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LE MIGLIORI STORIE DELL'ORRORE dal «Magazine of Fantasy & Science Fiction» (The Best Horror Stories From The Magazine Of Fantasy & Science Fiction, 1988) A cura di EDWARD L. FERMAN e ANNE JORDAN Indice Introduzione La finestra di Bob Leman Insetti nell'ambra di Tom Reamy Terra gratis di Charles Beaumont Acque infide di Patricia Ferrara La notte della tigre di Stephen King Povero piccolo guerriero! di Brian W. Aldiss Nina di Robert Bloch Werewind (Il vento licantropo) di J. Michael Reaves Il vestito di seta bianco di Richard Matheson Gregory di Gladys di John Anthony West Sul fiume, a Fontainebleau di Stephen Gallagher Orgoglio di Charles L. Grant Zanna di Edgar Pangborn Glory di Ron Goulart La casa degli insetti di Lisa Tuttle Il guanto di Robert Aickman Nata morta di Mike Conner L'inferno di Balgrummo di Russell Kirk Tenebra antica di Pamela Sargent La notte del Bianco Bhairab di Lucius Shepard Riti di recupero di Ian Watson Test di Theodore L. Thomas Il piccolo treno nero di Manly Wade Wellman L'autopsia di Michael Shea Introduzione Un mio amico, scrittore di racconti dell'orrore, si paralizza dalla paura alla sola idea di dover salire su uno di quegli ascensori dalle pareti di ve-
tro. Si è lasciato sfuggire un sacco d'occasioni perché è letteralmente incapace di entrare in uno di quegli ascensori. Io personalmente non sono molto appassionata di serpenti e insetti e, più grandi sono, più in fretta fuggo nella direzione opposta alla loro. È possibile che io creda veramente che un ragno penzolante fuori dalla mia finestra, anche se delle dimensioni di un millimetro, possa improvvisamente diventare feroce, rivoltarsi contro di me e farmi sparire dalla faccia della terra? Razionalmente no, però... chissà... Il meccanismo della paura è implacabile, soggettivo e alimentato dall'immaginazione. Tutti noi possiamo immaginare situazioni "... e se...", ma ci vuole un vero talento letterario per creare da quel "... e se..." un racconto di qualità e valore. Mentre io mi limito a scappare via da un insetto, una scrittrice come Lisa Tuttle è capace di trasformare quell'insetto in un racconto capace di farvi rabbrividire, intitolato La casa degli insetti. Quando si arriva ai racconti dell'orrore, l'incubo di una persona può essere fonte di ispirazione per un'altra, e oggigiorno il soggetto di un racconto dell'orrore è legato solo ai limiti dell'immaginazione dello scrittore. Il racconto dell'orrore è diventato maggiorenne nel XX secolo. Non è più soltanto la descrizione di un evento misterioso o di una vicenda di spettri, ma piuttosto è un racconto di persone: persone che reagiscono al mistero e agli aspetti oscuri dell'anima, quando la normalità è minacciata e il caos incombe. Horace Walpole creò il genere "gotico" nel 1765 con il suo racconto di fantasmi Il castello di Otranto, presentandoci il tono e l'atmosfera del racconto horror moderno. Ognuno degli scrittori dell'orrore che lo hanno seguito ha aggiunto qualcosa in più al genere, in modo che oggi noi possiamo essere spaventati dovunque, in qualsiasi momento e da chiunque... o da qualsiasi cosa. L'orrore, strisciando, è uscito fuori dal castello, insinuandosi in ogni angolo scuro e ombroso. Il soggetto, comunque, qualunque esso sia in un racconto che suscita in noi paura dev'essere credibile, e questo richiede abilità. Chiunque può far rabbrividire una persona (l'immagine di un corrimano che si trasforma nella lama di un rasoio - avete provato un piccolo brivido?) ma per creare una storia intorno a quel brivido e dare vita al racconto e ai suoi personaggi ci vuole un talento non comune. Noi del «Magazine of Fantasy & Science Fiction» siamo molto contenti quando incontriamo un simile talento. Quando leggiamo un manoscritto per prima cosa ricerchiamo la qualità del lavoro e l'abilità dello scrittore; il sangue non è importante. Troppo spesso un principiante, forse eccessivamente influenzato dagli squarci e dalle feri-
te mostrati dai film dell'orrore contemporanei, identifica fiumi di sangue con la sostanza essenziale dei racconti horror. Le storie migliori sono quelle che stimolano le nostre menti e la nostra paura, senza necessariamente disgustare i nostri stomaci. Sin dall'inizio il «Magazine of Fantasy & Science Fiction» ha pubblicato racconti dell'orrore che sono stati fra i migliori nel loro genere. In particolare, le storie scelte per questa raccolta sono le migliori in assoluto. Nel metterle insieme abbiamo tentato di includere racconti per tutti i gusti. L'inferno di Balgrummo di Russell Kirk, ad esempio, offre un'atmosfera dal sapore un po' antico. Usa molte convenzioni del racconto dell'orrore gotico tradizionale ma è ambientato nel mondo d'oggi. È una delle più agghiaccianti storie mai scritte. D'altra parte, Gregory di Gladys, scritto da John Anthony West, vi farà ridere, anche se forse un po' nervosamente. Se John Anthony West vi farà sorridere pur con una certa inquietudine, in questa raccolta ci sono altri racconti del tipo "guardati alle spalle e chiudi la porta". Acque infide, di Patricia Ferrara, è un racconto scritto elegantemente di uno spaventoso, spettrale evento, mentre Tenebre antiche, di Pamela Sargent, può mandare il vostro conto dell'elettricità alle stelle. Coloro che preferiscono mescolare alle loro paure un po' più di scienza e di fantascienza, in L'autopsia, di Michael Shea, troveranno tutto questo... e molto di più ancora. Tuttavia, la cosa fondamentale che questi racconti così diversi tra loro hanno in comune è che sono tutti di qualità eccezionale, scritti da autori di grande talento, con l'esplicito proposito di spaventarvi a morte. I racconti horror, e in particolare i ventiquattro di questa raccolta, sono esempi di notevole abilità artistica che vi sussurrano: «Stai attento!». Persino la cosa più insignificante nel nostro mondo può rivoltarsi contro di noi: si possono spegnere improvvisamente tutte le luci, lasciandoci soli nel buio, aspettando... Così... chiudete le porte a chiave, accendete tutte le luci (tenete anche una pila a portata di mano), mettetevi comodi, girate pagina, leggete e... godetevi l'insinuante ombra della paura. Fate attenzione! Anne Devereaux Jordan Bob Leman LA FINESTRA
Quello di Bob Leman è uno di più validi e interessanti contributi all'ottimo livello dei racconti pubblicati sulla rivista «Fantasy & Science Fiction». Le sue storie partono da una situazione estremamente realistica che prende in seguito una piega agghiacciante, passando dal consueto all'insolito e, a volte, all'esito mortale. La finestra fu pubblicato per la prima volta su «Fantasy & Science Fiction» nel maggio 1980 ed è uno straordinario saggio del modo di procedere narrativo di Leman. È la coinvolgente storia di una ricerca coperta dal segreto militare che studia la telecinesi. Accade però un incredibile incidente: scompare un intero laboratorio e, al suo posto, si materializza un edificio che si rivelerà orribilmente diverso da come è parso a prima vista. «Non sappiamo cosa diavolo stia succedendo laggiù» dissero a Gilson a Washington. «Può trattarsi di una faccenda piuttosto grossa. L'idiota che se ne occupa ha cercato di tenerla nascosta, ma il capo del Servizio di sicurezza ci ha fatto una soffiata. Un progetto pazzesco che, almeno apparentemente, è stato finanziato per anni dal Dipartimento senza che nessuno vi abbia mai prestato molta attenzione. Percezioni extrasensoriali, per amor di Dio! E forse hanno scoperto qualcosa. Comunque, il colonnello addetto al Servizio di sicurezza pensa di sì. Veda un po' di sapere di cosa si tratta.» L'"idiota" era un professore di psicologia con i capelli scompigliati di nome Krantz, che Gilson, insieme al colonnello, incontrò all'aeroporto partendo immediatamente dopo questo colloquio con la berlina dell'esercito alla volta del laboratorio misterioso. Il colonnello iniziò subito a parlare. «Abbiamo a che fare con qualcosa di molto strano, Gilson» disse. «Non ho mai visto niente di simile, così come anche gli altri. Il nostro Krantz è confuso come tutti, ed è lui a dover sopportare la responsabilità di tutto. Noi ci occupiamo solo della sicurezza. Non che finora ci sia stato bisogno di noi, che abbiamo soltanto dovuto trattenere la gente dal ridere come matti. La situazione che abbiamo per le mani è...» «Dottor Krantz,» disse Gilson «sarebbe meglio se lei mi facesse un resoconto completo della situazione. Fino a questo momento non ho assolutamente avuto nessun tipo di informazione al riguardo.» Krantz era occupato ad accendersi un sigaro. Espirò una nuvola di fumo puzzolente attraverso la quale disse: «Sono scomparsi un prefabbricato, un computer Pobec, delle apparecchiature mediche e un, ehm, ricercatore di nome Culvergast».
«Mi spieghi cosa intende per "scomparsi"» disse Gilson. «Spariti. Un edificio e tutto quello che conteneva. Semplicemente non ci sono più. Però abbiamo avuto in cambio qualcosa!» «Di che si tratta?» «Penso che farebbe meglio ad aspettare e a vedere di persona» rispose Krantz. «Saremo sul posto in pochi minuti.» Stavano attraversando le aree periferiche della grande metropoli: si trattava di una successione di cittadine fatiscenti. La strada principale si snodava lungo la valle costeggiando il fiume e i piccoli centri si stendevano in essa, nessuno più grande di uno o due isolati, con le strade trasversali che salivano ripide verso il crinale delle alture. All'interno di una di queste cittadine spettrali, lasciarono la strada maestra e salirono su per il fianco del colle sobbalzando su una strada tutta curve la cui superficie, prima asfaltata, passava poi a essere quasi sterrata. Oltrepassata la cima del crinale, la strada incominciò a scendere bruscamente così com'era salita e, dopo circa quattrocento metri, svoltarono in un viottolo il cui accesso sarebbe passato inosservato a meno di non averlo cercato con attenzione. Adesso si trovavano in una foresta; gli alberi erano già stati tagliati così tanto tempo prima che avrebbe quasi potuto essere un bosco vergine, nobile, silenzioso e, in quel giorno grigio, piuttosto tetro. «Grazioso» disse Gilson. «Com'è che un progetto del genere viene realizzato qui?» «Il posto era disponibile» rispose il colonnello. «Lo è stato fin dalla seconda guerra mondiale. Il laboratorio iniziale serviva per svolgere delle ricerche sui detonatori meccanici. Fu chiuso nel 1948. Rimase vuoto e inutilizzato fino a quando il professore non lo richiese per sé e la sua équipe.» «Culvergast è un po' eccentrico» disse Krantz. «Non ha mai voluto lavorare all'università, troppa gente, diceva. Quando sono venuto a sapere che questo posto era disponibile, ho fatto la richiesta e così l'ho ottenuto... insieme al colonnello qui presente. Culvergast era soddisfatto della sistemazione, ma penso che il colonnello lo innervosisse un po'.» «È matto da legare» aggiunse il colonnello «e i suoi assistentucoli sono ancora peggio di lui.» «Bene, cosa diavolo stava facendo?» chiese Gilson. Prima che Krantz potesse rispondere, l'autista frenò davanti a un cancello chiuso da catene che attraversava il viottolo. Era bloccato da un lucchetto massiccio e presidiato da alcuni soldati armati. Uno di loro, che impugnava una mitraglietta, sbirciò dentro la macchina e chiese: «Tutto a posto, signore?»
«Tutto a posto con le chiacchiere, sergente» disse il colonnello. Era evidentemente una parola d'ordine. Il sottufficiale aprì l'enorme lucchetto che bloccava la catena. «Piuttosto primitivo» commentò il colonnello mentre sobbalzando oltrepassavano l'entrata «ma andrà bene fino a quando non avremo qualcosa di più adatto. Abbiamo delle unità cinofile che pattugliano il recinto.» Si rivolse a Gilson. «Ci siamo quasi. Guardi un po', adesso.» Era una casa. Si trovava al centro della radura in un'isola di luce solare assurda, bianca e splendente. Tutt'intorno, sotto un cielo senza sole, si stagliava la foresta buia, ma in qualche modo la luce del sole brillava sulla casa, scintillando sulle finestre lustre e facendo risplendere i colori dei fiori sistemati nelle aiuole curate e riflettendo il candore puro delle travi esterne nella radura grigia e sudicia, ingombra di edifici cadenti. «Lei non sarebbe potuto capitare qui in un momento migliore» disse il colonnello. «Là c'è il sole, qui è nuvoloso.» Gilson non stava ascoltando. Era sceso dalla macchina e fissava affascinato la scena. «Cristo!» esclamò. «Sembra una dannata cartolina vittoriana!» Volute ornamentali simili a pizzi decoravano la casa di legno dalla struttura irregolare, snodandosi riccamente vicino alle grondaie del tetto ripido e arrampicandosi in disegni elaborati sulle varie torri e torrette, abbellendo le finestre sporgenti e contornando una veranda lunga e ariosa. La distanza fra le grandi finestre faceva intuire che le stanze fossero numerose e ampie. Sembrava una casa nuova, o ridipinta da poco e comunque tenuta in perfetto ordine. Un sentierino di ghiaia fine e candida portava a un alto portone. «Cosa ne dice?» domandò il colonnello. «Non sembra la casa di suo nonno?» In effetti ci assomigliava. Era come la casa del nonno, ingrandita e perfezionata, vista attraverso una lente di romantica nostalgia, la casa del nonno immacolata e curata, come la vecchia casa colonica non era mai stata. Rispose Gilson: «E l'avete avuta in cambio di un prefabbricato, vero?» «Proprio come uno di quelli» disse il colonnello indicando uno degli edifici malandati. «Ma questo non è tutto: stia a guardare.» Il colonnello raccolse un sassolino e lo lanciò in direzione della casa. Il sasso si sollevò nell'aria, raggiunse l'altezza massima e cominciò a scendere. Poi, improvvisamente, scomparve. «Su» disse Gilson. «Mi faccia provare.» Tirò il sasso come una palla da baseball, un lancio alto ed energico. La palla scomparve a circa quindici metri dalla casa. Mentre fissava il punto
dov'era sparita, Gilson si accorse che esso corrispondeva esattamente con la fine del verde uniforme del prato. Dove finiva l'erba, incominciavano le erbacce e i sassi che formavano il terreno della radura. La linea di divisione era nettissima e correva in diagonale attraverso il prato. Vicino al sentierino girava secondo un angolo di novanta gradi e tagliava il prato, il sentiero e il boschetto con la stessa, precisa linea retta, «Si tratta di un quadrato perfetto» disse Krantz «di circa trenta metri di lato. Un cubo, in effetti. Sappiamo che la cima è a circa trenta metri da terra e penso che ce ne siano circa dieci nel terreno.» «La cima di che?» disse Gilson. «Di cosa si tratta?» «Dia lei un nome» disse Krantz. «Forse un ricevitore di un televisore tridimensionale di trenta metri di lato, o una sfera di cristallo cubica. Chissà?» «Ma i sassi che abbiamo tirato? Non hanno colpito la casa. Dove sono andati a finire?» «Questo è il punto. Se riusciamo a rispondere alla sua domanda, forse risolviamo il caso.» Gilson respirò profondamente. «Va bene. Ho visto la casa. A questo punto mi racconti tutto. Dall'inizio.» Krantz rimase in silenzio per un attimo, poi, con il tono distaccato di un oratore, cominciò: «Cinque giorni fa, il 13 di giugno, alle undici e mezzo del mattino, minuto più minuto meno, il soldato Ellis Mulvihill, di guardia al cancello, sentì ciò che più tardi descrisse come "un'esplosione non molto forte". Entrò all'interno del terreno recintato, chiuse con il lucchetto il cancello dietro di sé e corse in questa direzione, verso la radura. Fu impressionato, "sconvolto" per usare le sue parole, nel vedere questa casa invece del prefabbricato malandato di Culvergast. Suppongo che per un po' rimase immobile, trattenendo il fiato e sbattendo le palpebre, cercando di capire quello che aveva davanti agli occhi. Poi corse verso la garitta e telefonò al colonnello, che chiamò me. Siamo arrivati qui e abbiamo scoperto che mille metri quadrati di terreno, un edificio e un uomo erano scomparsi, sostituiti da questa casa, così, di punto in bianco». «Quindi pensa che il prefabbricato sia finito nello stesso posto dove sono scomparsi i sassi» disse Gilson. Era un'affermazione. «Perché? Non siamo nemmeno del tutto certi che sia sparito! Ciò che guardiamo non può effettivamente essere dove lo vediamo. Là piove quando qui è sereno, e proprio adesso sulla casa splende il sole, in un gior-
no come questo. È una finestra.» «Una finestra su cosa?» «Be', sembra una casa nuova, no? Quando si costruivano case come quella?» «Nel 1870 o giù di lì... oh.» «Sì» disse Krantz. «Penso che stiamo guardando il passato.» «Oh, santo Dio!» disse Gilson. «So come si sente. E potrei avere torto. Ma devo dire che la faccenda sembra che sia proprio così. Voglio che senta cosa ne dice Reeves. È qui dall'inizio. È un diplomato, che qui è assistente. Reeves!» Un ragazzo molto alto e magro, chino su una macchina dall'aspetto strano che si trovava vicino alla linea fra l'erba e il pietrisco, si alzò e si avvicinò lentamente ai tre uomini. Reeves era un tipo entusiasta. «Certo, è una finestra sul passato, giusto» disse, «Su un periodo che può andare dagli anni Ottanta agli anni Novanta del secolo scorso, La mia ragazza ha preso dei libri in biblioteca sugli abiti, e i vestiti corrispondono a quel decennio. E anche le decorazioni sui finimenti dei cavalli sono un indizio. L'ho saputo consultando...» «Aspetti un attimo» disse Gilson. «Vestiti? Vuole dire che quella casa è abitata?» «Oh, sicuro» disse Reeves. «Una bella famigliola. Mamma, papà, una ragazzina, un ragazzino, la vecchia nonna o la zietta. C'è anche un cane. Brava gente.» «Come fa a dirlo?» «Li osservo da cinque giorni. Da loro il tempo è bello... o forse dovrei dire era, al passato, vai a sapere. Sono gentili fra loro, si vogliono bene. Brava gente. Vedrà.» «Quando?» «Be', adesso staranno cenando. Di solito escono dopo cena. Forse fra un'ora.» «Aspetterò» disse Gilson. «Ma mentre aspettiamo mi dica qualcos'altro di ciò che ha scoperto, per favore.» Krantz riprese il tono da oratore. «Per quanto riguarda la natura di questo fenomeno non ne sappiamo nulla. Abbiamo una finestra, che pensiamo si apra sul passato, Possiamo guardarci dentro, quindi sappiamo che la luce vi penetra, ma solo in una direzione, come è provato dal fatto che quelle persone sono completamente ignare della nostra presenza. Nient'altro riesce ad attraversarla. Ha visto che cosa è successo ai sassi. Abbiamo spinto
delle aste attraverso l'interfaccia: non c'è assolutamente nessuna resistenza. Tutto ciò che passa dall'altra parte sparisce Dio sa dove. Non c'è niente che torna indietro. L'asta è stata come recisa. Affascinante. Ma, ovunque sia, non è dove si trova la casa. Quell'interfaccia non è fra noi e il passato, è fra noi e... qualche altro posto. Penso che la nostra finestra sia solo un effetto secondario casuale, una... una distorsione del tempo, che è il risultato delle tensioni, qualunque esse siano, che esistono lungo quella interfaccia.» Gilson sospirò. «Krantz,» disse «cosa dirò alla segreteria? Lei si è trovato a dover fronteggiare il più strano fenomeno che mi sia mai accaduto di vedere e l'ha tenuto nascosto per cinque giorni. Non ne sapremmo niente se non fosse stato per il rapporto del colonnello. Cinque giorni sprecati. Chissà quanto durerà questa storia. Quella dannata équipe scientifica dovrebbe essere qui al completo, anzi, avrebbe dovuto esserci fin dal primo giorno. Per risolvere questa faccenda c'è bisogno del contributo di tutti. A quest'ora il posto dovrebbe brulicare come un alveare. E cosa trovo? Lei e un diplomato che tirate sassi e spingete bastoni. E la ragazza che cerca l'epoca dei costumi. È un atto quasi criminale.» Krantz non sembrava imbarazzato. «Sapevo che l'avrebbe pensata così» disse. «Ma consideri la faccenda in questo modo: che le piaccia o no, questa situazione non è stata provocata dalla tecnologia o dalla scienza. Si tratta di pura telecinesi. Se riuscissimo a ricostruire il lavoro di Culvergast, potremmo essere in grado di scoprire cosa è accaduto; può anche darsi che si riesca a ripetere il fenomeno. Gilson, non mi piace l'idea di ciò che succederebbe dopo che lei avrà convocato i suoi sperimentatori. Misureranno, esamineranno, faranno congetture, formuleranno teorie, e non accetteranno mai, nemmeno per un attimo, il vero principio di ciò che è successo. Il giorno che arriveranno, sarò liquidato. E, dannazione, Gilson, questa faccenda è di mia competenza.» «Non più» replicò Gilson. «È troppo importante.» «Ma noi stiamo facendo degli esperimenti impegnativi per nostro conto» disse Krantz. «Reeves, digli della tua macchina.» «Sì, signore» rispose Reeves. «Vede, signor Gilson, ciò che ha detto il professore non è proprio la verità. A volte qualcosa può attraversare la finestra, l'abbiamo notato il primo giorno. Nella valle c'era un'inversione di temperatura, e il tanfo dallo stabilimento chimico si stava accumulando da circa una settimana. Si disperse quel giorno, e il vento soffiò quella porcheria attraverso la gola, facendola arrivare proprio qui. Un fetore di marciume. Stavamo osservando la nostra gente laggiù, e improvvisamente
cominciarono ad annusare e arricciare il naso, facendo facce disgustate. Immaginammo che dovesse trattarsi della puzza chimica. Spingemmo immediatamente un bastone, ma la punta scomparve, come al solito. Il professore suggerì la possibilità che nell'interfaccia ci fosse un impulso, o qualcosa del genere, che era attivo solo a intermittenza. Così abbiamo messo insieme alla bell'e meglio un congegno per verificare questa idea. Venga a darci un'occhiata.» Si trattava di un volano orizzontale, con una piccola pala attaccata al bordo, come un cuneo prolungato. Non appena la ruota girava, la paletta scorreva intorno a un tavolo. C'era una tramoggia che pendeva dall'alto, e a intervalli regolari un oggetto cadeva dal serbatoio sulla tavola, dove veniva immediatamente colpito dalla paletta e mandato in aria. Gilson sbirciò nella tramoggia e inarcò le sopracciglia con aria interrogativa. «Cubetti di ghiaccio» disse Reeves. «Colorati d'arancione perché si vedano. Quel congegno spara verso l'interfaccia un cubetto di ghiaccio al secondo. C'è sempre qualcuno che controlla con un cronometro. Abbiamo stabilito che ogni quindici ore e venti minuti si apre uno spiraglio per cinque secondi. Quindi cinque cubetti di ghiaccio attraversano la fessura e cadono sul prato. Al di fuori di questo lasso di tempo, spariscono semplicemente nell'interfaccia.» «Cubetti di ghiaccio. Perché proprio dei cubetti di ghiaccio?» «Perché si sciolgono e scompaiono. Non possiamo interferire nel passato con manufatti dei nostri giorni. Dio solo sa quale potrebbe essere l'effetto. Inoltre, costano poco e ne stiamo tirando parecchi.» «Questa sì che è scienza!» Gilson disse gravemente. «Non vedo l'ora di sentire cosa diranno a Washington.» «Faccia pure tutto il sarcasmo che vuole» rispose Krantz. «La casa è là, e anche l'interfaccia. Perdio, siamo incappati in qualcosa di simile a un viaggio nel tempo. Ed è stato quello svitato di Culvergast a farlo, non un fisico o un ingegnere.» «A proposito,» disse Gilson «a che cosa stava lavorando il vostro uomo, Culvergast?» «Questa sì che è una bella domanda. Quello che stava facendo era... be', per dirla in parole povere, stava cercando di scoprire degli incantesimi.» «Degli incantesimi?» «Quelli che si "lanciano". Le parole magiche. Aspetti ad assumere quell'espressione disgustata. In un certo qual modo la cosa ha senso. Eravamo finanziati per studiare la telecinesi, la manipolazione della materia operata dalla mente. È ovvio che la telecinesi, se si potesse applicare con
precisione, sarebbe un'arma meravigliosa. L'ipotesi di Culvergast consisteva infatti nel ritenere che ci siano delle persone in grado di compiere atti di telecinesi, e sebbene non sembrino mai sapere, o essere capaci di spiegare, come ci riescano, in ogni caso esercitano un'azione mentale specifica che permette loro di sfruttare qualche fonte di energia che, a quanto pare, ci circonda e, almeno fino a un certo punto, di concentrarla e dirigerla. Culvergast propose di individuare il fattore comune nei loro processi mentali. «Esaminò molti telecinetici e comunicò di aver trovato un modello attivo proprio a livello verbale, o ancora più in profondità. In una delle persone che esaminava lo identificò in un insieme di note musicali, in altre come un gergo incomprensibile di varia natura, e in una, disse, come matematica a livello aritmetico primario. Stava inserendo tutto questo materiale nel computer, cercando di eliminare i rumori semplici e le idiosincrasie personali dei soggetti, nel tentativo di mettere a nudo l'essenza reale ed effettiva del modello. Propose poi di organizzare tutto ciò in parole; parole che avrebbero quindi forgiato le correnti mentali di un parlante nella nostra lingua corrente e corretta, in grado di convogliare e manipolare il potere telecinetico a piacimento del parlante. Parole magiche, si potrebbero definire. Incantesimi. «Evidentemente era molto più avanti di quanto sospettassi. Presumo che debba avere scoperto tali parole, e che poi le abbia sperimentate, e fatto un tentativo di telecinesi. Probabilmente doveva trattarsi di roba di poco conto, come per esempio far sollevare un portacenere dalla scrivania e farlo fluttuare nell'aria. E funzionava, ma ciò che ottenne non fu una forza lieve in grado di sollevare un piccolo portacenere; aveva spalancato il cancello, facendo entrare qualche specie di potere spaventoso. Naturalmente si tratta di una semplice congettura, ma dev'essere stato qualcosa del genere ad avere avuto un effetto come questo.» Gilson aveva ascoltato in silenzio. Poi disse: «Non posso pensare che lei sia pazzo perché vedo quella casa e osservo cosa succede a quei cubetti di ghiaccio. Comunque, il mio problema non è come il fatto è accaduto, ma cosa proporrò alla segreteria di fare, adesso che ci troviamo in questa situazione. Una cosa è certa, Krantz: questa faccenda non sarà di sua competenza ancora per molto.» Reeves proruppe in un urlo di autentico dolore. «Non possono farlo!» disse. «Appartiene a noi, è del professore. La guardi, guardi quella casa. Vuole che un gruppo di maledetti ingegneri se ne occupi per poi non concludere nulla?»
Gilson riusciva a capire come si sentiva Reeves. In quel momento la casa era inondata dalla luce purpurea del tramonto; sembrava brillare dall'interno di un bagliore rosa cupo. Ma, rifletté Gilson, il tramonto non era veramente necessario; il desiderio universale e inconfessato di un tempo più semplice e pulito sarebbe stato sufficiente per tingerla di rosa. Era perfettamente consapevole che l'ondata di nostalgia che avvertiva era il rimpianto per qualcosa che non aveva mai veramente provato, che il modo di vita che la casa rappresentava per lui era infatti una sua creazione, basata su frammenti di film e romanzi; tuttavia si trovò a bramare quella vita, a desiderare intensamente quel tempo. Era un'epoca garbata e tranquilla, pensò, un tempo dove i passi erano lenti e l'aria pulita; un tempo pervaso di grazia e stile, quando ragazzi che indossavano giacche a righe e pagliette corteggiavano in modo discreto signorine in lunghi abiti bianchi, trascorrendo piacevolmente i lunghi e oziosi pomeriggi estivi in conversazioni quiete sotto verande ombreggiate. C'erano gioiose gite in bicicletta su strade a tratti ombrose che si snodavano fra le colline, per poi arrivare in valli fresche percorse da ruscelli impetuosi; c'erano le passeggiate dolci e lunghe sul calesse, dietro cavalli sonnolenti e pazienti, sotto la luna grande e bianca, con l'amante che bisbigliava insistentemente qualcosa all'orecchio della sua compagna mentre gli uccelli della notte cantavano. C'erano le escursioni lungo il fiume ampio e chiaro, barche che scivolavano dolcemente sulla corrente verso il suono, oltre il fiume, di una banda musicale sul molo. Sì, pensò Gilson, probabilmente c'era un vecchio bislacco che, con una manciata di aggettivi, da qualche parte continuava a ripetere come andassero meglio le cose cento anni prima. Se non si fosse controllato, avrebbe aiutato Krantz e Reeves a tentare di tenere tutto nascosto. Il giovane Reeves, fatto strano per uno della sua età, sembrava irreparabilmente immerso in questa nostalgia artefatta. La descrizione che aveva fatto della famiglia nella casa sembrava essere dettata da una vera e propria infatuazione. Ma adesso, era definitivamente ora di convocare gli esperti. Subito. «Dovrebbero uscire da una momento all'altro» stava dicendo Reeves. «Aspetti di vedere Marta.» «Marta?» ripeté Gilson. «La ragazzina. È una bambola.» Gilson lo guardò. Reeves arrossì e disse: «Be', ecco, io ho dato loro dei nomi. I bambini, Marta e Pietro. E il cane Alfredo. In un certo qual modo i personaggi si adattano a questi nomi, non trova?» Gilson non rispose, e
Reeves arrossì ancora di più. «Be', può vederli da solo. Eccoli che arrivano.» Una bella famigliola, come aveva detto Reeves. Dopo averli guardati per mezz'ora, Gilson era pronto ad ammettere che erano veramente molto attraenti, perfetti come la casa. Erano proprio quello che ci voleva per completare il quadro, per formare un autentico dipinto vittoriano. La mamma e il papà erano di bell'aspetto e ancora innamorati, i bambini sani, felici e contenti del loro mondo. O perlomeno così gli sembrava mentre li guardava all'imbrunire, immaginando le conversazioni serene e affettuose dei genitori sul dondolo sotto il portico, quasi sentendo gli strilli dei bimbi e l'abbaiare del cane mentre correvano tutti e tre sul prato. Ormai era quasi buio; il caldo bagliore delle lampade a petrolio si rifletteva sulle finestre e le lucciole brillavano sul prato. Ci fu un arco di luce quando il padre gettò il mozzicone di sigaro oltre il parapetto. Poi si alzò. Seguì quindi una graziosa scenetta allorquando chiamò i bambini che, come si conviene, protestarono e ottennero, come c'era da aspettarsi, alcuni momenti di gioco in più, e furono poi severamente riportati all'ordine. Si mossero riluttanti verso il portico dove furono incalzati dai richiami paterni e il cane, che aveva ritardato per dare un'ultima irrorata al cespuglio, arrivò trafelato per unirsi a loro. I bambini e il cane entrarono in casa, seguiti dalla madre e dal padre. La porta si chiuse e rimase solo la morbida luce delle finestre. Reeves emise un lungo respiro. «Non è meraviglioso?» disse. «È così che si dovrebbe vivere, no? Se solo si potesse mandare al diavolo tutta questa merda nella quale viviamo oggi e tornare invece a trascorrere un'esistenza così... E Marta, ha visto Marta? Un angelo, vero? Caro lei, cosa darei per...» Gilson lo interruppe: «Quando ci sarà il prossimo tiro di cubetti di ghiaccio all'interno?» «...potere... Ah, sì. Vediamo. L'ultimo è stato alle tre e un quarto, poco prima che lei arrivasse. Il prossimo sarà alle 6,35 del mattino, sempre che resti l'intervallo di tempo come è stato finora.» «Voglio assistere. Ma adesso devo fare qualche telefonata; Colonnello!» Quella notte Gilson non dormì, e apparentemente nemmeno Krantz e Reeves. Quando alle cinque del mattino arrivò alla radura, erano ancora là, con la barba lunga e gli occhi rossi, che bevevano caffè dal thermos. Era di nuovo nuvoloso, e la radura era completamente buia, a parte un debole chiarore che veniva dall'interfaccia, dove stava per spuntare un bel giorno
di sole. «Qualche novità?» domandò Gilson. «Stavo per chiederglielo io» disse Krantz. «Cosa succederà?» «Quello che si aspettava, temo. Prima di sera questo posto brulicherà come un alveare. Ed entro domani sera si sarà fortunati se si troverà posto. Immagino che Bannon sia al telefono, da quando l'ho chiamato a mezzanotte, per riunire gli scienziati che a loro volta raduneranno i tecnici che porteranno le loro attrezzature. L'esercito rafforzerà le misure di sicurezza. Posso avere un po' di caffè?» «Si serva. Porta brutte notizie, Gilson?» domandò Reeves. «Mi spiace» disse Gilson «ma è così.» «Maledizione!» disse Reeves ad alta voce. «Oh, dannazione!» Sembrava sui punto di scoppiare in lacrime. «Lo sa? Tutto questo sarà la mia fine. Non mi faranno nemmeno entrare. Un semplice diplomato? In psicologia? Non mi potrò neppure avvicinare. Oh, maledizione!» Guardò Gilson di traverso, con rabbia e disperazione. Il sole era già sorto, conferendo alla radura una luce grigia e splendore alla casa attraverso l'interfaccia. C'era un silenzio perfetto, a parte il rumore dei colpi regolari prodotti dalla macchina dei cubetti di ghiaccio. I tre uomini fissavano muti la casa. Gilson beveva il caffè. «C'è Marta» disse Reeves. «Lassù.» Un visino era apparso fra le tendine di una finestra al secondo piano, e i vivaci occhi blu scrutavano il mattino. «Lo fa ogni, giorno» disse Reeves. «Si siede e osserva gli uccellini e gli scoiattoli fino a quando, presumo, la chiamano a colazione.» Rimasero a osservare la ragazzina che stava guardando qualcosa oltre la finestra che si affacciava sul suo mondo, qualcosa che, se le due diverse realtà fossero state un'unica entità, si sarebbe trovato alle loro spalle. Gilson provò quasi l'impulso di girarsi per vedere cosa la bambina stava fissando. Reeves, apparentemente, ebbe lo stesso istinto. «Cosa pensa che stia guardando?» domandò. «Non necessariamente la foresta come è adesso. Penso che prima non ci fosse. Un prato, forse? Dove pascolano bestiame e cavalli? Accidenti, cosa darei per essere là e vedere cos'è!» Krantz guardò l'orologio e disse: «Sarà bene muoversi. Mancano solo pochi minuti». Si avviarono verso il luogo dove la macchina continuava a lanciare cubetti di ghiaccio nell'interfaccia. Lì accanto c'era seduto un soldato con un contasecondi dietro a un tavolo su cui si trovavano un cronometro formidabile e un fascio di carte. Disse: «Due minuti, dottor Krantz».
Krantz fece a Gilson: «Tenga gli occhi sui cubetti di ghiaccio, non può non vedere quando succede». Gilson guardò la macchina, leggermente divertito dal ritmo dei suoni ormai familiari: "plink", cade un cubetto; "whuff", la paletta striscia; "bang", la paletta colpisce il cubetto. E poi la traiettoria precisa verso l'interfaccia, dove il piccolo missile arancione svaniva di colpo. Un secondo dopo, un altro. Poi un altro ancora. «Cinque secondi» disse il soldato. «Quattro. Tre. Due. Uno. Ora!» La sincronizzazione era sbagliata di un secondo, il cubetto di ghiaccio svanì come i precedenti. Quello che seguì però, continuò il suo volo e cadde sul prato, dove rimase a scintillare. Allora era veramente così, pensò Gilson. Un viaggio nel tempo per cubetti di ghiaccio. Improvvisamente, dietro di sé, udì un urlo incomprensibile di Krantz e un altro di Reeves, e poi un forte, chiaro e angosciato: «Reeves, no!» gridato da Krantz. Gilson sentì un rumore sordo di passi in corsa e colse un lampo di movimenti rapidi al margine del suo campo visivo. Si girò in tempo per vedere la figura allampanata di Reeves passargli rumorosamente vicino, tuffarsi attraverso l'interfaccia e atterrare scompostamente sul prato. Krantz urlò infuriato: «Pazzo!». Un cubetto di ghiaccio fu lanciato e cadde vicino a Reeves. La macchina sparò di nuovo i suoi proiettili. Un cubetto di ghiaccio partì e poi svanì: i cinque secondi utili per il passaggio erano finiti. Reeves alzò la testa e per un attimo fissò l'erba su cui era sdraiato. Spostò lo sguardo verso la casa. Si alzò lentamente in piedi, con un'espressione stupefatta. Poi un largo sorriso si aprì lentamente sul suo viso, e gli uomini che lo guardavano dall'altro lato potevano quasi leggere i suoi pensieri: "Be', che io sia dannato. Ce l'ho fatta! Sono davvero qui!". Krantz stava farfugliando qualcosa. «Siamo ancora qui, Gilson, siamo ancora qui, esistiamo ancora, tutto sembra uguale. Forse il salto di Reeves non ha cambiato molto le cose, forse il futuro è fisso e non è cambiato proprio nulla. La temevo, una cosa del genere. Da quando lei è arrivato, è stato...» Gilson non lo ascoltava. Stava fissando sconvolto e incredulo la ragazzina alla finestra, cercando di capire quello che vedeva, e non credeva a quello che aveva davanti agli occhi. C'era qualcosa di insolito nel suo comportamento che era molto, molto strano. Un uomo si era materializzato sul suo prato, improvvisamente, sbucando dall'aria leggera in un mattino di sole, e lei non aveva manifestato sorpresa, stupore o paura. Al contrario, aveva sorriso, immediatamente, istintivamente, un sorriso che continuava
ad allargarsi fino a quando sembrò spaccare la parte inferiore del viso, un sorriso che rivelava troppi denti, un sorriso fisso, assurdo e spaventoso sotto i vivaci occhi blu. Gilson si sentì stringere lo stomaco; si rendeva conto di essere terribilmente spaventato. La faccia sparì bruscamente dalla finestra, pochi secondi dopo la porta principale si spalancò e la ragazzina uscì precipitosamente, dirigendosi verso Reeves a rotta di collo, correndo in modo curioso e affrettato. Quando non rimanevano che pochi metri, spiccò un salto verso di lui con l'agilità e la velocità incredibili di una pulce. Gli occhi di Reeves avevano appena iniziato ad assumere uno sguardo stupito allorquando i forti dentini della bimba gli lacerarono la gola. Si staccò da lui e fece un balzo indietro. Un fiotto di sangue sgorgò dallo squarcio nel collo. Reeves lo guardò stupefatto per un lungo momento, poi sollevò le mani per tamponare la ferita, ma il sangue gli ribollì fra le dita e colò sull'avambraccio. Si accasciò lentamente sulle ginocchia, fissando la ragazzina con estremo stupore. Ondeggiò, tremò e stramazzò in avanti faccia a terra. La ragazzina lo guardò con gli occhi freddi come quelli di un rettile, ancora con quel sorriso spaventoso. Era nuda, e a Gilson sembrò che ci fosse qualcosa di sbagliato nel tronco e nella bocca. Si girò e la videro urlare in direzione della casa. Dopo un attimo si precipitarono tutti fuori; la madre, il padre, il ragazzino e la nonna, tutti nudi, tutti in preda a quella trasformazione orrenda della bocca. Senza fermarsi o rallentare, si diressero frettolosamente verso il corpo, gli si accucciarono intorno e freneticamente gli strapparono i vestiti di dosso. Poi, accovacciati sul prato nella luce del sole mattutino, la bella famigliola cominciò orribilmente a cibarsi. Il balbettio di Krantz aveva cambiato tono: «Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi...». Il soldato del cronometro vomitava rumorosamente. Qualcuno scaricò il caricatore di una pistola a raffica contro l'interfaccia, mentre il colonnello imprecava. Quando Gilson non riuscì più a sopportare la vista del macabro banchetto, distolse lo sguardo e si scoprì a fissare il cane, accucciato contento sotto il portico, che scodinzolava. «Perdio, non può essere vero!» proruppe Krantz. «Ci dovrebbe essere nella storia, nei giornali, se sono esistiti esseri del genere. Mio Dio, qualcosa di simile non può essere dimenticato!» «Non dica sciocchezze!» interloquì Gilson in tono furioso. «Quello non è il passato. Non so cosa sia, ma non si tratta del passato. Non può essere.
È... non so... qualche altro luogo. Qualche altra... dimensione? Universo? Una di queste cose. Mondi alterni, mondi del Sé, mondi della probabilità, comunque vengano chiamati. D'accordo, quella lordura laggiù è nel presente. Quel dannato incantesimo di Culvergast ha perforato un parallelo, deve trattarsi di qualcosa di simile. E, mio Dio, cosa diavolo è stato a produrre quelli? Non sono umani, Krantz, neanche per sogno, qualsiasi aspetto abbiano! Altro che le gioiose gite in bicicletta! Di quanto ci si può sbagliare...» Finalmente l'orribile pasto terminò. La famiglia era sdraiata sull'erba con gli stomaci gonfi, coperti di grasso e sangue, le palpebre rese pesanti dal senso di sazietà. I due piccoli sì addormentarono. Il grosso maschio sembrava immerso nei pensieri. Dopo un po' si alzò, raccolse i vestiti di Reeves e li esaminò attentamente. Poi svegliò la femmina piccola e apparentemente la interrogò per un po' di tempo. Lei fece dei gesti, indicò e mimò l'arrivo precipitoso di Reeves. Il maschio fissò pensosamente il punto in cui Reeves si era materializzato, e per un attimo Gilson ebbe l'impressione che gli occhi spietati di quell'essere guardassero direttamente nei suoi. Si girò, camminando lentamente verso la casa con aria meditabonda e poi entrò all'interno. Nella radura c'era silenzio, a parte il rumore sordo della macchina che lanciava i cubetti di ghiaccio. Krantz iniziò a piangere e il colonnello a bestemmiare ininterrottamente. I soldati sembravano storditi. "Tutti abbiamo paura" pensò Gilson "e siamo spaventati a morte." Sul prato sembrava ci fosse la grottesca parodia del riordinare ogni cosa dopo un picnic. I piccoli avevano portato un cestino e, sotto l'attenta supervisione delle femmine adulte, si muovevano per raccogliere i resti del pasto. Una di loro lanciò un osso al cane, e il cronometrista vomitò di nuovo. Quando il prato fu di nuovo immacolato, portarono il cestino verso il retro dell'edificio, e gli adulti tornarono verso la casa. Un attimo dopo uscì il maschio, adesso vestito con un completo di lino bianco. Aveva in mano un libro. «Una Bibbia» disse con stupore Krantz. «È una Bibbia.» «Non è una Bibbia» disse Gilson. «Non è possibile che quegli... esseri possano avere delle Bibbie. Deve trattarsi di qualcos'altro, per forza.» Sembrava una Bibbia; la rilegatura era di pelle nera e morbida, e quando il maschio cominciò a sfogliarla, cercando evidentemente un passo particolare, videro che la carta era quella sottile e resistente su cui vengono stampate le Bibbie. Trovò la pagina e iniziò, come sembrò a Gilson, a leggere
ad alta voce, in tono declamatorio, pronunciando le parole con enfasi. «Cosa diavolo pensa che stia facendo?» disse Gilson. Stava ancora parlando quando la finestra sparì. La casa, il prato e il declamatore vestito di bianco scomparvero. Gilson ebbe la rapida visione di alberi dall'altra parte di una larga buca fra sé e quelli. Poi fu buttato a terra da una raffica di vento. L'aria era colma di polvere, di ciarpame e dell'ululare del vento. Poi le raffiche furiose cessarono improvvisamente così come erano venute, e dei piccoli oggetti che erano stati temporaneamente trasportati dal vento caddero picchiettando sul terreno. Il posto prima occupato dalla casa era completamente oscurato da un turbine di polvere. Il pulviscolo si posò lentamente. Al posto della finestra nel terreno si apriva una grande buca, un foro perfettamente quadrato di trenta metri di lato e tre di profondità con il fondo piatto come una tavola. Prima che il vento giungesse precipitosamente a riempire il vuoto, Gilson ne aveva intravisto i lati, lisci e diritti come fossero stati tagliati nel formaggio con un coltello affilato; ma adesso si stavano formando piccoli smottamenti tutt'intorno al perimetro, in quanto lo strato superficiale del suolo e la ghiaia franavano e scivolavano verso il fondo della buca e i bordi stavano diventando frastagliati e irregolari. Gilson e Krantz si alzarono lentamente in piedi. «E questo è tutto» Gilson concluse. «Era qui e adesso è sparita. Ma dov'è il prefabbricato? Dov'è Culvergast?» «Lo sa Dio» Krantz rispose. Non stava facendo l'irriverente. «Ma penso se ne sia andato per sempre. O perlomeno non è dove ci sono quegli esseri.» «Cosa pensa che siano?» «Come ha detto lei, certamente non umani. Meno umani di un ragno o di un'ostrica. Però, Gilson, il modo in cui appaiono, si vestono, quella casa...» «Se c'è un numero infinito di mondi possibili, allora esiste ogni possibile forma di mondo.» Krantz sembrava incerto. «Sì, be', forse. Non ne sappiamo nulla.» Rimase in silenzio per un momento. «Quelle creature erano piuttosto spaventose, Gilson. Alla femmina piccola è bastata meno di una frazione di secondo per avventarsi su Reeves. Ha capito immediatamente che era un alieno e ha subito agito per distruggerlo. Ed era la piccola. Penso che forse possiamo sentirci più sicuri, adesso che la finestra è sparita.» «Così sia. Cosa pensa che le sia successo?»
«È ovvio, no? Loro sanno come usare le energie che Culvergast utilizzava alla cieca. Il libro... doveva contenere degli incantesimi. Devono averne fatto una scienza... cognizioni sperimentate e precise, parte della loro saggezza comune. Quella creatura ha usato il libro come se si trattasse di una procedura abituale, di uno strumento quotidiano. Dopo avere superato l'eccitazione per il pasto abbondante, non ha avuto bisogno di più di venti minuti per capire com'era capitato lì Reeves e che cosa fare. Gli è bastato prendere il libro degli incantesimi, scegliere quello di cui aveva bisogno (mi piacerebbe vedere l'indice di quel libro!) e pronunciare le parole. Puf! La finestra è sparita e Culvergast è nei guai Dio sa dove.» «Penso che sia possibile. Diavolo, forse è perfino attendibile. Lei ha ragione, non sappiamo veramente nulla di tutto questo.» Krantz improvvisamente apparve spaventato. «Gilson, cosa... se... senta: se gli è stato così facile far sparire la finestra, se ha quel genere di controllo sul potere telecinetico, come si può impedirgli di "aprire" una finestra su noi? Forse adesso ci stanno guardando nel modo in cui noi li osservavamo prima. Adesso sanno che siamo qui. Che tipo di idee potrebbero avere? Forse hanno bisogno di carne. Forse... Dio mio!» «No» disse Gilson. «Impossibile. La finestra si è "aperta" su quel mondo per puro caso. Culvergast non aveva più idea di ciò che stava facendo di uno scimpanzé alla consolle di un computer. Se la Teoria dei mondi possibili è la spiegazione di questo fatto, allora il mondo che ha intercettato è uno di un numero infinito. «Anche se quelle creature laggiù sanno come "aprire" queste finestre, le probabilità che non ci trovino sono infinite. Quindi è impossibile.» «Sì, sì, naturalmente» disse Krantz rassicurato. «Naturalmente. Potrebbero provarci all'infinito senza mai trovarci. Anche se lo volessero.» Rifletté per un momento. «E penso che lo vogliano davvero. Distruggere Reeves è stato come un riflesso involontario, una specie di reazione automatica. Adesso che sanno che esistiamo proveranno a raggiungerci; se ho visto giusto, per loro non sarà possibile fare nient'altro.» Gilson ricordò gli occhi delle creature. «Non ne sarei sorpreso per nulla» disse. «Ma adesso faremmo meglio...» «Dottor Krantz!» urlò qualcuno. «Dottor Krantz!» La voce tradiva un terrore indicibile. I due uomini si girarono. Il soldato con il cronometro stava indicando un punto con mano tremante. Mentre guardavano, qualcosa di bianco si materializzò nell'aria al di sopra del margine della buca, volò in alto per poi ab-
bassarsi e atterrare di fianco a un oggetto a esso simile che si trovava già sul terreno. Ne arrivò un altro, poi un altro, e un altro ancora. Cinque in tutto, sparsi su un'area di circa un ettaro. «Sono ossa!» disse Krantz. «Oh, mio Dio, Gilson, sono ossa!» La sua voce era quella di un uomo sull'orlo di un attacco di nervi. Gilson disse: «La smetta, adesso! La pianti! Su!». Corsero verso il punto delle apparizioni. Il soldato era già là, accovacciato, con la faccia contorta da nausea e terrore. «Quello» disse, indicando. «Quello là. È quello che hanno gettato al cane. Si possono vedere i segni dei denti. Oh, Dio. È quello che hanno gettato al cane!» "Allora" pensò Gilson "hanno già 'aperto' una finestra. Devono saperne molto di queste cose, per esserci riusciti così in fretta. E adesso ci stanno guardando. Ma perché le ossa? Per intimarci di stare lontano? O è solo una prova? Ma, se è una prova, perché proprio le ossa? Perché non un ciottolo... o un cubetto di ghiaccio? Forse per valutare le nostre reazioni. Per vedere cosa faremo. "E cosa faremo? Come ci proteggeremo da questa minaccia? Se cooperare fra loro è insito nella natura di queste creature, la bella famigliola senza dubbio non perderà tempo a propagare la notizia in tutto il loro mondo, cosicché uno di questi giorni scopriremo che milioni di esseri sono simultaneamente saltati attraverso queste finestre su tutta la Terra, materializzandosi all'improvviso come un nugolo di enormi cavallette carnivore che sciamano per nutrirsi con quella loro voracità insensata fino a quando avranno lasciato sul pianeta un deserto di ossa. C'è qualche protezione contro questa spaventosa ipotesi?" Krantz aveva seguito per conto proprio pensieri analoghi. Disse con tono rotto dall'angoscia: «Siamo nei guai, Gilson, ma abbiamo un piccolo elemento a nostro vantaggio. Sappiamo quando questa dannata finestra si apre, l'abbiamo misurato con precisione. Washington dovrà fare ogni sforzo, mettere in guardia il mondo intero, farlo attraverso le Nazioni Unite o qualcosa del genere. Sappiamo, con una precisione al secondo, quando la finestra può essere attraversata. Istituiamo un sistema d'allarme: ogni comunità terrestre, quando scatterà l'ora, lancerà un segnale d'allarme. Suonerà una campana, tutti afferreranno un'arma e staranno all'erta. Se le creature non arriveranno entro cinque secondi, la campanella suonerà di nuovo, e tutti torneranno ai loro affari fino all'ora dell'apertura" successiva. Potrebbe funzionare, Gilson, ma dobbiamo agire in fretta. Fra quindici ore e, uh, due minuti, sarà di nuovo "aperta"».
"Quindici ore e due minuti," pensò Gilson "poi cinque secondi di vulnerabilità spaventosa, e poi quindici ore e venti minuti di sicurezza prima che il terrore possa sopraggiungere di nuovo. E così via... per quanto tempo? Presumibilmente fino a quando le creature arriveranno, il che potrebbe essere mai (chi sapeva come funzionavano le loro menti?), o fino a quando l'incidente di Culvergast potrebbe essere ripetuto, il che, di nuovo, potrebbe non accadere mai." Si domandò se gli esseri umani sarebbero potuti sopravvivere in quelle condizioni senza impazzire. Era incerto sul fatto che la psiche umana avrebbe potuto resistere, quando il suo unico e immediato futuro fosse stato solo un'interminabile montagna russa che scende in grandi valli di terrore e suspence per poi salire violentemente verso effimere punte di sollievo. La mente avrebbe continuato a funzionare quando le uniche alternative fossero state la morte orrenda o la tensione insopportabile prolungata all'infinito? Gilson si domandò se la razza umana potesse vivere cosciente di non avere nessun futuro certo a parte le quindici ore e i venti minuti successivi. E poi vide, irreparabilmente e con disperazione, che non si trattava di quindici ore e venti minuti, e nemmeno di un'ora, che non era insomma per niente una questione di tempo. La finestra, a quanto pareva, non era intermittente. Si stava materializzando nell'aria una confusione di ossa e vestiti strappati, una tempesta di rifiuti lanciati con disprezzo, che cadevano rumorosamente sul terreno, dove rimanevano in un ammasso caotico, disgustoso e carico di funesti presagi. Tom Reamy INSETTI NELL'AMBRA Tom Reamy (1935-1977) iniziò a pubblicare nel 1974, l'anno in cui il suo racconto Twilla uscì in «Fantasy & Science Fiction». Prima della morte, avvenuta nel 1977, le sue opere gli avevano procurato una fama considerevole nel genere, grazie al grandissimo talento dimostrato. Il racconto San Diego Lightfoot Sue gli fece conseguire nel 1976 il Nebula Award, proprio nello stesso anno in cui ottenne il John W. Campbell Award come migliore scrittore di fantascienza. Dopo la morte, la sua ridotta produzione fu raccolta e pubblicata insieme al suo unico romanzo, Blind Voices (1978). Insetti nell'ambra è un notevole esempio del fantasioso stile di Tom Reamy: si tratta di una storia avvincente che inizia con il solito sfondo di una casa infestata dai fantasmi che finirà con il trasfor-
marsi in qualcosa di completamente diverso... Il temporale brontolava a sudovest, tingendo l'aria di un blu sottomarino e facendo apparire la terra piatta simile al fondo del mare. All'imbrunire i lampi guizzavano rischiarando di fugaci bagliori le nuvole rabbiose. Il tuono, che prima borbottava in lontananza, ben presto crepitò libero nella prateria del Kansas. Io e Tannie guardavamo l'eccezionale spettacolo attraverso il finestrino posteriore della nuova giardinetta Buick. La pioggia ci seguiva come una cortina indistinta e lunghissima. Ci afferrò in un istante, trasformando improvvisamente in notte fonda il tardo pomeriggio. Mio padre borbottò e accese fari e tergicristalli. Frenò con attenzione e si chinò sul volante per meglio scrutare il percorso attraverso la pioggia battente. Intorno a noi i tuoni esplodevano fragorosamente. I lampi erano cosi luminosi che lasciavano una striscia di luce fluttuante davanti agli occhi. I tergicristalli si muovevano energicamente, ma non erano molto utili. Tannie sedeva al mio fianco con gli occhi che le brillavano per l'eccitazione. Aveva sette anni e una mente curiosissima e indagatrice, in grado di mettere con le spalle al muro anche alcuni adulti. Stavamo iniziando una di quelle vacanze che amano consigliare le industrie automobilistiche, i proprietari di motel e le stazioni di soggiorno, le compagnie di pneumatici, come quella di Howard Johnson, e i venditori di souvenir sull'autostrada 66. Ci eravamo stipati nella giardinetta per un viaggio di tre settimane che ci avrebbe sicuramente ridotto il fondoschiena a pezzi. Eravamo partiti da Lubbock quella mattina (mio padre era professore associato in Inglese al Politecnico del Texas), programmando di attraversare il Kansas, il Nebraska, il Sud Dakota, passando per il Wyoming e Yellowstone, per poi tornare a casa attraverso il Colorado. Non era il tipo di vacanza che personalmente avrei scelto, anche se poi in fondo non mi spiacesse più di tanto. Avevo quindici anni e mi stavo avvicinando ai sedici, e se avessi potuto scegliere liberamente, probabilmente sarei rimasto a Lubbock, a bighellonare con i miei amici; ma, visto che avevo un rapporto speciale con la mia famiglia, non consideravo il viaggio un sacrificio. Avevamo progettato di riuscire ad arrivare a Dodge City prima di sera, ma la pioggia sembrava ostacolare il nostro proposito. Papà, in grado di vedere a malapena la strada, avanzava a circa trenta chilometri all'ora. Proseguimmo così per un po', fino a quando ci accodammo a un paio di mac-
chine che procedevano persino più lentamente di noi. Seguivamo una Firebird rossa con targa dell'Arizona, preceduta da un vecchio furgoncino. Papà non cercò di superare, e anche la Firebird sembrava fare altrettanto nei confronti del furgoncino che le stava davanti. Mamma diede un'occhiata a una cartina Exxon. «La prossima città è Hawley, sembra abbastanza piccola» disse. «È un cerchiolino vuoto, il che significa...» aggiunse girando la cartina «Ah... sotto i mille abitanti.» «Speriamo che non sia talmente piccola da non avere un motel» commentò papà, avendo già rinunciato a raggiungere Dodge City. «Non m'interessa il motel» cinguettò Tannie. «Spero soltanto che ci sia un posto dove mangiare.» Stava seduta con il naso contro il finestrino, intenta ad appannare con il fiato il vetro per poi disegnarci sopra delle figure. «Mangiare?» Mi misi a ridere. «Oggi hai buttato giù tanta di quella roba da uccidere un cavallo!» Sapevo che aveva davvero fame, ma quando la punzecchiavo lei era contenta. Tannie si ritrasse dal finestrino e mi squadrò freddamente, ma con uno scintillìo negli occhi. Sapevo che stava per stroncarmi. Si appoggiò al sedile e incrociò le braccia. «Qui dietro c'è veramente troppa rivalità tra fratelli» disse con un tono da gran dama. Risi cercando di soffocare al contempo la mia esplosione d'ilarità. Aveva sempre la battuta pronta. Mamma e papà risero e vedevo che la bocca di Tannie stava incominciando a storcersi. Non sarebbe riuscita a tenere quella espressione altezzosa ancora per molto. «È colpa tua, Ben» disse papà ridacchiando. «Non avresti mai dovuto dirle che era precoce.» «Esatto» disse Tannie. «Sono anche migliorata!» «Ehi!» interloquì di nuovo papà, che smise di ridere e rallentò. Mi sporsi verso il sedile anteriore e guardai al di sopra della spalla della mamma. Davanti a noi c'erano degli sbarramenti di legno muniti di lampeggiatori color ambra. C'erano già due auto ferme: una Volkswagen gialla e una sobria berlina scura, che avrebbe potuto essere una Chevrolet. Il furgoncino si fermò dietro la berlina, seguito a sua volta dalla Firebird e da noi. Per un po' rimanemmo tutti seduti allungando il collo, poi dalla Volkswagen, dopo avere aperto la portiera di destra, scese un uomo con un impermeabile. Corse verso il lato del guidatore della berlina, con l'evidente intenzione di salire senz'altro, ma il tipo del furgoncino sporse la testa fuori dal finestrino e disse qualcosa. L'uomo con l'impermeabile esitò; poi, abbastanza riluttante, si diresse verso il furgoncino e rimase in piedi a parlare.
«Farei meglio a uscire e ad andare a vedere cosa sta succedendo» disse papà con un sospiro rassegnato. «Charles, ti inzupperai tutto!» Papà si girò verso di me. «Ben, riesci a prendere l'ombrello là dietro?» Mi misi ginocchioni e cercai nel baule, fra valigie, coperte, scatole di cartone piene di chissà che cosa e ogni genere di equipaggiamento per le vacanze. Finalmente lo trovai e glielo porsi. Mentre papà usciva nella pioggia, dalla Volkswagen scese una ragazza, anche lei munita d'ombrello. Si incontrarono vicino al furgoncino, dove si unì anche il tipo della Firebird. Stava per avere luogo un vero e proprio conciliabolo. Tutti e quattro erano sotto la pioggia scrosciante, a parlare, agitando le braccia e indicando una direzione o l'altra. Quelli che discutevano più animatamente erano l'uomo della berlina e quello del furgoncino, che doveva essere il più furbo dato che restava nell'abitacolo del suo mezzo al riparo della pioggia. Dopo un po' si lasciarono. «Dobbiamo fare una deviazione» disse papà quando risalì in macchina. «Cosa c'è che non va?» chiese la mamma. «La strada più avanti è allagata.» «L'hai vista?» Al primo segno di disastro, Tannie si rianimò. «No. La ragazza della Volkswagen ha detto che l'ha saputo da un poliziotto di pattuglia che l'ha fermata. Quello con l'impermeabile. Poi è arrivato il signore anziano della berlina. Sembra che lui e la ragazza si conoscano.» «Ha detto che la deviazione è sicura?» chiese la mamma, osservando la pioggia e corrugando la fronte. «Non saprei. Il poliziotto sembrava essersi dileguato nel nulla. In compenso il tipo del furgoncino vive qui intorno e ha detto che la deviazione è praticabile.» Tannie saltellò sul sedile dell'auto. «Non è eccitante?» squittì. «Non diresti così se dovessimo passare tutta la notte nell'auto impantanata da qualche parte nel fango» le dissi. Papà fece una smorfia. «Non dire neanche queste cose, uccellaccio del malaugurio!» esclamò, avviando il motore. La berlina fece manovra intorno alla Volkswagen e girò a sinistra su una strada sterrata che tagliava la statale all'altezza degli sbarramenti. La Volkswagen imboccò la deviazione, a sua volta seguita dal furgoncino, dalla Firebird e da noi, proprio come una carovana di cammelli. La strada non era male, anche se un po' accidentata per via delle numerose pozzanghere.
Mi girai e guardai la statale che avevamo lasciato, ma non riuscii più a vedere i lampeggiatori. Dovevamo essere arrivati su un'altura, anche se non me n'ero accorto. Mi sembrò di vedere i fari di una macchina passare sulla strada, ma non ne ero sicuro a causa della pioggia. Avrebbe anche potuto essere un fulmine. Mamma e papà non parlavano. Più ci allontanavamo dalla strada principale, più diventava buio. La mamma guardava fuori nervosamente, e papà faceva attenzione alla guida, e una volta tanto anche Tannie era silenziosa. Aveva il naso premuto contro il finestrino, cercando di vedere fuori aiutata dai numerosi lampi. Non so quanta strada avessimo percorso ma, considerato che avanzavamo molto lentamente, probabilmente a me sembrava più di quella effettivamente fatta. Guardai fuori. Non so se fu una coincidenza o meno, ma il paesaggio non avrebbe potuto essere più terrificante nemmeno se fosse stato filmato da Alfred Hitchcock, con il tremendo fragore del tuono e il bagliore del fulmine che, prima di svanire, durava incomprensibilmente per lungo tempo. A una cinquantina di metri scorsi una casa sulla cima di una collinetta. Sembrava abbastanza vecchia, era grande e a forma di scatola, con alti camini e spioventi, e con una torretta posta di lato. La luce diffusa del fulmine scomparve quasi con lentezza e io seguii il lampo con lo sguardo, ma non ce ne fu un altro. Distolsi gli occhi allorché papà frenò a uno stop, e contemporaneamente le altre auto della colonna si fermarono, con le luci dei freni che si accendevano a intermittenza. «Pensi che qualcuno si sia impantanato nel fango?» chiese Tannie tradendo una debole e insensata speranza intuibile dal tono della sua domanda. Credo che sarebbe contenta di essere attaccata dalle tigri solo per scoprire cosa si prova. Nella fila qualcuno suonò il clacson. «Sembra che chiamino per un'altra riunione» dissi. «Mi sa che hai ragione.» Papà tirò di nuovo fuori l'ombrello. Appoggiai le braccia sulla spalliera del sedile e osservai di nuovo il gruppetto riunirsi intorno al furgoncino. Grazie alla pioggia che diminuì, o a qualche altra ragione, riuscii a vedere, illuminato dai fari della berlina, un rivolo d'acqua fangosa che scorreva sulla strada e che trascinava con moto vorticoso rifiuti, detriti, erbacce e rami. Dopo un po' il piccolo concilio si sciolse e papà, dopo aver lottato con l'ombrello, rientrò in macchina. «Anche questa strada è allagata» ci riferì
scoraggiato. «Dobbiamo girare e tornare indietro.» «Non mi sembra che ci sia abbastanza spazio per fare inversione. Potresti andare a finire nel fosso» commentò la mamma in tono pratico. Era preoccupata, ma non l'avrebbe dato a vedere, per non spaventare me e Tannie. «A sentire il tipo del furgoncino, abbiamo appena oltrepassato "la vecchia casa dei Weatherly". Dobbiamo andare in retromarcia e fare inversione all'altezza della carrozzabile.» «Sì,» dissi «l'ho vista. Sembrava uscita da un film dell'orrore.» «Stupendo» aggiunse papà. «Voglio vedere!» trillò Tannie e, arrampicandosi su di me, schiacciò il viso contro il finestrino freddo e bagnato. «Occhio con quelle ginocchia ossute!» grugnii. «Okay, torna al tuo posto» disse papà, comunque sorridendo. Fece retromarcia lentamente, guardando al di sopra delle sue spalle. «Riesci a vedere dove stai andando?» chiese allora la mamma. «Veramente no» rispose, facendo una smorfia. Papà era nella situazione peggiore, perché gli altri potevano vedere grazie ai fari delle macchine dietro di loro. Tannie e io avevamo di nuovo i nasi contro il finestrino, cercando di scorgere la casa. Un fulmine giunse proprio a proposito. Tannie emise un piccolo sospiro di apprezzamento. Papà frenò, sbandando. Lungo la colonna le luci dei freni lampeggiarono in successione. Papà si rizzò sul sedile ed esaminò criticamente la strada, corrugando leggermente la fronte. Una conduttura sotterranea attraversava il fosso d'acqua impetuoso anche se, a quanto sembrava, scorreva più acqua sulla strada che sotto di essa. Guardò la mamma; poi si strinse nelle spalle, tamburellando con le dita sul volante, e quindi si avviò di nuovo, lentamente. L'auto si era già mossa di circa un metro, quando improvvisamente sbandò di lato e scivolò nel fosso. «Siamo finiti nel fango?» chiese Tannie con sdolcinata innocenza. «Non ne sarei per niente sorpreso.» Papà innestò la retromarcia e cercò di andare indietro. Le ruote gemettero e la parte posteriore della nostra vettura scivolò ancor di più fuori strada. Papà spense il motore e, sbuffando, si lasciò andare contro il sedile. «Sembra che sia giunta l'ora di un'altra conferenza» dissi quando vidi che gli altri si stavano avvicinando. «Non fare il sapientone» mi rispose in tono lamentoso. Afferrò l'ombrel-
lo e scese dalla macchina. Mi spostai velocemente dall'altro lato e tirai giù il finestrino per poter sentire quello che dicevano. «Gente, mi spiace» esclamò papà. «È stato sfortunato, signor Henderson» disse quello della Firebird. A quanto pareva, si erano già presentati. La ragazza della Volkswagen gialla sì chiamava Ann Callahan. Aveva vent'anni ed era veramente carina. Era la prima volta che riuscivo a vederla bene e, quando lo feci, non riuscii più a toglierle gli occhi di dosso. Il signore anziano della berlina era il professor Philip Weatherly, sì, proprio Weatherly, come la "vecchia casa dei Weatherly". Era sulla sessantina, un'espressione gentile ma un po' frastornata. Colsi anche, inavvertitamente, un certo nervosismo ma, date le circostanze, non ci feci un gran caso. Carl Willingham era il conducente del furgoncino. Era sui cinquant'anni, con lo stomaco un po' gonfio per la birra e un sigaro che gli girava continuamente in bocca. Indossava degli stivali e un cappello da cow-boy macchiato di sudore. Sembrava uscito da un film. Il tipo della Firebird era Poe McNeal. Aveva circa venticinque anni, una faccia allegra e pronta al sorriso. Era di corporatura robusta e muscolosa, e un viso più piacevole che bello. Mi riuscì subito simpatico. Ann Callahan e Carl Willingham raggiunsero la parte anteriore della nostra auto, cercando di tenersi rasente a essa il più possibile per non finire nell'acqua, ed esaminarono le ruote affondate nel fango. «Non è stata colpa sua, signor Henderson» disse la ragazza con una voce che mi produsse strani effetti. «Comunque, il tubo di scappamento è intasato e il semiasse, ha preso un brutto colpo.» Gli altri fecero per controllare. «Forse potremmo mettere qualcosa sotto le ruote per cercare di fargli fare presa» suggerì Poe McNeal. «Non servirebbe a niente» grugnì Carl Willingham. «L'auto è molto pesante ed è sprofondata troppo nel fango. Dobbiamo chiamare un carroattrezzi.» L'acqua marrone turbinava intorno al paraurti. «Grandioso» disse papà, «Come facciamo?» «Potremmo aspettare finché non arriva un'altra macchina e mandare loro» disse Poe poco convinto. «Come faranno per l'inversione?» Papà mise il dito sulla piaga. «Prima di sera ci potrebbero essere trecento macchine tamponate.» Poe sogghignò. «Gli autisti del carro-attrezzi ne sarebbero molto contenti.»
«Che ne dite di quella casa?» chiese papà, socchiudendo gli occhi nella pioggia. Il bagliore del fulmine e il rombo del tuono diedero risalto alle sue parole fin troppo a proposito; assomigliava più alla casa degli Addams che a un film di Alfred Hitchcock. «Ho notato dei camini, forse c'è un fuoco per asciugarci e scaldarci.» Era Ann che parlava. Carl guardò verso la collina poco convinto. «È disabitata da cinquant'anni. Probabilmente sta cadendo a pezzi.» «Potremmo dare un'occhiata» disse Poe dubbioso. «Pensa che al proprietario dispiacerebbe se un gruppo di pellegrini ci passasse la notte?» Il professor Weatherly parlò per la prima volta. «Sono io il proprietario. Avete il mio permesso.» La sua voce era tesa, come qualcuno che sa di avere la soluzione giusta a portata di mano. Carl si accigliò ancor di più. «Non so se mi va di passare la notte in quella casa.» «Non mi dica che è infestata dai fantasmi!» proruppe Poe fingendo un'eccitazione soffocata. «Non lo so per certo» rispose Carl senza nessuna traccia di umorismo nella voce. «Ma ho sentito quello che dice la gente.» Il professore guardò Carl corrugando la fronte, come se avesse letto male una delle sue carte. «Prendo una pila» disse papà, e aprì la portiera della macchina; si piegò all'interno, cercando di tenersi al riparo dell'ombrello. «Ben, dammi la pila.» Guardò la mamma. «Andiamo a controllare se quella casa va bene per passarci la notte.» La mamma annuì e scrutò l'oscurità cercando di vedere la casa. Tirai fuori la pila da dietro il sedile. «Posso venire con te?» «No, se la casa non va bene, è inutile che ti bagni.» «Dannazione!» dissi. «Dannazione a te.» Poi sorrise e disse: «Dài, vieni». Presi un altro ombrello dal vano del bagagliaio - proprio una cornucopia! - e uscii fuori. Poe era piegato verso il finestrino della Firebird e informava gli altri su cosa stava succedendo, poi arrancammo tutti faticosamente su per la collina, verso la casa. A causa del buio e della pioggia, e della concentrazione necessaria per stare bene attenti a dove si mettevano i piedi, nessuno di noi prestò molta attenzione alla casa fino a quando raggiungemmo l'antiquato portico che si sviluppava su tre lati. Una volta al riparo dalla pioggia, ci guardammo in-
torno senza parlare. La casa portava i segni delle intemperie e aveva urgentemente bisogno di una riverniciata, ma non era proprio in rovina. In alcune parti le decorazioni che ornavano il portico erano spezzate e, quando ci camminammo sopra, alcune assi scricchiolarono, ma ho visto gente vivere in condizioni peggiori. Papà guardò gli altri e aprì l'ampia porta principale. Fece luce tutt'attorno con la pila e noi ci raggruppammo alle sue spalle. Urtai con il braccio quello di Ann, che mi sorrise. Anche se si trattava solo di uno di quei sorrisi amichevoli e non impegnativi che rivolgi agli estranei, mi sentii avvampare in viso. Finalmente notai che ci trovavamo in un grande ingresso, con un'ampia rampa di scale che conduceva al piano superiore. Ci guardammo l'un l'altro con grande stupore. Tutto era pulito e spolverato. Il tappeto che copriva una buona metà dell'ingresso e le scale era scolorito, ma in buone condizioni. Le tendine di pizzo alle finestre, che ornavano entrambi i lati della porta, anche se un po' ingiallite dal tempo erano linde. Improvvisamente una grande pendola a colonna in cima alle scale vibrò e batté sei tocchi. Tutti la fissammo, trattenendo quasi il respiro, fino a quando finalmente si fermò. «Quando arriva Vincent Price?» mormorò Poe. «Cosa?» chiese Ann, girando di scatto la testa verso di lui. «Niente» disse sorridendo. Papà guardò Carl. «È sicuro che sia disabitata da cinquant'anni?» Carl si strinse stoicamente nelle spalle. «L'ho sempre pensato, mi sarò sbagliato.» Si diresse nel soggiorno - a quei tempi probabilmente si chiamava salotto - che si apriva a sinistra dell'entrata. «Professore, se questa casa appartiene a lei,» chiese Ann gentilmente «dovrebbe pur sapere se ci abita qualcuno.» Era sinceramente confuso. «Il signor Willingham ha ragione. Non ci abita nessuno da cinquant'anni. Quando ci venni l'ultima volta, trentacinque anni fa, assunsi un uomo perché badasse alla casa. A quanto pare ha fatto un buon lavoro.» Il soggiorno-salotto era ammobiliato, con una certa cura, nello stile sgraziato in voga nei primi anni Venti. Sembrava quasi un'esposizione di mobili, come il salotto di casa nostra bello e immacolato, ma mai usato, tenuto solo per le visite che non arrivavano mai. «C'è della legna per il camino» disse papà illuminandosi. «Temevo di
dover bruciare i mobili.» Poe arricciò il naso. «Non sarebbe stato un gran danno.» Il professore sembrò riprendersi. «Perché non andate a chiamare gli altri e a prendere tutto ciò che può esservi utile mentre io e il signor Willingham accendiamo il fuoco?» Uscimmo quindi di nuovo nella pioggia scrosciante, avviandoci a fatica verso le auto. Mentre scendevamo gli scalini del portico, Ann mi sorrise e, dannazione, mancai un gradino e dovetti aggrapparmi alla ringhiera. Quando tornammo con le valigie, le coperte e tutto quello che potevamo portare, Weatherly e Carl avevano acceso un bel fuoco scoppiettante che, insieme alla mezza dozzina di lampade a cherosene, contribuiva a rendere la stanza quasi allegra. Entrammo di corsa, indaffarati, togliendoci gli impermeabili e posando gli ombrelli, guardandoci intorno esitanti. Tutti eravamo allegramente agitati e sembravamo considerare l'accaduto un'avventura. «È meraviglioso» disse Linda McNeal in tono deliziato. «Mi aspettavo ragni e topi!» La moglie di Poe aveva ventidue anni ed era piccola, rosea, carina e... vistosamente incinta. Poe l'aiutò a togliersi l'impermeabile. Linda mi fece la stessa buona impressione di Poe. «E così, qualche agricoltore la userebbe per mettere il fieno al coperto...» era Judson Bradley Ledbetter che parlava, professionalmente noto come Jud Bradley, in quanto pensava che Ledbetter suonasse un po' troppo campagnolo. Non era difficile intuire che era il fratello di Linda, anche lui biondo, roseo e carino, ma con un non so che di oscuro che in Linda non si avvertiva. Pensai che fosse vestito troppo elegantemente e che, ovviamente, avesse fregato le scarpe a Carmen Miranda. «Dove sono i fantasmi?» chiese Tannie, pronta a incominciare a fare sul serio. «Non si fanno vedere fino a mezzanotte» risposi impassibile. «Smettila, Ben» disse la mamma. «Sai che crede a tutto quello che le dici.» «Stai bene, cara?» Poe chiese alla moglie. «Non devi prendere freddo.» «Sembri proprio uno che abbia nuotato con i vestiti addosso.» Poe sogghignò e disse: «Mi aspettavo che Fred Murray arrivasse remando su di una barca!». «Le piogge di Ranchipur!» esclamò Linda allegramente. «Esatto!» La mamma, che era una persona previdente, disse: «Ho degli asciuga-
mani nelle valigie» tirandone fuori parecchi e porgendone uno a Linda. «Grazie» rispose Linda sorridendo. «Solo i capelli e i piedi sono bagnati.» «È il suo primo bambino?» chiese la mamma. «Sì, è un'esperienza bellissima, vero?» «Sì» rispose la mamma ridendo. «Quando ho avuto i miei due, mi sentivo nello stesso modo. Venga qui, si sieda vicino al fuoco e si tolga le scarpe.» Lei e Poe spinsero una sedia vicino al camino, facendosi in quattro per Linda. Poi la mamma diede a me e a Tannie un asciugamano ciascuno con l'istruzione di strigliarci per bene. La mamma, non appena aveva qualcosa da fare, entrava in piena attività e penso che questa fosse una delle ragioni che la rendeva la moglie così efficiente di un professore, mentre ci sono molte donne che non ne sono all'altezza. Ho visto donne assennate agitarsi al pensiero di un tè con i colleghi del marito, e mogli di professori assistenti considerare seriamente l'idea di infilare la testa nel forno dopo essere state ridotte ai minimi termini, naturalmente con delicatezza e senza ferite visibili, dalla moglie di un professore a pieno titolo. Mamma dice che una brava moglie dev'essere per un quarto padrona di casa, un quarto sguattera, un quarto diplomatica, un quarto agente segreto e per quattro quarti una santa. «Quando sarete tutti sistemati» disse il professore, calato anche se di malavoglia nella parte di capo dei reietti, «prenderò le mie valigie, visto che dentro c'è qualcosa da mangiare.» «Verrò con lei» disse papà, offrendosi come volontario. «In auto abbiamo del caffè.» «Grazie» disse Weatherly. «In cucina c'è una stufa, ma ho paura che non ci sia acqua calda.» «Clare, ti spiace far bollire dell'acqua?» chiese papà. «Torniamo subito.» «Certo.» Uscirono e tutti si stavano mettendo comodi. Dalla valigia presi delle calze asciutte per me e Tannie. La mamma e Poe si occupavano ancora di Linda. Carl Willingham e Judson Bradley Ledbetter si scaldavano a turno davanti al fuoco per asciugarsi. Jud ben presto ci rinunciò e, dopo aver frugato nelle numerose valigie, andò in un'altra camera a infilarsi dei vestiti asciutti. «Per quando è previsto il parto?» chiese la mamma, che non aveva del tutto chiuso l'argomento sui bambini.
«Fra cinque settimane» disse Linda. «Stavamo andando a trovare i genitori di Linda a Wichita prima che fosse troppo tardi per viaggiare» disse Poe, esibendo un sorriso orgoglioso e un po' perplesso da futuro padre. «Abitiamo a Flagstaff.» «Oh, Poe» sospirò Linda. «Quando non ci vedranno arrivare, si preoccuperanno molto. Dovevamo essere là alle otto.» «Lo so, tesoro, ma noi purtroppo non possiamo farci niente.» «Vuole una coperta?» le chiese la mamma, porgendogliene una prima che potesse rispondere. «Grazie, signora...» si mise a ridere. «Non so nemmeno come si chiama!» «Clare Henderson. Presentarci era in effetti la prima cosa da fare! Quello che è appena andato a prendere il caffè era mio marito, Charles. Mio figlio Ben, e mia figlia Tannie.» Tutti erano un po' sulle spine, come quando ci si presenta a degli estranei. A parte me. Stavo guardando Ann Callahan, che era appena rientrata nella stanza dopo avere fatto un giro esplorativo. «Mi chiamo Tania Henderson» annunciò Tannie con orgoglio. «Era il nome di mia nonna.» «È un nome molto bello» disse Ann, mentre si univa a noi. «Grazie mille» le disse Tannie, sorridendole. «Prego» e Ann le ricambiò un sorriso smagliante. «Mi chiamo Ann Callahan.» «Poe McNeal. Non dirò di quale nome Poe sia l'abbreviazione. Mia moglie, Linda.» «Là dentro c'è mio fratello» disse Linda, facendo cenno con la testa verso la porta chiusa. «Jud Ledbetter, Vive a Hollywood.» La mamma inarcò le sopracciglia con aria interrogativa. «È un attore? Be', è abbastanza bello per poterlo fare.» La bocca di Linda tremò nel tentativo di reprimere un sorriso. «Probabilmente vi dirà che lo è,» disse «ma è un modello. Può darsi che lei riconosca la nuca.» Il sorriso si aprì e Poe ridacchiò. «Ha fatto molti spot commerciali, ma la telecamera inquadra sempre i capelli lucenti o i denti bianchi, splendenti e senza carie della ragazza, mentre tutto quello che si vede di Jud è la nuca. Se vuole sentire un resoconto dettagliato della cricca equivoca dei direttori e produttori di spot pubblicitari, entri nel discorso.» Linda e Poe soffocarono le risa. «Perché ridete?» chiese la mamma perplessa. «A me sembra fortunato.»
«Oh, lo è» disse Poe controllandosi. «Guadagna soldi a palate, molti di più di quelli che potrò mai avere io. Ma vede, signora Henderson, io Jud e Linda siamo cresciuti insieme a Wichita. Jud e io eravamo nella stessa classe, e per noi è difficile prenderlo sul serio, lo conosciamo troppo bene.» Poe si tolse le calze inzuppate, staccando l'etichetta dalla pelle. «Se volete scusarmi, seguirò l'esempio del mio bellissimo cognato e mi metterò delle calze asciutte.» Frugò in una valigia e seguì Jud. «Mi sa che suo marito e suo cognato non vadano molto d'accordo» disse la mamma. «No, non si tratta di questo» disse Linda, tirandosi la coperta sulle spalle. «Dopo la scuola si sono visti poco, e da allora Jud è cambiato parecchio. Penso che molto dipenda da Hollywood. Non è niente di serio, ma le arie di Jud divertono Poe, e questo, di rimando, irrita Jud.» «Le spiace aiutarmi a mettere l'acqua a bollire?» chiese la mamma ad Ann, ricordandosi di colpo della raccomandazione di papà. «No di certo» rispose lei. Presero una pila e andarono nella direzione opposta a quella presa da Jud e Poe. «Mi chiedo quando leggeranno il testamento» disse Poe una volta tornato. «Come?» chiesi, visto che pensavo ancora ad Ann. «Nei film,» mi spiegò «quando un gruppo di persone si riunisce in una vecchia casa infestata dai fantasmi come questa, di solito si legge un testamento, ma c'è sempre la clausola che debbano trascorrervi la notte... e poi i beneficiari vengono assassinati uno dopo l'altro.» «Poe,» disse Linda accigliandosi «non parlare in quel modo. Spaventerai Tannie.» «Non le fa paura niente» la rassicurai. «Vero» affermò Tannie. «In qualche modo» continuò Poe imperterrito «vengono attirati nella casa da un ospite misterioso, che poi li uccide uno dopo l'altro.» «E Dieci piccoli indiani e Tredici a tavola?» incalzai. «Ah!» rise Linda. «Poe ha trovato uno con lo stesso suo spirito.» «Cosa?» chiesi con un altro magnifico esempio delle mie brillanti risposte pronte. «Poe e Linda si fanno domande sui vecchi film» spiegò Jud senza la minima condiscendenza. «Se uno mette in difficoltà l'altro, guadagna un punto.»
«È un gioco che facciamo durante i viaggi per passare il tempo» disse Poe strizzando gli occhi. «Posso giocare anch'io?» «Certo.» Linda si mise a ridere. «Io non sono una gran concorrente.» «Ragazzo, stai all'erta» ghignò Poe. «Stai per affrontare un maestro!» «Va bene, tocca a me» disse Linda, e sembrò concentrarsi. «Vediamo. Ecco... quante volte è stata sposata Rossella O'Hara?» Poe si girò verso di me, fingendosi esasperato. «Vedi che tipo di gara devo fare? Sai la risposta?» «Certo» ghignai. «Tre.» «Linda non guadagna nessun punto» esultò. Lei gli fece una smorfia. «Va bene,» continuò Poe, preparandosi a replicare «quale famosa stella del western recitò una volta in un ruolo romantico con Greta Garbo?» Si sistemò sulla sedia con un sorrisetto soddisfatto. Linda lo guardò sospettosa. «Te lo stai inventando.» «No» disse ridendo. «Johnny Mack Brown» borbottò Jud. Poe assunse l'espressione di chi è stato tradito biecamente. «Come facevi a saperlo?» chiese lamentoso. Jud inarcò le sopracciglia chiare. «Vuoi dire che l'ho azzeccato? Ho solo detto il nome più improbabile che mi è venuto in mente.» «Stavo per dire Lash LaRue» disse Linda facendo la faccia seria. Stavamo ancora ridendo quando papà e il professore tornarono. Weatherly aveva una valigia e un cestino da picnic, papà una scatola di caffè solubile, delle tazze di plastica, zucchero, latte in polvere e un mucchio di altre cose. Li stavamo aiutando a spacchettare il tutto, quando la mamma e Ann ritornarono con l'aria compiaciuta. «L'acqua è sul fuoco» annunciò la mamma. «Con un po' di ingegnosità, di intuizione e molta fortuna, abbiamo capito come funziona quella vecchia stufa a cherosene.» «Professore,» disse Ann, aggrottando leggermente le sopracciglia «il custode vive in casa? In cucina c'è del cibo, perlopiù in scatola.» «Non so» rispose, con lo sguardo stupito. «L'uomo che assunsi viveva con la moglie a Hawley.» «Forse qualche vagabondo che la usa abusivamente» disse Jud. «Non può essere qualcuno dei dintorni» commentò Carl con sicurezza. «La gente di Hawley si tiene alla larga da questo posto.» «Lei c'è, signor Willingham» gli fece notare la mamma. «Ha cambiato
idea sul fatto che il posto sia infestato dai fantasmi?» «Non l'ho mai detto» rispose con flemma. «Ho solo riferito le chiacchiere della gente.» Non è facile spiegare quello che successe dopo. Poe e io eravamo accanto a Linda, vicino al caminetto. Ero seduto su una sedia vicino a Linda, e Poe sul pavimento con le braccia intorno alle ginocchia. Tutti gli altri erano vicino a un tavolo a circa tre metri di distanza, intenti a vuotare il cestino da picnic del professore. Stavo pensando che sicuramente Weatherly aveva portato tutto quel cibo per un motivo preciso. Lo sentii arrivare prima che la "cosa" mi colpisse, ma ero talmente sbigottito che non feci niente per proteggermi. Ci fu un urto, e poi una pressione così forte che mi tolse il respiro. Se fossi stato in piedi, sarei caduto. La testa piombò all'indietro verso la sedia. Non durò più di un secondo, ma il panico gelido che mi opprimeva era insopportabile. Il dolce gelo del terrore, madido e pervaso di acqua zuccherata gelata. Mi si chiusero gli occhi e iniziai a tremare senza riuscire a controllarmi. Mi sentivo le braccia così deboli da non riuscire a sollevarle. Non avevo mai provato una paura così profonda. Ma non era la mia paura. Dopo un secondo, che mi sembrò eterno, la pressione e la presenza si dissolsero improvvisamente come si erano manifestate. Riuscivo a sentire quello che gli altri stavano dicendo, le loro voci mi arrivavano lontane e sapevo cosa stavano facendo, senza vederli con gli occhi. In quel gelido secondo, Ann ansimò, e si guardò intorno velocemente, cercando la causa. Ma di che cosa? Tutti smisero di parlare e la guardarono, il professor Weatherly con più interesse di quanto potessi spiegarmi. Poi Linda mi fissò. «Signora Henderson!» urlò. «Ben non sta bene!» Tutti mi si affollarono intorno, tranne Jud e Carl. Ann era scossa, e l'aiutarono a sedersi. Tannie mi fissava con gli occhi sgranati. Mamma e papà sì inginocchiarono accanto a me, e la mamma posò le mani sul mio viso madido di sudore. «Tesoro, cos'è successo?» Cercai di aprire gli occhi, ma le palpebre sbattevano come ali di falena e non riuscivo a mettere bene a fuoco ciò che mi circondava. «Ben!» disse papà, con la voce che tradiva tensione e ansia profonde. «Figliolo, di' qualcosa!»
«Mamma?» farfugliai piagnucolando. Non avevo vergogna di frignare, ed ero già contento di non essermi messo a urlare. La mamma mi abbracciò facendomi appoggiare la testa contro il suo seno, stringendomi come se avessi avuto due anni. Papà mi teneva la mano contro la nuca. Mi aprii completamente, facendo crollare tutte le barriere. Mi impregnai del loro amore, della loro sollecitudine e tenerezza. M'immersi, nuotai e mi lasciai annegare. Il loro calore mi sopraffece, portandosi via il gelo di quel terrore. «Ben, cosa c'è? Stai male?» mi chiese dolcemente la mamma. «Oh, mamma, era così spaventato» dissi gemendo contro il suo petto. «Chi era spaventato?» chiese papà confuso. Misi a fuoco Ann dietro la spalla della mamma. Mi stava fissando sorpresa, come identificandosi in me, ma non era più stupita di quanto non fossi io. Il professor Weatherly spostava lo sguardo da me ad Ann, come un gufo in preda alla paura. Notai poi che anche tutti gli altri mi fissavano, e questo mi imbarazzò. Mi sciolsi dall'abbraccio della mamma e mi appoggiai contro la sedia perché non ero sicuro di riuscire ad alzami, il tutto senza togliere gli occhi da Ann. «Non so, papà» dissi, cercando di rispondere alla sua domanda. «Improvvisamente ho sentito... ho sentito... era come se mi mancasse il respiro... e c'era così tanta paura.» «È quello che ho provato anch'io... ma non era così forte» disse Ann con calma. Tannie, lentamente ed esitante, mi prese una mano fra le sue e mi guardò con gli occhi enormi e colmi di paura. Le rivolsi un lungo sorriso e le feci l'occhiolino. Il suo faccino si aprì e mi sorrise di rimando. La mamma si rivolse ad Ann. «Ti senti meglio, Ann?» «Sì, sto bene.» Improvvisamente Tannie sollevò di scatto la testa e disse con voce acuta: «Dev'essere stato il fantasma». Nella stanza si allargarono piccole ondate di risa nervose. «Penso che abbia ragione» ghignò Poe. «Ho visto un numero sufficiente di film per riconoscere una casa infestata dai fantasmi.» «Ho sentito quello che dice la gente» disse Carl con un cenno del capo. «Lei continua a ripetere sempre la stessa cosa» brontolò Jud. «Cosa dicono esattamente le chiacchiere della gente?» «Parlano di questa casa e di quello che successe qui cinquant'anni fa.»
«Lo sapevo!» urlò Poe, battendo le mani energicamente. «Una casa non acquista la reputazione di essere infestata dai fantasmi, a meno che non ci sia una storia di mezzo. Cos'è successo cinquant'anni fa? Forse un omicidio interessante?» «È la prima volta che vengo qui» disse Carl, un po' imbarazzato di essere al centro dell'attenzione. «Nessuno di quelli che conosco c'è mai entrato. L'ho vista un mucchio di volte dalla strada. Prima che costruissero quella maestra, questa era la strada principale.» «Be', cos'è successo?» chiese Poe a disagio. Il professor Weatherly era chiaramente in imbarazzo e avrebbe voluto essere da qualche altra parte. «È successo prima che nascessi, ma ho sentito le chiacchiere della gente» continuò Carl, accalorandosi. «I Weatherly abitavano qui. La gente dice che prima della crisi del '29 avevano una bella fattoria. Moglie, marito, due ragazze e un maschio. Molto benvoluti, a quanto si dice, anche se corre voce che il ragazzo fosse un po' strambo. Una notte i vicini videro la casa tutta illuminata in modo davvero strano. I riverberi danzavano dappertutto e da una finestra del piano di sopra uscivano delle fiamme. Pensarono a un incendio e corsero in aiuto. Quando arrivarono, non c'era niente: né fuoco, né altro. Chiamarono, ma non rispose nessuno. Entrarono e guardarono da tutte le parti. Non videro nessuno. Scoprirono solo da quale stanza usciva il fuoco e dissero che era la camera dei ragazzo. L'interno era tutto bruciato, ma il fuoco era spento. Da allora nessuno ha mai più visto i Weatherly, o sentito parlare di loro.» «Ehi!» esclamò Poe, espirando lentamente. «È persino meglio di un omicidio interessante!» «Non hanno mai scoperto cosa è accaduto?» chiese papà. «No» rispose Carl stringendosi nelle spalle. «No, che io sappia.» «Professore?» disse Ann, rivolgendosi a Weatherly. «Quando ci siamo fermati sulla strada, lei mi ha detto che una volta viveva da queste parti. In questa casa?» «Sì, per un certo periodo» rispose lui agitato, cambiando immediatamente discorso. «Signora Henderson, pensa che l'acqua stia bollente? Prenderei volentieri una tazza di caffè.» «Oh!» La mamma sorrise. «Me ne sono dimenticata!» Mi rivolse uno sguardo interrogativo e io, con un cenno, la rassicurai. Corse fuori dalla stanza. Ann continuava a guardare il professore con aria meditabonda, ma per il momento aveva deciso di lasciar perdere.
«Ha detto che c'erano dei vicini» incalzò Poe speranzoso. «Forse potremmo andarci a piedi a telefonare per far venire un carro-attrezzi.» «E io potrei così chiamare i miei genitori» aggiunse Linda. Carl scosse il capo. «Non ci sono più tante fattorie come una volta. Penso che non ci sia un'altra casa se non a sei o sette chilometri da qui.» «Come non detto» borbottò Poe, e si risedette. La mamma tornò con un bollitore fumante in mano e lo posò di fianco alle tazzine. Preparammo caffè e panini grazie al cesto ben fornito, e poi tornammo tutti vicino al fuoco, tranne Carl, che se ne stava alla finestra a guardare attraverso la pioggia in direzione delle auto. Era più preoccupato e nervoso di noi. Poi voltò le spalle e si unì agli altri. Era accigliato e continuò a tormentare il sigaro, fino a sbriciolarlo. «È davvero strano» disse. «Sono stato a guardare la strada e da quando siamo arrivati non è passata nessun'altra macchina.» «Forse ha smesso di piovere» disse Jud annoiato. «Per niente» rispose papà, anche lui accigliandosi. «Viene giù ancora.» «La risposta è molto semplice» disse Poe, fingendosi tetro. «I fantasmi ci hanno attirato qui per qualche loro ragione diabolica, e adesso stanno tenendo lontano chiunque altro.» Il professor Weatherly lo guardò come un gufo spaventato. E io improvvisamente pensai che il professore sembrava condividere quell'opinione. Linda rise e rabbrividì. «Poe, basta! Adesso è me che spaventi.» «Non è vero per niente» Weatherly si affrettò a chiarire il dubbio. «Ovviamente hanno scoperto che anche la deviazione è allagata e fanno prendere un'altra direzione alle auto in transito.» Poe fece una smorfia e rise. «Lei è un guastafeste!» Ann prese il bollitore e mi guardò. «Vado a far scaldare dell'altra acqua» disse, e uscì dalla stanza. La seguii, maledicendomi per non avere trovato l'occasione di rimanere da solo con lei prima. La porta della cucina era aperta. Mi appoggiai contro lo stipite e la guardai riempire il bollitore utilizzando la pompa a mano. Aveva i capelli corti, non tanto più lunghi dei miei. Era alta, con gambe lunghe e molto belle, con i tacchi alti sarebbe stata più alta di me, ma portava delle scarpe da ginnastica. Ero un metro e settantacinque, ma speravo di riuscire ad arrivare al metro e ottanta in un paio d'anni. So che non feci rumore e lei era girata di schiena. «Ciao, Ben Henderson» disse senza voltarsi.
La cucina era buia e tetra, nonostante una delle lampade a cherosene fosse accesa. Ero solo con lei e non sapevo cosa dire, quindi mi finsi interessato alla lampada. «È incredibile come la gente non diventasse cieca con la poca luce che fanno questi lumi» dissi stringendo i denti. «Probabilmente lo diventavano» rispose, e accese il gas sotto il bollitore. Poi si girò e mi guardò. Sulle labbra aleggiava un sorriso vago e un po' insolente. Mi sentii come se fossi stato completamente nudo. Arrivò così improvviso e inaspettato che... arrossii come una ragazzina. Poi arrossii perché stavo arrossendo. La sensazione era così eccitante, per me, che dovetti fare uno sforzo mentale per evitare di creare situazioni davvero imbarazzanti. Lei rise, ma in quel riso avvertii solo della tenerezza. «Mi spiace. Non volevo metterti a disagio. Volevo solo vedere se sai cogliere il messaggio.» «Perfettamente» dissi, lottando contro il fremito alla bocca dello stomaco. «Sei un ragazzo molto bello» aggiunse lei con sicurezza. «Dovresti esserci abituato.» «Questa volta è stato un po' diverso. Sapevi che stavo raccogliendo il messaggio.» Si appoggiò contro gli armadietti della cucina e mi chiese con voce ansiosa: «A volte non desideri essere come tutti gli altri? Non ti stufi mai di sapere sempre tutto?» «Sì, qualche volte mi capita.» «Sei molto fortunato, sai. La tua famiglia ti vuole bene.» «Non hai una famiglia tu, vero?» «No, i miei genitori morirono quand'ero piccola, così sono stata adottata da una zia. L'avevi capito, vero?» «No, non proprio. Ho sentito tristezza e un senso di perdita quando hai nominato la mia famiglia. Dev'essere stato qualcosa del genere.» «I miei zii sono molto buoni con me, ma, a differenza della tua famiglia, in loro non c'è calore, né sollecitudine nella quale rifugiarmi quando le cose diventano opprimenti.» Poi feci qualcosa che avevo voglia di sperimentare da quando avevo scoperto che Ann era come me. Mi guardò piacevolmente sorpresa. «Grazie, Ben,» disse dolcemente «come velluto candido che ondeggiava su oro
lucido.» «Non pensarci... si forniscono calore e premure a richiesta.» «Sei uno scemo» disse ridacchiando. «Era vero, lo sai.» «Sì, naturalmente» concluse semplicemente. Poi si mise a ridere. «E bada che ho raccolto quel messaggio anche prima.» «Scusa,» dissi sorridendo «un riflesso involontario. Comunque, sei stata tu a cominciare.» «Per me non sei un bambino, Ben.» Ebbi di nuovo quella sensazione di velluto bianco. «Lo so. Ci vuole un po' per abituarsi, penso. Credevo di essere solo.» «Per quelli come noi, vederti come ti vedono gli altri è estremamente vero. Penso che la parte peggiore sia che così tante cose siano noiose.» «Come i giochi con le carte.» «E la scuola. Hai saltato un anno?» «Sì.» «Anch'io. Sono all'ultimo di college.» «Io ho ancora un anno di superiori. Cosa farai quando avrai finito?» Si strinse nelle spalle. «Probabilmente studierò ancora per prendere la laurea in psicologia.» Sorrise. «È un campo in cui siamo molto bravi.» La guardai e lei ricambiò lo sguardo. Era bello, veramente, ma avevamo un problema da risolvere. «Cosa pensi che abbia in mente il professore Weatherly?» Si accigliò. «Non lo so. Ho la sensazione che tutta la situazione non sia casuale.» Avvertivo la stessa cosa ma non lo dissi. Lo sapeva. «È il mio professore di psicologia all'università del New Mexico. Quando mi sono fermata a quel blocco stradale era dietro di me, e il meno che posso dire è che ero sorpresa. Mi ha detto che stava andando a Hawley, che da bambino viveva nei dintorni dove aveva ancora delle proprietà ed era venuto a sistemare degli affari.» Si guardò intorno nella stanza. «Questa dev'essere la proprietà, e sembrerebbe proprio che noi siamo intrappolati nei suoi affari.» «Com'è che sei qui?» Si strinse nuovamente nelle spalle. «Non c'è un motivo particolare. Ieri, dopo le lezioni, ho semplicemente deciso di fare un giro in macchina durante il week-end. Non so perché. Al momento mi sembrava una buona idea, anche se adesso non ne sono più tanto sicura.» Mi guardò e sorrise, mentre a me pareva quasi di sentire un violino suonare. «No, è stata una
buona idea.» Abbassò gli occhi. «L'acqua bolle. Faremmo meglio a tornare.» Si girò verso la stufa, voltandomi la schiena. «Ben? Cosa stavi pensando un attimo fa? Non mi è spiaciuto.» «Lo so» dissi e presi il bollitore. Lei spense il gas e mi guardò. Questa volta nemmeno arrossii. Mentre tornavamo in salotto, trovammo Tannie seduta sull'ultimo scalino con accanto una delle lampade a cherosene. Aveva i gomiti appoggiati sulle ginocchia e si teneva il mento fra le mani, con l'espressione perplessa che era solita assumere quando si imbatteva in qualcosa di troppo complesso da capire. Mi stava chiaramente aspettando per farsi aiutare. «Tannie, cosa fai qui?» le chiesi. «Volevo vedere la stanza bruciata» borbottò pensando chiaramente a qualcos'altro. «L'hai trovata?» le domandò Ann. «Sì, grazie» disse educatamente. Poi alzò lo sguardo un po' accigliato verso di me. «Ben, come sono i fantasmi?» «Non so» dissi, e risi a vederla così seria. «Non ne ho mai visto uno.» Si guardò la punta dei piedi e si grattò distrattamente la gamba. «Ho sempre pensato che indossassero delle lenzuola o che fossero trasparenti. Adesso credo che sembrino persone.» «Cos'hai visto?» le chiesi serio, perché sapevo che doveva essersi imbattuta in qualcosa. «Nella stanza bruciata c'era una signora. Aveva quasi duecento anni e indossava dei vestiti strani.» Alzò di nuovo lo sguardo verso di me con un'aria furtiva e curiosa. Tannie mi aveva raccontato tutto questo molto francamente perché sapeva che, quando dice la verità, le credo sempre. Posai il bollitore sul pavimento e mi sedetti sullo scalino al suo fianco. «Cos'ha fatto la signora?» «Niente. Non mi ha parlato.» Le presi la mano e mi alzai. «Torniamo vicino al fuoco. Io e Ann andremo a vedere.» La mamma, papà, Linda e Poe stavano giocando a bridge. Carl stava guardando di nuovo fuori dalla finestra e Jud stava leggendo Conversation in the Raw di Rex Reed. Weatherly, con un'aria depressa, era seduto sul divano. «Mamma,» dissi «Tannie ha fatto un giro esplorativo.» «Come? Pensavo fosse con te. Tannie, sai benissimo che non puoi an-
dartene in giro senza dircelo.» «Mamma!» sospirò con l'aria di sottolineare la banalità del suo rimprovero. «Stavo solo parlando con il fantasma.» La reazione di Weatherly fu così forte che mi girai a guardarlo. Aveva l'aria di un uomo molto stupito. La mamma sorrise. «Certo, cara.» «Torno fra un minuto» dissi, continuando a guardare il professore. «Io e Ann andiamo a dare un'occhiata in giro.» «Va bene. State attenti.» «Sicuro.» Presi la lampada sulle scale, dove l'aveva lasciata Tannie. «Mia sorella ha detto la verità» dissi. «Ha visto davvero qualcuno.» «Sì, lo so.» Ann sorrise. Io le ricambiai il sorriso, perché era la cosa più facile e bella da fare al mondo. «Continuo a dimenticarmene. Sono certo che il professor Weatherly ci nasconde qualcosa.» «So anche quello. Quando ha detto che da bambino viveva qui, non stava dicendo proprio la verità.» «Tu pensi?» «Sì. Cioè, effettivamente deve averci abitato, ma non ti è sembrato che ci nascondesse comunque qualcosa?» «Non ci ho fatto caso. Raramente riesco a "leggere" le persone senza una buona ragione per farlo. Di solito è troppo sconcertante e imbarazzante. Mi limito a isolarle come un rumore di sottofondo a cui ci si abitua e non si sente a meno che non si stia in ascolto... o che sia forte, come quando Tannie ha parlato del fantasma. Ho captato sorpresa e confusione profonde. Penso che il professore si aspettasse di non trovare nessuno, qui.» Ispezionammo molte stanze ai piani di sopra e tutte le camere da letto, prima di trovare la stanza bruciata. Una porta che, se ricordavo bene la sua posizione, avrebbe dovuto portare alla torretta, era chiusa a chiave. Lanciai uno sguardo interrogativo verso Ann, che si strinse nelle spalle. Anche la stanza bruciata in origine era stata usata come camera da letto e sembrava che non fosse stata toccata dall'epoca dell'incendio scoppiato cinquant'anni prima. I mobili e le pareti in alcuni punti erano carbonizzati, mentre in altri erano solo bruciacchiati, come se il fuoco fosse divampato nella sua furia distruttrice solo per alcuni minuti e poi si fosse spento subito dopo. Non c'era però traccia di una vecchia signora con abiti strani. Quando tornammo al piano di sotto, Tannie stava affrontando gli altri con sfida ed era vicina alle lacrime. Si voltò e corse verso di me. «Ben, per
piacere, potresti dire a questa gente cosa ho visto?» disse con la voce tremante. Mi inginocchiai e l'abbracciai e lei mi mise le braccia intorno al collo, trattenendosi coraggiosamente dal piangere. «Mi spiace, tesoro» dissi dolcemente. «Quando siamo arrivati in quella stanza, la donna era sparita.» «Anche tu pensi che mi sia immaginato tutto?». Al pensiero che anch'io potessi esserle contro, il tremito nella voce si fece più pronunciato. «Naturalmente no» risposi con fermezza. «Ha veramente visto qualcuno» dissi agli altri. Mi alzai, ma Tannie non mi lasciò la mano. «Come fai a esserne così sicuro?» chiese Judson Bradley Ledbetter con un'aria sprezzante e di scherno. «Il fantasma si è fatto vedere?» chiese Poe effettivamente interessato. «Per questo deve chiedere al professor Weatherly» risposi. Il professore mi guardò minaccioso, come se una delle sue pedine gli si fosse rivoltata contro. Si agitò un attimo e poi sospirò. «Posso assicurarvi che in questa casa non ci sono fantasmi!» sbottò irritato. «Comunque, avete diritto a una spiegazione, considerato che alcuni di voi si lasciano trasportare dalla fantasia. Però, prima di darvi qualche chiarimento, premesso che comunque non potrò dirvi tutto, vorrei mostrarvi qualcosa.» Andò verso il tavolo dove prima giocavano a bridge. «Perché non può dirci tutto?» chiese papà, irritandosi. «Signor Henderson, non mi crederebbe» sospirò con impazienza «e non c'è bisogno che vi allarmiate senza motivo.» Poe brontolò: «Sono affermazioni del genere che mi allarmano senza motivo». «Signor McNeal,» riprese Weatherly seccamente «non ci sono fantasmi e voi non correte alcun pericolo. Per piacere, la smetta di fare queste ipotesi avventate.» Poi incassò la testa fra le spalle e sogghignò nella mia direzione. Io e Ann ci lanciammo un'occhiata d'intesa. Era difficile capire Weatherly. Non stava mentendo, ma avevo la sensazione che fosse solo tecnicamente la verità. Continuò, sedendosi al tavolo: «Adesso venite qui tutti. Ben, tu siediti, e che altri due facciano lo stesso qui, vicino a noi». Mi sedetti di fronte a lui, ansioso di collaborare e scoprire cosa stava succedendo. Ann era in piedi dietro di me. La mamma e papà erano seduti sulle altre sedie. Il resto della brigata ci sì raccolse intorno, a parte Carl, che osservava dall'altro lato della stanza. Avevo l'impressione che stesse vicino alla porta per poter scappare più in fretta. Weatherly raccolse le carte e le porse alla mamma. «Adesso, signora Henderson, per cortesia le me-
scoli accuratamente e le distribuisca.» La mamma gli lanciò un'occhiata interrogativa ma fece come le aveva detto. Weatherly prese le sue carte e le aprì a ventaglio, e noi facemmo lo stesso. Avevo tredici fiori ben sistemati, con il Due a sinistra e l'Asso sulla destra. «Adesso, Ben,» disse Weatherly «se stessimo giocando a bridge, secondo te chi avrebbe la mano vincente?» «Papà» risposi. Annuì soddisfatto. «Esatto» disse deciso, e posò le sue carte sul tavolo scoperte. Aveva tredici cuori, la mamma tredici quadri e papà tredici picche. «Spiega come facevi a saperlo.» «Non ci riesco» dissi aggrottando le ciglia. «È come... come spiegare la vista, l'udito o l'olfatto a qualcuno che non li ha. Papà sapeva di avere la mano vincente e io... ho sentito... intuito che lo pensava.» «Sapevi esattamente quali carte aveva?» mi chiese Weatherly con veemenza. «No, ma non è stato difficile calcolarlo quando ho visto le mie.» «Inizia a "leggere" tutti quelli che ci sono in questa stanza, Ben» disse come un filo teso sul punto di spezzarsi. Non mi tolse mai gli occhi di dosso. «I tuoi genitori.» «Preoccupazione. Amore.» «Tannie.» «È ancora arrabbiata.» «Poe.» «Interesse. Stupore.» «Linda.» «Amore. Incomprensione.» «Il signor Ledbetter.» «Incredulità. Fastidio.» «Il signor Willingham.» «Nervosismo. Stoicismo.» «Me.» «Determinazione.» Socchiusi un po' gli occhi - sapeva che stavo "leggendo" molto di più - ma non aggiunsi nient'altro. «Ann.» Esitai, come facevo a ridurre Ann in parole? Non ci riuscii, e quindi sorrisi come uno stupido. Ann mi mise il braccio intorno alla spalla. «Ben...» disse la mamma con una voce sottile e tesa.
Non avevo davvero mai voluto che i miei genitori lo scoprissero in questo modo, anche se mio padre inconsciamente lo sapeva già da un po' di tempo. Non aveva mai detto nulla - per non voler turbare la mamma - e lui stesso non voleva crederci veramente. Adesso tutti e due erano confusi e spaventati. Feci per dire qualcosa, nel tentativo di cercare di alleviare le loro preoccupazioni, ma Ann mi precedette. «Non capisce, Clare?» disse tranquillamente. «Lei e Charles considerate Ben un adolescente, quindi lui deve recitare questa parte per farvi contenti. Per noi è difficile essere noi stessi e non solo il riflesso degli altri. Ho avuto la stessa esperienza. A nessuno piace un ragazzino presuntuoso» concluse, facendomi scorrere le dita nei capelli sulla nuca. Tutto quello che riuscii a fare fu sorridere e arrossire. Mi colpì leggermente la nuca. «Ben...» ripeté la mamma. «Lo so, mamma.» «Quindi eccoci qui» disse Weatherly, riportandoci nel suo seminato, qualunque esso fosse. «Ann avrebbe potuto dirmi le stesse cose. Tutti e due sono telepatici e risoluti, anche se Ben è più sensibile.» «Telepatici!» sbottò Jud, versandosi un'altra tazza di caffè. «Non preoccuparti, Jud» lo assicurò Ann. «Non possiamo leggere i tuoi pensieri, ma solo le tue emozioni, il tuo stato mentale e cose del genere.» «Ma anch'io sapevo chi aveva la mano vincente» disse Weatherly. «Sapevo il posto di ogni carta, perché ho controllato la mano. Se non l'avessi fatto, non avrei potuto sapere niente.» «L'avevo pensato» dissi. «Come ha controllato il giro?» Papà ormai stava anche lui al gioco. «Anche questo è difficile da spiegare.» Weatherly sospirò. «Ben e Ann sono telepatici e risoluti. Personalmente sono abile nella telecinesi, anche se credo che adesso venga chiamata psicocinesi.» Per un attimo cadde il silenzio. «Che cos'è?» chiese Linda con gli occhi sgranati. Poe la stava abbracciando e Linda gli si appoggiò contro. Poe era silenzioso e concentrato. «La capacità di controllare mentalmente gli oggetti fisici» spiegò Weatherly concisamente. «Vuol dire il controllo della mente sulla materia?» sussurrò Linda. «Sì» sospirò. «Credo che questa sia la definizione in voga.» Jud stava camminando avanti e indietro sul tappeto scolorito. «Vediamo se riesce a far muovere quella scarpa» disse sbuffando, e indicò una delle
scarpe da ginnastica di Poe che, ancora umida, si trovava davanti al caminetto. Weatherly si appoggiò allo schienale e si passò stancamente la mano sul viso, in un gesto di rassegnazione per le continue interruzioni. Fece un cenno con il capo e la scarpa si sollevò in aria. La mamma e Linda rimasero senza fiato, Tannie guardava a occhi spalancati, mentre Carl Willingham si avvicinò ancora di più alla porta. La scarpa fece un giro della stanza e cadde con un tonfo sul camino. «Non ci si limita a far muovere le scarpe, signor Ledbetter» spiegò Weatherly con impazienza. «La materia può essere controllata anche a livello molecolare. Signora Henderson, prenda la carta in cima al mazzo e la guardi.» Lo guardò in modo curioso e girò la carta. Era il Tre di fiori. «La volti di nuovo.» La mamma eseguì. «Adesso la guardi.» La mamma la fece vedere di nuovo. Al posto dei fiori c'erano delle margherite gialle. «Adesso è il Tre di margherite» disse il professore senza guardare la carta. «Potrei continuare a fare questi trucchetti fino a domani, ma ci sono questioni più importanti. Devo fare qualcosa di assolutamente vitale e da solo, senza l'aiuto di un telepatico, non ce la farei. Lo cerco da trentacinque anni; avevo perso la speranza e poi ho trovato Ann. Mia cara, devo scusarmi per il modo in cui ti ho fatto venire qui.» «"Fatto venire qui"?» «Sì. Temo però che la faccenda si sia trasformata in una specie di imbroglio. Durante le ultime due settimane ho stimolato in te l'idea di fare una gita durante il weekend, e naturalmente tu credevi che questo desiderio fosse tuo. Ho "creato" il temporale, il blocco stradale e la deviazione allagata. Non intendevo però coinvolgere gli altri in questa piccola sciarada. Sì,» disse sospirando «ho fatto un gran bel pasticcio.» Si illuminò e aggiunse. «Però tutto si è risolto abbastanza bene, perché se le cose fossero andate secondo i piani, non avrei trovato Ben.» «Non credo a una sola parola di tutto quel che ha detto» commentò Jud rigirandosi sul divano; poi allungò le gambe lunghe e fasciate da un paio di pantaloni alla moda e distolse lo sguardo dal professore con un'espressione stizzita. «Ragazzo,» disse Weatherly esasperato «creare un temporale, un paio di barriere di legno, un impermeabile giallo vivace e un po' d'acqua sulla strada si differenzia dal controllo di un mazzo di carte solo in termini d'intensità, in quanto funziona esattamente con lo stesso principio.»
«Se è in grado di fare tutto questo,» disse papà sospettoso «avrebbe potuto togliere la mia macchina dal fosso.» «Ma certo, signor Henderson. Ma, vede... devo scusarmi... perché sono io che l'ho fatta andare nel fosso.» «Perché?» chiese la mamma. «Oh, accidenti, non è chiaro?» Weatherly gemette. «Per tenere qui Ann, sono stato obbligato a trattenervi tutti.» «Professore, perché ha escogitato tutte queste elaborate macchinazioni?» chiese Ann seria. «Non era più semplice chiedermi di aiutarla?» «Non potevo correre dei rischi. Se tu avessi rifiutato... Era indispensabile che tu venissi. Ann, sono vecchio. Questa è la mia ultima opportunità. Se fallisco di nuovo,» disse abbassando le spalle «allora che Dio ci aiuti.» Nella stanza piombò un silenzio sbalordito, pesante come una coperta, senza che nessuno facesse niente per romperlo. Poi Ann chiese dolcemente: «Cosa devo fare?». «Mia cara, cerca di avere ancora un po' di pazienza.» Sospirò, e di nuovo si passò la mano sul viso. Aveva gli occhi offuscati per la tensione nervosa, e la sua pelle era diventata bianca come il gesso. Non sapevo ancora quali fossero le sue intenzioni, ma non sembrava nemmeno in condizioni di tenere a freno un gattino nervoso. «Prima di spiegarvi tutto, devo ancora fare qualcosa. Pensate,» disse illuminandosi «dopo trentacinque anni ho trovato due telepatici.» «Aspetti un attimo» disse papà, con una durezza nella voce che avevo sentito raramente. «Se Ann vuole aiutarla per quello che intende fare, padronissima, ma Ben non deve essere coinvolto.» Il mento di Weatherly si indurì. Stava per controbattere, ma Jud saltò su e si mise di nuovo a camminare a grandi passi. Si sfregò le mani sulla stoffa che gli modellava i fianchi e disse con un tono di voce nervoso: «Penso che siate tutti matti! State seduti a parlare di telepatia, telecinesi e temporali creati dal nulla... come se parlaste del... del tempo. Tutto quello che vedo io è un uomo della cui sanità mentale comincio a dubitare, che fa trucchi con le carte!». Si fermò e fissò Weatherly con uno sguardo irato e feroce. «Jud, per favore!» sussurrò Linda imbarazzata. «Ricordati la scarpa» disse Poe vivacemente. Jud spostò lo sguardo su suo cognato. Poe sorrise e inarcò le sopracciglia. Jud si rivolse di nuovo al professore: «Se lei è in grado di fare tutti questi trucchi, può per cortesia fermare la pioggia, tirare fuori dal fosso la macchina del signor Henderson e farci uscire da questa ridicola farsa?». Il
tono di voce aumentava di volume a ogni parola. Weatherly lo eguagliò, decibel per decibel. «Signor Ledbetter, non sono un mago. Non posso schioccare le dita e fermare la pioggia. Prima di tutto, per crearla ci sono voluti due giorni di accurate operazioni. Inoltre,» disse abbassando la voce a un tono più conciliante «non serve a niente che voi partiate. Al piano superiore ci sono delle camere da letto molto confortevoli. Se qualcuno di voi vuole andare a dormire, gli farò strada.» Jud non si diede per vinto così facilmente. «Vuol dire che dobbiamo rimanere sia che lo vogliamo o no? I nostri parenti ci aspettano stanotte e io voglio andarmene!» «Mi spiace, signor Ledbetter. Mi creda, è impossibile.» Ann e io ci guardammo. Tutti e due avevamo capito la stessa cosa. Dal suo punto di vista, stava dicendo la verità. Non potevamo partire, e non per il tempo, ma nessuno di noi due riusciva ad afferrare la vera ragione. «Non prendertela, Jud» gli disse Poe saggiamente. «A questo punto siamo così in ritardo, che qualche ora in più non peggiora molto la situazione.» «Va bene, va bene.» Jud si strinse nelle spalle e si sedette al tavolo. Prese le carte e le mescolò. «Andate pure a cercare i fantasmi, io me ne rimango qui tutta la notte a fare solitari. Non m'importa se ne arrivano venti con le catene sferraglianti e si lamentano perché sono senza testa. Non li guarderò nemmeno.» Distribuì delle carte e deliberatamente ci ignorò. Per un attimo lo osservammo tutti divertiti, la gara di urla con il professore aveva molto contribuito ad allentare la tensione che sembrava attraversare l'aria. Poi la mamma scrollò la testa e disse: «Conosco una ragazzina che ha bisogno di andare a letto». «Devo proprio?» disse Tannie lamentandosi. «Le cose sono troppo interessanti per andare a letto.» «Sì, devi» rispose ridendo la mamma. Prese una delle valigie e condusse fuori Tannie che, prima di uscire, augurò la buonanotte a tutti, baciò me e papà, mi lanciò un'occhiata da sconfitta a cui risposi facendole l'occhiolino. Uscirono e Tannie tornò indietro quasi subito. «La mamma ha dimenticato la pila» disse. Papà stava per dargliela quando sentimmo la mamma respirare a fatica e il tonfo della valigia che cadeva a terra. Ci precipitammo tutti nell'ingresso, dove c'era la mamma ferma ai piedi delle scale con la mano davanti alla bocca, che guardava verso l'alto. La valigia era sul pavimento vicino ai suoi piedi, rovesciata su di un lato.
«Ho visto qualcuno in cima alle scale» disse controllando il tono di voce. Papà puntò la pila verso la cima delle scale e l'accese. Non c'era nessuno. Il pendolo a colonna improvvisamente vibrò e batté le otto. Linda emise un urlo stridulo e spaventato. Papà abbassò il raggio di luce, illuminando un uomo che scendeva verso di noi. Era giovane, più o meno della stessa età di Poe e Jud, vestito rozzamente, con uno scuro viso da slavo privo di espressione. Questo è il modo in cui mi apparve quando lo guardai, ma quando lo osservai senza "usare" gli occhi, diventò un bagliore indistinto. Papà teneva puntata la pila su di lui. «È Lester Gant» disse Carl Willingham alle nostre spalle, con il tono di chi riconosce un cane idrofobo. L'uomo, raggiunta la base delle scale, si fermò guardandoci, sempre inespressivo. Il pendolo smise di suonare. Apparentemente senza motivo, tutti noi facemmo un passo indietro. «Lo conosce?» chiese Weatherly, ricadendo nello stato inebetito da cui era uscito solo per pochi attimi. Avevo l'impressione che non potesse più sostenere molte interruzioni o complicazioni. «È lui il custode?» chiese papà. «Come?» Weatherly si girò verso di lui con uno scatto del capo. «Naturalmente no. È successo trentacinque anni fa. Aspetti, sì, l'uomo si chiamava Gant. Com'è che era? Horace? Homer?» «Il padre di Lester si chiamava Harold Gant» lo informò Carl. «Giusto?» «Forse.» Il professore annuì con il capo e si rivolse di nuovo al giovane dall'espressione ombrosa. «Signor Gant, è suo padre il custode che assunsi?» «Il vecchio Gant è morto da più di dieci anni» disse Carl. «Perlomeno, lui e sua moglie sono spariti.» «Ah!» esclamò Poe spalancando gli occhi. «Il mistero si infittisce.» «Professore, non si tiene molto al corrente dei suoi custodi» brontolò papà. «Come?» disse Weatherly, voltando di nuovo la testa. «Oh, è la banca che si occupa di tutto. Penso che, quando il padre scomparve, abbiano dato il lavoro al ragazzo. Questo giovane è in grado di parlare, signor Willingham?» «Sì, l'ho sentito io stesso» precisò Carl. E infatti lo fece. Pronunciò tre parole, e furono le sole che gli sentii dire. «La signora scenderà» annunciò con un tono incolore e uniforme.
«Chi c'è d'altri?» borbottò Jud. Weatherly sospirò: «Immagino che si riferisca a mia madre». «Sua madre?!» esclamò la mamma. «Perché non ci ha detto che sua madre vive qui?» «Non ne ero sicuro.» Weatherly sembrava a corto d'argomenti. «Non mi aspettavo che fosse ancora viva.» Gant si girò senza aggiungere nient'altro e svanì nell'oscurità in cima alle scale. Weatherly aveva l'aspetto di uno che ha ricevuto un calcio nello stomaco; aveva avuto una complicazione di troppo. Dopo un po' prese la valigia della mamma e l'accompagnò di sopra. «Tesoro, vuoi andare a letto?» chiese Poe a sua moglie. «Devi essere sfinita.» «Se per te è lo stesso,» Linda rispose, ridendo nervosamente «ti aspetto. Non riuscirei a dormire lassù, da sola.» Poe sorrise e l'abbracciò. Tornammo tutti nel salotto, io feci un cenno ad Ann e insieme uscimmo sul portico davanti alla casa. Aveva smesso di piovere e a ovest potevo vedere le stelle e l'alone di luce della luna nascosta dietro le nuvole. Le rane gracidavano nell'aria umida e alcuni grilli coraggiosi erano usciti dai loro nascondigli asciutti. L'aria aveva il profumo fresco e pulito che di solito assume dopo un temporale e che rendeva ancora più evidente l'atmosfera ammuffita della casa. Respirai profondamente e mi appoggiai contro il parapetto, guardando le auto sulla strada ai piedi della collina. «L'hai percepito?» chiesi, quando avvertii Ann dietro di me. «Sì. L'ho già sperimentato alcune volte. A quanto pare, certe persone hanno degli scudi naturali.» Si appoggiò al parapetto di fianco a me. Mi girai quando sentii la porta aprirsi, ma sapevo già chi era. Carl Willingham fece un cenno con la testa nella nostra direzione e scese i gradini del portico. «Dove sta andando, signor Willingham?» gli chiese Ann gentilmente. Lui si fermò e si voltò, alzando lo sguardo verso di noi. «Me ne vado, signorina. Ha smesso di piovere e preferisco camminare per sei chilometri piuttosto che rimanere nella stessa casa con Lester Gant. Posso sopportare i maghi e i telepatici,» disse, abbassando il capo «senza offesa, e persino le scarpe volanti, ma lui è troppo. Consiglio a tutti voi di fare la stessa cosa.» «Cosa c'è che non va in lui?» chiesi, perché era sinceramente spaventato. «Si dice che abbia ucciso i suoi genitori. Non sono mai stati trovati, non c'è nessuna prova contro di lui, ma la gente crede che sia proprio lui il col-
pevole.» Ciò detto, si avviò giù per la collina, mentre noi lo osservavamo allontanarsi. «Di sicuro la gente qui intorno chiacchiera parecchio» osservai ironicamente, e rientrammo in casa. Weatherly era seduto sul divano, immerso in tristi pensieri, e mi colpì la sensazione di acqua vorticosa e fangosa. Poe, Linda, Jud e papà stavano iniziando un altro gioco alle carte. «Il signor Willingham se n'è appena andato» dissi, non aspettandomi di certo la reazione che seguì alle mie parole. Weatherly balzò in piedi e mi fissò. «Andato? Cosa vuoi dire?» «Ha detto che aveva intenzione di camminare fino in paese» dissi, completamente disorientato. Weatherly era veramente agitato. Continuava a girare intorno come se non sapesse quale direzione prendere. «Non può andarsene!» urlò. «Verrà ucciso! Fermatelo! Portatelo qui, anche con la forza se ci siete obbligati. Sbrigatevi! Fate in fretta!» L'angoscia di Weatherly era così forte e acuta che corsi fuori dalla stanza attraverso la porta d'ingresso. Mi seguirono tutti, confusi e spaventati. Carl era quasi arrivato ai piedi della collina, così urlai nella sua direzione. Papà e Poe erano proprio dietro di me, non sapevo bene cosa stesse succedendo. Gli altri erano sul portico. Carl si girò e ci guardò incuriosito. Inarcò le sopracciglia con stupore, quando ci vide scendere la collina saltellando, annaspando nel fango scivoloso e urlando come dei matti. Carl, l'unico rivolto verso la casa, fu il primo a vederlo. Spalancò gli occhi, e fece un passo indietro. Poi lo sentii, simile a elettricità statica nella testa. Scivolai su un ostacolo nel terreno fangoso e caddi sulle ginocchia con un gemito. Guardai verso la casa. Weatherly stava agitando le braccia e urlando. I grilli smisero di frinire. La casa era circondata da un bagliore, da un alone iridescente, come una bolla di sapone che diventa sempre più grande. Papà e Poe si erano fermati a fissare la casa. Weatherly stava urlando, facendoci cenno di tornare. La testa mi ronzava per il dolce gelo della paura, che però non era mia. L'aria crepitava per l'energia che l'attraversava. Sentivo i peli sulle braccia che si rizzavano. Le scintille danzavano sulla collina, passandola da parte a parte come un fiume fatato. Mi girai per guardare Carl. Fissava la casa, indietreggiando lentamente, mentre l'energia statica nell'aria gli incollava i vestiti alla pelle, poi si voltò con uno scatto e si mi-
se a correre. La pressione dell'energia divenne insopportabile. Vedemmo la luce, un bagliore che accecava, una scarica potente. Tutta la forza che fluttuava libera nell'aria venne convogliata in un punto. Ruotando come un turbine di lucciole, sfrecciò di fianco a me e si contrasse, confluendo in un'unica direzione. Su Carl. Urlò, poi il fuoco lo avvolse. Gridò, continuò a correre sempre bruciando. Si batteva i vestiti con le mani, fiamme contro fiamme. I piedi roventi scalciavano nell'erba umida, lasciando spire di vapore che sfrigolavano e sparivano. Carl smise di agitarsi e si limitò a correre, le braccia allungate in avanti, come se stesse cercando qualcosa. Poi inciampò, barcollò per alcuni passi e cadde, sempre urlando. Continuò a muoversi, cercando di strisciare. Gli urli cessarono. Così i movimenti. Carl era ridotto a una massa informe e rovente, che riempiva l'aria notturna di volute di fumo nero. L'energia e la pressione erano scomparse. I grilli ricominciarono a cantare. Avevo eretto una barriera a brandelli, cercando di chiuderlo fuori, nel tentativo di bloccare la sua agonia fuori dalla mia mente. Poi, penso di avere sentito il terreno fangoso colpirmi il viso. Stavo muovendomi, fluttuando nel calore. Papà mi stava portando come aveva fatto una volta quando avevo tre anni e mi ero addormentato. Accentuai la stretta intorno al suo collo, e infine lo sentii allentare la presa, e posarmi sul divano. Erano tutti intorno a me, che mi guardavano, a parte Jud che, pallido e tremante, fissava fuori dalla finestra. Tannie, in pigiama, aveva gli occhi sbarrati per la meraviglia; Ann mi posò la mano sulla fronte, scostandomi i capelli dagli occhi. Papà era a pochi passi di distanza e mi guardava. Non avevo mai pensato che potesse adirarsi cosi tanto. «Professor Weatherly,» disse a bassa voce «mi aveva detto che non c'era pericolo. Voglio che lei mi spieghi esattamente cosa sta succedendo. Senza ambiguità, né promesse. Vorremmo prendere alcune decisioni da soli.» «Mi spiace, signor Henderson» disse con un rincrescimento sincero. «È troppo tardi per le decisioni indipendenti. Abbiamo solo una strada davanti a noi.» «Ha sentito quello che ho detto? Esigo una spiegazione!»
«Naturalmente, signor Henderson.» Si agitava come una falena. «Diamo a tutti la possibilità di calmarsi e le dirò quello che so.» «Jud, allontanati dalla finestra» gli disse Linda, con la voce rauca e tremante. Jud si voltò senza fare commenti e si sedette su una sedia. «Professore, allora dopotutto si tratta di spiriti malvagi» disse Poe calmo. «Abbia ancora un po' di pazienza, per piacere. Facciamo tornare Ben in sé.» Abbassò lo sguardo verso di me con un'espressione davvero interessata. «Ti senti meglio?» «Sì, penso di sì.» Presi la mano di Ann e la strinsi. Tannie mi guardò con il visino smunto e pallido. Le sorrisi e le feci l'occhiolino. «Benjamin Henderson, mi rifiuto di abbracciarti» affermò senza molta convinzione. «Mi hai spaventato a morte. Pensavo di diventare figlia unica.» Tutti si misero a ridere, sicuramente più di quanto meritasse la battuta, ma servì ad allentare la tensione. Persino Jud abbozzò un sorriso anemico. Tannie tirò su con il naso e io mi raddrizzai a sedere e le tesi le braccia mentre lei, singhiozzando, si buttò sul mio petto. «Tesoro, mi spiace» dissi. «Oh, Tannie!» gemette la mamma, grata di trovare qualcosa di pratico su cui concentrare l'attenzione. «Ben è coperto di fango e ti stai sporcando anche tu!» La tolse di peso dal mio abbraccio dicendomi: «Ben, va' a cambiarti e a lavarti la faccia». Quindi andai alla valigia e tirai fuori dei jeans e una maglietta puliti. Sentivo che le ginocchia mi tremavano, ma cercai di non farlo notare, perché sarebbe servito solo a preoccuparli di più. Andai in un angolo dietro una sedia e mi cambiai, mentre gli altri parlavano. «Professore, è pronto?» gli chiese papà, quasi al limite della pazienza. «Sì, signor Henderson. Mettetevi comodi, voglio spiegarvi cos'è successo nel modo più chiaro possibile. Ben, te la senti?» «Sì.» «Descrivimelo!» «Non c'è un granché da dire. È là, consapevole della nostra presenza. Ed... è... là.» «Esatto» convenne Ann. «Non c'è ostilità o rabbia?» Weatherly fece questa domanda come se si aspettasse una risposta affermativa. «Non ora» risposi. «È spaventato, penso che lo sia sempre. C'era ira...
no, non ira... panico, quando il signor Willingham ha cercato di andarsene.» Finii di cambiarmi e mi unii agli altri. Ero così concentrato su Weatherly che né io né Ann avvertimmo la nuova presenza. Nessuno di noi percepì che era nella stanza fino a quando non sentimmo l'urlo metallico. «Philip!» gridò. «Cosa fa questa gente in casa mia?» Tutti ci girammo di scatto e sentii la determinazione di Weatherly diventare fragile come una ragnatela. Era ferma nel vano della porta e ci osservava. Indossava un lungo vestito nero che arrivava al pavimento, con un colletto alto che le raggrinziva il collo intorno al mento aguzzo. Il vestito a maniche lunghe, a parte un cammeo che le ornava la gola, era disadorno. Teneva le mani appoggiate su un bastone dal pomo d'argento e i capelli color peltro erano raccolti sul capo. La pelle era quasi bianca e aveva uno splendore particolare, come una statua di cera animata. Lester Gant, misterioso come sempre, si nascondeva dietro la sua figura dritta come un fuso. «Philip, sto aspettando una risposta.» «Mi fa piacere rivederti, madre.» Sembrava un ragazzino pescato nel bagno a far qualcosa di birichino. «Sei uno sciocco, Philip» affermò la signora con voce squillante. «Lo sei sempre stato.» «Sì, madre, è davvero un piacere rivederti» disse sospirando. Lo trafisse con lo sguardo e si sedette con aria regale su una sedia vicino a noi. Si muoveva come se avesse la colonna vertebrale tutta d'un pezzo. Gant rimase nel vano della porta. «Sei venuto per tentare di nuovo, vero?» Era un'affermazione più che una domanda. Noi ci sedemmo con la bocca aperta. «Si» disse. «Stavo per spiegarlo a queste persone.» «Ti ucciderà come ha fatto proprio ora con quell'uomo. Sapevo che eri abbastanza sciocco da continuare a provarci, ma non credevo che tu ne fossi così ossessionato da arrivare a mettere in pericolo anche altre persone.» «Sono qui per caso, madre.» «Philip, quanto tempo è passato dalla tua ultima sconfitta?» «Trentacinque anni.» «Così tanto?» disse pensierosa. «Professore,» disse papà a denti stretti «stiamo aspettando.» «Cosa?» Trasalì, come se si fosse dimenticato di noi. «Sì. Scusami, madre.» Distolse lo sguardo da lei e disse: «L'inizio l'avete sentito dal signor
Willingham. Avevo dieci anni. Il fuoco fu visto nella mia stanza. Da un po' di tempo ero conscio dei miei poteri, ma credevo che tutti li avessero. Dopo avere scoperto in modo quasi catastrofico che mi sbagliavo e che ero infatti il solo, li tenni segreti e iniziai a esercitarmi. Però, come avete sentito dire dal signor Willingham, non feci in tempo a evitare che nella zona assumessi la fama di essere... be'... "strano". Grazie alla pratica, i miei poteri si svilupparono, ma ero così immaturo...». «Eri uno sciocco.» «Sì, madre. Accadde la notte di cui vi ha parlato il signor Willingham. Sfortunatamente pensavo di sapere tutto quello che c'era da conoscere. Vedete, avevo appena letto La macchina del Tempo di Herbert George Wells. Temo di... aver tentato di viaggiare nel tempo.» Ci guardò ironicamente. «Perché?» chiese papà un po' sorpreso. Weatherly si strinse nelle spalle. «Avevo dieci anni e mi sembrava un'idea meravigliosa.» «Cosa successe?» chiese Poe affascinato. «I miei poteri erano piuttosto forti,» continuò «ma non così il mio controllo su di loro. Allora non sapevo esattamente cosa avessi fatto, ma adesso credo che in qualche modo alterai lo spazio, facendo penetrare qualcosa. Era feroce, tutto fuoco ed energia. Mi attaccò nello stesso modo in cui ha fatto con Willingham. Cercai di lottare ma riuscii solo a salvarmi. Corsi fuori di casa e non tornai per quindici anni.» «Fuggì e lasciò che la sua famiglia venisse distrutta» intervenne l'anziana signora. «Non potevo fare nulla, madre.» «Signora Weatherly, come mai a lei non successe niente?» chiese papà. Lei si girò verso di lui. «Non so perché non venni distrutta, ma questa è la realtà. Mi ha conservato come un souvenir, come un insetto nell'ambra. Spesso vorrei... essere stata annientata.» Papà piegò il capo verso Lester Gant, sempre sulla porta, che ci guardava impassibile. «E lui?» «Il signor Gant non costituisce un pericolo» disse, torcendo verso l'alto gli angoli della bocca sottile. «Il signor Gant va e viene come gli pare. La "cosa" sa che torna. Il signor Gant è devoto.» Ebbi l'impressione che questo discorso fosse solo una raffica casuale in una vecchia guerra. Gant la guardò inespressivo. «Ci svegliammo per il trambusto nella camera di Philip» continuò la si-
gnora Weatherly riprendendo la storia interrotta. «Mio marito e le mie figlie la raggiunsero per primi. Vidi il loro annientamento. Mi nascosi nel solaio e, quando i vicini frugarono la casa, non mi trovarono, e la "cosa" non si preoccupò di loro più di tanto. Quando mi fui ripresa dalla paura, fu troppo tardi. Non potei più andarmene.» «Tornai quindici anni dopo. Ero molto più forte e padrone di me stesso» proseguì il professor Weatherly. «Avreste dovuto vedere che espressione stupida aveva sulla faccia quando mi vide» disse sua madre, arricciando la bocca sottile. «È rimasta qui quindici anni?» chiese la mamma confusa. «Come viveva?» «Gli insetti nell'ambra non hanno bisogno di nulla» rispose in tono incolore. «Non mangio, non dormo. Non sono nemmeno sicura di essere viva.» «La "cosa" che attirai qui non ha un'esistenza fisica come noi la intendiamo» spiegò il professore. «Penso che sostenga mia madre con la propria energia vitale.» «Lo stesso vale per lui?» chiese Poe, indicando Lester Gant. Lo guardai, sempre immobile sulla porta, gli occhi leggermente socchiusi e puntati su Ann. Al momento non ci feci granché caso. «Il signor Gant è qui per altri motivi» disse la signora Weatherly, stringendo la bocca come se si stesse divertendo. «Il signor Gant è qui volontariamente, ha appetiti segreti.» Gant le lanciò un'occhiata malevola e se ne andò. L'osservò allontanarsi, con un bagliore negli occhi di porcellana, poi si girò di nuovo verso di noi. «Il signor Gant è maledetto.» «Cos'ha fatto quando è tornato?» papà chiese a Weatherly, tornando all'argomento principale del discorso. «Glielo dico io cos'ha fatto quello sciocco» gridò sua madre non appena Weatherly aprì la bocca. «Cercò di distruggere la "cosa", ma lei era diventata più potente, quindi corse via di nuovo. In seguito, invece di lasciare crollare la casa come avrebbe dovuto fare, assunse il padre del signor Gant per mantenerla in ordine.» «Madre, l'ho fatto per te. Non potevo...» ma fu fermato da uno sbuffo d'impazienza. «Cos'è successo ai genitori del signor Gant?» chiese Ann. «Il signor Gant e io parliamo di molte cose, ma quel fatto non rientra tra i temi delle nostre conversazioni. Si trasferirono qui quando lui era ancora un bambino. Non mi curavo di loro. Non uscivo mai dalla mia camera.
Quando il signor Gant fu grande quasi quanto quel ragazzo» disse indicandomi con un dito ossuto «i suoi genitori non c'erano già più.» «Professore, a questo punto cosa intende fare?» chiese Ann. «Il mio errore è stato di cercare di distruggerlo» rispose accigliandosi. «Adesso so che probabilmente non può essere annientato, ma è necessario bloccarlo prima che esca da questa casa. Ann, non so perché sia ancora qui, ma devo comunicare con questa "cosa". Non puoi immaginare la contentezza che ho provato quanto ti ho trovato. Trentacinque anni...» disse con la voce che si affievoliva. «Ma come ha fatto a trovarmi?» «Test» disse sollevando l'indice. «Sono diventato professore di psicologia in modo da poter esaminare gli studenti. Test di tutti i tipi, a migliaia di studenti. Molti test, naturalmente, sono stati alterati per adattarli ai miei scopi.» «A cosa serve la comunicazione,» chiesi «a parte il fatto di soddisfare la sua curiosità?» «Non è abbastanza?» disse, allargando gli occhi. «Mi aspetto però di imparare molto, molto di più.» «Se non può essere distrutto,» chiesi «che progetti ha?» «Devo alterare lo spazio e rispedirlo da dove viene» rispose. Sua madre lo guardò con aria interrogativa. «Forse non sei più uno sciocco» poi però scrollò la testa. «No, avresti potuto farlo senza coinvolgere la ragazza. Sei sempre uno sciocco.» Si alzò e camminò con aria regale verso la porta. Si fermò e si girò, con le mani appoggiate sul pomo d'argento del bastone. «Non far sapere al signor Gant cos'hai in mente.» Poi uscì e salì le scale come uno spettro che sparisce nelle tenebre. «Mamma,» disse Tannie con aria stanca «potrei tornare a letto, per favore? Ho sonno.» La mamma le posò la mano sulla testa e le rispose: «Tesoro, forse faresti meglio a dormire quaggiù». «Perché?» «Niente riesce a spaventarla?» borbottò Jud. Tannie lo guardò, sorpresa per la sua ignoranza. «C'è mio fratello!» Jud fece una smorfia e sospirò. «Bambina, vorrei avere la tua fiducia. Davvero.» «Penso che a letto saremmo al sicuro esattamente come qui» disse Poe saggiamente. «Anch'io sono pronto ad andare a dormire.» Incominciai ad avviarmi verso la porta e Ann mi raggiunse a metà stra-
da. La presi per mano e tornammo nel portico, mentre gli altri si preparavano per andare a dormire. Il cielo era quasi tutto sereno, e la notte splendeva sui pascoli del Kansas. Non riuscivo a vedere il corpo di Carl, sempre che ne fosse rimasto qualcosa. Eravamo seduti sul parapetto. «Ben,» disse dolcemente «pensi che dovremmo farlo? Sai cosa ti è successo quando la "cosa" ha ucciso Willingham.» «Ci sto lavorando» dissi. Poi girai il viso verso di lei: «"Leggimi"». Ann si concentrò per un attimo e poi mi guardò con stupore. «Sei completamente protetto. Se non ti vedessi, non saprei nemmeno che ci sei.» «Quando Willingham è stato ucciso,» aggiunsi, e il ricordo mi fece venire la pelle d'oca «ho ricevuto l'intera scarica. In genere ho sempre avuto qualche tipo di difesa, non assorbo nulla a meno che non sia molto forte o che io lo voglia. Le parole secondarie non mi penetrano per nulla e questa è la ragione per cui non ti ho individuato.» Ann annuì e aggiunse: «Mi domando quanti altri ce ne siano, quanti ne abbiamo incontrati per la strada senza riconoscerli». «Sto cercando di rafforzare la mia difesa» continuai. «È stato relativamente facile. Non mi è mai capitato di provare. Dài, concentrati su di me. La farò fluire lentamente. Guarda come funziona.» Glielo mostrai e anche lei provò. Ci esercitammo per un po' fino a quando fu abile come me. Era tranquilla e mi guardava. Si alzò e si mise davanti a me, poi mi cinse il collo. Quando Tannie mi guarda con quegli stessi occhi sgranati, non mi imbroglia mai. «Ben,» disse in tono solenne «so come ti senti nei confronti di quello che puoi fare. Non l'hai mai esplorato prima d'ora, non hai mai cercato di estendere i limiti della tua abilità. So che sei forte, più forte di me, ma... stai attento. Non prendere queste cose alla leggera. Non diventare troppo sicuro di te. Limitati... a fare attenzione.» Annuii, comprendendo quello che voleva dire. Ci guardammo, senza leggerci le menti, ma solo fisicamente. Poi le feci scivolare le mani sulle braccia e le intrecciai le dita dietro il collo, avvicinando lentamente il suo viso al mio. Non oppose resistenza, e la baciai molto delicatamente sulle labbra, non leggendola, ma godendo la sensazione puramente fisica. Tirò indietro il capo e mi sorrise. Mi alzai e feci scivolare le braccia più in basso sulla schiena, sentendo che anche lei faceva la stessa cosa. La baciai di nuovo, più intensamente, e anche lei si lasciò andare. Eravamo seduti sui gradini, senza far nulla, senza parlare ma rimanendo semplicemente insieme, quando percepii la "cosa". Fu come ricevere un
potente calcio all'inguine. Sentii paura e dolore, ma la sensazione più forte fu di rabbia e ira. Anche Ann la sentì, sussultò, borbottò qualcosa e mi guardò con dolore. Balzammo in piedi e corremmo all'interno. Sapevo cos'era successo. Feci una rapida ricerca: mancava solo una persona. Mi affacciai nel soggiorno, dove il professore sedeva con aria pensierosa davanti al fuoco morente e chiesi: «Dov'è Jud?». Il suono della mia voce lo fece sobbalzare. Mi guardò assente. Ripetei la domanda con più insistenza e rispose, stupito: «Siete compagni di stanza, la seconda a sinistra in cima alle scale. Cosa c'è che non va?». Si alzò, venendo verso di noi. «È morto» dissi, voltandomi, mentre correvamo su per le scale. Lo trovammo a faccia in giù sul pavimento del bagno, con addosso solo un paio di calzoncini dorati. Il sangue colava ancora fra le fessure delle piastrelle bianche e la sua carnagione chiara adesso non era che pallore. Judson Bradley Ledbetter non era più bello. L'occorrente per rasarsi era sparso tutt'attorno, facendo presupporre che al momento dell'attacco l'avesse in mano. Mi inginocchiai vicino al corpo e lo girai sulla schiena. Non avrei dovuto farlo. Il petto e l'addome erano trapassati con un coltello dalla lama larga. Ann respirava a fatica e Weatherly faceva sibilare l'aria fuori dai denti. «Chi può averlo fatto?» «Gant.» «Perché?» «Non lo sappiamo. Professore, forse sua madre è in grado di dirlo, adesso è sul pianerottolo.» Era là ferma che ci guardava, con la stessa aria di prima. Poe, che era in pigiama, aprì la porta della sua camera. «Cos'è questo rumore?» chiese, sfregandosi la faccia. Ann gli si avvicinò e parlò a bassa voce. Sembrava spaventato e si precipitò nella stanza da cui eravamo usciti. «Signora Weatherly,» dissi «Jud Ledbetter è stato ucciso.» Si voltò a guardarmi con i suoi occhi di porcellana, ma non disse niente. «Abbiamo "letto" tutti quelli nella casa, a parte Gant. È l'unico che può averlo fatto, e dobbiamo sapere perché.» Mi guardò socchiudendo gli occhi e poi si rivolse a suo figlio. «La tua stupidità sta superando se stessa. Philip. Anche Gant è uno stupido. Ha ucciso quello sbagliato.» «Cosa?» disse Weatherly, trattenendo il respiro. «Non fare l'idiota!» scattò. «Gant protegge la "cosa".» Si girò di nuovo verso di me. «Ragazzo, Gant scoprirà sicuramente il
suo errore.» Si voltò e si allontanò nelle tenebre. «Ben,» sussurrò Ann «voleva uccidere te.» «Sto cercando di ricordare quello che abbiamo detto quando lui era nella stanza. Sa che tu e qualcun altro siete qui per aiutare il professore a eliminare la "cosa", ma mentre Weatherly ne parlava, tu eri seduta vicino a Jud. La prossima sei tu.» «Dobbiamo trovarlo» disse Weatherly. «Potrebbe rovinare tutto.» Gli lanciai un'occhiata disgustata, ma forse non intendeva dire esattamente quello che a noi parve di capire. «Vado a svegliare mio padre» li informai. Poe venne sul pianerottolo con un aspetto sofferente e Ann e il professore gli si avvicinarono. Mamma e papà dormivano. Tannie riposava su un divano-letto nella sua solita posizione, cioè acciambellata come una biscia. Toccai la spalla di papà, che spalancò gli occhi e fece per dire qualcosa, ma io gli accennai di tacere e di seguirmi. Uscì da sotto le coperte facendo attenzione a non svegliare la mamma, e si infilò la vestaglia guardandomi con aria interrogativa. Nell'atrio gli spiegammo tutto quello che era successo e Poe chiese: «Pensi che Linda e tua madre siano al sicuro?». «Sveglia Linda e falla stare con mia mamma. Ann, resta con loro e spranga la porta.» Lei annuì. Poe, preoccupato, le disse: «Non raccontare a Linda cos'è successo a Jud. Non ancora». Poi andò a chiudere la porta della sua stanza. «Professore,» dissi «lei conosce la casa: dove potrebbe essersi nascosto?» Scrollò la testa. «Non lo so, ci sono molti posti. Penso che dovremmo iniziare dal pianterreno e continuare fino al solaio. Ben, sei in grado di "leggerlo"?» «No.» Cominciammo dalla cantina, dove frugammo in ogni angolo, ma non lo trovammo né lì né al pianterreno. Papà aveva la pila e io una delle lampade a cherosene, quindi, in caso di necessità, potevamo separarci per evitare che Gant ci attaccasse. Poe aveva preso un attizzatoio dal camino del salotto, con cui si batté il palmo della mano un paio di volte, sorridendomi nervosamente. Tornammo al piano superiore. Papà perlustrò il pianerottolo con la pila e scoprimmo Gant, chino sul pomo della porta della camera della mamma con in mano un grande coltello da macellaio. Alzò gli occhi verso di noi e
corse via nella direzione opposta attraverso una porta che, una volta da noi raggiunta, risultò chiusa a chiave. Weatherly ci informò che portava in solaio. Papà tamburellò con le dita sulla porta, guardandola accigliato. La serratura era un vecchio tipo a mortasa, che poteva essere chiusa da tutte e due le parti, ma solo con una chiave. «Aspettate un momento» mormorò Weatherly, e la serratura scattò. La porta si aprì di pochi centimetri, cigolando pigramente. Papà lanciò un'occhiata a Weatherly e poi aprì la porta, puntò la pila su per gli scalini ripidi e stretti ma, a parte il buio e le ragnatele, non vedemmo nient'altro. Papà respirò profondamente e cominciò a salire con molta prudenza. Dietro di lui c'erano Poe con l'attizzatoio, il professore e infine io che, con la lampada, chiudevo la fila. Si entrava nel solaio attraverso un'apertura nel mezzo del pavimento, un modo perfetto per farsi mozzare la testa non appena si fosse messo il naso fuori. Papà fece roteare il raggio della pila tutt'attorno, rimanendo abbassato il più possibile, pronto a chinarsi di colpo nel caso Gant fosse stato in agguato. Quando ci fece cenno di salire, mi resi conto che per tutto il tempo avevo trattenuto il respiro. Il solaio era ingombro di un incredibile e disordinato ammasso di ciarpame e la polvere, che sicuramente non vi veniva tolta da cinquant'anni, aveva reso il pavimento simile al velluto, sul quale, oltre ai segni simili a cuciture lasciate dagli scarafaggi, erano ben visibili le impronte di Gant che portavano a un mucchio di robaccia. Papà le seguì con il fascio di luce della pila, senza che noi riuscissimo a vederlo. In tutta quella confusione avrebbero potuto nascondersi venti persone. Alzai la mia luce, cercando di vedere nel buio, ma era praticamente inutile; la lampada illuminava decentemente a non più di un metro in ogni direzione e inoltre, non appena uno di noi si muoveva, proiettava nell'ombra una figura spaventosa. Le travi erano coperte di ragnatele polverose e picchiettate da macchie di fango. La pila individuò in un angolo un nido di vespe grande come un piatto, e i gialli insetti si agitavano indolenti nell'aria fresca della notte. Papà continuava a spostare il fascio di luce tutt'attorno, illuminando il solaio più che poteva, ma Gant rimaneva invisibile sia ai miei occhi che alla mia mente. Avrebbe potuto essere nascosto in qualsiasi posto. Stavo per suggerire di chiudere a chiave il solaio e lasciare Gant ai ragni, quando dietro di me si mosse qualcosa. Ci girammo di scatto e la pila indi-
viduò Gant che ci caricava con il coltello da macellaio brandito in aria. Tutto questo non poté durare più di un paio di secondi, ma improvvisamente ebbi la sensazione che la scena si svolgesse al rallentatore: Gant che correva verso di me attraverso uno stretto passaggio fra le cataste di scatoloni, il coltello che scintillava al raggio di luce e la sua camicia che sventolava a ogni passo. Ricordo il suo viso, la sensazione di sorpresa che avvertii perché non rivelava nessuna emozione, lo stupore che non sbavasse come un pazzo. Tutto questo era solo nella mia mente, perché i miei muscoli non rispondevano. Rimanevo semplicemente fermo a osservarlo, come un fantoccio. Poi inciampò in una cornice che sporgeva dall'ammasso di scatole, e sul suo viso si disegnò un'espressione stupita; invece di colpirmi con il coltello, mi venne addosso con violenza! A causa dell'urto le mie braccia si sollevarono e la lampada mi scivolò lentamente dalle dita e, quando mi mancò il fiato, bofonchiai. Cademmo a terra avvinghiati, ma la lampada rimase nel mio campo visivo, e mentre finiva a terra vidi la luce formare lentamente un arco. Il tubo di vetro sottile colpì una trave e andò in mille pezzi, poi la base, con lo stoppino che bruciava ancora, si spaccò contro un baule, appiccando il fuoco alla soffitta. Gant non perse tempo a divincolarsi; era caduto addosso a me, mentre io ero finito sulla schiena. Mi resi poi conto che mi era a cavalcioni sullo stomaco con il coltello levato in alto e, quando lo abbassò, cercai di liberarmi, e sentii la lama conficcarsi con un rumore sordo vicino all'orecchio. A quel punto il buon Poe brandì l'attizzatoio con entrambe le mani, come se stesse tagliando della legna, e colpì Gant in mezzo alle spalle. L'uomo urlò, inarcando la schiena, mentre il viso gli si contrasse per il dolore. Si rialzò barcollando, sforzandosi di respirare e vacillando nel buio, con il coltello ancora in mano. Rovesciò diversi mucchi di cianfrusaglie varie, sbattendole in terra con fragore. Poe e papà mi aiutarono a rialzarmi e io ringraziai Poe con un sorriso. Gant era sparito di nuovo, nascosto dal buio e dal fumo. Ci occupammo dell'incendio, la soffitta stava infatti bruciando furiosamente e il caldo stava diventando rapidamente insopportabile. Ci dirigemmo verso le scale, ma il professore stava fissando le fiamme, profondamente concentrato. Ci fermammo a guardarlo. Nel solaio iniziò a formarsi una foschia, come se fosse entrata della nebbia fitta, di cui aveva persino l'odore. Diventò sempre più densa, circondando il fuoco fino a quando questo fu completamente nascosto dalla cor-
tina bianca. Il crepitio delle fiamme divenne pian piano un sibilo smorzato, e poi più nulla, non sentivo nemmeno più il calore del fuoco. Sui peli delle braccia si erano formate delle goccioline d'acqua simile alla rugiada, la nebbia compatta fu trascinata via con un moto vorticoso, come di vento, e poi il fuoco si spense. Parte della soffitta era annerita e carbonizzata, scintillante per l'umidità. Dalle travi cadevano gocce d'acqua che andavano a finire con un rumore sordo su scatole, bauli e altre cianfrusaglie. «Professore, è veramente comodo averla a portata di mano» gli disse Poe con una certa soggezione. «Sono giochetti, questi» rispose, come se fosse stata una cosa da niente. Papà distolse il fascio di luce della pila dalla zona bruciata e stava per aprire bocca quando si fermò con la bocca aperta, attirato da qualcosa. Ci voltammo e vedemmo Gant che avanzava furtivamente verso di noi, impugnando sempre il coltello. È indubbio che Gant avesse i suoi difetti, ma fra questi non rientrava sicuramente la mancanza di determinazione. Si fermò quando il fascio di luce lo colpì, gli occhi brillavano come marmo. Weatherly iniziò a concentrarsi di nuovo. Sentii un ronzio violento, e il nido di vespe esplose quasi sulla sua testa in una tempesta gialla e nera. Non so cosa fece Weatherly, ma gli insetti gialli sciamarono intorno a Gant, che si mise a urlare barcollando all'indietro, aprendosi rumorosamente un varco fra il ciarpame, colpendo gli insetti che lo pungevano. Continuò a gridare e ad agitare le braccia, e penso che Weatherly non poté sopportare lo spettacolo più a lungo perché le vespe lasciarono Gant, ritirandosi nuovamente nel loro nido. A quel punto, quasi da non crederci, Gant si alzò dal ciarpame e avanzò di nuovo verso di noi. Aveva la faccia e le mani piene di vesciche che diventavano sempre più rosse e gonfie a vista d'occhio. Aveva un occhio quasi chiuso, ma avanzava comunque nella nostra direzione, barcollando, inciampando e restando impigliato in quell'ammasso di cose vecchie. Teneva lontano con una mano la roba che cadeva, mentre con l'altra continuava a impugnare il coltello. Il professor Weatherly gemette, poi il coltello mandò un bagliore rosso ciliegia; Gant aspirò l'aria attraverso i denti e lo lasciò cadere, afferrandosi una mano con l'altra. La lama cadde rumorosamente sul pavimento, e una spirale di fumo cominciò a salire dal punto in cui era atterrata e, prima che divampasse un altro incendio, Weatherly agì ancora, spegnendolo nuovamente. Papà teneva la pila puntata su Gant, che indietreggiò, sempre curvo sulla
mano ustionata. Ci muovemmo verso di lui. L'occhio adesso era completamente chiuso e anche l'altro non sembrava essere in migliori condizioni. Non si era però ancora arreso, perché con la mano ancora utilizzabile afferrò la base di uno sgabello per pianoforte e fece per scagliarlo. In quel momento si bloccò. Lo sgabello gli sfuggì dalle dita flaccide e andò a finire su un tavolo a tre gambe. Gant aspirò l'aria come un pesce e si afferrò il petto. Guardai Weatherly e poi di nuovo Gant. Boccheggiava affannosamente, lacerandosi la camicia. Crollò su un ginocchio, poi si piegò in due e cadde su una gabbia per uccelli arrugginita. Non si mosse più. Noi ci avvicinammo e notammo che era incosciente, ma respirava normalmente. Guardai Weatherly: «Avrebbe potuto ucciderlo». «Lo so.» «Adesso cosa ne facciamo?» aggiunse papà a bassa voce. Prima di rispondere il professore esitò un attimo, poi disse: «Lo sgabuzzino al piano di sopra ha una serratura robusta». Trasportammo quindi Gant giù per i gradini ripidi e stretti, e lo chiudemmo nel ripostiglio vuoto. Il chiavistello non mi sembrava più resistente degli altri, ma funzionava e non era rotto. La porta si apriva all'esterno, ma non c'era abbastanza spazio perché Gant riuscisse ad abbatterla, e in ogni caso, se ci avesse provato, l'avremmo sentito, ma per ogni evenienza puntellammo una sedia sotto il pomo della porta e restammo a guardarci l'un l'altro. «E adesso?» disse alla fine Poe, togliendosi le ragnatele dai peli del petto. «Dovremmo andare tutti a dormire. Non c'è più niente da fare» rispose il professore. Papà si tolse la polvere dalla vestaglia, «Quanto conta di aspettare prima di rispedire il mostro da dove è venuto?» Weatherly mi guardò, poi si rivolse a papà con un tono scontroso. «Non so» sospirò. «Domani, alla luce del giorno, dopo che tutti si saranno riposati... Non so.» Mi guardò di nuovo. «Dobbiamo essere sicuri che tutto sia a posto. Dubito di avere una seconda possibilità.» Abbassò lo sguardo verso il pavimento, poi lo alzò di nuovo verso papà. «Signor Henderson, signor McNeal, mi spiace terribilmente di avervi coinvolto in questa faccenda. Veramente, molto.» Si voltò e si avviò lentamente verso le scale. «Dopo questo baccano, Claire e Linda saranno curiose di sapere tutto» osservò papà. «Non dite a Linda di... Jud fino a domani mattina» disse Poe, teso. «Ha
bisogno di dormire.» «Ann avrà già soddisfatto la loro curiosità» spiegai. Trasportammo il corpo di Jud al pianterreno, nella sala da pranzo, e lo coprimmo con un lenzuolo. Nessuno di noi riusciva a pensare a qualcos'altro da fare. Infine tornammo a letto. Non so quanto riuscii a dormire: quando vengo svegliato all'improvviso, non sono mai completamente lucido. Mi trovai seduto nel letto a chiedermi cosa mi avesse svegliato. Poi capii. Corsi sul pianerottolo, scalzo e in mutande. La porta dello sgabuzzino era spalancata. Non scoprii mai come aveva fatto Gant ad aprirla senza svegliare nessuno. Avrei dovuto immaginare che la sua determinazione non si sarebbe arrestata davanti a una porta chiusa. Senza rallentare, mi precipitai nella camera di Ann e mi fermai scivolando. Gant stava stringendo la gola di Ann, impedendole di urlare. Erano vicino ai piedi del letto e stavano lottando. Rispetto ad Ann, il suo avversario era troppo forte. Gant era tornato in soffitta a prendere il coltello, che adesso le teneva puntato contro il petto. Aveva la faccia e le mani simili a un hamburger crudo; non mi guardò nemmeno, ma penso che riuscisse a vedere molto male, in quanto l'occhio buono era talmente gonfio da essere quasi chiuso. Era assorto in qualche pensiero, e credetti di scorgere sul suo viso tumefatto un'espressione d'estasi. Non stava trattenendo Ann come ostaggio o per farsene scudo, ma per immolarla in sacrificio. Quando sollevò il coltello, rimasi impietrito nel centro della stanza. Contorsi il viso per la rabbia e l'odio e la mia mente urlò silenziosamente. Non so cosa feci esattamente, e non ho più provato a ripeterlo. Feci appello a qualcosa che spero non emerga mai più. La mia mente inveì contro Gant, lo distrusse con un odio selvaggio. Diedi libero sfogo alla mia energia. Il coltello si bloccò a mezz'aria. Mi conficcai le unghie nel palmo della mano, mentre tremavo senza riuscire a controllarmi e il sudore mi colava sul viso. I miei occhi serrarono i suoi. Il braccio che stringeva il collo di Ann cadde, e il coltello scivolò dalla mano alzata. Fece un passo indietro, fissandomi senza capire, con la fessura rossa dell'occhio e la bocca rilasciata. Ann, incespicando, si allontanò da lui e mi venne vicino. Anche se Ann era libera, non mi fermai. Il ricordo del coltello vicino al suo petto era ancora troppo vivo. Avrei potuto cercare di frenarmi, ma in quel momento non pensavo a niente, ero troppo intento a odiare. Gant indietreggiò fino alla parete, ma le sue gambe continuarono a muo-
versi, come se stesse cercando di allontanarsi ancora di più. Muoveva il viso avanti e indietro, come se volesse liberarsi di qualcosa che vi si fosse aggrappato, poi si coprì le orecchie con le mani rosse e gonfie, iniziando a respirare con la bocca e dal profondo della gola cominciò a emettere un gemito basso, che crebbe lentamente fino a diventare un lamento lacerante, che finì solo quando i polmoni furono vuoti. Attaccai lo specchio brillante che lo circondava, colpendolo fino a mandarlo in frantumi, e mi immersi nella sua mente. Credetti di urlare, ma più tardi Ann mi disse che era stato un piagnucolio. Abbandonai le mie difese e combattei, lacerando e strappando, dilaniando e sferzando attraverso il caos abbagliante della mente di Gant. Quando mi liberai, percepii la sua mente offuscarsi e oscurarsi. Mi sentii di gelatina e crollai sulle ginocchia. Non riuscivo a respirare, e le braccia pendevano immobili e flaccide. Gant era contro la parete, come un fagotto raggrinzito. Ann era inginocchiata al mio fianco, e mi cingeva con le braccia, poi mi "sentì". Il battito del cuore iniziò. Oh, Ben. Sì. Dio mio! Sai cosa ho fatto? L'ho sentito, una parte è rimbalzata indietro dalla sua difesa. Stai bene? Ti ha fatto male? No, ero solo spaventata. Poi sei arrivato tu. Possiamo farlo adesso. No, non adesso. Più tardi. Va bene. Il battito continuò. Dormono tutti. Sì. Non ho mai pensato che potesse essere così... Lo so. Lo so. Continuo a dimenticare. Ann... Lo so. Non essere triste. Abbiamo perso qualcosa. Ma abbiamo guadagnato molto, veramente tanto. Il battito cessò. La circondai con le braccia, e Ann piegò la testa contro la mia e andammo nella mia stanza. Chiusi la porta dietro di me e mi ci appoggiai contro, guardandola. Venne verso di me e le andai incontro. Ci baciammo, fon-
dendo le nostre menti e i nostri corpi. Ci spogliammo e andammo a letto, accarezzandoci e amandoci. Non fu amore solamente fisico, ma non la stavo "leggendo". Non era più necessario. Ero me stesso. Ero Ann. Eravamo noi stessi. Quando si levò il sole, ci alzammo dal letto e ci vestimmo. Andai nella camera dei miei genitori, mentre Ann si recò in quella di Poe e Linda. «Papà, mamma» dicemmo. «Poe, Linda» dicemmo. «Svegliatevi, vestitevi e preparatevi a partire. Fate le valigie e uscite sul portico.» «Ben?» disse la mamma. «Ann?» disse Linda. «Va tutto bene» dicemmo. «Siamo pronti ad aiutare il professore a liberarsi del suo mostro. Sbrigatevi.» Io e Ann ci incontrammo sul pianerottolo e scendemmo al pianterreno. Il professor Weatherly dormiva sul divano, stanco e tirato, e ormai scivolato nella disperazione. «Professore» dicemmo con la mia voce. «Cosa c'è?» Si alzò di scatto, confuso. «Oh, Ben. È mattina?» «Sì.» «Siamo pronti» disse la parte di me che era Ann. «Come?» Si alzò, stropicciandosi gli occhi. «Siamo pronti a esorcizzare il suo mostro.» Ci guardò. «È successo qualcosa.» «Sì. Io e Ann siamo legati telepaticamente. Per sempre.» «Descrivimelo.» «Non sono sicura di riuscirci. So tutto quello che Ben pensa; ricordo; sento tutto quello che lui percepisce.» «Ma non è tutto qui» aggiunsi. «Io sono tutti e due e noi siamo uno. Siamo... be', in sostanza siamo una persona in due corpi, nonostante il nostro io distinto sia sempre separato, forse lei capirà meglio se dico che siamo due persone che coabitano due corpi. Non so come potrebbe essere con due donne o due uomini, ma per noi è... è amore.» «Sì» sussurrò. «Sì. Deve esserlo, no? Amore totale o... ribrezzo totale. Non c'è nessun altro modo.» «Senza sperimentarlo, non si può veramente capire di cosa si tratta» disse Ann. «Le persone che conoscono solo l'amore fisico, perdono così tanto!» Sorridemmo. «Anche se penso che in tutto questo ci sia qualcosa di
vagamente masturbatorio.» «È assolutamente meraviglioso.» Era raggiante come un bambino il mattino di Natale. «Mi permetterete di studiarlo più a fondo?» Gli sorridemmo. «Certo» dissi. «Non appena gli altri sono pronti a partire, possiamo metterci in contatto con il suo mostro. Sua madre non partirà, e Gant è morto.» «Morto?» Sbatté le palpebre. «L'ho ucciso» risposi. Serrai i muscoli per fermare il tremito che sentivo cominciare. «Ho deciso la sua morte e così è stato» dissi come intontito. Ann mi mise la mano sulla spalla. «Siamo pronti» disse. Il formulare ad alta voce era lento e impacciato, ma era una vecchia abitudine. «Aspetti qui» gli dissi, e andai nell'ingresso. Tutti, con un'espressione confusa, scesero le scale con le loro valigie. Linda piangeva ma cercava di controllarsi. Poe le aveva detto di Jud. Li radunai sul portico senza che parlassero. Mamma e papà mi guardarono spaventati. Sorrisi. «Non preoccupatevi» li rassicurai. Tannie mi guardava furtivamente, con gli occhi sgranati. Le feci l'occhiolino, sorrise e uscì a raggiungere gli altri. Chiusi la porta e andai nel salotto. «È pronto?» «Sì» Weatherly annuì con il capo. «Professore, spero che ciò che scoprirà giustifichi tutto.» Ci concentrammo. Un bagliore brillante. Un lampo di energia vorticò intorno a noi, fu allontanato dal professore e poi svanì. «Piano,» dissi «piano: è quasi folle di paura.» Sfiorammo, senza penetrarla, la mente aliena, perché se ci fossimo addentrati in essa, saremmo stati perduti. Il suo potere alieno era indescrivibile, non c'era nessuna relazione con il pensiero umano. Rimanemmo a fissare con un timore riverente la sua mente immatura, grande e splendente, che formulava particolari impossibili da afferrare; le emozioni principali, comuni a tutti i tipi di vita intelligente, erano chiare da leggere, era conscia delle nostre menti, e non le temeva, era solo spaventata da ciò che le era alieno: l'aggressione fisica di Weatherly. Sorridemmo senza volerlo. «Che io sia dannato!» dissi a voce alta. «Professore, sa cos'è? È un... bambino, se questo è il termine giusto. La sua mente va indietro di milioni, miliardi di anni; così lontano da non poter ricordare le proprie origini, ma sa di essere immatura. La ragione per cui non ha mai lasciato questa casa è perché è un bambino spaventato. Vuole solo andare a casa. Professore, lo rimandi indietro mentre cerco di mante-
nerlo calmo.» Ci fu un altro bagliore e un lampo vorticoso di energia. «È troppo impaurito» dissi ansiosamente. «Ho dei problemi. Quello che vuole più di ogni altra cosa è andare a casa, ma dovrà obbligarlo. La paura lo rende irragionevole. Secondo la sua scala del tempo, è rimasto qui solo un attimo.» Ann si allontanò per persuadere gli altri ad andare alle macchine, distanti dalla casa. Aspettai fino a quando tutti furono abbastanza lontani. «Adesso, professore. Lo obblighi.» Intorno a noi l'energia turbinò come un tornado, le pareti, i soffitti, i pavimenti e i mobili bruciarono furiosamente, a parte la bolla che ci racchiudeva. Weatherly aprì un varco in quell'inferno, da noi alla porta. «Ben, vai con gli altri» disse. Iniziai a protestare, ma mi fece tacere. «Puoi essere utile fuori quanto lo sei dentro, e io posso agire meglio se non mi devo preoccupare di te.» Aveva ragione, perché non avevo difese contro l'energia fisica della "cosa", energia che sospettavo si manifestasse fisicamente perché era qui, non da dove veniva. Percorsi il varco di corsa e andai alla porta; mi voltai, ma il passaggio si era richiuso e non vidi più Weatherly. Corsi giù per la collina a raggiungere gli altri, mantenendomi ancora in contatto con il mostro del professore. Il sole, che era appena sorto, brillava sulla casa ancora umida, trasformandone il grigio consumato in un color rame. Dalle finestre del salotto uscivano le fiamme. Il fumo si sprigionava anche da altre aperture. Le nuvole grigie venivano dorate dal sole. Le fiamme uscirono anche dalle grondaie: l'incendio si era propagato al piano di sopra. L'energia esplodeva come i fulmini. Vidi e sentii tutto quanto ho raccontato con i miei occhi e le mie orecchie, ma ciò che vidi e percepii con la mente era diverso. Colsi un pensiero provenire dalla madre del professore, ma lo esclusi subito perché ero incapace di sopportarlo. Il mostro si dibatteva nella stretta del professore, folle di paura, e urlava pietosamente. Vidi, ma non con gli occhi, il professore nel salotto, un'isola chiara circondata da fiamme violente e da energia. Iniziò. L'inferno si aprì da un lato, e si aprì un passaggio, un tunnel splendente e senza fine. Rimase immobile, assorto nella concentrazione. Improvvisamente seppi cosa stava per succedere, ma il professore fu colto completamente di sorpresa. Non potei fare niente per aiutarlo. Formai
delle difese per Ann, che si scosse dalla trance e si guardò selvaggiamente intorno. Urlò: «No! Ben! Non bloccarmi fuori!». Si sprigionò ancor più energia; tutti avevamo i vestiti incollati alla pelle. Sentivo di avere i capelli dritti in testa, carichi di energia elettrostatica. Senza poter fare niente, vidi il professore spingere il mostro nel tunnel. Non si era mosso, ma rimaneva davanti al tunnel, circondato dall'inferno, sempre immerso nella concentrazione. Gradualmente, infine, il suo corpo si sfocò esteriormente verso il tunnel. Il professore lo sentì. Alzò lo sguardo. Cercò di allontanarsi, tendendo le braccia e respingendo l'attacco. Il suo corpo continuava ad allungarsi, le braccia furono catturate e parvero essere attirate innaturalmente e svanire nel tunnel. Infine una particella del mignolo si liberò e sfrecciò lungo quel corridoio infernale come una stella cadente, poi altre particelle si staccarono dal corpo e il tunnel si riempì di stelle cadenti, che correvano verso l'eternità. Potenziai le mie difese. Il terrore di Weatherly era troppo grande, ma proprio in quella frazione di secondo vidi una cometa ruggire lungo il tunnel e il professore sparì. Il tunnel si stava chiudendo. Ero consapevole solo della sensazione fisica. Ondeggiavo, cercando di non cadere. Ann mi abbracciò, papà mi mise la mano sulla nuca, in silenzio. Lasciai cadere le difese. Io e Ann fummo di nuovo un solo essere. «L'ha fatto» dissi sfinito. «È andato a casa, l'ha rimandato indietro, ma la "cosa" l'ha trascinato con sé. Per un attimo sono stato vicino a lui.» L'energia era svanita, ma non così il fuoco. Il legno stagionato della casa divampava furiosamente. Papà ci spinse via, ai piedi della collina, dove gli altri aspettavano intontiti. Rimanemmo fermi e senza parlare a lungo, a guardare la casa che bruciava. Tannie mi era venuta vicino e guardava il fuoco con il braccio aggrappato alla mia gamba e io le posai una mano sulle spalle. «Ann, e tu?» le chiese papà. «Resta con me» risposi, e lei sorrise. Tannie si guardava furtivamente intorno, fissando Ann, che le sorrise e le strizzò l'occhio come avrei fatto io. Tannie sorrise come una supernova, si lanciò verso Ann e l'abbracciò. Mentre stavamo per andarcene, arrivò la macchina dello sceriffo, una persona gentile di nome Robin Walker. Gli raccontammo una versione semplificata, che lui avrebbe potuto considerare credibile, di quanto era successo. Io e Ann ci assicurammo che la ritenesse vera. Papà tirò fuori la macchina dal fosso, mentre io salii sulla Volkswagen gialla di Ann, e continuammo il viaggio verso Wichita.
Charles Beaumont TERRA GRATIS Charles Beaumont è lo pseudonimo dello scrittore e sceneggiatore Charles Nutt (1929-1967) che, oltre a produrre la sceneggiatura di film quali The Seven Faces of dr. Lao (1964), nella sua camera scrisse moltissimi racconti di fantascienza e d'orrore. Molti di questi apparvero originariamente nella rivista «Fantasy & Science Fiction». Dal 1955-1956 collaborò con Chad Oliver a produrre la serie Claude Adams sempre per la stessa rivista. I suoi racconti presentano spesso una combinazione di orrore e umorismo, una ricetta che fa ridere nervosamente i lettori mentre si "guardano alle spalle". Terra gratis è proprio uno di questi racconti, che ha come protagonista il signor Aorta, un uomo che non ha mai imparato che "niente nella vita è gratis". Nessun pollo era mai sembrato così stecchito, con gli ossi ammucchiati come ramoscelli secchi sul bordo del piatto, che nella luce soffusa del ristorante apparivano bianchi, spogli e rinsecchiti. Non restavano che gli ossi, perché ogni rimasuglio e filamento di carne era stato accuratamente divorato, e il piatto appariva ora come una distesa vasta e luccicante. Gli altri piattini e ciotole erano stati ripuliti con la stessa attenzione e ora splendevano fieramente uno vicino all'altro. La luce color crema pallido faceva risaltare la tovaglia candida, senza macchie di salsa, caffè, tracce di briciole di pane, cenere di sigaretta o altro. Solamente gli ossi del pollo e i disegni lasciati dalla gelatina rossa e indurita, attaccata timidamente al fondo del piatto da dessert, erano la testimonianza che questi resti una volta erano stati un'eccellente cena di sei portate. Il signor Aorta, che non era un uomo piccolo, si permise un lieve rutto; piegò il giornale che aveva trovato sulla sedia, si controllò il panciotto per togliere eventuali resti di cibo e poi si diresse con passo svelto verso la cassiera. L'anziana signora diede un'occhiata al conto e disse: «Sì, signore». Il signora Aorta rispose: «D'accordo», e tirò fuori dalla tasca posteriore un grosso portafogli nero e lo aprì con aria indifferente, fischiando il motivo di The Seven Joys of Mary attraverso lo spazio fra i due incisivi superiori. Si interruppe bruscamente. Adesso il signor Aorta sembrava preoccupato. Sbirciò nel portafogli, poi iniziò a tirare fuori varie cose e, poco dopo, l'in-
tero contenuto era sparso sul banco. Si accigliò. «Qual è il problema, signore?» «No, per la verità non c'è nessun problema» rispose. Agitò i lati del portafogli, anche se era chiaramente vuoto; lo rovesciò e continuò a scuoterlo, facendolo somigliare a un pipistrello idrofobo fermo a mezz'aria. Il signor Aorta abbozzò un sorriso preoccupato e iniziò a svuotare tutte le quattordici tasche, e dopo un po', il banco era ingombro di cose. «Bene!» disse con impazienza. «Che assurdità! Che seccatura! Sa cos'è successo? Mia moglie è partita e si è dimenticata di lasciarmi dei soldi! Accidenti! lo mi chiamo James Brockelhurst e lavoro per la Pliofilm Corporation. Di solito non mangio fuori e, no, insisto, questo è imbarazzante per lei come lo è per me, e desidero assolutamente lasciarle il mio biglietto da visita. Se lo tiene, domani sera tornerò per pagarla.» Il signor Aorta mise il cartoncino nella mano della cassiera, scosse la testa, si rimise tutto in tasca e, dopo avere preso uno stuzzicadenti da una scatola, uscì dal ristorante. Era soddisfatto di se stesso, una sua reazione abituale al fatto di riuscire a ottenere qualcosa senza dare nulla in cambio. Tutto era andato liscio, e che cena meravigliosa! Si diresse con calma verso la fermata del tram, lanciando di tanto in tanto occhiate lascive ai manichini nudi nelle vetrine dei negozi. La ricerca prolungata della moneta per il tram funzionò come sempre, bastava trovarsi in mezzo alla folla, con l'aria perplessa e noncurante, frugando bene nelle tasche, togliendosi nel frattempo dalla vista del bigliettaio, e infine sedersi in un posto lontano a leggere un giornale. Il signor Aorta calcolò che, in quattro anni, aveva risparmiato un totale di 211 dollari e 20 centesimi. La sbandata del vecchio tram non scosse la calda sensazione di serenità che provava. Studiò brevemente la pagina dei giochi, e poi passò all'indovinello del giorno, il cui premio ammontava a diverse migliaia di dollari, in fondo per un nonnulla. Qualcosa in cambio di niente. Il signor Aorta adorava gli indovinelli, ma smise di leggere perché i caratteri erano troppo piccoli. Lanciò un'occhiata a un'anziana signora in piedi vicino al suo posto, poi visto che questa lo fissava con occhi stanchi e supplichevoli, guardò di nuovo fuori attraverso il finestrino di vetro retinato in ferro. Quello che vide gli fece battere il cuore. Era una zona della città in cui passava ogni giorno, quindi si stupì di non avervi fatto caso prima, anche se non era granché osservare quello che veniva irriverentemente chiamato Death Row, cioè una lugubre serie di camere mortuarie, loculi, forni crematori e simili che continuava per cinque isolati. Azionò il
segnale di richiesta di fermata, corse verso la parte posteriore del tram e, dopo un attimo, si trovava nei pressi di ciò che aveva attirato la sua attenzione. Era un cartello, scritto in modo un po' rozzo, ma abbastanza corretto. Non era stato sistemato lì da poco, in quanto la vernice bianca si era gonfiata e spaccata, mentre i chiodi nell'arrugginirsi avevano lasciato sporche tracce rossastre. Sul cartello, affisso su uno steccato verde, la cui vernice andava sbriciolandosi, c'era scritto: TERRA GRATIS RIVOLGERSI AL CIMITERO DI LILYVALE Il signor Aorta si sentì sopraffare da una sensazione familiare. Gli succedeva ogni volta che si imbatteva nella parola "gratis", un termine magico che aveva effetti strani e meravigliosi sul suo metabolismo. Gratis. Qual è il significato, la sostanza della parola "gratis"? Be', qualcosa in cambio di niente; e, come si è già fatto notare, avere qualcosa in cambio di niente era, in questa vita mortale, uno dei piaceri principali del signor Aorta. Il fatto che fosse della terra a essere offerta gratis non lo turbava minimamente: in fondo, ogni cosa poteva tornare utile. Non gli vennero nemmeno in mente altri dettagli, più sottili, che riguardavano il cartello: ad esempio perché veniva offerta della terra o da dove poteva provenire la terra gratis da un cimitero. In questo caso, considerò solo che il suolo probabilmente fosse molto ricco. L'esitazione del signor Aorta riguardava invece problemi concernenti il fatto che si trattasse di un'offerta onesta, o che forse potesse nascondere delle clausole per cui poi sarebbe stato obbligato a comprare qualcosa. C'erano dei limiti su quanta potesse portarne a casa? Nel caso non ce ne fossero, qual era il modo migliore di trasportarla? Ma questi erano dettagli senza importanza, che si sarebbero potuti risolvere benissimo. Il signor Aorta, dentro di sé, abbozzò qualcosa che assomigliava a un sorriso, si guardò intorno e, alla fine, scorse l'ingresso del cimitero di Lilyvale. Questo terreno desolato, che aveva prima ospitato una fabbrica di corde, poi una ditta di tappezzeria, e infine un negozio di scarpe per signora, adesso era avvolto da vapori mefitici, dovuti probabilmente, visto che nelle vicinanze non c'erano paludi, allo scarico di alcune ciminiere che giungeva
fin lì sottovento. Vide i tumuli resi quasi appuntiti dalle croci, dalle lastre e dalle pietre tombali, che nel crepuscolo apparivano tristi e lugubri, un posto bello ma purtroppo difficile da descrivere perché, come appariva quella sera, aveva poco a che vedere con quell'uomo grasso e con la fine che lo attendeva. Certo è che era un luogo pieno di morti, sdraiati sulla schiena sottoterra, che si riducevano in polvere, consumandosi. Il signor Aorta si affrettò perché non sopportava di sprecare, oltre a tutto il resto, nemmeno il tempo, quindi poco dopo trovò l'addetto con cui ebbe questa conversazione: «Ho visto che offrite della terra gratis.» «Esatto.» «Quanta se ne può avere?» «Quanta ne vuole.» «In quali giorni?» «In qualunque giorno, e ce ne sarà sempre di fresca.» Il signor Aorta emise un profondo sospiro di soddisfazione, come chi ha appena ricevuto un'eredità o un buon gruzzolo di denaro sul proprio conto corrente. Prese poi accordi per il sabato seguente e andò a casa a ruminare piacevoli pensieri. Quella sera, alle nove e un quarto, trovò un eccellente modo per impiegare la terra. Il prato dietro la casa, una distesa color ocra, era grande, secco e desolato, e vi crescevano solo erbacce a profusione. Una volta, in tempi migliori, c'era stato un albero, una specie di paradiso per gli uccellini della periferia, ma poi questi se n'erano andati, senza ragioni particolari; e questo fatto era coinciso con l'arrivo nella casa del signor Aorta, che pareva avere reso l'albero brutto e spoglio. Nessun bambino giocava in quel cortile. Il signor Aorta era incuriosito: chissà, forse ci si poteva far crescere qualcosa! Molto tempo prima aveva scritto a una ditta per farsi mandare dei campioni di semenze e ne aveva ricevuti a sufficienza per nutrire un reggimento. Ai primi esperimenti, però, i semi erano avvizziti e diventati duri e inutilizzabili; poi era subentrata la pigrizia e il signor Aorta aveva accantonato il progetto. Ma adesso... Il signor Joseph William Santucci, il suo vicino di casa, si fece intimorire e gli prestò il suo vecchio autocarro Reo. Dopo poche ore ecco arriva il primo carico di terra, subito ammucchiato con il badile in una montagnola ordinata. Per il signor Aorta era uno spettacolo bellissimo e il proprio entusiasmo lo ripagava di gran lunga della stanchezza e del lavoro. Al primo
carico ne seguirono un secondo, un terzo e un quarto e, quando venne scaricato l'ultimissimo, era già buio pesto. Il signor Aorta, restituito l'autocarro, cadde stremato in un sonno profondo e piacevole. Il nuovo giorno fu annunciato dal suono lontano delle campane della chiesa e dal tintinnio della vanga del signor Aorta che livellava la terra del cimitero distribuendola e comprimendola sul suolo indurito del cortile. La terra fresca aveva un aspetto continentale, ovvero sembrava scura, nera, saturnina, e per niente asciutta anche se il sole era già abbastanza caldo. Ben presto la maggior parte del cortile ne fu ricoperta e il signor Aorta ritornò nel soggiorno della propria abitazione. Accese la radio giusto in tempo per identificare una canzone in voga e segnare la propria scoperta su una cartolina postale che poi spedì, fiducioso di ricevere o un tostapane o una calzamaglia di nylon. Dopo, avvolse quattro pacchetti che contenevano rispettivamente un flacone di vitamine mezzo vuoto, un barattolo quasi intero di caffè, mezza bottiglietta di smacchiatore e una scatola di sapone in scaglie, del cui contenuto rimaneva ben poco. Spedì anche questi, con un biglietto in cui esprimeva seccamente la propria totale insoddisfazione alle ditte che glieli avevano mandati contro garanzia di pagamento. Era arrivata l'ora di cena, momento che il signor Aorta, raggiante, pregustava anticipatamente. Si sedette a tavola per consumare delicatezze assortite quali acciughe, sardine, tunghi, caviale, olive e cipolline. Però non assaporava questo tipo di cibo per ragioni di palato, ma solo perché era confezionato in pacchetti abbastanza piccoli da far scivolare in tasca senza attirare l'attenzione dei droghieri affaccendati. Dopo avere terminato di mangiare, ripulì i piatti così bene che nessun gatto si sarebbe curato di leccarli; anche i barattoli sembravano nuovi, e persino i coperchi brillavano iridescenti. Diede poi un'occhiata al libretto degli assegni, sogghignò in modo indecente e andò a guardare fuori della finestra, sul retro. (Non era sposato e quindi, dopo cena, non aveva fretta di andare a letto.) La luna splendeva gelida sul cortile, e i suoi raggi illuminavano l'alta massicciata che lui stesso aveva costruito con sassi avuti per niente, facendo risaltare cupamente la terra, adesso nera. Il signor Aorta rifletté un po', mise via il blocchetto degli assegni e tirò fuori le scatole dei semi per l'orto Erano ancora buoni, come nuovi. Durante le cinque settimane successive l'autocarro di Joseph William
Santucci fu utilizzato ogni sabato. Questo brav'uomo, ogni volta che il suo vicino tornava con sempre più terra, guardava incuriosito la scena facendo notare alla moglie la stranezza di quanto stava accadendo, ma lei, però, non sopportava nemmeno che si facesse il nome del signor Aorta. «Ci ruba tutto!» disse. «Guarda! Porta i tuoi vestiti vecchi, usa il mio zucchero e le mie spezie, e chiede a prestito tutto quello che gli viene in mente! Anzi, più che chiedere in prestito, ruba. Da anni! Non l'ho ancora visto pagare qualcosa! Dove lavora per avere così poco denaro?» La signora e il signor Santucci ignoravano che le fatiche quotidiane del signor Aorta consistevano nel sedersi sul marciapiede in centro con gli occhiali scuri e una tazza di latta ammaccata appoggiata per terra. Gli erano passati vicino parecchie volte e gli avevano dato persino dei soldi, senza riuscire a scoprire l'astuto travestimento che Aorta teneva, gratis, in uno spogliatoio del terminal della ferrovia. «Eccolo che arriva di nuovo, quel pazzo!» gridò la signora Santucci. Ben presto arrivò il momento di piantare i semi, cosa che il signor Aorta, dopo avere consultato diversi libri in biblioteca, eseguì con pedante precisione. Nella terra ricca e scura vennero piantate file ben disposte di zucche estive, piselli, mais, fagioli, barbabietole, rabarbaro, asparagi, crescione e molte altre qualità di verdura. Quando questa operazione ebbe termine, il signor Aorta ricevette altri pacchetti, sorrise e seminò fragole, angurie e infine granaglie non bene identificate. In breve i pacchetti furono tutti vuoti. Passarono alcuni giorni ed era quasi il momento di tornare al cimitero per procurarsi un carico fresco, quando il signor Aorta notò una cosa strana, Il terreno scuro aveva iniziato a gonfiarsi in piccole montagnole. Esaminandolo più da vicino, vide che i semi avevano cominciato a crescere. Non era molto esperto di coltivazione e pensò che, per quanto il fatto fosse strano, non ci si dovesse allarmare, in quanto vedeva i semi germogliare e quella era la cosa più importante: semi che sarebbero diventati cibo. Lodando la propria Weltanschauung corse a Lilyvale, dove lo attendeva però una singolare delusione. Negli ultimi tempi non erano morte molte persone, quindi si poteva avere una quantità limitata di terra, a malapena un carico. "Be'," pensò "le cose dovranno per forza migliorare durante le vacanze", e portò a casa la terra a disposizione. Questo nuovo quantitativo segnò il miglioramento dell'andamento dell'orto, i germogli si svilupparono e la crescita fu più rigogliosa. Fece fatica a contenere la propria impazienza fino al sabato successivo,
perché era ovvio che la terra agiva sulle piante come una specie di fertilizzante, e il cibo gratis richiedeva ancora altra terra. Il sabato seguente però fu un disastro. Non c'era nemmeno una badilata di terra, e l'orto iniziava a inaridirsi. Il signor Aorta prese una stupefacente decisione in seguito agli inutili e svariati tentativi di usare terra diversa e fertilizzanti di ogni genere immaginabile. Niente funzionava. L'orto, che aveva promesso abbondanza di generi commestibili, era veramente peggiorato, regredendo quasi allo stato originario. Il signor Aorta non poteva tollerarlo, perché il progetto aveva richiesto molta fatica da parte sua, che ora non doveva venire sprecata in quanto era andata a detrimento di altre iniziative. Quindi, con la prudenza dettata dalla disperazione, una notte entrò nel luogo desolato e quieto con le pietre tombali, trovò le fosse scavate di recente ma ancora vuote, e le rese con la pala ancora più profonde, togliendo quasi mezzo metro di terra. Nessuno che non andasse proprio in cerca di una differenza del genere, notò quello che fece Aorta. Non c'è bisogno di parlare di tutti i viaggi che fece, basti dire che un quarto dell'autocarro del signor Santucci, parcheggiato a un isolato di distanza, a poco a poco si riempì. Il mattino dopo, l'orto rifiorì. La storia continuò in questo modo: quando c'era terra a disposizione, il signor Aorta ne era riconoscente; quando invece non ce n'era, be', si arrangiava. L'orto continuò a crescere sempre più rigoglioso, fino a quando una notte... tutte le piante fruttificarono! La distesa inaridita di poco tempo prima si era trasformata in un paradiso pieno di fiori e verdura. Il mais spuntava rigonfio e giallo dal cartoccio verde e spinoso, i piselli nei baccelli dischiusi erano di un bel verde brillante e tutte le altre verdure meravigliose splendevano ricche di vita e di vigore da esposizione, e ce n'erano file e file. Il signor Aorta era quasi sopraffatto dall'entusiasmo e, visto che gli piaceva vivere alla giornata ed era un imbecille nell'arte della conservazione dei cibi, sapeva quello che doveva fare. Gli ci volle un po' di tempo per raccogliere gli ortaggi ma, alla fine, con un po' di pazienza, nel giardino non rimasero che erbacce, foglie e altre cose non commestibili. Iniziò a pulire, sbucciare, togliere i fili, cucinare, bollire e, alla fine, ammucchiò tutto quel buon cibo gratis con grande metodo su tavoli e sedie, fino a quando tutto fu pronto per essere mangiato.
A questo punto iniziò. Visto che aveva deciso di farlo in ordine alfabetico cominciò dagli asparagi, poi continuò a divorare barbabietole, carote, rabarbaro, patate; si fermò per bere un sorso d'acqua e, facendo attenzione a non sprecare nemmeno una quantità minima, andò avanti a mangiare fino a quando non arrivò alla zucca. A quel punto aveva mal di stomaco, ma era un dolore piacevole, quindi respirò profondamente e, masticando con lentezza, fece piazza pulita dell'ultimo pezzo di verdura. I piatti splendevano, come una serie di grossi fiocchi di neve. Aveva divorato tutto. Il signor Aorta sentì un appagamento quasi sessuale, il che vuol dire che, per il momento, si era riempito abbastanza. Non riusciva nemmeno a ruttare. La sua mente fu pervasa da pensieri allegri, le sue due più grandi passioni erano state soddisfatte nel modo più completo. Questi erano i suoi soli pensieri. Guardò per caso fuori dalla finestra. Verso il limite estremo dell'orto vide un puntolino di luce nell'oscurità, piccolo, fievole ma visibile. Il signor Aorta, con lo sforzo di un brontosauro che viene fuori da una tana incatramata, si alzò dalla sedia, andò alla porta e uscì nell'orto ormai spoglio. Passò pesantemente vicino a forme grottesche e dondolanti create da bucce, cartocci e rampicanti. Il puntolino sembrava scomparso. Guardò attentamente in tutte le direzioni, socchiudendo gli occhi per abituarsi alla luce della luna. Poi lo vide. Una cosa bianca e frondosa, una pianta o forse solo un fiore, ma comunque c'era, e tutto era sinistro. Il signor Aorta si stupì di vedere che si trovava in fondo a una buca poco profonda, vicinissima all'albero morto. Non riusciva a ricordare come si fosse formata nel suo giardino, ma c'erano i figli del vicino che facevano sempre delle birichinate. Meno male che aveva raccolto la verdura al momento giusto! Si sporse oltre il bordo della piccola cavità e allungò la mano verso la pianta splendente, che però in qualche modo respingeva il suo tocco. Si protese ancora di più, ma non riuscì lo stesso ad afferrarla. Il signor Aorta non era un uomo agile, però, con la foga di un pittore che cerca di coprire un punto imperfetto, si sporse ancora impercettibilmente e plosh! cadde sul bordo e atterrò con un tonfo che sembrava un rumore sottomarino sul fondo. Una seccatura ridicola, e adesso doveva arrampicarsi come uno scemo per uscire. La pianta, però... Tastò il fondo della buca e la cercò, ma non trovò nessuna pianta. Alzò
lo sguardo e si spaventò per due cose. Primo, la fossa era più profonda di quanto pensasse; secondo, in alto, sul bordo su cui si trovava poco prima, la pianta ondeggiava nel vento. I dolori allo stomaco peggioravano sempre di più e i movimenti non facevano che renderli più acuti. Incominciò ad avvertire una pressione opprimente alle costole. Fu quando scoprì che la cima del fosso era troppo alta da raggiungere che vide l'intera pianta in piena luce. Sembrava piuttosto una mano, una grande mano umana, cerea e rigida, attaccata alla terra. Il vento la fece dondolare leggermente, facendogli cadere sul viso una pioggia di pallottoline di terra. Si mise a riflettere, valutò la situazione e iniziò ad arrampicarsi. I dolori però erano troppo forti e cadde, contorcendosi. Il vento soffiò di nuovo, facendo scendere nella buca ancora più terra. Ben presto la strana pianta venne spinta contro il terreno avanti e indietro, e la terra cadeva dentro sempre più pesantemente. Sempre più e con sempre maggiore violenza. Il signor Aorta, che fino a quel momento non aveva mai avuto l'occasione di gridare, urlò. Ci riuscì bene, nonostante il fatto che nessuno lo sentì. Furono Joseph William Santucci e la consorte a trovare il signor Aorta, sdraiato sul pavimento davanti a molti tavoli, su cui c'erano numerosi piatti bianchi e splendenti. Lo stomaco, vicino alla fibbia della cintura, era gonfio da scoppiare, e aveva fatto saltare i bottoni e forzato la cerniera lampo. Non era molto diverso dall'immagine di una grande balena bianca che emerge da acque tranquille e solitarie. «Ha mangiato fino a scoppiare» disse la signora Santucci con il tono di chi conclude una barzelletta complicata. Il signor Santucci allungò la mano e raccolse una pallottolina di terra dalle labbra morte del grassone. La esaminò e gli venne un'idea. Cercò di scacciarla dalla mente, ma quando i dottori scoprirono che lo stomaco del signor Aorta non conteneva nient'altro che diversi chilogrammi di terra, dormì male per quasi una settimana. Trasportarono il corpo del signor Aorta attraverso il cortile tutto pieno di erbacce, ma per il resto spoglio e desolato, vicino al triste albero morto e alla massicciata di sassi. Fu messo a riposare in un luogo con uno steccato verde, la cui vernice andava sbriciolandosi, e dove era affisso un cartello, scritto in modo un po' rozzo ma abbastanza corretto. E il vento vi soffiava sopra assolutamente gratis.
Patricia Ferrara ACQUE INFIDE Acque infide, apparso nel numero di «Fantasy & Science Fiction» del luglio 1987, è il primo racconto fantasy di Patricia Ferrara ed è difficile incontrare una tale eleganza e raffinatezza nel lavoro di uno scrittore che affronta per la prima volta un genere nuovo. Patricia Ferrara è nata ad Attleboro, nel Massachusetts, nelle vicinanze della tomba di H.P. Lovecraft. Dopo essersi laureata in Lettere a Yale, si è trasferita ad Atlanta, dove insegna inglese e cinematografia alla Georgia State University. Acque infide è un racconto spettrale che tratta di episodi inconsueti che hanno come sfondo un fiume del Sud. Patricia Ferrara ci ha confessato che, influenzata da questo racconto, nuota solo in laghetti piccolissimi, dopo essersi assicurata della presenza dei bagnini. Alla fine il fiume assorbì la pianura formatasi dai depositi delle alluvioni, trasformandola in parte del fiume stesso, così come il tempo aveva trasformato l'Ohana dal canale gorgogliante e povero d'acqua che era in un nastro piatto che si increspava alla luce del sole, calmo come un lago. Rory non era ancora nato quando i suoi nonni dovettero lasciare la casa sull'antica riva del fiume per spostarsi verso le dolci colline su un'ampia altura, al sicuro dal disgelo di centinaia di futuri inverni nevosi. Per Rory la presenza del fiume era naturale e consuetudinaria come quella del piccolo pullman della scuola. D'estate, ogni mattina era consapevole della sua esistenza e ogni notte vi dormiva accanto, riservandogli solo un tiepido interesse. Passava la maggior parte del tempo a escogitare il modo di andare in città per giocare con i video-games del supermercato. Il suo preferito era Space Invaders e fu molto seccato quando venne rimpiazzato, in rapida successione, prima da Pac-Man e poi da un Millipede Game. Questi cambiamenti continui erano una scocciatura, perché il suo quarto di dollaro rendeva di più se investito in un gioco familiare. Non aveva infatti mai imparato il trucco di far scivolare con il polso il pulsante che mandava la palla in buca e comunque il gioco dei ragni saltellanti per lui era troppo difficile. Con i due quarti di dollaro che la nonna gli concedeva ogni volta, riusciva a giocare a Millipede al massimo per cinque minuti. La nonna lo portava al supermercato solo una volta alla settimana per farsi aiutare con le borse della spesa e questo a meno che non dimenticasse di comprare qual-
cosa ma, visto che si ricordava sempre tutto, lui non riusciva a giocare che in quell'unica occasione settimanale. Una volta erano dovuti tornare perché il latte comprato era scaduto, ed era rimasto nell'ufficio del direttore mentre lei parlava arrabbiata di latte inacidito e di una mucca mansueta che era morta da cinquant'anni. Si era tenuta forte al suo braccio, forse desiderando di potersi aggrappare a qualcos'altro che a suo nipote. Dopo, nonostante l'avesse accompagnata, non gli aveva permesso di giocare e aveva voluto tornare a casa subito, guidando per tutta la strada in silenzio, sporgendo le labbra tremanti che formavano un bocciolo di rosa lezioso. Era poi arrivato il caldo rovente d'agosto, e l'acqua del fiume si era ritirata dagli argini, lasciando fra il torrente e l'erba tosata sassi aguzzi e fastidiosi incrostati di argilla umida. In quel periodo era contento di abitare vicino al fiume, perché così almeno aveva qualcosa da fare, e andava sulla riva con il suo pranzo in un cestino e passava la giornata a rinfrescarsi nell'acqua e a riscaldarsi al sole. Se rimaneva fino all'ora di cena si stancava molto, ma il caldo torrido gli impediva di annoiarsi. Un giorno d'agosto se ne stava sdraiato sulla sponda, senza pensare a niente in particolare. Soffiava un venticello serale che gli ricordava che era quasi ora di rientrare a casa quando un rumore strano attirò la sua attenzione verso il fiume. Non aveva mai sentito un suono del genere. Guardò a ovest, con la mano a coppa sulla fronte per ripararsi gli occhi dal sole, e vide una forma triangolare che galleggiava lontano dalla riva, con lo spigolo che sporgeva dall'acqua per poi svanire nelle onde luccicanti. Si alzò per guardare meglio, ma la forma rimase una sagoma appuntita, con i contorni resi indistinti dal sole in controluce. Continuò a fissarla fino a quando il sole che tramontava non gli fece lacrimare e socchiudere gli occhi; nel frattempo non aveva più fatto caso all'ora e quindi alla sincronizzazione importantissima che gli permetteva di sedersi a tavola proprio quando la nonna cominciava a servire la cena. Quando finalmente arrivò a casa, trovò la nonna arrabbiata e non gli rimase che mangiare il cibo, ormai freddo, da solo. Il giorno dopo, quando tornò al fiume, la "cosa" era scomparsa. Era così strana, non era un ceppo, ma aveva una forma geometrica, come di qualcosa costruito da qualcuno. Non ci pensò più fino a quando, alcuni giorni più tardi, dopo una nuotata, si buttò sull'asciugamano senza fiato e iniziò a respirare sibilando grandi boccate d'aria per alcuni minuti prima di voltarsi. Mentre riprendeva fiato volgendosi inutilmente a ovest per proteggersi dalla luce accecante del sole, la forma scura riemerse così all'improvviso che
Rory sobbalzò. Il sole era alto nel cielo e così riusciva a vedere l'oggetto con chiarezza. Non era un triangolo, ma un quadrangolo inclinato sull'acqua, da cui si dipartiva un'altra forma geometrica piatta che formava un angolo con la prima. Rifletté sul mistero per un po' fino quando notò due pilastri o pali che dal basso sostenevano la forma piatta. Allora l'oggetto era un tetto, pensò, inclinato rispetto alla sporgenza di un portico, ma rifletté ancora se l'ipotesi potesse essere quella giusta. Aveva visto delle fotografie di case sommerse dalle alluvioni, ma il fiume aveva diminuito la sua portata d'acqua, così tornò a osservarlo per trovare conferma a quanto pensava. L'acqua, che si era ritirata di un metro dall'argine, era limpida e immobile; anche il tetto era fermo, senza dondolarsi minimamente. Dopo un po' concluse che, visto che era improbabile che avesse galleggiato fin lì, allora la casa doveva essere riemersa dal fondo del fiume. La dinamica della faccenda, da un punto di vista puramente fisico, gli lasciava qualche dubbio, ma respinse le improbabilità. Dopo tutto la cosa era là, davanti ai suoi occhi. Da riva la guardò ancora per un bel po', domandandosi che cosa fosse, allorquando si ricordò che sua nonna raccontava spesso della vecchia casa e di come fosse stata abbandonata dopo essere stata distrutta dall'ultima inondazione e di come il governo federale, dopo il risarcimento, si era rifiutato di assicurare nuovamente il posto. La nonna diceva che nessuno aveva mai sentito una cosa del genere, concludendo sempre in questo modo il suo ritornello sulla casa. Rory aveva sentito questa storia così spesso, prestando sempre talmente poca attenzione da capire che fosse l'assicurazione il qualcosa di cui non si fosse mai sentito parlare. La presenza della casa sul fiume rendeva però la storia interessante e quindi cercò di ricordare e di ricostruire il racconto, continuando a meditarci sopra mentre la osservava. Pensò che poteva davvero essere quella la casa, e contemporaneamente si domandò se avesse dovuto andare a dirlo alla nonna, ma considerò che per farlo avrebbe dovuto lasciarla incustodita, e l'ultima volta che l'aveva fatto, era riaffondata. Dopo un po' gli venne in mente che avrebbe potuto raggiungerla a nuoto. Era lontana forse più di mezzo chilometro, ma il tetto del portico era piatto e, una volta arrivato, avrebbe potuto servirsene per riposarsi. In fondo non si trattava di una distanza molto più grande di quella che aveva coperto con la nuotata precedente, quindi si buttò. L'acqua gli sembrò più fredda di quanto avrebbe dovuto essere a quell'ora del giorno perché, dopo aver superato lo shock della prima nuotata del
mattino, il fiume avrebbe dovuto sembrargli tiepido, ma questa era un'avventura e, come si sa, le avventure fanno sempre apparire le cose diverse. Continuò quindi a nuotare nell'acqua chiara, fermandosi di tanto in tanto per controllare che la direzione fosse quella, giusta. Per un bel po' di tempo non gli sembrò di avvicinarsi alla casa e non si guardò indietro, quindi non si accorse che, nonostante quella sensazione, la spiaggia diventava sempre più piccola. Era già lontano dalla riva quando i suoi sforzi vennero finalmente ripagati dalla possibilità di osservare meglio la casa. Quando si fermò, agitando le gambe per tenersi a galla, vide che le assi consumate dal tempo rendevano il tetto simile a una ruvida ragnatela e in distanza solo un grande foro dentellato rimaneva impenetrabilmente nero. Questo incoraggiamento doveva bastargli per un po', perché il collo gli faceva troppo male per continuare a guardare la casa mentre nuotava. Il respiro per di più stava diventando irregolare, e ogni tanto gli mancava, per cui inghiottiva inavvertitamente dell'acqua; ma non poteva che continuare a nuotare fino a raggiungere la casa sul cui portico avrebbe potuto riposarsi. Improvvisamente l'acqua diventò marrone e spessa per il fango che proveniva dal fondo del fiume, quindi Rory si fermò e, per la prima volta dopo un po' di tempo, alzò di nuovo lo sguardo. La casa adesso si trovava a meno di sei metri di distanza, e sembrava ergersi più alta sull'acqua, riusciva persino a vedere la cima di un terzo pilastro che sosteneva il tetto del portico, e il frontone sopra il vano della porta spalancato e vuoto. Nuotò nell'acqua torbida per afferrarsi al palo più vicino, ma mancò la presa perché era viscido per il muschio. Sentì il cuore martellargli furiosamente; forse era troppo stanco per riuscire ad arrampicarsi. Le dita senza forza toccarono il legno marcio, che gli si sfaldò e scheggiò fra le mani. Spinse i piedi intorno al pilastro e si inerpicò, strisciando fino a quando lo stomaco non toccò il bordo del tetto. Si fermò per un momento, sfinito, ma uno scricchiolio e una leggera pendenza lo avvertirono che la casa stava inclinandosi su di un lato, e allora si spinse ancora freneticamente, con le braccia e le gambe divaricate, fino a raggiungere le tavole consunte. La casa smise di scricchiolare e Rory cercò di prendere finalmente fiato, ma il cuore gli batteva forte e i nervi vibravano, impedendogli di riposare. Il tanfo di cose a lungo sepolte che si liberava nell'aria gli era nuovo e sgradevole, e quindi, non appena ebbe ripreso fiato, sollevò la testa dalle assi puzzolenti, viscide per il fango e i funghi. Aveva il corpo imbrattato e cercò di pulirsi il viso e il naso dal sudiciume, ma peggiorò solo le cose; il
fetore e il prurito causato dall'argilla rossa che gli sì appiccicava addosso lo esasperarono. Se si grattava o si agitava, la casa scricchiolava e si muoveva, e quando sfregò il piede sul tetto per diminuirne il prurito, questo penzolò dentro il solaio perché aveva forato il tetto. Tirò fuori la gamba con la stessa frenetica delicatezza con cui si cammina sul ghiaccio sottile, appiattendosi supino sulle assi scivolose. Il calore del sole aumentava l'odore nauseante della casa. Puntini neri iniziarono a danzargli davanti agli occhi. Serrò le palpebre ma il sole penetrava attraverso ogni cellula e si arrischiò allora a sollevare l'avambraccio per coprirsi gli occhi, ma così facendo iniziarono a prudergli. Non tolse comunque il braccio fino a quando il fuoco nelle palpebre si attenuò e riuscì a respirare regolarmente. A quel punto aprì gli occhi con attenzione sbattendoli, e notò che il sole era già molto a ovest. Si sollevò lentamente, spostandosi con cautela dal foro che aveva prodotto nel tetto. Era ora di tornare a riva, perché si stava facendo tardi. L'acqua torbida però si stendeva per un bel tratto e provava una grande repulsione all'idea di tuffarsi in quella superficie opaca. I movimenti irritarono di nuovo il delicato equilibrio della casa e quindi si affrettò a sdraiarsi di nuovo. Improvvisamente sentì venire dall'interno un leggero stropiccio seguito da un tonfo che fece tremare la leggera struttura del tetto. Rory si sorprese molto perché aveva presupposto che la casa fosse stata ripulita a fondo dalla corrente, naturalmente però qualcosa trasportata dal fiume poteva esserci finita dentro attraverso una finestra rotta e adesso sbatteva qua e là come una mosca che cerca di uscire attraverso una zanzariera. Nonostante Rory rimanesse immobile, la casa continuava a muoversi e quindi strisciò cautamente verso il punto più alto per controbilanciare l'inclinazione. Questo spostamento l'aveva portato a pochi centimetri dal buco del tetto e riusciva a sentire chiaramente la cosa dentro che strisciava e sbatteva da una parete all'altra. Lo strano è che non sentiva scrosci d'acqua e quindi sbirciò attraverso il foro, spinto da un rimasuglio dell'antica curiosità. Saliva verso di lui una specie di odore secco, disgustoso, come quello umido dell'aria. Si sporse ancora di più ma, a causa della poca luce che penetrava dai due buchi del tetto, non riuscì a vedere niente. Sembrava una soffitta o un sottotetto. Si era però sporto troppo e le assi marce si spaccarono con un leggero sibilo facendolo cadere all'interno. Cercò subito di aggrapparsi a qualcosa ih alto, verso la luce del sole sopra di lui, ma dopo aver inutilmente provato a saltare, la casa scricchiolò irritata e fu costretto a immobilizzarsi fino a quando ci fu di nuovo silenzio. Aveva freddo anche se era nella zona illuminata dal sole, e iniziò a battere
i denti, con il corpo completamente rigido e le dita dei piedi che, tremando come in una danza terrificante, battevano il pavimento. Anche se il fiume non era profondo, quel posto era pericoloso. Da un angolo buio qualcosa rotolò verso di lui e Rory saltò, incurante delle conseguenze che il balzo poteva avere sulla casa scricchiolante. Quando la cosa arrivò nel punto illuminato dal sole, riconobbe l'oggetto verde e bianco e lo raccolse. Era un barattolo di piselli chiuso e con la latta ancora scintillante, con l'etichetta asciutta da cui gli sorrideva un gigante verde sopra un mucchio di puntini verdi. Per quanto fosse parecchio ammaccato e avesse i bordi sporchi per il continuo rotolare sul legno marcio, era solo un comunissimo barattolo di piselli. Aveva smesso di battere i denti anche se sentiva dei brividi attraversargli la schiena. Stringeva forte il barattolo, perché mentre lottava per prendere una decisione aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa. La casa continuava a tremolare, sia che si muovesse sia che stesse fermo. La cosa migliore da fare, pensò, era andare nella parte dove il tetto era più basso, infilare le mani attraverso le assi fragili e issarvisi sopra, tuffarsi non appena possibile e nuotare fino a riva. Le spalle gli dolevano ancora per la nuotata precedente, ma non aveva importanza, ce l'avrebbe fatta comunque a tornare. Era tempo di muoversi. Fece quindi scivolare il piede destro in avanti come un pattinatore, verso la fine del tetto. Il pavimento si inclinò. Poi, mentre stava spostando il piede sinistro, sentì dietro di sé un suono lieve e dolce, simile a uno sciabordìo. Si voltò. Nell'angolo da dove prima erano spuntati i piselli c'era qualcos'altro. Un raggio di sole obliquo penetrò attraverso il foro più grande del tetto e riuscì a vedere che si trattava di una specie di massa grigia che spiccava contro la parete buia. Non aveva tempo per esplorare. Fece di nuovo scivolare i piedi in avanti e, quando il pavimento si inclinò sotto di sé, la cosa grigia stridette. La casa intanto si era talmente piegata che, attraverso i buchi delle assi, vedeva l'acqua argillosa. Si allungò verso l'apertura, tenendo fermi i piedi e con una mano afferrò una trave mentre con l'altra batteva il barattolo di piselli contro le assi e il muschio. Dopo aver aperto un varco abbastanza largo da poterci passare, strinse la trave e tirò, scoprendo contemporaneamente che era salda e in grado di sostenere il suo peso. Si preparò a saltare. Non appena chiuse gli occhi, fu colpito da un'immagine: riusciva a issarsi senza fatica e a tuffarsi in acqua ma la casa, dopo essere balzata in aria, lo inseguiva, rovesciandosi infine su di lui come un cestino vuoto. Cercò di scacciare quella visione dalla mente, aprì gli occhi e gettò il ba-
rattolo di piselli nel fiume, poi si aggrappò alla trave con tutte e due le mani. Cercò di non pensare a niente e si spinse in avanti per saltare, ma gli tornò in mente l'immagine della casa capovolta e questa indecisione fece muovere ancora di più la casa, facendo oscillare e rotolare la massa grigia dietro a Rory su e giù sul pavimento, e poi ancora, fino a quando la massa gli avvolse le gambe e finalmente si fermò. Le mani aggrappate alla trave si irrigidirono, e rivolse gli occhi serrati verso il cielo. Le orecchie gli ronzavano e sentiva il proprio respiro affannoso. La massa avviluppata intorno alle gambe era pesante e, quando cercò di muovere il piede sinistro, si accorse di non riuscire a liberarlo. Per vedere come fare a divincolarsi, doveva per forza abbassare lo sguardo. Mentre lentamente cercava con gli occhi la cosa che gli impediva le gambe, la luce del sole illuminò in pieno la massa e alcuni particolari confermarono che si trattava di un corpo umano. Deglutì e disse «Sa-salve», ma non ci fu risposta; d'altronde nemmeno se l'aspettava. Spostò con cautela il piede destro e spinse, barcollando, ma quello sinistro rimaneva intrappolato. Scalciò forte, e un braccio della massa informe lasciò il suo piede e per un terribile attimo, prima di mettersi a urlare attraverso il foro del tetto, la vide in faccia. Dopo aver urlato convulsamente, iniziò a piagnucolare. Desiderava tuffarsi nell'acqua chiara e nuotare, ma la pozza si stendeva per diversi metri e il corpo ai suoi piedi, immerso nei suoi pensieri, lo teneva ancora imprigionato, tirandogli le gambe sott'acqua. Si allontanò strisciando dal foro per andare al lato estremo del portico, lontano dal suono dei movimenti del solaio. Se chiudeva gli occhi quella faccia gli si stampava fra le proprie palpebre, e se osava aprirli gli riappariva fra sé, il sole e l'acqua. Era un viso di donna, sfigurato da grandi segni rotondi e neri che si gonfiavano tutt'intorno. Incominciò a ridere istericamente e a piangere allo stesso tempo al pensiero che quella testa era stata spaccata da un barattolo di piselli. Doveva gridare per chiedere aiuto, non c'era nient'altro da fare; così iniziò a urlare più forte che poteva. La voce però era debole e strozzata dalla paura e le sue grida non erano abbastanza acute da poter essere sentite. La riva era molto lontana e vedeva che l'ombra del pioppo davanti alla casa dei nonni cominciava a coprire la facciata. Sollevò lo sguardo di scatto e si accorse che durante il tempo trascorso nel solaio il sole era quasi sceso all'orizzonte. Il fiume brillava ancora ma, una volta tramontato il sole, sarebbe diventato buio presto, e il fiume luccicante sarebbe stato riflesso dal-
la riva buia e poi offuscato. Sua nonna lo stava sicuramente cercando, era già passata l'ora di cena e sapeva che era giù al fiume, dove sulla spiaggia c'era ancora il suo asciugamano. Agitò le braccia, sperando che potesse vederlo in controluce, e urlò alcune volte. Non riusciva a scorgere nessuno, se non la luce soffusa della casa bianca e i colori giallo-verde degli alberi e dell'erba illuminati dal sole, con le ombre porpora che si allungavano sempre di più. Però c'era la polizia. Aveva i motoscafi e perfino al buio avrebbe potuto sentirli e vederne le luci. Poteva anche darsi che la casa dondolante non avrebbe aspettato, perché adesso scricchiolava continuamente, qualunque cosa fosse a muoversi. Cercò di nuovo di pensare a nuotare ma non poteva. C'era il rischio di continuare a nuotare in cerchio nel buio, senza riuscire a vedere la spiaggia, seguito dal corpo che aspettava di imprigionargli le gambe con il suo abbraccio mortale. Il sole ben presto diventò un cerchio rosso, sottile e scintillante dietro le colline, e il fiume era opaco e luccicante. Si guardò intorno, conscio che forse sarebbe stata l'ultima volta che vedeva quel paesaggio. Poi in lontananza scorse qualcosa, forse una barca, perché si stava muovendo. Urlò nella sua direzione, con la voce roca per l'acqua inghiottita e la paura. Avanzava velocemente, puntando verso la casa, più velocemente di quanto la corrente potesse permettere. Urlò di nuovo e agitò le braccia. Ce n'era più di una. Emersero cinque o sei puntolini, sicuramente barche. Smise di urlare, pensando che avrebbe dovuto sentire un grido di risposta, ma seguì solo il silenzio, non udì nemmeno un richiamo smorzato dal vento o il rumore di motori o di remi che lambivano l'acqua. Le barche venivano silenziosamente verso di lui e, mentre diventavano più grandi, un debole chiarore di luce mostrò che gli scafi avanzavano nell'acqua poco profonda e color dell'argilla che sembrava seguirle, e la brezza portò l'odore aspro e penetrante di cose da lungo sepolte, come la casa che dondolava dolcemente, e allora si inginocchiò nell'acqua come un cavallo ammaestrato che si inchina davanti al proprio cavaliere. Stephen King LA NOTTE DELLA TIGRE Stephen King, nativo del Maine, è uno scrittore i cui libri sono fra i più venduti nel mondo ed è oggi considerato il maestro indiscusso del genere orrorifico. Nei suoi racconti tratta abilmente temi e argomenti horror tra-
dizionali, ma esplora anche soggetti che appartengono alla fantascienza, come la telecinesi e la telepatia. I suoi racconti e romanzi, nonché i film che ne sono stati tratti, sono capolavori avvincenti i cui personaggi - sempre molto reali e credibili come del resto quello qui presente in La notte della tigre - vengono messi di fronte a situazioni che si trasformano e si intrecciano fino a mostrare i lati più inquietanti. La notte della tigre parla difatti di una vicenda oscura: è il racconto ossessionante di quello che capita in una notte tempestosa nel circo "All american 3" di Farnum & Williams. Vidi il signor Legere per la prima volta quando il circo passò per Steubenville, ma lavoravo in quel circo solo da due settimane, e non sapevo che quell'uomo poteva capitare tra noi all'improvviso per rimanerci non si sa per quanto. Nessuno era molto propenso a parlare di lui, nemmeno quella notte in cui sembrava stesse per arrivare la fine del mondo, la notte durante la quale Indrasil scomparve. È meglio però che vi racconti tutto dall'inizio, prima di tutto presentandomi. Mi chiamo Eddie Johnston, sono nato e cresciuto a Sauk City, dove sono andato a scuola, mi sono fatto la prima ragazza e, dopo avere preso il diploma, per un po' ho lavorato nel negozietto del signor Lillie. Tutto questo è successo alcuni anni fa, più di quanti a volte abbia voglia di ricordare. Non che Sauk City fosse un brutto posto, a qualcuno piace passare le notti d'estate calde e sonnolente seduto sotto il portico davanti a casa, ma a me veniva il prurito, come quando resti seduto per troppo tempo sulla stessa sedia. Così lasciai il negozietto e mi unii al circo "All American 3" di Farnum & Williams; penso di averlo deciso in un attimo di pazzia, in un momento in cui mi si annebbiò il cervello. Così diventai il tuttofare, aiutavo a rizzare e smontare i tendoni, spargevo la segatura, pulivo le gabbie e sostituivo il venditore di zucchero filato quando doveva fare l'imbonitore al posto di Chips Baily, che si era beccato la malaria e a volte andava in qualche posto appartato a lagnarsi. Tutto questo, in fondo, per avere il biglietto gratis, come quando ero bambino. Ma i tempi cambiano, e il passato non torna più indietro. In quella calda estate passammo per l'Illinois e l'Indiana; il pubblico era numeroso e tutti erano felici. A parte Indrasil, che non era mai contento. Era il domatore di leoni e assomigliava a Rodolfo Valentino, che avevo visto in certe vecchie fotografie. Era alto, con i lineamenti belli e arroganti, i capelli neri lunghi e incolti, e gli occhi strani, pazzi: gli occhi più folli che
abbia mai visto. Stava per lo più in silenzio, per lui due parole erano già una predica. Tutta la gente del circo si teneva a distanza da lui, perché le sue arrabbiature erano leggendarie. Si sussurrava che una volta, dopo uno spettacolo particolarmente difficile, avesse quasi ammazzato un giovane lavorante che gli aveva versato del caffè su una mano. Io non ero presente, ma quello che so è che imparai a temerlo più del mio capo, il signor Edmont - che aveva gli occhi gelidi -, del signor Lillie e persino di mio padre, che faceva lavate di capo terribili che ti lasciavano tremante di vergogna e sgomento. Pulivo le gabbie degli animali feroci sempre perfettamente, ma il ricordo delle poche volte che subii l'ira insultante di Indrasil ha ancora il potere di farmi tremare le ginocchia. Erano i suoi occhi che atterrivano, grandi, scuri e assenti, e la sensazione che avvertivi che qualcuno in grado di controllare sette belve diffidenti in una gabbia deve per forza essere un po' selvaggio anche lui. Aveva paura solo di due cose: del signor Legere e dell'unica tigre del circo, un bestione enorme di nome Green Terror. Come ho già detto, vidi Legere per la prima volta a Steubenville, intento a fissare Green Terror, quasi che la tigre conoscesse tutti i segreti della vita e della morte. Era un uomo magro, scuro e silenzioso. I suoi occhi profondi, incavati e screziati di verde, esprimevano dolore e violenza latente. Quando fissava pensosamente la tigre, teneva sempre le mani incrociate dietro la schiena. Valeva la pena guardare Green Terror: era un esemplare enorme e splendido, con il manto perfetto, gli occhi color smeraldo e zanne simili a lance d'avorio. I suoi ruggiti feroci, irosi e selvaggi, riempivano il circo e sembravano esprimere la propria sfida e frustrazione al mondo intero. Chips Baily, che solo il Signore sa da quando lavorava con Farnum & Williams, una volta mi disse che Indrasil aveva usato Green Terror nei suoi numeri fino alla sera in cui la tigre improvvisamente era saltata giù dalla pertica e, prima che lui riuscisse a uscire dalla gabbia, gli aveva quasi staccato la testa dal collo. Avevo infatti notato che Indrasil portava i capelli lunghi sulla nuca. Ricordo ancora la scena di quel giorno a Steubenville, quando notai per la prima volta lo strano rapporto esistente tra Legere e Indrasil. Faceva caldo, un caldo soffocante, e tutto il pubblico era in maniche di camicia. Legere, che se ne stava in silenzio vicino alla gabbia della tigre, indossava un vestito completo di panciotto e sul suo viso non c'era la minima traccia di sudore. Indrasil, con una delle sue bellissime camicie di seta e un paio di
pantaloni di tela, stava fissando tutti e due, con il viso pallidissimo, gli occhi gonfi di rabbia folle, odio e paura. Stringeva spasmodicamente con le mani tremanti una striglia e una spazzola. Improvvisamente mi vide, e la sua ira trovò uno sfogo. «Ehi,» urlò «Johnston!» «Sì signore?» risposi, sentendomi contorcere lo stomaco, perché sapevo che avrei subito l'ira di Indrasil e quel pensiero mi terrorizzava. Mi piace credere di essere un coraggioso e, se si fosse trattato di qualcun altro, penso che sarei riuscito a tenergli testa da solo, ma l'uomo che avevo di fronte era Indrasil, e i suoi occhi sembravano più folli che mai. «Johnston, pensi che queste gabbie siano pulite?» mi domandò puntando il dito, che io seguii con lo sguardo, verso quattro fili di paglia vaganti e una pozza d'acqua nell'angolo di uno dei recinti. Risposi: «S-sì, signore», con un tono che voleva essere fermo ma che si tramutò in tremante spavalderia. Silenzio, come negli attimi che precedono un acquazzone. La gente stava incominciando a guardare ed ero vagamente certo che Legere ci stesse fissando con i suoi occhi penetranti. «Sì, signore?» tuonò all'improvviso Indrasil. «Sì, signore? Sì, signore? Ragazzo, non insultare la mia intelligenza! Credi che io non ci veda o che il mio naso non funzioni? Hai usato il disinfettante?» «L'ho usato ie...» «Non ribattere!» urlò, e poi improvvisamente abbassò il tono di voce, facendomi accapponare la pelle e ripeté: «Non osare ribattere». A quel punto ci fissavano tutti e io desideravo solo vomitare o morire. «Adesso ti dai da fare con la ramazza, prendi il disinfettante e strofini le gabbie da cima a fondo» sussurrò, misurando ogni parola. All'improvviso alzò la mano e mi afferrò la spalla, dicendo: «E non contraddirmi mai, mai più». Non so da dove mi uscirono le parole, ma all'improvviso proruppero fuori. «Non l'ho contraddetta, signor Indrasil, e non mi va che lei lo dica. Mi-mi offende, e adesso mi lasci andare.» Improvvisamente dalla rabbia divenne paonazzo, poi bianco e infine quasi color zafferano. Gli occhi ardevano come le porte dell'inferno. In quel momento pensai d'essere sul punto di morire. Emise un suono inarticolato e mi strinse la spalla in modo atroce, Sollevò la mano destra lentamente... e poi l'abbassò a una velocità incredibile e, se mi avesse colpito la faccia, la miglior cosa che mi sarebbe potuta capitare sarebbe stata quella di stramazzare a terra privo di sensi mentre, nella peggiore delle ipotesi, mi avrebbe rotto il collo. Ma non mi colpì, perché proprio davanti a me, come per magia, si era materializzata dal nulla un'altra mano. I due arti in ten-
sione si incontrarono con uno schiocco. Era Legere, che disse calmo: «Lascia stare il ragazzo». Indrasil lo fissò per un lungo istante, e la cosa peggiore fu vedere negli occhi terribili di Legere la paura frammista al folle istinto di fare del male (o di uccidere). Poi Indrasil si girò e se ne andò via altezzoso. Mi voltai a guardare Legere e lo ringraziai, ma lui mi rispose: «Non ringraziarmi», con un tono da cui non trapelava modestia, ma un ordine, In un lampo d'intuizione, o di empatia se preferite, afferrai chiaramente cosa intendesse dire. Nella loro lunga lotta ero soltanto una pedina, e per questa volta ero stato preda di Legere anziché di Indrasil. Aveva fermato il domatore di leoni non tanto per aiutarmi, ma perché questo fatto gli procurava un vantaggio, anche se lieve, nella loro guerra privata. «Qual è il suo nome, signore?» gli domandai, per niente offeso da quanto avevo capito, perché se non altro quell'uomo era stato sincero. «Legere» rispose lui bruscamente, e fece per andarsene. «Lavora in un circo?» gli domandai ancora, per niente intenzionato a lasciarlo andar via così facilmente. «Sembra che lei... lo conosca.» Un debole sorriso gli increspò le labbra e per un attimo un po' di calore sembrò accendergli gli occhi. «No,» rispose «puoi considerarmi un poliziotto.» E, prima che potessi dire qualcosa, sparì nell'andirivieni degli spettatori. Il giorno dopo levammo le tende e continuammo il viaggio. Vidi di nuovo Legere a Danville e, dopo due settimane, a Chicago. Nel frattempo cercavo di evitare Indrasil il più possibile e lustravo le gabbie fino a renderle immacolate. Il giorno prima di partire per St. Louis, chiesi a Chips Baily e a Sally O'Hara, l'equilibrista dai capelli rossi, se Indrasil e Legere si conoscessero, anche se ne ero quasi certo, in quanto era difficile che Legere seguisse il circo solo per poter gustare il nostro favoloso gelato al limone. Sally e Chips si guardarono al di sopra delle loro tazze di caffè, poi lei mi disse: «Nessuno sa molto di quello che succede fra quei due, ma la storia va avanti da un bel po', forse sono vent'anni, da quando Indrasil capitò qui dopo i Ringling Brothers, e forse ancora prima». «Mi ha detto di essere un poliziotto» dissi. «Cosa pensate che cerchi qui? Pensate che Indrasil...?» Loro si guardarono in un modo strano, poi si alzarono. Sally disse: «Devo andare a vedere di mettere bene a posto quei pesi», mentre Chips bor-
bottò in modo non molto convincente che doveva andare a controllare l'asse del suo traino. I discorsi su Indrasil o Legere finivano così, in fretta e con scuse forzate. Salutammo l'Illinois e l'aria fresca allo stesso tempo, infatti un caldo soffocante sembrò assalirci nello stesso istante in cui passammo il confine e ci accompagnò per tutto il mese e mezzo seguente, man mano che ci spostavamo dal Missouri al Kansas. Tutti quanti, animali compresi, diventammo nervosi, e naturalmente anche i felini, di cui Indrasil era responsabile. Maltrattava i lavoranti, in particolar modo il sottoscritto. Sorridevo a denti stretti, anche se a volte mi trattenevo a stento, ma non puoi litigare con un pazzo, e io mi ero ormai convinto che tale fosse Indrasil. Nessuno riusciva a dormire, e questa è la maledizione di tutti gli artisti del circo. La mancanza di sonno rallenta i riflessi, e i riflessi lenti favoriscono il pericolo. A Indipendence Sally O'Hara cadde nella rete dopo un volo di duecento metri fratturandosi una spalla, e la nostra cavallerizza a pelo, Andrea Solienni, durante le prove cadde da uno dei suoi cavalli, perdendo i sensi per via di un colpo ricevuto casualmente da uno zoccolo vagante. Chips Baily soffriva in silenzio per la febbre che non lo abbandonava mai, con il viso che era una maschera di cera e il sudore freddo che gli si rapprendeva alle tempie. Sotto molti aspetti, Indrasil era quello ad avere il compito più difficile di tutti: infatti i felini erano nervosi e irascibili e, ogni volta che entrava nella gabbia di Demon Cat, come previsto dal suo numero, rischiava la propria vita. Poco prima di iniziare lo spettacolo nutriva i leoni con quantità eccessive di carne cruda, e questo, contrariamente a quanto pensa la gente, è una cosa che i domatori di leoni fanno raramente. Aveva il viso contratto, smunto, e gli occhi selvaggi. Legere era quasi sempre vicino alla gabbia di Green Terror, e lo osservava. Questo, naturalmente, rendeva le cose a Indrasil ancora più difficili. Il circo prese a tenere d'occhio la figura in camicia di seta ogni volta che passava nervosamente, e sapevo che tutti pensavamo la stessa cosa: "Prima o poi si spezza, e quando questo succederà...". Solo Dio poteva sapere cosa sarebbe successo nel momento in cui fosse capitato. Il caldo maledetto continuò, e ogni giorno il termometro segnava i quaranta gradi. Era come se gli dèi della pioggia ci prendessero in giro. Infatti ogni città che lasciavamo riceveva misericordiosi acquazzoni, mentre quel-
le in cui arrivavamo erano calde, roventi e soffocanti. Una notte, sulla strada fra Kansas City e Green Bluff, assistetti a una scena che mi sconvolse. Faceva caldo, un caldo terribile. Era inutile cercare di dormire. Mi rivoltavo nella branda come un uomo febbricitante in delirio, inseguendo il sonno senza mai riuscire ad afferrarlo. Alla fine mi alzai, infilai i pantaloncini e uscii. Ci eravamo fermati in un Campetto, mettendoci in cerchio. Io e gli altri due lavoranti avevamo scaricato le gabbie dei felini perché gli animali potessero prendere un po' d'aria e in quel momento si stagliavano argentee contro la luna piena del Kansas, e una figura alta, in pantaloni di tela bianca, era vicino alla più grossa: Indrasil. Stava tormentando Green Terror con una lunga asta appuntita. Il felino si muoveva felpato e silenzioso all'interno della gabbia, cercando di evitare la punta tagliente. La cosa spaventosa era che, quando l'asta le penetrava nella carne, la belva non ruggiva per il dolore o la rabbia come avrebbe dovuto fare, ma rimaneva in un silenzio minaccioso, per chi conosce i felini ancora più terrificante del ruggito più feroce. Anche Indrasil ne era colpito e borbottava: «Te ne stai zitta, eh? Bastarda». Poi le braccia potenti si piegarono e l'asta di ferro scivolò in avanti. Green Terror indietreggiò, con gli occhi che roteavano in modo orribile, senza emettere un suono. Indrasil sibilava: «Dài, guaisci, mostro. Guaisci!». E affondò l'asta nel fianco dell'animale. A quel punto vidi qualcosa di strano. Sembrava che un'ombra si muovesse nell'oscurità da uno dei carrozzoni più lontani, e che la luce della luna brillasse su occhi enormi, occhi verdi. Un vento freddo soffiò sulla radura, sollevando polvere e scompigliandomi i capelli. Indrasil alzò lo sguardo e sul suo viso apparve una strana espressione d'attesa; poi, all'improvviso, lasciò cadere l'asta, si girò e si diresse a lunghi passi verso la sua roulotte. Guardai il carrozzone, ma l'ombra era scomparsa. Green Terror era immobile vicino alle sbarre della gabbia e fissava la roulotte di Indrasil, e pensai che lo odiasse non tanto per la sua crudeltà o malvagità, perché la tigre nella sua mente rispetta queste qualità, ma perché rappresentava una deviazione perfino per il suo codice selvaggio. Indrasil era una canaglia, e l'unico modo in cui riesco a esprimermi è questo: non era solo una tigre umana, ma anche una canaglia di tigre. Questo pensiero prese forma nel mio cervello procurandomi ansia e paura. Tornai dentro, ma non riuscii a dormire. Il caldo continuava.
Ogni giorno andavamo arrosto, e ogni notte ci rivoltavamo nel letto, sudati e incapaci di prendere sonno. Tutti eravamo bruciati dal sole e si faceva a pugni per un nonnulla. Tutti quanti eravamo sul punto di esplodere. Legere rimaneva con noi, un osservatore silenzioso e in apparenza calmo, ma avvertivo in lui correnti profonde e impetuose... Odio? Paura? Vendetta? Non riuscivo a capirlo con precisione, ma ero sicuro che fosse potenzialmente pericoloso, forse ancora più di Indrasil, nel caso che qualcuno avesse urtato un suo punto debole. Assisteva a ogni spettacolo del circo e, nonostante la temperatura torrida, era sempre vestito in modo inappuntabile, con il completo marrone ben stirato. Stava silenzioso vicino alla gabbia di Green Terror, con cui sembrava comunicare in modo profondo; e infatti la tigre, quando lui le era accanto, era sempre quieta. Quando ci spostammo dai Kansas nell'Oklahoma la temperatura non si abbassò. Quasi ogni giorno qualcuno crollava per il caldo. Il pubblico cominciò a diminuire: chi poteva avere voglia di stare seduto sotto un tendone soffocante quando, proprio girato l'angolo, c'era un cinema con l'aria condizionata? Eravamo nervosi come bestie feroci, tanto per usare un paragone appropriato. Quando piantammo il tendone a Wildwood Green, nell'Oklahoma, penso che tutti sapessero che ci stavamo avvicinando a una specie di climax, e la maggior parte di noi sapeva anche che in esso sarebbe stato implicato Indrasil. Poco prima del nostro spettacolo d'apertura a Wildwood era successa una cosa strana. Indrasil si trovava nella gabbia di Demon Cat, per fare esercitare i leoni nervosi. Uno di loro, che era sul piedestallo, perse l'equilibrio, barcollò e stava per raddrizzarsi di nuovo quando, in quel preciso momento, Green Terror ruggì in modo da spaccare i timpani. Il leone cadde pesantemente a terra e improvvisamente si lanciò come un proiettile proprio contro Indrasil che, bestemmiando spaventato, gettò la sedia contro le zampe dell'animale facendolo inciampare e poi sfrecciò fuori proprio quando il leone si scagliava contro le sbarre. Indrasil stava riprendendosi tremante, prima di rientrare nella gabbia, quando Green Terror ruggì di nuovo, ma questa volta sembrava un sogghigno mostruoso e sprezzante. Indrasil fissò la bestia, pallido in viso, poi sì voltò e andò via. Per tutto il pomeriggio non uscì dalla propria roulotte. Quel giorno sembrava interminabile ma, siccome la temperatura saliva, tutti iniziammo a guardare speranzosi a ovest, dove si stavamo formando enormi banchi di nuvoloni che sembravano preannunciare la pioggia. «Forse piove» dissi a Chips, fermandomi vicino alla piattaforma davanti al circo, dove ogni sera lui invitava a gran voce la gente a entrare. Ma non
rispose al mio sorriso speranzoso, e invece disse: «Non mi piace. Non c'è vento e fa troppo caldo. Verrà la grandine e una tromba d'aria». Si scurì in viso. «Eddie, non è uno scherzo riuscire a superare bene un tornado con un branco di animali impazziti. Dopo avere passato la zona dei cicloni, ho ringraziato Dio più di una volta per il fatto che non abbiamo degli elefanti.» Poi aggiunse tristemente: «Sì, faresti meglio a sperare che quei nuvoloni restino all'orizzonte». Ma non fu così. Si mossero lentamente verso di noi, pilastri ciclopici nel cielo, di un cupo color porpora alla base e di uno spaventoso blu-nero attraverso il cumulonembo. Non soffiava un filo d'aria e il calore ci avvolse come un sudario di lana; di tanto in tanto in lontananza, a ovest, il tuono si schiariva la gola. Verso le quattro il direttore, il signor Farnum, proprietario di una metà del circo, arrivò e ci disse che quella sera non ci sarebbero stati spettacoli avvisandoci inoltre di prepararci in caso di emergenza e di cercarci un buco dove strisciare se fossero successi dei guai. Fra Wildwood e Oklahoma City, a circa quaranta chilometri da dove ci trovavamo noi, si erano addensate parecchie nuvole a forma di proboscide. Quando demmo l'annuncio, il poco pubblico presente guardava indifferente le esibizioni o ammirava gli animali. Legere non si era fatto vedere per tutto il giorno. L'unica persona vicino alla gabbia di Green Terror era un ragazzo sudato delle scuole superiori con un fascio di libri sotto il braccio, che se ne andò in fretta quando il signor Farnum riferì l'avvertimento della tromba d'aria in arrivo annunciato dal Servizio meteorologico. Io e gli altri due lavoranti trascorremmo il resto del pomeriggio a sbrigare i nostri compiti, assicurando i tendoni, caricando gli animali sui furgoni e facendo attenzione che tutto fosse a posto. Alla fine rimasero solo le gabbie dei felini, che richiedevano una procedura speciale. Ogni gabbia era munita di un ingranaggio a soffietto che, quando veniva allargato completamente, la univa a quella di Demon Cat. Quando dovevamo spostare e caricare le gabbie più piccole, i felini venivano raggruppati in quella più grande, che era fornita di enormi ruote girevoli che potevano muoversi in modo tale che ogni animale potesse poi tornare nella propria. A spiegarla così a parole, questa operazione suona complicata, e difatti lo era, ma era anche l'unico modo di procedere con quei bestioni. Sistemammo per primi i leoni, poi Ebony Velvet, la docile pantera nera che era costata al circo quasi quanto una stagione di incassi. Era veramente un lavoraccio blandire gli animali per farli uscire e poi convincerli a rien-
trare attraverso il soffietto, ma noi tutti preferivamo fare così piuttosto che chiedere l'aiuto di Indrasil, Prima che fossimo pronti a sistemare Green Terror, stava cominciando a diventare buio: un crepuscolo strano, umido e color giallo che era come sospeso intorno a noi. Il cielo aveva un aspetto brillante e uniforme che non avevo mai visto e che non mi piaceva per niente. «Meglio sbrigarsi» ci disse il signor Farnum, mentre eravamo impegnati a spingere la gabbia di Demon Cat verso il punto da dove potevamo agganciarla al retro di quella di Green Terror. «Il barometro sta scendendo rapidamente» aggiunse scuotendo la testa con aria preoccupata. «Si mette male, ragazzi, molto male» e se ne andò in fretta, continuando a scrollare il capo. Agganciammo il soffietto alla gabbia di Green Terror e aprimmo la parte posteriore, dicendole in tono incoraggiante: «Su, entra». La tigre mi guardò minacciosa e non si mosse. Il tuono brontolò di nuovo, più acuto, forte e vicino. Il cielo era diventato itterico, del colore più brutto che avessi mai visto. Un vento fortissimo ci strappava quasi i vestiti di dosso e faceva turbinare le scatole appiattite delle caramelle e i coni dello zucchero filato sparsi lì intorno. «Dài!» incitai, e la toccai con il bastone dalla punta smussata di cui ci servivamo per raggruppare gli animali. Green Terror ruggì in modo lacerante e con una zampa sferzò fulminea l'aria, strappandomi il bastone dalle mani, che andò in pezzi come un ramoscello. Poi sì rizzò sulle zampe e nei suoi occhi leggevo la furia omicida. «Sentite,» dissi tremante «uno di voi deve andare a chiamare Indrasil. Non possiamo aspettare.» Come per sottolineare le mie parole, il tuono rimbombò ancora più forte, simile allo schiocco di due mani gigantesche. Kelly Nixon e Mike McGregor fecero a testa e croce, escludendomi per via dello scontro che io avevo avuto con Indrasil. Toccò a Kelly. Ci gettò un'occhiata da cui traspariva che avrebbe preferito affrontare il temporale e poi partì. Passarono dieci minuti e vennero le sei. Il vento stava prendendo velocità e la luce del crepuscolo si affievoliva fino a tramutarsi in una notte strana. Ero spaventato e non ho nessuna reticenza ad ammetterlo. Il cielo burrascoso e uniforme, il circo deserto, i turbini violenti del vento, sono un ricordo che mi accompagnerà sempre, senza mai impallidire nella mia me-
moria. Green Terror, intanto, non si muoveva. Kelly Nixon tornò di corsa, con gli occhi sgranati. «Ho bussato alla porta per più di cinque minuti, ma non sono riuscito a svegliarlo!» disse ansante. Ci guardammo, senza sapere che pesci pigliare. Green Terror per il circo rappresentava un grosso investimento, e quindi non potevamo lasciarla all'aperto. Mi voltai confuso, in cerca di Chips, del signor Farnum o di chiunque potesse dirci cosa fare, ma erano spariti tutti, e perciò la responsabilità della tigre era solo nostra. Pensai anche di caricare noi stessi la gabbia sul carrozzone, ma non avevo nessuna voglia di infilare le dita tra quelle sbarre. «Be' non ci resta che andare a chiamarlo tutti e tre insieme» dissi alla fine. Ci mettemmo a correre verso la roulotte di Indrasil, nell'oscurità della notte che si avvicinava. Battemmo contro la porta di Indrasil fino a quando avrà pensato di avere tutti i diavoli dell'inferno alle calcagna, poi, grazie al cielo, la porta si spalancò. Indrasil barcollò e ci fissò con gli occhi cerchiati e lucidi per la gran quantità d'alcol ingurgitato. Puzzava come una distilleria. «Maledetti, lasciatemi solo!» ringhiò. «Signor Indrasil» iniziai, urlando per il lamento sempre più forte del vento. Non avevo mai sentito parlare, e nemmeno letto, di un temporale del genere, era come la fine del mondo. «Tu» disse, digrignando i denti, e abbassò la mano agguantandomi per il collo della camicia. «Sto per darti una lezione che non dimenticherai mai più.» Diede un'occhiata a Kelly e Mike, che si rannicchiarono contro le ombre del temporale, e disse: «Via!». Corsero via. Non me la presi con loro, ve l'ho detto, Indrasil era pazzo, ma non secondo il significato comune, era come un animale folle, come uno dei suoi felini impazzito. «Bene» borbottò, fissandomi con gli occhi simili ai lampi di un uragano. «Stavolta non hai amuleti o talismani» disse, storcendo le labbra in un sorriso orribile e selvaggio. «Non è qui, eh? Siamo della stessa pasta, io e lui. Forse gli ultimi due rimasti. È la mia nemesi e io sono la sua.» Stava divagando, non cercai di fermarlo. Perlomeno ero lontano dai suoi pensieri. «Mi ha messo contro quel felino, come nel '58. Ha sempre avuto più potere di me. Stupido, fortuna, potevamo fare fortuna insieme se non fosse così potente... Cos'è?»
Era Green Terror, che aveva iniziato a ruggire in modo lacerante. «Non avete rinchiuso quella maledetta tigre?» urlò, quasi in falsetto e scuotendomi come una bambola di pezza. «Non vuole entrare!» mi sorpresi a urlare. «Lei deve...» Mi scaraventò da una parte, facendomi barcollare sugli scalini ripieghevoli davanti alla sua roulotte e mandandomi a finire contro un mucchio di vecchie carcasse ai piedi del caravan. Mi passò vicino in fretta, mormorando qualcosa fra un singhiozzo e una bestemmia, con il viso contratto per la rabbia e la paura. Mi alzai e lo seguii come ipnotizzato. Il mio intuito mi suggeriva che stavo per assistere all'ultimo atto della tragedia. Senza il riparo della roulotte di Indrasil, il potere del vento era terribile. Ringhiava come un carro-merci a folle velocità e io mi sentivo una formica, un bruscolino, una molecola indifesa davanti a quella tonante forza cosmica. Legere era davanti alla gabbia di Green Terror. Sembrava una scena dantesca. La radura ormai quasi sgombra di gabbie fra il cerchio di carrozzoni, i due uomini che si scrutavano in silenzio, con il vento ululante che faceva sventolare i vestiti e i capelli, il cielo che ribolliva sopra le nostre teste e, sullo sfondo, i campi di grano sconvolti, come anime dannate davanti alla frusta di Lucifero. «È arrivata l'ora, Jason» disse Legere, e le sue parole sferzavano la radura. I capelli di Indrasil, selvaggi e sconvolti, si sollevavano intorno alla cicatrice livida dietro il collo. Strinse i pugni, ma non disse niente. Riuscivo quasi a percepire il suo sforzo di radunare la volontà, la forza vitale, la propria essenza, che lo circondò come un'aureola profana. E poi all'improvviso, inorridito, vidi che Legere stava sganciando il soffietto di Green Terror... e che il retro della gabbia era aperto! Urlai, ma il vento portò via le mie parole. La grande tigre uscì con un balzo, sfiorando Legere. Indrasil barcollò, ma non si mise a correre. Chinò il capo e fissò l'animale. E Green Terror si fermò. Girò il testone verso Legere e poi, lentamente, si voltò di nuovo verso Indrasil. C'era la sensazione terribile e palpabile di forze che agivano nell'aria, volontà in conflitto che erano accentrate sulla tigre, e che erano alla pari. Penso che alla fine, a far pendere la bilancia da una parte, furono la vo-
lontà di Green Terror e il suo odio per Indrasil. Il felino iniziò ad avanzare, gli occhi infuocati come fari abbaglianti, e a Indrasil cominciò a succedere qualcosa di strano. Sembrava ripiegarsi su se stesso, accartocciandosi a fisarmonica, la camicia di seta perse forma, e i capelli scuri e sferzanti divennero un fungo orrendo intorno al collo. Legere gli gridò qualcosa e, nello stesso istante, Green Terror saltò. Non vidi mai come andò a finire. Un attimo dopo stramazzai sulla schiena, con il fiato che sembrava essermi stato risucchiato dal corpo. Di sfuggita vidi un ciclone tremendo, furioso, a spirale, e poi tutto fu buio. Quando mi svegliai, ero nella mia branda vicino ai sacchi di granaglia nel carrozzone che serviva da magazzino e che conteneva un po' di tutto. Mi sentivo come se fossi stato picchiato con delle clave. Chips Baily si accostò al letto, il viso segnato e pallido, e, quando vide che avevo gli occhi aperti, sorrise di sollievo. «Non sapevo se ti saresti mai svegliato. Come ti senti?» «Tutto rotto» dissi. «Cos'è successo? Com'è che sono qui?» «Ti abbiamo trovato a terra vicino alla roulotte di Indrasil. Ragazzo mio, ancora un po' e la tromba d'aria ti portava via per souvenir.» L'accenno a Indrasil risvegliò i ricordi spaventosi che mi tornavano alla mente come una marea. «Dov'è Indrasil? E Legere?» Gli si scurirono gli occhi, e iniziò a rispondere evasivamente. «Parla chiaro» dissi, rizzandomi faticosamente sul gomito. «Devo sapere, Chips. Devo.» Qualcosa sul mio viso lo convinse a parlare. «Va bene. Ma non è quello che abbiamo detto ai poliziotti; anzi, a loro non abbiamo detto quasi niente, non c'è motivo che la gente pensi che siamo dei pazzi. Comunque, Indrasil è morto. Non sapevo nemmeno che Legere fosse qui in giro.» «E Green Terror?» Gli occhi di Chips divennero nuovamente indecifrabili. «Ha lottato fino alla morte con l'altra tigre.» «L'altra tigre? Non ce n'è un'altra...» «Si, ma ne hanno trovate due, ognuna nel sangue dell'altra. Una confusione infernale. Si sono strappate la gola a vicenda.» «Come... dove?» «Mah, noi abbiamo detto ai poliziotti che avevamo due tigri. Nient'altro.» Prima che potessi chiedere ancora qualcosa, se ne andò.
Questa è la mia storia, a cui però devo aggiungere due particolari. Prima di tutto, le parole che Legere urlò appena prima che arrivasse la tromba d'aria: "Indrasil, quando un animale e un uomo vivono nello stesso guscio, sono gli istinti che determinano lo stampo". L'altra cosa non mi fa dormire di notte. Chips me la confidò in seguito: mi disse che la tigre misteriosa aveva una lunga cicatrice dietro il collo. Brian W. Aldiss POVERO PICCOLO GUERRIERO! Brian W. Aldiss, di origine britannica, è uno scrittore, redattore, poeta e critico il cui lavoro ha avuto ampi consensi. Il suo ruolo nel campo della fantascienza è stato quello del pioniere; nelle sue prime opere ha infatti ripetutamente rotto con le convenzioni del genere, cercando nuovi approcci alle idee tradizionali e scrivendo con un gusto imbattibile. Sebbene Povero piccolo guerriero! sia soprattutto un racconto di fantascienza, il suo finale vi farà rabbrividire. Claude Ford, il protagonista, viaggia nel passato per cacciare selvaggina... di dimensioni enormi, per poi scoprire che non è così facile come aveva previsto. Claude Ford sapeva perfettamente come si cacciava un brontosauro. Si strisciava noncuranti nei fango fra salici e piccoli fiori primitivi con i petali verdi e marrone come un campo di calcio, nella mota morbida come una crema di bellezza. Si osservava di nascosto la creatura distesa fra le canne, con il corpo aggraziato quanto un calzino pieno di sabbia. Stava là, rannicchiata vicino alla palude con il corpo umido e coperto di peluria, muovendo a semicerchio sopra l'erba le narici grosse come una tana di coniglio, soffiando alla ricerca di canne più grandi. Era bellissima: l'orrore aveva raggiunto l'apice, completato il suo ciclo, per poi scomparire all'altezza dello sfintere. I suoi occhi luccicavano con la vivacità dell'alluce di un cadavere di una settimana, e il suo respiro che odorava di letame e il pelo delle sue primitive cavità auricolari erano particolarmente raccomandabili a tutti coloro che di consueto sarebbero stati inclini a parlare con amore del lavoro di madre natura. In quanto a te, piccolo mammifero con l'autocaricabile a 65 colpi, semiautomatico, doppia canna, computerizzato, a opposta digitazione, dotato di telescopio, inossidabile, con questo potente fucile nelle tue zampe che altrimenti sarebbero indifese, scivoli tra i salici del passato e quello che più
ti attira è la pelle terrificante della lucertola, che emana un profumo intenso quanto la nota bassa di un pianoforte e al cui confronto l'epidermide dell'elefante è simile a un foglio arricciato di carta igienica. È grigia come i mari dei Vichinghi, follemente profonda come le fondamenta di una cattedrale. Cosa, penetrandoti fino al midollo, potrebbe alleviare la febbre di quella carne? Da qui vedi i pidocchi color marrone, che scorrazzano sopra quel corpo e vivono fra quei muri e canyon grigi, allegri come fantasmi, crudeli come granchi. Se uno di questi insetti ti saltasse addosso, molto probabilmente ti romperebbe la schiena. Quando uno di questi si ferma per alzare la zampa e colpire una vertebra del brontosauro, vedi che ospita a sua volta il proprio carico di parassiti, grandi come aragoste, perché adesso sei vicino, così vicino che riesci a sentire il battito del cuore primitivo del mostro, cogliendo la miracolosa sincronizzazione del ventricolo con l'orecchietta. È passato il tempo di ascoltare l'oracolo: hai superato la fase dei presagi, ora tu sei pronto all'uccisione, tua o sua, la superstizione ha fatto il suo tempo, d'ora in poi le tue preghiere potranno essere esaudite solo dalla tua forza impaurita, ovvero da questa massa tremolante di aggrovigliati muscoli nascosti sotto la corazza della pelle madida di sudore, e da questo sottile e sanguinario impulso di uccidere il drago. Potresti sparare ora. Aspetta finché questa testa simile a un escavatore a vapore sia di nuovo ferma per ingoiare un'enorme quantità di giunchi di palude, e con una detonazione indescrivibilmente volgare potrai mostrarti all'intero mondo del Giurassico che sta guardando con indifferenza la bocca del fucile del cacciatore sessualmente evoluto. Tu sai perché ti fermi, anche se fai finta di non saperlo; il vecchio tarlo della coscienza, lungo come un campo di baseball e longevo come una tartaruga, è al lavoro; scivola attraverso i sensi, più mostruoso di un serpente. Attraverso le passioni, dicendoti che è un facile bersaglio, o inglese! Attraverso l'intelligenza, sussurrandoti che la noia, sparviero mai sazio, si ripresenterà una volta portato a termine il compito. Attraverso i nervi, ricordandoti con scherno che quando le correnti di adrenalina cesseranno di fluire in te, inizierà la nausea. Attraverso il maestro dietro la retina, plausibilmente forzando la bellezza di quella vista su di te. Risparmiaci quella povera parola, vecchia e sentimentale, bellezza: mamma! questo è da documentario, noi non ne siamo fuori? «Appollaiate sul dorso di questa gigantesca creatura, vediamo adesso un'intera - gente, permettetemi che sottolinei un'intera - dozzina di uccelli vistosamente piumati, che esibiscono tutti i colori che ci si aspetterebbe di trovare sulla
bellissima, favolosa spiaggia di Copacabana. Sono così rotondi perché si nutrono degli avanzi che cadono dalla tavola del ricco. Bel colpo, guardate! Vedete la coda del brontosauro che si alza... Fantastico, almeno due nidi emergono dall'estremità inferiore del brontosauro. Che spettacolo, gente, direttamente da consumatore a consumatore. Gli uccelli stanno lottando. Ehi, tu, ce n'è per tutti e, comunque, tu sei già abbastanza rotondo... E adesso non ci rimane che tornare sulla vecchia bistecca di culaccio e aspettare il prossimo giro. Adesso, mentre il sole tramonta nell'occidente del Giurassico, noi diciamo: "Addio alla dieta...".» No, tu stai temporeggiando, è tutta una vita che lo fai. Spara all'animale e caccialo fuori dalla tua angoscia. Facendoti coraggio, ora sollevi il fucile fino all'altezza della spalla e prendi la mira socchiudendo gli occhi. Una detonazione terribile ti lascia semistordito. Vacillando, ti guardi intorno. Il mostro mastica ancora, sollevato per aver liberato abbastanza vento per strappare dalla bonaccia il Vecchio Marinaio. Irritato (o è un'emozione più sottile?), balzi fuori dai cespugli e lo affronti, e questa condizione allo scoperto è una tipica difficoltà a cui ti espone continuamente la considerazione di te stesso e degli altri. Considerazione? O è di nuovo qualcosa di più sottile? Dovresti essere confuso solo perché provieni da una civiltà confusa? Ma questo è un punto da trattare più avanti, se ci sarà un seguito, perché questi due occhi da maiale ora ti osservano vicinissimi, cercando di ribattere. E che non sia con le sole fauci, o mostro, ma anche con i grandi zoccoli e, se ti converrà, rotolandoti enorme, su di me! Che la morte sia una saga, sagace, fato di Beowulf. Da quattrocento metri di distanza ti arriva il rumore di una dozzina di ippopotami che emergono tumultuosamente dal fango ancestrale, e; un secondo dopo un'enorme coda, lunga come la domenica e consistente come la notte del sabato, arriva fendendo l'aria sopra la tua testa. Ti abbassi, ma l'animale ti avrebbe mancato comunque, perché la sua coordinazione non è migliore di quanto lo sarebbe la tua se dovessi muovere il Woolworth Building con un tarsio. Dopodiché, sembra che lui abbia compiuto il suo dovere. Ti dimentica. Vorresti scordarti di te stesso altrettanto facilmente; è questo, dopo tutto, il motivo per cui sei venuto fin quaggiù. "Fuggi da tutto", diceva l'opuscolo pubblicitario del viaggio nel tempo, che per te significava fuggire da Claude Ford, un agricoltore inutile come il suo nome, con una moglie terribile di nome Maude. Maude e Claude Ford. Non potevano adattarsi a se stessi, l'uno all'altro, o al mondo nel quale erano nati. Nel mondo attuale-così-costituito, era questo il motivo più valido per tor-
nare qui a caccia di sauri giganti pensando stupidamente che centocinquanta milioni di anni potessero rappresentare una gran differenza nella confusione di pensieri dentro il vortice cerebrale di un uomo. Cerchi di arrestare i tuoi sciocchi e sdolcinati pensieri, ma non si sono mai realmente fermati dai giorni della tua crescita complice la coca; oh, se l'adolescenza non esistesse, non sarebbe necessario inventarla! Ti costringi a guardare di nuovo l'enorme mole di questo tiranno vegetariano, alla cui presenza tu ti sei saturato di questo misto desiderio di morte e di vita e di tutta l'emozione di cui l'orga(ni)smo umano è capace. Questa volta l'orco è reale. Claude, proprio come volevi che fosse, e questa volta devi affrontarlo realmente prima che sia lui a voltarsi e ad affrontarti di nuovo. E così sollevi di nuovo il fucile, aspettando finché non prendi di mira il punto vulnerabile. Gli uccelli splendenti si agitano, i pidocchi scappano come cani, la palude geme, mentre il brontosauro si sposta tremolante e manda il suo piccolo cranio a serpeggiare sotto l'acqua color della bile alla ricerca di cibo. Osservi tutto questo; non sei mai stato così nervoso in tutta la tua nervosa vita, e speri che questa catarsi sprema l'ultima goccia di pungente paura per sempre fuori dalla tua mente. Continui a ripeterti come un matto: "Okay, la tua istruzione del ventiduesimo secolo costata milioni di dollari non serve a niente, okay, okay". E mentre lo dici per l'ennesima volta, la testa aliena emerge fuori dall'acqua come un messaggero rinnegato e guarda nella tua direzione. Bruca nella tua direzione, e mentre la mandibola che mastica con i suoi grandi molari smussati come pali di calcestruzzo lavora su e giù, fu vedi il corso d'acqua paludosa che deborda straripando e straripa debordando, spruzzandoti i piedi e bagnando il terreno. A intermittenza sono visibili in quelle fauci la canna e la radice, lo stelo e il gambo, la foglia e la terra, e fra loro pesciolini, piccoli crostacei, rane che si dimenano, si sparpagliano, si sballottano, tutti destinati a questo orribile movimento di mandibole che si trasformerà in guizzi di viscere. E mentre il gnam-gnam-gnam ha luogo, al di sopra gli occhi inattaccabili dalla fanghiglia ti sorvegliano nuovamente. "Questi animali vivono fino a duecento anni" recita l'opuscolo del viaggio nel tempo, e questo ha cercato di non essere da meno, ed è ovvio dal suo sguardo vecchio di secoli, pieno di decadi e decadi di rotolii trascorsi nella sua pesante sconsideratezza fino al raggiungimento di una compiaciuta saggezza.
Per te è come guardare dentro uno stagno velato di nebbia che ti turba; provocandoti uno shock psichico, fai fuoco da entrambe le canne in direzione del tuo riflesso. Bang-bang, dum-dum, grandi come i paff-paff che seguono. Senza alcuna indecisione, queste luci vecchie di secoli, tenui e sacre, si spengono. Questi chiostri sono chiusi fino al giorno del giudizio universale. La tua immagine riflessa è lacerata e insanguinata per sempre. Sopra i loro vetri distrutti, le membrane nittitanti scivolano lentamente verso l'alto, come lenzuola sporche su un cadavere. La mandibola continua a masticare lentamente, e altrettanto lentamente la testa affonda. Lentamente una spruzzata di freddo sangue rettile sporca il lato rugoso di una guancia. Tutto è lento, di una lentezza strisciante, da Era Secondaria, come lo sgocciolìo dell'acqua, e sai che se tu fossi stato incaricato della creazione, avresti trovato per rappresentarla un mezzo meno straziante del Tempo. Non importa! Bevete dalle vostre coppe: signori, Claude Ford ha ucciso una creatura indifesa. Lunga vita a Claude il Predatore! Guardi senza fiato mentre la testa e il lungo collo toccano il terreno, le mandibole chiuse per sempre. Guardi e aspetti che qualcos'altro accada, ma non accade nulla. Mai più niente. Lord Claude, potresti rimanere qui a guardare per centocinquanta milioni di anni, ma non accadrà niente di nuovo. La possente carcassa del tuo brontosauro, mangiata completamente dai predatori, affonderà lentamente nella fanghiglia, sotto il suo stesso peso; poi l'acqua salirà e il vecchio Mare Conquistatore arriverà con l'aria tranquilla di un baro che distribuisce ai compagni le carte di una mano truccata. Limo e sedimenti si infiltreranno nella tomba imponente, e scenderà una pioggia lenta per secoli. Il letto del vecchio brontosauro verrà sollevato e posato forse una mezza dozzina di volte, abbastanza delicatamente per non disturbarlo, anche se prima di allora le rocce sedimentarie avranno formato intorno a lui uno spesso strato. Finalmente, quando verrà messo in una tomba più sontuosa di quella che un qualsiasi rajah indiano potrà mai vantare, le forze della Terra lo solleveranno sulle loro spalle e il brontosauro, sempre immerso nel sonno, giacerà sull'orlo delle Montagne Rocciose, sopra le acque del Pacifico. Ma poco di questo ti riguarda, Claude la Spada; una volta che nel teschio della creatura il verme minuscolo della vita è morto, il resto non conta più nulla. Non avverti nessuna emozione. Sei stato messo da parte. Ti aspettavi il tonfo tremendo sul terreno o l'urlo dell'animale; d'altronde sei contento che
apparentemente il mostro non abbia sofferto. Sei come tutti gli uomini crudeli, sentimentale; sei come tutti gli uomini sentimentali, schifiltoso. Metti il fucile sotto il braccio e giri intorno al dinosauro per vedere la tua vittoria. Ti aggiri furtivamente dietro agli zoccoli sgraziati, intorno al bianco settico del ventre simile a una scogliera, oltre la caverna luccicante e provocante (come l'avevi pensata) della cloaca, e infine mettendoti in posa sotto la sinuosa coda. Ora il tuo disappunto è freddo e chiaro come un biglietto da visita: il gigante non è grande la metà di quanto pensassi. Non è grande la metà, per esempio, dell'immagine di te e Maude che è nella tua mente. Povero piccolo guerriero, la scienza non inventerà mai niente che consenta di assistere alla titanica morte come desideri negli anfratti misteriosi del tuo io goffamente pauroso! Non ti rimane che svignartela verso il mezzo del tempo con il ventre pieno di delusione. Guarda, i vivaci uccelli consumatori di sterco hanno già capito il vero stato delle cose; a uno a uno raccolgono le loro ali arcuate e volano sconsolati oltre la palude verso altri ospiti. Sanno quando una cosa volge al peggio e non aspettano che gli avvoltoi li caccino; lasciate ogni speranza, voi ch'entrate. Te ne vai anche tu. Tu giri, ma ti fermi. Non ti resta che tornare indietro, no, ma il 2181 d.C. non è solo l'anno in cui normalmente vivi, è Maude; è Claude. È il tentativo terribile, infinito e senza speranza di provare ad adattarti a un ambiente ultracomplesso, di cercare di tramutarti in una rotella dell'ingranaggio. La tua fuga nelle "Grandiose semplicità del Giurassico", per citare di nuovo l'opuscolo, è stata solo temporanea, ora è finita. Così ti fermi, e mentre ti fermi qualcosa atterra proprio sulla tua schiena, gettandoti di nuovo a faccia in giù nel fango sapido. Lotti e gridi mentre le chele del granchio ti dilaniano il collo e la gola. Cerchi di afferrare il fucile ma non ci riesci, così nell'angoscia ti giri e, un secondo dopo, un altro granchio si butta avidamente sul tuo petto. Colpisci il guscio, ma quello se ne ride e ti morde le dita. Quando hai ucciso il brontosauro, non hai pensato al fatto che i suoi parassiti l'avrebbero abbandonato, e che per un omiciattolo quale sei sarebbero stati molto più pericolosi del loro ospite. Fai del tuo meglio, scalciando per almeno tre minuti. Alla fine una schiera di quelle creature è su di te. Stanno già divorando accuratamente la tua carcassa. Ti piacerà lassù, in cima alle Montagne Rocciose; non sentirai nulla.
Robert Bloch NINA Sebbene Robert Bloch scriva dal 1934, il suo nome evoca immediatamente le immagini di quel moderno capolavoro dell'orrore che è Psycho (1959), da cui Alfred Hitchcock trasse il suo film ormai divenuto un classico. Bloch è uno scrittore brillante e raffinato, capace di tendere i nervi del lettore fino al limite massimo. I racconti dell'orrore spesso utilizzano l'accorgimento di presentare cose o persone che nella realtà non sono quello che sembrano e, in Nina, Robert Bloch sfrutta questo modulo ambientando il racconto nella giungla calda e umida del Sudamerica, spaventandoci a morte con quanto è realtà e apparenza insieme. Dopo avere fatto l'amore, Nolan aveva di nuovo bisogno di bere. Cercò tentoni la bottiglia a fianco del letto, afferrandola poi con le mani sudate. Aveva tutto il corpo madido e appiccicaticcio e, quando svitò il tappo, gli tremavano le dita. Si domandò se gli stesse per venire un altro attacco di febbre; poi, mentre il calore del sole gli bruciava lo stomaco, comprese la verità. Nina era la causa di tutto. Nolan si girò e diede un'occhiata alla ragazza sdraiata al suo fianco, che guardava in alto, attraverso i giochi di ombre, con gli occhi socchiusi, imperturbabili al di sopra degli alti zigomi, e il corpo sottile e scuro rilassato e immobile. Era difficile credere che solo pochi minuti prima questo stesso corpo si dimenasse e contorcesse con un appetito insaziabile, afferrandolo e avvolgendolo fino a lasciarlo svuotato ed esausto. Le porse la bottiglia e le chiese: «Vuoi da bere?», ma lei scosse la testa, con gli occhi socchiusi e assenti, e poi Nolan si ricordò che non parlava l'inglese. Sollevò la bottiglia e bevve di nuovo, maledicendosi per il proprio errore. Era stato un errore, solo ora lo capiva, ma Darlene non lo avrebbe mai compreso. Al sicuro, nell'appartamento confortevole di Trenton, non poteva sapere cosa aveva passato per lei e il piccolo Robbie. Robert Emmett Nolan II, suo figlio di nove mesi, che non aveva mai visto. Aveva accettato l'ingaggio della Compagnia impegnandosi per un anno perché la paga era buona, sufficiente per mantenere Darlene nell'agiatezza e tirare avanti al suo ritorno. A causa della gravidanza non aveva potuto
seguirlo, quindi era partito da solo, non immaginando la fatica che lo attendeva. C'era da ridere; da quando era arrivato, non aveva fatto che lavorare sodo, All'alba doveva perlustrare la piantagione, poi caricare tutto il giorno i mercantili che scendevano il fiume e, verso sera, quando la notte calava sul bungalow imprigionandolo al limitare del muro buio della giungla, gli capitava di non riuscire a tenere gli occhi aperti sulle sue carte. Di notte, inoltre, arrivavano i rumori: il ronzio degli sciami d'insetti, il grido dei caimani, il respiro rumoroso e collerico del pecari, lo schiamazzo continuo delle scimmie mescolato allo stridore di migliaia di stupidi volatili. Così aveva iniziato a bere. Prima il buon bourbon proveniente dalle scorte della Compagnia, poi il passabile gin in commercio, e adesso il rum a buon mercato. Mentre Nolan posava la bottiglia sentì il rumore che temeva più di tutti: l'eco infinito dei tamburi che proveniva dalle capanne ammassate più in basso, sulla riva del fiume. Ecco che quei miserabili ricominciavano, non c'era poi da stupirsi se tutto il giorno dovesse continuamente pungolarli per fare fronte alle richieste della Compagnia, anzi era incredibile che comunque riuscissero a fare qualcosa dopo avere passato tutta la notte a lamentarsi su quei dannati tamburi. Naturalmente era Moises che in realtà si occupava di loro, in quanto Nolan non riusciva nemmeno a sgridarli come si deve perché erano troppo maledettamente stupidi per capire anche l'inglese più semplice. Come Nina, che adesso era vicino a lui. Nolan guardò di nuovo la ragazza raggomitolata al suo fianco, silenziosa e soddisfatta. Non era sudata, ma al tatto la pelle era stranamente fredda, e nei suoi occhi c'era qualcosa di misterioso; la stessa aria enigmatica che Nolan aveva notato la prima volta che l'aveva vista, tre giorni prima, intenta a fissarlo ai bordi del villaggio. Inizialmente aveva pensato fosse la moglie, la figlia o la sorella di qualcuno della Compagnia. Quel pomeriggio, tornando al bungalow, la sorprese di nuovo a fissarlo sul limite della radura, così chiese a Moises chi fosse, ma lui non lo sapeva. Sembrava fosse arrivata a valle un giorno o due prima, su una zattera rudimentale, proveniente da qualche luogo dove la giungla, che si stendeva per migliaia di chilometri, era più fitta. Non sapeva l'inglese e, a quanto diceva Moises, non parlava né lo spagnolo né il portoghese. Non che lei avesse tentato di comunicare in qualche modo, si teneva infatti in disparte, dormendo sulla zattera attraccata alla riva al di là del fiume, e di giorno non si avventurava nemmeno allo spaccio della Compagnia per acquistare le provviste.
«Indio» disse Moises, pronunciando la parola con tutto il disprezzo di uno nelle cui vene correva un miscuglio formato per il dieci per cento dal sangue orgoglioso dei conquistadores. «Chi siamo per sapere come sono i selvaggi?» aveva aggiunto, stringendosi nelle spalle. Anche Nolan aveva alzato le spalle scacciando dalla mente il pensiero di quella donna. Quella notte però, mentre era sdraiato sul letto e ascoltava il suono martellante dei tamburi, pensò di nuovo alla ragazza e sentì l'eccitazione percorrergli i lombi. Quasi come se il suo desiderio fosse stato un muto invito, lei si presentò nella sua stanza, simile a un'ombra che scivola fuori dalla notte. Entrò silenziosa, lasciando cadere l'unico indumento che portava per poi fermarsi a fissarlo ai piedi del letto. Poi, quando si buttò sul corpo nudo di Nolan abbracciandogli le cosce, il desiderio in lui divenne un palpito violento e il martellare del sangue alla testa sommerse l'eco dei tamburi. Il mattino dopo era sparita, ma al calare della notte tornò. Era stato allora che l'aveva chiamata Nina; non era il suo nome, ma aveva sentito il bisogno di identificare in qualche modo quella sconosciuta dall'ampia bocca e dalla lingua rosea, che soddisfaceva il proprio desiderio su di lui e gli placava l'eccitazione febbrile, ripetutamente, mentre il respiro di lei, come un sibilo, gli vellicava le orecchie. Mentre Nolan dormiva si era di nuovo dileguata, e per tutto il giorno non l'aveva vista, ma percepiva di essere osservato segretamente da lei, e scendeva su di lui una sensazione gelida come un'ombra ben definita, con la certezza che quella notte sarebbe di nuovo tornata. In quel momento, mentre si sentiva in lontananza il suono dei tamburi, Nina dormiva, incurante del fragore e della sua presenza, con gli occhi socchiusi, sazia come un animale sonnolento. Nolan si strinse nelle spalle. Ecco cos'era, un animale. Mentre riposava, il corpo bruno e flessuoso era allungato in modo grottesco, e la bocca ampia accentuava la bruttezza del viso. Come aveva potuto accoppiarsi con questa creatura? Nolan ebbe una smorfia di disgusto e distolse lo sguardo. Non importava più ormai, si disse, ormai era finita, una volta per tutte. Quel giorno era arrivato il messaggio da Belem, che diceva che Darlene e Robbie erano sulla nave, pronti per prendere il volo che li avrebbe portati a Manaus. Il giorno dopo avrebbe disceso il fiume per andarli a prendere e accompagnarli lì. Aveva avuto qualche dubbio sull'opportunità che loro lo raggiungessero, perché avrebbero dovuto affrontare tre mesi in quel buco maledetto prima che l'anno fosse finito, ma Darlene aveva insistito. Ora
Nolan sapeva che la moglie aveva ragione in quanto, se non altro, sarebbero stati insieme, e questo l'avrebbe aiutato a capire di più se stesso. Non avrebbe avuto più bisogno della bottiglia, e nemmeno di Nina. Nolan era supino e aspettava di addormentarsi, scacciando dalla mente il suono dei tamburi e la figura simile a un'ombra stesa accanto a lui. Ancora poche ore, si disse, e, il mattino dopo, l'incubo sarebbe finito. Il viaggio per arrivare a Manaus fu massacrante, ma si concluse fra le braccia di Darlene. Era più bionda e più bella di quanto la ricordasse e la scoprì più affettuosa e tenera di quanto l'avesse mai conosciuta, e il rapporto sessuale che ebbero, a suggello della loro riunione, lo appagò totalmente. Non c'era naturalmente traccia della fame avida delle carezze avvolgenti di Nina, né dei movimenti forsennati fino al delirio finale. Ma non importava, finalmente erano insieme. Loro due e Robbie. Robbie era stato una rivelazione. Nolan non aveva previsto l'intensità della propria reazione, ma adesso, dopo il lungo e faticoso viaggio di ritorno sulla scialuppa, era fermo accanto alla culla e guardava suo figlio, sentendosi travolgere da un'ondata d'orgoglio. «Non è adorabile?» disse Darlene. «Ti assomiglia proprio.» «Sei troppo parziale» rispose Nolan sorridendo, ma era lusingato; e, quando la manina rosea simile a una conchiglia si sollevò e incontrò le sue dita, si sentì fremere di commozione. Improvvisamente Darlene spalancò gli occhi e Nolan, alzando in fretta lo sguardo, disse: «Cosa c'è?». Darlene, fissando qualcosa vicino a lui, rispose: «Niente, mi era sembrato di vedere qualcuno fuori della finestra». Nolan seguì il suo sguardo: «Non c'è nessuno qui fuori» e, avvicinatosi alla finestra, sbirciò nella radura, aggiungendo: «Non un'anima». Darlene si passò una mano davanti al viso e disse: «Penso di essere troppo stanca, il lungo viaggio...». Nolan l'abbracciò. «Perché non ti sdrai?» le consigliò. «Mama Dolores può badare a Robbie.» Darlene esitò. «Sei sicuro che sappia cosa fare?», e Nolan rispose ridendo: «Senti, senti! Non la chiamano Mama a caso, ha avuto dieci figli. Adesso è in cucina che prepara il latte artificiale di Robbie. Vado a chiamarla». Così Darlene passò nell'entrata e andò in camera da letto per riposare in pace, e Mama Dolores si occupò di Robbie, mentre Nolan fece le ispezioni
quotidiane nella piantagione. Il caldo era soffocante, peggiore di qualsiasi cosa riuscisse a ricordare. Persino Moises boccheggiava in cerca d'aria mentre lanciava la jeep a tutto gas sulla carreggiata, scrutando la caligine luccicante. Nolan si asciugò la fronte. Forse era stato troppo precipitoso a far venire Darlene e il bambino. Ma un uomo aveva il diritto di vedere il proprio figlio e di lì a pochi mesi sarebbero usciti per sempre da quella miserabile prigione. Non c'era bisogno di innervosirsi, tutto si sarebbe sistemato. All'imbrunire però, quando tornò al bungalow, Mama Dolores lo accolse sulla porta con aria preoccupata. «Cosa c'è?» le chiese Nolan. «Non sta bene Robbie?» Mama scosse la testa. «Dorme come un angelo,» mormorò «ma la señora...» Darlene era sdraiata in camera, tremante e con gli occhi chiusi. Muoveva di continuo il capo sul cuscino, anche quando Nolan le posò il palmo della mano sulla fronte. «Febbre» disse Nolan, e fece un cenno a Mama. La vecchia donna tenne ferma Darlene mentre lui te introduceva il termometro fra le labbra. La colonnina rossa si spostò lentamente verso l'alto. «Quaranta.» Nolan si raddrizzò in fretta. «Va' a chiamare Moises. Digli che voglio la barca pronto. Dobbiamo portarla dal dottore a Manaus.» Darlene spalancò gli occhi; aveva sentito. «No, non puoi! Il bambino...» «Non si preoccupi. Baderò io al piccolo.» La voce di Mama era confortante. «Ora deve riposare.» «No, per favore...» La voce si affievolì fino a diventare un balbettìo incoerente, e poi Darlene cadde su! guanciale. Nolan le tenne la mano sulla fronte, che scottava come un forno. «Rilassati, amore. Va tutto bene. Ti accompagnerò io.» E così fece. Se il primo viaggio era stato massacrante, questo fu un'agonia, una corsa forsennata nella notte torrida sul fiume coperto di vapore. Moises sudava sul comando del gas, mentre Nolan teneva le spalle tremanti di Darlene contro il pagliericcio a poppa della lancia oscillante. Arrivarono a Manaus all'alba e andarono a casa del dottor Robales, vicino alla piazza, e lo svegliarono. Darlene fu visitata, portata all'ospedale, sottoposta a esami e poi ci fu il responso. Niente di grave, disse il dottor Robales, e non c'era bisogno di allarmarsi. Con una cura adatta e il riposo si sarebbe rimessa, una settimana all'ospedale e...
«Una settimana.» Nolan alzò il tono di voce. «Devo tornare per il carico. Non posso stare qui così tanto!» «Non c'è bisogno che lei rimanga, señor. Sua moglie sarà curata da me personalmente, glielo assicuro.» Era una magra consolazione, ma Nolan non aveva scelta ed era troppo stanco per protestare, troppo stanco per preoccuparsi. Una volta sulla via del ritorno a bordo della lancia, si stese sul pagliericcio e sprofondò in un sonno simile alla morte. Si svegliò al suono dei tamburi, mettendosi a sedere di scatto con un grido spaventato, poi capì che era scesa la notte e che erano di nuovo all'ancora di fianco al molo. Moises gli rivolse un sorriso di esausto trionfo. «Quasi non ce la facevamo» disse. «Il motore è andato. Pazienza: è bello essere di nuovo a casa.» Nolan annuì, allungando gli arti indolenziti. Scese sul molo, poi si mise a correre lungo il sentiero che tagliava la radura, mentre il buio diventava sempre più fitto. Casa? Quell'angolo infernale, con il rimbombo dei tamburi e le ombre che saltavano e facevano capriole davanti a fuochi tremolanti? Tutte meno una. Infatti mentre Nolan avanzava, un'altra ombra scivolava di fianco al bungalow nell'oscurità più cupa. Era Nina. Nolan sgranò gli occhi quando la vide ferma che lo fissava. Lo sguardo sul suo viso e il desiderio non potevano essere equivocati, ma non aveva tempo da sprecare in parole. Le passò accanto ignorandola, affrettandosi a raggiungere la porta, e lei tornò a confondersi nella notte. Mama Dolores lo aspettava dentro, abbozzando un saluto con la testa. «Robbie... sta bene?» «Sì, señor. È stato in buone mani. Por favor, vorrei dormire nella stanza del piccolo.» «Bene.» Nolan si voltò e fece per andare nell'ingresso, poi esitò quando Mama Dolores corrugò la fronte. «Cosa c'è?» le chiese. La vecchia donna esitò. «Si offende se parlo?» «Naturalmente no.» La voce di Mama divenne un sussurro. «Riguarda quella di fuori.» «Nina?» «Non è il suo nome, ma non ha importanza» disse scuotendo il capo. «Sono due giorni che aspetta là. L'ho vista con lei adesso, e anche prima...»
«Questi non sono affari tuoi!» Nolan arrossì, «Inoltre, adesso è tutto finito.» «Ma lei lo sa?» Lo sguardo di Mama era serio. «Deve dirle di andarsene.» «Ho tentato. Ma la ragazza viene dalle montagne e non parla l'inglese...» «Lo so» rispose annuendo. «È del popolo dei serpenti.» Nolan la fissò. «Lassù adorano i serpenti?» «No, non li adorano.» «Allora, cosa vuoi dire?» «Questa gente... sono serpenti.» Nolan si scurì in volto. «Cosa stai dicendo?» «La verità, señor. Questa che lei chiama Nina... questa ragazza... non è una ragazza. Appartiene all'antica stirpe delle alte cime, dove vivono i grandi serpenti, I suoi uomini, persino Moises, conoscono solo la giungla, ma io sono nata nella grande valle ai piedi delle montagne e fin da bambina ho imparato a temere chi si annida lassù. Noi non ci andiamo, ma a volte è il popolo dei serpenti che viene da noi. In primavera, quando si svegliano, cambiano la pelle e per un po', prima che le squame ricomincino a crescere, sono freschi e puliti. È in quel periodo che scendono per accoppiarsi con gli uomini.» Continuò a parlare, sussurrando di creature metà rettili e metà umane, con corpi freddi al tatto, membra in grado di contorcersi fino a spremere il respiro fuori da un uomo e schiacciarlo come le spire di un boa gigante. Parlò di lingue biforcute, di voci sibilanti emesse da bocche incredibilmente larghe su mascelle mobili. E sarebbe andata avanti se Nolan non l'avesse fermata, con la testa che gli pulsava per la stanchezza. «Può bastare» disse. «Ti ringrazio per il tuo interessamento.» «Ma lei non mi crede.» «Non ho detto questo.» Stanco com'era, Nolan ricordava ancora la regola principale: mai contraddire questa gente e prendersi gioco delle loro superstizioni. E adesso non poteva permettersi di inimicarsi Mama. «Sarò prudente,» le disse seriamente «ma adesso devo riposarmi. E voglio vedere Robbie.» Mama Dolores si coprì la bocca con la mano. «Mi sono dimenticata del piccolo... è solo...» Si girò e si diresse velocemente verso l'ingresso, subito seguita da Nolan. Entrarono nella sua cameretta in tempo. «Ah!» sospirò di sollievo Mama. «Il pobrecito dorme.»
Robbie riposava nella culla e un raggio di luna, che entrava dalla finestra, gli illuminava il visino. Dalla bocca simile a un bocciolo di rosa usciva un sonoro e regolare respiro. Nolan sorrise quando lo sentì, poi si rivolse a Mama: «Adesso vado a letto. Prenditene cura». «Non me ne andrò.» E Mama si sistemò in una sedia a dondolo accanto alla culla. Nolan si girò per uscire dalla stanza ma lei lo richiamò dolcemente: «Señor, si ricordi di quello che le ho detto. Se la ragazza torna...». Nolan si incamminò verso la propria camera in fondo alla casa. Aveva cercato di evitare una replica per non essere maleducato; dopo tutto Mama aveva parlato con buone intenzioni, ma lui era troppo maledettamente stanco per sopportare un'altra sciocchezza dalla vecchia donna. In camera sua qualcosa produsse un lieve fruscio. Nolan trasalì, poi si fermò quando l'ombra scivolò in avanti dall'angolo più buio vicino alla finestra aperta. Nina era davanti a lui completamente nuda. Nuda e con le braccia aperte a invitarlo. Nolan indietreggiò di un passo. «No» disse. Lei venne avanti, sorridendo. «Vattene, fuori di qui.» Le fece cenno di uscire. Il sorriso di Nina svanì e dalla gola le uscì un rantolo supplichevole. Allungò le mani... «Dannazione, lasciamo solo!» Nolan la schiaffeggiò, Non era che un ceffone, e non poteva averle fatto molto male, ma improvvisamente le si contrasse il viso in una smorfia d'odio e si avventò contro di lui, allargando le dita cercando di raggiungere gli occhi. Questa volta Nolan la colpì più forte, abbastanza da farla vacillare all'indietro. «Fuori!» disse, e la spinse con forza verso la finestra aperta, sollevando la mano minacciosamente ogniqualvolta Nina sputava mostrando tutta la propria rabbia; infine lei afferrò il proprio indumento, scavalcò il davanzale e scomparve nel buio. Nolan rimase vicino alla finestra a guardarla mentre attraversava la radura. Per un attimo si girò illuminata dalla luna e lo fissò, un secondo soltanto, ma sufficiente per potere scorgere la furia livida che le ardeva negli occhi. Poi scomparve, scivolando nella notte. In lontananza si sentivano i rim-
bombi sordi dei tamburi. Se n'era andata, ma l'odio era rimasto, e Nolan ne avvertì la forza quando si stese sul letto, Avrebbe dovuto spogliarsi, ma era troppo stanco. La testa gli pulsava terribilmente, dolendogli al ritmo dei colpi sui tamburi. L'odio era anche nel suo cervello. Dio, quella faccia! Come quella cosa mitologica, cos'è che era? Ah, la Medusa. Con uno sguardo impietriva gli uomini. I suoi riccioli erano serpenti vivi. Ma quelle erano leggende, come le storie di Mama Dolores sul popolo dei serpenti. Strano... davvero ogni razza aveva le proprie credenze su quelle creature? Era possibile che quei racconti contenessero qualche elemento di verità, anche se grottesco e distorto? Adesso non voleva pensarci, non voleva pensare a niente, né a Nina, né a Darlene, e neanche a Robbie. Darlene sarebbe guarita. Robbie stava bene e Nina era sparita. Adesso era solo con i tamburi. Maledetti colpi. Dovevano smettere, dovevano piantarla, così avrebbe potuto dormire... Fu il silenzio che lo svegliò. Si sedette di scatto, rendendosi conto di avere dormito per ore, perché le ombre fuori della finestra erano screziate di rosa e di grigio, i colori dell'alba. Nolan si alzò, stiracchiandosi, e uscì nell'ingresso. Lì le ombre erano più scure e tutto era silenzioso. Si incamminò lungo il corridoio verso l'altra camera da letto. La porta era accostata e Nolan la varcò, sussurrando: «Mama Dolores...». La lingua gli si gelò sul palato. Anche il tempo si fermò quando vide la cosa maciullata e spappolata distesa scompostamente vicino alla sedia a dondolo; gli occhi vuoti sporgevano dalla faccia gonfia e color porpora. Non serviva chiamarla di nuovo, non avrebbe mai sentito. E Robbie... Nolan si girò nel silenzio agghiacciante e scrutò le ombre dall'altra parte della stanza. La culla era vuota. Poi ritrovò la voce e riuscì a urlare, e urlò di nuovo quando vide la finestra aperta e la radura grigia. Si precipitò alla finestra, la scavalcò e cadde sull'erba. Attraversò correndo la radura, gli alberi e lo spiazzo davanti alla riva del fiume. Moises era sulla lancia e stava lavorando vicino al motore. Quando Nolan corse verso di lui urlando, l'uomo alzò lo sguardo. «Cosa fai qui?» gli chiese Nolan. «C'è il problema al motore, richiede molta attenzione. Sono venuto presto, prima che il caldo...»
«L'hai vista?» «No, señor.» «La ragazza... Nina...» «Ah sì. L'indio.» Moises annuì con il capo. «Se n'è andata con la sua zattera, ha risalito il fiume. Due, forse tre ore fa, proprio quando sono arrivato.» «Perché non l'hai fermata?» «Per quale motivo?» Nolan fece un gesto veloce. «Accendi quel motore, la inseguiamo.» Moises si accigliò. «Come le ho detto, bisogna ripararlo. Forse questo pomeriggio...» «Ma allora non la raggiungeremo mai!» Nolan gli strinse la spalla. «Non capisci? Ha preso Robbie!» «Señor, si calmi. L'ho vista andare verso la zattera con i miei occhi ed era sola. Lo giuro. Non aveva il piccolo.» Nolan pensò all'odio negli occhi di Nina e rabbrividì. «Allora che cosa ne ha fatto?» Moises scosse la testa. «Questo non lo so. Ma sono sicuro che non ha bisogno di un altro bambino.» «Di cosa parli?» «Ho visto in che condizioni è, mentre camminava verso la zattera.» Moises si strinse nelle spalle ma, prima ancora che parlasse, Nolan aveva capito. «Señor, perché mi guarda così? Non è normale che una donna si ingrossi quando porta un bambino in grembo?» J. Michael Reaves WEREWIND (IL VENTO LICANTROPO) La California è un paese dalle tante contraddizioni: da una parte c'è lo sfavillio dell'industria cinematografica, del sole, del divertimento e del richiamo delle spiagge; dall'altra l'oscurità del sangue sparso da Charles Manson, gli assassini della Zebra, il sottofondo sinistro di culti e riti strani, In Werewind J. Michael Reaves unisce entrambi questi aspetti, presentandoci un racconto pieno di suspense che parla di un attore disoccupato e di una catena di strani omicidi che avvengono a Hollywood, misteriosamente concomitanti all'ostinata tempesta di vento Santa Ana.
«...Attenzione, siete tutti invitati a tenervi lontano dalle strade, in particolar modo dalle litoranee e da quelle adiacenti le zone del canyon. Il vento soffia a settanta chilometri all'ora, e gli incendi di Tujunga e Beverly Glen non sono ancora stati domati. Vi terremo costantemente aggiornati circa le condizioni del tempo sulle autostrade di Angeles Crest e Grapevine. Ripetiamo, non mettetevi in viaggio a meno che non sia assolutamente necessario. «Passando alle altre notizie, vi informiamo che la quinta vittima dello Scotennatore di Hollywood è stata identificata come Karen Lacey, un'attrice di ventidue anni. La serie di omicidi collegata al mondo dello spettacolo quindi continua...» Simon Drake abbassò il volume dell'autoradio quando improvvisamente sentì il motore della vecchia Crysler lamentarsi. Trattenendo il respiro, uscì dall'Hollywood Boulevard e svoltò in una strada laterale, e un attimo dopo il motore si spense e la macchina giunse per inerzia a uno stop vicino a un parcheggio deserto. «Oh, Cristo!» Simon girò più volte la chiavetta nel cruscotto, ma l'unico risultato fu un rantolo sinistro del motorino d'avviamento. Si abbandonò contro il sedile bollente foderato di sky, e guardò le palme sul Sunset mosse dal vento. «Ci siamo» mormorò. «Ho perso la parte.» Fece una smorfia di disgusto e sussultò allorquando sulle labbra screpolate si produsse una piccola lacerazione. Aveva trentatré anni e novantuno dollari in banca. Era in ritardo con il pagamento dell'affitto, e il gestore del "Cahuenga Liquor Store", quando aveva chiesto di assentarsi dal tavolo per l'ennesimo colloquio d'assunzione, gli aveva detto di non preoccuparsi di tornare. E ora, per colpa del motore, avrebbe perso quel provino, e probabilmente la parte, che voleva più di ogni altra cosa al mondo. Simon diede un pugno al volante. Il sudore gli appannò la vista. Dentro la macchina faceva un caldo soffocante, anche perché aveva i finestrini chiusi nonostante ci fossero quaranta gradi all'ombra, ma era impossibile guidare diversamente durante una bufera di Santa Ana, quando le raffiche di vento secco e infuocato sferzano con violenza le strade. Simon si guardò intorno. Lì non c'era nessuno e solo poche persone attraversavano l'incrocio all'Hollywood Boulevard. Il vento teneva la gente chiusa in casa. Un giornale fu squarciato in due dall'antenna della macchina. Il vento ululava. Soffiava da sei giorni, e non si sarebbe di certo calmato adesso solo perché
luì doveva andare a telefonare. Sospirando aprì la portiera, spingendola contro il vento con i suoi ottanta chili. Gli occhi dietro le lenti da sole cominciarono a lacrimare. Le folate di vento gli scompigliavano la permanente suggeritagli dal suo agente. L'aria aveva l'odore di fumo e il cielo era in gran parte coperto da nuvole nere che provenivano dagli incendi all'interno del canyon. Simon, mentre camminava verso il viale, piegato contro il vento, pensò che la luce sinistra del sole di quel giorno fosse proprio quella più consona alla sua vita. Guardò l'orologio e si rese conto che non ce l'avrebbe più fatta a raggiungere in tempo i Marathon Studios. Soffocò uno sbadiglio. La notte prima, a causa del doberman dei vicini che aveva abbaiato al vento fino all'alba, non aveva dormito un granché. Guardò le macchine che avanzavano con prudenza, un furgone Dodge aveva tagliato la strada a una Mercedes e la vecchietta al volante dell'autovettura suonò il clacson urlando una maledizione all'indirizzo dell'altro conducente. Simon, mentre la osservava, aveva messo il piede su un chewing-gum e se ne liberò imprecando nello stesso modo. "Il vento attizza la collera, come fa con gli incendi nel canyon" pensò. Simon però sentiva che aveva comunque molti altri motivi per non essere calmo. Era arrivato a Los Angeles da New York cinque anni prima con il diploma di una buona scuola di recitazione e una solida esperienza lavorativa nei settori pubblicitario e teatrale. Lo affascinavano i film dell'orrore; la sua ambizione era infatti quella di diventare il nuovo Boris Karloff. Fino a quei momento però era riuscito a barcamenarsi faticosamente con qualche particina negli show televisivi del sabato mattina e una parte in una parodia sui vampiri con un modesto stanziamento di fondi per la sua realizzazione. Si era aspettato che fosse dura e di dover lottare, ma non per cinque anni... Vicino a una bancarella di hot dog vide un telefono a gettoni. Mise nella fessura l'ultima moneta da dieci centesimi e fece il numero. L'odore di grasso degli hot dog gli ricordò che non aveva fatto colazione e che neppure aveva pranzato. Il mese precedente aveva vissuto in gran parte grazie ai soldi del lavoro part time, che erano appena bastati per pagare l'affitto, le fotografie e le copie del curriculum vitae, così erano due settimane che non riempiva il frigorifero. Proprio in quel periodo, però, Martin Knox stava producendo un film dell'orrore e Simon, grazie alle insistenze del proprio agente, era stato preso in considerazione per la parte. Knox fin dall'inizio non era apparso molto convinto ma, dopo numerosi provini, Simon era ancora nella rosa dei
candidati... ma adesso, lo era ancora? Nell'ambiente cinematografico il carattere di Martin Knox era più che noto; inoltre, era risaputo che non gli piaceva attendere. Simon voleva quella parte e non solo per motivi economici. Era sicuro che con quel personaggio avrebbe potuto vincere un Oscar, il primo per il ruolo principale in un film dell'orrore dopo Dr. Jekyll e Mr Hyde di Fredric March, del 1931. Mentre attendeva che il centralino dello studio gli passasse la comunicazione, guardò i turisti e la gente del posto. I fricchettoni di Hollywood sarebbero comparsi in massa una volta scesa la notte, ma alcuni di loro già sfidavano il caldo e il vento. I Krishna con i loro tamburelli e i fricchettoni di Gesù con i loro libretti si squadravano con attenzione. Hippy invecchiati, con i lunghi capelli che cominciavano a diventare grigi, passavano strascinando i piedi. Naturalmente c'erano quelli talmente strani da sfuggire a qualsiasi descrizione. Simon era sicuro che lo Scotennatore di Hollywood, al confronto, sarebbe sembrato un tipo del tutto insipido. Vide Trapper Jake avvicinarsi: era un uomo anziano, ma ancora alto e massiccio, con i lunghi capelli intrecciati, un coltello Bowie e una borsa; indossava vestiti di pelle scamosciata cuciti a mano e, nonostante le apparenze, era un tipo simpatico. Una volta, mentre Simon e una ragazza erano in attesa di sapere quali fossero le battute loro assegnate in un film, li aveva intrattenuti piacevolmente raccontando loro di essere stato allevato dagli orsi nello Yosemite. Si voltò appoggiandosi alla cabina, quel giorno non aveva voglia di sentire nessun racconto da Trapper Jake. Martin Knox rispose al telefono: «Salve, Simon». A causa del vento la voce si sentiva appena. «Come mai non è ancora qui?» Sembrava seccato. «Problemi alla macchina, signor Knox. Speravo di poter fissare un altro appuntamento...» «Capisco.» Per un momento nessuno parlò. Simon riusciva a immaginarsi Knox vividamente, seduto dietro la scrivania come un gufo, con gli occhi semichiusi. «Be', temo che non sia necessario, Simon. Penso che sceglieremo un altro attore. Nei provini lei sembra troppo basso per questa parte.» Simon strinse convulsamente la cornetta tra le dita: «Sono uno e ottanta» disse. «È però anche in ritardo.» lì telefono fece clic, e poi si sentì il segnale di linea libera. Simon riattaccò lentamente, controllando l'impulso di sbattere la cornetta sulla forcella, non permettendosi nemmeno nessuna reazione, impeden-
dosi di pensare a quanto intensamente avesse desiderato quella parte e a cosa avrebbe potuto farne. "Allora vuoi fare i film, eh?" si disse. Si frugò in tasca e tirò fuori una monetina solitaria. La guardò, rendendosi conto che non poteva nemmeno chiamare un carro-attrezzi. Improvvisamente strinse la mano sulla moneta, piantandosi le unghie nel palmo. Una folata di vento colpì la cabina abbastanza forte da far tremare il telefono, che gorgogliò e sputò una moneta nella vaschetta di restituzione. Simon la tirò fuori e la guardò soffocando l'impulso improvviso e fortissimo di ridere. "Cristo" pensò. "Spuntano anche i miei dannati debiti." Chiamò il carro-attrezzi, poi rimase fermo a fissare l'Hollywood Boulevard, sentendo il desiderio di incontrare qualcuno di sua conoscenza con cui poter parlare. In cinque anni si era fatto pochi amici. Di solito era troppo occupato per sentire la mancanza di compagnia, e tutto il suo tempo era assorbito dal lavoro e dal tentativo di trovare una parte adatta alle sue ambizioni. A volte, però, la solitudine gii faceva maledettamente male. Le ondate di calore che si alzavano dalle strade, quando non venivano spazzate via dal vento, davano al luogo un aspetto tremolante e sognante. Qualche volta gli sembrava che tutta Los Angeles fosse un miraggio popolato da fantasmi. Lo stesso terreno era instabile, soggetto com'era ai terremoti, e la principale risorsa della città era la fantasia. Simon rimaneva fermo, sopraffatto dalla solitudine e da una sensazione d'irrealtà. Un rumore forte e improvviso, provocato da una lattina spinta dal vento, gli fece fare un nervoso balzo all'indietro, andando così a sbattere contro qualcuno. Si sentì afferrare energicamente e fu costretto a voltarsi. «Ma guardi dove diavolo metti i piedi?» gli urlò una voce, e fu spinto violentemente contro la bancarella degli hot dog, dove lo spigolo aguzzo del banco gli si conficcò nella schiena. Simon, mezzo stordito dalla sorpresa e dal dolore, vide che era stato quel simpaticone di Trapper Jake a spingerlo. Il vecchio gigante, che per la barba e la pelle scamosciata assomigliava davvero all'orso che a quanto raccontava l'aveva allevato, si stava avvicinando a Simon. Aveva la faccia collerica per la rabbia e teneva i pugni alzati. I passanti, incuriositi, si fermarono per assistere alla scena. Simon si mise a correre, passando vicino alla cabina telefonica, verso l'angolo di un palazzo. Jake cambiò direzione per intercettarlo, ma in quel momento una folata di vento particolarmente violenta rovesciò un bidone dei rifiuti strapieno, spargendo la spazzatura sul marciapiede su cui c'erano le impronte dei divi. Jake scivolò su un piatto di carta sporco di salsa al peperoncino e andò a finire a testa in giù nell'immondizia, tra il diverti-
mento generale dei clienti del banco di hot dog. Simon non aspettò di vedere il seguito, svoltò l'angolo e continuò a correre lungo la strada laterale deserta. Sembrava quasi che il vento lo aiutasse, sollevandolo in grandi balzi simili a quelli che gli astronauti compiono sulla luna quando camminano. Continuò a correre, preso dal panico, con i gomiti che si muovevano vigorosamente e con i polmoni che succhiavano l'aria crepitante. La paura unita alla fame lo sfinirono rapidamente. Raggiunse il parcheggio vuoto vicino alla sua macchina, inciampò nella stessa catena che lo delimitava e cadde. L'asfalto bollente, coperto dalla cenere degli incendi, gli bruciacchiò la guancia e le braccia. Gemendo per il dolore, rotolò fino all'ombra di un edificio di mattoni lì vicino. Rimase fermo per alcuni minuti, singhiozzando per il male provato e la rabbia, scorticandosi le mani mentre colpiva l'asfalto ruvido per la stizza. Doveva pur esserci una fine a quel periodo sfortunato... in un modo o nell'altro sarebbe riuscito a uscirne fuori. Si ripromise, rendendosi conto di tutte le volte che già l'aveva fatto ma mai demordendo dal proposito, che in qualche maniera avrebbe fatto di quel momento la svolta della propria vita. Voleva recitare, mangiare tre volte al giorno e, come ultima cosa, desiderava vedere il suo nome sul marciapiede delle stelle. E agognava quella parte più della vita stessa. La voleva, e intendeva averla. Il vento adesso sembrava soffiare più forte. Simon si guardò intorno. Nella cabina del custode del parcheggio non c'era nessuno. Contro il muro li vicino si trovava un grosso bidone dei rifiuti e, dal grande magazzino, un manichino con la testa spaccata e un occhio solo gli sorrideva. Il sole, simile a un riflettore schermato di gelatina rossa, illuminava la scena con una luce color porpora. Simon avvertì di nuovo la sensazione indefinita di sogno avvolgere ogni cosa. Sentiva il vento, ma allo stesso tempo gli sembrava lontano. Si percepiva un senso di solitudine e attesa. Il vento ululava. Nel parcheggio c'era un polverone infernale, un turbine di aria calda e secca che raccoglieva la spazzatura e la cenere fine e bianca degli incendi facendole girare vorticosamente e che, invece di arrestarsi, continuava a ruotare sempre più velocemente. Il mulinello cominciò a restringersi, i rifiuti che l'avevano formato volarono via, lasciando così solo la polvere e la cenere e, dopo un po', nemmeno quelli; e infine rimase solo un vortice d'aria argentea che diventava sempre più compatto. Stava assumendo sembianze umane. Il vento non accennava a diminuire, ma non disturbava la figura che ro-
teava velocemente. La tensione intorno a Simon era soffocante. Era una donna. Sembrava più giovane di Simon, era nuda e aveva i capelli argentei e la pelle cerea. Anche se era corporea, appariva eterea, come se potesse offuscarsi o diventare trasparente se osservata da un altro punto. Il viso era meraviglioso, ma per un motivo ignoto Simon non riusciva a distinguerne chiaramente i lineamenti. Gli occhi erano grandi e vuoti, come monete d'argento non incise. Gli sorrise. Sarebbe stato un sorriso toccante, ma gli occhi inespressivi lo rendevano orrendo. Era un sorriso che esprimeva un ardente desiderio, gratitudine, e attesa finalmente appagata. Fece due passi verso Simon, che indietreggiò contro il muro, mentre dalla gola gli usciva un grido strozzato. Lei esitò, e poi una folata di vento la ghermì, facendola girare come una ballerina, sempre più velocemente, fino a quando i capelli diventarono una macchia argentea sempre più piccola e le linee del corpo si sciolsero come trucco sbiadito. Scomparve, e nel parcheggio Simon rimase solo, in compagnia dell'urlo del vento. Naturalmente aveva avuto un'allucinazione, questa era l'unica spiegazione possibile. Considerando lo stress a cui era stato sottoposto, era strano che non avesse visto una bestia alta ventimila metri. Simon continuava a ripeterselo, a cominciare da quando uscì zoppicando dal parcheggio e andando avanti a pensarlo per tutto il giorno. Prima di sera se n'era quasi convinto. Allucinazione o meno, in quel luogo si era fatto una promessa. Non intendeva lasciarsi scappare la parte nel film di Knox. La sera dopo era stato invitato a una festa e sapeva che ci sarebbe andato anche Martin Knox e forse avrebbe potuto convincerlo a tornare sulla sua decisione. Era arrivato tardi alla casetta immersa nel labirinto di Laurel Canyon. Era stato quasi sul punto di non andarci, perché il pensiero di affrontare Knox gli procurava effetti spiacevoli allo stomaco, ma doveva fare quello sforzo, anche perché, oltretutto, non gli capitava spesso di ricevere degli inviti. Sulla porta, Jon Shea, l'anfitrione della festa, gli porse un bicchiere. Anche lui faceva l'attore, era alto e ben messo, e frequentava la sua stessa palestra. «Come va, Simon?» gli chiese. «Sembri un po' stravolto.» «Non ho dormito molto, ultimamente» Simon gli rispose. «Il cane dei vicini mi tiene sveglio tutta la notte.» Con Jon si sentiva sempre un po' a
disagio, perché avvertiva il bisogno di giustificarsi alla minima osservazione che questi gli faceva. Jon aveva solo un anno più di lui ma, come emigrante da New York, aveva fatto molta più strada: tre film e, al momento, era il protagonista di una serie televisiva; per questo Simon ce l'aveva con lui, e si odiava per quello che provava. «Questo vento maledetto mi tiene sveglio» disse Jon. «Mia nonna dice che, sai lei viene dal vecchio mondo...» Simon si ricordò allora che qualche tempo prima, quando l'agente di Jon ancora non gli aveva suggerito un cambiamento, il suo nome era stato più lungo e pieno di consonanti «comunque, dice che un vento del genere è diabolico, uno spirito maligno. Ehi, stai bene?» Simon si era fermato nel corridoio e si era appoggiato contro la parete di legno di sequoia. «Bene. Questa roba è solo un po' forte... cosa diceva tua nonna del vento?» «Oh, lei conosce molte altre vecchie storie.» Simon guardò il soggiorno pieno di gente. «Adesso devo fare il padrone di casa. Ci sono un mucchio di donne, trovatene una.» Poi, prima che Simon potesse fermarlo, Jon se ne andò. Simon attraversò lentamente la casa, piccola ma confortevole, evitando i gruppetti di invitati, avvertendo ancora il gelo che gli aveva stretto lo stomaco quando Jon gli aveva raccontato la teoria che sua nonna aveva del vento. Pensò all'apparizione nel parcheggio. Coincidenza, si disse, sillabando mentalmente la parola, ripetendola come fosse stata una formula magica. Coincidenza, una parola rassicurante da conoscere. La musica da discoteca accompagnava il battito del suo cuore. A tratti si sentiva, al di sopra della musica, il rumore del vento che faceva sbattere le finestre. Simon, quando si fermò sulla soglia della sala da gioco, si passò il bicchiere fresco sulla guancia. Sul tavolo da biliardo, dove Knox stava facendo l'ultimo giro, era sospesa una lampada e dal soffitto pendeva un ventilatore. Quando la biglia andò in buca, molti spettatori applaudirono. L'unica a non guardare era una donna con i capelli corti e neri, che giocava con una machine Pachenko nell'angolo più lontano. Knox sollevò il bicchiere in risposta all'applauso e si avviò verso la porta, seguito da un uomo corpulento vestito di nero. Simon respirò profondamente e, quando Knox stava per oltrepassarlo, fece un passo in avanti. «Signor Knox» disse con un sorriso, e quello fu tutto quello che riuscì a proferire prima che una mano robusta lo afferrasse per il braccio, con le dita che toccavano facilmente il pollice. Simon guardava l'uomo che accom-
pagnava Knox: era molto grosso, con la faccia malconcia e leggermente annoiata. Un paio di occhiali con la montatura di corno nero lo fissavano in modo sorprendentemente assurdo. «Va tutto bene, Daniel» disse Knox. Simon sentì la presa sul braccio che si allentava. Si ricordò che una settimana prima, quando erano iniziati gli omicidi dello Scotennatore, molta gente dello spettacolo aveva assunto guardie del corpo. «Grazie» disse a Knox, riuscendo a tenere il sorriso stampato sulle labbra. «Volevo solo parlare ancora una volta a proposito di quella parte nel suo film.» La faccia di Knox era del tutto inespressiva. «Cos'è che voleva sapere esattamente?» Il sorriso lasciò il posto a uno sguardo serio. Gli attraversò il pensiero che quello fosse il momento più difficile della sua vita. «Sinceramente spero di convincerla a ripensarci. Mi sento adatto a quel personaggio.» La faccia di Knox era immobile, come un'inquadratura bloccata. «Penso che sia troppo tardi. È stato scelto Terrence Froseth. Ho già parlato con il suo agente...» Simon non sapeva chi fosse Terrence Froseth, e nemmeno gli interessava. Nonostante si rendesse conto che insistere su quel discorso fosse da maleducati, proseguì ugualmente. «Non è mai troppo tardi» disse con veemenza. «Dopotutto, Gable non era stato subito scelto per Via col vento, così come Karloff per la parte del mostro in Frankenstein.» «Lei sceglie bene le sue compagnie» disse Knox asciutto. «Devo ammettere che la sua insistenza è ammirevole, anche se avrebbe bisogno di imparare un po' di buone maniere... Se per qualsiasi ragione Froseth non dovesse accettare la parte, forse ne parleremo ancora. Questo è tutto quello che posso dirle.» Si inoltrò per il corridoio. Daniel lo guardò freddamente, e poi seguì Knox. Nella stanza qualcuno alzò il volume di un piccolo televisore e il locale risuonò delle notizie del telegiornale. «Questa sera è stato domato l'ultimo incendio a Topanga. Ripetiamo, rispetto a ieri il vento è aumentato leggermente e guidare l'auto è ancora rischioso. «La polizia non ha fornito le generalità dell'ultima vittima dello Scotennatore di Hollywood, ma ha confermato che si tratta di un regista. È la sesta vittima in altrettanti giorni...» Tutti avevano smesso di parlare e quelli che si trovavano nella stanza si erano raggruppati intorno all'apparecchio televisivo. Simon si mise a camminare nella sala e si fermò vicino a una finestra a guardare gli alberi
scossi dal vento che, illuminati dai fari arancioni e verdi del prato, apparivano spettrali. Soffiava ormai da un'intera settimana. Improvvisamente gli venne in mente che lo Scotennatore aveva iniziato a divertirsi il giorno dopo che il Santa Ana aveva iniziato a tirare. "Il vento fa impazzire la gente" pensò, ricordandosi di Trapper Jake. Lo Scotennatore era un motivo in più per preoccuparsi: uno psicotico che uccideva solo gente del mondo dello spettacolo, accoltellandoli e poi tagliando loro un piccolo pezzo di cuoio capelluto, probabilmente per conservarlo. Tutte le vittime avevano alle spalle carriere migliori della sua. Sicuramente lui non avrebbe attirato l'interesse dello Scotennatore. Stava ancora fissando fuori della finestra quando all'improvviso, davanti a sé, apparve un viso chiaro e trasparente che fluttuava nella notte. Si girò trattenendo il respiro... alle sue spalle c'era qualcuno. Sospirò di sollievo, per un attimo la forma del viso e l'effetto del riflesso sul vetro gli aveva fatto pensare a... La ragazza con i capelli scuri intravista nella sala da gioco indietreggiò di un passo. «Non avevo intenzione di spaventarti.» Simon sorrise. «Non preoccuparti. Pensavo... che fosse qualcun altro.» Lei gli ricambiò il sorriso. «Mi chiamo Molly Harren, e tu sei Simon Drake. Ti ho visto in quel film...» «Oh Dio, no» disse, coprendosi il viso e facendo finta di disperarsi. «Non dirmi che hai visto Disco Dracula!» «Eri bravo» rispose ridendo insieme a lui. «Il film non era proprio un granché, ma tu recitavi bene.» Simon le sorrise. I capelli neri incorniciavano un viso affascinante, con grandi occhi scuri e limpidi. Anche se in quel momento stava ridendo, intuiva che la sua espressione normale fosse raccolta, quasi intensa. Indossava un vestito da sera senza maniche, che rivelava un bel fisico, non semplicemente fiorente e ben nutrito come la maggior parte della gente là dentro, ma sottile, con piacevoli curve muscolose. Era evidente che si teneva in forma senza limitarsi al jogging mattutino d'obbligo. E il suo nome gli suonava familiare... «Fai l'attrice?» «No, scrivo.» Fu colpito da un pensiero improvviso: «Tu sei l'autrice di Blackout!». La ragazza annuì. «Ma quello non era il titolo che gli avevo scelto io, il mio era The Dark Side of Town.» Simon stava per complimentarsi per la sceneggiatura, che parlava di uno psicotico che terrorizza una città durante un'interruzione di energia elettrica, perché fra i film di suspense usciti era stato uno di quelli che gli erano
piaciuti di più, mentre riuscì solo a dire: «È un titolo molto più bello». Lei annuì, increspando le labbra in una smorfia di disgusto. «I produttori prediligono i titoli di una sola parola, "perché così la gente capisce meglio". Parlano di un seguito, che naturalmente chiameranno Blackout II. Che fantasia!» Poi scosse la testa e sorrise. «Scusa, io... be', senza volerlo ho sentito la conversazione con Knox. Volevo solo che tu sapessi che capisco come ti senti. A volte non è facile avere a che fare con loro.» Dopo questo primo scambio di battute conversare insieme divenne molto semplice. Parlarono della sceneggiatura e del loro lavoro, nonché del comune interesse per i film dell'orrore e di suspense e, almeno per il momento, Simon scordò la propria delusione per non avere avuto la parte. Era passato un po' di tempo da quando aveva incontrato una donna con cui aveva potuto parlare così bene e con cui aveva scoperto di dividere così tanti interessi. Ripensò a com'era stato solo perché, in quel momento, per una volta tanto non lo era. Quando si accorsero che la gente iniziava ad andarsene erano le due del mattino. «Farei meglio a tornare a casa» disse Molly. «Sono molto contenta di averti conosciuto.» Erano seduti su un divano di canna d'India e, sulla parete dietro di loro, era appeso un poster incorniciato raffigurante la locandina di uno dei tre film interpretati da Jon Shea. Mentre si alzavano Simon l'aveva guardato di sfuggita e solo più tardi si era accorto di non avere provato la solita fitta di gelosia. Considerò e scartò diverse frasi d'invito, dicendole semplicemente: «Vorrei tornare a casa con te, Molly». Lei sorrise dolcemente, quasi malinconica. «Lo vorrei anch'io, ma non stasera. Perché non pranziamo insieme... diciamo, mercoledì?» A Simon andava bene. Si offrì di accompagnarla alla macchina. Quando uscirono, il vento li colpì con violenza. Simon si piegò e, mentre la guardava allontanarsi su una Fiat chiara, il colletto della camicia gli sferzava il collo. Il vento era abbastanza forte da rovesciare la macchina e farla volare oltre lo spartitraffico. Sperava ardentemente che lei arrivasse a casa sana e salva. La macchina di Simon era ancora in officina, e quindi si avviò verso casa a piedi, lungo Laurel Canyon fino a Hollywood Boulevard e poi su per Highland fino ad arrivare a Franklin. Era un cammino lungo e tortuoso. Le auto bianche e nere della polizia, spettrali sotto i lampioni a mercurio, perlustravano le strade. Era a due isolati da casa sua quando una delle macchine lo fermò, un poliziotto gli controllò la carta d'identità e poi gli diede-
ro un passaggio per il resto della strada. Erano le tre passate quando salì stancamente i due piani di scale fino al suo appartamento nelle colline sopra Cahuenga. La casa era una delle costruzioni più vecchie, in stile spagnolo, con tegole fiamminghe e archi, un piccolo cortile interno pieno di cactus e jacaranda. Mentre il vento soffiava, Simon sentiva il profumo greve dei fiori che arrivava ora forte, ora lieve. Riusciva a udire il rumore prodotto dalle linee elettriche che passavano sopra la sua abitazione, e anche il doberman abbaiare nel cortile vicino. Lo vide: una forma nera che si aggirava senza requie lungo il vialetto oltre la siepe dei Cyclone, e pensò che lo aspettava un'altra notte in bianco. Dalla strada a volte il vento risuonava come l'ululato dei lupi, a volte come gli strilli di un neonato. Mentre usciva sul suo balcone, qualcosa tremolò all'angolo del suo campo visivo, e sentì un crack!, simile a una frustata. Si girò in fretta e vide che un'antenna televisiva si era staccata e sventolava contro un muro al di là della via. Per tutto il tragitto verso casa si era sentito come un personaggio in un film di Val Lewton, certo che qualcosa o qualcuno lo stesse seguendo, e si era voltato continuamente per guardare le foglie fruscianti e i rifiuti trasportati dal vento. Osservò la strada deserta sotto di lui, sbiadita dalla luce lunare. Le raffiche del vento adesso sembravano i lamenti di anime perdute. Non si sarebbe potuto sentire più solo nemmeno se fosse stato l'ultimo uomo sulla Terra, e desiderò disperatamente che Molly avesse detto di sì alla sua proposta. Nonostante i rumori della notte, riuscì ad addormentarsi, ma non per molto. Sognò che qualcuno stava affogando in un lago nero, e lo chiamava, allungando delle braccia bianche verso di lui. Si svegliò di soprassalto, sentendo ancora invocare il proprio nome. Mentre si stropicciava gli occhi, il letto ad acqua lo faceva dondolare lievemente. Aveva il corpo e i calzoncini madidi di sudore. Guardò il quadrante luminoso dell'orologio, erano le quattro e mezzo. Fuori il vento soffiava ancora, ma il cane aveva smesso di abbaiare. Si sentì più stanco che mai. Comprensibile, con l'incubo di qualcuno che sta affogando e ti chiama... Sentì di nuovo il proprio nome. Simon era immobile sul letto. Nel momento in cui il vento aveva diminuito la propria intensità, aveva sentito il proprio nome... un lungo grido lamentoso, debole e ansimante, simile all'urlo di una donna. Non si mosse e ascoltò con tutta l'attenzione possibile. E quel suono arrivò di nuovo: Simonnn... interminabile e sussurrato, quasi come se l'avesse gridato il vento
stesso. Era il vento! Lo sentì nuovamente: il fischio che aumentava tramutandosi nel proprio nome. Fissò il soffitto, non osava girare la testa, con la paura di guardare il quadrato argenteo della finestra, sapendo però che doveva farlo. Simonnn... Voltò il capo verso la finestra. Lo fissava con gli occhi freddi come stelle, illuminata dalla luna e con i capelli simili a nastri di nebbia. Simon si girò e scese dal letto urlando, e corse in salotto. La luce della luna piena, che penetrava attraverso la finestra del soggiorno, metteva in risalto un grande manifesto di Lon Chaney jr. nella parte del licantropo: sembrava uscire dal poster e andare verso di lui, con le mascelle spalancate. Simon boccheggiò, si girò e sbatté contro una fioriera sospesa. Le foglie gli graffiarono la faccia come le zampe di un ragno. Spalancò la porta d'ingresso, precipitandosi fuori nell'aria calda e in movimento, senza pensare, e continuando a correre. Si affacciò al balcone e guardò la strada; nel vento le ombre strisciavano. Poi qualcosa, una foglia portata dalle raffiche, i propri capelli o la sua mano, gli sfiorò la guancia. Urlando scese a balzi i gradini piastrellati, inciampò e cadde; balzò in piedi, si girò. Era davanti a lui. Non era più distante di un metro. Come la volta precedente, apparve corporea, ma allo stesso tempo spettrale. I capelli fluttuavano come una ragnatela sottilissima. Gli occhi erano sempre pozzi argentei, che lo guardavano senza vederlo veramente. Aveva un'espressione di ineffabile solitudine e desiderio. Protese le braccia verso di lui. Simonnn... Gli sembrò che non muovesse le labbra, il vento sembrava sussurrare il suo nome. Impietrito dal terrore, vide le mani avvicinarsi, pallide e levigate come neve, senza impronte digitali o vene. Le labbra si socchiusero in una smorfia sorridente, rivelando solo il buio... Simon chiuse gli occhi e si buttò all'indietro, schiaffeggiando l'aria davanti a sé. Attraverso il gelo sentì uno spazio, si voltò e cadde in un'aiuola, incurante del cactus che gli graffiava le gambe nude. Le dita si aggrapparono alla staccionata dei Cyclone, mentre il vento lo torturava e gli urlava contro. Si tirò su e scavalcò la staccionata, cadde sul cemento freddo e sen-
tì un ringhio vicino. Allora capì dov'era andato a finire. Il doberman saltò, ombra dai denti lucenti. Simon si alzò barcollando e si mise a correre, sapendo che era inutile. Poi, al di sopra dell'ululato del vento, sentì un crepitio. Corse verso un muro, restando senza fiato nei polmoni e cadde. Si girò e vide che uno dei fili dell'alta tensione si era staccato dal palo, abbattendosi come una frusta scintillante sul cane all'attacco, sferzandolo esattamente in mezzo alla schiena. Il brontolio diventò agonizzante, la forza del colpo era tale che il cane venne scagliato sul vialetto atterrando tremante contro la palizzata. Il filo spezzato danzava spargendo scintille sul cemento. Simon si guardò intorno velocemente, ma lei non c'era più. Gli unici suoni erano il vento e il sibilo della linea elettrica. Stranamente, nonostante il fracasso, i vicini non si erano svegliati. Guardò il cane... non tremava più. Il vento gli portò l'odore di carne bruciata e in quel momento si girò per vomitare. «Ehi, Simon» disse Jon Shea. «Sei arrivato in tempo per applaudire. Oggi aumento i chili che sollevo.» Simon era appena arrivato nel settore pesi della palestra "Golden West Health". La stanza spaziosa, con le pareti rivestite di specchi, era piena di uomini che si esercitavano con le attrezzature da body building e una stazione radiofonica rock riusciva a stento a coprire i loro grugniti e gemiti. Jon si sdraiò su una panca, afferrò il bilanciere e lo sollevò al di sopra del torace e, tendendosi, lo alzò per sei volte. Poi si mise a sedere lentamente, con la pelle lucida per il sudore, e guardò Simon. «Non mi sembri in gran forma. Forse faresti meglio a non allenarti oggi.» «La notte scorsa... non ho dormito un granché» gli rispose Simon. Era pallido, e si appoggiò contro una rastrelliera di manubri. Le gambe gli dolevano ancora, sia per i graffi del cactus sia per la caduta sul vialetto. «Sono solo venuto a chiederti una cosa» continuò. «Dài, spara.» Simon fissò la pista da jogging attraverso le finestre a tutta altezza. Nessuno correva, nonostante l'eccezionalità di un giorno senza smog. Il vento faceva vibrare il vetro davanti a lui e Simon indietreggiò di un passo. «Hai detto che tua nonna parlava di un vento demoniaco. Cosa voleva dire?» Jon restò a bocca aperta per lo stupore. «Oh, sai, sono solo leggende. Si
tramandano racconti sul Werewind, chiamato anche "vento licantropo", che si crede assuma forme umane... faresti meglio a sederti, hai un brutto aspetto.» Simon obbedì. «Vai avanti, per piacere» gli disse debolmente. Jon si grattò la testa. «Non mi ricordo molto... non è tanto maligno, quanto solo una specie di anima persa, penso. Sai che il vento è sempre descritto come un elemento solitario, no? Be', il vento licantropo è attirato dalle persone sole.» Guardò attentamente Simon, che fissava fuori della finestra il tetto a pagoda del teatro cinese battuto dal vento. «Perché ti interessa tanto?» «Oh... potrebbe essere una buona idea per un film dell'orrore.» Jon sbuffò. «Penso che arrivi troppo tardi, Molly Harren mi ha già chiesto la stessa cosa alcuni giorni fa.» Simon gli domandò: «Come si ferma un vento mannaro?». «È quello che mi ha chiesto Molly. Ti dico la stessa cosa che ho detto a lei... guarda in biblioteca. Comunque, sono tutte balle.» «Va bene» disse Simon alzandosi in piedi. Aprì la porta per andarsene, ma in quel momento una voce interruppe la musica: «Questo è il notiziario della stazione Kcco. È stata trovata una nuova vittima dello Scotennatore di Hollywood, questa volta nella zona occidentale di Los Angeles. Si tratta di Terrence Froseth, un giovane attore. È la settima vittima in sette giorni...» Simon vide Jon impallidire sotto l'abbronzatura. Un altro attore lasciò la presa su un pulley e alcuni pesi caddero con fragore. Simon si appoggiò contro la porta, sentendosi debole. Avvertì anche altre sensazioni, fra cui orrore e commiserazione, ma il sentimento che lo dominava era una spaventosa sensazione di sollievo. Gli venne spontaneo pensare: "Sono di nuovo in lizza" e questo fatto lo disgustò. Fuori, il vento ululava. Simon uscì dalla palestra e prese un autobus che lo portò all'officina di autoriparazioni "Mannie's", a Melrose. Pagò con un assegno, chiedendosi come avrebbe fatto a coprirlo, e poi scese in città verso la sede centrale della biblioteca di Los Angeles. Rimase molte ore sotto i soffitti alti e intarsiati a sfogliare libri riguardanti antiche leggende e superstizioni. Trovò molti incantesimi per far soffiare il vento, alcuni accenni a vari tipi di venti demoniaci e a manifestazioni sia benigne che maligne. Finalmente scoprì un riferimento, per quanto vago, al Werewind, e venne così a
sapere che poteva essere fermato da un filo di capelli intrecciato di nodi. Più forte era il vento, più nodi ci volevano, ma l'elemento naturale non si sarebbe dileguato fino a quando non fosse stato allacciato anche l'ultimo nodo. Il testo citava anche un lavoro accurato sull'argomento, The Omnibus of the Occult, ma quando lo cercò, Simon scoprì che il volume era già stato preso in prestito. Simon rimase fermo davanti allo schedario, premendosi le mani contro gli occhi fino a quando, nel buio, ruotarono ai bordi del suo campo visivo dei puntolini verdi. Non sapeva che cosa fare. Si disse che avrebbe dovuto dare la caccia a un lavoro, guardare gli annunci o assillare il proprio agente. Ma non si mosse. Se ne rimaneva silenzioso, desiderando solo di essere capace di fermare i pensieri che, come polvere, gli giravano vorticosamente nel cervello. Un'apparizione del genere era assurda, perlomeno mentre se ne rimaneva fermo con il sole che inondava la sala attraverso la vetrata a piombo. "E dunque" pensò Simon "probabilmente ho un esaurimento nervoso." Si strinse le mani per arrestarne il tremito, Per quale carriera sarebbe valsa la pena di vivere in quel modo? Ma, d'altra parte, cos'altro poteva fare? A trentatré anni, dopo avere fatto solo lavori bizzarri, come poteva sperare di vivere decentemente, sempre che potesse interessarsi a qualcos'altro che non fosse il cinema? Aveva passato tempi peggiori. Un inverno, mentre faceva delle audizioni per il teatro, aveva abitato in un appartamento del Greenwich Village senza riscaldamento. Da allora le cose erano andate meglio, si disse, e sarebbero migliorate ancora di più, e la chiave di volta perché questo avvenisse consisteva nella tenacia e nella determinazione, forse ancora più importanti del talento naturale. Knox aveva accennato al fatto che, nel caso Froseth non avesse accettato la parte, ne avrebbe riparlato con Simon. E adesso Froseth non poteva di certo accettarla, visto che era morto. Anche lo Scotennatore di Hollywood o qualcuno uguale a lui attendeva la prossima parte? E chi lo sapeva, come si potevano intuire le motivazioni che spingono uno psicopatico all'omicidio? Sembrava quasi che il vento incoraggiasse questi folli, aveva sentito che c'era stato un omicidio ispirato dallo Scotennatore. Se Simon fosse arrivato alle luci della ribalta, non avrebbe potuto essere per caso lui la vittima successiva? Scosse la testa, non doveva lasciarsi dominare dalla paura. La sua vita consisteva nel recitare, per cui rischiare la vita doveva valerne la pena. Voleva la parte di quel film più di qualsiasi altra cosa. Avrebbe aspettato un
giorno o due, per rispetto del morto, e poi avrebbe richiamato Knox. La biblioteca avrebbe chiuso i battenti di lì a poco, così si avviò verso l'uscita. Era l'ora di punta. Di solito cercava di evitare il traffico in colonna dell'autostrada, paraurti contro paraurti, ma sapeva che quel giorno si sarebbe sentito più al sicuro guidando in quel flusso lento, circondato da macchine e persone. Nel vento. «Ripetiamo, la polizia di Los Angeles ha arrestato Greg Corey, di ventisette anni, accusato degli omicidi dello Scotennatore che terrorizzano Los Angeles da ormai otto giorni...» Simon ascoltò il notiziario mentre guidava lungo la Cienega verso un ristorante macrobiotico, dove aveva appuntamento con Molly per il pranzo. Poco mancò che si mettesse a urlare. Finalmente sembrava che le cose si sistemassero per il meglio! Secondo il notiziario il sospettato era sicuramente il colpevole, in quanto era stato arrestato durante un'aggressione contro un produttore, e inoltre aveva confessato anche gli altri omicidi. "Grazie a Dio" pensò Simon. "Perlomeno non mi devo più preoccupare di questo." Molly era seduta a un tavolo d'angolo, seminascosto da un grande vaso di felci, illuminato solo dal chiarore di una candela, e Simon, dopo il sole spietato, riusciva a vedere ben poco. «Spero non ti spiaccia» gli disse. «Ma preferisco mangiare appartata.» Sembrava diversa, e Simon notò che i capelli erano più lunghi. Portava un toupet. Ordinarono. «Hai sentito il notiziario?» le chiese. «Hanno arrestato lo Scotennatore di Hollywood.» Lei annuì e sorrise. «Ma non prima che il tuo rivale fosse tolto di mezzo.» Simon sgranò gli occhi, sconcertato e in cuor suo a disagio perché aveva pensato la stessa cosa. «Be', ovviamente, non è che pensi che...» «Capisco» disse. «È terribile, ma non devi lasciare che questo ti impedisca di approfittarne.» Poi, vedendo la sua espressione, aggiunse corrugando la fronte: «Quello che ho appena detto ti sembra spietato? Sì, io stessa penso di esserlo, ma è così che bisogna comportarsi se si vuole sopravvivere in questa città, dovendo lavorare con gente che pensa che il fatto di avere dei soldi li autorizza a fare ciò che meglio crede del tuo talento». Simon si sentiva vagamente imbarazzato per la veemenza di Molly. «Devo dire che non ho avuto occasione di litigare con loro granché. E fino a ora non mi sono illuso sulla qualità artistica del mio lavoro.» «Tutti dobbiamo partire da un punto. Non devi preoccuparti, recitavi be-
ne in quel filmetto. Ma, rispetto a te, io che faccio la scrittrice ho più motivi per essere frustrata. Il film inizia da me. L'attore, il regista o gli effetti speciali possono essere validi finché si vuole, ma se la sceneggiatura non è buona, il film non avrà mai nessun valore. E quindi, se una buona sceneggiatura viene rovinata, è veramente un crimine, anzi un peccato. Capisci?» Simon comprese che questo argomento era la crociata personale di Molly e quindi si limitò ad annuire, anche se personalmente riteneva che l'interpretazione della sceneggiatura da parte dell'attore fosse altrettanto importante quanto la sua stesura. Furono serviti e quindi cambiarono discorso. «Ho abbastanza denaro per potere produrre la mia ultima sceneggiatura» disse lei. «In questo modo nessun idiota può rovinare il mio lavoro e, se non ha successo, la colpa sarà soltanto mia. Ma questo tempo maledetto sta ritardando la produzione. Ogni giorno in più che soffia il vento io perdo dei soldi. Senza aggiungere che, per colpa dell'incendio a Tobanga, c'è mancato poco che ci rimettessi la mia stessa casa.» Simon convenne sul fatto che il vento dovesse smettere presto. Parlarono d'altro e Simon le disse quanto desiderasse la parte nel film di Knox. Molly annuì. «Martin Knox è uno dei pochi produttori veramente capaci che ci siano in circolazione. Però guardati da lui: ha carattere e soldi per far marcia indietro in qualsiasi momento.» Simon aveva lo sguardo deciso. «So di essere adatto alla parte.» «Allora, visto che Froseth è morto, probabilmente la otterrai. The show must go on, la gente deve farsi il suo buco di fantasia cinematografica» disse un po' amaramente. «Il fatto è che, per il resto del mondo, la realtà è rappresentata dai film e alla televisione, non da noi, da quelli responsabili. Noi siamo solo dei fantasmi.» Si stupì di sentirla usare quel termine. Pagarono il conto metà per ciascuno e uscirono dal locale fresco incontro al vento e al sole. Furono immediatamente colpiti da una raffica violenta e bruciante e, mentre scendevano i gradini di mattoni per andare al parcheggio, Molly mise un piede in fallo rischiando di cadere. Simon l'afferrò per il braccio, aiutandola a ritrovare l'equilibrio. «Grazie» urlò attraverso l'ululato del vento. «Penso davvero che mi voglia portare via.» Fu di nuovo colpito da quelle parole apparentemente così banali. Nel posteggio si guardò intorno spaventato, ma l'apparizione del Werewind non c'era. Raggiunsero la macchina di Molly e, al momento di salutarsi, ci fu un attimo d'imbarazzo. Simon si rese conto che quel giorno aveva paura di vederla andare via, paura di essere di nuovo solo. «Molly,» le disse «vorrei
che tu venissi a casa mia. Io... non ho altre intenzioni, davvero.» La verità di quanto diceva lo sorprese. Non stava proprio pensando al sesso. Voleva solo rimanere con lei: la paura della solitudine era quasi grande quanto quella dell'apparizione del Werewind. Lei distolse gli occhi da Simon e guardò verso le colline di Hollywood che si stagliavano in lontananza, chiare e nitide in quell'aria secca. Il vento le faceva svolazzare il grande toupet scuro. Simon si chiese per un istante perché lo portasse in un giorno del genere. Finalmente lei rispose: «Sono tentata», mettendosi a ridere sommessamente, come stupita delle proprie parole. «Non sai quanto mi costa ammetterlo: noi fantasmi di Hollywood rifuggiamo dai coinvolgenti emotivi.» Lo guardò, poi gli prese il viso fra le mani e lo baciò dolcemente sulla bocca. Il vento li fece barcollare, rovinando quasi quel momento. «Apprezzo molto l'offerta, ma... non posso. Devo sbrigare del lavoro.» «Capisco, ma...» Il vento li spinse contro la macchina. «Maledizione!» urlò Simon, perdendo il controllo e colpendo inutilmente l'aria. «Calmati. Non puoi fermarlo in quel modo» disse. «Hai cose più importanti a cui pensare, come per esempio parlare a Martin Knox. Fammi sapere come va a finire, d'accordo?» Simon annuì. Poi lei salì in macchina e uscì dal parcheggio facendo marcia indietro. Vide che gli sorrideva, e poi scomparve. Il rumore del motore si perse velocemente nell'ululato del vento. Troppo tardi, pensò, per chiederle cosa sapesse del Werewind. Jon gli aveva detto che Molly stava pensando di ispirarsi proprio a quella leggenda per un'eventuale sceneggiatura. Simon rabbrividì, non avrebbe proprio voluto prendervi parte. Le strade erano quasi deserte, Il notiziario informò che nei canyon il vento raggiungeva a volte la potenza di un uragano. Simon guidò con prudenza. Durante il tragitto verso casa vide un solo pedone, una donna alta con capelli color argento, ferma a un angolo del Monica Boulevard. Il cuore cominciò a battergli forte prima di capire che era una delle poche prostitute disposte a sfidare il vento. Lo guardò con curiosità, ma Simon continuò a guidare. A casa, nella casella della posta, c'era un avviso che lo informava che il servizio di segreteria telefonica gli era stato staccato per il mancato pagamento della bolletta. Simon scagliò l'avviso contro la parete, e il fatto che fosse troppo leggero per colpirla con forza e si mettesse invece a volteg-
giare finendo sul pavimento non fece che accrescere la sua rabbia. Afferrò il telefono con l'impulso di scaraventarlo lontano, e invece si sedette e compose il numero dei Marathon Studios. Si era proposto di aspettare un giorno o due, ma aveva già atteso fin troppo, si disse. Dopo avere lasciato alla segretaria il proprio nome, dovette aspettare a lungo e, nel frattempo, respirò profondamente per cercare di calmarsi. "Non devo sembrare troppo ansioso e devo evitare di arrabbiarmi" si diceva. "Gli farò le mie condoglianze e poi gli chiederò della parte. Dopotutto, come ha detto Molly, the show must go on." «Simon?» «Volevo soltanto dirle che mi è spiaciuto per Froseth, signor Knox.» «Sì, è una tragedia.» La voce di Knox era inespressiva.; «È stato un peccato che non abbiano preso lo Scotennatore prima.» Simon esitò, Knox rimaneva in silenzio. «Ha già pensato a una sostituzione? So che è prematuro, ma...» La voce si spense. Knox disse: «Mi spiace, Simon, ma dopo averci ancora pensato sono sempre dell'idea che lei non sia adatto a quella parte.» Simon sentì qualcuno che diceva: «Sono ancora troppo basso, signor Knox? Potrei mettermi dei tacchi più alti, sa?». «Non è proprio...» «O sono "troppo" qualcos'altro?» Simon si rese conto che stava parlando in quel modo a Knox, e ascoltò un po' imbarazzato, come uno che origlia due che litigano. «Adesso sono troppo alto? Forse troppo grasso o troppo magro?» «Abbiamo il suo curriculum in archivio» gli disse Knox con distacco. «Arrivederci, Simon.» Simon rimase seduto a sentire il segnale di linea libera. "È finita" pensò. "Sono rovinato." Riattaccò e, attraverso la finestra, fissò gli alberi tremolanti. Ascoltò il vento, onnipresente, che faceva impazzire. Era la causa di tutto, rifletté. Da quando era iniziato, era andato tutto storto. Il futuro, prima, non gli sembrava particolarmente luminoso, ma era ancora in grado di controllare la tensione; adesso, invece, aveva rovinato tutto a causa di quel vento maledetto... Il segnale di linea libera diventò una sirena, abbassò la forcella e poi si mise a battere furiosamente sui tasti per chiamare il proprio agente. Si fermò prima di schiacciare l'ultimo numero. Cosa gli avrebbe detto? "Senti, Sid, mi sono innervosito; ho iniziato a urlare con Martin Knox, così adesso
ai Marathon Studios sarei il benvenuto quanto uno scotennatore a Disneyland." Riattaccò di nuovo, poi guardò l'orologio. Erano le sei passate. Knox a quell'ora avrebbe lasciato gli studi. "Se potessi parlargli di nuovo," pensò Simon "a faccia a faccia. Scusarmi. Spiegargli del vento, di come mi abbia dato sui nervi... è comprensibile, certo..." Per scoprire dove Knox abitasse fece molte telefonate, e finalmente lo venne a sapere da Jon Shea. Simon gli raccontò una parte di quello che gli era successo, e Jon lo consigliò di usare una tattica diversa. «Lascia perdere per qualche giorno. Poi telefonagli fra un po', magari allora il vento si sarà calmato, tutti saranno di nuovo normali. Siamo tutti stressati, lui lo capisce. Ma non insistere adesso. Ha un carattere...» Non lo ascoltò. Quella sera andò con l'auto lungo il Sunset, verso l'oceano. Vide come al solito poche macchine, persino sulla Strip le vie erano deserte. Il vento martellava la Chrysler. Mentre diventava più buio, Simon dovette trattenersi dall'accelerare. Vicino a Beverly Glen il viale era bloccato, e così fu costretto a deviare intorno all'Ucla. Dal canyon arrivava la cenere simile a fiocchi di neve sporchi, tanto che a un certo punto dovette azionare il tergicristallo. Quando arrivò alla casa di Knox, in Pacific Palisades, era quasi buio. La luce del giorno morente colorava l'oceano di rosso e arancione. La casa di Knox si trovava su una scogliera che si affacciava sull'autostrada della Pacific Coast. Simon parcheggiò alla fine del viale lungo e sinuoso, vicino a una falciatrice e a un bidone per l'immondizia pieno di ramoscelli lasciati presumibilmente lì dal giardiniere. Non aveva pensato a quello che avrebbero detto, durante il lungo viaggio non aveva pensato proprio a niente. Suonò il campanello e aspettò davanti alla porta massiccia e intarsiata. Si aprì, e Martin Knox lo guardò incredulo. «Cosa diavolo vuole?» «Scusarmi» rispose Simon. «C'è da non crederci» disse Knox iniziando a chiudere la porta. «Aspetti, per piacere» disse Simon, mentre la porta continuava a chiudersi; e improvvisamente urlò: «Ho detto di aspettare!». E afferrò la maniglia, Lo scoppio di rabbia si era manifestato improvviso, come una folata di vento, e si calmò altrettanto velocemente, ma ormai era fatta, aveva risvegliato il caratteraccio di Knox. «Adesso basta!» disse il produttore a voce bassa; poi si girò e urlò: «Daniel!». Simon iniziò a scendere dal portico, nel vento. «Signor Knox, sono venuto solo per scusarmi... è il vento, non vede? Sta facendo impazzire tut-
ti...» Knox aprì di nuovo la porta e Daniel si fermò ai suo fianco, «Sbattilo fuori» gli disse Knox «e non essere troppo tenero.» Mentre Daniel avanzava, Simon continuò a indietreggiare. Intorno a loro il vento turbinava. Daniel si avvicinava rapidamente con un'aria annoiata. Simon, che aveva parcheggiato vicino al bordo della scogliera, si girò e corse verso la macchina, frugandosi in tasca per tirare fuori le chiavi e infilandole poi nella serratura della portiera. Vivere a Hollywood l'aveva abituato a chiuderla sempre. Daniel arrivò davanti alla macchina e fece per agguantarlo. In quell'attimo una raffica di vento scaraventò per terra il bidone e fece perdere l'equilibrio a Simon, che cadde all'indietro, lontano dall'enorme guardia del corpo. Il vento ghermì le foglie e l'erba tagliata facendole turbinare attraverso il prato in una confusione verde. Mentre Daniel si chinava per afferrare Simon per il collo della camicia, la nuvola di foglie ed erba li colpì come coriandoli, mulinando e accecandoli. Daniel agitò le braccia, traballò su un lato... scivolò e precipitò dalla scogliera. Simon urlò, strisciò sul bordo e guardò in basso. Non era proprio uno strapiombo, ma una scarpata. Vide il corpo immobile di Daniel abbandonato sul forte pendio. Si alzò in piedi, facendo molta attenzione e tenendosi aggrappato alla macchina. Guardò verso la casa e vide Knox fermo sulla soglia che lo fissava, Simon intuiva che, a quella distanza, poteva aver certo dato l'impressione di essere stato lui a spingere Daniel giù dalla scogliera. Knox sbatté la porta. "Chiamerà la polizia" pensò Simon. Ma fu colpito da un pensiero molto più spaventoso: tutto si susseguiva seguendo un disegno molto preciso; infatti, quando il vento si alzava, lei appariva. Guidò la Chrysler fuori del vialetto e giù per la strada tortuosa che portava al Sunset. Simon non aveva idea di dove stesse andando. Voleva semplicemente scappare, fuggire da ciò che sarebbe comparso: l'apparizione del Werewind sorridente e senz'anima. Respirava con affanno, guardandosi intorno freneticamente per vedere se c'era. Non comparve, e iniziò a chiedersi dove potesse rifugiarsi. Sicuramente non a casa. Aveva bisogno di qualcuno di cui potersi fidare, a cui raccontare cos'era successo. Molly. Non poteva essere che Molly. Aveva detto di abitare a Topanga, nel quartiere A sulla Grandview Drive, Non aveva il numero con sé, non sapeva se fosse a casa ma si dires-
se verso nord, imboccando l'autostrada della Pacific Coast. Molly doveva essere a casa. Ben presto si ritrovò a guidare in modo spericolato su per la strada tutta curve e fra strapiombi che portava a Fernwood. Era circondato da alberi carbonizzati e scheletrici, resti dell'incendio recente. Tra le pareti del canyon il vento era simile alla scarica di un fucile. Trovò la via e la casa, sul fianco della collina. La Fiat era parcheggiata nel vialetto di ghiaia. Una volta sceso dalla macchina, il vento gli fece di nuovo perdere l'equilibrio, mandandolo a gambe all'aria in un'aiuola di edera incolta vicino a una veranda sgangherata. Si rialzò in piedi, stringendo i denti per non urlare, e bussò alla porta. Nel debole riparo dei cespugli e della veranda, sembrava che il vento urlasse e lacerasse la terra. Si accese una luce gialla e vide la figura di Molly stagliarsi dietro il vetro della porta, che un attimo dopo si socchiuse. «Simon?» Sembrava stanca e disorientata. «Cosa c'è? Cosa ci fai qui?» «Fammi entrare, per piacere» la pregò. «Sono nei guai.» «Non posso, Simon.» Attraverso lo spiraglio della porta riusciva a scorgerle una metà del viso, inghiottito nella luce della veranda. «Sto lavorando a qualcosa di molto importante...» «Ti prego!» Intorno a Simon il vento ululava, quasi tirandogli i capelli come se avesse le dita, le sue dita... Molly sembrava dilaniata dall'indecisione. Finalmente gli rispose: «D'accordo, visto che sei nei guai. Ma solo per un momento, poi te ne devi andare». Aprì la porta e Simon entrò in fretta. Erano in un piccolo soggiorno, dove sulla parete opposta un'ampia finestra panoramica si apriva sulle luci di Topanga. Notò distrattamente che la stanza era una baraonda, vasi di piante secche, vestiti sparsi dappertutto, libri e dischi ammucchiati a casaccio su mobili vecchi e rovinati. Dentro di sé fu sorpreso e leggermente deluso... l'aveva immaginata più ordinata. In un angolo c'era un televisore acceso, ma l'audio era completamente sovrastato dal rumore del vento. Molly gli stava davanti, con un paio di jeans e una maglietta scura. «Allora?» gli disse. «Cosa c'è che non va?» «Non so da dove cominciare» disse Simon stancamente. Persino dentro la casa il vento lo obbligava a parlare ad alta voce. Tutta l'abitazione tremava per la sua forza. La luce si affievolì, poi tornò. Molly lo guardò con interesse. «Simon, non voglio sbatterti fuori, visto che sei nei guai. Ma devi spic-
ciarti, il vento sta aumentando!» «Ho capito!» disse. «Jon Shea aveva ragione. È un Werewind, l'ho visto!» Molly sgranò gli occhi e impallidì, afferrandogli il braccio con una forza inaspettata. «Cosa?» «Dobbiamo provare con i capelli» le disse, accorgendosi che stava balbettando, senza però curarsene. «La formula, i nodi nei capelli...» «Come lo sai?» Lo stava scuotendo, lo sguardo bruciante d'ira. Per un attimo gli fece più paura dell'apparizione del Werewind. Una raffica di vento colpì la casa e i vetri della finestra esplosero all'interno della stanza. Simon non ebbe il tempo di scansarsi. Sentiva le schegge di vetro pungergli le guance, risparmiandogli miracolosamente gli occhi. Vide la rabbia sul viso di Molly tramutarsi in terrore, quando tagli e squarci le lacerarono la schiena. Si afflosciò nelle braccia di Simon, che sentì il sangue scorrergli sulle dita. Le guardò la schiena, la maglietta tagliata lasciava intravedere le ferite. Non sembravano serie. Si guardò intorno in cerca di qualcosa che potesse servire a mo' di benda... e vide chi c'era in mezzo alla finestra fracassata, incorniciata dalla notte e dal vetro ormai in frantumi. Simon indietreggiò, facendo cadere Molly sulle ginocchia. Fuori la tempesta infuriava, ma non penetrava in casa. Mentre terrorizzato arretrava, l'apparizione del Werewind si avvicinava. Dietro di lui una stretta rampa di scale portava di sopra, verso il buio, ma Simon la salì correndo, arrivando in un solaio angusto, illuminato soltanto da una fioca lampadina. Sulla parete di fronte c'era una porta che dava su una veranda, sulle pareti erano appesi numerosi pezzi di corda di varia lunghezza annodata, e sul tavolo c'era un libro aperto. Il titolo in cima alla pagina era The Omnibus of the Occult. C'era anche un altro pezzo di corda, poi si accorse che erano capelli, il toupet scuro di Molly, annodato per metà. Simonnn... Simon afferrò il toupet, con le mani sudate dal terrore. In quel momento l'apparizione del Werewind apparve in cima alle scale, di fronte a lui, e il vento fece di nuovo tremare la casa, scuotendola fino alle fondamenta con un boato simile al tuono. Singhiozzando Simon fece un altro nodo. La bocca dello spettro si aprì in un urlo silenzioso, rivelando il buio, e a braccia tese avanzò verso di lui. Simon indietreggiò, piangendo sommessamente, riuscendo in qualche modo a fare un altro nodo. Poi si voltò e si lanciò verso la porta del balcone
mentre lei girava intorno al tavolo. Uscì sul balcone incespicando, nel vento che lo colpì come un pugno gigantesco, scaraventandolo mezzo intontito contro il parapetto. Gli strappò quasi la corda dalle mani, ma Simon riuscì a trattenerla. Lei arrivò sulla veranda, incurante della tempesta. Mentre il vento lo schiaffeggiava, con un braccio si aggrappò alla ringhiera, e lei gli si avvicinava sempre di più... Avvolto dal buio e paralizzato dalla paura, Simon riuscì a intrecciare l'ultimo nodo, proprio quando l'apparizione del Werewind lo toccò con le mani gelide. L'ululo diventò un grido. Fu investito da un'ultima raffica che lo fece quasi cadere dal balcone, e che invece afferrò lei, lacerandola e facendola fluttuare come nebbia. Simon pensò di sentire un urlo interminabile... E poi il vento cessò. Improvvisamente calò un silenzio più forte del vento e ci fu quiete. Simon crollò sulle ginocchia, sentendo il battito furioso del suo cuore. Si rialzò in piedi, non osando crederci. L'aria era immobile. Per la prima volta da più di una settimana il vento si era calmato. Incominciò a ridere mentre guardava fuori nella notte gli alberi immobili, ma non per molto perché aveva la gola troppo arida. Lacrime quasi invocate gli inumidirono gli occhi e le guance. Era finita. Aveva vinto, lui e Molly erano salvi. Si girò affannosamente. «Dio, Molly!» urlò, attraversando di corsa il solaio. Scese barcollando le scale e tornò nel soggiorno. Era deserto. Il televisore annunciava in modo monotono le ultime notizie. «Ripetiamo, sembra che il vento si sia calmato dappertutto. «Passando alla notizia del giorno, la polizia ha ammesso che Greg Corey, arrestato nelle prime ore di oggi, non è lo Scotennatore di Hollywood. Nuove prove dimostrano che si tratta di un omicida che cercava solo di imitare i crimini del vero assassino, che è quindi ancora in libertà...» «Molly?» Per la prima volta osservò il toupet che teneva ancora in mano. Ma non era un posticcio. A un'estremità di esso vedeva molto chiaramente i brandelli di carne a un capo, scurì per il sangue rappreso. Si ricordò degli altri pezzi che si era immaginato fossero di corda, appesi al muro del solaio. Adesso sapeva di che cosa si trattava. Gli venne in mente che l'apparizione del Werewind non gli aveva fatto
mai del male, anzi, l'aveva salvato da Trapper Jake, dal doberman e da Daniel. Sentì un rumore alle sue spalle e si voltò. La lama di un coltello brillò nel buio. «Mi spiace, Simon. Mi piacevi, davvero...» Richard Matheson IL VESTITO DI SETA BIANCO Gli editori di «Fantasy & Science Fiction», Anthony Boucher e J. Francis McComas, nei primi anni di pubblicazione della rivista accettarono un racconto, Born of Man and Woman (1950), scritto da Richard Matheson. «Quando leggemmo il manoscritto» dissero in seguito «supponemmo che fosse opera di qualche scrittore affermato che si celasse sotto uno pseudonimo e che indugiasse in un originale esercizio letterario. Ci affrettammo ad accettare il racconto e chiedemmo al signor Matheson alcune informazioni sulla sua attività: fummo piacevolmente sorpresi di scoprire che si trattava del primo racconto che vendeva!» Da allora Richard Matheson ha confermato di essere quel grande professionista del genere horror che McComas e Boucher credevano fosse nel 1950. Lo attestano, ora, i numerosi racconti e i romanzi, e la sua attività nel cinema e in televisione, ultimamente in collaborazione anche con Steven Spielberg. Il vestito di seta bianco, pubblicato per la prima volta in «Fantasy & Science Fiction» nel 1951, è un tipico esempio del suo stile. È un racconto scritto splendidamente, terrificante e commovente, che parla solo di una... bambina. Tutto è quieto, dentro di me. La nonna mi ha chiuso dentro e non mi fa Uscire. Perché «è successo», ha detto. Penso di avere fatto la cattiva. È stato per il vestito. Quello di mamma, voglio dire. Se n'è andata per sempre. La nonna dice che è in paradiso. Non so come. Può andare in paradiso se è morta? Sento la nonna. È nella stanza della mamma. Sta rimettendo il vestito di mamma nella scatola. Perché lo fa? E la chiude, anche. Vorrei che non lo facesse. È un bel vestito e ha un profumo dolce. Ed è vellutato. Mi piace appoggiarmelo sulla guancia. Ma non posso più farlo. Penso che sia per questo che la nonna è arrabbiata con me. Ma non sono sicura. È stato un giorno come tutti gli altri. Mary Jane è venuta a trovarmi. Abita al di là della strada. Viene ogni giorno a giocare.
Anche oggi è venuta. Ho sette bambole e un camion dei pompieri. Oggi la nonna ha detto «gioca con le bambole e il camion». «Non andare nella camera della mamma» ha detto. Lo dice sempre. Penso che voglia dire di non mettere in disordine. Perché lo dice sempre. «Non entrare nella camera della mamma.» Proprio così. Ma è bello in camera della mamma. Ci vado quando piove. O quando la nonna fa il sonnellino. Non faccio rumore. Mi siedo soltanto sul letto e tocco la coperta bianca. Come quando ero piccola. C'è un profumo dolce nella stanza. Faccio finta che la mamma si vesta e che mi abbia fatto entrare. Sento il profumo del vestito di seta bianca. E che esce con il vestito da sera. L'ho chiamato così non ricordo quando. Se sto attenta la sento muoversi. Faccio finta di vederla alla toletta. Che tocca il profumo o qualcos'altro che immagino. E vedo i suoi occhi scuri. Mi ricordo bene. Quando piove è così bello e vedo degli occhi sulla finestra. Fuori la pioggia fa il rumore di un grande gigante. Dice «shhhhhhh», così tutti fanno silenzio. Questo mi piace immaginare nella camera della mamma. Quello che mi piace di più è sedermi alla toletta della mamma. È rosa, e grande, e sa di dolce. Sullo sgabello davanti c'è un cuscino. Ci sono tante bottigliette con delle sporgenze e dentro ci sono dei profumi colorati. E nello specchio ti puoi vedere quasi per intero. Quando sono seduta là faccio finta di essere la mamma. Dico «stai zitta, mamma; esco e tu non mi puoi fermare». È qualcosa che dico e non so perché mi piace sentirlo. Dentro. E «oh, smettila di piangere, mamma; non mi prenderanno, ho il vestito magico». Poi fingo di pettinarmi i capelli lunghi. Ma prendo la spazzola in camera mia. Non ho mai usato quella della mamma. Non credo che la nonna sia arrabbiata con me, perché non uso mai la spazzola della mamma. Non lo farei mai. Qualche volta ho aperto la scatola. Perché so dove la nonna tiene la chiave. L'ho vista una volta quando non pensava che la stessi guardando. La mette sul gancio nell'armadio della mamma. Voglio dire, dietro la porta. L'ho aperta tante volte. È perché mi piace guardare il vestito della mamma. Mi piace più di tutto. È così bello ed è morbido e come seta. Potrei toccarlo per un milione di anni.
Mi inginocchio sul tappeto con le rose. Tengo stretto il vestito e mi piace respirarci contro per sentire il profumo. Me lo metto contro la guancia. Mi piacerebbe tanto portarmelo a letto e stringerlo. Mi piacerebbe. Ma non posso. È la nonna che lo dice. E dice che dovrei bruciarlo, ma alla mamma volevo tanto bene. E strilla per il vestito. L'ho trattato sempre bene. L'ho sempre rimesso bene in ordine come se nessuno l'avesse toccato. La nonna non l'ha mai saputo. Io ridevo perché prima non l'ha mai saputo. E mi punirà. Che cosa le ha fatto male? Non è mica stato il vestito della mamma? Ciò che mi piace proprio più di tutto nella camera della mamma è guardare la sua fotografia. Ha una cosa d'oro intorno. La nonna dice che è una cornice. È sulla parete sopra il cassettone. La mamma è bella. «Tua mamma era bella» dice la nonna. Perché lo fa? Vedo la mamma che mi sorride ed è bella. Per sempre. Ha i capelli neri. Come i miei. Gli occhi sono belli e neri. La bocca è così rossa, cosi rossa. Mi piace il vestito ed è quello bianco. È tutto giù per le spalle. La pelle è bianca, quasi bianca come il vestito. E anche le mani. È così bella. Le voglio bene anche se se n'è andata per sempre, le voglio così bene. Penso che sia per quello che ho fatto la cattiva. Voglio dire con Mary Jane. Mary Jane è venuta dopo pranzo come sempre. La nonna è andata a fare il sonnellino. Ha detto «Non dimenticarti di non andare nella camera della mamma». Le ho detto «no, nonna». E dicevo la verità, ma poi io e Mary Jane giocavamo con il camion. Mary Jane ha detto «scommetto che non hai la mamma, scommetto che hai inventato tutto» ha detto. Mi sono arrabbiata. «Ho la mamma, certo». Mi ha fatto arrabbiare perché ha detto che ho inventato tutto. Ha detto che sono una bugiarda. Voglio dire del letto e della toletta e la fotografia e persino il vestito e tutto. Le ho detto «va bene, ti faccio vedere, furbona». Ho guardato nella stanza della nonna. Stava ancora facendo il sonnellino. Sono scesa e ho detto a Mary Jane di salire perché la nonna non ci avrebbe scoperto. Dopotutto non era così furba. Ridacchiava come al solito. Ha fatto anche rumore quando ha picchiato contro il tavolo sul pianerottolo di sopra. Le ho detto «sei un gatto spaventato». Mi ha detto «casa mia non è così buia come questa». Lo era proprio tanto. Siamo andate nella camera della mamma. Era più buia e non si riusciva
a vedere. Allora ho tirato le tendine. Solo un pochino, così Mary Jane poteva vedere. Ho detto «questa è la camera della mamma; pensi che ho inventato tutto?». Era vicino alla porta e non era tanto furba. Non ha detto niente. Si guardava intorno. Ha fatto un salto quando le ho preso il braccio. «Dài, vieni» le ho detto. Mi sono seduta sul letto e ho detto «questo è il letto di mia mamma, senti com'è morbido». Non ha detto niente. «Gatto spaventato» ho detto. «Non lo sono» ha detto lei nel suo modo. Le ho detto di sedersi «come fai a dire che è morbido, se non ti siedi?». Si è seduta vicino a me. Ho detto «senti com'è soffice. Senti che profumo dolce che ha». Ho chiuso gli occhi ma, strano, non è stato come al solito. Perché c'era Mary Jane. Le ho detto di smetterla di toccare la coperta. «Mi hai detto tu di farlo.» «Va bene smettila» le ho detto. «Guarda» le ho detto, facendola alzare. «È la toletta.» L'ho portata vicino. Ha detto «lasciami andare». Era così tranquillo come al solito. Ho cominciato a sentirmi male. Perché c'era Mary Jane. Perché era nella camera della mamma e la mamma non avrebbe voluto Mary Jane. Ma dovevo farle vedere tutto. Le ho mostrato lo specchio. Ci siamo guardate allo specchio. Sembrava bianca. Ho detto «Mary Jane è un gatto spaventato». «Non lo sono, non lo sono» ha detto «e comunque nessuna ha una casa così tranquilla e buia. Comunque puzza.» Mi sono arrabbiata. «No, non puzza» ho detto. «Sì» ha detto «l'hai detto tu.» Mi sono arrabbiata ancora di più. «Sa di zucchero» ha detto. «Sa di gente malata, la camera di tua mamma.» «Non dire che la camera di mia mamma è come la gente malata» le ho detto. «Be', non mi hai mostrato nessun vestito e hai detto una bugia» ha detto. «Non c'è nessun vestito.» Ho sentito tutto caldo dentro e le ho tirato i capelli «Te lo faccio vedere, e non dire mai più che sono una bugiarda.» Ha detto «vado a casa e faccio la spia alla mamma». «Non ci vai,» le ho detto «adesso guardi il vestito di mia mamma e sarà meglio che non mi chiami bugiarda.» L'ho fatta alzare e ho preso la chiave dal gancio. Mi sono inginocchiata. Ho aperto la scatola con la chiave. Mary Jane ha detto «puah, sa di spazzatura». Le ho infilato le unghie ed è andata indietro e si è arrabbiata. «Non pizzicarmi» ha detto, ed era tutta rossa. «Faccio la spia a mia mamma» ha det-
to. «E comunque non è bianco, è sporco e brutto» ha detto. «Non è sporco» ho detto. L'ho detto così forte che mi meraviglio che la nonna non abbia sentito. Ho tirato fuori il vestito dalla scatola. L'ho sollevato per farle vedere com'è bianco. Si è spiegato come la pioggia che sussurra e il fondo toccava il tappeto. «È così bianco,» ho detto «tutto bianco e pulito e di seta.» «No,» ha detto «è bucato.» Era così arrabbiata e rossa. Mi sono ancora più arrabbiata. «Se mia mamma fosse qui ti farebbe vedere.» Ha detto tutta arrabbiata «tu non hai la mamma». La odio. «Ce l'ho.» L'ho detto forte. Ho indicato con il dito la fotografia della mamma. «Be',» ha detto «chi riesce a vedere in questa stupida stanza buia?» L'ho spinta forte ed è andata a sbattere contro il cassettone. Ho detto «guarda la fotografia. Quella è la mia mamma, ed è la donna più bella del mondo.» «È brutta, le mani sono strane» ha detto Mary Jane. «Non è vero,» ho detto «è la signora più bella del mondo.» «No, no,» ha detto «ha i denti sporgenti.» Poi non ricordo più niente. Penso a come il vestito si muoveva nelle braccia. Mary Jane ha urlato. Non ricordo che cosa. È diventato buio e penso che le tendine fossero tirate. Non riuscivo a vedere. Non sentivo niente se non denti sporgenti, mani strane, denti sporgenti, mani strane, anche quando nessuno lo diceva. C'era qualcos'altro perché penso di avere sentito qualcuno dire «non lasciarglielo dire!». Non potevo credere al vestito. E se l'avevo con me non ricordo. Ero forte come uno grande. Ma ero sempre piccola, voglio dire fuori. Penso di essere stata proprio cattiva. Credo che la nonna mi abbia portato via, non so. Stava urlando «Dio aiutaci, è successo, è successo». Tante volte, tante volte. Non so perché. Mi ha trascinato fin qui, nella mia camera, e mi ha chiuso dentro. Non mi lascia uscire. Non sono così spaventata. Chi se ne importa se mi lascia qui per un milione, un miliardo di anni? Non deve nemmeno darmi la cena. Io non ho più fame. Sono sazia. John Anthony West GREGORY DI GLADYS
Gregory di Gladys, uno dei nostri racconti preferiti, potrebbe forse essere definito più di humour nero o di satira che d'orrore tradizionale, anche se gli eventi che descrive sono veramente orribili. Pubblicato per la prima volta in «Fantasy & Science Fiction» nel febbraio del 1963, è stato riproposto più volte in varie antologie, forse perché parla di un argomento che interessa tutti noi, ed è proprio per questo motivo che lo abbiamo incluso nel presente volume. In Gregory di Gladys John Anthony West descrive un'intera comunità preoccupata per il sovrappeso, i cui membri infine otterranno una... "bistecca". Gentili signore, membri del club, sono onorata di essere qui oggi per parlarvi della gara annuale svoltasi nella nostra comunità e del suo vincitore: Gregory di Gladys. Vi sarò grata per il vostro interesse e la vostra cortese attenzione. Comincerò con i dati medici registrati da Gregory subito dopo il suo arrivo nella nostra comunità. altezza peso circonferenza toracica vita collo
cm 197 kg 110 cm 125 cm 92 cm 47
Gentili signore, immagino la vostra ammirazione, perciò permettetemi subito di illustrarvi l'altra faccia della medaglia. Al suo arrivo Gregory aveva ventotto anni e il suo peso era pressappoco quello dei tempi della scuola, quando giocava nella squadra di calcio degli All American. Era sposato da tre interi anni, membri del club! Vi prego di non saltare a conclusioni affrettate e, prima di condannare Gladys, ascoltatemi bene. Ricordate che, sì, avevamo Gregory, 110 chili di materia prima, e che il suo peso era stabile da otto anni. Sfortunatamente, lo ammetto, le donne della nostra comunità non videro la cosa obiettivamente. «È colpa di Gladys!» gridarono, e l'indignazione era feroce. Pensammo a Beth Shaefer che in meno di tre anni aveva condotto il suo Milton dai suoi sconcertanti 74 chili a 142; a Sally O'Leary che, nonostante tre fallimenti iniziali, battendosi coraggiosamente era riuscita a portare il suo Jamie, ex fantino, a 122 chili; a Joan Granz che aveva guidato amorevolmente il suo Marvin fino a 198 chili, facendolo arrivare al secondo posto, nonostante le sue precarie condizioni cardiache. Certamente ognuno di
voi può comprendere quali fossero i nostri sentimenti. Orbene, Gregory di Gladys era allenatore di una squadra di football, Un giorno che mi trovavo a passare con la macchina vicino allo stadio, capii la ragione dell'incresciosa situazione. Gregory di Gladys partecipava attivamente all'esercizio fisico! Lo vidi lanciarsi ripetutamente contro il fantoccio imbottito, fare cinque minuti di esercizi intensi e poi, non contento, correre con la squadra intorno al campo. I più acerrimi nemici di Gladys dovranno ammettere, a questo punto, che forse la colpa non era del tutto sua. Mi sembra ancora quasi di "vedere" le calorie del suo corpo colare dai pori con il sudore. Il mattino dopo telefonai a Gladys, che era una personcina giovane e dolce, ben diversa da come le dicerie maligne e astiose l'avevano dipinta. Le riferii la scena del campo sportivo ma la poverina la conosceva fin troppo bene, e aveva da raccontare fatti ancora più curiosi. Gregory tosava il prato con una falciatrice a mano, nella stagione morta giocava a pallamano e percorreva correndo in tuta i tre chilometri che separavano il campo da casa sua. La ragazza era disperata; insieme discutemmo della dieta e io rimasi sbalordita. Carne rossa! Lei lo nutriva con carne rossa, e pesce, e uova e verdura fresca... «Paste ripiene di crema!» le gridai. «Patate! Torte di cioccolata a strati! Birra! Burro!» Gregory però odiava questi cibi. Non li avrebbe mai toccati. «Lui non ti ama» le dissi. «Ma sì, invece» ribatté Gladys con voce rotta «a modo suo mi ama.» Le suggerii la strategia che spesso era stata così efficace quando le gare non erano ancora così popolari e la concorrenza era più forte. Come tutte sappiamo, rispetto ai nostri compagni abbiamo maggiore resistenza sessuale. Una moglie, celando abilmente altri motivi sotto la parvenza della passione, può ridurre il marito in uno stato di sfinimento sessuale nel giro di poche settimane e, quando un marito è sessualmente soddisfatto, può essere manovrato con sottili espedienti. Sera dopo sera se ne resta seduto tranquillo. A mangiare. Così facendo immagazzina energia per la notte e, gradualmente, mette su peso. A un certo punto la sua obesità comincia a interferire con la virilità ed è questo il momento in cui la moglie intelligente comincia a diminuire la richiesta di prestazioni sessuali. Il marito allora, avvolto nel suo confortevole strato di grasso, è ben felice di essere lasciato in pace. La moglie riduce i suoi approcci a zero mentre lui, ormai libero dall'ansia di dover accumulare calorie, si prepara per la gara. Nel caso di Gregory di Gladys questo metodo si dimostrò inefficace.
Dopo un mese di tentativi Gladys era infatti diventata l'ombra di se stessa, mentre Gregory era dappertutto, con la sua squadra, a falciare il prato, con i suoi bei muscoli turgidi e un sorriso compiaciuto sul viso. Durante una riunione straordinaria della comunità fu quindi escogitato un piano ingegnoso: avremmo reso Gregory e Gladys la coppia di spicco della comunità. Ben presto ebbero il loro "carnet" sociale zeppo d'impegni: colazioni, pranzi, buffet, picnic e così via. Gregory si trovò continuamente seduto a tavole stracariche di carboidrati, tenuto sotto costante sorveglianza. Non faceva in tempo a pulirsi le labbra sporche di panna montata, che gli veniva messa davanti una montagna di gelato decorata di biscotti. Il suo boccale di birra non era ancora sceso a metà che qualche moglie vigile si affrettava a riempirglielo. A questo punto, signore, devo chiarire che Gregory non era un ribelle consapevole, né un malizioso, né un sovversivo. Dobbiamo dimenticare le sue sciocche convinzioni sul culto del proprio fisico e vederlo com'era realmente - un uomo attraente e un marito ideale: affabile, riservato e molto stupido. La furia combattiva della nostra comunità femminile presto si trasformò in premurosa sollecitudine. Una Gladys raggiante riferì che Gregory aveva allargato la cintura di due fori e, attentamente guidata, ebbe il compito di condurre la guerra psicologica. In giro per la casa furono sparse riviste aperte sugli annunci di cibi ricchi di calorie e alle feste flirtò apertamente con i mariti più grassi ancora in libertà. Verso la primavera Gregory pesava più di 140 chili ma, nonostante fosse sconcertato, rimaneva abbarbicato alle vecchie convinzioni. «Devo tornare in forma per gli allenamenti di questa primavera» borbottava con la bocca piena di mousse al cioccolato. Quando raggiunse i 150 chili, il nostro spirito di collaborazione si affievolì. Le donne, di colpo, capirono cos'avevano fatto e furono terrorizzate dalla prospettiva. Frattanto Gladys, sempre più fiduciosa, avanzava rapida e con una brillante strategia. Consultò persino un indovino che le rivelò che Gregory, se gliene fosse stata data l'occasione, sarebbe crollato definitivamente con le noci del Brasile. Ne comprò quindi mezzo chilo per prova e sparirono in cinque minuti! Le noci del Brasile, signore, pensate! Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Le noci del Brasile, piene di calorie! Lo spirito della comunità si trasformò in un gelo ostile, poi in invidia
violenta. Gregory non riusciva a smettere di imbottirsi di noci del Brasile! Occhi ansiosi scrutavano pieni di speranza per scoprire i segni rivelatori di una incipiente interruzione del processo, la pelle tirata e l'espressione da pesce bollito che denunciano che un marito, nonostante il suo apparente potenziale, è prossimo a raggiungere il peso massimo. Noi tutte cercavamo gli indizi di un disgusto per il cibo, ma a 155 chili Gregory era appena sazio, anzi di sua iniziativa aveva sviluppato l'inclinazione per i dolci. La gara di quell'anno fu una completa delusione. È vero che Peter di Jenny Schults vinse il primo posto con 192 chili, ma era il prodigioso Gregory che occupava i nostri pensieri. Poco dopo, Gladys, contrariamente alle aspettative, mise il suo Gregory in isolamento, e questo fu motivo di speranza. Gladys aveva certamente sopravvalutato le proprie possibilità e sbagliato la strategia per giovanile entusiasmo, ma la fiducia eccessiva in se stessa aveva irritato le signore della nostra comunità. Per la prima volta nella storia le nostre donne si unirono per contrastare l'incombente vittoria di Gregory. I sentimenti che determinarono questa presa di posizione non furono proprio lodevoli ma, signore, provate a mettervi nei nostri panni. Sopportereste l'angoscia, lo sforzo e anche le spese necessarie a preparare un marito per una gara il cui esito si suppone scontato in partenza? Quanto tempo le sarebbe occorso per preparare il suo Gregory? Questo era il problema scottante. Come tutte sappiamo, in media ci vogliono dai tre ai quattro anni, ma Gregory era sicuramente un caso speciale; per lui quattro anni avrebbero significato un'eccessiva flaccidezza. Tre anni sembravano la soluzione più logica, ma nel caso di Gregory due anni non erano un traguardo irraggiungibile e Gladys aveva già dimostrato zelo e impazienza. La ponderata opinione della nostra comunità fu che Gladys avrebbe presentato Gregory in un paio d'anni. Per le altre mogli risultò quindi ovvio tenere i loro mariti fuori gara per presentarli in un anno diverso. Nel caso Gregory fosse stato l'unico partecipante, la sua vittoria sarebbe stata senza significato. Questa soluzione fu impudente ma decisa. Le donne stipularono l'accordo di far partecipare i propri mariti alla gara l'anno seguente, pur sapendo che parecchi per allora non avrebbero raggiunto il peso massimo. Eravamo consapevoli che, se un piano triennale fosse fallito (per una parola sfuggita, un imbroglio o mille altri motivi), quattro o cinque anni di isolamento sarebbero risultati intollerabili sia per le mogli coinvolte che, naturalmen-
te, per i loro mariti, anche perché si sa che, dopo avere raggiunto l'apice, il declino è molto più rapido. Alle donne per i cui mariti è previsto un isolamento inferiore a un anno sarebbe stata consentita la rottura del patto. Seguì un periodo di particolare tensione. Gladys mascherò la propria alterigia sotto un fittizio interesse per gli affari della comunità, mentre le altre signore celavano la loro complicità e il loro astio sotto la parvenza del cameratismo nato in vista della gara. Gladys intanto continuava ad approvvigionarsi: barilotti di birra, quintali di patate, sacchi di farina, proprio così! Avrebbe vinto la competizione in due anni, ma sarebbe stata una vittoria senza gloria. Tutte noi ricordavamo Darius di Elisabeth Bent che, molti anni prima, con un potenziale simile a quello di Gregory, oltre all'ambizione di conquistare un primato, aveva accettato di essere forzato oltre misura. Era, morto sei settimane prima della gara; un peso eccezionale, ma vano, di 300 chili! A un mese dalla sfida, Gregory fu dimenticato. Alla gara di quest'anno mancava certamente l'elemento sorpresa. Ogni donna (eccetto Gladys) sapeva quali altri mariti sarebbero scesi in campo. Il probabile vincitore poteva essere individuato con ragionevole precisione... tuttavia una gara è sempre una gara e l'atmosfera era comunque satura della familiare e amara rivalità. Il giorno della competizione sorse caldo e splendente e una folla eccitata gremì lo stadio. Quest'anno naturalmente non erano state fatte le solite spasmodiche congetture su chi per esempio avrebbe partecipato inaspettatamente, o su chi sarebbe rimasto un altro anno in isolamento. Cinque minuti prima della sfilata fra il pubblico serpeggiò una domanda: qualcuno aveva visto Gladys? L'attesa divenne febbrile. I colli si allungarono. Occhi acuti scrutarono la folla, ma lei non si vedeva. Un mormorio rabbioso percorse lo stadio. Poteva avere preparato Gregory in un solo anno? No! No! Non era possibile. La banda cominciò a suonare e gli autocarri, dipinti a colori vivaci e allegramente imbandierati, passarono adagio davanti alla tribuna. Ventisei in tutto. Quante erano le donne che avevano stretto il patto? Venticinque? Ventisei? Nessuno lo ricordava con esattezza. I carri girarono in cerchio sul campo. L'attenzione era divisa fra la parata e l'ingresso per cogliere subito il previsto arrivo in ritardo di Gladys fra gli spettatori. La fanfara divenne squillante e acuta e gli autocarri si fermarono. Le mogli scesero dalle cabine e si fermarono davanti ai veicoli. Tutti conosciamo la tensione di questo momento, quando il pubblico guarda la fila
delle mogli, vede le due dozzine o più di donne abbigliate nel modo più elegante e tenta, contemporaneamente, di individuare quelle che dovrebbero esserci e non ci sono. Quell'attimo intenso che coinvolge anni di pianificazione, di speranze, di lavoro, di progetti, che si rivelano troppo in fretta... e in quella frazione di secondo tutti gli occhi si puntarono su una sola persona: Gladys. Impettita davanti al suo carro, stupenda in un vestito di organza bianco, fresca come una rosa, non lasciava trasparire ciò che la sfida spasmodica e solitaria doveva essere stata per lei, sul suo viso non c'era una sola ruga, non un ricciolo era fuori posto. Avvertivo l'odio che si accumulava in una tempesta. Le altre mogli in gara la guardarono disorientate. La tromba suonò e le donne tolsero le coperture dei carri: il momento di suspense, quando i mariti compaiono, era arrivato. Questa volta però tutti gli occhi si puntarono sul carro che aveva il numero diciassette: quello di Gregory di Gladys. Non ci fu un solo applauso, né i soliti gridolini e strilli selvaggi, nulla se non un silenzio agghiacciante, in quell'istante ogni moglie presente seppe che anche la sua più remota speranza era svanita per sempre: mai, mai, nemmeno nei loro sogni a occhi aperti più folli avrebbero potuto immaginare l'aspetto di Gregory. Era piantato sull'autocarro come un monolito. Il suo viso non aveva nemmeno l'aspetto gonfio che di solito i mariti mastodontici hanno in gara: la sua fronte era solcata da spesse pieghe di carne, le guance, né flaccide né gonfie, pendevano in ricche giogaie come enormi bistecche. Il collo era un cono tozzo unito a due spalle così gigantesche che anziché scivolare verso l'inevitabile pancione, sembravano sormontarlo. Era perfetto. Una colonna, un monolito, una montagna, solido e immobile. Si girò lentamente e con orgoglio: davanti, di profilo, di spalle e di nuovo davanti. Era impossibile calcolare il peso. Era il più grande, il più pesante, il più enorme e il più bello che ognuna di noi avesse mai visto. L'odio del pubblico diventò disperazione. Nostra nipote ci pregherà di raccontarle la storia di Gregory, ma noi l'abbiamo visto! Per noi non ci sarebbero più state gare. Nessuno fra noi pensò alle sofferenze di Gladys, ai lunghi anni di ostracismo sociale che l'attendevano. Ma come avremmo potuto? Iniziò la pesatura e il pubblico si spazientì e imprecò: Gregory era il diciassettesimo! I paranchi alzarono i mariti all'altezza della piattaforma della pesatura e furono annunciati i primi risultati: 172 chili, 188, 134 (qualcuno rise), 205, 215 (qualcuno applaudì, sicuramente un parente), 193,
172... ma non c'era un pizzico d'interesse. Le mogli costernate, che avevano lavorato per anni in previsione di questa occasione e che chiedevano solo una competizione leale, piangevano spudoratamente. Arrivarono i 200 e i 250 chili. L'attesa sembrava interminabile. Gregory era il prossimo ma Gladys aveva ancora in serbo una sorpresa. Quando gli incaricati si mossero per sistemare l'imbracatura su Gregory, lei li scacciò. Appoggiò una robusta scala all'autocarro e, pesantemente, ma senza esitazione, Gregory scese. Era ancora capace di camminare! Con le spalle buttate all'indietro per bilanciare il suo magnifico pancione, ondeggiò e barcollò verso le scale che portavano alla piattaforma. Toccò la fragile balaustra e la divelse. Usando un tratto di parapetto come bastone, salì gli scalini, mentre una folla senza fiato si attendeva di sentire lo schianto delle tavole. La scala gemette ma tenne, e Gregory si diresse verso la bilancia. Bene, gentili signore, che importanza ha la cifra esatta? Era tutto finito. Dopo avere visto Gregory, ogni freddo dato numerico era diventato irrilevante. Il peso, comunque, era di 371 chili. Gregory si volse lentamente e orgogliosamente sul piatto della bilancia e sorrise. Non ci furono applausi ma, prima singolarmente, poi a gruppi, e poi tutte insieme, le componenti il pubblico si levarono in piedi. Persino l'invidia e l'odio erano senza potere in presenza di un campione che sarebbe stato un monumento a Gladys e alla nostra comunità, un modello per tutto il mondo. A questo punto, gentili signore, il mio unico desiderio è di terminare questa relazione con l'importanza che merita una tale prestazione. Sfortunatamente un episodio sciupò la perfezione della vittoria di Gladys. Il nostro club, come ogni altro, ha sempre rispettato la regola ferrea e tacita che detta: "Il vincitore della gara può scegliere il modo in cui desidera essere servito". Gregory di Gladys, per un vero e proprio dispetto (su questo punto la disputa infuria ancora), o dando ascolto a qualche impulso primitivo, chiese di essere servito... crudo. Ora, non essendoci precedenti al riguardo e nel timore di infrangere una consuetudine rispettata nel tempo, pur riluttanti acconsentimmo alla richiesta, che ha portato a molti un disagio acuto e per tutti una forte repulsione fisica. Nella nostra comunità stiamo al momento discutendo una mozione che in futuro intende alleviare il vincitore della gara da questa responsabi-
lità. Data la sfortunata esperienza, mie care signore, in questa sede è parte del mio dovere sollecitare voi e ogni altro club ad approvare questo emendamento il più presto possibile. Gentili signore, vi ringrazio per la pazienza che mi avete dimostrato. Stephen Gallagher SUL FIUME, A FONTAINEBLEAU La carriera di Stephen Gallagher come scrittore cominciò con alcune collaborazioni alla radio e alla televisione britanniche. In seguito si diede alla narrativa a tempo pieno e il suo primo romanzo, Chimera, venne pubblicato in America nel 1982 dalla St. Martin's Press. La rivista «Fantasy & Science Fiction» ha avuto la fortuna di pubblicare molti dei suoi misteriosi e avvincenti racconti. Noi pensiamo che, fra questi, Sul Fiume, a Fontainebleau sia il migliore. Nella sua atmosfera surreale, forse la più spaventosa tra quelle suscitate dalla penna dell'autore, Gallagher ci comunica una visione terrificante della passione. Potremmo dire che tutto dipende dal modo in cui la si guarda. Rimanemmo al riparo della grande quercia per più di un'ora, osservando la pioggia torrenziale che cadeva. Il cielo era plumbeo e, quando tuonava, sembrava che il terreno sottostante la foresta tremasse. Persino Antoine non poteva dire che fosse una pioggerellina primaverile, e quindi ce ne stavamo in un tetro silenzio, con gli zaini ai piedi e gli impermeabili di tela cerata sulla testa. Penso che fu allora che presi la decisione. Quando finalmente smise di piovere, ci mettemmo gli zaini sulle spalle e continuammo il cammino. Il viottolo ora era per lo più fangoso, e fra gli alberi faceva capolino il sole pallido che sollevava la nebbia dal terreno fradicio. Non ero dell'umore adatto per apprezzare quell'atmosfera, ma dopo un po' Antoine cominciò a fischiettare. Dopo circa dieci minuti arrivammo a un fiume poco profondo ma impetuoso, dove il viottolo si perdeva per ricomparire sull'altra sponda, e a quel punto ero così bagnato e depresso che guardai il corso d'acqua senza esitare o lamentarmi. Ogni passo mi avvicinava a casa, e questo era tutto ciò che mi interessava. Ci rendemmo però ben presto conto che il sentiero ci avrebbe portati solo alla fattoria sull'altra sponda, visto che il tratturo finiva in un cortile chiuso. Era un luogo dall'aspetto misero, squallido e sgradevole persino nella luce del tardo pomeriggio, e il mio primo impulso fu quello di girar-
mi e andarmene via. Antoine però, il solito ottimista, disse: «Pensi che abbiano compassione di noi e ci diano qualcosa da mangiare?». «È più probabile che ci diano un colpo in testa e ci derubino» gli risposi. «Resta qui e tieni d'occhio i bagagli, vado a chiedere indicazioni sulla strada da fare.» Mi incamminai e arrivai nell'aia, guardandomi intorno in cerca di qualche segno di vita. Alcune galline razzolavano sul terreno arido nelle vicinanze di un ovile di fortuna dov'erano ricoverate quattro capre ridotte pelle e ossa. Da qualche parte oltre il granaio, un cane abbaiava. Alla mia sinistra l'angolo del cortile era ombreggiato da un grande castagno e sotto, sulla terra asciutta e battuta, vidi qualcosa di spaventoso. C'era un maiale scheletrico, legato e pronto per essere macellato. Naturalmente quello doveva essere il luogo dove si uccidevano gli animali, perché dai rami più bassi dell'albero pendevano i ganci per sistemarvi le carcasse sanguinolente. La vista era orribile, considerando come l'animale era stato preparato. Ognuna delle zampe era stata tagliata fino al giunto, incisa fino a rivelare l'osso bianco e ormai priva di sangue. I tendini tenuti insieme erano irrigiditi, ma il maiale grugniva ancora nel tentativo di mettersi in piedi. Distolsi lo sguardo da quello spettacolo nauseante e proseguii. Dall'altro lato del granaio finalmente trovai della gente: padre e quattro figli dall'apparenza sporca e rozza, con le facce grette e scure, e gli occhi penetranti. Stavano trascinando dei tronchi che dovevano essere tagliati; ma, quando mi videro, smisero di lavorare. Mi rivolsi all'uomo più anziano e gli altri rimasero fermi a osservarmi, a bocca aperta, con le mani allungate sui fianchi e gli occhi illuminati solo da un tenue barlume di ragione. Non ottenni niente fino a quando non capii che la chiave per sbloccare l'incomunicabilità tenace era rappresentata dai soldi, e infine mi dissero solo che l'unico modo per raggiungere la statale per Parigi era quello di ripercorrere a ritroso il sentiero che avevamo appena seguito. Ringraziai il contadino, sentendomi sconfitto e stupido perché invece avrei dovuto maledirlo, e tornai faticosamente da Antoine. Era fermo dove l'avevo lasciato, e ai suoi piedi c'erano gli zaini con i cavalletti, i pennelli e gli album per gli schizzi. Era appoggiato al muretto e guardava verso il castagno con un'espressione remota e pensierosa. Personalmente avevo evitato di voltarmi indietro, ma adesso lo feci per vedere che cosa lo turbava a quel modo, e fu allora che mi resi conto che, durante la mia breve assenza, il maiale legato era stato portato via, e che adesso
davanti a lui c'era una scena diversa. «Marcel, io mi fermo qui» mi disse. Non capii. «Rimani qui?» «Sì, avranno una stanza, una soffitta o un granaio, e non rifiutano i soldi. È tardi e sono stanco...» «Nessun'altra ragione?» domandai, e diedi un'occhiata indagatrice al castagno, dove una ragazza stava spazzolandosi i capelli con aria disinvolta. Si guardava in uno specchio vecchio e rotto che aveva appeso a uno dei ganci da macelleria, e sembrava del tutto ignara della nostra presenza. Era a piedi nudi, e portava una camicia così umida e aderente alla pelle che era chiaro che sotto non indossava niente. Ai miei occhi non era che una comune ragazza di campagna, troppo massiccia per essere aggraziata e probabilmente troppo ottusa per poterci conversare insieme... ma chi può dire cosa rappresentasse agli occhi di Antoine? Durante le settimane del nostro viaggio a piedi avevo già capito che vedevamo le cose in modo opposto, come illuminati da una luce diversa. Adesso, quale risposta alla mia domanda, lui sorrideva, e non aggiunse altro. «Allora,» gli dissi «rimani da solo, Antoine.» Rimase stupito dalle mie parole. «Non litigheremo per questo?» «No,» gli risposi appoggiandomi al muretto al suo fianco «certamente. Semplicemente non voglio intralciarti. Per me l'avventura è finita qui, Antoine, e non serve a niente far finta che non sia così. Ne ho abbastanza di camminare e disegnare e trovarmi a faccia a faccia con la natura. Ho sbadigliato all'alba e tremato sotto la pioggia, e se morissi senza mai più vedere un altro albero, villaggio o campo di grano, morirei contento. Antoine, quello che sto cercando di dire è che non sono un artista. Se queste ultime settimane sono state il banco di prova, allora ammetto che questa non è la mia vita. Sono tutto dolorante e mi fanno male i piedi e non ho più niente da sperimentare. Torno a Parigi questa notte.» Quella che gli venivo esponendo era la decisione presa nella foresta e sotto la quercia. L'escursione, che era sembrata così interessante a due giovani pittori in erba, si era trasformata per me in una sfacchinata resa ancora più acerba dal tempo instabile, da locande piene di correnti e dal desiderio struggente di tornarmene a casa. Avevo continuato a disegnare in una sorta di autoimposizione caparbia, ma non me ne sarebbe importato nulla se non fosse stato per Antoine. Non avevo più guardato gli schizzi che avevo tracciato e non mi interessava nemmeno farlo. Avevo capito che il mio talento artistico non era abbastanza forte da sopravvivere fuori da un confor-
tevole studio, il che suppongo voglia dire che non fosse un talento autentico; forse si trattava unicamente di un modo valido per convincere le ragazze a spogliarsi per me, ma non era vera arte. «Oh, Marcel,» mi chiese Antoine con affetto «per te è stato davvero un inferno?» «Sarò un normalissimo cittadino, Antoine» gli dissi. «Sono nato per essere così. C'è voluto questo viaggio per farmi capire quanto lo desideri.» Guardò di nuovo verso il cortile, in direzione della ragazza sotto il castagno. Per un attimo sembrò che i suoi occhi si distogliessero dallo specchio e incontrassero quelli di Antoine, ma il suo viso non tradì niente. «Non posso seguirti» dissi. «Ti capisco.» Gli dissi dove avrebbe trovato il contadino e, mentre si avviava in quella direzione, trasferii tutti i miei pastelli, colori e carboncini nel suo zaino. Provavo la sensazione strana dell'abbandono di un sogno, una sorta di sollievo e rimpianto inestricabilmente fusi insieme. Gli diedi anche due tele mai utilizzate e il fissatore per i colori. Quando Antoine tornò, mi informò delle condizioni stabilite dal contadino per il suo soggiorno. Be', per dirla com'è, in cambio di due settimane con il più semplice vitto e un alloggio nel granaio, volevano tutti i soldi che Antoine aveva in tasca. Rimasi allibito, ma lui era tranquillo. Mi fece promettere che sarei andato da suo padre per prendere la sua paga mensile e che entro due settimane sarei tornato con il denaro. Anche se non mi sarebbe importato di non vedere mai più la foresta di Fontainebleau, non ero contento di lasciare Antoine completamente in balia di questa sua nuova ossessione, e inoltre avrei almeno potuto tenerlo d'occhio. Mi accompagnò fino al fiume. C'era ancora un'ora di luce e avevo un po' di strada da fare. Prima di iniziare a guardare il corso d'acqua gli chiesi: «Cosa dico a tuo padre?». «Quello che ti pare» mi rispose. «Quello che pensi lui abbia bisogno di sentire. Fallo per me, Marcel.» Avrei aggiunto qualcosa, ma stava già guardando con desiderio in direzione dell'aia. Nonostante mi fossi fermato lì per mezz'ora, non mi sembrava meno squallida di quanto mi fosse apparsa al primo sguardo... ma, come ho già detto, Antoine sembrava spesso vedere le cose con occhi diversi. Forse con quelli dell'artista. Il mio esperimento era fallito, e le due settimane seguenti sarebbero state per lui la prova definitiva.
Quella notte pernottai a Barbizon e arrivai a Parigi la sera dopo. Entrai in casa dalla porta sul retro, in parte perché avevo vergogna di quello che consideravo essere un mio fallimento, ma il motivo principale era che sembravo un barbone. Durante i giorni seguenti iniziai a interessarmi degli affari di famiglia, scoprendo un mondo strano fatto di annotazioni e registrazioni in libri contabili, che in qualche modo erano collegati a navi vere che salpavano da qualche parte verso oceani veri. Mi sistemarono con la qualifica di impiegato apprendista perché potessi imparare le regole fondamentali di base. Anche se sapevo cosa mi dovevo aspettare, le lunghe ore di lavoro e l'orario rigido furono uno shock per me. Appena arrivato a casa avevo mandato ai genitori di Antoine un biglietto in cui li assicuravo circa le sue condizioni, ma fui in grado di andare a trovarli per informarli della richiesta del figlio solo la sera del venerdì successivo. Le notizie non furono buone. Mio padre, bontà sua, era stato disposto ad aspettare che la mia esaltazione si esaurisse da sola, come se avesse previsto come sarebbe andata a finire e si fosse preparato per quando sarebbe giunto quel momento. Il padre di Antoine però non era così paziente. Si limitò a dirmi di avvertire Antoine che non ci sarebbe stata nessuna paga fino a quando non avesse rinunciato al suo passatempo e fosse tornato a casa. Il sabato lavoravo mezza giornata e, non appena ebbi finito, mi avviai verso la stazione. Quando finalmente rividi la fattoria era ormai tardo pomeriggio. Era come me la ricordavo, anche se ero io a essere cambiato ai suoi occhi: indossavo il completo buono e l'impermeabile, e questa volta mi ero organizzato per guadare il fiume, anche se poco profondo. Era una bella giornata. La primavera avrebbe lasciato presto il posto all'estate e l'aria non era più pungente. Sotto il castagno c'era ancora lo specchio rotto che dondolava lievemente. Mi fermai all'entrata del fienile e chiamai Antoine ad alta voce, chiedendomi se fosse lì che dormiva. Era per metà colmo di fieno, fino al piano più alto, e di mobili non c'era traccia. Le pareti di legno erano sconnesse, e fra un'asse e l'altra c'era a volte la distanza di un palmo, ma supposi che fosse lì che stava, perché sulla parte di pavimento non ingombra di fieno vidi il cavalletto e l'occorrente per dipingere sparso tutto intorno. Ma Antoine non c'era. Andai a cercarlo. Finalmente lo trovai in una radura a circa duecento metri dal fienile. Come mi aspettavo, con lui c'era la ragazza, seduta in terra, con le mani intrecciate intorno alle ginocchia. Antoine stava facendo uno schizzo ma,
non appena mi vide, lo mise da parte e, urlando il mio nome, balzò in piedi per salutarmi. Confesso che rimasi impressionato, anche se mascherai bene quello che provai. In meno di una settimana era deperito come un uomo colpito da un grave malattia. Sembrava più magro e aveva delle occhiaie scure che gli conferivano un aspetto smunto e folle, ma era abbastanza vivace e sembrava contento di vedermi... anche se non potevo dire quanta parte di quell'entusiasmo fosse dovuta a vero piacere e quanta al denaro che pensava io avessi con me. Avevano un cestino e cenammo insieme con pane grezzo e formaggio dall'aspetto di paglia umida. Antoine mi presentò la ragazza, che si chiamava Lise, diminutivo di Annelise e, quando lei parlò, capii immediatamente che non era francese, anche se dall'accento non riuscivo a comprendere di dove fosse esattamente. Sembrava timida e non toccò cibo, bevendo solo un po' di vino. Antoine mi diede gli schizzi da guardare, proprio come facevamo alla fine di ogni giornata trascorsa insieme. Come mi aspettavo, aveva disegnato solo la ragazza, tracciando studi di teste e ritratti a tutta altezza, alcuni dei quali non erano che poche linee tratteggiate che esprimevano l'assenza di qualunque movimento. Non lo feci capire, ma ero deluso. Speravo di vedere un'impronta personale, qualcosa che rivelasse la visione che l'aveva ispirato, ma ciascun disegno era poco più di un esercizio di tecnica. Pensai che dopotutto non c'era molto da invidiare, non era nient'altro che una passione casuale resa reale dal rapporto fra l'artista e la modella, una situazione che perlomeno potevo capire, anche se rimasi stranamente deluso di non scoprire nient'altro. Lise gli chiese se per quel giorno aveva finito, e poi se ne andò. Mentre si allontanava, notai negli occhi di Antoine un'ombra evidente di dolore. «Chi è?» gli chiesi non appena lei fu abbastanza lontana per non sentirmi. «Non lo so, penso che sia orfana. La famiglia la ignora completamente.» «Lavora nella fattoria?» «Non penso» disse, mentre il viso rivelava la sua incertezza, come se fosse una domanda a cui lui stesso avesse cercato di rispondere nei giorni precedenti. «Non ne sono sicuro. A volte sparisce per ore, ma... non ha importanza. Hai parlato con mio padre?» Non potevo fare nient'altro che dargli la brutta notizia. Si incupì immediatamente, e l'espressione di vaga contentezza che aveva fatto da contrappeso al deperimento del viso si tra-
mutò in disperazione. «Allora non so cosa fare» disse. «Senza soldi non mi faranno rimanere. Mi hanno già dissanguato. Non puoi capire quella gente.» «Comunque non così bene come loro sembrano capire te» gli risposi. «È per via della ragazza, no?» Abbassò lo sguardo e non mi rispose. «Allora,» continuai «perché non la porti via con te?» Scacciò quest'idea dalla mente ancora prima che avessi finito di suggerirgliela. «Non è possibile» disse. «Camminare la fa soffrire.» E poi, proseguendo come se questo fosse un problema minore, sufficiente per mettere fine al discorso, si alzò dicendo: «Vedo solo una via d'uscita. Vieni con me». Andammo fino al fienile senza più parlare. Da uno degli altri edifici vidi uno dei figli del contadino osservarci passare. Non fece nemmeno un cenno nella nostra direzione, e Antoine neanche lo guardò. Quando arrivammo Lise non c'era, né sembrava che Antoine si aspettasse di trovarla. Andò al cavalletto, e io lo seguii, esitò un attimo e poi tirò via il pezzo di stoffa macchiato di colore che vi aveva sistemato sopra per proteggere la tela. Era un dipinto a olio. Rimasi sbalordito, perché era stupendo. Raffigurava la prima volta che Antoine aveva visto Lise sotto il castagno. Riconobbi ogni particolare, che però appariva trasfigurato; capii che allora ero stato così immerso nella mia tristezza che non mi ero reso conto di niente. Lise era ritratta in piedi, con la spazzola in mano, illuminata a tratti dalla luce del sole morente, e dietro di lei c'erano morbide ombre blu. Mentre si specchiava, dai suoi lineamenti puri traspariva una bellezza quieta, e compresi che era un dipinto triste, una celebrazione della fuggevolezza di ogni esperienza e della vita stessa. Mentre lo contemplavo, dentro di me sentii morire qualcosa. Pensai ai miei paesaggi di Fontainebleau, carini e insignificanti, e finalmente ebbi la certezza di avere preso la decisione giusta. La mia tecnica era buona come quella di Antoine, se non addirittura migliore, ma capii che essa non è che un elemento marginale e che, per dipingere, bisogna innanzitutto sapere vedere, e che io, senza essere guidato, non ne ero capace. «Devi portarlo a Parigi e venderlo per qualunque cifra tu possa ottenere.» Annuii lentamente. Non c'erano domande da fare, l'avrei aiutato come avrei potuto. «Sono invidioso, sai» gli dissi. «Non esserlo» disse, guardando la tela come se in qualche modo essa lo
turbasse. «Le cose che noi vogliamo più di tutto non sempre sono quelle che ci rendono felici.» Gli diedi gran parte del denaro che avevo con me, e anche la somma che avevo messo da parte per pernottare una notte prima di tornare in città. Quando salimmo la scala a pioli e Antoine mi mostrò il fienile più in alto, dove avrei dovuto dormire, avvertii in lui una certa riluttanza, ma la presi come il naturale imbarazzo che esiste fra gli amici quando ci si fa un piacere. Il mio concetto di comodità non era precisamente una coperta sul fieno, ma era tutto quello che era disponibile. Ero abbastanza al caldo, ma il fieno mi pungeva dappertutto attraverso la lana sottile. L'impermeabile arrotolato rappresentava un discreto cuscino, ma non potevo fare a meno di domandarmi che aspetto avrebbe avuto il mattino dopo quando l'avessi scrollato. Pensai che non c'era da stupirsi che Antoine avesse un'aria così giù dopo avere passato una settimana in quelle condizioni. Non so che ora fosse quando mi svegliai, ma dovevano essere all'incirca le due o le tre del mattino. Ero scomodo, e guardavo gli interstizi tra le assi da dove penetrava la luce fioca della luna quando sentii alcune voci giungere da basso. Erano dei sussurri, ma la notte era così tranquilla che era impossibile non coglierli. «Mi ricordo di avere lasciato te e il tuo amico» stava dicendo Lise. «Ero così stanca dopo avere posato per te tutto il mattino, ma non mi ricordo dove sono andata dopo.» «Sei andata dove vai sempre» sentii Antoine rispondere. «Al grande pagliaio dietro la casa. Ti ci sei fatta un riparo e ti ci sei nascosta.» «Tutto quello che so, è che era buio ed ero di nuovo sotto l'albero. Ero stanchissima, come se avessi corso. Cosa stavo facendo?» «Stavi dormendo, ecco tutto. Come fai sempre.» Ma Lise sembrava spaventata, incapace di accettare una spiegazione così semplice. «Ma lo sai per certo?» gli chiese con insistenza. «Mi hai vista?» Antoine rimase in silenzio per un po', e poi rispose: «Sì». La sentii che si muoveva lievemente, facendo frusciare il fieno. Disse: «Qualche volta sento come se tu fossi l'unico che mi veda veramente. Voglio dire come sono in realtà, come se io non esistessi più, quando tu chiudi gli occhi... perché in un certo senso era così, prima che tu arrivassi». Antoine replicò: «Queste sono sciocchezze». Non mi aspettavo la domanda che fece dopo. «Antoine, chi sono?»
Sembrava persa e triste, come se fosse impossibile rispondere. «Adesso dormi» le disse. Era un buon consiglio, che anch'io avrei seguito volentieri, ma non ci riuscivo, e tutto quello che ero in grado di fare era rigirarmi in quel fieno che mi faceva prudere dappertutto. Il respiro di Antoine diventò pesante e rumoroso e di certo non mi aiutava a prendere sonno. Dopo un po' sentii qualcuno alzarsi e andare verso la porta. Facendo meno rumore possibile, strisciai verso la botola da dove ero salito e sbirciai sotto. Vidi Lisa sulla porta, incorniciata dalla luce della luna, che guardava Antoine. Non riuscivo a decifrarne l'espressione, ma il suo atteggiamento suggeriva la tristezza di lasciarlo. Antoine era solo una macchia indistinta nel buio. Poi Lise si voltò e uscì nel cortile. Mentre mi spostavo verso la finestra senza vetri, da dove avrei potuto guardare nell'aia, un'asse scricchiolò, ma Antoine non si mosse. Adesso Lise camminava veloce, una forma fioca con un vestito semplice, dirigendosi verso il retro della casa, come aveva detto Antoine e, mentre guardavo, vidi un'altra forma stagliarsi nell'ombra e avvicinarsi e, dal suo profilo rozzo, pensai che fosse il contadino o uno dei suoi quattro figli, ed ebbi l'impressione che la stesse aspettando. Lo vidi alzare un bastone o qualcosa del genere e sferzare l'aria come per farle affrettare il passo nella direzione in cui lei stava già andando. La seguì nel passaggio fra le case e poi si chinò verso qualcosa che non riuscii a vedere, ma poi sentii il cancello di legno raschiare il terreno pieno di solchi, e il colpo quando sì chiuse. Quando scomparvero, Lise guidata come se fosse un animale della fattoria, tornai sotto la mia coperta. Era chiaro che l'aveva aspettata, dopo che Antoine si era addormentato, come se fosse una pecora richiamata all'ovile al calar del sole. Avendo visto come la trattavano, potevo solo dire che forse Lise aveva ragione: il modo in cui Antoine la considerava era così diverso dal loro che era quasi come se effettivamente avesse creato la sua bellezza ricavandola da qualche materia più essenziale, dalla quale lei regrediva solo quando l'attenzione di Antoine fosse rivolta altrove, come durante il sonno. Inaspettatamente furono proprio questi inutili pensieri a farmi addormentare. Il mattino dopo una colazione non troppo abbondante ma sufficiente ci venne lasciata all'entrata del fienile. Antoine impacchettò il dipinto con cura, facendo attenzione alle zone in cui il colore non era ancora asciutto.
Aveva intitolato il dipinto La Jeune Fille au Miroir. "La ragazza allo specchio". Lise, che era tornata al fienile qualche tempo prima che mi svegliassi, era seduta in disparte e ci guardava. Parlò poco e non mangiò nulla. Adesso mi era difficile immaginare come avessi fatto a considerarla insignificante. Per rendere più comprensibili gli strani pensieri della sera prima, ora la vedevo attraverso gli occhi di Antoine. La mia impressione iniziale non contava più, non avevo semplicemente cambiato un'opinione per accettare quella di un altro, ma la struttura stessa del mio mondo si era trasformata per l'intensità della sua visione che, per quanto potevo constatare, lo stava prosciugando. Rispetto a quando ero arrivato, non sembrava infatti star meglio, anzi forse era persino peggiorato. Mi domandai se assaporare il successo che poteva derivare dalla vendita del dipinto avrebbe potuto in qualche modo "nutrirlo". Fui pronto a partire che non erano ancora le dieci, sapendo che prima di arrivare alla ferrovia mi aspettava molta strada da fare a piedi. Quando il giorno precedente avevo attraversato il fiume, gli stivali, per quanto robusti, si erano bagnati all'interno; durante la notte si erano asciugati ma Antoine era andato lo stesso a contrattare un passaggio con qualsiasi mezzo in modo che io non dovessi di nuovo guadare il fiume. Non sentii cosa si dissero o promisero, ma dopo dieci minuti un calesse malandato tirato da un pony ancora più malridotto entrò rumorosamente nell'aia. Mentre ci salutavamo agitando le mani e il carretto cigolante iniziava la traversata, il sole mattutino scintillava sul fiume. Il conducente era uno dei quattro fratelli che avevo visto durante la prima visita alla fattoria, e mi chiesi se fosse quello che aveva aspettato Lise nell'aia alla luce lunare. Pensai di chiederglielo... ma fino ad allora non mi aveva rivolto la parola, e sembrava poco disposto a farlo. Sedeva con le spalle curve e gli occhi apparentemente fissi sul didietro del cavallo. Mi aspettavo quasi che mi facesse scendere sulla sponda opposta ma, quando ci inoltrammo con le ruote gocciolanti giù per il viottolo, fu chiaro che, grazie al contratto di Antoine, mi avrebbe accompagnato più lontano. Mi girai per salutare ancora una volta con la mano la figura solitaria di Antoine, e poi mi ritrovai con La Jeune Fille au Miroir sistemato protettivamente al mio fianco. Avvertivo una strana sensazione di perdita, come se stessi lasciando un mondo in cui forse non avrei più potuto entrare, di cui il fiume con le sue sponde erano la linea di confine. Dieci minuti dopo, mentre si incominciava a intravedere l'incrocio prin-
cipale, il mio conducente parlò. «Abbiamo detto al tuo amico» disse all'improvviso e senza preamboli «che non possiamo mangiare i suoi dipinti. Quando finisce il denaro, deve andarsene anche lui.» Mi ci volle un momento per capire che si stava rivolgendo proprio a me, in quanto non aveva sollevato gli occhi dal didietro del cavallo. Quando ne fui sicuro, gli dissi: «Non avete pensato di far partire Lise con lui?». Lo osservai per vedere la reazione, ma quello si limitò a dire: «Perché?». «Non lavora per voi, non è una di voi... non c'è futuro per lei alla fattoria. La famiglia di Antoine è molto ricca, potrebbe sistemarla in un appartamento di sua proprietà e darle una rendita. Vi potrebbe mandare del denaro.» Era il mio colpo più audace, ma ebbe poco effetto, infatti l'uomo stava scuotendo lentamente la testa e questo mi fece arrabbiare. «È abbastanza tardi per considerare la sua purezza, no?» gli domandai. «Visto che siete disposti a mandarla a dormire in un fienile con degli sconosciuti.» «Quello non ha importanza» disse facendo fermare il ronzino all'incrocio deserto. «Non può andarsene; è tutto.» Questi furono i miei sforzi iniziali in favore di Antoine, e devo dirvi che nel mio nuovo ruolo di agente dell'artista ebbi solo poco più successo. Pensai molto ai mercanti che conoscevo e poi mi decisi per quello che supponevo avrebbe apprezzato nel dipinto l'approccio fresco e moderno del soggetto. Sapevo che recentemente aveva fatto un viaggio d'affari in Inghilterra, dove aveva acquistato molti lavori di Constable che erano considerati quasi rivoluzionari per il modo di accostarsi alla natura, quindi gli lasciai il dipinto per diversi giorni, e poi tornai da lui per vedere come andavano le cose. Aveva trovato un compratore ma, quando sentii l'offerta, la mia eccitazione iniziale si spense. «Così poco?» dissi. «Ma...» «Potrebbe ottenere di più se lo lasciasse nella galleria per alcune settimane, ma ne dubito» rispose. «E non vorrei farmi la reputazione di uno che tratta questo genere di cose.» Poi ammise: «Non sto dicendo che non sia un buon lavoro». «Ma se lo è, allora deve valere di più.» «Non è così. Non sono le cose buone che si vendono... ma quelle di moda. Parlo di personaggi dipinti in modo classico e di paesaggi idealizzati.
La natura rivista in studio. Adesso mi dica: come faccio a vendere questa ragazza di campagna con un mercato del genere?» Sapevo che era un bel dipinto, con una certezza maggiore di quella che avevo avuto per alcuni dei miei lavori. Soggiunsi: «Mi sta dicendo che questo dipinto ha il difetto di rivelare troppa verità?». Si strinse leggermente nelle spalle. «Se la vuole mettere in questi termini... Ammesso che ne valga la pena, penso che il suo amico sia molto coraggioso, ma io non vendo l'audacia... solo quadri.» Cosa potevo fare? La permanenza di Antoine alla fattoria era condizionata dalla sua capacità di soddisfare l'avidità dei contadini. La somma che mi era stata proposta ai prezzi correnti non gli avrebbe concesso che pochi giorni di dilazione, ma qualsiasi sforzo per trovare un'offerta migliore avrebbe richiesto del tempo. Anche in quel caso, non c'erano garanzie di maggiore successo, quindi accettai l'offerta con un senso di sconfitta. Avevo deciso che era arrivato il momento in cui Antoine avrebbe dovuto indirizzare la propria ossessione verso una prospettiva più concreta. Si era trovato in una situazione che aveva reso possibile una conquista concettuale, ma adesso era ora di definire la strategia della carriera che lo attendeva. Dopotutto, non aveva venduto il primo quadro? Anche se forse, con quel modo di pensare, cominciavo ad assomigliare a suo padre, non mi soffermai troppo a lungo sul problema per preoccuparmene. Tornai alla fattoria la domenica seguente. Antoine mi stava aspettando sulla sponda del fiume. Era seduto su un sasso vicino al crocicchio e fissava la corrente impetuosa. Se la volta prima il suo aspetto mi aveva sconvolto, adesso mi inorridì. Era sudicio e con l'aria infelice. La pelle, sotto la patina di sporco sedimentato, era grigia per la mancanza di salute, i capelli sembravano paglia vecchia e il corpo era tutto curvo. Sulle mani aveva il segno di ferite ormai asciutte e, quando alzò lo sguardo sentendomi arrivare, gli occhi erano quelli di uno che stava morendo di fame. Per un attimo non riuscii a parlare. Vedere un amico ridotto in quel modo in così breve tempo! Accanto c'erano le sue borse, il cavalletto e i colori, che sembravano essere stati gettati lì alla rinfusa; infatti il cavalletto era rotto e i colori erano sparsi e calpestati nella fanghiglia della riva. Finalmente riuscii a dire: «Antoine, cos'è successo?». «I soldi erano finiti e mi hanno sbattuto fuori» rispose semplicemente.
La voce era roca e debole. «Sono qui da due giorni, quando ho cercato di tornare, hanno slegato i cani perché mi tenessero lontano.» Pensai che questo spiegasse le ferite sulle mani. «È spaventoso, vado a parlare con quella gente. Che ci provino ad aizzarmi i cani contro!» Attraversai il fiume come un fulmine, non curandomi né di quanto rumore facessi né degli spruzzi; e Antoine, dopo essersi alzato dal sasso vacillando, esitò un momento e poi mi seguì a distanza. L'aia era silenziosa e mi sembrava sinistra come il primo giorno in cui la vidi. Lo specchio di Lise non era più sotto il castagno e dalle macchie scure sul terreno capii che gli uncini erano stati usati di recente. Con Antoine che si trascinava sempre dietro di me, guardai nel fienile, dove parte del fieno era stata portata via, ma non c'era anima viva.» «Siamo troppo in ritardo» disse Antoine, ma non gli prestai attenzione e uscii attraverso la porta sul retro. Fuori vedemmo un segno di vita, ovvero i resti di un fuoco che ancora fumava e, quando mi avvicinai, mi resi conto che il fumo usciva da alcuni tizzoni quasi spenti in fondo a una buca profonda. Erano sistemati su uno spesso strato di cenere, e la terra scavata vicino alla buca era mescolata alla cenere e al fieno: anche senza stendere la mano, ne percepivo il calore. Non potevo fermarmi, e quando Antoine iniziò nuovamente a parlare, non lo ascoltai, dirigendomi invece verso la casa di pietra con il tetto ripido e le porte massicce, impassibili e resistenti alle domande come la gente che abitava in quel luogo. Attraversai un giardino, dove non cresceva quasi niente, e indugiai un attimo sull'entrata laterale, Sentivo provenire dall'interno i rumori di molte persone riunite e quindi, senza bussare, spalancai la porta davanti a me ed entrai. Tutti smisero di parlare, bruscamente, come se il rumore prodotto dal loro conversare fosse stato tagliato con un coltello. Vidi una stanza imbiancata con una grande tavola al centro, intorno a cui sedevano almeno una dozzina di persone. Ebbi la sensazione che un medesimo viso si stesse voltando a guardarmi, in dodici o tredici varianti solo leggermente diverse tra loro, varianti che andavano da un bambino di tre anni a una donna così vecchia e pallida da sembrare esangue. Uno di loro, un uomo di circa trent'anni, aveva il tovagliolo sistemato come a un bambino e veniva imboccato con un cucchiaio. Tutti gli occhi tranne i suoi, che continuavano a guardare avidamente il piatto, erano fissi su di me. Avevo interrotto un banchetto ben strano: sul tavolo c'erano solo carne e piatti di grasso liquefatto, e in quantità così abbondante che mi sarei aspet-
tato che una famiglia del genere vedesse tutto quel cibo in un anno intero. Vidi costole, tagli di carne e ossa già spolpate e, in fondo al tavolo, un piatto pieno di frattaglie arrostite, che ero sicuro fossero state rosolate nella buca dietro il fienile. Lo spettacolo e l'odore di tutta quella roba mi fecero venire la nausea. Le facce che mi studiavano prive d'espressione erano sazie e unte di grasso. Nessuno parlava, ma nel mio cervello risuonavano le parole di alcuni giorni prima: "Di' al tuo amico che non possiamo mangiare i suoi quadri". Poi successe qualcosa che mi atterrì, come se i ganci che trattenevano lo sfondo del mio mondo si fossero allentati facendone cadere un angolo, rivelandone così il meccanismo oscuro che è solito rimanere nascosto. Guardai per caso uno dei piatti di portata più piccoli, gocciolante di grasso sciolto, dove c'era un pezzo di carne bruciacchiato agli orli, con la pelle striata e increspata, ma riconobbi in meno di un secondo di cosa si trattava, perché con le unghie e tutto il resto poteva essere solo un mano. Spalancai gli occhi e guardai meglio, e il contenuto di quel piatto sembrò brillare e trasformarsi, diventando per un attimo indistinto prima di confondersi in un forma meno definita. Avrei potuto pensare che fosse un'illusione, ma sapevo che non lo era; sono certo che si trattava invece della fine definitiva della percezione di Antoine, spezzata dalla stessa povertà, ignoranza e necessità che l'avevano originata. Il trentenne ritardato iniziò a piagnucolare e a tamburellare sul tavolo con i pugni, feci tre passi indietro afferrando la maniglia della porta per chiuderla su quella scena terribile. Antoine non mi aveva seguito in casa, era rimasto indietro e ora aspettava un po' distante. Sembrava che si abbracciasse da solo, con il braccio sinistro che stringeva il destro, come se stesse curandosi una ferita non ancora guarita. Mi avvicinai, lo voltai e iniziai a spingerlo fuori dell'aia, cosa che fece senza protestare. Sull'altra riva del fiume raccogliemmo le cose che valeva la pena di portare via, gli diedi da trasportare quelle più leggere, mentre io mi occupai delle più pesanti. Ci avviammo così per il viottolo, io ben carico e Antoine che lasciava che lo esortassi ad accelerare il passo. Nel suo stato non potevo farlo salire su un treno e in uno scompartimento pubblico, ma avevo il denaro della vendita del quadro che era sufficiente per permetterci di affittare un cavallo e un calesse che ci portasse fino a Parigi. Saremmo arrivati tardi e di notte, ma questo non sarebbe certo stato uno svantaggio.
Parlai di quanto era successo solo una volta, quando lasciammo Corbeil dopo esserci riposati per mezz'ora. Antoine era raggomitolato vicino alla finestra e sembrava un fascio di bastoni stecchiti. Gli chiesi: «Quando dormivi, sapevi dove andava?». Antoine girò lentamente il capo, così che i suoi occhi vuoti incontrarono i miei, e rispose: «Non me lo chiedevo mai». E, anche se sapevo che mentiva, non ne parlai mai più. Charles L. Grant ORGOGLIO Charles Grant è un uomo amabile e uno scrittore dalla fantasia cupa e profonda, uno di cui nel campo dell'horror bisogna tener conto. La sua prima pubblicazione nell'ambito della fantascienza e dell'orrore è stato il racconto The House of Evil, che apparve in «Fantasy & Science Fiction» nel 1968. Da allora ha creato un'intera città, Oxrun Station, in cui ambienta tutti i suoi racconti, Orgoglio compreso, una cittadina come tante altre, ma con la predilezione per certi eventi "strani". Orgoglio parla proprio di un episodio del genere, cioè dell'incontro casuale di un uomo e una donna, dell'amore che nasce fra loro... e di qualcos'altro. A Oxrun Station le notti cambiarono verso la metà d'agosto. Alcuni davano la colpa all'attesa dell'uragano che, avvicinandosi, infuriava lungo la costa, preannunciandosi con nuvole simili a fantasmi che sembravano smorzare la luce delle stelle, altri all'ondata di caldo che durava da due settimane sciogliendo l'asfalto e strinando i prati, e altri ancora accusavano gli omicidi che avevano rubato alle sere la loro dolcezza, spento le risa e reso le passeggiate nelle strade un atto di silenzio, come mi accadde la notte che uscii dalla Chancellor Inn e osservai con nervosismo le verande e i marciapiedi deserti. Di solito c'era gente che andava a spasso, sedie a dondolo che cigolavano, sussurri tranquilli, e le macchine non procedevano così velocemente. Normalmente non sentivo il rumore prodotto dai miei passi sul marciapiede, piatto, senza eco, come se non ci fossi. L'unico segno del mio passaggio erano le ombre ai miei piedi, che guizzavano di fronte a me, si allungavano dietro per balzare poi di nuovo in avanti. Cercavo di non guardarle, tenendo a freno la fantasia, ma non potevo evitare di sussultare ogni volta che un gatto miagolava dietro una siepe. Sorrisi imbarazzato, da solo, mentre mi massaggiavo la nuca con la ma-
no destra e con la sinistra cercavo la tasca dei pantaloni. Nervi, mi dissi, persino Lone Ranger controllerebbe i fucili in una sera come questa. Nervi. Mi succedeva ogni volta che mi mettevo a riflettere, e quel giorno lo facevo ancor più del solito. Prima c'era stata la lettera della mia ex moglie, Carole. Dopo aver espresso il suo abituale e a volte sincero interesse per la mia persona, procedeva a decantare il valore terapeutico del suo secondo matrimonio con un diplomatico che, a quanto pareva, navigava nell'oro. Sospettavo che quella frecciata fosse stata scoccata con malizia, così come del resto tutte le altre giuntemi nel corso degli anni e che mi avevano colpito nei punti più vulnerabili: di dissanguamento si può morire anche a goccia a goccia. Tutti e due, del resto, eravamo ben certi della bontà della nostra decisione di separarci. Inoltre la mia clientela stava inspiegabilmente diminuendo, e poi pensavo anche a un caso spiacevole che avrebbe avuto il suo epilogo il mattino seguente e che qualcuno aveva sperato rappresentasse la fine di tutti gli omicidi. Verso la fine di aprile, proprio fuori Harley, a venti minuti dalla stazione, era stato trovato il primo corpo, un ragazzo orribilmente mutilato, smembrato e mezzo divorato. A intervalli di tre o quattro settimane ne erano stati scoperti altri quattro, ognuno un po' più vicino alla città. Poi, la settimana precedente, era stato arrestato Syd Foster, accusato di tutti e cinque gli omicidi e di quello di suo nipote, avvenuto proprio qui, in paese. Era scioccante, uno scandalo; e in pratica non ci credeva nessuno. L'arresto era stato determinato più che altro da una reazione impulsiva della polizia che cercava disperatamente di rispondere alla richiesta terrorizzata di aiuto della popolazione. Syd era un mio cliente, e avevo intenzione di farlo scarcerare. Presso molti questo non mi aveva certo reso l'uomo più popolare, ma una volta tanto era un piacere infischiarsene. Syd aveva cinquant'anni ed era un portalettere, un tipo solitario, e lo conoscevo da anni. Se lui era un cannibale, allora io ero il famoso avvocato Darrow. Così camminavo, riflettendo, e per poco non mi accorsi di quella donna. Era appoggiata contro un acero fra il marciapiede e il paracarro, il braccio contro il tronco e il capo leggermente piegato, come per ascoltare i bisbigli di un innamorato. Non era eccezionalmente bella, ma sicuramente attraente, con i capelli bruni come l'oro che incorniciavano il viso dai lineamenti delicati, gli occhi grandi e scuri, le labbra sottili, il mento appunti-
to, il corpo slanciato fasciato da una camicetta vistosa e da un paio di jeans attillati. Stava canticchiando. Mi fermai e la guardai, e infine mi schiarii la gola forzatamente, trovando il coraggio di parlare. «Mi scusi,» dissi con il miglior tono da buon samaritano che avessi «si è persa o c'è qualche altro problema? Posso aiutarla?» Sorrise, quasi timidamente. «No, va tutto bene, grazie.» Le ricambiai il sorriso goffamente e rimasi in attesa dell'ispirazione per spezzare quell'attimo di sospensione interlocutoria, ma avrei potuto aspettare anche tutta la notte perché infatti non trovai niente da dire. Allora mi toccai la fronte a mo' di saluto e proseguii ma, arrivato all'angolo, mi fermai e la guardai di nuovo. Anche lei mi stava osservando, sempre sorridendo, ravviandosi poi i capelli dietro le orecchie, scostandoli dagli occhi. Esitammo, poi ci guardammo e allora lei si avvicinò a passi silenziosi, con le mani allacciate dietro la schiena. «Jean,» mi disse, presentandosi «e, se devo essere sincera, penso di essermi persa.» «Brian Farrell» risposi, sorprendendomi del suo profumo, singolare e stranamente irresistibile. «Dove sei diretta?» Mi disse un indirizzo di Woodland Avenue, tre isolati alla nostra destra e quattro più in su. Iniziai a indicarle la strada ma poi mi fermai. «Se vuoi, ti accompagno» le dissi. «Si trova sul tragitto che devo fare anch'io; non mi spiacerebbe, davvero.» Le sorrisi, sentendomi stupido. «Anche a me non spiacerebbe» mi rispose, mettendomi una mano sul gomito, permettendomi così di accompagnarla. Mentre camminavamo mi fece delle domande sulle case buie e l'assenza di persone per la strada. La informai così sugli omicidi, e le spiegai l'inevitabile conclusione da me tratta riguardante l'arresto di Foster: e cioè che, dal momento che lui era certo innocente, allora l'assassino doveva ancora essere in libertà. Rabbrividì e si strinse al mio braccio; io mi raddrizzai, cercando di non sorridere. «È veramente... spaventoso» disse quando arrivammo nella sua via. «Sembra che tu sappia molte cose, voglio dire più di quanto si legga sull'"Herald".» «Dovrei proprio» risposi, dopo avere riflettuto sulla risposta da dare. «Sono l'avvocato di Syd Foster.» Non disse nulla, ma invece mi solleticò pigramente il dorso della mano
fino a quando arrivammo all'ingresso di casa sua, circondata da una siepe di ligustro. Prima che potessi parlare, mi ringraziò gentilmente per averla accompagnata, mi strinse la mano ed entrò, lasciandomi da solo davanti alla casa vittoriana grande e grigia, imprigionata da salici e faggi, con una giardinetta nel vialetto e la luce gialla sulla veranda. Sbattei le palpebre quando chiuse la porta, quando spense la luce, rimanendo fermo a pensare se avessi detto qualcosa di sbagliato! Mi strinsi nelle spalle e mi allontanai, poi mi girai e tornai indietro per controllare di nuovo l'indirizzo. Non sapevo cosa avrei fatto ma, mentre andavo a casa, quello che mi passò per la testa allontanò Foster dai miei pensieri. Tornavo a casa, dai sogni. Erano settimane che facevo sogni confusi e ammantati di rosso, con le lenzuola aggrovigliate, senza cuscino e svegliandomi molte volte chiedendomi perché mi fossi destato. Finalmente mi addormentai. Arrivai poi tardi in ufficio, dove mi informarono che l'udienza di Foster era stata spostata a venerdì. Ero seccato, ma mi sentivo come se avessi avuto una tregua e non riuscii a nascondere il sollievo. «Comunque ce l'avrai fra due giorni» mi disse bruscamente il mio socio. Proprio quel mese erano due anni che io e Chester Frazier lavoravamo insieme, una società voluta da Carole che aveva ambizioni che io non sentivo e che sperava che Chet mi trasmettesse un po' del suo spirito di iniziativa. Sfortunatamente per lei (e non so se posso dire lo stesso per me), Chet se l'era presa perché non ero intraprendente come lui; non che ci fossero molte occasioni a Oxrun, ma girava molto denaro ed era possibile stabilire contatti importanti. Chet li cercava avidamente, mentre io li evitavo tranquillamente, preferendo invece i casi poco complicati, come i testamenti, le piccole istanze e occupandomi dei beni di quelli che non erano certamente dei ricconi. Chet la chiamava carità, ma io pensavo che qualcuno dovesse pur sbrigare queste pratiche, e allora perché non potevo essere io? Per cercare di salvarmi da me stesso, e perché era davvero un buon amico, era stato lui a parlare al giudice perché venissi nominato difensore di Foster, non c'era quindi da meravigliarsi che si fosse arrabbiato quando non mi ero mostrato seccato per il ritardo. «Non è un grosso problema» dissi con pazienza quando finalmente smise di brontolare. «Santo cielo, vuol dire passare ancora due notti in cella. E, stando a quanto dice, non vorrebbe nemmeno uscire.» «Potrebbe essere rilasciato sotto cauzione, lo sai no?» «Chet, non vuole» gli dissi serenamente. «Chiunque sia il responsabile di quanto sta succedendo, l'ha spaventato a morte. Pensa di essere più sicu-
ro dietro le sbarre che a casa sua.» «Brian, a volte...» Si fermò e scrollò la testa con stanca rassegnazione, uscendo dal mio ufficio verso la reception deserta. Lo guardai dalla mia scrivania, poi mi alzai e andai alla porta. Corrugai la fronte. Era un uomo robusto, sia di circonferenza che di altezza, con capelli biondi e arricciati, completi confezionati su misura, e generalmente aveva il passo di chi nella vita ha una missione da compiere. Quel giorno, però, camminava sul tappeto quasi strascicando i piedi. «Sembri stanco» gli dissi. Distolse lo sguardo dalla finestra che si affacciava su Centre Street e ritornò lentamente verso di me, appoggiandosi alla parete che divideva i nostri uffici. «Lo sono» ammise con un sorriso tirato. «Elizabeth ha bisogno di busti ortopedici. Il soffio al cuore di Amy non migliora, e da tre giorni Alice mi sveglia quattro o cinque volte per notte per controllare i ladruncoli che continua a sentire in cortile. È incredibile come la vita di tutti i giorni possa distruggerti.» Avrei potuto cercare di sollevargli l'umore, ma inavvertitamente aveva iniziato uno dei discorsi preferiti da Carole, quindi cercai di cambiare argomento. «Ieri sera ho conosciuto una ragazza, vive a Woodland. Simpatica, carina.» Sorrisi. «Penso di aver voglia di far l'amore con lei.» «Grandioso, Brian, veramente grandioso: la tua clientela è sempre più esigua e tu te ne esci con la storia che sei innamorato.» «Ho parlato solo di sesso» lo corressi. «Non la conosco così bene da amarla.» Non apprezzò la battuta, ma brontolò qualcosa di acido e sparì nel suo ufficio. Meglio così. In quell'istante suonò il telefono, sicuramente un altro cliente che mi dava il benservito. Era una vecchia signora, con sette gatti e poco denaro, e non tentai nemmeno di convincerla. Avrei voluto che per una volta fosse capitato a Chet di perdere un cliente. Mi stavo stancando, proprio come mi ero stancato di Carole, che non capiva che per me benessere non era necessariamente sinonimo di ricchezza. Quando la signora ebbe terminato, però, ero stato solo sollevato; il caso del quale mi stavo ora occupando mi spaventava. Peggio ancora, verso sera Chet accennò con tono piuttosto deciso che stava considerando seriamente l'idea di sciogliere la società. Aveva molte spese, e non poteva sobbarcarsi più il mio peso a meno che non ricominciassi tutto daccapo.
Il tragitto verso casa, dove mi aspettava una cena veloce e insapore, fu molto lungo. Non riuscivo a leggere, né a guardare la televisione e non trovavo il coraggio di andare da Jean. Per come si stavano mettendo le cose, probabilmente non mi avrebbe nemmeno riconosciuto. Avevo scoperto che la veranda era il posto migliore dove autocompatirmi, guardando i vicini che si godevano la vita e i bambini i loro giochi. Di tanto in tanto ci voleva una buona dose di sentimentalismo, pensai, ma anche quello mi fu negato non appena uscii fuori. L'umidità era diventata nebbia, l'aria era gelida e, a qualche isolato di distanza, sentii urlare la sirena della polizia. Quella sera e in quel periodo era il suono sbagliato, rabbrividii e rientrai, con l'intenzione di andare diritto a letto, ma squillò il telefono. «Brian? Brian Farrell?» Trattenni il respiro e sorrisi e, visto che il telefono era nel corridoio, mi sedetti in fondo alle scale puntando i piedi contro la porta. «Jean, sei tu Jean?» "Brian sei brillante," pensai fra me e me "dovresti scrivere per il teatro." «Ti disturbo?» «Niente affatto!» le risposi ridendo amaramente. Rimase un attimo in silenzio, e sentii un debole fruscio nella comunicazione. «Spero che tu non sia arrabbiato, ma quando ho sentito la sirena ho ripensato a quello che mi hai detto ieri notte e...» Rise un po' ansante. «Be', mi sono spaventata e avevo bisogno di sentire una voce amica.» «A tua disposizione» le risposi galantemente, sperando che le orecchie di Carole stessero soffrendo. Parlammo per quasi un'ora e, come mi resi conto dopo, soprattutto dei miei problemi e, quando riattaccai con la promessa di andare a cena insieme, mi misi praticamente a fischiettare. Però feci di nuovo quei sogni, fino all'alba. E, quando arrivai in ufficio, Chet non c'era. Perplesso, ma non preoccupato, gli lasciai un biglietto sulla scrivania e andai a trovare Foster, che però non parlò e, quindi, mi congedai da lui dopo dieci minuti. Il caso di Syd mi interessava più di quanto avrebbe dovuto, e in questo non c'entrava il cambiamento del tempo; infatti le nuvole erano diventate più dense, più grigie ed era incominciata a venire giù una pioggerellina abbastanza forte da rigare la polvere sui vetri delle finestre e sporcare i paracarri, ma non abbastanza da lavarli o da giustificare l'impermeabile. Decisi che "lugubre" era l'aggettivo giusto per quel giorno.
Quando dopo pranzo tornai in ufficio, Chet mi stava aspettando impaziente, prossimo ad arrabbiarsi, con i capelli spettinati e la camicia stropicciata. «Gesù!» esclamai «Chet, è successo qualcosa a...» Mi zittì con un cenno della mano, entrò nel mio ufficio dove si versò un bicchiere di whisky dalla bottiglia sullo scaffale. Gli tremavano le mani e un tic gli pulsava vicino all'occhio. «Sono andato alla polizia, ho parlato con Fred Borg.» Non sapevo cosa dire, quindi rimasi zitto e mi sedetti. «Ieri notte...» «La sirena» gli dissi subito. Dopo avere tracannato il whisky, annuì con il capo. «Stavo rientrando dal garage dopo avere portato fuori la spazzatura. Una banda di ragazzini era entrata nel cortile, penso di avertene parlato ieri, no? Quei ladruncoli che Alice diceva di sentire. Comunque ho avvertito un rumore, quindi sono tornato indietro per dare un'occhiata. Sai, come sui giornali: marito coraggioso dà la caccia ai ragazzetti furbi o ai gatti dei vicoli.» Il suo sorriso era grottesco. «C'era qualcosa, ma non sapevo cosa diavolo fosse. Era sotto gli alberi e ringhiava verso di me.» Si versò ancora da bere. «Quando ho cercato di raggiungere la porta sul retro, mi ha seguito.» «Dio mio» dissi debolmente, più sorpreso per il suo aspetto che per quello che stava dicendo: sembrava quasi sul punto di piangere. «Non so perché l'ho fatto,» continuò «ma ho afferrato la pila dalla tasca e l'ho accesa. Volevo vedere cos'era, ma invece l'ho fatto scappare. Era grosso, Brian. Cristo, se era grosso.» «Be', allora? Che cos'hanno trovato? Una specie di cane?» Fece una faccia disgustata. «Niente, un accidente di niente. Borg sicuramente ha pensato che avessi bevuto o qualcosa del genere. Se non fosse stato per, uh... qualsiasi altra volta mi avrebbe fatto soffiare nel palloncino. Mi ha detto che ogni notte riceve una dozzina di telefonate, penso per cercare di farmi sentire meglio. Un socio del club dei dementi.» Guardò il bicchiere e sorrise debolmente. «Alice è nervosissima, vuole vendere la casa e che ci trasferiamo a New York. Ecco perché sono venuto, per prendere qualche documento e sbrigare del lavoro a casa. Lei... be', se chiama qualcuno...» «Certo, naturalmente» risposi subito. Annuì con il capo e posò il bicchiere. «Sei pronto per Foster oggi pomeriggio?»
«Chet, per piacere, dammi un po' di fiducia, va bene?» Avevo detto la cosa sbagliata, che andava contro il suo temperamento e gli colpiva i nervi già logori. «Fiducia? Vuoi fiducia? Per che cosa, Brian? Per mandare a farsi fottere una bella occasione di sistemarti come un fottuto buon avvocato? Per mandare a rotoli un bellissimo matrimonio? Per scopare in giro con qualche donna mentre la tua vita va a farsi benedire?» Si ravviò i capelli con la mano che gli tremava, sollevò il pugno e lo lasciò cadere. «Non capisco la gente come te, Brian.» Era sicuramente una specie di scusa. «Giuro su Dio che non la capisco.» Se ne andò prima che potessi rispondergli ma, quando la porta d'ingresso si chiuse fragorosamente, mi resi conto che non avevo niente da dire. La lingua che parlavamo era l'inglese, ma a un certo punto del discorso la comunicazione si era interrotta e quello che ci arrivava alle orecchie non era che un borbottio incomprensibile. Comunque ero furioso, a tal punto che prima di arrivare all'ufficio del giudice Ford, al palazzo di giustizia, i miei modi erano bruschi e le parole taglienti, e l'obiettivo della mia presentazione era non solo la liberazione di Syd ma anche la stroncatura del processo e della polizia, nel modo più freddo possibile. Non dovevo fare l'istrione, ma solo presentare i fatti che scagionassero Syd dai primi quattro delitti, accennare con tono pungente alla legge costituzionale, senza contare i non pochi acidi commenti circa i danni arrecati alla reputazione del mio cliente. Quando ebbi finito l'arringa, l'accusa si ritirò, come avrebbe fatto se gli avessi solo sorriso dicendogli che il suo caso era pieno di merda, ma stava anche sudando, e il giudice Ford non poteva nascondere l'ammirazione nella voce quando sciolse la seduta, mandandoci tutti a casa, e mi guardò come se si stesse chiedendo che diavolo di pastiglie avessi iniziato a prendere da quando l'avevo visto l'ultima volta. Avevo fatto un lavoro veramente eccellente, di cui Chet sarebbe stato orgoglioso. Syd, d'altro canto, mi ringraziò asciutto, lasciandomi sui gradini del palazzo di giustizia, cercando di non correre mentre si dirigeva verso casa. Tornai in ufficio per compilare tutti i documenti e riordinare la scrivania, girando per quasi un'ora prima di rendermi conto che stavo percorrendo la stanza a grandi passi. Avrei dovuto essere soddisfatto di me stesso, e in un certo qual modo lo ero, ma era un tipo di piacere disperato, freddo e insensibile, un miscuglio dei resti della cenere della mia rabbia. Capii infine che, diversamente da
Chet, non avrei mai potuto dipendere da sensazioni come questa. Mangiai alla Chancellor Inn. Bevvi alla Chancellor Inn. Mi chiesi cosa ci fosse in me che non andava e che mi impediva di esultare del mio successo. Dopotutto un uomo innocente era libero e la polizia adesso poteva cercare il vero assassino. Volevo chiamare Jean, ma purtroppo non mi ricordavo il cognome. Uscii che era già buio. Freddo. Il vento faceva ondeggiare gli alberi e la pioggerellina diventava più fitta. Mi sollevai il bavero e infilai le mani in tasca, pensando di fare un salto da Chet per vedere come stava. Mi trovai invece davanti alla casa di Foster, sbattendo gli occhi bagnati di pioggia mentre cercavo di formulare mentalmente la domanda che poteva convincere Syd a dirmi cos'era stato a spaventarlo così tanto. La porta d'ingresso era chiusa a chiave e, quando bussai, non rispose nessuno. Uscii dalla veranda e feci il giro della casa, notando che tutte le luci erano accese, dal piano superiore a quello inferiore. Quando raggiunsi l'angolo, sentii qualcuno che grugniva. Mi fermai, non curandomi dell'umidità che mi colava giù per la schiena e si appiccicava alle guance. Rimasi in ascolto, sapendo di avere già sentito quel rumore da qualche parte. Il grugnito divenne un ringhio e poi sentii il suono di passi sull'erba bagnata. Mi precipitai nel cortiletto, guardando attraverso il bagliore morbido delle luci della cucina che si allungavano nel buio. Non riuscivo a vedere niente, anche se qualcosa mi diceva che laggiù era successo qualcosa. Indietreggiai per andare a vedere, quando notai che la porta di servizio era aperta. La mia esitazione mi fece prendere tempo, ma finalmente mi trovai sul portico di cemento e poi all'interno, facendomi schermo con la mano contro la luce che proveniva dall'alto. Syd era sotto un tavolino, due sedie erano rovesciate in terra e altre contro la credenza, sulle piastrelle c'era sangue dappertutto, un rosso brillante, che gocciolava soprattutto dai moncherini che erano stati le braccia e le gambe di Syd. Quello che seguì fu come un sogno allucinante, l'aria era colma di pagliuzze nere e dovevo misurare ogni movimento. Mi calmai e chiamai la polizia, poi andai nel cortile e vomitai la cena. Ricordo le luci blu, i fari, una mano sulla spalla e un braccio intorno alla vita. Chet si materializzò e si sedette con me alla stazione di polizia mentre raccontavo quanto era successo cercando di ricacciare indietro le lacrime. Mi offrì un passaggio a
casa, ma rifiutai, avevo bisogno di camminare, di respirare, di allontanare dalla mente quel grugnito, simile al suono profondo di un animale ormai sazio. Non mi passò per la mente che avrei potuto essere in pericolo. Né pensavo a qualche posto in particolare finché non mi trovai in Woodland Avenue: corsi quasi verso il cancello di Jean, lo spalancai e mi lanciai verso la porta d'ingrèsso. Jean aprì immediatamente, mi osservò il viso e mi spinse lentamente verso il soggiorno, parlandomi a bassa voce e accarezzandomi fino a quando non mi sedetti su un divano, con le ginocchia serrate e le mani strette sullo stomaco. Quando se ne andò feci per alzarmi, ma non avevo più forza nelle gambe e, quando tornò, sicuramente devo esserle sembrato un cucciolo finalmente ritrovato dalla sua padrona. Sorrise, si inginocchiò vicino a me e mi spinse indietro, facendomi passare un asciugamano sui capelli, sulla faccia, mi tolse le scarpe e le calze asciugandomi i piedi e poi, dietro sua richiesta, le raccontai cos'era successo, cos'avevo trovato. Non disse nulla, e continuai a parlare. Mi baciò la guancia e mi chiuse gli occhi. E continuai a parlare. Mi tolse la giacca e la camicia, asciugandomi il petto e la schiena; e continuai a parlare. Nel suo abbraccio, ne! suo profumo, sentendo il suo seno contro le orecchie mentre mi consolava sussurrando, finalmente le dissi quanta paura avessi, non delle creature della notte che si avvicinavano furtivamente, ma dei frammenti di vetro che erano stati sparsi intorno a me, separandomi da mia moglie, dal lavoro e dal mio ultimo amico. «Come se» dissi fissando il soffitto «mi stessi trasformando in un fantasma. La vita continua, ma non intorno a me. lo non esisto più.» «No» mi rispose dolcemente, passandomi un'unghia affilata sulla mascella. «No, tu sei qui, ora.» Le sorrisi grato, guardandomi intorno e notando i mobili massicci, le lampade a fiori con le frange, il tappeto a fiori, la tappezzeria a fiori. Tutto era in ordine e a posto. «Vivi da sola» dissi, ma era più un'affermazione che una domanda. «Per il momento» rispose. Indicò con la mano la stanza e quelle che seguivano. «Mia madre l'ha lasciato a me e alle mie sorelle. Io sono venuta qui per vedere se fosse meglio tenerlo o venderlo.» Sospirò, appoggiandomi la guancia contro la spalla, ricordandomi che questa era nuda. «È grande, però.» Mi spostai leggermente. «È tardi.»
Lei mi disse: «Rimani». Non mi misi a ghignare come un libertino e nemmeno ringraziai in silenzio la mia buona stella, ma la seguii semplicemente di sopra, dove lei fece l'amore con me, mi dormì accanto, mi preparò la colazione e mi spinse fuori ridendo, mandandomi a casa per prendere dei vestiti puliti per il weekend. Si può dire che corsi per tutta la strada, non volendo quasi rispondere al telefono che squillò mentre stavo uscendo con la valigia. Era Chet, che aveva preso una decisione. «Non parlare» gli dissi, non curandomene molto, pensando a Jean, al modo in cui mi guardava e ascoltava. «Non devi nemmeno spiegarmi niente. Capisco.» «Tu capisci sempre tutto» mi disse stancamente. «Penso che sia parte del tuo problema, Brian. Capisci sempre così maledettamente bene... al diavolo. Senti, ci saranno delle formalità e altre cose... ti telefono più tardi, così possiamo...» «Sarò da Jean» gli dissi. «Non disturbarti a chiamare, possiamo parlarne lunedì.» «Jean» disse inespressivo. Riuscivo quasi a vedere che scrollava la testa. «Non imparerai mai, eh?» «Che cosa? Cristo, Chet, non l'hai mai vista!» «Amico, non ne ho bisogno. A meno che non sia un tipo sottomesso, ti mangerà vivo.» Si fermò. «Non fare lo stupido, Brian» disse più dolcemente. «Hai avuto una settimana d'inferno.» Riattaccai senza salutare, chiusi la porta dietro di me e arrivai alla veranda di Jean appena prima dell'acquazzone. Quando entrai di slancio, con un sorriso stupido stampato sulla faccia, la casa era vuota. La chiamai, sentendo freddo e correndo da una stanza all'altra pregando forte di non essermi sbagliato. Poi la sentii chiamare il mio nome. In cucina c'era una porta semichiusa che portava al garage, dove lei stava lavorando al cofano della giardinetta. «Questo trabiccolo è di nuovo partito» disse pulendosi le mani con uno straccio sporco di grasso. «Ha tanti anni sulle spalle, ma speravo che durasse fino all'autunno.» Sorrise, chiuse con fracasso il cofano spingendolo e fece un sobbalzo. «Da quanto tempo ti dà dei problemi?» cercavo di sembrare un esperto, anche se il tono suonava un po' troppo ambizioso. «Da aprile, da quando sono arrivata.»
Annuii e tornai in cucina, dove mi fermai sulla porta di servizio a osservare la pioggia deformata dal vento che cambiava continuamente direzione. L'aria era fredda, scuoteva gli alberi e agitava le pozzanghere nell'erba. Anche se era mezzogiorno, era buio come al crepuscolo, e si aveva la sensazione che fosse mezzanotte. Jean si muoveva nel garage, spostando cose pesanti e ingombranti. Aveva detto di essere giunta in città ad aprile, però mi aveva anche fatto capire di non essere al corrente degli omicidi, o del rapporto intercorrente tra me e Syd, o comunque della mia professione. Aveva detto aprile, e io iniziai a perdere le forze. La pioggia, Syd Foster e qualcosa che correva nel buio, la cucina, il sangue e... Quando Jean entrò nella stanza grugnì sommessamente, e improvvisamente mi sentii come se avessi avuto il cuore in gola. Quando mi girai era nel vano della porta, con il soggiorno alle sue spalle. Non aveva acceso nessuna luce, e il viso e il corpo erano nella semioscurità: le ombre pallide mi facevano socchiudere gli occhi per evitare che la sua figura ondeggiasse. Il vento si lamentava sulle grondaie e attraverso la bocca del camino, i vetri tremavano per le folate. Guardai il pavimento e vidi la mia ombra incorniciata dalla porta-finestra dietro di me, serpenti e vermi scuri strisciavano lungo le mie spalle. Mi chiamò dolcemente e mi mossi nella stanza perché non riuscivo a stare fermo; iniziò a parlare lentamente e io cercai, nonostante il vento, il freddo e le immagini di sangue, di ascoltarla senza urlare e di capire; parlava di come le persone considerino questo o quell'animale, di come i gatti siano femminili e i cani maschili, le donne siano felini e gli uomini bestiali, e di come i ruoli oggi diventino sempre più confusi... Aprii il frigo; era vuoto. ... non sarebbe affascinante pensare a quali nuove mitiche creature potrebbero adattarsi a nuovi sogni, quali straordinarie creature della notte potrebbero colmare il vuoto, ma sarebbe poi così negativo perché la gente non crederebbe più alle cose che ritiene vere, e con la violenza che aumenta sempre... La credenza, gli armadietti e i cassetti erano tutti vuoti. ... chi conoscerebbe la differenza fra due tipi di incubi, fino a quando la caccia fosse attenta... Mi appoggiai al lavello e pensai all'avvertimento di Chet. «Chi sei?» chiesi, e avrei desiderato essere ubriaco.
«Jean» rispose semplicemente. «Cosa... cosa sei?» domandai ancora, e avrei desiderato che fosse un sogno. «La tua amante, un'amica...» «Sai bene cosa voglio dire» le dissi aspro, girando intorno lo sguardo, e lei era sempre là, nel vano della porta, nell'ombra. Avrei voluto provare paura, perché sarebbe stata la reazione più naturale, ma la sensazione che sentivo era rabbia per quello che consideravo un tradimento. «Qualcuno» disse «che cercava uno come te, non debole secondo il senso comune del termine, ma non sempre abbastanza forte da combattere le proprie battaglie. Un tocco meraviglioso di sensibilità femminile, con in più un atteggiamento un po' maschile, che sa che è una finzione. Un uomo, Brian, che era più solo di quanto immaginasse.» «Le hai cacciate via» dissi debolmente. «A volte, come adesso, la vulnerabilità favorisce la fiducia.» Avrei dovuto dire qualcosa, ma non ci riuscivo. Il vento era troppo rumoroso, e non riuscivo a mettere a fuoco la mia rabbia e, quando iniziò ad avvicinarsi, ero troppo spaventato per correre. Quando mi fu vicina disse, piegando il capo e guardandomi di traverso: «Anche noi abbiamo bisogni fisici,» mi toccò le labbra «emotivi e concreti» aggiunse con il sorriso che mi aveva rivolto la prima volta. «Nelle cittadine che ci piacciono penso che si chiami ancora rispettabilità; è molto più semplice sistemarsi con un uomo forte in casa, un avvocato magari, un uomo pacato che non ha mai dato fastidio agli altri.» «Le hai cacciate via.» «Fai quello che devi.» Poi una parola mi colpì, e mi risuonò nella mente. «Hai detto... "noi"?» «Sì, le mie sorelle» rispose, e assunse un'espressione stupita. «È stata una piccola bugia, non esiste nessuna mamma. Sono venuta per vedere questo posto e ti ho incontrato.» La casa tremò per un colpo di vento e la pioggia scrosciava contro le finestre. Il suo stupore aumentò. «Perché... non cerchi di immaginarti come un re degli animali, Brian, con quattro compagne a disposizione, che ti tengono al caldo, ti fanno felice, impediscono al mondo di intromettersi e di rattristarti. Dovrai lavorare naturalmente, perché un uomo come te deve farlo. Ma vivremo così, fino a quando non verrà il momento di spostarci.» Mi toccò il mento con un dito. «Pensaci, caro, non avere fretta. So cosa stai
provando, e cosa vorresti fare adesso.» Scrollai il capo, solo una volta. «Naturalmente vuoi correre via» disse seccamente. «Non saresti umano se non lo pensassi. E ti stai domandando come potresti vivere con me e le mie sorelle.» Si strinse nelle spalle. «Be', qualche volta funziona e qualche volta no.» La guardai e, quando iniziò ad allontanarsi, non dissi niente. Era troppo, e non era abbastanza; inoltre aveva ferito tutti i miei sentimenti. E, peggio ancora, sapeva che quasi ci credevo e proprio per questo ero tentato. La seguii nell'ingresso, aprì la porta e mi passò il soprabito. Poi mi volse un sorriso caldo e triste insieme. «Forza! Va tutto bene, credimi. Ma fammi un piacere, resta sulla veranda.» Annuii assente, rabbrividendo per il vento che mi scompigliava la giacca e i capelli, oltrepassai la porta con le braccia incrociate sul petto ma, prima che potessi iniziare a pensare alla pazzia, agli incubi e alla realtà perfetta del temporale nonostante la sua violenza, sussurrò il mio nome e chiuse la porta dietro di me. Mi voltai ed era ombra, splendente, era Jean e sorrideva. «Devo dirti due cose che possono aiutarti. La più importante è questa: non dovrai mai e poi mai trovarti di nuovo da solo. Ti abbiamo concesso più orgoglio di quanto ne abbia avuto qualunque altro uomo.» Oh, Cristo, se almeno l'avesse smessa di sorridere. Lo fece, bruscamente, fissandomi con occhi assenti. «L'altra cosa è...» diede un'occhiata alla strada, al temporale, e poi tornò a guardarmi. «Non ti crederanno, se decidi di correre.» E con un grugnito chiuse la porta, lasciandomi solo. Edgar Pangborn ZANNA Edgar Pangborn (1909-1976) è ricordato dagli appassionati di fantascienza e fantasy per i suoi bei racconti su Davy, dove campeggia il trionfo dell'arte e della cultura sull'oppressione religiosa, riuniti poi nel romanzo Davy, pubblicato nel 1964, Anche se era conosciuto soprattutto per i suoi racconti di fantascienza, Edgar Pangborn è stato anche il creatore di storie dell'orrore raffinate e cariche di tensione quali appunto Zanna, che è ambientata nel Maine rurale e parla di qualcosa di spaventoso che vive e uccide nella quiete della foresta.
Sono uno che non racconta storie. Come posso provarlo? Sono nato a Darkfield, no? Sono stato via più di trent'anni per l'università, ma quando sono tornato ero sempre Ben Dane, quello di Darkfield, il figlio maggiore del giudice Marcus Dane. E sapevano che sono uno che non racconta storie. Poi morì mia moglie e mi stancai di vivere in città; in seguito mancò anche mio fratello Sam. Un attacco di coronarie a cinquant'anni. Aveva vissuto tutta la vita a Darkfield, scapolo e mandando avanti da solo il suo ufficio legale a Lohman, la "metropoli" più vicina a noi con una popolazione di 6437 abitanti. Gli avevo voluto bene. Helen se n'era andata, poi Sam, così avevo liquidato tutte le mie faccende ed ero tornato a casa, ereditando la domestica di Sam che si chiamava Adelaide Simmons, e con lei la sua fermezza arcigna e la sua cucina eccellente. Da anziani la nostalgia per il Maine diventa una cosa seria: avevo dovuto arrendermi. Mi aspettavo di scivolare nella mia vecchiaia senza figli giocando a scacchi per corrispondenza, traducendo dei classici, pensando di considerare scontato il rispetto dei vicini. Come vi ho detto, sono uno che non racconta storie. Mi ricordo ancora quel marzo di qualche anno fa. Eravamo verso la metà del mese e la neve scendeva da un cielo plumbeo come il fondo di una pentola d'alluminio. Dall'ultima nevicata la strada secondaria che portava alla casa di Harp Ryder era stata sgombrata, e pensavo che Bolt-Bucket riuscisse a percorrere i due chilometri per arrivare alla sua fattoria e a fare ritorno prima di rimanere impantanato. Harp mi aveva chiesto, qualora fossi andato a Boston, di comprargli un libro, qualsiasi pubblicazione che parlasse di eschimesi, e io l'avevo trovato: Kabloona, di De Poncins. Avevo visto i fiocchi bianchi correre all'impazzata per una folata di vento e mi ricordai che all'"ufficio informazioni" di Darkfield, cioè al negozio di Cleve, qualcuno aveva detto che le previsioni del tempo avevano preannunciato l'arrivo della peggiore bufera di vento mai vista in quarant'anni. Joe Cleve, che in negozio non aveva la radio perché diceva che gli dava fastidio all'ulcera, chiese al suo Grande Inquisitore che viveva a un tiro di schioppo da lì perché dovesse sempre essere la peggiore degli ultimi tot anni, non riuscendo a capire a chi mai potesse essere d'aiuto una notizia simile. Quando me ne andai, con le sigarette e quanto mi ricordavo della lista della spesa di Adelaide dimenticata sul tavolo da pranzo, all'"ufficio informazioni" si stava ancora discutendo su questo difficile quesito. Non erano nemmeno le tre quando svoltai nella strada di Harp e Bolt-Bucket fu investito da una raffica di vento che lo colpì con l'impeto di una badilata.
Cercai di controllare la sbandata dovuta a un rialzo del terreno, sterzai per evitare uno stupido coniglio e finii per urtare un cumulo di neve, slittando e andando a piantarmi in un punto da dove solo un carro-attrezzi avrebbe potuto tirarmi fuori. Avevo cinquantasette anni, il respiro faticoso per le troppe sigarette e il cuore (adesso lo so) certo non più forte di quello di mio fratello Sam. Scesi bestemmiando, pian piano per evitare movimenti improvvisi, e infilai Kabloona sotto la giacca a vento. Avrei fatto a piedi il chilometro e mezzo che mancava per arrivare da Ryder, mi sarei fermato giusto il tempo per dargli il libro, salutarlo e telefonare per chiamare un carro-attrezzi; poi, visto che Harp non aveva mai avuto macchine e mai ne avrebbe avuta una, sarei tornato indietro a piedi per andare incontro all'autocarro. Se Leda Ryder avesse avuto la patente, dopo il suo matrimonio con Harp, non se ne sarebbe comunque più servita. Infatti conducevano la fattoria come gli antenati di Harp ai tempi di Jefferson. Harp allevava le sue duecento galline con metodi che erano considerati moderni soltanto prima che quelle poverette venissero relegate nelle gabbie, e le sue altre attività venivano svolte con criteri ulteriormente antiquati. In un angolo del suo grande orto lasciava crescere le erbacce, così che le galline potessero razzolare, quindi lui non doveva pensare a nutrirle e loro non beccavano da nessun'altra parte. Aveva poi anche alcune mucche, un tiro di cavalli, quattro acri coltivati per vendere il raccolto al mercato, e un cagnolino di nome Droopy, che aveva un quarto di sangue di pastore tedesco, e che ormai vecchio e grasso era capace di minacciare solo abbaiando affannosamente. I bisogni vitali dei Ryder si limitavano al tabacco da masticare e, una volta ogni tanto, all'acquisto di un vestito nuovo per Leda. Harp snobbava quindi il XX secolo e dubito che avesse consultato in merito la moglie nonostante nutrisse un attaccamento ossessivo nei suoi confronti. Leda aveva quasi trent'anni di meno e, be', non avrebbe dovuto sposarla; ma, ribaltando la questione dall'altro punto di vista, anche lei non avrebbe dovuto sposare lui, eppure l'aveva fatto. Può darsi che Harp, un anno più giovane di me, fosse un orso, ma eravamo cresciuti insieme: facendo il bagno, pescando e andandocene in giro. Quando tornai a Darkfield per passarvi la vecchiaia, era stato uno di quei pochi che si era dimostrato contento di vedermi, per quello che puoi capire attraverso una faccia di granito. Harp Ryder forse sorrideva due volte alla settimana. Mi spinsi sul dosso, e notai le tracce già un po' coperte dalla neve di due
grossi pneumatici che avevano fatto un tragitto di andata e ritorno; forse quelle impronte appartenevano al carro delle uova che avevo incrociato un quarto d'ora prima sulla strada statale. Quando il vento che soffiava alle mie spalle si calmava, potevo girarmi e godermi uno degli spettacoli che preferivo: la distesa di betulle e abeti nella pianura. Da quel punto di Darkfield, che si trova a tre chilometri a sud-ovest, spunta solo il campanile della chiesa e nei giorni limpidi si vedono il monte Bald e gli altri due massicci gemelli, a più di trenta chilometri di distanza verso ovest. La neve adesso cadeva più fitta. Fu un sollievo e un piacere scorgere la sagoma scura del fienile di Harp, la capote del suo Cape Codder che, in prospettiva, era nascosto dal fienile. La casa e il fienile erano collegati da un capannone a due piani, lungo dodici metri e largo quattro, che fungeva al piano di sotto da legnaia e a quello di sopra da pollaio. Tra la grondaia del capannone e la finestra della camera da letto, esposta a ovest, c'era solo un metro di distanza. Quei due andavano davvero a letto con le galline. Urlai, per farmi sentire da Harp che stava chiudendo il portone del capanno. Mi udì, perché lo tenne aperto per me. Corsi con la bufera che sembrava inseguirmi. Il vento che soffiava da ovest faceva tremare il fienile e le raffiche sembravano ringhiarmi contro. Da quando avevo lasciato Darkfield la temperatura era precipitata di dieci gradi; il termometro sulla porta del capannone ne segnava cinque. Mentre aiutavo Harp a chiudere la porta, cosa che facemmo con molta fatica, mi sembrò di sentire Leda piangere. Avvertii un'impressione rapida e confusa; il vento esplorava nuovi livelli di violenza, il portone si chiuse cigolando e Harp mi chiese: «Pensi che possa cadere?». Credo tuttora di avere sentito Leda lamentarsi. Nel caso fosse stato vero, smise quando chiudemmo la porta con il chiavistello e Harp la sbarrò con un palo molto robusto. Non riuscii a capire il perché, secondo me il vecchio chiavistello avrebbe resistito contro qualsiasi vento che non fosse proprio un uragano. «Bolt-Bucket non si rompe mai, dovresti comprare un automezzo anche tu, Harp. È andato solo a finire in un fosso.» «Lo rivedrai a primavera.» Sopra di noi le galline, non ancora spaventate dalla tempesta, raspavano. Gli occhietti grigi di Harp brillavano preoccupati. «Ben, te lo immagini un uomo che invecchia a cinquantasei anni?» «No» risposi, non per fare della triste filosofia. Le ossa (che stavano invecchiando) mi facevano male per il calore della stanza che serviva da cucina, sala da pranzo, soggiorno e un po' per tutto. «Uso il telefono, va bene?»
«Se i fili non si sono spezzati» disse rimanendo fermo e dando l'impressione di un uomo colpito da altre tempeste. «Loro, quei fannulloni, non hanno tagliato i rami sporgenti per tutta l'estate. Gliel'ho detto, naturalmente. Gliel'ho detto cosa sarebbe... Volevo dire... Ben, sono abbastanza vecchio da avere pensieri stupidi?» Forse la mia faccia gli fece capire che pensavo che se la spassasse con una moglie giovane. Si accigliò, seccato che non avessi afferrato quello che intendeva. «Intendevo dire, di vedere le cose. Cose che possono essere vere, ma...» «Harp, succede a tutti e a qualsiasi età.» Questa osservazione fu stupidamente brusca, un aiuto irrisorio, dettato dal freddo, dall'impazienza e dalla voglia di entrare. Harp aveva sempre avuto una sensibilità tesa in una direzione, si raggelò e mi disse: «Be', entra e scaldati. Leda non sta troppo bene, ha preso il raffreddore o qualcosa del genere». Quando lei scese per salutarmi aveva gli occhi rossi, rafforzando la mia convinzione che i rumori sentiti prima non fossero causati dal vento. Droopy arrivò scodinzolando dalla cuccia dietro la stufa per annusarmi i piedi, degnandomi subito dopo della solita scarsa attenzione. Leda non aveva una vita facile: era giovane e appassionata, e con poche possibilità di svago. Avrebbe compiuto ventotto anni di lì a poco, e sembrava alta perché si muoveva sempre molto diritta. La bocca piena e imbronciata, in parte per l'infelicità, e gli occhi limpidi erano un richiamo sessuale. Mi spiaceva, perché aveva un'indole che non era incline al malanimo o alla meschinità. Prima del matrimonio l'"ufficio informazioni" di Darkfield era stato solito ripetere con la sua proverbiale delicatezza che Leda era stata sbattuta da tutti gli uomini esistenti nel raggio di cinquanta chilometri, e per una volta può darsi che in questa maldicenza ci fosse un pizzico di verità, perché Leda possedeva quel potere nascosto che attira gli uomini senza bisogno di parole o gesti. Dopo l'improvviso matrimonio con Harp, come mi disse Sam, perché a quel tempo non abitavo a Darkfield e non la conoscevo, questi squallidi pettegolezzi cessarono di colpo: far infuriare Harp Ryder era sempre poco salutare. Per il momento i fili del telefono non si erano ancora spezzati. Mentre aspettavo che il garage rispondesse, Harp mi disse: «Ben, non mi va che tu esca con questo tempo. Fermati, eh?». Non me la sentivo, perché significava lavoro e disturbo in più per Leda, e poi ero abbastanza anziano per desiderare la mia tana, sicura e nota. Avvertivo però che Harp voleva che rimanessi per qualche suo motivo, e dissi
quindi a Jim Short, che lavorava al garage, di procedere pure con BoltBucket anche se io non ci fossi stato, Jim ruggì: «Lo sai cosa sta venendo giù adesso?». «Un po' di neve, no?» «Gesù!» Coprì il microfono malamente e sentii così la sua voce entusiastica attraverso gli echi taglienti come il ferro: «"Ehi, il vecchio Ben si è di nuovo piantato in un fosso! Non è qualcosa di...?" Senti Ben, non posso prometterti niente. I due carri-attrezzi sono già fuori. Faresti meglio a fermarti dove sei e a ringraziare il cielo di essere arrivato fin lì». «Va bene» dissi. «Ma non era proprio un fosso.» Leda ci offrì il caffè. Continuava a guardare verso il pianerottolo in fondo alle scale, ormai completamente buio, che comunicava con la porta d'ingresso che non veniva mai usata; oltre il pianerottolo c'era il salottocamera degli ospiti, dove avrei dormito. Non so che cosa Leda si aspettasse di scoprire in quell'ombra. Quando un ceppo di legna da ardere nella catasta fece uno strano rumore, serrò le labbra per non urlare. Il caffè mi scaldò e, quand'ebbi finito, avevamo esaurito l'argomento del tempo. Non erano ancora le tre e mezzo, ma l'est e l'ovest si fondevano in un'oscurità furibonda. Attraverso la bufera sibilante riuscivo appena a intravedere la facciata del fienile a quindici metri di distanza. «Non è possibile muoversi in quell'inferno» disse Harp e, come a sottolineare quanto diceva, la casa vibrò. «Leda, non sembri tanto in forma. Riposati un po'.» «Preferisco preparare la camera per Ben.» Tutti e due parlarono senza tenerezza, ma questa comparve negli occhi di Harp non appena Leda voltò le spalle. L'espressione sulla sua faccia di granito mutò poi per adattarsi a un suo nuovo pensiero, il corpo magro si piegò in avanti come per aiutarlo a parlare. «Non pensi che io sia matto, vero?» «No di certo. Cosa ti preoccupa, Harp?» «C'è qualcosa nei boschi che non ci dovrebbe essere.» Mi sentii sollevato, almeno non avrei dovuto ascoltare un altro problema di matrimonio. «Perdio, vorrei che per una volta capitasse a qualcun altro, così potrei dire cosa so senza che mi ridano dietro. Non sono uno che si fa delle idee stupide.» Con Harp si cammina sulle uova. Da un minuto all'altro avrebbe potuto decidere che stavo ridendo di lui. «Dimmi tutto, ma se là fuori c'è qualcosa, sicuramente non ha caldo.» «Ah» andò alla finestra a nord, guardando dove sapevamo che c'era la
strada sepolta dalla bufera bianca. La terra di Harp si stendeva dall'altro lato della strada fino al margine di un'enorme foresta di sempreverdi. Katahdin si trova a più di settanta chilometri verso nord e un po' più a est. Viviamo in un mondo che si inaridisce e si rimpicciolisce ma era possibile dalla fattoria di Harp - eccezion fatta per le poche strade di campagna e i fiumi non molto profondi - arrivare alla tundra, o all'Alaska, sempre mantenendosi all'interno della foresta più fitta. Harp disse: «È quando c'è questo tempo che arriva». Si lasciò cadere nella poltrona consumata e allungò la mano per prendere Kabloona. Mentre Leda era con noi, l'aveva a malapena aperto. «Nome strano.» «In eschimese Kabloona vuol dire "uomo bianco".» «Queste fotografie, sono buone, Ben?» «A me piacciono quelle che troverai più avanti.» «Ah.» Sfogliò il libro con impazienza per vederle, ma si limitò a studiare quelle raffiguranti i forti visi degli eschimesi, per poi perdere ogni interesse. Qualsiasi cosa stesse cercando, non l'aveva trovata. «Questa gente, è civile?» «Certo, a modo loro.» «Ehi, questo tipo sembra uno che sappia marciare attraverso i boschi.» «Probabilmente non può proprio farlo. Dove vivono non ci sono alberi, a meno che non si spostino a sud, e odiano farlo. Qualsiasi punto sotto l'Artico è troppo caldo per loro.» «C'è una cosa... Be', è un bel libro. Quanto hai speso?» L'avevo trovato di seconda mano e mi pagò fino all'ultimo centesimo. «Sono contento di leggerlo.» Non l'avrebbe mai fatto, sarebbe finito nello scaffale del salotto insieme alla Bibbia, un vecchio calendario, un libro di Longfellow, fino a quando un giorno quella casa sarebbe andata all'asta e nessuno si sarebbe più ricordato di come viveva lui. «Cosa c'è, Harp.» «Be'... L'altra estate, nei boschi, ho sentito qualcosa. Pensavo a un volpe, poi ho visto che non lo era. Da farti rizzare i capelli in testa. L'agosto scorso ho perso una mucca nel pascolo a nord. Alcune parti del recinto di legno erano state divelte. Voglio dire, Ben, che le due assi erano state schiodate. Nessun segno di martello.» «Un orso?» «L'unica impronta che ho trovato ci assomigliava, ma era troppo piccola.
Lo sai che un orso non le avrebbe schiodate, Ben.» «La mucca potrebbe esserci finita contro, per paura di qualcosa...» Non perse la pazienza. «Ben, ti sembra che costruirei un recinto per il pascolo inchiodando le assi dal di fuori? Una mucca sì, potrebbe andarci a sbattere contro con tutto il peso; sì, lo schianterebbe, certo. Ma morirebbe e dappertutto sulle assi ci sarebbero sangue, peli, e poi sarebbe lì, non nella foresta a due chilometri di distanza. È successo durante una brutta tempesta. Ho pensato a qualcuno che ce l'ha con me, magari un figlio di puttana che vuole la proprietà e cerca di farmi andare via per lo spavento, io che ho vissuto qui tutta la vita e la mia famiglia prima di me. Ma non può essere. Ho trovato i resti della mucca una settimana dopo. Nella foresta. La testa e le ossa, la pelle strappata e buttata in giro. Qualsiasi persona che squarta una mucca, taglia ciò di cui ha bisogno e se lo porta via. Non si siede a spolpare le ossa, Cristo... Non strappa la carne dal femore a brani... Va bene, mettiamo che sia un orso. Ma nessun bestione di quel genere concerebbe lo steccato in quel modo e poi trascinerebbe Nell per due chilometri per ucciderla nei boschi. Era una bella Jersey, intelligente, se ne occupava Leda, come di solito non fa... Da allora ho guardato bene nei boschi, non ho mai trovato niente. Ho sentito qualche volta un odore, che sa quasi di pesce, come quello dell'orso, ma diverso.» «Ma Harp, con la neve in terra...» «Adesso penserai davvero che sono pazzo. Quando c'è bel tempo non ho mai trovato le impronte. Di notte lo sento, ma quando di giorno vado dove penso di avere udito il rumore, non trovo tracce. Vive nella foresta e scende solo quando c'è bufera. Come ho fatto a saperlo? Perché scende davvero, Ben, quando c'è questo tempo, proprio come adesso. Nella stalla il vecchio Ned e Jerry impazziscono, e qualche volta lo sentiamo sotto la finestra. Faccio luce con la pila attraverso il vetro, ma non l'ho mai visto. Se c'è un po' di luce esco con la calibro .10, e ci sono le impronte intorno alla casa, i buchi coperti di neve. Quando è mattino forse rimangono dei segni, che portano a nord, verso la foresta, ma sotto gli alberi non ne vedi, magari perché sale sugli alberi e avanza in quel modo. L'ho visto solo una volta, Ben. L'ottobre scorso. Ma prima è meglio che ti racconti ancora una cosa, Avevo perso dei polli, così avevo fatto due recinti, forse te lo ricordi, in modo che di giorno potessero andare nel cortile e di notte rientrare nel pollaio. C'erano delle buone porte, che chiudevo sempre. Una notte, alle due, Ned e Jerry fanno un rumore pazzesco, così vado nella stalla passando per il fienile e vedo che sono terrorizzati. Ned che cerca di liberarsi scalciando.
Li tranquillizzo, e guardo nella stalla, dove tengo le briglie; dappertutto. Niente. La notte era silenziosa, senza luna. Doveva essere qualcosa che avevano annusato i cavalli. Torno nel fienile e trovo la porta di uno degli stabbi dei polli aperta, scardinata. Un ladro di polli avrebbe portato via qualcosa per forzare la serratura, sarebbe scemo se non facesse così, no? Mi ha preso sei polli, sei bei polli di otto libbre, e ha lasciato le teste sul pavimento... staccate a morsi.» «Harp, può essere qualche pazzo. La gente può impazzire in quel modo. Ci sono delle vecchie storie che...» «Ho cercato di crederci, ma un uomo potrebbe sopravvivere all'inverno nella foresta? A venti gradi sotto zero?» «Forse in una caverna, con delle pelli di animale...» «Ho coperto di assi tutta la parte retrostante del fienile, e i lucernai del pollaio, con dei chiodi conficcati di traverso lunghi dieci centimetri. Be', erano state tolte ed erano a trenta metri di distanza, per terra. Ma non era venuto per le galline... Così, appena successo il fatto, ho mandato a chiamare lo sceriffo Robart. Quel figlio di puttana vive a Darkfield, pensavo che si sarebbe interessato della faccenda.» «È servito a qualcosa?» Harp rise. Mi aveva raccontato tutto ciò, mentre continuavo a fissarlo, senza muovere un muscolo del viso, impassibilmente, a parte un leggero movimento agli angoli degli occhi: era un retaggio della Nuova Inghilterra, magari arrivato con il Mayflower. «Robart è venuto, ma non subito. Gli ho fatto vedere la porta, le teste dei polli e gli ho raccontato di come passavo le notti seduto sul culo con la calibro .10.» Si alzò per sputare il tabacco masticato nel fuoco: operazione che, secondo Harp, purifica l'aria. «Ben, potevo mostrargli quelle teste di pollo a un centimetro dal naso, ma vedi, quand'è arrivato, non erano più proprio fresche. Decise che avrebbe dato un'occhiata in giro e che mi avrebbe fatto sapere. Questo a metà settembre. Poi non l'ho più visto.» «Forse ha capito che non era proprio il benvenuto.» «Ah, in quanto a questo, era benvenuto come una merda su una tovaglia pulita.» «Hai detto... che hai visto l'essere strano?» «Credo di sì. Erano i giorni dell'estate di San Martino, ricordi no? Caldi come a giugno ma con i colori vivaci, il profumo della frutta buttata in terra dal vento: ottobre mi piace tanto. Ero andato sulla collinetta per riparare lo steccato dopo aver perso la vecchia Nell. Ero appoggiato, forse ero stan-
co. Era pomeriggio tardi, il cielo si arrossava. Sai, no, che il recinto taglia il pendio e arriva al mio terreno boscoso, a est. Non ho mai tagliato i cespugli, c'è tanto sambuco e altre piante che attirano gli uccelli. Stavo guardando il vecchio pascolo fra la foresta a nord e il mio terreno, un bel posto. Un po' di anni fa è venuto un pittore a fare un quadro, aveva detto che quel luogo sembrava un coro, anche se non mi ha spiegato cosa diavolo è.» Cercai di farlo andare avanti distogliendolo dalle sue divagazioni. «L'hai visto là?» «No. Sulla mia destra, in quei cespugli di sambuco. Penso a quindici metri da me. Dio mio, non ho girato la testa, l'ho visto con la coda dell'occhio e mi sono voltato dall'altra parte come se volessi tornare indietro. Feci finta di cercare qualcosa nell'erba, avvicinandomi un po' allo steccato. Mi aspettava, una macchia marrone in quei cespugli, vicino alla grande betulla gialla. Quasi alto come un uomo. Non avevo fucile, nemmeno un bastone... Ha le spalle grosse, non riuscivo a vedere quei piedi maledetti. Non è più alto di un metro e cinquanta. Le mani, se possiamo chiamarle così, non le ho viste perché erano nascoste dai cespugli di sambuco. Ben, ha la pelliccia marrone, sul rossiccio, che lo ricopre tutto. Anche la faccia, la testa, il collo grosso. Al sole brilla, non puoi ingannarti. Poi... lo guardai direttamente. Cercai di fare come se non lo vedessi ancora, ma lui aveva capito. Sparì, la betulla era fra lui e me. Senza fare rumore.» Harp ascoltò Leda che si muoveva al piano di sopra. Poi continuò lentamente: «Ah, corsi a prendere un fucile e frugai nei boschi, per tutto il bene che mi aveva fatto. Vuoi sapere che faccia ha? Non ho detto niente a Leda di questo particolare; sai, è spaventata. Non voglio peggiorare le cose. Ho detto solo che era un animale che è fuggito prima che potessi vederlo bene. Ben, ha un faccione. La testa è umana, solo che sporge troppo intorno alla mascella. Non ha un gran naso, solo due buchi nella pelliccia. Ben, i... i denti! Ho visto la bocca spalancata e ha sollevato un lato del labbro per farmi vedere come azzanna gli animali. Ho visto una cosa così enorme solo in un orso adulto. Ecco, se mai mi deciderò a raccontarlo in giro, mi diranno che ho visto un orso. Ma tu lo sai, ho sparato al mio primo orso quando avevo sedici anni. Papà mi portava sempre dalle parti di Jackman. Da allora ne ho preso uno un anno sì e uno no. Li conosco benissimo. Ma ecco cosa mi sentirò dire se racconto in giro questa storia». Sono un naturalista mancato, che sa un mucchio di cose. Come ad esempio che non ci sono scimmie che riescono a sopportare i nostri inverni, a parte forse gli entelli docili dell'Himalaya. Nessuna bestia simile a quella
descritta da Harp vive sul nostro pianeta. Ma questa consapevolezza non serviva a molto. Harp era sincero, razionale, voleva una spiegazione logica tanto quanto me. Non ero affatto uno scettico di paese, così gli dissi: «Penso che tu abbia ragione, la maggior parte della gente non crede... alle cose insolite». «Stanotte forse lo sentirai, Ben.» Leda stava scendendo le scale quando sentì l'ultima frase: «Te l'ha detto dunque, Ben. Cosa ne pensi?». «Non lo so.» «Leda, forse, se provassi a imitare il suo verso per Ben...» «No!» Aveva portato con sé qualcosa da rammendare e stava per sedersi quando si raggelò come se fosse stata minacciata da un pericolo mortale. «Non potrei sopportarlo, Harp. E... potrebbe prenderlo come un richiamo.» «Un richiamo?» Ridacchiò a fatica. «Non penso che potrei imitarlo così bene.» «Non farlo, Harp.» «Va bene, tesoro.» Leda teneva gli occhi chiusi, la testa appoggiata allo schienale. «Non innervosirti così.» Incominciai a chiedermi se un uomo apparentemente sano di mente fosse capace di inventare un orrore simile con il proposito inconscio di tormentare una donna troppo giovane per lui, una donna che non avrebbe mai immaginato di poter possedere. Se lui le avesse detto che la luna non era rotonda, Leda gli avrebbe creduto. Conclusi: «Non dovremmo parlarne più, se la cosa la fa star male». Mi guardò come uno che torna a galla dopo essere stato sott'acqua. Leda disse con una voce fievole e triste: «Vorrei davvero tanto andare a Boston». La faccia di granito si mise sulla difensiva: «Leda, ne abbiamo già parlato. Niente mi farà lasciare la mia terra, alla mia età non posso nemmeno pensare di andarmene in una città. Cosa diavolo potrei fare laggiù? Il guardiano notturno? Le pulizie, perdio? I risparmi se ne andrebbero in un momento. Ne abbiamo già parlato. Di qui non ci muoviamo». «Potrei trovarmi un lavoro.» Era la cosa peggiore che avrebbe potuto dire, e probabilmente lo comprese dal silenzio che seguì, infatti aggiunse goffamente: «Ho dimenticato qualcosa di sopra». Afferrò i suoi rammendi e uscì. Non ne parlammo più per tutto il giorno. Tenni compagnia ad Harp mentre mungeva e svolgeva altre piccole mansioni, aiutandolo quando po-
tevo, e insieme ci assicurammo che tutto fosse a posto contro la tempesta e altri eventuali nemici. A cena fu ospite lo spettro dell'essere con la pelliccia e le zanne, ma non ne parlammo per il bene di Leda, e fingemmo di non pensarci. La cena sarebbe stata comunque sgradevole. Non avevano l'abitudine di avere ospiti e Leda era una pessima cuoca perché non prestava nessuna cura alla preparazione del cibo. Penso che, come ogni ragazza di Darkfield, avesse avuto in testa la solita confusione di sogni televisivi, tipici del XX secolo, fino a quando uno slancio entusiastico particolare o forse delle false avvisaglie di gravidanza la convinsero con l'inganno a sposare un uomo che sembrava uscito dall'Ottocento. Mangiammo verdura troppo cotta e carne di cervo cucinata come il manzo, che peraltro non mi piace nemmeno quando è preparata a dovere. Alle sei Harp accese la radio a pile e si mise a sedere impassibile, ascoltando le brutte notizie del giorno e le previsioni del tempo: «Una tormenta che può rivelarsi la peggiore degli ultimi quarant'anni. Dalle tre di questo pomeriggio sono scesi quarantacinque centimetri di neve a Bangor e cinquantadue a Boston. Si prevede che non smetterà di nevicare fino a domani. Durante la notte il vento aumenterà raggiungendo anche la velocità di cento chilometri all'ora». Harp spense l'apparecchio con decisione. Le altre sere in cui ero stato da loro, dopo cena, permetteva a Leda di ascoltarla a basso volume, così che per tutta la sera si sentivano dei bisbigli in sottofondo. Quella sera Harp intendeva ascoltare altri rumori. Leda lavò i piatti, ci augurò presto la buona notte e salì di sopra. Harp non parlava, a parte quando rispondeva per educazione alle domande futili che gli rivolgevo. Rimanemmo seduti ad ascoltare la neve e il vento che infuriavano. Dopo un'ora ne ebbi abbastanza, dissi che ero stanco e che volevo ritirarmi presto. Mi accompagnò nella mia camera e mise un altro ceppo di legna dentro la stufa panciuta. Con la faccia di granito di sempre, mi sorrise, esaurendo in quel modo la scorta di sorrisi per il resto della settimana. Poi tirò fuori una bottiglia dalla credenza, sopra la quale sulla parete era appesa da quarant'anni una stampa di George Washington, ritengo intento a concludere un trattato con un insolito "sofferente di epatite" che poteva essere il generale Cornwallis, ammesso che quest'ultimo fosse stato tanto goffo. La bottiglia era di whisky di segale che Harp, in buona fede, riteneva bevibile, visto che ormai da quarant'anni si ustionava la gola trangugiando quell'intruglio. Dopo un sorso, mentre la gola si calmava dopo il bruciore, Harp mi disse: «Non dovevamo preoccuparti con certe fesserie, Ben. Spero che tutta questa faccenda non ti rovini il sonno».
Mi diede una pila di scorta, poi se ne andò e chiuse la porta dietro di sé. Lo sentii sedersi di nuovo sulla poltrona della cucina e, sotto tutte quelle coperte, al buio ascoltavo il mormorio crudele della neve. La stufa borbottava amichevolmente, e io ero come un bozzolo di calore vitale in un deserto gelato ed estraneo. Più tardi sentii Leda in cima alle scale chiamarlo con una voce timida, stanca e invitante: «Vieni a letto, Harp?». Sotto il peso di lui le scale scricchiolarono, la porta della loro camera si chiuse e Leda si lamentò come si fa quando ci si sente afflitti da un problema. Mi ricordai che Adelaide mi aveva raccontato qualcosa di quella casa, dove non salivo al piano di sopra da quando Harp e io eravamo ragazzi. Adelaide, una delle poche donne a Darkfield che non aveva mai parlato male di Leda, mi aveva detto che una delle camerette a ovest, oltre la stanza di Harp e di sua moglie, era stata concepita come lo spazio per i bambini, e Harp non permetteva che vi entrasse niente che non fossero mobili per bambini, ed era così da quando, sette anni prima, si erano sposati. Un'altra ora passò lentamente, mentre mi innervosivo perché non riuscivo a prendere sonno. Poi lo sentii. Il rumore proveniva dal lato ovest, oltre l'orto di neve. Mi strappò al sonno proprio quando stavo per addormentarmi, e cercai di pensare che fosse il latrato squillante e metallico tipico della volpe, che lo erutta dalla gola come un drago. Appena sveglio, fui certo che fosse molto più profondo, di petto. Un gufo? No. Era un suono che apparteneva a tempi antichi, quando l'uomo temeva il buio e le sue armi erano di pietra. La stufa, scoppiettando, mandava una luce sufficiente che mi permise di rivestirmi a tentoni. Il vento non si era calmato. Finendo di abbottonarmi e incespicando, andai alla finestra, sul lato ovest, ma non vidi che il bianco della neve che si era accumulata sul telaio inferiore della finestra a saliscendi, e solo alzandomi in punta di piedi riuscii a guardare fuori. Una luce illuminò fiocamente il campo di neve che si stendeva di fronte a me; veniva dalla stanza da letto dei Ryder che, rischiarando la camera dei bambini, si rifletteva anche all'esterno, debole ma diffusa nel caos della bufera. Yaarrhh! Adesso era spaventosamente vicino. Dalle finestre a nord non vidi altro che il nero del buio. Da dietro la porta, Harp mi chiese con voce stridula: «Sei sveglio. Ben?». «Sì, vieni a vedere alla finestra a ovest.» In cucina non aveva lasciato acceso il lumino da notte, e c'era solo un
debole bagliore che proveniva dalla camera da letto illuminando il pianerottolo. Mormorò dietro di me: «La neve è alta, dev'essere più di un metro». Yaarrhh! L'urlo adesso era a sud, il lato più buio della casa, sul quale si aprivano solo la finestra della cucina e il lucernaio della stanza dove si trovava la pompa a mano e da dove non si vedeva che il grande acero che era più alto della casa. Si sentiva il vento ululare attraverso le foglie dell'albero. «Ben, vuoi infilarti gli stivali? Sta a te... non posso chiedertelo. Forse dovrò uscire.» Parlò sottovoce, come se la bestia potesse sentirci attraverso le spesse pareti. «Certo.» Me li misi e presi la giacca a vento, seguendolo poi in cucina. Sopra la porta che dava sulla legnaia, da un corno di cervo pendevano il fucile calibro .30 e una potente doppietta. Li afferrò senza bisogno di accendere la luce. Quella notte trovai il coraggio di agire perché vi fui costretto dalla vergogna, dal timore che un vecchio amico nei guai pensasse che non lo volessi aiutare. Sono passato attraverso l'invasione della Normandia, ho campeggiato da solo quand'ero più giovane, in gamba e dormivo bene, ma l'urlo di "Zanna" - non sapevo altrimenti come chiamare quell'essere - faceva perdere coraggio e risaliva tremendamente terrorizzante lungo la spina dorsale. Avevo la pila di scorta, ma sapevo che Harp non voleva che la usassi; comunque riuscivo lo stesso a intravedere i mobili e lui che andava alla rastrelliera dove si trovavano le armi. Si era già infilato gli stivali, il berretto di pelliccia e il giaccone. «Prendi» mi disse, e mi diede una calibro .10. «Tutti e due i tamburi sono carichi. Non è il mio modo di fare comunque, io sai, non è nemmeno giusto, ma da quando è iniziata tutta questa faccenda...» Yaarrhh! «Dov'è adesso?» Harp era alla finestra a sud. «Girato quest'angolo?» «Penso di sì... dov'è Droopy?» Harp ridacchiò debolmente, «La piccola canaglia è venuta di sopra al primo ringhio ed è andata sotto il letto. Ho detto a Leda di stare di sopra. Qui accenderebbe la luce, non avrebbe senso.» Poi, forse dal lato est del pollaio, prorompendo da una superficie echeggiante, si sentì di nuovo: Yaarrhh! «Non può essere! Dio, viene da più di tre metri d'altezza!» Ma Harp si
precipitò nel capannone e io lo seguii. «Ben, tieni puntata la pila sul pavimento.» Corse su per la scaletta. «Non dirigerla sui polli, che si spaventano.» Fino a quel momento i polli in allarme, stupidi e incapaci di vedere al buio, si erano limitati a fare dei suoni spaventati. A est qualcosa si stava aggrappando fuori della finestra barricata, ringhiava, batteva i denti e pestava le assi. Dal rumore sembrava che lo facesse con un... pugno. Harp disse all'improvviso: «Punta la pila sulla finestra!» e poi fece fuoco. Non sentimmo nessun urlo, qualsiasi rumore esterno era coperto da quello della tempesta e dalle strida dei polli terrorizzati dallo sparo. Il vetro era sporco della loro lordura, e non riuscivo a vedere niente di fuori. La pallottola aveva perforato il vetro senza mandarlo in frantumi, ed era passata attraverso le assi, ma l'essere avrebbe potuto abbassarsi prima dello sparo. «Devo andare a vedere, Ben. Rimani qui.» Tornò in cucina, posò il fucile e imbracciò la doppietta. «Può darsi che tu non riesca a prendere bene la mira, in tal caso ricordati che il caricatore è da otto.» «Va bene.» «Okay, tieni le orecchie aperte.» Harp corse fuori attraverso la porta che dava su una zona pavimentata vicino alla legnaia. Per girare intorno al fienile a est e arrivare alla finestra, doveva farsi strada nella neve dietro il fienile, in quanto aveva chiuso tutte le aperture sul retro. Avrebbe potuto andare a ovest, ma avrebbe dovuto lottare contro il vento e ancora più faticosamente contro i turbini. Vidi sparire la sua figura. La voce tremante di Leda mi chiese dal piano superiore: «L'ha... preso?». «Non so, è andato a vedere. Tieni duro...» Prima che Harp ritornasse sentii quel ringhio infernale ancora una volta, e di nuovo suonava più in alto rispetto al terreno, doveva venire dall'acero. Un attimo dopo stavo ancora cercando di orientarmi al buio, aspettando Harp, quando sentii vetri e legno andare in mille pezzi e il colpo violento della porta di sopra che si apriva. Un grido ansante venne troncato, e ci fu un urlo che mai nessun essere umano sentirà ancora. Mi risuona tuttora in testa. Penso di aver perso qualche secondo per lo shock, poi salii brancolando la scala stretta, ostacolato nei miei movimenti dal fucile e dalla pila. Il vento ruggì alla porta della cucina e Harp fu dietro di me, spingendomi da parte, ma gli fui vicino quando spalancò l'uscio della camera da letto. La raffica che era penetrata dalla finestra rotta e aveva fatto sbattere la porta aveva anche spento la luce, ma grazie alle nostre pile vedemmo subito che
Leda era scomparsa. Non c'era niente, niente di vivo. Droopy era in mezzo a schegge di vetro e pezzi di infissi rotti, morto con il collo spiaccicato: qualcosa l'aveva calpestato. Il copriletto era stato trascinato quasi fino alla finestra, forse Leda l'aveva tenuto stretto fino a quando aveva potuto. Su alcuni dei frammenti di vetro vidi del sangue, e sull'infisso divelto una ciocca di pelo rossiccio. Harp corse al piano di sotto, mentre io indugiai ancora lì per alcuni secondi. Sentivo un dolore acuto dentro di me, che al momento mi rendeva inebetito. Puntai la pila contro una brutta fotografia appesa alla parete, quella della mamma di Harp a cinquant'anni circa, con la faccia pietrificata e acida, una divinità puritana con occhi profondi e tormentati. Me la ricordavo. Quando il padre di Harp era morto, lui si era ribellato e aveva smesso di andare in chiesa. La signora Ryder l'aveva "ripudiato". La fattoria era di Harp, così lei lo lasciò e se ne andò a vivere con una sorella vedova a Lohman, dove morì presto, senza essersi prima riconciliata con il figlio. Harp era vissuto da scapolo, in solitudine, fino al suo strano matrimonio all'età di cinquant'anni. E ora eccola là, ancora vigile, con la faccia rugosa e implacabile. Nel mio stordimento pensai: "Forse fanno sempre l'amore con le luci spente". Ma adesso Leda non c'era più. Corsi dietro ad Harp, che aveva lasciato la porta della cucina aperta. L'uscio sbatteva al vento. Uscii con il fucile e la pila, e dall'altra parte della strada vidi la torcia elettrica di Harp. Non c'era nessun'altra luce, solo il suo chiarore e il mio. Non appena mi spinsi oltre l'angolo della casa, ricevuto il tremendo abbraccio della tempesta, capii che non avrei mai potuto farcela. Il vento che soffiava a ovest mi pungeva la faccia come una miriade di spilli, la neve mi arrivava all'altezza delle cosce. Con i polmoni deboli che mi ritrovavo e anche con un cuore non proprio a posto avrei potuto lasciarci le penne, in quell'avventura. Harp stava per scendere il pendio che portava verso la foresta. Sotto il raggio della pila le sue impronte stavano già sparendo. Mi spinsi un po' oltre e, quando il vento si calmò per un attimo, riuscii a urlare: «Harp! Non ce la faccio!». Sentì. Si mise le mani a coppa davanti alla bocca e gridò. «Non provarci! Torna a casa e telefona per cercare aiuto!» Agitai la mano per fargli capire che avevo capito e tornai faticosamente verso casa.
Ce l'avevo fatta. Sulla soglia della cucina mi sentii svuotato, con il fucile e la pila che tintinnavano da qualche parte, e ci rimasi fino a quando ripresi abbastanza fiato. La faccia e le mani erano blocchi di ghiaccio, poi divennero di fuoco. Mentre cercavo di respirare, per una mia necessità interiore continuavo a pensare la stessa cosa: "Ci dev'essere un motivo razionale. Non devo abbandonare la logica". Alla fine mi tirai su e mi diressi, inciampando, verso il telefono. La linea era interrotta. Trovai la pila e salii faticosamente le scale. Passai vicino al povero Droopy e ai vetri in frantumi per guardare attraverso la finestra. Vidi che la neve sul tetto del capannone vicino alla camera da letto era stata spazzata via; la casa riparava quella parte dalla furia del vento a ovest. Pensai che l'essere fosse arrivato sul tetto saltando dall'acero, da lì sul tetto del capannone e poi si fosse lanciato attraverso la finestra chiusa senza assolutamente considerarla un ostacolo. Aveva perso solo un po' di pelo e di sangue. Mi guardai intorno e non riuscii a trovare quella ciocca di peli. Forse il vento l'aveva portata via. Chiusi la porta. Al piano di sotto accesi i lampadari della cucina e del salotto, se Harp fosse tornato, quelle luci gli potevano essere di guida. Attizzai il fuoco e mi versai una dose dell'orribile whisky di Harp. Era quasi l'una di notte. E se non fosse tornato? Prima che la strada fosse sgombra potevano passare dei giorni. Quando la tempesta si fosse placata, potevo usare le racchette da neve di Harp, forse... Tornò all'una e venti, curvo e barcollante. Lasciò che lo aiutassi a raggiungere la poltrona. Quando fu in grado di parlare, disse: «Nessuna traccia, nessuna traccia». Mi prese la bottiglia dalle mani e tracannò un sorso. «Cristo! Cosa posso fare? Ben...? Devo andare in paese, chiedere aiuto. Se me lo possono dare.» «Hai un altro paio di racchette da neve?» Mi fissò. Combattendo l'imbarazzo aggiunse: «Eh? No, non ne ho. Meglio che tu stia qui, comunque. Se vuoi passo a prendertele da casa tua, se ci arrivo». Bevve di nuovo e rimise al suo posto il turacciolo con la mano. «Ti lascio la calibro .10.» Tirò fuori le racchette da un armadio. Lo convinsi ad aspettare il caffè. A quel punto la fretta non serviva a niente, anche se potevamo dirci che sapevamo che Leda era morta. Quando fu pronto, uscii con lui nel vento furioso. «C'è qualcosa che vuoi che faccia prima che tu torni?» Cercò di pensarci, ma mi rispose: «Penso di no, Ben... Dio, non ho vissuto rettamente? No, non ha senso eh? Dio? Mi faccio una risata». Se ne andò e, dopo due o
tre passi, la tempesta lo ghermì. Erano quasi le due, e per quattro ore rimasi da solo. Con la porta della camera da letto chiusa e il fuoco scoppiettante il caldo tornò. Portai la lampada della cucina nel salotto; poi mi sistemai nella cucina quasi completamente buia con la schiena contro la parete, osservando le finestre, la calibro .10 a portata di mano, ma non mi aspettavo che l'essere tornasse, e non c'era nessuno... La bufera si calmò, forse perché la casa era così sommersa dalla neve che tutti i rumori venivano attutiti. Ero escluso dalla battaglia, sepolto vivo. Harp sarebbe tornato. Le stagioni avrebbero seguito il loro corso naturale e in qualche modo avremmo saputo cos'era successo a Leda. Pensavo che l'essere fosse in qualche modo conforme al modello umano: pazzo, deforme, selvaggio ma comunque umano. Dopo un po' di tempo mi domandai come mai non avevamo sentito nessun trambusto provenire dalla stalla. Mi costrinsi a prendere il fucile, la pila e ad andare a vedere. Avanzavo a tentoni nella legnaia, sulle cui pareti danzavano le ombre delle cataste di legna di Harp, e poi nel fienile. Le mucche sonnecchiavano beatamente, nella corsia al centro mi azzardai a puntare il debole chiarore della pila contro le distanze paurose del capannone, ma tutto era tranquillo: si sentiva solo il fruscio dei topi. Nella stalla Ned nitrì e lasciò che gli accarezzassi il muso marrone, mentre Jerry mi guardò con uno sguardo buffo. Pensai che non avessero avvertito l'odore della bestia, che altrimenti avrebbe scatenato in loro il panico, e forse avendo già sentito il ringhio in precedenza, quella notte non si erano allarmati più di tanto. Tornai al mio posto di guardia, dove le ore passavano lentamente fra abissi di terrore e di sfinimento. Forse mi addormentai. Quel giorno l'alba sorse senza colore, ma ne avvertii la pallida luminescenza: perfino una tempesta di neve non può impedire che spunti la luce del giorno. Feci colazione con uova e pancetta affumicata, diedi da mangiare alle galline, tirai giù il fieno con il forcone e portai l'acqua alle mucche e ai cavalli. L'unica mucca da latte, una vivace Ayrshine, rifiutò di collaborare alla mia intenzione di esserle utile. Da quando ero ragazzo non avevo più munto e ci avevo perso la mano, e il sollievo che le avrei dato era certo per lei meno importante del fatto di volere scalciare il secchio. Sembrava provare più divertimento che fastidio, quindi per il momento lasciai perdere. Mi misi invece a spalare la neve davanti alla porta della cucina. Il vento era calato, continuava a nevicare, ma adesso tranquillamente.
Mi spinsi oltre la casa e vidi che la neve mi arrivava ai fianchi. Quando mi girai vidi Harp avanzare con i suoi lunghi passi sulle racchette da neve seguito da altri tre uomini. Riconobbi lo sceriffo Robart, ben nutrito ma vigoroso, Bill Hastings, ironico e senza età, cugino di Harp e uno dei suoi pochi amici, e per ultimo Curt Davidson, forse amico dello sceriffo ma non certo di Harp. Quand'era ragazzo lo consideravo un chiacchierone ottuso, e il fatto che fosse divenuto un adulto non aveva migliorato granché le cose. Quando lo vidi pensai forse irrazionalmente: "Questo non sarà dalla nostra parte". Un pensiero assurdo, ma io e Harp eravamo uniti contro il mondo perché avevamo vissuto insieme ciò che gli altri definiscono impossibile, e che avrebbero giustificato con modi bruschi e odiosi, e non c'è proprio niente da fare, ma è così. Vidi il chiarore pallido e indefinito del sole diventare sempre più forte. Il vento e la neve scesa avevano cancellato tutte le impronte sulle distesa bianca del visitatore notturno. Arrivarono nello spiazzo ripulito dalla neve e si scrollarono gli abiti. Aprii la porta della legnaia e Harp mi rivolse uno sguardo disperato e interrogativo, ma scossi la testa. «Qualche problema?» era Robart che parlava, togliendosi le racchette da neve. Harp lo ignorò. «Devo sbrigare i miei lavori.» Gli dissi che avevo fatto tutto tranne mungere quella maledetta mucca. «Oh, Bess è nervosa. Mi occupo io di lei.» Mi diede le mie racchette da neve che si era legato sulla schiena. «Adelaide voleva sapere della spesa che hai fatto. Le ho detto che pensavo fosse nella macchina.» «Mica male come ghiacciaia» disse Robart in tono molto amichevole. Curt doveva divertirsi anche lui. «Ben, sei sicuro di aver messo le mani alla vecchia Bess nel punto giusto, dove sono le mammelle?» Ridacchia sempre da solo delle sue battute, così perlomeno nessun altro è costretto a farlo. Bill Hastings sputò nella neve. «Posso entrare?» chiese Robart. Non era una domanda qualunque, era lì in veste ufficiale e voleva saperlo con esattezza. Harp lo squadrò da capo a piedi. «Nessuno ve lo impedisce. Non l'ho portata qui perché se ne stia in giro, penso.» «Harp,» disse Robart abbastanza cortesemente «non mi renda le cose difficili. È venuto a dirmi che sono successe certe cose, e io devo occuparmene.» Ma Harp stava già andando a grandi passi verso l'entrata del fienile. Gli altri entrarono in casa con me, e misi l'acqua sul fuoco per fare
il caffè. «Ben, dev'essere il tuo automezzo quello che c'è un po' più giù. Ho sentito che sei andato a finire in un fosso. Adesso si vede solo una montagnola nella neve. Il gelo magari gli fa bene, visto che ha già provato di tutto.» Non mi sentivo dell'umore giusto, e d'altronde con Robart non lo ero mai. Grugnii, e la sua faccia sprizzava gioia come quando ci si libera di uno scocciatore. «Allora, come stanno le cose? Harp mi ha raccontato una storia che non potrei darla a bere a nessuno, dov'è la signora Ryder?» Quel bue di Davidson ridacchiò di nuovo in modo antipatico. Non penso che nemmeno a Robart andasse un granché a genio, ma sembrava che prima di partire l'avesse nominato suo vice. «Sissignore,» disse Curt «quella era davvero una bella storia.» «Dov'è la signora Ryder?» «Non c'è» gli dissi. «Pensiamo che sia morta.» Mi guardò in cagnesco, fregandosi le mani per scaldarsele. «Quella finestra è come quella che è stata rotta?» «Sì, dall'esterno. Quando Harp torna, fareste meglio a dare un'occhiata. Ho chiuso la porta di quella stanza e non l'ho più aperta. Ci sarà della neve, ma vedrete cosa abbiamo visto noi quando siamo saliti.» «Andiamoci adesso» suggerì Curt. Bill Hastings rispose: «Non prendi troppe iniziative per essere un vice? Il signor Dane ha detto "quando torna Harp"». Bill e io siamo amici e normalmente non mi dava del signore, ma penso stesse cercando di conferirmi un po' d'autorità. Riconobbi l'intesa dicendogli: «Sei anche tu un vice, Bill?». Lui sputò nella stufa, rimise il coperchio e rispose: «Perdio, no!». Harp tornò e portò il secchio del latte nella dispensa; poi ci guardò. «Bill, voglio andare di nuovo nella foresta. Vuoi venire con me?» «Certo, Harp. Non ho portato il fucile.» «Prendi la mia calibro .10.» «Verrà anche Curt» disse Robart. «Va bene sulle racchette e gli piacciono gli animali selvatici.»' Harp disse: «È strano, Robart, che non venga anche lei. Penso che questa sia la storia più strana che sento da quando la ragazzina di Cutter è andata a finire sotto il trattore. Ne conviene?». «Il fatto è, Harp, che mi sono stirato un muscolo della schiena e poi invecchio, sai com'è. Penso che mi limiterò a dare un'occhiata qui intorno. Qualcosa da obiettare?»
«Il caffè è pronto» dissi. «La questione è che, se avessi pensato che ci sarebbero state delle obiezioni sul mio operato, mi sarei procurato un'autorizzazione.» «Grazie, Ben» disse Harp ingollando il caffè bollente. «Dunque sceriffo, se guardare intorno alla casa è tutto quello che può fare, non ho nulla da obiettare. Beh, non voglio prenderti troppo tempo, ma rimarresti qui? Per tenergli compagnia? Non che in casa ci sia un granché, ma sai...» «Rimango.» Avrei voluto dirgli di non comportarsi in quel modo, perché l'avrebbe messo ancora di più nei pasticci. Robart diede a Davidson il fucile e la fondina. «Meglio che li prenda, Curt, in modo da essere pronto a ogni evenienza.» Harp e Bill erano fuori che si infilavano le racchette da neve, e sentii i commenti di Harp sulla schiena dolorante dello sceriffo, poi partirono. Aveva quasi smesso di nevicare e scomparvero alla vista oltre la collinetta a nord, con Curt che li seguiva a fatica. Dietro di me Robart disse: «Pensa che Harp creda a quel che racconta?». «Allora com'è la faccenda? Ci prende per dei bugiardi prima ancora di guardarsi in giro?» «Devo cercare di capirci qualcosa.» Lo seguii su, in camera da letto, dove faceva un freddo terribile. Toccò con il piede il corpo irrigidito di Droopy. «Difficile immaginare che un uomo uccida il proprio cane.» «Questa idea non ci porta da nessuna parte.» «Ben, deve cercare di considerare questa cosa come appare agli altri. E non si immischi troppo.» «È questo che mi spaventa, Jack. È successo qualcosa di assurdo e l'abbiamo vissuto solo Harp e io, oltre alla signora Ryder.» «Ha detto di aver visto questo... animale?» «Non ho detto questo; l'ho sentita urlare. Quando siamo arrivati qui, la stanza era come la vede adesso.» Mi guardai in giro e non riuscii di nuovo a trovare quella ciocca di peli, però ne parlai e Robart si convinse a cercare. Scrollò il copriletto e le coperte, esaminò il pavimento e l'armadio, la finestra, si affacciò per guardare il muro della casa e il tetto del capannone. Evitò di calpestare con i piedoni le schegge di vetro e si accovacciò per fissare attentamente i pezzi del telaio della finestra. Poi si avvicinò, il poliziotto impersonificato, un uomo onesto secondo l'accettazione comune, solido, abbastanza intelligente e che non aveva tempo né per l'immaginazione né per i fatti che non fossero già compresi nei manuali. «Un pezzo di pelliccia, eh?» Assunse un tono come se gli avessi descritto un Jabberwock
con gli occhi fiammeggianti. «Va bene, qui sopra abbiamo finito.» Mi fece cenno di scendere, come i poliziotti che fanno fronte alla pericolosa stupidità della folla con la propria. Mentre me ne andavo, gli dissi: «Spero che non sia troppo occupato da non poter fare esaminare il sangue su quel telaio». «Lo faremo» facendomi sempre segno di "circolare" con le sue manone. «Sarà un piacere farlo per il suo amico e per lei.» Poi perquisì tutta la casa, il capannone, il fienile e la stalla. Non avevo mai visto nessun poliziotto al lavoro, e dovevo riconoscerne lo zelo. Dovetti anche prendere parte alla sceneggiata e tenergli la pila mentre frugava in cantina. Nel capannone gli consigliai che, nell'eventualità volesse disfare la catasta di legna, avrebbe fatto meglio ad aspettare Harp, che così poteva aiutarlo, ma non si divertì per questo mio suggerimento. Anche nel fienile non fu soddisfatto, spostare tonnellate di fieno per cercare un eventuale cadavere non era un lavoro da fare da soli. Sapevo che era capace di tornare con una squadra e attrezzature adatte e, secondo lui, era proprio quello che avrebbe dovuto fare. Poi tornammo in cucina, dove Robart iniziò a pulirsi le unghie con il coltello a serramanico, mentre io mi fumavo la mia ultima sigaretta, quasi al limite della sopportazione. Robart non era proprio un ottuso: Risposi alle sue domande nel modo più misurato di cui ero capace, anche a quelle tipo "Non era anche lei un po' innamorato di Leda?". Non mi permisi mai un secco silenzio, per farlo bene lo si dovrebbe far seguire da uno sputo nella stufa, ma io non mastico tabacco. Dalla finestra a nord, disse: «Ecco che arrivano, c'era da aspettarselo», erano stati fuori poco più di un'ora. Harp venne vicino alla stufa per scaldarsi le mani, parlava come se fossimo soli: «Ben, nessuna traccia». Poi disse sottovoce: «Ben, mi hai parlato di un tuo amico, uno scienziato o forse un professore...». «Il professor Malcom?» Mi ricordai di averne accennato ad Harp molto tempo prima, ed ero stupito che se ne ricordasse. Johnny Malcom è un professore di biologia che aveva evitato di specializzarsi troppo, ma non eravamo proprio degli amici. Harp mi guardava con una disperazione granitica, come se mi avesse chiesto di ricorrere a qualche corte suprema. Pensai a un'altra conoscenza che avevo a Boston che avrei potuto contattare, il dottor Kahn, uno psichiatra che una volta aveva visitato mia moglie Helen in un periodo difficile... «Harp,» gli disse Robart «devo chiederle un paio di cose. Ho fatto chiamare Dick Hammond perché venga con quel dannato spazzaneve il più
presto possibile. Mi creda, tenterò qualcosa. Mentre l'aspettiamo, potremmo parlare. Sa che non mi va di usare la maniera forte.» «Dica pure,» gli rispose Harp «a condizione che Ben possa andare a casa senza aspettare Dick Hammond.» «Va' bene, Ben?» «Sì, mi farò sentire.» «Va' pure» mi disse Robart congedandomi. Quando me ne andai stava di nuovo iniziando a pulirsi le unghie, e Harp aspettava rigido il seguito del supplizio. Sentii malinconicamente che lo stavo abbandonando. Comunque non sarebbe accaduto niente finché non si fosse trovato il corpo di Leda Ryder. Ma se poi fosse stato trovato con segni di violenza e senza prove evidenti dell'esistenza di Zanna, allora cosa sarebbe successo? Non penso che Robart mi avrebbe dato il permesso di andarmene se avesse saputo che la prima cosa che feci fu di telefonare a Mike, il fratello di Short, per chiedergli di darmi un passaggio fino a Lohman, da dove avrei preso un pullman per Boston. Johnny Malcom disse: «Ben, vedo che la cosa ti addolora, e penso che tu non mi stia mentendo, ma la biologia non può spiegarlo, questi animali non esistono, lo sai». Non stava facendo il presuntuoso. Stavamo cenando in un ristorante tranquillo, e naturalmente avevo apprezzato molto l'anatra arrosto. Johnny è alto e magro, una roccia, e può mangiare a quattro palmenti senza poi pentirsene. «Metti caso,» gli dissi «solo per parlarne e perché non è biologicamente inconcepibile, che ci sia una base per la leggenda dello yeti.» «Sì, ti concedo che non sia inconcepibile. Fino a quando ci saranno ancora angoli della Terra non ancora perfettamente esplorati, come l'altipiano dell'Himalaya, le giungle, le paludi tropicali, le leggende non moriranno, e in qualcuna ci può anche essere del vero. Sai, no, cosa penso dei voli sulla luna e d'altre cosucce affini?» Sorrisi, ma dentro di me sentivo l'urlo di Leda. «Uno dei motivi principali per cui vengono effettuati, e questo vale anche per quelli ancora più lontani che faremo se non annienteremo la nostra città, è di andare in cerca di nuove leggende. Il fatto è che abbiamo esaurito quelle migliori,» «Perché non guardiamo dentro di noi?» Ma Johnny non mi stava ascoltando. «L'uomo non sopporta di avere delle porte chiuse davanti senza la possi-
bilità di aprirle. Ah, per quanto riguarda il tuo yeti, sì, potrebbe esistere. Sono antropoidi pelosi capaci di sopportare climi glaciali, così rari e intelligenti che gli esploratori non li hanno ancora trovati. Non è necessario che sia carnivoro per avere i canini molto sviluppati, guarda i babbuini per esempio. Sé però fosse attivo in un inverno himalayano, penso che dovrebbe essere in grado di cibarsi di carne. Attenzione, non credo a quanto ho detto, ma dal punto di vista biologico non è impossibile. Come arriverebbe nel Maine?» «Forse perché si è perso? Potrebbe aver attraversato il Tibet, la Mongolia e i ghiacciai artici.» «Forse.» Johnny aveva iniziato a provare un certo divertimento per queste ipotesi, considerandole un passatempo mentre cenavamo. Ben presto fece avanzare la bestia attraverso i diversi continenti, e si divertì fino a quando non gli suggerii qualcosa di alternativo, come gli extraterrestri. Non la bevve e si arrabbiò. Ancora con l'urlo di Leda nelle orecchie, lo assicurai che non stavo cercando degli omini verdi. «Ben, quanto sai di questo... Harp?» «Siamo cresciuti insieme, anche se in ambienti diversi; ma è sempre un amico. Un po' orso, se vuoi, ma sempre un amico.» «Scapolo incallito del Maine sposa svampita...» «Non è, non era, una svampita. Sexy, ma non svampita.» «Va bene. Uno scapolo che cuoce nel suo brodo per anni... siamo sicuri che non è salito lui su quel tetto?» «Sciocchezze. A meno che i miei sensi non fossero più paralizzati di quello che penso, non c'era il tempo.» «A meno che non fossero più paralizzati di quanto pensi.» «E smettila! Non sono ancora rimbambito... Cosa può averle fatto? L'ha gettata nella neve?» «Mah» disse Johnny, e finì il caffè. «Va bene, un fenomeno umano con una forza e una resistenza fuori del comune, tanto da essere in grado di gironzolare durante una bufera di neve e portare via le donne. Mi piace di più la storia dello yeti. Hai detto di avere seguito a Ryder l'ipotesi di un pazzo. È un peccato che hai dovuto fare tutta questa strada per sentirti ripetere la tua stessa congettura. Per farmi perdonare, vuoi andare a vedere un film sconcio?» «Con piacere.» Il giorno dopo il dottor Kahn trovò il tempo di ricevermi nel tardo pomeriggio, ed era così gentile e paziente che fui certo che lo stessi trattenendo
dall'andare a casa a cena. Sembrava indeciso se occuparsi dei miei traumi o di quelli della storia di Harp Ryder. I miei li conosceva già. «Vorrei che avesse il tempo di spiegarmi tutto. Mi ha già fatto un riassunto dettagliato di quanto sembra sia capitato, ma...» «Dottore,» dissi «è capitato. Ho sentito quell'animale. La finestra era in frantumi, chieda allo sceriffo. Leda Ryder ha davvero urlato, e quando Harp e io siamo saliti, il cane era stato ucciso e Leda era sparita.» «E allora, se è tutto chiaro come sembra, mi chiedo perché ha pensato di consultarmi, Ben. lo non c'ero. Sono solo uno psichiatra.» «Volevo... Può essere che una fissazione ci abbia talmente suggestionato da turbare i nostri sensi? O è ridicolo?» Kahn sorrise. «Diciamo che è difficile» «È possibile che Harp l'abbia uccisa, buttata dalla finestra della camera a ovest, dove la neve era alta anche due metri, e che poi la mia mente abbia distorto la percezione del tempo, scambiando quindi i minuti per secondi mentre rimanevo nella cucina buia? Che Harp sia saltato giù dal tetto del capannone, rientrato in casa per la porta mentre salivo incespicando al piano di sopra? Oh, all'inferno!» Seguendo la mia ipotesi, Kahn aveva tracciato un diagramma della casa, che adesso sbirciava tranquillamente, Helen avrebbe detto "favorevolmente". Poi disse: «Una tale distorsione della percezione del tempo sarebbe insolita... Si sente colpevole di qualcosa?». «Si riferisce forse al fatto che io sono rimasto pietrificato dallo spavento? Posso davvero dire che è stata questione di pochi secondi. Comunque, questa ipotesi farebbe di Harp un mostro da romanzo giallo, e lui non è così. Come faceva a contare sul fatto che mi sarei paralizzato per lo spavento? Ho sentito il rumore della lotta, i passi, la finestra della camera a ovest andare in frantumi. È possibile che Harp l'abbia uccisa e che al momento ne fossi consapevole, avendo persino assistito all'omicidio, e che poi abbia avuto un attacco di amnesia dimenticandomene?» Sembrava ancora così paziente che avrei desiderato non esserci mai andato, in quello studio. «Non voglio dire che qualsiasi scherzo della mente sia impossibile, ma potrei affermare che quello che lei sta ipotizzando è molto improbabile. Dal punto di vista teorico, però, considerando il suo coinvolgimento emotivo...» «Non sono coinvolto emotivamente!» gridai. Mi sorrise, assumendo un'aria molto più interessata. Risi di me stesso, il che era sempre meglio che dargli un pugno in faccia. «Sono sconcertato perché l'intera faccenda è
irragionevole. Se inizi a raccontare una cosa sapendo che nessuno ti crederà, prima che tu apra bocca è già tutto confuso.» Kahn annuì gentilmente, è un bel tipo. Penso che avesse smesso di ascoltare cos'avevo detto abbastanza a lungo da sentire un po' di quello che non avevo mai effettivamente detto. «Ben, lei non è un tipo psichicamente instabile. Non si preoccupi dell'amnesia. La spiegazione che riusciremo ad avere del fatto si rivelerà anch'essa logica, magari includente qualche intruso soggetto a fissazioni licantrope, comportamento maniacale e così via. La polizia porterà avanti la ricerca della povera donna senza tralasciare il cumulo di neve. Non la sottovaluti, e non si preoccupi del suo equilibrio mentale, Ben.» «Ha mai visto le foreste del Maine?» «No.» «Provi qualche volta ad andarci. Prendiamo ad esempio un quadrato di territorio di settanta chilometri per lato, mettiamoci dei poliziotti zelanti, diciamo loro di dare la caccia a qualcosa che non vuole venire scoperto e che loro non hanno mai visto, e che non vogliono nemmeno vedere.» «Ma se la bestia è umana, lascerà delle tracce come gli esseri umani, Ben, non è facile nascondere i corpi.» «In quei boschi? Un corpo preso da un animale carnivoro? Perché no?» Be', non riuscivamo a capirci. Lo ringraziai per la pazienza dimostratami e mi alzai. «Dottore, il maniaco che è la causa di tutto,» gli dissi «o comunque lo si voglia definire, c'era.» Mike Short venne a prendermi alla stazione degli autobus di Lohman e mi disse che a Darkfield c'era un gran fermento, cosa che non avrebbe dovuto stupirmi. «Signor Dane, hanno tutti paura. Vogliono fare del male a qualcuno.» Mike è il fratello minore di Jim Short; vivacchia con il suo taxi e facendo di tanto in tanto qualche lavoretto al garage. I suoi riccioli arruffati si stanno ingrigendo anche se si sta a malapena avvicinando ai trent'anni. «Il vecchio Harp insiste a raccontare una storia che nessuno beve. Gente, è triste. Quanto è stato via: tre giorni, giusto? Il poliziotto si è tolto dai piedi. Farebbe meglio a incontrarsi con lo sceriffo Robart. Mi ha fatto una scenata perché quel giorno l'ho accompagnata al pullman, perché avrei dovuto sapere che lei non doveva andarci.» «Lo calmerò. Hanno trovato la signora Ryder?» Sputò fuori dal finestrino, aperto per l'aria mite. «Il vecchio Harp non ha mai visto un così bel lavoro di spalatura in tutta la sua vita, per di più fatto
dalla comunità e gratis. No, per me non la troveranno.» Il tono con cui disse quest'ultima frase nascondeva il desiderio che gli chiedessi ancora qualcosa, un esempio questo dei miti della generazione di Mike. «Qual è la tua opinione, Mike?» Si accese un'altra sigaretta usando il mozzicone di quella precedente e continuò a guidare in un silenzio fastidioso. La strada si snodava fra cumuli di neve ammassati dallo spazzaneve e, visto che c'era un bel sole caldo, anch'io avevo tirato giù il finestrino e mi sembrò quasi di avvertire un sentore di primavera. Finalmente Mike parlò: «Probabilmente lei non sarà d'accordo... A proposito, Jim ha tirato fuori la sua macchina, adesso è a casa sua... Ne sentirà di tutti i colori. Qualcuno pensa che Harp dica la verità, altri che l'abbia uccisa lui, ma non sanno spiegarsi come abbia fatto a farla sparire. Non ho sentito nessuna chiacchiera sul suo conto, signor Dane, niente che abbia importanza. Lo sceriffo è seccato, ma è solo perché lei è partito senza dirgli niente». I suoi occhi grandi ed esitanti guardavano il paesaggio innevato, anche se la bianca coltre si stava ormai sciogliendo, segno degli incerti indizi primaverili. «Signor Dane, be', penso che l'abbia presa un demone. Era una sua creatura, no? Dovrebbe ricordare, la conoscevo quella pollastra. Certo non si può dire che sia una spiegazione scientifica, sempre che ci sia una scienza per queste cose. Ho letto un libro che ne parla, può ridere se vuole.» Non stavo ridendo; non era il primo barlume del medievalismo moderno che avvertivo e, se vivrò ancora un anno o due, non sarà nemmeno l'ultimo. Non stavo ridendo e non dissi niente. Mike fumava, guidando da esperto il suo manufatto del XX secolo mentre presumo che i suoi pensieri fossero ancorati al Settecento, fiutando i fenomeni del mondo invisibile, e mi venne in mente quello che aveva detto Johnny Malcom sul nostro bisogno di leggende. Mike e io rimanemmo in silenzio per il resto del viaggio. Adelaide, nel suo modo di fare arcigno, fu contenta di vedermi. Venni a sapere da lei che lo sceriffo e la polizia di Stato avevano affollato la fattoria di Harp e anche la campagna circostante e non avevano ancora finito. Risultato: zero. Harp aveva continuato a ripetere la nostra storia e adesso si rifiutava di raccontarla ancora. Mi disse: «Fa i suoi lavori e poi si mette a bere o a fissare il vuoto. Ero da lui ieri, ho sentito di doverci andare. Per due giorni non l'hanno lasciato da solo un minuto, magari adesso l'hanno un po' smessa. Mi ha chiesto brusco se lei fosse già ritornato. Be', ho riordinato un po', ho fatto il pane, insomma quel che potevo». Quando la informai che stavo andando da Harp si mise a preparare un
cestino, mentre rimanevo seduto ad ascoltarla. «Qualcuno dice che è stata lei a rompere la finestra, a saltare giù e a scappare via nella neve, fuori di sé. Può essere, secondo lei?» «No.» «Altri dicono che l'ha lasciato. Molto prima. Questo fa passare lei, signore, per un bugiardo. E dicono che comunque l'abbia fatto. Harp ha inventato questa storia assurda perché non sopporta la verità.» Intanto con le mani esperte dava forma ai pani. «Dicono anche che Harp, non si sa in che modo, abbia costretto lei, signor Dane, a dire la stessa cosa.» «Magari mi ha ipnotizzato. Adelaide, Harp dice la verità. Anch'io ho sentito il ringhio. Se Harp è pronto a lottare, sarò al suo fianco.» Mi fissò e poi sospirò. Parla volentieri, ma a volte si zittisce all'improvviso per una sua virtù che trovo positiva e rara: voglio dire che, quando non ha più niente da dire, non va avanti lo stesso a parlare. Arrivai da Harp verso l'ora di cena e vi trovai anche Bill Hastings. Fra i mucchi di neve la strada era scivolosa e mi chiesi quanta spazzatura, carta appallottolata e pacchetti di sigarette avessero lasciato i curiosi dietro di sé. Il terreno gelato non era ancora diventato fanghiglia e, quando questo fosse successo, per alcune settimane sarebbe stato impossibile guidare. Bill mi fece entrare con uno sguardo che la gente di solito ha nei casi di grave malattia. Harp si sollevò con fatica dalla poltrona, ma non era prostrato nel fisico. «Ben, ieri notte tardi l'ho sentito.» «In quale direzione?» «Nord.» «L'hai sentito anche tu, Bill?» gli chiesi posando il cestino. Il nostro amico, che è più piccolo della media, scrollò la testa. «Non c'ero.» Non riuscivo a capire fino a che punto Bill prendesse per buona quella storia. Harp mi chiese: «Cosa c'è nel cestino?... Ah, grazie. Adelaide è una brava donna». La sua mente però era lontana. «Ben, era molto a nord, ma penso di sapere dove si trovi. L'ho sentito perché la notte era molto tranquilla. Sai, mi hanno torturato notte e giorno. Robart, i poliziotti, quelle canaglie dei giornalisti. Non riuscivo a dormire. Sono uscito di casa come se mi avesse chiamato. Si, poteva essere dall'altra parte delle stelle, il cielo ne era pieno e tutto era calmo. Il freddo... Sei andato a Boston?» «Sì, è stata una perdita di tempo. Tutti pretendono che sia qualcosa di umano, comunque qualcosa che si trovi nei libri.» Mentre lavorava a un pezzo di legno, Bill disse, incolore: «Anche tu sei
uno che sta a suo agio tra i libri, no, Ben?». Lo dovetti riconoscere. Harp chiese: «Nessuna idea?». «Mi hanno solo ripetuto con parole loro quello che pensavo. Harp, dobbiamo trovarlo. Naturalmente ci sarebbe qualcuno che non ci crederebbe nemmeno se avessi delle fotografie.» Harp disse: «Maledette fotografie». «Penso che sia ora di andare» disse Bill. «Farò meglio a tornare o la cena si raffredda e poi la mia vecchia me ne dice di tutti i colori.» Lanciò il bastone nella cassetta della legna. «Bill,» disse Harp «hai voglia di' dar da mangiare alle bestie per tre giorni?» «Certo, sarò qui domani.» «Mangia anche tu qui. Non dirlo in giro, però.» «Harp, mi conosci bene, no? A presto, Ben.» «La neve se ne va in fretta» mi disse Harp dopo che Bill se n'era andato. «È da un po' che è nei boschi.»; «Non partiamo di sera, no?» Era fermo alla finestra e, con la sua corporatura magra, toglieva un po' di luce alla cucina consumata dal tempo, dove aveva trascorso più ore che in ogni altra parte della casa. «Mattino presto. Stanotte dovrei sentirlo.» «Penso che tu abbia bisogno di dormire.» «Non sempre ho quello di cui avrei bisogno.» «Verso le sei? Porto le mie racchette da neve e la mia carabina, vado meglio con un fucile che conosco.» Mi fissò un po'. «Va bene, Ben. Capisci, forse tornerai indietro da solo. Io non torno fino a quando non lo prendo. Non questa volta.» All'alba lo trovai nella stalla con Ned e Jerry, erano ormai dieci anni che li aveva. Diede un'ultima pacca sul collo a Ned mentre si girava e riprese il discorso come se non ci fosse stata la notte di mezzo. «Non fino a quando lo prendo. Non voglio che tu mi accompagni se non ti va.» «L'hai sentito di nuovo stanotte?» «Sì, verso nord.» Quando partimmo con le nostre racchette il sole stava per sorgere, e noi stessi sembravamo fantasmi del mattino. Harp avanzava a lunghi passi davanti a me, scendendo poi senza fretta, anzi quasi riluttante, per la collinetta che portava verso la foresta. Si fermò vicino agli alberi, guardando alla
sua destra dove la striscia del cielo si incendiava di un rosso vivido, e mi rimproverai per avere pensato che stesse dicendo addio al sole. La crosta di neve era ghiacciata e persino con le racchette talvolta scivolavamo. Entrammo nella foresta seguendo un groviglio di piste, persino quella lasciata dalla grossa ruota di uno scooter da ghiaccio. «È stato Guy, di Lohman» disse Harp. «Ha affittato quel dannato trabiccolo ai poliziotti. Sono andati in giro a spaventare tutto quello che c'era nel raggio di quindici chilometri almeno.» Si tagliò un pezzo di tabacco da masticare per la mattinata. «Penso che la bestia sia molto più lontana. Oggi si agiteranno di nuovo senza combinare niente.» Mi piantò le dita nel braccio. «Capisci? Non stanno cercando quello che noi cerchiamo. Cercano un corpo per incolparmi. E se la trovassero nel modo in cui io ho trovato... ho trovato...» «Harp, non devi tormentarti anzitempo.» «So cosa pensano. Se uscissi da Darkfield, mi prenderebbero. Non mi hanno ancora messo le manette, perché non hanno il... il corpo. So come funziona la legge. Devono avere il cadavere. L'unica ragione per cui non hanno lasciato un uomo di guardia durante la notte è perché immaginano che non possa andare da nessuna parte. Pensano che uno non si possa muovere quando ci sono un metro o due di neve... Ben, voglio trovarlo e sparargli... È meglio deviare da qui.» Ci avviammo in diagonale rispetto a quelle piste, e ben presto non le vedemmo più. Le racchette non lasciavano nessuna traccia sulla neve gelata. Dopo un po' sentimmo in lontananza, sulla strada, un brontolio di motori. Harp ridacchiò malignamente. «Svegli e di buon mattino, come ieri.» Si voltò a fissare la strada che avevamo appena percorso. «Senza cani non lo beccheranno mai. Quel figlio di puttana di Robart parlava di prenderli da qualche parte per far annusare i vestiti di Leda. Adesso mi sa che annuseranno i miei.» Ci eravamo già allontanati talmente che io non avrei saputo come tornare, ma Harp non aveva problemi. Non si perdeva mai in nessun bosco, ma io non ho una bussola nel cervello come lui, così lo seguivo ciecamente, e non cercavo nemmeno di memorizzare la strada. Era una zona con pochi segni di confine, e gli alberi, per lo più cicute, erano vecchi e non erano stati tagliati di recente. La monotonia del paesaggio logorava la nostra pazienza riducendola a una sorta di torpore, e le racchette, come i nostri pensieri, non lasciavano tracce. Era passata un'ora o forse più, e il rumore dei motori si affievolì. Ogni tanto sentivo il vento soffiare dolcemente, pochi uccelli cinguettavano,
perché i nostri uccelli cantori non erano ancora tornati dalla migrazione. «Mai stato qui, Ben?» «Non con la neve, e comunque non recentemente.» La sua voce era calma e vigile. «Ah, l'estate! Ancora un chilometro e mezzo e gli alberi diminuiscono, poi c'è una radura di piante abbattute dove infatti quattro o cinque anni fa hanno tagliato i pini e hanno lasciato un mucchio di schifezze, come sempre.» No, Harp non si poteva perdere, ma io ero smarrito, stanco e rimpiangevo di essere partito. Se fossi crollato, sarebbe tornato indietro? Pensavo che a quel punto non l'avrebbe fatto per nessuna ragione al mondo. Lo zaino con le coperte e le provviste mi pesava terribilmente, infatti Harp aveva detto che avremmo dovuto portarci scorte sufficienti per tre o quattro giorni. Solo pochi anni prima, quando andavo a campeggiare, portavo carichi ben più pesanti di quello che ora avevo addosso senza problemi, ma adesso ero senza fiato, e sentivo una fitta dolorosa al fianco. L'orologio segnava solo le nove. Come Harp mi aveva anticipato, gli alberi si diradarono in un punto dove il terreno saliva formando un lungo pendio verso nord. Alzai gli occhi in direzione di una distesa di otto o dieci acri, dove gli alberi erano stati abbattuti dissennatamente, e pensai che a un simile disastro, adesso coperto dalla neve, avrebbe potuto essere di rimedio solo un riposo della terra ferita per almeno sessant'anni. Qui la neve abbagliava perché fra noi e il sole si frapponevano solo degli arbusti. «Buon posto questo per i lamponi» disse Harp pacatamente. «È quasi ora che ricrescano, penso che fosse circa sette anni fa quando li hanno tagliati e hanno lasciato questa rovina. L'estate scorsa ho faticato a trovare la via dei boscaioli. Lassù a sinistra...» Si fermò, indicandomi con la mano una linea grigia e indistinta che serpeggiava sulla sinistra fino a sparire oltre un rialzo del terreno. La parte più vicina di quella curva grigia doveva essere più o meno a un centinaio di metri, e ai miei occhi poteva benissimo essere un'ombra formata dalla superficie nevosa irregolare, ma Harp sapeva distinguere molto meglio. Lassù c'era passato qualcosa, abbastanza pesante da rompere la crosta gelata. «Ben, vuoi riposarti un po'? Una volta oltre quell'altura, magari non mi fermo più.» Mi lasciai cadere su un vecchio ceppo rovesciato e rivolto verso di noi, tagliato perché era stato d'intralcio e lasciato lì a marcire perché ai boscaioli interessavano solo i pini. «Ci capisci qualcosa?» «Non tanto» mi rispose Harp. «Ma potrebbe essere lui.» Non si sedette,
ma rimase in piedi a riposarsi senza posare lo zaino, divaricando le racchette per poterci sputare in mezzo. «Circa un chilometro dopo quell'altura c'è una specie di gola, con un groviglio di sambuchi e di altre piante. Una volta ci dev'essere stato un bel torrente, adesso in estate scorre ancora un ruscello. In un punto sulla scarpata ci sono due o tre caverne. Saranno tre estati che non ci vado. Un posto dannatamente tetro. C'erano delle volpi in una delle grotte. Quella volta, però, non ci sono andato troppo vicino.» Rimanevo seduto nella luce tiepida, chiedendomi se ci fosse un modo per parlare ad Harp della bestia, se esisteva davvero, o se eravamo solo due che invecchiavano con la mente malata. C'era un sistema per dirgli che la creatura era importante per il mondo fuori dal nostro stupido paese? Che in qualche modo doveva essere tenuta viva, senza spararle addosso e gettarla poi via da una parte? Come facevo a dirlo a un uomo che era estraneo alla scienza, che aveva perso la moglie e la fiducia nel suo prossimo? Se si perde quella fiducia, il mondo allora non ha più senso. Potevo chiedergli di sparargli alle zampe, riportandolo poi indietro vivo? Ma anche a me stesso, in modo del tutto irrazionale, la cosa sembrava sbagliata, orribile e al di là dei nostri poteri; meglio se Harp, o io, avessimo fatto fuoco per ucciderlo. Quindi alla fine non dissi niente, ma misi lo zaino in spalla e gli dissi che ero pronto ad andare. Adesso, a causa dell'aumentato calore del sole, la crosta ghiacciata era meno sicura. Riprendemmo comunque il cammino su per il pendio e, quando finalmente arrivammo a quelle tracce, Harp disse come un dato di fatto: «Sono le sue impronte, è lui». Il sole e il freddo della notte avevano alterato le orme, ma Harp calcolò che risalissero al mattino presto del giorno prima. Nella neve, nei punti dove la crosta era stata spezzata dal peso di Zanna, appariva chiara la forma del suo piede, della stessa misura di quello umano, ma più largo e corto. Le impronte si susseguivano come se sì trattasse dei passi di una persona dalle gambe corte, l'arco lasciato dalla pianta del piede era basso ma non sembrava appartenere a qualcuno che avesse i piedi piatti. Bestia o no, gli chiesi: «Harp, questa è l'orma di un uomo, no?». Parlò senza espressione. «No, ti dimentichi che l'ho visto.» «Comunque, ce n'è solo una.» Disse lentamente: «Solo una traccia di impronte». «Cosa vuoi dire?» Harp si strinse nelle spalle. «Pesa, forse portava qualcosa. Abbassa la voce. Ieri la crosta mi avrebbe sostenuto anche senza le racchette, ma lui
l'ha rotta, eppure non è grosso come me.» Controllò il fucile e disinserì la sicura. «C'è quasi un chilometro di strada per arrivare a quella grotta. Credimi, Ben, è proprio là. Non parlare se non devi, e fai attenzione.» Lo seguii. Superammo Sa collinetta, arrivando a un'altra zona rovinata dall'uomo forse in modo più grave della precedente. La traccia l'attraversava, avvicinandosi a un gruppo di alberi intatti che segnavano il limite dell'abbattimento. Nel punto in cui la foresta s'infittiva nuovamente, sparivano le impronte di Zanna. «Vedi come si comporta?» mi disse Harp. «Quando può camminare sospeso, lo fa subito. Mi pare che non si sia arrampicato sul tronco, ma, guarda qui, ci si è aggrappato, poi si è dondolato e si è tirato su. Ha fatto cadere un po' di neve, ma non si può dire, anche il vento la fa cadere. Vedi: calcola le cose. Conosce le impronte, deve scendere da questi alberi quando è abbastanza lontano da noi affinché nessuno possa scoprire dove si rifugia. Può essere dovunque in quel mezzo cerchio, e traccialo grande come ti pare.» «Pensa come un uomo...» «Ma non lo è» disse Harp. «Ci sono cose che non sa: per esempio cosa un uomo sente, come agisce. Vado a dare un'occhiata a quelle caverne.» Visto che ero obbligato, lo seguii... Dovrei finire la storia in fretta. Sono precocemente invecchiato e ora anche invalido per il colpo che ho subito, e il mio cuore è rovinato. Continuo a migliorare leggermente, grazie alla dieta adatta, alle cure di Adelaide e anche perché non fumo più. Mi aspettano molti anni di salute discreta prima di scendere la china. Ma trovo, come provò Harp, che è ancora più duro perdere la fiducia degli altri. Scriverò ancora una volta, e poi mai più, che sono uno che non racconta storie. Quando raggiungemmo la gola era mezzogiorno. In quel luogo permane sempre qualche segno malinconico della notte. In fondo al centro del burrone l'acqua mormorava sotto la coltre di ghiaccio. C'era della neve che imputridiva e, dove si era sciolta, il corso d'acqua rivelava il proprio scintillio nel buio. Harp non si inoltrò nella gola ma si muoveva lentamente al riparo degli alberi lungo la sponda sinistra, l'espressione fremente in attesa del pericolo. Cercai di essere altrettanto prudente. Continuammo ad avanzare sempre adagio per un centinaio di metri, forse due. Di quando in quando sentivo la brezza primaverile. Si girò per guardarmi con un'occhiata di contenuto trionfo, una smorfia di disgusto e anche di scusa. Si toccò il naso e poi capii anch'io, dalla boscaglia davanti a noi proveniva un forte odore di ammoniaca, di muschio e
di marciume. Poi, sull'altra riva della gola, nei boschi ma non lontano, sentii Zanna. Un debole latrato, di gola, come se stesse parlando a qualcuno. Harp si trattenne dal ringhiare in risposta. Andò avanti fin quando poté puntare l'arma contro l'imboccatura di una caverna nera sul lato opposto. L'aria spinse il tanfo verso di noi. Harp sussurrò: «Vedi, ha come un sentiero. Salta giù da quel sasso piatto e, da lì, nella caverna. Lo vedremo fra un attimo». C'erano dei rumori nella macchia. «Tienti indietro.» Passò leggermente la mano sinistra sotto la canna del fucile. Era così concentrato sulla radura dove Zanna sarebbe dovuto comparire che fui io il primo a vedere chi era uscito dall'ingresso della caverna e ci fissava con occhi d'animale. Zanna aveva di nuovo chiamato, un suono abbastanza dolce. La donna avvolta in pelli sudicie era stata attirata dal richiamo, o forse dai nostri movimenti. Poi Harp la vide. La riconobbe, nonostante i capelli arruffati, la faccia graffiata, lo sporco e la pelle di cervo informe stretta intorno al corpo per proteggersi dal freddo, sono certo che la riconobbe. Non penso che lei abbia riconosciuto Harp o me. Aveva come una cecità interna, e lo sguardo era quello di una bestia interamente assorbita dai propri bisogni. Penso che i ricordi umani fossero scomparsi. Lei sapeva che Zanna stava arrivando, probabilmente voleva il suo calore e la sua protezione, ma non c'erano parole nel mugolio che emise prima che la pallottola di Harp la centrasse in mezzo agli occhi. Zanna arrivò a forza di spinte fra i cespugli, lasciò cadere il coniglio che stava portando e ringhiando saltò su quel sasso piatto, guardando di lato la donna che si muoveva ancora. Se comprese il significato della morte, non ne ebbe il tempo. Vidi il gonfiarsi potente dei muscoli delle cosce e delle zampe, i movimenti elastici di preparazione. La distanza da Zanna a dove c'era Harp era forse di sei metri. Un raggio di sole lo toccò in quell'ombra verdeazzurra, sfiorò la pellicola rossa e la faccia spaventosa. Harp avrebbe potuto sparargli, aveva avuto venti secondi e forse più di tempo. Invece gettò il fucile a terra e tirò fuori il coltello da caccia, la sua "zanna", e lo brandì quando il nemico spiccò il salto. Anch'io avrei potuto sparargli, non ho bisogno che qualcuno mi dica che avrei dovuto farlo. Zanna si lanciò, sfoderò gli artigli ed espose la terribile dentatura. Sentii l'impatto come se fossi stato io a essere colpito. Ruggendo precipitarono giù per la scarpata, e io avevo freddo, mi sentivo distaccato come uno
strumento fotografico di fronte a quella scena. Tutto finì presto. I denti marroni e potenti affondarono saldamente nel collo di Harp, che non si mosse se non per colpire il fianco sinistro di Zanna. Poi rimasero fermi in quell'abbraccio. Sentii l'acqua che scorreva sotto il ghiaccio. Ricordo un ruggito che mi risuonava nelle orecchie, e io che mi muovevo con attenzione, un passo dopo l'altro, lungo l'orlo del precipizio e fra strisce bianche e verdi. Con un distacco riconquistato a fatica, pensai che quello era il posto dove avevo seguito di recente il povero Harp Ryder, ma non uno di quei luoghi di cui parlavamo quando eravamo ragazzi. La mia fronte era come stretta da un cerchio di ferro, e respirare era diventato un'impresa che richiedeva grande sforzo e attenzione, in modo da non peggiorare il dolore indicibile che mi serrava come un altro cerchio metallico il diaframma del torace. Mi appoggiai a un albero per trenta secondi o minuti, non so. Sapevo che, nonostante il dolore che sentivo, non dovevo togliermi lo zaino perché avevo provviste per tre giorni. Una volta mi dissi: "Ben, sei spacciato". Avevo la carabina, il bastone della vita, e mi ricordo gli sforzi e i movimenti ben pianificati che mi permisero di sparare in aria tre colpi. Per due volte Non volevo morire, e così rimasi sull'orlo della vita con una testardaggine folle. Mi dissero che non poteva essere il secondo giorno quando sparai, la seconda volta, la raffica che fu udita e alla quale risposero, perché dicono che un uomo non può sopportare il malore che mi colse e sopravvivere un'intera notte al freddo. Dicono che quando la squadra di spedizione (da Wyndham Village, a venticinque chilometri da Darkfield) mi trovò, farfugliai qualcosa e crollai a terra. Quando mi svegliai ero quasi paralizzato, non riuscivo a parlare e muovevo solo, a malapena, la mano sinistra, e per lungo tempo la memoria fu solo una vibrazione stridula e irrilevante. Quando migliorai, non riuscii ancora a parlare per un lunghissimo periodo. Ricordo qualcuno che diceva con ammirazione esasperante che, con un'emorragia cerebrale in aggiunta all'infarto, non avrei dovuto essere vivo: questo fu il primo suono che mi diede piacere. Mi ricordo quando riconobbi Adelaide, senza riuscire a ringraziarla per la sua presenza. Nulla di tutto questo interessa la storia, a parte il fatto che per molti mesi non ebbi nessun mezzo di comunicazione con il mondo, nonostante lo amassi e non volessi lasciarlo. Si può sempre chiedere. "E poi che cos'è successo?".
A giugno la mia memoria, penso, era chiara. Scarabocchiai un po', con l'infermiera che mi sorreggeva la parte morta del braccio ma, come risposta a quello che avevo scritto, il dottore, le infermiere, lo sceriffo Robart, perfino Adelaide Simmons e Bill Hastings, sembrarono... comprensivi. Non credettero allora, e nemmeno adesso, alla cosa più importante che vorrei dire: e cioè che ci sono nel nostro mondo fatti che non capiamo e che questa consapevolezza dovrebbe generare umiltà. La gente trova che questo sia ovvio, un luogo comune, e perciò non ascolta, mantenendo intatto l'orgoglio della propria ignoranza. I resti dei tre corpi furono trovati ad agosto, grazie ai miei sforzi, perché non avevo idea della direzione presa dopo la distesa di alberi abbattuti, e non sapevo dire loro dove esattamente cercare. Furono i guardiaboschi e una muta di cani a trovarli per primi. L'acqua li aveva mossi, perché l'ultima neve si sciolse improvvisamente, e per almeno un paio di giorni in quella gola correva un torrente rabbioso. La testa di quello che chiamano "il pazzo" era rotolata nei fiume, spaccandosi contro i sassi, semisepolta dal fango. I cani avevano masticato e sparso in giro quello che definiscono "la pelliccia dell'uomo". Rimarrà "un pazzo in pelliccia", perché non ne sapranno mai niente. Per quanto ne so, nessuno scienziato ha dato mai un'occhiata a quel disastro, a meno di non voler considerare uno scienziato il coroner. Penso che prima fosse un buon veterinario. Quando riuscii più o meno a parlare, avevo rinunciato a cercare di dire la mia. Prima che potessi parlare o lasciare l'ospedale, all'inchiesta lessero una mia dichiarazione. In quell'occasione la società decise ufficialmente che Harp Harrison Ryder, cittadino di quel distretto, aveva sparato a morte alla moglie, Leda, e che un individuo maschio, di identità incerta, non stabile mentalmente, morto a causa delle ferite da coltello riportate in una lotta con il suddetto Ryder... e così via. Non ne parlo perché non fa che rendere la gente più commiserevole nei miei riguardi, al pensiero che la mente di un uomo possa alterarsi a nemmeno sessant'anni d'età. Non posso nemmeno chiedere: «Che cos'è la verità?». Apparirebbero ancora più tristi, e penso stupiti, e forse troverebbero dei motivi per non venire più a trovarmi. Sono gentili, per me sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa, tranne che ripensare a quanto è successo. Ron Goulart
GLORY Cosa sarebbe una raccolta di racconti dell'orrore senza una storia di vampiri? Glory infatti narra proprio una vicenda di questo genere, ma allo stesso tempo è diversa da quelle che di solito leggiamo nelle antologie riguardanti il tema. È un prodotto tipico dello stile mordente di Ron Goulart che (come molti altri scrittori presenti in questo volume) pubblicò il suo primo lavoro di fantascienza, Letters to the Editor, sulla rivista «Fantasy & Science Fiction» e che da allora ha collaborato regolarmente e con successo al periodico. I suoi racconti spesso sfruttano temi e idee dominanti nel genere fantascientifico e dell'orrore, ma con un tocco satirico che crea un irresistibile effetto comico. La vicenda narrata in Glory è ambientata nel mondo del cinema, dove continuamente si fanno rivivere vecchi film grazie ai quali le stelle ormai in ombra riacquistano popolarità, e quindi le case cinematografiche e la televisione iniziano a produrre un'orgia di film che le ripropongono. In Glory un "revival" del genere provoca effetti... estremamente dissanguanti! Uno dei misteri più inquietanti dell'intera storia di Hollywood è stato finalmente risolto poche settimane fa. Se le cose fossero andate in maniera solo un po' diversa, la verità su quanto accadde veramente all'attrice più bella e brillante degli anni Trenta sarebbe stata rivelata al mondo, ma così non è stato e, se leggerete il seguito, saprete il perché. In quel martedì pomeriggio particolarmente caldo e afoso, Dennis Hoff, un uomo grasso e roseo, di trentotto anni e senza tanti capelli, si trovava nel suo piccolo ufficio nel centro della Golem Brothers Talent Agency, a due passi dal Wilshire Boulevard. «Joel, lei è perfetta per la parte» stava dicendo al telefono. «È vero, Den, sembra una prostituta, ma... quando le ho fatto leggere qualcosa, ha preso delle papere!» «È successo solo nel tuo ufficio, Joel. Fidati, davanti alle telecamere Mindy sa recitare. È bravis...» «Den, ci vuole proprio tutta per non sapere interpretare almeno un minimo una battuta come "Gulp!". Ah, senti, volevo chiederti... chi è la ragazza che mi hai mandato per La Suora con il Fucile?» Hoff gettò lo sguardo all'entrata angusta e vide un suo amico incerto sulla porta. Gli fece cenno di aspettare un minuto. «Era Lindy, sì è proprio giusta per...»
«Perché non dai loro dei nomi che si differenzino un po'? Mindy, Lindy, sembrano tutti.... Ho un'altra telefonata in linea. Ti richiamo, Den.» Mentre riattaccava il ricevitore, Hoff ridacchiò: «Sto per piazzare due dei miei attori alla Konheim Productions. Entra». Jack Wilker era un uomo di statura media e dai capelli neri, e aveva da poco passato la trentina. Indossava quasi sempre vestiti pesanti e di colore grigio pallido, come quello che aveva quel giorno. Sotto il braccio teneva una borsa di cuoio un po' malandata. «Il fumo ti porterà alla tomba.» «Amico, non sono io che fumo ma i fratelli Golem, Nat e Larry. Oggi hai un'aria meno depressa.» Jack sospirò profondamente, entrò e si sedette all'altro lato della scrivania. «Sto per smettere di essere un imbrattacarte qualunque, la pianto con i libri della serie Spykiller... Posso salutare Bombe alle Bahamas, Fucili in Guatelama o Bazooka in Brasile!» Il telefono squillò. «Scusami, Jack. Pronto? Ciao Ernie, niente di nuovo. Ma fidati, Vegas è molto, molto interessato. L'unica cosa che li rende un po' perplessi è il modo in cui ti fai pubblicità, Ernie, pensano che Il Grande Vecchio di Salsa sia una schifezza. Ricordi che ti ho detto che dobbiamo trovare qualcosa di più entusiasmante? Va bene, pensaci su, ti richiamo. Proprio adesso nel mio ufficio c'è Boz Eager per firmare il contratto per quella nuova serie televisiva, Il Poliziotto. Quindi, vaya con Dios, amico.» «Un giorno o l'altro saremo colpiti dal fulmine» gli comunicò Jack. «No, solo con le balle ti liberi di Erbie Caliente. Hai mai provato a scritturare un suonatore di marimba di settantasei anni?» «Dai tempi del college, mai.» «Una bella rottura di scatole.» Appoggiandosi contro lo schienale, emise un suono debole e triste. «Allora, a cosa si deve questa euforia?». «Niente che abbia a che fare con l'immaginazione.» Hoff lo guardò per alcuni secondi. «E questo ti manda così su di giri?» Jack si sbatté la borsa sul grembo. «Sai che la Capricorn/AA ha in programma di investire venticinque milioni di dollari su Glory Sands, l'attrice bionda e sexy che sparì senza...» «Ho cercato di fare in modo che Blummer si interessasse di Mindy Mandrake per la parte...» «Pensavo si chiamasse Lindy.» «Quella è Lindy Landfill.» Annuendo distrattamente, Jack continuò. «Va bene, sto lavorando su una
biografia di Glory Sands, perché la sua scomparsa senza lasciare tracce nel 1937 è uno dei misteri più inquietanti dell'intera storia di Hollywood.» Ridacchiando, aprì la borsa. «Ma nessuno da anni ha scritto un libro sulla sua brillante ma tragica vita, così pensavo di fare un'offerta e vendere il libro per un bell'anticipo che fosse almeno di cinque cifre.» «Non è una brutta idea. È per questo che hai il morale così alto, per il pensiero di...» «Meglio ancora, Den.» Diede con una mano un colpo alla borsa. «Ieri, sul tardi, in un negozio di libri di seconda mano in Oil Beach ho fatto una scoperta. C'è una parete piena di roba sul cinema e merda del genere a buoni prezzi.» Tirò fuori un libro sottile, consumato e rilegato in pelle, e lo tenne in alto con la mano che dondolava leggermente. «Sai cos'è? È l'ultimo diario di Peter Yarko.» «E chi diavolo è Peter Yarko?» Spostò indietro la testa, alzando le sopracciglia. «Vuoi dire che stai cercando di far ottenere una parte a Lindy Landfill in La storia di Glory senza nemmeno sapere chi...» «Mindy Mandrake.» «E non sai nemmeno chi era Yarko?» «Ehi, vivo nel presente, io. Solo gli zotici che vengono dai bricchi si divertono con queste banalità. Io devo pensare ai talenti del momento come Ernie Caliente, Boz Eater, Lin...» «Peter Yarko era il regista di Il diavolo è biondo, L'esplosione bionda, Il presidente biondo, e...» «Ah, ci si diverte di più, con le bionde.» Poi Hoff fece schioccare le dita. «Adesso ricordo: è quel tipo polacco venuto su dal niente con Glory Sands a rimorchio nei primi anni Trenta. La diresse nei suoi film d'esordio, fu fottuto dalla MGM e tagliato fuori. Sì, certo, Victor Yarko.» «Peter Yarko.» Jack aprì il libretto coperto di muffa. «Non so come sia finito in quel negozio di libri. Il punto è che sembra che nessuno ne abbia mai letto qualcosa in più del titolo: Il mio diario, vol. 33/P. Yarko. 1937» «Quanto l'hai pagato?» «Venti dollari.» «E dici che costa poco?» «Taci un attimo e ascolta...» «Yarko e lei sparirono contemporaneamente, giusto? Sì, il film insinuerà che lui l'ha uccisa in un attacco di gelosia e poi è entrato nella Legione Straniera a...»
«No, durante la guerra civile spagnola Yarko lasciò Hollywood e andò in Spagna a combattere a fianco dei lealisti, e fu ucciso dopo poche settimane.» Stava sfogliando le pagine ingiallite del vecchio diario e poi aggiunse: «Glory Sands era scomparsa senza lasciare tracce tre giorni prima che lui partisse per la Spagna. Quando qualcuno pensò di interrogarlo, era un bel po' che se n'era andato». «Sì, adesso ricordo» disse Hoff. «Ha anche lasciato una grande villa moresca a Beverly Hills. Certo, tutti i suoi stupidi parenti litigarono per anni per decidere di chi fosse, e ora è ormai dagli anni Settanta che è vuota.» «Ascolta come finisce il diario. "Mercoledì, 3 marzo 1937. Mi hanno portato via Glory, e non è giusto. Adesso capisco che ho fatto male a liberarla e a portarla qui, in America. Ma adesso è tutto sistemato. Grazie a Tumly, lei riposa sotto l'incantesimo eterno e il mondo è di nuovo salvo e la MGM può andare a farsi fottere. La stanza segreta sotto la cantina sarà il suo ultimo luogo di riposo, e non si leverà mai più dalla tomba...".» «Tumly» mormorò Hoff, lisciandosi il mento roseo e tozzo. «Tumly, sicuro: dev'essere Byers Tumly, sì, studia ancora l'occulto. Avrà circa ottant'anni. L'ho scritturato per Strano, vero? un paio d'anni fa, quando quegli spettacoli idioti erano fa...» «Den, non capisci il punto.» Si alzò in preda all'agitazione, e la borsa cadde sul pavimento, spargendo alcune copie dei suoi romanzi Spykiller sul tappeto. «Vedi, ho risolto quel maledetto mistero che ha sconcertato il mondo per cinquant'anni. So dov'è il corpo, so chi ce l'ha messo, e penso di potermi far dare un anticipo di almeno cinquantamila dollari.» «Siediti» gli disse Hoff, facendogli un cenno con la mano. «Amico, tu davvero non afferri il punto saliente della faccenda.» «Cioè che posso scrivere la prima biografia completa di Glory Sands?» ridacchiò Jack. «Che posso diventare celebre, concorrere al Premio Pulitzer, non essere sempre indietro di tre mesi e mezzo nei pagamenti degli alimenti non di una ma di ben due ex mogli? Diciamo che con un anticipo di cinquantamila posso...» «Cinquantamila sono solo per le caramelle» lo informò il tozzo agente. «Da questo affare possiamo ricavare dei milioni.» «E come? Vendendo i miei libri alla Capricorn/AA come una fonte documentata di...» «No, vendendo Glory Sands in persona, scemo.» Jack strabuzzò gli occhi. «Perché dovrebbero volere un cadavere? Il suo
valore pubblicitario non mi sembra...» «Non è un cadavere, cretino.» Con un grugnito allungò la mano per afferrare il diario ammuffito. «Adesso apri bene le orecchie... "Un incantesimo eterno... non si leverà mai più..." Eppure dovresti saperci fare con le parole: non hai afferrato le sfumature chiare come il sole su questo punto? Glory Sands non è morta; sta solo dormendo sotto quella villa enorme e deserta in uno stato di morte apparente, come la Bella Addormentata e altre fanciulle in letargo di miti e leggende.» «Penso che potresti spiegarmi...» «Aspetta» gli ordinò Hoff, picchiettando con le dita sulle pagine aperte del diario. «Questo regista l'ha fatta cadere in trance, non chiedermi il perché ma è così. Dopotutto a Hollywood c'era della gente strana anche allora. Il motivo non è importante, quello che conta è che si può farla tornare in vita.» «Chi è adesso che non coglie le sfumature? Dice incantesimo eterno, e questo...» «Byers Tumly» Hoff disse chiudendo il libro. «Byers Tumly è vivo, proprio adesso mentre stiamo parlando e tu sei seduto li come uno scemo e non capisci il punto della questione. Byers Tumly è uno stregone di prim'ordine, con i poteri della magia nera a sua disposizione, che vive a Pasadena con quella stupida sua nipote.» «E allora?» «Quel che Tumly può fare, Tumly può anche disfare.» «Come per esempio rompere l'incantesimo?» «Esatto, amico: spezzare l'incantesimo e riportarla in vita.» Jack si grattò un braccio. «In un certo senso, sarebbe grandioso» disse alla fine. «Quel che voglio dire è che, sicuramente, è una buona fonte d'informazioni per la mia biograf...» «Cosa sta cercando Blummer della Capricorn/AA? Per cosa smania e mena il can per l'aia? Cybill Sheperd ha rifiutato l'offerta e non ha concluso niente nemmeno con Meryl Streep. Sta pensando seriamente, come Selznick quando era sulle tracce di una Rossella O'Hara adatta, di fare una ricerca su scala nazionale per scoprire una sconosciuta che impersoni Glory Sands sullo schermo.» «Aspetta. Non possiamo farlo.» «Dimmi per favore perché...» «Prima di tutto è troppo strano e fuori dal comune, Voglio dire che, se davvero Glory Sands si sveglia dalla trance, sarà ancora come cinquant'a-
nni fa o sembrerà una mummia piena di rughe che...?» «Non hai ancora capito cosa voglio fare.» «Come faresti a spiegarlo alla gente? Dire la verità significherebbe far nascere dei sospetti circa l'autenticità del fatto o spaventare tutti a morte. Non riesco a immaginare come Blummer della Capricorn/AA possa essere ansioso di scritturare un cadavere riportato in vita a...» «Non faremo sapere a nessuno che è davvero Glory Sands.» «Allora come faccio a finire la biografia o...» «Non la finirai. Non fino a quando non la vendiamo a Blummer.» Mentre parlava, non riusciva a star fermo sulla sedia. «La immettiamo sul mercato come un'attrice dalla rassomiglianza sbalorditiva con Glory Sands. Una sconosciuta nata per recitare in questo ruolo. La presentiamo a Blummer. Diavolo. È certo che avrà la parte, che le faranno una pubblicità pazzesca e noi come suoi manager avremo una bella percentuale su tutto: su quello che guadagnerà lei, su tutti gli incassi della pubblicità, insomma sull'intera faccenda. Il venti per cento di milioni è sicuramente molto di più di un misero anticipo di qualche casa editrice di Manhattan e...» «Potrebbe anche non essere d'accordo.» Hoff divenne ironico. «Ehi, amigo, questo è quello che faccio per guadagnarmi da vivere» ricordò a Jack. «Guadagno bene a vendere attori e attrici scemi e deformi che sulla terra non ci stanno proprio a fare niente. Fidati: te lo assicuro che persuaderò Glory Sands a fingere di essere una sconosciuta con molto talento.» «Metti caso che, una volta aperta la bara, sia una mummia incartapecorita...» «Allora le troveremo un lavoro con Ernie caliente.» Hoff si alzò. «Guardiamo le cose dal loro lato positivo. Amico, siamo sul punto di fare grandi cose.» Nella notte una folata di vento caldo soffiò sul terreno infestato da erbacce dietro la tenuta circondata di mura di Yarko. Ghermì Byers Tumly, gonfiandogli il pesante cappotto di lana scozzese a quadri che il vecchio e fragile stregone insisteva a mettere, lo spinse leggermente contro una siepe secca ormai da lungo tempo, facendolo infine cadere in una vasca dei pesci asciutta. «Certo, ehm... ehm» borbottò bocconi vicino a un cherubino di pietra spezzato che afferrava un delfino. «Sto... sapete... iniziando a ricordare. In questo laghetto, certo... c'erano i pesci.»
Jack tirò su il mago con uno strattone, prendendolo per il braccio magro. «Non ne so molto di rituali occulti» disse a Hoff, che portava una grande pila e una borsa piena di attrezzi che facevano un gran rumore. «Ma il nostro stregone... non sarebbe meglio se fosse sobrio?» «Lo è.» «Uhm, uhm... Peter Yarko... ricordo bene quella notte... il vento nei salici... l'incantesimo... rune antiche... Calabar... Egbo... Nyamba... certo, certo.» «Ti dico che è brillo» aggiunse Jack, facendolo girare intorno a un fauno di marmo, guidandolo poi verso la villa buia e abbandonata. «È solo vecchio.» Il vento sfiorò le tegole molto inclinate del tetto, facendolo ruotare il segnavento rovinato dal tempo e producendo suoni violenti e rabbiosi. «La vecchiaia non ha l'odore di un ubriaco.» «Qual era il motivo dell'incantesimo?... Mi ha pagato profumatamente... ehm, ehm... sigillo di Salomone... salamandra... Obambo.» «Sarebbe incoraggiante se potesse ricordare perché Glory Sands è sepolta nelle viscere di questa...» «Amico, il diario lo spiega. Lei l'ha fatto infuriare, così ha chiesto al mago di farla cadere in trance.» «Ma su, Den; ogni volta che diventi matto per una donna non chiami uno stregone per...» «Io non l'ho mai fatto, giusto, ma io non sono un artista tormentato e lunatico come Yarko.» Hoff si fermò davanti alla porta di servizio della casa deserta. Era sprangata con delle assi. «... Meglio da questa parte» borbottò il vecchio Tumly, barcollando mentre il vento infuriava intorno a lui. «Rendi il mondo sicuro per... democrazia... qualcosa come... Nergal... Astaroth... Moloch.» Dopo aver posato attentamente la borsa sul terreno coperto di muschio, Hoff tirò fuori un piede di porco. «La prima cosa da fare è sbarazzarsi di queste assi» disse, iniziando subito il lavoro. «Questo comunemente si chiama furto con scasso» sentenziò Jack. Teneva stretto il vecchio stregone per evitare che il vento lo portasse via. «Si può sempre dire ai poliziotti che è una ricerca per il tuo prossimo romanzo poliziesco» rispose Hoff, tirando via un'altra vecchia tavola. «Comunque non credo che si interessino ancora a questa casa.» Quando strappò via i chiodi, questi scricchiolarono. Giù per la collina un cane abbandonato cominciò a ululare tristemente.
«Brutto segno» osservò Tumly. «Sono gli spiriti turbati che si aggirano furtivi.» Jack gli chiese: «Sicuramente non ha idea di dov'è Glory Sands...». «Mi verrà in mente.» Ridacchiò rauco. «Sì... ehm... questa agitazione mi fa bene. Mi mette di nuovo in funzione il cervello... Seduto a Pasadena... Avete mai pensato a quanti spettacoli ci sono alla televisione?» «Circa...» «Ecco fatto» annunciò Hoff. «Ho tolto tutte le assi, adesso spacco la serratura.» «Sei capace di farlo?» «Be', dovrebbe essere abbastanza facile, no? Migliaia di persone che non hanno preso nemmeno il diploma di scuola superiore diventano degli scassinatori.» Poi si accovacciò davanti al pomello ossidato della porta. «Sì, mi ricordo di questa casa» disse Tumly, stringendosi addosso il cappotto mentre si avventurava nel corridoio polveroso. «Ma non c'era questo odore così forte di marcio.» Il lungo corridoio, rivestito di legno scuro e pavimentato con tetre piastrelle a mosaico, era impregnato degli odori di muffa dovuti all'abbandono nel quale era caduta la casa. Hoff diresse il raggio della pila verso l'alto, rivelando le tavolette intarsiate, le lampade a muro di ferro battuto, il disegno a serpentina formato dalle piastrelle. «Che casa!» osservò. «Dovrebbe ispirare la tua fantasia, Jack.» «Mi ispira ad andarmene prima che i poliziotti...» «Da questa parte» Tumly stava indicando alla loro sinistra. «Oltre quella cucina c'è una scala... ehm, ehm... Ogni minuto che passa ricordo sempre meglio. Sì, è sepolta laggiù.» Il vecchio stregone barcollò malfermo sulle gambe e prese una bottiglia di vino polverosa da uno degli scaffali che ricoprivano la stanza umida e con i muri in pietra. «Ehm, ehm. Torna...» Jack lo afferrò per la manica. «Questo non è il momento di trincare...» «Non ho mai bevuto del Porto» rispose Tumly prendendo la bottiglia per il collo e spingendola verso il basso. «E si dà il caso, ragazzo, che questa bottiglia sia una leva nascosta.» Nella cantina oscura si sentì un rimbombo, rumori striduli sferragliarono
dal basso, e poi si udì un tonfo che risuonò per tutta la stanza. «Si ricorda bene» disse Hoff, illuminando con la pila la scala tortuosa che adesso si intravedeva dal grande rettangolo che si era aperto nel pavimento. La massiccia bara di bronzo era laggiù, posata su un basso piedestallo di pietra, e alcuni grumi di cera rossa, a mo' di sigilli, ne ricoprivano i bordi del coperchio a cupola. Hoff attraversò in fretta il pavimento di pietra gelido e le si inginocchiò accanto. «Non è stata spiombata, dunque significa che Glory è ancora dentro.» «Questo mi servirà per scrivere un bellissimo capitolo del mio libro.» Jack si avvicinò alla bara. «Sì, e poi posso anche fare un mucchio di articoli, prima per le riviste e poi per i giornali scandalistici.» Il vecchio si muoveva a fatica. «Le cose diventano ancora più chiare» li assicurò infilando le mani nodose nelle tasche del cappotto enorme. «E Glory Sands è veramente lì dentro?» gli chiese Jack. «Io stesso ho dato una mano a mettercela.» Tumly aveva trovato una lente d'ingrandimento con della peluria incollatasi sopra e la fece girare sulla bara. «Ehm, ehm... certo... rompere gli incantesimi è abbastanza semplice, sì.» Da un'altra tasca rigonfia tirò fuori una candela di sego nera. «Ragazzo, appoggiala su quello scaffale laggiù e accendila.» Jack ubbidì, arricciando il naso per l'odore pungente della candela che sfrigolava. «Può...» «Silenzio, per piacere.» Tumly si era raddrizzato, e nelle sue mani tremanti teneva un volumetto rilegato in pelle. «Belzebù... Belzebù... Belzebù.» Jack, tremante, indietreggiò di alcuni passi. Il vecchio stregone continuò, mescolando latino e formule magiche in lingue ancor più antiche e ormai scomparse. Passarono cinque lunghi minuti. Poi le gocce di cera cremisi crepitarono e cominciarono a sciogliersi, e rivoli rossi raggrumati colarono lungo i fianchi della pesante bara. «Presto, togliete il coperchio» ordinò Tumly. Hoff e Jack lo afferrarono per ognuna delle due estremità. Con un grugnito, riuscirono a sollevarlo e a spostarlo di lato. Mentre lo appoggiavano alla parete, sentirono un fruscio satinato che proveniva dalla bara aperta. Una ragazza bionda e molto carina, in un abito da sera di satin bianco, si
levò a sedere nella bara e guardò tutti e tre. «Ah, sì» disse Tumly. «Adesso ricordo perché l'abbiamo sigillata. È un vampiro.» Hoff, ghignando apertamente, entrò in casa lasciandosi alle spalle il chiarore velato del pomeriggio. «Grandioso, veramente grandioso» annunciò sventolando la busta di carta grezza che teneva nella mano tozza. «Ho i provini delle foto che Orlando di Hollywood ha scattato due sere fa e sono semplicemente sensazionali. Sembra, specialmente in quell'abito aderente di satin con cui era stata sepolta, proprio Glory Sands.» «Lei è Glory Sands.» Jack era seduto nella sua preferita, e unica, poltrona e fissava il caminetto vuoto. «È stata nascosta sotto la casa di Yarko a causa della sua natura vampiresca. E adesso mi costringi a fare da babysitter a una potenziale assass...» «Andiamo! Ha promesso di lasciar perdere quelle cose» gli ricordò l'agente. «Glory è ansiosa come noi di fare una nuova carriera in...» «Fra l'altro, Den, non capisco perché abbiamo dovuto spendere una cifra così fottutamente alta per quelle foto.» «Perché, amico mio, dobbiamo iniziare questa avventura alla grande. Venderemo quella bambola al platino come...» «Non parlare così forte» lo avvertì Jack, abbassando la voce. «Quello che voglio dire è che per questa casa devo pagare l'affitto, e ho dovuto mettere da parte la biografia, quindi...» «Perché sei così a disagio? Non può sentirci.» Hoff si sistemò nel divano di vimini, dando la grossa schiena al cortile ricoperto d'erba. «Di giorno i vampiri dormono, no?» «Sciocchezze» osservò una voce femminile dalla camera accanto. «A quanto pare non è sempre così» disse Jack facendo cenno verso la porta della cucina. «Be', per noi è ancora meglio, così non dobbiamo convincere Blummer a girare La storia di Glory solo di notte.» «Ragazzi, mi fate proprio ridere.» La deliziosa bionda, che indossava una camicia a righe alterne bianche e colorate di Jack e un paio di jeans firmati nuovi di zecca, entrò nel salotto con un panino alla mortadella in mano. «Da dove prendete le notizie sui vampiri, da qualche film di serie B con quella testa matta di ungherese che va in giro sventolando il suo mantello? Gesù!» Si appollaiò sul bracciolo della poltrona di Jack, facendo ondeggiare una delle belle gambe e battendo lievemente la base della vecchia lampada a stelo. «Hanno sempre parlato male dei vampiri... Ehi, siete sicu-
ri che le donne indossino questi pantaloni, al giorno d'oggi? Sono così stretti che il culo mi si indolenzirà tutto.» Guardandola, Hoff assentì con il capo e rise sommessamente. «Perfetta, è perfetta. Quella patina sfrontata degli anni Trenta sbalordirà Blummer e i suoi leccapiedi.» Dopo avere morso il panino, Glory disse: «Comunque devo dire che questa mortadella non ha più il sapore che ricordavo». «Sono passati» le suggerì Jack «cinquant'anni da quando l'hai assaggiata l'ult...» «Accidenti, non avevo mai pensato che la mortadella potesse cambiare.» Scivolando giù dal bracciolo, andò verso la finestra. «Smog, eh? Certo che porta un bel po' di porcheria su nell'aria. Jack, non fai mai tagliare i cespugli? Avevo due giapponesi che...» «Vorresti vedere le foto, Glory?» Hoff stava tirando fuori i provini dalla busta. «Sei favolosa.» «I fotografi mi amano» spiegò, mordendo il panino. «Persino a Parigi, intorno al 1870, io...» «Ehi!» l'interruppe Jack. «In quegli anni, eri viva?» «Tesoro, in primo luogo perché diavolo pensi che sia diventata un vampiro?» gli chiese girandosi verso di lui mentre si puliva la fossetta della guancia da uno schizzetto di maionese. «Sono nata a Lisbona... in Portogallo... nel 1726.» Hoff abbassò le fotografie. «Glory, faremmo meglio a non dirlo a nessun altro, okay?» «Mi prendi per scema? Tesoro, intendo dire che voglio cominciare a fare dei soldi, persino più di voi due.» Lanciò al salottino misero di Jack un'occhiata di disprezzo. «Quello che è certo è che non voglio vivere in questa schifezza ancora per molto.» «Giusto. E non appena ti faccio scritturare da Blummer, inizieremo a esaminare qualche villa a Bel Air» le promise l'agente. «Quello è il tipo di ambiente di cui ha bisogno Gloria Sanctum.» «Gesù, che nome ridicolo.» L'attrice resuscitata si abbassò per sedersi sul pavimento di legno disadorno, appoggiando la schiena sottile contro la libreria a muro. «So che non va più bene chiamarmi Glory Sands, ma...» «Gloria Sanctum ha un certo fascino» le assicurò Hoff. «E inoltre, così, manteniamo le tue iniziali.» «Glory Sand non mi è mai piaciuto granché. Era stata un'idea di Yarko» disse, scrollando la testa graziosa. «Vi immaginate quel buono a nulla che
fa un incantesimo su di me e mi getta in quel sotterraneo della malora?» «A quanto sembra» disse Jack senza guardarla proprio in faccia «era al corrente della tua natura di vampiro e...» «Diavolo, no. Penso che volesse solo fottere la MGM» disse e, una volta finito il panino, prese a leccarsi le dita. «Yarko esagerava le cose, come la maggior parte dei tipi molto creativi.» «Stai dicendo» chiese Jack, «che non davi sfogo alla tua natura di vampiro?» «Senti tesoro, una volta ogni tanto magari gli succhiavo un po' dell'energia del suo sangue» ammise, sorridendo in modo incantevole. «Voglio dire che, se tu sei un vampiro, è così che ti comporti, no? Ma io ero prudente e non lo facevo spesso. Raramente con la gente vicino all'industria dello spettacolo.» «Quindi non ci sono dei motivi seri per preoccuparsi» disse Hoff. La bionda attrice si alzò con grazia. «Fammi vedere quelle foto, Denny.» «Per me, Glory... anzi, Gloria. Meglio abituarci a usare il tuo nuovo nome» disse porgendole le foto. «Per me, Gloria, le foto in cui sorridi proprio nella macchina sono le migliori.» Lei le studiò. «Il profilo sinistro non è nemmeno tanto male» notò. «Rimanere seppellita per cinquant'anni non ha poi rovinato il mio aspetto.» «Gloria, sei incantevole adesso come...» «Ehi!» Dopo aver guardato fuori dalla finestra, Jack saltò su e corse alla porta. «Cosa c'è che non va, amico?» «Fuori c'è qualcuno che ci spia dalla siepe.» I due uomini corsero nel cortile circondato dalla siepe, ma non videro nessuno. «L'hai visto?» chiese Hoff. «Non bene, ma... era un tipo... c'era qualcosa di vagamente familiare in lui.» «Ehi, voi due!» gridò Glory. «Tornate qui che vi dico quali di queste foto useremo.» Jack gettò un'altra badilata di terra da una parte. «Cosa stavi per dirmi quando sei arrivato qui, Den?» «Eh?» Hoff stava sfogliando con il pollice l'agenda che aveva trovato nella tasca dell'uomo morto, scompostamente abbandonato sul pavimento del garage. «Ah, sì; ho una bella notizia. Blummer è rimasto molto colpito
dalle foto di Glory. Lunedì vuole vederla per farle fare un provino. Ormai, per quello che posso dire, è tutto a posto.» La fossa diventava sempre più profonda. «Non pensi che questo sia un intoppo che non avevamo previsto?» «E come?» rispose Hoff, chiudendo l'agenda. «Eri attento quando, due ore fa al tramonto, ti ho spiegato che avevo trovato questo tipo dietro casa mia? Quello che ti volevo dire è che era stato ucciso da un vampiro.» «Be', anche uno scemo lo capirebbe» disse l'agente. «Sulla gola ha due segni di puntura, e gli è stato succhiato il sangue.» «È stata Glory.» «Chiamala Gloria.» «Gloria. Glory. L'ha ammesso prima che si chiudesse nella sua stanza.» «Mi sta bene che tenga il muso per un po'.» «Ma lei...» «Amico, questo qui deve solo ringraziare se stesso.» Hoff si batté l'agenda contro la coscia. «È Walt Downey, è un giornalista free lance che lavora per il "National Intruder". È lo stesso che alcuni giorni fa hai scoperto ad aggirarsi vicino ai cespugli.» «Un reporter? Maledizione, allora vuol dire...» «Free lance» s'intromise Hoff. «Quindi nessuno sa che cosa stava progettando di scrivere. Sembra che avesse intervistato Tumly per alcuni altri articoli, e che il vecchio si sia lasciato scappare un riferimento a noi e a Gloria.» «Che tipo di riferimento?» «Qualcosa circa il fatto che l'abbiamo riportata in vita. Continua a scavare, okay?» «Splendido! La resurrezione di Gloria diventerà un evento per i mass media.» «Secondo i suoi appunti, Downey aveva solo iniziato a investigare. Non sapeva ancora per certo se avevamo davvero Glory Sands o se invece stavamo ideando una beffa a scopo pubblicitario» disse Hoff. «Fortunatamente per noi, l'ha beccato proprio in tempo.» «È un omicidio.» «Non proprio. Il fatto che lei sia un vampiro sarebbe una buona difesa» disse l'agente guardando Jack mentre scavava la fossa per il reporter. «Certo, potrebbe accampare la giustificazione che non ne può fare a meno, ma tanto non ci arriveremo mai a quel punto. Adesso lo seppelliamo e...»
«Ci rendiamo complici di un assassinio.» «Da quanto ne capisco io, amico, questo tipo non ha amici o parenti stretti. Persino l'"Intruder" non ne sentirà la mancanza, perché la maggior parte dei giornalisti free lance non sono indispensabili» disse Hoff. «Quindi cerchiamo di guardare le cose dal loro lato positivo. Pensa alla nostra parte degli introiti di Glory di, diciamo, quattrocentomila dollari per ogni film che farà. E continua a scavare.» Glory bevve un altro sorso del bicchiere. «Puah» commentò. «Sicuramente questa roba non sa di succo d'arancia.» «È un concentrato. Riprendiamo il discorso.» Jack era seduto al tavolo della colazione di fronte a lei. «Allora, fino a che punto ti vuoi spingere?» Lei posò il bicchiere sul tavolo con un colpo secco. «Avete delle arance fresche dappertutto qui intorno e voi, stupidi...» «Con faccende tipo quella riguardante Downey.» «Chi?» «Il reporter che hai fatto fuori l'altra notte. Dobbiamo davvero parl...» «Gesù, la meni ancora per quella faccenda? Denny non pensa che abbia quella grande importanza.» «Glory, il mio garage è piccolo. Se continui a...» «Il ragazzo stava ficcando il naso nei nostri affari, giusto?» «Non avere più una goccia di sangue in corpo non è la punizione adatta a...» «Va bene, va bene, benissimo. Però smettila di annoiarmi, okay? Faccio del mio meglio» gli disse la bionda. «Vorrei solo che ci firmassero quel contratto, così...» «A sentire Den, Blummer è rimasto favorevolmente impressionato dal tuo provino.» «Blummer, quel fesso» disse attorcigliandosi i capelli serici intorno alle dita. «Lo sai chi era? Un ragioniere iscritto all'albo, e sicuramente questa non è l'idea che ho io di un pezzo grosso. E quello scemo del regista... come si chiama?» «Piet Goedewaagen.» «È più giovane di me» disse aggrottando la fronte. «Degli anni che pensano io abbia, voglio dire. È svenuto prima ancora che fossi arrivata alla seconda pagina di quella stupida scena.» «Ho sentito dire che ha dei problemi di droga.» «È caduto da quella dannata sedia ed è andato a finire di peso sul tappeto.»
«Lascia che se ne preoccupi il produttore. Tu...» «Woody Van Dyke non cadeva mai dalla sedia. Quando nel '35, a Catalina, girammo Febbre bionda, lui...» «Ogni quanto può accadere che tu attacchi la gente?» «Quién sabe? come dicono a Tijuana» rispose alzando graziosamente le spalle. «Dipende un po' dal mio umore e se sono annoiata o no. Sai, a volte ne sento proprio la necessità.» Jack morse senza entusiasmo il toast freddo. «Glory, potresti...» «Chiamami Gloria. Non vogliamo rovinare...» «Uccidere la gente rovinerà le cose molto più in fretta del fatto che ti chiamo con il nome sbagliato» rispose. «Dunque, quand'eri qui, negli anni Trenta, ogni quanto attaccavi...» «Non molto. Variava.» «Puoi darmi un dato approssimativo? Voglio sapere, cioè, quante vittime hai...» «Oh, meno di cento.» «Cento?» Jack lasciò cadere il toast. «Ho detto di meno.» «Novanta?» «Più o meno.» «Come hai fatto a tenerlo nasc...» «Se ne occupava Yarko» rispose Glory. «Aveva cura che fossero seppelliti o se ne sbarazzava in posti fuori mano. Qualche volta inseguivo qualcuno di nessun conto laggiù, a Skid Row.» «Sei stata a Hollywood tra il 1933 e il 1937» disse tirando fuori una piccola calcolatrice dalla tasca della giacca «dunque sono quattro anni, e se dividiamo novanta per quattro, abbiamo... oh!... ventidue virgola cinque all'anno.» «Quello è un aggeggio ingegnoso. Posso vedere come...» Nel soggiorno squillò il telefono. «Tieni, divertiti.» Le lanciò la calcolatrice e si precipitò nella stanza accanto. «Pronto?» «Siamo proprio vicino al traguardo, amico. Ho appena ricevuto una telefonata» lo informò Hoff. «Non ti sento bene. Cos'è quel rumore in sottofondo?» «Musica di marimba.» L'agente alzò la voce. «Mi ha appena chiamato Blummer. Mi vuole alla Capricorn/AA fra un'ora. Vedo sei cifre all'orizzonte.» «Ascolta, Den» disse Jack, coprendo il microfono con la mano. «Se fac-
ciamo andare questa creatura in giro, saremo responsabili di almeno ventidue virgola cinque morti all'anno per...» «Ernie, amigo, è bastante. Mi va come si stanno mettendo le cose. Fidati, ti prenoterò qualche posto meraviglioso. Non pensarci. Adios» stava dicendo Hoff. «Okay, Jack, tu...» «Ventidue virgola cinque, questo è il numero di vittime che conteremo ogni anno che rimane sulla terra.» Jack diede un'occhiata alla porta della cucina. «Quindi, quello che dobbiamo fare, è cercare Tumly e sigillarla di nuovo...» «Non possiamo cercare Tumly.» «Non gli hai prenotato un posto in campagna?» «Il poveretto è morto.» «Come, aspetta un secondo. Come?» «Cosa?» «Com'è morto?» Hoff tossì. «Quando te lo dico, non ti mettere a urlare.» «Lascia perdere, ho capito. Sua figlia l'ha trovato abbandonato da qualche parte senza più una goccia di sangue nel...» «È stata la nipote a trovare quella buon'anima.» «Certo, e Glory due sere fa se n'era andata» sussurrò. «Non si spiegherebbe dove...» «Continuiamo a guardare le cose dal loro lato positivo» rispose Hoff. «Quando verrò a casa tua, verso sera, avrò sicuramente un bel contratto vicino al cuore, che batterà come quello di una fanciulla.» «No, no. Allora devi trovare un altro stregone che...» «E dove lo trovo?» «Non sei un agente? Trovane uno. E in fretta. Se riesci a trovare un suonatore di marimba di ottant'anni, allora...» «Calmati. Passami Glory» gli chiese l'agente. «Le dirò tutte le belle cose che sono in vista, e userò le mie notevoli capacità di persuasione per convincerla a lasciar perdere per un po' il suo hobby. Le farò promettere che non farà niente per mandare in fumo la sua brillante futura carriera.» «I vampiri non mantengono le promesse» rispose Jack. Hoff arrivò verso sera, con il passo più lento del solito, con il corpo tozzo curvo. «Idioti» disse quando entrò nel soggiorno. «Avrei dovuto ricordarmelo che siamo a Hollywood.»
Jack era nella sua poltrona favorita, nell'ombra. «Vado da Blummer» continuò tristemente «mi fanno entrare nel suo ufficio immenso della Capricorn/AA, e cosa mi dice quel cretino?» Jack non rispose. «Mi dice» continuò Hoff «che hanno deciso di non prendere Glory per il film su Glory Sands. E sai perché? Perché non è adatta alla parte.» Jack non rispose. Hoff attraversò lentamente la stanza buia. «Be', non buttarti giù, amico. Troverò un'idea per piazzarla a qualcun altro.» Allungò la mano e accese la lampada vicino alla poltrona. Fu allora che vide i segni sul collo di Jack. Lisa Tuttle LA CASA DEGLI INSETTI Lisa Tuttle, nata in America, vive in Inghilterra dove esercita il proprio lavoro di giornalista e scrittrice. È stata una dei primi iscritti del "Clarion Writers' Workshop" e, nel 1974, ha vinto il "John W. Campbell Award" come migliore autore del genere fantascientifico. Anche se dalla sua penna sono usciti numerosi e notevoli racconto di fantascienza, Lisa Tuttle emerge per la sua bravura in quelli dell'orrore e per la sua abilità nel terrorizzare i lettori. La casa degli insetti é una storia particolarmente agghiacciante e di grande effetto. La casa era in sfacelo, come una nave trascinata dalla tempesta incagliata su un promontorio erboso di fronte all'Oceano. Quando la vide, Ellen sentì un tuffo al cuore. «È questa?» chiese il tassista dubbioso, rallentando e guardando attraverso il parabrezza. «Dovrebbe» rispose Ellen poco convinta. Non riusciva a credere che sua zia, o chiunque altro, potesse vivere in quella casa. Secondo le consuetudini locali, la casa era stata costruita in legno e poi fissata su quattro blocchi di cemento che la tenevano sollevata a circa un metro da terra. Ma ora le alluvioni preoccupavano molto meno dei venti e soprattutto del tempo che passava, in quanto la casa stava sbriciolandosi. Le assi portavano i segni delle intemperie ed erano incrostate di macchioline di vernice grigia ormai vecchia. Le finestre senza tendine occhieggiavano assenti, e un'imposta pendeva storta e pericolante. Ellen notò che tra
le tavole sconnesse del balcone al secondo piano filtrava della luce. «Aspetterò un momento» le disse il tassista, accostando all'imbocco del vialetto pieno di erbacce «nel caso non ci sia nessuno.» «Grazie.» Ellen scese dalla macchina tirandosi dietro la valigia. Pagò e guardò la casa. Nessun segno di vita. Si sentì scoraggiata e gli disse: «Aspetti davvero un istante, per accertarsi che qualcuno mi apra». Percorrendo a fatica il viale d'accesso di cemento rovinato in più punti, Ellen trasalì perché le parve di intravedere qualcosa ai piedi della casa. Si fermò e osservò con attenzione lo spazio scuro. Era stato un cane? Un bambino che giocava? Qualcosa di grande e scuro, che si muoveva velocemente, ma che adesso era sparito o sì era nascosto. Dietro di sé sentiva il motore del taxi girare al minimo. Per un attimo pensò di tornare indietro. Da Danny. Da tutti i loro problemi, dalle sue promesse e bugie. Invece riprese a camminare e, quando arrivò al portico, bussò due volte con le nocche contro l'uscio grigio e rovinato. Una donna vecchia, molto vecchia, magrissima e visibilmente malata, aprì la porta. Ellen e la donna si guardarono senza parlare. «Zia May?» Quando la vecchia donna la riconobbe, le si illuminarono gli occhi e prese ad annuire lievemente. «Ellen, ma certo!» Ma quando sua zia era invecchiata così tanto? «Entra, cara.» La donna allungò la mano incartapecorita simile a un artiglio. Dietro di sé, Ellen avvertì il vento. La casa scricchiolò e per un attimo le sembrò di sentire il pavimento del portico cederle sotto i piedi. La vecchia - sua zia, dovette ricordarlo a se stessa - chiuse la porta. «Sicuramente non vivrai qui da sola» iniziò Ellen. «Se avessi saputo... se papà l'avesse saputo... avremmo...» «Se avessi avuto bisogno d'aiuto, l'avrei chiesto» rispose la zia con un tono brusco che le ricordò suo padre. «Ma questa casa» continuò Ellen «è troppo grande per una persona sola. Sembra che stia per crollare da un momento all'altro, e se dovesse succederti qualcosa, tutta sola...» La zia rise, con un suono simile a un fruscio di carta secca. «Sciocchezze. Quando io non ci sarò più, questa casa sarà ancora in piedi. Le apparenze possono ingannare. Guardati intorno... Qui io sto bene.» Ellen, per la prima volta da quand'era entrata, guardò l'ingresso, che era spazioso, con la volta del soffitto molto alta, un candelabro d'ottone e un
ricco tappeto orientale. Le pareti erano color crema e lo scalone non sembrava pericolante. «Dentro si presenta davvero meglio» notò. «Dalla strada sembrava abbandonata. Il tassista non riusciva a credere che ci vivesse qualcuno.» «A me interessa solo l'interno della casa» disse la donna. «L'ho trascurata e adesso è come un alveare: è tarlata ed è mangiata dagli insetti, ma comunque non è malandata come me. Quando sarò sottoterra, lei resisterà ancora, e questo mi basta.» «Ma zia May...» Ellen la prese per le spalle ossute. «Non parlare così. Non stai morendo.» Rise di nuovo in quel modo. «Mia cara, guardami. Sto morendo. Per me non c'è più speranza. Dentro sono consumata, a malapena è rimasto "qualcosa" per darti il benvenuto.» Ellen la guardò negli occhi, e quello che vide le velò lo sguardo di lacrime. «Ma i medici...» «I medici non possono sapere tutto. Mia cara, per ognuno di noi arriva il giorno di lasciare questa vita per un'altra. Entriamo e sediamoci. Vorresti mangiare qualcosa? Devi avere fame dopo il viaggio.» Stordita, Ellen seguì sua zia in cucina, una stanza stretta decorata con una carta da parati verde e oro. Si sedette al tavolo e fissò la tappezzeria con disegni che raffiguravano pesci e padelle. Sua zia stava morendo. L'evidenza di quel fatto la colpiva del tutto inaspettatamente. Era la sorella più vecchia, ma di otto anni soltanto, di suo padre, che era ancora un uomo vigoroso e in salute, nel pieno delle forze. Guardò la zia, che si muoveva penosamente dalla credenza al piano d'appoggio per preparare il pranzo. Si alzò. «Lascia che lo faccia io, zia May.» «No, no, cara. Vedi, io so dove si trova ogni cosa e tu no. Posso ancora muovermi bene.» «Papà lo sa? Quando l'hai visto l'ultima volta?» «Oh, povera me. Non volevo preoccuparlo con i miei problemi. Sono tanti anni che non ci frequentiamo. Penso di averlo visto per l'ultima volta, ma sì, è stato al tuo matrimonio, cara.» Ellen si ricordò, era stata quella l'ultima volta che aveva visto sua zia. Riusciva a stento a credere che la signora che rammentava e quella che le stava davanti fossero la stessa persona. Cosa l'aveva invecchiata così in soli tre anni? La zia le mise un piatto davanti, che conteneva tonno e maione-
se circondati da cracker al sesamo. «Non tengo in casa molto cibo fresco» spiegò. «Ho per lo più delle scatolette, perché ormai è faticoso per me uscire a fare la spesa, e poi, ultimamente non ho molto appetito, quindi quello che mangio non ha più grande importanza. Vuoi del caffè? O del tè?» «Tè, grazie. Zia May, non sarebbe meglio se tu andassi in un ospedale dove potresti essere curata?» «Posso curarmi benissimo qui.» «Sono sicura che mamma e papà sarebbero contentissimi se tu andassi a trovarli...» La zia scrollò la testa con decisione. «In ospedale potrebbero trovare una cura per il tuo male.» «Non ci sono cure per morire se non la morte stessa, Ellen.» Il bollitore cominciò a fischiare, e May versò l'acqua calda sulla bustina del tè nella tazza. Ellen si rilassò sulla sedia e appoggiò la testa contro la parete. Sentiva un suono fioco, continuo, quasi uno scricchiolio, proveniente dall'interno della parete: delle termiti, forse? «Zucchero?» «Sì, grazie» Ellen rispose meccanicamente. Non aveva ancora toccato cibo, non aveva voglia di niente, né di bere né di mangiare. «Oh, cielo!» sospirò sua zia. «Temo che tu debba berlo senza. Dev'essere passato tanto tempo da quando l'ho usato, ci sono più formiche che zucchero.» Ellen guardò sua zia vuotare il barattolo nella pattumiera. «Zia May, hai problemi di soldi? Voglio dire, non è che rimani qui perché non puoi permetterti...» «Dio mio! No!» May si sedette vicino alla nipote. «Ho fatto qualche investimento e in banca ho abbastanza denaro per provvedere alle mie necessità. Anche questa casa è mia. L'ho comprata quando Victor andò in pensione, ma non rimase a lungo per aiutarmi a goderla.» In un impeto improvviso d'affetto, Ellen si piegò in avanti per abbracciare sua zia - così fragile - ma May agitò le mani in segno di rifiuto, e Ellen si tirò indietro. «Quando Victor morì, se ne andò insieme a lui il desiderio di restaurarla, ed è anche questo il motivo per cui non è molto diversa dal rudere che era quando l'acquistammo. È stata davvero una buona occasione, perché nessuno la voleva. Nessuno tranne me e Victor.»
Improvvisamente alzò la testa e sorrise. «E tu? Cosa ne pensi se quando muoio ti lasciassi la casa?» «Zia, per piacere, non...» «Sciocchezze. Non trovo una persona più adatta. A meno che a te non piaccia, ma ti assicuro: questa casa vale qualcosa. Se è un po' troppo malandata per gli insetti e il marciume, puoi buttarla giù e costruire qualcosa che a te e Danny piaccia di più.» «È molto generoso da parte tua, zia. Ma non mi piace sentirti parlare di morte.» «No? A me non dà fastidio. Se però ti disturba, allora non ne parlerò più. Vuoi che ti mostri la tua stanza?» «Non vado più di sopra» disse May, facendo strada lentamente su per la scala, appoggiandosi pesantemente alla ringhiera e fermandosi spesso. «Ho spostato la mia camera al piano di sotto, salire e scendere continuamente era troppo faticoso.» Il secondo piano odorava ancora più intensamente di salsedine e muffa. «Questa stanza ha una bella vista sul mare» disse. «Ho pensato che ti potesse piacere.» Si fermò nel vano della porta, facendo segno a Ellen di avvicinarsi. «Ci sono delle lenzuola pulite nell'armadio in corridoio.» Ellen guardò dentro la stanza, che era modestamente ammobiliata con un letto, un tavolo da toletta e una sedia con lo schienale alto. Le pareti erano dipinte di un verde anonimo ed erano senza decorazioni. Il materasso era nudo, e alle porte-finestre mancavano le tende. «Non uscire sul balcone, temo che le strutture siano marce» l'avvertì la zia. «L'ho notato» rispose Ellen. «Sai, certe parti si rovinano prima. Adesso ti lascio, anch'io mi sento un po' stanca. Perché non facciamo un sonnellino fino all'ora di cena?» Ellen guardò sua zia e sentì una fitta al cuore a vedere la stanchezza di quel viso smunto e rugoso, che tradiva lo sforzo compiuto per salire le scale: le tremavano leggermente le braccia ed era pallidissima per lo sfinimento. Ellen la strinse a sé. «Oh, zia» le disse dolcemente. «Ti aiuterò, lo prometto. Stai tranquilla, mi prenderò cura di te.» May si sciolse dall'abbraccio della nipote, annuendo. «Si, cara. È molto bello averti qui. Ti diamo il benvenuto.» Si voltò e iniziò a scendere le scale. Una volta rimasta sola, Ellen improvvisamente si rese conto della pro-
pria stanchezza. Si lasciò cadere sul materasso e contemplò la cameretta disadorna, con la mente confusa da problemi vecchi e nuovi. Lei e sua zia non erano mai state molto in confidenza, in quanto non si conoscevano a sufficienza, e questa visita inattesa era stata dettata dalla disperazione. Ellen aveva voluto andarsene per un po' da casa, lontano dal marito per punirlo di un tradimento scoperto di recente, e aveva cercato un posto dove potersi rifugiare, non costoso e dove Danny non avrebbe potuto trovarla. La casa della zia, isolata sulla costa, le era sembrata la soluzione migliore per nascondersi una settimana. Si era aspettata pace, noia, rimpianto, ma certamente non di trovarvi una donna morente. Era un problema totalmente nuovo, che rendeva quasi insignificante quello del rapporto con Danny. Di colpo si sentì molto sola. Avrebbe voluto che Danny fosse con lei per confortarla. Si pentì di aver giurato a se stessa di non chiamarlo per almeno una settimana. Decise di telefonare a suo padre. Doveva avvertirlo di non dire niente a Danny? Non lo sapeva. Odiava l'idea si far sapere ai suoi genitori che il suo matrimonio era in crisi. Però, se Danny li avesse chiamati, avrebbero comunque saputo che c'era qualcosa che non andava. Avrebbe sicuramente telefonato a suo padre quella sera stessa. Sarebbe venuto a trovare la sorella, se ne sarebbe occupato, l'avrebbe portata all'ospedale e trovato un medico che la guarisse. Ne era certa. Adesso però era allo stremo delle forze. Si sdraiò sul materasso nudo. Le lenzuola le avrebbe prese più tardi, in quel momento voleva solo chiudere gli occhi, chiudere gli occhi e riposarsi per un attimo... Quando si svegliò, fuori era buio, e aveva fame. Si sedette sulla sponda del letto, indolenzita e disorientata. La camera era fredda e odorava di muffa. Si chiese per quanto tempo avesse dormito. Quando schiacciò l'interruttore della lampada, la luce non si accese, quindi a tentoni uscì dalla camera e percorse il corridoio buio verso le scale che intravedeva a malapena. Sotto i piedi gli scalini scricchiolarono rumorosamente. In fondo alle scale vide che dalla cucina proveniva della luce. «Zia May?» La cucina era vuota, la luce era irradiata da una lampada al neon sopra la stufa. Aveva la sensazione di non essere sola e che qualcuno la stesse osservando. Però, quando si girò, alle sue spalle non vide niente se non la calma oscurità dell'ingresso.
Ascoltò per un momento gli scricchiolii e i lamenti della vecchia casa, e i rumori smorzati del mare e del vento all'esterno. Non percepiva nessuna voce umana, tuttavia continuava ad avere la sensazione che, se avesse ascoltato più attentamente, avrebbe sentito una voce... Dall'altra parte dell'entrata, dietro le scale, arrivava una luce fioca: s'incamminò quindi in quella direzione. Sul pavimento di legno i tacchi picchiettavano. La sua attenzione era stata attirata da una abat-jour vicino al quale vide una porta semichiusa. Allungò la mano, l'aprì e, sentendo la voce di sua zia, entrò nella stanza. «Non riesco a sentire le gambe» stava dicendo. «Non ho dolore, ma non avverto niente. Comunque funzionano ancora. Avevo paura che, una volta persa la sensibilità, non mi sarebbero più state di nessun aiuto, invece non è così. Ma tu lo sapevi, me l'avevi detto che sarebbe successo.» Tossì e nella stanza buia si sentì il letto che cigolava. «Vieni qui, c'è posto.» «Zia?» Silenzio. Ellen non riusciva nemmeno a sentire il respiro della zia, che finalmente rispose: «Ellen? Sei tu?». «Sì, certo. Chi pensavi che fosse?» «Come? Oh, forse stavo sognando.» Il letto cigolò di nuovo. «Cosa stavi dicendo a proposito delle tue gambe?» Ancora cigolii. «Hmmm? Cosa?» chiese con la voce di uno che ha sonno e cerca di stare sveglio. «Niente» disse Ellen. «Non avevo capito che eri andata a letto. Ti parlerò domani mattina. Buona notte.» «Buona notte, cara.» Ellen uscì, sconcertata, indietreggiando dalla stanza buia e soffocante. Forse la zia parlava nel sonno oppure, malata e confusa, aveva delle allucinazioni. Non aveva senso pensare - come Ellen tuttavia stava facendo che la zia fosse stata sveglia e avesse scambiato Ellen per qualcun altro, qualcuno di cui aspettava una visita o che viveva in casa. Un suono di passi su per le scale, quasi sulla sua testa, la fece correre in quella direzione. Le scale però erano buie e deserte; guardò meglio per vederne la cima, ma non notò niente. "È un altro suono della casa che muore", pensò. Aggrottando la fronte, non soddisfatta della propria spiegazione, tornò in cucina. Scoprì che la dispensa era ben fornita di cibi in scatola e si preparò una minestra. Fu mentre la mangiava che sentì di nuovo il rumore di passi,
questa volta apparentemente proveniente dalla stanza sopra di lei. Ellen fissò il soffitto. Se qualcuno davvero stava camminando, non faceva niente per non farsi sentire. Il rumore non poteva che essere di passi: sopra c'era qualcuno. Posò il cucchiaio, avvertendo una sensazione di gelo. Lo scricchiolio dei passi pesanti continuava. Improvvisamente cessarono. Il silenzio era irritante, ed Ellen immaginò un uomo accucciato, con un orecchio incollato sul pavimento in ascolto di una reazione da parte sua. Ellen si alzò, facendo strisciare a bella posta la sedia sul pavimento. Andò nell'armadietto di fianco al telefono, e su uno scaffale dove c'erano la guida telefonica, dei cerotti e qualche lampadina trovò una pila - proprio come in casa di suo padre. Funzionava, e il raggio di luce vivido la rallegrò. Prima di chiudere lo stipo e andare di sopra, ricordandosi che in camera sua la luce non funzionava, prese anche una lampadina di ricambio. Si avviò, aprendo ogni porta che vedeva, e scoprì molte stanze vuote, bagni e sgabuzzini. Non sentì più il rumore dei passi e non trovò traccia di chi o cosa avesse potuto produrli. Pian piano la tensione si allentò, ed Ellen tornò nella propria stanza dopo aver preso le lenzuola dall'armadio della biancheria. Sostituita la lampadina e controllato che funzionasse, Ellen chiuse la porta e si accinse a farsi il letto. Qualcosa sul cuscino attirò la sua attenzione: esaminandolo con attenzione, vide che sembrava un mucchietto di segatura. Alzando lo sguardo verso la parete, osservò che da un listello di legno tutto bucherellato di una cornice scendeva della segatura. Arricciò il naso per il disgusto: termiti. Sprimacciò il cuscino ben bene e l'infilò nella federa, riproponendosi di telefonare al padre come prima cosa da farsi l'indomani mattina. Sua zia non poteva continuare a vivere in un posto del genere. Il sole che inondava la stanza dalla finestra senza tendine la svegliò di buon'ora, e gii ultimi lembi di sonno vennero strappati dagli stridi dei gabbiani e dall'odore penetrante del mare. Si alzò, tremando per l'umidità che sembrava le fosse entrata nelle ossa, e si vestì rapidamente. Trovò sua zia in cucina, seduta al tavolo, che sorseggiava una tazza di tè. «Sulla stufa c'è dell'acqua calda» le disse come saluto. Ellen si versò una tazza di tè e si sedette. «Ho ordinato un po' di spesa» le disse May. «Dovrebbe arrivare fra poco, così per colazione possiamo mangiare uova e pancetta affumicata.»
Ellen la guardò e si rese conto che con lei nella stanza c'era una donna che stava morendo. Davanti a un fatto così grave ed evidente non riusciva a pensare a qualcosa da dire. Così non parlarono, e il silenzio fu rotto soltanto dal rumore dei sorsi, fino a quando non suonò il campanello. «Lo fai entrare, cara?» le chiese May Ellen si alzò. «Lo devo pagare.» «Oh, no. Non lo chiede, fallo solo entrare.» Meravigliata, Ellen aprì la porta a un ragazzo robusto con una borsa di carta marrone in mano. Ellen sporse esitante il braccio per prenderla, ma lo sconosciuto la ignorò, entrò in casa e le girò intorno per andare in cucina, dove mise la borsa sul tavolo, iniziando a vuotarla. Ellen si fermò sulla soglia a guardarlo, notando che il ragazzo sapeva dove andava sistemata ogni cosa. Il giovane non parlò con May, che non sembrava nemmeno essersi accorta della sua presenza, ma quando tutto fu in ordine si sedette a tavola al posto di Ellen. Piegò la testa da un lato, squadrandola. «Devi essere sua nipote» le disse. Ellen non rispose. Non le piaceva come la guardava. Gli occhi scuri, quasi neri, che sembravano privi di pupilla - occhi duri, senza profondità le percorrevano il corpo, giudicandolo. Il ragazzo sorrise al suo silenzio, e si girò verso May, osservando: «È una donna tranquilla». May si alzò con la tazza vuota in mano. «Faccio io» disse Ellen in fretta, muovendo un passo in avanti. Allora sua zia le diede la tazza, sedendosi nuovamente, facendo sempre mostra di non avere notato la presenza del giovane. «Vorresti qualcosa per colazione?» le chiese Ellen. May scosse il capo. «Cara, tu mangia quello che vuoi, ma io non me la sento, non vedo nemmeno lo scopo di farlo.» «Zia, dovresti mangiare qualcosa.» «Allora una fetta di pane.» «Vorrei delle uova» disse lo sconosciuto, stirandosi pigramente sulla sedia. «Non ho ancora fatto colazione.» Ellen guardò la zia, per avere delle indicazioni su come trattare quell'arrogante. Era un conoscente, un dipendente, qualcuno con cui non voleva essere scortese?... Se solo la zia non avesse voluto... ma ora stava guardando in lontananza, con lo sguardo assente. Ellen osservò l'uomo. «Sta aspettando di essere pagato per la spesa?» gli chiese.
Lo sconosciuto sorrise in modo sgradevole, rivelando una dentatura regolare. «Porto la spesa a sua zia per farle un favore, così non ci deve pensare lei, nelle sue condizioni.» Ellen lo fissò ancora un momento, aspettando inutilmente un segno da parte di sua zia, poi si voltò e andò alla stufa per preparare la colazione. Si chiese la ragione per cui quel ragazzo aiutasse sua zia: davvero non lo pagava? Non le sembrava il tipo di persona che agisce disinteressatamente. «Adesso che ci sono io» disse Ellen, prendendo dal frigo le uova e il burro «non deve preoccuparsi per mia zia. Farò io le commissioni.» «Voglio due uova fritte» disse. «Mi piacciono con il tuorlo semiliquido.» Ellen gli lanciò un'occhiata ma si controllò. Non se ne sarebbe andato se si fosse rifiutata di preparargli le uova, anzi se le sarebbe fritte da solo. E poi aveva fatto la spesa. Ma si prese la propria rivincita facendo cuocere troppo le uova e dandogli le fette di pane leggermente bruciate. Quando si sedette a tavola, Ellen lo guardò con un'aria di sfida e gli disse: «Mi chiamo Ellen Morrow». Il giovane esitò così tanto che Ellen pensò di chiedergli più esplicitamente come si chiamasse, infine lui rispose strascicando le parole: «Può chiamarmi Peter». «Grazie mille» rispose Ellen sarcastica. Lui sorrise di nuovo nel solito modo sgradevole, ed Ellen sentì il suo sguardo su di sé per tutta la colazione. Non appena ebbe finito di mangiare, si scusò dicendo alla zia che andava a telefonare a suo padre. Per la prima volta quella mattina sua zia le rispose. Tese timidamente la mano, ritirandola come se non osasse toccarla. «Ellen, non farlo preoccupare per me. Non può farci nulla. Non voglio che si precipiti qui senza motivo.» «Ma zia, sei la sua unica sorella, devo dirglielo, e naturalmente lui farà qualcosa.» «L'unica cosa che può fare è lasciarmi in pace.» Tristemente, Ellen pensò che aveva ragione, ma comunque non poteva lasciarla morire senza cercare di fare qualcosa per salvarla. Suo padre doveva sapere come stavano le cose. Per poter parlare liberamente, passò oltre il telefono della cucina e andò in camera della zia, dove era sicura che ci fosse un altro apparecchio. Non si sbagliava. Fece il numero di casa dei suoi genitori. Dall'altra parte del filo il telefono continuò a squillare fino a
quando rinunciò e chiamò l'ufficio di suo padre. Come già sospettava, era andato fuori città a pescare, quindi per un giorno o due sarebbe stato impossibile raggiungerlo. In ogni caso lasciò detto di chiamarla non appena fosse tornato. Adesso non poteva far niente se non aspettare. Ellen tornò in cucina, silenziosamente, perché le scarpe con la suola di gomma non producevano nessun rumore. Sentì sua zia che diceva: «Non sei venuto, ieri sera. Ho continuato ad aspettare. Perché non sei venuto?». Senza quasi pensarci, Ellen si fermò fuori della porta e continuò ad ascoltare. «Avevi detto che mi avresti fatto compagnia» continuò, con un tono lamentoso che metteva Ellen a disagio. «Avevi promesso che saresti rimasto con me per curarmi fino a quando non viene il momento.» «In casa c'era la ragazza» disse Peter. «Non sapevo se potevo.» «Cosa importa? Lei non ha importanza» rispose May seccamente. «Non fino a quando abiterò qui. Questa è ancora casa mia e io... io ti appartengo, vero? Vero, caro?» Poi ci fu silenzio. Facendo più piano che poté, Ellen uscì di casa correndo. L'aria marina, anche se umida e calda, fu un sollievo dopo l'odore di chiuso e di muffa della casa, ma pur respirando a pieni polmoni, Ellen provò ancora un senso di nausea. Sua zia morente e quel giovane odioso erano amanti. Quel giovane muscoloso, dallo sguardo duro e insolente, dormiva con sua zia, anziana e fragile. L'idea la sconvolgeva e nauseava, ma non aveva nessun dubbio: la conversazione breve e la voce della zia non avrebbero potuto essere più eloquenti. Ellen corse lungo il pendio sabbioso, coperto d'erbacce, verso la spiaggia stretta, desiderando smarrire la propria coscienza. Non sapeva come affrontare sua zia, come poter rimanere in una casa dove... Risentì la voce di Danny, stanca, sprezzante ma comunque cara: "Ellen, sei così ingenua riguardo al sesso. Sei proprio una bambina". Ellen iniziò a piangere, pensando a Danny, rimpiangendo di averlo lasciato. Cosa le avrebbe detto se avesse saputo tutto? Che anche sua zia aveva diritto al piacere e che l'età avanzata era solo un altro pregiudizio? "E lui?" si chiese Ellen. E Peter, cosa ci guadagnava? Era sicura che in un modo o nell'altro sfruttasse sua zia. Forse rubava, pensò, ricordando tutte le stanze vuote al piano di sopra.
Nella tasca dei jeans trovò un Kleenex e si asciugò le lacrime. In questo modo si spiegavano molte cose. Adesso capiva perché sua zia non voleva lasciare quella catapecchia marcia e perché non voleva che suo fratello venisse. «Ciao, Ellen Morrow.» Sollevò la testa, stupita, e lo vide fermo davanti a sé, che le sorrideva sgradevolmente come sempre. Gli si avvicinò, poi distolse lo sguardo dai suoi occhi sfuggenti. «Non sei molto gentile» disse. «Te ne sei andata così in fretta che non ho avuto la possibilità di parlarti.» Lo guardò e poi cercò di andarsene, ma lui si mise al passo con lei. «Non dovresti essere così scortese, ma cercare di conoscermi.» Ellen si fermò, affrontandolo. «Perché? Non la conosco e non so cosa ci faccia in casa di mia zia.» «Credo invece che tu lo sappia» disse. La sua fredda arroganza le bloccò il respiro. «Mi prendo cura di tua zia. Prima che io arrivassi qui era completamente sola, senza familiari o amici. Era del tutto indifesa. Puoi pensare che sia sconveniente ma adesso lei mi è grata. Non approverebbe mai il tuo tentativo di farmi andare via.» «Ci sono io adesso» rispose Ellen. «Faccio parte della sua famiglia, e arriverà anche suo fratello. Non rimarrà sola nelle mani di uno sconosciuto.» «Non vuole che me ne vada e che venga sostituito dalla tua famiglia o da chiunque altro.» Ellen rimase in silenzio per un momento, poi riprese: «Lei è malata, vecchia e sola, ha bisogno di qualcuno. Ma lei cosa ci guadagna? Pensa che quando morirà le lasci i suoi soldi?». Sorrise sprezzante. «Tua zia non ha soldi. Tutto quello che possiede è quella casa cadente che ha pensato di lasciarti. Le do quello di cui ha bisogno, e lei mi ricambia nello stesso modo, il che è molto più importante e fondamentale del denaro.» Temendo di arrossire e non volendo che lui se ne accorgesse, Ellen si voltò e iniziò ad avanzare a lunghi passi sulla sabbia verso la casa. Lo sentiva camminare al proprio fianco, ma non mostrò di accorgersi di lui. Il giovane, però, all'improvviso l'afferrò per il braccio, facendola quasi gridare, e quindi sentire in imbarazzo, senza che Peter desse a vedere di averlo notato. Adesso l'aveva fatta fermare, e diresse la sua attenzione verso qualcosa sul terreno. Sentendosi una sciocca, ancora un po' spaventata, lasciò che la facesse
accovacciare al suo fianco. Era stato attirato da una battaglia, una lotta per la sopravvivenza sulla spiaggia. Un ragno, dello stesso colore della sabbia, danzava truce sulle zampette, e intorno gli girava una vespa che brillava scura nella luce del sole, con il pungiglione nero e micidiale. C'era qualcosa di misteriosamente affascinante nel combattimento fra i due minuscoli insetti che fingevano un attacco, si bloccavano, si ritiravano per poi lanciarsi nuovamente in avanti. A Ellen sembrò che il ragno sulle zampette fragili fosse nervoso, mentre la vespa era sicura e risoluta. Anche se non le piacevano né i ragni né le vespe, sperava nella vittoria del primo. All'improvviso la vespa si scagliò in avanti, il ragno si rivoltò con le zampe che cercavano di afferrare e colpire come le dita di una mano, e per un momento i due sembrarono lottare. «Ah, l'ha preso» mormorò Peter. Ellen vide che aveva il viso attento, assorto nella lotta mortale. Abbassando di nuovo lo sguardo, osservò come il ragno fosse a terra perfettamente immobile, mentre la vespa vincitrice gli girava intorno. «L'ha ucciso» disse Ellen. «Il ragno non è morto, ma solo paralizzato. Prima di continuare, la vespa si assicura che il pungiglione l'abbia completamente immobilizzato. Poi scaverà un buco e lo spingerà dentro, deponendo le uova sul suo corpo. Il ragno non sarà in grado di reagire ma rimarrà lì sdraiato, ad aspettare che le uova si schiudano e di venire divorato.» Sorrise sgradevolmente, come sempre. Ellen si alzò. «Naturalmente non sente niente,» continuò «è vivo, ma solo a livello molto superficiale. Il veleno che la vespa gli ha iniettato l'ha reso insensibile. Una creatura più evoluta si tormenterebbe per l'angoscia del futuro, l'inevitabilità della morte prossima, ma lui è solo un ragno.» Ellen si allontanò senza parlare. Si aspettava che la seguisse ma, quando si voltò indietro, vide che era sempre accovacciato, a osservare la vespa intenta alla sua opera di morte. Una volta in casa, Ellen chiuse la porta con il catenaccio, poi fece il giro dell'abitazione, sprangò le altre porte e controllò le finestre. Sebbene sapesse che probabilmente sua zia aveva dato a Peter la chiave di casa, non voleva essere nuovamente colta di sorpresa. Stava chiudendo la porta di servizio, vicina alla camera della zia, quando si sentì chiamare flebilmente: «Sei tu, tesoro?». «Sì, zia» rispose Ellen, chiedendosi a chi stesse veramente rivolgendosi
con quell'appellativo. La pietà era in conflitto con il disgusto, ma entrò comunque nella stanza. Dal letto sua zia le sorrise debolmente. «Mi stanco così facilmente, adesso» le disse. «Penso che potrei restarmene tutto il giorno a letto. Cosa posso fare, tranne che aspettare?» «Zia May, potrei noleggiare una macchina e portarti da un medico, o forse trovarne uno disposto a visitarti qui.» La zia mosse la testa da un lato all'altro, in segno di diniego. «No, no, un medico non può far niente, a questo punto nessuna medicina al mondo può aiutarmi.» «Qualcosa per farti sentire meglio...» «Cara, non sento quasi più niente, non soffro assolutamente. Non preoccuparti. Per favore.» "Sembra così sfinita" pensò Ellen "Quasi consunta." Guardando la figura fragile tra le lenzuola, sentì gli occhi riempirsi di lacrime. All'improvviso, si inginocchiò di fianco al letto. «Zia, non voglio vederti morire.» «Su, su» disse dolcemente May, rimanendo immobile. «Su, non affliggerti. Una volta provavo lo stesso sconforto anch'io, ma adesso l'ho superato. Ho accettato quanto è accaduto e devi farlo anche tu. Devi.» «No» sussurrò Ellen, con il viso premuto sul letto. Voleva stringerla, ma non osava: l'immobilità della zia sembrava impedirlo. Ellen desiderò che sua zia stendesse le braccia o girasse il viso per farsi baciare, perché non riusciva a fare il primo passo. Alla fine Ellen smise di piangere e sollevò il capo. Vide che aveva chiuso gli occhi e respirava dolcemente e con regolarità: evidentemente s'era addormentata. Si alzò e uscì dalla camera. Desiderava tanto che fosse lì suo padre, qualcuno con cui dividere il proprio dolore. Trascorse il resto del giorno a leggere e a vagare senza scopo per la casa, pensando a Danny, o alla zia e a quello sgradevole sconosciuto di nome Peter, sentendosi frustrata perché non c'era nulla che potesse fare. Il vento riprese a soffiare, e la vecchia casa a scricchiolare, aumentando il suo stato di agitazione. Sentendosi come intrappolata in quella topaia ammuffita, Ellen uscì sotto il portico davanti a casa, dove si appoggiò contro la ringhiera e rimase a fissare l'Oceano grigiobianco. Godeva del morso del vento, e il balcone che scricchiolava sopra alla sua testa non la preoccupava. Pigramente, guardò il parapetto di legno sotto le mani e con le unghie tolse una scheggia che si stava staccando; con sua sorpresa, però, non venne via soltanto quel frammento, ma anche altri pezzi di legno mal dipinti,
che rivelarono l'interno così pieno di buchi da sembrare una spugna. Il legno pareva tremare, e dopo un attimo di intontimento Ellen capì che il legno era infestato dalle termiti. Gridando disgustata si tolse dal parapetto, fissando il mondo che aveva portato alla luce. Poi rientrò in casa, sprangando la porta dietro di sé. Diventava buio, ed Ellen pensò con struggente desiderio a una buona cena e a un'allegra compagnia. Si rese conto di non aver più sentito nessun rumore provenire dalla camera di sua zia da quando al mattino l'aveva lasciata che dormiva. Dopo avere controllato in cucina che cosa prepararsi per cena, Ellen andò a svegliare la zia. La stanza era buia e troppo silenziosa. Un senso di paura la bloccò sulla soglia dove, immobile, tendendo le orecchie per sentire qualche suono, di colpo comprese la ragione di quel silenzio: May non respirava. Accese la luce e corse vicino al letto. «Zia May! Zia May» chiamò, ormai senza illusioni. Strinse la mano fredda, sperando di sentire una pulsazione, e posò il capo sul petto della zia, trattenendo il respiro per sentire il battito del cuore. Nulla. La zia era morta. Si tirò indietro, inginocchiandosi di fianco al letto, tenendo ancora la mano della zia fra le sue. Fissò il viso inespressivo, con gli occhi chiusi e la bocca leggermente aperta, e sentì il dolore crescere lentamente. Dapprima le sembrò una goccia di sangue: era scura e brillava sul labbro inferiore, poi scivolò lentamente verso l'angolo della bocca. Mentre la goccia si staccava dal labbro e si muoveva senza lasciare nessuna traccia sul mento, Ellen rimase a fissarla stupefatta. Poi capì che cos'era. Era una piccola cimice, scura e brillante, non più grande dell'unghia di un mignolo. Mentre Ellen guardava, un altro insetto minuscolo sgusciò fuori dalla sporgenza del labbro inerte della zia. Indietreggiò carponi. Si sentì accapponare la pelle e lo stomaco sconvolto, e avvertì un odore ripugnante. In qualche modo riuscì a rialzarsi in piedi e a uscire dalla stanza senza svenire né vomitare. Nel corridoio si appoggiò alla parete e cercò di raccogliere i propri pensieri. La zia era morta. Nella sua mente vide un rivolo di insetti neri che si riversava fuori della bocca della donna morta.
Gemette e serrò i denti, cercando di pensare a qualcos'altro. Non era vero. Non voleva crederci. Ma era morta, e doveva affrontare la realtà. Le si riempirono gli occhi di lacrime, poi di colpo e con impazienza le ricacciò indietro. Non aveva tempo per piangere. Le lacrime non sarebbero servite a nulla. Doveva riflettere. Doveva chiamare l'agenzia di pompe funebri? No, prima di tutto un medico, certo, anche se ormai non c'era più niente da fare per lei. Un dottore le avrebbe detto come comportarsi, chi avvertire. Andò in cucina e accese la luce, notando che fuori il buio sembrava scendere come un sudario contro la finestra. Nell'armadietto vicino al telefono trovò la sottile guida coi numeri del luogo e cercò i nominativi dei medici. Ce n'erano alcuni ed Ellen scelse il primo e, sperando che i dottori di una cittadina così piccola avessero la segreteria telefonica, alzò la cornetta. La linea era muta. Stupita, schiacciò il pulsante e rialzò il dito. Ancora niente. Ma non pensò che la linea fosse interrotta perché avvertiva qualcosa. Dall'altro capo del telefono le sembrava di sentire come un respiro dolce, come se in casa qualcuno avesse sollevato il ricevitore e rimanesse in ascolto. Sconvolta da questo pensiero, sbatté la cornetta sulla forcella. Era impossibile che in casa ci fosse qualcuno. Magari un telefono era stato riattaccato male. Cercò di ricordare se di sopra ci fosse un altro apparecchio, perché tremava al pensiero di tornare nella camera della zia senza un dottore o qualcun altro che sapesse cosa fare. Ma, anche se di sopra ci fosse stato un altro telefono, Ellen si rese conto che non l'aveva visto né usato, e quindi era improbabile che fosse la causa del problema. La cornetta del telefono in camera della zia invece poteva essere stata appoggiata male sulla forcella sia da May che da lei stessa, quindi doveva andare a controllare. L'aspettava nell'ingresso. Il respiro le si bloccò in gola e sembrò strozzarla, senza che riuscisse a emettere un solo suono. Indietreggiò. Peter avanzò, annullando lo spazio fra loro. Ellen riuscì a ritrovare la voce e, vincendo per un momento la paura istintiva che sentiva verso di lui, disse: «Peter, deve andare a chiamare un medico per mia zia». «Tua zia ha detto che non vuole nessun dottore» rispose. Dopo il silen-
zio minaccioso, sentire la sua voce fu quasi un sollievo. «Non è più questo il problema. È morta.» Intorno a loro il silenzio vibrò. Nonostante l'ingresso fosse buio, le sembrò che sorridesse. «Vuole andare a chiamare un medico?» «No.» Ellen fece alcuni passi indietro, e di nuovo lui la seguì. «Perché non va a vederla?» gli suggerì Ellen. «Se è morta, non ha bisogno di un medico. E poi presto sarà mattino e ci si deve sbarazzare del corpo.» Ellen continuò a indietreggiare, temendo di voltargli la schiena. Una volta in cucina poteva riprovare a telefonare. Ma lui non glielo permise. Prima che potesse prendere la cornetta, la sua mano guizzò e strappò il filo dal muro. Sorrideva in modo strano. Poi sollevò il telefono, con il filo penzoloni sopra la propria testa e, mentre Ellen si spostava nervosamente, lo scagliò con forza sul pavimento, dove si fracassò con un rumore stridente contro il linoleum, a pochi centimetri dai piedi di Ellen. Lo fissò inorridita, incapace di muoversi o parlare, cercando freneticamente di riflettere su come sfuggirgli. Pensò al buio fuori, alla lunga strada sterrata senza nessuna casa vicina, e alla spiaggia deserta. Pensò alla camera della zia, che aveva una porta di legno massiccia e nella quale c'era un telefono che forse funzionava ancora. Per tutto questo tempo lui aveva continuato a fissarla, rimanendo immobile. Ellen aveva la strana sensazione che cercasse di ipnotizzarla, di impedirle di correre, o forse stava semplicemente aspettando che lei si muovesse per prima, attendendo di vedere la tensione nei suoi muscoli che avrebbe rivelato le sue intenzioni. Ellen alla fine capì che doveva fare qualcosa, non poteva aspettare all'infinito che lui facesse la prima mossa. Visto che era così vicino, non osava mettersi a correre, ma invece fece finta di girare a sinistra, come se volesse corrergli intorno per andare alla porta, e poi prese a correre sulla destra. Peter l'afferrò con le sue forti braccia prima che avesse fatto tre passi. Urlò, e lui le posò la bocca sulla sua, reprimendo il grido. Quel contatto la spaventò più di ogni altra cosa. Fino a quel momento non aveva pensato, nonostante la paura che aveva di lui, che intendesse violentarla. Lottò come una pazza, sentendo le sue braccia che la serravano più forte, puntando i gomiti contro i fianchi e buttando fuori il respiro. Cercò di dar-
gli dei calci o una ginocchiata al basso ventre, ma non riusciva a sollevare abbastanza la gamba e i suoi calci si rivelavano solo dei colpetti inutili. Allontanò la bocca dalla sua e spinse Ellen verso il buio dell'ingresso dove la schiacciò sul pavimento, immobilizzandola con il proprio peso. Per fortuna lei indossava dei jeans, che erano stretti. Per toglierli... ma no, non glielo avrebbe permesso. Decise che, non appena avesse allentato la presa, avrebbe cercato di ferirgli gli occhi. Quando lui si sollevò, era determinata a fare quanto aveva deciso, ma Peter continuò a tenerle i polsi serrati. Non appena si sentì le gambe libere cominciò a scalciare, ma si dimenava inutilmente, senza fargli alcun male. Di colpo le lasciò andare le mani. Se n'era appena resa conto e aveva avuto appena il tempo di pensare di colpirlo agli occhi quando lui, con un movimento solo apparentemente causale le sferrò un pugno allo stomaco. Le mancò il respiro. Involontariamente si era piegata in due, ignara di tutto tranne che del dolore atroce. Nel frattempo lui le sfilò i jeans e gli slip fino alle ginocchia, toccandole il corpo che non opponeva più resistenza come se fosse stato un oggetto inanimato, facendola mettere in ginocchio. Mentre tremava, avvertendo un senso di nausea e cercando di respirare profondamente, si accorse che la stava palpando fra le gambe quasi come se si trattasse di qualcosa di secondaria importanza. Poco dopo, quando la penetrò, il nuovo dolore fu lancinante. Avvertì dell'altro. Dopo un attimo di dolore e impotenza, iniziò lo stordimento. Sentì, o piuttosto smise di sentire: una marea la intontiva, come un gelo intenso, che le fluiva dall'inguine allo stomaco e scendeva sui fianchi e lungo le gambe... Le costole erano insensibili e il colpo che le aveva dato non le faceva più male. Non ci fu più nulla, né dolore né altre sensazioni nauseanti derivanti dallo stupro. Riusciva ancora a sentire le labbra, e a chiudere e aprire gli occhi, ma dal mento in giù era come se fosse stata morta. Oltre alla perdita della sensibilità, c'era anche quella del controllo; di colpo cadde sul pavimento come una bambola di pezza, sbattendo il mento. Pensava che la stesse ancora violentando, ma non riusciva nemmeno a sollevare la testa e girarsi per guardare. Oltre al proprio respiro ansante, Ellen percepì un altro suono: un ronzio, come se qualcuno canticchiasse. A tratti il suo corpo dondolava e ricadeva dolcemente, forse in risposta a quello che lui stava ancora facendo. Chiuse gli occhi e pregò di svegliarsi. Dietro le palpebre chiuse, le ap-
parvero immagini nitide: rivide l'insetto sul labbro della zia morta, una cimice nera, dura e splendente come gli occhi di Peter; la vespa nella sabbia, che circondava il ragno paralizzato; il cadavere della zia coperto da una marea luccicante di insetti striscianti, che banchettavano sul suo corpo... una volta finito con la zia, sarebbero venuti da lei, lì sul pavimento, paralizzata e pronta per loro? Il pensiero la fece urlare e spalancare gli occhi. Davanti a sé vide i piedi di Peter. Allora aveva finito. Iniziò a piangere. «Non mi lasciare qui» mormorò, con la mente sconvolta dalla paura. Lo sentì sogghignare. «Lasciarti? Ma questa è casa mia.» Allora lei capì. Naturalmente non se ne sarebbe andato. Sarebbe rimasto con lei come aveva fatto con sua zia, curandola man mano che si indeboliva, fino a quando fosse morta espellendo quanto le aveva conficcato nel corpo. «Non sentirai niente» le disse. Robert Aickman IL GUANTO Robert Aickman, nato in Inghilterra, per tutta la sua vita nutrì interesse per svariati settori, quali l'architettura, l'opera, la fauna, i corsi d'acqua e la ricerca sui fenomeni psichici. Era inoltre un critico cinematografico e teatrale, un annunciatore radiofonico e un conferenziere, ma è soprattutto conosciuto come autore di numerosi ed eccellenti racconti, dalla trama inconsueta, quali Ringing the Changes, Pages from a Young Girl's Journal (vincitore del First Fantasy Award come migliore racconto), e appunto quello che state per leggere; una storia gotica moderna dagli sviluppi imprevisti, nel quale si racconta di una ragazza vittima di un'infelice relazione amorosa che si chiede quale sia il modo per risanare un cuore infranto. E la risposta che riceve è: "Uccidere l'uomo che l'ha spezzato...". ...quella nebbiolina leggera e trasparente che si trova solo nell'Essex. sir Henry Channon Quando alla fine Millicent ruppe il fidanzamento con Nigel e sentì svanire il senso di un significato nella propria vita (a parte naturalmente il proprio lavoro), fu normale che Winifred proponesse un picnic, compren-
sivo di una visita, "non troppo seria" come disse Winifred, alla Great House. Millicent si rese conto che non c'erano alternative se non aderire all'idea e, come ci si aspettava da lei, assumere un'aria pallida di gratitudine. Era probabile che in futuro avrebbe visto Winifred molto più spesso, a meno che Winifred non scegliesse, per un motivo o per l'altro, proprio quel momento per intraprendere qualche altra direzione. Tutti sapevano di Millicent e Nigel, così le vennero concessi un giorno o due liberi, nonostante l'importanza del suo lavoro. Benché, in un modo o nell'altro, fosse stata legata a Nigel per molto tempo, il cambiamento dei loro rapporti riguardava solo loro due. Winifred, d'altronde, avrebbe voluto ignorare il fatto ma restò accanto a Millicent perché capiva quanto fosse importante per lei. La vita di Winifred era più semplice di quella di Millicent. "Non mi sono mai innamorata" era infatti solita dire. "Proprio non capisco cosa voglia dire." L'argomento saltava fuori raramente, adesso molto meno rispetto a dieci o dodici anni prima. «Cosa dici di Baddeley End?» suggerì Winifred, arrischiando una battuta che provocò solo l'ombra di un sorriso. Winifred raramente aveva pensato che la storia con Nigel si concludesse diversamente da come erano infine andate le cose. «Perfetto» rispose Millicent, entrando nello spirito, e allungando le mani diafane in segno di gratitudine. «Cercherò sulla cartina un posto per fare il picnic» la informò Winifred, che aveva trovato luoghi per picnic sulle Cevennes, gli Appennini, le Dolomiti, la Sierra de Guadattama, e persino sui Carpazi. Fra l'altro, era proprio il tipo di cose in cui Nigel era una frana. A frequentare Nigel, raramente ci si allontanava da casa. «Faremo meglio a usare la mia auto» continuò Winifred. «Così potrai fare solo quello che vuoi.» Subito, a giudicare dalle apparenze, le cose erano andate bene come al solito. Millicent non aveva nessun dubbio. In certe situazioni non è facile sapere cosa preferire: se gli amici che capiscono (fino a un certo punto) o quelli che non capiscono niente, e sono quindi in grado di offrire una specie di momentanea evasione. Winifred fermò la macchina in una piazzuola da cui si dipartiva un lungo viottolo accidentato, forse una mulattiera che, sebbene si trovassero non più lontano dai rispettivi appartamenti di quanto non lo sarebbero state in
una qualsiasi parte nell'Essex, era impraticabile per le automobili. Winifred si era ricordata gran parte della strada a memoria e adesso stava immaginando il posto del picnic. «È un bel posto» disse con fiducia. «C'è un passaggio, o perlomeno un sentiero, che attraverso il cimitero porta al fiume.» «Che fiume è?» chiese Millicent pigramente. «È solo un ruscello. Be', forse un pochino più grosso. Si chiama Desolazione.» «Davvero?» «Sì. Per piacere, mi passi lo zaino?» Nelle ore di svago Winifred utilizzava sempre lo zaino, mentre le generazioni precedenti avrebbero preparato un paniere o un cestone. «Mi spiace di non averti aiutata» ripeté Millicent. «Non essere stupida.» «Almeno fammi portare qualcosa.» «Va bene, prendi la bottiglietta e i bicchieri. Non sono riuscita a farceli entrare.» «Che gentile» disse Millicent. Di pomeriggio era consuetudine evitare le libagioni abbondanti. «Penso che oltrepasseremo il cancelletto.» Millicent a sentire quel modo di dire ormai accettato, rabbrividì leggermente. Il cancelletto di ferro era vicino a quello di legno del cimitero, che era aperto solo in occasioni particolari. Iniziarono a scendere il sentiero fra le tombe, lasciandosi alla propria destra l'antica chiesetta, bassa e coperta di licheni. Originariamente il viottolo era pavimentato di mattoni, ma adesso molti di essi mancavano e l'erba era cresciuta in mezzo a quelli rimasti. «È molto scivoloso» notò Millicent. «Non mi piacerebbe al ritorno dover fare la strada di corsa.» Era giusto fare dei commenti di qualche tipo, per dimostrare che era ancora viva. «Non può essere scivoloso. Non piove da settimane.» Millicent dovette ammettere l'assennatezza di quell'affermazione. «Forse sarebbe meglio se andassi avanti io» continuò Winifred. «Così puoi prendertela comoda con i bicchieri, che sono tanto delicati.» «Sei tu che sai dove stiamo andando» rispose Millicent, passando in secondo piano. «Prima di andarcene daremo un'occhiata dentro la chiesa.»
Sebbene l'edera avesse iniziato ad avvolgere come un polpo furtivo la chiesetta coperta di muschio, Millicent si accorse che l'edificio veniva ancora utilizzato, in considerazione del notevole numero di tombe che a prima vista sembravano scavate di recente. D'altra parte, alla loro sinistra, il presbiterio o la canonica che fosse, dietro la siepe minacciosa, era sporco, insudiciato e senza finestre aperte visibili in quel giorno così bello. Comunque la pensasse Winifred, il cimitero era bagnato, ma d'altronde, come tutti al mondo sanno, il terreno dell'Essex è in gran parte composto di argilla. Al termine del sentiero occorreva oltrepassare un altro cancelletto, cigolante e capriccioso, e si arrivava in un grande prato verde declinante, dove nell'angolo più distante gruppi di mucche pascolavano, "animali di tutti i tipi", avrebbe detto il patrigno di Millicent nei bei tempi andati, che in quel momento sembravano davvero così lontani. Lungo il prato smeraldo non c'erano sentieri, ma Winifred, con la cartina tratteggiata in mente, procedeva decisa. Millicent sapeva per esperienza che in fondo allo zaino dell'amica c'era un grande telo impermeabile. Meno male! Winifred fece strada: attraversato un cancello ormai inesistente, imboccò alla loro sinistra un curioso viottolo fangoso, costeggiato da file di siepi, che scendeva fino alla sponda del fiume. Una volta arrivate videro isolotti di fango sedimentato da cui spuntavano grandi alberi dalle forme tropicali, e sulla destra un ponte di pietra malandato, con una decorazione nella sua parte centrale. La scena era ombreggiata dalla ricca vegetazione, ma le libellule brillavano attraverso velate strisce di sole. «Potremmo oltrepassare il ponte,» osservò Winifred «ma staremo meglio su questa riva.» Il poste scelto per il picnic, ombroso e fiancheggiato da erbe palustri, era estremamente romantico, molto difficile da scoprire anche se così vicino alla caotica folla del parco che confinava a nord. Dopo la merenda, si potevano anche cercare le fragili ossa dell'antico cavaliere errante; o magari si sarebbe potuto fare solo in passato, quando si possedevano energia e fede. Inoltre, Millicent aveva notato che il ponte era chiuso da parte a parte da un reticolato di filo spinato arrugginito, in gran parte piegato e con lunghi spuntoni. Riposando sul telo formavano un bellissimo quadretto: graziose, attraenti, tranquille e, nonostante tutto, speranzose. Indossavano maglioni dai colori chiari, e pantaloni stampati e dall'aria familiare. Nell'insieme armonico
dei folti capelli di Millicent c'erano motivi di grigio pallido, mentre la capigliatura decisa di Winifred appariva a volte incolore. Se un poeta si fosse fermato sul ponte avrebbe potuto sentirsi triste a vedere che quello era tutto ciò che la vita aveva offerto loro. Poche persone avrebbero potuto scegliere un posto così ideale per il dolore di un amico, semplicemente consultando una cartina. Poche persone appaiono sensuali come Millicent quando sono tristi, lontane dall'ufficio, e dimentiche per il momento dei piaceri ambigui e paranoici del lavoro. Winifred aveva davvero avuto una bella idea a portare la bottiglietta, ma Millicent scoprì che il vino non cambiava le cose. E come poteva? Come d'altronde qualsiasi altra cosa? Ma poi... «Winifred! Da dove arrivano tutti questi funghi?» «Presumo ci fossero anche quando siamo arrivate.» «Sono quasi sicura che non c'erano.» «Ma naturalmente che c'erano» le rispose Winifred. «I funghi crescono in fretta, ma non così velocemente.» «Non c'erano. Non mi sarei seduta se ci fossero stati. Non mi piace rimanere seduta in un mucchio di funghi giganti.» «Sono della grossezza normale» disse Winifred, sorridendo e sollevando le gambe. «Vuoi andare?» «Be', abbiamo finito il picnic. Grazie davvero, Winifred, è stato molto bello.» Si alzarono: il poeta sul ponte le avrebbe definite due driadi in esilio. Sulla sponda del fiume poco profondo, paludoso e serpeggiante, c'erano funghi a vista d'occhio, sia a valle che a monte, anche se non era possibile vedere in distanza a causa del ponte da una parte e della boscaglia dall'altra. «È l'umido...» disse Millicent «tutto è terribilmente umido.» «Se lo è,» disse Winifred «lo è sempre, perché ultimamente ha piovuto molto poco. L'ho già detto prima.» Millicent si vergognò, come da un po' le succedeva spesso. «Sei stata brava a trovare un posto così perfetto» disse immediatamente dopo. «Ma tu lo sei sempre. Tutto è stato ineccepibile fino a quando non sono arrivati i funghi.» «Non sono sicura che siano veramente funghi» rispose Winifred. «Magari sono solo muffe.» «Non importa. Andiamo. Oh, mi spiace, non hai ancora finito di mettere
tutto a posto.» Naturalmente, la salita fu più faticosa, il patrigno di Millicent avrebbe detto "tosta". «Perché le mucche stanno ammassate in un angolo?» chiese Millicent. «Sono rimaste immobili da quando siamo arrivate.» «Per le mosche» disse Winifred con l'aria di chi sa il fatto suo. «Non agitano le code, e nemmeno scuotono la testa o muggiscono. Potrebbero essere imbalsamate o delle riproduzioni.» «Penso che stiano ruminando, Millicent.» «Penso di no.» Millicent naturalmente ne sapeva di più sulla campagna rispetto a Winifred. «Non so nemmeno se ci sono veramente.» «Oh, cammina, Millicent» rispose Winifred, senza però smettere di arrancare e senza nemmeno girarsi a guardare Millicent e tantomeno le mucche in lontananza. Millicent sapeva che in quel periodo gli altri erano gentili con lei e che non era il momento di fare i capricci, a meno che non fossero divertenti, con l'intento di adulare le altre persone. In fondo al cimitero arrivarono al cocciuto cancelletto, che cigolò non appena lo toccarono e si richiuse dispettosamente in faccia a Millicent non appena Winifred l'ebbe oltrepassato. All'andata Millicent non aveva notato quel comportamento, forse le cose si affrontano in modo diverso a seconda che si stia scendendo o salendo. Ma... «Winifred, guarda!» Millicent, che era stata così attentamente padrona di sé per tutto il giorno, aveva urlato. «Prima non c'era niente!» Non riusciva a sollevare il braccio per indicare: davanti a loro, sulla sinistra del sentiero scosceso in mezzo al cimitero, c'era un mucchio di corone di fiori e ramoscelli, arpe di gigli, cuori di rose rosse attorcigliate e trombe d'arcangeli di fiori di iris. Lo spirito commerciale e l'istinto commemorativo non avrebbero potuto fondersi in modo migliore. «Non le hai notate» replicò Winifred immediatamente. Aggiunse persino, cosa che in altri momenti non avrebbe fatto: «Stavi pensando ad altro». Poi si girò a guardare Millicent e sorrise. «Non c'erano» disse Millicent, più sicura della realtà che di se stessa. «Si vede che, mentre eravamo vicino al fiume, c'è stato un funerale.»
«Penso che avremmo sentito qualcosa» le rispose Winifred, sempre sorridendo. «Inoltre, non si seppelliscono le persone durante l'ora di pranzo.» «Be', è successo comunque qualcosa.» «Prima non le avevi notate» disse Winifred, girandosi e guardando il sentiero davanti a sé. «Tutto qui.» Questo mettere in dubbio quello che diceva irritò Millicent nonostante i suoi propositi di essere gentile. «Be, e fu?» chiese. Ma Winifred si era preparata. «Non sono sicura di averle o meno. È così importante?» Fece qualche passo e poi domandò: «Preferisci non visitare la chiesa?». «Per niente» rispose Millicent. «Forse dentro troveremo qualche spiegazione.» Millicent era contenta di non essere davanti, perché trovava difficile passare vicino al mucchio di tributi funebri. Sembravano così freschi! Nascondevano un tumulo oblungo, che comunque s'intuiva. Dapprima i fiori sembravano avere il profumo di quelli appena colti, non come quelli dei funerali, che o non hanno nessun profumo o hanno semplicemente quello della morte accettata. Poi, ripensandoci, quando Millicent respirò di nuovo, il profumo non era né quello di un giardino né quello di una siepe, e dopo alcuni secondi le sembrò inspiegabile come la loro stessa apparizione. Certamente non era il profumo che Millicent si sarebbe aspettata o che avrebbe potuto piacerle. Notò che Winifred camminava rigidamente, facendo sempre attenzione ai mattoni spezzati sotto i piedi. Millicent esitò: «Forse dovremmo guardare i biglietti?». Non doveva essere un'idea molto brillante perché Winifred continuò a camminare in silenzio, ed effettivamente dovette ammettere a se stessa che non vedeva né biglietti né altre cose appiccicate ai fiori. Winifred camminava lentamente davanti a Millicent e arrivò al colonnato della chiesa. Quando varcò la soglia, all'improvviso un uccello si dibatté proprio sopra la sua testa andando a finire contro il viso di Millicent. «È un gufo» disse. «L'abbiamo svegliato.» Si aspettava che Winifred dicesse che per i gufi non era l'ora giusta, o che era il tempo o la stagione sbagliata, ma Winifred stava semplicemente fissando la porta di legno della chiesa. «Non si apre?» chiese Millicent. «Non so. Non vedo maniglie.»
Il gufo cominciò a stridere tristemente, cosa che Millicent, a quell'ora del giorno, trovò effettivamente troppo strana. Millicent, a sua volta, fissò la porta. «Non c'è proprio niente.» «Nemmeno un buco della serratura da cui sbirciare dentro.» «Penso che la chiesa sia stata chiusa e sprangata con delle assi.» «Non ne sono sicura» disse Winifred. «A me sembra la porta originale. È così vecchia, non ti pare? Costruita in quel modo, senza una serratura.» Osservando la porta, Millicent capiva cosa Winifred volesse dire. Non c'erano inoltre annunci religiosi, né gli indirizzi dei samaritani del posto, né elenchi di signore che si offrivano per qualche servizio. «Vediamo se riusciamo a sbirciare da una finestra» propose Winifred. «Non credo. Di solito è difficile.» «Perché normalmente c'è gente intorno che ti inibisce. Qui dovrebbe essere più semplice.» Quando spuntarono dal portico, Millicent pensò che ci fossero almeno due gufi che chiurlassero. La brillante giornata di prima stava perdendo la propria lucentezza, diventando grigia e nuvolosa. «Guarda, il cielo si è coperto!» «Mi sa che per la strada pioverà; ne avremo bisogno.» «Sì, ma non qui, non adesso.» Winifred infilava la punta delle scarpe dove la calcina, e a volte sassi interi, erano venuti via dal muro della chiesa, e si appoggiava alle sporgenze della parete. Intendeva salire per cercare di guardare attraverso una finestra e, nel caso non avesse visto niente, provarne un'altra. «Non riesco proprio a immaginare com'è dentro» disse. Facevano sempre tutto fino in fondo e bene, qualunque cosa fosse, ma quel giorno Millicent non sentiva nessun desiderio di imitare Winifred, inoltre non vedeva come avrebbe potuto aiutarla. Non erano più due scolarette, una capace di dare una mano all'altra a salire, facilmente, come se si fosse trattato di un gioco. Winifred aveva inutilmente provato le due finestre sul lato sud della navata e quella a sud del presbiterio, che avevano tutte vetri abbastanza trasparenti anche se un po' sporchi. Le altre due finestre di quel lato della chiesa avevano i vetri dipinti, quindi dovette tentare con quella a est. Winifred girò quindi lungo il lato nord, seguita da Millicent. Il sole lì brillava ancora, e a Millicent sembrò che i gufi malinconici non cantassero più. L'erba del cimitero era rigogliosa e tagliente.
In quel punto il muro era ancora più sgretolato, e Winifred al primo tentativo riuscì a salire facilmente. Per un tempo sorprendentemente lungo, o perlomeno così a lei sembrò, Winifred guardò attraverso la finestra senza parlare. Molte lastre di vetro mancavano, e una addirittura cadde in qualche punto dentro la chiesa con un fragore acuto, mentre Winifred stava ancora fissando all'interno e Millicent aspettava in piedi. L'intera costruzione era in rovina. Finalmente si decise e scese con difficoltà il muro. Iniziò a pulirsi i pantaloni all'altezza delle ginocchia cercando di togliere il pulviscolo che vi era rimasto attaccato, ma anche la polvere era umida, soprattutto su quel lato della chiesa. «Vuoi dare un'occhiata?» chiese Winifred. «Cosa c'è da vedere?» «Niente di particolare» Winifred stava strofinandosi i pantaloni, peggiorando forse le cose. «Niente, davvero. Non mi preoccuperei.» «Non importa, allora» disse Millicent. «Sembri un pellegrino: perennemente piegato sulle ginocchia, comunque sia.» «Dentro non c'è quasi più niente» la informò Winifred. «Allora dove hanno officiato il servizio funebre?» Prima di tentare una risposta, Winifred continuò a pulirsi i pantaloni per un momento. «Da qualche altra parte. Al giorno d'oggi è abbastanza comune.» «C'è qualcosa che non va, che non va proprio in tutta questa faccenda» disse Millicent. Tornarono faticosamente, attraverso l'erba ruvida, al sentiero di mattoni, e poi salirono verso il portico. Sembrava davvero che i gufi si fossero di nuovo ritirati nel loro nido carnivoro. «Dobbiamo sbrigarci, altrimenti ci perderemo Baddeley» disse Winifred. «Non che non ne sia valsa la pena, non credi?» Ma... Sul sentiero di fronte a loro, fra il colonnato della chiesa e l'altro viottolo, a loro ormai quasi familiare, che correva attraverso il cimitero scosceso, proprio al centro, c'era un guanto. «Non c'era nemmeno quello!» esclamò Millicent immediatamente. Winifred lo raccolse e lo esaminarono insieme. Era il guanto di una mano sinistra, di pelle o capretto nero, apparentemente nuovo o comunque poco usato, e veramente di fattura elegante. Millicent pensò che fosse la misura giusta per una mano veramente piccola. A volte la gente notava le
sue mani minute, cosa che le faceva sempre piacere. Il guanto minuscolo e dall'aria costosa terminava con una gala simile al polso di un guanto d'armatura, di fattura meno elegante. «Dovremo consegnarlo» disse Winifred. «E dove?» «Penso nella canonica, se quella è una canonica.» «Davvero?» «Be', cos'altro c'è da fare? Non possiamo portarcelo via, mi sembra di valore.» «C'è qualcuno in questo posto, magari più d'uno» disse Millicent: ma non avrebbe saputo dire perché pensava che ci fosse una tale folla. Winifred, ancora una volta, non rispose e non chiese spiegazioni. «Porterò lì il guanto» disse Millicent. Winifred aveva ancora lo zaino sulle spalle con quanto era rimasto, compresa la bottiglietta vuota, visto che nel cimitero non c'erano cestini per i rifiuti. Il cancello, che una volta era dipinto di blu, stava completamente cadendo a pezzi e non offriva nessun indizio che consentisse di stabilire se la casa era, o fosse stata, una canonica o un vicariato. Il vialetto era infestato d'erba e pieno d'immondizia. Gli alberi erano stati piantati prima dell'edificio, che risaliva all'epoca vittoriana, o erano precocemente invecchiati. Quando Winifred suonò il campanello della porta principale, questo emise un suono acuto, ma nessuno aprì. Dopo un po', mentre Millicent teneva il guanto in avanti, Winifred suonò di nuovo, senza avere risposta. Millicent disse: «Penso che sia aperto». Spinse ed entrarono insieme, facendo pochi passi. L'ingresso, che era stato progettato in stile gotico, era ammobiliato, anche se non in modo ricco, e sembrava "vissuto". Si stava intanto avvicinando una donna curva, pelosa, con un grembiule scolorito che le penzolava dalla vita. «Abbiamo trovato questo nel cimitero» disse Winifred con la sua voce chiara, indicando il guanto. «Non sento il campanello» disse la donna. «Ecco perché lascio la porta aperta. Sono diventata sorda. Sapete il perché.» Millicent sapeva che Winifred non ci sapeva fare con le persone sorde, molto spesso non era questione di decibel, ma di psicologia. «Abbiamo trovato questo guanto» disse, tenendolo sollevato e parlando in modo spontaneo. «Non sento niente» disse con disappunto. «Sapete il perché.» «Non lo sappiamo» rispose Millicent. «Perché?»
Naturalmente la vecchia non riuscì a sentire nemmeno quest'ultima domanda, era inutile riprovare. La domestica, se era tale, salvò la situazione. «Vado a chiamare la signora» disse, e se ne andò senza invitarle a sedersi su uno dei divani che sembravano essere lì per caso o sulle sedie dall'aria un po' instabile. «Penso che sia meglio chiudere la porta» disse Winifred, e così fece. Aspettarono in piedi per un po'. Non c'era niente da guardare se non una stampa colorata che raffigurava degli agnelli in Terra Santa. A ogni angolo il lavoro d'intaglio della cornice formava una croce, e una di esse era in parte spezzata. «Non penso che sia la canonica o il vicariato» disse Winifred. «Ha ragione.» Era comparsa una signora di mezza età, con indosso un vestito discinto, con il colore che andava dall'avena al crema, il collo oblungo e gli orli delle maniche che arrivavano ai gomiti ricamati di strisce di stoffa color ciliegia. Le scarpe che indossava erano stinte, e non si era presa molta cura dei capelli, simili a un nido d'uccello. «Ha proprio ragione» ripeté. «Sono anni che non ci abita un prete. In questa contea ci sono delle strane canoniche, di cui magari avete sentito parlare.» «Intende dire Boreley?» disse Millicent, che era sempre stata interessata a questo genere di cose. «Sì, e anche altri posti» rispose la donna. «Ogni piccola comunità ha la propria caratteristica.» «Questa era una canonica e non un vicariato, vero?» chiese Winifred nel modo che spesso adottava, inarcando educatamente le sopracciglia. «Sarebbe stato ancora più difficile tenere un vicario» rispose la signora con un tono molto concreto. Millicent notò che non portava la fede al dito, e sulle mani tozze e informi non vide anelli di nessun genere, né d'altronde orecchini o ciondoli al collo, o pettini nei capelli arruffati. «Accomodatevi» disse la donna. «In cosa posso esservi utile? Mi chiamo Stock. Pansy Stock. Ridicolo, vero? Ma nell'Essex è un nome molto comune.» Winifred parlava spesso dell'Essex nello stesso modo, e l'aveva infatti fatto più d'una volta durante la gita, ma Millicent aveva sempre pensato che si trattasse di una delle manie di Winifred, che era compito dei suoi amici assecondare; non aveva mai immaginato che l'Essex potesse suscitare simili sensazioni metafisiche. Comunque non le era mai capitato di chiamare qualcuno Pansy, ed era contenta di non sentirne nemmeno il bisogno.
Si sedettero, e visto che sembrava che la signora se l'aspettasse, Winifred presentò entrambe. La donna si sedette sull'altro divano. Portava delle calze di lana verdine. «Si tratta solo di questo guanto» continuò Winifred. «Abbiamo spiegato la faccenda alla sua domestica, ma non siamo riuscite a farglielo capire.» «Lettice non sente più niente da quando è successo. È questo l'effetto che ha avuto su di lei.» «Da quando è successo che cosa?» chiese Winifred. «Se è lecito chiederlo.» «Da quando è stata lasciata, naturalmente» rispose la signorina Stock. «È molto triste» disse Winifred nel suo modo affabile e cortese. Millicent, dopotutto, non era stata proprio lasciata, non esattamente. Dal punto di vista sociale, il fatto aveva comunque comportato un sostanziale cambiamento della sua vita. «È una cosa piuttosto usuale, qui. Ho detto infatti che ogni comunità ha la propria caratteristica: questa è la nostra.» «Incredibile» esclamò Millicent. «Capita a tutte le donne, e non solo quando sono ragazze.» «Mi meraviglio che rimangano qua» replicò Winifred con un sorriso. «Non è che rimangano qua, tornano.» «In che modo?» chiese Winifred. «Sotto forma di spirito» rispose la signorina Stock. Winifred rifletté un momento. Era perfettamente abituata ad affermazioni di quel tipo e alle diverse personalità che occorrono per formare il mondo. «Come in Giselle?» chiese premurosamente. «Credo di sì» rispose la signorina Stock. «Non sono mai stata a teatro. Non ci sono abituata, e non ho mai avuto nessun motivo per infrangere la regola.» «È diventato anche così costoso» disse Winifred, magari perché era quello che avrebbe certamente detto in altre occasioni più formali. «Questo guanto» intervenne Millicent, lasciandolo cadere sul pavimento perché non aveva più voglia di tenerlo in mano «l'abbiamo visto sul sentiero del cimitero.» «Credo proprio di sì» rispose la signorina. «Non è l'unica cosa che è stata vista nel cimitero.» Winifred raccolse educatamente il guanto e lo mise sul sofà, dov'era seduta la signorina Stock. «Abbiamo pensato di consegnarlo a qualcuno del
posto.» «È stato gentile da parte vostra, anche se non verrà nessuno a reclamarlo. C'è una stanza piena di cose del genere. Ciondoli, cianfrusaglie, cuori d'oro grandi come ostriche, ricordi di ogni tipo, persino un paio di stivali da cavallerizzo. Le cose sembrano andare e venire a loro piacimento, e mai nessuno le rivuole indietro. Questa non è la ragione per cui le donne tornano. Naturalmente è stato gentile da parte vostra, a volte penso che la gente ne tragga qualche vantaggio. Si dice che se qualcuno trova o vede qualcosa, dovrà comunque tornare.» Si fermò per un attimo. Poi chiese incidentalmente: «Chi di voi l'ha trovato?». Millicent rispose subito: «Sono io che l'ho visto, insieme a tante altre cose». «Allora farebbe meglio a stare molto attenta» la avvertì, sempre con una certa noncuranza. «Deve evitare i coinvolgimenti affettivi o farà la fine di Lettice.» Winifred, che era in piedi, disse: «Millicent, adesso dobbiamo davvero andare, o non arriveremo mai a Baddeley End.» La signorina Stock aggiunse immediatamente: «Baddeley End è chiusa di giovedì. Quindi, dovunque dobbiate andare, è inutile andare là». «Ha ragione, signorina Stock,» disse Winifred «perché ho consultato la guida prima di partire, ma oggi è mercoledì.» «No, è giovedì» rispose Millicent. «Oggi è senza dubbio giovedì» confermò la signorina Stock. Seguì un silenzio imbarazzante, mentre un angelo, o forse un demone, volteggiò nella stanza. «Adesso mi rendo conto che è giovedì» disse Winifred, impallidendo. «Millicent, mi spiace davvero. Starò impazzendo.» «Naturalmente ci sono tanti, tanti altri posti che potete visitare» aggiunse la signorina Stock. «Un'infinità di posti. Quasi ogni paesino ha qualcosa di particolare da offrire.» «Sì» disse Winifred. «Dobbiamo dare un'occhiata qui intorno.» «Per che cosa ritornano» chiese Millicent, interrompendo nuovamente «se non per i loro oggetti?» «Non è proprio così. Dipende di quali oggetti si intende. Non certo per i loro guanti, anelli o piccole cose, ma comunque per qualcosa che considerano propria. C'è solo un rimedio per guarire un cuore infranto, sempre che questo sia possibile.» «Però, a volte,» disse Millicent «tutto sembra così banale, irreale, persi-
no assurdo, mai veramente concreto, che non vale proprio la pena di farne un melodramma.» «Indubbiamente» disse la signorina Stock. «E lo stesso vale per la fede, la poesia, una passeggiata intorno al lago e l'esistenza medesima.» «Penso di sì» rispose Millicent. «I sentimenti personali però sono particolarmente...» Non riusciva a trovare la parola adatta. «Millicent, andiamo» disse Winifred, che sembrava non essere più in grado di controllarsi e appariva pallida e triste. «Abbiamo consegnato il guanto, andiamo adesso.» «Mi dica,» chiese Millicent «qual è il rimedio per guarire un cuore spezzato? Dopo averne parlato così seriamente, abbiamo bisogno di saperlo.» «Millicent» disse Winifred, «ti aspetto in macchina, ricordi? Alla fine del viale.» «Sono lusingata che lo chiami viale» disse la signorina Stock. Winifred aprì la porta d'ingresso e uscì. La porta si chiuse pian piano dietro di lei. «Mi dica,» ripeté Millicent, con un tono come se fosse una questione della massima importanza «qual è l'unico rimedio per guarire un cuore infranto?» «Lei sa qual è» disse la signorina Stock. «È uccidere l'uomo che l'ha spezzato, o perlomeno fare in modo che muoia.» «Sì, immaginavo che fosse questo» disse Millicent, con gli occhi fissi sugli agnelli in Palestina. «È l'unica prova per vedere se il sentimento è autentico» spiegò la signorina Stock, con il tono di un dimostratore esperto. «O era autentico?» «Se il sentimento è vero, non si può dire era.» Millicent distolse gli occhi dagli agnelli saltellanti. «E lei ha fatto i passi necessari? Se naturalmente non sono indiscreta?» «No. Nel mio caso non si è mai presentata l'occasione. Abito qui e sto a guardare.» «Non sembra un posto molto allegro in cui vivere.» «Qui si imparano molte cose, questo posto mette in guardia. Ne traggo molto profitto.» Millicent rimase di nuovo in silenzio per un momento, passando con lo sguardo dalla stanza scarsamente ammobiliata ai vestiti inquietanti della signorina Stock. «Un ultimo consiglio?»
«Penso che ormai la situazione le sia sfuggita di mano, si figuri a me.» Millicent non riusciva a decidersi ad abbandonare il discorso. «Le ragazze, le donne, sono del paese, ammesso che esista veramente? lo e la mia amica non lo abbiamo visto e la chiesa sembra abbandonata da moltissimo tempo.» «Il paese c'è, naturalmente» rispose con veemenza la signorina Stock. «E le assicuro che la chiesa non è completamente abbandonata. Ci sono delle mucche, un posto dove vengono rinchiuse, un fiume e un ponte, com'è normale che sia, incluso un tocco di colore locale. E, certo, le donne spesso vengono da fuori; spesso si ritrovano qui ancor prima di saperlo, o comunque penso che sia così.» Millicent si alzò. «Grazie, signorina Stock, per la pazienza dimostrata e per aver ritirato il guanto.» «Forse un giorno mi verrà portato qualcosa di suo» osservò la signorina Stock. «Chissà?» rispose Millicent, stando al gioco, come cercava sempre di fare. A destra della porta d'ingresso notò una scatola gialla su un tavolo rotto, con un'etichetta su cui c'era scritto a grandi lettere nere: LE OFFERTE DI JOSEPHINE PER GLI INFELICI, e quindi dalla tasca dei pantaloni tirò fuori un piccolo contributo. Fu contenta di non dover frugare nella borsa mentre la signorina Stock aspettava sorridente. Anche lei si era alzata ma non aveva fatto cenno di accompagnarla alla porta. Era rimasta semplicemente in piedi, un po' nell'ombra. «Arrivederci, signorina Stock.» Alla porta d'ingresso, come in molti vicariati e canoniche, c'erano due grandi vetri, smerigliati ma decorati en clair intorno agli angoli, in modo da consentire di vedere, anche se a malapena, il mondo esterno. Millicent stava per aprire la porta, che Winifred aveva lasciato socchiusa, quando percepì la forma di un'entità reale e silenziosa all'esterno. Era semplicemente troppo, e per la seconda volta quel giorno trovò difficile non mettersi a urlare, ma la signorina Stock era nell'ombra dietro di lei, e Millicent quindi aprì la porta. «Nigel, Dio mio!» Millicent riuscì appena a chiudere la porta che il suo braccio l'avvolse, nello stesso modo in cui l'edera avviluppava la chiesetta. «Non ho più niente a che fare con te. Come hai fatto a sapere che ero
qui?» «Me l'ha detto Winifred, naturalmente.» «Non ti credo. Comunque è seduta in auto, in fondo al viale, quindi posso chiederglielo.» «No, non c'è, se n'è andata via.» «Non può essersene andata, mi sta aspettando. Nigel, lasciami andare, per favore.» Discesero il viale, deprimente e pieno di erbacce, fianco a fianco. Millicent si domandò se la signorina Stock stesse osservando la loro immagine distorta attraverso le strisce sottili del vetro tornito. Non c'erano né Winifred né la sua auto, solo un mucchio di grosse foglie marroni. Per un attimo le sembrò che l'auto fosse stata sepolta proprio là sotto. «Non importa, cara. Se ti comporti bene, ti porterò a casa.» «Non vedo nemmeno la tua auto.» Era una replica del tutto inadeguata, ma almeno era spontanea. «Certo che no. È nascosta.» «Perché?» «Perché non voglio che tu parta, lasciandomi qui. Mi hai piantato in asso una volta, il che è sufficiente.» «Non ti ho lasciato, Nigel. Ho semplicemente completato l'opera. Stavi distruggendo tutta la mia vita.» «Non la tua vita, tesoro. Solo la tua stupida, per così dire, carriera.» «Non solo.» «Comunque sia, non ti lascerò andare a casa a piedi.» «Non a casa, solo alla stazione. So benissimo dov'è, Winifred l'ha trovata sulla cartina e me l'ha fatta vedere. Ha detto che ci sono ancora dei treni.» «Non puoi fidarti di Winifred.» Millicent sapeva che questo non era vero. Qualunque cosa fosse capitata a Winifred, Nigel stava mentendo, come faceva più o meno quasi sempre. Anni prima era stato questo uno dei criteri per cui lei aveva compreso quanto profondamente e sinceramente lo amasse. «Non ci si può nemmeno sempre fidare delle cartine» disse Nigel. «Cos'è successo a Winifred?» Come si sentiva assurda e infantile ai suoi stessi occhi quando cercava di raggiungere una condizione di parità con Nigel! La domanda sciocca le venne alle labbra senza che lei l'avesse scelto o voluto.
«Se n'è andata. Facciamo una passeggiata prima di tornare a casa, intanto puoi parlarmi dei lavori all'uncinetto e dei fiori ricamati. Servirà a calmarci.» Le strinse di nuovo il braccio e, nonostante lei fingesse di opporre una mezza resistenza, la spinse verso il cancelletto che portava al cimitero. Sapeva per esperienza quanto fosse inutile cercare di tenergli testa, perché Nigel conosceva tutti i mezzi con cui a scuola i ragazzi grandi si impongono e hanno la meglio su quelli più piccoli, e non aveva mai esitato a usarli contro Millicent, naturalmente di solito in condizioni più o meno convenute di buon umore e divertimento, sapendo meglio di lei cosa sarebbe stata la cosa più razionale da fare dopo. L'uso frequente della forza fisica era stato un altro elemento che l'aveva attratta. La trascinò per il sentiero sconnesso. «È un posto veramente bellissimo e tranquillo. Silenzioso come una tomba.» Era veramente quieto in quel momento, insolitamente e impercettibilmente diverso da quando c'era stata con Winifred. Sia i gufi che gli uccelli nei cespugli avevano smesso di cantare e non si sentiva nemmeno il rumore di un aereo. Il venticello si era calmato, e l'erba alta sembrava senza vita o dipinta. «Parlami della chiesa» le chiese Nigel. «Dimmi cosa c'è da vedere.» «La chiesa è chiusa da anni» gli rispose Millicent. «Strano, le chiese non sono fatte per rimanere chiuse. Diamo un'occhiata.» La spinse su per il sentiero dove prima Millicent aveva visto il guanto, e in quel momento si rese conto che la misura era quella della mano di un bambino. Nel colonnato Nigel la fece sedere sulla panca consunta, che forse un tempo era appartenuta alla scuola locale, quando questa ancora esisteva. «Non muoverti o le prendi. Non ti lascerò andare via di nuovo, almeno per un po'.» Nigel si mise a esaminare la porta della chiesa, ma c'era ben poco da vedere; per rendersene conto bastava darle un'occhiata e provare a spingerla. Fece due passi indietro e si mise di fianco: senza perdere tempo aveva quindi deciso di sfondarla. Nonostante l'aspetto, forse era già sgangherata. Ma quella volta Millicent urlò davvero. «No!» Il grido sembrò lacerare il silenzio sorprendente che li circondava. Sicuramente era stato udito fino alla vecchia canonica, anche se non dalla po-
vera Lettice. Millicent stessa si era sorpresa, visto che gridare non era una delle sue specialità. Per un momento era riuscita persino a distogliere Nigel dal suo intento. Protestò ancora più forte. «Per favore, non farlo!» «Perché no, pulcino?» Sicuramente il suo stupore era sincero. «Se vuoi, prima arrampicati all'esterno e guarda attraverso la finestra.» L'intensità e la qualità dell'urlo le dettero al momento un certo ascendente su di lui. «Dall'altra parte della chiesa è più facile.» La stava fissando. «Va bene, se lo dici tu.» Uscirono dal portico e Nigel non si curò nemmeno di tenersela vicino. «Non c'è bisogno di girarle intorno fino al retro. Posso benissimo farcela da qui, puoi provarci anche tu. Arrampichiamoci insieme.» «No» rispose Millicent. «Fa' quel che ti pare» disse Nigel. «Di sicuro hai già visto il fantasma, o era la messa nera?» Si era issato con un balzo, aggrappandosi come una scimmia, apparentemente a niente. Mentre sbirciava, aveva la testa così incassata fra le spalle da sembrare un Quasimodo più grande che, come ricordò Millicent, si arrampicava alle pareti gotiche per scoprire le cose. Nigel, senza parlare, saltò a terra con un rumore sorde. «Ho capito cosa vuoi dire. Non è certo una vista per occhi sensibili, per le ragazzine o per quelle già cresciute.» Si fermò un istante, mentre Millicent evitava di guardarlo. «Va bene. Cos'altro c'è da vedere? Guidami, dove andiamo adesso?» La spinse di nuovo verso il sentiero che attraversava il cimitero e iniziarono a scendere verso il fiume. A un tratto Millicent si rese conto che il mucchio di corone non c'era più; né i ramoscelli, le arpe, i cuori e le trombe dei cherubini; solo un mazzolino di fiori di campo legati con del normale nastro. Per un attimo Millicent pensò di avere visto male, ma dubitò e non solo dei suoi occhi. «Non penso che questo luogo venga ancora usato» disse Nigel. «Mi sembra non ci sia più posto, e spiegherebbe quello che sta succedendo nella chiesa. Cosa succede se oltrepassiamo quel cancello?» «Si arriva in un grande prato dove ci sono delle mucche e poi si incontra una specie di sentiero che porta al fiume.» «Di che tipo?» «Corre fra l'erica ed è fangoso.» «Un po' di fango non ci spaventa, eh pulcino? Che fiume è, comunque?» «Winifred ha detto che si chiama Desolazione.»
«Adatto, anche se ora non più. Mi affretto a dire, non più.» Fu allora che Millicent notò la lapide. "Nigel Alsopp Ormathwaite Ticknor. Forte, paziente e leale. Chiamato dall'Altissimo." E c'era una data, non quella di nascita: un'unica data. Di quel giorno. Il giorno che lei, ma non Winifred, sapeva essere un giovedì. La pietra era di granito grigio, o di un materiale somigliante. La parte dov'era apposta l'iscrizione era stata levigata e lucidata. Quando era passata di qui con Winifred, Millicent non aveva osservato con attenzione, e ritornando dal picnic non era comunque venuta a trovarsi di fronte all'iscrizione, come era dimostrato dal fatto che la vedeva adesso. «Non più» disse Nigel per la terza volta. «Facciamo la pace, pulcino.» Millicent si limitò a fermarsi. Fissava la scritta. Non era in nessun modo in contatto con Nigel. «Ti amo, pulcino» le disse Nigel. «È un problema, no? Andavamo più d'accordo quando non ti amavo.» Nigel era stato raramente così perspicace. Strano. Il tempo di cui parlava era però tanto, tanto lontano. «Non so cosa dire» rispose Millicent. Cos'altro poteva replicare? Non erano più bambini, né ragazzi, niente del genere. Fecero qualche passo e la lapide rimase alle spalle di Millicent. Non si girò per vedere se c'erano delle altre parole sul retro della lapide. Nigel oltrepassò il secondo cancello davanti a lei e le disse: «Puoi anche non venire, penso che tu sia già stata al fiume con Winifred. Intanto non mi puoi sfuggire. Voglio solo vedere se ci sono dei pesci». Non c'erano però motivi per non seguirlo e Millicent, quindi, a sua volta spinse il cancello. «Fa' come ti pare» le disse. Millicent notò qualcosa di diverso. Gli animali, che prima erano nell'angolo più lontano, adesso stavano correndo nella loro direzione, e così silenziosamente che Nigel non se ne accorgeva. Quando li aveva descritti a Winifred aveva parlato di "mucche", ma probabilmente il suo patrigno avrebbe detto "bestiame". Poteva sembrare assurdo parlare di animali domestici britannici che si comportavano come se fossero stati nel selvaggio West. Ma questa volta era proprio così, ed era un particolare da non trascurare. «Nigel!» esclamò Millicent, indietreggiando attraverso il cancello, che sbatté con fragore. «Nigel!»
Lui andava avanti deciso. Normalmente non ci si spaventa degli animali domestici nei campi, inoltre proprio quel luogo in particolare era talmente tranquillo che Nigel sembrava ignorare completamente ogni loro movimento. «Nigel!» Gli animali erano ormai vicini e le loro intenzioni erano chiarissime, sempre che si potesse parlare di intenzioni. In un baleno l'erba e il loro manto furono coperti di sangue, e da altro ancora più raccapricciante. Dopo poco, cadde un silenzio perfetto, ma gli animali stavano calpestando con furia, con le code sollevate e gli occhi stranamente selvaggi. La massa delle bestie però nascose a Millicent la parte peggiore dello spettacolo. Cercare aiuto. Ecco cosa si deve fare in questi casi. Almeno, gridare "aiuto". Millicent, che era stata così pronta a gridare, scoprì che non riusciva a emettere un solo suono. La calma immensa aveva avvolto anche lei. «Oh, Nigel, amore mio!» Ben presto gli animali frugarono con il muso nell'erba, ormai senza più interesse. Sembrava quasi che non avessero preso parte al lavoro il cui risultato stavano annusando, sbavandoci sopra. Millicent si aggrappò al cancello. Mai prima di quel giorno aveva urlato, e mai più nella sua vita sarebbe svenuta. Si rese poi conto che il cimitero si era in qualche modo riempito di donne, o perlomeno vedeva donne qua e là fra i tumuli e le lapidi, a gruppi di due, tre o quattro, ma più spesso come singole osservatrici. Queste donne non apparivano come nel battello preferito di Winifred. Erano tetre e dall'aspetto ordinario, e molte di loro ormai non più giovani. Millicent non riusciva ad avvicinarsi, e si rese conto che non solo erano nel cimitero ma anche nel campo, da cui a quanto sembrava la mandria si era ritirata proprio mentre si era voltata di spalle per un attimo. Infatti, in quel momento le donne erano dappertutto. Assurdo, assurdo. Persino allora Millicent non riusciva a tralasciare questa considerazione. Tutta la questione non meritava un epilogo simile, e nel mondo che la circondava tutti lo sapevano. A volte si soffre intensamente, ma neppure il dolore è reale, tanto meno lo sono gli eventi e le esperienze che presumibilmente ci angosciano. La vita non è talmente, e nemmeno essenzialmente, una passeggiata intorno al lago, tanto per usare il convincente paragone della signorina Stock. Comunque, dev'essere stato più o meno a questo punto che Millicent perse conoscenza.
Winifred la stava guardando dall'alto, e non era più pallida, ma aveva il suo solito colorito, e manifestava nuovamente il suo aspetto fiducioso. «Cara Millicent, invece di portarti in campagna avrei dovuto metterti a letto! Come hai fatto ad addormentarti?» «Dove sono le mucche?» Winifred guardò attraverso il cancello di ferro nel campo dietro di sé. «Per quanto riesca a vedere, non ci sono, penso che se ne siano andate per farsi mungere.» «Non sono per niente mucche normali.» «Ragazza mia!» Winifred la guardò intensamente, poi sembrò preoccuparsi di più. «Sei stata aggredita? Spaventata?» «Non io» rispose Millicent. «E allora chi?» Millicent deglutì e si tirò su. «È stato un sogno, solo un sogno. Preferisco non parlarne.» «Poverina, devi essere sfinita. Ma come sei arrivata quaggiù? Non sarai mica sonnambula?» «Ci sono stata portata. E questo è parte del sogno.» «È stato incredibile, quella Stock continuare a parlare come ha fatto. Avresti dovuto tapparti le orecchie.» «E gli occhi.» «Ne convengo» rispose Winifred sorridendo. «Era un posto orrendo. Se adesso sei completamente sveglia, penso che tu voglia andare, no? Ti ho proprio rovinato la giornata.» «Non ho visto l'auto, l'ho cercata.» «L'ho spostata. Volevo essere fuori vista. Non avrai mica pensato che potessi guidare attraverso il cimitero?» «Sembra che tutto sia possibile» disse Millicent mentre risalivano il pendio. «Tutto. Per esempio, prima hai visto quei fiori con i tuoi occhi. Dove sono adesso?» «Magari sono stati portati in qualche ospedale. Oggi, dopo i funerali, la gente fa così.» «E quei funghi vicino al fiume?» «Te l'ho detto, quando siamo arrivate c'erano già.» «E le storie della signorina Stock?» «Ha bisogno di un uomo, tutto qui. Oh, Millicent, scusa.» «E l'interno della chiesa?»
«Era davvero brutto, non ho intenzione di parlarne e nemmeno di pensarci, e certamente non te lo lascerò guardare.» «Non dovremmo riferire tutto, qualunque cosa sia, a qualcuno competente?» «Non sarò certamente io a farlo» rispose Winifred con l'aria di volere chiudere l'argomento. Mentre per l'ultima volta passavano il cancello che portava fuori dal cimitero, Winifred aveva detto: «Adesso andiamocene più in fretta che possiamo. Ti porto a casa mia e ti metto a letto con un calmante. Non sono molto informata su questo genere di problemi, ma ho visto quanto basta per essere sicura che quello che ti ci vuole è una bella dormita». Millicent sapeva che, a quanto si dice, il dolore, specialmente quello represso, induce a una preveggenza, se non a un ripensamento. Si svegliò comunque poco prima delle undici e mezzo. All'inizio della relazione con Nigel, ogni notte a quell'ora uno dei due telefonava all'altro, e spesso chiacchieravano fino a mezzanotte, l'ora in cui decidevano di interrompere la telefonata. La spontaneità di questi gesti era venuta a mancare ormai da anni, ma da quando aveva lasciato Nigel, Millicent non era mai andata a dormire prima di quell'ora. C'erano poche possibilità che Nigel si ricordasse di quel vecchio accordo sentimentale, e ancora meno speranze che lui avesse da dire qualcosa di rasserenante. Nonostante tutto questo, Millicent, dopo avere guardato l'ora, rimase sveglia, sdraiata tranquillamente e con la testa sgombra di pensieri, e puntualmente il telefono suonò. Il primo squillo non era ancora finito che Millicent aveva già la cornetta in mano. «Pronto» disse dolcemente nell'oscurità. Winifred aveva tirato le tendine completamente, perché di notte le piaceva così. «Pronto» ripeté con dolcezza. Era difficile che la chiamata fosse per Winifred, ed era importantissimo non svegliarla. All'altro capo del filo, senz'ombra di dubbio le sembrò che qualcosa ci fosse, non poteva trattarsi di un semplice disturbo telefonico. «Pronto» ripeté ancora una volta. La terza volta fu fortunata, perché finalmente ci fu una risposta. «Pronto, sciocchina» disse Nigel. Nonostante tutto, Millicent non poteva proprio riattaccare, come avrebbe dovuto se si fosse comportata razionalmente. «Stai bene?» gli chiese. «Tesoro, con la camicia da notte di Winifred, sei veramente uno spetta-
colo. Però non è il tuo stile.» Ogni millimetro della pelle di Millicent cominciò a raggrinzirsi. «Nigel! Dove sei?» «Proprio fuori della porta, tesoro. Sarà meglio che vieni subito, ma mettiti i tuoi pigiama. Quelli rossi, che ti stanno bene.» «Nigel, non vengo. Te l'ho già detto. Faccio sul serio.» «Sono sicuro che dici sul serio dal momento che mi hai lasciato calpestare da un mucchio di mucche sanguinarie senza fare niente se non ridacchiare. Non ha importanza, meno ancora del solito. Ti voglio e ti sto aspettando fuori della porta.» Non riusciva a parlare. Cosa mai poteva dire? «Vieni da me, manine d'oro» disse Nigel «e mettiti i tuoi vestiti, o altrimenti vengo io da te.» Il ricevitore le cadde dalla mano, spaccandosi sul pavimento della camera, ma il rumore fu attutito dalla moquette e Winifred non sentì niente. Comunque, anche lei aveva avuto una giornata snervante e doveva riposare prima delle pretese della vita il giorno dopo, e il richiamo rinvigorito della natura. Dopo l'inchiesta, per cui moltissimi avevano preso un permesso, un gruppo di amici interessati, uomini e donne, si affollarono intorno a Winifred. «Non sono mai stata innamorata» disse. «Proprio non capisco.» La gente fu costretta ad accettare, e continuarono con la loro routine. Cos'altro avrebbero potuto fare? Mike Conner NATA MORTA Mike Conner vive in California con la moglie e i quattro figli e suppone di essere probabilmente l'unico scrittore di fantascienza e fantasy di Hopkins, nel Minnesota, la capitale mondiale dei lamponi. Tutti i racconti di Conner apparsi in «Fantasy & Science Fiction» esplorano i lati più ombrosi e nascosti di situazioni sconcertanti che a un primo esame sembrerebbero positive, ed è proprio da quelle ombre che sempre emergono elementi maligni. Nata morta narra la storia di Claudia Fenster, nuova arrivata in una cittadina mineraria del Sud del Missouri, che coinvolge la protagonista nello scintillio della sua vita sociale e nell'oscurità delle sue ca-
verne e dei suoi... segreti. «Mia cara, temo che l'abito che indossa non vada bene» disse la signora Ash. «Non ha un altro scialle nel calesse?» Claudia Fenster dentro di sé soffrì per l'osservazione dell'anziana signora dal volto affilato. Era il tipico giorno caldo e opprimente del Sud del Missouri, e aveva indossato un abito di leggero popeline, e mai avrebbe supposto che avrebbe potuto essere inadatto. «No,» rispose «sono venuta in tram.» Perché suo marito, che prima di farla uscire di casa l'aveva ispezionata come un capitano che controlla le sue truppe, non l'aveva avvertita che il vestito non andava bene? Certo non era scuro e pesante come i vestiti che indossavano la signora Ash e le altre signore del club dei Mercoledì Pomeriggio. Claudia si sentì arrossire, ma un'altra signora, Elly Corporan, le sorrise comprensiva. «Non si preoccupi, cara, ne ho uno io per lei. Olivia teme che, scendendo nelle caverne, lei possa prendersi un raffreddore.» «Caverne?» «Le Caverne di Cristallo» intervenne la signora Ash. «Dove di solito d'estate giochiamo a carte, a meno che in città non piova o la temperatura sia sopportabile. Non ha paura dei luoghi chiusi, vero, signora Fenster?» Claudia si rilassò un po'. «Qualche volta sono andata nelle gallerie della società mineraria di mio marito e non ho avvertito alcun malessere» rispose. «Bene, perché sarebbe stupita di sapere quante donne, i cui mariti si arricchiscono grazie alle risorse del sottosuolo, ogniqualvolta si trovano vicine a una fossa nel terreno svengono al solo pensiero di venire inghiottite. Ah, ecco Jimbo con la carrozza.» Per il breve tragitto lungo la East Street, fino all'ingresso delle Caverne di Cristallo, la signora Ash rimase seduta davanti, con la moglie del pastore battista e la signora Burgess, mentre Claudia prese posto dietro, fra la signora Corporan e la signora Blakey. Jimbo guidò lentamente così che la gente comune potesse ammirare le signore che avevano nelle loro mani la ricchezza di Corinth. I mariti delle signore Ash, Corporan e Blakey molti anni prima avevano fondato la società mineraria che aveva estratto zinco, zolfo, galena e piombo dalle rocce calcaree sotto la città. All'inizio come forza lavoro avevano impiegato i buoi; ora, per mantenere floridi se stessi e la città, usavano il vapore e persino l'elettricità. Trent'anni prima, infatti, Corinth era stata poco più che una stazione di carri dei pionieri sulla strada
a due carreggiate che portava a ovest, verso l'Oklahoma. Il sole batteva ardente attraverso la foschia, e persino la signora Ash si stancò presto di mostrarsi alla poca gente a passeggio per strada. Jimbo fece schioccare la frusta e poco dopo si fermarono sotto l'ombra clemente di un gruppo di querce. «Ne avrà bisogno, glielo assicuro» disse sorridendo la signora Corporan una volta scese dalla carrozza, porgendo a Claudia uno scialle lavorato all'uncinetto. Intanto, mentre le signore aspettavano, Jimbo aprì una cassetta di derivazione fissata a un palo e girò un interruttore. «Luce elettrica» affermò orgogliosamente la signora Blakey. Suo marito, sei anni prima, aveva fondato la Compagnia Lampade Mazda del Sud Missouri. Dopo St. Louis e Springfield, Corinth deteneva il primato in tutto lo Stato per il numero di lampade e impianti elettrici e tutte le linee dei tram erano state ormai convertite dalla trazione animale a quella elettrica. «Il sentiero è agevole, mia cara, ma tenga una mano sulla parete della caverna. Non possiamo scendere molto, altrimenti il reverendo Burgess non permetterebbe a sua moglie di venire con noi!» Le altre signore risero, come se la signora Ash avesse detto la cosa più spiritosa del mondo. Poi si inoltrarono lungo il sentiero al quale si accedeva attraverso una fenditura nella roccia. In un primo momento, nonostante le lampade distribuite lungo il cammino, il percorso sembrava portare verso l'oscurità più completa, ma poi gli occhi di Claudia cominciarono ad assuefarsi e riuscì a distinguere un pallido chiarore sulla parete opposta della caverna e le punte aguzze di lunghe stalattiti che pendevano dalla volta. Non erano andate molto avanti eppure a Claudia diventò difficile credere che sopra di loro ci fosse una calda città del Missouri. Era un mondo silenzioso, fresco e tranquillo, con una brezza leggera che soffiava attraverso i cunicoli come se fosse il respiro della terra medesima. Finalmente raggiunsero un punto illuminato da più luci, dov'era sistemato un tavolo da gioco, e c'era persino una credenza con bicchieri e vasellame d'argento pronti per la limonata e i dolci che Jimbo aveva portato in un canestro. Claudia fu molto meravigliata. «Non ha paura dei ladri, signora Ash?» «Il tipo di gente che ruba di solito ha paura dei fantasmi e non verrebbe in un posto come questo nemmeno con le luci accese. Per convincere Jimbo a seguirci la prima volta ho dovuto bastonarlo; vero, Jimbo?» «Sì, signora.»
«Torna indietro alla solita ora e, mi raccomando, non stancare i cavalli!» La signora Ash si sedette e le altre fecero altrettanto. Claudia non si stancava di ammirare le meravigliose formazioni rocciose parzialmente nascoste dalla cupe ombre create dalla lampade Mazda. Che posto stupendo! Immaginava rubini o diamanti delle dimensioni di un pugno che potevano essere staccati dalle pareti con un semplice cucchiaio. Si chiese chi per primo avesse scoperto quel luogo, forse un viandante solitario in cammino verso i territori indiani in cerca di un riparo dalla tempesta? «Cara, le ho chiesto che gioco preferisce.» «Mi scusi, signora Ash.» Claudia capì che le altre non erano affatto interessate al posto in cui si trovavano e perciò sarebbe stato inopportuno richiamare la loro attenzione sulla bellezza naturale di quel salotto sotterraneo. «Mi piace il pinnacolo.» «Purtroppo siamo in cinque. Sa giocare a canasta?» «Un po'.» «Allora giocheremo a quella.» Mentre la signora Ash mescolava il mazzo, Claudia notò che la sua voce e quella delle altre signore sembravano più alte ed echeggiavano cupe fra le pareti della caverna. In quella luce artificiale le loro fisionomie apparivano come linee disegnate su un foglio bianco ed era certa di sembrare anche lei altrettanto pallida. La signora Ash finì di distribuire le carte e il gioco cominciò. «Lei è del Michigan, vero?» le chiese la signora Burgess. «Prima di sposarmi vivevo a Saginaw, poi il signor Fenster e io mettemmo su casa a Uniontown, in Pennsylvania, dove lui lavorava,» sorrise «finché non decise di acquistare l'impresa per l'estrazione della farina fossile e ci trasferimmo qui.» «Suo marito costruisce filtri per l'acqua» disse la signora Ash. Non era una domanda, ma un'affermazione. «E frantuma la farina fossile in ogni sorta di ossido di ferro e polvere di Tripoli per la levigatura del vetro e del metallo. È veramente un materiale sorprendente.» «Un tempo veniva chiamato chat. Fuori città ce ne sono dei mucchi lungo ogni strada.» «Suo marito è da lodare per avere scoperto come utilizzarlo» commentò gentilmente la signora Corporan. Claudia intanto faticava a ricordare quali carte erano state calate e non riusciva a organizzare il suo gioco, presto la mano fu vinta dalla signora Burgess, che ridistribuì le carte e il gioco riprese.
«Cara signora Fenster, devo avvisarla che quando veniamo a giocare qui, di solito ci lasciamo alle spalle le convenzioni. Spero quindi che non sarà turbata se cercherò di soddisfare una mia curiosità, che ho fin dall'autunno scorso, quando Philip conobbe suo marito. Com'è che ha sposato una ragazza giovane come lei?» Malgrado l'avvertimento, Claudia rimase un po' sgomenta dalla domanda. Forse era per il modo strano con cui le voci risuonavano in quella caverna, ma nella voce della signora Ash sembrava esserci una chiara nota d'accusa. «Forse lei adora la farina fossile» disse la signora Blakey, e le altre risero. Claudia, prima di rispondere, aspettò che si calmassero. «Mio marito era vedovo e conosceva mio padre da molto tempo. Erano stati commilitoni in un reggimento della Pennsylvania durante la Grande Guerra, ed è stato durante il servizio militare che entrambi acquisirono esperienza sul funzionamento del servizio trasporti.» «Per caso erano abolizionisti?» chiese seccamente la signora Ash. Claudia rispose cautamente: «Lavoravano come spedizionieri e operatori del sistema di segnalazione». «Allora suo marito era un impiegato1! Signore, perdonatemi, ma è un conforto sapere che possiamo riposare tranquille nei nostri letti. A parte la signora Fenster, beninteso!» Si versò un bicchiere di limonata e lo bevve. «Ma non ci ha ancora spiegato com'è sbocciato l'amore. Dov'erano tutti i giovani pretendenti di Saginaw?» Claudia sentiva il cuore batterle forte. La stavano guardando tutte in attesa della risposta. Una corrente fredda sibilò attraverso la caverna con un impercettibile suono lamentoso proveniente da una stretta fessura rimasta aperta in un passaggio sbarrato da alcune tavole. «Signora Ash, il mio matrimonio è nato da un accordo fra mio padre e mio marito al quale, nell'interesse di entrambi, diedi il mio totale consenso. Poiché da tempo era solo, il signor Fenster desiderava una moglie che potesse dargli un erede.» Si interruppe, desiderando non aver mai pronunciando quelle parole. Cosa significava quell'espressione gioiosa sul viso della signora Ash? «Naturalmente sapevamo dei problemi che ha avuto in primavera. Dev'essere molto penoso perdere un bambino, proprio penoso.» Nella caverna il vento aumentò, l'ululato diventò quasi un grido. Improvvisamente Claudia si sentì gelare fin nelle ossa, la signora Ash le posò la mano fredda sul polso.
«Ah, ma lei ha la giovinezza dalla sua parte, che vince ogni dolore. Vedrà che ben presto avrà un intero reggimento di frugoletti che le correranno fra le gambe.» Sapeva tutto! L'idea che la signora Ash volesse essere deliberatamente crudele la disgustò e, di colpo, si alzò in piedi, dicendo: «Signore, mi scuso, ma qui fa veramente troppo freddo. La prossima volta dovrò coprirmi di più; signora Ash, la ringrazio di avermi invitata». Claudia voltò le spalle alle signore stupefatte e si incamminò verso l'esterno. All'imboccatura della caverna il caldo la colse con la forza di un'esplosione, ma fu anche un immenso sollievo. «E così sei scappata come una stupida ragazzina? È incredibile, perdio!» Ulysses Fenster si versò un bourbon e girò la sua considerevole mole verso la moglie, che piangeva seduta su una poltrona. «Non mi piacciono! L'unica che mi ispirava un po' di simpatia era Elly Corporan; e inoltre sono tutte intimorite dalla Ash e io non lo voglio essere!» Le guance del marito diventarono paonazze, come sempre accadeva quando era furibondo. «Claudia, ti ho già spiegato che la nostra accoglienza nella cosiddetta buona società di questa deprimente città dipende completamente da quella donna! Non ti chiedo di abbracciarla, ma sicuramente puoi essere carina con lei per un'ora o due e dimostrarle che possiedi un minimo di buone maniere e di equilibrio.» «Ulysses, ti ha schernito! Ha praticamente accusato te di avere sposato una ragazzina e me d'avere sedotto per interesse un vecchio stupido. Dovevo forse sorriderle dolcemente e dirle: "Naturale, signora Ash; com'è gentile da parte sua sottolineare la situazione!". Se non ti avessi difeso, mi avrebbe considerato senza carattere!» «Non ho bisogno di avvocati!» ruggì Fenster. «Sono sopravvissuto fino a ora alle frecciate del mio socio senza la tua assistenza e mi permetto di dire che sono in grado di continuare a farlo. Perdio, Claudia, se non puoi darmi un figlio, aiutami almeno a conquistare un posto in società!» Claudia gli gettò uno sguardo di sfida, con gli occhi pieni di lacrime. «Bene, risparmierei di dirtelo» sbottò «ma la Ash sa che non potrò più avere bambini e ne ha parlato con le sue amiche. Nessuna di loro mi ha difesa! Nessuna...» Scoppiò a piangere. Ulysses posò il bicchiere e, con un'espressione triste, le si inginocchiò davanti. «Claudia, bambina mia, se è vero mi dispiace, sul serio. Anche suo mari-
to dice che quella donna ha un carattere difficile; ma non ti sei accorta che sta cercando di metterti alla prova per valutare il tuo spirito?» «Non voglio essere giudicata da lei!» «E alla fine non lo sarai. Ma pensa come sarà più facile la nostra vita quando finalmente saremo accettati. I miei affari prospereranno, potremo comprare a Carthage una bella casa, con servitù come si deve e lampade elettriche e, forse, persino un'automobile!» «La Ash potrà darmi un figlio?» sussurrò Claudia, e vide il viso del marito incupirsi, e subito si pentì delle proprie parole. Durante la convalescenza, dopo il fatale e tragico fallimento della gravidanza, nessuno era stato più comprensivo e tenero di Ulysses. Claudia gli accarezzò il viso. «Ti prometto che ci proverò ancora. Valgo una dozzina di signore Ash.» «Oh, questa è la mia ragazza!» Ulysses guardò l'orologio. «Bene, devo andare al Club dell'Aquila. Posso dire ad Ash di comunicare a sua moglie che la prossima settimana ci sarai?» «Sì, se lo vuole.» Lo baciò e lui uscì. Non poteva fare a meno di desiderare che la signora Ash non la accettasse più nel gruppo... Ma lo fece. Questa volta Claudia, per difendersi dal freddo della caverna, indossò un abito di satin blu scuro e una camiciola e, mentre il tram con i finestrini completamente aperti la portava a destinazione, lei in fondo alla carrozza si faceva aria, resistendo al buffo impulso di ansimare come un cane. Quando raggiunse la fermata di East Street era veramente contenta dell'opportunità di sottrarsi a quell'afa, anche se solo per un'ora o due. Adesso l'attendeva un'oppressione diversa, rappresentata dalla signora Ash, ma la settimana trascorsa da quando aveva giocato a carte le aveva dato l'opportunità di prepararsi all'incontro. Anche se ancora addolorata per la perdita della sua bambina, si era ormai da tempo rassegnata a quella morte. Perché, allora, era amareggiata dalla crudeltà della signora Ash, che gliela ricordava come se lei ne fosse colpevole? Dio aveva certo avuto una ragione per togliere la vita alla bimba, e non spettava a Claudia o alla signora Ash dubitare della Sua saggezza. Salda nella sua fede, Claudia entrò fiduciosamente nelle Caverne di Cristallo. Le luci erano accese ma la grotta era vuota. Claudia si asciugò la fronte con un fazzoletto e respirò a fondo la fresca aria ristoratrice. La caverna rispose con un sospiro. Improvvisamente, come era accaduto la settimana prima, Claudia avvertì un'intensa corrente d'aria che le fece svolazzare le pieghe della gonna, e un
suono simile a un grido che sembrava giungere da oltre il cunicolo sprangato con le tavole. Claudia ascoltò attentamente, incerta su ciò che aveva sentito. Poteva essere stato il naturale vortice del vento che passava attraverso le fenditure delle assi, però c'era qualcosa che dava a quel suono un'impronta misteriosa e quasi umana. Affascinata, Claudia avanzò pian piano verso quel punto, appoggiò le mani sulle tavole e scoprì che molte erano smosse. Sentiva con i polpastrelli l'aria filtrare attraverso le fessure, ma adesso era certa che quei suono, qualunque cosa fosse, aveva origine da ben oltre la barriera di assi. Allo stesso tempo, capì che non assomigliava al sibilo del vento, perché c'era un intoppo, come se la caverna dovesse fermarsi prima di respirare di nuovo. Come se la caverna piangesse, pensò, forzando una delle tavole sconnesse. Improvvisamente qualcosa la toccò e lei si mise a urlare. Jimbo, il cocchiere di colore della signora Ash, le stava di fronte. «Signora Fenster, non può entrare lì.» «Mi spiace.» Rise per nascondere la propria confusione. «Penso di essere un po' in anticipo e, be', la bambina che c'è in me mi ha spinto a esplorare un po' il luogo.» Claudia toccò di nuovo le tavole. «Puoi dirmi perché ci sono queste assi?» «C'è un burrone.» «Un burrone?» «Sì, qualcuno lo chiama l'Inferno Indiano. È un baratro senza fondo: se si getta un sasso, non si sente quando atterra. Troppi bambini ci sono caduti dentro. La signora Ash perse sua figlia in questo posto. La gente dice che strisciò fin qui e cadde.» «È terribile.» «Questo fatto la cambiò molto. Un evento del genere ha sempre questo effetto. Quando la terra inghiotte qualcuno, la gente soffre. Lei capisce cosa intendo.» «Certo» gli rispose Claudia, sperando che Jimbo se ne andasse. Non lo considerava pericoloso, ma nella profondità di quella caverna aveva la sensazione che potesse succedere qualsiasi cosa. «La settimana scorsa ha fatto bene a scappare, signora.» «Non credo che questo ti riguardi» scattò, con il viso improvvisamente in fiamme, nonostante la corrente fredda che arrivava dal tunnel. Jimbo non si scompose più di tanto, avrebbe potuto essere di pietra. «Fuggirà di nuovo da queste caverne, stia solo attenta a prendere la direzione giusta» disse, e si allontanò proprio quando Claudia stava per chie-
dergli cosa intendesse dire. In quel momento le altre signore, a parte la Burgess che aveva la laringite e quindi non era venuta, fecero il loro ingresso nel corridoio d'accesso. Claudia prese posto vicino alla signora Corporan e si preparò a sostenere un nuovo attacco da parte della Ash che quel giorno appariva cordialissima e addirittura permise a Claudia di giocare a pinnacolo. Dopo un bel po', la signora Ash prese dal cestino portato da Jimbo una bottiglia di vetro con il cui il contenuto riempì i bicchieri di tutte. «Questo è brandy aromatizzato con verbena e limone, una miscela che mio marito ritiene sia veleno! Personalmente credo abbia un effetto benefico sulla respirazione. Signore, alla vostra!» Mentre le altre bevevano, Claudia si limitò a sorseggiare. Sembrava essere consuetudine del club del Mercoledì Pomeriggio lasciarsi un po' andare in assenza della signora Burgess, e Claudia ebbe l'impressione che la moglie del predicatore quel giorno non fosse intervenuta proprio per quell'abitudine. Ben presto nella caverna echeggiarono le risate e il gioco divenne più lento. Le chiacchiere riguardavano sia le diverse signore della città sia il Gran Ballo del Minatore, che avrebbe avuto luogo dopo due settimane al nuovo "Hotel Connor". Claudia fece del suo meglio per partecipare alla conversazione, sebbene il liquore le facesse girare la testa. Ogni tanto, al di sopra delle risa e del rumore delle carte, udiva quel suono lamentoso. Ogni volta le sembrava più umano. Non poteva fare a meno di pensare alla figlia della signora Ash e al suo terribile destino. Cadere, precipitare nell'oscurità senza nessuna speranza... Finalmente la signora Ash dichiarò sciolta la riunione. Claudia si diresse vacillando verso l'esterno con un acuto rammarico, in quanto quel giorno si era sentita sicura, a proprio agio e anche, perché no, invulnerabile, e forse la signora Ash, avendo percepito questo suo stato d'animo, era stata abbastanza saggia da rimandare la sfida a un altro momento e a un altro luogo in quanto Claudia, a dispetto degli apparenti rapporti amichevoli o forse proprio per quelli, avvertiva di non essere stata affatto accettata e approvata come desiderava suo marito. "Cosa vogliono da me?" pensò, salendo sul tram. Forse l'avrebbe compreso se di colpo fosse diventata anziana, arida e sterile come loro. Certo, l'ultimo problema interessava anche lei, ma in merito agli altri due non poteva farci niente. Il caldo e il rumore delle ruote del tram la fecero assopire. Quasi contro la sua volontà scivolò in un sonno agitato in cui rivide l'espressione terro-
rizzata di Ulysses quando, durante la cena, si erano rotte le acque ed erano cominciate le doglie. Aveva pensato si fosse fatta male e aveva praticamente picchiato violentemente la cameriera perché andasse a chiamare il giovane medico, il dottor Vincent, poi per Claudia il travaglio era cominciato seriamente, ore di spasimi alla schiena che nessuna pila di cuscini poteva alleviare. Claudia aveva chiuso gli occhi e tentato di moderare i tremiti pensando al bambino che sarebbe nato per quello sforzo, perciò fino alla fine fu più la fatica che il dolore. Ulysses, pallido e ansioso, l'aveva coraggiosamente tenuta per mano finché era intervenuto il bel dottor Vincent per assumere il controllo del parto, dicendole che non aveva ancora molto da soffrire e sollecitandola a conservare le proprie energie; poi aveva ordinato all'infermiera di portare delle compresse di garza per la testa e ghiaccio tritato per lenire il bruciore della gola. Era poi venuto il momento, e Claudia ricordava tutto con chiarezza, di aver sorriso e che il cuore sembrava scoppiarle nello sforzo finale di spingere per far venire fuori. Il bambino. Lei osservava il viso del dottore, mentre questi con le dita guidava la testa del bimbo e imprimeva alle sue spalle una lieve torsione per farlo uscire dal corpo di Claudia. Era intento, concentrato, con un'espressione di forza e sicurezza sul volto fino al momento in cui la sua padronanza improvvisamente crollò e Vincent apparve spaventato come il suo vecchio, grasso marito. Claudia diede la spinta definitiva e sentì l'euforia e il sollievo della nascita, vide per un istante la bimba nelle mani di Vincent e la fuggevole immagine dei capelli scuri e umidi. «Oh, fatemela tenere, fatemela...» Ma Vincent aveva fatto un secco cenno di diniego e, dopo avere reciso il cordone ombelicale, aveva avvolto la bambina in un telo affidandola all'infermiera con una breve raccomandazione che Claudia non era riuscita a sentire. «Perché non la posso vedere?» aveva urlato. «Adesso deve riposare. Ora le darò una polverina che l'aiuterà a dormire. Dopo tornerò a parlarle.» Claudia si dibatté, scalciò, e urlò finché Vincent non versò un po' d'etere in un fazzoletto che le applicò sulla bocca, una sensazione che non avrebbe mai più dimenticato; era stato come affondare, allontanarsi vertiginosamente dalla sua bimba, le manine tese verso di lei nel vano tentativo di trattenerla con un grido che risuonava come il sibilo del vento, l'ultima folata di una bufera d'estate, fredda, vibrante e umida.
Non aveva mai più rivisto la sua bambina. Claudia aveva dormito per un giorno e una notte e, quando si era svegliata, nella sua stanza c'era il dottor Vincent, sgomento per la responsabilità di doverle dire che sua figlia era nata morta e che non poteva rischiare di rimanere incinta un'altra volta in quanto l'incompatibilità fra il suo sangue e quello del nascituro lo avrebbe nuovamente ucciso mentre era ancora nell'utero. Al funerale la piccola bara fu sigillata. A Claudia non fu permesso di vedere il corpicino e, quando aveva tentato di alzare il coperchio, la cassa si era mossa ed era così leggera da sembrare vuota. Cosa ne avevano fatto della sua bambina? Le tornò in mente il lamento udito nelle Caverne di Cristallo e con un brivido si rese conto di avere percepito il medesimo suono nell'attimo stesso in cui il medico le aveva posato il tampone imbevuto di etere sul viso. "Ma-mma?" Si rizzò eretta, battendo la testa contro il finestrino del tram. Il conduttore le sorrise: «Signora, siamo al capolinea». «Capolinea...» Si stropicciò gli occhi con i polpastrelli. «Oh, santo cielo. Ho saltato la mia fermata, dove siamo?» «All'Electric Park, signora. Terminale Nord. Ripartirò fra otto minuti, se vuole tornare indietro.» «No, no grazie. Farò due passi.» «Comunque circoliamo fino all'ora di chiusura del parco, fino alle dieci e mezzo.» Lo ringraziò ancora e scese dal tram. Benché fosse quasi l'ora di cena, il parco era affollato di bimbi e di gente in cerca di un po' di svago dopo una lunga giornata di lavoro nelle miniere o nelle fabbriche. Infatti, sebbene l'Electric Park fosse costantemente bersaglio di feroci sermoni da parte di tutti i pastori di Corinth, era più popolare delle chiese, grazie al Luna Park che comprendeva un giro nel Washtub - "l'attrazione più fantastica di tutto il Missouri!" -, la bella Grotta delle Rose e, più famosa di tutto, la Torre Elettrica, un tributo alle miniere di zinco, rame e piombo che avevano reso possibile l'accumulo dell'energia elettrica in batteria. La torre era alta sessanta metri, aveva oltre ottantamila lampadine Mazda che, quando splendevano nel crepuscolo, diffondevano una luce che poteva essere vista da settanta chilometri di distanza, e comunque anche durante il giorno si presentava come una struttura impressionante. Claudia la vedeva per la prima volta; infatti suo marito aveva affermato che l'Electric Park era frequentato dai ceti più bassi di Corinth e si era rifiutato di accompagnarla.
La folla comunque la fece sentire meglio; la gente appariva lieta, e dalle giostre arrivavano musiche allegre, e sentiva l'odore del popcorn e delle salsicce. Claudia osservò una giovane coppia che spingeva una carrozzina e, benché questo la rattristasse, li guardò con tenerezza. Vide l'entrata della Grotta delle Rose e si affrettò in quella direzione perché il bambino si era messo a piangere ricordandole il suo sogno angoscioso e i suoni che aveva sentito nella caverna. "Vorrei essere più forte" pensò con disperazione, scossa rendendosi conto di come l'equilibrio che un mese prima pensava di avere raggiunto stesse rapidamente disintegrandosi. «Signora Fenster, è proprio lei?» Claudia si girò e con sgomento riconobbe il dottor Vincent, che le sorrideva affabilmente, bellissimo nell'abito bianco e la paglietta. Lei gli sorrise più coraggiosamente che poté. «Ha un aspetto magnifico! È sola?» e sbirciò al di là delle sue spalle in cerca di suo marito. Quella tragica notte fra loro due c'era stata una scena penosa, e Vincent non gradiva la prospettiva d'incontrare di nuovo Ulysses Fenster. Lei lo tranquillizzò. «Temo di essermi addormentata sul tram e di essere arrivata qui per caso.» «Mi colpisce molto rivederla, signora Fenster. Avevo intenzione di venire a farle visita ma suo marito... era contrario all'eventualità che, professionalmente, la rivedessi ancora.» Il viso di lei si rannuvolò, al ricordo del suo sogno. Riusciva quasi a sentire l'odore dell'etere. «Forse mio marito aveva bisogno di attribuire a qualcuno la responsabilità di quanto è successo, dottore, e riuscendo in questo modo a farsene una ragione.» Vincent annuì. Cominciarono a passeggiare ed entrarono nella grotta. La fioritura non era intensa come all'inizio della stagione, ma c'erano tanti colori e un profumo fragrante. «E lei, signora Fenster, ha dato la colpa a qualcuno?» «Forse a me stessa, sembrava la cosa più facile da fare.» «Signora Fenster, vorrei che sapesse che, se come medico non fossi stato allontanato da casa sua, le avrei suggerito di cercare di avere un altro bambino. Ritengo che le possibilità di portare a termine un'altra gravidanza siano buone.» «Si affida al suo intuito?» «Alle statistiche, signora. A volte le anomalie del sangue nelle famiglie seguono un modello matematico. Non sappiamo perché, ma può darsi che
lei e suo marito siate stati semplicemente sfortunati.» «Sì, ma per cortesia non parliamone più. Mi creda, ho quasi dimenticato questo dolore.» «Certo, mi scusi.» D'un tratto, lei gli chiese: «Dottor Vincent, la bimba era ben formata? So che aveva i capelli scuri, ma aveva gli occhi come i miei? Monica» era la prima volta che pronunciava il nome pensato per il battesimo «somigliava a uno dei genitori?» «Signora Fenster, la prego...» «No!» Si sforzò di mantenere ferma la voce. «Vede dottore, quando lei mi... aiutò ad addormentarmi, per un istante pensai di avere sentito qualcosa, un vagito, uno strillo provenire dall'altra camera in cui l'avevate portata, e io volevo andarci!» «È stato meglio che non l'abbia fatto. Aveva già sofferto abbastanza.» «Ma perché? Dottore, avevo il diritto di vedere quella bambina! Oggi non sarei tanto angosciata se avessi potuto almeno vedere quel visino... vederlo riposare in pace.» Vincent abbassò il capo. «È così angosciata, signora Fenster?» Le parole di Vincent gli vennero alle labbra spontanee, con una urgenza e un impeto che sgomentarono sia Claudia che lo stupito medico. «Ho sentito la mia bambina che mi chiamava! Oh, Signore, possibile che io debba credere a una cosa del genere? Ma, a tarda notte, ho sentito la voce di un bimbo arrivare con il vento e so che appartiene a Monica. Mi vuole, ha bisogno di sapere che la penso e che mi preoccupo ancora per lei e comincio a credere che sia in qualche luogo vicino, appena oltre un velo che potrei lacerare con le mani, se mai riuscirò a sopravvivere. Mi sveglio con la certezza che Monica sia ancora viva!» Le lacrime le impedirono di proseguire. Vincent mormorò qualche parola di conforto e le pose un braccio sulle spalle per calmarla e farle coraggio. Claudia sbatté gli occhi, sforzandosi di sorridere. «Sicuramente lei pensa che io sia pazza!» «Per niente» le rispose lui calmissimo. «Camminiamo ancora un po'.» Passeggiarono lungo un sentiero punteggiato da cespugli di peonie bianche. «C'è una spiegazione per quello che le sta accadendo, ed è perfettamente naturale. Lei ha sofferto di un grave turbamento emotivo. La sua mente, nel cercare di rimuovere quanto l'ha ferita e prevenire l'eventuale ripetersi di un fatto analogo, crea l'illusione che in qualche luogo la bambina viva ancora. Le dà una speranza e le impedisce di soccombere a una
depressione che altrimenti devasterebbe il suo spirito.» «Ma sicuramente le allucinazioni sono indice di qualcosa che sta alterando il mio equilibrio.» «Forse» Vincent sorrise. «Non sono certo un esperto, ma ho letto i casi descritti da un uomo di Vienna, un certo dottor Freud, che ha individuato proprio nei ricordi, in apparenza dimenticati da molti anni, le radici delle malattie della psiche dei suoi pazienti. Definisce questa vita intima segreta "inconscio" e afferma che è una forza potente che agisce in tutti noi. Come posso spiegarglielo? Se uno si taglia un dito, al più presto l'emorragia si arresta anche se non si fa nulla per tamponare la ferita. Sono convinto che la mente sia capace della medesima azione protettiva. Lei sta sperimentando l'emorragia, nel suo caso le allucinazioni, ma fra poco cesserà. Tutto quello che deve fare è ammettere la sua esperienza per ciò che è effettivamente stata e accettare la realtà. Presto gli incubi finiranno.» Claudia ripensò ai suoni sentiti nella caverna, ma com'era possibile che non fossero veri? Fu terrorizzata dal pensiero di non potere più discernere fra il mondo reale e i fantasmi generati in segreto dalla sua mente. «Oh, guardi!» disse Vincent appena riemersero dalla grotta lungo il perimetro orientale del parco dei divertimenti. «Fra poco accenderanno le luci della torre.» Insieme osservarono come una sfera rossa luminosa saliva lentamente verso la cima della struttura. In quel momento ogni attività nel parco fu sospesa perché tutti attendevano che le migliaia di lampadine si accendessero. La sfera progressivamente salì più in alto e Claudia si sentì afferrare da una crescente eccitazione. Ecco la luce, creata dagli uomini per sostituire il tramonto del sole... «Abbiamo sconfitto l'oscurità» sentì che diceva il dottore. Senza rendersene conto lei strinse di più il suo braccio, gli si fece più vicina e reclinò il capo sulla sua spalla. Per un attimo riuscì a percepire la forza in lui che saliva dal suolo sotto i loro piedi, la medesima forza che poteva, in pochi istanti, mutare una semplice incastellatura di legno in una vampata di luce con un effetto quasi divino. I suoi timori svanirono. Il dottor Vincent aveva ragione; era stata davvero una sciocca e adesso lo sapeva, adesso non avrebbe sentito più quei lamenti, adesso avrebbe potuto riprendere il suo quotidiano impegno di vivere con la gente di Corinth e aiutare suo marito a raggiungere quella posizione che lui desiderava così tanto. Poi le arrivò agli orecchi il suono di una voce, tale che se fosse stato appena un po' più forte avrebbe fatto crollare la torre. «Signora Fenster!» Sulle prime Claudia non capì chi fosse quella donna dal viso tormentato in
una sobria uniforme grigia, finché non ricordò che la signora Ash collaborava saltuariamente per la Lega antialcolica nel parco. Fissò Claudia freddamente e nei suoi occhi si leggeva odio e anche trionfo. «Dottor Vincent, pensavo che lei avesse più buonsenso.» «È stato un incontro casuale, niente di più.» «Mi chiedo se il marito della signora la penserebbe allo stesso modo. Claudia Fenster, mi dispiace averla incontrata, stavo cominciando a credere che lei dopotutto fosse una giovane ammodo.» Quando la signora Ash bruscamente voltò loro le spalle e sparì fra la folla, Claudia ebbe un tuffo al cuore. Vincent fece un passo in avanti per fermarla ma fu attorniato dalla gente che allungava il collo per cercare di vedere meglio la torre, impedendogli così di raggiungere la Ash. Un attimo dopo si trovarono avvolti nell'improvviso, terrificante splendore di ottantamila lampade Mazda e, nell'eccitato brusio della folla, Claudia ebbe la sensazione che Vincent, prima di andarsene, dicesse: «E ora l'oscurità deve essere placata». Due sere più tardi, più o meno alla stessa ora, Claudia e suo marito si stavano avviando verso l'"Hotel Connor" nel calesse che Ulysses aveva affittato in occasione del Ballo del Minatore. Era furioso, le sue braccia tremavano tanto che stentava a controllare le redini. «Mi hai rovinato!» urlò, non curandosi del fatto che la voce rimbombasse lungo Main Street. «È già abbastanza brutto che ti abbiano vista nel parco con un uomo che non è tuo marito, ma poi andare a casa della Ash senza essere invitata a fare quella scenata e urlare come una sguattera!» «Quella donna ci odia! Come fai, in nome del cielo, a desiderare di ottenere la sua benevolenza, che lei non ci concederà mai? Dio mi è testimone che le avrei strappato i capelli dalla testa se non fosse intervenuto il suo cocchiere a salvarla! In un giorno e mezzo ha rovinato la mia reputazione e ti ha fatto fare la figura di uno stupido, e tu la difendi ancora...» «Sta' zitta!» tuonò lui. «Non hai mantenuto la promessa che mi avevi fatto. Non mi hai aiutato a raggiungere quello che consideravo un traguardo. Sai cosa mi ha detto Ash questo pomeriggio? "Spiacente, vecchio mio, se dipendesse da me aggiusteremmo tutto in un attimo, ma Olivia è convinta che tua moglie sia assolutamente inadatta come amicizia e, be', cosa posso dirti? Vedremo l'anno prossimo!" L'anno prossimo! Il tuo cervello bacato mi è costato almeno diecimila dollari di affari futuri, e forse molto di più.» «Io non sono bacata. Non lo sono!»
«Avrei una mezza idea di rimandarti da tuo padre, se non temessi che la vergogna potrebbe ucciderlo. Meriteresti di essere una zitella!» «Ulysses...» «Stammi lontano, dannazione!» «Torniamo a casa, per piacere. Non dobbiamo torturarci così, non capisci? Non sono io, e neppure tu, a sbagliare; sono loro che non sanno come comportarsi! Questa è la cerchia della signora Ash ed è lei che detta le regole. Torniamo a Casa, Ulysses, posso accontentarti, se mi darai ancora un'opportunità. Era desiderio di mio padre e ho sempre cercato di...» Senza preavviso la schiaffeggiò con il dorso della mano. «Non hai mai cercato un bel niente! Hai fatto ammalare tuo padre con il tuo comportamento ostinato e ora cerchi di fare lo stesso con me. Non ti sarà così facile, ci puoi scommettere! Scenderai con me quella scalinata e, quanto tutti ti guarderanno, sorriderai. Sorriderai al mondo intero!» Frustò il cavallo con violenza fino a quando arrivarono all'hotel. Claudia si asciugò gli occhi e tentò disperatamente di ricomporsi. Era stata una pazza ad andare dalla signora Ash il giorno prima, ma l'aveva fatto solo per spiegarle il modo in cui aveva incontrato il dottor Vincent all'Electric Park e per tentare comunque di raggiungere un'intesa con la più anziana signora. Olivia Ash però aveva respinto ogni sua spiegazione, anzi, aveva malignamente rimproverato Claudia dicendo che si piangeva addosso e che si considerava la migliore di tutte semplicemente perché aveva perso la sua bambina. «Anch'io ho perso un figlio, così come Elly Corporan e la signora Blakey. Abbiamo tutte adempiuto al sacrificio richiesto ma lei, con tutto il suo piagnucolare e gemere, è interessata solo a metterci in cattiva luce. Che immensa tragedia ha sofferto, mia povera, povera cara...» Fu in quel momento che la gioia che traspariva dai suoi occhi aveva fatto esplodere Claudia, qualcosa in lei, giunto al limite della sopportazione, si era spezzato, spingendola a lanciarsi contro l'altra donna con l'intenzione di strozzarla. Soltanto il rapido intervento di Jimbo aveva evitato la lotta a calci e graffi. «Lei non sa quale sia il vero dolore, carina» aveva strillato la Ash «ma lo saprà, presto lo saprà!» Adesso Ulysses, con le mascelle contratte, stava rigido a fianco del calesse, il braccio teso, pronto a scortarla nella sala da ballo. Lei gli rivolse un'ultima supplica silenziosa, ma lui rimase freddo e inflessibile. Claudia era certa che, se si fosse rifiutata di seguirlo, lui l'avrebbe trascinata dentro
a forza. Entrarono nell'atrio adorno di tappeti, salirono una breve scala fino a un magazzino e poi attraversarono una porta a doppi battenti che dava sulla grandiosa scalinata di legno di palissandro intagliato che portava alla bella sala da ballo. Era affollata dalle signore e dai gentiluomini di Corinth, che ballavano al ritmo dei valzer viennesi in voga. L'orchestra era stata ingaggiata a St. Louis, da dove arrivavano anche certi ospiti, come da Columbia, Springfield e persino dalla città delle mandrie su a nord, Kansas City. Claudia sentì il cuore che accelerava i battiti. La luce era soffusa e c'era talmente tanta gente che forse sarebbe passata inosservata, ma trasalì vedendo svanire tale fortuna. La signora Ash accoglieva gli ospiti proprio ai piedi della scalinata. Ulysses la tirò più vicina. «Perdio, la saluterai gentilmente!» Claudia si raccolse la gonna e scesero la scalinata. Gli occhi della Ash avevano il colore e la lucentezza delle piume del corvo, ma sorrideva! «Claudia, mia cara! Com'è graziosa!» Le strinse le spalle con le mani gelide e la baciò sulla bocca con le labbra secche come carta. «Dev'essere orgoglioso di lei, Ulysses!» Ulysses era chiaramente stupefatto. «Come? Sì, certo. È la donna più bella, escluse le presenti, s'intende.» La signora Ash scoppiò in un riso controllato. «Entrate, entrate! Ci vedremo più tardi.» «Ecco!» sussurrò Ulysses, mentre attraversavano la sala. «È una donna veramente ragionevole e una cristiana migliore di te, che ti offre amicizia nonostante il tuo comportamento imperdonabile. Vuoi ballare?» «No.» «Laggiù c'è Titus Blakey. Forse potrò riparare a un po' del danno che hai provocato. Cerca di apparire allegra, perdio!» Claudia lo guardò allontanarsi e poi trovò un posto vicino alle porte della balconata. Una volta seduta si accorse che l'orchestra era leggermente fuori tempo e che gli ospiti, che dall'alto della scalinata erano apparsi eleganti, sembravano un po' rozzi, con i vestiti e le giacche a coda di rondine stazzonate, forse per essere rimaste appese tutto l'anno nell'armadio in attesa di quella occasione. Dopotutto quel posto non era Parigi, e nemmeno New York o Chicago, ma una cittadina ai confini dell'Arkansas, del Kansas e della Riserva indiana. Lì la gente cercava di imitare i comportamenti del bel mondo. Stavano recitando, quasi come se i movimenti e la musica facessero parte di un rituale di cui nessuno comprendeva, o voleva capire, il senso. Cercò Ulysses con lo sguardo, senza scorgerlo. Si sentiva debole e la
musica l'infastidiva. Così si alzò e uscì sulla balconata in cerca di un po' d'aria fresca. Le porte si chiusero dietro di lei, isolandola in un gradito silenzio. Poco dopo, in lontananza, percepì il suono di un organo a canne e un vocio, che la sconcertò e spaventò finché non si ricordò del Washtub all'Electric Park. La torre ardeva brillante come il magnesio, grandiosa anche alla distanza di dieci chilometri e improvvisamente Claudia desiderò essere là sotto, a partecipare all'allegria della gente venuta per dimenticare se stessa nella luce, nel colore e nei suoni. Era molto meglio dello spettacolo nella sala da ballo. Claudia si portò la mano al viso avvertendo ancora il punto freddo dove Olivia Ash l'aveva baciata. "Non sa quale sia il vero dolore, carina!" Poi si alzò il vento e lei sentì di nuovo il gemito. Non poteva confondersi perché era malinconico, freddo e sembrava arrivare dal cuore della città buia, fra la balconata e la torre a nord. Trattenne il respiro, pregando disperatamente che quel suono fosse solo un'altra allucinazione, ma lo sentì ancora più forte, e la scosse fin nel profondo dell'anima. Stava quasi per svenire, ma poi la rabbia spazzò via la paura. «Perché?» urlò, stringendo la ringhiera del balcone. «Perché devo soffrire così?» Ma non ci fu risposta, solo il pianto di un bambino nel caldo vento della notte. Claudia guardò fuori e vide le chiome delle querce che nascondevano l'entrata delle Caverne di Cristallo a non più di cento metri da dove si trovava lei adesso. Il dottor Vincent le aveva detto fiduciosamente che le ferite che erano state aperte nella sua anima si sarebbero rimarginate. Ora Claudia si rese conto che stava accadendo qualcosa di molto più serio, che doveva agire o il bimbo, nella sua mente, avrebbe continuato a vivere, distruggendo ciò che era rimasto della sua vita. Guardò velocemente la sala da ballo. Non c'era traccia di Ulysses, della signora Ash o di qualcuno che Claudia conoscesse. Davanti alle porte del balcone c'era un lungo tavolo su cui erano esposti degli attrezzi da minatore scintillanti. Claudia afferrò una lampada a petrolio d'ottone e la scosse per sentire se era piena, poi corse fuori e scese gli scalini sul retro dell'hotel, cercando di rassicurare se stessa mentre si affrettava verso le caverne. "Sto facendo una cosa razionale... per provare a me stessa che questa cosa, questa voce... questa bambina non può, non può esistere! Prima di uscire dal mio grembo Monica era già morta!" Raggiunse il boschetto, si avvicinò alla scatola di derivazione per accendere le luci della caverna. Qualcuno le afferrò il braccio e lei urlò, facendo
cadere la lanterna. La boccia di vetro si ruppe con un suono simile a quello di una campanella. «Signora Fenster.» Nell'oscurità si materializzò la faccia nera e impassibile di Jimbo. «J-Jimbo? Cosa fai qui?» La rabbia tornò. «Lasciami andare!» «Signora Fenster, lei non vuole andare laggiù.» Nel chiarore lunare i suoi occhi luccicavano, ma dalla lunga faccia rugosa non traspariva ostilità, ma solo tristezza. Claudia si riprese. «Devo... andarci. Penso di avere perso qualcosa di valore mercoledì scorso. Una spilla. Ne hai trovata una?» «No, signora.» «Bene, allora devo andare a...» S'interruppe, perché il pianto arrivò nitido e forte non una ma tre volte, echeggiando fra le pareti della caverna. Adesso non c'erano veramente più dubbi perché Jimbo era chiaramente stupito. Gentilmente, Claudia liberò il braccio dalla sua presa. «Il tuo nome di battesimo è James?» «Sì.» «E il tuo cognome?» «Sono James Woods, signora Fenster, e le chiedo di non scendere. Ha perso la sua bambina una volta, non cambi le cose.» «Scendo.» La voce era terribilmente calma. «Per favore, aspettami qui.» James Woods si strinse nelle spalle. Claudia scese lungo il sentiero che portava dentro le viscere della terra, rallentando per mettersi bene in ascolto quando raggiunse il tavolo da gioco. C'era un mormorio, forse solo il soffiare del vento nella caverna... poi vide che erano state rimosse le assi che sbarravano il passaggio che portava all'Inferno Indiano. Silenziosamente, maledicendo lo strascico dell'abito lungo e rimpiangendo di avere rotto la lanterna, Claudia oltrepassò l'entrata e si inoltrò in un passaggio tanto buio da darle l'impressione di essere inghiottita dalle tenebre. In quel momento, per la terza volta quella notte, udì il grido, e una luce balenò verso di lei. Claudia si raccolse la gonna e si mise a correre, senza curarsi di dove fosse l'orlo del precipizio né che sarebbe potuta cadere nell'abisso. Una corrente arrivò dalle profondità, umida e odorosa di terra; allora si rese conto che stava scendendo attraverso una strettoia in uno spazio più largo, dove si sentiva il rumore dell'acqua che sgocciolava dalle pareti e, non appena superò un gruppo di rocce nere, vide che la stavano aspettando. Uomini e donne alzarono le torce la cui luce in quella stretta gola stenta-
va a diffondersi, uomini e donne che Claudia conosceva. C'era il dottor Vincent, con un'ombra di sorriso sul volto, Elly Corporan e la signora Burgess. Nell'oscurità, appena fuori da questo cerchio di persone, vide Philip Ash e Ulysses, che arrossì e distolse lo sguardo da lei. Al centro scorse Olivia Ash che teneva in braccio una bellissima bambina di circa un anno, con la pelle di porcellana, i capelli fini come la seta e biondi come l'oro, e quando gli occhi seri e grandi come quelli di una cerbiatta si posarono su Claudia, e riconoscendola scintillarono, si sentì strillare: «Maaammaaa!». «Venga, cara» le disse la signora Ash con la voce stridula che echeggiava nell'oscurità. «La bambina vuole lei, ed è arrivato il momento.» Claudia corse in avanti spingendosi attraverso il cerchio di persone e afferrò la bimba, strappandola alle risa della Ash. «È stata allevata con cura anche se non ha mai visto il sole e mai lo vedrà. Jimbo è stato per lei come una madre e l'ha preparata bene a questo fine.» «Monica?» La piccina le si strinse addosso e lei avvertì il battito del cuoricino. La sua bocca formulò la domanda «Perché?». «Noi viviamo con ciò che prendiamo dal sottosuolo, che in cambio vuole qualcosa da noi. lo ho già pagato il debito, e così ha fatto Ellys. Ognuno di noi, che vive del sottosuolo, deve dare qualcosa in cambio. Lei deve donare la bimba. Quando l'avrà fatto sarà di nuovo feconda, e avrà più figli di quanti ne desideri.» «No! Ulysses!» ma Claudia non riusciva a vederlo, abbagliata dalla luce delle torce. «Non rinuncerò a lei di nuovo!» «Lei lo farà o precipiterà con lei. Non sarebbe la prima volta. Mi dia la bimba.» «No.» «Dottore, forse può rendere la decisione più semplice.» Claudia vide Vincent uscire dal cerchio con in mano un tampone di garza e avvertì l'odore acuto dell'etere. "Non di nuovo! Mio Dio, non di nuovo!" La bimba si strinse a lei mentre il gruppo circondava Claudia, spingendola verso l'abisso. Vincent le sorrideva, Olivia Ash sghignazzava sempre più forte. Teneva Monica per le braccia, poi, in un'esplosione di energia disperata, la fece roteare come un sacco di grano. I piedini presero in pieno petto Olivia Ash, mandandola boccheggiante contro il dottor Vincent. Monica urlava per il terrore.
«Pazza!» strillò la Ash. «Ci rovinerà tutti! Qualcuno la prenda!» «No, questa è la mia bambina, non capisce? Mia, mia! Se la vuole, dovrà strapparmela! Capito?» Si spostò in avanti, in direzione della signora Ash, agitando la bambina come se fosse una bambola. «La prenda! La prenda!» La signora Ash allungò le braccia e Claudia, con una mossa improvvisa, per la seconda volta usò la bimba singhiozzante come un'arma. Trattenendola per il vestitino a pugni serrati, caricò sulle proprie gambe con tutte le sue forze lanciandosi in avanti, spingendola contro la Ash e tirandosi indietro proprio sull'orlo della voragine. La signora Ash urlò e precipitò. L'urlo continuò per lungo, lungo tempo, e mentre perdurava Claudia si voltò e corse via prima che gli altri potessero riaversi dallo shock e inseguirla. Corse finché le sembrò che le scoppiassero i polmoni, poi vide le stelle e udì il vento stormire fra le querce. James Woods la bloccò. «Signora Fenster, non posso lasciarla andare. Quella bambina non le appartiene più.» «L'hai nutrita, cresciuta, maledizione a te! Non capisci che vuole vivere? Eh, non lo capisci? Lasciami salire in carrozza, ti prego!» «La signora Ash...» «È morta. Devi capirmi, l'ho uccisa per quello che ci ha fatto. Dio Onnipotente, arrivano!» James Woods si scostò. Urla di terrore e di rabbia giungevano dall'imboccatura della caverna. Monica piagnucolava, sbattendo le palpebre dolorosamente, come se anche la luce delle stelle fosse troppo forte per lei. Poi, improvvisamente, James si voltò e fece scattare l'interruttore delle luci della caverna, spegnendole. Tutti e due ascoltarono gli urli. «Hanno avuto quello che volevano da lei. Lei adesso riavrà quello che voleva.» Detto questo, aiutò madre e figlia a salire sulla carrozza. 1
Gioco di parole intraducibile in italiano fra "clerk" nel significato di "impiegato" e "clerk" in quello di "uomo di chiesa". (N.d.T.) Russell Kirk L'INFERNO DI BALGRUMMO Quando si incontra il termine "racconto dell'orrore" si pensa di solito agli elementi gotici, quali palazzi oscuri e cadenti in luoghi remoti, l'influsso del soprannaturale che aleggia nei corridoi, la negazione del razio-
nale e il trionfo dell'intuizione e della superstizione, gli oscuri segreti celati in un mondo che pensavamo di conoscere. Russell Kirk, forse più di ogni altro scrittore moderno, cattura e adatta gli elementi gotici tradizionali alla sua fantasia per creare, usando le sue stesse parole, «racconti che appartengono più all'oscurità esteriore che non alla zona del crepuscolo». La dimora di Balgrummo è veramente un luogo oscuro e diabolico. Quando L'inferno di Balgrummo venne pubblicato per la prima volta su «Fantasy & Science Fiction», Russell Kirk osservò che il racconto «nel suo nucleo ha più di un pizzico di autenticità e che la sua ambientazione è genuina». Russell Kirk descrive luoghi davvero spettrali. Appena Horgan superò il muro di recinzione, Jock Jamieson sollevò lo sguardo, grugnì e corse verso la casetta del custode per prendere il suo fucile da caccia, ma Horgan con le sue lunghe gambe riuscì a colpirlo violentemente proprio quando Jamieson stava per raggiungere la soglia dell'abitazione. Adesso Horgan aveva a disposizione la maggior parte della notte per rubare i quadri della dimora di Balgrummo. Prima che Jock potesse chiudere i cancelli di ferro arrugginiti, Nan Stennis, nell'improbabile ruolo della nuova infermiera notturna di lord Balgrummo, aveva prudentemente parcheggiato la propria auto al di là del muro di cinta. Sotto la pioggia Jock non poteva assolutamente avere visto il volto di Nan e ora Horgan si tolse dal volto la calza di seta di Nan. Con il suo aiuto legò e imbavagliò Jock, il vecchio matto che respirava affannosamente, lo trascinò alla dispensa della casetta e ve lo rinchiuse dentro a chiave. L'infermiera diurna non sarebbe arrivata a soccorrerlo che alle sette del mattino. Non rimaneva alcun ostacolo fra Horgan e quei dipinti, se non Alexander Fillan Inchburn, decimo barone di Balgrummo, incredibilmente vecchio, incredibilmente depravato e incredibilmente decaduto in quella dimora che non abbandonava da mezzo secolo. Sotto la pioggerella notturna di febbraio, Nan rabbrividì, forse tremò. Sebbene non potesse esserci nessuno nel raggio di quattrocento metri che potesse sentirli, gli bisbigliò: «Rafe, vuoi davvero farlo senza di me? Caro, non sopporto l'idea che tu vada in quel posto da solo». Rafe Horgan, il competente, la baciò con competenza. Nan, che aveva abbandonato il marito per lui, gli era stata di grande utilità. Intendeva veramente darle appuntamento al "Mayfair" per la fine del mese e portarla alle Canarie con sé: per allora doveva avere ormai già venduto il ritratto di Romney per una forte somma a un collezionista svizzero precedentemente
contattato tramite un agente di Leeds, il che avrebbe permesso a Horgan di prendere tempo per disporre degli altri quadri di Balgrummo. Nan avrebbe anche potuto dargli una mano all'interno della residenza di Balgrummo, ma era importante predisporre un alibi per lei. Si sarebbero scambiati le auto, e poi lei sarebbe andata a Edimburgo, dove si sarebbe fatta vedere in un ristorante e, a mezzanotte, avrebbe preso il treno per King's Cross. Il problema principale in operazioni di quel tipo era semplicemente che, coinvolgendo troppe persone, c'era sempre qualcuno che era portato a vantarsene. Ma Nan era riservata, e Horgan aveva trascorso dei mesi verificando i suoi piani. L'unico vero rischio era che qualcuno potesse scoprire che Horgan non era il suo vero nome, però per questo sarebbe stata necessaria un'indagine molto approfondita. Chi mai avrebbe pensato di indagare sul passato del rispettabile Rafe Horgan, un gentiluomo sudafricano agiato che viveva in un grazioso appartamento vicino a Charlotte Square? Non certo la dottoressa Euphemia Inchburn, una grigia zitella che amava il suo sorriso e la sua conversazione; e tantomeno T.M. Gillespie, avvocato patrocinante, presidente della Fondazione lord Balgrummo. Con loro era stato prudente e paziente, aveva fatto domande sulla residenza Balgrummo solo casualmente e parlandone da antiquario. Inoltre poteva sembrare capace di portare addosso un manganello? Certamente no, la polizia sarebbe corsa dietro a tutte le bande del quartiere di Fossie, altrettanto interessate alla proprietà Balgrummo. Il dispiego di fascino e di denaro da parte di Horgan sarebbe stato ripagato più di cinquemila volte. Il grande ostacolo era stata la doppietta di Jock, e ora anche quello era stato superato. «Sua Signoria è costretto a letto» disse a Nan, baciandola di nuovo «e dicono che sia anche cieco. Bellezza, finirò per le tre. Se pensi che sia necessario, telefonami domani all'ora del tè; ma, mi raccomando Nan, parla solo del tempo. Vedrai, Las Palmas ti piacerà.» Restò in piedi vicino al cancello aperto, guardando Nan salire sull'auto con la quale era arrivato e che aveva parcheggiato all'ombra della derelitta fabbrica di linoleum, che si ergeva vicinissima al fosso a nord della residenza di Balgrummo. Quando la macchina scomparve, fece ripartire l'ingombrante Ford nera di Nan, spostandola quel tanto che gli permise di chiudere i cancelli, che sprangò con il grosso lucchetto di ottone che Jock aveva tolto per far entrare "l'infermiera" Nan. Poi, lentamente, e solo con le luci di posizione accese, risalì il viale - una giungla di rododendri che premeva da ambo i lati - che conduceva alla facciata settecentesca della re-
sidenza di Balgrummo. "Lo zio Alec e la sua casa hanno di tutto" aveva detto una volta la dottoressa Effie Inchburn "marciume secco e umido, tarli e scarafaggi che vegliano il letto di un moribondo." Inoltre, tra i pochi che ancora ricordavano lord Balgrummo e la sua residenza, l'accoppiata aveva una reputazione ancora peggiore. Era proprio un dovere sottrarre i quadri da quella casa ripugnante e consegnarli nelle mani di collezionisti che, conservandoli privatamente, se ne sarebbero presa una cura certamente maggiore. Scivolando fuori dall'auto con la cassetta degli attrezzi, Rafe Horgan si arrestò davanti alla porta scura della residenza di Balgrummo. Dicevano che la facciata fosse opera di sir William Bruce, sebbene parte della casa fosse ancor più vecchia. Di notte tutto sembrava abbastanza solido, nonostante le travi marce e l'uomo che vi risiedeva all'interno. Horgan aveva preso nella casetta del custode il grosso mazzo di chiavi di Jamieson, ma la massiccia porta principale era già leggermente socchiusa. La luce non filtrava da nessuna parte. Prima di entrare, Horgan diede un'occhiata compiaciuta alla facciata in pietra squadrata di quella che T.M. Gillespie, quel sarcastico allocco di avvocato, chiamava "l'inferno di Balgrummo". Cavandosela abbastanza bene grazie al proprio cervello, Horgan si era imbattuto nella residenza di Balgrummo per un colpo di fortuna meno di un mese dopo la decisione di stabilirsi a Edimburgo. Con un'auto con targa falsa un giorno si era diretto verso il quartiere Fossie in cerca di un certo tipaccio che avrebbe potuto fargli un lavoretto. Questa zona, edificata sette anni prima ma già con l'aria di un bassofondo, era composta dalla solita fila ricurva di grigie casette popolari. Horgan aveva sbagliato a svoltare e si era ritrovato a guidare lungo una stradicciola trascurata e deserta. Alla sua destra, dietro un brutto muro di mattoni, c'era una derelitta stazione di smistamento per vagoni-merci dichiarati in sovrannumero dal dottor Beeching della British Railways. Alla sua sinistra aveva superato l'immensa carcassa di una fabbrica di linoleum abbandonata, vuota da molti anni, con tutti i vetri delle finestre che erano stati rotti dai vivaci bambinetti del rione. Oltre la fabbrica di linoleum era capitato vicino a un alto muro di vecchie pietre, sulla cima del quale, per tutta la lunghezza, c'era una fila di cocci di vetro conficcati nel cemento. Dietro al muro aveva scorto rami e tronchi di vischio e faggi, una vera foresta nel bel mezzo del quartiere. Improvvisamente si era stagliato un antico portone a volta, ai cui lati faceva-
no la guardia le effigi di bestie di pietra quasi a grandezza naturale, risalenti al XVII secolo: un leone e un grifone, ma così rovinati e deturpati da giovani vandali da essere quasi irriconoscibili. Al grifone era stata persino troncata la testa. Per quel che Horgan aveva visto con un'occhiata, aveva ritenuto si trattasse del parco deserto di qualche casa padronale demolita o caduta in rovina. Aveva continuato a guidare fino alla fine della strada sperando di poter girare e tornare al quartiere, ma si era trovato in un vicolo cieco, chiuso da un muro di mattoni oltre il quale il ruscello Fettinch scorreva attraverso le paludi. Questo triangolo di boscaglia, racchiuso tra depositi di merci, fabbriche abbandonate e ruscelli inquinati, doveva essere l'ultimo relitto di una dimora di qualche proprietario terriero degli anni passati, inghiottito ma non ancora del tutto digerito dalla periferia della città. Probabilmente lo squallore di quel luogo malsano aveva dissuaso Edimburgo o Midlothian - non era sicuro del territorio entro il quale si trovasse - dal costruire un altro agglomerato di abitazioni popolari sul tipo di Fossie. Dopo aver girato lungo una curva stretta vicino al muro in fondo alla stradicciola, Horgan era tornato lentamente indietro, costeggiando il muraglione sul quale la vegetazione ricadeva dalle pietre. Con sua sorpresa aveva notato una casetta proprio vicino alle sbarre di ferro del cancello, apparentemente abitata in quanto dal camino usciva un filo di fumo a spirale. Oltre quel cancello poteva esserci qualcosa che valesse la pena di prendere? Si era fermato e aveva trovato il cordone di un campanello di ferro che funzionava ancora. Quand'ebbe suonato, un individuo alto, con l'aspetto di un poliziotto a riposo, era emerso dalla casetta e, attraverso il cancello sbarrato, aveva conversato a malincuore con lui, con un marcato accento scozzese. Horgan aveva chiesto delle indicazioni per arrivare a una certa stradina del quartiere e le aveva ottenute. Aveva infine domandato il nome di quel posto. "Villa Balgrummo, signore" era stata la risposta, data corrugando la fronte, sulla difensiva. D'impulso Horgan aveva detto che gli sarebbe piaciuto vedere la casa (di cui aveva dedotto l'esistenza, scorgendo oltre gli alberi abbaini e tetti). "No, no, Sua Signoria non riceve." La frase era stata pronunciata con una certa incredulità per la domanda che era stata posta. Horgan aveva sentito aumentare l'interesse e si era spacciato per una specie di intenditore dell'architettura d'interni del XVII secolo. Dove avrebbe potuto rivolgersi per ottenere il permesso di vedere la casa? Il cu-
stode fece sgarbatamente capire che non sarebbe stato possibile, in quanto era tutto nelle mani della Fondazione lord Balgrummo. L'avvocato e presidente di questa fondazione erano rispettivamente un certo signor T.M. Gillespie, di Reid, e MacIlwraith, Hannover Street. La residenza di Balgrummo era stata quindi aggiunta all'elenco dei vari progetti di Rafe Horgan. Pochi giorni dopo era riuscito a conoscere Gillespie, uno scapolo permanentemente disidratato. All'inizio non aveva parlato della Villa Balgrummo, ma aveva chiacchierato negli uffici di Gillespie a proposito di un'ipotetica signorina Horgan di Glasgow, spacciandola come sua zia, una zitella con grandi mezzi, che stava pensando a una società a conduzione familiare. Dalle informazioni raccolte, il signor Gillespie era un esperto nel progettare e condurre società del genere. Horgan aveva perfino consegnato a Gillespie un assegno in pagamento della consulenza sulla formazione di una ipotizzabile "Janet Horgan S.r.l.". Aveva poi scoperto che Gillespie era un avvocato colto e solitario, con una spiccata predilezione per lo sherry secco. Dopo una bottiglia, Gillespie poteva parlare più liberamente di quanto possa permettersi un avvocato. Cominciarono a cenare insieme abbastanza frequentemente dopo che Horgan apprese casualmente, fingendo disinteresse, che nella residenza rimanevano alcuni quadri preziosi. Man mano che le settimane passavano, di tanto in tanto si univa a loro per il pranzo una vecchia amica di Gillespie, la dottoressa Euphemia Inchburn, nipote di lord Balgrummo, ginecologa a riposo. Horgan aveva tirato fuori tutto il suo charme e la dottoressa divenne molto loquace. Percependo che avrebbe potuto essere veramente un buon affare, Horgan frugò i vecchi cataloghi che avrebbero potuto parlare della residenza di Balgrummo e, quand'ebbe dai suoi nuovi amici accenni sull'iniquità del decimo barone di Balgrummo, spulciò gli articoli dei vecchi giornali. S'intendeva un po' di quadri, come d'altronde di molte altre cose, e consultando i libri e i cataloghi appropriati accertò che sulle pareti cadenti della Villa Balgrummo dovevano esserci ancora appesi alcuni ritratti di famiglia e altri quadri di grande valore, nessuno dei quali veniva esposto al pubblico dal 1913. Gillespie era interessato, e neppure in modo tanto appassionato, solo ai pittori scozzesi; Horgan giudicò imprudente fare troppe domande alla dottoressa Effie Inchburn su questo argomento, per timore che la propria insistenza venisse registrata dalla sua memoria. Si ritenne abbastanza soddisfatto quando scopri che lord Balgrummo, mostro senescente, possedeva un Opie, un Raeburn, uno o due Ramsay, forse perfino tre Wilkies,
un bel Reynolds e un Constable, un bellissimo Romney, un Gainsborough, nonché, forse (fantastica prospettiva), un Hogarth, due piccole tele di William Etty, un intero gruppo di Knellers molto stimati nel passato ma comunque ancora ricercati, un Cranach e un Holbein. L'acquisto speciale del decimo barone, avvenuto nel 1911 circa, era stato un enorme Fuseli, forse sconosciuto ai compilatori dei cataloghi e (a giudicare dalle smorfie della dottoressa) probabilmente osceno. C'erano molti altri quadri, il diavolo sapeva quali. Forse nella biblioteca si potevano trovare dei libri rari, ma Horgan era troppo poco bibliofilo per poterli individuare in fretta. L'argenteria e altre cose del genere erano presumibilmente in una banca - sarebbe stato rischioso indagare. Chiunque, tranne un ingordo, per una notte di lavoro si sarebbe accontentato di quei quadri. L'apatia, e la conseguenza del completo esilio nella casa, avevano portato lord Balgrummo a trascurare il proprio patrimonio. Man mano che passavano i decenni, aveva permesso alla Fondazione di vendere quasi tutto quanto possedeva, a parte la residenza di Balgrummo - un tempo per gli Inchburn residenza di comodo vicino a Edimburgo, diventata più tardi unica abitazione - e quei quadri. "Dopotutto, non uscendo mai, deve pur guardare qualcosa" aveva mormorato la dottoressa. Ottenute le informazioni sufficienti, Horgan aveva ancora da superare la difficoltà di entrare nella casa, senza i rischi e i costi di organizzare un raid con una banda, e di far uscire i quadri senza essere scoperto. Un tentativo era stato fatto diversi anni prima. In quell'occasione, Jock Jamieson, il custode notturno, - "guardia" sarebbe stato un termine più appropriato - aveva ucciso uno scassinatore e ne aveva ferito un altro mentre erano su una scala a pioli. Jamieson e il custode di giorno (il tipo che sembrava un poliziotto con il quale Horgan aveva parlato al cancello) erano uomini duri e determinati e, come l'infermiera di lord Balgrummo, pagati profumatamente. Era poi venuto il momento in cui era diventato altrettanto importante tenere dentro lord Balgrummo (sebbene egli avesse dato la sua parola che mai avrebbe abbandonato la proprietà) quanto tenere fuori i ladri. Gillespie aveva accennato al fatto che la polizia si mostrava indulgente verso i singolari custodi della residenza di Balgrummo, che avevano una certa prontezza nell'uso delle armi da fuoco. Così la spedizione di Horgan era stata preparata ancor più accuratamente, ed era stato necessario attendere dei mesi prima che si verificasse la coincidenza di circostanze favorevoli e perché ogni dettaglio fosse ben organizzato.
La presenza di un'infermiera in casa per tutto il giorno era stato un ulteriore intoppo; Horgan non aveva apprezzato la prospettiva di inseguire una frenetica infermiera per tutta quella bicocca cadente, con il rischio che potesse scappare da qualche porticina sul retro e di conseguenza... Così, quando il giorno prima Gillespie gli aveva riferito che l'infermiera di notte si era licenziata ("In quella casa mi saltano i nervi, e il lord è veramente un paziente sgradevole"), e che non avevano ancora trovato una sostituta, Horgan capì che era arrivato il suo momento. Per una notte Jamieson doveva svolgere un duplice compito: sorvegliare la residenza e ogni ora controllare lord Balgrummo. Jock Jamieson, nonostante fosse un duro, probabilmente non gradiva rimanere dentro la villa di notte certamente più di quanto non piacesse alle infermiere. Si era quindi sicuramente rallegrato quando una carezzevole voce femminile (naturalmente quella di Nan Stannis), quella sera tardi lo aveva informato che chiamava per conto del signor Gillespie e che una nuova infermiera notturna sarebbe arrivata più o meno un'ora dopo con la propria auto. Era andato tutto abbastanza liscio, Jock aveva aperto il cancello al suono del clacson di Nan e poi per Horgan, acquattato nell'ombra, era arrivato il momento di agire. Se Jock avesse avuto dieci anni di meno, e fosse stato meno dedito alla birra, avrebbe potuto mettere le mani sul fucile da caccia prima che Horgan potesse raggiungerlo. Anche se odiava la brutalità inutile, Horgan aveva già preso a manganellate altri uomini prima di allora, e quindi colpì Jock bene e velocemente. Di sera nessuno percorreva quella stradicciola buia, e anche all'imbrunire era poco frequentata. Gli investimenti in beveraggi e cene offerti a Gillespie e alla vecchia Inchburn, e l'impiego del tempo di Horgan finalmente sarebbero stati compensati al massimo interesse, superando di gran lunga i sogni di qualsiasi cupidigia. Dondolando l'elegante borsa diplomatica, Horgan entrò nella residenza di Balgrummo. Nel freddo ingresso la prima cosa che Horgan percepì fu un intenso odore di marciume. Non c'era da meravigliarsi che con quel tanfo di rovina dovessero pagare triplo salario a ogni infermiera! Condannato alla solitudine, trascurati gli affari, e ultimamente in difficoltà, lord Balgrummo aveva procrastinato ogni manutenzione fino a far divenire gigantesco il costo di sistemazione della residenza. Anche se vendendo qualche quadro avesse potuto reperire i fondi necessari, il vecchio Balgrummo probabilmente non avrebbe comunque salvato la casa. Non aveva eredi diretti, la discendenza
era infatti stata spezzata molto tempo prima, e la sua erede presunta - la dottoressa Effie - mai avrebbe scelto di vivere in quella desolazione nascosta da fabbriche di linoleum cadenti. Restava solo da sapere chi si sarebbe disintegrato per primo fra lord Balgrummo e la sua casa-prigione. Horgan perlustrò con il fascio di luce della sua grande torcia elettrica tutta la hall. Illuminò la superficie di quello che sembrava essere un grande Canaletto (forse una veduta di Ravenna). Era un pezzo autentico o solo della scuola del Canaletto? Horgan avrebbe voluto sapere se, considerate le dimensioni, valesse la pena di prenderlo. Be', l'avrebbe lasciato per ultimo, innanzitutto si sarebbe occupato dei pezzi sicuri. Aveva saputo che nella dimora di Balgrummo non c'era la luce elettrica: non c'erano state migliorie, o perlomeno riparazioni accurate, dal 1913. Trovò tuttavia delle elaborate lampade a gas in bronzo. Dopo avere armeggiato per un po', scoprì di non sapere come accenderle, anche se forse il gas nell'ingresso era chiuso. Pazienza: la torcia sarebbe stata sufficiente, anche se al di là del suo raggio le nere caverne erano inquietanti. Prima di mettersi al lavoro doveva dare un'occhiata al vecchio Balgrummo per essere sicuro che quella vecchia pazza creatura non potesse saltare fuori barcollando a combinare qualche guaio. (In quella casa, più di cinquant'anni prima, ne aveva fatti sul serio, di guai!) Dove poteva essere la sua camera da letto? Dalla pianta della casa, che una volta Horgan era riuscito a esaminare di sfuggita nelle studio di Gillespie, molto probabilmente era al secondo piano, sulla facciata, proprio sopra la biblioteca. Reggendo la torcia all'altezza del collo, Horgan incominciò a salire la scalinata di quercia, dapprima appoggiandosi alla balaustra, ma in seguito limitandosi a sfiorarla perché, anche portando i guanti, l'aveva sentita al tatto spugnosa e vacillante per il marciume quando ci si era sostenuto troppo pesantemente. Dopo la prima rampa di scale, Horgan fece una pausa. Qualcosa aveva grattato o strisciato là sotto, nel nero pozzo del pianterreno? Naturalmente era impossibile, a meno che non fosse un topo. (Balgrummo non teneva cani: "Le bestie non vivono a lungo alla residenza" aveva mormorato Gillespie in modo oscuro.) Come avevano fatto le infermiere notturne, per quanto pagate benissimo, a sopportare una situazione del genere? Una ragione per cui la residenza di Balgrummo prima di quella sera non era mai stata rapinata, meditava Horgan, era l'orribile reputazione del luogo che resisteva da più di cinquant'anni. Ben pochi ragazzi intraprendenti, perfino del quartiere Fossie, si sarebbero avventurati nella proprietà del vecchio e
nobile spaventapasseri. Bene, quell'aria spettrale aveva soffiato in suo favore. Nessuno poteva essere più profondamente freddo e razionale di Rafe Horgan, che non si sarebbe afflitto nemmeno per tutto il sangue versato durante la prima guerra mondiale. Tuttavia, quella era una casa davvero opprimente, stagnante, stregata. "Infestata dagli spettri?" La dottoressa Effie aveva replicato con qualche esitazione a una scherzosa domanda di Horgan. "Se lei intende infestata dagli spiriti degli antenati morti, maggiore Horgan, be', allora penso che lo sia come la maggioranza delle antiche case della Scozia. Chi potrebbe spaventarsi, dopo tante generazioni, all'apparizione del vecchio generale sir Angus Inchburn con i suoi stivali risalenti al tempo del Covenant1? Ho letto da qualche parte che gli spettri raramente si trattengono per molto tempo dopo la morte e la sepoltura di un uomo o di una donna. Ma se intende sapere se nella casa è in corso qualcosa di folle, be' penso proprio di sì." Fatta una pausa per pulirsi gli occhiali, la dottoressa proseguì in modo abbastanza calmo: "È colpa dello zio Alec. Non è presente semplicemente in una camera, sa, ma riempie la casa e ogni sua stanza in tutte le ore del giorno. Le sembrerò sciocca, maggiore Horgan, ma il mio istinto mi impedisce di visitare Balgrummo più di quanto non debba, anche se Alec intende lasciarmi ogni cosa. La residenza di Balgrummo è come una spugna impregnata e grondante della vergogna e della brama di Alexander Fillan Inchburn. Mi spiego? Mio zio detesta quello che ha fatto, e tuttavia potrebbe farlo di nuovo, e in modo ancora peggiore, se solo ne avesse l'opportunità. L'orrore della residenza di Balgrummo non è rappresentato dai nove decimi morti di lord Balgrummo, ma dal decimo ancora vivo e roso dai tormenti". La noiosa, anziana dottoressa era quasi stramba quando il suo nobile zio, pensò Horgan. A dire il vero aveva fatto alcune interessanti ricerche e aveva scoperto il carattere generale dei reati commessi da lord Balgrummo tanto tempo prima: si trattava di crimini che a quei tempi avrebbero portato chiunque all'impiccagione, tranne un Pari. Horgan si era divertito a tentare educatamente e abilmente di convincere la dottoressa a dirgli come mai a Balgrummo era stata data la scelta di essere processato per quanto aveva commesso (dai lord naturalmente, come si conveniva a un Pari, che avrebbe potuto danneggiare la reputazione di quella corte) o di accettare una specie di arresto domiciliare perpetuo, senza che venisse emessa una sentenza di condanna da chicchessia. La seconda opportunità non sarebbe stata comunque offerta - e accettata - se non ci fosse stata la generale convin-
zione che egli dovesse essere un folle. Come aveva previsto, la dottoressa era diventata pudica. "Da giovane il povero Alec era molto perverso. Non era il solo scellerato, ma lui si prese tutta la colpa sulle spalle. Gli venne detto che se avesse giurato di non uscire mai più per tutta la sua vita e di non ricevere visitatori, a parte i membri della sua famiglia e i legali, contro di lui non sarebbe stata levata nessuna accusa formale. Inoltre dovette affidare tutto quanto possedeva a una Fondazione, che doveva ingaggiare gli uomini per sorvegliare la proprietà Balgrummo e i suoi domestici. I primi membri della Fondazione sono già morti e sepolti; il signor Gillespie e io eravamo poco più che bambini quando lo zio Alec ebbe il suo 'problema'." Tempo dopo, Horgan apprese da Gillespie qualcosa di più su questo "problema". Improvvisamente si chiese cosa stesse facendo fermo nel corridoio buio del secondo piano a pensare al passato. Una frettolosa ispezione con la torcia gli mostrò che tutti i Knellers, con grandi nasi, velluti e seni, erano appesi su quel piano, C'era anche un bel Gainsborough, anche se aveva bisogno di una bella ripulita: Margaret, lady Ross seconda figlia del quinto lord Balgrummo. Dopo un attento esame, concluse che, anche se i tarli erano penetrati nella cornice del quadro, la tela sembrava in condizioni decenti. Dunque, Horgan decise di togliere le tele delle cornici per risparmiare tempo e spazio. Per prima cosa, però, doveva dare un'occhiata a Sua Signoria. Il corridoio era tutto polvere e muffa. Gillespie aveva detto che dal lunedì al venerdì veniva una domestica per poche ore al giorno, per tenere pulita la stanza da letto di Balgrummo, il piccolo salottino, pulire le scale e lavare i piatti in cucina. Il resto della casa, le numerose stanze e corridoi, rimanevano permanentemente sprangati al sole e alla luna e, per quello che importava al vecchio Balgrummo, il damasco avrebbe anche potuto cadere a brandelli dalle pareti e i soffitti essere invasi dalle ragnatele. Quasi tutte le stanze erano chiuse, sebbene gran parte delle chiavi fosse riunita in un unico mazzo (ciascuna con la propria targhetta di metallo) che Horgan aveva sottratto all'esanime Jock. Perfino Gillespie, che visitava il suo cliente quattro o cinque volte all'anno, non era mai riuscito a vedere la cappella. Gillespie supponeva che Balgrummo ne tenesse la chiave in tasca, e tra un caffè e un brandy, lo aveva riferito, insieme ad altre banalità, a Horgan, aggiungendo: "Fu nella cappella, vedi, Rafe, che accadde la parte peggiore del 'problema'". Entrare in possesso della chiave della cappella era un'altra ragione per
cui Horgan doveva porgere i suoi omaggi a lord Balgrummo sebbene, senza saperne il motivo, gradisse sempre meno questa necessità ogni minuto in più che passava. Il dipinto più osceno di Henry Fuseli avrebbe potuto essere proprio in quella cappella; infatti cinquant'anni prima la liturgia e il rituale del decimo barone erano stati una sintesi di riti della strega Benin con memorie del culto scozzese del demonio, e richiedevano l'impiego di qualunque cosa in grado di eccitare fantasie forsennate, come appunto le immagini volgari. Questo era comunque quello che Horgan aveva raccolto dai vecchi articoli di giornali e da quanto Gillespie si era lasciato sfuggire. Incerto su dove si trovasse, nel corridoio Horgan tentò le maniglie di tre porte. Le prime due erano chiuse a chiave, ed era improbabile che i familiari fossero arrivati al punto, anche quando Balgrummo era più forte, di doverlo chiudere di notte dentro le sue stanze. La terza porta però si aprì cigolando. Ruotando all'intorno la torcia elettrica, Horgan entrò in un salottino in vecchio stile, dove alle pareti opposte notò due quadri che gli parvero gli autentici panorami di Wilkie. In fondo al salottino, che era poco più grande di un vestibolo, vide una porta di mogano socchiusa. Che silenzio! Qualcosa però strisciava o picchiettava debolmente - probabilmente uno scarafaggio scontroso che vegliava il moribondo nel rivestimento di legno. A dispetto dei timori irrazionali, Horgan si obbligò a oltrepassare la soglia. Il fascio di luce della pila illuminò un letto risalente all'epoca della Regina Anna, sul quale, immobile e con gli occhi chiusi, era sdraiato un uomo estremamente vecchio, tutto pelle e ossa, coperto solo da un lenzuolo e da una coperta. La stanza non era completamente buia perché nel camino le braci ardevano ancora. Horgan rabbrividì impercettibilmente, forse influenzato dalle vecchie voci relative a quella cosa esausta nel letto. "Nella sua gioventù lo chiamavano Ozymandias" Gillespie aveva buttato lì. Lord Balgrummo adesso era al di là di ogni oscenità e atrocità. «Salve, Alec!» Horgan disse con voce alta e giocosa. La mano teneva stretto il manganello nella tasca del cappotto. «Alec, vecchio rospo, sono venuto per i tuoi quadri.» Ma Alexander Fillan Inchburn, l'ultimo di una stirpe che risaliva a un figlio illegittimo di Guglielmo il Leone, né si mosse né fiatò. T.M. Gillespie era orgoglioso di lord Balgrummo, considerandolo la persona più notevole che mai gli affari gli avessero messo sulla strada. "Il nostro Giles de Rais scozzese" Gillespie aveva ridacchiato aridamente mentre gustava un sigaro giamaicano preso dalla scatola di Horgan "pro-
babilmente non verrebbe considerato pazzo da un'équipe di medici nemmeno dopo cinquant'anni di clausura nel suo inferno privato. Non penso che fosse per malizia che quel giorno il pubblico ministero raccomandò la residenza di Balgrummo - dov'erano stati commessi i delitti capitali - quale luogo di domicilio coatto: questa particolare casa di lord Balgrummo era semplicemente abbastanza isolata da tenere Sua Signoria lontano dagli occhi della gente (perché avrebbe potuto venire lapidato) e anche abbastanza vicino alla città da poter venire sorvegliata dalla polizia durante i primi decenni. Penso che la polizia abbia dimenticato, o quasi, la sua esistenza; ormai da tre o quattro anni non è più in grado di camminare da solo sino ai cancelli della villa." Per Horgan era un certo sollievo sapere che lord Balgrummo non poteva più fare una coerente deposizione in un'aula di Tribunale e quindi non occorreva mandarlo all'altro mondo. Anche se ormai l'impiccagione era abolita, e Balgrummo si poteva eliminare in meno di trenta secondi premendogli un cuscino sulla faccia, certamente la polizia avrebbe perseguitato un omicida con maggior accanimento che un ladro di quadri. Ma era questo il mostro da romanzo giallo da due soldi di cinquant'anni prima, ancora vivo con la sua barba bianca che adesso lo rendeva falsamente venerabile in quel letto a baldacchino? Horgan riusciva quasi a vedere le ossa attraverso la pelle. Balgrummo avrebbe potuto essere morto un'ora prima dopo che Jamieson aveva fatto il suo giro di controllo. Per essere sicuro, Horgan prese uno specchio dal tavolo da toeletta e lo accostò al pallido volto incavato. Dirigendo la torcia verso il basso, guardò la superficie dello specchio: sì, c'era un velo umido appena percettibile, per cui il decimo barone respirava ancora. Balgrummo doveva essere sordo come una campana, oppure in coma. La dottoressa Effie aveva detto che recentemente era diventato quasi completamente cieco. Era vero? Horgan per poco non cedette all'istinto di sollevargli le palpebre avvizzite, ma capì che qualcosa lo rendeva incapace di sopportare la vista della propria immagine riflessa nelle pupille maligne di quell'uomo agonizzante. L'avere colpito Jock, l'esplorazione parziale e nervosa di quella casa tetra, la vista del ripugnante vecchio Balgrummo sull'orlo della dissoluzione, tutto questo cominciava a farsi sentire su Horgan, nonostante non fosse nuovo a quel genere di imprese. Con tutto il tempo che gli restava non c'era alcun male a sedersi per alcuni minuti su una poltrona, come se fosse stato l'infermiera di Balgrummo, tenendo d'occhio il letto per accertarsi
che Balgrummo (a dispetto della logica) non stesse in qualche modo fingendo, e mentalmente ripassare in rassegna i quadri che avrebbe dovuto prendere per primi e le stanze in cui probabilmente li avrebbe trovati. Sarebbe stato comunque più incoraggiante avere più luce di quanta non ne fornisse la sua pila. Senza mai girare la schiena al letto, Horgan riuscì ad accendere una lampada a gas vicino alla porta: questa o era più semplice delle altre in fondo alle scale, o lui finalmente aveva capito il loro funzionamento. Le imposte incerte della camera da letto erano chiuse, e quindi non c'era il minimo pericolo che un barlume di luce potesse essere intravisto da qualche eventuale passante - premesso che era improbabile che qualcuno potesse passare accanto alla residenza di Balgrummo nel pieno di una notte piovosa. Alla luce della lampada a gas lord Balgrummo non sembrava meno sinistro. Comunque, per quanto uno potesse essere esausto dalla stanchezza, era impossibile pensare di addormentarsi, sia pure per un brevissimo pisolino, su una sedia lontana solo tre metri da quella cosa muta e orrenda nel letto; non quando si conosceva quanto "perverso", nelle parole della dottoressa Euphemia, Balgrummo era stato. Il "problema" per il quale egli aveva pagato era stato solo il culmine di una serie di arcani episodi, dai raggiri iniziali sino all'orrore finale. "No, non pazzo nel senso comune del termine," aveva dichiarato Gillespie "Balgrummo riconosceva il carattere morale dei suoi atti, sì, più pienamente di quanto possa fare un uomo mediamente sensibile. Era anche, ed è tuttora, abbastanza razionale, nel senso che è in grado di portare a termine, se costretto, i consueti affari quotidiani, Quando gli proponemmo di vendere alcuni dei suoi quadri per poter pagare i restauri della casa e delle proprietà, si adirò tremendamente; conosce i suoi diritti, e sa che i fiduciari non possono disporre dei suoi mobili e dei suoi quadri contro la sua esplicita volontà. Quando va sua nipote Effie, nel suo modo ironico è abbastanza educato con lei, come del resto lo è con me quando ci vediamo. Legge ancora un buon numero di libri, anche se esclusivamente quelli della sua biblioteca - o quantomeno lì leggeva, prima che la sua vista si indebolisse; in biblioteca è crollato metà soffitto, ma, seppur a fatica, riesce a trascinarsi sui calcinacci caduti sul pavimento pericolante." Alla destra del letto vide un autentico Constable e alla sinistra un probabile Etty. Le due tele erano abbastanza piccole e Horgan poteva prenderle quando voleva. Aveva la gola secca, quella casa era così dannatamente polverosa. Sul tavolo da toletta era posata una caraffa con appesa un'eti-
chetta d'argento da brandy, vicino c'erano anche due larghi bicchieri di cristallo lavorato. «Ne vuoi un goccio anche tu, Alec?» chiese Horgan sogghignando con aria di sfida verso l'uomo silenzioso nel letto, Si sedette nuovamente sulla poltrona imbottita, foderata di velluto, e bevve il brandy liscio. "No, non si può dire" Gillespie aveva continuato (nella loro ultima conversazione che ora gli sembrava così lontana e remota) "che Sua Signoria sia completamente incapace di occuparsi della conduzione dei suoi affari. Il fatto è, piuttosto, che egli è lontano, assorto, in più di un senso. Deve esercitare la sua volontà per riportare indietro la sua coscienza da dove essa vaga, ed è chiaro che per lui lo sforzo non è facile." "Tom, intendi dire che è assorto nei suoi pensieri?" aveva chiesto Horgan, in quel momento apparentemente non troppo interessato al discorso. "Non è l'espressione che userei, Rafe. La dottoressa Effie parla di 'corpo astrale' e simili scemenze, come se lei un poco ci credesse; l'hai sentita, no? Sai, era il principale oggetto delle 'ricerche' di Balgrummo nei due anni prima del 'problema' che fu il culmine di quegli esperimento. Naturalmente, però..." "Naturalmente sta solo vivendo nel passato" Horgan aveva buttato là. "Vivendo? Chi sa davvero quello che significa questa parola?" T.M. Gillespie, devoto alla memoria di David Hume, professava un disprezzo per il razionalismo altrettanto profondo quanto quello verso la superstizione. "E perché parliamo di passato? Hai mai pensato che un uomo potrebbe essere pietrificato nel tempo? Rafe, ciò che tu chiami il passato di Balgrummo, per lui potrebbe essere il suo stesso presente, nello stesso modo in cui questa nostra chiacchierata lo è per te e per me. Per Sua Signoria il 'problema' è l'ossessiva realtà. Raggiungere il male autentico richiede un'applicazione costante, d'accordo? Balgrummo non sta semplicemente ricordando gli avvenimenti che tu e io chiamiamo 1913, o semplicemente 'rivivendo' quei fatti. No, io sospetto che sia immerso in quegli avvenimenti, come uno scarabeo nell'ambra. Per Balgrummo, una determinata notte nella sua residenza continua da sempre. "Quando la dottoressa e io lo distraiamo parlando delle banalità degli affari correnti, deve staccarsi dalla sua realtà e brancolare brevemente in un piccolo mondo irritante di sogni nel quale sua nipote e il suo avvocato sono ombre prive di consistenza. Voglio dire che nella coscienza di Alexander Inchburn non c'è né ricordo né aspettative. Non sta vivendo nel passato, non è assorbito in uno sguardo retrospettivo; per lui il tempo si è ristret-
to a una certa notte, e lo spazio è limitato a una certa casa, se non a una certa stanza. Un'esperienza travolgente lo ha incatenato a un certo punto nel tempo, per così dire. Ma il tempo, come molti hanno detto, è solo una convenzione umana, non una realtà oggettiva. Puoi provare che il tuo tempo è più reale del suo?" Horgan non lo aveva seguito completamente, e non glielo nascose. "Io la metto in questo modo, Rafe" Gillespie aveva proseguito in tono didattico. "Quanto dura un giorno all'inferno? Considerato che l'inferno è eterno, come mi disse mio nonno che era ministro al Tron, l'inferno non conosce né futuro né passato, ma solo l'eterno momento della dannazione. Inoltre l'inferno è senza spazio, oppure, presumibilmente, è una scatola chiusa dentro i suoi dannati limiti. Abbiamo lord Balgrummo rinchiuso perpetuamente nella sua scatola chiamata Villa Balgrummo dove il fuoco non si estingue mai e i vermi non sono mai sazi. Un atto atroce e sanguinario, commesso proprio in quella scatola, è letteralmente la sua eterna realtà. Non sta ricordando, sta rivivendo un'esperienza, (per se stesso) al presente. Tutta la paurosa eccitazione di quel fatto, l'autentico atto di profanazione e terrore, lo elevano da ciò che noi chiamiamo tempo. Tra la dottoressa e me, da un lato, e Balgrummo, così remoto, dall'altro, c'è un grande abisso. "Se ti va possiamo chiamarlo l'abisso del tempo. Per questo abisso ringrazio gli dei. Perché se la coscienza di un uomo o di una donna qualsiasi potesse penetrare quella di Balgrummo, nel suo schema del tempo, nel suo mondo oltre il suo mondo - o se, attraverso un vortice di mente e anima, qualcuno fosse risucchiato in quello stretto luogo di tormenti - finirebbe così..." disse Gillespie, dando un colpetto al suo sigaro sul portacenere, riducendo in polvere la brace già consumata. "Rafe, distrutto." Horgan allora aveva pensato: "Gratta gratta anche lo scozzese più pratico, perfino un pedante avvocato, e trovi il Pitto2 timoroso degli spiriti". "Tom, suppongo che tu intenda che è davvero fuori di testa" aveva commentato Horgan, annoiato da questa sterile ipotesi da ubriachi. "Intendo precisamente il contrario, Rafe. Voglio dire che chiunque incontri lord Balgrummo dovrebbe stare in guardia per non essere trascinato nella sua mente. All'epoca che tu e io indichiamo con il 1913 (sebbene, come sostengo, per Balgrummo le date non abbiano alcun significato), Sua Signoria era un essere dal magnetico potere di seduzione immenso. Non sto scherzando. Questo tipo di potere è un catalizzatore e può lavorare per il bene come per il male. Anche adesso, quando sono con Balgrummo, mi
sento profondamente insicuro, consapevole che questo vecchio potrebbe assorbirmi. Toccando le sue passioni, non vorrei risvegliare un fuoco languente. Balgrummo cinquant'anni fa dovette essere confinato, e non soltanto perché egli poteva essere fisicamente pericoloso. Non so se riesco a spiegartelo; in quanto tu non hai mai visto Balgrummo assorto in ciò che chiami 'i suoi pensieri' e mai lo farai; fortunato ragazzo." La loro conversazione, poi, era scivolata sull'ipotetica società di Miss Janet Horgan. Eppure Gillespie era stato un cattivo profeta. Adesso l'intelligente Rafe Horgan era lì, uomo dal talento elastico e veloce di mano, che guardava senza fretta lord Balgrummo immerso nei suoi pensieri - o, a voler essere più precisi, nel suo coma - mentre prosciugava la caraffa di ottimo brandy di Sua Signoria. "Devi ricordarti di tenere d'occhio quella faccia cadaverica sopra le lenzuola" pensò "perché, per quel che ne puoi sapere, se lasci che i tuoi occhi si chiudano anche per un solo secondo, potrebbero aprirsi i suoi... Dopotutto sei solo un ospite nel piccolo inferno privato di Balgrummo. All'ospite non deve essere permesso di dimenticare le buone maniere." Dunque, quel mostro spirante dove poteva tenere i suoi effetti privati, come ad esempio la chiave di quella cappella al piano superiore? "Forza, ragazzo: tieni gli occhi sul suo viso mentre apri il cassetto del comodino, Stai andando bene, Rafe, sei sempre stato fortunato; l'infermiera aveva messo proprio in questo cassetto le tre chiavi del vecchio Alec raccolte in una catenella, insieme con l'orologio, un piccolo pettine da tasca e altre cose del genere. Una di queste chiavi ti condurrà nella cappella, Rafe. Procedi, hai bevuto la quantità di brandy di cui ha bisogno un uomo ragionevole." «Non vuoi farmi da guida, Alec? Parlarmi delle dimore signorili della Scozia e di tutto il resto? Non vuoi mostrarmi la cappella dove tu e i tuoi amici di gioventù avete fatto i vostri sporchi giochetti e vi siete bruciati le dita? No? ... Allora, ciao, non prendertela con me se non puoi disturbarti a dare un'occhiata ai tuoi beni.» "Rafe, allontanati da lui, va' verso la porta. Lascialo stare. Cos'aveva detto la dottoressa Efie? 'Riempie tutta la casa, ogni stanza, in ogni momento.' Tetro pensiero, quello, giusto adatto a una vecchia zitella tutta pelle e ossa. Quella chiacchierona di Euphemia doveva avere tante rotelle fuori posto quante suo zio; probabilmente invidiava le sue Gozzoviglie." "Personalmente credo che siano stati gli altri a portare lo zio Alec poco per volta dentro la faccenda", la dottoressa Effie aveva biascicato l'ultima volta che l'aveva incontrata. "Ma, una volta dentro, prese lui il comando,
come gli era naturale. È stato in Nigeria prima che quel Paese si chiamasse così, sa, e anche in Guinea, e su e giù fra quelle coste. Cominciò a collezionare materiale per una monografia sulla magia africana: richiamare i morti alla vita e convocare i demoni, e altre cose del genere. Come diceva mio padre quarant'anni fa, si occupava di formule magiche seriamente, senza limitarsi a collezionarle. Dopo che lo zio tornò a casa, non smise di coltivare quest'hobby. Quando ero ragazza, se ne interessavano anche persone molto rispettabili; ma quelli che circondavano lo zio Alec non lo erano per niente. "Ciarlatani? Non del tutto. Vorrei che lo fossero stati. Alimentarono gli appetiti di Balgrummo. Almeno inizialmente era mosso dalla brama di conoscenza, e sebbene più di una volta ebbe a esitare per i passi che doveva affrontare per arrivare alla fonte di quella conoscenza, più sprofondava nell'oscurità e più cresceva la sua passione. O almeno così la pensava mio padre, che divenne uno dei primi fiduciari di Alec e sentì come un proprio dovere il fatto di raccogliere prove su quanto era successo, sebbene la sua angoscia crescesse quanto più metteva alla luce la follia del fratello. "Verso la fine, Balgrummo aveva forse dimenticato la conoscenza e si era lanciato a capofitto nella passione e nel potere. Non acquisiva il sapere che aveva cercato di apprendere; si identificava nel mistero, possedendolo ed essendone posseduto. "No, non erano per niente dei ciarlatani. In un modo o nell'altro sottrassero una fortuna allo zio Alec, ed egli in quegli anni dovette pagare ancor di più per tenere tranquilla la gente. Avevano detto a Balgrummo, in realtà, che potevano richiamare il demonio - sebbene non lo avessero affermato in termini così espliciti. Infine furono essi stessi stupiti del loro successo, quando infine arrivò. Balgrummo, che aveva già pagato prima, da allora ha continuato a pagare. Anche gli altri pagarono, specialmente l'uomo e la donna che morirono. Avevano pensato di evocare il demonio per lord Balgrummo, ma non appena l'evocazione si manifestò, suscitarono il demonio attraverso Balgrummo e in Balgrummo. Dopo di che, tutto crollò a pezzi." "Ma al diavolo i ricordi di Euphemia Inchburn, tutto quel marciume, i vermi e gli scarafaggi, e anche la residenza di Balgrummo. Una cosa il diavolo non potrà prendersi: questi quadri. Rafe, va' alla cappella, e poi porta a Nan le buone notizie. Grazie per il brandy, Alec: forse, se non l'avessi bevuto, non sarei riuscito a mettermi al lavoro." "Hai mica bevuto un bicchierino di troppo, eh?" Horgan avvertiva un
leggero capogiro e non riusciva a capire come fosse riuscito a salire quelle scale sinistre o che cosa avesse fatto della sua pila. Quando aveva girato la chiave nella serratura della cappella? Non riusciva a ricordarsi di averlo fatto. Comunque, ormai, era dentro. La pila non serviva. La stanza, una lunga galleria, era illuminata dalle fiamme delle candele poste in candelabri a molte braccia. Chi teneva accese le candele di lord Balgrummo? Il tanfo di disfacimento lì era addirittura più forte di quanto non lo fosse stato al piano inferiore. Sotto i piedi, il pavimento di legno quasi trasudava e la muffa si spiaccicava sotto le scarpe. Parte del rivestimento in legno era caduto in blocco. Lassù, nelle ombre mutevoli, il soffitto a stucchi si curvava e si gonfiava come se il minimo tocco avesse potuto sbriciolarlo in esili, piccole particelle. In fondo all'altare - l'altare della conclusione catastrofica del "problema" di Balgrummo - era appeso lo sconosciuto Fuseli. Non era un dipinto, ma un cartone immenso, che il direttore di museo più disinibito non avrebbe mai osato mostrare a critici d'arte, anche a quelli più larghi di vedute. Quei corpi nudi, contorti, gli strumenti di tortura infissi dentro le loro carni, erano l'esaltazione dell'Angoscia. Perfino Horgan non riuscì a guardarli a lungo. Guardarli? Tutte quelle candele stavano esaurendosi. Due scintillarono contemporaneamente: le altre si spensero. Non appena le fiammelle cominciarono a estinguersi, Rafe Horgan divenne consapevole di non essere solo. Era come se delle presenze si muovessero furtivamente negli angoli o dietro le suppellettili a pezzi. E non poteva esserci modo di fuggire attraverso la porta, poiché qualcosa si stava avvicinando da quel lato della galleria. Come se l'apice del terrore di Horgan lo nutrisse, lo spettro assunse una sempre maggiore nitidezza di contorno, sostanza e forza. Alto, arrogante, implacabile, si diresse verso di lui. Il volto era quello di Balgrummo, o di quello che poteva essere stato il suo volto cinquant'anni prima, ma posseduto: ardente, ardente, ardente; di tutta la brama, la passione, la smania che agognavano l'abisso. In una mano scintillava un lungo coltello. Horgan piagnucolò, corse e cadde contro l'altare coperto di ragnatele. E nel finale atto di distruzione, qualcosa avanzò a grandi passi attraverso l'immenso abisso del tempo. 1
Il patto dei presbiteriani scozzesi contro l'episcopato, nel 1638. (N.d.T.)
2
Pitti erano gli antichi abitanti della Scozia. (N.d.T.) Pamela Sargent TENEBRA ANTICA
Pamela Sargent, il cui romanzo più recente è The Shore of Women uscito nel 1986, ha iniziato a pubblicare lavori di fantascienza e fantasy nel 1970 con Landed Minority in «Fantasy & Science Fiction», affermandosi come una delle voci più originali del genere. Nei suoi romanzi inserisce personaggi caratterizzati da forti personalità ed esplora con particolare abilità i rapporti interpersonali. Nella veste di redattore, le sue raccolte, come per esempio Women of Wonder del 1975, contengono racconti che vantano, oltre alle qualità di cui abbiamo parlato, anche protagoniste femminili. Tenebra Antica parla di come reagisce un gruppo di persone sorpreso dall'interruzione dell'energia elettrica e, leggendolo, se mai avete pensato che in un blackout ci sia qualcosa di romantico, cambierete idea in fretta. La finestra della cucina era bianca per la luce, un migliaio di mani invisibili batterono all'unisono. Nina si irrigidì. La cucina divenne improvvisamente buia, fuori il vento ululava mentre la pioggia tamburellava contro la finestra. «Cos'è stato?» urlò Andrew dal soggiorno. «Non so, è come se qualcosa avesse colpito la casa.» «Doveva succedere proprio adesso, alla fine di questo brano musicale, nel bel mezzo di un accordo.» Nina sentì suo marito nel corridoio che avanzava a fatica verso la cucina. Fuori stava diventando buio, la luce grigia e fioca della sera si affievoliva. «Non so come fare a preparare la cena» disse Nina fissando l'elettrodomestico a quel punto inutile. «Stavo per tritare le cipolle.» Andrew si appoggiò al frigorifero. «Prima le tritavi anche senza quell'affare.» «Lo so, ma sono diventata pigra, ormai non riesco più a farne a meno.» Attraversò la stanza, andò lentamente nell'ingresso e aprì la porta, sbirciando nel pianerottolo buio. «È tutto scuro.» «Nina?» Riconobbe la voce della vicina. «Rosalie?» «Sì, sono io. Ho guardato fuori un attimo fa. Non c'è una luce accesa in
tutta la strada.» «Accidenti!» esclamò Nina. «Stavo preparando la cena.» «Be', il gas funziona, però. Consolati, potevi avere una cucina elettrica.» Nina si schiarì la voce. Il buio la innervosiva, nell'ingresso l'aria sembrava pesante e opprimente. Rientrò in casa e chiuse la porta. Andrew era ancora in cucina, intento a comporre un numero al telefono. «Chi chiami?» gli chiese Nina. «L'azienda dell'energia elettrica. Pronto? Sì, volevo chiedere... va bene, aspetto.» Si appoggiò al muro. Mentre Nina andava alla finestra il tuono rombò. Il vento ululava. La pioggia era una cortina d'argento quasi parallela al terreno, tanto era schiaffeggiata dal vento. «Pronto? Sì, volevo solo sapere... ah. Abitiamo nella Zona Nord. Sì.» Andrew si fermò. «Quando? Ah, va bene. Be', grazie.» Riattaccò. «Una delle linee centrali è spezzata, hanno detto che la metteranno a posto fra un'ora o due.» «Mangeremo tardi, stasera. Non posso preparare questo piatto senza il mio elettrodomestico.» «Dài, su, sono sicuro che puoi farcela anche senza elettricità.» «Non riesco nemmeno a vedere cosa faccio.» «Abbiamo delle candele, adesso te ne accendo qualcuna. Abbiamo anche una pila.» Frugò in un cassetto, tirando fuori una scatola di fiammiferi. «Per una sera possiamo vivere senza comodità.» Nina finì di preparare la cena alla luce gialla e tremolante delle candele. Andrew ne aveva messa una sulla stufa, un'altra sul bancone e due sul tavolo, con uno specchio dietro per riflettere la luce. Rabbrividì. Nonostante il caldo che veniva dal forno, l'aria sembrava insolitamente fredda. Senza la familiare presenza dell'elettricità si sentiva stranamente vulnerabile, incapace di cucinare o di leggere, inoltre senza il phon non poteva nemmeno asciugarsi i folti e lunghi capelli. La tecnologia l'aveva resa solo più impedita; pensò al passato, immaginando le famiglie che sbrigavano le proprie faccende quando il sole tramontava, leggendo agli altri alla luce del fuoco, stringendosi uno all'altro nella notte. I suoi nonni, sostenitori del progresso, le avevano sempre detto che al giorno d'oggi le cose andavano meglio, perché quando la gente non poteva leggere di notte, la mente umana era più buia, la televisione non esisteva e non trasmetteva immagini di luoghi lontani, e di conseguenza i pregiudizi
erano più diffusi e, senza le attrezzature che adesso tanti danno per scontate, il lavoro era più duro. Nina non ne era così sicura; secondo lei la civiltà industriale aveva allontanato l'uomo dai valori fondamentali della vita, ingannandolo e facendogli credere di essere in grado di controllare il mondo. Andrew apparecchiò la tavola, poi mise una radio portatile e un registratore vicino alle candele. «Non è poi così male, in un certo senso è romantico. Dovremmo farlo più spesso.» «Non hanno ancora riparato la linea?» «Lo faranno.» «Il cibo nel freezer andrà a male.» «Non pensare al cibo, resisterà, basta non aprire lo sportello.» Stappò una bottiglia di vino e intanto lei serviva i peperoni ripieni. Mentre portava i piatti in tavola, il tuono rombò di nuovo. I temporali l'avevano sempre spaventata, e il buio oltre la stanza illuminata era pieno di ombre minacciose. Si sedette davanti allo specchio. L'odore della cera che si scioglieva si mescolava a quello della salsa di pomodoro e delle spezie. «Abbiamo cibo e persino musica.» La voce di Andrew suonava cupa e distante. Un'ombra nera incombeva dietro di lei, pronta a nasconderla con il suo scuro mantello; Nina fissava lo specchio, timorosa di muoversi. Andrew mise una cassetta nel registratore e la musica di Bach inondò la stanza. La musica aveva un potere calmante, Andrew cominciò a dirigere con la forchetta, «Magnificat», urlò insieme al coro. Un pugno colpì la porta e Nina sobbalzò. «Chi è?» «Rosalie.» Si stupì, perché di solito Rosalie bussava con un tocco lieve ed esitante. Quando uscì dalla fioca luce della cucina, l'aria le compresse il corpo ed ebbe di nuovo paura. Aprì la porta. «Accomodati» le disse, e non aveva ancora finito di parlare che Rosalie era già dentro, ansante, si appoggiava alla parete e si teneva una mano sullo stomaco. Nina la prese per un braccio e la portò in cucina, facendola sedere di fronte a Andrew. «Adesso sto bene» disse Rosalie. «È tutto buio. Mi ha davvero spaventata.» «Ora calmati, vuoi un peperone?» Rosalie scrollò il capo ma accettò il bicchiere di vino che le offrì Andrew. «Non sarei voluta venire, ma non riuscivo a stare da sola. Stavo per andare da Jeff, ma la radio ha detto di tenersi lontano dalle strade... il vento
sta abbattendo gli alberi.» «Dov'è Lisanne?» «Passa il weekend da suo padre.» Rosalie sollevò il bicchiere con la mano che tremava e sorseggiò un po' di vino. «Tutto quello che ho è una pila, quindi non ero molto preparata.» Andrew abbassò la musica; nell'angolo un'ombra sembrava diventare più scura. «L'ho provato anch'io» disse Nina. «Quando sono andata ad aprire la porta, mi sono venuti i brividi.» «Sei troppo suggestionabile» le disse Andrew a voce alta. «Faceva freddo» disse Rosalie con un tono piatto, mentre la luce della candela le tremolava sul viso, dando un bagliore dorato ai suoi capelli color del rame. «Ero nel soggiorno e ho sentito un punto freddo, proprio nel centro della stanza. Poi gli O'Hara hanno iniziato a urlare uno contro l'altro... riuscivo a sentirli attraverso il pavimento.» «Gli O'Hara litigavano?» chiese Nina stupita. «Certo. Non immaginavo che la moglie potesse parlare in quel modo. Il soggiorno è diventato più freddo, qualcosa mi soffiava sul collo e mi è sembrato di sentire un sospiro. Poi ho pensato: se non esco di qui, sarò in trappola... non potrò più...» «Era uno spiffero» Andrew gesticolò con il coltello in mano. «Ci sono sempre delle correnti d'aria in questo palazzo.» «Non era quello, l'aria era immobile.» Nina cercò di sorridere. «Meno male che non ci sono i miei nonni, starebbero già raccontando delle vecchie storie. Sai, c'è una leggenda che dice che i primi abitanti di questa valle scomparvero, svanirono proprio nei boschi. E una volta...» Andrew l'ammonì con gli occhi. «È solo una leggenda, non ci ha mai creduto nessuno.» «Sei cresciuta qui, vero?» le chiese Rosalie. Nina annuì. «A parte gli anni dell'università, ho vissuto qui tutta la vita.» Gli altri componenti della sua famiglia se ne erano andati verso luoghi caldi e luminosi, mentre lei era rimasta per la paura di vivere fra sconosciuti privi del calore che nasce dalla confidenza. La cantata di Bach terminò e Andrew spense il registratore con uno scatto. «Non hanno ancora riparato la linea» disse Nina. «Probabilmente il temporale è più violento di quanto si aspettassero.» La voce di Rosalie echeggiò nella cucina. La stanza era più buia, la candela sulla stufa si era consumata. Adesso l'ombra nell'angolo era una figura si-
mile a un uccello deforme, con le punte delle ali che sventolavano. «Spero» continuò Rosalie «che abbiate delle altre candele, perché queste non dureranno ancora per molto.» «Nel soggiorno ce n'è una profumata.» Andrew si alzò. «Sarà meglio che vada a prenderla.» «Tieni la pila» gli disse Nina. «Troverò la strada senza.» Quando Andrew uscì, Nina si girò verso la vicina. Stava per parlare quando vide Rosalie tendere le labbra sui denti, simile a un predatore, con le mascelle pronte ad azzannare e le mani simili ad artigli. «Quel bastardo» disse Rosalie a bassa voce. «Fin dal nostro divorzio vuol far credere a Lisanne di essere lui il tipo a posto. Forse proprio adesso le sta dicendo che è stata tutta colpa mia.» Nina si tirò indietro. Rosalie era stata sempre in buoni rapporti con l'ex marito, e il loro divorzio era stato degno di nota proprio per la mancanza di rancore che lo aveva contraddistinto. «È lui che l'ha voluto» continuò Rosalie. «Mi ha fatto andare in tribunale con l'inganno, e io non me ne sono nemmeno accorta. Pensavo che stesse facendo il gentile, così sono rimasta fregata sugli alimenti... sapeva che non mi sarei opposta.» Nina si sentì in trappola, la cucina sembrava angusta, le pareti troppo vicine. Poi udì un tonfo che proveniva dalla parte anteriore della casa e un urlo. Balzò in piedi, afferrò la pila sul tavolo e corse nel soggiorno. «Andy?» Era sdraiato sul pavimento e il viso, illuminato dal raggio della pila, era pallido. «Mi ha colpito qualcosa.» Raccolse un grosso libro e lo posò sul tavolino. «Stai bene?» gli chiese Nina, inginocchiandosi al suo fianco. Andrew annuì, sfregandosi la testa. «Dovresti mettere un altro scaffale.» «Non ho avuto tempo.» «Allora sbarazzati di un po' di quella robaccia.» La voce di Nina era tagliente. «Sta occupando tutto lo spazio, fra poco dovremo prendere un altro appartamento solo per i libri.» Stava urlando, con il desiderio di spazzare via dagli scaffali quei volumi rilegati e buttarli fuori nella pioggia. «E non spolveri mai quando è il tuo turno.» Prese fiato, sentendosi stordita, il senso di oppressione si era attenuato. Una candela danzava nell'oscurità, illuminando il viso di Rosalie. «Qualcosa non va?» Nona sospirò mentre Andrew si alzava in piedi. «Mi è caduto un libro in
testa. Tutto qui.» Andrew sparecchiò la tavola e mise i piatti sporchi nel lavandino, poi portò i resti delle candele e il registratore nel soggiorno. Accese solo quella profumata, tenendo in serbo le altre. «Le candele ci basteranno per tre o quattro ore» sentenziò. «Prima di allora avranno riparato la linea.» Nina, che ascoltava il lamento del vento, non ne era così sicura. Andrew accese il registratore e le voci che cantavano le lodi di Dio tremarono, fallando alcune note, quindi mise mano all'apparecchio e lo spense. «Non hai nient'altro?» gli chiese Rosalie. «Ho Vivaldi, Händel e alcuni...» «Avrei dovuto portare le mie cassette» lo interruppe Rosalie. «Ma purtroppo le ho lasciate in macchina.» Diede un'occhiata alla finestra. «E non esco di certo con questo tempo.» «Non posso dire che mi dispiaccia» commentò Andrew. Rosalie alzò la testa. «E con questo, cosa vuoi dire?» «Non sopporto la musica che ascolti in continuazione... se poi si può chiamare musica.» «E cosa le manca?» «Sono tutti urli e percussioni... un esempio perfetto di primitività e banalità.» «Davvero? Perché pensi che quella musica pasticciata che senti tu sia meglio?» «Non dire che è pasticciata.» «È noiosa» disse Rosalie. «È sempre uguale.» «Come fai a dirlo?» «Basta!» urlò Nina. Rosalie sprofondò nel divano, Andrew si sedette sul pavimento e appoggiò un braccio sul tavolino. «Non dobbiamo litigare per stupidaggini simili.» Nina si sentiva lo stomaco chiuso per la tensione, si chiese se non le sarebbe venuta un'indigestione per via dei peperoni ripieni. «È questione di gusti.» Il fulmine per un attimo illuminò la stanza, i baffi neri di Andrew spiccarono sul viso. «Proprio così, è questione di gusti» disse. «Buon gusto o cattivo gusto.» Prima che Rosalie potesse replicare, aveva riacceso il registratore. Andrew scrollò il capo. «Mi spiace, Rosalie.»
«Non importa. Anche a me spiace.» Nina sentì dei passi sulle scale, poi un colpo alla porta; un bambino strillò. «Vado io» disse Andrew. Mentre si avviava fuori dalla stanza, Nina si sporse verso Rosalie. «Non intendeva dire quello che ha detto.» «Lo so. Adesso sto bene. All'improvviso ho sentito il bisogno di scagliarmi contro qualcuno.» Andrew stava parlando con chi aveva bussato e Nina riconobbe le voci di Jill e Tony Levitas. La bambina dei loro vicini entrò nel soggiorno, si sedette a un capo del divano e iniziò a succhiarsi il pollice. La musica era lenta e Nina spense il registratore. «Scusate» disse Jill quando si sedette su una sedia. «Non volevamo salire ma... non so come dire.» «Avevi la pelle d'oca» disse Rosalie. «Sono venuta qui anch'io per lo stesso motivo.» Jill abbassò la voce. «Il tavolo in sala da pranzo ha iniziato a muoversi... giuro davanti a Dio. Poi Melanie è diventata isterica, diceva che c'era qualcosa in camera sua, e non ha voluto andare a letto. Prima di stasera non ha mai avuto paura del buio.» Rosalie disse: «Gli O'Hara stavano litigando. Ti sembra possibile?». «Li ho sentiti. Era proprio spiacevole.» «Ho portato i beveraggi» disse Tony, posando una caraffa di vino sul tavolo. Andrew entrò con altri bicchieri e versò il vino, poi si ritirò in un angolo con Tony. «Stasera avevamo intenzione di uscire» disse Jill. «Poi la baby-sitter ha chiamato per dire che non poteva venire perché un albero era caduto sul suo vialetto di casa. Non che abbia quella grande importanza... probabilmente anche a teatro manca la luce. Così siamo bloccati.» Tony e Andrew stavano parlando tra loro. «Naturalmente il temporale doveva scoppiare proprio la sera che dopo tanti mesi avevamo deciso di uscire» disse Jill amaramente. «E probabilmente passeranno degli anni prima di poter uscire di nuovo. Nina, che ti serva da lezione.» Sui suoi occhiali tremolò il riflesso di due fiamme. «Non avere figli prima di aver fatto tutto quello che vuoi fare, perché dopo non puoi più. E non sperare che tuo marito ti aiuti.» «Ho sentito» disse Tony. «È la verità.» «Ascolta, durante la settimana lavoro. Faccio la mia parte nei weekend.»
«Sei tu che a forza di insistere mi hai fatto smettere di lavorare.» «Perché ci sarebbe costato di più se continuavi a farlo.» «E allora? La mia serenità mentale non significa niente per te?» «Jill! odiavi quel lavoro.» «Perlomeno ero con degli adulti. Sto regredendo. Adesso lo sforzo intellettuale più grande che faccio è paragonare i meriti di General Hospital con quelli di Sentieri.» «Jill, desideravi un bambino.» «Sei tu che lo volevi!» «Sai qual è il tuo problema?» La voce di Tony era insolitamente acuta. «Non ti sei mai preoccupata di cercare un lavoro che ti piacesse, perché pensavi che qualche uomo si sarebbe preso cura di te. Adesso ti lamenti perché non ti piacciono i lavori di casa. Be', deciditi!» Melanie si rannicchiò, coprendosi la testa con le mani. Nina si strofinò le braccia, la stanza era fredda. Sentì qualcosa frusciare, poi uno scricchiolio. Molti libri volarono giù dagli scaffali, cadendo sul pavimento; uno la colpì sulla schiena. Balzò in piedi. Dentro di lei un serpente si srotolò, strisciandole su nella gola. «Maledizione, Andy! Devi tenere così tanti libri?» Stava di nuovo urlando. Gridava di rado, e in pochi minuti l'aveva già fatto due volte. Si diresse a grandi passi verso la finestra, scrutando fuori attraverso il temporale. Su una collina in lontananza brillavano delle luci che le ricordavano le stelle; perlomeno la Zona Sud aveva ancora la luce. Riusciva a malapena a distinguere i cinque uomini sul marciapiede sottostante, fermi a bere, incuranti della pioggia che li inzuppava e rotolava giù dalle giacche e dai capelli, dando l'impressione che si stessero sciogliendo. Un uomo tenne la bottiglia di birra per l'imboccatura, poi la gettò oltre la siepe nel cortile davanti alla casa. «Merda» mormorò Nina. «Qualcuno ha appena gettato una bottiglia nel cortile.» Andrew si avvicinò, spalancò la finestra e poi aprì la controfinestra. Il viso di Nina fu spruzzato di pioggia. «Ehi!» urlò Andrew al di sopra del vento mentre accendeva la pila su quei maleducati. «Raccogli quella bottiglia!» Gli uomini non si mossero. «Non gettare la tua merda nel nostro cortile.» Un altro uomo tirò indietro il braccio; una bottiglia volò, andando a spaccarsi contro un lato della casa. Un'altra bottiglia seguì la prima, atterrando sui rami del pino.
Nina chiuse in fretta la controfinestra. «Chiama la polizia.» «Non puoi» rispose Tony. «I telefoni non funzionano più. Prima di salire da voi ho provato a chiamarvi.» Melanie piagnucolò e iniziò a piangere. «Zitta!» disse Jill. Melanie si lamentò. «Sta' zitta!» Rosalie si sporse verso la bambina per calmarla, ma Jill le disse: «Lasciala stare». «C'è qualcosa di positivo nel divorzio» disse Jill. «Almeno, una volta ogni tanto ti liberi di Lisanne. Cosa te ne pare, Tony? Ti darò persino la tutela.» «Chiudi il becco, Jill.» «Ti pagherò il mantenimento della bambina.» Tony attraversò la stanza a grandi passi. «Zitta, maledizione.» «Non so di cosa vi lamentiate» urlò Rosalie. «Vorrei poter dedicare più tempo alla bambina. Quel maledetto di Elliot prima di dirmi che voleva il divorzio si è assicurato di avere qualcun altro a sua disposizione.» Nina si appoggiò contro il davanzale della finestra. Le voci amare sembravano lontane, le parole aspre arrivavano smorzate. La stanza era più calda, come se la rabbia degli amici avesse portato via il freddo. Guardò le ombre tremolanti vicino al divano, stupita che la calma Jill e l'allegra Rosalie potessero avere delle reazioni così violente. Andrew tracannò il vino, prese la caraffa e se ne versò un altro bicchiere. Un soffio d'aria solleticò l'orecchio di Nina. "Ha bevuto abbastanza." La voce era così bassa che la sentiva a malapena, si guardò intorno in fretta. "Non riuscirà a reggerlo. Non ha mai retto gli alcolici." Prima che potesse capire da dove provenisse la voce, la rabbia si era impossessata di lei; strinse i pugni. Andrew si inginocchiò, colpendo il registratore. «Queste maledette pile sono scariche. Vanne a prendere delle altre.» Nina gli rispose: «Non ce ne sono più». «Vuoi dire che non ne hai comperate?» «L'avrei fatto domani» rispose urlando. «Ti aspetti che mi ricordi di tutto?» Andrew si versò ancora del vino. Nina fece per prendere la bottiglia, ma Andrew gliela strappò di mano. «Andy, hai bevuto abbastanza.» «Non impicciarti» le rispose tracannando il vino con aria di sfida. «Andy, smettila. Lo sai che non puoi bere così tanto.»
«Faccio quello che mi pare. Non ho bisogno del tuo permesso.» "Diventerà in ubriacone come suo padre" sospirò la voce. «Diventerai come tuo padre» disse Nina. «A forza di bere finirai all'ospedale.» «Dio mio, è solo un po' di vino!» Andrew esclamò, alzandosi. «Non sai quante volte avrei voluto ubriacarmi e quante volte mi sono trattenuto. Tu e i tuoi continui rimproveri. Lasciami in pace. Vorresti vedermi ubriaco, eh? Solo per dimostrare che avevi ragione.» Nina sentì il rumore di uno schiaffo. «Figlio di puttana!» urlò Jill. «Adesso ti metti a picchiare le donne. Avanti, colpiscimi di nuovo.» Tony rispose: «La prossima volta non ti prendi solo uno schiaffo». Nina voleva urlare. La voce si mise di nuovo a sussurrare: "Jill tiene sempre il volume del televisore troppo alto. E Tony si dimentica di tosare il prato. E Melanie lascia i giocattoli sulle scale". Si tappò le orecchie, ma la sentiva sempre. "Ammettilo" le diceva. "Tu li odi." «No!» urlò Nina. Melanie aveva smesso di piangere; adesso era Rosalie che singhiozzava angosciata. «Dobbiamo smetterla.» Sentiva un dolore pungente al petto e faceva fatica a respirare. La stanza era più buia; quando fuori il vento soffiava, le pareti scricchiolavano. «Non abbiamo mai litigato prima di stasera... cosa ci succede?» Il dolore peggiorava; si sedette, stringendosi l'addome. Odiava tutti quelli che si trovavano nella stanza, e l'unico modo per liberarsi dell'odio era quello di manifestarlo. «Ha ragione» disse Tony con la voce che sembrava rauca. Il tavolino si mise a traballare e la candela danzò. Un altro libro volò attraverso la stanza, andando a finire con un tonfo contro il muro. Adesso i sussurri erano così forti che Nina riusciva a malapena a sentire qualcos'altro. «Sapete cos'è?» gracchiò Tony. «Non ho benedetto il vino. I miei genitori mi dicevano sempre di benedire il cibo perché altrimenti avrebbe avuto degli effetti negativi su di me.» Quando cantò una preghiera in ebraico, la sua voce gracidò. Il dolore di Nina si stava attenuando. Annusò l'aria, prima così opprimente, che adesso sapeva di pulito. «Cosa sta succedendo?» «Non so» rispose Tony. «Continua a pregare» disse Andrew. Tony cantò un'altra preghiera. «È questo. Se solo avessimo delle pile... potremmo sentire ancora un po' di Bach.» «Cosa c'entra quello?» chiese Rosalie. «È musica sacra. Non l'hai notato? Quando sentivamo la cassetta, tutto
andava bene. Adesso che Tony prega, non sento più quelle voci.» «Le sentivi anche tu?» «Penso che le sentissimo tutti.» Nina allungò la mano per prendere quella di Andrew. Tony si fermò per respirare; Rosalie iniziò a cantare Rock of Ages. «È la mancanza di energia elettrica» continuò Andrew. «È come se l'elettricità fosse una specie di magia bianca che tiene le cose sotto controllo. Adesso dobbiamo usare una magia più antica.» Nina tremò. Una mano invisibile le compresse la testa, aspettando di spezzarla una volta che fossero finiti i canti. Aveva sempre rimosso le leggende raccontate dai nonni, e persino loro non le prendevano poi tanto sul serio. Adesso ricordava i loro racconti che parlavano di oggetti che volavano attraverso le stanze, di omicidi casuali che di solito avvenivano di notte, di gente che barricava le porte per proteggersi dalle tenebre. «Non ci credo» disse Tony. «Per l'amor del cielo, siamo nel ventesimo secolo!» Rosalie adesso cantava Amazing Grace, con la voce che nelle note alte si inceppava. In cucina un piatto andò in frantumi sul pavimento. La candela sul tavolino si spense. Nina ebbe la sensazione di essere al centro di un vortice; cose invisibili le turbinavano intorno. Quando Andrew accese la candela, Rosalie continuò a cantare. Nina sentì che le pareti sarebbero crollate su di lei; qualunque cosa fosse, non sarebbe stato scacciato da semplici canzoni e preghiere. «Dobbiamo uscire di qui» disse Andrew. «La Zona Sud ha ancora l'elettricità, là dovremmo essere al sicuro.» «Non possiamo» rispose Jill. «È troppo rischioso. Hanno detto alla gente di tenersi lontano dalle strade a meno che non si tratti di un'emergenza.» «Questa è un'emergenza. Dovremmo infilarci in macchina e andarcene.» «No» disse Rosalie quando Tony iniziò a cantare. «Qui siamo più al sicuro.» «Fino a quando si continua a cantare.» Sugli scaffali i libri cominciarono a saltare. «E forse nemmeno allora.» «Andy ha ragione» disse Nina. Un cuscino d'aria sembrò ingoiare le sue parole. «Per favore, venite con noi.» Lanciò un'occhiata al divano. «Fate venire almeno Melanie.» «No» disse Jill, avvicinandosi alla bambina e facendole scudo con il
braccio. Nina indietreggiò verso la porta con Andrew. Nel corridoio il frigorifero vibrò, caddero ancora dei piatti. Prese la borsa, appesa al gancio. «È meglio se guido io. Non puoi guidare con tutto il vino che hai bevuto.» Le parole risuonarono più brusche di quanto avesse voluto; il dolore stava tornando. Andrew aprì la porta. Nina si voltò a guardare i propri vicini che si stringevano intorno alla candela; adesso una cortina di nebbia la separava da loro. Scivolò nel corridoio e scese le scale buie, tenendosi alla ringhiera. Dietro la porta degli O'Hara regnava uh silenzio sinistro. Quando aprì la porta d'ingresso, il vento gliela strappò quasi di mano, ma lei la tenne saldamente. Andrew le prese la borsa, frugando in cerca delle chiavi della macchina, mentre lei chiuse la porta con una spinta. Le gettò la borsa e si avviarono in fretta verso la macchina, parcheggiata dall'altra parte della via. Nel prato si era formata una grande pozzanghera che raggiungeva il marciapiede. La pioggia scrosciava su di lei, incollandole i vestiti al corpo. Un uomo nel cortile di casa sua urlava contro il portico. Nina non riusciva a vedere il resto della strada; il cielo, scuro com'era, sembrava più chiaro della terra nera. I fulmini illuminavano la strada, una sagoma era accucciata vicino alla casa e abbaiava. «Oscar» mormorò, riconoscendo il bassotto tedesco degli O'Hara e chiedendosi cosa facesse fuori casa. «Poverino.» Il cane fece un balzo verso di lei e le morse una gamba, poi con gli artigli e le zanne le lacerò i jeans. Nina con la borsa lo colpì sulla testa, mandandolo a sbattere contro la porta. «Dài, Nina!» Corse verso la macchina, salendo al fianco di Andrew e avviando il motore. La pioggia era così fitta che riusciva a vedere solo i tergicristalli che andavano avanti e indietro. Accese i fari e la macchina si mosse lentamente lungo la via. Il lato sinistro della strada era bloccato da un albero caduto, mentre nella corsia di destra c'era un gruppo di persone. Qualcuno stava sogghignando, i fari colsero il bianco dei loro denti e fece luccicare i loro occhi. Nina suonò il clacson. La folla si precipitò contro la macchina, costringendola a frenare, mentre dei pugni battevano contro i finestrini e la macchina dondolava. «Continua ad andare!» le urlò Andrew. Spinse il motore a tutto gas, la macchina fece un balzo un avanti e la gente si allontanò. Nina girò a sinistra, verso sud. «Ce la faremo» disse
Andrew. «Non abbiamo molta strada da fare.» La macchina si fermò. Nina girò la chiavetta, schiacciando il pedale. «Dannazione.» Il motore girò un paio di volte e poi tacque. «Cos'ha?» «Non so.» «Ti sei dimenticata di portarla in garage. Te l'avevo detto e tu ti sei dimenticata.» «Andy, maledizione!» Lo colpì; lui le afferrò i pugni, tenendola lontana. Lei cercò di dargli dei calci. «Nina!» le disse, scrollandola. «Dobbiamo camminare, tutto qui.» «Con questo tempo?» «Tanto sei già fradicia, dài!» Scesero dalla macchina e, mentre correvano verso il marciapiede, il vento ululò, facendo quasi cadere Nina. Sentì un forte scricchiolio: un albero cadde, fracassando l'automobile ormai vuota. Andrew le prese il braccio e la guidò nella via buia. Una massa scura brulicava davanti ai grandi magazzini; Nina sentì il suono di vetri andati in frantumi. Accanto a lei passarono in fretta due uomini con una cassa di bourbon; poi le sfrecciò vicino anche un ragazzo con un televisore portatile. Una folla si era accalcata davanti ai magazzini bui. Molta gente era all'interno, occupata a lanciare attraverso le vetrine infrante vestiti, piccoli elettrodomestici e bottiglie a quelli che si trovavano nel parcheggio. Andrew si fermò, Nina lo tirò per il braccio. «È meglio continuare a camminare!» gli urlò. «La polizia arriverà presto.» Sistemi d'allarme alimentati da batterie gemevano e suonavano con fragore e, quando attraverso la vetrina venne scagliato un forno a microonde, la ressa di persone acclamò con strepito. Nina si guardò intorno in fretta, chiedendosi dove fosse la polizia. Un'altra folla tumultuante stava correndo nella loro direzione; improvvisamente Nina e Andrew si trovarono in mezzo alla calca che li spingeva verso i magazzini. Cercò di raggiungere suo marito, ma le mani afferrarono solo l'aria. «Andy!» Lottò per rimanere in piedi, con la paura di venire calpestata se fosse caduta. «Andy!» Un tostapane le volò vicino, andando a colpire un'altra donna, che cadde e sparì dalla sua vista. Alcune persone avevano delle pile, tenendole come se fossero state torce. Una ragazza con le braccia cariche di jeans passò velocissima. Nina si allungò per aggrapparsi a un palo e l'afferrò forte mentre
la folla ondeggiava verso il reparto dei liquori. Sentiva i lamenti della gente a terra, sul marciapiede, I lampi illuminavano la scena; Nina pensò di vedere una pozza nera di sangue vicino alla testa di un uomo. «Andy!» «Nina.» Andrew era accanto a lei, disteso a terra. Si piegò su di lui, tirandolo, e lui mormorò: «La gamba... è ferita». Lo fece alzare in piedi, e Andrew si appoggiò pesantemente a lei. Altra gente passò vicino a loro e si unì alla folla che saccheggiava il negozio di elettrodomestici. «Non penso di farcela, faresti meglio a lasciarmi.» "Salvati" le sussurrò la voce. «No!» urlò Nina. Mentre trascinava Andrew attraverso il parcheggio in direzione della strada, si mise a pregare. Il vento si era calmato e la pioggia adesso cadeva meno fitta. Mentre Nina procedeva faticosamente con Andrew che continuava a zoppicare, le fronde degli alberi minacciosi la schiaffeggiavano. Mormorava preghiere quasi automaticamente: era stupita, dopo anni che non ne diceva una, di ricordarsene così tante. Passarono accanto a un prato ingombro di mobili e in lontananza sentirono un urlo. Per un attimo fu accecata da un lampo, e mentre sei bambini si mettevano a ridere, fu colpita da alcuni sassi. Nina schiaffeggiò l'aria con il braccio libero e, quando i bambini se ne andarono, il raggio di luce si spostò dal suo viso. Scrutò attraverso la pioggia e vide confusamente un bagliore dorato. «Luce!» disse. «Ci siamo quasi.» Adesso riusciva a distinguere i lampioni della strada e cercò di affrettare il passo, ma Andrew la costringeva a rallentare. Nina si ritrovò a dire: «Non mi avrai, mi salverò». Una strada illuminata, bloccata da un furgone dell'azienda elettrica, si snodava lungo i fianchi di una collina. Nina si avviò verso l'autocarro dove, lì accanto, sotto un lampione, c'era parcheggiata un'auto della polizia. Guidando Andrew in quella direzione, si avvicinò al confine fra il buio e la luce, poi si fermò. Cercò di fare un passo in avanti ma non ci riusciva; qualcosa la tratteneva. Si protese, ma le ginocchia si bloccarono. «No!» urlò. Un poliziotto, con addosso un impermeabile di gomma, scese dalla macchina e corse verso di lei. «Cosa fa lì?» le gridò. «Ci aiuti» disse, tendendo il braccio. Non riusciva a raggiungerlo, l'uo-
mo l'afferrò, ma cadde all'indietro. «Non riusciamo a entrare» disse il poliziotto. «Abbiamo tentato, ci stiamo ancora provando.» "E tu non puoi uscire" sussurrò la voce. Cercò di nuovo di fare un passo in avanti, ma si sentì rimandare indietro; Andrew scivolò per terra. «Signora, vorrei aiutarla, ma non posso.» Le disse il poliziotto agitando le braccia con aria impotente. Nina si lasciò cadere a terra, cullando Andrew fra le braccia. Improvvisamente la notte apparve più luminosa; ebbe l'illusione di vedere la luce che aveva tanto desiderato. Il vento urlò la propria furia, delle braccia l'afferrarono, ma si tenne stretta ad Andrew. «Su, signora!» Il poliziotto la stava sostenendo, in qualche modo era riuscito a raggiungerla. La lasciò andare e mise Andrew in piedi, Nina inciampò e seguì i due uomini verso la macchina, dove un altro poliziotto li stava aspettando. «Guardate!» urlò. Nina si voltò. La zona della città in cui abitava splendeva luminosa. Una fitta oscurità si levava dal terreno, poi iniziò a ritirarsi a nord, verso le colline. «Siamo salvi» disse a Andrew. «Siamo salvi.» Il poliziotto, mentre fissava la nebbia nera, scrollò il capo. Sopra di loro delle scintille danzarono lungo la linea elettrica, che si spezzò, contorcendosi nella loro direzione come un serpente. Trascinarono Andrew verso la macchina. La Zona Nord era di nuovo buia, e stava diventando sempre più scura e, poco dopo, l'oscurità era così fitta che Nina, al sicuro nella luce, non riusciva ad attraversarla con lo sguardo. Si era appisolata, e si svegliò con un sobbalzo, si scrollò e scese dalla macchina della polizia. Aveva smesso di piovere. Nella luce incerta vedeva un medico che stava bendando la gamba di Andrew. Una folla era ferma nella strada: osservava il velo nero davanti a loro. «È tornata la luce!» gridò la voce di un uomo. Mentre il sole spuntava sulle colline alla destra di Nina, la parete nera si ritirò sconfitta. Qualcuno urlò. Dove prima c'era l'oscurità, rimaneva solo la terra annerita; le tenebre avevano portato via tutto, lasciando solo una distesa vasta e desolata. Nella Zona Nord saccheggiata rimanevano solo le linee elettriche, sentinelle ronzanti della città.
Nina pensò ai propri amici, intrappolati per sempre nelle tenebre. Si chiese dove sarebbe andata l'oscurità. Sapeva la risposta. Si sarebbe ritirata ai confini del mondo, e nella gente che conosceva, e dentro di lei; persino in quel momento la sentiva in agguato, celata nelle ombre della propria mente, create dalle sue paure. Avrebbe aspettato fino a quando la magia bianca fosse di nuovo svanita. Lucius Shepard LA NOTTE DEL BIANCO BHAIRAB Lucius Shepard è probabilmente il migliore fra gli scrittori di romanzi brevi degli anni Ottanta. Il suo racconto R & R ha ricevuto il Nebula Award nel 1987. I suoi scritti sono stati riuniti di recente in un libro intitolato Jaguar Hunter. La caratteristica più evidente della sua opera è rappresentata dagli sfondi esotici, ispirati dai suoi viaggi. La notte del Bianco Bhairab, apparso per la prima volta in «Fantasy & Science Fiction» nell'ottobre 1984, è infatti ambientato in Nepal. È la storia di una giovane ragazza americana in cerca di un'illuminazione a Katmandu; le succederà invece di innamorarsi e di trovarsi coinvolta in un'avventura soprannaturale. In questo racconto Lucius Shepard si serve non solo del paesaggio del Nepal ma anche dei suoi miti e delle sue leggende, riuscendo a creare un oscuro intrico orientaleggiante con la presenza di tutte le sue componenti misteriose. Ogni volta che il signor Chatterji si recava a Delhi per i suoi affari, e questo capitava in genere due volte all'anno, affidava la custodia della propria casa di Katmandu a Eliot Blackford e, prima di ogni viaggio, la consegna delle chiavi e delle istruzioni avveniva all'Hotel Anapurna". Eliot, un uomo sui trentacinque anni, angoloso e dai lineamenti affilati, con i capelli biondi che andavano diradandosi e un'espressione perennemente fervida, conosceva il signor Chatterji come un'anima sottile e sospettava che proprio questa caratteristica gli avesse suggerito la scelta del luogo. L'"Anapurna" era l'equivalente nepalese dell'"Hilton" con il banco del bar in plastica e vinile, con le bottiglie sistemate davanti allo specchio come in un coro, le luci soffuse e i tovaglioli con i monogrammi. Il signor Chatterji, grasso e fiorente, indossava un completo. Considerava l'essere di casa in quel locale un'elegante confutazione del famoso distico di Kipling «L'Oriente è l'Oriente», mentre Eliot, che certamente non lo era, portava una
camicia trasandata e un paio di sandali; di solito si limitava a sostenere che non solo i due si erano conosciuti, ma in realtà si erano scambiati i ruoli. Era inoltre proprio il fine acume di Eliot che lo tratteneva dal far notare ciò che il signor Chatterji non coglieva: cioè che l'"Anapurna" era solo una bislacca imitazione del "sogno americano". La moquette correva sia all'interno che all'esterno, il menù era zeppo di ridicoli errori di battitura (skotch ad esempio, o screvdriver1) e l'attrazione, rappresentata da due indiani in smoking e turbante, chitarre elettriche e strumenti a percussione, riusciva a trasformare gli Evergreen in un dolente raga2. «Ci sarà una consegna importante» disse Chatterji, poi chiamò a gran voce il cameriere, facendo scorrere sul tavolo il bicchiere di liquore di Eliot. «Avrebbe dovuto avvenire giorni fa, ma sai, no, come sono i doganieri.» Rabbrividì leggermente per esprimere il proprio disgusto nei confronti della burocrazia e guardò in cerca di consenso Eliot, che non obiettò. «Di cosa si tratta?» chiese, già sapendo che non poteva che essere un pezzo destinato ad arricchire la collezione di Chatterji, collezione di cui lui amava parlare con gli americani, in quanto essa era una dimostrazione della sua familiarità con la loro cultura. «Di qualcosa di fantastico!» rispose Chatterji. Prese la bottiglia di tequila che gli porgeva il cameriere e, con uno sguardo premuroso, la passò a Eliot. «Hai mai sentito parlare del Terrore di Carversville?» «Sì, certo» rispose, buttando giù un altro bicchiere. «C'era un libro che ne parlava.» «Esatto» aggiunse Chatterji. «Un best-seller. Una volta la residenza infestata da fantasmi più famosa era la villa Cousineau, proprio nel tuo New England, mister Eliot. È stata demolita diversi mesi fa, e io sono riuscito ad acquistare il caminetto, che era» fece una pausa per sorseggiare il liquore «il centro del potere. Sono stato molto fortunato ad accaparrarmelo.» Posò il bicchiere nel cerchio umido lasciato sul banco e prese a fare l'erudito. «Aimée Cousineau era uno spirito davvero insolito, capace di molti...» Eliot era concentrato sulla propria tequila. Immancabilmente questi racconti lo infastidivano come d'altronde, per vari motivi, la strisciante mimesi filooccidentale di Chatterji. Quando era arrivato a Katmandu come membro del Corpo dei volontari della pace, Chatterji gli si era presentato con un'immagine molto meno pomposa: un ragazzo scheletrico vestito di jeans, riusciti a ottenere da un turista dopo varie lusinghe. Era uno dei parassiti, soprattutto giovani tibetani, che frequentavano le luride sale da tè di
Freak Street, guardando gli hippy americani ridacchiando del loro yogurt pasticciato e desiderando ardentemente i loro vestiti, le loro donne e la loro cultura. Gli hippy avevano stima dei tibetani, un popolo che per loro rappresentava la leggenda e i simboli dell'occulto allora di moda, e lo scoprire che amassero i film di James Bond, le macchine potenti e Jimi Hendrix aveva aumentato negli hippy la stima di se stessi. Trovarono quindi ridicolo che Ranjeesh Chatterji, l'ennesimo indiano occidentalizzato, amasse quelle cose e lo trattavano pertanto con scarsa considerazione. Adesso, tredici anni dopo, i ruoli si erano rovesciati, ed era Eliot che era diventato il parassita. Al termine del viaggio si era stabilito a Katmandu con l'idea di praticare la meditazione per raggiungere l'illuminazione, ma non ci era riuscito. Nella sua mente c'era un ostacolo - se lo raffigurava come una pietra scura, formata dai legami terreni - che, nonostante gli esercizi, non era svanito, e la sua vita si basava ora su valori molto più banali. Trascorreva dieci mesi all'anno in una piccola camera vicino al tempio di Swayambhunath, intento alla meditazione nel tentativo di cancellare la pietra, e poi, in marzo e in settembre, occupava la casa di Chatterji e si abbandonava a liquori, sesso e droga. Sapeva che Chatterji lo considerava un esaurito e che affidargli la mansione di custode era in effetti per lui una personale forma di vendetta, un mezzo attraverso il quale esercitare il proprio potere, ma a Eliot non interessava nulla di tutto questo. C'erano cose peggiori del fatto di essere un esaurito nel Nepal. Era un paese bellissimo, dove la vita costava poco, ed era lontano dal Minnesota (il luogo natale di Eliot). Qui il concetto di fallimento personale non aveva nessun senso: vivevi, morivi e rinascevi innumerevoli volte fino a quando raggiungevi l'estremo successo del "non esistere": una stupenda consolazione per la propria sconfitta. «Nel tuo paese, però,» Chatterji stava dicendo «il male ha una caratteristica passionale, sessuale. Come se gli spiriti adottassero personalità vibranti per competere con i complessi pop e le stelle del cinema.» A Eliot venne da fare un commento, ma era ingolfato dalla tequila e si limitò a ruttare. Tutto, in Chatterji, denti, occhi, capelli e anelli d'oro sembrava scintillare con una straordinaria brillantezza, sembrava volubile come una bolla di sapone, una piccola, grassa illusione indù. Chatterji si batté una mano sulla fronte. «Stavo per dimenticarmene: in casa ci sarà un'ospite americana. Una ragazza... molto formosa!» e con le mani disegnò nell'aria una clessidra. «Mi piace parecchio, ma non so se è fidata. Per favore, controlla che non porti con sé qualche vagabondo.»
«D'accordo» rispose Eliot. «Non c'è problema.» «Adesso credo che giocherò un po' d'azzardo» disse, alzandosi in piedi e guardando l'atrio. «Vieni con me?» «No, ho intenzione di ubriacarmi. Ci rivediamo a ottobre.» «Eliot, sei già ubriaco» notò, dandogli una pacca sulla spalla. «Non te n'eri accorto?» Il mattino dopo, di buon'ora, con i postumi della sbornia e la lingua attaccata al palato, Eliot assunse la posizione della meditazione per un ulteriore tentativo di visualizzare il Budda Avalokitesvara. Tutti i suoni che provenivano dall'esterno - il ronzio di un ciclomotore, il canto degli uccelli e la risata di una ragazza - ripetevano continuamente il mantra,3 e le pareti di pietra grigia della sua camera sembravano allo stesso tempo decisamente reali e fragili, di carta, come un fondale dipinto che avrebbe potuto lacerare con le mani. Iniziò ad avvertire la stessa inconsistenza, quasi fosse stato immerso in un liquido che lo offuscasse, colmandolo al contempo di chiarezza. Un semplice alito di vento avrebbe potuto farlo galleggiare fuori della finestra, trasportandolo attraverso i campi, passando attraverso alberi e montagne e tutti gli spettri del mondo materiale... ma poi un rivolo di panico sgorgò dal fondo della sua anima, da quella pietra scura. Stava iniziando a bruciare, a emettere esalazioni velenose; una piccola mattonella di rabbia, desiderio e paura. Nella chiara sostanza che aveva assunto si aprivano le crepe e, se non si fosse mosso in fretta, se non avesse interrotto la meditazione, sarebbe andato in frantumi. Abbandonò la posizione del fior di loto e rimase sdraiato sorreggendosi sui gomiti. Il cuore gli batteva all'impazzata, il petto si sollevava ritmicamente e si sentì vicino a urlare la propria frustrazione. Sì, la tentazione era proprio forte. Giusto per fare qualcosa: gridare e raggiungere, attraverso il caos, ciò che non poteva attraverso la chiarezza: liberare se stesso con gli urli. Stava tremando, e le sue emozioni andavano dall'odio per la propria persona all'autocommiserazione. Si rialzò faticosamente e si infilò un paio di jeans e una maglietta di cotone. Sapeva di essere vicino a un punto di rottura e si rendeva conto che ciò gli accadeva tutte le volte che stava per trasferirsi nella residenza di Chatterji. La sua vita era un esile filo teso fra due punti di dissolutezza. Un giorno o l'altro si sarebbe spezzato. «Al diavolo!» esclamò, e finì di mettere i vestiti nella sacca di viaggio. Poi andò in città. Camminare attraverso Durbar Square, che non era proprio una piazza ma
piuttosto un enorme tempio disseminato di aree aperte e attraversato da sentieri acciottolati, gli ricordava il breve periodo in cui aveva lavorato come guida turistica. Una carriera, questa, interrotta bruscamente non appena l'agenzia aveva ricevuto delle lamentele sul suo modo di fare un po' troppo eccentrico. ("E mentre passate fra i cumuli di rifiuti umani e di bucce di frutta, vi esorto a non respirare troppo profondamente l'afflato divino, altrimenti potrebbe rendervi per sempre insensibili alla fragranza di Prairie Cove o Petitpoint Gulch o comunque si chiami la cittadina in cui la vita è piacevole e che chiamate casa...") L'aveva sempre infastidito dover parlare dell'arte e della storia della piazza, specialmente alla gente semplice che era lì solo per una fotografia di Edna o dello zio Jimmy vicino a quella strana divinità dalle fattezze scimmiesche posta sul piedestallo. Quel luogo era straordinario e, secondo Eliot, un turismo così incolto lo degradava. I tempi a pagoda di mattoni rossi e legno scuro sovrastavano il paesaggio, e i fiori cruciformi dei pinnacoli si ergevano in fulmini di ottone. Avevano un aspetto alieno, e quasi ti attendevi che il cielo si tingesse di un colore ultraterreno e che si adornasse di molte lune. Le grondaie e i vetri delle finestre erano incisi in modo elaborato con le immagini di divinità e demoni, e dietro un grande vetro del tempio del Bianco Bhairab c'era la maschera di quel dio. Era alta quasi tre metri, di ottone, con la capigliatura fantasiosa, le orecchie con grandi lobi e la bocca che mostrava zanne bianche; le ciglia, fieramente arcuate, erano smaltate di rosso, ma gli occhi avevano la stolta espressione comune alle divinità newari e, per quanto fossero irati, lasciavano trasparire qualcosa di essenzialmente amichevole, e a Eliot ricordavano i cartoni animati. Una volta all'anno, infatti, più o meno in quel periodo, i vetri venivano aperti e nella bocca del dio si infilava un tubo da cui zampillava birra di riso che cadeva nelle bocche della folla brulicante; a un certo punto un pesce scivolava nel tubo e chiunque lo avesse preso sarebbe stato considerato l'anima più fortunata della valle di Katmandu per tutto l'anno seguente. Era consuetudine di Eliot partecipare alla cerimonia per cercare di afferrare il pesce, anche se sapeva che non era della fortuna che aveva bisogno. Oltrepassata la piazza, le vie erano strette, e si dipanavano fra lunghi palazzi di mattoni di tre o quattro piani, ognuno diviso in dozzine di abitazioni individuali. La striscia di cielo fra i tetti era brillante, di un bel blu intenso - un colore freddo - e all'ombra i mattoni sembravano di porpora. La gente era affacciata alle finestre dei piani superiori e chiacchierava da una parte all'altra della viuzza: questa era la vita dei rioni nepalesi. Piccoli san-
tuari di legno contenenti statue di stucco o di ottone erano incassati in nicchie nel muro all'inizio dei vicoli. A Katmandu gli dei erano dappertutto, e non c'era angolo da cui il loro sguardo non girasse all'intorno. Raggiunta la casa di Chatterji, che occupava mezzo isolato, Eliot andò per prima cosa nel cortile interno; da qui una scala portava all'appartamento. Eliot era intenzionato a controllare immediatamente cosa ci fosse rimasto da bere. Quando entrò nel cortile, una falange di piante simile a una giungla intorno a una losanga di cemento, vide la ragazza e si fermò di scatto. Sedeva su una sedia a sdraio intenta a leggere, e sembrava davvero molto ben fatta. Indossava un paio di pantaloni larghi di cotone, una maglietta e una lunga sciarpa bianca intessuta di fili dorati. I pantaloni e la sciarpa erano la tipica uniforme dei giovani turisti che generalmente bazzicavano l'enclave degli esuli a Temal: quasi che tutti li avessero comprati immediatamente dopo l'arrivo per identificarsi l'uno con l'altro. Avvicinandosi di fianco e sbirciando attraverso le foglie di un albero della gomma, Eliot vide che aveva gli occhi da cerbiatta, la pelle color miele e i capelli castani con delle ciocche più chiare che le arrivavano alle spalle. La bocca larga aveva un'espressione imbronciata. Avvertendo la presenza di Eliot, alzò lo sguardo spaventata, poi fece un cenno con la mano e posò il libro. «Sono Eliot» disse lui, avvicinandosi. «Lo so. Me l'ha detto Ranjeesh.» Lo fissava priva di curiosità. «E tu?» Si accovacciò al suo fianco. «Michaela.» Continuava a rigirare il libro, come se fosse ansiosa di riprendere a leggere. «Vedo che sei appena arrivata in città.» «Come lo sai?» Le spiegò dei vestiti, e lei si strinse nelle spalle. «Io sono così» disse. «Probabilmente li indosserò sempre.» Incrociò le braccia sul ventre, piacevolmente rotondo, ed Eliot, che era un intenditore di forme femminili, avvertì l'inizio di un'erezione. «Sempre?» ripeté. «Intendi rimanere qui così tanto?» «Non so» rispose lei, facendo scorrere il dito lungo il bordo del libro. «Ranjeesh mi ha chiesto di sposarlo, e io gli ho risposto che ero indecisa.» L'infantile piano di seduzione di Eliot crollò demolito da questa affermazione ed egli non riuscì a nascondere la propria incredulità. «Sei innamorata di Ranjeesh?» «Cosa c'entra questo?» Una ruga, perfetto sintomo del suo stato d'animo,
si tracciò sul suo viso per esprimere rabbia impaziente. «Niente. Se per te non conta nulla.» Abbozzò un sorriso. «Be',» disse dopo un po' «ti piace Katmandu?» «Non esco molto» rispose seccamente. Era chiaro che non aveva voglia di conversare, ma Eliot non era ancora pronto a darsi per vinto. «Dovresti» le suggerì. «Fra poco inizia la festa di Indra Jatra, è abbastanza selvaggio. Specialmente la notte del Bianco Bhairab, con il sacrificio dei bufali, la luce delle torce...» «Non mi piacciono le folle.» Seconda mazzata. Eliot si sforzò di pensare a un argomento stimolante, ma aveva ormai idea che fosse una causa persa. In lei c'era qualcosa di indolente, un'apparenza di indifferenza che richiamava alla mente la Thorazine, la routine ospedaliera. «Hai visto il Khaa?» le chiese. «Che cosa?» «Il Khaa. È uno spirito... anche se qualcuno ti direbbe che è in parte un animale, perché qui i mondi degli spiriti e degli animali si sovrappongono. Qualunque cosa sia, tutte le case vecchie ne hanno uno, e quelle che non ce l'hanno sono considerate sfortunate. Qui ce n'è uno.» «Che aspetto ha?» «È vagamente antropomorfico. Nero, indistinto, una specie di ombra vivente. Riescono a stare eretti ma, invece di camminare, rotolano.» Lei si mise a ridere. «No, non ne ho mai visti. E tu?» «Forse» rispose Eliot. «Ho creduto di vederlo un paio di volte, ma ero parecchio sbronzo.» Si sedette diritta e accavallò le gambe, i seni dondolarono lievemente ed Eliot lottò per continuare a guardarla in viso. «Ranjeesh dice che sei un po' strambo.» Vecchio Ranjeesh! Si sarebbe dovuto aspettare che quel figlio di puttana parlasse male di lui con la sua nuova donna. «Penso di esserlo» disse. «Faccio molta meditazione e qualche volta mi trovo in bilico sull'orlo.» Sembrò però più incuriosita da quest'affermazione che da tutto il resto, e un sorriso le sciolse i lineamenti sino ad allora rigidamente composti. «Dimmi ancora qualcosa del Khaa» disse. Eliot si congratulò con se stesso. «Sono dei tipi originali» spiegò. «Né buoni né maligni. Si nascondono negli angoli bui, anche se qualche volta vengono visti nelle strade o nei campi vicino a Jyapu. Quelli più antichi, che sono anche i più potenti, dimorano nei templi di Durbar Square. C'è
una storia che parla di quello in questa casa che descrive come si comportano... se t'interessa.» «Certo.» Un altro sorriso. «Prima che Ranjeesh comprasse questo palazzo, la casa era una locanda, e una notte venne una donna con tre gozzi sul collo per trascorrervi la notte. Aveva due pagnotte di pane che stava portando a casa alla sua famiglia e, prima di andare a letto, le infilò sotto il cuscino. Verso mezzanotte il Khaa rotolò nella sua camera e fu colpito al vedere i tre gozzi che si sollevavano e abbassavano insieme al respiro. Pensò che sarebbero stati una bellissima collana, così li prese e se li mise al collo. Poi vide le pagnotte che sporgevano dal cuscino, sembravano buone, così prese anche quelle e al loro posto mise due pagnotte d'oro. Quando la mattina dopo la donna si svegliò, fu felicissima! Corse al suo villaggio per raccontare tutto alla sua famiglia, e lungo la strada incontrò un'amica che stava andando al mercato, che aveva ben quattro gozzi. La prima donna le disse cos'era successo, e quella notte la seconda donna andò alla locanda e fece esattamente le stesse cose dell'amica. Verso mezzanotte il Khaa rotolò nella stanza. Si era stufato della sua collana e così la diede alla donna. Aveva inoltre deciso che il pane non era poi così buono, ma ne aveva ancora una pagnotta e voleva fare un altro tentativo. Così in cambio della collana, prese l'appetito di pane della donna, che quando si svegliò, aveva sette gozzi, niente oro e non riuscì più a mangiare pane per il resto della vita.» Eliot si era aspettato di farla divertire, e aveva sperato che la storiella potesse essere la mossa iniziale di un gioco con il risultato scontato di una piacevole conclusione, ma non aveva certamente previsto che invece lei si alzasse, allontanandosi di nuovo da lui. «Devo andare» disse, e con un distratto cenno della mano si diresse verso la porta principale. Camminava a testa bassa, le mani infilate in tasca, come se stesse contando i passi. «Dove vai?» chiese stupito. «Non so. Forse a Freak Street.» «Vuoi che ti accompagni?» Quando arrivò alla porta, si girò. «Non è colpa tua,» disse «ma non apprezzo la tua compagnia.» Sconfitto! Fumo che strisciava, che turbinava, schiaffeggiando il bordo della collina ed esplodendo in una palla infuocata.
Eliot non capiva perché fosse stato colpito così profondamente. Gli era già successo, e non sarebbe stata l'ultima volta. Normalmente se ne sarebbe andato a Temal per cercarsi un'altra sciarpa lunga e bianca e un paio di pantaloni di cotone, e una donna meno morbosamente complessa (come, a posteriori, definiva Michaela), una che l'avrebbe aiutato a ricaricarsi per tentare ancora una volta di visualizzare il Budda Avalokitesvara. Infatti andò proprio a Temal, ma si sedette semplicemente in un ristorante a bere tè e fumare hashish, e osservare i giovani viaggiatori che si accoppiavano per la notte. Una volta prese la corriera per Patan e andò a trovare un amico, un vecchio hippy di nome Sam Chipley che dirigeva una clinica medica; un'altra volta arrivò fino a Swayambhunath, abbastanza vicino per vedere la cupola bianca dello stupa,4 e sulla cima la struttura dorata su cui erano dipinti gli occhi onniveggenti del Budda, che sembravano malevoli e irritati, come se non avessero gradito il suo avvicinarsi. Trascorse la settimana che seguì a vagare per la casa di Chatterji con una bottiglia in mano, continuando a scolare liquidi e a tenere d'occhio Michaela. La maggior parte delle stanze non era ammobiliata, ma molte conservavano le tracce di ospiti recenti: pipe per l'hashish spezzate, sacchi a pelo scuciti, pacchetti di incenso vuoti. Chatterji permetteva ai viaggiatori che sessualmente gli piacevano, sia a uomini che donne, di usare le camere anche per molti mesi consecutivi, e attraversarle era come fare un giro storico della controcultura americana. I disegni sui muri parlavano di interessi che andavano dal Vietnam ai Sex Pistols, dal movimento di liberazione della donna alla crisi degli alloggi in Gran Bretagna, o comunicavano messaggi personali: "Ken Finkel, mettiti in contatto con me all'American Express di Bangkok... baci, Ruth". In una delle stanze c'era un murale che raffigurava Farrah Fawcett seduta sul grembo di un demone tibetano, intenta a stringergli il fallo peloso. Tutto evocava l'immagine di un ambiente frantumato e confuso. L'ambiente di Eliot. All'inizio il giro lo divertiva, ma alla fine prese ad angosciarlo, e così iniziò a trascorrere sempre più tempo su una terrazza che si affacciava sul cortile in comune con la casa vicina, ascoltando il canto delle donne newari e leggendo i libri presi nella biblioteca di Chatterji, uno dei quali era intitolato Il Terrore di Carversville. "... raccapricciante, raggelante..." diceva il «New York Times» nel risvolto della copertina del libro... "il terrore è implacabile..." commentava Stephen King... "affascinante, vi farà contrarre lo stomaco, l'orrore in questo libro è difficilmente contenibile..." diceva entusiasticamente «People». Eliot aggiunse in chiare lettere la propria recensione pubblicitaria: ...
"grandissima stronzata..." Il libro, rivolto a lettori poco colti, era la trattazione romanzata di eventi che volevano sembrare reali e che parlavano delle esperienze della famiglia Whitcomb, che durante gli anni Sessanta aveva cercato di rinnovare la residenza Cousineau. Dopo l'intensificarsi di apparizioni, correnti gelide, odori nauseabondi, la famiglia - papà David, mamma Elaine, i figli Tim e Randy e la piccola Ginny - si erano riuniti per discutere della situazione. Per colpa della casa, pensò David, anche i ragazzini erano invecchiati. Riuniti intorno alla tavola da pranzo, sembravano una compagnia di dannati: smarriti, con le occhiaie e i visi torvi. Persino con le finestre spalancate e la luce che entrava a fiotti sembrava esserci nell'aria una cappa che nessuna luce potesse disperdere. Grazie a Dio, di giorno quella "cosa" maledetta era inattiva! «Be',» disse «penso che possiamo iniziare a parlare.» «Voglio andare a casa!» Le lacrime sgorgarono dagli occhi di Randy e, proprio al momento opportuno, anche Tim si era messo a piangere. «Non è così semplice» disse David. «Questa è casa nostra, e non so come ce la potremmo cavare se ce ne andassimo, il deposito in banca è quasi asciutto.» «Potrei cercarmi un lavoro» propose Elaine con poco entusiasmo. «Non ho intenzione di andarmene!» esclamò Ginny, scattando in piedi e rovesciando la sedia. «Ogni volta che inizio a farmi degli amici, ce ne andiamo!» «Ma, Ginny!» Elaine allungò una mano per confortarla. «Eri quella che...» «Ho cambiato idea!» Indietreggiò, come se improvvisamente avesse riconosciuto in loro dei nemici mortali. «Potete fare quello che vi pare, ma io rimango!» E corse fuori dalla stanza. «Oh, Dio!» disse Elaine stancamente. «Cosa c'è in lei che non va?» L'unica parte interessante del libro parlava di quello che era entrato in Ginny, ovvero lo spirito di Aimée Cousineau. Preoccupato per il comportamento della figlia, David Whitcomb aveva fatto delle indagini sulla casa e aveva scoperto molte cose sullo spirito che vi dimorava. Aimée Cousineau, nata Vuillemont, era nativa di St. Berenice, un paese svizzero ai piedi del monte Eiger5 (nella parte centrale del libro c'era una fotografia del monte, come di Aimée, una donna dalla bellezza gelida, con i capelli neri e i lineamenti perfetti). Fino all'età di quindici anni era stata una ragazzina
dolce, come tante altre, ma nell'estate del 1889, durante una gita sul monte Eiger, si era persa in una caverna. La famiglia aveva già abbandonato tutte le speranze di rivederla quando tre settimane dopo, con loro grande gioia, riapparve sui gradini del magazzino del padre. La loro felicità però fu di breve durata, in quanto l'Aimée ritrovata era ben diversa da quella che era entrata nella caverna. Violenta, calcolatrice e trasandata. Nei due anni che seguirono, riuscì a sedurre metà degli uomini del paese, compreso il prete del posto. Secondo la testimonianza di quest'ultimo, stava ammonendola che il peccato non porta alla felicità, quando lei cominciò a spogliarsi dicendogli: «lo sono congiunta alla Felicità. Ho avvinto le mie membra con il dio della Beatitudine e ho baciato le cosce squamose della Gioia». Durante tutto il rapporto amoroso che ne seguì, continuò a proclamare enigmatici commenti su "dio sotto la montagna", la cui anima era per sempre unita alla sua. A questo punto il libro tornava a occuparsi delle terribili avventure della famiglia Whitcomb, e Eliot, annoiato, si accorse che era mezzogiorno e che Michaela stava sicuramente prendendo il sole e quindi salì all'appartamento di Chatterji, che era situato al quarto piano. Gettò il libro su uno scaffale e uscì sulla terrazza. Il suo continuo interesse per Michaela lo sconcertava. Pensò che forse si stava innamorando, e che questo sarebbe stato piacevole. Anche se non lo avrebbe portato da nessuna parte, l'amore sarebbe stato fonte di energia positiva, ma dubitava che si trattasse veramente di questo. Era più probabile che il suo interesse fosse fondato su qualche effetto furente della pietra scura dentro di sé. Pura lussuria. Si sporse dal davanzale della terrazza. Era sdraiata su un telo, con il reggiseno del bikini vicino, sul fondo di un pozzo formato dalla luce leggera e pura del sole, che simile a miele raffinato scendeva e si congelava nel modello di una piccola donna dorata. Sembrava che fosse il suo calore a diffondersi nell'aria. Quella notte Eliot ruppe una delle regole fissate e dormì nella camera di Chatterji. Il tetto era un grande lucernario fissato nel soffitto dipinto di un colore blu notte. Per Chatterji il comune sfoggio di stelle non era sufficiente e così si era fatto costruire il lucernario di vetro sfaccettato che moltiplicava le stelle, dando l'impressione di essere al centro di una galassia, a scrutare fra gli interstizi della sua anima ardente. Le pareti erano coperte a tutta grandezza dalla fotografia del ghiacciaio Khumbu e del Chomolungma6 che, inondati dalla luce delle stelle, davano l'illusione della profondità
gelida del silenzio della montagna. Sdraiato sul letto, Eliot sentiva i suoni lontani dell'Indra Jatra: urli e cembali, oboe e tamburi. Ne era attirato e voleva correre fuori nelle strade, diventare tutt'uno con la folla ubriaca, turbinare attraverso la luce delle torce e nel delirio ai piedi di un idolo macchiato di sangue sacrificale. Si sentiva però legato alla casa, a Michaela. Solo nel bagliore della luce delle stelle di Chatterji, galleggiando sul Chomolungma e ascoltando il frastuono del mondo sotto di lui poteva quasi credere di essere un bodhisattva7 in attesa di un richiamo all'azione e che la propria vigilanza avesse qualche scopo. Il carico arrivò nel tardo pomeriggio dell'ottavo giorno. Consisteva di cinque casse enormi, ognuna delle quali richiese gli sforzi di Eliot e di tre operai newari per raggiungere faticosamente il terzo piano, dove era ospitata la collezione di Chatterji. Dopo avere dato la mancia agli uomini, Eliot, sudato e ansante, si sedette appoggiandosi al muro per riprendere fiato. La stanza misurava circa sette metri per cinque, ma sembrava più piccola per le dozzine di oggetti curiosi posati sul pavimento o fissati uno sull'altro alle pareti. Un pomello d'ottone, una porta rovinata, una sedia dallo schienale diritto con i braccioli legati tra loro da un cordone di velluto per evitare che la gente si sedesse, un lavandino sbiadito, uno specchio macchiato di marrone, un paralume squarciato... Erano i resti di qualche ossessione o possessione, di qualche violenza assurda, corredati di biglietti che ne attestavano i dettagli e ne indicavano i riferimenti nei testi della biblioteca di Chatterji. Circondate da questi resti, le casse sprangate, alte fino al petto e marchiate con i timbri della dogana, apparivano innocue. Quando si fu riposato, Eliot passeggiò nella stanza, divertito dalla puntigliosità con la quale Chatterji si prodigava nel suo hobby. La cosa più divertente era che nessuno, a parte Chatterji, ne rimaneva colpito, ma al limite serviva a fornire una nota curiosa in più al viaggio dei visitatori. Nient'altro. Un'ondata di stordimento lo travolse, forse si era alzato troppo presto, e si appoggiò a una cassa per sostenersi. Gesù, era in una forma pessima! Poi, mentre allontanava i grovigli di puntini opachi che gli vagavano davanti agli occhi, la cassa diede un impercettibile sobbalzo, come se all'interno qualcosa nel sonno si fosse contorto. Era palpabile, reale. Indietreggiando, si precipitò verso la porta. Il gelo gli avvolse ogni articolazione e giuntura della colonna vertebrale, tutto il sudore evaporò, lasciandogli la pelle appiccicaticcia. La cassa adesso era immobile, ma aveva paura a distoglierne lo sguardo, certo che, se l'avesse fatto, avrebbe liberato la sua
furia repressa. «Ciao» disse in quel momento Michaela sulla soglia della porta. La sua voce gli diede come una specie di scossa elettrica; emise un grido rauco e si voltò di scatto, con le mani levate per scansare un attacco. «Non volevo spaventarti» disse. «Scusami.» «Maledizione! Non muoverti così di soppiatto!» Si ricordò della cassa e si girò a guardarla. «Stavo per chiudere...» «Mi spiace» ripeté, passandogli vicino ed entrando nella stanza. «Ranjeesh si comporta talmente da idiota con tutte queste cose» disse, facendo scorrere la mano sul coperchio della cassa. «Non lo pensi anche tu?» La naturalezza con cui Michaela toccava la cassa diminuì l'ansia di Eliot, forse era stato lui a muoversi, magari per uno strappo ai muscoli sovraffaticati. «Sì, sono d'accordo con te.» Lei si avvicinò alla sedia dallo schienale dritto, tolse il cordone di velluto e si sedette. Indossava una gonna marrone chiaro e una camicetta scozzese che la facevano sembrare una studentessa. «Voglio scusarmi per l'altro giorno» disse. Poi chinò il capo e la massa dei capelli piovve in avanti, nascondendole il volto. «Ultimamente ho avuto un periodo difficile, ho dei problemi con la gente. Senza motivo. Ma, visto che dobbiamo vivere insieme, vorrei che fossimo buoni amici.» Si alzò, lisciandosi le pieghe della gonna. «Hai visto? Mi sono perfino vestita diversamente. Pensavo che gli altri vestiti potessero darti fastidio.» L'innocente sensualità della posa gli provocò un'ondata di desiderio. «Stai bene» disse con forzata noncuranza. «Come mai attraversi un brutto periodo?» Andò alla porta e sbirciò fuori. «Vuoi davvero saperlo?» «No, se ti addolora.» «Non importa» rispose, appoggiandosi al telaio della porta. «Facevo parte di un complesso negli Stato Uniti, e tutto stava andando bene. Si parlava di incidere dischi, di case discografiche e cose del genere. Vivevo con il chitarrista e ne ero innamorata, Poi ebbi una relazione, nemmeno una relazione, una cosa stupida, senza senso. Ancora adesso non so perché l'ho fatto. Probabilmente l'eccitazione di quel momento, chissà. Il rock'n'roll parla proprio di questo e io forse ho solo messo in pratica il mito. Uno degli altri musicisti lo disse al mio ragazzo. Ecco come sono i complessi, sei amico con tutti, ma mai contemporaneamente. Vedi, avevo raccontato a questo tipo della relazione. Ci eravamo sempre confidati. Ma un giorno si arrabbiò con me per qualcosa. Qualcos'altro di stupido e senza senso.» Lottava
per non far tremare il mento, l'aria che soffiava in cortile le faceva andare i capelli sul viso. «Il mio ragazzo si infuriò e pestò il mio...» Rise tristemente. «Non so come chiamarlo. Il mio amante? Be', comunque sia, il mio ragazzo lo uccise. Fu un incidente, ma cercò di scappare e la polizia gli sparò.» Eliot voleva fermarla, naturalmente lei stava nuovamente rivedendo tutto davanti ai suoi occhi, il sangue, i lampeggianti delle auto della polizia, le luci fredde dell'obitorio... Stava però facendosi trasportare dall'onda dei ricordi, sostenuta dalla loro energia, e Eliot sapeva che doveva raggiungere la cresta di quell'onda e spezzarla. «Per un po' fui esaurita, immersa in un mondo di sogno. Niente mi toccava, né i funerali, né i genitori irati. Me ne andai via per mesi, verso le montagne, e iniziai a sentirmi meglio. Ma, quando tornai a casa, scoprii che il musicista che aveva raccontato tutto al mio ragazzo aveva scritto una canzone sulla storia, la relazione, le morti. Aveva inciso un disco. La gente lo comprava, cantandone il motivo mentre camminava per la strada o era sotto la doccia. Ballava anche al ritmo di quella musica! Ballavano sul sangue e sulle ossa, canticchiando il dolore, sborsando cinque dollari e novantotto per una canzone sul dolore. Se mi guardo indietro, mi rendo conto che ero pazza, ma allora tutto quello che facevo mi sembrava normale. Anzi, più che normale. Ispirato. Comprai una pistola, "un modello da donna" mi disse il negoziante. Ricordo che pensai che fosse una cosa ben strana che esistessero pistole da uomo e pistole da donna, proprio come i rasoi elettrici. Con l'arma addosso mi sentivo gigantesca, dovevo essere calma e gentile o altrimenti ero sicura che la gente avrebbe notato quanto ero enorme e potente. Rintracciare Ronnie, il ragazzo che aveva scritto la canzone, non fu difficile. Era in Germania, a incidere il secondo disco. Non riuscivo a crederci, non ero davvero intenzionata a ucciderlo? Ero così frustrata che una sera andai in un parco e iniziai a sparare. Non colpii nessuno. Lontano da tutti i vagabondi, da chi praticava jogging e dagli scoiattoli, colpivo le foglie e l'aria. Dopo di che mi rinchiusero in un ospedale. Penso che mi sia servito, ma...» Batté le palpebre, come riprendendosi da quei pensieri. «Ma mi sento ancora talmente confusa: capisci?» Eliot le scostò delicatamente di lato i capelli che le erano caduti sul viso, rimettendoli a posto. Michaela sorrise tremante. «Lo so» le disse. «Qualche volta mi sento anch'io così.» Annuì pensierosa, come per confermare che aveva riconosciuto in lui quegli stessi stati d'animo.
Cenarono in una specie di locanda tibetana a Temal; era senza nome ed era un postaccio con le tavole macchiate dalle mosche e le sedie zoppe. Le specialità erano il bufalo indiano e la zuppa d'orzo. Però era lontana dal centro, il che significava che potevano evitare la ressa maggiore della folla in festa. Il cameriere era un giovane tibetano che indossava un paio di jeans e una maglietta con la scritta LA RISPOSTA È LA MAGIA, e dal cui collo pendevano le cuffie del walkman. Le pareti, appena visibili attraverso la nuvola di fumo, erano coperte di fotografie, la maggior parte delle quali ritraevano il cameriere insieme a vari turisti, ma alcune mostravano un tibetano più vecchio con una veste blu e gioielli di turchese, con un fucile automatico, che era il proprietario del locale, della tribù dei khampa. Aveva combattuto una guerriglia contro i cinesi. Si faceva vedere raramente nel ristorante e, quando accadeva, la sua torva presenza tendeva a scoraggiare la conversazione. Durante la cena, Eliot cercò di evitare gli argomenti che avrebbero potuto turbarla. Le parlò della clinica di Sam Chipley, della visita del Dalai Lama a Katmandu, dei suonatori a Swayambhunath. Temi allegri ed esotici. L'indifferenza di Michaela era una parte talmente superficiale della sua personalità che Eliot fu portato a cercare di scalfirla, curioso di sapere cosa ci fosse al di sotto e, più lo faceva, più i gesti di Michaela diventavano vivaci e il suo sorriso luminoso, ben diverso da quello che lei gli aveva rivolto quando si erano visti per la prima volta. Comparve così all'improvviso sul suo volto da sembrare una reazione autonoma, come l'aprirsi di un girasole, come se lei non stesse guardando il suo interlocutore, ma il principio stesso della luce creatrice di quest'ultimo; principio che naturalmente era consapevole di chi le stava di fronte, ma sceglieva di sorvolare sulle imperfezioni della sua carne e di approfondire la conoscenza del suo essere vero. Questo atteggiamento di lei aumentava l'autostima dell'uomo. Eliot il cui senso del proprio valore era in decadenza - per continuare a sentirsi in quel modo avrebbe fatto carte false. Anche quando raccontò la propria storia, gliela propose come uno scherzo, come una metafora sui giudizi erronei degli americani riguardo alle ricerche orientali. «Perché non l'abbandoni?» chiese. «La meditazione, voglio dire. Se non funziona, perché continui?» «La mia vita è in uno stato perfetto di sospensione» rispose lui. «Temo che se smettessi di praticarla, se alterassi qualcosa, cadrei sul fondo o volerei via.» Batté con il cucchiaio contro la tazza, per far capire che voleva
ancora del tè. «Non hai veramente intenzione di sposare Ranjeesh, vero?» chiese, e fu stupito della propria preoccupazione. «Probabilmente no.» Il cameriere versò il tè, e dalle sue cuffie arrivava il suono attutito della batteria. «Mi sentivo persa. Sai, i miei genitori fecero causa a Ronnie per la canzone, e così finii per ottenere molti soldi, il che mi fece stare ancora peggio...» «Non parliamone più.» «Va bene.» Gli toccò il polso e, quando ritirò la mano, la pelle rimase tiepida per il contatto. «Comunque,» continuò Michaela «decisi di viaggiare, e la cosa più strana è che... non so. Stavo per scivolare via. Ranjeesh era una specie di rifugio.» Eliot si sentì molto sollevato. Le strade erano affollate dalla gente in festa, e Michaela prese il braccio di Eliot e si lasciò guidare attraverso la calca. I newari indossavano i copricapo nehru e pantaloni bianchi che si gonfiavano alle anche e stringevano i polpacci; gruppi di turisti, che urlavano e agitavano bottiglie di birra di riso; indiani con le vesti bianche e i sari. L'aria era drogata dal profumo delle spezie, e la striscia di cielo color porpora era tempestata di stelle in modo talmente regolare da sembrare uno striscione drappeggiato fra i tetti. Vicino a una casa, un uomo dallo sguardo selvaggio e con una veste di satin blu, passò velocemente accanto a loro, urtandoli, seguito da due ragazzi che trascinavano una capra, con la fronte imbrattata di polvere cremisi, il che faceva presupporre che fosse destinata a un sacrificio. «Pazzesco!» esclamò Michaela ridendo. «Questo è niente, vedrai domani sera!» «Perché, che cosa succede?» «La notte del Bianco Bhairab.» Eliot fece una smorfia. «Dovrai stare attenta, Bhairab è un tipo vivace e furibondo.» Rise di nuovo e diede al suo braccio una stretta affettuosa. In cortile la luna calante, bianca e dorata, splendeva esattamente al centro del pezzetto di cielo notturno racchiuso dal tetto. Rimasero vicini, in silenzio, improvvisamente impacciati. «Sono stata bene stanotte» disse Michaela, si sporse e gli sfiorò la guancia con le labbra. «Grazie» sussurrò. Mentre si ritirava, Eliot l'afferrò, le sollevò il mento e la baciò sulla bocca. Michaela schiuse le labbra e la sua lingua guizzò in avanti. Poi lo spinse via. «Sono stanca» disse, il viso teso per l'ansia. Fece alcuni passi, ma si fermò, voltandosi. «Se vuoi... stare con me, forse sarà bello. Potremmo
provare.» Eliot si avvicinò e le prese le mani. «Voglio fare l'amore con te» senza più cercare di nascondere il proprio desiderio. Ed era l'amore che voleva fare, non fottere, chiavare o scopare o altre versioni poco eleganti dell'atto. Ma non fecero l'amore. Sotto lo splendore stellato del soffitto di Chatterji Michaela era bellissima, e all'inizio fu molto tenera, rispondendo con sincero trasporto, poi di colpo smise di muoversi e girò il viso verso il cuscino. I suoi occhi sfavillavano. Solo, sopra di lei, ascoltando il proprio respiro ansante, il contatto della pelle di lei con la sua, Eliot sapeva che avrebbe dovuto fermarsi e consolarla, ma i mesi di astinenza, l'averla desiderata per otto giorni, tutto questo si fuse insieme in un lampo brillante sul fondo della schiena, il nucleo di un reattore di passione che irradiava la sua coscienza, e continuò ad affondare dentro di lei, avvicinandosi alla massima eccitazione. Quando si tolse, Michaela ansimò e si raggomitolò, volgendogli le spalle. «Mi spiace» disse Michaela, con la voce che appariva incrinata. Eliot chiuse gli occhi. Si sentiva disgustato, si era abbassato agli istinti più bestiali. Era stato come quando due malati di mente fanno qualcosa di brutto in segreto, due frammenti umani che insieme non formano un intero. Adesso capiva perché Chatterji voleva sposarla: progettava di aggiungerla alla sua collezione, per custodirla gelosamente come quelle altre schegge di violenza. Ogni notte avrebbe completato la propria vendetta, facendo qualcosa che non era certo l'amore con questa ragazza triste, inerte, un fantasma americano. Le spalle di Michaela erano scosse da singhiozzi smorzati. Aveva bisogno di qualcuno che la consolasse e l'aiutasse a trovare la propria forza e capacità per riprendere ad amare. Eliot si protese verso di lei, desideroso di fare del suo meglio, ma sapeva che quel qualcuno non sarebbe stato lui. Molte ore più tardi, dopo che si era addormentata, sempre inconsolabile, Eliot si sedette nel cortile, abbacchiato e con la testa sgombra di pensieri, a guardare un albero della gomma. Era nascosto nell'ombra, con le foglie che scendevano avvizzite. Stava fissandolo da alcuni minuti quanto notò che un'ombra dietro l'albero ondeggiava leggermente. Cercò di capire cosa fosse, ma il dondolio cessò. Si alzò in piedi. La sedia scricchiolò sul cemento e il rumore parve innaturalmente forte. Sentì un formicolio al collo e si guardò alla spalle. Niente. Pensò che fosse l'antica Fatica Mentale. L'Antica Tensione Emotiva. Si mise a ridere, e la trasparenza della risata,
che echeggiava per il cortile vuoto, lo allarmò, in quanto sembrava provocare dei movimenti nell'oscurità. Aveva proprio bisogno di bere qualcosa! Il problema era come fare a entrare in camera da letto senza svegliare Michaela. All'inferno! Forse doveva svegliarla e parlarle prima che quanto era successo si cristallizzasse in un insieme di comportamenti infrangibili. Si girò verso le scale... e, urlando preso dal panico, incespicando nella sedia a sdraio mentre faceva un salto indietro, cadde sul fianco. Un'ombra, all'incirca con forma e altezza umane, era a un metro di distanza; e ondeggiava come alghe mosse da una corrente leggera. Intorno l'aria era increspata, come se l'intera immagine fosse quasi scollata dalla realtà. Eliot si allontanò carponi, l'ombra si sciolse, sul cemento, arricciandosi nel mezzo come un bruco, ripiegandosi su se stessa, fluendo verso di lui, rotolando. Poi si rialzò, assumendo di nuovo la forma umana, incombendo su di lui. Eliot si alzò in piedi, ancora spaventato, ma meno. Se prima di allora gli avessero chiesto di provare l'esistenza del Khaa, avrebbe rifiutato ogni prova datagli dai suoi sensi annebbiati pensando che si trattasse di una allucinazione, di un racconto popolare. Adesso però, anche se era tentato di trarre la stessa conclusione, il contrario era troppo evidente. Fissando il cappuccio nero e sbiadito della testa del Khaa, gli sembrò che lo fissasse di rimando. Era più di una sensazione. L'impressione precisa di una personalità, come se gli ondeggiamenti del Khaa producessero una brezza che propagasse il suo odore fisico nell'aria. Eliot iniziò a raffigurarselo come uno zio vecchio e rimbambito che amasse sedersi sui gradini del marciapiede a mangiare mosche e blaterare da solo, ma che sapeva dirti quando sarebbe arrivato il primo gelo e come fissare la coda al tuo aquilone. Bizzarro, ma inoffensivo. Il Khaa allungò un braccio, sfiorandogli il tronco con la mano simile a un guanto nero senza pollice. Eliot indietreggiò. Non era proprio pronto a credere che fosse inoffensivo, ma il braccio si tese ancora, più di quanto avrebbe pensato possibile e gli avvolse il polso. Era morbido e lo solleticava, come un fiume di falene pelose che strisciassero sulla sua pelle. Prima di allontanarsi con un balzo, Eliot percepì una nota lamentosa nel proprio cranio, e quel lamento, che sembrava fluire con la stessa docilità del braccio del Khaa, era una muta supplica, che gli fece capire che il Khaa aveva paura, era terribilmente spaventato. Improvvisamente si sciolse verso il basso e salì le scale; rotolando e arricciandosi, si fermò sul primo pianerottolo, rotolava giù e poi andava su di nuovo, ripetendo continuamente questi movimenti. Eliot comprese chiaramente ("Oh, Gesù! È assurdo!")
che stava cercando di convincerlo a seguirlo. Proprio come Lassie o qualche altro ridicolo animale della televisione, stava tentando di dirgli qualcosa, di condurlo dove il ranger della foresta ferito era caduto, verso il nido degli anatroccoli minacciato dall'incendio della boscaglia. Avrebbe dovuto avvicinarsi, scompigliargli la testa e dirgli: «Qualcosa non va? Quegli scoiattoli ti danno fastidio?». Questa volta la risata lo aiutò a calmarsi, a riordinare i pensieri. Probabilmente la sua esperienza con Michaela era stata sufficiente a spezzare in lui la fragile connessione con la realtà universale, ma non c'era nessuna ragione di crederlo. Anche se non ci fosse stato un motivo, avrebbe comunque potuto seguirlo. Attraversò il cortile verso le scale, e salì dietro l'ombra ondulante sul pianerottolo. «Okay, Bongo» disse. «Vediamo cosa ti ha agitato così tanto.» Al terzo piano, Khaa svoltò in un corridoio, muovendosi velocemente, e Eliot lo perse di vista fino a quando non si avvicinò alla stanza che ospitava la collezione di Chatterji. Era accanto alla porta, agitando le braccia, indicandogli apparentemente di entrare. Eliot si ricordò della cassa. «No, grazie» disse. Una goccia di sudore gli scivolò sulla gabbia toracica e si rese conto che vicino alla porta faceva insolitamente caldo. La mano del Khaa fluì verso il pomello della porta, avvolgendolo e, quando la ritirò, apparve rigonfio, stranamente deformato. Nel legno dove originariamente c'era il meccanismo della serratura ora vide un foro. La porta si socchiuse di alcuni centimetri e l'oscurità strisciò fuori dalla stanza, impregnando l'aria di un'essenza oleosa. Eliot fece un passo indietro. Il Khaa, materializzandosi da sotto la mano nera e informe, lasciò andare il meccanismo della serratura che cadde a terra con un tintinnio. Poi afferrò il braccio di Eliot, che ancora una volta sentì il lamento, la supplica d'aiuto e, visto che non si era ritratto, ebbe una comprensione più chiara del processo di traslazione. Percepiva il lamento come un fluido gelido che gli scorreva nel cervello, e quanto il gemito morì, il messaggio apparve chiaramente, come un'immagine che si presenta in una sfera di cristallo. Ci fu una sommessa rassicurazione alla paura del Khaa, e anche se Eliot sapeva che quanto stava per fare era l'errore che commette sempre la gente nei film dell'orrore, entrò nella stanza e cercò tentoni l'interruttore sulla parete, aspettandosi quasi di venire agguantato e attaccato. Schiacciò il pulsante e spalancò con il piede la porta. E desiderò non averlo fatto. Le casse erano esplose. Dappertutto erano sparsi frammenti e schegge di
legno e i mattoni erano stati ammucchiati al centro della stanza. Erano rosso scuro, friabili come dolci di sangue essiccato, sbriciolati, ognuno marcato con lettere e numeri neri, che contrassegnavano il loro posto nel caminetto. Ma adesso non erano in ordine, anche se erano sistemati abilmente, accatastati nella sagoma di una montagna che, nonostante la forma dei blocchi, imitava le guglie, le pareti ripide e i dolci pendii di una vera montagna. Eliot la riconobbe dalla fotografia. Il monte Eiger. Arrivava imponente fino al soffitto, e sotto il bagliore della luce irradiava orrore e crudeltà. Sembrava avere vita e zanne di carne rosso scuro. L'odore di bruciacchiato che arrivava alle narici di Eliot era sgradevole. Ignorando il Khaa, che stava di nuovo agitando le braccia, si lanciò verso il pianerottolo, dove si fermò e, dopo una breve lotta fra la paura e la coscienza, salì di volata le scale che portavano alla camera da letto, facendole a tre gradini per volta. Michaela era scomparsa! Fissò le onde formate dalle lenzuola rischiarate dalle stelle. Dove diavolo... nella sua camera! Scese a precipizio le scale, e cadde scompostamente sul pianerottolo del secondo piano. Sentì un odore lancinante alla rotula, ma si rialzò continuando a correre, certo che dietro di lui ci fosse qualcosa. Un alone di luce rossastra, diversa da quella di una lampada, orlava la soglia della porta di Michaela. Sentì un rumore secco in un focolare. Il legno era caldo, e la mano di Eliot indugiò sul pomello. Gli sembrava che il cuore si fosse gonfiato, diventando della dimensione di una palla da basket e stesse facendo un dribbling capriccioso dentro il petto. La cosa sensata da fare sarebbe stata quella di andarsene alla svelta, perché qualunque cosa ci fosse oltre la porta era per forza troppo grande per lui. Invece, scelse di compiere la sciocchezza e irruppe all'interno. La prima impressione che ebbe fu che la stanza stesse bruciando; poi vide che, sebbene il fuoco fosse reale, non si propagava; le fiamme aderivano ai contorni degli oggetti che apparivano anch'essi irreali, senza consistenza propria e formati dal fuoco spettrale: drappi legati con nastri, una sedia e un divano molto imbottiti, la base scolpita di un caminetto, tutti di foggia antica. I mobili veri, tutto sommato paccottiglia, erano intatti. Un bagliore rossastro ardeva intorno al letto, dove al centro era sdraiata Michaela, nuda e con la schiena inarcata. I lunghi capelli si sollevavano in aria ingarbugliandosi, galleggiando in una corrente invisibile, i muscoli delle gambe e dell'addome si attorcigliavano, gonfiandosi, come se stesse mutando pelle. Il crepitio divenne più forte, e la luce cominciò a sollevarsi dal letto per formare una colonna di luce ancora più splendente, che si strinse
nel mezzo, si gonfiò nella forma approssimativa delle anche e dei seni, assumendo lentamente le fattezze di una donna ardente. Non aveva volto, la silhouette era di fuoco. La sua veste ondeggiava come se stesse camminando, e delle fiamme guizzavano dietro il capo come capelli mossi dal vento. Eliot era terrorizzato, troppo atterrito per riuscire a urlare o correre via. L'alone di calore e potenza lo avvolse, Anche se la donna era vicina, sembrava lontana, a una grande distanza, e camminava verso di lui lungo una galleria che si adattava esattamente alla sua forma. Allungò una mano, sfiorandogli la guancia con un dito. Il dolore gli procurò uno spasimo che non aveva mai conosciuto. Era definito e accendeva ogni circuito del suo corpo facendogli sentire la pelle incresparsi, i fluidi prorompere schioppettando e sfrigolando. Sentì se stesso gemere, un fiotto di suono putrido, come qualcosa intrappolato in un tubo di fognatura. Lei ritirò la mano con uno scatto, come se lui l'avesse bruciata. Stordito, con i nervi che urlavano, Eliot crollò sul pavimento e, attraverso gli occhi annebbiati, vide una forma nera che ondeggiava vicino alla porta. Il Khaa, a pochi metri dalla donna ardente. Questo incontro fra il fuoco e le tenebre, due sistemi soprannaturali, era una scena magica, che scosse Eliot, rendendolo però vigile. Aveva l'impressione che nessuno dei due sapesse cosa fare. Il Khaa ondeggiava, circondato dall'aria confusa, la donna ardente tremolava e crepitava, incastonata nella distanza misteriosa. Esitando, sollevò la mano, ma prima che potesse completare il gesto, il Khaa la raggiunse fulmineo, l'avvolse con la propria. Si sentì uno stridio come di metallo contorto, come se qualche rigido principio fosse stato violato. Ferite scure serpeggiarono nel braccio della donna, strisce di fuoco solcarono il Khaa, e si sentì un acuto ronzio che fece vibrare i denti di Eliot. Per un momento ebbe paura che le versioni spirituali dell'antimateria e della materia si fossero unite, che la stanza sarebbe esplosa, ma il ronzio cessò quando il Khaa tolse via la mano, e una fiammata rossastra guizzò all'interno. Il Khaa si sciolse verso il basso e rotolò verso la porta, la donna ardente, e ogni fiammella nella stanza, si restrinsero a una fase di incandescenza e svanirono. Ancora intontito, Eliot si toccò il viso. Lo sentiva bruciare, ma apparentemente non era stato danneggiato. Si alzò in piedi, barcollando verso il letto e crollò vicino a Michaela, che respirava profondamente, ancora priva di sensi. «Michaela!» La scrollò, lei gemette, il capo roteò da una parte all'altra. La sollevò caricandosela sulle spalle, come avrebbe fatto un pom-
piere, e andò con passo lento nel corridoio. Muovendosi furtivamente, si diresse verso la terrazza che dava sul cortile e si sporse oltre il bordo... e si morse il labbro per trattenere un urlo. Nel centro del cortile, chiaramente visibile nell'aria notturna blu elettrico che precede l'alba, vide una donna alta e pallida, che indossava una camicia da notte bianca. I capelli neri le cadevano sulla schiena. Si girò di scatto a fissarlo. I lineamenti simili a un cammeo, increspati da un sorriso esultante, che rivelò a Eliot tutto quello che voleva sapere sulla possibilità di fuggire. Aimée Cousineau stava dicendo: "Prova solo a scappare. Dài, prova. Mi piacerebbe". Un'ombra spuntò a circa quattro metri da lei, e lei si volse in quella direzione. Improvvisamente nel cortile si levò il vento: violento, vorticoso, di cui lei era il centro fermo. Le piante sventolavano come uccelli coriacei, i vasi andarono in frantumi, e i cocci volarono verso il Khaa. Rallentato dal peso di Michaela, e desiderando andarsene via dalla scena dello scontro, Eliot salì le scale verso la camera di Chatterji. Un'ora dopo, trascorsa a sbirciare nel cortile, guardando il gioco a nascondersi che il Khaa faceva con Aimée Cousineau, rendendosi conto che il Khaa li proteggeva tenendola occupata... fu allora che Eliot si ricordò del libro. Lo recuperò dallo scaffale e incominciò a scorrerlo, sperando di ricavarne qualcosa di utile, Non c'era nient'altro da fare. Riprese dal punto in cui Aimée parlava di essersi congiunta alla Felicità, sorvolò sulla parte in cui Ginny Whitcomb si trasformava in un mostro adolescente, e trovò un secondo capitolo incentrato su Aimée. Nel 1895 un ricco svizzero-americano di nome Armando Cousineau era tornato a visitare St. Berenice, il luogo dov'era nato. Era innamorato cotto di Aimée Vuillemont, e la famiglia della ragazza, cogliendo l'occasione per sbarazzarsene, permise a Cousineau di sposarla e portarla a casa sua a Carversville, nel New Hampshire. La nuova sistemazione non frenò il gusto per la seduzione di Aimée, e quindi avvocati, diaconi, mercanti e agricoltori andavano tutti bene. Nell'inverno del 1905 si innamorò, in modo ossessivo e passionale, di un giovane professore. Riteneva che l'avesse salvata dal suo terribile matrimonio, e la sua gratitudine era illimitata, come sfortunatamente lo fu la sua furia, quando il professore si innamorò di un'altra donna. Una notte il dottore della città, passando vicino alla residenza dei Cousineau, vide una donna camminare sul prato. "Una donna di fuoco, che non bruciava ma formata da fiamme, ogni sua fattezza era infuocata..." Il fumo usciva in spire da una finestra, il dottore si precipitò all'interno e
scoprì il professore, incatenato, che bruciava come un ceppo nel grande camino. Spense la fiamma che si propagava dal focolare e, ritornato sul prato, inciampò nel cadavere carbonizzato di Aimée. Non fu mai chiaro se la morte di Aimée fosse stata accidentale, imputabile a una scintilla isolata che le aveva incendiato la camicia da notte, o il risultato di un suicidio, ma quello che divenne chiaro fu che da allora in poi la casa fu infestata da uno spirito che gioiva nel possedere le donne spingendole a uccidere i loro uomini. I poteri soprannaturali dello spirito erano limitati dalla carne, ma aumentati da una forza fisica straordinaria; Ginny Whitcomb, per esempio, aveva ucciso suo fratello torcendogli prima il braccio fino a spezzarglielo, e poi aveva inseguito il padre e l'altro fratello in una caccia atroce durata un giorno e una notte; in quanto lo spirito, se in possesso di un corpo, non si limitava all'attività notturna... Cristo! La luce che traspariva dal lucernario era grigia. Erano salvi! Eliot si avvicinò al letto e incominciò a scrollare Michaela che gemette e spalancò gli occhi. «Svegliati!» disse. «Dobbiamo andarcene!» «Cosa?» domandò toccandogli la mano. «Di cosa parli?» «Non ti ricordi?» «Ricordare che cosa?» Rimase seduta a testa bassa, intontita dal sonno e dondolando le gambe sul pavimento, poi si alzò, barcollò e disse: «Dio, cosa mi hai fatto. Mi sento...». Un'espressione dura e sospettosa le attraversò il viso. «Dobbiamo andarcene.» Girò intorno al letto verso di lei. «Ranjeesh ha fatto proprio centro. In quella casse, imballato insieme ai mattoni, c'era un vero spirito, che la scorsa notte ha cercato di possederti.» Vide l'incredulità dipinta sul suo viso. «Devi avere cancellato tutto. Guarda» disse porgendole il libro. «Questo ti spiegherà...» «Oh, Dio!» urlò. «Cos'hai fatto? Mi sento in fiamme!» Indietreggiò, con gli occhi sgranati per il terrore. «Non ho fatto niente.» Aprì i palmi per provare che non aveva armi. «Mi hai violentata! Mentre ero addormentata!» Si guardò a destra e a sinistra, in preda al panico. «È ridicolo!» «Devi avermi drogata o qualcosa del genere! Oh, Dio. Vattene!» «Non voglio litigare» rispose. «Dobbiamo andarcene, dopo di che puoi denunciami alla polizia per violenza carnale o per quello che ti pare. Ma ce
ne andremo, dovessi trascinarti fuori di qui io stesso.» La sua disperazione in piccola parte diminuì, e curvò le spalle. «Senti,» le disse, avvicinandosi «non ti ho violentato. Quello che senti è qualcosa che ti ha fatto lo spirito. Era...» Ricevette una ginocchiata all'inguine. Mentre si contorceva sul pavimento, rannicchiandosi su se stesso, Eliot sentì la porta che si apriva e i passi di lei allontanarsi. Si aggrappò al bordo del letto, alzandosi con fatica sulle ginocchia, e vomitò sulle lenzuola. Poi cadde all'indietro e rimase sdraiato per parecchi minuti, fino a quando il dolore diminuì fino a diventare un battito impazzito, che gli faceva sobbalzare il cuore con lo stesso ritmo; poi pian piano si rialzò e si trascinò a stento verso il corridoio. Appoggiandosi al parapetto, scese lentamente le scale verso la camera di Michaela e, una volta arrivato, si accovacciò e si sedette sul pavimento. Sospirò rabbrividendo. Dei bagliori gli esplodevano davanti agli occhi. «Michaela,» disse «ascoltami.» La voce era debole, come quella di un uomo molto, molto vecchio. «Ho un coltello» gli rispose da dietro la porta. «Se cerchi di entrare, lo uso.» «Non mi preoccuperei di quello» disse «e nemmeno di essere stata violentata. Mi vuoi ascoltare?» Nessuna risposta. Le raccontò tutto e, quand'ebbe finito, Michaela gli rispose: «Tu sei matto. Mi hai violentata». «Non ti farei mai del male. Io...» Era stato sul punto di dirle che l'amava, ma decise che probabilmente non era vero: voleva solo aver qualcosa di bello, chiaro e sincero come l'amore. Il dolore gli procurò di nuovo un accesso di nausea, come se i lividi rossonerastri si diffondessero su per lo stomaco, riempiendoglielo di gas fetidi. Si rialzò dolorosamente in piedi e si appoggiò al muro. Discutere era del tutto inutile, e non c'erano molte speranze che lei uscisse di casa spontaneamente se era sottoposta all'influsso di Aimée, così come era già successo a Ginny Whitcomb. L'unica soluzione era quella di andare alla polizia e accusarla di qualche reato. Michaela l'avrebbe denunciato per violenza carnale, e con un po' di fortuna sarebbero stati trattenuti per tutta la notte. Sarebbe riuscito anche a telegrafare a Chatterji... che gli avrebbe creduto, in quanto gli avrebbe riferito di eventi accettati che Chatterji considerava possibili. Sarebbe stato sul primo volo proveniente da Delhi, ansioso di provare il Terrore.
Eliot, desideroso di farla finita, scese faticosamente le scale e attraversò il cortile zoppicando, ma nel portico in ombra che portava sulla strada c'era il Khaa ad attenderlo, e agitava le braccia. Sembrava meno reale, e non sapeva se a causa della luce, della battaglia con Aimée o specificamente della striscia pallida di fuoco sulla sua mano. La sua oscurità era opaca, e l'aria che lo circondava appariva sfuocata, untuosa, come le onde su una lente, come se fosse sommerso più profondamente nella propria entità. Eliot senza esitazione gli permise di toccarlo, gli era grato, e il suo atteggiamento sereno nei suoi confronti sembrò rafforzare la comunicazione. Delle immagini cominciarono a scorrergli nell'occhio della mente: il viso di Michaela, Aimée, poi i due volti si sovrapposero. Continuava a vederle, e capì quindi che il Khaa voleva che avvenisse il possesso, anche se non ne afferrava la ragione. Ancora immagini: lui che sorreggeva, Michaela che correva, Durbar Square, la maschera del Bianco Bhairab, il Khaa. Molti Khaa. Minuscoli geroglifici neri. Anche queste immagini si ripetevano e, dopo ogni serie, il Khaa teneva la mano alzata davanti al viso di Eliot per mostrare la striscia brillante del fuoco di Aimée. Eliot pensò di avere capito, ma ogni volta che cercava di comunicarlo non era sicuro di esserci riuscito, in quanto il Khaa riproponeva semplicemente le immagini. Infine, intuendo che il Khaa aveva raggiunto i limiti della propria capacità di comunicazione, Eliot si diresse verso la strada. Il Khaa si sciolse verso il basso e indietreggiò verso la porta per bloccargli il passaggio, agitando disperatamente le braccia. Ancora una volta Eliot ebbe la percezione della sua antica bizzaria. Era illogico dare fiducia a una creatura così strana, specialmente in un progetto tanto pericoloso, ma la logica non aveva molta presa su di lui, e poi quella era la soluzione definitiva. Ammesso che potesse funzionare e che lui non l'avesse male interpretata. Si mise a ridere. Al diavolo! «Non agitarti, Bongo» disse. «Tornerò non appena sarà a posto la mia arma da fuoco.» La sala d'aspetto della clinica di Sam Chipley era affollata di madri e bambini newari, che ridacchiarono quando Eliot passò in mezzo a loro con le gambe arcuate. La moglie di Sam lo portò nell'ambulatorio, dove Sam, un uomo corpulento, con la barba e i lunghi capelli legati a coda di cavallo, lo aiutò a salire sul lettino. «Santa Madonna!» disse dopo avere esaminato la ferita. «Cosa ti è capitato?» gli chiese, iniziando a strofinargli un unguento sopra i lividi.
«Un incidente» rispose stringendo i denti, cercando di non urlare. «Sì, lo credo bene» disse Sam. «Magari un incidentino sessuale con qualcuno che ti ha lasciato un ricordo a cui ripensare. Sai, non tenendolo mai calmo può renderti un po' troppo intraprendente per certe signore. Non ci hai mai pensato?» «Non è andata così. Sono a posto?» «Sì, ma per un po' non farai più lo stallone.» Sam andò al lavandino e si lavò le mani. «Non raccontarmi balle. Stavi cercando di infilarlo nella nuova donna di Chatterji, eh?» «La conosci?» «L'ha portata qui un giorno, mostrandola a tutti. Ha dei problemi di testa, ragazzo. Dovresti saperlo.» «Potrò correre?» Sam scoppiò a ridere. «Solo questo!» «Sam, ascolta.» Eliot si alzò, barcollando. «La donna di Chatterji è nei pasticci, e io sono l'unico che può aiutarla. Devo poter correre, e ho bisogno di qualcosa che mi tenga sveglio. Non dormo da due giorni.» «Eliot, non ti do nessuna pastiglia, sei già abbastanza fuori di testa senza il mio aiuto.» Finì di asciugarsi le mani e andò a sedersi su uno sgabello vicino alla finestra, che si affacciava su un muro di mattoni sulla cui cima sventolava una fila di bandierine. «Dannazione, non ne voglio una scorta. Solo qualcuna per tenermi sveglio stanotte. Sam, credimi: è una faccenda importante!» Sam si grattò il collo. «In che genere di pasticcio si trova?» «Adesso non posso dirtelo» gli rispose, sapendo che avrebbe riso all'idea di qualcosa di razionalmente sospetto come il Khaa. «Ma lo farò domani. Non è niente di illegale. Dài, ci deve pur essere qualcosa che puoi darmi.» «Oh, certo, posso metterti davvero a posto. Farti sentire come re Merdaccia il giorno dell'incoronazione.» Sam ci rimuginò sopra. «Okay, Eliot, ma domani riporti il culo qui, e mi racconti cosa sta succedendo.» Sbuffò divertito. «Tutto quello che posso dirti è che dev'essere davvero in un grosso guaio perché tu sia l'unico che possa salvarla.» Dopo avere telegrafato a Chatterji, esortandolo a rientrare immediatamente, Eliot tornò a casa e svitò i cardini del portone principale. Non era certo che Aimée potesse controllare la casa, far sbattere le porte e incollare le finestre come faceva a casa sua nel New Hampshire, ma non voleva correre rischi. Quando sollevò il portone per appoggiarlo contro la parete del-
la nicchia, fu stupito della sua leggerezza, si sentiva incredibilmente forte, capace di trasportare la porta dal pozzo del cortile fino ai tetti. Il cocktail di antidolorifici e amfetamine stava facendo miracoli. L'inguine gli faceva male, ma il dolore era lontano, remoto dal centro della sua coscienza, che era una sorgente di benessere. Quando ebbe finito con la porta, prese del succo di frutta dalla cucina e tornò nel portico ad aspettare. Nel pomeriggio Michaela scese. Eliot cercò di parlarle, di convincerla ad andarsene, ma lei lo avvertì di starle lontano e scappò nella propria camera. Verso le cinque apparve la donna ardente, sospesa a qualche decina di centimetri dal pavimento del cortile. Il sole si era ritirato al terzo piano della tromba della scalinata, e la silhouette ardente si stagliava nell'ombra color blu ardesia, mentre le fiamme dei suoi capelli le danzavano intorno al capo. Eliot, che si era dato pesantemente agli antidolorifici, ne fu abbagliato: se fosse stata un'allucinazione, sarebbe stato il massimo. Ma pur rendendosi conto che non lo era, era troppo drogato per collegarla a una minaccia. Represse una risatina e le tirò contro un pezzo di vaso spaccato. Si contrasse fino a divenire un punto incandescente; svanì, facendogli capire quanto fosse stato avventato. Dovette prendere delle altre amfetamine per neutralizzare la propria euforia, e dovette fare degli esercizi di ginnastica isometrica per sciogliere i crampi che avvertiva unitamente alla sensazione di oppressione al petto. Il crepuscolo fece sfumare le ombre nel cortile, i celebranti passarono nella strada e in lontananza si sentivano i tamburi e i cembali. Si sentiva tagliato fuori dalla città e dalla festa. Paura. Nemmeno la presenza del Khaa, emerso dalle ombre lungo il muro, serviva a confortarlo. Nella luce del crepuscolo, Aimée Cousineau entrò nel cortile e si fermò a circa sei metri di distanza, guardandolo fisso. Non aveva nessuna voglia di ridere o di lanciare qualcosa. A quella distanza vedeva che gli occhi non avevano cornea, né pupille o iridi. Erano completamente neri. A tratti sembravano le capocchie rigonfie di viti conficcate nel cranio, un attimo dopo davano l'impressione di ritirarsi nell'oscurità di una caverna ai piedi del monte, dove qualcosa aspettava con l'intento di insegnare le gioie dell'inferno a chiunque vi si inoltrasse. Eliot furtivamente si avvicinò ancor di più alla porta. Lei si voltò, salì le scale fino al secondo pianerottolo e percorse il corridoio dove si trovava la stanza di Michaela. L'attesa di Eliot era iniziata sul serio. Trascorse un'ora spostandosi continuamente dal portone al cortile. Aveva la bocca impastata, le articolazioni debolissime, tenute insieme da fragi-
li fili di amfetamine e adrenalina. Era pazzesco! Tutto quello che era riuscito a fare era di avere messo sé e Michaela in un pericolo ancora maggiore. Infine, sentì una porta che si chiudeva al piano superiore. Indietreggiò nella strada, andando a sbattere contro due ragazze newari, che ridacchiarono e corsero via. Alcuni gruppetti di persone si dirigevano verso Durbar Square. «Eliot!» La voce di Michaela. Si era aspettato di sentire una voce roca e demoniaca e, quando si avvicinò al portico, con la sciarpa bianca che splendeva fioca nell'aria della sera, fu sorpreso di vedere che non era cambiata. I suoi lineamenti non avevano traccia di nient'altro se non della solita indifferenza. «Mi spiace di averti fatto male» disse, muovendosi verso di lui. «So che non mi hai violentata. Ero triste per ieri sera.» Eliot continuava a indietreggiare. «Qualcosa non va?» Forse era la sua immaginazione, le droghe, ma Eliot avrebbe potuto giurare che i suoi occhi fossero molto più scuri del solito. Si allontanò ancor più in fretta, di una dozzina di metri, e rimase a guardarla. «Eliot!» Era un grido di rabbia e frustrazione, e quasi non riusciva a credere alla velocità con cui lei si scagliò verso di lui. Dapprima Eliot corse di gran carriera, saltando di lato per evitare gli scontri, cambiando direzione vicino a visi dalla pelle scura e allarmati, ma dopo un paio di isolati trovò un ritmo più efficiente e iniziò ad anticipare gli ostacoli, a scivolare all'interno e all'esterno della calca. Dietro di lui si alzavano gridi irati. Si guardò alle spalle. Michaela si stava avvicinando, procedendo diritta verso di lui, urtando la gente mandandola a gambe levate con colpi che sembravano dati senza nessuno sforzo. Eliot corse ancora più veloce. La folla diventava più fitta, e si tenne vicino ai muri delle case, dov'era più rada, ma persino in quel punto era difficile mantenere un buon passo. Torce gli ondeggiavano davanti al viso; ragazzi, che cantavano con le braccia allacciate, formavano barriere che lo rallentavano ancor di più. Non riusciva più a scorgere Michaela, ma vedeva la scia del suo passaggio: prima tremolii e poi teste che venivano scosse. Per Eliot l'intera scena cominciava a perdere di coesione. C'erano i sibili delle torce, lucidi frammenti di urli impazziti, onde sballottate di incenso e lordura. Si sentiva l'unica entità solida in una zuppa brillante versata in un truogolo di pietra.
All'angolo di Durbar Square scorse di sfuggita un'ombra vicino alle porte massicce e dorate del tempio Degutale. Era un Khaa più grande e di un nero che si avvicinava di più all'antracite di quello di Chatterji; uno di quelli più vecchi e potenti. La vista lo incoraggiò e gli ridiede equilibrio. Non aveva frainteso il piano, ma sapeva che questa era la parte più pericolosa. Aveva perso le tracce di Michaela, e la folla lo trascinava; se lei adesso lo avesse raggiunto, non avrebbe potuto correre. Facendosi largo a gomitate, lottando per rimanere in piedi, raggiunse il complesso del tempio. I tetti della pagoda salivano verso l'oscurità, come monti stranamente scolpiti, con le cime nascoste da una notte senza luna. I sentieri di acciottolato erano stretti, misuravano a malapena tre metri di larghezza e la calca vi si stringeva, un flusso di lava di umanità. Le torce ballonzolavano dappertutto, spargendo fasci selvaggi di ombra e luce arancione lungo i muri che rivelavano facce minacciose sulle grondaie. Sopra al suo piedestallo la statua dorata di Hanuman, il dio-scimmia, sembrava ondeggiare. I piatti musicali battuti insieme e il rullio aritmico dei tamburi si confondevano con il battito del cuore di Eliot, il lamento vigoroso degli oboe sembrava rappresentare come in un grafico le fluttuazioni dei suoi nervi. Mentre passava correndo vicino al tempio Hanuman Dhoca, scorse la maschera d'ottone del Bianco Bhairab brillare al di sopra delle teste della folla come la faccia di un clown malvagio. Era a meno di trenta metri di distanza, posta in una nicchia enorme, incassata in una parete del tempio e illuminata da lampadine che pendevano fra infilate di bandierine. La folla ondeggiò più forte, facendolo sbattere di qua e di là, ma riuscì a vedere altri due Khaa sulla soglia del tempio Hanuman Dhoca. Tutti e due si sciolsero verso il basso, svanendo, e le speranze di Eliot aumentarono. "Avranno sicuramente scoperto Michaela, staranno attaccando!" Venne trascinato a pochi metri dalla maschera e fu certo di essere salvo. "Avranno sicuramente dissolto il suo esorcismo." L'unico problema adesso era trovarla. Si rese allora conto che quello era stato il punto debole del piano, era stato un idiota a non averlo previsto. Chi poteva dire cosa le sarebbe successo se fosse caduta a terra fra la calca? Improvvisamente fu sotto il tubo che sporgeva fuori dalla bocca del dio, e alla luce il fiotto di birra di riso sembrava traslucido, e quando spruzzò il suo viso (non c'era nessun pesce!) il freddo sembrò lavare via l'energia fittizia che si era procurato chimicamente. Era stordito e sentiva l'inguine pulsare. La grande faccia stolta, con le feroci zanne, gli occhi sgomenti, sembrava gonfiarsi e dondolare avanti e indietro. Eliot respirò profondamente. La cosa da fare era trovare un posto
vicino a un muro dove potersi infilare in attesa che la folla si diradasse, e poi mettersi a cercare Michaela. Stava proprio per farlo, quando si sentì afferrare per i gomiti da due mani energiche. Non riusciva a girarsi, e così voltò la testa e sbirciò al di sopra della sua spalla. Michaela gli sorrise esultante. Gli occhi erano ovali, completamente neri. Formò il suo nome con la bocca, la voce impercettibile per la musica e gli urli, poi iniziò a spingerlo in avanti, usandolo come un ariete per aprirsi un varco fra la folla. A qualcuno che li avesse guardati, sarebbe potuto sembrare che Eliot per lei rappresentasse un ostacolo, in realtà i suoi piedi dondolavano sollevati dal suolo. Un newari arrabbiato gli urlò contro quando venne urtato. Anche Eliot urlò, ma nessuno gli prestò attenzione. In una manciata di secondi raggiunsero una strada laterale, facendosi largo fra gli ubriachi. La gente rise quando sentì Eliot gridare aiuto, e un tipo imitò il modo ridicolo in cui correva. Michaela svoltò in un portone, portandolo lungo un corridoio con il pavimento in terra battuta e le cui pareti erano scolpite in balaustre ornamentali, attraverso le quali brillava la luce arancione e tetra delle lampade gettando ombre simili a pizzi sul pavimento. Il corridoio si allargava in un cortiletto, il legno delle pareti e delle porte era scurito dal tempo e intarsiato con complicati mosaici d'avorio. Michaela si fermò e lo sbatté contro il muro. Anche se stordito, riconobbe nel luogo uno degli antichi templi buddisti che circondavano la piazza. A parte una statua di una mucca dorata a grandezza naturale, il cortile era vuoto. «Eliot!» disse con il tono di chi sta bestemmiando, ben diverso da quello con cui normalmente si pronuncia un nome. Eliot aprì la bocca per urlare, ma Michaela lo attirò a sé; la morsa al gomito sinistro divenne ferrea, e contemporaneamente l'altra mano gli strinse il collo troncandogli il grido. «Non avere paura» gli disse. «Voglio solo baciarti.» I suoi seni gli si schiacciarono contro il petto, lei gli spinse il bacino addosso simulando passione, e centimetro dopo centimetro gli abbassò la testa contro la propria. Aprì la bocca, e - "Oh, Gesù Cristo!" - Eliot si dibatté nella sua stretta, ravvivato da un nuovo orrore. L'interno della bocca era nero come gli occhi. Voleva che lui baciasse quell'oscurità, la stessa che aveva baciato lei sul monte Eiger. Eliot scalciava e l'artigliava con la mano libera, ma lei era invincibile, con le mani ferree. Il gomito di Eliot scricchiolò, e un dolore lancinante gli attraversò il braccio, anche il collo scricchiolò, ma questo non era niente in confronto al contatto con la sua lingua:
una punta metallica ardente e nera che venne spinta tra le sue labbra. Il petto scoppiava per il bisogno di urlare e tutto stava diventando nero. Pensando che fosse arrivata la morte, provò lo stizzoso risentimento che la morte non rappresentasse la fine del dolore, com'era invece stato portato a credere, ma che semplicemente aggiungesse una sensazione di prurito a tutta la sua sofferenza. Poi il calore bruciante diminuì, e pensò che la morte dovesse solo essere stata più lenta del solito. Trascorsero alcuni secondi prima che si rendesse conto di essere sdraiato sul pavimento, altri ne passarono perché notasse Michaela distesa al suo fianco e, considerato che la propria percezione era offuscata dal buio, fu solo molto tempo dopo che distinse le sei forme scure e ondeggianti che avevano accerchiato Aimée Cousineau. La sovrastavano, la loro oscurità brillava come folto pelo, e intorno a loro l'aria era inondata da vibrazioni. Aimée, nella sua soave camicia bianca, il viso perfetto come un cammeo atteggiato in un'espressione di calma, sembrava l'antitesi dei giganti vagamente somiglianti a uomini che la minacciavano, così delicata e con i lineamenti così fini rispetto alla loro rozzezza. Gli occhi sembravano rispecchiare il loro colore negativo. Dopo un momento si alzò un venticello, che turbinò intorno a lei. Gli ondeggiamenti dei Khaa aumentarono, diventando ritmici, simili a movimenti di ballerini senza ossa, e il vento si placò. Sconcertata, sfrecciò in mezzo a loro assumendo una posizione di difesa vicino alla mucca d'oro; abbassò il capo e fissò i Khaa attraverso le ciglia. Si fusero verso il basso, rotolando in avanti, si drizzarono di colpo e la circondarono spingendola verso la statua. Lo sguardo che aveva lanciato stava avendo effetto. Pezzi di avorio e di legno si frantumarono, volando verso i Khaa. Uno di loro stava svanendo in una nebbiolina di particelle nere che si diradavano intorno al corpo; poi, con un urlo lacerante che a Eliot sembrò il suono di un jet, scomparve simile a nebbia che si dirada. Nel cortile rimanevano cinque Khaa. Aimée sorrise e posò il proprio sguardo fisso su un altro; però, prima che potesse avere effetto, i Khaa si avvicinarono, nascondendola alla vista di Eliot e, quando si ritirarono, era Aimée a portare i segni dell'attacco. Rivoli bui le scendevano dagli occhi, segnandole le guance come una ragnatela, dando l'impressione che il suo volto si stesse spezzando. La sua camicia si incendiò, i capelli cominciarono a rizzarsi, le fiamme danzavano sulle punte delle sue dita, si propagarono alle braccia, al seno, fino a farla diventare una donna ardente. Non appena la trasformazione fu completa, cercò di restringersi, di rimpicciolirsi fino a scomparire ma, muovendosi all'unisono, i Khaa allunga-
rono le mani e si toccarono. Si sentì uno stridio di metallo contorto, che diventò un ronzio acuto e, con grande stupore di Eliot, i Khaa la succhiarono dall'interno. Il processo fu molto rapido. Mentre i Khaa sì dispersero in caligine per scomparire completamente, vene nere striarono la donna ardente, il buio in lei si dilatò, prendendo forma in cinque minuscole figure simili a stecchi, un disegno di geroglifici sulla camicia. Aimée, con un suono sfrigolante, ritornò alle sue dimensioni normali, e i Khaa rifluirono, attorniandola. Per un istante rimase immobile, quasi oscurata, come una studentessa indifesa circondata da un gruppetto di bulli, poi allungò le mani ad artiglio verso il più vicino. Anche se non aveva lineamenti che potessero esprimere emozioni, a Eliot sembrò che i suoi gesti, il sollevarsi selvaggio dei suoi capelli ardenti rivelassero una sorta di disperazione. I Khaa, imperturbabili, stesero le mani senza pollice, che sembravano spandersi come olio, avvolgendola. La distruzione della donna ardente, di Aimée Cousineau, fu questione di pochissimi secondi, tutto accadde in una bolla in cui il tempo era lento, e lui ne ebbe una percezione lontana. Quando vide i Khaa sottrarre parti del fuoco della donna e occultarli nei loro corpi, Eliot si chiese se stessero togliendo frammenti distinti della sua anima, se lei consisteva di schegge psicologicamente separate: la ragazza che aveva vagato nella caverna, quella che ne era tornata, o l'amante tradita, se rappresentava gradazioni di peccato e innocenza, o se era un'essenza contaminata, un essere completamente maligno. Mentre era ancora immerso in questi pensieri, per reazione al dolore e allo stridio metallico provocato dalla sconfitta della donna ardente, perse i sensi e, quando riaprì gli occhi, il cortile era deserto. Sentiva la musica e gli urli che arrivavano da Durbar Square. La mucca dorata fissava soddisfatta il vuoto. Era certo che, se solo si fosse mosso, avrebbe ulteriormente rotto le parti spezzate del suo corpo, ma spinse a poco a poco la mano sinistra sulla terra battuta posandola sul seno di Michaela, che si alzava e si abbassava con ritmo regolare. Questo lo rese felice, e non scostò la mano, esultando ai segni della vita contro il suo palmo. Un'ombra fu sopra di lui. Si sforzò di vederla, era uno dei Khaa... No! Era quello di Chaterji, nero opaco con la striscia di fuoco sulla mano. Rispetto ai suoi grandi fratelli, sembrava un sempliciotto ossuto e desolato. Eliot provò cameratismo verso di lui. «Ehi, Bongo» disse debolmente «Abbiamo vinto!» Sentì un formicolio in cima alla testa, un lamento, ed ebbe l'impressione non di gratitudine, come si sarebbe aspettato, ma di grande curiosità. Il
formicolio si fermò ed Eliot improvvisamente sentì chiarezza nella propria mente. Strano. Stava di nuovo svenendo, la coscienza turbinava, oscurandosi, e tuttavia era calmo e tranquillo. Dalla piazza venne un ruggito, qualcuno, il più fortunato a Katmandu, aveva preso il pesce. Quando le palpebre di Eliot si richiusero, ebbe l'ultima visione del Khaa che si stagliava sopra di loro e sentì il rassicurante battito del cuore di Michaela, pensò che forse la folla stesse acclamando l'uomo sbagliato. Tre settimane dopo la notte del Bianco Bhairab, Ranjeesh Chatterji si spogliò di ogni bene terreno (inclusa la sua casa, il cui affitto gratuito di un anno aveva donato a Eliot) e andò ad abitare a Swayambhunath dove, secondo Sam Chipley che era andato a trovare Eliot all'ospedale, stava cercando di visualizzare il Budda Avalokitesvara. Fu allora che Eliot scoprì la natura della sua recente chiarezza. Il Khaa, proprio come molto tempo prima aveva fatto con i gozzi della donna, aveva cercato di provare la sua assuefazione alla meditazione ma, visto che non era di suo interesse, se n'era sbarazzato dandola a uno a portata di mano: Ranjeesh Chatterji. Era un'ironia talmente squisita che Eliot quello stesso pomeriggio dovette sforzarsi di non dirlo a Michaela quando lei andò a trovarlo. Non si ricordava infatti del Khaa, e le notizie che lo riguardavano la turbavano, mentre per il resto stava guarendo rapidamente, così come Eliot. Durante quelle settimane la sua indifferenza era svanita. La sua capacità di amare stava tornando ed era concentrata unicamente su Eliot. «Penso proprio che avessi bisogno di qualcuno che mi convincesse che ne valesse la pena. Non smetterò mai di essertene grata» gli disse baciandolo. «Non vedo l'ora di riaverti a casa.» Gli portava libri, dolci e fiori, si sedeva accanto a lui fino a quando le infermiere non riuscivano a mandarla via. Però, essere il centro della sua devozione lo disturbava. Non era ancora del tutto sicuro di amarla. Sembrava che la chiarezza lo rendesse un uomo pericolosamente poliedrico ed elastico, e ciò lo rendeva un po' reticente a impegnarsi così tanto. Quantomeno questa era l'essenza della nuova chiarezza di Eliot: non voleva prendere nessuna decisione avventata. Quando finalmente tornò a casa, lui e Michaela fecero l'amore sotto la gloria stellata del lucernario di Chatterji. Sebbene avessero dovuto fare molta attenzione a causa del busto ortopedico e dell'ingessatura, e nonostante i dubbi sentimentali di Eliot, questa volta fecero davvero l'amore. Dopo, mentre la stringeva con il braccio sano, era più propenso a impegnarsi con lei. Che l'amasse o meno, non c'era altro modo al di fuori delle
emozioni per migliorare la situazione. Forse avrebbe fatto un tentativo. Se non avesse funzionato, be', non sarebbe stato di certo responsabile della sua salute mentale. Avrebbe dovuto imparare a vivere senza di lui. «Felice?» le chiese, accarezzandole la spalla. Lei annuì e si fece più vicina, e sussurrò qualcosa che fu in parte coperto dal fruscio del cuscino. Era certo di avere capito male, ma il semplice dubbio che non potesse essere così fu sufficiente a conficcargli una particella gelida fra le scapole. «Cos'hai detto?» le chiese. Lei si voltò verso di lui, appoggiandosi a un gomito, stagliata contro la luce delle stelle, i lineamenti confusi. Quando parlò, Eliot si rese conto che il Khaa di Chatterji aveva mantenuto fede alle proprie tradizioni bizzarre nella notte del Bianco Bhairab ed era certo che, se lei avesse inclinato il viso anche leggermente, lasciando che la luce le illuminasse gli occhi, lui sarebbe stato capace di risolvere tutte le congetture sulla natura di Aimée Cousineau. «Sono congiunta alla Felicità» ripeté. 1
Invece di "Screwdriver", misura di vodka e succo d'arancia, intraducibile in italiano (N.d.T.) 2 Uno dei modelli melodici antichi e tradizionali nella musica indiana (N.d.T.) 3 Termine intraducibile, indicante una formula mistica di invocazione o di incantesimo presente nell'induismo. (N.d.T.) 4 Torre adibita a santuario buddista. (N.d.T.) 5 Si tratta di un monte svizzero nel massiccio della Jungfrau. (N.d.T.) 6 Termine tibetano che indica il monte Everest. (N.d.T.) 7 Essere che si trattiene dall'entrare nel nirvana per salvare gli altri ed è adorato come divinità nel buddismo Mahayana. (N.d.T.) Ian Watson RITI DI RECUPERO Ian Watson è uno degli scrittori e critici britannici più significativi degli ultimi vent'anni. Dalla pubblicazione nel 1974 del suo primo romanzo, The Embedding, per cui arrivò secondo per il John W. Campbell Award, ha ottenuto frequenti riconoscimenti per la sua eccellente e stimolante produzione. In gran parte delle sue opere la realtà viene interpretata sog-
gettivamente e Riti di recupero può essere letto in questa prospettiva. Il racconto comincia con la storia di un normalissimo viaggio alla discarica della città, poi mutantesi in una visione davvero oscura del modo in cui Ian Watson tratta l'argomento "rifiuti". Tim e Rosy avevano ripulito da cima a fondo la camera destinata a ripostiglio, svuotandola di quello che normalmente infesta tali locali: ricordi, cose vecchie messe da parte, di scarto, che è possibile riparare o riutilizzare, che un giorno possono tornare utili, insomma tutto quanto viene conservato in una casa nell'arco di vent'anni. «Uno dei problemi di essere poveri» disse Rosy mentre caricavano la macchina «è quello di conservare qualsiasi cianfrusaglia convinti che si tratti di un tesoro» quasi volesse incolparlo di quell'ammasso di roba. «Non siamo proprio poveri» rispose Tim impacciato. «Se ci paragoniamo per esempio con quelli che stanno in Africa, siamo dei benestanti. Ce la caviamo.» Sì, tiravano avanti con i guadagni della drogheria. Riuscivano a pagare gli interessi dei debiti, che convivevano con loro come uno zio avido e infermo o una madre decrepita e paralizzata che impediva loro di andare in vacanza. Le poesie che Tim scriveva rappresentavano un guadagno extra. Nei momenti d'inattività abbozzava brevi e violente liriche, buttandole giù come i clienti facevano con la lista della spesa, e limandole prima di andare a dormire. Aveva pubblicato due brevi raccolte di poesie che avevano ottenuto una buona accoglienza di critica. Naturalmente lavorava anche a un'imponente opera con pretese epiche, ambientata in un immaginario paese dell'Europa centrale, continuando ad aggiungere dieci righe e a cancellarne cinque nel contempo. Il paese in oggetto doveva per forza essere irreale, dal momento che lui e Rosy non potevano permettersi di viaggiare all'estero. «La vita moderna è spazzatura» disse Rosy. «L'ho visto scritto davanti al cinema, ed è proprio vero.» «È colpa della recessione» rispose Tim. «Essere poveri costa sempre più, vero? Compriamo le cose meno care, che sono robaccia. Mettiamo i vestiti delle vendite di beneficenza, così sembriamo poveri e la gente cerca di ingannarci. I miserabili derubano sempre i propri simili. Questa macchina è un rottame, ma mantenerla costa più di una Rolls.» La loro automobile aveva più di dieci anni e la ruggine stava mangiando
il fondo delle portiere. La chiusura idraulica del portellone posteriore si era rovinata così, una volta aperto, lo si doveva puntellare con un manico di scopa. Il motore era un singolare tracannatore di benzina. Quando la macchina, con i sedili posteriori abbassati, venne stipata di ritagli di moquette, strati di feltro, tende e cappotti vecchi, borse di maglioni flosci e di scarpe dall'aspetto misero, giocattoli malridotti, un televisore guasto e cose del genere, Tim si sentì stranamente bene, come se fosse stato più pulito. Ogni volta che raschiava da un barattolo le ultime tracce di giardiniera o di marmellata, o che svuotava una scatola di cereali, avvertiva, anche se in misura minore, una simile ondata di soddisfazione, come se da quel momento potesse capitare qualcosa di nuovo. Freud avrebbe potuto definirlo come il piacere infantile dell'espulsione delle feci. Giusto, Freud parlava anche di ritenzione anale. Nella stanza-sgabuzzino non era stato conservato quasi niente. La pulizia era coincisa con la partenza per il college della figlia Emma. La sua scelta di studiare geografia non andava intesa come un commento pungente sull'immobilità dei propri genitori, ma era stata invece determinata dal fatto che la materia, accademicamente, non era troppo impegnativa. Probabilmente Emma sarebbe diventata un'insegnante sottopagata in una scuola mediocre e avrebbe forse sposato un altro insegnante, ma questo Emma non lo sapeva ancora. I ragazzi erano pimpanti come conigli, finché la volpe non se li mangiava o l'inverno non li gelava. La natura pompa l'ormone dell'ottimismo in ogni generazione. Negli ultimi anni, invece, Tim si era rassegnato a dimorare nella geografia dell'immaginazione. La casa sopra il negozio era quindi doppiamente vuoto: del ciarpame accumulato e di Emma. Tristemente vuota, ma in un certo senso piacevole, come quella domenica di autunno inoltrato. Il sole brillava allegramente sulla via vuota. La gente era ancora a letto e avrebbe dormito fino a tardi. La discarica pubblica però, a sette chilometri di distanza, sarebbe stata aperta. Dall'alba al tramonto. «Spazzatura» ripeté Rosy. Tim sperava che non si sarebbe amareggiata al momento di buttare via il loro passato. Tolse il manico della scopa, lasciò sbattere il portellone e gli diede una pacca rassicurante. «Mai scoraggiare le cose vecchie.» Rosy si tolse un pelucco dal maglione floscio e diede un'occhiata a una scatola che conteneva i giocattoli di Emma. «Be', finalmente ci siamo liberati di lei» disse, cambiando apparentemente argomento. «Penso che adesso possiamo iniziare a vivere, ammesso
di esserne ancora capaci, prima di diventare troppo vecchi.» Tim si lisciò meccanicamente i capelli intorno alla zona calva del capo. Salirono in macchina, che partì senza fare troppo fracasso. Mentre si allontanavano, Rosy disse: «Sai, se vincessimo una fortuna, non sarei capace di spenderla. Non potrei mai concedermi un cappotto a prezzo non di saldo, o un pranzo in un ristorante, o una permanente come si deve. Mi sembrerebbe una cosa oscena. Ormai sono allenata». «Anch'io. E poi mi chiedo come potremmo vincere una fortuna.» Parlava pacatamente. La maggior parte delle case e dei giardini che oltrepassavano erano spogli e senza vita, ma videro un uomo che stava lavando una macchina immatricolata l'anno prima. Tim sapeva a malapena di che modello si trattasse e non riusciva nemmeno a immaginarsi alla sua guida. Lui e Rosy inizialmente avevano preso il negozio con l'aiuto dei genitori, nei giorni in cui aveva sognato di diventare un poeta conosciuto a livello internazionale che viaggiava da un posto all'altro. Adesso i genitori erano morti, e i lasciti erano serviti a contenere il costo dei debiti, che saliva sempre di più. «È una giornata bellissima.» Rosy non rispose. Abbassò lo schermo parasole e nello specchietto retrostante si osservò in cerca di rughe. «I miei capelli hanno proprio bisogno di una bella sistemata» disse allora. «Va' dalla parrucchiera» mormorò Tim. «Mi arrangio da sola. Come sempre.» Tim pensò che anche lui avrebbe dovuto tagliarsi i capelli. Quando porti vestiti vecchi e a buon mercato, è meglio avere i capelli corti. «Si vede il colore diverso della radice» disse Rosy. «Oggi è di moda. Senti, hai detto che dovremmo incominciare a vivere. Se tu non riusciresti nemmeno a permetterti un pranzo al ristorante, come facciamo a iniziare? È un po' una contraddizione, no?» «Una contraddizione economica. Perché dovremmo avere un negozio? Lo Stato dovrebbe possedere tutto, non ci dovrebbero essere nemmeno auto private. Ci dovrebbero essere autobus e ferrovie validi e sufficienti.» «Giusto. Ma non ci sono. I servizi sono stati castrati.» Gli venne in mente una poesia di eunuchi in vesti arabe che conducono harem di passeggeri che sbirciano non dai finestrini ma attraverso tralicci intricati. Quel giorno la discarica sarebbe stata aperta perché era anche un merca-
to. Una specie di bazaar, proprio come i negozi di beneficenza che in città spuntavano come funghi nei locali commerciali temporaneamente vuoti, e che vendevano gli abiti vecchi della gente più ricca a quella più povera per poter mandare aiuti alle persone veramente povere del Terzo mondo; quindi, con il declino economico, le discariche avevano cambiato la propria natura. I concessionari cercavano di ottenere i diritti di recupero. Quanto c'era di riutilizzabile veniva venduto al pubblico. Un riciclaggio ecologico? Logica della povertà? Una cosa e l'altra. Tim e Rosy avevano visitato la discarica fuori città l'anno prima e avevano comprato per pochi soldi una lavatrice che si era rotta dopo tre mesi, ma era comunque stato più economico che affittarne una per poi eventualmente acquistarla. Adesso la carcassa con dei buchi serviva da bidone per il concime nel loro giardinetto, sul retro della casa. Secondo le voci che sentivano nel negozio, la discarica aveva avuto un'ulteriore metamorfosi: era stato installato un distributore di bevande calde, in modo che i visitatori potessero ristorarsi con un caffè in una tazza di plastica. Quell'estate, per gran parte dei week-end, un furgone dei gelati aveva girato per la discarica. «Fra poco» disse «la gente farà i picnic qua, e per i bambini ci saranno anche un'area-giochi, passeggiate e gite in bulldozer. Déjeuner sur la discarica.» «Che cosa?» «Il dipinto di Manet. Immagina quel tipo e la sua bella nuda seduti sulla discarica a bere champagne. Penso che lei dovrebbe mettersi almeno un bikini.» Una poesia? Manet alla discarica. Forse. Che parola rima con "spazzatura"? Guidando attraverso la strada a due corsie fra i primi campi arati della campagna, Tim scorse nel cielo uno stormo di gabbiani che, come tanti ritagli di carta bianca, volavano a gruppi sopra gli acri della discarica che si stendevano disordinatamente. La zona dei visitatori era recintata da lamiere di ferro arrugginite. Quando entrarono, con una marcia bassa innestata, mentre la macchina curvò per imboccare la corsia con il cordolo rallentatraffico le sospensioni scricchiolarono in modo sinistro. Un vasto spiazzo di cemento era ricoperto da grossi bidoni, in cui probabilmente ci sarebbe anche potuta entrare la loro auto. Lungo un lato i contenitori erano già pieni di ciarpame, mentre quelli sul lato opposto era-
no vuoti; la maggior parte di essi però era delimitata da un cordone, e un cartello ne proibiva l'utilizzo. C'era una freccia che indicava la parte opposta, dove erano situati molti bidoni con cartelli che ne chiarivano il contenuto: "Vetro", "Scarti di giardino", "Metallo". Questi erano già pieni, la luce del sole scintillava da un ammasso di finestre. Un container per le spedizioni tutto sfasciato, grande come un vagone ferroviario, bloccava la vista di quello che c'era dietro, anche se un'altra freccia di legno indicava quella direzione. Vicino c'era una coppa nera per l'olio e un banco per le bottiglie, dipinto di verde mimetico così da sembrare un autoblindo, con aperture per le bottiglie trasparenti e per quelle colorate che sembravano bocche da cui si potevano lanciare le bombe, e a un capo vi erano ammassate una ventina di porte scardinate. Tim fermò la macchina vicino a un autocarro che era stipato da una montagna di vestiti vecchi e da stracci. Le maniche della camicia pendevano verso l'esterno come se avessero cercato di uscire e, senza più fiato, non ci fossero riuscite. Di fianco all'autocarro si trovava un altro container enorme, aperto su un lato e con la scritta "Negozio", dove dentro Tim vide vestiti su attaccapanni, scaffali di libri tascabili e di materiale elettrico. All'esterno, seduta su una sedia a sdraio, c'era una donna, grassa e dalla faccia inespressiva, dall'età indefinibile, con una giacca a vento rosa. Sullo spiazzo davanti al negozio c'erano mucchi di utensili, basi per lampade e paralumi, specchi, accessori di metallo incerto, un mobile-bar con la vernice screpolata. Dentro un recinto di fortuna, formato da alcuni portabagagli per il tetto delle macchine, c'era una cagna da guardia alsaziana che si svegliò non appena Tim aprì la portiera. Il potente animale si alzò, abbaiando e infuriandosi. «Jilly!» urlò la grassona, ignorando Tim. Il cane si lasciò cadere e si mise a guaire. A parte la loro auto, lo spiazzo era deserto; forse era troppo presto, ma prima di mezzogiorno il bazaar di robaccia sarebbe stato tutto un brusio, e allora la bestia non avrebbe prestato alcuna attenzione ai nuovi venuti. Tim andò nervosamente al portellone, lo sollevò e inserì il manico di scopa. Portò la prima borsa di plastica verso l'autocarro aperto e la lanciò. La borsa cozzò contro la capote e atterrò proprio sopra la montagna di indumenti. Notò un movimento nell'interno buio, forse qualche straccio che scivolava dopo essere andato fuori posto?
Rosy abbassò il finestrino. «Perché non tieni le borse?» «Ah!» esclamò Tony stupidamente, misurando l'altezza del piano del furgone e la pendenza della montagna di vestiti. Doveva arrampicarsi e vuotare la borsa? «Non c'è spazio sul davanti, la nostra roba cadrebbe fuori.» Supponendo che dopo aver cambiato idea uno cercasse di riprendersi un cappotto che aveva buttato via, il cane avrebbe avuto il diritto di lacerargli la gola? Perché ormai quel cappotto non era più suo? Un'insegna affissa al recinto del cane avvertiva i visitatori di non prendere nulla, se non al negozio. I diritti del recupero erano stati garantiti a una ditta chiamata "Griffiths-Rigattieri", soci della grassona sulla sedia a sdraio. «Tim, torna qui!» Corse verso la macchina. «C'è qualcuno là dentro» sussurrò Rosy. All'interno del furgone, quasi nascosta dal mucchio di stoffa, Tim vide una ragazza ossuta e sciatta che aprì, lacerandola, la borsa che lui aveva appena buttato, e ne sparpagliò il contenuto osservandolo attentamente e scegliendo alcuni capi. «È disgustoso» disse Rosy «vedere che esaminano i tuoi calzini e le tue mutande proprio davanti ai tuoi occhi.» «Forse prima di gettarli via avremmo dovuto lavare tutti i nostri vestiti vecchi?» «Non sei divertente. Andiamo da qualche altra parte, seguiamo quei cartelli laggiù.» Lasciando il portellone aperto, Tim salì in macchina e accese il motore. Guidò costeggiando l'altro container e seguendo la freccia che vi si trovava dietro. Un'altra indicazione li diresse verso un lungo passaggio fiancheggiato da bidoni. Quando Tim e Rosy lo imboccarono, caddero su loro delle ombre dagli alti muri di metallo e improvvisamente la giornata diventò fredda. I cartelli occasionali dicevano "Plastica", "Gomma e pneumatici", ma la maggior parte dei bidoni, oltre a essere troppo alti, erano stracolmi. Seguendo un'altra freccia ancora, Tim fece svoltare l'auto in una viuzza laterale sempre fiancheggiata da bidoni e da altri cartelli indicatori. «Moquette» lesse. «Ci siamo, sbarazziamocene.» Al secondo tentativo riuscì a sollevare all'altezza della testa il rotolo di moquette consumata e a scaraventarlo oltre l'orlo di metallo, dove esso cadde con un rumore sordo. Dalla macchina incominciò poi a lanciare i
pacchi di strati di feltro, ammucchiati per anni con la remota probabilità che potessero servire. «Non è proprio moquette» disse Rosy. «È la stessa cosa, roba che si mette sempre sotto i piedi. Cosa si aspettano? Che la dividiamo tutta noi? Al diavolo! Butto tutto qui, vestiti eccetera. Chi se ne frega?» Un'altra donna, grassa e inespressiva, con una maglia e un paio di pantaloni deformati, chiaramente la sorella di quella seduta sulla sedia a sdraio, passò a fatica fra due bidoni e si fermò a guardarli, subito seguita da un bambino di cinque o sei anni che indossava un paio di pantaloncini e una maglia nera con una chiusura lampo, e teneva stretto un libro illustrato. Tim si avvicinò alla donna, che aveva la pelle che trasudava unto. «Va bene se butto il feltro in quel bidone?» «Eh?» disse dopo un po'. Ripeté la domanda. «Uh» rispose lei, il che avrebbe potuto significare qualsiasi cosa. Tim si rese conto che la donna era un'idiota, un'ebete, forse non aveva niente a che vedere con la ditta "Griffiths-Rigattieri". Forse stava solo girando lì intorno. «Be', allora la butto.» Tim quindi si sbarazzò di tutto il feltro, sollevandolo e tirando in alto mentre la donna lo fissava in silenzio. Tim risalì in macchina e disse: «I bidoni per i vestiti saranno più avanti». Era proprio così. La freccia seguente li diresse in un'altra viuzza lunga e stretta di bidoni, tutti pieni fino all'orlo di diversi tipi di indumenti, per cui i cartelli erano superflui. Vestiti da uomo. Camicie. Gonne. Biancheria intima. Stivali e scarpe. Bottoni; c'era persino un bidone pieno di bottoni, una montagna di ciottoli multicolori. Avanzava a passo d'uomo. «Sarà il loro ripostiglio? Forse esportano nei Paesi poveri, o nei luoghi colpiti da calamità come i cicloni o i terremoti. Non avremmo dovuto venire fin qui, ma scaricare tutto nello spiazzo.» All'improvviso spuntarono due ragazzi con la pelle segnata dalle cicatrici dell'acne, con pesanti stivali dalla punta d'acciaio e giubbotti da aviere, uno diede un colpo al cofano della macchina, obbligando Tim a frenare, mentre l'altro sogghignando fece il giro dell'auto e arrivò al baule aperto. «Non urli mica, eh?» Il ragazzo aprì una borsa lacerandola e tirò fuori una vecchia gonna di Rosy, corse verso un bidone pieno di gonne, la buttò dentro e tornò, e si mise ancora a cercare, unitamente al suo compagno. «Ehi!» obiettò Tim. «Uscite dalla nostra macchina. Subito.»
Come se istintivamente consapevoli del contenuto, i giovani afferrarono le altre borse di vestiti e le strapparono vuotandole in terra. Tim mise immediatamente in moto la macchina e svoltò l'angolo. Era un altro vicolo di bidoni, a prima vista tutti vuoti, con a metà una freccia che indicava una curva. «Fermati e fai retromarcia» disse Rosy. «Torna per la strada da cui siamo venuti.» «Dobbiamo ancora buttare il televisore e il...» «Fermati! Va' indietro e gira. Scarica il resto nello spiazzo. Da qualsiasi parte! Andiamo via. A casa.» La casa sopra il negozio che li nutriva e li imprigionava. La casa con la camera della figlia vuota. E adesso anche con il ripostiglio vuoto. Tim provò l'antica sensazione di certezza che quel mattino, prima di partire, avessero svuotato tutta la casa: di mobili, stufa, frigo, tutto, e che non ci fosse più niente che li legasse a quel posto. Era come se avessero liberato anche gli scaffali del negozio, lasciando solo le tavole nude. Erano liberi, erano fuggiti, no? Poteva iniziare qualcosa di nuovo. Negozio, casa e debiti vacanti. Come era vacante quella strada di bidoni vuoti; come il baule della macchina, che andava svuotandosi velocemente. Desiderò aver chiuso il portellone, perché avrebbero potuto prendere qualcosa di più prezioso della roba vecchia, strappata via o trasportata nell'aria fredda fra quei bidoni di acciaio opprimenti che imitavano beffardamente la via di una città decrepita, del futuro o forse di un ipotetico dopoguerra nucleare. Fermò la macchina e scrollò la testa per liberare il cervello dalla fredda nebbia di inquietudine che lo avvolgeva. Prima che potesse inserire la retromarcia vide nello specchietto retrovisore profilarsi, nella curva dietro loro, la parte anteriore di un autocarro. Le braccia idrauliche facevano dondolare le catene per agganciare il bidone d'acciaio posto sul retro. In qualche modo l'autocarro riuscì a svoltare. Tim si chiese come sarebbe riuscito a sollevare o a depositare i bidoni allineati su ogni lato; forse nel telaio era montata una piattaforma girevole. In un bidone, come se stesse dirigendo il veicolo, c'era la donna ebete. All'improvviso l'immagine della donna lo terrorizzò. L'autocarro si avvicinò lentamente e poi diede un colpo di clacson. «Rosy, dev'essere a senso unico.» Tim avanzò verso l'incrocio seguente e sterzò in modo brusco in un viottolo di contenitori vicinissimi uno all'altro e ricolmi di rottami di ferro. Prima che potesse arrivare a un'altra frec-
cia e a un'altra svolta, l'autocarro era già entrato nella via dei rottami di ferro. Tim girò ancora una volta, poi un'altra ancora, seminando l'autocarro, sempre posto che quest'ultimo lo stesse deliberatamente seguendo. Le frecce e le svolte si susseguivano una all'altra. Viuzze di bidoni si succedevano a viuzze di bidoni. Una volta svoltarono nel viottolo dei bidoni di vestiti, ma questo portava a quello dei rottami di ferro, non a quello dove i contenitori erano vuoti. A meno che la memoria non lo stesse ingannando... no, ne era sicuro. Quei bidoni di vestiti dovevano per forza essere diversi. Si erano persi in un labirinto. «È ridicolo» disse a Rosy. «Non c'è lo spazio per tutte queste vie.» «Siamo entrati nel mondo dei rifiuti» gli sussurrò Rosy di rimando. «La nostra meta dopo questi vent'anni.» Il motore tossì e perse colpi. Tim tirò l'aria e accelerò, anche se era costretto a guidare lentamente. «È per tutto questo andare in prima, le candele si sono sporcate.» Il viottolo subito dopo si apriva in un vasto piazzale di cemento sempre circondato da bidoni, ma non era quello dove c'era il negozio. Chiudendo l'aria improvvisamente, Tim avviò la macchina a tutto gas verso la freccia sul lato più lontano che indicava l'uscita, sperando così di ripulire le candele. Frenò in tempo per inoltrarsi nella stretta viuzza. Dopo sei viottoli il motore si fermò. Tim non riuscì a riavviare la macchina. «Cosa facciamo adesso?» chiese Rosy. «Camminiamo. Lascio la chiavetta nell'accensione.» Da entrambi i lati i bidoni stavano uno accanto all'altro. Sembravano grandi il doppio di prima. Non si poteva nemmeno strisciare di traverso fra i contenitori, ma solo sullo stomaco. L'unica via possibile era la strada di cemento. «Chissà se una volta era un campo d'aviazione.» Poi si ricordò dei gabbiani che si riunivano in stormo sopra la discarica, ma nel cielo adesso non ne vedeva più. «Tim, cosa c'è nei bidoni?» Da quando erano svoltati nel secondo spiazzo, non avevano più notato i cartelli che ne indicavano il contenuto. Alzò lo sguardo, e improvvisamente comprese cosa fossero le forme di ogni genere che spuntavano dai bordi dei contenitori. Portiere di macchina.
Più avanti... una foresta di tubi di scappamento, come canne d'organo gettate lì alla rinfusa dall'esplosione di una bomba. «Pezzi di macchina» disse aprendo la portiera. Due viottoli più in là sentirono dietro di loro un movimento di attrezzi meccanici, poi uno sferragliare metallico, e Tim fu sicuro che la loro macchina in panne veniva fracassata. Prendendo Rosy per mano, la spinse in avanti lungo un'altra viuzza. Sentì debolmente un rumore sordo di stivali e un risolino sciocco e idiota. Di nuovo i bidoni dei vestiti! Giacche, camicie, sandali, camicie da notte spuntavano dai bordi dei bidoni. Prima di raggiungere la curva successiva, la donna ebete si parò ancheggiando davanti a loro, era con un uomo grosso e ossuto, sui quarantacinque anni, vestito con una tuta, i capelli folti lisciati in onde e il naso simile a un assurdo grumo spiaccicato nella faccia larga e malconcia. «Ehi, tu, amico, vuoi una mano?» Tim procedeva a scatti. Dietro di loro uno dei giovani si era appollaiato sull'orlo di un contenitore di gonne, e saltò a terra proprio quando il suo compagno si era fatto largo a fatica su un bidone di vestiti estivi posto sul lato opposto. Anche lui balzò in terra. «Diteci dov'è l'uscita!» urlò Rosy. «No, andate via! Lasciateci soli!» I due ragazzi si avvicinarono correndo e strinsero Rosy per le braccia, contemporaneamente l'uomo afferrò Tim, che lottò inutilmente, perché la sua morsa sembrava di granito. «Vuoi una mano?» ripeté il ragazzo. La donna grassa si avvicinò lentamente. Mentre l'uomo teneva Tim come un giocattolo, o meglio come una bambola a grandezza naturale, la donna, prendendosela comoda, lo spogliò, gettando i suoi vestiti nei vari contenitori. Ben presto, Tim fu lasciato nudo e tremante, sempre imprigionato. Poi toccò a Rosy. Dopo averli denudati, gli assalitori condussero Tim e Rosy alla curva successiva e li lasciarono liberi, gettandoli nella stradina di cemento e acciaio. «Andate adesso, signori.» La donna e i tre compagni rimasero all'incrocio, bloccando il ritorno verso i contenitori dov'erano stati gettati i vestiti e le scarpe di Tim e di Rosy
che, intontiti e tremando per il freddo e lo shock, corsero verso la svolta successiva per sottrarre la loro nudità a quegli sguardi stupidi ma vigili e al venticello gelido, e quindi fuggire. Tim batteva i denti. «Tro-troveremo qualcosa da metterci, p-più avanti. Un qualunque straccio vecchio, o delle t-tendine.» In questa nuova stradina i bidoni erano carichi di cartoni, rotoli di carta da parati, fasci di vecchie riviste. Tim si chiese se sarebbe riuscito ad arrampicarsi su per un bidone a piedi nudi. Ma non aveva altra scelta! Rosy gemeva. «Pensavo che mi stessero per violentare...» Il petto sobbalzava. «L'hanno fatto! L'hanno fatto! L'hanno fatto! È stata la stessa cosa!» «Ascolta, è tutto uno scherzo perverso. Prima di tutto cerchiamo degli stracci per coprirci, poi raggiungiamo il cortile del negozio, sembreremo degli spaventapasseri... e troveremo la nostra macchina ad aspettarci... con i nostri vestiti piegati sul sedile. Nessuno ci crederà, ma...» Lui doveva crederci. «Avrebbero potuto farci del male, ma non l'hanno fatto.» «Pensi che non ci abbiano fatto del male? Io non mi libererò mai da questo trauma.» I contenitori nella strada successiva sembravano tutti vuoti; niente spuntava dai loro bordi. Tim batté le nocche contro molti bidoni, ma tutti gli sembrarono pieni. Non se la sentiva però di arrampicarsi per verificarne il contenuto. Camminavano nell'ombra fredda; qualsiasi direzione prendessero, il sole sembrava esserne escluso. Finalmente una freccia indicò un percorso, fra file di bidoni colmi di mobili rotti, che conduceva a uno spiazzo coperto di cemento. «È l'uscita» Tim disse. «Siamo arrivati.» La raduna però, sempre circondata da bidoni giganteschi, era grande come un campo da tennis e non c'era nessuna freccia che indicasse l'uscita. C'era solo un'entrata. La metà dello spiazzo era inondato di sole, e Rosy corse là per riscaldarsi. La sua carne nuda rabbrividiva, l'aria la gelava. Qualunque cosa contenessero quei bidoni, era impossibile vederlo da terra, e a uno di essi era appoggiato il portabagagli di una macchina, le cui barre di metallo potevano fungere da scalini. «Vedrò l'uscita!» Sobbalzando e mettendo i piedi di lato in modo da bilanciare il peso sulle sottili aste di metallo, Rosy salì. Riparandosi dal riverbero del sole con la mano, si guardò intorno disorientata.
Poi scrutò dentro il bidone. E urlò, urlò senza più fermarsi. Tim si arrampicò sulle sbarre, perché di fianco c'era ancora spazio. Tenendola forte per le spalle fredde con un braccio gelato, anche Tim abbassò lo sguardo. Per alcuni secondi non capì quello che stava vedendo. Uno strato di palline da ping pong coperte di fanghiglia? Centinaia di uova sode? No. Occhi. I nervi ottici che spuntavano come tratti di filo elettrico strappato da una lampadina. Occhi di pecora? No, pensava di no. Non erano occhi di pecora e nemmeno di un altro animale. Rosy aveva smesso di urlare, senza più fiato. Tremava incontrollatamente, stringendo forte il bordo del bidone, con gli occhi serrati come per nasconderli. Tim vedeva anche il contenuto dei bidoni vicini. Un mucchio di patatine fritte? Piccole carote? No. Dita. Dita umane mozzate. Stravolto, guardò intorno allo spiazzo. Tutti gli altri bidoni, cosa contenevano nelle loro profondità? Alluci, lingue, polmoni? Braccia, lombi e cervelli? Le parti del corpo, smistate e... Certo! Sapeva che era così, prima ancora che il gracchiare di un motore attirasse il suo sguardo verso l'entrata del piccolo spiazzo. L'autocarro dei bidoni apparve all'orizzonte e si fermò all'entrata, completando così il perimetro di cinta delle mura di metallo. La parte anteriore sporgeva sufficientemente nello spiazzo per consentire l'apertura delle portiere. Nella cabina, stipati uno accanto all'altro, c'erano l'uomo al volante, i due ragazzi, la donna ebete con il bambinetto sulle ginocchia, la donna grassa e inespressiva con la giacca a vento rosa e la ragazza ossuta e sciatta. Tutti gli occupanti, persino il bambino, stringevano vari attrezzi. Seghe. Tenaglie. Scalpello. Una piccola ascia. Il motore si spense. «Dio mio, Rosy, sali in cima! Cammina sul bordo del bidone. Dobbiamo uscire di qui.» Oltre il cortile, fin dove arrivava lo sguardo, vedeva in tutte le direzioni file interminabili di bidoni. Disperatamente, riempiendosi il corpo nudo di lividi, quasi mutilandosi un alluce, Tim si inerpicò sulla cima, lottando per tenersi in equilibrio, un po' aiutando e trascinando Rosy con sé. Il bordo era troppo stretto persino per camminarci sopra a piedi nudi, come un funambolo. Tim sapeva che nudi non potevano nemmeno strisciare a cavalcioni, perché sarebbe stato
come cavalcare una lama di acciaio smussata che in breve avrebbe dilaniato loro le carni fra le gambe. Quindi scivolò all'interno, trascinandovi Rosy che urlava lamentosamente. «Ci arrampicheremo e andremo nell'altro, e così di seguito!» Sotto i piedi le palline di gelatina facevano cic-ciac. Scivolò nella pozza di occhi profonda venti centimetri e cadde, nauseato. Si rialzò, camminò a stento, poi fece un balzo verso il bordo posteriore del bidone. Le dita tese fecero presa, ma anche sbattendo la fronte contro il metallo non riuscì a tirarsi su. Non aveva un appiglio sufficientemente forte. Non c'era un sostegno. I piedi scivolavano su quelle soffici bilie. «Bisogno di una mano?» Numerose teste si affacciarono al bidone. Visi vuoti sorrisero incerti. L'uomo, le donne, i ragazzi, la ragazza e persino il bambinetto. Spuntarono anche le mani, mettendo in mostra uno scalpello, un'ascia, tenaglie e seghe. Theodore L. Thomas TEST Theodore L Thomas, brillante avvocato, articolista scientifico, professore universitario e amante delle immersioni subacquee, cominciò a pubblicare le sue storie nel 1952 sia con il suo nome che con lo pseudonimo di Leonard Lockardt. Oltre ai suoi racconti, ha scritto due romanzi in collaborazione con Kate Wilhelm, The Clone (1965) e The Year of the Cloud (1970). Test, apparso per la prima volta in «Fantasy & Science Fiction» nel 1962, è un breve racconto del brivido che, sebbene stringato, è una delle migliori storie d'azione che avrete mai occasione di leggere. Pone una domanda che - una volta formulata - rimarrà impressa per sempre nella vostra memoria. Per essere così giovane, Robert Proctor era uri buon autista. Davanti a lui l'autostrada curvava lievemente, e in quel freddo mattino di maggio era contento di guidare. Si sentiva rilassato e vigile. Le due ore di viaggio non avevano ancora provocato le fitte di stanchezza che per prime si avvertono nei muscoli alla base del collo. Il sole splendeva luminoso ma non accecante e l'aria profumava di fresco e pulito. Respirò profondamente, espirando poi rumorosamente. Era un bel mattino per guidare. Guardò di sfuggita la donna snella e dai capelli grigi seduta sul sedile al
suo fianco. Era intenta a osservare gli alberi e i campi che scorrevano sul suo lato della strada, con la bocca atteggiata in un calmo sorriso. Robert Proctor, tornando immediatamente a rivolgere la propria attenzione alla strada, le chiese: «Contenta, mamma?». «Sì, Robert.» La sua voce era fresca come il mattino. «È piacevole starmene seduta qui. Pensavo ai viaggi che ho fatto per te quando eri piccolo. Mi chiedo se ti piacevano tanto quanto questo piace a me.» Sorrise imbarazzato. «Certo!» Sua madre allungò la mano e lo toccò leggermente sul braccio, poi tornò a guardare il paesaggio. Robert ascoltava il ronzio regolare del motore. Davanti a sé vide un grande autocarro che emetteva una nuvola di fumo ogni volta che accelerava, seguito da un lungo cabriolet azzurro contento di viaggiare nella scia dell'autocarro, senza oltrepassarlo. Robert Proctor notò la disposizione, e l'archiviò nella mente. Si stava lentamente avvicinando, ma non li avrebbe raggiunti prima di un minuto o due. Sentiva il rumore del motore ed era contento di quel suono. Aveva messo a punto per bene l'auto da solo, nonostante le obiezioni del meccanico. Adesso il motore girava benissimo, pur facendo correre il veicolo ad alta velocità. Si doveva avere una particolare sensibilità per fare un buon lavoro sui motori, e Robert Proctor sapeva di averla. Nessuno al mondo era in gamba quanto lui in questo. Era un bel mattino per guidare e la sua mente era piena di pensieri piacevoli. Si affiancò al cabriolet azzurro e incominciò a superarlo. La sua velocità eccedeva di poco il limite consentito, ma il suo mezzo era perfettamente sotto controllo. Il cabriolet improvvisamente uscì da dietro l'autocarro senza segnalare la propria manovra, tagliandogli la strada, colpendolo al paraurti anteriore destro e spingendolo verso il margine sinistro della strada. Robert Proctor era un buon autista, troppo saggio per schiacciare il pedale del freno. Lottò con il volante per non sbandare. Le ruote di sinistra affondarono nel bordo cedevole della strada, e il veicolo slittò verso sinistra, attraversando lo spartitraffico e andando a finire in parte sulla corsia opposta. Riuscì a mantenere il controllo della macchina, poi colpì un masso semisepolto nel terreno soffice e la ruota anteriore sinistra scoppiò. L'auto fece un testacoda e fu proprio in quel momento che sua madre cominciò a urlare.
Il veicolo si girò di traverso e, slittando, finì sul bordo dell'altra corsia. Robert lottò con il volante per raddrizzare l'auto, ma la ruota scoppiata era di grandissimo ostacolo a quella manovra. Il grido rimbombava nelle sue orecchie e, mentre si sforzava di governare l'auto, una parte della sua mente si chiedeva freddamente come si facesse a urlare per così tanto tempo senza riprendere fiato. Una macchina che stava arrivando lo colpì di lato al radiatore e lo fece roteare vorticosamente, mandandolo a invadere la corsia di sinistra. Fu scagliato sul grembo della madre, a sua volta spinta contro la portiera destra, che resistette all'impatto. Afferrò il volante con la mano sinistra e si raddrizzò, lottando contro la forza centrifuga. Girò il volante verso sinistra e tentò di fermare il movimento vorticoso e togliersi, sbandando, dalla corsia opposta, sulla quale altri veicoli si stavano avvicinando. La madre non era in grado di rimettersi diritta; era appoggiata alla porta e il suo grido aumentava e diminuiva con la rotazione del veicolo. L'auto perse un po' di velocità. Durante una delle sue roteazioni Robert raddrizzò il volante e la macchina, sbandando, smise di girare su se stessa e si diresse lungo la strada. Prima che potesse deviare per mettersi sulla carreggiata di destra dell'autostrada, in lontananza apparve una macchina che puntava dritto su di lui. Al volante c'era un uomo, seduto rigidamente, incapace di muoversi: i suoi occhi, spalancati e fissi, erano pieni di paura. Accanto all'uomo c'era una ragazza con la testa appoggiata allo schienale del sedile, il bel viso incorniciato da soffici riccioli, immersa in un sonno tranquillo. Non fu il terrore dipinto sul viso dell'uomo che impressionò Robert; fu l'espressione fiduciosa e indifesa della ragazza che dormiva. I due veicoli si avvicinavano sempre di più l'uno all'altro e Robert Proctor non riusciva a cambiare la direzione della macchina. Il conducente dell'altra auto rimaneva come agghiacciato al volante. All'ultimo momento Robert Proctor rimase immobile, fissando il viso della ragazza addormentata che si avvicinava sempre di più, con il grido della madre ancora nelle sue orecchie. Al momento dello scontro frontale ad alta velocità non sentì lo schianto, ma solo qualcosa spingergli lo stomaco, mentre il mondo incominciò a oscurarsi. Appena prima di perdere conoscenza, sentì l'urlo fermarsi e allora capì di aver udito solo un unico, breve grido che era sembrato prolungarsi all'infinito. Fu allora che sentì uno strappo indolore, e poi tutto diventò buio. Robert Proctor aveva la sensazione di essere sul fondo di un pozzo nero
e profondo. In lontananza scorgeva una macchia di luce debole, e riusciva a sentire il rimbombo di una voce lontana. Tentò di spingersi verso la luce e il suono, ma lo sforzo era troppo grande. Si calmò, raccolse le sue forze e provò di nuovo. La luce diventò più chiara e la voce più forte. Tentò ancora, e poi ancora, avvicinandovisi di più, allora aprì completamente gli occhi e guardò uno seduto di fronte a lui. «Va tutto bene, figliolo?» chiese l'uomo. Indossava un'uniforme blu e il suo viso tondo e solido gli era familiare. Robert Proctor mosse cautamente la testa e scoprì di essere seduto su una sedia reclinabile, incolume e in grado di muovere le braccia e le gambe senza alcun problema. Si guardò in giro nella stanza e ricordò. L'uomo con l'uniforme vide crescere nei suoi occhi la consapevolezza di ciò che era accaduto e disse: «Niente di male, figliolo. Hai appena sostenuto l'ultima parte del tuo test di guida». Robert Proctor puntò gli occhi sull'uomo. Sebbene lo vedesse chiaramente, gli sembrava di scorgere davanti a sé il viso pallido della ragazza addormentata. L'uomo con l'uniforme continuò a parlare: «Ti abbiamo sottoposto a un incidente sotto ipnosi. Di questi tempi lo facciamo a tutti prima di rilasciare la patente di guida. Serve a migliorare e a rendere gli automobilisti più attenti per il resto della loro vita. Ti ricordi, adesso? Ti viene tutto in mente?». Robert Proctor annuì, pensando alla ragazza addormentata. Non si sarebbe mai svegliata; passando dal sonno dolce e momentaneo a quello buio e greve della morte, senza niente di intermedio. Sua madre sarebbe stata abbastanza male; dopotutto era piuttosto vecchia, mentre per la ragazza non ci sarebbe più stata nessuna speranza. L'uomo in uniforme stava ancora parlando: «Ora è tutto a posto. Mi paghi la tassa di dieci dollari, firmi questo modulo e fra un paio di giorni riceverai la patente per posta». Non alzò neppure lo sguardo. Robert mise un biglietto da dieci dollari sul tavolo di fronte all'uomo, diede un'occhiata al modulo e lo firmò. Quando sollevò la testa, si accorse di due uomini in uniforme bianca accanto a lui, uno per parte, e aggrottò le sopracciglia irritato. Stava per parlare, ma l'uomo in uniforme lo fece per primo. «Mi dispiace, figliolo. Hai sbagliato. Sei malato, hai bisogno di cure.» I due uomini sollevarono Robert in piedi e lui disse: «Toglietemi le mani di dosso. Cosa significa tutto questo?».
L'uomo in uniforme disse: «Nessuno vorrebbe guidare la macchina dopo aver passato quello che hai sopportato tu. Dovrebbero trascorrere dei mesi prima che uno possa persino pensare di guidare di nuovo, ma tu saresti già pronto adesso. Non t'importa di uccidere delle persone. Non possiamo permettere che tipi come te circolino liberamente. Ma ora non ti preoccupare, figliolo. Si prenderanno cura di te e ti rimetteranno a posto». Poi fece un cenno ai due uomini, che incominciarono a portare fuori Robert Proctor, che sulla porta parlò con un tono di voce così insistente che i due si fermarono. Robert Proctor disse: «Sicuramente non state facendo sul serio. Sto ancora sognando, vero? Questo è ancora parte del test, vero?». L'uomo con l'uniforme disse: «Come facciamo a saperlo?». E gli uomini trascinarono Robert fuori dalla porta: le ginocchia rigide, i piedi striscianti, i tacchi di gomma che scivolavano lungo i solchi consunti sul pavimento. Manly Wade Wellman IL PICCOLO TRENO NERO La scomparsa di Manly Wade Wellman, avvenuta nel 1986, è stata per il mondo della narrativa americana una grande perdita. Questo scrittore iniziò a pubblicare nel 1927, facendo proprio in tutti i suoi racconti lo spirito del Sudamerica. La sua serie di racconti più famosa, di cui fa parte anche Il piccolo treno nero, parla di John, il cantore errante di ballate. Queste storie vennero pubblicate in «Fantasy & Science Fiction» dal 1951 al 1962 e poi riunite nel volume Who Fears the Devil? (1963). John è un personaggio che sembra destinato a incontrarsi con gente strana in posti ancora più strani. Questi racconti sono particolarmente piacevoli sia per la riproduzione fedele di un certo tipo di parlata regionale nonché per le descrizioni del folclore americano, e meritano davvero d'essere letti. Il piccolo treno nero è una delle sue storie più irresistibili, dove John, ancora una volta, affronta il male nel tentativo di sventare, con la sua chitarra dalle corde d'argento, una maledizione lanciata vent'anni prima. Là nel paese di High Fork dove le cime seghettate dei monti si stagliano contro il cielo, le valli digradano ripide e gli alberi crescono folti dappertutto, si può pensare che nessun piede umano aveva mai calcato quel territorio. Mentre camminavo lungo il sentiero tra gli alti pini, sfiorai le corde d'argento della mia chitarra perché il suo suono mi facesse compagnia. Dietro una curva un uomo comparve alla mia vista - giovanile, rosso in vi-
so e calvo. Signori, era ubriaco fradicio! Gli diedi la buonasera. «Sai suonare quell'affare?» mi chiese con voce strozzata, e alla seconda stretta di mano malferma si aggrappò al manico della chitarra. «Amico, vieni alla festa. All'ultimo momento il nostro complessino d'archi ci ha abbandonato, erano tutti impauriti. A suonare per noi è rimasta soltanto un'armonica a bocca.» «Perché l'orchestra si è spaventata?» gli chiesi. «La festa è a casa di miss Donie Carawan» disse, senza rispondere alla mia domanda. «Maiale e pollo arrosto alla griglia e una botte di whisky, di quello buono.» «Ascolta,» gli dissi «hai mai sentito raccontare di quell'uomo che invitò uno strano violinista, e poi si scoprì che era Satana?» «Ma dài,» disse ridacchiando «Satana suona il violino; tu invece suoni la chitarra, la tua chitarra non mi spaventa. Amico, come ti chiami? «John. E tu?» Ma si stava già avviando su per un sentiero stretto, tortuoso e rigoglioso di vegetazione, difficile a vedersi. Pensai che la festa sarebbe stata in una casa dove avrei potuto passare la notte che stava sopraggiungendo, e così lo seguii. Quasi mi cadde addosso, era ubriaco marcio, ma arrivammo comunque a uno stretto passo sulla costa dove sul lato opposto c'era una valle di alberi, dall'aspetto buio e segreto. Scendendo, cominciai a sentire il rumore di persone che ridevano e parlavano ad alta voce. Infine arrivammo in un cortile, nel quale erano raccolti uomini e donne in numero sufficiente da poter dare l'impressione che si stesse tenendo un comizio. Gridarono verso di noi; un urlo tanto forte che mi ronzarono le orecchie. L'ubriaco agitò le mani in segno di saluto. «Ecco qui il mio amico John» gridò «che suonerà qualcosa per noi.» A queste parole gridarono ancora più forte e per me la cosa più semplice da fare fu iniziare a suonare Hell Broke Loose in George e, signori, subito si misero a ballare freneticamente. Giravano e roteavano come selvaggi. La maggior parte di loro erano giovani, vestiti con il loro abito migliore. Da un lato un uomo tarchiato guidava le danze, ma era difficile sentirlo perché tutti ridevano e strillavano. Mi venne in mente che i bambini ridono e urlano in questo modo, quando passano davanti a un vecchio cimitero dove ci possono essere dei fantasmi. Forse era in quel modo che cercavano di allontanare la paura. Anch'io sobbalzai, tra un colpo e l'altro di plettro, quando accanto a me sentii un lamento; era soltanto un tipo di mezza età con un viso sottile, che con l'armonica accompagnava la mia chitarra.
Guardai la casa; era nuova, grande, solida, intonacata di bianco con alcune piccole crepe tra le travi squadrate. Attraverso un portico, che correva dalla parte anteriore al retro della casa, vidi chiaramente la valle sottostante, dove a ovest il sole tramontava dietro una lontana catena di monti. Sul fondo della valle, per l'intera lunghezza, gli alberi erano divisi da una specie di sentiero o strada. Mentre suonavo, le finestre della casa cominciarono a illuminarsi. Qualcuno accese le lampade per la notte che stava calando. Alla fine del motivo tutti mi applaudirono forte e a lungo. «Ancora! Ancora!» gridavano, e intanto si raggruppavano fra gli alberi del cortile, ancora lottando contro la loro paura. «Amici,» dissi, riuscendo a farmi sentire «permettetemi di presentarmi a chi ha organizzato la festa.» «Salve, miss Donie!» gridò l'ubriaco. «Venga a conoscere John.» Dalla casa lei si fece largo tra la folla, camminando così orgogliosamente che sembrava più alta di quanto fosse in realtà. Indossava un'ampia gonna a strisce che frusciava rumorosamente sui tacchi alti; e aveva le spalle e le braccia tornite e completamente nude. Il biondo dei capelli non era certo naturale e il rosa del viso era dovuto a una magica scatoletta. Mi sorrise e il suo profumo mi solleticò il naso. Dietro di lei c'era quel tipo tarchiato che guidava le danze con i capelli neri smorti, i denti grandi e le mani pesanti, che dondolavano come i pesi della bilancia. «Sono contenta che sia venuto, John» mi disse con voce profonda. Guardai gli occhi, azzurri come le uova del tordo, i capelli chiari, le labbra rosse e le spalle rosa nude. Aveva forse trentacinque anni, quaranta, o forse di più, ma non li dimostrava. «Sono contento di essere qui» dissi, il più gentilmente possibile. «È il compleanno di qualcuno, miss Donie Carawan?» La gente si calmò, scambiandosi delle occhiate. Il fuoco divampò mentre scendeva la notte. Donie Carawan rise profondamente. «Sì, il compleanno di una maledizione» disse, sgranando gli occhi azzurri come il cielo. «Ma penso che sia anche l'ultimo.» Alcune bocche tentarono di parlare, ma le parole non uscivano. Capii che qualunque cosa fosse stata a spaventare l'orchestra, non era niente di comune. Mi tese la mano sottile, con le dita ornate di anelli di pietre verdi. «Vieni a mangiare e a bere, John» m'invitò. «Grazie» risposi, visto che non avevo mangiato niente fin dal mattino. Mi portò via, premendo le sue dita sulle mie e osservandomi con la coda
dell'occhio. Il tipo tarchiato che guidava le danze ci lanciò un'occhiata, geloso del fatto che lei mi avesse accolto tanto cordialmente. Due uomini anziani, dal viso scuro, erano in piedi accanto a una griglia posta su un mucchio di carbone, dove due pezzi di maiale arrostivano lentamente. Uno dei due intingeva in un recipiente di salsa un bastone dall'estremità rivestita di stracci, e spalmava la carne arrostita. Una donna anziana toglieva delle frittelle di farina gialla da una grossa pentola di grasso messa su un altro fuoco, sistemandole nei piatti già pronti sopra un tavolo fatto di assi. «Mettetevi in fila!» ordinò Donie con voce squillante. La gente obbedì, rimettendosi a chiacchierare e a gridare con il sorriso che era loro tornato sulle labbra. Era in qualche modo come in quei sogni dove tutti sono eccitati ma qualcosa di brutto sta per accadere. Donie mi prese sottobraccio, la sua pelle nuda toccava la stoffa blu della mia camicia, mentre un uomo anziano tagliava per noi dei pezzi di maiale arrosto e li disponeva su piatti di carta che la signora anziana guarniva di frittelle e di una porzione abbondante di insalata di cavoli. Mentre mangiavo mi chiesi come preparavano la salsa per la carne, domandandomi anche se tutta quella gente era davvero lì per ciò che Donie chiamava il compleanno di una maledizione. «John» disse lei come se capisse a cosa stavo pensando «non si dice che la maledizione di una strega non può funzionare su un cuore puro?» «Sì, si dice» confermai io, e lei rise nel suo solito modo. Il tipo tarchiato che guidava le danze e il magro suonatore d'armonica alzarono lo sguardo dai loro piatti. «Vent'anni fa una vecchia strega mi accusò di essere colpevole» disse Donie. «La legge stabilì che ero innocente. Chi aveva ragione?» «Non saprei» dovetti ammettere, e lei rise di nuovo e addentò la sua frittella. «John, guardati intorno» mi disse. «Questa casa è mia, questa valle è mia e questa gente è mia amica, vieni ad aiutarmi a divertirmi.» Mi venne di nuovo da pensare che fosse lei l'unica a divertirsi, e non ne ero nemmeno tanto sicuro. «Giudica tu» e rise. «È dura per quelle persone che hanno aspettato tutti questi anni con il fiato sospeso di vedere la maledizione cadermi addosso. Ma non è successo, ho cercato il modo di cacciarla via.» Alzò i suoi occhi azzurri. «Ma tu, John, cosa ci fai qui a High Fork?» Il tipo tarchiato e il suonatore magro ascoltavano.
«Passavo di qua» dissi. «Cercavo delle canzoni nuove e mi hanno detto che a High Fork ce n'è una che parla di un piccolo treno nero.» Tutt'intorno si fece silenzio, come se fossi stato scortese. Ma, ancora una volta, lei ruppe il silenzio con una risata. «Sai,» disse «conosco quella canzone da quando so della maledizione. Vuoi che la canti per te?» La gente osservava, e io risposi: «Sì, per favore». Cantò alla luce gialla delle lampade e alla luce rossa del fuoco, tra le ombre degli alberi e l'oscurità della montagna, senza neppure una falce di luna sopra di noi. La sua voce era piacevole. Posai il piatto e, dopo una o due battute, mi misi ad accompagnarla con la chitarra. «Ho sentito un ammonimento Un messaggio dall'alto venire, "Riordina la tua casa Perché tu dovrai morire; Da' ai tuoi amici un lungo addio E sistema gli affari per l'avvenire Il piccolo treno nero sta arrivando Per chiamarti all'imbrunire."» «Miss Donie, è proprio un bel motivo» dissi «sembra proprio un treno che passa.» «La mia voce non è abbastanza alta di tono per accompagnare la parte in cui si deve fischiettare» precisò, sorridendomi con le labbra vermiglie. «Potrei farlo io» disse il suonatore d'armonica, avvicinandosi e parlando sottovoce. La gente esitò di fronte a noi, sembrava imbarazzata, addirittura disgustata. Incominciai a chiedermi perché avevo sbagliato a tirare in ballo la canzone del piccolo treno nero. In quel momento un grido si levò vicino alla casa, dov'era stato messo il barile. L'ubriaco che mi aveva portato lì stava inveendo come un matto contro un altro uomo ubriaco quasi quanto lui: contendevano una zucca piena di whisky. Alcuni uomini, intorno, li incitavano ancora di più al litigio. «Jeth,» disse Donie rivolgendosi al tipo tarchiato «fermiamoli prima che rovescino tutto.» Lei e Jeth si diressero verso il gruppo vicino al barile e tutti gli altri si affollarono a guardare.
«John,» disse un tipo dal tono tranquillo - era il suonatore di armonica, la sua faccia magra appariva rugosa alla luce del fuoco, i capelli erano spruzzati di grigio - «perché sei qui?» «Per guardare» risposi, mentre il grosso Jeth divideva i due ubriachi e Donie li rimproverava. «E per ascoltare» aggiunsi. «Voglio sapere per quale motivo la canzone del piccolo treno nero ha a che fare con questa festa e con la storia della maledizione. Tu ne sai qualcosa?» «Sì» rispose. Ci allontanammo dalla luce del fuoco tenendo in mano i piatti. La gente si affollò intorno al barile ridendo e gridando. «Donie doveva sposare Trevis Jones» incominciò a raccontarmi il suonatore. «Era il padrone della rete ferroviaria di High Fork che trasportava il legname di questa valle. Era molto ricco e per questo lei era disposta a sposarlo. Ma un altro giovane la amava: Cobb Richardson, che guidava i treni di Trevis Jones sulla linea di High Fork. E Cobb uccise Trevis.» «Per amore?» gli chiesi. «La gente pensò che Donie avesse deciso di respingere Trevis e avesse affascinato Cobb spingendolo all'omicidio, in quanto Trevis aveva fatto un testamento che la rendeva erede di tutti i suoi soldi e della sua proprietà, la ferrovia e tutto il resto. Cobb confessò, dicendo che Donie non aveva nessuna responsabilità. La legge la lasciò libera e Cobb fu condannato alla sedia elettrica, giù nella capitale.» «Chi l'avrebbe mai detto» dissi. «È andata così, e poi la madre di Cobb, la signora Amanda Richardson, lanciò la maledizione.» «Oh,» dissi «è lei la strega che...» «Non era una strega» mi interruppe. «Ma fu lei che maledì Donie: il treno che Cobb aveva guidato e che Travis aveva lasciato a lei in eredità sarebbe stato la causa della sua morte e distruzione. Donie rise. Hai già sentito la sua risata; E la gente cominciò a cantare la canzone del piccolo treno nero.» «Chi l'ha scritta?» «Penso di essere stato io» mi rispose, guardandomi a lungo. Fece una pausa per lasciarmi digerire la notizia. Poi aggiunse: «Forse fu proprio a causa della canzone che Donie decise di stipulare un contratto con la Hickory River Railroad, pagando una somma di denaro, perché il treno di High Fork non passasse più».
Avevo finito la carne, avrei potuto prenderne ancora, ma non ne avevo più voglia. «Ho capito» dissi. «Lei pensava che se nessun treno fosse più passato sulla linea di High Fork, avrebbe evitato la morte e la distruzione.» Gettammo i piatti di carta su uno dei fuochi. Non guardai gli altri ma mi sembrò che con lo scendere della notte si fossero calmati. Il suonatore continuò il suo racconto. «La gente dice che il treno corre ancora su quel binario, o almeno ci correva. Si dice che qualche volta, a mezzanotte, un treno nero passi ancora e, quando succede, un peccatore muore.» «L'hai mai visto?» «No, John, ma sono sicuro che qualcuno l'ha sentito. E solo Donie Carawan ne ride.» Proprio in quel momento la donna rise, prendendo in giro i due uomini che ondeggiavano nella lotta. Tutti gli altri allungarono il collo verso di lei e le donne avevano l'aria di non gradire per niente la scena. Mi misi anch'io a guardare. «Vent'anni fa era proprio nel fiore della sua bellezza,» continuò il suonatore «credimi, non riuscivi a toglierle gli occhi di dosso.» «Cosa intende dire quando parla della fine della maledizione?» «Lei concluse un altro affare. Vendette tutti i binari di High Fork, e così la ferrovia è rimasta inattiva per vent'anni. Oggi gli ultimi binari sono stati tolti e portati via. Nel frattempo si è fatta costruire questa casa, proprio dove una volta c'era la strada ferrata. Guarda laggiù, passava proprio attraverso il portico.» Allora era il tracciato della vecchia ferrovia che aveva creato quell'avvallamento tra gli alberi, che ormai sembrava essersi ridotto. «Lei pensa che, senza binari,» continuò «a mezzanotte non passerà nessun treno. Molti hanno accettato il suo invito perché hanno la terra in affitto, altri perché le devono del denaro, e altri ancora - uomini - perché fanno tutto quello che vuole lei.» «E non si è mai sposata?» chiesi. «No, perché, se l'avesse fatto, avrebbe perso il denaro e la terra ereditati da Trevis. Era scritto nel testamento. Lei prende gli uomini senza sposarli, uno dopo l'altro. Ne ho conosciuti certi che si sono uccisi per un suo rifiuto. Poco tempo fa si è presa il grosso Jeth. Stasera si comporta come se volesse cercarsi un altro amante.» Donie si avvicinò attraverso la luce del fuoco e delle lampade. «John,»
mi disse, «questa gente vuole ancora ballare.» Suonai per loro Many Thousands Gone, accompagnato dall'armonica, e tutti ballarono battendo il ritmo con i piedi, e sembravano esserci migliaia di persone. Donie Carawan si metteva in mostra danzando con un giovanotto biondo, mentre Jeth sembrava seccato. Quand'ebbi finito, Donie Carawan venne verso di me, facendo frusciare la gonna. «Fa' suonare l'armonica,» mi disse «e balla con me.» «Non so ballare» le risposi. «Adesso mi piacerebbe suonare la canzone del treno nero.» Socchiuse gli occhi. «Va bene. Suona, e io canterò.» E così fece. Il suonatore di armonica fischiettava al suono della mia chitarra, e la gente ascoltava, gracidando come rane. «Un baldo giovane continuò a scherzare Senza curarsi dell'ammonimento, Quando il selvaggio e solitario fischio Del piccolo treno udì suonare. "Pietà, Signore, perdonarmi mai potrai?" Sono solo nel mio peccato! O morte, non mi risparmierai?" Ma il piccolo treno nero arrivò.» Dopo aver cantato, Donie scoppiò in una risata profonda e scanzonata. Jeth emise uno strano suono gutturale. «Quello che non capisco» disse «è come tutti voi siate riusciti a imitare il suono del treno che si avvicina, sempre di più.» «È bastato cambiare la musica» dissi. «Cambiando il tono» «Giusto» disse il suonatore. «E io l'ho accompagnato.» Una donna rise nervosamente. «Penso che sia vero. Il fischio del treno sembra sempre più forte a mano a mano che si avvicina. Poi passa e, allontanandosi, diventa sempre più debole.» «Ma nella canzone non ho sentito il treno allontanarsi,» disse un uomo accanto a lei «continua ad avvicinarsi.» Si strinse nelle spalle, forse rabbrividì. «Donie,» disse la donna, «adesso me ne vado.» «Rimani ancora un po', Lettie» replicò Donie, e sembrava più un ordine che una domanda. «Abbiamo ancora tanta strada da fare e non c'è la luna» continuò la don-
na. «Reuben, vieni anche tu.» Se ne andò. L'uomo si voltò indietro a guardare Donie ancora una volta, poi seguì la donna. Una coppia, poi un'altra, li imitarono, allontanandosi dal fuoco. Forse altri se ne sarebbero andati ma Donie, per fermarli, sbuffò come un cavallo. «Beviamo» disse. «Ce n'è per tutti, adesso che quella gente che credevo amica se n'è andata.» Forse altri due o tre scomparvero, dietro il barile. Donie si scolò un bicchiere, guardandomi al di sopra dell'orlo. Poi lo riempì di nuovo e me lo porse. «Bevi dopo una signora» bisbigliò «e hai un bacio.» Bevvi. Era un buon whisky. «Ottimo» dissi. «E il bacio?» aggiunse lei ridendo. Ma Jeth non rise, e neppure io, né il suonatore. «Balliamo» disse, e io scelsi Sourwood Mountain, e il suonatore mi accompagnò. In breve tempo erano rimasti in pochi a danzare, ma gli alberi intorno ai quali ballavamo sembravano più grandi e più numerosi. Mi tornò in mente quello che avevo sentito da ragazzo, degli alberi del giorno e di quelli della notte, che non erano per niente uguali: gli alberi della notte possono affollarsi tutt'intorno a una casa che a loro non piace, schiodando le assi dal tetto e battendo contro i vetri delle finestre e delle porte, in quel genere di notte in cui faresti meglio a non mettere il naso fuori... Non ci furono molti applausi alla fine di Sourwood Mountain. Nessuno chiese il bis gridando, e la gente andò a prendersi ancora da bere alla botte, ma il suonatore mi trattenne. «Raccontami» disse «di quella questione. Il rumore che aumenta quando il treno si avvicina.» «Me l'ha spiegato un uomo che conosco, che abita in un posto chiamato Oak Ridge, nel Tennessee. Si tratta di ciò che chiamano "onde sonore", che in qualche modo funziona anche con la luce. Non so bene com'è, ma so che si può misurare la distanza dalla terra alle stelle.» Pensò, aggrottando le ciglia. «Una roba simile a quello che chiamano "radar"?» Scrollai il capo. «No, non è un meccanismo, ma un principio. Lo ha studiato un tipo chiamato Doppler, Cristian Doppler, uno straniero.» «Se si chiamava Christian» ripeté lui «allora non è roba da streghe.» «Perché mi hai fatto quella domanda?»
«Ho guardato attraverso il portico, quando suonavamo la canzone del treno nero, cambiando tono per imitare il suono del treno che si avvicina» disse. «Da' un'occhiata laggiù.» Guardai. Nella valle c'era un luccichio. Due strisce luminose, anche se non c'era luna. Capii che cosa intendeva dire, sembrava che i binari divelti fossero ancora là, dove non avrebbero dovuto più esserci. «Il secondo verso che miss Donie ha cantato parlava di...» «Sì» rispose, senza farmi finire. «Era il verso che parlava di Cobb Richardson, quando la notte prima di morire pregò per ottenere il perdono di Dio.» Donie Carawan si avvicinò e mi infilò una mano sotto il braccio. Il buon whisky cominciava a farle effetto. Rideva per un nonnulla. «Non avrai mica intenzione di andartene» mi disse sorridendo. «Non ho nessun posto in particolare dove andare» risposi. Lei si alzò in punta di piedi. «Resta qui stasera» mi sussurrò all'orecchio. «Gli altri se ne andranno prima di mezzanotte.» «Lei invita sempre così gli uomini?» dissi, guardandola negli occhi azzurri. «Quando non li conosce?» «Conosco gli uomini abbastanza bene» rispose. «Conoscere gli uomini mantiene una donna giovane.» Con le dita toccò la chitarra appesa dietro la mia schiena, e le corde sussurrarono una risposta. «John, cantami qualcosa.» «Voglio sempre imparare la canzone del treno nero.» «Ti ho già cantato tutte e due le strofe.» «Allora» le dissi «canterò una strofa che mi è appena venuta in mente.» Mi rivolsi al suonatore: «Accompagnami». Suonammo insieme, alzando gradualmente il tono, e io cantai la nuova strofa che avevo inventato, tenendo lo sguardo fisso su Donie Carawan. «Va' e dillo a quella donna ridente Che l'orgoglio terreno sembra colmare, Il piccolo treno nero sta arrivando, E tu per un viaggio ti devi preparare. Con una piccola carrozza nera e un motore E un piccolo bagagliaio nero lo vedrà venire Le parole o azioni che lei ha detto o fatto Dovranno il giudizio subire.»
Quando finii, girai lo sguardo su quelli che erano rimasti. Non erano più di una mezza dozzina, raggruppati come mucche durante un temporale, tutti tranne il grosso Jeth, che era in piedi da una parte con gli occhi che sembravano trafiggermi, e Donie, appoggiata con aria stanca a un albero dai lunghi rami pendenti. «Jeth,» disse «fa' a pezzi la sua chitarra.» Mi tolsi la tracolla e tenni la chitarra stretta al fianco. «Jeth, non provarci» lo avvisai. Lui, ghignando, mostrò i denti grandi, quadrati e intervallati da spazi neri. Sembrava due volte più grosso di me. «Farò a pezzi te e la tua chitarra insieme» disse. Posai la chitarra per terra, contento di aver bevuto poco. Jeth corse verso di me, si chinò per prenderla e io gli tirai un pugno forte sotto l'orecchio. Fece due passi indietro per riuscire a tenersi in piedi. Nessuno dovette dirmi cosa fare dopo, lo colpii altre due volte, sempre più forte. Il suo naso si appiattì sotto le mie nocche e, quando riuscì a liberarsi, gocciolava sangue. Il suonatore afferrò la mia chitarra. «Questa sarà una lotta regolare» gridò più forte di quanto avesse fatto fino a quel momento. «Non è leale, perché Jeth è più grosso, ma sarà tutto regolare! Solo loro due!» «Ti sistemerò più tardi» Jeth lo minacciò torvo. «Sistema prima me» gli dissi, mettendomi fra loro. Poi si lanciò contro di me. Mi scansai e, quando mi passò vicino, lo colpii di nuovo sotto l'orecchio. Si girò, e gli sferrai un pugno proprio in mezzo allo stomaco per rimescolare tutto quel whisky che aveva bevuto, poi con l'altro pugno ancora una volta sotto l'orecchio, poi sul mento e sulla bocca, e sotto l'orecchio e sul naso rotto - dieci colpi che più forti e violenti non avrei potuto. All'ottavo o al nono, non reagì più e al decimo cadde lungo disteso, come uno straccio lasciato cadere per terra. Rimasi in piedi ad aspettare, ma non si mosse. «Signori,» disse l'ubriaco che mi aveva portato lì «guardate Jeth disteso a terra! Mai pensato di vedere questo giorno! Dopotutto, forse quello sconosciuto che si fa chiamare John è Satana in persona!» Donie Carawan si fece largo tra la gente, lentamente, e gli schiacciò le costole con la punta della scarpa dai tacchi alti. «Alzati!» gli ordinò. Jeth grugnì, borbottò e aprì gli occhi. Poi si alzò, poco per volta, tutto dolorante, come un toro malato, cercando di fermare la perdita di sangue dal naso con il dorso della grossa mano. Donie Carawan lo guardò, poi si
rivolse a me. «Vattene da qui, Jeth» gli ordinò. «Vattene da casa mia.» Se ne andò, zoppicando, con le ginocchia piegate, le braccia penzoloni e la schiena gobba, come se stesse portando un grosso peso. L'ubriaco ebbe un singulto. «Penso di andarmene» disse, forse solo a se stesso. «Allora fila!» gli urlò Donie Carawan. «Adesso potete sparire tutti, subito! Pensavo che foste miei amici. Ora capisco, non ho nessun amico tra voi! Sbrigatevi, andatevene! Tutti!» Urlò queste frasi tenendo le mani sui fianchi. La gente si allontanò tra gli alberi, molto più in fretta di Jeth. Ma io rimasi fermo dov'ero. Il suonatore mi restituì la chitarra e toccai una delle corde. Donie si girò su se stessa e posò i suoi occhi azzurri su di me. «Sei rimasto» disse, come se fosse rimasta stupita del fatto. «Non è ancora mezzanotte» le dissi. «Quasi» aggiunse il suonatore. «Mancano pochi minuti. È a mezzanotte che passa il piccolo treno nero.» Donie sollevò le spalle nude e tornite. Fece per ridere di nuovo, ma non ci riuscì. «Adesso è tutto finito. Se mai c'è stato qualcosa di vero, ora la cosa non ha più senso. I binari sono stati...» «Guardate laggiù, attraverso il portico» disse il suonatore interrompendola. «Ecco là le due rotaie, che corrono lungo la valle.» Lei si girò di nuovo, guardò e mi sembrò che vacillasse alla luce dei fuochi che si stavano spegnendo. Vide chiaramente quelle rotaie. «E ascoltate,» continuò il suonatore «non sentite qualcosa?» Lo sentii, e anche Donie, perché indietreggiò. Era un fischio selvaggio e solitario, soffice, chiaro, giù nella valle. «Sei tu che fai questo rumore, John?» strillò con la voce diventata improvvisamente debole, acuta e vecchia. Poi corse verso la casa ed entrò nel portico, fissando quelle che sembravano le rotaie della ferrovia. La seguii, e il suonatore mi venne dietro. Il pavimento del portico era terra battuta, duro come pietra. Donie si girò verso di noi. Da una finestra arrivava la luce di una lampada che le faceva apparire il viso pallido, con la bocca dipinta di rosso ora quasi nera. «John,» disse «mi stai facendo uno scherzo, stai imitando...» «Non sono io» le giurai. Fischiò di nuovo. Wooooooooeeeeeee! E anch'io guardai le rotaie scintil-
lanti nell'oscurità della notte senza luna, che descrivevano una curva intorno al gomito della valle. Un secondo più tardi si sentì il rumore della locomotiva. Chukchukchuk. E poi di nuovo quel fischio: Wooooooooeeeeeee! «Miss Donie,» dissi alle sue spalle «fareste meglio ad andarvene via.» La spinsi dolcemente. «No!» rispose, alzando i pugni, e vidi le rughe nodose sul dorso delle mani: non erano più i pugni di una donna giovane. «Queste sono la mia casa e la mia terra, e questa è la mia ferrovia!» «Ma...» ripresi. «Se viene fin qui,» mi interruppe «come posso sfuggire?» Il suonatore mi tirò per la manica: «lo me ne vado» disse. «Tu e io abbiamo alzato il tono e richiamato il treno nero. Pensavo di poter restare, vederlo e vantarmene, ma non sono abbastanza uomo da farlo.» Andandosene accennò con l'armonica un motivo simile a un fischio, e l'altro, più forte e più vicino, rispose. E più alto di tono. «Questo è un treno vero che si sta avvicinando» dissi a Donie Carawan, ma lei scosse la testa bionda. «No» disse atterrita. «Sta arrivando ma non è un treno vero. Sta venendo dritto verso questo portico. Guarda in terra, John.» Le rotaie sembravano passare di là, proprio attraverso il portico, come lungo una galleria. Forse era uno scherzo della luce. Erano una accanto all'altra, come binari a scartamento ridotto. Non me la sentivo di toccarli con il piede per accertarmi che ci fossero davvero, ma li vedevo. Tenendo la chitarra sotto un braccio, con l'altra afferrai Donie Carawan per il gomito. «Sarebbe meglio andarcene» le ripetei. «Non posso!» Disse queste parole ad alta voce, veramente spaventata. Afferrarla per il braccio, rigido e immobile, fu come stringere il parapetto di uno steccato. «Questa terra mi appartiene» disse di nuovo. «Non posso lasciarla.» Cercai di sollevarla, ma non ci riuscii. Era come se fosse diventata parte di quel portico, esattamente al centro di quelle che sembravano essere le due rotaie, come se delle radici fossero uscite dai suoi piedi e dagli alti tacchi delle sue scarpe. In distanza, dove i binari sembravano fare una curva, il rumore diventava sempre più forte e acuto. Chukchukchuk. Wooooooooeeeeeee! E la luce usciva da dietro la curva, simile a un faro giallo con ri-
flessi di colore azzurro. Il fischio del treno che arrivava mi suggerì le note della canzone che avevo in testa: «Riordina la tua casa Perché tu dovrai morire...» Il suono si faceva sempre più acuto e forte, cambiando tono mentre si avvicinava, sempre di più... Non so esattamente quando cominciai a suonare il motivo con la chitarra, ma mi trovai a farlo accanto a Donie Carawan. Non riusciva a muoversi, era come ancorata o congelata, e in un attimo il treno ci sarebbe apparso davanti. Il suonatore pensava che l'avessimo fatto arrivare noi, con il cambio del tono. E qualunque cosa si meritasse, non era certo mio compito essere la causa del suo castigo. Christian Doppler era il nome del tipo che aveva scoperto perché e per quale motivo la variazione del tono rende la vicinanza del suono. Come aveva detto il suonatore, il suo nome dimostrava che non era roba da streghe. Un uomo onesto poteva tentare.... Feci scivolare le dita verso l'impugnatura della chitarra, pian piano, mentre accennavo la musica, e il tono cominciò a scendere. «Ecco che arriva, John» piagnucolò Donie, che rimaneva in piedi, rigida come un tronco. «No,» risposi «se ne sta andando: ascolta!» Suonavo così delicatamente che si poteva ancora sentire il rumore del treno. E il tono stava calando, e il fischio - wooooeeeee! si abbassava sempre di più. «La luce è più debole» disse Donie. «Oh, se potessi avere la possibilità di vivere diversamente...» Si lamentava e vacillava. Mi vennero le parole per cantare: «Oh, guardatela com'è indifesa, Oh, fermatevi le sue lacrime ad ascoltare, Sta contando questi ultimi istanti Come una volta doveva gli anni contare. Lascerà l'orgoglio e gli atti cattivi,
Il peccato, O Signore, abbandonerà, Se il piccolo treno nero torna indietro E a bordo non la prenderà.» Lei piangeva sommessamente. Sentivo il suo respiro afferrare, strangolare e scuotere il suo corpo quasi a strappare tutte le costole dalla colonna vertebrale. Continuai a suonare sempre più fievolmente. Solo in quel momento pensai di poter intuire ciò che era successo. Era piccolo, d'accordo, e nero, con quella sua strana luce fredda e azzurra. E i vagoni non erano più grandi di bare e in un certo senso sembravano davvero bare, ne avevano la forma. Forse me l'ero soltanto immaginato o sognato, mentre stavo lì in piedi. La luce si affievoliva, il chukchukchuk diventava sempre più debole e si poteva immaginare che il treno si stesse allontanando. Fermai la mano sulle corde d'argento. Rimanemmo lì in silenzio; il silenzio che sicuramente c'è in qualche luogo privo di vita e d'aria, come sulla luna. Donie emise un singhiozzo spezzato e, quando cadde, l'afferrai con il braccio libero. Era abbastanza dolce. Tutta la sua durezza se n'era andata. Sollevò il braccio debole, tornito e nudo, e mi cinse il collo, bagnandomi la camicia di lacrime. «John, mi hai salvato» continuava a dire. «Hai scacciato via la maledizione.» «Credo di sì» ammisi, sebbene quell'affermazione suonasse come un vanto. Guardai le rotaie. Non c'erano più. Restava solo il buio della valle. I fuochi all'aperto erano spenti e la luce delle lampade nella casa era debole. Strinse il braccio intorno al mio collo. «Entra, John. Tu e io, da soli.» «Per me è ora di andarmene.» Lasciò cadere il braccio. «Perché? Non ti piaccio?» mi chiese. Non risposi a quella domanda, sembrava così inopportuna. «Miss Donie,» dissi «lei ha detto una cosa vera. Ho allontanato la maledizione, ma non è ancora scomparsa. Non la si può allontanare ridendo o dicendo che queste cose non esistono o togliendo le rotaie. Anche se stanotte se n'è andata, potrebbe sempre tornare.» «Oh» sollevò un po' le braccia verso di me, poi le fece ricadere. «Cosa devo fare?» mi chiese, quasi implorandomi.
«Smetta di peccare.» Quei suoi occhi azzurri nel viso pallido diventarono enormi. «Vuoi che viva» disse, piena di speranza. «È meglio che lei viva. Mi ha detto che questa gente le deve del denaro, che ha in affitto la sua terra e così via. Come andranno avanti se lei viene portata via?» Capiva cosa intendevo, forse per la prima volta nella sua vita. «Lei potrebbe non esserci già più,» l'avvertii «e la gente sarebbe nei guai, avendo bisogno del suo aiuto. Be', invece è ancora qui, miss Donie. Cerchi di aiutare la gente. Ci sono migliaia di modi per farlo. Non devo dirglielo io. Si comporti ragionevolmente e vedrà che non sentirà più quel fischio a mezzanotte.» Uscii dal portico. «John!» Il mio nome risuonò come un lamento. «John, resta qui stanotte» mi pregò. «Resta con me! Voglio che tu resti qui, John. Ho bisogno di te.» «No, lei non ha bisogno di me, miss Donie» risposi. «Deve pensare bene a cosa fare. Prima che sorga il sole, forse avrà già cominciato una vita diversa.» Pianse. Mentre mi allontanavo, notai che il tono della sua voce risuonava sempre più basso. Lungo il sentiero quasi inciampai. Il suonatore era seduto su un vecchio ceppo. «John, ho ascoltato i vostri discorsi» disse. «Pensi di aver fatto una cosa giusta?» «Ho cercato di fare del mio meglio. Forse il treno nero doveva per forza passare, su ordine di chissà quale stazione di partenza; forse siamo stati noi, tu e io, a riportarlo qui stanotte, alzando il tono della ballata come abbiamo fatto.» «Dopo me ne sono andato, temendo quel pensiero» annuì. «È lo stesso pensiero che mi ha convinto ad allontanarlo» dissi. «Comunque, mi sa proprio che tutti noi vedremo una nuova Donie Carawan qui intorno, d'ora in poi.» Si alzò e si voltò per risalire il sentiero. «Non ti ho mai detto chi sono.» «No» risposi. «E io non te l'ho mai chiesto.» «Sono il fratello di Cobb Richardson, Wyatt Richardson. Morendo, mia madre mi fece giurare di appianare le cose con Donie Carawan per ciò che era successo a Cobb. Non credo intendesse questo genere di risultato, ma
penso che sarebbe stata contenta lo stesso.» Camminammo insieme nel buio. «Resta a dormire a casa mia, stanotte, John» mi disse. «Non è granché, ma sarai il benvenuto.» «Ti ringrazio molto. Sarò contento di farlo.» Michael Shea L'AUTOPSIA Michael Shea, californiano, nelle sue opere spesso unisce la fantascienza all'horror per produrre, paradossalmente, un genere terrifico colto e razionale. Il suo romanzo Nifft the Lean (1982), ad esempio, è ambientato in un futuro spaventoso. Anche L'autopsia è una sapiente miscela di fantascienza e horror. Racconta la storia del dottor Carl Winters, un anatomopatologo di 57 anni che arriva in una cittadina di montagna per compiere l'autopsia delle vittime di una esplosione sospetta avvenuta in miniera e contemporaneamente tratta delle implicazioni della morte. Vi precisiamo però che non è solo un racconto macabro, ma complessivamente positivo e persino toccante. Non dimenticherete facilmente il dottor Winters e quello che scopre in una fabbrica del ghiaccio in disuso alla periferia di una cittadina chiamata Bailey. Il dottor Winters uscì dalla stazioncina di Greyhound e s'incamminò nella strada buia che, sebbene fosse proprio al centro della città, odorava di pini e di fiume. L'abitato era composto di sole cinque strade principali, che si stendevano parallele fra loro all'incirca per due chilometri lungo il ciglio del burrone in fondo al quale scorreva, con il suo ruggito indistinto, il fiume, perfettamente visibile dalle sponde occupate dalle vetrine buie. La luce della stazione era l'unica che si vedesse, a eccezione di un orologio luminoso, parecchie case più in basso, e di un'insegna al neon raffigurante il marchio di una birra a due isolati di distanza. Dopo avere camminato per un po', il dottor Winters posò la valigia, si mise le mani in tasca e guardò le stelle, fitte come ciottoli in un golfo nero. «Un paese di montagna, una cittadina mineraria» disse. «Stelle. Cielo senza luna. Ecco Bailey.» Stava parlando con il suo cancro. Nello stomaco. Da quando l'aveva saputo, aveva preso l'abitudine di comunicare sarcasticamente con lui. Voleva dimostrarsi cortese verso questo ospite non invitato, la Morte. Non gli si
sarebbe mostrato disperato, perché questo avrebbe reso la sua vittoria assoluta, a parte il fatto che, naturalmente, sarebbe stata comunque assoluta, con o senza le sue osservazioni ironiche. Prese la valigia e ricominciò a camminare. La luce delle stelle rendeva le vetrine buie dei negozi simili a specchi che gli riflettevano di rimando l'uomo che passava: magro, con i capelli bianchi (a 57 anni), un uomo che viaggiava per un compito di morte, che dentro di sé portava la propria morte, e nella valigia aveva persino un guardaroba di morte. Infatti, a parte l'attrezzatura medica e lo stretto indispensabile, aveva portato dei sacchi funebri. Lo sceriffo gli aveva detto al telefono dell'improvvisazione con cui al momento si fasciavano i corpi, e quindi il dottore aveva messo in valigia quei contenitori con amaro divertimento, controllando davanti allo specchio la larghezza dell'ultimo contro il proprio petto, come una donna che si misura un vestito prima di indossarlo, e dicendo al cancro: «Sì, c'è spazio a sufficienza per tutti e due». La valigia era pesante e sovente doveva fermarsi per riposare, e quindi ne approfittava per scrutare il cielo. Che lavoro lo aspettava quella notte! Esplorare lordure senz'anima, occhi rivolti verso terra, sotto un cielo così stellato! Ci erano voluti cinque giorni per recuperare le salme. L'equinozio autunnale era passato, ma lì il tempo era costantemente caldo, senza dubbio era stato ancora più caldo là dove erano stati sepolti così profondamente nella terra. Entrò nel palazzo di giustizia da un portone laterale. I tacchi picchiettavano sul linoleum del corridoio, alla fine del quale c'era una porta, con la scritta NATE CRAVEN - SCERIFFO DI CONTEA, che si aprì ancor prima che la raggiungesse. Il suo amico uscì, andandogli incontro. «Dannazione, Carl, sei sempre così magro che ti si potrebbe usare come frustino. Dammi la valigia. Sei già fin troppo in forma. Non hai bisogno di fare dell'esercizio.» La valigia pendeva dalla mano dello sceriffo apparentemente priva di peso, senza che questi dovesse minimamente piegare le sue spalle robuste. Nonostante l'implicita autocritica, per essere un uomo di quella stazza alla sua età era solo moderatamente grasso. Aveva la faccia rozza e le dimensioni della fronte, del naso e della mascella facevano sembrare i suoi occhi verdognoli piccoli, fino a quando uno non li guardava percependone la vivacità, la capacità di osservazione e l'intelligenza. Riempì per metà due tazze di caffè e le corresse con del bourbon che versò da una bottiglia che teneva in un cassetto della scrivania. Quand'ebbero finito di bere, avevano
terminato anche di scambiarsi le notizie dei comuni amici. Lo sceriffo si versò ancora del caffè e lo sorseggiò in un silenzio che fungeva chiaramente da introduzione alla faccenda in questione. «Si parla di giustizia sommaria» disse. «Adesso ho capito anch'io cos'è. Uno di quei... pazienti su cui lavorerai... era un omicida, anche se il termine nel caso specifico è improprio. Si può dire che sia stato giustiziato nell'esplosione, proprio come si meritava. È stata veramente giustizia, ma sommaria, come lo è l'inferno che hanno trovato gli altri nove. E continua a essere sommaria anche adesso che sono morti. Quel fesso del tuo capo! Si sta facendo in quattro per l'Assicurazione Fordham. Comunque, cosa ti ha riferito della faccenda?» «Tu intendi, presumo, l'esimio coroner Waddleton della contea di Fordham.» Il dottor Winters si fermò per bere un sorso, poi, con un movimento delle narici, comunicò tutto il disgusto, il disprezzo e il divertimento che aveva provato nei quattro anni in cui aveva fatto l'anatomo-patologo a fianco di Waddleton. Lo sceriffo scoppiò a ridere. «Raramente emerge qualcosa di chiaro da quello che dice il coroner» continuò il dottore. «Ha fatto il tuo nome. Vigorosamente e ripetutamente. Ha trattato il tema della rigida responsabilità del nostro ufficio verso la legge e in particolare nei confronti del risarcimento alle famiglie degli operai. Il caso di morte beneficia le persone a carico dei defunti indipendentemente dal momento in cui avviene il decesso, durante o meno lo svolgimento del loro lavoro. Le vittime dell'assalto di un maniaco, anche se poi muoiono, non sempre hanno necessariamente diritto a un risarcimento per legge. Proprio per questo, quando prendemmo in considerazione l'evenienza che si verificasse la tragica ingiustizia per cui un'agenzia di assicurazioni, una qualunque agenzia, si trovasse nelle condizioni di rischiare di pagare gli indennizzi a persone senza che ne avessero il diritto, esclusivamente per la negligenza e l'incompetenza degli investigatori, il tuo nome venne fatto di nuovo.» Craven ruggì di rabbia e di gioia. «Sentilo l'imparziale impiegato pubblico! Aha! Ecco cos'è! Un imparziale leccapiedi, imbroglione e cretino! Dieci contro uno che l'Assicurazione Fordham ne uscirà bene senza il suo aiuto, e che quelle vedove non vedranno un centesimo.» Le parole erano uno sfogo insufficiente; lo sceriffo si girò e sputò nel cestino della carta straccia. Bevve, e sospirò. «Scusami, Carl. Sono cinque giorni che scaviamo per recuperare quegli uomini e negli ultimi due abbiamo setacciato metà di quella montagna in cerca di tracce d'esplosivo, con i periti dell'assicu-
razione che non ci lasciano un attimo in pace e tutto quello che riescono a dire è che ci sono "prove presunte e forti" che fanno pensare allo scoppio di una bomba. Be', non cambierò idea se non avrò gli elementi per farlo. Waddleton può ficcarsi dove vuole le sue "circostanze straordinarie". Se tu non trovi nessuna traccia in quei corpi, allora, fatta l'autopsia, che è tutto quello che si poteva fare, verranno subito seppelliti dove desiderano le loro famiglie.» Il dottore stava sorridendo al suo amico. Finì di bere il caffè e parlò con il distacco ironico di prima, come se lo sceriffo non l'avesse nemmeno interrotto. «L'esimio coroner ha poi trattato con notevole prolissità l'argomento delle varie forme di consenso all'autopsia. Si dava poi il caso che sulla sua scrivania avesse un fascio di moduli di consenso, tutti firmati, tutti con un codicillo battuto a macchina sopra le firme. Un comma persuasivo. Quest'ultimo aveva, fra le altre qualità, quella di rendere la faccia del coroner paonazza quando lo leggeva. Me l'ha declamato a voce alta tre volte. Era evidente che il consenso era subordinato a due condizioni: che l'autopsia fosse effettuata in loco mortis, cioè a Bailey, e che solo nel caso che l'anatomo-patologo del coroner avesse trovato prove concrete di dolo si sarebbe proceduto allo spostamento del defunto da Bailey per un'altra necroscopia. Era ben scritto. Ricordo che mi chiesi chi ci avesse pensato.» Lo sceriffo annuì, oscurandosi in volto. Prese la tazza vuota del dottor Winters, la mise accanto alla propria, le riempì per due terzi di bourbon e poi aggiunse uno spruzzo di caffè in quella dell'amico. Si fissarono dritto negli occhi, come due giocatori di poker in un momento decisivo. Lo sceriffo guardò di nuovo la tazza e bevve. «In loco mortis, cosa vuol dire esattamente?» «Nel luogo della morte.» «Oh, te lo sei ripassato?» «Quel che basta.» Si misero a ridere, smisero e poi risero di nuovo, qualcuno avrebbe potuto dire smodatamente. «Mi ha solo detto che dovevo trovare qualcosa per rendere necessaria una seconda autopsia» disse il dottore alla fine. «Avrebbe venduto l'anima, o ci avrebbe messo sopra un'altra ipoteca, per un'apparecchiatura mobile a raggi X. Ha ragione, naturalmente. Se quei corpi contengono dei frammenti di bomba, quello sarebbe stato il modo più veloce e sicuro di trovarli. Mi stupisce ancora che il vostro dottore, Parson, abbia la macchina dei raggi X
rotta da così tanto tempo.» «Mette a posto le ossa, sutura le ferite, scrive le ricette e manda a valle i casi più complicati. Riesce a malapena a fare quello. Gli ubriachi non fanno un granché.» «È messo così male?» «Si trascina, tutto lì. Waddleton ha avuto ragione a non affidargli l'incarico di anatomo-patologo. Ho paura che non riuscirebbe a trovare una palla di cannone in un topo morto. Non lo direi in giro, dove potrei danneggiarlo, ma qui lo sanno tutti. In un certo senso, sono i suoi pazienti a prendersi cura di lui. Ma Waddleton ti avrebbe mandato comunque, infischiandosene del medico di qui. Solo il meglio a disposizione dei collaboratori di partito come l'Assicurazione Fordham.» Il dottore si guardò le mani e si strinse nelle spalle. «Dunque, nel gruppo c'era un omicida. E la bomba?» Lentamente, lo sceriffo piantò i gomiti sulla scrivania e premette le mani contro le tempie, come se la domanda gli avesse sollevato un'ondata di ricordi. Per la prima volta il dottore, sempre intento ad ascoltare il continuo rodere della morte dentro il proprio corpo, vide lo sfinimento dell'amico: le mani tremanti e le occhiaie segnate. «Ti dico cosa so, Carl. Penso che in quei corpi non troverai un accidenti di niente. Probabilmente finirai con il presumere cosa mi è capitato, ma ogni supposizione lascerà te e chiunque altro cerchi di avvicinarsi alla verità ben lontano da quanto è successo. È veramente uno di quegli incubi con cui il buon Dio tortura gli uomini di legge nascondendo loro per sempre le risposte. «Allora, cominciamo. Circa due mesi fa sparì un uomo, Ronald Hanley, un minatore, saldo come una roccia, tutto casa e famiglia. Una notte non tornò e non ne abbiamo mai più saputo niente. D'accordo che qualche volta succede. Dopo circa una settimana, fu la volta di Sharon Starker, la signora della lavanderia, sparì senza lasciare tracce. Fu allora che ci innervosimmo. Feci un annuncio alla radio locale dicendo che ci poteva essere un pazzo in libertà, spiegando per bene le speciali precauzioni che tutti avrebbero dovuto prendere. Mettemmo le due auto in dotazione a fare dei giri di perlustrazione notturni, e di giorno bussammo a ogni porta della città per raccogliere gli alibi di tutti nelle ore delle due scomparse. «Niente. Magari questa uniforme ti inganna e pensi che io sia un funzionario di polizia capace di difendere la gente o cose del genere? Un errore comprensibile. Molta gente ci ha creduto. In meno di sette settimane sono
sparite sei persone, così! Per quello che siamo riusciti a fare, io e i miei vice potevamo anche restarcene a dormire tutto il giorno.» Lo sceriffo finì la sua tazza. «Comunque, finalmente ci capitò un po' di fortuna. Non fraintendermi, non siamo andati a fondo della cosa e impedito un omicidio, niente del genere. Ma trovammo un corpo, che oltretutto non era di nessuna di quelle sette persone che erano scomparse. Con l'aiuto di qualche minatore avevamo setacciato tutti i boschi più vicini alla città. Be', uno di quei ragazzi l'altra settimana era con noi, faceva caldo, e tutto era tranquillo. A un tratto sentì un ronzio; allora si guardò un po' intorno per capire da dove veniva, e vide uno sciame d'api nella biforcazione di un albero. Premetto che fu abile a collegare che qui gli alveari non sono una cosa tanto comune; e infatti non erano api. Erano mosconi azzurri: ce n'era una dannata, enorme nuvola, tutta raccolta su un fagotto avvolto in un'incerata.» Lo sceriffo si studiò le nocche delle dita. Nella sua vita movimentata di tanto in tanto aveva incontrato uomini abbastanza istruiti da capire il suo cognome1 e abbastanza imprudenti da esserne apertamente divertiti e le nocche, protuberanze piene di cicatrici, erano l'eloquente testimonianza di come egli reagisse. Guardò di nuovo il suo amico negli occhi. «Tirammo giù quell'affare e lo svolgemmo. Billy Lee Davis, uno dei miei vice, è stato in Vietnam, ne ha passate davvero di tutti i colori e ha sempre tenuto duro. Ma quella volta, quando abbiamo aperto quella cosa, Billy Lee ha vomitato tutto il pranzo. Era un uomo. Be', una specie di uomo. Sapevamo che doveva essere alto sul metro e ottanta perché c'erano le ossa, e che probabilmente pesava ottanta o novanta chili, ma raggomitolato com'era non era più grande di un grosso pacco della lavanderia. Aveva ancora la faccia, le spalle e il braccio sinistro, poi per il resto non c'era più niente. Non era l'opera di un animale. Era un lavoro fatto con il coltello, tutti i tagli erano netti come quelli di un macellaio. Normalmente la carne macellata continua a sanguinare ancora per un bel po', mentre sull'incerata e in quella carne non c'era nemmeno una dannata goccia di sangue. Era pallida come quella di un pesce.» Il cancro colpì il corpo del dottore in profondità, non un attacco feroce, ma affondò una zanna dolorosa, con curiosità, in qualche punto intatto, non ancora assaggiato, esplorandolo per il proprio appetito. Il dottore mascherò il tremito scrollando la testa. «Una specie di dispensa, allora.» Lo sceriffo annuì. «Come si tiene il brasato in frigorifero per i pranzi.
Fotografai il viso, poi rimettemmo il tutto dove l'avevamo trovato e cancellammo le nostre tracce. Per il primo turno di guardia scegliemmo due dei minatori che avevo ingaggiato, che andavano spesso a caccia e conoscevano bene i boschi. Decidemmo dove dovevano stare e come dovevano fare per nascondersi, poi tornammo indietro. «Dovevamo rintracciare quell'uomo, così spedimmo la sua descrizione a ogni città nel raggio di centocinquanta chilometri. Dopo avere setacciato tutta la città foto alla mano, sembrava che né io né gli altri l'avessimo mai visto a Bailey. Poi, improvvisamente, Billy Lee Davis si batté la mano sulla fronte e disse: "Sceriffo, ho già visto quest'uomo in città, e non molto tempo fa". «Da quando aveva vomitato continuava a tremare, e poi all'improvviso uscì fuori con quella storia. Era sicurissimo, solo non riusciva a ricordarsi né dove, né quando. Insistemmo tutto il giorno e lui continuò a sforzarsi di rammentare. Arrivai al punto di volerlo afferrare per le caviglie, metterlo a testa in giù e scrollarlo per farglielo venire in mente. Niente da fare. Appena si fece buio tornammo all'albero, avevamo trovato un posto dove lasciare le macchine e una strada per raggiungerlo che attraversava i boschi. Avvicinandoci chiamammo con il walkie-talkie gli uomini di sentinella per ricevere il messaggio di via libera e raggiungerli. Non ci fu nessuna risposta. Quando arrivammo, tutto quello che era rimasto della nostra trappola era l'albero. Il cadavere, l'incerata e le due guardie erano sparite. Non c'era più niente.» Questa volta fu il dottor Winters a versare il caffè e il bourbon. «Troppo caffè» borbottò lo sceriffo, ma bevve lo stesso. «Una parte di me avrebbe voluto spaccare tutto, ma l'altra era di merda per lo spavento. Al ritorno, diffusi nuovamente un bollettino d'emergenza alla radio e incaricai lo speaker di ripeterlo ogni ora. Consigliai a tutti di restare sempre in gruppi di tre persone almeno, specialmente di notte, di uscire il meno possibile, di armarsi e di controllarsi continuamente uno con l'altro. Sembrava una cosa maledettamente stupida, ma stare in coppia non era sicuro perché uno dei due poteva essere l'assassino. Ingaggiai altri uomini per rinforzare il servizio notturno di ronda nelle strade. «Fu il mattino dopo che avvenne qualcosa di nuovo. Chiamò lo sceriffo di Rakehell, che è su, nella contea vicina. Disse che il cadavere poteva essere quello di un uomo di nome Abel Dougherty, un operaio della Con Wood. Incaricai Billy Lee di sostituirmi durante la mia assenza e mi misi in macchina.
«Questo Dougherty aveva una sorella più vecchia paralizzata a cui telefonava per controllare che stesse bene ogni volta che lasciava la città per qualche tempo, un'abitudine che non conosceva nessuno: chissà, forse ne era imbarazzato. Lo sceriffo Peck venne a conoscenza della cosa quando la donna lo chiamò, informandolo che suo fratello era via da quattro giorni, in ferie, e non le aveva telefonato nemmeno una volta. Senza questa informazione, Peck, basandosi solo sulla nostra descrizione, difficilmente avrebbe pensato a Dougherty, anche se le foto che gli avevo mostrato e che di lì a poco gli sarebbero comunque arrivate per posta, lo identificavano chiaramente. Be', stava verbalizzando il riconoscimento quando arrivò una chiamata per me. Era Billy Lee, che finalmente si era ricordato. «Aveva visto Dougherty alla "Trucker's Tavern", a nord della città, domenica, tre giorni prima che lo trovassimo. Aveva creato un certo scompiglio perché era brillo e si era appiccicato a un minatore, tale Joe Allen, che lavorava alla miniera da due mesi. Dougherty continuava a dirgli che non era Joe Allen, ma un suo vecchio amico di nome Sykes che aveva lavorato con lui a Con Wood per un sacco di tempo: "Che razza di scherzo è questo? Dài amico, bevi una birra con me, e dimmi perché sei sparito così all'improvviso e cosa diavolo hai fatto in tutto questo tempo". «Allen prese la cosa sul ridere. Dougherty gli aveva dato una pacca sulla schiena, che Allen gli aveva subito ricambiato e, scherzando, diceva: "Dagli un'altra birra, stasera faccio finta di essere il suo amico scomparso". Dougherty era così grosso, rumoroso e testardo che Billy Lee aveva paura che scatenasse una rissa, e non era l'unico. Questo Joe Allen era un brav'uomo e si comportava benissimo. L'avevamo controllato settimane prima come ogni altro, e avevamo scoperto che fra i minatori era molto popolare. Alla fine Dougherty insistette per portarlo in un altro bar per farsi aiutare a festeggiare la vacanza che stava iniziando. Joe Allen si alzò ghignando. Dannazione, se non poteva aiutare Dougherty perché non era questo tale Sykes, poteva sicuramente bere qualcosa con chiunque gli offrisse da bere! Uscì con lui, strizzando l'occhio con grande sollievo di tutti.» Craven si fermò. Il dottor Winters incontrò i suoi occhi e gli lesse nel pensiero le due immagini: la strizzatina d'occhi che aveva fatto ridere tutti e la cosa nell'incerata ricoperta di mosconi dai riflessi azzurrognoli. «Per me era chiaro» continuò lo sceriffo. «Dissi a Billy Lee di perquisire la camera di Allen alla pensione "Skettles" e poi di andare direttamente alla miniera e portarlo da me, perché in questo modo avremmo potuto chiari-
re bene le cose. Visto che ero già a Rakehell, mi occupai delle faccende di minor conto rimaste in sospeso. Andai quindi con lo sceriffo Peck a Con Wood e trovammo nello schedario del personale una foto di Eddie Sykes. Avevo visto Joe Allen abbastanza spesso per riconoscerlo in quella foto. «Scoprimmo che Sykes viveva da solo, lavorava saltuariamente, era riservato nei suoi andirivieni e non si vedeva da un pezzo. Uno degli operai della segheria era abbastanza sicuro di quando Sykes se n'era andato da Rakehell perché ricordava di essersi recato nella sua baracca il mattino dopo una pioggia di meteoriti avvenuta circa nove settimane prima, in quanto sembrava che avesse raggiunto il suolo non lontano dal lato della montagna dove lavorava Sykes. Quel mattino non c'era e l'operaio, da allora, non l'aveva più rivisto. «Sembrava tutto concluso. Era concluso. Dopo tutte quelle settimane ero a meno di un chilometro di distanza da Bailey, ed ero molto teso e pieno di rabbia. Mi sentivo come... un proiettile, come una pallottola di una grossa calibro trenta che stava per trapassare un cannibale succhiatore di sangue, facendogli sprizzare fuori dal cuore la verità, che si sarebbe rivelata sufficiente a impiccarlo un centinaio di volte. Ci sono andato così vicino che, quando tutto andò in merda, lo sentii. «Sembro stupido, lo so. Forse tutto questo non me lo scrollerò di dosso mai più. Così cercammo di mettere insieme quanto era successo. Billy Lee era solo, Travis era fuori con qualche uomo sulla montagna per setacciare la zona intorno all'albero in cerca d'indizi. Per fortuna era alla macchina quando Billy Lee cercò via radio di aggiornarlo sulla situazione. Disse che era appena tornato dalla perquisizione nella stanza di Allen e aveva trovato qualcosa con cui potevamo incastrarlo. Era una sfera, grande la metà di un pallone da basket, pesante, fatta di qualcosa che non era né metallo né vetro ma che si avvicinava a entrambi. Potevi anche guardarci dentro e sembrava essere piena di circuiti e componenti elettriche. Per evitare che Allen prendesse il volo, potevamo trattenerlo aggrappandoci al sospetto che quell'oggetto fosse stato rubato o fosse una bomba. Cristo! Riferì che comunque era l'unica cosa strana che aveva trovato, e che in compenso lo era veramente tanto! Disse a Travis di salire alla miniera in cerca di rinforzi. Sarebbe arrivato per primo e avrebbe preso Allen prima che Travis arrivasse. «Tierney, il capo di turno quel giorno, aveva un assistente che ci raccontò il resto. Billy Lee parcheggiò la macchina dietro gli uffici, dove gli uomini dal cortile non avrebbero potuto vederla. Salì per concordare l'arresto
con Tierney e riunirono sei uomini. Proprio quando stavano uscendo dall'edificio, videro Allen allontanarsi dalla macchina della polizia correndo con la sfera sotto il braccio. Gli uomini cercarono di accerchiarlo e Tierney, nel frattempo, aveva già telefonato per ordinare la chiusura di tutti i cancelli. Allen correva a zig zag, ma fu preso nella trappola. La sfera lo rallentava, anche se aveva ancora un buon vantaggio. Esitò un attimo, poi corse diritto verso il pozzo principale, dove la gabbia stava proprio scendendo con una squadra; poi, a rischio di rompersi le ossa, balzò nel pozzo, riuscendo ad atterrare sano e salvo sul tetto. Prima che raggiungessero gli interruttori, la gabbia era già scesa al secondo livello e la squadra e Allen erano usciti. Tierney fece risalire la cabina, Billy Lee ordinò al resto degli uomini di armarsi e seguirli, poi, insieme a Tierney, prese l'ascensore. E, circa due minuti dopo, quella maledetta miniera esplose.» Lo sceriffo si fermò, come se fosse stato spento, le labbra si aprirono per dire qualcosa in più, gli occhi tradivano forse per la centesima volta lo stupore di non avere nient'altro da aggiungere: che le settimane di morte e mistero finivano a quel punto, ridotte a una ricapitolazione velocissima: ancora più morti e buio senza risposte che sigillava il tutto. «Nate.» «Sì?» «Non pensarci e va' a dormire. Non ho bisogno del tuo aiuto, sei stremato.» «No, mi reggo ancora in piedi e vengo con te.» «Dammi delle informazioni sulla posizione delle vittime relativa all'esplosione. Io vado a lavorare e tu te ne vai a letto.» Lo sceriffo scrollò la testa con fare assente. «Stanno scavando in cantieri di restringimento. Le gallerie d'accesso e i livelli si diramano dal pozzo verticale. Da un livello scavano verso l'alto in direzione di quello che sta sopra. Scavano grandi camere e vi lasciano la maggior parte della roccia frantumata in modo da salire sui mucchi e scavare ancora per alzare di più il soffitto. Fra i vari cantieri lasciano delle sezioni di muro di puntello, e quegli uomini sono stati sepolti in cantieri lontani dal pozzo. Li ha uccisi il franare della roccia. La montagna li ha ripiegati nella loro stessa collina di scarti. Nessun tipo di scheggia li ha colpiti, ne sono sicurissimo. Le uniche schegge ritrovate sono quelle dell'esplosione principale, dalla quale loro erano lontanissimi. La deflagrazione è avvenuta nel punto in cui la galleria d'accesso sì unisce al pozzo, proprio dove Billy Lee e Tierney si trovavano appena usciti dalla gabbia. Carl, lì non c'è più nulla, né sfera, né gabbia, né
tantomeno Billy Lee Davis o Tierney. Soltanto roccia saltata in aria, fine come farina.» Il dottor Winters annuì, e poi, dopo un istante, si alzò. «Dài, Nate, devo cominciare. Sarei contento di averne fatto qualcuno prima di giorno. Dammi un passaggio e va' a dormire, almeno fino a domani mattina. Potrai comunque assistere a gran parte del lavoro.» Lo sceriffo si alzò, prese la valigia del dottore e lo condusse fuori dall'ufficio senza aggiungere più una parola, assentendo in silenzio. L'auto della polizia era dietro l'edificio. Il dottore notò nelle stelle una bellezza più crudele rispetto a un'ora prima. Salirono in macchina, e Craven partì a gran velocità lungo la via deserta. Il dottore aprì il finestrino e si mise in ascolto, ma il rumore del motore soffocava il suono del fiume. Illuminate dai fari, file di parchimetri dal modello sorpassato proiettavano grandi ombre attraverso i marciapiedi, ombre che si stringevano e venivano tagliate dal passaggio delle luci. Lo sceriffo disse: «Tutti quei morti in più, per niente! Nemmeno per... nutrirlo! Se era una bomba, e l'aveva fatta lui, sapeva quant'era potente. Non avrebbe cercato di fare una fuga rischiosa con quella. E come sapeva dove trovare la sfera? Abbiamo scoperto che Allen stava per finire il suo turno, ma non era ancora in superficie quando Billy Lee aveva parcheggiato la sua auto fuori vista». «Non pensarci, Nate. Voglio saperne di più, ma dopo che hai dormito. Ti conosco. Ci saranno tutte le foto, i rapporti completi e le testimonianze ben in ordine e precise. Quando avrò esaminato il dossier, saprò esattamente come procedere.» Bailey non aveva né ospedale né obitorio, e i corpi erano in una fabbrica per il ghiaccio in disuso ai margini della città. Dalla miniera era stato portato un generatore; l'illuminazione era stata improvvisata e il sistema di refrigerazione riattivato. L'ambulatorio del dottor Parson e la piccola camera che lo sceriffo utilizzava come archivio erano servite a realizzare un locale di fortuna attrezzato con tutto quanto sarebbe occorso al dottor Winters, oltre a quello che si era portato con sé. A circa quattrocento metri fuori città si fermarono. Fiancheggiata da alberi, isolata, la fabbrica era composta da due corpi, il più piccolo, l'ufficio, era illuminato. I cadaveri si trovavano nel settore più grande e senza finestre: la cella frigorifera. Craven si fermò vicino a un'altra macchina della polizia parcheggiata vicino alla porta dell'ufficio. Un uomo basso e magro come un chiodo, che portava un cappello bianco a larga tesa, scese dalla macchina e si avvicinò. Craven ab-
bassò il finestrino. «Trav, questo è il dottor Winters.» «Salve, Nate. Dottor Winters. Dentro è tutto in ordine. Mi sentivo più tranquillo qui fuori. L'ultimo di quei cani dei giornalisti se n'è andato due ore fa.» «Certo, tengono duro. Vai pure adesso, Trav. Dormi un po' e torna all'alba. Qual è la temperatura?» Il pallido cappello, che illuminato dalla luce delle stelle appariva molto più chiaro della faccia in ombra, ondeggiò incerto. «Due gradi circa, ma sembra stabile, ci dev'essere una dispersione o qualcosa del genere.» «Dovrebbe essere sufficientemente fredda» commentò il dottore. Travis partì e lo sceriffo aprì il lucchetto che chiudeva la porta dell'ufficio. Dietro di lui, il dottore sentì di nuovo il mormorio del fiume, simile a un balsamo gelido, un sussurro di libertà, soffocato dal ringhio irregolare e sommesso del generatore dietro l'edificio, suono quest'ultimo che attanagliava e che in qualche modo nutriva l'angoscia oscura che l'altro invece leniva. Entrarono. L'allestimento era stato preciso e completo. «Puoi trasportarli fuori dalla cella frigorifera su questo ed esaminarli qui» gli spiegò lo sceriffo indicandogli un tavolo e un lettino munito di ruote. «Dovresti trovare tutti gli arnesi che ti servono su questo tavolo più grande, e puoi redarre i rapporti su quella scrivania. Il telefono non è allacciato, ma se devi chiamarmi ce n'è uno a pagamento all'ultima stazione che hai visto.» Il dottore annuì, controllando il materiale sul tavolo grande: bisturi, coltelli chirurgici per sezionare e per le cartilagini, forbici per gli intestini, cesoie per le costole, forcipi, sonde, mazze e scalpelli, una sega manuale e un'altra elettrica per le ossa, righello, provette per i campioni, aghi e fili di sutura, sterilizzanti, guanti... Oltre a tutto ciò, c'erano anche alcune scatole e delle buste con uniti dei fogli descrittivi, contenenti le foto e gli oggetti probatori rinvenuti e associati ai corpi. «Eccellente» mormorò. «La luce in alto è fluorescente, a tutto spettro o come diavolo si dice. La migliore per i colori. Nel cassetto di quella scrivania c'è mezzo litro di bourbon discreto. Sei pronto a vederli?» «Sì.» Lo sceriffo tolse il catenaccio e fece scorrere la grande porta di metallo che portava alla camera di refrigerazione, da cui provenne una folata di aria gelida e fetida. All'interno la luce era più fioca di quella dell'ufficio, un
bagliore giallo in cui giacevano sui loro carrelli dieci mucchietti oblunghi. I due rimasero sulla soglia, in silenzio, e la loro immobilità era una specie di spontaneo omaggio all'eterno mistero. Come se la stanza fosse infatti stata un santuario, il dottore provò uno strano, riverente timore per quella fila di forme velate. La terribile contemporaneità della loro morte, la tomba titanica che era stata allestita per loro, gli conferiva un'austera autorità quali prescelti dalla morte. Sentì una fitta dolorosa allo stomaco, e meccanicamente si premette la mano sull'addome. Diede un'occhiata a Craven e fu sollevato nel vedere che il suo amico, che fissava stancamente i corpi, non aveva notato quel gesto. «Nate, aiutami a scoprirli.» Iniziando dall'estremità opposta della fila tolsero i teli, ammucchiandoli in un angolo. Adesso procedevano in fretta, senza fermarsi davanti alle facce gonfie - la maggior parte delle quali sembrava avere tre labbra a causa dello sporgere delle lingue enfiate - e alle mani grasse e livide che spuntavano dalle maniche sporche. Solo di fronte a uno dei cadaveri Craven si arrestò. Il dottore vide il suo sguardo e la sua bocca storcersi. Poi gettò a terra il telo e passò all'altro carrello. Quando uscirono, il dottor Winters prese la bottiglia e i bicchieri che Craven aveva messo in un cassetto della scrivania e bevvero insieme. Lo sceriffo fece per parlare, ma scrollò la testa e sospirò. «Carl, vado un po' a dormire. Questa storia mi fa venire dei pensieri pazzeschi.» Il dottore avrebbe voluto chiedergli quali pensieri, ma invece gli posò una mano sulla spalla. «Va' a casa, sceriffo Craven. Togliti il distintivo e sdraiati. I morti non fuggiranno. Qui, domani mattina, ci saremo ancora tutti.» Quando il rumore della macchina della polizia si allontanò, il dottore rimase fermo ad ascoltare il brontolio del generatore e il silenzio dei morti, adesso più profondo. Sia il suono che il silenzio sembravano deriderlo. L'eco delle ultime parole che aveva rivolto all'amico lo metteva a disagio. Disse al cancro: «Cosa ne pensi, caro collega? Saremo ancora qui, domani? Tutti quanti?». Sorrise, ma sentiva uno strano sconforto, come se avesse azzardato una battuta in compagnia e avesse ottenuto solo un silenzio ostile. Andò alla porta della cella frigorifera, la fece scorrere e guardò i corpi disposti nella fila ordinata, con la loro strana aria da giurati da tribunale. «Signori, cosa c'è?» mormorò. «Mi giudicate? Se mi permettete la domanda, chi è colui
che deve esaminare, stanotte?» Tornò nell'ufficio, dove per prima cosa voleva osservare le fotografie prese dallo sceriffo per vedere com'erano disposti i corpi quando erano stati trovati. La terra li aveva afferrati con una rapidità terribile. Qualcuno era rannicchiato o solo in parte eretto, altri abbandonati in pose scomposte, in posizioni pazzesche, come da caduta libera. Le foto successive mostravano ancora la confusione degli escavatori che continuavano il loro lavoro fra il rumore delle cariche esplosive. Il dottore le studiò attentamente, leggendo le identificazioni segnate con l'inchiostro man mano che gli scorrevano sotto gli occhi. Un uomo, Roger Willet, era morto ad alcuni metri dal gruppo principale. Sembrava che al momento dell'esplosione si fosse allontanato dalla galleria per entrare nel cantiere. Avrebbe quindi dovuto ricevere le onde d'urto dell'esplosione più direttamente degli altri. Se qualcuno dei corpi conteneva le schegge della bomba, quello di Willet doveva avere più probabilità degli altri. Il dottor Winters s'infilò un paio di guanti chirurgici. Willet era a un capo della fila di cadaveri, con indosso un camice termico, che appariva terribilmente nuovo in contrasto con il sudiciume della sepoltura che aveva ricevuto. La stoffa resistente strideva con la sua pelle: blu, gonfia, che come un frutto maturo sembrava quasi si potesse lacerare o scoppiare da un momento all'altro. Da vivo Willet si pettinava i capelli con la brillantina, mentre ora erano una scultura di polvere, punte e spirali, il risultato dell'ultima resistenza della testa contro la montagna che l'afferrava saldamente. Il rigor mortis era venuto e ora era scomparso. Willet rotolò mollemente sul carrello. Mentre il dottore spingeva la barella vicino agli altri cadaveri, sentì un leggero imbarazzo. La sensazione che dalla riunione dei defunti provenisse un giudizio nei suoi confronti, tenacemente persisteva in lui. Proprio per questo disagio incominciò a irritarsi con se stesso, e accelerò il passo. Mise Willet sul lettino e gli tagliò i vestiti di dosso con le cesoie, mettendo i pezzi in una scatola di referti. Il camice s'imbrattò delle secrezioni dell'agonia. Il dottore, restio, fissò per un momento, con un senso di pietà, quell'uomo nudo davanti a sé. «Non andrai a Fordham, comunque» disse al cadavere. «Non a meno che io trovi qualcosa di dannatamente probante.» Si aggiustò i guanti e sistemò gli arnesi. Waddleton gli aveva detto molto più di quanto egli avesse riferito allo
sceriffo. Winters doveva assolutamente scoprire qualcosa e descriverlo in modo convincente; forti "indicazioni" che richiedessero assolutamente lo spostamento dei defunti a Fordham per un esame ai raggi X e un'esauriente seconda autopsia. La continuità dell'impiego del dottore all'ufficio del coroner dipendeva esclusivamente dalla sua buona disposizione a collaborare. Aveva infatti accolto questa condizione con un silenzio che Waddleton aveva ritenuto inutile rompere. Se anche gli altri cadaveri avessero mostrato chiaramente come Willet i segni esteriori della morte avvenuta per asfissia, sarebbero stati sottoposti solo a un esame esterno. Winters avrebbe esaminato Willet anche internamente semplicemente per risolvere con maggior precisione in quel cadavere gli elementi che sarebbero apparsi evidenti in tutti gli altri. Solo nel caso che l'esame esterno avesse rivelato caratteristiche chiaramente anomale, evidenti e tali da far sorgere concrete ipotesi, avrebbe proceduto a un esame più accurato. Risciacquò i capelli incrostati in una bacinella, conservando acqua e depositi in un flacone che etichettò. Iniziando dal cuoio capelluto, eseguì un minuzioso esame della superficie del corpo, annotando man mano le proprie osservazioni. I caratteristici segni della morte per asfissia erano evidenti, nonostante gli effetti dell'autolisi e della putrefazione. Il rigonfiamento della pupilla e la lingua sporgente erano dovuti almeno in parte, oltre che alla pressione dei gas, anche al modo in cui era avvenuta la morte, ma la lingua, bloccata tra i denti serrati, lasciava pochi dubbi riguardo all'esito finale. La colorazione dovuta al cambio di stato - da una tinta verdastrogiallastra al reticolo superficiale delle vene che andava annerendosi - era marcata, ma non bastava a porre in secondo piano il blu della cianosi sulla faccia e sul collo, né l'emoraggia a punture di spillo che copriva il collo, il petto e le spalle. Dalla bocca e dal naso raschiò del materiale che era sicuro fosse muco colorato di sangue, tipico di quando si verifica una morte per mancanza d'ossigeno. Cominciò a trovare nel proprio lavoro una nota divertente. La morte rendeva l'uomo davvero simile a un pagliaccio! Una cosa blu, dagli occhi sporgenti e con tre labbra. Poi c'era la propria intimità, sollecita e indagatrice, con questa carogna clownesca. "Mi scusi, signor Willet, se esploro questa ferita. Cosa sente quando tocco qui? Niente? Proprio niente? Bene, adesso cosa ne pensa di queste unghie? Se le è lacerate raspando la terra, vero? Sì. Vedo un interessante grumo di sangue sotto l'unghia del pollice, sicuramente se l'è procurata lavorando, alcuni giorni prima dell'incidente?
Noto dei calli interessanti in questo punto, però ancora abbastanza duri." Il dottore guardò frettolosamente le mani gonfie, scure, immobili, che avevano ormai rinunciato a qualunque tatto o presa. Percepiva concentrata proprio nelle mani la decomposizione dell'uomo. La dolorosa inutilità della perfetta articolazione umana quando viene vista nella morte. Durante i lunghi anni durante i quali aveva svolto quel lavoro, Winters aveva imparato da tempo a non fantasticare sui soggetti che esaminava. Ma adesso lo fece. Questo Roger Willet un pomeriggio era andato a sgobbare e improvvisamente era stato stroncato, schiacciato fino a diventare un mucchio di materia deperibile. La sua vita improvvisamente era passata per caso troppo vicino al varco che conduce a una vita più potente, una di quelle vite inesorabili e avide che abbandonano lo squallore umano, noto o inesplorato, sulla loro scia. "Signor Willet, lei è stato sfortunato. Naturalmente ci dispiace per tutto questo. Ma questo Joe Allen, il suo compagno di lavoro... a quanto pare era una specie di... cannibale. Complicato. Non ci è tutto chiaro. Ma il fatto è che adesso dobbiamo parzialmente smantellarla. Temo che non ci sia davvero nessuna speranza di riutilizzare le parti del suo corpo. È pronto, adesso?" Il dottore iniziò l'autopsia con il vago compiacimento del sezionamento di Willet, per la disarticolazione di quella tristezza nella sua forma naturale. Afferrò Willet per la mascella e prese il coltello autoptico affondandone la lama sotto il mento e iniziando la lunga, lieve incisione a dente di sega che aprì in Willet uno squarcio dalla gola all'inguine. Il dottor Winters si concentrò con piacere e interesse nell'accurata separazione delle membrane del corpo, e per tutto il tempo percepì marginalmente, ma insistentemente, un flusso di immagini irrilevanti che riguardavano l'edificio che li ospitava, a sua volta racchiuso dalla notte. Come se fosse stato all'esterno vide la fabbrica, con le assi imbiancate e la copertura del tetto in lamiera, e gli alberi che la circondavano, tutti illuminati dalle stelle: un'immagine di una città abbandonata. Vide anche la cella frigorifera che, benché fosse oltre il muro, gli pareva di scorgere come se fosse dall'interno, avvertendo l'immobilità degli uomini morti nella luce fredda e gialla. Perché mentre lavorava sentiva ancora, come un soffio nell'aria, quel senso di muta vigilanza circondare le sue azioni e sfiorare furtivamente i suoi nervi con una domanda muta? Si strinse nelle spalle, adesso chiaramente arrabbiato. Chi altri era presente se non la Morte? Non era luì d'altronde il prezzolato della Morte? E questa non era la sua dimora? E allora che si lasciasse assistere il padrone...
Staccando la pelle picchiettata dall'emoraggia, il dottor Winters esaminò il corpo con crescente distacco: un esame funebre. Restrinse l'ispezione ai polmoni e al mediastino, e trovò le prove inequivocabili del decesso di Willet per asfissia. Come si aspettava, la pleura dei polmoni presentava delle ecchimosi, dei punti lividi nella membrana avvolgente e vetrosa. Più in basso, la superficie poliedrica lobulare dei polmoni stessi era piena di bolle e vesciche, il previsto enfisema interstiziale. I polmoni in sezione erano pesantemente e sanguinosamente congestionati, inoltre trovò che la parte sinistra del cuore era contratta e vuota, mentre la destra era eccessivamente dilatata e congestionata di sangue scuro, come le grandi vene del mediastino superiore. Era il classico quadro della morte per soffocamento, e alla fine il dottore, con ago e punti di sutura, richiuse il cadavere. Rimise Willet sul carrello e lo ricoprì, usando il sacco funebre come se fosse un sudario. Il mattino dopo, con l'aiuto di qualcuno, avrebbe pesato i corpi sulla bascula che era nell'ufficio e dopo li avrebbe avvolti come di dovere. Andò verso la porta della cella frigorifera ed esitò. Fissò la porta, senza muoversi, non capendo bene il perché. "Corri. Esci. Ora." Era stato lui a formulare quel pensiero, ma quest'ultimo era arrivato così di colpo, che si girò intorno come se a parlare fosse stato qualcuno alle sue spalle. Dall'altra parte della stanza, delle finestre nere, un uomo magro con il camice e i guanti, gli occhi come ombre, guardò fisso il dottore, dietro all'uomo c'era un carrello coperto e, ancora più in là, una grande porta di metallo. Calmo, stupito, il dottore chiese: «Correre via da che cosa?». L'uomo privo di occhi nel riflesso del vetro era ancora rannicchiato, pieno di paura. Poi, un attimo dopo, l'uomo si raddrizzò, tirò indietro la testa e rise. Il dottore andò verso la scrivania e si sedette spalla a spalla con lui. Tirò fuori la bottiglia e bevvero insieme, guardandosi l'uno con l'altro con sorrisi stupefatti. Poi il dottore disse: «Lascia che te ne versi un altro. Ne hai bisogno, vecchio mio. Ti fa di nuovo sentire un uomo». Comunque, rientrare nella cella fu difficile, faticoso, ogni passo sembrava richiedere un nuovo appello alla volontà, e nella luce fioca e gelida sentiva ogni movimento come una sfida. Il suo corpo si attardava nonostante il forte desiderio di fare in fretta, di finirla con questa molestia dei corpi raggruppati insieme. Rimise Willet sul suo carrello e prese il vicino. Il nome sul cartellino fissato con il filo metallico allo stivale era Ed Moses. Il dottor Winters lo spinse di nuovo nell'ufficio e chiuse la pesante porta die-
tro di sé. Con Moses il suo lavoro acquistò velocità, visto che non intendeva compiete nessuna autopsia interna. Pensò al suo superiore, godendo adesso dell'apparente sottomissione all'ultimatum di Waddleton. L'impatto sarebbe stato tremendo, e si immaginò il coroner sotto shock, con il fascio dei rapporti dell'anatomo-patologo in mano, e sorrise. Probabilmente Waddleton avrebbe potuto aprire una plausibile inchiesta per autopsia incompleta; tuttavia i poteri discrezionali di un anatomopatologo non erano ben definiti. Molti, considerate le condizioni in cui lavorava, avrebbero approvato l'adeguatezza del metodo seguito dal dottore. L'inevitabile causa con gli avvocati delle famiglie delle vittime sarebbe stata prolungata e difficile. Sia che si perdesse o vincesse, la venale devozione di Waddleton agli interessi della compagnia d'assicurazione sarebbe stata abbondantemente dimostrata. Inoltre, immediatamente dopo la sua rimozione dall'incarico, il dottore avrebbe formalmente svelato quel caso alla stampa, da cui gliene sarebbe venuta una causa per diffamazione, che aveva ben poche ragioni per temere, come d'altronde lo stesso licenziamento. Sia i suoi risparmi che il processo sarebbero sopravvissuti di gran lunga alla sua vita. Esternamente, Ed Moses presentava i segni del soffocamento, come Willet, senza il minimo segno di penetrazione di schegge. Il dottore terminò la sua relazione e riportò Moses nella cella, con movimenti veloci e precisi. Il suo disagio era scomparso. Quella lieve agitazione nell'aria... ma l'aveva davvero avvertita? Forse era stata qualche nuova risonanza della morte al lavoro dentro al suo corpo, un brivido psichico in risposta all'investigazione furtiva del cancro nei confronti della sua vita. Portò fuori il corpo che era vicino a Moses. Walter Lou Jackson era grosso, misurava quasi un metro e ottantacinque dal calcagno alla volta cranica, e sicuramente pesava più di cento chili. Aveva lottato con tutte le forze contro la bara di milioni di tonnellate con una potenza agonica che gli aveva straziato la faccia e le mani. La morte l'aveva malmenato come avrebbe potuto fare solo un leone. Il dottore si mise al lavoro. Adesso le mani erano del tutto efficienti: veloci, precise, verificando le difficili condizioni del cadavere come altre dita potrebbero esplorare una tastiera in cerca di melodie latenti. Il dottore le osservava con un piacere antico, uno dei pochi che non era mai svanito, il suo cervello in stretto contatto con la loro alacre intelligenza. Tutte le morti violente! Un pianeta in-
tero, tempo senza fine. Le vite tiravano calci dalle loro comode strutture di carne. Walter Lou Jackson era morto in un modo molto violento. "Signor Jackson, è stato Joe Allen ha procurarle questo. Pensiamo che il fatto sia avvenuto perché lui tentava di sfuggire alla legge." Ma che fuga confusa! L'assurdità, più dello sconcerto, era misteriosa nella sua colossale inutilità. Allen era stato senza dubbio astuto. Un demone rapace con una diplomazia sociale da psicopatico. Un bravo ragazzaccio che faceva ridere allegramente una taverna piena di uomini mentre portava via la sua vittima, li faceva applaudire mentre usciva con la preda, che era uscita nel buio con l'assassino accanto dandogli delle pacche sulla spalla. Sicuramente intelligente, con in più una strana raffinatezza tecnica, come suggeriva la sfera. E cosa dire della follia, ancor più significativamente denunciata da quell'oggetto? Nella sfera si concentrava il mistero letale del lungo incubo di Bailey. Perché l'esplosione? Il luogo implicava un agguato per gli inseguitori di Allen, una detonazione finalizzata a uno scopo. Aveva in mente un franamento limitato da cui calcolava in qualche incredibile modo di sfuggire? Veramente pazzesco, ancora di più se era stato Allen, come sembrava certo, a progettare la bomba, perché allora avrebbe dovuto sapere che, rispetto al fine che si era prefisso, il suo potere deflagrante era veramente eccessivo. Ma se non era una bomba, se aveva una funzione diversa e solo incidentalmente poteva diventare un potenziale esplosivo, allora Allen aveva forse sottovalutato la deflagrazione. Sembrava che l'oggetto fosse stato in qualche modo da lui controllato, come del resto dimostrava il sincronismo degli eventi: appena salito in superficie dal pozzo era andato deciso a prenderla, ignorando il pullman che aspettava per riportare la sua squadra in città, correndo attraverso il cortile diritto verso la macchina della polizia, che era nascosta alla sua vista dall'edificio dove c'erano gli uffici. Tutto questo suggeriva qualcosa di più complesso di un semplice dispositivo esplosivo, qualcosa, forse, la cui distruzione era il vero obiettivo di Allen, rispetto all'esplosione. Il fatto che si fosse esposto per recuperare la sfera deponeva a favore di questa interpretazione. Doveva avere dedotto che l'inchiesta dell'omicidio aveva portato alla scoperta dell'oggetto e alla conseguente rimozione dello stesso dalla sua camera. Ma allora, se sapeva di essere esposto alla possibilità di una condanna capitale, perché aveva rischiato tutto per recuperare la prova incriminante di un reato minore, il possesso cioè di un dispositivo
esplosivo? La sua mossa non aveva comunque senso, anche nel caso che la sfera fosse qualcosa di diverso, qualcosa che gli servisse per i suoi omicidi e che quindi avrebbe potuto assicurargli una condanna che avrebbe altrimenti forse evitato. Dal momento che la sfera, e quindi i poliziotti che poteva presupporre l'avessero presa, erano già nell'ufficio della miniera, doveva aspettarsi che il recinto sarebbe stato chiuso da un momento all'altro. Nel frattempo, il cancello era aperto, quindi la fuga sulle montagne era una possibilità concreta per un uomo in grado di avvicinarsi di soppiatto e sopprimere due guardaboschi esperti e ben armati che gli avevano teso un agguato. Perché avrebbe decretato la propria cattura per indebolire un'accusa contro se stesso che la sua fuga avrebbe reso irrilevante? Il dottore vide le sue dita, come un branco di animali a caccia intorno a un rifugio, convergere su una piccola ferita da puntura sotto l'apofisi xifoidea di Walter Lou Jackson, in prossimità dell'ottava costola. La mano sinistra ne toccò i lembi, mentre le dita la esaminavano veloci e leggere. La mano destra introdusse una sonda, e tutte e due la spinsero con cautela nella ferita. Affondava gradatamente senza incontrare ostacoli nel corpo, deviando verso l'alto attraverso il diaframma in direzione del cuore. Le pulsazioni del dottore aumentarono. Guardò le mani che si muovevano per registrare le proprie osservazioni, le vide fermarsi, poi tornare all'esame del cadavere, lasciando intatte la penna e i fogli. L'ispezione non rivelò nessun'altra anomalia. Il dottore annotò diligentemente tutte le altre considerazioni, meravigliandosi dell'angoscia che provava. Quand'ebbe finito, lo capì. Il motivo non era la scoperta di una ferita da penetrazione che avrebbe potuto sostenere la causa di Waddleton, ma il fatto che gli aveva rivelato la sua decisione di ignorare qualunque segno che poteva pensare provocato dalle schegge. Il danno causato da Joe Allen sarebbe finito lì, con quell'ultima carneficina, e non avrebbe coinvolto i parenti delle vittime. Non ci sarebbe stata nessun'altra lesione interna, mentre quelle esterne, ridotte quasi a zero, da quel momento in poi si sarebbero limitate a rimanere tali. Il problema era che non credeva che la puntura nel torace di Jackson fosse il segno dell'entrata di una scheggia. Perché? Non riuscendo a darsi una risposta, si chiese perché ancora una volta aveva paura. Lentamente firmò la relazione su Jackson, la mise da parte e prese il bisturi. Prima il taglio lungo e a dente di sega, che apriva la cerniera-lampo dell'involucro mortale. Poi, due grandi lembi di carne diritti si ripiegarono,
arricciandosi verso la linea delle ascelle, spogliando il petto: una mano afferrò il margine di un lembo, mentre l'altra vi strisciò al di sotto con il coltello, lacerando il tessuto vetroso che lo univa alla parete del petto, e recidendo tutti gli appigli che legavano i muscoli alle ossa e alle cartilagini. Poi smantellò la cassaforte, e come un giardiniere prese le cesoie per le costole, strumento veramente affidabile e sollecito. Il rostro d'acciaio morse ogni cartilagine alla lamina dello sterno. Nella parte superiore dello sterno i bordi della clavicola vennero tagliati, sollevati e tolti dalle loro cavità. Lo scrigno era libero, senza più legamenti, e il coltello saggiò quindi la parete sotto il coperchio e lo sollevò. Qualche minuto dopo il dottore si raddrizzò e fece un passo indietro. Si muoveva quasi come se fosse stato ubriaco, e gli anni sembravano solcargli il viso più profondamente. Con una fretta dettata dal disgusto si strappò via i guanti. Andò alla scrivania, si sedette e si versò un altro bourbon. Sul suo viso era stampato l'orrore, che gli induriva la linea della bocca e i muscoli della mandibola. Parlò al bicchiere: «Vostra Eccellenza, sarà vero? Qualcosa di nuovo per il vostro umile servitore. Vuole esaminare i miei nervi?». Il pericardio di Jackson, l'armoniosa capsula che racchiudeva il cuore, avrebbe dovuto essere quasi nascosta fra le pagnotte grasse di sangue dei polmoni, ma invece l'aveva trovato completamente in vista, con i polmoni che lo fiancheggiavano raggrinziti, ridotti a meno di un terzo della loro grandezza normale. Non solo i polmoni, ma la parte sinistra del cuore e le vene del mediastino superiore, cioè tutte le parti che avrebbero dovuto essere congestionate dal sangue, erano invece estremamente prosciugate. Il dottore ingollò il liquore e tirò di nuovo fuori le fotografie. Scoprì che Jackson era stato trovato riverso sullo stomaco, sopra il corpo di un altro operaio, con il tronco di un terzo uomo intrappolato fra loro. Nessuno di questi cadaveri a lui sottostanti, né la terra che li circondava, mostravano macchie dell'emorragia di sangue che doveva essere stata almeno di due litri. Forse le fotografie, per qualche scherzo della luce, non le avevano riprese. Consultò il rapporto dell'investigatore, dove Craven sicuramente avrebbe citato ogni frammento di terra insanguinato rilevato durante il dissotterramento. Lo sceriffo non aveva annotato niente del genere. Il dottor Winters guardò di nuovo le fotografie. Ronald Pollock, il compagno più vicino a Jackson nella tomba, era stato trovato sulla schiena, sotto di lui e leggermente sfalsato con la maggior
parte del tronco in contatto, a parte i punti in cui si frapponevano la testa e la spalla del terzo compagno. Sembrava inconcepibile che i vestiti di Pollock non avessero tracce della perdita di sangue così forte subita dal suo compagno nella morte, morte in cui si erano trovati quasi abbracciati. Il dottore si alzò di scatto, si mise un paio di guanti nuovi e tornò da Jackson. Adesso le mani si muovevano più brutalmente, chiudendo per il momento la grande incisione con alcuni punti di sutura frettolosi e fortemente intervallati tra loro. Lo rimise nella cella e portò fuori Pollock, a grandi passi, cercando di guidarne le membra morte nei loro movimenti: spingendolo, gli sembrava di perfezionare i pensieri insistenti che non avrebbe voluto avere, e le deformità che gli sussurravano dietro la schiena, esalando fievoli, gelide folate di alito putrido. Scrollò il capo - negando, rimandando - e spinse il nuovo cadavere sul lettino. Le forbici spogliarono Pollock con avidi morsi. Alla fine, dopo avere tolto ogni pezzetto di vestito, senza trovare nessuna macchia di sangue, si riposò nuovamente, rinunciando a quella decisione semplice e desiderata che aveva raggiunto con tanta precipitazione. Rimase accanto al lettino, senza vederlo, sottomettendosi alla convivenza con quelle forme indistinte che alloggiavano in un angolo remoto della propria mente. La scoperta dei polmoni privi di sangue di Jackson era stata più forte di uno shock. Una pugnalata di panico, simile allo stesso terrore curiosamente esplicito che avvertiva in quel luogo; terrore che l'aveva quasi spinto ad andarsene. Riconobbe che il germe di quell'angoscia velocemente soffocata era la premonizione del fatto di non trovare traccia del sangue mancante. Da dove gli era giunta quella premonizione? Aveva a che fare con un problema che lui tenacemente rifiutava di prendere in considerazione: il meccanismo di un prosciugamento di sangue così completo della struttura vascolare densamente retiforme dei polmoni. La violenta pressione della terra poteva compiere un lavoro tanto radicale, in presenza di una ferita così sottile e stranamente ricurva? E poi c'erano le fotografie che aveva studiato. Lo spaventava solo il ricordare quelle immagini, all'interno delle quali qualche significato nascosto vibrava, lottando per essere visto. Il dottore prese la sonda dal tavolo e, con sicurezza e precisione, come se si fosse già accertato della presenza della ferita, l'appoggiò in avanti e sfiorò la piccola, chiara puntura, proprio sotto l'apofisi xifoidea, infilò la sonda e la ferita la ricevette in profondità, in una direzione ormai nota. Il dottore andò alla scrivania e prese di nuovo la fotografia. I punti feriti
di Pollock e Jackson non erano in contatto. La testa del terzo uomo era fra i loro corpi, proprio in quel punto. Cercò un'altra fotografia, in cui questo terzo uomo era più centrale, e vi trovò il nome segnato con l'inchiostro: Joe Allen. Come in sogno, il dottore andò alla grande porta di metallo, la fece scorrere ed entrò nella cella. Non cercò, ma andò diritto verso il carrello, davanti al quale il suo amico poche ore prima si era fermato, e sul cartellino trovò lo stesso nome. Il corpo, a parte la falsa obesità della putrefazione, era ben tenuto e muscoloso. La faccia era squadrata, la fronte sporgente, con un naso volpino e storto per una vecchia frattura. La lingua gonfia era dietro i denti, e il gonfiore della decomposizione non nascondeva che l'impatto originario doveva essere stato notevole e deciso, e adesso i suoi occhi neri erano cerei, astuti e festosi. "Ehi, amico, hai un minuto di tempo? Vedo che ogni giorno arrivi con il turno dei pendolari, eh? Sì, piacere. "Joe Allen. Senti, so che è tardi, vuoi andare a casa e dimostrare a tua moglie che non sei stato a bere dopo il lavoro, giusto? Sì, lo so. Ma questa dannata sparizione mi fa sentire così nervoso, e giuro su Dio che proprio mentre venivo qui ho visto qualcuno che si muoveva intorno a quella casa, su nella strada. Vedi come gli alberi si assottigliano nel retro del cortile illuminato dalla luna? Giusto. Be', ho questo coltello a scatto. Oh, sì, è una bellezza, ce la vediamo noi. Sapevo che avrei trovato un uomo pronto a cacciarsi nei pasticci. Non sono riuscito a trovare un macchina della polizia per la strada. Be', muoviamoci, adesso, verso quella macchia di pini. Guarda dove metti i piedi, non si vede tanto bene. Ecco, così..." La faccia del dottore era madida di sudore. Si girò e uscì dalla cella, chiudendosi la porta alle spalle. Nel calore dell'ufficio sentì la traspirazione inzuppargli la camicia sotto il camice. Lo stomaco si fece sentire con decise oscillazioni di dolore, ma non se ne curò. Si avvicinò a Pollock e afferrò il coltello autoptico. Il lavoro fu eseguito con una velocità surreale, le lamine di carne e ossa ricadevano lentamente sotto le mani disperate ma precise, fino a quando la cavità toracica fu esposta, e vide che i polmoni, di tessuto grigio, colpiti dal vampiro, erano secchi. Non ispezionò oltre, sapendo già che cosa avrebbero svelato il cuore e le vene. Tornò a sedersi alla scrivania, chinandosi debolmente, con il coltello dimenticato ancora stretto nella mano sinistra. Guardò la finestra, e sembrava che i suoi pensieri affiorassero da quel dottor Winters, più vago e
sottile, che sembrava un fantasma all'esterno. Cos'era il mondo in cui viveva? Sicuramente, nella durata della sua vita, non era ancora riuscito a capirlo. Nutrirsi in un modo del genere! Solo in questo c'era sufficiente orrore. Ma nutrirsi nella propria tomba... Come aveva potuto... e inoltre come era stato in grado di lottare contro il soffocamento abbastanza a lungo per fare...? Come si poteva concepire un'avidità che infieriva così accanitamente, saziandosi in quel modo anche sulla soglia della propria distruzione? L'ultimo banchetto era ancora sicuramente nello stomaco. Il dottore osservò il dettaglio della fotografia che ritraeva la testa di Allen rannicchiata fra gli altri due cadaveri come un lattonzolo affamato che strofina il muso contro la scrofa. Poi guardò il coltello che stringeva nella mano, svuotata da ogni impulso, se non quello di squarciare, fendere, cancellare i resti della cosa golosa, di Joe Allen. Doveva farlo, o altrimenti andarsene. Non c'era una via di mezzo. Non si mosse. «Lo esaminerò» disse il fantasma sul vetro, senza muoversi. Dentro la cella frigorifera ci fu un leggero rumore. No. Era stata qualche variazione del mormorio del generatore. Non c'era niente che si potesse muovere. Ci fu un altro rumore, un breve attrito contro la parete interna della cella. I due uomini anziani scrollarono il capo uno con l'altro. Una serratura scattò e la porta di metallo si spalancò. Oltre all'immagine fissa del proprio stupore, il dottore vide ferma sulla soglia una sagoma lurida, che sollevò le braccia verso di lui in un gesto di supplica. Il dottore si rigirò sulla sedia. Dalla figura provenne un lamento simile a un fischio, il frammento decomposto della voce umana. Implorante, Joe Allen mosse la mascella e allargò le mani color porpora. Come se la parola fosse una larva che cercasse di uscirgli dalla bocca, la faccia blu e tumescente si contrasse in uno sforzo, la lingua enorme si arrotolò inutilmente fra le labbra viscide. Il dottore allungò la mano verso il telefono, sollevò la cornetta. Il silenzio al suo orecchio non poteva che lasciare intendere che non avrebbe potuto parlare. La cosa davanti a lui, con ogni suo minimo movimento che faceva, distruggeva ogni struttura di equilibrio mentale in cui le parole potessero ancora avere un senso, riducendo il mondo stesso a una desolazione buia e silenziosa, una rovina illuminata dalle stelle dove, ovunque, l'alieno e l'inimmaginabile si stava già svegliando nel suo nuovo dominio. Il cadavere si sollevò e tese una mano come per farlo attendere, si voltò, e camminò verso il tavolo degli strumenti. Le gambe erano di piombo, don-
dolava le spalle come un nuotatore, lottando per passare attraverso l'elemento denso della gravità. Raggiunse il tavolo e vi si appoggiò, sfinito. Il dottore si ritrovò in piedi, leggermente curvo, immobile, senza peso. Il coltello nella mano era l'unica parte di se stesso che sentiva distintamente, simile a una lingua di fuoco, una fiamma di un forno crematorio. Il cadavere di Joe Allen spinse una mano fra gli strumenti. Le dita spesse, con inettitudine scimmiesca, afferrarono uno scalpello. Tutte e due le mani strinsero il piccolo manico, affondandone la lama fra le labbra, come fa un bimbo assetato con un ghiacciolo; poi lo tirò fuori, squarciandosi la lingua, e del liquido torbido spruzzò il pavimento. La mascella era rigida, la bocca buttò fuori le parole con un sibilo debole e stridente: «Per favore. Mi aiuti. Sono intrappolato qua dentro». La mano del morto si colpì il petto senza vita. «Morendo di fame.» «Chi sei?» «Un viaggiatore. Non della Terra.» «Un divoratore di carne umana, un bevitore di sangue umano.» «No. No. Mi nascondevo solo. Sono piccolo. La mia forma attuale è orrenda. Paura della morte.» «Hai causato la morte.» Il dottore parlava con la calma dell'incredulità perfetta, calma che gli sembrava incredibile quanto la "cosa" con cui parlava. Il corpo di Allen scrollò il capo, gli occhi vuoti e gonfi lo guardavano con un'espressione frustrata, come in agonia. «Ucciso nessuno. Nascosto in questo. Per non essere ucciso. Sono cinque giorni adesso. Affogato nella putrefazione. Mi liberi. La prego.» «No. Sei venuto per nutrirti di noi, non ti nascondi per paura. Siamo il tuo cibo, la tua carne e la tua acqua. Ti sei nutrito di quei uomini nella tua tomba. La loro tomba. Per te, solo un contrattempo. Di fatto, un intoppo che ti ha costretto a interrompere la tua caccia.» «No! No! Ho usato uomini già morti. Per me, cinque giorni di fame. Forse anche di più. Nutrito solo per necessità. Una necessità orribile!» L'organo vocale rovinato trasformò l'ultima parola in un rantolo straziante, un suono inumano simile a quello emesso da una fossa di rettili che il dottore percepì come una vibrazione gelida di lingue di serpenti nelle orecchie. Contemporaneamente le braccia senza vita si muovevano con ottusa approssimazione per giurare la verità nel linguaggio del corpo. «No» disse il dottore. «Li hai uccisi tutti. Incluso il tuo... strumento... questo uomo. Cosa sei?» Il panico sgorgò nella domanda che egli stesso cercò di seppellire rispondendosi istantaneamente. «Risoluto, va bene.
Quello sicuramente. Hai usato la morte come via di fuga. Forse non hai bisogno di ossigeno.» «Estratto più di quanto mi serva dai gas della putrefazione. Una componente minore del nostro metabolismo.» La voce stava guadagnando chiarezza, sviluppando rimedi per i toni perduti nella lacerazione agonica delle valvole e per la prolungata inattività della parola, lottando efficacemente per strappare le vocali e le consonanti da quelle labbra e lingua putride. Allo stesso tempo, la rudezza dei movimenti del corpo non nascondeva una sperimentazione sottile e incessante. Le dita si flettevano e agitavano, per verificare l'elasticità dei tendini, palpandosi i palmi per cercare i vecchi punti di presa e di pressione. Le ginocchia, con caute ripetizioni, stabilivano i nuovi limiti dell'articolazione. «Cos'era la sfera?» «La mia astronave. La sua distruzione è il nostro primo dovere in caso venga scoperta.» La paura sfiorò il dottore, come un lumacone che si arrampica sul collo; aveva notato che, mentre la "cosa" parlava, si verificava un'attività brusca e spasmodica della lingua, la cui massa si piegava e stringeva come in un assestamento interno. «Nessuna possibilità di rientro in essa. Lasciare questo prende troppo tempo. Nemmeno avanza tempo per distruzione. Bisogna espellere un ciglio, chiave chimica per trapassare lo scafo. Nel pozzo l'unica possibilità utilizzare ospite.» La mano destra saggiò il polso, e il bisturi che impugnava mandò scintille bianche nell'aria. La parola "ospite" sembrò la trafittura di un coltello, un fastidioso abbandono della finzione prima dell'attacco, anche se la maschera del morto non aveva mai mostrato ombra d'ironia. Scoprì che la paura era scomparsa. La "cosa" impossibile con cui conversava, e con cui stava per lottare, stava operando in lui un'opprimente amplificazione della lunga e imponente rabbia che aveva nutrito contro la morte per tutta la sua vita. Si sentì pervaso di campanilistica pietà per la Terra sola, alla mercé di quella sfera transtellare capitanata da quel viaggiatore e per il suo futuro tutto di rifiuti cosmici, di moltitudini di cadaveri spianati con il bulldozer; ingranaggi galattici della strage - stelle, pianeti e le loro maestose evoluzioni - tutto ridotto a ciarpame, ossa spezzate e stracci ripugnanti che si riunivano, sistemavano, riconcatenavano in simmetrie inutili, gravide di nuove moltitudini di rifiuti viventi per un altro breve ciclo. Adesso quell'essere davanti a lui era la Morte che gli stava per essere elargita, il suo obolo veniva versato nell'universale Tesoro della Morte e il
dottor Winters si riconobbe in un vecchio guaritore che scherzava con il fuoco. La sua lama, più letale, riempì di sé la sua mano con il proprio acuto appetito. Si sentì ancora una volta, completamente, l'Esaminatore che conosceva i tagli precisi che avrebbe dovuto eseguire, velocemente e senza errori. Al più presto, pensò, e freddamente si concentrò in cerca di altre intuizioni prima di subire l'assalto furibondo. «Perché l'astronave deve essere distrutta persino al prezzo della vita del tuo ospite?» «Non dobbiamo essere capiti.» «Gli animali non devono capire cosa li divora.» «Sì, dottore. Non tutti insieme, ma a uno a uno. Tu capirai cosa ti sta divorando, perché è essenziale per il mio banchetto.» Il dottore scrollò il capo. «Sei già nella tua tomba, Viaggiatore. Quel corpo sarà la tua bara; vi verrai sepolto una seconda volta, per sempre.» La "cosa" si avvicinò di un passo e aprì la bocca. La gola flaccida lottò come per parlare, ma ne balzò fuori un filamento bianco e sottile, più veloce di una frusta. Il dottor Winters riuscì a vedere solo il primo guizzo dell'eruzione fino a quando il suo cervello si illuminò, spegnendosi alla velocità della luce fino a una nullità bianca. Quando il dottore tornò in sé, lo era in parte, ovvero era solo una parte di se stesso. Prima di aprire gli occhi scoprì che la sua mente risvegliata era rientrata in possesso tramite gli stimoli dell'organismo solamente di un bizzarro tronco del suo corpo. Testa, collo e spalle, braccio e mano sinistri si dichiararono, il resto rimase in silenzio. Quando aprì gli occhi si trovò supino sul carrello, nudo. Qualcosa gli sorreggeva la testa. Sentiva una cinghia che gli legava il gomito sinistro al bordo del lettino, e vide senza sentirlo che anche il tronco era fermato da un laccio. A parte i residui attivi, il suo corpo era così intontito che avrebbe anche potuto essere avvolto dal ghiaccio, e lui era troppo debole per imporgli il più piccolo movimento. La stanza era vuota, ma dalla parte della cella provenivano dei suoni fievoli: lo scricchiolio e il lieve attrito di una pesante incerata spostata per procedere a una operazione che implicava scatti e suoni schioccanti. Lacrime di rabbia riempirono gli occhi del dottore. Stringendo il pugno rivolto al luminoso motore della creazione che non riusciva a vedere, serrò i denti e sussurrò nell'alito caldo del pianto strozzato: «Riprendi questo brandello sudicio di vita! Mi sbarazzo volentieri di lui e della sporcizia che
rappresenta». Il lento picchiettio delle suole di stivali diventò più forte, girò la testa. Dalla porta il cadavere di Joe Allen si stava avvicinando. Si muoveva con rinnovata energia, anche se con passo grottesco, avanzava piegato su se stesso, a strattoni, a sobbalzi e con i muscoli putrefatti che penzolavano. Sopra questa struttura rinvigorita e in movimento, la faccia livida era inanimata in un'immagine distaccata. Con terribile chiarezza si rivelò per quello che era: un pupazzo rotto che veniva guidato dall'interno. Quando quella faccia congelata si trovò davanti al dottore, le mani puzzolenti si posarono sulla coscia nuda, con il tocco leggero e sollecito degli amici al letto di un ammalato. La mancanza di sensazioni rese questo contatto ancora più spaventoso. Gli confermava che l'incubo, che nel suo cuore negava così disperatamente, si era impadronito del suo corpo e, sebbene la mano e il braccio fossero liberi, lui era ormai mezzo annegato nella paralisi mortale. Là c'era la sua parte di incubo, un nulla posseduto da qualcosa di inesprimibile. Il cadavere disse: «Sangue marcio. Un nutrimento da niente. Solo un'ora prima che arrivassi. Nutrito dal vicino alla mia sinistra, appena la forza di allungare il sifone. Nutrito dal deserto mentre lavoravi. Brutta sorte, sei scaltro. Aspettavo il dottor Parsons. Energia occorrente ad animare questo» tolse la mano dalla coscia del dottore e la batté sul camice polveroso «e trasferimento di ospite, molto alta. Una volta che ti ho sinapsizzato, sarò di nuovo vicino a morire di fame.» Nella mente del dottore si srotolò una serie di immagini insopportabili, che permasero anche quando quel pupazzo putrefatto si girò e andò verso il tavolo degli strumenti: l'arrivo dello sceriffo dopo l'alba - da solo, naturalmente - perché Craven pensava sempre al riposo dei propri vice e inoltre in questa occasione avrebbe cercato un po' di privacy che la situazione richiedeva per esaminare le indiscrezioni sul conto dei parenti dei minatori; la scoperta del vecchio amico, supino e terribilmente debole, il suo precipitarsi, accostarsi. Poi, dopo un po', l'auto della polizia contenente delle ossa ancora umide sarebbe saltata dall'autostrada in qualche abisso profondo. Il cadavere prese una scatola per referti dal tavolo e ci mise dentro il bisturi, poi si voltò, raccolse il coltello autoptico dal pavimento e vi infilò anche quello, dicendo, senza girarsi: «Lo sceriffo verrà di mattina. Parlavate come vecchi amici. Probabilmente verrà da solo». La coincidenza con i propri pensieri era certamente fortuita, ma l'intento di terrorizzarlo e spaventarlo era evidente. Il tono e i tempi di quella voce disumana erano indubbiamente intenzionali, scaltre investigazioni che
sondavano specificamente la sua angoscia e il centro della sua mente. Osservò il cadavere - di nuovo vicino al tavolo - tuffare la mano scimmiesca ma abile e prendere cesoie, forbici, pinze, introducendo tutto nella scatola. Rimaneva con lo sguardo fisso, momentaneamente svuotato di tutto per lo shock a eccezione della volontà di conoscere l'estensione finale dell'orrore che si era appropriato della sua vita. Il corpo di Joe Allen portò la scatola al tavolo vicino al carrello, e i suoi occhi assenti incontrarono quelli del dottore. «Ho rischiato. Un azzardo serio. Ma adesso ho vinto. Al rischio di scoperta personale siamo obbligati a disinserirci, restringerci, nasconderci nel modo migliore in un corpo ospite. In effetti un suicidio. Non faccio caso agli imperativi situazionali, nonostante la fame prima del dissotterramento e la successiva autopsia quasi certa. Ho raggiunto la squadra, afferrando Pollock e Jackson qualche microsecondo prima dell'esplosione. Ho calcolato cinque giorni di sopravvivenza in questo nascondiglio, potevo disinserirmi giusto al limite della forza necessaria per farlo, ma invece ho corso il rischio dell'autopsia, sapendo che il dottore era un incompetente alcolizzato. Adesso vedi la mia ricompensa. Tu sei un ospite-premio, potrò nutrirmi impunemente, quando uccidere sarà troppo pericoloso. Pasti sicuri consegnati ancora caldi.» Il cadavere aveva allineato diligentemente il carrello al tavolo da lavoro, che ora erano paralleli tra loro ma leggermente sfalsati: il lato più corto del tavolo era di poco arretrato rispetto a quello del carrello, in modo che tra i due intercorresse una distanza minore dell'estensione del braccio destro. Adesso le mani senza vita distribuivano tutti gli strumenti lungo il bordo destro del tavolo, a eccezione della scatola, che venne posta in testa al tavolo, e delle forbici con cui aggredì una cinghia del proprio camice. Iniziò di nuovo a parlare e, mentre lo faceva, le forbici smembravano la tela cerata con colpi decisi. «Il taglio deve essere chirurgico, preciso come la legge prescrive, anche se più sono piccoli più risultano facili. Dovrò stare attento ai muscoli pettorali o le braccia non reggeranno la mia massa. Non sono più una larva, peso ormai più di millecinquecento grammi.» Per calmare la soffocante pressione dell'incubo, per cacciare il vacillare della propria volontà che si opponeva all'ingoiamento, il dottore fece una domanda, la sua voce adesso più stridula di quella dell'altro: «Perché ho il braccio libero?». «L'ultima giuntura neurale ha bisogno di un modulo senso-motorio per
portare a termine l'inserimento del mio cervello nel tuo. Senza questa possibilità di coordinazione occhio-mano, il controllo motorio dell'ospite è molto più scadente. Appena finito, esco da qui, sciolgo entrambi e siamo liberi, insieme.» Il cadavere, dopo che i suoi vestiti erano caduti a brandelli in un mucchio disordinato, era nudo, e i contorni scuri e resi gonfi dai gas lo facevano sembrare una lucida creatura marina, con la coda rappresentata dal sesso venato di nero e anch'esso gonfio. La voce di nuovo si burlava della paura dell'uomo, e mentre pronunciava la parola "insieme" ne assaporava l'intimo significato. La coppa d'angoscia del dottore traboccò: in successioni brutali l'orrore e l'oltraggio alterarono il suo spirito quasi a strapparlo e denudarlo dal suo involucro prigioniero. In quella situazione di stallo roteò la testa, la sua bocca iniziò a fendersi nel principio di un urlo liberatorio. Il cadavere, che guardava tutto questo, annuì una sola volta in un gesto che sembrava d'approvazione. Poi salì sul tavolo da lavoro e, con l'attenzione di un convalescente esperto che si rimette a letto, si sdraiò sulla schiena. Gli occhi senza vita cercarono di nuovo quelli vivi e si accorse che il dottore ridacchiava follemente, ricambiando quello sguardo. «Sei un cadavere intelligente!» urlava il dottore. «Cadavere intelligente e carnivoro! Un alieno in gamba! Per favore, non pensare che ti stia criticando. Chi sono, per criticarti? Un braccio e una spalla, nient'altro, una mano eloquente, solo il piccolo frammento di un anatomo-patologo. Ma sono perplesso.» Si fermò, assaporando il silenzio attento del mostro e la propria vivacità liberatasi inaspettatamente nell'euforia isterica. «Hai intenzione di usare il tuo pupazzo per tirarti fuori di lì e inserirti dentro di me. Ma, una volta che ti ha tolto dal posto di guida, morirà, e ti farà cadere. Chissà che botta! Perché non mettere invece un'asse tra i tavoli, il cadavere apre la porta e tu corri, fluisci via, vacilli, ti dibatti, strisci e, per così dire, attraversi il ponte. Niente pasticci. E in ogni caso, non è un modo strano e goffo per raggiungere i tuoi ospiti? E inoltre, quando viaggi, non potresti perlomeno portarti il tuo bisturi personale? C'è sempre il rischio di imbattersi in un ospite su un milione che non lo possiede.» Sapeva che il suo scherno non avrebbe dato risposte alla sua disperazione. Esultava, ma unicamente per il momentaneo sconcerto del predatore, per essere riuscito a deridere la sua sicurezza gongolante riducendolo al silenzio, anche se solo per un attimo, e comunque per avergli sciupato la festa.
Il cadavere prese con la mano destra il coltello autoptico posto al proprio fianco, mentre con la sinistra si infilò un rotolo di garza sotto il collo, arcuando maggiormente la gola. La bocca disse al soffitto: «Conserviamo il nostro stato di larva fino all'ingresso nell'ospite. Come larve, abbiamo strutture che permettono la locomozione, e organi sensori utilizzabili dagli amplificatori sensoriali delle nostre astronavi. Ho aspettato attorcigliato intorno alla gamba del letto di Allen fino a notte, e mentre dormiva sono entrato nella sua bocca». La mano del cadavere sollevò il coltello, lo tenne alzato sopra gli occhi smorti ma attivi, rigirandolo nella luce. «Una volta dentro, dobbiamo attraversare tre fasi per arrivare alla forma adulta» la voce continuò piatta, il coltello avrebbe potuto essere uno specchio in cui il cadavere poteva vedere i propri lineamenti. «Allo stato di larve abbiamo solo una parte del nostro potenziale controllo neurale. La nostra metamorfosi viene azionata e determinata dall'ambiente endosomatico del nostro ospite. Io mi sono sviluppato in tre giorni.» Il polso di Allen si piegò, inclinando la punta del coltello verso il basso. «Un adattamento perfetto senza particolari sforzi.» Il gomito si distese e si piegò, tenendo il coltello rivolto verso il corpo. «I nostri ospiti sono tutti senzienti, eco-dominanti, portano già il bagaglio di strutture di coronamento per l'ambiente planetario. Le membra, portali sensoriali,» - il pugno conficcò la punta del coltello sotto il mento, lo piegò e lo fece scorrere lievemente lungo la gola, mentre la voce continuava invariata, sotto il solco tracciato dall'aratro d'acciaio - «involucri somatici, intermediari,» - giù, lungo lo sterno, il diaframma, l'addome la lama di'acciaio apriva la striscia di tessuto torbido - «con il cervello di un ospite noi ereditiamo tutto questo, il dominio di ogni pianeta, intrinseco nelle dominanti delle sue connessioni cerebrali. Per questo i nostri codici genetici all'origine sono quasi completamente liberi di ogni bagaglio.» Immediatamente il dottore sobbalzò quando la mano di Joe Allen aprì quattro tagli perpendicolari rispetto all'asse della grande ferita. Lo scempio apparente lasciò due lembi tracciati perfettamente sul torace, nitidamente tracciati. La mano sinistra sollevò l'orlo del lembo sinistro, mentre quella destra infilava il coltello nello squarcio, approfondendo con piccoli colpi e incisioni. La posa era quella di un uomo che cerca il taschino della giacca, con gli occhi morti che studiavano il sezionamento della carne. La voce, quando riprese a parlare, si era alzata a un tono più alto. «Nelle galassie, la rete nervi-cervello è largamente diffusa, e il labirinto neurale è il nostro dominio. È quindi possibile che per raggiungere il no-
stro cibo noi dobbiamo costruire ponti di assi sui quali strisciare. Le blatte, solo perché hanno zampe per arrampicarsi sui muri e antenne per individuare brancolando la direzione da scegliere, sono forse superiori a noi? Quale quantità di bizzarre articolazioni e appendici sfoggia la natura! Trampoli, pinne, code, gambe, zampe palmate, piume, che a loro volta terminano ognuna in un modo diverso: uncini, ganasce, ventose, forbici, forche, o piccole gabbie di dita! Per non parlare delle protuberanze: creste, penne, podici, arpioni, congegni sensoriali capaci di captare la circostante profusione di impercettibili rumori e colori.» Sempre calme e sicure, le mani impugnavano gli strumenti necessari al compimento del proprio lavoro. Il lembo destro si sollevò, rivelando fasci di muscoli abilmente preservati integri, che una volta risuturati al loro posto avrebbero potuto riacquistare l'aspetto originario. Il dottore, impotente, sentì la delirante sfida abbandonarlo e un fascino tetro lo carpì. «Siamo i pezzi di ricambio e i terminali che condividono completamente l'impulso nervoso afferente dell'ospite, precisamente nei suoi nodi di integrazione. Siamo i cervelli che esaminano accuratamente queste integrazioni, unificandole con le nostre banche-dati specifiche sugli ospiti, e infine lasciamo che le connessioni fluiscano nel sistema motorio, sia quelle che si innestano spontaneamente che quelle che desideriamo trapiantare in loro. Siamo inoltre dotati di un sistema alimentare-circolatorio semplificato e di un apparato riproduttivo.» Il cadavere si allargò ulteriormente il camice insanguinato e successivamente le mani sudice afferrarono le cesoie per le costole. La voce dalla colorazione sinistra si fece di un tono e accento più marcati, le frasi scivolavano dalla lingua oscillante come un cobra, insinuando il loro ritmo acquoso intorno al dottore, fino a quando una breccia nella sua resistenza non avrebbe consentito loro di riversarsi in lui e annientare il poco coraggio che gli rimaneva. «Abbiamo abitato le ragnatele cerebrali più complesse in trecento specie diverse, adattandoci alle loro forme e rimanendovi comodi allo stesso modo della vite che cresce rigogliosa sui graticci. Abbiamo guardato attraverso troppe maschere dotate dei più svariati tipi di finestre per rimpiangere i nostri sensi-guida. Nessuno sviscera la propria realtà fino in fondo. Molto meglio allora la nostra scelta nomade, che la permanenza immutabile di un apparato povero di strutture. Molto meglio, come facciamo noi, esseri viventi completi, infilarsi in altri indossandone subito tutte le membra, orga-
ni, ricordi e poteri, proporzionandoli con precisione alla nostra volontà, come lo è un guanto alla mano che lo infila.» Le cesoie tagliavano le cartilagini, simili a ganasce impassibili e insanguinate che si nutrono monotonamente, fermandosi infine all'articolazione sterno-clavicolare nel manubrio sternale in cui i muscoli della cintura pettorale sono saldamente ancorati. «Nessuna coscienza di tipo cordato in cui ci siamo imbattuti è stato impermeabile alla nostra capacità di insinuarci. Nessun modello dendritico è stato così elaborato per cui non potessimo leggerne il tracciato dei punti in cui poterci infilare e rilevarne con precisione ogni linea di giunzione sinaptica consentendoci di scucirlo e di riconfezionarlo per poterlo indossare. Ci siamo pavoneggiati mascherandoci nei corpi di autarchici planetari, venerabili manichini della moda morale, ma taglio di tessuto universale: tessitura di veloci filamenti elettrici dell'esperienza che noi, senza difficoltà, riavvolgiamo in spola per adattarli all'ordito dei nostri desideri. In seguito, il loro tessuto vivente, orlato e riassemblato di fresco, si piega obbediente alla nostra volontà, adornandoci di onore e autorità illimitati.» La complessa melodia verbale, l'abile e deciso autosmembramento del cadavere, la pura orchestrazione neuromuscolare dell'attività colpirono il dottor Winters con lo stesso fascino distaccato che in genere provava per le grandi esecuzioni alla tastiera. Intravedeva la prospettiva aliena, un Gulliver in attesa in una tomba brobdingnagiana, lo schieramento di un gigante morto contro un vivo, come un nano su un'enorme gru meccanica che programma febbrilmente un combattimento servendosi di una batteria di pedali e leve, in attesa dei movimenti delle braccia del robot, il distante, titanico impatto con i nemici, e meravigliandosi con stupore desolato dell'infinita strategia e duttilità della vita. Le mani di Joe Allen affondarono nella cavità addominale squarciata, afferrando ancor più in profondità i muscoli anteriori ancora intatti ed estraendoli dall'incisione poco profonda e dall'epidermide, allungandoli fino a toccare le cosce. La voce si mantenne piatta mentre gli avambracci frugavano delicatamente con le dita sepolte nella cavità ventrale. Le spalle furono tirate indietro e il gesto scoprì i polsi, facendo tremolare le gambe pervase da intensi spasimi. «Tu hai definito la tua razza il nostro cibo e la nostra acqua. Ma se rappresentasse solo quello che dici, ci sarebbe sufficiente privarvi della capacità motoria, potendo così esercitare su di voi, ridotti ad animali da macello, il controllo più assoluto. È forse il più raro dei codici di comunicazione o il più sottile dei comportamenti predominante rispetto all'attività nervosa
dei vari muscoli? Ma queste banali facoltà sono in nostro possesso da tempi remoti. Ora io sento una bramosia di occuparti e un desiderio di intimità, inattaccabile dal trascorrere del tempo, che non sono nutriti semplicemente dal sangue. La mia gioia più vera è riposta nel costringerti a nutrirti nel modo che conosci e nel deformare totalmente la tua volontà. Se il mio bisogno essenziale fosse stato solo l'ottuso nutrimento, allora i miei compagni di tomba, Pollock e Jackson, mi avrebbero consentito due settimane o forse più di vita. Ma io disprezzo la frugalità codarda davanti alla morte. Ho reinvestito più della metà delle energie che il loro sangue mi ha infuso per produrre sostanze chimiche in grado di mantenere i loro cervelli in vita inondati di nutrimento ossigenato.» Le mani imbrattate trascinavano, fuori dal diaframma lacerato, due lunghe trecce di filamenti argentati che fremevano e scintillavano in milioni di arricciamenti e contrazioni simultanei. Le gambe vibravano con pulsazioni deboli e irregolari che si estendevano a tutta la muscolatura, infine le trecce sinuose si unirono in due masse sferiche che le mani posarono attentamente all'interno dello sventramento. Allora le gambe rimasero immobili come la morte. «Dovevo lesinare i terminali neurali accessori, ma ho potuto comunque accedere a gran parte della loro memoria e a tutte le loro risposte cognitive, disponendo nelle mie dotazioni dell'organo di conversione elettrochimica delle parole inglesi di Coti, ho potuto sussurrare loro direttamente nell'ottavo nervo cranico. Dottore, i nostri veri piaceri consistono nell'uragano elettrico e incorporeo di percezione impotente emesso da quelle due piccole sfere ossee sottoposte al mio stimolo. Ho dovuto prosciugarli ieri, proprio prima del dissotterramento. Fino ad allora erano vivi e coscienti di tutto - tutto quello che facevo loro.» Quando la voce si arrestò, gli occhi senza vita e quelli vivi per un attimo si incontrarono, poi la faccia del cadavere si aprì in un sorriso. Riassumeva in sé tutto l'orrore della prima resurrezione di Allen, ovvero il risvegliarsi di un'anima cosciente da quei profili di tumuli tombali. Quell'anima che il dottore ora vedeva sveglia era un'anima demoniaca: dal sorriso avvolto agli angoli della bocca da uncini appuntiti di crudeltà e dagli occhi adunchi che brillavano profondi, anticipandogli languidamente il dolore che lo avrebbe atteso. In lontananza, il dottor Winters sentì il suono piatto della propria voce chiedere: «Joe Allen?». «Oh, certo, dottore. Adesso è con noi, è tutto il tempo che lo è. Mi rattrista abbandonare un ospite così raro! È veramente un autentico eremita-
filosofo, che conosce quattro lingue. Sta scrivendo una traduzione di Marco Aurelio, cioè voglio dire stava, nel suo tempo libero...» Seguirono lunghi minuti vuoti della voce che accompagnava la surreale autonecroscopia, mentre il dottore se ne stava sdraiato, spento e svuotato di ogni capacità di reazione. Tuttavia, la lucida comprensione del suo destino gli rimbombava nel cervello - una stanza vuota attraversata dalla voce indistinta, ma comunque percepita direttamente proprio come nella tortura sotterranea che era stata appena descritta. La voce emetteva ondate di percezione, amplificazioni dell'Ineffabile. Il parassita aveva tracciato e inciso l'interfaccia complessa fra l'unificazione corticale dell'input e il conseguente output neurale che plasma la reazione. In mezzo aveva interposto il proprio cervello, condividendo la coscienza mentre controllava i sentieri della reazione. L'ospite, la personalità intrappolata, era muto e privo di qualsiasi minima espressione della propria volontà, ma era orribilmente articolato e agile al servizio del parassita. Erano state infatti le sue mani a strappare via la vita dalle sue prede e i suoi lombi che provarono i ripetuti orgasmi di coronamento all'altro tipo di saccheggio perpetrato sui loro corpi. E quando furono sdraiati, ancora urlanti, pronti per la consumazione, fu la sua energia che strappò le viscere fumanti, e furono la sua lingua segreta e la sua bocca trangugiante che affondarono nel banchetto rancido e palpitante. Il dottore ebbe una breve apparizione della storia all'origine di questa devastazione, quella di una razza giunta a un punto di tale evoluzione nel rendersi essenziale fino all'astrazione inesorabile del loro stesso tessuto mentale, che attraverso l'impegno scientifico e l'autocoltura genetica era riuscita a raggiungere il suo stesso modello di coscienza perfezionata, semplificata al punto da consentire l'ingresso in altri esseri e l'acquisizione diretta dei loro mondi empirici. Dapprima fu austera ricerca del sapere, fino a quando nei discepoli liberati dal corpo, dopo lunga germinazione, maturò un odio geloso e ardente per tutte le menti "inferiori" corporee e radicate nel suolo e nella luce solare di mondi particolari e solidi. Il parassita parlava di "musica cerebrale", "sinfonie del paradosso sofferto", ovvero del saccheggio principale della sua invasione. Da questa ampollosità il dottore percepì la verità: il vero raccolto della sistematica violazione di personalità imprigionate consisteva nell'esperienza di una supremazia, sterile di espedienti, esercitata su vite più primitive, forse, ma certamente molto più ricche di vivacità e imbevute di partecipazione appassionata alla loro vita. Le mani di Joe Allen estrassero la matassa raggruppata dei nervi alieni,
contenente al centro il nodo raggrinzito del cervello, e stavano aspettando che si compisse la lenta contrazione del nervo principale che apparentemente seguiva l'asse della spina dorsale. Finalmente, quando solo una sottile sottofibra di questa vi rimase impiantata, il cadavere, sorridendo ancora una volta, tenne alzato il riaggomitolato padrone per farglielo vedere. Il dottore guardò nei suoi occhi e poi parlò, non a chi li controllava, ma al prigioniero che li condivideva, e che adesso, come il dottore ben sapeva, si avvicinava alla morte definitiva. «Addio, Joe Allen. Eddie Sykes. Siete innocenti, che la pace sia finalmente con voi.» Il sorriso del demone rimase fisso, la mano destra con il suo viscido carico, attraversando il vuoto che separava i due corpi raggiunse l'inguine del dottore. Carl Winters guardava la mano sistemare la scintillante testa di medusa - il suo nuovo essere - sopra la propria carne, ritornare al tavolo, sollevare il bisturi e avvicinarsi di nuovo per praticare un'incisione di dieci centimetri nel proprio inguine, tutto con una strana assenza di stimoli tattili. La linea che era rimasta affondata nel cadavere improvvisamente schizzò libera dalla fessura mediastinica, si ritirò nell'apertura e si accorciò fino a essere un mozzicone teso sull'organismo in fermento del dottore. Il corpo di Joe Allen crollò, svuotato e inerte. Era di nuovo un cadavere, ma con una strana posizione. Il braccio destro non si era rilasciato orizzontalmente, come sarebbe stato naturale, ma, nell'attimo in cui l'alieno si era staccato, la spalla si era alzata violentemente con uno strappo, lanciando il braccio verso l'alto nell'attimo della morte, così che adesso l'arto era nella posizione che avrebbe assunto tendendosi per raggiungere il piolo di una scala. Il minimo tremito avrebbe spezzato le giunture lasciando scivolare il braccio nell'inclinazione gravitazionale, con il risultato di far cadere il bisturi ancora precariamente posato sul palmo girato verso l'alto. Prima della fine l'uomo era rientrato in possesso di se stesso per un microsecondo. Il cuore del dottore vibrò, si svegliò e cantò, perché vide che, allungando l'avambraccio del gomito legato, il bisturi era proprio alla portata delle sue dita. L'orrore si accucciò su di lui accingendosi in quel momento a inserire lentamente il suo tentacolo principale nell'incisione dell'inguine, procurandogli uno spasimo di dolore che fermò momentaneamente la sua mano. Poi si ricordò che, fino a quando non si fosse installato, il nemico era una massa insensibile, irta di prese e di connettori a spina che, se non collegata agli amplificatori fisici degli occhi e delle orecchie, rimaneva una monade sorda e cieca, che aspettava in un perfetto egocentri-
smo fra due involucri sensoriali prigionieri. Vide le mani tese sullo strumento lucente della libertà, pensò con un sorriso folle a Dio e ad Adamo nella Cappella Sistina e poi, con il controllo perfetto del chirurgo acquisito nell'arco di una vita, prese il bisturi. «Dormi» disse il dottore. «Dormi vendicato.» Trovò però la propria rivalsa duramente frenata dalle attente precauzioni prese dall'alieno. Il gomito era stato legato con la parte del braccio superiore ad angolo retto rispetto all'asse del corpo, l'avambraccio poteva tendere la mano verso l'interno e farla arrivare alla faccia, soddisfacendo così la necessità del parassita di un controllo coordinativo occhio-mano, senza però riuscire a portare la punta del bisturi a meno di dieci centimetri dall'inguine. Il parassita incrementava la propria dorsale. Gli avrebbe usurpato il controllo motorio in tre o quattro minuti al massimo, a giudicare dal tempo in cui era uscito da Allen. Il dottore dolorosamente piegò il più possibile il polso verso l'interno, cercando di recidere con il bisturi la cinghia che attraversava la parte interna del gomito. Era impossibile esercitare la pressione necessaria e la presa era così precaria che il minimo tentativo minacciava di causare la perdita del bisturi. Lievemente la radice del controllo alieno affondò dentro di lui. Era una cosa di gelatina inerme alla quale, anche se sdraiato, si sarebbe potuto opporre impugnando un'arma mortale, ma era ancora condannato un'anteprima di tutta l'impotenza asservita che lo attendeva. Eppure doveva esserci un modo. Non sopravvivere. Ma almeno fuggire e vendicarsi. Per un attimo fissò la cosa che lo aveva catturato, rafforzando il suo coraggio nella fiamma dell'odio che si accese in lui. Poi, velocemente, decise l'ordine dei propri movimenti, e iniziò. Portò il bisturi al collo e si aprì la vena tiroidea superiore - il suo calamaio. Posò il bisturi in modo da poterlo riprendere, intinse il dito nel sangue e iniziò a scrivere sulla superficie metallica del carrello, iniziando all'altezza della coscia e terminando all'ascella. Constatò che stranamente l'incisione del collo, muscolarmente ancora vivo, era stata indolore, e ne trasse speranza che accrebbe in lui il coraggio necessario per quello che gli rimaneva ancora da fare. Quando ebbe finito, il messaggio diceva: PARASSITA DELLA MENTE DA ALLEN IN ME TAGLIA TUTTO FINO QUANDO
TROVI 1500 G MASSA FIBRA NERVOSA Voleva aggiungere "ciao" per il suo amico, ma l'alieno aveva cominciato a emettere un filamento principale e contemporaneamente altri più piccoli supplementari. Bisognava fare in fretta. Prese il bisturi, ruotò la testa verso destra e affondò profondamente la lama nell'orecchio. Miracolo! L'ultima casuale misericordia. Era indolore, era in circolo qualche anestetico altamente specifico e procedurale. Con colpetti attenti, cancellò la parte interna dell'orecchio destro, con la stessa attenzione, fece lo stesso con il sinistro, e poi ci fu silenzio. Poi vennero recise le corde vocali, e i tendini della nuca che sorreggono il collo. Avrebbe voluto tagliare i legamenti delle ginocchia e dei gomiti, ma non poteva. Ma accecato, con i centri dell'equilibrio annullati e un insufficiente controllo motorio, era in condizioni di impedire la fuga dell'alieno, qualora questi fosse riuscito a rianimare un corpo esangue nel quale non aveva ancora raggiunto un collegamento perfettamente sintonizzato. Prima di spegnere gli occhi si fermò, con il bisturi bilanciato sul volto, e li sbatté per asciugare il suo obiettivo dalle lacrime. Il destro, poi il sinistro, le retine meticolosamente incise, le pupille degli occhi vennero scavate. L'ultimo compito del bisturi, una volta messa la testa di lato per evitare che il flusso di sangue cancellasse il messaggio, fu di tranciare l'arteria carotidea esterna. Quando ebbe fatto anche questo, l'uomo anziano sospirò di sollievo e posò il bisturi. Già da un po' sentiva nelle profondità del corpo il formicolio di un'energia aliena - qualcosa che si eccitava, crepitava, si eccitava ancora, cercava qualcosa a tentoni senza trovarne l'appiglio. Internamente, quando il dottore scivolò verso il sonno - cerebralmente, solo come un uomo privo di voce può parlare - rivolse al parassita queste parole scelte accuratamente: «Benvenuto nella tua nuova casa. Temo che ci sia stato qualche vandalismo - le luci non funzionano, e l'impianto idraulico ha delle gran brutte perdite. Ci sono delle altre cose che non vanno bene, i paraggi sono un po' troppo tranquilli e dubito che troverai facile spostarti. Ma per me è stata una bella casa per cinquantasette anni, e a ogni modo penso che rimarrai...». Il volto, girato verso il corpo di Joe Allen, sembrava piangere lacrime scarlatte, ma l'ultimo movimento prima di morire fu un tentativo di sorri-
dere. FINE