli con gli stranieri, mi disse. Sembrava quasi volersi scusare per avermi suggerito di prendere in affitto una stanza proprio lì. Parlammo ancora un po', finché non ebbe finito il suo sandwich. Lo mangiava tenendolo con due mani e dando piccoli morsi in fila come se beccasse. «Non sapevo che Arthur Seldom abitasse a Oxford» dissi a un certo punto. «Be', credo non si sia mai allontanato da qui!» mi fece Emily con un sorriso. «Arthur pensa, come me, che se uno aspetta il tempo necessario, tutti i matematici finiscono per venire in pellegrinaggio a Oxford. Ha una posizione regolare al Merton anche se non si fa certo vedere troppo. Dove l'hai
incontrato?» «Ho visto il suo nome nel necrologio dell'istituto» risposi con prudenza. «Potrei trovare il modo di fartelo conoscere, se ti interessa. Credo che parli molto bene lo spagnolo. La sua prima moglie era argentina, lavorava come restauratrice al grande fregio assiro all'Ashmolean Museum.» Si interruppe, come se avesse rivelato, senza volere, una piccola indiscrezione. «È... morta?» azzardai. «Sì» rispose Emily. «Molti anni fa. Nell'incidente in cui morirono anche i genitori di Beth: erano loro quattro in macchina. Erano inseparabili. Andavano a Clovelly, per un fine settimana. Arthur fu l'unico a salvarsi.» Piegò il tovagliolo e lo gettò nel cestino con attenzione perché non cadessero le briciole. Bevve un sorso dalla sua bottiglia di acqua minerale e si aggiustò con un tocco gli occhiali sul naso. «Bene» disse, cercando di mettermi a fuoco con i suoi occhi di un azzurro sbiadito, quasi bianchiccio, «ti è rimasto un po' di tempo per leggere i miei lavori?» Quando uscii dall'istituto con la racchetta erano le due. Per la prima volta dal mio arrivo il caldo era opprimente e le strade sembravano addormentate sotto il sole estivo. Vidi svoltare di fronte a me, con la pesantezza di un bruco, uno degli autobus rossi a due piani dell'Oxford Guide Tours, carico di turisti tedeschi che si proteggevano con visiere e cappellini e facevano gesti di ammirazione verso l'edificio rosso del Keble College. Nel parco universitario gli studenti improvvisavano picnic sul prato. Mi invase una forte sensazione di incredulità, come se la morte di Mrs Eagleton fosse già svanita. "I delitti impercettibili" avrebbe detto Seldom. Ma in fondo, tutti i delitti, tutte le morti, agitavano appena le acque e diventavano presto impercettibili. Erano trascorse meno di ventiquattr'ore. Niente sembrava essersi scomposto. Non andavo io stesso, come ogni giovedì, alla mia partita di tennis? E tuttavia, come se dopotutto si fossero segretamente messi in moto piccoli cambiamenti, notai una quiete insolita imboccando la strada che portava al circolo. Si sentiva solo il rimbalzo ritmico e solitario di una palla contro il muro, con la sua vibrante eco ingigantita. Nel parcheggio non c'erano le macchine di John e Sammy, ma vidi la Volvo rossa di Lorna sul prato vicino alla recinzione di uno dei campi. Girai attorno all'edificio degli spogliatoi e la trovai che si allenava sul rovescio contro il muro con un'enfasi concentrata. Anche a distanza potevo vedere la bella linea
delle gambe, toniche e magre, che il gonnellino molto corto lasciava scoperte e come il petto le si tendesse e si sollevasse a ogni colpo con il movimento della racchetta. Fermò la palla mentre mi avvicinavo e sembrò sorridere dentro di sé. «Pensavo che ormai non saresti venuto» mi disse. Si asciugò la fronte col dorso della mano e mi diede un bacio veloce sulla guancia. Mi guardò con un sorriso incuriosito, come se si trattenesse dal chiedermi qualcosa o come se facessimo parte dello stesso complotto, ma senza sapere molto bene quale fosse la mia parte. «Cosa è successo a John e Sammy?» domandai. «Non so» mi disse e spalancò con innocenza i grandi occhi verdi. «Credevo lo sapessi tu. Non mi ha chiamato nessuno. Pensavo quasi che vi foste messi d'accordo in tre per lasciarmi da sola.» Andai nello spogliatoio e mi cambiai velocemente, un po' sorpreso dall'insperata fortuna. Tutti i campi erano vuoti; Lorna mi aspettava vicino alla porta della recinzione. Alzai il chiavistello e quando mi passò davanti si voltò per guardarmi un'altra volta, un po' indecisa. Alla fine mi disse, come se non potesse più trattenersi: «Ho visto sul giornale dell'assassinio». Gli occhi le brillarono di qualcosa di simile all'entusiasmo. «Mio Dio, io la conoscevo» disse come se fosse ancora sorpresa o come se questo avesse dovuto servire a Mrs Eagleton da scudo. «E qualche volta ho anche visto la nipote in ospedale. È vero che hai scoperto tu il cadavere?» Annuii mentre toglievo la racchetta dalla borsa. «Promettimi che dopo mi racconti tutto?» «Ho dovuto promettere che non avrei raccontato nulla» risposi. «Davvero? Questo lo rende ancora più interessante. Sapevo che c'era qualcosa di più! È stata la nipote, vero? Ti avviso» disse, appoggiandomi un dito sul petto, «non puoi avere segreti con la tua compagna di doppio preferita, mi dovrai raccontare.» Risi e le tirai una palla. Nel silenzio del club deserto iniziammo a incrociare lunghi colpi da fondocampo. Forse nel tennis c'è solo una cosa migliore di un punto molto combattuto e sono questi colpi iniziali da fondo dove si cerca, contrariamente al solito, di sostenere la palla, di mantenerla in gioco il maggior tempo possibile. Lorna era perfettamente sicura nei due colpi, non arretrava e resisteva con i piedi dentro il campo per tirare ancora di dritto e contrattaccare dall'angolo con un tiro incrociato. Entrambi giocavamo la palla abbastanza lontano e abbastanza vicino perché l'altro corresse per raggiungerla e a ogni colpo aumentavamo un po' la velocità. Lor-
na si difendeva egregiamente, ogni volta più affannata, e le sue scarpe lasciavano lunghe orme quando correva in scivolata da un lato all'altro del campo. Ogni tanto tornava al centro, soffiava e si tirava, con un grazioso movimento, la coda di cavallo. Aveva il sole in faccia e sotto il gonnellino i raggi le facevano brillare le gambe lunghe e abbronzate. Giocavamo in silenzio, concentrati, come se in campo si stesse decidendo qualcosa di più importante. Segnavamo solo le palle fuori. In uno dei punti più combattuti, mentre si riprendeva per tornare al centro dopo un tiro molto angolato, dovette girarsi in contropiede per prendere un'altra palla sul rovescio. Vidi che incespicava. Cadde pesantemente su un fianco e rimase distesa supina, con la racchetta lontano dal corpo. Mi avvicinai un po' allarmato alla rete. Capii subito che non era infortunata ma solo esausta. Respirava affannosamente, con le braccia allungate all'indietro come se non potesse raccogliere le forze per alzarsi. Scavalcai la rete e mi piegai su di lei. Mi guardò e i suoi occhi verdi, sotto il sole, avevano uno strano scintillio, malizioso e incuriosito allo stesso tempo. Quando le sollevai la testa si appoggiò su un gomito e mi passò a sua volta un braccio dietro al collo. La sua bocca si trovò vicinissima alla mia e sentii il soffio caldo del suo respiro, ancora irregolare. La baciai e lei si lasciò ricadere lentamente sulla schiena trascinandomi con sé mentre mi baciava. Ci separammo un istante e ci guardammo con quel primo sguardo profondo, felice e un po' sorpreso degli amanti. La baciai di nuovo e mentre la stringevo sentii le punte del suo seno affondare nel mio petto. Le feci scivolare una mano sotto la maglietta e lei mi lasciò accarezzarle un istante un capezzolo ma mi fermò, allarmata, quando cercai di infilare l'altra mano sotto la gonna. «Aspetta, aspetta» sussurrò guardandosi attorno, «al tuo paese fate l'amore sui campi da tennis?» Mi prese la mano per scostarmi lentamente e mi diede un altro rapido bacio. «Andiamo da me.» Si alzò aggiustandosi i vestiti come poté e scrollando la terra rossa dalla gonna. «Vai a recuperare le tue cose» mormorò. «Non fare la doccia, ti aspetto in macchina.» Guidò in silenzio, sorridendo tra sé e voltando appena la testa di tanto in tanto per guardarmi. A uno dei semafori allungò la mano e mi accarezzò il viso. «Ma allora» le domandai a un certo punto, «John e Sammy...» «No!» disse ridendo ma in tono meno convincente della prima volta. «Niente a che fare. I matematici non credono forse alle casualità?» Parcheggiammo in una delle strade laterali di Summertown. Salimmo due piani di una piccola scala ricoperta di moquette; l'appartamento di
Lorna era una specie di soffitta di una grande casa vittoriana. Mi fece entrare e ci baciammo un'altra volta contro la porta. «Vado un attimo in bagno» mi disse e avanzò nel corridoio fino a una porta con il vetro smerigliato. Rimasi a guardarmi intorno. C'era un disordine variopinto e simpatico, foto di viaggi, pupazzi, locandine di film e moltissimi libri in una piccola libreria che a un certo punto aveva smesso di svolgere il proprio ruolo. Mi chinai a leggere i titoli. Erano tutti romanzi polizieschi. Mi affacciai un attimo nella stanza; il letto era diligentemente fatto, con un copriletto che ai lati sfiorava il pavimento. Sul comodino era appoggiato un libro aperto e rovesciato. Mi avvicinai e lo voltai. Lessi il titolo e, più in alto, il nome dell'autore con una sorta di stupore raggelante: era il libro di Seldom sulle serie logiche. Era sottolineato furiosamente, con appunti illeggibili ai margini. Sentii il rumore della cabina doccia che si apriva, poi lo strofinio dei piedi scalzi di Lorna nel corridoio e la sua voce che mi chiamava. Lasciai il libro come lo avevo trovato e tornai in sala. «Be'» mi disse dalla porta, lasciandomi vedere che era nuda, «cosa fai ancora con i pantaloni?» 7 «Esiste una differenza tra la verità e la parte di verità che si può dimostrare: questo è in realtà un corollario di Tarski al teorema di Gödel» disse Seldom. «Naturalmente i giudici, gli avvocati, gli archeologi lo sapevano molto prima dei matematici. Pensiamo a qualunque delitto con due soli possibili sospettati. Entrambi sanno tutta la verità che interessa: sono stato io o non sono stato io. Però la giustizia non può accedere direttamente a quella verità e deve percorrere un difficile cammino indiretto per raccogliere delle prove: analisi della Scientifica, mozziconi di sigarette, impronte, riscontri di alibi... Troppe volte gli indizi che si trovano non riescono a provare né la colpevolezza di uno né l'innocenza dell'altro. In fondo ciò che ha dimostrato Gödel nel 1931 con il suo teorema dell'incompletezza è esattamente ciò che avviene in matematica. Il meccanismo di conferma della verità che risale ad Aristotele ed Euclide, l'orgoglioso macchinario che, a partire da affermazioni veritiere, da primi principi inconfutabili, avanza a passi strettamente logici verso la tesi, quello che chiamiamo "metodo assiomatico", a volte può semplicemente essere tanto insufficiente quanto i criteri precari di approssimazione della giustizia.» Seldom si fermò solo un attimo per allungare la mano verso il tavolo accanto e prendere
un tovagliolo di carta. Pensai che intendesse scrivere lì una delle sue formule, invece lo passò semplicemente agli angoli della bocca con un rapido gesto prima di continuare a parlare. «Gödel ci insegna che anche ai livelli più elementari dell'aritmetica ci sono enunciati che non possono essere né dimostrati né rifiutati a partire dagli assiomi, che stanno al di là della portata di questi meccanismi formali e si fanno beffa di qualunque tentativo di dimostrazione, enunciati riguardo ai quali nessun giudice potrebbe dare il proprio parere di verità o falsità, di colpevolezza o innocenza. La prima volta che studiai il teorema non ero ancora laureato, Eagleton era il mio tutor e quello che mi colpì di più, una volta che riuscii a capire e, soprattutto, ad accettare ciò che realmente diceva il teorema, quello che mi sembrò più curioso fu che i matematici si fossero destreggiati perfettamente, senza scossoni, così a lungo, con una intuizione così drasticamente sbagliata. In più, quasi tutti cedettero al principio che fosse Gödel ad aver commesso un errore e che presto nella sua dimostrazione sarebbe apparsa qualche crepa; lo stesso Zermelo abbandonò tutti i suoi studi e dedicò due anni interi della propria vita a cercare di invalidarla. Questa è stata la prima domanda che mi sono posto: perché i matematici non inciampano o non hanno inciampato per secoli in nessuna di queste proposizioni indecidibili, perché anche dopo Gödel, ancora adesso, la matematica può seguire il proprio corso tranquillamente in tutti i settori?» Eravamo rimasti praticamente da soli al lungo tavolo dei fellow al Merton College. Davanti a noi, in una fila austera, erano appesi i ritratti degli uomini famosi che erano stati studenti del college. Nelle targhe di bronzo sotto i quadri, avevo riconosciuto solo T.S. Eliot. Gli inservienti raccoglievano discretamente, attorno a noi, i piatti dei professori che erano già andati alle lezioni. Seldom prese il bicchiere d'acqua prima che un addetto lo ritirasse con i piatti e bevve un lungo sorso, poi continuò. «A quell'epoca ero un comunista abbastanza acceso ed ero molto impressionato da una delle frasi di Marx, credo fosse dell'Ideologia tedesca, che diceva che l'umanità si pone, storicamente, solo le domande cui può rispondere. Per un certo periodo pensai che questo potesse essere il principio di una spiegazione: che nella pratica i matematici formulassero solamente le domande per le quali avevano, in qualche modo parziale, la dimostrazione. Naturalmente non per facilitarsi inconsciamente le cose ma perché l'intuizione matematica, e questa era la mia congettura, era già indissolubilmente compenetrata dai metodi di verifica e diretta in maniera, diciamo kantiana, verso ciò che è o dimostrabile o confutabile. Che i salti del caval-
lo negli scacchi, che corrispondono alle operazioni mentali dell'intuizione, non fossero, come si è soliti pensare, illuminazioni drammatiche e imprevedibili, ma ben più modeste abbreviazioni, di quello che alla fine può sempre essere raggiunto a passo di tartaruga con una dimostrazione. Fu allora che conobbi Sarah, la mamma di Beth. Sarah aveva iniziato a studiare fisica; a quell'epoca era già fidanzata con Johnny, l'unico figlio degli Eagleton, andavamo sempre a giocare a bowling e a nuotare tutti e tre insieme. Sarah mi parlò per la prima volta del principio di indeterminatezza nella fisica quantistica. Lei sa, naturalmente, a cosa mi riferisco: le formule chiare e prolisse che reggono i fenomeni fisici in grande scala, come la meccanica celeste o lo scontro dei birilli, non hanno più validità nel mondo subatomico dell'infinitamente piccolo, dove tutto è molto più complesso e appaiono persino, a volte, paradossi logici. Questo mi fece cambiare completamente strada. Il giorno in cui mi parlò del principio di Heisenberg fu un giorno strano, in molti sensi. Credo sia l'unico giorno della mia vita che potrei ripercorrere ora per ora. Appena l'ascoltai ebbi l'intuizione, il salto del cavallo se vuole» disse sorridendo, «che lo stesso tipo di fenomeno si verificasse esattamente in matematica e che tutto fosse, in fondo, una questione di scale. Le proposizioni indecidibili che aveva trovato Gödel dovevano corrispondere a un tipo di mondo subatomico, di grandezze infinitesimali, fuori della visibilità matematica abituale. Il resto fu definire la nozione appropriata di scala. Quello che provai, di fatto, è che se una domanda matematica si può formulare nella stessa "scala" degli assiomi, allora starà nel mondo abituale dei matematici e avrà una dimostrazione o una confutazione. Ma se la sua scrittura richiede una scala diversa, allora rischia di appartenere a quel mondo sommerso, infinitesimale, ma nascosto ovunque, di ciò che non è né dimostrabile né confutabile. Naturalmente la parte più difficile del lavoro, quella che mi ha preso trent'anni di vita, fu poi dimostrare che tutte le domande e congetture formulate dai tempi di Euclide ai giorni nostri dai matematici si possono riscrivere in scale affini ai sistemi assiomatici considerati. Ciò che ho provato, in definitiva, è che la matematica abituale, tutta la matematica che oggigiorno fanno i nostri valorosi colleghi, appartiene all'ordine "visibile" del macroscopico.» «Questo, naturalmente, non è un caso, suppongo» lo interruppi. Stavo cercando di legare i risultati che avevo esposto nel seminario con quanto ascoltavo ora e trovare il posto che spettava loro nel quadro che Seldom stava dipingendo per me. «Naturalmente no, certo. La mia ipotesi è che abbia profondamente a
che vedere con l'estetica che si è trasmessa di epoca in epoca e che è stata essenzialmente invariabile. Non c'è forzatura kantiana, c'è piuttosto un'estetica di semplicità ed eleganza che guida anche la formulazione di congetture: i matematici considerano che un teorema è bello se ci sono certe divine proporzioni tra la semplicità degli assiomi al punto di partenza e la semplicità della tesi al punto d'arrivo. Il difficile, la parte noiosa, è stato riservato sempre al go-in-between, il percorso tra i due punti, la dimostrazione. Ebbene, finché si mantiene questa estetica non c'è motivo perché appaiano "naturalmente" proposizioni indecidibili.» L'inserviente era tornato con un bricco di caffè e, anche dopo che le due tazze furono piene, Seldom rimase in silenzio per un istante come se non fosse sicuro che l'avessi seguito fino a quel punto o si vergognasse un po' di aver parlato tanto. «Ciò che più mi ha colpito» gli dissi «sono stati in realtà i corollari che lei pubblicò un po' più tardi sui sistemi filosofici e che io ho esposto a Buenos Aires.» «In fondo quello fu molto più facile. È l'estensione più o meno ovvia del teorema di incompletezza di Gödel: qualunque sistema filosofico che parta dai primi principi avrà una portata necessariamente limitata. Mi creda, è stato molto più facile "bucare" tutti i sistemi filosofici che questa unica matrice di pensiero a cui si sono aggrappati da sempre i matematici. Semplicemente perché qualunque sistema filosofico si propone troppo; in fondo è tutta una questione di equilibrio: dimmi quanto vuoi sapere e ti dirò con quanta certezza potrai affermarlo. Ma alla fine, quando tutto fu terminato e mi guardai ancora indietro dopo trent'anni, mi sembrò che in fin dei conti quella prima idea che mi aveva suggerito la frase di Marx non fosse poi così tanto fuori strada. Era rimasta, come direbbero i tedeschi, contemporaneamente annullata e accolta nel teorema. Sì, il gatto non studia semplicemente il topo: lo studia per mangiarselo. Tuttavia il gatto non studia come futuro cibo tutti gli animali, gli piacciono solo i topi. Allo stesso modo, il ragionamento storico-matematico è guidato da un criterio, ma in fondo tale criterio è un'estetica. Questo mi sembrava una sostituzione interessante e insperata rispetto alla necessità e agli a priori kantiani. Una condizione meno rigida e forse più elusiva ma che avesse ugualmente, come aveva dimostrato il mio teorema, la consistenza sufficiente per poter ancora dire qualcosa. Vede» sorrise Seldom, «non è così facile liberarsi di questa estetica: a noi matematici piace sempre avere la sensazione di dire cose sensate. Comunque, da allora mi dedicai a studiare ciò che io chiamo "l'e-
stetica dei ragionamenti in altri ambiti". Iniziai, come sempre, con quello che mi era sembrato il modello più semplice, o per lo meno, il più vicino: la logica delle indagini criminali. L'analogia con il teorema di Gödel mi sembrava davvero vistosa. In ogni delitto c'è indubbiamente una nozione di verità, un'unica spiegazione vera tra tutte quelle possibili; dall'altro lato ci sono anche indizi materiali, fatti inoppugnabili o che sono almeno, come direbbe Cartesio, al di là di ogni ragionevole dubbio: questi sono gli assiomi. Però a questo punto siamo già in un campo conosciuto. Cos'è l'indagine criminale se non il nostro vecchio gioco di sempre, di immaginare congetture, spiegazioni possibili che si modellano sui fatti e cercare di dimostrarle? Iniziai a leggere sistematicamente storie di crimini reali, analizzai le memorie degli avvocati ai giudici, studiai il modo di valutare le prove e di mettere in piedi una sentenza o un'assoluzione nelle corti giudiziarie. Rilessi, come nell'adolescenza, centinaia e centinaia di romanzi polizieschi. Cominciai ben presto a trovare una moltitudine di piccole differenze interessanti, l'estetica propria dell'indagine criminale. E anche errori, voglio dire, errori teorici della criminalistica, forse molto più interessanti.» «Errori? Che tipo di errori?» «Be', il primo, quello più evidente, è la sopravvalutazione della prova fisica. Pensiamo solo a quello che sta succedendo adesso, in questa indagine. Ricorderà che Petersen ha mandato un ufficiale a recuperare il biglietto che io avevo visto. Qui ricompare la spaccatura tipica e insanabile tra ciò che è vero e ciò che è dimostrabile. Perché io ho visto il biglietto, ma questa è la parte di verità cui loro non possono accedere. La mia testimonianza non serve a molto per i loro protocolli, non ha la stessa forza del pezzettino di carta. Ebbene, questo ufficiale, Wilkie, ha svolto il suo lavoro il più coscienziosamente possibile. Ha interrogato Brent e gli ha chiesto diverse volte tutti i dettagli. Brent ricordava perfettamente il foglietto piegato in due in fondo al cestino ma, naturalmente, non si era minimamente preoccupato di leggerlo. Ricordava anche che ero andato a chiedergli se ci fosse qualche maniera di recuperare il bigliettino, e ha ripetuto quello che aveva detto a me: aveva vuotato il cestino in uno dei sacchi quasi pieni che aveva portato fuori poco dopo. Quando Wilkie arrivò al Merton College il camion della spazzatura era già passato da quasi mezz'ora. Petersen tentò ancora una mossa e inviò una pattuglia perché lo intercettasse durante il percorso. Ma a quanto pare il camion è dotato di un sistema di compattazione continua e, in definitiva, l'ultima speranza di recuperare il biglietto è andata letteralmente in poltiglia. Ieri mi hanno chiamato perché descrivessi la
grafia al disegnatore e ho notato che Petersen era mortificato. È ritenuto il migliore ispettore che abbiamo mai avuto in tanti anni, ho avuto accesso alle relazioni complete di diversi suoi casi. È minuzioso, esaustivo, implacabile. Però è ancora un ispettore, voglio dire, è formato secondo i protocolli. Ho potuto quasi seguire le sue operazioni mentali. Sfortunatamente si snodano seguendo il principio del rasoio di Occam: in mancanza di prove fisiche, preferiscono sempre le ipotesi semplici a quelle più complicate. Questo è il secondo errore. Non solo perché la realtà è solita essere naturalmente complicata ma, soprattutto, perché se l'assassino è davvero intelligente e ha preparato con cura il delitto, lascerà sotto gli occhi di tutti una spiegazione semplice, una cortina di fumo, come un illusionista alla fine del suo numero. Ma nella piccola logica dell'economia delle ipotesi prevale l'altro ragionamento: perché supporre qualcosa che si considera strano e fuori del comune, come un assassino con motivazioni intellettuali, se si hanno sottomano spiegazioni magari più immediate? Ho potuto quasi sentire fisicamente come Petersen retrocedeva e riavvolgeva le sue ipotesi. Credo che avrebbe iniziato a sospettare anche di me, se non fosse che aveva già verificato che quel pomeriggio avevo lezione con gli allievi del dottorato dall'una alle tre. Immagino abbia controllato anche la sua dichiarazione.» «Sì, ero alla Bodleian Library. So che ieri sono andati a chiedere di me. Per fortuna la bibliotecaria si ricordava perfettamente del mio accento.» «Consultava libri all'ora del delitto?» Seldom sorrise. «Be', una volta tanto il sapere ci rende davvero liberi.» «Crede che Petersen si lancerà a questo punto su Beth? Ieri dopo l'interrogatorio era sfinita. Pensa che l'ispettore le stia addosso.» Seldom rimase un attimo pensieroso. «No, non credo che Petersen sia così ingenuo. Però pensi ai pericoli del rasoio di Occam. Supponga per un attimo che l'assassino, ovunque si trovi, decida adesso che tutto sommato uccidere non gli è piaciuto e che il divertimento è stato rovinato dall'episodio del sangue e dall'intervento della polizia; mettiamo che per un qualunque motivo scelga di uscire di scena. Allora sì, credo che Petersen si butterebbe su di lei. So che questa mattina l'ha interrogata di nuovo, ma potrebbe essere semplicemente una manovra astuta, quasi una forma di provocazione: quella di agire come se realmente non sapessero nient'altro, come se fosse un caso comune, un delitto familiare, come suggerisce il giornale.» «Ma lei crede che l'assassino stia davvero per abbandonare il gioco?»
Seldom sembrò considerare la mia domanda più seriamente di quanto mi aspettassi. «No, non lo credo» disse infine. «Penso solo che cercherà di essere più... impercettibile, come dicevamo prima. Ha da fare?» mi chiese guardando l'orologio del refettorio. «A quest'ora comincia l'orario di visite al Radcliffe Hospital, sto andando lì. Se ha voglia di venire con me, mi piacerebbe farle conoscere una persona.» 8 Uscimmo da un porticato ad archi in pietra che costeggiava la parte posteriore del college. Seldom mi mostrò da lontano, come una reliquia storica, il campo del Royal Tennis del XVI secolo in cui aveva giocato anche Edoardo VII, che io avrei potuto scambiare, visti i muri, per un campo di gioco all'aperto di pelota basca. Attraversammo una strada e svoltammo in quella che, in un primo momento, mi sembrò una fenditura tra gli edifici, come un colpo di spada che avesse aperto miracolosamente la pietra da parte a parte. «Tagliamo per di qua» disse Seldom. Camminava in fretta, un po' più avanti di me perché non c'era abbastanza spazio per due nel passaggio tra i muri. Sbucammo in un sentiero che seguiva il corso del fiume. «Spero che gli ospedali non la impressionino troppo» mi disse. «Il Radcliffe può essere un po' deprimente. Ha sette piani. Forse conosce il racconto di uno scrittore italiano, Dino Buzzati, che si intitola proprio così: Sette piani. Lo scrisse negli anni Quaranta e dopo quasi trent'anni venne a Oxford per tenere una conferenza: lo descrive in uno dei suoi diari di viaggio. Era una giornata particolarmente calda e, appena uscito dalla sala, ebbe un leggero malore. Gli organizzatori, per precauzione, insistettero perché si facesse visitare al Radcliffe. Lo portarono al settimo piano, quello riservato ai casi più lievi e ai controlli in generale. Lì gli fecero i primi esami. Tutto andava bene, gli dissero, ma per essere del tutto tranquilli gli avrebbero fatto qualche visita più specialistica. Per questo dovevano farlo scendere di un piano; i suoi accompagnatori lo avrebbero atteso di sopra finché tutto fosse finito. Lo portarono con una sedia a rotelle, il che gli sembrò un po' eccessivo, ma preferì attribuirlo allo zelo britannico. Al sesto piano iniziò a vedere, nei corridoi e sulle panche nelle sale d'aspetto, gente con il volto ustionato, bendaggi, barelle con corpi distesi, ciechi, mutilati. Fecero sdraiare anche lui su una barella per fargli una radio-
grafia. Quando chiese di alzarsi, il radiologo gli disse che avevano trovato una leggera anomalia, che non era sicuramente nulla di grave ma che era preferibile, finché non avessero avuto i risultati di tutti gli esami, che restasse disteso. Gli spiegarono anche che avrebbero dovuto tenerlo in osservazione ancora qualche ora e che preferivano farlo scendere al quinto piano dove avrebbe potuto stare in una camera da solo. Al piano di sotto non c'era più gente nei corridoi. Alcune porte, però, erano socchiuse; poté vedere l'interno di una delle stanze. Si scorgevano solo flaconi di soluzioni, gente debilitata, braccia collegate a qualcosa. Rimase solo nella stanza, sulla barella, abbastanza allarmato, per un paio d'ore. Alla fine entrò un'infermiera con una forbice su un piccolo vassoio. Era stata mandata da uno dei medici del quarto piano, il dottor X, colui che alla fine si sarebbe pronunciato, perché gli facesse una piccola rasatura sulla nuca prima della visita. Mentre le ciocche cadevano sul vassoio, Buzzati chiese se il dottore sarebbe salito a visitarlo. L'infermiera sorrise come se quella domanda fosse potuta venire in mente solo a uno straniero e gli disse che i dottori preferivano rimanere ognuno al proprio piano. Lei, gli disse, l'avrebbe comunque accompagnato personalmente da basso per una delle rampe e l'avrebbe lasciato in attesa vicino a una finestra. L'edificio ha una pianta a U e dalla finestra del quarto piano Buzzati intravide, guardando giù, alcune persiane scorrevoli simili a quelle che aveva immaginato nel suo racconto. Poche erano quelle aperte, quasi tutte erano chiuse. Domandò all'infermiera chi lavorasse lì e la risposta confermò il suo presentimento: laggiù lavorava solo il prete. Buzzati scrive che in quella terribile ora, mentre aspettava il medico, lo ossessionava soprattutto un'idea matematica. Si rendeva conto che il quarto piano era esattamente la metà del calcolo regressivo e un terrore superstizioso gli diceva che se fosse sceso anche solo di un livello, tutto sarebbe stato perduto. Ogni tanto sentiva arrivare dal piano di sotto, a ritmo intermittente, come se strisciassero nel vano dell'ascensore, quelle che sembravano grida disperate di qualcuno in pieno delirio di dolore e pianto. Si ripromise di restare vigile nel caso, con qualche altra scusa, l'avessero voluto portare giù. Alla fine arrivò il medico. Non era il dottor X ma il dottor Y, quello più importante. Parlava qualche parola di italiano e conosceva i suoi libri. Diede una rapida occhiata alle analisi e alla lastra e si meravigliò che il suo giovane collega, il dottor X, avesse ordinato la rasatura: magari, disse, aveva pensato a una punizione preventiva; a ogni modo nulla di ciò era necessario. Andava tutto alla perfezione. Gli chiese scusa e sperava che le
grida che si udivano dal piano di sotto non lo avessero turbato troppo. Si trattava dell'unico superstite di un incidente stradale. Il terzo piano poteva essere molto rumoroso, gli spiegò, lì le infermiere spesso mettevano il cotone nelle orecchie. Ma probabilmente il poveretto sarebbe stato portato al secondo piano e sarebbe tornata la calma.» Seldom mi indicò con il capo la mole di mattoni scuri che era apparsa davanti a noi. E, con lo stesso tono calmo e ordinato, soggiunse, come se lottasse per concludere la storia: «L'annotazione nel suo diario segna il 27 giugno del '67, due giorni dopo lo scontro in cui persi mia moglie, lo scontro in cui morirono anche John e Sarah. L'uomo che agonizzava al terzo piano ero io». 9 Salimmo in silenzio la scalinata in pietra dell'ingresso. Entrammo nella hall e attraversammo una lunga anticamera; nei corridoi Seldom salutava quasi tutti i medici e le infermiere che incrociavamo. «Ho vissuto qua dentro per quasi due anni interi» mi spiegò. «E dopo sono dovuto tornare ogni settimana per un altro anno. A volte mi capita ancora di svegliarmi nel cuore della notte credendo di essere in uno dei reparti.» Mi indicò un angolo dove salivano i gradini consumati di una scala a chiocciola. «Andiamo al secondo. Di qua arriviamo prima.» Il secondo piano era un corridoio lungo e luminoso che aveva qualcosa delle cattedrali nel silenzio profondo e raccolto. I nostri passi rimbombavano in maniera fastidiosa. I pavimenti sembravano incerati da poco e splendevano come se ben poca gente li calpestasse. «Le infermiere lo chiamano l'acquario, o la sezione vegetale» disse Seldom e aprì la porta di uno dei reparti. C'erano due file di letti, troppo vicine tra loro, come in un ospedale militare. In ogni letto c'era un corpo di cui spuntava solo la testa, collegata a un respiratore artificiale. L'effetto d'insieme dei respiratori era un gorgoglio continuo e profondo che faceva effettivamente pensare a un mondo sommerso. Mentre avanzavamo nello spazio tra le due file di letti, vidi che dal fianco di ogni corpo spuntava un sacchetto che raccoglieva le feci. I corpi, pensai, erano stati ridotti ai loro orifizi elementari. Seldom intercettò la mia occhiata. «Una volta mi svegliai di notte» mi disse sottovoce «e udii due infermiere che avevano lavorato qui e parlottavano a proposito degli "sporchi". So-
no quelli che riempiono il sacchetto due volte al giorno e loro si ritrovano a fare gli straordinari. A prescindere dal loro stato reale, gli "sporchi" non durano a lungo in reparto. Ci si arrangia in qualche modo perché peggiorino un pochino e debbano essere trasferiti. Benvenuto nel paese di Florence Nightingale. Hanno un'impunibilità totale perché i familiari non arrivano quasi mai fin qui, vengono all'inizio una o due volte e poi spariscono. È come un deposito, molti sono collegati da anni. Per questo cerco di venirci quasi tutte le sere: da qualche tempo, purtroppo, Frankie è diventato uno "sporco" e non voglio che gli succeda qualcosa di strano.» Ci eravamo fermati accanto a uno dei letti. L'uomo, o quello che restava dell'uomo che vi era sdraiato, consisteva in un cranio con qualche capello grigio e liscio che gli cadeva sulle orecchie e una vena perpendicolare al sopracciglio terribilmente infiammata. Il corpo si era consumato sotto il lenzuolo; il letto, dalla cintola in giù, sembrava quasi di troppo e pensai che gli potessero mancare le gambe. Il leggero telo bianco gli si muoveva appena sul petto e le narici vibravano senza riuscire ad appannare la mascherina. Una delle braccia era stesa verso l'esterno, unita attraverso un uncino di rame a quello che in principio mi sembrò una macchina per controllare il polso. In realtà era un arnese che manteneva fermo il braccio sopra un blocco di carta. Avevano ingegnosamente legato una piccola matita tra il pollice e l'indice. La mano, comunque, era afflosciata, esanime sul foglio bianco, con le unghie molto lunghe. «Forse ha sentito parlare di lui» mi disse Seldom. «È Frank Kalman, il prosecutore dei lavori di Wittgenstein sulle regole e sui giochi linguistici.» Risposi educatamente che il nome mi diceva sì qualcosa, ma molto vagamente. «Frank non era un logico di professione» Seldom iniziò a raccontarmi, «in realtà non fu mai un matematico da pubblicazioni e congressi. Appena laureato accettò un posto in una grande agenzia di collocamento. Il suo lavoro consisteva nel preparare e valutare i test per gli aspiranti a diverse occupazioni. Lo destinarono al settore di manipolazione simbolica e test di intelligenza. Alcuni anni dopo gli affidarono anche le prime valutazioni dei livelli nelle scuole medie inglesi. Per tutta la vita si è occupato di preparare serie logiche, del tipo più elementare, come quella che le ho mostrato: dati tre simboli in sequenza, scrivere il quarto. Oppure con i numeri: dati i numeri 2, 4, 8 scrivere il successivo. Frank era meticoloso, ossessivo. Gli piaceva rivedere le montagne di esami uno per uno. Iniziò a rendersi conto di un fenomeno davvero curioso. Molti esami erano perfetti, al punto
da far dire, come scrisse lui stesso in seguito, con meravigliosa sottigliezza, che l'intelligenza del candidato coincideva perfettamente con le aspettative dell'esaminatore. C'erano anche, ed erano la noiosa maggioranza, quelli che Frank chiamava "la campana normale": prove con qualche errore del tipo che ci si poteva aspettare. Però vi era un terzo gruppo, sempre il più ridotto, che lo affascinava particolarmente. Erano esami quasi perfetti, nei quali tutte le risposte erano quelle attese tranne una, ma la differenza con il caso normale era che l'errore, in quell'unica risposta inattesa, a prima vista sembrava un assoluto sproposito, un seguito scelto alla cieca o a caso, veramente lontano dal consueto spettro di sbagli. Per pura curiosità a Frank è venuto in mente di chiedere ai candidati di quel piccolo gruppo che giustificassero le proprie soluzioni, ed è stato allora che si è imbattuto nella prima sorpresa. Le risposte che aveva considerato errate erano in realtà un'altra soluzione possibile e perfettamente valida per continuare la serie, solo con una giustificazione molto, molto più complicata. Il fatto veramente curioso è che l'intelligenza di questi candidati aveva tralasciato la soluzione elementare che proponeva Frank e, come da un trampolino, a un certo punto era saltata ben più lontano. Anche l'immagine del trampolino è di Frank. I tre simboli o numeri scritti sul foglio corrispondevano per lui alla rincorsa del tuffatore; da quel punto di vista l'analogia sembrava dargli una prima spiegazione: per un'intelligenza che salta in avanti con grande slancio è più naturale la soluzione lontana rispetto a quella che sta sotto i piedi. Ma naturalmente questo metteva in discussione sin dalla base i presupposti del lavoro di quasi tutta la sua vita. Frank si trovò di colpo disorientato. La soluzione alle sue serie non era in alcun modo unica; risposte che fino ad allora aveva considerato sbagliate potevano costituire soluzioni alternative e, in un certo senso, "naturali", e non riusciva neppure a capire come distinguere tra una risposta a caso e la soluzione che avrebbe scelto un'intelligenza eccezionale e troppo atletica. Fu a questo punto che venne a trovarmi e dovetti dargli la brutta notizia.» «Il paradosso di Wittgenstein sulle regole finite» dissi. «Esattamente. Frank aveva riscoperto nella pratica, in un esperimento reale, quello che Wittgenstein aveva già dimostrato teoricamente decenni prima: l'impossibilità di stabilire una regola univoca e ordinamenti "naturali". La serie 2, 4, 8 può essere continuata col numero 16 ma anche col 10 o col 2007: si può sempre trovare una giustificazione, una regola che permetta di aggiungere qualsiasi numero come quarto. "Qualunque" numero, "qualunque" continuazione. Questa è una cosa che non farebbe molto pia-
cere all'ispettore Petersen e che ha quasi fatto impazzire Frank. A quell'epoca aveva più di sessant'anni, ma mi chiese le referenze ed ebbe il coraggio di entrare, come se fosse di nuovo uno studente, in quella caverna abbandonata che sono i lavori di Wittgenstein. Ci fu un momento in cui si sentì sull'orlo dell'abisso. Si rendeva conto di non potersi fidare nemmeno della regola della moltiplicazione per due. Ma uscì con un'idea abbastanza simile a ciò che io stesso stavo pensando. In pieno naufragio Frank si mantenne aggrappato con una fede quasi fanatica all'ultima zattera: le statistiche dei suoi esperimenti. Riteneva che quelli di Wittgenstein fossero in qualche modo risultati teorici, di un mondo platonico, ma che la maniera in cui pensava la gente reale fosse qualcosa di diverso. Dopotutto, solo una piccolissima parte immaginava quelle risposte atipiche. Suppose dunque che, sebbene in principio tutte le soluzioni fossero equamente probabili, c'era qualcosa registrato in un certo modo, nella mente umana o nei giochi di approvazione-riprovazione durante l'apprendimento dei simboli, che guidava la maggioranza dalla stessa parte, verso la soluzione che si presentava alla ragione umana come la più semplice, la più evidente o la più piacevole. Pensò, in definitiva, nella mia stessa direzione, che operava un certo tipo di principio estetico a priori che lasciava filtrare solo poche possibilità per la scelta finale. Si ripropose allora di dare una definizione astratta di quello che chiamava il ragionamento normale. Da qui, però, prese una strada davvero bizzarra. Iniziò a visitare ospedali psichiatrici e a provare i suoi test con pazienti lobotomizzati. Raccolse esempi di parole slegate e simboli scritti da sonnambuli, partecipò a sessioni di ipnotismo. Soprattutto studiò il tipo di simboli che cercano di trasmettere i malati in stato quasi vegetativo, con danni cerebrali. Ciò che di fatto stava cercando era qualcosa che per definizione era quasi impossibile: studiare quello che resta della ragione quando la ragione non è lì a vigilare. Pensava di poter rilevare magari un tipo di movimento o agitazione residua che corrispondesse a un solco organicamente inciso o a un percorso di routine segnato dall'apprendimento. Ritengo comunque che già mostrasse un'inclinazione al morboso che si espresse in modo lampante in ciò che stava programmando. Qualche tempo prima gli avevano diagnosticato un cancro di una specie molto aggressiva, che attacca prima le gambe, qui lo chiamano "cancro del boscaiolo", i medici possono solo "potare" le membra a una a una. Venni a trovarlo dopo la prima amputazione. Sembrava di buon umore, nei limiti di quanto ci si potesse aspettare. Mi mostrò un libro che gli aveva regalato il suo medico, con foto di crani parzialmente distrutti da incidenti, tentativi
di suicidio, colpi di mazza. C'era una descrizione clinica esauriente di tutte le sequenze e interconnessioni dei danni cerebrali. Mi invitò a riflettere, con fare misterioso, su una pagina in cui si vedeva l'emisfero sinistro di un cervello con un lobo parzialmente distrutto da un proiettile. Mi chiese di leggere la didascalia. Il suicida era rimasto in coma quasi totale ma la sua mano destra, diceva il testo, aveva continuato a scrivere per mesi diversi tipi di strani simboli. Mi spiegò allora che nei suoi giri per ospedali aveva trovato uno stretto collegamento tra il tipo di simboli che raccoglieva e l'attività che il paziente in coma aveva sviluppato nella sua vita. Frankie era estremamente timido. Mi disse, e fu l'unica volta in cui mi fece un commento di carattere personale, che purtroppo non si era mai sposato e, con un sorriso triste, aggiunse che non aveva fatto troppe cose in vita sua ma che da quarant'anni scriveva e maneggiava simboli logici. Era sicuro che fosse impossibile trovare un esemplare migliore di lui per il suo esperimento. Credeva fermamente che nei segni che avrebbe scritto si sarebbe potuta leggere in qualche modo la codifica di questo residuo o substrato razionale che stava cercando. Comunque pensava che non sarebbe stato più lì quando fossero venuti per la seconda gamba. Aveva di fatto un solo problema ancora da risolvere ed era come assicurarsi che il danno della pallottola non fosse eccessivo, che le schegge non raggiungessero i centri che controllano l'attività motoria. Provavo affetto per lui. Gli dissi che per questo problema non sarei stato disposto ad aiutarlo e allora mi chiese se, nel caso fosse riuscito a risolverlo da solo, sarei stato qui per leggere i simboli.» Vedemmo nello stesso istante che la mano si contraeva spasmodicamente stringendo la matita come se avesse ricevuto una scarica elettrica. Fissai con spavento il lento e incerto progredire della matita che rigava il foglio ma Seldom non sembrò prestargli troppa attenzione. «A quest'ora inizia a scrivere» disse senza preoccuparsi di abbassare la voce «e prosegue per quasi tutta la notte. Insomma, Frankie era davvero intelligente e ha trovato la soluzione: una pistola comune, anche di piccolo calibro, lasciava troppo margine di errore per la deflagrazione interna. Aveva bisogno di qualcosa che potesse penetrare la parete frontale fino al lobo, come una piccola fiocina. All'epoca questo padiglione dell'ospedale era in fase di ristrutturazione e sembra che l'idea gliel'abbia data uno dei muratori con cui parlò di attrezzi. Alla fine lo fece con una sparachiodi.» Mi avvicinai leggermente per cercare di distinguere i tratti confusi che apparivano sul foglio.
«La scrittura è ogni volta più illeggibile» disse Seldom, «ma fino a qualche tempo fa si poteva capire perfettamente. In realtà sono solo quattro lettere, che scrive e riscrive. Le quattro lettere di un nome. In questi tre anni non ha mai scritto un solo simbolo logico né un solo numero. L'unica cosa che Frankie scrive, all'infinito, è un nome di donna.» 10 «Andiamo in corridoio, ho voglia di una sigaretta» disse Seldom. Sfilò il foglio su cui Frank aveva appena scritto e lo gettò nel cestino dopo avergli dato un'occhiata. Uscimmo dal reparto in silenzio e camminammo nel corridoio deserto fino a trovare una finestra aperta. Vedemmo avanzare lentamente verso di noi un infermiere che spingeva una barella. Quando ci passò accanto notai che il lenzuolo copriva il viso e avvolgeva completamente il corpo. Solo una delle braccia era rimasta scoperta; un cartellino che penzolava dal polso indicava il nome. Riuscii a vedere, segnata sotto, una cifra che corrispondeva forse all'ora della morte. L'infermiere manovrò con disinvoltura la barella per girarla e la introdusse abilmente in una stretta porta a vetri. «È l'obitorio?» chiesi sorpreso. «No» rispose Seldom. «Ogni piano ha una sala come questa. Quando uno dei pazienti muore portano via immediatamente il corpo dal reparto per liberare prima possibile il letto. Il medico responsabile del piano viene fin qui per confermare la morte, scrivono qualcosa su un modulo e a quel punto lo portano all'obitorio generale dell'ospedale che si trova in uno dei sotterranei.» Seldom fece un cenno con il capo in direzione del reparto di Frank. «Resto ancora un po' là a fare compagnia a Frankie. È un buon posto per pensare, insomma buono come qualunque altro. Ma sono sicuro che lei vorrà visitare la sala raggi» mi disse con un sorriso, e quando vide la mia sorpresa, gli occhi scintillarono e il sorriso aumentò leggermente. «Oxford in fin dei conti è solo un paesino. Complimenti: Lorna è una ragazza in gamba. La conobbi qui durante una visita di controllo, mi passò buona parte dei suoi romanzi polizieschi. Ha già visto la sua biblioteca?» e alzò le sopracciglia con stupita ammirazione. «Non ho mai conosciuto nessuno così appassionato di delitti. Deve andare all'ultimo piano con gli ascensori qui a destra.» L'ascensore salì con un sordo gemito pneumatico. Attraversai il labirinto
dei padiglioni seguendo le frecce che indicavano "Raggi" finché non mi trovai in una sala d'aspetto dove c'era solo un uomo seduto, con uno sguardo un po' perso e con un libro abbandonato sulle ginocchia. Dietro a un cubicolo di vetro vidi Lorna in divisa, piegata su una barella come se stesse pazientemente spiegando un procedimento a un bambino. Mi avvicinai un po' più al vetro, senza decidermi a interromperla. Lorna stava sistemando un orsacchiotto vicino a una bimba molto pallida di circa sette anni, dagli occhi spaventati ma coraggiosamente attenti e con lunghi riccioli sparsi sul cuscino. Lorna disse qualcos'altro e la bambina abbracciò con forza l'orsacchiotto. Diedi due colpetti leggeri al vetro; Lorna guardò verso di me, rise sorpresa e lanciò una piccola esclamazione che non riuscì ad attraversare il divisorio. Mi indicò la porta laterale e fece un gesto alla bimba, con una racchetta immaginaria, per spiegarle che ero il suo compagno di doppio a tennis. Aprì un attimo la porta, mi diede un bacio veloce e mi chiese di attenderla un momento. Tornai in sala d'aspetto. L'uomo aveva ripreso il suo libro. Notai che aveva la barba lunga e gli occhi arrossati, come se non dormisse da parecchio. Decifrai con una certa sorpresa il titolo: Dai pitagorici a Gesù. L'uomo abbassò subito il libro e incrociò il mio sguardo. «Mi scusi, mi ha colpito il titolo. È un matematico?» «No» rispose, «però se il titolo l'ha interessata devo ritenere che invece lei lo è.» Sorrisi, annuendo, e l'uomo mi guardò con una fissità sconcertante. «Sto leggendo all'indietro» disse, enigmatico. «Voglio sapere come stavano le cose in principio.» Riprese a guardarmi con quello sguardo un po' fanatico. «Uno trova delle sorprese. Per esempio, lei quante sette, quanti gruppi religiosi direbbe che ci fossero all'epoca di Cristo?» Ritenni che sarebbe stato educato rispondere con una cifra molto bassa. Ma prima che potessi farlo l'uomo continuò a parlare. «Erano decine e decine. I nazareni, i simoniani, i fibioniti. Pietro e gli apostoli erano solo un gruppuscolo. Un gruppuscolo tra cento. Le cose avrebbero potuto essere assolutamente diverse. Non erano i più numerosi, non erano i più influenti, non erano i più avanzati. Però ebbero un lampo di genio, una sola idea per differenziarsi e innalzarsi su tutti, un'idea per perseguitare e sterminare gli altri gruppi e restare alla fine gli unici. Quando tutti parlavano unicamente della resurrezione dell'anima, loro promisero anche la resurrezione della carne. Il ritorno alla vita con il proprio corpo. Un'idea che già suonava assurda, che era già vecchia a quei tempi. Il Cristo
che il terzo giorno si alza dalla tomba, chiede di essere pizzicato e mangia pesce arrostito. Bene, cosa è successo a quel Cristo nei quaranta giorni del suo ritorno?» La sua voce roca aveva la veemenza un po' feroce di uno appena convertito o di un autodidatta. Si era piegato un po' verso di me e sentii l'odore acre e penetrante di sudore della sua camicia. Senza volere indietreggiai, ma era difficile staccarsi dalla fissità dei suoi occhi. Feci di nuovo un gesto di opportuna ignoranza. «Esattamente. Lei non lo sa, io non lo so, nessuno lo sa. Mistero. Sembra che abbia fatto solo questo: ricevere un pizzicotto e indicare Pietro come suo successore sulla terra. Bel vantaggio per Pietro, no? Lo sapeva che fino a quel momento ai cadaveri non si faceva altro che avvolgerli nei sudari? Naturalmente l'idea della conservazione dei corpi non esisteva. Il corpo era in fondo ciò che le religioni consideravano la parte più debole, la più effimera, la parte esposta al peccato. Ebbene, ci separano da quel tempo parecchie casse di legno, non crede? Un intero mondo di casse sottoterra. Nei sobborghi di ogni città, ecco un'altra città sotterranea di bare meticolosamente allineate, chiuse in maniera commovente. Ma dentro, tutti sappiamo cosa succede. Nelle prime ventiquattr'ore, dopo il rigor mortis, inizia la disidratazione. Il sangue cessa di trasportare ossigeno, la cornea perde trasparenza, l'iride e la pupilla si deformano, la pelle si raggrinzisce. Il secondo giorno inizia la putrefazione nell'intestino crasso e compaiono le prime macchie verdastre. I tessuti si rammolliscono, gli organi interni rimangono inutilizzati. Il terzo giorno la decomposizione avanza, i gas gonfiano l'addome e un verde marmoreo invade tutte le membra. Dal corpo esala il composto di carbonio e ossigeno, l'odore penetrante di una bistecca rimasta troppo a lungo fuori dal frigo e inizia il festino della fauna cadaverica e degli insetti necrofagi. Ognuno di questi processi, ogni scambio di energia comporta una perdita irreversibile, non c'è modo di recuperare qualche funzione vitale. Sì, alla fine del terzo giorno Cristo sarebbe stato un mostruoso avanzo, incapace di alzarsi, maleodorante e cieco. Questa è la verità. Però a chi interessa la verità? Lei ha appena visto mia figlia» disse, e la sua voce si abbassò subito in un tono angosciato e impotente, «ha bisogno di un trapianto di polmone. Stiamo aspettando quel polmone da un anno, adesso è la prima nell'elenco nazionale delle emergenze. Non le restano più di trenta giorni di vita. Due volte abbiamo avuto l'occasione. Due volte ho pregato e supplicato. Ma tutte e due le volte erano famiglie cristiane e hanno preferito seppellire cristianamente i propri figli.»
Riprese a guardarmi come se si sentisse messo alle strette. «Lo sa che la legge britannica impedisce che in caso di suicidio di uno dei genitori gli organi possano essere trapiantati ai suoi figli? Per questo» disse picchiettando con un dito la copertina del libro «è interessante a volte tornare al principio delle cose, gli antichi avevano altre idee sui trapianti, la teoria dei pitagorici sulla trasmigrazione delle anime...» L'uomo si interruppe e si alzò. La porta si era aperta e Lorna stava portando fuori la barella. La bimba sembrava essersi addormentata. L'uomo parlò un attimo con Lorna e poi si allontanò spingendo lui stesso la barella nel corridoio. Lorna attese che mi avvicinassi, con un sorriso velato e le mani in tasca. Il camice, di un tessuto molto leggero, rimaneva ben disteso sul seno. «Che bella sorpresa!» «Volevo vederti così, nella tua divisa da infermiera» dissi. Aprì sensualmente le braccia come se volesse ruotare per farsi vedere ma lasciò che la baciassi una sola volta. «Qualche novità?» mi chiese e i suoi occhi si spalancarono con curiosità. «Nessun nuovo delitto. Ho appena visitato il secondo piano. Seldom mi ha portato fino al reparto di Frank Kalman.» «Ho visto che il papà di Caitlin ti aveva catturato» disse. «Spero che non ti abbia infastidito troppo. Immagino ti stesse raccontando degli spartani o dicendo peste e corna dei cristiani. È vedovo e Caitlin è l'unica figlia. Ha chiesto un permesso al lavoro, praticamente non esce da qui da quasi tre mesi. Legge tutto quello che ha a che fare con i trapianti. Credo che a questo punto sia un po'...» fece un gesto verso la tempia «fuori di testa.» «Pensavo di andare a Londra per il fine settimana. Lorna, vuoi venire con me?» «Questo fine settimana è impossibile, sono di guardia qui tutte e due le notti. Però andiamo al bar e ti faccio un elenco di qualche bed and breakfast e una lista di posti da vedere.» «Ehi» le dissi mentre andavamo verso l'ascensore, «non sapevo che Arthur Seldom fosse stato a casa tua.» La guardai con un sorriso tranquillo e anche lei, un attimo dopo, sorrise divertita. «Era venuto a portarmi il suo libro. Posso farti anche un altro elenco, con tutti gli uomini che sono stati a casa mia, ma sarebbe molto più lungo.»
Quando rientrai a Cunliffe Close e scesi nella mia stanza, trovai sotto uno dei quaderni la busta che avevo preparato per Mrs Eagleton e mi ricordai che da quel giorno non avevo più dato a Beth i soldi dell'affitto. Misi in borsa le cose sufficienti per un fine settimana e salii con il denaro per la scala. Beth mi chiese da dietro la porta che l'aspettassi un minuto. Quando aprì sembrava rilassata e serena, come se fosse appena uscita da un lungo bagno. Aveva i capelli umidi, i piedi scalzi e una lunga vestaglia felpata ben chiusa. Mi fece accomodare un attimo in sala. Riconobbi a stento il locale. Aveva cambiato il tappeto, i mobili e le tende. Adesso la casa aveva un aspetto più intimo e raccolto con una certa eleganza che sembrava presa in prestito da qualche rivista di arredamento, restando comunque semplice e piacevole. Mi sembrò, soprattutto, che se si era ripromessa di far sparire ogni traccia di Mrs Eagleton, ci era senza dubbio riuscita. Le dissi che avrei passato il fine settimana a Londra e mi rispose che anche lei se ne sarebbe andata dopo il funerale per un piccolo giro dell'orchestra a Exeter e Bath. A un tratto si udì dal bagno un rumore d'acqua come se qualcuno ben piazzato fosse entrato nella vasca. Ebbi l'impressione che Beth fosse molto imbarazzata, come se l'avessi colta in fallo. Immagino ricordasse, esattamente come me, il disprezzo con cui mi aveva parlato di Michael solo due giorni prima. Presi l'Oxford Tube per Londra e passai due giorni a camminare per la città, sotto un sole tiepido e gradevole, come un turista piacevolmente sperduto. Il sabato comprai l'"Oxford Times" che annunciava, in un piccolo riquadro, i funerali di Mrs Eagleton e faceva un breve riassunto dei fatti senza fornire nuovi dettagli. La domenica ogni riferimento al caso era sparito. A Portobello Road scelsi, pensando a Lorna, una copia piuttosto polverosa, ma ben conservata, delle memorie di Lucrezia Borgia e presi l'ultima corsa notturna per Oxford. Lunedì mattina uscii ancora mezzo addormentato. All'imbocco di Cunliffe Close, steso sulla strada, vidi un animale che una macchina aveva sicuramente travolto durante la notte. Dovetti passargli molto vicino. Era un animale che non avevo mai visto in vita mia e trattenni a stento un conato. Sembrava una varietà gigantesca di topo, con la coda lunga e scura che nuotava nel sangue. La testa era completamente schiacciata ma il muso sporgeva ancora, con le fosse nasali molto aperte che ricordavano un maiale. All'altezza di quello che era stato lo stomaco, come da una borsa lacerata, spuntava l'inconfondibile protuberanza di ciò che doveva essere un piccolo. Senza volere affrettai il passo cercando di scappare dall'orrore violento, quasi inspiegabile, che mi aveva
provocato. Lottai per l'intero percorso cercando di liberarmi da quella immagine. Salii, come se mi portassero a un rifugio, gli scalini dell'Istituto di Matematica. Quando spinsi la porta girevole mi trovai davanti un foglio attaccato al vetro con lo scotch. Prima di tutto vidi il pesce, in posizione verticale, un disegno schematico con inchiostro nero che sembrava fatto partendo da due parentesi messe di fronte. Poi, con lettere ritagliate da un giornale, il messaggio: "Il secondo della serie. Radcliffe Hospital, 2.15 p.m.". 11 In segreteria c'era solo Kim, la nuova assistente. Con un gesto pressante feci in modo che si togliesse gli auricolari del suo lettore CD e la feci alzare perché venisse con me fino alla porta d'ingresso. Mi guardò con stupore quando le chiesi del foglio attaccato al vetro. Sì, entrando lo aveva visto ma non ci aveva fatto caso, pensava si trattasse di qualche iniziativa benefica per il Radcliffe, partite a bridge o battute di pesca. Aveva pensato di dire più tardi alla donna delle pulizie che lo togliesse di lì e lo attaccasse in bacheca. Vedemmo Kurt, il custode, uscire dal suo stanzino sotto la scala, già vestito per andarsene. Si avvicinò a noi come se temesse qualche problema. Il foglio era lì da domenica, lo aveva notato arrivando la sera prima; non lo aveva staccato perché pensava che qualcuno lo avesse autorizzato prima che lui iniziasse il turno. Dissi che dovevamo chiamare la polizia e che uno di noi doveva rimanere lì per controllare che non si toccassero né i vetri della porta né il foglio: poteva essere legato al delitto di Mrs Eagleton. Salii in un baleno nel mio ufficio e chiesi al distretto di polizia che mi passassero urgentemente Petersen o Sacks. Mi chiesero il nome e il numero da dove chiamavo e mi dissero di rimanere in linea. Dopo un paio di minuti udii dall'altro capo la voce dell'ispettore Petersen. Mi lasciò parlare senza interrompermi e solo alla fine mi chiese di ripetere quello che mi aveva detto il custode. Capii che anche lui pensava, come me, che il delitto fosse già stato commesso. Mi disse che avrebbe mandato immediatamente all'istituto una pattuglia con il responsabile della Scientifica mentre lui sarebbe andato al Radcliffe Hospital per controllare le morti di domenica. A ogni modo, dopo avrebbe voluto parlare con me e, se possibile, con il professor Seldom, in istituto. Gli dissi che, per quanto ne sapevo, Seldom era lì lì per arrivare: all'ingresso, per le dieci era annunciata la conferenza di un suo studente. Forse il cartello era stato messo lì perché lui en-
trando lo vedesse, mi venne di aggiungere. «Sì, forse» disse Petersen «perché lo vedesse lui e altri cento matematici.» All'improvviso sembrava seccato. «Ne parleremo più tardi» concluse bruscamente. Quando scesi di nuovo nella hall vidi Seldom fermo vicino alla porta girevole. Era piegato sul foglio, come se non potesse togliere gli occhi dal piccolo pesce. «Crede anche lei la stessa cosa?» mi domandò vedendomi. «Ho paura di chiamare l'ospedale e chiedere di Frank. Anche se l'orario» mi disse come se intravedesse una speranza «non sembra avere senso: ieri pomeriggio alle cinque ero in ospedale e Frank era vivo.» «Possiamo chiamare Lorna dal mio telefono» proposi. «Oggi è di guardia fino a mezzogiorno, e può controllare facilmente.» Seldom acconsentì. Salimmo e lasciai che fosse lui a chiamare. Dopo tutta una serie di centralinisti, riuscì finalmente a parlare con Lorna. Seldom le chiese con cautela se poteva scendere al secondo piano e verificare che Frank stesse bene. Capii che Lorna gli faceva altre domande. Anche senza distinguere le parole, potevo sentire il suo tono incuriosito. Seldom le disse solo che in istituto era comparso un messaggio che lo aveva un po' preoccupato. Sì, era probabile che il messaggio fosse legato al delitto di Mrs Eagleton. Parlarono ancora un momento; poi Seldom le disse che era nel mio ufficio e avrebbe atteso lì una sua telefonata. Riagganciò e rimanemmo in silenzio, aspettando. Seldom arrotolò una sigaretta e andò a fumarla in piedi vicino alla finestra. Di colpo si girò, si diresse verso la grande lavagna e come se fosse ancora assorto nei suoi pensieri disegnò lentamente i due simboli, prima il cerchio e poi il pesce, che fece con due brevi tratti curvi. Restò immobile, il gesso in mano e la testa china, tracciando ogni tanto piccoli segni di impotenza ai bordi della lavagna. Passò quasi mezz'ora prima che il telefono suonasse. Seldom ascoltò Lorna in silenzio, con un'espressione impenetrabile. Ogni tanto assentiva a monosillabi. «Sì» disse a un tratto, «è esattamente l'ora che compare nel messaggio.» Quando riappese alzò appena le sopracciglia e i suoi lineamenti si distesero per un istante. «Non si trattava di Frank, ma del paziente che stava nel letto a fianco. L'ispettore Petersen è appena stato all'obitorio dell'ospedale per verificare i morti di domenica: era un uomo molto anziano, di oltre novant'anni, lo avevano portato lì ieri alle due e un quarto come deceduto per cause natura-
li. Apparentemente né l'infermiera né il medico responsabile del piano si sono accorti di un piccolo punto sul braccio, come il segno che lascia un'iniezione. Adesso gli faranno l'autopsia per vedere di cosa si tratta. Vede, però, credo che avessimo ragione. Un delitto che in principio nessuno ha visto come un delitto. Una morte che è stata considerata naturale e un punto nel braccio, solo un punto... Un punto impercettibile. Sicuramente ha scelto un tipo di sostanza che non lascia tracce, scommetto che non scopriranno niente con l'autopsia. Una morte che si differenzia da una morte naturale solo per quel punto. Un punto, un punto» ripeté Seldom a voce bassa come se a partire da lì potesse mettere in moto tutta una serie di implicazioni ancora invisibili. Il telefono suonò ancora. Era Kim, dal pianterreno, che mi avvisava che stava salendo un ispettore di polizia. Aprii la porta; la figura alta e magra di Petersen sbucò dalla rampa della scala. Era venuto da solo e aveva un'espressione contrariata impossibile da dissimulare. Entrò e nel salutarci guardò la lavagna con le due figure che aveva disegnato Seldom. Si lasciò cadere su una delle sedie. «C'è giù una folla di matematici» disse con fare quasi accusatorio, come se parte della colpa fosse nostra. «Da un momento all'altro arriveranno i giornalisti... Dovremo rivelare parte dell'accaduto ma vi chiedo di mantenere il segreto sul primo simbolo della serie. Cerchiamo sempre di evitare, finché possiamo, che vengano diffusi pubblicamente i casi di delitti seriali e soprattutto le costanti che si ripetono. Comunque» continuò, scuotendo il capo «vengo dal Radcliffe. Questa volta è un uomo molto anziano, un certo Ernest Clarck. Era in coma, collegato da anni a un respiratore artificiale. Apparentemente non aveva parenti. L'unico legame che vediamo per ora con Mrs Eagleton è che anche Clarck andò in guerra. Ma naturalmente si potrebbe dire lo stesso di qualunque altro uomo della sua età: tutta quella generazione ha in comune gli anni della guerra. L'infermiera l'ha trovato morto nel suo giro delle due e un quarto e questo è l'orario che ha segnato sul braccialetto, prima di portarlo via dalla sala. Tutto sembrava assolutamente normale, non c'era alcun segno di violenza, niente fuori posto, ha controllato il polso e scritto "morte naturale" perché le sembrava un caso di routine. Non si spiega ancora come qualcuno sia potuto entrare nella sala perché a quell'ora stava per iniziare l'orario di visite. Il medico responsabile del secondo piano ha riconosciuto di non aver esaminato il cadavere in maniera approfondita; era arrivato tardi in ospedale, era domenica e voleva tornare a casa in fretta. Soprattutto, attendevano da mesi la morte di
Clarck, sembrava quasi più sorprendente che fosse ancora in vita. Cosicché si è fidato dell'annotazione dell'infermiera, ha trascritto nell'atto di morte l'ora e la causa del decesso così come erano indicati sull'etichetta e ha dato l'autorizzazione perché lo portassero all'obitorio. Sto appunto aspettando i risultati dell'autopsia. Ho appena visto il foglio giù da basso. Immagino che non ci potessimo aspettare che scrivesse ancora con la sua grafia, adesso che sa che gli stiamo addosso. Ma questo naturalmente rende tutto più difficile. Dal carattere direi che ha ritagliato le lettere dall'"Oxford Times", forse dagli articoli usciti su Mrs Eagleton. Però il pesce è disegnato a mano.» Petersen si voltò verso Seldom. «Che sensazione ha provato guardando il foglio? Direbbe che si tratta della stessa persona?» «Come si fa a capirlo? La carta sembra dello stesso tipo, anche la posizione e la grandezza del disegno sono simili. Inchiostro nero in entrambi i casi... per ora direi di sì. Però c'è dell'altro che lei dovrebbe sapere. Io vado quasi tutti i pomeriggi al Radcliffe, a visitare un paziente del secondo piano, Frank Kalman. Clarck era il paziente del Letto di fianco a Frank. Non solo: di solito non vengo in istituto con molta assiduità ma questa mattina ci dovevo proprio essere. Direi che si tratta di qualcuno che mi segue da vicino e sa abbastanza cose su di me.» «Be', sì» disse Petersen, estraendo un piccolo quaderno per appunti, «in realtà eravamo al corrente delle sue visite al Radcliffe; sa» aggiunse, in tono di scusa «abbiamo dovuto chiedere un po' di cose su di voi. Vediamo. Normalmente lei effettua le sue visite verso le due del pomeriggio ma domenica è arrivato dopo le quattro... cos'era successo?» «Ero invitato a colazione ad Abingdon» disse Seldom. «Ho perso l'autobus dell'una e mezzo. Alla domenica ci sono poche corse, ho dovuto aspettare in stazione fino alle tre.» Seldom frugò in una delle tasche e con freddezza allungò a Petersen un biglietto dell'autobus. «Oh no, non è necessario» disse Petersen un po' imbarazzato, «mi stavo solo chiedendo...» «Sì, l'ho pensato anch'io» lo interruppe Seldom. «In genere sono il primo e l'unico a entrare in quel reparto durante l'orario di visite. Se fossi andato alla solita ora, sarei rimasto seduto tutto il tempo accanto al cadavere di Clarck... suppongo che fosse questa la sua idea. Che quando avessero scoperto la morte durante il giro, io fossi lì. Ma ancora una volta le cose non sono andate esattamente come avrebbe voluto. È stato, in un certo senso, troppo furbo: l'infermiera non ha notato il segno sul braccio, ha pensato a una morte naturale. E poi, io sono arrivato molto più tardi, e non mi sono
nemmeno accorto che nel letto accanto ci fosse un altro paziente. Per me si è trattato di un giorno di visita assolutamente normale.» «Magari voleva... sì, che in principio sembrasse una morte naturale» commentai. «Forse aveva preparato la scena perché portassero via il corpo sotto i suoi occhi come se si trattasse di una morte di routine. Voglio dire che il delitto fosse impercettibile anche per lei. Credo che dovrebbe raccontare all'ispettore ciò che pensa in proposito, quello che mi ha detto prima.» «Ma non possiamo esserne ancora sicuri» disse Seldom, con un tono di protesta intellettuale, «non possiamo fare un'induzione con due soli casi.» «Comunque» intervenne Petersen, «di qualunque cosa si tratti mi piacerebbe ascoltarla.» Seldom sembrò esitare ancora un attimo. «In entrambi i casi» attaccò con prudenza, come se non volesse andare oltre i fatti «i delitti sono stati più "leggeri" possibile, se questo aggettivo ha un senso. Sembrerebbe quasi che le morti in sé non siano l'elemento più importante. I delitti sono quasi simbolici. Non credo che all'assassino interessi davvero uccidere quanto, piuttosto, segnalare qualcosa. Qualcosa che sicuramente ha a che fare con la serie di figure che disegna nei messaggi, quella che inizia con un cerchio e un pesce. I delitti non sono altro che il modo di attirare l'attenzione su questa serie e l'assassino sta scegliendo le sue vittime abbastanza vicino a me con il solo scopo di coinvolgermi. Penso che in fondo si tratti di un problema puramente intellettuale che però si esaurirà solamente se riusciamo a dimostrargli, in qualche modo, di essere in grado di risolvere il senso della serie, di poter anticipare il simbolo o il delitto che seguirà.» «Questo pomeriggio chiederò un profilo psichiatrico anche se credo che non ci possa ancora dire molto. Comunque, forse adesso vorrà rispondere alla domanda che le ho fatto prima. Crede che si tratti di un matematico?» «Sarei portato a dirle di no» disse Seldom con cautela. «Per lo meno non un matematico di professione. Forse si tratta di qualcuno che crede che i matematici siano qualcosa di simile al paradigma dell'intelligenza e pertanto cerca di misurare le proprie forze direttamente con loro. Una specie di megalomane intellettuale. Non penso sia casuale il fatto che abbia scelto di attaccare l'ultimo biglietto alla porta d'ingresso dell'istituto. Immagino che in questo ci sia un secondo, velato messaggio per me: se io non accetto la sfida, lo farà qualche altro matematico. Tanto per fare delle congetture, direi che è qualcuno che una volta è stato bocciato ingiustamente a un esame
di matematica, o magari nella vita ha perso un'importante occasione a causa di uno dei test che ideava Frank. Qualcuno che è stato escluso da quello che considera il regno dell'intelligenza, uno che al tempo stesso ammira e odia i matematici. Potrebbe aver concepito la serie come una vendetta contro i suoi esaminatori. Adesso in qualche modo l'esaminatore è lui.» «Potrebbe essere un allievo che lei ha bocciato?» chiese Petersen. Seldom sorrise appena. «Da molto tempo non boccio nessuno. Seguo solo i dottorandi; sono tutti eccellenti. Sarei portato a pensare che si tratti di un autodidatta, qualcuno che non ha studiato matematica in maniera formale ma che ha letto quel capitolo del mio libro sui delitti seriali e che purtroppo crede che la persona da sfidare sia io.» «Bene» disse Petersen a Seldom, «posso chiedere come prima cosa che mi mandino un elenco degli acquisti del suo libro effettuati con carta di credito nelle librerie della città.» «Non penso che questo l'aiuterebbe molto. Nella fase di lancio i miei editori avevano ottenuto che sull'"Oxford Times" venisse pubblicata l'anticipazione proprio del capitolo sui delitti seriali. Molti credettero che si trattasse di un nuovo tipo di romanzo poliziesco. È per questo che la prima edizione è andata esaurita così in fretta.» Petersen si alzò, un po' scoraggiato, e studiò per un attimo le due figure sulla lavagna. «Adesso crede di potermi dire qualcosa di più su questo?» «In genere il secondo simbolo di una serie offre la chiave sul modo in cui si deve leggere tutta la serie: se come rappresentazione di oggetti o fatti di un possibile mondo reale, cioè simboli nel senso più comune, oppure su un piano strettamente sintattico, come figure di tipo geometrico prive di significato. Qui il secondo simbolo è ancora una volta astuto, perché il pesce è disegnato in maniera così schematica da ammettere entrambe le letture. La posizione verticale è interessante. Potrebbe trattarsi di una serie di figure simmetriche rispetto all'asse verticale. Se dobbiamo interpretarlo davvero come un pesce, ci sono naturalmente molte altre possibilità.» «L'acquario» feci io e quando Petersen si voltò verso di me un po' sorpreso, Seldom annuì in silenzio. «Sì, in un primo momento ho pensato a questo. Chiamano così il piano del Radcliffe dove stava Clarck» disse. «Ma questo implicherebbe che si tratti di qualcuno interno all'ospedale; non credo che abbia scelto un simbolo che lo incrimini in maniera così evidente. E poi, in questo caso, come si legherebbe al cerchio di Mrs Eagleton?» Seldom fece qualche passo a testa bassa.
«Un'altra cosa interessante» aggiunse, «e che in qualche modo è implicita nei messaggi, è che crede che i matematici possano indovinare il seguito. Cioè, ci deve essere qualcosa nei simboli che concordi con il tipo di problemi o di intuizioni che hanno a che fare con il pensiero di un matematico.» «Lei potrebbe già azzardare il terzo simbolo?» chiese Petersen. «Ho una prima idea» disse Seldom, «ma vedo diverse altre possibilità, diciamo, ragionevoli. È per questo che nei test si danno almeno tre simboli prima di chiedere quello successivo. Due ammettono ancora troppa ambiguità. Preferirei avere un po' di tempo per ragionarci su. Non vorrei sbagliare. Adesso l'esaminatore è lui e un nostro errore potrebbe significare un altro assassinio.» «Crede davvero che si fermerà se azzecchiamo la soluzione?» domandò Petersen con un certo scetticismo. Ma non c'era nulla che assomigliasse alla soluzione, pensai. Questa era la cosa che poteva sembrare più snervante. Improvvisamente capii perché Seldom aveva voluto che conoscessi Frank Kalman e la seconda dimensione del problema che lo preoccupava. Mi chiesi come spiegare a Petersen le intelligenze ballerine, Wittgenstein, i paradossi sulle regole finite e gli spostamenti delle campane normali. Ma a Seldom bastò una sola frase: «Smetterà» disse lentamente «se è la soluzione alla quale lui sta pensando». 12 Petersen si alzò dalla sedia e fece il giro della stanza con le mani dietro la schiena. Prese la giacca che aveva steso sul bordo della scrivania, tornò per un attimo a fissare la lavagna e con il dorso della mano cancellò il cerchio. «Ricordate: finché sarà possibile manterremo segreto il primo simbolo, non vorrei tentare qualche emulatore. Crede che i matematici che sono giù potrebbero indovinarlo ora che conoscono il secondo?» «No, non credo» rispose Seldom, «ma comunque non è così sicuro che siano interessati al punto da provarci. Per un matematico l'unico problema interessante è quello che ha tra le mani: possono essere necessari più di un paio di omicidi per distrarli.» «È anche il suo caso?» Petersen ora fissava Seldom; c'era un freddo rimprovero nella domanda.
«Per essere onesto, sono un po'... deluso» disse lentamente, come se scegliesse le parole con cura. «Non mi aspettavo certo che mi desse oggi stesso una risposta definitiva, ma almeno quattro o cinque alternative possibili, questo sì, ipotesi che potremmo perfezionare o scartare, non procedono così anche i matematici? Però forse anche a lei un paio di omicidi non interessano abbastanza.» «Come le ho già detto, ho una prima idea» replicò Seldom, sostenendo con i suoi occhi piccoli e trasparenti lo sguardo dell'ispettore «e le prometto che mi ci dedicherò totalmente. Voglio solo essere certo di non sbagliarmi.» «Non vorrei che aspettasse fino alla prossima morte per verificarlo» ribatté Petersen e aggiunse, come se si vedesse costretto suo malgrado a fare la pace, «ma se davvero vuole collaborare, le chiederei di incontrarci nel mio ufficio domani, dopo le sei: saremo in possesso del profilo psichiatrico, mi piacerebbe leggerglielo, chissà che non le faccia venire in mente qualcuno. Può venire anche lei» mi disse mentre ci porgeva velocemente la mano. Quando Petersen uscì ci fu un lungo silenzio. Seldom andò verso la finestra e cominciò ad arrotolarsi una sigaretta. «Posso farle una domanda?» dissi alla fine con prudenza. Mi rendevo conto che probabilmente non avrebbe spiegato tutto nemmeno a me, ma decisi che valesse la pena almeno provarci. «La sua idea, la sua ipotesi è sul prossimo simbolo o sul prossimo omicidio?» «Penso di avere un'idea sul seguito della serie... sul prossimo simbolo» rispose Seldom lentamente, «un'idea che comunque non mi permette di dedurre nulla sul prossimo assassinio.» «Eppure, non crede che già questo, il simbolo, potrebbe aiutare moltissimo Petersen? C'è qualche altra ragione per cui non ha voluto rivelarlo?» «Venga, scendiamo nel parco» mi disse, «mancano ancora un paio di minuti alla conferenza del mio studente, ho voglia di una sigaretta.» All'ingresso c'erano ancora dei poliziotti alle prese con le impronte sul vetro e ci toccò uscire da una delle porte sul retro. Incrociammo Podorov che mi rivolse un mezzo saluto e fissò Seldom come se sperasse di essere riconosciuto. Passammo accanto al laboratorio di Fisica ed entrammo nel parco universitario da uno dei sentieri in ghiaia. Seldom fumava in silenzio e per un attimo pensai che non avrebbe più parlato. «Perché ha voluto diventare matematico?» mi domandò improvvisamente.
«Non so. Forse per sbaglio, ero sempre stato convinto che avrei seguito una facoltà umanistica. Credo che quello che mi ha attratto sia stato il tipo di verità che racchiudono i teoremi: atemporale, immortale, sufficiente a se stessa e allo stesso tempo assolutamente democratica.» «Che fosse inoffensiva» proseguì Seldom, «che fosse un mondo che non tocca la realtà. Sa, quando ero molto piccolo mi sono successe cose davvero impressionanti e poi, nel corso degli anni, come dei segnali... segnali intermittenti ma troppo ripetuti e troppo terribili per non prestare loro attenzione.» «Segnali? Di che tipo?» «Diciamo... la catena di effetti che qualunque mia piccola azione provocava nel mondo reale. Probabilmente erano coincidenze, probabilmente solo coincidenze infelici, ma abbastanza devastanti da paralizzarmi quasi completamente. L'ultimo di questi segnali è stato l'incidente in cui morirono i miei due migliori amici e mia moglie. È difficile dirlo senza che suoni assurdo, ma da sempre, già dalla prima infanzia, avevo notato che le congetture che facevo sul mondo reale si avveravano, si avveravano sempre, però con percorsi strani, nei modi più orribili. Erano come avvertimenti affinché mi estraniassi dalla realtà. Durante l'adolescenza ero veramente atterrito. Fu allora che scoprii la matematica. Lì mi sentii in un territorio sicuro. Per la prima volta potevo seguire una congettura, con tutto l'accanimento che volevo e, cancellando la lavagna o distruggendo il foglio sbagliato, tornare direttamente a zero, senza conseguenze impreviste. Esiste un'analogia teorica tra la matematica e la criminologia. Sì, come ha detto Petersen, in entrambi i casi facciamo delle congetture. Ma quando lei formula una congettura sul mondo reale introduce, senza poterlo evitare, un elemento di attività irreversibile, che non smetterà mai di avere delle conseguenze. Quando guarda da una parte smette di guardare dall'altra, quando percorre una strada possibile, la percorre in un tempo reale e dopo può essere tardi per tentarne qualsiasi altra. Ciò che temo di più non è, come ho detto a Petersen, il fatto di sbagliarmi. Quello che temo di più è quello che mi è successo per tutta la vita: che ciò che penso alla fine sia esatto ma nella maniera più mostruosa.» «Però stare zitti, rifiutarsi di rivelare il simbolo non è in sé, per omissione, una forma di azione che potrebbe anch'essa avere conseguenze incalcolabili?» «Può darsi ma per adesso preferisco correre questo rischio. Non ho la sua energia per giocare al detective. E se la matematica è democratica, il
seguito è sotto gli occhi di tutti; lei, lo stesso Petersen, avete gli elementi per individuarlo.» «No, no» protestai, «quello che volevo dirle è che nella matematica c'è un momento democratico, quando si espone riga per riga una dimostrazione. Chiunque può seguire il cammino una volta che è stato tracciato. Ma c'è comunque un momento di illuminazione anteriore: quello che lei ha chiamato il salto del cavallo negli scacchi... solo alcuni, a volte solo uno per secolo riesce a vedere per primo il passo da fare nell'oscurità.» «Sì» ammise Seldom, «questo si avvicina di più alla verità. Comunque il seguito a cui sto pensando è molto semplice, non richiede alcuna conoscenza matematica. Quello che sembra molto più difficile è stabilire la relazione tra i simboli e i delitti. Forse non è una cattiva idea avere gli elementi di un profilo psichiatrico. Adesso però» fece guardando l'orologio «dovrei tornare all'istituto.» Gli dissi che avrei camminato ancora un po' per il parco e mi porse un biglietto che gli aveva dato Petersen: «Ecco l'indirizzo del commissariato di polizia, è di fronte al negozio Alice nel Paese delle Meraviglie, potremmo trovarci lì alle sei, se è d'accordo». Continuai a camminare per il sentiero e mi fermai in un angolo all'ombra degli alberi a contemplare l'indecifrabile enigma di una partita di cricket. Per diversi minuti ebbi l'impressione di assistere solo ai preparativi che precedono il gioco o a una serie di tentativi falliti di cominciare. A tratti sentivo gli applausi entusiasti di alcune signore con grandi cappelli che bevevano del punch sedute in un angolo del campo. Evidentemente mi ero perso un gran colpo, forse il gioco era addirittura giunto al culmine, lì sotto ai miei occhi, senza che io fossi riuscito a vedere altro che un'esasperante immobilità. Attraversai un ponticello, dove il parco perdeva un po' di rigore, e camminai lungo il fiume per dei pascoli giallastri. Ogni tanto incrociavo alcune coppie in piccole imbarcazioni che praticavano il punting. C'era un'idea che girava, simile al ronzio di un insetto che non si vede, un'intuizione pronta a esprimersi e, per un attimo, sentii che se fossi stato in un posto adatto, forse avrei potuto vedere un lembo che mi permettesse di acchiapparla, un pezzo di lenzuolo del fantasma. Come mi succedeva in matematica, non sapevo se insistere e sforzarmi per esorcizzarla oppure dimenticare tutto, voltarle le spalle di proposito e aspettare che si rivelasse da sola. Qualcosa nella calma del paesaggio, nel tranquillo sciabordio dei remi nell'acqua, nei sorrisi gentili degli studenti che passavano a bordo delle
imbarcazioni, sembrava stemperare qualunque idea di morte. In ogni caso, mi rendevo conto, non era quello il posto dove mi si sarebbe rivelata la chiave di cadaveri e assassini. Tornai in istituto da una scorciatoia tra gli alberi. Il mio compagno di stanza russo era uscito a mangiare e decisi di chiamare Lorna. La sua voce mi giunse con un tono eccitato e allegro. Sì, aveva novità ma prima voleva conoscere le mie. No, Seldom le aveva detto solo che era apparso uno strano messaggio attaccato a un vetro. Dovetti raccontarle come avevo trovato il foglio, descriverle il simbolo e poi ripetere, fin dove ricordavo, la conversazione con Petersen. Lorna mi fece qualche altra domanda prima di decidersi a raccontarmi la sua parte. Non avevano portato il cadavere all'obitorio della polizia perché il medico legale aveva preferito eseguire l'autopsia lì, con uno dei medici dell'ospedale. Era riuscita a farsi raccontare qualcosa dal dottore durante il pranzo. «È stato difficile?» le chiesi con una punta di gelosia. Lorna rise. Be', diverse volte in passato l'aveva invitata a sedersi vicino a lui e questa volta lei aveva accettato. «Erano entrambi abbastanza sconvolti» disse Lorna. «Qualunque cosa gli abbiano iniettato, non ha lasciato traccia. Non hanno trovato assolutamente niente, mi ha detto che anche lui avrebbe potuto firmare inavvertitamente un certificato di morte naturale. Ebbene, resta ancora una spiegazione: apparentemente esiste una sostanza abbastanza nuova, che si estrae da un fungo, l'amanita muscaria, per la quale non si è ancora riusciti a trovare dei reagenti che la rilevino. È stata presentata l'anno scorso a un congresso di medicina a porte chiuse a Boston. La cosa curiosa, la più interessante, è che questa droga è una specie di segreto tra i medici legali; sembra che essi abbiano fatto giuramento di non diffonderne nemmeno il nome. Non sarebbe un'indicazione per cercare l'assassino proprio tra quelli?» «O tra le infermiere che pranzano con loro?» dissi. «E anche tra le segretarie degli atti del convegno, tra i chimici e i biologi che hanno identificato la sostanza e magari anche tra la polizia... immagino che a loro lo abbiano raccontato.» «Comunque» ribatté Lorna un po' offesa «la ricerca si riduce moltissimo: non è qualcosa che si trova in qualsiasi armadietto dei medicinali.» «Certo, questo è sicuro» usai un tono conciliatorio. «Ceniamo assieme stasera?» «Stasera uscirò molto tardi, magari domani. Sei e mezzo al The Eagle and Child?»
Mi ricordai dell'appuntamento con Petersen. «Possiamo fare alle otto? Non mi sono ancora abituato a cenare così presto.» Lorna rise. «Okay, per una volta facciamo all'orario gaucho.» 13 Una donna poliziotto molto magra, che quasi spariva dentro l'uniforme, ci condusse per una scala fino all'ufficio di Petersen. Entrammo in un'ampia stanza, con le pareti di un colore salmone carico, che conservava l'orgogliosa austerità inglese del dopoguerra, senza cedere a nessun lusso. C'erano alti schedari in metallo e una scrivania in legno sorprendentemente modesta. Una finestra a tutto sesto lasciava vedere un'ansa del Tamigi e, nella luce prolungata dell'estate, gli studenti sdraiati sulla riva a prendere l'ultimo sole e l'acqua immobile e dorata facevano pensare ai quadri di Roderick O'Connor che avevo visto a Londra, alla Barbican Gallery. Nel suo ufficio, appoggiato allo schienale della sedia, Petersen appariva più sereno, come se un elemento del suo comportamento vigile si fosse dissolto, o forse aveva semplicemente smesso di considerarci con sospetto e voleva dimostrare di essere capace di sostituire la maschera da poliziotto con quella britannica della politeness. Si alzò per avvicinarci due sedie rigide, dallo schienale alto, con il rivestimento un po' scucito e ormai liso. Mentre tornava al suo posto, dietro alla scrivania, potei sbirciare l'immagine nel piccolo portaritratti che stava in un angolo: era lui molto giovane, di profilo, mentre aiutava una bambina a montare a cavallo. Mi sarei aspettato di vedere, da quello che mi aveva raccontato Seldom, qualche documentazione, ritagli di giornale, magari delle foto alle pareti dei casi che aveva risolto; in quell'ufficio perfettamente anonimo era difficile capire se Petersen fosse estremamente modesto o piuttosto il tipo che preferisce non far sapere nulla di sé per controllare tutto degli altri. Aprì uno dei cassetti della scrivania e prese un paio di occhiali che strofinò lentamente con un panno mentre gettava uno sguardo ad alcuni fogli sparsi sul tavolo. «Bene» disse, «vi leggerò i punti essenziali della relazione. La nostra psichiatra sembra credere si tratti di un uomo, un uomo sui trentacinque anni. Nella relazione lo chiama Mr M, immagino che stia per murderer. M, ci dice, probabilmente è nato in una famiglia di classe medio-bassa, in un piccolo paese o nei sobborghi di una grande città. Forse era figlio unico, o
comunque, un figlio che si è presto messo in evidenza in qualche attività intellettuale: gli scacchi, la matematica, la lettura, un'attività estranea al suo ambiente familiare. I suoi genitori hanno confuso questa precocità con un certo tipo di genialità, e questo lo ha separato durante l'infanzia dai giochi e dai riti dei suoi coetanei. È probabile che fosse il bersaglio dei loro scherzi e forse questo era accentuato da qualche caratteristica fisica: voce effeminata, uso di occhiali, obesità... «Questi scherzi hanno esasperato la sua introversione e lo hanno portato a concepire le prime fantasie di vendetta. In queste fantasie M immagina, cosa assai tipica, che il suo talento trionfi e che, grazie al suo successo, possa schiacciare chi lo umilia. Arriva finalmente il momento della prova, il momento atteso da tanti anni. Un concorso particolarmente importante di qualche materia o, magari, l'esame di accesso all'università, nella disciplina in cui si era distinto. È la sua grande occasione, la possibilità di andarsene dal suo paese e scappare verso quella seconda vita per la quale si è preparato in silenzio, ossessivamente, durante tutta l'adolescenza. A questo punto però qualcosa purtroppo va storto, gli esaminatori commettono un'ingiustizia di qualche tipo e M deve tornare sconfitto alla sua solita vita. Questo provoca la prima frattura, quella che si chiama sindrome di Ambere dal nome dello scrittore in cui si è studiato per la prima volta questo tipo di ossessione.» Petersen aprì uno dei suoi cassetti e appoggiò sulla scrivania un grosso dizionario di psichiatria dal quale, tra le prime pagine, spuntava un foglietto. «Mi è sembrato interessante riguardare questo primo caso. Vediamo: Jules Ambere era un oscuro scrittore francese ridotto in miseria che inviò nel 1927 il manoscritto del suo primo romanzo alla casa editrice G..., all'epoca la più importante di Francia. Ci aveva lavorato per anni, correggendolo con un'ossessione fanatica. Passano sei mesi e riceve una lettera indubbiamente cordiale, firmata da uno degli editori, una lettera che ha conservato fino all'ultimo. In quella lettera gli esprimono ammirazione per il suo romanzo e gli propongono di recarsi a Parigi per discutere le condizioni del contratto. Ambere impegna le poche cose di valore rimaste per pagarsi il viaggio, ma durante l'incontro qualcosa non funziona. Lo portano in un ristorante esclusivo, il suo abbigliamento stona, i suoi modi a tavola non sono quelli appropriati, gli va di traverso una lisca del pesce. Niente di particolarmente grave, ma il contratto non si firma e Ambere se ne torna a casa umiliato. Comincia a portare la lettera in tasca e continua a ripetere agli amici, per mesi, la breve storia. Altro sintomo ricorrente è questo periodo
di incubazione e fissazione che può durare diversi anni. Alcuni studiosi la chiamano la sindrome dell'"occasione perduta", per accentuare questo aspetto: l'atto di ingiustizia accade in una circostanza decisiva, in un punto di svolta che avrebbe potuto cambiare drasticamente la vita della persona. Durante il periodo di incubazione la persona torna ossessivamente a quell'unico momento, senza riuscire a riprendere la sua vita precedente, o meglio ci si riadatta solo esteriormente e inizia a concepire fantasie furiosamente assassine. Questa fase termina quando compare quella che nella letteratura psichiatrica viene chiamata la "seconda occasione", un insieme di circostanze che ricreano parzialmente quel momento o danno una sufficiente illusione di somiglianza. Molti vedono qui un'analogia con il racconto del genio della lampada delle Mille e una notte. Nel caso di Ambere la seconda occasione è particolarmente chiara, ma in generale il modello può essere più vago. Tredici anni dopo quel rifiuto, una lettrice appena assunta dalla casa editrice G... durante un trasloco trova casualmente il manoscritto e lo scrittore è chiamato per la seconda volta a Parigi. Questa volta Ambere si veste in maniera impeccabile, cura con meticolosità i propri modi durante il pranzo, conversa con tono perfettamente appropriato e cosmopolita e, quando servono il dolce, strangola la donna prima che i camerieri possano intervenire. «Bene» disse Petersen, alzando un sopracciglio e mettendo da parte il foglio; lanciò un'occhiata silenziosa alla pagina seguente prima di sorvolare anche su quella e scorse rapidamente i primi paragrafi della terza pagina. «Ecco qui dove la relazione torna a quello che ci interessa. La psichiatra assicura che non siamo in presenza di uno psicopatico. L'elemento che caratterizza il comportamento dello psicopatico è la mancanza di rimorsi e un inasprimento progressivo della crudeltà che ha a che fare con un elemento di nostalgia: la ricerca di un fatto che lo possa commuovere. Nel nostro caso, ciò che si è manifestato finora è, al contrario, una certa delicatezza, una preoccupazione nel fare meno male possibile... la dottoressa, come lei» disse, alzando un attimo lo sguardo su Seldom, «sembra trovare questo dettaglio particolarmente affascinante. Secondo lei, proprio il capitolo del suo libro sui delitti seriali ha costituito per M la "seconda occasione". Il nostro uomo torna a vivere. M cerca allo stesso tempo vendetta e ammirazione, ammirazione per quel gruppo al quale ha sempre voluto appartenere e dal quale è stato sempre ingiustamente escluso. E almeno qui la psichiatra azzarda una possibile interpretazione dei segni. M, nei suoi raptus megalomani, si sente un creatore, vuole ridare un nome alle cose. Si
perfeziona e perfeziona la sua creazione: i simboli testimoniano, come nell'Ecclesiaste, le tappe di un'evoluzione. Il prossimo simbolo, suggerisce, potrebbe essere un uccello.» Petersen raccolse i fogli e guardò Seldom. «Questo coincide con quanto stava pensando?» «Non sul simbolo. Credo ancora che se i messaggi sono diretti ai matematici, anche la chiave dovrebbe essere, in qualche modo, matematica. Nella relazione si avanza qualche ipotesi che spieghi questa "leggerezza" nel dare la morte?» «Sì» disse Petersen, tornando alla pagina che aveva saltato, «mi spiace: la psichiatra ritiene che i delitti siano una forma di corteggiamento nei suoi confronti. In M si mescola il desiderio generico di vendetta con quello, molto più intenso, di appartenere al mondo che lei rappresenta, di ricevere l'ammirazione, anche se inorridita, degli stessi che lo hanno rifiutato. Ecco perché, per il momento, sceglie una maniera di uccidere che, ritiene, un matematico avrebbe approvato: con una quantità minima di elementi, asettica, senza crudeltà, quasi astratta. M cerca, a modo suo, come nella prima fase di un innamoramento, di piacerle; i delitti sono, anche, offerte. La psichiatra è portata a pensare che M sia un omosessuale represso che vive da solo ma non esclude che possa essersi sposato e che conduca ancora una vita familiare convenzionale, che mascheri queste attività segrete. Aggiunge anche che a questa prima fase di seduzione può seguire, se non ottiene alcun segnale di risposta, una seconda fase collerica, con delitti più spietati o diretti a persone molto più vicine a lei.» «Be', questa signorina sembra quasi conoscerlo personalmente, manca solo che ci dica se ha un neo sotto l'ascella sinistra» esclamò Seldom e non riuscii a capire se nel suo tono ci fosse solo ironia o un'ombra di contenuta irritazione. Mi chiesi se lo avesse colpito il riferimento all'omosessualità. «Temo che noi matematici possiamo solo fare supposizioni molto più modeste. Comunque, ho ripensato a quello che mi ha detto e forse è il caso che le faccia conoscere la mia idea...» Cercò il suo taccuino nella tasca, prese una stilografica dalla scrivania e scarabocchiò un paio di segni che non riuscii a vedere. Strappò il foglio, lo piegò in due e lo consegnò a Petersen: «Adesso ha due possibili seguiti per la serie». Ci fu, nel modo di piegare il foglio e passarglielo, qualcosa di confidenziale che Petersen sembrò cogliere. Lo aprì, gli diede un'occhiata e rimase in silenzio per un attimo prima di ripiegarlo e metterlo in un cassetto della
scrivania, senza fare domande. Forse nel piccolo duello che avevano sostenuto i due uomini, Petersen si accontentava ora di avergli strappato il simbolo e non voleva forzare Seldom con altre domande o, più semplicemente, preferiva parlare con lui in privato. Pensai che forse avrei dovuto alzarmi per lasciarli soli, ma Petersen mi rubò il tempo per congedarsi con un sorriso inaspettatamente cordiale. «Avete gli esiti della seconda autopsia?» chiese Seldom mentre ci dirigevamo alla porta. «Anche questo è un piccolo mistero interessante» disse Petersen. «I medici legali all'inizio erano sconcertati: nell'organismo non hanno trovato nessuna traccia di sostanze conosciute, hanno perfino creduto che si potesse trattare di una droga invisibile scoperta di recente, della quale non avevo mai sentito parlare. Ma almeno questo credo di averlo risolto» e, per la prima volta, vidi nei suoi occhi qualcosa di simile all'orgoglio: «Lui si crederà furbo ma anche a noi ogni tanto capita di pensare». 14 Uscimmo in silenzio dal commissariato di polizia e ritornammo per St Aldates fino a Carfax Tower senza scambiare una parola. «Devo comprare del tabacco» disse Seldom. «Verrebbe con me al Covered Market?» Annuii con il capo e svoltammo in High Street senza che avessi ripreso a parlare. Seldom sorrideva. «È seccato perché non ho condiviso il simbolo con lei. Però, mi creda, ho un buon motivo.» «Un motivo diverso da quello che mi ha raccontato ieri? Adesso che ormai lo ha mostrato a Petersen non riesco a capire quali conseguenze peggiori potrebbero derivare dal fatto che io lo conosca.» «Potrebbero essere... altre» rispose Seldom, «ma il motivo non è esattamente quello. Ciò che voglio evitare è che le mie ipotesi interferiscano con le sue. Faccio la stessa cosa con i miei studenti di dottorato: cerco di non anticiparli con i miei ragionamenti. La cosa più preziosa nel pensiero di un matematico è il momento solitario della prima intuizione. Anche se non mi crederà, ho più fiducia in lei che in me stesso per trovare l'idea giusta: lei era lì dall'inizio; lei, ne sono certo, ha registrato qualcosa, anche se non sa ancora cosa e, soprattutto, lei non è inglese. La matrice sta in quel primo delitto, quel cerchio è come lo zero dei numeri naturali, un simbolo di
massima indeterminazione, è vero, ma che a volte determina tutto.» Eravamo arrivati al Covered Market e Seldom si era soffermato a scegliere la sua miscela di tabacco al banco di una donna indiana. La donna, che per servirlo si era alzata da uno sgabello, indossava un lungo e avvolgente vestito di seta e aveva sulla fronte un segno rotondo verde smeraldo. Dall'orecchio sinistro le pendeva uno strano cerchio d'argento. In realtà, guardando con più attenzione, vidi che era un serpente attorcigliato. Ricordai subito quello che aveva detto Seldom a proposito dell'uroboro degli gnostici e non potei trattenermi dal chiederle qualcosa sul simbolo. «Shunyata» mi disse toccando leggermente la testa del serpente, «il vuoto, la totalità. Il vuoto di ogni cosa vista separatamente, la totalità che le abbraccia. Difficile, difficile da capire. La realtà assoluta sopra tutte le negazioni. L'eternità, ciò che non ha né principio né fine... la reincarnazione.» Pesò con cura su una bilancia di precisione il tabacco e scambiò qualche parola con Seldom mentre gli dava il resto. Uscimmo dal labirinto di bancarelle verso la strada e sotto i portici, in piedi, trovammo Beth vicino a un banchetto dell'orchestra del Sheldonian che distribuiva volantini promozionali. Stavano organizzando uno spettacolo di beneficenza e, a turno, i musicisti dell'orchestra, ci raccontò, vendevano i biglietti. Seldom prese un programma. «Il concerto del 1884 con cannoni veri e fuochi d'artificio al Blenheim Palace» mi spiegò Seldom. «Temo che non potrà andarsene da Oxford senza avere assistito, almeno una volta, a un concerto con i fuochi artificiali. Lasci che la inviti» e prese dalla tasca i soldi per due biglietti. Non avevo più avuto occasione di parlare con Beth da diverso tempo e, mentre cercava i blocchetti e scriveva i numeri dei posti, ebbi l'impressione che evitasse il mio sguardo. L'incontro, comunque, sembrava infastidirla. «Potrò finalmente vederti suonare?» le chiesi. «Credo che sarà il mio ultimo concerto» e i suoi occhi incrociarono per un istante quelli di Seldom, come se fosse una cosa che non aveva ancora detto a nessuno e non fosse molto sicura della sua approvazione. «A fine mese mi sposo e chiederò un permesso... non credo che dopo continuerò a suonare.» «È un peccato» disse Seldom. «Che smetta di suonare o che mi sposi?» domandò Beth, e sorrise senza allegria alla propria battuta. «Entrambe le cose!» esclamai io. Risero di cuore come se la mia frase
avesse portato un inaspettato sollievo e vedendoli ridere insieme mi tornò alla mente quello che mi aveva detto Seldom, che io non ero inglese. Persino in quella risata spontanea vi era qualcosa di controllato, come se si stessero prendendo una libertà insolita di cui non dovevano abusare, e anche se Seldom avrebbe potuto protestare che lui era scozzese, tra loro, nei gesti o, meglio, nell'attenta economia di gesti, c'era comunque un evidente spirito comune. Uscimmo per Cornmarket Street e indicai a Seldom un manifesto che avevo già visto in precedenza all'ingresso della Bodleian Library: era l'annuncio di una tavola rotonda alla quale avrebbero partecipato l'ispettore Petersen e un autore locale di romanzi polizieschi: "Esiste il delitto perfetto?". Il titolo del dibattito fece fermare Seldom per un momento. «Pensa che sia un'esca di Petersen?» mi chiese. Era una cosa cui non avevo pensato. «No, il dibattito è annunciato da quasi un mese. E credo che se le volessero tendere una trappola l'avrebbero invitata.» «Delitti perfetti... C'è un libro proprio con questo titolo che ho consultato quando cercavo di stabilire le analogie della logica con l'indagine criminale. Il libro analizzava decine di casi rimasti irrisolti. Quello più interessante, per ciò che stavo cercando, era quello di un medico, Howard Green, che giunse alla formulazione del problema che io ritengo più esatta. Voleva ammazzare la moglie e scrisse un meticoloso diario, davvero scientifico, su tutte le possibili conseguenze negative. Non era difficile, concludeva, ucciderla in una maniera che impedisse alla polizia di incolpare definitivamente qualcuno. Proponeva quattordici modi differenti, alcuni veramente ingegnosi. Quello che risultava molto più difficile era liberare per sempre se stesso da qualsiasi sospetto. Il vero pericolo per il criminale, sosteneva, non era l'indagine sui fatti compiuta a ritroso - questo, preparando a sufficienza il delitto, lo si poteva sempre risolvere cancellando o nascondendo le tracce - quanto le trappole successive che potevano essergli tese da lì in avanti. La verità, scrisse in termini quasi matematici, è assolutamente unica: qualunque allontanamento dalla verità è sempre confutabile. Lui aveva chiaro quello che aveva fatto e ogni alibi a cui pensava portava in sé inevitabilmente un elemento di falsità che, con una dose sufficiente di pazienza, poteva essere scoperto. Nessuna delle alternative che analizzava lo convincevano: farla ammazzare da un altro, simulare un suicidio o un incidente eccetera. Giunse così alla conclusione che doveva fornire alla polizia un altro colpevole, uno ovvio e immediato che chiudesse l'inchiesta. Il
delitto perfetto, scrisse, non è quello che resta irrisolto, ma quello che si risolve con l'arresto di un innocente.» «E alla fine la uccide?» «Oh no, è lei che ammazza lui. Una sera scopre il diario, scoppia un furioso litigio, lei si difende con un coltello da cucina e riesce a ferirlo mortalmente. Almeno questo è quanto lei racconta in tribunale. La giuria, sgomenta dalla lettura del diario e dalle foto degli ematomi sul viso della donna, si esprime per la legittima difesa e la dichiara innocente. Di fatto è per lei che il delitto compare nel libro: molti anni dopo la sua morte, alcuni studenti di grafologia dimostrarono che la grafia nel quaderno del dottor Green era un'imitazione quasi perfetta, ma certamente non apparteneva a lui. E scoprirono anche questo piccolo dettaglio affascinante: l'uomo che la donna sposò con discrezione qualche tempo dopo era un copista di illustrazioni e opere d'arte antiche. Mi piacerebbe comunque sapere chi dei due scrisse di fatto il diario: è una magistrale falsificazione dello stile scientifico. Furono incredibilmente audaci perché il diario, che venne letto durante il processo, raccontava e rivelava per filo e per segno ciò che avevano fatto: mentire con la verità, con tutte le carte in tavola, come un gioco di illusionismo a mani nude... A proposito, conosce un mago argentino che si chiama René Lavand? Se lo ha visto una volta non lo può dimenticare.» Feci cenno di no con la testa, il nome non mi diceva assolutamente niente. «No?» fece Seldom sorpreso. «Deve vederlo in scena. So che verrà molto presto a Oxford, possiamo andare insieme. Ricorda la nostra conversazione al Merton College sull'estetica dei ragionamenti nelle diverse discipline? La logica delle indagini criminali fu, come le dissi, il mio primo modello. Il secondo fu la magia. Bene» disse con l'entusiasmo di un bambino, «sono contento che non lo conosca così avrò l'occasione di vedere ancora una volta il suo spettacolo.» Eravamo arrivati davanti alla porta del The Eagle and Child. Da una delle vetrate vidi Lorna. Era seduta di spalle, con i capelli sciolti, e girava distrattamente sul tavolo il sottobicchiere rotondo di cartone. Seldom, che aveva preso meccanicamente la busta del tabacco, seguì il mio sguardo. «Vada, per favore, vada» disse. «A Lorna non piace aspettare.» 15 Passarono quasi due settimane senza che venissi a conoscenza di altre
novità sul caso. In quei giorni persi anche ogni contatto con Seldom, anche se seppi, da un commento casuale di Emily, che si trovava a Cambridge per collaborare all'organizzazione di un seminario di Teoria dei Numeri. "Andrew Wiles ritiene di poter provare l'ultima congettura di Fermat" mi aveva detto Emily divertita, come se parlasse di un bambino incorreggibile, "e Arthur è uno dei pochi che lo prendono sul serio." Era la prima volta in vita mia che udivo il nome di Wiles. Fino ad allora avevo sempre creduto che nessun matematico professionista si occupasse più dell'ultimo teorema di Fermat. Dopo trecento anni di battaglie, e soprattutto dopo Kummer, il teorema era diventato il paradigma di quello che i matematici consideravano un problema intrattabile. Si sapeva che la soluzione, comunque, stava al di là di tutti gli strumenti conosciuti, e che era così difficile da logorare la carriera e la vita di chiunque osasse sfidarlo. Quando lo accennai a Emily, annuì come se anche per lei si trattasse di un piccolo mistero. «E comunque» mi disse «Andrew è stato mio allievo e se c'è qualcuno al mondo che può risolverlo, questo è lui.» Decisi a mia volta di accettare in quelle settimane un invito a una scuola di Teoria di Modelli a Leeds ma, anziché prestare attenzione ai lavori, mi ritrovavo in ogni sessione a tracciare ai margini del mio quaderno, come un'invocazione nel vuoto, i simboli del cerchio e del pesce. Nei giorni successivi la morte di Clarck avevo cercato di leggere tra le righe gli articoli del giornale ma, forse per intervento di Petersen, il possibile legame tra i due delitti era menzionato solo alla lontana, e sebbene si descrivesse il simbolo del pesce, il giornale su questo punto sembrava brancolare nel buio ed era propenso a considerarlo una specie di firma. Avevo chiesto a Lorna che mi comunicasse in dettaglio qualunque novità di cui venisse a conoscenza, ma quella che ricevetti su un foglio scritto a mano non fu una relazione, ma una lettera di un genere che avevo creduto scomparso e che non avrei associato a lei. Lunga, tenera, imprevista: era una lettera d'amore. Qualcuno, durante il seminario, parlava dell'esperimento della stanza cinese e, mentre rileggevo le frasi di Lorna, che sembravano scritte in un impulso di cui non si era voluta pentire, pensavo che il problema più lacerante della traduzione è sapere cosa dice, cosa realmente vuole dire l'altra persona quando infila sotto la porta una lettera con la terribile parola. Nella mia risposta le trascrissi la preghiera di Qais binal-Mulawah in uno dei versi per Laila: Oh Dio, fa' che l'amore tra lei e me sia uguale
Che nessuno superi l'altro Fa' che i nostri amori siano identici come le due parti di un'equazione. Tornai a Oxford il giorno del concerto. Nel casellario dell'istituto c'era una cartina che mi aveva lasciato Seldom con le indicazioni per arrivare al Blenheim Palace e l'orario dell'appuntamento. Al pomeriggio, mentre stavo finendo di vestirmi, sentii bussare alla porta. Era Beth e per un istante rimasi ammutolito, senza poter fare altro che guardarla. Indossava un abito nero con una profonda scollatura e dei guanti che le fasciavano le braccia fin quasi ai gomiti. Aveva le spalle completamente nude e i capelli, tirati all'indietro, lasciavano scoperto anche il collo lungo e slanciato e la netta linea del mento. Per la prima volta era truccata e la trasformazione non avrebbe potuto essere più vincente. Sorrise nervosamente sotto il mio sguardo. «Pensavamo io e Michael che magari ti farebbe piacere venire in macchina con noi, sempre che non ti secchi arrivare un po' in anticipo. Stiamo partendo.» Presi un maglione leggero di cotone e la seguii per la stradina che costeggiava il giardino. Avevo visto Michael un'unica volta, da lontano, dalla finestra della mia camera. Stava caricando il violoncello di Beth sul sedile posteriore e, quando venne a salutarmi, vidi una faccia vivace e ingenua con i pomelli rossi di un contadino o di un allegro bevitore di birra. Era molto alto e corpulento, ma nei suoi tratti vi era qualcosa di delicato che mi fece pensare alla frase spregiativa di Beth. Indossava un frac un po' stropicciato, che già non riusciva più a chiudere sulla pancia. Un ciuffo lungo e floscio di capelli biondi gli era caduto sulla fronte ma vidi che il gesto di tirarselo indietro con due dita era un tic che ripeteva in continuazione. Pensai malignamente che presto si sarebbe ritrovato calvo. La macchina partì e uscimmo lentamente dal parco. Quando ci stavamo avvicinando all'incrocio con il viale, i fari illuminarono sull'asfalto l'animale sventrato che nessuno aveva raccolto. Michael sterzò bruscamente per evitare di passargli sopra e abbassò il finestrino per guardare ciò che rimaneva, sopra la grande macchia di sangue secco. I resti erano ormai completamente schiacciati ma conservavano ancora mostruosamente la forma in una sola dimensione. «È un opossum» disse a Beth, «deve essere caduto dall'albero.» «È lì da diversi giorni» aggiunsi io. «Gli sono passato accanto appena lo
hanno investito. Credo che avesse un piccolo. In vita mia non avevo mai visto questo animale.» Beth si sporse da sopra il braccio di Michael e gettò una rapida occhiata ai resti. «È un marsupiale, con la forma di topo: credo che ci siano anche in Sudamerica. Sicuramente il piccolo è caduto dalla borsa e la madre gli si è lanciata dietro per salvarlo. L'opossum fa di tutto per proteggere i cuccioli» disse. «E nessuno va a raccogliere i resti?» domandai. «No. Gli spazzini sono superstiziosi. Nessuno osa toccare un opossum. Si dice che siano forieri di morte. Tanto le macchine se lo porteranno via in fretta.» Michael accelerò per imboccare il viale prima che scattasse il semaforo e quando la macchina entrò nel flusso normale del traffico si voltò verso di me per rivolgermi le solite domande cortesi di sempre. Mi ricordai che una scrittrice inglese, probabilmente Virginia Woolf, una volta aveva giustificato i formalismi sociali dei suoi connazionali spiegando che la conversazione iniziale apparentemente banale sul tempo rappresentava il desiderio di stabilire un territorio comune e un'atmosfera piacevole prima di passare a temi più importanti. Io però iniziavo a domandarmi se questa seconda fase sarebbe mai esistita, se sarebbero mai arrivati a informarmi su quei temi più importanti. A un certo punto chiesi loro come si fossero conosciuti. Beth disse che erano seduti di fianco nell'orchestra come se questo spiegasse tutto e, in realtà, più li guardavo, più quella in effetti sembrava davvero l'unica spiegazione. Vicinanza, routine, ripetizione, la miscela più efficace. Non si era trattato neppure, come direbbero altre donne, del "primo che passava"; era stato qualcosa di più immediato: "quello che mi stava seduto vicino". Naturalmente, che ne sapevo? No, non potevo "sapere", ma avevo il sospetto che l'unico fascino di Michael fosse il fatto che era già stato scelto da un'altra donna. La macchina imboccò lo svincolo e per pochi minuti, mentre Michael accelerava in autostrada e incrociavamo come lampi i cartelloni pubblicitari, sentii che si tornava al mondo moderno. Svoltammo in direzione Woodstock lungo una stretta striscia di asfalto fiancheggiata da alberi. I rami si allacciavano sopra di noi in un lungo tunnel che lasciava vedere solo la curva successiva. Attraversammo il piccolo paese, percorremmo circa duecento metri su una strada laterale e, oltrepassando un arco in pietra, vedemmo apparire, con l'ultimo sole del pomeriggio, gli immensi giardini, il
lago e la maestosa sagoma del palazzo con le sfere dorate sul tetto e le figure in marmo che si affacciavano dalle balaustre come vedette. Lasciammo la macchina nel parcheggio all'ingresso. Beth e Michael, con gli strumenti, camminarono nel giardino fino al gazebo dove erano sistemati i leggii e i posti per i musicisti. Le sedie per il pubblico, ancora vuote, erano state disposte da una mano amante dei dettagli in perfetti semicerchi concentrici. Mi domandai quanto sarebbe durato quel piccolo prodigio di geometria una volta che fosse arrivata la gente e se qualcun altro avrebbe potuto ammirare quell'opera. Decisi, nella mezz'ora che rimaneva, di passeggiare nel bosco e lungo il lago. Stava calando la sera. Un uomo molto anziano dall'uniforme grigia cercava di radunare i pavoni per metterli al riparo. Attraverso gli alberi vidi alcuni cavalli liberi. Un guardiano con due cani mi incrociò sulla strada e si toccò il cappello in segno di saluto. Quando arrivai all'estremità del lago era ormai completamente buio. Guardai in direzione del palazzo e, come se avessero azionato un gigantesco interruttore, l'intera facciata si illuminò con il pacato sfavillio di un gioiello antico. Il lago, raggiunto dal riflesso, sembrava estendersi molto al di là di quanto avessi immaginato. Rinunciai a fare il giro e decisi di tornare per la stessa strada. Gran parte delle sedie erano già occupate e mi meravigliai della quantità di gente che continuava ad arrivare in piccoli gruppi profumati, trascinando la coda dei vestiti da sera. Vidi che da una delle prime file Seldom mi faceva dei gesti alzando il programma. Anche lui era sorprendentemente elegante, in smoking e farfallino nero. Parlammo per un po' del seminario che stava organizzando a Cambridge, della cifra ancora segreta che aveva chiesto Wiles per tenere due ore di conferenza in più e molto rapidamente del mio viaggio a Leeds. Mi voltai e vidi che due incaricati si affannavano ad aprire altre sedie per creare una nuova fila. «Non immaginavo che sarebbe venuta tanta gente» dissi. «C'è quasi tutta Oxford: guardi da quella parte» mi fece notare Seldom e indicò con gli occhi alcuni posti dietro, sulla destra. Mi voltai con indifferenza e vidi Petersen con una donna molto giovane, probabilmente la bimba bionda che avevo visto nella foto, vent'anni dopo. L'ispettore ci fece un breve cenno con il capo. «E c'è qualcuno che ormai incontro dappertutto» disse Seldom. «Due file dietro alla nostra, l'uomo in grigio che fa finta di leggere il programma. Lo riconosce senza divisa? È il tenente Sacks. Si direbbe che Petersen si aspetti che la prossima volta il nostro uomo possa tentare un avvicinamen-
to più diretto.» «Allora gli ha parlato ancora?» domandai. «Solo per telefono. Mi ha chiesto di scrivergli, nel modo più semplice possibile, la spiegazione del terzo simbolo, la legge di formazione della serie, come la immagino io. Gliel'ho mandata da Cambridge, appena mezza pagina contro quella relazione così... fantasiosa che ci ha letto. Credo che abbia un piano ma sicuramente dubita ancora. È interessante il potere di seduzione delle ipotesi psichiatriche. Anche se false o comunque assurde, risultano sempre più affascinanti di un ragionamento puramente logico. La gente ha una resistenza naturale, una diffidenza istintiva verso gli schemi logici. E pur con tutte le ragioni sbagliate, in fondo a questa resistenza, c'è forse qualche fondatezza.» Seldom stava abbassando impercettibilmente la voce. I mormorii attorno a noi cessarono e le luci si attenuarono fin quasi a spegnersi. Un potente fascio bianco illuminò teatralmente i musicisti nel gazebo. Il direttore diede due piccoli colpi sul leggio, allungò la mano verso il violinista e si udirono le prime solitarie note della sonata che apriva il programma, come una spirale di fumo che si sforzava di salire e si faceva strada quasi a tentoni nel silenzio. Con estrema delicatezza, come se si raccogliessero nell'aria dei fili sottili, il direttore fece entrare Beth e Michael, i fiati, il pianista e per ultimo il percussionista. Guardai Beth anche se in realtà non avevo smesso di farlo nemmeno mentre Seldom mi parlava. Mi domandai se il vero legame con Michael non stesse lì, sulla scena, ma sembravano entrambi assorti e concentrati, ognuno teso a seguire la partitura e a voltare rapidamente le pagine. Ogni tanto un brusco colpo di timpani mi faceva alzare lo sguardo verso il percussionista. Era di gran lunga il più anziano dell'orchestra, un uomo molto alto, incurvato dagli anni, con un ciuffo bianco, ormai giallastro sulle punte, che una volta doveva essere stato il suo orgoglio. Aveva un aspetto incerto e tremante che contrastava con il vigore spasmodico dei suoi colpi, come se stesse nascondendo alla vista altrui un incipiente morbo di Parkinson. Notai che dopo ogni colpo ritirava le mani dietro la schiena e che il direttore cercava con un gesto divertente di moderare i suoi interventi. Ci fu un crescendo maestoso e il direttore sottolineò la fine con un movimento energico prima di voltarsi per ricevere, con un inchino del capo, il primo applauso del pubblico. Chiesi a Seldom il programma. Il pezzo che seguiva era Primavera Cheyenne di Aaron Copland, il terzo della serie delle stagioni, per triangolo e
orchestra. Restituii il programma a Seldom che gli gettò a sua volta una rapida occhiata. «Magari vedremo qui i primi fuochi artificiali» mi sussurrò. Seguii il suo sguardo in alto, verso i tetti del palazzo dove si indovinavano, confuse con le statue del fregio, le ombre in movimento degli uomini che preparavano i colpi a salve. Si fece un gran silenzio, le luci sopra l'orchestra si spensero e il cono del riflettore illuminò solamente il vecchio percussionista che, come uno spettro, reggeva in alto il triangolo. Ascoltammo il tintinnio solenne e lontano che ricordava lo sgocciolio del disgelo in fiumi di brina. Una luce dai toni aranciati, che voleva probabilmente rappresentare il tramonto, fece ricomparire il resto dell'orchestra. Il triangolo batté in contrappunto con i flauti finché il tintinnio sparì dal motivo principale e il riflettore si mosse verso il pianoforte per aprire la seconda melodia. In breve gli altri strumenti si unirono in quella che sembrava la descrizione di fiori che sbocciavano. La bacchetta del direttore diede subito ai tromboni il ritmo sfrenato di cavalli selvaggi al galoppo nella prateria. Tutti gli strumenti si sottomettevano a questa corsa impazzita finché la bacchetta si alzò nuovamente verso la pedana del percussionista. Il fascio di luce tornò su di lui, come se ci si aspettasse che lo scampanio culminante venisse da lì, ma sotto quella luce bianca e nuda vedemmo qualcosa di terribile. Il vecchio, che teneva ancora il triangolo in mano boccheggiava nel vuoto. Lasciò il triangolo, che cadendo produsse un'ultima nota stonata, e scese barcollando dalla sua pedana, seguito dal riflettore, come se quell'occhio meccanico non potesse sottrarsi all'orribile fascino della scena. Lo vedemmo allungare un braccio verso il direttore in una muta implorazione di aiuto e poi portarsi entrambe le mani alla gola come se si difendesse da una stretta invisibile che lo stava strangolando senza pietà. Cadde in ginocchio e fu allora che si levò un coro di grida soffocate, mentre parte della prima fila si alzava dalle sedie. Vidi che i musicisti circondavano il vecchio chiedendo disperatamente un medico. Un uomo si fece largo dalla nostra fila per raggiungere il gazebo. Mi alzai per lasciarlo passare e non potei trattenere l'irresistibile impulso di seguirlo. Petersen era già sul palco e vidi che anche Sacks era saltato lateralmente sul gazebo con la pistola. Il vecchio era rimasto sdraiato in una posizione grottesca con una mano ancora sulla gola, il volto livido, come un animale marino che avesse smesso di boccheggiare. Il medico rigirò il corpo, appoggiò due dita sul collo per controllare il battito e gli chiuse gli occhi. Petersen gli si accovacciò accan-
to, gli mostrò con discrezione il tesserino di riconoscimento e parlò un attimo con lui. Poi andò verso la pedana facendosi largo tra i musicisti, cercò per terra e raccolse con un fazzoletto il triangolo che era rimasto vicino a un gradino. Mi voltai e vidi Seldom in piedi tra la gente che si era accalcata alle mie spalle. Notai che Petersen gli faceva un cenno per incontrarsi in direzione delle file di posti che erano rimasti vuoti. Mi spostai fino a trovarmi accanto a Seldom, ma non sembrò accorgersi della mia presenza. Stava in silenzio, con un'espressione impenetrabile e prese a camminare lentamente verso Petersen, che era sceso da un lato del palcoscenico e che gli si stava avvicinando dall'altro capo della fila. All'improvviso Seldom si bloccò come se qualcosa sulla sua sedia lo avesse paralizzato. Qualcuno aveva ritagliato dal programma due frasi e i pezzettini di carta formavano sul sedile un piccolo messaggio. Mi chinai per leggerlo prima che l'ispettore potesse allontanarmi. Diceva: "Il terzo della serie". Il seguito era la parola "triangolo". 16 Petersen fece un cenno perentorio a Sacks e il tenente, che era rimasto in piedi accanto al corpo per terra, si fece largo verso di noi mostrando alla gente il proprio tesserino. «Che per adesso nessuno si allontani» gli ordinò Petersen, «voglio il nome di tutti i presenti.» Prese un cellulare dalla tasca e glielo porse insieme a una piccola agenda. «Si metta in contatto con il guardiano del parcheggio per assicurarsi che non esca nessuna macchina. Chieda una dozzina di agenti per raccogliere le dichiarazioni, una pattuglia che sorvegli il lago e altre due che controllino le uscite sulla strada. Voglio il numero esatto degli spettatori da confrontare con il numero dei biglietti venduti e dei posti occupati. Parli con gli addetti per sapere quante sedie hanno aggiunto. E poi voglio un altro elenco che comprenda tutto il personale del palazzo, i musicisti e gli uomini incaricati di seguire i fuochi d'artificio. Un'ultima cosa» disse, quando Sacks stava già per andarsene. «Qual era il suo compito questa sera, tenente?» Vidi che Sacks impallidiva sotto lo sguardo severo di Petersen come uno studente di fronte a una domanda difficile. «Vigilare sulle persone che potevano avvicinarsi al professor Seldom» rispose. «Allora forse potrà dirci chi ha lasciato questo messaggio sulla sua se-
dia.» Sacks guardò per un attimo i due pezzetti di carta e il suo viso si turbò. Scosse la testa, amareggiato. «Signor ispettore» disse, «credevo che stessero davvero strozzando quell'uomo, dal mio posto sembrava che qualcuno lo stesse strangolando. Ho visto che lei aveva preso la pistola e sono corso verso il palco per aiutarla.» «Però non è morto strangolato, vero?» chiese Seldom garbatamente. Petersen sembrò indugiare prima di rispondergli. «Apparentemente si è trattato di un blocco respiratorio spontaneo. Il dottor Sanders, il medico che è salito sul palco, lo aveva operato alcuni anni fa per un enfisema polmonare e gli aveva dato due o tre mesi di vita. Quasi non ci si spiega come potesse suonare ancora, aveva una capacità respiratoria molto ridotta. La sua prima impressione è che si tratti di morte naturale.» «Sì, sì» mormorò Seldom a voce bassa, «morte naturale. Non è incredibile come si sta perfezionando? Il nostro uomo si sta perfezionando: una morte naturale, certamente, l'estremo logico, l'esempio più completo di un delitto impercettibile.» Petersen aveva preso gli occhiali e si era chinato ancora sui due foglietti. «Aveva ragione sul simbolo» disse; alzò gli occhi verso Seldom, come se non fosse ancora sicuro se lo doveva considerare un alleato o un avversario. Lo capivo: nel modo di ragionare di Seldom c'era un elemento inaccessibile all'ispettore e Petersen non doveva essere abituato al fatto che qualcun altro potesse anticiparlo in un'indagine. «Sì, però, come vede, il simbolo non ci ha aiutato per niente.» «Nel messaggio ci sono comunque delle varianti curiose: questa volta non appare l'orario e i bordi delle due strisce di carta sono dentellate, il foglio sembra essere stato strappato con negligenza, di fretta, come se il programma fosse stato ritagliato con le dita...» «O forse» lo interruppe Seldom «questa è esattamente l'impressione che vuole darci. Del resto tutta la scena, con il fascio di luce e il culmine della musica non assomigliava a un grande numero di illusionismo? In fondo, l'importante non era la morte del percussionista, il vero trucco consisteva nel lasciarci sotto il naso questi due foglietti.» «Però l'uomo sul palco è morto, senza trucchi» gli fece notare Petersen freddamente. «Sì» disse Seldom, «è questa la cosa straordinaria: l'inversione della rou-
tine, l'effetto maggiore messo al servizio dell'effetto minore. Non capiamo ancora la figura. Possiamo disegnarla, possiamo seguirne il tratto, però non la vediamo, non la vediamo ancora come la vede lui.» «Ma se quello che lei pensava è esatto, forse per fermarlo dobbiamo fargli capire che conosciamo il seguito della serie. Credo che comunque adesso si debba provare. Mandargli subito un messaggio.» «Ma se non sappiamo chi sia» disse Seldom, «in che modo pensa di fargli arrivare un messaggio?» «Ci sto pensando da quando ho ricevuto il suo foglietto con la spiegazione. Credo di avere un'idea, spero di poterla verificare stasera stessa con la psichiatra e poi magari la chiamo. Se vogliamo guadagnare terreno ed evitare la prossima morte non abbiamo tempo da perdere.» Udimmo la sirena di un'ambulanza e vedemmo che nel parcheggio si era fermato anche il furgone dell'"Oxford Times". Lo sportello si aprì scorrendo, apparve un cameraman e subito dopo il giornalista spilungone che mi aveva intervistato a Cunliffe Close. Petersen raccolse con cura le due strisce di carte prendendole per i bordi e le mise in una delle tasche. «Per il momento si tratta di morte naturale; non voglio che quel giornalista ci veda insieme.» Poi l'ispettore sospirò e si girò verso la folla che circondava il palco. «Bene» disse, «adesso devo contare tutta questa gente.» «Pensa davvero che possa trovarsi ancora qui?» gli domandò Seldom. «Credo che in entrambi i casi, sia che il conto torni sia che i numeri non corrispondano, sapremo qualcosa in più su di lui.» Petersen si allontanò di alcuni passi e si fermò a chiacchierare un attimo con la donna bionda che era seduta al suo fianco. Vedemmo che l'ispettore le faceva un cenno nella nostra direzione e che lei annuiva con il capo. Un istante dopo avanzava speditamente verso di noi con un sorriso cordiale. «Mio padre dice che per un po' non faranno uscire né taxi né auto. Io rientro adesso a Oxford, vi posso lasciare dove volete.» La seguimmo verso il parcheggio e salimmo su una macchina con un contrassegno discreto della polizia sul parabrezza. Uscendo dal piazzale incrociammo le pattuglie che aveva richiesto Petersen. «Era la prima volta che riuscivo a portare mio padre a un concerto» disse la donna guardando indietro, «pensavo che l'avrebbe distolto un po' dal lavoro. Be', adesso immagino che non rientrerà per cena. Mio Dio, quell'uomo che si teneva la gola... Non riesco ancora a convincermi. Mio padre credeva che lo stessero strangolando, è stato sul punto di sparare sul palco, ma quel cerchio di luce che gli illuminava il viso non lasciava distinguere
nulla dietro a lui. Ha chiesto a me se doveva sparare.» «E cosa si vedeva dal suo posto?» chiesi io. «Niente! È stato tutto così rapido... In più io ero distratta, stavo guardando verso la parte alta del palazzo, sapevo che alla fine del movimento si sarebbero sparati i primi fuochi d'artificio. Ero molto attenta: mi chiedono sempre di organizzare la parte dei fuochi. Credono che solo perché sono figlia di un poliziotto debba avere un buon rapporto con le polveri da sparo.» «Quante persone c'erano sul tetto?» domandò Seldom. «Due, non ne servono altre. Forse anche un responsabile del palazzo.» «Se non sbaglio» disse Seldom «la posizione del percussionista era un po' diversa rispetto a quella del resto dell'orchestra. Era l'ultimo, stava in fondo al gazebo, sopra una pedana, un po' separato dagli altri. Era l'unico che poteva essere attaccato da dietro senza che gli altri musicisti se ne accorgessero. Chiunque del pubblico o del palazzo poteva fare il giro del gazebo quando si sono spente le luci.» «Però mio padre ha detto che la morte è stata causata da un blocco respiratorio. Esiste per caso un modo per indurre una cosa del genere dall'esterno?» «Non so, non lo so» disse Seldom e mormorò a voce bassa, «spero di sì.» Cosa aveva voluto dire Seldom? Stavo per chiederglielo, ma la figlia di Petersen si era immersa con lui in una conversazione sui cavalli, che deviò poi senza ritorno, e alquanto inaspettatamente, verso la ricerca di comuni antenati scozzesi. Per un po' continuai a rigirarmi nella mente la piccola frase intrigante, chiedendomi se non mi fosse scappato uno dei possibili significati dell'espressione "I hope so". Decisi che era stato semplicemente un modo per dire che un blocco respiratorio era l'unica ipotesi ragionevole, e che per il bene del buon senso generale era preferibile che le cose fossero andate così. Se era stata provocata in qualche modo, se la morte non era avvenuta per cause naturali, non restavano che ipotesi impensabili: uomini invisibili, poteri soprannaturali, arcieri zen. I piccoli aggiustamenti della ragione sono curiosi: mi convinsi che Seldom avesse voluto dire solo quello e non glielo chiesi più, né scendendo dalla macchina né tutte le altre volte che chiacchierammo; tuttavia in quella frase mormorata a bassa voce, me ne rendo conto adesso, avrei potuto penetrare, come per una scorciatoia, nella retrocamera del suo pensiero. In mia difesa posso forse dire che in realtà ero attento soprattutto a un'altra
questione: quella sera non volevo lasciarlo scappare senza che mi avesse rivelato la legge di formazione della serie. Il simbolo del triangolo, per mia vergogna, mi aveva lasciato al buio e, mentre ascoltavo a metà la conversazione sul sedile anteriore, cercavo invano di dare un senso alla successione cerchio-pesce-triangolo, e di immaginare, inutilmente, quale potesse essere il quarto simbolo. Ero deciso a strappare la soluzione a Seldom appena fossimo scesi dalla macchina e sorvegliavo con una certa preoccupazione i sorrisi della figlia di Petersen. Anche se non riuscivo a cogliere certe espressioni colloquiali, mi rendevo conto che la conversazione aveva preso una piega più intima e che, a un certo punto, lei aveva ripetuto in tono provocante, da bimba abbandonata, che quella sera avrebbe dovuto cenare da sola. Eravamo entrati a Oxford da Banbury Road e la figlia di Petersen fermò la macchina davanti all'ingresso di Cunliffe Close. «È qui che devo lasciarti, vero?» mi disse, con un sorriso incantevole ma inappellabile. Scesi dall'auto ma prima che rimettesse in moto bussai, in un impulso improvviso, al finestrino dal lato di Seldom. «Me lo deve dire» gli feci in spagnolo, a voce bassa ma in tono incalzante, «anche se è solo una pista, mi dica qualcosa in più sul seguito della serie.» Seldom mi guardò stupito, ma la mia recita era stata convincente e sembrò impietosirsi. «Cosa siamo lei e io, cosa siamo noi matematici?» mi chiese e sorrise con una strana malinconia, come se gli tornasse alla mente un ricordo che credeva perduto. «Siamo, come disse un poeta del suo paese, gli scomodi allievi di Pitagora.» 17 Rimasi in piedi al lato del viale, guardando la macchina che si allontanava nell'oscurità. Avevo in tasca, con la chiave della mia stanza, quella della porta laterale dell'istituto e anche la tessera magnetica che mi consentiva di accedere alla biblioteca fuori orario. Decisi che era troppo presto per andare a dormire e camminai fino all'istituto sotto le luci gialle. Le strade erano desolanti; solo all'altezza di Observatory Street vidi del movimento dietro alla vetrata di un ristorante Tandoori: due dipendenti stavano rovesciando le sedie sui tavoli e una donna avvolta in un sari tirava le tende per chiudere. Anche il St Giles era deserto, ma in alcuni uffici le luci erano accese e
nel parcheggio c'erano delle macchine. Sapevo che alcuni matematici lavoravano solo di sera e altri dovevano tornare a controllare ogni tanto la progressione di un programma lento. Salii in biblioteca; era illuminata e, quando entrai, udii i passi attutiti di qualcuno che girava silenziosamente tra gli scaffali. Andai nel settore di storia della matematica e scorsi con un dito i titoli sui dorsi. Un libro sporgeva un po' rispetto agli altri, come se qualcuno lo avesse consultato di recente e non fosse stato abbastanza attento nel rimetterlo al suo posto. I volumi erano molto serrati tra loro e dovetti usare entrambe le mani per sfilarlo. L'illustrazione in copertina rappresentava dieci punti disposti come i birilli del bowling che formavano un triangolo avvolto dalle fiamme. Il titolo, La confraternita dei pitagorici, restava per pochissimo fuori dalla portata del fuoco. Visti da vicino i punti erano in realtà piccole teste rasate, come se fossero dei monaci ripresi dall'alto. Allora forse le fiamme non alludevano a un simbolismo generico sulle ardenti passioni che poteva riservare la geometria, ma più concretamente allo spaventoso incendio che aveva messo fine alla setta. Andai fino a uno dei tavoli della biblioteca e aprii il libro sotto la lampada. Non fu necessario sfogliare più di due o tre pagine. Era lì. Era stato lì tutto il tempo, nella sua imbarazzante semplicità. Le nozioni più antiche ed elementari della matematica, ancora non completamente separate dai loro paramenti mistici. La rappresentazione dei numeri nella dottrina pitagorica come i principi archetipici delle potenze divine. Il cerchio era l'Uno, l'unità nella sua perfezione, la monade, il principio di tutto, chiuso e completo nella sua propria linea. Il Due era il simbolo della molteplicità, di tutti gli opposti e le dualità, dei concepimenti. Era formato dall'intersezione di due cerchi e la figura ovale, come una mandorla, chiusa al centro, era chiamata Vesica Piscis, la vescica del pesce. Il Tre, la triade, era l'unione tra due estremi, la possibilità di dare ordine e armonia alle differenze. Era lo spirito che unisce il mortale con l'immortale in un tutto. Ma, anche, l'Uno era il punto, il Due era la retta che univa due punti, il Tre era il triangolo ed era allo stesso tempo il piano. Uno, due, tre, era tutto lì, la serie non era altro che la successione dei numeri naturali. Voltai la pagina per esaminare il simbolo che rappresentava il numero Quattro. Era la Tetraktys, il triangolo di dieci punti che avevo visto in copertina, l'emblema e la figura sacra della setta. I dieci punti erano la somma di uno, più due, più tre, più quattro. Rappresentavano metafisicamente la materia e i quattro elementi. I pitagorici credevano che tutta la matematica si riducesse a quel simbolo, che era contemporaneamente lo spazio tri-
dimensionale ed era la musica delle sfere celesti, che portava in embrione i numeri combinatori del caso e i numeri segreti, come molto più avanti avrebbe riscoperto Fibonacci, dell'evoluzione della vita. Udii di nuovo i passi, molto più vicini. Alzai gli occhi e vidi con una certa sorpresa Podorov, il mio compagno russo. Aveva fatto il giro dell'ultimo scaffale e vedendomi al tavolo si avvicinò con un sorriso incuriosito. Era strano quanto apparisse diverso lì, come se fosse nel suo elemento, e pensai che forse la sera si sentiva il padrone della biblioteca. Quando arrivò al mio tavolo vidi che aveva in mano una sigaretta che batté delicatamente sul vetro prima di accendere. «Sì» disse, «vengo a quest'ora per poter fumare in tranquillità.» Mi guardò con un sorriso affabile e ironico al tempo stesso mentre girava la copertina del libro per leggere il titolo. Aveva la barba lunga e gli occhi duri e scintillanti. «Ah, La confraternita dei pitagorici... ha sicuramente qualcosa a che fare con i simboli che disegnava sulla lavagna dell'ufficio. Il cerchio, il pesce... se non ricordo male sono i primi numeri simbolici della setta, vero?» sembrò fare un piccolo sforzo mentale e recitò come se mettesse orgogliosamente alla prova la propria memoria: «Il terzo è il triangolo, il quarto la Tetraktys». Lo guardai, stupefatto. In quel momento mi rendevo conto che quell'uomo che mi aveva visto studiare alla lavagna i due simboli, non aveva mai pensato che si potesse trattare di qualcosa che non fosse un curioso problema matematico. Quell'uomo, che evidentemente non sapeva nulla dei delitti, avrebbe potuto in qualunque momento, semplicemente alzandosi dalla sedia, disegnarmi sulla lavagna il seguito della serie. «È un problema che le ha sottoposto Arthur Seldom?» mi domandò. «Fu da lui che sentii parlare per la prima volta di questi simboli, durante una conferenza sull'ultima congettura di Fermat. Lei sa, naturalmente, che questa non è altro che una generalizzazione del problema delle terne pitagoriche, il segreto meglio custodito della setta.» «Questo quando è successo?» chiesi stupito. «Sicuramente non adesso.» «No, no, fu molti anni fa» disse. «Così tanti che, da quanto ho potuto vedere, Seldom non si ricorda nemmeno più di me. Naturalmente lui era già il grande Seldom e io appena un oscuro studente di dottorato della cittadina russa dove si teneva il congresso. Gli portai i miei lavori sul teorema di Fermat, era l'unica cosa a cui pensassi a quell'epoca, e lo pregai di mettermi in contatto con il gruppo di Teoria dei Numeri di Cambridge, ma
a quanto pare erano tutti troppo occupati per leggerli. In realtà non proprio tutti» disse. «Un allievo di Seldom li lesse, corresse il mio inglese imperfetto e li pubblicò con il proprio nome. Ricevette la medaglia Fields per il contributo più importante del decennio alla soluzione del problema. Adesso Wiles sta per fare l'ultimo passo grazie a quei teoremi. Quando scrissi a Seldom mi rispose solo che il mio lavoro conteneva un errore e che il suo allievo lo aveva corretto.» Rise seccamente e soffiò con forza una boccata di fumo verso l'alto. «L'unico errore» concluse «è che non ero inglese.» In quel momento avrei voluto avere il potere di far tacere bruscamente quell'uomo. Sentii di nuovo, come durante quella passeggiata al parco universitario, che stavo per "vedere" qualcosa e che forse, se fossi potuto rimanere solo, quel pezzo sfuggente che mi era già scappato una volta, sarebbe tornato per andare al suo posto. Mormorai una scusa vaga e mi alzai dopo aver compilato rapidamente una delle schede per prendere il libro. Volevo essere fuori, lontano, nella notte, isolato da tutto. Scesi velocemente le scale e, quando stavo per uscire in strada, quasi mi scontrai con una figura in scuro che veniva dal parcheggio. Era Seldom, che si era messo un impermeabile sopra lo smoking. In quel momento mi resi conto che fuori pioveva. «Se esce adesso le si bagnerà il libro» e allungò la mano per vedere la copertina. «Così lo ha trovato» esclamò. «E dalla sua faccia vedo che ha trovato anche qualcos'altro, vero? Per questo volevo che tentasse di scoprirlo da solo.» «Ho trovato il mio compagno di studi, Podorov; mi ha detto che vi eravate conosciuti molti anni fa.» «Karl Podorov, sì... mi chiedo cosa le avrà raccontato. Non mi ricordavo di lui finché l'ispettore Petersen non mi ha dato l'elenco completo dei matematici presenti in istituto. Non l'avrei comunque riconosciuto: avevo in mente un ragazzino con una barbetta a punta, un po' frastornato, che credeva di avere una soluzione del teorema di Fermai Solo molto tempo dopo mi ricordai di aver parlato a quel congresso dei numeri pitagorici. Non ho voluto raccontare niente di questo all'ispettore Petersen, mi sono sempre sentito un po' in colpa verso di lui, seppi che tentò il suicidio quando assegnarono la medaglia Fields a uno dei miei allievi.» «Comunque» dissi io «non avrebbe potuto essere lui, vero? Stasera si trovava qui, in biblioteca.» «No, non ho mai creduto davvero che potesse essere lui, ma sapevo che era forse l'unico in grado di riconoscere immediatamente il seguito della
serie.» «È vero, si ricordava perfettamente della sua conferenza.» Eravamo in piedi sotto la grondaia semicircolare dell'ingresso e la pioggia, che il vento portava a raffiche, cominciava a bagnarci. «Camminiamo sotto il cornicione fino al pub» mi propose Seldom. Lo seguii proteggendo il libro dalla pioggia. Quello sembrava essere l'unico posto aperto in tutta Oxford ed era pieno di gente che parlava da un tavolo all'altro e rideva fragorosamente, con quell'allegria esaltata e quel qualcosa di artificiale che gli inglesi sembrano raggiungere solo dopo diverse birre. Ci sedemmo a un tavolino dove, sul legno, erano rimasti i segni di alcuni cerchi umidi. «Mi dispiace» disse da lontano la cameriera, come se non potesse fare più niente per noi, «vi siete persi l'ultimo giro di ordinazioni.» «Credo che non potremo fermarci troppo a lungo neppure qui» mi fece Seldom, «ma mi interessa sapere cosa pensa, adesso che conosce la serie.» «È molto più semplice di quello che qualsiasi matematico avrebbe immaginato, no? Magari il tocco di astuzia è proprio questo, ma resta comunque una cosa deludente. In fin dei conti non è altro che uno, due, tre, quattro. Un po' come la serie di simmetrie che mi ha mostrato il primo giorno. Però forse non si tratta, come avevamo immaginato, di un tipo di rebus ma semplicemente del suo modo di contare le morti: la prima, la seconda, la terza.» «Potrebbe avere ragione, e questo sarebbe il caso peggiore, perché potrebbe continuare a uccidere all'infinito. Ma io spero ancora che i simboli siano la sfida e che si fermerà se gli facciamo vedere che sappiamo... Petersen mi ha appena chiamato dall'ufficio. A questo proposito ha un'idea che varrebbe la pena seguire e che apparentemente anche la psichiatra approva. Cambierà completamente strategia nei confronti dei giornali: domani sulla prima pagina dell'"Oxford Times" sarà riportata la notizia della terza morte, con il disegno del triangolo e un'intervista in cui rivelerà anche i primi due simboli. Gli prepareranno con cura le domande affinché sembri assolutamente sconcertato dall'enigma e superato dall'intelligenza del criminale. Questo darà al nostro uomo, secondo la psichiatra, la sensazione di trionfo di cui ha bisogno. Nell'edizione del giovedì, nella stessa sezione dove fu pubblicato il capitolo del mio libro sui delitti seriali, apparirà quella breve nota sulla Tetraktys che ho scritto per Petersen, con sotto la mia firma. Questo dovrebbe bastare a dimostrargli che almeno io so e che posso anticipare il simbolo della prossima morte. In questo modo tutto
rimarrebbe sul piano di quel duello quasi personale che il nostro uomo ha scelto all'inizio.» «Ma, supponendo che questo funzioni» dissi un po' meravigliato, «supponendo che con una buona dose di fortuna legga quella sua nota nel supplemento del giovedì, e con moltissima altra fortuna questo riesca a fermarlo, alla fine come potrebbero catturarlo?» «Petersen sembra ritenere che sia solo questione di tempo. Credo che speri che dall'elenco dei presenti al concerto di questa sera esca finalmente un nome. Comunque sembra deciso a tentare qualunque cosa possa evitare una quarta morte.» «La parte interessante è che adesso abbiamo tutto per immaginare il prossimo passo. Voglio dire, abbiamo i tre simboli, come nelle serie di Frank, dovremmo essere in grado di poter dedurre qualcosa sulla quarta morte. Impedire la Tetraktys... Con che cosa? Di questo non sappiamo ancora niente, quale sia la relazione fra le morti e i simboli. Ma secondo quanto ha detto quel medico, Sanders, credo che finalmente abbiamo un elemento ricorrente: nei tre casi, le vittime stavano vivendo in un certo senso un supplemento di vita, oltre quanto sperato.» «Sì, è vero» convenne Seldom, «non avevo realizzato...» Il suo sguardo sembrò perdersi per un momento, come se fosse improvvisamente stanco o, a un tratto, lo avessero angosciato i continui effetti del caso. «Mi scusi» disse, non molto sicuro di quanto fosse durato questo lasso di tempo, «ho un brutto presentimento. Credevo che pubblicare la serie fosse una buona idea. Forse, però, da domani a giovedì i giorni sono troppi.» 18 Conservo ancora una copia dell'"Oxford Times" di quel lunedì, con l'accurata messa in scena per un unico lettore fantasma. Guardando oggi la foto un po' sfocata del musicista a terra, rivedendo i simboli disegnati con inchiostro di china e rileggendo le domande preparate per Petersen, posso sentire ancora, come se delle dita fredde mi toccassero da lontano, il turbamento che avevo percepito nella voce di Seldom quando nel pub mormorò che forse mancavano troppi giorni al giovedì. Posso capire soprattutto, vedendole ancora impresse sulla carta, l'orrore che gli provocava la misteriosa vita propria delle ipotesi nel mondo reale. Ma in quel mattino splendente ero sprovvisto di premonizioni e leggevo con entusiasmo, in cui c'era anche una punta di orgoglio e, probabilmente, persino qualche
stupida vanità, quella storia della quale sapevo quasi tutto in anticipo. Lorna mi aveva chiamato molto presto con un tono sovraeccitato. Aveva appena letto, anche lei, il pezzo e voleva pranzare a qualunque costo con me perché le raccontassi assolutamente tutto. Non poteva perdonarsi, né perdonarmi, di essere rimasta a casa la sera prima mentre io ero proprio lì al concerto. Mi odiava per questo ma a mezzogiorno sarebbe scappata dall'ospedale per vedermi al caffè francese di Little Clarendon Street così che non ci pensassi nemmeno di andare con Emily a pranzo. Ci incontrammo al Café de Paris, ridemmo e chiacchierammo degli ultimi avvenimenti e mangiammo crêpe al prosciutto con quell'allegria un po' irresponsabile, assolutamente inattaccabile, degli innamorati. Raccontai a Lorna quello che ci aveva fatto sapere Petersen: che il percussionista aveva subito un'operazione molto grave ai polmoni e che il suo medico era sorpreso che non fosse morto prima. «Esattamente come nel caso di Clarck e di Mrs Eagleton» dissi e aspettai la sua reazione alla mia piccola teoria. Lorna rimase un attimo pensierosa. «Però nel caso di Mrs Eagleton non è proprio così» osservò. «La incontrai in ospedale due o tre giorni prima che morisse ed era raggiante perché le analisi avevano rivelato una remissione parziale del tumore. Il medico le aveva appunto detto che poteva vivere ancora molti anni.» «D'accordo» dissi, come se quello fosse un ostacolo minore, «ma si è trattato sicuramente di una conversazione privata tra lei e il suo medico, l'assassino non aveva modo di saperlo.» «Sceglie persone che vivono più del dovuto? È questo che vuoi dire?» Il suo viso si rattristò per un istante e mi indicò lo schermo del televisore sul bancone che le stava quasi di fronte. Mi girai sulla sedia e vidi un appello con il volto sorridente di una bambina con i riccioli e, sotto, un numero di telefono. «È la bimba che ho visto in ospedale?» le chiesi. Annuì. «Adesso è la prima nella lista nazionale dei trapianti, le restano al massimo quarantott'ore.» «Come sta il padre?» Ricordavo ancora nitidamente i suoi occhi smarriti. «Negli ultimi giorni non l'ho visto, credo che sia dovuto tornare al lavoro.» Allungò la mano sul tavolo per allacciarla alla mia, come se volesse allontanare rapidamente quella nube imprevista, e chiamò con un gesto la cameriera per ordinare un altro caffè. Le spiegai, con un disegno su un to-
vagliolo, la posizione in cui si trovava il percussionista nel gazebo e le chiesi in quale modo si potesse provocare un blocco respiratorio. Lorna ci pensò un attimo mentre girava il caffè. «Me ne viene in mente uno solo che non avrebbe lasciato tracce: qualcuno abbastanza forte che si fosse arrampicato da dietro e gli avesse tappato contemporaneamente naso e bocca con le mani. Si chiama "morte di Burke", da William Burke, uno scozzese che nell'Ottocento aveva una locanda e ammazzò così sedici viaggiatori per rivenderne i cadaveri per gli studi di anatomia. Magari hai visto la sua statua al Madame Tussaud's. In una persona con capacità polmonare molto ridotta, sarebbero sufficienti pochi secondi perché morisse soffocata. Direi che l'assassino lo stava asfissiando così, senza sapere che il fascio di luce sarebbe tornato su di lui. Quando il riflettore ha illuminato il percussionista, lo ha subito mollato ma il blocco respiratorio, e forse anche cardiaco, era già in corso. Quello che avete visto dopo, le mani sulla gola, come se un fantasma lo stesse strozzando, è la reazione riflessa tipica di chi non riesce a respirare.» «Un'altra cosa» dissi. «Hai parlato ancora con il tuo amico, il medico legale, dell'autopsia di Clarck? L'ispettore Petersen è convinto di avere un'altra spiegazione.» «No» rispose Lorna, «però mi ha invitato diverse volte a cena. Pensi che dovrei accettare e cercare di indagare?» Risi. «No, no: posso convivere con questo mistero.» Lorna guardò l'orologio preoccupata. «Devo rientrare in ospedale, ma non mi hai ancora raccontato della serie. Spero non sia troppo difficile: non mi ricordo più niente di matematica.» «No, la cosa sorprendente è appunto la semplicità della soluzione. La serie non è altro che uno, due, tre, quattro... nella notazione che usavano i pitagorici.» «La confraternita dei pitagorici?» domandò Lorna, come se la cosa le risvegliasse un vago ricordo. Annuii. «Li studiamo in Storia della Medicina. Credevano nella trasmigrazione delle anime, vero? A quanto ricordo avevano una teoria molto crudele sui portatori di deficit mentali, che poi gli spartani hanno messo in pratica... L'intelligenza era il valore supremo ed erano convinti che i ritardati fossero la reincarnazione delle persone che nella vita precedente avevano commesso gli errori più gravi. Aspettavano che compissero quattordici anni, l'età
critica di mortalità nella sindrome di Down, e quelli che sopravvivevano venivano usati come cavie per esperimenti medici. Furono i primi a tentare dei trapianti di organo... Pitagora stesso aveva una coscia d'oro. Sono stati anche i primi vegetariani» disse con un sorriso. «E adesso devo proprio andare.» Ci salutammo sulla porta del caffè; dovevo tornare in istituto per preparare la prima relazione per la mia borsa di studio e passai le due ore successive riguardando documenti e trascrivendo giudizi. Alle quattro meno un quarto scesi, come tutti i pomeriggi, alla common room dove si riunivano i matematici per prendere il caffè. La sala era più affollata del solito, come se quel giorno nessuno fosse rimasto in ufficio, e sentii subito i mormorii di eccitazione. Vedendoli così tutti insieme, timidi, scarmigliati, gentili, mi tornò alla mente la frase di Seldom. Sì, eccoli lì, duemilacinquecento anni dopo. Eccoli lì, con le loro monete in mano, aspettando ordinatamente il loro caffè, gli scomodi allievi di Pitagora. Su uno dei tavolini c'era un giornale aperto e pensai che stessero tutti commentando o facendosi delle domande sulla serie di simboli. Ma mi sbagliavo. Emily si unì a me nella coda e mi disse, con gli occhi che le brillavano, come se mi svelasse un segreto ancora riservato a pochi: «Sembra che ci sia riuscito» quasi che anche lei facesse ancora fatica a crederlo, e vedendo la mia faccia sconcertata aggiunse: «Andrew Wiles! Non ha sentito? Ha chiesto due ore supplementari per domani alla conferenza di Teoria dei Numeri a Cambridge. Sta dimostrando la congettura di Taniyama... se arriva alla fine viene provato l'ultimo teorema di Fermat. C'è un intero gruppo di matematici che sta pensando di andare a Cambridge per essere lì domani. Può essere il giorno più importante della storia della matematica». Vidi che Podorov era entrato con l'aria cupa di sempre e, dopo aver visto la coda, aveva deciso di sedersi in poltrona a leggere il giornale. Andai verso di lui tenendo in equilibrio la mia tazza troppo piena e il mio muffin. Podorov alzò gli occhi dal giornale e si guardò intorno con una smorfia di disprezzo. «E allora? Si è prenotato per la gita di domani? Posso prestarle la mia macchina fotografica. Tutti vogliono avere la foto ricordo della lavagna finale con la dimostrazione di Wiles.» «Non sono ancora sicuro di andarci» risposi. «Perché no? C'è un pullman gratuito e anche Cambridge è molto carina, alla maniera britannica. C'è già stato?» Girò distrattamente la pagina e i suoi occhi si imbatterono nel grande
pezzo sui delitti e la serie di simboli. Lesse le prime due o tre righe e tornò a guardarmi con un'espressione in cui c'erano allarme e sospetto. «Lei ieri sapeva di tutto questo, vero? Da quando si stanno verificando queste morti?» Gli dissi che la prima era avvenuta da quasi un mese, ma che solo adesso la polizia aveva deciso di rivelare i simboli. «E qual è il ruolo di Seldom in tutto ciò?» «I messaggi, dopo ogni morte, arrivano a lui. Il secondo messaggio, col simbolo del pesce, è comparso proprio qui, attaccato alla porta girevole dell'ingresso.» «Ah sì, adesso ricordo un piccolo trambusto quella mattina. Vidi la polizia ma pensai che qualcuno avesse rotto un vetro.» Tornò al giornale e finì velocemente di leggere il pezzo. «Ma qui il nome di Seldom non compare da nessuna parte.» «La polizia non l'ha voluto divulgare.» Riprese a guardarmi e la sua espressione era mutata, come se qualcosa lo divertisse segretamente. «Così qualcuno sta giocando al gatto e al topo con il grande Seldom. Allora, forse, dopotutto, c'è una giustizia divina. Un dio matematico, naturalmente» disse in maniera enigmatica. «Lei come immagina la quarta morte?» mi chiese. «Una morte che si addica all'antica solennità della Tetraktys...» Si guardò attorno come per cercare ispirazione. «Mi sembra di ricordare che a Seldom piacesse il bowling, almeno un tempo. Un gioco che all'epoca in Russia non era molto conosciuto. Ricordo che in quella conferenza paragonò i punti della Tetraktys alla disposizione dei birilli all'inizio del gioco. E c'è un tiro in cui si buttano giù tutti i birilli in una volta sola...» «Strike» dissi. «Sì, esattamente, non è una parola magnifica?» e ripeté con il suo forte accento russo e con uno strano sorriso, come se immaginasse una boccia implacabile e teste che rotolano: «Strike!». 19 Alle cinque ero riuscito a finire una prima bozza della mia relazione e prima di uscire dall'ufficio ricontrollai la casella di posta elettronica. Trovai un breve messaggio di Seldom che mi chiedeva di vederci al termine del suo seminario al Merton College, se a quell'ora ero libero. Mi affrettai
per arrivare in tempo e quando salii la scala che portava alle piccole aule, vidi dalla porta a vetri che si era fermato qualche minuto oltre l'orario a discutere con due suoi allievi un problema alla lavagna. Quando i giovani uscirono, mi fece cenno d'entrare e, mentre riponeva gli appunti in una cartella, mi indicò la figura di una circonferenza che era rimasta disegnata su una lavagna. «Stavamo ricordando la metafora geometrica di Nicola Cusano, la verità come una circonferenza e i tentativi degli uomini per raggiungerla come un insieme di poligoni inscritti, ogni volta con più lati, che si avvicina alla forma circolare. È una metafora ancora ottimista perché le approssimazioni successive consentono di intuire la figura finale. Tuttavia c'è un'altra possibilità, una possibilità che i miei allievi ancora non conoscono, molto più scoraggiante.» Disegnò vicino al cerchio una figura irregolare con molte punte e rientranze. «Supponga per un attimo che la verità abbia la forma, diciamo, di un'isola come la Gran Bretagna, con la costa frastagliata. Quando cerca di rifare qui il gioco di avvicinarsi alla figura con dei poligoni, si ritrova nell'insieme di Mandelbrot. Il bordo è sempre elusivo, a ogni nuovo tentativo si frammenta in altre sporgenze e rientranze, e gli sforzi umani per definirlo semplicemente non approdano a nulla. La verità potrebbe anche non essere riducibile alla serie di approssimazioni umane. Questo cosa le fa ricordare?» «Il teorema di Gödel? I poligoni sarebbero sistemi con più e più assiomi, ma una parte della verità resta sempre fuori della portata.» «Sì, forse... in un certo senso, ma anche il nostro caso, la conclusione di Wittgenstein e di Frankie: i termini conosciuti di una serie, una quantità qualunque di termini, potrebbero essere sempre insufficienti... Come sapere a priori con quale di queste due figure stiamo trattando? Sa» mi disse, cambiando discorso d'un tratto, «mio padre aveva una grande biblioteca con uno scaffale al centro dove teneva i libri che io potevo guardare. Uno scaffale con una porta che chiudeva a chiave. Ogni volta che la apriva, io riuscivo a vedere solo una stampa che aveva all'interno, la sagoma di un uomo che toccava il pavimento con una mano e stendeva l'altro braccio verso l'alto. In calce c'era una frase in una lingua sconosciuta, che col tempo riconobbi come tedesco. Sempre col tempo scoprii un libro che mi sembrò miracoloso: un dizionario bilingue che usava per preparare le sue lezioni. Decifrai le parole a una a una. La frase era semplice e misteriosa: "L'uomo non è altro che la serie dei suoi atti". Io avevo una fiducia da bambino, assoluta, nelle parole, e cominciai a vedere le persone come figu-
re provvisorie, incomplete; figure in minuta, sempre imprendibili. Se l'uomo non è che la serie dei suoi atti, poteva annientare la sua esistenza precedente, contraddire tutta la sua vita. E, allo stesso tempo, soprattutto, era proprio la serie dei miei atti quello che temevo di più. L'uomo non era altro che ciò che io temevo di più.» Mi mostrò le mani bianche di gesso. Aveva anche una buffa striscia sulla fronte, come se si fosse sporcato toccandosi inavvertitamente. «Vado a lavarmi le mani e tra un minuto sono da lei. Se scende di qua trova il bar. Mi ordinerebbe un caffè doppio? Senza zucchero, per favore.» Ordinai i due caffè al banco e Seldom ricomparve in tempo per portare la sua tazza a un tavolo un po' appartato che dava su uno dei giardini. Dalla porta aperta del bar si poteva vedere il passaggio incessante di turisti che attraversavano il corridoio di ingresso verso i portici interni del college. «Stamattina ho parlato con l'ispettore Petersen» disse Seldom «e mi ha sottoposto un piccolo dilemma riguardo ai conteggi fatti dopo il concerto. Da una parte, grazie ai biglietti strappati all'ingresso, avevano il numero esatto delle persone che erano entrate nei giardini del Blenheim Palace, dall'altra il numero dei posti occupati. La persona incaricata delle sedie è particolarmente scrupolosa e assicura di aver aggiunto solo quelle strettamente necessarie. Ebbene, qui viene il bello: a conti fatti c'erano più persone che sedie. Apparentemente tre persone non avevano usato le loro sedie.» Seldom mi guardò, come se si aspettasse che trovassi subito la spiegazione. Ci pensai un attimo, piuttosto imbarazzato. «E immagino che in Inghilterra la gente non si imbuchi ai concerti» dissi. Seldom rise di cuore. «No, almeno non ai concerti di beneficenza... Oh, non continui a pensarci, è solo uno scherzo. Petersen si voleva divertire con me, oggi per la prima volta era di buonumore. Le tre persone in più erano dei disabili, in sedia a rotelle. Petersen era affascinato dai suoi conti. Nell'elenco che gli avevano fatto i suoi assistenti non avanzava né mancava nessuno. Per la prima volta crede di aver circoscritto il problema: al posto delle cinquecentomila persone dell'Oxfordshire, si deve occupare solo delle ottocento che erano al concerto. Ed è convinto di poter ridurre velocemente quel numero.» «I tre sulle sedie a rotelle» dissi. Seldom sorrise.
«Per caso ha letto Il giorno dello sciacallo? Comunque sì, in linea di massima i tre sulle sedie a rotelle, un gruppo di bambini affetti da sindrome di Down di una scuola differenziale e alcune donne molto anziane che avrebbero potuto essere piuttosto altre possibili vittime.» «Pensa che l'età sia determinante nella scelta?» gli domandai. «Naturalmente lei ha un'altra idea... persone che stanno vivendo in qualche modo un supplemento di vita, oltre le aspettative. Sì, in questo caso l'età non sarebbe un fattore di esclusione.» «Petersen le ha detto qualcos'altro sulla morte di ieri sera? Aveva i risultati dell'autopsia?» «Sì. Petersen tenderebbe a scartare la possibilità che prima del concerto la vittima abbia ingerito qualcosa in grado di provocargli il blocco respiratorio. E infatti non si è trovato niente in questo senso. Non c'erano nemmeno segni di violenza o impronte attorno al collo. L'ispettore è portato a credere che sia stato aggredito da qualcuno che conosceva bene il repertorio: ha scelto il tempo più lungo in cui non ci fossero le percussioni. Questo gli garantiva anche che il musicista rimanesse fuori dal fascio di luce. Esclude comunque che abbia potuto essere un altro componente dell'orchestra. L'unica possibilità, tenendo conto dell'ubicazione e dell'assenza di impronte attorno al collo, è che qualcuno si sia arrampicato da dietro...» «Tappandogli contemporaneamente naso e bocca.» Seldom annuì, meravigliato. «È quello che mi ha detto Lorna.» «Sì, dovevo immaginarlo: Lorna sa tutto di omicidi, no? Il medico legale ha detto che lo shock provocato dalla sorpresa avrebbe potuto causare all'istante il blocco respiratorio, prima che il vecchio cercasse di opporre resistenza. Qualcuno che si arrampica da dietro e lo aggredisce nell'oscurità... Sembra l'unica possibilità ragionevole. Ma non è quello che abbiamo visto.» «Lei è più propenso all'ipotesi del fantasma?» dissi. Con mia sorpresa, Seldom sembrò considerare seriamente la mia domanda e assentì lentamente con la testa. «Sì, tra le due ipotesi per il momento preferisco quella del fantasma.» Bevve un sorso dalla tazza e un istante dopo tornò a guardarmi. «L'ansia di trovare delle spiegazioni... non dovrei lasciarle distorcere i ricordi. Le ho giusto chiesto di venire qui perché voglio che dia un'occhiata a questo.» Aprì la sua cartella ed estrasse una busta.
«Quando oggi sono andato nel suo ufficio, Petersen mi ha mostrato delle foto: gli ho chiesto che me le lasciasse fino a domani per osservarle con maggiore attenzione. Volevo soprattutto che le vedesse lei: sono le foto dell'omicidio di Mrs Eagleton, la prima morte, il principio di tutto. Adesso, alla fine, l'ispettore è tornato alla domanda iniziale: come si lega con Mrs Eagleton il cerchio del primo messaggio? Come sa, io credo che lei lì abbia visto qualcos'altro, qualcosa che non ha ancora registrato come importante ma che conserva in qualche piega della memoria. Ho pensato che magari le foto potrebbero aiutarla a ricordare. È di nuovo tutto qui» disse e mi allungò la busta. «Il salottino, l'orologio a pendolo, la chaise-longue, il tabellone dello scarabeo. Sappiamo che nel primo delitto qualcosa è andato storto. Questo potrebbe aiutarci...» Prese quell'aria un po' assente, guardò fra i tavoli e verso l'esterno, nel corridoio. All'improvviso la sua espressione si fece allarmata. «Hanno lasciato qualcosa nel mio casellario» disse. «È strano perché il postino è già passato stamattina. Spero che il tenente Sacks sia ancora da queste parti. Mi aspetti qui che vado a controllare.» Mi voltai sulla sedia e vidi che effettivamente dall'angolo dove stava seduto Seldom si poteva vedere l'ultima colonna di un grande casellario in legno scuro incassato nel muro. Allora era lì che aveva trovato anche il primo messaggio. Mi colpì il fatto che tutta la corrispondenza del college rimanesse così apertamente esposta, ma in fin dei conti anche all'Istituto di Matematica i casellari non erano controllati. Quando Seldom tornò, stava mettendo un libro nella cartella e aveva un gran sorriso, come se avesse ricevuto una gioia imprevista. «Ricorda il mago di cui le ho parlato, René Lavand? Oggi e domani sarà a Oxford. Ho dei biglietti per tutti e due i giorni. Credo che sarà per stasera perché domani andrò a Cambridge. Pensa di unirsi alla gita dei matematici?» «No, non penso: domani è il giorno libero di Lorna.» Seldom sorrise. «Sì: la soluzione del problema più importante della storia della matematica contro una bella ragazza... vince ancora la ragazza, immagino.» «Ma stasera sì che vorrei vedere lo spettacolo del mago.» «Eccome, certo. È assolutamente necessario che lo veda. Lo spettacolo è alle nove» mi fece Seldom con una strana enfasi, «e fino a quell'ora resti a casa e cerchi di concentrarsi sulle foto» concluse, come se mi stesse assegnando un compito scolastico.
20 Quando arrivai in camera mi preparai del caffè, rifeci il letto e sul copriletto ben teso disposi una per una le foto che c'erano nella busta. Guardandole ricordai quello che avevo sentito dire come un tranquillo assioma da un pittore figurativo: in una foto c'è sempre meno realtà di quanta ne possa catturare un dipinto. Qualcosa sembrava comunque essere andato definitivamente perso in quello strano quadro di immagini nitide e irreprensibili che avevo formato sul letto. Cercai di disporle in un altro ordine, cambiandone alcune di posto. Qualcosa che avevo visto. Ci provai di nuovo, mettendo le foto in sequenza, dal momento in cui eravamo entrati nella sala. Qualcosa che io avevo visto e Seldom no. Sì, forse era come quelle immagini tridimensionali fatte al computer di moda nelle piazze di Londra: completamente invisibili a un occhio attento e che appaiono dopo poco, in maniera ambigua, quando non ci si fa più caso. La prima cosa che avevo visto era stato Seldom che camminava velocemente verso di me sul sentiero di ghiaia. Non c'era, tra quelle, nessuna immagine di Seldom ma ricordavo chiaramente la conversazione vicino alla porta e il momento in cui mi aveva chiesto di Mrs Eagleton. Io gli avevo indicato la sedia a motore nella veranda. Quella sedia l'aveva notata anche lui. Eravamo entrati insieme; ricordo la sua mano che alzava il battente e la porta che si apriva silenziosamente. Dopo... tutto era più confuso. Rammentavo il battito della pendola, ma non ero sicuro di aver guardato l'orologio. Comunque, quella doveva essere la prima foto della sequenza, che mostrava dall'interno la porta, l'attaccapanni nell'ingresso e l'orologio da un lato. Questa immagine, pensai, era anche l'ultima che doveva aver visto l'assassino uscendo. La rimisi al suo posto e mi chiesi quale fosse la successiva. Avevo visto altro prima di trovare Mrs Eagleton? Io l'avevo cercata, istintivamente, nella stessa poltrona a fantasia floreale da dove mi aveva salutato la prima volta. Ripresi la foto che mostrava le due poltroncine sul tappeto a rombi. Dietro allo schienale di una di esse spuntava il luccichio metallico dell'impugnatura della sua sedia a rotelle. Avevo considerato la sedia dietro allo schienale? No, non potevo esserne certo. Era snervante, all'improvviso tutto mi sfuggiva, la sola lampadina nella memoria era il corpo di Mrs Eagleton steso sulla chaise-longue e i suoi occhi aperti, come se quell'unica immagine irradiasse una luce troppo intensa, che costringeva in ombra tutto il
resto. Però, sì, avevo visto, mentre ci avvicinavamo, il tabellone dello scarabeo con accanto i due piccoli leggii con le lettere. Una delle foto aveva immortalato la posizione del tabellone sul tavolino. Era presa da molto vicino e con qualche sforzo si potevano distinguere tutte le lettere. Con Seldom avevamo già discusso una volta sulle parole. Nessuno dei due credeva che potessero rivelare qualcosa di interessante, né che si potessero legare in qualche modo al simbolo. Nemmeno l'ispettore Petersen aveva dato peso alla cosa. Fummo d'accordo che il simbolo fosse stato scelto prima del delitto e non per un'ispirazione del momento. Osservai comunque con curiosità le foto dei due leggii. Ero sicuro che "questo" non lo avessi visto. In uno c'era solo una lettera, la A. Nell'altro ce n'erano due: la R e la O, questo significava chiaramente che Mrs Eagleton aveva giocato sino alla fine, sino a esaurire tutte le lettere del sacchetto, prima di addormentarsi. Mi fermai un attimo cercando di immaginare parole inglesi che si potessero ancora formare con quelle ultime lettere. Non sembravano essercene e comunque, pensai, Mrs Eagleton le avrebbe sicuramente trovate. Perché non avevo visto prima i leggii? Cercai di ricordare la posizione in cui si trovavano sul tavolo. In uno degli angoli, dove Seldom era rimasto in piedi sostenendo il cuscino. Forse, pensai, quello che dovevo cercare era proprio ciò che "non" avevo visto. Ricominciai a guardare le foto, per scovare altri dettagli che mi fossero sfuggiti, fino ad arrivare all'ultima, ancora il viso agghiacciante di Mrs Eagleton senza vita. Li non sembrava esserci altro che non avessi visto. Così erano quelle tre cose: le lettere sui leggii, l'orologio all'ingresso, la sedia a rotelle. La sedia a rotelle... Non poteva essere quella la spiegazione del simbolo? Il triangolo per il musicista, l'acquario per Clarck... e per Mrs Eagleton il cerchio: la ruota della sua sedia. "Oppure la lettera O della parola omertà" aveva detto Seldom. Sì, il cerchio poteva ancora essere qualunque cosa. Però era interessante che ci fosse proprio una lettera O in uno dei leggii. Oppure non era per nulla interessante, era solo una sciocca coincidenza? Magari Seldom aveva visto la lettera O sul leggio, e per questo gli era venuta in mente quella parola, omertà. In seguito Seldom aveva detto anche qualcos'altro, il giorno in cui eravamo entrati al Covered Market... che faceva affidamento sul mio colpo d'occhio soprattutto perché io non ero inglese. Ma cosa poteva significare guardare in maniera non inglese? Mi spaventò improvvisamente il rumore di una busta incastrata che qualcuno non riusciva a infilare sotto la porta. Aprii e vidi Beth che si alzava di scatto, rossa in viso. Aveva in mano diverse altre buste.
«Pensavo non ci fossi» disse, «altrimenti avrei bussato.» La feci entrare e raccolsi la busta da terra. Dentro c'era un biglietto con una delle immagini di Alice nel Paese delle Meraviglie e una scritta che, imitando un editto reale, annunciava: "Invito a un non matrimonio". La guardai con un sorriso incuriosito. «Il fatto è che non ci possiamo ancora sposare» disse Beth. «E la causa di divorzio può andare per le lunghe... ma vogliamo dare comunque una festa.» Vide alle mie spalle le foto disseminate sul letto. «Foto della tua famiglia?» Pensai che Beth era indubbiamente inglese e che potesse aiutarmi. Non solo, Beth era stata l'ultima a vedere Mrs Eagleton viva e forse avrebbe potuto notare qualche stranezza nella scena. «No, non ho una famiglia in senso classico. Sono le foto che ha fatto la polizia il giorno in cui hanno ucciso Mrs Eagleton.» Vidi che esitava con un'espressione di orrore, come se non si decidesse ad avvicinarsi. Alla fine fece due passi verso il letto e le scorse rapidamente, come se temesse di soffermarsi su qualcuna. «E perché le hanno date a te? Cosa pensano di riuscire ancora a scoprire da queste foto?» «Vogliono trovare il legame del primo simbolo con Mrs Eagleton. Però forse tu puoi notare qualcos'altro, qualcosa che manca o è in una posizione diversa...» «Ma l'ho già detto all'ispettore Petersen: non mi posso ricordare di come si trovava esattamente ogni cosa nel momento in cui sono uscita. Quando scesi, vidi che si era addormentata e uscii il più silenziosamente possibile, senza nemmeno guardare di nuovo da quella parte. Quel pomeriggio, quando lo zio Arthur mi venne ad avvisare in teatro, loro mi stavano aspettando in sala, con il cadavere ancora lì.» Sollevò, come se volesse vincere un antico terrore, la foto in cui si vedeva il corpo di Mrs Eagleton disteso sulla chaise-longue. «L'unica cosa che potei riferire» disse, toccando la foto con un dito, «è che mancava la coperta dai piedi. Mai, nemmeno nelle giornate più calde, si sdraiava senza mettersi la coperta sui piedi. Non voleva che qualcuno potesse vederle le cicatrici. Quel giorno la cercammo per tutta la casa, ma la coperta non saltò fuori.» «È vero» annuii, incredulo che ci potesse essere sfuggito quel particolare. «Perché l'assassino ha voluto che le cicatrici fossero visibili? O magari si è portato via la coperta come souvenir e forse conserva anche dei ricordi
degli altri due delitti.» «Non lo so, vorrei non dover ricominciare a pensare a tutto questo» disse Beth avviandosi verso la porta. «Per me è già stato pesante... vorrei che fosse tutto finito. Quando abbiamo visto il nostro percussionista cadere nel mezzo del concerto e Petersen comparire sul palco, ho creduto di morire anch'io lì sul posto. Non riuscivo a non pensare che, in qualche modo, poteva sospettarmi anche di quello.» «No: ha scartato subito l'ipotesi che potesse essere stato uno dell'orchestra, deve essere stato qualcuno che si è arrampicato per aggredirlo da dietro.» «Va bene, comunque sia» disse Beth scuotendo la testa «spero solo che lo prendano in fretta e che finisca tutto.» Mise una mano sulla maniglia e si girò per dirmi: «Naturalmente puoi venire alla festa con la tua fidanzata. È la ragazza con cui giocavi a tennis, vero?». Quando Beth se ne fu andata, tornai a guardare lentamente le foto. Sul letto era rimasto anche il biglietto d'invito. L'immagine corrispondeva, in realtà, alla festa di non compleanno a casa della Lepre Marzolina. Quel logico di Charles Dodgson sapeva che ciò che resta fuori da un'affermazione è sempre sorprendentemente la parte più estesa. La coperta era solo un piccolo segnale di allarme. Quanti altri ce n'erano in ognuno dei casi, che non avevamo saputo vedere? Forse era questo ciò che Seldom si aspettava da me: che immaginassi quello che avremmo dovuto vedere e non era lì. Cercai nel cassetto la biancheria da indossare dopo la doccia pensando ancora a Beth. Suonò il telefono. Era Lorna: aveva la serata libera. Le chiesi se voleva accompagnarmi allo spettacolo di magia. «Ma certo» disse, «non ho intenzione di perdermi nessuna delle tue uscite. Sicuramente però, dato che ci sono anch'io, vedremo solo stupidi conigli che escono dal cilindro.» 21 Quando arrivammo a teatro i biglietti per le prime file erano esauriti ma Seldom si offrì gentilmente di scambiare il suo con quello di Lorna e sedersi più indietro. Il palcoscenico era in ombra ma si riusciva comunque a distinguere un tavolo, sul quale c'era solo un grande bicchiere pieno d'acqua, e una poltrona dallo schienale alto rivolta verso il pubblico. Leggermente più arretrate, una dozzina di sedie vuote erano disposte a semicer-
chio dietro al tavolo e sui lati. Eravamo entrati in sala qualche minuto dopo l'ora stabilita e, appena occupammo i nostri posti, si iniziarono ad abbassare le luci. Il teatro rimase al buio per un tempo che mi sembrò appena una frazione di secondo. Quando si riaccese un riflettore sulla scena, vedemmo il mago seduto in poltrona che cercava di scrutare il pubblico con la mano davanti agli occhi, a mo' di visiera, come se fosse stato lì da sempre. «Luce! Più luce!» ordinò, mentre si alzava, faceva il giro del tavolo e, sempre con la mano davanti alla fronte, si avvicinava al bordo del palcoscenico per passarci tutti in rassegna con lo sguardo. Una luce crudele da sala operatoria illuminò la sua figura incurvata. Solo allora vidi con sorpresa che era monco. Il braccio destro gli mancava nettamente dalla spalla, come se non l'avesse mai avuto. Quello sinistro si alzò di nuovo con gesto autorevole. «Più luce!» ripeté. «Voglio che vedano tutti, che nessuno possa dire: "Era un effetto di fumo e penombra...". Anche se così mi si vedranno le rughe. Le mie sette grinze rugose. Sì, sono molto vecchio, vero? Direi incredibilmente vecchio. E tuttavia una volta ho avuto otto anni. Una volta avevo otto anni, due mani, come tutti voi, e volli imparare la magia. "No, non insegnarmi dei trucchi" dicevo al mio maestro. Perché io volevo diventare un mago, non volevo imparare dei trucchi. Ma il mio maestro, che era vecchio quasi quanto lo sono io adesso, mi rispose: "Il primo passo, il primo passo è conoscere i trucchi".» Aprì le dita della mano e le distese come un ventaglio davanti al viso. «Posso dirvi, tanto non ha più importanza, che avevo delle dita straordinariamente veloci. Avevo un dono naturale e ben presto mi ritrovai a girare per tutto il paese, il piccolo prestigiatore, quasi un fenomeno da baraccone. A dieci anni, però, ebbi un incidente. Quando mi risvegliai ero in un letto d'ospedale e mi rimaneva solo la mano sinistra. A me, che volevo diventare un mago, a me che ero destro. C'era però anche il mio anziano maestro e mentre i miei genitori piangevano, lui mi disse solo: "Questo è il secondo passo; forse, forse un giorno diventerai un mago". Il mio maestro morì e mai nessuno mi spiegò quale fosse il terzo passo. Da allora, ogni volta che salgo su un palcoscenico, mi domando se quel giorno è arrivato. Magari è una cosa che potete stabilire solo voi. Per questo chiedo sempre luce, e vi chiedo di avvicinarvi, di avvicinarvi e guardare. Di qua, per di qua» fece salire sul palco, uno alla volta, metà degli spettatori della prima fila perché si sedessero attorno a lui sulle sedie vuote. «Più vicino, venite proprio vicino, voglio che controlliate la mia mano, che non vi facciate sorprendere,
perché io oggi non farò trucchi.» Allungò la mano nuda sul tavolo, tenendo tra l'indice e il pollice qualcosa di piccolo che dalla nostra posizione non si riusciva a vedere. «Vengo da un paese che era chiamato il granaio del mondo. "Non andartene, figliolo" mi diceva mia madre, "qui non ti mancherà mai un pezzo di pane." Invece me ne andai, però porto sempre con me questa mollica di pane.» La mostrò di nuovo, con le dita che afferravano la pallina bianca, prima di lasciarla sul tavolo. Vi appoggiò sopra il palmo con un movimento circolare, come se volesse impastarla. «Strani percorsi quelli delle briciole di pane: di notte gli uccellini le fanno sparire e non si può più tornare indietro. "Torna figliolo" mi diceva mia madre, "qui non ti mancherà mai un pezzo di pane." Ma non potevo tornare. Strani percorsi quelli delle briciole di pane! Strade per andare ma non per tornare» la mano girava ipnoticamente sopra il tavolo. «Per questo non ho gettato tutte le briciole. E ovunque vada, porto sempre con me...» sollevò la mano e vedemmo che ora aveva un piccolo panino, perfettamente rifinito, con le punte che sporgevano dal palmo «un pezzo di pane.» Girò da un lato e allungò la mano verso il primo spettatore del semicerchio. «Non abbia paura: lo assaggi.» La mano, come la lancetta di un orologio, si mosse verso la seconda sedia e si riaprì lasciando vedere di nuovo una punta arrotondata e intatta. «Sì, certo, può prenderne anche un pezzo più grande. Su, assaggi.» Continuò a girare finché tutti ebbero preso il loro pezzo di pane. «Sì» esclamò pensieroso alla fine; aprì di nuovo la mano e il panino era ancora lì, intatto. Stese le dita come se potesse schiacciarlo dalle estremità e chiuse lentamente il pugno. Quando riaprì la mano, era rimasta solo la pallina di mollica che mostrò ancora tra l'indice e il pollice, prima di rimetterla in tasca con cura. «Non bisogna gettare per strada le briciole.» Si avvicinò per ricevere i primi applausi e congedò dal bordo del palco il gruppo che aveva occupato le sedie. Nel secondo gruppo c'eravamo anche Lorna e io. Adesso potevo vederlo di profilo, il naso adunco, i baffi nerissimi, come se fossero tinti, i capelli bianchi e lisci che cercavano di non scomparire. E soprattutto la mano, grande e ossuta, con le macchie tipiche della vecchiaia sul dorso. La passò sotto il grande bicchiere d'acqua e bevve un sorso prima di continuare. «Mi piace chiamare questo numero "Rallentamento"» disse. Aveva estratto dalla tasca un mazzo di carte che mescolava in maniera incredibile
con l'unica mano. «"I trucchi non si ripetono" mi diceva il mio maestro. Ma io non volevo fare dei trucchi, io volevo fare della magia. Un gesto di magia si può ripetere? Sei carte solamente» fece, separando dal mazzo, una alla volta, sei carte. «Tre rosse e tre nere. Rosso e nero, il nero della notte, il rosso della vita. Chi può governare i colori? Chi potrebbe impartire loro un ordine?» Gettò le carte sul tavolo, una per una, a faccia in su, con un movimento del pollice. «Rosso, nero, rosso, nero, rosso, nero.» Le carte avevano formato una fila con i colori alternati. «E adesso fate attenzione alla mia mano: voglio farlo molto lentamente» la mano avanzò per raccogliere le carte così come erano rimaste. «Chi potrebbe impartire loro un ordine?» ripeté e le gettò sul tavolo con lo stesso movimento del pollice: «Rosso, rosso, rosso, nero, nero, nero. Non si può fare più lentamente» disse quindi raccogliendo le carte «o forse... forse sì, forse si può fare più lentamente». Gettò di nuovo le carte con i colori alternati facendole cadere piano piano. «Rosso, nero, rosso, nero, rosso, nero.» Voltò la testa verso di noi, perché non ci perdessimo il movimento e fece avanzare la mano con la lentezza di un granchio, facendo attenzione a toccare con la punta delle dita solo la prima carta. Le raccolse con estrema delicatezza e quando le gettò sul tavolo, i colori erano tornati a unirsi. «Rosso, rosso, rosso, nero, nero, nero.» «Ma questo giovanotto» esclamò fissandomi all'improvviso «è ancora scettico: magari avrà letto qualche manuale di magia e crede che il trucco stia nel come raccolgo le carte o in un effetto di glide. Sì, lo farei così... anch'io lo facevo così quando avevo due mani. Adesso però ne ho una sola. E magari un giorno non ne avrò nessuna.» Gettò di nuovo le carte, una alla volta, sul tavolo: «Rosso, nero, rosso, nero, rosso, nero». I suoi occhi tornarono a guardarmi, perentori. «Le raccolga. E adesso, senza che io le tocchi, le volti a una a una.» Obbedii e le carte, man mano che le scoprivo, sembravano piegarsi alla sua volontà. «Rosso, rosso, rosso, nero, nero, nero.» Quando tornammo ai nostri posti, mentre risuonavano ancora gli applausi, pensai di sapere perché Seldom aveva insistito che vedessi lo spettacolo. Tutti i numeri che seguirono furono come questi, straordinariamente semplici ma anche straordinariamente puliti, come se il vecchio mago fosse arrivato, davvero, a uno stadio zen in cui non aveva più bisogno delle mani. Inoltre sembrava quasi divertirsi segretamente a infrangere, una dopo l'altra, le regole del mestiere. Aveva ripetuto dei trucchi, aveva fatto sedere delle persone dietro di lui per tutto il numero, aveva rivelato tecniche
con cui altri maghi della storia avevano cercato di fare le stesse sue cose. A un certo punto mi voltai e vidi che Seldom era totalmente rapito, stupefatto e felice, come un bambino che non si stanca di rivedere più volte lo stesso prodigio. Ricordai la serietà con cui mi aveva detto che preferiva l'ipotesi del fantasma nella terza morte, e mi chiesi se fosse davvero possibile che credesse a questo tipo di cose. Comunque, era davvero difficile non arrendersi al mago: la finezza di ogni numero stava in quella essenzialità che non sembrava ammettere altra spiegazione che non fosse l'unica visibile. Non ci fu intervallo e presto, o comunque a me sembrò troppo presto, annunciò l'ultimo numero. «Vi sarete chiesti» disse «il perché di un bicchiere così grande se alla fine ho bevuto solo un sorso. Resta ancora abbastanza acqua perché ci nuoti un pesce.» Estrasse un fazzoletto rosso di seta e strofinò lentamente il vetro. «E magari» continuò «se puliamo bene il vetro e immaginiamo delle pietruzze colorate, chissà, come nella gabbia di Prévert, possiamo prendere un pesce.» Tolse il fazzoletto e vedemmo che effettivamente adesso dietro le pareti di vetro nuotava un carassius rosso e che sul fondo c'erano delle piccole pietre colorate. «Noi maghi, come sapete, siamo stati perseguitati ferocemente in varie epoche, a partire da quell'incendio che sterminò i nostri primi antenati, i maghi pitagorici. Sì, la matematica e la magia hanno una radice comune e hanno custodito per molto tempo lo stesso segreto. Tra tutte le persecuzioni, forse la più spietata è stata quella cominciata dopo la sfida tra Pietro e Simon Mago, quando la magia fu proibita ufficialmente dai cristiani. Temevano che qualcun altro potesse moltiplicare i pani e i pesci. Fu allora che i maghi concepirono quella che è ancora oggi la loro strategia di sopravvivenza: hanno scritto manuali con i trucchi più semplici che tutti conoscono, hanno inserito nei loro spettacoli casse assurde e specchi. Poco alla volta hanno convinto tutti che dietro a ogni gesto c'è un trucco, si sono trasformati in maghi da salotto, si sono mimetizzati con i prestigiatori e così facendo hanno potuto continuare in segreto, sotto il naso di tutti, la loro moltiplicazione dei pani e dei pesci. Sì, il trucco più efficace e sottile è stato convincere il mondo che la magia non esista. Io stesso ho usato questo fazzoletto anche se, per i veri maghi, il fazzoletto non nasconde il trucco, il fazzoletto nasconde un segreto molto più antico. Perciò ricordate» disse con un sorriso diabolico, «ricordate sempre: la magia non esiste.» Fece schioccare le dita e un altro pesce rosso saltò nell'acqua. «La magia non esiste» un altro schiocco e un terzo pesce saltò nel bicchiere. Coprì il
piccolo acquario con il fazzoletto e quando lo tolse, afferrandolo per un lembo, non c'erano più né bicchiere né pesci. «La magia... non esiste.» 22 Eravamo al The Eagle and Child, Seldom e Lorna mi prendevano in giro per quanto ci mettevo a finire la prima birra. «Non si può bere più lentamente... o forse sì, forse si può bere più lentamente» disse Lorna imitando la voce roca e forte del mago. Dopo lo spettacolo eravamo rimasti qualche minuto nel camerino di Lavand, ma Seldom non era riuscito a convincerlo a venire con noi. «Ah sì, il giovane scettico» esclamò distrattamente quando Seldom mi presentò e poi, quando seppe che ero argentino, mi disse in uno spagnolo che sembrava non usare da parecchio: «La magia è al sicuro grazie agli scettici». Era molto stanco, ci aveva spiegato tornando all'inglese; ormai faceva spettacoli sempre più corti ma non riusciva a ingannare le sue ossa. «Dobbiamo assolutamente parlare prima che parta» aveva detto a Seldom dalla porta, «spero che nel libro che ti ho lasciato tu possa trovare qualcosa su quello che mi hai chiesto.» «Cosa gli avevi chiesto? Di quale libro stava parlando?» chiese Lorna con speranzosa curiosità. La birra sembrava avere su di lei uno strano effetto di ritrovato cameratismo, che mi sembrò di notare nel sorriso con cui aveva brindato con Seldom, e fui di nuovo portato a chiedermi fino a che punto si fosse spinta l'amicizia tra i due. «Ha a che fare con la morte del musicista» rispose Seldom. «Un'idea che ho considerato per un momento, un'associazione forse un po' strana, quando ho pensato al modo in cui morì Mrs Crafford.» «Ah sì» esclamò Lorna con entusiasmo, «il caso del telepatico.» «È stato uno dei casi più famosi su cui ha indagato Petersen» disse Seldom, rivolgendosi a me. «La morte di Mrs Crafford, un'anziana molto ricca che dirigeva il circolo locale di spiritismo. Fu all'epoca in cui qui si stavano giocando le fasi eliminatorie del campionato mondiale di scacchi. Era arrivato a Oxford un telepatico indù abbastanza famoso e i coniugi Crafford avevano organizzato una serata nella loro casa per tentare un esperimento di telepatia a distanza. La casa dei Crafford si trova a Summertown, vicino a dove abita lei. Il telepatico sarebbe stato a Folly Bridge, all'altro capo della città. La distanza avrebbe stabilito un qualche tipo di record. La signora Crafford si era prestata di buon grado come prima volontaria. L'in-
dù le mise in testa, con molte cerimonie, una specie di cuffia, la fece sedere in mezzo al salone e uscì di casa diretto verso il ponte. All'ora stabilita si spensero le luci. La cuffia era fosforescente e brillava nell'oscurità, il pubblico poteva vedere il viso di Mrs Crafford in un'aureola spettrale. Passarono trenta secondi e all'improvviso si udì un urlo terribile seguito da un lungo crepitio simile a uova che friggono. Quando Mr Crafford riaccese le luci trovarono l'anziana donna morta sulla sedia con il cranio completamente bruciato, come se avesse ricevuto la scarica fulminante di un raggio. Il povero indù fu messo in prigione a titolo preventivo finché non riuscì a spiegare che la cuffia era del tutto innocua, un pezzo di tela con pittura fluorescente pensata solo per un effetto scenico. L'uomo era perplesso, al pari di tutti: aveva eseguito il suo numero di telepatia a distanza in molti paesi e con tutte le condizioni atmosferiche e quella giornata era particolarmente serena e luminosa. I sospetti di Petersen naturalmente caddero subito su Mr Crafford. Si sapeva di un affaire con una donna più giovane ma non sembrava esserci molto altro per incolparlo. Era difficile immaginare persino "come" avrebbe potuto farlo. Petersen lanciò la sua teoria contro di lui partendo da un unico elemento: Mrs Crafford quel giorno portava quella che lei chiamava la sua "parrucca di gala", che aveva all'interno una retina di metallo. Tutti avevano visto come il marito le si fosse avvicinato per darle un affettuoso bacio prima che si spegnessero le luci. Petersen sosteneva che in quel momento le avesse collegato un cavo per una elettroesecuzione, un cavo che in seguito aveva fatto sparire mentre fingeva di soccorrerla al riaccendersi delle luci. Non era impossibile ma, come fu poi provato nel corso del processo, era piuttosto complicato. L'avvocato di Crafford aveva invece una spiegazione alternativa semplice e, a suo modo, brillante: proprio a metà strada tra Folly Bridge e Summertown c'è la Playhouse, dove si stava disputando il campionato di scacchi. Al momento della morte c'erano quasi cento scacchisti furiosamente concentrati sulle loro mosse. La difesa sosteneva che l'energia mentale liberata dal telepatico si era bruscamente rafforzata nell'attraversare la Playhouse grazie all'energia delle scacchiere e si era sollevata come una tromba marina a Summertown... questo spiegherebbe perché quella che in principio era solo un'onda cerebrale inoffensiva aveva finito per fulminare Mrs Crafford con la potenza di un raggio. Il processo a Crafford divise Oxford in due schieramenti. La difesa chiamò in causa un esercito di esperti e presunti studiosi di fenomeni paranormali che, naturalmente, avallarono la teoria con ogni tipo di ridicole spiegazioni, nel consueto gergo pseudoscientifico. La cosa
più curiosa è che quanto più le teorie erano strampalate tanto più la giuria, e tutta la città, sembrava disposta a crederci. All'epoca avevo da poco iniziato i miei studi sull'estetica dei ragionamenti ed ero affascinato dalla forza di convinzione che poteva generare un'idea attraente. Certo, si poteva dire che la giuria fosse composta di persone non necessariamente esperte di pensiero scientifico, gente più abituata a fidarsi di oroscopi, I Ching o tarocchi che a diffidare di telepatici e parapsicologi. Ma il punto interessante è che tutta la città sposava l'idea e ci voleva credere, non per un eccesso di irrazionalità ma con giustificazioni che si pretendevano scientifiche. Era in qualche modo una battaglia all'interno della razionalità e la teoria degli scacchisti era semplicemente più affascinante, più nitida, più efficace, come direbbero i pittori, rispetto a quella del cavo sotto la parrucca. Ma fu allora che, quando tutto sembrava ormai pendere a favore di Crafford, sull'"Oxford Times" venne pubblicata la lettera di una lettrice, una certa Lorna Craig, una ragazza abbastanza fanatica di romanzi polizieschi» disse Seldom, rivolgendosi con il boccale verso Lorna; i due si sorrisero come se stessero condividendo una vecchia storiella. «La lettera diceva semplicemente che in uno dei racconti di un vecchio numero della rivista di Ellery Queen si immaginava una morte uguale, per telepatia a distanza, con l'unica differenza che l'onda cerebrale attraversava uno stadio di calcio durante un rigore anziché una sala di scacchisti. La cosa divertente è che nella storia si dava per sicura come soluzione dell'enigma la tesi della tormenta cerebrale che sosteneva la difesa ma, volubile natura umana, appena la gente seppe che Crafford poteva aver copiato l'idea, tutti gli si schierarono contro. L'avvocato dimostrò fin dove fu possibile che Crafford non era propriamente un gran lettore e che difficilmente avrebbe potuto essere a conoscenza della storia, ma fu tutto inutile. L'idea, nella sua ripetizione, aveva perso un po' della sua aura e adesso suonava chiaramente come qualcosa di assurdo che poteva venire in mente solo a uno scrittore. La giuria, una giuria di uomini fallibili, come direbbe Kant, lo condannò all'ergastolo pur senza che si fossero trovate altre prove contro di lui. Diciamo così: l'unico straccio di prova reale che fu presentata in tutto il processo fu un racconto fantastico che il povero Crafford non aveva letto.» «Il "povero" Crafford ha fatto arrosto sua moglie» esclamò Lorna. «Vede» disse Seldom ridendo, «c'era gente assolutamente convinta e che non aveva bisogno di prove. Comunque, mi è tornato alla memoria questo caso la sera del concerto. Ricorderà che il soffocamento del musicista è avvenuto quando l'orchestra era al culmine: ho voluto chiedere a Lavand il
tipo di effetti che si possono creare a distanza. Con i biglietti per lo spettacolo mi ha lasciato un libro sulla telepatia, ma non ho ancora avuto il tempo di leggerlo.» Una cameriera si avvicinò per prendere l'ordinazione. Lorna mi indicò sul menu il suo classico fish and chips e si alzò per andare in bagno. Quando Seldom ebbe ordinato e la cameriera ci lasciò soli, gli restituii la busta con le foto. «È riuscito a ricordare?» mi chiese Seldom e, quando vide la mia espressione incerta, aggiunse: «Difficile, vero? Tornare alle origini come se non si sapesse nulla. Disfarsi di quanto è venuto dopo. Ha potuto vedere qualcosa che prima le era sfuggito?». «Solo questo: il cadavere di Mrs Eagleton, come lo abbiamo trovato noi, non aveva la coperta sui piedi» dissi. Seldom si raddrizzò sulla sedia e si passò una mano sul mento. «Questo... può essere interessante. Sì, adesso che me lo fa notare, lo ricordo perfettamente: aveva sempre, almeno quando usciva, una coperta scozzese.» «Beth è sicura che, quando alle due è scesa, l'aveva ancora. Dopo l'hanno cercata per tutta la casa, ma non si è trovata. Petersen non ne aveva parlato» dissi, un po' risentito. «Be'» commentò Seldom con soave ironia, «è l'ispettore di Scotland Yard incaricato del caso, magari non si è sentito in obbligo di riferirci tutti i dettagli.» Fui costretto a ridere. «Ma noi sappiamo più cose di lui» aggiunsi. «Solo in un senso» disse Seldom, «diciamo che noi abbiamo presente meglio il teorema di Pitagora.» Il suo volto si rabbuiò, come se qualcosa durante la conversazione gli avesse rievocato i peggiori presentimenti. «La figlia di Petersen mi ha raccontato che ultimamente il padre, di notte, non dorme e che certe volte lo ha trovato all'alba ancora sveglio mentre leggeva libri di matematica. Mi ha chiamato di nuovo stamattina. Penso che tema, come me, che giovedì sia troppo tardi.» «Ma giovedì è dopodomani» dissi. «Dopodomani... Il fatto, però, è che domani non è proprio un giorno qualunque. È per questo che Petersen mi ha chiamato. Vuole mandare qualcuno dei suoi uomini a Cambridge.» «Cosa succede a Cambridge domani?»
Lorna era tornata e portava in bilico tre birre che distribuì sul tavolo. «Temo che abbia a che fare con uno dei libri che io stesso ho prestato all'ispettore Petersen. Un libro con una versione abbastanza fantastica sulla storia dell'ultimo teorema di Fermat. È il più antico problema aperto della matematica» disse a Lorna. «Sono più di trecento anni che i matematici ci lottano e può darsi che domani a Cambridge riescano per la prima volta a dimostrarlo. Nel libro si fa risalire l'origine della congettura alle terne pitagoriche, uno dei segreti della prima epoca della setta, antecedente l'incendio, quando ancora, come diceva Lavand, non si erano separati i matematici dai maghi mistici. I pitagorici consideravano le proprietà e le relazioni numeriche come la cifra segreta di una divinità, e per questo non dovevano venire divulgate. Si potevano diffondere gli enunciati dei teoremi, per l'uso nella vita quotidiana, ma mai la loro dimostrazione, così come i maghi fanno giuramento di non rivelare i trucchi. La punizione per chi infrangeva la regola era la morte. Il libro sostiene che lo stesso Fermat appartenesse a una loggia più moderna, ma non meno severa, di pitagorici. Nella famosa annotazione al margine della sua copia di Aritmetica di Diofanto, Fermat aveva annunciato di avere una dimostrazione della sua congettura, ma dopo la sua morte non si riuscì a trovare tra le sue carte né questa né nessun'altra delle sue dimostrazioni. Credo però che quello che ha messo in allarme Petersen sono certe morti curiose che circondano la storia del teorema. È chiaro che in trecento anni muore diversa gente, compresi quelli che erano a un passo dalla dimostrazione. Ma l'autore è astuto e fa in modo che alcune di queste morti sembrino davvero sospette. Come il suicidio di Taniyama, abbastanza recente, con quella lettera così strana che lasciò alla fidanzata.» «Allora in quel caso i delitti sarebbero...» «Un avvertimento» concluse Seldom. «Un avvertimento al mondo dei matematici. La cospirazione immaginata nel libro, l'ho già detto a Petersen, mi sembra un'ingegnosa somma di spropositi. Però c'è comunque qualcosa che mi preoccupa: Andrew Wiles ha lavorato nel più assoluto riserbo per gli ultimi sette anni. Nessuno ha una traccia di come sarà la sua dimostrazione: nemmeno a me ha mai fatto vedere qualcuna delle sue carte. Se gli succedesse qualcosa prima della sua esposizione e quelle carte sparissero, potrebbero passare magari altri trecento anni prima che qualcuno possa tornare a ricostruire la dimostrazione. Per questo, al di là di quello che credo io, non mi sembra male che Petersen mandi qualcuno dei suoi. Se dovesse davvero succedere qualcosa ad Andrew» disse, e il suo
volto tornò a incupirsi «non me lo perdonerei mai.» 23 Mercoledì 23 giugno mi svegliai verso mezzogiorno. Dalla piccola cucina di Lorna arrivava un aroma di caffè e un altro profumo paradisiaco di biscotti appena fatti. Sir Thomas, il gatto di Lorna, era riuscito a far scivolare a terra buona parte della trapunta e si stava raggomitolando ai piedi del letto. Gli passai accanto e andai ad abbracciare Lorna in cucina. Sul tavolo c'era il giornale aperto e mentre lei versava il caffè scorsi rapidamente le notizie. La serie di delitti con i misteriosi simboli, diceva l'"Oxford Times" con malcelato orgoglio campanilista, era diventata la notizia di apertura nei principali quotidiani londinesi. Erano riportati in prima pagina i grandi titoli che erano apparsi il giorno precedente sui giornali nazionali, ma era tutto lì, evidentemente non c'erano altre novità sul caso. Cercai nelle pagine interne qualche notizia sul seminario di Cambridge. Trovai solo un trafiletto molto prudente dal titolo "La Moby Dick dei matematici", in cui si enumerava la lunga cronologia di insuccessi nel tentativo di dimostrare il teorema di Fermat. Il giornale diceva poi che si stavano facendo scommesse a "Oxbridge" su quanto sarebbe accaduto quel pomeriggio nell'ultima delle tre conferenze e che, al momento, Wiles era dato sei a uno. Lorna aveva prenotato un campo per l'una. Passammo da Cunliffe Close a prendere la mia racchetta e giocammo senza pensare ad altro che non fosse far passare la palla sopra la rete, in quel piccolo rettangolo fuori dal tempo. Quando uscimmo dal circolo erano quasi le tre e chiesi a Lorna di passare un attimo dall'istituto. Entrai nella sala dei computer e controllai la mia casella di posta elettronica. C'era il breve messaggio che si stava propagando come una parola d'ordine a tutti i matematici in ogni angolo del mondo: Wiles ce l'aveva fatta! Non c'erano particolari sull'esposizione finale; si diceva solo che la dimostrazione aveva convinto gli esperti e che una volta messa per iscritto avrebbe potuto raggiungere le duecento pagine. L'ultimo teorema di Fermat era stato espugnato. «Qualche buona notizia?» chiese Lorna mentre risalivo in macchina. Le raccontai tutto e credo che dal tono di ammirazione della mia voce riuscì a percepire lo strano e contraddittorio orgoglio per i matematici che mi dominava.
«Magari questo pomeriggio avresti preferito essere là» disse e aggiunse, ridendo, «cosa posso fare per andare pari?» Facemmo l'amore felici e instancabili come due conigli per il resto del pomeriggio. Alle sette, quando iniziava già a fare buio ed eravamo ancora sdraiati uno accanto all'altra in un silenzio esausto, suonò il telefono vicinissimo a me. Lorna si allungò sul letto, sopra di me, per rispondere. Vidi apparire sul suo volto un'espressione allarmata e poi di grande angoscia. Mi fece un cenno perché accendessi il televisore e, tenendo la cornetta col mento, iniziò a vestirsi velocemente. «C'è stato un incidente alle porte di Oxford, in un punto chiamato "il triangolo cieco". Un pullman ha sfondato il guardrail di un ponte ed è precipitato nella scarpata. Al Radcliffe aspettano molte ambulanze con i feriti: avranno bisogno di me in radiologia.» Cambiai canale fino a trovare il notiziario locale. Una giornalista parlava mentre si avvicinava, seguita dalla telecamera, a un ponte distrutto. Pigiai due o tre pulsanti ma col telecomando non si riusciva ad alzare il volume. «È rotto» gridò Lorna. Era già completamente vestita e cercava la divisa nell'armadio a muro. «Sai che Seldom e un intero gruppo di matematici stavano tornando da Cambridge in pullman questo pomeriggio?» chiesi. Lorna si girò, come se un brutto presentimento l'avesse pietrificata, e tornò accanto a me. «Mio Dio, se venivano da là dovevano attraversare quel ponte.» Restammo a fissare disperatamente lo schermo. La telecamera mostrava i pezzi di vetro e il punto in cui il guardrail era stato abbattuto. Mentre la giornalista si sporgeva e indicava verso il basso, vedemmo apparire, ingrandita dal teleobiettivo, la carcassa di metallo che una volta era stato un pullman. La telecamera si muoveva e oscillava seguendo la donna che aveva deciso di scendere per la ripida scarpata. Un pezzo del telaio si era staccato nel punto in cui apparentemente l'automezzo si era ribaltato la prima volta. Quando la telecamera tornò a inquadrare il fondo della scarpata, adesso molto più da vicino, vedemmo che un gruppo di ambulanze era riuscito a raggiungere l'autobus da sotto per le operazioni di soccorso. Apparvero in un desolato primo piano i finestrini muti e rotti del pullman e poi un frammento arancione della carrozzeria con un simbolo che non riconobbi. Sentii che Lorna mi stringeva il braccio. «È un pullman scolastico» esclamò. «Mio Dio: sono bambini! Credi che...» sussurrò, senza riuscire a completare la domanda e mi guardò con
un'espressione spaventata, come se il gioco che stavamo facendo spensieratamente fosse diventato improvvisamente un incubo reale. «Devo correre in ospedale» disse dandomi un rapido bacio, «se vuoi uscire, la porta si chiude da sola.» Restai a guardare la successione ipnotica delle immagini sullo schermo. L'operatore girava attorno al pullman e inquadrava uno dei finestrini, dove si era radunata la squadra di soccorso. Evidentemente un uomo era riuscito a penetrare all'interno e stava cercando di far uscire da lì il corpo di uno dei bambini. Prima apparvero le gambe magre e nude, che dondolarono con un movimento disarticolato finché una fila di mani, disposte a mo' di barella, le sorressero. Aveva dei pantaloncini corti da ginnastica macchiati di sangue su un lato e delle scarpe bianche. Quando uscì la prima metà del busto vidi che indossava una maglietta da gara senza maniche con un grande numero sul petto. La telecamera inquadrò di nuovo il finestrino. Due grandi mani sostenevano da dietro, con estrema cautela, la testa del bimbo. Lungo i polsi, come se gocciolassero inarrestabilmente dalla nuca, si vedevano scendere grandi gocce di sangue. Venne inquadrato il volto del bambino e vidi con sorpresa, sotto la lunga frangetta, i tratti inconfondibili di un piccolo affetto dalla sindrome di Down. Dietro si affacciò, per la prima volta, il viso del soccorritore. La sua bocca si apriva in un paio di parole che ripeteva disperatamente e allungò verso l'esterno i palmi delle mani insanguinati a indicare che dentro non c'era più nessuno. La telecamera seguì la processione che portava quest'ultimo bambino. Qualcuno impedì al cameraman di passare, ma si riuscì comunque a vedere per un attimo una lunga fila di barelle con i corpi completamente coperti da lenzuoli. Le immagini tornarono in studio. Mostrarono una foto di gruppo dei bambini, prima di una partita. Si trattava di una squadra di basket di piccoli down che stava rientrando da un torneo intercollegiale a Cambridge. In rapida successione passarono in sovrimpressione i nomi dei ragazzi: cinque titolari e cinque riserve. Dopo l'ultimo nome una laconica frase annunciava che tutti e dieci erano morti. Apparve sullo schermo una seconda foto: il viso di un uomo ancora giovane, che mi sembrò vagamente familiare, anche se il nome sotto l'immagine, Ralph Johnson, mi risultava assolutamente sconosciuto. Era l'autista del pullman e sembrava che fosse riuscito a saltar fuori dall'abitacolo prima dell'urto, ma era comunque morto prima di arrivare in ospedale. Il viso sparì dallo schermo e apparve una cronologia delle tragedie che erano avvenute in quello stesso posto. Spensi il televisore e mi appoggiai all'indietro con uno dei cuscini sugli
occhi, cercando di ricordare dove avevo già visto la faccia dell'autista. Probabilmente la foto risaliva a qualche anno prima. I capelli cortissimi e crespi, gli zigomi affilati, gli occhi infossati... lo avevo già visto, sì, ma non come autista, in un altro posto... ma dove? I riccioli così fitti, l'espressione ispirata... sì, mi sedetti sul letto sconvolto dalla sorpresa, per la quantità di possibili implicazioni, ma non mi potevo sbagliare, dopotutto non avevo conosciuto tante persone a Oxford. Chiamai l'ospedale e chiesi di Lorna. Appena udii la sua voce all'altro capo le domandai, abbassando senza volere la voce: «L'autista del pullman... era il padre di Caitlin, vero?». «Sì» rispose dopo un secondo, e mi resi conto che anche la sua voce si era fatta un sussurro. «Pensi quello che penso io?» «Non lo so, ma non ho voluto dire niente. Uno dei polmoni era compatibile. Caitlin è appena entrata in sala operatoria: forse riusciranno a salvarla.» 24 «Nelle prime ore ho creduto che si trattasse di uno sbaglio. Che il vero obiettivo fosse il vostro pullman che viaggiava subito dietro. Penso addirittura che qualcuno dei matematici sia riuscito a vedere la caduta nella scarpata, vero?» disse Petersen rivolgendosi a Seldom. Eravamo in un piccolo caffè di Little Clarendon Street. Petersen ci aveva dato appuntamento lì, fuori dal suo ufficio, come se avesse qualcosa da farsi perdonare o qualcosa di cui ringraziarci. Indossava un abito nero molto austero e ricordai che quella mattina si sarebbe svolto un servizio funebre speciale per le piccole vittime. Era la prima volta che vedevo Seldom dal suo rientro. Aveva un'espressione grave e silenziosa, e l'ispettore dovette ripetere la domanda. «Sì, abbiamo visto l'urto e poi il salto. Il nostro pullman si è subito fermato e qualcuno ha chiamato il Radcliffe. Certi dicevano di udire delle grida dal fondo della scarpata. La cosa curiosa» disse Seldom come ricordando un incubo non completamente logico «è che quando ci siamo affacciati sulla scarpata c'erano già due ambulanze.» «Le ambulanze erano lì perché stavolta il messaggio è arrivato prima e non dopo l'omicidio. Questa è stata una cosa che ho notato anch'io. Non era nemmeno indirizzato a lei, come i precedenti, ma direttamente al pron-
to soccorso dell'ospedale. Sono stati loro ad avvisarmi mentre uscivano le ambulanze.» «Cosa diceva il messaggio?» chiesi. «"Il quarto della serie è la Tetraktys. Dieci punti nel triangolo cieco." È arrivata una telefonata che per fortuna è stata registrata. Abbiamo altre registrazioni della sua voce e anche se ha cercato di contraffarla un po' non ci sono dubbi. Sappiamo persino da dove arrivava la chiamata: un telefono a gettoni in una stazione di servizio alla periferia di Cambridge, dove si era fermato probabilmente per fare benzina. Qui troviamo il primo dettaglio intrigante, di cui si è accorto Sacks guardando i ticket: aveva fatto pochissima benzina, molto meno che partendo da Oxford. La perizia sul pullman ha confermato che effettivamente il serbatoio era quasi vuoto.» «Non voleva che nella caduta scoppiasse un incendio» disse Seldom, come se approvasse suo malgrado un ragionamento implacabile. «Sì» rispose Petersen, «all'inizio avevo pensato, seguendo lo schema precedente, che se aveva avvisato in anticipo era forse perché inconsciamente sperava che lo catturassimo o magari voleva divertirsi un po' concedendoci un piccolo vantaggio. Invece quello che voleva era solo che i corpi non bruciassero e che le ambulanze fossero nelle vicinanze per assicurarsi che gli organi arrivassero in ospedale prima possibile. Sapeva che dieci corpi gli davano buone probabilità per il trapianto. Direi che a suo modo ha trionfato: quando abbiamo capito, era troppo tardi. L'intervento è stato eseguito subito, il pomeriggio stesso, non appena avuto il consenso della prima coppia di genitori e, a quanto mi hanno detto, la bimba ce la farà. In realtà abbiamo iniziato a sospettare di lui solo ieri, quando durante un accertamento di routine abbiamo visto che il suo nome compariva anche nell'elenco del Blenheim Palace. Aveva portato al concerto un altro gruppo di ragazzi della scuola e li avrebbe aspettati nell'area del parcheggio. Era in una posizione perfetta per girare dietro al gazebo, soffocare il percussionista e tornare immediatamente al suo posto, nella confusione generale, senza essere visto. Al Radcliffe ci hanno anche confermato che conosceva Mrs Eagleton: le infermiere lo hanno visto parlare con lei in un paio di occasioni. Sappiamo inoltre che Mrs Eagleton portava in sala d'aspetto il suo libro sulle serie logiche. Magari gli avrà raccontato che la conosceva personalmente, senza sapere che questo l'avrebbe trasformata nella prima vittima. Per di più, tra i suoi libri ne abbiamo trovato uno sugli spartani, uno sui pitagorici e i trapianti nell'antichità e un altro sullo sviluppo fisico dei bambini down: voleva essere sicuro che i polmoni potessero servire.»
«E come ha fatto con Clarck?» domandai. «Non potrò mai avere una conferma, ma la mia idea è questa: Clarck non lo ha ammazzato. Ha semplicemente controllato il secondo piano fino a che ha visto uscire una barella con un morto di quel reparto, il reparto che, lui sapeva, Seldom visitava. I cadaveri restano in una stanzetta in quel piano, senza nessuna sorveglianza, a volte anche per ore. L'unica cosa che ha fatto è stata entrare in quella stanza e conficcare nel braccio del vecchio una siringa vuota, per lasciare un segno e simulare un assassinio. Il nostro uomo, a suo modo, cercava davvero di arrecare il minor danno possibile. Credo però che per capire il ragionamento sia necessario cominciare dalla fine. Intendo dire, partire dal gruppo di bambini. È possibile che da quando gli hanno negato per la seconda volta l'autorizzazione al trapianto per sua figlia abbia iniziato a concepire le prime idee in questa direzione. A quell'epoca ogni mattina accompagnava e riportava col suo pullman quel gruppo di bambini. Iniziò a vederli come una banca di polmoni sani che lui si lasciava scappare tutti i giorni mentre sua figlia stava morendo. La ripetizione crea il desiderio, sì, e il desiderio crea le ossessioni. Forse prima ha pensato di ammazzarne solo uno, ma sapeva che non era così facile azzeccare il polmone compatibile. Sapeva inoltre che in questa scuola molti genitori sono cattolici praticanti: è molto frequente nei genitori di questi ragazzi il ricorso alla religione, molti credono addirittura che i loro figli siano delle specie di angeli. Non voleva rischiare scegliendone uno a caso ma non voleva nemmeno morire con loro: i genitori avrebbero subito sospettato e nessuno avrebbe accettato di donare gli organi. Tutti sapevano che Johnson era disperato per sua figlia e che poco dopo il ricovero aveva consultato la legislazione inglese con l'intenzione di suicidarsi. Aveva bisogno, in definitiva, di qualcuno che li ammazzasse per lui. Questo immagino fosse il suo dilemma finché lesse, magari attraverso Mrs Eagleton o in quell'anteprima sul giornale, il capitolo del suo libro sui delitti seriali. Fu allora che trovò l'idea che gli mancava. Concepì il suo piano, un piano semplice. Se non poteva trovare qualcuno che ammazzasse i bambini per lui, avrebbe inventato un assassino. Un assassino seriale immaginario a cui tutti avrebbero creduto. «Probabilmente aveva già letto qualcosa sui pitagorici e non gli fu difficile immaginare una serie di simboli che potessero essere visti come una sfida a un matematico. Anche se magari il secondo disegno, il pesce, aveva un'ulteriore connotazione: è il simbolo dei primi cristiani. Forse è stato il suo modo di segnalarci che si stava vendicando. Sappiamo anche che era
particolarmente affascinato dal simbolo della Tetraktys - è scritto ai margini di quasi tutti i suoi libri - forse per la coincidenza con il numero dieci, la squadra completa di basket, il numero di bambini che pensava di ammazzare. Scelse Mrs Eagleton per cominciare la serie perché probabilmente non poteva pensare a una vittima più facile: una donna anziana, invalida, che rimaneva sola in casa tutti i pomeriggi. La sua idea era di non allertare subito la polizia. Questo credo sia stato il particolare più astuto del piano: che le prime morti fossero discrete, impercettibili, di modo che non ci buttassimo subito su di lui e lui potesse avere il tempo di arrivare alla quarta. Gli bastava che una sola persona ne fosse al corrente: lei. Qualcosa è andato storto in quella prima morte ma è stato comunque più intelligente di noi e non ha più commesso errori. Sì, a suo modo, ha trionfato. È strano, ma mi costa condannarlo: anch'io ho una figlia. È difficile sapere a cosa si può arrivare per un figlio.» «Pensa che progettasse di salvarsi?» domandò Seldom. «Questo non lo sapremo mai» rispose Petersen. «Nella perizia si è scoperto che aveva limato leggermente lo sterzo. In un primo momento ciò gli avrebbe procurato un alibi. Ma, d'altra parte, se pensava di saltar fuori, avrebbe potuto farlo prima. Credo che abbia voluto guidare sino alla fine per essere sicuro che il pullman finisse davvero nel precipizio. Solo una volta superato il guardrail si è deciso a saltare. Quando sono riusciti a recuperarlo aveva già perso conoscenza ed è morto in ambulanza prima ancora di arrivare in ospedale. Bene» disse l'ispettore mentre chiamava il cameriere e guardava l'orologio «non voglio arrivare tardi al funerale. Desidero solo dirvi ancora una volta che ho davvero apprezzato il vostro aiuto» e per la prima volta sorrise come un essere umano. «Ho letto fin dove ho potuto i libri che mi ha prestato, ma la matematica non è mai stata il mio forte.» Ci alzammo con lui e lo guardammo allontanarsi verso la chiesa di St Giles, dove si era già radunato un gran numero di persone. Alcune delle donne portavano un velo nero e altre entravano in chiesa tenendosi per mano come se trovassero troppo penoso salire da sole i pochi gradini dell'ingresso. «Torna in istituto?» mi chiese Seldom. «Sì» risposi, «in realtà non avrei dovuto prendermi questa pausa: entro oggi devo assolutamente finire la prima relazione per la mia borsa di studio. E lei?» «Io?» guardò verso la chiesa e per un attimo mi sembrò molto solo e
sorprendentemente indifeso. «Credo che aspetterò qui che termini il servizio funebre: voglio accompagnare il corteo al cimitero.» 25 Trascorsi le ore successive a riempire, sbagliando sempre più spesso, la sequenza di ridicole caselle della relazione, con dati e particolari assurdi che nessuno avrebbe mai letto. Alle quattro riuscii finalmente a stampare i documenti e raccogliere tutti i fogli in una busta. Scesi in segreteria, lasciai il plico a Kim perché lo spedisse in Argentina con la posta del pomeriggio e uscii per strada con una sensazione di liberazione. Mi ricordai, sulla strada del ritorno verso Cunliffe Close, che dovevo pagare a Beth l'affitto e feci una piccola deviazione in Observatory Street per ritirare i soldi al bancomat. Mi ritrovai a fare i medesimi passi di un mese prima, quasi esattamente alla medesima ora. L'aria aveva lo stesso tepore, le strade la stessa calma, tutto sembrava ripetersi, come se mi fosse data un'ultima occasione per tornare indietro al giorno in cui tutto ebbe inizio. Riprendendo Banbury Road scelsi lo stesso lato, il marciapiede al sole, e camminai rasentando le siepi di ligustro per piegarmi a quella misteriosa congiunzione di ripetizioni. Solo all'ultima curva di Cunliffe Close vidi, ancora sull'asfalto, l'ultimo brandello di pelle dell'opossum, qualcosa che un mese prima non c'era. Feci uno sforzo per avvicinarmi. Le macchine, la pioggia, i cani avevano fatto il loro lavoro. Il sangue era scomparso. Rimaneva solo questo ultimo lembo di pelle secca pieno di peli che sporgeva dall'asfalto, come una buccia sul punto di essere tolta. "L'opossum fa di tutto per proteggere i cuccioli" aveva detto Beth. In mattinata non avevo sentito una frase quasi uguale? Sì, era stato l'ispettore Petersen: "È difficile sapere a cosa si può arrivare per un figlio". Rimasi come pietrificato, con gli occhi inchiodati a quell'ultimo brandello di pelle, ascoltando in silenzio. All'improvviso capii, capii tutto. Vidi, come se fosse stato sempre lì, quello che Seldom voleva che vedessi dall'inizio. Me lo aveva detto, quasi parola per parola, e io non avevo saputo ascoltare. Me lo aveva ripetuto in cento modi differenti, mi aveva messo le foto sotto il naso e io continuavo a vedere delle emme, dei cuori e degli otto. Tornai indietro e rifeci tutta la strada con un unico pensiero: dovevo trovare Seldom. Attraversai il mercato, salii per High Street e presi la scorciatoia di King Edward per arrivare più in fretta possibile al Merton College. Ma Seldom non c'era. Restai un attimo sconcertato: alla reception non lo avevano visto
rientrare dal mattino. Mi venne in mente che potesse essere in ospedale da Frank. Avevo degli spiccioli in tasca e chiamai Lorna dal telefono del college perché mi passasse il secondo piano. No, Mr Kalman non aveva ricevuto visite quel giorno. Chiesi che mi ripassassero Lorna. «Non ti viene in mente un altro posto dove potrebbe essere?» Dall'altro capo ci fu silenzio e non capii se Lorna stava semplicemente pensando o se invece stava decidendo se dirmi qualcosa che avrebbe potuto rivelare di che tipo era stata la relazione fra loro. «Che giorno è oggi?» mi chiese inaspettatamente. Era il 25 giugno. Glielo dissi e Lorna sospirò come se annuisse. «È il giorno in cui è morta sua moglie, il giorno dell'incidente. Penso che lo troverai all'Ashmolean Museum.» Rifeci la strada fino a Magdalen Street e salii la scalinata del museo. Non ci ero ancora stato. Attraversai una piccola galleria di ritratti presieduta dal volto solenne di John Denwey e seguii le frecce che indicavano il grande fregio degli Assiri. Seldom era l'unica persona nella sala. Era seduto su una delle panche disposte a una certa distanza dal fregio. A mano a mano che mi avvicinavo scoprivo che il fregio continuava come una pergamena di pietra, sottile e lunghissimo, e si estendeva da un'estremità all'altra della parete. Involontariamente cercai di attutire i passi: Seldom sembrava chiuso in un profondo raccoglimento, con gli occhi fissi e immobili su un dettaglio della pietra, privo di espressione, come se avesse smesso di guardare da tempo. Per un attimo mi chiesi se non avessi dovuto aspettarlo fuori. Quando si voltò verso di me non sembrò sorpreso di vedermi lì e disse solo, con il tono pacato di sempre: «Bene, se è arrivato fin qui è perché sa o crede di sapere, giusto? Si sieda» e mi indicò la panca accanto. «Se vuole vedere tutto il fregio deve mettersi qui.» Mi sedetti dove mi aveva indicato e notai la successione di immagini eterogenee di quello che sembrava un immenso campo di battaglia. Le piccole figure erano impresse sulla pietra giallastra con ammirevole precisione. Nella moltiplicazione delle scene di combattimento un unico guerriero sembrava affrontare un intero esercito. Lo si riconosceva dalla lunga barba e da una spada che dominava le altre. La ripetizione instancabile del guerriero dava, osservando il fregio da sinistra a destra, una netta sensazione di movimento. Guardandolo una seconda volta ci si accorgeva che le diverse posizioni del guerriero potevano giustamente essere viste come una successione temporale e, alla fine del fregio, erano molto più numerose le figure cadute, come se il guerriero avesse sconfitto da solo tutto l'esercito.
«Re Nissam, guerriero infinito» disse Seldom con un leggero accenno di ironia. «È il nome con cui fu presentato il fregio a re Nissam e resta quello con cui è giunto in Inghilterra tremila anni dopo. Però la pietra custodisce un'altra storia per chi ha la pazienza di vedere. Mia moglie riuscì a ricostruirla quasi completamente quando il fregio arrivò qui. Se guarda la targhetta a fianco, vedrà che l'opera fu affidata a Hassiri, lo scultore più importante tra gli Assiri, per celebrare un compleanno del re. Hassiri aveva un figlio, Nemrod, al quale aveva insegnato la propria arte e che lavorava con lui. Nemrod stava per sposarsi con una ragazza molto giovane, Agartis. Proprio il giorno in cui padre e figlio preparavano la pietra per iniziare l'opera, re Nissam, durante una battuta di caccia, incontrò la ragazza vicino al fiume. Volle prenderla con la forza e Agartis, che non aveva riconosciuto il sovrano, cercò di scappare nel bosco. Il re la raggiunse agevolmente e, dopo averla violentata, le tagliò la testa con la spada. Quando tornò a palazzo e passò davanti ai due scultori, padre e figlio videro la testa della fanciulla appesa con gli altri trofei di caccia. Mentre Hassiri portava la triste notizia alla madre della ragazza, suo figlio, in un attacco di disperazione, incise sulla pietra la figura del re che tagliava la testa a una donna inginocchiata. Al suo ritorno, Hassiri trovò il figlio impazzito fissare l'immagine che sarebbe stata la sua condanna a morte. Lo allontanò, lo fece rientrare in casa e restò solo col suo dilemma. Probabilmente per lui sarebbe stato facile cancellare quell'intaglio. Hassiri però era un artista antico e credeva che ogni opera portasse in sé una verità misteriosa protetta da una mano divina, una verità che non spettava all'uomo distruggere. Forse voleva anche, come suo figlio, che nelle epoche future si sapesse quello che era successo. Nella notte distese un telo sulla parete e chiese che lo lasciassero lavorare lì sotto perché, disse, quell'opera sarebbe stata completamente diversa da tutti i suoi lavori precedenti, un'opera che solamente lo sguardo del re avrebbe dovuto inaugurare. Solo, con quella prima immagine sulla pietra, Hassiri visse lo stesso dilemma del generale di Cherteston in El signo de la espada rota: qual è il posto migliore per nascondere un granello di sabbia? Una spiaggia, certo, ma cosa succede se non abbiamo la spiaggia? Qual è il posto migliore per nascondere un soldato morto? Sì, un campo di battaglia, ma se non c'è la battaglia? Un generale può scatenare una battaglia e uno scultore... può immaginarla. Re Nissam, guerriero infinito, non ha mai preso parte a una guerra: la sua epoca fu straordinariamente pacifica, in vita sua uccise forse solo donne disarmate. Ma il fregio, anche se il motivo bellico gli sembrava un po' strano, piacque al re e gli
parve una buona idea esporlo nel palazzo per intimidire i sovrani degli stati vicini. Nissam, e dopo di lui intere generazioni di uomini, hanno visto solo quello che l'artista aveva voluto che si vedesse: un'incredibile successione di immagini da cui l'occhio si allontana in fretta perché crede di avvertire la ripetizione, crede di catturare la regola, crede che ogni parte rappresenti il tutto. Questa è l'astuzia nella moltiplicazione della figura con la spada. Però c'è una parte ridotta e nascosta che contraddice e annulla il resto, una parte che da sola costituisce un altro tutto. «Io non ho dovuto aspettare tanto come Hassiri. Anch'io volevo che qualcuno, almeno una persona, la vedesse, che qualcuno sapesse la verità e giudicasse. Credo di dover essere contento che alla fine l'abbia vista lei.» Seldom si alzò e aprì la finestra alle mie spalle mentre si arrotolava una sigaretta. Continuò a parlare in piedi, come se non potesse tornare a sedersi. «Quel primo pomeriggio, quando ci conoscemmo, avevo ricevuto un messaggio, sì, ma non era di uno sconosciuto, non era di un matto ma di qualcuno, purtroppo, molto vicino a me. Era la confessione di un delitto ed era una disperata richiesta di aiuto. Il messaggio era nel mio casellario, come raccontai a Petersen, già nel momento in cui iniziò la lezione ma lo presi e lo lessi solo quando scesi al bar, un'ora più tardi. Andai immediatamente a Cunliffe Close e trovai lei sulla porta. Credevo ancora che il messaggio contenesse qualche esagerazione. "Ho fatto una cosa terribile", diceva, ma non avrei mai potuto immaginare quello che trovammo. Qualcuno che hai tenuto in braccio fin da bambina, per te resta una bambina per tutta la vita. L'avevo sempre protetta. Non avrei potuto chiamare la polizia. Se fossi stato da solo credo che avrei cercato di cancellare le impronte, lavare il sangue, far sparire il cuscino. Ma ero con lei e dovetti fare la telefonata. Avevo già letto dei casi di Petersen e sapevo che non appena fosse stato incaricato dell'inchiesta, lei sarebbe stata spacciata. Mentre aspettavamo la polizia vissi, anch'io, il dilemma di Hassiri. Dove nascondere un granello di sabbia? In spiaggia. Dove nascondere una figura con la spada? In un campo di battaglia. E dove nascondere un delitto? Non poteva più essere nel passato. La risposta era semplice ma terribile: restava solo il futuro, si poteva nascondere solo in una serie di delitti. Era vero che dopo la pubblicazione del mio libro avevo ricevuto messaggi di ogni tipo. Ne ricordo uno in particolare: qualcuno che minacciava di ammazzare un barbone ogni volta che il suo biglietto dell'autobus aveva un numero primo. Non mi era difficile immaginare un assassino che lasciava a ogni delitto,
come una sfida, il simbolo di una serie logica. Ma, naturalmente, non ero disposto a "commettere" gli omicidi. Non ero ancora sicuro di come avrei risolto questo punto ma non avevo nemmeno troppo tempo per pensarci. Quando il medico legale stabilì l'ora della morte tra le due e le tre del pomeriggio, capii che l'avrebbero subito arrestata e decisi di saltare nel vuoto. Il biglietto che avevo buttato nel cestino era la bozza di una dimostrazione sbagliata che avevo poi voluto recuperare, ero certo che Brent si sarebbe ricordato di quel foglietto se la polizia lo avesse interrogato. Immaginai un testo breve, come un appuntamento. Volevo soprattutto fornirle un alibi: la cosa più importante era l'orario. Scelsi le tre, il limite massimo che aveva stabilito il medico, sapevo che a quell'ora Beth sarebbe stata già alle prove. Quando l'ispettore mi chiese se nel messaggio ci fosse qualche altro particolare ricordai che noi due avevamo parlato in spagnolo e che guardando i leggii avevo visto formata la parola spagnola aro, cerchio. E proprio al cerchio pensai subito: era esattamente il simbolo che io stesso suggerivo nel mio libro per iniziare una serie con la massima indeterminazione.» «Aro» ripetei. «Era questo che voleva vedessi nelle fotografie.» «Sì, cercai di dirglielo in tutti i modi possibili. Solamente lei che non è inglese avrebbe potuto leggere quella parola come l'avevo letta io. Dopo che ebbero raccolto le nostre dichiarazioni, mentre camminavamo verso il teatro, volevo capire soprattutto se lei se ne era accorto o se avesse notato qualche altro dettaglio che mi fosse sfuggito e avrebbe potuto incolparla. Lei mi ha fatto notare la posizione finale della testa, con gli occhi rivolti allo schienale. Dopo Beth mi ha confessato che sì, non aveva retto a quello sguardo dagli occhi fissi e aperti.» «E perché fece sparire la coperta?» «A teatro le chiesi che mi raccontasse, passo dopo passo, esattamente quello che aveva fatto. Per questo volli a tutti i costi darle la notizia personalmente: volevo che parlasse con me prima di affrontare la polizia. Dovevo raccontarle il mio piano e volevo soprattutto sapere se aveva trascurato qualche altro aspetto. Mi disse che aveva usato i suoi guanti da sera per non lasciare impronte, ma che effettivamente aveva dovuto lottare e che il tacco della scarpa aveva strappato la coperta. Pensò che la polizia avrebbe potuto sospettare, per questo dettaglio, che si trattasse di una donna. Aveva ancora la coperta nella borsa e decidemmo che l'avrebbe fatta sparire. Era terribilmente nervosa e pensai che non avrebbe retto al primo incontro con Petersen. Sapevo che se l'ispettore si fosse fissato su di lei, sarebbe stata
perduta. E sapevo anche che, per mettere in piedi la teoria della serie, dovevo fornirgli quanto prima un secondo delitto. Fortunatamente proprio lei mi aveva dato, in quella nostra prima conversazione, l'idea che mi mancava: i delitti impercettibili. Delitti che nessuno vedesse come tali. Un delitto veramente impercettibile, realizzai, non ha nemmeno bisogno di essere un delitto. Pensai subito al reparto di Frank. Ogni settimana vedevo uscirne dei cadaveri. Mi dovetti procurare solo una siringa e aspettare pazientemente che arrivasse il primo morto nella stanza del corridoio. Era una domenica, e Beth era in giro con l'orchestra. Era perfetto. Feci attenzione all'ora che avevano segnato sul polso, per assicurarmi di avere anch'io un alibi, e conficcai nel braccio di quel cadavere la siringa vuota, solo per lasciare un segno. Questo era il limite cui ero disposto a spingermi. «Nella mia piccola ricerca sui delitti irrisolti avevo letto che i medici legali sospettavano da tempo l'esistenza di una sostanza chimica che si dissolve in poche ore senza lasciare traccia. Quel sospetto mi bastava. Inoltre si riteneva che il mio criminale fosse abbastanza furbo da sfidare anche la polizia. Avevo deciso che il secondo simbolo sarebbe stato il pesce e che la serie doveva essere quella dei primi numeri pitagorici. Appena uscito dall'ospedale lasciai un messaggio, simile a quello che avevo descritto a Petersen, sulla porta girevole dell'istituto. Credo che Petersen per un certo periodo abbia sospettato di me. Fu da quella seconda morte che Sacks iniziò a seguirmi da tutte le parti.» «Al concerto, però, non può essere stato lei: era vicino a me!» esclamai. «Il concerto... il concerto è stato il primo segnale di quello che più temevo. L'incubo che mi accompagna dall'infanzia. Nel mio piano stavo aspettando che accadesse un incidente stradale proprio nel punto scelto da Johnson per gettarsi. Era un posto dove io stesso avevo avuto un incidente e l'unica possibilità che mi veniva in mente per il terzo simbolo della serie, il triangolo. Pensavo di mandare un messaggio a posteriori che rivendicasse quel volgare incidente come il terzo omicidio, un omicidio che aveva raggiunto la perfezione: non aveva lasciato tracce. Quella era stata la mia scelta e sarebbe stata l'ultima morte. Avrei rivelato subito dopo la soluzione della serie che io stesso avevo iniziato. Il mio presunto avversario intellettuale avrebbe ammesso la sconfitta e sarebbe sparito in silenzio o lasciando magari una pista falsa perché la polizia inseguisse ancora per un po' un fantasma. Ma, allora, successe il fatto del concerto. Era una morte e io stavo cercando delle morti. Da dove eravamo noi sembrava davvero che qualcuno lo stesse strangolando. Non era difficile credere che stessimo as-
sistendo a un omicidio. Ma la cosa forse più straordinaria è che quell'uomo morente stava suonando il triangolo. Sembrava un segnale favorevole, come se il mio piano fosse stato approvato in una sfera superiore e mi venisse spianato il cammino. Come le dissi, non ho mai saputo leggere i segni del mondo reale. Pensai di potermi impadronire di quella morte per il mio piano e mentre lei correva con gli altri verso il palco, mi assicurai che nessuno mi stesse osservando e ritagliai dal programma le due frasi che mi servivano per preparare il messaggio. Dopo le lasciai semplicemente sulla mia sedia e mi avviai dietro di voi. «Quando l'ispettore ci fece dei cenni e vidi che si stava avvicinando a noi dall'altro estremo della fila, indugiai di proposito prima di arrivare al mio posto, come se la sorpresa mi avesse paralizzato, perché fosse direttamente lui a prendere i ritagli. Fu il mio piccolo numero di illusionismo. Ovviamente avevo avuto, o credevo di aver avuto, un aiuto straordinario dal caso, perché lì, ad assistere a tutta la scena c'era addirittura Petersen. Il medico che era salito sul palco disse, naturalmente, quello che per me era ovvio: si era trattato di un blocco respiratorio naturale a dispetto dell'apparenza così drammatica. Sarei stato il primo a rimanere sorpreso se l'autopsia avesse rivelato qualcosa di anomalo. A quel punto mi restava solo il problema, che avevo già risolto una volta, di trasformare una morte naturale in un delitto, e buttare lì un'ipotesi convincente perché anche Petersen integrasse con naturalezza quella morte alla serie. Questa volta era più difficile perché non potevo avvicinarmi al cadavere e, diciamo, stringere le mani attorno al collo. Ricordai allora il caso di telepatia a distanza. Non mi veniva in mente altro: insinuare che potesse essersi trattato di un fatto simile. Sapevo, però, che era quasi impossibile convincere Petersen, anche se gli erano rimasti dei dubbi sull'omicidio di Mrs Crafford: non rientrava, diciamo così, nell'estetica dei suoi ragionamenti, nel contesto del verosimile. Per lui non sarebbe stato un argomento plausibile, come diremmo in matematica. Ma non servì niente di tutto questo: Petersen accettò senza problemi un'ipotesi per me molto più grossolana, quella dell'attacco lampo da dietro. L'accettò nonostante fosse lì e avesse visto la stessa scena nostra: che al di là della teatralità della morte, non vi era nessun altro. La accettò per lo stesso umano motivo di sempre: perché voleva crederci. Forse l'aspetto più curioso è che Petersen non abbia nemmeno considerato che si potesse trattare di morte naturale: mi resi conto che se qualche volta poteva aver dubitato, adesso era già perfettamente convinto di inseguire un assassino seriale e gli sembrava assolutamente ragionevole trovare delitti a ogni
passo, compresa l'unica sera in cui andava con la figlia a un concerto.» «Non crede che potrebbe essere stato Johnson ad attaccare il musicista, come pensa Petersen?» «No, non lo credo. Sarebbe possibile solo dal punto di vista di Petersen e cioè se Johnson avesse progettato anche la morte di Mrs Eagleton e di Clarck. Ma fino alla sera del concerto era molto difficile che Johnson potesse stabilire il corretto legame tra le prime due morti. Ritengo che quella sera Johnson vide, come me, un segnale sbagliato. Magari non ha nemmeno assistito alla morte: avrebbe dovuto aspettare i ragazzi sul pullman. Ma il giorno dopo ha sicuramente seguito l'intera vicenda sul giornale. Ha visto la serie di simboli, una serie di cui conosceva il seguito. Aveva letto a lungo, freneticamente, cose sui pitagorici e sentì, come me, che da qualche sfera superiore gli veniva data un'occasione per il suo piano. Il numero dei ragazzi della squadra di basket coincideva con quello della Tetraktys. A sua figlia restavano solo quarantott'ore di vita. Tutto sembrava dirgli: è questa l'occasione ed è anche l'ultima. È ciò che cercavo di spiegarle nel parco, l'incubo che mi accompagna dall'infanzia: le conseguenze, le libere associazioni, i mostri che genera il sonno della ragione. Volevo solo evitare che Beth finisse in prigione e adesso mi porto addosso undici morti.» Rimase un attimo in silenzio, con lo sguardo perso fuori della finestra. «Come l'ha capito?» mi chiese a un tratto. «Mi sono ricordato di quello che ha detto Petersen questa mattina, che è difficile sapere cosa non farebbe un padre per una figlia. Il giorno in cui vi ho visto insieme, lei e Beth al mercato, mi era sembrato di avvertire tra voi un legame strano. Mi aveva incuriosito soprattutto che la ragazza si rivolgesse a lei come per chiedere un'approvazione al suo matrimonio. Mi domandai se fosse possibile che lei avesse coperto con una serie di crimini una persona che non vedeva nemmeno troppo spesso.» «Nella disperazione è stata astuta. In realtà non so e non credo saprò mai fino a che punto sia vero quello che pensa. Non so cosa possa averle raccontato sua madre di noi. Non me ne aveva mai parlato prima. Ma forse per essere sicura che l'avrei aiutata ha giocato l'ultima carta.» Cercò nella tasca interna della giacca e mi porse un foglio piegato in quattro. "Ho fatto una cosa terribile" diceva la prima riga, con una grafia curiosamente infantile. La seconda, che sembrava essere stata aggiunta in un raptus di disperazione, continuava con lettere grandi e sconsolate: "Per favore, per favore, ho bisogno del tuo aiuto, papà".
EPILOGO Quando scesi la scalinata del museo c'era ancora il sole, con quella luce benevola e prolungata dei pomeriggi estivi. Mi incamminai a piedi verso Cunliffe Close, lasciandomi dietro la cupola dorata dell'Osservatorio. Feci lentamente la salita di Banbury Road, chiedendomi cosa dovessi fare della confessione che avevo ascoltato. Alcune delle case iniziavano a illuminarsi e, dalle finestre, vidi sporte con la spesa, televisori accesi, i frammenti civilizzati della vita che proseguiva imperturbabile dietro alle siepi. All'altezza di Rawlinson Road sentii alle mie spalle il suono breve e allegro, ripetuto due volte, di un clacson. Mi voltai pensando di vedere Lorna. Vidi invece una piccola, fiammante decappottabile, blu metallizzato, da cui si sbracciava Beth. Mi avvicinai e lei si passò una mano tra i capelli spettinati, allungandosi sul sedile per parlarmi con un gran sorriso. «Vuoi un passaggio?» Credo abbia notato qualcosa di nuovo nella mia espressione perché la mano che si stava allungando per aprirmi la portiera restò a metà strada. Mi complimentai meccanicamente per la macchina nuova e poi la guardai negli occhi, la guardai come se la vedessi per la prima volta e dovessi trovare in lei qualcosa di diverso. Ma era semplicemente più felice, più serena, più bella. «Qualcosa non va?» mi chiese. «Da dove vieni?» «Ho... appena parlato con Arthur Seldom.» Un primo segnale d'allarme attraversò rapidissimo i suoi occhi. «Matematica?» chiese. «No» risposi. «Stavamo parlando di te. Mi ha raccontato tutto.» Il suo viso si rabbuiò e le mani tornarono al volante. Tutto il corpo si tese all'improvviso. «Tutto? No, non credo che ti abbia raccontato tutto» sorrise nervosamente tra sé, e un antico rancore sembrò affiorare per un attimo nei suoi occhi. «Non avrebbe mai il coraggio di raccontare tutto. Però...» aggiunse e mi guardò di nuovo con espressione prudente, «vedo che gli hai creduto. E cosa farai adesso che pensi di sapere tutto?» «Niente, cosa potrei fare? Finirebbe sicuramente in prigione anche lui. C'è solo una cosa che vorrei sapere: cosa ti ha spinto a farlo?» «Cosa ha spinto te a venire? Perché non sei venuto semplicemente a studiare matematica, vero? Perché hai scelto Oxford?» Vidi spuntarle tra le ciglia una lacrima. «È stata una tua frase. Il giorno che ti ho visto scendere
da quell'auto così felice con la tua racchetta. Quando si parlava di borse di studio. "Dovresti provare" mi dicesti. Non riuscivo a smettere di ripetermelo: "Dovresti provare". Pensavo che sarebbe morta presto e che avrei ancora avuto la possibilità di un'altra vita. Invece qualche giorno dopo le hanno dato i nuovi esami: il tumore era regredito, il dottore le aveva detto che poteva campare altri dieci anni. Altri dieci anni legata a quella vecchia strega... non avrei potuto sopportarlo.» La lacrima che era rimasta sospesa scivolò sulla guancia. L'asciugò con un movimento brusco, quasi vergognandosene, e allungò il braccio per cercare un kleenex nel portaoggetti. Rimise le mani sul volante e per un attimo vidi il pollice più piccolo. «Be', allora non sali?» «La prossima volta» risposi. «È una bella giornata, voglio camminare ancora un po'.» La macchina ripartì e ben presto la vidi diventare piccola e sparire in lontananza dietro la curva di Cunliffe Close. Mi domandai se Seldom mi avesse detto tutto o se c'era dell'altro, qualcosa che avevo paura di immaginare. Mi chiesi che parte di verità sapessi in fondo e come avrei dovuto iniziare la mia seconda relazione. Imboccando Cunliffe Road guardai a terra e non riuscii più a trovare il punto in cui era stato investito l'opossum: l'ultimo avanzo di pelle era sparito, e la strada che si stendeva davanti a me era di nuovo pulita, innocente, libera. RINGRAZIAMENTI Ringrazio la Fondazione MacDowell, i miei anonimi benefattori, e i cugini Putnam per due soggiorni in quel paradiso di artisti che è la Colonia MacDowell, dove è stata scritta gran parte di questo romanzo. L'International Writing Program, dell'Università di Iowa, per una borsa di studio che mi ha permesso di correggere il testo. FINE